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LEA - Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, n. 2 (2013), pp.

187-204
DOI: 10.13128/LEA-1824-484x-13754

Silenzio del trauma.


Nazionalismo turco, ebrei e politiche di turchificazione

Ayşe Saraçgil
Università degli Studi di Firenze (<ayse.saracgil@unifi.it>)

Abstract:
This article focuses on the problematic silence which characterizes the
existence of the Jews in the Turkish public sphere. This silence permeates
the period of the transition from the Empire to the Republic: under the
latter, it becomes instrumental in the construction of a narrative of a
long and unproblematic coexistence with the Turkish nation, produc-
ing an image of the Jews as the only non-Muslim population to have
serenely traversed the transition and settled into the nation. This article
starts from a reflection on the few literary traces, such as the works of
Sevim Burak and Mario Levi, which emerged during the last decades of
the 20th century. Consequently, through a re-reading of the historical
formation of Turkish nationalism, the silence of the Jews is understood
as the effect of the traumatic exclusion inflicted by the assimilatory
character of this nationalism.
Keywords: Jews, Mario Levi, Turkish language, Turkish literature, Turkish
nationalism.

In questo articolo desidero cominciare ad esplorare gli effetti traumatici del


nazionalismo turco sulla comunità ebraica ottomana nella prima metà del
Novecento. Si tratta di un trauma di esclusione che gli ebrei, diversamente da
altre comunità non musulmane dell’impero, vivono in silenzio mentre i turchi
lo negano. I primi cenni alla tensione di essere ebrei in Turchia erano apparsi
nella letteratura degli anni Settanta, nei racconti di Sevim Burak1, anche se le sue
allusioni bibliche venivano percepite come un discorso religioso universalistico
e sollevavano il lettore dall’interpretare la sua ricerca identitaria in riferimento
allo specifico contesto sociale (Gürsel 2002, 272). Non più astrazioni ma un
esplicito silenzio caratterizza anche la faticosa ricostruzione della memoria degli
ebrei turchi fatta in Istanbul era una favola da Mario Levi2. Primo scrittore a
dichiararsi esplicitamente ebreo, Levi, ha fondato la sua poetica sulla propria
identità minoritaria, raccontando in questo lungo romanzo l’esistenza di una

ISSN 1824-484X (online)


http://www.fupress.com/bsfm-lea
2013 Firenze University Press
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famiglia ebraica di Istanbul durante l’arco di tre generazioni. La narrazione corre


dalla fine dell’Ottocento fino agli ultimi anni del Novecento, percorrendo indi-
rettamente la storia della nazione sin dalla sua genesi. Levi rivendica la sua forte
riluttanza autoriale come un atto di rispetto nei confronti dei suoi protagonisti.
Pur essendo anche stilisticamente giustificata, tale scelta evidenzia soprattutto la
dimensione intenzionale del silenzio. Spostandosi dall’ambito letterario, dove
del resto gli scrittori appartenenti alle “minoranze” e, gli ebrei in particolare,
brillano per l’assenza della loro voce, il silenzio ebraico appare complice di una
narrazione che accredita senza smentite, né riserve, una convivenza tanto lunga
quanto non problematica, anzi esemplare, tra gli ebrei e i turchi, che perdura
nel contesto nazionale. Il permanere di tale narrazione sembra rispondere a
un forte bisogno degli stessi ebrei, un esempio ne è la Fondazione istituita
nel 1989 dall’élite economico-culturale ebraica, per preparare i festeggiamenti
del 500° anniversario dell’accoglimento, nel 1492, degli ebrei cacciati dalla
Spagna da parte degli ottomani, allo scopo di ribadire alla Turchia e al mondo
la perdurante gratitudine della comunità3 (Bali 1999, 15). Così, e non per la
prima volta, questa narrazione viene utilizzata sul palcoscenico internazionale
per respingere le critiche nei confronti dei Turchi per il trattamento subito dai
non musulmani, durante la transizione dall’impero alla nazione. La versione dei
rapporti così stabilita invade tutti gli ambiti, inclusa la storiografia, togliendo
spazio alla riflessione analitica. Storici come Naim Güleryüz o Stanford J. Shaw,
che hanno affrontato la storia della comunità ebraica in rapporto all’impero e
alla repubblica, hanno seguito l’approccio selettivo, adottato negli anni 1940-
1950 dallo storico ebreo Avram Galanti, che faceva emergere solo i lati positivi,
senza indagare le tensioni né approfondire i problemi (Bali 1999, 13-32). Tale
adesione acritica ad una narrativa tutta in favore della nazione egemone, l’uso
strumentale, difensivo della storia stessa, continuano ad impedire un vero
confronto, e condannano le parti a perpetuare una sorta di finzione con ruoli
eternamente prestabiliti. In questa finzione, gli ebrei emergono come l’unica
popolazione non musulmana ad avere attraversato, praticamente senza problemi
o sofferenza, il periodo di transizione dall’impero alla repubblica, e, salvo pochi
“spiacevoli incidenti”, ad essersi perfettamente ambientata nella nazione. Invece
paradossalmente proprio questo rapporto speculare stabilito tra la tolleranza,
l’accettazione, la solidarietà dei turchi e la fortunata condizione degli ebrei, di-
mostra, senza necessità di prova ulteriore, l’asimmetria del rapporto che cerca di
nascondere. Infatti la sensibilità letteraria, la sua capacità di evidenziare il nerbo
delle vite umane, malgrado la reticenza narrativa degli autori sopra ricordati,
dimostra che per la schiacciante maggioranza turco-musulmana, nonostante la
docile, talvolta persino entusiastica accettazione di una radicale turchificazione
linguistica e culturale, l’ebreo continua a rappresentare un problema di alterità,
e la sua cittadinanza rimane tuttora guardata con sospetto.
Una riflessione seria e analitica sull’argomento, come scrive Rıfat Bali, l’auto-
re di numerosi ed importanti saggi sui rapporti problematici della comunità con
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il nazionalismo turco, sconta le difficoltà di trovare materiale non contaminato


dalla narrazione cui si è accennato sopra. I testimoni ebrei di eventi avversi nei
confronti dei non musulmani insistono a tacere; persino tra generazioni si è fatta
molta attenzione a non trasmettere le memorie, se non in maniera sterilizzata
o edulcorata (1999, 27). Per giungere a una spiegazione, seppur parziale, delle
ragioni che possono avere spinto un’intera comunità a scegliere con tanta con-
vinzione l’oblio e il silenzio, credo che si debbano analizzare i punti salienti della
modernizzazione ottomana e della costruzione del nazionalismo turco.
Cominciato a germogliare negli ultimi anni dell’Ottocento il nazionalismo
turco rappresentò l’ultima risorsa dell’élite ottomana per salvare se non l’impero
almeno lo stato, dopo che erano falliti sia il progetto di costruzione di una nazione
ottomana senza discriminazioni di natura religiosa, sia il tentativo panislamista
di Abdülhamid II di legittimare il potere imperiale facendo leva sulla ümmet, la
comunità ideale dei musulmani4. Le riforme che dal Settecento avevano coinvolto
l’élite dello stato dell’Ancien Régime, avevano avuto carattere difensivo, essendo
state ideate con lo scopo di conservare la struttura tradizionale del potere impe-
riale. Infatti queste riforme, pur avendo creato nuove istituzioni, modernizzato
lo stato e i suoi apparati, modificato l’universo semantico, sistemando l’impero
nell’orbita della civiltà occidentale, non avevano cambiato le fondamentali carat-
teristiche del potere. Il governo ottomano era tradizionalmente basato sul prin-
cipio di mantenere separate certe categorie binarie: uomini/donne, musulmani/
non musulmani, governanti/governati. Le élite governanti, la cui separatezza dal
corpo sociale era essenziale, non ebbero mai legami di sangue con la dinastia, ma
furono costituite in altri modi: si distinguevano per la lealtà alla casa regnante, per
l’appartenenza, per nascita o per conversione, alla religione musulmano-sunnita,
per la padronanza dell’alta cultura ottomana e della sua lingua. Nel frattempo la
popolazione viveva divisa in comunità religiose, le millet, godendo di libertà di
culto e ampie autonomie giuridiche, culturali e linguistiche. I non musulmani
non potevano essere chiamati alle armi e pagavano tasse più onerose rispetto ai
musulmani: la loro era la condizione dei “protetti” con un’inferiorità formalmente
definita. Le millet cristiane e ebree al loro interno erano riccamente diversificate:
i cristiani in ortodossi, cattolici, e protestanti; gli ebrei in safarditi, ashkenaziti,
romanioti, dönme. Questi ultimi, detti Credenti (MaGaminim) erano i seguaci
del rabbino messianico Shabbatai Tzevi, che nel 1666 avevano seguito nella
conversione all’Islam. Vivevano in apparenza come musulmani, rimanendo in
realtà legati alla tradizione tracciata dallo Tzevi, concentrati nelle città costiere,
Salonicco, Izmir, Istanbul, isolandosi, anche a causa dell’endogamia, sia dai
musulmani che dagli altri ebrei (Baer 2010, 1-24).

1. Modernizzazione

A problematizzare la frammentazione comunitaria della società imperiale fu


la supremazia militare e mercantile europea del Settecento che, favorendo
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nell’ambito dei privilegi commerciali (capitolazioni) (Eldem 2006, 291) i


membri delle millet cristiane, modificò l’equilibrio sociale, permettendo a
questi ultimi di arricchirsi a scapito dei musulmani e degli ebrei. Gli echi dei
moderni movimenti socio-culturali ottocenteschi trovarono facile ricezione
in seno alle comunità cristiane, favorendo l’affermazione di sentimenti di
identificazione con la modernità europea e permettendo la formazione, su
base religiosa, linguistica ed etnica, di movimenti di resistenza alla sovranità
ottomana.
La reazione musulmana a tali mutamenti si ebbe intorno al 1860, attra-
verso l’organizzazione clandestina del movimento dei Giovani Ottomani, i
quali, considerando troppo arrendevoli le concessioni della corte alle richieste
europee in appoggio alle rivendicazioni delle millet, si proponevano di guidare
il processo di modernizzazione senza sacrificare la natura musulmana della
sovranità imperiale. I Giovani Ottomani facevano parte della nuova élite go-
vernante ottomana, formata per soddisfare le esigenze della modernizzazione,
i cui punti di forza erano l’apprendimento delle lingue europee e di nuove
competenze tecnico-amministrative (Findley 2010, 104-106). Utilizzavano
un linguaggio derivato dall’Illuminismo, attribuivano la causa principale del
declino imperiale al despotismo del suo governo e ascrivevano la sua arretra-
tezza al basso livello culturale del popolo. Usando la loro capacità di navigare
nel nuovo universo semantico, portarono il processo di riforma al di fuori dello
stato dell’Ancien Régime e crearono un moderno spazio pubblico musulmano.
Pur volendo, in ultima analisi, conservare la struttura tradizionale del potere
e la supremazia musulmana, credevano nella necessità di riformare entrambi.
Non solo il progresso, ma anche la loro partecipazione al processo decisionale
dipendeva dall’attuazione di un regime costituzionale, perciò l’educazione alle
nuove idee e alla cultura scientifica della popolazione musulmana, al fine di
ottenerne l’appoggio, era un imperativo ineludibile.
La necessità di spostare la lealtà dalla dinastia allo stato moderno e
creare una società politica evidenziò l’urgenza di trasformare innanzitutto
la lingua in uno strumento adatto a comunicare e confutare idee. La lingua
delle istituzioni e dell’alta cultura imperiale, formalizzatasi in un contesto di
intertestualità islamica, volta a riaffermare una verità universale ed eterna,
aveva finito per mescolare quasi liberamente il turco, l’arabo e il persiano: era
diventata lo strumento di una poetica fortemente retorica, che poteva essere
padroneggiata in tempi molto lunghi; occorreva semplificarla e adeguarla
alla prosa (Ertürk 2001). Esponenti del movimento si impegnarono in tale
sforzo, applicandosi nel contempo a disseminare attraverso nuovi strumenti
di comunicazione – giornali, teatro, romanzi – le idee politiche moderne
e liberali: patriottismo e libertà. L’opposizione al despotismo del sultano li
accomunava ai giovani delle comunità cristiane, anche se la natura difensiva
della loro politica derivava proprio dalle rivendicazioni nazionalistiche e
territoriali di queste ultime.
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2. Gli ebrei
La presenza numerica degli ebrei nell’impero ottomano fluttuò costantemente,
seguendo il ritmo degli eventi e delle migrazioni. Alla fine del Cinquecento
erano circa 150.000 e ammontavano al 2% della popolazione totale. Nell’Ot-
tocento, pur con delle cifre totali mutate, la percentuale rimase più o meno
stabile5. Gli ebrei, la più piccola comunità non musulmana, vivevano in Pa-
lestina, nelle grandi città costiere del Nord Africa, in quelle della Macedonia,
della Tracia, dell’Egeo e a Istanbul. In particolare a Salonicco erano numerosi
tanto da costituire la comunità più grande dopo i musulmani. Nella capitale
erano concentrati sulle rive del Corno d’Oro, nei quartieri di Balat, Kağıthane
e Hasköy. Nell’Ottocento, la parte più ricca di loro si spostò nei quartieri
cristiani di Galata e Pera, mentre una parte preferì il Bosforo o, addirittura, la
costa anatolica della città (Shaw 1991, 207; Bornes-Varol 1994). Composta
da gruppi in parte indigeni dei territori conquistati dagli ottomani, in parte
emigrati da paesi cristiani, gli ebrei risiedevano in diverse regioni dell’impero,
parlando una vasta varietà di lingue (Ortaylı 2002, 129-130)6.
Grati per la generosità della dinastia ottomana che li aveva accolti nel
1492 e aveva continuato a dare rifugio ai profughi dei pogrom, che a partire
dal tardo Seicento avevano insanguinato periodicamente i paesi dell’Europa
Orientale, gli ebrei erano ben attenti a non alienarsi i favori del sultano.
Conducevano una vita regolata dal rispetto delle consuetudini, erano divisi
in molte comunità, pronti a litigare su ogni aspetto della liturgia e delle tra-
dizioni (Shaw 1991, 157). Nel contesto della società ottomana, organizzata
sul principio della separazione dei diversi, gli ebrei furono per secoli soggetti
a opposte tensioni: l’una tendente al rafforzamento dell’individualità e della
differenza, l’altra orientata all’assimilazione culturale; su questo sfondo la vita
quotidiana produceva un’infrastruttura culturale comune a tutti, anche se
nessuna comunità l’avrebbe mai ammesso (Rozen 2006, 259).
La posizione degli ebrei nel quadro dell’impero in trasformazione aveva
molte similitudini con quella della popolazione musulmana. La loro parte-
cipazione diretta nella nuova “modernità” fu lenta quasi quanto quella dei
musulmani, dal momento che neanche gli ebrei potevano realmente dire di
avere un facile dialogo con l’Europa cristiana. Si disinteressarono del poten-
ziale emancipatore del nazionalismo e continuarono a collegare le proprie
prospettive con il mantenimento dell’unità ottomana. Certi effetti della
modernità ottocentesca cominciarono a farsi strada tra gli ebrei, da una parte
grazie alle riforme dell’amministrazione e dell’istruzione imperiale, dall’altra
grazie all’impegno dell’Alliance Israelite Universelle. Questa era un’istituzione
fondata nel 1860 da ebrei francesi emancipati, con l’obiettivo di diffondere
un’istruzione moderna e contribuire al superamento della condizione di
isolamento, povertà e ignoranza degli ebrei orientali (Rodrigue 1990, 10).
L’insegnamento era in francese, considerato la lingua della civilizzazione per
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eccellenza, il curriculum scolastico offriva materie scientifiche, storiche e let-


terarie, oltre che altre lingue europee, nonché il turco. L’istruzione in francese
annullò le distinzioni linguistiche e culturali esistenti nella comunità, limando
i confini che separavano fra di loro gli ebrei, e fece nascere una intellighenzia
promotrice, come i Giovani Ottomani tra i musulmani, di uno spazio pub-
blico ebraico, dove coltivare attività letterarie e culturali ispirate in particolare
alla Francia (Ortaylı 2002). Queste attività, nelle quali oltre al francese erano
usati anche il turco e il ladino, vernacolo della maggioranza degli ebrei otto-
mani di origine sefardita, erano funzionali a mantenere un’identità culturale,
oltre che religiosa; l’ebraicità rimaneva in ogni caso l’indispensabile fonte di
energia e di gioia interiore, irrinunciabile per un popolo costretto, da secoli,
a sopravvivere a persecuzioni e oppressioni (Simon 2002, 149). Disinteressati
al nazionalismo, le correnti politiche che più attraevano gli ebrei erano quelle
di stampo liberale o socialista di ispirazione jauressiana, favorevoli al mante-
nimento dell’unità ottomana e al progresso dell’impero, attraverso le riforme
(Dumont 1997, 21-113, passim). In definitiva, gli ebrei ottomani furono
più propensi ad appoggiare i movimenti politici delle élite musulmane, che
ad associarsi ai sionisti, per premere sul sultano perché aprisse le porte della
Palestina all’insediamento ebraico (Ahmad 2002; Benbassa 1994).

3. Rancori religiosi

Negli ultimi anni dell’Ottocento, alle attività terroristiche dei movimenti na-
zionalisti, in particolare degli armeni, si aggiunsero le disastrose conseguenze
delle sconfitte ottomane nelle guerre sui fronti macedone e caucasico, che fecero
affluire nei territori imperiali centinaia di migliaia di rifugiati musulmani privati
di tutti i loro beni, umiliati e terrorizzati (Gingeras 2009). La crescente enfasi
che il fattore religioso ricevette durante queste battaglie finì con il trasformare la
fede in fattore di attiva identità politica (Müller 2009). Quando nei territori alle
frontiere orientali e occidentali dell’impero la presenza dei musulmani divenne
anatema, la nuova élite civile e militare ottomana cominciò a guardare le popola-
zioni non musulmane come elementi inaffidabili. Le decisioni della Conferenza
di Berlino (1878), che consentirono alla Russia di assumere su di sé la protezione
degli ortodossi e imposero agli ottomani l’attuazione di radicali riforme nelle sei
province armene, generarono un forte senso di accerchiamento e di assedio. Tali
imposizioni causarono la sospensione della costituzione, in vigore solo dal 1876,
e fiaccarono il desiderio di partecipazione promosso dai Giovani Ottomani. Co-
loro che cominciarono ad animare la scena politico-culturale musulmana negli
ultimi anni dell’Ottocento si erano formati respirando un’atmosfera dominata
dal darwinismo sociale. Molti di loro avevano ricevuto un’istruzione scientifica
nei moderni istituti di medicina e scienze politiche e nelle accademie militari,
dove il positivismo e il materialismo scientifico, ispirato ai pensatori tedeschi
contemporanei ed in particolare al lavoro di Ludwig Büchner, avevano avuto una
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rapida diffusione (Hanioğlu 2005, 28-29). In un mondo di lotta permanente


occorreva essere forti per non soccombere e uno degli elementi di forza, come
insegnava la Germania, era l’omogeneità culturale e linguistica. Gli esponenti
di questa nuova generazione di politici musulmani furono i Giovani Turchi,
chiamati in tal modo proprio per essersi riconosciuti nel segno di uno schietto
turchismo, elaborato collegando i contributi linguistico-culturali della genera-
zione precedente con l’esperienza di lotta degli esuli turchi, provenienti dalla
Russia zarista, il romanticismo dei turcologi europei, l’esperienza albanese di
emancipazione linguistica-culturale, e temi e ideali provenienti dal panislavismo
e dal pangermanismo.
L’opposizione al despotismo di Abdülhamid II riunì tutti i gruppi musulma-
ni che, sorti fin dal 1889 con l’obiettivo di ripristinare la costituzione del 1876,
si erano coagulati intorno al Comitato di Unione e Progresso (CUP) che, dal
1896, operava a Parigi. Nel congresso del 1902 cui avevano partecipato anche
delegati armeni, un gruppo di liberali, che proponeva riforme ispirate al modello
imperiale britannico, si distaccò mettendo in discussione il legame stabilito dagli
unionisti tra struttura centrale di governo e difesa degli interessi dell’impero.
Allo stesso tempo, l’adesione degli ufficiali di stanza in Macedonia e Salonicco
rafforzò la posizione del CUP, permettendogli, nel 1908, di fare pressione sul
sultano affinché ripristinasse la Costituzione. Il CUP era strutturato secondo
una rigida gerarchia e, per farne parte, occorreva il giuramento di fedeltà con
la deposizione della spada sul Corano. Nondimeno esso collaborò con armeni,
greci, ebrei, e chiunque si associasse al movimento non subiva discriminazioni
etniche e/o religiose. La rivoluzione del 1908 fu realizzata con le energie di
“liberali, massoni, borghesi nazionalisti, rivoluzionari Giovani turchi e elementi
socialisti” (Haupt 1972, 102; Kayalı 1994)7 e molti individui appartenenti alle
comunità non musulmane furono eletti in parlamento nelle liste del CUP.

4. Il nazionalismo turco

Il CUP assunse le sembianze di un partito politico dopo il 1909, pur conser-


vando intatto un nucleo clandestino di persone collegato a un ristretto gruppo
di aderenti, che costituiva il Comitato Centrale e deteneva tutto il potere. A
Salonicco, dove si trovava la sede del Partito, iniziò l’elaborazione teorica del
nazionalismo turco, con particolare enfasi sulla lingua, sulla storia e sulla cultu-
ra, portata avanti da intellettuali legati al CUP, in particolare da Ziya Gökalp,
eletto nel Comitato Centrale nel 1909. L’impegno di Ziya Gökalp mirava a
completare la rivoluzione politica del 1908 con una rivoluzione sociale. Il suo
pensiero, fondato sulla sociologia durkheimiana8, era una pragmatica collazio-
ne delle idee del suo tempo, ispirata al romanticismo tedesco e al populismo
slavofilo, che attribuiva alla società nazionale un significato trascendentale. Per
quanto durkheimiano, Gökalp derivò il punto focale del suo pensiero dalla
sociologia tedesca, in particolare dai lavori di Ferdinand Tönnies, adattando
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alle proprie esigenze la distinzione da lui operata tra civiltà (sistema razionale e
sopranazionale di conoscenze, scienze e tecnologie) e cultura (l’insieme di norme
e pratiche correnti proprie di una comunità). Civiltà (medeniyet) e cultura (hars)
erano, per Gökalp, due esperienze distinte e complementari e che potevano,
anzi, dovevano essere combinate. Solo la cultura nazionale, essendo composta
da formazioni spontanee, dall’essenza spirituale della comunità, poteva garantire
che la combinazione avvenisse in perfetto equilibrio. La hars turca aveva radici
risalenti ai tempi precedenti all’islamizzazione, che però era stata smarrita sotto
il dominio imperiale. I turchi ora dovevano recuperare la propria turchità, rias-
sumere la loro fede nell’Islam, che era parte importante della hars, e compiere
la loro evoluzione alla società nazionale. Solo così avrebbero potuto partecipare
alla civiltà occidentale senza temere che questa soggiogasse la cultura turca; il
nazionalismo avrebbe presidiato sul mantenimento di un perfetto rapporto tra
le due sfere (Gökalp 1995, 11).
La nazione gökalpiana era una società organica, solidale, funzionalmente
differenziata e prodotta dall’evoluzione di un gruppo di uomini e donne che
condividevano le stesse nozioni linguistiche, religiose, morali ed estetiche. Gökalp
scriveva come una comunanza linguistica e religiosa comporti anche una co-
munanza identitaria (cfr. Berkes 1959, 136), mettendo quindi tale omogeneità
religiosa, linguistica e culturale a fondamento del nazionalismo turco. L’unico
elemento che lasciava uno spiraglio inclusivo o permetteva l’assimilazione, era
il principio di condivisione dell’ideale turco (Türk mefkûresi) e l’impegno a pro-
digarsi per realizzarlo. Altrimenti, la nazione organica destinava all’estirpazione
quegli elementi reputati “disomogenei” (dal punto di vista religioso, etnico e
linguistico) e quindi “patologici” (Koçak 2010, 308).
Iniziò, dunque, la teorizzazione del nazionalismo per gettare le fondamenta
di una “Nuova vita” (Yeni Hayat), che prevedeva una riforma complessiva della
società turco ottomana, dalla famiglia alla lingua. Per sostenere le posizioni sulla
questione della lingua e della letteratura, fu fondata nel 1911, a Salonicco, la
rivista Genç Kalemler (Giovani penne) che lanciò una campagna per Yeni Lisan
(la nuova lingua) e per Milli edebiyat (la letteratura nazionale). Nell’editoriale
del primo numero, Ömer Seyfeddin, giovane scrittore che si sarebbe affermato
come il padre della narrativa breve turca, richiamava con urgenza i letterati
all’uso del turco vernacolare, considerando similmente a Herder o a Schelling,
l’unità linguistica la vera ragione e l’unica condizione di sopravvivenza della
nazione. Tutti i promotori di Genç Kalemler, da Ömer Seyfeddin a Ziya Gökalp,
erano narratori e poeti che scrivevano, non per “fare arte”, bensì per rivitalizzare
l’identità nazionale, assopita nel corso della storia imperiale (Ertürk 2001, 72).
Le guerre balcaniche (1912-1913), che causarono la perdita dei territori
ottomani più ricchi e importanti, furono il pretesto di un colpo di stato da
parte degli esponenti più radicali del CUP, sotto la leadership dei quali l’impero
avrebbe partecipato alla Prima Guerra Mondiale, accanto alla Germania. La
profonda umiliazione, subita nei Balcani, aveva generato forti sentimenti di
silenzio del trauma 195

rivalsa e incendiato gli animi dei musulmani che, reagendo alle violenze subite,
cominciavano definitivamente a considerare i non musulmani dell’impero come
“nemici interni”, pronti a tradire. Sentimenti che incoraggiarono la leadership del
CUP ad attuare radicali misure di “turchizzazione”. Fu avviata immediatamente
una politica volta a creare un’imprenditoria e una classe mercantile musulmana,
attraverso misure che variavano da scioperi e violenza, a obblighi di impiegare
personale turco-musulmano nelle posizioni importanti di ditte e/o imprese e di
adoperare unicamente la lingua turca. L’entrata nella Guerra Mondiale preparò
le condizioni per abolire unilateralmente le capitolazioni, antiche agevolazioni
commerciali che il nuovo sistema economico aveva trasformato in strumenti di
penetrazione e di dominio nei mercati ottomani e favorito i cristiani nel lavoro
di mediazione.
Tali avvenimenti avevano permesso al nazionalismo turco di individuare
il proprio “altro” nelle potenze europee e negli ottomani di fede cristiana. Gli
ebrei invece, che erano stati a loro volta oggetto di violenza e di esclusione nei
Balcani e si erano rifiutati di esultare alla vittoria cristiana (Shaw 1991, 228;
Levi 2002, 153-193)9, non furono trattati con la stessa alterità. Molti ebrei
collaboravano attivamente con i Giovani Turchi e, sotto il governo del CUP,
si trovarono ad occupare posizioni importanti. La campagna per la creazione
dell’economia nazionale li favorì non solo per la loro provata fedeltà, ma anche
per le competenze professionali e linguistiche.
Nel 1915 l’apertura del fronte orientale offrì il pretesto per dare il via ad un
complesso tentativo di ingegneria sociale, che avrebbe creato nei territori della
Tracia e dell’Anatolia una maggioranza assoluta di musulmani di lingua turca,
considerati “assimilabili” nella nazione in costruzione. La popolazione armena
fu deportata verso i deserti della Siria, provocando perdite umane di dimensioni
tragiche. Le proprietà dei deportati venivano sequestrate dallo stato e date ai mu-
sulmani (i rifugiati provenienti dai Caucasi e dai Balcani, piccoli gruppi di curdi
che erano stati mescolati tra i turchi per permetterne l’assimilazione), che veni-
vano insediati a loro posto. La popolazione greca subì pressioni perché emigrasse
in Grecia, mentre la situazione degli ebrei rimaneva nell’ambiguità, spingendo
molte famiglie ad emigrare per il timore che prima o poi arrivasse il loro turno10.
Avvenimenti cominciati con le guerre balcaniche devastarono l’Anatolia;
in particolare tra il 1914 e il 1920 persero la vita due milioni di musulmani,
circa un milione di armeni e centinaia di migliaia di greci, di cui una parte era
stata espulsa, mentre una buona metà della popolazione ebraica era fuggita11.
Le violenze e le atrocità commesse dai greci durante l’occupazione dell’Anatolia
occidentale e la guerra del 1919-1922 foraggiarono ulteriormente il sentimento
anti-cristiano dei nazionalisti turchi, rafforzando nella popolazione musulmana
l’idea di fondare un proprio stato nazionale. Mentre, nel 1913, un quinto degli
abitanti dei territori su cui sarebbe sorto il nuovo stato turco non era musulma-
no, nel 1923 il rapporto era diventato uno su quaranta e concentrato nelle città
costiere, cosmopolite, Istanbul e Izmir (Zürcher 1997, 172).
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5. La Repubblica

Le fondamenta laiche del nuovo stato nazionale, indipendente e sovrano, furono


gettate con il trattato di Losanna siglato nel 1923 con i rappresentanti degli Alleati
e della Grecia. Le clausole del trattato prevedevano la cessazione delle autonomie
comunitarie come prerequisito di cittadinanza, ma mantenevano, per i cittadini,
la libertà di culto e il diritto a conservare la propria lingua e cultura (167-170). Un
accordo siglato con la Grecia nell’ambito dello stesso trattato stabiliva, parados-
salmente su base religiosa, uno “scambio”: i musulmani dei territori greci, esclusi
quelli della Tracia occidentale, avrebbero preso il posto dei cristiano-ortodossi
dell’Anatolia, ad esclusione di Istanbul e delle due isole dell’Egeo rimaste ai turchi.
Malgrado la maggioranza fosse di lingua greca, quattrocentomila musulmani,
inclusi i dönme di Salonicco, la cui conversione insospettiva i turchi, furono
“scambiati” con un milione e duecento mila cristiani, molti dei quali erano di
lingua turca (Alexandris 1983, 77-104; Zürcher 1997, 170-172).
La Turchia, nata a Losanna, era una nazione ad amplissima maggioranza
di religione musulmana, sebbene mantenesse una forte disomogeneità etnica,
linguistica, culturale. Il primo problema, che i padri della nuova nazione affron-
tarono, fu quello di stabilire l’egemonia politica. Attraverso una serie di riforme,
la nazione fu strettamente legata allo stato e il principio di integrità territoriale
divenne l’asse portante delle politiche di turchificazione. L’abolizione del califfato
e l’unificazione del sistema scolastico furono i primi passi verso una totale laiciz-
zazione dello spazio pubblico.
Agli ebrei, come alle altre minoranze, era permesso di mantenere le pro-
prie scuole private, ma in esse non si poteva insegnare né l’ebraico né materie
prettamente religiose; era obbligatorio, per tutte le scuole, il curriculum stabilito
del Ministero della Pubblica Istruzione e gli insegnanti stranieri, come i francesi
dell’Alliance, erano oggetto di controlli ministeriali. La laicità dello stato aveva
reso un affare privato l’osservanza della religione, ed era vietato ai capi religiosi
musulmani e cristiani, e ai rabbini, di mostrarsi in pubblico con abiti religiosi.
L’approvazione nel 1926 del Codice Civile svizzero, universalizzò il sistema
giuridico, incluso il diritto di famiglia, e vietò tutti i matrimoni religiosi, se non
preceduti da quello civile.
La Turchia doveva creare un’economia unificata e una popolazione social-
mente, culturalmente e linguisticamente coesa. Una nuova identità turca doveva
essere instillata nella nazione attraverso l’istruzione statale e il servizio militare,
obbligatorio per ogni cittadino di sesso maschile. Nel 1928 un nuovo alfabeto,
dichiarato da Atatürk “autenticamente turco”, latinizzò la scrittura. La nazione
laica cominciava a mettere distanza tra sé e l’Islam, rendendo “altro” gli elementi
fondamentali di quest’ultimo. Nel 1931 cominciò la costruzione di una storiografia
nazionale fondata sulle origini centro-asiatiche dei turchi, glorificati con l’onore
di avere stimolato l’evoluzione della civiltà umana12. L’Anatolia veniva definita
l’immutabile patria dei turchi e l’intera sua popolazione veniva uniformata sotto
silenzio del trauma 197

l’ombra non dell’Islam, bensì della “turchità”. L’operazione continuò con un vero
e proprio riordinamento linguistico, iniziato nel 1932 con l’intento di purificare
il turco dai suoi elementi arabo-persiani. In una mobilitazione che copriva tutto
il territorio nazionale furono raccolti e classificati parole, detti, termini, per essere
pubblicati insieme all’idioma, ricavato da dizionari e testi di antico turco, in
Osmanlıca’dan Türkçe’ye Söz Karşılıkları: Tarama Dergisi (Corrispondenti di parole
dall’ottomano al turco: Rivista di Collezione). La raccolta doveva servire a letterati,
giornalisti, ecc., per scegliere equivalenze “turche” del lessico di origine “straniera”,
ovvero arabo e persiano. Essa, invece, servì a sradicare, riducendolo a elemento
lessicale e ad astratta equivalenza, un attivo ed eterogeneo idioma linguistico e
culturale, facendogli perdere la sua particolarità espressiva (Ertürk 2001, 96). Nel
1936, la proclamazione della cosiddetta Güneş dil teorisi (la teoria della lingua sole),
dichiarando il turco l’origine di tutte lingue dell’universo, permise di fermare il
riordinamento e rese inutile l’ulteriore eliminazione dei prestiti linguistici.
Le operazioni di ingegneria storico-linguistica erano state realizzate con totale
indifferenza nei confronti della perdita di un patrimonio letterario e culturale
plurisecolare e, per realizzare l’obiettivo di annullare l’alterità linguistico-culturale
di una popolazione irriducibilmente eterogenea, si crearono i presupposti di un
“razzismo assimilativo” (Ertürk 2001, 68). Spostare il nerbo dell’identità nazionale,
dall’unità religiosa a quella storica, culturale e linguistica allargò l’assimilazione a
tutti i cittadini, e rese l’oblio condizione essenziale di cittadinanza, per cristiani e
ebrei, e anche per i musulmani.
Il nuovo contratto sociale poneva, come condizione, il rifiuto del cosmopo-
litismo ottomano e la creazione di una nazione composta da individui “uguali”. I
cittadini erano istigati a distinguere i diversi, là dove diversità assumeva il significato
di “straniero”, mentre identicità era segno di appartenenza (Baer 2004, 687). Nello
scenario, così creatosi, in cui i cittadini dovevano necessariamente condividere
identità, cultura, lingua e storia, gli impegni assunti a Losanna per garantire la
libertà religiosa, culturale e linguistica venivano platealmente negati. Incoraggiati
dallo stato, i cittadini segnalavano e stigmatizzavano le differenze. La campagna
Vatandaş Türkçe konuş (Cittadino, parla turco!), che un’associazione studentesca
dell’Università di Istanbul aveva lanciato nel 1928, disseminando cartelli in tutti i
luoghi pubblici (l’operazione sarebbe proseguita nei decenni successivi), fu il primo
atto violento che sancì l’estraneità dei “diversi”. Anche se l’obiettivo principale della
campagna erano i cristiani e gli ebrei, tanto che questi ultimi nel 1933 dichiararono
la decisione di parlare solo turco, essa fu particolarmente funzionale a creare una
nuova gerarchia sociale nella nazione, riservando le posizioni di potere a coloro
che, provenienti da ambienti familiari all’alta cultura ottomana, padroneggiavano
la pronuncia e la grammatica della lingua turca parlata ad Istanbul, la base della
lingua nazionale riformata. La forza della discriminazione comportò un’ampia tur-
chificazione delle comunità etno-linguistiche: arabi, curdi, zaza, circassi, georgiani,
laz, romani, albanesi, bosniaci, bulgari, ma anche ebrei. Molti adottarono nomi
turchi, mandarono i figli alle scuole nazionali ed abbandonarono le loro lingue.
198 ayşe saraçgil

Negli anni Trenta, l’attenzione cominciò a concentrarsi particolarmente


sugli ebrei; erano gli unici non musulmani ad essere ancora numerosi sul suolo
repubblicano. Molti di loro, soprattutto i dönme, erano benestanti e grazie alle
loro competenze occupavano, sin dai tempi del governo del CUP, posizioni
importanti (Zürcher 1997, 351). A differenza degli armeni e dei greci, espliciti
nel loro antagonismo, gli ebrei, e i dönme, politicamente erano da sempre stati
vicini alle avanguardie musulmane, e ora aderivano volentieri alle politiche di
turchizzazione. Tutto ciò, sotto l’influenza anche della propaganda nazista non-
ché del fascino esercitato, sin dagli ultimi decenni dell’impero, sugli influenti
intellettuali turco-musulmani dalle correnti anti-illuministiche europee e dalla
letteratura “scientifica” sulla razza, contribuì a creare la reputazione degli ebrei
quali individui ambigui circa la loro vera identità e i loro veri intenti. La stampa
cominciò a fare ampio uso degli stereotipi antisemiti, dipingendo gli ebrei e i
dönme come inaffidabili, irresponsabili, egoisti, spregiudicati opportunisti. Nel
1934, in Tracia, ebbe luogo un sanguinoso pogrom che costrinse circa 15.000 ebrei
di Edirne e delle altre città, ad abbandonare le loro case e rifugiarsi a Istanbul.
Nelle sue memorie Eli Shaul, un ebreo di Istanbul, nato nel 1916 ed emi-
grato con la moglie ed il figlio in Israele nel 1950, racconta che alla scuola media
veniva invitato a uscire dalla classe nelle ore dedicate alle lezioni di formazione
militare; i suoi stessi amici descrivevano gli ebrei come disonesti e vigliacchi in
sua presenza, salvo poi aggiungere che lui era un “ebreo diverso”. Al liceo, due dei
suoi compagni di classe erano di famiglie rifugiate dal pogrom, avvenuto nel 1934
in Tracia (Shaul 2012). Infine, Shaul racconta l’esperienza vissuta dopo il 1942,
a causa dell’approvazione di Varlık vergisi, la tassa del benessere, fatto che l’aveva
convinto ad emigrare. La tassa era stata giustificata con la necessità di superare
la crisi economico-finanziaria della nazione e recuperare le risorse necessarie per
garantire l’efficienza dell’esercito, nella prospettiva di un’eventuale invasione tedesca
attraverso la Grecia. I non musulmani furono considerati coloro che dovevano
maggiormente sacrificarsi per la nazione, dimostrando la loro devozione. Perciò
a loro fu richiesto il pagamento di somme spesso superiori al valore dei loro averi,
costringendoli a vendere tutto in pochissimo tempo e obbligando gli inadempienti
ai campi di lavoro ad Aşkale, una delle zone più arretrate della Turchia orientale.
Varlık vergisi fu l’ultimo atto che contribuì all’eliminazione della robusta classe
media non musulmana, demoralizzandola, umiliandola e impoverendola.
La paura del cosmopolitismo, che era diventata una sorta di colonna portante
del nazionalismo turco nel periodo repubblicano, aveva avuto la sua manifesta-
zione concreta nell’elezione di Ankara a capitale della nazione, abbandonando
la cosmopolita Istanbul, che professava tre religioni e parlava molte lingue.
Questo mondo punito dalla nazione, costretto al dimenticatoio, fatto oggetto
di purificazioni tramite pogrom, sarebbe diventato, in seguito ai cambiamenti
politico-culturali del secondo dopoguerra e all’affermarsi negli ultimi decenni del
Novecento di un’atmosfera favorevole alla rivalutazione del “multiculturalismo”,
un mito, un oggetto di “nostalgia” e, come l’ha chiamato Mario Levi, “una favola”.
silenzio del trauma 199

Negli anni Settanta, Sevim Burak aveva cominciato a scrivere sull’identità


ebraica per dare sfogo alla drammatica storia di identità negata, che era addi-
rittura fonte di vergogna per la madre, nata Anne Marie Mandil, e diventata,
dopo il matrimonio (per cancellare le tracce della sua ebraicità e non urtare la
sensibilità della famiglia del marito), Aysel Kudret. Burak dichiarava di scrivere
per fare ammenda della propria vergogna d’infante, causata dalla madre e dai suoi
parenti che evidenziavano, con il loro aspetto fisico e, soprattutto con il modo
in cui parlavano il turco, la loro irriducibile “estraneità” alla nazione. Il turco
“guasto” della madre, impossibile da riparare, suscitava risate, palesava l’ebraicità
e accresceva la “vergogna” della signora, dei parenti acquisiti, persino della figlia.

Küçücük bir kızken burnum çok havadaydı, Quando ero una bambina avevo il nasino per aria,
şimdi yerlere, yerin dibine indi. Yahudiler- ora è per terra, è sprofondato. Mi vergognavo degli
den, annemden utanırdım, nefretle karı- ebrei, di mia madre, una vergogna mista all’odio...
şık… Annem hep bir gün ağlayacaksın der, Mia madre piangeva, mi diceva che ‘un giorno avrei
ağlardı… İşte, şimdi bu bir avuç Yahudi, iki pianto anche io’ e continuava a piangere... Ecco ora
tanecik ev bana anamdan kalanlar… Onun di mia madre mi rimangono un pugno di ebrei,
için yazdım Yehova’yı. (Burak 2009, 27) due casucce... È per lei che ho scritto Yehova.
Mentre Sevim Burak denuncia un rapporto problematico, marginale con la lingua
turca, Mario Levi, il primo autore ad avere rotto il lungo silenzio, la dichiara “la sua
vera patria”: “Delle tre lingue che hanno toccato la mia infanzia la lingua turca è quella
che vibra più profondamente, è quella con cui ho pronunciato le mie prime parole
d’amore e dunque è quella che ho scelto per scrivere” (Semò 2010, 27). Tuttavia la
condizione di “minoranza” risulta decisiva nel determinare il rapporto con la lingua per
ambedue; se Burak usa tale prospettiva per contrastare il punto di vista maggioritario,
Levi arriva a pensare il turco come la sua vera patria, scrivendo su Şalom, il settimanale
della comunità sefardita di Istanbul, che contiene una pagina in lingua ladina.
La scrittura di Mario Levi è un bisbiglio, una ruminazione, i suoi racconti sono
intessuti di un persistente senso di malinconica rassegnazione, anche perché egli valuta
la condizione ebraica nel contesto storico turco musulmano, senza separarla dalla
condizione esistenziale della diaspora. Egli è un viaggiatore senza tante opzioni di altre
geografie, con “una voce rauca, tremolante dall’ansia di un viaggio verso questioni senza
risposta” (Gürsel 2002, 273). “Non dovremo mai dimenticare… siamo perseguitati
dai nostri fantasmi… le nostre avventure personali, malgrado tutti i nostri sforzi,
consistono in un continuo allontanamento e cattività. Null’altro importa” (Mario
Levi 1990, 32). La fierezza di Levi, della sua ebraicità, non esclude la consapevolezza
che l’essere ebreo “è come essere dovunque uno straniero” (Gürsel 2002, 277).
Istanbul era una favola, occupa nella versione turca 804 pagine e in quella
italiana 831, per raccontare la storia degli ebrei di Istanbul. Levi rimane vicino
alla tradizione degli scrittori yiddish e crea una narrazione epica, ricostruendo,
lungo tre generazioni la storia della famiglia Ventura e personaggi che le sono
in vario modo legati e che fanno parte del contesto. È come se questo mondo,
perso dietro le nebbie del passato, esortato perché sia collettivamente dimenti-
200 ayşe saraçgil

cato e negato, per riacquisire il diritto all’esistenza, seppure solo nella memoria,
avesse bisogno di essere raccontato. Il lungo romanzo si chiude ripetendo per
tre volte l’imperativo “Racconta”.
L’incertezza caratterizza l’intera storia; i ricordi sono malfermi, i racconti
tentennano sulla soglia del dubbio: compiersi, oppure mantenere la segretezza,
perché le esperienze e le vite vissute sono inenarrabili, non per la loro straordi-
narietà, ma perché il semplice dirsi ebreo è stato trasformato in un tabù; ma non
poter raccontare queste esperienze fa perdere loro il senso. Incerti sono i luoghi
e le memorie che hanno generato, perché è incerta l’appartenenza. Levi desidera
che Istanbul sia la sua patria, l’unica patria, perché è stata la culla della storia, sua,
della sua famiglia, della sua comunità e si è offerta come luogo di convivenza di
culture, lingue, religioni, mantenendone le tracce, che sono ancora evidenti, tanto
da permettere a lui, novello viandante, di ripercorrere la vita dei suoi antenati
dal loro arrivo, nel 1492, fino ai loro ultimi spostamenti. L’essere di Istanbul è
strettamente connesso con l’essere ebreo, armeno, greco, turco.
Spesso paragonato per la scrittura non lineare, per le frasi tanto lunghe da met-
tere in difficoltà la sintassi del turco, per la struttura ritmica, per l’evocazione della
memoria sensoriale a À la recherche du temps perdu di Proust, il romanzo di Levi è
uno sforzo per restituire la memoria, l’identità e la dignità storica agli ebrei turchi.
Il linguaggio è spesso spezzato, le frasi si ripetono muovendosi circolarmente,
per poi ritornare al punto di partenza, cercando lentamente d’insinuarsi nell’in-
timità dei personaggi. Il fluire del tempo della narrazione è irregolare, caratte-
rizzato da analessi e prolessi, da interruzioni che fanno posto a lunghe riflessioni
in prima persona dell’autore, alle domande dirette al lettore, a citazioni di frasi
pronunciate dai personaggi, a brevi dialoghi. Levi-autore si comporta tra i suoi
personaggi come un investigatore pudico che cerca di rintracciare le loro orme,
ripetendo in continuazione le difficoltà di riportare alla luce le storie del passato.
Discriminazioni nazionaliste e odio antisemita del periodo repubblicano,
hanno costretto gli ebrei a una doppia quotidianità, una “turca”, vissuta alla luce
del sole e l’altra “ebrea”, nascosta, creando una condizione che semina vergogna,
che costringe a nascondersi dietro un velo di mistero e di silenzio. Il silenzio
impedisce la trasmissione e trasforma la realtà in favola. Elementi dell’eredità,
che Levi vuole ricostruire, sono segnati dalle caratteristiche tipiche della favo-
la: l’indeterminatezza, l’irrealtà, il sogno. I suoi personaggi sono inafferrabili
nella loro fisicità, come nella loro psicologia e l’uso dell’imperfetto avvalora la
condizione di intangibilità. Levi, per trasformare questa intangibilità in realtà,
bilancia gli elementi della favola con l’uso di “prove”: l’album di famiglia, lettere
corredate di data, luogo e firma che rimandano a dati e eventi che hanno segnato
la Storia; tutti indizi che legano la famiglia, attraverso i suoi membri lontani,
alla tragedia della Shoah.
Il vuoto di memoria della bambina, sopravvissuta alla Shoah e cresciuta in
un ambiente cristiano, e il vuoto di memoria dell’autore-Levi, figlio di una co-
munità costretta al silenzio, si uniscono nella testimonianza di una difficile storia.
silenzio del trauma 201

Come Levi sottolinea nell’incipit del romanzo (9): “ ‘Burada’ anlatılanların ya da


kendini yavaş yavaş yazdırmış bu ‘uzun hikaye’de bir ‘yazı’ olarak yaşananların
kimi insanları rahatsız edeceğini biliyorum” (trad. it di Ragazzi 2007, 9: “So che
le cose raccontate ‘qui’, o qui vissute come una ‘scrittura’, in questo ‘racconto
lungo’, che si è lasciato scrivere piano piano, inquieteranno qualcuno”). Il ro-
manzo corregge la facile euforia di quanti, negli anni Novanta, sull’onda delle
nuove politiche identitarie, hanno riscoperto con entusiasmo il multicultura-
lismo ottomano, senza riflettere sufficientemente sul nazionalismo e sui danni
che ha provocato al Ventesimo secolo e ai suoi abitanti.

Note
1
Nata a Istanbul nel 1931 Sevim Burak abbandonò gli studi dopo il diploma della scuola
media conseguito al liceo tedesco della sua città nel 1946. Cominciò a lavorare come indossatrice
nel 1950 per poi aprire un atelier di alta moda. Esordì in letteratura nel 1965 con Yanık saraylar
(Serragli bruciati), una raccolta di storie altamente sperimentale che suscitò un vasto dibattito.
I suoi testi erano composti come “cucire mettendo insieme le parole, i concetti, gli appunti, che
spargeva sui muri e mobili”. Burak modificava lo scorrere della prosa, spezzettava le parole; cam-
biava l’uso regolare delle maiuscole e minuscole; rompeva le frasi con trattini, barre; scriveva le
parole mettendone le sillabe una sotto l’altra. Con la convinzione che le parole, in quanto segni
o simboli, servissero puramente per esprimere cose e pensieri, le sostituiva con immagini, foto,
disegni. Sembrava scrivere non tanto per narrare, bensì per indicare. Considerata a lungo dalla
critica letteraria turca come “surrealista” o “post moderna”, comunque incomprensibilmente
complicata e astratta, scriveva da un punto di vista marginale, in quanto donna ed ebrea; usava
la forma, e soprattutto la lingua, come strumenti di indagine dell’alterità nella cultura turca. La
sua era piuttosto una “letteratura minore” nel senso in cui la descrivono Gilles Deleuze e Félix
Guattari (1999), e cioè la letteratura di una minoranza, creata utilizzando una lingua maggiore.
Sevim Burak non è mai stata accolta nella Gotha della letteratura turca; dopo il rifiuto della giuria
del prezioso premio letterario Sait Faik di premiare Yanık saraylar per ben diciassette anni si è
ritirata dalla scena letteraria. Nel 1982 ha ricominciato a scrivere candidandosi con il racconto
Palyaço Ruşen al premio Sabahattin Ali, ma la Giuria, reputandola “troppo professionale”, le ha
negato il meritato riconoscimento. Nel breve arco di tempo prima della sua morte, nel 1984,
ha pubblicato Sahibinin Sesi (La voce del padrone), Afrika Dansı (La danza dell’Africa). Il resto
del suo lavoro è stato pubblicato solamente dopo la sua morte ed include: il romanzo Everest My
Lord, la pièce teatrale İşte Baş İşte Gövde İşte Kanatlar (Ecco la testa, ecco il corpo ecco le ali), e Ford
Mach 1, romanzo che considerava il proprio capolavoro e che descriveva come un “testo schizo-
frenico”. Nel 2004 il figlio ha pubblicato le sue lettere, Mach 1’den mektuplar (Lettere da Mach
1) e nel 2009 è stato pubblicato Beni deliler anlar (Mi capiscono i matti), una raccolta di lettere.
Se non diversamente specificato tutte le traduzioni sono a cura dell’autrice.
2
Mario Levi è nato a Istanbul nel 1957 in una famiglia ebraica. Dopo la laurea in lingua
e letteratura francese all’Università di Istanbul con una tesi su Jacques Brél, pubblicata in una
versione romanzata nel 1986 con il titolo Bir yalnız adam (Un uomo solo), ha cominciato a
scrivere sul settimanale della comunità ebraica, Şalom che dal 1984 è pubblicato in turco ma
che conserva una pagina in ladino per preservare la lingua generalmente adoperata dagli ebrei
turco-ottomani. Attualmente quella di Levi è una firma importante sui principali periodici e
giornali nazionali (Cumhuriyet, La Repubblica; Milliyet Sanat, L’arte [supplemento] Nazionalità;
Gergedan, L’ippopotamo; Varlık, L’esistenza). È stato il primo scrittore non musulmano a ricevere
nel 1990, con Bir Şehre gidememek (trad. it. di G. Bellingeri, P. Ragazzi, La vita è un bagaglio a
mano, 2010), il prestigioso premio letterario Haldun Taner. İstanbul bir masaldı del 1999 (trad. it.
202 ayşe saraçgil

di G. Bellingeri, P. Ragazzi, Istanbul era una favola, 2007) ha richiesto ben sette anni di scrittura
e nel 2000 ha ricevuto uno dei più importanti premi letterari, Yunus Nadi.
3
Nella memoria collettiva ebraica il 1492, la data dell’improvviso sradicamento e della
distruzione di una delle comunità più fiorenti dell’ebraicità, segna una tragedia dalle dimensioni
catastrofiche, tanto da essere paragonata alla cacciata dall’Egitto. Il 400° anniversario dell’accogli-
mento ottomano – accoglimento a cui fu attribuito il senso della redenzione del popolo ebraico –,
fu celebrato nel 1892, durante il regno del sultano Abdülhamid II (1876-1909), al quale furono
inviati da ogni parte messaggi che esprimevano il profondo e duraturo sentimento di gratitudine
degli ebrei nei confronti degli ottomani (Levi 1992, 1-3).
4
Il decreto sultaniale del 1856, che sancì pari diritti per tutti i soggetti ottomani senza
discriminazione religiosa, comportò un’importante erosione nello status giuridico di millet (Ka-
storyano 1992, 253). Per una discussione sugli effetti delle riforme iniziate nel 1839 sugli ebrei
si veda Rozen 2002, 77-85.
5
In assenza di censimenti e statistiche, i numeri relativi alla popolazione ebraica sono
vaghi e variano da una fonte all’altra. Le statistiche demografiche sulla popolazione ottomana,
relativa al periodo pre-moderno, si basano generalmente sui registri compilati per motivi fiscali
o agricoli. Il geografo francese Elisée Reclus contò nel 1877-1878, 400.000 ebrei nei territori
europei dell’impero, includendo anche la Valacchia e la Moldavia. Da un censimento ottomano
del 1882-1893, la popolazione ebraica totale nell’impero risulta ammontare, con le correzioni
statistiche, a circa 220.000 persone, di cui circa 70.000 vivevano nei Balcani e la maggior parte
dei rimanenti in Palestina. Il numero di ebrei emigrati nell’impero tra il 1862 e il 1914 è stimato
a 120.000 unità, inclusi gli ebrei che avevano come destinazione la Palestina (Karpat 1994, 399-
422, passim e McCarthy 1994, 375-398).
6
Grazie alla numerosità e all’importanza economico-culturale degli ebrei emigrati dalla
Spagna, il ladino, il dialetto giudeo-spagnolo, assorbì anche lo yiddish degli ashkenazi, venuti
dall’Europa Orientale e Centrale, e si affermò, soprattutto in Anatolia e nei Balcani, come lingua
prevalente degli ebrei ottomani (Ortaylı 2002, 129-130).
7
La stampa britannica sostenne che la rivoluzione del 1908 fu realizzata grazie alla finanza
ebraica e che la rivoluzione rappresentava la rinascita dell’alleanza tra “L’ebreo orribile e il turco
senza Dio”, mentre un partecipante musulmano al tentativo di golpe ai danni del CUP del 1913,
dichiarava alla Corte marziale che l’obiettivo dei golpisti era quello di sottrarre il potere agli “ebrei,
sionisti e i massoni” (Hanioğlu 1994, 520).
8
Per una parziale traduzione degli scritti di Gökalp si veda Berkes 1959. Per una biografia
esaustiva dello studioso, Parla 1985.
9
Gli ebrei furono considerati, in quanto “orientali”, un impedimento al progresso delle
nuove nazioni cristiane: vedi Müller 2010, passim.
10
Doveva avere luogo anche una deportazione degli ebrei dalla Palestina, ma l’occupazione
britannica determinò la sospensione del piano all’ultimo minuto (Baer 2004, 690).
11
In Anatolia la decimazione della popolazione ebraica, con una riduzione dai 64.323 ebrei
censiti nel 1911-1912 ai 25.527 del 1927, portò ad uno scadimento della popolazione pari al
60% (McCarthy 1994, 387).
12
Per una dettagliata discussione su questi temi si veda Cagaptay 2006, 11-65.

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