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E’ innanzitutto letteratura di un'élite feudale, e rispecchia quindi i suoi ideali: pietas, fedeltà e coraggio. In
quel periodo la società è rigorosamente strutturata dal sistema feudale e questa situazione si riflette nella
letteratura: vi troviamo numerose scene di guerra, come anche l'onnipresenza della fede cristiana. Ciò
nonostante, a partire dalla fine del XII secolo, i borghesi ottengono privilegi economici e giuridici che fanno
concorrenza ai poteri dei signori. Si vedono allora nascere nuove forme, più satiriche o più liriche come
nella poesia dei secoli XIV e XV, erede della lirica cortese.
La maggior parte degli autori di quest'epoca ci è sconosciuta: questo anonimato non è soltanto causato
dalla mancanza di documenti disponibili, ma anche da una concezione del ruolo dell'autore che differisce
totalmente dalla concezione romantica attuale. Gli autori medievali si riferiscono molto spesso agli antichi e
ai Padri della Chiesa, e tendono maggiormente a riordinare o abbellire le storie già lette o già sentite che a
inventarne di nuove: anche quando lo fanno, infatti, spesso attribuiscono la loro opera a un autore illustre o
immaginario. È così che ignoriamo il nome di autori di molti testi importanti, in particolare dell'Alto
Medioevo; il nome degli autori infatti inizia a interessare al pubblico solo a partire dal XII secolo.
La maggior parte dei testi pervenutici è diversa dalla versione originale dell'autore dell'opera, perché essi
possono essere sia la trascrizione di testi recitati o cantati, sia la copia di testi già scritti. Nella trasmissione
orale di un'opera, la "fedeltà" all'autore, in genere anonimo, è molto aleatoria. D'altro canto, gli amanuensi
si permettono spesso di correggere come gli sembra opportuno.
La letteratura medievale ha una reputazione mediocre nel XVI secolo e nel XVII. Durante il Rinascimento,
per esempio, essa viene vista come "oscura", "oscurantista", "barbara". Nel XIX secolo, essa viene
riscoperta dai romantici, che l'apprezzano secondo il suo valore. Anche oggi si continua a leggerla e
interpretarla. I miti che ha creato sono ancora fonti d'ispirazione, come per esempio quello di Tristano ed
Isotta, all'origine della concezione occidentale dell'amore.
Le lingue
Il latino è la lingua della Chiesa cattolica che domina l'Europa occidentale e centrale, e rappresenta
praticamente la sola materia di cultura: è usato dagli autori medievali anche in quelle regioni che non erano
state conquistate dall'Impero Romano. Ciononostante, in Europa orientale, l'influenza dell'Impero bizantino
e della Chiesa ortodossa fanno del greco e dello slavo le lingue dominanti.
Il popolo invece usa per parlare una lingua che si evolve, finché, anche nei paesi romanzi, essa non si
identifica più nel latino: si parla quindi delle varie lingue romanze o volgari. Esse si leggono in un numero
sempre crescente di opere, dalla “Chanson de Roland” (antico francese) al “Beowulf” (antico inglese), dal
“Nibelungenlied” (alto tedesco medio) al “Digenis Akritas” (neo-greco). Benché queste epopee siano in
genere considerate come opera di un singolo autore (spesso sconosciuto), esse sono basate su racconti di
tradizione orale più antica, come per esempio le epopee greche arcaiche sulla Guerra di Troia; allo stesso
modo, le tradizioni celtiche sopravvivono nei lai di Maria di Francia, nel Mabinogion e nel ciclo di Re Artù.
Le opere
Opere religiose
Le opere teologiche rappresentano la maggioranza dei testi che si possono trovare nelle biblioteche
medievali. Di fatto, la vita intellettuale è organizzata dalla religione cristiana, e quindi è naturale che testi di
ispirazione religiosa siano abbondanti. Ci sono pervenuti innumerevoli inni di questo periodo, sia liturgici
che paraliturgici; la liturgia stessa non ha una forma fissa, e possediamo numerosi messali che
testimoniano, ad esempio, diversi ordini per la messa.
Grandi pensatori e dotti di teologia come Tommaso d'Aquino, Pietro Abelardo e Anselmo di Canterbury
compongono lunghi scritti teologici e filosofici, ove si sforzano spesso di riconciliare l'eredità degli autori
pagani dell'Antichità e le teorie della Chiesa. Abbiamo, risalenti a questo periodo, anche numerose
agiografie, o "vite di santi", che permettono di diffondere la fede cristiana e sono molto amate dal
pubblico.
I soli testi religiosi di successo che non siano scritti da chierici sono i misteri: un teatro religioso, composto
dal succedersi di quadri biblici.
Scritti laici
Benché non sia altrettanto prolifica come la letteratura religiosa, quella non-religiosa di questo periodo è
comunque sopravvissuta permettendoci di possedere un ricco insieme di opere.
Il tema dell'amore cortese diventa importante fin dall'XI secolo, in particolare nelle lingue romanze
(francese, spagnolo, occitano, galiziano, catalano, italiano) e in greco, con le quali i bardi erranti, i trovatori,
vivono producendo canzoni. Se le opere cantate dai trovatori sono in genere assai lunghe, ne esistono
comunque forme più corte, come le albe. Oltre alle epopee dei paesi germanici (come il Beowulf e il
Nibelungenlied), le canzoni di gesta (come la Chanson de Roland o il Digenis Akritas) e i romanzi cortesi
ottengono un grande successo. Il romanzo cortese differisce della canzone di gesta non solo per il soggetto,
ma anche per l'accento posto sull'amore e la cavalleria a spese dei valori dei guerrieri.
Esiste poi una poesia politica, soprattutto verso la fine del periodo preso in considerazione, e la forma
goliardica è usata sia da autori laici che da chierici.
La letteratura del viaggio, infine, è molto apprezzata durante tutto l'arco medievale: i racconti fantastici su
terre lontane (spesso arricchiti o direttamente inventati) divertono una società fatta per la maggior parte di
gente che non si è mai mossa dal luogo di nascita; c'è comunque da notare l'importanza del pellegrinaggio,
in particolare quello per Santiago di Compostela, come si legge nei Racconti di Canterbury di Chaucer.
Il Serment de Strasbourg o Giuramento di Strasburgo (842) è indicato come il primo documento ufficiale in
cui si impieghi un antenato del francese (e del tedesco, essendo stato redatto in due copie da Carlo il Calvo
e Ludovico il Germanico, una latinizzante e l'altra germanizzante). Il testo di questo giuramento è giunto
fino a noi grazie allo storico Nitardo che all'interno della sua opera sui figli di Ludovico I il Pio, scritta in
latino, com'era ovvio a quel tempo, inserì le formule di giuramento nelle lingue effettivamente usate: Carlo,
di lingua proto-francese, giurò in alto-tedesco antico, per farsi meglio comprendere dalle truppe di
Ludovico; quest'ultimo, di lingua germanica, giurò nella lingua romanza del fratello. I rappresentanti dei due
eserciti, poi, giurarono ognuno nella propria lingua.
Tra i rari documenti pervenuti della lingua protofrancese, (fase iniziale del passaggio dal latino a una forma
precoce di francese) è rilevante il Glossario di Reichnau, redatto nel IX sec (880 d.C.) e avente varie colonne
riguardanti lemmi latini e loro definizioni, insieme ad altre concernenti le lingue dell'area francese.
Il primo documento ufficiale giunto sino ai nostri tempi che attesta l'uso del volgare in Italia è il celebre
placito capuano, databile al 960: si tratta di quattro testimonianze giurate, registrate tra il 960 e il 963,
sull'appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano. Sono i primi
documenti di volgare italiano scritti in un linguaggio che vuol essere ufficiale e dotto. Riguardava una lite sui
confini di proprietà tra il monastero di Montecassino e un piccolo feudatario locale, Rodelgrimo d'Aquino.
Con questo documento tre testimoni, dinanzi al giudice Arechisi, deposero a favore dei Benedettini,
indicando con un dito i confini del luogo che era stato illecitamente occupato da un contadino dopo la
distruzione dell'abbazia nell'885 da parte dei saraceni. Il più antico dei quattro è del 960 e cita (“io so che
quelle terre, per i confini indicati/contenuti, le possedette per trent’anni il monastero di san Benedetto”):
« Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. »
(Capua, marzo 960 d.C.)
Il placito capuano viene considerata la prima attestazione di volgare italiano, anche se esistono attestazioni
precedenti che, pur senza valore di ufficialità, testimoniano il distacco dal latino in corso almeno dall'VIII
secolo, come ad esempio l'indovinello veronese, di cinquant’anni più antico anche dei giuramenti di
Strasburgo! Trovato a lato di una pergamena, dice:
“Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba”
Traduzione: Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati,
e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava
Soluzione: la penna che scrive con inchiostro nero su una bianca pergamena.
Sono del X secolo le Glosse silensi e le Glosse emilianensi, più antiche testimonianze esplicite dell'esistenza
dell'antico castigliano: si tratta di annotazioni aggiunte a testi latini da monaci Benedettini dei monasteri di
San Millán de la Cogolla o di Suso. Tali note costituiscono vere e proprie traduzioni dello scritto originale.
Tra esse, ad esempio, si può leggere "quod: por ke" oppure "ignorante: non sapiendo".
L’EPICA MEDIEVALE
Dopo il crollo dell’impero romano iniziarono in Europa le migrazioni dei popoli germanici.
Con l’emergere alla storia di nuovi popoli, portatori di diversi modelli di vita, si ritornò alla trasmissione
orale dei testi che si presentavano in modo molto simile a quello classico.
Ebbe particolare rilievo l’epica che si sviluppò nell’area francese. Essa espresse in canzoni di gesta,
imprese eroiche legate ad eventi reali. In questi testi occupano un posto particolare personaggi come Carlo
Magno e Rolando: Carlo Magno appare come il saggio imperatore che si mette al servizio della fede e della
patria, invece Rolando come l’eroe cristiano.
Il testo più famoso è la Canzone di Rolando, che parla di un evento realmente accaduto nel corso di una
spedizione in Spagna per rappresentare il trionfo della fede sugli infedeli. Altri testi narrano storie di
feudatari ribelli all’autorità del re, oppure si ispirano alle crociate. Si tratta del cosiddetto Ciclo Carolingio.
A questi testi si collegano i romanzi cortesi con i quali condividono alcuni contenuti e valori, ma si
differenziano per il gusto romanzesco e riferimenti storici reali: tradizioni che si fusero in Italia nel ‘400.
In Spagna il poema epico più importante fu il Cantare del Cid, che è diviso in tre parti.
In Germania, sia prima che dopo la migrazione dei popoli c’era la presenza di leggende epiche. Tra le più
importanti leggende troviamo quelle degli Unni, dei Goti e dei Burgundi. Questi cicli parlano della grande
sconfitta che subì Gundahari da parte di Attila. L’Edda scandinava è un poema che fonde le narrazioni
storiche con quelle mitiche. Questo poema è formato da canti che celebrano le imprese degli dei
dell’olimpo nordico, mentre nella canzone dei Nibelunghi si parla della tragica storia dell’oro del Reno.
Un poema epico anglosassone è invece il Beowulf che narra le gesta dell’omonimo eroe. Tutti questi testi ci
danno le immagini di una cultura primitiva, di uomini e donne feroci che praticano la vendetta come
obbligo religioso.
Subito dopo l'anno Mille si era venuta elaborando una letteratura epico-cavalleresca che celebrava i valori
della società feudale aristocratica, come la fede religiosa, la fedeltà al proprio sovrano, la difesa dei deboli,
il rispetto per la donna. Le "Canzoni di Gesta" o "Epopee", dell'XI e XII secolo in lingua d'oil, sono poemi
epici di varia lunghezza, che celebrano le gesta di un eroe, e si articolano in diversi cicli. Tre sono i principali:
La Geste du Roi Il ciclo della Geste du Roi (Gesta del Re) o Ciclo Carolingio è centrata sul personaggio di
Carlo Magno e raggruppa una trentina di testi che ricostruiscono una storia poetica della vita
dell'imperatore. Esso assorbe nella sua leggenda tutti i Carolingi da Carlo Martello in poi: a lui vengono
attribuite tutte le imprese, le difficoltà, le vittorie. Attorno a lui si concentrano eroi e personaggi sia storici
che leggendari.
La Geste de Garin de Monglane La Geste de Garin de Monglane comprende circa 25 canzoni centrate sul
personaggio di Guglielmo d'Orange, bis-nipote di Garin de Monglane, antenato leggendario. Guglielmo
d'Orange è sopravvivenza epica di Guglielmo, conte di Tolosa e cugino di Carlo Magno, consigliere di Luigi,
figlio di Carlo, che si trovò alla testa del reame d'Aquitania (778); egli si trovò a fronteggiare un'invasione
saracena nel 793, conquistò Barcellona creando una Marca di Spagna, e infine si ritirò in un monastero
dove morì nell'812. Varie leggende e numerosi poeti gli diedero un titolo e delle imprese.
La Geste de Doon de Mayence La Geste de Doon de Mayence, dominata dal tema delle lotte feudali,
comprende molte canzoni raggruppate in modo più artificiale rispetto ai cicli precedenti.
Alcuni titoli: Gormont et Isembart (XII secolo), Girart de Roussillon (XII secolo), Garin le Lorrain (XII secolo),
Raoul de Cambrai (XII secolo), Renaud de Montauban (XIII secolo).
La letteratura cortese: La poesia di corte
Nel XII secolo, e fino al XIII, si sviluppa nelle raffinate corti del sud della Francia una poesia elevata a tema
amoroso in lingua d'oc, cantata dai cosiddetti troubadour, di cui citiamo i principali:
Arnaut Daniel;
Guglielmo IX, conte di Poitiers e duca d'Aquitania;
Jaufré Rudel;
Bernard de Ventadorn;
Bertran de Born;
Folchetto da Marsiglia;
Peire Vidal.
CHANSON DE ROLAND
La Chanson de Roland (o Canzone di Rolando o Orlando), scritta intorno alla seconda metà dell'XI secolo, è
una chanson de geste appartenente al ciclo carolingio, considerata tra le opere più significative della
letteratura medievale francese. Come ogni testo di natura epica, essa trae spunto da un evento storico, la
battaglia di Roncisvalle, avvenuta il 15 agosto 778, quando la retroguardia di Carlo Magno, comandata dal
paladino Rolando/Orlando e dagli altri paladini, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e
distrutta dai baschi - nella riscrittura epica trasformati in saraceni - attraverso un'informazione data dal
traditore Gano.
La Chanson de Roland è scritta in 4002 décasyllabes, equivalente francese degli endecasillabi italiani,
raggruppati in 291 lasse (strofe) assonanzate, opera di un certo Turoldo, a noi sconosciuto. Il testo
originale era scritto in lingua d'oïl, lingua volgare della Francia del nord.
Da notare che la Chanson de Roland narra di una battaglia combattuta quasi tre secoli prima e che si
caratterizza, come quasi tutta l'epica medievale, per la celebrazione della fede e del valore militare.
Temi
I valori che caratterizzano la Chanson de Roland sono:
- la fedeltà al proprio signore, in questo caso Carlo Magno,
- la fede cristiana, in opposizione alla fede islamica (che tra l'altro nel testo risulta essere politeista);
- l'onore, da tutelare a ogni costo e con ogni mezzo,
- l'eroismo in battaglia.
Alla celebrazione delle virtù militari nella dimensione del martirio cristiano – il cavaliere che muore in
battaglia è equiparato al santo che rinuncia alla propria vita per la fede – corrisponde la quasi totale
assenza del motivo amoroso. Le uniche due donne presenti sulla scena sono Alda (futura sposa di Orlando
e sorella di Oliviero) e Braminonda, moglie di Marsilio che si convertirà alla fine del poema. In quest'ottica
le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro gli Arabi sono celebrate come delle vere e proprie
guerre sante. I paladini sono eroi, votati all'ideale della fede e dell'onore, coraggiosi, fedeli a Dio e al loro
signore, abili con la spada, che salvaguardano i più deboli e li difendono onorevolmente.
Le vicende hanno inizio con la descrizione della situazione generale del conflitto in Spagna, a cui segue
un'ambasciata pagana pronta ad offrire la pace a Carlo Magno. Si riunisce il consiglio cristiano e si
scontrano due linee: da una parte abbiamo Gano di Maganza, futuro traditore, rappresentante di una
nobiltà fondiaria che non ha bisogno di espandere i propri domini e che anzi preferirebbe il mantenimento
della pace; dall'altra una nuova classe sociale in ascesa che ha nella virtù militare la propria principale
espressione e che invece vuole fortemente che il conflitto vada avanti, rappresentata dall'eroe per
eccellenza, il prode Orlando.
In un primo momento, Orlando si rifiuta di credere che Gano abbia tramato con il nemico; accetta di essere
a capo della retroguardia con il consueto orgoglio militare, nonostante Carlo, in uno dei presagi che
costellano l'intero poema, abbia un funesto presentimento.
Ben presto però la retroguardia si rende conto del tradimento di Gano; all'arrivo dell'esercito pagano si
assiste ad una splendida discussione tra Oliviero, detto il "saggio", e Orlando, rappresentazioni di due
dimensioni ideali dell'eroe che vedevano già in epoca classica una polarizzazione poi divenuta topica.
Oliviero consiglia al compagno di suonare l'olifante (il suo corno) il cui suono richiamerebbe il resto
dell'esercito. Il prode paladino rifiuta perché richiamare rinforzi sarebbe causa di eterno disonore.
Discussione che sarà riproposta dopo il combattimento e la morte dei dodici pari, quando resteranno in vita
il vescovo Turpino, Orlando e Oliviero: a parti invertite, Oliviero sosterrà l'inutilità di suonare il corno
quando gli eroi sono prossimi alla morte, Orlando invece suonerà definitivamente per consentire la vittoria
ai Franchi. Proprio mentre le truppe guidate al rientro da Carlo Magno contemplano il paesaggio nella gioia
del ritorno, il suono del corno risuona tre volte sulle rocce di Roncisvalle; viene scoperto il tradimento di
Gano, che viene catturato in attesa del processo. Nel frattempo la retroguardia francese ridotta a soli tre
uomini viene sopraffatta. Orlando colpito a morte tenta di spezzare la sua spada Durlindana. Non
riuscendoci si accascia sul terreno con le braccia incrociate in attesa della morte. Il paladino cristiano pone
la sua spada sotto di lui, impugna l'olifante e dona il suo guanto a Dio, immagine del vassallaggio fedele che
percorre tutto l'arco del poema. Gli angeli scendono su di lui per portarlo nel regno dei cieli.
Proprio nello stesso istante arriva Carlo; l'imperatore sbaraglia gli avversari che si danno alla fuga o
annegano nel fiume Ebro. Il re torna ad Aquisgrana dove ha fretta di processare Gano per tradimento, ma
nel frattempo entra in scena l'emiro Baligante, il più potente re saraceno, che per la prima volta a metà del
poema fa la sua apparizione, trasformando l'imminente e definitivo conflitto con Carlo nella concreta
realizzazione della prima opposizione Orlando vs Marsilio. Il più numeroso esercito pagano si scontra con le
forze cristiane in una lotta selvaggia, sulla cui fine aleggia però un destino voluto da forze sovraumane mai
messo in discussione (motivo che arriverà fino alla Gerusalemme liberata del Tasso). Alla fine del conflitto
resta solamente da processare il traditore Gano, che si difende dall'accusa con l'appoggio dei suoi nobili
parenti. Alla difesa teorica corrisponde anche secondo la prassi dell'epoca un eventuale duello: per
smentire l'altra parte in causa e dimostrarne il torno. Paladino difensore di Gano è il potente Pinabel, che
nessuno in un primo momento osa sfidare proprio per la sua abilità indiscussa. Quando Carlo sembra ormai
costretto a notificare il volere della comunità e a rilasciare Gano, lo scudiero Teodorico prende le parti
dell'accusa e sfida Pinabello nel duello finale che conclude il poema, come era del resto il costume epico.
Carlo, in seguito all'apparizione in sogno dell'Arcangelo Gabriele parte per dare aiuto al re Viviano. «Qui
finisce la storia che Turoldo mette in poesia», e così si conclude la Chanson de Roland, con una nuova
apertura che sottolinea il tragico destino di chi è garante del potere.
Morte di Orlando
Lo sente Orlando che la morte l’afferra,
giù dalla testa fin sul cuore gli scende.
Fin sotto un pino se n’è andato correndo,
sull’erba verde ci si è accanto disteso,
la spada e il corno sotto sé si mette.
Volta ha la testa alla pagana gente,
e così ha fatto perché vuole davvero
che dica Carlo e con lui la sua gente
che morì il nobile conte da vincitore.
Confessa le sue colpe ripetutamente,
per i peccati in pegno offre a Dio il guanto.
CLXXIV
Lo sente Orlando che il suo tempo è finito,
volto alla Spagna è in cima a un poggio aguzzo;
con una mano il petto s’è battuto:
«Mea culpa, Dio!, verso le tue virtù,
dei miei peccati, dei grandi e dei minori
che ho commesso da quando venni al mondo
fino ad oggi, che qui son stato preso!».
Il guanto destro perciò ha teso a Dio,
angeli scendono giù dal cielo a lui.
CLXXV
Il conte Orlando giace sotto un pino,
verso la Spagna tiene volto il viso.
Di molte cose gli ritorna alla mente,
di tante terre quante ne prese il prode,
la dolce Francia, quelli del suo lignaggio,
Carlomagno che l’allevò, suo signore;
non può impedirsi di sospirare e piangere.
Ma non si vuole dimenticare di sé,
confessa le sue colpe, chiede a Dio pietà:
«Vero Padre, che non hai mai mentito,
san Lazzaro da morte risuscitasti,
e Daniele dai leoni salvasti,
a me l’anima salva da tutti i pericoli
dei miei peccati quanti ne ho fatti in vita!».
Il guanto destro porge in pegno a Dio:
San Gabriele dalla sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio si tiene il capo chino,
le mani giunte è arrivato alla fine.
Dio gli manda il suo angelo Cherubino
e San Michele del mare del Pericolo;
insieme a loro viene lì san Gabriele,
portan del conte l’anima in paradiso
Poetica
Il poema ha un carattere realista che era poco comune nei poemi epici: ad esempio, vengono citate le cifre
dei morti in battaglia, una caratteristica più da cronaca storica che da epica. Si riflette la necessità di
guadagnarsi la vita ogni giorno, non ci sono gli elementi magici tipici della tradizione cavalleresca europea e
solamente in una occasione interviene la divinità. Si può notare anche un ritratto psicologico dei
personaggi, soprattutto per quel che riguarda il protagonista e i suoi avversari, i principi di León, che
appaiono sempre uniti. Il poema, primo eccezionale documento della letteratura spagnola, testimonia la
nascita di una nuova lingua romanza in Spagna, all'epoca formata da un miscuglio di catalano, di galiziano-
portoghese e di castigliano, oltre che dell'epopea del popolo che combatte per la patria e per la religione.
JAUFÈ RUDEL
Jaufre Rudel principe di Blaia, vissuto intorno al 1100 d.C., è stato un poeta e trovatore francese di lingua
occitana, famoso innanzitutto per un episodio narrato dalla biografia antica (vida), dove si narra del suo
amore per la contessa di Tripoli, della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia, e di
cui si sarebbe innamorato e per la quale avrebbe cominciato a comporre canzoni senza averla mai vista.
Per riuscire a vederla, secondo la vida, Jaufre si fece crociato e partì per l'Oriente. In viaggio si ammalò e fu
portato a Tripoli dove, morente, fu condotto dalla contessa. In un ultimo slancio vitale, dopo averla a
lungo immaginata, riuscì così a vederla e stringerla tra le braccia. Le vidas, racconti delle vite dei maggiori
trovatori, sono da prendere sempre con le pinze, in quanto spesso sono inventati, fantasiosi, o ricavati in
modo poco realistico dalle poesie degli stessi autori. Questo significa che ciò che sappiamo di Rudel può
facilmente essere falso.
La produzione di Jaufre Rudel in questo particolare contesto è caratterizzata da ciò che è stato definito un
paradosso amoroso, che è per molti aspetti rappresentativo di un'ampia costellazione della poesia
trobadorica. Si tratta dell'amor de lonh, ovvero un amore che non vuole possedere ma godere di questo
stato di non possesso, un amore “di lontananza”. Nel topos dell'Amor cortese l'esperienza amorosa appare
come una tensione costante verso l'irraggiungibile perfezione richiesta per essere degni di ricevere la grazia
da madonna (in occitano midons, ovvero 'mio signore', infatti il rapporto nei confronti della donna è molto
simile a quello signore-vassallo, con l’uso degli stessi termini del vocabolario vassallatico), durante la quale
l'amante si affina spiritualmente e intellettualmente. La dama è, infatti, inaccessibile, perché è sposata o
perché è lontana, spesso chiusa in un castello. Per questo motivo spesso e volentieri la donna cantata è
nascosta dietro un “soprannome”: ogni autore ha la sua donna, perciò nelle sue poesie ritornerà spesso lo
stesso “senhal”, cioè il segnale che nasconde il nome della sua amata.
La poesia di Jaufre Rudel, come quella di altri trovatori, si basa sul concetto di lirica del desiderio, fondata
sull'indeterminatezza dei significati. La semplicità della forma, enunciata come cifra del suo stile già dagli
stessi che hanno allestito e "antologizzato" la sua produzione poetica, potrebbe tuttavia nascondere una
pluralità di livelli di significazione. La sua produzione, inoltre, risente molto della tradizione liturgica, sia
sotto il profilo metrico e retorico sia sotto quello tematico. Tra i riferimenti è forse possibile individuare
l'insegnamento di Bernardo di Chiaravalle e una polemica contro Ovidio (l'amore scelto da Jaufre non vuole
e non ha bisogno di remedia). I componimenti di Jaufre Rudel sono solo sei o, per altri critici, otto. Questi i
titoli, presi dal primo verso:
Qand lo rossignols el foillos
Lanqand li jorn son lonc en mai
Qan lo rius de la fontana
Belhs m'es l'estius e·l temps floritz
Lan quan lo temps renovelha
Pro ai del chan essenhadors
No sap chantar qi so non di
Qui non sap esser chantaire