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Usbek un personaggio contradditorio: la sua figura non deve essere vista come un critico che lotta
contro l’assolutismo europeo, in realtà è colpevole di dispotismo nel suo paese.
Usbek ha lasciato le sue amanti prigioniere nell’harem per tutto il tempo del viaggio. Una di loro,
scrivendo a Usbek, rivela le pessime condizioni in cui si trovano le mogli e la tragicità della loro
vita.
I viaggiatori persiani mostrano solo i peggiori difetti che un’identità nazionale può avere. Anche se
a volte, un diverso punto di vista, dello straniero, spesso si rivela utile: ci aiuta a capire realmente
qual è il mondo in cui viviamo e come sono le nostre abitudini.
Trovandoci all’interno di un complesso meccanismo sociale, riteniamo corretto quello che facciamo
anche se in realtà non lo è e se non ci fossero persone come Usbek e Rica non sapremmo mai se il
nostro modo di pensare e di comportarci è giusto oppure no.
Montesquieu esprime nel libro i valori reali che nella vita vera, come ci dimostra Usbek, sono molto
difficili da mantenere. Solo un continuo confronto e la lotta per i propri ideali, senza pregiudizi e
apparenze, è possibile migliorare se stessi e la società in cui si vive.
L’opera è solamente una raccolta di lettere che Montesquieu, dice essere “cadute per caso in mano
sua”; l’autore quindi si sottrae dal rivendicarle.
Il viaggio che i persiani compiono è pieno di motivazioni e di stimoli: essi vanno alla conquista del
sapere che per Usbek equivale al rifiuto di restare sottomesso all’autorità della sola cultura del
paese natale: “Noi siamo nati in un regno fiorente, ma non abbiamo creduto che i suoi confini
dovessero essere quelli delle nostre conoscenze e che solo la luce orientale dovesse illuminarci”.
Questa causa può essere ritenuta necessaria e sufficiente ma, anche se il desiderio di sapere è un
motivo sincero e non un semplice pretesto, la necessità di sfuggire al dispotismo è una causa di
importanza per lo meno uguale.
IL montaggio di lettere creato permette di muoversi nella complessità del sistema dispotico che
Montesquieu critica, mostrata nella figura dello stesso Usbek : si rivela come un personaggio
contraddittorio e che in diverse lettere si vede la sua capacità di mettere in dubbio le sue
convinzioni senza però avere intenzione di mutarle ; è un uomo che pare ammirevole nel suo
desiderio di essere libero, curioso del nuovo e del diverso ma ugualmente incapace di rinunciare al
suo ruolo di padrone nel suo harem dove gli è riconosciuta l’autorità di decisione su ogni aspetto
della vita che vi abita imprigionato per suo volere : dagli eunuchi , che lo devono servire, alle
mogli, che lo devono rispettare.
Questi scambi di lettere che si intrecciano mostrano come viene percepito questo sistema di potere :
gli eunuchi portano rimorso e odio per cio’ che gli è stato fatto e per cosa sono costretti a fare ma
esprimono una totale devozione al loro padrone e cosi’ le mogli .
In questo modo Montesquieu utilizza il serraglio come metafora: si dice Persia e si intende Francia,
cosi’ può mostrare, mettendole a nudo, le dinamiche delle relazioni in un sistema dispotico;è
dispotica la Persia come gli altri governi orientali , come lo stesso Usbek e come il dispotismo
illuminato di Luigi XIV.
“Lettere Persiane” è una “specie di romanzo” come lo descrive lo stesso Montesquieu, consapevole
delle singolarità del suo testo letterario-filosofico-politico privo di modelli di riferimento
definiti(per quanto si ispiri a molti testi di viaggio e altre fonti letterarie).
Con questo testo vuole indagare l’attualità francese nella quale vive mostrando la sua complessità e
le dinamiche del pensiero che la guidano;grazie a questa ricerca e al carattere letterario,che permette
di leggere il testo come un romanzo,”Lettere Persiane”diventa subito molto popolare ,ci riesce
grazie ai due intrecci principali che permettono di mostrare un quadro più ampio , e quindi meglio
comprensibile, e sui quali vige un sistema dispotico:il dramma del serraglio di Ispahan al quale
manca la presenza di Usbek e il dramma della bancarotta di Law che porta la Francia ad una crisi
economica.
Il racconto è costituito dalle lettere che Usbek e Rica si scambiano e inviano ad altri interlocutori,
europei e persiani per discutere di situazioni in cui si sono trovati e dubbi nei riguardi della cultura
straniera. Sullo sfondo della storia occidentale, c’è n’è anche una orientale: Usbek ha lasciato in
Persia le sue numerose mogli, rinchiuse e sorvegliate dagli eunuchi nel Serraglio. L’assenza di
Usbek però spinge le mogli a pretendere più libertà di quante dovrebbero …
Usbek si fa portatore dei valori dell’intelligenza illuminista; il valore della libertà, della tolleranza e
della ragione critica. Le Lettere Persiane sono un perfetto esempio di romanzo filosofico, in cui
l’autore critica la religione e i costumi della sua patria, gettando anche le prime basi per quei
ragionamenti che confluiranno nell’opera più significativa di Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi.
Il romanzo però, mantiene un’ambiguità di fondo che lo discosta da molti romanzi filosofici,
interessati spesso solamente al messaggio filosofico/morale e non all’intreccio narrativo.
Usbek, intellettuale proto-illuminista in Europa, in Persia è il sovrano del suo piccolo stato
personale, il Serraglio, sul quale domina con l’autorità di un tiranno. La conclusione è
particolarmente significativa: mentre Usbek si strugge di gelosia e quasi impazzisce preda delle
passioni, in Persia il Serraglio cade preda di una rivolta interna e la moglie prediletta di Usbek, la
bella e mite Roxane, si suicida in un atto di autoaffermazione e di disprezzo nei confronti del
padrone
Gli illuministi diedero grande importanza alla politica. Criticavano il potere assoluto e
auspicavano una società dove si garantisse il benessere del popolo.
Per questo motivo alcuni pensatori elaborarono pensieri diversi riguardo la forma migliore di
governo da attuare.
Charles-Louis de Secondat, meglio noto come barone di Montesquieuespresse il
suo pensiero politico nella sua opera più celebre pubblicata nel 1748. Montesquieu con Lo spirito
delle leggi espresse la divisione dei poteri presenti in ogni Stato.
Secondo Montesquieu concentrare i poteri in un’unica persona come nel caso del dispotismo
privava i cittadini della loro libertà. Lo stesso avveniva nella repubblica dove il popolo, al tempo
stesso tempo sovrano e suddito, deteneva tutti i poteri: fare le leggi, farle applicare e controllare che
fossero rispettate.
Montesquieu concluse che i tre poteri dovevano essere separati e affidati a organismi diversi che si
controllassero e limitassero reciprocamente. Il potere legislativo doveva essere attribuito a
un’assemblea rappresentativa o Parlamento, l’esecutivo al governo e il giudiziario alla
magistratura. La forma di governo che meglio rispecchiava il pensiero di Montesquieu era la
monarchia parlamentare inglese, dove i poteri divisi garantivano la libertà di ognuno.
dissipare «[il luogo comune di pensare che l’opera abbia un carattere eminentemente letterario, la
principale valenza delle Lettres persanes è quella di essere un trattato filosofico-politico in forma di
romanzo epistolare. Inquadrate in questo modo, esse perdono quell’apparenza di meccanica
giustapposizione di differenti piani di discorso, di temi e di analisi, per acquisire, invece, la giusta
veste di opera dotata di coerenza e organicità. tanto le Lettres persanes quanto le Considérations
sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) non devono essere affatto
considerate semplici lavori preparatori dell’opera maggiore di Montesquieu, l’Esprit des lois
(1748), poiché, in realtà, si tratta di tre «autonomi e distinti trattati», anche se il metodo utilizzato è
lo stesso e rimane costante l’interesse per lo stesso oggetto, la civiltà umana ricondotta alle sue
forme tipiche. Il filosofo di La Brède, in sostanza, non ha scritto tre capolavori attinenti a tre diversi
campi del sapere, come si continua a ripetere nel contesto della manualistica corrente, ma tre
capolavori che insistono sullo stesso tema, con diverse forme di elaborazione, ma ciascuno in sé
completo e organico. D’altro canto, le quattro categorie concettuali che Sergio Cotta attribuisce alla
metodologia di ricerca del pensatore bordolese, vale a dire rapporto, relatività, spirito generale
della nazione e grandezza/decadenza, sono già tutte presenti nelle Lettere persiane, a riprova della
forte pregnanza filosofica dell’opera.
Tale questione, poi, offre l’opportunità per sottolineare che le Lettres persanes non sono un puro
divertimento narrativo, com’è stato inteso da taluni interpreti, ma sono un autentico capolavoro
intessuto di importanti tematiche affrontate con grande serietà, anche se a tratti campeggia l’ironia
tipica di Montesquieu.
Il protagonista dell’opera, il persiano Usbek, una sorta di alter ego di Montesquieu, è un po’
espressione dell’ansia di conoscenza che caratterizza l’uomo dotato di senso critico e di spirito
filosofico. Nella Lettera I, infatti, egli afferma: «Siamo nati in un regno florido; non abbiamo
ritenuto, tuttavia, che i suoi confini coincidessero con quelli delle nostre conoscenze e che solo la
luce d’Oriente dovesse illuminarci». Usbek, quindi, interpreta una sorta di saggezza orientale che
mette fra parentesi le sue tradizioni per cercare di aprirsi verso nuovi mondi. In questo modo, egli
finisce col conoscere l’Europa meglio di molti Europei, anche perché è in possesso di uno spirito
critico non comune. Si coglie sin da subito questa caratteristica, visto che in quella che potrebbe
essere definita la Prefazione, i Persiani sono descritti come conoscitori dei costumi occidentali fin
nei «dettagli più minuti e da notare cose che [...] sono sfuggite a molti Tedeschi che hanno viaggiato
attraverso la Francia [...], senza contare che è più facile per un Asiatico conoscere in un anno i
costumi dei Francesi di quanto non sia per un Francese conoscere i costumi asiatici in quattro,
perché gli uni sono espansivi tanto quanto gli altri sono riservati».
Usbek e il suo compagno di viaggio Rica, anche lui Persiano, nei loro scambi epistolari, tracciano
un quadro vivace dei costumi e delle istituzioni (in particolare della Francia degli ultimi anni del
regno di Luigi XIV e dei primi anni della reggenza di Filippo II d’Orleans), dietro il quale si
intravede un giudizio assai severo sull’assetto irrazionale della società e dello Stato di questo paese
e, più in generale, del mondo occidentale.
Non potevano mancare, d’altronde, in quest’opera, riferimenti alla situazione politica del tempo,
con particolare attenzione alle monarchie assolute europee, considerate strutturalmente instabili e,
sebbene in maniera diversa dagli Stati dispotici del mondo asiatico, portate anch’esse a degenerare
nel dispotismo. Sostiene, infatti, Montesquieu, nella Lettera XCIX: «i governi d’Europa sono per la
maggior parte monarchici [...]. È uno stato di cose violento che degenera sempre in dispotismo o in
repubblica; il potere non può mai essere equamente ripartito tra il popolo e il monarca: troppo
difficile è mantenere l’equilibrio. Bisogna che il potere diminuisca da una parte mentre aumenta
dall’altra, ma il vantaggio sta di solito dalla parte del monarca, che è a capo dell’esercito». Del
resto, Montesquieu non lesina critiche nei confronti di colui che assurge a modello dei monarchi
assoluti, ossia Luigi XIV, considerato emulo dei sovrani orientali ed estimatore dei governi turchi e
del sultano persiano. Non casualmente, il Bordolese mette in bocca a Usbek la seguente
affermazione: «Il re di Francia è vecchio. Nelle nostre storie, non c’è esempio di un monarca che
abbia regnato così a lungo. Si dice che possegga in sommo grado il talento di farsi ubbidire:
governa con la stessa abilità la propria famiglia, la corte e lo Stato. Lo si è spesso sentito dire che,
fra tutti i governi del mondo, preferirebbe quello dei Turchi o quello del nostro augusto sultano: tale
è il suo apprezzamento per la politica orientale!»1. Il filosofo di La Brède è invece prodigo di elogi
nei confronti sia della monarchia costituzionale inglese sia delle repubbliche federative a lui
contemporanee, come l’Olanda e la Svizzera. Di quest’ultima dice che è «l’immagine stessa della
libertà», mentre, a proposito dell’Italia, si esprime così: «Gli storici d’Italia vi presentano una
nazione un tempo padrona del mondo, oggi schiava di tutte le altre, i suoi prìncipi divisi e deboli, e
senza altro attributo di sovranità che una vana politica». A un Oriente dispotico e sempre uguale a
se stesso, in cui regnano ‒ come si può leggere nella Lettera CXLVIII ‒ «l’orrore, la notte e il
terrore», corrisponde, sia pur con significative eccezioni (Inghilterra, Olanda e Svizzera), una
modernità europea «insozzata dagli orrendi delitti», tanto che Usbek ne parla utilizzando
l’espressione di «nero Occidente». In altri termini, alla barbarie asiatica fa da contrappunto una non
meno significativa barbarie occidentale, instauratasi in Europa con le monarchie assolute, cui ha
fatto seguito un decadimento dei costumi. Montesquieu, dunque, attraverso il personaggio di Usbek,
denuncia la depravazione di una Francia orientalizzata, infestata da lacchè, attrici, bellimbusti,
ciarlatani e arrivisti, ove dietro l’inganno delle apparenze, ognuno è ripiegato sui propri meschini
interessi.
Di contro, Montesquieu non manca di attingere a modelli tratti dalla storia, al fine di rimarcare la
sua attenzione per le grandi repubbliche del mondo antico, nelle quali l’amor di patria si coniugava
con l’interesse per l’onore, per la reputazione e, più in generale, per la virtù, cosicché la
gratificazione per aver compiuto una bella azione era già di per sé il premio più ambito, come si può
leggere nella Lettera LXXXVII: «Il santuario dell’onore, della reputazione e della virtù sembra
trovarsi nelle repubbliche e nei paesi dove si può pronunciare la parola “patria”. A Roma, ad Atene
e a Sparta, l’onore da solo ripagava i più segnalati servizi [...]. In quei paesi un uomo che aveva
compiuto una bella azione si riteneva sufficientemente ricompensato da quell’azione stessa».
Un altro tema di grande interesse, all’interno delle Lettere persiane, è quello che riguarda il
presunto spopolamento della Terra. Si tratta di ben undici Lettere (dalla CVIII alla CXVIII), che i
critici solitamente considerano una sorta di escrescenza o di indebita aggiunta all’opera, quando
invece esse rappresentano «il primo potente schizzo di quella dottrina della doppia causalità (fisica
e morale) delle istituzioni umane che è uno dei pilastri portanti dell’Esprit des lois». Come ci fa
acutamente notare Felice, la tesi dello spopolamento, di cui si fa portatore Montesquieu, è destituita
di fondamento, poiché calcoli recenti hanno dimostrato che, nel periodo 1690-1730, la popolazione
europea era in realtà aumentata, anche se, proprio nell’arco temporale in cui sono ambientate le
Lettere persiane (1711-1720), in Francia si registrò una stagnazione demografica. Nondimeno,
occorre rimarcare la sensibilità dell’autore transalpino su un tema riguardante le sorti dell’intera
umanità. Egli, infatti, nella Lettera CVIII, afferma: «Sono rimasto più di un anno in Italia, dove ho
visto solo le rovine di quell’antica Italia così famosa un tempo. Benché tutti abitino nelle città,
queste sono totalmente deserte e spopolate [...]. C’è chi sostiene che la sola città di Roma avesse un
tempo più abitanti del più grande regno dell’Europa odierna». Poco oltre, così prosegue: «Un tempo
esistevano in Sicilia regni potenti e popolazioni numerose che, in seguito sono scomparsi [...]. La
Grecia è talmente deserta che non contiene nemmeno la centesima parte dei suoi antichi abitanti
[...]. La Spagna, un tempo così popolosa, mostra oggi solo campagne disabitate, e la Francia non è
nulla in confronto all’antica Gallia di cui parla Cesare. I paesi del Nord sono molto sguarniti [...]. La
Polonia e la Turchia europea non hanno quasi più abitanti». E così via, fino a concludere, con una
punta di amarezza: «Ecco [...] la più terribile catastrofe che mai sia accaduta nel mondo; ma a stento
è possibile accorgersene perché si è prodotta impercettibilmente e nel corso di molti secoli: ciò
rivela un vizio interno, un veleno segreto e nascosto, una malattia di sfinimento che affligge la
natura umana».
Le cause di questa tremenda situazione sono di due tipi: il primo è di ordine fisico o naturale, con
particolare riferimento al clima; il secondo è di ordine morale o storico. In riferimento alla prima
causa, bisogna evidenziare che, secondo Montesquieu, gli uomini non sono ubiquitari, per cui se
cambiano aria, andando a vivere in un paese diverso da quello in cui sono nati, inevitabilmente si
ammalano, come si deduce dal seguente passo della Lettera CXVII: «Gli uomini devono restare
dove sono; esistono malattie che derivano dal fatto che si passa da un’aria buona a un’aria malsana
e altre che derivano dallo stesso cambiamento d’aria». Per quanto attiene alla seconda causa, il
filosofo bordolese, parlando il linguaggio della verità, intende mettere a nudo le responsabilità
umane, sottolineando, come solitamente gli capita di fare, la tendenza dell’uomo ad opprimere gli
altri uomini. Anche in questo caso, sono in particolare i governi dispotici ad essere messi sotto
accusa; i governi repubblicani, invece, dando prova di virtù, offrono grandi possibilità di favorire
l’incremento demografico. La Lettera CXVIII, in questo senso, è emblematica, nel momento in cui
afferma che «[l]a mitezza del governo contribuisce straordinariamente alla propagazione della
specie. Tutte le repubbliche ne forniscono una prova costante e, più di tutte, la Svizzera e l’Olanda,
i paesi meno favoriti d’Europa, se si considera la natura del terreno, e ciò nonostante i più
densamente popolati. Nulla attira gli stranieri più della libertà e dell’opulenza che sempre ne deriva
[...]. La specie si moltiplica in un paese in cui l’abbondanza provvede ai figli senza nulla togliere ai
padri. La stessa uguaglianza dei cittadini, che di solito produce l’uguaglianza dei beni, porta
l’abbondanza e la vita in tutte le parti del corpo politico, e la diffonde dappertutto. Non accade lo
stesso nei paesi sottoposti a un potere arbitrario: il principe, i cortigiani e alcuni privati possiedono
tutte le ricchezze, mentre tutti gli altri gemono in un’estrema povertà».
Anche altri ambiti, comunque, sono oggetto di interesse da parte del pensatore francese. Fra questi,
ad esempio, vi è quello riguardante la repulsione per concetti come quello di sottomissione, a cui
occorrerebbe, invece, contrapporre, semmai, la gratitudine, come ci insegnano gli Inglesi, il cui
umore impaziente ‒ come si sostiene nella Lettera CI ‒ «non concede al loro re troppo tempo per
rafforzare la propria autorità», mentre gli stessi Inglesi sarebbero capaci di venir meno al
sentimento di obbedienza nei confronti del monarca, qualora si accorgessero che il re intende
opprimerli e distruggerli. Il potere, quindi, non può essere illimitato, per Montesquieu, ma chi lo
detiene deve, a sua volta, sottostare a ben precise regole di comportamento.
L’irrazionalità delle azioni umane, poi, che l’autore transalpino non manca mai di stigmatizzare, è
esemplificata dai Francesi, attenti più alle mode e ad ogni forma di esteriorità che alle cose
importanti; infatti, essi «[a]mmettono volentieri che gli altri popoli sono più saggi, purché si
riconosca che loro sono vestiti meglio. Sono disposti ad assoggettarsi alle leggi di una nazione
rivale, a patto che i parrucchieri francesi decidano da legislatori sulla forma delle parrucche
straniere. Nulla sembra loro così bello quanto vedere il gusto dei loro cuochi regnare dal
Settentrione al Meridione e le disposizioni delle loro acconciatrici diffuse in tutte le toilette
d’Europa». Montesquieu, dunque, mette alla berlina gli usi e i costumi dei Parigini, la vita di corte,
la fatua vanità delle dame e, in senso lato, sottopone a dura critica la mancanza di buon senso.
Nondimeno, a preoccupare il filosofo bordolese, è pure il decadimento di valori rispetto al passato.
Egli rimprovera agli uomini del suo tempo un crescente interesse per i beni materiali, visto che,
come emerge nella Lettera [VI], una delle otto lettere persiane inedite, pubblicate ad opera di
Thémiseul de Saint-Hyacinthe (che ne possedeva una copia), nel quinto numero di «Le Fantasque»‒
rivista settimanale stampata ad Amsterdam, di cui apparvero venti numeri tra il 24 maggio e il 6
ottobre del 1745 ‒ , essi «[s]ono soggetti unicamente ai capricci della fortuna. Si fa fruttare un
impero così come un fittavolo fa fruttare le sue terre: se ne ricava più che si può. Se si fa la guerra,
la si fa su commissione e soltanto per avere terre che diano rendite. Quel che si chiamava un tempo
“gloria”, “allori”, “trofei”, “trionfi”, “corone”, è oggi del denaro contante».
riferimenti al clero, alle dispute dogmatiche e al papa, paragonata a quella di un potente mago che
giunge a far credere agli altri «che tre sono uno, che il pane che si mangia non è pane e che il vino
che si beve non è vino, e mille altre cose del genere». Nella Lettera XXVII Montesquieu aggiunge,
inoltre che «[i]l papa è il capo dei cristiani. È un vecchio idolo, che viene incensato per abitudine.
Un tempo era temuto dagli stessi sovrani, poiché li deponeva con la stessa facilità con cui i nostri
magnifici sultani depongono i re d’Iremette e di Georgia. Ma ora non è più temuto. Dice di essere
successore di uno dei primi cristiani, chiamato “San Pietro”, e la sua è certo una ricca successione,
visto che ha tesori immensi e un vasto territorio sotto il suo dominio». Quanto alla religione,
sottoposta ad attenta analisi in varie lettere, nella Lettera LXXIII si afferma che «[p]iù che motivo
di santificazione, la religione è argomento di dispute, a cui tutti prendono parte. La gente di corte, i
militari e perfino le donne insorgono contro gli ecclesiastici e chiedono loro di provare quel che
sono decisi a non credere». L’argomento viene toccato pure in uno dei frammenti tratti dai Cahiers
de corrections delle Lettere persiane, in cui si dice che «[i]n materia di religione, più l’argomento
della disputa è futile, più la disputa diventa violenta: si rafforza in proporzione all’inconsistenza
dell’argomento. Il fuoco manca di alimento, ma arde sempre». E la religione è legata anche
all’Inquisizione, istituzione che non fa sconti agli eretici e a chi viene solo sospettato di eresia. Gli
inquisitori ‒ come si può leggere nella Lettera XXVII ‒ sono così malvagi che «fanno bruciare un
uomo come se fosse paglia. Quando si cade nelle mani di quella gente, fortunato chi ha sempre
pregato Dio con in mano dei piccoli grani di legno, chi ha portato addosso due pezzi di stoffa
attaccati a due nastri e chi si è recato qualche volta in una provincia chiamata Galizia! Altrimenti un
povero diavolo si trova davvero nei guai: quand’anche giurasse come un pagano di essere
ortodosso, ci si potrebbe trovare in disaccordo sulle sue qualità e bruciarlo come eretico. Avrebbe
un bel da presentare la sua distinzione! Verrebbe ridotto in cenere ancor prima che si fosse solo
pensato di ascoltarlo».
Molte delle considerazioni formulate dagli alter ego dell’Autore, protagonisti delle vicende narrate
nel romanzo, derivano dalla sua esperienza di magistrato e dall’osservazione della situazione
politico-sociale francese degli inizi del Settecento, un periodo segnato dalla fine del lunghissimo
regno di Luigi XIV (che morì nel 1715) e dalla successiva crisi del sistema economico-finanziario
ideato dallo scozzese John Law, che porta la Francia ad una situazione di povertà senza precedenti.
Tramite l’espediente di due viaggiatori persiani, Usbek e Rica, in visita nella Francia di inizio
XVIII secolo - che si trovano a descrivere una società ed una cultura a loro ignota, mediante lettere
inviate a conoscenti, familiari o direttamente scambiate tra di loro - Montesquieu descrive la
Francia dell’epoca con uno straordinario (in tutti i sensi) approccio relativista.
L’Europa e la Persia del Settecento sono sì diversi, ma per molti aspetti presentano somiglianze che
vengono soltanto celate dietro diverse denominazioni:
Non manca una sottile ironia che i due corrispondenti profondono nelle loro missive, con apparente
ingenuità:
“I francesi non parlano quasi mai delle loro mogli: hanno paura di parlarne davanti a persone che
le conoscono meglio di loro”.
L’ironia è spesso rivolta, più o meno direttamente, verso la religione cristiana e le sue
incongruenze:
“A Parigi, mio caro Rhedi, sono molti i mestieri. Qui un uomo servizievole viene a offrirvi, per
pochi soldi, il segreto della fabbricazione dell’oro. Un altro vi promette di farvi andare a letto con
gli spiriti celesti, purché non vediate una donna per soli trent’anni”.
Ma non vi è soltanto la descrizione della società francese da parte dei due stranieri a stravolgere le
concezioni rigide e ottuse di una società egocentrica come quella francese del Settecento.
Montesquieu ricorre pienamente anche alla metafora, tra cui la più importante è indubbiamente
quella del serraglio di Usbek a Ispahan, che “mette a nudo le dinamiche relazionali del dispotismo”
(così Binni).
Abbandonato dal padrone per il viaggio in Europa, il serraglio è gestito da eunuchi che tentano
dapprima un approccio morbido, su indicazione dello stesso Usbek, per poi passare ad un vero e
proprio clima di terrore che ne causerà la drammatica implosione.
Usbek, così severo e attento nel giudicare i costumi e la società francesi con curiosità e avversione
per ogni intolleranza, è egli stesso fondamentalmente un despota, con il suo potere di vita e di morte
che esercita (a distanza) nel serraglio, dove la donna è “inutile ornamento (…), custodita per
l’onore e non per la felicità del suo sposo”.
Ci vorrà poco tempo perché cada il mistero sul reale autore delle Lettres persanes, che varranno a
Montesquieu un successo immediato e clamoroso, a livello europeo, ma anche l’avversione dei
poteri forti, in primis la Chiesa di Francia, più volte punzecchiata nel libro.
“Ho spesso riflettuto su quale fosse il governo più conforme alla ragione. Mi è sembrato che il più
perfetto sia quello che raggiunge i suoi fini con il minimo sforzo; così, il governo che guida gli
uomini nel modo più conforme alle loro attitudini e inclinazioni è il più perfetto”.
Il diritto nel suo complesso, incluso quello penale, su cui, proprio in quel secolo, comincerà una
seria riflessione sull’efficacia deterrente delle pene più severe:
“Tieni conto, mio caro Rhedi, che in uno stato non sono le pene più o meno crudeli a far obbedire
di più alle leggi. Nei paesi in cui sono moderate, le punizioni sono temute quanto nei paesi in cui
sono tiranniche e spaventose”.
Ancora, Montesquieu elabora pensieri assai raffinati sul costituzionalismo (ante-litteram) e sui
limiti del potere legislativo:
“È vero che, per una bizzarria che deriva più dalla natura che dalla mente degli uomini, talvolta è
necessario cambiare certe leggi. Ma è un caso raro, e quando accade bisogna intervenire con
mano tremante: bisogna osservare tali solennità e seguire tali precauzioni, in modo che il popolo
ne deduca naturalmente che le leggi sono veramente sacre, visto che occorrono tante formalità per
abrogarle”.
Alcune riflessioni sono l’avanguardia del pensiero illuminista che proprio in quel secolo si
svilupperà:
“la storia è piena di guerre di religione. Ma bisogna fare molta attenzione: non è stata la
molteplicità delle religioni a produrre queste guerre, ma lo spirito di intolleranza che animava la
religione che si credeva dominante”.
È un libro che ha l’evidente intento di ribaltare le concezioni assolute, la megalomania del pensiero,
facendo emergere tutte le contraddizioni insite nell’uomo, di ogni etnia e cultura.
Un classico del Settecento che dietro un’apparente leggerezza nasconde una profondità di pensiero
che farà di Montesquieu una delle intelligenze più stimate del secolo, uno degli imprescindibili
grandi saggi dell’illuminismo francese ed europeo.
Le "Lettres persanes"
Il trattato De l'esprit des lois (Lo spirito delle leggi, 1748) è considerato il capolavoro di
Montesquieu ed è uno dei testi fondamentali della riflessione giuridico-politica
settecentesca e oltre. Muovendo dalla critica al dispotismo, egli esamina i differenti
caratteri dei vari sistemi istituzionali e perviene alla teoria della separazione dei tre
poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) e di un nuovo ruolo della legge, considerata
non solo strumento costrittivo ma garanzia e tutela delle libertà pubbliche e private: "la
legge dice Montesquieu è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono". Tra le altre
sue opere letterarie, non comparabili con le Lettere persiane, sono l'operetta
licenziosa Le temple de Gnide (1725), scritto per Mademoiselle de Clermont; il racconto
filosofico Une histoire véritable (Una storia vera, 1892 postumo); il romanzo Histoire
orientale ou Arsace et Isménie (Storia orientale o Arsace e Ismenia, 1783 postumo). Tra
quelle saggistiche vanno ricordate Considérations sur les causes de la grandeur des
romains et de leur décadence (Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e
della loro decadenza, 1734), trattato storico-filosofico mirabile per intelligenza politica,
e l'Essai sur le goût (Saggio sul gusto, 1755), scritto per l'Encyclopédi
Commentaire
Ce texte, tiré des Lettres Persanes (1721), est une lettre adressée par un jeune persan,
Rica, qui vient d’Ispahan, à un ami qui vit en Perse. C’est un artifice que Montesquieu a
chioisi pour que ses critiques passent plus librement.
Le texte est divisé en deux parties autour de ces thèmes: Paris et le roi de France. Le
commentaire sur Paris concerne la surpopulation, les embarras qui s’ensuivent dans les
rues et la hâte et l’agitation des Parisiens. Le passage du roi s’articule en deux parties:
d’une part, la puissance du roi fondée sur la vanité de ses sujet et, de l’autre, son pouvoir
de persuasion.
Il y a les personnages qui regardent et ceux qui son regardés.
Les Parisiens sont présentés comme des gens pressés (utilisation de l’hyperbole) et qui
n’ont aucune considération des autres.
Le roi de France nous est présenté comme un personnage très habile, qui sait exploiter
l’orgueil de son peuple et en promettant quelques récompenses, il sait obtenir sa
confiance même pour le tromper.
Rica compare Paris à Ispahan: les deux villes ont sans doute la même surface, mais dans
la capitale française les gens habitent dans des immeubles hauts, d’où la surprise de
Rica. D’autre part, dans la phrase comparative, Ispahan constitue le deuxième terme d ce
qui rend la ville persane plus importante que Paris: tout est relatif.
Le comique naît surtout des exagérations verbales: les maisons sont habitées par des
astrologues tellement sont hautes et il s’agit, donc, d’une ville en l’air. Dans les rues, les
Parisiens ne marchent pas, ils courent, ils volent. La façon de présenter la bousculade a
un effet comique parce que les personnages ressemblent à des marionettes à la merci de
la brutalité des passants. De même, l’expression “J’enrage comme un chrétien” fait
sourire parcequ’elle est renversée par rapport à l’expression traditionnelle.
“comme un turc”. C’est pour dire encore une fois que tout est relatif.
Les Français sont vaniteux et très naïfs: ils croient que l’écu en vaut deux, que le papier
est de l’argent et que le roi a le pouvoir de guérison.
En conclusion, on peut dire que Montesquieu a fait écrire cette lettre à Rica, car
l’ingénuité de ce personnage étranger lui permet de faire une analyse de la société
française du XVIII siècle plus aiguë et plus véritable. La critique des embarras de Paris
est très amusante, mais celle du pouvoir de la monarchie a une très grande portée
politique: l’auteur dénonce l’absolutisme ainsi que les Français qui se laissent abuser.
C’est un indice nous faisant comprendre que la Révolution approche.
EXTRAIT : Dans cet extrait Uzbek et Rica découvrent la France, ils sont très étonnés.
Cet étonnement est un moyen pour Montesquieu de souligner des aspects critiquables de
la société : le mode de vie des parisiens, le pouvoir royal et du pape qui sont jugés
excessifs.
Lecture du texte
Structure du texte
Ligne1 à 16 : l’agitation des parisiens
Ligne 16 à 30 : pouvoir royal
Ligne 31 à 34 : description du pouvoir papal
1/ L’expression de l’étonnement
2/ La référence à l’orient
3/ La critique de la société française
Commentaire littéraire
I. L’expression de l’étonnement
- Vis-à-vis de ce qu’ils voient à Paris : "tu ne le croirais peut-être pas" Ligne 8 , "Je n’ai
eu à peine que le temps de m’étonner" Ligne 18, "Ce que je te dis de ce prince ne doit
pas t’étonner" Ligne 31.
- La hauteur des maisons : "si haute que" Ligne 4 et la périphrase "6 ou 7 maisons mises
les unes sur les autres" Ligne 5.
- La brutalité des Parisiens : l’hyperbole : "Je suis plus brisé que si j’avais fait 10 lieues"
Ligne 16, "un homme qui vient" ligne 15. Le rythme de la phrase avec une succession de
verbes symbolise cette brutalité.
- Le roi et son pouvoir : "ce roi est un grande magicien" Ligne 25 "prodige" Ligne 23
champ lexical de la magie, du miracle : "la force et la puissance qu’il a sur les esprits
"Ligne 30, " il n’a qu’à" Ligne 27, "il va même jusqu'à leur faire croire" Ligne 29.
- Le pape et son pouvoir : "encore plus fort" Ligne 31, "pas moins maître de son esprit"
Ligne 32, "magicien" Lignes 31 et 32 montre que le pape est encore plus puissant que le
Roi. Ses pouvoirs : "il lui fait croire que tris ne sont qu’un" (la trinité) Ligne 33, "que le
pain qu’on mange n’est pas du pain" (le corps du christ) Ligne 33 "que le vin n’est pas
du vin" (le sang du christ) Ligne 34.
1. Références
- Hauteur des maisons de Paris plus basse que celle des maisons d’Ispahan Ligne 5.
- Rythme de vie des parisiens plus rapide que le rythme de vie des Persans : "les voitures
lentes d’Asie" Ligne 10.
Toutes ces références à la Perse servent à Montesquieu pour donner une apparente
réalité.
- Introduire un regard neuf et extérieur sur le mode de vie des européens : faire ressortir
les aspects ridicules de leur vie.
- Une vie trop agitée : champ lexical : "mouvement continuel" Ligne 1 "ils courent, ils
volent" Ligne 10, "un bel embarras" Ligne 7.
- La brutalité, le manque de courtoisie "qu’on m’éclabousse des pieds jusqu'à la tête"
Ligne 13 "les coups de coude". Lignes 14 et 16 : grandes phrases avec succession de
verbes d’actions et de propositions : rapidité. "je suis plus brisé que si j’avais fait 10
lieues" Ligne 16 : hyperbole.
- La crédulité des français : vis-à-vis du roi, ils sont soumis : "la vanité de ses sujets"
Lignes 20 et 21 cf. achat des charges qui confèrent la noblesse. "titres d’honneurs à
vendre", "prodige de l’orgueil humain" Ligne 23, "ils le croient" Ligne 27 "ils en sont
aussitôt convaincus" Ligne 29.
2. La critique du Roi
- Son goût pour la guerre Ligne 22-24 " on lui a vu entreprendre ou soutenir... ", " S’il a
une guerre " Lignes 27-28.
3. La critique du Pape
- Montesquieu dénonce une hiérarchie dans la manipulation : le pape manipule le roi qui
manipule les sujets : "il y a un autre magicien, plus fort que lui [le roi], qui n’est pas
moins maître de son esprit qu’il l’est lui-même de celui des autres" Lignes 31 et 32.
C’est le pouvoir de la religion sur les esprits à cette époque qui est critiqué
- Les rites religieux sont visés. C’est pour Montesquieu l’occasion de manifester son
déisme (il croit en dieu mais pas en la religion).
Conclusion
Cette lettre 24 est représentative de toutes les lettres persanes car on y retrouve les 3
éléments de la démarche de Montesquieu :
Dans la « Lettre 24 », Rica, qui réside à Paris depuis un mois, décrit avec son regard
étranger les mœurs de la ville, de la cour, du roi Louis XIV et du pape Clément XI.
Annonce du plan
Nous verrons dans cette analyse que la « Lettre 24 » de Rica à Ibben, rendue plaisante
par l’art de la lettre de Montesquieu (I), permet une véritable critique de la société
française (II).
DEVIENS MEMBRE
Enfin l’intention de la lettre est également donnée par le contenu : « Ne crois pas que je
puisse, quant à présent, te parler à fond des mœurs et des coutumes européennes». Rica écrit à
Ibben pour lui décrire son voyage et lui faire partagerses impressions sur l’Europe.
Toutefois, il ne faut pas oublier que cette lettre 24 est une lettre de fiction. Les
personnages sont inventés.
Elle met en scène une communication supposée d’un personnage vers un autre, mais elle
possède en réalité un autre destinataire : le lecteur du roman. C’est ce qu’on appelle
la double énonciation.
L’étonnement de Rica face à Paris est profond. Il se lit grâce à plusieurs procédés
stylistiques :
Conscient de l’effet qu’auront ses paroles sur son destinataire, Rica prévient donc de
l’étonnement que lui-même a ressenti : « Je n’ai eu à peine que le temps de m’étonner ».
C – L’ ironie
Rica décrit avec un étonnement naïf la société parisienne. La candeur du personnage
permet en réalité à Montesquieu de critiquer la société européenne de façon détournée.
C’est ainsi que, derrière les descriptions de Rica, transparaît l’ironie sous-jacente de
Montesquieu.
Ainsi, Rica fait référence dans son discours, avec son langage de perse, à de
nombreuses réalités contemporaines du lecteur de Montesquieu.
♦ « Les mines d’or » du roi d’Espagne renvoient à ses possessions péruviennes et à
la conquête du nouveau continent.
♦ « le pain qu’on mange n’est pas du pain » traduit dans les mots du païen le phénomène de
l’eucharistie.
Ce calme est d’ailleurs mis à mal par le manque de courtoisie des habitants à l’égard du
visiteur. En effet, la tolérance du personnage : « car encore passe qu’on m’éclabousse des
pieds jusqu’à la tête », est anéantie par la brutalité des passants qui le poussent de tous
côtés.
Par ailleurs, il est fait allusion au début de la lettre à la difficulté de trouver un logement
due à la surpopulation parisienne.
Rica précise : « Il faut bien des affaires avant qu’on soit logé ». Cette phrase sous-entend que
les pauvres, qui manquent des « choses nécessaires » ne peuvent pas se loger.
A travers le regard d’un oriental, c’est donc un portrait peu flatteur qui est dressé du
mode vie parisien.
Le roi étant le représentant de Dieu sur terre, il possède, de même que le pape, une
forme de pouvoir spirituel : « il va même jusqu’à leur faire croire qu’il les guérit de toutes
sortes de maux en les touchant ».
C – La critique de la Cour
Cependant, le pouvoir royal et religieux serait sans effets si la Cour ne se
laissait leurrer.
La comparaison « la vanité de ses sujets, plus inépuisable que les mines »accuse la fatuité
démesurée de la Cour, qui permet au roi d’assoir son pouvoir.
Ainsi, une certaine forme de corruption qui repose sur l’orgueil des nobles (« les titres
d’honneur » ) permet de maintenir le pouvoir en place et de soutenir les décisions du roi.
La critique porte également sur la crédulité des sujets du roi.
L’accumulation : « ses troupes se trouvaient payées, ses places munies et ses flottes équipées »,
ainsi que le parallélisme syntaxique : « S’il n’a qu’un million d’écus… » et « S’il a une
guerre difficile à soutenir… » soulignent la facilité avec laquelle le roi obtient tout ce
qu’il souhaite.
Idée d’ouverture : Le regard étranger et étonné de Rica n’est pas sans rappeler
le regard naïf de Candide, héros éponyme du conte philosophique de Voltairequi
permet lui aussi, par un effet de décalage, de critiquer les travers de la société.
Per ciò che trattano, le lettere preannunciano lo spirito critico proprio dello "Spirito delle
leggi", volto ad analizzare le caratteristiche, appunto, dello "spirito" che accomuna tutte
le leggi umane. Da qui parte la forte critica al dispotismo di tipo orientale basato sulla
paura (crainte, terreur), sia del despota (Usbek) di venire disobbedito e tradito sia dei
sudditi (mogli, eunuchi) di essere puniti, sorretta da leggi religiose che rendono questo
sistema sociale auto-perpetuantesi, seppur con l'importante eccezione del tradimento e
del suicidio di Roxane, col quale si conclude il libro. Tutta l'analisi verrà ripresa e
articolata nello "Spirito delle leggi".
Queste regole non debbono considerarsi assolute, cioè indipendenti dallo spazio e dal
tempo; esse al contrario, variano col mutare delle situazioni; come i vari tipi di governo
e delle diverse specie di società. Ma, posta una società di un determinato tipo, sono dati i
principi che non può derogare, pena la sua rovina. Ma quali sono i tipi fondamentali in
cui si può organizzare il governo degli uomini?
Montesquieu ritiene che i tipi di governo degli uomini siano essenzialmente tre:
la repubblica, la monarchia e il dispotismo.
Ciascuno di questi tre tipi ha propri princìpi e proprie regole da non confondersi tra loro.
Il principio che è alla base della repubblica è, secondo Montesquieu, la virtù, cioè l'amor
di patria e dell'uguaglianza; il principio della monarchia è l'onore ossia l'ambizione
personale; il principio del dispotismo, la paura che infonde nei cuori dei sudditi.
«Tali sono i principi dei tre governi; ciò non significa che in una certa repubblica si sia virtuosi, ma che si
deve esserlo. Ciò non prova neppure che in una certa monarchia si tenga in conto l’onore e che in uno
stato dispotico particolare domini il timore; ma solo che bisognerebbe che così fosse, senza di che il
governo sarà imperfetto.»
Al polo opposto della repubblica vi è il dispotismo, nel quale una singola persona
accentra in sé tutti i poteri e di conseguenza lede la libertà dei cittadini. Montesquieu fa
trasparire profonda avversione per ogni forma di dispotismo, poiché sono le leggi a
doversi conformare alla vita dei popoli e non viceversa.
Montesquieu fu grande ammiratore del sistema inglese. Infatti in Gran Bretagna regnava
un sistema di separazione dei poteri che garantiva il più alto livello di libertà al mondo.
A differenza di come spesso si dice, Montesquieu non aspira a traghettare in Francia il
modello rappresentativo inglese. Egli si oppone all'assolutismo auspicando la riconquista
di uno spazio per quei poteri intermedi di origine feudale, come i parlamenti, che
detenevano il potere giudiziario in Francia e che l'avanzare dell'assolutismo aveva
progressivamente svuotato. Il filosofo si pone così come difensore di istituzioni che
avevano fatto il loro tempo, ma pur con uno sguardo nostalgico verso il passato egli apre
la strada alla politica moderna perfezionando la teoria della separazione dei poteri già
presente in Locke.
La tesi fondamentale - secondo Montesquieu - è che può dirsi libera solo quella
costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per
contrastare tale abuso bisogna far sì che "il potere arresti il potere", cioè che i tre poteri
fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire
all'altro di esorbitare dai suoi limiti e degenerare in tirannia. La riunione di questi poteri
nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà
perché annullerebbe quella "bilancia dei poteri" che costituisce l'unica salvaguardia o
"garanzia" costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. "Una sovranità indivisibile e
illimitata è sempre tirannica".
L'argomento della libertà è sicuramente molto importante, però questa parola, secondo
il filosofo, è spesso confusa con altri concetti, come, ad esempio, quello dell' indipendenza.
Nella democrazia sembra che il popolo possa fare quello che vuole, il potere del popolo è
confuso così con la libertà del popolo; la libertà è infatti il diritto di fare ciò che le leggi
permettono. Se un cittadino potesse fare ciò che le leggi proibiscono non ci sarebbe più
libertà.
La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza
dà a ciascun cittadino; e condizione di tale libertà è un governoorganizzato in modo che
nessun cittadino possa temere un altro.
«Una costituzione può esser tale che nessuno sia costretto a fare le cose alle quali la legge non lo obbliga,
e a non fare quello che la legge permette...»
In forza al primo, il popolo, o la nobiltà, hanno il diritto di fare le leggi o far
abrogare quelle fatte dalla controparte.
In forza al secondo, il monarca, fa eseguire rapidamente il potere legislativo e
amministra la giustizia.
Montesquieu nei suoi scritti fa notare ai lettori i casi in cui si calpesta la libertà dei
cittadini; il potere legislativo e quello esecutivo non possono mai essere accomunati
sotto un'unica persona o corpo di magistratura, perché in tale caso potrebbe succedere
che il monarca oppure il senato facciano leggi tiranniche e le eseguano di conseguenza
tirannicamente. Neanche il potere giudiziario può essere unito agli altri due poteri: i
magistrati non possono essere contemporaneamente legislatori e coloro che applicano –
in qualità di magistrati – le leggi. Così, ovviamente i legislatori non possono essere
contemporaneamente giudici: avrebbero un immenso potere che minaccerebbe la libertà
dei cittadini.
«Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo,
esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di
giudicare i delitti o le controversie dei privati.»
Montesquieu riflette inoltre sui rappresentanti del popolo. «Poiché, in uno Stato libero,
qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da sé
medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome
ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna
che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da
sé». Conviene quindi che gli abitanti si scelgano un rappresentante, capace di discutere
gli affari, che possa dare voce al popolo nell'ambito del potere legislativo. La nazione è
quindi espressa dai suoi rappresentanti, cittadini più interessati alla cosa pubblica, che
devono informare sui bisogni dello Stato, sugli abusi che si riscontrano e sui possibili
rimedi. Sicuramente sarebbe molto più democratico dare la parola ad ogni cittadino, ma
si incapperebbe in lungaggini e tutta la forza della nazione rischierebbe di essere
arrestata per il capriccio di un singolo.
Inoltre è necessario che i rappresentanti siano eletti periodicamente e che ogni cittadino
nei vari distretti abbia il diritto di esprimere il suo voto per eleggere il deputato.
Montesquieu però prefigura una limitazione del diritto di voto, nega tale diritto a chi non
è proprietario o in una situazione assimilabile a quella di proprietario, dotato di averi,
quindi si basa su una marcata differenziazione di stratificazione sociale.
Tutto questo sembra limitativo, ma in seguito lo sviluppo del reddito reso possibile dalla
società industriale, dai commerci, dall'artigianato imprenditoriale, farà aumentare il
numero di cittadini rappresentanti interessati alla stabilità dello Stato, permettendo
gradualmente l'estensione del voto sino al suffragio universale.
«Il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il
popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie deliberazioni a parte, e vedute e interessi
distinti. Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne restano
che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte del corpo legislativo
composta di nobili è adattissima a produrre questo effetto.»
«Il potere esecutivo deve essere nelle mani d'un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno
quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che
dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da parecchi anziché da uno solo. Infatti, se non vi
fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di persone tratte dal corpo
legislativo, non vi sarebbe più libertà, perché i due poteri sarebbero uniti, le stesse persone avendo talvolta
parte, e sempre potendola avere, nell'uno e nell'altro. Se il corpo legislativo rimanesse per un tempo
considerevole senza riunirsi, non vi sarebbe più libertà. Infatti vi si verificherebbe l'una cosa o l'altra: o
non vi sarebbero più risoluzioni legislative, e lo Stato cadrebbe nell'anarchia; o queste risoluzioni
verrebbero prese dal potere esecutivo, il quale diventerebbe assoluto.»
«Se il corpo legislativo fosse riunito in permanenza, potrebbe capitare che non si facesse che sostituire
nuovi deputati a quelli che muoiono; e in questo caso, una volta che il corpo legislativo fosse corrotto, il
male sarebbe senza rimedio. Quando diversi corpi legislativi si susseguono gli uni agli altri, il popolo, che
ha cattiva opinione del corpo legislativo attuale, trasferisce, con ragione, le proprie speranze su quello che
succederà. Ma se si trattasse sempre dello stesso corpo, il popolo, una volta vistolo corrotto, non
spererebbe più niente dalle sue leggi, s'infurierebbe o cadrebbe nell'apatia.»
«Il potere esecutivo, come dicemmo, deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà d'impedire di
spogliarsi delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo
sarà ugualmente perduto. Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi
sarebbe più libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna che
vi partecipi con la sua facoltà d'impedire. La causa del cambiamento del governo a Roma fu che il senato,
il quale aveva una parte del potere esecutivo, e i magistrati, i quali avevano l'altra, non avevano, come il
popolo, la facoltà d'impedire. Ecco dunque la costituzione fondamentale del governo di cui stiamo
parlando. Il corpo legislativo essendo composto di due parti, l'una terrà legata l'altra con la mutua facoltà
d'impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello
legislativo. Questi tre poteri dovrebbero rimanere in stato di riposo, o di inazione. Ma siccome, per il
necessario movimento delle cose, sono costretti ad andare avanti, saranno costretti ad andare avanti di
concerto.»
lontani nel tempo e nello spazio ha come intento fondamentale quello di identificare i
fini in base ai quali gli uomini si organizzano in forme politiche e sociali originali. Esiste
per l'autore un senso per ogni istituzione. Montesquieu vede lo stato come un organismo
che tende alla propria autoconservazione, nel quale le leggi riescono a mediare tra le
diverse tendenze individuali in vista del perseguimento di un obiettivo comune.
L'arte di creare una società e di organizzarla compiutamente è per Montesquieu l'arte più
alta e necessaria, in quanto da essa dipende il benessere necessario allo sviluppo di tutte
le altre arti.
Nel 1711 Usbek lascia il suo serraglio in Isfahan per fare il viaggio lungo alla Francia,
accompagnata dal suo amico giovane Rica. Dimentica cinque mogli (Zashi, Zéphis,
Fatmé, Zélis e Roxane) sotto la custodia di parecchi eunuchs neri, uno di cui è l'eunuco
principale o primo. Durante il viaggio e il loro soggiorno lungo in Parigi (1712–1720),
fanno commenti, in lettere scambiate con amici e mullah, su aspetti numerosi di società
Occidentale, cristiana, politica particolarmente francese e Brughiere, che terminano con
una satira pungente del Sistema di John Law. Durante tempo, i vari disordini risalgono in
superficie indietro nel serraglio, e, cominciando nel 1717 (la Lettera 139 [147]), la
situazione là rapidamente si disfa. Usbek ordina al suo eunuco principale di dare un giro
di vite, ma il suo messaggio non arriva in tempo, e una rivolta causa la morte delle sue
mogli, compreso il suicidio vendicativo del suo favorito, Roxane, e, appare, la maggior
parte degli eunuchs.
Le lettere 1-21 [1–23]: Il viaggio da Isfahan alla Francia, che dura quasi 14 mesi
(dal 19 marzo 1711 al 4 maggio 1712).
Lettere 22 [24] –89 [92]: Parigi nel regno di Luigi XIV, 3 anni in totale (da maggio
1712 a settembre 1715).
Lettere 90 [93] –137 [143] o [la Lettera 8 =145 supplementare]: la Reggenza
di Philippe d’Orléans, coprendo cinque anni (da settembre 1715 a novembre 1720).
Lettere 138 [146] – 150 [161]: il crollo del serraglio in Isfahan,
approssimativamente 3 anni (1717–1720).
Il romanzo che consiste di 150 lettere apparì in maggio 1721 sotto la rubrica
Colonia: Pierre Marteau, un fronte per l'editore Di Amsterdam Jacques Desbordes i cui
affari sono adesso diretti dalla sua vedova, Susanne de Caux. L'edizione A chiamata,
questo è il testo utilizzato nell'edizione critica recente di Lettres persanes per i lavori
completi di Montesquieu pubblicato dalla Fondazione di Voltaire nel 2004. Una seconda
edizione (B) dello stesso editore più tardi nello stesso anno, per cui non c'è finora
spiegazione completamente soddisfacente, curiosamente incluse tre nuove lettere, ma
omise tredici degli originali. Tutte le edizioni successive nella vita dell'autore (cioè, fino
al 1755) derivano da A o B. Una nuova edizione nel 1758, preparato dal figlio di
Montesquieu, incluse otto nuove lettere – il portare del totale a 161 – e un pezzo corto
dall'autore autorizzato "Quelques réflexions sur les Letters persanes". Questa edizione
ultima è stata usata per tutte le edizioni successive fino allo Œuvres complètes del 2004,
che ritorna all'edizione originale, ma include le lettere aggiunte segnate come
"supplementari" e, in parentesi, lo schema di numerazione del 1758.
Un romanzo epistolare
Montesquieu non si è mai riferito a Lettres persanes (le Lettere persiane) come un
romanzo "fino alle rimarche di Quelques sur les Lettres persanes", che comincia:
"Niente su Lettres persanes più si ingraziava che trovare in esso improvvisamente una
sorta di romanzo. Ci sono un inizio visibile, uno sviluppo e una fine […]". Inizialmente,
per la maggior parte dei suoi primi lettori così come per il suo autore, non fu considerato
originalmente un romanzo, e ancora meno un "romanzo epistolare" (siccome è spesso
classificato adesso), che non fu in quel tempo un genere costituito. Infatti ha poco in
comune con il modello unico al tempo, Lettres portugaises di Guilleragues del 1669. Una
raccolta di "lettere" nel 1721 più probabilmente evocherebbe la tradizione recente di
periodici essenzialmente polemici e politici, come Lettres historiques (1692–
1728), Lettres édifiantes famoso dei Gesuiti e curieuses (1703–1776), senza
contare Lettres historiques di Mme Dunoyer e galantes di (1707–1717) che, nella forma di
una corrispondenza tra due donne, provvedono una cronaca della fine del regno di Luigi
XIV e l'inizio della Reggenza. Lettres persanes così ha aiutato a confermare la moda di
un formato che è stato già istituito. Ma è nelle sue imitazioni numerose – come Lettres
juives (1738) e Lettres chinoises (di 1739) di Boyer d’Argens, Lettres d’une Turque à
Paris, écrites à sa sœur (1730) da Poullain de Saint-Foix (pubblicato diverse volte in
congiunzione con Lettres persanes), e forse particolarmente Lettres d’une di Françoise de
Graffigny Péruvienne (1747) – per non menzionare i romanzi della lettera di Richardson –
che, tra il 1721 e il 1754, aveva trasformato in effetti Lettres persanes in un "romanzo
epistolare". Da dove questa osservazione in Mes Pensées di Montesquieu: "Il
mio Lettres persanes ha insegnato la gente a scrivere romanzi della lettera" (no. 1621).
La struttura epistolare è abbastanza flessibile: diciannove corrispondenti in totale, con
almeno ventidue destinatari diversi. Usbek e Rica di gran lunga dominano con
sessantasei lettere per quello e quarantasette per quest'ultimo (dei 161 finali). Ibben, che
funziona più come destinatario che corrispondente, scrive solo due lettere, ma riceve
quarantadue. Allo stesso modo, una persona non nominata (ha designato solo come ***)
– se sempre lo stesso – riceve diciotto lettere e non scrive nessuno affatto. Ci sono
perfino un'anomalia completa, una lettera da Hagi Ibbi a Ben Josué (la Lettera 37 [39]),
nessuno di cui è menzionato altrove nel romanzo.
Le lettere sono state tutti evidentemente datate in conformità con un calendario lunare
che, come Robert Shackleton mostrò nel 1954, in effetti corrisponde al nostro, da
sostituzione semplice di nomi musulmani, come segue: Zilcadé (gennaio), Zilhagé
(febbraio), Maharram (marzo), Saphar (aprile), Rebiab I (maggio), Rebiab II (giugno),
Gemmadi I (luglio), Gemmadi II (agosto), Rhegeb (settembre), Chahban (ottobre),
Rhamazan (novembre), Chalval (dicembre).
Commento sociale
In Parigi, i persiani si esprimono su una vasta gamma di soggetti, da istituzioni
governative a caricature di salone. La differenza di temperamento dei due amici è
notabile, Usbek essendo più esperto e fa molte domande, Rica meno implicato e più
libero, e più attratto da vita Parigina. Sebbene questo abbia luogo negli anni declinanti di
all'età di re, la gran parte di quello che ha compiuto è ancora ammirato in Parigi dove
Invalides è completato e cafés e teatro proliferano. Osserviamo la funzione di
parlamenti, tribunali, gli organismi religiosi ( I cappuccini, i Gesuiti, eccetera) I posti
pubblici e i loro pubblici (Tuileries, Palais Royal), dichiarano fondazioni (l'ospedale di
Quinze-Vingts [300] per il cieco, Invalides per quelli feriti in guerra). Descrivono una
cultura fiorente, dove perfino la presenza di due persiani rapidamente diventa un
fenomeno popolare, grazie alla proliferazione di stampe (la lettera 28 [30]). Il café –
dove i dibattiti hanno luogo (la lettera 34 [36]) – è diventato stabilito come un'istituzione
pubblica, come sono stati già il teatro e l'opera. C'è ancora la gente abbastanza sciocca
cercare per la loro spesa la pietra del filosofo; il newsmonger e la stampa periodica
cominciano a giocare un ruolo in vita quotidiana. Tutto da istituzioni (l' università,
l'Accademia, le Scienze, il Toro Unigenitus) via gruppi (la moda, gli elegantoni, le
civette) a individui (il cantante di opera, il guerriero vecchio, il rastrello, e così via)
viene all'occhio del lettore.
Usbek per la sua parte è disturbato da contrasti religiosi. Sebbene non gli venga al mente
mai di cessare essere un musulmano, e mentre ancora si chiede ad alcuni aspetti di
Cristianesimo (la Trinità, la comunione), scrive ad autorità austere per informarsi, per
esempio, perché alcuni cibi sono considerati di essere sporchi (le lettere 15-17 [16–18]).
Anche assimila le due religioni e perfino tutte le religioni nella loro utilità sociale.
Il dénouement
Mentre Usbek apprezza le relazioni più libere tra uomini e donne nell'Ovest, rimane,
come padrone di un serraglio, un prigioniero del suo passato. Le sue mogli giocano il
ruolo di amanti languidi e solitari, lui il ruolo di padrone e amante, senza comunicazione
vera e senza rivelare molto sul loro vero stessi. La lingua di Usbek con loro è così
costretta come loro con lui. Sapendo, per di più, dall'inizio che non è assicurato un
ritorno alla Persia, Usbek è anche già disingannato sul loro atteggiamento (le lettere 6 e
19 [20]). Il serraglio è una serra da quale lui sempre più le distanze lui stesso, fidandosi
delle sue mogli non più del suo eunuchs (la Lettera 6).
Tutto scende a cascata nelle lettere finali (139–150 [147–161]), grazie ad analepse
improvviso di più di tre anni nelle lettere precedenti. Dalla lettera 69 (71) alla lettera 139
(147) – cronologicamente a partire dal 1714 a 1720 – la lettera nessuna da Usbek è
collegata al serraglio, che è immenzionato in qualsiasi aspetto dalla lettera 94 a 143 (e
perfino nell'edizione del 1758 dalla lettera 8 (97) supplementare a 145. Per di più, tutte le
lettere da 126 (132) a 137 (148) sono da Rica, il que significa che durante circa quindici
mesi (dal 4 agosto 1719 al 22 ottobre 1720) Usbek è completamente silenzioso. Sebbene
abbia ricevuto nel frattempo lettere, il lettore non impara di loro fino alla serie finale, che
è più sviluppata dopo l'aggiunta delle lettere 9-11 supplementari (157, 158, 160) del
1758. Sebbene Usbek abbia imparato appena l'ottobre 1714 che "il serraglio è in
disordine" (la lettera 63 [65]). Quando lo spirito di ribellione avanza, decide di agire, ma
troppo tardi; con ritardi della trasmissione di lettere e la perdita di alcuni, la situazione è
al di là di rimedio.
Usbek abbattuto è evidentemente dimesso alla necessità di ritorno, con poca speranza,
alla Persia; il 4 ottobre 1719 si lamenta: "Consegnerò la mia testa ai miei nemici" (147
[155]). Tuttavia non fa così: tardi il 1720 è ancora a Parigi, per le lettere 134-137 (140–
145), che contengono la storia intera "del Sistema" di legge, sono in effetti posteriori
all'ultima missiva di Roxane (risalì il 8 maggio 1720), che dovrebbe già aver ricevuto –
il tempo solito per consegna che è circa cinque mesi – quando scrive l'ultimo in propria
data (la lettera 8 supplementare e la lettera 138 [145 e 146]), in ottobre e il novembre
1720.
Fonti
"Le fonti" di Montesquieu sono la legione, poiché senza alcun dubbio si estendono a
letture e conversazioni che sono modificate in viaggio. L'effetto dei Viaggi di Jean
Chardin in Blu grigiastro, a quello che deve la maggior parte delle sue informazioni sulla
Persia – che è lungi dall'essere superficiale – deve certamente esser riconosciuto;
possedette l'edizione di due volumi del 1687 e acquistò l'edizione estesa in dieci volumi
nel 1720. Fino a un grado minore, ha attinto i Viaggi di Jean-Baptiste Tavernier e Paul
Rycaut, senza contare molti altri lavori che la sua biblioteca vasta gli ha offerto. Tutto che
ha a che fare con la Francia contemporanea o Parigi, d'altra parte, viene dalla sua
esperienza, e da conversazioni di aneddoti collegati a lui.
I vari aspetti del libro sono senza alcun dubbio indebitati verso modelli particolari, di cui
il più importante è L’Espion di Giovanni Paolo Marana gavitelli les cours des princes
chrétiens (Il Mandato di lettere da una Spia turca), largamente conosciuto al tempo, sebbene
i caratteri di Montesquieu evidentemente siano persiani e non i turchi. Mentre la grande
popolarità di Mille di Antoine Galland e Une Nuits (Le Notti arabe) contribuisce, tanto
quanto la Bibbia e Qu’ran, all'ambiente generale di soggetti orientali, in effetti non ha
quasi niente in comune con Lettres persanes.
Storia critica
Lettres persanes è stato un successo immediato e spesso ha imitato, ma è stato in modo
vario interpretato durante tempo. Fino al mezzo del Novecento, fu il suo "spirito" della
Reggenza che fu in gran parte ammirata, così come la caricatura nella tradizione classica
di La Bruyère, Pascal e Fontenelle. Nessuno ebbe la nozione di allegato di esso al genere
novellistico. La parte persiana del romanzo ha teso a esser considerata come un
arredamento fantasioso, l'interesse vero del lavoro che si trova nelle sue impressioni
"orientali" fittizie di società francese, insieme con satira politica e religiosa e critica.