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Capitolo 1

a cura di Grillo Daniele, Santoro Pina, Slaboszowska Kalina

LA CULTURA POPOLARE NELLA LETTERATURA MEDIOLATINA

Attraverso lo studio delle fonti si può tentare di penetrare nella mentalità di un’epoca,
capire come gli uomini vivessero e pensassero la realtà. Il problema che si pone, però,
durante la loro lettura è il fatto che le fonti conducono ad una visione indirizzata; la
letteratura, ad esempio, non è un qualcosa di neutro, bensì è specchio delle élite,
rappresenta il relazionarsi di essa con la società, dunque la realtà viene deformata da
questo specchio secondo i desideri, i pregiudizi e le sensibilità di chi lo ha forgiato 1 . È
possibile allora osservare il mondo dell’alto medioevo con gli occhi dell’uomo comune?
Il popolo sembra essere il grande assente poiché non aveva le possibilità di fissare per
iscritto la propria storia; in una dimensione culturale dominata dalle grandi menti, il
ricordo dei piccoli popolani è privato del suo spazio, così che lo storico ha un vuoto
culturale da colmare. Fino ad ora si giudicava la coscienza e la mentalità del popolo,
compresa la sua vita emozionale, dall’alto, attraverso quindi un filtro interposto
dall’esterno, mai dall’interno, dunque si potrebbe scrivere una nuova storia culturale del
popolo partendo dal basso?

Il primo problema che ci si trova a dover affrontare è cosa si intende per cultura popolare:
la cultura degli umili? La cultura degli analfabeti contrapposta a quella dei dotti? Cultura
come patrimonio di tutti gli uomini, contemplando un concetto più inclusivo di popolo?
Essa possiede, inoltre, diverse sfumature: riguarda come l’uomo medioevale percepisse il
mondo, quali modelli di coscienza usasse, quali quelli di comportamento. Un punto utile
di partenza può essere quello fornito dallo storico francese Jacques Le Goff che parla di
una biforcazione fra cultura dotta, quella dei chierici, e popolare, quest’ultima basata su
una commistione di cristianesimo e folklore2. Questi due poli non vivono in uno sterile
isolamento, bensì fra di loro si costituiscono rapporti multiformi: c’è difatti sia un assedio
da parte dei dotti alla cultura folklorica, sia il tentativo di reprimerla, quanto la sua
1
Cfr. Jacques Le Goff, I contadini e il mondo rurale nella letteratura dell’alto Medioevo, in Tempo della Chiesa e
tempo del mercante, Einaudi Torino, 1977, pp. 100-101.
2
J. Le Goff, Pour un autre Moyen Age cit., pp 223 sgg., 236 sgg.
assimilazione; il clero poteva adempiere alla propria missione inserendosi nella cultura
popolare, si ha così un adattamento delle due culture, una profonda interazione, e questo
potrebbe essere il filo rosso da seguire per iniziare a comprendere cosa si può intendere
per cultura popolare dell’alto Medioevo.

Per compiere questo lavoro di ricerca, un vero e proprio disvelamento di quelle figure che
finora sono rimaste ai margini della storia, bisogna trovare le fonti fra le opere già
analizzate dagli studiosi di diversi campi, ma mai interpellate per questo scopo: serve una
rianalisi con uno sguardo diverso. Aron Gurevič nell’esaminare i diversi documenti
utilizzati nella stesura del suo saggio Contadini e santi, punto di partenza di questo
lavoro3, ha individuato un aspetto specifico, quello del paradosso della cultura medievale,
generato dall’incontro-scontro fra la cultura popolare e quella dei dotti, fra quella
folklorica e le dottrine ecclesiastiche; questa compenetrazione potrebbe darci
un’immagine più viva della coscienza popolare medievale; questo dialogo-conflitto è il
grande soggetto di una nuova analisi, difatti da questo campo di forze proviene
l’universum culturale che plasma la mentalità. Fra le due culture, alta e bassa, esiste un
costante Dialogo: il carattere della cultura medievale è dialogico, si basa su intime
relazioni dei poli; le due realtà sono caratterizzate da un’instabilità dei loro confini, dalla
loro penetrazione, così che i due poli si toccano di continuo. Questo è quello che si
definisce paradosso: un’unità di due tipi di culture diverse, che si fondono in un unicum.
“La vita spirituale del Medioevo non può essere compresa in modo sufficientemente
completo se non si tiene conto della tradizione mitopoietica e folklorica rimasta
patrimonio del popolo”4, e questo nuovo approccio dà la possibilità di sentire le voci
degli illetterati, di avvicinarsi alla loro visione del mondo, di guardare finalmente alla
realtà dal basso.

L’oggetto, dunque, dell’analisi è come la cultura popolare del medioevo si trovi riflessa
nei testi della letteratura latina. Dentro di essa emergono gli aspetti culturali dell’uomo
che era estraneo a questa lingua, altro elemento paradossale: attraverso il linguaggio dei
3
Aron Jakovlevic Gurevič, nacque a Mosca nel 1924. Si è affermato come il più importante studioso sovietico di storia
delle mentalità e delle culture popolari del medioevo. Il suo lavoro è stato influenzato dal pensiero degli storici dell’
École des Annales, Jacques Le Goff e Goerges Duby, e dalle idee del critico letterario Michail Bachtin. Ha lavorato
presso l’Istituto di storia generale dell’Accademia delle scienze di Mosca e nel 1998 è divenuto foreign member
dell’Accademia reale delle arti e delle scienze dei Paesi Bassi. Morì a Mosca nel 2006. L’edizione del saggio
Contadini e santi qui utilizzata è quella pubblicata da Einaudi nel 2000.
4
Aron Gurevič, Prefazione, in Contadini e santi, Einaudi, Torino 2000, p. XIV.
dotti, si rivela la voce degli ultimi, difatti il monopolio culturale era il latino, che per
lungo tempo fu l’unica lingua della scrittura, che perciò parla anche per chi lo ignora. Si
deve rivolgere il proprio sguardo a quelle opere, scritte in latino, le quali avevano come
finalità quella di accedere alla coscienza del popolo, ergo quelle che si ponevano come
uditorio la grande massa degli illetterati: i sermoni, le prediche, i racconti sui miracoli, le
vite dei santi, i catechismi, i penitenziali, i racconti sulle peregrinazioni dell’anima
nell’oltretomba … opere in cui diavoli e santi sono l’ accesso alla cultura popolare,
radicata nel mito, nell’epos e nel mondo magico. Esse sono importanti canali di
comunicazione, atti a conquistare le anime di chi le ascoltava, e proprio dentro questi testi
che si trovano riflesse le immagini che appartengono alla concezione del mondo da parte
del popolo.

Tra le funzioni di coloro che detenevano il sapere vi era quella della distribuzione di una
parte di esso, bisognava creare testi destinati ai non iniziati alla conoscenza. Per cui,
accanto alle opere canoniche, esclusive e riservate ai chierici, vi sono testi scritti con
principi completamente diversi, in quanto essi dovevano riferirsi ai gusti e agli
orientamenti degli uditori, si doveva tenere in conto la personalità di colui al quale si
parla, il sapere è un cibo differente in base a colui che lo mangia: “Il predicatore deve
usare la lingua di coloro ai quali sta predicando”5. Erano libri scritti in latino, ma esposti
oralmente nella propria lingua madre; queste opere “per tutti” utilizzavano temi propri del
folklore: la letteratura scritta non è che una piccola isola all’interno del vasto oceano
dell’oralità e non può dunque non essere toccata dalle onde di essa.

L’incipit di un’agiografia, costellata di miracoli e di incontri fantastici, ha luogo nel


mondo del folklore. Nelle opere per tutti vi è un costante dialogo fra dottrina e coscienza
magico-folklorica: questa interazione portò al formarsi del cosiddetto Cristianesimo
popolare. Queste opere fanno parte di una letteratura di massa che convoglia dentro di sé
le idee stesse della massa e le sue immagini, e fra gli abitanti del popolo una posizione
cospicua era occupata dai contadini; in esse si può dire che filoni diversi della cultura
popolare “Le cui radici affondano nel paganesimo e in credenze e usanze arcaiche, e

5
A. Gurevič, Contadini e santi, op.cit., p.7.
[ filoni ] di quella ecclesiastico-cristiana, non solo coesistessero, ma intersecandosi,
interagissero nella coscienza degli uomini medievali, dal contadino al vescovo”6.

In questa letteratura vi è il dominio dei Loci Communes, di una topica costante che si
trasmette nel corso dei secoli: “L’autore medievale, come pure il suo lettore, trovava
indubbiamente appagamento nella ripetizione di verità e formule note, nella
condensazione di citazioni palesi o nascoste, nelle infinite variazioni su un tema stabilito
una volta per sempre”7. La popolazione europea di quel tempo era costituita
prevalentemente dagli abitanti della campagna, caratterizzati da una vita di routine e dal
conservatorismo; questo uditorio, perciò, non si aspettava motivi originali o novità di
pensiero, in quanto la resa nuova veniva vista come distruttrice dell’equilibrio sociale.
L’ascolto si focalizzava su un riconoscimento di temi assimilabili a quelli precedenti.
Questa era un’abitudine mentale che apparteneva a tutta la società, non solo alle classi
subalterne, e ciò produce un’omogeneità nella letteratura per tutti, spiegabile proprio
attraverso la psicologia del parlante-ascoltatore. Inoltre, un grande fattore che enfatizza
nella popolazione una tendenza alla mitopoiesi è la trasmissione orale delle informazioni,
la quale porta ad acuire l’accettazione di qualsiasi notizia fantastica. Altra caratteristica di
tale mentalità è quella di non recepire concetti astratti, ma esclusivamente il mondo delle
immagini concrete, nel quale i concetti generali dovevano incarnarsi; per comprendere il
concetto di santità era necessaria l’azione concreta del miracolo. Gli uditori attribuivano
una sostanza carnale ad ogni metafora, così che questa diviene una letteratura composta di
semplici paragoni ed immagini visive.

La forma espressiva e stilistica delle opere didascaliche è il pedester sermo cioè un


discorso semplice e dimesso, dunque il suo stile è caratterizzato dalla Rusticitas, da un
sermo rusticus, il cosiddetto latino volgare. Secondo il filologo tedesco Auerbach il
vecchio pubblico in grado di apprezzare le raffinatezze stilistiche della letteratura antica
non esisteva più, per cui bisognava adeguarsi ad un nuovo tipo di pubblico8; l’uditorio era
analfabeta o semianalfabeta: “A chi serve una lingua impeccabile, se gli ascoltatori non

6
Ibid. p. 13.
7
Ibid. p. 16.
8
Cfr. Erich Auerbach, Literatursprache und publicum in der lateinischen Spatantike und im Mittelalter, Berlin 1958,
pp. 68, 77, 191 sgg.
sono in grado di afferrarne il senso?”9. Questo stile era l’unico adatto per questo tipo di
pubblico dalle nuove esigenze. Con la penna si fissa la viva lingua popolare e nella
Historia Francorum Gregorio di Tours scrive infatti: “Pochi capiscono un retore che
filosofa, mentre molti capiscono il discorso di un semplice”10. Gli autori hanno piena
consapevolezza che il vecchio pubblico non esiste più, sostituito da un vasto uditorio per
il quale sono scritte le opere didascaliche, aventi un’importante funzione sociale. La
scelta, dunque, della rusticitas è di grande consapevolezza, legata alla volontà di ridurre la
distanza che separava scrittori e nuovo pubblico, lo stesso Cesario, vescovo di Arles lo
ammetteva:

“Se io espongo la Scrittura così come lo facevano i Santi Padri, questo cibo sazia solo
pochi eruditi, e la massa del popolo resta affamata. Perciò, vi prego umilmente che il
vostro dotto udito sopporti benevolmente le parole rozze, affinché tutti il gregge del
Signore possa ricevere il nutrimento spirituale in una lingua semplice e per così dire
volgare”.11

Questa letteratura edificante intrecciava rapporti col proprio pubblico e molte immagini,
usate per esplicare concetti, vengono proprio dal mondo agricolo, luogo di provenienza
per la maggior parte degli ascoltatori.

Il tipo di narrazione più adatta a mantenere viva l’attenzione di questo nuovo pubblico è la
novella breve, che racconta i diversi miracoli o avvenimenti della vita di un santo; la
narrazione conduce direttamente l’uditore alla morale senza indugiare su strutture troppo
complesse, tant’è che le vite più estese venivano divise in vari frammenti con una loro
autonomia narrativa e didattica rispetto all’insieme. In una vita le imprese miracolose si
susseguono una dopo l’altra a costruire un quadro volto a rappresentare concretamente la
santità di un individuo: non esiste alcuna evoluzione psicologica del personaggio, egli fin
dall’inizio della storia rende manifesta la sua potenzialità.

La genesi di un’agiografia è, infatti, un intrecciarsi fra la fantasia popolare, la quale


richiede la presenza di costanti e ripetute immagini tratte dal quotidiano mondo agricolo,

9
Agostino, De doctrina Christiana, 4, 10, 24, in PL, vol. 34, pp 99 sg.
10
Gregorio di Tours, Historia Francorum, Praefatio prima.
11
Cesario di Arles, Sermones, in PL, vol. 39, col. 1758.
che si relaziona con la realtà magica delle fantasie popolari, e l’attività scrivente di un
autore, un chierico interessato a veicolare l’ideologia religiosa; tutto il racconto è
teleologicamente orientato all’educazione del gregge, quindi all’assimilazione dei concetti
teologici, ma questo fine sarebbe impossibile se l’autore non tenesse conto delle
aspettative e delle esigenze del suo pubblico, ed ecco che un’agiografia si plasma
attraverso un intenso relazionarsi di questi due fattori imprescindibili. Tutta la narrazione
non si trova in un rapporto diretto fra autore e destinatario, come un moderno libro, bensì
è filtrata attraverso il discorso orale orientato a creare suggestioni ed emozioni; non si
deve, perciò, tralasciare l’aspetto emozionale dell’agiografia, il quale doveva servire ad
appassionare una platea eterogenea, dai contadini fino agli aristocratici.

L’approccio di studio della cultura popolare medioevale, attraverso una rianalisi delle
fonti letterarie, è di tipo indiretto, infatti le informazioni che si possono trarre si
manifestano solo come riflesso negli scritti del clero, volti ad istruire le masse, non c’è
una strada diretta: direttamente si parla del santo, ma indirettamente si possono scovare
tante piccole tracce del popolo che ascoltava e della sua realtà. Le vite dei santi, con i loro
miracoli, le forze del male che assediano l’uomo, le peregrinazioni dell’anima … fanno
parte di un complesso di idee condivise e qui si trova la fonte della cultura popolare. Nelle
opere edificanti vi è necessariamente un destinatario, a cui sono raccontate le storie, “ la
vita di un testo , cioè la sua essenza vera e propria, si sviluppa sempre al confine tra due
coscienze”12 quella dell’autore e quella del destinatario, il popolo, di cui si ritrovano
diversi elementi e di cui si riesce a intravvedere il loro modello di vita e di
comportamento: il popolo è sì taciuto, quasi invisibile, ma compare, è lì, basta solo
affinare lo sguardo; il testo vive in un dialogo fra diverse realtà, e da ciò si può tentare di
ricostruire un mondo culturale, rimasto in silenzio, ma ben presente e vivo.

CONTADINI E SANTI

Parte integrante della vita religiosa della società medievale è il culto dei santi; fra santi e
fedeli si istauravano dei rapporti di grande fedeltà, una sorta di specchio dei rapporti di
vassallaggio: il credente rimaneva fedele al santo e faceva a lui donativi solo se in cambio
vi sarebbero stati dei miracoli, una sorta di do ut des. Nella coscienza del popolo la
12
Michail Bachtin, Il problema del testo, in Voprosy literatury, 1976, n. 10, pp. 127,145.
vicinanza di diversi santi con i loro poteri taumaturgici, benefici per le diverse comunità
di fedeli, acquista una grande rilevanza rispetto alla lontananza della divinità, percepita
come invisibile e dai tratti spesso minacciosi; con essa non si instaurava la stessa intimità
e confidenza. Il rapporto fra il gregge di fedeli e i propri santi è un’intima relazione di
vicinanza. “Il santo è l’eroe più popolare della società medievale, le sue imprese sono le
imprese più alte che si possano compiere sulla terra”13 e deve rispondere all’incessante
bisogno di miracoli da parte della sua comunità, la quale misura la sua devozione in base
al numero di opere compiute: il santo, per vedere accettata la sua santità, doveva
manifestare la sua potenza magica.

Il santo nella concezione popolare aveva una natura mista: in parte celeste, metafisica, in
parte terrestre, umana, nella quale il santo era modellato a immagine dell’uomo,
ricalcandone le emozioni, le passioni e le stesse reazioni. Gli autori delle vite sono
ecclesiastici, ma le loro opere mostrano i tratti della creazione popolare, sono, dunque,
incarnazione della “Memoria della folla”14.

La narrazione delle gesta del santo si forgia su un uditorio educato nel mito, nella
narrazione epica e nella fiaba. La dimensione teologica e sacrale viene, perciò, re-
immaginata e riscritta come dimensione eroica all’interno di una mentalità cresciuta con
l’epos; il santo è sì immagine di Dio, ma è anche eroe, mago e guaritore per il popolo:
“nell’immagine del santo il popolo venerava un mago pieno di bontà e di misericordia e
circondato dall’aureola”15 e questi sono gli elementi fiabeschi che permeano la figura
celeste. Le parole del santo e le preghiere sono costruite come fossero formule magiche e
i loro atti soprannaturali nella coscienza popolare sono un elemento di continuità della
magia pagana, popolata da maghi a servizio di una divinità, ed in questa riscrittura delle
figure sante lo scontro fra i principi di bene e male si trasforma nel concreto in un duello,
tipico della tradizione epica. La predisposizione psicologica del popolo consisteva nella
continua ricerca di una guida spirituale, di un aiuto perenne e quindi nel bisogno di
miracoli così che i santi diventavano i loro eroi, erano le figure in grado di aiutare e
confortare nelle difficoltà, erano presenze vicine, e di conseguenza il culto dei santi

13
A. Gurevič, op. cit., p. 68.
14
H. Delehaye, Les passions des martyrs et les genres litteraires, Bruxelles 1921, p. 438.
15
A. Gurevič, op.cit., p. 83.
assume una dimensione sempre più cospicua. L’eroe-santo, a differenza dell’eroe
contemporaneo dei fumetti, doveva possedere l’umiltà, dovendo così rinunciare al proprio
io per divenire una figura ideale, un modello di comportamento per il popolo:

“il santo è una creatura soprannaturale, che ha un legame diretto con le forze supreme
ed è dotato di facoltà magiche. Il santo impiega queste capacità per aiutare i suoi
seguaci e coloro che gli sono fedeli, per alleviare la loro esistenza, guarirli dalle
malattie, tener lontane le sventure naturali o sociali che li minacciano, liberare gli uomini
che non contano, i diseredati e i deboli dalle oppressioni e dalle angherie.”16

CULTURA CONTADINA E MAGIA

Le idee predicate dalla chiesa si incontrano con la tradizione folklorica e da questa


fusione trae vita il patrimonio della cultura popolare, un adattamento della religione alle
esigenze e al mondo proprio dell’uditorio. Il ruolo attivo della magia non era un semplice
residuo del paganesimo, bensì un fenomeno radicato nel profondo della società;
all’interno di una società agricola l’influenza magica sugli elementi della natura era
fondamentale, era un modalità di controllo di forze spesso poco conosciute. La magia e la
sua persistenza nella società sono legate allo stretto rapporto che sussiste fra l’uomo e la
natura, è una reciproca compenetrazione, una partecipazione dell’uomo alla natura. La
magia è dunque presente in molte società agricole del mondo, proprio perché fa parte
dell’esistenza stessa di questi uomini nel mondo naturale che li circonda, contatto che fa
nascere il multiforme mondo fiabesco, che non è una realtà esterna, ma parte della
quotidianità. La magia è un elemento conservativo, primigenio, potente, che non ha subito
particolari mutamenti nel corso del tempo, il suo carattere è stabile e vitale; la magia è
composta da

“forze primordiali, originarie e univano l’uomo e la natura in uno stato di complessa


interazione e di costante scambio […] la magia è una sorta di naturalizzazione
dell’uomo, che scopre in sé le qualità di tutto il mondo circostante e percepisce se stesso
come una particella che fa organicamente parte di un tutto […] questi uomini sono

16
Ibid. p. 114.
assolutamente convinti che la magia rappresenti una parte integrante del sistema ciclico
del mondo e uniscono il naturale con il soprannaturale in un tutto indissolubile.”17

La mentalità del popolo è plasmata sul binomio fra dimensione naturale-magica e quella
cristiana, tanto da fondere queste due realtà in un’unica concezione, quella del
cristianesimo popolare: la magia non è solo un brandello di un culto che non c’è più, ma è
un modo di relazionarsi col mondo e perciò non scompare con l’avvento della nuova
religione, ma viene integrata in essa trasformata nel miracolo dei santi o nelle tentazioni
demoniache.

17
Ibid. pp. 153-154.

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