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L'altra metà dell'Europa

Prefazione

Nelle società est-europee è particolarmente grave l’accumularsi di esperienze tanto diverse una sull’altra,
senza usufruire dei necessari tempi di maturazione. Prima ancora che si dispiegasse il vantaggio del
riconoscimento dei pieni diritti politici (in un regime democratico e non autoritario o di falsa ‘democrazia
popolare’) a un corpo di cittadini informati e capaci di scegliere, si è affermata la civiltà della
disinformazione e dei condizionamenti subliminali o espliciti (ma egualmente efficaci). Prima ancora che si
palesasse il vantaggio di scegliere le élites attraverso la formazione culturale e tecnica (e non per antico
diritto sociale), si è evidenziata una certa inutilità della dote culturale di ognuno: l’emigrazione in epoca
post-comunista ha acuito il fenomeno riempiendo i paesi di immigrazione di lavoratori impegnati in
occupazioni ben diverse (meglio, di livello inferiore) rispetto al bagaglio culturale acquisito. Sembrano
mancare talora i presupposti per uno sviluppo equilibrato ed equo della società, più che essere carente la
crescita economica per eliminare la distanza che ancora separa, su questo terreno, buona parte dei paesi
dell’Europa centro-orientale da quelli dell’Europa occidentale.

I. Da una guerra mondiale all’altra

1. Crepuscolo degli imperi e trionfo dello Stato nazionale.

La guerra mondiale

L’uccisione dell’erede al trono d’Austria-Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuta a Sarajevo il


28 giugno 1914 per mano del giovanissimo studente Gavrilo Princip, affiliato all’organizzazione
irredentistica Giovane Bosnia, è comunemente riconosciuta come l’evento che diede il la al conflitto
europeo e mondiale. La più debole delle potenze (fatta salva l’Italia) aveva necessità di consolidare la
propria situazione interna in primo luogo e, quasi di conseguenza, quella internazionale. Si trattava di
riconoscere più che per il passato i diritti di tutte le nazionalità, facendo sì che esse non optassero per
l’indipendenza o non guardassero ai limitrofi Stati nazionali come a una madrepatria cui unirsi. Nonostante
la forte presa dell’idea nazionale, l’impero poteva ancora esercitare attrazione verso i suoi sudditi, per
motivi pratici oltre che per attaccamento alle tradizioni e alla dinastia. In esso si viveva meglio che non nei
vicini Stati nazionali (Romania, Serbia) e i suoi vasti territori e le sue grandi città costituivano un bacino
economico di notevole interesse, offrendo ai sudditi possibilità non disprezzabili di ascesa sociale.

Anche pensatori più radicali (ad esempio gli austro-marxisti come Adler) ritenevano che una volta
trasformato strutturalmente l’impero fosse possibile procedere con il tempo verso la Repubblica federale.
L’impero non aveva motivo di estendere i propri confini: la classe dirigente ungherese, a partire dal capo
del governo István Tisza, poco propensa ai progetti federalistici o trialistici (questi ultimi prevedevano pari
dignità politica per austro-tedeschi, magiari e slavi), non desiderava incorporarvi altri slavi. Era più
opportuno invece imporre nei Balcani la propria influenza e i propri interessi economici; di conseguenza
Vienna non poteva accettare che un’altra potenza, grande o piccola, dominasse lo scacchiere balcanico e
soprattutto non poteva tollerare sfide alla propria egemonia, per quanto non fosse di per sé aggressiva. In
definitiva le agitazioni irredentistiche in atto nella Serbia e, in misura molto più ridotta e meno pericolosa,
in Romania dovevano essere rese inoffensive. Il gravissimo e mortale attentato di Sarajevo era
naturalmente destinato ad avere un seguito politico, a prescindere da quanto prescrivesse il diritto
internazionale e da quali fossero le reali responsabilità del governo di Belgrado. Se poi le guerre balcaniche
e il riassetto geo-politico che esse avevano indotto erano considerati da qualcuno una vittoria della Russia, il
tracotante ultimatum del governo austro-ungarico indirizzato a quello serbo costituiva a sua volta una sfida
al gabinetto di Pietroburgo. Esso nel 1908 non aveva reagito militarmente all’annessione della Bosnia-
Erzegovina all’Austria-Ungheria, non avendo ricevuto le necessarie assicurazioni da Francia e Inghilterra; a
Vienna si poteva sperare che agisse con pari prudenza nel 1914, altrimenti si poteva contare sull’aiuto
tedesco. Tali calcoli, azzardati o miopi che fossero, innescarono – come è noto – una reazione a catena per
la quale tutte le maggiori potenze (Russia e Germania, ma anche Francia e Inghilterra) seguendo la logica
dei sistemi di alleanze contrapposti – Triplice Intesa contro Triplice Alleanza – intervennero nel conflitto
destinato a cambiare la storia mondiale. Italia e Romania, ambedue legate da alleanza con Germania e
Austria-Ungheria, optarono di comune accordo per la neutralità.
Lo scoppio della guerra presentava motivi profondi di interesse per gli Stati e le nazionalità di tutta l’Europa
centro-orientale, non solo per la Serbia aggredita dall’Austria-Ungheria. Persino la periferica Turchia si
lasciò coinvolgere molto presto (novembre 1914), attirata dalla speranza di consolidare la propria
situazione appoggiandosi sul colosso germanico e di sottrarsi alla tradizionale influenza politica ed
economica di Parigi e Londra. I fautori del nazionalismo al potere speravano in una rivincita rispetto alla
sequela di sconfitte e umiliazioni subite dall’impero da vari decenni in qua.

Il governo bulgaro (una coalizione di partiti liberali guidata da Vasil Radoslavov), che aveva visto respinte a
Parigi per ragioni politiche tutte le richieste di prestiti internazionali necessari a rinsaldare l’economia
debilitata del paese, cedette alla sirena di un massiccio prestito di guerra di Berlino e vide prospettarsi la
rivincita verso la Serbia, se non verso altri paesi confinanti.

Per dare una soddisfazione al governo, ma anche al sentimento nazionale dei romeni, i governi tedesco e
austro-ungarico offrirono a quello di Bucarest, in cambio dell’intervento al loro fianco, la Bessarabia,
regione abitata in maggioranza da romeni e soggetta allo zar. In modo speculare i governi dell’Intesa
offrirono invece i territori soggetti all’Austria-Ungheria. Questa seconda offerta era senza dubbio più
allettante, non meno del sostegno economico che i paesi occidentali garantivano, ma, dopo due anni di
incertezze, a indurre Brătianu a una entrata in campo al fianco dell’Intesa fu la situazione militare,
apparentemente favorevole alla Russia sul fronte orientale, oltre alla scelta operata un anno prima dal
governo italiano (uscito dalla neutralità senza consultare quello romeno).

Solo nel 1917 la Grecia scese ufficialmente in guerra, ma va detto che la sua sovranità era stata
abbondantemente violata con un bombardamento anglo-franco-italiano del Pireo e con l’occupazione di
Salonicco come testa di ponte per l’Armée d’Orient nei Balcani: essa in qualche misura e per opera delle
flotte alleate occidentali (inglese, francese e italiana) aveva subito la sorte tanto deprecata del Belgio
occupato dall’esercito tedesco. Anche nel caso ellenico si trattava di comprendere dove si trovasse
l’interesse del paese: una volta rinunciato alla neutralità l’avversario naturale era la Turchia, alleata degli
imperi centrali, nella quale abitava una cospicua comunità greca. Si prospettava la possibilità di realizzare la
Megali idea (Grande idea) propugnata lungo tutto il Risorgimento ellenico e dare luogo a una Grecia erede
dell’impero bizantino anche in Asia.

L’Albania non fu soggetto attivo nel conflitto: troppo recente la sua indipendenza (1912) e troppo incerta la
situazione politica interna dopo la fuga del principe Guglielmo di Wied, impostovi dalle potenze. Essa subì
tuttavia l’occupazione da parte di eserciti contrapposti e diversi: austriaco, italiano, francese.

Per Polacchi, Cechi e Slovacchi il conflitto generale offrì il destro per una ripresa o il lancio di iniziative volte
a conseguire l’indipendenza. In realtà la gran parte delle popolazioni e delle classi dirigenti di quei popoli
mantenne a lungo un atteggiamento di lealismo verso la dinastia e la Monarchia duale. Alcuni leader
boemi, come Masaryk e Beneš, preferirono continuare la loro battaglia politica espatriando, per ottenere
un più efficace sostegno da parte dei governi dell’Intesa e così proponendosi quali dirigenti del futuro Stato
indipendente. Durante il conflitto lo zar promise di riunire tutti i polacchi (suoi sudditi o degli imperi
centrali) in un unico Stato dotato di grande autonomia in seno all’impero zarista; anche Berlino e Vienna
fecero promesse tali da convincere i propri sudditi polacchi ad arruolarsi in Legioni e combattere contro
l’esercito russo e quando le province polacche dell’impero zarista furono occupate si progettò la
costituzione di un Regno di Polonia sul cui trono sedesse un principe tedesco. I tre popoli baltici (lituano,
lettone, estone), dal Settecento inclusi nell’impero zarista, negli ultimi anni precedenti il conflitto mondiale
avevano preso sempre più coscienza della propria identità nazionale, sia nei confronti dei russi sia dei
tedeschi (classe dominante sulla costa baltica) sia pure dei polacchi. La rivoluzione russa del 1905 aveva
dato forza a tale processo identitario, quella del 1917 e la guerra offrirono la possibilità di dare vita a un
proprio Stato nazionale a ognuno di quei popoli. La Finlandia era legata alla Russia in unione personale e il
suo popolo manteneva da sempre la sua specificità e proprie istituzioni.

Questa era dunque la condizione dei popoli e degli Stati dell’Europa centro-orientale al momento dello
scoppio della Grande Guerra e del loro coinvolgimento nel conflitto.

In seguito alla pace di Brest-Litovsk conclusa dal governo Lenin con gli imperi centrali, anche la Romania
(mentre annetteva la Bessarabia già russa)6 firmò la pace separata di Bucarest nel maggio 1918, che
denunciò appena cinque mesi dopo per poter riprendere il suo posto accanto alle potenze dell’Intesa,
infine vincitrici. Seguì il vittorioso conflitto con l’Ungheria che permise la conquista di tutte le province verso
cui si volgevano le aspirazioni dei romeni.

Dal gennaio 1919 la Conferenza della pace riunita a Parigi delineò non senza fatica e polemiche i nuovi
confini dell’Europa tutta. I trattati di Versailles, Saint-Germain, Neuilly, Sèvres furono i vari tasselli di un
unico grande disegno che coinvolse tutti i paesi e i popoli della regione. A conflitto concluso nulla era più
come prima. I grandi imperi erano scomparsi e al loro posto erano sorti alcuni Stati di ben minori
dimensioni e, almeno nella vulgata dominante, tendenti a caratterizzarsi come nazionali. Non era spesso
così poiché le nuove formazioni statali non mancavano di includere cospicue minoranze, come Romania e
Polonia, e in qualche caso non era possibile neppure indicare una nazionalità che esprimesse la
maggioranza assoluta: così era per Cecoslovacchia e Jugoslavia. La rinata Polonia (Polonia restituta) era il
risultato di un insieme di contingenze e di disparate iniziative di uomini e gruppi. Infatti dello Stato polacco
entrarono a fare parte i territori già soggetti all’impero zarista, a quello germanico e all’Austria-Ungheria,
cioè a potenze schierate su fronti opposti durante la guerra. Nonostante al termine di un ulteriore conflitto
il governo polacco avesse accettato nel 1921 una pace di compromesso con la Russia bolscevica, ucraini,
bielorussi, tedeschi, ebrei e altri costituivano un buon terzo dei cittadini della Polonia.

Un dato che colpisce già nelle vicende polacche, ma che è comune a quelle di quasi tutta l’area, è appunto
quello relativo ai conflitti che presero avvio poco dopo la fine della Grande Guerra. Romania e
Cecoslovacchia combatterono contro l’Ungheria guidata da un governo social-comunista per garantirsi il
controllo di importanti regioni. La Cecoslovacchia poté infine annettersi l’intera Slovacchia, inclusa la parte
in cui gli ungheresi erano maggioritari o fortemente presenti. La Romania acquisì Transilvania, Maramureş e
Crişana battendo l’armata rossa magiara e arrivando a occupare provvisoriamente la stessa Budapest.
Ancora prima che la Grande Guerra avesse termine, le truppe romene avevano occupato la Bessarabia,
risolvendo il conflitto in atto tra i bolscevichi e il parlamento locale controllato dall’elemento romenofono e
filoromeno: un’altra vasta regione entrò così a fare parte dello Stato romeno. Per ottenere parte del
Banato, inclusa l’importante città di Timişoara (Temesvár), non fu necessario l’uso della forza contro la
Jugoslavia, erede della Serbia. Furono le potenze vincitrici nella Conferenza della pace di Parigi a decidere in
tal senso. Infatti la sanzione alle nuove frontiere venne da quella Conferenza attraverso i trattati già citati.
Quelli di Versailles e Saint-Germain riguardarono Germania e Austria-Ungheria e perciò tutti gli Stati
successori. Il trattato di Neuilly decise le sorti della Bulgaria nel 1919, quello del Trianon punì severamente
l’Ungheria nel giugno 1920. Il 1° dicembre 1918 però l’elemento romeno di Transilvania votò l’unione con la
Romania, pur prevedendo un periodo di transizione in cui la regione sarebbe stata governata da un
Consiglio dirigente. Perché quella decisione si concretizzasse fu però necessario che le truppe romene
intervenissero per piegare quelle ungheresi, con un appoggio quasi senza riserve delle potenze vincitrici in
ragione del regime rivoluzionario che si era imposto in terra ungherese. Si posero così le premesse di fatto
per le decisioni prese al Trianon.

Una guerra particolarmente sanguinosa fu quella greco-turca combattuta tra 1921 e 1922. In questo caso
gli eventi militari portarono al superamento del trattato di Sèvres, pesante per l’impero ottomano. Infatti
una nuova pace siglata dai delegati greci e turchi a Losanna nel 1923 restituì alla Turchia il controllo
sull’intera penisola anatolica e sulla Tracia orientale.

La spedizione di Gabriele D’Annunzio su Fiume contribuì a definire le contrastatissime frontiere jugoslave a


vantaggio dell’Italia, mentre quelle tra Austria e Jugoslavia furono stabilite ricorrendo a un plebiscito che
legò all’Austria la Caringia. Un plebiscito nel 1922 assegnò la città di Sopron all’Ungheria. Un altro servì a
dividere la Slesia tra Polonia e Germania. In definitiva, alcuni confini furono decisi dalle potenze alla
Conferenza della pace, altri da un plebiscito, altri ancora dal ricorso alle armi.

2. La Polonia, il grande oggetto del desiderio

All’ombra delle potenze tedesche fu costituito un Regno di Polonia solo formalmente indipendente (1916-
18). Gli eventi tumultuosi e imprevisti del 1918 trasformarono le vittorie austro-tedesche sul fronte
orientale nella sconfitta finale contro le potenze occidentali, e fecero sì che il comandante della Legione
polacca, Josef Piłsudski, fosse rimesso in libertà dalle autorità imperiali. L’11 novembre 1918 a Varsavia,
evacuata dalle truppe germaniche, fu nominato comandante in capo delle forze armate (e tre giorni dopo
capo dello Stato provvisorio) dal Consiglio di reggenza insediato dai tedeschi. Quella viene considerata la
data di proclamazione dell’indipendenza polacca.
All’organizzazione dello Stato e del governo si affiancò come problema urgente quello della definizione dei
confini. Le truppe polacche si trovarono a contrastare le iniziative delle nazioni baltiche che aspiravano
parimenti all’indipendenza: in particolare sorsero seri conflitti con i Lituani per la città di Vilnius (Vilno),
abitata in prevalenza da polacchi ed ebrei, ma circondata da un contado etnicamente lituano. L’impegno
militare dei polacchi fu ancora più significativo nella Galizia, già provincia austro-ungarica: qui essi si
scontrarono con i ruteni o ucraini occidentali i quali proclamarono a Lviv (Leopoli, Lvov) una Repubblica
democratica che entrò presto in relazioni, prodromo di una progettata unione, con la Repubblica
democratica d’Ucraina, con capitale Kiev, costituitasi già nel 1917 e proclamatasi indipendente all’inizio del
1918. Seguì il conflitto tra Polonia e Russia bolscevica. Gli uomini di Piłsudski penetrarono allora anche
nell’Ucraina occupando in modo effimero Kiev. Un’impetuosa controffensiva dei bolscevichi fece
pronosticare la nascita di una Repubblica sovietica anche in territorio polacco, essendo giunta sulla Vistola
donde l’Armata Rossa fu ricacciata da una nuova avanzata polacca («miracolo della Vistola»). Infine con la
pace di Riga del 1921 il confine russo-polacco si stabilizzò in modo da includere nella Polonia cospicue
minoranze di ucraini e bielorussi. Anche Vilnius fu occupata con un colpo di mano nell’ottobre 1920, ma
restava irrealizzato il sogno di Piłsudski di costituire una grande Polonia su base federale, avente per
modello lo Stato esistente tra basso Medioevo ed età moderna. Inoltre la regione mineraria della Slesia fu
divisa tra Germania e Polonia sulla base di un plebiscito, mentre un ultimo contenzioso territoriale (se pure
modesto) riguardò il distretto di Teschen, incluso in buona parte nello Stato cecoslovacco.

La storia costituzionale polacca presenta alcuni aspetti decisamente caratteristici. Già nel gennaio 1919 si
svolsero le elezioni per l’assemblea (Sejm) costituente. Essa però invece di avviare la stesura della nuova
Carta decise di riconoscere la particolare posizione assunta dall’uomo considerato una sorta di padre della
patria, Josef Piłsudski, come capo dello Stato provvisorio. Fu dunque approvato un documento passato alla
storia come Piccola Costituzione, con il quale si impostò una questione politica cruciale per l’ulteriore
svolgimento della storia nazionale. Infatti la Piccola Costituzione dava al presidente della Repubblica poteri
poco ampi. La questione passò in secondo piano rispetto a quella delle frontiere statali, ma tornò in primo
piano dopo la pace di Riga del 1921, ora che le frontiere erano state fissate in modo abbastanza
soddisfacente per la Polonia. La Costituzione, infine varata proprio nel 1921, non recepì le richieste di
Piłsudski di attribuire ampi poteri al presidente della Repubblica. Questi avrebbe dovuto fare i conti con
l’autonomo potere parlamentare sia del Sejm sia del Senato10. Il Maresciallo (dal 1920) preferì pertanto
sostenere la candidatura di uomini a lui vicini piuttosto che la propria. Non mancò il ricorso alla violenza
politica e un militante della Democrazia nazionale uccise il neoeletto presidente Narutowicz, cui subentrò
Stanisław Wojciechowski. Inoltre l’introduzione del suffragio universale e del voto proporzionale causò una
notevole frammentazione delle forze politiche sicché si poté governare solo con l’appoggio di una
coalizione di partiti. Mentre le elezioni politiche e un accordo con la destra riportarono al potere il Partito
contadino di Wincenty Witos, Piłsudski rinunciò per qualche tempo alla politica attiva, insistendo perché la
figura del capo dello Stato venisse rafforzata. Iniziò così una vivace polemica politica, trasformatasi poi in un
vero braccio di ferro che sfociò nel colpo di Stato del 1926.

Al di là della gestione concreta del potere, che non cancellò del tutto il modello parlamentare democratico
(il diritto di voto era stato riconosciuto anche alle donne), pur condizionandolo pesantemente, la revisione
costituzionale fu faticosa. Solo nel 1935 la Polonia ebbe una nuova Costituzione che dava luogo a una
democrazia parlamentare e presidenziale allo stesso tempo, in sostanza a un regime autoritario che
manteneva le forme democratiche, almeno quanto l’Ungheria di Horthy. Piłsudski ebbe l’intelligenza
politica di non assumere la presidenza, riservandosi ruoli di potere reale ma meno visibile, mentre il suo
blocco antipartito restò permanentemente al governo sino al nuovo conflitto mondiale. Infine nel 1935 egli
morì lasciando ai suoi successori (i cosiddetti colonnelli) un paese con problemi interni, ma soprattutto
attinenti le relazioni estere. Nel quadro internazionale i governi polacchi attuarono una politica autonoma e
di notevole respiro, ma non tale da garantire alla Polonia un ruolo da grande potenza (cui molta parte
dell’opinione pubblica aspirava) e soprattutto la sicurezza, circondata come era da potenze revisioniste,
quali l’Unione Sovietica e la Germania.

La Sanacja o risanamento fu un processo politico di non facile interpretazione, ma di fatto ne conseguì una
dittatura dissimulata dietro forme parlamentari che finì per allontanare dal Maresciallo eroe
dell’indipendenza molti suoi seguaci. Il nuovo regime in un primo tempo ebbe, in modo paradossale, le
simpatie sia del fascismo italiano sia del movimento socialista, salvo un successivo chiarimento delle
posizioni. Di fatto non si può parlare per la Polonia di un regime fascista, ma soltanto di crisi della
democrazia e del prevalere di una politica autoritaria, peraltro non coincidente, almeno in linea di principio,
con forze e interessi conservatori. Eccessivo e preoccupante fu il ruolo che i militari ebbero in tutte quelle
vicende. Lo stesso Piłsudski si riservò la carica di ispettore generale delle forze armate. Egli reagì duramente
al tentativo delle opposizioni di porre termine al regime che aveva instaurato. Nel 1930 le Camere furono
sciolte dopo che agrari, cristiani democratici e socialisti delusi dal Maresciallo ne avevano chiesto le
dimissioni, mentre i capi di quei partiti furono incarcerati.

Nel novembre di quell’anno elezioni fortemente condizionate dal governo e caratterizzate da un forte
astensionismo diedero un’ampia maggioranza al blocco governativo che sosteneva Piłsudski. La
Costituzione subì emendamenti illiberali, ma il regime mantenne un carattere di ambiguità, poiché il suo
vero capo deteneva cariche non di primissimo piano. La sua autorità non fu messa in discussione fino alla
morte sopraggiunta nel maggio 1935 e neanche allora l’autoritarismo si tramutò in esplicita dittatura: alla
presidenza rimase un civile di estrazione socialista, Ignacy Mościcki, sebbene il ministro degli Esteri,
colonnello Beck, e l’ispettore generale dell’esercito, generale Rydz-Śmigły, detenessero il potere reale,
assumendo le decisioni fondamentali per le sorti del paese ed essendo considerati anche dalla diplomazia
straniera i veri interlocutori. Il sistema parlamentare non fu abolito, ma gli stessi uomini continuarono a
governare sino allo scoppio del nuovo conflitto mondiale. Il disagio e l’insofferenza della popolazione si
espressero attraverso alcune rivolte contadine e alcuni scioperi, oltre che attraverso l’astensionismo
elettorale poiché ai partiti non fu più consentito di condurre una normale battaglia politica. Una sorte del
tutto particolare toccò al Partito comunista, poco amato dall’opinione pubblica poiché russofilo e messo da
tempo fuori legge. I suoi militanti finirono per rifugiarsi oltre frontiera, in Unione Sovietica, ma qui furono
pesantemente coinvolti nel Grande Terrore staliniano, al punto che il partito stesso fu sciolto per
‘deviazionismo’.

Il regime autoritario dovette affrontare la crisi economica successiva al 1929 ma anche il problema delle
relazioni interetniche: i polacchi non erano più del 70% della popolazione. Le aperture verso le minoranze
manifestate da Piłsudski non ebbero una ricaduta soddisfacente in termini di dialogo tra queste e la
maggioranza polacca e cattolica. Restava aperta pure la questione della numerosissima comunità ebraica
(oltre tre milioni di persone) destinata ad essere sterminata durante la seconda guerra mondiale dagli
occupanti tedeschi. In Polonia si pensò a una emigrazione di massa degli ebrei verso terre lontane, di fatto
secondando il sionismo.

Anche dopo il 1935 la condizione delle cospicue minoranze nazionali in Polonia non migliorò ed esse
costituirono serio motivo di tensione nelle relazioni internazionali. Sia la Germania sia l’Unione Sovietica
avevano aspirazioni revisionistiche da realizzare a danno della Polonia. È nota l’espressione «morire per
Danzica» coniata per la guerra mondiale, scoppiata in seguito all’aggressione militare tedesca (1° settembre
1939) nei confronti della Polonia, a partire appunto dall’occupazione di quella città libera (importante porto
del Baltico) e del cosiddetto «corridoio» polacco che tagliava in due la Germania. I governanti polacchi
cercarono di trovare un modus vivendi con Berlino (accordo di amicizia del 1934), ma non secondarono gli
accordi intercorsi tra Francia, Unione Sovietica e Cecoslovacchia, negando la possibilità di transito sul
territorio polacco alle truppe sovietiche in caso di guerra. Nel 1938 Varsavia non mancò di sfruttare la crisi
cecoslovacca per risolvere a proprio vantaggio la questione di Teschen (vedi supra). Meno di un anno dopo
la Polonia cadeva vittima della nuova alleanza conclusa (con sorpresa dei governi occidentali) tra Germania
e Unione Sovietica e veniva invasa dalla Wehrmacht, cui lo Stato maggiore polacco si era illuso di poter
resistere: in capo a un mese le operazioni militari erano concluse, mentre l’Armata Rossa a partire dal 17
settembre aveva occupato una vasta parte della Polonia orientale.

Il Patto Molotov-Ribbentrop, firmato a Mosca il 23 agosto 1939, prevedeva la spartizione della Polonia tra
Germania e Unione Sovietica, ma anche il mantenimento di un piccolo Stato polacco indipendente; inoltre
assegnava alla sfera di influenza tedesca la Lituania e a quella sovietica Lettonia ed Estonia; infine Berlino
diede libertà a Mosca di rivedere la frontiera con la Romania. Durante l’occupazione della Polonia, gli
accordi tedesco-sovietici furono rivisti: la Lituania fu riconosciuta come rientrante nella sfera di influenza
sovietica e la Germania poté annettere anche i territori polacchi che sarebbero dovuti restare indipendenti.
Dunque, mentre le province orientali nelle quali abitavano bielorussi e ucraini furono annesse all’Unione
Sovietica, quelle occidentali entrarono a fare parte del Reich nazista e le restanti costituirono il
Governatorato generale delle province polacche occupate, ospitando i più noti campi di concentramento e
sterminio nei quali fu compiuto l’atto finale della Shoah ebraica, ma furono anche detenuti ed eliminati
zingari, omosessuali e seguaci di religioni minoritarie, come i testimoni di Geova. Con l’operazione
Barbarossa (con cui ebbe inizio la guerra della Germania contro l’Unione Sovietica) pure le province
orientali caddero sotto controllo tedesco. L’occupazione sovietica, durata una ventina di mesi, non era stata
lieve: l’episodio senza dubbio più grave fu l’uccisione a sangue freddo, nella località di Katyń, di 11.000
ufficiali polacchi, considerati ostili all’Unione Sovietica e all’ideologia comunista. A lungo Mosca cercò di
attribuire ai tedeschi la responsabilità di quell’eccidio e solo alla fine degli anni Ottanta il segretario del Pcus
Gorbačëv ammise la verità dei fatti e chiese scusa alla nazione polacca.

Dopo la sconfitta militare il governo polacco si recò in esilio prima nella limitrofa Romania, quindi a Londra,
da dove continuò a svolgere un’intensa attività politica, tanto più che anche cospicui contingenti militari
riuscirono a riparare all’estero e successivamente a tornare in linea accanto alle forze inglesi e statunitensi.
Truppe polacche operarono anche nella penisola italiana negli ultimi anni del conflitto. Molti altri militari
polacchi (nonché civili) organizzarono una forte resistenza in patria – con quella jugoslava la più importante
dell’intero continente europeo – che aveva quale punto di riferimento il governo in esilio e si diede come
nome Armia Krajowa (esercito del paese). Solo in seguito all’aggressione tedesca all’Unione Sovietica,
particolarmente dopo che l’esercito sovietico passò alla controffensiva, polacchi militanti di sinistra
poterono organizzare l’Armia Ludowa (esercito del popolo), cioè una resistenza di altro segno politico, che
rimase tuttavia minoritaria. Essa di fatto conseguì i suoi successi sulla scorta delle vittorie dell’Armata Rossa
sovietica, mentre l’Armia Krajowa fu protagonista di episodi di grande rilevanza militare e politica, come
l’insurrezione di Varsavia che tenne in scacco le forze tedesche occupanti dall’estate 1944 sino all’inizio del
1945.

La pesante repressione nazista stroncò la resistenza nazionale e forti furono le polemiche al riguardo poiché
le truppe sovietiche che si trovavano in un sobborgo di Varsavia non intervennero a favore degli insorti,
restando forte il dubbio se quella inazione fosse dovuta a impossibilità militare oppure a calcolo politico.
Resta il fatto che dopo di allora la resistenza egemonizzata dal Partito comunista e il Comitato di liberazione
nazionale costituito a Lublino, da essa espresso e capeggiato dal socialista Osóbka-Morawski, si trovarono
in posizione di notevole vantaggio per impossessarsi del potere nella Polonia sottratta all’occupazione
germanica dall’avanzata sovietica. In quegli eventi si individuano i prodromi della futura sorte politica del
paese, destinato al regime comunista e a entrare nel cosiddetto blocco sovietico.

3., I popoli baltici

Lituani, Lettoni ed Estoni, legati all’impero zarista dai tempi di Pietro il Grande, avevano rappresentato
un’area sufficientemente progredita della compagine imperiale. La classe dirigente (i baroni baltici) era di
origine o di cultura tedesca e aveva saputo trovare un modus vivendi con lo zar e la sua corte. Fino alla
Grande Guerra era difficile credere che essa sarebbe stata estromessa dal potere, così come pochi
ipotizzavano un distacco di quelle terre dalla Russia. In verità una valida rappresentanza delle tre nazioni
era già matura per assumere la responsabilità di costituire e guidare tre Stati indipendenti. Nel penultimo
anno di guerra la situazione per i tre popoli si mise in movimento, stante l’inarrestabile avanzata dei
tedeschi e la debolezza del governo provvisorio russo installatosi a Pietrogrado dal marzo 1917. Dalla
capitale russa giunse il riconoscimento di un’ampia autonomia, che divenne indipendenza dopo l’ascesa al
potere dei bolscevichi. Le classi dirigenti baltiche non ne amavano l’ideologia, ma ancor più non credevano
attendibili le loro assicurazioni di un futuro federale. Con la pace di Brest-Litovsk (marzo 1918) il governo
Lenin rinunciò a ogni sovranità sui paesi baltici accettando che fossero annessi o gravitassero nell’orbita
della Germania.

Nonostante l’opposizione delle già menzionate forze tedesche, che operarono sul Baltico anche dopo la
firma degli armistizi dell’autunno 1918, nonché dei russi e dei polacchi, Lituania, Lettonia ed Estonia
proclamarono l’indipendenza e seppero difenderla. Il più vasto dei tre paesi, la Lituania, non poté però
includere nei suoi confini la città principale (oggi la capitale), Vilnius, controllata dai polacchi. La capitale fu
quindi Kaunas (Kovno). Inoltre allo Stato lituano fu contestato anche il limitato sbocco al mare
rappresentato dal porto di Memel (alla foce del fiume omonimo) o Klaipèda. La città alla fine del conflitto
era stata separata dalla Germania e restò per alcuni anni in regime di autonomia sotto occupazione
francese, ma nel 1923 era stata annessa alla Lituania, di cui divenne l’unico importante sbocco sul mar
Baltico. Naturalmente fu oggetto delle aspirazioni revisionistiche della Germania, aspirazioni che trovarono
realizzazione nel marzo 1939. Nel 1921 le potenze occidentali riconobbero Estonia e Lettonia (sull’antico
territorio di Livonia e Curlandia), mentre ci volle ancora del tempo per la Lituania a causa del contenzioso
territoriale con la Polonia.

In Finlandia, paese già allora molto progredito, le tendenze autonomistiche o indipendentistiche


manifestatesi sin dal 1905 finirono per prevalere. L’indipendenza fu proclamata a fine dicembre 1917 dal
governo di centro-destra di Svinhufvud, con immediato riconoscimento da parte del governo sovietico
capeggiato da Lenin. Ciò non impedì che iniziasse una vera guerra civile tra ‘rossi’ e ‘bianchi’ che vide la
vittoria di questi ultimi anche con il sostegno di Svezia e Germania, tanto che fu offerta al principe Federico
Carlo d’Assia la corona del Regno di Finlandia. La sconfitta della Germania indusse alla successiva istituzione
della Repubblica che trattò con l’Unione Sovietica la delimitazione delle frontiere (trattato di Tartu). Il
regime democratico restò in vigore, nonostante varie crisi, per l’intero periodo interbellico. La Finlandia si
oppose con le armi alle richieste sovietiche di correggere il tracciato della frontiera, fissata con il trattato di
Tartu dell’ottobre 1920 e considerata pericolosa per Leningrado (l’antica Pietroburgo), ma nonostante una
coraggiosa resistenza – la cosiddetta «guerra di inverno» – il governo di Helsinki dovette infine accettare la
volontà di Mosca, che grazie al Patto Molotov-Ribbentrop non trovava ostacoli nella Germania: il nuovo
confine salvaguardava maggiormente le esigenze strategiche dei sovietici (confine a ovest del lago Ladoga e
cessione della penisola di Hanko come base navale) e più a nord l’URSS acquisiva l’enclave di Salla e le isole
circostanti, nonché territori artici. La Finlandia manteneva tuttavia l’indipendenza e fallì il tentativo di
instaurarvi un governo comunista (istituito al momento dell’invasione militare). Nello stesso spirito la
Finlandia scese nuovamente in guerra contro l’Unione Sovietica per cancellare gli effetti della pace di
Mosca, siglata a fortiori nel marzo 1940. Gli ulteriori sviluppi bellici, del tutto favorevoli all’Armata Rossa,
portarono a un nuovo mutamento della situazione. La frontiera sovietico-finlandese fu tracciata in modo
ancora più favorevole agli interessi dell’Unione Sovietica, che giunse persino a confinare con la Norvegia. La
Finlandia tuttavia non divenne un satellite di Mosca, pur essendo molto condizionata dal Cremlino nella sua
politica estera: fu quello un fenomeno molto particolare, sulla base del quale non a caso fu coniato il
termine ‘finlandizzazione’.

Malgrado la sufficiente maturità dimostrata, le popolazioni baltiche non furono in grado di fare attecchire la
pianta della democrazia. Tuttavia il regime democratico, con limitazioni e difetti, fu vigente per tutti gli anni
Venti e i primi anni Trenta in Estonia e Lettonia. In Lituania già nel 1926 si instaurò un regime autoritario
attorno al presidente Smetona e al premier Augustinas Voldemaras. Il 1934 segnò la fine della democrazia
con l’affermarsi di regimi autoritari anche negli altri due Stati di quell’angolo settentrionale del continente:
il generale Päts si impose in Estonia e il leader contadino Ulmanis in Lettonia. Per i tre Paesi i problemi
principali continuarono a riguardare il mantenimento dell’indipendenza. In tal senso già nel 1923 Tallinn e
Riga siglarono un’alleanza militare, ma nel 1934 con il governo lituano giunsero a stipulare un’Intesa baltica
che alla prova dei fatti si dimostrò uno strumento insufficiente, sia dal punto di vista diplomatico che da
quello militare, a respingere gli interessi delle grandi potenze dell’area.

Con i preoccupanti sviluppi della situazione internazionale nella seconda metà degli anni Trenta, le sorti dei
Paesi baltici furono simili a quelle della Polonia. Già il maresciallo Tuchačevskij, scomparso nelle purghe
staliniane nel 1937, aveva chiarito che la neutralità dei tre Stati baltici era pericolosa per l’URSS, e dunque
doveva essere annullata. Poco dopo il crollo della Polonia i governi di Tallinn, Riga e Kaunas furono costretti
a siglare con l’Unione Sovietica degli accordi di mutua assistenza. I primi contingenti militari sovietici
entrarono nel territorio dei tre Stati sulla scorta di tali accordi, ma a metà del 1940 l’annessione divenne
esplicita con la proclamazione, a opera di parlamenti frutto di elezioni non libere, di tre nuove repubbliche
socialiste che entrarono a fare parte dell’Unione Sovietica. Nei Paesi baltici all’annessione seguì
l’eliminazione o epurazione di buona parte delle classi dirigenti, poco propense ad accettare la fine
dell’indipendenza, ma anche la trasformazione del regime sociale ed economico. Prima ancora
dell’annessione Hitler aveva avviato il trasferimento di 150.000 tedeschi dai tre Stati baltici verso i territori
di recente acquisiti dalla Germania18; dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica, Lituania, Lettonia ed
Estonia furono occupate dalla Werhmacht, che trovò una larga disponibilità tra gli abitanti a collaborare
contro i sovietici. Fu ribadita, così, l’annessione all’Unione Sovietica di Lituania (ora con Vilnius capitale),
Lettonia ed Estonia.

4. La Cecoslovacchia, una solida democrazia

La Cecoslovacchia fu l’ennesimo Stato ‘successore’ dell’impero su cui avevano regnato gli Absburgo. Esso
nacque dall’unione dei Paesi cechi (Boemia e Moravia) già inclusi nella parte austriaca della Duplice
Monarchia, con la Slovacchia e la Rutenia subcarpatica, province fino al 1918 del Regno d’Ungheria. A quei
tre popoli slavi (Cechi, Slovacchi e Ruteni) si aggiungevano una numerosissima minoranza di Tedeschi (oltre
tre milioni) nella regione dei Sudeti e in altre regioni, e una cospicua minoranza ungherese (circa mezzo
milione) in Slovacchia. I padri della Cecoslovacchia Tomáš Garrigue Masaryk e Edvard Beneš furono i
principali propugnatori della distruzione dell’Austria-Ungheria, tanto da convincere – con il supporto di
giornalisti e intellettuali britannici in primo luogo – i governi occidentali ad optare nella seconda parte della
guerra mondiale per questa drastica soluzione. La proposta lanciata in extremis dall’ultimo imperatore, di
regnare su una monarchia federalizzata (Manifesto di ottobre), fu respinta nella Dichiarazione
d’indipendenza della nazione cecoslovacca in cui si specificò: «Noi consideriamo la libertà il primo
prerequisito per la federalizzazione e crediamo che le libere nazioni dell’Europa centrale e orientale
potrebbero facilmente federarsi qualora dovessero ritenere ciò necessario». Durante la parte finale del
conflitto furono costituite in Francia e in Italia delle legioni cecoslovacche, come statale; stessa
dichiarazione fecero esponenti ruteni nella città di Baltimora. Una ulteriore dichiarazione ebbe luogo nella
località slovacca di Turčanský Svätý Martin con cui si aderiva alla Cecoslovacchia, la cui nascita era stata
proclamata a Praga il 28 ottobre 1918.

Le frontiere della Cecoslovacchia furono relativamente facili da tracciare nei confronti di Austria (e
Germania) poiché si mantennero le distinzioni territoriali preesistenti. Dopo pochi anni, presso la
minoranza tedesca prevalse la tendenza a collaborare sino al punto che una sua rappresentanza politica
decise di entrare nella maggioranza di governo. Contribuì a ciò la politica non revisionista della Germania di
Weimar e la debolezza dell’Austria. In altre direzioni, invece, le frontiere cecoslovacche trovarono la loro
definizione in seguito agli eventi del 1919 e sulla base di considerazioni strategiche ed economiche più che
etniche. In Slovacchia, fino ad allora priva di qualsiasi autonomia nell’ambito della Corona di Santo Stefano,
se esisteva una forte propensione a unirsi con i Paesi cechi soprattutto tra i protestanti e, con alcune
cautele, anche nel Partito cattolico guidato da monsignor Andrej Hlinka, non va dimenticato che accanto
agli Ungheresi di sangue vivevano anche molti Slovacchi magiarizzati per ragioni sociali: tutti costoro non
potevano certo vedere con simpatia l’unione con i Boemi e i Moravi. Di conseguenza il governo
democratico ungherese di Károlyi non accettò di riconoscere le aspirazioni cecoslovacche, e quando ad esso
subentrò la Repubblica dei Consigli le truppe ungheresi riuscirono a rientrare in Slovacchia e a metà giugno
a Prešov fu proclamata la Repubblica slovacca dei Consigli. Fu una realizzazione effimera poiché da lì a poco
l’esperimento bolscevico avviato a Budapest ebbe fine sotto l’urto dell’esercito romeno, che occupò anche
Budapest, e in Slovacchia le forze cecoslovacche ebbero modo di riprendere il controllo del territorio, così
preparando il terreno per le decisioni prese successivamente alla Conferenza della pace di Parigi. Le
potenze dell’Intesa certo non gradivano l’esistenza di un focolaio rivoluzionario nel centro del continente e
preferirono irrobustire la Cecoslovacchia, posta quasi a sentinella dell’intera area, lungo un migliaio di
chilometri, da nord-ovest verso sud-est. In questo senso anche l’acquisizione della Rutenia subcarpatica
aveva un significato strategico: attraverso di essa lo Stato cecoslovacco toccava le frontiere romene,
isolando ulteriormente l’Ungheria. La momentanea debolezza della Polonia, impegnata soprattutto a
oriente contro la Russia bolscevica, consentì alle forze cecoslovacche di annettere anche il piccolo ducato
slesiano di Teschen, la cui popolazione era in prevalenza polacca. : Quale fosse l’impostazione politica e
ideale del nuovo Stato fu subito chiaro dalle parole dello stesso Masaryk, per il quale nella guerra appena
terminata «la democrazia aveva vinto l’autocrazia teocratica»; dunque la Cecoslovacchia sarebbe stata una
Repubblica democratica. Senza accettare proposte federaliste, alle minoranze furono fatte concessioni non
disprezzabili (in ogni distretto una comunità nazionale che raggiungesse il 50% della popolazione vedeva
riconosciuta la propria lingua come prevalente, mentre in presenza di una minoranza del 20% si applicava il
bilinguismo amministrativo) e che tuttavia lasciarono un certo scontento. Il diverso grado di sviluppo
economico e sociale delle varie componenti territoriali dello Stato contribuì a creare dissapori, innescando
una sorta di concorrenza tra città industrializzate e campagne.

Paradossalmente lo Stato cecoslovacco si trovò a fare fronte al problema delle relazioni interetniche che
era stato cruciale per la Duplice Monarchia. I cechi erano avvertiti dalle altre comunità etniche come i
‘padroni’ dello Stato, dominando nell’amministrazione e nell’esercito, nonché nelle più avanzate attività
economiche. Il fenomeno in parte era fisiologico poiché la Boemia-Moravia era da tempo paese più
progredito della Slovacchia e della Rutenia. Dagli accordi preliminari siglati negli Stati Uniti con i cechi dai
loro rappresentanti, slovacchi e ruteni si attendevano maggiore autonomia e una convivenza basata su
piena parità. Il Partito popolare (cattolico) di monsignor Hlinka, la principale forza politica slovacca,
manifestò chiare tendenze autonomistiche che sfumavano verso l’aspirazione all’indipendenza. Si ricordi
che l’elemento protestante in Slovacchia, sebbene nettamente minoritario, era più colto e socialmente
elevato di quello cattolico, che comprendeva la gran parte della classe contadina.

Nonostante questi seri problemi, la Cecoslovacchia fu il paese dell’Europa centro-orientale nel quale più
radicata e duratura fu la democrazia. Le donne poterono esercitare il diritto di voto e persino i comunisti
godettero di agibilità politica, nonostante le aperte critiche di Masaryk verso l’ideologia bolscevica (rea ai
suoi occhi di non tenere in conto l’uomo) e a Praga ebbe il suo principale centro l’Internazionale verde,
costituita dai partiti contadini. Nonostante il frequente susseguirsi di differenti governi, tuttavia si registrò
una certa continuità della maggioranza governativa, come dimostrano sia il fatto che al dicastero degli
Esteri sia rimasto sempre Beneš, finché non successe a Masaryk nel 1935, sia l’uso costante dei leader dei
partiti governativi di recarsi dal presidente della Repubblica in consultazione prima di presentare un
progetto di legge di qualche importanza. Di fatto la presidenza della Repubblica aveva poteri più cospicui
che in Francia e per Masaryksi parlò anche di «dittatura del rispetto».

L’iniziale maggioranza relativa (25,7% di voti) conseguita dal Partito socialdemocratico nel 1920 venne
meno a causa della scissione comunista. Il neocostituito PC, dotato di un buon consenso, era però avverso
all’esistenza stessa dello Stato cecoslovacco multietnico, che considerava antisovietico; il sostegno popolare
andò scemando, però, dopo una profonda purga nel partito, che fu sollecitata da Mosca e portò in primo
piano la figura di Klement Gottwald.

In Cecoslovacchia le regole democratiche vigevano ancora quando, nel 1938, essa subì la mortale offensiva
della Germania nazista. L’aggressione tedesca del 1938 trovava una sua motivazione nella presenza della
numerosa minoranza tedesca in Cecoslovacchia, minoranza che alla fine della prima guerra mondiale, come
si è visto, aveva manifestato il desiderio di restare legata all’Austria (se non di unirsi alla Germania e persino
alla Svizzera). La situazione politica internazionale non aveva favorito certo tali desideri e con l’andare degli
anni tra la popolazione tedesca andarono prevalendo tendenze conciliative verso lo Stato cecoslovacco. Si
trattò tuttavia di un fenomeno effimero poiché all’inizio degli anni Trenta acquisirono una posizione
predominante formazioni nazionaliste e propense a guardare alla Germania, come il Partito tedesco dei
Sudeti di Konrad Heinlein, che raccolse il maggior numero di voti alle elezioni del 1935.

Al di là delle sollecitazioni che venivano d’oltre frontiera, le province tedesche risentirono più di altre della
crisi economica del 1929, con pesanti riflessi sul quadro politico. Va ricordato che alla fine degli anni Venti
l’economia cecoslovacca aveva superato le difficoltà successive alla nascita dello Stato ed era in piena
espansione. Dopo il 1929 non fu più così. Per riprendere un trend positivo furono necessari diversi
interventi governativi e il ricorso ad ammortizzatori sociali, e solo a metà degli anni Trenta la crisi sembrò
essere finalmente alle spalle. Peraltro tutti gli Stati dell’area dopo la fine del conflitto mondiale si
abituarono a vivere sull’orlo del baratro, cioè in pesante regime di deficit statale, tranne la Cecoslovacchia.
Essa pure si piegò, però, al trionfante protezionismo economico per il quale «la pratica dell’autosufficienza,
fatta nel nome della nazione, e in realtà molto dannosa, vinse la razionalità economica»26. Negli anni
Trenta Cecoslovacchia e Austria importavano frumento e farina dall’America in grande quantità, per cui
cercarono di aumentare la propria produzione di frumento, dando vita a una industria molitoria e aveva
difficoltà a vendere i prodotti dell’agricoltura.

Hodža fu il primo slovacco ad assumere la presidenza del Consiglio, senza per questo rimuovere i dissensi
tra i due popoli ‘cugini’; il Partito cristiano popolare di Hlinka continuò nella sua opposizione, quasi senza
interruzione, assumendo con la morte del suo leader un atteggiamento ancora più radicale. Era opinione
diffusa tra gli slovacchi che troppi fossero gli impiegati e gli insegnanti trasferitisi dai paesi cechi in
Slovacchia, e che l’economia slovacca fosse troppo dipendente da quella ceca, ben più industrializzata.
Insomma vi era la convinzione di un rapporto non paritario. Molti fra i cechi si persuasero invece che la
Slovacchia costituisse un peso economico. Mantenere insieme le varie componenti del paese non era,
dunque, cosa semplice.

Nell’estate del 1938 il governo germanico avanzò alla Cecoslovacchia la richiesta di cessione della regione
dei Sudeti, popolata da tedeschi. La diplomazia internazionale si mise subito all’opera per trovare una
soluzione di compromesso che di fatto consisteva nel passaggio alla Germania dei distretti in cui la
popolazione tedesca fosse assolutamente dominante. Poiché il clima politico si fece caldo, per giungere a
un atto diplomatico ufficiale fu necessario convocare una conferenza, che si tenne a Monaco, tra i leader
inglese, francese, tedesco e italiano. Di fatto essi imposero al governo di Praga la cessione di ampi territori,
oltre quanto esso avesse desiderato, ma soprattutto decisero che era necessario mettere mano alla
soluzione della questione anche per le altre minoranze presenti in Cecoslovacchia. Infatti altri territori
furono ceduti all’Ungheria (vedi infra) e alla Polonia: questa occupò immediatamente il distretto di Teschen,
su cui continuava il contenzioso sorto alla fine della prima guerra mondiale. Infine alla Slovacchia e alla
Rutenia fu concessa l’autonomia da tempo richiesta: i due governi di Bratislava e Užhorod (poi Chust,
poiché Užhorod fu ceduta ben presto all’Ungheria) erano retti da due religiosi, Jozef Tiso e Augustin
Vološin. Se l’autonomia costituiva la realizzazione di antiche aspirazioni, giunse subito dopo la doccia fredda
del primo arbitrato di Vienna del 2 novembre 1938 (voluto da Roma e Berlino), che ridusse in misura
significativa il territorio slovacco e ruteno a vantaggio dell’Ungheria.

I progetti di Hitler non si fermarono qui. Nel marzo 1939 avviò una nuova complessa iniziativa politica: dopo
avere offerto alla Slovacchia l’indipendenza e all’Ungheria l’annessione della Rutenia subcarpatica (dove
Vološin aveva proclamato una indipendenza durata ore più che giorni) fece occupare senza difficoltà
Boemia e Moravia che divennero parte integrante del Reich sotto forma di protettorato (accettato obtorto
collo dal presidente Emil Hácha che aveva preso il posto di Beneš). Non si trattava più di riunire tutti i
tedeschi in un solo Stato, ma di ricostituire l’aggregazione che era stata rappresentata dal sacro romano
impero germanico. Si può dire che la popolazione ceca reagì all’occupazione con rassegnazione e soltanto
nell’autunno del 1939 gli ambienti studenteschi manifestarono il loro dissenso. Una concreta resistenza si
ebbe invece all’estero, dove si era costituito un governo in esilio guidato da Beneš27, che nel maggio 1942
uccise in un attentato Reinhard Heydrich, prima capo della polizia e poi protettore, cioè governatore in
nome della Germania. Fu solo allora che la popolazione subì una pesante repressione, inclusa la distruzione
di alcuni paesi, come Lidice e Ležáky.

Dal punto di vista militare, si può dire che il successo della cosiddetta operazione Anthropoid si trasformò
nella liquidazione della resistenza, duramente colpita dalla reazione germanica. Il fenomeno non
trascurabile del collaborazionismo, palesatosi già dopo il 1939, si fece ancora più cospicuo. Di fatto Boemia
e Moravia dovettero attendere l’arrivo nel 1945 dell’Armata Rossa, che entrò a Praga il 9 maggio, e delle
truppe statunitensi per essere liberate dalla presenza tedesca; solo nell’ultima fase del conflitto le
operazioni dei partigiani divennero più significative. Quattro giorni prima, tuttavia, era stata avviata una
sollevazione nella capitale (che ebbe paradossalmente solo l’appoggio dei cosacchi del generale Andrej
Vlasov, russi alleati all’esercito germanico in cerca di credito presso gli occidentali) e l’8 maggio le truppe
germaniche si erano ritirate in base a un accordo con il neocostituito Consiglio nazionale cecoslovacco.

In Slovacchia dal marzo 1939 si era costituito il regime capeggiato dall’esponente del Partito popolare,
monsignor Tiso (ma da mesi esisteva il monopolio politico del Partito dell’unità nazionale slovacca, un
partito ‘ombrello’ decisamente orientato a destra). Questi aveva accettato di proclamare l’indipendenza,
dopo che il suo rivale e capo L'altra metà dell'Europa: dell’effimero governo slovacco installato da Praga,
Karol Sidor, aveva respinto l’invito/ordine di Hitler. Se Tiso fu il capo (dal 1943 vôdca o duce) del nuovo
Stato indipendente, egli nominò alla guida del governo un elemento ben più radicale e fascistizzante,
Vojtech Tuka, salvo emarginarlo nel 1942, con l’avallo del Führer. Questi, come in Romania, preferiva un
leader conservatore a elementi più ideologizzati ma meno controllabili.

Il regime di Tiso era filotedesco e in parte imitò le forme del regime germanico (ad esempio creando già nel
1938 un corpo semi-militare detto Guardia Hlinka, guidato dall’estremista Alexander Mach), ma dal punto
di vista ideologico non era omogeneo al nazional-socialismo hitleriano poiché legato alla cultura cattolica,
potendosi al più fare un paragone con i regimi franchista e salazarista. Come altri satelliti dell’Asse, la
Slovacchia aderì al Patto tripartito e a quello anti-Komintern, diresse la maggior parte della sua produzione
verso il mercato germanico, cui destinò anche 120.000 operai, prese parte all’aggressione contro l’Unione
Sovietica (sia pure solo con 50.000 soldati) e attuò la deportazione dei non numerosi ebrei slovacchi, che
però dopo pochi mesi fu interrotta, suscitando le proteste dei governanti di Berlino: tra il marzo e l’ottobre
1942 ne furono deportati 58.000, poi altre deportazioni avvennero solo nel 1944 in seguito all’occupazione
tedesca. Furono molti di più gli ebrei (100.000) deportati dalla Rutenia subcarpatica30. In più, i cechi furono
internati o costretti a trasferirsi in Boemia e Moravia: era una rivincita sulla loro vera o presunta egemonia
nei due decenni precedenti.
Contro quel regime la resistenza fu più vivace che non nei paesi cechi e divenne particolarmente attiva dal
1944: alla fine di quell’anno fu costituito in clandestinità un Consiglio nazionale slovacco, in cui significativo
fu il ruolo dei comunisti. Oltre a volere sottrarre il paese all’influenza tedesca, si pensava di ricostituire la
Cecoslovacchia su L'altra metà dell'Europa: basi federali e con pari dignità delle due nazioni slave. Contro le
attività della resistenza dovette intervenire l’esercito germanico poiché intere unità (ben 60.000 uomini)
dell’esercito slovacco, unitesi ai partigiani, erano riuscite a fine agosto a prendere il controllo
dell’importante città di Banská Bystrica, proclamando l’insurrezione generale. Quella significativa iniziativa
militare in capo a due mesi fu repressa dalla Wehrmacht e le vittime assommarono ad alcune migliaia (i
generali che avevano guidato l’insurrezione furono mandati a morte), nonostante le forze sovietiche si
trovassero non molto lontane: esse infatti procedettero all’occupazione della Slovacchia solo nel marzo
1945.

Proprio in una città slovacca, Košice (Kassa per gli ungheresi), all’inizio di aprile del 1945 si costituì un
governo provvisorio cecoslovacco con a capo l’ambasciatore cecoslovacco a Mosca, il socialdemocratico
Zdeněk Fierlinger (Beneš conservò la presidenza della Repubblica), che pose la prima pietra della
ricostituzione della Cecoslovacchia, destinata a essere ‘ripulita’ dalle minoranze – con il drammatico esodo
dei tedeschi e quello parziale degli ungheresi sottoposti per qualche tempo a slovacchizzazione – e a essere
privata della sua propaggine orientale, la Rutenia subcarpatica, ceduta all’Unione Sovietica in omaggio a un
principio etnico, ma anche agli interessi strategici di quella potenza. Il cosiddetto Programma di Košice
(concordato tra sei partiti: popolari, socialisti nazionali, socialdemocratici, comunista ceco, democratici
slovacchi e comunisti slovacchi) in realtà lasciava intendere solo parzialmente che a esso sarebbe seguita la
trasformazione della Cecoslovacchia in una repubblica popolare a regime comunista. Tuttavia lo stesso
Beneš fece significative concessioni ai comunisti riguardo alla politica economica (nazionalizzazioni) e
sociale della futura Repubblica, mentre sin dal 1943 aveva concluso un trattato di amicizia con l’Unione
Sovietica. Il Programma di Košice non diede soddisfazione alle speranze palesatesi in seno al Comitato
nazionale slovacco riguardo alla possibilità per la futura Slovacchia di una forte autonomia (democratici) o
di uno status federale (comunisti), limitandosi a riconoscere il Comitato nazionale slovacco, cioè un
organismo che di per sé era un segno di autonomia.

5. L’Ungheria di Horthy

Negli ultimi giorni della guerra mondiale in Ungheria la sinistra democratica ebbe l’occasione per assumere
le redini della situazione politica. In particolare dalla cosiddetta «rivoluzione dei crisantemi» emerse un
nobile di opinioni democratiche, Mihály Károlyi, esponente di punta dell’opposizione al precedente regime
conservatore, e toccò a lui proclamare la repubblica e la separazione dall’Austria. Il governo Károlyi
concluse uno specifico armistizio a Belgrado il 13 novembre, che faceva seguito a quello già firmato dai
responsabili militari austro-ungarici sul fronte italiano il 3 novembre. In realtà il fronte era ancora in
movimento nella penisola balcanica ed era evidente che il problema principale da risolvere era la fissazione
delle nuove frontiere. Serbi, Cecoslovacchi, Romeni erano protesi a ottenere il massimo possibile in termini
territoriali, spalleggiati dalle truppe francesi che erano risalite dai Balcani. La debolezza della posizione
ungherese di fronte alle potenze vincitrici e agli Stati limitrofi (quello romeno e quelli, appena costituiti,
jugoslavo e cecoslovacco) trascinava verso il basso la credibilità politica del nuovo governo (ora capeggiato
da Dénes Berinkey, poiché Károlyi aveva assunto la carica di presidente della Repubblica). Di fronte
all’ennesima imposizione della diplomazia internazionale, che attraverso una Nota consegnata dal
colonnello Ferdinand Vyx chiedeva un ulteriore arretramento delle posizioni ungheresi, nel marzo 1919
Károlyi decise di dimettersi lasciando aperta la strada (si discute ancora se di proposito) a una nuova e
originale soluzione politica.

Tra il 20 e il 21 marzo 1919 la socialdemocrazia ungherese, all’epoca caso unico nella storia del mondo,
approvò l’unione con i comunisti per dare vita insieme a un nuovo regime politico. Il leader comunista Béla
Kun, pur essendo in prigione proprio in seguito a violenze dei suoi seguaci contro la sede del giornale
socialdemocratico, poté dettare le condizioni per tale collaborazione. Il Partito comunista (MKP) aveva
acquisito grande influenza e nelle piazze si protestava contro l’arresto dei suoi capi, ma il Partito
socialdemocratico (MSZDP) contava su un numero di sostenitori almeno triplo. Si può credere che il gruppo
dirigente dei socialdemocratici – come forse prima Károlyi – giunse alla conclusione che per difendere gli
interessi nazionali era necessario l’aiuto militare sovietico e per questo scese a patti con Kun, attribuendogli
non solo ufficialmente il commissariato per gli Affari esteri, ma nei fatti anche la guida del governo (di cui
era presidente il socialdemocratico Sándor Garbai). Per questi o per altri motivi di ordine ideologico, fu
dunque proclamata la Repubblica dei Consigli, ispirata all’esempio dei Soviet russi, un’esperienza politica
rivoluzionaria destinata a durare solo 133 giorni. Altre effimere repubbliche ‘sovietiche’ proclamate a
Berlino, a Monaco e in Slovacchia sopravvissero molto meno.

La ‘rivoluzione mondiale’ auspicata dai bolscevichi russi, ma pure dall’Internazionale comunista o


Komintern costituita nel 1919, non vi fu, né l’Armata Rossa giunse in soccorso della Repubblica dei Consigli
ungherese: essa era già impegnata a combattere le truppe del generale ‘bianco’ Denikin in Russia e in
Ucraina. L’Armata Rossa ungherese conseguì dei successi contro l’esercito cecoslovacco, da poco costituito
e guidato da ufficiali italiani e francesi, ma fu facilmente battuta a sud da quello romeno. Peraltro
l’isolamento politico del regime ungherese fu quasi assoluto: le potenze vincitrici non desideravano che
l’infezione rivoluzionaria si diffondesse nel cuore dell’Europa. Anche tra la popolazione magiara le simpatie
verso Kun e compagni non erano ampie: alcune misure troppo radicali, in fatto di nazionalizzazione della
terra o di confisca delle abitazioni, si dimostrarono controproducenti. Le pratiche violente di alcune milizie
operaie (quelle capeggiate da Tibor Szamuely, ad esempio) diedero luogo a un «terrore rosso», non certo
atto a suscitare consenso tra i cittadini, e che lasciò sul terreno alcune centinaia di vittime. Mentre le truppe
serbe e francesi, come pure l’esercito nazionale controrivoluzionario, premevano nella regione di Szeged, in
agosto il sopraggiungere dell’esercito romeno nella capitale indusse i dirigenti rivoluzionari a passare la
mano a un governo che qualcuno definì di sindacalisti, e che presentava tratti di minor radicalismo, come
richiesto a più riprese dalla diplomazia occidentale per evitare una soluzione drastica e cruenta. Quel
governo, guidato da Gyula Peidl, dopo soli sei giorni fu rovesciato da un putsch militare che portò
all’instaurazione di un governo controrivoluzionario guidato da István Friedrich, per nomina di un Absburgo
ungherese, l’arciduca Giuseppe, autonominatosi reggente in assenza di un monarca: Carlo d’Absburgo,
succeduto a Francesco Giuseppe sul trono viennese, aveva perso sia la corona imperiale austriaca sia quella
reale ungherese. Kun e altri dirigenti rivoluzionari fuggirono in Austria (paradossalmente il leader
comunista finì molti anni dopo vittima delle purghe staliniane in Unione Sovietica).

Dopo la caduta della Repubblica dei Consigli (agosto 1919) vi furono alcuni mesi di incertezza politica. Fuori
gioco i comunisti, anche i socialdemocratici non riuscirono a sfruttare al meglio le simpatie che
riscuotevano in alcuni ambienti dell’Intesa; sicché il governo di destra capeggiato da Friedrich, inviso alle
potenze, solo in novembre cedette il passo a un esecutivo moderato guidato da Károly Huszár. Il paese,
soprattutto dopo che le truppe romene a metà novembre si ritirarono da Budapest, era in mano all’esercito
nazionale capeggiato dall’ammiraglio Miklós Horthy, ex aiutante di campo dell’imperatore Francesco
Giuseppe. Mentre regnava il «terrore bianco», che fece molte più vittime di quello «rosso», Horthy, entrato
a Budapest, dall’hotel Gellert dove aveva il suo quartiere generale dichiarò di «perdonare» la città per i suoi
recenti trascorsi rivoluzionari e all’inizio del 1920, con il sostanziale consenso delle maggiori potenze, fu
eletto reggente o governatore, in assenza di un re: infatti il nuovo parlamento abolì la repubblica e restaurò
la monarchia, in essere anche dopo la detronizzazione di Carlo IV di Absburgo, avvenuta il 6 novembre
1921, per imposizione delle potenze occidentali e della Piccola Intesa. L’ex imperatore (oggi proclamato
beato dalla Chiesa cattolica) inutilmente aveva tentato per due volte di tornare in terra ungherese, dove
riscuoteva ancora simpatie e complicità anche ad altissimo livello, e di insediarsi sul trono detenuto dalla
sua famiglia da secoli.

La questione fondamentale continuava ad essere quella del nuovo assetto territoriale. Al riguardo si fecero
anche ipotesi fantasiose come l’unione con la Romania limitata alla persona del monarca, il re Ferdinando.
In realtà, nonostante trattative riservate e un certo attivismo propagandistico, non vi era modo di opporsi
alla volontà della Conferenza della pace dove, riguardo ai confini ungheresi, il criterio storico pesò ben
meno di quello etnico né questo fu applicato con equità, essendo condizionato dal criterio economico e da
quello logistico (vie di comunicazioni e continuità delle frontiere). Fu significativo che la delegazione
ufficiale di Budapest non fosse ammessa alla Conferenza. Nel giugno 1920 il governo presieduto da Sándor
Simonyi-Semadam dovette accettare il trattato di pace firmato nel palazzo del grande Trianon a Versailles
che, nonostante alcune mezze promesse dei governi occidentali, restò agli occhi degli Ungheresi la più
grande catastrofe e umiliazione della loro storia. Di fatto il vecchio Regno di Ungheria era ridotto a un terzo
per chilometri quadrati (da 220.00 a 83.000) e per popolazione. Di più, tre milioni e mezzo di ungheresi
divenivano cittadini di altri Stati; inoltre il bacino economico e commerciale esistente entro i confini
precedenti era frazionato con conseguenze di non scarso rilievo, anche perché presto prevalsero in tutta
Europa le politiche protezionistiche piuttosto che il libero scambio e la collaborazione commerciale.
L’Ungheria ottenne solo di recuperare, alla frontiera con l’Austria, la città e il circondario di Sopron in
seguito a plebiscito nel 1922, svoltosi sotto controllo italiano, e l’anno successivo fu ammessa nella Società
delle Nazioni.

Terminata la fase del «terrore bianco» e normalizzatasi la situazione del quadro politico, dal 1921-22
Horthy prese le distanze da questi movimenti, dei quali divenne uomo di riferimento Gyula Gömbös. Al
centro del sistema politico si collocavano i rappresentanti dell’élite tradizionale, cioè grandi possidenti e
ricchi capitalisti, i quali volevano ripristinare il sistema parlamentare prebellico, eventualmente con qualche
concessione in senso democratico. In sostanza intendevano favorire un regime di carattere conservatore,
attraverso il sostegno ai partiti agrari e cattolici. Il miglior rappresentante di questa tendenza conservatrice,
rispettosa delle forme democratiche, fu István Bethlen, dal 1921 al 1931 primo ministro, e dal 1922 al 1932
leader del partito governativo. Difensore di un liberalismo moderatamente censitario (virilismo) di stampo
ottocentesco, si oppose ai partiti della sinistra e della destra radicali, ma anche a tendenze democratiche
più moderate. Ciò non gli impedì di giungere a un accordo con il Partito socialdemocratico, che riammise
nel gioco politico. Fu dunque propugnatore della «democrazia guidata» o «democrazia conservatrice»,
ovvero del «progresso moderato». Di fatto il sistema politico ungherese vigente fino al 1944 si ispirò alle
sue concezioni.

Tra il 1920 e il 1926 la funzione legislativa fu assicurata dall’assemblea nazionale, poi dal 1927 fu istituita la
Camera Alta, erede della Camera dei magnati, vigente prima del 1918. Essa fu di tendenza più
conservatrice, essendo i suoi membri in parte nominati e in parte eletti in rappresentanza di varie istituzioni
ed enti. Nel 1937 i poteri della Camera Alta furono allargati per limitare quelli dell’altra Camera. Le elezioni
del 1920 si tennero sulla base di una legge elettorale piuttosto democratica varata dal governo Friedrich
sulla scorta di quanto precedentemente deciso dal governo Károlyi.

Il reggente ebbe poteri abbastanza significativi, ma non tali da imporre la sua volontà al legislativo e
all’esecutivo, sebbene fosse anche capo supremo dell’esercito. Nella pratica divenne uso costante che il
governo presentasse i più importanti progetti di legge a Horthy anticipatamente, prima della discussione in
parlamento, il che ricordava la pratica usata fino al 1918 con il sovrano austro-ungarico (pre-sanzione), ma
qualcosa di simile avveniva con il presidente Masaryk in Cecoslovacchia. Tuttavia per alcuni anni il reggente
godette di una dignità rappresentativa più che politica. Le sue competenze aumentarono gradualmente
negli anni Trenta, rinforzandone la posizione di fronte al parlamento e infine consentendogli persino di
scegliere il successore. Nel febbraio 1942 le due Camere del parlamento nominarono vicegovernatore il
figlio maggiore di Horthy, István. Si pensò all’instaurazione di una nuova dinastia, ma pochi mesi dopo il
giovane Horthy perse la vita in un incidente aereo, né fu nominato un altro vicegovernatore. I poteri
conferiti al reggente sembrano agli storici essere stati soprattutto un freno alla crescente influenza della
destra radicale in seno al parlamento.

Dopo il lungo mandato di Bethlen, si susseguirono alla presidenza del Consiglio molti politici. Se il
parlamento non fu mai in grado di costringere il governo alle dimissioni (con l’eccezione nel 1939 di Béla
Imrédy), l’esecutivo fu sufficientemente rispettoso delle regole costituzionali. Esso non lasciò grande spazio
a poteri esercitati dalle autonomie locali, fortemente influenzate da norme elettorali di tipo censitario, e
tuttavia dovette accettare sindaci non graditi nella stessa Budapest (dove il virilismo era stato abolito). Il
regime di legislazione e giurisdizione speciale che aveva accompagnato il «terrore bianco» fu
progressivamente soppresso già dalla prima metà degli anni Venti. Restò in vigore una censura molto
moderata che non impedì la pubblicazione di innumerevoli testate di varie tendenze, con limitate eccezioni
(il giornale liberalradicale «Világ» fu chiuso e altri subirono chiusure temporanee o pressioni). La censura
preventiva ricomparve solo con la seconda guerra mondiale e i giornali di opposizione furono pubblicati
fino al marzo del 1944, cioè fino all’occupazione tedesca. La stampa e il Partito comunista non furono
considerati legali; talora però le norme che colpivano i comunisti servirono anche contro formazioni di
estrema destra (la più nota era il Partito delle Croci frecciate, Nyilás keresztes Part, il cui capo Ferenc Szálasi
saggiò il carcere). Il regime ungherese, che da una parte si è voluto assimilare ai regimi fascisti, in verità fu
solo autoritario e conservatore, nel rispetto delle forme democratiche, se pure non assoluto. È stato d’altra
parte osservato che esso, sotto il profilo sociale, fu meno attento alle necessità delle classi meno agiate di
quanto non avvenne per regimi antidemocratici, quale fu il fascismo italiano.
Per cause interne, ma ancor più per influenza delle vicende politiche internazionali, il sistema politico
ungherese subì alcuni parziali mutamenti. Al passaggio tra un decennio e l’altro fu costituita una nuova
formazione politica, il Partito dei piccoli proprietari, erede delle tendenze democratiche presenti nel
vecchio Partito contadino, ma anche legato alle correnti del populismo ungherese, particolarmente vivace e
persino prevalente in campo letterario. Tale corrente intellettuale peraltro era estremamente sensibile alla
condizione della classe contadina. Va ricordato che l’Ungheria fu tra i paesi dell’Europa centro-orientale che
mantennero in vita il latifondo, dacché governo e parlamento approvarono una riforma agraria dalle
dimensioni e dagli effetti decisamente limitati. Altra importante novità fu costituita nel 1932 dall’arrivo al
potere di Gömbös, aperto ammiratore del fascismo italiano e del suo Duce, tanto da meritare il nomignolo
di Gombolini. È stato, però, osservato che quel presidente del Consiglio proveniente dall’ala destra del
partito di governo finì per conformarsi alla linea politica tradizionale di esso, piuttosto che riuscire a
mutarla in modo significativo. Nel 1936 Gömbös morì, ma la restante parte del decennio e i primi anni
Quaranta registrarono la crescita di vari movimenti di destra radicale contro cui la destra tradizionale e
conservatrice fu obbligata ad approntare opportune difese. Dietro i nazional-socialisti ungheresi e,
soprattutto, dietro le Croci frecciate vi era anche il sostegno della Germania nazista.

Nel 1938 si tornò al voto segreto generalizzato, come chiedevano le opposizioni di destra e di sinistra.
Effettivamente il nuovo metodo di votazione favorì la destra radicale: le opposizioni di sinistra persero
consensi e seggi. Nonostante questo successo, la destra populista non riuscì a sottrarre il potere all’élite
tradizionale, né poté influenzarne eccessivamente le scelte. Nel 1939 il presidente del Consiglio Imrédy,
intenzionato a ridurre i poteri del parlamento – come si è già detto –, fu costretto alle dimissioni. Persino in
piena guerra, con l’Ungheria ormai alleata della Germania, i governi magiari ebbero la forza di non
accettare la volontà di Berlino in ogni aspetto della loro politica: nonostante l’appesantimento della
legislazione antiebraica, ad esempio, il massacro degli ebrei avvenne soltanto dopo l’ingresso delle forze
armate tedesche sul territorio ungherese. L’Ungheria, come molti paesi dell’Europa centro-orientale, era
caratterizzata da una non trascurabile questione ebraica. Si fissarono dei tetti alla presenza degli ebrei
dapprima nelle scuole, quindi anche in vari settori delle attività professionali o produttive. In seguito
all’occupazione tedesca fu scritta la triste pagina della Shoah ungherese: circa mezzo milione di ebrei su
800.000 perse la vita nei campi di concentramento.

Un tratto essenziale della storia ungherese tra le due guerre mondiali è dato dall’opzione revisionistica per
ciò che riguardava le nuove frontiere dello Stato. L’opinione pubblica magiara avvertiva, lo si è visto, il
trattato del Trianon come ingiusto e gravemente punitivo: troppi territori del vecchio regno erano stati
ceduti, soprattutto troppi ungheresi vivevano fuori delle frontiere. L’Ungheria era definita mutilata (Csonka
Magyarország). Fu però l’avvio della dinamica politica revisionistica tedesca dopo l’ascesa al potere di
Hitler, di ben altra portata e pericolosità per il «sistema di Versailles», a portare con sé l’opportunità di seri
mutamenti anche alle frontiere dell’Ungheria. Il primo risultato concreto si ebbe in margine alla crisi
tedesco-cecoslovacca culminata nella Conferenza di Monaco. Se la Slovacchia dal novembre 1938 ottenne
una significativa autonomia da Praga ma non l’indipendenza, un lodo arbitrale italo-tedesco (primo
arbitrato di Vienna) stabilì che la Slovacchia meridionale (o Alta Ungheria, Felvidék) dovesse essere ceduta
allo Stato magiaro che l’aveva perduta con la prima guerra mondiale. A ciò si aggiunse una parte della
Rutenia subcarpatica a popolazione mista di ungheresi e ruteni. In totale, con il lodo, un territorio di 11.927
km² abitato in prevalenza da ungheresi, ma anche da un cospicuo numero di slovacchi e ruteni, mutò di
sovranità. Anche la restante Rutenia subcarpatica aveva ottenuto un regime di autonomia e quando, nella
primavera del 1939, Hitler completò l’opera di distruzione dello Stato cecoslovacco, annettendo in forma di
protettorato la Boemia-Moravia, sembrò per un attimo che i ruteni (ucraini) avrebbero avuto il loro piccolo
Stato. Monsignor Augustin I. Vološin, leader ruteno, non fece in tempo a proclamare l’indipendenza che,
per sollecitazione di Berlino, l’esercito ungherese passò la frontiera e occupò la regione. In questo caso il
territorio annesso (12.000 km²) era abitato soltanto da una minoranza di ungheresi contro una stragrande
maggioranza di ruteni: peraltro era difficile pensare a un’altra soluzione nel contesto internazionale
dell’epoca. L’opinione pubblica magiara era per lo più entusiasta per la realizzazione di un sogno coltivato
per circa venti anni, ma era da tenere in conto anche l’eccessiva dipendenza che si stava profilando dalla
politica germanica. L’Ungheria non fu coinvolta nella guerra che ebbe inizio nel settembre 1939, ma presto
subì pressioni da Roma e Berlino perché si schierasse con l’Asse. Sebbene i militari polacchi fossero
accettati in Ungheria, dopo il crollo della Polonia, l’allineamento progressivamente si realizzò e il premio fu,
questa volta, ancora più significativo: grazie anche alle dinamiche revisionistiche che vedevano
protagonista ora pure l’Unione Sovietica, il 30 agosto 1940, dopo vane trattative ungaro-romene, una
buona parte della Transilvania (43.000 km²) fu assegnata allo Stato ungherese da un nuovo lodo arbitrale
italo-tedesco, il secondo arbitrato di Vienna. Non si trattava di quanto desiderato e richiesto da Budapest,
ma era pur sempre un grande, quasi inatteso successo. Nonostante l’annessione dei territori transilvani
fosse accompagnata da un parziale scambio di popolazioni su base volontaria, le tensioni tra Ungheria e
Romania restarono vive anche in piena guerra.

L’allineamento all’Asse si faceva però sempre più marcato e pericoloso, come evidenziò l’adesione al Patto
tripartito. Soprattutto dopo l’aggressione italiana alla Grecia, Berlino e Roma tentavano in particolare di
convincere anche il governo jugoslavo a seguirli contro Inghilterra e Francia, e per questo indussero
Belgrado e Budapest a un riavvicinamento. Fu infatti firmato un trattato di amicizia ungaro-jugoslavo nel
dicembre 1940, e seguì l’adesione della Jugoslavia al Patto tripartito. Nell’aprile 1941, però, l’ascesa al
potere di uomini contrari a tale atto indusse Germania e Italia ad aggredire la Jugoslavia e il governo
ungherese fu invitato a intervenire militarmente per annettere le regioni (Bácska e Baranya) in cui viveva
una cospicua comunità magiara. Il presidente del Consiglio Pál Teleki, costretto a tradire il trattato ancora
fresco di firma (era stato ratificato il 7 febbraio), subito dopo preferì suicidarsi; le truppe ungheresi si
mossero con il consenso di Horthy e, poi, del nuovo premier Bárdossy. Londra aveva diffidato Budapest dal
partecipare alla spartizione della Jugoslavia e da quel momento anche l’Ungheria fu travolta nel vortice del
conflitto mondiale. Il vero coinvolgimento militare però si ebbe nel giugno 1941, quando le forze ungheresi
parteciparono alla guerra contro l’Unione Sovietica. L’intervento fu giustificato da un bombardamento di
aerei sovietici su territori magiari di recente annessione (l’importante città di Kassa o Košice), ma l’episodio
presenta qualche margine di incertezza. Invero i governanti ungheresi non avevano certo simpatie per
l’Unione Sovietica, ma si rendevano conto della debolezza militare dell’Ungheria. Tuttavia considerarono
inopportuno rinunciare a seguire la Germania sul fronte orientale poiché la Romania vi aveva
immediatamente inviato le sue truppe: Bucarest e Budapest dovevano dimostrare al patrono germanico di
essere, ognuna, il più fedele alleato.

La guerra sul fronte sovietico fu per le limitate forze armate ungheresi molto pesante e dal 1942 divenne
evidente che non era possibile sconfiggere l’Unione Sovietica, ora alleata dell’Inghilterra e degli Stati Uniti,
entrati in guerra sullo scorcio del 1941. Soprattutto dopo che all’inizio del 1943 gran parte dell’esercito
magiaro fu annientata nei pressi di Voronež, i maggiori responsabili della politica ungherese,
particolarmente con il nuovo governo retto da Miklós Kállay, fecero di tutto per sganciarsi dall’abbraccio
mortale con la Germania, provando a indurre Mussolini e l’Italia a una scelta neutralista (offrendo persino
la corona d’Ungheria al re d’Italia). Come detto, si cercò anche di sottrarsi agli impegni presi con Berlino in
fatto di lotta agli ebrei. Infine si aprirono trattative segrete con le potenze alleate. Nel marzo 1944 Hitler,
non fidandosi più dell’alleato magiaro, mise in atto il piano Margarete: l’intera Ungheria fu occupata
militarmente e a Budapest fu insediato il governo guidato da Döme Sztójay, gradito a Berlino, ma in agosto
sostituito dal più moderato generale Géza Lakatos. Il reggente e il nuovo esecutivo trattarono la resa e il
rovesciamento delle alleanze, però quando Horthy il 15 ottobre annunciò la conclusione dell’armistizio fu
arrestato, costretto (a costo della vita del figlio minore) a rinnegare le sue affermazioni e a nominare Ferenc
Szálasi alla guida del governo, per essere quindi condotto in Germania.

In autunno però l’Armata Rossa mise piede sul territorio ungherese e a fine dicembre 1944 a Debrecen si
costituì un’assemblea nazionale provvisoria, nonché un controgoverno guidato dal generale Béla Dálnoki
Miklós. Intanto, nei pochi mesi in cui furono al potere, le Croci frecciate completarono la deportazione,
quando non il massacro, degli ebrei. Molti di questi, concentratisi nella capitale, riuscirono tuttavia a
salvare la vita anche per l’intervento di vari personaggi: il rappresentante diplomatico svedese Raoul
Wallenberg (proveniente dalla più ricca famiglia della Svezia e successivamente deportato e ucciso dai
sovietici), il nunzio apostolico Angelo Rotta e l’italiano Giorgio Perlasca, fintosi coraggiosamente reggente
del Consolato spagnolo40. L’assedio di Budapest, difesa da tedeschi e Croci frecciate contro l’assalto
sovietico, durò diverse settimane (dal Natale 1944 al febbraio 1945) e la città pagò un prezzo altissimo,
come dimostra la distruzione di tutti i suoi bellissimi ponti sul Danubio. All’inizio del 1945, l’intera Ungheria
era sotto il controllo dell’Armata Rossa che aveva lanciato l’ultimo attacco alla stessa Germania:
quell’occupazione sarebbe stata foriera di novità politiche di grande significato e di lunga durata.
6. La Grande Romania

Con la fine della guerra mondiale lo Stato romeno raddoppiò territorio e popolazione. In esso le minoranze
contavano per il 30%, costituendo un problema per l’equilibrio interno ma anche per le aspirazioni
revisionistiche degli Stati vicini, grandi e piccoli. In politica interna si avviò un intervento riformistico di
grande coraggio sia nel campo economico-sociale sia in quello politico-elettorale. La riforma agraria
produsse un’ampia assegnazione di lotti confiscati ai grandi proprietari, alla corona, ai possidenti stranieri
(con qualche polemica con le potenze) e la forte crescita della classe dei piccoli proprietari. La produzione
cerealicola su un territorio statale duplicato dai trattati di pace divenne una delle più significative su scala
mondiale (quarto o quinto produttore). Non furono però risolti i problemi tecnici e della produttività per
singolo ettaro e le piccole aziende contadine si dimostrarono impossibilitate a dare luogo a cospicui profitti
e all’accumulazione di capitale, necessaria per un salto di qualità dell’economia agraria e per eventuali
investimenti in altri settori produttivi. Le campagne romene cambiarono profondamente dal punto di vista
dei rapporti di proprietà, molto meno sul piano delle tecniche e della capacità produttiva. Si registrò anche
un notevole inurbamento, che nelle regioni di nuova acquisizione significò mutare le percentuali etniche
dei centri cittadini: in concreto molte città transilvane, dominate da ungheresi e tedeschi, furono
progressivamente abitate da cittadini di etnia romena. Il fenomeno non riguardò solo le relazioni tra gruppi
etnici ma anche la ‘promozione’ sociale dell’elemento romeno, che insidiò nelle professioni e in altre
attività lavorative il primato di altri elementi etnici. Il processo fu, ovviamente, di lunga durata e proseguì
persino dopo la seconda guerra mondiale, negli anni del comunismo, dando luogo a un radicale mutamento
dei rapporti numerici tra le etnie.

Sul piano politico si assistette a una rivoluzione copernicana. La Romania godeva già di un sistema
democratico, ma di fatto fortemente elitario (e condizionato dalla corte), e l’introduzione del suffragio
universale, elevando il numero degli elettori da 100.000 a quasi quattro milioni, mutò completamente il
quadro dei partiti. Il Partito conservatore si frantumò in diverse formazioni, nessuna delle quali poté porsi
come alternativa all’altro partito storico, quello nazional-liberale, che subì uno spostamento in senso
moderato, nonostante le riforme attuate e la nuova Costituzione introdotta nel 1923. Vennero al proscenio
nuovi partiti, in particolare il Partito contadino (Ion Mihalache) e il Partito nazionale romeno, da decenni
rappresentante degli interessi dei romeni di Transilvania. Quando queste due formazioni politiche si
unificarono (1926), nacque il Partito nazional-contadino, capace di raccogliere i più ampi consensi tra le
masse. Liberali e nazional-contadini si alternarono alla guida del paese fino alla sospensione della
democrazia voluta dal re Carol II nel 1938. A sinistra sia i socialdemocratici sia i comunisti (dal 1921) non
riuscirono a calamitare l’interesse di una parte cospicua dell’elettorato: in particolare, i secondi furono
messi fuori legge e scontarono l’allineamento alle posizioni del Komintern che definiva la Grande Romania
come un’artificiosa creazione di Versailles, che andava smembrata. Invece, con l’andare degli anni crebbe
una cospicua destra radicale e antisemita che comprese varie formazioni, tra le quali la più nota e forte fu la
Legione dell’arcangelo Michele (o Guardia di ferro), fondata nel 1927.

In politica estera Bucarest fece costantemente riferimento a Parigi: la Francia era garanzia contro il
revisionismo sovietico che si manifestò con ripetuti incidenti in territorio bessarabo, tra i quali va ricordato
il più grave avvenuto nella località di Tatar Bunar nel 1924. Anche il freno posto al latente revisionismo
tedesco (almeno fino al 1933) non dispiaceva ai governi romeni, mentre essi sin dal 1919 si preoccuparono
di tenere sotto controllo un revisionismo ‘regionale’ come quello ungherese attraverso la creazione della
cosiddetta Piccola Intesa, alleanza con la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. Le azioni dei komitadj bulgari in
Dobrugia meridionale furono rintuzzate invece con operazioni di polizia e alcune note diplomatiche dirette
a Sofia, anche se più tardi nel 1934 l’Intesa balcanica (siglata da Grecia, Jugoslavia, Romania e Turchia)
sembrò essere uno strumento di controllo nei riguardi di un altro piccolo Stato con aspirazioni
revisionistiche quale era la Bulgaria.

Ripreso il controllo dell’esecutivo, l’anno dopo i liberali vararono una nuova Costituzione che in realtà non
si allontanava molto da quella precedentemente vigente, che risaliva al 1866. Tra le novità vi furono
tuttavia la cittadinanza generalizzata, il suffragio universale maschile, il bilanciamento tra diritto di
proprietà e interesse pubblico, il ruolo dello Stato in economia. Per il resto il governo liberale attuò una
decisa politica protezionista a vantaggio dell’industria nazionale, il che consentì di registrare nel corso degli
anni Venti tassi medi di crescita superiori al 5%. La presenza di capitale straniero restò molto alta
nell’economia romena (nel 1929 rappresentava il 36%) e soprattutto nella grande industria. Fu un governo
di legislatura, salvo che sullo scorcio del quadriennio Brătianu presentò le dimissioni e re Ferdinando affidò
nuovamente ad Averescu l’incarico di formare il governo e indire le elezioni. Dopo la parentesi del governo
Averescu, i liberali non riuscirono a prendere nuovamente il controllo dell’esecutivo, anche perché nel 1927
morirono sia il loro leader Brătianu sia re Ferdinando. Una norma del 1924 aveva tolto al principe Carol il
diritto di successione al trono (sia per divergenze politiche sia per una vita sentimentale eccessivamente
disordinata) e quindi si insediò una reggenza, essendo suo figlio Michele ancora un bambino.
Parallelamente, con il conforto di un grande successo elettorale, il Partito nazional-contadino assunse la
guida del paese, deciso a mutare soprattutto la politica economica. Iuliu Maniu e i suoi colleghi di partito
non ebbero il tempo per farlo in modo efficace, a causa del sopraggiungere della crisi economica mondiale
del 1929 e del ritorno di Carol dall’esilio parigino. Sotto la spinta di parte dell’opinione pubblica fu proprio il
leader nazional-contadino a consentire quel ritorno, a condizione che il re rinunciasse alla separazione dalla
moglie legittima e al legame con l’amante Magda Lupescu. Carol II si guardò bene dal rispettare tale
condizione e dunque ebbe un rapporto difficile anche con il partito che lo aveva riammesso al trono. Di
fatto avviò un progetto politico che limitava alquanto l’autonomia delle forze politiche nei suoi confronti.
Dopo aver provato a realizzare tale progetto attraverso il governo di Nicolae Iorga e alcuni gabinetti guidati
da nazional-contadini (Maniu rifiutava ormai di recarsi in udienza dal monarca), Carol II si rivolse ai liberali,
nominando presidente del Consiglio il loro nuovo leader Ion Duca. Questi pagò con la vita l’aver escluso
dalle nuove consultazioni elettorali la lista della Legione dell’arcangelo Michele per i metodi violenti da essa
usati. Tuttavia si aprì egualmente una legislatura (1934-37) tutta caratterizzata da esecutivi retti dal liberale
Tătărescu il quale – evitando di scontrarsi con il re – guidò il paese in una nuova fase di espansione
economica e relativa modernizzazione, mentre divenivano importanti i rapporti con l’economia della rinata
potenza germanica.

La Guardia di ferro nel corso degli anni Trenta divenne sempre più popolare presso contadini, intellettuali e
studenti. Essa toccò il massimo dei consensi nelle elezioni del 1937 (le più libere della storia romena)
collocandosi al terzo posto dietro liberali e nazional-contadini. Il re Carol II affidò dapprima l’incarico di
formare il governo a un esponente nazionalista e antisemita di un’altra formazione di estrema destra, ma
all’inizio del 1938 attuò un colpo di Stato incruento, dal carattere conservatore, per timore soprattutto che
si costituisse un’alleanza delle forze di destra radicale. Fu abolita la Costituzione, presto sostituita con
un’altra di stampo non democratico, mentre elezioni e parlamento ebbero funzione puramente esornativa:
la Grande Romania, intesa non solo territorialmente ma anche come modello politico, trovò allora la sua
fine.

Peraltro il monarca da tempo svolgeva una sua politica personale, a copertura degli scandali che erano sorti
intorno alla sua persona, ma soprattutto con l’intento di realizzare un governo autoritario non privo di
ambizioni modernizzatrici, considerate inconciliabili con metodi pienamente democratici. Nello stesso 1938
seguì l’arresto e, dopo la Conferenza di Monaco, l’uccisione di Corneliu Zelea Codreanu, leader dei legionari
o guardisti. L’aver scelto questa linea politica autoritaria non impedì che si cercasse di mantenere
l’orientamento filoccidentale in politica estera, nonostante l’allontanamento di Nicolae Titulescu dal
dicastero degli Esteri (avvenuto già nell’agosto 1936), disponibile anche a siglare un accordo con la tanto
temuta Unione Sovietica, e sebbene i rapporti commerciali con la Germania nazista fossero sempre più
massicci e condizionanti. La dittatura del re durò solo due anni: nel 1940 il governo di Bucarest era ormai
legato a filo doppio con l’Asse e soprattutto con Berlino. Il Patto Molotov-Ribbentrop lasciò la Romania
senza protettori di fronte al revisionismo sovietico: esisteva una ‘garanzia’ anglo-francese ma non
riguardava le frontiere orientali. Un ultimatum di Stalin del giugno 1940 obbligò il governo romeno a cedere
nel giro di poche ore la Bessarabia e la Bucovina settentrionale che – con alcuni aggiustamenti territoriali –
andarono a costituire la repubblica sovietica della Moldavia, nell’ambito dell’Unione Sovietica. Pochi mesi
più tardi Bucarest e Sofia si accordarono a Craiova per la cessione della Dobrugia meridionale alla Bulgaria.

A fine agosto venne il colpo più duro: il secondo arbitrato di Vienna a opera di Ciano e Ribbentrop, ministri
degli Esteri di Italia e Germania, preluse alla cessione di buona parte della Transilvania all’Ungheria. La
decisione non soddisfece a pieno le aspirazioni degli ungheresi, colpì profondamente l’opinione pubblica e
il sentimento nazionale romeno, ma soprattutto costrinse Carol II ad abdicare a favore del giovane figlio
Michele, che lasciò di fatto il potere a un uomo forte, il generale Ion Antonescu, nominato successivamente
maresciallo e noto con il titolo di Conducător, calco di Duce o Führer. Egli – sostanzialmente rappresentante
di una destra conservatrice – governò per pochi mesi insieme con gli uomini della Guardia di ferro, cioè con
la destra radicale. Eccessi dei guardisti (come l’uccisione dello storico e politico Nicolae Iorga e
dell’economista Virgil Madgearu e violenze antisemite) e tensioni politiche fecero sì che l’accordo durasse
solo quattro mesi. Dopo essersi garantito con un viaggio in Germania l’assenso di Hitler, Antonescu provocò
una – peraltro attesa – sollevazione della Guardia che represse con il ricorso all’esercito, consentendo
tuttavia che alcuni suoi esponenti di punta espatriassero (tra i quali il nuovo leader Horia Sima).

Hitler aveva consentito ad Antonescu di liberarsi della Guardia di ferro e governare senza oppositori o
pericolosi alleati poiché aveva bisogno che la Romania godesse di stabilità nell’imminenza dello scontro con
l’Unione Sovietica. Infatti nel giugno 1941 ebbe inizio l’operazione Barbarossa e il governo di Bucarest
decise di fare la sua parte. Anche esponenti dei partiti operanti fino al 1938 e buona parte dell’opinione
pubblica romena non erano contrari all’intervento a fianco della Germania per recuperare le province
orientali cedute all’Unione Sovietica appena un anno prima e tutti gioirono per l’andamento positivo della
prima fase della campagna. Minore fu il consenso per il proseguimento dell’avanzata oltre il Dniestr
(Nistru), che portò le truppe romene a occupare persino Odessa. Peraltro in questa fase temporale e in
questa area geografica le autorità romene si resero responsabili di gravissimi massacri e deportazioni di
ebrei, mentre i correligionari delle province storiche del Regno di Romania – nonostante la legislazione
antiebraica – riuscirono in buona misura a salvare la vita, evitando la deportazione verso i campi di
concentramento nazisti. Sul giudizio storico riguardo Antonescu pesa questa odiosa macchia, sebbene
alcuni gli abbiano attribuito il merito di avere salvato oltre metà degli ebrei romeni.

Il consenso verso il Conducător scemò ancora di più e rapidamente quando si comprese che la guerra sul
fronte orientale era ben lungi dall’essere vinta. Se l’intervento era stato giustificato dal desiderio di
riconquistare i territori ceduti e per riaprire, in modo indiretto, anche la questione della Transilvania, ora
esponenti dell’opposizione iniziarono a trattare con i governi occidentali e successivamente fu aperto anche
un canale di trattative con Mosca. Tuttavia Maniu, il Conducător mantenne la Romania in campo accanto
alla Germania sino all’estate del 1944, quando ormai l’Armata Rossa sovietica si affacciava alle frontiere
della Moldavia.

Fu allora che, concluse bene o male trattative segrete con i governi della coalizione antitedesca, i leader di
alcuni partiti (nazional-contadino, liberale, socialdemocratico, comunista) con l’appoggio di settori militari e
il pieno avallo del giovane re Michele attuarono un colpo di mano, che ricorda quanto era avvenuto nel
luglio 1943 in Italia per deporre Mussolini. Ion Antonescu fu arrestato e fu costituito un governo guidato dal
generale Sănătescu che si affrettò a dichiarare il rovesciamento delle alleanze. Le truppe romene furono
così impegnate per breve tempo contro quelle germaniche in ritirata. Successivamente dovettero fare atto
di resa verso quelle sovietiche, nel frattempo sopraggiunte. Buona parte dell’esercito romeno fu però
immediatamente resa operativa per affiancare l’Armata Rossa nelle operazioni in Transilvania, Ungheria,
Cecoslovacchia e Austria.

Al pesante costo della campagna sul fronte orientale si aggiunse, in termini di vite umane, il costo non
indifferente di questa ulteriore campagna. Ciò valse però alla Romania una maggiore considerazione da
parte delle potenze vincitrici, nonostante i termini abbastanza severi dell’armistizio firmato a Mosca nel
settembre 1944. In buona sostanza si posero le premesse per la riannessione dei distretti della Transilvania
perduti nel 1940. Su tale evento, positivo per lo Stato romeno, pesò anche il rapido insediamento nel marzo
1945 di un governo orientato a sinistra e filosovietico, capeggiato da Petru Groza, ma già egemonizzato dal
Partito comunista. La presenza dell’Armata Rossa, protratta sino al 1958, ben al di là della firma del trattato
di pace (1947), significò non solo una garanzia per la costituzione del regime comunista e per l’inserimento
nel blocco sovietico, ma anche la rinuncia a ogni speranza di recuperare i territori ceduti nel giugno 1940. In
modo parzialmente simile non fu messo in discussione neanche l’accordo bulgaro-romeno di Craiova del
1940 e la Dobrugia meridionale restò parte integrante della Bulgaria.

7. La ‘scommessa’ jugoslava

Come in altri paesi dell’area, alcune regioni della Jugoslavia (ufficialmente definita fino al 1929 Regno dei
serbi, croati e sloveni, in sigla SHS) presentavano una popolazione residente in buona misura in campagna:
le percentuali variavano naturalmente tra il Nord, che aveva conosciuto il dominio absburgico, e il Sud,
progressivamente emancipatosi dalla dominazione ottomana. Dunque, anche nel Regno SHS la questione
agraria era tra le preoccupazioni principali dei governanti che proclamarono una pur limitata riforma,
sperando di dare una risposta alle tensioni presenti tra le masse, che nelle elezioni per la Costituente
alimentarono un discreto successo del Partito comunista (58 seggi su 419). Questo era sorto dalla fusione di
ben sei partiti socialisti, la maggioranza dei cui iscritti subì il fascino del successo bolscevico in Russia e delle
parole d’ordine del Komintern. Il PCJ, isolatosi con la rinuncia a trattare la questione nazionale, già nel 1920
vide limitata la sua possibilità di fare propaganda e nel 1921, dopo che un suo giovane militante compì un
attentato mortale contro il ministro degli Interni Drašković, fu messo fuori legge.

La scena politica vide protagoniste altre forze organizzate: il tradizionale Partito radicale serbo, il Partito
democratico (che raccoglieva il consenso dei serbi delle nuove province), il Partito contadino croato,
nonché altri partiti sloveni e musulmani – di Bosnia e Kosovo. Il Partito contadino croato ebbe una storia dai
caratteri cangianti: dal radicalismo degli anni Venti, che lo portò brevemente ad affiliarsi al Krestintern
(Internazionale contadina, l’organizzazione creata nell’ottobre 1923 che intendeva riunire le forze
contadine simpatizzanti per l’Internazionale comunista), andò spostandosi verso posizioni più moderate.
Non solo militò anche nell’Internazionale verde, costituita da partiti contadini in concorrenza con il
Krestintern, ma dopo la morte violenta dei fratelli Radić il nuovo capo Vladko Maček accettò sia la
collaborazione politica con i partiti serbi, sia una forte affinità con la Chiesa cattolica, sia infine – fatto di
grande rilevanza – di firmare lo sporazum o Compromesso nel 1939, per assicurare alla Croazia una discreta
autonomia. Il voto contadino in Serbia favorì il Partito radicale, ma, poiché questo non poteva dirsi
portatore di una ideologia contadinista, presero piede altre formazioni, tra le quali l’Unione degli agricoltori
di Jovan Jovanović, da cui si separò alla fine degli anni Trenta un Partito contadino radicaleggiante guidato
da Dragoljub Jovanović.

In un paese fortemente provato dalla guerra (secondo una stima eccessiva del governo di Belgrado, poco
meno di due milioni di caduti su una popolazione di undici milioni), la questione sociale fu affiancata
nell’agenda del governo dalla difesa dei confini, contestati chilometro per chilometro da tutti gli Stati
confinanti (Italia, Grecia, Albania, Bulgaria, Ungheria, Austria), e dal titanico sforzo politico per tenere
assieme le diverse componenti etniche dello Stato. Gli accordi di Rapallo (1920) e di Roma (1922)
allentarono la tensione con l’Italia giunte al culmine con l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio e
dei suoi legionari, mentre restarono più minacciose le aspirazioni revisionistiche di altri paesi limitrofi. Con
nuovi accordi nel 1924 e nel 1925 Belgrado riconobbe l’annessione di Fiume all’Italia, acquisendo in tenue
compenso Porto Baros. In funzione principalmente antiungherese fu concepita la cosiddetta Piccola Intesa,
alleanza militare e politica con Cecoslovacchia e Romania.

Negli anni Venti le coalizioni tra partiti variarono di anno in anno: resta il fatto che lo Stato si diede nel
fatidico giorno di San Vito (28 giugno 1921) una Costituzione, votata a maggioranza semplice, cioè non
condivisa soprattutto dall’opinione pubblica e dai politici croati. Le tendenze secessionistiche,
autonomistiche e federaliste erano evidenti e pericolose – non mancavano formazioni paramilitari – di
fronte a uno Stato che a molti sembrava una Grande Serbia , poiché serba era la dinastia regnante e in
mano ai serbi erano l’amministrazione e soprattutto l’esercito. Non stupisce che nel 1928 si giungesse
addirittura all’omicidio politico perpetrato in pieno parlamento (skupština): tra le vittime vi fu Radić, capo
del Partito contadino croato. Di fronte a un quadro politico così difficile da governare, il re Alessandro
Karadjordjević sospese la Costituzione nel 1929, tentando di porre le basi per uno Stato realmente
jugoslavo, una patria comune per tutti i suoi sudditi. Jugoslavia divenne il nome ufficiale.

Nel 1931 il re Alessandro pose termine al periodo di sospensione della Costituzione. L’introduzione di
rinnovate norme costituzionali non migliorò di molto la situazione, nonostante le nuove divisioni
amministrative (banovine) rivelassero il chiaro intento di mettere da parte le antiche appartenenze
storiche. Nel 1934 il re cadde vittima, con il ministro degli Esteri francese Barthou, di un attentato a
Marsiglia, organizzato negli ambienti degli ustaše croati e messo in atto dal macedone Vlado Georgiev
Černozemski, che avevano goduto dell’appoggio dei governi di Roma e Budapest. Paradossalmente il
progetto riformatore non fu interrotto da un evento così tragico. Nel 1935 Milan Stojadinović portò al
successo elettorale la sua Comunità radicale jugoslava, e fu nominato presidente del Consiglio dal reggente
Paolo (Pavle). Vista la nuova situazione internazionale, volle mantenere i tradizionali buoni rapporti con la
Francia, ma instaurare anche una relazione amichevole con Berlino e, soprattutto, con Roma. Di fatto
divenne l’uomo forte della debole democrazia jugoslava, non disdegnando anche la costituzione di una
guardia militare di partito. Firmò il Concordato con il Vaticano (la religione cattolica era di gran lunga la
seconda per numero di fedeli nello Stato jugoslavo) ma non poté farlo ratificare per l’opposizione della
Chiesa ortodossa, la quale a sua volta era stata oggetto di una legge statale nel 1929 e nel 1931 si era data
uno Statuto. Dopo una nuova vittoria elettorale di dimensioni ridotte nel 1938, l’anno successivo fu
sostituito da Dragiša Cvetković: non godeva ormai della fiducia del reggente e anche per le sue simpatie
filoitaliane e filotedesche era sgradito al governo inglese, che ne volle l’esilio dorato nelle lontane isole
Mauritius. Il nuovo esecutivo mise a segno un notevole successo: dopo lunghe trattative, il reggente Paolo,
secondato dal nuovo presidente del Consiglio Cvetković, il 26 agosto 1939 seppe trovare la via dell’accordo
con il Partito contadino croato e il suo leader Vladko Maček. La Croazia divenne sulla base di tale accordo
(sporazum) una banovina estremamente estesa e dotata di vera autonomia, con il suo governatore, ban, e
un proprio parlamento, sabor. La linea conciliativa dei due principali interlocutori e di altri uomini politici
era stata fortemente condizionata dall’abbattimento in due tempi (ottobre 1938 e marzo 1939) di un altro
Stato multietnico, la Cecoslovacchia. Tuttavia non si era pervenuti ad accordarsi sulla formazione di una
Jugoslavia federale e maggiormente fondata su principi democratici (attraverso l’abolizione della
Costituzione del 1931). La bontà della formula adottata non poté essere verificata sul lungo periodo per lo
scoppio della nuova guerra che coinvolse drammaticamente la Jugoslavia nel 1941.

(Il governo jugoslavo, discostandosi da una tradizionale politica anglofila e francofila, era stato il primo a
togliere significato al proprio impegno nella Piccola Intesa. Da una parte aveva fatto seguire alla firma
dell’Intesa o Patto balcanico (1934) – volto a salvaguardare lo status quo nei Balcani – un deciso
riavvicinamento alla Bulgaria, paese revisionista proprio nei confronti della Jugoslavia. Con Stojadinović, si è
visto, si erano fatte migliori le relazioni con Germania e Italia. Realizzato l’accordo con i croati, il reggente
Paolo e Cvetković, sotto l’impressione degli eventi bellici (il crollo della Francia) e da tempo sottoposti alle
pressioni diplomatiche dell’Asse, si spinsero oltre, firmando prima un trattato d’amicizia con un altro Stato
revisionista quale l’Ungheria, quindi aderendo al Patto tripartito. La Jugoslavia era ormai nell’orbita italo-
tedesca, ma buona parte dell’opinione pubblica, soprattutto in Serbia, e degli ambienti militari non
condividevano il nuovo indirizzo di politica estera. Londra, dal canto suo, sostenne e rinfocolò quel
malcontento, preoccupata di perdere un importante ‘amico’ nella penisola balcanica, con grave pericolo
anche per la Grecia, da alcuni mesi sottoposta all’aggressione militare italiana. Infatti Mussolini aveva
‘offerto’ Salonicco ai suoi interlocutori jugoslavi per averne il sostegno anche in funzione della sfortunata
campagna di Grecia.)

Nel giro di pochi giorni un colpo di mano militare portò alla deposizione del reggente e del governo in
carica, sostituendoli con il giovanissimo principe Pietro (di cui si proclamò la maggiore età con qualche
mese di anticipo sul compimento dei 18 anni) e con il governo di ampia coalizione capeggiato dal generale
Dušan Simović. Pur in assenza di denuncia formale del Patto tripartito, era evidente il significato di quel
cambiamento politico anche in termini di politica estera. La reazione dell’Asse non si fece attendere. Dopo
un intenso bombardamento, paracadutisti tedeschi scesero su Belgrado mentre le frontiere settentrionali e
occidentali furono violate dagli eserciti germanico e italiano. La resistenza militare jugoslava si dimostrò
inferiore alle attese e in pochi giorni l’intero paese fu sotto controllo degli invasori.

Essi non si accontentarono di consegnare il potere a uomini fidati; preferirono spartirsi la Jugoslavia,
invitando altri paesi a partecipare alla spartizione. Parte della Slovenia e la Dalmazia passarono sotto
controllo italiano, la restante parte della Slovenia sotto quello tedesco; prese vita uno Stato croato
indipendente (di fatto satellite di Berlino e Roma) che includeva la Bosnia-Erzegovina, affidato agli ustaše e
al loro capo (poglavnik) Ante Pavelić; fu restituita l’indipendenza al Montenegro ma sotto protettorato
italiano, all’Albania (in unione personale con l’Italia) furono annessi Kosovo e Macedonia occidentale,
all’Ungheria Bácska e Baranya, alla Bulgaria la Macedonia serba. Infine fu lasciata in essere una Serbia
ridotta ai confini dell’Ottocento, con un governo Nedić poco meno che collaborazionista.

Gli occupanti sottovalutarono, però, la possibilità che si riorganizzasse la resistenza con azioni di guerriglia e
non vi fu un opportuno rastrellamento delle armi in dotazione all’esercito disfatto. A distanza di pochi mesi
più movimenti di resistenza erano in azione, i principali essendo quello dei cetniči, tipico della Serbia, fedele
al giovane re in esilio a Londra e capeggiato dal colonnello Dragoljub o Draža Mihajlović, e quello orientato
politicamente a sinistra e guidato dal leader comunista Josif Broz detto Tito. La fazione comunista,
naturalmente, cominciò a operare solo dopo che con l’avvio dell’operazione Barbarossa ebbe termine la
collaborazione tra Germania e Unione Sovietica. La resistenza jugoslava fu, assieme a quella polacca, la più
importante nell’intero continente. Un aspetto negativo fu il conflitto continuo che oppose le sue diverse
correnti, in combinazione con la lotta contro gli occupanti e contro i regimi da loro imposti, tanto che si può
parlare di una sorta di guerra civile, spesso a carattere etnico. Non sempre il comando centrale era in grado
di controllare tutte le bande o formazioni che operavano sul territorio e si vennero a creare situazioni
paradossali, ma non prive di una logica intrinseca. L’atomizzazione delle forze in campo riguardò
maggiormente i cetniči. Essi furono in azione in Bosnia-Erzegovina e nella stessa Croazia (krajina di Knin) sin
dal 1941 per opporsi all’iniziativa snazionalizzatrice subito messa in atto dagli ustaše, contro i quali
trovarono alleati nelle forze di occupazione italiane poco desiderose di avere virulenti focolai di lotta alle
frontiere del neocostituito Governatorato di Dalmazia. Peraltro tale alleanza de facto teneva anche
presente l’ostilità comune verso l’altra grande corrente resistenziale, quella a egemonia comunista.

Sebbene sembri eccessivo affermare – come in Jugoslavia si è fatto – che il paese si liberò senza il concorso
di eserciti stranieri, è vero che quella resistenza contribuì notevolmente a tenere impegnati gli eserciti
occupanti sino alla loro ritirata (per gli italiani avviata già dall’autunno 1943) conclusasi nel 1945, nonché
all’abbattimento dei regimi da essi favoriti o istituiti. In particolare fu abbattuto il regime ustaša in in
Croazia, fino alla fine convinto satellite della Germania nazista e responsabile di pesantissimi eccidi di serbi,
ebrei e zingari, perpetrati soprattutto nel campo di Jasenovac. Praticamente senza soluzione di continuità
avvenne la presa di potere del governo che faceva capo a Tito, nell’ultima fase della guerra preferito dagli
Alleati come referente politico e destinatario di rifornimenti militari e in grado militarmente di spingersi
sino a occupare l’Istria e Trieste, dove (pure come rivalsa per quanto fatto dal regime fascista verso gli slavi
prima e dopo il 1941) furono commesse violenze particolarmente crudeli verso gli italiani, a migliaia
scomparsi nelle foibe, così ponendo le premesse per il loro successivo esodo generalizzato dalla Jugoslavia
comunista.

8. Lo scisma titoista, la guerra civile in Grecia e la questione macedone

Non fu sufficiente la presa di potere di partiti che si ispiravano a una ideologia internazionalista, quale era il
marxismo-leninismo, perché i contrasti di carattere nazionale tra i diversi Stati trovassero automaticamente
la loro soluzione. Quei contrasti, anche se spesso furono messi a tacere («effetto frigorifero»), evitando di
dar loro pubblicità, si manifestarono tuttavia in diverse aree del blocco sovietico, in forme tra loro
differenti.

Molto interessante fu l’intreccio tra questione nazionale e questione ideologica in Macedonia. Durante la
seconda guerra mondiale l’occupazione bulgara era stata ben accolta dalla popolazione, soprattutto nei
territori sottratti alla Jugoslavia: qui la presenza slava era priva di concorrenza, mentre nella Macedonia
egea la componente slava, pur significativa, non costituiva maggioranza, se non in alcune località. Il Partito
comunista jugoslavo che stava conducendo una lotta di ben maggiore respiro sull’intero territorio
jugoslavo. Gli inviati di Tito, Lazar Koliševski e Mara Načeva, con l’appoggio di Stalin e del Komintern
esautorarono il segretario del PC macedone, Metodije Šatorov-Charlot, legato ai comunisti bulgari Trajčo
Kostov e Anton Ivanov, accusandolo persino di tradimento (dubbia la posizione di Georgi Dimitrov al
riguardo). Infine nel febbraio 1943 Svetozar Vukmanović-Tempo prese il controllo della situazione a nome
del PC jugoslavo, anche se Koliševski, sebbene ristretto in un carcere bulgaro, restò segretario del PC
macedone dal marzo 1943 al luglio 1963 (e dal 1945 anche primo ministro della Repubblica di Macedonia).

Dopo questo deciso intervento voluto da Tito, la resistenza si fece più concreta e nel novembre 1943 la
Macedonia interna fu inclusa virtualmente nella futura federazione che il governo clandestino di Tito
(AVNOJ, Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia) progettò in piena guerra per poi
realizzarla quando essa fu conclusa. I dirigenti comunisti furono ben attenti a non ripetere le scelte fatte dai
governanti della Jugoslavia monarchica: fu riconosciuta, infatti, l’esistenza di una nazione macedone
(diversa tanto da quella bulgara quanto da quella serba) e di una sua lingua. Da ciò la decisione di
costituirne uno Stato nazionale, sia pure in forma di repubblica componente della Federazione jugoslava.

(crisi Macedonia egea. Guerra civile greca 1944-1949, rottura Tito-Stalin)

9. La Bulgaria da una guerra all’altra

Nella società bulgara il predominio numerico della classe contadina era accentuato, ma era pressoché
assente la grande proprietà fondiaria, scomparsa con la fine della dominazione ottomana nel 1878. Si
registrò pertanto un’apparente contraddizione: la Bulgaria fu l’unico paese europeo che ebbe per pochi
anni un regime dichiaratamente contadino, cioè ispirato agli interessi e alla ideologia dei ceti rurali, ma
paradossalmente vi fu attuata una riforma agraria di scarso significato quantitativo: nonostante la massima
estensione di terreno arabile consentita dalla legge fosse di appena 30 ettari (a patto che il proprietario non
fosse ‘assente’), la terra confiscata – a chi confiscarla se non vi erano latifondisti? – fu così poca che bastò a
stento a soddisfare le esigenze dei bulgari profughi dalla Macedonia e dalla Tracia, cioè dai territori entrati
a far parte di altri Stati. Un altro aspetto che stupisce è il fatto che, con un’industria ancora ai primi passi,
era notevole il consenso che l’estrema sinistra (prima socialista, poi comunista) riusciva a raccogliere. Esso
era tuttavia nettamente inferiore a quello convogliato verso l’Unione agraria bulgara (UNAB), che poté così
governare per quattro anni consecutivi con notevole libertà d’azione. Il suo leader carismatico Aleksandăr
Stambolijski dovette allearsi con i liberalprogressisti e nazionalisti (i partiti tradizionali avevano subito tutti
nel 1919 un vistoso calo elettorale) per avere la maggioranza parlamentare, a fronte di una sorta di
‘splendido isolamento’ del Partito comunista (PCB), uscito dalle urne come secondo partito per consensi e
non disponibile ad allearsi con l’UNAB (mentre il Partito socialdemocratico, PSD, avanzò richieste troppo
alte). Sotto il profilo numerico, ma anche politico, il maggior successo degli agrari fu registrato in occasione
del referendum popolare che decise dell’applicabilità di una norma volta a processare i politici responsabili
delle disavventure belliche della Bulgaria, includendovi tutti i gabinetti di guerra (non solo il governo
Radoslavov). La proposta dell’UNAB raccolse consensi ben al di là del proprio elettorato e incontrò le
simpatie di quanti nutrivano rancore verso gli uomini che avevano non solo condotto il paese alla sconfitta,
ma di conseguenza avevano anche ridotto la popolazione in dure condizioni di vita: in Bulgaria si registrò la
più pesante inflazione post-bellica dell’intero continente europeo, mentre i salari non tennero affatto dietro
all’aumento dei prezzi.

Del tutto naturalmente il movimento contadino bulgaro era di tendenze repubblicane. Lo Stato per esso
non era, in fondo, che la somma delle diverse comunità rurali, in una visione che aveva qualche somiglianza
con lo ‘Stato’ anarchico di Bakunin. Tuttavia l’UNAB assunse il potere con il consenso di Boris III di Coburgo
e per via elettorale, e non mise in discussione l’istituto monarchico né il sistema parlamentare
(monocamerale). Gli ideologi contadinisti intendevano fare a vantaggio della classe contadina ciò che Lenin
cercava di realizzare in Russia a favore del proletariato, cioè uno Stato di classe, la dittatura di classe. Di
fatto tanta radicalità era destinata a sfumare in una politica sostanzialmente interclassista. Anche per
questo il rapporto con il bolscevismo fu ambiguo: da una parte sembrò che Stambolijski fosse disponibile a
un accordo con i sovietici, e peraltro aveva cercato l’alleanza con i comunisti bulgari, dall’altra non aveva
esitato a usare le maniere forti con questi ultimi e sul piano internazionale volle la costituzione nel 1921
della cosiddetta Internazionale verde o International agrarian bureau. Si trattava di un’organizzazione cui si
affiliarono i partiti contadini di diversi paesi, soprattutto dell’Europa centrale e balcanica, con sede a Praga,
in chiara concorrenza in seguito con il Krestintern. Nonostante la radicalità restasse più sul piano ideologico
che non sul piano concreto, di essa vi furono alcune manifestazioni. Una categoria presa decisamente di
mira fu quella degli avvocati. L’istituzione di giudici di pace locali per risolvere le controversie tra contadini
già significò togliere competenze ai tribunali cittadini e lavoro agli avvocati, ma a questi ultimi fu impedito
pure di ricevere incarichi pubblici o di essere eletti in parlamento e nelle amministrazioni locali. Più in
generale la pur poco numerosa borghesia non si trovò molto in linea con il regime (sciopero dei professori
universitari nel 1922) né comprendeva norme come quella sull’ampiezza massima delle abitazioni.

Un’altra scelta ideologica riguardò la creazione dell’esercito del lavoro con una legge entrata in vigore il 14
giugno 1920, ma con una prima leva solo nel novembre 1921. Esso in teoria doveva essere composto da
numerosissimi giovani (tutti i maschi sopra i venti anni e le donne di oltre sedici) addetti ai lavori pubblici e
sostituiva da un punto di vista sociale il servizio di leva, fortemente ridotto per una clausola del trattato di
pace. Il regime contadino voleva dimostrare di indurre i giovani a servire la nazione con un impegno
pacifico e costruttivo; fu però un fallimento totale e poche migliaia di giovani prestarono effettivamente
quel servizio, né esso diede effetti economici significativi. Dall’estero si pensò che Sofia volesse aggirare
l’obbligo a limitare a 20.000 volontari gli uomini in armi. In realtà Stambolijski licenziò quadri militari anche
oltre il necessario, creando malcontento nel ceto degli ufficiali che diedero vita alla Lega militare (Voenna
liga) che finì per divenire un importante fattore politico. Il governo nel 1922 dovette inoltre disarmare i
30.000 soldati dell’esercito «bianco» capeggiato dal generale Pëtr Vrangel’, che aveva combattuto nel
meridione russo-ucraino e si era poi rifugiato in Bulgaria.

L’ideologia contadinista trovava una manifestazione rilevante anche sul versante delle relazioni
internazionali: essa era improntata essenzialmente al pacifismo, credendo che i conflitti fossero legati agli
interessi delle dinastie o delle classi dirigenti piuttosto che a motivi etnici o nazionali: l’oggettiva posizione
debole della Bulgaria, come Stato sconfitto, giustificava anche nell’immediato tale opzione, sebbene
persino i politici agrari avvertirono e condivisero in parte lo stato d’animo di molti bulgari che credevano di
essere stati ingiustamente puniti dalle decisioni ratificate nel trattato di Neuilly. Oltre a dover garantire
pesanti riparazioni di guerra (poi mai pagate nella loro interezza) e a rinunciare ad avere forze armate
degne di questo nome, la Bulgaria dovette cedere alcuni territori sulla frontiera con la Jugoslavia, senza
potere recuperare la Macedonia, occupata in modo effimero durante la Grande Guerra, accettare che la
Dobrugia meridionale restasse parte integrante della Romania e infine cedere la Tracia occidentale alla
Grecia, perdendo lo sbocco sul mar Egeo. Tornato a Sofia da Parigi, dopo aver firmato il trattato di pace,
Stambolijski disse che tornava «con il cadavere della Bulgaria».

Su questo piano tuttavia il governo di Sofia si dimostrò molto disponibile a rinunciare a ogni revisionismo.
Così riuscì a trovare un accordo con il principale avversario della Bulgaria, la Jugoslavia (Regno SHS),
padrona di quasi tutta la Macedonia slava cui Stambolijski rinunciò ufficialmente firmando il trattato di Niš
nel 1923. : L’opposizione nazionale e soprattutto l’Organizzazione rivoluzionaria interna macedone (VMRO),
capeggiata da Ivan Mihajlov, saldamente impiantata nella Bulgaria e in particolare nella regione di Pernik da
dove organizzava incursioni sul territorio jugoslavo e greco, giudicarono quell’atto un tradimento della
nazione bulgara. La VMRO costituì un serio motivo di instabilità interna: i dissensi al suo interno erano
marcati, i diversi esponenti non esitavano a fare ricorso alle maniere forti e all’omicidio politico, consumato
anche nelle vie di Sofia. Soprattutto dopo l’accordo di Niš il governo agrario prese serie misure contro
quella organizzazione che era giunta a uccidere il ministro della Guerra Alexandăr Dimitrov nel dicembre
1922. (colpo di stato; morte Stambolijski)

Nonostante questo passaggio cruento, la Bulgaria non rinunciò alle istituzioni democratiche. Il governo
insediatosi con il colpo di Stato, capeggiato da Aleksandăr Cankov, economista e accademico di simpatie
fasciste, non mutò la Costituzione e governò con l’appoggio di un’ampia maggioranza parlamentare, frutto
delle elezioni poco attendibili del novembre 1923. Al momento del colpo di Stato i comunisti erano rimasti
estranei al regolamento di conti, come essi lo definirono, tra borghesia cittadina e borghesia agraria: ciò
aveva avvantaggiato i cospiratori o forse evitato un bagno di sangue. Il Komintern criticò tale scelta e
dunque il PCB decise di collaborare con le residue organizzazioni agrarie per dare vita nel settembre
successivo a una insurrezione che però non ebbe successo e fu duramente repressa. Molti militanti
comunisti e agrari ne rimasero vittime, oppure furono incarcerati o si rifugiarono all’estero. I due partiti
furono messi al bando solo nel 1924 sulla base di una legge riguardante la sicurezza dello Stato, ma pochi
anni dopo furono riammessi alla competizione elettorale, anche se il PCB con il nome di Partito del lavoro.
Non fu infatti legalizzato poiché nel 1925 dei militanti comunisti avevano organizzato un gravissimo
attentato terroristico nella cattedrale di Sveta Nedelja (Santa Domenica) che fece 120 vittime, sebbene tra
di esse non vi fosse il re, obiettivo principale di quell’atto. Moltissimi furono, per reazione, i militanti di
sinistra arrestati e più d’uno fu mandato a morte (alcuni semplicemente scomparvero).

Con gli anni particolare successo ebbe il circolo politico e culturale Zvenò (Anello). I suoi membri non
partecipavano dell’avversione contro la Jugoslavia diffusa tra i Bulgari, ma in politica interna non speravano
che la modernizzazione del Paese potesse seguire la via della democrazia liberale: il modello cui
sembravano ispirarsi era di stampo corporativo e per questo certa storiografia (Ilčo Dimitrov) ha parlato di
affinità con il fascismo italiano. Eppure quando lo Zvenò attuò nel 1934 un nuovo colpo di Stato che non
detronizzò il re Boris III, ma gli impose la nomina del colonnello Kimon Georgiev a capo del governo e
l’immediata sospensione della Costituzione del 1879, esso non compì alcun atto di simpatia verso Roma,
bensì effettuò una precisa apertura diplomatica verso Belgrado.

Il nuovo regime ebbe vita breve. Già nel 1935 Boris III (sposato con Giovanna di Savoia, figlia di Vittorio
Emanuele III), puntando sull’ala monarchica della Lega militare, esautorò Georgiev e il colonnello Velčev, il
‘tecnico’ dei colpi di Stato. Non ripristinò però la Costituzione, bensì diede vita a un regime personale,
fondato su un partito nazionale e quasi unico a lui devoto e su un parlamento opportunamente eletto per
non negare mai l’assenso all’esecutivo. Il regime autoritario bulgaro non si discostò molto dal modello che
si andava diffondendo in tutta l’Europa centro-orientale. Le forme parlamentari erano tuttavia conservate e
nel 1937 fu persino approvata la legge che diede il voto alle donne sposate, le quali di fatto poterono
godere di tale diritto nelle elezioni del 1938. A lungo il re Boris III non diede ascolto alle proposte di
impegnative alleanze che gli giunsero da più parti, per tenere la Bulgaria fuori dalla guerra iniziata nel
settembre 1939. Tuttavia la situazione internazionale non consentiva di restare in un perfetto stato di
neutralità. Le indicazioni che vennero da Berlino e Roma, con l’assenso anche di Mosca (alla luce del Patto
Molotov-Ribbentrop), indussero finalmente i governi romeno e bulgaro a trattare per la retrocessione alla
Bulgaria dei due distretti della Dobrugia meridionale. Essa fu attuata con il trattato di Craiova del 7
settembre 1940 e fu accompagnata da uno scambio di popolazione per evitare di lasciare cospicue
minoranze nella regione e, rispettivamente, nella Dobrugia settentrionale. Questo successo del
revisionismo pacifico bulgaro innescò un’ulteriore dinamica, sia nel senso di operare per altri successi nella
revisione delle frontiere occidentali, sia per optare per una delle grandi coalizioni che si stavano
confrontando sul teatro di guerra. Anche quando fu siglata l’adesione al Patto tripartito (febbraio 1941) e si
consentì il transito di truppe tedesche dirette in Grecia, il governo bulgaro capeggiato da Bogdan Filov63,
peraltro decisamente filotedesco64, restò fuori dal conflitto mondiale, soltanto procedendo nel 1941
all’occupazione dei territori macedoni sia della Grecia sia della Jugoslavia. Ciò fu sufficiente perché con
Inghilterra e Stati Uniti d’America si desse luogo allo stato di guerra, proclamato dopo l’inizio del conflitto
tra Giappone e USA.

Morto per cause naturali re Boris III nell’agosto 1943, la reggenza proseguì in una politica prudente. La fine
del 1943 e i primi mesi del 1944 portarono su Sofia e altre città i bombardamenti anglo-americani e la
Bulgaria non fu più l’isola felice che era stata nei primi anni del conflitto, senza sofferenze per la
popolazione e con una florida situazione economica. La reggenza ebbe sempre più difficoltà a barcamenarsi
tra le pressioni di Germania e Unione Sovietica in primo luogo e qualche tempo dopo cercò di sganciarsi
dall’alleanza con la Germania, nominando a tale scopo nel giugno 1944 il governo guidato da Ivan
Bagrjanov. All’inizio del settembre 1944, con l’Armata Rossa ormai alla frontiera, questi cedette il passo a
un esecutivo capeggiato dall’esponente del Partito contadino Konstantin Muraviev, che si spinse sino a
dichiarare guerra alla Germania. Ciò non bastò a impedire che Mosca dichiarasse guerra alla Bulgaria e le
forze militari sovietiche procedessero all’occupazione del territorio bulgaro.

Intanto il Fronte patriottico (Otečestven Front, OF), l’organo politico della resistenza, che includeva agrari,
socialisti, comunisti, zvenari e altri, proclamò l’insurrezione (9 settembre 1944) e assunse il potere,
arrestando reggenti e ministri. In realtà, determinante per il successo del nuovo colpo di Stato fu la
complicità del ministro della Guerra Ivan Marinov e dei militari a lui fedeli. Paradossalmente per qualche
tempo il paese che meno aveva avuto a che fare con il conflitto si trovò in guerra con tutte le grandi
potenze belligeranti. Si insediò un governo di ampia coalizione, capeggiato come nel 1934 da Kimon
Georgiev. Si stava profilando un cambiamento politico di lunga durata con la costituzione del regime
comunista e la ‘satellizzazione’ nei confronti dell’Unione Sovietica. Intanto i militari bulgari seguirono
l’Armata Rossa nelle campagne in Ungheria e in Austria: 23.000 di loro non tornarono a casa.

10. L’Albania, uno Stato virtuale

Nonostante la scarsa omogeneità del paese e la debolezza delle istituzioni statali, grazie all’interessamento
delle potenze e in primo luogo dell’Italia, cui non fu riconosciuto il protettorato più volte ipotizzato,
l’Albania aveva potuto salvaguardare la propria indipendenza, ma nei limiti fissati nel 1913. Non aveva
quindi ottenuto tutti i territori ai quali aspiravano gli albanesi: alcuni di essi – la Çameria – restarono inclusi
nello Stato ellenico (ma i greci a loro volta rivendicavano territori dello Stato schipetaro) e soprattutto in
quello jugoslavo (Kosovo, Macedonia occidentale). All’indomani della Grande Guerra la questione dei
confini non era tuttavia prioritaria. Si doveva in primo luogo garantire l’esistenza di uno Stato degno di tale
nome, dotato di un’amministrazione, di istituzioni riconosciute da tutti i cittadini, capace di fornire servizi
essenziali, che erano assolutamente assenti nel paese (scuola, sanità). Di fatto continuò la contesa tra capi e
gruppi di potere contrapposti, uniti soltanto nel rifiutare un protettorato straniero Di fatto continuò la
contesa tra capi e gruppi di potere contrapposti, uniti soltanto nel rifiutare un protettorato straniero.

L’influenza politica di Roma continuò a farsi sentire nella terra delle aquile, dove dalla lotta politica in atto
emerse la figura di un giovane bey della regione settentrionale del fiume Mati, Ahmed Zogolli (Zogu), il
quale riuscì nel 1922 a farsi eleggere presidente della Repubblica. Zogu lanciò il contrattacco che gli
consentì di riassumere il potere e proclamare (1925) ufficialmente la Repubblica. Come un Napoleone III in
sedicesimo, nel 1928 egli si proclamò re con il nome di Zog, avviando una politica di basculla tra Roma e
Belgrado, nonché di prudente modernizzazione. Zog ebbe successo più nel suo barcamenarsi tra Jugoslavia
e Italia (nel 1926 e nel 1927 furono siglati con questa accordi di amicizia e protezione) che non nel tentativo
di riformare radicalmente la società albanese. Essa continuava a essere retta sulla base del diritto
consuetudinario (kanun) e l’abbigliamento occidentale delle sorelle del re appariva scandaloso. L’Albania
era abitata da un 70% di musulmani (inclusi i bektaşi, seguaci di una setta eterodossa) contro un 20% di
cristiani ortodossi e un 10% di cattolici. Ciò influiva non sui rapporti tra i fedeli dei diversi culti, ma piuttosto
sull’immobilismo della società. D’altronde lentissimo era anche lo sviluppo economico: pastorizia e
agricoltura erano le risorse essenziali di un paese in cui mancavano le attività industriali, ma rare erano
persino quelle manifatturiere. Il progetto di modernizzazione dall’alto perseguito da re Zog procedeva
molto lentamente e il paese non conobbe una reale democrazia. La modernizzazione trovava diversi
ostacoli e resistenze sia da parte di chi difendeva interessi, ma anche usi locali, sia di fattori esterni alla
stessa Albania. L’impegno a realizzare un sistema pubblico d’istruzione si scontrò con la tradizionale attività
delle scuole cattoliche (gesuiti e francescani), che ormai contavano sul sostegno del governo italiano74.
Buona parte dell’intelligencija proveniva da quelle scuole. Tuttavia nella sostanza il re non trovò serie
alternative al sostegno economico italiano, che comportava una certa dipendenza politica. Essa fu
dimostrata, ad esempio, nel 1935 quando l’Albania fu tra i pochissimi paesi che non applicarono le sanzioni
inflitte dalla Società delle nazioni all’Italia per l’aggressione attuata contro l’Etiopia. Il vero centro del potere
risiedeva nella corte, sebbene personalità e correnti manifestassero a volte insofferenza oppure opinioni
diverse.

l paese delle aquile conosceva anche una diffusa corruzione e secondo la libellistica fascista successiva al
1939 il sostegno finanziario italiano all’Albania era utile al paese ma «giovava immensamente anche al suo
re». Sullo scorcio degli anni Trenta, a Roma Ciano in primo luogo, ma anche Mussolini si convinsero che il
protettorato de facto non era più sufficiente. Il 7 aprile 1939 le forze militari italiane occuparono l’Albania
(senza particolari difficoltà): gli studiosi del regime fascista italiano considerano tale atto una risposta
all’annessione al Reich tedesco di Boemia e Moravia, come dimostrazione di forza e capacità di iniziative
autonome da parte di Mussolini nei confronti di Hitler. Nella sostanza nessuna potenza protestò seriamente
per l’atto compiuto dal regime fascista. Si trattò di un’unione personale (non ammissibile secondo la
Costituzione albanese) e non di annessione poiché il re Vittorio Emanuele III ricevette la corona albanese,
ma il paese fu governato da un viceré italiano (Francesco Jacomoni di San Savino84) e da un governo di
esponenti politici o notibili locali. Shefqet Vërlaci, nemico di Zog (che aveva rotto il fidanzamento con sua
figlia) ed esponente del ceto dei latifondisti, fu il primo capo dell’esecutivo, ma più tardi cedette il posto a
Mustafa Kruja. Accanto alla tradizionale Camera fu istituita una seconda Camera delle corporazioni, di cui
presidente fu Tocci. La presenza italiana favorì una più intensa attività nel campo urbanistico (Tirana) e dei
lavori pubblici, ma pure di alcuni servizi sociali, come quello scolastico. Più di prima, insomma, la vita
dell’Albania fu legata all’Italia, ma presto fu possibile dare una grande soddisfazione al sentimento
nazionale. Dapprima si pretese che la guerra alla Grecia (1940) nascesse anche dalla volontà di sostenere le
aspirazioni a reintegrare nello Stato albanese la regione della Çameria (paradossalmente invece le truppe
elleniche riuscirono a entrare in territorio albanese), ma nella primavera 1941, con il crollo della Jugoslavia,
fu possibile concretamente allargare i confini albanesi non solo a lembi del territorio ellenico, ma
soprattutto al Kosovo e alla Macedonia occidentale in cui era forte la presenza dell’elemento etnico
albanese: nasceva la Grande Albania sognata da molti albanesi. Fu però una realizzazione effimera,
destinata a crollare dopo la fine della guerra.

Nel settembre 1941 vi fu un evento all’epoca inavvertito, ma destinato a dar luogo a importanti
conseguenze di lì a pochi anni: dalla fusione di alcuni gruppi preesistenti fu fondato il Partito comunista
albanese a Tirana, in clandestinità. Parteciparono all’evento 15 delegati, un paio dei quali (Anastas Lula e
Sadik Premte) espressero seri dubbi sulla possibilità di far vivere un partito comunista in un paese privo di
classe operaia e con una classe contadina orientata in senso conservatore. Fu eletto un Comitato centrale di
appena sette membri, di cui Enver Hoxha assunse la direzione: era il primo minuscolo nucleo di un gruppo
dirigente che avrebbe retto l’Albania fino alla fine degli anni Ottanta.

11. La Grecia dalla «catastrofe d’Asia» alla guerra civile

Turbinose furono le vicende della Grecia che acquisì nuovi vasti territori in Tracia e nelle isole egee, ma fallì
il tentativo ambizioso di insediarsi anche in Asia Minore, sulla scorta della Megali Idea. Dopo che le truppe
elleniche penetrarono fino nel cuore della penisola anatolica, la controffensiva organizzata da Mustafa
Kemal, detto in seguito Atatürk ovvero il padre dei Turchi, le respinse verso il mare (1922). Questo
localizzato e drammatico strascico del più vasto conflitto europeo e mondiale trovò la sua composizione
nella pace di Losanna del 1923. Essa sancì la frustrazione delle aspirazioni greche e si parlò da parte ellenica
di «catastrofe d’Asia»: la Tracia orientale e tutti i territori asiatici rimasero parte integrante della Repubblica
turca, erede (non in termini territoriali né ideali) dell’impero ottomano. Importante fu la decisione
consensuale di avviare uno scambio di popolazioni: 400.000 musulmani lasciarono la Grecia e oltre un
milione di greci d’Asia (cui se ne aggiunsero altri provenienti dalla Bulgaria e dalla Russia) vi si stabilirono
Politicamente le province neoacquisite si dimostrarono favorevoli al Partito liberale e a formazioni ancora
più progressiste, come il Partito comunista (KKE), capeggiato da un esule d’Asia, Nikos Zachariadis. In
termini di consenso il KKE scontò a lungo l’adesione alla linea del Komintern che voleva staccare la
Macedonia dalla Grecia. La monarchia e le formazioni più conservatrici trovavano invece maggiore
sostegno nei territori del vecchio regno.

La sconfitta militare influenzò profondamente la politica interna: non solo si susseguirono governi di segno
diverso e continui colpi di Stato militari non sempre fortunati, ma persino si giunse a due riprese a
costringere il re all’abdicazione o all’esilio e a proclamare la repubblica, e altrettante volte si ripristinò il
potere del monarca. Re Costantino, che era andato in esilio nel 1917, tornò sul trono nel 1920, sulla scorta
di un referendum inattendibile; nel 1923 il suo successore Giorgio II dovette lasciare il Paese e nel 1924 la
repubblica prevalse con il 70% dei suffragi in un referendum voluto dagli ambienti militari che di fatto
sostenevano il governo liberale in carica (Papanastasiou). Anche a causa di un’effimera dittatura del
generale Pangalos (1925-26) la nuova Costituzione entrò in vigore solo nel 1927. Il nuovo sistema
parlamentare bicamerale fu accompagnato dal voto proporzionale, soppresso da Venizelos88 quando tornò
alla guida dell’esecutivo per quattro anni (1928-32): la misura garantì quanto meno un periodo di stabilità
politica.

Dal punto di vista sociale la Grecia poté godere i frutti di un’estesa assegnazione di lotti agricoli che ne
fecero un Paese di piccoli e medi agricoltori, ma privo di un movimento politico rappresentativo della classe
contadina. Nonostante ciò, l’economia continuò a dipendere in larga misura dalle attività mercantili, svolte
soprattutto via mare, mentre fu di minore rilievo lo sviluppo industriale. Ai problemi tradizionali e quasi
strutturali si aggiunsero dal 1929 gli effetti della crisi finanziaria ed economica mondiale: come in altri paesi,
essa ebbe conseguenze anche sul piano politico.

(Il nuovo e ultimo periodo di governo di Venizelos si concluse nel 1932, anno in cui le elezioni politiche
diedero un risultato di sostanziale pareggio tra i liberali e i popolari (conservatori) di Panagìs Tsaldaris. Un
gabinetto di minoranza guidato da quest’ultimo durò molto poco e infine nuove consultazioni elettorali nel
1933 consegnarono ai suoi seguaci una maggioranza confortante alla Camera bassa, ma non al Senato. Ciò
indusse il generale Plastiras a tentare un nuovo colpo di Stato nel marzo 1933, fallito nel peggiore dei modi
ma tale da indebolire la posizione di Venizelos che fu fatto segno a un attentato (giugno 1933). L’ascesa dei
sostenitori della monarchia indusse ufficiali repubblicani a un ulteriore tentativo di colpo di Stato nel marzo
1935. Fallito anche questo tentativo, vi furono alcune condanne a morte e un’ampia epurazione nei quadri
militari. Infine lo stesso Venizelos e Plastiras furono costretti a riparare in Francia, dove il primo morì nel
1936.)

(Le correnti monarchiche ormai prevalevano: dopo un successo quasi plebiscitario dei popolari alle nuove
elezioni dovuto anche all’astensione dei liberali, Tsaldaris, nonostante avesse promesso di indire un nuovo
referendum istituzionale, fu costretto a cedere la guida dell’esecutivo al generale Kondylis (ex repubblicano
venizelista, ora convertito alla monarchia), il quale proclamò il ritorno dell’istituto monarchico e fece poi
svolgere un referendum – del tutto inattendibile – che confermò la sua decisione. Resta il dubbio, tuttavia,
che una maggioranza dei greci fosse realmente favorevole al ritorno del re Giorgio, che peraltro era
intenzionato a favorire una riconciliazione generale nel paese. Nominò pertanto un civile, il professor
Demertzìs, a capo del governo perché all’inizio del 1936 si tenessero elezioni regolari: così fu ma, complice
il ripristinato sistema proporzionale, ancora una volta si creò una situazione di sostanziale pareggio tra i due
maggiori partiti, tanto da porre nella posizione dell’ago della bilancia i 15 eletti del Fronte popolare
egemonizzato dal Partito comunista.)

Le trattative che Tsaldaris e Sofulis (erede di Venizelos) avviarono con questi ultimi non sortirono effetti
concreti e indussero invece la corte e alcuni settori militari a cercare una soluzione ‘forte’ in una particolare
contingenza che vide la morte in rapida successione dei più esperti politici ellenici, incluso il capo del
governo Demertzìs. Re Giorgio affidò la guida dell’esecutivo al generale Metaxàs, capo di un piccolo partito
di destra (7 deputati), il quale ottenne la sospensione delle attività parlamentari per alcuni mesi e
l’affidamento delle funzioni legislative a una commissione di 40 saggi. Era la premessa per la creazione di un
regime autoritario che avvenne attraverso la sospensione il 4 agosto 1936 di diversi articoli costituzionali, in
seguito al perdurante stallo politico, alle dimostrazioni di piazza sindacali e allo sciopero generale
proclamato dai comunisti. Sciolto formalmente il parlamento, esso non fu più riconvocato fino al termine
del nuovo conflitto mondiale.

Il regime di Metaxàs si ispirò in buona parte a quelli tedesco e italiano: grande era l’ammirazione personale
del dittatore per la civiltà germanica tanto da parlare di «terza civiltà ellenica» a imitazione del Terzo Reich.
Il regime non godeva tuttavia di un sostegno di massa e dovette difendersi con la repressione (capeggiata
dal ministro degli Interni Maniadakis) da alcuni tentativi di rovesciarlo, il più clamoroso dei quali fu
l’insurrezione di Creta domata nel sangue. Se alcuni istituti, come l’Organizzazione nazionale della gioventù,
richiamavano chiaramente quelli dei regimi fascisti, e un certo corporativismo paternalistico ricordava gli

aspetti più popolari dei regimi tedesco e italiano, la politica estera e commerciale di Metaxàs non fu troppo
sbilanciata verso Berlino e Roma. La presenza del capitale tedesco effettivamente si fece più forte in seno
all’economia greca, ma Atene non disdegnò il tradizionale apporto finanziario inglese e soprattutto cercò di
mantenere buoni, quasi privilegiati, rapporti diplomatici con l’antica potenza protettrice britannica, tanto
da optare nel 1939 per una neutralità benevola verso Londra.

Aggredita dall’Italia nell’ottobre 1940, nonostante l’omogeneità dei regimi90, la Grecia fu sconfitta nel 1941
grazie all’intervento tedesco proveniente dalla Bulgaria (operazione Marita), contro cui nulla poté neanche
la presenza di reparti britannici. Il dittatore, morto nel gennaio 1941 e sostituito da Alexandros Korizìs, non
vide la resa del 20 aprile firmata dal generale Georgios Tsolakoglu senza autorizzazione del governo (il cui
capo era Tsuderòs essendosi Korizìs suicidato due giorni prima). Il Paese fu quindi posto sotto occupazione
italo-germanico-bulgara, sebbene restasse in carica un governo fantoccio capeggiato da Tsolakoglu, ma la
resistenza non mancò di farsi sentire, nonostante fosse divisa in correnti tra loro ostili. Il re e il governo
Tsuderòs si trovavano in esilio al Cairo, sotto protezione britannica.

L’occupazione non lesinò sofferenze alla popolazione, soprattutto in alcune regioni. In quelle sotto controllo
tedesco o bulgaro drammatica fu la sorte degli ebrei. Salonicco era il principale centro di ebrei sefarditi di
tutti i Balcani e fu inevitabile che gli occupanti Tedeschi vi applicassero in modo spietato la loro politica
antiebraica. Dapprima sembrò persino che la presenza di alcune decine di migliaia di ebrei fosse tollerata,
poi progressivamente le misure contro di loro si fecero sempre più pesanti. I discendenti degli ebrei
spagnoli fuggiti nell’impero ottomano per non subire discriminazioni conobbero per la prima volta che cosa
fosse un ghetto. Il finale di quella tragedia era già scritto: quasi l’intera comunità ebrea di Salonicco, cioè
oltre 45.000 persone, finì ad Auschwitz senza più tornarne. Manès Sperber li definì «una lacrima
nell’oceano». Soltanto una piccola minoranza (441 individui) con passaporto spagnolo fu destinata a Bergen
Belsen, da dove poté riparare in Spagna e quindi in larga parte, via Palestina, tornare nella propria città, che
ospita ancora oggi un migliaio di cittadini di fede mosaica.

In patria si andò organizzando progressivamente la resistenza, articolata in organizzazioni di diversa


ispirazione politica, la più forte delle quali si dimostrò il Fronte di liberazione nazionale (Ethniko
Apeleftherotiko Metopo, EAM), guidato dal Partito comunista e capace di mettere in piedi un esercito
popolare greco di liberazione (Ellinikós Laïkós Apeleftherotikós Stratós, ELAS). Notevole rilievo ebbe anche
l’Unione nazionale greca democratica (EDES), più moderata e destinata ad un ruolo politico a guerra finita.
Dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra nel 1943 il movimento partigiano greco si fece più ardito e nell’ottobre
1944 le truppe britanniche poterono rientrare sul suolo ellenico e insediare un governo (Georgios
Papandreou) di unità nazionale, presto dissoltosi. Già allora sembrò stesse per scoppiare la guerra civile tra
le forze politiche moderate e quelle di sinistra, guidate dal Partito comunista. Il nuovo governo capeggiato
dal leader dell’ala liberale e repubblicana della resistenza (EDES), il generale Nikolaos Plastiras, concluse un
precario accordo (Varkiza, febbraio 1945) che permise di rinviare lo scontro fino alla conclusione della
guerra.

Nel 1946, dopo elezioni politiche boicottate dai comunisti e un referendum istituzionale (non pienamente
attendibile) in cui prevalse la monarchia con il conseguente ritorno di re Giorgio, la guerra civile da
strisciante divenne esplicita e i militanti comunisti raggiunsero nuovamente le montagne. Da allora sino al
1949 l’esercito democratico ellenico, una sorta di nuovo ELAS, con una forte componente proveniente dalla
minoranza slava e operante soprattutto nel Nord del paese ma anche nel Peloponneso, si oppose
tenacemente alle più numerose unità governative, sostenute dagli inglesi e, successivamente, dagli
statunitensi. La guerriglia comunista ricevette aiuti da oltre frontiera ed era capeggiata dal comandante
Markos Vaphiadis (finché non fu richiamato in Unione Sovietica) e dal segretario del Partito comunista
Nikolaos Zachariadis, il quale coprì quella carica con piglio stalinista dal 1931 al 1956: oltre a saggiare le
carceri in patria, durante la guerra era stato internato a Dachau. I ribelli furono sconfitti, anche per il venire
meno del sostegno jugoslavo a causa della rottura tra Stalin e Tito, e non furono pochi i Greci che
espatriarono (alcuni al seguito del comando dell’esercito democratico ellenico fino a Taškent in
Uzbekistan), essendo stati parte attiva della lotta armata; altri finirono internati. Le vittime si contarono in
decine di migliaia. Ancora nel 1952 fece scalpore la condanna a morte del leader comunista Nikos
Beloyannis e di alcuni suoi compagni.

Gli Stati Uniti d’America intanto avevano sostituito la loro influenza a quella tradizionale britannica nei
confronti dei governi ellenici: il presidente Truman aveva dichiarato esplicitamente che, per contenere
l’espansione dei regimi ispirati da Mosca, essi dovevano impegnarsi soprattutto in Turchia e in Grecia.
Pertanto, unica eccezione nel Sud-Est europeo, la Grecia restò fuori dalla sfera di influenza sovietica né
sperimentò il regime comunista. Dall’aprile 1947 Paolo I successe sul trono al fratello Giorgio, per restarvi
fino alla morte nel 1964.

II. Dietro la cortina di ferro

1. La questione tedesca e il «socialismo in metà paese»: la Repubblica Democratica Tedesca

Gli esiti della guerra e gli ulteriori sviluppi inducono ad allargare alla Germania la trattazione. Infatti, come è
noto, le potenze che avevano vinto la guerra presto si trovarono in posizione reciprocamente ostile: iniziò
così quella che è stata definita «Guerra Fredda». Una vera cartina di tornasole fu la questione tedesca: ben
presto su di essa si manifestò un profondo dissidio tra le posizioni delle potenze occidentali e dell’Unione
Sovietica. Se a Jalta nel febbraio 1945 l’accordo tra di esse sulle sorti della Germania fu apparentemente
pieno, quando si trattò di gestire le zone di occupazione delle potenze vincitrici le opinioni dei diversi
governi andarono rapidamente divergendo. Intanto alle zone sovietica, inglese e statunitense si aggiunse
una zona francese (ritagliata nel territorio già occupato dagli anglo-americani) ma si vide soprattutto che le
amministrazioni degli occupanti non erano espressione di un’unica linea politica. I governi occidentali
presto si convinsero che non si poteva lasciare il popolo tedesco nelle pesanti condizioni frutto del conflitto:
la Germania doveva essere aiutata a essere un paese partner degli altri Stati, soprattutto sul piano
economico. Il governo sovietico invece prese sul serio certe idee approvate a Jalta che ipotizzavano una
Germania divisa in più Stati, come nell’Ottocento (Churchill), o ridotta a paese ad economia agricola. Di
fatto molte industrie tedesche furono smantellate e trasferite in territorio sovietico. Nella memoria storica
dei tedeschi non fu questo il ricordo più pesante poiché i soldati dell’Armata Rossa non mancarono di
perpetrare violenze di vario genere, in primis contro le donne.

Il Cremlino auspicava l’esistenza di una Germania unificata, ma neutralizzata e posta sotto controllo dalle
potenze vincitrici. Essa, in tale stato, sarebbe divenuta una garanzia per la sicurezza e non più una minaccia
per l’Unione Sovietica; inoltre era possibile pensare che vi prevalesse una guida politica filosovietica e ciò
avrebbe permesso di ripetere in misura ben più importante la situazione in cui si trovò per decenni la
Finlandia, Stato non satellite di Mosca né retto da un governo comunista, e tuttavia fortemente influenzato
dalla politica sovietica e propenso a mantenere con essa rapporti più che amichevoli. Nelle capitali
occidentali si scorgeva il pericolo di una simile unificazione, vantaggiosa per Mosca, e si preferì avviarne una
parziale su altre basi. Significativo fu il fatto che nei territori controllati dai sovietici già nel 1946 il Partito
comunista e quello socialdemocratico decidessero di unirsi, sotto la guida di Wilhelm Pieck e Otto
Grotewohl, nella SED (Sozialistische Einheitspartei), che era facile immaginare non si sarebbe mai opposta
ai voleri di Mosca. In tutti i paesi del blocco avvennero simili fusioni, ma soltanto due anni dopo, nel 1948. Il
nuovo partito fu sonoramente sconfitto dai socialdemocratici e dai democratici cristiani nelle elezioni e ciò
indusse le autorità sovietiche e i loro caudatari tedeschi a misure atte a neutralizzare le formazioni politiche
concorrenti, con arresti ingiustificati. Peraltro, ancora nel 1949 le successive consultazioni per eleggere il
Congresso del popolo si tennero con lista unica che includeva tutti i partiti ormai sottomessi alla SED, ma i sì
furono soltanto il 66%.
I timori degli occidentali indussero a creare la Bizona anglo-americana (una prima unificazione parziale) e a
introdurre misure economiche e finanziarie che favorissero la ripresa dell’economia tedesca e ponessero le
premesse di un’amministrazione nazionale, e dunque di uno Stato sovrano con un forte orientamento
verso l’Occidente. Stalin cercò di impedire il successo dell’iniziativa occidentale almeno per ciò che
riguardava Berlino: la capitale era divisa in più settori affidati alle diverse potenze, pur trovandosi nella zona
d’occupazione sovietica e spostata verso la frontiera orientale poiché Prussia orientale, Pomerania e Slesia
erano incluse ormai nei confini dell’Unione Sovietica (Kalinigrad/Königsberg) e della Polonia. Da parte
sovietica nel 1948-49 si volle imporre a Berlino Ovest la propria politica impedendo i collegamenti con i
territori sotto occupazione occidentale, ma l’attuazione a opera dell’aviazione statunitense di collegamenti
aerei frequentissimi (decine e decine di voli quotidiani, talora costati pure alcune vittime) permise di
rifornire e far sopravvivere quella enclave ‘occidentale’ all’interno della zona sovietica.

Seguirono la proclamazione della Repubblica Federale Tedesca (RFT) e, come risposta, della Repubblica
Democratica Tedesca (RDT) o Deutsche Demokratik Republik (DDR). Grotewohl fu nominato capo
dell’esecutivo (e vi rimase fino alla morte nel 1964): la sua disponibilità alla linea fusionista fu così
ampiamente ripagata. Questo secondo Stato, composto solo da cinque Länder, non corrispondeva ai
desideri dei dirigenti sovietici e fu riconosciuto formalmente appena nel 1954, quando la Germania federale
era già saldamente inserita nelle alleanze occidentali. Dal 1952 a Mosca si convinsero che era ormai
opportuno che i governi installatisi a Pankow (sobborgo di Berlino) e Bonn dovessero trattare, sempre in
vista di unificare e neutralizzare la Germania: anche questa strategia non portò a esiti soddisfacenti dal
punto di vista sovietico. Se nella politica della Germania federale era ben presente la convinzione che i
Tedeschi oltre l’Elba dovessero essere un giorno ‘recuperati’, in Germania Est fu difficile creare un’identità
statuale e nazionale. L’aggettivo ‘democratica’ attribuito alla Repubblica di Pankow, in luogo del termine
‘popolare’, indicava forse la speranza di creare uno Stato riunificato, ma con troppi elementi di capitalismo
per poterlo definire ‘popolare’.

Peraltro si lasciarono in vita alcuni partiti (cristiano-democratici, agrari, liberaldemocratici e nazional-


democratici, ognuno con 52 seggi), riuniti nel Fronte nazionale e di fatto caudatari della SED, la quale
occupava appena un quarto dei 500 seggi parlamentari (quasi una sorta di golden share) cui facevano
riferimento anche le varie organizzazioni non partitiche presenti alla Camera: Libera Associazione dei
sindacati, Associazione delle donne, Associazione della cultura e la Freie Deutsche Jugend, in genere tutti
tesserati anche della SED. Il Partito operaio finiva per avere una maggioranza surrettizia di suoi iscritti in
parlamento, ma soprattutto era in grado di far approvare anche dagli altri gruppi parlamentari ogni
decisione politica in piena unanimità (che mancò solo per la legislazione sulla legalizzazione dell’aborto,
approvata nel marzo 1972), tanto da rendere l’istituzione parlamentare svuotata di ogni significato. Nel
biennio 1989-90 quel falso pluralismo consentì il rovesciamento del regime per via parlamentare e solo
dopo attraverso libere elezioni: infatti i partiti e movimenti fiancheggiatori raccolsero allora la protesta
popolare e presero a muoversi in autonomia.

Nonostante le sottigliezze ideologiche, già nel 1952 la Costituzione della Germania Est del 1949 fu
emendata sul modello sovietico: fu eliminata la struttura federale dello Stato, abolendo la Länderkammer,
e i cinque Länder (sostituiti dai Bezirke, ovvero distretti provinciali) tornarono alla loro autonomia soltanto
con l’unificazione il 3 ottobre 1990. Fu ritoccato anche l’inno per eliminare il riferimento alla comune patria
tedesca. L’esperimento socialista suscitò l’interesse e il plauso di alcuni intellettuali (anche in Germania
Ovest, tanto che vi fu chi si trasferì in Germania Est), ma nella popolazione non si diffuse un vero
entusiasmo, e piuttosto rassegnazione e realismo. Si trattava di uno strano Stato fondato sull’ideologia più
che su una identità nazionale.

Fu difficile costruire un’identità specifica per i Tedeschi d’oltre Elba, così come le autorità usarono del
concetto di nazione in simbiosi con l’ideologia comunista in modo molto più prudente di quanto non fecero
altri governi del blocco sovietico. Se nei primi anni il nuovo regime ottenne qualche consenso
essenzialmente per scelta ideologica, con la stabilizzazione dello Stato tra i cittadini si andò creando un
sentimento di appartenenza che da essa prescindeva. I Tedeschi orientali poterono così essere orgogliosi
dei successi degli sportivi (ottenuti talora anche ricorrendo a pratiche scorrette) o degli artisti, nonché del
fatto che la DDR con il tempo avesse il reddito pro capite più alto di tutto il blocco orientale, tanto che
all’inizio degli anni Ottanta era poco distante da quello di paesi occidentali come l’Italia. Sebbene
l’estensione territoriale dello Stato non fosse grande, il numero degli abitanti era in proporzione tra i più
alti dei paesi satelliti di Mosca, così come più avanzata era l’economia e più evoluti i costumi (un esempio
era la pratica del nudismo). Vi furono remore ad abbandonare l’idea del pacifismo e della smilitarizzazione
che gli accordi di Potsdam imponevano al paese: solo nel 1962 fu adottato il servizio militare di leva, verso il
quale era consentita l’obiezione di coscienza per servire in unità ausiliari (Baueinheiten) addette alle
costruzioni militari fino al 1975. Nel 1956 fu costituita la Nationale Volkarmee (esercito nazionale del
popolo) che sembrò riprendere certo carattere militaresco, tipicamente prussiano. Ad essa si affiancò la
Deutsche Volkpolizei, tristemente nota come Vopo, che aveva il compito di mantenere l’ordine pubblico. La
Stasi (nome popolare per Ministerium für Staatssicherheit), invece, garantiva dal 1950 la sicurezza
attraverso un capillare controllo dei cittadini, in percentuale altissima e utilizzando un altrettanto alto
numero di informatori, tratti dagli stessi ambienti sociali. Essa fu guidata dal 1957 sino al 1989 da Erich
Mielke, uomo dal passato avventuroso, il quale rispondeva direttamente alla SED. Il regime non mancò di
esercitare uno stretto controllo sugli ambienti militari e assoluta fu l’integrazione delle forze armate con
quelle sovietiche: queste ultime continuarono a stanziare in territorio tedesco sino alla fine della guerra
fredda, ed è significativo che, dopo l’adesione al Patto di Varsavia, l’esercito della DDR non avesse uno stato
maggiore e facesse capo al comando congiunto.

La stagione delle purghe fu vissuta in Germania Est in modo attutito e con qualche ritardo. Si trattò di una
battaglia interna al gruppo dirigente, nel quale andava emergendo Walter Ulbricht, eletto nel 1950 alla
nuova carica di segretario e di fatto successore alla guida della SED dell’anziano Pieck (che aveva militato
addirittura con Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht), il quale continuò a occupare la carica di presidente della
Repubblica fino alla morte nel 1960, quando la carica fu abolita. I dirigenti del partito estromessi dalle
posizioni di primo piano, espulsi, sottoposti a processo e arrestati non furono pochi (tra loro l’avversario più
temuto di Ulbricht fu Franz Dahlem) ma dopo pochi anni vennero rimessi in libertà; vi fu una sola condanna
a morte e non fu eseguita. In seguito non fu necessario procedere a riabilitazioni e autocritiche. In
precedenza, su tutt’altro piano, non erano mancati processi sommari contro migliaia di persone
considerate coinvolte nel regime nazista: la giustizia che le giudicò non usò metodi molti diversi da quelli
degli anni di Hitler; tuttavia dei circa 3.500 condannati (32 le condanne a morte), la metà fu presto
amnistiata.

Dopo la morte di Stalin si riaccesero le speranze popolari di poter imporre nuove scelte al governo e al
partito. La politica dei dirigenti di Pankow era stata incoraggiata dal dittatore georgiano, ma la direzione
collegiale che gli subentrò al Cremlino non lesinò le critiche ai compagni tedeschi. La dirigenza della DDR
aveva scelto una linea alquanto severa nella politica del lavoro e della produzione, elevando il limite delle
prestazioni degli operai. Ciò causò un forte malcontento proprio nella classe che più avrebbe dovuto essere
vicina alla SED, che sfociò nella manifestazione del 16-17 giugno 1953, iniziata a opera degli addetti al
rifacimento del grande viale (Unter den Linden) che conduce alla Porta di Brandeburgo, frontiera tra le due
parti di Berlino. Gli operai giunsero a occupare edifici pubblici e bruciare le bandiere rosse. La repressione
fu immediata e pesante, ad opera dei mezzi corazzati sovietici in primo luogo: un centinaio furono le vittime
e in altre località la protesta perdurò anche in luglio. Migliaia e migliaia furono gli arresti e 42 le condanne a
morte. Dopo quella drammatica rivolta vennero creati nel settembre 1953 i Gruppi di lotta della classe
operaia (Kampfgruppen der Arbeiterklasse) dipendenti dalla SED e addestrati dalla polizia. Era stata la
prima significativa manifestazione antiregime di tutto il blocco orientale, affine per ispirazione alle
manifestazioni avvenute nello stesso anno nelle città cecoslovacche. Il gruppo dirigente non si era
dimostrato compatto nella scelta della linea politica: il segretario Walter Ulbricht, prevalendo su elementi
più moderati, aveva messo in atto una politica che non poteva essere popolare e da Mosca giunse l’accusa
di non aver saputo operare nel modo più opportuno. Il leader tedesco però usò i gravi fatti avvenuti a
Berlino per colpire gli elementi liberaleggianti, tra i quali due ministri, e rinsaldare la propria posizione agli
occhi del Cremlino, proprio mentre veniva eliminato Berija con l’accusa (falsa) di aver voluto ‘svendere’ la
Germania Est alle potenze capitaliste.

Dal 1954 iniziò il riarmo della Germania federale e se ne avviò l’integrazione nella NATO, l’alleanza del Nord
Atlantico che faceva capo a Washington. Nel novembre di quell’anno una conferenza dei rappresentanti
degli Stati dell’Europa orientale, DDR inclusa, espresse grande preoccupazione per la mossa diplomatico-
militare dell’Occidente e per il riarmo della Germania federale. Per questo e altri motivi Mosca diede vita a
un’opposta alleanza militare sancita dal Patto di Varsavia del 1955, cui aderì l’anno dopo anche la Germania
Est (con URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania). L’adesione a un’alleanza
politico-militare fu dunque il suo primo riconoscimento internazionale. Smilitarizzazione, democrazia e
pacifismo erano i principi fissati a Potsdam dai vincitori e la loro mancata applicazione con la fondazione
della Repubblica federale giustificava la nascita della DDR. Ora i suoi dirigenti condannavano il pacifismo
generico e neutrale e consideravano legittimo difendere il socialismo in patria e nel mondo anche con le
armi.

La politica economica della DDR non si differenziò molto da quella dell’Unione Sovietica e degli altri paesi
del blocco, muovendo però da basi migliori e non disprezzabili. Si consolidò e sviluppò, dunque, il
potenziale industriale esistente, e si attuò una riforma agraria con effetti simili a quelli che si ebbero in
Polonia: si registrò di fatto la costituzione di un ceto di piccoli agricoltori autosufficienti, ma sullo scorcio
degli anni Cinquanta fu riavviata impetuosamente la collettivizzazione delle campagne: la piccola proprietà
contadina scese da una percentuale del 62% al 20%.

Come altri leader comunisti, Ulbricht – dal 1960 anche capo dello Stato – subì un nuovo indebolimento a
causa del XX congresso del PCUS. La destalinizzazione, tuttavia, fu limitata: come si è detto, alcune migliaia
di detenuti politici furono rimessi in libertà, ma non fu consentita nessuna riabilitazione pubblica. Sarebbe
stato pericoloso mettere in discussione, per questa via, il gruppo dirigente. La drammatica esperienza
ungherese in tal senso servì da freno per le aspirazioni riformiste. La questione tedesca non cessava di
essere di interesse generale, in primo luogo per Mosca e Washington, incapaci di trovare un accordo. Nel
1961 le autorità tedesche orientali, con l’avallo del Cremlino, presero una decisione che assunse presto un
valore simbolico della guerra fredda e della divisione in due dell’Europa. Fu costruito con la massima
rapidità un muro che separava Berlino Ovest da Berlino Est, di fatto quale prolungamento ideale della
frontiera già sorvegliata tra i due Stati tedeschi. Lo scopo principale era evitare le frequenti fughe verso
l’Ovest che rappresentavano per la DDR una vera emorragia di cittadini di ogni ceto, ma quell’odiato
manufatto assunse presto il significato del totalitarismo contrario a ogni manifestazione di dissenso e
liberazione. Vi furono egualmente ancora tentativi di fuga, che divennero però più rischiosi e quasi
impossibili: non poche furono le vittime dei militi della Vopo che sorvegliavano il Muro. Se la questione
tedesca trasse da quella decisione un motivo in più per non trovare composizione, la scelta operata dai
dirigenti comunisti finì invece per dare un assetto più stabile al regime. Una politica economica più
efficiente servì a interrompere la flessione del tasso di sviluppo della produzione industriale che negli ultimi
tempi si riscontrava nella DDR come in quasi tutti i paesi del blocco sovietico. La Germania Est intensificò le
relazioni commerciali con l’URSS, che forniva materie prime ed energia per le industrie tedesche, e con gli
altri Stati del Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica, costituito nel 1949 a Mosca come
risposta al piano Marshall): i dirigenti tedeschi sembravano convinti che la dottrina della divisione
internazionale del lavoro proposta ai paesi del blocco sovietico recasse vantaggi all’economia della DDR. Lo
sviluppo registrato negli anni seguenti pare essere conferma di tale opinione.

Non si può non rilevare che comunque l’erezione del Muro fu il riconoscimento che la vita nel ‘paradiso’ del
socialismo era meno appetibile di quella che offrivano i paesi e le economie occidentali, sottolineando che
dividere la popolazione e talora le famiglie di una grande metropoli europea come Berlino era un’offesa alla
civiltà. Non meraviglia che nel 1968 i dirigenti della DDR fossero pronti a condannare la Primavera di Praga
e a mettere a disposizione le proprie truppe con quelle degli altri paesi del Patto di Varsavia per reprimere il
nuovo corso cecoslovacco. L’impegno politico e militare contro il «socialismo dal volto umano» non
piacque, però, a molti cittadini, inclusi diversi simpatizzanti o iscritti alla SED. Al di là della crescente
delusione del mondo intellettuale verso quello Stato cui aveva spesso aderito con entusiasmo, nuovi fattori
esterni contribuivano a innescare un lento mutare dei costumi tedesco-orientali.

Gli anni Settanta si erano aperti con notevoli novità al vertice: nel 1971 l’anziano Ulbricht fu sostituito come
segretario generale della SED da Erich Honecker. Non è del tutto chiaro se anche motivazioni politiche
fossero alla base di quell’avvicendamento, motivazioni legate alla maggiore flessibilità che la politica
interna e soprattutto quella internazionale richiedevano. Ulbricht mantenne la carica meno importante di
capo dello Stato che, alla sua morte nel 1973, passò a Willi Stoph. Questi la tenne fino al 1976 quando la
cedette a Honecker, che significativamente la cumulava a quella di segretario del partito. L’altro ruolo
importante, quello di capo del governo, fu affidato all’inventore dell’espressione «muro antifascista», Horst
Sindermann (1973-76), per poi essere restituito a Stoph, a dimostrazione del peso politico che che questi
aveva nella dirigenza politica. Altrettanto notevoli le novità sulla irrisolta questione tedesca. Bonn aveva
avviato la Ostpolitik e aveva firmato importanti trattati con Mosca e Varsavia, e nel 1971 fu siglato un
accordo quadripartito tra le potenze vincitrici sullo status di Berlino. La strada era spianata perché i due
Stati tedeschi siglassero a loro volta un accordo nel novembre 1972, facendo cadere i veti contrapposti per
la loro ammissione all’ONU. Di fatto vi era un riconoscimento sottinteso dei rispettivi confini e ciò aprì la via
per un più generale riconoscimento della carta geopolitica europea. Pochi anni dopo, fu questo uno dei
risultati degli accordi di Helsinki del 1975, tesi a garantire la sicurezza europea, attraverso l’accettazione
dello status quo nel vecchio continente. È stato osservato che i dirigenti della DDR ottennero ciò che
volevano, cioè il riconoscimento dello Stato che governavano, in ciò forse andando oltre quanto
auspicavano al Cremlino; ma continuò a essere un riconoscimento solo di fatto, facilmente soggetto a
subire l’influenza di nuovi avvenimenti politici, come accadde poi nel 1989.

Gli avvicendamenti al vertice e i mutamenti politici fin qui descritti indussero nella DDR una relativa
liberalizzazione: fu persino varato, tra 1971 e 1972, un timido programma di privatizzazione che riguardava
le attività economiche minori. Dal 1973 ai cittadini fu consentito captare i programmi televisivi e radiofonici
della Germania occidentale, accettando con realismo un costume diffuso e incoercibile. Se ne giovarono
anche i programmi della televisione statale, che divennero meno ideologizzati per evitare che i teleutenti si
sintonizzassero tutti sulle emittenti occidentali. Si sentì infine la necessità di approntare un nuovo testo
costituzionale nel 1974: invano però vi si cercava un bilanciamento tra i doveri del singolo verso la società e
i diritti del cittadino. Si perse, insomma, l’occasione per indirizzare la DDR verso un socialismo democratico,
che tenesse conto dei diritti di ogni cittadino (di ciò si parlò l’anno dopo in uno degli accordi di Helsinki). Lo
Stato tedesco orientale appariva ora più solido rispetto a pochi anni prima quando era sembrato sul punto
di collassare, nonostante non avesse trovato soluzione la questione dell’eventuale unificazione, problema
che gli altri paesi comunisti non conoscevano.

2. I paesi baltici dopo la seconda guerra mondiale

La storia dei Paesi Baltici dopo il nuovo conflitto mondiale rientra nella più vasta vicenda dell’Unione
Sovietica. Mentre si spegnevano gli ultimi bagliori della guerra, infatti, Lettonia, Lituania ed Estonia
tornarono a fare parte della compagine sovietica e subirono un processo ben più marcato e duraturo
rispetto all’effimera esperienza del 1940-41. Invano alcune formazioni politiche cercarono di dare vita a
nuovi governi, con l’appoggio delle potenze occidentali: presto prevalse la linea pro-sovietica, pur in
presenza di minuscoli partiti comunisti, ed elezioni ben poco attendibili sanzionarono la nuova adesione alla
potente vicina. I tre Paesi furono da allora tre Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Per alcuni anni si registrò una vivace resistenza, ubicata soprattutto nelle foreste, mentre un quarto di
milione di persone fuggì verso ovest, tra quanti avevano avuto responsabilità negli anni di guerra o prima e
quanti non potevano tollerare il nuovo regime. In Lituania si segnalò anche la resistenza della Chiesa
cattolica, che pagò un alto prezzo. Molti sacerdoti, ma, più in generale, molti cittadini considerati ostili o
sospetti furono deportati nei campi siberiani e solo una parte di loro ne tornò negli anni di Chruščëv. Non si
trattò solo di un cambio di regime politico o di un serrato legame con il potente vicino; profonde
trasformazioni investirono il territorio e la società. La politica economica fu adeguata piuttosto
rapidamente a quella di Mosca, con la nazionalizzazione dell’industria e del commercio, la collettivizzazione
delle campagne, l’industrializzazione intensiva, in particolare per il settore dell’industria pesante. Mentre la
produttività del settore agricolo segnava il passo, effetti secondari della industrializzazione furono il
deterioramento ecologico del territorio e una evidente variazione demografica. Nelle fabbriche del Baltico
arrivarono in massa operai e tecnici provenienti da altre repubbliche sovietiche, soprattutto Bielorussia,
Ucraina e Russia. Ciò fece sì che venisse quasi messa in discussione l’esistenza della maggioranza etnica
lettone ed estone, nei rispettivi Stati, essendo meno ingente il fenomeno in Lituania: qui la minoranza slava
orientale andò a sostituire la minoranza polacca soggetta a emigrazione in conseguenza delle vicende
belliche e allo spostamento dei confini. La Lituania, infatti, acquisì Vilnius, mentre l’Estonia perse a
vantaggio dell’URSS la regione di Petseri (Pečory) e la regione della Trans-Narva.

Dunque si registrò una profonda trasformazione etnica e sociale. Essa incise, inevitabilmente, sul profilo
culturale dei tre Paesi baltici, soprattutto in presenza di una linea (quella dettata da Ždanov) dirigistica
anche per ciò che riguardava le attività artistiche e letterarie. Si riproposero temi e dinamiche già visti nelle
altre repubbliche sovietiche come, in maniera diversa, negli altri Stati a regime comunista. Quando, per
convinzione o per interesse, il numero dei militanti nel Partito comunista crebbe, vi fu chi cercò di
salvaguardare la specificità nazionale, pur nell’ambito della comune ideologia politica. Entro certi limiti tale
indirizzo fu tollerato ma non mancarono epurazioni politiche negli anni Cinquanta (per fortuna, morto
Stalin, senza uccisioni o deportazioni): fu il caso nel 1959 del dirigente comunista lettone Eduards Berklavs e
di molti suoi seguaci. Si venne a costituire in tal modo un equilibrio che fece delle tre repubbliche quasi un
fiore all’occhiello dell’Unione, ma il sentimento antirusso non si spense, manifestandosi viceversa quando
fu possibile. Ciò avvenne dopo la repressione della Primavera di Praga: quattro anni più tardi, nel 1972, uno
studente lituano, Romas Kalanta, si diede fuoco come il cecoslovacco Jan Palach. Al di là di un episodio
tanto eclatante, si ebbero manifestazioni di dissidenza e vi fu una resistenza sostanziale alla linea di Mosca
nelle società baltiche e persino dentro i partiti comunisti. Verso la fine dell’era Brežnev, nel 1980, quaranta
intellettuali estoni osarono rivolgere un appello a favore dei popoli baltici direttamente all’ONU: il gesto era
in linea con il rispetto dei diritti civili e politici per i cittadini degli Stati che avevano firmato gli accordi di
Helsinki del 1975, dunque anche per quelli delle repubbliche sovietiche.

3. La prigioniera insofferente: la Polonia dal dopoguerra all’età del revisionismo

La Polonia non solo era stata la prima vittima del conflitto mondiale, ma aveva ospitato la resistenza di
maggiori dimensioni, insieme con quella jugoslava. Di fatto in terra polacca la guerra non era mai terminata.
Le formazioni combattenti clandestine, confluite dal febbraio 1942 nell’Armia Krajowa (esercito interno),
l’avevano mantenuta viva: l’AK, fedele agli ordini del governo polacco in esilio prima a Parigi e poi a Londra,
giunse a contare fino a 400.000 uomini. Il governo in esilio era basato sulla collaborazione tra socialisti,
popolari, nazionali e laburisti cattolici. Avendo tale esecutivo come referente politico, altri cospicui reparti
polacchi, sottrattisi alla cattura nel 1939, combatterono su molti fronti accanto agli anglo-americani,
dall’Iran, alla Norvegia, all’Italia. (EBREI. A parte va ricordato il disperato ma vano tentativo (aprile-maggio
1943) di parte degli ebrei rinchiusi nel ghetto di Varsavia di ribellarsi agli occupanti tedeschi e ai
collaborazionisti presenti nelle stesse file degli ebrei: era la polizia ebraica che doveva consegnare
giornalmente migliaia di correligionari che venivano inviati nei campi di detenzione e sterminio. I campi
presenti sul territorio polacco furono progressivamente chiusi tra il 1942 e il 1944, ultimo quello di
Auschwitz-Birkenau, ma ormai il 90% degli oltre tre milioni di ebrei polacchi era stato eliminato. È assodato
che anche dalla popolazione polacca furono compiuti (luglio 1941) odiosi eccidi nei confronti degli ebrei,
ma ciò non cancella l’impegno, invece, di molti nel proteggere o nascondere i compatrioti di fede mosaica:
il caso più noto fu quello di Jan Karski, importante soprattutto per le informazioni che fece pervenire in
Occidente.)

L’aggressione militare della Germania contro l’Unione Sovietica nel giugno 1941 rese l’attività di resistenza
ancora più marcata: si costituì infatti un secondo polo militare e un diverso referente politico all’ombra
della potenza sovietica. Il cosiddetto Comitato di Lublino, caratterizzato dalla presenza di esponenti
comunisti e socialisti, fece concorrenza al governo in esilio e l’Armja Ludowa (esercito del popolo) operò
separatamente dall’Armja Kraiowa: inevitabilmente nell’ultima fase della guerra i territori in cui entrava
l’Armata Rossa finirono sotto controllo di questa seconda resistenza, nonostante le sue dimensioni militari
e politiche fossero minori rispetto all’altra. Va ricordato che un terzo esercito clandestino (Forze armate
nazionali) non rispondeva né al governo di Londra né al Comitato di Lublino, ma alle correnti nazionaliste
polacche rimaste fuori dall’accordo siglato tra i maggiori partiti polacchi in esilio. Dopo l’avvio
dell’operazione Barbarossa, per le pressioni occidentali il governo in esilio capeggiato da Władysław
Sikorski accettò di collaborare con Mosca, nonostante essa fosse responsabile della spartizione del 1939. La
scoperta nel 1943 da parte tedesca delle fosse di Katyń, in cui giacevano migliaia di ufficiali polacchi
eliminati dai sovietici su preciso ordine dei vertici comunisti, mise in crisi i rapporti stabiliti da Sikorski con
Stalin. Il primo da lì a poco cadde vittima nei pressi di Gibilterra di un incidente aereo, che sollevò seri
sospetti (particolarmente verso Churchill) poiché eliminò l’uomo politico polacco più decisamente
antisovietico e spianò la strada a una rinnovata collaborazione con il nuovo premier Stanisław Mikołajczyk.
All’epoca i governi inglese e statunitense avallarono la tesi di Mosca su quella strage dal carattere del tutto
peculiare, nonostante già allora si potesse propendere per la tesi tedesca che a distanza di decenni è ormai
provato essere quella vera: le ragioni politiche prevalsero sul rispetto della verità e si evitò di creare un
grave dissenso tra gli Alleati.

Non fu quello l’unico banco di prova per la tenuta della strana alleanza venutasi a creare tra il governo
polacco in esilio e uno degli Stati aggressori della Polonia nel 1939, e invero i sospetti reciproci
continuavano a essere molto forti. Stalin, da parte sua, preferiva trattare con gli esponenti del Comitato di
Lublino, ben più disposti a considerare l’Unione Sovietica come la giusta alleata contro i Tedeschi, anche
per ragioni di ordine ideologico. Nell’estate del 1944 i rapporti polacco-sovietici tornarono a essere incerti.
Il governo polacco di Londra e la sua emanazione militare in patria presero una decisione che andava
incontro alle aspirazioni del popolo, ma era molto rischiosa: liberare Varsavia senza attendere l’ingresso
delle truppe sovietiche. Ciò avrebbe permesso di assumere il controllo almeno parziale del territorio e di
assidersi su una posizione politica più forte di fronte alle potenze destinate ormai a vincere la guerra
mondiale. Era evidente che il fine era la liberazione dall’occupazione germanica, ma riguardava anche il
modo di non consentire ai sovietici di assumere il controllo del paese e di insediare un potere politico verso
di loro prono; la battaglia era nazionale e insieme politica.

I calcoli militari furono però sbagliati: l’Armia Krajowa non era in grado da sola di battere le ancora
consistenti forze militari tedesche, ma avrebbe avuto bisogno sia di cospicui rifornimenti da parte inglese e
statunitense, sia del sostegno dell’Armata Rossa. Solo molto tardi Mosca consentì l’uso dei propri aeroporti
perché i rifornimenti occidentali potessero raggiungere i combattenti polacchi, e soprattutto le forze
sovietiche si arrestarono nel sobborgo di Varsavia, di nome Praha. Forse è vero che lo Stato maggiore
sovietico avrebbe potuto lanciare un attacco – come nell’ultima fase dell’insurrezione avrebbero desiderato
i militari polacchi – ma è altrettanto vero che l’insurrezione aveva avuto l’intento di anticipare proprio
l’intervento militare sovietico.

Si preparò così il terreno per le decisioni che furono prese a Jalta nel febbraio 1945 (le principali
riguardarono proprio la Polonia) e per gli ulteriori sviluppi del tutto favorevoli all’Unione Sovietica e agli
uomini del Comitato di Lublino. Questi ultimi si poterono insediare a Varsavia e da lì a poco, sulla base di
un’intesa tra le potenze vincitrici, il governo polacco in esilio dovette accettare la proposta di inserire alcuni
suoi esponenti in un esecutivo di unione nazionale, capeggiato dal socialista filosovietico Edward Osóbka-
Morawski. Più precisamente Mikołajczyk accettò tale proposta, ma altri esponenti politici polacchi la
rifiutarono con una scelta dalla doppia natura. Essa si basava sulla previsione rivelatasi poi esatta che i
comunisti e i filosovietici avrebbero di fatto preso tutto il potere in patria, ma non teneva presente
l’atteggiamento che i governi inglese e statunitense avrebbero assunto: rifiuto di ulteriore riconoscimento
del governo in esilio (solo il Vaticano continuò a riconoscerlo come legittimo), il cui peso politico da quel
momento fu quasi pari a zero. Mikołajczyk fu sostituito dal socialista Tomasz Arcziszewski, impossibilitato
peraltro ad avere una seria interlocuzione politica con le potenze. Molti che avevano combattuto nell’Armia
Krajowa – sciolta formalmente nel gennaio 1945 – ripararono all’estero negli anni seguenti (dopo
l’invasione nazista del 1939 solo 800 polacchi si rifugiarono in Svezia, dopo la presa di potere comunista
oltre 5.000) o, restati in patria, non ebbero alcun riconoscimento ma al contrario furono guardati con
sospetto. Non pochi continuarono a combattere contro i nuovi occupanti, i sovietici, considerando il
governo come un loro semplice strumento. Ancora più vivace fu la lotta dei gruppi che facevano capo ai
partiti nazionalisti. Nel 1945 nacque l’organizzazione «Libertà e indipendenza» (WIN), che tentò senza
grande successo di unire le varie clandestine combattenti. Tanto meno quella opposizione militare trovò
una sua rappresentanza nelle formazioni politiche in parlamento, sebbene qualche contatto vi fosse con
seguaci di Mikołajczyk.

Nel biennio 1945-46 furono vittime dei nuovi partigiani oltre mille sovietici, né la presenza di un mezzo
milione di soldati dell’Armata Rossa sul territorio polacco per buona parte del 1945 poté aver ragione del
movimento clandestino. Di fatto si ebbe anche una vera guerra civile tra partigiani e sostenitori del
governo, i quali ricorsero alla repressione dell’esercito regolare e della polizia.

Sullo sfondo della ricostruzione (Varsavia era distrutta per l’85% e, dopo i forti investimenti per renderla
nuovamente degna del ruolo di capitale, si trasformò amministrativamente nella Grande Varsavia del 1952)
per circa un biennio la coalizione nazionale mantenne una faticosa collaborazione e il Partito popolare
polacco (contadino) di Mikołajczyk vi ebbe un ruolo significativo; peraltro la sua ideologia agraria era vicina
alla dottrina sociale della Chiesa cattolica che andava cercando una ‘terza : via’, ma su determinati punti
poteva trovare un accordo con i programmi del Partito comunista. Alcuni atti politici trovarono un largo
consenso nella popolazione. I contadini poveri, i quali si giovarono della riforma agraria che pose fine
all’esistenza residuale del latifondo, non potevano che plaudire al governo guidato da Osóbka-Morawski e
comprendente quattro esponenti del Partito popolare, accanto a sedici di forze politiche più o meno
simpatizzanti per il ricostituito Partito comunista di Władysław Gomułka: questi e Mikołajczyk erano
vicepresidenti, nonché ministri, rispettivamente delle Nuove province e dell’Agricoltura. La Polonia aveva
infatti acquisito molti territori già tedeschi, ma in compenso ne aveva persi di più ampi a oriente, a
vantaggio dell’Unione Sovietica. Si trattò di una vera dislocazione dello Stato polacco, il cui territorio
complessivamente fu ridotto di quasi un quarto, mentre scomparivano le minoranze ucraina e bielorussa e
aumentava quella tedesca.

Nel giugno 1946 un referendum dalle domande un po’ ambigue e dai risultati truccati segnò una sconfitta
politica del Partito popolare: i votanti si espressero per proseguire nelle riforme e per l’abolizione del
Senato. Le sinistre, ben dirette dai comunisti, si sentirono pronte quindi a sottoporsi alla prova delle
elezioni politiche, tenute nel gennaio 1947 e sulla cui correttezza restano fondati dubbi (Mikołajczyk parlò
di 100.000 arresti tra i militanti del suo partito ed egli stesso preferì rifugiarsi all’estero). 392 seggi furono
assegnati ai comunisti, ai socialisti di sinistra e ad altre formazioni caudatarie, mentre solo 52 deputati
contadini entrarono alla Dieta. Nel corso del 1947 nel campo comunista si impose la massima fedeltà a
Mosca, particolarmente con la costituzione del Cominform (Ufficio di informazione dei partiti comunisti e
operai) in una riunione dei rappresentanti dei partiti comunisti europei, inclusi quello italiano e quello
francese, proprio in una località di vacanze polacca della Bassa Slesia, Szklarska Poręba (in tedesco
Schreiberhau).

(RUOLO CHIESA) In assenza di una opposizione politica libera di agire a livello parlamentare e nel Paese,
debellata progressivamente l’opposizione militare, essendo poca cosa nuovi piccoli gruppi che
manifestarono dissenso per il regime imposto, in Polonia spettò alla Chiesa svolgere un ruolo di
interlocutore rispettato e non facilmente riducibile a miti consigli. Molti vescovi pagarono con l’arresto la
loro presa di posizione, e lo stesso primate Stefan Wyszyński fu ridotto a uno stato di isolamento e posto
sotto controllo, almeno nei primi anni Cinquanta. Papa Pio XII nel 1949 aveva lanciato la scomunica contro i
comunisti e aveva proibito di ammetterli ai sacramenti; il governo di Varsavia considerò reato un tale rifiuto
da parte dei sacerdoti. Un corpo diffuso nella società come la Chiesa cattolica, simbolo per gran parte dei
polacchi dell’identità nazionale, capace di conseguire consenso e influenzare l’opinione di moltissimi
cittadini, non fu mai domato dal regime che fece concessioni (ad esempio riguardo all’istruzione religiosa)
che non furono mai registrate in altri Stati comunisti e talora neanche in paesi occidentali. I pochi esponenti
cattolici vissuti all’ombra del potere comunista, come il gruppo Pax dello scrittore, già militante
nazionalista, Bolesław Piasecki, su temi sensibili per il mondo cattolico, come l’aborto, osarono non
allinearsi ed esprimere disaccordo. Una funzione fondamentale della Chiesa fu quella di servire da sponda e
alleata per qualsiasi altra forma di dissenso e opposizione.

Esisteva un discreto dissenso interno allo stesso partito al potere. Esso, applicando un principio diffuso in
tutto il blocco sovietico, aveva assorbito il Partito comunista e quello socialista, assumendo la
denominazione di Partito operaio unificato polacco (POUP). Se lo stesso segretario Gomułka aveva detto
esplicitamente che una volta assunto il potere, esso non sarebbe più stato restituito ad altre forze politiche,
nondimeno egli si caratterizzò per avere formulato la teoria delle vie nazionali al socialismo, rivendicando
per i Polacchi la possibilità di edificare un sistema politico-sociale non identico a quello sovietico, sebbene
fondato sugli stessi principi ideologici. Tale indirizzo gli attirò i sospetti di Stalin ed egli fu la vittima più
importante delle purghe in Polonia, peraltro molto diverse da quelle verificatesi negli altri paesi comunisti.
Le purghe non furono cruente e riguardarono un numero limitato di militanti e dirigenti. In realtà nello
stesso torno di tempo, cioè dopo il 1947, una repressione ben più decisa fu attuata nei confronti di
oppositori e dissenzienti esterni al partito, circa 30.000 persone. Gomułka non solo fu rimosso dalla guida
politica, ma, con tipica esagerazione dei regimi comunisti, fu espulso nel 1949 e arrestato due anni più
tardi. Sotto il regime del nuovo segretario Bolesław Bierut, uomo allineato al Cremlino, il potere si poté
consolidare e il paese visse la sua pagina di storia ‘staliniana’ in vari ambiti, da quello politico a quello
economico. Con Bierut ebbero un ruolo eminente il responsabile dell’ideologia nel partito (e dei servizi di
sicurezza dello Stato) Jakub Berman e l’economista Hilary Minc, ambedue ebrei. Se pure alcuni
correligionari occupavano ruoli così importanti nel regime, 30.000 ebrei, considerati sionisti, emigrarono tra
1949 e 1951, e nel 1952, sulla scorta di quanto avveniva a Mosca negli ultimi mesi di Stalin, fu data
disposizione di non promuovere la presenza di ebrei nell’esercito e in altri ruoli di rilievo. Morto Stalin e
apertasi l’epoca della destalinizzazione, i dissidenti interni al partito ebbero materia per esprimere le
proprie opinioni, spingendosi molto avanti nell’elaborazione ideologica. Ciò fu dovuto al coraggio dei
singoli, ma anche al fatto che gli intellettuali come Karol Modzelewski e Jacek Kuroń, autori nel 1964 di una
notissima lettera aperta al partito che costò loro il carcere, non si trovarono isolati in una società attenta e
con la Chiesa pronta a fare da controcanto. Uomini che muovevano dall’ideologia marxista-leninista (Kuroń
era stato l’organizzatore del cosiddetto «scoutismo rosso», fucina invero di oppositori) finivano così per
agire de facto in comune dissenso verso il regime con settori sociali di ben altra estrazione ideologica.

In questo modo si spiega la debolezza del regime di fronte alle agitazioni politiche e sociali del 1956. È
giusto ricordare che tale debolezza si riscontrava pure nei confronti della classe operaia, di cui il POUP
voleva essere interprete: se essa per prima protestava contro le politiche del governo e allontanava dalle
fabbriche (caricandoli talora su una carriola) i suoi rappresentanti, cioè i dirigenti aziendali, era ben difficile
affermare che era stata instaurata la dittatura del proletariato. Solo la divisione del continente in blocchi
contrapposti e il clima della guerra fredda impedirono che il regime dovesse fare i conti fino in fondo con la
società. L’esplosione del 1956 era stata preparata negli anni immediatamente precedenti. In seno al
Comitato centrale dal 1953 non erano mancate le critiche alla politica economica fin lì attuata:
successivamente si cominciò a chiedere meno burocratismo, la rinuncia all’utopismo e la fine di ogni
repressione; serviva realismo, decentramento e al socialismo andava coniugata la libertà. Fu di una certa
importanza, anche per l’orgoglio nazionale, che al XX° Congresso del PCUS fosse riabilitato il vecchio Partito
comunista polacco sciolto d’autorità nel 1938 con la falsa accusa di essere al servizio delle potenze
antisovietiche. Furono peraltro i delegati polacchi a far circolare per primi il testo del famoso rapporto
segreto di Chruščëv; Bierut, rimasto in sella solo grazie a una esplicita autocritica, non tornò più in patria,
essendo morto improvvisamente a Mosca nel marzo 1956.

Wyszyński e Gomułka, ognuno nel proprio ambito, avevano recuperato libertà d’azione. Il secondo poté di
fatto mettersi alla testa di un’ala riformista del partito (Gierek, Cyrankiewicz, Rapacki) che seppe recepire le
rivendicazioni anche nazionali dei Polacchi. I gravi incidenti di Poznań del 28 giugno 1956 (i manifestanti,
per lo più operai, approfittarono di una fiera internazionale in atto) divisero profondamente la dirigenza del
partito: intervennero le forze militari sovietiche e si contarono 50 morti e 300 arrestati. Il nuovo segretario
Edward Ochab condannò decisamente i manifestanti come teppisti e agenti del nemico capitalista e
straniero; il capo del governo, l’ex socialista Józef Cyrankiewicz (in carica dal 1947 al 1952 e dal 1954 al
1970), pur ribadendo la condanna, ammise che la protesta esprimeva esigenze e problemi reali. Le severe
condanne comminate furono ben presto revocate, salvo eccezioni. Il regime insomma aprì la porta al
dialogo.

Il passaggio successivo fu l’ascesa dei riformisti (i puławisti, dalla loro sede di via Puławska), fatto che
inquietò alquanto i dirigenti del Cremlino, tanto che Chruščëv stesso, con altri importanti esponenti del
PCUS, raggiunse Varsavia per assistere il 19 e 20 ottobre ai lavori del plenum del Comitato centrale. Fu una
riunione di un’importanza pari a quella di un congresso: infatti fu impostata una nuova linea di apertura
verso le richieste della società e fu installato alla segreteria del partito Gomułka. Determinante fu l’abilità di
questi nel convincere Chruščëv (propenso a sostenere un ‘centrista’ come Zenon Nowak) che la Polonia
sarebbe rimasta fedele alleata dell’Unione Sovietica, per la comune ideologia e per il comune timore di una
rinascita del pericolo tedesco. Pochi giorni dopo quello storico plenum del 1956 iniziò la sollevazione
popolare in Ungheria conclusasi in modo tragico dopo l’intervento armato sovietico. Il confronto con quegli
eventi giocò a favore del leader polacco di cui si poteva da Mosca lodare la moderazione nel riformismo,
ma pure il consenso dato alla repressione in terra magiara. Anche questo gli consentì di assumere il pieno
controllo del partito e del paese.

Mentre uomini come Berman e Minc erano estromessi dalla politica, Gomułka ottenne il richiamo in patria
del maresciallo sovietico Konstantin Rokossovskij, fino allora ministro della Difesa e comandante supremo
dell’esercito, seppe emarginare sempre più l’ala stalinista, restituì piena libertà a Wyszyński, allentò la
censura e il controllo sulle attività culturali e scientifiche, tanto che le università e la stessa Accademia si
incamminarono e diedero un serio contributo sulla via delle riforme. Quelli che erano all’epoca giovani
intellettuali, guardati con sospetto dal regime, trovarono in quegli ambienti un certo sostegno e protezione,
magari ottenendo (come Adam Michnik) di fare esperienze di studio anche nel mondo occidentale. Non
solo migliorarono i rapporti del governo con la Chiesa cattolica, ma esso curò di averne di buoni anche con
la Santa Sede. Fu un vero successo diplomatico che il Vaticano accettasse la nomina di vescovi nelle diocesi
che erano state precedentemente tedesche: si pose così fine a una pesante polemica che aveva portato nel
1951 all’espulsione dei vicari apostolici nominati da Roma.

Una decisione di grande importanza riguardò la decollettivizzazione delle campagne: solo 1.700 aziende
collettive restarono in funzione su 10.600. Le masse contadine erano risolute a mantenere le proprie
piccole proprietà libere, anche se poi dovevano sottostare a regole concernenti gli ammassi e la
commercializzazione, mettendo in atto con il regime una sorta di alleanza tattica. Inoltre continuava a
esistere una piccola borghesia, dei piccoli imprenditori non proletarizzati ai quali si concedeva di avere
quattro dipendenti oppure sette, nel caso si lavorasse per l’esportazione. La società polacca manteneva una
certa articolazione al suo interno e trovava almeno formalmente una sua rappresentanza politica. La Dieta
ospitava infatti, accanto al POUP, vero padrone del parlamento e del potere, il Partito contadino suo fedele
alleato, ma anche un Partito democratico che avrebbe dovuto esprimere le aspirazioni e gli interessi dei
residui strati borghesi. Si trattava invero di un pluralismo di facciata, che solo negli ultimi giorni del regime
si trasformò in un pluralismo reale e capace di influenzare la politica. Gomułka volle che persino la
diplomazia godesse di qualche autonomia e ammise il decentramento di varie funzioni amministrative:
furono tutti atti che differenziarono per alcuni anni la Polonia dalle altre democrazie popolari. Non per caso
nel 1960 il numero due del regime albanese Mehmet Shehu disse a una delegazione sovietica che Gomułka
non era un marxista, ma un revisionista.

Nel corso degli anni Sessanta Gomułka non riuscì a conservare il consenso acquisito nel partito e nella
società polacca. Erano state fatte diverse promesse che non sempre erano state mantenute: il governo non
fu in grado di avviare una sostenuta crescita che potesse garantire alle masse il benessere desiderato, pur
essendo la Polonia un paese già dotato di importanti industrie, accanto a un vasto settore agricolo. Furono
anche deluse le speranze di una più significativa liberalizzazione, speranze che erano state nutrite
soprattutto dai giovani, inclusi quelli che militavano nel partito al potere. La battuta d’arresto su ambedue i
fronti, economia e democrazia, indusse il gruppo dirigente a puntare sul decentramento, sia nel 1956, sia di
nuovo nel 1964-65. Nonostante l’introduzione di incentivi materiali per i lavoratori, atti a suscitarne la
produttività, quella politica economica non ottenne gli obiettivi desiderati. Pesò probabilmente il
permanere di un apparato di partito e manageriale decisamente conservatore. Secondo Korbonski, in realtà
Gomułka «non era un riformatore economico».

L’esito decisamente innovativo di tali delusioni fu il ‘revisionismo’, che trovò credito presso il ceto
intellettuale. Sicché la nuova sinistra polacca (Roman Zimand, Zygmunt Bauman, Leszek Kołakowski,
Władysław Bieńkowski che fu ministro della Pubblica istruzione tra il 1956 e il 1959 prima di essere espulso
dal partito) iniziò a criticare, spesso sulla rivista «Po prostu», non solo la gestione oligarchica del potere, ma
un fondamento ideologico del regime, cioè il carattere di classe dell’ideologia al potere. Quegli intellettuali
credevano che tale pilastro ideologico servisse soltanto a difendere gli interessi della burocrazia detentrice
di tutti i posti socialmente ed economicamente più gratificanti e di ogni altro genere di privilegi.
Spingendosi oltre, si affermò che l’evoluzione della società non giustificava più il primato della classe
operaia in senso stretto, criterio che non teneva conto dei nuovi modi di produzione e del sempre più vasto
settore economico terziario. Tali tendenze finivano per coniugarsi con il più semplice scontento popolare,
non meno dell’ideologia neonazionalista. Quest’ultima non metteva in discussione la natura socialista dello
Stato ma gli dava una particolare coloritura. Di essa era espressione il movimento dei cosiddetti
«partigiani» capeggiati dal generale Mieczysław Moczar, pericoloso concorrente di Gomułka.

La leadership era messa in pericolo anche dai cosiddetti tecnocrati e dagli uomini dell’apparato: costoro
erano la nuova classe (neoborghesia) contro cui si esprimeva la ricordata nuova sinistra. La Chiesa cattolica
continuava a essere un interlocutore rispettato del governo, il quale non mancava di farle concessioni che
finivano per rafforzare ulteriormente l’influenza degli ecclesiastici sulla società.

La crisi latente toccò l’acme nel 1968, anno di grandi sommovimenti in tanti paesi d’Europa di qua e di là
della cortina di ferro. Uno specifico catalizzatore fu la proibizione di proseguire le rappresentazioni di
un’opera teatrale del grande scrittore ottocentesco Adam Mickiewicz, Gli antenati (Dziady) : la messa in
scena sembrava sottintendere un’intonazione antisovietica. Tale censura causò vivaci reazioni nel mondo
intellettuale e studentesco, già agitato dalle notizie che giungevano dalla Cecoslovacchia, mentre
preoccupazione suscitava anche la vivace Ostpolitik di Bonn, non meno del credito di cui godeva al
Cremlino la Repubblica democratica tedesca. Persino dalle fabbriche giunsero inquietanti segnali, né la
Chiesa cattolica mancò di far sentire la propria voce. Nel marzo 1968 l’azione della polizia contro i
manifestanti fu violenta, e a seguire il governo polacco aderì con sufficiente convinzione alla repressione
della Primavera di Praga, inviando un proprio contingente militare.

Inoltre si registrò un fenomeno del tutto peculiare, legato anche al fatto che alcuni ambienti avevano
dimostrato simpatia nel 1967 per la vittoria militare di Israele nella Guerra dei sei giorni. Nell’opinione di
Audrey Kichelewski, «la campagna antiebraica servì molteplici cause. La prima fu il cambiamento dei quadri
del partito. [...] La seconda fu l’eliminazione definitiva della fazione liberale, gli ex Puławisti» (molti dei quali
erano ebrei), mentre dava spazio agli antisemiti presenti nel gruppo Pax; la terza l’uso strumentale per
reprimere le agitazioni studentesche e distrarre dal malcontento sociale, in buona parte di origine
economica, ma non solo. Peraltro il segretario del partito ebbe la capacità di confrontarsi direttamente con
gli studenti, riuscendo a rinviare il proprio declino ancora di un paio di anni. Sul fronte della politica estera
fu segnato un importante successo: il 7 dicembre 1970 Polonia e Germania firmarono un trattato con il
quale la seconda riconosceva i confini usciti dalla seconda guerra mondiale.

4. La vetrina del blocco sovietico: la Cecoslovacchia dagli anni bui alla Primavera di Praga

La vicenda politica della Cecoslovacchia fu alquanto diversa da quella degli altri Paesi che videro imporsi il
regime comunista. In primo luogo la posizione geografica aveva il suo peso: la Boemia si incunea nella
Germania, mentre la Slovacchia si affaccia alle porte del mondo russo e ucraino, come ancora meglio
avveniva per la Rutenia subcarpatica: quest’ultima non poteva non essere appetita dai sovietici poiché
possederla significava rompere quella sorta di antemurale costituita nel ventennio interbellico dai confini
romeni e polacchi. La Cecoslovacchia giustamente fu considerata Stato vincitore o almeno non alleato della
Germania: la cessione della Rutenia subcarpatica all’Unione Sovietica (oggi parte dell’Ucraina) in tal senso
fu un fatto difficilmente spiegabile, pur trattandosi di un piccolo territorio e nonostante il trattato di
amicizia russo-cecoslovacco siglato già nel 1943. I governanti cecoslovacchi peraltro non potevano opporsi
al vicino sovietico le cui truppe avevano liberato il Paese. Anche nell’opinione pubblica prevaleva il
sentimento di fratellanza slava, su cui insistevano particolarmente i comunisti il cui capo, Klement
Gottwald, parlò di tiglio slavo (ceco) che «si appoggia alla quercia russa, slava anch’essa». Si diede spazio
anche alla cultura russa molto più che in passato, mentre una forma di sudditanza a Mosca fu dimostrata
dalla consegna di Tedeschi o Ungheresi che avessero responsabilità di atti compiuti in territorio sovietico.
Per consolidare il nuovo acquisto territoriale Mosca si preoccupò di eliminare in Rutenia subcarpatica
l’arcieparchia di Mukačevo (Munkács) che era unita a Roma, pur mantenendo il rito orientale, e cui faceva
capo poco meno di mezzo milione di fedeli. Peraltro in Galizia (Lviv, Leopoli), altro importante territorio
acquisito dall’Unione Sovietica a spese della Polonia, la ben più consistente Chiesa uniate fu costretta a
fondersi con la Chiesa ortodossa.

Altra peculiarità della Cecoslovacchia era la composizione sociale della sua popolazione, soprattutto per
quanto concerneva la parte maggiore del territorio, cioè la Boemia-Moravia, dove il settore industriale era
molto avanzato e, di conseguenza, la classe operaia era consistente e costituiva il principale bacino
elettorale per il Partito comunista e per quello socialista (socialdemocratico). I partiti di sinistra, incluso
quello socialista nazionale vicino alle posizioni dei fondatori dello Stato e del presidente Edvard Beneš che
riprese il suo posto con la liberazione, erano avvantaggiati pure dalla diffusa istruzione. In Slovacchia la
popolazione era piuttosto condizionata dal clero. Frutto di questa situazione fu il risultato delle elezioni per
la Costituente del maggio 1946, svoltesi quando l’Armata Rossa aveva già lasciato il territorio cecoslovacco.
Il PC vinse largamente in Boemia-Moravia e si classificò al secondo posto in Slovacchia. Comunisti e
socialisti avrebbero potuto formare un governo con una risicatissima maggioranza, ma si preferì mantenere
l’alleanza generale tra i partiti presenti in tutto il paese: quindi anche socialisti nazionali, democratici e
popolari. La presidenza del Consiglio fu assegnata a Gottwald (il PC aveva come segretario Rudolf Slánský) e
i comunisti tennero per sé alcuni ministeri chiave come quello dell’Interno e della Difesa.

Alla luce di tutto ciò, fu ovvio procedere a riforme piuttosto avanzate in campo economico. Molte furono le
industrie e le banche nazionalizzate già nel 1945, mentre la riforma agraria spazzò via le ultime grandi
proprietà terriere. Essa ebbe importanza soprattutto in relazione a un fatto del tutto specifico del Paese e
dell’epoca, l’espulsione in massa di parte delle cospicue minoranze tedesca (Sudeti in Boemia) e ungherese
(in Slovacchia). I terreni dei tedeschi e degli ungheresi espulsi furono ridistribuiti a Cechi e Slovacchi,
attuando non solo una piccola rivoluzione sociale, ma anche una «pulizia etnica». La stragrande
maggioranza dei tedeschi (2.500.000 su 3.300.000) furono espulsi verso la Germania, non senza sofferenze
e numerose vittime; mentre con il governo ungherese furono conclusi due accordi (1946 e 1948) per uno
scambio di popolazioni che si realizzò – finché un ulteriore accordo vi pose fine nel 1949 – ma non in misura
tale da ridurre significativamente la numerosa minoranza magiara nella Slovacchia meridionale, ancora
oggi residente nel Paese con conseguenti frizioni con la maggioranza slava. Chi aveva parteggiato per gli
occupanti e soprattutto quanti avevano servito lo Stato slovacco indipendente, quando non fossero fuggiti
per tempo, furono colpiti duramente, a partire da monsignor Tiso, mandato a morte per impiccagione nel
1947, nonostante il suo vecchio Partito popolare e quello democratico slovacco (ambedue al governo)
volessero gli fosse concessa la grazia.

Con il clima crescente di guerra fredda in tutto il continente e con la fondazione del Cominform (1947), lo
spirito di collaborazione tra le formazioni politiche era destinato a venir meno: lagnanze nei confronti della
velata egemonia del PC si manifestarono nei partiti alleati, incluso quello socialista, una buona parte dei
dirigenti non essendo disponibili a restare in posizione subordinata verso i comunisti. Il confronto interno al
Partito socialista democratico fu determinante poiché l’accostarsi dei «centristi» del presidente Bohumil
Laušman all’ala più moderata invece che a quella filocomunista poteva portare all’isolamento del PC.
Proprio il prevalere della tendenza più disponibile a conservare l’alleanza con il PC senza particolari
condizioni (Fierlinger fu poco dopo favorevole a che i socialisti confluissero nel PC) permise al partito del
presidente del Consiglio di tenere duro quando i ministri socialisti nazionali, popolari e democratici
slovacchi si dimisero. Lo scontro finale riguardò le nomine dei quadri negli organi di polizia, che il ministro
comunista Nosek intendeva riservare a uomini di fiducia, ma vi erano state già prima frizioni oppure
significative pressioni verso i militanti del Partito democratico slovacco (si segnalò nell’occasione Gustáv
Husák, uomo destinato a ruoli importanti anni dopo) e anche di partiti boemi.

I ministri dimissionari costituivano quasi la metà dell’esecutivo e in una situazione normale la crisi di
governo sarebbe stata inevitabile con conseguente ricorso alle urne: era ciò che volevano i dirigenti dei tre
partiti usciti dalla coalizione, convinti che il PC non avrebbe ottenuto il risultato elettorale conseguito nel
1946. Gottwald convinse Beneš a non sciogliere il parlamento, e ad avallare un semplice rimpasto di
governo, in cui la presenza di qualche personalità proveniente dai partiti che avevano rotto con il PC serviva
da foglia di fico: persino un prete ebbe un incarico ministeriale. Tutto ciò avvenne in un clima pesantissimo
in cui i sindacati e le sinistre mantennero il controllo delle piazze e si spinsero a occupare le sedi dei partiti
avversi: si compiva così il cosiddetto colpo di Stato di Praga del febbraio 1948 (per i comunisti fu il «febbraio
vittorioso»). Forse non fu casuale allora la presenza a Praga di un inviato di Mosca, Valerian A. Zorin.

A maggio si svolsero infine nuove inattendibili elezioni in cui la lista unica governativa prevalse con una
percentuale incredibile (circa 90%), l’opposizione esprimendosi attraverso le schede bianche e nulle o
l’astensione. A tempo di record fu approntata una nuova Carta costituzionale che Beneš non si sentì di
promulgare, snaturando essa la natura dello Stato cecoslovacco e omologandolo al modello sovietico, e
perciò si dimise, venendo a morte pochi mesi più tardi. La sua accondiscendenza in febbraio era stata utile,
se non determinante per permettere al PC di assumere il potere in forma assoluta, e gli guadagnò non
poche critiche. A completare il quadro, sempre nel febbraio 1948 il comunista Karol Šmidke assunse la
presidenza del Consiglio nazionale slovacco, in luogo del democratico Jozef Lettrich e «la Costituzione del 9
maggio 1948 confermò meramente il modello asimmetrico» tra Slovacchia e regioni ceche. Fare
opposizione al regime divenne impresa impossibile e sono rimasti a lungo ignoti i pochi tentativi di farlo
anche con le armi: fu il caso del gruppo guidato dai fratelli Josef e Ctirad Mašin poi riparati in Germania.

Se il 1948 segnò l’inizio del regime comunista, già l’anno dopo esso manifestò le sue contraddizioni interne,
o meglio quelle interne al movimento comunista internazionale, evidenziate in modo drammatico dalla
rottura tra Stalin e Tito del giugno 1948.

Il paese, vocato agli scambi economici con l’estero e con una bilancia commerciale facilmente in attivo per
la qualità della sua produzione, finì per legarsi all’Unione Sovietica (a Mosca non avrebbero mai sperato di
raggiungere già nel 1955 una quota di oltre un terzo dell’import-export della Cecoslovacchia: nel 1947 era
solo del 6%) e ai Paesi del Comecon. La politica e l’ideologia avevano fatto premio sulle ragioni di carattere
strettamente economico. A conferma dell’allineamento a Mosca, nel 1948 il governo di Praga aveva fornito
pezzi di artiglieria agli israeliani impegnati nella prima guerra contro gli arabi, ma successivamente presero
a garantire notevoli forniture militari all’Egitto, sempre su ispirazione sovietica: il Cremlino ormai,
considerando Israele un satellite degli USA, puntò le sue carte sui paesi arabi emergenti nello scacchiere
medio-orientale.

Con la nascita del regime l’atmosfera si fece pesante per quanti avevano militato in partiti ad esso avversi:
non furono risparmiati ex partigiani, militari, i democratici slovacchi, la tradizionale e popolare associazione
Sokol. Già nel clima del febbraio 1948 il rettore dell’università Karlovo di Praga, l’economista Karel Engliš, fu
allontanato dalla carica accademica e poi dall’insegnamento, mentre si avviarono le «verifiche
studentesche» con le quali migliaia di iscritti furono espulsi dalle università146. In prosieguo di tempo le
misure si fecero più pesanti. Al termine di un processo pubblico nel 1950 fu impiccata la deputata socialista
nazionale Milada Horáková, membro della resistenza, scampata al campo di concentramento nazista e
presidente del Consiglio nazionale delle donne cecoslovacche. Nonostante il dignitoso atteggiamento
dell’imputata e gli autorevoli appelli di illustri personaggi stranieri perché fosse concessa la grazia, fu l’unica
donna tra le 234 persone condannate a morte nella Cecoslovacchia comunista. Si colpirono anche
intellettuali di sinistra accusati di troczkismo. La repressione colpì per via giudiziaria ed extragiudiziaria
(allontanamento dal posto di lavoro) molte decine di migliaia di cittadini, ma la sua pagina più ‘originale’
doveva ancora essere scritta. (Purga interna al PC) Nel PC si cominciò a lamentare il fatto che non si
attuasse una purga interna come quella avviata nel 1949 in Ungheria: si voleva individuare un Rajk
cecoslovacco. Il segretario Slánský fu il primo a esprimere questa necessità, in realtà sollecitata da Mosca.
Per sua iniziativa, principalmente, caddero vittime della purga molti dirigenti e personalità politiche tra i
quali si può citare almeno il già ricordato Husák, il ministro degli Esteri Vlado Clementis (ambedue slovacchi,
il secondo nel 1939 aveva criticato il Patto Molotov-Ribbentrop in dissenso con il PC)148, il viceministro al
Commercio estero Eugen Löbl. I comunisti slovacchi furono presi particolarmente di mira come supposti
portatori di idee nazionalistiche. Il colpo di scena avvenne nel novembre 1951 (ma già in settembre
Gottwald aveva assunto la segreteria del partito), quando lo stesso Slánský fu accusato di essere il
principale oppositore interno, al servizio delle potenze occidentali e di Israele, nonché simpatizzante di Tito.
Questa seconda fase della purga ebbe una coloritura antisionista (Israele non era più lo Stato amico cui si
vendevano armi, ma una creatura delle lobbies ebraiche americane) che sfociava di fatto in manifestazioni
di antisemitismo: a una militante che di fronte a poliziotti spesso in servizio già sotto il precedente regime
collaborazionista ricordava di aver collaborato con Klara Zetkin, si rispose di non parlare di quella «puttana
ebrea».

Ci volle un anno per arrivare al giudizio e la condanna a morte di Slánský seguì dopo un altro anno: non va
trascurato che fu eseguita quando Stalin era già morto. Dopo uno show trial, con Slánský furono mandati a
morte altri dieci dirigenti, tra i quali molti di origine ebraica, come lo stesso principale imputato. Si trattò
certamente della purga più complessa e articolata dell’intero blocco. Essa rappresentò la punta di diamante
di un più vasto processo che portò all’espulsione dal partito di centinaia di migliaia di militanti mentre
136.000 persone subirono un giudizio e una condanna più o meno severa. Un tratto assolutamente
peculiare di quella vicenda, che ricorda i processi agli eretici del Medioevo e della Controriforma, concerne
il fatto che gli imputati furono costretti a confessare in processi pubblici o nel chiuso del carcere, talora
convincendosi che fossero realmente colpevoli o che, comunque, fosse nell’interesse del partito e quindi
giusta l’ammissione di colpa.

La Chiesa cattolica, popolare nonostante l’alto tasso di ateismo e agnosticismo, tentò di opporsi a un
regime che pretendeva di governare anche le anime. La repressione fu pesante: i vescovi, a cui fu impedito
di rivolgersi ai fedeli con una dichiarazione che avrebbero dovuto leggere i parroci, in larga parte furono
arrestati e alcuni morirono in stato di detenzione, né furono sostituiti con nuove nomine. I reggenti si
trovarono in balia del potere né fu sufficiente il soccorso proveniente dal Vaticano in forma clandestina e
talora autorizzando il mancato rispetto del diritto canonico in fatto di nomine per rimpinguare i ruoli
ecclesiastici. L’atteggiamento ostile del regime verso la Chiesa cattolica solo in parte riprendeva
l’anticlericalismo presente da tempo nella società ceca (ma non in quella slovacca).

Nel 1953 morì Klement Gottwald pochi giorni dopo Stalin, e parve il segnale di una nuova era, soprattutto
con l’affermarsi della dirigenza collegiale a Mosca. A Praga avvenne qualcosa di simile con l’emergere della
trojka composta da Antonín Novotný, Antonín Zápotocký, Viliam Široký. Presto fu chiaro che la figura più
eminente era quella di Novotný, che assunse la segreteria del partito, e tale primato fu ratificato in qualche
modo da Chruščëv. Zápotocký, uno dei fondatori del Partito comunista e già leader del sindacato unificato,
fu eletto presidente della Repubblica e Široký capo del governo: il primo, in linea con idee diffuse anche in
altre repubbliche popolari, si oppose al proseguimento della collettivizzazione rapida delle terre,
riconoscendo margini di libertà alla classe contadina. La sua proposta politica tuttavia non prevalse sulla
linea industrialista e collettivizzatrice, impersonata dal segretario del PC che lo sostituì alla presidenza dopo
la morte avvenuta nel 1957. In quello stesso 1953 fu attuata una riforma monetaria per frenare un
processo inflattivo (peraltro non riconosciuto dalle statistiche ufficiali); la popolazione ne soffrì serie
conseguenze materiali e nella capitale, a Ostrava e, in modo più grave, a Plzeň (Pilsen) vi furono
manifestazioni di protesta puntualmente represse: erano di carattere economico ma talora anche politico,
pronunciandosi a favore di una democrazia reale, cioè pluralista.
In maniera paradossale, nel 1953 e nel 1954 si svolsero ancora dei processi di una certa rilevanza politica,
anche per la personalità degli imputati, come Maria Svermová e i cosiddetti nazionalisti slovacchi, tra i quali
Husák, condannato all’ergastolo ed effettivamente rimasto in carcere per dieci anni. Erano gli ultimi colpi
della stagione stalinista più cupa, nonostante fosse cambiato il vertice al Cremlino. Paradossalmente poco
dopo si iniziò a restituire alla libertà molti detenuti politici, sebbene non si procedesse a formale
riabilitazione. Nel 1956, l’anno del XX° Congresso del PCUS, fu costituita una commissione per la revisione
dei processi avviati dal 1949 in avanti, presieduta dal ministro dell’Interno Rudolf Barák, ma essa operò con
somma prudenza. Insomma la destalinizzazione in Cecoslovacchia procedette con lentezza e quasi si può
dire che non vi fu: il paragone con quanto avvenuto in Polonia e Ungheria non è possibile. Tra le persone
liberate vi furono Eugen Löbl e Artur London, già viceministro degli Esteri: ambedue raccontarono la loro
drammatica esperienza e dalle memorie di London (La confessione) fu tratto un film di Costa Gravas.

Gli eventi del 1956 indussero gli studenti e gli intellettuali a manifestare la loro insoddisfazione: il regime
scelse però la linea dura e non quella del dialogo. Secondo il dettato di Mosca, andava ripristinata la
«legalità socialista» ma senza mettere in discussione le basi del potere esercitato dal partito; quanto alla
democrazia, la si considerava sufficientemente rappresentata dai ‘fantasmi’ politici che si univano al PC nel
Fronte nazionale.

Intanto, però, come per ogni regime politico l’andamento dell’economia influenzava la maggiore o minore
sua credibilità. Il terzo piano quinquennale lanciato nel 1961 seguì la sorte del sesto piano sovietico: fu
interrotto già nel 1962. Resta il dubbio che veramente si trattasse di performance peggiori che nel passato,
o invece della possibilità di riconoscere i fallimenti – a differenza che negli anni precedenti – da cui
discendeva un gesto clamoroso quale l’abbandono di un piano quinquennale.

Il gruppo dirigente sembrava continuare a credere nel modello politico, sociale ed economico che si voleva
realizzare: lo dimostrava l’orgoglio di definire socialista la repubblica (lo fece la Costituzione varata nel
1960) e comunista il partito, senza ricorrere a espressioni come popolare e del lavoro, che stavano a
indicare uno stadio ancora non avanzato della dittatura del proletariato e della corrispondente economia.
All’interno del blocco sovietico (esclusa dunque la Jugoslavia) solo i dirigenti romeni usarono l’aggettivo
socialista per indicare lo Stato, mentre soltanto il partito bulgaro e quello romeno tornarono ad
autodenominarsi comunisti.

Nonostante tale orgoglio o forse anche in ragione di esso, nello stesso partito al potere, come pure nella
società cecoslovacca, vi erano non pochi fermenti di novità. La produzione artistica faceva da battistrada,
come dimostravano alcuni film non in linea con la vulgata di regime riguardo alla storia recente e
all’attualità. Gli scrittori (tra essi Milan Kundera) espressero nei congressi della loro Unione il forte desiderio
di maggiore libertà: in qualche caso si trattava di porre fine a situazioni imbarazzanti, come il bando che
durava da anni dell’opera di Kafka. Zdeněk Mlynář e altri, con il linguaggio della scienza politica e della
sociologia politica, cercarono – non diversamente da certo revisionismo vivo in Polonia – di delineare una
politica più adatta a una società multiforme, non appiattita sul primato della classe operaia. Si riscoprirono
personaggi caduti in obbligato oblio: nel 1968 Milan Machovec poté pubblicare un libro dedicato a Tomáš
Masaryk.

Gli economisti, intellettuali più intrinseci e organici al regime, misero in luce senza troppe remore i limiti
della politica economica sin lì seguita, in omaggio a un’ortodossia socialista causa di rigidità
controproducenti e di scelte dannose per il Paese.

Come la censura abbassò la guardia, gli slovacchi ne approfittarono per chiedere la revisione dei processi
farsa e riproporre le proprie aspirazioni nazionali, per le quali la Slovacchia doveva divenire un partner di
pari dignità con la Boemia-Moravia nello Stato federale cecoslovacco (riconoscimento non presente nella
Costituzione del 1960). Ci volle il 1963 perché l’Alta Corte di giustizia dichiarasse destituita di fondamento
l’accusa di nazionalismo borghese rivolta ai dirigenti slovacchi condannati pochi anni prima. La proposta
federalista un lustro dopo entrò nel programma della cosiddetta Primavera di Praga e fu anzi uno dei pochi
punti, forse l’unico, che dall’invasione armata non fu cancellato insieme con il nuovo corso dubcekiano.

Intorno al ministro degli Interni Rudolf Barák sembrò costituirsi un gruppo alternativo ai massimi dirigenti
conservatori, ma Novotný seppe eliminare il potenziale avversario e farlo condannare a quindici anni di
carcere per reati comuni nel 1964. L’episodio necessita di maggiori chiarimenti, però è certo che il ricorso
alle misure di polizia per combattere una battaglia politica contraddiceva lo spirito della destalinizzazione.
Tuttavia proprio in quegli anni (nel 1961 il XXII° Congresso del PCUS aveva dato un nuovo duro colpo allo
stalinismo) si registrò qualche cambiamento anche nei vertici politici: nel settembre 1963 Viliam Široký
lasciò la presidenza del Consiglio a Jozef Lenárt. Si mise in luce anche il personaggio poi divenuto
emblematico del 1968 cecoslovacco: Alexander Dubček. In Cecoslovacchia si registrava una strana
situazione quanto all’organizzazione partitica: accanto al Partito comunista cecoslovacco esisteva infatti il
Partito comunista slovacco e di questo egli fu eletto segretario proprio nel 1963. Gli elementi conservatori,
seguaci di un ortodosso marxismo-leninismo, non cedettero il passo con facilità: non si trattava solo di
attaccamento al potere ma della convinzione che ogni innovazione poteva incrinare la solidità del regime,
inducendo ad ulteriori novità. Nel 1966 si registrò un giro di vite contro le tendenze innovatrici: Václav
Havel fu estromesso dalla direzione dell’Unione degli scrittori, mentre gli scrittori Ivan Klíma e Ludvík
Vaculík furono espulsi dal partito. Eppure quello stesso anno fu varato il quarto piano quinquennale (1966-
70) che accettava elementi dell’economia di mercato riconoscendo alle aziende margini di autonomia.

Nel 1967 si giunse a un cambiamento sostanziale in seno al partito: ‘liberali’, centristi e autonomisti
slovacchi riuscirono a mettere in minoranza Novotný, Jiří Hendrych e gli altri esponenti della corrente
conservatrice (neostalinista). Nel Politburo in realtà vi era una situazione di equilibrio, ma nel Comitato
centrale si giunse a una decisione solo apparentemente salomonica: Novotný restava presidente della
Repubblica e Dubček gli succedeva alla segreteria del Partito comunista cecoslovacco dal 5 gennaio 1968
(dapprima si parlò infatti di «corso di gennaio»). La dirigenza sovietica post-chrusceviana, Brežnev in testa,
non esercitò sufficienti pressioni in favore dei conservatori, fino a dichiarare apertamente che la soluzione
era un fatto interno (vašo delo) al partito cecoslovacco. I riformisti furono attenti a non apparire
eccessivamente radicali e contrari al primato del partito, né si può tacere come Dubček stesso si sentisse
molto legato all’Unione Sovietica, dove aveva studiato e vissuto.

Da quel momento gli elementi più riformisti assunsero di fatto la guida del partito, imprimendo una discreta
accelerazione al cambiamento. Tra l’inverno e la primavera 1968 vi furono ulteriori novità. Novotný perse
anche la presidenza a favore di Ludvík Svoboda che il voto parlamentare preferì ad altri candidati, e tutti i
posti di rilievo furono occupati da riformisti: presidenza del parlamento (Josef Smrkovský), presidenza del
Consiglio (Oldřich Černík, con vicepresidenti Husák e Šik che reggeva anche il dicastero dell’Economia),
presidenza del Fronte nazionale (František Kriegel). Tutti costoro agivano sulla base delle proprie
convinzioni, ma anche sotto la spinta dell’opinione pubblica e della stampa che si consentiva libertà
precedentemente non usuali. Dubček ebbe il difficile compito di mediare tra le aspirazioni della
popolazione e dei «comunisti di destra» e gli avvertimenti di Mosca e degli altri partiti. Si fecero molto
sentire organizzazioni come il Club degli impegnati senza partito e il Klub 231. Il quadro era completato
dalle fughe di alcuni stalinisti e i suicidi di altri (responsabili talora degli abusi degli anni più bui) e la
situazione si era molto più radicalizzata rispetto a quanto si potesse pensare ancora pochi mesi prima, e
rispetto a quanto Mosca potesse tollerare.

Come Imre Nagy in Ungheria anni prima, Dubček si lasciò trascinare da quanti chiedevano riforme radicali,
e solo in pochi casi cercò di frenare tali tendenze: fu condannato, ad esempio, il Manifesto delle 2000
parole scritto da Ludvík Vaculík e firmato da moltissimi intellettuali. Il partito approvò un programma
d’azione alquanto avanzato. Dubček tuttavia credeva, come altri dirigenti, che le scelte da lui fatte non
dovessero essere intese come ostili all’Unione Sovietica o al comunismo. Secondo un’interessante
interpretazione, il riformismo cecoslovacco era «un insieme eterogeneo di elementi presi da altri
esperimenti quali quello polacco e ungherese e da sistemi socialisti non ortodossi come quello della
Jugoslavia, combinati con elementi tratti dalla tradizione cecoslovacca» e Dubček ricordava il periodo dal
1945 al 1948, «in cui la costruzione di una democrazia sociale specificamente cecoslovacca pareva essere
l’obiettivo politico principale».

(Occupazione di Praga) I dirigenti sovietici, tedesco-orientali e polacchi si convinsero, al contrario, che


esistessero seri rischi per la frontiera occidentale del Patto di Varsavia, per la fedeltà di Praga al blocco e
all’Unione Sovietica, come pure per la stessa esistenza del regime comunista in Cecoslovacchia. Da una
parte vi furono numerosi tentativi e trattative perché il gruppo dirigente cecoslovacco richiamasse
all’ordine il partito e il Paese, dall’altra si preparò per tempo l’intervento militare dei paesi del Patto di
Varsavia. Intanto Tito e Ceauşescu esprimevano il loro consenso al nuovo corso dubcekiano, guardando,
soprattutto il secondo, al principio dell’indipendenza di ogni Paese e di ogni partito comunista, piuttosto
che allo spirito innovatore di esso. Oltre alle trattative, a ritardare l’invasione fino al 21 agosto vi fu anche la
necessità di trovare nel mondo politico cecoslovacco una valida copertura a un’iniziativa militare di non
facile giustificazione. L’invasione (cui non parteciparono le truppe della Romania e dell’Albania,
quest’ultima uscendo formalmente dall’alleanza, ma alla fine neanche quelle della DDR) fu un successo dal
punto di vista militare, ma sotto il profilo politico fu un semifallimento. Nonostante l’arresto dei principali
esponenti della Primavera con Dubček in testa, Svoboda rifiutò di nominare alla guida del governo
l’ultraconservatore Alois Indra, come Mosca avrebbe voluto. Sostanzialmente non riuscì il colpo di Stato
incruento progettato d’accordo con Mosca, che avrebbe portato nei posti di potere i dirigenti contrari alla
linea riformista. La resistenza nelle città fu passiva e poche furono le vittime, ma il popolo e le istanze
politiche presenti nel Paese si pronunciarono contro l’invasione. La popolazione cercò di spiegare ai soldati
sovietici la propria posizione e che non stavano occupando un paese nemico o retto da reazionari. Si fece
ricorso anche a uno spirito ironico del tutto speciale, testimoniato ad esempio da un cartello contenente
dieci comandamenti da rispettare nell’approccio con gli invasori.

Tuttavia il 26 agosto i maggiori dirigenti, inclusi Dubček e Černík (non Kriegel che fu espulso dal partito nel
maggio 1969)163 accettarono il diktat sovietico noto come protocollo di Mosca, smentendo le delibere del
congresso straordinario e rinunciando a larga parte degli obiettivi riformistici. Tutti quei fatti avvenivano nel
trentennale dell’occupazione nazista del 1938 e Smrkovský paragonò il protocollo di Mosca con quello
firmato dal presidente della Repubblica Hácha a Berlino nel marzo del 1939, con il quale il primo Stato
cecoslovacco ebbe fine.

Seguì una fase di ambiguità durante la quale si pose fine alla politica riformatrice, mantenendo quasi tutti i
massimi dirigenti al loro posto, in attesa di allontanarli in tempi successivi, come avvenne con Dubček,
Černík, Smrkovský e altri. Alcuni personaggi che si erano esposti molto, preferirono la via dell’esilio
temendo non a torto di subire misure pesanti, che peraltro furono prese nei confronti degli elementi più
liberali del partito e le associazioni nate in seno alla società, il Club degli impegnati senza partito e il Klub
231. Quell’emigrazione (posrpnová emigrace) andò a sommarsi a quella successiva al 1948 (poúnorová
emigrace), naturalmente operando perché restasse vivo quello che fu definito il mito del 1968 e ritenendo
valida l’idea che il socialismo realizzato in Cecoslovacchia fosse riformabile.

(Dottrina Brežnev) Alcuni mesi dopo Brežnev si preoccupò di teorizzare la giustificazione di quanto
avvenuto: la cosiddetta dottrina che da lui prese nome (nel linguaggio giornalistico) affermava che se il
socialismo fosse stato in pericolo in un Paese, gli altri Stati socialisti avevano diritto di intervenire. Era una
chiara limitazione della sovranità dei singoli Stati. Nel gennaio 1969 si ebbe la più clamorosa (non unica)
denuncia del sopruso che la Cecoslovacchia subiva: come accennato, lo studente universitario di fede
evangelica Jan Palach si diede fuoco nella centralissima piazza San Venceslao di Praga, imitato nei giorni
successivi da altri studenti. Una protesta così singolare risentiva forse degli esempi che venivano dai monaci
buddisti del Vietnam e, comunque si voglia giudicare la sua modalità piuttosto estranea ai costumi europei,
richiamava tutti – governi, partiti, opinione pubblica – ad assumere una posizione ed eventuali
responsabilità di fronte a un evento che non poteva essere lasciato cadere nell’oblio, come pure si rischiava
o da alcuni si desiderava. I funerali di Palach furono una impressionante manifestazione contro il corso
politico che si stava imponendo e contro l’occupazione sovietica: centinaia di migliaia le persone che
parteciparono.

Non si può tacere che la logica della guerra fredda e della spartizione delle sfere di influenza indusse
proprio il grande avversario dell’Unione Sovietica, cioè il governo statunitense, a fornire assicurazioni a
Mosca che nulla di concreto si sarebbe fatto seguire alle proteste ufficiali. Nella primavera 1969 Dubček fu
rimosso dalla segreteria e progressivamente ridotto allo stato di semplice cittadino (giardiniere) sottoposto
a misure di vigilanza. Nel 1970 un nuovo trattato di amicizia sovietico-cecoslovacco sancì il diritto
dell’Armata Rossa a restare sul territorio della repubblica: nella stessa epoca anche la ‘ribelle’ Romania siglò
un trattato simile ma è stato osservato che le clausole salvaguardavano l’indipendenza dello Stato romeno
(dove non erano stanziate unità militari sovietiche), il che non era nell’atto firmato dal governo di Praga.
Nel maggio 1971 il XIV° congresso del PC formalizzò la ‘normalizzazione’ in atto con le decisioni politiche
prese dalla massima assise del partito. Seguirono le tradizionali elezioni politiche con lista unica: quella del
Fronte nazionale, egemonizzato dal Partito comunista, nelle sue due versioni, cecoslovacco e slovacco.
In definitiva, tra 1969 e 1971 un terzo (circa 500.000 persone) degli iscritti al partito furono espulsi, si
dimisero o addirittura andarono in esilio. Per molti intellettuali e insegnanti l’espulsione dal partito significò
la perdita del posto di lavoro. Ciò che del partito rimase non fu comunque un blocco unito. I sovietici
avevano dato spazio ai «centristi» capeggiati da una figura ambigua come quella di Husák, responsabile
anni addietro di misure repressive ma anche vittima a sua volta delle purghe. E tuttavia qualche
conservatore aveva un significativo peso politico (Vasil’ Bil’ak). L’ascesa di Lubomír Štrougal alla presidenza
del Consiglio nel 1970 faceva sperare che un più moderato riformismo fosse possibile, nonostante
succedesse a un esponente della Primavera quale era Černík. Nessuno osava fare riferimento, nel gruppo
dirigente, alla politica del 1968. Se il XIII° Congresso del Partito comunista cecoslovacco era rimasto nella
linea della Primavera, ora nel 1971 un testo ufficiale si preoccupò di analizzare il quadro socio-politico (la
«crisi nella società e nel partito») su cui interveniva la ‘normalizzazione’.

Non si trattò di un fenomeno contingente, legato alla presenza sovietica sul territorio; venti anni dopo la
situazione non era molto cambiata. Il fatto che Husák dal 1975 fosse anche presidente della Repubblica,
oltre che segretario del partito, era quasi un simbolo di stalinismo ritornante, sebbene in veste moderata.
Insomma, nonostante molti comunisti riformisti espulsi (capeggiati da Smrkovský) avessero cercato di
ottenere un onorevole compromesso e di non fare arretrare eccessivamente la linea politica del partito,
una vera corrente riformista non trovò più spazio. Dopo il repulisti dei primi anni, i quadri del partito furono
alquanto rinnovati e i nuovi iscritti non andarono in genere a ingrossare le file riformiste, favorendo
piuttosto il carrierismo e l’esistenza di un potere che non cercava troppe giustificazioni ideologiche. La
popolazione sembrò dimenticare presto gli entusiasmi del 1968 e parve rifugiarsi nella sfera privata. Il
governo incentivò tale atteggiamento mentale impegnandosi nell’ottenere buoni risultati economici e
consentendo la crescita dei consumi, e non solo nei negozi (Tuzex) riservati alla nomenklatura e a chi
possedesse valuta occidentale. Non per caso il fenomeno del dissenso fu decisamente limitato sia prima sia
dopo la metà degli anni Settanta, quando sulla scia degli accordi di Helsinki fu costituito il movimento
Charta 77.

Si pose fine anzitempo anche al quarto piano quinquennale, avviato nel 1966, rinunciando a proseguire
nell’esperimento volto a consentire una relativa autonomia alle aziende pur nell’ambito dell’economia
socialista. Il sistema centralizzato sembrò tornare in auge, come il primato riconosciuto all’industria
pesante. Rimase a metà strada pure l’auspicato riequilibrio del sistema economico cecoslovacco, nel
rispetto delle vocazioni regionali: fu mantenuto l’obiettivo di industrializzare la Slovacchia e altre regioni
arretrate ma i risultati continuarono a essere deludenti. L’economia restava tuttavia solida, giovandosi delle
tradizioni di civiltà e dell’alto livello di istruzione e professionalità, e potendo contare su risorse naturali non
disprezzabili (era il caso dei depositi carboniferi). In definitiva lo choc politico non impedì alla società
cecoslovacca di avviare la ripresa dello sviluppo economico già con il quinto e il sesto piano quinquennale,
con cospicui investimenti nella produzione meccanica. Con il settimo piano (1981-85) crebbero
significativamente gli investimenti nel settore chimico, ancora sottodimensionato, e si manifestò persino
sensibilità per i problemi ambientali. Sicché nel 1982 il reddito annuo pro capite della Cecoslovacchia era di
3.310 dollari dell’epoca, secondo nel campo socialista solo a quello della Germania Est ma non in grado di
raggiungere quello dei paesi occidentali (Italia: 7.291 dollari). Il conservatorismo in politica interna non
vietò di migliorare le relazioni internazionali, in particolare con l’Austria e con la Germania Federale. Nel
1973 il governo di Bonn riconobbe come non valido il Patto di Monaco del 1938 e rinunciò a ogni pretesa
sui territori cecoslovacchi abitati da tedeschi sino alla fine del conflitto mondiale.

5. Ungheria: stalinismo, rivolta, normalizzazione

L’Ungheria aveva pagato a caro prezzo la partecipazione alla guerra e in particolare l’assedio di Budapest da
parte dell’Armata Rossa. La pesante crisi economica che caratterizzò gli ultimi mesi del conflitto e il primo
dopoguerra fu segnata da una iper-inflazione, tanto che nel biennio 1945-46 qualche stipendio o salario fu
costituito in parte da beni commestibili. L’altissima mortalità infantile fu spia delle sofferenze notevoli che
la popolazione sopportò. Fu necessario ricorrere a una radicale riforma monetaria sostituendo il pengő con
il forint con un cambio che intaccò alcuni risparmi; la manovra permise di risolvere la drammatica
situazione e riavviare dal 1947 la produzione, in alcuni settori recuperando addirittura i livelli prebellici.
Importante era pure riprendere gli scambi commerciali, nonostante la grande diffidenza che esisteva tra i
diversi Stati a causa delle incertezze economiche di ognuno di essi: il ricorso al clearing (scambio di merci
per valori complessivamente uguali) fu diffuso e costante, mantenendosi negli anni successivi soprattutto
con i Paesi occidentali, per il modello economico differente che si instaurò al di qua e al di là della
cosiddetta «cortina di ferro».

La fine del regime horthysta (e della breve parentesi di Szálasi) favorì come non mai da due decenni la
crescita delle simpatie per i partiti di sinistra, incluso quello comunista. Quest’ultimo poteva contare
sull’appoggio dell’occupante sovietico, ma si trattava un’arma a doppio taglio: infatti la popolazione mal
sopportava il comportamento e la stessa presenza degli occupanti. In un primo test elettorale,
probabilmente non del tutto attendibile, socialisti e comunisti sembrarono poter prendere la guida del
paese: si trattò di eleggere un parlamento provvisorio mentre ancora le operazioni belliche non erano
terminate. Con loro partecipò alla conduzione politica del paese un partito presente nel quadro politico
prebellico, il Partito dei piccoli proprietari (PPP), espressione degli ambienti contadini ma non solo, mentre
non ebbero alcun peso o non si presentarono alle elezioni formazioni che avevano avuto grande seguito
negli anni precedenti.

Queste considerazioni permettono di guardare con minore sorpresa al risultato delle elezioni politiche del
novembre 1945 e all’eccezionale successo conseguito dal PPP con il 57% dei voti e la maggioranza assoluta
dei seggi. Si pose allora il problema di continuare l’esperienza dei governi di unità nazionale oppure di dare
inizio a una competizione tra partiti diversi. I dirigenti del PPP si resero presto conto di essere obbligati a
restare alleati di comunisti, socialisti e Partito nazional-contadino vista la presenza dell’Armata Rossa nel
paese e perché era evidente come a Mosca si sarebbero decise le sorti dei confini della futura Ungheria. Il
primo ministro Ferenc Nagy e il ministro degli Esteri Gyöngyösi, alla testa di una folta delegazione, si
recarono in visita da Stalin per ottenerne l’aiuto in merito alla delicata e cruciale questione della
Transilvania. Il lodo Ciano-Ribbentrop del 1940 non era piaciuto a Stalin nella forma (decisione italo-tedesca
senza consultare il governo sovietico) ma nella sostanza poteva sembrargli accettabile. Tuttavia, all’epoca
del viaggio di Ferenc Nagy a Mosca le decisioni erano già state prese (cosa che Stalin non rivelò al suo
interlocutore) e proprio il rappresentante sovietico si era opposto a che si facesse la pur minima
concessione ai desideri degli Ungheresi, così come proposto da parte statunitense: in ogni caso si sarebbe
trattato solo di qualche migliaio di chilometri nelle zone di frontiera dove la tesi romena sembrava meno
sostenibile. Stalin, peraltro, aveva un motivo in più per appoggiare le richieste di Bucarest contro quelle di
Budapest: in Romania sin dal marzo 1945 aveva assunto il potere un governo in cui i comunisti avevano di
fatto grande peso, a scapito dei partiti tradizionali pur dotati di grande seguito nel Paese. Invece in
Ungheria il quadro politico sembrava ancora fluido.

Il PPP era una formazione politica non omogenea: questa constatazione, più che costituire motivo per
rinunciare a formare un governo monocolore oppure una più ristretta coalizione, spiega la scarsa resistenza
al violento attacco non solo politico che subì da parte del PC nel biennio successivo. Il PPP di fatto aveva
raccolto i voti non solo del proprio tradizionale elettorato (tra le due guerre mai aveva superato il 7%) ma
anche di elettori della destra conservatrice e di quella moderata, nonché della sinistra riformista e delle
donne, nettamente più numerose degli uomini. Va ricordato che lo stesso PC presentava correnti e opinioni
differenti, né tutti i militanti si riconoscevano in Mátyás Rákosi. Alcuni intendevano realizzare
immediatamente la rivoluzione, soprattutto sul piano sociale, riprendendo il progetto lasciato a metà dalla
Repubblica dei Consigli nel 1919, mentre altri giudicavano opportuna una politica di lento avvicinamento al
modello socialista sovietico, magari evitando di ripetere gli errori che i più informati sapevano essere stati
commessi in Unione Sovietica. Il fondatore del partito, Béla Kun, era stato vittima proprio del Grande
Terrore staliniano, sebbene all’epoca il fatto non fosse noto. Talora si palesavano divergenze tra quanti
avevano vissuto a lungo in Unione Sovietica come il segretario del partito Rákosi, o il suo stretto
collaboratore Ernő Gerő, e coloro che erano rimasti in patria durante il regime di Horthy oppure avevano
fatto esperienze guardate con sospetto a Mosca: era il caso della guerra di Spagna e del brillante dirigente
László Rajk.

Tenendo presente il quadro politico non del tutto favorevole i dirigenti comunisti adottarono una tattica in
cui alcuni atti decisi e abusivi si affiancarono ad altri rispettosi apparentemente delle regole democratiche e
dei sentimenti popolari. I processi politici furono meno numerosi che in altri paesi: furono giustiziati il capo
delle Croci frecciate Szálasi e alcuni generali, ma non ci fu l’eliminazione dell’intera classe politica
prebellica. I comunisti furono attenti tuttavia ad occupare le cariche maggiormente dotate di potere reale,
assumendo il controllo – ad esempio – del ministero degli Interni (con Rajk) e degli organi di polizia. Al
momento opportuno ciò permise di rendere impossibile una reazione concreta da parte degli altri partiti
politici. Peraltro il rappresentante sovietico in seno alla Commissione alleata di controllo seppe agire senza
rendere realmente conto del proprio operato ai rappresentanti statunitense e britannico; questi ultimi
dunque non poterono proteggere i politici ungheresi che cercarono di opporsi alla costituzione del regime
comunista pro-sovietico. Alcuni esponenti del PPP furono accusati di avere collaborato a organizzare un
colpo di Stato, insieme con elementi reazionari, contro la repubblica: l’accusa era paradossale poiché
coinvolgeva un partito che già era al governo e suoi esponenti di punta quali il segretario Béla Kovács e il
presidente del Consiglio Ferenc Nagy. Questi riparò all’estero, essendo sostituito alla guida dell’esecutivo
dal suo compagno di partito Lajos Dinnyés, l’altro fu arrestato e condotto in Unione Sovietica, e riacquistò
la libertà solo nel 1956. Il PC era avvantaggiato dal fatto che nello stesso PPP nessuno aveva l’ardire di
pronunciarsi contro la presa che il potente vicino orientale stava imponendo all’Ungheria.

I partiti al governo peraltro non erano contrari alle riforme che insieme attuarono: perché il PPP e il Partito
nazional-contadino avrebbero dovuto opporsi alla riforma agraria che divise le terre dei latifondisti tra
contadini piccoli o nullatenenti? Gestendo quella riforma il comunista Imre Nagy guadagnò una notevole
popolarità. Per il resto ancora fino al 1948 (un anno di svolta) non si era avviata una politica di
nazionalizzazioni generalizzate che facesse intravvedere l’introduzione sic et simpliciter del modello
economico sovietico, sollevando sicuri dissensi nella stessa coalizione di governo. Divisioni vi furono
riguardo all’espulsione della minoranza tedesca voluta soprattutto da comunisti e nazional-contadini: la
criticò, tra gli altri, lo studioso István Bibó, autore di varie opere tra le quali un libro del 1946 ma di duraturo
successo, Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale.

Il segretario del Partito comunista ungherese Rákosi (in un discorso ai militanti) definì la strategia che il PC
stava attuando verso gli altri partiti come la tattica del salame. Si trattava, in Ungheria come in altri paesi,
di indebolire gli avversari dividendoli. A ogni partito si doveva sottrarre una corrente per acquisirla alla
propria coalizione, finché non fosse rimasta soltanto una componente limitata del partito preso di mira,
componente cui sarebbe stato facile portare il colpo finale ordinandone lo scioglimento. Strano a dirsi, la
tattica del salame fu attuata in modo più efficace e chiaro in altri Stati piuttosto che in Ungheria. I dirigenti
del PPP ammisero, è vero, che dei militanti e altri dirigenti erano messi sotto inchiesta e allontanati dal
potere, espellendo la corrente che faceva capo a Pfeiffer, ma il reale, più cospicuo indebolimento del
partito uscito trionfante dalle elezioni del 1945 avvenne in seguito alla formazione di partiti alternativi alla
sua destra, i quali calamitarono molta parte del suo elettorato.

(Più delle manovre del PC o dei limitati brogli alle elezioni del 31 agosto 1947, proprio l’esistenza di una
concorrenza a destra spiega il modesto risultato conseguito dal PPP in queste ultime consultazioni politiche:
appena 15,40% (68 seggi) contro il 57% di due anni prima. Il Partito popolare democratico di István
Barankovics e il Partito dell’indipendenza di Pfeiffer ottennero il 16,41 (60) e, rispettivamente, il 13,41 (49
seggi). I risultati dimostrano che aritmeticamente, con l’appoggio delle due formazioni politiche già
ricordate e di altri piccoli partiti non posti sotto l’influenza del PC, il PPP avrebbe potuto egualmente
manovrare per costituire un esecutivo che lasciasse all’opposizione il PC, nonostante questo fosse con oltre
il 22% e cento deputati il primo partito, se non anche socialisti e nazional-contadini. In fondo l’opposizione
aveva sfiorato il 40% (eppure il governo aveva ostacolato la presentazione delle liste e dei candidati poco
graditi, come pure una parte dei cittadini non poterono esercitare il diritto di voto) e con i consensi ottenuti
dal PPP sarebbe divenuta maggioranza nel Paese. Si sarebbe potuto sfruttare l’irritazione di alcuni dirigenti
socialisti (ritenevano di essere stati danneggiati nel computo dei voti: con meno del 15% il PSD risultò in
calo rispetto al 1945) per separarli dal PC. Era però una semplice ipotesi numerica: politicamente i giochi
erano fatti, essendosi presentati assieme i quattro partiti di governo (PPP incluso) per ottenere un piccolo
premio di maggioranza in termini di seggi, che veniva assegnato secondo la nuova legge elettorale alla
coalizione che conseguisse il 60% dei voti, soglia superata a stento dal quadripartito.)

In definitiva il governo fu di nuovo espressione della coalizione di governo (PC, PPP, PSD, Partito nazionale
contadino) che poteva vantare in parlamento una maggioranza di 271 seggi su 411. In un normale contesto
democratico tale esito politico non costituiva di per sé la nascita di un regime illiberale. Furono gli atti
politici successivi a imporlo al Paese. Non irrilevante era lo scontento nelle file del PSD in cui si chiedeva
quanto meno un’alleanza con il PC alla pari. Nei primi mesi del 1948 dall’esterno il PC e dall’interno l’ala
filocomunista imposero al PSD l’esclusione dalla direzione dei riformisti: tra loro Anna Kéthly, Ferenc
Szeder, Lázló Farago, il ministro dell’Industria Antal Bán, mentre l’ex segretario Károly Peyer fu addirittura
accusato di spionaggio a favore degli USA. Seguì da lì a poco per tutti l’espulsione dal partito; peraltro nel
mese di aprile del 1948 fu revocato il mandato parlamentare a 32 deputati socialisti. Ciò dimostrava come
non si trattasse solo di una lotta politica interna a un partito ormai sulla strada della fusione con il PC, ma
dell’annullamento di qualsiasi dissenso anche nelle sedi istituzionali. All’atto della fusione (o fagocitazione)
del PSD con il PC 25.000 erano stati gli iscritti allontanati dal primo e non molti di meno dal secondo:
servivano militanti convinti e disciplinati e dunque i molti opportunisti aggregatisi ai nuovi padroni del
vapore non erano più utili. Nacque quindi il Partito unificato dei lavoratori ungheresi (PLU).

La revoca del mandato parlamentare ai deputati socialisti fece il paio con lo scioglimento d’autorità delle
formazioni di destra che contavano cospicui gruppi parlamentari: il Partito popolare democratico fu sciolto
nel febbraio 1948 (mentre il suo leader Barankovics riparava all’estero) e il parlamento diveniva così una
semplice cassa di risonanza di quanto deciso in seno al partito che di fatto gestiva da solo il potere. Mentre
a dicembre del 1948 il governo passava nelle mani di István Dobi (già esponente del PPP e incapace del pur
minimo gesto di dissenso nei confronti di Rákosi, forse anche per una certa tendenza all’etilismo), il PPP e il
Partito nazional-contadino furono ridotti a organizzazioni prive di autonomia il cui nome veniva rispolverato
al momento delle elezioni – ormai una mera finzione – quando la coalizione governativa si presentava sotto
la denominazione di Fronte popolare dell’indipendenza. Gli elettori potevano consegnare la scheda
ripiegata se favorevoli al Fronte, oppure barrare un apposito quadratino se volevano votare contro: per fare
ciò dovevano chiedere una matita, fatto che certo non favoriva la segretezza del voto, e infatti nel maggio
1949 il Fronte conseguì il il 96,25% dei suffragi (e in ogni tornata elettorale successiva intorno al 99%). Nel
clima di guerra fredda fattosi più gelido dopo la fondazione, nel settembre 1947, del Cominform fu
abbandonata ogni cautela nel salvaguardare i diritti di quanti non condividessero la politica governativa. Nel
giugno 1949 nasceva dunque il secondo governo Dobi con Gyula Kállai agli Esteri e János Kádár agli Interni.
Nell’agosto 1949 entrò in vigore una nuova Costituzione, adatta a una repubblica popolare e in sostanza più
vicina a quella del Paese campione del campo socialista, l’Unione Sovietica. Anche alla bandiera fu
apportato qualche cambiamento per ricordare l’ideologia cui si ispirava la repubblica popolare.

Lasciando agli usi retorici il riferimento alla democrazia popolare, Rákosi e compagni optarono decisamente
a favore del modello economico sovietico. Con la massima rapidità l’economia fu posta sotto il controllo
pubblico, e le energie del Paese furono dirette essenzialmente verso l’industrializzazione, al di là della
vocazione dell’Ungheria, priva di risorse minerarie rilevanti. Sempre a imitazione dell’Unione Sovietica, si
puntò prioritariamente sull’industria pesante parlando dell’Ungheria come «Paese dell’acciaio e del
carbone». La creazione di Sztálinváros, con le sue acciaierie, fu quasi l’emblema di tale politica.
Naturalmente il proletariato operaio andò crescendo di numero, ma fu una trasformazione non priva di
problemi, né la classe operaia ungherese si dimostrò pochi anni dopo consenziente nei confronti delle
decisioni governative e del partito che di essa voleva essere rappresentante. Dopo il successo della riforma
agraria del 1945, seguì per i contadini ungheresi (ancora molto numerosi) la delusione della costituzione
forzata delle fattorie collettive, secondo un processo socio-economico già sperimentato in Unione Sovietica
e avviato contemporaneamente anche negli altri Stati dell’area. La collettivizzazione non fu, nei primi anni,
rapidissima né la resistenza contadina fece registrare episodi frequenti di violenza.

Gli anni in cui Rákosi dominò la scena politica ungherese furono solo otto, dal 1948 al 1956, eppure sono
ricordati come un pesante e lungo periodo buio nel quale la popolazione visse in uno stato di profondo
timore. Non solo quanti non simpatizzavano per il regime che si andava costituendo subirono molteplici
forme di repressione, talora pagando con la vita, più spesso con la detenzione o con l’esilio. Politici,
intellettuali, religiosi (cattolici in genere), semplici contadini, anche operai, conobbero i campi di
concentramento. La Chiesa cattolica, e in particolare i suoi vertici, cercarono di opporsi in ogni modo al
nuovo regime e ai valori che intendeva imporre alla società. La Chiesa aveva anche interessi concreti da
difendere, essendo proprietaria di ampie tenute, ma soprattutto non poteva concedere ad altri di occupare
il posto che tradizionalmente aveva per gli Ungheresi. Durissimo fu il confronto sul tema dell’educazione
che il mondo cattolico intendeva continuare a gestire almeno in parte, mentre il governo vi operò una
significativa riforma.

La vicenda di Szakasits si inserisce in un altro dei fenomeni principali che caratterizzarono gli anni rakosiani:
quello delle purghe all’interno dello stesso PLU. La storiografia ha sempre sottolineato che proprio in
Ungheria ebbe avvio la stagione delle purghe, sicuramente ispirate da Mosca ma non prive di
caratteristiche e moventi locali. Invero quell’avvio andrebbe retrodatato almeno all’inizio del 1948 quando
fu arrestato il ministro della Giustizia romeno e importante esponente del PCR Lucreţiu Pătrăşcanu.

Tuttavia è vero che l’arresto di László Rajk, ex ministro degli Interni e poi degli Esteri, nonché presidente del
Fronte popolare per l’indipendenza, fece molto scalpore a Ovest e a Est. Il dirigente comunista ungherese
fu espulso dal PLU insieme con Tibor Szőnyi in giugno; poco dopo fu arrestato con numerosi cosiddetti
complici, tra i quali alcuni militari. Il processo si svolse nel settembre 1949: le accuse, infondate,
concernevano tradimento (grazie al fratello Endre, sottosegretario croce-frecciato, Rajk era scampato alla
morte nel 1944) e spionaggio, e, in termini più politici, titoismo e trockismo.

La vicenda ungherese conferma l’opinione diffusa tra gli storici che la rottura tra Stalin e Tito, avvenuta nel
giugno del 1948, sia stata uno dei moventi principali dell’ondata di repressione lanciata all’interno dei
partiti comunisti da poco impadronitisi del potere. Nell’ottobre 1949 Rajk fu mandato a morte con l’ex capo
del controspionaggio György Pálffy e altri imputati: 15 le condanne a morte, cui si aggiunsero, per altri dei
94 arrestati, condanne a pene detentive o ai lavori forzati: ben undici di loro morirono in carcere. A
conferma dell’assurdo clima di paura trenta persone si uccisero per timore di pagare a caro prezzo il fatto di
avere avuto rapporti politici o personali con gli inquisiti. Le purghe proseguirono nel biennio 1950-51.
Rákosi e Gerő, esponenti della corrente più fedele a Stalin e costituenti un vero ‘quartetto’ con Mihály
Farkas e Gábor Péter, furono certo i principali responsabili di quelle purghe, ma non gli unici. È noto
l’interrogatorio, dai toni kafkiani, cui Gyula Kállai e János Kádár sottoposero Rajk per convincerlo a
confessare colpe inesistenti. Proprio quei due esponenti del PLU – spesso definiti «liberali» – poco tempo
dopo saggiarono il carcere, la tortura e l’assurdità delle inchieste messe in piedi da quel regime. Ebbero più
fortuna di Rajk poiché, morto Stalin, si giovarono del nuovo clima politico degli anni di Chruščëv e poterono
tornare in libertà e svolgere attività politica anche in posizione eminente. Poterono tra l’altro assistere, tra il
1952 e il 1956, alla caduta di Péter e Farkas, che fecero un po’ da capri espiatori delle purghe, ma
soprattutto alla fine della carriera politica prima di Rákosi e poi di Gerő, nel tumultuoso 1956.

Intanto l’Ungheria, erede del glorioso passato di regno cristiano del centro del continente, articolata in una
doppia realtà, quella avanzata delle realtà urbane e della capitale e quella ben diversa delle campagne
cristiane e conservatrici nei costumi, fu nel volgere di pochissimi anni trasformata sull’esempio bolscevico,
sebbene gli osservatori più acuti cogliessero i limiti di quella trasformazione, per quanto radicale essa fosse.
Il cambio aveva colpito quasi tutti gli ambiti sociali, e se le purghe avevano sconvolto il mondo politico,
quello comunista e quello non comunista, esso non risparmiò il mondo intellettuale: tanti suoi campioni
preferirono la via dell’esilio, come lo scrittore Sándor Márai, riscoperto dalla critica e dal grande pubblico
solo decenni più tardi. Altri subirono pressanti critiche, se non una vera censura: fu il caso di György Lukács,
già presente nella compagine governativa della Repubblica dei Consigli del 1919 e destinato a comparire di
nuovo sul proscenio nel 1956, per poi ‘sopravvivere’ grazie anche ad un’autocritica non dignitosa. Simbolo
della stalinizzazione fu l’enorme statua di Stalin eretta a Budapest nel 1951.

Una parte della popolazione urbana fu costretta, almeno per alcuni anni, a trasferirsi nei villaggi rurali o in
piccoli centri: il regime ambiva a determinare e controllare le sorti quotidiane del popolo ungherese. Talora
per i meno fortunati la destinazione erano i campi di lavoro forzato. L’alto numero di ebrei presenti nei
quadri del partito e della polizia politica (l’odiata ÁVO, poi ÁVH) aveva fatto credere già nel 1945 che
l’elemento ebraico stesse consumando, almeno in alcuni frangenti, la sua vendetta per quanto subito
durante il conflitto mondiale. Tuttavia anche diversi ebrei delle città furono coinvolti nei trasferimenti
obbligatori verso le campagne.

Un altro segno distintivo della stalinizzazione fu la concentrazione delle cariche nelle mani di Rákosi, il
quale divenne dall’agosto 1952 presidente del Consiglio (essendo già segretario del PLU). Dobi, figura
sempre più incolore, fu ‘premiato’ con la nomina del tutto onorifica a presidente della Repubblica. Si palesò
in maniera ancora più chiara il culto della personalità, già evidente da tempo, sempre sulla scorta di quanto
avveniva da decenni in terra sovietica. Rákosi poté così vantarsi di essere il miglior discepolo di Stalin.
Sembrava che il successo del dittatore ungherese non trovasse più ostacoli, ma in realtà era già vicino il
momento in cui egli ne avrebbe trovato più d’uno sulla sua strada, sia all’interno del partito (cosa che al
momento forse contava di più) sia nel popolo ungherese. La resistenza solo momentaneamente silenziosa
di quest’ultimo non era motivata dalla illiberalità patente del regime o dalla nostalgia per il passato ovvero
dalla predilezione per ideologie più democratiche, ma pure dagli effetti che la politica economica ebbe sulla
vita quotidiana di ogni cittadino.
Per realizzare l’industrializzazione accelerata si finì per fare dipendere il paese dall’Unione Sovietica per
quanto concerneva le forniture di materie prime. Lo Stato era padrone assoluto dell’economia (già dal 1948
le banche erano di proprietà pubblica, così come le aziende che impiegassero più di cento addetti). Come si
è già detto, la collettivizzazione delle campagne fu considerata un esproprio da parte dei contadini medi che
avevano conservato le loro proprietà nel 1945, ma pure da quanti proprio con la riforma del 1945 erano
divenuti piccoli proprietari. La resistenza – sia pure non violenta e priva di una rappresentanza politica –
fece sì che nel 1953 il processo non fosse affatto completato. È giusto ricordare che Imre Nagy dissentì da
quella nuova politica agricola, essendo stato protagonista di quella precedente nel 1945: come Bucharin
negli anni Venti in Unione Sovietica, avrebbe voluto un’agricoltura florida e caratterizzata dalla piccola
proprietà, e un movimento cooperativistico spontaneo e non indotto. Per tali idee fu costretto
all’autocritica ed emarginato.

Se il piano economico triennale lanciato nel 1947 servì a completare la ricostruzione realizzata con notevole
vigore, esso avviò anche la trasformazione dell’economia in senso socialista. I risultati furono buoni
nell’industria pesante, che nel 1948 già pervenne ai livelli produttivi del 1938, mentre industria leggera,
agricoltura e settore alimentare restarono indietro, con conseguenze ovvie sulla vita dei cittadini.
L’applicazione del modello socialista sovietico e della correlata programmazione divenne chiara con
l’adozione nel 1950 del primo piano quinquennale. Era sintomatico che fossero nazionalizzate anche le
aziende che impiegavano più di dieci addetti. Si continuò invece a finanziare in modo insoddisfacente il
settore agricolo, il che non permise di invertire la tendenza a comprimere i consumi essenziali per la
popolazione. Nel 1953 vi furono manifestazioni di protesta da parte dei contadini. Inoltre i salari reali
decrebbero del 20%, secondo le stime degli economisti, contro le speranze di chi credeva nell’ascesa al
potere dei lavoratori. Mentre le energie del Paese erano indirizzate allo sviluppo del settore industriale,
senza peraltro che i risultati fossero dei più brillanti, i lavoratori dipendenti erano obbligati a sottoscrivere
buoni del Tesoro, con una decurtazione del salario. Le caratteristiche del sistema fiscale dei Paesi socialisti
non permettevano in realtà di comprendere in quale misura ogni singolo stipendio fosse soggetto al peso
del fisco.

La morte di Stalin fu un segnale di grande importanza per gli Ungheresi. Durante le cerimonie per la festa
nazionale del 15 marzo 1953 i diplomatici stranieri già percepirono alcune novità nella scenografia allestita
dalle autorità. Il piano quinquennale in corso non stava dando risultati brillanti e la politica personale di
Rákosi e dei suoi più stretti collaboratori andava contro le nuove indicazioni che venivano dal Cremlino, in
particolare per ciò che riguardava un maggior rispetto dei lavoratori e della loro fatica (il capo del governo
sovietico Malenkov aveva voluto esplicitamente che le forniture provenienti dai cholkoziani fossero
remunerate in misura più opportuna) e il concetto di dirigenza collegiale. Non era ammissibile più che lo
stesso uomo, per quanto abile e rispettabile, detenesse le maggiori cariche: dunque Rákosi fu invitato (nelle
due visite rese a Mosca) a lasciare a Imre Nagy la guida dell’esecutivo. Che fosse Nagy il nuovo capo del
governo non deve stupire se si tiene conto delle posizioni da questi (economista per professione) assunte
nei confronti del segretario del partito: per lui il regime politico non poteva considerarsi in ‘guerra’ con la
società, ma doveva governarla interpretandone le esigenze e conseguendone il consenso. L’intervento del
Cremlino schiudeva la strada a una nuova più serena stagione politica, ma era un’ulteriore dimostrazione di
come le sorti dell’Ungheria dipendessero in maniera assoluta dalle volontà della dirigenza sovietica. Il
Comitato centrale del PLU sembrò assolutamente prono alle indicazioni esterne e tendeva a schierarsi con
un leader o un altro a seconda delle simpatie che questi sapevano ottenere a Mosca .

Il governo Nagy durò due anni (luglio 1953-marzo 1955), ma si vide sin dall’esordio che il presidente del
Consiglio non avrebbe avuto vita facile. Il discorso che egli tenne in parlamento per conquistarne la fiducia
fu ben diverso da quello pronunciato da Rákosi al Comitato centrale: il primo fu molto più critico verso il
recente passato e promise riforme radicali, mentre il secondo fu prudente nelle ammissioni e ‘continuista’.
Di fatto Nagy si impegnò per realizzare le riforme promesse: liberazione di molte decine di migliaia di
internati, libertà di espressione per gli intellettuali, sospensione della collettivizzazione delle campagne,
sostegno alla produzione dei beni di consumo, rivitalizzazione del Fronte popolare dell’indipendenza fino a
farne il rappresentante delle esigenze popolari e un valido interlocutore per il PLU. Non riuscì nel suo
intento, sia per motivi oggettivi (la libertà riconosciuta ai contadini di uscire dalle fattorie collettive creò seri
problemi di carattere pratico) sia perché non lealmente sostenuto dai rákosisti.
Probabilmente la caduta di Malenkov a Mosca (la retrocessione a vicepresidente del Consiglio dopo una
pesante autocritica non ne espresse tutta la gravità) spiega perché i rákosisti riuscirono a rimuovere Nagy
dalla presidenza del Consiglio nell’aprile 1955 e sostituirlo con quello che parve essere un allievo di Rákosi,
il trentatreenne András Hegedüs. A lungo quegli eventi furono interpretati in modo un po’ meccanico, ma
invero la situazione restava fluida: se Nagy fu persino espulso dal partito (una misura veramente
inspiegabile) senza serie opposizioni, Rákosi non tornò ad essere padrone assoluto del partito e del Paese.
Nel Comitato centrale non tutti avrebbero seguito il segretario a oltranza, se appena Mosca non lo avesse
sostenuto senza remore. Negli ambienti intellettuali, sebbene interni o affini al partito, si era andata
coagulando una seria opposizione alla politica rakosiana: era il Circolo Petőfi (dal nome del poeta eponimo
del Risorgimento ungherese). Il circolo si fece portavoce dell’insoddisfazione presente nella società e della
richiesta di procedere nella revisione della oscura pagina delle purghe, oltre che delle riforme avviate da
Nagy. In particolare si insisteva sulla riabilitazione di Rajk e delle altre vittime di quel processo.

Il clima di disgelo nelle relazioni internazionali rendeva meno necessaria, agli occhi dei sovietici, la presenza
al vertice dei paesi satelliti di un uomo forte, oltre che fidato. Prevaleva l’idea che i regimi filosovietici
dovessero guadagnarsi quanto più possibile consenso e in questo senso Rákosi non era il personaggio più
adatto. Intanto il governo Hegedüs firmò l’adesione al Patto di Varsavia (l’alleanza dei paesi comunisti
europei), che consentiva ai sovietici di mantenere i loro contingenti sul suolo magiaro, nonostante fosse
venuta meno la condizione per cui essi erano rimasti anche dopo la firma dei trattati di pace del 1947:
infatti contemporaneamente anche l’Austria ebbe il suo trattato di pace e quindi non vi era più la necessità
di garantire, attraverso l’Ungheria, i collegamenti con i reparti dell’Armata Rossa dal 1945 presenti sul
territorio austriaco. Sempre nel 1955 l’Ungheria fu ammessa nell’ONU: le superpotenze si erano messe
d’accordo per sostenere le candidature dei Paesi a esse vicine (l’Italia non per caso fu ammessa nello stesso
anno).

In Ungheria non si era messo in discussione il primato dello sviluppo dell’industria pesante e si era riavviata
la collettivizzazione delle campagne, realizzata solo per metà ma che avrebbe dovuto essere conclusa nel
1960. Tuttavia si mantenne in essere la maggiore circolazione di prodotti di consumo. Il secondo piano
quinquennale fu improntato a criteri non eccessivamente severi, sempre in linea con la politica
chrusceviana: insomma un rallentamento nell’attuazione del progetto socialista sovietico era ammissibile.
Tutto questo ormai non bastava all’opinione pubblica: molti avrebbero voluto proseguire sulla strada della
liberalizzazione nagysta, magari conseguendo maggior benessere e più ampi margini di libertà individuale e
collettiva. Il popolo ungherese era dunque terreno fertile per gli impulsi che giunsero in primo luogo dal XX°
congresso del PCUS e dal Rapporto segreto di Chruščëv: le accuse che egli rivolse esplicitamente a Stalin,
potevano essere in sedicesimo le stesse da rivolgere a Rákosi (con la differenza che questi era ancora in vita
e al potere).

Le agitazioni in Polonia furono un ulteriore incentivo perché in Ungheria la situazione si mettesse di nuovo
in movimento. Il segretario del PLU cercò di mettere a tacere il circolo Petőfi, e ne ottenne una condanna
politica dal partito: si trattò di una vittoria di Pirro poiché subito dopo seguirono ripetute consultazioni con
Mosca il cui risultato fu l’allontanamento dello stesso Rákosi dalla segreteria e dal Comitato centrale. Fu
una rimozione ‘morbida’ poiché il vecchio leader fu trattato con tutti gli onori, ma il significato politico fu
inequivocabile. Infatti essa fu abbinata a una delibera del CC del luglio 1956 che di fatto era il
riconoscimento della giustezza della politica nagysta. Si fecero anzi pressioni su Nagy perché pronunciasse
un’autocritica di rito al fine di essere riammesso nel partito, cosa che egli rifiutò sdegnosamente ritenendo
che non toccasse a lui ammettere degli errori quando gli altri dirigenti di fatto lo stavano facendo.

Se l’indicazione politica era sufficientemente netta, il rinnovamento dei vertici del partito non fu altrettanto
chiaro. Elementi ‘liberaleggianti’, come Kádár e Kállai, furono riabilitati e inseriti nell’Ufficio politico, ma alla
segreteria ascese il più fidato collaboratore di Rákosi, Gerő. Una parte dell’opinione pubblica, fuori e dentro
il PLU, chiedeva ulteriori passi in avanti. I fermenti, soprattutto negli ambienti studenteschi, si fecero
sempre più vivaci, con richieste dal significato inequivoco: abolizione dell’organizzazione studentesca creata
dal regime e ripristino della precedente tradizionale organizzazione, ma anche fine della censura in ogni
ambito, libertà di critica politica e molte altre richieste, tutte insieme destinate a costituire un manifesto-
programma detto dei 14 punti (o dei 16 punti). I giovani ormai non temevano di scendere in piazza, cosa
che non si faceva più dalla presa di potere comunista. Le loro rivendicazioni cominciarono a trovare il
consenso di molta parte della popolazione e degli stessi ambienti operai.
I mesi di settembre e ottobre videro la maturazione dell’agitazione, sempre più generale. Ora si chiedeva il
ritorno di Nagy al governo, appena riammesso nel partito, e a tal fine si convocò una grande manifestazione
per il 23 ottobre. Gerő, il quale si trovava in Jugoslavia, negò l’autorizzazione e si espresse sprezzantemente
verso i suoi promotori. Di fronte all’opinione diversa di altri dirigenti, dovette cedere e non solo la
manifestazione si tenne, ma i manifestanti veramente numerosi ottennero che Nagy fosse chiamato a
parlare. Quando egli si rivolse loro usando il termine «compagni» non mancarono i fischi, né il suo discorso
fu sufficientemente rassicurante. Tuttavia il fatto che poche ore dopo egli assumesse la guida dell’esecutivo
fu prova concreta che il regime scendeva a patti. Intanto però nei pressi della Radio vi furono seri incidenti
tra manifestanti ed elementi della polizia politica che fecero ricorso alle armi da fuoco lasciando sul terreno
alcuni morti. Seguì un furibondo assalto che portò all’occupazione dell’edificio, né meno importante fu la
solidarietà di alcune forze militari verso i manifestanti, fatto che portò alla distribuzione di armi anche a
questi ultimi.

Di fatto si creò un clima da guerra civile, se pure in termini limitati. Dalle fabbriche (in primo luogo quelle
del sobborgo della capitale Ujpest) fecero sentire la loro voce i consigli operai, per niente disposti a
sostenere il regime. L’agitazione si diffuse rapidamente e a macchia d’olio nell’intero Paese. In seguito da
parte comunista si disse che i vecchi horthysti o Croci frecciate avevano preso il controllo della piazza: se
anche alcuni episodi, soprattutto i più cruenti – in genere aventi come vittime gli agenti della polizia politica
(AVH), ora sciolta –, possono farsi risalire a responsabilità di simpatizzanti di quelle ideologie, resta il fatto
che il movimento fu molto più ampio e generale, tanto da meritare la denominazione di rivoluzione
nazionale, rifiutata per oltre trenta anni dalla storiografia e dalla pubblicistica180. L’intervento delle forze
armate sovietiche, presenti sul territorio ungherese, persino nelle vie della capitale, giustificò ancora di più
sia la lotta armata degli insorti sia quella denominazione.

Nagy cercò una soluzione politica, convincendo il Cremlino a ritirare le truppe che stazionavano nelle
campagne. Da Mosca vennero dichiarazioni che aprirono la strada alle più rosee speranze. D’accordo con il
presidente del Consiglio e altri dirigenti, Kádár assunse la segreteria del partito (fino allora era stato
segretario del CC) estromettendo dunque Gerő che riparò, come Rákosi, in Unione Sovietica. La
denominazione fu mutata in Partito socialista unificato ungherese (POSU), ma solo un ottavo dei militanti
confermò l’iscrizione. Sembrava possibile ritornare almeno al pluralismo parziale del 1947, e il governo
consentì che riprendessero la loro autonoma attività il PPP, il PSD, il Partito nazional-contadino o Petőfi
Part, essendo rimessi in libertà i loro esponenti. Di più, Nagy volle includerli nell’esecutivo che così diveniva
reale espressione di una coalizione (quattro i ministri comunisti, otto quelli non comunisti). Nel Paese la
situazione continuava a essere fluida con la frontiera occidentale assolutamente permeabile a giornalisti,
fuoriusciti che rientravano, forse anche ad agenti di Stati stranieri. Le singole realtà locali (città, villaggi,
fabbriche ecc.) sembravano godere di assoluta autonomia, il governo avendo un controllo limitato del
territorio. Di tale quadro al Cremlino si iniziò a dare un giudizio piuttosto preoccupato, al di là delle
dichiarazioni. Peraltro i Paesi occidentali si trovarono in seria difficoltà a giudicare e a gestire quella crisi.
Infatti era scoppiata nel frattempo la devastante crisi di Suez che vide Washington su posizioni opposte a
quelle di Londra e Parigi che, con l’aiuto di Israele, cercarono di imporre la propria volontà al governo
egiziano di Nasser (e dunque oggettivamente vicina alle posizioni di Mosca). L’intreccio tra le due crisi finì
per influire sulla sorte della rivoluzione ungherese. Da una parte il Cremlino si convinse che non fosse
possibile perdere un’importante pedina posta (come l’Ungheria) alla frontiera con il campo occidentale, e
che l’Occidente non avrebbe reagito né militarmente né compattamente a un’azione militare sovietica. La
previsione fu assolutamente esatta e fu avallata anche dai leader degli altri partiti comunisti, inclusi Mao
Zedong, Tito e Gomułka, da poco segretario del partito polacco.

Ancora il 1° dicembre Kádár espresse pieno appoggio alla politica del governo Nagy, ma verso sera dello
stesso giorno raggiunse, con Ferenc Münnich, l’ambasciata sovietica retta da Jurij Andropov (futuro capo
del KGB e per un breve periodo segretario del PCUS) e quindi lo stesso territorio dell’Unione Sovietica da
dove il 3 tornò in patria proponendosi alla testa di un nuovo esecutivo («operaio e contadino») che desse la
copertura politica al nuovo intervento militare dei carri armati con la stella rossa. Il 2 lo stesso Andropov
assicurava l’ambasciatore italiano Franco che Mosca non intendeva interferire con la politica ungherese e
che riconosceva come accettabile e valido il programma dei 14 punti, ma in verità la decisione doveva già
essere stata presa da Chruščëv e compagni. Su di essa pesò anche la scelta di Nagy di uscire dal Patto di
Varsavia e dichiarare la neutralità dell’Ungheria. All’alba del 4 egli lanciò un ultimo appello al mondo
dichiarando ingiustificata l’invasione, per poi rifugiarsi presso l’ambasciata jugoslava con gli altri ministri,
tra i quali il colonnello Pál Maléter, titolare della Difesa, rimanendo in sede solo István Bibó, ministro da un
giorno (e per questo fu condannato all’ergastolo). Per le strade gli insorti, civili e militari, combatterono
coraggiosamente con i mezzi disponibili e ci vollero diversi giorni prima che ogni focolaio di resistenza fosse
spento: numerosissime furono le vittime per un totale di 2.500 (e oltre 700 tra i sovietici), e molti di più i
feriti, mentre i profughi si calcolano in 200.000 persone. In forma pacifica i consigli operai continuarono a
manifestare il loro dissenso dalla piega politica che avevano preso i fatti. Kádár (non diversamente da
Gomułka in Polonia) fece di tutto per rassicurarli accedendo a concessioni di qualche significato.
Dall’Occidente giunsero aiuti molto limitati: Washington in particolare seguì una linea di prudenza fatta di
condanne politiche e morali, senza conseguenze concrete, e su questa strada fu seguita dall’ONU, non
senza contraddizioni. Nonostante le promesse, Kádár attuò una durissima repressione: i tribunali emisero
oltre duecento condanne a morte, eseguite (una toccò a uno studente ancora minorenne e l’ultima fu nel
1961), e molte altre migliaia a detenzione dura e lunga; del 1962 fu la condanna a tre anni in contumacia
per la socialdemocratica Anna Kéthly che Nagy aveva nominato rappresentante all’ONU. Le concessioni
fatte ai consigli operai restarono inoperanti, essendo annullato nel 1957 il loro riconoscimento formale, e la
politica antecedente la rivoluzione fu ripresa con poche varianti. Si trattava, nello specifico, di non perdere
il controllo su una parte importante dell’economia e della società, ma anche di non dare ragione
all’ideologia titoista. Se Tito non era più considerato dal Cremlino e dai paesi satelliti un eretico da
combattere, è pur vero che l’esperienza innovatrice dell’autogestione attuata in Jugoslavia non fu fatta
propria dal blocco sovietico.

(Arresto NAGY) Le relazioni tra Belgrado, Budapest e Mosca furono macchiate dall’affare Nagy: il governo
Kádár accettò di garantire l’incolumità e la libertà a lui e alle quaranta persone che erano con lui, se
avessero accettato di lasciare l’ambasciata jugoslava. Quando però essi ne uscirono furono arrestati dai
soldati sovietici poiché l’accordo non era stato sottoscritto anche dai rappresentanti dell’Unione Sovietica:
già tale gesto non sembra cavalleresco né corretto. La stessa sera dell’arresto Nagy ebbe un incontro con
un comunista romeno che lo conosceva da tempo, Valter Roman (Ernst Neuländer, ebreo nato a Oradea
Mare o Nagyvarad quando la città era ancora nei confini dello Stato ungherese). Si voleva che Nagy facesse
autocritica (ancora una volta!), ma egli continuò a insistere nell’affermare di non aver fatto nulla contro il
partito e la sua ideologia, ma solo di aver servito gli interessi del Paese. Di fronte a questa netta
affermazione si dispose il suo trasferimento e dei suoi compagni nei pressi della capitale romena Bucarest,
e precisamente nella località turistica di Snagov. Qui il gruppo trascorse molti mesi sotto la stretta
sorveglianza (con ricorso a intercettazioni ambientali) della Securitate romena, sebbene godesse di una
certa comodità nei primi tempi, comodità che si fece sempre più ridotta, giungendo Nagy a chiedere
ripetutamente le medicine per i suoi seri problemi cardiaci. Da Snagov egli scrisse ai compagni ungheresi,
ma anche ai leader comunisti di altri paesi (né Tito né Togliatti gli risposero) al fine di dimostrare che la sua
linea politica non aveva affatto esposto il Paese alla reazione. Insisteva sulle responsabilità del gruppo
vicino a Rákosi e per sé proponeva un futuro ruolo anche di seconda linea, ricordando la propria
preparazione economica.

L’auspicata autocritica non venne mai. Nell’aprile 1957 il gruppo rientrò, abbastanza provato, a Budapest e
molti vi continuarono la detenzione, che si fece ancora più pesante. Anche in seguito a un dibattito tra i
dirigenti comunisti di diversi paesi (con i cinesi in prima linea e su posizioni molto dure e polemiche verso
Tito con cui anche Chruščëv aveva momentaneamente rapporti freddi) si decise di mettere in piedi un
processo a porte chiuse – più volte interrotto – ma dall’esito scontato, almeno per Nagy: condanna a
morte, eseguita il 16 giugno 1958. L’ultima fase del processo fu ritardata su richiesta del segretario del
Partito comunista italiano Palmiro Togliatti che aveva condannato apertamente l’insurrezione ungherese
tanto da causare un limitato dissenso nel proprio partito e con i socialisti italiani, ma non desiderava un
condizionamento negativo delle elezioni politiche italiane che si tennero in quella primavera. Oggi
sappiamo che persino nell’ultimo atto di quella tragedia Nagy non volle riconoscersi colpevole di nulla,
usando espressioni alquanto nobili.

I dirigenti comunisti, ungheresi e non, si adeguarono nelle loro dichiarazioni alla vulgata, dura a morire, sui
«fatti d’Ungheria», interpretati come un tentativo controrivoluzionario (ellenforradalom), ma dovevano
essere ben consci che l’ottobre ungherese aveva dimostrato quanto poco solido fosse il regime, come non
potesse contare sul sostegno della classe operaia che intendeva rappresentare politicamente e avesse
assoluta necessità della sponda sovietica, senza la quale non sarebbe sopravvissuto a lungo: qualsiasi cenno
di liberalizzazione al Cremlino era, invece, fonte di speranze nella popolazione e di timore in quanti
intendevano conservare il regime stesso. Di converso ogni tentativo di mutare profondamente o abbattere
il regime comunista non poteva avere successo, senza il benestare o almeno la neutralità di Mosca, come
dimostrarono, in un certo senso, i fatti cecoslovacchi del 1968 e il biennio 1988-89, in un altro. La
controprova sta nel tentativo di ‘recuperare’ quanti avevano sostenuto la rivoluzione proprio in nome del
socialismo ma non disgiunto dai principi di libertà, e soprattutto nel nuovo corso che Kádár lanciò negli anni
Sessanta.

6. La Romania dall’allineamento all’eresia

La Romania uscì dal secondo conflitto mondiale in condizioni ben diverse rispetto all’altro dopoguerra.
Questa volta il territorio nazionale subì una decurtazione non trascurabile (da 295.049 a 237.500 km²)
poiché le province orientali, Bessarabia e Bucovina settentrionale, per le quali Antonescu aveva condotto il
Paese in guerra e per le quali non aveva accettato di trattare l’armistizio, furono perse a vantaggio
dell’Unione Sovietica. Un referendum locale, pilotato dagli occupanti e da militanti comunisti, parve
mettere in dubbio la sovranità anche sull’angolo nord-est della Transilvania, più precisamente sul
Maramureş, dove si costituì un governo ispirato dal movimento separatista ucraino. Tale iniziativa politica,
certamente tollerata dai sovietici, mentre ancora a Bucarest non vi era un governo di sinistra, fu effimera
né ebbe alcun seguito. Egualmente ci volle qualche tempo (alcuni mesi di autonomia dalla capitale fra il
novembre 1944 e il marzo 1945) per comprendere che l’Unione Sovietica non avrebbe consentito che altre
province della Transilvania, sebbene a forte presenza di Ungheresi, potessero essere restituite all’Ungheria
come stabilito nel lodo di Vienna del 1940. In quest’ultima vicenda giocò a favore della Romania il suo
rapido allineamento a Mosca. Già nel marzo 1945, infatti, a Bucarest era stato insediato il governo
capeggiato da Petru Groza, per precisa volontà del proconsole di Stalin Višynskji. Esso fece seguito agli
esecutivi guidati da militari (Sǎnǎtescu e poi Rǎdescu) voluti dal giovane re Michele dopo l’arresto di
Antonescu. Dunque Groza, leader del Partito degli aratori (cioè contadini non agiati) e fedele alleato del
PCR, ebbe modo di guadagnarsi le simpatie di Stalin e allo stesso tempo di consolidare le posizioni
governative non confortate da alcun responso elettorale. Il primo significativo atto legislativo riguardò una
nuova divisione di terre ancora incluse nelle residue grandi proprietà. La logica applicata non era diversa da
quella della riforma degli anni Venti: si crearono infatti numerose nuove piccole proprietà con un impatto
complessivo notevole, sebbene non paragonabile a quello della precedente riforma. È credibile che il
governo con tale atto abbia guadagnato un discreto consenso popolare.

Su un piano più specificamente politico, da una parte si applicò l’accordo concluso nel dicembre 1945 tra i
governi sovietico, statunitense e britannico perché nell’esecutivo entrassero un esponente del Partito
nazional-liberale (PNL) e uno del Partito nazional-contadino (PNŢ), presenze dimostratesi di fatto
impalpabili; dall’altra si procrastinarono quanto più possibile le consultazioni elettorali. I cittadini romeni
poterono finalmente esprimere la loro volontà politica soltanto nel novembre 1946, a oltre due anni dalla
caduta di Antonescu, ma ormai il governo aveva preparato con cura quel fondamentale passaggio. Non
soltanto alcune norme elettorali avvantaggiarono i partiti che lo sostenevano ma il voto fu ampiamente
truccato, soprattutto dove più atteso era il successo dei partiti di opposizione. Stando ai documenti di
archivio, un risultato reale che avrebbe consegnato la vittoria al PNŢ e al PNL fu trasformato in clamoroso
successo del Blocco dei partiti democratici (nuova denominazione del Fronte democratico nazionale) che
occupò in parlamento 378 seggi su 414, essendogli attribuito il 79,86% dei voti (71% senza l’Unione
popolare magiara). Appena 32 deputati nazional-contadini, tre liberali e due contadini democratici
rappresentavano l’opposizione.

Il ricorso a determinanti brogli fu necessario nonostante l’abile lavoro politico degli esponenti comunisti.
Non solo avevano guadagnato l’alleanza del Partito degli aratori, del piccolo Partito nazionale popolare,
diretto da Petre Constantinescu-Iaşi, e di una buona parte del PSD (l’antico suo leader Constantin Titel
Petrescu ne era uscito costituendo il PSD indipendente), ma erano riusciti a tirare dalla loro parte anche
un’ala del PNŢ, capeggiata da Anton Alexandrescu, e il Partito liberale costituito, in concorrenza con il
tradizionale PNL, da un esperto uomo politico quale Gheorghe Tătărescu, già presidente del Consiglio a più
riprese con re Carol II. Con tali alleati si era usata ogni forma di convincimento: il PCR riservò a sé appena la
terza posizione nell’alleanza di governo quanto a numero di seggi, lasciando un numero di poco maggiore ai
liberali di Tătărescu e ai socialisti democratici.
Si trattava, come dimostrarono gli eventi successivi, di una grande finzione. Quando fu opportuno e sembrò
essere possibile farlo, i tataresciani furono addirittura esclusi dal parlamento (6 novembre 1947), mentre i
socialisti democratici dovettero piegarsi a una fusione che di fatto significava annessione al PCR. L’avere
imposto i propri uomini alla Camera da parte di questo partito significò dare inizio a un vero regime senza
legittimazione democratica che ridusse progressivamente gli spazi di libertà, ricorrendo a metodi illegittimi
e illiberali per impedire qualsiasi opposizione. Basta dire che lo stesso Tătărescu, tanto utile al momento di
partecipare ai lavori della Conferenza della pace, fu estromesso dalla politica e poi arrestato poiché
tardivamente aveva protestato per come dirigenti e militanti del PNŢ e del PNL furono inquisiti e sottoposti
a misure detentive, finché i due partiti storici non furono sciolti d’autorità o costretti ad autodissolversi, non
diversamente dal PSD indipendente il cui leader Titel Petrescu fu a sua volta condotto in carcere.

Sostanzialmente alla fine del 1947 il PCR era padrone assoluto del campo con i suoi più fedeli alleati. Se
avvenne la già ricordata fusione tra comunisti e socialdemocratici e nacque il Partito dei lavoratori romeni
(PLR), che celebrò il suo primo congresso nel febbraio 1948, allo stesso tempo si fusero il Partito degli
aratori e il Partito nazional-contadino guidato da Alexandrescu, la frazione dissidente e filocomunista del
tradizionale partito diretto da Maniu; infine nel 1953 anche questa formazione si sciolse, essendo
chiaramente prevalsa l’idea che un solo partito (comunista) dovesse governare il Paese. Per suo conto
l’Unione democratica ungherese, molto utile nella battaglia politica in Transilvania, all’inizio del 1948,
simbolicamente, trasferì la sua sede centrale da Cluj a Bucarest. Fatta bersaglio di forti critiche ideologiche,
finì per divenire una «cinghia di trasmissione del PCR in seno alla minoranza magiara», per essere poi
sciolta nel 1953. Alle elezioni del 28 marzo 1948 gli ormai indiscussi detentori del potere si presentarono
con il nome di Fronte della democrazia popolare, ottenendo quasi tutti i seggi disponibili (405). Furono
tollerate due minuscole rappresentanze parlamentari ad esso esterne, il Partito nazional-liberale di Petre
Bejan (sette deputati) e il Partito contadino democratico di Nicolae Lupu (due seggi). Dopo di allora le
elezioni ebbero un carattere puramente rituale: alla lista di governo furono assegnate percentuali di
consensi sempre più prossime al 100%. Al congresso di fondazione del PLR si registrarono anche i primi
passi di una pulizia interna degli stessi ranghi comunisti, con l’attacco al ministro della Giustizia Pătrăşcanu.
Per lui fu solo l’inizio di un lungo calvario durato sino al 1954 quando, dopo un processo farsa, fu mandato a
morte. La vicenda ebbe aspetti molto particolari che aiutano a capire le dinamiche della lotta interna al
partito al potere, ma anche in relazione al protettore sovietico. Intanto fu la prima purga nel blocco
sovietico, antecedente anche a quella che colpì l’ungherese László Rajk nel 1949. Le motivazioni
riguardarono i rapporti tra dirigenti comunisti – Pătrăşcanu era un personaggio atipico e si attirò le antipatie
di più di un compagno di partito – ma presto non mancarono infondate imputazioni concernenti sia illeciti
rapporti con le potenze occidentali sia simpatie titoiste. Le uniche accuse con qualche fondamento avevano
a che fare con la linea politica che l’ex ministro aveva mostrato di preferire con alcuni suoi gesti o in alcune
conversazioni: si trattava di divergenze che in un partito portano al confronto politico e non all’eliminazione
fisica di un dirigente e di tanti altri che furono coinvolti a vario titolo nell’inchiesta e nel processo. Ancora,
quella purga registrò la partecipazione di agenti sovietici che rappresentarono la volontà del Cremlino.

Infine, essa si intrecciò con un’altra purga politicamente più importante, sebbene dall’esito incruento.
Infatti nel 1952 avvenne lo scontro aperto tra i massimi dirigenti romeni: da una parte il segretario
Gheorghe Gheorghiu-Dej, dall’altra la notissima Ana Rabinsohn Pauker, ministro degli Esteri, e gli uomini a
lei vicini. Dopo la rimozione e l’uccisione del segretario Ştefan Foriş (István Foris) a opera dei suoi stessi
compagni, e un periodo di transizione guidato da una trojka (Constantin Pârvulescu, Ion Rangheţ e Emil
Bodnăraş), di fatto il partito era diretto dal 1945 da quattro persone: Gheorghiu-Dej, Pauker, Teohari
Georgescu e Vasile Luca. Stalin personalmente indicò il primo dei quattro per la carica di segretario,
preferendolo alla Pauker, che pure stimava e conosceva bene, perché donna ed ebrea, due caratteristiche
che il popolo romeno non avrebbe apprezzato. Sebbene gli altri tre fossero talora indicati come
«moscoviti» poiché ritornati in patria insieme con l’Armata Rossa, Stalin non impedì al segretario di batterli
politicamente e costringerli in stato di detenzione. Per l’ebrea Pauker si trattò di arresti domiciliari senza
processo, che si protrassero fino alla morte per malattia nel 1960; per Georgescu di una severa condanna
finché non fu liberato e restituito al lavoro in una tipografia; Luca (un ungherese in realtà, László Luká) fu
condannato a morte nel 1954, condanna commutata in ergastolo per cui morì in carcere, non diversamente
dai leader dell’opposizione quali Iuliu Maniu e Ion Mihalache, nazional-contadini, Constantin Brătianu,
liberale, Ion Flueraş, socialdemocratico, e tanti altri. Separatamente fu arrestato anche Corneliu Coposu,
giovane e stretto collaboratore di Maniu, il quale riuscì a sopravvivere a 15 anni di detenzione e vide
persino la fine del comunismo e la rifondazione del PNŢ: le pesanti condizioni carcerarie ne segnarono
profondamente il fisico, avendo perso alla liberazione circa la metà dei suoi 130 chili189. È stato osservato
che due delle principali vittime delle purghe, Luca e Pauker, non erano etnicamente romeni ma non è del
tutto chiaro se si volle dare un carattere più ‘nazionale’ a un partito che dagli anni Venti era stato guidato
da non romeni. Si osservi che agli Esteri la Pauker fu sostituita da un altro ebreo, Simion Bughici, proprio
mentre al Cremlino spirava il vento del senile antisemitismo di Stalin. La Camera proclamò la repubblica il
30 dicembre 1947 e approvò la nuova Costituzione il 13 aprile 1948: seguì una copiosa legislazione che
portò alla nazionalizzazione di banche, industrie, miniere, assicurazioni e trasporti. La nascita della
Commissione statale per la pianificazione economica dimostrò l’indirizzo che stava prendendo la politica
economica: era quello l’organo centrale che, secondo il modello sovietico, doveva sovrintendere alla
trasformazione dell’economia. Peraltro il Cremlino osservò da vicino e influenzò tali novità anche per la
presenza, per diversi anni ancora, di società economiche miste romeno-sovietiche che sembravano
salvaguardare soprattutto gli interessi dell’Unione Sovietica. Il popolo romeno diceva sottovoce: «noi diamo
ai russi il petrolio, e loro ci prendono il grano». Nonostante la firma del trattato di pace, l’Armata Rossa era
ancora stanziata in terra romena, fatto giustificato dall’occupazione in atto dell’Austria che non aveva
firmato il proprio trattato di pace. Quando, nel 1955, ciò avvenne, i tempi erano maturi per costituire
l’alleanza politica militare degli Stati comunisti, il Patto di Varsavia, che consentì il proseguimento della
presenza militare sovietica in terra romena finché nel 1958 Chruščëv, sollecitato informalmente da
Bucarest, decise il ritiro degli ultimi contingenti (peraltro non numerosi), anche come atto di distensione
verso l’Occidente.

Per un Paese agricolo come la Romania fondamentale fu la politica agraria. Dopo che nel 1948 furono
create le stazioni di macchine e trattori di proprietà statale, il 5 marzo 1949 una risoluzione del Comitato
centrale del partito decise la trasformazione dell’agricoltura in senso socialista. Furono espropriate le poche
proprietà ancora superiori a 50 ettari per un totale di circa 340.000, si alleggerì in modo significativo il peso
fiscale sulle piccole e medie aziende agricole e si cominciò a costituire aziende collettive con i vari
appezzamenti secondo il modello sovietico: parallelamente i proprietari privati dovettero soggiacere a
pesanti consegne fissate per decreto, che variavano dal 20% al 60% del prodotto.

In capo a dodici anni la collettivizzazione delle campagne era completata. Nella prima fase i tempi furono
molto lenti: il 1958 segnò una improvvisa accelerazione dopo le decisioni prese al plenum del Comitato
centrale del novembre 1956. Infine nei giorni 27-30 aprile del 1962 una sessione speciale parlamentare
festeggiò il completamento della grande trasformazione alla presenza di migliaia di contadini. La classe
contadina manifestò una notevole ostilità verso il nuovo indirizzo e fece resistenza, tanto che decine di
migliaia di contadini furono processati, incarcerati o inviati nei campi di lavoro forzato. Il fenomeno tuttavia
merita un’analisi più approfondita di quella fin qui realizzata dalla storiografia. I dirigenti politici non erano
mossi unicamente da motivazioni ideologiche, ma erano forse convinti che solo la collettivizzazione avrebbe
garantito lo sviluppo del settore agricolo e l’accumulazione di risorse da investire del settore industriale.
Invero solo nel 1953 l’agricoltura romena raggiunse i livelli produttivi del 1938 e dunque almeno per
qualche tempo le nuove misure non diedero i frutti sperati. Più in generale il potere di acquisto dei
lavoratori restò basso: secondo alcuni calcoli, ancora all’inizio degli anni Sessanta era quasi la metà rispetto
al 1938.

Tra gli elementi considerati ostili dal nascente regime vi furono le Chiese, ma tra quelle che avevano una
certa importanza in termini di aderenti, la principale, cioè la Chiesa ortodossa romena trovò presto un
modus vivendi, secondo un’antica tradizione (con ascendenze addirittura nel mondo bizantino) di ‘sinfonia’
tra potere politico ed ecclesiastico. Ciò non evitò ad alcuni religiosi di subire egualmente vessazioni per non
essersi adeguati al nuovo corso, ma avere dimostrato desiderio di autonomia o persino simpatie per idee
politiche non gradite al partito al potere. La vittima principale del cambio politico in atto fu, però, un’altra
Chiesa, per numero di fedeli la seconda nel Paese, quella unita ovvero cattolica di rito orientale. Mentre i
cattolici di rito latino (Chiesa cui afferivano soprattutto gli ungheresi) subirono misure non eccessivamente
pesanti, pur essendo pessimi i rapporti tra Bucarest e la Santa Sede tanto che il Concordato del 1927 fu
annullato, invece gli uniti (o uniati) furono pesantemente perseguitati: i loro vescovi e molti sacerdoti
furono arrestati, e dei primi pochi uscirono in vita dal carcere, ma soprattutto nel 1948 il governo decise di
sopprimere la Chiesa unita, accorpandola (beni e persone) alla Chiesa ortodossa. Quest’ultima,
naturalmente, sostenne la scelta governativa, soprattutto attraverso il patriarca Justinian Marina, un vero
collaborazionista. Facile trovare un modello di questo atto persecutorio nelle vicende del tutto simili delle
Chiese unite di Ucraina e Cecoslovacchia.

Alla resistenza sociale si affiancò talora quella armata. Gruppi armati sostennero i contadini nella loro
opposizione alla collettivizzazione delle terre, e in taluni casi attuarono anche rappresaglie contro
ungheresi; infatti essi furono attivi soprattutto in Transilvania. Sumanele negre (Cappotti neri) fece capo al
generale Aurel Aldea, già ministro dell’Interno nel primo governo Sănătescu e morto poi in carcere; di
militari erano composti anche Graiul sângelui (La voce del sangue) e in parte i Combattenti di Avram Iancu.
Non ci furono mai le condizioni per una insurrezione armata generale, nonostante le simpatie che le bande
partigiane riscuotevano presso parte della popolazione. Un limitato appoggio dall’Occidente non servì a
molto, anche quando all’inizio degli anni Cinquanta – forse per impedire azioni contro la Jugoslavia ‘eretica’
– si progettò di inviare dei commando (ex legionari addestrati in paesi occidentali) che danneggiassero le
linee ferrate e creassero disturbo ai movimenti dei contingenti sovietici.

Nel clima della prima destalinizzazione (non ancora esplicita) Gheorghiu-Dej nell’aprile 1954 lasciò l’incarico
di segretario generale del partito. In omaggio alla «dirigenza collettiva» fu creato un segretariato collettivo
in cui entrarono Nicolae Ceauşescu, Mihai Dalea e János Fazekas, e di cui fu primo segretario Gheorghe
Apostol. Gheorghiu-Dej restò alla guida del governo, non differentemente da ciò che aveva fatto Malenkov
in Unione Sovietica. Nel frattempo decise di concludere la lunga inchiesta condotta contro il cosiddetto
gruppo Pătrăşcanu, mandando a morte quel dirigente che, se riabilitato, avrebbe potuto insidiarne la
leadership. Dimostrando maggior senso politico rispetto al suo omologo russo, Gheorghiu-Dej già il 1°
ottobre 1955 si fece rieleggere dal Comitato centrale primo segretario del partito, dopo solo un anno e
mezzo di interregno di Apostol. Due giorni dopo Chivu Stoica gli subentrava alla guida del governo.

Il II° congresso del PMR, cioè il VII° del PCR, tenutosi nel dicembre seguente, confermò nel suo ruolo il
primo segretario, che di fatto dimostrò di essere il numero uno del regime. Fu un congresso di una certa
importanza poiché diede le direttive per il secondo piano quinquennale (1956-60), sottolineando sia
l’intenzione di continuare nel processo di industrializzazione, sia fissando il 1960 come termine perché
anche l’agricoltura fosse prevalentemente socialista. Inoltre furono apportate modifiche allo statuto del
partito. Il gruppo dirigente non era tuttavia compatto: non mancarono, infatti, espressioni critiche verso
Gheorghiu-Dej. Nel congresso fu allontanato dall’importante ufficio per la pianificazione il sociologo ebreo
e dirigente politico Miron Constantinescu, che aveva osato criticare la linea politica fino allora seguita: «non
sono entrato nel partito per essere lo schiavo di qualcuno». Egli tornò alla carica nel plenum del PMR del
23-25 marzo 1956, dopo aver assistito allo storico XX° Congresso del PCUS, chiedendo riforme e
democratizzazione. Anche Iosif Chişinevschi (Iosif Roitman all’anagrafe, ebreo) assunse una posizione critica
mentre tutti i componenti dell’Ufficio politico e quindi l’apparato si strinsero attorno a Gheorghiu-Dej. Si
deve ricordare che proprio Chişinevschi aveva gestito il processo Pătrăşcanu per conto del leader che ora
criticava (ma sembra che in una riunione segreta del Comitato centrale del 1956 abbia già dato un giudizio
positivo del dirigente che aveva contribuito a mandare a morte). Quello scontro si risolse nelle due sedute
plenarie del Comitato centrale del giugno e luglio 1957, con la sconfitta politica dei due dirigenti dissidenti e
la loro esclusione da ogni incarico di rilievo. È evidente il parallelismo con la sconfitta del «gruppo
antipartito» che proprio allora aveva cercato di allontanare Chruščëv dalla segreteria del PCUS, sebbene
non sia chiaro se Gheorghiu-Dej puntasse sul leader sovietico (tra i due non vi era grande simpatia) oppure
sui suoi oppositori.

L’atteggiamento tenuto dal gruppo dirigente romeno durante il 1956, anno di crisi in Polonia e soprattutto
in Ungheria, fu di assoluto allineamento e collaborazione con l’Unione Sovietica alle cui truppe si diedero
agevolazioni logistiche, utili per le operazioni in terra ungherese, mentre Gheorghiu-Dej, prima del secondo
intervento sovietico, e Valter Roman, quando Nagy era già prigioniero, incontrarono il capo del governo
magiaro per indurlo a una linea conciliante verso Mosca. Infine Nagy e il nutrito gruppo delle persone che
con lui erano state arrestate furono alloggiati in una residenza a Snagov, nei pressi di Bucarest, dove furono
ampiamente spiati, prima che rientrassero a Budapest per essere giudicati. Verso il Cremlino il segretario
del PLR e i suoi compagni dimostrarono una notevole condiscendenza, ma in verità avevano motivi propri
per agire come fecero. Temevano, infatti, che anche in Romania potessero esserci uno scoppio o almeno
una protesta antiregime. In realtà timidissime manifestazioni di dissenso furono facilmente e
immediatamente messe a tacere, come quella di 2.000 studenti avvenuta a Timişoara il 30 ottobre e
definita «un’oasi di libertà». Di fronte all’inattesa e impressionante assemblea studentesca tenuta nei locali
del Politecnico, e alle sue richieste solo in parte riguardanti la vita universitaria, il partito diede carta bianca
a uno speciale comando generale composto da uomini del peso di Bodnǎraş, Ceauşescu, Drǎghici e Leontin
Sǎlǎjan: seguirono arresti, condanne, espulsioni dall’università che toccarono anche alcuni docenti, oltre gli
studenti. Non mancava anche qualche preoccupazione che le agitazioni in Ungheria potessero risvegliare il
problema della minoranza ungherese di Transilvania. Nei primi anni del regime comunista quella minoranza
era stata trattata in maniera liberale poiché su preciso impulso di Stalin nella Costituzione romena era stato
inserito il riconoscimento di un’ampia autonomia a una vasta regione transilvana, con capoluogo Târgu
Mureş (Marosvásárhely) in cui gli Ungheresi costituivano la maggioranza. Era grosso modo lo stesso
territorio assegnato all’Ungheria dal secondo lodo di Vienna. Proprio dopo il 1956, la regione autonoma fu
divisa in tre province: era il primo passo per la riduzione dei margini di autonomia per la minoranza, in vista
di una fase di velata persecuzione messa in atto negli anni Ottanta.

La Romania, nonostante l’Olocausto, ospitava ancora un notevole numero di ebrei dopo il secondo conflitto
mondiale. Però il nuovo clima politico, non favorevole alle attività economiche indipendenti, e la nascita di
Israele indussero molti ebrei a emigrare: lo fece persino il fratello di Ana Pauker. Con il trascorrere del
tempo i governi romeni favorirono tale emigrazione, chiedendo in cambio una sorta di ‘rimborso’ a Tel Aviv
per ogni ebreo che otteneva l’autorizzazione a partire. Non diversamente fu per la cospicua minoranza
tedesca. Essa sullo scorcio della guerra subì una vergognosa ‘punizione’ per avere solidarizzato con la
Germania: oltre 60.000 sassoni furono inviati ai lavori forzati in Unione Sovietica e molti di essi non
tornarono indietro. Più in generale si crearono le condizioni per una emigrazione di massa: se 450.000
erano i tedeschi di Romania nel 1945, essi erano ridotti a 70.000 alla fine del regime comunista e
diminuirono ancora negli anni seguenti.

7. Il satellite fedele: la Bulgaria dallo stalinismo al revisionismo

Dopo gli eventi del settembre 1944, pomposamente definiti come rivoluzione, il Fronte patriottico
(Otečestven Front, OF) assunse il potere: di fatto si trattava di una larga coalizione comprendente l’UNAB, il
PCB, il Partito socialdemocratico e lo Zveno, che esprimeva il presidente del Consiglio, Kimon Georgiev.
Costui e il suo partito rappresentavano certamente l’aspetto più curioso della situazione politica bulgara.
Zveno aveva attuato nel 1934 un colpo di Stato e Georgiev era stato per circa un anno alla testa
dell’esecutivo. Come si è visto, la storiografia di ispirazione marxista, anche molti anni dopo, considerava
quel movimento fascisteggiante, e certo se esso albergava anche idee di modernizzazione e progresso, non
si può non rimarcare che i metodi erano quelli tipici degli anni Trenta, cioè autoritari. Mentre Zveno si rivelò
un partner abbastanza docile, fu nell’UNAB e nelle file dei socialdemocratici che presto si manifestarono
serie remore a collaborare con il PCB. Nei confronti dell’establishment precedente al settembre 1944 fu
usata la mano dura: improvvisati tribunali popolari giudicarono e spesso mandarono a morte larga parte
della classe politica prebellica e diverse migliaia di altre persone. In particolare furono mandati a morte i tre
reggenti Filov, Mihov e il principe Kyril; gli ex primi ministri Božilov e Bagrjanov; 24 ex ministri e 68 deputati.

Per i comunisti il vero avversario da battere era l’UNAB che godeva ancora della maggioranza dei consensi
nel Paese. Il suo leader Georgi M. Dimitrov (detto Gemeto, cioè «il GM», per distinguerlo dall’omonimo
leader del PCB) aveva immaginato a suo tempo persino un colpo di Stato per rovesciare il regime
autoritario di Boris e condurre la Bulgaria nel campo occidentale contro la Germania, e perciò era riparato
dall’estero. Tornato in patria, presto fu costretto a dimettersi da segretario del partito e a rifugiarsi presso
l’ambasciata statunitense e successivamente negli USA, mentre subiva in absentia una condanna alla pena
capitale. Manovre così audaci furono possibili per la presenza dell’Armata Rossa e perché il PCB si era
assicurato il controllo dei centri di potere, della polizia e dei mezzi di comunicazione di massa. Ancora più
significativa, però, fu l’azione politica compiuta presso una parte dei dirigenti agrari, capeggiati da
Alexandǎr Obbov, i quali accettarono di continuare a collaborare con l’OF senza particolari condizioni, a
danno della maggior parte della dirigenza e dei militanti che, facendo capo a Nikola Petkov, preferirono
sottrarsi a un’alleanza in cui non si riconoscevano e che appariva pericolosa.

Una scissione simile fu operata nel PSD mettendo in difficoltà il suo leader Lulčev. Questi e Petkov si
ritirarono dal governo e passarono all’opposizione, rifiutando di partecipare alle elezioni del novembre
1945, svolte in condizioni che non ne garantivano la correttezza. Ciò permise all’OF di vantare l’86% dei
suffragi. Nonostante le decisioni della Conferenza di Mosca (dicembre 1945), la Bulgaria sembrava sempre
più essere «il trofeo di guerra di Stalin», per riprendere il titolo di un recente libro di Georgi
Bozduganov200. L’8 settembre 1946, in occasione del referendum istituzionale partiti di governo e di
opposizione si trovarono uniti: sebbene i dati furono falsati (il voto monarchico si attestò al 4%), la vittoria
della repubblica sulla monarchia sembra essere stata reale, nessun partito avendo fatto campagna per
l’istituto monarchico. Lo zar Simeone, di appena sette anni, insieme con la madre Giovanna di Savoia si
rifugiò al Cairo, dove si trovavano i nonni Vittorio Emanuele III ed Elena. A fine ottobre, invece, nelle
elezioni per la Costituente o Veliko Narodno Sǎbranie – nonostante ancora una volta si dovessero
lamentare irregolarità e non fossero eque le condizioni dei candidati (alcuni erano in carcere) –
l’opposizione ottenne un buon successo, non tale però da scalzare dal potere l’OF, forte almeno
ufficialmente di oltre il 70% dei voti (di cui il 53% al PCB: la russofilia diffusa nel Paese probabilmente giocò
a favore dei comunisti). Agrari e socialdemocratici si batterono per mantenere i principi liberali dell’antica
Costituzione di Tǎrnovo (1879), ma i comunisti e i loro alleati approvarono un testo ispirato alla carta
costituzionale dell’Unione Sovietica. In modo assolutamente sintomatico Georgi Dimitrov assunse la guida
dell’esecutivo.

Nel frattempo anche la Bulgaria firmò (10 febbraio 1947) il trattato di pace in cui, se non si diede ascolto
alle tradizionali aspirazioni verso la Macedonia, non si calcò eccessivamente la mano, anche per volontà dei
delegati sovietici. Così la Dobrugia meridionale, ottenuta dalla Romania con il trattato di Craiova appena nel
1940, fu confermata alla Bulgaria, non applicando dunque la formula del ripristino delle frontiere del 1938,
ma rispettando il principio di nazionalità. Il fatto poté essere vantato dal governo come merito proprio e dei
‘protettori’ russi, ma poiché le due province dobrugiote ospitavano anche una cospicua popolazione turca o
slava musulmana, ciò acuì un altro problema, quello di tale minoranza e delle connesse relazioni con la
Turchia. Ankara e Sofia si intesero perché 150.000 cittadini bulgari potessero emigrare in Turchia, ma la
questione della minoranza di fede musulmana (fossero turchi oppure pomaci, cioè slavi di religione
musulmana) non era risolta poiché essa era ben più numerosa. Le relazioni turco-bulgare dunque restarono
di basso livello, tanto più che Ankara fu ammessa nella NATO e con Atene e Belgrado siglò un Patto
balcanico nel 1953, peraltro dalla vita breve.

Dimitrov si trovò a fronteggiare un altro progetto, ambiguamente favorito dallo stesso Stalin il quale però
ne parlò con rabbia in un incontro del febbraio 1948 a Mosca con delegati bulgari e jugoslavi202: l’adesione
della Bulgaria alla Federazione jugoslava. La rottura tra Tito e Stalin del 1948 lo fece, però, fallire,
impedendo che la Bulgaria divenisse un satellite di Belgrado oppure il cavallo di Troia di Mosca nella
Jugoslavia.

Il giorno stesso in cui Washington ratificò il trattato di pace, Petkov fu privato dell’immunità parlamentare
per essere arrestato e inquisito per tradimento; a seguire molti deputati del suo gruppo furono dichiarati
decaduti e infine il 26 agosto l’UNAB fu messa fuori legge con una decisione della stessa Costituente. Un
mese dopo fu eseguita la sentenza capitale comminata a Petkov. Il nascente regime comunista rivelava i
suoi aspetti peggiori. Anche l’altro troncone dell’UNAB, quello filocomunista, subì delle epurazioni e lo
stesso Obbov (non più utile e forse pentito) fu sostituito da Georgi Trajkov, cui spettò il dubbio onore di
organizzare il 27° congresso con cui il partito agrario rinunciava al tradizionale obiettivo di guidare il paese a
nome della classe contadina, per riconoscere invece il primato del PCB. Se gli esponenti agrari ebbero
compagni di prigionia anche i socialdemocratici non filocomunisti, i socialisti che avevano fiancheggiato il
PCB furono totalmente assorbiti nel partito egemone (11 agosto 1948) secondo una tattica seguita in altri
paesi satelliti di Mosca. Da lì a poco gli altri alleati (Zveno, radicali e democratici) furono definitivamente
incapsulati nell’OF, organizzazione di massa al servizio del regime. L’unico partito che mantenne una sua
identità, sebbene modificata, fu l’UNAB. In seguito le furono riservate alcune cariche (come la presidenza
della Camera) e soprattutto il ruolo di garante dei rapporti tra governo e classe contadina, funzione simile a
quella che i sindacati avevano riguardo alla classe operaia, ancora minoritaria.

Fu avviata intanto la collettivizzazione delle campagne: i numeri sono impressionanti poiché dal 1948 al
1950 i terreni collettivizzati passarono da una percentuale del 6-7% a oltre il 50%. Otto anni più tardi
l’organizzazione delle campagne in fattorie collettive (Trudovo-kooperativno zemedelsko stopanstvo, TKZS)
era quasi completata. Vi erano state delle resistenze, ma l’assenza tradizionale della grande proprietà rese
la riforma meno difficile che altrove: altri fattori favorevoli furono l’esistenza di un precedente movimento
cooperativistico e di un ministero per il Commercio e l’Approvvigionamento. La formula della fattoria
collettiva in Bulgaria fu peraltro un po’ diversa dal modello sovietico poiché i soci della cooperativa non
persero totalmente memoria della proprietà che avevano conferito, godendo di una retribuzione variata
proprio in relazione a tale conferimento e non solo alla prestazione lavorativa. Parallelamente dal 1949 fu
attuata una robusta industrializzazione, seguendo proprio il modello sovietico degli anni Venti-Trenta,
modello abbastanza adatto a un paese economicamente arretrato come la Bulgaria: infatti i tassi di crescita
furono altissimi, particolarmente nel settore dell’industria pesante. Tuttavia, per molti anni ancora fu
l’agricoltura ad avere il maggior peso nell’economia.

Se Dimitrov assurse a gloria nazionale – lo attestava il mausoleo costruito per lui in pieno centro e
abbattuto poco dopo la caduta del regime – Červenkov restò sulla scena a lungo, ma già con la morte di
Stalin il suo potere fu ridimensionato in omaggio al criterio della dirigenza collettiva. Con il VI congresso del
PCB tenuto nel febbraio-marzo 1954 lasciò pertanto la segreteria del partito a un emergente, quale era
Todor Živkov, rinunciando con tanto di autocritica al culto della personalità. Come aveva fatto Malenkov in
Unione Sovietica, mantenne invece il posto di primo ministro. Per il resto il vento nuovo che soffiava dal
Cremlino portò una revisione delle norme giudiziarie più pesanti, un’amnistia e la riammissione nei quadri
alti di uomini processati insieme con Kostov, e persino uno sciopero nel settore del tabacco a Plodviv.
Elementi più conservatori – da alcuni definiti moscoviti – capeggiati da Červenkov ed elementi
moderatamente riformisti («nazionali»), con in testa Živkov e Anton Jugov, si spartirono il potere, a partire
dai posti in seno al Politburo. Živkov, pur essendo segretario, sembrava essere ancora in posizione
secondaria tanto che non partecipò – caso veramente peculiare – al XX° congresso del PCUS. In realtà egli
aveva iniziato una marcia verso la conquista del potere reale, con l’emarginazione degli altri maggiori
concorrenti, durata otto anni e conclusa nel 1962.

Sulla scia del XX° congresso del PCUS, dopo uno storico plenum del Comitato centrale tenuto il 4/6 aprile
1956 Jugov assunse la guida dell’esecutivo, ma Červenkov mantenne il posto nel Politburo e la
vicepresidenza del Consiglio, quasi a garantire che il chruščëvismo non significava sconvolgimento radicale
del regime. Di più, il fatto che (dopo gli eventi d’Ungheria) egli assumesse la responsabilità del ministero
dell’Educazione e della Cultura significò porre un freno alle richieste manifestate dagli scrittori ed altri
intellettuali, come dall’organo dell’OF, diretto dal cognato di Kostov. Insomma il riformismo destalinizzante
non doveva creare pericoli per il regime. E tuttavia il successo ottenuto da Chruščëv sul «gruppo
antipartito» a Mosca nel 1957, consentì l’emarginazione di elementi stalinisti anche in Bulgaria, senza far
mancare colpi verso quanti fossero troppo «liberali». Esponenti politici agrari di varie correnti tornarono in
libertà e furono integrati nel regime, con il ruolo affidato all’UNAB di cui si è detto. Gli ultimi sopravvissuti
del colpo di Stato che nel 1923 aveva rovesciato il governo contadino di Stambolijski furono processati (a
oltre trent’anni dai fatti) quasi a rendere omaggio al leader agrario e ai suoi epigoni, ormai legati al carro
del PCB. Se la natura totalitaria e negatrice del pluralismo politico del regime comunista non fu per questo
cancellata, va riconosciuto che i suoi esponenti si dimostrarono abili nell’allargare la propria base di
consenso con tali iniziative.

La segreteria di Živkov si inquadrava nel nuovo clima politico creato da Chruščëv e i nuovi passaggi della
destalinizzazione (XXII° congresso del PCUS) la resero più salda nel 1961, con l’estromissione da ogni posto
di potere di Červenkov che non volle fare autocritica (fu espulso persino dal partito l’anno dopo), e nel 1962
con l’allontanamento di Jugov dal governo. Avrebbe dovuto prevalere una dirigenza collettiva, ma in realtà
Živkov assunse con il tempo una indiscussa posizione di leader, con qualche concessione al culto della
personalità, ma senza che si potesse parlare di vera dittatura. Nei primi anni di quel lungo mandato
all’ombra del Cremlino vi fu spazio, tuttavia, per un esperimento che sembrava ispirato dal modello cinese:
si ridusse drasticamente il numero delle fattorie collettive accorpandole e si decise di realizzare con largo
anticipo gli obiettivi previsti dal piano quinquennale iniziato nel 1958. I funzionari in campagna furono
obbligati a periodi di lavoro manuale. Il cosiddetto Balzo in avanti «trovò un forte seguito nel partito», ma
«Živkov pilotò l’operazione senza farsi cogliere in flagrante ‘peccato’ di filocinesismo’». I risultati furono
però fallimentari e la politica economica bulgara tornò a ispirarsi al modello sovietico con qualche variante
locale. Pi

ù precisamente Sofia accettò di partecipare alla divisione internazionale del lavoro decisa dal Comecon
quale Paese agricolo più che industriale, come rivelava l’impostazione del piano quinquennale 1966-70.

Non tutti nel partito accettarono la leadership di Živkov e negli ambienti militari si pensò anche a un colpo
di Stato mai realizzato in seguito ad arresti ben mirati, di cui furono vittime nel 1965 i generali Cviatko Anev,
comandante la piazza di Sofia, e Ivan Todorov detto Gorunja, che preferì suicidarsi, e alcuni loro seguaci, ai
quali furono irrogate pene fino a quindici anni di carcere. Peraltro si continuava a tenere in funzione una
notevole rete di campi per detenuti politici di ogni provenienza. È ancora difficile dire se i tentativi vari di
deporre il leader volessero evitare un’eccessiva subordinazione della Bulgaria a Mosca o trovassero
indiretta ispirazione a Pechino. Contemporaneamente, poiché le vie nazionali al socialismo erano ormai
consentite da Mosca, il governo non mancò di recuperare, come in altri Stati comunisti, la cultura nazionale
e un diffuso patriottismo. Il regime bulgaro fu tra quelli che più favorirono la simbiosi tra sentimento
nazionale e ideologia marxista-leninista. Lo si vide nelle ricorrenti polemiche con Belgrado, nonostante Tito
non fosse più considerato ‘eretico’ da Mosca: tali polemiche riguardarono inevitabilmente la questione
macedone. I cittadini bulgari del Pirin non poterono più dichiararsi di nazionalità macedone209, non
riconosciuta dal governo e dall’opinione pubblica bulgara, al punto che tale diffusa convinzione perdurò
anche dopo la fine del regime comunista. Nel 1960 si parlò di un complotto filojugoslavo e l’addetto stampa
jugoslavo a Sofia fu dichiarato persona non grata. Invero la «questione jugoslava» continuò a essere un
fattore anche nelle dinamiche interne al Partito comunista bulgaro e al suo gruppo dirigente, come
dimostrò l’allontanamento dall’Ufficio politico di antichi capi partigiani che avevano collaborato con la
resistenza titina. Nonostante il riavvicinamento segnato dallo scambio di visite tra Živkov e Tito tra 1962 e
1965, le polemiche si rinfocolarono per la posizione assunta da Belgrado riguardo all’invasione della
Cecoslovacchia, cui parteciparono contingenti militari bulgari. A Sofia la repubblica macedone era vista
come possibile polo di attrazione per la regione del Pirin inclusa nei confini bulgari tanto più che né Tito né i
suoi successori, anche anni dopo, accettarono le proposte bulgare di sancire con un trattato l’inviolabilità
delle frontiere vigenti. Da parte bulgara si chiedeva rispetto non solo dei confini, ma anche del principio di
non ingerenza nei propri affari interni.

8. L’esperimento più ambizioso: il modello della Jugoslavia

Il regime comunista che si delineò più rapidamente fu quello jugoslavo, nonostante la Jugoslavia fosse il
Paese più occidentale dell’Europa centro-orientale e il più lontano dall’Unione Sovietica, tanto che l’Armata
Rossa vi operò solo per una parte limitata di territorio (la regione intorno alla capitale Belgrado) e per un
tempo breve. Bastò per creare qualche risentimento a lungo sottaciuto: come tutti gli eserciti stranieri, i
soldati sovietici non mancarono di commettere violenze (soprattutto sulle donne) denunciate
successivamente da Milovan Djilas. Nonostante l’assenza di una protezione militare e politica tanto
importante, il Partito comunista capeggiato da Tito (Josip Broz) si assicurò anche formalmente il potere ben
prima che in altri Paesi. Tale esito fu frutto di diversi fattori.

In primo luogo la Jugoslavia uscì da anni di guerre in cui non solo vi era stata una lunga occupazione di più
eserciti stranieri, con la relativa resistenza diffusa sul territorio, ma anche un conflitto tra tendenze politiche
diverse e persino tra popoli. Il successo arrise infine alla resistenza capeggiata dal Partito comunista e
questa vittoria ottenuta in parziale autonomia fu un elemento fondante (quasi un mito e un dogma) del
nuovo ordine politico. Ben più che altrove i comunisti potevano vantare dei meriti militari e politici, né
avevano bisogno di cercare la protezione sovietica, pur riconoscendo il primato di Stalin. Il governo
britannico a lungo si illuse di poter mantenere una qualche influenza a Belgrado, anche per avere sostenuto
Tito con consiglieri e rifornimenti negli ultimi anni di guerra, lasciando al suo destino la corrente
monarchica della resistenza, guidata da Mihajlović che pure era stato il primo a organizzare la lotta agli
occupanti. La presenza in un primo governo provvisorio di unità nazionale del capo del governo jugoslavo in
esilio a Londra, Ivan Šubašić, già bano di Croazia e uomo di fiducia del giovane re Pietro, sembrò una
garanzia che il Paese non sarebbe stato consegnato integralmente ai comunisti. Fu un calcolo errato.
L’accordo aveva subito suscitato qualche mugugno nelle file comuniste tanto che Tito stesso in un discorso
del 19 settembre 1944 volle specificare che esso era stato «necessario perché nessuno possa dire domani
che abbiamo impedito l’adunata di tutti gli Jugoslavi nel fronte popolare unitario, [...] per dimostrare
ancora una volta agli alleati che noi siamo per l’unità e per l’alleanza, per riaffermare che in tutto questo
periodo di tempo la parola d’ordine sulla bandiera della nostra lotta era: unità e fratellanza dei popoli della
Jugoslavia».

Il clima dell’immediato dopoguerra era pesante: le vendette anche personali consumate furono numerose e
la repressione di chi non fosse simpatizzante del nuovo regime fu durissima e cruenta. È stato calcolato che
nella piccola Slovenia 90.000 persone persero la vita o espatriarono in conseguenza della guerra mondiale,
di cui meno della metà a causa dei nazifascisti, gli altri dopo la presa di potere di Tito. I britannici
consegnarono alle autorità titine 20.000 croati e oltre 13.000 domobranci sloveni detenuti nel campo di
Viktring in Austria, che furono tutti passati per le armi. Vennero colpiti anche ex deportati nel campo
nazista di Dachau che avevano cercato di fornire aiuto logistico ai britannici. La zona di Kočevski rog, in cui
furono seppellite molte vittime di quella inutile ferocia, restò luogo vietato fino alla caduta del regime
comunista. Altri scheletri furono rintracciati durante i lavori di costruzione dell’autostrada Lubiana-Maribor.
La Chiesa cattolica, che non esitò a manifestare scarsa simpatia per l’ideologia comunista, fu colpita nei suoi
vertici e nella persona dei singoli preti o ecclesiastici. Le vittime più illustri furono l’arcivescovo di Zagabria
Alojzije Stepinac, che subì una lunga condanna e fu causa della scomunica del Papa nei confronti di Tito, e
l’arcivescovo di Lubiana Gregorij Rožman, il quale fece in tempo a fuggire all’estero.

Ci vollero pochi mesi e le prime, profondamente condizionate elezioni politiche (11 novembre 1945) perché
Tito desse il benservito a Šubašić e alla monarchia. Egli fu nominato primo ministro e ministro degli Esteri. Il
29 novembre 1945 il parlamento abolì la monarchia e proclamò la Repubblica Federativa Popolare di
Jugoslavia. Nel gennaio 1946 fu approvata una Costituzione ispirata a quella sovietica del 1936.
Competenze federali e competenze delle repubbliche erano ben distinte, ma le Costituzioni di ogni
repubblica erano limitate da quella federale che pure ammetteva – su suggerimento dello sloveno Edvard
Kardelj – il diritto, a lungo teorico, di secessione. Sulla gerarchia dei poteri non vi erano tuttavia dubbi: ad
esempio, nel maggio 1945 a Lubiana si presentò un governo sloveno capeggiato da Boris Kidrič e articolato
in vari ministeri, escluso quello della Difesa poiché il controllo delle forze armate fu subito centralizzato. I
mezzi di produzione appartenevano al popolo e la terra a chi la lavorava.

Con l’Unione Sovietica il nascente regime jugoslavo aveva in comune anche la formula federale: essa era
presente nella tradizione della sinistra balcanica, rappresentata in passato dalla macedone VMRO
Obedinenie e dalla filiale del Komintern denominata Federazione balcanica, ma fu ribadita formalmente
appena si costituì durante la guerra un governo clandestino jugoslavo (AVNOJ) nel 1943. La nuova
Jugoslavia fu costituita da sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia,
Slovenia) di diversa dimensione territoriale e demografica.

La nazionalità più numerosa, quella serba, non fu compresa tutta nei confini della Serbia poiché i Serbi
vivevano in altre repubbliche e in particolare in Bosnia e in Croazia. In compenso, alla Serbia furono
annesse due regioni dotate di parziale autonomia: la Vojvodina, nella quale i Serbi costituivano solo la
maggioranza relativa, accanto ai numerosi ungheresi (ancora 504.000 nel 1961, pari al 22%, e 427.000 nel
1981), a tedeschi e cittadini di altre nazionalità, e il Kosovo-Metohjia (Kosmet), dove gli albanesi erano
nettamente maggioritari. Sei popoli (narod) erano fondatori dello Stato federale, gli altri erano qualificati
come nazionalità (narodnost). A livello parlamentare furono create due Camere: una federale e una delle
nazionalità. Si trattava di un equilibrio piuttosto delicato che la personalità di Tito, il mito resistenziale e
l’ideologia marxista-leninista contribuivano a mantenere in essere.

Nonostante il paese fosse molto provato dalla guerra, avendo perduto 1.700.000 cittadini – circa il 12%
della popolazione – e gran parte delle risorse economiche, la fondazione del nuovo Stato fu accompagnata
da un certo entusiasmo, almeno in buona parte della popolazione. Il regime, sebbene segnato subito da
abusi e violenze, sembrava voler rappresentare le esigenze dei ceti più vasti e umili. Insomma, se Tito non
consentì un corretto confronto delle forze politiche, anche quando si trattava di momentanei alleati come il
Partito contadino serbo capeggiato da Dragoljub Jovanović, è pur vero che egli raccolse un alto numero di
sinceri consensi tra la popolazione delle campagne e nella classe operaia, e pure in altri settori sociali. Alle
elezioni i comunisti si erano presentati insieme con il Partito contadino serbo e con quello contadino
croato, e con altre organizzazioni. Tutti insieme costituivano il Fronte nazionale, che conseguì il 90% dei
suffragi. Esso aveva carattere dichiaratamente antifascista e un programma che fu poi mutuato dal Partito
comunista: sostenere l’unità e l’integrità del Paese, porre fine allo sfruttamento economico e garantire ai
popoli jugoslavi parità di diritti. Il Partito comunista tenne in vita anche in seguito il Fronte nazionale, che fu
l’organizzazione e lo strumento che progressivamente andò inquadrando tutta la popolazione. Esso perse
subito il carattere di coalizione di forze politiche diverse, per trasformarsi in strumento di controllo del
partito che, sebbene dotato di un notevole numero di iscritti e militanti, non pretese mai di fare iscrivere
ogni cittadino.

Il gruppo dirigente fu pronto poi nell’eliminare le basi sociali ed economiche del potere dei ceti avversi al
nuovo regime. Rapidamente si procedette alla riforma agraria con la sparizione del latifondo, ma pure alla
nazionalizzazione delle banche e delle industrie. Inoltre il dinaro venne deprezzato e tutti coloro che
avevano accumulato risparmi durante la guerra ne furono duramente colpiti. Intorno al leader andò
crescendo una sorta di culto della personalità.
Il governo jugoslavo, nonostante un atteggiamento molto polemico verso i Paesi occidentali per più
motivazioni (la principale era la questione di Trieste e della frontiera con l’Italia), fu costretto ad accettare
gli aiuti forniti dall’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), di fatto finanziata dagli
Stati Uniti. Nel 1947, riprendendo il modello sovietico, si decise il lancio del primo piano quinquennale che
avrebbe dovuto riportare l’economia del Paese alla normalità e a un nuovo sviluppo. L’obiettivo di innalzare
il reddito nazionale a un livello doppio rispetto al 1939 era tuttavia irrealizzabile, cosa che ammise lo stesso
ministro delle Finanze Jovan Žujović.

Per il resto era scontato il primato assegnato agli investimenti per l’industria pesante, ma non si trascurò la
modernizzazione dell’agricoltura: la Jugoslavia era ancora un Paese nettamente agricolo. Se la riforma
agraria non spiacque ai contadini, essi non furono lieti di dover effettuare le consegne obbligatorie dei loro
prodotti né accolsero con entusiasmo la creazione delle prime fattorie collettive. L’atteggiamento del
regime titino verso la classe contadina fu tra gli argomenti su cui si appuntarono in seguito le critiche di
Mosca.

La rottura tra Stalin e Tito del 1948 fu un evento epocale per la storia della Jugoslavia. Nonostante
successive riappacificazioni, il Paese non tornò mai più a far parte del blocco sovietico, pur continuando a
essere governato con pugno di ferro dal Partito comunista. Da questo punto di vista l’esistenza di un partito
non in linea con il PCUS influenzò la storia dello stesso movimento comunista internazionale, favorendo con
il proprio esempio l’affiorare delle divergenze a lungo tacitate tra Mosca e altre capitali comuniste: fu il
caso in seguito di Pechino, Tirana e Bucarest. I motivi della rottura del 1948 sono noti ed è chiaro che si
trattò più di una ‘scomunica’ di Stalin che non di un processo di bipolarizzazione. Il regime jugoslavo era
fino ad allora il più affine a quello sovietico, ma il gruppo dirigente di Belgrado si era permesso delle
iniziative politiche giudicate pericolose dal Cremlino in quel frangente della politica internazionale. La
guerra fredda era ormai avviata e i due grandi blocchi – socialista e capitalista – si stavano ricompattando: a
Mosca tale divisione globale tra i due schieramenti era stata ampiamente teorizzata dalle tribune politiche
più varie. Di conseguenza non era accettabile che una parte del ‘campo’ socialista non applicasse
fedelmente e senza discussioni le indicazioni provenienti da Mosca.

Alla riunione di fondazione del Cominform del settembre 1947 i delegati jugoslavi erano stati quasi gli
apripista per la severa linea politica propugnata dai sovietici, secondo la quale non vi era spazio per
compromessi con ideologie e ambienti politici riconducibili alla borghesia industriale o agraria. Ma appena
cinque mesi dopo (in una difficile riunione a tre tra delegati sovietici, jugoslavi e bulgari tenuta a Mosca il 10
febbraio 1948) il Cremlino iniziò a criticare la politica di Belgrado cercando di individuarvi delle incoerenze
più immaginate che reali: in verità si trattava di ottenere una dichiarazione di fedeltà e sottomissione, con
la rinuncia a qualsiasi iniziativa politica autonoma nell’Europa centrale e balcanica. La polemica proseguì
dapprima in toni smorzati e poi con dichiarazioni pesanti e gravi, in particolare con quella del Cominform
datata 28 giugno 1948, data sacra per i Serbi, come si è già notato. Da Mosca non ci si limitò alla polemica
ideologica e politica, ma si creò intorno alla Jugoslavia l’isolamento: infatti tutte le repubbliche popolari che
fino allora avevano avuto intensi rapporti con Belgrado assunsero un atteggiamento di aperta ostilità che
talora (come accadde in Ungheria) sfociò in incidenti diplomatici. Di più Stalin si aspettava e operò perché
Tito venisse sfiduciato dal suo stesso partito per avere osato rifiutare di obbedire ai richiami giunti dal
Cremlino.

L’esodo degli italiani di Jugoslavia si svolse tra il 1945 e il 1950 e fu frutto delle violenze già ricordate
(infoibamenti), non riservate solo a esponenti del passato regime ma spesso a connotazione etnica, come
pure del desiderio di non subire le trasformazioni politiche ed economico-sociali in atto. Le sue dimensioni
furono notevoli e le sue motivazioni non furono sufficientemente comprese neppure in Italia,
particolarmente dalle forze politiche che simpatizzavano per il regime titino. La sistemazione in Italia degli
esuli giuliani, istriani, fiumani e dalmati fu quindi faticosa e non priva di polemiche, con qualche deplorevole
episodio. Per alcune decine di anni sull’esodo e sulle foibe prevalse il silenzio. Restò in Jugoslavia una
numericamente limitata minoranza italiana.

La rottura del 1948 produsse il suo risultato più innovativo nella politica economica della Jugoslavia. Già nel
1950 a livello legislativo si iniziò a parlare di «autogestione», sebbene ancora in forma meno precisa e
raffinata, come fu invece con l’andare degli anni. La politica di pianificazione economica, copiata
dall’esperienza sovietica, fu abbandonata soprattutto dal 1953, anno in cui morì Stalin ma pure l’autore
principale del piano economico jugoslavo, Boris Kidrić. Da quel momento il gruppo dirigente stretto intorno
a Tito volle abbandonare la rigidezza della pianificazione economica e riconoscere alle singole realtà
produttive, cioè alle aziende, un discreto grado di autonomia che producesse vantaggi per se stesse e per
l’intero sistema economico. Anni dopo si teorizzò che «nel socialismo dell’autogestione il principio generale
che regola l’attività economica è un calcolo di convenienza che, anche se vien fatto con moventi egoistici è,
per sua natura, un calcolo di convenienza di gruppo»221. Si affermò che il lavoratore che produce nel
proprio interesse in realtà massimizza il reddito dell’impresa in cui lavora con vantaggi per tutti. Il modello
jugoslavo almeno fino all’inizio degli anni Ottanta attirò l’attenzione e spesso l’approvazione di osservatori
sia dall’Est sia dall’Ovest. Non si trattava soltanto di una nuova linea di politica economica, ma anche di una
riflessione importante sotto il profilo ideologico. Il socialismo di Stato realizzato in URSS non aveva fatto
altro che sostituire un padrone individuale con uno collettivo, altrettanto estraneo ai lavoratori e più
difficile da combattere. Il vero socialismo poteva basarsi solo sulla partecipazione dei lavoratori alla
gestione delle aziende e dell’economia, nonostante le ovvie difficoltà a realizzare un simile sistema. Tutto
ciò avrebbe significato un ritorno al leninismo, ai valori originali della rivoluzione socialista, messi da parte
durante il trentennio stalinista. Su questa strada si spinse oltre Djilas, che criticò il regime per aver creato
una nuova classe dirigente non molto diversa dalla precedente: tanto bastò per emarginarlo politicamente
e successivamente condannarlo al carcere a più riprese.

Il principio dell’autogestione o, più generalmente, dell’autonomia fu applicato anche al di fuori del campo
economico. Si volle ribadire che godevano di ampia autonomia le sei repubbliche (infine restarono
centralizzati solo i ministeri di Difesa, Esteri e Interni), non meno delle regioni del Kosmet e della Vojvodina,
ma anche tutti gli altri livelli politico-amministrativi locali. Fu attenuato anche il controllo federale sul
commercio estero e infine si rimise mano alla Costituzione. Il Consiglio delle nazionalità fu sostituito
dall’Assemblea federale e si istituì il Consiglio dei produttori, che esprimeva soprattutto gli interessi del
proletariato industriale. Non vi fu però nessun ritorno a un reale pluralismo politico. Quanto alla numerosa
classe contadina, nel 1953 si permise a quanti volessero di lasciare le cooperative e si fissò a 10 ettari il
limite delle proprietà private: anche se anni dopo il movimento cooperativo fu nuovamente incentivato, la
Jugoslavia rimase, con la Polonia, l’unico Stato socialista a non avere collettivizzato le campagne nella loro
interezza.

Problemi concreti furono causati dall’isolamento rispetto al blocco sovietico. Di necessità Belgrado dovette
accettare di importare cereali dagli USA, né fu questo l’unico aiuto economico giunto dall’Occidente: ad
esempio negli anni Cinquanta la rete ferroviaria fu dotata di telescriventi prodotte dall’italiana Olivetti. I
toni polemici verso le potenze ‘imperialiste’ andarono mutando senza che la Jugoslavia rinunciasse alla
scelta fondamentale a favore del socialismo. Era più importante uscire dalle difficoltà della ricostruzione
economica e da una fase di stallo manifestatasi nell’industrializzazione. In realtà la produzione industriale
prese di nuovo a crescere con l’inizio degli anni Cinquanta e così fu poco dopo anche per quella agricola.

Uno degli effetti della rottura con Mosca fu l’avvicinamento a Stati balcanici che non avevano affatto
accettato un regime comunista: Grecia e Turchia. Con la prima, dopo l’appoggio dato da Belgrado ai
combattenti comunisti nella guerra civile ellenica, si ebbe tra 1950 e 1951 la normalizzazione dei rapporti.
Restavano in piedi alcune questioni, ma la strada fu spianata addirittura per arrivare alla sigla di
un’alleanza, prima solo politica e poi anche militare. Parallelamente un processo simile avvenne tra
Belgrado e Ankara, sicché i tre governi giunsero a firmare il cosiddetto Patto balcanico nel 1953. Subito si
iniziò a parlare di reciproche garanzie militari e tuttavia sia da una parte sia dall’altra si procedette con
cautela. In particolare Tito desiderava una protezione contro eventuali iniziative militari sovietiche, ma non
voleva neanche provocarle mostrando di legarsi direttamente o indirettamente alla NATO. Quest’ultimo
atto peraltro avrebbe tolto legittimità allo stesso regime jugoslavo. Per il momento era sufficiente creare
una rete diplomatica di area e mantenere i buoni rapporti instaurati con Washington e Londra, con il
conseguente fondamentale sostegno economico. Peraltro proprio in occasione del viaggio di Tito nella
capitale britannica, a Mosca si progettò l’eliminazione del capo comunista «traditore»223. Il piano non
divenne mai operativo e fu abbandonato definitivamente con la morte del dittatore georgiano.

Nell’aprile e nel giugno 1954 Tito visitò Ankara e Atene dove fu accolto molto cordialmente, con la piena
approvazione delle Potenze occidentali: fu il momento più alto del progetto di Patto balcanico, confermato
dalla firma di un accordo militare a tre (Bled, 1954). Invece da Mosca e dalle repubbliche popolari giunsero
serie critiche, secondo le quali l’alleanza militare balcanica, soprattutto se siglata senza risolvere prima il
problema di Trieste, avrebbe rappresentato un ostacolo alla lotta per la pace e, ancor di più, un tassello
della strategia di Washington volta a stringere i paesi socialisti in una morsa da sud e da nord (qui
attraverso il riarmo tedesco), nonché da ovest (inserendo la Spagna franchista nel blocco occidentale). La
morte di Stalin e le dichiarazioni di Chruščëv relative alla competizione pacifica e alla distensione tra i
blocchi contrapposti non erano elementi sufficienti perché il gruppo dirigente jugoslavo rinunciasse a
garantirsi contro un’eventuale minaccia proveniente da parte sovietica. Tuttavia dal punto di vista militare il
Patto balcanico non imponeva ai governi jugoslavi impegni di sorta nei confronti della NATO, ma solo verso
Turchia e Grecia, se aggredite. Invece a Belgrado si dava per scontato che in caso di aggressione verso la
Jugoslavia proveniente dal blocco comunista, non solo gli eserciti turco e greco avrebbero fornito il loro
aiuto, ma la stessa alleanza occidentale.

La situazione andò però evolvendo rapidamente. Nel 1955, se da una parte Mosca volle la nascita del Patto
di Varsavia, dall’altra giunse a riconoscere apertamente per bocca di Chruščëv, recatosi personalmente a
Belgrado (contro la volontà di uomini come Molotov), l’errore commesso nel 1948 nei confronti di Tito e la
piena legittimità delle vie nazionali al socialismo. In realtà la mossa sovietica era volta non solo a un
riavvicinamento con Belgrado, per porre fine allo scisma interno al movimento comunista, ma persino
all’ingresso della Jugoslavia nel Patto appena costituito tra i paesi legati a Mosca: questo secondo obiettivo
non fu raggiunto, ma Tito andò convincendosi che il pericolo da Est non era più all’ordine del giorno. Il Patto
balcanico perse dunque di importanza.

In seguito alla crisi ungherese i rapporti tra Mosca e Belgrado divennero meno amichevoli. Probabilmente
su suggerimento sovietico il primo ministro romeno Chivu Stoica nell’aprile 1957 propose agli altri Stati
balcanici di convocare una conferenza che trattasse dei problemi che essi avevano in comune. La mossa
indebolì ulteriormente il ruolo del Patto balcanico siglato da Tito. Tuttavia questi appoggiò l’Unione
Sovietica su alcune questioni internazionali (questione tedesca, spionaggio statunitense, proposte radicali
di Pechino) e le relazioni jugo-sovietiche tornarono al bello. Il Patto balcanico non ebbe mai più un suo
ruolo (anche per i dissensi sorti tra Turchia e Grecia riguardo alla questione cipriota). Il suo Consiglio
permanente si riunì annualmente tra il 1954 e il 1957, ma con delibere che non ebbero conseguenze
concrete nel campo commerciale come in quello nucleare; la progettata assemblea consultiva balcanica
non fu mai convocata né fu costituito l’auspicato Istituto balcanico. Secondo Spyridon Sfetas «il Patto fu
devitalizzato, sebbene nessuna parte lo abbia denunciato».

Con la morte di Stalin e il viaggio di Chruščëv a Belgrado, Mosca riconosceva la validità delle interpretazioni
e applicazioni nazionali della comune ideologia marxista-leninista: dunque lo ‘strappo’ con la Jugoslavia era
ricucito. Tito fu cauto nell’accettare tale inattesa apertura, ma le relazioni con i paesi del blocco sovietico
ripresero a essere amichevoli, talora con situazioni paradossali per cui uomini che lo avevano criticato
aspramente usando i più offensivi termini, ora lo lodavano quasi come un campione del mondo socialista.
Invero già gli eventi d’Ungheria del 1956 crearono nuovi imbarazzi: basta ricordare che l’ambasciata
jugoslava accordò ospitalità a Nagy e ai suoi seguaci in seguito al secondo intervento militare sovietico e
che il successivo loro arresto fece sfiorare l’incidente diplomatico. Neppure nei dibattiti all’ONU il delegato
jugoslavo espresse una posizione in linea con quella dell’Unione Sovietica. Da allora i rapporti tra Mosca e
Belgrado furono caratterizzati da alti e bassi: la Jugoslavia ebbe relazioni preferenziali con il Comecon, come
li ebbe con il MEC (e poi la CEE), ma non ne divenne membro, e tanto meno aderì al Patto di Varsavia. Con i
singoli Paesi comunisti le relazioni furono amichevoli, salvo che con Albania e Bulgaria, per ragioni di
carattere nazionale piuttosto che ideologico. Se a Tirana si guardava alla Jugoslavia come a una
micropotenza imperialista, con Sofia le polemiche risorgevano con discreta frequenza a proposito della
Macedonia.

Ovvia fu l’attenzione che Tito dimostrò per le innovazioni sperimentate in Cecoslovacchia nel 1968 e per
l’autonomia dimostrata dai dirigenti comunisti romeni. Lo scacchiere prediletto dal leader jugoslavo
continuò a essere quello dei Paesi non allineati, sebbene l’omonimo movimento andasse perdendo di
vigore con il passare degli anni. Ancora alla Conferenza dell’Avana del 1979, egli auspicò che il movimento
mantenesse una posizione neutrale tra le due superpotenze, contro il desiderio di Mosca di trasformarlo in
uno schieramento esclusivamente anti-USA. Importanti continuarono a essere, soprattutto sul piano
economico, i rapporti con i Paesi capitalisti, sia quelli lontani, come gli Stati Uniti, sia quelli vicini come la
Germania e l’Austria. Verso questi Paesi fu consentita una emigrazione temporanea per motivi di lavoro,
mentre furono numerose le joint ventures tra aziende jugoslave e imprese di quegli Stati. Nonostante
fossero sempre vivi alcuni risentimenti reciproci, si fecero grandi passi in avanti anche tra Jugoslavia e Italia,
che sfociarono negli accordi di Osimo del 1975, i quali ripresero lo spirito degli accordi di Helsinki e risolsero
la questione da tempo aperta dell’assegnazione dei territori contesi della Venezia Giulia (la zona A con
Trieste all’Italia e la zona B alla Jugoslavia), accompagnandola con specifici protocolli per i rimborsi agli
italiani fuggiti dalla Jugoslavia dopo l’ultima guerra e per investimenti italiani (Fiat) in Jugoslavia.

Le relazioni interne tra le repubbliche federate, in effetti, furono costantemente all’ordine del giorno
soprattutto dopo l’indirizzo fortemente autonomistico preso dalla dirigenza della Lega dei comunisti
jugoslavi. Anche questa denominazione del partito e la sua articolazione in partiti di livello repubblicano,
erano sintomatiche e significative. Se la concessione dello status di provincia autonoma aveva dato
sufficiente soddisfazione alle esigenze delle popolazioni della Vojvodina, ormai a maggioranza serba, ma
con una cospicua presenza di minoranze, in primis quella ungherese, la stessa concessione non aveva
risolto tutti i problemi nel Kosovo-Metohija L’argomento sarà ripreso più avanti. Un riconoscimento molto
particolare dell’individualità di una nazione, quella macedone, e della sua autonomia ebbe una forma
sorprendente per uno Stato comunista, ma non per i conoscitori della storia balcanica: l’autocefalia della
Chiesa macedone. Forti furono le proteste del Patriarcato serbo, che fino a quel momento aveva avuto
giurisdizione ecclesiastica su quella popolazione, ma per le nazioni del Sud-Est europeo di fede cristiana
ortodossa era del tutto normale che l’autocefalia ecclesiastica accompagnasse l’esistenza di uno Stato
nazionale, quale con tutti i suoi limiti poteva essere definita la Macedonia. Ancora più stravagante fu il
modo di intendere il concetto di nazionalità in Bosnia-Erzegovina: qui, accanto a croati (cattolici) e serbi
(ortodossi) si riconobbe una terza nazionalità, quella bosniaca, che aveva la fede religiosa musulmana quale
suo marker. Ciò era formalmente attestato nei passaporti. Difficile conciliare questo riconoscimento con il
fatto che gli Albanesi di Jugoslavia erano anche loro musulmani.

Peraltro metodi non troppo diversi furono messi in atto anche nelle altre parti della Jugoslavia, soprattutto
attraverso l’UDBA, la polizia politica226. Gli stessi dirigenti del partito e persino Tito furono soggetti a
controlli e intercettazioni ambientali. Negli anni Sessanta si fece acuto il contrasto tra i centralisti, che
facevano capo proprio a Ranković, ministro dell’Interno, e i fautori del decentramento che si rifacevano alle
idee dello sloveno Edvard Kardelj. Nel 1963 fu approvata una Costituzione che poteva definirsi un
compromesso tra quelle diverse posizioni; tuttavia presero sempre più piede le tesi liberaleggianti e non si
mise più in discussione il concetto dell’autogestione, sebbene essa ancora fosse messa in pratica in modo
limitato.

Un passaggio di grande significato si ebbe con la riforma economica del 1965, un corpus legislativo di 35
leggi: attraverso quell’impianto legislativo l’economia jugoslava assumeva una sua peculiarità rispetto a
quella degli altri Paesi socialisti. Il dinaro fu svalutato per favorire il commercio estero che fu consentito
quasi senza limiti e secondo i criteri del mercato. Parallelamente all’interno ebbe termine il doppio regime
dei prezzi, liberi per i prodotti agricoli e vincolati per quelli industriali. Le aziende si videro garantire da
nuove norme autonomia e responsabilità, mentre fu affidato un grande potere alle banche federali tanto
che esse condizionavano il sistema industriale. Tutte queste misure volte a razionalizzare il sistema
produttivo interno, applicando il principio dell’autogestione, ebbero effetti diversamente interpretati. Per
alcuni si diede luogo al «socialismo dei manager», che gestivano il potere economico; per altri si favorì una
ripartizione dei redditi da lavoro secondo criteri più giusti.

Tito era più che mai il garante dell’unità statale e acquisì il ruolo di presidente a vita de facto. Vennero
infine al pettine alcuni nodi politici. Al numero uno del regime sembrò che Ranković avesse acquisito troppo
potere e mettesse in atto politiche non vantaggiose per la coerenza interna e la pace della compagine
federale. Nel 1966 fu, dunque, accusato di preparare un colpo di Stato, esautorato ed emarginato
politicamente. La sua caduta può essere interpretata pure come un colpo a certo nazionalismo serbo che
non vedeva di buon occhio il fatto che molti Serbi fossero rimasti fuori dalle frontiere della Serbia, mentre
questa doveva doveva ammettere l’autonomia del Kosmet e della Vojvodina. Tito, per altro verso, non
consentì che tutto ciò incoraggiasse tendenze ed elementi troppo liberaleggianti: fu colpito in particolare
l’intellettuale Mihajlo Mihajlov.

La Jugoslavia ebbe il suo Sessantotto non diversamente dai Paesi occidentali. Tito seppe fare fronte alle
richieste degli studenti, talora accogliendole, in un clima di libera espressione, sorprendente per un regime
monopartito. Fu più grave il risveglio dei temi etnici. Su questo fronte molto si fecero sentire gli Albanesi i
quali ottennero sia di introdurre propri rappresentanti nei posti di potere del Kosmet, sia la fondazione
dell’università a Pristina: erano ambedue concessioni di grande rilievo, tanto che si cominciò a considerare
quella provincia autonoma quasi come una settima repubblica federata. Molti professori universitari di
Tirana furono invitati a tenere corsi a Pristina, ed è facile intendere come il senso di appartenenza nazionale
si facesse più marcato tra i Kosovari. Al di là di eventuali desideri di maggiore riconoscimento della
nazionalità albanese, vi era anche la speranza di una crescita economica e sociale del Kosovo; questa
speranza andò presto delusa poiché alle maggiori opportunità di istruzione non corrispose l’aumento dei
posti di lavoro consoni ai titoli di studio conseguiti. Il Kosovo e altre regioni o repubbliche meridionali
continuarono a usufruire del sostegno economico federale (qualcosa di paragonabile alla Cassa del
Mezzogiorno allora attiva in Italia), di fatto mantenendosi il divario con le repubbliche più ricche e attive
economicamente, cioè Slovenia e Croazia. A fronte di questo permanente decalage, dirigenti macedoni
come Nikola Minčev affermavano che pure l’economia delle repubbliche settentrionali traeva vantaggi
dall’esistenza di un mercato federale, che garantiva l’allocazione di loro prodotti non facili da vendere
all’estero. Proprio la questione croata divenne per alcuni anni la più impegnativa per lo Stato federale. Più
volte (1967, 1968, 1971) si mise mano ad emendamenti costituzionali per dare soddisfazione a richieste
provenienti soprattutto da quella repubblica. Nel 1967 nella sede dell’assemblea federale furono installate
cabine per la traduzione dal serbo al croato: infatti da parte croata (con un manifesto sottoscritto da 130
intellettuali croati tra i quali lo scrittore Miroslav Krleža) si chiese il riconoscimento di una lingua a sé stante,
pur essendo le due parlate quasi identiche. Il 1971 registrò una serie di agitazioni denominate «primavera
croata», sebbene la somiglianza con quella cecoslovacca fosse limitata. Furono costituite varie
organizzazioni croate di ispirazione nazionale come l’Unione degli studenti, l’editrice Hrvastka Matica e il
Maspok (Masovni Nacionalni Pokret, Movimento nazionale di massa). Esse giunsero a proclamare lo
sciopero generale in Croazia in sostegno di richieste molto avanzate come l’istituzione di una Banca
nazionale croata, l’accesso diretto di Zagabria ai crediti della Banca mondiale e, infine, l’ammissione della
Croazia all’ONU. Lo sciopero ebbe successo, ma limitatamente a Zagabria. Tito, dopo alcune incertezze,
costrinse alle dimissioni i dirigenti comunisti (Miko Tripalo e Savka Dabčević-Kučar) che si erano spinti
troppo avanti nelle concessioni al sentimento patriottico; avvertì inoltre che la minoranza serba di Croazia
stava già armandosi temendo esiti per sé pericolosi. Seguì una decisa repressione di quelle manifestazioni e
una vera purga nel Partito comunista croato, né si mancò di colpire anche altri elementi considerati troppo
proclivi a riforme liberaleggianti, come il segretario del Partito comunista serbo Marko Nikezić. La questione
croata di fatto non era risolta e lo si vide meglio una ventina di anni più tardi. Né servì a molto
l’approvazione di un nuovo testo costituzionale nel 1974, che recepiva gli emendamenti varati negli anni
precedenti. Non vi fu tuttavia un ritorno al centralismo.

9. Il regime comunista in Albania tra Tito, Stalin e Chruščëv

Grazie al crollo italiano per i noti eventi del 25 luglio e dell’8 settembre 1943, ma anche in seguito alla
decisione tedesca di ritirare le truppe verso la fine del 1944, gli albanesi poterono affermare di avere
liberato da soli il proprio Paese senza intervento né sovietico né anglo-americano. Di fatto la vittoria arrise
alla resistenza comunista, capeggiata da Enver Hoxha, ed essa poté imporre un governo che era fortemente
orientato a sinistra e di fatto egemonizzato dai comunisti. Processi sommari furono intentati contro i
sostenitori del precedente regime (tra essi cadde l’italo-albanese Terenzio Tocci) e gli oppositori che
avevano sostenuto altre forze politiche e militari come il Balli Kombëtar di Midhat Frashëri. Passò molto
tempo prima che tutti gli italiani, militari ma anche civili, potessero tornare in patria (Roma e Tirana
allacciarono regolari relazioni solo nel maggio 1949): il nuovo regime li tenne quasi in ostaggio, a volte
anche per utilizzarne le competenze nel rilancio della debole e arretrata economia albanese. Nell’opera di
repressione si segnalò il ministro degli Interni Koçi Xoxe. Già nell’agosto 1945 fu varata la riforma agraria
volta a far scomparire i latifondi dove esistenti (soprattutto nel Meridione o Gegheria). Alle elezioni del
dicembre 1945 si presentò solo il Fronte democratico, veste politica del Movimento di liberazione nazionale
(LNÇ), conseguendo il 93% dei suffragi: anche l’astensione fu molto bassa, ma la correttezza di quella prova
elettorale è tutta da verificare.

Più che tenere vive le schermaglie con l’antico occupante, l’Italia, o con le potenze occidentali, Tirana
doveva preoccuparsi delle relazioni con la vicina Jugoslavia, dalla quale per qualche anno sembrò
dipendere. Ambedue i Paesi sostenevano le forze comuniste nella guerra civile in atto in Grecia e Tirana
accettò un forte prestito da Belgrado (almeno in termini relativi poiché era pari a metà del PIL albanese
dell’epoca) e l’unione doganale. Come in Jugoslavia, il processo che portò alla formazione del regime
monopartitico fu molto rapido, ben più che in altri Stati dell’area. Ciò non fu dovuto alla presenza di una
forte classe operaia (che anzi era ben poco numerosa) ma alla situazione politica e militare, al regime di
terrore instaurato, alla capacità del gruppo dirigente del Partito comunista di calamitare il consenso
popolare all’ombra dei valori dell’indipendenza nazionale, come pure alla debolezza delle alternative
politiche e dei ceti sociali che avrebbero potuto sostenerle. Se zoghisti e uomini del Balli Kombëtar furono
costretti a fuggire all’estero o a rifugiarsi in montagna, per tempo furono emarginate anche le correnti
dissidenti nel movimento comunista stesso: il gruppo Zjarri (fuoco) e quello guidato da Lula e Premte (vedi
supra, cap. I, § 9), tutti tacciati con facilità di estremismo trockista. Nel Comitato centrale il gruppo
filojugoslavo di Koçi Xoxe e Pandi Kristo a fine 1947 ottenne l’espulsione di Nako Spiru e di altri elementi
della corrente più decisamente pro-sovietica: era una sconfitta per Hoxha. L’11 gennaio 1946, con anticipo
sugli altri Stati destinati a entrare nell’orbita di Mosca, fu approvata la nuova Costituzione esemplata su
quella sovietica del 1936: con la democrazia liberale non erano possibili compromessi. In questo senso la
Repubblica popolare d’Albania non si ispirava neppure al modello, in linea di principio ‘intermedio’, della
democrazia popolare nella quale le innovazioni costituzionali furono adottate con maggior prudenza e
tempi più lunghi: la Costituzione bulgara fu approvata nel novembre 1947 e quella polacca nel luglio 1952,
le altre repubbliche popolari avendole mutate in quell’arco di tempo. Tuttavia fu ovvio che il regime si
rivolgesse non solo alla minuscola classe operaia, ma anche alla ben più vasta classe contadina, senza
dimenticare i moltissimi addetti alla pastorizia e all’allevamento.

Il compito che il nuovo ceto dirigente si stava assumendo era oggettivamente difficile: non era cosa
naturale applicare il marxismo-leninismo a un Paese così arretrato e praticamente privo di un serio
comparto industriale e del relativo proletariato. Già dal 1946, evitando la fase della riforma agraria di tipo
classico (creazione di piccoli poderi), fu avviata la collettivizzazione delle campagne con la costituzione di
fattorie collettive o cooperative e di fattorie statali. Nelle prime i cooperanti avevano un margine di
autonomia nel decidere la politica degli investimenti e dei salari, nelle altre i lavoratori erano semplici
salariati. Nel 1959 la maggior parte del Paese aveva subito quella fondamentale trasformazione e negli anni
successivi essa fu portata a termine anche nelle province settentrionali; nel 1967 la proprietà privata
agraria non esisteva più. Anche in altri settori si agì in modo radicale, a differenza di quanto per qualche
anno avvenne in altri Paesi dell’Europa centro-orientale. In Albania il nuovo potere poté operare come se si
trovasse di fronte quasi a una tabula rasa. Nell’ottobre 1945 fu costituita per la prima volta un’Unione degli
scrittori, dapprima comprendente anche personalità non legate all’ideologia del Partito comunista, ma da lì
a poco ben irreggimentata in nome del realismo socialista lanciato da Ždanov a Mosca. Lo scrittore (con lo
pseudonimo Lame Kodra) e ministro della Cultura Sejfulla Malëshova fu accusato di deviazionismo di destra
e sostituito nel 1950 con il più fedele Dhimitër S. Shuteriqi, la rivista dell’Unione «Bota e Re» (Mondo
nuovo) fu chiusa dopo pochi mesi dalla sua apertura e più tardi rimpiazzata da «Literatura jonë» (La nostra
letteratura), molti scrittori finirono in carcere. Seguì anche la confisca di tutte le biblioteche private per
arricchire la Biblioteca nazionale, il cui patrimonio librario era però accessibile in maniera selettiva.

La rottura tra Belgrado e Mosca nel 1948 fu fondamentale per l’ulteriore sviluppo della storia politica
dell’Albania. Hoxha colse l’occasione sia per liberarsi dell’ipoteca jugoslava sia per un regolamento di conti
interno al gruppo dirigente. Per il leader albanese era più facile che per altri attaccare frontalmente Tito e il
titoismo, con accuse non solo di tradimento ideologico ma anche di micro-imperialismo. Ormai era tardi per
avanzare rivendicazioni territoriali (la questione del Kosovo aveva trovato una soluzione concordata, e
tuttavia esso ospitava una maggioranza di albanesi contro una minoranza di serbi) ma era opportuno porre
fine a rapporti con la Jugoslavia che venivano avvertiti talora come patti leonini. All’interno la principale
vittima del repulisti avviato da Hoxha fu il numero due del regime, il segretario organizzativo del partito e
ministro degli Interni Koçi Xoxe, ma con lui caddero metà dei membri del Comitato centrale. Fu facile
attribuire a quei dirigenti la responsabilità delle relazioni preferenziali con Belgrado e dunque l’accusa di
titoismo. Non si è in grado di verificare se a Belgrado si pensò in quel momento di rovesciare Hoxha, a
favore di elementi filojugoslavi, ma ci sarebbe voluto molto coraggio per sfidare, di conseguenza, Stalin.

Naturalmente la scelta del gruppo dirigente di Tirana comportava un assoluto allineamento alla politica di
Stalin, peraltro considerato dagli Albanesi l’indiscusso capo del movimento comunista internazionale. Al di
là del credo ideologico, era necessario l’aiuto economico dell’Unione Sovietica ora che si rinunciava a quello
della Jugoslavia (che a sua volta aveva preso il ruolo già avuto dall’Italia). Il Paese aveva serie necessità: non
solo l’uscita dal dopoguerra era faticosa, ma il proposito di modernizzarlo era ambizioso in proporzione alle
risorse disponibili. In sostanza la crisi economica era pesante come strascico del conflitto mondiale, ma
anche come conseguenza della resistenza dei contadini ai progetti di introdurre le fattorie collettive,
peraltro in un contesto geografico, orografico e territoriale non sempre favorevole a tale innovazione. Da
Mosca pervennero persino derrate alimentari, come pure strumenti tecnici ed esperti che contribuissero a
diffondere buone pratiche nelle attività produttive. Tutto questo non fu sufficiente per avviare un
significativo sviluppo economico e il benessere per la popolazione. In cambio il governo albanese consentì
ad alcuni sottomarini sovietici di ancorarsi nel porto di Valona, creando qualche preoccupazione in
Occidente.

La fine (1949) del conflitto civile in Grecia consentì un processo di pacificazione dell’area balcanica. Tirana
non si spinse sino a stringere accordi con Paesi della NATO come fece Belgrado, ma al contrario finì per
trovarsi in condizione di maggior isolamento. All’ostilità verso la Jugoslavia si aggiungeva quella verso la
Grecia. Il governo di Atene riteneva quello di Tirana corresponsabile dell’invasione italiana del 1940, e lo
stato di guerra non era ancora cancellato da un trattato di pace.

Agli stessi livelli si mantennero anche quelle con i Paesi occidentali: alcuni di questi anzi organizzarono dei
modesti tentativi per creare un’opposizione armata al regime di Hoxha nella speranza di indebolirlo o
abbatterlo. Sia per la scarsa preparazione di quei tentativi di sbarco dal mare, sia per l’abile azione
dell’agente doppio Kim Philby (al servizio dei sovietici), il regime non ne ebbe alcun danno e restò saldo,
potendo piuttosto diffondere l’idea del Paese sotto pericolo straniero, della «fortezza assediata». Da qui la
costruzione, anni dopo, di un numero spropositato di bunker soprattutto a guardia delle frontiere e della
costa, che divennero quasi un simbolo agli occhi dei rari turisti e soprattutto di quanti si recarono in terra
albanese nei primi anni Novanta. L’ultimo importante tentativo di sbarco fu attuato nel 1952: 150 uomini,
seguaci di Balli Kombëtar o di Zog, che avevano lasciato l’Albania nel 1944, furono regolarmente catturati e
e per due anni utilizzati per inviare informazioni false agli anglo-americani che li avevano addestrati in
Germania Ovest. Nel 1954, al termine di un processo-spettacolo, furono mandati a morte. Intanto il Partito
comunista già durante il suo primo congresso, tenuto nel novembre 1948, assunse la denominazione di
Partito del lavoro, che meglio rendeva il concetto dell’alleanza tra la piccola classe operaia e la
maggioritaria classe contadina e riprendeva una scelta fatta anche in altri Paesi satelliti dell’Unione
Sovietica. Nel 1955 l’Albania fu ammessa all’ONU.

Le grandi novità seguite al Cremlino alla morte di Stalin non furono recepite dal regime di Tirana. L’Albania
continuò ad usufruire del sostegno sovietico per incrementare il processo di sviluppo economico appena
avviato, ma con il tempo sia quell’aiuto cominciò ad essere avvertito con fastidio, sia la politica
chrusceviana fu considerata negativamente. Tuttavia nel 1954 Hoxha lasciò a Mehmet Shehu la guida del
governo conservando quella del partito, secondo una formula applicata in vari Paesi comunisti. Il leader
albanese non condivideva il revisionismo sovietico e di altri Stati comunisti, e piuttosto si accostò
progressivamente alle posizioni della dirigenza cinese che andavano differenziandosi da quelle del Cremlino
di anno in anno, soprattutto dopo il 1957. Oltre a ciò, va tenuto presente che egli doveva governare un
Paese in cui il clan e la tribù avevano ancora un loro peso.

Secondo una interpretazione piuttosto condivisa, in Albania una vera struttura statale, capace di
raggiungere tutto il territorio dello Stato, fu creata solo con il regime comunista: gli antichi dominatori
ottomani e anche la monarchia di Zog non erano stati in grado di svolgere fino in fondo questo compito
essenziale per uno Stato. Il popolo albanese dunque doveva essere tenuto sotto un controllo ferreo, a
prescindere dalle formule politiche adottate dal partito nei suoi congressi e nelle sedute plenarie del
Comitato centrale. Anche il particolare accanimento contro le religioni ha a che vedere con questa esigenza
di controllo: non risulta infatti una particolare forte opposizione del clero cattolico, ortodosso o musulmano
(inclusa la variante dei bektaşi), paragonabile a quella di altre Chiese in Polonia, Ungheria o Cecoslovacchia.
Non si poteva dare spunti a nessuno, fuori e dentro il paese, per indebolire il senso unitario della nazione e
l’unico centro di potere. A metà degli anni Cinquanta erano stati varati diversi codici e in primo luogo quello
penale (soggetto a ripetute revisioni negli anni seguenti) che rispondevano alla logica politica del regime:
erano gli strumenti per plasmare la società secondo un preciso progetto e l’ideologia marxista-leninista.

Stalin fu rimpianto quale simbolo della fedeltà ai principi del marxismo-leninismo e di resistenza alle
tendenze revisionistiche, ma anche come colui che aveva vanificato il pericolo jugoslavo, molto concreto
per l’Albania. I revisionisti nel Partito del lavoro albanese non ebbero modo di avanzare proposte di
cambiamento del regime e di linea politica. Invece, con l’andar del tempo, trovò nuovo spazio il culto della
personalità: Hoxha continuò a detenere il potere in forma indiscussa e in misura quasi assoluta. Sicché la
politica da lui propugnata andò trasformandosi anche in difesa della propria leadership e dell’oligarchia che
lo affiancava. Per il momento la fedeltà all’Unione Sovietica non fu messa in discussione, anzi non
mancarono occasioni per manifestarla nelle forme più retoriche: ad esempio così fu nell’entusiastica
adesione del gruppo dirigente albanese al Patto di Varsavia, considerato fondamentale per la difesa della
pace in Europa contro i piani delle potenze occidentali.

Pochi mesi dopo il III° congresso del partito (dove si era condannato lo stalinismo ma non Stalin), il 25
novembre 1956 l’Albania registrò l’apice di quelle che si possono definire purghe in ritardo: furono mandati
a morte Nale Ndreui, Petro Buli e persino una donna, Liri Gega. Quei membri del Politburo erano propensi
anche loro a un miglioramento delle relazioni tra Tirana e Belgrado, ma Hoxha e quanti lo seguivano non
avevano affatto gradito che Tito fosse consultato riguardo alla crisi ungherese che aveva contribuito ad
accendere, e che Mosca avesse voluto liquidare politicamente Rákosi e il suo gruppo, come pure dissero
apertamente che la dissoluzione del Cominform (decisa il 17 aprile 1956) avrebbe dovuto essere frutto di
una consultazione, non di una decisione unilaterale dei sovietici.

Il momentaneo raffreddamento dei rapporti tra Mosca e Belgrado, seguito all’intervento sovietico in
Ungheria, permise a Hoxha di agire indisturbato, senza suscitare in un primo tempo serie reazioni al
Cremlino. Nel 1957 Mosca accordò un prestito di 160 milioni di rubli all’Albania, e accordi similari furono
siglati con altri Stati comunisti. Nel giugno 1959 Chruščëv visitò Tirana, ma le espressioni di amicizia usate
nell’occasione nascondevano a stento la rottura ormai prossima. Nonostante l’aumento degli aiuti
economici sovietici e l’ipotesi di installare missili su territorio albanese, punta avanzata del blocco orientale,
nello stesso anno le simpatie ideologiche manifestate da Hoxha per le idee maoiste indussero Mosca a un
ripensamento. Una nuova visita di Anastas Mikojan in Albania non fu coronata da successo né ottenne la
ricomposizione delle divergenze che si andavano palesando.

Ormai Hoxha era pronto a esprimere critiche aperte al revisionismo sovietico ancor prima che lo facessero
in modo netto i dirigenti cinesi. Questi e altri gruppi dirigenti comunisti preferirono fingere che il conflitto
tra sovietici e cinesi non fosse concreto, nonostante esso si fosse mostrato con chiarezza durante i lavori
della Conferenza di Mosca del 1957, alla presenza delle rappresentanze ufficiali di dodici partiti comunisti al
potere in Europa e in Asia (più osservatori di partiti comunisti occidentali).

L’accelerazione scelta da Hoxha trovava altre motivazioni. Mosca sembrò avere scarso rispetto della
sovranità del piccolo Stato e del partito albanese, toccando così un nervo scoperto del leader e
dell’oligarchia schipetara. In particolare sembrò che in cambio degli aiuti economici concessi Mosca si
arrogasse il diritto di appoggiare l’ala revisionista in seno al CC. Liri Belishova, Mazo Como, Koço Tashko,
Teme Sejko (il numero due della Marina giustiziato dopo un processo-spettacolo) furono subito espulsi dal
Comitato centrale, né Hoxha tenne conto delle critiche che gli vennero da parte russa. A Bucarest, nel
giugno 1960, durante i lavori dell’ottavo congresso del Partito dei lavoratori romeno il delegato albanese
Hysni Kapo si espresse favorevolmente alle posizioni cinesi e contro quelle sovietiche. Hoxha rifiutò poco
dopo di recarsi al Cremlino, ma la misura era colma. Il leader albanese alla Conferenza dei partiti comunisti
(ben 81) tenuta a Mosca nel novembre 1960, pronunciò un intervento di aperta critica a Chruščëv e ai suoi
collaboratori; il leader sovietico rispose con pari franca ostilità nell’ottobre 1961 al XXII° Congresso del
PCUS, quello della seconda destalinizzazione. Seguì la rottura delle relazioni diplomatiche tra Unione
Sovietica e Albania, fatto non avvenuto neppure con la Jugoslavia nel 1948. Tra le vittime di quella rottura i
coniugi sovietici di cittadini albanesi: furono inquisiti come spie e fu imposta più di una separazione.

Naturalmente, a seguito di alcuni incidenti, la base di Valona fu evacuata dai sovietici dopo aver inutilmente
richiesto, con l’assenso degli altri membri del Patto di Varsavia, che la flottiglia sovietica fosse posta sotto il
controllo esclusivo personale di Mosca. Restano dubbi sul perché Chruščëv non abbia operato all’interno
del Partito del lavoro per rovesciare Hoxha, ma forse non era più tempo di operazioni simili nel contesto
internazionale dell’epoca, con altre priorità per il Cremlino, mentre l’opzione militare era davvero
improbabile. Rispetto al blocco sovietico Tirana attuò l’ultimo strappo nel 1968, quando decise l’uscita dal
Patto di Varsavia in seguito all’invasione della Cecoslovacchia a opera delle truppe del Patto: naturalmente
non si trattava di simpatie ideologiche per il riformismo dubcekiano, ma del rifiuto della teoria della
sovranità limitata espressa da quell’atto militare e poi esplicitata da Brežnev.

All’aiuto economico e agli esperti sovietici subentrarono uomini e merci provenienti da Pechino: non
poteva essere diversamente poiché gli Stati comunisti europei si erano prontamente schierati con Mosca
contro Tirana e l’isolamento dell’Albania si fece veramente preoccupante. Nelle scuole si continuò tuttavia
a studiare il russo poiché i manuali delle materie tecniche erano scritti in tale lingua. La popolazione
albanese, convinta o costretta a seguire la scelta temeraria della sua leadership, la pagò a caro prezzo in
termini di condizioni di vita quotidiana. La rimozione di Nikita Chruščëv dalla segreteria del PCUS non fu
sufficiente a ripristinare i rapporti esistenti tra Unione Sovietica e Albania, così come non bastò per
riappacificare Mosca e Pechino. Questo fatto conferma che le scelte di Hoxha erano dettate non solo da
motivazioni ideologiche, ma erano anche attinenti la situazione del proprio Paese. Una parte della sinistra
europea occidentale prese a guardare all’Albania, non meno che alla Cina maoista, come a un coraggioso
esperimento di realizzazione integrale delle idee comuniste

10. Fuori dal blocco: la Grecia nel secondo Novecento

In Grecia l’intervento britannico e poi quello americano, nonché la guerra civile tra governo di centro-
destra e comunisti (1945-49) avevano impedito che i successi di Stalin giungessero fino al mar Ionio. I costi
umani del conflitto mondiale e soprattutto di quello civile non furono bassi, e il Paese restò segnato a lungo
dalla ferita causata da quegli avvenimenti: mentre la sinistra comunista continuò a essere fuori legge (lo era
dai tempi di Metaxàs e una legge del 1947 lo aveva ribadito), la ripristinata democrazia sembrò essere
piena di difficoltà quasi come nell’anteguerra e il ruolo della corte continuò a essere rilevante. Per dare
maggiore stabilità al sistema politico fu necessario rimettere mano sia alla Costituzione sia, soprattutto, alla
legge elettorale, abbandonando il voto proporzionale per il maggioritario. Anche grazie ad esso emerse la
figura di un De Gaulle greco: nel 1952 il maresciallo Alexandros Papagos, già comandante in capo
dell’esercito sia nel 1940 sia nella guerra civile contro gli insorti comunisti, fu nominato Primo Ministro,
dopo aver ottenuto con il Raggruppamento greco da lui fondato un ottimo successo elettorale: 49% dei voti
e i quattro quinti dei seggi parlamentari. Anche in questo passaggio si può cogliere l’ingerenza di
Washington, ma effettivamente i sedici governi succedutisi nei sei anni precedenti erano stati veramente
troppi perché la politica e la società se ne giovassero.

Alla morte di Papagos nel 1955 gli successe Konstantinos Karamanlis sostenuto dall’Unione nazionale
radicale (ERE, erede del Raggruppamento greco), il quale restò per otto anni consecutivi al governo finché
si ritirò volontariamente in Francia. Ancora una volta tale stabilità fu frutto di interventi sulla legge
elettorale; peraltro i suffragi dell’ERE restarono sopra il 40%, nonostante una scissione, risalendo fino al
51%, non senza polemiche sulla regolarità delle elezioni. In seno all’opposizione riguadagnò consensi la
Sinistra democratica unita (EDA), sia pure con alti e bassi. Karamanlis, entrato in conflitto con la corte e il re
Paolo, aveva accettato di tornare a votare con il proporzionale sotto il controllo di un governo neutrale,
guidato dal presidente dell’Alta Corte Stylianòs Mavromichalis. Inevitabilmente si tornò a un quadro
politico non facile da governare.

Visti gli eventi negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, fu del tutto naturale un
allineamento di Atene alla politica internazionale degli USA e, nel 1952, l’ingresso della Grecia nella NATO,
organizzazione alla quale aderì anche la Turchia che con lo Stato ellenico aveva un contenzioso per il
momento silente ma destinato a crescere con gli anni. Parallelamente vi fu la sigla da parte del governo
ellenico nel 1953 del Patto balcanico – peraltro senza particolare efficacia – con la Turchia e la Jugoslavia
comunista, con il sostanziale beneplacito di Washington. La questione principale in politica estera riguardò
però Cipro dove forte era la tendenza a unirsi alla Grecia, contro la volontà di Londra (e di Ankara). Il
governo ellenico, dopo varie vicende, dovette accettare che Cipro acquisisse l’indipendenza in seno al
Commonwealth, sulla base di una Costituzione che garantisse ambedue le comunità dell’isola, quella greca
maggioritaria e quella turca minoritaria.

(Dittatura militare) Il venir meno della relativa stabilità politica durata alcuni anni, preparò e alla lunga
sfociò in una dittatura militare (1967-73). Il nuovo giovane re Costantino II, in carica dal 1964, entrò in
conflitto istituzionale con Georgios Papandreou, leader dell’Unione di centro, che nel 1963 aveva ottenuto
una maggioranza solo relativa e, dopo nuove elezioni anticipate, un sostegno molto più largo nel 1964. Il
nuovo esecutivo avviò una politica sufficientemente innovativa, ma da una parte esplose nuovamente la
questione cipriota, dall’altra lo scontro istituzionale finì per toccare un campo molto delicato e caro alla
dinastia. Riguardava soprattutto le nomine ai vertici militari su cui vi fu contrasto tra il capo del governo e il
ministro della Difesa Pétros Garoufalias e si risolse nel luglio 1965 con le dimissioni di Papandreou, il cui
figlio Andreas era coinvolto in un’inchiesta riguardante un supposto tentativo di colpo di Stato di sinistra
(protagonista doveva essere l’organizzazione politica Aspida). Seguì la nomina di un governo costituito da
elementi dell’Unione di centro sostenuti dall’ERE. A esso seguì un governo tecnico con il compito di gestire
le elezioni previste per il maggio 1967; caduto anche questo per le polemiche legate al processo all’Aspida,
fu incaricato dal sovrano il leader dell’ERE Kanellopoulos.

Il 21 aprile un colpo di Stato militare organizzato da alti ufficiali, tra i quali emerse la figura del colonnello
Geōrgios Papadopoulos, impedì di trovare una soluzione politica attraverso le elezioni e non consentì a
Papandreou di tornare eventualmente al governo per proseguire nella politica di riforme, sollecitate dal
voto popolare, e avviare una politica estera meno allineata sulle posizioni statunitensi. Diecimila furono gli
arrestati, incluso il premier Kanellopoulos; il re Costantino partì per l’estero dopo aver pensato di
riassumere le redini politiche del paese fidando sui militari ancora a lui fedeli. La Grecia subì per alcuni anni
un isolamento internazionale che non sfociò però nell’espulsione dalla NATO né da altri importanti
organismi internazionali: Washington non poteva rinunciare a buone relazioni con la Grecia. Ricorrendo a
un referendum il regime militare si sbarazzò dell’istituto monarchico: Papadopoulos da capo del governo si
trasformò in presidente della Repubblica dopo un referendum in cui ottenne il 78% di voti favorevoli a un
regime presidenzialista e alla sua candidatura, peraltro unica. Fu nominato un governo civile (guidato da
Markezinis, leader del Partito progressista) perché fossero indette le elezioni, ma bastò questa apertura
perché la protesta studentesca riprendesse fiato con l’occupazione del Politecnico di Atene. Dopo la
successiva cruenta repressione (alcune decine di morti) un pronunciamento militare nel novembre 1973
depose Papadopoulos a favore del generale Phaedon Ghizikis che nominò un nuovo governo civile. L’uomo
forte era però il capo della polizia militare, il maggiore Dīmītrios Iōannidīs. Maggiori e decisive novità
giunsero dall’estero. Mentre si apriva un contenzioso con la Turchia per il controllo del deposito petrolifero
scoperto nell’isola di Thassos, da Atene si diede sostegno a un colpo di Stato che depose a Cipro il
presidente, l’arcivescovo Makarios. L’avventato tentativo di risolvere la disputa per l’isola già possedimento
inglese imponendo un effimero presidente (Nikos Sampson) favorevole all’ enosis allo Stato ellenico si rivelò
un atto controproducente poiché il governo di Ankara reagì occupando militarmente parte dell’isola e
facendovi proclamare una Repubblica turca indipendente. Grecia e Turchia mobilitarono, ma importanti
comandanti militari rifiutarono di marciare oltre la frontiera e costrinsero Ghizikis a restaurare il regime
democratico, invitando a tornare in patria il leader moderato Karamanlis che guidò la transizione alla
democrazia. La tensione tra Grecia e Turchia, che costituiva un serio problema per il fronte meridionale
della NATO, andò scemando molto lentamente ma restarono aperte tutte le questioni: Cipro divisa in due
fu luogo di scontri armati ancora per settimane, nessun accordo si ebbe per lo sfruttamento della
piattaforma continentale nell’Egeo e in Grecia montava furiosamente l’antiamericanismo.

In quei primi trent’anni di dopoguerra la Grecia subì trasformazioni di notevole significato. Dal 1949 riprese
impetuosamente il flusso migratorio: si calcola che 1.200.000 greci lasciarono la patria per motivi economici
(ma a volte anche politici) tra il 1950 e il 1977, sicché la diaspora ellenica nel mondo conta quattro milioni di
persone. Intanto, se nel 1961 gli addetti all’agricoltura erano ancora il 56% degli occupati, trenta anni più
tardi erano divenuti il 26%; oggi tale percentuale è scesa a circa l’11%, che peraltro è la più alta tra i Paesi
dell’area dell’euro. Paese non fortemente industrializzato, la Grecia conobbe tuttavia un certo sviluppo nel
settore secondario negli anni Cinquanta e Sessanta, grazie anche alle buone condizioni assicurate agli
investitori esteri sul piano fiscale e per quanto riguardava la politica del lavoro e sindacale: tale ascesa
toccò il punto più alto nel 1981. Dopo quella data l’economia subì un netto e progressivo processo di
terziarizzazione.

III. Fine di un’epoca

1. La Germania democratica dalla stabilizzazione alla caduta del Muro

La stabilizzazione degli anni Sessanta consentì alla DDR di divenire progressivamente il Paese del blocco
comunista con la migliore economia in termini di produzione e di reddito pro capite. La DDR era la
dimostrazione che il sistema socialista alla sovietica non di necessità dovesse funzionare male. Il regime
però non dava spazio alcuno al dissenso o a una significativa liberalizzazione. Dietro l’apparente solidità e ai
successi sia reali sia di immagine, permanevano elementi strutturali di debolezza. Soprattutto era
inevitabile il confronto con la condizione della Germania federale del miracolo economico: la produttività
del sistema economico orientale nel 1989 raggiungeva appena il 46% di quella del sistema tedesco
occidentale. Inoltre, nonostante il Muro – o forse anche per la sua esistenza –, il benessere e la libertà di cui
godevano i cittadini della RFT continuavano ad essere oggetto del desiderio per i tedeschi dell’Est. Il
successo della Ostpolitik di Bonn non era poi un elemento trascurabile.
Le autorità della DDR e l’opinione pubblica sentivano acutamente la necessità di trovare una fondata
giustificazione dell’esistenza stessa dello Stato tedesco orientale: si avvertiva insomma la mancanza di una
identità nazionale. Forse non fu del tutto vano, ma comunque insufficiente il tentativo di creare un
sentimento patriottico tra i cittadini: nonostante ogni elucubrazione, se, come avveniva in altri Stati
comunisti, si voleva dare una coloritura nazionale allo Stato, era difficile negare che una era la Germania,
dopo cento anni dall’unificazione realizzata da Bismarck. La crisi del regime si doveva di necessità
trasformare nella crisi dello Stato se appena il contesto internazionale avesse consentito la riunificazione
del popolo tedesco. L’ideologia comunista non poteva da sola supplire a tale carenza di identità, se nel
blocco sovietico era ormai prevalsa la linea delle vie nazionali al socialismo, invece di uno stretto e
ortodosso internazionalismo.

Non mancavano contraddizioni riguardanti proprio il mondo del lavoro: l’orario settimanale lavorativo era
di 44 ore, più che in Occidente. L’inserimento ormai completo delle donne nel sistema produttivo era
considerato un successo, ma aveva effetti negativi sulle famiglie. I bambini vivevano larga parte della loro
giornata lontano dai genitori, negli asili pubblici realizzati dallo Stato o dalle singole aziende: come è facile
capire, era una medaglia con due facce. Dal 1972 era stato reso lecito l’aborto, ma il Paese viveva il
problema della scarsa crescita demografica nonostante non vi fosse più il massiccio esodo verso Occidente.
È facile immaginare che anche la parte della popolazione che più si sentiva vicina ideologicamente al regime
non amava i forti condizionamenti della vita privata. La diffusione dell’automobile economica (la ‘mitica’
Trabant), la libertà della pratica nudista in luoghi riservati, le garanzie del welfare erano tutti elementi che
andavano in tutt’altro segno, ma non erano sufficienti per mettere in sicurezza il sistema nella percezione
dell’opinione pubblica.

Il gruppo dirigente optò decisamente per favorire il pieno riconoscimento dello Stato tedesco orientale,
attraverso il dialogo con tutti gli interlocutori possibili e con la stessa Germania Ovest, sfruttando le fasi
migliori della distensione internazionale. I Tedeschi dell’Est non rinunciarono mai ai mercati tradizionali
dell’area comunista (Cina popolare inclusa, cui la DDR si riavvicinò nel 1985), ma cercarono al contempo
nuovi sbocchi commerciali per le proprie notevoli capacità produttive. Tale politica segnava il passo, però,
quando le relazioni tra le superpotenze e tra i due sistemi, capitalistico e comunista, volgevano al brutto.
Parallelamente a tale politica di apertura ufficiale, anche la società tedesca orientale cercò di rapportarsi
alle altre società attraverso il veicolo della cultura, dell’arte, della musica popolare, dello sport (settori in cui
il regime aveva impegnato notevoli energie). Ciò contribuì certamente a indebolire le radici del regime.

(Era Gorbačëv) All’inizio dell’era Gorbačëv il segretario della SED Honecker accentuò i segnali di
distensione verso Bonn, e diede ai suoi discorsi un marcato carattere nazionale. Poteva vantare il rientro in
patria di larga parte dei Tedeschi orientali emigrati, un fenomeno (tutto da analizzare) che sembrava
dimostrare non essere la Germania federale il paradiso che molti credevano. Qualcuno sperò che il dialogo
procedesse fino al punto di ipotizzare l’abbattimento del Muro: se non vi fossero stati più motivi di ‘sigillare’
le frontiere tra i due Stati tedeschi, era pensabile persino un gesto così clamoroso. Del 1985 fu la prima
visita di un leader della DDR in un Paese della NATO, l’Italia. Honecker si recò anche in Vaticano rilasciando
dichiarazioni molto concilianti se si pensa all’atteggiamento precedente del regime verso la religione.

Insomma il nuovo corso prevalso al Cremlino sembrava non essere troppo distante dalla linea politica di
Berlino Est. Parve esserci anche un ricambio nei quadri dirigenti: nel 1984 il numero due del regime,
l’anziano Werner, abbandonò l’attività politica, e nel 1985 uscì dal Politburo della SED il conservatore
Naumann. Gorbačëv nell’aprile 1986 presenziò all’XI congresso della SED esprimendo ammirazione per i
successi economici conseguiti dalla DDR e fiducia in Honecker, certo che avrebbe fatto proprie la
perestrojka e la glasnost’. Sembrò pure che la formula tedesca «far funzionare il centralismo» potesse
costituire un modello per il nuovo leader sovietico. Presto si comprese che le divergenze non mancavano: lo
testimoniò la visita del ministro degli Esteri sovietico Ševardnadze a Berlino nel febbraio 1987; non
differentemente dal romeno Ceauşescu, Honecker affermò di avere in parte anticipato il nuovo corso
gorbacioviano, che peraltro non considerava adatto al peculiare sviluppo della Germania Est. Al vertice del
Patto di Varsavia che si tenne proprio a Berlino Est nel maggio seguente il disaccordo si fece del tutto
evidente. Tenere a freno la contestazione interna in assenza del tradizionale appoggio sovietico non era
cosa facile. A partire dall’autunno 1987 la Chiesa evangelica sostenne forme più esplicite di dissenso, cioè
delle vere manifestazioni pacifiste e religiose, e inevitabili furono e polemiche tra essa e lo Stato. Furono
fatti i primi timidi tentativi di stampa libera che avanzavano richieste di riforme, alle quali nel 1988 il regime
reagì con arresti ed espulsioni, tra le quali ebbe vasta eco quella del cantante Stefan Krawczyk. Nonostante
il trend economico restasse positivo, molti Tedeschi orientali ripresero la via dell’estero: normali viaggi di
turismo si trasformarono in vere fughe, approfittando del nuovo clima politico presente in Ungheria e poi in
Cecoslovacchia. Nel 1989 a Budapest e Praga non pochi furono i rifugiati presso le ambasciate della
Germania federale e si disse che i tedeschi orientali stavano votando con i piedi.

Quando si aggiunse una seria crisi economica non si trovò di meglio che chiedere l’aiuto del governo
tedesco federale. Già il 16 settembre 1989 «The Economist» diede una celebre definizione della Germania
Est in piena agonia: per il giornale britannico la sigla inglese GDR (German Democratic Republic) andava
letta «Gradually Disappearing Republic». Lo stesso mese chiese un riconoscimento ufficiale il Neues Forum,
un’associazione indipendente che contava tra i fondatori Bärbel Bohley. Seguirono in ottobre
manifestazioni e proteste a Dresda, Lipsia, Magdeburgo, in genere pacifiche, cui le autorità risposero con la
repressione. Paradossalmente esse avvennero anche a Berlino, quando vi si stava celebrando il
quarantennale della fondazione della DDR alla presenza dei capi degli Stati comunisti e di Gorbačëv, il quale
ebbe modo di proporre nuovamente il suo programma di riforme. L’8 ottobre venne rifondato il Partito
socialdemocratico. Dopo che a lungo si era parlato sottovoce di sostituire Honecker, questi infine fu
costretto a rinunciare alla leadership (disciplinatamente votò per la propria deposizione!)242 ed Egon Krenz
ne prese il posto quale segretario: gli organi dirigenti della SED espressero finalmente disponibilità a
dialogare con la nascente opposizione, mettendo da parte l’ala dura che continuava a pensare si potesse
usare la forza contro i dimostranti come era avvenuto in Cina a piazza Tienanmen. Era ormai impossibile
governare la situazione che si era creata nel Paese. Appena un mese dopo il governo e l’intero Politburo si
dimisero e alla guida dell’esecutivo fu posto il riformista Hans Modrow, già sindaco di Dresda, che cooptò
anche elementi provenienti dalla società civile come Lothar De Maizière, il quale ebbe la delega per le
confessioni religiose (discendeva da nobili ugonotti lorenesi). Peraltro già da settembre si tenevano le
riunioni della Runder Tisch (Tavola rotonda) in cui erano ampiamente rappresentati sette (successivamente
nove) movimenti da poco costituitisi e cinque (poi sette) formazioni politiche presenti in parlamento. Essa
preparò un progetto costituzionale di forte ispirazione occidentale ma pensato per una DDR ancora vitale,
se pure con una prospettiva che contemplava l’unificazione di tutti i Tedeschi nell’ambito dell’Unione
Europea.

Una incerta indicazione del nuovo governo riguardante la libertà di oltrepassare il Muro per recarsi a
Berlino Ovest fu la premessa per l’evento simbolo della caduta non solo del regime tedesco orientale, ma
anche degli altri regimi comunisti. Il 9 novembre – in assenza di chiare disposizioni e dopo una dichiarazione
del portavoce del governo che sembrava autorizzare il passaggio della frontiera cittadina – decine di
migliaia di persone non solo superarono la linea che separava in due Berlino, in particolare dal passaggio
sulla Bösebrücke, ma iniziarono a praticare alcune brecce nel Muro per facilitare il transito; molti altri danni
furono arrecati all’odiato manufatto e al di là di esso abbracci e brindisi caratterizzarono quella
indimenticabile notte. L’entusiasmo si coniugava con le speranze, ma era stato scritto già alcuni anni prima
che «demolire il Muro nella testa durerà più a lungo di quanto necessiti qualsiasi impresa di demolizione
per il Muro visibile».

Sebbene il regime comunista non fosse ancora smantellato, come il suo più noto simbolo, e dunque la
Wende (svolta) non fosse ancora compiuta, era inevitabile che si cominciasse a parlare di riunificazione, un
concetto che trovava critiche sia a Est sia a Ovest. Nella seconda metà di novembre nelle strade si gridava
non più Wir sind ein Volk (siamo un solo popolo) ma Wir sind das Volk (Siamo noi il popolo). Il cancelliere
federale Helmut Kohl ne parlò apertamente nella visita a Berlino del 19 novembre, sia pure non definendo i
tempi per unificare i due Stati tedeschi: egli recava al suo omologo Modrow i dieci punti approvati a
maggioranza nel parlamento tedesco occidentale, che miravano a una riunificazione per tappe e nel
contesto di un nuovo ordinamento europeo, garanzia di pace. Più che i politici e l’opinione pubblica della
DDR, era necessario convincere Washington, Parigi e, soprattutto, Londra e Mosca. Il processo durò alcuni
mesi e si concluse come sperava Kohl e con lui la stragrande maggioranza dei Tedeschi dei due Stati, cioè
con l’unificazione senza fasi intermedie e mantenendo l’adesione della Germania unificata alla NATO.

In dicembre nella SED ci fu una vera rivoluzione. Honecker e altri dirigenti furono espulsi dal partito, alcuni
furono arrestati con l’accusa di corruzione, Krenz si dimise e con lui tutti i componenti dell’Ufficio politico e
del Comitato centrale, furono sciolte le milizie operaie. Il 12 dicembre alla segreteria fu eletto il riformista
Gregor Gysi il quale attuò il ripristino del pluralismo politico: si ricorderà che un pluralismo di facciata
esisteva da sempre e ora ci fu solo bisogno che i partiti, come la locale Democrazia cristiana (CDU),
smettessero di fungere da semplici fiancheggiatori e si proponessero come alternativi alla SED. La
Volkskammer abolì contemporaneamente il primato della SED. Il 20 febbraio 1990 l’introduzione di una
fondamentale modifica costituzionale sciolse il Fronte Nazionale, in cui erano ingabbiati tutti i partiti e
movimenti, restituendo credibilità alle consultazioni elettorali.

Il 18 marzo 1990 si svolsero le elezioni politiche nelle quali vinse ampiamente (48,1% di voti) l’Allianz für
Deutschland, composta da CDU, CSU e Demokratischer Aufbruch o Risveglio democratico, nelle cui file
militava Angela Merkel, in seguito cancelliere della Germania unificata. Era fallito così il tentativo di
riformare il regime, rendendolo più democratico e soprattutto vera espressione della società, senza
accettare integralmente il modello socio-economico occidentale. Erano segnali anticipati della Ostalgie
(nostalgia dell’Est), come fu definita negli anni seguenti246. In quelle prime elezioni libere, d’altronde, la
SED, con il nuovo nome di Partito del socialismo democratico (PDS), ottenne un discreto 16% dei consensi.
Restato fuori dal nuovo esecutivo, il PDS qualche mese dopo fu l’unico partito a votare contro la
dissoluzione della DDR in vista dell’unificazione. De Maizière, pur compiendo il primo viaggio all’estero per
rendere visita a Gorbačëv, non poté che fare capire al suo interlocutore che aveva programmi ben diversi
da quelli desiderati a Mosca, mentre già il 15 maggio fu siglato un trattato tra le due Germanie per
l’unificazione economico-monetaria. Ci volle il settembre 1990 per la firma del trattato di pace da parte
delle ex potenze vincitrici. Fu frutto trattative bilaterali e multilaterali e sanò un’anomalia che durava dalla
Seconda Guerra Mondiale. Dopo tale atto di grande rilevanza internazionale l’unificazione fu sancita
ufficialmente nell’ottobre 1990. I contingenti dell’Armata Rossa (ben 20 divisioni per 400.000 uomini) nel
giro di alcuni mesi rientrarono in Unione Sovietica, in cambio di un nuovo robusto prestito garantito da
Bonn. De Maizière entrò come ministro per la Germania Est nel governo Kohl a Bonn, da cui si dimise in
breve per le voci su una sua passata collaborazione con la Stasi. L’unificazione, per le dimensioni dei due
Stati tedeschi, sembrò essere una annessione, ma non poteva essere differentemente. Dall’ottobre 1990 i
cinque Länder orientali (ripristinati come tali) si integrarono nella struttura federale della Germania Ovest. Il
problema non era l’integrazione territoriale e amministrativa, bensì la necessità di fronteggiare un costo
economico e sociale elevatissimo. Si registrarono i primi scioperi dopo molti anni per ottenere parità di
salario con i lavoratori dei Länder occidentali, oltre alla certezza del posto di lavoro in buona misura già
garantita. Meno attese furono alcune manifestazioni xenofobe nei territori della ex DDR, più accese che nel
resto della Germania.

2. La Polonia di «Solidarność» e la fine del regime comunista

A conferma che il regime comunista polacco era diverso da quello vigente negli altri Paesi del blocco,
Gomułka non lasciò il posto di segretario alla sua morte, come era nella tradizione dei partiti comunisti, o
per grandi novità provenienti dal Cremlino, come era avvenuto con Červenkov oppure Rákosi. Infatti egli fu
allontanato dalla leadership per decisione maturata in seno al gruppo dirigente in seguito ai violenti
disordini scoppiati in Polonia nel dicembre 1970; contemporaneamente Cyrankiewicz lasciò la guida del
governo dopo 14 anni, a Piotr Jaroszewicz. I disordini avevano una motivazione essenzialmente economica,
cioè erano conseguenza dei fortissimi aumenti imposti ai prezzi al consumo. Essi erano la dimostrazione che
un regime che voleva servire il popolo non era in grado di garantirgli il benessere. La razionalizzazione che si
volle applicare all’economia in difficoltà fu in realtà una cura da cavallo difficile da sopportare.
All’insoddisfazione della popolazione si aggiunse il disappunto per il fatto che Gomułka, in passato visto
come un coraggioso riformista, aveva pienamente avallato il soffocamento del tentativo riformistico in atto
in Cecoslovacchia e la repressione interna nel 1968. L’azione delle forze dell’ordine fu durissima e dopo una
settimana di scontri nelle città baltiche (Danzica, Stettino, Gdynia) si contarono centinaia di morti (45
ufficialmente) e un altissimo numero di feriti, ma anche il saccheggio di negozi e l’incendio o devastazione
di edifici pubblici.

A porre fine alla lunga stagione di Gomułka contribuirono i comunisti ‘patriottici’ che facevano capo a
Moczar e i quadri che più credevano nelle possibilità di innovazione del sistema economico, dei quali il
maggior esponente fu Edward Gierek, il quale assunse il ruolo di segretario rinunciando rapidamente ad
alcuni degli aumenti decretati. In breve, però, l’alleanza tra le due correnti (nazional-comunisti e tecnocrati)
venne meno e il nuovo leader, rimosso Moczar dall’incarico di governo, proseguì la sua esperienza per ben
dieci anni. Il nuovo segretario, pur vantando specifici successi in determinati campi (ad esempio, 1.300
scuole costruite in dieci anni), fece una vera autocritica riguardo alla politica economica recente,
sottolineando la «sproporzione tra l’aumento della produzione dei beni durevoli e quello della produzione
dei beni di consumo». La prima parte degli anni Settanta fu caratterizzata da un trend economico positivo:
la popolazione poté trovare una parziale risposta alle esigenze che aveva impetuosamente manifestato. I
problemi economici di fondo restarono latenti e furono resi evidenti solo più tardi dall’evoluzione dei prezzi
internazionali: le importazioni di petrolio, anche sovietico, si fecero più care e la Polonia dovette aprire
sempre più l’economia ai prestiti esteri (ben 24 miliardi di dollari) e agli investimenti stranieri (Fiat) per
attuare una politica economica espansiva, anche per quanto riguardava i consumi. Se la Polonia era lo Stato
del blocco che aveva consentito la sopravvivenza della piccola proprietà contadina, dal 1971 aveva sospeso
la consegna obbligatoria del prodotto e allargato il sistema previdenziale ai contadini autonomi, tuttavia
negli anni successivi si introdussero norme che furono avvertite come vessatorie. Infine si tornò ad
aumentare i prezzi al consumo, aumento nuovamente revocato in seguito a scioperi e manifestazioni.

Parallelamente una riforma costituzionale ( 1976) attribuì al partito quel primato che fino ad allora aveva
esercitato de facto e non de jure. Ciò andava contro i fermenti di opposizione o dissenso ancora presenti
nella società, a partire dagli ambienti intellettuali e da quelli ecclesiastici, che esercitavano un ruolo molto
importante in un Paese profondamente caratterizzato dalla fede cattolica, tradizionalmente coniugata con
il sentimento nazionale. Nel 1976 fu costituito il Comitato di difesa degli operai (KOR) per opporsi alle
misure governative messe in atto contro gli scioperanti. Massimi esponenti ne furono gli intellettuali
revisionisti o dissidenti: Jacek Kuroń, Adam Michnik ecc. Mentre l’economia continuava a declinare, la
società dimostrava una vitalità sempre maggiore nel senso che le varie forme di auto-organizzazione
risultavano ormai incomprimibili e incontrollabili per il potere politico. Ciò era senza dubbio facilitato dalla
liberalizzazione, sia pure limitata, che il regime aveva attraversato: basta pensare alla diffusione della
televisione oppure alla facilità di viaggiare anche all’estero o alla pubblicazione di opere precedentemente
proibite. L’elezione nel 1978 di un cardinale polacco, Karol Wojtyła, al soglio di Pietro con il nome di
Giovanni Paolo II, fu un ulteriore, forse decisivo, fomite degli eventi rivoluzionari che caratterizzarono la
storia polacca dell’ultimo decennio comunista. Della pericolosità di quella elezione si resero conto alcuni
dei dirigenti comunisti polacchi, ed essa fu confermata dall’enorme successo del primo viaggio in patria del
papa, quando anche gli esponenti del regime non mancarono di assistere alle celebrazioni religiose di
massa, inducendo qualcuno a dire che essi «erano come i ravanelli, rossi fuori, ma bianchi dentro».

Nell’agosto 1980 i fermenti che erano in incubazione in vari settori della società si manifestarono
apertamente con nuove manifestazioni operaie che culminarono nell’occupazione dei cantieri navali di
Danzica e di alcune fabbriche. Contemporaneamente fu fondato un sindacato dal significativo nome di
Solidarność (solidarietà), che ebbe subito un enorme seguito, di fatto acquisendo il peso politico di un
movimento o partito. Era evidente che forte era la componente cattolica, ben rappresentata dal leader
carismatico Lech Wałesa, un elettricista dei cantieri di Danzica fervente fedele della Madonna di
Częstochowa. Si confermava ancora una volta l’unità d’azione di ceti operai e intellettuali con la Chiesa
cattolica, né restò estraneo al sommovimento in atto il mondo contadino, dove prese piede una filiale
agraria di Solidarność. A ennesima riprova della specificità della Polonia, il regime rinunciò a usare la
repressione violenta, anche perché sorpreso dalla crescita esponenziale di quella nuova opposizione:
persino molti iscritti al POUP restituirono o stracciarono la tessera (come era avvenuto in Ungheria nel
1956) tanto che il vero problema fu di mantenere in vita il partito abbandonato da 800.000 iscritti, piuttosto
che di impedire il successo di un pericoloso concorrente presso l’opinione pubblica. L’esistenza del
sindacato libero fu legalizzata e il governo lo accettò come interlocutore politico, non limitandosi a trattare
sulle rivendicazioni avanzate da esso per conto degli operai. Nei sedici mesi in cui poté dispiegarsi in tutta la
sua forza e popolarità, il grande movimento di opposizione, autolimitandosi, non cercò tuttavia di abbattere
il regime. Per il regime gli accordi di Danzica erano, però, «un decreto di morte sospeso».

Inevitabilmente Gierek dovette cedere il posto di segretario a Stanisław Kanya, ma il ricambio al vertice non
sembrò sufficiente per ridare slancio al POUP. Il quadro politico subì una rapida, ulteriore evoluzione: il
generale Wojciech Jaruzelski, ministro della Difesa, nel febbraio 1981 assunse la guida del governo (dove si
erano succeduti in un anno tre presidenti), ma in ottobre sostituì Kanya alla segreteria del partito, un fatto
assolutamente inedito: il partito era ormai un simulacro, detenendo i militari e i servizi segreti il reale
potere; di lì a poco si pensò anche di rifondarlo, come era avvenuto in Ungheria nel 1956, eliminandone le
ali conservatrice e revisionista. Dopo un vano tentativo di trovare il consenso di Solidarność su
provvedimenti volti a ripristinare il controllo del Paese da parte governativa, l’ultimo atto fu la
proclamazione dello stato d’emergenza nel dicembre 1981: la mancanza dell’unanimità nel Consiglio di
Stato nell’avallare quel grave gesto politico del capo dell’esecutivo consente di parlare tecnicamente di
colpo di Stato. Conferma di tale giudizio venne dall’arresto di migliaia di militanti di Solidarność, tra i quali
Wałesa e il futuro presidente del Consiglio Tadeusz Mazowiecki. Jaruzelski nelle Memorie e in altre sedi ha
giustificato la sua drastica scelta con l’intenzione di evitare un intervento militare sovietico e lo scatenarsi di
una guerra civile, temuta – a suo dire – anche dalla Conferenza episcopale. Sappiamo in realtà che al
Cremlino si discusse ma si scartò l’opzione militare, già messa in atto in Ungheria e in Cecoslovacchia: si può
credere che almeno parte delle forze armate polacche avrebbero reagito all’invasione. Nella popolazione i
sentimenti antirussi non erano da meno rispetto a quelli antigermanici, né essa gradiva i rapporti cordiali
esistenti tra l’Unione Sovietica e i due Stati tedeschi.

Le vicende polacche trovarono grande eco nel mondo occidentale da dove continuò a giungere sostegno
materiale e politico a Solidarność e furono approvate sanzioni contro la Polonia, che avrebbe invece avuto
bisogno di mantenere buoni rapporti soprattutto economici con quegli Stati che ne finanziavano il debito
estero. Nel novembre 1982, dopo la morte di Brežnev e l’elezione di Jurij Andropov a segretario generale
del PCUS, Wałesa fu rimesso in libertà (con molti suoi compagni): era rimasto in carcere per undici mesi ma
l’anno seguente fu insignito del premio Nobel per la pace, segnale inequivocabile della volontà di incidere
da Ovest nei processi di rinnovamento in corso all’Est, ora che il breznevismo sembrava superato
nonostante il breve interregno di Viktor Černenko al Cremlino (febbraio 1984-marzo 1985) cui seguì la
decisiva ascesa di Michail Gorbačëv, portatrice di grandi novità in tutto il blocco orientale.

Infatti nel 1987 il governo ricorse a un referendum popolare per fare approvare nuove riforme politiche ed
economiche, ma senza successo; nel 1988 Solidarność boicottò le elezioni amministrative sicché appena il
55% dell’elettorato vi partecipò, percentuale ben differente da quelle plebiscitarie usuali. Non poteva non
preoccupare l’aumento dell’emigrazione: tra il 1981 e il 1988 emigrarono (per due terzi verso la Germania
federale, anche perché spesso provenienti dalla Slesia) 830.000 cittadini, di cui solo 156.000 legalmente.

Quei passaggi politici ed elettorali erano stati un banco di prova per il proseguimento e l’avanzamento del
dialogo tra governo e opposizione: esso doveva di necessità sfociare in un esito molto innovativo,
soprattutto nel nuovo clima instaurato nel blocco sovietico dalle dichiarazioni di Gorbačëv, il quale chiarì
che Mosca non avrebbe interferito con la politica interna degli Stati dell’Europa centro-orientale anche se
essa si fosse orientata verso il superamento dei regimi comunisti. Nella primavera e nell’estate 1988 vi
furono, per motivazioni economiche, importanti scioperi non guidati da Solidarność. Nel settembre 1988 si
insediò come capo del governo Mieczysław Rakowski, propenso al dialogo. Nel dicembre 1988 Wałesa si
confrontò con il capo del sindacato ufficiale (Alleanza dei sindacati di tutta la Polonia) Alfred Miodowicz di
fronte alle telecamere della televisione di il successo arrise al leader di Solidarność, grazie anche al
supporto di intellettuali di vaglia provenienti dal mondo cattolico, quale Mazowiecki, e talora dallo stesso
POUP, come Modzelewski.

Presto i sindacati ufficiali scomparvero e il disciolto sindacato libero fu nuovamente legalizzato, non senza
resistenza da parte delle «teste di cemento» nel Comitato centrale riunito nel gennaio 1989, alle quali
Jaruzelski minacciò le sue dimissioni e quelle del governo. Tutto ciò fu preliminare alla cosiddetta «tavola
rotonda», cioè a una discussione a tutto campo tra governo e opposizione sul futuro del Paese. Gli accordi
frutto di quella trattativa furono siglati da Janusz Reykowski per il governo e dallo storico Bronisław
Geremek per l’opposizione. Gli accordi prevedevano tra l’altro il pluralismo sindacale (anche nelle
campagne) e la riassunzione di quanti avevano perduto il posto di lavoro dopo il 13 dicembre 1981 a causa
delle loro attività sindacali. Si accennava allo sciopero, tuttavia, come strumento estremo di lotta,
auspicando che in uno spirito costruttivo si cercasse di prevenire i conflitti e risolverli di comune accordo tra
le parti. Furono ripristinati la presidenza della Repubblica e il Senato.

Tra le altre decisioni, fu fondamentale l’accettazione di elezioni parzialmente libere (3.000 firme erano
sufficienti per presentare una candidatura) e con sistema uninominale. Completamente libere dovevano
essere per la ripristinata Camera Alta, ma non per il Sejm, la Camera dei deputati, dove la coalizione di
governo si riservava il 65% dei seggi (60% a POUP, Partito contadino e Partito democratico, e 5% ai
movimenti fiancheggiatori Pax, PZKS e UCHS). Nelle elezioni di giugno 1989 Solidarność riuscì vittorioso in
tutte le circoscrizioni corrispondenti al restante 35% dei seggi del Sejm, mentre ottenne 99 seggi su 100 al
Senato (uno andò a un indipendente). Su quel clamoroso risultato aveva influito anche il basso numero di
votanti: 62,7% (e 25% al secondo turno nelle circoscrizioni in cui fu necessario).
Di fronte a una situazione politicamente, più che numericamente, paradossale (Solidarność aveva 161
deputati contro i 173 assegnati al POUP) il Partito contadino e le altre formazioni che detenevano i restanti
dei 460 seggi al Sejm chiesero apertamente che nell’esecutivo fosse incluso il vincitore delle consultazioni
politiche, richiesta che Jaruzelski e i suoi non poterono che accettare, rinunciando alla nomina del generale
Czesław Kiszczak quale primo ministro. Nel settembre il cattolico Tadeusz Mazowieski divenne il primo capo
di governo non comunista in un Paese dell’Europa centro-orientale dai primi anni delle repubbliche
popolari: tra i ministri se ne contavano 12 di Solidarność (tra essi Kuroń, mentre Geremek e Michnik
entrarono al Sejm) e 4 del POUP, il cui primato politico fu cancellato dalla Costituzione. A nominare
Mazowiecki fu Jaruzelski, che era stato eletto di stretta misura presidente della Repubblica dalle Camere
riunite. Il caso polacco fece da battistrada per tutti gli altri Stati dell’area che, uno dopo l’altro, posero fine
al regime comunista senza che da Mosca giungessero segni di ostilità. La ‘rivoluzione’ polacca innescò un
processo che coinvolse tutte le repubbliche popolari o socialiste dell’Europa centro-orientale e infine mise
in crisi la stessa Unione Sovietica poiché «tutti i grandi imperi del passato hanno descritto la stessa
parabola, finendo travolti dalla rivolta delle periferie».

3. La Cecoslovacchia dalla normalizzazione alla rivoluzione di velluto

La nuova fase della distensione internazionale rappresentata dagli accordi di Helsinki del 1975 favorì anche
in Cecoslovacchia la ripresa di forme di dissenso. Alla fine del 1976 fu costituita Charta 77. Sebbene vi
aderissero poche centinaia di intellettuali, Charta 77 includeva diverse correnti. La più vivace era fatta da
personalità antiregime, come il drammaturgo Václav Havel e il filosofo Jan Patočka; ma non mancavano
molti dubcekiani come Mlynář e Jiří Hajek. Dopo i primi colpi della polizia, di cui fu vittima principale
Patočka, morto in seguito a un interrogatorio a opera della Stání Bezpečnost-STB, la polizia politica, sembrò
che l’organizzazione fosse sul punto di sciogliersi per problemi interni, legati alle idee delle varie
componenti e alla capacità di operare insieme. Charta 77 tuttavia sopravvisse (i 242 sottoscrittori iniziali
negli anni Ottanta salirono a 2.000 circa) e costituì l’unico vero filo che collegò la resistenza al regime
husákiano con gli eventi imprevisti e ‘gioiosi’ del 1989. Essa riuscì a far giungere la propria voce oltre
confine e a influenzare in qualche misura anche il dissenso in altri paesi del blocco. Ebbe contatti e aiuti dal
KOR polacco almeno fino al 1981.

Il governo e il partito, in fatto di ideologia e di politica estera, mantennero un fedele allineamento nei
confronti delle più intransigenti scelte di Mosca, non ammettendo varianti al modello unico per il blocco.
Nel 1980 la rivista ideologica «Tribuna» difese l’invasione dell’Afghanistan da parte sovietica, contro le
critiche venute anche dal campo comunista, da Cina, Romania e Jugoslavia, e da partiti eurocomunisti
occidentali. Nonostante la lunga tradizione di buone relazioni e in particolare di forniture militari garantite
dagli anni Cinquanta all’Egitto, pure il governo egiziano veniva criticato per le aperture verso gli USA e
Israele.

Nei primi anni Ottanta si registrarono nuove forme di protesta a seguito del rinnovato confronto tra le
superpotenze in fatto di installazioni di missili «di teatro». I movimenti pacifisti in tutta Europa ripresero
vigore e nel giugno 1983 a Praga si tenne l’assemblea mondiale per la pace e la vita («Praha ’83»), durante
la quale si udirono critiche per l’installazione dei missili non solo occidentali, ma anche sovietici. Sulla stessa
linea, nel febbraio 1984 alcune petizioni popolari osarono pronunciarsi contro il dislocamento delle
installazioni missilistiche russe. Tutto ciò e altri piccoli, coraggiosi gruppi di dissidenti non sembravano
minacciare il regime non trovando il consenso popolare, almeno in forma esplicita. Uno scontento più
diffuso maturava forse in forma silenziosa. Qualcosa cambiava però nel costume, nelle arti, e si registrava
l’apertura verso la musica e le mode occidentali. Si può parlare di un lavoro ‘organico’, privo di teorizzatori
e nascosto ma costante: avrebbe costituito il background su cui poggiare un vero dissenso di massa quando
il regime avesse abbassato la guardia o dato segni di debolezza come avvenne poi nel 1989. Gli studenti
erano particolarmente sensibili a questo inavvertito mutamento nella sfera privata e culturale piuttosto che
in quella politica: furono loro al momento decisivo l’elemento trainante accanto agli oppositori più
tradizionali e di vario genere di cui si è detto. Persino i parziali successi in campo economico non erano
sufficienti a impedire il distacco progressivo dei cittadini dalla politica ufficiale, incapace di governare la
modernizzazione spontanea della società.

(Slovacchia) Un aspetto particolare del ventennio successivo alla Primavera del 1968 riguardò gli Slovacchi.
Nonostante Dubček fosse, appunto, slovacco, essi parteciparono in misura più limitata e con diverse
aspirazioni al movimento riformatore: puntavano infatti essenzialmente a conquistare una piena parità
rispetto a Boemi e Moravi. In effetti una legge costituzionale del 28 novembre 1968, cioè successiva
all’invasione, sancì la piena federalizzazione dello Stato cecoslovacco. Presto però ci si avvide che restava
centralista il partito (eppure esisteva un Partito comunista slovacco) e che le decisioni importanti si
prendevano ancora a Praga, anche se il segretario della ‘normalizzazione’, Husák, era anche lui uno
slovacco. La Slovacchia registrò una repressione più contenuta in seno al partito, tanto da consentire la
sopravvivenza di una corrente riformista. Ciò contribuisce a spiegare il fatto che quasi nessuno slovacco
fosse tra i firmatari di Charta 77. Inoltre in terra slovacca era più viva la dissidenza esistente in seno agli
ambienti cattolici (ufficialmente il 64% della popolazione della Cecoslovacchia è cattolica, ma in realtà i veri
credenti e/o praticanti sono molti di meno) che facevano capo all’anziano e coraggioso cardinale František
Tomášek. Peraltro si registrarono nuovamente misure detentive nei confronti di diversi sacerdoti e, ancora
nel 1982, il Vaticano condannò ufficialmente il movimento «Pacem in terris», costituito da cattolici allineati
alla politica del governo che non ebbe però volontà di dare vita a una Chiesa cattolica ‘nazionale’, cioè non
rispettosa del magistero papale.

Sebbene in misura limitata rispetto ad altri Paesi del blocco sovietico, anche la Cecoslovacchia risentì
dell’ascesa al potere di Gorbačëv. Finalmente nel dicembre 1987 Husák lasciò la segreteria del partito, ma
fu sintomatico che gli succedesse un personaggio conservatore come Miloš Jakeš, già coordinatore della
Commissione di controllo. Lubomír Štrougal lasciò nell’ottobre 1988 la presidenza del Consiglio a Ladislav
Adamec, indicato come gorbacioviano. Jakeš e Gorbačëv, durante la visita di questi a Praga, lasciarono
trapelare l’esistenza di dissensi tra le rispettive posizioni. In questo contesto i gruppi di opposizione
andarono moltiplicandosi: Comitato Helsinki, Lega dei diritti dell’uomo, il club per la ristrutturazione
socialista Obroda o Rinascita, Gruppo indipendente ecologico, Associazione indipendente per la pace,
Comitato per la difesa dei perseguitati ingiustamente (VONS), Iniziativa democratica, Movimento per la
libertà civica e altri. Nel 1988 furono raccolte 500.000 firme (di cui 300.000 in Slovacchia) per chiedere la
libertà di professare il proprio credo religioso e la polizia interruppe una pacifica processione religiosa al
centro di Bratislava.

A novembre, essendo già caduto il Muro di Berlino, la protesta assunse un carattere curioso e
sorprendente: da una parte essa si svolse per ricordare un altro sopruso subito cinquanta anni prima dal
popolo cecoslovacco, l’occupazione nazista e la conseguente chiusura degli istituti superiori cechi (segnati
dalla morte di uno studente); dall’altra il numero dei manifestanti il 17 novembre fu enorme, come non si
vedeva dal 1968. Essi furono caricati dalla polizia. Intanto gli studenti proclamarono uno sciopero generale
per il 27 novembre. Da un lato persone non più giovani si erano aggregate alla protesta giovanile, dall’altro
le varie formazioni di opposizione decisero di creare un’organizzazione comune, il Forum civico (Občanské
forum) cui aderirono anche il Partito popolare e quello socialista che fino a quel momento erano stati due
simulacri di partito e satelliti del PCC nell’ambito del Fronte nazionale: per essi avveniva una trasformazione
non diversa da quella di cui in Polonia furono protagonisti il Partito contadino e il Partito democratico.

Il corso degli eventi divenne rapido e impetuoso mentre il partito che orgogliosamente aveva guidato il
Paese per decenni era squassato da una crisi cui non sapeva trovare risposta (già in giugno si erano dimessi
alcuni ministri). Jakeš lasciò la segreteria al centrista Karel Urbánek: in pratica prevaleva con
quell’avvicendamento la linea del dialogo avviata da Adamec. Questi tentò invano di costituire un nuovo
governo ancora controllato dal PC, poi dovette ripiegare su una soluzione di compromesso. Il 10 dicembre il
protagonista della ‘normalizzazione’ Husák lasciò l’ultimo scanno che occupava, quello di presidente della
Repubblica: la popolazione gridava «Havel al Castello» e fu lui ad assumere la presidenza rimasta vacante, a
esprimere i sentimenti di un popolo non più rappresentato dal PC, sebbene l’elezione formale avvenisse il
29 dicembre. Parallelamente un altro personaggio, dalla parabola umana e politica ben diversa, Dubček, fu
eletto presidente del parlamento, a rappresentare quei comunisti che avevano infine saputo scegliere il
metodo democratico. I due uomini erano i garanti che la marcia verso la libera democrazia non sarebbe
stata interrotta, e intanto fu insediato (ancora da Husák) un esecutivo guidato per l’ultima volta da un
comunista, il riformista Marián Čalfa, in cui però ben 11 ministri su 21 non erano iscritti al partito, anzi
rappresentavano altre posizioni. Egli aveva il compito di gestire gli affari correnti per alcuni mesi, in attesa
delle elezioni che dovevano fare chiarezza nel quadro politico. A quel punto la cosiddetta rivoluzione di
velluto o gentile (sametová) era compiuta. Le elezioni si tennero nel giugno 1990 e i partiti di centro
risultarono vincitori in tutto il paese: in Boemia-Moravia trionfò il Forum civico, in Slovacchia vinse
l’omologo Pubblico contro la violenza (Verejnosś proti násiliu, VPN), insieme conseguendo ben 170 seggi
nell’assemblea federale, mentre 40 andavano agli alleati dell’Unione cristiana democratica. Il Partito
comunista subì una sconfitta onorevole, classificandosi come secondo partito nell’assemblea federale con
13,7% e 47 seggi: era la riprova di un suo radicamento nella popolazione, non del tutto venuto meno
nonostante la dittatura esercitata per tanto tempo.

4. L’Ungheria dalla repressione al «socialismo del gulyás», alla transizione annunciata

Il nuovo corso ungherese diede vita a un vero modello sui generis, che in seguito fu definito
gulyássocialiszmus (socialismo del gulyás). Per rassicurare Mosca (dove dal 1964 a Chruščëv era subentrato
Brežnev con altri dirigenti definiti un po’ semplicisticamente neostaliniani) i vertici di Budapest garantirono
la massima fedeltà in politica estera, nonché il rispetto dell’ideologia marxista-leninista e dell’ordine
interno. Invece grande fu la libertà di fare esperimenti in politica economica. Non mancavano esempi
provenienti dalla Jugoslavia e dalla Polonia: anche in Ungheria si trattava di trovare nelle pieghe della
politica di piano la possibilità di incentivare l’attività economica e di consentire una certa autonomia alle
singole aziende nella gestione della produzione, del reddito creato, nelle relazioni esterne e persino estere:
un punto molto avanzato del nuovo corso fu costituito dalla nascita di joint ventures con aziende e
investitori stranieri. Scopo ultimo era quello di favorire la crescita dell’economia e un più diffuso benessere
che avrebbe dovuto procurare un maggior consenso popolare. L’aumento notevolissimo degli iscritti al
POSU (dopo il crollo registrato nel 1956) non può solo essere spiegato con l’opportunismo o la possibilità di
trovare migliore collocazione sociale ed economica attraverso la tessera; dopo un primo ritorno dei
militanti sconvolti dal trauma rivoluzionario, giocò certo anche la politica più tollerante e più attenta alle
esigenze e alle aspirazioni della popolazione. Il partito peraltro presentava quadri dirigenti notevolmente
rinnovati. Nel 1960 e nel 1963 furono promulgate due amnistie ispirate allo slogan «chi non è contro di noi,
è con noi», lanciato nel dicembre 1961.

Il nuovo corso fu legato al nome di Jenő Fock e gli alti e bassi della carriera politica di questo dirigente
esperto in economia corrispondono anche all’andamento della politica economica ungherese negli anni
kádáriani. Infatti non si può parlare di un trend costantemente positivo poiché a più riprese si palesarono
serie difficoltà nell’applicare i criteri di autonomia aziendale. Accanto a periodi di risultati molto buoni si
annoverarono fasi di produzione in contrazione. Il discreto sviluppo dell’industria si giovò di una forte
espansione del lavoro femminile che, ovviamente, non poteva continuare all’infinito. Si introdussero misure
tese a dare qualche libertà al mercato, restituendo una parte delle attività economiche agli imprenditori
privati. Verso la fine dell’epoca comunista l’Ungheria era di gran lunga il Paese socialista con il più alto tasso
di attività private. Lo stesso valeva per le abitazioni di proprietà di singole famiglie, soprattutto quelle della
capitale. Nel maggio 1966 fu approvato il Nuovo meccanismo economico che aumentava i margini di
autonomia per i manager (anche riguardo alle proprie retribuzioni premiali, tanto che da Belgrado si usò
l’espressione critica «socialismo dei manager»). Nel settore agricolo nel 1959 si optò una volta per tutte a
favore delle fattorie collettive (la collettivizzazione fu compiuta nel 1961), e tuttavia si lasciò una relativa
libertà ai contadini nell’organizzare il proprio lavoro e nel commerciare i prodotti della terra e
dell’allevamento, riprendendo forse in meglio l’esperienza del mercatino colcosiano vigente in Unione
Sovietica: ad esempio furono abolite le consegne obbligatorie. Anche nella classe contadina il governo
seppe in definitiva guadagnare consensi o limitare le insoddisfazioni. Non stupisce se in seguito Gorbačëv
considerò il modello economico ungherese utile per far uscire l’Unione Sovietica dalle secche della
stagnazione; eppure nel 1971 il governo di Budapest non ottenne che alcuni principi del libero mercato
venissero fatti propri dal Comecon e fossero applicati ai rapporti bilaterali.

Il gruppo dirigente di Budapest sembrò fare proprio il concetto gramsciano di egemonia della classe
operaia, rinunciando alla marxiana dittatura del proletariato: era un contributo al revisionismo ideologico
che aveva in Polonia la sua roccaforte. Peraltro il settore industriale non registrò significativi successi, né la
classe operaia ebbe possibilità di ripetere l’esperimento di autonomia dei Consigli operai del 1956. Si giovò
anche essa, però, del benessere materiale crescente. Agli intellettuali fu consentito di studiare, scrivere e
operare senza particolari censure. Poté sopravvivere, se pure in odore di dissenso, la scuola di Lukács, così
come si fecero sentire altri dissenzienti che osavano criticare il regime da più versanti politici.

Kádár si guadagnò così il giudizio spesso superficiale di campione del riformismo. Eppure, forse obtorto
collo, approvò l’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia nel 1968 e restò alla guida del partito
anche quando esso sembrò allontanarsi dalla linea riformistica. L’evidente prevalenza dei riformisti fu
messa sotto scacco durante la seduta plenaria del CC tenuta nel novembre 1972. Oltre il citato Aczél, ne
fece le spese anche un ispiratore del nuovo corso economico, come Rezső Nyers. Il congresso del POSU
tenuto nel 1975 approvò invece una linea di compromesso. Peraltro l’Ungheria non poteva non risentire di
quanto avveniva nell’Unione Sovietica di Brežnev e pure degli effetti pesanti della crisi petrolifera del 1973.
Come Paese socialista più aperto al mercato internazionale, ne patì conseguenze negative più degli altri
satelliti di Mosca (forte era il deficit della bilancia commerciale) e dovette dunque cercare proprio nel
protettore sovietico un aiuto in termini di forniture nel settore energetico: si ricordi che l’economia
sovietica si giovò dello choc del 1973 per espandersi, sebbene in modo effimero, grazie alle esportazioni
(anche verso l’Occidente e il Terzo Mondo) di petrolio e gas. Una perdita del potere d’acquisto dei salari
non sarebbe stata tollerabile, dopo anni di benessere, né valsero a migliorare la situazione le misure
amministrative adottate, né infine si poteva abbandonare la politica di crescita economica piuttosto
accelerata.

Tutto portò a un esito scontato, ma pericoloso sul piano economico e su quello politico-ideologico: György
Lázár, che prese il posto di Fock alla guida del governo nel 1975, decise di ricorrere a prestiti esteri, non
differentemente da altri Paesi socialisti. Era un abbassare bandiera di fronte all’avversario ideologico, il
capitalismo occidentale, e allo stesso tempo significò impegnare le risorse del paese nella restituzione dei
debiti contratti: otto miliardi di dollari nel quinquennio 1973-78. Il debito estero in realtà, invece di
diminuire e limitarsi a essere una soluzione d’emergenza, prese a crescere, finanziando in buona misura
l’economia ungherese. Non tutti erano consci di questo cambiamento epocale in cui è possibile trovare le
radici del crollo del regime avvenuto nel 1988-89. Il partito decise di non scegliere la strada dell’autarchia e
una decisione del CC approvata nell’ottobre 1977 chiese che l’economia puntasse sulle esportazioni per
riequilibrare la bilancia commerciale e dei pagamenti. All’epoca era ormai avvenuta la trasformazione
dell’economia da prevalentemente agricola in industriale, (M.I.) agricola e terziaria: gli addetti all’industria
superavano ormai quelli all’agricoltura (scesi nel 1980 al 25% contro il 40% del 1960).

(M.I.) Gli anni Ottanta, nonostante l’invasione sovietica in Afghanistan e la repressione di Solidarność in
Polonia, erano molto diversi dagli anni Sessanta: ormai i governi comunisti erano abituati ad applicare
alcuni criteri tipici del capitalismo alle proprie politiche economiche. Sicché in Ungheria si tornò in modo
abbastanza netto a un indirizzo economico sempre più legato ai prezzi di mercato e che teneva ben conto
dei rapporti internazionali. Il Paese era inserito non solo nell’area Comecon, ma anche nell’economia
internazionale né poteva prescindere dall’andamento dei prezzi delle merci in Occidente. Dopo che
l’Ungheria fu il primo Paese socialista ad aderire nel 1982 al Fondo monetario internazionale, nel 1988 fu
significativa l’apertura di una borsa a Budapest, prima capitale di uno Stato socialista a ospitare un luogo
simbolo del capitalismo finanziario. Nello stesso anno il debito estero era lievitato sino a 18 miliardi di
dollari: già tra 1982 e 1983 lo Stato aveva corso il rischio di essere dichiarato insolvente, e per evitarlo era
stato necessario un opportuno intervento sulla bilancia commerciale.

All’interno la differenziazione delle retribuzioni sulla base della produttività si accompagnò al fenomeno
eclatante del lavoro sommerso: molti Ungheresi svolgevano infatti anche un secondo e persino un terzo
lavoro. Da tale attività è stato calcolato provenisse un terzo del reddito nazionale: era una prova evidente
che l’ordine economico socialista era stato superato nei fatti dalla popolazione prima ancora che dalle
decisioni dei politici. Il governo peraltro introdusse una fiscalità di carattere occidentale: l’imposta sul
valore aggiunto delle merci, la tassazione progressiva dei redditi. La stragrande maggioranza delle abitazioni
di Budapest era ormai tornata a essere di proprietà privata. Era importante che quanti non erano iscritti al
partito o erano di estrazione sociale borghese non venissero più trattati diversamente dai militanti, la
cosiddetta «avanguardia operaia». Infine si fecero esperimenti per rendere la politica sempre meno un
affare riservato al POSU: si consentì che in ogni circoscrizione la lista dei candidati non fosse bloccata ma
tale da permettere una sia pure parziale scelta. Di fronte a questa rivoluzione socio-economica silente, non
stupisce che a Mosca si manifestassero dubbi e perplessità, soprattutto durante il breve periodo in cui
segretario del PCUS fu Andropov, già ambasciatore a Budapest nel 1956 e peraltro considerato di opinioni
riformatrici, tanto che sembra desiderasse adottare in Unione Sovietica alcuni aspetti del modello
ungherese.

Lo stesso anno in cui al Cremlino ascese Gorbačëv (1985), nel parlamento ungherese entrarono circa
quaranta deputati indipendenti grazie al nuovo sistema di formazione delle liste elettorali, non più bloccate.
Grazie anche all’appoggio che potevano trovare nel nuovo segretario del PCUS, e interpretando i fermenti
evidenti nel corpo sociale, gli elementi riformatori del POSU si attivarono ancora di più, cercando di fare
proprie idee che provenivano da movimenti che potevano essere definiti antiregime. Non vi era solo da
raccogliere l’aspirazione a più profondi cambiamenti sulla scia di quelli già effettuati, ma anche di
rispondere alle lamentele legate a un calo della crescita economica e del tenore di vita (in questo caso forse
non del tutto reale).

Tre anni più tardi, alla conferenza di partito del maggio 1988 si giunse a rivalutare il concetto di Stato di
diritto, mentre si sdoganava definitivamente l’economia di mercato socialista. Nella stessa occasione Kádár
lasciò la segreteria a Károly Grósz, uomo non del tutto convinto che il partito dovesse cedere il primato
politico o condividerlo con altre forze. Il Fronte nazionale per una breve stagione assunse il peso politico
che gli voleva attribuire Nagy oltre trent’anni prima. Se però va indicato un vero protagonista del
mutamento, egli fu Miklós Németh, succeduto a Grósz alla presidenza del Consiglio dal novembre 1988. Fu
il più esplicito ad affermare che il paese doveva caratterizzarsi per un’economia centrata su imprese private
piccole e medie.

Bastò rendere efficaci norme costituzionali mai rispettate per far sì che si costituissero nuovi movimenti
politici, sociali e culturali: tra questi spiccò presto il Forum democratico. Secondo un modello applicato
anche in Polonia, le nuove rappresentanze politiche ottennero la convocazione di una Tavola Rotonda per
incontrare i rappresentanti del POSU e di organizzazioni legate al regime. A dimostrazione che si stava
svolgendo un processo di rilevanza storica gli incontri – tenuti nel parlamento – furono trasmessi in diretta
televisiva: il popolo doveva esserne partecipe o almeno informato. Come era ormai inevitabile, fu
ripristinato ufficialmente e realmente il pluralismo politico nello stesso 1989. Si accettava, secondo i
dettami della democrazia liberale, una rappresentanza non più di classe (operai, contadini) ma politica, cioè
dei cittadini organizzati in partiti. Si favorì intanto il trasferimento in Austria (e da lì in Germania Ovest) dei
Tedeschi orientali venuti come turisti e rifugiatisi presso l’ambasciata di Bonn: era il cosiddetto «picnic
paneuropeo». Infine Németh si recò in visita a Gorbačëv per dargli due notizie fondamentali: il POSU era
disponibile ad accettare il pluralismo e l’eventuale, anzi probabile sconfitta elettorale; lo Stato ungherese
non avrebbe più garantito la frontiera con l’Austria, che era di fatto la frontiera del Patto di Varsavia,
trattandosi di un impegno troppo costoso e non più giustificabile. Il leader sovietico non fece nulla per
distogliere il suo interlocutore da tale indirizzo né diede maggior credito ai comunisti ungheresi di tendenze
più conservatrici.

5. La Romania: dal consenso alla dittatura finita nel sangue

Nei primi anni Sessanta la politica estera romena fu caratterizzata da notevoli novità, come il ritorno
dell’ambasciatore romeno a Tirana, che aveva lasciato dopo la rottura di Hoxha con Mosca; o come la visita
di Gheorghiu-Dej a Belgrado nel 1963, che significò un riavvicinamento a Tito e fu occasione per firmare
l’accordo volto a realizzare in collaborazione una centrale idroelettrica sul Danubio, presso le Porte di ferro,
pittoresca ansa fluviale. Frattanto le rappresentanze diplomatiche occidentali furono elevate da legazione
ad ambasciata (così fu per l’Italia nel marzo 1964): era il segnale di una nuova, più intensa collaborazione
con Stati appartenenti al campo avverso a quello socialista, in una interpretazione molto ampia del
concetto di distensione che era stato lanciato un decennio prima dal Cremlino. Ciò avveniva proprio mentre
l’era di Chruščëv giungeva al termine e si apriva quella del nuovo gruppo dirigente capeggiato da Leonid
Brežnev, ma le maggiori novità da parte di Bucarest stavano maturando appunto nei confronti di quello che
per decenni era stato il Paese guida del comunismo, l’Unione Sovietica. Quella leadership non poteva
accettare la nuova politica lanciata dal Comecon per volontà di Chruščëv, come pure dei dirigenti polacchi e
cecoslovacchi: essa era esemplificata dal sintagma «divisione internazionale del lavoro». Il Comecon aveva
avuto fin lì vita stentata e di fatto le relazioni economiche all’interno del blocco sovietico erano
caratterizzate da accordi bilaterali; ora si intendeva specializzare la produzione dei singoli Stati e ciò
significava non favorire una forte trasformazione, cioè in pratica una massiccia industrializzazione di alcuni
Paesi, come Romania e Bulgaria.

Gheorghiu-Dej e compagni non consentirono che tale linea fosse approvata e divenisse operativa. Di fronte
a un ulteriore tentativo (piano Valev) di creare una serrata collaborazione economica tra Unione Sovietica,
Bulgaria e Romania, Bucarest reagì negando l’assenso a che buona parte del territorio romeno fosse
velatamente sottratto alla propria piena sovranità. Seguì infine una celebre risoluzione del Comitato
centrale, a conclusione del plenum tenuto dal 15 al 22 aprile 1964, in cui in sostanza si chiariva che ogni
Partito comunista aveva diritto di decidere le sorti del Paese che governava, in perfetta autonomia. Si
negava pertanto l’esistenza di un centro di riferimento per il movimento comunista internazionale, quale
Mosca era stata negli anni del Komintern. La posizione di Bucarest acquisiva notevole importanza poiché
nel frattempo si era avviato il grande scisma tra Mosca e Pechino, per tacere di quello di minori dimensioni
riguardante l’Albania. Sicché il gruppo dirigente romeno per qualche anno finì per essere in posizione
intermedia tra i due grandi Stati comunisti. Nel 1965, non per caso, i dirigenti romeni si opposero a una
riunione anche preparatoria di una conferenza generale dei partiti comunisti: nonostante fosse stato
allontanato dal potere Chruščëv da pochi mesi, insistettero per sapere che cosa pensassero i Cinesi di tale
iniziativa. Di fatto Mosca non riuscì più a ricreare un minimo di organicità nel movimento comunista
internazionale.

La particolare posizione di Bucarest subì ulteriori evoluzioni, solo apparentemente contraddittorie. Mentre
il regime attuò una liberalizzazione assolutamente effimera, si insistette in ogni sede sul rispetto
dell’indipendenza dei partiti e degli Stati, non per questo interrompendo le relazioni con l’Unione Sovietica,
con gli Stati cosiddetti satelliti, come pure con il Comecon e il Patto di Varsavia. Intanto però si mantennero
intensi rapporti con i paesi del Terzo Mondo e con quelli occidentali presso i quali Ceauşescu e i suoi
collaboratori acquisirono notevole credito, fino a meritare, egli, il soprannome di «De Gaulle romeno». A
Bucarest si recarono proprio il presidente francese (1968), così come quello statunitense Nixon (1969) e
tanti altri leader occidentali.

Il fatto che Bucarest non ruppe le relazioni diplomatiche con Israele in seguito alla Guerra dei sei giorni del
1967, come fecero tutti gli Stati del blocco sovietico, fu un altro atto distintivo della politica romena, tanto
da far dimenticare che essa mantenne ottime relazioni anche con l’Organizzazione per la liberazione della
Palestina (OLP) di Arafat. Per alcuni anni in Occidente si nutrì l’illusione che Bucarest non solo imponesse a
Mosca il rispetto della propria sovranità, ma desse spazio alla trasformazione liberale del regime. Almeno la
seconda speranza andò delusa, e qualche storico manifesta dubbi anche sull’altro argomento. Eppure
nell’estate del 1968 la Romania parve veramente sfidare il colosso sovietico e Ceauşescu toccò l’apice della
popolarità. La dirigenza romena manifestò, infatti, pieno appoggio alla Primavera di Praga della quale,
invero, si apprezzava la capacità di dare vita a un esperimento nazionale, pur restando nel campo socialista,
piuttosto che le marcate tendenze riformistiche, con evidenti aperture verso la democrazia. Queste
tendenze liberaleggianti non trovarono convinti sostenitori nel PCR neppure in quegli anni di «apertura».

Ceauşescu peraltro affermò che la sicurezza in Europa era da concepire al di fuori delle due alleanze militari
contrapposte: esse garantivano contro Stati che non rappresentavano una minaccia, ma non davano aiuto
contro le reali minacce.

La scia di quel successo di immagine, consolidato dalla prudente o assente reazione del Cremlino, durò per
diversi anni all’estero, ma forse un po’ meno in patria. Mentre il romeno Corneliu Mănescu fu presidente a
due riprese dell’assemblea dell’ONU, gli storici concordano nel considerare un anno spartiacque il 1971
poiché quell’anno il leader romeno si recò nella Cina popolare e in Corea del Nord. Restò estremamente
colpito dalle accoglienze ricevute, soprattutto nel Paese retto dal dittatore Kim Il Sung. Gli sembrò che da
quelle esperienze di comunismo asiatico vi fosse qualcosa da apprendere poiché il regime aveva permeato
di sé le società, molto più a fondo rispetto a quanto il PCR era riuscito a fare in Romania. Le popolazioni gli
apparvero ben irreggimentate e pronte ad applicare le politiche decise dal vertice del partito o dal leader
riconosciuto e idolatrato.

Di fatto da allora in Romania il culto della personalità, condannato dopo il 1953, nonostante non avesse
avuto manifestazioni particolarmente eclatanti, riprese progressivamente quota fino a raggiungere forme
assolutamente ridicole negli anni Ottanta. Non si trattava solo di forme poiché Ceauşescu cercò di imporre
un diretto e ferreo controllo sia sul partito sia sul governo e, tramite essi, sulla società. Per ottenere tale
scopo diede notevole spazio alle persone a lui più vicine, cioè familiari e fedeli seguaci. Secondo gran parte
della storiografia, fece buon uso di uno strumento sottile, quale la rotazione del personale politico nei
principali incarichi, per impedire che alcuni riuscissero a crearsi un proprio ‘feudo’ in qualche settore del
PCR o dell’amministrazione. Invero un’analisi attenta dei componenti degli esecutivi succedutisi a Bucarest
prima degli anni Sessanta, in epoca comunista e anche precomunista, così come negli anni successivi alla
caduta del regime, non conferma una particolare tendenza a continue sostituzioni. Peraltro qualche
personaggio, come i primi ministri Manea Mǎnescu (1974-80) e Constantin Dăscălescu (1982-89), restò a
lungo nella stessa funzione.

Secondo una certa interpretazione l’azione del nuovo segretario, volta a liberarsi dalla tutela dei dirigenti
più anziani e di peso, era cominciata molto per tempo e certamente si palesò dal 1968 quando furono
riabilitati Foriş e, soprattutto, Pătrăşcanu. Fu una revisione di una pagina della recente storia del partito
strumentale ai fini di Ceauşescu, poiché fu indebolita l’immagine del suo predecessore e di quanti avevano
collaborato con lui, ma fu anche eliminato politicamente qualche concorrente pericoloso come Drǎghici
(addirittura espulso dal partito). Il X° congresso del PCR (agosto 1969) completò l’opera con la liquidazione
della vecchia guardia: Apostol e Stoica non furono rieletti nel Comitato centrale e quindi restarono fuori
anche dal Presidium (ex Politburo). I due, con Drăghici e Gheorghiu-Dej, erano sembrati costituire dopo la
stagione delle purghe e all’inizio degli anni Sessanta un power core, rispetto al quale gli altri dirigenti erano
in posizione secondaria (con il giovane Ceauşescu appena un passo indietro). Non per caso la sostituzione di
Maurer alla guida dell’esecutivo nel 1974 e la sua emarginazione politica (all’XI° congresso di quello stesso
anno non fu rieletto nel Comitato centrale) corrisposero con la nuova stagione del ceausismo, avviata dopo
i primi anni Settanta. Ormai, a metà di quel decennio, il partito era controllato dal segretario e dai suoi
uomini, né scemava ancora l’impressione di novità e autonomia che egli si era guadagnato sullo scorcio del
decennio precedente. Che in Occidente credessero ancora che la Romania fosse diversa dagli altri Paesi
comunisti o meno, è certo che era utile credervi, anche perché la diplomazia romena in alcune occasioni
dimostrò di poter servire da tramite con interlocutori difficili come l’Iran khomeinista.

Dal 1965 la repubblica aveva assunto la definizione di socialista (e non più popolare) mentre entrava in
vigore una nuova Costituzione: non fu puro restyling poiché l’uso degli aggettivi aveva un significato non
trascurabile. Se la Romania era ‘socialista’ ciò voleva dire che la dittatura del proletariato era ormai
realizzata, e se, per suo conto, il partito tornava a chiamarsi – sempre dal 1965 – comunista, ciò significava
che era andato molto avanti sul percorso rivoluzionario, in attesa di guidare il popolo verso la realizzazione
del comunismo. Apparentemente l’esperienza romena era su un piede di parità con quella sovietica,
iniziata con alcuni decenni di anticipo: il comunismo era all’orizzonte, ma, come dicevano i sovietici,
«l’orizzonte è quella linea che quanto più ti avvicini, più si allontana».

Sul fronte economico in quegli anni vi furono cambiamenti significativi ma entro i limiti imposti dai dirigenti
comunisti. Bucarest aderì nel 1971 al General Agreement of Tariffs and Trade (GATT), e nel 1972 alla Banca
Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. Nel 1973 ottenne dal Mercato comune europeo un
trattamento privilegiato in campo commerciale. Nel 1974 gli Stati Uniti concessero alla Romania la clausola
di 'nazione più favorita' negli scambi commerciali. Seguirono prestiti cospicui utili a dare nuovo slancio
all’economia romena e, nelle intenzioni degli occidentali, a trasformarla progressivamente: ciò non
avvenne, se non in piccola parte, ma il debito estero salì nel periodo 1971-83 da 1,2 a 10 miliardi di dollari.
Quella iniezione non trascurabile di capitali non ebbe gli effetti sperati né dai dirigenti romeni, né dagli
investitori e dai politici occidentali. La fondazione nel 1968 della Banca romena per il commercio estero
confermò soltanto che le novità riguardavano essenzialmente gli scambi commerciali, mentre la
costituzione di società miste fu limitata dalla norma che imponeva il controllo di esse da parte dello Stato
romeno, almeno con il 51% della proprietà. Fu così anche nel campo automobilistico, dove si registrò una
importante collaborazione della Dacia romena con la francese Renault.

Intanto i lavoratori inseriti in una «unità socialista» divennero fiscalmente esenti poiché la struttura in cui
lavoravano assumeva ogni responsabilità al loro posto. Di fatto l’esenzione fiscale non era il problema
cruciale per un lavoratore romeno poiché, come in altri paesi comunisti, i salari erano calcolati
indipendentemente da altre componenti del costo del lavoro: per una vita senza ambizioni erano sufficienti,
ma era più difficile avere a disposizione le merci desiderate. Per il cittadino medio non vi era aspirazione
alla proprietà della casa, in genere modesta ma garantita con una piccola quota della propria retribuzione.
Era più interessante l’ampliamento del sistema di assistenza sanitaria, sebbene la qualità lasciasse talora a
desiderare. Nel settore sanitario fu operata una scelta controtendenza rispetto al passato e rispetto agli
altri Stati comunisti: poiché la popolazione romena era sottodimensionata rispetto al territorio e ormai era
lontano l’anno 1955 che aveva segnato il boom delle nascite, la liceità dell’aborto fu fortemente limitata.

Il tasso di crescita economica, specie nel settore industriale, si mantenne alto sino alla fine degli anni
Settanta essendo bassa la base di partenza, ma scarsa era la produttività del lavoro (molto inferiore a quella
di Polonia e Cecoslovacchia), così come la qualità dei prodotti, mentre strumentazione e infrastrutture
presentavano un mediocre profilo tecnologico. A diversi anni dalla conclusione della collettivizzazione delle
terre il sistema di produzione agricola non era assolutamente soddisfacente, sebbene impiegasse ancora il
42% della forza lavoro, e la legislazione cercava di offrire incentivi a chi producesse più di quanto
pianificato. Il decennio successivo registrò indici economici sempre peggiori e il declino della condizione
quotidiana della popolazione. Nuove scelte di carattere economico si dimostrarono controproducenti. La
penuria di petrolio (lontani i tempi in cui la Romania esportava il proprio) indusse a importare grezzo per
investire nell’industria di trasformazione, cioè nelle raffinerie, come quella nuova di Midia Năvodari sulla
costa del Mar Nero. A lungo si importò il grezzo iraniano a basso prezzo sia durante il regime dello scià Reza
Palhavi, sia in quello khomeinista, ma eventi come la guerra Iran-Iraq non contribuivano a proseguire
efficacemente in tale politica.

Il consenso con gli anni andava dileguandosi nonostante il partito contasse tre milioni di iscritti (ben più del
15% della popolazione) e la nomenklatura fosse piuttosto cospicua, comprendendo il ceto politico, dirigenti
e quadri del settore economico, gli intellettuali riuniti nelle organizzazioni ufficiali come l’Unione degli
scrittori, i quadri militari ecc. Studi specifici hanno chiarito che «la nomenklatura non era l’élite politica del
regime comunista, bensì un meccanismo del partito attraverso il quale esso conduceva e controllava lo
Stato e la società».

Forte reazione, nei limiti consentiti in un Paese controllato dalla Securitate, causò il programma di
ristrutturazione delle campagne, lanciato negli anni Ottanta. L’accorpamento dei villaggi in centri di maggior
dimensione, che esso prevedeva, avrebbe dovuto giovare alla razionalizzazione dei servizi, ma sconvolgeva
gli usi delle popolazioni, e l’equilibrio delle componenti etniche in alcune regioni, segnatamente in
Transilvania. Agli Ungheresi sembrò che il governo volesse ‘affogare’ quella minoranza mescolandola con la
maggioranza romena, e la resistenza fu del tutto naturale. Essa finì per interessare anche la politica e
l’opinione pubblica (sempre più libera) della confinante Ungheria. Invano i leader politici dei due Stati
cercarono di ribadire l’accordo, qualche migliaio di magiari di Transilvania preferì emigrare lecitamente o
clandestinamente.

Il 1977 fu caratterizzato da un gravissimo terremoto, cui seguì un insoddisfacente sforzo di ricostruzione.


Esso servì in parte per consentire un ambizioso programma urbanistico poco rispettoso del passato
culturale. In particolare ben poco consenso raccolse un progetto megalomane che riguardò la capitale: nel
suo centro, non lontano dal fiume Dâmboviţa, si volle sorgesse la Casa del popolo, uno smisurato palazzo
che fosse sede degli organi del regime, secondo solo al Pentagono statunitense. Per inserirlo in un contesto
adeguato si attuò una ristrutturazione urbanistica di vasta dimensione con il sacrificio di case, chiese (il
monastero di Văcăreşti) e sinagoghe: si sarebbe creato così lo spazio per una nuova grande arteria, il
Bulevard Socialismului. Tuttavia i tecnici compirono anche qualche impresa non disprezzabile, come il
trasferimento senza danni (a stare alle fonti ufficiali) di cinque chiese e della sede della Santa Sinodo. Le
polemiche divamparono soprattutto all’estero. Era senza dubbio : una «grande opera» che poteva
sollecitare varie attività economiche, ma riversare in essa gran parte delle risorse finanziarie di un Paese
allo stremo, fu cosa certo irrazionale. Veniva spontaneo il paragone con le piramidi, salvo che in questo
caso il ‘faraone’ romeno non fece in tempo a vedere il palazzo compiuto e quanti lo visitarono prima che i
nuovi governi trovassero i mezzi per completarlo (oggi ospita il parlamento), si resero conto della natura del
progetto, seguito da presso da Ceauşescu e consorte, ad esempio da una sala per le udienze grande come
un campo di calcio.

Il regime nella sua maturità continuava ad ammettere i culti religiosi sulla base della Costituzione del 1965 e
della legge sui culti del 1948, ma li controllava da presso, in parte finanziandone le attività (seminari, facoltà
di teologia, edifici di culto). Quattordici organizzazioni religiose erano considerate ammesse dallo Stato,
tutte dotate di un proprio statuto, tranne quella cattolica (1.300.000 fedeli in genere ungheresi). La Chiesa
ortodossa romena era la più allineata, oltre a contare più di 15 milioni di fedeli. Magiari anche i seguaci
della Chiesa calvinista; di minor peso altre Chiese del ceppo protestante, ma nel 1989 la scintilla della
rivolta venne proprio da una di esse, quella evangelica luterana. La partecipazione popolare alle cerimonie
dimostrava che le campagne a favore dell’ateismo e contro le fedi religiose non avevano avuto grande
successo, e peraltro il governo riconosceva che delle tradizioni nazionali faceva parte anche la cultura
religiosa. Essa peraltro non mancava di avere contatto con la questione nazionale, come dimostravano
alcune vivaci polemiche tra religiosi e fedeli. Il regime non tollerava però chi nel clero e negli ambienti delle
Chiese osasse assumere posizioni di dissenso: fu così per il pope ortodosso Gheorghe Calciu-Dumitreasa,
che conobbe il carcere per molti anni sia durante il segretariato di Georghiu-Dej sia dal 1979 in avanti,
finché nel 1985 fu espulso e si stabilì negli USA.

Intanto alla fine degli anni Ottanta la popolazione si abituò all’uso della tessera alimentare, come era stato
nel dopoguerra fino al 1954, a non trovare molti prodotti, anche alimentari, nei negozi (il vino di produzione
nazionale si acquistava con valuta estera), a ridurre a standard molto bassi, secondo le indicazioni di un
medico caro al Conducǎtor, i consumi di carne e di altri cibi. Il regime intendeva azzerare il debito estero e a
metà 1989 fu annunciato il raggiungimento di tale scopo: era però una scelta che costava sacrifici enormi
alla popolazione né contribuì a migliorare il quadro economico o a sollecitare gli investimenti esteri, fiacchi
anche nei primi anni dopo la fine del comunismo. La ricerca dell’autarchia sostanziale non creò certo
consenso, ma il messaggio ‘nazionale’ cui essa era legata mantenne invece una certa attrattiva persino
dopo la caduta del regime. Rare furono le manifestazioni eclatanti di insoddisfazione e dissenso verso il
regime, e tuttavia non del tutto assenti. Il 15 novembre 1987 a Braşov vi fu una manifestazione di strada,
organizzata da un sindacato indipendente che alcuni operai avevano avuto il coraggio di costituire.
Inevitabile fu la reazione poliziesca, con numerosi arresti. Il regime comunista aveva saputo assumere in sé
alcuni antichi vizi della popolazione, ne aveva vellicato i sentimenti nazionali, aveva potuto formare intere
generazioni che erano quasi tabula rasa per i ritardi nella modernizzazione e nell’istruzione accumulati nei
decenni anteriori alla conquista del potere da parte del PCR. Il voto espresso nelle prime elezioni politiche
in epoca post-comunista, tenute nel 1990, fu la riprova che la maggioranza dei Romeni non era contraria al
regime comunista, ma alla sua versione inefficace e involontariamente pauperista.

I mass media di tutto il mondo hanno reso nota in diretta la fine del regime ceausista. Nel 1989 vi erano
stati segnali importanti di possibili novità. Si fece evidente il dissenso con Mosca: Ceauşescu non intendeva
avviarsi sulla strada delle riforme gorbacioviane poiché affermava che esse in parte erano già state
realizzate in Romania e che per altra parte avrebbero portato alla fine dei regimi del socialismo cosiddetto
reale. Erano segnali allarmanti, come preoccupante era l’isolamento internazionale in cui stava scivolando
la Romania, una volta beniamina dell’Occidente. Vi contribuirono le polemiche con l’Ungheria riguardo alla
minoranza di Transilvania, la scelta di restituire integralmente il debito estero, a costo di enormi e
quotidiani sacrifici per la popolazione, il rifiuto di prendere atto del vento nuovo che spirava nei regimi
affini. A suggellare l’atteggiamento di chiusura del regime venne in novembre il XIV° Congresso del PCR
destinato a essere l’ultimo: esso non recò nessuna novità alla linea politica e ai rituali, confermando al suo
posto il leader con l’entourage, in primo luogo familiare.

Il 16 dicembre scoppiarono gravi disordini nell’importante città di Timişoara, nati dal rifiuto di un pastore
evangelico, László Tőkés, di accettare il trasferimento decretato dall’autorità vescovile per attività
antiregime. I fedeli ungheresi, ma anche i cittadini della nazionalità maggioritaria e di altro credo religioso,
fecero muro contro la polizia e da ciò seguirono incidenti che fecero non poche vittime, sebbene il numero
di queste fu poi gonfiato ad arte o per superficialità. Dovettero intervenire anche forze militari e sembrò
che la situazione potesse tornare sotto controllo tanto che Ceauşescu si recò in visita ufficiale in Iran,
affidando il Paese alla moglie e al primo ministro Manea Mănescu. Tornato in patria, il dittatore pensò di
convocare per il 22 una manifestazione di sostegno al regime nella capitale, manifestazione che si
trasformò invece in clamoroso dissenso tanto da costringere Ceauşescu a interrompere il discorso che stava
pronunciando e ad abbandonare in elicottero la sede del Comitato centrale da cui parlava. Probabilmente
fu una trappola. La sera stessa era già sotto custodia militare in una caserma nei pressi di Târgoviste: tre
giorni dopo fu fucilato insieme con la moglie a seguito di un processo dalla scarsa legittimità, di fronte a un
tribunale che si potrebbe definire rivoluzionario.

Era stato così eliminato l’uomo che più di tutti avrebbe potuto illustrare i torti (più che i meriti) del regime,
inchiodando anche le singole personalità alle proprie responsabilità. Il campo era aperto per i membri del
PCR pronti a mettere fuori legge il proprio partito per ereditarne il potere, e per quanti credevano che si
dovesse riempire il vuoto politico venutosi a creare, possibilmente attraverso il ripristino di una piena
democrazia.

6. La Bulgaria: l’incerto cammino verso la democrazia

Se l’ideologia al potere in Bulgaria acquisiva negli anni una forte coloritura nazionale, essa non rinunciò,
ovviamente, ai principi del marxismo-leninismo, ribaditi nella Costituzione entrata in vigore nel 1971. La
fedeltà all’Unione Sovietica (non disgiunta da una russofilia abbastanza comune) restò intatta nei lunghi
anni di Brežnev, e fu ripagata con un cospicuo sostegno che, in combinazione con la politica economica,
garantì alla popolazione un tenore di vita non alto ma sufficientemente sereno, soprattutto a livello
alimentare. Era evidente la dipendenza dal commercio con l’Unione Sovietica, soprattutto per quanto
riguardava il settore energetico. Si proseguì nella industrializzazione (ne fu emblema il kombinat
metallurgico di Kremikovci) fino a creare una centrale nucleare (Kozlodui), che però non conseguì successi
di rilievo e anzi causò un serio inquinamento ambientale. Peculiare fu il fenomeno dell’importazione di
manodopera a seguito della stagnazione demografica, a fronte dell’impiego di un certo numero di tecnici
bulgari nei paesi in via di sviluppo.

La politica estera di Sofia non si risolveva solo nei difficili rapporti con la Jugoslavia. Nello spirito della
coesistenza pacifica propugnata da Chruščëv migliorarono le relazioni con la Grecia, con la quale si trovò un
compromesso riguardo alle riparazioni di guerra e nel 1964 furono conclusi accordi di carattere
commerciale e culturale; tale indirizzò andò consolidandosi e negli anni Ottanta Sofia e Atene siglarono un
trattato di mutua assistenza in funzione antiturca. Infatti se le tensioni tra Grecia e Turchia furono di grande
evidenza, soprattutto dopo la crisi cipriota del 1974, i governi bulgari (oltre a condannare l’intervento turco
a Cipro e a pronunciarsi per la sua indipendenza) ebbero con quelli turchi rapporti altalenanti soprattutto a
causa della sempre cospicua minoranza turca di Bulgaria. Essa era scemata di un 10% in seguito a un
accordo del 1968: nell’arco di un decennio volontariamente emigrarono 130.000 persone. La crescita
demografica della minoranza a confronto della maggioranza slava annullò gli effetti di quell’accordo.

In accordo con la nuova linea nazional-comunista i governanti bulgari nel 1984 optarono per una decisione
molto pericolosa, soprattutto per l’immagine del paese all’estero, la snazionalizzazione attuata attraverso
l’imposizione di nuovi nomi all’anagrafe: Simeon in luogo di Suleyman, ad esempio. Si vietarono inoltre la
circoncisione e le pratiche di sepoltura di stile musulmano. Tale politica si basava sulla tesi che i musulmani
di Bulgaria (pomaci) fossero slavi ottomanizzati che dovevano essere indotti a riassumere la propria identità
bulgara. Realmente la minoranza non era fatta solo di turchi etnici, ma ciò non giustificava la sua
bulgarizzazione. Nonostante un incontro nel 1978 a Varna dei vertici politici (Živkov e il primo ministro
turco Bülent Ecevit), negli anni Ottanta le relazioni tra i due Stati toccarono il punto più basso a causa della
politica di bulgarizzazione. Non solo Ankara (dove nel frattempo erano andati al potere i militari) non
poteva accettarla, ma più grave fu che la minoranza in questione reagì in modo non passivo. Nel 1989
nacque infine il partito della minoranza turca, Movimento per i diritti e la libertà (DPS), capeggiato da
Ahmed Dogan.

La società si era messa, infatti, in movimento sull’esempio di quanto accadeva anche in altri Paesi
comunisti. Dapprima si costituirono movimenti che puntavano a risolvere specifici problemi a tutti evidenti,
come quelli riguardanti l’ambiente. L’8 marzo 1988 a Ruse, città danubiana fortemente inquinata dalle
industrie di Giurgiu, centro posto sulla riva romena del grande fiume, fu costituito un Comitato per la difesa
della città, che accusava il governo di Sofia di non fare nulla per proteggere il territorio e la salute della
popolazione: quella organizzazione, la prima nata senza l’assenso del partito, costituì il segnale di un
risveglio, sino allora clandestino, della società civile. Nonostante persecuzioni e intimidazioni, il processo
innescatosi prese vigore, poiché altri gruppi, sempre ispirati all’ecologismo, andarono costituendosi.
Ekoglasnost, il più forte e noto, sembrò assumere connotazioni politiche come i partiti ‘verdi’ di vari Paesi
europei. Vi era ormai il clima perché si costituisse un movimento di carattere più esplicitamente politico: fu
il caso del Club per sostenere la perestrojka e la glasnost’, capeggiato dal filosofo Želju Želev il quale già
anni prima aveva avuto il coraggio di assumere posizioni eterodosse ed era stato espulso dal partito nel
1965. Nacque il sindacato libero Podkrepa (Sostegno o Solidarietà), che era guidato da Konstantin Trenčev e
si ispirava al noto esempio polacco di Solidarność, in un Paese dove all’epoca del cosiddetto esperimento
cinese anche i sindacati ufficiali avevano subito l’epurazione. Del tutto naturale che si costituisse un
Comitato per la difesa dei diritti umani, e uno per i diritti religiosi (guidato dallo ieromonaco Christofor
Sǎbev) in uno Stato in cui la Chiesa ortodossa era stata tradizionalmente alleata al potere politico. Nella
società, nel clima del gorbaciovismo, la rivoluzione pacifica era ormai avviata sebbene «non deve
comunque essere sopravvalutato il ruolo del dissenso politico che nacque solo verso la fine del regime».
L’aggregarsi di tutti quei movimenti di opposizione, dal 7 dicembre 1989, nell’ Unione delle forze
democratiche (SDS) fu il sigillo alla fine del regime, dopo che già avevano alzato bandiera bianca i regimi
comunisti in altri Stati. Negli anni della transizione post-comunista SDS continuò per alcuni anni a essere
una forza politica di primo piano, tanto da accedere al potere, ma non in grado di mantenerlo a lungo per la
sua natura di federazione di partiti e movimenti, non legati da un’unica ideologia né guidati da un solo
gruppo dirigente.

I maggiori esponenti del PCB decisero di estromettere Živkov dal potere. L’anziano leader presentò al
Comitato centrale (9-10 novembre 1989) una relazione nella quale accettava in sostanza le tesi di Gorbačëv
e ammetteva la necessità urgente di avviare radicali riforme. La seduta plenaria si chiuse nel segno del
cambiamento poiché Živkov e altri dirigenti furono convinti a ritirarsi (qualcuno subì anzi l’espulsione o una
incriminazione), lasciando il passo a quanti credevano di poter rinnovare realmente il partito, andando
anche oltre quanto già fatto da Gorbačëv in Unione Sovietica. Né gli uni né gli altri pensavano di dover
rinunciare del tutto a guidare lo Stato, ma la situazione nelle piazze e nel Paese andò rapidamente
arroventandosi tanto da indurre i nuovi detentori del potere a consentire elezioni libere, l’annullamento
della politica di bulgarizzazione, il superamento dell’economia socializzata. Una trojka sembrò assumere le
redini: il ministro della Difesa Dobri Džurov, il presidente del Consiglio Andrej Lukanov e il ministro degli
Esteri Petǎr Mladenov, che assunse la segreteria del partito e la presidenza del Consiglio di Stato. Da lì a
poco quest’ultimo cedette la segreteria ad Alexandǎr Lilov, allontanato dal Politburo del vecchio PC nel
1983, e nell’estate del 1990 lasciò anche la presidenza della Repubblica. La Bulgaria, anche nella scelta della
linea riformistica, era stata sostanzialmente fedele a Mosca, sebbene non potessero mancare delle
specificità nazionali. Come in Unione Sovietica il riformismo portò alla fine del regime e a una lunga,
faticosa transizione verso nuovi equilibri e nuovi modelli.

7. La Jugoslavia verso la dissoluzione

La Jugoslavia conobbe, in seguito alle scelte di politica economica operate, fenomeni ignoti, dissimulati o
sottaciuti negli altri Paesi socialisti, come l’inflazione e la disoccupazione. Fu comune con gli Stati del blocco
sovietico la crescita del debito estero: la crisi del 1973 legata all’enorme crescita dei prezzi del petrolio
furono avvertiti in modo particolare in un Paese che ormai era entrato nel circuito dell’economia
internazionale senza particolari ‘paracadute’.

Nonostante la condanna esplicita dell’invasione della Cecoslovacchia, le relazioni con l’URSS volsero al
bello: Brežnev si recò a Belgrado nel 1971 e nel 1976, e Tito visitò Mosca nel 1972. Poco prima della morte
di Tito, da Belgrado venne una nuova secca condanna a causa dell’invasione dell’Afghanistan, messa in atto
dall’Armata Rossa nel dicembre 1979: se Mosca usava la forza in Asia, poteva forse pensare di farlo anche
in Europa. Dopo la morte nel 1976 di Mao Zedong e Chou En-Lai, una assoluta novità fu la ripresa di cordiali
rapporti con la Cina popolare, che si preparava invero dalla fine degli anni Sessanta. Belgrado guardò con
simpatia alle tendenze riformistiche espresse da Hua Guofeng e soprattutto Deng Xiaoping: Tito si recò a
Pechino nel 1977, e Hua Guofeng visitò Belgrado nel 1978. Belgrado si adeguava alla nuova fase della
politica internazionale, caratterizzata dal tripolarismo: lo suggerivano gli interessi commerciali, ma pure
ragioni di contrappeso nei confronti dell’altra potenza comunista. Ciò non significò, però, che il nuovo corso
cinese presentasse caratteristiche simili a quello prevalente in Jugoslavia. Infine da Belgrado si guardò con
interesse anche al cosiddetto eurocomunismo di Berlinguer e Santiago Carrillo.

Nel 1979 morì Kardelj, importante collaboratore di Tito soprattutto nella formulazione di prospettive
riformistiche del sistema politico, sociale ed economico. Nel 1980 venne a morte lo stesso Tito: finiva
un’epoca e ciò fu chiaro subito a tutti. Perché la miscela si facesse davvero esplosiva mancava un elemento
determinante: il ritorno al pluralismo politico che si ebbe solo nel clima successivo agli eventi occorsi nel
blocco sovietico nel 1989 e nella stessa Unione Sovietica nel 1991.

In sostanza, dei fattori che avevano garantito la coesione della Jugoslavia uno (il culto della resistenza) si
era affievolito, il secondo (il carisma del leader) non vi era più, il terzo (il monopartitismo) venne a mancare
solo alcuni anni dopo quel fatidico 1980. Intanto non vi fu un successore di Tito poiché, come previsto dalla
Costituzione, fu varata una presidenza collegiale formata da otto rappresentanti delle sei repubbliche e
delle due regioni autonome. A turno uno di loro sarebbe stato presidente del collegio per un semestre. La
formula sembrava garantire il peso politico dei Serbi, che potevano contare sui rappresentanti di
Macedonia, Montenegro, Kosovo e Vojvodina, e forse della Bosnia-Erzegovina. Non era fatta, però, per
garantire stabilità di comando, bensì per trasformare l’azione di governo in una continua trattativa tra le
parti, non divise da opinioni ideologiche, bensì da interessi nazionali ed economici.

L’ultimo decennio dell’esistenza della Jugoslavia registrava ancora interesse da varie parti del mondo per il
socialismo autogestito da essa creato, ma iniziò con eventi particolarmente drammatici in Kosovo, che
fecero diverse vittime e furono faticosamente posti sotto controllo. Essi dimostravano che, morto Tito, i
problemi evidenziatisi già nei decenni precedenti, non erano affatto superati. Nelle altre repubbliche non vi
furono episodi altrettanto violenti, ma restò all’ordine del giorno la difficile convivenza tra realtà
economiche e sociali non omogenee. Il governo federale presieduto da Milka Planinc si dovette impegnare
nel nascondere per quanto possibile tali tensioni, fino al punto da non pubblicare nel 1983 i dati economici
riferiti alle singole repubbliche. Si voleva evitare che, sulla base di quei dati, si rinfocolassero le ormai
tradizionali polemiche su quale popolazione si avvantaggiasse o traesse nocumento dallo Stato federale.
Ciò era particolarmente importante in una fase di crisi generale che caratterizzò l’economia jugoslava per la
gran parte degli anni Ottanta. Il XII° congresso della Lega dei comunisti (giugno 1982) prese atto delle
richieste di maggiori autonomie avanzate da Croati e Sloveni. Quello stesso anno fu realisticamente
dichiarata l’impossibilità a fare fronte ai debiti dello Stato: in particolare il debito estero era ormai salito
fino a 22 miliardi di dollari. Le forze armate (essenzialmente un esercito di dimensioni per nulla
disprezzabili) erano ritenute ancora apertamente favorevoli per le tesi centraliste, coltivate soprattutto tra i
Serbi, anche perché la percentuale di Serbi presenti nei quadri alti militari era molto alta.

L’impegno maggiore dei centralisti si riscontrò inevitabilmente in Serbia e soprattutto nelle due regioni
autonome. Elementi che si possono definire nazionalisti andarono prevalendo in seno al Partito comunista
serbo. Un momento significativo rappresentò l’ascesa di Slobodan Milošević alla guida del partito in Serbia
(1986-1989) e poi alla presidenza di quella Repubblica (1989) da cui si era dimesso Ivan Stambolić, che
aveva sostenuto Milošević ma non ne condivideva a pieno le idee e che fu assassinato nel 2000 da agenti
della polizia politica dopo essere rientrato in politica in concorrenza con il leader serbo. Il nuovo segretario
e presidente cercò nel sentimento nazionale, anche spinto verso interpretazioni e toni acutissimi, la
legittimazione per la sua leadership. Da qui la quasi totale cancellazione dell’autonomia del Kosmet e della
Vojvodina, con tanto di emendamenti costituzionali, votati dai parlamenti locali in un clima di stato
d’assedio.

Se da una parte nella società e negli stessi partiti comunisti prendeva sempre più piede la tendenza
nazionalista, dall’altra stava per venire meno uno degli ultimi ‘collanti’ del regime, cioè la negazione del
pluralismo politico. Il crollo dei regimi comunisti nell’Europa centrale e orientale, uno dopo l’altro, fece
comprendere anche alle popolazioni jugoslave che potevano porre fine all’esperienza politica avviata nel
1945 e voltare pagina. In sostanza si consentì progressivamente ad altri partiti di costituirsi e contendere il
potere alla Lega. La Slovenia, già all’inizio del 1989, fu la prima a varare una revisione della propria
Costituzione che riconosceva il diritto di secessione dalla federazione. Non vi era di che stupirsi: si era alla
fase finale di un percorso da lungo tempo intrapreso. I numeri aiutano a capire le motivazioni che resero
popolare tra gli sloveni la tendenza iper-autonomista o persino secessionista. La Repubblica slovena
contava appena l’8% della popolazione dell’intera Jugoslavia, ma produceva il 20% del prodotto interno
lordo e sosteneva per il 25% il bilancio federale, vantando una quota pari al 30% delle esportazioni.

Un passaggio fondamentale riguardò il cuore del regime, cioè la Lega dei comunisti che tenne il suo
congresso a Belgrado nel gennaio 1990, senza che si potesse trovare un compromesso tra quanti volevano
creare una Confederazione («più Jugoslavia») in luogo della Federazione, e chi invece avrebbe voluto
diminuire («meno Jugoslavia») gli spazi di autonomia già esistenti per le singole repubbliche. Alla fine i
delegati sloveni abbandonarono i lavori, mentre invano Ivica Račan per conto dei comunisti croati ne chiese
l’aggiornamento, e ciò segnò di fatto la fine della Lega. Tutti i partiti furono d’accordo nell’insistere, così
come i nuovi dirigenti croati, sulla formula confederale, respinta ancora una volta da Belgrado. Non
sorprese più di tanto che il governo di Lubiana, quindi il parlamento e infine un referendum popolare
decidessero di fissare l’indipendenza per il 25 giugno 1991.

In Croazia la situazione era più complicata rispetto alla Slovenia: infatti in alcune regioni di frontiera
(kraijne) era concentrata la comunità serba (13%), che in tali zone del Paese costituiva la maggioranza. Le
due nazionalità erano state considerate come fondatrici insieme della repubblica; ora le nuove forze
politiche intendevano dare una impronta nazionale al paese, così che i serbi si sarebbero trasformati
giuridicamente in minoranza, cosa che essi rifiutavano fermamente. Se in passato la componente serba
aveva contato nell’amministrazione in misura superiore alla propria consistenza, ora la tendenza era ad
allontanarla dai posti che occupava. Insomma il conflitto politico e poi militare era quasi obbligato. I Serbi
più moderati, infatti, chiesero garanzie a Tudjman, ma quelli più radicali non esitarono a proclamare, sin dal
16 marzo 1991, una propria Repubblica serba, comprendente tutti i territori di insediamento (anche non
maggioritario) dei serbi. Si crearono tensioni anche per la presenza delle forze federali persino nelle
caserme della stessa capitale Zagabria, poste sotto virtuale assedio finché non furono evacuate. Il
paradosso della situazione risiedeva anche nel fatto che proprio in quell’ultimissima fase della Jugoslavia
federale, le massime cariche erano occupate da due croati, al governo Ante Marković e (dopo aver vinto le
resistenze dei serbi) alla guida della presidenza collegiale Stipe Mesić, ora esponente della HDZ ma già
membro del PC e sostenitore della Primavera croata, per cui era stato condannato a pochi anni di carcere.
Essi si adoperarono, trovando anche il sostegno politico di alcuni governi stranieri, come quello italiano,
perché in extremis si trovasse un compromesso che garantisse l’esistenza dello Stato federale, magari in
versione confederale. Tale azione concerneva pure il miglioramento della condizione economica, invero più
positiva rispetto agli anni peggiori del decennio Ottanta. Tutto fu vano e la parola passò allo Stato maggiore
militare, meno propenso ai compromessi e di fatto espressione di una nuova posizione maturata a
Belgrado: se le proclamazioni di indipendenza dovevano essere riconosciute, ad esse andavano sottratte le
terre abitate dai Serbi.

8. L’Albania dell’‘uomo nuovo’ e la fine del regime comunista (1978-92)

Nonostante l’identificazione tra Albania e Cina da parte della sinistra europea, la rivoluzione culturale di
stampo cinese non era adatta probabilmente al popolo albanese. Intanto essa in Cina aveva coinciso con
una lotta per il potere, che in terra albanese non ebbe luogo. Inoltre i problemi dei due paesi erano diversi
e tutto ciò forse spiega anche perché poco sia durata la consonanza delle loro politiche. Il gruppo dirigente
albanese volle e fece credere di avere realizzato un ‘uomo nuovo’. Di fatto la rivoluzione culturale che esso
attuò non fu di poco rilievo: il velo che re Zog aveva combattuto non si vide più o quasi sui volti delle donne
musulmane, e il codice consuetudinario di origine medievale (il kanun di Lek Dukagjin) non ebbe più
applicazione generale, neppure nel Nord cattolico (Mirdita) che aveva maggiormente resistito al nuovo
potere. Una lettera personale di Hoxha veniva inviata per congratularsi con i giovani che si sposavano senza
rispettare i criteri dettati dal kanun, ma sulla base soltanto dei rispettivi sentimenti.

Una delibera del Comitato centrale abolì l’uso dell’abito bianco per le spose. Il regime riuscì a impedire la
tradizionale vendetta di sangue o giakmarrja (che ha fatto una limitata ricomparsa nell’Albania
settentrionale negli anni Novanta). Si volle invece istituzionalizzare un altro uso del kanun, la besa, ovvero
l’impegno d’onore, considerato elemento qualificante della civiltà schipetara, ma in verità funzionale alla
tranquillità sociale.

Fu più facile introdurre l’obbligo di un’esperienza di lavoro manuale per gli studenti: l’esempio era quello
cinese ma fenomeni simili si riscontrano anche in altri Stati comunisti, e soprattutto non era strano per
giovani appena usciti dalle campagne tornarvi per brevi periodi. Anche gli scrittori e gli artisti avrebbero
dovuto trarre ispirazione da concrete esperienze lavorative o dalla frequentazione dei luoghi di produzione,
per poter generare una letteratura e un’arte radicate nel popolo. I lavoratori, secondo l’immagine fornita
dal regime, ma in parte pure nella realtà, ebbero modo di discutere alcuni aspetti dell’impegno produttivo
loro richiesto dalla politica economica pianificata. Poiché spesso si trattava di attività agricole, non era
assurdo che gli addetti del settore potessero fare valere (spesso attraverso il Fronte democratico che
continuava a essere orpello del regime) qualche osservazione di carattere tecnico o quantitativo di fronte
agli esperti governativi. La Sigurimi, la polizia politica, era strumento essenziale del potere. Una summa
delle linee del sistema politico, sociale ed economico vigente in Albania fu la Costituzione entrata in vigore
nel 1976, a trent’anni dalla precedente.

Le trasformazioni sociali ed economiche rispettarono un limite che sia il mondo capitalista sia quello
socialista altrove varcarono abbondantemente: il regime gestì con parsimonia l’esodo rurale, forse più per
necessità (cioè per assenza di serie alternative di lavoro nel settore industriale o dei servizi) che per volontà
politica. Da questo punto di vista si può dire che l’epoca post-comunista ricevette in eredità il compito di
completare il mutamento della società e dell’economia albanese, molto più che in altri Stati ex comunisti.
Tale giudizio non deve sembrare in contraddizione con i dati statistici riguardanti la crescita delle attività
produttive: al di là della loro attendibilità, si tratta di percentuali impressionanti, ma esse sono frutto
naturale di una base di partenza spesso prossima allo zero e dunque non forniscono un quadro vero di un
Paese che restava in coda all’intero continente europeo per prodotto interno lordo e reddito pro capite. Il
proseguimento di una rapida industrializzazione si dimostrò negli anni Settanta sempre più difficile e la
diffusione di beni di consumo durevoli, come la televisione, fu lenta, a causa del loro alto costo alla vendita.

Dal 1957 Tirana fu dotata della prima università albanese e nel 1960 vi fu inaugurato l’Alto istituto delle
arti. Nei villaggi furono impiantati centri e case di cultura, e si lanciò il festival di musica tradizionale, per
mantenere in vita il folklore295. Erano i luoghi di riferimento di una nuova generazione di intellettuali, tutta
nazionale, dopo quella che aveva studiato in Occidente e una seconda che aveva studiato nei paesi
dell’Europa centro-orientale (Unione Sovietica in primo luogo). Sempre nel 1960 furono avviate le
trasmissioni della televisione albanese, momentaneamente per un’ora al giorno, mentre si faceva di tutto
per disturbare il segnale radio e televisivo che giungeva d’oltre frontiera. Il regime continuava a dettare le
regole a scrittori e artisti, e persino i temi da trattare. Segnali inquietanti per il gruppo dirigente giunsero,
però, dall’esposizione d’arte di Tirana del 1971 e da quella dell’anno seguente, intitolata Primavera 1972.

Il riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti d’America all’inizio degli anni Settanta diede avvio a una fase
tripolare della politica internazionale, facendo passare in secondo piano la sfida di Pechino a Mosca sul
continente europeo, e di conseguenza l’interesse per l’Albania. A Tirana poi non piacque la riconciliazione
(1970) tra Tito e Mao Zedong. La scomparsa del ‘grande timoniere’ nel 1976 e quella contemporanea della
guida politica di Chou En-Lai aprirono la strada a un nuovo corso riformista, impersonato da Deng Xiaoping,
che i dirigenti albanesi considerarono assolutamente contrario ai propri principi politici. Essi rifiutavano sia
le riforme interne cinesi sia le aperture verso il mondo occidentale e l’attenuazione delle polemiche
ideologiche con Mosca. Peraltro proprio a partire dal V congresso del partito, tenuto nel novembre 1966,
avevano attuato la rivoluzionarizzazione ulteriore del partito e del potere, attaccando il burocratismo (fu
ridotto del 50% l’organico dei quadri e dei funzionari, inviandone 15.000 ai settori produttivi) e riducendo i
salari dei funzionari di grado elevato, mentre permaneva l’obbligo di periodi di lavoro manuale per studenti
e intellettuali.

Pechino ritirò i suoi esperti dal 1978 e non fornì più aiuti economici, Tirana condannò il poco fortunato
attacco militare cinese al Vietnam di recente unificato: fatte le debite proporzioni territoriali, era evidente
in quel conflitto la somiglianza con il rapporto ostile esistente tra Jugoslavia e Albania. Esso comunque
cozzava con la concezione nazionale che Hoxha aveva elaborato del marxismo-leninismo: non diversamente
dai dirigenti comunisti romeni, egli era geloso della sovranità del proprio Paese e non ammetteva
compromessi (lo si era visto anche con Chruščëv) riguardo alle prerogative esclusive del partito albanese. Il
risultato fu l’isolamento assoluto del paese delle aquile che aveva relazioni diplomatiche limitate e di basso
livello, sebbene con gli anni si andassero sviluppando rapporti informali soprattutto di carattere
commerciale, non potendo neanche l’Albania vivere in stato di completa autarchia. Un simbolo di tale
isolamento fu la mancata firma del governo albanese in calce agli accordi di Helsinki: a Tirana non piaceva
la ratifica delle frontiere del 1945 né l’impegno a rispettare i diritti politici e civili dei cittadini di ogni Stato
firmatario.

Proprio riguardo all’isolamento internazionale vi furono divergenze in seno al gruppo dirigente. La vicenda
non è del tutto chiara; tuttavia si registrarono sviluppi clamorosi. Nel dicembre 1981 Shehu si uccise o fu
ucciso per volontà (qualcuno ha detto per mano) di Hoxha, altri membri del Comitato centrale furono
allontanati probabilmente per avere sostenuto l’opportunità di un riavvicinamento alla Jugoslavia, rifiutato
dal segretario del partito296. Con Belgrado restava in piedi la grave questione del Kosovo, abitato ancor più
di prima da una maggioranza di albanesi. Il governo jugoslavo aveva riconosciuto ai kosovari sempre
maggiore autonomia, non impedendo contatti con gli albanesi d’oltre frontiera. Lo stato di salute non
buono del segretario pose anche il problema della successione: il ghego Ramiz Alia fu riconosciuto quale
erede in pectore, e fu eletto alla presidenza della Repubblica, mentre Adil Çarçani tenne dal 1982 al 1991 la
guida del governo. Maggior accordo vi fu nel favorire rapporti economici con paesi occidentali quali l’Italia,
la Francia e la Germania occidentale, oltre alla Turchia e alla Romania, con la quale era rimasto in piedi un
rapporto preferenziale visto l’atteggiamento autonomistico di Bucarest verso Mosca. Si volle anche
riprendere buone relazioni con la Grecia, con la quale restava aperta la questione delle rispettive minoranze
nazionali (greca in Albania, albanese in Grecia). Con la diffusione, se pur modesta, delle nuove tecnologie di
uso domestico, la popolazione era sensibile all’immagine delle società straniere che avventurosamente
veniva trasmessa da radio e televisione più che da fonti a stampa, facili da censurare. Il regime continuava
ad avere bisogno di controllare la popolazione attraverso la polizia politica, temendo di dare spazio a
tendenze riformatrici o, persino, a movimenti di opposizione. Una vera svolta fu, in tali condizioni, la morte
di Enver Hoxha, avvenuta esattamente nell’anno dell’elezione di Gorbačëv, il 1985. Il posto di segretario del
partito fu preso da Alia.

Il regime sembrò restare uguale a se stesso, ma Alia e gli altri dirigenti non potevano fingere di non sapere
quali radicali mutamenti stavano avvenendo in molti Paesi comunisti. Al contempo, avendo compreso che
l’isolamento non poteva durare all’infinito e che si dovevano avviare relazioni più ampie e formali con i
Paesi capitalisti, essi si resero conto che per tutto ciò una liberalizzazione interna era una conditio sine qua
non. Un pronunciamento contro lo stalinismo non vi fu, ma furono ammessi rappresentanti politici di Stati
occidentali e fu consentito un turismo meno controllato e limitato nei numeri, anche se fu respinta una
proposta tedesca di aiuto finanziario. Nel 1988, per fare fronte alla crisi alimentare, si permise alle singole
famiglie riunite nelle cooperative di fare propri e coltivare nuovi terreni; i contadini poterono allevare in
proprio una mucca, spesso continuando a fare alla luce del sole ciò che avevano fatto prima in modo
clandestino. La società era in fermento e la popolazione avvertì il vento di novità che spirava. Prese
ampiezza il fenomeno dell’asilo presso le rappresentanze straniere. Come nel caso Popa, dei cittadini
albanesi continuarono a rifugiarsi nelle ambasciate straniere in numero crescente: seguirono dei negoziati
conclusi con la partenza di alcune migliaia di profughi per l’estero. Fu il prezzo per avviare o mantenere
amichevoli relazioni internazionali e in particolare con le vicine Grecia e Italia. Il gruppo dirigente non
poteva non comprendere che quanti volevano lasciare l’Albania erano mossi anche da semplici ragioni
legate a una condizione di vita insoddisfacente.

IV. Verso l’Europa unita

1. I paesi baltici dopo il 1991

Con la fine dell’Unione Sovietica i tre Paesi Baltici tornarono all’indipendenza dopo essere stati dal 1945 tre
delle quindici Repubbliche Socialiste Sovietiche. L’esperienza di indipendenza vissuta tra le due guerre
mondiali, le modalità dell’inclusione nell’Unione Sovietica spiegano facilmente perché proprio in Lettonia,
Lituania ed Estonia più rapidamente si manifestarono movimenti centrifughi, preannunciatisi già quando
sembrava impossibile il ritorno a un’esistenza separata dal colosso sovietico. Alla fine del 1988 in Estonia
operavano nuove formazioni politiche nazionali come il Fronte popolare (Rahvarinne) e il Partito per
l’indipendenza: nella cosiddetta «rivoluzione canora» si chiese maggiore autonomia, blocco
dell’immigrazione snazionalizzante, politiche più rispettose del territorio, ma talora anche la secessione.
Tale richiesta finì per prevalere nello stesso Soviet supremo estone, dopo che esso fu rinnovato in modo più
democratico del passato e fu fissato un percorso di avvicinamento alla costituzione della Repubblica estone
indipendente. Anche in Lettonia il Fronte popolare riuscì progressivamente a spostare su posizioni
autonomistiche e poi secessioniste le stesse rappresentanze parlamentari. In Lituania il Sajudis guidato da
Vytautas Landsbergis guadagnò ampi consensi, ponendosi alla guida di una tendenza popolare antisovietica
del tutto evidente: nel febbraio 1990 batté largamente il Partito comunista senza conseguire però la
maggioranza assoluta.

Nel 1989, cinquantenario del Patto Molotov-Ribbentrop, nonostante un ritorno di fiamma dei metodi
violenti da parte dei corpi speciali sovietici per porre argine alle manifestazioni indipendentistiche, la strada
era segnata, anche perché lo stesso presidente russo Boris El’cin prese le distanze dalla politica di
repressione scelta dal governo sovietico (una situazione fino a poco tempo prima del tutto imprevedibile).
Quando, nel 1991, i conservatori del PCUS tentarono di imporre a Gorbačëv l’interruzione delle riforme
attraverso un colpo di Stato militare, peraltro fallito, quel percorso fu dichiarato concluso: tra i primi
riconoscimenti dell’Estonia indipendente, accanto a quello degli Stati occidentali, giunse quello della
Federazione russa, capeggiata dal presidente El’cin, vero trionfatore degli eventi dell’agosto 1991 a Mosca.
In verità il suo atteggiamento politico, ben distinto da quello di Gorbačëv e, a maggior ragione, degli
elementi conservatori del PCUS, favorì alquanto tutte le tendenze centrifughe in seno all’Unione Sovietica e
in modo particolare proprio quelle dei popoli baltici. Peraltro quando Gorbačëv nella primavera 1991 aveva
lanciato il referendum per decidere se rifondare, su basi più libere e volontarie, l’Unione, Estoni, Lettoni e
Lituani risposero chiaramente no. I governi instauratisi a Riga, Tallinn e Vilnius si espressero chiaramente
per un avvicinamento all’Occidente, rifiutando il progetto lanciato dai presidenti russo, bielorusso e ucraino
di costituire la Comunità degli Stati indipendenti (CSI), sebbene questa avesse natura ben diversa
dall’Unione Sovietica come la stessa denominazione lascia facilmente intendere. La CSI, come è noto,
nacque egualmente a fine 1991 con l’adesione di undici repubbliche ex sovietiche (cui in un secondo tempo
si aggiunse la Georgia), ma senza quella dei tre Stati baltici.

Il conseguimento dell’indipendenza, avvenuto tra molti entusiasmi, non risolse di per sé i seri problemi che
Lituania, Lettonia ed Estonia si trovarono di fronte. Esso, inoltre, fu solo l’inizio di un iter che si concluse
tredici anni dopo con l’ammissione nell’Unione Europea e, parallelamente, nella NATO. Soprattutto
l’ingresso nell’alleanza militare occidentale creò preoccupazioni a Mosca, ma la Federazione russa non poté
impedirlo. Gli ultimi soldati russi (già sovietici) avevano lasciato la Lettonia nel 1994 e di fronte al principio
difeso dal governo russo, riguardo al diritto di proteggere i Russi che abitavano negli Stati Baltici, i governi
baltici, con l’attiva mediazione di Bruxelles, accettarono di rendere le proprie norme sulla cittadinanza
meno penalizzanti per le minoranze etniche. Fu il caso soprattutto di Estonia e Lettonia poiché in Lituania la
minoranza russa tocca appena il 6%, come quella polacca. In Estonia gli slavi orientali erano attorno al 35%
del totale (cui si aggiungevano piccole altre comunità minoritarie), in Lettonia superavano il 42% e l’insieme
delle minoranze sfiorava la metà del totale. Da qui l’introduzione dapprima del principio che la cittadinanza
fosse riconosciuta alle famiglie abitanti da prima della seconda guerra mondiale. Tale norma fu attenuata
da successivi atti legislativi che recepirono lo jus soli per quanti erano nati nel territorio dello Stato. Un
importante discrimine riguardò la conoscenza della lingua nazionale, ma anche su questo la legislazione si
fece con il tempo più tollerante, in pratica consentendo l’apprendimento dell’estone o del lettone in tempi
molto lunghi. Pur essendosi ormai di molto assottigliato il numero dei membri della minoranza slava
orientale, quanti non hanno richiesto e ottenuto la cittadinanza continuano a non avere diritto di voto alle
elezioni politiche, bensì solo in quelle amministrative.

In Lituania, come avvenne in altri paesi ex comunisti, si assistette abbastanza presto al ritorno al potere
degli eredi del vecchio Partito comunista. Il presidente Vytautas Landsbergis, eroe dell’indipendenza, fu
battuto dall’ex comunista (però indipendentista) Algirdas Brazauskas nelle elezioni presidenziali del 1993.

Il movimento protagonista della lotta per l’indipendenza Sajudis non poté a lungo sfruttare i meriti acquisiti
nella lotta per separarsi da Mosca. Ciò non significò affatto che i nuovi dirigenti intendessero mutare
direzione: l’Occidente continuò a essere la meta e le riforme non furono interrotte, ma solo ricalibrate
rispetto alla situazione economica e sociale che si era creata. Nel 2003 il 69% dei votanti si espresse per
l’adesione all’Unione Europea, che divenne effettiva dal 2004. Ben presto la Lituania fu ammessa anche
nell’area Schengen e dal 2015 è membro dell’Unione monetaria.

Nonostante un quadro politico abbastanza cangiante attraverso gli anni, che pure evidenzia una solida
presenza di partiti vicini ai socialisti e ai popolari europei, la Lettonia, dopo aver ottenuto l’ammissione
nell’Unione Europea e nella NATO, si è spinta sino a introdurre dal 2014 l’uso dell’euro, entrando così nel
club dell’Eurozona. Due anni prima un referendum popolare ha respinto l’equiparazione del russo (lingua
parlata dal 35-40% degli abitanti) al lettone e da Mosca, in margine alla grave crisi ucraina, non si è mancato
di esprimere l’intenzione di proteggere i Russi cittadini di altri Stati con chiaro riferimento anche a quelli
baltici. Difficile dire se ciò ha influenzato il risultato delle elezioni dell’ottobre 2014, che hanno prospettato
una situazione polarizzata: la premier Laimdota Straujuma conta su una solida maggioranza fondata su una
coalizione di centro-destra, ma il Partito socialdemocratico che raccoglie in buona misura il voto dei
russofoni occupa un quarto dei seggi nel parlamento.

Non meno vario lo scenario politico in Estonia con esecutivi deboli e maggioranze non sempre stabili, ma
altrettanto certa la direzione nei temi fondamentali. L’adesione alla Unione Europea e alla NATO è stata
vista in genere come una necessità per fare fronte anche alla questione della minoranza russa per la quale
si è creata una dialettica vivace con Mosca, attenuatasi ma non definitivamente sopita dopo il varo della
legislazione riguardante la cittadinanza, che richiede requisiti non da tutti gli abitanti facilmente
conseguibili. Il modello economico di stampo occidentale non è stato mai in discussione anche in vista degli
standard richiesti dall’Unione Europea. Lo Stato è marcatamente laico, in presenza di un alto numero di atei
dichiarati e una prevalente non affiliazione a Chiese o religioni.

I tre Stati Baltici hanno creato significative forme di collaborazione in più settori, incluso quello militare.
Hanno peraltro risolto i contenziosi sorti per la delimitazione delle frontiere marittime (che influenzavano
anche lo sfruttamento di risorse energetiche) tra Lituania e Lettonia, e tra Lettonia ed Estonia. All’interno
dell’Unione Europea contribuiscono alla componente ‘settentrionale’, spalleggiando le politiche del rigore
economico. La crisi ucraino-russa ha risvegliato le preoccupazioni per la politica di Mosca, avvertita come
neo-espansionista. Non sono mancati incidenti di varia natura e si è resa necessaria una presa di posizione
dei vertici NATO per rassicurare i governi e l’opinione pubblica, al fine di evitare una pericolosa
destabilizzazione.

2. La Polonia dopo il comunismo

La trasformazione indolore e pacifica del regime garantì tuttavia un atteggiamento amichevole da parte
dell’Occidente: il sostegno economico concesso in passato alla Polonia comunista non poteva mancare a
quella post-comunista. Nonostante il debito estero fosse alquanto elevato (40 miliardi di dollari), gli Stati
occidentali, la Banca Mondiale (da sola 3 miliardi nel 1992) e il Fondo Monetario Internazionale
continuarono a garantirne il rifinanziamento, chiedendo in cambio profonde riforme economiche. Se già i
primi anni dell’epoca post-comunista riservarono più di una sorpresa agli osservatori, essi però ebbero un
dato costante nella ferrea ricetta economica imposta al Paese dal ministro dell’Economia Leszek
Balcerowicz, in carica in più di un governo. Inevitabilmente tale politica economica alienò le simpatie di
molta parte dell’opinione pubblica che aveva sperato che democrazia e benessere si potessero facilmente
coniugare: critiche giunsero anche da esponenti di Solidarność come Zbigniew Bujak.

Jaruzelski, dopo mesi di una campagna che spingeva in tal senso, accettò di dimettersi da Presidente della
Repubblica e con le nuove elezioni del novembre-dicembre 1990 (non più parlamentari ma popolari, cioè
dirette) fu Wałesa a prendere il suo posto; a sorpresa questi dovette confrontarsi con Mazowiecki e con un
ricco polacco tornato dal Canada, Stanisław Tymiński, capace di giungere al ballottaggio. Il nuovo
presidente, con un gesto di cui si intuisce il significato, decise di ricevere le consegne non da Jaruzelski, ma
da Ryszard Kaczorowski, l’ultimo presidente del governo in esilio che poté a questo punto dissolversi. Il
confronto tra due candidati entrambi provenienti da Solidarność era la conferma che quel sindacato o
movimento politico ‘ombrello’ albergava più anime e linee politiche nel suo seno. Tale fatto segnò le sorti
del paese e causò la debolezza del grande vincitore del 1989, tanto da consentire molto presto il ritorno al
potere di uomini provenienti dal POUP, dissolto nel gennaio 1990 per dare luogo a nuove formazioni di
sinistra, decise a non rinunciare più ai principi del pluralismo democratico. La Chiesa cattolica fece sentire la
sua voce con forza su temi delicati, come l’educazione religiosa nelle scuole (resa obbligatoria) e l’aborto, il
che indusse inopportune spaccature nell’opinione pubblica e tra le forze politiche.

Di fronte al calo della popolarità del primo governo democratico, Mazowiecki passò la mano a Jan Bielecki
finché non si delineò meglio, con le elezioni tenute nell’ottobre 1991, la configurazione del nuovo sistema
politico. Il risultato fu paradossale per il sistema elettorale adottato (strettamente proporzionale): appena il
48% degli elettori andò alle urne e ben 29 partiti entrarono alla Camera Bassa e 21 al Senato, ma nessuno
ottenne più del 13% dei consensi. Gli ex comunisti guadagnarono il 12% come l’Unione democratica di
Mazowiecki, una delle formazioni filiate da Solidarność. In tali condizioni qualsiasi governo era destinato ad
avere una maggioranza poco coesa alle sue spalle: così fu per l’esecutivo retto da Jan Olszewski e per quello
capeggiato da Hanna Suchocka (di Unione democratica, ma sostenuto da sette partiti), ambedue di breve
durata. Dopo un cambio politico così radicale molti ritenevano necessario rompere completamente con il
passato regime e la sua classe dirigente (cercando nella documentazione dei vecchi servizi di sicurezza gli
strumenti per metterla definitivamente fuori gioco), altri non desideravano epurazioni o vendette per dare
vita a una democrazia condivisa. Solo nel dicembre 1998 fu creato l’Istituto della memoria nazionale
(Instytut Pamięci Narodowej) che in parte rispondeva a quelle esigenze, prendendo in carico e studiando gli
archivi del ministero della Sicurezza interna (MSW).

Quasi a ripetere quanto era avvenuto dopo la prima guerra mondiale e all’inizio del regime comunista,
dopo il 1989 la Costituzione staliniana del 1952 fu soltanto emendata o integrata con un insieme di
provvedimenti che furono definiti «Piccola Costituzione». In particolare l’ultima più significativa modifica
costituzionale del 1992 riguardò le modalità estremamente complesse, se non persino contraddittorie, per
la formazione del governo: essa lasciò ampi margini di ambiguità sulle competenze dei diversi poteri statali
(presidente, parlamento, governo). Dopo un faticoso percorso che incluse un referendum popolare,
soltanto nel 1997 finalmente fu approvato un nuovo testo costituzionale, che servì a chiarire in primo luogo
i rapporti tra i diversi poteri istituzionali.

Nel settembre 1993 gli elettori furono nuovamente convocati e di nuovo l’afflusso alle urne si fermò al
51,5%. Le forze centriste non riuscirono a dare vita a un blocco, spianando la strada alla vittoria
dell’Alleanza della sinistra democratica, capeggiata dall’ex comunista Aleksander Kwaśniewski, affiancata
dal Partito contadino di Waldemar Pawlak, e dall’Unione del lavoro. L’introduzione dello sbarramento
elettorale al 5% ridusse a sei i partiti presenti in parlamento, riducendone la rappresentatività, ma
rendendolo più governabile. Nel febbraio 1995 Pawlak si dovette dimettere perché accusato di corruzione
nelle pratiche di privatizzazione. Il suo successore Józef Oleksy, dell’Alleanza della sinistra democratica, si
dimise un anno dopo perché fu dimostrata la sua collaborazione con i servizi sovietici. Subentrò alla guida
dell’esecutivo il suo compagno di partito Włodzimierz Cimoszewicz.

Permaneva una certa agitazione sociale collegata alla trasformazione dell’economia e alla contingenza
economica ancora negativa, nonostante l’inflazione fosse stata domata e lo złoty reso convertibile.
All’instabilità dei governi, persistente anche dopo il 1993‚ si aggiunsero i difficili rapporti esistenti tra le
istituzioni: esecutivo, presidenza della Repubblica, parlamento. Di tale conflittualità fu protagonista Wałesa,
accusato dagli avversari di eccessivo protagonismo se non persino di autoritarismo: guidare un sindacato e
un movimento politico non era evidentemente la stessa cosa che reggere le sorti di uno Stato.

Nel 1995 l’uomo simbolo di Solidarność fu battuto di misura alle elezioni presidenziali dall’ex comunista
Kwaśniewski, però nel 1997 l’Alleanza elettorale Solidarność ottenne il 34% dei consensi e poté dar vita a
un nuovo esecutivo, guidato da Józef Buzek (con Geremek agli Esteri), insieme con l’Unione liberale di
Balcerowicz, altra formazione filiata da Solidarność: questa volta il centro-destra non commise l’errore di
presentarsi diviso alle urne. Nel Paese da cui proviene un quarto dei sacerdoti cattolici d’Europa, il capo del
governo fu un protestante, segno di una certa evoluzione della politica polacca. In essa fu importante che la
Chiesa cattolica accettasse un ruolo meno invasivo, lasciando gli atteggiamenti più radicali solo a frange,
ben rappresentate ad esempio dall’emittente Radio Maryia. Tutto ciò si vide bene nella ricordata nuova
Costituzione del 1997, la cui approvazione fu facilitata dalla pur breve fase in cui il Presidente della
Repubblica e maggioranza parlamentare furono espressione della stessa coalizione di centro-sinistra, e
dunque non si trovarono in contrasto come era stato precedentemente.

Con il governo di centro-destra nel 1999 fu realizzato l’ingresso nella NATO (insieme con Repubblica Ceca e
Ungheria) e fu avviata dal 1998 una trattativa concreta per l’adesione all’Unione Europea, che
presupponeva impegni e costi per la Polonia non facilmente accettabili da buona parte della popolazione.
Queste ulteriori preoccupazioni (si pensi soltanto alla necessità di ridurre radicalmente il numero degli
addetti all’agricoltura, settore che dava un basso apporto al prodotto interno lordo, pur contando un quinto
del totale della forza lavoro) si sommarono a quelle già create dall’introduzione dell’economia di mercato e
dalla necessità di fare fronte al pesante debito estero. Tutto ciò favorì le forze di sinistra che tornarono al
governo nel 2001, ancora una volta per le divisioni tra i partiti di destra (tra i quali emergevano anche
formazioni più radicali come Samoobrona, ovvero Autodifesa, e la Lega delle famiglie polacche) ma pure
per la capacità di raccogliere il consenso di circa metà dell’elettorato.

Paradossalmente proprio il nuovo governo capeggiato da Leszek Miller ebbe il compito di portare a
conclusione le trattative con Bruxelles, nelle quali le remore di parte polacca andarono attenuandosi anche
a fronte di alcune concessioni economiche e politiche. In particolare il vertice di Nizza assegnò a Paesi
medio-grandi come Polonia e Spagna un numero di deputati al parlamento europeo, proporzionale alla loro
popolazione. Tale processo fu accompagnato da un significativo avvicinamento con la Germania la cui forza
economica, abbinata con la presenza della minoranza tedesca di Slesia (ora ben rappresentata al Sejm),
aveva fatto temere la colonizzazione dell’economia polacca. Nel 2002 i negoziati erano ormai conclusi e nel
2003 un referendum popolare sancì a larga maggioranza dei votanti, più numerosi che nelle consultazioni
politiche precedenti e successive, l’adesione, entrata in vigore – come per altri nove Stati – il 1° maggio
2004, proprio quando Miller era costretto alle dimissioni (poi finito nelle file di Samoobrona) e veniva
sostituito da Marek Belka. L’ingresso nell’Unione Europea fu una svolta storica nella storia polacca, che la
grande mobilità del quadro politico negli anni successivi e l’emergere di tendenze euroscettiche (questa
volta più a destra che non a sinistra) non poterono assolutamente inficiare. Peraltro nel periodo 2007-13 la
Polonia fu lo Stato che si vide assegnare la maggiore quota di fondi strutturali dall’Unione Europea.

Alle elezioni parlamentari del 2005 (appena 40% di votanti), infatti, due nuove formazioni di destra, Diritto
e giustizia (PiS) e Piattaforma civica (PO), eredi in qualche misura di Solidarność, ottennero una vasta
maggioranza parlamentare ma non formarono insieme il governo, mentre i partiti di sinistra toccarono il
loro minimo storico, superati dalla destra populista di Samoobrona. Mentre il PiS diede vita a un ministero
di minoranza, già nell’ottobre 2005 i due partiti vincitori si trovarono in concorrenza in occasione delle
elezioni presidenziali nelle quali il conservatore populista Lech Kaczyński prevalse sul liberale Donald Tusk.
Dal luglio 2006 il governo fu guidato da Jaroslaw Kaczyński, fratello gemello del presidente, ma, privo
dell’appoggio di PO, questi dovette dimettersi e lasciare indire elezioni anticipate nel 2007, nelle quali il PiS
fu sconfitto dall’ex alleato PO, il cui leader Tusk assunse la guida dell’esecutivo.

Si avviò la coabitazione non sempre facile tra le due massime cariche istituzionali, che ebbe termine
drammaticamente il 10 aprile 2010, quando Lech Kaczyński restò vittima, con altri esponenti politici
polacchi, di un incidente aereo, avvenuto nel cielo di Smolensk, in Russia, dove la delegazione polacca si
recava a una manifestazione di commemorazione dell’eccidio di Katyń. Suo successore fu eletto il liberale
Bronisław Komorowski, che prevalse su Jaroslaw Kaczyński. Questi eventi sembrano aver consolidato
l’indirizzo europeista in Polonia, e l’indebolimento delle pur forti tendenze euroscettiche.
3. Dalla fine della Cecoslovacchia all’ingresso nell’Unione Europea della Repubblica Ceca e della
Slovacchia

Il gabinetto Čalfa (il premier lasciò quasi subito il PC per il VPN) restò al potere per un anno e mezzo, con il
consenso dei protagonisti di quei mesi. Presto il Forum civico manifestò la sua eterogeneità e alle elezioni
del giugno 1992 la sua ala liberale e liberista (costituitasi come Partito democratico civico, ODS, guidato da
Václav Klaus) ottenne la maggioranza con gli alleati democristiani. Insediatosi nel luglio 1992 il governo
cecoslovacco guidato da Jan Stránský – esponente dell’ODS – e in parallelo quello ceco guidato da Klaus,
rapidamente si avviò la conversione dell’economia. Intanto a Bratislava assunse il potere il Movimento per
la Slovacchia democratica di Vladimír Mečiar, nato da una scissione del VPN. L’importante industria bellica
locale subì un deciso ridimensionamento nell’ambito di una generale ristrutturazione dell’apparato
industriale cui si accompagnò un vasto programma di privatizzazioni, che riguardò dapprima ristoranti,
negozi e altre piccole aziende, ma finì per toccare anche grandi società cedute all’azionariato popolare, con
la distribuzione di azioni o kupony. Le più competitive aziende furono acquistate da imprenditori stranieri: il
caso più noto è quello della casa automobilistica Škoda acquisita dalla tedesca Volkswagen. Infine si registrò
anche la restituzione, quando possibile, di beni nazionalizzati dopo il 1948 ai vecchi proprietari. Tali radicali
riforme furono sostenute in particolare da Klaus, già quando era titolare del ministero delle Finanze nel
governo Čalfa, e poi da presidente del Consiglio (in seguito fu pure presidente della Repubblica Ceca).

La trasformazione dell’economia favorì per un verso lo sviluppo economico, ma per un altro ebbe come
prezzo l’aumento della disoccupazione soprattutto in Slovacchia. Qui infatti il regime comunista aveva
voluto uno sviluppo industriale dalle basi non solide: di fatto molte erano le aziende di grandi dimensioni e
obsolete, destinate a una profonda ristrutturazione per essere competitive e appetibili. Il diverso
andamento dell’economia in Slovacchia e in Boemia-Moravia costituì un incentivo per il movimento
separatista slovacco, che pure aveva lontane origini. Di converso nei Paesi cechi si diffuse la convinzione
che le terre slovacche fossero per l’economia ceca un peso di cui era meglio liberarsi.

Nel giro di due anni dalla rivoluzione di velluto lo Stato federale prese fine pacificamente, dando vita a due
Stati indipendenti, formalmente a partire dal 1° gennaio 1993. Il processo fu di fatto pacifico (a differenza di
quanto avveniva nella vicina Jugoslavia), anzi la decisione di separare i due Paesi fu presa dai rispettivi
parlamenti e fu sancita da quello federale, senza mai essere sottoposta alla verifica di un referendum
popolare.

Se i governi di Praga si affrettarono a reintrodurre l’economia di mercato, parimenti si orientarono senza


remore verso l’Occidente. La Cecoslovacchia dal 1990 era membro della Pentagonale (poi Iniziativa centro-
europea) patrocinata dall’Italia, e già nel febbraio 1991 fu ammessa nel Consiglio d’Europa. L’anno dopo,
d’accordo con Varsavia e Budapest, Praga diede vita al cosiddetto accordo di Visegrád (cittadina
ungherese), che prevedeva la collaborazione di quei Paesi dell’Europa centrale sia per attuare di concerto la
trasformazione delle proprie economie, sia soprattutto per avviare relazioni con le economie occidentali e
conseguire assieme l’ammissione all’allora Comunità Europea. L’accordo mutò negli anni successivi la sua
natura, né si realizzò a pieno l’area di libero scambio (in sigla CEFTA), pur allargandosi ad altri Paesi, ma in
un primo tempo sembrò voler rimarcare che tra Europa centrale e balcanica grandi erano le differenze
quanto al ritorno all’economia di mercato e a una democrazia degna di essere paragonata a quelle
occidentali: tali differenze avrebbero dovuto pesare nella marcia di avvicinamento a quella che stava
divenendo l’Unione Europea. In realtà i Paesi del Sud-Est europeo ancora non hanno concluso quel
percorso (Albania, repubbliche meridionali dell’ex Jugoslavia) oppure sono stati ammessi (Romania,
Bulgaria) all’Unione Europea in ritardo, cioè nel 2007, rispetto ai Paesi ex comunisti collocati
geograficamente più a nord.

La Cecoslovacchia fu uno dei pochi Stati nel quale furono allontanati per legge dai posti pubblici ( lustrace o
trasparenza) quanti fossero implicati con gli aspetti più odiosi del regime comunista (servizi segreti, polizia
politica) o persino di quello nazista. In un primo tempo la legge varata nel 1991 non fu firmata da Havel, ma
successivamente entrò in vigore. La Repubblica Ceca con apposita legge del 2011 ha riconosciuto anche la
terza resistenza, operante contro il regime comunista, terza poiché seguiva a quella contro la monarchia
austro-ungarica nella prima guerra mondiale e a quella contro l’occupante nazista. In una certa misura ha
fatto pendant con tale decisione politica quella di dare vita nel 1990 un Istituto per la storia
contemporanea, all’interno dell’Accademia delle scienze. Molti anni più tardi, nel 2007, nella Repubblica
Ceca fu costituito l’Istituto per lo studio dei regimi totalitari (non diversamente da quanto avvenuto in
Polonia e Romania) la cui attività inevitabilmente ha avuto echi politici, sollevando talora polemiche tra
studiosi e non.

3.1. La Slovacchia post-comunista e indipendente

Gli Slovacchi avevano dunque realizzato un’aspirazione di antica data, ma l’indipendenza dapprima si
accompagnò a serie difficoltà economiche, per i motivi già ricordati. A lungo poi il quadro politico fu
caratterizzato dal dominante populismo il cui miglior rappresentante fu Vladimír Mečiar, espulso dal PC
durante la ‘normalizzazione’, già militante del VPN, quindi fondatore e leader del Movimento per la
Slovacchia democratica (HDZS) e più volte capo del governo tra 1990 e 1998. Tali tendenze populiste si
accompagnarono a una ripresa del nazionalismo a causa della questione della minoranza ungherese
(600.000 individui circa), per la quale ripetutamente sorsero contrasti con la confinante Ungheria. I governi
di Bratislava e Budapest ebbero a polemizzare anche riguardo allo sfruttamento e incanalamento delle
acque del Danubio attraverso la diga e il sistema idroelettrico di Gabčikovo-Nagymaros. I due Stati
trovarono una precaria composizione dei propri interessi e punti di vista, dopo la visita di Mečiar a
Budapest del gennaio 1995 e con il trattato firmato a Parigi dai due primi ministri il 19 marzo 1995. Con
esso furono riconosciuti i confini statali e i diritti ‘individuali’ e non collettivi delle minoranze (cioè dei
magiari di Slovacchia). L’accordo non ebbe però l’assenso né dei rappresentanti della minoranza ungherese,
né del Slovenská Národná Strana (SNS) di Jan Slota, il Partito nazionalista slovacco. Subito infatti sorsero
nuove polemiche per la legge sulla lingua, discriminatoria secondo la minoranza, e negli anni successivi si
registrarono ancora tensioni tra i governi di Budapest e Bratislava, rinfocolatesi dopo l’arrivo al potere a
Budapest della Fidesz di Viktor Orbán, una prima volta dal 1998 al 2002 e di nuovo nel 2010. Non va taciuto
poi che esiste un problema concernente i rom, i quali sono di fatto la seconda minoranza in Slovacchia (le
cifre variano da 90.000 a 380.000 anime) e sono concentrati nelle province orientali, in genere privi di un
lavoro fisso per non essersi affatto adeguati alle novità della nuova economia.

Le privatizzazioni segnarono il passo e però le condizioni economiche degli Slovacchi migliorarono solo
verso lo scorcio degli anni Novanta. Il premier entrò in contrasto anche con l’episcopato cattolico (Giovanni
Paolo II visitò la Slovacchia nel 1995) e persino con esponenti del suo partito come il presidente della
Repubblica Michal Kováč, contro il quale non esitò a ricorrere anche a metodi di lotta poco ortodossi. I
partiti di opposizione (democratici cristiani, Unione democratica, Partito della sinistra democratica,
Coalizione magiara) soltanto dopo le consultazioni elettorali del 1998 riuscirono a sopravanzare l’HDZS, che
pure deteneva la maggioranza relativa. Il nuovo premier Mikuláš Dzurinda (1998-2006) avviò non solo una
politica di riforme più incisive – fu introdotta la flat tax al 19% – ma anche un corso più ‘europeo’ rispetto a
quello tenuto da Mečiar, novità non smentita dai governi in carica nei successivi anni. Con qualche sorpresa
degli osservatori internazionali, la Slovacchia si trovò così in una situazione di parità con gli altri Stati ex
comunisti (e con la Repubblica Ceca) quando Bruxelles fissò al 2004 la data per l’ingresso dei nuovi Paesi
membri nell’Unione Europea. In quello stesso anno fece il suo ingresso nella NATO. Dopo gli esecutivi
capeggiati da Dzurinda, il primo governo guidato dal socialdemocratico Robert Fico (2006-10) si appoggiò
su una maggioranza eterogenea cui, con i socialdemocratici (SMER), concorrevano HDZS e SNS, né
mancarono critiche da parte del Partito socialista europeo. Nonostante la sua particolare e discussa
composizione, il nuovo governo nel 2009 si spinse sino ad aderire anche all’Unione monetaria europea.
Seguì la breve parentesi del governo di centro-destra capeggiato per la prima volta da una donna, la
sociologa Iveta Radičová: quest’ultimo esecutivo, alle prese con la recessione economica, non ottenne la
fiducia proprio sulla legge di ratifica del cosiddetto «fondo salva Stati» dell’Unione monetaria, approvata
tuttavia poco dopo. Fico è tornato al governo nell’aprile 2012 con un gabinetto monocolore; in assenza di
partiti di qualche peso all’opposizione (duramente colpita dalla scoperta di un grave scandalo politico-
finanziario), ha presentato un programma che prevede una forte inversione di tendenza in politica
economica.

3.2. La Repubblica Ceca, un solido partner europeo?

Dalle elezioni politiche del maggio 1996 il quadro in Cechia andò mutando con l’affermazione di un secondo
polo, costituito dal Partito socialdemocratico (ČSSD), capeggiato da Miloš Zeman, il quale era stato espulso
dal PC dopo la Primavera di Praga e dunque non poteva essere considerato un figlio del vecchio regime:
peraltro nel 2009 fondò il Partito dei diritti civili. I due maggiori partiti (ODS e ČSSD), dotati di un consenso
elettorale quasi uguale, negli anni seguenti si alternarono al governo, utilizzando talora l’appoggio degli altri
partiti presenti in parlamento: comunisti, cristiano-democratici, repubblicani xenofobi di Miroslav Sládek e,
più di recente, la formazione Tradizione, responsabilità, prosperità (TOP 09), guidata da Karel
Schwarzenberg, e altre ancora, come l’Azione dei cittadini insoddisfatti (ANO 2011).

Sebbene con maggioranze limitate e composite non fosse possibile attuare fino in fondo i propri programmi
per i diversi esecutivi (i più duraturi furono capeggiati dal socialdemocratico Zeman, 1998-2002, e dai
liberali Topolánek, 2006-2009, e Nečas, 2010-13), la Repubblica Ceca proseguì nella sua profonda
trasformazione, come dimostra il fatto che nell’economia del Paese il settore pubblico abbia ormai un ruolo
marginale: il reinserimento nella ‘famiglia’ europea era del tutto evidente anche prima del formale ingresso
nell’Unione Europea avvenuto nel 2004, come potevano constatare i numerosissimi turisti che
ininterrottamente visitavano Praga. Un referendum nel 2003 aveva sancito l’adesione con il 77,33% di sì,
anche se si recò a votare solo il 55,21% degli aventi diritto di voto. Ciò non ha impedito in anni più recenti
l’affievolirsi del sentimento europeista, essendo tra gli ‘euroscettici’ lo stesso Klaus, asceso nel 2003 alla
presidenza della Repubblica e a lungo ostile a promulgare il Trattato di Lisbona. A lui successe nel 2013
Zeman il quale ha battuto soltanto al secondo turno Schwarzenberg.

A lungo e fino a questi ultimi anni i politologi hanno definito quello ceco come un sistema politico «of two
and half parties»: infatti all’ODS e al ČSSD si aggiungeva la coalizione di quattro partiti minori di centro-
destra (Patto di San Venceslao dell’agosto 1999), mentre il Partito comunista restava isolato.

4. Ungheria: le interpretazioni della democrazia

Le prime elezioni libere tenute nel marzo-aprile 1990, con il sistema a doppio turno, videro il successo del
moderato Forum democratico-MDF (di ispirazioni cristiane e popolari) e dell’Alleanza dei liberi democratici.
Il vecchio partito al potere fu lacerato dalle scissioni. La corrente riformista si presentò con la nuova
denominazione di Partito socialista, conseguendo un discreto risultato in termini di voti e seggi, mentre la
lista che mantenne il vecchio nome, POSU, non superò la soglia del 4%, necessaria per entrare in
parlamento; come pure ne restò escluso il ricostituito Partito socialdemocratico. Poco migliore del risultato
del Partito socialista fu quello del rinato PPP. Già allora si fece notare un partito, la Fidesz (Fiatal
Demokraták Szövetsége o Alleanza dei giovani liberali), che sembrava di ispirazione liberale e dai costumi
politici molto innovativi: non se ne poteva fare parte se di età superiore ai quaranta anni. Lo aveva fondato
nel 1988 e lo dirigeva un dissidente che si era messo in luce negli ultimi anni e che ebbe in seguito un
grande futuro politico, Viktor Orbán.

Di conseguenza la presidenza del Consiglio fu appannaggio di József Antall del MDF (che costituì la
maggioranza con i piccoli proprietari e i cristiano-democratici) e quella della Repubblica di Árpád Göncz,
liberale. La repubblica per decisione del nuovo parlamento non ebbe più l’aggettivazione ‘popolare’. Il
sistema elettorale a doppio turno, di tipo francese, diede stabilità politica al Paese durante la transizione
post-comunista, anche quando le differenze tra i consensi di una o di un’altra coalizione non erano enormi,
ma presto la popolazione dimostrò fastidio per le consultazioni elettorali o referendarie che si ripetevano di
continuo, e talora il numero dei votanti – soprattutto nel secondo turno – fu molto basso, fenomeno
alquanto strano per un popolo privato per decenni del diritto di scelta.

(Economia) Tuttavia non mancarono (né poteva essere differentemente) problemi sociali già presenti nella
società oppure frutto proprio della sua trasformazione profonda e radicale, a partire dal settore economico:
la rapida introduzione, che si potrebbe anche dire espansione, del modello di mercato e l’apertura al
capitale straniero (numerose le joint ventures) non furono indolori. Vi fu un aumento generalizzato dei
prezzi: del 65% per quello della benzina con un conseguente duro scontro tra governo e tassisti già
nell’ottobre 1990, essendo venuti meno i rifornimenti energetici dall’Unione Sovietica. Inoltre sacrifici
furono imposti a molta parte della popolazione e soprattutto ai dipendenti a reddito fisso e ai pensionati.

Le tradizioni di civiltà tipiche dell’Ungheria, la tollerabilità del regime comunista negli ultimi decenni, la
ricordata ‘preparazione’ della società al cambiamento concorsero a fare sì che gli anni successivi al 1989
non si trasformassero in una sorta di guerra civile in cui tutte le armi polemiche fossero buone e le ragioni
del passato fossero utili per commettere abusi nel presente. L’MDF era favorevole a una transizione
graduale e lenta, cioè orientata all’economia mista, pur smantellando buona parte della proprietà statale:
ne avrebbero giovato le piccole e medie imprese. Accanto alla difficile questione delle privatizzazioni (fu
necessario produrre una legislazione ad hoc e creare l’Agenzia statale per le privatizzazioni, ÁPV) si pose
mano con rapidità agli indennizzi dei vecchi proprietari dei beni a suo tempo espropriati dallo Stato. Fu
inevitabile una marcata sperequazione sociale – l’arricchimento di pochi riguardò talora uomini che
avevano avuto un ruolo nel vecchio regime – e un progressivo indebolimento del welfare. Alla fine della
prima legislatura post-comunista, nel 1994 il settore privato contribuiva al PIL per il 55% del totale,
incidendo soprattutto nei settori dei servizi, del commercio e delle costruzioni. Addirittura prevalente
(64,3%) in quel quadriennio fu la quota parte degli investimenti di capitale straniero.

Sul fronte delle relazioni internazionali va ricordato che l’Ungheria godeva già prima della fine del regime
comunista di rapporti privilegiati con l’Occidente, come provano anche i cospicui e ripetuti prestiti accordati
soprattutto durante il periodo di transizione 1988-91. L’Ungheria, aderente al Fondo Monetario
Internazionale dal 1982, fu il primo Stato ex comunista ad essere ammesso al Consiglio d’Europa, nel
novembre 1991. Le fu presto riconosciuto anche lo status di Paese associato dalla Comunità Europea (CE,
subentrata alla CEE e destinata a trasformarsi in Unione Europea). Il cammino per la piena adesione fu
lungo e si concluse solo nel 2004 con l’ammissione pleno iure insieme con altri nove Paesi, tra i quali gran
parte degli Stati già comunisti, comprese le tre repubbliche baltiche già incluse nell’Unione Sovietica. Dopo
che il governo guidato dal socialista Gyula Horn, subentrato all’esecutivo di centro-destra, aveva aderito
senza incertezze alla Partnership for Peace lanciata dal presidente Clinton e dopo che Budapest aveva
ospitato nel maggio 1995 l’assemblea parlamentare della NATO, per la prima volta tenuta in uno Stato non
membro, spettò al primo governo Orbán il compito di siglare l’ingresso dell’Ungheria nella NATO (marzo
1999) confermando il suo deciso orientamento filoccidentale: non a caso Budapest aveva consentito azioni
di appoggio sia alle operazioni in Bosnia (1995) sia a quelle in Serbia e Kosovo (1999). Il governo ungherese
naturalmente si era preoccupato per tempo di ottenere il ritiro delle ultime truppe sovietiche dal Paese, il
che avvenne tra 1990 e 1991. Guardando all’Occidente come a una meta da raggiungere, Budapest cercò,
anche per questo motivo, di sviluppare le relazioni con Polonia e Cecoslovacchia: un punto fermo fu
l’accordo di Visegrád che intendeva creare un’area di libero scambio (CEFTA), ma pure preparare l’ingresso
dei tre Stati nella CE. Da questo punto di vista va detto che il successo fu limitato: l’adesione all’Unione
Europea seguì, come si è detto, un percorso più complesso disegnato dalle autorità di Bruxelles, mentre la
CEFTA incorporò Stati che sembravano non possedere i requisiti per farne parte come Romania e Bulgaria.
Con la Romania le relazioni non furono facili per la grave questione della minoranza ungherese di
Transilvania mai completamente sopita negli anni del comunismo e riaccesasi proprio prima della caduta
del regime. I governi ungherese e romeno, tuttavia, accettarono reciproci controlli aerei delle basi militari
aderendo al trattato internazionale sui «cieli aperti»; nel 1996 fu siglato un trattato di amicizia che servì ad
attenuare la grave questione della minoranza ungherese di Transilvania nonostante i rigurgiti di
nazionalismo affiorati nei due Paesi.

In omaggio a una transizione non traumatica, il vecchio personale politico non pagò un prezzo eccessivo se
già alla seconda legislatura il Partito socialista fu in grado di allearsi con i liberaldemocratici e assumere la
guida del governo, mentre il Forum democratico restava all’opposizione con Fidesz e altre formazioni, senza
che ciò causasse seri problemi politici né creasse preoccupazione nei governi occidentali. Era un’ulteriore
prova della maturità di una società civile diversificata. Tuttavia il passato non poteva essere archiviato
senza strascico alcuno: una legge simile a quella approvata in Cecoslovacchia stabilì che per alcuni posti
pubblici di grande importanza servisse provare di non aver servito la polizia politica del regime (e di non
aver militato nelle Croci frecciate). Successivamente, per intervento della Corte costituzionale si varò una
normativa meno severa rispetto al progetto originario.

Il governo Antall era durato per l’intera legislatura salvo un rimpasto nel febbraio 1993 e la sostituzione del
premier – morto prematuramente il 12 dicembre dello stesso anno – con il ministro dell’Interno Péter
Boross. Il MDF era però una classica formazione ombrello e dopo le scissioni subite fu nettamente sconfitto
alle elezioni del 1994 (non superando il 12% dei consensi) e finì per perdere una sua identità politica,
mentre il suo elettorato cercava altri referenti. In quell’occasione i socialisti (33% al primo turno) si
allearono con i liberi democratici (19,7%), dando luogo a una vasta maggioranza parlamentare.

Anche il governo liberalsocialista di Gyula Horn durò per l’intera legislatura, durante la quale fece dubitare
del passato politico di molti suoi esponenti, premier incluso: infatti varò misure in linea con le attese dei
governi occidentali e tali da rendere rapidamente l’economia molto vicina agli standard dell’Ovest. Le
privatizzazioni e l’apertura ai capitali stranieri procedettero con tale ritmo da inquietare l’opposizione di
destra. Tuttavia nelle successive elezioni del 1998 una buona parte dell’elettorato preferì orientarsi verso
un’altra forza politica, i giovani liberali (Fidesz), capeggiati dal nuovo premier Viktor Orbán che formò un
governo di coalizione, spingendo i socialisti all’opposizione nonostante il loro 32,3%. Il ‘ritorno degli ex’ in
un Paese non arretrato aveva avuto il fiato corto. Fu avanzata la proposta di eleggere il capo dello Stato a
suffragio universale ma la Corte costituzionale negò validità a un referendum a favore di tale innovazione né
essa ebbe successo in seguito. Nel giugno 1995 Göncz fu rieletto presidente della Repubblica dal
parlamento e così fu pure per i suoi successori nelle seguenti legislature. Il primo governo Orbán, come i
precedenti governi, continuò nella politica di contenimento della spesa pubblica, ma puntò pure sulla
riduzione delle tasse, dell’inflazione e della disoccupazione. La produzione industriale aumentò
notevolmente nel 2000 (con un aumento del 18,1%), ma crebbe anche il debito estero e rimase in deficit la
bilancia dei pagamenti. Le elezioni parlamentari del 2002 videro l’affermazione della coalizione costituita
dal Partito socialista (178 seggi) e dall’Alleanza dei liberi democratici (19 seggi), contro i 188 seggi
conquistati dall’Unione civica ungherese (Fidesz, in cui erano confluiti i reduci del MDF). Il governo di
centro-sinistra guidato da Péter Medgyessy approvò dei provvedimenti destinati a sostenere l’aumento
degli stipendi statali e delle pensioni, a razionalizzare la politica fiscale, a riformare il sistema sanitario.
Parallelamente cedette ai privati le ultime tre banche ancora pubbliche e firmò il trattato di adesione
all’Unione Europea (16 aprile 2003). L’aumento del 50% degli stipendi della pubblica amministrazione causò
una impennata del deficit pubblico, mentre diminuivano gli investimenti nell’industria e la crescita
economica. Fu inevitabile la perdita di credibilità dell’esecutivo, come attestarono le elezioni europee del
giugno 2004 nelle quali il Partito socialista conquistò 9 seggi contro i 12 della Fidesz. Ferenc Gyurcsány
sostituì Medgyessy quale primo ministro e si tornò a politiche più liberiste privilegiando il risanamento
dell’economia e del debito pubblico. Ne conseguirono l’aumento della disoccupazione e la mancata
realizzazione di investimenti nell’edilizia sociale, mentre le condizioni di vita della popolazione
peggiorarono. Tornò a crescere il PIL e si ridusse l’inflazione. Tutto ciò indusse il leader dell’opposizione
Orbán a scelte sempre meno liberali (come in partenza sembrava preferisse la Fidesz) e a contrastare le
posizioni filoeuropeiste del Partito socialista: era conveniente spostarsi su posizioni dalle quali evitare di
perdere consensi a favore della destra ultranazionalista e populista, anticapitalista e protezionista,
euroscettica e antiamericana. Quest’ultima aveva ormai trovato il suo referente nel partito Jobbik o
Movimento per un’Ungheria migliore. Nonostante tutto ciò, alle elezioni del 2006 il Partito socialista
prevalse ottenendo 186 seggi e, con gli alleati liberali, 210 (su 386). Gyurcsány avviò massicci aumenti di
tasse, ulteriori privatizzazioni e lo smantellamento sostanziale del welfare: per far fronte alla bancarotta
imminente del sistema sanitario introdusse ticket ambulatoriali. L’opinione pubblica divenne ostile e
surriscaldata, mentre il campo era aperto per l’opposizione.

Nel 2008 su iniziativa dell’opposizione un referendum per l’abolizione dei ticket ambulatoriali segnò una
pesante sconfitta per l’esecutivo. Il referendum rese chiaro che la Fidesz guadagnava consenso sociale
chiedendo il ripristino di misure economiche e sociali adottate negli anni del comunismo. Pur essendo la
prima volta che una coalizione nell’era post-comunista prevalesse in due elezioni consecutive, Gyurcsány,
accusato di aver mentito all’elettorato sullo stato dei conti pubblici a seguito della diffusione di un suo
intervento pronunciato in una riunione a porte chiuse del partito, si dimise da primo ministro nell’aprile
2009, spinto dalle proteste della popolazione e dai disordini conseguenti. Non più appoggiato dal partito e
in grave calo di popolarità, fu rimpiazzato da Gordon Bajnai in vista delle elezioni politiche del 2010.
Inutilmente il nuovo governo salvò 100.000 posti di lavoro con stanziamenti ad hoc, sostenendo anche il
sistema pensionistico e 100.000 famiglie in povertà, contenendo inoltre il debito pubblico e aumentando le
entrate fiscali. Gli anni di Gyurcsány non erano facili da dimenticare e nel 2010 socialisti e liberali subirono
una pesante sconfitta.

Ben 269 seggi furono assegnati alla Fidesz, che ebbe dunque la maggioranza utile per introdurre
innovazioni costituzionali. Il Partito socialista ottenne appena 59 seggi contro i 47 dello Jobbik di estrema
destra, protagonista degli scontri di piazza nella precedente legislatura, e i 16 del movimento ecologista «La
politica può essere diversa». Iniziò un lungo periodo di predominio di Orbán (i risultati delle elezioni sia
politiche sia europee del 2014 non furono molto diversi), che mise a segno più di un successo sul piano
economico, ma entrò in forte polemica con l’Unione Europea per il carattere della nuova Costituzione che
fece approvare e di varie norme considerate contrarie ai principi ispiratori della Unione. Ciò riguardò ad
esempio la severa normativa sui mezzi di comunicazione di massa, ma anche le norme per impedire la ‘fuga
dei cervelli’ che mal si conciliano con gli incentivi alla mobilità dei lavoratori e dei cittadini europei e
ricordano quelle in vigore nei regimi comunisti. Anche i poteri di prevenzione e contenimento delle forze
dell’ordine sono sembrati eccessivi ad alcuni osservatori stranieri. Non va taciuto che la legislazione volta a
ridurre i vantaggi per il sistema bancario e attenuare per i cittadini il peso dei debiti contratti, legislazione
popolare in patria, non ha trovato l’approvazione del mondo finanziario internazionale. Infatti larga parte
dell’opinione pubblica ungherese – sempre meno propensa ad accettare le politiche dettate da Bruxelles –
simpatizzò per il nuovo corso politico, e con essa anche la Chiesa cattolica, come dimostrano alcune prese
di posizione di suoi esponenti di spicco, tra i quali il vescovo ausiliare di Esztergom-Budapest, János Székely.
Da ultimo, Budapest ha dimostrato una certa propensione a mantenere buone relazioni con la Russia anche
quando Mosca ha avuto motivi di polemica con i governi europei ed occidentali (crisi ucraina).

5. La Romania da terra esotica a partner europeo

Dopo la fine cruenta del comunismo, in Romania fu difficile prendere le distanze dal clima di emergenza
succeduto al dicembre 1989 e trasformare la classe politica, la società e le strutture amministrative ed
economiche, al di là delle dichiarazioni di principio. La seconda legislatura dal 1992 al 1996 registrò delle
novità più significative, ma non ancora un radicale cambio come poteva essere aspettato. Esso avvenne
nella terza legislatura, ma i risultati non furono brillanti come desiderato e con l’inizio del primo decennio
del secolo fu necessaria un’ulteriore ristrutturazione della politica – anche con una nuova Costituzione –
dell’economia e della società. L’ingresso nell’Unione Europea nel 2007 ha portato a maturazione il
complessivo processo di trasformazione, tanto da fare della Romania un solido partner europeo, al di là dei
problemi che il Paese registra in più campi e delle esperienze del tutto particolari che esso ebbe a vivere.

Gli anni 1990-92 furono i più agitati. Già dalla fuga di Ceauşescu, la sede della televisione divenne il luogo in
cui si vissero i singoli segmenti del processo politico che portarono alla precaria stabilizzazione di un nuovo
ordine politico. Esso prese le forme di un Fronte di salvezza nazionale in cui confluirono sia iscritti del PCR
sia uomini di altra provenienza, inclusi dissidenti. Furono i primi a prevalere, soprattutto nella persona del
presidente del Fronte di salvezza nazionale (FSN) Ion Iliescu, un dirigente comunista caduto in disgrazia
negli ultimi anni (una sorta di Gorbačëv in sedicesimo e possibilmente più conservatore) e del capo del
governo, il giovane professore universitario Petre Roman. In realtà il quadro politico era estremamente
vario, essendosi costituiti o ricostituiti partiti di ogni genere ed essendo presenti in piazza manifestanti che
non consideravano legittimi l’indirizzo politico che andava prevalendo e il gruppo dirigente che aveva
assunto il potere di fatto.

La carta costituzionale si ispirò almeno in parte a quella francese e infatti il ruolo di Iliescu continuò a essere
preponderante, sino al punto di estromettere (anche con il concorso di una nuova mineriada) dal governo
Petre Roman, con il quale si palesarono differenze di vedute non trascurabili. In maniera forzatamente
semplicistica si può affermare che Roman era per più rapidi e incisivi mutamenti, anche in campo
economico, e che Iliescu ben rappresentava quanti invece temevano le novità e non intendevano gettarsi
alle spalle tutto ciò che dal 1945 era stato realizzato in Romania. Non si dimentichi che fino al 1991
continuava a esistere l’Unione Sovietica, sia pure con evidenti novità, e con essa Iliescu volle mantenere
buoni rapporti, tanto da siglare un trattato di amicizia. Tale scelta ebbe un prezzo inevitabile sulla questione
della Moldavia, dove si era palesato un movimento indipendentistico soprattutto a opera dell’elemento
maggioritario romenofono, con una chiara tendenza a ripristinare l’unione con la Romania quale era stata
sperimentata tra le due guerre mondiali.

Nonostante tale eterogeneità il governo Văcăroiu durò per l’intera legislatura, ma la sinistra che faceva
capo a Iliescu non era in grado di affrontare le nuove elezioni insieme con alleati sicuri. Il 1996 portò
dunque a un cambio molto significativo. I partiti di centro-destra (liberali e nazional-contadini) con
l’appoggio dei democratici di Roman elessero il presidente Emil Constantinescu e diedero vita a un
esecutivo diverso dai precedenti. La nuova coalizione, sebbene dotata di larga maggioranza, non diede
prova di coesione, un fenomeno che si è ripetuto con le maggioranze di vario colore negli anni seguenti.
Dunque alcune novità di rilievo furono introdotte, attuando riforme di non poco significato in campo
economico e sociale, e avvicinandosi sia alla NATO sia all’Unione Europea. I risultati furono però inferiori a
quelli desiderati e nel 2000 si ebbe una clamorosa inversione di tendenza. I partiti di destra, centro e
sinistra moderata non riuscirono a coalizzarsi tanto da restare talora anche fuori dal parlamento, lasciando
campo aperto al Partito socialista democratico dell’eterno Iliescu e alla destra nazionalista ben
rappresentata dal Partito della Grande Romania, il cui leader Corneliu Vadim Tudor, già poeta di corte con
Ceauşescu, andò al ballottaggio per la presidenza con Iliescu che fu eletto per la terza volta anche con i voti
dei moderati. Il governo guidato da Ilie Nastase scelse una linea politica più riformistica e filoccidentale
rispetto al passato. Quasi simbolico è il fatto che Iliescu nel 2002 abbia ricevuto in un clima festoso il
presidente statunitense Bush dopo che la NATO aveva deciso di accettare la Romania come Stato membro,
grazie anche alla politica di Bucarest nei confronti della crisi del Kosovo. La revisione della Costituzione (ora
meno presidenzialista e più in linea con l’ acquis communautaire) e la conclusione delle trattative per
l’ammissione all’Unione Europea segnarono definitivamente l’orientamento della politica estera romena.
Nel 2003 un contingente romeno prese posizione in Iraq a sostegno dell’intervento statunitense.

Mentre si spegneva l’astro della destra nazionalista, ripresero fiato le formazioni moderate, segnatamente
liberali e democratici. Poiché il centro-destra, battuto alle elezioni politiche del novembre 2004, fu in grado
di eleggere il presidente della Repubblica Traian Băsescu, questi, grazie all’incertezza di cui si è detto, poté
dar vita a una governo di centro-destra, capeggiato dal liberale Călin Popescu Tăriceanu, in grado di
ottenere la maggioranza in parlamento.

Ancora una volta la maggioranza si dimostrò poco coesa e si manifestò un nuovo grave fenomeno: la
contrapposizione tra governo e presidenza della Repubblica fino a giungere nel 2007 all’ impeachment di
quest’ultimo, votato dal parlamento ma non confermato dal voto popolare, come richiesto dalla
Costituzione. Nel 2008, grazie alla nuova legge elettorale, solo quattro partiti entrarono in parlamento. I
due più votati, il PSD e il neocostituito Partito democratico liberale (PDL), vicino al presidente Băsescu,
diedero vita a una inedita grande coalizione per affrontare la crisi economica che anche in Romania si stava
profilando; peraltro essi erano affiliati a due partiti europei: quello socialista e quello popolare. Il governo
capeggiato da Emil Boc (PDL), nonostante all’opposizione restassero soltanto liberali e UDMR, non ebbe
vita facile sia per la crisi di serie dimensioni, sia perché presto la maggioranza si divise. Nonostante i
socialdemocratici avessero votato la sfiducia nel 2009, il governo restò in carica fino al febbraio 2012,
quando si dimise nel contesto di vivaci manifestazioni di piazza. Pochi mesi dopo si insediò l’esecutivo
guidato dal socialdemocratico Victor Ponta che nell’autunno 2011 conquistò una larga vittoria alle urne,
coalizzato con i liberali. Anche questa alleanza durò poco e Ponta dovette cercare in parlamento una più
risicata maggioranza per non interrompere la legislatura, presentando peraltro la propria candidatura alla
massima carica dello Stato per le elezioni del 2014.

Vero protagonista della politica romena per una decina di anni, Băsescu era stato appunto rieletto alla
presidenza della Repubblica nel dicembre 2009, sia pure con piccolo margine sul candidato
socialdemocratico Mircea Dan Geoană. Nel 2012, entrato in conflitto con il nuovo esecutivo guidato da
Ponta, il presidente fu nuovamente sottoposto a impeachment dal parlamento, ma ancora una volta il
referendum popolare non confermò, stavolta per mancanza del quorum, la decisione parlamentare. Solo
nel dicembre 2014 Băsescu ha lasciato dunque la presidenza cui è asceso un liberale, il popolarissimo
sindaco di Sibiu, Klaus Iohannis, la cui elezione, mentre ha dato luogo alla ‘coabitazione’ con Ponta,
rappresenta però una grande novità poiché egli proviene dalla minoranza tedesca sassone.

Come si vede, la vita politica romena è da anni vivacissima e ricca di colpi di scena, per non parlare del
pesante fenomeno della corruzione del ceto politico e amministrativo. Tuttavia il Paese ha proseguito nella
sua evoluzione, oramai condizionata dall’appartenenza all’Unione Europea dal gennaio 2007, e nello
sviluppo economico, essendo in grado di riavviarlo nonostante la pesante crisi apertasi nel 2008.
Mediamente il tasso di crescita dell’economia è stato alto, certo anche in funzione di un punto di partenza
non elevato e nonostante per qualche anno gli investimenti esteri non siano stati cospicui. Molte questioni
che sembravano preoccupanti sono state disinnescate a partire da quella della numerosa minoranza
ungherese. Una maggiore stabilità del quadro politico e delle alleanze tra i partiti avrebbe consentito di
raggiungere risultati migliori, non impossibili per un paese dotato di risorse materiali non disprezzabili.
Alcune trasformazioni socio-economiche sono di tutta evidenza. Il settore agricolo, ancora importante, ha
registrato una progressiva diminuzione degli addetti. È cresciuta l’alta formazione, sebbene a scapito della
qualità garantita prima dal numero chiuso degli accessi. Accanto al settore industriale e manifatturiero si è
fortemente sviluppato il terziario. Rilevante è l’interscambio commerciale: uno dei principali partner è
l’Italia. Il fenomeno che più colpisce è quello dell’altissimo numero di emigranti da un Paese in crisi
demografica per motivi di ordine economico: in Europa esistono colonie di romeni veramente cospicue e
solo in Italia essi sono ben più di un milione. Al di là del peso delle rimesse finanziarie verso la patria, resta il
quesito se il fenomeno migratorio sia stato complessivamente utile o svantaggioso per la Romania.

6. La Bulgaria: dalla lenta transizione all’adesione all’Unione Europea

Al di là delle concessioni fatte allo ‘spirito del tempo’ e alla forte richiesta di democrazia, in Bulgaria i
dirigenti ex comunisti intendevano restare in campo sotto nuovi emblemi e con nuovi programmi. Quanto
al PCB, «mancava una tradizione di vero confronto al suo interno» che favorisse una rapida trasformazione
in un partito socialdemocratico. Gli esponenti di vertice ribattezzarono il partito con il nome di socialista,
come avvenne in altri Paesi dell’area, e prepararono il terreno per le prime elezioni libere che si tennero nel
giugno 1990 dalle quali uscì la Costituente (Veliko Narodno Sǎbranie). Le operazioni di voto furono
giudicate dagli osservatori stranieri pressoché regolari: grazie al sistema elettorale misto (proporzionale e
uninominale con ballottaggio), il Partito socialista ottenne la maggioranza relativa dei suffragi (39%) e quella
assoluta dei seggi (211 su 400). La SDS fu la principale forza d’opposizione, dotata di un consenso popolare
di poco inferiore (36% e 144 seggi) raccolto soprattutto nei centri urbani: le campagne avevano sostenuto
maggiormente gli ex comunisti. Fuori dai due poli si collocarono l’UNAB, non più alleata del PCB, e il
Movimento per i diritti e le libertà (DPS), rappresentante la minoranza musulmana: le due formazioni con
un 8% dei voti ciascuna potevano pesare al momento di fare passare una norma piuttosto che un’altra. Per
non bloccare i lavori della Costituente fu inevitabile il compromesso tra socialisti e democratici: i primi
mantenendo la guida del governo con Lukanov, i secondi affidando la presidenza della Repubblica a Želju
Želev.

Nella Bulgaria post-comunista la lotta politica fu caratterizzata da un dato assolutamente peculiare: dopo la
vittoria alle urne di un partito, le forze rimaste all’opposizione riuscivano ad andare al contrattacco
nonostante la sconfitta elettorale, perché la maggioranza non fu mai compatta. Di regola le legislature non
sono mai giunte al loro termine naturale: fu così sin dalla prima. In effetti non ci volle molto perché il
governo Lukanov gettasse la spugna nella primavera del 1991, cedendo il passo a un esecutivo presieduto
dal magistrato Dimitǎr Popov, composto sia da socialisti sia da rappresentanti degli altri partiti e da
indipendenti. Popov, privo di una propria maggioranza, ebbe il compito di preparare nuove elezioni
politiche e fare approvare i provvedimenti legislativi più urgenti. La Bulgaria ebbe tuttavia una nuova
Costituzione, più affine a quella liberale del 1879 che non a quella comunista del 1947; alcuni articoli
prestarono attenzione ai diritti della minoranza etnico-religiosa senza fare concessioni per un’eventuale
autonomia.

I lavori della Costituente furono molto travagliati e un centinaio di deputati giunse a ritirarsene. Se infine un
compromesso fu raggiunto e la Costituzione fu approvata, quelle battaglie parlamentari lasciarono il segno
soprattutto nella SDS che si divise in più formazioni politiche: quella meno disposta al compromesso con il
passato, fatta in buona parte da quanti avevano abbandonato i lavori parlamentari e capeggiata da Filip
Dimitrov, prevalse nella nuova prova elettorale (13 ottobre 1991). Riuscì infatti a battere di misura i
socialisti, ma ebbe bisogno dei voti del DPS per governare, essendo rimasti fuori dal parlamento tutti gli altri
partiti a causa dello sbarramento del 4%. Il governo Dimitrov durò circa un anno, e ad esso ne seguì dal
dicembre 1992 uno diretto dall’economista Ljuben Berov per volontà del presidente della Repubblica e del
DPS, e aperto alla collaborazione con i socialisti e altri deputati staccatisi dalla SDS. Questa in realtà si era
dimostrata composta da forze troppo eterogenee (evidente fu la rottura tra Želev e Dimitrov) e finì per
perdere l’appoggio del DPS. Anche l’esperienza del governo Berov (1992-94) fu limitata dalla mancanza di
una maggioranza ben definita: le riforme avviate dal governo Dimitrov restarono in parte inapplicate né si
introdussero novità significative. Infine per le dimissioni di Berov, il successivo gabinetto, insediatosi nel
novembre 1994 e guidato per la prima volta in Bulgaria da una donna, Reneta Indžova, già ministro per le
Privatizzazioni, ebbe solo il compito di garantire la competizione elettorale.

Le elezioni politiche ancora una volta anticipate del dicembre 1994 videro il successo della coalizione
composta da PSB, Ekoglasnost e Partito contadino (Stambolijski). Intanto i socialisti avevano rinnovato :
rapidamente i propri vertici, emarginando gli uomini che avevano rimosso Živkov e sostituendo alla
segreteria Lilov, che sembrava rappresentare gli interessi della vecchia nomenklatura, con il giovane Žan
Videnov, il quale nel gennaio 1995 assunse la guida dell’esecutivo con l’appoggio di 124 deputati su 240.
Sotto la sua guida il rinnovamento del PSB (e in parte del Paese) si fece più marcato. L’ortodossia marxista-
leninista fu lasciata a piccole formazioni politiche di nostalgici senza grande seguito; non si cercava di
cancellare la memoria storica della lunga esperienza comunista, ma la si considerava come una parentesi
non felice (una deviazione) della storia ormai secolare del Partito socialista. Tuttavia si tenne ferma la difesa
del welfare state (sanità, istruzione e previdenza pubblica) e non si accettò la restituzione generalizzata ai
vecchi proprietari o ai loro eredi dei beni nazionalizzati dal regime comunista. Non fu dato spazio a
profonde epurazioni (Dimitrov ne aveva effettuate alcune nell’impiego pubblico) ma solo a pochi processi di
regime. Živkov fu condannato a cinque anni per aver favorito persone a lui vicine, ma fu assolto in appello:
le ben più gravi responsabilità politiche, che avevano segnato la vita e la libertà di non pochi bulgari, non
furono mai giudicate nelle aule dei tribunali. L’attività del governo si scontrò di frequente con la posizione
del presidente Želev. Il successo elettorale della sinistra si ripeté nelle successive consultazioni
amministrative, ma le elezioni presidenziali del novembre 1996 segnarono un’inversione di tendenza. Dopo
una campagna elettorale segnata dall’omicidio dell’ex premier Lukanov, deputato e ormai importante uomo
d’affari, a dimostrazione del peso della malavita nella politica e nell’economia bulgara, il candidato
socialista Ivan Marazov fu sconfitto (40% contro 60%) da quello della SDS Petǎr Stoyanov, già vincitore su
Želev nelle primarie all’americana. Videnov si dimise da capo del governo e da segretario del PSB, sostituito
da Georgi Pǎrvanov.

Nelle inevitabili elezioni politiche anticipate, tenute nell’aprile 1997, una nuova coalizione di centro-destra
ottenne oltre la metà dei consensi e 137 seggi, contro la coalizione incentrata sul BSP che si fermò al 22%.
Stoyanov nominò un governo capeggiato da Ivan Kostov che ottenne la fiducia non solo del centro-destra
ma anche degli altri gruppi parlamentari (DPS, Eurosinistra bulgara, Blocco degli uomini d’affari) escluso
quello socialista. Seguì un periodo di grandi novità in politica estera e interna, economia in testa. La moneta
fu ancorata al marco (poi all’euro) riuscendo così a frenare l’inflazione, fu realizzato nel 1998 l’ingresso
nella CEFTA, fu abolita la pena di morte, furono drasticamente ridotte le forze armate (non senza proteste
nel mondo militare e politico) mentre si faceva di tutto per ottenere l’ammissione nella NATO e nell’Unione
Europea. Due anni e mezzo più tardi, però, le elezioni amministrative dell’ottobre 1999 dimostrarono che i
socialisti avevano quasi raggiunto in termini di consenso popolare il centro-destra, ancora una volta
incapace di tenere assieme tutte le sue componenti. Seguì una progressiva erosione del consenso popolare
nei confronti delle politiche governative, senza che questo giovasse agli ormai tradizionali rivali, i socialisti.

Nel giugno 2001 si svolsero, alla scadenza naturale, le nuove elezioni politiche che registrarono un totale
sconvolgimento del quadro politico. Portando a compimento un lungo lavoro che trovò sponda in ambienti
politici, amministrativi e della magistratura, dopo aver rinunciato al tentativo di fare annullare il
referendum istituzionale del 1946 e all’ipotesi di candidarsi alla presidenza della Repubblica (non avendo la
residenza in Bulgaria), l’ex re Simeone Coburgo-Gotha riuscì a dar luogo a una radicale novità: il gruppo
politico che da lui prendeva nome ottenne una clamorosa vittoria alle urne. Con quasi il 43% dei voti, la
maggioranza dei seggi fu appena sfiorata (120 invece di 121) dal Movimento nazionale Simeone II solo
perché una lista di disturbo (quasi omonima) riuscì a sottrarle una quota dei consensi. Simeone dovette
formare la maggioranza con il DPS, che da tempo aveva manifestato la volontà di costituire una coalizione
di centro, alternativa sia al SDS sia al PSB. Nell’esecutivo entrarono, oltre a deputati della minoranza turca e
musulmana, anche due esponenti socialisti, il che garantì l’astensione del PSB.

L’elettorato bulgaro dunque aveva inventato con il voto una ‘terza via’ nell’epoca post-comunista. Però,
nonostante la volontà di pacificazione e l’abilità dell’ex monarca e di alcuni esponenti della compagine
governativa, anche il nuovo esecutivo perse progressivamente consenso, come dimostrò l’elezione del
socialista Pǎrvanov alla presidenza della Repubblica, nel novembre 2001. Tuttavia, nato in un contesto
internazionale del tutto peculiare (cioè caratterizzato dalle nuove scelte politiche degli USA in seguito
all’abbattimento delle Twin Towers), il governo di Simeone poté ottenere l’ammissione alla NATO nel 2004,
grazie a una sofferta adesione all’intervento in Iraq che fece sorgere profonde divergenze nel Paese e nello
stesso governo. Nonostante un trend economico molto meno positivo di quello ipotizzato dopo la vittoria
elettorale, e sebbene la società e la politica bulgara mostrassero di essere fortemente condizionate dalla
corruzione e dalla malavita, il gabinetto riuscì a concludere pure le trattative per l’ingresso nell’Unione
Europea, fissando al 2007 la sua ufficializzazione.

L’effetto finale fu un indebolimento che condusse alla sconfitta elettorale nel 2005. I vincitori della nuova
tornata elettorale furono i socialisti (dal 2003 ammessi all’Internazionale socialista) con i loro alleati. Non
ebbero però i seggi necessari a governare e pertanto si giunse, sotto le pressioni dell’Unione Europea, alla
costituzione di un governo guidato dal socialista Sergej Stanišev, ma che comprendeva ministri del
Movimento nazionale Simeone II e del DPS. Se il trend economico proseguì in crescita grazie anche a una
politica di bassi salari, salvo registrare dal 2009 una caduta del PIL in seguito alla crisi recessiva mondiale, la
Bulgaria continuava a vedere la malavita mettere in atto i regolamenti di conti più cruenti e spettacolari, e
condizionare profondamente la politica, come dimostravano accuse, condanne e dimissioni persino di
ministri in carica. Continuava pure un sordo conflitto tra le istituzioni, con la magistratura impegnata a
difendere le proprie competenze contro quelle degli altri poteri dello Stato. Da Bruxelles si chiedeva di
tenere sotto controllo tali fenomeni, come pure di realizzare una vera integrazione delle minoranze, con
riferimento anche a quella dei Rom (zingari). Infine il 1° gennaio 2007 fu festeggiato l’ingresso ufficiale del
Paese nell’UE.

La politica degli ultimi due esecutivi, accentuatamente filoccidentale (sebbene i socialisti avessero
rinsaldato i rapporti con la Russia nel settore energetico), aveva di converso favorito la crescita di una
destra populista, raccoltasi intorno alla formazione Ataka, il cui leader poté andare al ballottaggio nelle
elezioni presidenziali, dalle quali Pǎrvanov ottenne il suo secondo mandato con largo margine (grazie alle
divisioni delle formazioni moderate) ma pure nel quadro di una scarsissima partecipazione al voto.
Contemporaneamente brillava sempre più un nuovo astro nascente della politica bulgara: Boyko Borisov,
già body guard sotto il regime comunista, poi responsabile di un servizio privato di sicurezza e infine
segretario generale del ministero degli Interni. In tale ruolo aveva fatto sentire la sua voce contro la
corruzione e la malavita, conquistando progressivamente un consenso tale da essere eletto, a fine 2005,
sindaco di Sofia. Si trattò di un trampolino di lancio verso nuovi successi: nel 2007 il GERB (Cittadini per lo
sviluppo europeo della Bulgaria) di Borisov fu il primo partito alle elezioni europee , quasi disertate dagli
elettori, precedendo di pochissimo i socialisti e il DPS. Tale successo si consolidò nelle nuove elezioni
europee del 2009 per divenire incontestabile alle consultazioni politiche che si tennero appena un mese
dopo, nel luglio 2009. Il GERB per pochi seggi mancò di costituire una maggioranza autonoma, ma Borisov si
assise alla presidenza del Consiglio con l’appoggio degli altri partiti di destra (inclusi gli antieuropeisti di
Ataka), mentre socialisti e DPS restavano all’opposizione.

Fu questa l’ennesima novità del quadro politico bulgaro, estremamente variabile nel venticinquennio post-
comunista, e lo fu sotto il segno della sfiducia nella politica tradizionale e dell’entusiasmo verso un ‘uomo
forte’. Dopo quattro anni, alle elezioni politiche del maggio 2013 (seguite a un’ondata di proteste e a un
referendum per aprire una centrale nucleare, invalido per scarsissimo numero di votanti) il GERB e Borisov
dovettero registrare, però, un netto calo dei consensi e cedere il passo a una coalizione di socialisti e DPS,
peraltro sostenuta soltanto da 120 deputati su 240 e capeggiata dal primo ministro Plamen Oresharski. Alla
presidenza della Repubblica restava un uomo del GERB, eletto nel 2011, Rosen Plevneliev. A distanza di
poco più di un anno, nel settembre 2014, ulteriori elezioni registrarono nuovamente un successo soltanto
relativo del GERB che tuttavia fu sufficiente perché Borisov tornasse a guidare l’esecutivo, con l’appoggio di
formazioni minori di centro e di destra. In definitiva il quadro politico bulgaro continua a essere incerto e
instabile.

(Economia) Come e più di altri Stati ex comunisti, la Bulgaria post-comunista si trovò presto in una
situazione economica molto pesante. Anche per l’incertezza del quadro politico, le attività produttive
ristagnarono. In particolare l’inverno 1990-91 fu il più duro del secolo per la popolazione bulgara: fu
gravissima la carenza di merci, materie prime, beni essenziali e medicine. Venne meno il sostegno
economico da parte dell’Unione Sovietica (e poi degli Stati successori), i cui prodotti non erano ceduti più a
prezzo di favore; vennero meno i mercati garantiti del Comecon, né l’economia bulgara era in grado di
penetrare in altri mercati. Il sistema delle cooperative agricole controllate dagli ex comunisti non si
dimostrò propenso e adeguato a favorire la transizione verso l’economia di mercato e le privatizzazioni. Al
calo drastico della produzione si coniugò la sclerosi della distribuzione, non mancando fenomeni di
accaparramento o stoccaggio a fini speculativi. Al settembre 1990 il debito estero superava i dieci miliardi di
dollari. Fu inevitabile concordare la politica economica con il Fondo Monetario Internazionale cercando di
stabilizzare l’economia, bloccare l’inflazione e dare vita all’economia di mercato, anche attraverso le
privatizzazioni. La liberalizzazione dei prezzi in due tornate nel 1991 fece aumentare l’offerta di merci e il
drenaggio dell’eccessiva liquidità presente sul mercato. Nello stesso anno fu introdotto un sistema di
cambio più rispondente alla realtà economica. Si attenuò la funzione redistributiva del bilancio pubblico,
mentre si cercò di ridurre il deficit statale e l’indebitamento dello Stato con il settore bancario (dove
iniziarono le privatizzazioni), come, più in generale, il peso dell’economia pubblica sul PIL. Nella stessa
Costituzione fu inserito un insieme di norme riguardanti l’economia, cancellando in buona misura il
carattere collettivistico e dirigistico ad essa imposto dal precedente regime. Il debito estero fu ristrutturato
con il consenso dei Paesi occidentali del «club di Parigi». Ciò permise di ottenere nuovi prestiti e
successivamente (1996) l’ingresso nel GATT (General Agreement on Trades and Tariffs), poi WTO. Furono i
successivi governi, soprattutto quelli di destra, ma talora anche quelli di sinistra ad attuare le molte altre
riforme che restavano da fare perché l’economia bulgara divenisse più omogenea a quella dei Paesi
occidentali. Sullo sfondo resta il pesante calo demografico (la popolazione conta 7.400.000 abitanti contro
gli 8.700.000 del 1975) su cui ha inciso la forte emigrazione dei primi anni Novanta, ma che è continuata
sino agli anni più recenti.

In politica estera i governi di Sofia avviarono un lungo percorso che ha portato al raggiungimento di più
mete: nel 1994 la Bulgaria aderì alla Partnership for peace, voluta da Washington (un primo passo in
direzione dell’adesione alla NATO), nel 1996 divenne membro dell’Iniziativa centro-europea, capeggiata
dall’Italia, come pure della CEFTA. Dopo l’appoggio dato a diverse azioni politiche e militari degli USA
dall’Afghanistan all’Iraq (non senza polemiche nel mondo politico) l’ammissione nella NATO datata 29
marzo 2004 fu un segnale definitivo di collocamento nello scacchiere internazionale. Nell’aprile 2006 in
base a un accordo di mutua cooperazione e difesa, la Bulgaria concesse ai militari statunitensi di operare
sul proprio territorio, in alcune basi aree e centri di addestramento (Bezmer, Graf Ignatievo). Ancora più
importante, investendo direttamente economia e società, fu l’ingresso nell’Unione Europea nel 2007:
nonostante il ritardo rispetto a quasi tutti gli ex satelliti dell’Unione Sovietica, fu un evento epocale.

Quello stesso anno, poco più di un quarto degli elettori bulgari si recò alle urne per scegliere i propri
rappresentanti al parlamento di Strasburgo; più alta (37%) fu la partecipazione nel 2009. Le sorti della
Bulgaria ormai sono legate sotto più profili alle vicende dell’Unione, di cui è però lo Stato più povero e di
fronte alla quale ha preso l’impegno di ridurre l’impatto di corruzione e malavita, evitando qualsiasi
discriminazione verso le comunità minoritarie (rom in particolare). Bulgari sono alcuni esponenti delle
istituzioni europee: dal 2010 al 2014 Kristalina Georgieva (già vicepresidente della Banca mondiale) è stata
commissario europeo della cooperazione, aiuti umanitari e gestione delle crisi, dopo la rinuncia tra le
polemiche di Rumjana Želeva, ministro degli Esteri bulgaro. Gli unici segnali di un indirizzo diverso da quello
suggerito da Bruxelles riguardano la collaborazione attuale e, soprattutto, futura con la Russia nel campo
delle forniture energetiche, in cui è ben presente la Gazprom e si discute ancora dell’adesione bulgara al
progetto Southstream (patrocinato fino a poco tempo fa da Mosca) in luogo di quello denominato Nabucco.
Il governo Borisov in particolare dovette tenere in conto le proteste di nuovi movimenti ecologisti a base
locale, volentieri rinunciando all’impegno preso dal governo socialista Stanišev per la costruzione
dell’oleodotto Alexandroupolis-Burgas, espressione di una politica russofila, ma pure a concedere alla
Chevron di produrre gas attraverso la fratturazione delle rocce scistiche (concessione che intendeva
diminuire la dipendenza energetica dalla Russia).

Il Sud-Est europeo resta, con il mar Nero, lo scacchiere regionale di interesse dei governi bulgari. Scomparsa
la Jugoslavia, Sofia si affrettò a riconoscere nel 1992 l’indipendenza della Macedonia (piccolo Stato che non
può suscitare timori come la Federazione dissoltasi) ma non la nazione macedone, fatto che non stupisce
alla luce delle vicende passate, e solo anni dopo da parte bulgara si accettò di ammettere l’esistenza di un
popolo macedone. Se il VMRO è divenuto forza politica protagonista in Macedonia, una piccola formazione
omonima esiste anche in Bulgaria: ambedue portano il nome dell’antica organizzazione rivoluzionaria
macedone. L’opinione pubblica bulgara ha continuato a mostrare interesse per lo Stato affine e limitrofo; in
particolare l’attenzione si è fatta molto alta durante la crisi politica ed etnica del 2001, e l’eventuale
implosione dello Stato macedone potrebbe risvegliare antichi interessi. Con la Grecia fu stipulato nel 1991
un accordo militare, ma soprattutto si svilupparono intense relazioni economiche, numerosi e importanti
essendo gli investimenti ellenici in terra bulgara. Infine la Bulgaria è membro della Organizzazione della
cooperazione economica del Mar Nero sino dalla sua costituzione nel 1992.

7. Le guerre jugoslave

La dissoluzione della Jugoslavia è stato, nell’area di interesse di questo libro, l’evento (o l’insieme di eventi)
più drammatico e complesso in cui confluirono tutti gli elementi critici riguardanti le nazionalità che
vivevano nei confini della Federazione. Ognuna delle repubbliche federate aveva vissuto il passaggio dal
regime comunista al pluralismo con i più vari esiti.

Le prime operazioni militari nel luglio 1991 riguardarono una repubblica che presentava una notevole
omogeneità etnica e una scarsa presenza di Serbi, la Slovenia. (Casus belli) La scintilla del conflitto fu il
controllo delle imposte daziarie, un vero simbolo dei poteri di uno Stato indipendente : Lubiana volle farle
proprie innescando la reazione militare federale. Questa era stata preparata molto male, mentre il ministro
della Difesa Janez Janša aveva saputo mettere in piedi una forza militare repubblicana di qualche significato
e in grado di fare fronte ai contingenti federali, cui inflisse anche alcune perdite. In sostanza si trattò di un
conflitto breve e di carattere molto limitato. L’intervento della diplomazia internazionale convinse le parti a
trattare: il risultato fu più che soddisfacente per gli Sloveni poiché gli accordi siglati a Brioni decisero il ritiro
delle truppe federali, completato a fine ottobre, e il rinvio di alcuni mesi per decidere della condizione della
Slovenia di fronte alla moribonda Jugoslavia. Di fatto non vi fu più nessun trattativa e le autorità di Lubiana
poterono agire da allora come rappresentanti di uno Stato indipendente. Gli storici concordano nel ritenere
che su quell’esito fu determinante lo scarso interesse dei dirigenti serbi per un territorio in cui erano quasi
assenti loro connazionali. In rapida successione molti Stati riconobbero l’indipendenza slovena.

Molto più grave fu il conflitto in Croazia. Nelle krajine la forte e spesso maggioritaria presenza di Serbi
indusse i politici di Belgrado (più le autorità serbe che quelle federali) e lo Stato maggiore dell’esercito ad
agire con ben maggiore decisione e con mezzi più ampi rispetto a quanto fatto in Slovenia. Peraltro
l’intervento era facilitato dal fatto che almeno verso est la Croazia confinava con la Serbia. La città
multietnica di Vukovar (né Serbi né Croati raggiungevano la maggioranza assoluta della cittadinanza)
divenne presto il luogo simbolo del conflitto, anche perché là più che in altre località si videro all’opera, al
fianco della JNA, bande di irregolari che si assunsero il ‘lavoro sporco’, attuando massacri gratuiti e quella
che da allora tutta la stampa prese a definire «pulizia etnica» (etničko čiščenje). Quei volontari erano
provenienti in genere dalle tifoserie calcistiche e spesso erano veri avanzi di galera. Tale il loro capo presto
assunto alla gloria delle cronache con il soprannome di comandante Arkan (i suoi uomini erano le Tigri),
all’anagrafe Željko Ražnatović. Nonostante la diplomazia internazionale si fosse messa prontamente
all’opera, fino a vedere l’intervento dei caschi blu dell’ONU (UNPROFOR, United Nations Protection Force)
sulla base della risoluzione 743, e il governo croato accettasse ripetute tregue – che servirono anche ad
aumentare le proprie forze militari, esigue all’inizio del conflitto –, per molti mesi gli scontri non si
interruppero e le vittime furono numerose finché nella prima parte del 1992 le operazioni si fermarono. A
quel momento il governo di Zagabria non controllava più un terzo del territorio nazionale, gestito dai
governi separatisti serbi oppure direttamente dalle forze di occupazione o dai peacekeepers dell’ONU.
Tudjman e il governo croato avevano in animo di far sentire la propria influenza nel nuovo focolaio di
guerra che stava per accendersi in Bosnia-Erzegovina, ma soprattutto di attendere il momento buono per
prendere la rivincita sui separatisti delle krajine.

Tutti gli osservatori erano certi che la Bosnia-Erzegovina sarebbe stata il campo di battaglia più cruento e il
luogo di un confronto difficile da sedare. Ciò per le sue caratteristiche etniche, che ne facevano una specie
di Jugoslavia in sedicesimo sotto il profilo etnico. La comunità più cospicua (44%) era quella dei bosniaci
musulmani: si è detto come la stessa legislazione jugoslava avesse favorito l’identificazione di
quell’elemento, riconoscibile per il credo religioso piuttosto che per altre caratteristiche, in una nazionalità
a sé, ma senza una tradizione storica, quella bosnjak. Quello strano agglomerato del quale facevano parte
un 33% di Serbi (di fede cristiana ortodossa) e un 17% di Croati (cattolici e in genere concentrati in
Erzegovina) aveva un senso all’interno della Federazione, ma come Stato indipendente aveva necessità di
una profonda revisione costituzionale se non avesse voluto essere oggetto di spartizione, come si
paventava non a torto: Milošević e Tudjman avevano manifestato l’intendimento di agire in tal senso in un
incontro a Karadjorgevo, i cui termini sono ancora oggetto di discussione.

Peraltro l’elemento musulmano e quello croato non gradivano affatto di restare legati a quanto residuava
della vecchia Federazione. Era evidente il rischio di essere in seguito una minoranza all’interno di una
Grande Serbia. Inevitabilmente i nuovi dirigenti politici si orientarono verso la proclamazione
dell’indipendenza, approvata dal parlamento e ribadita dal voto popolare, inficiato però dal fatto che i Serbi
(cioè un terzo degli elettori) non si recarono alle urne. È giusto ricordare che, nel clima politico
surriscaldato, gli elementi nazionalisti prevalsero su uomini politici che, recuperato il pluralismo politico,
avevano dato vita a partiti e soprattutto a programmi volti alla collaborazione per trovare soluzioni
condivisibili a una situazione tanto ingarbugliata.

Il musulmano e già dissidente Alija Izetbegović assunse la carica di presidente della Repubblica. Tra i Serbi si
affermò la leadership dello psichiatra Radovan Karadžić e si diede vita alla Republika Serpska, Stato a sé
stante con capitale Pale dal 21 dicembre 1991, rifacendosi a quanto avevano fatto i Serbi di Croazia. L’ovvia
conseguenza di questi fatti politici fu il tentativo dei Serbi di porre sotto controllo larga parte della Bosnia
(non dell’Erzegovina) inclusa la capitale Sarajevo. Parallelamente il governo guidato dal musulmano Haris
Silajdžić, che ci teneva a dichiararsi privo di caratteristiche etniche o religiose, cercò di tenere le posizioni
occupate, più che mettere sotto controllo tutto il territorio della repubblica: la mancanza di un esercito di
effettiva capacità non lo avrebbe consentito. La parte serba da questo punto di vista si trovò in posizione di
vantaggio poiché molti effettivi della JNA erano stati lasciati liberi di tornare alle proprie case con le armi e
altri rifornimenti militari giunsero dalla Serbia. Ciò spiega perché per almeno un paio di anni i serbi furono
costantemente prevalenti sul campo, e i musulmani sulla difensiva. Migliaia e migliaia furono i morti, e
gravissime le atrocità commesse (con in campo ancora una volta le Tigri di Arkan). A complicare
ulteriormente il quadro si aggiunse il fatto che in Erzegovina divamparono gli scontri tra Croati e
Musulmani: ne fu principale vittima la città di Mostar e il suo ponte simbolo, opera cinquecentesca
dell’architetto Hayruddin, allievo del grande Sinān. In questo caso i Croati erzegovinesi furono sostenuti da
aiuti provenienti dalla Croazia. Non mancarono piccoli signorotti locali che crearono un proprio dominio,
come il musulmano Fikret Abdić che proclamò una provincia autonoma nella sacca di Bihać, nella Bosnia
settentrionale.

Come ovvio, la diplomazia internazionale si occupò anche di questo nuovo fronte apertosi poco dopo che la
tregua era stata instaurata in Croazia. I risultati furono assolutamente deludenti. In particolare va
sottolineato che la Comunità Europea, che proprio allora si trasformò in Unione Europea, diede una
pessima prova della sua capacità di incidere su una crisi che era in atto alle proprie frontiere (come si disse,
nel «giardino di casa nostra»). Le maggiori capitali europee non agirono in perfetto accordo, come sarebbe
stato opportuno, e i progetti proposti dalle diverse missioni diplomatiche (non rappresentative solo
dell’Unione Europea, ma pure degli USA e dell’ONU) non furono accettati dalle parti in causa. Essi erano
essenzialmente basati sull’idea di una divisione del controllo sul territorio da parte delle diverse etnie, e
dall’ipotesi di cantonalizzazione dello Stato bosniaco-erzegovinese. Fu così per il piano Vance-Owen, per
quello Stoltenberg, e altri ancora. Intanto la presenza di caschi blu sul campo non riuscì a evitare che si
realizzasse anche in questo caso la più brutale pulizia etnica, accompagnata dalla costruzione di campi di
detenzione.

Una svolta si ebbe tra 1994 e 1995: l’embargo internazionale dei rifornimenti militari deciso verso tutti gli
Stati della ex Jugoslavia fu ampiamente violato, e sia l’esercito croato sia l’esercito bosniaco (musulmano)
ebbero modo di rinforzarsi, mentre entrarono in campo volontari pronti alle azioni più cruente, spesso
provenienti da terre lontane. In Bosnia fecero esperienza uomini poi confluiti in al-Qaeda. Soprattutto il
nuovo presidente statunitense Bill Clinton decise di intervenire in maniera più efficace nella crisi. Le
postazioni serbo-bosniache furono soggette a bombardamenti aerei e Milošević, che guidava un Paese
provato dall’embargo cui era soggetto, fu progressivamente convinto a limitare l’appoggio dato ai Serbi di
Bosnia. Proprio allora questi violarono una delle ‘isole’ musulmane cui l’ONU aveva dato la propria
protezione e il capo militare Ratko Mladić non solo costrinse il battaglione di caschi blu olandesi ivi stanziati
a non combattere – come avrebbero dovuto – per proteggere gli abitanti di Srebrenica, una piccola
cittadina stracolma di profughi, ma diede ordine di massacrare a freddo tutti gli uomini, salvo quelli che per
tempo riuscirono a prendere la via dei boschi. Le vittime furono circa 8.000, sebbene si discuta sul numero,
ma al di là di questo, contò la modalità dell’eccidio che non poteva non avere una grande eco. Basta dire
che anni dopo il governo olandese dovette dimettersi come responsabile politico dell’inattività dei militari
nederlandesi.

In un contesto a loro molto sfavorevole i Serbi-bosniaci dovettero piegarsi alla trattativa. Pesò anche il venir
meno del sogno della Grande Serbia poiché, poco più a nord, nella krajina di Knin, l’esercito croato mise in
atto l’operazione Oluja (Tempesta) che restituì quel territorio al controllo del governo di Zagabria e indusse
alcune centinaia di migliaia di Serbi a lasciare la sede tradizionale di insediamento per rifugiarsi in Serbia.
L’assenza di reazione a Belgrado fa supporre un accordo preventivo tra Tudjman e Milošević. Eventi del
tutto simili si svolsero nella Slavonia, per cui alla fine dell’estate 1995 solo la parte orientale di quest’ultima
regione era ancora fuori dal controllo croato: Zagabria la ottenne per via diplomatica qualche anno dopo. La
provincia della Posavina, invece, fu ceduta alla federazione serbo-montenegrina. Frattanto Croati e
Musulmani di Erzegovina furono convinti a porre fine alle ostilità e organizzarsi in Stato federale.

Infine tutte le parti interessate accettarono di prendere parte a decisive trattative che si svolsero nella base
militare statunitense di Dayton. Milošević dovette insistere con i Serbi di Bosnia e l’accordo sembrò
mancare per il dissenso su pochi chilometri quadrati, ma tutti finalmente apposero la propria firma su un
atto che dava vita a una Repubblica Federale di Bosnia-Erzegovina, articolata in Federazione croato-
musulmana e Repubblica Serba, rispettivamente assegnatarie del 51% e del 49% del territorio . La
Federazione croato-musulmana aveva una sua ulteriore articolazione: facile scorgere in ciò un fattore di
debolezza dello Stato, guidato da una presidenza collegiale in cui emergeva un primus inter pares, fin qui
sempre proveniente dalla componente musulmana. Molti anni furono necessari in seguito per dare
credibilità ed efficienza alle strutture e agli organi dello Stato: così fu ad esempio per la polizia, poiché le
due entità federate tendevano a operare attraverso i propri organi, né un quadro molto diverso si riscontra
nelle scuole in cui sono state create classi e programmi separati (almeno per alcune attività didattiche,
come l’insegnamento della storia). Peraltro nelle varie consultazioni elettorali, contro ogni speranza, i
partiti etnici prevalsero quasi sempre su quelli che presentavano un profilo puramente ideologico. Le
tensioni in quasi venti anni si sono tuttavia attenuate, senza tuttavia mai scomparire.

La Slovenia continuò anche dopo il 1991 a rappresentare una eccezione nell’ambito degli Stati sorti dalla
dissoluzione della Jugoslavia. Da quell’anno nessuno più mise in discussione la sua indipendenza mentre fu
avviato un rapido processo di avvicinamento ai paesi dell’Europa centrale, sganciandosi da quelli balcanici,
per puntare decisamente all’adesione all’Unione Europea. Novità importanti si registrarono sul piano
costituzionale: le tre Camere ereditate dalla Costituzione jugoslava del 1974, rappresentanti di interessi
corporativi o collettivi più che dell’intero corpo elettorale, furono sostituite da un’assemblea nazionale e da
un Consiglio nazionale privo di un vero potere legislativo, ma dotato di prerogative di veto per sospendere
una legge e di iniziativa referendaria: in esso siedono rappresentanti delle realtà locali e del mondo del
lavoro. Fu adottato il sistema elettorale proporzionale corretto e con soglia di sbarramento, con garanzia
del «diritto di tribuna» alle piccole minoranze ungherese e italiana: un seggio ciascuna sui 90
dell’assemblea nazionale. La presidenza della Repubblica non ha solo funzioni ‘notarili’. Kučan – nonostante
il suo passato di comunista – rimase presidente della Repubblica per ben dodici anni, fino al 2002. Nel
maggio 1992 Janos Drnovšek sostituì Peterle alla guida del governo e in seguito alle elezioni del dicembre
dello stesso anno si costituì una grande coalizione comprendente ex comunisti, democristiani e
liberaldemocratici. Nonostante gli inevitabili contrasti interni a una coalizione composita, l’esperienza
dell’alleanza tra centristi e sinistra è proseguita fino al 2004. Drnovšek guidò quasi tutti i governi che si
successero fino al 2002, quando egli prese il posto di Kučan, lasciando il proprio a Tone Rop. Dal 2004 l’asse
politico si spostò verso destra e il Partito democratico sloveno poté guidare una diversa coalizione, mentre
il governo fu affidato a Janez Janša. La continuità nella politica della Slovenia fu pertanto interrotta senza
però che vi fossero trasformazioni radicali nelle principali decisioni fin lì assunte. Peraltro nel 2008 i
democratici furono superati alle elezioni dai socialdemocratici di Borut Pahor, già militante nelle file dei
post-comunisti, il quale assunse la guida del governo, finché la crisi nella sua maggioranza lo costrinse a
indire elezioni anticipate nel 2011. In seguito ad esse Janša tornò alla testa dell’esecutivo, ma per poco
tempo poiché le sue disavventure giudiziarie (accompagnate da frequenti manifestazioni di piazza in una
epoca di difficoltà economiche) incrinarono la maggioranza che lo sosteneva, dando luogo nel gennaio 2013
alla formazione del governo capeggiato da Alenka Bratušek, del partito Slovenia positiva, prima donna a
occupare tale carica353, mentre Borut Pahor era stato eletto già nel 2012 presidente della Repubblica.

(Economia) L’economia aveva subito rapide trasformazioni. L’afflusso di capitali esteri fu inferiore alle
attese, né fu facile l’opera di privatizzazione delle aziende pubbliche, mentre era prevedibile il forte calo
iniziale della produzione (–30%) con una conseguente notevole disoccupazione. Calò anche il tenore di vita,
alto per un Paese ex comunista (reddito annuo pro capite 6.200 dollari). La fase dei sacrifici ebbe una
durata limitata e presto il trend economico prese a crescere, ponendo le basi per una solida candidatura
della Slovenia all’ingresso nell’Unione Europea, realizzato nel 2004, ma persino nella più esclusiva Unione
monetaria europea, cui aderì nel 2007. La Slovenia fu in grado di fare fronte al 18% dell’esposizione della
vecchia Jugoslavia verso le banche occidentali, per un importo di 4,65 miliardi di dollari, come stabilito dalla
Conferenza di Ginevra dedicata a questo tema e ad altri argomenti affini riguardanti gli Stati epigoni della
Jugoslavia. Già nel settembre 1995 il tolar, moneta nazionale (poi sostituita dall’euro), divenne convertibile,
e nello stesso anno Lubiana entrò nella CEFTA, l’Accordo centro-europeo per il libero commercio, e nel
WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio. Nel 2004 la Slovenia divenne membro della NATO.

Dopo i successi militari del 1995 in Croazia fu facile per l’HDZ vincere nuovamente le elezioni politiche con il
45% dei consensi e un’ampia maggioranza parlamentare, però non sufficiente per cambiare la Costituzione.
Alla guida del governo Nikica Valentić fu sostituito da Zlatko Mateša. Non mancarono però accuse di avere
compiuto contro i Serbi eccidi non dissimili da quelli subiti pochi anni prima, nonché di dare al regime un
carattere autoritario (il consiglio comunale di Zagabria fu sciolto poiché avverso all’HDZ) e nazionalistico. Se
la questione più calda era quella riguardante il ritorno dei Serbi fuggiti all’estero, furono anche aspre le
polemiche con la Dieta democratica istriana: il partito che godeva dell’appoggio della minoranza italiana.
Morto Tudjman nel 1999, alle nuove elezioni presidenziali prevalse quel Mesić che era stato l’ultimo
presidente della Jugoslavia federale e che aveva lasciato l’HDZ per militare nel Partito contadino. Ebbe
modo di sollevare una polemica con il presidente italiano Napolitano riguardo alle foibe, polemica
fortunatamente rientrata; a lui subentrò nel 2011 Ivo Josipović. Come dimostravano le riforme
costituzionali del 2000-2001 che diminuirono i poteri del presidente, era peraltro iniziata una nuova fase
che ha portato il paese a operare scelte fondamentali, ottenendo una collocazione internazionale
desiderata e ben definita, nonché auspicabilmente vantaggiosa. La Croazia ha aderito alla NATO nell’aprile
2009 e il 1° luglio 2013 è divenuta il 28º Stato membro dell’UE, raggiungendo una meta da lungo tempo
cercata, la richiesta del governo di Zagabria risalendo al 2002 e l’avvio delle trattative al 2005, a dieci anni
dagli accordi di Dayton.

In politica interna già dal 1998 i socialdemocratici dell’ex comunista liberaleggiante Ivica Račan riuscirono a
prevalere e ad assumere il governo per il loro leader, ma dal 2003 al 2011 l’HDZ tornò al potere con i
governi guidati da Ivo Sanader (poi coinvolto in affari illegali che lo hanno portato in carcere) e Jadranka
Kosor finché le forze (popolari, socialdemocratici, liberali, Dieta democratica istriana) che tradizionalmente
hanno conteso all’HDZ la scena nell’era post-comunista si sono riunite in una coalizione dal curioso nome
Kukuriku (ovvero chicchirichì), ottenendo alle elezioni del 2011 una larga maggioranza di seggi con il 40%
dei suffragi contro il 23,5% della HDZ. Dal dicembre 2011 il governo è guidato dal socialdemocratico Zoran
Milanović che non ha ottenuto i successi aspettati, tanto da influire sull’esito delle elezioni presidenziali del
gennaio 2015 nelle quali Josipović ha ceduto il passo per un pugno di voti alla conservatrice Kolinda Grabar-
Kitarović. Al di là del variare del quadro politico, va rimarcato che nessuno dei partiti avvicendatisi al potere
ha avuto seri dubbi riguardo alle importanti scelte di politica estera.

Nella rifondata Bosnia-Erzegovina l’esistenza dello Stato federale fu garantita per anni dalla presenza di un
rappresentante dell’ONU e dai contingenti internazionali. Al di là delle debolezze strutturali già ricordate, vi
era il cruento e recente passato da dimenticare o, meglio, elaborare come memoria comune. Il Tribunale
internazionale per la Jugoslavia avviò la sua attività per individuare e punire i responsabili di tanti scempi:
tra di loro personaggi di primo piano come i presidenti Milošević e Tudjman, come Karadžić e Mladić,
nonché molti altri militari o politici. Si trattava di inchieste e di processi molto difficili, ma attraverso gli anni
i principali personaggi furono arrestati e giudicati. Nel caso di Tudjman la morte fu più rapida dell’eventuale
imputazione; in quello di Milošević, invece, la morte lo colse in prigione e causò non poche polemiche, così
come era avvenuto per il suo rocambolesco arresto.

Un primo risultato politico fu l’allontanamento sia pure lento e progressivo dalle posizioni di comando di
tutti quei personaggi. In Bosnia Karadžić fu costretto a una latitanza durata tredici anni finché nel luglio
2008 fu catturato dalla polizia serba e consegnato al Tribunale internazionale per la Jugoslavia, dove nel
2011 è iniziato il processo contro di lui. Lasciò la presidenza a Biljana Plavšić, anche lei fautrice di una linea
non molto conciliante. Alla guida del governo Karadžić aveva nominato Gjoko Kilcković al posto di Rajko
Kasadžić, considerandolo troppo propenso ad accettare le regole imposte a Dayton. Anche Plavšić non poté
mantenere a lungo l’incarico e sopravvennero intanto le elezioni del settembre 1996, fortemente volute
dalla comunità internazionale. Esse, forse attendibili solo in parte, videro prevalere, come si è accennato, i
partiti nazionalisti delle tre etnie. Il musulmano Izetbegović fu il primus inter pares della presidenza
collettiva in cui entrarono il serbo Momčilo Krajišnik e il croato Krešimir Zubak. Molti elettori serbi,
soprattutto a Banja Luka, al candidato serbo nazionalista preferirono il leader socialdemocratico Mladen
Ivanić (31%).

Entrarono in attività un parlamento bosniaco eletto da tutti i cittadini, uno della Federazione croato-
musulmana (affiancato da assemblee cantonali) e uno della Repubblica serba. L’ulteriore evoluzione del
quadro politico lungo quasi un ventennio e fino ai giorni nostri non ha portato a novità radicali in termini di
rapporto tra le forze in campo o di integrazione delle strutture che compongono lo Stato, nonostante
l’insofferenza manifestata dalla popolazione anche in modo molto vivace. Nonostante la precaria situazione
interna, la Bosnia-Erzegovina ha un rapporto privilegiato con l’Unione Europea ed è membro dell’Iniziativa
centro-europea. La comunità internazionale inoltre ha finanziato la ricostruzione dell’economia e delle
infrastrutture distrutte dalla guerra. Sono stati investiti alcuni miliardi di euro, ma si pensi che alla fine del
conflitto una casa su cinque era stata distrutta (e una su due danneggiata), il sistema viario era
inutilizzabile, il reddito pro capite era sceso da 1.900 dollari (nel 1990) a 500, mentre la produzione era
quasi nulla rendendo difficilissime le condizioni della popolazione rimasta in patria, che a fatica poté
riprendere le normali attività anche per sostentarsi senza ricorrere all’aiuto esterno. Enorme era e il
numero dei bosniaci che vivono in diversi Paesi europei.

Gli accordi di Dayton garantirono l’equilibrio solo in alcune parti della ex Jugoslavia e solo per pochi anni. La
sconfitta del progetto della Grande Serbia, estesa in Bosnia, rinfocolò le speranze degli Albanesi del
Kosovo, sia di quelli autonomisti o comunque disposti a trattare con Belgrado, come Ibrahim Rugova e la
Lega della democrazia, sia di quelli che pensavano al conseguimento dell’indipendenza anche per via non
pacifica, magari con il fine di ricongiungersi al resto degli albanesi, tanto da realizzare una Grande Albania.
Non è possibile seguire passo passo gli eventi tra 1996 e 1999 e sarà sufficiente ricordare che in quei pochi
anni i sostenitori della linea dura, ben rappresentati dal Fronte di liberazione del Kosovo (UÇK) di Hashim
Thaçi, finirono per prevalere in termini di peso politico. Infatti le loro azioni di guerriglia e la conseguente
pesante repressione da parte serba indussero Washington a intervenire diplomaticamente, con il consenso
di molti altri Stati, ma senza successo. Per il governo statunitense Milošević non fu più l’uomo del
compromesso, ma il fautore di una politica inaccettabile, quella della difesa dell’integrità dello Stato serbo
(ufficialmente Jugoslavia) contro ogni tendenza separatista. In particolare nel marzo 1999 fallirono le
trattative al vertice di Rambouillet in Francia: il presidente Clinton si convinse che il leader serbo avrebbe
infine accettato la proposta statunitense (che però incrinava la sovranità serba) e Milošević rifiutò di
credere che gli USA avrebbero mai fatto ricorso alla forza.

Mentre in terra kosovara la situazione si era fatta pesantissima già in precedenza, con la popolazione
albanese che in massa cercava di guadagnare le frontiere spinta o almeno non trattenuta dalle forze serbe,
l’aviazione della NATO, sulla base di un dubbio consenso dell’ONU, il 24 marzo iniziò a bombardare le
postazioni militari serbe sia in Kosovo (incentivando la fuga della popolazione) sia nella Serbia
propriamente detta. Sebbene si rinunciasse da parte americana a operazioni di terra, dopo alcune
settimane i pesanti bombardamenti indussero il governo serbo a trattare (accordi di Kumanovo del 9
giugno) consentendo l’ingresso in Kosovo di truppe internazionali che soppiantarono quelle jugoslave,
ritiratesi. Mosca, abbastanza passiva fino a quel momento nonostante l’allarme dell’opinione pubblica
russa simpatizzante per i fratelli slavi meridionali, si affrettò a inviare propri paracadutisti a Pristina perché il
Kosovo non finisse per essere una questione solo occidentale. Nonostante il significato politico e spirituale
che aveva la regione (vecchia Serbia come era stata a lungo definita) per l’opinione pubblica serba, le
ragioni della forza militare, da una parte, e della forza demografica, dall’altra, prevalsero: progressivamente
gli albanesi del Kosovo divennero sempre più padroni dei loro destini, all’ombra dell’amministrazione
internazionale (UNMIK). Di converso i Serbi rimasti nella provincia (molti preferirono allontanarsi) si
trasformarono in una minoranza (8-10%) con serie difficoltà nel difendere i propri diritti. Si aprì una grave
questione internazionale che non ha trovato una soluzione condivisa e tuttavia in capo a un decennio ha
portato alla nascita, nel 2008, di un nuovo Stato indipendente, abitato per oltre il 90% da Albanesi, ma non
alla costituzione di una Grande Albania, sebbene intensi siano i rapporti tra Pristina e Tirana.

Le vicende della Serbia dopo le guerre del 1992-95 e del 1999 sono state particolarmente complesse. Se da
Dayton Milošević era uscito con un’immagine piuttosto positiva, quasi come garante della pace, la sconfitta
subita riguardo al Kosovo appannò quell’immagine in maniera decisiva. Inevitabilmente gli avversari
dell’uomo forte di Belgrado ebbero modo di attaccarlo decisamente fino a rovesciarlo nel 2000, quando si
tennero elezioni presidenziali denunciate come fraudolente. La vittoria di misura di Milošević fu annullata a
vantaggio del nazionalista moderato Vojislav Koštunica. Il ribaltamento delle posizioni fu possibile perché
l’elemento militare operò in tal senso o quanto meno non sostenne più il vecchio presidente. Il quadro
politico serbo non per questo si poté rasserenare. Restava il problema dei rapporti con il Montenegro e con
il Kosovo mentre all’interno si mantenne duro il confronto tra i partiti, soprattutto tra nazionalisti e
filoeuropei. Nel 2003 fu ucciso il capo del governo Zoran Đjinđić, esponente del Partito democratico e di
quanti volevano far ritrovare alla Serbia un giusto posto in seno alla comunità internazionale, orientandosi
decisamente verso l’Unione Europea. Egli aveva fatto arrestare Milošević per consegnarlo qualche tempo
dopo al tribunale internazionale che non riuscì a portare a termine il processo poiché egli venne a mancare
in stato di detenzione, non senza che il fatto innescasse polemiche e una ridda di ipotesi.

Nonostante questo fatto così grave, il sistema politico si dimostrò vitale e le diverse forze continuarono ad
alternarsi alla guida del Paese. Nel 2003 quella che era stata l’opposizione democratica si divise e poco
dopo Koštunica assunse le redini del governo fino al 2008, ma con maggioranze cangianti, mentre il Partito
democratico ottenne la presidenza della Repubblica con Boris Tadić. La proclamazione dell’indipendenza
del Montenegro (2006) e soprattutto quella del Kosovo (2008) fornirono argomenti alle correnti
nazionaliste le quali prevalsero in più di una consultazione rispetto a quelle più occidentaliste, ma infine
tesero anche esse a moderare le proprie posizioni fino ad accettare di fatto pure la situazione creatasi
nell’ex provincia kosovara. Negli ultimi anni il presidente Tomislav Nikolić ha ben rappresentato tale più
prudente atteggiamento, ammettendo le responsabilità serbe in buona parte delle vicende degli ultimi
venti anni nei territori ex jugoslavi e ottenendo nel 2012 lo status di paese candidato all’ammissione
all’Unione Europea.

Più di un cenno meriterebbero il Montenegro e la Macedonia, ma qui si potrà dare solo un conto rapido
delle loro vicende. Il primo è rimasto per alcuni anni legato alla Serbia nella Federazione jugoslava, poi
denominata Federazione Serbia-Montenegro. Il cambio di denominazione preluse all’indipendenza,
proclamata da un Paese piccolo abitato al 29% da serbi (ma 44% sono serbofoni). Da parte di alcuni si era
sperato che i due Stati federati con un Kosovo più autonomo potessero dare luogo a una sorta di Benelux,
ma il referendum del 2006 decise per l’indipendenza montenegrina, per la quale votò appena il 55,5% di
quanti si recarono alle urne. Tale evento influenzò in parte la ricordata proclamazione dell’indipendenza del
Kosovo nel 2008.

La Macedonia, indipendente dal 1992, ha conosciuto i problemi delle altre repubbliche ex jugoslave, ma è
rimasta fuori dalle guerre, salvo alcuni episodi ripetutisi negli anni e in modo particolarmente pericoloso nel
2001, che riguardarono la cospicua minoranza albanese, circa un terzo della popolazione totale. La fase più
calda risentì ovviamente delle vicende kosovare del 1999, tanto più che un altissimo numero di profughi si
accampò alla frontiera macedone. La sigla dell’UÇK, l’organizzazione combattente kosovara, fu esportata
nell’occasione fuori dal Kosovo. Con un opportuno intervento internazionale l’allarme rientrò e si giunse nel
2003 ad accordi che garantirono la minoranza albanese, posta su un piede di parità con i macedoni di ceppo
e lingua slavi. In politica interna partiti di opposta ideologia si sono avvicendati al potere in modo pacifico,
anche se non mancò talora il ricorso alla violenza, come nel caso dell’attentato al primo presidente della
Repubblica, Kiro Gligorov. Proprio da quegli anni si è avviato il processo di avvicinamento all’Unione
Europea: dal 2005 la Macedonia ha ottenuto lo status di Paese candidato. La più seria questione di politica
estera ha riguardato il riconoscimento da parte della Grecia.

8. La transizione e l’era post-comunista in Albania

Alia avviò caute riforme. Fu ammesso il parziale ripristino della proprietà privata, fu promessa libertà di
scelta tra molteplici candidati nelle elezioni politiche, mentre si metteva mano alla revisione dei codici. Il
governo e il partito non si mossero all’unisono: nel luglio 1991 fu attuato un rimpasto governativo per
allontanare chi non condivideva la nuova linea politica. Per quanto timide, queste novità già segnavano la
fine del regime in quanto tale: le sorti del popolo e del Paese non potevano più essere affidate a un’unica
forza politica e al suo gruppo dirigente, oltre che all’autodisciplina delle unità di lavoro, dalle aziende
industriali alle fattorie collettive e a quelle di Stato. Fu riconosciuta pertanto la legalità di partiti alternativi
che si andarono costituendo a opera di elementi provenienti dallo stesso partito unico o da quel poco di
società civile che esisteva. Le elezioni aperte a diverse liste si tennero il 31 marzo 1991 e videro un ottimo
successo del Partito socialista, nuova veste del vecchio Partito del lavoro (comunista) che ottenne il 66% dei
voti e la maggioranza in parlamento.

Il Partito democratico del medico di Hoxha Sali Berisha, ghego non meno di Alia, si qualificò come il
principale partito d’opposizione con il 27%, percentuale ben più alta nelle città poiché i socialisti seppero
mantenere il controllo delle campagne e delle aziende agricole, dove la popolazione era meno propensa
alle novità politiche. La lotta politica tra i partiti spesso diede l’impressione di avere assorbito contrasti di
natura non ideologica, e di origine ben più remota e tradizionale, cioè legata alle contese tra famiglie e clan.
Un dato colpisce nell’avvicendamento dei regimi in Albania: vi fu quasi il crollo dello Stato con fenomeni di
massiccio assenteismo al lavoro ma anche un vandalismo diffuso e pesante sui beni di proprietà pubblica.
Con i socialisti (ex comunisti) al potere, fu approvata la privatizzazione delle terre, assegnandole in genere
alle singole famiglie sulla base del numero dei loro componenti ( për frymë) e ricorrendo all’estrazione, salvo
che nei territori più settentrionali e montuosi dove esisteva ancora memoria delle precedenti proprietà. A
fronte di controversie tra assegnatari e vecchi proprietari (oltre che tra eredi di questi ultimi) si decise di
riconoscere agli antichi proprietari un indennizzo in titoli di Stato.
Un governo di altro colore fece approvare invece nel 1994 l’Atto di registrazione dei beni immobili, che
regolamentava la materia. Lo stesso anno fu approvato il Codice civile e poco dopo quello penale, e gli altri
codici: la società cambiava ancora una volta attraverso questi importanti strumenti giuridici.

Il 22 marzo 1992 si svolsero nuove consultazioni su pressione degli sconfitti che ritenevano poco credibile il
voto del 1991. Il risultato fu sorprendente e di fatto avvenne il rovesciamento dei ruoli: il Partito socialista
(22,6% e 38 seggi) andò all’opposizione e il Partito democratico (65,6% e 92 seggi) espresse l’esecutivo e, in
più, il suo leader Berisha sostituì Alia alla presidenza della Repubblica. Presidente del Consiglio fu nominato
Alexander Meksi. La minoranza greca elesse due deputati (del partito Unione per il partito dei diritti umani
già Omonia), ma i rapporti tra Tirana e Atene peggiorarono a causa del grande numero di Albanesi che
avevano passato la frontiera ed erano stati rimpatriati forzosamente dalle autorità elleniche. Nel 1995 la
situazione era però migliorata, al punto che i due governi siglarono un accordo militare.

Con la popolazione preoccupata di sbarcare il lunario, gli entusiasmi politici erano destinati a scemare,
come in altri Paesi ex comunisti: lo si vide già nelle elezioni amministrative del luglio 1992. Si comprese pure
che il trend politico non era stabile: alle amministrative i socialisti ottennero consensi di poco inferiori ai
democratici, eleggendo propri sindaci in molti comuni maggiori o minori. Mentre l’Albania ristabiliva (o
introduceva per la prima volta) la democrazia, migliaia e migliaia di Albanesi fuggivano all’estero per terra e
per mare in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita: drammatico fu il fenomeno dei barconi diretti
verso le coste italiane. L’abbandono progressivo del vecchio modello di politica economica diede luogo a
seri problemi, la società non essendo affatto pronta per l’economia di mercato da più punti di vista: assenza
di capitali, carenza di cultura imprenditoriale, mancanza di preparazione tecnica della manodopera,
infrastrutture assolutamente insufficienti. Si palesò al contempo – dopo anni di regime poliziesco – il
problema dell’ordine pubblico, che le autorità non riuscivano a garantire. I sognati standard di vita europei
erano ben lontani e lo sarebbero rimasti ancora a lungo. Per attuare una rivoluzione economica, dopo
quella politica, erano necessarie misure importanti ma pure il sostegno di Paesi più ricchi.

Il fenomeno migratorio assunse dimensioni impressionanti riguardando ben oltre un decimo dei cittadini,
circa mezzo milione di persone. Gli spostamenti avvennero anche all’interno: Tirana in pochi anni
raddoppiò la sua popolazione sino a mezzo milione di abitanti. Il depauperamento delle risorse umane del
Paese fu notevole, se si considera che a partire furono moltissimi giovani, essendo peraltro l’Albania lo
Stato con la più alta percentuale di giovani in tutto il continente europeo. Al contempo, una volta al potere,
i democratici optarono per riforme più radicali, come la privatizzazione dei beni pubblici che procedette con
notevole rapidità e l’apertura agli investimenti esteri. Nonostante la politica di incentivazione (esenzioni
fiscali e libera esportazione degli utili) in tal senso, non si poté avvicinare i risultati registrati in altri Paesi ex
comunisti: nel 1993 la quota pro capite di investimenti esteri era appena di 90 dollari. In tre anni (1992-95)
l’inflazione, impennatasi poco dopo la fine del regime, calò dal 226% al 24%, come pure il deficit pubblico,
attestatosi a quota 11,3% del PIL. Sebbene decrescente, negli anni Novanta continuò a restare alta la
disoccupazione che caratterizzò la transizione. Fu necessario accettare consistenti aiuti dall’estero: in
particolare l’Italia mise in atto, in due fasi e in oltre due anni, l’importante operazione Pellicano (5.000
uomini), missione umanitaria e di assistenza alle popolazioni locali, mentre di fatto il Paese finì col trovarsi
sotto tutela internazionale.

Il nuovo governo avviò un processo politico e penale contro i vecchi dirigenti in forme non riscontrabili negli
altri Paesi ex comunisti. Alti esponenti del regime caduto come il presidente dell’Alta Corte Aranit Cela, il
procuratore generale Rrapi Mino e il capo della Sigurimi, Zylyitar Ranvizi, si videro irrogare la pena di morte
(mai eseguita), mentre altri furono condannati all’ergastolo. Ma l’intera oligarchia comunista subì un
trattamento del tutto simile: lo stesso Alia e l’ex primo ministro Fatos Nano, accusato di corruzione, furono
arrestati in attesa di sentenza. Fu approvata una norma per la quale era vietato agli ex dirigenti comunisti
ricoprire cariche pubbliche fino al 2002. Essa non riguardava Berisha, che non aveva avuto incarichi di
rilievo sotto il regime comunista.

In un clima politico così acceso, il PIL riprese a crescere (15% nel 1995) rispetto alla situazione pesantissima
dei primi anni dopo la caduta del regime. In un contesto del tutto differente rispetto al passato, furono
incentivate importazioni ed esportazioni (intensi gli scambi con Italia e Grecia), ma le condizioni
economiche del Paese indussero un deficit fortemente negativo della bilancia commerciale. L’Albania fu
ammessa al GATT (WTO), all’Iniziativa centro-europea, al Consiglio d’Europa, ratificando la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, mentre fu stipulato un accordo di cooperazione con l’Unione Europea,
prodromo della candidatura allo status di Paese associato, riconosciuta solo nell’ottobre 2012 a condizione
di completare alcune riforme essenziali in campo giudiziario ed elettorale.

I democratici al potere non riuscirono nel novembre 1994 a fare approvare il loro progetto di nuova
Costituzione attraverso un referendum: fu un segno di debolezza che convinse Berisha a ricorrere a brogli
per assicurare il successo al proprio partito nelle successive elezioni del marzo 1996. Un particolare aspetto
della crisi economica riguardò una forma di speculazione di fatto truffaldina, conosciuta anche in altri Paesi
(come la Romania e la Russia): era il fenomeno delle cosiddette piramidi, sorta di catena di Sant’Antonio di
acquisto di titoli ad altissimo rendimento. Assolutamente insostenibile nel lungo tempo, il sistema portò
alla mancata restituzione di quanto investito ai numerosissimi risparmiatori i quali considerarono il governo
responsabile della truffa, almeno come culpa in vigilando, se non complice. Le conseguenti accese proteste
furono prodromo di violente manifestazioni, particolarmente nel Meridione, che le forze di polizia non
riuscirono sempre a tenere a bada: di fatto sembrò si fosse instaurato un clima di guerra civile. La crisi, che
pure costò forse 4.000 vittime, in sostanza diede l’occasione i socialisti di riproporsi per governare il paese,
questa volta con il beneplacito delle capitali occidentali che fecero pressioni perché Berisha rassegnasse le
dimissioni. Gli subentrò Fatos Nano ma l’esecutivo socialista dovette attendere nuove consultazioni
politiche per avere piena legittimità.

Nel novembre 1998 infine fu approvata la Costituzione del nuovo Stato: essa fu formulata con la
partecipazione, se non sotto dettatura, della comunità internazionale e in particolare della cosiddetta
Commissione di Venezia e della Commissione per gli affari giuridici e per i diritti umani del parlamento
europeo. Già nel 1999 il governo di Tirana dovette fare fronte alla gravissima crisi del Kosovo. In primo
luogo la frontiera subì il pesante impatto di una massa enorme di rifugiati che le autorità serbe lasciarono
uscire dal Kosovo, prima e dopo che fossero iniziati i bombardamenti della NATO sia su quella sfortunata
regione sia sulle altre della Serbia stessa. Naturalmente non si poteva impedire agli Albanesi-kosovari di
riparare in Albania e infatti per diversi mesi il Nord del paese ospitò moltissimi profughi, in ciò sostenuto
dagli aiuti internazionali. Terminata la crisi con l’imposizione al governo serbo del controllo internazionale
sulla regione contesa, il problema si risolse rapidamente con il ritorno dei profughi nelle proprie case.

Fu così anche nel 2001, quando si accese la tensione nella Macedonia occidentale e in alcune regioni serbe
di frontiera, sempre per le attività politiche e militari degli Albanesi del luogo. La prudenza di Tirana
contribuì alla soluzione patrocinata dalle organizzazioni internazionali, ben rappresentata dagli accordi di
Ohrid del 2003. Neppure la dichiarazione di indipendenza del Kosovo (2008) ha portato a mutamenti
nell’atteggiamento prudente dei governi albanesi, a prescindere dal loro colore politico: essi preferirono
intervenire su aspetti più concreti come le infrastrutture (strade) che rendono più vicini i due Stati abitati da
Albanesi. Qualche timore restava riguardo alle relazioni con la Grecia. Nel 2011 si tenne il censimento della
popolazione, che prevedeva anche la dichiarazione di appartenenza religiosa. 52 intellettuali, tra cui gli ex
presidenti Alfred Moisiu e Rexhep Maidani, firmarono una petizione che si opponeva a tale dichiarazione di
appartenenza considerandola anticostituzionale. Invero si temeva che venisse in evidenza una minoranza
ortodossa fin troppo cospicua, favorendo pulsioni irredentistiche greche.

Il primo decennio del nuovo secolo ha portato altre importanti novità nella recente storia albanese. In
primo luogo ha registrato il ritorno dei democratici e di Berisha personalmente al governo a metà del 2005,
con un confortante appoggio popolare. Invece, dopo le incerte consultazioni elettorali del 2009, il suo
successivo mandato fu caratterizzato dalla coalizione con il piccolo, ma decisivo Movimento socialista per
l’integrazione dell’ex primo ministro Ilir Meta (fuoriuscito dal Partito socialista) e da una maggioranza
ristretta. Nel 2011 non mancarono alcuni seri incidenti e vittime durante manifestazioni dell’opposizione.
Dopo precedenti buoni risultati in elezioni amministrative, quest’ultima vinse di larga misura (53% dei voti e
84 seggi su 140) le elezioni politiche del giugno 2013 e l’attuale primo ministro è il socialista Edi Rama, già
sindaco di Tirana. Forse il dato più importante di questo secondo decennio dell’era post-comunista, sotto il
profilo politico, risiede nel fatto che il quadro si sia stabilizzato in termini bipolari, con un progressivo
adeguamento della popolazione e delle mentalità al libero gioco tra le forze contendenti, nei limiti imposti
dalle regole costituzionali: le eccezioni che pure continuano a esistere non possono cancellare questo
significativo progresso.

La stabilizzazione politica si è accompagnata a uno sviluppo economico, sociale e urbanistico di grande


portata, nonostante le difficoltà nel gestire l’inurbamento selvaggio e nel far fronte alla criminalità
rapidamente diffusasi. Chi ha visto Tirana e le altre città albanesi alla fine del regime comunista non le
riconosce più: non sono spariti solo i caratteristici bunker militari, ma sono cambiati gli edifici e i colori (a
Tirana, quando ne era sindaco, Rama lanciò non per caso il cosiddetto «piano dei colori»), le strade e il
traffico che le percorre. In un Paese che non conosceva il turismo, se non quello controllato politicamente,
alberghi e ristoranti sono un altro segnale della profonda mutazione avvenuta, non meno
dell’abbigliamento e dell’atteggiamento della popolazione, soprattutto quella cittadina. Gli intellettuali
hanno avuto modo di ripensare la cultura nazionale in un contesto internazionale, e soprattutto gli storici
hanno potuto riscrivere la storia albanese, talora ribaltando in modo meccanico e ingenuo la vulgata del
regime caduto, in altri casi facendo un uso più critico delle proprie capacità interpretative.

Nell’aprile 2009 l’Albania ottenne l’ammissione alla NATO, anche per la forte influenza che ormai
esercitavano su di essa gli USA, e nello stesso mese entrò in vigore l’accordo di stabilizzazione e
associazione, siglato con l’Unione Europea nel 2006, dopo una trattativa avviata nel 2003. Subito dopo il
governo albanese ha presentato formale richiesta di adesione all’Unione Europea, avendo già ottenuto
diverse concessioni nel campo dei visti, degli scambi commerciali e degli aiuti economici.

La Grande Albania potrebbe avere allora una dimensione spirituale e non politico-territoriale nell’ambito di
una grande Unione continentale, priva di vere frontiere.

9. La Grecia dalla ripresa democratica alla crisi economica

Dopo la caduta della dittatura, il clima politico ellenico nei primi anni Settanta andò migliorando
rapidamente poiché si diede vita sostanzialmente a un regime di alternanza tra un forte partito socialista
(Pasok), capeggiato da Andreas Papandreou e poi da Kostas Simitis, e una molto consistente destra
democratica (Nea Demokratìa, ND) rappresentata per alcuni anni da Karamanlīs. Sotto il governo guidato
da quest’ultimo nel dicembre 1974 si tenne un referendum istituzionale nel quale il 69% del popolo greco
scelse la repubblica in luogo della monarchia: fu l’ultima occasione e probabilmente definitiva in cui le due
idee si confrontarono nel Novecento greco. I neodemocratici hanno detenuto il potere dal 1974 al 1981 e di
nuovo dal 1989 (dapprima in coalizioni prive di colore politico chiaro) al 1993. Se, soprattutto per loro
iniziativa, nel 1981 la Grecia fu ammessa nella Comunità economica europea, oltre venti anni dopo fu un
governo socialista ad aderire nel 2002 all’Unione monetaria europea, con una scelta rivelatasi azzardata.
Due anni più tardi, nel 2004, per la seconda volta le Olimpiadi furono disputate ad Atene (dopo quelle del
1896) e furono perciò occasione di progetti impegnativi in termini di lavori pubblici, il cui impatto
sull’economia è soggetto a diverse valutazioni.

Dopo aver mancato per poco nel 2000 il sorpasso dell’avversario socialista, proprio le elezioni del 2004
consegnarono nuovamente la leadership a ND. Kōstas Karamanlīs, nipote del fondatore del partito, guidò
dunque il nuovo esecutivo per l’intera legislatura. Nel 2009 ci fu un nuovo avvicendamento al potere con la
formazione del governo del Pasok guidato da Georgios Papandreou, figlio di Andreas. L’esecutivo socialista
si trovò a fare fronte a una crisi economica senza precedenti, dovuta sia al quadro economico e finanziario
internazionale profondamente deteriorato, sia anche agli errori dei governi ellenici e alla opacità dei conti
finanziari lasciati dal precedente esecutivo. Le due maggiori forze politiche erano indubbiamente
responsabili di non aver previsto la crisi e provveduto per tempo a porvi un argine, ma dovettero fare i conti
con una società e un’opinione pubblica poco disponibili ad accettare i sacrifici dopo un’epoca di relativo
benessere (il romanziere e drammaturgo Petros Markarīs ha scritto «quello che ci ha rovinato è stato un
ascensore troppo rapido»), sacrifici che poi sono stati imposti negli ultimi anni con prezzi altissimi per la
popolazione.

Dopo aver tentato la strada dell’austerità, i socialisti acconsentirono a dar vita a un esecutivo guidato da
Loukas Papademos, già governatore della Banca di Grecia, con un sostegno bipartisan. Venuto meno
questo tentativo in capo a pochi mesi, la parola tornò agli elettori, a due riprese in due mesi. I socialisti
furono nettamente battuti passando larga parte del proprio elettorato a una nuova alleanza di sinistra,
Syriza, in cui è confluito il più antico Synaspismos, erede del Partito comunista . Buona invece la tenuta di
ND, nonostante la crescita di nuovi partiti alla sua destra, anche radicali. Il leader di ND Samaras assunse le
redini del governo, in coalizione con il Pasok e un altro partito di sinistra moderata, Dimar, poi uscito dalla
maggioranza in seguito alla chiusura della radiotelevisione pubblica. Di fatto il governo rappresentava una
metà dell’elettorato, percentuale con la quale in paesi di antica democrazia, e con altri sistemi elettorali, si
governa senza problemi.
Il momento era drammatico, con il Paese squassato dalla crisi economica e dipendente dagli aiuti
dell’Unione Europea, della BCE e del FMI, i tre enti (la trojka) che misero di fatto sotto controllo la politica
economica greca. I sacrifici per la popolazione sono stati pesanti con inevitabili reazioni sia negli
atteggiamenti quotidiani sia in termini politici. La crisi, il massiccio arrivo di emigranti sia dall’Albania, sia
dall’Africa e dall’Asia, e le politiche governative hanno favorito la crescita di un movimento di estrema
destra come Alba Dorata (Chrusi Avgì) e dell’opposizione della nuova sinistra, identificata nel leader di
Syriza Alexīs Tsipras, che ha fatto passare in secondo piano anche il più tradizionale Partito comunista,
candidandosi alla guida del Paese. Dopo l’incapacità della maggioranza e del parlamento di eleggere il
nuovo Presidente della Repubblica, come chiede la Costituzione, le elezioni politiche del gennaio 2015
hanno portato al governo Syriza in coalizione con un piccolo partito di centro-destra antieuropeo. Ben più
di un terzo dell’elettorato si è pronunciato a favore del partito di Tsipras pur in presenza di un
astensionismo non abituale per la Grecia. Il nuovo cambio (allagì) ha creato entusiasmi maggiori di quelli
riscontrati per l’ascesa al potere dei socialisti all’inizio degli anni Ottanta e apre una nuova interlocuzione
con l’Unione Europea (quella monetaria in particolare) che potrebbe risentirne nelle sue politiche generali.

Il futuro dirà se e come la Grecia uscirà da un passaggio tanto critico, però non va dimenticato quanto essa
aveva precedentemente realizzato. Quasi a interpretare la propria denominazione, ND impiantò un sistema
politico democratico, chiudendo l’esperienza dei colonnelli, ma anche mutando in meglio i costumi politici
del periodo interbellico e degli anni Cinquanta-Sessanta, almeno in termini di legittimità dei governi. Ciò
non significa che abbia realizzato la democrazia perfetta, non mancando la corruzione, i privilegi o
l’evidente familismo nella stessa politica. Da parte loro, moderando progressivamente le tendenze
antiamericane e antieuropeiste del loro programma, i socialisti sono stati al governo dal 1981 al 1989 e dal
1993 al 1996 (sempre guidati da Andreas Papandreou), dal 1996 al 2004 (Kostas Simitis) e dal 2009 al 2012
(Georgios Papandreou). Nonostante alcuni mutamenti nel programma ispirati all’esempio del laburismo di
Blair, l’arrivo al potere di un partito socialista ha introdotto non poche novità nella legislazione ellenica e
nella vita quotidiana dei greci, con grande sviluppo del welfare e una parziale redistribuzione della
ricchezza.

La Grecia democratica, ritiratasi nell’agosto 1974 dall’organizzazione militare della NATO (di cui aveva
continuato a essere membro), vi rientrò nel 1980 e fu considerata un partner affidabile dalla Comunità
Europea, come prova l’ammissione conseguita nel 1981, che sollevò qualche polemica in patria poiché non
sottoposta a referendum popolare. Al centro della politica estera di Atene rimase la questione cipriota che
implica le difficili relazioni con Ankara. Queste riguardavano anche la piattaforma continentale della
penisola anatolica e lo spazio aereo; nel 1995 non mancò un contenzioso per il controllo di alcuni isolotti
disabitati nei pressi dell’isola di Kalimnos, risolto con la mediazione statunitense. La questione riguardante
l’isola mediterranea ha trovato una soluzione solo parziale con l’adesione di Cipro all’Unione Europea nel
2004. Contro le speranze di molti, il fatto non ha comportato la riunificazione delle due entità politiche
presenti sull’isola (quella orientale è riconosciuta solo dalla Turchia). Tuttavia le relazioni tra di esse sono
divenute meno tese e la popolazione ha modo di spostarsi da una all’altra senza difficoltà. La questione ha
qualche connessione pure con la richiesta avanzata da Ankara di entrare a far parte dell’Unione Europea, e
con le relative faticose trattative.

Con la dissoluzione della Jugoslavia, negli anni Novanta è risorta la questione macedone anche per i Greci:
Atene non ha infatti riconosciuto la Macedonia indipendente poiché un’ampia parte della regione
geografica che porta tale nome è inclusa nello Stato ellenico. Anzi il governo greco proclamò l’embargo
commerciale (1994) verso il paese confinante, opponendosi al riconoscimento di esso da parte della CE,
mentre non mancarono imponenti manifestazioni popolari soprattutto a Salonicco. In particolare non si
accettava l’uso del nome Macedonia e della stella a sedici punte trovata nella tomba di Filippo il Macedone
a Vergina in Tessaglia. Solo nel 1995 Atene riconobbe lo Stato macedone che aveva adottato la
denominazione di FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia).

Epilogo.

Ancora un’altra Europa?

Si chiude qui il lungo percorso attraverso un intero secolo, dalla Prima Guerra Mondiale ai recenti
allargamenti dell’Unione Europea. Il secolo ha portato con sé per i Paesi dell’Europa centro-orientale
cambiamenti ben superiori a quelli avvenuti nei secoli precedenti, incluso il XIX in cui si costituirono alcuni
Stati nazionali nel Sud-Est europeo. Il coinvolgimento dei cittadini di ogni Stato nelle trasformazioni in atto,
sia le migliori, come l’istruzione generalizzata e la garanzia delle libertà civili e politiche, sia le peggiori, lo
snaturamento della ricerca dell’identità nazionale e dell’aspirazione alla giustizia sociale indirizzandole,
rispettivamente, verso l’intolleranza bellicista e il totalitarismo. Il nuovo, più largo successo del modello
politico, sociale ed economico dell’Occidente, è giunto insieme con alcuni tipici problemi delle società
occidentali che toccano, ancora una volta, l’intera popolazione. Tali fenomeni sono particolarmente gravi
per paesi che hanno vissuto, attraverso l’ultimo secolo, molte difficili pagine, conoscendo democrazie
‘mimate’, autoritarismo, totalitarismo imperfetto, e inoltre guerre e altri cruenti drammi. Una certa
disaffezione dal voto, più accentuata nelle elezioni per il parlamento europeo, non può non preoccupare
almeno chi creda che la democrazia debba essere partecipata, pur nelle forme possibili in società vaste e
complesse.

L’ingresso della gran parte di quei paesi nell’Unione Europea è un simbolo non solo dell’accettazione di un
modello, quale sopra indicato, e di una collocazione nella politica internazionale (confermata dal discusso
ruolo che conserva la NATO), ma pure del superamento di tutti i problemi vissuti nel Novecento e
dell’arretratezza tradizionalmente e quasi ovunque registrata rispetto ad altre regioni d’Europa. Si potrebbe
così comprendere se l’antico luogo comune dell’‘altra Europa’ sia parzialmente superato e la comune
cittadinanza europea sia non solo scritta nei documenti pubblici o personali, ma anche nel DNA dei popoli e
degli individui.

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