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Barbara Sòrgoni

Eritrea: sguardi incrociati e conflitti culturali


nella prima colonia italiana

I discorsi politici e mediatici sulle attuali migrazioni poggiano di frequente sull’as-


sunto che tale fenomeno sarebbe di difficile metabolizzazione per la società italiana
a causa della sua tradizionale monoculturalità. Si tratta in realtà di un’«amnesia con-
veniente» che nega significatività al contatto coloniale e nasconde la sua influenza sul-
la storia politica, economica, sociale e culturale del paese, che dall’Ottocento arriva
fino a oggi; significatività ed influenza che emergono invece dai recenti studi in am-
bito storico e antropologico1. Diversi anni fa l’antropologa Clara Gallini indicava co-
me compito «necessario e urgente» analizzare quelle rappresentazioni dell’altro an-
cora oggi riattivate e aggiornate che affondano le radici nell’immaginario esotizzan-
te e stereotipato messo a punto come prototipo durante il periodo coloniale,
includendo nell’analisi la ricostruzione dei nessi storici che collegano le immagini
di ieri a quelle di oggi, nonché il modo in cui gli stessi modelli hanno «cambiato di
autore e di destinatario». Se sul piano politico il colonialismo è defunto, «da un pun-
to di vista culturale il sistema di valori che questo sottintendeva è ancora attivo»2.
Nel contatto coloniale un ruolo di primaria importanza è quindi rivestito dal-
l’ambito simbolico delle rappresentazioni reciproche, dalle immagini delle rispetti-
ve identità e dalle raffigurazioni stereotipate dell’altro, che tentano di fissare in po-
chi tipi semplici e omogenei le complessità con cui ci si confronta, generando sguar-
di incrociati e conflitti culturali necessariamente inseriti all’interno delle relazioni
di potere e dei mutevoli contesti storici che li producono e che questi contribuiscono
a tenere in vita. Che tipo di sguardi produce l’incontro coloniale tra italiani ed eri-
trei, e con quale bagaglio di rappresentazioni reciproche si svolge la vita nella «co-
lonia primogenita»?3
Non è necessario ricordare che anche per l’Eritrea italiana il campo dell’imma-
ginario dischiuso dal contatto è vastissimo e articolato, fatto di rappresentazioni in-
trinsecamente ambigue e spesso contraddittorie; né che tali immagini, appartenen-
do all’ordine del simbolico, non sono significative in relazione a una loro verità o
falsità ma per gli effetti concreti che producono nei contesti all’interno dei quali vi-
vono. Concentrarsi sulle «etichette razziali» – cioè sui significanti piuttosto che sui
significati – consente di ricostruire non solo la storia di quelle immagini ma anche
quella dei loro effetti, che sono «potenti e reali»4.
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Data la mole di rappresentazioni prodotte dall’incontro coloniale, occorre però


selezionare alcuni campi privilegiati; a questo proposito sono necessarie alcune pre-
cisazioni. In primo luogo, le immagini prodotte dai colonizzatori sui sudditi rap-
presentano la parte maggiormente documentata, mentre nella direzione opposta
quelle prodotte dagli eritrei sugli italiani, o su se stessi in relazione a questi ultimi,
sono poche, frammentarie e meno studiate. Per questo motivo, mi concentrerò prin-
cipalmente sulle prime, tentando ove possibile di lasciare emergere in che modo gli
eritrei abbiano provato a «restituire lo sguardo»5. In secondo luogo tali rappresen-
tazioni producono necessariamente dei tropi, nel nostro caso tipologie fisse e ricor-
renti che occultano la complessità reale: «una delle contraddizioni maggiori del co-
lonialismo è che esso ha bisogno di “civilizzare l’altro”, ma anche di fissarlo in una
alterità perpetua»6. Nonostante questo è possibile provare a cogliere in esse anche
qualcosa della relazione tra i soggetti implicati. Tenendo ferme queste avvertenze
concentro quindi l’analisi su due campi di relazioni conflittuali che costituiscono i
serbatoi delle immagini più frequenti: l’identità etnica e quella di genere. Per mag-
giore semplicità tratterò i due campi separatamente, ma risulta chiaro come la di-
mensione etnico-razziale e quella di genere (e sessuale) siano frequentemente in-
trecciate tra loro, spesso simultaneamente condensate in singole immagini.

Identità etniche

Come altre potenze coloniali, anche l’Italia ha sperimentato la politica del divide et
impera, che poggiava a sua volta sulla rappresentazione del territorio come popola-
to da gruppi etnici discreti e radicalmente differenti. E come in altri contesti, le dif-
ferenze di religione, struttura politica, lingua o aspetto fisico venivano enfatizzate e
sfruttate per utilità di dominio; circolarmente, il loro utilizzo politico ha consenti-
to a differenze costruite di diventare reali7. Così, un piccolo territorio molto arti-
colato al proprio interno, composto da varie popolazioni legate le une alle altre – e
all’impero etiopico – da relazioni di potere differenti, complesse e mutevoli, viene
suddiviso a livello rappresentativo in tre grandi « contenitori » (o etichette) diffe-
renziati per progressiva vicinanza al modello di civiltà (ritenuto superiore) rappre-
sentato dagli europei. Le più vicine al modello sono le popolazioni di lingua tigri-
na dell’altopiano, agricoltori di religione cristiano-copta con una struttura socio-po-
litica patrilineare definita solitamente « feudale ». Segue tutto l’insieme delle
popolazioni delle terre basse a nord dell’altopiano, che vivono in zone aride o se-
miaride praticando nomadismo e pastorizia, con strutture politiche mobili e flessi-
bili, e di religione musulmana, accorpate tutte sotto l’etichetta di popolazioni «ari-
stocratiche ». Infine, i gruppi più lontani dal modello sono quelli del bassopiano
sudoccidentale, in particolare i kunama, percepiti come i più primitivi sia per quel
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meccanismo di «etnocentrismo vicario» per il quale gli italiani giustificano il giu-


dizio di primitività sulla base di stereotipi veicolati dagli altri due gruppi; sia per-
ché i marcatori antropologici del livello di civiltà adottati dall’antropologia del mo-
mento legittimano tale visione. Si trattava infatti di popolazioni acefale, matrilineari
e di religione non monoteista: tre caratteristiche sufficienti a collocare d’ufficio un
determinato gruppo umano sui gradini più bassi della pseudo-scientifica scala
evolutiva. E come la storiografia ha dimostrato, ai tre principali contenitori etnici
costruiti dall’immaginario coloniale corrispondono altrettante differenti politiche
coloniali che radicalizzano tanto le differenze fra i gruppi quanto quelle di classe o
status all’interno degli stessi8. A questa rappresentazione semplificata se ne è affian-
cata spesso un’altra dalla finalità analogamente ordinatrice – rintracciabile nella
prima storiografia coloniale ma che affonda le radici proprio nell’immaginario co-
loniale – che colloca i vari gruppi etnici o dalla parte della collaborazione con il
potere coloniale o da quella della resistenza.
A mettere scompiglio in questi tentativi di classificazione omogeneizzante della
realtà interviene la riflessione storiografica più recente, dalla quale possiamo trarre
alcune riflessioni; proprio l’intersecarsi della politica del divide et impera con le pra-
tiche di collaborazione e/o resistenza scompagina infatti le divisioni etniche ordi-
nate. A questo proposito possiamo parlare di «prassi di collaborazione indotta» che,
lungi dall’identificare interi gruppi come proni alla collaborazione – o inversamen-
te, indomabilmente dediti alla resistenza – lascia emergere la fluidità e mobilità del-
la società coloniale, nella quale alcuni soggetti possono scegliere di rivolgersi al po-
tere coloniale in varie forme all’interno di un contesto mutevole e caratterizzato da
delicati equilibri di potere: sui quali il colonialismo si viene a innestare: in alcuni
casi replicando sul piano simbolico le tradizionali pratiche di dominio etiopico, in
altri ponendosi come alternativa allo stesso. Contro la fissità delle categorie dicoto-
miche, il quadro attuale ci restituisce un contesto di grande divisione interna, ca-
ratterizzato da una dialettica politica mobile che precede l’arrivo degli italiani, for-
mata da capi prima utilizzati dagli italiani per la penetrazione interna e subito do-
po eliminati, e da figure « intermedie » che ambiscono ad accrescere il proprio
micropotere scegliendo di volta in volta diverse strategie e differenti alleati9.
È interessante notare come proprio i kunama – verso i quali la politica del go-
verno coloniale aveva tentato con più forza profondi stravolgimenti nell’organiz-
zazione sociale – siano quelli che maggiormente ricordano in termini positivi il
dominio italiano. Il paradigma collaborazione/resistenza presenta forti limiti per
l’analisi poiché il potere coloniale, pur restando tale nella sua violenza coercitiva, viene
sperimentato dai vari gruppi in modo differente, sottolineando la simultanea com-
presenza di immagini e ruoli diversi assunti nel tempo dai vari soggetti, che si
incrociano tra loro delineando un quadro di relazioni altamente complesso. Se gli
italiani sul posto, funzionari coloniali e missionari, replicano all’infinito quegli
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stereotipi sulla primitività, l’assenza di morale e il paganesimo dei kunama che pe-
sano ancora oggi nella relazione con altri gruppi etnici, essi assicurano anche un
controllo sulla regione che mette fine alle razzie di Abissini e Beni Amer che si rifor-
nivano in quella zona di bestiame e di schiavi10. Tali conflitti riprendono nel periodo
dell’amministrazione britannica e perdurano a lungo. Dal canto loro i kunama
avrebbero preferito questa forma di pax coloniale agli altri tipi di sfruttamento sof-
ferti e si sarebbero per questo arruolati volontariamente come ascari per combatte-
re le guerre degli italiani. Ciò che circolarmente avrebbe collocato questo gruppo,
agli occhi del governo eritreo, tra i collaborazionisti, andandosi così a sommare al-
le immagini stereotipate di primitività e inferiorità rafforzate durante il colonialismo
italiano ma, come si è visto, precedenti a esso11. A questa intricata trama di sguardi
è possibile aggiungere ancora altri elementi emersi in tempi più recenti. Da un la-
to il fatto che l’accettazione del potere coloniale attraverso l’adozione di alcuni mar-
catori di «italianità» potesse essere ancora più limitata, selettiva, consapevole e stra-
tegica di quanto indicato; dall’altro, parallelamente, che le testimonianze che espri-
mono la preferenza kunama per il dominio italiano rispetto a tutti gli altri, possano
essere parzialmente il frutto del lavoro «comparativo» della memoria che, ex post, ri-
costruisce l’immagine degli italiani come «brava gente» a fronte della delusione spe-
rimentata con i governi successivi12.
Infine, occorre dare conto di una ulteriore contraddizione espressa dal fatto che
mentre la politica coloniale essenzializza le differenze tra gruppi, il confine colonia-
le servirà a rafforzare e rivendicare l’unità nazionale. Possiamo allora chiederci «quan-
do e in che misura non possiamo più parlare di Tigrini, Bileni, Cunama, Afar», ma
dobbiamo invece parlare di eritrei, e riconoscere che accanto a catalogazioni «di-
scontinuiste» e pratiche politiche differenziate, il potere coloniale ha sperimentato
forme di omogeneizzazione e italianizzazione dei propri sudditi. Un esempio è la crea-
zione dei campi famiglie per le truppe coloniali: veri villaggi per ascari e familiari
che univano persone diverse per lingua, religione, tradizioni e provenienza13.

Conflitti di genere

Con le migrazioni di massa nell’età della globalizzazione, per l’antropologo Arjun


Appadurai i migranti vengono percepiti come elemento «necessario ma sgradito [...]
se non altro per pulire le nostre latrine e combattere le nostre guerre »14. La frase
evidenzia una sconcertante continuità con il periodo coloniale: «noi eritrei non ave-
vamo niente, eravamo o ascari o servitù, non dovevamo imparare niente» racconta
M.I., nato suddito italiano in Eritrea nel 189115. Infatti, se dovessimo suggerire due
icone che meglio caratterizzano la società coloniale, niente potrebbe sostituire in
efficacia quelle dell’ascari e della domestica. Per una trattazione estesa dei ruoli so-
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ciali e delle funzioni delle due categorie indicherò gli studi disponibili; proverò qui
invece a richiamare le principali rappresentazioni a esse associate confrontandole
sia con quanto emerge dalle più recenti ricerche sia con i pochi frammenti delle lo-
ro stesse voci.
Nella memorialistica coloniale l’immaginario sui maschi nativi passa rapida-
mente dalle rappresentazioni negative dei primi anni – fatte di ferocia, infedeltà e
pigrizia – a quella positiva e rassicurante dell’ascari fedele e coraggioso, infaticabile
e ingenuo, che accompagnerà poi tutta l’esperienza coloniale e postcoloniale16. Tra
i due momenti fungono da spartiacque la battaglia di Adua del 1896, che produce
tra gli italiani una progressiva demonizzazione degli etiopi e conseguente mitizza-
zione degli eritrei17, e l’accelerazione dell’espansionismo per il quale gli ascari di-
vengono necessari a tal punto che il loro massiccio impiego in Libia causa un peri-
coloso svuotamento della colonia18. Alla retorica del soldato «fedelissimo», fiero, ele-
gante e dedito ai propri compiti con cieca abnegazione si accompagnano immagini
di costante infantilizzazione, tradotte nella relazione con gli ufficiali italiani nel lin-
guaggio del legame familiare e filiale. Una relazione dalla natura contraddittoria che
trasforma individui resi inferiori «in adorabili animali domestici»19. Tra immagini
semplificanti e relazioni complesse stanno le riflessioni degli stessi eritrei: poche,
frammentarie voci eloquenti. Ci rimandano all’unisono quella che appare come la
colpa principale del colonialismo italiano anche agli occhi di chi non lo stigmatiz-
za: il non aver concesso diritto e accesso all’istruzione. Qualcuno collega questa po-
litica all’elevato tasso di analfabetismo degli stessi italiani; per altri è ciò che segna
la fine del potere coloniale e il vero tradimento dei suoi sudditi; qualcuno, infine,
vi legge un progetto politico per la creazione di figure servili: «le scuole per noi era-
no concepite perché gli Italiani potessero farsi comprendere dalla servitù »20. Pro-
prio la natura diseguale della relazione – gli indigeni sono solo ausiliari, gregari, «al
più graduati di truppa» per i quali sono previste punizioni corporali assimilabili al-
la tortura21 – è ciò che emerge lucidamente dalla voce degli eritrei, soprattutto co-
me violenza simbolica «gratuita»: è questo il caso dell’obbligo per gli ascari di pre-
sentarsi scalzi di fronte agli ufficiali. Le sentenze per «rifiuto di obbedienza» a que-
sto proposito avvalorano la testimonianza orale e simultaneamente tradiscono forme
di resistenza a una autorità che viene sfidata proprio sul piano simbolico22. Non è
un caso quindi se quello che viene considerato il primo romanzo in lingua tigrina,
La storia di un coscritto scritto nel 1927 da Gebreyesus Hailu, presenta una dura cri-
tica al colonialismo italiano proprio attraverso la vicenda di un gruppo di ascari in-
viati a combattere in Libia23.
Accanto a rappresentazioni di maschi nativi come soldati fedeli oppure come
pigri, oziosi e incapaci di lavorare, troviamo quelle di donne invitanti, belle nelle
forme e facili nei costumi, descritte in modo minuzioso nella loro « innata » sen-
sualità24. L’immagine della Venere nera disponibile e quindi facilmente posseduta ri-
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manda metaforicamente al possesso del territorio, è esplicitamente utilizzata nella


propaganda coloniale almeno fino alla conquista dell’impero, e attesta ancora una
volta la centralità della sessualità interrazziale nella colonia25. Un’analisi delle foto-
grafie coloniali mostra il tentativo di riduzione a tipi etnici teso ad « africanizzare
l’Africa», e la simultanea obliterazione della identità delle donne ritratte che ven-
gono allo stesso tempo spogliate dei loro abiti ma ricoperte di improbabili gioielli
della più diversa provenienza, mentre la tristezza degli sguardi tradisce la violenza
subita26. Ma fotografie e rappresentazioni possono rivelare anche forme di «compli-
cità» e capacità di negoziazione e resistenza – incluso il tentativo di sottrarsi alla prati-
ca stessa – mostrando come alcune donne potessero contribuire alla costruzione della
propria immagine e sapessero usare questi strumenti come «forma di auto-rappre-
sentazione della propria posizione sociale»27. Un discorso analogo può essere fatto
a proposito delle «madame»: le «concubine» degli italiani che offrivano «conforto
domestico» sotto forma di servizi di cura e sessuali. Né abili calcolatrici mosse da
avidi interessi, né mere vittime passive, esse potevano entrare in una relazione di ti-
po coniugale con i cittadini per differenti motivi che includevano anche affetto e in-
namoramento, e potevano poi utilizzare lo status raggiunto per promuovere la pro-
pria posizione o favorire quella di altri familiari. Molte di coloro che sono riuscite
nell’impresa sono state poi strategiche nel sostenere i diversi movimenti politici del-
l’Eritrea postcoloniale. La loro voce è ancora più flebile di quella dei maschi eritrei;
quando emerge ci parla di donne (per lo più povere o senza dote, non più in età
da marito e ancora nubili) attratte dal lavoro in città come domestiche per la pos-
sibilità che questo offriva di migliorare la propria posizione (esemplificata da vesti-
ti nuovi o «puliti»), ma anche delle microviolenze simboliche della relazione quo-
tidiana: il divieto di cucinare cibo eritreo, l’obbligo di parlare italiano – e la simul-
tanea difficoltà a impararlo visto che gli italiani si rivolgevano a loro con un
linguaggio scorretto e appositamente semplificato – il controllo sulla vita privata e
l’impossibilità di avere figli propri28. Ci parla inoltre, e proprio a questo proposito,
di complessi meccanismi culturali e psicologici in virtù dei quali le donne che ave-
vano figli dalle unioni con cittadini ed erano poi da questi abbandonate, li cresce-
vano per la maggior parte come «italiani», affrontando per questo immensi sforzi
pur restando, esse stesse, legate alla propria appartenenza29.
Infine, occorre ricordare che ascari e domestiche – come icone coloniali e figu-
re sociali reali – consentono inoltre di tracciare, in modo oppositivo o comple-
mentare, sia nuove forme di maschilità per gli italiani fatte di virilità ma anche di
paternità interrazziali, sia più assertive identità di genere per le (poche) donne ita-
liane che si recano in colonia30. La natura relazionale delle immagini coloniali sve-
la gli effetti concreti che tali produzioni hanno sulle identità di cittadini e sudditi,
effetti che perdurano ancora oggi. Così, se da un lato il mito dell’impresa colonia-
le come modernizzazione di civiltà «inferiori» viene oggi riattivato da parte eritrea
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per rivendicare una raggiunta superiorità rispetto alla vicina Etiopia – e anzi proprio
l’unità nazionale è radicata esplicitamente nel confine coloniale31 – dall’altro quella
stessa modernizzazione è servita come discorso unificante per la costruzione della
nazione italiana e di un particolare senso di italianità di cui si trovano tracce elo-
quenti ancora oggi32.

Note
1 Si veda su questo Jacqueline Andall et al., Italian Colonialism. Historical Perspectives, in «Journal of Modern Italian Stu-
dies», fasc. 3, vol. 8 (2003), pp. 370-73.
2 Rispettivamente Clara Gallini, Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista, manifestolibri, Roma
1996, p. 68 e Asmaron Legesse, Gada. Three Approaches to the Study of African Society, The Free Press, New York NY 1973,
p. 275. Studi approfonditi che traccino le linee di continuità mostrando «il rinnovarsi delle funzioni dei nuovi esotismi
e/o razzismi proposti all’immaginario di massa” (Gallini, Giochi pericolosi cit., p. 69) sono ancora pochi. Alcuni esempi
sono: i saggi in «Studi Piacentini», n. 28 (2000) dedicati all’immaginario coloniale; il volume Italian Colonialism. Legacy
and Memory, a c. di Jacqueline Andall, Derek Duncan, Peter Lang, Oxford 2005 sull’eredità del colonialismo e la tra-
smissione selettiva della memoria; Alessandro Triulzi, Adwa. From Monument to Document, in « Modern Italy », fasc. 1,
vol. 8 (2003), pp. 95-108 sulla trasformazione di Adua in monumento funzionale nelle diverse fasi della storia politica ita-
liana; Ruth Iyob, Madamismo and Beyond. The Construction of Eritrean Women, in Italian Colonialism, a c. di Ruth Ben-
Ghiat, Mia Fuller, Palgrave Macmillan, New York NY 2005, pp. 255-82 su attuali significative riattivazioni di immagini
coloniali per le donne eritree.
3 In questo saggio mi concentro principalmente sul periodo coloniale che va dall’acquisto della baia di Assab e la stipula
di trattati con varie popolazioni locali (1869-88) all’aggressione all’Etiopia nel 1935; nel mezzo si collocano l’occupazione
di Massaua (1885), la sconfitta italiana a Dogali (1887), la fondazione della colonia Eritrea (1890), il disastro di Adua (1896)
e il passaggio all’amministrazione civile della colonia, le mobilitazioni per la conquista di Somalia (1908) e Libia (1911).
4 Kwame Anthony Appiah, Reconstructing Racial Identities, in « Research in African Literatures », fasc. 3, vol. 27 (1996),
pp. 68-72, p. 70. A proposito dell’ordine del simbolico Gallini scrive: «situato su un altro piano che non è quello della ra-
gione oggettivante, non è per questo meno reale e operativo» (Giochi pericolosi cit., p. 9). Per alcuni esempi di tale opera-
tività nel contesto imperiale italiano cfr. Barbara Sòrgoni, Pratiche antropologiche nel clima dell’Impero, in L’Impero fasci-
sta. Italia ed Etiopia (1935-1941), a c. di Riccardo Bottoni, Il Mulino, Bologna 2008 pp. 411-23.
5 Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004 [tit. orig. Provincializing Europe, Princeton Uni-
versity Press, Princeton NJ 2000].
6 Ania Loomba, Colonialismo/Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000, p. 173 [tit. orig. Colonialism/Postcolonialism, Rou-
tledge, London 1998]
7 Setrag Manoukian, Introduzione. Considerazioni inattuali, in Colonialismo, a c. di Alice Bellagamba et al. in «Antropo-
logia», n. 2, 2002, pp.5-15.
8 Sui diversi tipi di etnocentrismo coloniale cfr. Legesse, Gada cit. Per la composizione etnica al momento del contatto, e
per le rappresentazioni coloniali dei diversi gruppi, rimando rispettivamente a Gian Paolo Calchi Novati, Il Corno d’Africa
nella storia e nella politica. Etiopia, Somalia e Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra, SEI, Torino 1994 e a Barbara
Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia eritrea (1890-1941), Liguo-
ri, Napoli 1998; da parte eritrea, tra le prime analisi storiografiche dell’impatto del colonialismo sulla struttura sociale, si
veda Tekeste Negash, Italian Colonialism in Eritrea. Policies, Praxis and Impact, Uppsala University, Uppsala 1987 e Yemane
Meshgenna, Italian Colonialism. A Case Study of Eritrea, 1896-1934. Motive, Praxis and Result, Studentliteratur, Lund 1988.
9 La complessa dialettica fra appartenenze etniche e scelte personali è esaminata in Irma Taddia, Uoldelul Chelati Dirar,
Essere africani nell’Eritrea italiana, in Adua. Le ragioni di una sconfitta, a c. di Angelo Del Boca, Laterza, Roma-Bari 1997,
pp. 231-53, che coniano la formula della «prassi di collaborazione indotta».
10 Queste considerazioni sono in Alexander Naty, Memories of the Kunama of Eritrea towards Italian Colonialism, «Africa»,
n. 4, a. LVI (2001), pp. 573-89, che si avvale di preziose testimonianze orali raccolte tra i kunama. Gianni Dore, Micropoli-
tica regionale e funzionari genealogisti. La “politica indigena” degli italiani nel Wälqayt (1936-1941), in I Quaderni del Wäl-
qayt. Documenti per la storia sociale dell’Etiopia, a c. di Id. et al. L’Harmattan Italia, Torino 2005, pp. 30-97) definisce la re-
gione un luogo in cui «le differenze si costruiscono e si riformulano dentro un continuum storico di variazioni interne, che
non permettono di stabilire uno stato originario o delle etnie essenzializzate o rigidamente separate, ma piuttosto costrui-
scono una “catena di società” all’interno di una storia di lunga durata di rapporti asimmetrici a vantaggio dell’altopiano».
11 La questione è ancora più complessa in quanto, dopo l’amministrazione britannica, i kunama vengono visti dal gover-
no eritreo come collaboratori anche del dominio etiopico, tanto imperiale quanto marxista (Naty, Memories of the Kuna-
ma of Eritrea cit., pp. 573-89.).
12 Si vedano rispettivamente, Uoldelul Chelati Dirar, Church-State Relations in Colonial Eritrea. Missionaries and the De-
velopment of Colonial Strategies, in «Journal of Modern Italian Studies», fasc. 3, vol. 8 (2003), pp. 391-410 e Ruth Iyob, From
Mal d’Africa to Mal d’Europa? The Ties that Bind, in Italian Colonialism, a c. di Andall, Duncan cit., pp. 233-44.
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13 La domanda è in Taddia, Chelati Dirar, Essere africani cit., p. 232. Per il «peccato discontinuista» cfr. Jean-Loup Am-
selle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999; sui campi famiglia cfr.
Alessandro Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, Franco Angeli, Milano 2005.
14 Arjun Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma 2005, p. 30.
15 Irma Taddia, Autobiografie africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Franco Angeli, Milano 1996, p. 68; ritengo si trat-
ti di Menghistu Isahac Tewolde Medhin, su cui si veda Marco Lenci, All’inferno e ritorno. Storie di deportati tra Italia ed
Eritrea in epoca coloniale, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 2004. Altri casi di eritrei che hanno avuto modo di visitare
l’Italia e/o di accedere a una istruzione superiore sono trattati in Ghirmai Negash, A History of Tigrinya Literature in Eritrea.
The Oral and the Written, 1890-1991, Universiteit Leiden, Leiden 1999; questo lavoro è importante perché analizza come dif-
ferenti generi letterari eritrei propongano riflessioni politiche particolarmente lucide sul colonialismo visto dai colonizzati.
16 Marco Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea, 1885-1911, Franco Angeli, Mi-
lano 1996; Volterra, Sudditi coloniali cit. È interessante notare che osservatori esterni, essenzialmente tedeschi, all’indo-
mani della battaglia di Adua riconvertono i propri stereotipi sulla ferocia selvaggia degli etiopi, i quali avendo sconfitto
un esercito bianco vengono ora visti con timore reverenziale e, di conseguenza, sbiancati, cfr. Harold G. Marcus, The black
men who turned white. European attitudes towards Ethiopians, 1850-1900, in «Archiv Orientální», vol. 39 (1971), pp. 155-66.
17 Giulia Barrera, Colonial Affaires. Italian Men, Eritrean Women and the Construction of Racial Hierarchies in Colonial
Eritrea (1885-1941), Ph.D. Dissertation, Northwestern University, Evanston 2002.
18 Nel 1921 il governatore Cerrina Feroni lamenta la trasformazione della colonia in «un semenzaio di ascari mercenari»
che impedisce «di volgere buona parte delle sue energie (ed essenzialmente l’elemento uomo che naturalmente scarseg-
gia) al proprio miglioramento economico» cit. in Volterra, Sudditi coloniali cit., p.45.
19 Lionel Caplan, Warrior Gentlemen: the “Gurkhas” in the Western Imagination, Oxford University Press, Oxford 1995,
cit. in Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007,
p.124.
20 T.T., cit. in Taddia, Autobiografie africane cit., p. 83.
21 Cfr. Gino Mitrano, Arte militare coloniale, Società Africana d’Italia, Napoli 1936, p. 19, cit. in Volterra, Sudditi colonia-
li cit., p. 151: «L’Italia è l’unica nazione che non ha ufficiali indigeni», e Guglielmo Nasi, Il mio credo, Raccolta di circola-
ri del generale Nasi edita dal governo dello Scioa, s.d., cit. in Luigi Goglia, Fabio Grossi, Il colonialismo italiano da Adua al-
l’Impero, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 392: «Affiorano qua e là, ancora, episodi di trattamenti inumani (fustigazioni oltre
ogni limite, legature al palo prolungate, scottature ecc...) verso ascari puniti» cit. in Volterra, Sudditi coloniali cit., rispet-
tivamente p. 70 e p. 151. Sull’uso delle torture per far confessare anche reati minori quali piccoli furti commessi per fame
e povertà cfr. Francesca Locatelli, “Oziosi, vagabondi e pregiudicati”. Labour, Law, and Crime in Colonial Asmara, 1890-
1941, in «International Journal of African Historical Studies», fasc. 2, vol. 40 (2007), pp. 225-50.
22 Il caso è emerso in numerose interviste raccolte da Volterra (così ad es. Tegay Hayle Kimiel: «Lavoravamo con loro, e
morivamo per loro. Non riesco ancora oggi a capirli, che soddisfazione trovavano, nel farci togliere le scarpe?», cit. in Sud-
diti coloniali cit. p. 154).
23 Ghirmai Negash, A History of Tigrinya Literature in Eritrea. The Oral and the Written, 1890-1991, Universiteit Leiden,
Leiden 1999.
24 Francesco Surdich, La donna dell’Africa orientale nelle relazioni degli esploratori italiani. 1870-1915, in « Miscellanea di
storia delle esplorazioni», n. 4, 1979, pp. 191-220. A proposito della «naturale indolenza» africana, Locatelli, “Oziosi, va-
gabondi e pregiudicati” cit. mostra il ruolo del colonialismo nella creazione di nuovi poveri e la simultanea criminalizzazione
degli stessi da parte del discorso coloniale.
25 Cfr. però Sòrgoni, Parole e corpi cit. per una discussione della complessità/contraddittorietà delle immagini sulle donne
locali; e Giulia Barrera, Sex, Citizenship and the State. The Construction of the Public and the Private Spheres in Colonial Eri-
trea, in Gender, Family and Sexuality. The Private Sphere in Italy. 1860-1945, a c. di Perry Willson, Palgrave Macmillan, New
York NY 2004, pp. 157-72 per la centralità politica della regolamentazione statuale della sessualità tra cittadini e sudditi.
26 Silvana Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885-1900), in « Quaderni Storici », n. 1, 2002,
pp. 83-147.
27 Elisabetta Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne: la rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italia-
ne, Relazione presentata al Convegno SISSCO, Cantieri di Storia II (Lecce 25-27 settembre 2003), consultabile su www.
sissco.it, p. 12; ma già Iyob, Madamismo and Beyond cit.
28 Seyoum Akberet (cfr. Gual Bdama. Genesis and Life of Eritrean Maid Servants who Worked for Italians in Eritrea, inter-
vento presentato all’East and Horn of Africa Novib Partners Platform Conference, Asmara, 20-26 febbraio 1992) è una
delle prime ricercatrici ad avere raccolto preziose interviste sul tema; ringrazio Giulia Barrera per questa indicazione. Si
veda Giulia Barrera, Dangerous Liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea. 1890-1941, PAS Working Papers, n. 1, Northwe-
stern University, Evanston IL 1996, per una efficace articolazione della categoria della madama; Sòrgoni, Parole e corpi cit.
per l’evoluzione del madamismo nel diritto coloniale; Iyob, Madamismo and Beyond cit. per il ruolo delle stesse in epoca
postcoloniale.
29 Giulia Barrera, Patrilinearità, razza e identità. L’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934),
in «Quaderni Storici», n. 1, 2002, pp. 21-53.
30 Rispettivamente Stefani, Colonia per maschi cit. e Carla Ghezzi, L’altra metà del potere. Donne in Africa, in Memorie d’Ol-
tremare. Prato-Italia-Africa, a c. di Nicola Labanca et al., Giunti, Firenze 1999.
31 Come ha sintetizzato Iyob, From Mal d’Africa to Mal d’Europa? cit.: una identità ibrida che ha la sua genesi nell’incon-
tro coloniale; cfr. anche Alessandro Triulzi, Il conflitto Eritrea-Etriopia e noi, in «Afriche e Orienti», n. 2, 1999, pp. 9-12 e
Uoldelul Chelati Dirar, Etiopia-Eritrea, le ragioni di un conflitto annunciato, in ivi, pp. 12-20.
31-Eritrea 9-04-2009 13:22 Pagina 378

378 Le « Tre Italie »

32 Cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002 e Giuseppe Finaldi,
Culture and Imperialism in a “Backward” Nation? The Prima Guerra d’Africa (1885-1896) in Italian Primary School, in «Jour-
nal of Modern Italian Studies», fasc. 3, vol. 8 (2003), pp. 374-90; sul ruolo dell’impresa coloniale per l’unificazione nazio-
nale; Charles Burdett, Memories of Italian East Africa, in «Journal of Romance Studies», fasc. 3, vol. 1 (2001), pp. 69-84,
Brigitte Le Gouez, Mémoires familiales italiennes: ombres portées d’un passé Africain, in L’Afrique coloniale et post-coloniale
dans la culture, la littérature et la société italienne, atti del convegno tenutosi alla Maison de la Recherche en Sciences
Humaine de Caen il 16-17 novembre 2001, Presses Universitaires de Caen, Caen 2003 pp. 157-73, Derek Duncan, Italian
Identity and the Risk of Contamination. The legacies of Mussolini’s Demographic Impulse in the Work of Comisso, Flaiano
e Dell’Oro, in Italian Colonialism, a c. di Andall, Duncan cit., pp. 99-123, per un’articolazione di quel forte senso di casta,
di colonia come paradiso perduto per una enclave bianca privilegiata, che la nostalgia ha poi epurato da qualsiasi riferi-
mento all’adesione al fascismo e a pratiche di razzismo, e che permane ancora oggi nei romanzi ambientati nelle ex colo-
nie o nelle riviste di reduci e discendenti di coloniali.

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