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Nei primi tre capitoli la frontiera è stata presentata come quel dispositivo che, in modo
celato e mistificato agli occhi dell’opinione pubblica, progettualmente esclude dall’accesso
ai diritti tutti gli individui considerati sacrificabili alla “causa” occidentale. Quanto segue,
se da un lato rimarca una tale visione della frontiera, in quanto rende il carattere
paradossale delle nazioni contemporanee ancora più evidente, dall’altro aiuta a
immaginare nuovi modi di pensare il fenomeno. Infatti, benché sia possibile riscontrare
numerosissimi elementi ricorrenti nelle diverse realtà di confine, è indubbio che ciascuna
di esse sia strettamente determinata dal proprio contesto e dall’azione dei vari attori che vi
interagiscono. Pertanto, se finora è stato privilegiato un orizzonte europeo, che
ovviamente lo sguardo esterno di Khosravi ha aiutato ad ampliare, di seguito il teatro di
riferimento sarà quello africano. In realtà, l’analisi si centrerà su un’area specifica, quella
del confine tra il Togo e il Ghana, trattata in Smugglers, Secessionists and Loyal Citizens on the
Ghana-Togo Frontier di Paul Nugent2. Tuttavia, poiché la storia del continente prolifera di
punti di contatto, si può pensare che molte delle riflessioni che seguono potrebbero trovare
applicazione anche in molte altre aree.
1
Tutte le citazioni presenti in questo capitolo sono tratte dal libro Smugglers, Secessionists and Loyal Citizens on the
Ghana-Togo Frontier di Paul Nugent (2003).
2
Professore di storia africana comparata e di studi africani all’Università di Edimburgo.
paragone con i maggioritari modelli della contemporaneità, è il fatto che questa relativa
indifferenza delle società africane precoloniali nei confronti della terra o di uno spazio
specifico, abbia permesso ai flussi migratori di configurarsi in modo spesso pacifico.
Detto ciò, è evidente come dalla colonizzazione in poi la situazione sia cambiata. Sono stati
delineati dei confini politici estremamente stabili e sono notevolmente mutate anche le
modalità di gestione e redistribuzione delle risorse: si è diffuso il sistema statale fondato
su un apparato burocratico e amministrativo. Inoltre, lo stesso modus operandi è stato
ereditato dalle moderne nazioni indipendenti. Tuttavia, benché il presente contesto
geopolitico sia esito della partecipazione attiva delle comunità locali, oltre che dei governi
coloniali, il totale fallimento delle politiche di controllo frontaliero messe in atto è
rivelatore dell’estraneità di questo modello nel contesto africano. Infatti, come mostro nel
dettaglio nel corso della narrazione, si può dire che i frontiersman continuino a non
rispondere esattamente del proprio operato alla metropoli, e le aree di frontiera sono
ancora luoghi di maggiori opportunità. Ciononostante, tutto ciò accade in netto contrasto
rispetto alla linea che i governi decidono e dicono di prendere. È da ciò che risulta il
paradosso del paradigma nazionalista.
Il confine contemporaneo tra la nazione del Ghana e quella del Togo va fatto risalire alla
colonizzazione europea nell’area del fiume Volta sul finire del XIX secolo. È infatti
indubbio che tale partizione del territorio, a livello politico, sia risultata dalle negoziazioni
tra determinate potenze occidentali volte a definire le rispettive aree di influenza. Tuttavia,
come Paul Nugent dimostra nella sua monografia del 2003, bisogna sottolineare che questa
delimitazione non fu soltanto il risultato dell’operato arbitrario delle varie
amministrazioni coloniali. Queste ultime difatti, volenti o nolenti, si sono poste in
continuità con una logica geo-politica ben radicata nell’area. Inoltre, tanto nel primo
periodo quanto lungo tutta la storia del confine fino ad oggi, i governi mandatari hanno
lavorato di pari passo con un ampio spettro di attori sociali locali, i quali, di propria
iniziativa e secondo interessi personali, hanno contribuito a radicare questa frontiera sul
terreno e nelle menti. Pertanto, nei paragrafi che seguono tenterò di ripercorrere, seppur a
grandi linee, l’azione e interazione di queste varie parti in gioco secondo la prospettiva
della “grande” storia politica. Invece, l’analisi dell’orizzonte popolare e quotidiano del
politico, anch’essa estremamente rilevante, sarà svolta a chiusura del capitolo. Tuttavia, ci
tengo a sottolineare che le vicende che andrò a ripercorrere si riferiscono principalmente
alla sezione sotto l’amministrazione inglese, poiché questo è il campo di ricerca di Nugent,
sul cui lavoro mi baso. Ovviamente, d’altro canto, non mancheranno riferimenti alla parte
francese, dal momento che le due storie sono strettamente interrelate, se non addirittura, in
molti casi, sovrapposte.
Un primo punto da mettere a fuoco è senza dubbio la composizione demografica che gli
europei incontrarono una volta giunti nell’area degli attuali Ghana e Togo. Altrimenti,
risulterebbe difficile comprendere il perché e il per come venne realizzata la
colonizzazione.
Tuttavia, l’assetto geopolitico stabilito nel Trattato di Samoa del 1899 ebbe vita breve: lo
scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 eliminò la Germania dalla scena africana. A
questo punto, come da copione, gli inglesi iniziarono ad espandersi. Come strumento di
autolegittimazione si appellarono a narrazioni di affinità etnica. Un esempio è il caso dei
Peki: nel 1915, a partire dalle affermazioni di supremazia da parte di quest’ultimo gruppo
sulla realtà Krepi -in seguito alle rivolte degli anni ’30 dell’Ottocento-, il Capitano Rattray
svolse un indagine territoriale tra vari capi locali per trovarne conferma, così da presentare
le mire inglesi come un legittimo tentativo di riunificazione di popoli divisi dalla frontiera
del 1899. Questa strategia venne però messa in crisi dall’incontro-scontro con
l’espansionismo del Dahomey (l’attuale Benin), colonia francese dal 1894. L’oggetto della
contesa delle trattative che a questo punto vennero a intavolarsi era Lomé. Infatti, nel
primo decennio del XX secolo, l’amministrazione tedesca aveva investito notevoli risorse
in un’ampia rete ferroviaria e stradale che ruotava appunto attorno alle città di Lomé e
Kpalimé. Ottenere il mandato su Lomé avrebbe quindi automaticamente significato
godere di un vantaggio economico schiacciante sulla controparte. Ne risultò
inevitabilmente la decisione di spartire questa rete commerciale. Pertanto, nel luglio del
1919 venne firmato l’accordo Milner-Simon, e l’ex territorio tedesco venne spartito ancora
una volta3.
3
Infatti già con lo scoppio della guerra nel 1914 le due potenze, benché non formalmente, si erano spartite
l’area lasciata libera dai tedeschi. La Gran Bretagna aveva preso controllo del settore occidentale, che
comprendeva il distretto di Lomé-Land, Misahöhe, Kette-Krachi e la parte del distretto di Mangu-Yendi che
Formalmente si trattava di un’occupazione sottoforma di Mandato, ossia sottoposta al
controllo della Lega delle Nazioni. Di fatto, però, tale soluzione istituzionale, oltre al fatto
di celare le reali volontà di annessione, consentì ai governi europei di adottare in questi
territori un trattamento diverso rispetto a quello delle vere e proprie colonie: ciò gli
permise di limitare al minimo qualsiasi forma di investimento sul campo. Ad ogni modo,
la linea Milner-Simon prevedeva di tagliare in due le montagne togolesi, affidando il
versante est alla Francia (tra cui Lomé, Kpalimé, Atakpamé e Anecho) e quello ovest
all’Inghilterra (compreso il Dagbon e parti dell’Eweland). Fin da subito non mancarono
resistenze e opposizioni. Per parte inglese Octaviano Olympio 4 premette per l’integrazione
con la Costa d’Oro, e Major F.W.F. Jackson 5 reclamò l’annessione di Lomé. In aggiunta
anche a livello locale vennero avanzate una serie di petizioni alla Lega delle Nazioni:
emerse la preoccupazione che la separazione da Kpalimé potesse portarsi dietro negative
ricadute commerciali.
A questo punto, stabilite, seppur non con meticolosa precisione, le rispettive aree di
influenza, Francia e Inghilterra iniziarono a tradurre nella pratica la loro presenza. Nel
1920, per parte britannica, venne istituito il Customs Preventive Service (o CPS), un apparato
adibito al controllo doganale di frontiera. Tre anni dopo, il dilagare del contrabbando, reso
possibile dalle numerose vie boschive, spinse il governo ad accentuare ulteriormente la
formava lo stato di Dagomba, ed inoltre vennero nominati responsabili del sistema ferroviario legato a
Lomé. La Francia, da parte sua, era entrata in controllo della parte orientale, che comprendeva le
importanti città di Anecho e Atakpamé.
4
Octaviano Olympio fu un mercante e intellettuale di origine afrobrasiliane estremamente influente. Del
resto la famiglia Olympio in generale ebbe un ruolo di primo piano. Si pensi che Sylvanus Olympio, il
nipote, fu il primo Primo Ministro e primo Presidente del Togo indipendente. Per approfondire l’argomento
vedere Amos, Alcione M. “Afro-Brazilians in Togo: The Case of the Olympio Family, 1882-1945 (Les Afro-Brésiliens
Du Togo: L’exemple de La Famille Olympio, 1882-1945)).” Cahiers d’Études Africaines 41, no. 162 (2001): 293–314.
5
F.W.F. Jackson era l’allora Ufficiale Comandante delle Forze Britanniche.
sorveglianza, suddividendo la zona di frontiera in tre sezioni amministrative: nord, centro
e sud. Così facendo, il governo britannico immaginava di poter compensare con questi
proventi il mancato sussidio da parte della colonia. Tuttavia, questa politica finì per
intaccare gli interessi dei commercianti africani come anche delle imprese inglesi, i quali
decisero di dislocare i propri mercati in terra francese. Ne conseguì che, per gran parte
degli anni ’20, le attività commerciali furono tutte orientate ad est. Basti pensare che
all’epoca non esistevano vie dirette che dal Togo inglese conducessero nella Costa d’Oro:
bisognava inevitabilmente transitare in territorio francese.
Dai primi anni Venti fino alle indipendenze del Ghana e del Togo 7, rispettivamente nel
1957 e 1960, la regione del fiume Volta venne attraversata da diversi movimenti
unificazionisti che si richiamavano ad una comune identità togolese o Ewe, a seconda dei
casi. È importante sottolineare in proposito che simili narrazioni nacquero in seguito e in
conseguenza alla creazione del confine tra Togo francese e Togo inglese. Prima di questo
periodo non vi era alcuna ragione per identificarsi in modo così deciso con tali etnonimi.
Per esempio, infatti, è in questi anni che si sviluppa la distinzione antagonistica tra Krepi e
Awuna, in risposta al fatto che era nel sud, dove gli ultimi risiedevano, che i tedeschi
avevano maggiormente investito in infrastrutture, ed era sempre tra queste genti che poi
6
Opere di fatto estremamente limitate. Infatti, mentre nella Costa d’Oro era il Dipartimento dei Lavori Pubblici a
finanziare e portare avanti la costruzione e manutenzione del sistema stradale, nel Togo britannico, tale onere era
affidato agli ufficiali di distretto i quali, dovendo compensare un budget scarsissimo, tendevano a cooperare con i capi
locali e a sfruttare la manodopera degli abitanti del territorio.
7
Il Ghana si costituì dall’integrazione di Costa d’Oro e Togo britannico in un unico stato indipendente. Il Togo risultò
invece dall’indipendenza dell’omonima sezione francese.
gli inglesi estrapolarono una cultura orale fissandola per iscritto e diffondendola. Prima
semplicemente si trattava di una realtà estremamente composita e in costante
miscelamento. Inoltre, è da notare come l’insieme di queste rivendicazioni, inizialmente
centrate sulla questione delle difficoltà pratiche prodotte dalla frontiera, finirono per
assumere con il passare degli anni una dimensione più strettamente politica. Ciò mise in
risalto come, fatta eccezione per alcune categorie sociali come i grandi mercanti, la
partizione tra le due amministrazioni non costituisse in toto un impedimento a livello
quotidiano. Se è vero che le restrizioni sulla circolazione delle merci e le imposte doganali
erano certamente guardate con disappunto, è altrettanto vero che l’esistenza del confine
offriva parimenti dei vantaggi, come lascia supporre il fatto che, in queste aree, più di
altre, sia stata registrata una costante e cospicua presenza di stranieri. Difatti, proprio alla
luce dell’esito finale del lungo dibattito tra secessionisti e unificazionisti, per cui a livello
ideologico il confine venne piuttosto rafforzato, andando a costituire non più una
divisione tra diverse amministrazioni bensì tra due nazioni distinte, si può affermare che
la frontiera fosse uno strumento da sfruttare piuttosto che subire.
L’ampio lasso di tempo durante il quale si registrarono varie spinte unificazioniste può
essere suddiviso in tre fasi successive, caratterizzate ciascuna da peculiarità proprie. In un
primo momento, che va dai primi anni Venti fino allo scoppio della Seconda guerra
mondiale, si nota la tendenza a trattare il tema dell’unità come risposta al peso
dell’amministrazione francese, percepita come ancor più gravosa della passata gestione
tedesca. Inoltre, le rivendicazioni in questo momento furono portate avanti tanto dalle
élite cittadine quanto da più ampi strati della popolazione. Infine, terzo elemento di
grande rilevanza è che non vi fu il minimo utilizzo di letture etniche. Diversamente, con lo
scoppio del conflitto nel 1939, la questione iniziò ad essere formulata attorno
all’affermazione dell’identità Ewe, presunto popolo tenuto fino allora separato dalle varie
partizioni coloniali. Questo portò ad un progressivo allontanamento dalla realtà locale: la
lotta fu portata avanti da una ristretta cerchia di privilegiati e concentrò la propria azione
quasi esclusivamente sul terreno internazionale e pertanto furono le Nazioni Unite a
diventare il principale giudice e spettatore del dibattito in corso. Fu a questo punto,
proprio a causa della perdita di consenso interno, che il progetto di unificazione così
costruito fallì. Inoltre, come emerse nel corso della “Ewe Convention” del 1946, alla quale
avevano partecipato i diversi movimenti e organi unificazionisti tanto della sezione
inglese quanto di quella francese, vi era una netta discrepanza tra il livello di
scolarizzazione dei rispettivi rappresentanti 8, fattore che contribuì ad un allontanamento
reciproco. Questo momento può essere riassunto dalla marginalizzazione dell’AEC 9,
rappresentativo fondamentalmente dei mercanti di Anlo e Lomé, a favore dell’ascesa del
TU10 tra il 1947 e il 1949. In questi anni la questione della problematicità della frontiera tra
8
Infatti, la tendenza degli inglesi a limitare al massimo gli investimenti nel territorio mandatario aveva intaccato tanto
il sistema delle infrastrutture quanto quello scolastico. Al contrario il Togo francese era capillarmente scolarizzato.
9
AEC: All-Ewe Conference.
10
TU: Togoland Union.
Togo inglese e Togo francese venne completamente oscurata da nuovi orizzonti di
narrazione. Non a caso il programma politico del TU, prendendo a paragone le migliori
condizioni della Costa d’Oro, piuttosto che una presunta e mal identificata “Eweland”, si
costruì attorno al tema dello sviluppo, nuova parola d’ordine anche nel contesto
internazionale dal secondo dopoguerra. Non a caso, una delle principali rivendicazioni
portate avanti dal TU verteva appunto sul mancato investimento in termini di
scolarizzazione nel Togo britannico da parte della colonia. A questo punto, messi con le
spalle al muro dalle Nazioni Unite, gli inglesi iniziarono un’opera di temporeggiamento
volta, da un lato, a mantenere intatto lo status quo e, dall’altro, a portare avanti
un’apparenza di incentivo allo sviluppo. Proprio per questa ragione venne istituito il
SCC11, organo adibito alla creazione di una maggiore rappresentanza del territorio.
Tuttavia, di fronte ad un potenziale successo di questa politica, che avrebbe potuto
sfociare nell’eliminazione del confine e nell’autonomia della regione, l’amministrazione
britannica sfruttò l’imminente ascesa del CPP 12 di Nkrumah per indire un plebiscito che,
deliberando a favore dell’unità con la Costa d’Oro o con la sezione francese del Togo,
rappresentate rispettivamente dal CPP e dal TC13, avrebbe permesso di chiudere
definitivamente la questione secessionista. In realtà, i risultati del voto si rivelarono di
carattere apertamente localistico. La decisione delle Nazioni Unite di come interpretarlo
era pertanto determinante dell’esito stesso: su pressione della Gran Bretagna, infine,
queste optarono per considerare la totalità dei voti come un insieme, piuttosto che
separatamente, come era stato invece richiesto dagli unificazionisti. Così, il 6 marzo 1957 la
sezione inglese del Togo divenne parte integrante dell’appena indipendente Ghana. La
parte francese invece raggiunse separatamente l’indipendenza nel 1960 sotto il governo di
Sylvanus Olympio, già Primo Ministro del Togo francese da due anni.
Dopo l’indipendenza
11
SCC: Standing Consultative Commission.
12
CPP: Convention People’s Party.
13
TC: Togoland Congress.
14
CUT: Comité de l’Unité Togolaise.
Togo francese. Tuttavia, un crescendo di sospetti portò al definitivo abbandono di
qualsiasi prospettiva unificazionista.
Al momento dell’indipendenza del Ghana, nella sezione francese, il CUT era l’unico
partito propenso all’unificazione. Tuttavia, proprio per questo suo posizionamento, era
fortemente ostacolato dalle opposizioni tramite manipolazioni del processo elettorale.
Dovette pertanto approfittare dell’occasione, nel 1958, della supervisione delle Nazioni
Unite al voto. A questo punto, però, Sylvanus Olympio, che godeva di un consenso ancora
fragile, aveva ben altre priorità: il progetto unificazionista sarebbe stato rimandato ad una
potenziale futura Federazione dell’Africa occidentale, limitando il presente alla creazione
di forti legami economici e una comune gestione doganale. Inoltre, la pressante insistenza
di Nkrumah in materia lasciava facilmente adito al sospetto che i suoi piani servissero
semplicemente a celare una volontà espansionistica. Avvenne così che i rapporti
immediatamente si irrigidirono. Già all’indomani della proclamazione dell’indipendenza
del Togo, Nkrumah apportò le prime restrizioni sulla frontiera: proibì l’esportazione di
beni, istituì controlli sulla circolazione del denaro ed impedì l’ingresso dei veicoli togolesi.
Tutto ciò nel tentativo di mostrare l’intrinseca indipendenza del Togo dall’economia del
Ghana. Però, contro ogni aspettativa del CPP, ne conseguì che chi più ne risultò
svantaggiato furono gli esportatori ghanesi. Infatti, il Togo semplicemente compensò le
entrate aumentando le importazioni da Europa e Stati Uniti sfruttando il porto di Lomé.
Inoltre, al di là delle politiche messe in atto, il confine rimaneva di per sé estremamente
poroso. La situazione si allentò solo nel 1963, e per giunta per un breve lasso di tempo:
Olympio era morto in seguito ad un attentato e Nkrumah tentò di intavolare migliori
rapporti con il nuovo governo provvisorio togolese, guidato da Nicholas Grunitzky.
Grazie a ciò il confine venne riaperto. Tuttavia, immediatamente venne anche richiuso, a
causa dell’intransigenza del Ghana nel voler vietare il traffico di alcolici, voluto invece dal
governo togolese. Similmente, le vicende seguirono su questa scia fino alla deposizione di
Nkrumah nel 1966: i tentativi di apertura togolesi erano costantemente ostacolati
dall’opposizione del CPP.
Alla luce di ciò, emerge evidente come l’azione del CPP abbia contribuito, più che altro, a
demarcare lo status quo. In proposito, Nugent parla di cipipificazione, ad indicare la
diffusione delle strutture del partito attraverso i vari livelli della società, fatto che,
indubbiamente, contribuì notevolmente alla costruzione di un’identità nazionale.
Innanzitutto, il governò si impegnò ad organizzare la redistribuzione delle risorse in modo
da favorire la propria clientela a discapito delle opposizioni. Inoltre, si inserì nelle
questioni politiche a livello dei capi locali, allo scopo di consolidare la propria presenza
anche alla base della società. Infine, non si fece scrupoli nel ricorrere alla detenzione per
estirpare i principali rappresentanti della causa Ablode15.
15
Con il termine Ablode si indica la volontà di unificazione dell’ex-Togo inglese con l’ex-Togo francese.
Dato il pesante clima instaurato dal governo del Ghana, furono molti quelli che ancora
una volta cercarono riparo tra le montagne attorno Akposso o nel vicino Togo. Inoltre, alla
luce di ciò si spiega anche il repentino e generalizzato rinnegamento del CPP dopo il colpo
di stato contro Nkrumah. Ad ogni modo, in questo periodo, il clima generale era ormai
radicalmente cambiato e, diversamente dagli anni Cinquanta, la causa unificazionista si
era fortemente indebolita. Una spia di questo mutamento emerge dalla comparazione dei
due principali partiti ghanesi post-Nkrumah: il PP 16 e il NAL17. Dove il primo, sotto la
guida di Kofi Busia, era principalmente composto dai reduci delle rivendicazioni degli
anni ’50, il NAL incarnava l’eredità lasciata dal regime di Nkrumah durante il quale, di
pari passo con le tendenze autoritarie, venne ampliata notevolmente la gamma di persone
scolarizzate. Le elezioni del 1969 vennero vinte, seppur di poco, dal PP. Di fatto però, il
consenso di quest’ultima formazione andò scemando piuttosto rapidamente: la
diminuzione degli investimenti in infrastrutture, accompagnata da un ormai impopolare
insistenza su un’identità Ewe, portarono all’intervento delle forze armate e all’inizio di
un’amministrazione militare che durò dal 1972 al 1975. Inoltre, sempre in questi anni, si
registrò l’ultimo sussulto secessionista: nel 1972 un’associazione dal nome TOLIMO 18 inviò
all’Organizzazione dell’Unità Africana (OAU) una petizione per ribadire il fatto che le
passate promesse di unificazione non erano mai state portate a termine. Tuttavia,
paradossalmente, “lontano dall’evidenziare l’illegittimità delle frontiere coloniali, la
testimonianza lasciata dal TOLIMO dimostra l’assenza, negli anni Settanta, di un consenso
significativo alla causa secessionista”(p. 224) . Non a caso, se si considera che in questi anni
i protagonisti della scena regionale erano il VORDA 19 e il VOYA20, rappresentativo l’uno di
professionisti e intellettuali e il secondo degli uomini d’affari, è degno di nota che il
TOLIMO non avesse legame con nessuno dei due. Infine, definitiva prova della scomparsa
di un sentimento legato ad una qualche comune appartenenza con l’ex Togo francese, è il
fatto che già a metà anni Ottanta fu difficile trovare informatori che ricordassero anche
solo l’esistenza di questa organizzazione, nonostante di fatto fosse scomparsa da non molti
anni. Pertanto, in parte per il cambio generazionale, in parte per i mutamenti che
intercorsero in questi anni, si può certamente dire che già negli anni Sessanta, e in modo
ancor più chiaro dai Settanta, il sentimento che prima aveva legato le due sezioni togolesi,
aveva definitivamente ceduto il passo ad un nuovo senso di appartenenza nazionale.
Se finora sono state analizzate le vie e gli attori che hanno contribuito a delineare il confine
tra Togo e Ghana ad un livello macro-politico, quest’ultima sezione si propone di
16
PP:Progress Party.
17
NAL: National Alliance of Liberals.
18
TOLIMO: National Liberation Movement for Wester Togoland.
19
VORDA: Volta Region Development Association.
20
VOYA: Volta Youth Association.
descrivere come, parallelamente, questa frontiera debba la sua attuale forma anche
all’azione quotidiana e particolare della popolazione locale. Difatti, come Nugent
dimostra, “se è vero che furono inglesi e francesi ad accordare la partizione in un primo
momento, in realtà, di lì in avanti le pratiche implicazioni della stessa furono determinate
da parte delle genti abitanti il confine” (p. 76). Nugent, inoltre, rifiuta l’idea che tali
agentività possano costituirsi solo nella forma dell’opposizione e della resistenza. Al
contrario, afferma, possono alle volte lavorare ad implementare certi aspetti del potere
dominante, come il caso della frontiera in questione dimostra ampiamente.
Un primo elemento di notevole rilevanza è il ruolo che, in particolar modo a partire dagli
anni Venti, ebbe la diffusione della coltivazione del cacao tanto sul panorama geo-fisico
quanto sulla popolare percezione politica e sociale dello spazio.
In secondo luogo, la diffusione del cacao ebbe un notevole impatto sul modo in cui la terra
era concepita e dunque redistribuita. Infatti, è da notare come questa nuova produzione da
esportazione ebbe la tendenza a rimpiazzare tutte le altre coltivazioni. Questo perché,
rispetto alla gomma e alla palma, le quali richiedevano un duro lavoro preparatorio legato
al disboscamento, che di fatto comunque non costituiva un investimento a lungo termine,
o rispetto al cotone, che implicava un alto rischio di fallimento, gli unici requisiti per il
cacao erano la disponibilità di terra e manodopera. Pertanto, date l’alta presenza di colline
boscose e la situazione di sottopopolamento (seguita all’espulsione del Kwahu Dukoman
nel 1874) -mitigabile dall’alta offerta di manodopera data dalla vicinanza con il nuovo
confine internazionale-, in questi anni il distretto di Buem divenne centrale nell’economia
regionale, sostituendosi alla zona costiera più a sud. Tuttavia, essendo il cacao una coltura
semi-permanente, andò a metter in discussione e a modificare le usuali modalità di
appropriazione della terra. A differenza delle altre produzioni agricole, le quali in quanto
temporanee permettevano una serena circolazione dell’usufrutto sul suolo, con l’avvento
del cacao, il paradigma mutò in linea con le nuove esigenze di accumulazione. Non a caso,
tutto ciò diede adito a infinite dispute territoriali tra lignaggi o gruppi vicini.
Dal canto loro, dunque, le popolazioni locali si trovarono in una situazione di estremo
vantaggio. Ne è prova il fatto che diversi gruppi, come gli Anlo per esempio, decisero in
questi anni di avvicinarsi al confine. Poi, oltre a quanto detto, un’ulteriore tornaconto
derivante dall’aumento di domanda di terre per il cacao e dalla parallela confusione sulla
proprietà, risiedeva nella possibilità di vendere questi terreni. Infatti, uniche vittime di un
tale operare erano gli acquirenti, che spesso e volentieri vedevano rivendicarsi il terreno
appena comprato da parti terze. Non a caso, un detto all’epoca diffuso era “Caveat
emptor!”, ossia, “Stia attento il compratore!”, che però, tendenzialmente, era uno straniero.
Una simile dinamica, in base alla quale questioni di natura locale andarono ad intrecciarsi
ad altre di stampo internazionale, si verificò anche nel periodo successivo alle iniziali
partizioni. L’evidenza dello stretto legame di questi due livelli emerge particolarmente
nella seconda metà degli anni ’50. Infatti, non è un caso che proprio in questi anni, in cui le
tensioni tra integrazionisti e secessionisti raggiunsero il culmine 23, si registrò un notevole
aumento delle dispute nelle aree di confine. Infatti, la prospettiva di una separazione
definitiva aveva diffuso la paura di non poter più continuare a lavorare le proprie terre
situate dall’altro lato del confine. È il caso della disputa tra gli Akposso e i vicini Buem.
Inoltre, appare come, agli occhi delle comunità di frontiera, le macro-questioni
integrazioniste, fossero potenziali strumenti da sfruttare per allontanare definitivamente
eventuali rivali da terre considerate proprie. Detto ciò, bisogna anche considerare che,
21
Per confini comunali Nugent intende quelli relativi alla proprietà della terra dei vari gruppi o lignaggi.
22
Per “tar-baby effect” si intende la dinamica in base alla quale quanto più un soggetto interviene per regolare la
situazione di un contesto, tanto più quest’ultima si complica.
23
Si pensi che il plebiscito in materia di unione con il resto del Togo o con la Costa d’Oro è del 1956.
dove negli anni Venti e Trenta le amministrazioni inglese e francese tentarono di
cooperare per agevolare quanto più possibile la situazione, dagli anni Cinquanta, ciò non
fu più possibile. Si pensi anche al contesto immediatamente successivo all’indipendenza,
caratterizzato dall’intransigenza di Nkrumah e dalla chiusura di ogni forma di dialogo con
il Togo. In ogni modo, e non senza una certa ironia, l’irrigidimento della frontiera ebbe
come conseguenza, sul lungo termine, di assopire le tenzoni locali. Ovviamente però non
fu un fenomeno monocausale, altri fattori vi contribuirono, tra cui per esempio la parallela
e progressiva perdita di fascino dell’economia del cacao.
Un secondo elemento che, di pari passo con la suddetta tendenza da parte delle comunità
frontaliere di delimitare rispettive aree di influenza, tanto tramite confini comunali quanto
internazionali, venne a diffondersi fin dai primi decenni del XX secolo fu il fenomeno del
contrabbando. Questo fatto, apparentemente di natura diametralmente opposta a quanto
finora analizzato, poiché centrato appunto sull’attraversamento e non sulla demarcazione
del confine, concorse in realtà, tanto quanto il primo, ad incoraggiare e fissare la presenza
di un confine internazionale nell’area del fiume Volta. Innanzitutto, nell’intavolare un
discorso sul contrabbando, e rifacendosi alle realtà infrapolitiche di cui parla Scott, bisogna
far attenzione a non strutturare l’analisi esclusivamente secondo il binomio oppositivo
potere-resistenza. Tuttavia, è inoltre necessario fare attenzione a non cadere nella falsa
credenza che se si parla di contrabbando è solo perché, con l’arrivo degli europei, usanze
prima considerate legittime e diffuse, di punto in bianco siano state escluse dall’orizzonte
della legalità. Al contrario, se questo fenomeno assunse in questi anni dimensioni
importanti, tanto da diventare uno dei principali rompicapo delle prime amministrazioni e
poi fulcro della propaganda politica del Ghana indipendente, è perché evidentemente le
popolazioni locali trovarono e costruirono dei vantaggi sulla base del mutato contesto geo-
politico. Pertanto, è di queste opportunità che tratterà quest’ultima parte del paragrafo.
In secondo luogo, poi, bisogna considerare che i vantaggi derivanti dal contrabbando
erano notevoli. L’esempio più lampante risale al primo periodo in cui si andavano via via
definendo le rispettive zone di influenza francesi e inglesi. Infatti, dal momento che la
parte francese era soggetta a tassazione diretta, ossia sulla persona, mentre invece in
territorio britannico gli introiti statali derivavano dalle imposte sull’importazione ed
esportazione dei prodotti, risultò evidente che per chi viveva in prossimità di entrambe le
amministrazioni era più conveniente dichiarare la residenza britannica e “fare la spesa” in
terra francese. Detto ciò, un discorso analogo può essere fatto per i periodi successivi: a
seconda delle esigenze si poteva disporre non di uno, ma di due diversi sistemi legali e di
due diversi andamenti del mercato. Proprio per questo, per l’ampia gamma di soluzioni
possibili fornite dal contrabbando, furono molte le persone che parteciparono in questo
commercio. Nugent distingue tra “piccoli contrabbandieri” e “grandi operatori”, o –
limitatamente al dopo indipendnenza – tra “contrabbandieri d’ascella” e “artisti del
Kalabule” se in riferimento al periodo post indipendenza (pp. 105, 244). La differenza
risiedeva tanto nelle motivazioni alla base, che poteva essere un unico e specifico obiettivo
o una generale accumulazione, quanto nei mezzi e nei tempi usati: i primi tendevano a
lavorare di giorno, caricando la merce sulla testa e trasportandola lungo sentieri boschivi
nascosti; i secondi invece ingaggiavano una serie di collaboratori e trasportavano i beni,
date le maggiori quantità, in furgoni, fatto che li costringeva ad usare strade più
percorribili e quindi più note, motivo per cui lavoravano di notte. È evidente, comunque,
che questi erano solo i due poli di una realtà estremamente più vasta e sfumata.
Ad ogni modo, ai fini di questa riflessione, ciò che maggiormente risulta interessante non è
tanto il perché e il per come così tante persone decidessero di intraprendere questa attività.
Piuttosto, ciò che sorprende è che questo fenomeno, implicante l’attraversamento costante
del confine, non mettesse minimamente in discussione il confine stesso. Tutt’altro: è stato
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Vi trovarono riparo a suo tempo anche i cosiddetti ‘german scholar’ dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
già evidenziato come un tale operare non sarebbe mai stato possibile senza la presenza di
una frontiera internazionale. Infine, è degno di nota che il contrabbando, come le varie
migrazioni che spinsero individui da una parte all’altra del confine, contribuirono,
diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, alla nascita di un sentimento di
appartenenza nazionale.
Conclusione
Per tirare brevemente le fila di quanto detto in questo capitolo vorrei sottolineare ancora
una volta i punti più salienti. Innanzitutto, spero sia emerso come la demarcazione del
confine non sia stata in alcun modo l’esito di arbitrarie decisioni coloniali. In primis perché
le amministrazioni coinvolte non ne avevano neanche lontanamente gli strumenti pratici, e
in secondo luogo in quanto furono gli stessi attori locali che, reputandolo in fin dei conti
vantaggioso, si applicarono affinché il confine fosse mantenuto. Infatti, è stato sottolineato
come venne sfruttato per regolare questioni relative alla proprietà terriera e come
strumento per cogliere le migliori condizioni dell’una o dell’altra amministrazione, prima,
e dell’una e dell’altra nazione, poi. Inoltre, come è emerso dall’analisi delle dinamiche
interne al movimento unificazionista, vorrei sottolineare ancora una volta come il
paradigma etnico non solo fosse uno dei vari sistemi di identificazione adottati, ma
peraltro, diversamente da quello che si tende a credere delle realtà africane, fu quello che
infine si decise di scartare: oggigiorno difficilmente si troverebbero persone in Ghana che
reclamino, o che anche solo ricordino, un’identità Ewe o togolese.
In conclusione del testo, di fronte al dilagare dei conflitti di frontiera ad apertura del
nuovo Millennio26, Paul Nugent rimarca la necessità di fornirsi di appropriati strumenti di
ricerca: “arguably, there is much intellectual baggage that needs to be shed and possibilities that
need to be seriously entertained”27(p. 275). Infatti, evitare di prendere in considerazione il
ruolo quotidiano della miriade di attori locali, in un contesto in cui, in mancanza di un
forte potere centrale, sono proprio queste stesse realtà ad essere maggiormente
determinanti, non può che essere fuorviante.
26
Nugent fa riferimento ai più drammatici conflitti lungo il confine tra Eritrea ed Etiopia e sulle frontiere orientali del
Congo.
27
“Probabilmente, c'è un ampio bagaglio intellettuale che deve essere abbandonato e possibilità che devono essere
seriamente prese in considerazione” (traduzione mia).