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STORIA CONTEMPORANEA E

DEL GIORNALISMO
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MODULO 1 – STORIA CONTEMPORANEA


LEZIONE 1 21/02

1. STORIA CONTEMPORANEA NELL’ETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE

Chiave di lettura proposta: quanto l’Ottocento e il Novecento hanno portato alla nascita dell'età della
globalizzazione. Età della globalizzazione che tende a spiegare un fenomeno che nell'età contemporanea e su
scala planetaria. L'ottocento e 900 offrono informazioni e strumenti critici per comprendere cos'è la
globalizzazione e quali impatti ha avuto sulle vicende di tipo economico sociale e politico.
Come è cambiato il lavoro dello storico nel momento in cui i fenomeni di globalizzazione sono accelerati tanto da
diventare la chiave caratteristica dell'epoca contemporanea.
Come la globalizzazione cambia il modo virgola di chi fa ricerca storica, di osservare il passato e le domande che
chi fa storia si pone rispetto al passato, domande che nascono dalle questioni del proprio presente.
Come le trasformazioni attuali investono il modo di interrogare il passato e come login è stato trasformato dagli
eventi passati.

Che cos’è la globalizzazione? Il termine si è diffuso a partire dagli anni Novanta del Novecento in campo
sociologico, politologico ed economico. Definisce una dimensione delle società attuali, caratterizzate
dall’interdipendenza e dalla connessione tra eventi avvenuti in luoghi anche molto distanti.

I fenomeni di globalizzazione attuale sollecitano gli studiosi del passato in due direzioni:
• Storia della globalizzazione – cause prossime e remote della globalizzazione. Alcuni studiosi
considerano che la storia dell'umanità sia la storia della globalizzazione è che quindi sia avvenuta con la
nascita delle prime comunità umane.
• Storia nella globalizzazione – studio del passato in una prospettiva globale che sottolinea i contatti tra i
diversi gruppi umani punto studio che cerca di sottolineare quanto le società umane siano entrati in
contratto tra di loro e quanto questi contatti siano aumentati man mano che si avvicina ai giorni nostri.

La ricerca storica cerca nel passato le origini di questo fenomeno presente e rivolge alla storia (a quella antica e
ancor più a quella recente) le domande che interrogano il presente.

GLOBALIZZAZIONE: QUALE STORIA?


La storia osservata in una prospettiva globale indaga i nessi tra società e culture geograficamente distanti. I
fenomeni di globalizzazione riguardano i contatti tra gruppi umani differenti.
L’interdipendenza su scala globale non crea uniformazione a livello mondiale, ma diversi gradi di mescolanza tra
le varie tradizioni, conoscenze, norme e istituzioni.
La ricerca storica studia le origini, le trasformazioni e gli esiti di queste connessioni che attraversano le frontiere
naturali, culturali e politiche
La storia internazionale osservata su scala globale descrive i conflitti armati e la competizione economica, ma
anche gli accordi di collaborazione politica e le iniziative per la salvaguardia della pace tra i popoli.

La ricostruzione storica non intende uniformare le differenze presenti nelle storie individuali o locali: non
pretende di ridurre la varietà delle vicende storiche.
L’obiettivo è capire la complessità e le connessioni tra fenomeni diversi e avvenuti in luoghi distanti, per
ricostruire il passato e comprendere il presente.

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI STORIA?


La storia è:
• Storia come sinonimo di passato, di ciò che è accaduto nel passato (fatti storici che non sono
modificabili);
• Storia come ciò che si ricorda del passato (memoria individuale, di famiglia, della nazione)
• Storia come la ricostruzione del passato sulla base del metodo storico-critico (storiografia, racconto del
passato sulla base dei documenti, può cambiare). Storiografia che ha anche a che fare con la dialettica tra
i vari studiosi.
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La storia contemporanea è la storia delle società nell’epoca dello sviluppo industriale, nel XIX e nel XX secolo.
E’ caratterizzata dall’ampiezza e dalla velocità dei fenomeni di modernizzazione avvenuti in vari ambiti:
- nell’economia
- nelle strutture sociali
- nella politica
- nella cultura

L’insegnamento di storia contemporanea offre la possibilità di conoscere le cause e le conseguenze a livello


planetario dei principali fenomeni sociali, economici e politici avvenuti dalla fine dell’Ottocento all’inizio del
Novecento. L’attenzione a queste connessioni globali è continuamente sollecitata durante le lezioni per
comprendere la complessità dei fenomeni storici internazionali.

GLOBALIZZAZIONE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA


I contatti a livello planetario si sono sviluppati nella storia dell’umanità dalle sue origini, per la tendenza
dell’homo sapiens a spostarsi da un luogo all’altro e a comunicare. I motivi prevalenti degli spostamenti e della
comunicazione erano – e sono la caccia, la pastorizia, i commerci, le guerre, i pellegrinaggi, il turismo, lo
studio…
Esito della globalizzazione, quindi, non come uniformità delle società ma piuttosto come una mescolanza di
tradizioni, usi e culture che riflettono la molteplicità di combinazioni che ci possono essere tra fenomeni globali e
locali. Questa dinamica continua tra uniformazione e conservazione della particolarità d vita ad una mescolanza
delle società. Si crea una realtà che è in continua trasformazione la cui velocità rende complicato trovare un senso
e tracciare un profilo univoco del passato, dunque, quello che si fa è cercare di seguire quelli che sono le diversità
degli esiti dei processi di globalizzazione.

I MASS MEDIA NELLA STORIA CONTEMPORANEA


La possibilità di comunicare tra luoghi distanti del pianeta è una delle cause e delle conseguenze dei fenomeni di
globalizzazione. Con la formazione delle società di massa, nell’Ottocento e ancor più nel Novecento, i mezzi di
comunicazione si sono trasformati per garantire una migliore qualità tecnica dei contenuti prodotti e raggiungere
un pubblico sempre più ampio.
I mass media hanno fatto aumentare i contatti tra culture diverse e distanti che si sono mescolate e trasformate
con velocità crescente. I mass media sono considerati come un quarto potere e quindi come un insieme di forze in
grado di condizionare le opinioni della popolazione.
L’economia e la politica nazionale e internazionale hanno condizionato lo sviluppo dei media (e viceversa)
Lo studio dei cambiamenti intervenuti attraverso la stampa, la radio e la televisione permette di capire meglio le
dinamiche della globalizzazione

STORIE CONNESSE
Soltanto la comprensione delle origini e dei protagonisti principali delle relazioni planetarie permette di capire la
complessità del tempo presente. Consente anche di valutare in modo critico le dinamiche del loro sviluppo e le
conseguenze dell’attuale globalizzazione. Per questo, insieme alla storia dell’Italia, sarà dato ampio spazio alla
storia internazionale.
La conoscenza dei mass media permette di osservare uno dei più potenti strumenti della globalizzazione e
consente anche di percepire quanto complessa sia la rete di attori, motivazioni, origini e conseguenze.

LEZIONE 2-3 [22-23/02]

2. NAZIONALISMI E IMPERIALISMI

L’ETÀ DELL’IMPERIALISMO
Periodo dalla seconda metà del diciannovesimo secolo che vide svilupparsi la politica di potenza di molti Stati
europei che puntava alla creazione di una situazione di predominio ed egomania politica, militare, economica e
culturale su popolazioni dell’Africa e dell’Asia. Questo predominio che si sviluppò fu in:
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• forma diretta – creazione del sistema coloniale dove il sistema politico e militare veniva esercitato sulle
colonie da uno dei governi delle potenze europee es. Francia con ampio impero con cui esercitava
egemonia diretta sulle sue colonie.
• forme indiretta – situazione in cui chi formalmente deteneva il potere politico sui territori erano sempre
le popolazioni locali ma dove l’influenza delle potenze straniere era in grado di determinare e influenzare
le decisioni es. America

Età in cui le relazioni internazionali furono condizionate pesantemente da un numero limitato di stati (Europa
occidentale e America del Nord) capaci di esercitare un’egemonia politica ed economica di tipo planetario.
L’imperialismo si basò su conquiste militari, annessioni di territori, asservimento delle popolazioni, sfruttamento
delle risorse naturali o egemonia politica.

Età dell’imperialismo che si può comprendere soltanto all’interno di una situazione in cui lo sviluppo economico
di tipo industriale aveva avuto un peso tale da far si che i governi legavano sempre più la crescita economica delle
industrie con il proprio ruolo di primato internazionale.

L’imperialismo, quindi, non è solo la conquista di territori distanti ma anche il legame tra egemonia e crescita
industriale, l’ulteriore crescita economica dell’industria dell’Europa nordoccidentale e degli stati uniti fu resa
possibile proprio grazie al sostegno che i singoli governi nazionali diedero, garantendo un ampliamento dei
mercati. Grazie a ciò era possibile vendere senza concorrenza i prodotti nazionali e allo stesso tempo reperire nei
territori materie prime ad un costo basso.

L’imperialismo, quindi, è un’espansione di tipo coloniale degli stati europei e degli stati uniti dove sviluppo
industriale ed egemonia politica facevano parte dello stesso progetto di dominio a livello internazionale.

Dal punto di vista culturale, l’imperialismo era legittimato dagli europei attraverso la considerazione che
esistessero popolazioni più civilizzate che avevano la missione di elevare le altre, considerate incivili: i popoli più
forti avevano dunque il diritto di imporre la propria egemonia sui popoli più deboli.

Missione di civilizzazione che legittimava operazioni di politica estera come sfruttamento delle popolazioni locali
che non erano ritenute appartenere allo stesso livello di civiltà e quindi la missione degli europei e degli americani
era di portare la civiltà in quei territori. Questa operazione di tipo culturale raccoglieva delle sensibilità e modi di
pensare che erano fortemente diffusi nella popolazione, ovvero la supremazia dell’uomo bianco.
Viene fatto quindi uso della storia come l’esaltazione della potenza europea, per giustificare tutti i gesti che
venivano compiti nelle colonie.

L’imperialismo, per via di tutte queste ragioni politiche, economiche e anche culturali, non può essere considerato
solo come una politica di potenza

I POSSEDIMENTI COLONIALI EUROPEI PRIMA DELLA GRANDE GUERRA


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INTEGRAZIONE MONDIALE E SVILUPPO INDUSTRIALE


Basi del potere imperiale, potere internazionale strettamente legato a:
• Tendenza e alla crescente integrazione delle società a livello planetario.
• Scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche che favorirono lo sviluppo industriale e la crescita dei
commerci internazionali. Era necessario garantire un flusso continuo di materie prime che dovevano
necessariamente essere importate dall’estero. Questo manifesta come la connessione su scala globale
divenne la ragione per cui gli stati, per continuare ad avere industrie forti, misero a disposizione la forza
militare per acquisire quei territori pieni di materie prime utili alle proprie industrie.
• Circolazione dei risultati delle ricerche scientifiche, i nuovi prodotti e i processi produttivi più efficienti
che contribuirono all’accrescimento della potenza delle nazioni dell’Europa nord-occidentale e degli Stati
Uniti

OLTRE I CONFINI E OLTRE GLI STATI

Tra le cause dei fenomeni di globalizzazione che spiegano anche le ragioni dell’inizio dello sviluppo delle
politiche imperialiste, vi furono:
• lo sviluppo dei trasporti marittimi e ferroviari, questo miglioramento dei trasporti era legato alle
possibilità produttive di un sistema industriale e quindi queste innovazioni portarono a sfruttare a pieno
le produzioni in acciaio e favorirono lo sviluppo del motore a vapore. Si facevano coì viaggi più sicuri,
più rapidi rispetto ai tempi di percorrenza soliti e men o costosi
• la circolazione delle materie prime e dei prodotti finiti, le innovazioni tecnologiche nei trasporti
permisero di aumentare il commercio da e per le colonie.
• le migrazioni internazionali approfittarono di queste nuove condizioni e opportunità che si aprivano nei
territori coloniali, amministrati da europei. Gli europei trovarono lavoro anche in questi territori e questo
favorì le migrazioni
• la politica coloniale europea
In conseguenza a tali tendenze, i fenomeni di globalizzazione subirono una ulteriore accelerazione.
Globalizzazione che ha accompagnato e anche reso possibile la politica di controllo imperialista, collocando su
questi territori una bassa percentuale, rispetto alla popolazione locale, di personale europeo. Inoltre, anche
nell’amministrazione coloniale i militari impegnati al controllo erano meno dell1% anche delle persone locali. Gli
europei così, con un numero relativamente basso di persone, riuscirono a controllare territori molto ampi.
Questi fenomeni di globalizzazione si autoalimentavano, bisogna vederli come un progressivo aumento dei
processi di integrazione.

COLONIALISMO E GLOBALIZZAZIONE
Rapporto tra colonialismo e globalizzazione: Civiltà sino ad allora caratterizzate da scarsi contatti con altre
società entrarono sempre più in relazione tra loro e, per questo, subirono mutamenti radicali al loro interno.
Contatti che non lasciavano immutare le società colonizzate ma neanche quelle colonizzatrici. Contatti che
portarono a mutazioni radicali legate anche alla rapidità del cambiamento. Proprio l’impatto che l’arrivo di una
nuova dominazione militare e l’introduzione di usi e tradizioni diversi resero questi territori coloniali, ma allo
stesso tempo le popolazioni dei paesi europei, partecipi di una trasformazione globale che ebbe conseguenze di
lungo periodo.

Tra i protagonisti principali di questi meccanismi di globalizzazione coloniale c’erano gli Stati e le compagnie
private che controllavano i commerci su scala mondiale potevano spostare rapidamente merci e persone da un
punto all’altro del pianeta. Gli stati mettevano a disposizione la forza militare per mantenere sicurezza nei
territori e nelle basi commerciali. Per permettere lo sfruttamento di questi territori gli “europei” esercitavano uno
stretto controllo dei territori e delle rotte di navigazione, usando la forza militare. Inizialmente la maina militare
controllava le rotte commerciali.

Fino all’inizio dell’Ottocento la colonizzazione si basava sul controllo dei porti perché l’interesse di commercianti
europei era di commerciare con questi territori tanto che produrre. Ma tutte le condizioni agevoli per le materie
prime che si avevano in questi territori portarono, sulla base di accordi, ad ampliare il controllo politico e militare
dei singoli stati europei all’interno di molti territori dell’Africa e dell’Asia. Conquista progressiva: a partire dalle
coste e poi all’interno.
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ECONOMIA E POLITICA NELL’EPOCA DELL’IMPERIALISMO


Progressivamente le nazioni europee dell’Europa nordoccidentale, che avevano già visto nell’Ottocento una
crescita economica industriale sostenuta, furono protagonisti di un’espansione coloniale che produsse la crescente
specializzazione delle economie di questi paesi verso le produzioni di tipo industriale.

Proprio la globalizzazione e anche grazie a tutti questi meccanismi, permisero il processo mondiale di divisione
del lavoro ebbe conseguenze economiche su vasta scala.
In conseguenza alle nuove forme di organizzazione del lavoro industriale, aumentò la produttività, vale a dire la
capacità dei fattori della produzione (manodopera, materie prime, capitali) di accrescere i risultati della
produzione (per esempio, merci e servizi).

Per le forti discontinuità con il periodo precedente, gli storici definiscono questa fase “seconda rivoluzione
industriale”. Cambiamento legato alla grandezza delle imprese, dalla metà dell’Ottocento, in Europa e negli Stati
Uniti, per garantire maggiori livelli di produzione e di profitto, aumentò la grandezza delle imprese.
Continuavano ad esistere le industrie di piccole e medie dimensioni ma la scena economiche di questi paesi si
basava principalmente sulle grandi industrie.

AUMENTO DEMOGRAFICO E URBANESIMO


Un altro elemento da tenere presente per comprendere le dinamiche dell’imperialismo e le trasformazioni della
storia è l’aspetto demografico. Aspetto che spesso viene poco considerato ma che è determinante per spostare figli
equilibrio di tipo economico e politico. Nel corso dell’Ottocento si registrò un forte incremento della popolazione
e si espansero i centri urbani, in particolare in Europa e nelle Americhe.

In Europa, negli ultimi decenni dell’Ottocento, avvenne una crescita notevole della popolazione (da 300 a 400
milioni circa, soprattutto in Germania e in Russia). Le popolazioni europee dopo l’aumento demografico erano
sottoposte al rischio di povertà, surplus di popolazione rispetto alle risorse disponibili portò alla via delle
migrazioni.
Aree urbane maggiormente interessate da aumento demografico proprio per via dell’aumento delle industrie e dei
commerci, serviva la manodopera per questo portò sempre di più le persone a spostarsi verso le aree urbane e i
porti.

In Asia e in Africa, il controllo delle potenze coloniali condizionò, fino a compromettere, le tradizionali strutture
economiche e sociali locali. Strutture che potevano essere definite arcaiche, basate su un sistema dove gli attori
dell’economia erano nuclei famigliari e villaggi, questi vennero sostituiti progressivamente da imprenditori privati
che investivano il loro capitale (sistema capitalistico ed economico portato dagli europei, ricerca del massimo
profitto). Le popolazioni colonizzate reagirono attraverso forme di sottomissione, adattamento o ribellione alle
potenze imperiali.

El nino – fenomeno climatico che porta ad una circolazione di aria calda, si intensificò negli anni 70 e 80
dell’Ottocento, provocando periodo di intensa siccità nell’area dei tropici, colpendo alcune regioni dell’Africa
centrale.
Quello che accadde e che questo fenomeno climatico ebbe un impatto disastroso sulle popolazioni locali che
avevano già visto modificato il loro sistema economico. In molte regioni dell’India per ovviare a queste siccità e
carestie le comunità costituivano delle riserve che potevamo essere usate in caso di necessità. L’arrivo degli
europei e la presenza sempre più ampia di un sistema di produzione capitalistico, che punta alla massimizzazione
del profitto, diminuì la possibilità dei villaggi di mantenere le scorte. In una prospettiva di breve periodo queste
scorte erano inutili per un massimo profitto; quindi, questa assicurazione che le persone si erano create venne
meno e portò le persone a vendere le loro materie prime cadendo in povertà e carestie che provocarono alcuni
milioni di morti.
Fenomeno naturale che portò a gravi conseguenze per le popolazioni sottomesse a questi cambiamenti economici
ma anche ai colonizzatori che non seppero come arginare questa crisi e come procurarsi ulteriormente materie
prime. Questo portò ad un sottosviluppo di questi paesi che poi vennero chiamati paesi del terzo mondo e
accrebbe ancora di più il divario tra questi paesi e quelli occidentali.

L’AGRICOLTURA IN TRASFORMAZIONE
Le attività agricole continuavano ad avere una rilevanza notevole nell’economia e nell’organizzazione di
molte società → la maggior parte delle popolazione mondiale e europea continuava ad occuparsi di agricoltura.
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L’agricoltura fu però sempre più condizionata dalle dimensioni internazionali dell’economia → in agricoltura ci
fu l’impatto dell’industrializzazione.
L’aumento degli scambi commerciali a livello mondiale ebbe impatto sui sistemi agricoli in tutto il mondo.
Questo comportò una crisi agricola, la crisi agricola di fine Ottocento fu alla base dei flussi migratori imponenti
dall’Europa soprattutto verso le Americhe→ i prodotti che provenivano dalle colonie iniziavano ad essere
competitivi con quelli prodotti in Europa. Ci furono anche casi fortuiti come la malattia delle patate che causò
problemi non indifferenti in Irlanda e la successiva migrazione.

CRESCITA ECONOMICA E GRANDE DEPRESSIONE


La crescita degli scambi portò alla nascita di un commercio mondiale nel quale erano stabiliti i prezzi
internazionali delle merci → i sistemi economici delle singole nazioni erano sempre più interdipendenti. Non
c’era più una economia di villaggio, ma tutti i sistemi economici erano connessi e si condizionavano a vicenda
(anche in negativo con le crisi).

A causa della dimensione planetaria dell’economia, la “grande depressione” (1873- 1896) si propagò dall’Europa
al resto del mondo→ abbassamento dei livelli della produzione agricola che ebbe impatto sui livelli di reddito e
condizioni di vita dei contadini (co nell’Europa mediterranea e orientale costituivano l’80%della popolazione). Ci
fu un abbassamento dei prezzi delle merci causato da quelle in arrivo dall’estero.

LE COMPETENZE DEGLI STATI TRA POLITICA INTERNA E POLITICA ESTERA


Tradizionalmente gli stati avevano come competenza quasi esclusiva la gestione e amministrazione della
giustizia, riscossione delle tasse e la politica estera. Con la crescente complessità dei sistemi sociali ed economici
anche le strutture politiche cambiarono, la struttura dello Stato si trasformò e aumentarono i suoi compiti in
campo economico e sociale.

L’intervento dello Stato in economia contrastava con l’idea liberale di non ingerenza, lo stato non doveva
occuparsi dell’economia. Teoria di non ingerenza che venne superata anche nei paesi europei dove esisteva un
sistema di tipo capitalistico con una grande presenza di imprenditori e investitori privati che rischiavano il proprio
capitale per ottenere dei profitti. Proprio questa dimensione sempre più imperiale della politica e degli stati
europei portarono a coinvolgere direttamente lo stato nelle vicende economiche. Questo significò che crebbero le
pressioni degli imprenditori privati verso lo stato perché lo Stato regolasse la competizione all’interno (favorendo
gli imprenditori che avevano già un ruolo consistente all’interno dell’economia della nazione) e limitasse la
concorrenza dall’estero (grande depressione che fu proprio causata dai costi delle materie prime provenienti
dall’estero).

Dazi – tasse che possono essere imposte alle merci provenienti dall’estero, le merci che arrivano ad un certo
prezzo, inferiore rispetto al mercato interno, vengono gravati da una tassa che porta all’aumento del loro prezzo.
Con la tassazione gli stati possono favorire la produzione interna. Ma la tassa viene pagata, non tanto da chi
importa dall’estero, ma dal consumatore finale che si ritrova a pagare un prezzo esagerato. Questa politica di
pressione sugli stati per limitare la concorrenza dall’estero, infatti, si tradusse in un innalzamento dei prezzi
dall’estero nell’area europea, soprattutto delle merci agricole.

Lo stato viene sollecitato dalla stessa popolazione nell’economia e le regole del mercato del libero scambio
vengono falsate. La volontà degli stati di rispondere ai cittadini contribuì all’aumento delle competenze degli stati.

NAZIONALISMO E AUTORITARIS MO
L’obiettivo degli stati era sostenere lo sviluppo delle imprese nazionali e rispondere ad alcune richieste provenienti
dai ceti popolari. Si affermò così l’dea e la realtà di uno Stato forte, stato che deve rafforzare le sue strutture, gli
organi e le istituzioni attraverso le quali lo stato svolge il suo potere:
• esercito
• burocrazia – sistema dell’amministrazione pubblica attraverso la quale gli stati erogano i loro servizi
• polizia – forza interna che ha come obiettivo quello di mantenere l’ordine pubblico

L’intenzione dei governi, soprattutto dei paesi nordoccidentali, era guidare uno sviluppo sociale senza scosse,
puntando sul sostegno di quelle attività industriali che erano in grado di sorbire una quota rilevante di
popolazione abbassando così il rischio di disoccupazione ed evitando la possibilità di vedere esplodere sommosse
e proteste. Creare uno sviluppo economico e sociale che non portasse ad un sovvertimento degli equilibri.
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Le scelte fatte dagli stati erano politicamente conservatrici e autoritarie e cercavano di far sì che le classi diligenti
al potere non venissero soppiantate da un potere politico democratico. Inoltre, queste politiche erano autoritarie
ma non chiuse alle questioni sociali es. politiche fatte per l’istruzione minima e sistema assistenziale per i
lavoratori.

LE POLITICHE DELLE NAZIONI


Gli Stati adottarono una serie di provvedimenti per rispondere alle richieste “nazionali”, in particolare nei
seguenti settori:
• Protezionismo doganale – per difendere le merci nazionali da quelle importate
• Legislazione sociale – per proteggere i ceti meno abbienti attraverso assicurazioni sul lavoro, prime forme
di pensione
• Politica scolastica – per garantire e rendere obbligatoria l’istruzione elementare
• Gestione pubblica dei servizi - gli stati per favorire la crescita di imprese e industrie locali tendono a
municipalizzare alcuni servizi (come quello della distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica).
Municipalizzando si costituiscono delle società di carattere pubblico invece che privati.

LE CONSEGUENZE DI LUNGO PERIODO


Tra le conseguenze dell’ampliamento dei poteri statali vi furono:
• l’aumento dei poteri dei governi e l’estensione degli apparati burocratici
• un più stretto intreccio tra politica e affari
• l’allargamento del suffragio elettorale nei paesi imperiali, anche per l’accresciuto ruolo delle masse
popolari e l’organizzazione dei partiti politici. La possibilità di eleggere i propri rappresentanti al
parlamento era, infatti, circoscritto soltanto a coloro che potevano garantire un reddito, solo le persone
che avevano un certo livello economico e di istruzione. In una situazione dell’allargamento della società
di massa e dell’aumento dei sindacati e dei partiti di massa cresce anche la richiesta verso le istituzioni
dello stato di allargare il suffragio anche a colo che non hanno u reddito elevato o un’istruzione adatta.
Questo fece si che i governi decidano progressivamente di allargare la possibilità di poter votare i propri
rappresentanti.

Tutte queste conseguenze portarono così a tenere conto anche dei rappresentati che sono portatori di esigenze del
popolo. Trasformazione complessiva all’interno delle società che ha a che fare con le trasformazioni globali. La
necessità di garantire una copertura degli interessi nazionali al di fuori dei confini nazionali, porta gli stati ad
avere l’esigenza anche di prendere provvedimenti che permettano di rispondere a quelle esigenze dei ceti popolari
che devono essere esaudite per riuscire a garantire il consenso alle politiche generali dello stato e alla stabilità del
potere.

LEZIONE 4-5 [28/02-01/03]

3. LA CORSA ALLE COLONIE

IL SISTEMA INTERNAZIONALE
Per condurre la politica espansiva, che caratterizzava l’imperialismo, in Europa, si strinsero alleanze tra singole
nazioni attraverso cui si confermava e rafforzava il principio nazionale. In questo modo si riusciva a garantire, da
un lato, una sorta di pace ed equilibrio per l’Europa e, dall’altro, il controllo e la conquista delle singole colonie.
La corsa alla conquista delle colonie viene intesa non come una singola conquista di una singola nazione ma
come un movimento e una tendenza che caratterizzò molte nazioni europee, le quali si accordavano tra di loro
per costruire una sorta di competizione internazionale ma che tendeva il più possibile ad evitare conflitti tra le
nazioni impegnate.

Per questa ragione, l’età dell’imperialismo viene anche definita come l’età dei nazionalismi perché questa politica
di potenza e di egemonia a livello internazionale si accompagnava, all’interno dei singoli stati, con un discorso
pubblico che puntava ad esaltare il ruolo e l’identità nazionale, in nome di una data superiorità della propria
nazione rispetto alle altre. Questo impulso nazionalista fu proprio alla base dell’imperialismo.
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Imperialismo e nazionalismo furono le due facce della stessa politica che in quegli anni si sviluppò in Europa. In
particolare, il nazionalismo si basava sulla ricostruzione di un passato nazionale, spesso mitico che affondava le
radici in un tempo passato indistinto, accomunato anche da lingua e tradizioni comuni. La nazione aveva quindi
un diritto ad esistere grazie alla lingua o ad un passato comune e storico. Questa tendenza ha anche a fare anche
molto con la cultura, con il modo con cui si racconta il passato e la cultura stessa.

Il sovrano e i governi affermavano sovranità assoluta su un territorio nazionale, abitato da un popolo nazionale
caratterizzato da una unità linguistica e culturale. Questa volontà di affermare la sovranità assoluta degli stati si
riflesse sulle relazioni internazionali che si caratterizzarono per la tendenza alla ricerca di una stabilità e, di fatto,
a individuare nell’equilibrio tra le nazioni il principio cardine all’interno del quale costruire le relazioni politiche
tra i singoli stati. Si cercava di conservare un equilibrio mondiale dove i grandi stati europei avevano un ruolo
centrale, tutto questo all’insegna della volontà di non rompere mai questo equilibrio che si era creato con il
congresso di Vienna nel 1815.

LA FORMAZIONE DEGLI IMPERI COLONIALI


L’imperialismo, dunque, è da comprendere all’interno di questa complessa costruzione culturale che ha a che fare
con il nazionalismo e con la convinzione della superiorità, economica, politica, militare e morale della civiltà
europea. Inoltre, fu anche un fenomeno complesso legato alla fase di capitalismo maturo della fine del XIX
secolo.
Capitalismo maturo – sistema economico centrato sugli investimenti di capitale e sulla massimizzazione dei
profitti, aveva avuto un’accelerazione nelle sue capacità di produrre reddito e profitto proprio con la crescita dei
sistemi di tipo industriale.

L’imperialismo, dunque, come volontà di affermazione del primato imperiale delle nazioni europee e di alcune
extraeuropee, caratterizzò questa fase della storia, tra fine Ottocento e inizio del Novecento. A differenza delle
imprese coloniali che avevano caratterizzato i secoli precedenti (spagna e portogallo nei paesi dell’America
Latina), a caratterizzare maggiormente questa fase fu lo stretto legame tra interessi economici e iniziative
politiche e militari degli stati, si rafforzò il rapporto tra interessi economici e iniziative politico-militari degli Stati.
Questo intreccio si tradusse nella competizione e nei conflitti per il controllo di aree estese fuori dell’Europa. Ci si
ritrova così difronte ad una contraddizione:
• da un lato la volontà di mantenere una pace e un equilibrio in Europa
• dall’altro lato la competizione internazionale per il controllo dei territori coloniali
Si tratta, quindi, di un equilibrio instabile, continuamente messo in discussione che però riuscì a garantire, per
circa 50 anni (dal 1870 al 1914) un periodo di pace in Europa. Questo ricerca di equilibrio, da una parte, e la
competizione internazionale dall’altra, però, giunse ad un punto di rottura proprio nel 1914 con lo scoppio della
Prima guerra mondiale.

IL COLONIALISMO IN AFRIC A E IN ASIA

Prima dello scoppio della Grande Guerra, nel 1914, quasi tutta l’Africa
era controllata dalle potenze coloniali europee. Facevano eccezione
l’Etiopia (africa orientale) e la Liberia (africa occidentale).

In Asia la situazione era molto più variegata rispetto a


quella dell’africa. Anche qui c’erano territori che erano
controllati direttamente dalle potenze europee come il
sud continente indiano che era controllato dalla Gran
Bretagna oppure la Francia che era giunta a controllare
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una parte considerevole della penisola indocinese (Vietnam, Cambogia e Laos). C’erano poi anche altri territori
che erano controllati indirettamente, cioè formalmente c’era un legislatore locale ma il potere economico era
controllato dagli stessi eserciti e imprenditori europei.

LA CONFERENZA DI BERLINO
A livello diplomatico risultò immediatamente evidente ai governi europei che la competizione coloniale, condotta
senza una regolamentazione preventiva tra gli stati europei, poteva portare a dei conflitti.
Con la Conferenza di Berlino del 1884-1885 si giunse alla risoluzione delle tensioni tra nazioni europee per
ridurre il rischio di conflitti causati dalla corsa alle colonie.
Alla conferenza di Berlino parteciparono le principali nazioni europee per definire le regole, attraverso le quali,
avrebbero dovuto essere condotte le conquiste coloniali sulla base di accordi reciproci tra gli stati coinvolti.
In questa conferenza fu stabilito il diritto di ciascuna potenza europea di estendere i propri possedimenti dalle
coste, dove erano stati installati porti e snodi commerciali, fino all’interno e fino alle zone di penetrazione di altre
potenze. Si considerò, quindi, l’africa e l’asia come una sorta di tabula rasa dove gli europei costruirono a tavolino
quelli che erano i territori di rispettiva competenza e controllo. Questi accordi furono fatti senza considerare
minimamente le popolazioni dei paesi colonizzati, quindi, le potenze europee decisero le sorti di questi
possedimenti coloniali.

LE CONSEGUENZE DEL COLONIALISMO


I paesi colonizzatori ottennero i maggiori vantaggi politici ed economici.
• Dal punto di vista economico, con la possibilità di approvvigionarsi di materie prime a basso costo e di
sfruttare la manodopera a costi inferiori, le conquiste coloniali riuscirono ad attenuare la crisi degli stati
interni che caratterizzò molte economie europee. Con l’espansione coloniale si riuscì, quindi, a superare
il periodo della grande depressione che colpì le economie europee alla fine degli anni ’20.
• Dal punto di vista politico diplomatico, le conquiste coloniali riuscirono a far sì che le tensioni tra gli
stati europei si scaricassero fuori dall’Europa, portando un periodo di pace continentale (1870-1914).

UN MONDO DI COLONIE
La dominazione coloniale si basò sul saccheggio delle risorse naturali, sullo sfruttamento delle popolazioni e sulla
violazione dei diritti umani.

La presenza europea introdusse elementi di modernizzazione economica e sociale nelle colonie. Vennero resi più
rapidi e frequenti i contatti tra popolazioni che erano vissute a lungo isolate, queste popolazioni vennero messe in
contatto con usi e oggetti che portarono un forte impatto sulle popolazioni. Modernizzazione imposta, non per
migliorare le condizioni di vita di quelle popolazioni ma per aumentare la potenza politica degli stati europei e i
profitti delle aziende impegnate nell’economia coloniale.

La corsa alle colonie provocò un aumento del divario economico tra i paesi industrializzati e il resto del mondo.
Divergenza che si era già registrata dal Settecento in avanti, in conseguenza allo sviluppo industriale. Si
rafforzarono così le economie dei paesi europei mentre quelle dei paesi colonizzati continuavano a rimanere
stabili senza alcun miglioramento perché quelli che ne traevano beneficio erano i paesi europei.

Infine, la capacità degli europei di conquistare rapidamente territori molto vasti fece anche aumentare la
convinzione, tra gli europei, della superiorità della razza bianca, proprio sulla base della potenza militare ed
economica evidente rispetto agli altri paesi.

L’ORGANIZZAZIONE DEL DOMINIO COLONIALE


Furono diversi i modi di organizzare il dominio coloniale e questi vasti imperi, non soltanto per il modo di
organizzare le relazioni internazionali ma anche il dispiegamento della propria forza militare. L’obiettivo
dell’organizzazione coloniale non fu sempre identico, infatti, le singole nazioni, sia per tradizioni politiche, ma
anche per tendenze culturali, imposero ai domini coloniali un sistema di amministrazione coloniale organizzato
in modo diverso. L’obiettivo comune, però, era rafforzare il controllo politico, militare ed economico delle
potenze europee sui territori coloniali.
Questo sistema di imposizione e controllo su vasti territori fu possibile grazie anche agli accordi con alcuni gruppi
locali che permetteva un maggiore controllo della popolazione.
10

Dominazione coloniale da immaginare non come un sistema in cui ci sono dei dominatori e dei dominati, ma
anzi esistevano gruppi intermedi, rappresentati da una parte delle élite locali, che strinsero accordi con i governi o
con i singoli esponenti e commercianti europei per aiutare, sostenere e ottenere dei vantaggi.
Sistema coloniale che teneva proprio in considerazione di come, questi gruppi locali, contribuirono alla possibilità
di un numero molto basso di persone europee coinvolte nelle colonie.

LE COLONIE BRITTANICHE

La Gran Bretagna, per quanto riguarda


l’organizzazione coloniale, intendeva creare una
federazione di popoli (il Commonwealth).
Modello di organizzazione basato su una
federazione e insieme di popoli dove la Gran
Bretagna aveva il ruolo predominante.
Lo scopo era legare i territori coloniali con rapporti
di dipendenza, meno stringenti per i territori abitati
in maggioranza da popolazioni di origine europea.
Obiettivo di creare anche uno spazio di commercio
comune all’interno del quale si sarebbe dovuta
sviluppare l’economia della Gran Bretagna
imperiale.

La Gran Bretagna organizzò i suoi possedimenti in


• colonie (Nigeria, India)
• protettorati (Egitto e alcuni stati dell’India) dove il governo, di fatto, era della Gran Bretagna ma
formalmente c’erano dei governatori locali
• dominions (caratterizzati da una presenza cospicua di europei, un governo parlamentare e fedeltà alla
corona: Canada, Australia, Nuova Zelanda, Unione Sudafricana). La condizione di legame tra questi
territori era quindi molto diversa rispetto alle atre colonie, anche per il fatto che c’erano delle forme di
autonomia e autogoverno che non si ritrovano negli altri territori coloniali.

IL COLONIALISMO FRANCESE
La Francia intese organizzare i propri possedimenti coloniali in una firma più centralizzata rispetto alla Gran
Bretagna, sulla base di una tradizione di organizzazione del sistema statale, molto più centralizzato dal punto di
vista:
• amministrativo
• burocratico
La volontà del governo francese era quello di far entrare nei sistemi coloniali il sistema capitalistico e un sistema
amministrativo fortemente centralizzato, gerarchicamente ordinato sulla base del principio di superiorità e di
controllo centrale del governo di Parigi all’interno de sistema burocratico statale. Questo sistema lasciava molta
poca autonomia alle colonie e agli organismi pubblici locali.
Soprattutto dopo il 1870, la politica coloniale francese – iniziata già in precedenza – ebbe un forte sviluppo

Un altro principio che fu alla base dell’organizzazione coloniale francese fu l’assimilazione culturale delle
popolazioni colonizzate, soprattutto nelle colonie più antiche (Guyana, Senegal, Cocincina).
Venne introdotto l’uso della lingua francese in tutto il sistema scolastico locale poco sviluppato, francese che
doveva essere usato nei contatti e legami tra la popolazione e l’amministrazione coloniale francese.
Volontà di riprodurre nel sistema coloniale un’idea di Francia basata sulla forza e sulla capacità di controllo delle
istituzioni pubbliche statali e attraverso l’uso imposto della lingua francese in modo tale da rendere quelle
popolazioni il piú possibile simili, nella lingua e nella cultura, alla tradizione francese europea.
11

La presenza francese in Africa si caratterizzava per una


situazione particolare in Algeria. L’Algeria, invasa nel 1830,
soltanto trent’anni dopo fu sotto il pieno controllo militare e
politico francese.
Sulla base dei progetti di colonizzazione dell’Algeria iniziò una
consistente migrazione dall’Europa. L’Algeria divenne paese di
immigrazione tanto che poi, nel corso del Novecento, era una
delle colonie europee con la maggior presenza di europei (12-
15% della popolazione totale).
Nei territori algerini, con un’elevata presenza di europei, cioè
che si riproduce fu simile a quello che si aveva negli altri
territori coloniali, ma con una differenza: gli europei che
emigravano in Algeria avrebbero ottenuto la cittadinanza
francese, questo fu uno degli elementi che favorì maggiormente
l’arrivo degli europei.
In questi territori, però la popolazione locale musulmana
veniva discriminata rispetto a quella europea e non avevano la
pienezza dei diritti che venivano riconosciuti agli europei.
L’Algeria divenne un possedimento esclusivo della Francia, parte integrante della metropoli. La Francia stabilì
infatti che i territori algerini avessero una forma di amministrazione diversa dagli altri territori coloniali. Fu
definito territorio metropolitano e quindi quasi come se fosse un territorio della Francia continentale europea.

IL GIAPPONE IMPERIALE
Alla fine dell’Ottocento avevano iniziato ad emergere alcune potenze che progressivamente entrarono in
competizione, nella corsa alle colonie, con gli stati europei. Una di queste nazioni è proprio il Giappone.
Inizialmente il Giappone si basava sulla volontà di mantenersi distaccato e al di fuori dai commerci europei, ma
questo venne meno quando venne istituita la politica del cannoniere, ovvero una politica che si basava sulla
minaccia militare da parte degli Stati Uniti verso il Giappone che lo costrinsero ad aprire i porti alle navi e alle
merci occidentali. Di fronte a questa opposizione esterna, la classe politica dirigente del Giappone seppe cogliere
l’occasione per iniziare una fase di modernizzazione, avvenuta proprio nell’ultimo trentennio, con l’intervento
determinante dello Stato soprattutto a causa delle pressioni coloniali. Si trattava di un’intensa industrializzazione
finanziata maggiormente dallo stato.
Di fronte alla sfida delle potenze imperiali, quindi, il Giappone riuscì a mantenere la sua indipendenza politica e,
al tempo stesso, seppe sfruttare la presenza occidentale per modernizzare la società, ed in particolare per
modernizzare l’economia.

Originariamente l’economia giapponese era basata su una forte capacità di produzione artigianale, si aveva
un’economia più basata sula piena occupazione della forza lavoro, economia che era caratterizzata dal forte peso
dell’economia agricola e artigianale. Con l’occasione di aprirsi ai commerci anche con le potenze europee, il
Giappone, riuscì a dar vita ad una fase di intenso sviluppo industriale.
Questo fece si che nell’arco di pochi anni fossero impiantate nuove industrie finanziate dallo stato, inserite,
soprattutto, nel settore metallurgico, grazie alle quali fu reso possibile incrementare la forza della marina militare.
In poco tempo si ebbe una crescita molto rapida di tipo industriale finanziata dallo stato ma controllata da
imprenditori privati.
La politica di sostegno dello stato per la crescita industriale si accompagno con la formazione di grandi
concentrazioni monopolistiche commerciali e industriali che contribuirono al carattere autoritario del regime
politico guidato dall’imperatore. C’erano grandi aziende in accordo tra di loro che avevano il controllo
monopolistico, totale, di alcuni settori dell’economia giapponese, anche in questo caso il ruolo dello stato aveva
un legame molto stretto con il ruolo degli imprenditori privati. Questa politica però, introducendo una nuova
classe sociale caratterizzata dagli imprenditori e dai nuovi settori industriai che si erano venuti a creare, fece
diminuire notevolmente il potere dei grandi proprietari terrieri.

La situazione del Giappone però, fu caratterizzata, dal punto di vista politico e industriale, da una crescita del
nazionalismo e da una politica estera aggressiva.
Per potersi garantire dei rifornimenti a basso prezzo per le materie prime indispensabili alle sue industrie, il
Giappone, lanciò una politica estera aggressiva verso i territori più vicini, dove erano presenti le materi prime
indispensabili per il suo sviluppo industriale.
12

L’attenzione del Giappone si rivolse,


soprattutto, verso la regione della Cina
chiamata Machuokuo (Asia orientale al
confine con l’impero russo). Il Giappone,
forte della sua crescita e del suo esercito, si
rivolse a questi territori della Cina ricchi di
carbone e minerali, con una forte politica di
tipo coloniale. Su questi territori, però,
erano in campo anche gli interessi del vicino
impero russo, per questa ragione, infatti, il
Giappone iniziò un conflitto con la Russia
nel 1904 che si concluse nel 1905 con la
vittoria del Giappone sulle truppe russe.
Questo conflitto segnò un momento di
svolta negli equilibri internazionali,
caratterizzati dal predominio imperiale europeo. Infatti, fu il primo caso, in epoca contemporanea, in cui uno
stato non europeo sconfiggeva una grande potenza europea come la Russia.
In questo confronto militare il Giappone riuscì a sconfiggere la Russia e ad avere il controllo indiretto ma effettivo
del territorio al confine tra la Russia e la Cina.

Infine, la politica del Giappone si rivolse anche verso la corea e quindi, progressivamente, il Giappone cominciò
ad estendere il proprio controllo per il reperimento delle materie prime, fino ad arrivare ad alcune isole del
pacifico, indispensabili per controllare le rotte marittime principali.
Questa proiezione del Giappone verso l’oceano Pacifico fece crescere le tensioni con gli Stati Uniti, che in quegli
anni avevano iniziato una loro politica di presenza imperiale proprio in quei territori.

LA CINA
Il vasto territorio cinese aveva reagito alle pressioni europee in modo diverso, anche per la debolezza del sistema
imperiale e per le difficoltà economiche legate al fatto di non essere stato in grado di cogliere delle possibilità di
sviluppo di tipo industriale.

Verso la metà dell’Ottocento la Cina si presentava come un territorio politicamente frammentato che aveva, nella
figura dell’imperatore, l’unico simbolo della sua unità. In questa situazione di mancanza di un potere centrale e di
frammentazione dei poteri, le potenze europee, con relativa facilità, riuscirono ad imporre alla Cina l’apertura di
relazioni commerciali con l’estero. Venne utilizzata la stessa politica che venne introdotta per il Giappone, con la
differenza che la classe dirigente cinese fu incapace di contrastare la penetrazione delle potenze occidentali, non
seppero reagire e lasciarono spazio alla presenza europea. Si ebbe infatti, un ulteriore indebolimento del potere
centrale e una maggiore presenza di truppe e imprese commerciali europee e statunitensi.

La “guerra dell’oppio” (1840-1842) – fu provocata dal commercio di contrabbando degli inglesi Scoppiò nel
momento in cui gli inglesi, che intendevano controllare il commercio dell’oppio e delle droghe, si scontrarono con
la volontà dei commercianti cinesi che tradizionalmente, controllavano questo commercio. In questo modo alla
Cina vennero imposti i cosiddetti trattati diseguali, trattati commerciali che favorivano gli inglesi rispetto ai cinesi.
Con l’uso della forza armata, quindi, la Gran Bretagna riuscì a garantirsi la via privilegiata del commercio
dell’oppio, si avevano prezzi più vantaggiosi delle merci prodotte in Cina.

Dal punto di vista politico, l’impero cinese cercò di mettere in atto alcuni tentativi di riforme politiche e sociali
dell’impero, ma che fallirono. Anzi, questo non fece altro che aumentare le tensioni all’interno della Cina, con la
nascita di movimenti popolari cinesi di reazione allo straniero. Nacquero i gruppi Boxer che erano un gruppo
estremista e xenofobo, gruppo che mise in atto attacchi contro gli occidentali, provocando così la reazione delle
potenze europee di intervenire per garantire gli interessi europei nel grande impero cinese (1898-1901). Di fronte a
questa ulteriore presenza militare ed economica degli europei, l’economia cinese e la politica uscirono
ulteriormente indebolite. In particolare, il potere centrale non era più in grado di controllare le spinte
indipendentiste e di secessione in diverse aree dell’impero.

In seguito a questa presenza militare europea e statunitense e alla volontà di un controllo sempre più stretto
dell’ampia rea cinese, fece sì che nel 1911 la capitale Pechino fu occupata da forze europee. Questa occupazione
provocò la fuga dell’imperatore e nel 1912 fu proclamata la repubblica, formalmente governata dai cinesi ma
dipendente dalle potenze europee e dagli Stati Uniti.
13

L’esito fu la caduta del potere dell’imperatore con un controllo fortissimo dell’economia da parte degli stranieri.
Aumentò il controllo straniero sulla Cina.

IL RUOLO MONDIALE DEGLI USA


Dalla seconda metà dell’Ottocento, iniziano ad avere un ruolo internazionale di primo piano gli Stati Uniti.
L’impetuoso sviluppo industriale e agricolo permise agli Stati Uniti di assumere un ruolo politico e militare di
primo piano: nel 1914 erano il primo produttore mondiale di ferro, carbone, petrolio, rame e argento, tutte
materie prime indispensabili per garantire un rafforzamento dell’esercito e uno sviluppo industriale.
La spinta al rafforzamento della potenza economia e politica degli stati uniti si mosse in due direzioni:
- Verso l’interno prima, con l’espansione verso ovest (il Far West), con l’appropriazione delle terre appartenute ai
nativi, che fu accompagnata da nuove coltivazioni e dalla costruzione di un’estesa rete ferroviaria.
Cambiamenti economici affiancati ad un crescente arrivo di migranti dall’Europa orientale e meridionale (new
migration). Fattore demografico che permette di capire meglio il complesso insieme di fattori che determinò le
trasformazioni della società americana.
L’economia degli stati uniti fu in forte crescita nel corso dell’Ottocento e questo si dimostrò essere un fattore di
attrazione potente per i gruppi, sempre più consistenti di migranti provenienti dall’Europa. Gli Stati Uniti, che
avevano necessità di migliorare la loro economia e di avere una manodopera tale da aumentare le produzioni,
aprirono i porti all’arrivo di migranti, privilegiando però l’arrivo di europei rispetto alle popolazioni asiatiche. In
questa fase si presenta, quindi, uno dei tratti principali del nazionalismo statunitense, che era fortemente timoroso
dall’arrivo di migranti e lavoratori provenienti dalla Cina.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento si registrò un cambiamento nella composizione dei flussi migratori. Se, fino
alla metà dell’Ottocento, i migranti che approdavano negli stati uniti erano soprattutto provenienti dall’Europa
nord-occidentale, in seguito alla crescita dell’industrializzazione aumentarono i migranti provenienti dall’Europa
meridionale e orientale.

- Verso l’esterno dopo, nel 1867, gli Stati Uniti acquistarono l’Alaska dalla Russia. Nel 1898, furono annesse le
Hawaii; dopo aver sconfitto la Spagna, gli Usa controllarono l’isola di Cuba e Portorico. Infine, il controllo del
canale di Panama consentì agli Stati Uniti un predominio strategico ed economico nel continente americano,
collegava rapidamente le due coste del continente americano. Con il controllo del canale di Panama gli Stat Uniti
si protendevano con maggiore facilità verso l’area dell’Oceano Pacifico e potevano controllare i traffici che
attraversavano il passaggio.

Gli Stati Uniti divennero protagonisti sulla scena mondiale, però, a differenza delle altre potenze europee, che
utilizzavano una politica di controllo diretta dei territori coloniali, scelsero una politica di controllo dei territori
diversa proprio per il fatto che erano stati loro stessi, prima, un paese colonizzato.
Nel discorso pubblico degli Usa, la politica coloniale classica con controllo diretto dei territori, quindi, sembrava
stridere con la narrazione del passato della nazione basata sulla liberazione dai colonizzatori britannici. Quello
che fecero fu, dunque, scegliere una politica di controllo indiretto dei territori su cui avevano l’ambizione di
esercitare il proprio controllo. Anche se in alcuni casi vi fu un controllo diretto, come nel caso delle Hawaii,
generalmente la scelta era nella direzione di costituire e lasciare la formazione di un governo autonomo nelle
mani delle popolazioni locali. Controllo indiretto che permetteva però agli stati uniti di avere sia un controllo
politico che economico sui territori.

LA RUSSIA ZARISTA
Un’altra potenza, in crisi che però continuò ad esercitare un certo ruolo internazionale, fu la Russia. Grande
territorio per estensione governato da governi autoritari con una concentrazione del potere nelle mani del
sovrano, dello zar.
La Russia zarista era caratterizzata da un sistema economico che appariva arretrato, se confrontato con quello
dell’Europa occidentale. Nella seconda metà dell’Ottocento, i contadini erano ancora la base portante della
società russa. Gravi erano le situazioni di povertà e forti le diseguaglianze. Vi erano poi anche poche industrie e
mancava una borghesia imprenditoriale. Riflettendo questa situazione di forte disuguaglianza sociale ed
economica, la Russia era retta da un sistema politico dove lo zar esercitava un potere assoluto, nemmeno mediato
o moderato dalla presenza di una camera rappresentativa. Questa situazione era ulteriormente aggravata dal fatto
che vi era una burocrazia immobile dove le rivolte agrarie erano duramente represse e dove la polizia segreta
controllava intellettuali e partiti politici.
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Anche la Russia aveva delle ambizioni imperiali e la sconfitta nella guerra contro il Giappone del 1905 fece
esplodere le tensioni sociali dovute alla scarsità delle terre a disposizione dei contadini, alla pesante tassazione e
alle trasformazioni provocate dal limitato sviluppo industriale.
I moti popolari costrinsero lo zar a introdurre caute riforme, con l’introduzione di un sistema parlamentare di
rappresentanza politica che prese il nome di Duma.
La duma era il parlamento che intendeva dare una certa rappresentanza politica che però era limitata a coloro che
avevano un certo reddito, erano proprietari terrieri o a coloro che avevano un certo grado di istruzione, era una
rappresentanza su base censitaria che teneva fuori gran parte della popolazione.
Nonostante queste libertà limitate all’interno dell’impero zarista, furono resi legali i partiti politici; rapidamente si
costituirono alcune forze politiche con orientamenti politici differenti:
• il partito costituzionale democratico – richiesta di leggi che garantissero le libertà politiche fondamentali
della popolazione
• i socialisti rivoluzionari – tendevano a contestare più radicalmente il potere dello zar e l’organizzazione
sociale ed economica presente in Russia
• il partito socialdemocratico – avevano una collocazione politica più moderata che puntava alla riforma
del sistema sociale e delle istituzioni russi, sulla base di progressive riforme.

Anche in una situazione di rigidità degli assetti tradizionali, sorgono partiti politici in grado di avere dei propri
rappresentanti all’interno della Duma ed in grado di organizzare le forze intellettuali e popolari che intendono
portare un cambiamento all’interno dell’impero zarista.

IL REGNO D’ITALIA
Il caso dell’Italia è molto marginale rispetto alle altre potenze europee che erano riuscite, già nel corso
dell’Ottocento, ad acquisire territori coloniali. L’Italia, sia per l’unificazione, raggiunta soltanto nel 1861 e sia per
la debolezza della struttura economica del paese, si affacciò alle imprese coloniali in ritardo. Inoltre, anche la
debolezza militare dell’Italia non sarebbe stata in grado di affrontare un conflitto con i grandi imperi europei e
quindi cercò di acquisire quei territori che erano rimasti non governati dai paesi europei.

Nel 1882 l’Italia acquistò dalla compagnia di navigazione Rubattino la baia di Assab, sul Mar Rosso. Territorio
che permetteva, soprattutto con l’apertura del Canale di Suez che permetteva un collegamento diretti tra mar
Mediterraneo e mar Rosso, la creazione di un punto di partenza per una espansione coloniale più ampia. Tre anni
dopo, occupò Massaua, in Eritrea.
Negli anni a seguire l’espansione coloniale interessò il corno d’africa (parte dell’africa orientale che si affacciava
sul mar Rosso, a poca distanza dalla penisola arabica). L’obiettivo era quello di conquistare l’Abissinia, uno dei
pochissimi territori ancora governati da autoctoni tentativo di conquista che fallì a seguito della sconfitta di
Dogali, nel 1887.
Nel 1890, ai territori italiani sul Mar Rosso e al territorio retrostante fu attribuito il nome di Colonia Eritrea

Nel 1889, il governo Crispi (sinistra storica) favorì l’ascesa al trono del negus Menelik in Abissinia e fu firmato il
trattato di Uccialli. Il testo in italiano del trattato stabiliva il protettorato dell’Italia sull’Abissinia, l’Italia avrebbe
avuto quindi un controllo politico diretto su questi territori, ma questa clausola non era presente nella versione in
amarico (lingua conosciuta dagli abissini). Sorsero così controversie sull’interpretazione del trattato che portarono
a scontri armati tra italiani e abissini.

Tra il 1895 e il 1896, il governo Crispi riprese l’espansione coloniale nell’Africa orientale per la ricerca di materie
prime e destinazioni per l’emigrazione. Questo rafforzamento della presenza italiana in Africa portò allo scoppio
di una guerra con l’Abissinia. Il conflitto con l’Abissinia si concluse con la sconfitta italiana nella battaglia di
Adua. In seguito a questa pesante sconfitta venne sottoscritto un trattato con il sovrano Menelik che costrinse
l’Italia a ritirarsi dai territori occupati in Etiopia.

Nonostante le sconfitte la propaganda nazionalista non si fermò ma anzi alimentò, nell’opinione pubblica e nella
classe politica italiana, le spinte favorevoli alla ripresa delle imprese coloniali.
Nel 1911, l’Italia dichiarò guerra all’Impero ottomano, approfittando della sua debolezza, per ottenere territori in
Nord Africa. L’Italia dichiarò guerra all’impero ottomano anche per conquistare i territori della Libia. La guerra
impegnò per molti mesi le truppe italiane, le quali riuscirono formalmente a prendere il controllo sull’area, ma il
controllo politico e militare riuscì ad essere esercitato soltanto sulle zone costiere.
Il conflitto si concluse l’anno successivo con la concessione all’Italia della Tripolitania e della Cirenaica e
provvisoriamente le isole del Dodecaneso. La debolezza militare dell’Italia portò, però, solo ad un controllo
parziale di questi territori. L’ambizione era dare uno sbocco alle emigrazioni italiane e aumentare il prestigio
15

politico. L’Italia, infatti, riuscì soltanto a controllare la zona costiera della Libia, dato che all’interno si sviluppò la
guerriglia di resistenza delle popolazioni arabe locali.

I NUOVI EQUILIBRI MONDIALI


Dopo questa spinta al colonialismo e all’espansione coloniale, si sono ridisegnati nuovi equilibri internazionali.
Nell’arco di pochi anni (tra la metà dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento) vediamo rafforzarsi la
dominazione coloniale in Francia e Gran Bretagna ma anche l’emergere di nuove potenze coloniali che
rappresentavano uno egli elementi in grado di accelerare i processi di globalizzazione. Di fatto all’inizio del
Novecento, finì la tendenza all’isolazionismo degli Stati e si moltiplicano i contatti e l’integrazione tra aree
diverse del pianeta, anche molto distanti tra loro.

L’apice dell’epoca coloniale europea fu l’inizio del suo declino: gli equilibri mondiali si stavano spostando verso
altri centri. Inoltre, emersero nuovi imperialismi: il Giappone nell’Asia orientale, gli Stati Uniti nelle Americhe.
Questo insieme di vicende provocò una crescente integrazione delle economie e della società ma anche della vita
politica; a livello internazionale, questa tendenza a costruire e a mantenere legami tra società, anche molto
distanti, si intensifica e si rafforza in questa fase.

Questo periodo, l’età dell’imperialismo, risulta essere un grande periodo di potenza dell’Europa; in realtà,
osservandolo con quello che succede dopo, fu l’inizio del declino europeo. All’epoca, probabilmente fu poco
notato. Gli equilibri mondiali iniziano a spostarsi verso altri centri sempre più lontani dall’Europa, come
Giappone e USA. Di fatto, delle tensioni crescenti stavano attraversando il sistema delle relazioni internazionali
in Europa.

Nella seconda metà dell’Ottocento, si dissolse il sistema internazionale nato dal Congresso di Vienna (1815). Il
congresso di Vienna aveva stabilito il ri-assetto degli equilibri europei in seguito alle conquiste napoleoniche; i
sovrani tornati sul trono stabilirono la nascita di nuovi Stati attraverso un processo di successive unificazioni di
Stati più piccoli, in alcuni casi anche ingaggiando dei conflitti internazionali (che rimasero limitati). Nel 1861
sorse il regno d’Italia e dieci anni dopo l’Impero tedesco.
Si dissolse, quindi, un sistema impregnato sulla volontà di mantenere un equilibrio internazionale che garantiva
non soltanto l’assenza di guerra ma anche la garanzia di una certa stabilità all’interno dell’Europa.

Le tendenze nazionalistiche fecero ricrescere però quelle forze e quelle spinte che tendevano a enfatizzare
l’interesse nazionale. Questo principio dell’interesse nazionale, come valore assoluto, portò a condizionare
sempre più le scelte dei governi; questa enfasi aveva a che fare con un insieme spesso indefinito di principi, in
particolare col principio di unità definito dalla comunanza di una lingua, di una storia contrastava con la realtà
molto più articolata e diversa presente sulla stessa Europa.
Si formarono delle correnti culturali e delle forze politiche che puntavano a realizzare quell’idea nazionale; come
sappiamo la storia dell’Italia e della Germania si forma come stati unitari sulla base di un’idea nazionale, che è in
circolo ancor prima della definizione di esatti confini.

In Europa, ancora nell’800, esistono dei grandi Stati plurinazionali (impero austro ungarico).
Le nazionalità dell’impero austro-ungarico avevano a capo un unico imperatore, però anche in conseguenza alla
diffusione in Europa di quest’idea di costruire degli stati più uniformi, ci furono elle crescenti tensioni alimentate
da gruppi politici che proprio sulla base dell’ideale nazionale chiedevano l’indipendenza. Questo era un fattore di
forte instabilità; l’impero austro-ungarico vide crescere le sue difficoltà in seguito a ciò che stava accadendo ai
propri confini.

In Europa, un focolaio di crisi era rappresentato dalla “questione d’Oriente”, provocata dal declino dell’Impero
ottomano e dal riassetto politico e diplomatico dei Balcani.
Nella penisola balcanica era da secoli presente l’impero Ottomano, ma in seguito all’indebolimento politico ed
economico, andò diminuendo la capacità dell’impero di controllare quei territori presenti sulla penisola balcanica,
anche perché si stavano diffondendo su questi territori le spinte nazionali che ritenevano che le nazioni presenti in
questo territorio avrebbero dovuto ottenere un’indipendenza sia dall’impero ottomano, sia dal controllo
dell’impero austro-ungarico.
Questa situazione di tensione politica provocò una serie di conflitti; i Balcani, lasciati liberi dal controllo
ottomano, videro crescere le mire di controllo da parte dell’impero austro -ungarico e da parte dell’impero russo,
questo perché entrambi volevano accrescere la propria egemonia con un obiettivo preciso: i Balcani davano uno
sbocco diretto sul Mediterraneo.
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L’impero zarista aveva soltanto uno sbocco sul Mar Nero, che per essere attraversato doveva passare lo stretto dei
Dardanelli. Il passaggio, controllato da una potenza straniera, poteva ovviamente compromettere le mire
espansionistiche, il controllo dei Balcani, quindi, risultava essere un obiettivo di primo piano.

GLI ACCORDI TRA GLI STATI EUROPEI


L’Impero russo e l’Impero austro-ungarico volevano controllare i Balcani per estendere la loro egemonia. Per
cercare di definire una sorta di equilibrio stabile fu convocato il Congresso di Berlino del 1878 che definì l’assetto
nell’Europa orientale, ma non risolse le cause dei conflitti perché erano tensioni alimentate da ragioni che, in
qualche modo, non potevano essere risolte.
L’aumento di questa conflittualità all’interno degli Stati e fra gli Stati contribuì a far finire il “concerto europeo”,
cioè la situazione di Pace che era durata oltre trent’anni (dopo la guerra franco-prussiana).
Aumentarono così i trattati bilaterali o trilaterali tra gli Stati.

Nel 1882, fu firmata la Triplice alleanza tra Italia,


Germania e Impero austro-ungarico, in funzione
antifrancese. L’Italia si decise alla firma di questo
accordo proprio per sostenere le proprie imprese
coloniali (la Francia aveva acquisito una serie di
territori in Nord Africa).

Nel 1894, la Francia sottoscrisse la Duplice intesa con


la Russia.

Nel 1904, la Gran Bretagna strinse l’Entente cordiale


con la Francia e poi la Triplice intesa nel 1907 con la
Francia e la Russia

VERSO LA GRANDE GUERRA


Questo sistema di alleanze non fu l’unica causa della grande guerra, ma fu un elemento che irrigidendo il sistema
delle relazioni internazionali, contribuì allo scoppio del conflitto. Se vale il principio della ricerca di una
molteplicità di cause, la situazione di deterioramento delle relazioni internazionali non deve essere solo imputato
alla creazione di queste alleanze. La competizione fra gli Stati europei, legate anche alle vicende demografiche ed
economiche, avevano avuto una valvola di sfogo nelle conquiste coloniali.
Certamente, quella corsa alle colonie che aveva permesso di scaricare le tensioni all’esterno, in realtà si risolse in
un aumento della conflittualità e contribuì al deterioramento delle relazioni internazionale a livello mondiale. La
volontà di avere un ruolo internazionale di primo piano e di competere si risolse all’inizio del ‘900 con una
incapacità del sistema internazionale di assorbire questa competizione di carattere principalmente economico.

All’inizio del Novecento, il sistema di equilibrio internazionale, basato su accordi continentali e conquiste
coloniali, orchestrato da Bismarck nella seconda metà dell’Ottocento, si era dissolto.
Le alleanze firmate tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 furono la conferma che quell’equilibrio internazionale si
era logorato e che il sistema internazionale era alla ricerca di un nuovo equilibrio; le conquiste coloniali non erano
sufficienti per calmare le ambizioni di conquista.

Nel momento in cui gli accordi diplomatici non erano in grado di trovare una soluzione, aumentarono le ragioni
del conflitto che si scaricarono anche all’interno dei confini europei.
Ad alimentare queste tensioni internazionali contribuì l’aumento del nazionalismo; un nazionalismo che aveva
un carattere particolare, certamente frutto dell’elaborazione di alcuni intellettuali, ma aveva una forza così
dirompente in quanto era un elemento culturale in grado di rafforzare il consenso delle masse verso lo Stato. Gli
Stati, alla continua ricerca di legittimazione del proprio potere, di fronte a delle società che si stanno
trasformando, i governi hanno necessità di legittimare il proprio potere attraverso un discorso zuppo di ideali
nazionalistici.
Questa identificazione delle masse che si riconoscono come una unità nazionale, in senso orizzontale (popolo),
che riconosce la legittimità del potere a un governo, rende più saldo il potere dei governi, proprio perché stringe
attraverso dei legami.
17

LEZIONE 6 02/03

4. LA GRANDE GUERRA: UN CONFLITTO GLOBALE

UNA GUERRA MONDIALE


La Prima guerra mondiale venne anche chiamata più generalmente grande guerra perché assunse dimensioni
globali. La Prima guerra mondiale scoppiò nel luglio 1914 e si concluse nel novembre 1918. La guerra è indicata
in Italia spesso come guerra del 15-18 e questo perché la data che viene ricordata è l'inizio della guerra in Italia,
che entrò nel conflitto soltanto nel maggio del 1915 ma, effettivamente quel conflitto iniziò qualche mese prima,
nell'estate del 1914.

Le sue dimensioni furono internazionali, infatti, fu una guerra che coinvolse stati e territori situati in diversi
continenti e assunse questa dimensione mondiale, non soltanto per il coinvolgimento di stati europei, ma poi
anche per l’entrata degli Stati Uniti e del Giappone e in parte anche per il coinvolgimento di truppe arruolate nei
paesi coloniali.
Si considera come guerra mondiale anche perché si dispiegò come un conflitto internazionale di dimensioni
globali che sconvolse i precedenti equilibri. Quindi, in qualche misura, si può dire che il conflitto mondiale ha tra
le sue cause il fatto che i rapporti tra gli stati e gli equilibri precedenti, che avevano guidato i rapporti diplomatici e
politici tra gli stati europei, si sono distrutti ed erano andati deteriorati.

Il conflitto sconvolse gli equilibri internazionali e introdusse, soprattutto negli Stati europei, elementi di
instabilità. La guerra era nata nell’intenzione, di chi aveva iniziato il conflitto (impero austro-ungarico), di essere
una guerra lampo – una campagna militare da risolvere nell’arco di poche settimane con l’acquisizione di territori
e rapidi accordi per la fine del conflitto. In realtà, per una serie di ragioni legate alla dimensione industriale che il
conflitto aveva assunto, la guerra si rivelò una lunga guerra di trincea, logorante. Le avanzate delle truppe su
quasi tutti i fronti, infatti, furono bloccate in un logorante conflitto di trincea. Guerra logorante anche per i sistemi
economici e politici dei paesi europei.

UNA GUERRA DI MASSA


La Grande guerra fu un conflitto di massa in quanto coinvolse un alto numero di soldati su diversi fronti,
sostenuti da un apparato militare che si era rafforzato nei decenni precedenti grazie ad innovazioni tecnologiche e
allo sviluppo industriale. Inoltre, fu introdotta la costrizione di massa, costrizione obbligatoria che imponeva ai
giovani maschi abili di svolgere un periodo sotto le armi, quindi, esistevano già giovani formati che per periodi
medio-lunghi venivano obbligati a combattere.

Questi due elementi, ovvero conflitto di massa e conflitto su base industriale, avevano portato ad una
mobilitazione del “fronte interno”, con la conversione di molte strutture produttive alle esigenze della guerra. Il
fronte interno era quella grandissima retrovia costituita dall’insieme di attività produttive organizzate in funzione
della guerra. Furono coinvolte soprattutto le industrie che producevano per gli eserciti e per le marine militari e
dato che gli uomini e i giovani maschi erano stati arruolati, aumentò il numero di donne addette al lavoro
industriale. Le donne furono impiegate nelle industrie metalmeccaniche e chimiche, in quelle industrie che più
direttamente producevano per la guerra.

Dal punto di vista economico, si creò una «economia di guerra» in tutte le società coinvolte nel conflitto.
Economia di guerra dove una pare rilevante delle risorse pubbliche erano indirizzate a produrre direttamente o ad
acquistare quelle merci indispensabili per la guerra. Rilevante, infatti, era l’intervento dello Stato per organizzare
la fornitura di armi e l’approvvigionamento delle truppe.
La guerra, quindi, vide coinvolti gli stati, le amministrazioni degli stati, non soltanto gli eserciti e le marine
militari. Questo perché c’era la necessità di appoggiare al massimo ciò che avveniva sul fronte.

Tra le conseguenze più rilevanti di questo coinvolgimento, di massa e di tutte le strutture dello stato, nella guerra
fu lo stretto collegamento tra imprese private e strutture ed istituzioni pubbliche. Lo stato non era in grado di
produrre totalmente da solo tutte le armi a disposizione e quindi si rivolse alle industrie private, commissionando
e acquistando direttamente dalle industrie, ciò di cui gli eserciti e le marine avevano bisogno. Quasi tutte le
imprese metalmeccaniche presenti sul territorio nazionale, quindi, vennero impegnate per la produzione di guerra
e questo portò ad una conversione della produzione, da una produzione di pace ad una di guerra.
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Un’altra conseguenza di lungo periodo della guerra riguardò la sfera culturale, si crearono, infatti, miti e simboli,
diffusi dalla propaganda militare e dalla stampa. Il nazionalismo, che aveva alimentato le imprese coloniali e
l’aggressività degli stati, divenne il centro e il tema centrale della propaganda che aveva l’obiettivo di diffondere,
sia tra i militari al fronte che nel fronte interno, miti e simboli che legittimavano la presenza della partecipazione
al conflitto e il sostegno al conflitto bellico della nazione.
Questi messaggi di propaganda erano molto forti perché avevano l’obiettivo di spingere le persone a arruolarsi al
fronte, combattere, uccidere e rischiare la propria vita. Inoltre, l’idea del primato della propria nazione rispetto
alle altre e la volontà di affermare la supremazia a livello internazionale furono elementi centrali della propaganda
di tutti gli Stati in guerra.

UNA GUERRA GLOBALE


La Prima guerra mondiale fu anche un conflitto globale perché coinvolse paesi collocati in molti continenti. Il
conflitto scoppiò in Europa ma le sue origini non furono soltanto in territorio europeo ma anche nei vasti territori
coloniali.

All’inizio del Novecento, le conquiste coloniali non erano più sufficienti agli Stati europei come sbocco per
acquisire materie prime, vendere i rispettivi prodotti e affermare il proprio primato a livello mondiale. Inoltre,
l’equilibrio creato tra gli stati si era andato disgregando proprio a causa delle conquiste coloniali che avevano
accontentato alcuni stati ma creato insoddisfazione in quelle nazioni che avevano l’ambizione di conquistare dei
territori coloniali proprio per avere i vantaggi che le grandi potenze coloniali europee erano riuscite ad acquisire.
questa situazione di disparità portò proprio a motivi di tensione ed è per questo che il conflitto deve essere
osservato nella sua dimensione globale, considerando quanto l’espansione coloniale dei decenni precedenti aveva
aggiunti ulteriori motivi di conflittualità.

A rendere ancora più ampia la dimensione del conflitto furono anche la politica estera di potenza e lo sviluppo
capitalistico che accentuarono la competizione tra gli Stati. Inoltre, c’era la convinzione che la forza economica
delle imprese private, collocate sul proprio territorio, era indispensabile per avere un ruolo politico e militare
internazionale di primo piano. La supremazia politica e militare, quindi, era considerata condizione
indispensabile per la crescita economica. Questo elemento di competizione economica tra gli stati si accompagnò
ad una competizione di tipo politico e militare e quindi creò e aumentò le possibili ragioni del conflitto tra gli
stati.

UNA GUERRA NAZIONALE


La Prima guerra mondiale fu, fin da subito, una guerra nazionale.
Il nazionalismo aveva legato più strettamente le masse allo Stato e aveva alimentato l’aggressività verso l’esterno
e quindi l’affermazione del primato della superiorità nazionale si traduceva inevitabilmente nella considerazione
che la propria superiorità nazionale avrebbe potuto garantire il corretto e giusto ruolo internazionale delle singole
nazioni.

Il nazionalismo e la concorrenza economica divennero, quindi, uno degli elementi che aumentarono la
competizione politica e militare tra le nazioni. Questa competizione economica e la ricerca del primato politico
internazionale furono elementi che scatenarono il conflitto e che sostennero gli stati in guerra. Quello che accadde
fu che tutti questi elementi e cause di guerra in realtà non si risolsero mai, nemmeno con la fine dei
combattimenti.
Infine, durante la Grande guerra, si infittì l’intreccio tra economia e politica.

UNA GUERRA INTERNAZIONALE


Il precedente sistema di equilibrio internazionale - basato su accordi continentali e conquiste coloniali orchestrato
da Bismarck nella seconda metà dell’Ottocento - si era dissolto lasciando spazio a degli accordi bilaterali e
trilaterali che avevano fatto crescere il senso di instabilità all’interno dell’Europa.

Le diverse alleanze stipulate tra gli Stati europei tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento erano la
conseguenza (più che la causa) del logoramento dell’equilibrio continentale. Accordi di tipo difensivo che però, di
fatto, fecero emergere una contrapposizione tra schieramenti, contrapposizione che non coinvolse solo i singoli
stati ma fu più ampia, si espanse fino ai legami politici, diplomatici e militari.
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UNA GUERRA SENZA FINE


La guerra può essere anche osservata come una guerra senza fine, non soltanto per il peso che toccò e che
coinvolse i militari al fronte ma anche per la popolazione civile, con un impoverimento generalizzato della
popolazione. Fu una guerra di logoramento che fece rimanere irrisolte, anche alla fine del conflitto, molte delle
questioni che avevano causato la guerra.

La guerra aveva aperto nuove e più forti ostilità tra gli stati che avevano combattuto, inoltre crebbe la
conflittualità all’interno egli stati. Nuove fratture si aprirono sul piano economico, sociale, politico e diplomatico
che i trattati di pace del 1919 (trattato di Versailles) non riuscirono a ricomporre.

Si stima che nella Prima guerra mondiale morirono tra i 15 e i 17 milioni di persone, soprattutto militari. Guerra
che, dal punto di vista del costo di vite umane, non aveva eguali nel passato. Le vittime furono soprattutto militari
e fu l’ultima guerra in cui furono più i militari rispetto ai civili a morire, in quanto gran parte dei combattimenti si
svolsero in zone relativamente circoscritte.

I feriti e i mutilati furono più di 20 milioni. Inoltre, tra il 1918 e il 1919, l’epidemia "spagnola" si diffuse
rapidamente anche per le condizioni di povertà portate dal conflitto e causò circa 50 milioni di morti.
Le economie, già provate dalla guerra, furono così ulteriormente indebolite e danneggiate da questa epidemia.

EVENTI PRINCIPALI DEL CONFLITTO


L’inizio della guerra viene fatto risalire all’attentato, che colpì e uccise l’erede al trono dell’impero austro-
ungarico, a Sarajevo. Attentato che fu attribuito, alla responsabilità dei nazionalisti slavi.
Sarajevo era un territorio occupato da conflitti e da mire espansionistiche dopo l’arretramento e la caduta
dell’impero ottomano. Questo territorio era passato, quindi, a far parte dell’impero austroungarico in anni recenti.
In questi territori si svilupparono molti gruppi di stampo nazionalista che avevano l’ambizione di diventare
autonomi dal governo centrale austroungarico.
Questi movimenti minavano la tenuta dello stesso impero perché mettevano in discussione l’autorità e la
legittimità del potere centrale dell’imperatore. Dunque, negli anni che precedettero la guerra, il governo
dell’imperatore Francesco Giuseppe aveva duramente represso, in Ungheria, nei Balcani e nei territori abitati da
popolazioni di lingua italiana, quei moti e movimenti che puntavano all’indipendenza nazionale.

L’attentato di Sarajevo era stato organizzato e portato a termine da dei gruppi terroristici che affermavano il
diritto della nazione bosniaca e della nazione slava di autogovernarsi. Subito dopo l’attentato il governo di Vienna
accusò il governo serbo per la corresponsabilità dell’attentato e lanciò un ultimatum al governo di Belgrado in cui
veniva chiesto che, funzionari del governo austro-ungarico, avrebbero dovuto condurre delle indagini sul
territorio serbo per individuare i responsabili di questo attentato. Questa clausola di ultimatum era inaccettabile
per il governo serbo perché andava contro la sovranità assoluta del governo serbo sul proprio territorio e sulla
propria popolazione, per questa ragione il governo di Belgrado non accettò l’ultimatum. La conseguenza fu che
l’impero austro-ungarico dichiarò guerra alla Serbia. A questo punto iniziarono una serie di conseguenze di tipo
diplomatico, politico e poi militare che portarono poi rapidamente allo scoppio della guerra.
La Serbia, che era legata da accordi diplomatici con la Russia, si appellò all’impero russo per difendersi
dall’attacco dell’austria-ungheria, così iniziò subito la mobilitazione di guerra della Russia che però fece sì che il
governo tedesco dichiarasse guerra alla Russia proprio in nome dell’alleanza che legava l’impero tedesco
all’impero austroungarico. Fu, quindi, una guerra nata in maniera circoscritta ma che poi, per tutto il sistema di
alleanze, portò all’ingresso in guerra anche di altri paesi europei.

La Germania colse l’occasione della guerra come il momento opportuno per ridisegnare gli equilibri
internazionali a livello mondiale, si voleva cambiare la collocazione della Germania all’interno degli equilibri
mondiali. La Germania decise, quindi, di attaccare un alleato della Russia, vale a dire la Francia. In poco tempo
si trovò così a combattere su due fronti:
• fronte orientale contro la Russia
• fronte occidentale contro la Francia
Inoltre, per attaccare la Francia attraversò con le proprie truppe il Belgio, che era un paese neutrale e così facendo
coinvolse nel conflitto anche la Gran Bretagna che era alleata della Francia e della Russia.
Nell’estate del 1914, dunque, una parte notevole dell’Europa entrò in guerra.

Non bisogna però pensare che furono questi sistemi di alleanze a generare il conflitto perché le clausole di questi
accordi erano di tipo difensivo e in qualche modo lasciavano dei margini di decisione ai governi. La conferma è,
infatti, data dalla questione dell’Italia: l’Italia era legata, con la triplice alleanza, all’austria-ungheria e alla
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Germania ma non entrò nel conflitto, anche perché molto incerto sul da farsi e sui costi economici della guerra.
Vi erano, quindi, dei margini di decisione, non era una cosa automatica e meccanica entrare in guerra.
L’Italia rimase neutrale anche perché l’opinione pubblica era attraversata da sentimenti neutralisti, quindi,
prevaleva la posizione di chi considerava che la guerra non avrebbe comportato particolari vantaggi e si sarebbe
potuto contrattare con i paesi in guerra le acquisizioni di territori, le terre non redente, che erano individuate nei
territori dell’Impero austro-ungarico abitate da popolazioni di lingua italiana.
Favorevoli alla neutralità erano:
• socialisti – partito socialista che riteneva che fosse una guerra capitalista che non doveva coinvolgere i
lavoratori e i proletari
• cattolici – tradizionalmente erano favorevoli ad una risoluzione pacifica dei conflitti perché il
cattolicesimo era molto forte, soprattutto, nelle zone di campagna. Le istituzioni cattoliche avevano
ancora molto influenza e quindi questi partiti erano per la via di una neutralità dell’Italia.

Molto attivi erano, invece, i gruppi nazionalisti che erano emblematicamente rappresentati dall’intellettuale
Gabriele D’Annunzio. Questi gruppi erano interventisti e sostenevano l’esistenza della guerra e della
partecipazione alla guerra da parte dell’Italia.
In questi gruppi interventisti, però, c’erano anche delle suddivisioni in quanto non era ben chiaro contro chi
entrare in guerra. Nella propaganda nazionalista, la volontà di riunire all’interno di un unico territorio italiano
tutte le popolazioni ritenute italiane, vedeva come nemico dell’Italia l’impero austro-ungarico al quale l’Italia era
però legata dall’alleanza.

Questa incertezza si tradusse anche nelle scelte del governo che iniziò delle trattative sia con l’Impero austro-
ungarico ma anche con gli avversari della triplice alleanza, in particolare, all’inizio del 1915 vennero intensificati
gli scambi con la triplice intesa. Nell’aprile del 1915 fu firmato il trattato di Londra che impegnava l’Italia ad
entrare in guerra entro un mese a fianco delle potenze della triplice intesa, quindi, un cambiamento di fronte e di
alleanze. Questo patto avrebbe garantito, in caso di vittoria, l’acquisizione all’Italia dei territori intorno a Trieste e
la zona di Fiume con il Trentino e l’alto Adige. Sulla base di queste premesse l’Italia entrò in guerra nel maggio
del 1915.

A cambiare le sorti del conflitto furono due eventi:


1. Adesione degli Stati Uniti di entrare in guerra nell’Aprile del 1917, anche se non erano legati da nessuna
alleanza e avevano sempre finanziato di armi la Francia e la Gran Bretagna. l’affondamento di navi americane fu
il pretesto, per il governo egli Stati Uniti, di intervenire direttamente nel conflitto. Entrata in guerra che garantì,
soprattutto. L’apporto di uomini be addestrati che appoggiarono le azioni militari sui diversi fronti.

2. Aumento delle manifestazioni e degli scioperi all’interno della Russia zarista. Nel febbraio-marzo del 1917,
una serie di scioperi legati alle pessime condizioni economiche generali, aggravate dal conflitto, avevano portato
lo zar a concedere delle riforme (aprire maggiormente la rappresentanza dei partiti politici all’interni della duma).
Le riforme però non fecero terminare le tensioni nel paese e portarono nell’Ottobre-novembre del 1917 ad una
serie di scioperi, non soltanto nelle fabbriche, ma anche ammutinamenti all’interno dell’esercito, manifestazioni
guidate dal partito comunista che riuscirono a mobilitare migliaia di persone che arrivarono ad arrestare lo zar, a
prendere il potere in nome della rivoluzione comunista.
La conseguenza fu la messa in pratica di un armistizio con la Germania, l’armistizio di Brest Litovsk, che cedeva
alla Germania alcuni territori più occidentali dell’impero zarista però permetteva di finire la guerra. La Russia
zarista uscì dalla guerra, il fronte orientale così fu rapidamente alleggerito.

La guerra terminò nell’autunno del 1918 a causa dello sviluppo, all’interno della Germania, di manifestazioni
contro la guerra che portarono ad un indebolimento interno della tenuta complessiva del sistema militare della
Germania. Una sorta di collasso interno della Germania fece cessare i combattimenti.
La guerra terminò con la vittoria della Francia, degli Stati Uniti e dell’Italia e vide la sconfitta delle potenze
avversarie ma fu un momento di cambiamenti di tipo territoriale e politici, in Europa.
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LEZIONE 7-8-9 [07-08-09/03]

5. DA UN CONFLITTO ALL’ALTRO: LOTTE SOCIALI E CONFLITTI INTERNAZIONALI

IL DIFFICILE DOPOGUERRA
Quando finì la guerra, non smisero di cessare quelli che erano stati i motivi che l’avevano causata. Le
conseguenze della guerra furono molto evidenti, non solo nei paesi che avevano combattuto ma anche per via di
un nuovo disegno della cartina geografica dell’Europa. Le conseguenze si registrarono, più profondamente e con
una lunga durata, anche all’interno dei singoli stati che ne erano usciti vincitori.

La Prima guerra mondiale fu un elemento potente agente di cambiamento e di trasformazioni in tutti i territori
economici, politici, culturali e sociali. L’esito del conflitto portò ad aggravare gli elementi di fragilità - all’interno
delle nazioni e a livello internazionale - che esistevano prima del conflitto e che la guerra non aveva risolto.
Tra le conseguenze più rilevanti fu che sia i paesi vinti che i paesi vincitori furono investiti da una pesante crisi
economica e sociale, causata dal conflitto ma con radici più lontane che la guerra aveva contribuito ad aumentare.
Di fronte a questa crisi i governi furono incapaci di dare risposte adeguate alla gravità della situazione interna e
alle trasformazioni che erano state indotte dalla guerra.

Le conseguenze furono:
• la crisi del precedente ordine politico internazionale, quindi quell’equilibrio tra le nazioni che già aveva
portato allo scoppio della guerra e che si era definitivamente dissolto durante il conflitto, esasperando le
ragioni della conflittualità e della competizione tra gli stati
• le difficoltà della riconversione industriale (da un’economia di guerra a una economia di pace), questo
fatto alimentò la generale instabilità economica. Le industrie erano state fortemente impegnate a
produrre, a ritmi serrati, per la guerra ma, nel momento in cui questa cessò, non era più necessario una
dotazione di armi per cui le industrie che fino a quel momento avevano impiegato uomini e donne per
questo settore, nel giro di poche settimane videro esaurirsi capitale e un canale rilevante di
finanziamento. Crebbe così la disoccupazione che fece aumentare l’inflazione e di conseguenza anche
l’instabilità economica delle famiglie.
• la presenza di organizzazioni favorevoli alla rivoluzione sociale, organizzazioni che volevano fare
rivolte sociali, di fronte all’incapacità della classe politica dirigente di dare delle risposte. Questa
sembrava una via che poteva essere percorsa e raggiunta. Aumentarono così le adesioni ai movimenti
socialisti e rivoluzionari che vedevano in ciò che era accaduto in Russia, un modello da seguire, una
possibilità che poteva anche accadere negli altri stati europei. La soluzione alla crisi economica, per
alcuni settori della popolazione, fu, quindi, intravista proprio nell’adesione ad una rivoluzione sociale di
stampo comunista in grado di cambiare l’ordine sociale a favore delle esigenze delle classi popolari.
• la radicalizzazione di alcuni movimenti politici;
• la diffusione di culture anti-democratiche e di idee nazionaliste, idee che professavano un
sovvertimento del modello borghese. Spinta rivoluzionaria con l’idea di un capovolgimento dell’ordine
sociale ed economico che aumentò il clima e la realtà di instabilità sociale ed economica.

UNA CRISI GLOBALE


La guerra e le decisioni prese dai paesi vincitori deteriorarono le relazioni internazionali tra gli Stati.
Gli echi della Rivoluzione sovietica del 1917 accentuarono la conflittualità politica nei paesi europei.
In Italia e in Germania, le forze politiche di destra di orientamento nazionalista e i partiti moderati, temendo lo
scoppio di una rivoluzione socialista interna, si coalizzarono, favorendo la formazione di regimi totalitari.
In Africa e in Asia si svilupparono movimenti per l’indipendenza dalle potenze coloniali.

I 14 punti di Wilson
Wilson era il presidente degli Stati Uniti e aveva portato gli Stati Uniti all’interno della guerra. Wilson all’inizio
del 1918 aveva tenuto un discorso che era stato poi sintetizzato in 14 punti, in 14 principi sulla base dei quali
avrebbero guidato il nuovo ordine internazionale, una volta terminata la guerra.
1. Trattati di pace pubblici e pattuiti pubblicamente, pubblici per rendere consapevoli le popolazioni di
questi accordi tra stati
2. Libertà di navigazione dei mari in pace e in guerra
3. Soppressione delle barriere doganali e condizioni eque di commercio
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4. Riduzione degli armamenti


5. Soluzione delle rivendicazioni coloniali tenendo conto degli interessi delle popolazioni e delle
«ragionevoli richieste» dei governi coloniali
6. Evacuazione dalla presenza militare da tutti i territori russi
7. Ripristino della sovranità del Belgio
8. Evacuazione delle truppe tedesche dalla Francia e annessione dell’Alsazia-Lorena
9. Rettifica delle frontiere italiane sulla base del principio di nazionalità
10. Autonomia dei popoli dell’Austria-Ungheria
11. Indipendenza di Romania, Serbia e Montenegro
12. Autonoma sovranità garantita alle popolazioni non turche presenti nell’Impero ottomano
13. Creazione della Polonia indipendente
14. Creazione di una Società delle nazioni per garantire l’indipendenza agli Stati

Il 14 punti di Wilson mettono in luce una prospettiva di democrazia globale che però aveva i suoi limiti nei
territori coloniali. Punti che consideravano alcune situazioni particolari all’interno dell’Europa che avrebbero
dovuti essere risolti sula base della nazionalità
Due principi chiave all’interno dei 14 punti di Wilson
• principio di democrazia internazionale -limite già nel momento della sua enunciazione
• principio di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli – i popoli nazionali avrebbero dovuto
definire chi li avrebbe governati e la definizione dei confini nazionali erano basati sulla presenza di popoli
di una certa nazionalità nei territori. Nella realtà non esiste nessun territorio uniforme totalmente dal
punto di vista nazionale.

Società delle nazioni – aveva come obiettivo l’indipendenza degli stati e la risoluzione diplomatica dei conflitti
per evitare scoppi di ulteriori guerre.

L’EUROPA DOPO LA GRANDE GUERRA


Con la fine del conflitto ci fu un completo nuovo disegno dei confini nazionali nell’area dell’Europa orientale e ci
fu la dissoluzione di quattro imperi plurinazionali:
• Impero russo
• Impero tedesco
• Impero austro-ungarico
• Impero ottomano – non fu in grado di reggere l’attacco da parte dei paesi della triplice intesa e si dissolse

Nelle trattative di pace anche i paesi vincitori furono chiamati al tavolo delle trattative e presero le decisioni per la
ripartizione dei territori. Ad essere ridisegnati furono soprattutto i confini dell’Europa orientale, disegno che
puntava a penalizzare e colpire i paesi sconfitti ma che aveva un occhio anche per colpire chi aveva portato alla
guerra. Inoltre, questo nuovo disegno, con la creazione di numerosi stati nell’area dellEuropa orientale, puntava a
creare una sorta di fronte e stati cuscinetto tra i paesi dell’Europa occidentale e la Russia per poter confinare e
limitare l’eventuale avanzata della rivoluzione comunista a livello internazionale. La creazione di questi stati
aveva l’obbiettivo di assorbire una possibile invasione da parte delle truppe sovietiche.
Questi confini sono uno degli elementi che favorì poi lo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Nel momento in cui la guerra finisce e la Germania perde i territori che la Russia aveva ceduto alla Germania
rimangono territori nella disponibilità dei paesi vincitori che devono essere ridefiniti.
Nascono diversi stati:
• Polonia – viene creata da territori della Russia zarista, ad oriente, da territori della Germania, ad
occidente e da territori dell’impero ottomano, a est. Confini che comprendevano popolazioni di lingua e
cultura polacca ma anche minoranze di popolazione russa e tedesca, coloro che abitavano li prima e
durante la guerra.
• Cecoslovacchia – costituita da territori che erano appartenuti all’impero austroungarico ma, la parte più
occidentale era abitata da popolazioni di lingua tedesca
• Austria – territori dell’impero austroungarico in cui si parava tedesco
• Ungheria – territori dell’impero austroungarico in cui si parlava ungherese

Con la fine del conflitto la Serbia divenne il nucleo introno al quale le potenze vincitrici decisero di costituire un
nuovo regno chiamato Jugoslavia – regno degli slavi del sud, popolazioni che si riconoscevano come slave ma
che parlavano lingue simili, dello stesso ceppo.
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Una questione marginale, ma per la storia dell’Italia è importante, è la ridefinizione dei confini italiani.
I territori di Trento e di Trieste erano parte nell’idea di completamento dell’unità nazionale anche se il principio
nazionale aveva un richiamo ideale e di reintegrazione di territori che, in realtà, non erano mai appartenuti
all’Italia. Nei trattati fu definito che i confini italiani dovevano arrivare fino al Brennero, comprendendo anche
quelle popolazioni del sud Tirolo che parlavano lingua tedesca. Questi territori volevano essere annessi per una
questione politica e strategica anche se non c’erano tracce di popolazione di lingua italiana.
Più complicata fu a situazione intorno a Trieste, l’area delle città era occupata principalmente da perone di lingua
italiana ma nelle campagne si parlava maggiormente lo slavo. Inoltre, sulla base degli interessi internazionali
fiume fu dichiarata inizialmente una città libera, governata in maniera internazionale, ma più avanti il partito
fascista premette proprio sull’idea di farla rientrare sotto il territorio e il controllo dello stato italiano.

I Balcani, invece, che erano stati la polveriera che avevano portato allo scoppio della guerra, vennero trasformati
in nuovi stati. Le cose rimasero stabili vicino al confine dell’Italia mentre una situazione più problematica si
aveva con Fiume. La situazione diventa ancora più completa se si apre il quadro all’Europa orientale, la caduta
dell’Impero ottomano; infatti, aveva peggiorato la situazione di questi territori. L’impero ottomano terminò, si
passò ad un sistema di tipi repubblicano e i territori diminuirono notevolmente, soltanto l’attuale Turchia, che
faceva parte dell’impero ottomano, rimase come stato.

Palestina, libano, Siria e Iraq, invece furono territori sotto controllo coloniale di Francia e Gran Bretagna ma,
formalmente, quei territori non erano definiti come colonie o protettorati ma mandati della società delle nazioni,
erano affidate al loro governo proprio in vista di un loro futuro passaggio all’indipendenza.
In questi stati quindi c’era la presenza, dopo la fine dell’impero ottomano, di un controllo politico di potenze
straniere di cui le popolazioni locali non erano d’accordo perché essi si comportavano esattamente come avevano
fatto nelle colonie. Per questa ragione i svilupparono movimenti di indipendenza che volevano portare questi stati
a diventare vere e proprie nazioni indipendenti.

Venne fatto un ridisegno complessivo della carta geografica che fu il riflesso di quelli che sono i novi rapporti di
forza che si crearono dopo la fine della Prima guerra mondiale. Nuovo disegno che intendeva dare un nuovo
assetto stabile e un nuovo equilibrio che però mostrò, già dall’inizio, instabilità.

INSTABILITÀ E TENSIONI
Subito dopo la firma dei trattati di pace emersero una serie di potenze che misero in discussione questi accordi che
si erano raggiunti difficilmente. In Germania sorsero movimenti che rivendicavano i territori dell’Alsazia e della
Lorena che dopo la guerra passarono in mano alla Francia. Inoltre, la Germania doveva pagare forti sanzioni in
denaro alla Francia a causa della guerra di aggressione che aveva scatenato nei suoi territori. L’Italia anche non
sentiva riconosciuti tutti i territori che dovevano spettargli dopo la fine della guerra.

A livello internazionale ci furono però altri motivi all’origine della crisi nei rapporti internazionali:
• il crollo degli imperi plurinazionali;
• la richiesta di revisione dei trattati di pace;
• l’attiva presenza internazionale delle nuove potenze emergenti (Stati Uniti e Giappone);
• la diffusione di crisi economiche internazionali.

Rapidità della crisi che si diffuse a livello globale proprio a causa della rete maggiore di legami commerciali e
politici tra i diversi stati (globalizzazione della crisi), questo rese ancora più difficile cercare di arginarla. Quello
che successe dopo la guerra fu l’evidenza di quanto la globalizzazione porti con sé una capacità di propagazione
di crisi enorme, crisi iniziata effettivamente nel 1929 ma che già sorse a causa delle instabilità di fine guerra,
instabilità che avvenne anche all’interno degli stati.

All’interno degli Stati, si registrarono:


• crisi dei bilanci pubblici: le spese superavano le entrate;
• difficile riconversione industriale;
• ristagno economico, disoccupazione, inflazione;
Situazione di difficoltà economica che, in mancanza dell’intervento dello stato, fece aumentare scioperi e
occupazioni delle fabbriche e delle terre da parte dei lavoratori. Occupazione che suscita la repressione delle
minoranze interne, incrementando ulteriormente difficoltà e tensione sociale.

Teoria classica dell’economia: idea che lo stato non doveva intervenire nell’economia, non doveva intromettersi.
Di fronte a questa situazione economica, quindi, i governi non intervennero per evitare un collasso dell’economia.
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MASSE E NAZIONI
Il Coinvolgimento delle masse popolari nella guerra contribuì a far aumentare la richiesta di maggiori diritti
politici da parte di coloro che non avevano la possibilità di contare nella scelta dei governi. Crebbe così la spinta
delle masse di popoli per partecipare più attivamente alle scelte del governo.

Una grande conseguenza della guerra fu l’aumento della politicizzazione e della partecipazione politica, crebbe la
convinzione che attraverso la partecipazione politica si sarebbero potute cambiare anche le strutture politiche e
sociali dei diversi paesi, questo cambiò il tipo di rapporti tra governanti e governati.

Prima della Prima guerra mondiale i governi erano costituiti da persone di provenienza dei ceti abbienti della
società, la crescente partecipazione delle masse alla politica portò all’aumento della capacità dei partiti politici di
massa, che avevano l’ambizione di rappresentare le masse popolari. Crebbe, quindi, la volontà di questi partiti
politici di sostituire la classe politica del tempo. La classe politica del tempo, infatti non era riuscita a
comprendere i cambiamenti della società e a creare leggi tali da rappresentare questi cambiamenti.

In molti stati aumentò la diffusine dei movimenti nazionalisti e i contrasti sociali si radicalizzarono con la crescita
della disoccupazione.

RIVOLUZIONE SOVIETICA E GUERRA CIVILE


Un mito che si venne a creare fu quello della rivoluzione sovietica.
In seguito alla “rivoluzione d’ottobre” del 1917 il Partito bolscevico (poi Partito comunista) guidato da Lenin
prese il potere: il Partito concentrava tutti i poteri dello Stato.
La base del potere del partito comunista era quello sovietico, il sistema del potere sovietico non era basato su un
potere rappresentativo dove i singoli elettori vano a votare ed eleggono i singoli rappresentanti ma, il potere era
basato sui soviet (i consigli comunisti di operai e contadini). In realtà questi soviet mostravano quanto questo
nuovo sistema non fosse democratico liberale nel senso di democrazia rappresentativa dove anche le opposizioni
avevano il diritto di parola. Quello che accadde fu, infatti, che gli oppositori del nuovo potere furono espulsi dai
soviet, con arresti e uccisioni ordinati dal governo.

Il comunismo interpretato da Lenin aveva l’obiettivo di una rivoluzione internazionale del comunismo. Questo
portò a molta preoccupazione delle classi dirigenti europee, non per un’invasione della Russia ma per
un’invasione da parte dell’ideologia comunista in tutta Europa. Il timore era che questo mito della rivoluzione
comunista potesse aumentare dei movimenti all’interno dei singoli paesi. L’obiettivo delle potenze vincitrici fu
quindi quello di limitare il più possibile le modalità di espansione di questa ideologia e anche l’espansione
territoriale della repubblica sovietica

All’interno della Russia sovietica l’Armata rossa (l’esercito sovietico) aveva grandi difficoltà a controllare il
territorio. Questo perché non tutte le forze sociali e politiche presenti sul territorio russo condividevano questo
progetto di rivoluzione totale che il partito comunista era riuscito a realizzare. Questa difficoltà si tradusse in una
vera e propria guerra civile. Dal 1918 al 1921, vi fu una guerra civile: tra coloro che appoggiavano la rivoluzione
(armate rosse) e tra coloro che erano contro (armata bianca). Anche le truppe dell’Intesa intervennero per
sostenere l’Armata bianca a favore dello zar.
La politica di contenimento delle potenze occidentali fu di stabilire, nel trattato di Parigi, di costituire una serie di
stati cuscinetto che avrebbero dovuto contenere la diffusione del comunismo a livello internazionale.

Quello che accadde nella Russia sovietica, diventata Unione sovietica nel 1922, fu:
- l’abolizione della proprietà privata e l’attuazione del “comunismo di guerra”. Organizzazione dello stato che
aveva come obiettivo quello di realizzare, attraverso la repressione e la violenza, il comunismo per tutte le
strutture economiche, sociali e politiche. Le maggiori difficoltà si incontrarono però nel settore agricolo, dove le
terre venivano assegnate dallo stato che però non era in grado di garantire livelli di produzione almeno pari
all’economia russa prima della rivoluzione.

- la violenta repressione dei contadini e la deportazione di interi gruppi etnici, deportazione da quelle aree del
paese ritenute ostili dal potere centrale comunista, vi furono quindi spostamenti forzati della popolazione che
avevano due obbiettivi: reprimere i gruppi che si opponevano e che si riteneva che si opponessero al partito
comunista e estendere più uniformemente la composizione sociale ed etica della Russia. Per questa ragione le
zone in cui vennero deportati migliaia di abitanti furono ripopolate da popolazioni di origine russa. Si trattò di un
vasto programma demografico che però accompagnò anche grandi difficoltà economiche, vi erano, infatti,
difficoltà nella ripresa delle attività produttive.
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Nel 1921, dopo alcune rivolte, fu adottata la NEP (Nuova politica economica). Politica che fu una attenuazione
della collettivizzazione delle terre. Il partito comunista decise di affidare ad ogni contadino un piccolo pezzo di
terra da coltivare singolarmente concedendo la possibilità di vendere i prodotti che sopravanzavano le esigenze
famigliari. Nel giro di pochissimo tempo questo riuscì a garantire una parte consistente dell’approvvigionamento
alimentare di gran parte della Russia. Per alcuni anni questa nuova politica economica andava un po' contro il
modello di economia centralizzata però fu l’unica politica in gradi di risollevare l’economia russa.

In questi anni il partito comunista incominciò rapporti con i Partiti comunisti di altri paesi e si ebbe la creazione
dell’Internazionale comunista (Comintern) che metteva in contatto i vari partiti comunisti presenti nei diversi
paesi, con a apo il partito comunista sovietico. Questo mirava a coordinare l’azione dei partiti comunisti nei vari
stati ma anche a rafforzare, a livello internazionale, la politica dell’unione sovietica.

Costruzione del sistema totalitario sovietico


In Urss si formò un regime totalitario basato sulla repressione degli avversari e sulla propaganda per controllare
ogni aspetto della vita della popolazione.

Totalitarismo = organizzazione del potere che usava la violenza contro gli oppositori, non erano ammessi
oppositori del partito comunista ma allo stesso tempo il partito comunista era consapevole che per mantenere la
sua rilevanza doveva costruire un mito attorno al quale la popolazione poteva avvicinarsi.

Costruzione del consenso, soprattutto nel periodo iniziale, tramite l’introduzione delle misure che avevano come
obbiettivo quello di garantire la piena occupazione, la possibilità dell’istruzione a tutti, inoltre costituì federazioni
sportive e assistenziali che andavano nella direzione di garantire livelli di un’equità sociale e di una distribuzione
della ricchezza minima, una prospettiva migliore rispetto a quelle realizzate nel periodo dello zar.

Trotsky – fu importante e rilevante per la rivoluzione di Ottobre. Linea politica differente rispetto a quella di
Lenin e poi Stalin perché per lui si sarebbe dovuta realizzare una rivoluzione comunista internazionale e non
tanto in un solo paese, quella del comunismo sovietico doveva essere soltanto la prima tappa di questo enorme
progetto. Questa sua opposizione rispetto alla politica di Lenin e poi anche a quella di Stalin, lo costrinse
all’esilio, dove poi venne ucciso da sicari mandati proprio da Stalin.

GERMANIA: IL DIFFICILE DOPOGUERRA


Sovvertimenti di tipo istituzionali accaddero anche in altri territori, in particolare in Germania dove nel novembre
del 1918 l’imperatore andò in esilio e si formò una repubblica. La formazione di questa nuova organizzazione
nazionale non fermò però le potenze a istituire sanzioni nei confronti della Germania.
La fine della guerra portò ad una forte instabilità interna soprattutto dovuta alle crescenti proteste dei movimenti
operai.
Il movimento operaio era diviso al suo interno e colpito da repressioni del governo e attacchi dei partiti di destra.
Questi movimenti intendevano cogliere l’occasione della fine della guerra e la fine del potere imperiale per una
rivoluzione complessiva dell’intero sistema economico e sociale tedesco.
In seguito allo sviluppo di questi movimenti di protesta radicale, aumentarono la loro forza e il loro sostegno le
formazioni politiche di destra che avevano come base del loro programma politico l’esaltazione del primato
nazionale (contrario dei programmi comunisti di esaltazione a livello internazionale)

Partito nazional socialista dei lavoratori (partito nazista) aveva nel suo programma delle proposte socialiste, nel
senso di collettivizzazione e specializzazione dei mezzi di produzione.
Le proteste di piazza videro la partecipazione di lavoratori, operari e tutti coloro favorevoli a questo partito. Quest
portò ad una radicalizzazione delle posizioni che resero fortemente instabile la politica della neonata repubblica
tedesca, che di lì a poco, in seguito alle elezioni avrebbe creato un’assemblea costituente (riunita a Weimar) che
diede il nome alla costituzione, di stampo liberal democratico approvata per questa nuova repubblica.
Nella nuova repubblica viene istituita una politica e un’economia simile a quella che c’era già in precedenza e
restavano stretti i legami tra economia e politica: gli interessi comuni perseguiti dall’esercito erano strettamente
legati alla burocrazia dello stato e ai grandi gruppi economici.

Nelle elezioni politiche del 1919: vinsero il Partito socialdemocratico (SPD, sinistra riformista) e il partito
cattolico del Centro (collocazione politica con orientamento sociale ed economico meno propenso a forme
radicali ma attento alle esigenze delle classi popolari). Erano partiti di massa che cercavano di raccogliere il
consenso della popolazione e riuscirono con un gran numero. Sulla base di queste nuove elezioni si crea un
parlamento con la funzione di creare una costituzione.
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La repubblica di Weimar
Nel 1919, l’Assemblea nazionale riunita a Weimar approvò una nuova costituzione (la legge alla base delle altre
leggi dello Stato) di tipo democratico e liberale. Costituzione che garantiva le libertà di espressione, parola e
associazione all’interno di un sistema politico rappresentativo, tutti i cittadini erano chiamati al voto per eleggere i
propri rappresentanti in parlamento.
Carta costituzionale che era attenta alle trasformazioni avvenute all’interni del paese. Questo cambiamento
politico in realtà non riuscì a contrastare la crisi economica e sociale che si manifestò con l’aumento
dell’inflazione e della disoccupazione. La grave crisi economica creò una situazione di povertà diffusa,
malcontento popolare e forti tensioni politiche. Questi continui scioperi e manifestazioni di piazza aggravarono
notevolmente la crisi e favorirono la presenza e il crescente radicamento di movimenti politici di destra,
movimenti nazionalisti.
Questi movimenti tentarono un colpo di stato, infatti il Partito nazionalsocialista tedesco tentò un colpo di Stato a
Monaco nel 1923 e Adolf Hitler venne arrestato. In questi mesi di prigionia Hitler scrisse “La mia battaglia” che
fu poi la base del potere che istituì successivamente.

L’ascesa poi di Hitler al potere può essere spiegata proprio attraverso il contesto di crisi economica, tensioni
sociali e aumento della violenza che fece emergere un numero crescente di consensi verso il partito nazista.

STATI UNITI D’AMERICA: UNA CONTRASTATA SUPREMAZIA INTERNAZIONALE


Gli USA erano usciti dalla guerra senza molti problemi per quanto riguardava sanzioni però l’idea di pace di
Wilson, che si accompagnava ad un nuovo ruolo degli USA negli equilibri internazionali, non era condivisa dalla
maggioranza degli statunitensi perché questi condividevano le politiche isolazioniste della nazione. Questo ebbe
come conseguenza che alle lezioni politiche per il rinnovo della presidenza, il partito democratico perse le elezioni
a favore dei repubblicani. Vi fu così una smentita del progetto di politica estera di cui Wilson si era fatto portatore.
In uno de punti di Wilson, infatti, c’era la volontà di costituire la società delle nazioni per mantenere la pace
diplomatica e politica tra le nazioni, questo vide la sua realizzazione ma gli USA non ne presero parte.

In questi anni, prevalsero le tendenze politiche isolazioniste ma anche l’attenzione e la preoccupazione rispetto a
ciò che si stava sviluppando nell’area orientale, nell’oceano Pacifico e nell’estremo oriente asiatico. Gli stati uniti,
infatti, avevano forti ambizioni di presenza di tipo commerciale proprio in questi territori ma erano contrastati
dalla concorrenza del Giappone. Inoltre, le presenze comuniste all’interno degli stati uniti vennero fortemente
contrastate.

Con la fine della guerra i rapporti economici con l’Europa si intensificarono ulteriormente per cercare di far fronte
alla crisi economica che si stava diffondendo in molti paesi europei. Assunsero, così, maggiore rilevanza gli
investimenti in Europa e le esportazioni di merci USA. Questo rafforzò la presenza dell’economa americana sul
suolo europeo e quindi anche il suo ruolo come potenza mondiale.

Gli stati uniti, forti di questa spinta economica, videro rafforzarsi le grandi concentrazioni di imprese industriali
(per esempio, nelle telecomunicazioni), ovvero accordi tra imprese che cercano di avere il controllo monopolistico
di alcuni settori produttivi. Queste concentrazioni contraddirono il principio di libero mercato perché erano
accordi che, solo formalmente, mantenevano la loro autonomia.
In questa situazione il governo centrò di contrastare con leggi anti monopolistiche per difendere l’economia
nazionale, attraverso dazi doganali le importazioni di merci dall’estero. Furono posti dazi doganali per favorire le
merci prodotte negli Stati Uniti e indebolire la concorrenza creata dalle merci provenienti dall’estero. Questa
imposizione di dazi incrementò la conflittualità internazionale di tipo economico, gli stati che ambivano ad
esportare le proprie merci verso gli usa vedevano con disapprovazione queste decisioni. Quindi questa situazione
di conflitto economico internazionale contribuì anche ad aumentare la conflittualità a livello politico.
Ad aumentare la diffidenza di ciò che viene dall’estero fu anche lo sviluppo di movimenti estremisti che erano
ostili a tutto ciò che era considerato straniero. Crebbe così l’intolleranza nei confronti delle minoranze
(afroamericani, italiani).
Tutti i movimenti nazionalisti di estrema destra tendevano a voler espellere dal corpo della nazione tutte quelle
minoranze considerate estranee, questo proprio nella volontà di un’uniformità della nazione.

DEMOCRAZIE E DITTATURE
Nel dopoguerra, in Europa si formarono regimi politici totalitari (Unione sovietica, Italia e Germania) e governi
autoritari di destra. Sistemi politici che tendevano ad imporsi con la forza e con la limitazione delle libertà
personali e limitare e libertà. I governi liberali e democratici entrano così in crisi perché non riuscirono più ad
arginare la crisi economica e sociale che stava affossando l’Europa.
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Nel corso degli anni Venti e Trenta si sviluppano, quindi, anche in paesi in precedenza guidati da sistemi politici
liberali, dei governi di tipo autoritario e totalitario. In particolare, il totalitarismo era una nuova forma moderna di
organizzazione del potere che prende il suo nome da una definizione data da Mussolini: governo con obiettivo di
ricomprendere tutte le attività sociali, economiche e politiche all’interno dello stato, stato guidato da un partito
unico. Visone della politica che aveva come presupposto l’uso della violenza per inglobare all’interno del singolo
stato tutte le attività. Termine che andò poi anche a definire, non soltanto il governo fascista in Italia, ma anche
tutti quei sistemi del comunismo sovietico e poi dei nazional socialisti in Germania.

I sistemi totalitari si distinguono dalle forme di potere genericamente autoritarie proprio per la scelta
programmatica di reprimere con la violenza gli oppositori e, allo stesso tempo, ricercare il consenso dei cittadini e
della popolazione che veniva fatta attraverso l’attivazione di iniziative volte a legare più strettamente la
popolazione al governo.
In Europa, tra le due guerre, sorsero anche diversi stati in cui il governo era improntato in una direzione di serrato
e duro modo di gestire il potere, vale a dire tendente a reprimere le forme di opposizione politica che si
presentavano nel paese. Questa situazione caratterizzò molti dei nuovi stati che si erano formati dopo la Prima
guerra mondiale nell’est Europa ma anche nella penisola iberica, dove nel corso degli anni Venti, presero il potere
regimi autoritari di destra e filofascisti.

L’ITALIA: DALLA CRISI ALLA DITTATURA


Con la fine della prima guerra mondial in Italia, i ceti popolari chiedevano riforme sociali e partecipazione
politica. La classe politica però si dimostrò incapace di rispondere ai cambiamenti sociali e alle nuove richieste.
Non era in grado di affrontare la crisi, dal punto di vista del pensiero politico: di fronte ad una società che si stava
conformando compiutamente in una società di massa con il ruolo protagonista delle masse stesse, i governi
liberali, che avevano una tradizione di governo elitario che rappresentava soltanto la fascia più abbiente e ricca
della popolazione, non riuscirono a comprendere che la gestione del potere doveva cambiare.

A causa di tutti questi problemi incominciarono ad organizzarsi dei gruppi di ispirazione nazionalista che si
posero come difesa rispetto alla possibile avanzata delle forze rivoluzionarie di sinistra. In particolare, i fasci di
combattimenti, che poi divennero il partito nazionale fascista, organizzarono le cosiddette «camicie nere» fasciste
che attaccarono le sedi e gli esponenti dei sindacati e dei partiti democratici (socialisti e cattolici).
Il partito fascista si propose come difesa e argine alla possibile rivoluzione di tipo socialista/comunista in Italia,
attirando così l’attenzione, l’approvazione e i consensi elettorali di fasce crescenti del ceto medio. I fascisti
approfittarono di questa paura per una rivoluzione sociale, simile a quella accaduta in Russia, per crearsi uno
spazio politico di consenso all’interno dell’Italia.

Il tentativo dei liberali di neutralizzare i Fasci di combattimento fallì e così i fascisti vennero integrati nel
Parlamento. L’obiettivo, quindi, di normalizzare il fascismo fu un progetto che non ebbe esito.

Dopo le elezioni politiche del 1919, l’instabilità politica provocò nuove consultazioni nel 1921, in quanto i partiti
che avevano ottenuto le quote più rilevanti di voti non riuscirono a mettersi d’accordo. In particolare, avevano
raccolto più voti il partito socialista e il partito popolare italiano, due partiti di massa che si rivolgevano alle fasce
popolari, raccolsero una quota consistente dei voti in quanto il partito liberale aveva perso la sua capacità di
raccogliere consensi. Questi due partiti erano ideologicamente distanti: da un lato idee socialiste, dall’altro
ispirazione dei principi di dottrina della chiesa, contraria alle posizioni di rivoluzione sociale del partito socialista.
Proprio per queste diversità questi partiti non volevano allearsi.
In questo clima difficile, in cui non si riusciva a trovare una maggioranza, aumentò l’instabilità sociale e
l’illegalità diffusa.

Ottobre 1922 – il partito fascista diede vita ad una manifestazione, la marcia su Roma in cui molti dei
manifestanti scesero in strada illegalmente. Il capo del governo chiese, di fronte a questa evidente manifestazione,
chiese al re di proclamare lo stato di assedio, dando pieni poteri al governo per renderlo più capace ad intervenire
rispetto a questo evento. Il re Vittorio Emanuelle III, che era caratterizzato da un timore radicale nel possibile
scoppio di una rivoluzione in Italia, convocò mussolini e gli diede l’incarico di formare un nuovo governo.
Mussolini non salì al potere con un colpo di stato ma seguì la trafila indicata dallo statuto albertino che regolava e
organizzava la vita politica dell’Italia dal 1848. Mussolini ricevette quindi un incarico di comporre un nuovo
governo e si presentò alle camere dove ottenne la maggioranza dei consensi, di fatto agì in una situazione di
diffusa illegalità del paese alimentata proprio dai militanti del partito fascista che utilizzavano la violenza per
arrivare al potere.
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Nel 1924 si svolsero le nuove elezioni politiche, caratterizzate da una repressione violenta dei partiti che si
opponevano al partito fascista (partito socialista e comunista) e indirizzarono le loro forme di repressione e
attacco vero i sindacati cattolici e il partito pollare. Durante queste elezioni ci furono molte irregolarità nella fase
di conteggio dei voti per far sì che i fascisti aumentassero il loro consenso. Il socialista Matteotti, infatti, denunciò
i brogli elettorali e fu ucciso dai fascisti. Mussolini dichiarò la sua responsabilità dell’omicidio e per protesta i
partiti di opposizione si ritirarono dal Parlamento sperando che questo segno di opposizione suscitasse nel paese
sentimenti di contrarietà. Al contrario, una mancanza di opposizione in parlamento lasciò spazio libero a
Mussolini nell’approvazione di una serie di leggi.
1925-1926: approvate le «leggi fascistissime»; leggi che avevano come obbiettivo quello di sopprimere i partiti e i
sindacati che si opponevano al fascismo. Progetto di costruzione di una dittatura totalitaria: tutto doveva essere
assorbito nello Stato.

Dopo la salita al potere, il fascismo continuò a discriminare, incarcerare e uccidere gli oppositori politici. In
parallelo alla repressione violenta, il governo fascista costruì un moderno apparato di propaganda in grado di
esaltare i meriti del fascismo e che tendeva a far legare la popolazione al governo e al partito fascista.
L’esaltazione nazionalistica fu alla base della mobilitazione ideologica del fascismo per manipolare l’opinione
pubblica. La propaganda tendeva ad esaltare o ad inventare meriti del regime e enfatizzare i demeriti degli
oppositori, tendendo a rappresentare una realtà dove tutti i meriti stavano nelle mani di chi era al governo mentre
le opposizioni erano imputate di tutte le realtà negative presenti nel paese.
Per ottenere il consenso il governo di Mussolini agì soprattutto sulla gioventù.

La gestione del potere, da parte del partito fascista, era estremamente moderno perché era consapevole della
dimensione di massa della società, a differenza della classe politica liberale che non era stata in grado di mettere
in atto strumenti per gestire questa nuova dimensione di massa della società. Il partito fascista comprese che per
gestire una società così sempre più complessa, soltanto questo genere di politica di propaganda permetta al
governo di rimanere saldamente al potere.
La propaganda e la raccolta dei consensi fu un elemento fondamentale nella costruzione del potere del fascismo e
avevano come obiettivo esaltare il potere del duce. Per questa ragione, la politica interna di tipi totalitario si legò
ad una polita estera nazionalista.

Inizialmente il governo fascista si mosse in modo prudente in politica estera ma nel corso degli anni Venti
affiancò a questa politica, una politica estera più aggressiva che voleva mettere in difficoltà i trattati di pace del
dopoguerra. Dalla fine degli anni Venti, infatti, il fascismo richiese la revisione dei trattati di pace: il mito della
«vittoria mutilata» alimentò la sensazione che l’Italia fosse stata penalizzata dopo la vittoria. Quest’immagine
della vittoria mutilata fu un’immagine mitica, nel senso che non era vero, rispetto ai trattati firmati col patto di
Londra, perché l’Italia aveva ottenuto i territori che le spettavano da questo trattato. Ma questa vittori mutilata
tendeva a rappresentare un’Italia che non aveva ottenuto ciò che le sarebbe dovuto sulla base del peso della guerra
che aveva dovuto sostenere. Questa rappresentazione, che non corrispondeva alla realtà dei fatti diplomatici e
territoriali dopo la guerra, rifletteva un sentimento di insicurezza e insoddisfazione presente in Italia, soprattutto
nei ceti popolari che più erano stati colpiti dalle conseguenze della guerra.
Questo mito fu ripreso dal fascismo per rivendicare, all’interno della scena internazionale, un nuovo ordine
europeo e mondiale.
Per questo motivo dagli anni Trenta, fu intrapresa una politica estera aggressiva: l’Italia voleva condurre la sua
politica di potenza nei Balcani, nel Mediterraneo e in Africa.

6. IL MONDO IN CRISI NELL’ETÀ DEI TOTALITARISMI

LA GRANDE DEPRESSIONE DEL 19 29


La grande depressione aveva origine nei problemi irrisolti nell’immediato dopoguerra; infatti, anche le principali
cause della crisi tra le due guerre mondiali furono:
• processo di modernizzazione economica e sociale
• politiche degli Stati per contenere le oscillazioni dei mercati e per controllare i movimenti di protesta
• impoverimento e richiesta di sicurezza di fronte al disordine sociale
• industrializzazione e competizione internazionale
• eccesso di credito e sovrapproduzione

La difficile ripresa economica del dopoguerra rese difficile agli stati restituire i prestiti che avevano, questo creò
così un circolo vizioso di creazione di ulteriori debiti. Questo aumento degli investimenti e dei crediti fatti agli
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stati e alle imprese private, crearono una prima fase segnata da una certa ripresa economica, fase in cui i mercati
sembravano riprendere una vivacità tipica delle economie prima della guerra. Negli USA, questa volontà di
aumentare la produzione e le vendite, unita ad un rapido miglioramento delle tecniche e delle tecnologie, creò
una fase in cui si registrò una situazione di sovrapproduzione. Le imprese producevano di piú rispetto a quanto il
mercato e i consumatori erano in grado di acquistare.
Nell’ottobre del 1929, nel cosiddetto giovedì nero, la quotazione dei titoli della borsa statunitense subirono un
crollo. Questo creò un’ondata di panico che portò rapidamente alla vendita dei titoli, in questo caso ci fu
un’enorme vendita ma poca domanda, si innescò così ina crisi dalle radici molto profonde.
Alla crisi economica si accompagnò una crisi di tipo politico. Di fronte all’incapacità dei governi di arginare la
crisi trovarono spazio le forze politiche che si opponevano al sistema liberal democratici che non erano in grado
di rappresentare e rispondere alle esigenze della popolazione e le difficoltà economiche. La crisi fu generata,
infatti, dai processi di modernizzazione che i sistemi di governo liberali non riuscirono a governare efficacemente.
Questo portò alla diffusione di dittature di destra (Spagna) e di regimi totalitari a partito unico basati su consenso
e repressione.
• ideologia marxista-leninista e sistema collettivistico: Urss
• ideologia nazionalista e sistema capitalistico: Italia, Germania
La conseguenza fu l’aumento dell’instabilità internazionale, infatti, la soluzione che tutti i governi seguirono fu
quello di innalzare i dazi e fare aumentare ulteriormente la concorrenza economica e politica degli stati. Questo
non aiutò alla creazione di un sistema internazionale dove si potesse giungere ad una soluzione attraverso una
mediazione diplomatica.

La crisi economica del 1929 non fu transitoria perché nasceva dagli squilibri emersi nell’età dell’imperialismo e
aggravati dalla Grande guerra. Fu una depressione che non aveva precedenti per estensione, intensità e durata. La
crisi del ’29 si comprende proprio per questa sua incomparabilità rispetto a crisi precedenti anche perché i
fenomeni di globalizzazione avevano messo sempre più in relazione le economie e i sistemi sociali tra di loro. Le
connessioni tra i sistemi economici di Stati Uniti ed Europa, infatti, portarono alla diffusione della crisi in tutto il
mondo.
In Europa, vennero create politiche protezionistiche per arginare la diffusione della crisi. Ogni Stato difese la
moneta nazionale e attuò misure protezionistiche della produzione nazionale

L’esito della crisi del 1929 fu il peggioramento delle condizioni di vita, conflitti interni ai paesi e tensioni
internazionali.
Le democrazie liberali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania…) apparivano incapaci di fronteggiare la
crisi, proprio perché la crisi non aveva eguali e quindi non si aveva nemmeno la percezione degli strumenti più
adatti per intervenire e poi anche perché i sistemi liberali erano guidati da governi, la cui concezione di politica
economica e di intervento dello stato nell’economia, era minimalista, lo stato doveva intervenire il meno possibile
nell’economia. La dirompenza della crisi però portò gli stati ad intervenire per arginare la sua portata,
aumentarono così gli interventi pubblici nell’economia e le competenze degli Stati
In questa face di crisi economica e crescita della diffidenza tra gli stati, diminuì il clima di fiducia internazionale
che aveva accompagnato le trattative di pace del 1919 e che aveva visto, nella società delle nazioni, uno
strumento per regolare i conflitti e la competizione internazionale. Di fatto la società delle nazioni non era in
grado di risolvere i conflitti in quanto aveva pochi strumenti a disposizione.
La Società delle nazioni non era in grado di risolvere le tensioni internazionali anche perché non aveva a
disposizione una forza armata per sedare quei movimenti che avrebbero messo in crisi gli ordini internazionali,
inoltre al suo interno avevano l’adesione di pochi stati.

HITLER AL POTERE IN GERMANIA


Un ulteriore elemento di instabilità venne portato dai moti che arrivarono in Germania.
Dal 1923, l’economia tedesca aveva avuto una ripresa grazie all’afflusso di capitali dall’estero. Quella ripresa
economica non era fondata su basi solide e quindi, già alla metà degli anni Venti, iniziarono a presentarsi degli
elementi di crisi:
• diminuzione potere d’acquisto delle classi popolari
• diminuzione capacità d’acquisto dei beni da parte della popolazione
• diminuzione livelli di produzione
• aumento disoccupazione
Questo circolo vizioso e questa difficoltà economica fu ulteriormente aggravata dalla situazione economica
internazionale.
In Germania la depressione del 1929 fu aggravata dal blocco delle esportazioni verso gli USA e dal ritiro dei
finanziamenti internazionali alle imprese tedesche. L’economia tedesca fu molto colpita a causa dei contatti
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economici che la Germania aveva nel mercato statunitense. Per arginare la crisi vennero aumentai i dazi sulle
merci estere e questo non fece che peggiorare le imprese tedesche, aggravando ulteriormente questa crisi.

In questa situazione aumentarono i motivi di disagio e protesta dei ceti popolari, i partiti di massa erano in
difficoltà e se ne avvantaggiarono i partiti della destra estrema che, sulla base del ritorno all’ordine, organizzarono
manifestazioni e assalti alle sedi dei sindacati dei partiti democratici, aumentando così anche il consenso e
l’approvazione di questi settori della popolazione maggiormente colpiti dalla crisi.
Quello che accadde è che questa situazione di instabilità diffusa, portò ad un’instabilità politica, in quando il
parlamento non riusciva a trovare una maggioranza salda in grado di trovare provvedimenti forti per rispondere
alle difficoltà della crisi.
In Germania, come già accaduto in Italia, si ripeterono le elezioni e il partito nazista acquisì molti consensi. Così
come accadde con Mussolini, nel 1933 Hitler diventò cancelliere. Nell’arco di poche settimane Hitler ottenne, dal
capo dello stato, i pieni poteri, furono così abolite la libertà di riunione e le garanzie democratiche, fu anche usata
la violenza contro gli oppositori.
L’Obbiettivo del partito nazista era quello di riportare l’ordine e far ritornare la Germania nel ruolo di primato
che le spettava di diritto, secondo quanto sosteneva la propaganda nazista.

LEZIONE 10-11-12 [14-15-16/03]

LA GERMANIA HITLERIANA E L’EUROPA


Il regime nazista condusse una politica estera aggressiva e rifiutò i trattati di pace di Versailles del 1919. Manifestò
inoltre la volontà di annessione alla Germania dei territori abitati da popolazioni di lingua tedesca, in una
corrente di pensiero chiamata pan-germanesimo. Non solo le popolazioni all’interno, ma anche le minoranze
presenti in altri stati nazionali. Compresa l’Austria e la Cecoslovacchia, minoranze tedesche erano presenti anche
in Polonia, e anche in Alsazia e Lorena, le due regioni che con la fine della Prima guerra mondiale erano passati
sotto la sovranità francese. Una politica estera che tendeva ad allargare i confini dello stato tedesco.

Il secondo punto dell’aspirazione della politica estera tedesca era la ricerca dello “spazio vitale”, ovvero la
Germania, proprio perché era uno stato giovane, vitale e dinamico, aveva necessità di acquisire territori in grado
di garantirne la sopravvivenza. (Spazio vitale – Lebensraum)

Per sostenere il disegno imperiale, il Terzo Reich costruì la propaganda basata su anticomunismo, razzismo e
antisemitismo. Piani di guerra contro l’unione sovietica e i paesi dell’Europa orientale dove erano presenti forte
minoranze ebraiche. La volontà di creare uno stato “puro” dal punto di vista della propaganda nazista richiedeva
di annientare fisicamente la presenza degli ebrei sui territori della Germania e dell’Europa orientale che si
intendeva conquistare. Serviva come elemento per giustificare una politica aggressiva verso i paesi confinanti.

La Germania nazista era una macchina militare efficiente. Hitler era considerato un baluardo contro l’avanzata
sovietica in Europa; dunque, raccolse un certo favore negli ambienti conservatori europei, come negli ambiti del
fascismo italiano, a cui lo stesso Hitler si ispirava. Questo appoggio o comunque non preoccupazione rispetto ai
proclami all’apparenza propagandistici della Germania nazista portarono inizialmente a sottovalutare il rischio
rappresentato dalla politica estera della Germania.

Inizialmente fu sottovalutata all’interno della Germania e all’estero la dirompenza dei programmi del partito
nazista che prevedevano l’espansione territoriale e il riarmo. Ma già dopo pochi anni, la Germania mostrò alcune
avvisaglie del futuro, abbandonando la conferenza sul riarmo, una conferenza che puntava a limitare per via
diplomatica il riarmo, aumento di armi, marina, aviazione, etc. ma uscì anche nel 1933 dalla società delle
nazioni.

Dal 1935 viene reintrodotta la leva obbligatoria, fu accelerato il riarmo soprattutto come aviazione e marina (che
era stato vietato dai trattati di pace) e furono nuovamente militarizzate le zone della Saar e della Renania, al
confine fra Germania e Francia.

IL REGIME FASCISTA: DAI PROGETTI TOTALITARI ALL’ESPAN SIONE IMPERIALISTICA


Nel 1934, la minaccia di annessione dell’Austria al Reich provocò l’opposizione del governo reazionario di
Vienna e dell’Italia
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In Africa, l’Italia fascista approfittò delle incertezze di Francia e Gran Bretagna e nel 1935 iniziò la conquista
dell’Etiopia che terminò nel 1936 attraverso l’uso di armi che non erano consentite.
Sulla base di questa guerra si arrivò nel ’36 alla conquista del territorio dell’Etiopia dove venne proclamato
l’«Impero italiano»

Nei territori di Etiopia, Eritrea e Somalia fu creata la colonia dell’Africa orientale italiana
In seguito all’aggressione in Africa orientale, furono imposte sanzioni all’Italia che per protesta uscì dalla Società
delle nazioni. Questi eventi rafforzarono i rapporti diplomatici e politici tra la Germania nazista e l‘Italia fascista
proprio perché l’Italia risultava essere isolata dal punto di vista internazionale.

GERMANIA NAZISTA E ITALIA FASCISTA


L’isolamento internazionale dell’Italia favorì il suo avvicinamento alla Germania:
• 1936: Asse Roma-Berlino
• 1936-1938: sostegno ai nazionalisti nella guerra civile spagnola per cercare di eliminare il regime
repubblicano in spagna, guerra spagnola come tentativo di prova della Seconda guerra mondiale perché
vedeva schierate le truppe franchiste contro il governo repubblicano, guerra civile che si complicò
ulteriormente proprio per la presenza attiva degli aiuti provenienti dall’Italia fascista e Germania nazista
che permisero alle truppe franchiste di prendere il potere.
• 1936-1937: Patto anti-Comintern di Germania, Giappone e, poi, Italia, convergenza tra tre paesi
perché erano tuti e tre regimi basati su idea nazionalista di rafforzare lo stato e il ruolo internazionale dei
rispettivi stati. Ideologia nazionalista che vedeva come competitori quelle che erano le potenze coloniali
europee e gli stati uniti. Tre regimi che definirono degli accordi che tendevano ad unire questi stati in
caso di una possibile contrapposizione con le potenze europee caratterizzate da un’ideologia liberal
democratica e adesione al comunismo sovietico
• 1938: l’Italia non intervenne di fronte al nuovo tentativo di annessione dell’Austria alla Germania
(Anschluss).
• 22 maggio 1939: Patto d’acciaio tra Germania e Italia, patto militare di collaborazione e di sostegno
militare

LA COMPETIZIONE IN ASIA
Dopo la Grande guerra, nelle colonie asiatiche, si diffusero movimenti indipendentisti che reclamavano la
liberazione dal controllo delle potenze europee. Movimenti ispirati ad un’ideologia nazionale con la volontà di
essere indipendenti, volontà che si basava sulla situazione opprimente che le popolazioni di questi luoghi
vivevano. La diffusione di queste idee fu favorita anche dall’indebolimento della capacità delle potenze europee di
controllare in maniera stringente i territori coloniali.

Questa fase della storia coloniale provocò un crescente clima di incertezza anche nelle relazioni internazionali, gli
equilibri mondiali si erano spostati, in seguito al primo conflitto, con un ruolo crescente affidato agli Usa e anche
all’emergere della potenza giapponese.
L’incertezza politica internazionale favorì, infatti, la competizione tra gli imperi coloniali: il ruolo del Giappone
come potenza regionale aumentò sempre di più.

La competizione del Giappone con le potenze coloniali europee, però, entrava in conflitto con la volontà degli
stati uniti di aumentare la loro sfera di controllo sul pacifico e sull’estremo oriente asiatico. La conseguenza a
questa incertezza delle relazioni internazionali fu una rapida ridefinizione degli equilibri politici nell’area asiatica
dove il fulcro di questo nuovo disegno fu la Cina.

LA SPARTIZIONE DELLA CINA E LA LUNGA MARCIA DEI COMUNISTI CINESI


Dopo la fine del potere imperiale cinese, nel 1912 la Cina diventò una repubblica governata dai nazionalisti del
Kuomintang, che controllavano la Cina meridionale.
Il Kuomintang strinse un patto con il Partito comunista cinese (fondato nel 1921) per condurre una guerra di
liberazione nazionale contro i “signori della guerra” (mercenari sostenuti da inglesi, statunitensi e giapponesi) per
il controllo del nord della Cina

Negli anni Venti, la Cina registrò un certo sviluppo industriale nelle regioni costiere meridionali e in queste aree si
formò una classe operaia consistente. In generale, però, vi fu l’impoverimento dei contadini e dei commercianti
32

che non erano riusciti a adeguarsi ai cambiamenti dei traffici commerciali. Questa situazione di povertà e crisi
sociale si tradusse in un periodo di anarchia e di crescenti movimenti insurrezionali.

Nel 1928, nazionalisti e comunisti conquistarono Pechino e riunificarono la Cina e fu instaurato un regime
autoritario. Governo che riusciva sempre di più a togliere il controllo da parte egli stranieri. Limitato il potere dei
nemici comuni emersero però le differenze all’interno del governo cinese.
Nel sud della Cina si formò una repubblica comunista che aveva come obiettivo quello di mettere in evidenza
quanto i comunisti avessero un radicamento popolare maggiore rispetto ai nazionalisti, questo in, qualche modo,
proiettava la volontà dei comunisti di scalzare i nazionalisti dal governo e di sostituirsi totalmente con un governo
comunista. I nazionalisti non rimasero a guardare e con l’aiuto dell’esercito tentarono di limitare e reprimere
questi movimenti insurrezionali di stampo comunista.

Tra il 1934 e il 1935 i comunisti, guidati da Mao intrapresero la lunga marcia, uno spostamento dei gruppi
insurrezionali comunisti che da sud, si trasferirono verso il nord della Cina. Questa situazione di guerra civile
favorì le mire espansionistiche del Giappone che nel 1937 dichiarò guerra alla Cina. Di fronte a questa guerra
civile il Giappone riuscì ad affermarsi come maggior potenza militare nell’area asiatica.

L’ESPANSIONE DEL GIAPPONE


L’impero giapponese era uscito da vincitore dalla Grande guerra: era diventato la maggior potenza asiatica
Il Giappone, si segnalò per lo sviluppo economico sostenuto soprattutto dalla produzione industriale e per una
politica estera aggressiva. Le spinte espansionistiche del Giappone portarono all’occupazione di diversi
arcipelaghi appartenuti alla Germania nell’Oceano Pacifico. Questa fase espansionistica portò al Giappone il
controllo diretto di vaste aree dell’estremo oriente asiatico che garantirono la fornitura di quelle materie prime
indispensabili per mantenere la crescita industriale del paese. Ottenne privilegi economici sul territorio cinese e il
controllo di diverse aree

All’interno della società giapponese, però, emersero spinte democratiche, ma anche forti tendenze nazionalistiche
promotori di una politica estera fortemente aggressiva. Contribuì a questo orientamento nazionalista, oltre che la
posizione del Giappone sempre più vicina ad Italia e Germania, anche il prevalere di gruppi vicino all’esercito,
come guida del paese. Questo intrecciarsi di interessi politici e ideologici militari portò alla decisione di un
sistema di governo dittatoriale dove le libertà di espressione e opposizione erano limitate e dove si alimentò la
spinta espansionistica nipponica verso il continente asiatico e le isole dell’Oceano Pacifico.

La “grande depressione” colpì pesantemente anche il Giappone: rallentamento delle esportazioni e crisi
economica. La pressione demografica, la scarsità di materie prime e la ricerca di nuovi mercati alimentarono gli
impulsi imperialistici verso l’Asia continentale e il Pacifico .

Tra il 1928 e il 1941, infatti, il Giappone riesce ad avere il controllo di vasti territori che, durante la Seconda
guerra mondiale, portarono al controllo di una vasta area che arrivava fino all’Indocina, territori che erano sotto il
controllo dell’impero francese. Nell’arco di un decennio, quindi, il Giappone espanse il suo controllo proprio
grazie la propria potenza politica e militare.

Nel 1932, fu creato in Manciuria lo Stato-fantoccio del Manchukuò, formalmente autonomo ma controllato dal
governo giapponese: fu un punto di partenza per un’ulteriore espansione del Giappone sul continente asiatico

La Società delle nazioni condannò il Giappone che nel 1933 uscì dall’organizzazione internazionale.
L’occupazione da parte del Giappone di vaste regioni del territorio cinese e l’espansione verso le isole del sud-est
asiatico preoccuparono gli Stati Uniti che avevano ambizioni di controllo sulle stesse aree.

RILFESSI INTERNAZIONALI DELLA CRISI IN ORIENTE


L’espansionismo giapponese e la condanna della Società delle nazioni favorirono l’avvicinamento del Giappone
alla Germania. L’obiettivo comune di Germania e Giappone era il cambiamento totale dell’ordine internazionale.

Nel 1936, fu stipulato il Patto anti-Comintern; nel 1937, aderì anche l’Italia

In Cina, si stabilì un accordo tra nazionalisti e comunisti per cessare la guerra civile e combattere contro
l’invasore giapponese, questa situazione di controllo da parte del Giappone fece, quindi, unire questi due
schieramenti che si erano sempre fatti una guerra interna.
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Francia e Gran Bretagna tentarono di mantenere l’ordine internazionale ormai in crisi, in Europa e nelle colonie.
Altri Stati stavano tentando di avere un ruolo mondiale: Germania, Giappone, Unione sovietica. Il primato
incerto delle potenze coloniali europee viene messo in discussione da regimi nazionalisti come Germania, Italia e
Giappone ma anche su sponde ideologiche diversi come da stati uniti e Urss.

Il tentativo di Francia e gran Bretagna di mantenere il primato e il controllo coloniale viene sempre più in messo
in discussione anche dai gruppi indipendentisti all’interno delle colonie che intensificarono le loro azioni.
Situazione di debolezza che viene aggravata dalla crisi del’29 che mette in discussione la capacità di queste
potenze di continuare ad avere un primato di tipo economico a livello internazionale.
La crisi economica mondiale rafforzò le proteste e aumentò il seguito di massa dei movimenti anti-coloniali (per
esempio in India).

7. LA GUERRA TOTALE PER L’EGEMONIA

IL DISEGNO DELLA “GRANDE GERMANIA” , VERSO LA GUERRA TOTALE


Nel 1938, la Germania hitleriana ottenne l’annessione dell’Austria e poi la regione dei Sudeti, nella
Cecoslovacchia occidentale dove c’erano popoli di lingua e cultura tedesca. In nome di un principio nazionale, le
truppe tedesche occuparono questi territori. Di fronte a questa azione, che ledeva la sovranità dello stato
cecoslovacco, fu registrata una certa preoccupazione da parte delle diplomazie europee. Mussolini coì colse
l’occasione ci convocare una conferenza internazionale: la conferenza di Monaco.
Alla Conferenza di Monaco anche Gran Bretagna e Francia accettarono il fatto compiuto dalla Germania nazista
e confermarono la politica di appeasement (pacificazione) per evitare lo scoppio di una nuova guerra. Idea che,
accontentando lo e mire espansionistiche tedesche, si sarebbe evitata una guerra perché dichiarare guerra alla
Germania avrebbe fatto precipitare il mondo in un altro conflitto mondiale. La scelta dei governi e dell’opinione
pubblica francese e inglese andava, quindi, verso la concessione di questi territori alla Germania.

Nella primavera del 1939, la Germania occupò l’intera Cecoslovacchia: furono creati il protettorato di Boemia e
Moravia e lo Stato slovacco (formalmente autonomo, ma controllato dai tedeschi).
Nel 1939, invece, per affermare l’egemonia fascista nell’area dei Balcani, le truppe italiane occuparono l’Albania.
Nell’agosto del 1939 fu firmato il patto Ribbentrop-Molotov tra Germania e Unione Sovietica per la spartizione
della Polonia, patto tra due paesi ideologicamente opposti ma caratterizzati da regimi totalitari. Questi due paesi
firmarono questo patto che era un patto di non aggressione: i due paesi decisero la spartizione della polonia, in
modo tale che la parte occidentale fosse occupata dalle truppe tedesche e, contemporaneamente, l’URSS avrebbe
occupato quei territori che erano sotto l’impero sovietico prima della Prima guerra mondiale.

L’obiettivo principale della Germania rimaneva comunque l’occupazione dell’Unione Sovietica.


• Il 1°settembre 1939, la Germania invase la Polonia.
Dopo alcuni tentativi di mediazione, Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania. L’Italia
inizialmente si dichiarò paese “non belligerante” nonostante avesse stretto egli accordi militari e diplomatici con
la Germania. Questa posizione fu dovuta soprattutto alle debolezze dell’apparato militare che era già difficilmente
occupato per controllare i territori coloniali.

• Nell’aprile 1940, la Germania attaccò la Danimarca e la Norvegia, poi a maggio invase il Belgio, il
Lussemburgo e l’Olanda, neutrali. A maggio iniziò l’attaccò alla Francia.
• L’Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna il 10 giugno 1940.
• La Francia fu divisa in due parti: la parte a nord era sotto il controllo diretto della Germania nazista, a
sud c’era uno stato collaborazionista con capitale Vichy che era governato da francesi ma dipendente
dalla Germania nazista, era allineata con quel pensiero.
• Nel settembre 1940, Giappone, Italia e Germania firmarono il Patto tripartito, creato per la lotta contro
i paesi capitalisti.
• La Gran Bretagna rimase sola a contrastare il nazismo e venne sostenuta indirettamente dagli stati uniti
che inizialmente rimasero fuori dal conflitto
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UN NUOVO ORDINE MONDIALE

Negli anni Trenta, si disgregò l’ordine stabilito con i trattati di pace del 1919. Anche nei territori coloniali, le aree
di possibile espansione della Germania, dell’Italia e del Giappone si sovrapponevano a territori controllati o sotto
l’influenza di altre potenze europee.

L’URSS SULLA SCENA INTERNAZIONALE


L’unione sovietica si stava proiettando sulla scena internazionale perché nel corso degli anni Trenta, attraverso
una politica di pianificazione economica e di industrializzazione forzata, era divenuta una potenza economica.
Poteva contare sulla forza ideologica del comunismo e sui contatti con altri partiti comunisti, in grado di
controllare qualsiasi tentativo di scalzare il potere del partito comunista tramite la forte politica repressiva degli
oppositori. A fianco a questa politica repressiva c’era una forte politica di costruzione del consenso popolare e
internazionale proveniente dai partiti comunisti che, vedevano nell’URSS il primo caso al mondo in cui il partito
comunista aveva realizzato i principi del marxismo. La forma ideologica del comunismo serviva, quindi, per
garantire all’URSS un certo rilievo internazionale.

L’Urss intendeva disegnare un nuovo ordine mondiale contro le potenze “capitalistiche”. Ordine diverso da
quello degli stati fascisti e nazisti e anche diverso dagli stati capitalistici, stati uniti e gran Bretagna. Sulla base di
queste motivazioni ideologiche, economiche e geopolitiche voleva creare un nuovo ordine internazionale dove
l’URSS doveva essere il centro.

GLI STATI UNITI: NUOVO ATTORE GLOBALE


Anche gli stati uniti apparvero moto presenti nella scena mondiale.
L’economia degli Stati Uniti aveva raggiunto il primato mondiale (produzione, consumi, redditi). Primato
economico e politico che aveva che vedeva conferma nel primato mondiale degli stati uniti nella produzione, nel
consumo e nei redditi medi. Stati Uniti portatori di un nuovo ordine mondiale in cui volevano affermare la loro
dimensione economica, con il controllo dei commerci, e il loro ruolo politico.
Il governo intendeva espandere la sfera di influenza politica internazionale per sostenere gli interessi economici
delle aziende statunitensi.
Alla fine degli anni Trenta gli stati uniti sorreggevano questo disegno di egemonia mondiale con il discorso
retorico che li proiettava con un modello di democrazia e di economia anche per altri stati. Dopo l’uscita dalla
«grande depressione», infatti, gli Stati Uniti si proposero come un nuovo modello di civiltà: libertà dei mercati,
diffusione del capitalismo e affermazione del modello di democrazia statunitense.

UN CONFLITTO TOTALE E TRANSNAZIONALE


Per la Germania, l’Italia e il Giappone, il nuovo ordine mondiale poteva essere ottenuto soltanto attraverso la
guerra. L’obiettivo non era soltanto garantirsi la supremazia in alcune aree, ma definire un nuovo ordine
mondiale per sostituire l’egemonia mondiale di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il conflitto fu militare, ma anche tra opposti sistemi politici, economici e sociali: fascismo contro le democrazie
liberali e il comunismo sovietico.
Il secondo conflitto mondiale fu, allo stesso tempo, una guerra ideologica, una guerra totale, una guerra civile
globale che rese ancora più difficile creare una mediazione tra le due ideologie opposte.

La visione internazionalista (capacità di regolazione diplomatica delle contese tra gli Stati) era già stata messa in
crisi nella Grande guerra. Il fascismo e il nazismo avevano progetti aggressivi di politica estera sorretti
dall’ideologia nazionalistica e dall’anticomunismo.
Nel primo dopoguerra, crebbe lo scontro tra totalitarismi: nazionalsocialismo e fascismo, da una parte, e
comunismo, dall’altra.
Nazifascismo e socialismo sovietico avevano posizioni ideologiche contrapposte, ma tra i due diversi tipi di
regime vi erano elementi di imitazione e volontà di competizione

Negli anni Trenta risultava evidente l’opposizione tra il sistema liberal-democratico occidentale (basato sul
pluralismo e sulla libertà) e i totalitarismi (fondati su repressione e propaganda). L’esistenza, inoltre, di un
confronto ideologico tripolare (comunismo sovietico, nazi-fascismo e democrazie liberali) spiega la difficile
saldatura del fronte internazionale antifascista durante la guerra.
L’aggressività di Germania, Italia e Giappone favorì l’accordo tra comunismo e liberal-democrazie, uniti nella
lotta contro il nemico comune più che da progetti condivisi. Questa scelta di portare l’aggressività verso gli stati
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uniti e Urss rese possibile, quindi, la saldatura di un’alleanza, teoricamente impossibile, tra due potenze con
ideologie completamente opposte.

Insieme alle contrapposizioni internazionali, si definirono conflitti transnazionali che scavalcano le frontiere e
dividono le società in guerra al loro interno. Lo scontro ideologico e il conflitto per l’egemonia mondiale si
alimentarono a vicenda: lo scontro si radicalizza e diventa impossibile una negoziazione tra le parti.
Si produsse una guerra distruttiva e di massa, ci fu il coinvolgimento de militari ma anche un coinvolgimento
diretto dei civili, in misura maggiormente superiore di quanto era accaduto nel primo conflitto mondiale. Si tratta
in una guerra di movimento che si sviluppò con azioni massicce con l’obiettivo di distruggere e indebolire
l’avversario ma anche di colpire le strutture politiche, civili ed economiche dei paesi. Questa azione di massa fu
resa possibile perché i paesi avevano continuato ad armarsi.

UNA GUERRA SENZA LIMITI


L’aggressività di Germania, Italia e Giappone mostrò i suoi limiti:
• difficoltà di controllo dei territori conquistati, questo perché si richiedevano numeri alti di militari, una
grande organizzazione e disponibilità di uomini e mezzi che incominciavano a scarseggiare man mano
che le aree occupate diventavano più vaste.
• isolamento internazionale, questi paesi furono isolati, non soltanto dal punto di vista diplomatico o
politico ma anche dalle possibilità di reperire materie prime necessarie per continuare a condurre la
guerra
• durezza dell’occupazione militare, sottoponendo le popolazioni ad un controllo violento che resero
ancora più complicato il controllo di questi territori
• deportazione e sterminio dei civili (in particolare degli ebrei), all’interno dell’idea di nazionalismo e
superiorità razziale, nell’ottica di queste ideologie, l’unica soluzione era annientare fisicamente quelle
popolazioni che si ritenevano portatrici di un’identità diversa rispetto a quella nazionale. All’interno del
nuovo ordine mondiale c’era questa idea di purificazione della nazione per costruire una nazione ideale
abbattendo un nemico interno in cui far convergere l’odio dei cittadini stessi
• formazione di movimenti di resistenza che avevano come obbiettivo quello di scalzare questo potere
oppressivo
• allargamento del conflitto ad altre nazioni

RUOLO DELLA GRAN BRETAGNA


Dall’estate 1940, la Gran Bretagna rimase sola a combattere e subì i bombardamenti tedeschi. Riuscì a resistere
agli attacchi:
• possedeva una forte flotta militare;
• risorse provenienti dalle colonie dell’impero;
• crescente sostegno degli USA: fornitura di armi, legge «Affitti e prestiti» (Lend-Lease)

Nell’agosto 1941, Stati Uniti e Gran Bretagna firmarono la Carta atlantica che definì la cooperazione tra i due
paesi, la carta definiva e riprendeva alcuni elementi presenti nei 14 punti di Wilson ed era orientata ad affermare
la necessità e la volontà di affermare a livello mondiale e un sistema liberal democratico e capitalista. I punti
all’interno di questa carta erano:
• autodeterminazione dei popoli;
• libertà dalla paura e dal bisogno;
• libertà di commercio e dei mari;
• rifiuto di ingrandimenti territoriali;
• contro la guerra per la risoluzione dei conflitti;
• per il dopoguerra, disegno di un mondo sicuro e libero dalla paura

EGEMONIA E DEBOLEZZA MILITARE


La debolezza militare dell’alleanza nazi-fascista era dovuta soprattutto alla mancanza di risorse e all’espansione
territoriale che i paesi avevano ottenuto nei primi mesi della guerra. Inoltre, un'altra scelta che portò ad
aumentare questa difficoltà fu la decisione, da parte di Italia e Germania, di condurre una guerra nei Balcani, nel
Mediterraneo e in Africa che trovò l’opposizione dei gruppi di resistenza locale e delle truppe britanniche. La
controffensiva britannica riuscì comunque a limitare l’espansione nazista e fascista in queste aree.
Il Giappone conquistò ampi territori nell’Asia continentale e nelle isole dell’Oceano Pacifico
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URSS E USA CONFLITTO


Nel giugno 1941 si registrarono una serie di elementi che furono fatali per il successivo sviluppo della guerra.
Nello stesso anno Germania e Italia invasero l’Unione sovietica fino al Volga e al Caucaso, rompendo il patto
Molotov-Ribbentrop. Contrariamente ai piani di Italia e Germania, i sovietici riuscirono a resistere all’invasione e
si rafforzò sempre di più il ruolo di Stalin in Urss e nel comunismo internazionale.
L’URSS riuscì a resistere soprattutto a causa delle condizioni climatiche molto difficili, l’Italia ebbe difficoltà a
contrastare i gruppi di resistenza in Jugoslavia e così la Germania aveva dovuto intervenire in aiuto. Per questo
ritardo nei piani, l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno trovò le truppe italiane e tedesche ancora nel pieno
dell’avanzata. Questo comportò un numero molto alto di soldati morti e feriti. Quella che doveva essere
un’operazione molto rapida di conquista, in realtà poi, si trasformò in una guerra durissima che vide, tra il 1942 e
il 1943, l’arretramento delle truppe italiane e tedesche.

IL GIAPPONE NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE


Sul fronte del pacifico, il Giappone intendeva ottenere il primato politico internazionale nell’Oceano Pacifico e
nell’Asia orientale.
Nel dicembre 1941, il Giappone attaccò la base navale militare statunitense a Pearl Harbor, nelle Hawaii,
cercando di prevenire un possibile attacco degli stati uniti. Questo comportò la decisone, che già era da tempo in
discussione, degli stati uniti di entrare in guerra contro il Giappone e di conseguenza anche contro Germania e
Italia. I fronti di guerra avevano ormai raggiunto dimensioni mondiali.
Si saldarono due alleanze contrapposte:
• da una parte, Italia, Germania e Giappone
• dall’altra parte, Gran Bretagna e Usa sottoscrissero la Carta atlantica, alla quale aderì anche l’Unione
sovietica

LA SVOLTA DEL 1942 -1943


Nella guerra, emerse immediatamente la preponderanza della struttura economica e militare degli Stati Uniti.
• Nell’estate 1942 gli Stati Uniti conquistarono la superiorità sui giapponesi nell’Oceano Pacifico.
• La guerra in Unione Sovietica si prolungò oltre le aspettative di Hitler: i sovietici fecero arretrare le
truppe tedesche e italiane nell’inverno 1942-1943.
• Sul fronte nord-africano la guerra si concluse nel maggio 1943 con la vittoria degli Alleati anglo-
americani. Questo controllo consentì un punto di partenza per far arretrare il potere dei paesi nazi-fascisti
poi anche sul territorio europeo

In Europa si formarono movimenti di resistenza nei paesi occupati dai nazi-fascisti.


• Nel luglio 1943, le truppe angloamericane realizzarono lo sbarco in Sicilia per iniziare la liberazione
dell’Italia.
• Attacco da occidente: sbarco degli alleati in Normandia nel giugno 1944 e avanzata verso la Germania.
Ad agosto ci fu la liberazione di Parigi.
• Attacco da oriente: l’Armata rossa sovietica respinse dall’Europa dell’est le truppe naziste e fasciste tra
l’estate 1944 e l’inizio del 1945, fino a Berlino (aprile)

UN’ALLEANZA PER LA GUERRA: UN PIANO PER IL DOPOGUERRA


Le conferenze interalleate furono incontri al vertice per definire la conduzione del conflitto e la sistemazione
mondiale del dopoguerra:
• gennaio 1943, Conferenza di Casablanca tra Roosevelt e Churchill: progetto di resa incondizionata
• novembre 1943, Conferenza di Teheran: apertura del secondo fronte e futuro della Germania
• luglio 1944, Conferenza di Bretton Woods: creazione del Fondo monetario internazionale e della Banca
mondiale
• settembre 1944, Conferenza di Dumbarton Oaks: partecipano Usa, Urss, Gran Bretagna e Cina e
stabiliscono le basi dell’Organizzazione delle nazioni unite che avrebbe dovuto sostituire la società delle
nazioni (carta dell’Onu è firmata a San Francisco nel giugno 1945)
• febbraio 1945, Conferenza di Yalta: definiti i membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu;
zone di occupazione della Germania; futuro dell’Europa liberata
• Conferenza di Potsdam, luglio-agosto 1945, parteciparono Stalin, Truman e Attlee. Furono stabiliti i
confini tra la Polonia e la Germania e la divisione della Germania in quattro zone di occupazione (una
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delle quali alla Francia). I capi nazisti furono sottoposti al giudizio di un tribunale internazionale a
Norimberga

LA FINE DELLA GUERRA IN ASIA


Stati Uniti e Gran Bretagna dal 1943 al 1945 riconquistarono lentamente i territori occupati dai giapponesi
nell’Asia continentale e nell’Oceano Pacifico.
Di fronte al rifiuto di resa incondizionata del Giappone, nell’agosto 1945 gli Stati Uniti sganciarono due bombe
atomiche su Nagasaki e Hiroshima
Il 2 settembre 1945 il governo giapponese firmò la resa incondizionata

L’EUROPA DOPO LA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


Le diversità che erano state messe sotto silenzio durante lo svolgimento della guerra si presentarono alla fine della
guerra, quando era necessario definire il nuovo ordine mondiale e chi avrebbe comandato questo nuovo ordine.
L’Europa subì un profondo ridisegno dal punto di vista territoriale che, solo in parte, portò all’ordine precedente
alla guerra.
La polonia subì uno spostamento di frontiere a danno dei territori appartenuti alla Germania e a vantaggio di
quelli dell’unione sovietica.
Il territorio fortemente colpito fu quello della Germania, dove si era deciso di dividerlo in quattro zone di
occupazione, zone occupate militarmente da truppe sovietiche, statunitensi, francesi e britanniche. Zone in cui
non c’era un autogoverno tedesco ma in cui venne imposto un controllo che aveva come obiettivo quello di
controllare le attività produttive e di rieducazione dei tedeschi che avevano sostenuto la politica aggressiva di
Hitler.
Queste quattro zone di controllo rappresentavano le maggiori potenze, ma questa suddivisione portò subito a
divergenze tra l’unione sovietica e i paesi occidentali

8. IL SISTEMA BIPOLARE DELLA GUERRA FREDDA

FINE DELLA GUERRA: CONFRONTO TRA LE DUE SUPERPOTENZE


Quali sono le dinamiche che hanno accompagnato il mondo nei decenni del Dopoguerra e come le potenze
vincitrici si sono comportate con il nuovo equilibrio mondiale?
Alla fine della guerra, emerse un nuovo assetto delle relazioni internazionali e dei rapporti di forza, a livello
planetario.
Fu evidente a tutti la perdita definitiva della centralità mondiale dell’Europa e in base a questo si rafforzarono
sempre di più i movimenti per la decolonizzazione, premessa per la nascita di nuovi Stati indipendenti in Africa e
in Asia.
Emergono due nuove superpotenze extra-europee: gli Stati Uniti e l’Urss, che avevano acquisito un ruolo di
preminenza assoluto a livello mondiale, sia militare che in qualche modo economico e anche a livello di
popolazione.

Nel 1945, queste due superpotenze avevano un potere politico, militare economico diseguale tra loro ma
comunque di molto superiore a qualsiasi altra nazione. Stati Uniti e Unione Sovietica riuscirono così dunque a
creare due sfere di influenza ognuna sotto il rispettivo controllo, formata da stati formalmente indipendenti ma
che si rifacevano comunque ad una certa ideologia e influenza.

Dal 1945, l’influenza delle due superpotenze si basò sulla supremazia militare e sulla competizione ideologica,
sociale ed economica. Il nuovo sistema internazionale bipolare, dunque, comportò lo scontro ideologico sulla
linea di divisione tra il sistema comunista collettivista (URSS) e il sistema liberale e capitalista (USA). Le armi
atomiche possedute da USA e URSS alimentarono la guerra fredda, ma grazie ad una politica di MAD
(distruzione mutualmente assicurata) in caso di utilizzo di testate nucleari, riuscì ad esserci una certa
stabilizzazione dell’equilibrio bipolare.

Cos’è dunque la guerra fredda? Sono i decenni che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla
dissoluzione dell’unione sovietica nel 1991, quel periodo in cui l’Ordine internazionale fu caratterizzato da una
conflittualità di tipo ideologico, politico, economico e militare fra due superpotenze e le rispettive sfere di
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influenza. Il conflitto continuò ad esserci, ma a bassa intensità, non vide mai un confronto diretto fra i due paesi,
che vissero una situazione di tensione molto acuta ma che non arrivò mai allo scontro viso a viso.

GLI STATI UNITI


Con il 1945 lo scenario mondiale è attraversato da tensioni soprattutto in Europa, gli stati uniti crescono proprio
perché si propongono come modello di crescita, alla quale molte forze politiche guardano.

Gli Stati Uniti rappresentavano un modello per altri Stati: democrazia liberale, governo presidenziale, libertà di
iniziativa economica e limitato intervento dello Stato. Principi di economia classica come modello teorico di
riferimento. Presenza di imprenditori del settore economico e limitato intervento dello stato.
Questa libertà di iniziativa economica, in realtà, aveva visto realizzarsi un emergere di co concentrazioni
monopolistiche, ovvero accordi i formali tra aziende per rafforzare il proprio potere economico. Accordi tra
aziende per rafforzare la propria posizione di vantaggio sul mercato per escludere imprenditori e società che
venivano danneggiate. Concentrazioni monopolistiche falsavano il libero mercato perché facevano alzare in
modo innaturale il prezzo delle merci. Per questa ragione il governo statunitense aveva emanato delle leggi
antimonopolistiche.

Sistema liberale e democratico che doveva affermare la volontà uguale per tutti i cittadini, in realtà vedeva molte
disparità sociali. In alcuni settori, nelle periferie e nelle campagne, c’erano starti abbastanza ampi di persone che
vivevano con redditi molto bassi. Inoltre, quello che risultava ancora più evidente furono le discriminazioni
razziali definite anche da leggi che impedivano agli afroamericani i diritti sociali, economici e olitici (questo
soprattutto nel sud degli stati uniti).

Negli anni successivi alla guerra Roosevelt venne sostituito da Truman che puntava ad affermare il primato degli
stati uniti a livello globale, questo grazie al fatto che gli usa avevano affermato ed esercitato la loro capacità di
controllo su alcune aree del medio ed estremo oriente e nell’Europa dell’ovest.

UNIONE SOVIETICA
L’URSS aveva avuto ingenti perdite umane durante la guerra e devastazioni sul suo territorio che ebbero notevoli
conseguenze su due piani:
• immateriale: rafforzamento del partito comunista e ideologia comunista come unica forza antifascista in
grado di contenere un’avanzata militare da parte dei totalitarismi. Ruolo di guida del Partito comunista
sovietico rispetto agli altri Partiti comunisti: ideologia politica e speranza di liberazione collettiva, contro
il fascismo, il capitalismo e il colonialismo
• materiali: unione sovietica come paese vincitore ma molto debole se paragonato agli Usa. La vittoria a
livello mondiale però rese l’Urss una potenza di dimensioni mondiali che però non aveva confronto con
il suo ruolo importante degli anni Venti

L’Urss, a differenza degli Usa, fece politica estera difensiva, non cercava la collaborazione con gli altri pesi e
nemmeno con i paesi che entravano a far parte della sua sfera di controllo. Regime politico comunista, guidato
dall’ideologia marxista-leninista, limitazioni delle libertà individuali e sociali, “purghe” (repressione degli
avversari) nel Partito comunista. Politica di stretto controllo che rafforzò il ruolo centrale del partito unico
comunista.
L’economia dell’Urss si confermò sul modello, già affinato, che si aveva prima della Seconda guerra mondiale:
economia pianificata dallo stato, tutto era gestito dallo stato che, in via burocratica, gestiva le aziende. La
concentrazione delle attività produttive era soprattutto orientata verso l’industria pesante, industria che puntava
alla ricostruzione post bellica di strutture e infrastrutture, industria pesante che aveva come obiettivo anche quello
di sostenere gli obiettivi militari. Produzione che si dimostrò in realtà non in grado di massimizzare la
produzione, con perdite che a lungo andare portarono al tracollo dell’unione sovietica.

Dal punto di vista politico si stabili la dittatura di Stalin che aveva in mano le leve del potere, potere gestito sulla
base di un regime totalitario di repressione e consenso.

Cominform 1947 – organizzazione per la formazione dei partititi comunisti, il partito comunista era in grado di
condizionare i partiti comunisti che agivano nella sfera di influenza statunitense. Per questa capacità di controllo
politico e ideologico risultava essere una super potenza imperiale, l’unica che poteva competere con gli stati uniti.
Potenza imperiale: controllo dei sistemi politici ed economici dei paesi “satelliti” per sviluppare e rafforzare
l’URSS. Rete di collegamenti e contatti che aveva come obiettivo quello di rafforzare l’’unione sovietica, gli
accordi con i paesi satelliti dell’est Europa putavano, non tanto a costruire uno sviluppo di tipo economico e
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sociale paritario tra la super potenza e i paesi satelliti, ma le economie e le società di questi paesi dovevano essere
indirizzati verso la crescita generale dell’unione sovietica. Il potere imperiale dell’Urss, quindi, portò
all’indebolimento di questi paesi perché le esigenze primarie erano quelle di rafforzare il potere della stessa unione
sovietica.
Questo ruolo di primato internazionale dell’Urss era legato fortemente al fatto che era in grado di esercitare
direttamente, attraverso le proprie forze armate, il controllo della vita politica di tutti quei paesi dell’Est Europa
che erano stati liberati nelle fasi finali della Seconda guerra mondiale. Le truppe dell’Armata rossa, infatti, erano
presenti negli Stati dell’Europa est per controllare le “democrazie popolari”.

ACCORDI E COMPETIZIONE BIPOL ARE


Alla fine della Seconda guerra mondiale abbiamo, quindi, usa e Urss come due super potenze mondiali che
mantengono la loro egemonia in maniera different. Quello che si venne a creare fu un clima di tensione
internazionale generalizzato che, in una prima fase, vide collaborazione per stabilire gli assetti post bellici ma che,
dal ’47 in avanti fece crescere ulteriormente la competizione tra i paesi del blocco con a capo gli stati uniti e quei
paesi che avevano come super potenza di rifermento l’Urss.
Gli accordi tra i vincitori prevedevano il processo di Norimberga, la nascita dell’ONU e la conferenza di pace a
Parigi.
Si crearono due blocchi contrapposti, uno sotto il controllo dell’URSS, l’altro sotto il controllo degli Stati Uniti.
• Nel blocco sovietico, furono instaurati governi comunisti, democrazie popolari in cui c’erano partiti
minori che appoggiavano il partito comunista
• Nel blocco statunitense, si stabilirono governi liberal-democratici.
I due blocchi erano dunque formati da Stati con un sistema politico simile a quello della superpotenza di
riferimento. Si crearono aree di tensione politica e militare in Europa (Grecia, Balcani, Germania) e in Asia
(Cina, Indocina, Corea).
Questa situazione provocò un emergere costante di zone di conflitto a livello mondiale, infatti, non ci fu mai uno
scontro diretto tra queste potenze.

SPARTIZIONE DELL’EUROPA

Cortina di ferro che divideva i paesi europei orientali, sotto blocco sovietico, e paesi occidentali, sotto controllo
statunitense. Questo era stato determinato nei trattati di pace di Parigi dove vennero ridefiniti i confini e i
cambiamenti territoriali che colpirono soprattutto la polonia. A subire la sorte più sconvolgente fu però la
Germania e in particolare la città di Berlino.
A termine della guerra la Germania fu divisa in settori di occupazione, ciascuno affidato alle potenze vincitrici,
l’armata rossa, che giunse prima a Berlino, aveva già occupato il settore orientale della Germania, quando il 9
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maggio 1945 fu firmato l’armistizio. La divisione sia di Berlino che della Germania doveva essere temporanea ma
alcuni eventi di politica internazionale la resero definitiva: anche la capitale del reich fu dunque divisa in settori
occupati dagli eserciti vincitori. La parte occidentale, infatti, venne occupata poi dagli Usa.
Nella Germania dell’est si instaurò un governo di tipi comunista, nella parte occidentale, con la presenza degli
eserciti occidentali, si instaurò un governo liberal democratico, con un sistema liberale parlamentare fedele al
governo degli Usa.

Una situazione particolare si aveva con svizzera e Austria. La svizzera è sempre dichiarata neutrale e così è stato
anche nella divisione dei due blocchi. L’Austria ritrovò la sua indipendenza ma, proprio per la sua posizione di
cuscinetto tra Europa occidentale e orientale fu dichiarata neutrale, non facente parte di nessuno dei due blocchi.
La Jugoslavia, invece, era riuscita a liberarsi dalla presenza militare italiana e tedesca ancor prima dell’arrivo delle
truppe dell’armata sovietica. In teoria avrebbe dovuto appartenere alla sfera di influenza sovietica, ma proprio
perché si erano liberati da soli, l’armata rossa non era entrata nel paese e quindi, per questa ragione, nonostante
fosse guidata da un regime comunista, mantenne una sua autonomia dal punto di vista della propria politica
estera e interna, rispetto all’unione sovietica.

IL MONDO NELLA GUERRA FREDDA


USA e URSS avevano disegni egemonici su scala mondiale e avevano la percezione della volontà egemonica
dell’avversario. Questo generò un clima di tensione e competizione a livello mondiale in cui furono coinvolti
anche tutti i paesi dei due blocchi.

“Dottrina Truman” (1947): in politica estera, il governo USA intendeva contrapporsi al blocco sovietico e
contenere la potenza dell’URSS a livello globale. Politica che aveva come obbiettivo quello di evitare che
l’influenza dell’unione sovietica arrivasse a toccare i paesi che non erano appartenenti al blocco sovietico. Per
sviluppate la politica di contenimento furono utilizzate le continue innovazioni degli armamenti e i fortissimi
investimenti militari che controllavano a livello mondiale tutte le parti del blocco statunitense. Gli stati uniti
scelgono di usare la presenza di basi militari in Europa occidentale e in estremo oriente e di attivare delle
iniziative economiche, pagate con il bilancio del governo statunitense, per aiutare la ripresa economica europea.
Nel 1947, fu avviato dagli Stati Uniti il European Recovery Program (ERP, Piano Marshall): piano che
prevedeva dei finanziamenti per la ricostruzione dell’Europa, destinati a tutti gli Stati, ma rifiutati dai paesi
dell’Est. L’obiettivo era integrare i paesi dell’Europa occidentale in modo da avere una connessione dei mercati
europei con Usa e aumentare la politica antisovietica.

Due obiettivi principali degli USA:


• politico strategico: contenere la potenza dell’Urss
• favorire la ripresa economica: non volevano che si ripetesse quello che era accaduto dopo il primo
conflitto mondiale, ovvero che la crisi economica toccasse anche gli usa. L’unico modo era quindi
sostenere la ripresa europea per garantire anche la propria.
Si creò circolo virtuoso: i finanziamenti e gli aiuti europei fecero legare maggiormente i paesi occidentali con gli
usa e allo stesso tempo, l’aumento economico europeo portò anche a quello americano e ad una stabilizzazione
dei livelli di occupazione e di produttività. Questo portò ad una pace sociale tra i paesi del blocco occidentale che
portarono ad un crescente ruolo e potere centrale degli Usa.

Questi legami economici e militari furono formalizzati attraverso una serie di accordi:
Nel 1949 fu firmato il Trattato del Nord Atlantico (Patto Atlantico) tra gli Usa e 11 paesi dell’Europa occidentale
(nel 1952 si aggiunsero Grecia e Turchia e nel 1955 la Repubblica federale tedesca): si tratta di un patto militare
difensivo e prevede la presenza di basi militari nei paesi membri dove ci sono dotazioni militari.
Per coordinare le economie dei paesi europei dell’Est, nel 1949 fu creato il Comecon, guidato dall’URSS.
Accordo che sanciva l’asservimento delle economie dei paesi dell’Europa orientale all’esigenze dell’unione
sovietica. Ciò che veniva prodotto in questi paesi era al servizio delle esigenze dell’Urss.
Nel 1955, come reazione all’adesione della Repubblica federale tedesca alla Nato, fu firmato il Patto di Varsavia
per rafforzare i legami tra i paesi di questo blocco. Patto che definiva le norme e gli accordi di aiuto reciproco tra i
diversi paesi del blocco sovietico. Una clausola presente nel patto era quella che prevedeva che i paesi
appartenenti si impegnavano a difendere gli altri paesi in caso di attacco dall’esterno, proveniente dal blocco
statunitense. Inoltre, era anche indicato che i paesi sottoscrittori si impegnavano ad intervenire nei paesi satelliti
nel momento in cui si fossero presentate forze che volevano sovvertire il sistema comunista al potere.
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ECONOMIA E SOCIETÀ NELLA RICOSTRUZIONE


Dalla fine degli anni ’40 all’inizio degli anni ’60, vi fu un periodo di intensa crescita dell’economia nei paesi
vincitori e vinti: Europa occidentale e orientale, America del Nord, Giappone.
Anche i paesi del blocco sovietico riscontrarono una certa crescita, quindi a livello globale si ebbe una decisa
crescita economica.
Ad alimentare questa crescita ci fu l’aumentò la produttività del lavoro, mentre i costi delle materie prime e gli
scambi valutari rimasero stabili. A questa crescita economica, inoltre, contribuì anche la stabilità dei cambi: gli
scambi internazionali e i commerci si svilupparono in un clima di sostanziale stabilità in cui si aveva una certezza
del valore delle monete. Tutto questo avvenne grazie a decisioni politiche e iniziative economiche che vennero
prese per evitare le fluttuazioni causate dalle speculazioni finanziarie.

Nei paesi capitalisti, crebbe l’intervento dei governi nell’economia in funzione di stimolo delle imprese e di
creazione del Welfare State per equilibrare le disparità sociali provocate dalla crescita economia.

Nei paesi occidentali, era garantito pluralismo politico (sistema politico pluripartitico) e la libertà economica,
limitata da interventi degli Stati nell’economia (assistenza, aziende statali) → si profila un sistema di economia di
mercato con all’interno una forte presenza di interventi statali con l’obbiettivo di stabilizzare le società, evitando
l’emergere di conflittualità sociali.
La spesa pubblica ebbe un ruolo stabilizzatore delle società secondo le politiche keynesiane di redistribuzione dei
redditi (tassazione e politiche di deficit spending) che favorirono l’allargamento dei mercati interni (e viceversa).
Questi interventi di politica economica si richiamavano alle teorie di Keynes, che erano stato in parte applicate
negli USA dopo la grande crisi del 29.
Nel dopoguerra, molti stati Europei, organizzarono una serie di interventi con obiettivo della redistribuzione dei
redditi: questo causava però l’aumento del debito pubblico, perché lo stato si faceva carico delle spese sociali che
non erano direttamente redditizie. I bilanci non sono in attivo, in pareggio, ma sono sempre più dei bilanci in
passivo. I governi avviarono delle politiche di deficit spending: sono spese indirettamente produttive (l’anziano
riceve pensione minima e usa i soldi per comprare beni di prima necessità, i beni e i servizi che acquista
permettono all’economia di funzionare).
Gli Stati Uniti accrebbero fortemente le spese militari→ ad aggravare il peso dei bilanci pubblici ci fu l’aumento
delle spese militari, soprattutto per gli USA che avevano speso molti soldi per continuare il loro progetto di
superpotenza mondiale. Questa situazione di peso notevolissimo delle spese militari (anche queste improduttive)
metteva i bilanci degli stati in grande difficoltà. Per questo motivo furono iniziate trattative per arrivare ad una
forma di regolamentazione del commercio internazionale delle armi.

Furono stipulati accordi per regolare il commercio internazionale e stabilizzare il sistema monetario basato sul
Gold exchange standard→ esigenza di trovare e garantire una stabilità internazionale al sistema economico,
politico e sociale porta alla definizione di interventi che hanno obbiettivo di garantire la stabilità dei cambi delle
monete e di garantire la stabilità dei prezzi delle materie prime. Un sistema economico stabile è un elemento
necessario per favorire ed incrementare i commerci internazionali. La centralità degli USA nella
regolamentazione dei mercati finanziari era di assoluta preminenza. Gli usa erano usciti vincitori dalla guerra e
avevano ormai affermato il dollaro come moneta di intermediazione finanziaria e commerciale. Gli scambi
internazionali avvenivano quasi solamente usando il dollaro. Questo a causa del primato internazionale degli
Usa, ma anche per quello che si era stabilito con accordi in base ai quali il governo degli USA aveva definito il
gold exchange standard.

Gli USA si impegnavano a scambiare i dollari in un bene reale (oro) a chiunque si fosse presentato alla federal
reserve. Questa fiducia condivisa sulla stabilità degli USA favorì l’incremento dei commerci internazionali (si
aveva una fiducia che la federal reserve avesse riserve d’oro tali da compensare le banconote circolanti). Si sapeva
che non erano tali da poter pagare ogni dollaro circolante, ma c’era fiducia che la riserve aurea della federal
reserve era un elemento che contribuiva a dare una sensazione di diffusa stabilità all’economia internazionale.

Siccome gli USA avevano dovuto spendere moltissimo per le spese militare avevano iniziato a stampare dollari,
ma siccome era moneta di scambio serviva per pagare gli scambi (e non era in mano agli statunitensi e nel
territorio USA). Questo fece sì che non ci fu inflazione ma la massa di dollari che circolava fuori dagli Usa
rendeva possibili i commerci internazionali. Questo fa aumentare i fenomeni di globalizzazione perché si
rafforzano i legami tra le economie a livello mondiale.
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LEZIONE 13-14-15 [21-22-23/03]

EST E OVEST: DIVARIO E STABILITÀ


A fronte di un sistema sempre più integrato a livello planetario, incominciarono a sorgere divari e disparità tra il
blocco occidentale e quello orientale. Questo divario però portò, all’inizio degli anni ‘50, a stabilizzare i rapporti
all’interno delle alleanze. Assestamento interno che fu uno egli elementi fondamentali che favorì la
stabilizzazione delle relazioni tra i due blocchi.
Tra i due blocchi, però, ci fu un divario economico che innervò la propaganda politica all’interno degli stati,
ideologia che caratterizzava questo scontro bipolare della guerra fredda. All’interno di questa forte
contrapposizione dei due blocchi, nel corso degli anni Cinquanta, sotto la minaccia di un uso dell’arma atomica,
il confronto tra i blocchi registrò una certa stabilizzazione che però vide accrescere il divario tra le economie
orientali con quelle occidentali.
L’alto livello di contrapposizione ideologica tra i due sistemi condizionò la lotta politica interna agli Stati.
All’interno di un blocco non potevano esistere governi di orientamento diverso da quello della nazione-guida.

→ Nel blocco orientale


Il sistema sovietico di pianificazione economica centralizzata fu applicato nei paesi del blocco orientale e si
registrò una certa crescita economica. Obiettivo di realizzare un’egemonia su scala planetaria, attuare una politica
di presenza politico ideologica a livello internazionale. Volontà di potenza internazionale si sviluppò all'interno di
una competizione e confronto continuo che si scontrò con i limiti interni dell’economia e della gestione del potere
politico dell’unione sovietica.
L’Unione sovietica esprimeva una forte volontà espansionistica: politica di potenza a livello globale.
In realtà, l’URSS non riuscì a superare la sua debolezza interna: negli anni ’60 ci fu un rallentamento della
crescita e crisi economica. Inoltre, l’URSS non fu in grado di mantenere calme quelle che erano le forme di
dissenso che si erano sviluppate in tutto il regime, questo indebolì la capacità dell’URSS di reggere la
competizione internazionale degli stati uniti
La tensione internazionale fu usata dall’URSS per rafforzare il blocco sovietico, per limitare l’azione dei suoi
alleati e per perseguitare gli oppositori interni.

→Nel blocco occidentale


Dal punto di vista economico ci fu una fortissima crescita di tutti i paesi sotto il blocco occidentali, senza eguali
nel passato, ma in questa situazione non mancarono gli interventi dei governi per contenere la possibilità di
diffusione dell’ideologia di stampo socialista e comunista.
Negli anni ’50 si sviluppò la tendenza di una paura dei comunisti, dei rossi, con il timore della circolazione, nei
paesi occidentali, di nemici interni aderenti e simpatizzanti dell’ideologia comunista. Questo alimentò la
contrapposizione politica e ideologica all’interno dei paesi del blocco occidentale.

La politica internazionale del presidente democratico statunitense Truman (1945-1953) fu ritenuta debole da parte
dell’elettorato conservatore statunitense: si diffuse la paura dello spionaggio comunista interno.
Dal 1953 al 1961, il repubblicano Eisenhower fu presidente degli Stati Uniti: condusse una politica estera di roll
back (arretramento) contro il comunismo. Politica che puntava a far indietreggiare le posizioni internazionali
dell’unione sovietica e che si tradusse in una politica estera degli Usa aggressiva che intendeva sostituire in alcuni
paesi, ai margini dell’influenza del blocco sovietico, dei governi interni che si dimostrassero filostatunitensi,
vicino alle posizioni politiche, economiche e ideologiche degli Usa. Questo ebbe come esito il fatto che il governo
degli Usa intervennero soprattutto nei paesi che si richiamavano all’area di influenza degli stati uniti per evitare
che in questi paesi salissero al potere, non soltanto dei governi comunisti, ma anche governi di tipo riformista che,
in qualche modo, potevano dare l’impressione di un indebolimento della capacità di controllo degli stati uniti a
livello internazionale. Gli USA, infatti, intervennero nei paesi del proprio blocco per evitare lo sviluppo
democratico verso maggioranze di governo con la partecipazione di partiti socialisti o comunisti (di sinistra).
L’anti-comunismo fu sfruttato dai fronti politici conservatori per opporsi a riforme del sistema di mercato e di tipo
sociale

AREE DI CRISI DURANTE LA GUERRA FREDDA


Negli anni ‘50, si diffuse un clima di tensione internazionale che si riflesse all’interno dei singoli paesi. Tensioni
che non videro mai l’intervento diretto delle due superpotenze ma che, in qualche modo, rappresentavano la
contrapposizione delle due ideologie. Infatti, Usa e Urss in questi conflitti, molto spesso inviavano armi e
sostegno ma senza mai scontrarsi direttamente.
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Numerose furono le crisi tra i blocchi, soprattutto in Asia: sotto la minaccia delle armi atomiche, si creò
l’“equilibrio del terrore” che in alcuni momenti sembrò avvicinare il pianeta a una nuova guerra mondiale
La stabilità internazionale della “guerra fredda” fu raggiunta attraverso successive crisi:
• Blocco di Berlino (1948-1949) – Per protesta contro la fusione delle zone della Germania ovest
controllate da USA, Francia e Gran Bretagna, nel 1948 l’URSS impedì l’accesso dei rifornimenti a
Berlino ovest con un blocco stradale e ferroviario.
Gli USA mantennero per quasi un anno un massiccio ponte aereo per rifornire la zona occidentale di
Berlino.
Nel 1949, la volontà dell’URSS di non far precipitare la crisi fece terminare il blocco
• Guerra di Corea (1950-1953) – Alla fine della guerra, la Corea fu divisa in due Stati: il nord guidato da
un governo comunista (Pyongyang) e il sud da un regime filo -occidentale (Seul). Nel 1950, la Corea del
nord invase il sud (con il sostegno dell’URSS) e gli Stati Uniti intervennero, riportando la situazione
precedente l’invasione. Con l’armistizio del 1953, la divisione della Corea in due Stati lungo il 38 °
parallelo fu garantita dalla presenza dei «caschi blu» dell’Onu

LA POLITICA GLOBALE DEGLI STATI UNITI


Con la guerra di Corea si cristallizzò la contrapposizione bipolare e crebbe il clima di «guerra fredda».
Si affermò la supremazia aeronavale degli Stati Uniti nell’Oceano Pacifico. Questo primato di basava sulla
presenza di un alleato fondamentale che era il Giappone. Si rafforzò il sostegno statunitense al Giappone per
ridare al paese autonomia politica ed economica, appoggiando i gruppi tradizionalmente dominanti. Gli usa
garantirono al Giappone degli interventi simili a quelli che si stavano avendo in Europa con il piano Marshall.
Tutto questo per fare sì che in Giappone si avesse una ripresa economiche, le condizioni e le risorse per un riarmo
contro l’unione sovietica. Il Giappone riuscì, così, a garantire una presenza e un punto fondamentale nel confine
con l’influenza russa.
Questa politica di aiuti economici fu accompagnata da una politica di sostegno alle forze politiche che potevano
garantire agli usa una presenza nell’area del pacifico e nell’area orientale.
Gli Stati Uniti strinsero così alleanze diplomatico-militari con i paesi asiatici (Seato, con i paesi del sud-est
asiatico). Organizzazione simile alla Nato che legò molti paesi del sud est asiatico, filoamericani, in funzione
anticomunista.

LE LOTTE PER LA DECOLONIZZAZIONE


La politica internazionale di contrapposizione tra i blocchi viene analizzata, non soltanto all’interno delle di
amiche di contrapposizione tra Urss e usa, ma anche all’interno di uno scenario in rapida trasformazione. Questo
interessò il fenomeno complesso della decolonizzazione. Nei vent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale,
quasi tutti i territori africani e asiatici raggiunsero l’indipendenza politica dalle ex potenze coloniali europee.

La crisi del sistema coloniale fu causato:


• dai movimenti sociali e politici a favore dell’indipendenza nazionale,
• dalla mobilitazione internazionale anti-coloniale, creta come conseguenza della volontà di una
democrazia internazionale. Movimenti che erano al sostegno delle lotte anticoloniali che trovarono un
appoggio nei governi sia degli stati uniti che dell’unione sovietica
• dalla debolezza delle potenze europee che non furono più in grado di controllare questi territori

Il processo di decolonizzazione si svolse negli anni della «guerra fredda» e fu condizionato dalle relazioni
internazionali bloccate nella contrapposizione bipolare.
L’idea dell’indipendenza dei popoli dal controllo coloniale fu fortemente presene all’interno del concetto di
nazione degli stati uniti, per questa ragione spinsero fortemente alla lotta anticoloniale e alla richiesta di
indipendenza dei territori coloniali. Per l’unione sovietica, la lotta contro le potenze europee capitalista portava
necessariamente al sostegno di quei movimenti che puntavano all’indipedenza dei territori coloniali.
Le due nazioni si opposero anche per le ideologie alla base di questi movimenti di decolonizzazione, entrambi i
blocchi avevano la volontà do far diminuire il controllo delle potenze coloniali europee per sostituirsi.
Gli stati uniti promosso i movimenti di indipendenza dalla dominazione coloniale per orientare questi movimenti
di liberazione nazionale verso di sé, gli usa puntavano che prendessero il potere dei governi filostatunitensi, che
garantissero il libero commercio e gli interessi degli stati uniti. Allo stesso modo anche l’URSS sosteneva questi
movimenti, soprattutto quelli che si ispiravano ad un’idea comunista e socialista.
Unione Sovietica e Stati Uniti, quindi, erano contrari al mantenimento dei possedimenti coloniali delle potenze
europee per motivi ideologici e politici simili ma contrapposti.
• Gli Stati Uniti volevano guidare l’inserimento di questi territori nella loro sfera di influenza.
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• L’Unione Sovietica sosteneva i movimenti anti-coloniali di orientamento rivoluzionario per esercitare


un’influenza indiretta sulle ex-colonie.
Le due superpotenze miravano a usare i territori asiatici e africani per accrescere il proprio ruolo economico e
strategico globale.

Le potenze coloniali (Francia e Gran Bretagna in particolare) si opponevano all’indipendenza delle colonie
perché intendevano mantenere il loro ruolo internazionale mondiale, giustificandolo con il contenimento del
blocco comunista. Vi è però anche nell’opinione pubblica e nelle scelte delle due superpotenze la delegittimazione
culturale e politica del colonialismo, ma in modo selettivo.
La decolonizzazione si complicò per i conflitti tra i movimenti per l’indipendenza, divisi tra forze filo-occidentali,
neutraliste e comuniste.
• La Francia ingaggiò vere e proprie guerre anticoloniali per opporsi ai movimenti che puntavano
all’ottenimento dell’indipendenza.
• La Gran Bretagna, invece, giunse ad un accordo con i movimenti di liberazione anticoloniale e concesse
l’indipendenza a quasi tutti i territori coloniali. Il suo progetto era quello di creare una confederazione dei
paesi che avevano ottenuto l’indipendenza, creare un sistema internazionale che garantisse alla Gran
Bretagna legami privilegiati con l’ex impero coloniale.

INDIPENDENZA DELL’INDIA
Il progetto di una Confederazione indiana guidato dalla Gran Bretagna fallì.
Nel 1947, la Gran Bretagna cedette la sovranità a due nuovi Stati formati su base nazionale: l’Unione indiana e il
Pakistan. Due stati molto popolosi che però definirono la propria identità nazionale sulla base di un’appartenenza
etnico-religiosa.
• L’unione indiana voleva riunire all’interno di questi territori le popolazioni di religione hindu
• il Pakistan si creò come uno stato di identità musulmana.
Fu dunque difficile creare dei confini in quanto le popolazioni erano mischiate, questa situazione di difficile
definizione sul terreno della sovranità non fu risolta dall’impero britannico che, in qualche misura, lasciò che
l’indipendenza fosse definita sulla base di questi confini. Questa divisione provocò massicce migrazioni perché le
popolazioni islamiche, che si trovavano nel territorio dell’unione indiana, temendo di essere discriminate,
decisero di migrare verso i territori pakistani. Allo stesso modo le persone induiste migrarono sempre di più verso
l’unione indiana. Questa decisone di divisione in due stati portò ad una migrazione enorme che innescò una serie
di scontri armati con centinaia di migliaia di vittime, scontri armati per le aree di confine contese.

INDIPENDENZA DELL’INDOCINA
L’Indocina era un territorio coloniale sotto il territorio francese che, durante la Seconda guerra mondiale, fu
occupato dal Giappone che in realtà aiutò alla liberazione dalla dominazione coloniale francese. Con la fine della
guerra e la perdita del Giappone tutti questi territori vennero persi dal co rollo giapponese e anche la zona
dell’Indocina ritornò all’amministrazione coloniale con il controllo militare delle truppe francesi. Visto che però
molti gruppi erano riusciti a liberarsi dall’occupazione giapponese, nel 1945, Laos, Cambogia e Vietnam
proclamarono l’indipendenza dalla Francia. Questa richiesta però non fu accettata, l’esercito francese così
intervenne contro la guerriglia, ma fu sconfitto.
Furono firmati gli Accordi di Ginevra nel 1954: si venderono emergere quattro stati:
• Cambogia
• Laos
• Vietnam del nord
• Vietnam del sud
La situazione del Vietnam venne creata sulla base della contrapposizione tra il blocco sovietico e americano. Il
Vietnam del sud, infatti, rientrò nella sfera di influenza degli stati uniti con un governo conservatore. Il Vietnam
del nord, invece, fu sotto l’influenza dell’unione sovietica e venne imposto un regime comunista, filosovietico.

I PAESI ARABI VERSO L’INDIPENDENZA


Il Medio Oriente e l’Africa mediterranea sono zone di conflittualità permanente che continua dalla fine della
Seconda guerra mondiale e dall’indipendenza di questi territori. Questi territori erano stati direttamente coinvolti
nella Seconda guerra mondiale: si erano diffuse promesse di indipendenza politica delle colonie da Francia e
Gran Bretagna e si rafforzarono i sentimenti nazionalisti.
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Il Libano (1943) e la Transgiordania (1946) giunsero all’indipendenza senza grandi contrasti. Situazione che non
si ripropose in altre regioni. Si creò, infatti, un movimento insurrezionale anti-francese in Siria che conquistò
l’indipendenza nel 1946.
La Libia (già colonia italiana) giunse all’indipendenza nel 1951.

Alla fine della guerra, la Gran Bretagna era favorevole all’unità politico-territoriale della Palestina che stava
amministrando. La Palestina era stata affidata dal mandato della società delle nazioni alla Gran Bretagna. La
gran Bretagna era favorevole alla creazione di un nuovo stato: la Palestina, però stati uniti e unione sovietica si
mostrarono favorevoli alla creazione, in questo territorio, di un ulteriore stato, di tipo ebraico che non avrebbe
dovuto essere collocato prendendo tutto lo spazio della Palestina ma che, in qualche misura, avrebbe dovuto dare
gli ebrei un territorio. A fianco a queste richieste per la creazione di uno stato ebraico vi erano, però, uguali
pressioni da parte della popolazione araba presente in questi territori che puntavano alla costituzione, allo stesso
modo, di uno stato arabo. Si moltiplicarono, così, scontri e attentati di ebrei e arabi contro i britannici.
Di fronte a questa situazione complessa emerse anche la questione strategica del territorio che era importante in
quanto era un punto di passaggio dei commerci tra l’area del mediterraneo e l’oriente, inoltre anche perché, negli
ultimi decenni, era diventato uh punto di snodo fondamentale per il commercio del petrolio. Questo groviglio di
interessi e tensioni fu risolto dall’ONU che definì la spartizione della regione tra ebrei e arabi con la creazione di
due Stati: uno a maggioranza ebraica e uno a maggioranza araba, ma vi fu l’opposizione di palestinesi e paesi
arabi.
I britannici abbandonarono il controllo della Palestina.
Nel 1948 fu fondato lo Stato di Israele, stato governato dagli ebrei.

In questa situazione gli ebrei sono molto pronti a dichiarare la nascita del nuovo stato, ugualmente pronti non
sono però gli arabi, abitanti nell’area della Palestina che all’epoca erano la maggioranza. Non furono pronte in
quanto c’erano delle divisioni all’interno del movimento di liberazione nazionale, vi era una forte competizione
tra gli stati vicini che puntavano ad avere un controllo sul nuovo stato arabo che si stava formando. Le potenze
regionali del Medio Oriente (Egitto, Siria, Arabia Saudita), infatti, si contendevano il controllo della Palestina
araba per i forti interessi economici e strategici dell’area (petrolio, percorsi commerciali…).

Dal 1948, nella regione intorno a Gerusalemme i conflitti militari tra arabi e israeliani si intrecciarono con la
situazione politica internazionale. Le ragioni di questi conflitti avevano l’obiettivo di mettere in maggior sicurezza
i territori e le popolazioni del nuovo stato israeliano. Nel 1949, si concluse la prima guerra arabo-israeliana, con la
sconfitta dei paesi arabi e l’ampliamento dell’area controllata dagli israeliani. Dal punto di vista del controllo
territoriale di Israele dell’area introno a Gerusalemme ci furono diversi cambiamenti nel corso degli anni. Tra i
territori affidati agli arabi non c’era continuità territoriale:
• il territorio di Israele era collegato, anche se i modi sottili, c’era una continuità territoriale
• il territorio affidato agli arabi aveva un territorio dove non vi era la possibilità di un passaggio diretto da
un’area all’altra.
Questo problema che era stato superato dal fatto che gli arabi non erano stati in grado di superare e costituire uno
stato indipendente. In questa situazione di incertezza e instabilità all’interno del fronte arabo poté approfittarne il
nuovo stato di Israele che riuscì, nell’arco di pochi mesi, ad ampliare il controllo sui territori che le nazioni unite,
formalmente, non avevano affidato alla sovranità dello stato di Israele. Attraverso un’azione armata Israele
ampliò i suoi territori anche negli anni successivi, contribuendo a creare una situazione di crescente instabilità.

L’EGITTO DI NASSER
Nel 1952, il colonnello Nasser salì al potere in Egitto dopo un colpo di Stato militare: Nasser si era fatto
portavoce di questi gruppi interni all’esercito che sostenevano un progetto politico orientato verso il socialismo
arabo a sfondo nazionalistico e con un programma di modernizzazione. Questo ebbe delle immediate
conseguenze internazionali perché si svolse durante la guerra fredda, con la volontà di stati Uniti e Urss di avere il
controllo delle relazioni internazionali.

A rendere più difficile la situazione fu decisione della nazionalizzazione del Canale di Suez, gestito da una società
anglo-francese. Il canale di Suez, collocato sul territorio egiziano, infatti, era stato costruito da una società privata
con capitale soprattutto francese e britannico, società che aveva al suo interno anche dei forti interessi dei
rispettivi governi. Il servizio e l’uso del canale era stato concesso a questa compagnia dal governo egiziano,
quindi, non era una proprietà coloniale. Con l’aumento dei commerci internazionali il canale di Suez ebbe
un’importanza commerciale e militare enorme e poter controllare questi traffici era di grande importanza anche
per Francia e gran Bretagna, nonostante fosse finito il loro potere coloniale su questi territori. Quando Nasser salì
al potere i finanziamenti internazionali, che avrebbero dovuto sostenere la costruzione di un serie di dighe lungo il
Nilo per regolamentare le acque e garantire energia elettrica, diminuirono. Per poter avere degli introiti necessari
46

per il suo ampio progetto di modernizzazione, Nasser, decise quindi di nazionalizzare il canale; quindi, la società
sarebbe stata acquistata e controllata dal governo di Nasser.
A seguito di questa decisione, nel 1956, iniziò l’attacco anglo-francese e israeliano per il controllo del Canale di
Suez (seconda guerra arabo-israeliana).
L’Onu intervenne per arginare la presenza degli aggressori e per condannare sia l’azione degli israeliani sia quella
di Francia e Gran Bretagna. L’ ONU stabilì poi che questa nazionalizzazione era legittima perché rispondeva ai
giusti obiettivi nazionalistici del governo, era dunque un’azione corretta.

Il risultato di queste azioni nella dimensione internazionale, all’interno della guerra fredda fu importante. Gli usa
affermavano con forza che, nell’epoca della guerra fredda, all’interno del blocco occidentale le decisioni di
politica estera dovevano essere accordate con gli usa. I paesi di questo blocco non potevano dunque avere una
politica estera autonoma ma dovevano concordarla con gli usa. Ci fu quindi la conferma di uno scenario
internazionale dove le potenze europee coloniali avevano un potere sempre più limitato che doveva sempre
confortarsi con gli Usa.

IL MEDIO ORIENTE NELLA GUERRA FREDDA


Dopo la Seconda guerra mondiale, Stati Uniti e Unione Sovietica accrebbero la loro presenza in Medio Oriente.
La diminuzione dei finanziamenti occidentali verso l’Egitto favorirono l’avvicinamento dell’Egitto all’Unione
sovietica.
Gli Stati Uniti sostennero più decisamente Israele, paese filostatunitense che seppe giocare la carta della necessità
degli stati uniti di trovare degli alleati affidabili in questa area strategica del Medio Oriente. Nell’area di
Gerusalemme però le guerre continuarono, infatti, nel 1967, Israele lanciò un attacco “preventivo” (guerra dei Sei
giorni) contro l’Egitto e arrivò fino al canale di Suez. Questa situazione, dal punto d vista delle relazioni
all’interno di questa area, creava auna situazione di forte instabilità e nel 1973 l’Egitto tentò di rimandare indietro
le postazioni militari israeliane e approfittò della festa ebraica per lanciare un attacco, pensando che l’attenzione
militare israeliana non sarebbe stata efficiente. In realtà Israele contrattaccò l’attacco egiziano (guerra del Kippur)
e a questo punto intervennero usa e Urss per evitare un ulteriore allargamento del conflitto.
Nel 1979, fu firmato il trattato di pace tra Egitto e Israele: fu restituita la sovranità sul Sinai e sul canale di Suez
all’Egitto che riconobbe lo Stato di Israele

L’INDIPENDENZA DEL MAGHREB E LA GUERRA D’ALGERIA


Nel 1956, Marocco e Tunisia giunsero all’indipendenza dalla Francia attraverso un negoziato e la mediazione di
Stati Uniti e Gran Bretagna.

L’Algeria era considerata dalla Francia un “territorio metropolitano”; circa il 12% della popolazione è di origine
europea (pieds-noirs), erano europei che avevano trasferito la propria residenza in Algeria. Minoranza consistente
se paragonata alle altre europee presenti nel territorio.
Nel dopoguerra si formò in Algeria il Fronte di liberazione nazionale, con un largo appoggio nella popolazione.
Di fronte alle manifestazioni e agli attentati la Francia agì cn una mano durissima, attraverso repressioni,
incarcerazioni e uccisioni. Dal 1954 al 1962, infatti, vi fu la dura reazione della Francia alle richieste di
indipendenza, con rastrellamenti, deportazioni e torture

La resistenza algerina organizzò diversi atti di guerriglia contro i francesi che reagirono con l’esercito con la dura
repressione. In Francia, i partiti e l’opinione pubblica si divisero sulla politica da seguire in Algeria. Si creò una
crisi nazionale proprio sulla scelta della politica da seguire in questi territori. Quando salì al potere de Gaulle tutti
erano convinti che avrebbe portato in alto il nome della Francia come potenza coloniale in Algeria. De Gaulle in
realtà decise di mostrarsi favorevole alla fine della dominazione coloniale francese in Algeria. Questo provocò la
reazione da parte di ampi settori dell’esercito francese che si ribellarono a questa decisione e che crearono
l’Organisation de l’armée secrète che tentò anche di creare un colo di stato. De Gaulle di mostrò fermo rispetto
alla concessione dell’indipendenza e sulla base di trattative si arrivò, nel 1962 alla concessione dell’indipendenza
dell’Algeria e alla riduzione sostanziale di quelli che erano i territori coloniali residui francesi.
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9. LA REPUBBLICA DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE – DA FARE DA SOLI

L’ITALIA DEL DOPOGUERRA: LA RICOSTRUZIONE


Alla fine della Seconda guerra mondiale, nella primavera del 1945, l’Italia era occupata dalle truppe alleate anglo-
americane e con gravi problemi economici e politici. Questo portò a:
• Aumentarono la disoccupazione e l’inflazione.
• Forte calo della produzione industriale.
Per cercare di arginare questa crisi i governi italiani adottarono una politica economica liberista: c’era la volontà
di contenimento dell’intervento pubblico in economia e di garantire la libertà economica e il libero scambio.

La ricostruzione materiale ed economica in Italia fu rapida (1945-1948), favorita dagli aiuti dell’UNRRA (United
nations relief and rehabilitation administration) e poi del Piano Marshall.
L’incremento della produzione economica fu favorita dai bassi salari all’interno e da cambi stabili tra le monete
sui mercati internazionali.
La crescita riguardò l’esportazione e le vendite di beni sul mercato interno: particolarmente intenso fu lo sviluppo
dell’industria automobilistica e della produzione di beni di consumo per un mercato di massa

IL CONFINE ORIENTALE E LA QUESTIONE DI TRIESTE


Vi furono strascichi della guerra di liberazione dal nazi-fascismo, alimentati anche dalla lotta politica interna e
dalla vicinanza del confine orientale italiano con i paesi comunisti.
Le tensioni per la questione di Trieste furono molto alte, legate anche alle conseguenze della dura occupazione
italiana della Jugoslavia durante la guerra. Ancora durante la guerra vi erano state rappresaglie contro gli italiani
(fascisti e non) da parte delle formazioni militari comuniste di Tito: le repressioni e il caso delle foibe.
Gli italiani presenti a Fiume, Istria e Dalmazia furono costretti a fuggire a causa delle persecuzioni dei comunisti
jugoslavi.
L’Istria e la Venezia Giulia furono divise in due parti:
• a ovest, vi era l’amministrazione degli anglo-americani;
• a est, quella degli jugoslavi

Alla Conferenza di pace di Parigi nel 1947 fu istituito il Territorio libero di Trieste, formato dall’Istria e dalla
Venezia Giulia. Fu decisa la divisione in due parti:
• la Zona A (Trieste e l’area a nord) fu affidata agli alleati anglo-americani;
• la Zona B (a sud della città) agli jugoslavi.
Nel 1954, a seguito di accordi tra Roma e Belgrado, gli alleati cedettero all’Italia la Zona A e gli jugoslavi
mantennero il controllo della Zona B

LA GUERRA FREDDA IN ITALIA


Dal giugno 1945, l’Italia fu guidata dal governo Parri, sostenuto dai partiti antifascisti del Comitato di liberazione
nazionale.
Dal novembre 1945, il governo affidato al democristiano De Gasperi si fondò sull’accordo dei partiti di massa,
anche se ideologicamente molto diversi: DC, PCI e socialisti.
Alle elezioni del 2 giugno 1946, con suffragio universale maschile e femminile, si votò per l’elezione
dell’Assemblea costituente e per il referendum istituzionale: gli italiani e le italiane votarono in maggioranza per
la Repubblica e il re Umberto II andò in esilio.
La nuova Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La campagna per le elezioni politiche del
18 aprile 1948 riflesse il clima di contrapposizione interna e le forti tensioni internazionali della guerra fredda,
infatti, crebbero i contrasti ideologici tra i partiti al governo: nel maggio 1947 De Gasperi formò un nuovo
governo senza le forze di sinistra.

Le scelte internazionali dei partiti furono il ritorno alla democrazia e al pluralismo per permettere ai partiti di
esprimere programmi politici, espressione di visioni culturali, di scelte economiche e degli interessi di gruppi
sociali. Ci furono diverse opzioni internazionali dei partiti di massa anti-fascisti:
• Democrazia cristiana sostiene una politica di moderazione e di stabilità, cauto intervento pubblico
nell’economia, continuità dello Stato, anti-comunismo e filo-occidentalismo
• Partito socialista di unità proletaria appoggia l’intervento dello Stato nell’economia e le riforme sociali,
ma diviso sui rapporti con i comunisti
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• Il Partito comunista segue una linea di fedeltà all’URSS e a Stalin. Il segretario Togliatti rende il Pci un
partito legalitario che sostiene nei suoi programmi l’internazionalismo comunista, ma in Italia non
appoggia scelte eversive rivoluzionarie

La situazione internazionale di guerra fredda alimenta le contrapposizioni politiche e la rottura dell’unità


sindacale nel 1948.

Dal 1948 al 1953, si susseguirono numerosi governi di coalizione guidati dalla DC con la partecipazione di alcuni
partiti minori di centro:
• Partito repubblicano italiano
• PRI, Partito liberale italiano
• PLI e Partito social-democratico italiano
• PSDI (nato dalla scissione del Partito socialista).

Nell’età del centrismo, la politica estera italiana si caratterizzò per il filo-atlantismo e l’europeismo anche in
funzione anti-sovietica. Crebbe l’attenzione della politica estera italiana verso i paesi arabi e il Mediterraneo,
anche attraverso gli accordi per l’acquisto di petrolio promossi dall’Eni di Enrico Mattei.

IL MIRACOLO ECONOMICO E LA VIA VERSO IL CENTRO -SINISTRA


La rapida crescita del sistema produttivo italiano riguardò soprattutto l’industria e fu determinata da:
• Incremento degli investimenti italiani e stranieri
• Abbondanza di manodopera a basso costo
• Bassi costi dell’energia e delle materie prime
• Aumento delle esportazioni anche grazie alle politiche internazionali di libero scambio sostenute dagli
Stati Uniti
• Crescita dei consumi interni in particolare di prodotti industriali.

Tra il 1959 e il 1962 la produzione industriale crebbe mediamente ogni anno del 10%: beni di consumo, edilizia
pubblica e privata.
Aumentarono i flussi migratori dal Nord Est e dal Sud dell’Italia
Si registrò la prevalenza dei consumi privati sugli investimenti pubblici, l’abbandono delle campagne e un
urbanesimo disordinato.

Dalla metà degli anni Cinquanta, le trasformazioni interne all’Italia e i cambiamenti internazionali verso la
“coesistenza pacifica” favorirono i cambiamenti all’interno dei partiti e negli equilibri politici. Vi furono
discussioni interne alla DC (partito di maggioranza) sulla partecipazione al governo del Partito socialista che si
stava in parte allontanando dalle posizioni del Partito comunista.
Nel 1962, Fanfani (democristiano) concordò il programma del nuovo governo con i socialisti che si astennero al
voto di fiducia. Vi fu la formazione di governi di centro sinistra: cauta politica di riforme, maggior intervento
pubblico nell’economia anche attraverso le imprese a partecipazione statale, correttivi al liberismo e iniziative per
la riduzione del divario Nord-Sud.

L’ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA: RIFORME E PROTESTE


Nel 1963, Aldo Moro (democristiano) guidò il primo governo “organico” di centro sinistra, con la partecipazione
dei socialisti. I governi di centro sinistra non smentirono l’adesione dell’Italia al Patto atlantico (NATO) e
confermarono il sostegno all’integrazione europea.

Dal 1963 si registrò un rallentamento della crescita economica. Il governo dovette affrontare la recessione
economica del Paese.
Negli anni Sessanta aumentarono la forza contrattuale e le richieste dei sindacati, dovuta alla crescente capacità
di mobilitazione delle organizzazioni dei lavoratori (in particolare, operai), alla maggiore unità tra le
confederazioni sindacali (CGIL, CISL e UIL) e un certo superamento delle divisioni ideologiche.

Tra i provvedimenti dei governi di centro sinistra, vi furono la nazionalizzazione delle industrie dell’energia
elettrica e la creazione scuola media unica.
Le trasformazioni sociali e politiche si accompagnarono a cambiamenti che avvennero nel cattolicesimo (papa
Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II dal 1962 al 1965) e nel Partito comunista (Memoriale di Yalta di
Togliatti, 1964).
49

Negli anni Sessanta si registrarono ampliamento dei consumi, aumento della scolarità, mobilità sociale e
conflittualità sindacale.
I cambiamenti avvenuti in Italia e le tensioni internazionali favorirono la radicalizzazione dei conflitti.

Aumentano i fenomeni di contestazione studentesca e operaia (1968- 1969). Il movimento del Sessantotto si
originò nelle università, in modo analogo alle proteste che si svilupparono in Francia e Stati Uniti. Si diffusero
così messaggi politici che infrangevano gli schemi della sinistra tradizionale: progetti rivoluzionari dei movimenti
extra-parlamentari.
Nel 1969, gli scioperi dell’“autunno caldo” registrano il parziale avvicinamento tra movimenti dei lavoratori e
degli studenti.
Gruppi della destra eversiva furono protagonisti di attentati e omicidi, con la complicità di appartenenti a
istituzioni dello Stato: si delineò la cosiddetta “strategia della tensione” → Si diffuse la violenza politica, con
stragi ed episodi di terrorismo.

INSTABILITÀ POLITICA E CRISI ECONOMICA


L’inizio degli anni Settanta aprì un lungo periodo di incertezza politica e di difficoltà economiche. Furono
approvate alcune leggi che riflettevano i cambiamenti sociali e culturali avvenuti in Italia:
• Statuto dei lavoratori (1970),
• legge sul divorzio (1970),
• diritto di famiglia (1975).

All’aumento dei salari non corrispose una analoga crescita della produttività e degli investimenti. Crebbero i
consumi e aumentarono le importazioni.
Nel 1973, iniziò la crisi petrolifera internazionale con l’aumento dei prezzi delle materie prime e la recessione su
scala globale. In Italia, la crisi della bilancia dei pagamenti con l’estero portò all’aumento del debito pubblico,
forte inflazione, crisi industriale, sotto-occupazione, disoccupazione, lavoro nero e conflittualità sindacale.

Negli anni Ottanta, invece, furono superate le fasi più acute della crisi economica, ma rimasero elementi generali
di debolezza: aumento dei costi delle materie prime e del lavoro, delocalizzazione delle produzioni, aumento
delle importazioni, rallentata capacità di innovazione tecnologica.
Le contrapposizioni ideologiche diminuirono, nonostante l’innalzamento della tensione bipolare tra USA e
URSS.
Il terrorismo politico fu represso e arginato. Permanevano ancora i fenomeni di criminalità organizzata di tipo
mafioso.

La politica italiana degli anni Ottanta si caratterizzò per la debolezza crescente dei partiti politici: il logoramento
era dovuto alla lunga gestione del potere, alla mancanza di progettualità, alla difficoltà a costruire il consenso
popolare e a episodi diffusi di corruzione.
Negli anni Ottanta, infatti, il sistema politico italiano appariva bloccato: i governi di pentapartito (DC, PSI, PRI,
PSDI, PLI) erano coalizioni di centro sinistra con scarsa capacità di innovazione.
Il Partito comunista era il secondo partito italiano, ma rimaneva all’opposizione nel governo del paese, anche se
guidava molte amministrazioni locali, alleandosi con il PSI.
Tra il 1989 e il 1995 una serie di eventi rimise in movimento la situazione politica: dissoluzione del blocco
comunista sovietico e fine della contrapposizione globale bipolare:
• Il Partito comunista italiano avviò una fase complessa di ridefinizione dell’identità e dei programmi.
• Nel 1991 il PCI si sciolse e fu fondato il nuovo Partito democratico della sinistra, con orientamento
socialdemocratico e riformista.
• Dal 1992, alcune inchieste della magistratura, in particolare a Milano, rivelarono casi di corruzione di
singoli esponenti e partiti politici che erano stati al governo («Mani pulite»). Furono denunciati anche
imprenditori e industriali che avevano pagato «tangenti» per ottenere dallo Stato

PARTITI IN TRASFORMAZIONE
I tentativi di rinnovamento dei partiti che erano stati a lungo al governo fallirono: si dissolsero o subirono
scissioni interne. Il dibattito sulla riforma del sistema elettorale portò al referendum del 1993: si voleva superare la
frammentazione tra i partiti, tendere a un sistema bipolare e garantire governabilità al Paese.
Il parlamento approvò nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, passando da un sistema proporzionale a
uno maggioritario.
Nacquero nuovi partiti:
• la Lega Nord di Umberto Bossi (con progetti separatisti, 1991)
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• Forza Italia di Silvio Berlusconi (proprietario di Mediaset), su posizioni neoliberiste (1994).


• Nel 1993, il Movimento sociale italiano (destra) divenne MSI-Alleanza nazionale e poi Alleanza
nazionale.

Dal 1994, si stabilizza un quadro politico quasi bipolare. Vi erano:


• una coalizione di centro destra (Forza Italia, Lega, Alleanza nazionale)
• una coalizione di centro sinistra (Democratici di sinistra, Rifondazione comunista, Margherita e Udeur)
• dal 1995 la coalizione di centro sinistra assunse il nome Ulivo, guidato da Romano Prodi.
Erano coalizioni molto composite: ognuna di esse era formata da partiti con visioni politiche e sociali anche
molto diverse.

10. TRA RISCHIO ATOMICO E DISTENSIONE INTERNAZIONALE

L’ONU: UN’ ORGANIZZAZIONE PER LA PACE


Anni ’50-’70 – aumento competizione e tra Usa e Urss e relativa distensione delle relazioni internazionali. Si è in
una situazione in cui il tema di fondo dei rapporti internazionali è la contrapposizione tra stati uniti e unione
sovietica con altri attori secondari con potere minore, che si muovono sulla scena internazionale. Un ruolo
rilevante in questo contesto l’assume l’organizzazione delle nazioni unite, organizzazione che aveva il ruolo di
risolvere i conflitti con diplomazia e non con le armi.

La fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite fu decisa nella conferenza di San Francisco (aprile-giugno
1945) e formalizzata a New York il 24 ottobre 1945. Le nazioni unite si fondano su una carta, la Carta dell’ONU
che impegna i firmatari al rifiuto della guerra, al rispetto del diritto e al progresso sociale. Le nazioni unite
nascono con più ampi poteri rispetto alla Società delle nazioni, infatti, hanno come strumento le sanzioni che
tendono a far recedere l’economia dello stato che viola le norme della carta, sanzioni che non usano
immediatamente le armi per risolvere una situazione di conflitto internazionale. A differenza della società delle
nazioni, l’ONU costituisce un corpo militare, alle dipendenze non dei singoli stati ma dei militari che sono sotto il
comando delle nazioni unite. Corpo militare che è conosciuto come i casci blu, per il loro casco molto visibile
proprio perché sono una forza che agisce come mediazione tra i belligeranti, devono essere riconosciuti come
forza militare rappresentante che agisce in nome dell’Onu.
La sede è a New York. Aderirono inizialmente 51 paesi (attualmente sono 193). Negli anni dopo la
decolonizzazione molti paesi entrarono poi a far parte dell’assemblea delle nazioni unite.

Gli obiettivi dell’Onu sono mantenere la pace e la sicurezza internazionale, sviluppare relazioni amichevoli tra le
nazioni, cooperare alla risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione dei diritti umani, armonizzare
le varie iniziative nazionali.

I suoi organi sono


• l’Assemblea generale,
• il Consiglio di sicurezza → 11 membri, poi 15, di cui 5 permanenti: USA, URSS (oggi Federazione
russa), Gran Bretagna, Francia e Cina (Taiwan fino al 1971, poi Repubblica popolare cinese). I membri
permanenti hanno il vantaggio di avere un peso determinante all’interno del consiglio, essi, infatti, hanno
il diritto di veto: se anche uno dei membri permanenti vota contro la decisione, questa non può essere
approvata
• il Segretario → generale ruolo di rappresentanza dell’intera organizzazione
• la Corte internazionale di giustizia dell’Aja con il compito di decidere contro i crini di guerra e contro le
azioni che vanno a ledere la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Nel 1948, fu approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Idea di costruire un accordo tra gli stati
basato sulla mediazione dei conflitti con l’idea che un organismo internazionale avrebbe potuto intervenire per
arrivare ad una diminuzione dei conflitti internazionale. Di fatto però le superpotenze svolsero un ruolo
egemonico nell’ONU cercando di far valere le proprie iniziative pure in questa sede.
Il diritto di veto da parte dei cinque membri permanenti e la contrapposizione tra i due blocchi impedirono la
formazione di una volontà comune nel Consiglio di sicurezza.
Le forze di pace dell’ONU (“caschi blu”) svolsero una funzione di interposizione tra le nazioni in conflitto.
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QUESTIONE ATOMICA: EQUILIBRIO DEL TERRORE NUCLEARE


La corsa agli armamenti si aggravò negli anni Cinquanta: gli USA avevano la superiorità aerea; anche i sovietici
si dotarono della bomba atomica nel 1949 e della bomba H nel 1953.
La tecnologia missilistica accorciava le distanze tecnologiche e geografiche tra le due superpotenze.
La competizione per la conquista dello spazio rappresentò un banco di prova tecnologico per sperimentare sistemi
di lancio o la collocazione di satelliti nello spazio che avevano un risvolto tecnologico, ma che potevano poi
diventare anche strumenti per portare le armi molto distanti dal territorio in cui venivano lanciate. La corsa dello
spazio, che entusiasmò la popolazione di tutto il mondo, vide il lancio nel 1957 del satellite spaziale sovietico
Sputnik e la costruzione di missili balistici intercontinentali, che diedero il segnale di quanto la tecnologia spaziale
sovietica fosse in grado di superare quella statunitense. Per questo motivo gli stati uniti accelerarono la corsa allo
spazio per due ragion:
• Militari
• Di propaganda: Propaganda che puntava a sottolineare quanto una o l’altra delle due superpotenze fosse
in grado di maneggiare e la tecnologia per il progresso che si voleva dare all’immagine della propria
nazione

Continuò l’ammodernamento tecnologico delle forze armate USA e installazione di basi missilistiche intorno al
blocco URSS.
Nell’arco di pochi anni i depositi militari e le postazioni missilistiche atomiche erano in grado di distruggere
svariate volte l’intera umanità. Si sassiste, dunque, ad un paradosso: la armi costruite sopravanzano la possibilità
teorica del loro utilizzo in quanto ce n’erano più di quante potessero essere usate. “Dilemma della sproporzione”
tra i danni dell’atomica e i suoi effetti strategici: consapevolezza della sua inutilizzabilità.
L’arma atomica continua ad avere il rischio di una mutua distruzione e anche se non venne più usata, fu
comunque un elemento base della competizione internazionale tra usa e Urss in quanto i due paesi usavano il
richiamo all’arma atomica come un elemento, continuamente presente, nelle strategie militari e all’interno della
retorica pubblica.
In particolare, il presidente USA Eisenhower (1952-1960) definì la dottrina della “rappresaglia massiccia” per
minacciare l’avversario sovietico e per tentare di ridurre le proprie spese militari.
Il presidente Kennedy (1960-1963) formulò la dottrina della “risposta flessibile” che comportò l’aumento della
spesa militare per gli armamenti convenzionali.

Altri Stati si dotarono di armi atomiche: Gran Bretagna (1952), Francia (1960), Cina (1964), poi Israele, India e
Pakistan. Paesi che non sempre potevano essere così strettamente controllati da una o dall’altra potenza. Questo
aumento e diffusione delle armi atomiche aumentò la paura e il terrore nucleare che accompagnò le relazioni
internazionali negli anni a seguire.

EUROPEISMO, BLOCCO OCCIDENTALE E ACCORDI MULTILATERALI


Nell’Europa occidentale, si svilupparono delle dinamiche che sembravano contrastare la corsa agli armamenti e
alla paura dell’arma atomica. Dalla fine degli anni ’40, infatti, incominciò a crearsi un processo di integrazione
continentale: collaborazione per superare i nazionalismi e per il “contenimento” del comunismo.
Gli Stati Uniti erano consapevoli che, soltanto accompagnando i paesi dell’Europa occidentale verso una
situazione di sviluppo economico, si sarebbero ottenuti:
• da una parte la creazione in europea di una zona strategica dal punto di vista internazionale, obiettivo di
creare una rea all’interno dell’Europa saldamente legata gli us e con una funzione anti-comunista
• dall’altro lato una pacificazione che poteva sostenere e alimentare la crescita economica degli stessi stati
uniti.
Gli stati uniti, per queste ragioni, garantirono sostegno politico, economico e militare all’integrazione dell’Europa
occidentale.

Gli iniziali tentativi di creare istituzioni politiche comunitarie, in realtà non ebbero successo. Maggiore successo
lo ebbero invece la creazione di una serie di istituzioni economiche che risultavano essere una strada favorevole
per avviare in integrazione di tipo economico e politico
Efficaci furono le istituzioni economiche europee, che perseguirono una metodologia “comunitaria”
multilaterale: Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo istituirono:
• nel 1948 l’Organizzazione europea di cooperazione economica
• nel 1951 la Comunità economica del carbone e dell’acciaio (Ceca). Strategico per quanto riguardava lo
sviluppo economico
• Nel 1957, i sei Stati firmarono i Trattati di Roma con cui furono fondati l’Euratom (per l’energia
atomica a scopi pacifici) e la Comunità economica europea (Cee)
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I firmatari dei «Trattati di Roma» per l’integrazione europea mantenevano la sovranità nazionale e cedevano
alcune competenze a organismi sovranazionali, controllati dai governi nazionali.
La Gran Bretagna non aderì, anche per i legami con il Commonwealth e per tutelare la produzione nazionale di
carbone e acciaio.
Gli Stati Uniti volevano un’economia mondiale aperta (libertà di commercio, di investimenti e di impresa), ma
assecondarono le scelte dell’Europa occidentale anche in funzione anti-sovietica.

CRESCITA ECONOMICA E DEMOCRAZIA POLITICA NELLA GUERRA FREDDA


La nascita, la creazione e lo sviluppo delle istituzioni europee devono essere comprese nella situazione in cui, da
una parte, c’era tensione della guerra fredda ma anche nella fase di rapida crescita economica che caratterizzò
tutte le economie dei paesi occidentali. Gli anni ‘50 e ‘60 furono, infatti, un periodo di espansione economica
internazionale con l’aumentò la produttività del lavoro, i cambi monetari rimasero stabili e bassi costi delle
materie prime.
Questa situazione avvantaggiò le economie dei paesi occidentali dove si definì un sistema fortemente integrato tra
scelte politiche e scelte economiche. Nei paesi dell’Europa occidentale vi era infatti, una situazione di pluralismo
sociale e libera iniziativa che furono accompagnati dagli interventi pubblici nell’economia (ruolo stabilizzatore
della spesa pubblica e del welfare state): allargamento dei mercati e dei consumi privati, abbassamento dei dazi.
A questa situazione, di tipo economico, si accompagnavano anche una serie di interventi pubblici con l’obiettivo
di stabilizzare la crescita. Questa situazione di intervento dello stato nell’economia riuscì a incrementare la
stabilità dell’intero sistema coinvolgendo molti stati in una vera e propria crescita. Si parla infatti di boom
economico e miracolo economico che era calcolato in termini di innalzamento del pil e dei redditi medi, che
interessò in modo paradossale Germania, Italia, Giappone, i tre paesi sconfitti dalla guerra. I più alti livelli di
crescita di registrarono, infatti, proprio in questi tre paesi.
Il boom economico riuscì a smussare ed evitare le punte più acute della crisi sociale che aveva coinvolto i paesi
dopo la fine del conflitto mondiale, ma allo stesso tempo permise una più stretta integrazione economica e sociale
dei paesi del blocco occidentale.

COMUNISMO SOVIETICO ED EGEMONIA MONDIALE


In questa situazione, che vedeva particolarmente accentuata una stabilità nel blocco occidentale, in realtà, al
contrario vide aumentare i motivi di conflitto tra i due blocchi. L’unione sovietica, infatti, si vedeva protagonista
di politiche estere che tendevano a integrare e a inserire all’interno del blocco di influenza comunista, in
particolare, i paesi usciti dalle lotte di liberazione anti-coloniali. Il gruppo dirigente comunista dell’Unione
Sovietica riprese le teorie anti-imperialiste di Lenin per volgere a proprio vantaggio i movimenti indipendentisti
nelle ex colonie. Da questo punto di vista emerse una delle caratteristiche della guerra fredda: la presenza
determinante di discorsi propagandistici, da parte dell’Urss, per motivare e legittimare scelte di politica estera e,
più in generale, scelte di egemonia di tipo imperiale.
Il blocco sovietico condannava il colonialismo e prometteva sostegno militare ed economico. Questa lotta al
colonialismo e all’imperialismo veniva presentata, da un lato, come una lotta con significato di liberazione
nazionale e di quelle popolazioni coloniali, ma anche come un tassello di una più ampia evoluzione
internazionale.
Attraverso questa strategia l’unione sovietica ebbe una grande influenza in:
• India dal 1953
• Vietnam del Nord dal 1955
• Egitto di Nasser dal 1956.
• Dal 1960, l’influenza si allargò a paesi africani giunti all’indipendenza (Sudan, Tanzania, Somalia…).
Quello che attraeva questi paesi ex coloniali ad avvicinarsi sempre di più all’unione sovietica erano le ideologie
socialiste e marxiste della lotta di classe, declinata a livello internazionale, inoltre anche la possibilità di vedere
attuati dei processi di crescita economica guidati dallo stato, con un’economia centralizzata e pianificata in grado
di far passare il più rapidamente possibile la crisi di questi paesi. Il modello economico sovietico centralizzato e
pianificato, però, mal si adattava a paesi con bassi livelli di industrializzazione, questa prospettiva, infatti, in
tempi molto brevi, vide fallire questi sistemi di alleanze.
Una crescente attrazione sui paesi di nuova indipendenza, invece, fu poi esercitata dalla Cina comunista che tra il
1959 e il 1963 ruppe con l’URSS per contrasti ideologici e competizione per l’egemonia geopolitica.

DESTALINIZZAZIONE NELL’EUROPA ORIENTALE E I PROGETTI DI COESISTENZA PACIFICA


Dopo la morte di Stalin nel 1953, Kruscev divenne segretario del Soviet supremo del Pcus: in URSS, furono
avviati cambiamenti nella politica economica e nelle relazioni internazionali, anche per rallentare la corsa agli
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armamenti. Kruscev attuò delle scelte che andavano nella direzione della progressiva attenuazione dei vincoli e
della repressione instaurata da Stalin, con la volontà di garantire una crescita economica al sistema sovietico,
attuando parallelamente una politica estera, verso gli Usa, più cauta. L’obiettivo era quello di ridurre la spesa
destinata gli armamenti che gravava molto sul bilancio statale, con una politica estera più cauta, volta alla
distensione internazionale, si poteva permettere un rallentamento delle spese militari e dunque questo poteva
riflettersi sulla possibilità di destinare quote di bilancio in altri settori.

La politica di destalinizzazione fu una politica molto ambivalente: non venne smentita la centralità
dell’organizzazione del sistema comunista ma, in particolare dell’occasione del Congresso del Pcus del 1956,
Kruscev denunciò i crimini di Stalin: furono allontanati alcuni dirigenti e riabilitati altri politici prima condannati
e ripresi i contatti con la Jugoslavia di Tito. Questa situazione di allentamento delle strette violente del sistema
comunista sovietico, in realtà, fu percepito all’interno dell’Urss e nei paesi del blocco sovietico come una
possibilità di maggiore manovra da parte dei paesi e delle popolazioni dei paesi dell’Europa orientale. Vi furono,
infatti, immediati riflessi nei paesi del blocco sovietico dove vi era malcontento per il controllo sovietico; furono
represse violentemente le rivolte operaie in Polonia e le riforme democratiche avviate dal Partito comunista in
Ungheria. Le proteste erano soprattutto de lavoratori che chiedevano un miglioramento delle loro condizioni di
lavoro e maggiore libertà di espressione.

Il potere di Kruscev si rafforzò a livello interno e internazionale, mostrando fermezza internazionale e volontà di
riforme interne. La difficoltà però di tenere insieme un’economia centralizzata e una crescita economica in grado
di sostenere e migliorare le condizioni di vita della popolazione, si scontrava con la difficoltà di rallentare la corsa
agli armamenti. Quindi, nonostante la decisione di Kruscev di allentare alcun dei vincoli stringenti della
pianificazione economica, lasciando una certa libertà di iniziativa privata nelle campagne, permise una certa
limitata crescita economic achee però non fu in grado di garantire livelli di crescita dell’economia sovietica
paragonabili a quelli dei paesi occidentali.
L’URSS puntava alla diminuzione delle spese militari, a una cauta apertura commerciale verso i paesi capitalisti e
alla competizione pacifica con gli USA per dimostrare la propria superiorità economica e produttiva. Fu
rafforzata la competizione nel settore aerospaziale con gli Stati Uniti, con ricadute in campo militare e nella
propaganda. Inoltre, l’URSS continuò ad avere carenze soprattutto nel settore agricolo.

I PAESI NON ALLINEATI


Gli Stati di nuova indipendenza cercarono di sottrarsi al controllo delle due superpotenze, non intendevano,
infatti, giusto dover scegliere tra un blocco piuttosto che un altro. Questi tentativi di sottrarsi dal controllo di usa e
Urss portò, verso la metà degli anni ’50, alcuni paesi ad organizzare la conferenza di Bandung. Nel 1955, la
Conferenza di Bandung (Indonesia) riunì i rappresentanti di India, Pakistan, Cina, Ceylon, Indonesia e Birmania
che si considerarono come paesi non allineati. Il progetto dei «paesi non allineati» prospettava neutralismo
internazionale, mutamento del sistema bipolare e riforma dell’ONU. Avevano anche l’intenzione di modificare il
sistema politico internazionale fondato sul potere egemonico delle due potenze, volevano creare un terzo polo in
grado in intervenire e di modificare le scelte avanzate dai due paesi del blocco. In questo senso andava anche la
richiesta di riforma delle nazioni unite, di cui veniva contestata la presenza, all’interno del consiglio di sicurezza,
di paesi che avevano un ruolo superiore rispetto a quello degli altri paesi presenti nell’assemblea dell’ONU.

Questo movimento dei paesi non allineati ebbe un ulteriore fase di sviluppo all’inizio degli anni Sessanta, quando
alcuni dei paesi di nuova indipendenza in africa, aderirono a questo sistema di costruzione di un’alleanza tra i
paesi non allineati che trovò un nuovo momento di incontro ufficiale nel 1961, a Belgrado. Qui si svolse un
nuovo incontro dei «paesi non allineati» («Terzo Mondo») con ruolo centrale della Jugoslavia di Tito.
Il Terzo Mondo voleva avere un ruolo politico tra i due blocchi e stabilire un nuovo ordine economico mondiale
per lo sviluppo. La definizione di terzo mondo nasce proprio per definire questo terzo polo e terzo blocco
equidistante e neutrale rispetto ad Usa e Urss.

DISTENSIONE E CRISI INTERNAZIONALE


Queste trasformazioni all’interno dei singoli paesi e nelle relazioni internazionali portò ad un certo clima di
tensione, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Diminuì la tensione della “guerra fredda”, ma si
verificarono ricorrenti crisi locali con ricadute internazionali, spesso legate ai processi di decolonizzazione.
Inoltre, la crisi del canale di Suez e l’intervento sovietico in Ungheria nel 1956 stabilizzarono le relazioni
all’interno e tra i blocchi.
Di fronte, però, a queste crisi localizzate le nazioni unite riuscirono a svolger soltanto un ruolo molto limitato e
quindi, al di là della decisone di alcune sanzioni, non riuscirono a svolgere quel ruolo centrale all’interno delle
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relazioni internazionali proprio anche a causa delle divisioni interne al consiglio. L’ONU si dimostrò, infatti,
impotente di fronte alle maggiori crisi del dopoguerra, ma consolidò le sue istituzioni e accolse nell’Assemblea i
paesi di nuova indipendenza. Nonostante questi forti limiti, infatti, le nazioni unite riuscirono a rafforzare le loro
istituzioni. Vennero create nuove organizzazioni che riuscirono a coordinare e trovare delle intese tra gli stati,
anche quelli appartenenti a schieramenti diversi. Di fatto, nonostante i suoi limiti, l’ONU con i suoi organismi
diventò uno spazio internazionale di dialogo e di cooperazione, con iniziative di peacekeeping e di “diplomazia
preventiva”.

LA NUOVA FRONTIERA DI J.F. KENNEDY


Nel 1960, il democratico John F. Kennedy vinse le elezioni presidenziali con un programma che indicava una
“nuova frontiera” per gli Stati Uniti: lotta contro le discriminazioni razziali e le sperequazioni economiche.
Inoltre, la deterrenza atomica richiedeva il rilancio delle spese militari quindi, quello che venne fatto un rilancio
alla corsa agli armamenti e un rafforzamento delle spese in campo militare, che alimentò l’equilibrio del terrore
che si era leggermente attenuato negli anni precedenti. C’era poi anche il tentativo da parte statunitense di evitare
un eccessivo innalzamento delle spese militari e quindi si cercò di sfruttare le possibilità di apertura e dialogo
diplomatico con l’Unione sovietica. Vi fu, infatti, una cauta apertura verso l’URSS per la ricerca della pace e
diminuzione delle spese militari, ma anche per garantire stabilità al bipolarismo e tutelare gli interessi globali
USA.
Questa situazione ebbe però un punto d’arresto in occasione della
• Crisi missilistica di cuba del 1962
• Costruzione del muro di Berlino nel 1961

Crisi missilistica di cuba del 1962. Quello che succedette fu che a Cuba vi era il regime filosocialista di Fidel
Castro che aveva la volontà di rendere autonoma Cuba e di alleggerire il peso dell’influenza economica e politica
degli Stati Uniti. Questo cambio di potere aveva avuto come risultato il fatto che gli Usa avessero imposto delle
durissime sanzioni a cuba, costringendo l’economica cubana, dipendente dagli stati uniti, a diminuire la propria
produzione di canna da zucchero, massima materia prima acquistata dagli stati uniti. Per cercare aiuti di tipi
economico Fidel Castro chiese aiuto all’unione sovietica e in cambio l’isola cubana avrebbe dovuto permettere
all’Urss di essere usata come punto strategico e base di installazione di missili. Di fronte a questa notizia, che
ledeva la sicurezza americana, il governo americano decise il blocco navale dell’isola, schierando una serie di navi
da guerra intorno all’isola di cuba con la volontà di controllare tutte le navi che si stavano avvicinando alle navi
perché il sospetto era che su quelle navi viaggiassero delle testate missilistiche, di tipo nucleare, provenienti
dall’URSS che avrebbero potuto essere istallate sull’isola. Questa situazione, che portava a diretto contatto
l’unione sovietica e gli stati uniti sul campo di guerra, intorno all’isola di cuba, sembrò precipitare l’interno
pianeta sull’orlo del baratro di una nuova guerra mondiale. Questo però non accadde perché c’era la volontà, da
entrambe le parti, di creare un equilibrio anche sulla base di contatti diplomatici e accordi che portarono poi alla
rinuncia da parte dell’Urss di installare missili sull’isola di cuba e gli stati uniti a diminuire alcune delle proprie
postazioni missilistiche presenti in Europa.

In questa situazione di contrapposizione controllata, emersero alcune crisi localizzate come avvenne con la
costruzione del muro di Berlino nel 1961. In realtà questo evento non provocò nessuna reazione da parte degli
stati uniti in quanto, di fatto il muro di Berlino fu costruito per fermare la migrazione da Berlino est verso Berlino
ovest e verso la Germania occidentale. Dato che la città di Berlino era stata divisa in due parti, una guidata e
controllata dal governo comunista e la parte occidentale, invece, controllata dalla repubblica federale tedesca di
stampo filostatunitense, la situazione della città rimaneva particolarmente difficile da gestire da parte del governo
comunista. Questo perché era possibile dagli abitanti di Berlino est trasferirsi nella parte ovest con estrema facilità.
Questa situazione, a lungo andare, stava indebolendo la Germania comunista, in quanto coloro che emigravano e
fuggivano da Berlino est erano spesso dei giovani diplomati e laureati che cercavano migliori condizioni di vita
all’ovest. Il muro divenne il simbolo della guerra fredda e fu costruito molto rapidamente, nell’estate del 1961,
intorno al territorio della città di Berlino ovest. Quello che successe fu che la Germania dell’est costruì sul proprio
territorio, a poca distanza dal confine con la parte occidentale, un muro che isolava non tanto nel senso di
protezione di un possibile attacco proveniente dalla parte occidentale, ma per evitare ai propri cittadini di
emigrare verso ovest. Questo muro era continuamente presidiato da militari che sparavano anche contro i
cittadini che intendevano scappare verso Berlino ovest. Il muro cadde nel 1989 rappresentando poi anche la fine
della guerra fredda.

LA GUERRA IN VIETNAM
La guerra in Vietnam fu un segno della realtà della contrapposizione tra i due blocchi.
Con l’indipendenza nel 1954, il Vietnam fu diviso in due Stati, lungo il diciassettesimo parallelo:
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• il nord era guidato da un governo comunista appoggiato dall’URSS;


• il sud, da un regime filo-occidentale sostenuto dagli USA.

Nel sud, si sviluppo la guerriglia comunista del Vietcong che volevano l’unificazione del paese. Movimenti che
erano sostenuti da militanti comunisti (vietcong). Per questa ragione, già nel corso degli anni Cinquanta e poi
negli anni Sessanta, si intensificarono gli attacchi e gli attentati.
Già con Kennedy (ucciso nel 1963) furono inviati militari e armi in aiuto al Vietnam del sud per sostenere e
cercare di arginare questa guerriglia; guerriglia che però si tradusse anche in uno scontro tra gli stati:
• Vietnam del sud sostenuto dagli Stati Uniti
• Vietnam del nord sostenuto dall’unione sovietica
La difficoltà in cui si trovava il governo del Vietnam del sud era di non riuscire a resistere e quindi di crollare
subito sotto il controllo del governo comunista. Questo portò il successore di Kennedy, Lyndon Johnson, nel
1964 a decidere il pieno coinvolgimento in guerra e l’intervento delle truppe sul terreno per cercare di fermare la
possibile avanzata dei comunisti. Questo significò che gli usa furono nuovamente coinvolti direttamente nella
guerra.
Questa guerra si inserisce pienamente nel clima di guerra fredda perché da una parte abbiamo il Vietnam del nord
che era sostenuto economicamente e militarmente dall’unione sovietica che inviava aerei e armamenti ad un
paese agricolo che non aveva le strutture industriali necessarie per condurre una guerra. La guerra non vide
contrapposti direttamente usa e Urss ma gli stati uniti, coinvolti sul campo con le propri truppe e i propri eserciti e
l’Urss che invece non entrò sul territorio i maniera diretta ma si limitò ad inviare aiuti e sostegni.
In questa situazione, con il crescente coinvolgimento degli stati uniti nella guerra, aumentò lo sviluppo di proteste
giovanili e studentesche e l’opinione pubblica internazionale, che contestarono l’intervento USA in Vietnam. Il
governo degli stati uniti si trovò, dunque, di fronte a queste contestazioni che emersero anche all’interno dei paesi
dell’Europa occidentale.

La guerra era stata immaginata dagli Usa come una guerra veloce e di breve durata, quello che successe fu tutto il
contrario perché si rivelò molto più difficile da concludere e da vincere, tutto ciò a causa di diversi fattori:
• Difficoltà del territorio
• Incapacità dell’esercito americano di rafforzare il consenso della popolazione locale
• Uso di atti di guerriglia nella foresta che difficilmente riuscivano a de essere debellati, veniva così
coinvolta molto la popolazione locale

Nel 1968, fu eletto presidente USA il repubblicano Richard Nixon.


Nella guerra in Vietnam, l’URSS e la Cina aiutarono militarmente le forze comuniste; crebbero le difficoltà delle
truppe statunitensi.
Iniziarono delle difficili trattative di pace per terminare la guerra. Gli USA scelsero di seguire una politica di
distensione nei rapporti con il blocco comunista: nel 1972, Nixon compì una visita in Cina e un viaggio in URSS
per stipulare un accordo sulla limitazione delle armi nucleari e strategiche (Strategic armament limitation talks,
Salt 1)
Gli Stati Uniti si disimpegnarono progressivamente dal Vietnam: nel 1973, fu firmata la pace a Parigi, ma i
combattimenti continuarono fino al 1975. Gli Stati Uniti erano stati sconfitti militarmente.
Il Vietnam fu unificato nel 1975 sotto un governo a guida comunista.

REPRESSIONE POLITICA E CRISI ECONOMICA IN URSS : IL BLOCCO SOVIETICO IN TENSIONE


L’unione sovietica vide la possibilità di avvantaggiarsi dalla situazione di debolezza e di difficoltà egli stato uniti,
peccato che continuò ad essere evidente la sua debolezza.
Nel 1964, Kruscev (segretario del soviet supremo del PCUS) fu destituito e il suo successore Breznev concentrò il
potere: si aggravò la repressione dei dissidenti politici e fu confermato il controllo del PCUS su tutti gli aspetti
della politica e dell’economia in Unione sovietica.
Negli anni Sessanta, si registrò il peggioramento della situazione economica sovietica: il sistema era incompatibile
con la flessibilità e la crescente richiesta di beni di consumo della popolazione. Arretratezza produttiva e
incapacità di competere sui mercati globali.
L’URSS doveva importare tecnologia e beni di consumo.
Continuò la sua politica di ammodernamento degli armamenti e di sostegno ai regimi anti-occidentali in Africa e
Asia

I tentativi di alcuni paesi del blocco orientale in Europa di ribellarsi al dominio sovietico si risolsero nella dura
repressione.
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• In Cecoslovacchia, nel 1967, intellettuali e studenti protestarono per ottenere riforma del regime
comunista. Dubcek voleva riformare il sistema comunista cecoslovacco dall’interno e fu eletto a capo del
Partito comunista.
• Nel 1968, vi fu la “Primavera di Praga”: erano richieste riforme per garantire le libertà democratiche e
per portare a cambiamenti del sistema economico pianificato. Per fermare le proteste e soffocare le
riforme, in Cecoslovacchia vi fu l’intervento degli eserciti dei paesi del Patto di Varsavia.
• In Polonia, moti studenteschi a Varsavia (1968) e rivolte operaie a Danzica e Stettino (1970) ottennero
una cauta apertura del regime

11. LO SVILUPPO DEL SOTTOSVILUPPO

GLI STATI DI NUOVA INDIPENDENZA E LE DIFFICOLTÀ DOPO LA DECOLONIZZAZIONE


Anni Settanta: tempo storico segnato dalla crisi economica, finanziaria e monetaria e da un’accelerazione dei
fenomeni di globalizzazione.
In questo contesto gli Stati di nuova indipendenza cercarono, una loro autonimica politica ed economica e
cercarono di avere il controllo delle loro risorse a iniziare dal petrolio, ma con risultati contrastanti.
• Dove l’indipendenza fu concessa dalle ex potenze europee si ebbe un modello neo-coloniale: in ogni
paese, l’indipendenza politica fu guidata da una classe dirigente locale assimilata alla cultura occidentale.
Questi Stati ottennero aiuti, in cambio dello sfruttamento economico e della presenza di basi militari (per
esempio, nell’Africa subsahariana). In ogni paese di nuova indipendenza salì al potere un nuovo governo,
in alcuni casi con forte ruolo dei militari, dove il governo garantiva una fedeltà di tipo politico,
diplomatico e militare ad una delle due superpotenze.
• Dove l’indipendenza fu ottenuta attraverso una guerra di liberazione si tentarono programmi di riforme
sociali ed economiche. Si scatenarono guerre civili alimentate dagli ex colonizzatori che volevano
continuare a mantenere un minimo di controllo in questi territori per garantirsi la possibilità di accedere
alle risorse e alle materie prime per incrementare la crescita economica dei paesi europei (per esempio,
nell’ex Congo belga). Questa fragilità interna non fu superata nel momento del raggiungimento
dell’indipedenza perché rapidamente emersero le differenze e le divisioni all’interno degli stessi fronti di
liberazioni nazionale.

In questa situazione emerge quello che viene definito terzo mondo che inizialmente aveva un connotato di tipo
politico: un terzo mondo in mezzo allo scontro bipolare, in mezzo e al di fuori delle due superpotenze. In realtà
diventa poi sinonimo di paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.

IL TERZO MONDO NELLO SCONTRO BIPOLARE


La situazione di questi paesi fu ulteriormente aggravata dallo scontro bipolare tra le due superpotenze. I modi in
cui si giunse all’indipendenza nazionale, infatti, influirono sulle caratteristiche dei regimi politici che salirono al
potere nei territori prima sotto la dominazione coloniale. L’appoggio all’uno o all’altro regime politico era fatto in
funzione dei propri interessi nazionali, senza tenere conto delle condizioni di queste popolazioni.
Le scelte di stati uniti e unione sovietica nei paesi del terzo mondo furono similari: scelte di sostegno di tipo
militare ai regimi che garantivano un’alleanza geopolitica verso l’uno o l’altro dei due schieramenti; una politica
di controllo delle risorse economiche attraverso le multinazionali, scelte che aggravarono gli squilibri economici e
sociali a livello internazionale.

In genere, dove vi fu una lotta di liberazione popolare per l’indipendenza, la scelta di campo si orientò a favore
dell’URSS. L’intenzione era giungere all’industrializzazione accelerata attraverso tappe forzate: la base di questa
crescita avrebbe dovuto essere l’industria pesante, realizzabile attraverso una scelta di asservimento all’Unione
sovietica.

In altri casi, la scelta fu per il campo egemonizzato dagli USA, come accadde per Corea del Sud, Filippine,
Vietnam del Sud e altri territori. In questi Stati si diffusero:
• l’adesione alla cultura di massa occidentale,
• l’imposizione del modello economico capitalistico e il condizionamento delle multinazionali,
l’instaurazione di regimi politici autoritari (spesso guidati dall’esercito e sostenuti militarmente dagli Stati
Uniti).
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L’esito di questa situazione non fu soltanto l’accrescimento di una situazione di povertà diffusa ma anche il fatto
che furono appoggiati, sia dagli stati uniti che dall’unione sovietica, dei regimi autoritari sulla base delle scelte
delle élite locali salite al potere. Una situazione di questo genere rese il quadro internazionale ulteriormente
complicato dalla presenza di linee di tensione tra nord e sud. La contrapposizione non era più soltanto tra est e
ovest (tra Urss e usa, tra comunismo e capitalismo), ma aggiungeva anche la contrapposizione economica e
sociale tra Nord e Sud (tra mondo sviluppato e mondo sottosviluppato).

LEZIONE 16-17-18 [28-29-30/03]

CHE COS’È IL TERZO MONDO?


Il termine Terzo Mondo è in origine una definizione geografica (Albert Sauvy): intendeva descrivere tutti i paesi
di nuova indipendenza sorti dopo la Seconda guerra mondiale, ma che erano tra loro molto diversi. Il movimento
dei paesi non allineati (Conferenza di Bandung del 1955 e successive) contribuì ad allentare la tensione bipolare,
ma non riuscì a proporre un modello di sviluppo alternativo a quello capitalistico e a quello comunista – sovietico.

L’AMERICA LATINA, LE SUE CONTRADDIZIONI E DITTATURE


Dopo la Seconda guerra mondiale, l’America latina (ricchissima di materie prime) fu segnata da una situazione
di:
• generale arretratezza economica,
• elevata crescita demografica,
• forti disparità di reddito,
• migrazioni di massa dalle campagne alle città.

Era una zona da decenni influenzata dalla politica e dall’economia degli Stati Uniti, che spesso intervenivano
anche militarmente per sostenere questa o quell’altra fazione, permettendo così l’instaurazione di governi
amichevoli agli USA. Si realizzò un massiccio sfruttamento di risorse agricole, di minerali, di petrolio e di
manodopera.

Esistevano numerose industrie private in Argentina e Brasile, ma la spinta propulsiva dell’economia era data dallo
Stato. Si manifestò una evidente debolezza degli assetti democratici e vi furono ripetuti colpi di Stato guidati da
militari che assunsero il potere politico. Si creò una forte instabilità politica a causa delle contese per il controllo
delle risorse naturali e delle finanze pubbliche. Gli Stati Uniti intervennero ripetutamente in funzione
anticomunista e contro i progetti di riforme sociali ed economiche. Il governo USA sostenne sempre regimi
militari e dittatoriali.

Il Brasile dal 1964 al 1985 fu guidato da un governo militare. Con l’intervento dei servizi segreti USA, nel 1973 in
Cile fu deposto il presidente Salvador Allende: il dittatore Augusto Pinochet rimase al potere fino al 1989.
Nel 1976, in Argentina un golpe militare instaurò una dittatura sanguinosa, con la repressione violenta di ogni
opposizione. I desaparecidos furono circa 30.000: la sconfitta nella guerra contro la Gran Bretagna per il controllo
delle isole Falkland-Malvinas provocò nel 1983 la fine del governo militare del generale Gualtieri.

L’INSTABILE PREDOMINI O AMERICANO


Negli anni Sessanta, l’egemonia economica e il controllo del sistema monetario mondiale da parte degli USA si
indebolirono. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 stabilivano un cambio fisso tra le monete, con dollaro e oro
come punto di riferimento. Era garantita la convertibilità in oro del dollaro che era diventata la moneta
privilegiata per gli scambi internazionali e, con l’oro, l’unica moneta di riserva delle banche centrali di moltissimi
stati.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, si moltiplicò la massa di dollari in circolazione: serviva a sostenere l’espansione
degli scambi commerciali e per finanziare il deficit statale USA. Negli stessi anni, negli USA si registrò il deficit
della bilancia dei pagamenti (che registra le somme per acquisto e vendita di beni, servizi e attività finanziarie). Il
saldo della bilancia commerciale (import ed export di merci) era ancora positivo. A causa della concorrenza di
altri paesi, dalla fine degli anni Sessanta anche la bilancia commerciale degli stati uniti diventò passiva, segnale
della debolezza della sua economia. Più spese di quanto non fossero gli introiti derivanti in particolare dalle tasse.
Questa situazione di debolezza complessiva dell’economia statunitense ebbe ulteriore conferma nel momento in
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cui nel 1971 Nixon decise di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Questa dichiarazione che in qualche
modo dava conferma della debolezza crescente degli USA provocò un sussulto in tutto il mondo.
A seguito di questo abbiamo:
• Svalutazione del dollaro
• Fluttuazione dei cambi
• Innalzamento dei dazi sulle merci importate negli USA
• Instabilità del sistema economico internazionale

L’URSS TRA AMBIZIONI DI POTENZA E DEBOLEZZE STRUTTURALI


Nel secondo dopoguerra, l’URSS espresse tendenze espansionistiche, favorite dall’affermazione di regimi ostili
agli USA in diversi Stati di Africa, Asia e America latina (Cuba).
Dalla fine degli anni Sessanta, si registrarono il rallentamento della crescita industriale interna dell’URSS e
crescenti difficoltà nell’approvvigionamento alimentare. Negli anni Sessanta e Settanta, le due superpotenze
esercitavano ancora un ruolo egemone planetario che fu però eroso dalle difficoltà e dai costi del controllo
militare e politico mondiale.
Negli anni Settanta:
• Il primato dell’Unione Sovietica come “patria del comunismo mondiale” era entrato in crisi per le sue
debolezze interne (repressione del dissenso, difficoltà economiche) e per l’emersione di altri modelli
concorrenti (Cina, Cecoslovacchia).
• Gli Stati Uniti come “centro del capitalismo mondiale” si trovavano in difficoltà per gli impegni
finanziari e militari globali e il dinamismo di altre economie capitalistiche (Germania, Giappone)

LE DIFFICOLTÀ DEL DOLLARO E LA CRISI PETROLIFERA


Negli anni Settanta, Stati Uniti e unione sovietica contribuirono a delineare una situazione internazionale
instabili. Le difficoltà del dollaro ebbero un impatto sull’economia reale, e a rendere ancora peggiore la situazione
della prima metà degli anni Sessanta, si crearono le condizioni per una tempesta perfetta, la crisi petrolifera del
1973 che aveva un collegamento diretto con un fatto bellico.
Nel dopoguerra, l’energia elettrica era la forma prevalente di energia; il carbone fu sostituito dagli idrocarburi
(ottenuti dal petrolio e dal gas naturale) per la produzione di energia elettrica. Si avviò una diversificazione delle
fonti energetiche: energia nucleare ed energie rinnovabili. Era strategico il controllo delle aree ricche di materie
prime come strumento di egemonia economica e politica globale. La continua crescita economica rallentò negli
anni Sessanta e si interruppe all’inizio degli anni Settanta. La debolezza del dollaro, con il deficit della bilancia
dei pagamenti USA, favorì la speculazione finanziaria che aggravò la crisi economica globale (rallentamento della
crescita, inflazione).

Dal 1960, l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (OPEC) agiva per negoziare con le imprese petrolifere
multinazionali le quantità e i prezzi del greggio estratto dal loro sottosuolo.
Nel 1973, scoppiò la guerra del Kippur, con l’attacco a Israele da parte di Egitto e Siria. L’Egitto, infatti,
d’accordo con la Siria lanciò un attacco contro Israele per contenere la sua presenza nel Medio Oriente. Gli USA
intervennero in difesa di Israele. Nonostante la presenza di queste due grandi nazioni, le forze armate israeliane
riuscirono a difendersi e a ricacciare indietro i paesi aggressori, gli stati uniti intervennero in aiuto di Israele, e di
conseguenza l’OPEC, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio, decisero di ridurre le quantità di petrolio
estratto.
Per reazione i paesi arabi dell’Opec decisero di ridurre la produzione di petrolio. Il prezzo del petrolio aumentò
rapidamente e contribuì alla crisi economica mondiale. Furono stretti fragili accordi di pace in Medio Oriente, ma
continuò l’instabilità globale. (OPEC composto principalmente da paesi arabi).

In una economia sempre più globalizzata e bloccata, si propagò rapidissimamente questa nuova crisi economica
che ebbe inizio a partire dagli anni 70. Dal 1973, si verificò una recessione economica globale. Crebbero
disoccupazione e inflazione (perdita di valore della moneta e aumento del costo della vita).

Furono colpiti soprattutto i paesi che dipendevano dalla importazione di petrolio e materie prime (Giappone e
Italia). Crebbe la competizione economica internazionale. Gli USA volevano diminuire le spese militari,
mantenere la stabilità bipolare, difendere gli interessi economici nazionali e rafforzare il consenso interno: il
governo decise dunque l’uscita dalla guerra del Vietnam, impopolarissima per l’opinione pubblica, di iniziare
negoziati con la Cina e di stringere accordi commerciali con l’Unione sovietica.
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12. CRISI E CROLLO DEL SISTEMA BIPOLARE

LA COESISTENZA PACIFICA
Le difficoltà crescenti degli stati uniti, legati a fattori politici economici, furono un’occasione per sfruttare a
proprio vantaggio in quelle tensioni locali che si stavano verificando, a livello globale, per indebolire il ruolo
internazionale degli usa. Negli anni Settanta, infatti, l’Unione sovietica intese sfruttare le crisi periferiche per
accrescere il proprio ruolo nel confronto bipolare con gli Stati Uniti.
Questa situazione di conferma della competizione internazionale tra usa e Urss fu ulteriormente complicata dalla
Cina che segnò un avvicinamento con relazioni internazionali con l’America. All’interno dell’area comunista,
crebbe la competizione ideologica e geopolitica tra l’Unione sovietica e la Cina. La Cina, pur essendo ancora un
paese prevalentemente agricolo, decise di sfruttare la propria posizione di forza per stingere rapporti commerciali
e diplomatici con gli stati uniti e di allontanarsi da legami troppo stretti con l’Urss.
In questa doppia competizione mondiale l’Urss vide aggravarsi le proprie difficoltà. La scelta del partito
comunista sovietico, di fronte a questa competizione internazionale, fu aumentare le spese militari, questo non
fece altro che sottrarre risorse ad altre spese e si tradisse in sempre più forti difficoltà dell’economia nel sostenere i
costi crescenti.

Negli anni Settanta e ottanta questa debolezza dell’URSS diventò ancora più evidente. La struttura economica
sovietica confermò la sua debolezza (industria pesante, pochi beni di consumo). Il regime sovietico continuò la
repressione degli oppositori politici interni con arresti, deportazioni e uccisioni. L’unica strada di uscita sembrava
la creazione di relazioni internazionali meno aggressive e più pacifiche con gli usa. La distensione tra i due
blocchi rappresentò, quindi, per Stati Uniti e Unione sovietica un’esigenza di stabilità e di diminuzione delle
altissime spese militari.
Nonostante questa continua crescita delle spese militare, dal punto di vista politico e diplomatico furono firmati
accordi per limitare, non fermare, la crescita degli armamenti. Continuarono i confronti per stabilire gli accordi
per limitare la produzione di missili intercontinentali e i bombardieri strategici (arrivando alla firma del SALT 2,
nel 1979). Questi accordi portarono ad un rallentamento della crescita delle spese militari.
In questa situazione si svilupparono anche delle relazioni, in Europa, che tendevano ad attenuare la cortina di
ferro che la divideva in due.

L’EUROPA NELLA DISTENSIONE: TRA SICUREZZA E COOPERAZIONE


In Europa, negli anni Settanta, cambiarono i rapporti interni ai blocchi e si ebbe una stabilizzazione del sistema
bipolare e di attenuazione delle punte più acute della contrapposizione tra Est e Ovest.
La distensione favorì la Ostpolitik (la politica verso i paesi dell’Est”) della Germania occidentale che intendeva
stabilire accordi economici e politici con i governi dell’Europa orientale e in particolare con la Germania
orientale. La Germania dell’Ovest, riconoscendo la repubblica di Germania a guida comunista, portò ad un vero
e proprio accordo tra le due Germanie che stabiliva l’esistenza di due stati du uno stesso territorio. Nel 1972,
infatti, si giunse a un accordo tra Repubblica federale tedesca e Repubblica democratica tedesca per riconoscere
l’esistenza di “due Stati in una sola nazione tedesca”

In questa situazione fu favorito lo sviluppo di una serie di accordi tra i paesi del blocco occidentale e quelli del
blocco orientale:
• Nel 1975, fu firmato l’Atto finale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE)
alla quale parteciparono anche USA e Canada. Accordo che tendeva a aprire nuove possibilità di
sviluppo e di accordi economici e politici tra i paesi dei due blocchi.
• I confini degli Stati europei furono definiti “inviolabili” e si stabilì una linea di collaborazione economica
e tutela dei diritti umani, con l’obiettivo occidentale di isolare l’URSS.
• Crebbe il clima di collaborazione internazionale in Europa.
• Gli Stati del blocco occidentale ritenevano che gli accordi potessero vincolare il blocco orientale al
rispetto dei diritti umani e permettessero l’aumento degli scambi economici.
• Si registrò l’aumento dell’indebitamento dei paesi dell’Est

In questa situazione abbiamo degli elementi di apertura ma, allo stesso tempo anche di instabilità.
Si stabilizza la scena politica internazionale dell’Europa e appaiono ancora più evidenti i problemi degli usa se si
allontana lo sguardo dal continente europeo.
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NUOVI MOTIVI DI CRISI: FINANZA GLOBALE E INCERTEZZE SOCIALI


La crisi dell’egemonia degli stati uniti nell’asia era stato une reso evidente in seguito alla sconfitta nella guerra del
Vietnam. Con la riunificazione del Vietnam nel 1975, guidato dal governo comunista, iniziò la violenta
persecuzione degli oppositori al regime.
Una situazione simile si verificò negli altri due paesi nati dopo l’occupazione coloniale francese:
• Nel Laos, i comunisti riconquistarono il potere e stabilirono un tipo di comunismo su base agricola,
simile a quello cinese.
• La Cambogia fu governata dai Khmer rossi che attuarono il cosiddetto “comunismo contadino” che
portò a stermini di massa.
In questa situazione, in cui Urss e Cina giocano un ruolo importantissimo di controllo di questi regimi comunisti,
vedono giocarsi questa competizione per l’egemonia regionale alle spalle delle popolazioni di questi paesi. Il
blocco comunista, quindi, pur vedendo affermarsi regimi di stampo comunista, alimenta la competizione
dell’egemonia coloniale nel blocco orientale. Dunque, le tensioni tra URSS e Cina aumentarono a causa proprio
della competizione per affermare l’egemonia nell’area asiatica.

Gli Stati Uniti avevano esigenza, dopo la sconfitta della guerra del Vietnam, di riaffermare la propria capacità di
controllo del blocco occidentale, inoltre, volendo anche contenere il comunismo, garantirono il sostegno a
potenze regionali come Iran, Israele, Pakistan, Arabia Saudita; Sudafrica e Brasile. Fallì però il controllo
statunitense nei conflitti locali, questo fu un chiaro segnale della diminuita potenza internazionale del governo di
Washington

Negli anni Settanta, quindi, le scelte di distensione bipolare e l’instabilità internazionale si intrecciarono alla crisi
economica, causa e conseguenza della globalizzazione.
A livello mondiale, si registrarono l’aumento dei costi di materie prime e alimenti (a causa dell crisi petrolifera del
1973), la recessione industriale, la crescita di inflazione e disoccupazione, la svalutazione delle monete. Questa
crisi aveva visto un certo rallentamento dei livelli di crescita e i costi delle materie prime e degli alimenti non
tornarono mai ai costi che si avevano in precedenza. Ci fu anche una svalutazione della propria moneta per
rendere più competitive le merci a livello internazionale. In questa situazione, dove gli elementi di crisi
economica mettono in crisi il progetto e il disegno di una crescita indefinita dell’economia, utopia che aveva
caratterizzato le economie capitalistiche e quelle del blocco sovietico, amplificò gli elementi di debolezza e mise
in evidenza quanto i modelli di crescita dell’encomia in realtà fossero un disegno che non aveva una possibilità
realistica di realizzazione. Crebbe così la percezione dei limiti dello sviluppo industriale, dell’esaurimento delle
risorse naturali e della crisi ecologica. Era evidente la crisi del modello di sviluppo industriale del secondo
dopoguerra.

I LIMITI DELLO SVILUPPO


Gli anni Settanta videro confermarsi e affermarsi tendenze che si erano già affermate negli anni precedenti:
aumentano le politiche di indebitamento dei debiti pubblici. L’aumento dei debiti pubblici degli Stati era causato
dalle politiche economiche basate sul deficit spending che volevano stimolare produzione e consumi, ma spesso
non erano efficaci. Attraverso gli investimenti pubblici si sarebbe dovuto incrementare la produzione e aumentare
la capacità delle industrie di produrre che avrebbero permesso un innalzamento dell’occupazione, dei redditi medi
e del pil. In realtà queste politiche, seppur riuscirono in parte a contenere la crisi, risultarono inefficaci perché
rendevano più deboli gli stati. Per questa ragione sorsero di nuovo forme di protezionismo economico per
difendere i produttori e i lavoratori dei rispettivi paesi.

A fronte di un crescente intervento dei governi nell’economia, si registrò la tendenza alla depoliticizzazione
dell’economia sostenuta dalla finanza internazionale, da un sistema imprenditoriale su scala mondiale e da
consumi di massa. Depoliticizzazione che era legata alla tendenza delle industrie e delle imprese di grandi
dimensioni a svincolarsi dagli obblighi fiscali e di controllo dell’economia da parte degli stati. La possibilità delle
imprese di grandi dimensione, che avevano anche relazioni commerciali su scala internazionale, potevano con
più facilità spostare i propri capitali e la loro localizzazione in luoghi e stati dove erano più vantaggiose le
condizioni fiscali, era piú leggera l’imposizione di tasse. Avvenne anche la localizzazione in quei paesi dove il
governo autoritario riusciva a reprimere le potenze sindacali o le proteste dei lavoratori per migliore il loro salario
e le loro condizioni. Molte grandi aziende, quindi, spostarono la produzione in quei paesi in cui il costo della
manodopera era inferiore rispetto all’Europa occidentale o negli usa in cui c’era un sistema di tutela dei
lavoratori.
Crebbero così le incertezze sociali, la disoccupazione e le diseguaglianze all’interno degli Stati. Ci fu
un’inversione di quello che accadde nel boom degli anni ’50-70 e, in particolare, nei paesi del blocco del nord
dove avevano visto una diminuzione delle disuguaglianze e un aumento generali dei redditi.
61

Tra gli anni Settanta e Ottanta, crebbero le scelte politiche neo-liberiste: politiche economiche degli stati che
tendevano a diminuire l’intervento dello stato nell’economia per lasciare maggiore libertà d’azione alle imprese
private, si trattava di una nuova concentrazione del potere economico in poche aziende multinazionali e
impossibilità di realizzare modelli di sviluppo non integrati nel mercato globale (come nel caso dell’Unione
Sovietica).
Questa non volontà dei governi di intervenire con più decisione rispetto alle scelte economiche delle aziende,
provocò una diffusa diminuzione della fiducia nella capacità dei governi, delle leggi degli Stati e degli accordi
internazionali di regolare il sistema globale. La sfiducia, soprattutto, nelle tutele che gli stati potevano garantire
alla popolazione fu una difficoltà che risultò legata non soltanto alla non consapevolezza dei governi rispetto alle
scelte da fare ma anche alle dinamiche di sviluppo di un’economia sempre più globalizzata che sfuggiva sempre di
più dal controllo dei governi. Questo fece crescere anche un’instabilità all’interno dei paesi del terzo mondo. Dai
paesi del Terzo Mondo, infatti, emerse una domanda di revisione degli assetti di potere mondiale e di crescita
economica, ma senza possibilità di incidere efficacemente sulle scelte reali.

TENSIONI BIPOLARI E PROTESTE GLOBALI – NEOCOLONIALISMO E DIPENDENZA ECONOMICA


In questa situazione di crescente difficoltà dello sviluppo economico e di instabilità delle relazioni internazionale
emersero movimenti di stampi rivoluzionari all’interno di paesi del terzo mondo che cercavano una risposta, di
tipo politico e rivoluzionario, agli assetti politici internazionali. Le strutture coniche sociali dell’unione sovietica
risultarono ormai fortemente indebolite e sembra rimanere in piedi soltanto per la competizione internazionale
con gli stati uniti.

Con la decolonizzazione, molte delle tensioni bipolari si erano scaricate in Asia, Africa e America latina, con
povertà diffusa, instabilità politica e governi autoritari.
Le tensioni geopolitiche allontanarono l’attenzione dalla soluzione dei problemi dello sviluppo economico.

Negli anni Settanta, una nuova ondata di tentativi rivoluzionari in America latina, Asia e Africa rimise in
discussione le linee di demarcazione tra i blocchi.
L’indebolimento degli Stati Uniti avrebbe potuto aprire spazi di azione internazionale per l’URSS che aveva però
strutture fragili (economia, politica, armamenti)

Fu evidente l’incapacità sovietica di gestire i vantaggi geografici e politici ottenuti in India, Vietnam, Laos e
Cambogia, Medio Oriente, Somalia, Angola, Mozambico, Etiopia, Madagascar. L’Urss, quindi, si espose
ulteriormente garantendo armamenti e addestratori militari a questi paesi guidati da gruppi di potere ispirati
all’ideologia comunista. Questo creò una situazione di crescente instabilità a livello internazionale in quanto la
presenza militare degli Urss portò ad una reazione negli usa che aumentarono gli armamenti anche per queste
aree. Si venne a creare così una forma di neo colonialismo: il blocco orientale e il blocco occidentale
controllavano indirettamente la politica e le risorse in Asia, Africa e America latina. Questo fece sì che ci fu un
ulteriore radicamento, in questi territori, di forme di povertà e miseria per la popolazione dove le élite politiche,
ristrette, erano sempre più avvantaggiate da queste relazioni dirette con le due superpotenze.

Le relazioni internazionali di questi anni, che in apparenza sembravano confermare la bipolarità tra usa e Urss, in
realtà videro lo sviluppo alle loro spalle di movimenti e di fenomeni che resero instabile, in modo crescente,
l’intero sistema, portando poi al rapido collasso e al crollo dell’unione sovietica.

NORD E SUD A CONFRONTO – DEBITI PUBBLICI E DEBITI GLOBALI


Negli anni Settanta, quello che emerse fu la situazione di povertà dei paesi in via di sviluppo, i paesi del sud del
mondo che soffrono di una situazione di fortissima dipendenza economica e politica dai paesi del nord del
mondo. Crebbero, infatti, ulteriormente le differenze di reddito medio tra Nord e Sud del mondo e le disparità
anche tra paesi del “Terzo mondo”, a volte questi paesi venivano anche definiti paesi del “Quarto mondo”
(soprattutto nell’area sub-sahariana) perché erano caratterizzati da forte pressione demografica (le risorse a
disposizione della popolazione erano minori rispetto a quelle necessarie) e diffusa povertà.
Si era, quindi, in una situazione in cui risultava evidente questa contrapposizione che portò ad una maggiore
disparità, anche all’interno di quei paesi del terzo e quarto mondo dove i gruppi dirigenti al potere riescono ad
arricchirsi proprio con lo sfruttamento delle materie prime. Questo risultò, poi ancora più evidente in quei paesi
produttori di petrolio. I governi dei paesi produttori di petrolio, infatti, si arricchirono, ma i guadagni non furono
destinati allo sviluppo sociale e alla diversificazione economica. Inoltre, dall’inizio degli anni Ottanta,
aumentarono le spese per gli armamenti, in particolare nel Medio Oriente, e diminuirono i prezzi delle materie
prime e degli alimenti
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In questa situazione la tendenza all’aumento delle spese militari si confermò, anzi ci fu una decisa accelerazione
sulla base di scelte intraprese dagli stati uniti e dall’unione sovietica. Questa situazione, dunque, resa ancor più
instabile a causa della spesa per gli armamenti, vide un ulteriore elemento di instabilità nelle scelte economiche
condotte dalle grandi organizzazioni economiche internazionali.
L’aumento dei debiti pubblici degli Stati divenne un problema globale (in particolare nel "Terzo mondo", in
Messico, in Polonia). Le istituzioni internazionali (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale) concessero
prestiti ai paesi in difficoltà, ma chiedendo interventi strutturali di liberalizzazione dell’economia, di riduzione
della spesa pubblica e di tutela degli investimenti stranieri, per rendere piú facile l’inserimento di questi paesi
all’interno dei circuiti economici mondiali. Politiche che in realtà garantivano l’interesse delle imprese private e
delle multinazionali a discapito della crescita sociale ed economica delle popolazioni locali. Questa debolezza
economica e l’intervento delle istituzioni economiche internazionali nei paesi in difficoltà però non permisero una
stabilizzazione economica equilibrata, anzi ci fu una crescente instabilità, non soltanto all’interno dei singoli stati
ma ci fu anche una crescente instabilità a livello internazionale

NAZIONALISMI E RADICALISMI NEL MONDO BIPOLARE


Tra gli anni Settanta e ottanta ci fu un cambiamento nelle relazioni internazionali che risultavano ancora inserite
nella contrapposizione bipolare. All’interno di questa contrapposizione, infatti, si svilupparono sempre più
movimenti e il ruolo di stati che tendevano di sfuggire a questa contrapposizione. Tra gli anni Settanta e Ottanta
si affermò in alcune aree di Asia e Africa un nazionalismo etno-religioso come opposizione alle élites locali
occidentalizzanti e all’influenza degli USA e dei suoi alleati. In questi anni si rafforzarono movimenti già
preesistenti, movimenti che, sulla base su un identità etnico religiosa, intendevano svolgere un ruolo alternativo
alle due egemonie di stati uniti e unione sovietica. Questi movimenti non erano del tutto nuovi, in quanto
soprattutto all’interno del mondo islamico erano presenti da sempre. Erano movimenti che si ispiravano ad una
visione religiosa e che si imposero come una possibilità di alternativa alle influenze dei due blocchi, inoltre
avevano come obiettivo prossimo mettersi contro le élite locali occidentalizzate. Molte volte era una
rielaborazione di principi e concetti del passato con richiamo diretto alla religione dell’islam che serviva per
legittimare l’alternativa politica e sociale che intendevano istaurare. La caratteristica principale di questi
movimenti fu una forte radicalizzazione delle proprie scelte e del proprio progetto politico, con manipolazioni
delle tradizioni.
Si diffuse il radicalismo islamista (che aveva portato alla rivoluzione iraniana del 1979; mujaheddin in
Afghanistan). Gruppi che riuscirono ad organizzare il malcontento popolare fino ad arrivare al ribaltamento, nel
1979, alla cacciata delle élite precedentemente al potere in Iran.
In Afghanistan, la presenza di un governo a guida comunista, suscitò forti preoccupazioni da parte del governo
statunitense. Per contrastare ciò gli stati uniti iniziarono a finanziare i mujaheddin, combattenti che, sulla base di
una visione religiosa radicale, combattevano contro il governo comunista.
Si registrò anche la diffusione del fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti e in America latina, che aveva un
programma e un progetto di tipo politico che richiamava la volontà di tradurre in leggi dello stato quello che era
un messaggio di tipo religioso, modo che metteva in discussione le forme di potere esistenti. Questa tendenza si
registrò anche in Israele, infatti si svilupparono forme di radicalizzazione religiosa e politica nell’ebraismo.
Fenomeni simili si riscontrarono anche nell’area indiana, emerse, infatti, il fondamentalismo indù che provocò
tensioni nel sub-continente indiano e attentati.
Questi movimenti sono fenomeni che cono collocabili e unicamente spiegabili all’interno della modernizzazione
spinta degli anni Ottanta e soprattutto all’interno della creazione di una rete globale. In un quadro, quindi,
all’apparenza stabile dove stati uniti e Urss restano in opposizione, vediamo sviluppare questi movimenti che
giocano ancora oggi un ruolo fondamentale all’interno di gruppi sociali ristetti e che sono in grado di
condizionare anche le relazioni internazionali.

LA CRISI DEL MONDO OCCIDENTALE E LE DEBOLEZZE DELL’IMPERO SOVIETICO


Il modello occidentale (economia di mercato, sviluppo economico e libertà sociale e politica) non si realizzò in
alcun paese del Terzo Mondo. Questo accadde perché lo sviluppo degli stati uniti e dei paesi occidentali era
dovuto e continuava ad essere possibile solo grazie a scelte di sfruttamento delle materie prime e delle popolazioni
del terzo mondo. Fallirono i progetti di sviluppo economico e sociale, anche per gli aiuti internazionali
inadeguati: prevalsero le ragioni della stabilità internazionale che tendevano a favorire il ruolo globale delle due
superpotenze. Questa situazione di instabilità internazionale e crescente difficolta degli usa di mantenere il
controllo delle aree del terzo mondo nelle aree di influenza, fece aumentare, nelle classi politiche di governo usa,
il timore che l’URSS avrebbe potuto trarre dei vantaggi. Ma allo stesso tempo l’amministrazione statunitense
considerò, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, che la situazione di crisi dell’URSS poteva
essere in realtà portata alle estreme conseguenze di sconfitta, puntando su uno degli elementi di debolezza
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dell’Urss: gli armamenti. Di fronte al riarmo degli stati uniti l’URSS si trovò in isolamento. Risultò evidente
l’isolamento internazionale dell’URSS realizzato dagli USA, anche attraverso la critica alla politica repressiva
interna sovietica contro i dissidenti. Questo venir meno del ruolo dell’URSS è spiegato proprio attraverso i
cambiamenti che ci sono stati all’interno dell’opinione pubblica dei diversi stati.
L’URSS perse la sua capacità di attrazione globale: inefficienza del modello economico collettivista e forti limiti
alla libertà. Vi era una endemica debolezza dell’agricoltura e un basso tenore di vita: l’URSS fu incapace di
inserirsi nel circuito del benessere moderno e dello sviluppo flessibile globale.
Crebbe così il ruolo internazionale della Cina, anche in seguito agli accordi con gli Stati Uniti.

LE QUATTRO MODERNIZZAZIONI CINESI


Dopo la morte di Mao nel 1976, la Cina iniziò una transizione per uscire dalla povertà: rimase il governo politico.
centralizzato del Partito comunista, ma furono concessi spazi per la libera iniziativa economica e gli investimenti
stranieri. La Cina costruì una strategia per imporsi come prima potenza al mondo. Anche la Cina, guidato da un
partito comunista unico, scelse una via di crescita economica diversa da quella sovietica. Pur con uno strettissimo
controllo da parte dello stato sulle attività economiche, vengono concesse libere iniziative agli imprenditori privati
e viene anche data la possibilità a capitali stranieri e investimenti esteri di trarre forme di investimento sul
territorio cinese.
Inoltre, furono avviate le “quattro modernizzazioni”, modernizzazioni che si basano sull’ammodernamento di:
• Agricoltura
• industria
• tecnologia
• settore militare.

Il sistema cinese sfruttò le possibilità portate dalla delocalizzazione delle produzioni dei paesi occidentali e la
tendenza alla finanziarizzazione delle economie capitalistiche. Questa situazione di inserimento della Cina come
luogo in cui si può produrre a costi più bassi, i realtà favorì lo sviluppo all’interno della Cina di forme di
modernizzazione autonoma. Il sistema cinese riuscì ad essere luogo i cui le imprese occidentali spostavano le loro
multinazionali ma fu anche luogo in cui la presenza di capitali stranieri era legata alla possibilità di controllo da
parte del partito comunista cinese. Duque, alcune scelte in campo economico, avviate in questa fase, si tradussero
un una capacità del sistema cinese di sviluppare forme di ammodernamento tecnologico, creando le basi per uno
sviluppo autonomo.
Inoltre, dal 1981, i rapporti tra Cina e URSS divennero meno tesi, con possibilità di accordi commerciali tra i due
paesi.

IL BLOCCO SOVIETICO IN CRISI


La debolezza dell’URSS era sempre più evidente, con un azione di tipo militare che andava nella direzione di
rafforzare l’egemonia mondiale dell’URSS ma che si risolse in un fallimento. Nel 1979 infatti, l’URSS invase
l’Afghanistan per sostenere il governo comunista, ma la guerriglia dei mujaheddin sconfigge l’Armata rossa. Il
governo comunista afgano era in grande difficoltà, così l’Urss, per garantire la sopravvivenza di un governo amico
inviò delle truppe dell’armata rossa invadendo il paese. Il risultato però venne definito come il Vietnam sovietico,
come ra accaduta alla grande potenza degli usa che non era stata in grado di combattere contro dei gruppi di
guerriglia. L’URSS, infatti, non riuscì a controllare questa guerriglia diffusa e nell’arco di un decennio, dopo
ingenti spese militari e un elevato numero di morti, l’armata rossa viene sconfitta.
Queste difficoltà di controllare i paesi sotto la propria influenza risultò evidente anche nei paesi dell’Europa
orientale. La crisi economica di questi paesi, infatti, alimentò le forme di opposizione e dissidenza al governo
comunità. Questo fenomeno appare molto evidente in polonia. In Polonia, la crisi economica e l’indebitamento
dello Stato favorirono l’azione del sindacato indipendente Solidarność, appoggiato dalla Chiesa cattolica e dai
gruppi democratici.
Nel 1981, in Polonia, il governo comunista dichiara lo stato d’assedio per arginare le proteste ed evitare
l’intervento armato sovietico, per evitare che le truppe dell’armata rossa riuscissero a controllare e reprimere il
movimento di indipendenza. Con questa dichiarazione le libertà individuali e sindacali vennero limitate ma di
fatto rendeva evidente, quanto all’interno del blocco sovietico, la situazione di instabilità fosse crescente.

GLI STATI UNITI TRA PRIMATO MONDIALE E INDEBOLIMENTO DELL’EGEMONIA


Anche gli stati uniti incontrarono diverse problematiche negli stati sotto la loro influenza e per far fronte alla
tenuta di questi governi filo-occidentali, gli usa scelgono di aumentare gli aiuti militari verso questi paesi. In
particolare, in America latina, nell’ultimo anno della presidenza del democratico Jimmy Carter (1977-1981) si
riavviò la corsa al riarmo statunitense. Politica che sulla base di una retorica propagandistica di difesa dei valori
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dell’Occidente portò a scelte di politica estera e interna che di fatto puntava a tutelare gli interessi politici ed
economici degli usa, a scapito delle libertà individuali della gran parte della popolazione di questi paesi. La
politica di riarmo, che puntò a tutelare gli interessi occidentali nel mondo, metteva però in evidenza la grande
difficoltà degli usa di mantenere l’egemonia a livello globale.
Questo insieme di instabilità all’interno dei due blocchi e una ridefinizione degli equilibri diplomatici globali,
resero gli anni Ottanta un periodo definito di seconda guerra fredda.
Negli anni Ottanta, emersero gli elementi di forza e le contraddizioni della politica statunitense:
• superiorità economica a livello mondiale
• rafforzamento delle tendenze economiche liberiste
• riduzione delle tasse agli alti redditi
• deregulation in economia
• investimenti pubblici per il riarmo

La presidenza del repubblicano Ronald Reagan (1981- 1989), invece, promosse negli Stati Uniti una politica
“neoconservatrice”, questo come la reazione alle crisi rivoluzionarie periferiche e il segnale della diversa capacità
di risposta di USA e URSS alla competizione economica globalizzata.
Inoltre, fu lanciata una nuova corsa agli armamenti nucleari: gli Stati Uniti intendevano collocare nuove armi in
Europa per garantire stabilità al sistema di sicurezza internazionale sotto il suo controllo.

Tra gli anni Settanta e Ottanta, ci si trovò in una situazione di ambivalenza dell’equilibrio bipolare:
• si confermò la debolezza del sistema sovietico basato sulla pianificazione economica e la difficoltà di
controllo della propria sfera di influenza.
• Gli Stati Uniti registrano una certa crescita economica, ma continuò la tendenza alla
deindustrializzazione (con delocalizzazione delle produzioni all’estero, deficit della bilancia commerciale
e altissimo debito pubblico): questa situazione si riflesse nella diminuzione dell’egemonia statunitense
nell’economia mondiale.

La propaganda politica di Reagan enfatizzò la contrapposizione degli Stati Uniti con il comunismo e propose
un’ideologia conservatrice e nazionalista. Il riarmo degli USA aiutò in parte la crescita economica interna, ma
fece aumentare il debito pubblico. L’ammodernamento militare e il programma degli “euromissili” fecero crescere
la tensione bipolare.
Dal 1983, fu avviato il programma Strategic defense initiative (Sdi) con il progetto di “scudo stellare” contro
l’URSS. Questo progetto, molto dispendioso che non entrò mai in funzione, ebbe come risultato immediato
quello dell’ulteriore innalzamento delle spese militari. Di fronte a questa accelerazione dele spese militari
aumentarono le perplessità dei governi europei occidentali e i movimenti di protesta pacifisti e antinucleari (anche
USA).

UN’ALTALENANTE INTEGRAZIONE EUROPEA


L’integrazione europea continuò nonostante non si riuscisse a (e non si volesse) coordinare la politica estera dei
singoli Stati. La strada fu quella di sviluppare forme di integrazione economica: fu creato il Sistema monetario
comune (SME), con l’oscillazione concordata dei tassi di cambio delle valute di molti paesi dell’Europa
occidentale, che favorì i commerci e aiutò la ripresa economica, con il ruolo trainante della Germania.
In questa situazione crebbero le pressioni e le richieste di un’integrazione che unisse a quella di tipi economico dei
paesi occidentali, anche un’integrazione di tipo politico. Per questa ragione a partire dagli anni ’70 vennero
istituiti degli organi con vere funzioni di governo. Si moltiplicarono, infatti, le iniziative per dare un ruolo più
politico e non soltanto economico alle istituzioni europee e dal 1974, furono affidate nuove funzioni di indirizzo
al Consiglio europeo (riunioni dei capi di Stato o di governo) e la Commissione europea ebbe un ruolo
propulsivo.

L’aumento dell’integrazione Europa portò a decidere la cessione dei parlamenti di una parte di sovranità ad
organismi sovranazionali che operano in autonomia rispetto alle scelte dei singoli stati. A fronte di questo vi è
anche un allargamento degli stati che aderirono all’unione europea. Continuò, infatti, il processo di integrazione
politica dell’Europa occidentale: nel 1979 si svolsero le prime elezioni dirette a suffragio universale del
Parlamento europeo. Tra il 1986 e il 1987 fu firmato l’Atto unico europeo per la libera circolazione di persone,
merci e capitali. La Comunità europea però non riusciva ad avere un ruolo politico internazionale a causa di due
elementi
• Elemento esterno: stati uniti volevano mantenere il ruolo di primato
• Elemento interno: i paesi membri non erano concordanti rispetto alle linee di politica interna e
internazionale. Francia e gran Bretagna, infatti, volevano giocare un ruolo internazionale autonomo
rispetto alla comunità europea.
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NUOVA TENSIONE INTERNAZIONALE E CRISI DEL SISTEMA BIPOL ARE


Negli anni Ottanta, crebbe il clima di tensione internazionale.
Tra il 1982 e il 1984, USA e URSS interruppero i canali informali di reciproca comunicazione diplomatica.
L’URSS non era in grado di aumentare le spese militari e di agire con fermezza a livello globale.
Nel 1982 morì Breznev e il suo successore Andropov si ammalò poco dopo: incertezze nella guida sovietica.
Gli Stati Uniti agirono con “operazioni coperte” e con interventi palesi nel Terzo Mondo per influenzare a
proprio favore partiti e regimi politici: armò gli islamisti radicali in Afghanistan.

Gli USA intervennero per controllare la politica interna degli Stati dell’America latina: anti-comunismo, sostegno
a governi autoritari e difesa dei propri interessi economici e strategici.
Negli anni Ottanta, la decadenza del modello socialista sovietico era evidente, i paesi del Terzo Mondo erano in
gravi difficoltà per la scarsa autonomia politica ed economica.
Il sistema internazionale diventò più complesso e il bipolarismo delle superpotenze non governava più saldamente
le relazioni internazionali

Negli anni Ottanta, le relazioni economiche e gli equilibri geopolitici nell’area dell’Oceano Pacifico crebbero di
importanza, anche per l’aumento della capacità produttiva dell’Estremo oriente asiatico.
Cresceva la moltiplicazione e la diversificazione dei centri di potere economico (Estremo Oriente, Brasile, India,
Sudafrica).
La centralità degli Stati Uniti nel sistema capitalistico mondiale si indebolì: la globalizzazione aveva fatto
emergere altri centri propulsori dell’economia di mercato (Germania, Gran Bretagna; modello asiatico e modello
occidentale).

RIFORME DI GORBAČËV, CRISI DEI SISTEMI COMUNISTI E DISSOLUZIONE DEL BLOCCO SOVIETICO
La crisi dell’URSS sembrò segnare una svolta con la salita al potere di Gorbačëv nel 1985. Gorbačëv, di fronte
all’evidente crisi economica dell’URSS considerava che solo attraverso l’introduzione di alcune riforme si sarebbe
potuto mantenere la competizione internazionale. Si vede quindi portavoce di una serie di riforme politiche e
economiche, basate su due livelli:
• livello politico: si parla di glasnost che vuol dire trasparenza, vennero infatti creati un insieme di riforme
che dovevano tendere ad una maggiore chiarezza politica, introduzione di elementi di libertà politica che
prima erano inesistenti, aprì alla possibilità di un multipartitismo e la possibilità di forze politiche
organizzate che potevano agire sulla scena pubblica. Si trattava anche di un rallentamento e poi una fine
delle pressioni contro gli oppositori
• livello economico: si parla di perestrojka che vuol dire riforma economica, furono, infatti, introdotti
cambiamenti in favore di una maggiore libertà economica, venne data la possibilità anche agli
imprenditori privati e imprese capitalistiche straniere di avviare attività economiche non più gestite dallo
stato.

Questa politica di riforme andava anche nella direzione di un tentativo di risanare il bilancio statale, gravato da
spese militari che non erano in grado di stare al passo di quelle compiute dagli Usa.

USA e URSS, inoltre, tentarono di superare la nuova guerra fredda: vennero fatti dei colloqui per la limitazione
degli armamenti e ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan nel 1989.
Mosca decise il ritiro progressivo delle truppe sovietiche in Europa orientale dal 1988, anche per incentivare la
riforma politica ed economica interna degli Stati del blocco comunista.
Questa politica di alleggerimento del controllo comunista andò di pari passo anche di un allentamento delle
truppe sovietiche anche nei paesi dell’Europa orientale. Questa decisione aveva l’obiettivo di sollecitare in questi
paesi riforme di tipo economico e politico simili a quelli che si stavano sviluppando con il governo di Gorbačëv.
In Polonia e Ungheria, vi furono aperture politiche e riforme economiche, mentre minori riforme negli altri paesi
dell’Est. Questa spinta a delle riforme, non ebbe, infatti, risposte simili nei diversi governi comunisti. In altri
paesi, come in Romania e Germania non si ebbero le stesse cose avute in polonia e Ungheria.

In Cina, vi fu l’apertura all’economia di mercato, ma con la mancanza di libertà politica: Il partito comunista
cinese voleva dare spazio alla libertà economica ma non alla libertà di pensiero che poteva ledere al partito
comunista a capo del regime. Quindi questa apertura in campo economico ma chiusura in quello politico fece
sorgere molte organizzazioni con valori che si opponevano a quelli del partito comunista. Nel 1989, fu repressa
nella violenza la proteste in piazza Tienanmen, a Pechino.
In Cina si confermò quindi una linea centralista che negava la possibilità di espressione della propria opinion. Il
sistema cinese era diverso sia rispetto al modello sovietico che comunque cercava una via di riforma allargandosi
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alle libertà economiche e politiche, sia al modello capitalistico degli usa. La Cina, sulla base di questo doppio
passo, ad inserirsi nel circuito economico internazionale, sfruttando gli spazi lasciati dall’economia capitalistica
internazionale con l’obiettivo di massimizzare il profitto. La Cina comunista, infatti, superò rapidamente
l’isolamento internazionale: era inserita nell’economia mondiale capitalistica ed era un tassello centrale della
globalizzazione.

In questo quadro di rapida trasformazione è da collocare la fine, non legata a fati militari, del crollo del blocco
sovietico.
Nel 1989, si svolsero elezioni libere, c’erano più partiti che si contendevano oil potere con programmi politici
differenti, in Polonia e si formò un governo di coalizione guidato dal cattolico democratico Mazowiecki.

In Ungheria, nel 1989 furono aperte le frontiere con l’Austria. Scelta che fu fondamentale e che portò anche al
crollo del blocco sovietico. Aprendo i propri confini rese possibile la libera migrazione, nell’estate così, un grande
flusso di tedeschi orientali si diresse verso la Germania occidentale attraversando l’Ungheria. Si trattò di
un’emigrazioni di massa verso l’Europa dell’ovest.
Il governo comunista della Germania orientale tentò di resistere alle pressioni per le riforme economiche e
politiche.
L’economia della Germania Est era sostenuta di fatto dai finanziamenti provenienti dalla Germania Ovest. Tutte
le migrazioni verso la Germania federale e le proteste di piazza portarono il 9 novembre 1989 all’apertura e allo
smantellamento del Muro di Berlino, simbolo dal 1961 della divisione del mondo in due blocchi contrapposti.
Gran parte della popolazione di Berlino, infatti, voleva a libera circolazione delle persone senza dover fare tutto il
giro, passando dall’Ungheria. Senza aver ricevuto un ordine dal governo, però, le guardie di frontiera non
potendo più fermare tutte le persone che tentavano di andare a Berlino ovest, le porte del muro vennero aperte e
pi questo fu smantellato. Questo segnò la fine del regime comunista in Europa. Nel 1990, si svolsero elezioni
libere in Germania orientale e nel 1991 si giunse all’unificazione tedesca.

Le manifestazioni incominciarono a svilupparsi in tutti i paesi dell’Europa orientale. Infatti, In Cecoslovacchia,


le proteste in piazza San Venceslao a Praga nel novembre 1989 furono l’inizio della “rivoluzione di velluto”: finì
in modo pacifico il regime autoritario comunista.

Situazioni diverse, non così pacifiche, caratterizzarono invece la fine del partito comunista in Romania. La
Romania si trovava in gravi difficoltà economiche e il tentativo di Ceausescu di impedire le riforme provocò
scioperi e proteste. Nel 1989, una parte minoritaria del Partito comunista, favorevole alle riforme, portò alle
destituzione e all’uccisione di Ceausescu
Una situazione simile, motivata da condizioni interne diverse, fu la situazione che si creò in Jugoslavia dove la
fine del comunismo si avviò insieme a spinte nazionalistiche, che volevano, sulla base di riferimenti identitari e
linguistici, un’autonomia da potere centrale di Belgrado. Questa situazione di transizione dal sistema di governo
comunista con la spinta nazionalistica portò allo scoppio di una guerra civile, a partire dal 1991. Guerra che si
trascinò per anni e che portò alla dissoluzione della federazione jugoslava che fu sostituita da un insieme di stati
che si definirono sulla base di un’appartenenza nazionale.
Le proteste in Bulgaria spinsero il Partito comunista ad avviare le riforme nel paese.

In Albania le forti tensioni interne e la crisi economica provocarono la fine del regime nel 1990. Il Patto di
Varsavia si sciolse nel 1991.

CONCLUSIONE DELLA GUERRA FREDDA


La crisi del blocco sovietico era quindi dovuta al fatto che il sistema comunista non era più in grado di rispondere
alle richieste politiche economiche di libertà della popolazione. C’erano però all’interno del partito comunista
delle singole repubbliche con una loro autonomia, che molto spesso, si consideravano contro le riforme che si
stavano effettuando in tutti i governi comunisti, erano parti del partito comunista che non accettavano le riforme.
Nell’agosto del 1991, in Unione sovietica, fallì un tentativo di colpo di Stato di militari comunisti contrari alle
riforme sostenute da Gorbačëv. La resistenza al golpe garantita da Eltsin, presidente della Repubblica russa, rese
evidente l’incapacità del potere centrale sovietico-comunista di mantenere il controllo ed evitare la disgregazione
dell’unità sovranazionale dell’URSS. Le singole repubbliche che formavano l’Unione sovietica dichiararono la
propria indipendenza dal potere centrale di Mosca: i nuovi governanti si legittimano attraverso il richiamo alle
identità nazionale

Nel dicembre 1991, i capi di Stato di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono un accordo che sancì la
dissoluzione dell’URSS. Quest’accordo portò alla dissoluzione dell’unione sovietica, infatti, di fronte a questa
decisione, Gorbačëv si dimise alla fine di dicembre 1991 dalla presidenza dell’URSS: lo Stato sovietico non
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esisteva più. Anche la fine dell’Urss si svolse in modo rapido e incruento, non venne militarmente sconfitta
dall’altra superpotenza, ma collassa rapidamente al suo interno a causa delle debolezze economiche e politiche
che risultarono insostenibili. La fine dell’unione sovietica portò alla fine del blocco sovietico e del regime
comunista. Gli usa appaiono come i vincitori di questa contrapposizione bipolare, ma pur apparendo vincitori
della guerra fredda, erano comunque in difficoltà a mantenere gli impegni di controllo delle relazioni
internazionali a livello mondiale.

13. VERSO IL NUOVO MILLENNIO GLOBALE

DOPO IL CROLLO DEL SISTEMA SOVIETICO


La fine della tensione bipolare della «guerra fredda» non portò un periodo di pace internazionale. Si creò un
nuovo ordine mondiale che si sperava fosse un periodo di pace internazionale, questo in realtà non si risolse in
questa maniera. Si attenuò la paura di una guerra mondiale ma gran parte degli arsenali militari caddero sotto il
controllo delle nuove repubbliche, nate dopo il crollo del blocco sovietico. Si attenua questa paura ma comunque
la minaccia atomica continua ad essere presente, non così prossima come sembrava negli anni della guerra fredda.
Gli stati uniti appaiono come vincitori, con l’apparente definitiva vittoria del sistema economico capitalistico di
cui erano stati sostenitori. La speranza di molti era che questo sistema economico capitalistico, con libera
iniziativa economica e minore intervento dello stato, portasse ad un sistema pacifico di relazioni internazionali,
dove questo modello avrebbe dovuto portare ad una crescita di benessere e di livelli di reddito. In realtà alcuni
segnali misero da subito in discussione questa speranza, in quanto gli elementi di instabilità internazionale
aumentarono con la fine della guerra fredda.

All’inizio degli anni Novanta, i paesi già appartenuti al blocco sovietico passarono rapidamente al sistema
economico capitalistico: libera iniziativa economica privata e minore influenza dello Stato. Transizione che però
si accompagnò da forti crisi economiche di questi sistemi che, di fronte alla rapida trasformazione, dovettero
pagare conseguenze interne di crisi economiche diffuse e impoverimento generale a fronte di un arricchimento di
gruppi ristretti di cittadini. Nei paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est, inoltre, furono adottate le istituzioni
democratiche liberali rappresentative.
Anche in America latina vi fu una certa stabilizzazione democratica, con la conclusione delle dittature militari e
la fine delle guerre civili (El Salvador, Guatemala).

Dopo il crollo del sistema sovietico, nel 1989-1990, si registrò l’estensione delle regole del capitalismo a livello
globale che però non riuscirono a fermare quelle ricorrenti crisi internazionali che anche gli usa non riescono a
fermare in quanto loro primi interpreti di queste crisi attraverso scelte discutibili.
Secondo il governo degli Stati Uniti (rimasta l’unica potenza di dimensioni mondiali) il mercato avrebbe favorito
l’integrazione internazionale e la crescita della ricchezza complessiva. La visione ideologica del neo-liberismo
affidava all’economia la definizione dei rapporti di forza internazionali e attribuiva uno scarso ruolo alle
istituzioni statali e internazionali. La difficoltà degli Stati Uniti di gestire alcune crisi internazionali, però, negli
anni Novanta confermò l’esigenza di una presenza sovranazionale regolatrice dei conflitti (come l’ONU).

LE INCERTEZZE DELLA TRANSIZIONE E IL RUOLO DELLO STATO NELLA GLOBALIZZAZIONE


In Sud Africa, nel 1994, terminò il regime di apartheid che in precedenza aveva sottoposto la popolazione di
colore a forti discriminazioni. Fu eletto presidente Nelson Mandela.
Anche in Asia (Corea del Sud, Taiwan) finirono alcuni regimi militari e si diffusero sistemi politici rappresentativi
liberali.
In questa situazione di maggiore libertà interna si ebbe una maggiore integrazione dei mercati mondiali: fu la
continuazione di tendenze precedenti verso la globalizzazione. Inoltre, sembrava svilupparsi un sistema
internazionale in cui la libertà degli scambi potesse portare ad un beneficio per tutti. In realtà, l’accelerazione del
processo di globalizzazione e lo sviluppo dei sistemi capitalistici in quasi tutti i paesi portarono, a trarre la
maggior parte de vantaggi, le multinazionali. Molte multinazionali, infatti, (per esempio, McDonald’s, Nike,
Exxon…) aumentarono la loro diffusione mondiale e i loro profitti.
Le multinazionali, per incrementare i profitti e le posizioni di vantaggio economico mondiale, tendevano sempre
più a sfuggire alle capacità di regolazione e di tassazione degli Stati. La forza delle multinazionali faceva sì che
potessero sfuggire con maggiore facilità dai vincoli e dalle imposizioni territoriali degli stati, in quanto sfuggono
dal controllo territoriale dello stato. Gli stati riuscirono sempre meno ad intervenire nell’economia e, al tempo
stesso, c’era con anche la volontà di introdurre dei provvedimenti basati su minori vincoli e tutele delle scelte di
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queste imprese con l’obiettivo di attirare le grandi imprese all’interno del territorio nazionale per garantire livelli
di occupazione e entrate fiscali indispensabili alla vita delle istituzioni pubbliche.
Le istituzioni pubbliche statali avevano minore influenza sulle decisioni internazionali per la pervasiva forza delle
imprese multinazionali e della finanza che agivano sul piano mondiale.
Si allentò il collegamento tra Stato, territorio ed economia.
Si ridusse l’intervento degli Stati nell’economia: liberalizzazione di attività economiche prima controllate dallo
Stato (per esempio, nei trasporti) e deregolamentazione (con minori vincoli ambientali e sociali imposti alle
imprese private

II RISCHI DEL NUOVO ORDINE MONDIALE


La fine della «guerra fredda» non provocò la stabilizzazione delle relazioni internazionali, né la crescita
generalizzata del benessere a livello mondiale.
Tra i problemi che risultarono di difficile soluzione vi furono:
• gli effetti inquinanti dell’attività umana sull’ambiente;
• la disparità sociale tra le diverse aree del mondo;
• l’instabilità delle relazioni internazionali e lo scoppio di conflitti armati locali (Guerra del Golfo, dal
1990);
• le crisi finanziare internazionali (nel 1997, colpirono soprattutto le economie dei paesi emergenti del sud-
est asiatico: Thailandia, Malesia, Filippine, Corea del Sud…)

L’ECONOMIA GLOBALIZZATA , LA FRAGILITÀ E L’UNILATERALISMO STATUNITENSE


Negli anni Novanta, l’economia degli Stati Uniti registrò una crescita basata soprattutto sulle innovazioni
tecnologiche in campo informatico. Gli usa riescono, sulla base dei grandi capitali economici e di conoscenze, a
sfruttare le innovazioni, rappresentate dal computer e da internet, nati proprio all’interno degli ambienti militari e
scientifici.
Computer e internet consentirono all’economia statunitense di rafforzare la propria centralità a livello mondiale,
nonostante permanenti elementi di debolezza (debito del bilancio pubblico e deficit commerciale, le importazioni
di merci e servizi verso gli usa sono maggiori rispetto alle esportazioni).
La new economy, fondata su innovazioni e grandi investimenti economici, contribuirono alla formazione di una
«bolla finanziaria» di tipo speculativo: gli investimenti apparivano redditizi, ma si dimostrarono molto rischiosi.
Chi investiva il proprio capitale non aveva certezze di vedere restituito i capitale investito. Le grandi speranze di
un economia avanzata, in realtà comportarono gravi rischi, infatti, molti investimenti portarono al fallimento di
imprese e alla perdita di capitali.

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la superiorità militare mondiale degli Stati Uniti sembrava indiscussa,
soprattutto nel settore navale e aereo. In realtà, gli Stati Uniti non riuscivano a controllare, sul terreno, le crisi che
esplosero in alcune aree del mondo. Tanto che si arrivò a una fase di pacificazione in Medio Oriente, con la firma
di accordi nel 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp).
Non furono invece risolutivi gli interventi degli Stati Uniti e della Nato in altre regioni: nella ex Jugoslavia, in
Ruanda, nel Congo, in Somalia e soprattutto in Afghanistan.

La convinzione, ricorrente nei governi statunitensi, di poter regolare in autonomia (unilateralmente) i conflitti
scoppiati nelle aree del mondo ritenute strategiche dal punto di vista geo-politico provocò un’ulteriore crescita
delle spese militari e la diminuzione delle possibilità di collaborazione internazionale.
La volontà di controllo su scala globale spinse gli USA a favorire l’ingresso, all’interno dell’organizzazione
militare della NATO, dei paesi dell’Europa dell’Est.
Per gli Stati Uniti mantenere l’egemonia politica internazionale risultava però sempre più difficoltoso, a causa dei
costi militari e delle resistenze all’egemonia americana e occidentale.

GLI ATTENTATI DEL 2001 E IL FONDAMENTALISMO INSLAMICO


L’11 settembre 2001 alcuni attentati terroristici negli USA (rivendicati dai fondamentalisti jihadisti di Al Qaida)
causarono migliaia di vittime.
I gruppi fondamentalisti erano più interessati agli equilibri interni al Medio Oriente e nell’Asia centrale e usavano
l’anti-americanismo soprattutto come elemento propagandistico per rafforzare il proprio potere in queste aree.
Gli Stati Uniti risposero nuovamente in modo unilaterale, senza cercare di accordarsi nelle istituzioni
internazionali (all’ONU, in particolare) per contenere i rischi di guerra nelle aree di crisi.
La «guerra al terrore», con l’inizio del conflitto in Afghanistan nel 2001, intendeva sconfiggere i fondamentalisti
islamisti che, paradossalmente, erano stati finanziati dagli USA durante la guerra contro l’Unione Sovietica.
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La linea del governo USA di garantire a qualunque condizione la «sicurezza nazionale» servì per giustificare gli
attacchi preventivi lanciati per evitare minacce dirette.
Nel 2003, iniziò la spedizione militare degli Stati Uniti (con alcuni alleati) contro l’Iraq; l’intervento armato però
si rivelò molto più complesso del previsto.
La presenza occidentale, la guerriglia armata contro gli invasori e la competizione locale tra le diverse etnie
alimentarono un conflitto logorante, con migliaia di morti militari e soprattutto civili. La politica unilaterale degli
USA non ottenne i risultati sperati e contribuì alla crescita dell’instabilità internazionale.
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MODULO 2 – STORIA DEL GIORNALISMO


LEZIONE 19-20-21 [02-03-04/05]

14. IL GIORNALISMO TRA INFORMAZIONE E POTERE

LA STORIA DEL GIORNALISMO NELL’ETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE


Perché la storiografia si occupa dello studio dell’informazione giornalistica?
Quanto i mezzi di comunicazione di massa hanno contribuito ai processi di integrazione su scala planetaria?
Quali mutamenti sono avvenuti nel giornalismo in seguito ai processi di globalizzazione?
Da tempo la storiografia si occupa di storia della stampa del giornalismo, inizialmente considerando le vicende
della stampa a livello più nazionale, ma nel corso degli anni anche verso una lettura globale della storia del
giornalismo considerando lo scambio innovazioni tecnologiche, lo spostamento di giornalisti e la nascita di
agenzie di stampa internazionali, fenomeni che mettono in rilievo quando i mezzi di comunicazione di massa
abbiano contribuito ai processi di integrazione su scala planetaria. Si tratta anche di uno studio dei mutamenti
avvenuti nel giornalismo a seguito dei fenomeni di globalizzazione.

I mass media hanno fatto aumentare i contatti tra culture diverse e distanti che si sono mescolate e trasformate
con velocità crescente. Attraverso i mezzi di comunicazione di massa il mondo entrava nelle case dei lettori e
permetteva di informarsi anche su notizie successe in altre parti del mondo. Ricerca di maggiori notizie e
informazioni che non era legata solo ad una curiosità personale o intellettuale perché tutta la storia del
giornalismo e dei mass media è strettamente legata alla dimensione politica ed economica, sia a livello nazionale
che internazionale. L’economia e la politica nazionale e internazionale hanno condizionato lo sviluppo dei media
(e viceversa). Questo è il segno di quanto, attraverso l'informazione, il potere potesse rafforzare la sua capacità di
controllo della popolazione e quanto il giornalismo, collegandosi con le istituzioni del potere, potesse a sua volta
accrescere la propria capacità di influenza. Questa connessione deve essere letta come un rapporto di reciproco
condizionamento.
Lo studio dei cambiamenti intervenuti attraverso la stampa, la radio e la televisione permette, quindi, di capire
meglio le dinamiche della globalizzazione

LA STORIA DEL GIORNALISMO: UNA DEFINIZIONE


La storia del giornalismo ha come oggetto di studio la ricostruzione delle trasformazioni avvenute in quella
professione che ha come obiettivo la raccolta, la redazione, la pubblicazione e la diffusione di informazioni
attraverso i mass media a livello locale, nazionale e globale.
La storia del giornalismo non può essere circoscritta alla storia del lavoro giornalistico, anche se gli aspetti
organizzativi, contrattuali e sindacali della professione sono elementi fondamentali per comprenderne le sue
caratteristiche e il suo ruolo dal punto di vista culturale, sociale e politico. Per valutare i cambiamenti avvenuti
nella professione giornalistica è necessario, infatti, considerare anche le trasformazioni tecniche che hanno
interessato i mass media. Il miglioramento delle tecnologie per la diffusione delle informazioni, a iniziare dalla
stampa a caratteri mobili, e la nascita di nuovi strumenti di comunicazione hanno influito fortemente sui modi in
cui il giornalismo ha svolto la sua funzione di rappresentare la realtà per il pubblico dei propri lettori.

IL GIORNALISMO: UNA STORIA DI LUN GO PERIODO


Giornalismo che deve essere considerato, dal punto di vista storico, come una storia di lungo periodo. La
trasmissione di informazioni, infatti, è un’attività che accompagna la storia delle comunità umane.
Dato che, fino all’epoca moderna, pochissime persone sapevano leggere, le notizie erano diffuse attraverso
banditori: si trattava di incaricati che gridavano per strada le notizie di rilevanza pubblica o l’emanazione di
norme da parte delle autorità.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili, da parte di Johann Gutenberg, nel 1455, cambiò radicalmente la
possibilità di trasmettere informazioni a un pubblico vasto.
Dal Quattrocento, crebbe il numero di artigiani tipografi in grado di riprodurre fogli di notizie, manifesti e libri a
una velocità molto più rapida e con costi estremamente minori rispetto agli scritti realizzati dagli amanuensi
(persone che trascrivevano a mano, copiavano i testi rendendo i libri opere troppo costose)
Inoltre, notevole importanza ebbe l’invenzione della carta prodotta attraverso la macerazione e l'essiccazione di
una miscela di stracci e pasta di legno (l'impasto olandese perché fu in olanda che si mise a punto questa nuova
tecnologia), con costi e tempi di produzione molto minori rispetto alla pergamena, ottenuta da pelli animali.
71

L’invenzione della stampa e della carta sono un supporto materiale ed economico che rese possibile la diffusione
della stampa e la creazione del moderno giornalismo.

L'osservazione della geografia della diffusione della stampa aiuta a comprendere gli elementi fondamentali alla
base di qualsiasi impresa giornalistica:
Il primo sviluppo della stampa nell’Europa nord-occidentale è legato allo spostamento del baricentro economico
dal Mediterraneo ai porti affacciati sull’Oceano Atlantico del nord. Aree caratterizzate da un dinamismo e attiva
vita economica
Questi cambiamenti geografici, tecnici e economici si basano sulle trasformazioni che riguardano proprio il
mondo dell’informazione, infatti, banchieri e mercanti avevano bisogno di informazioni regolari e aggiornate per
condurre i traffici commerciali marittimi e fluviali che superavano spesso la scala locale (anche in seguito alle
conquiste coloniali).Inoltre, per i commercianti, era necessario ricevere notizie sulle vie di comunicazione, sulla
situazione politica e sull’andamento dei prezzi in territori anche molto distanti. Questa esigenza di conoscere e
avere delle informazioni si incrocia con le innovazioni provenienti dalle tecniche che hanno interessato la stampa
e la carta.

Ci sono anche elementi culturali che hanno aiutato allo sviluppo del giornalismo: dal Quattrocento, l’aumento
dell’alfabetizzazione – collegata anche alla crescita dei livelli di reddito – consentì la creazione di un pubblico più
vasto di lettori, oltre che per i libri, anche per i fogli di notizie che all’inizio non avevano una periodicità regolare
e non erano redatti da «giornalisti».
Anche la riforma protestante contribuì alla diffusione della stampa. Lutero, nelle sue «95 tesi» formulate nel 1517,
in polemica con la chiesa di Roma, affermò che la Sacra Scrittura era l’unica fonte di verità: questa posizione
favorì la lettura anche individuale della Bibbia senza la mediazione delle istituzioni ecclesiastiche romane.
Proprio la lettura, che è un atto primariamente individuale, contribuì a creare una sfera soggettiva, autonoma dai
poteri.

MEZZI DI INFORMAZIONE, POTERE E AUTORITÀ


Il rapporto tra mezzi di informazione e potere è estremamente complesso e accompagna la storia del giornalismo
dalle origini. Il giornalismo favorì l’emersione di un nuovo soggetto sociale: l’opinione pubblica. Opinione
pubblica come entità dai confini molto indefiniti, descrive la comunità che si è creata dai legami nati con
l'informazione. Informazione come potente potere di socialità che crea uno spazio immateriale, l’opinione
pubblica, che si forma, cambia e si definisce con il passare del tempo. La stampa e le informazioni in generale
erano in grado di creare, orientare e anche mobilitare politicamente l’opinione pubblica.
La stampa permetteva di mettere in relazione gli individui tra loro e di mettere in comunicazione le diverse parti
del mondo. Le istituzioni pubbliche intuirono immediatamente le potenzialità e i pericoli della stampa per il
mantenimento del potere: per questo motivo, il potere tentò di controllare o condizionare i giornali nel modo più
stringente possibile
Il potere poteva sfruttare a proprio vantaggio queste potenzialità della stampa, per condizionare la popolazione
attraverso l’informazione e legittimare la propria posizione.
Per lo stesso motivo, le autorità intendevano censurare quelle pubblicazioni che erano considerate nocive per la
stabilità e la conservazione del potere. Questa volontà di controllo dei poteri pubblici vive in costante tensione con
gli editori che cercano la libertà di stampa.
La libertà di stampa era una esigenza ribadita da molti editori, che si facevano così portavoce di settori della
popolazione che richiedevano maggiore autonomia politica e culturale.

Molti giornali e giornalisti sfruttarono le loro capacità di influenzare l’opinione pubblica per stringere accordi – in
modo più o meno diretto – con i pubblici poteri: mettendosi al servizio delle autorità, i giornali potevano godere
di privilegi nel reperimento delle notizie, nella diffusione della propria testata e nel finanziamento del giornale.
Lo sviluppo della stampa contribuì alla trasformazione della politica, cambiandone i contenuti e la forma:
attraverso i giornali, l’opinione pubblica interagiva con il potere. Questo perché i giornali si inserivano nelle
strategie di legittimazione che i poteri politici mettevano in atto per sostenere le proprie scelte politiche e la
propria stessa potenza. Di fatto i giornali, attraverso questa capacità di condizionare e mobilitare l'opinione
pubblica, erano in grado di condizionare o contrastare il potere pubblico.

UN ALTRO POTERE?
La stampa è definita «quarto potere», accanto al parlamento (potere legislativo), al governo (esecutivo) e alla
magistratura (giudiziario). Questo è avvenuto a seguito dell'influenza, sempre maggiore, che venne attribuita alla
stampa. La stampa, come quarto potere, non si identifica necessariamente con uno o più di questi poteri e non
sempre ne è separato: è proprio un altro potere, non necessariamente alternativo agli altri.
72

Spesso i giornali hanno affiancato i poteri pubblici, hanno sostenuto le scelte delle autorità e legittimato le
istituzioni. In altri casi, scegliendo di opporsi al potere, la stampa ha avuto la funzione di «cane da guardia» della
libertà e della democrazia, proprio perché l’attenzione e la volontà di far emergere le notizie le informazioni più
segrete, permise ai cittadini lettori di conoscere ciò che sta accadendo con chi ha in mano le direzioni del potere.
Il giornalismo si trova, dunque, nel punto di intersezione tra libertà e potere e riflette le contraddizioni di questo
rapporto.

LIBERTÀ E CONTROLLO
Nel XVII secolo, il Rinascimento e la Riforma protestante tendevano a enfatizzare le esigenze della libertà
individuale, mentre i sovrani assoluti cercavano di rafforzare il controllo esercitato dallo Stato centrale verso i
sudditi.
In Olanda, dove erano diffusi tolleranza religiosa e confronto intellettuale, gli editori privati riuscirono a tessere
una fitta rete di pubblicazioni che favorì la creazione di uno spiccato spirito di coesione nazionale e di difesa delle
libertà. L’olanda dimostra come il clima diffuso di apertura alle diversità di opinione può favorire ulteriormente lo
sviluppo del giornalismo. La libertà di stampa, infatti, fu alla base di questa fioritura editoriale che riuscì in parte a
contenere i tentativi di controllo delle autorità. Questa situazione, però, fu un'eccezione in questo periodo.
Nel Cinquecento, infatti, molti giornali vennero pubblicati in regime di privilegio concesso dal sovrano e
sottoposti alla censura preventiva: all’inizio la periodicità garantiva la regolarità del servizio informativo delle
istituzioni piuttosto che l’autonomia della testata. L’autorizzazione era la condizione di partenza per poter
diffondere i giornali ma c’era una censura preventiva che impediva la diffusione di notizie che non piacevano al
potere politico. Questo tipo di impresa editoriale era disposta ad abbandonare qualsiasi rivendicazione di libertà,
in cambio dei privilegi concessi dal potere politico.

DIFFUSIONE DELLA STAMPA PERIODICA


Un altro elemento che emerse già nel Cinquecento fu la questione della periodicità, il fatto che un giornale
uscisse con una determinata scansione temporale regolare, garantiva al potere politico la regolarità del servizio di
informazione. D’altra parte, serviva a stringere un legame di fedeltà con i lettori al giornale. Dal 1597 in Svizzera
fu pubblicato ogni mese il «Rorschacher Monatsschrift»; dal 1609 nelle vicinanze di Augusta fu edito il
settimanale «Avisa Relation oder Zeitung». Periodicità che divenne una caratteristica fondamentale della carta
stampata e permetteva, in alcuni casi, di creare un rapporto più stretto e continuativo con i lettori (abbonamento)
e, in alcuni casi, per difendere l’autonomia delle testate.
Nel Seicento si diffusero numerosi periodici diffusi, da nord a sud, nei territori olandesi, tedeschi, svizzeri e nel
nord Italia economicamente più dinamici. Indispensabile era la presenza di stamperie già esistenti e l’esistenza di
sviluppati servizi di posta.
Inizialmente il mestiere di stampatore e quello di redattore delle notizie si sovrapponevano: ora iniziarono a
distinguersi, da una parte vi è chi stampa il giornale e chi scrive le notizie.
La diminuzione dei costi della stampa fece crescere la possibilità di guadagni degli editori, la diffusione di giornali
e carta stampata fa nascere un economica che permette anche maggiori innovazioni per produrre numero
crescenti di pagine, dando la possibilità di ulteriori guadagni e investimenti, il che si traduce in ulteriori
diminuzioni dei costi di stampa. Nonostante ciò, quello che rimaneva erano gli alti i rischi legati alla censura e ai
rapporti con le istituzioni pubbliche.

QUESTIONI DI STILE
L’intraprendenza di stampatori e giornalisti incontrò il favore delle corti, anche se iniziarono a diffondersi alcune
testate che non avevano il visto ufficiale delle autorità, in particolare in Inghilterra e Olanda («corantos»).
Dal punto di vista tecnico, l'allargamento del numero potenziale di lettori mise in competizione i giornali che
cercavano di assecondare gli interessi del pubblico e, anche dal punto di vista grafico, cercavano di dare maggiore
leggibilità dei giornali. Nella prima fase di diffusione della stampa periodica, la presentazione delle notizie nelle
pagine dei giornali seguiva un ordine di importanza che denotava un primo tentativo di selezionare e
gerarchizzare le notizie. Le testate dei giornali e il titolo degli articoli non servivano per attirare l’attenzione dei
lettori, ma a descrivere in modo sommario i contenuti. per dare un ulteriore elemento di leggibilità ai giornali si
incominciò ad introdurre gli articoli con un titolo per sintetizzare quello che si trovava al di sotto, questo
contribuiva a dare una gerarchia alle notizie, permettendo al giornalista di accentuare la posizione e la rilevanza
della notizia all’interno della pagina.
I giornali diventarono, soprattutto dal Settecento, un mezzo di espressione dell’opinione dei lettori, in particolare
attraverso le lettere al direttore pubblicate su molte testate. Questo spazio dedicato alla corrispondenza con i
lettori rimase una costante di moltissimi giornali con l'avvertenza, che vale tutt’oggi, che le lettere al direttore
sono l’esito di una scelta editoriale ben precisa: i giornali non pubblicano tutte lettere che ricevono, molte
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vengono editate dalla redazione in funzione della linea e volontà editoriale che la rivista affronta, scelte che
sfuggono da chi scrive le lettere perché non si ha la sicurezza che venga pubblicata nel modo corretto e nella sua
interezza. Questo spazio di dibattito però servì a collegare di più il giornale con i lettori per far capire loro quanto
stessi potessero essere gli stessi artefici del giornale.
Il prestigio della professione giornalistica, dunque, crebbe in parallelo all’aumentata influenza pubblica dei
giornali. Inoltre, lo stile giornalistico, più rapido e immediato, tendeva a differenziarsi dallo stile letterario, più
ricercato e involuto: gli editori intendevano privilegiare la tempestività nella pubblicazione delle notizie rispetto al
«bello scrivere». L’obiettivo, infatti, non era quello di presentare in testo elegante ma formulato ma quello di
creare un testo semplice che potesse essere diffuso rapidamente, uno stile letterario che differenzia sempre di più
la pagina scritta di giornale da quella stampata sui libri

INTANTO A TORINO
Nel ducato dei Savoia, nel Seicento, i periodici erano pubblicati con l’autorizzazione del governo: erano quindi
«giornali in livrea», giornali che, attraverso l’informazione, garantivano alla casa regnante una fedeltà che veniva
espressa attraverso articoli che non mettevano in discussione il potere ma esaltavano il ruolo dei regnanti. Si
riprodusse un modello di rapporto stampa potere che già era diffuso in altre parti d’Europa.
In questa opera di servizio al governo prevalevano le informazioni diplomatiche e militari e le notizie sulle corti
europee.
Nel 1645, fu pubblicato a Torino «Successi nel mondo», stampato in regime di privilegio; a Genova, nel 1646,
uscì «Il Sincero».

Es. dal primo numero di "Successi del mondo” - fatti successi nel mondo, apertura internazionale che si concentra
soprattutto sulle vicende che si sviluppano all'interno delle corti estere e fatti legati alle relazioni diplomatiche
dagli stati.
«Essendosi compiaciuta la Maestà Regia per solo motivo della sua real benignità di concedere privilegio, che si
possano stampare in questa Città ragguagli delle occorrenze quotidiane del mondo. Tanto più volentieri si
intraprende questo assunto, quanto che col mezzo di gratia così singolare e senza esempio si potrà pubblicare le
maniere soavi e prudenti che Sua Altezza Reale regge e governa questi popoli, e prevenire la curiosità ne i
racconti dei bellici successi, e massime Oltremontani, che opportunamente pervengono a questa Reggia»
Stile linguistico che fa emergere gli aspetti caratteristici di questo tipo di giornale che fa esaltare i meriti della casa
regnante, ponendo anche attenzione a quello che succedeva al di là dei confini del ducato di savoia, punto di vista
interno alla corte che condiziona un po’ lo stile usato.

COMMERCIO, RIVISTE LETTERARIE E PRIMI QUOTIDIANI


Ciò che favorì lo sviluppo e la diffusione della stampa furono anche ragioni di tipo economico e culturale.
Già alla metà del Seicento, in Francia e in Inghilterra, i periodici ospitarono annunci pubblicitari a pagamento. I
giornali iniziarono a cedere spazi pubblicitari a pagamento all’interno delle loro testate dove i singoli imprenditori
e commercianti comunicavano ai potenziali clienti i propri servizi i beni che potevano essere messi a disposizione.
Questo era un modo per finanziare in parte o totalmente la stampa dei giornali: si trattava di una fonte
supplementare di introiti che si affiancava – o sostituiva - alle vendite e agli abbonamenti.
La pubblicità divenne un importante canale di finanziamento delle testate, in quanto permetteva di ottenere
entrate che permettevano di coprire i costi prima della pubblicazione del giornale, a differenza degli introiti
derivati dalle vendite, incassati soltanto dopo l’uscita, a volte anche a distanza di tempo.

Una particolare forma di giornalismo che ebbe un'intensa crescita nel corso del Seicento e settecento furono le
riviste letterarie. Nel 1665, a Parigi, iniziarono le pubblicazioni del «Journal des Savantes», il primo settimanale
dedicato interamente alle arti e alle scienze, con una forte apertura alla cultura europea. Rivista che mostrava una
forte apertura alla cultura europea proprio perché, negli ambienti intellettuali, c’era la percezione di appartenere
ad una comunità transnazionale di letterati e studiosi che condividevano visioni del mondo molto simili, dove la
dimensione nazionale veniva messa in secondo piano ai fini di un dibattito che potesse andar oltre le frontiere.
L’esempio fu raccolto rapidamente in altre città europee.
A Roma, nel 1668, uscì il «Giornale de’ Letterati», con recensioni di libri e resoconti di esperimenti scientifici

A Lipsia, nel 1660, la vitalità economica della città, la presenza di strutture editoriali e i servizi postali efficienti
favorirono la pubblicazione del primo giornale a uscire regolarmente con cadenza quotidiana, in regime di
privilegio: «Neue-inlauffende Nachricht von Kriegs- und Welthandeln» (Ultime notizie dei fatti della guerra e del
mondo) fu pubblicato come quotidiano fino al 1677.
Per le ingenti spese e l’onere organizzativo, furono comunque pochi i quotidiani a essere pubblicati con cadenza
regolare.
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UNA STAMPA PIÙ LIBERA E INFORMATA: CONTINUITÀ E CAMBIAMENTI


La svolta nel rapporto tra stampa e potere si ebbe con il governo inglese. Nel 1662 il governo inglese aveva
emanato il Licensing Act che confermava il regime di censura preventiva.
La legge non fu rinnovata nel 1695: rimaneva però la possibilità delle autorità pubbliche di censura su quanto
stampato e la tassazione sulle pubblicazioni periodiche. La censura non era più preventiva ma, una volta stampati
e diffusi i giornali, avveniva il controllo di ciò che veniva scritto ed eventualmente venivano imposte sanzioni a
coloro che avessero violato o diffamato qualche norma o persona della casa regnante. Questo fu un passo
rilevante per un nuovo rapporto tra giornalismo e potere, improntato a una concezione liberale della stampa che
si sviluppò in particolare in Inghilterra.
Si iniziò così a definire la «cultura della notizia» con un miglioramento del servizio delle informazioni, c’era una
maggiore attendibilità delle fonti, correttezza delle informazioni, chiarezza dell’esposizione. Venivano offerte al
lettore notizie sempre più corrette con l'accettazione delle fonti e una chiara esposizione di ciò che veniva scritto.
Questi furono molti dei caratteri che divennero essenziali e che ancora si vedono in quello che è il giornalismo
moderno.
Nel Settecento queste tendenze si delineano in modo ancora più preciso. All’inizio del Settecento, infatti,
continuavano a prevalere i «giornali in livrea», ma si stava allargando il pubblico dei lettori e aumentavano le
tirature. La professione giornalistica divenne sempre più autonoma da quella dello stampatore e dell’editore. Le
notizie seguivano gli interessi dei lettori ed erano sempre più accurate. A fianco delle vendite e degli abbonamenti,
le inserzioni pubblicitarie a pagamento garantivano ai giornali finanziamenti supplementari e la possibilità di un
certo spazio di autonomia dal potere politico
Anche nelle colonie del Nord America nascevano giornali di informazione, ma anche qui il rapporto tra stampa e
autorità pubbliche fu spesso conflittuale.
Nonostante le tensioni, stava nascendo in Europa e in America il giornale moderno, caratterizzato da uscita
regolare, base commerciale di vendita, finalità multiple (informazione, pubblicità, svago, pettegolezzo) e rivolto a
un pubblico potenzialmente ampio.

15. IL GIORNALISMO TRA SETTECENTO E OTTOCENTO

IL MODELLO INGLESE
In Inghilterra si sviluppò un nuovo rapporto tra stampa e potere favorito dalla maggiore libertà di stampa e dalla
ricerca di un numero più alto di lettori. Per questa ragione, nel Settecento, il giornalismo inglese diventò un
modello per quanto riguardava la «cultura della notizia»: informazione corretta, citazione delle fonti, fatti separati
dalle opinioni.
Dal punto di vista grafico, si puntò a una maggiore leggibilità: dal 1785 «The Universal Daily Register» (divenuto
nel 1788 «The Times») impaginò gli articoli ricorrendo a filetti che dividevano le diverse colonne e alla divisione
in brevi paragrafi. Questo permetteva una maggiore leggibilità del giornale che poteva essere letto con maggiore
facilità anche se non si aveva a disposizione un tavolo abbastanza ampio per poterlo contenere, il giornale poteva,
infatti, essere piegato. Anche il linguaggio tese sempre più ad abbandonare forme eccessivamente ricercate,
privilegiando spesso un tono brillante, anche se sempre rigoroso. Stile che la stampa inglese cercò sempre di
caratterizzare per un rigore nella ricerca delle notizie e nello stile giornalistico. Questo sviluppo tecnico, grafico e
stilistico si accompagnò con la conferma del principio di controllo alla stampa successiva del giornale. Si affermò,
infatti, il modello liberale di rapporto tra stampa e potere che sfruttava gli spazi di autonomia per permettere di
esprimere opinioni più libere.

Nel Settecento, nelle colonie britanniche del nord America crebbero la presenza di giornali e la rivendicazione
della libertà di stampa, ulteriormente cresciute durante la guerra di indipendenza.
Dopo l’indipendenza del 1776, fu definita la Costituzione (1787) che non citava il diritto di informazione: il
Primo emendamento, che apriva il Bill of Rights del 1789, imponeva al Congresso il divieto di emanare leggi che
limitassero la libertà di stampa.
Il giornalismo era un elemento di mediazione tra cittadini e potere, anche se bisognava trovare un equilibrio tra
libertà di stampa e reati (calunnia, istigazione alla rivolta).

L’ITALIA DELLE GAZZETTE


in molti paesi europei continuava un regime di controllo stretto sulla stampa. Nel Settecento, continuarono a
essere diffuse nei territori dell’Italia del centro-nord le gazzette: erano giornali che spesso godevano del privilegio
di stampa («giornali in livrea») con notizie scarne, spesso provenienti dalle corti estere. Un maggiore spazio di
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libertà era possibile trovarlo nei giornali letterari, che attraverso la presentazione di dibattiti su temi artistici,
letterari e scientifici, facevano emergere opinioni diverse che si confrontavano tra di loro, evitando i temi politici
che potevano suscitare effetti indesiderati da parte dello stato. Continuarono, quindi, a essere stampati giornali
letterari, spesso editi da accademie e circoli culturali. Inoltre, nella seconda metà del Settecento, crebbe la
domanda da parte del pubblico urbano e borghese di informazioni di carattere economico, agricolo e scientifico.
Le classi sociali in ascesa volevano essere sempre più aggiornati su questi temi e così portarono al tramonto
dell’influenza delle gazzette e si crearono nuovi tipi di giornali che volevano catturare nuovi interessi e nuovo
pubblico.

LA RIVOLUZIONE DELLA STAMPA


La Rivoluzione francese (1789) accelerò le trasformazioni del giornalismo.
Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino la libertà di stampa fu considerata un principio
fondamentale: «La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni
cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi
determinati dalla legge». Almeno sotto l’aspetto ideale la libertà di stampa non aveva limiti, se non quelli definiti
dalla violazione di legge stabilite attraverso una norma. Questo poneva i limiti al controllo dei governi sulla
censura, gli unici limiti imposti dovevano essere stabiliti attraverso delle leggi e non dovevano andare contro la
dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
La Rivoluzione francese si caratterizza anche per un altro elemento: i giornali rivoluzionari. I giornali
rivoluzionari sostennero e diffusero gli ideali della rivoluzione stessa, si facevano portatori delle opinioni degli
obiettivi della rivoluzione, con l’obiettivo di diffondere tra il popolo le idee rivoluzionarie. Dunque, i giornali si
presentarono come cronisti dell’attualità e della vita politica diventando loro stessi attori in prima persona delle
vicende politiche per contrastare le spinte controrivoluzionarie attraverso la mobilitazione delle élite borghesi e
dei ceti popolari che erano considerati come la base per mantenere in vita lo sforzo rivoluzionario.
I giornali «rivoluzionari» puntavano, dunque, a mobilitare e a diffondere tra il popolo gli ideali della rivolta.
Anche la cronaca era raccontata con una chiara interpretazione ideologica.

Il governo rivoluzionario rapidamente impose limiti alla stampa: i giornali filo-monarchici furono messi fuori
legge (1792) e fu dichiarata l’incompatibilità tra rappresentante del popolo ed esercizio della professione
giornalistica (1793).
Dopo il colpo di Stato del 1799, Napoleone impose la chiusura di numerosi giornali e fu reintrodotta la censura.
Si sviluppò un modello di stampa non tanto controllata dallo Stato, ma asservita al potere. Questi vincoli imposti
alla libertà giornalistica strinsero i luoghi di dibattito politico confermando come, in ogni realtà, quando il potere
impone le restrizione alla libertà di stampa, ci sono giornalisti disposti a mettersi al servizio del potere ma,
continuarono dunque ad esistere giornali che con fatica cercavano di confermare posizioni autonome dal potere.
Nonostante questa politica restrittiva, le idee di libertà che erano emerse con la Rivoluzione francese, si stavano
diffondendo in Europa proprio grazie ai giornali. I giornali divennero, così, attori della libertà di stampa e
propagatori delle idee di libertà di espressione e pensiero. I giornali contribuirono alla diffusione in Europa delle
idee rivoluzionarie, portavoce delle diverse posizioni politiche e centro di aggregazione per movimenti e partiti.

Anche in Italia alcuni giornali sostennero gli ideali rivoluzionari e le autorità cercarono di impedire la stampa e la
circolazione di giornali che si riteneva turbassero l’ordine pubblico.
I giornali pubblicati nelle «repubbliche giacobine» si rivolgevano a un pubblico nuovo, più ampio rispetto a quello
dei lettori delle gazzette.
Anche in Italia, l’amministrazione napoleonica impose dal 1797 restrizioni alla stampa, anche se gli spazi di
libertà rimasero comunque maggiori rispetto al passato e poi a quelli del periodo successivo, almeno fino al 1848.

LA RESTAURAZIONE E I CAMBIAMENTI DELLA STAMPA


Dopo la sconfitta di Napoleone, con il Congresso di Vienna del 1815, furono restaurate anche le dinastie regnanti
in precedenza nella penisola italiana.
La Restaurazione non cancellò tutte le acquisizioni portate dal periodo rivoluzionario: furono conservati alcuni
limitati spazi di libertà per la stampa, la restaurazione con il ritorno alle condizioni precedenti di un potere
assoluto e arbitrario da parte dei sovrani, non fu in grado di riportare la situazione al punto di partenza e quindi
furono forniti al giornale alcuni limitati spazi di libertà per la raccolta delle notizie e la diffusione dei giornali.
La Rivoluzione francese aveva portato all'allargamento del pubblico dei lettori, anche se rimaneva relativamente
basso, ed era anche aumentato il numero delle testate. Inoltre, la diffusione di sentimenti «nazionali» contribuì
alla prevalenza, sui giornali, di notizie dall’interno. L’idea di nazione superava il livello locale e municipale e
aveva una dimensione geografica molto più vasta, che aveva bisogno di strumenti che potessero legare una
comunità dislocata in un territorio più ampio; dunque, i giornali risultano uno strumento fondamentale per la
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diffusione e la circolazione di idee che sollecitavano la creazione di identità politiche basate sul nazionalismo. I
giornali divennero essi stessi motori di una mobilitazione nazionale, questo rendeva evidente quanto i giornali
fossero uno strumento di informazione di dimensione internazionale, i giornali si propongono come luogo e fonte
di informazioni e allo stesso tempo come spazio di dibattito attraverso il quale è possibile rafforzare le diverse
identità nazionali, mobilitando gruppi consistenti di popolazioni.

RIFLESSI RIVOLUZIONARI IN ITALIA


In Italia, l’arretratezza sociale e culturale nella penisola italiana pesò sullo sviluppo della stampa: basso tasso di
alfabetizzazione, disparità tra Sud e Nord e tra città e campagna, diritti politici concessi a strati ristretti della
popolazione, scarsa innovazione tecnica e organizzativa nelle imprese editoriali. Proprio la relativa scarsità di
risorse economiche e la situazione di limitata innovazione tecnica interessò le testate giornalistiche. Nonostante
questa situazione limitante, dal punto di vista politico, economico e culturale, all’inizio dell’Ottocento vennero
pubblicati i primi quotidiani:
• a Milano, era pubblicato il «Giornale Italiano» (1805).
In questo ambito, inoltre, si differenziarono le figure professionali: in precedenza prevalevano i «compilatori
unici» dei giornali, mentre la maggiore organizzazione editoriale fece emergere i ruoli di direttore, redattore e
collaboratore. L'aumento della complessità dell’impresa editoriale, infatti, impose la differenziazione delle figure
professionali con la comparsa di nuovi ruoli.
a rendere più difficoltosa la diffusione della stampa italiana era il ruolo repressivo dei governi. I governi degli Stati
italiani, infatti, compresero l’importanza dei giornali per alimentare la propria immagine pubblica e per
legittimare il proprio potere: più che la repressione (che comunque continuava) maggiori vantaggi potevano
derivare da una più accorta gestione dei rapporti con la stampa. Questa scelta delle autorità politiche accentuò
l’atteggiamento di servilismo di molti giornali e giornalisti per ottenere vantaggi personali o per la propria testata.
Tendenza che continuerà a persistere anche nella fase successiva all’unificazione italiana del 1861.
Sull’onda della diffusione dei sentimenti di indipendenza nazionale si svolsero una serie di rivolte, moti, che
puntavano ad ottenere dai governi quelle riforme liberali all’interno delle quali la libertà di stampa risultava essere
un elemento centrale che rappresentava l'insieme delle altre libertà. La repressione di questi moti rivoluzionari
non riportò la situazione a quella precedente e ma, nonostante i poteri dinastici riuscirono ad imporre il controllo
sulla stampa, alcuni degli spazi conquistati in questi moti riuscirono a sopravvivere anche una vota repressi gli
stessi moti. Nel 1820-1821, infatti, i moti rivoluzionari aprirono alcuni spazi di libertà per la stampa che si
richiusero, ma non del tutto, in seguito alla repressione: lo spirito liberale si diffondeva.

In questo contesto, i giornali spesso venivano stampati clandestinamente e divennero portavoce delle posizioni e
delle opinioni dei gruppi della cospirazione liberale e democratica che intendevano diffondere i propri ideali
politici al di là dei piccoli gruppi cospiratori. I circoli della cospirazione liberale e quelli democratici, infatti,
usarono infatti la stampa per diffondere i propri ideali politici, spesso con giornali clandestini.
• In Toscana e in Emilia, i giornali delle «sette carbonare» furono chiusi dalle autorità pubbliche.
• Altri giornali su posizioni più moderate esprimevano le posizioni delle élites borghesi e municipaliste.
• Una linea più chiaramente nazionale e democratica era presente nei giornali promossi da Giuseppe
Mazzini, diffusi clandestinamente: «La Giovine Italia» (1832) fu strumento di mobilitazione verso gli
ideali nazionali. c

È importante, dunque, comprendere quanto i giornali politici, nell'età pre unitaria, fossero strumento
fondamentale per le diffusioni di idee, la mobilitazione politica e la creazione di un'identità politica che si
alimentava proprio grazie alle notizie e agli articoli pubblicati su questi giornali.

LA STAMPA NEL REGNO SABAUDO


Nel Regno Sabaudo, alcune case editrici si erano sviluppate già dall’inizio dell’Ottocento, sfruttando le
innovazioni tecniche e la relativa libertà, nonostante la persistente censura. Giuseppe Pomba realizzò il primo
settimanale illustrato «Il Mondo Illustrato» (1846) con un ampio successo.
Nella prima metà dell’Ottocento a Torino si creò una nuova tipologia di giornale, la stampa popolare, giornale
promosso da borghesi «illuminati “che si fecero promotori di alcune iniziative popolari. Vennero pubblicate le
«Letture Popolari» (1837), giornale che aveva un atteggiamento paternalistico, ma stimolava i lettori
all’autopromozione sociale. Si crearono, dunque, giornali che non si rivolgevano più soltanto alle élite borghesi
ma che tendevano ad allargarsi, anche in maniera culturale, verso i ceti più popolari.
Maggiori aperture al progresso civile e culturale mostrarono a Milano «Il Politecnico» di Carlo Cattaneo e
«Rivista Europea», giornali culturali con forte attenzione a tendenze letterarie e artistiche e attenti a ciò che
accadeva a livello europeo, cercavano di intercettare quelle idee e tendenze liberali moderne. Qui i giornali
culturali riuscirono a trovare un pubblico che andava anche al di là dei confini.
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Nel 1847-1848 i moti per ottenere riforme liberali portarono alla emanazione di norme cautamente a favore della
libertà di stampa nello Stato della Chiesa (Pio IX), nel Granducato di Toscana, nel Lombardo-Veneto e nel Regno
dei Savoia. Furono alleggerite le procedure per accedere alla censura e furono concesse autorizzazioni per trattare
temi politici.
Lo Statuto concesso da Carlo Alberto di Savoia (come l’Editto sulla stampa) del 1848 non fu abrogato, come in
altri regni: i giornali politici continuarono a essere pubblicati sotto l’autorizzazione del governo e fu stabilito il
ruolo del «gerente responsabile», figura che era legalmente e penalmente responsabile rispetto a ciò che veniva
diffuso nei giornali, figura che divenne la persona fisica alla quale le autorità di governo si riferivano quando il
giornale esprimeva opinioni che avevano abusato della libertà di stampa. Per questo motivo molti di loro erano
persone che per soldi accettavano anche di andare in carcere lasciando libertà agli editori e agli altri ruoli sorti.

Sfruttando le poche libertà concesse alla stampa, a Torino e Genova nacquero numerosi giornali, anche con la
partecipazione di esuli dagli altri stati italiani.
La «Gazzetta del Popolo» (1848) fondata da Felice Govean e Giovanni Battista Bottero rappresentò una forma
nuova di quotidiano: modellato sulla penny press statunitense, il quotidiano si rivolgeva a un pubblico «popolare»
con articoli brevi, linguaggio non involuto e notizie di cronaca. Questa scelta di rivolgersi ad un pubblico non
particolarmente acculturato favorì l’uso di un linguaggio semplice e la presenza di notizie di cronaca che erano in
grado di interessare il pubblico popolare.
Alla metà dell’Ottocento, Torino era il più dinamico centro del giornalismo in Italia, anche se permanevano la
censura e ampi margini di discrezionalità delle autorità pubbliche. Questo è da considerare relativo in quanto
continuava ad esistere la censura ed esistevano degli ampi margini di discrezionalità della polizia che in alcuni
casi sopprimeva alcune testate giornalistiche.

Infine, nel decennio preunitario, i governi sabaudi introdussero misure restrittive e pene più pesanti per i reati a
mezzo stampa. Sovvenzionarono però alcuni giornali vicini al governo attraverso il Ministero dell’Interno e
posero ostacoli all’attività delle riviste di opposizione «democratica» o «clericale». Parallelamente alla repressione,
però, venne fatta una sovvenzione a quelle testate che si dimostrarono in grado di rappresentare un’immagine
positiva della monarchia e delle scelte del governo.
Negli altri regni italiani, sopravvissero quasi soltanto i «giornali ufficiali»: la repressione alimentò posizioni che
invocavano maggiore libertà, a iniziare dalla stampa.
Alla vigilia dell’Unificazione italiana del 1861, tra censura e sovvenzioni, su posizioni governative, democratiche
o popolari, i giornali erano diventati tra i protagonisti della vita politica.

16. IL GIORNALISMO NELL’ITALIA UNITA

LE TECNOLOGIE PER LA STAMPA


In parallelo alla modernizzazione portata dalla «rivoluzione industriale», la tecnologia industriale venne
progressivamente applicata anche ai procedimenti di stampa, inoltre la raccolta di notizie, la stampa e la
diffusione dei giornali furono condizionate dalle nuove tecnologie,
• il torchio a vapore (brevettato nel 1811)
• la rotativa (1847) - macchina che permetteva di stampare a ciclo continuo, basandosi non sulla stampa di
singoli fogli ma sulla stampa ripetuta su un rotolo di carta che successivamente veniva tagliato. Questo
permetteva di inserire, all'interno dei meccanismi di stampa, una velocità tale garantita da matrici
sistemate su dei rulli che stampavano ritmo continui i giornali, questo permise la stampa di centinaia e
migliaia di copie nell’arco di poche ore.
• il telegrafo (1844) - possibilità di trasmettere messaggi a distanza di molti chilometri sfruttando i segnali
elettrici. Permetteva di trasmettere le informazioni, comprese quelle per i giornali, con grande velocità.
Queste Innovazioni tecnologiche aumentarono le informazioni ricevute dalle redazioni, le copie stampate e la
velocità di distribuzione dei giornali. Questo aumento dell’attività dei giornali non sarebbe comprensibile se non
letta anche all’interno di un cambiamento culturale. Crebbe, infatti, la domanda di informazioni da parte di un
pubblico allargato, favorita dall’aumento dell’istruzione elementare e di attività economiche nel settore
secondario e terziario.

L’ingente quantità di informazioni locali, nazionali e internazionali rendeva difficile per le redazioni selezionare
le notizie importanti da pubblicare. Nacque un nuovo soggetto: l’agenzia di stampa, società che ha come
obiettivo quello di fornire delle notizie, già elaborate e selezionate, alle diverse testate giornalistiche.
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A Parigi, nel 1835, Charles–Louis Havas fondò un'agenzia di traduzioni e di distribuzione di notizie per i giornali;
chiese che i suoi servizi fossero pagati attraverso la cessione di spazi pubblicitari che rivendeva a imprenditori e
commercianti. In cambio delle notizie ricevute, l'agenzia di stampa vendeva spazi pubblicitari sulle testate a cui
forniva notizie e quegli spazi l’agenzia li rivendeva a quei commercianti che volevano rendere più evidenti
pubblico i propri articoli.
Iniziative simili sorsero a Berlino (Bernhard Wolff, 1849), a Londra (Paul Reuter, 1851) e a Torino (Guglielmo
Stefani, 1853), l’agenzia Stefani ebbe un ruolo fondamentale durante l’unificazione italiana e durante il periodo
fascista.
A New York sei quotidiani fondarono la Associated Press, servizio che aveva come obiettivo di creare, elaborare
e diffondere notizie provenienti da tutti gli Stati uniti.

A caratterizzarsi per un alto grado di innovazione fu soprattutto la stampa quotidiana, essa infatti promosse e
sfruttò maggiormente le nuove tecnologie, i quotidiani diventarono così banco di prova delle nuove tecnologie.
Tra le invenzioni che segnarono l'evoluzione del quotidiano vi fu:
• Carta ricavata dalla pasta-legno - nuovo metodo che garantiva una migliore possibilità di produzione di
giornali attraverso la rotativa, carta più leggera e reperibile
• Macchine per la piegatura dei fogli di giornale (1865) - all'inizio i giornali erano di quattro facciate,
quindi un grande foglio stampato e piegato in due. Questa operazione veniva fatta manualmente ma
l'esigenza di aumentare anche il numero delle pagine portò alla meccanizzazione di questa attività.
• Telescriventi che trasmettevano con il telegrafo (dal 1874) - macchine che automaticamente
trasformavano il segnale elettrico in un testo stampato
• Composizione a macchina dei caratteri mobili (line of types: linotype) (1886) - permetteva di sostituire
la composizione manuale delle matrici e dei caratteri mobili, in una composizione in parte
automatizzata. Il lavoro tipografico era realizzato inizialmente da linee di caratteri che venivano
posizionati su dei sostegni, ognuno dei quali rappresentava una linea, le varie linee inserite nella struttura
permetteva di realizzare la matrice per la stampa. questa attività risulta essere velocizzata proprio con
l’invenzione di questa macchina, era una sorta di macchina da scrivere in cui le lettere di metallo
venivano composte sulla base dei comandi inseriti.
• Macchina a rotocalco per la stampa dei periodici in policromia (1890) - permetteva la stampa in
policromia, permetteva un insieme di colori per la rappresentazione delle immagini e dei titoli rendendo
più avvincente la lettura e la comunicazione delle notizie. Tipo di stampa che però era molto più costosa
• Macchine fotografiche portatili (Eastman Kodak, 1901) - innovazione fondamentale per inserire
immagini, e non solo disegni, all’interno dei giornali.

LEZIONE 22 – 9/05

LA COSTRUZIONE DELLA NAZIONE


In Italia, la stampa contribuì all’integrazione culturale della nazione, insieme alla scuola pubblica e alle istituzioni
statali: la legittimazione della nazione passava anche attraverso la capacità dei giornali di far circolare opinioni e
di creare identità. La stampa divenne un mezzo di informazione e comunicazione sempre più diffuso, diventando
anche, soprattutto per i giornali di orientamento politico legati ai partiti e a movimenti sindacali, uno strumento
per informare e mobilitare i lettori. In ogni caso, lo zoccolo duro dei giornali erano i rappresentanti del ceto medio
urbano, quelle fasce di popolazione che sapevano leggere e che erano alla ricerca di informazioni che potevano
aiutare nello svolgimento della propria professione. Questo strumento di socializzazione e di creazione di legami
tra individui che ebbe la stampa, in una società come quella italiana che andava sempre più costituendosi in modo
complesso, portò al suo ruolo di rimo piano.
Si creò una sorta di integrazione nazionale che si avvalse soprattutto dei giornali. Si accentuò quella tendenza che
si espresse già nella prima parte del secolo, ma a segnare un cambiamento fu lo sviluppo dei partiti di massa che si
rivolgevano ai ceti popolari. Lo sviluppo dei partiti di massa, infatti, si accompagnò alla fondazione di nuovi
giornali che intendevano informare e mobilitare soprattutto i ceti popolari in vista della partecipazione politica. I
giornali di partito intendevano informare e formare i ceti popolari con l’obiettivo di portarli all'accesso delle
cariche pubbliche.
Inoltre, le innovazioni della «seconda rivoluzione industriale» (chimica, energia elettrica, siderurgia, petrolio)
cambiarono anche la struttura sociale, con l’aumento del ceto medio urbano: la stampa permetteva agli individui
di socializzare «virtualmente».
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La stampa giocò n ruolo essenziale anche nel processo di unificazione nazionale, contribuendo a diffondere nelle
aree della penisola quelle idee di unificazione nazionale che scavalcano la dimensione locale e regionale. Nella
seconda metà dell’Ottocento, anche nella penisola italiana, le richieste di libertà per la stampa si accompagnarono
a più generali rivendicazioni per la libertà di pensiero e di associazione: il diritto di informazione era la cartina di
tornasole delle libertà garantite dai governi alla popolazione. In una realtà come quella italiana che andava verso
l’unificazione, allargando i propri confini geografici e politici andava di pari passo con gli interessi dei giornali di
trovare un pubblico di dimensione nazionale o sovraregionale ai giornali che potevano contribuire ad un processo
complessivo di integrazione della nazione, integrazione a più livelli ad iniziare da quello linguistico.
Nel processo di unificazione nazionale italiana, infatti, i giornali svolsero un ruolo essenziale: diffusero le
opinioni favorevoli all’indipendenza nazionale, furono strumenti di mobilitazione popolare, divennero luogo di
costruzione identitaria per movimenti e partiti

I GIORNALI NELLA FASE DI UNIFICAZIONE ITALIANA


L’unificazione italiana avvenuta nel 1861 produsse una rapida, anche se diseguale, omogeneizzazione culturale
del paese e una spinta per la laicizzazione delle istituzioni pubbliche. La laicizzazione della istituzioni pubbliche
si riflesse sulle pagine dei giornali che si caratterizzarono, infatti, per una impronta laica e di difesa dei principi
liberali nella diffusione dei poteri e si caratterizzarono anche per un riferimento alle diverse declinazioni della
struttura liberale. In questa fase, però, era ancora scarsa era la partecipazione dei ceti popolari alla vita politica e
quindi, in qualche modo i giornali si rivolgevano ad una fascia molto ristretta di pubblico, la popolazione
borghese e urbana.
La classe politica al governo introdusse provvedimenti di tipo liberale che garantivano una certa libertà ai
giornali. La stampa era spesso promossa da imprenditori privati, era caratterizzata da un prevalente intento
pedagogico-politico, ereditato dal Risorgimento, e frammentata su base locale. I giornali avevano un intento
pedagogico e politico che era un orientamento che tendeva, più che ha informare e coltivare la cultura della
notizia, a presentare considerazioni e opinioni dei giornalisti o degli editori che, partendo dagli eventi di cronaca
politica, intendevano formare il proprio pubblico di lettori. Un’altra caratteristica che si delineò già nei primi anni
dell’unità italiana, ereditata dai decenni precedenti, fu che la stampa italiana e quotidiana si caratterizzò per una
prevalente dimensione regionale. I giornali nonostante aspirassero ad avere una diffusione nazionale, proprio per
i limiti economici e di investimento che gli editori facevano nelle loro imprese editoriali, non riuscirono a superare
una diffusione locale.
A differenza di quanto accadeva all’estero, nel Regno d’Italia furono pochi i giornali popolari e di intrattenimento
ed erano anche limitati, nei giornali d stampo politico informatico, lo spazio dedicato alla prosa. Leggere i
giornali e i quotidiani di questi anni voleva dire leggere una serie di articoli variamente declinati ma che hanno
come punto di interesse prevalente le vicende politiche, parlamentari e quelle del dibattito amministrativo locale.
Si trattava di una stampa che riscontrava forti limiti di diffusione. I giornali non erano ancora divenuti quegli
strumenti di massa e di comunicazione popolare che, invece, stava accadendo in altri paesi.

Inoltre, a limitare la diffusione della stampa erano i problemi legati alla condizione giuridica all’interno della
quale poteva svilupparsi l’attività imprenditoriale. Nel Regno d’Italia, infatti, furono estese le norme dello Statuto
albertino sulla stampa: abolizione del regime di privilegio, della censura preventiva e dell’imposta di bollo sulla
carta da stampa. L’indeterminatezza della legge sulla stampa però lasciava ancora ampi margini di discrezionalità
alle autorità di polizia, infatti, permanevano abusi polizieschi verso giornali e giornalisti, con sequestri e
soppressioni di testate. Con difficoltà, quindi, riuscirono ad emergere giornali con una chiara vocazione per la
diffusione nazionale.
Tra i primi quotidiani stampati in Italia vi era «L’Osservatore Romano», organo della Santa Sede, pubblicato dal
1849 come trisettimanale, espressione della volontà della Chiesa cattolica di mantenere il consenso nel nuovo
Stato. Giornale creato per cercare di mantenere una rete di consenso alle scelte delle autorità ecclesiastiche in una
fase che vide un confronto e uno scontro diretto tra il regno d’Italia e la chiesa cattolica. Confronto che divenne
ancor più acceso nel momento in cui, nel 1870, l’unificazione italiana continuò con l‘acquisizione dei territori ello
stato della chiesa con la presa di Roma. Questo alimentò ancora di più la diffusione di giornali ecclesiastici che si
opponevano allo stato liberale.

UNA STORIA DI QUOTIDIANI


A Milano nel 1866 fu fondato dai fratelli Sonzogno il quotidiano «Il Secolo», attento alla cronaca cittadina e su
posizioni moderatamente riformatrici. Giornale che si distinse per una forte attenzione alla cronaca cittadina e
intendeva esprimere le posizioni e orientamenti politici liberale e moderato rappresentando l’opinione
maggioritaria presente nei ceti borghesi urbani che trovavano a Milano uno dei luoghi di più forte radicamento.
Torino si presenta, all’alba della realizzata unificazione italiana, come uno dei luoghi dove il potenziale editoriale
e giornalistico è tra i più consistenti nella penisola italiana. A Torino nel 1877 nacque la «Gazzetta Piemontese»
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(divenuta nel 1895 «La Stampa»); la testata fu rilevata nel 1900 dal senatore Alfredo Frassati, su posizioni liberali
vicine a Giolitti.
Dal 1859 usciva a Firenze «La Nazione», su posizioni moderate, anch’esso non si scostò molto dall’area politica
liberale di tipo moderato.

In questa fase della storia del giornalismo italiani pochi erano ancora i giornalisti professionisti; il giornalismo era
spesso un’attività secondaria, svolta parallelamente ad altre attività professionali, e molti erano politici o
professionisti liberali. Per queste difficoltà spesso i giornali non potevano contare sul lavoro di giornalisti che a
tempo pieno si dedicavano ai giornali. Inoltre, in questa fase è anche importate considerare come molti uomini
politici, ai diversi livelli, usavano i giornali e la scrittura giornalistica come uno strumento ausiliario nella
promozione della propria posizione politica. Quindi, scrivere sui giornali rappresentava, per coloro che ambivano
ad una posizione all’interno delle amministrazioni comunali o che aspiravano ad un seggio al parlamento, un
modo per presentare le proprie opinioni e come uno strumento di autopromozione politica. Per questa ragione,
dunque, riuscirono meno a svilupparsi quelle figure che svolgevano tutte attività amministrative e tecniche
indispensabili per la pubblicazione periodica dei giornali, figure che erano già presenti nella stampa europea e che
si diffusero anche in altri paesi. La diffusione dei quotidiani, quindi, era scarsa: nel 1873 circolavano in Italia 55
quotidiani, con circa 800 mila copie complessive

Questa difficoltà economica e organizzativa si rifletteva sui contenuti e sulla forma con cui si presentavano i
giornali. Inizialmente anche i quotidiani avevano quattro pagine a due o tre colonne, dunque, un grande foglio
unico piegatoi due.
In questa fase, inoltre, per la limitata diffusione e gli scarsi introiti pubblicitari, i bilanci dei giornali erano
solitamente in perdita.
Per la limitata diffusione e gli scarsi introiti pubblicitari, i bilanci dei giornali erano solitamente in perdita - i costi
di produzione complessiva erano superiori agli introiti, costituiti dalle vendite dirette e attraverso la formula
dell’abbonamento e degli introiti pubblicitari (che risultavano molto marginali inizialmente).
Gli editori ricorrevano spesso alle sovvenzioni pubbliche dei ministeri o delle giunte provinciali (attraverso
l’appalto degli annunci ufficiali) → gli editori sapevano già quando decidevano di aprire la testata che
sarebbe stata in perdita. A muovere e sostenere il progetto editoriale c’era non tanto l’intenzione di avere un
profitto, ma di veicolare idee politiche a sostegno di una certa parte politica. Gli editori ricorsero spesso a delle
sovvenzioni pubbliche, che i governi garantivano ai giornali. Queste sovvenzioni era condizionati dal fatto che il
giornale garantiva fedeltà e sostegno alle posizioni del governo in carica.
Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri fu istituito l’Ufficio per la stampa: si incaricava di distribuire i
sussidi ai periodici, creando una situazione di dipendenza economica e politica→ istituzione dell’ufficio per la
stampa. Aveva come incarico quello di distribuire le sovvenzioni pubbliche ai giornali “amici”, creando una
dipendenza dei giornali rispetto alle autorità politiche. Questa situazione segna una trasformazione di quello che è
l’antico privilegio di stampa.
Nel 1876 fu abolito il regime di privilegio per la pubblicazione degli annunci legali, con la crisi di molte testate di
provincia→ le istituzioni pubbliche scegliendo l’una o l’altra testa per la pubblicazione degli annunci garantiva la
sovvenzione di quelle testate. La fine del privilegio garantito solo ad alcune testate provocò anche una crisi e il
fallimento di alcune testa locali. I giornali rimangono un prodotto culturale di nicchia in questi anni in Italia.

CONTINUITÀ E CAMBIAMENTI
Negli anni Settanta, accanto alle continuità con il passato, emersero aspetti innovativi nel sistema della stampa in
Italia. La stampa continuarono a caratterizzarsi come un prodotto culturale di nicchia con l’ampliamento della
fascia di lettori e con intento formativo dell’opinione pubblica. In questa fase nacquero quotidiani rivolti agli
ambienti popolari, esisteva già una forma di stampa popolare però solitamente erano dei mensili o settimanali, ma
in questi anni, anche legato all’aumento del tasso di alfabetizzazione e un innalzamento dei redditi di ceti medi e
popolari, si crea un certo spazio per la stampa e la vendita anche di quotidiani popolari. Uno dei primi quotidiani
popolari nati fu «La Plebe» di Milano (1875-1876) che si caratterizzò per le sue posizioni democratiche e
repubblicane. Giornale che dichiaratamene si collocava in una posizione di opposizione ai governi e per questa
ragione fu più volte sequestrato fino alla sua chiusura avvenuta per difficoltà politiche ed economiche.
Soltanto nel 1906 fu abolito il sequestro preventivo e fu reso obbligatorio l’intervento della magistratura per
provvedimenti contro la stampa. Questo fu il risultato delle pressioni di quei settori dell’opinione pubblica
popolare e degli ambienti liberali che ritenevano che l’Italia dovesse avere livelli di libertà garantiti per i giornali
simili a quelli che si registravano i paesi come Francia, gran Bertagna e Stati uniti. Ad aumentare le tutele per
giornali e giornalisti fu l’introduzione dell’intervento obbligatario della magistratura nei provvedimenti contro la
stampa. Dunque, non era più sufficiente che i governi o le prefetture sanzionassero la stampa ma era necessario
l’intervento della magistratura, di un potere distinto da quello del governo, questo andava nella direzione di
maggiori garanzie alla pubblicazione dei giornali.
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A cambiare i contenuti dei giornali fu l’emergere di quella che viene definita «cultura della notizia», una
maggiore centralità data alle notizie di cronaca piuttosto alle opinioni politiche. La ricerca di notizie di cronaca
nazionale e estera esigeva sempre più la presenza di giornalisti professionisti, di persone che dedicavano tutto il
loro tempo nella ricerca delle notizie e nella loro redazione e scrittura. Così facendo venne definendosi i cosiddetti
articolisti viaggianti che erano inviati per osservare direttamente i fatti. Si ebbe così un cambiamento della figura
professionale con la diffusione sempre maggiore della figura del giornalista professionista e giornalista inviato.

Nel 1876 fu fondato a Milano da Eugenio Torelli Viollier il «Corriere della Sera», un giornale che richiamava lo
stile anglosassone, attento all’informazione e non troppo caratterizzato politicamente. Attenzione alla notizia che
diventa importante non solo per la forma del giornale ma anche per la diffusione verso un nuovo pubblico più
interessato a questo prodotto giornalistico che cerca anche di essere sempre meno accostato a determinati
orientamenti politici. Per esigenze di tipo economico, allargare il numero di lettori, il corriere della sera puntò ad
interpretare e importare il modello anglosassone di stampa quotidiana con la notizia di cronaca come ruolo
trainante di questo nuovo modello editoriale.
Nel 1880, l’industriale Benigno Crespi e poi altri imprenditori considerarono come questo giornale poteva essere
un investimento con un notevole ritorno economico, questo perché ampliò sempre di più il bacino di lettori e
poteva vendere le inserzioni pubblicitarie ad un prezzo più alto, si poteva avere un ritorno economico colto alto.
De Angeli, Pirelli diventarono azionisti: si trattava di editori «non puri», cioè che avevano interessi prevalenti in
altri settori produttivi che tendevano a sfruttare questa presenza nel capitale e nella proprietà di un giornale per
fini economici che non erano legati al solo fatto di voler proporre un prodotto editoriale. Gli interessi economici,
in qualche misura condizionavano i contenuti che di volta in volta venivano proposti sul giornale. Non a caso il
corriere della sera si caratterizzò per posizioni politicamente conservatrici e rappresentava i ceti socialmente
privilegiati. «Il Secolo», invece, si spostò su posizioni di sinistra e popolari per allontanarsi dalla sfera del corriere
della sera.

Nel 1878 fu fondato a Roma «Il Messaggero», attento alla cronaca cittadina, caratterizzato per la presenza di
molte notizie di cronaca e con ampie inserzioni pubblicitarie che avevano l’obiettivo di svincolarsi da legami
politici troppo stretti.
Un gruppo di deputati meridionali di opposizione al governo e l’industriale veneto Alessandro Rossi pubblicarono
dal 1883 «La Tribuna»: denunciava il trasformismo della sinistra storica, ma fu coinvolta in uno scandalo
politico-finanziario che portò Giolitti alle dimissioni.
«La Tribuna» riuscì a risollevarsi con un cauto sostegno ai governi di Giolitti; dal 1889 uscì il supplemento
settimanale «La Tribuna illustrata», che divenne modello per altri periodici. Giornale settimanale che veniva
venduto insieme e che, attraverso un ampio uso delle immagini, forniva ai lettori una lettura di intrattenimento e
di approfondimento letterario che interessava un pubblico di un certo livello sociale, contribuendo ad arricchire
l’insieme dei prodotti culturali che i giornali offrivano ad un pubblico potenzialmente ampio di lettori.

A Bologna, dal 1895, fu pubblicato «Il Resto del Carlino», giornale della borghesia laica e anticlericale, vicino
alla sinistra storica di Crispi. Il carlino era una moneta presente nello stato pontifico e dunque questa
denominazione andava ad indicare qua to questo giornale non particolarmente costoso. Giornale che si
indirizzava ad una borghesia culturalmente connotata a posizioni laiche e anticlericali.

L’industriale Ferdinando Perrone, proprietario dell’Ansaldo, fondò nel 1886 a Genova «Il Secolo XIX», su
posizioni protezionistiche per difendere la nascente industria italiana. Quotidiano che aveva posizioni liberali e di
taglio conservatore che andavano nella direzione di difendere la nascente industria italiana.

«Il Mattino» è pubblicato a Napoli dal 1891, con un orientamento politico conservatore e colonialista e
un’attenzione agli avvenimenti culturali. A differenza di un giornale come il corriere della sera, orientato a seguire
il modello anglosassone di giornalismo, il mattino di Napoli si caratterizza per la sua attenzione alle vicende
politiche locali con uno spiccato interesse per le notizie culturali e un linguaggio letterario e retorico.

A Venezia, «Il Gazzettino» dal 1887 espresse una linea liberal-democratica e anticlericale, per un pubblico anche
popolare per ampliare il numero di lettori.

GIORNALI TRA ESPANSIONE E CRISI


Nell’arco di pochi anni i giornali triplicarono di numero come testate, infatti, alla fine dell’Ottocento, in Italia era
aumentato il numero dei quotidiani (da 55 nel 1873 a 145 nel 1887), anche se molti avevano diffusione
provinciale e un pubblico elitario, con una spiccata inclinazione alla battaglia politica. Nonostante il modello
anglosassone che molti giornali ambivamo ad imitare, rimase sempre una stampa quotidiana centrata sulla
notizia e sulla battaglia politica.
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In questa fase crebbe anche il mercato pubblicitario grazie ad alcune imprese e aziende che avevano come attività
quella della raccolta pubblicitaria a favore dei giornali. Mercato pubblicitario che se confrontato con ciò che
accadeva all’estero rimase molto limitato ma questa attività e vivacità giornalistica, anche se spesso destinata al
fallimento economico, introdusse all’interno del panorama della stampa italiana una serie di innovazioni che
partirono dal linguaggio. Il linguaggio giornalistico si avvicinava sempre più all’italiano parlato e condizionava la
lingua italiana, era un linguaggio sempre più lineare e quindi si distaccava dal linguaggio letterario che a lungo
aveva caratterizzato la stampa in Italia. Allo stesso tempo il linguaggio della carta stampata influenzava anche la
lingua parlata. letterario. L’uso di un italiano che riflette il parlato ha uso di frasi più brevi. Ha a che fare con
anche aspetti tecnici: frasi più brevi costano di meno quando le si trasmette con telegrafo. Il linguaggio
giornalistico diventa più diretto. La fase di costruzione dell’attività giornalistica diventa così sempre più
complessa con imprenditori che investono nell’attività editoriale, tutto ciò fa ingrandire le redazioni.
Le redazioni si ampliarono: emerse il ruolo del caporedattore con l’incarico di coordinare la «cucina» del
giornale→ giornalisti professionisti e giornalisti che seguono la “cucina del giornale”, stanno in redazione,
coordinano il lavoro degli altri giornalisti, titolano gli articoli e organizzano il quotidiano: è la figura del
caporedattore. Questo porta alla nascita di associazioni che vogliono difendere gli interessi degli imprenditori e
anche dei diritti e interessi dei giornalisti.

ORGANIZZAZIONI GIORNALISTICHE NAZIONALI


Nel 1880 si costituì l’Associazione della stampa periodica per tenere i contatti con le istituzioni pubbliche; al suo
interno esisteva un giurì d’onore per dirimere le controversie tra giornalisti→ serve a mantenere i contatti tra
editori e istituzioni pubbliche. Voleva risolvere le contese tra giornalisti e tra giornalisti e uomini politici.
Nonostante fosse vietato dalla legge, i conflitti e le tensioni venivano risolte attraverso il duello vietato dalla
legge). I duelli con spada o pistola ri risolvevano con ferimenti di giornalisti.
L’agenzia di stampa Stefani aveva ormai assunto una dimensione nazionale e aveva il monopolio della
diffusione in Italia delle notizie provenienti dall’estero sottoposte al controllo della magistratura almeno mezza
giornata prima della loro pubblicazione→ sviluppo della prima agenzia di stampa che aveva dimensioni nazionali
e un ruolo semi ufficiale, in quanto aveva ricevuto dal governo la concessione del monopolio della diffusione (in
Italia) delle notizie provenienti dall’estero. Queste notizie erano sottoposte a controllo preventivo prima di essere
mandate ai giornali.
Nel 1895 nacque a Milano l’Associazione dei giornalisti cattolici e dieci anni dopo l’Associazione della stampa
cattolica italiana→ segnale di crescita della stampa cattolica ma anche una conferma della stampa italiana che
presenta una forte divisione sul piano ideologico. Questa creazione di associazioni culturalmente connotate
conferma anche la difficoltà di un coordinamento unitario a livello nazionale di tutti i giornalisti e giornali in
Italia.

LEZIONE 23-24 [09-10/05]

17. GIORNALI E GIORNALISTI ALL’INIZIO DEL NOVECENTO

GIORNALI DI OPPOSIZIONE
All’inizio del Novecento, molti giornali italiani confermarono la forte connotazione ideologica delle rispettive
linee editoriali→ i giornali si connotano sulla base della lettura ideologica della realtà. Questo orientamento era
confermato dall’attenzione che sui giornali quotidiani si dava alle notizie politiche. Minore attenzione alla
cronaca e quindi anche la scarsa diffusione della stampa era legata alla attenzione maggioritaria sulla politica (il
pubblico popolare voleva la cronaca non la politica)
Si era affievolita la capacità dei giornali democratici, repubblicani e radicali di orientare l’opinione pubblica,
anche se continuarono a caratterizzarsi per una decisa opposizione ai governi liberali→ tra fine 800 e inizio 900 si
registra un calo di interesse dei lettori da parte dei giornali democratici, repubblicani e liberali, che erano le
famiglie politiche che avevano animato una parte rilevante del dibattito pubblico svolto sulle pagine dei giornali.
Si registrò la crescente diffusione dei giornali cattolici e di quelli socialisti, alcuni fondati negli ultimi decenni
dell’Ottocento→ Non spariscono i quotidiani e i settimanali ma si dà maggiore rilevanza a giornali di ispirazione
cattolica e socialista. Emersero movimenti politici e anche riviste che si ispiravano alla tradizione cattolica e
dall’altra alle correnti di ispirazione socialista, basati sull’ideologia di Marx. Avevano come obiettivo quello di
formare i propri elettori più che informare. Scrivevano dei progetti e degli obbiettivi delle due famiglie
ideologiche. L’orientamento ideologico diventa il tratto più rilevante che determina l’identità del giornale e del
lettore anche.
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Leggere un giornale socialista e cattolica diventa un vero e proprio segnale di identità, si porta il giornale sotto il
braccio per dimostrare una propria identità e ideologia. Il giornale diventa un luogo di identificazione, definisce in
modo rilevante anche la capacità di mobilitazione di gruppi e associazioni che si riferiscono all’una e all’altra
famiglia politica. La stampa diventa uno strumento di comunicazione di massa, molto più di quanto siano riusciti
a farlo i giornali di ispirazione liberale.

L’OPPOSIZIONE CATTOLICA
Nei primi decenni dopo l’unificazione, nella stampa cattolica prevalsero le posizioni «intransigenti»: condanna
dello Stato laico e della classe politica liberale al potere; difesa del papato; sostegno alle associazioni cattoliche→
intransigenti rispetto allo stato liberale, che si era definito laico, con separazione tra lo stato e la Chiesa (libera
chiesa in libero stato). I giornali cattolici rivendicavano il ruolo della chiesa nella società e nelle istituzioni, come
era nella tradizione dell’Ancient regime. Nell’Italia unita questa sottrazione non solo di territori ma anche di
potere temporale al Papa, c’era una contrapposizione tra stato e chiesa insanabili. Gran parte dei giornali cattolici
si collocano in opposizione al nuovo stato laico.
I giornali cattolici diventano parte integrante del complesso costituirsi di associazioni cattoliche, sindacati,
cooperative, ispirate tutte da una nuova presenza del cattolicesimo nella società italiana per segnare la propria
presenza ed influenza. Il cattolicesimo che ripudiava i principi liberali usò quegli stessi strumenti che lo stato
liberale concedeva, quindi la possibilità di pubblicare, per farsi portavoce del cattolicesimo organizzato e del
papato.
Nel 1848 a Torino era stato fondato «L’Armonia», che dopo il 1861 espresse una più decisa «opposizione
cattolica» allo Stato liberale: «né eletti, né elettori» → periodico bisettimanale e poi quotidiano. Era fondato su
posizioni cattoliche moderate che accettavano alcuni degli spazi di libertà che nello statuto albertino erano stati
definiti. A partire dagli anni in cui il governo sabaudo definisce lo stato laico, questo giornale si sposta
decisamente su posizioni di decisa opposizione allo stato liberale. Lo stesso giornale scrive un titolo che diventa
poi lo slogan del cattolicesimo “né eletti, né elettori”: i cattolici non sarebbero andati a votare nemmeno
candidati.
Dal 1863, il quotidiano «L’Unità cattolica» raggiunse una diffusione nazionale, voce semi-ufficiale della Santa
Sede →sulla stessa linea di Armonia si colloca anche l’unità cattolica. Conferma e inasprisce la sua posizione di
opposizione allo stato laico. Diventa una voce semi ufficiale della santa sede.

GIORNALI E PRESENZA SOCIALE CATTOLICA


A Milano, «L’Osservatore cattolico» (1864) di don Davide Albertario unì all’intransigenza culturale e
politica verso il liberalismo l’impegno per la «questione sociale» → prete milanese Albertario. Si rifà alla
tradizione di condanna dello stato liberale ma mostra una puntuale attenzione alla situazione sociale e operaia.
«L’Ordine» (1879) di Como e «L’Eco di Bergamo» (1888) espressero toni e programmi più concilianti:
moderazione in campo politico e sostegno alla partecipazione dei cattolici alle amministrazioni locali
(«preparazione nell’astensione») → mostra toni più moderati rispetto agli altri giornali cattolici sopra citati.
Questi giornali avevano contatti con le amministrazioni locali espressero un tentativo di mediazione con la realtà,
facendosi portavoce delle tendenze che ritenevano che a livello locale (comuni, amministrazioni comunali) i
cattolici potessero partecipare alla vita amministrativa per portare il loro contributo. I giornali divennero spazio di
dibattito di queste posizioni concilianti del cattolicesimo
Altri giornali cattolici non raggiusero un livello qualitativo e di diffusione comparabile alle migliori testate
liberali→ il livello dei giornali cattolici rimase molto modesto rispetto ai giornali liberali di quell’epoca. La
circolazione e l’impatto a livello nazionale fu relativamente modesto.

PERIODICI LAICI E ANTICLERICALI


Maggiore diffusione registro la stampa di ispirazione socialista. Partendo da una visione e lettura politica
connotata da un orientamento laico e anticlericale, alcuni giornali avevano iniziato a guardare con maggiore
interesse le classi popolari al fine di intercettare un pubblico di nuovi lettori e per farsi interpreti di idee di riforma
e rivoluzione sociale. La loro caratteristica fondamentale era una radicale opposizione ai governi liberali che
provocò il sequestro contini di numerosi giornali socialisti.
I giornali socialisti furono anche uno strumento di formazione in quanto furono uno spazio di confronto e
dibattito ideologico tea le diverse correnti presenti nel socialismo italiano e anche uno strumento di mobilitazione
dei ceti popolari in vista di una battaglia politica combattuta attraverso scioperi e manifestazioni.
Gran parte della storia del giornalismo socialista vede il susseguirsi di sempre nuove testate che però molto spesso
venivano censurate e chiuse dalla polizia perché alimentavano il sentimento di lotta sociale.
Contribuirono allo sviluppo del dibattito pubblico e della mobilitazione dei movimenti sindacali e politici di
ispirazione socialista «Il Risveglio» e «Il Martello» di Roma, i romagnoli «Il Sole dell’avvenire» e «La
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Rivendicazione» (ella zona romagnola era molto presente l’azione di sindacati e partititi di stampo socialista), il
siciliano «L’Unione».

In parallelo alla stampa cattolica e illuminante, nella stampa socialista vi erano diverse tipologie e pubblicazioni
destinati ad un pubblico in grado di fondare ideologicamente la lotta di classe, erano quindi giornali che
promuovevano la rivoluzione e la lotta di classe. Il Partito dei lavoratori italiani, per esempio, promosse la rivista
«Critica sociale» per la formazione dei dirigenti del movimento operaio e come spazio di dibattito politico-
ideologico per fondare la lotta di classe.
Il quotidiano «Avanti!» (1896), invece, ebbe maggiore successo perché si rivolgeva soprattutto ai militanti
socialisti: era diretto da Leonida Bissolati, uno dei massimi dirigenti del Partito socialista. il giornale
rappresentava uno strumento di crescita formativa e motivazione per la lotta di classe, non a caso fu più volte
sequestrato dalla polizia, accusato di istigazione all’odio di classe e di apologia di reato (difesa e istigazione dei
reati). L’avanti, nonostante ciò, riuscì a diventare un organo del movimento socialista di diffusione nazionale.
Come altri giornali di partito, la stampa socialista rinnovò l’intento educativo e politico della stampa
risorgimentale ma, in particolare, riuscii a raggiungere una maggiore diffusione popolare che era anche dovuta dal
cambiamento che stava avvenendo all’interno della struttura sociale e politica dell’Italia. Era il riflesso del
mutamento del sistema politico e sociale, da notabiliare e oligarchico a popolare di massa.
L’«Avanti!» era un organo di stampa legato all’organizzazione di un partito politico: era diffuso a livello
nazionale grazie alle articolazioni locali del partito ed era controllato dal partito socialista, basava la sua
diffusione proprio grazie all’organizzazione interna del partito. Questo giornale, a differenza di molta della
stampa liberale, non poteva contare su investitori economici proprio perché reclamava la soppressione della
borghesia e quindi risultava impossibile ottenere finanziamenti da imprenditori o proprietari terrieri. Si
autofinanziava, dunque, attraverso gli abbonamenti dei lettori militanti socialisti, militanti che si facevano
promotori del giornale a livello nazionale permettendo una diffusione su scala nazionale e popolare enorme.
L’«Avanti!» raggiunse le 40.000 copie, ma all’inizio del Novecento ebbe un calo delle tirature anche in seguito alle
limitazioni governative imposte all’azione delle organizzazioni operaie. Inoltre, si connotò con scarse notizie di
cronaca perché voleva essere uno strumento di formazione polpare.
Le copie aumentarono a 100.000 con la direzione aggressiva di Benito Mussolini, dal 1912, con la presenza di
posizioni vicine al sindacalismo rivoluzionario.

LO SPORT IN PAGINA E LA CULTURA DEI GIORNALI


All’inizio del Novecento crebbe la diffusione dei giornali sportivi che intercettavano l’interesse di massa per
questa nuova forma di uso del tempo libero.
«La Gazzetta dello Sport» da bi-settimanale stampato su carta verde (1896) diventò tri-settimanale su carta rosa
(1908), giornale che iniziò a farsi promotrice di un’iniziativa sportiva, il giro d’Italia, infatti, l’anno successivo
organizzò il primo Giro ciclistico d’Italia. L’interesse per questo nuovo tipo di giornalismo fece sì che la gazzetta
dello sport registrasse una tiratura molto rilevante con una diffusione a livello nazionale che si concentrava
soprattutto nelle grandi città del centro e nel nord d’Italia. Per questa ragione divenne quotidiano nel 1913 e
rimase l’unico giornale sportivo fino alla nascita del «Corriere dello sport-Stadio» (Bologna, 1948) e
«Tuttosport» (Torino, 1951).

L’altro fenomeno che emerse nei giornali italiani a inizi novecento è la ricerca di nuovi lettori, di inserzioni
pubblicitarie e di finanziatori che favorì l’aumento delle pagine e dei temi affrontati dai giornali. I quotidiani
privilegiavano le notizie politiche, in particolare dalla Capitale, stese da resocontisti, e la cronaca.
«Il Giornale d’Italia» dal 1905 dedicò la terza pagina interamente alla cultura e divenne uno dei suoi punti di
forza. Questa presenza di una pagina dedicata interamente alla cultura, letteratura e alle arti rendeva i co tuti
presenti nel quotidiano molto più mossi, alle notizie politiche si affiancava una finestra sul mondo che registrò
l’apprezzamento del pubblico.
Proprio la percezione che l’attenzione alla cronaca culturale potesse essere uno strumento per attrarre in pubblico
nuovo convince il corriere della sera a dedicare la sua terza pagina alle iniziative e ai temi culturali e letterati: le
prime due colonne di sinistra erano dedicate agli elzeviri (carattere particolare che prese il nome da un editore
svizzero che usava questo carattere nelle sue pubblicazione, carattere che differenziava l’articolo dal resto del
giornale) con collaborazioni di noti scrittori come Grazia Deledda, Luigi Pirandello e Gabriele D’Annunzio.
«La Stampa» prestò particolare cura nella preparazione della pagina culturale, con la presenza di intellettuali
prestigiosi, tra cui Gaetano Mosca e Francesco Saverio Nitti.

NAZIONE E NAZIONALISMO
La presenza di molti intellettuali all’interno del giornale incominciò a mescolare il mondo giornalistico con quello
intellettuale che dovette adeguare il proprio linguaggio al pubblico di non specialisti al quale si rivolgeva. La
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presenza delle firme di questi intellettuali fece sì che la scrittura giornalistica di questi autori non ricorresse ai toni
aulici che caratterizzava la scrittura del romanzo o della poesia, ma ad un linguaggio più semplice per
confrontarsi con un mezzo e con un linguaggio differente. Al tempo stesso, la presenza di intellettuali nel giornali
contribuì ad influenzare lo stile degli stessi giornali.
All’inizio del Novecento però molti giornali continuavano ad essere interessati alla politica e soprattutto alle
notizie che affrontavano riflessioni sulla situazione politica e un crescente spazio viene dedicato alla cronaca
politica con la presenza del resocontista parlamentare: giornalista che, quando il parlamento era aperto, si recava
nei corridori per dare conto dei dibattiti che si tenevano in aula e per conoscere i retroscena che attraversarono le
scelte politiche del governo. Questa vicinanza e attenzione di molti quotidiani alle vicende politiche condizionò
anche l’orientamento politico di molti quotidiani che, parallelamente alla crescita della cultura nazionalistica in
Italia, si fecero sempre più interpreti di questa tendenza all’esaltazione del primato della nazione nel contesto
internazionale. Molti giornali si fecero portavoce della cultura nazionalista che si stava diffondendo in Italia
anche attraverso i periodici. Per esempio, di fronte all’impresa coloniale di Libia (1911-1912), la maggior parte
della stampa si schierò a favore della guerra: «Il Giornale d’Italia», «Il Mattino», «La Stampa», «La Tribuna», «Il
Resto del Carlino» e poi il «Corriere della Sera».
Questo legame tra giornali e nazionalismo fu maggiormente messo in rilevanza con lo scoppio della Prima guerra
mondiale. Per il suo sostegno alle posizioni interventiste nella Prima guerra mondiale, per esempio, Mussolini fu
allontanato dall’«Avanti!» nel novembre 1914 e fondò «Il Popolo d’Italia», su una linea anti-giolittiana e poi
sempre più nazionalista.
«Il Popolo d’Italia» era finanziato da gruppi industriali (Edison, Fiat, Ansaldo), interessati all’ingresso in guerra.
Questo confronto tra interventisti e neutralisti si svolse anche sulle pagine dei giornali. Con l’ingresso dell’Italia
nel conflitto, anche gran parte della stampa si mobilitò a sostegno dello sforzo bellico con una deformazione e
manipolazione della realtà, in funzione degli obiettivi politici e politici del paese, si dice infatti che «la prima
vittima del conflitto è la verità»

18. STAMPA DI GUERRA

GUERRA E GIORNALISMO
Il primo conflitto mondiale (1914-1918) aprì una lunga fase di crisi per l’indipendenza della stampa, non soltanto
in Italia. Il clima di emergenza bellica favorì l’imposizione di stretti limiti anche alla libertà di stampa, ra
necessario per i governi mostrare l’unità della nazione nel momento del pericolo e quindi era indispensabile che
non emergessero posizioni che mettessero in dubbio la legittimità alla partecipazione bellica della propria
nazione. Per questa ragione dal giornale scomparvero le critiche verso le posizioni e le scelte compiute dai
comandi militari. In tutti i paesi in guerra, i governi cercarono di controllare giornali e giornalisti per legittimare
lo sforzo bellico e delegittimare i nemici esterni ed interni.

La guerra segnò un ritorno al passato, con restrizioni e censure dei governi sui flussi informativi, ma anche con
l’introduzione di alcune novità.
Come in altre attività, lo Stato intervenne per rendere i giornali uno strumento di controllo dell’opinione pubblica
in vista di un’omologazione culturale di massa a sostegno dell’intervento militare, in due direzioni (distinte e
convergenti):
• la censura, con limiti alla libertà di informazione per tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale;
• la propaganda, per motivare i combattenti e mobilitare il «fronte interno», questo è il tratto innovativo.

In Italia, la legislazione sulla censura precedette l’ingresso in guerra: già nei mesi precedenti all’entrata in guerra
dell’Italia il governo aveva la facoltà di controllare le notizie di carattere militare. Il governo impose ai giornali di
comunicare, rispetto agli avvenimenti che avvenivano sui campi di battaglia, soltanto le notizie che erano
appoggiate dal governo e che il governo voleva fare sapere.
I diversi periodici si fecero portavoce dei neutralisti (cattolici, socialisti e inizialmente i liberali giolittiani) oppure
degli interventisti (democratici, liberali, sindacalisti rivoluzionari, conservatori e nazionalisti). Furono soprattutto
gli interventisti (Mussolini, D’Annunzio) a sfruttare le capacità dei giornali di condizionare e indirizzare
l’opinione pubblica per la guerra.

IL SEQUESTRO DELLE TESTATE “DISFATTISTE” E L’INFORMAZIONE VIETATA


Nel periodo della neutralità, alcuni giornali ricevettero finanziamenti da governi esteri che volevano influenzarne
la linea editoriale (il governo tedesco tentò di condizionare in questo modo il «Corriere della Sera»).
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Con l’ingresso in guerra dell’Italia, inoltre, al Comando supremo fu attribuita la facoltà di censura sulle notizie di
carattere militare. Il sequestro dei giornali «disfattisti» era eseguito dai prefetti, con il coordinamento dell’Ufficio
stampa del Ministero degli interni. I prefetti potevano sequestrare i periodici sulla base di imputazioni definite dal
Codice penale, tra cui l’istigazione alla sfiducia nell’autorità dello Stato e l’incitamento alla conflittualità tra i
partiti. Questa azione di sistematica repressione dei giornali che non mostravano adesione alla scelta interventista
italiana venne maggiormente sviluppata grazie alla nascita dell’ufficio stampa presso il comando supremo delle
forze armate. Fu costituito, infatti, un Ufficio stampa presso il Comando supremo delle forze armate: fu vietato
ai corrispondenti dei giornali di entrare in zone di guerra e le notizie pubblicate sui giornali enfatizzavano la
«difesa della nazione», la retorica patriottica e gli appelli nazionalistici. Inoltre, l’ufficio stampa diramava dei
comunicati ufficiali su cui i giornali potevano redigere gli articoli di guerra, questo rispondeva a ragioni tattiche e
strategiche dello stesso comando militare e alle azioni che volevano essere compiute, le notizie di guerra che
apparivano sui giornali erano, quindi, riscritture di ciò che in realtà avveniva veramente perché era tutto mediato
dalle redazioni dei giornali e dall’ufficio stampa delle forze armate.

Dal maggio 1915, fu vietata la pubblicazione di informazioni su morti, feriti e prigionieri di guerra per trasmettere
un immagine positiva della guerra senza far vedere gli aspetti tragici di essa.
Le notizie sulle operazioni belliche erano coperte dal segreto, nel timore di diffondere informazioni militari a
vantaggio del «nemico» Anche i periodici liberali e democratici più diffusi, che avevano spesso assunto posizioni
neutrali prima dell’entrata in guerra dell’Italia, si adeguarono al clima di «alleanza per la nazione». Quello che si
venne a creare era che difficilmente chi leggeva i giornali riceveva informazioni realistiche sulla guerra: la
propaganda prese il sopravvento sull’obiettività della notizia.

NOTIZIE DI GUERRA E LE COMUNICAZIONI CENSURATE


Anche le notizie dal «fronte interno» subirono il sistematico vaglio della censura.
Nell’agosto 1917 a Torino vi furono manifestazioni di piazza per la carenza di cibo che furono represse dalla
polizia. Sui giornali italiani non comparve la notizia. L’«Avanti!» che ne aveva scritto il resoconto, uscì con le
colonne imbiancate dalla censura. Furono assunti anche alcuni giornalisti per svolgere il concreto lavoro di
selezione e segnalazione dei giornali «disfattisti». Questo lavoro massiccio di controllo, selezione e censura
preventiva dei giornali impegnò maggiormente le strutture del ministero dell’intro e delle prefetture portando
all’assunzione di giornalisti che dovevano controllare a loro volta il lavoro di altri giornalisti i vista di un controllo
della stampa sempre più ristretto.

Dal maggio 1915, furono controllate anche le informazioni trasmesse attraverso il telegrafo, il telefono e la posta;
furono vietati disegni e foto su temi militari.
Questi provvedimenti di censura e di soppressione dei giornali, però, contraddicevano lo Statuto albertino del
1848 e il decreto del 1906 (Editto sulla stampa) che indicavano che la magistratura avesse la prerogativa del
controllo su qualsiasi provvedimento di censura sulla stampa. L’ingresso in guerra del paese fece stare questo
controllo della magistratura e quindi il controllo dei giornali fu affidati ai comandi militari e al ministero degli
interni, fu estromessa la magistratura dal controllo delle attività a mezzo stampa. I governi erano consapevoli dei
vantaggi derivanti dal condizionamento e dalla manipolazione della stampa a proprio favore. Per questa ragione
molti giornalisti divennero esperti di propaganda a servizio dei governi e del Comando supremo, addetti alla
guerra di propaganda: la psicologia dei soldati e delle masse poteva essere forgiata per sostenere lo «sforzo bellico
della nazione». Pochi giornalisti riuscirono a giungere alle zone di guerra ma furono redarguiti dai colleghi.
Soprattutto dopo la «rotta di Caporetto» (ottobre 1917) fu istituito il sottosegretariato per la Propaganda all’estero
e per la stampa, alle dipendenze del Ministero dell’Interno.
Sui giornali non comparvero notizie di manifestazioni e scioperi sulle contrapposizioni politiche o sulle difficoltà
di approvvigionamento: per il governo, i giornali dovevano far allontanare dall’opinione pubblica ciò che rivelava
la tragicità della guerra. Gran parte dei militari e della popolazione era consapevole che in Italia esisteva la
censura ed era attiva un’azione di propaganda sostenuta dai governi attraverso la stampa.

Più forte della diffidenza dei lettori era però la ricerca di notizie e aumentarono le copie vendute, nonostante la
diminuzione del numero delle pagine dei giornali (a causa della scarsità di carta) e dei giornalisti. In modo
paradossale, la scarsità di notizie sostanziali si accompagnò a una decisa crescita della diffusione dei quotidiani: il
«Corriere della Sera» superò le 500.000 copie, la stessa tiratura raggiunta dall’«Avanti!», nonostante i rilevanti
interventi della censura. La guerra della stampa si volse in un vantaggio per pochi.

Dopo la disfatta di Caporetto, il Comando supremo organizzò il «Servizio P» per organizzare iniziative
sistematiche di propaganda e di «guerra psicologica». I giornali furono al tempo stesso oggetto e soggetto della
propaganda: l’obiettivo era motivare i soldati nel continuare la guerra e sostenere il morale della popolazione
(soprattutto di origine contadina).
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19. STAMPA E REGIME

DOPO LA GUERRA
Il giornalismo in Italia nel periodo fra le due guerre. La Prima guerra mondiale segnò un momento di forti
trasformazioni all’interno del giornalismo e dei rapporti fra stampa e potere, con una forte volontà di controllo da
parte del governo. Dopo la Prima guerra mondiale, in Italia, i giornali furono interessati a trasformazioni
tecniche, economiche e politiche.
Alcune innovazioni tecnologiche resero più rapida la raccolta, la redazione e la composizione tipografica, la
stampa e la diffusione delle notizie, con ricadute sui contenuti e sulla forma stilistica e grafica dei giornali. In
particolare, furono perfezionate le tecniche per la trasmissione di informazioni attraverso telefoto, telescriventi,
radio e cinema sonoro.

Il sistema delle comunicazioni divenne più complesso, con il preso crescente di strumenti che non usavano la
carta stampata, anche se radio e cinegiornali negli anni Venti avevano ancora una diffusione limitata. Il ricorso
crescente dei quotidiani alle fotografie invece che ai disegni permetteva di avvicinare i lettori anche con immagini
che provenivano da tutto il mondo, rendevano meno monocorde la carta stampata, completavano o sostituivano
la parola scritta e davano immediatezza alla comunicazione, con richiami all’immaginario visuale.

I giornali si diversificavano sempre di più, diventando sempre di più dei contenitori di generi comunicativi diversi:
articoli di fondo, elzeviri, foto, fumetti, pubblicità e giochi come i cruciverba che intercettavano gli interessi di
pubblici diversi, che potevano essere maggiormente incentivati a comprare il giornale.
Anche i contenuti cambiano, sulla base di queste trasformazioni tecniche. I contenuti si rivolsero sempre più non
solo alle notizie politiche che continuavano anche negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, ma a fianco
dei contenuti politici aumentarono le notizie di cronaca e dell’economia, le notizie sportive, esteri, letteratura,
costume e intrattenimento…

UN DOPOGUERRA TRAVAGLIATO: TRA CONTROLLATI E CONTROLLATORI


Tra le due guerre, i fenomeni di modernizzazione e di globalizzazione stavano cambiando giornali e lettori, e i
giornali riflettevano e alimentavano questi mutamenti. In Italia in particolare, dopo la guerra, i quotidiani italiani
apparivano rafforzati rispetto al 1914: vi fu un aumento delle tirature, ampliamento delle redazioni e allargamento
del pubblico.
Nella generale trasformazione del giornalismo, il caso italiano risultò particolarmente complicato dalla salita al
potere del fascismo. A risaltare come il primo giornale italiano, in questa fase si consolidò il corriere della sera,
che aveva raggiunto il notevole livello di tiratura di circa 600mila copie, e il direttore Albertini nel 1920 divenne
tra i soci dell’editrice del quotidiano.
“La Stampa” raggiunse le 200.000 copie, con la crescita di peso nella proprietà della famiglia Agnelli (FIAT).
Il “popolo d’Italia” (50.000 copie) nel 1918 aggiunse il sottotitolo “organo dei combattenti e dei produttori” ed era
finanziato dall’Ansaldo, azienda che si occupava di acciaierie e cantieri navali.
Come possiamo vedere di questi tre esempi, i pro
Ad eccezione dell’Avanti! Tutti i quotidiani all’inizio degli anni Venti erano di proprietà di “editori impuri”
ovvero degli editori che avevano interessi e proprietà non solo nel settore della carta stampata, ma anche
nell’economia generale, la famiglia Crespi, la FIAT, l’Ansaldo etc.

LE VIOLENZE SQUADRISTE CONTRO I GIORNALI E LA MODERNIZZAZIONE FASCISTA


Le imprese editoriali divennero delle entità che giocano un ruolo significativo nella definizione anche degli
equilibri politici e nelle scelte dell’opinione pubblica, diventando degli obiettivi delle violenze fasciste, a partire
dagli anni Venti. In questa fase si moltiplicarono gli attacchi alle sedi dei giornali, soprattutto quelli legati ai partiti
che si opponevano al fascismo. Le squadre delle «camicie nere» ricorsero alla violenza sistematica per intimidire
gli oppositori del fascismo. I fascisti devastarono sedi di giornali e assalirono giornalisti e tipografi, in questi casi
la magistratura e polizia non sempre intervenivano per contenere questa violenza politica.
Di fronte ai disordini sociali, alimentati dai giornali fascisti che facevano leva sulla possibilità di una loro
rivoluzione comunista, all’inizio di ottobre 1922 il «Corriere della sera» giudicò il Partito fascista in grado di
arginare le spinte più estreme presenti al suo interno e di assicurare continuità alla politica dei ceti dirigenti
liberali. Questa tendenza dei giornali liberali e moderati di rappresentare il fascismo come forza che doveva essere
normalizzata per evitare un esito rivoluzionario comunista, contribuì a convincere il re a affidare nell’ottobre del
1922 l’incarico di formare un nuovo governo a Mussolini, dopo la marcia su Roma.
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Salito al potere, Mussolini cercò di integrare la stampa nel sistema di potere dello Stato fascista, attraverso azioni
di repressione, controllo, finanziamento e propaganda verso giornali e giornalisti. Strategia del totalitarismo
fascista, potere autoritario e violento che accompagna la violenza con un’azione di convincimento e creazione del
consenso attraverso la propaganda. Questo si accompagnò da una ben organizzata azione di sostegno economico,
attraverso le risorse dello stato, ai giornali amici e ai singoli giornalisti che, attraverso privilegi o pagamento di
sovvenzioni supplementari, potevano garantire una maggiore coesione dell’opinione pubblica intorno al governo.
Inoltre, un decreto del 1923 diede ai prefetti la facoltà di diffidare e destituire il gerente di un giornale in caso di:
• intralcio all’azione diplomatica del governo
• turbativa dell’ordine pubblico
• istigazione all’odio di classe e disobbedienza alle leggi
• vilipendio di patria, re, famiglia reale, papa, religione cattolica, istituzioni pubbliche e potenze «amiche».

Erano reati molto ampi che potevano permettere una possibilità di intervento delle prefetture attraverso la polizia
di sospensione della pubblicazione di giornali, ritiro di giornali già stampati fino a provvedimenti piú estremi
come la soppressione di testate che si dimostravano in disaccordo con la nuova linea dettata dal governo.

REPRESSIONE E CONSENSO
Mussolini utilizzò anche una serie di iniziative al fine di inglobare la stampa all’interno del governo fascista:
aveva l’obiettivo di fascistizzare giornali e giornalisti. Questo lo fece con l’elargizione di finanziamenti a giornali e
giornalisti e usando strumenti di pressione verso le proprietà aziendali e condizionando la nomina di membri dei
consigli di amministrazione editoriali in modo tale da ottenere fedeltà da parte del giornale. Il fascismo non
divenne proprietario dei giornali ma condizionare direttamente o indirettamente le redazioni dei giornali.
Mussolini a seguì una doppia strategia, «inglobativa e repressiva»:
• repressione dei giornali antifascisti;
• fascistizzazione della stampa attraverso l’influenza sulle decisioni di composizione dei consigli di
amministrazione attraverso accordi con gruppi di potere privati.

Fu il caso de «Il Secolo»: nei mesi successivi alla salita al potere del fascismo, entrarono nella proprietà della
editrice esponenti del settore bancario che posero alla direzione il nazionalista Giuseppe Bevione che garantì la
linea di sostegno al fascismo da parte del giornale.
Per controllare tutti questi interventi repressivi venne rafforzata l’ufficio stampa del ministero dell’interno.
Mussolini ristrutturò l’Ufficio stampa della Presidenza del consiglio (dal 1925, Ufficio stampa del capo del
governo). L’Ufficio stampa faceva lo spoglio degli articoli, schedava direttori, redattori e proprietari dei giornali,
ordinava la soppressione di testate e ne finanziava altre attraverso i «fondi segreti» del governo. Furono così
sostenuti i numerosi organi locali del Pnf. Ogni federazione locale aveva un proprio organo di stampa che era
sostenuto da questi finanziamenti del governo.

Parallelamente all’ufficio stampa, fu poi creata la Sezione propaganda per diffondere all’estero le notizie sulle
realizzazioni del fascismo. Tutte queste attività di controllo fecero sì che il fascismo accentuò in chiave maggiore
le forme di controllo e di condizionamento della stampa che si fecero già con l’esperienza della guerra.

I SINDACATI DEI GIORNALISTI , INTERESSI PRIVATI, POTERE POLITICO E SOTTOMISSIONE


Mussolini impose cambiamenti nella organizzazione sindacale dei giornalisti: i provvedimenti furono la risposta
del governo alle reazioni dei giornali di opposizione di fronte alle violenze del regime.
Esistevano in Italia due organizzazioni di categoria:
• la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), organizzazione che esisteva già prima dell’arrivo di
mussolini. Luogo di organizzazione dell’opposizione al fascismo e, proprio per la sua dimensione di
ampia rappresentanza dei giornalisti italiani, riuscì ad avere sempre una certa influenza nel definire gli
orientamenti dei giornalisti e ciò che veniva scritto nei giornali.
• nel 1922 era nato il piccolo Sindacato nazionale fascista dei giornalisti (Snfg)

Con il fascismo continuarono a verificarsi gli episodi di attacco e violenze ai giornali con minacce ai direttori e
giornalisti che esprimevano opinioni diverse da quelle del regime fascista. Proprio a causa di queste minacce molti
direttori di giornali furono costretti a ad abbandonare il loro ruolo.
Nel 1923, a seguito di ripetute minacce, si dimisero il direttore de «La Tribuna» e de «Il Giornale d’Italia», mentre
«Il Resto del Carlino» vide il cambio rapido di direttori a causa delle tensioni all’interno del fascismo.
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Nel 1924, le inchieste del «Corriere della sera» sul delitto del deputato socialista Matteotti mettevano a rischio il
consolidamento del governo fascista. Di fronte a queste notizie apparse su questo quotidiano il governo fascista
organizzò dei provvedimenti che tendevano a reprimere e controllare la stampa che ancora dimostrava margini di
libertà. Un decreto del luglio 1924 aggravò la repressione della stampa: le redazioni de «La Stampa» e «Corriere
della Sera» protestarono e con più determinazione pure la Federazione nazionale della stampa.

Inoltre, continuavano le violenze dei fascisti contro le sedi dei giornali e di fronte a ciò, 25 direttori di giornali
firmarono una petizione al re che avrebbe dovuto garantire le istituzioni liberali. Per alcune settimane,
nell’autunno 1925 fu sospesa «La Stampa» diretta dal liberale Frassati, costretto poi ad abbandonare il giornale
che divenne di proprietà della famiglia Agnelli.
Nel 1925 Albertini dovette cedere le sue quote azionarie del «Corriere della sera» alla famiglia Crespi e diede le
dimissioni dalla direzione.

In questo clima di pressioni e violenze la federazione nazionale della stampa aveva cercato di affermare i diritti di
libertà di stampa di giornali e giornalisti e quindi appariva agli occhi del governo fascista come un ostacolo da
sopprimere per mettere a tacere un luogo di opposizione al fascismo e per riorganizzare la professione dei
giornalistica. Per questa ragione, nel 1925 fu istituito l’Ordine dei giornalisti professionisti: per svolgere la
professione era necessario iscriversi all’Albo dei giornalisti e garantire di avere una «buona condotta morale e
politica». In questo modo si potevano scegliere i giornalisti che potevano effettuare la loro professione sulla base
della fiducia e del sostegno che davano al fascismo, quelli che non ottenevano questa fiducia non potevano
svolgere la loro attività.

Nel 1926, la Federazione nazionale della stampa italiana fu costretta a fondersi con il sindacato nazionale fascista
dei giornalisti e da questa fusione nacque il Sindacato nazionale dei giornalisti, sindacato unico che aveva il
compito di rappresentare gli interessi professionali dei giornalisti. Il Sindacato gestì di fatto l’ammissione all’Albo
dei giornalisti. Erano esclusi dall’Albo e non potevano esercitare la professione coloro che erano sospettati di
opinioni non allineate al regime.
Dal 1928, per iscriversi all’Albo dei giornalisti professionisti fu necessario un certificato di buona condotta
rilasciato dal prefetto: nel 1936 gli iscritti erano 2234.

STAMPA FASCISTISSIMA : A SERVIZIO DEL REGIME


Le «leggi fascistissime» del 1925-1926 imposero la soppressione di tutti i partiti e sindacati non fascisti e la
limitazione delle libertà di associazione e di stampa. La limitazione delle libertà di stampa era dunque
accompagnata anche alla riduzione della maggior parte delle libertà per la costruzione di uno stato autoritario.
I proprietari dei giornali si adeguarono alle direttive del regime perché se no l’alternativa era sospendere le
pubblicazioni e chiudere le testate.

Per un maggiore controllo venne creato anche il Ministero della stampa e della propaganda (dal 1937, Ministero
della cultura popolare) che aveva come compiti quello di organizzare il controllo e la censura dei giornali e di
diramare le disposizioni ai giornali (le «veline») con articoli da pubblicare, dal tono spesso propagandistico e con
rappresentazioni manipolate della realtà. Queste veline presentavano un’immagine manipolata della realtà che
era funzionale alla costruzione di uno stato totalitario che era la base del progetto del governo fascista.

La scelta di costruzione del consenso attraverso la manipolazione della stampa e la repressione fu un tratto
caratteristico di tutti i totalitarismi. In particolare, le direttive del governo per le redazioni dei giornali avevano
come obbiettivo quello di confermare l’Italia come un paese pienamente fascista. Queste direttive:
• scoraggiavano la diffusione di notizie di cronaca nera, in quanto potevano fare emergere l’immagine di
un’Italia non così sicura e controllata come il regime voleva rappresentare
• incentivavano l’informazione sportiva perché lo sport risultava essere una forma di uso del tempo libero
ma anche uno strumento di costruzione del consenso intorno alla nazione fascista, il racconto delle
imprese sportive era, infatti, fondamentale per distrarre gli italiani dai problemi reali del paese
• imponevano criteri per la titolazione, l’impaginazione e i vocaboli da usare. Il linguaggio, dunque,
divenne uno strumento per rappresentare la realtà e manipolare quello che era la società e la politica
dell’Italia fascista.

Un ulteriore passo in avanti sul controllo delle informazioni giornalistiche si ebbe anche quando, nel 1924,
l’agenzia Stefani passò sotto il controllo di Manlio Morgani, fedelissimo del duce, in questo modo allargò la sua
rete di sedi e corrispondenti in Italia e all’estero ed ebbe l’esclusiva della diffusione dei comunicati ufficiali del
governo e delle notizie riguardanti Mussolini.
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Il sistema di controllo politico e di diffusione ai giornali delle informazioni dell’Agenzia Stefani, però, era
complicato e causava frequenti ritardi nella pubblicazione delle notizie. Per questa ragione i giornalisti dovevano
comunque evitare di esprimere posizioni che la censura avrebbe potuto censurare.
Questo sistema molto complesso di repressione e controllo degli editori e delle notizie rendeva il sistema della
stampa in Italia un sistema che aveva come obiettivo non quello di dare un’informazione vera e critica della realtà
ma di non nuocere all’immagine di una società saldamente unita intorno al regime fascista. I giornalisti, quindi,
in questa situazione si ritrovavano a compiere un professione molto complicata, sempre con la paura della
censura e del controllo.

Nel 1927, la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugia istituì una cattedra di giornalismo e l’esempio
fu seguito poco dopo in altri atenei. Insegnamenti che volevano costruire il nuovo giornalista fascista con
l’intenzione di forgiare la mente e l’opinione dei futuri giornalisti.

Nel 1930, il Sindacato Nazionale del Giornalismo fascista fondò a Roma una scuola di giornalismo, con
l’obiettivo di formare dei giornalisti che avrebbero potuto accedere direttamente all’albo dei giornalisti, cosa che
invece era difficilmente acquisibile da giornalisti normali che dovevano effettuare almeno 18 mesi di lavoro e
dimostrare la loro fiducia per poter entrare all’interno dell’albo dei giornalisti.

I COSTI DELLA STAMPA


Nella seconda metà degli anni Venti, il rialzo del costo della carta provocò l’aumento del costo dei giornali e la
diminuzione della foliazione. Le tirature dei quotidiani diminuirono. Di fronte a questa situazione il governo
intervenne attraverso forme diverse di sostegno alla carta stampata. Per esempio, dal 1935 l’Ente nazionale
cellulosa e carta garantì rimborsi agli editori e i deficit dei bilanci dei giornali furono ripianati dallo Stato. Queste
sovvenzioni dello stato garantirono una maggiore solidarietà e appoggio degli editori al governo fascista ma
permetteva anche ai giornali di essere venduti ad un prezzo politico, ovvero un prezzo minore rispetto ai costi,
questo però permise ai giornali di essere acquistabili anche dai ceti men abbienti, in questo modo gli interessi e
l’accondiscendenza sostennero il fascismo.

In occasione della guerra di Etiopia (1935-1936) le tirature dei quotidiani aumentarono, in particolare il «Corriere
della sera» (700.000 copie), «La Stampa» (400.000), «Il Popolo d’Italia» (250.000).
Nel 1936 in Italia vi erano 80 quotidiani, 132 periodici politici fascisti, 350 riviste. La diffusione dei giornali
italiani però rimase inferiore a quella di altri Paesi occidentali, a causa di basse condizioni di reddito e istruzione,
scarsi investimenti degli editori e mancanza di pluralismo

I NUOVI SETTIMANALI E LA STAMPA FEMMINILE DEL FASCISMO


Negli anni Trenta, ebbero ampia diffusione e nacquero nuove testate di periodici settimanali stampati con la
tecnica dei rotocalchi che innovarono linguaggio, grafica e contenuti, imitando una tendenza già emersa negli
Stati Uniti.

Dal 1937, «Omnibus» fu pubblicato dalla Rizzoli e diretto da Leo Longanesi, questa impresa editoriale innovò i
contenuti e la forma grazie alla vivacità della impaginazione e all’approfondimento delle notizie.
Notevole crescita registrarono anche i settimanali femminili, anche per impulso del regime che intendeva
trasmettere una precisa visione di donna: casalinga, moglie e madre di famiglia, una immagine stereotipata,
funzionale alla politica demografica del fascismo.

Tra i più noti, vi furono «Amica» (1929), «Annabella», «Grazia» e «Rakam» (1930) e «Gioia» (1938)
Non bisogna quindi rappresentare l’epoca fascista come un periodo di stagnazione e di incapacità di innovarsi
perché, nonostante il pesante controllo e la pesante censura, degli spazi per fare ciò riuscirono ad essere trovati.
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LEZIONE 25 – 16/05

20. GIORNALI DEL FASCISMO E POST FASCISMO

STAMPA, FASCISMO E GUERRA


Il regime fascista adottò una politica di stretto controllo della stampa per censurare le notizie sgradite e per
ottenere maggiore consenso.
Nel 1939 con l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, inizia la Seconda guerra mondiale.
Inizialmente l’Italia rimane in uno stato di Non belligeranza, non entra subito in guerra e il regime fascista rimase
fuori dal conflitto. In questi mesi fra il 1939 e il 1940 la stampa è sottoposta a più rigidi controlli nel contesto del
conflitto. La stampa ma anche la radio furono mobilitati in vista di un possibile coinvolgimento dell’Italia in
guerra per sostenere la propaganda fascista, seppur all’inizio fu chiesto di non eccedere nella denigrazione dei
“nemici” inglesi e francesi, data la loro forza militare.
I giornalisti si adeguarono nell’esaltazione delle strategie politiche e militari dell’Italia fascista. Si registra un
cambio di passo nel momento in cui l’Italia entrò in guerra.
I quotidiani aumentarono le tirature, nonostante la rappresentazione giornalistica della realtà fosse altamente
manipolata.

Dal 1941, in parallelo alle difficoltà militari dell’Italia e della Germania, la crisi della stampa di regime risultò più
evidente, e ormai la propaganda fascista non riusciva più a nascondere il fallimento economico, sociale e politico.
Intenzione dei lettori di provare a individuare tra le righe qualche notizia che portasse alla realtà del conflitto.
L’evidente dissociazione e lontananza della realtà era evidente. In particolare, l’evento che segnò questo cambio
di passo fu la fallimentare campagna di Russia.

Dopo il 25 luglio 1943 con la caduta del governo fascista e l’arresto di Mussolini, la stampa ritrovò un certo
spazio di libertà, che durò fino all’8 settembre, con l’armistizio.
Mussolini dopo essere stato liberato dalla sua prigionia nel Gran Sasso fonda la Repubblica sociale italiana con il
sostegno della Germania nazista, imponendo nuovamente nel centro-nord Italia un ferreo controllo della stampa.
Il ministero della cultura popolare agì per alimentare il consenso popolare. Furono istituite nel novembre 1943 dei
ministeri ad hoc. Il Ministero della cultura popolare agì per alimentare il consenso popolare. Furono istituite nel
novembre 1943:
• la Direzione generale della stampa e radio interna;
• la Direzione generale della stampa e radio estera;
• la Direzione generale dello spettacolo (cinema e teatro).
• il Comitato consultivo per la propaganda (nel 1944).

CONTROLLI INCROCIATI
Tra i giornalisti fedeli a Mussolini però non erano tutti allineati; alcuni erano d’accordo sul controllo politico della
stampa, mentre altri puntavano ad un certo rinnovamento, anche se cauto, per dare una certa dipendenza ai
giornali rispetto al governo e avere maggior credibilità.
Anche le autorità naziste controllavano la stampa italiana e volevano usarla a fini propagandistici. Si giunse
dunque a un compromesso fra fascisti e nazisti; i tedeschi controllavano le notizie di interesse militare per
manipolarle a loro favore, mentre il governo della RSI vagliava tutte le notizie di altro tipo (economiche, sociali,
cronaca, etc.)

Dall’altro lato dell’Italia, i giornali nell’Italia liberata ritrovarono una certa libertà. Dall’estate 1943 nelle zone
liberate dagli alleati anglo-statunitensi decaddero le limitazioni imposte dagli organi di stampa fascisti.
Gli alleati gestirono in maniera diretta i rapporti con la stampa, attraverso il Psychological Warfare Branch
(PWB) per la propaganda e il controllo di giornali e radio.
Dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943 si allentarono i controlli degli alleati sulla stampa, e
dall’inizio del 1944, il governo del Regno d’Italia liberato ebbe la facoltà di autorizzare la stampa di nuovi
periodici.

Accanto a giornali decisamente antifascisti con tratti rivoluzionari (comunisti e socialisti), altri avevano una linea
riformista, altri di restaurazione moderata dello status quo pre-fascista.
Con l’avanzata verso nord degli alleati, alcuni quotidiani che già avevano sostenuto la RSI, dopo marginali
cambiamenti nelle redazioni, ripresero le pubblicazioni in maniera più libera (Il messaggero, il Giornale d’Italia).
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LA NUOVA PRIMAVERA DELLA CARTA STAMPATA


Con la Liberazione nacquero nuove testate, spesso legate ai partiti antifascisti: la frattura con il passato fascista
appariva netta dal punto di vista dei contenuti. Era una frattura evidente soprattutto dal punto di vista dei
contenuti.
Le testate quotidiane già collaborazioniste furono sospese e commissariate, ma, qualche mese dopo, tornarono ai
precedenti proprietari. L’esigenza da parte del governo italiano di riportare il più presto possibile l’Italia ad una
normalità, fece si che nell’arco di poche settimane i giornali tornarono di nuovo nell’edicole, cambiando il titolo e
scrivendo a fianco alla testata “Nuovo” per far capire che non erano più collaborazioniste. Questa situazione di
ricostituzione dei precedenti assetti proprietari dei giornali puntava a dare all’Italia un rapido ritorno alla
normalità sotto l’insegna di una collocazione a fianco degli stati uniti, guidato da forze politiche di stampo
moderate, antifasciste e anticomuniste.
Cambiati i direttori, i vecchi quotidiani ripresero a uscire per rispondere agli interessi degli editori e alle richieste
di un pubblico di lettori della classe media e della borghesia moderata

I giornali, in questo clima di libertà, fiorirono ka ritmi insostenibili. La ritrovata libertà favorì, infatti, la nascita di
nuove testate: nel 1946 i quotidiani italiani erano 150 (80, nel 1936).
Il «Corriere della Sera», diretto da Mario Borsa e dal 1946 da Guglielmo Emanuel (giornalista che riuscì a portare
la testata, mantenendo una linea moderata di sostegno all’imprenditoria milanese, ad enormi numeri), raggiunse
le 500.000 copie.
In questo contesto, prevalse nei quotidiani una fisionomia «generalista», con pochi titoli e poche foto: si trattava
di una stampa quotidiana dove prevalevano le notizie sportive e culturali e uno spazio imitato dedicato alla
cronaca. In prima pagina vi era il «pastone» politico, un riassunto delle principali dichiarazioni di partiti e
istituzioni.

La stagione successiva alla fine del conflitto vide fiorire in Italia anche molte riviste di taglio culturale o di
approfondimento politico, caratterizzate spesso con un impegno politico e civile a fianco di un preciso partito.
Non erano organi di partito ma settimanali che si segnalavano per la proposta di articoli, spesso molto ampi e
pensosi, destinati ad un pubblico ristretto ed elitario.
Furono fondate riviste di impegno civile e culturale, tra cui «Il Ponte» di Piero Calamandrei (1945-1956), «Il
Politecnico» di Elio Vittorini (1945-1947) e «L’Acropoli» di Adolfo Amodeo (1945-1946).

GIORNALISTI ORGANIZZATI , CONTINUITÀ E CAMBIAMENTI


Dal punto di vista sindacale ed organizzativo, con la caduta del fascismo fu ricostituita la Federazione nazionale
della stampa, soppressa dal fascismo, ma furono mantenuti l’Albo, l’Istituto nazionale di previdenza dei
giornalisti e l’Ente carta e cellulosa (con sovvenzioni indirette agli editori). Organismi che rispondevano alle
esigenze di autotutela dei giornalismi e di tutela degli editori.
Queste furono iniziative che diedero un segnale di volontà di rottura con il passato e, allo stesso tempo, il
mantenimento di quelle istituzioni che, con continuità, garantivano ai giornalisti e agli editori una situazione di
privilegio.
In questo clima di ricostituzione di una stampa il più possibile libera, si creano scelte politiche sull’epurazione dei
giornalisti fascisti. Si avviò una fase di esclusione e licenziamento dei giornalisti che si erano mostrati, durante il
fascismo, più pronti a servire il governo fascista. I giornalisti epurati per collusione con il fascismo furono soltanto
l’1% del totale, ulteriormente ridotti nel 1948: prevalsero criteri di autotutela della categoria ed esigenze di rapida
ripresa delle attività editoriali.
Come in altri settori professionali, il giornalismo passò pressoché incolume dal fascismo al post-fascismo

In questo contesto, quello che sembra emergere con maggior forza è la scelta di continuità con il periodo
precedente al fascismo. La linea editoriale dei giornali segnò una rottura rispetto al periodo fascista, ma molti
furono gli elementi di continuità per testate, editori, redattori e giornalisti.
I governi post fascisti avevano esigenza di mantenere un controllo sulla stampa, senza arti violenti, ma avere
informazioni su ciò cha accadeva all’interno di questo modo portò al cambiamento di organi del governi che
avevano il compito di controllare e censurare la stampa. Fu confermato, infatti, il controllo del governo sugli
organi di stampa, anche se nel nuovo contesto democratico.
Nel maggio 1944, soppresso il Minculpop, il controllo sulla stampa passò al Ministero dell’interno e, da luglio, al
Sottosegretariato della presidenza del Consiglio per la stampa e le informazioni (divenuto poi Sottosegretariato di
Stato per la stampa, lo spettacolo e il turismo). Questa strategia di controllo e condizionamento diretto di giornali
e giornalisti, ripropose un sistema che si pone in continuità con il fascismo e con quelle che erano già state le
strategia usate nell’Italia liberale, successiva all’unificazione italiana.
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NUOVE LEGGI E NOTIZIE PER LA STAMPA


La Costituzione repubblicana, in vigore dal 1948, stabilì per tutti i cittadini il «diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
Il sequestro dei giornali poteva essere disposto soltanto da un giudice e per delitti indicati dalla legge. Rimasero in
vigore i reati di diffamazione a mezzo stampa e di diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose oppure
contro il «buon costume», reati sulla base dei quali i giornali potevano essere sanzionati e condannati alla censura.

Per la pubblicazione di un giornale bastava la «registrazione» (e non più l’autorizzazione) per stampare e
diffondere un giornale, si doveva fare una comunicazione che però permetteva legittimamente la diffusione del
giornale.
Dal punto di vista sindacale, nel 1947, fu stipulato il contratto nazionale che prevedeva il praticantato mdi un
anno e mezzo nella redazione di quotidiani (non di riviste) come via esclusiva per accedere alla professione di
giornalista. A seguito di questa decisione, fu stabilita la costituzione dei comitati di redazione nei giornali per
verificare il rispetto del contratto. Questa era, dunque, una scelta di filtro per l’accesso all’albo dei giornalisti che
poteva essere richiesto soltanto nel momento in cui in un quotidiano l’aspirante giornalista avesse svolto un
periodo di pratica. In questo modo, però, si escludeva a lungo la possibilità di altri canali di ingresso all’albo dei
giornalisti, come le scuole.
Nel 1963 fu istituito l’Ordine dei giornalisti, ente di diritto pubblico, unico e obbligatorio, cui si accede per
esame. Dopo un periodo di praticantato bisognava superare un esame che garantiva l’accesso all’ordine dei
giornalisti e poi all’albo dei giornalisti
In questo clima complesso si perfezionano anche gli organi di governo di controllo della stampa. Dal 1948, fu
attivato l’Ufficio informazioni, alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri: schedava e
controllava giornali e giornalisti. Ufficio che schedava giornali, giornalisti editori in modo sistematico, segnando
un ulteriore tratto di continuità con il fascismo. Gli strumenti di controllo della stampa (e, in parte, le finalità),
infatti, riproducevano quelli presenti nell’era fascista e, prima, nell’Italia liberale post-unitaria. Parte del personale
di tali organismi, inoltre, aveva svolto lo stesso compito durante il regime fascista

Nel gennaio 1945, per sostituire l’Agenzia Stefani, fu costituita l’Agenzia nazionale stampa associata (Ansa), una
cooperativa di editori di quotidiani. L’ansa, immediatamente, riesce ad avere finanziamenti da parte del governo,
nonostante fosse nata come ente privato. Questo però limitò la propria libertà e autonomia dal governo, essa però
necessitava di aiuti e finanziamenti per la propria sopravvivenza quindi era necessario.
Nei decenni successivi, finanziamenti e convenzioni con il governo garantirono all’Ansa una posizione
preponderante rispetto alle altre agenzie di stampa.
Furono in seguito fondate altre agenzie:
• Agi (1950, poi passata all’Eni)
• Adn Kronos (nata nel 1968 dalla fusione di due agenzie, vicina al Psi)
• Asca (1969, nell’orbita della Dc)

Anche le agenzie di stampa, come giornali e giornalisti, spesso videro intrecciarsi interessi di tipo economico e
politico ma l’obiettivo dell’informazione rimase a tutti i costi.

ALLA RICERCA DI LETTORI


Nell’Italia del secondo dopoguerra, si confermò l’esistenza di un ristretto pubblico di lettori di quotidiani e
l’arretratezza di mezzi e risorse, se confrontato con i giornali di altri paesi dell’Europa occidentale e se si
considera anche agli anni Trenta della stampa in Italia: si confermarono tra i primi giornali il «Corriere della sera»
che tirava 300-400.000 copie, «La Stampa» con 180-200.00 e «Il Messaggero» con 140.000.
Ci fu una debolezza complessiva della stampa che, pur rimanendo un ottimo strumento per costruire uno spazio
di dibattito e informazione per l’opinione pubblica, si mostrò fortemente limitata da moti punti vi di vista.
Diminuirono anche le testate: 111 nel 1952, 93 nel 1959.

La caratteristica fondamentale della stampa italiana era che non c’era una partizione tra stampa popolare e
stampa di élite, come in altri paesi: la tipologia di quotidiano era un ibrido tra i due generi che però non riusciva
ad attrarre un pubblico più vasto. L’unica possibilità era quella di produrre dei giornali con taglio più polare e
presenza maggiore di notizie di cronaca, sport e spettacolo. Inoltre, le ragioni che portarono a questa limitata
diffusione della stampa furono legati anche alle condizioni sociali e culturali: c’erano, infatti, redditi medi bassi e
molti limiti all’istruzione pubblica ed elementare. Nell’immediato dopoguerra erano ancora troppe le persone che
non sapevano né leggere e ne scrivere, questo ebbe molto impatto sulla stampa.
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EDITORI, GIORNALI E POLITICA


I gruppi industriali e finanziari possedevano i quotidiani non per fare profitti, ma per condizionare la politica.
L’intreccio tra giornali, economia e politica, infatti, si confermò un tratto caratteristico della stampa italiana. Non
sfuggirono a questa esigenza e volontà di uso della stampa per finalità economiche e politiche neanche le nuove
testate apparse sulla scena giornalistica italiana.
• «Il Giorno» fu fondato nel 1956 dall’editore Cino Del Duca e dal presidente dell’Eni, Enrico Mattei:
innovò l’impaginazione e i contenuti e appoggiò l’ipotesi di collaborazione tra DC e PSI. Il giornale
intendeva portare una ventata di novità nel panorama, abbastanza stagnante, della stampa italiana e,
prendendo dall’innovativa stampa inglese e statunitense, innovò l’impaginazione con ampio uso delle
fotografie, titolazione ad effetto, varietà di contenuti che intendevano ricercare l’interesse di un pubblico
variegato e disponibile a cogliere i segnali di cambiamento presenti nella società, della politica e nella
cultura italiana.

Il giorno riuscì a smuovere il panorama giornalistico italiano e spinse altri giornali ad intuire le potenzialità di
queste innovazioni

Il panorama giornalistico italiano, si segnalò anche per una rilevante presenza di quotidiani di partiti: giornali che
sono degli organi di partito e che hanno come obiettivo quello di sostenere le finalità politiche del partito. I
movimenti politici ravvivarono la tradizione dei quotidiani «organi di partito».
• «L’Unità» raggiunse le 250.000 copie, diffuso localmente in modo capillare dai militanti del Partito
comunista.
• Anche il quotidiano socialista «Avanti!» riprese le pubblicazioni dopo la guerra (80.000 copie), ma poi
registrò un deciso calo.

Anche altri partiti si dotarono di giornali di partito e maggiore circolazione ebbero anche quelli della democrazia
cristiana e cattolica.
• «Il Popolo» organo della Dc non aveva grande diffusione, ma il partito di maggioranza poteva contare
sull’appoggio dei giornali cattolici.
• A Roma, vi era «Il Quotidiano» dell’Azione cattolica che aveva iniziato le sue pubblicazioni poco dopo
la liberazione di Roma e cessò la sua pubblicazione negli anni Sessanta.
• «L’Italia» era il quotidiano della diocesi di Milano, diffuso anche in Lombardia e Piemonte.
• «L’Avvenire d’Italia» di Bologna, in Emilia e Veneto, cessò la sua pubblicazione nel 68 e divenne poi
soltanto l’avvenire.
• Vi erano poi altri quotidiani cattolici che avevano localmente ampia diffusione (Como, Bergamo,
Genova)

Maggior successo dei quotidiani, ebbero i rotocalchi illustrati, con approfondimenti sull’attualità e sulla cronaca:
occuparono in parte lo spazio della stampa popolare, assente tra i quotidiani. I rotocalchi popolari registravano un
forte successo e un’impetuosa crescita dagli anni Cinquanta in avanti. Questo perché erano giornali che usavano
in modo massiccio le fotografie e le fotonotizie (grandi fotografie con didascalie che sintetizzavano i contenuti
della notizia), erano giornali che enfatizzavano anche le notizie di cronaca, spettacoli e vicende dei divi dello
spettacolo e personaggi che avevano molto rilievo e che potevano rendere questi giornali attrattivi per un pubblico
popolare, non alla ricerca di approfondimenti politici che si trovavano su altri giornali.
• «La Domenica del Corriere» negli anni ‘50 tirava più di 900.000 copie, poi in calo; dagli anni ’60 subì la
concorrenza di «Oggi» e «Gente».
• «Famiglia cristiana» si rivolgeva a un pubblico popolare e negli anni ‘70 arrivò a 1.500.000 copie. Ebbe
una diffusione molto ampia e fu a lungo il primo settimanale come tiratura. Tutte le settimane famiglia
cristiana vendeva circa un milione e mezzo di copie, livelli che furono raggiunti solo da sorrisi e canzoni.
Questo giornale riuscì a creare una formula di settimanale che raggiunse livelli di tiratura di prima
grandezza.

Insieme ai rotocalchi, di tipo popolare, si diffuse anche il giornalismo d’inchiesta che si posero come obiettivo
proporre approfondimenti sulla realtà sociale e vicende politiche.
• Diretto da Mario Pannunzio, «Il Mondo» (20.000 copie) affrontò temi politici rilevanti con una linea
editoriale laica e riformista e un intenso dibattito culturale.
• «L’Europeo» (200.000 copie) si segnalò per le inchieste giornalistiche. Fu acquisito da Angelo Rizzoli nel
1953 e il direttore Arrigo Benedetti si dimise: con capitali di Olivetti, fondò «L’Espresso», settimanale di
informazione, poi in concorrenza con «Panorama» (1962), edito da Mondadori
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LEZIONE 26-27 [17-18/05]

21. I GIORNALI NELL’ETÀ DELLA TELEVISIONE

I GIORNALI NEL “MIRACOLO” ECONOMICO


Le trasformazioni legate a industrializzazione e urbanesimo toccarono anche la stampa. I giornali furono
specchio delle trasformazioni che avvenivano nel paese e furono artefici di questi mutamenti complessivi che
videro un’accelerazione degli stili di vita e della mentalità della popolazione. Soprattutto nelle giovani
generazioni, si diffusero nuove mentalità e stili di vita orientati dalla cultura del consumo e dai mass media, con
la televisione. I giornali alimentarono questi cambiamenti e ne furono a loro volta condizionati.
I giornali sono protagonisti di questa trasformazione epocale, sia per gli alti tassi di crescita del pil e di redditi
medi e sia per una grande trasformazione legata al trasferimento dalle campagne alle città di masse di persone che
furono coinvolti di un modo di vivere radicalmente diverso da quelli tradizionali prevalenti nelle aree di
campagna.
I giornali furono modificati anche grazie a questo cambiamento della società.

Questi cambiamenti, se osservati dl punti di vista degli assetti proprietari dei giornali, non riuscirono però a
mutare gli assetti di fondo del giornalismo italiano. Negli anni ‘60 e ‘70, si confermò una sostanziale continuità
con il passato:
• Mezzi arretrati e scarsi investimenti per l’innovazione all’interno dei giornali. Se si confrontano i giornali
italiani con quelli europei e statunitensi, quello che appare fu lo scarso investimento e capacità di
innovazione tecnica, grafica e dei contenuti. I giornali italiani trovarono gli editori poco disposti ad
investire ulteriormente nei giornali facendo mancare alle testate giornalistiche quelle innovazioni che,
invece, altrove stavano accadendo.
• Subordinazione della informazione alla politica. Questo legame coinvolgeva sia i giornali che i
giornalisti, c’era un atteggiamento molto diffuso tra i giornalisti di avere rapporti privilegiati e di
subordinazione rispetto alle parti politiche. Questo elemento spiega anche il prevalere, nei giornali
italiani, di un taglio politico e di un’attenzione privilegiata alle notizie e alle opinioni politiche.
• Numero limitato di lettori (le copie totali tirate dai quotidiani superavano di poco i cinque milioni)

GLI INTERESSI IN GIOCO E GLI INDUSTRIALI DEI GIORNALI


Negli anni ‘60, più della metà della tiratura (controllo dei numeri di copie stampate al giorno) era controllata da
grandi gruppi industriali, questo rese evidente quanto le posizioni espresse nei giornali riflettevano e non e erano
contrarie alle opinioni e alla collocazione politica degli editori che erano grandi gruppi industriali. Il 16%, invece,
era controllata da organi di partito, un decimo da banche ed enti parastatali (questa era una caratteristica
fondamentale del giornalismo italiano: intervento di organismi collegati con enti statali che investirono nel settore
editoriale), un decimo da istituzioni cattoliche e un decimo da stampa indipendente (quotidiani che venivano
pubblicati da editori puri, che investivano soltanto nell’editoria).
In questa situazione, inoltre si aveva una prevalenza di editori «impuri» che avevano i propri interessi principali in
altri settori.
Le concentrazioni di imprese favorirono il rafforzamento della presenza delle società industriali nella stampa.
Accordi tra aziende di grandi dimensioni, portarono ad un controllo ancora più stretto e organico delle industrie
nel settore della stampa.

La presenza di industriali nel settore della stampa attirò gli interessi di gruppi industriali.
• Nel 1966, l’industriale petrolifero Attilio Monti acquistò «La Nazione» e «Il Resto del Carlino». Ci fu un
passaggio di pacchetti azionari da un industriale all’altro, mantenendo stretti i legami tra industria e
giornalismo.
• Nel 1973, la famiglia Agnelli, proprietaria della Fiat e de «La Stampa», entrò nel consiglio di
amministrazione del «Corriere della Sera», diretto dal 1972 da Piero Ottone: tra gli azionisti vi erano
anche il petroliere Moratti e Giulia Maria Crespi. Entrano nell’azionariato del corriere della sera con una
capacità di influenza superiore. Si creò u assetto proprietario che legò strettamente industria e giornale.
• Nel 1974 l’intera proprietà del «Corriere della Sera» fu acquistata da Andrea Rizzoli. Quindi, si tratta
di un editore puro perché quello che Rizzoli fa è occuparsi di editoria ma in realtà, fu reso possibile
dovuto grazi garanzie della Montedison presieduta da Eugenio Cefis, industria nata dall’unione di
industria chimica (la Montecatini) e elettrica (Edison). Questa azione di editore puro, dunque, mette in
evidenza quanto questa operazione avesse comunque un intreccio tra economia e politica.
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Il «Corriere della Sera» si mostrò più aperto e attento ai movimenti sociali: Indro Montanelli uscì nel
1974 e con il sostegno economico della Montedison fondò «Il Giornale Nuovo», con un orientamento più
moderato e conservatore, che diresse fino al 1994.

MUTAMENTI IN CORSO : NUOVI CONTENUTI E NUOVE TECNICHE


La contestazione operaia e studentesca fece aumentare le richieste di partecipazione e informazione. Questa
spinta di contestazione che aveva come obiettivo la contestazione di poteri forti e l’assetto dei poteri politici e
economici, intendeva proporre forme alternative di potere (contropotere). Il settore della stampa e del giornalismo
fu il settore simbolo che proprio incarnava le contraddizioni del potere, infatti, all’interno di questi movimenti
sorse l’esigenza di dare voce a queste proteste anche all’interno dei giornali.
Queste manifestazioni resero evidenti ai giornali un cambiamento sociale e se si voleva intercettare pubblici nuovi
disposti a tollerare il cambiamento, anche i giornali più moderati e conservatori dovevamo cambiare. Negli anni
‘70, per questa ragione, anche i quotidiani innovarono sempre più contenuti e stili. Inoltre, i ritmi più veloci di
musica, televisione e radio e il fotogiornalismo dei rotocalchi abituarono il pubblico a un linguaggio meno
ridondante, più sintetico, attento alla grafica e alle immagini. Queste trasformazioni culturali coinvolsero, non
soltanto chi si faceva promotore di queste nuove forme, ma influenzarono anche coloro che erano solo spettatori,
andando nella direzione di un cambiamento in tutta la società. I giornali furono in grado di intercettare questi
cambiamenti modificando i loro stili, la oro grafica e anche il linguaggio.

In questo contesto si sviluppò ancora di più il giornalismo di inchiesta.


Il giornalismo d’inchiesta trovò maggiore spazio sui quotidiani: si indagavano i cambiamenti sociali e di costume,
gli intrecci tra politica ed economia e in modo crescente i fatti della politica estera. La buona accoglienza da parte
del pubblico di questa proposta di contenuti permise di aumentare la presenza di questo tipo di giornalismo, non
più soltanto nei settimanali e nei rotocalchi ma anche nei quotidiani.
Questa fase di cambiamento dei contenuti è stata segnata anche da cambiamenti e innovazioni tecnologiche. Il
lavoro redazionale, infatti, divenne più complesso, anche per l’applicazione di nuove tecnologie: si passò dalla
linotype, con caratteri fusi nel piombo, alla fotocomposizione che permetteva il passaggio diretto delle pagine
composte dalla pellicola trasparente alla lastra da usare per la stampa. Era u sistema di stampa a freddo, usava la
pellicola fotografia per formare la base della stampa dei giornali.

Cambiarono gli stili, i contenuti e le tecnologie per la stampa e comparirono anche dei nuovi quotidiani, collocati
su opinioni politiche di contestazione dei principali assetti economici e politici.
Negli anni ‘70, infatti, gruppi della sinistra extraparlamentare fondarono quotidiani che univano giornalismo
d’inchiesta, formazione dei militanti e lotta politica.
• «Il Manifesto» fu fondato dal gruppo poi espulso dal Pci nel 1969, prima come mensile, diretto da Lucio
Magri e Rossana Rossanda, e dal 1971 come quotidiano (il primo direttore fu Luigi Pintor).
• «Lotta continua» (settimanale dal 1969 e quotidiano dal 1972 al 1982) fu l’organo della formazione
omonima: in questi giornali si formarono giornalisti attivi poi altrove.

TEMPI DI INSICUREZZA: TERRORISMO E GIORNALI


Il clima di insicurezza diffuso in Italia in seguito al terrorismo vide i giornali protagonisti. Crebbero i controlli
polizieschi per cercare di arginare queste ondate di violenza con l’allargamento dei poteri discrezionali di
istituzioni statali, di fronte ai quali i giornali agirono in modo differenziato. Di fronte all’emergere e al propagarsi
degli atti terroristici i giornali si comportarono in maniera differente:
• Alcune testate rivendicarono il diritto di cronaca e testimonianza e quindi riportare le vicende che si
stavano svolgendo, alcuni giornalisti si fecero quindi portatori di quello che stava accadendo;
• in molti altri sostennero le scelte del governo, mancando di capacità di osservazione critica della realtà.

I giornalisti furono tra i bersagli più in vista del terrorismo politico, in particolare delle Brigate rosse, in quanto
ritenuti «servi del potere». Alcuni furono «gambizzati», altri «uccisi», tra cui nel 1977 Carlo Casalegno,
vicedirettore de «La Stampa» che aveva chiaramente espresso l’esigenza delle istituzioni di stato di mantenere una
linea di non trattativa di quei movimenti politici che usavano la violenza per affermare le proprie idee. In seguito
a questa vicenda, fu ferito e dopo alcune settimane morì. La stessa sorte toccò anche nel 1980 a Walter Tobagi,
inviato del «Corriere della Sera».
Fu, quindi, una stagione di tensione e violenze estreme di cui i giornalisti furono testimoni e bersagli. Il dilemma
su quali strade seguire, emerse, in occasione del rapimento di Aldo moro e della sua uccisione. In questa
occasione i giornali furono direttamente chiamati in causa in quanto le redazioni dei giornali furono spesso
destinatari di telefonate terroristiche per indicare quali sarebbero stati i loro passi successivi. I giornali divennero
coloro che davano conto a ciò che avvenne e anche i protagonisti, in presa diretta, di queste vicende tagiche.
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Di fronte a questi avvenimenti le redazioni si posero il dilemma se pubblicare tutte le notizie oppure no, quello
che successo fu che i giornali scelsero di informare i lettori e dare contro di ciò che stava accadendo in quel
periodo.

IL POTERE DEI GIORNALI


Dal 1974, Rizzoli intese fare investimenti per il «Corriere della Sera» e ingrandire l’editrice verso nuovi media. Il
settore legato alle comunicazioni poteva essere, infatti, un affare, dal punto di vista economico, perché si apriva
una destinazione nuova della raccolta pubblicitaria e possibilità di avere in mano un mezzo di comunicazione
potente che poteva fare opinione e che poteva essere usato come mezzo di pressione verso le istituzioni politiche.
Rizzoli inizio, quindi, l’avventura nel settore televisivo com la creazione nel 1976 di Telemalta. La scelta di
investimenti massicci in questi settori fece crescere gli investimenti ma anche i debiti.
Aumentarono, infatti, i debiti del gruppo Rizzoli e nel 1977 entrò nella proprietà il Banco Ambrosiano attraverso
la mediazione del banchiere Roberto Calvi.
Crebbe l’influenza nei vertici aziendali e nella redazione di uomini legati alla loggia massonica segreta P2
(associazione a delinquere legata alla massoneria) di Gelli, questo portò a coinvolgere un numero consistente di
giornalisti e portò questo nuovo assetto di finanziamenti alla nomina di un nuovo direttore. Nel 1981 Calvi fu
arrestato e poi fu ucciso a Londra. Tutto questo scandalo portò la Rizzoli ad essere messa in amministrazione
controllata e nel 1984 la finanziaria della Fiat, Gemina, acquistò il gruppo. Dunque, la fiat divenne proprietaria,
non soltanto della stampa, ma poté controllare il primo giornale italiano, per tiratura, che era il corriere della sera.

UN NUOVO QUOTIDIANO
Nel panorama giornalistico italiano, in questi anni, emerse una novità, la nascita di un nuovo giornale.
Il quotidiano «La Repubblica» fu fondato nel 1976, diretto da Eugenio Scalfari, già collaboratore de «Il Mondo» e
«L’Espresso».
I capitali del nuovo quotidiano romano provenivano dal gruppo «L’Espresso» presieduto da Carlo Caracciolo.
La repubblica si presentò subito come un giornale nuovo, ad iniziare dal formato. Aveva un formato tabloid, più
piccolo in dimensioni di pagina, in modo da rendere più maneggevole il giornale stesso. Scelta di notizie più brevi
che creò un giornale molto attento alle vicende politiche. Si distinse subito anche per una linea editoriale liberal
che portò subito il giornale a raggiungere le 150.000 copie in due anni.

GLI ANNI OTTANTA DELLE NOTIZIE : GIORNALI IN CRESCITA


All’inizio degli anni Ottanta, si registrarono cambiamenti nel panorama giornalistico italiano in conseguenza a
miglioramenti tecnici, oltre a fusioni e acquisizioni di testate che permisero sinergie ed economie di scala.
Il lavoro giornalistico mutò per l’uso massiccio di telefono e telescriventi, più rapidi e immediati. Le innovazioni
tecnologiche in campo informatico permisero ai giornali di arricchirsi di contenuti.
Questi cambiamenti, che toccano il lavoro del giornalista e il prodotto del lavoro giornalistico, portarono
inevitabilmente con sé anche cambiamenti nel modo in cui i contenuti sono presentati. A rendere ancor più
complesso il mondo giornalistico fu anche l’ampliamento del lavoro dei giornalisti che si dedicarono ai
radiogiornali e ai telegiornali. Queste attività giornalistiche richiedevano professionalità diverse, tecniche perché
le informazioni venivano trasmesse in modo differente. Inoltre, anche il linguaggio, lo stile e i contenuti
cambiarono in conseguenza all’uso di nuovi medium. Il giornalismo della carta stampata mutuò sempre di più,
prendendo le caratteristiche she stavano adottando i radiogiornali e i telegiornali. I diversi modi di fare
giornalismo, quindi, proprio in questi anni, influenzarono in modo massiccio anche il giornalismo più
tradizionale, quello della carta stampata.

In questo contesto inizia a rendersi più evidente la crisi della tiratura dei giornali. La trasformazione più evidente
fu la crescente diffusione e autorevolezza del nuovo quotidiano della repubblica che entrò sempre più in
competizione con il corriere della sera. Il «Corriere della Sera», infatti, perse lettori a favore de «La Repubblica»
che superò le tirature de «La Stampa». Il quotidiano economico «Il Sole-24 Ore» di proprietà di Confindustria
aumentò la diffusione (230.000 copie nel 1988), anche per scelte editoriali vincenti (dal 1983, uscì l’apprezzato
inserto culturale della domenica).

Di fronte ad un calo delle tirature, si registra però un aumento dei numeri delle testate a partire dal fatto che
alcuni giornali iniziarono a pubblicare degli inserti tematici che avevano l’obiettivo di attrarre nuovi lettori,
andando otre i più tradizionali prodotti dell’editoria. Inserivano gadget con giochi a premi abbinati al giornale per
attrarre nuovi pubblici.
Nel 1986 «La Repubblica» superò il «Corriere della Sera»: in un secolo di vita, era la prima volta che il quotidiano
milanese perdeva il primato nelle tirature.
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In seguito all’aumento del numero delle testate quotidiane, aumentarono i lettori totali dei quotidiani italiani: nel
1991 si raggiunsero quasi i sette milioni di copie. In questa trasformazione, crebbe anche il numero di giornalisti
impegnati nel lavoro giornalistico e crebbe anche la presenza femminile. Crebbero le testate, i giornalisti (8.000
nel 1978; 12.000 nel 1992) e la quota di donne (dal 12% al 25%).

TRA STAMPA E TELEVISIONE


Gli anni Ottanta e settanta sono caratterizzati maggiormente dalla concorrenza delle televisioni private che
indebolì la carta stampata dal punto di vista del pubblico e della raccolta pubblicitaria. La competizione non si
giocò solo sul numero di lettori o telespettatori ma anche nella raccolta pubblicitaria. L’ampliamento delle
potenzialità della televisione per le inserzioni pubblicitarie fece si che gli investimenti pubblicitari eran sempre più
indirizzato verso le televisioni private e delle radio. Questa competizione, quindi, andava a colpire il cuore delle
aziende giornalistiche: i bilanci e i profitti.
A causare la diminuzione dei lettori dei quotidiani furono anche le complesse vicende cha avevano colpito i
quotidiano come il corriere della sera.
In questa fase, nl corso degli anni Ottanta, emerse una competizione anche all’interno egli assetti proprietari dei
singoli giornali. I cambiamenti degli assetti proprietari, infatti, contribuirono alla crisi dei quotidiani e furono la
conferma della debolezza del settore editoriale in Italia.

LA GUERRA DI SEGRATE
Nel 1988, il gruppo Mondadori era controllato per un terzo ciascuno dall’amministratore delegato della Olivetti,
Carlo De Benedetti (Cir), dall’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi (Fininvest) e dai Formenton. La fotografia
proprietaria di questo grande gruppo editoriale era, dunque, tripartita.
Mondadori acquisì l’Editoriale L’Espresso ed ebbe il controllo di «La Repubblica», una catena di quotidiani locali
e i settimanali «Panorama», «Epoca» e «L’Espresso».

Nel 1989, i Formenton si accordarono per cedere a De Benedetti le loro quote entro il 1991, ma poi cambiarono
idea e vendettero le loro azioni a Fininvest, proprietaria di tre reti televisive nazionali (canale 5, rete4 e Italia 1).
Questa situazione creò una lunga contesa contrattuale passata poi ai tribunali, vicenda che si intrecciò a questioni
legate al rischio che un grande editore televisivo entrasse nel pieno controllo di una società che a sia volta
controllava un numero moto vasto di testate quotidiane e periodici.
La presenza di un imprenditore televisivo in una editrice proprietaria di giornali fu affrontata in Parlamento.

Nel 1990venne varata una legge che regolamentava il sistema televisivo e quello dell’editoria, questa legge stabilì
un tetto alla concentrazione di testate quotidiane e reti televisive in un’unica proprietà. Silvio Berlusconi, che era
diventato azionista di maggioranza della Mondadori, mantenne al proprietà delle reti televisive ma dovette cedere
la proprietà de «La Repubblica» e passare al fratello Paolo quella de «Il Giornale Nuovo» diretto da Montanelli.
Nel 1990 Berlusconi divenne presidente del gruppo Mondadori e De Benedetti, che aveva firmato con i
Formenton in accordo di vendita, intentò causa per questo cambio di decisione che aveva tolto dalle suo
possibilità di entrare nella quota di maggioranza del gruppo editoriale: le parti in causa concordarono di
sottoporre la questione all’arbitrato di tre giudici che emisero un verdetto («lodo Mondadori»). Questo verdetto
stabilì che berluscono doveva rimanere proprietario del settore della Mondadori editrice di libri e periodici mentre
a de Benedetti fu attribuita la priorità del quotidiano la repubblica e L’Espresso» e della catena di quotidiani locali
raggruppati nel gruppo editoriale Finegil.
Indagini successive stabilirono che Cesare Previti, avvocato Fininvest, aveva corrotto uno dei giudici e fu
condannato penalmente nel 2007, mentre per Berlusconi il reato risultò prescritto dal 2001.
La Cir di De Benedetti aprì una causa civile per stabilire il danno derivato dalla mancata acquisizione di
Mondadori.
Nel 2013 la Corte di Cassazione stabilì un risarcimento da parte di Fininvest a favore della Cir

GIORNALI TRA IMPRENDITORI E POLITICA


Negli anni ‘90, i maggiori quotidiani italiani erano tornati sotto il controllo diretto o indiretto di grandi
imprenditori (Agnelli, Berlusconi, De Benedetti). La situazione si fece ancora più complessa perché in questa
vicenda si resse ben evidente la ricaduta economica e politica di queste scelte.
Si confermò il collegamento tra imprenditori proprietari di giornali e classe politica: i giornali erano una leva
controllata da imprenditori per fare pressione sulle istituzioni e sui partiti.
Fallirono alcuni tentativi di nuovi quotidiani che non avevano appoggi negli ambienti politici e imprenditoriali:
«L’Indipendente» (1991), «La Voce» di Montanelli (1994)
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All’interni di questi cambiamenti il, all’inizio degli anni ‘90, il «Corriere della Sera» riacquistò il primato, ma in
un quadro di generale calo delle tirature; il gruppo Rizzoli corriere della sera fu in crisi chiuse «L’Europeo».
Una certa vivacità registrarono i quotidiani locali, molti legati nella rete proprietaria di Finegil (legata al gruppo
L’Espresso), anche con nuove testate.
Nel 1993 metà delle vendite erano del «Corriere», «Repubblica», «La Stampa», «Il Messaggero», «Gazzetta dello
Sport», «Corriere dello Sport» e «Il Sole-24 Ore». Il peso della pubblicità ormai era fondamentale per al vita dei
quotidiani; infatti, è stato calcolato che il 42% degli introiti era pubblicità; il 58% vendite.

22. GIORNALISMO E NUOVI MEDIA

GIORNALISMI A CONFRONTO
Tra gli anni Ottanta e Novanta, in confronto alla stampa anglosassone, il giornalismo italiano appariva più
politicizzato, con una scarsa mobilità professionale (scarso passaggio di un giornalista da una tesata all’altra)
caratterizzato da uno stile di scrittura più complesso.
In questa fase si confermò anche la distinzione tra stampa quotidiana elitaria e stampa settimanale più popolare,
con una forte presenza di giornali femminili.

LA STAMPA FEMMINILE
Nel dopoguerra, i periodici femminili continuarono una lunga tradizione, fiorente giù alla fine dell’Ottocento
Dopo la Liberazione, i giornali destinati alle lettrici presentavano modelli differenti di donna:
• casalinga e madre di famiglia
• alla ricerca di un ruolo pubblico sociale e politico.

Negli anni Cinquanta, la stampa cattolica era portatrice di un’immagine tradizionale di donna, che incarnava i
valori di dedizione alla famiglia e di morigeratezza, anche nei consumi. Altri giornali, invece, proponevano un
altro modello di donna che aveva possibilità di spazio per impegnarsi a livello politico e un ruolo pubblico.
Il mensile «Madre», fondato nel 1888 a Brescia, e il settimanale «Famiglia cristiana», nato ad Alba nel 1931,
dagli anni Sessanta innovarono moderatamente contenuti e stili, riflettendo le trasformazioni in atto nella società
italiana e nel cattolicesimo. Immagine di donna dove compariva, in misura sempre più evidente, il ruolo pubblico
che le donne potevano avere in campo sociale e politico

Anche la stampa femminile, rappresentata da settimanali come «Grazia» (nato nel 1928), «Gioia» (1937) e
«Annabella» (1938), diffondeva una immagine di donna estranea alla politica e interessata ai beni di consumo e al
miglioramento del proprio livello di vita.
Articoli e fotografie suggerivano però stili di vita e atteggiamenti che definivano il profilo di una donna
«moderna», distante dai modelli femminili più tradizionali.
Questi giornali si collocavano politicamente lungo una linea editoriale moderata, all’interni della quale, dal punto
di vista della cultura che veniva trasmessa, c’era una modernità di comportamenti che entrava in
contrapposizione con l’immagine di donna sempre mostrata
Furono soprattutto i partiti di sinistra a sostenere una stampa di ampia diffusione orientata politicamente e rivolta
al pubblico femminile.
A «Noi Donne» collaborarono esponenti politiche del Pci e del Psi, con articoli dedicati a educazione, lavoro,
leggi per la famiglia e cultura.
Dagli anni Settanta, il periodico si avvicinò alle posizioni del movimento femminista. Questo giornale riflesse poi
i cambiamenti che il movimento femminista portò all’interno della cultura, della società e della politica italiana.

I SETTIMANALI DEI QUOTIDIANI


Il successo editoriale dei settimanali, le prospettiva di una maggiore raccolta pubblicitaria e la possibilità di
contare sulle esistenti professionalità convinsero gli editori ad abbinare propri rotocalchi ai quotidiani. Il «Corriere
della Sera» dal 1987 propose il rotocalco «Sette» allegato all’edizione del sabato e dal 1996 il settimanale «Io
Donna» che consentiva di vendere maggiori spazi agli inserzionisti pubblicitari e ampliare suo pubblico
ampliando anche i giornalisti che scrivevano sul giornale.
«La Repubblica» nel 1996 lanciò «D-La Repubblica delle Donne», con l’ampio ricorso alle fotografie e ad articoli
su temi destinati a un pubblico femminile. Supplemento destinato al pubblico femminile con temi anche di
rilevanza sociale e politica.
100

LA CRISI DEI QUOTIDIANI E LA CONCENTRAZIONE DELL’INFORMAZIONE


Nonostante i tentavi di ampliare i pubblici, negli anni ‘90, risultò sempre più evidente la crisi di vendite dei
quotidiani, questo er dovuto alla concorrenza dell’informazione giornalistica e radiotelevisiva perché vi era una
saturazione di informazione all’interno della giornata dei potenziali lettori, radio spettatori e telespettatori. Flusso
di notizie insistenti che vedono una loro decisa accelerazione negli anni Novanta dove i giornali al richiedono la
fatica della lettura, molto pi semplice è ascoltare e vedere immagini. la crescente presenza di informazione sui
canali televisivi pubblici e privati stava creando una certa saturazione del pubblico.
Alla fine del decennio, aumentarono però i ricavi pubblicitari dei quotidiani, in parte dovuti all’esaurimento degli
spazi nei palinsesti televisivi.
Questa situazione legata alla pubblicità vide una certa ripresa delle entrate pubblicitarie destinate ai giornali.

In questa situazione però il panorama giornalistico e televisivo italiano, è caratterizzato dalla presenza di grandi
gruppi editoriali che controllano non soltanto i giornali ma anche canali radiofonici e televisivi.
Nonostante le leggi anti-trust, che cercavano di diminuire il potere nelle mani di imprenditori, approvate dalla fine
degli anni Ottanta, in Italia permasero poche grandi concentrazioni editoriali.
All’inizio degli anni Duemila, il gruppo Rizzoli corriere della sera e Mediagroup pubblicava «Corriere della Sera»,
«La Gazzetta dello Sport», settimanali come «Oggi» e «Novella 2000», mensili e free press che venivano regalati e
contenevano foto e premi. Inoltre, il gruppo rcs possedeva anche Radio Italia Network e le editrici Rizzoli, Fabbri
e Bompiani.

• Il Gruppo editoriale L’Espresso editava «La Repubblica» e una catena di quotidiani locali; controllava
Radio Deejay e Radio Capital, oltre al portale Kataweb.
• Il Gruppo Caltagirone possedeva «Il Messaggero» e «Il Mattino» e testate di free press.
• Fininvest controllava Mediaset (con Canale 5, Italia 1 e Retequattro), le edizioni Mondadori, Einaudi e
Piemme, periodici diffusi (tra cui «Panorama», «Sorrisi e Canzoni TV» e «Donna moderna»), la catena
Blockbuster e la Medusa Film
Pochi gruppi di grandi dimensioni hanno il controllo delle maggiori testate giornalistiche ed editoriali, hanno
quindi un importanza grandissima.

L’ERA DI INTERNET
Dagli anni Novanta, a trasformare ulteriormente il giornalismo e ad aggravare la crisi della carta stampata fu la
diffusione crescente di internet.
Il sistema di comunicazione digitale attraverso la connessione in rete di computer, nato in ambito militare e
scientifico e poi sviluppatosi per gli scambi di posta elettronica, coinvolse anche il giornalismo.
Gli editori proposero le notizie su internet non tanto per sperimentare le potenzialità di questo strumento, ma
primariamente per diversificare i canali pubblicitari.

Come altre innovazioni nelle comunicazioni, anche il web condizionò i modi di raccogliere, elaborare, diffondere
e vendere le notizie: notizie più brevi accompagnate da foto e immagini in movimento che accompagnano il testo
scritto. Internet pose dei problemi nella raccolta e redazione delle notizie: le redazioni dei giornali furono sempre
più invase dalle notizie, il problema divenne non tanto quello di raccogliere le notizie ma la selezione delle
notizie, non soltanto quella di quelle più importanti ma anche la verifica della veridicità delle notizie
La rapidità di circolazione e la quantità delle notizie nelle redazioni e tra i lettori impressero nuove esigenze e
creò nuove abitudini
I siti internet dei giornali imposero cambiamenti nel linguaggio, nei modi di gerarchizzare le notizie, nel rapporto
tra testi e immagini, anche video

L’apparente democratizzazione informativa generata da internet lascia aperte molte questioni: il lavoro di
selezione delle notizie, la gratuità dell’informazione, la verifica della veridicità dei dati, la pervasività del web…
Rimane la capacità di condizionamento sull’informazione da parte dei poteri economici e politici, attraverso
forme soltanto in parte diverse da quelle del passato. I condizionamenti, probabilmente, nell’era di internet, sono
soltanto più invisibili
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MODULO 3 – STORIA DELLA RADIO E DELLA TELEVISIONE


LEZIONE 28-29-30 [23-24-25/05]

23. IL PERIODO DELLE INVENZIONI

LE COMUNICAZIONI SU SCALA GLOBALE


Come tutta la storia dei mezzi di comunicazione di massa, anche la storia della radio e della televisione è una
storia che tiene insieme diverse dimensioni che sono quelle economiche, culturali, politiche e soprattutto una
dimensione tecnico-scientifica. In questo caso le tecnologie implicate in questi mezzi di comunicazione sono
fondamentali, la capacità dell’innovazione tecnologica diventa, infatti, fondamentale per dare una sorta di
competizione tra tutti gli attori che si muovono in questo settore.
Nel XIX secolo si svilupparono in modo rapido reti di comunicazione a distanza su scala globale. Il fenomeno si
legò a un insieme complesso di circostanze:
• le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche (in particolare sull’elettromagnetismo);
• la globalizzazione dei sistemi economici, con il ruolo crescente degli Stati Uniti. I contesti economici che
rendono possibile tutte le scoperte scientifiche che si sono avute
• la politica imperiale delle potenze europee
• la circolazione di fenomeni culturali a livello mondiale, le informazioni, infatti, favorirono la creazione di
una cultura e di una circolazione mondiale. I sistemi di comunicazione di massa che si muovono a livello
planetario sono così una causa e una conseguenza dei più complessivi fenomeni di globalizzazione.

La globalizzazione delle comunicazioni fu causa e conseguenza della più generale crescita delle connessioni
(sociali, economiche, politiche) su scala planetaria.
Inizialmente le trasmissioni a lunga distanza usavano la proprietà dei cavi elettrici di trasmettere impulsi elettrici.
Alla fine del XIX secolo, infatti, i mezzi di trasmissione delle informazioni sfruttavano la capacità dei cavi in
metallo di condurre impulsi anche per lunghe distanze. Impulsi codificati che erano in grado di trasmettere
segnali che trasmettevano delle lettere e dei numeri
Inizialmente lo sviluppo dei mezzi di comunicazione via cavo si rivolse inizialmente in due direzioni:
1. il telegrafo elettrico per la trasmissione di dati a distanza attraverso l’uso di codici (si diffuse l’alfabeto
stabilito da Samuel Morse, 1837 circa). Con l’alfabeto base di morse era possibile usare un cavo elettrico
per trasmettere da una stazione emittente ad una ricevente delle informazioni che venivano poi
codificate.
2. il telefono, per la trasmissione a distanza della voce, brevettato nel 1876 da Alexander Graham Bell (in
precedenza vi erano stati anche esperimenti di Antonio Meucci). Partendo dagli studi fatti in precedenza
per il telegrafo, si trasformarono gli impulsi elettrici in voce sonora udibile dall’orecchio umano e
trasformare la voce umana in impulsi elettrici.

Per poter sviluppare ulteriori ricerche era necessario avere risorse economiche e umane in grado di perfezionare e
migliorare degli apparecchi e dispositivi in grado di rendere la trasmissione via cavo con un segnale sempre più
pulito a distanze sempre maggiori.
Le potenzialità di questi mezzi erano state presto comprese dal mondo degli affari e dai governi:
• possibilità di investimenti e di profitti; gli imprenditori e i commercianti che avevano reti di affari che va
oltre la dimensione nazionale avevano proprio bisogno di una comunicazione su lunghe distanze
• sfruttamento per l’amministrazione dello Stato e per fini militari,
Economia e politica sono sempre implicate nello sviluppo delle telecomunicazioni, ovvero la comunicazione a
distanza.

TELEFONO E TELEGRAFO: POTENZIALITÀ E PROBLEMI


Il telefono e il telegrafo erano il cuore di questo nuovo settore all’avanguardia, dal punto di vista tecnologico e
produttivo. Inizialmente il problema della trasmissione della voce umana su lunghe distanze era secondario
perché, attraverso i cavi:
• il telefono garantiva le comunicazioni a breve distanza;
• il telegrafo codificava gli impulsi elettrici in lettere, sulla base dell’alfabeto Morse, e permetteva di
comunicare dati a distanze maggiori rispetto al telefono
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Il codice morse è un codice concordato e quindi sia chi trasmette che chi riceve doveva conoscerlo. Veniva usato a
livello mondiale per usare il telegrafo. Il codice morse era un alfabeto di base.
Il punto è un segnale breve mentre la linea un segnale lungo
Esistevano alcuni problemi nella costruzione di sistemi di telecomunicazione via cavo su larga scala e su lunga
distanza:
• costi degli impianti di trasmissione via cavo crescono con l’aumentare della distanza coperta; il costo
della produzione dei cavi e della loro posa era molto costosa visto che si trattava di sistemi delicati
sempre sottoposti a danneggiamenti degli agenti atmosferici. Inoltre, la necessità di collegare le maggiori
città europee con i territori coloniali richiedeva di inventare e costruire dei cavi sottomarini che
necessitavano di essere isolati quindi, dei costi supplementari per la loro manutenzione
• il segnale si disperde con l’aumentare della distanza, era quindi necessaria una maggiore potenza del
segnale per coprire una maggiore distanza. Si tratta di un problema tecnico che deve essere affrontati per
rendere la comunicazione sempre più rapida e precisa in grado di superare distanze molto alte

GLI STUDI SUI CAMPI ELETTROMAGNETICI


Lo sviluppo delle telecomunicazioni si basa su delle scoperte che mettono appunto alcune teorizzazioni e
applicazioni che portano alla possibilità di fare un salto dalla trasmissione via cavo all’utilizzo di onde
elettromagnetiche e la capacità dell’aria e dello spazio di condurre degli impulsi elettrici.
• Il fisico scozzese James Maxwell (1831-1879) teorizzò che elettricità, magnetismo e ogni luce sono
manifestazioni dello stesso fenomeno, vale a dire il campo elettromagnetico. Secondo lui il coordinarsi di
forze elettriche e magnetiche danno origine al campo elettromagnetico, teorizza l’esistenza di queste
onde
• Il fisico tedesco Heinrich Hertz (1857-1894) confermò l’esattezza delle teorie di Maxwell attraverso una
serie di esperimenti di laboratorio. Heinrich Hertz identificò le onde radio e riuscì a rilevarle, a metterle
in moto e a trasmettere impulsi elettromagnetici ad alcuni metri di distanza.

Hertz fu fondamentale per la verifica della teoria di Maxwell e per le sue prime applicazioni tanto che fu dato ad
un’unità i misura il suo nome: gli hertz. Gli hertz (Hz) sono l’unità di misura usata per misurare ogni evento
periodico.
L’uso più comune degli hertz è per descrivere la frequenza della rotazione nel campo delle telecomunicazioni: in
questo caso, una velocità di 1 Hz è uguale a un ciclo per secondo. Le frequenze tra 105 Hz (100 KHz) e 1011 Hz
(100 GHz) sono definite onde hertziane: sono usate per la radiocomunicazione.

Le onde elettromagnetiche sono dappertutto ma solo alcune sono fondamentali per le radiocomunicazioni.
Esistono tutta una serie di fenomeni che hanno tutti a che fare con le onde elettromagnetiche via via più intense e
potenti.

LE RADIOFREQUENZE
• LF: Low Frequency (bassa frequenza, onde lunghe)
• MF: Medium Frequency (media frequenza, onde medie)
• HF: High Frequency (alta frequenza, onde corte)

Il disturbo delle onde elettromagnetiche fu un problema per chi continuava a sviluppar la tecnologia per le
telecomunicazioni a distanza, doveva essere risolto per consentire una trasmissione a lunga distanza con un
segnale il più possibile pulito.

Negli anni Novanta dell’Ottocento aumentarono le ricerche e degli investimenti nel settore delle comunicazioni a
distanza. Ricerche teoriche e applicazioni che caratterizzarono costantemente tutta la storia della radio diffusione.
Già negli anni Novanta dell’Ottocento alcuni inventori iniziarono a costruire apparecchi per trasmettere un
segnale a distanza attraverso l’etere, senza fili (wireless), dunque senza contatti diretti e mezzi intermedi tra
emittente e ricevente. L’opera è da attribuire a una serie di scienziati che non lavorarono quasi mai da soli ma in
collaborazione e potendo contare sulle invenzioni e sulle scoperte scientifiche che altri prima di loro avevano
fatto. Es.
• Guglielmo Marconi, in Italia, aveva seguito da autodidatta le lezioni all’università di bologna e intuì che
era possibile perfezionare le scoperte che alcuni anni prima hertz aveva elaborato
• Nikola Tesla, ingegnere serbo emigrato negli Stati Uniti;
• Alexander Popov, in Russia;
• Reginald Fessenden e Lee De Forest, negli Stati Uniti
103

L’obiettivo di queste persone era realizzare la comunicazione senza fili (wireless), garantendo anche su lunghe
distanze una comunicazione da punto a punto e con il minimo di dispersione di potenza e il massimo di garanzia
di riservatezza. L’obiettivo era quello dir aggiungere grandi distanze e garantire la minore dispersione di energia
che trasposta il segnale ma anche quello di evitare l’intercettazione del messaggio e quindi garantire la massima
riservatezza. Furono messi a punto apparecchi che miglioravano la trasmissione dei segnali.
Si progettarono apparecchi per trasmettere e ricevere segnali udibili a lunga distanza, senza l’uso di fili: il
radiotelefono. In questa fase, però, non c’era ancora l’idea della radio come mezzo di comunicazione di massa
(broadcasting), come comunicazione che parte da una unica stazione emittente che trasmette il segnale ad un
pubblico svariato. In questa fase, dato che esisteva il telegrafo e il telefono, si cerca di sostituire quella funzione
con una comunicazione che non usa i cavi.

TECNOLOGIE PER LA COMUNICAZIONE SENZA FILI


Il mezzo di trasmissione dei segnali radio è rappresentato dalle onde elettromagnetiche. Alla fine dell’Ottocento,
la tecnologia telefonica e telegrafica aveva già perfezionato strumenti per convertire i segnali delle onde
elettromagnetiche in suoni udibili. Il nodo del problema era quindi costruire apparecchi per trasmettere e ricevere
segnali radio in maniera soddisfacente a lunga distanza

All’inizio degli anni Novanta, Marconi iniziò i suoi esperimenti. Per produrre le onde, fece scaturire una scintilla
da una bobina (un filo elettrico avvolto su un rocchetto), onde che riuscì a trasmettere a lunga distanza
perfezionando uno strumento che divenne poi fondamentale per gli anni successivi: il coesore. Il coesore era un
tubo contenente polvere metallica che in un circuito elettrico reagiva alle onde elettromagnetiche e si orientava e
consentiva il flusso di corrente.
Marconi aggiunse a questi elementi anche un’antenna che collegò a un codificatore di segnali Morse, questo
permetteva di amplificare il segnale in entrata. Per arrivare a questo primo apparecchio fece diversi tentativi e
intuì ce il suo apparecchio per la trasmissione e ricezione di segnali orse aveva fatto un salto qualitativo rispetto a
quello che venivano sperimentati in quegli anni. Nel 1895, riuscì a trasmettere un segnale radio oltre una collina.
Dopo i primi esperimenti in Italia, Marconi continuò a lavorare in Gran Bretagna e brevettò la sua invenzione.
Ad aiutare questo fu il fatto che la madre di Marconi era scozzese e quindi lui aveva una serie di contatti
all’interno dello stato inglese.
Brevetto: tutela del diritto di autore in campo tecnologico, Marconi che era un inventore e imprenditore molto
accorto, intuì che la sua invenzione potesse avere un redditizio molto alto e quindi incominciò a brevettare le sue
invenzioni. Fu l’unico legittimato a sfruttare le sue invenzioni, quindi, per questa ragione, fondò la sua prima
società commerciale in Inghilterra per la produzione e la vendita di apparecchi ricetrasmittenti (1897). Questa
società gli permetteva di far maggiormente fruire le proprie invenzioni e investire maggiormente in nuove
tecnologie.
Le sue invenzioni, subito, incominciarono ad attirare l’attenzione della marina britannica e di molte imprese
commerciali perché quegli apparecchi erano fondamentali per la comunicazione d terra a nave e tra una nave e
l’altra, cosa che la telegrafia via cavo non poteva consentire. Furono proprio la capacità inventiva e l’abilità
manageriale di Marconi a determinare il successo del suo telegrafo senza fili.
L’invenzione di Marconi inizialmente trovò applicazione per le comunicazioni da nave a terra e tra nave e nave.
Si iniziarono a usare gli apparecchi di Marconi anche per la comunicazione di notizie giornalistiche, prima in
Inghilterra e poi negli Stati Uniti, a iniziare dal “New York Herald” .
Per sfruttare commercialmente le sue invenzioni negli Stati Uniti, l’inventore-imprenditore fondò la Marconi
Wireless Company of America.

LE RICERCHE SULLA RADIOTELEGRAFIA


Marconi si inserisce in una fase di più complessiva innovazioni e crescenti scoperte in campo tecnologico e della
radiotelegrafia. Il successo delle invenzioni di Marconi si inserì in un periodo di forte sviluppo di ricerche sulla
radiotelegrafia e favorì l’invenzione di nuovi apparecchi.
I fisici Adolf Slaby e Georg Graf von Arco brevettarono in Germania i loro sistemi radiotelegrafici, all’origine
della società Telefunken
Negli Stati Uniti, dopo aver dato dimostrazione della trasmissione radio nel 1893, Nikola Tesla perfezionò alcuni
apparecchi per la trasmissione radio, oltre ad altri vari apparecchi che sfruttavano le proprietà dell’energia
elettrica e delle onde elettromagnetiche.
Il fisico russo Alexander Popov riuscì a trasmettere e a registrare nel 1896 un messaggio radio in alfabeto Morse a
una distanza di 250 metri. Due anni dopo, riuscì a trasmettere onde radio da una base navale a una nave in
movimento.
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Gli inventori iniziarono a offrire le loro scoperte alle società di navigazione, ai governi e alle marine militari di
diverse nazioni. Lo sviluppo tecnologico di questo periodo fu fortemente condizionato dai consistenti
finanziamenti dei governi e dagli investimenti delle imprese commerciali. Le conquiste coloniali richiedevano di
poter controllare e comunicare con territori posti a notevolissima distanza. Inoltre, gli scambi commerciali si
svolgevano su scala planetaria e richiedevano sistemi di comunicazione efficienti, rapidi e a basso costo.

In particolare, furono gli Stati Uniti a concentrare i maggiori investimenti nella comunicazione senza fili. Gli stati
uniti furono uno degli spazi nazionali in cui le innovazioni tecnologiche per la radiotelegrafia ebbero maggiore
sviluppo. Il suo crescente espansionismo commerciale e politico verso l’America Latina e il Pacifico e gli scambi
con l’Europa richiedevano di poter mantenere linee di comunicazione efficienti. Marconi comprese quando gli
stati uniti potevano essere un mercato formidabile per quegli apparecchi e quindi strinse inizialmente accordi con
la Marina statunitense per l’uso delle sue stazioni radiotelegrafiche e la vendita di apparecchi. Grazie alle sue
competenze, Marconi capisce che i suoi affari possono ulteriormente svilupparsi non soltanto con la vendita di
questi apparecchi radiotrasmissioni ma capisce che può proprio dar vita e sviluppare un settore vendendo dei
servizi e le stazioni di ricetrasmissione radiofonica, stipulando accordi di uso. Il problema che però continuò ad
esserci era quello delle interferenze che permettevano a chi era dotato di antenne riceventi di intercettare i
messaggi che venivano trasmessi. Il problema della segretezza, in particolare nel settore militare, fu un problema
che per molto continuò ad assillare gli inventori di apparecchi in questo campo. Vi erano, infatti, alcuni
inconvenienti tecnici: la difficoltà di regolazione della sensibilità del coesore e soprattutto le interferenze (che
impedivano la segretezza delle comunicazioni)
Su questi problemi fecero leva le imprese statunitensi concorrenti della Marconi Company che fu accusata di
essere uno strumento al servizio dell’imperialismo britannico. Dunque, che non fosse opportuno che il governo
statunitense affidasse il settore delle comunicazioni via radio ad un inglese. Questo perché si sospettava che
l’obiettivo della Gran Bretagna fosse di estendere il suo monopolio alla radiotelegrafia che si sarebbe aggiunto al
suo dominio sulla telegrafia elettrica via cavo.
All’inizio del Novecento, il clima di sospetto nazionalistico escluse la Marconi da accordi con la Marina militare
statunitense, lasciando spazio a aziende con capitali statunitensi. Questo fatto favorì lo sviluppo negli Stati Uniti
di nuove ricerche che portarono all’invenzione di strumenti per trasmettere parole e musica e non soltanto segnali
in codice Morse:
• l’ingegnere elettrico canadese Reginald Fessenden, all’Università di Pittsburgh, a inventare nel 1902 uno
strumento per trasmettere la voce attraverso un rivelatore elettrolitico, strumento che usa le reazioni
chimiche per trasmettere la voce e per trasformare le onde sonore della voce umana in impulsi elettrici,
apparecchio abbastanza sensibile per cogliere le oscillazioni della voce umana. Con la collaborazione di
Ernest Alexanderson, Fessenden mise a punto un alternatore che permetteva di emettere segnali radio
continui necessari per trasmettere in modulazione di ampiezza (AM). Questa tecnica consentì nel 1906 di
trasmettere voci e suoni attraverso l’etere, non venivano trasmessi soltanto più punti e linee ma un
insieme di onde che riuscivano a trasmettere l’ondulazione della voce umana e dei suoni.

Inizialmente i governi e le società commerciali non erano interessati alla trasmissione della voce attraverso l’etere
però la tecnologia della radio fu travolta da innovazioni e continui investimenti.
Marconi perfezionò il radiotelegrafo per superare distanze transatlantiche, mantenendo il segnale percepibile e
stabile (1901). Iniziarono a essere costruite stazioni ricetrasmittenti transatlantiche

Un’innovazione fondamentale per la costruzione di apparecchi radio in grado di trasmettere voce e suoni fu il
triodo a griglia (o audion), inventato da Lee De Forest nel 1905. L’audion aveva la funzione di raddrizzatore,
rivelatore, amplificatore, generatore di oscillazioni ad alta frequenza (progenitore del tubo elettronico a vuoto o
valvola, alla base anche dell’industria elettronica moderna) e trasmettere in modo molto più pulito voce e suono.
Questo apparecchio perfeziona l’emissione, la trasmissione e la ricezione della voce umana e dei suoni.
Nel 1907, De Forest fondò una società per sfruttare commercialmente la sua invenzione. Per pubblicizzare i suoi
prodotti, tre anni dopo, nel 1910, trasmise dall’Opera House di New York un recital del tenore Enrico Caruso.
Quindi, intuì che il sistema radiofonico poteva essere utilizzato per pubblicizzare i suoi prodotti e pensò che
potesse essere anche interessante far ascoltare della musica per rendere meno pesante la sua attività di
pubblicizzazione. Negli Stati Uniti e nei paesi più industrializzati aumentava il numero dei radioamatori che
ricevevano e trasmettevano voci e musica attraverso la radio. De Forest iniziò a produrre e vendere apparecchi
radio. In parallelo a questa attività, organizzò regolarmente trasmissioni radiofoniche con musica registrata su
dischi e spettacoli dal vivo per fare pubblicità ai suoi prodotti.
In questo momento nasce la radiodiffusione, ovvero la diffusione della radio in broadcasting ad un pubblico
differenziato, una trasmissione diffusa con obiettivo commerciale di far ascoltare la pubblicità, la musica
diventava funzionale al fatto di far primariamente ascoltare la pubblicità.
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Nonostante tutte le innovazioni che erano state messe a punto, in questi anni continuavano però a esistere
ostacoli a trasformare la radio in uno strumento di comunicazione di massa:
• Interferenze dei segnali radio
• Alti costi degli apparecchi trasmittenti e riceventi
• Grandi dimensioni delle radio e delle antenne
• Difficoltà nella sintonizzazione.
Il mondo finanziario, industriale e politico continuava a essere interessato allo sviluppo del telegrafo e del
telefono senza fili (da punto a punto: point-to-point, da un soggetto ad un altro soggetto) e molto meno alle
trasmissioni radio a un ampio pubblico (broadcasting). L’attenzione era quella di diminuire le difficoltà che si
riscontravano nelle trasmissioni comunicative e garantire un maggior riservatezza. Il mezzo di comunicazione
non erano ancora di massa e quindi il broadcasting aveva ancora poco sviluppo.

Dal 1914 alla metà degli anni Venti, alcune invenzioni risolsero una parte dei problemi tecnici delle trasmissioni
via radio. L’affondamento del Titanic nel 1912 e lo svolgimento della Prima guerra mondiale (1914-1918) resero
evidenti le potenzialità e la necessità di sviluppare le comunicazioni radio per fini commerciali e militari.
Durante l’affondamento del Titanic il telegrafista riuscì ad avvisare i soccorsi e questo rese evidente le potenzialità
dello strumento radio. Inoltre, da quel momento si rese obbligatori la presenza di un apparecchio radio e un
addetto alla ricetrasmissione dei messaggi su ogni imbarcazione in modo tale da poter essere assicurate.
Durante la Prima guerra mondiale l’obiettivo della diffusine del segnale era quello di garantire il massimo della
riservatezza e della segretezza delle comunicazioni militari all’interno della nazione.

I cambiamenti sociali provocati dalla Grande guerra resero possibile il passaggio dall’interesse industriale quasi
esclusivo per le comunicazioni da punto a punto all’interesse per le trasmissioni radio rivolte al pubblico. Anche
l’abbassamento dei costi di produzione e l’aumento dei radioamatori, le persone che provatamente usavano gli
apparecchi radiofonici per comunicare a distanza con persone definite ma anche recependo e raccogliendo i
segnali radio che stavano attraversando l’etere per mettersi in comunicazione con persone lontane anche migliaia
di chilometri, permisero la comparsa e l’affermazione delle comunicazioni radiofoniche in broadcasting, destinate
ad un pubblico più ampio.

RADIO IN BROADCASTING
La radiodiffusione circolare (broadcasting) è la trasmissione di informazioni da un sistema trasmittente a un
insieme di sistemi non definito a priori. L’invenzione della radio fu l’esito di ricerche e miglioramenti realizzati da
numerosi tecnici e aziende. La crescita della radiofonia accrebbe il suo valore strategico e suscitò gli interventi di
governi, società pubbliche, imprese private. L’aumento dei numeri dei radioamatori pose le problematiche di
regolamentazione della radiodiffusione perché avevano un valore molto strategico. Le autorità pubbliche avevano
l’esigenza di regolamentare l’uso delle frequenze per l radio diffusione.

Anche la questione dei brevetti legava molto politica e innovazioni, il possesso dei brevetti e quindi il diritto di
autore sull’applicazione tecnica diventò cruciale per tutto il settore della radiofonia. Ogni innovazione divenne
proprietà di imprese commerciali e industriali già attive o create per sfruttare i brevetti. I brevetti tutelavano la
proprietà intellettuale e quindi i contenuti tecnici di quell’invenzione, solo chi possedeva il brevetto poteva
sfruttare le invenzioni e quindi portava a usufruirne soltanto da parte di chi aveva creato queste innovazioni.
Queste invenzioni furono l’oggetto di battaglie legali, di accordi e di fusioni di società per controllare le
comunicazioni radio in singoli Stati e a livello internazionale. Questa sorta di monopolio e presenza di un gruppo
limitato di imprese nel settore della radiofonia, metteva in difficoltà i governi che i modo crescente avevano
compreso l’importanza strategica militare per le trasmissioni radiofoniche.

24. RADIO E TELEVISIONE TRA STORIA E TECNOLOGIA

I MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA: UNA STORIA COMPLESSA


Lo sviluppo della radio e, poi, della televisione come mezzi di comunicazione di massa si accompagnò al
crescente interesse delle imprese commerciali e dei governi per sfruttare il loro potenziale e per condizionarne i
contenuti e il consumo. La storia della radio e della televisione può essere osservata da 3 punti di vista differenti,
tra loro strettamente intrecciati:
• storia delle forme di consumo; Si tratta di esaminare l’impatto che i mass media hanno provocato a
livello sociale, significa indagare e porre attenzione ai cambiamenti che si sono avuti con la
programmazione e la nascita di tutte le emittenti radiofoniche e televisive come:
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- le trasformazioni culturali;
- l’uso nei contesti domestici;
- la creazione di un nuovo ambiente, ambiente virtuale che le trasmissioni radiotelevisive hanno
prodotto e continuano e creare
- la costruzione dell’identità nazionale;
- come gli individui si sono rapportati a un sapere condiviso;
- i mutamenti della struttura spaziale e temporale in cui si sono diffusi i programmi;
- l’elaborazione di un universo di valori
• storia delle forme di produzione; si tratta di considerare il potere dei mass media mezzi nel determinare
gli assetti sociali e politici, l’ingerenza di partiti e istituzioni pubbliche in radio e televisioni e il rapporto
tra politica, economia e mass media. Le istituzioni pubbliche hanno cercato di controllare le emissioni
radiofoniche e poi televisive e sono state poi anche loro stesse condizionate. Questo rapporto tra mass
media e potere mette al centro una delle questioni nodali che, in particolare dalla seconda metà del
Novecento, diventeranno fondamentali per comprendere le dinamiche interne alle società, diventate
sempre più di massa
Radio e televisione sono un potente apparato che ha contribuito a dare forma alla società: essi
influenzano i modi in cui gli individui percepiscono la società e i modi in cui gli individui si
percepiscono, cambiano il modo in cui i singoli individui costruiscono la propria identità.
Inoltre, i mass media sono in continua tensione tra il controllo che su loro è esercitato dal potere (non
solo politico) e la loro capacità di condizionare i diversi poteri. Questo porta ad una tensione continua e a
continui cambiamenti all’interno di questo settore.
• storia delle forme di rappresentazione; È possibile ricostruire la storia della radio e della televisione
osservando i testi, i generi e i sotto-generi, i linguaggi e la programmazione. L’analisi dei testi
radiotelevisivi rivela:
- le modalità formali della rappresentazione;
- offre un senso complessivo ai singoli significati e alle forme delle diverse programmazioni
radiotelevisive, inserendoli in un contesto più generale
L’analisi dei testi permette di andare dietro le quinte l’ascolto radiofonico e la programmazione
televisiva; quindi, lo studio della radio e della televisione deve considerare non soltanto l’assetto
istituzionale e i rapporti di potere, ma sono fondamentali anche i contenuti perché permettono meglio di
osservare i rapporti di potere al centro di questo settore.
Politica, economia, società e cultura sono gli elementi che influenzano i modi di organizzazione della radio e
della televisione nei diversi periodi e nei differenti contesti nazionali. A loro volta, moltissimi aspetti della vita
politica, economica, sociale e culturale sono condizionati dai mass media. È quindi fondamentale studiare come
nel Novecento si siano create e trasformate le connessioni tra questi diversi elementi e anche capire le ragioni e gli
esiti dei reciproci condizionamenti

IL PROBLEMA DELLE FREQUENZE


Il sistema radiofonico è stato condizionato dal ritmo delle innovazioni tecniche di trasmissione e ricezione e dalla
gestione delle frequenze. Il crescere dell’uso delle radiofrequenze in ambito militare ha posto la questione dell’uso
di altre frequenze per la fruizione radiofonica e televisiva.
La trasmissione di voci e suoni (e poi di immagini) attraverso le onde elettromagnetiche senza fili è possibile in
uno spettro di frequenze che è vasto, ma finito: da circa 15 KHz ad alcune decine di GHz. Lo spettro di frequenze
è un elemento che non può essere consumato: può però essere sprecato quando è mal ripartito. Per questo motivo
è stato necessario coordinare gli utilizzatori e definire regolamenti nazionali e internazionali.
La regolamentazione dell’uso delle radiofrequenze divenne subito un elemento essenziale già nelle prime fasi di
sviluppo della radio diffusione

Lo sviluppo della radiofonia ha imposto che gli utilizzatori dello spettro si accordassero per suddividere le
frequenze radio sul piano orario, geografico e della potenza dei segnali per massimizzare l’uso delle frequenze e
diminuire le interferenze. Questo venne fatto pr evitare che l’aumento delle frequenze andasse a intaccare il
segnale di tutte le altre, l’obiettivo era infatti sempre quello di garantire un ottimo segnale.

Le prime conferenze internazionali per la regolamentazione e la gestione dell’uso dello spettro delle
radiofrequenze riguardarono la standardizzazione degli impianti di radiofonia e le comunicazioni marittime
(Berlino, 1906; Londra, 1912; Washington, 1920). 10 A Londra nel 1925 fu fondata l’Unione internazionale
radiofonica (IBU, International Broadcasting Union): si distribuirono le frequenze per le emittenti radio in
Europa. Inizialmente fu la pressione degli stati europei e delle emissioni radio europee a premere per questa
regolamentazione.
107

ACCORDI INTERNAZIONALI PER LA RADIOFONIA


Nel 1925, in Europa vi erano 87 stazioni radiofoniche e altre se ne stavano progettando. Nelle conferenze
successive (Ginevra, 1926; Washington, 1927) si stabilì una suddivisione per garantire a ogni paese la copertura
del proprio territorio e per destinare le varie bande delle frequenze ai diversi servizi.

L’IBU impiantò a Bruxelles una stazione di misurazione delle frequenze di trasmissione delle stazioni europee:
fu esercitato un controllo sull’uso delle frequenze. Nel 1929, in Europa le emittenti erano 200 (mille nel resto del
mondo) e trasmettevano in onde corte; dieci anni dopo, erano 463.
Nel 1947, ad Atlantic City, fu costituito il Comitato internazionale di registrazione delle frequenze (organo
dell’IBU). Doveva pianificare sotto il profilo tecnico le conferenze internazionali per la radiofonia e preparare i
piani di registrazione delle frequenze, gestendo il Registro generale degli utenti.

Dopo il 1945, si moltiplicarono le radio in onde corte: durante la notte, riuscivano a trasmettere a grandi distanze,
ma si creavano rilevanti interferenze tra i diversi segnali radio. Si predispose un nuovo piano di attribuzione delle
frequenze in Europa a 520 stazioni (Copenaghen, 1949) Dieci anni dopo, le emittenti erano raddoppiate. Questa
moltiplicazioni di stazioni emittenti creava delle difficoltà nella sua regolamentazione: problema che interessava
l’Europa dove nel dopoguerra si contavano oltre 500 stazioni che trasmettevano onde radio.

Si diffusero, poi, le trasmissioni in modulazione di frequenza (FM) con l’uso della banda ad altissima frequenza
(VHF). Negli anni Cinquanta, la nascita di nuove stazioni televisive, che richiedevano una gran quantità di
frequenze, richiese una nuova definizione degli spazi per l’uso dell’etere

A contribuire al perfezionamento delle trasmissioni radiofoniche e televisive ci fu lo sviluppo dei computer. Dagli
anni Cinquanta, l’uso del computer permise di suddividere le frequenze con maggiore precisione. Ad aumentare
le possibilità di trasmissione a distanza vi fu il lancio nello spazio dei primi satelliti per le radio frequenze che
svolgevano la funzione antenne per cogliere i segnali e amplificarli. Nel 1957, l’Unione sovietica mise in orbita un
satellite artificiale. Un satellite statunitense, nel 1962, mise in collegamento due stazioni televisive negli USA e in
Francia.

A questo punto l’esigenza non fu poi soltanto regolamentare le trasmissioni radiofoniche e televisive collocate
sulla terra ma anche regolamentare le frequenze per le comunicazioni spaziali. La questione era divenuta di tipo
politico internazionale. La questione dell’attribuzione delle frequenze era ormai diventata una questione politica
che investiva i rapporti internazionali di potere.

25. IL PERIODO DELLE IMPRESE (1918 -1945)

RADIOFONIA E INDUSTRIA
Negli Stati Uniti, già prima della Grande guerra, alcune grandi industrie investirono ingenti risorse nella
radiofonia, acquistarono brevetti e ne svilupparono altri:
• American Telephone and Thelegraph (AT&T)
• General Electric
• Westinghouse
Tutte queste industrie eran già presenti per la telegrafia senza fili.

In Gran Bretagna, si consolidò il ruolo della Marconi’s Wireless Telegraph Company, che nel 1899 aveva creato
una consociata negli USA, la Marconi Wireless Telegraph Company of America per sviluppare il suo ruolo
economico negli stati uniti
In Germania, cresceva il ruolo della AEG-Telefunken, azienda che sviluppava anche innovazioni in nuove
tecnologie delle proprie attività.

LA RADIO NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE


Prima della Grande guerra, negli Stati Uniti, le grandi corporations controllavano i principali brevetti ed erano in
grado di condizionare gli sviluppi del settore. Durante la Prima guerra mondiale queste imprese rafforzarono le
loro posizioni, producendo radiotelefoni per gli eserciti e le marine militari. In questa fase negli stati uniti si
rafforzò il ruolo di alcune grandi imprese che controllavano i principali brevetti indispensabili per lo sviluppo
108

delle trasmissioni radiofoniche, proprio per questa forte concentrazione di brevetti erano in grado di condizionare
l’intero settore.
Con la guerra si ebbe un ulteriore rafforzamento delle società e delle aziende.

MODELLI DI GESTIONE DELLA RADIO


Nell’immediato dopo guerra, tra il 1920 e il 1934, si definì il passaggio della radio da mezzo di comunicazione da
punto a punto a mezzo di comunicazione di massa. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si definirono due sistemi
opposti di organizzazione radiofonica. Questi due modelli “classici” divennero esempi per i sistemi radiofonici
negli altri Stati. Questi due modelli di gestione delle radiodiffusione sono due modelli classici ai quai hanno fatto
riferimento tutti gli altri sistemi di organizzazione radiofonica negli altri stati. La premessa di questi due modelli è
che si sviluppano in contesti molto simili: sono caratterizzati entrambi da un sistema politico democratico e
liberale con un economia capitalistica e ruolo marginale dello stato per l’intervento pubblico nell’economica. Nel
settore della radio diffusione le scelte che furono fatte a livello politico rispetto alla gestione e organizzazione del
sistema radiofonico furono opposte, nonostante tutte queste somiglianze tra i due stati.
I due modelli che si crearono furono:
• il sistema a network statunitense, gestito da compagnie private sotto il controllo (molto limitato) di un
organismo pubblico federale; sistema a network basato su una pluralità di aziende private
• il monopolio pubblico della radiofonia in Gran Bretagna, controllo di un ente di stato di tutte le
trasmissioni radiofoniche, un unico ente pubblico era autorizzato a trasmette la radiofonia
In entrambi i casi a definire questi assetti furono le rispettive marine militari che volevano controllare la
radiofonia per scopi militari. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, infatti, le rispettive marine militari
patrocinarono e coordinarono lo sviluppo della radiofonia per fini bellici, dal punto di vista sia tecnologico, sia
organizzativo.
Alla fine della Grande guerra, le autorità militari dei due Stati intendevano creare un proprio monopolio della
radio, all’interno dei rispettivi territori nazionali, ma si dovettero confrontare con esigenze diverse.

STATI UNITI E GRAN BRETAGNA A CONFRONTO


Negli Stati Uniti, lo Stato inizialmente controllava tutte le stazioni radiofoniche ricetrasmittenti. Il governo voleva
affidare la radiotelegrafia e la radiofonia alla Marina militare, allo Stato o a una sola company sotto il controllo
dello Stato. Stava crescendo però il numero dei radioamatori. Da una parte c’era la potenza dell’esercito e della
marina e dall’altra parte l’emergere di radioamatori che si dilettavano nella trasmissione e nella ricezione di
messaggi attraverso l’etere. Questa crescita è rilevabile attraverso il numero delle licenze di trasmissione per radio
amatori. Tra il 1912 e il 1916, infatti, furono rilasciate 8500 licenze di trasmissione per radioamatori: molte
andarono a scuole e università, ma vi erano anche molti privati cittadini. I possessori di apparecchi riceventi
erano oltre 125.000, un numero di persone che non era interessato a trasmettere messaggi ma a riceverli e quindi
non serviva più la licenza perché doveva essere richiesta soltanto nel momento in cui si richiedeva di emettere
messaggi. Per questa ragione ci fu molta libertà per la radio emissioni, al contrario dell’Europa dove la tendenza
era abbastanza restrittiva per il timore che l’aumento delle radio emittenti avrebbe potuto intaccare le trasmissioni
militari e quelle delle navigazioni
In Gran Bretagna e nel resto dell’Europa, i governi erano riluttanti a concedere licenze di trasmissione. Le attività
dei radioamatori e delle compagnie commerciali disturbavano spesso le trasmissioni ufficiali e di servizio. Le
comunicazioni erano considerate strategiche e per questo il controllo della distribuzione delle frequenze era
affidato esclusivamente allo Stato.

Negli Stati Uniti, vi era una forte avversione per un possibile monopolio di Stato nelle telecomunicazioni. A
contribuire a questa organizzazione che tendeva ad escludere il controllo dello stato sul sistema radiofonico, fu il
rapporto molto stretto tra parlamento, governo, comandi militari e industria.
Inoltre, vi era una rilevante capacità di condizionamento delle lobbies; il personale dirigente tra le diverse
istituzioni (pubbliche e private) coinvolte nei progetti di radio-trasmissione spesso passavano dall’una all’altra.

Con la fine della Grande guerra, l’industria delle comunicazioni entrò in crisi di sovrapproduzione. A questo unto
le industrie che producevano apparecchi radio-ricetrasmittenti premevano sul governo affinché si sviluppasse un
organizzazione libera della radiofonia, cosa che invece non voleva la marina militare visto la sua vicinanza alla
creazione di un monopolio in questo settore. In questa situazione il risultato fu che prevalse la posizione sostenuta
dalle imprese private: riduzione del controllo degli organismi pubblici sul sistema della radiofonia.
Negli Stati Uniti, la creazione di un network di imprese nella radiofonia fu favorita da
• competizione per l’egemonia mondiale con la Gran Bretagna;
• timore che la Marconi Company avesse il monopolio;
• volontà di avvantaggiare le industrie statunitensi
109

LE PRIME GRANDI IMPRESE


La tendenza nel settore industriale statunitense era che le industrie spesso si accordavano per favorire il proprio
settore produttivo, limitando la libera concorrenza. A muoversi in questa direzione fu la general Electric per
diversificare i propri investimenti. Nel 1919, infatti, fu fondata la Radio Corporation of America (RCA), formata
da General Electric (GE) e American Marconi: per rafforzare l‘azione di lobbying verso il governo, lo statuto di
questa società prevedeva che un membro del governo doveva essere presente nel consiglio di amministrazione.
Questa nuova società concentrava in sé un numero moto elevato di brevetti che erano gli elementi cardini per lo
sviluppo economico e tecnologico delle comunicazioni radio. La RCA aveva quasi il monopolio, aveva la
prevalenza nel settore della commercializzazione dei prodotti legati alle trasmissioni radiofoniche, Non era un
monopolio ufficiale: la RCA possedeva però una concentrazione di brevetti che, di fatto, escludeva dal mercato la
concorrenza di altre società e controllava il servizio radiotelegrafico degli Stati Uniti.
L’obiettivo di questa uova società era quello di esercitare il controllo mondiale sulle telecomunicazioni, in stretta
competizione con la gran Bretagna. Era, dunque, un obiettivo con implicazioni politiche. Questa tendenza alla
concentrazione di industrie e alla formazione di veri e propri accordi tra aziende per concordare e limitare la
concorrenza fece sì che la RCA, sulla base del timore che la presenza di Marconi potesse esercitare una qualche
forma di influenza e di controllo in questo settore strategico, nel 1920 acquisisce da parte della RCA della quota
proprietaria della Marconi, mettendo ai margini la società di Marconi. A questo punto RCA e GE si accordarono
con AT&T e Western Electric che misero a disposizione i loro brevetti, in cambio di una presenza nel consiglio di
amministrazione della RCA.

La Westinghouse era rimasta esclusa da tali accordi e quindi cercò di ritagliarsi uno spazio che non fosse
occupato da questo grande gruppo trainato dalla RCA. Per intercettare l’interesse del pubblico di radioamatori,
nel 1920, iniziò a trasmettere regolarmente dei programmi per fare pubblicità ai propri ricevitori radio, sviluppò e
diede regolarità al sistema di radio diffusione in broadcasting. Questa iniziativa ebbe un grande successo e molti
furono i radioamatori che si collegavano a questa stazione radio. Il successo fu grande e immediato e quindi
anche la RCA aprì una stazione trasmittente a New York. Si inizia, così, a creare l’abitudine di appuntamenti
regolari e una programmazione comunicata attraverso i giornali, creati in parallelo alla nascita di queste stazioni
trasmittenti proprio per far sapere ai potenziali radio spettatori quale sia il programma della giornata.
Dunque, negli anni venti, negli stati uniti il settore della radiodiffusione vede la presenza di due colossi che sulla
base di un obiettivo commerciale, fare pubblicità ai loro prodotti, si inventano un nuovo genere di comunicazione
che unisce intrattenimento, musica e informazione.
Nel 1921, le grandi industrie si accordarono e nel consiglio di amministrazione della RCA entrarono
rappresentanti della Westinghouse e della United Fruit. Il network controllava oltre 2.000 brevetti: nato per la
radiotelegrafia, aveva raggiunto il controllo delle radiotrasmissioni commerciali in broadcast (radio diffusione).
Questo sviluppo pone le basi per la definizione del sistema radiofonico presente negli stati uniti.

CARATTERI DEL MODELLO STATUNITENSE


Il modello statunitense della radiofonia, posto come modello di una certa forma dell’organizzazione del sistema
radiofonico e in particolare per il rapporto tra imprese private e istituzioni pubbliche, era condizionato da alcuni
fattori particolari:
• l’enorme estensione territoriale degli Stati Uniti faceva si che vi fossero minori problemi di interferenze
tra le stazioni radiofoniche di quanto non avvenisse in Europa dove la maggioranza demografica
rendeva rilevante il fatto che le interferenze fossero più numerose;
• la diffusione del benessere fece aumentare i redditi e allargò la fascia di popolazione che poteva
permettersi acquisti superflui che potevano esser destinati all’acquisto di apparecchi radiofonici;
• la propensione all’investimento, tendenza ad investire i propri capitali ance in imprese economiche che
avevano un certo margine di rischio, questo permetteva alle aziende private di poter rivolgersi al mercato
azionario per ottenere dei finanziamenti. Questo favorì ulteriormente la crescita del settore privato e
delle aziende innovative che si si occupavano della radiocomunicazione
• l’alto numero di soggetti interessati allo sviluppo ella radio diffusione:
- Radioamatori
- Corporations
- Stato, governo, parlamento
- Agenzie di pubblicità, sono in stretta correlazione con le aziende e perfezionano le tecniche di
marketing facendole diventare una vera e propria scelta delle aziende, fornendo alle aziende private
strumenti per aumentare le proprie vendite e i propri profitti
110

Il successo della trasmissione in broadcasting fece sì che nel 1923, negli stati uniti, vi erano oltre 600 stazioni
trasmittenti, in gran parte locali e spesso sostenute da radioamatori dilettanti. Erano stazioni trasmittenti molto
spesso proprietà di scuola e università e a volte sostenute dall’intraprendenza di singoli.
Al centro però ci sono gli interessi economici delle grandi imprese, queste aziende avevano differenti fonti
effettive di reddito, in quanto le aziende pagavano le spese dell’attività di radiodiffusione attraverso le inserzioni
pubblicitarie. Chi ascoltava la radio lo faceva gratuitamente, non doveva pagare nulla. Le corporations, quindi,
non ricevendo nessun pagamento diretto dagli ascoltatori, si mossero in tre direzioni:
• ottennero il pagamento delle royalties per lo sfruttamento dei loro brevetti da parte dei radioamatori e dei
produttori di apparecchi radiofonici, i brevetti venivano ceduti per concedere ad altre aziende lo
sfruttamento delle tecnologie all’interno del brevetto
• allestirono proprie stazioni radiofoniche con un uso di frequenze molto ampio, stazioni che vengono
finanziate attraverso la pubblicità
• attraverso un’azione di lobbing, ottennero dal governo USA una suddivisione delle frequenze a loro
favorevole. L’obiettivo delle grandi aziende con stazioni trasmittenti era quello di avere una certa fascia
di radiofrequenze favorevoli per la propria azienda. Erano interessi commerciali e strategici anche da
parte delle istituzioni pubbliche per controllare questo settore.

In questi anni nell’opzione pubblica americana era diffusa l’opinione che la concentrazione industriale che ha un
controllo maggioritario di un settore economico (monopolio), sia un danno per l’economia in generale perché
raggira la libera concorrenza dei soggetti economici all’interno del mercato. Il governo impose anche delle leggi
anti-trust, ovvero anti-monopolistiche per evitare questa tendenza. Nonostante le tensioni tra le grandi aziende
radiofoniche e telefoniche del settore e le iniziative anti-monopolistiche, nel 1926 le corporations si accordarono e
fondarono la National Broadcasting Company (NBC), collegando una serie di stazioni radio presenti sul
territorio americano per creare economie di scala, raccogliere e ottenere contratti pubblicitari più favorevoli e per
garantire una buona qualità e varietà di programmazioni.
Tra il 1926 e il 1927, fu fondata la Columbia Broadcasting System (CBS) che si finanziava attraverso la
pubblicità e faceva concorrenza alla NBC. La differenza tra NBC e CBS era che la CBS nacque con l’obiettivo di
produrre programmi radiofonici e costituire una radio a livello nazionale. Dietro di sé non aveva un gruppo
industriale che produceva apparecchi radiofonici, come la NBC, ma aveva come interessi la creazione di prodotti
per trasmissioni radiofoniche.
NBC e CBS erano networks basati su una rete di radio locali. Le stazioni locali erano formalmente autonome e
gestivano programmi e pubblicità. A livello nazionale, esisteva un collegamento organizzato fra le stazioni locali
e la company capofila che forniva programmi e pubblicità. Queste due grandi aziende avevano il controllo
pressoché totale delle trasmissioni radiofoniche a livello nazionale.
Negli anni Trenta, nel clima politico del New Deal e della politica antimonopolistica del presidente F.D.
Roosevelt, il governo agì per rompere il monopolio nazionale di NBC e CBS nel settore delle trasmissioni
radiofoniche. Ovviamente, entrambe non erano d’accordo di limitare la loro sfera di azione monopolistica.
Nel 1943, dopo lunghe battaglie legali, la CBS dovette limitare l’opzione speciale sul tempo di programmazione
che aveva con le reti locali affiliate. La NBC mantenne soltanto la rete NBC-red e dovette vendere la NBC-blue.
La NBC-blue fu acquistata e trasformata nella American Broadcasting Company (ABC)
A questo punto il sistema statunitense è caratterizzato da una serie di aziende private che detengono un sistema
monopolistico, il controllo del governo rimane per evitare questo monopolio e per distribuire le frequenze.

IL MODELLO BRITANNICO
In Gran Bretagna, a prevalere furono le pressioni provenienti da istituzioni simili a quelle presenti negli Stati
Uniti (industriali, militari e politiche) che produssero la decisione del governo di orientarsi verso il monopolio
della radiofonia sotto il controllo pubblico. Al contrario di ciò che avveniva negli stati uniti dove il monopolio era
privato. A contribuire in modo determinante in questa scelta fu la scarsità delle frequenze disponibili, o meglio
c’era un affollamento delle frequenze, questo favorì la creazione del monopolio pubblico. Il governo, infatti,
considerò come priorità il controllo e la gestione delle frequenze per evitare interferenze con quelle della marina.

Dopo la Prima guerra mondiale, furono mantenute sotto il controllo pubblico tutte le stazioni radiofoniche
dell’Impero britannico. L’amministrazione e l’uso commerciale era del Post Office (che aveva già il monopolio
dei servizi telegrafici nazionali). Quindi, inizialmente era la posta che regolava a organizzava le radiotrasmissioni.
Le imprese private esistevano e partecipavano allo sfruttamento commerciale della radiofonia, vendendo
apparecchi radiofonici. Le aziende private, quindi, producevano attrezzatura per la radiofonia ed erano tenute a
pagare delle royalties, dei diritti, allo Stato sulla produzione e la vendita di questi apparecchi.
Da una parte abbiamo quindi le aziende private che vedevano strumenti e apparecchi e dall’altro lato però
dovevano pagare una tassa su ogni prodotto venduto che aveva a che fare con la radiofonia.
111

L’attività commerciale radiofonica era considerata come un elemento marginale da parte del governo. La British
Marconi aveva iniziato nel 1920 a trasmettere musica, discorsi e qualche notizia in broadcasting, ma la licenza
concessa dal Post Office fu ritirata qualche mese dopo. Il timore che queste trasmissioni di svago potessero
influire e interferire sulle comunicazioni della marina, fecero sì che anche questo tipo di radiofonia non venne
ammesso.
Nonostante ciò, però, molti radioamatori sperimentavano nuovi contenuti e innovative forme di trasmissione. Il
pubblico, attraverso campagne di stampa, manifestava il proprio crescente interesse ad ascoltare programmi di
intrattenimento. Le industrie produttrici di materiale elettrico e radiotelegrafico volevano creare un nuovo
mercato per i propri apparecchi
Nel 1922, in Gran Bretagna furono autorizzate le trasmissioni radio da parte del Post Office. Il governo britannico
si orienta ad organizzare anche una propria stazione trasmittente che sarebbe stata finanziata attraverso le tasse
che le aziende dovevano pagare sugli apparecchi radiofonici prodotti (royalties) e richiedendo agli ascoltatori un
canone di abbonamento. Si poteva legittimamente ascoltare la programmazione radiofonica solo dopo aver
pagato un canone di abbonamento allo stato. Questo venne fatto perché il governo voleva mantenere il controllo
per garantire uno sviluppo ordinato. Inoltre, ci furono anche ragioni etico-politiche che favorirono questo
controllo statale che si basava sull’idea di un servizio pubblico e su fonti certe di finanziamento per la radiofonia,
non derivate dalla pubblicità. Prevalse, infatti, l’idea della radio come strumento di elevazione culturale del
pubblico, ispirata da motivazioni religiose e umanitarie.

Un ruolo determinante in questa fase ebbe la compagnia di Marconi che aveva la prevalenza nel settore della
commercializzazione di apparecchi radio. La scelta di controllo da parte del governo non fu contrastata dalla
british Marconi perché poteva fornire tutte le apparecchiature per i servizi radiofonici. La scelta della
concentrazione monopolistica, infatti, fu appoggiata dalla British Marconi che si garantì una parte consistente del
mercato dei trasmettitori e dei ricevitori.
Nel 1922, fu poi fondata la BBC (British Broadcasting Company) per la trasmissione di programmi radio
regolari. Nel consiglio di amministrazione vi erano i rappresentanti delle sei companies principali e del Post
Office.
Gli introiti della BBC provenivano da:
• il canone di abbonamento pagato da ogni utente;
• le royalties pagate dalle industrie sugli apparecchi prodotti e su quelli venduti.
Il mercato dei ricevitori domestici fu sottoposto dallo Stato al regime protezionistico, stretto controllo da parte del
governo che si aveva anche nella produzione e nella commercializzazione delle radio e non solo più nelle
trasmissioni radiofoniche. Gli abbonati del servizio radiofonico crebbero rapidamente: erano 36.000 nel 1922;
2.178.000 nel 1926 anche grazie all’alto livello culturale delle trasmissioni rispetto alle programmazioni che si
avevano negli stati uniti. L’assenza di pubblicità fu sostenuta da ragioni etiche e per garantire un elevato livello
culturale alle trasmissioni, le entrate della Bbc non erano dunque sostenute da questo ma dalle royalties e dal
canone di abbonamento deli radio spettatori.
Pr rafforzare il ruolo e la dimensione pubblica delle trasmissioni radiofoniche e della Bbc, nel 1926, la
BBCompany divenne la British Broadcasting Corporation. Nel cui consiglio di amministrazione non vi erano più
rappresentanti delle industrie private, ma soltanto rappresentati di istituzioni pubbliche. Ma per rendere la Bbc un
organismo che rappresentasse i cittadini si decise di sottoporre lo statuto della Bbc alla corona, il re approva lo
statuto della Bbc rendendola estranea alle contese politiche che, invece, il governo poteva riflettere. Il ruolo di
ente pubblico della radio, sopra le parti, diede alla Bbc un ruolo e un autorevolezza non soltanto in gran Bretagna
ma anche al fi fuori di essa.
Nel 1927, in Gran Bretagna, le aziende private uscirono dal settore della programmazione radiofonica. La nuova
BBC agiva quasi come un’azienda privata, ma con il controllo finale pubblico, anche se non del governo. Era
considerata una “radio della nazione”, sopra le parti e senza fini commerciali. Il canone di abbonamento e la
commercializzazione dei programmi erano le uniche fonti di finanziamento della BBC.

LA TELEVISIONE TRA PUBBLICO E PRIVATO


Lo sviluppo della radiofonia fu anche fondamentale per la nascita della televisione, sia negli stati uniti sia in gran
Bretagna. La nascita e lo sviluppo della televisione dopo la Seconda guerra mondiale ebbero effetti diversi sui due
sistemi:
• Negli Stati Uniti, il sistema televisivo si organizzò intorno agli oligopoli di NBC, CBS e ABC e lasciò
inalterato il loro potere. Queste svilupparono al loro interno programmi che svilupparono il settore
televisivo, dunque, crearono un sistema che porterà poi alle trasmissioni televisive. Il sistema televisivo, si
organizza in modo speculare e integrato con le tre grandi società che già consentivano le trasmissioni
radiofoniche.
• In Gran Bretagna, nel 1950 la BBC aprì un canale televisivo, senza pubblicità. Nel 1954, dopo intensi
dibattiti, fu concesso a un canale privato finanziato dalla pubblicità di trasmettere programmi televisivi.
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LEZIONE 31-32-33 [30-31/05 – 01/06]

26. LE ORIGINI DELLA RADIODIFFUSIONE IN ITALIA

LA RADIO IN ITALIA
In Italia, il passaggio dalla fase sperimentale all’organizzazione operativa e allo sfruttamento commerciale delle
radiocomunicazioni avvenne nei primi anni del Novecento. Nel 1902, Guglielmo Marconi aveva concesso
gratuitamente per vent’anni all’Esercito e alla Marina l’uso dei suoi brevetti, visto che l’obiettivo era di poter
inserirsi e vendere i suoi servizi e prodotti all’esercito e alla marina, in seguito visto che le condizioni economiche
dell’Italia erano più instabili risetto a quella della gran Bretagna.

La legge del 1910 considerava le comunicazioni radio un servizio pubblico. Lo Stato concedeva a società private
l’esercizio delle trasmissioni radio per la radiotelegrafi e la radiofonia. Le aziende private che agivano in questo
settore, quindi, lo facevano grazie ad una concessione da parte dello stato.
Radiotelegrafia e radiofonia erano accomunate e non erano previste trasmissioni circolari (broadcast). Anche qui
l’obiettivo era quello die vitare interferenze con le comunicazioni dell’esercito e della marina e quindi non si era
ancora sviluppata l’idea del broadcasting. Le preoccupazioni erano soprattutto militari e legate alla sicurezza
nazionale.

LA RADIO IN GUERRA
Nella Prima guerra mondiale, erano stati usati strumenti radiofonici per le comunicazioni militari. Dopo il
conflitto, furono riprese le iniziative sulla radiofonia per scopi civili. Nel 1916, Marconi aveva stipulato
convenzioni con il governo italiano per i servizi radiotelegrafici e radiotelefonici, proponendo i suoi prodotti e le
innovazioni che aveva sviluppato e che stava commercializzando in gran Bretagna e negli stati uniti.

In questa fase anche in Italia, si consolidò la volontà di vigilanza da parte dello Stato sui servizi radio, scelta
rafforzata dal governo fascista. La nascita della radiodiffusione seguì di poco l’avvento al potere del fascismo
(1922). Questo condizionò l’assetto complessivo della radiodiffusione. Le difficoltà economiche e le poche
imprese private attive nel settore condizionarono lo sviluppo della radiofonia in Italia. Gli imprenditori italiani
sostenevano la necessità di indipendenza della radiofonia da società straniere e dunque di una politica
protezionistica tesa a tutelare gli interessi delle industrie di capitale italiano tendendo ad escludere le proprietà
straniere, questo con un paradosso perché Marconi era italiano ma aveva grandissimi interessi in questo settore
sia in gran Bretagna che in America.

LA RADIODIFFUSIONE IN ITALIA
Il gruppo Marconi, già prima della Prima guerra mondiale aveva fatto accordi con la marina italiana, in vista di
uno sviluppo di tecnologie di radiofonia e radiotelegrafia anche in Italia. Infatti, dopo la Prima guerra mondiale,
aveva fondato nel 1920 l’Agenzia radiotelegrafica italiana. Per aumentare la capacità di investimenti i questo
settore si fece poi capofila di un insieme di industrie private che si accordavano per la fondazione della SISERT.
Nel 1921, dunque, era stata fondata la Società italiana per i servizi radiotelegrafici e radiotelefonici (SISERT),
presieduta da Marconi: la radiofonia non era però tra i servizi offerti.
Nel 1922, la società Radio Araldo sperimentò a Roma un servizio di radiodiffusione, ma molto limitato. Radio
araldo aveva già sperimentato negli anni precedenti un sistema di diffusione con filo per la diffusine di musica e
notizie a coloro che erano abbonati.

Fino al 1922 il gruppo Marconi detenne l’esclusiva in Italia sulla radiofonia. La scelta di Marconi di continuare
ad avere una prevalenza nell’intero settore delle comunicazioni fece s che lui si muovesse e agisse nei confronti
del governo per riuscire ad avere un ruolo preminente all’interno del settore della radio diffusione. La volontà era
quella di far si che alla SISERT avesse l’esclusiva dei servizi radiotelegrafici, radiotelefonici e in radiodiffusione.
L’obiettivo presentato al governo era quello che una società italiana avesse l’esclusiva su questi settori, strategico
per la sicurezza internazionale. Marconi, quindi, intervenne nel 1923 presso Mussolini per ottenere la concessione
dei servizi radiofonici alla SISERT, in modo da escludere le società straniere.

Il governo, con un decreto del 1923, riservò allo Stato l’impianto e l’esercizio di comunicazioni radio, con la
facoltà però di affidarli in concessione, a pagamento, anche a una pluralità di soggetti. Questa era la prima legge
che regolamentava il settore della radiofonia: lo Stato fissava le norme di funzionamento del servizio e stabiliva la
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preminenza del governo nelle scelte sulla radiofonia in caso di tutela della sicurezza pubblica. C’era l’indicazione
che potesse esserci una pluralità di soggetti che potevano agire in questo settore.
Questa fase della radiodiffusione riguardava un numero limitato di persone ma il governo fascista, in coerenza
con il forte controllo e la vigilanza su molti aspetti della società, si mosse verso questa scelta di avvocare e
concentrare nelle mani dello stato la possibilità di concedere l’esercizio delle telecomunicazioni via radio. Era una
situazione che, dal punto di vista giuridico, tiene insieme alcuni aspetti del sistema britannico lasciando però la
presenza di alcuni operatori privati.

COMPETIZIONE PER LA RADIOFONIA: AZIENDE ESTERE IN ITALIA


In Italia erano già attive nella radiotelegrafia, Telefunken e Société Générale de Télégraphie Sans Fil che
sostenevano un progetto di trasmissione a onde lunghe. Dopo il decreto del governo sul settore della radio
diffusione, il gruppo Marconi presentò un progetto basato sulle onde corte, più economico rispetto a quello
tedesco e francese. Il governo, in questa fase, non intendeva affidare a una sola società il servizio radiofonico e
stipulò un accordo con le società tedesca e francese. Inizialmente, quindi, il governo, per sviluppare un sistema in
cui operano più soggetti privati, opta per concessioni condivise.
Il gruppo Marconi, quindi, non riuscì a creare un servizio radiotelegrafico e radiotelefonico sotto il suo controllo
esclusivo. Si innescò così una lotta per la concessione del servizio di “radiofonia circolare”. Per sviluppare questo
particolare servizio, il gruppo Marconi fondò nel 1923 la Radiofono con altre industrie radioelettriche (tra cui la
Allocchio Bacchini) per sviluppare anche quelle tecnologie necessarie per la trasmissione di servizio radiofonici e
di apparecchi per la trasmissione e la ricezione della radiodiffusione. In questo campo, però, era attiva anche la
SIRAC che vendeva in Italia gli apparecchi della statunitense Western Electric

Le imprese tedesca e francese (Telefunken e SGTSF) costituirono la Italo Radio, con la partecipazione di
imprenditori italiani del settore elettrico e radioelettrico e il sostegno della Banca commerciale italiana.
L’obiettivo era entrare nel mercato della radiofonia italiana che sembrava avere forti possibilità di sviluppo.

Un cambiamento in questo settore si ebbe nel 1924, quando fu nominato ministro delle Comunicazioni Costanzo
Ciano che doveva scegliere il concessionario del servizio radiofonico e aveva eccellenti rapporti con Marconi.
Condizionato da questi rapporti di conoscenza e anche legato alla volontà del governo di mantenere un controllo
sul settore delle telecomunicazioni, decise di concedere ad un unico società il servizio di radiodiffusione. Per
evitare la concorrenza reciproca, Radiofono e SIRAC si fusero e fu costituita l’Unione Radiofonica Italiana
(URI), nel cui capitale era presente anche la FIAT: come presidente fu nominato Enrico Marchesi, già direttore
centrale della FIAT.

TRASMISSIONI E UTENTI DELLA RADIO


Il 6 ottobre 1924, alle ore 21, andò in onda la prima trasmissione radiofonica italiana. Nell’intervallo del concerto
furono trasmessi il bollettino meteorologico, le notizie di Borsa, una conversazione su “Le radioaudizioni
circolari” e le modalità per l’abbonamento. La prima giornata di trasmissioni si concluse alle 22.30 con un
notiziario. Questo servizio era concesso in seguito ad un abbonamento, poteva, quindi, ascoltare legittimamente
le trasmissioni radiofoniche coloro che stipulavano un abbonamento con l’URI. Gli utenti della radiofonia
dovevano dunque pagare un abbonamento alla società che erogava il servizio.

Fino alla fine del 1924, le trasmissioni proseguirono per due ore al giorno, dalle 20.30 alle 22.30. Gli utenti erano
circa 15.000 e l’abbonamento costava 75 lire.
All’Agenzia Stefani furono affidati i servizi giornalistici radiofonici.

L’AUTORITÀ DELLA RADIO: CONTROLLO E SOSTEGNO STATALE


L’URI fu la prima società di broadcasting italiana: fu eliminata la concorrenza francese e tedesca e la Western
Electric poté vendere i propri apparecchi trasmittenti e riceventi in Italia. Le scelte del governo sulla radiofonia,
infatti, erano coerenti con la politica di sostegno dell’iniziativa privata e di controllo pubblico degli strumenti di
comunicazione che era un settore strategico per lo stato. La situazione, dunque, si delineò per il sistema della
radiofonia in Italia come un sistema in cui pubblico e privato avevano una convergenza di interesse.
Nelle società capitalistiche e con un regime autoritario, il controllo della stampa attraverso accordi con la
proprietà editoriale è il più vantaggioso per il potere politico e per le imprese private. Questa concessione ad un
unico soggetto della radiofonia riscontrava la preferenza sia delle imprese private e anche l’interesse e la
convergenza dello stato ad esercitare un controllo, il più possibile ristretto, sui contenuti e sulle trasmissioni
radiofoniche. Inoltre, la presenza all’URI di un uomo di fiducia della FIAT, che aveva stretti rapporti con il
governo, garantì un controllo indiretto del fascismo sul nuovo strumento di comunicazione.
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Nel 1926, il presidente della FIAT, il senatore Giovanni Agnelli, acquisì la proprietà de «La Stampa» e quindi
questa scelta della fiat di essere presente all’interno di una società come l’URI, che intendeva potenziare in Italia
la radiodiffusione, si colloca all’interno di scelte industriali che intendevano portare anche ad una presenza
rilevante nel settore della comunicazione.

Il sistema radiofonico italiano aveva inizialmente pochi abbonati, una rete trasmittente limitata e aziende semi-
artigianali di produzione di apparecchi che avevano bisogno di qualcuno specializzato che sapesse utilizzarli.
Queste esigenze di capacità economiche e tecniche continuavano a mantenere l’ascolto radiofonico come
un’esperienza limitata a poche persone. Per questa ragione, la carta stampata continuava ad avere un ruolo
centrale nella cultura e per la propaganda politica anche se al governo e agli industriali risultarono comunque
sempre più evidenti le potenzialità della radiodiffusione.

I REGI DECRETI DEL 1924 E IL REGIME DI MONOPOLIO DELLA RADIOFONIA IN ITALIA


Due regi decreti del 1924 stabilirono norme e modalità del servizio radiofonico, a iniziare dai contenuti delle
trasmissioni. Per i primi anni le trasmissioni radiofoniche trasmettevano soprattutto:
• concerti e rappresentazioni teatrali (radio-drammi)
• conversazioni su argomenti culturali e artistici
• notizie.
Si trattava di una fascia di programmazione legata all’intrattenimento, agli approfondimenti culturali e alle
informazioni giornalistiche.
Il primo problema della radiodiffusione in Italia erano i finanziamenti che inizialmente arrivavano dagli
abbonamenti ma che erano troppo scarsi per poter aumentare le entrate dell’ente radiofonico. Di conseguenza
incominciarono ad essere ammessi inserti pubblicitari all’interno delle stesse trasmissioni radiofoniche. Viene
presa dal modello statunitense la possibilità di aumentare gli introiti proprio grazie alla pubblicità.
Inoltre, già dall’inizio si vede la volontà del governo di controllare le informazioni e la comunicazione, infatti, le
notizie erano trasmesse dopo un controllo dell’autorità politica locale, a meno che non provenissero dall’Agenzia
Stefani. Dal 1926, fu consentito di trasmettere le notizie pubblicate dai giornali, a meno che non fossero stati
sequestrati.

Con la convenzione del 1924, parallelamente all’emanazione dei regi decreti che regolavano il sistema della
radiodiffusione, il Ministero delle comunicazioni concesse all’URI l’esclusiva della radiodiffusione su tutto il
territorio nazionale per sei anni. Sulla base di questa convenzione l’URI si impegnava a trasmettere per un certo
numero di ore al giorno e ad ampliare la rete delle trasmittenti. Affianco a questo l’URI si impegnava anche ad
ampliare la rete di antenne trasmittenti per garantire la possibilità di ascolto al di fuori delle aree fino ad allora
servite, per arrivare in aree più ampie del territorio italiano. In cambio di ciò, che richiedeva investimenti, furono
stabiliti lievi dazi sull’importazione di materiale radiofonico. Dunque, si tratta ancora di una politica
protezionistica a favore delle imprese italiane.

Il governo, inoltre, si riservava due ore al giorno per eventuali proprie trasmissioni e obbligava la concessionaria a
diffondere comunicati urgenti anche durante le trasmissioni regolari. In cambio di questi vincoli imposti all’URI,
il governo si impegnava a non dare ad altri la concessione per servizi radiofonici in Italia. Fu così stabilito un
regime di monopolio. Nel 1924, il 55% della proprietà dell’URI era di privati, ma, negli anni successivi, lo Stato
ottenne la maggioranza della partecipazione azionaria.

27. LA RADIO NEGLI ANNI DEL FASCISMO

I DIFFICILI INIZI DELLA RADIO IN ITALIA: DIFFICOLTÀ E LIMITI


Alla metà degli anni Venti, in Italia l’ascolto radiofonico non era ancora un fenomeno collettivo: i radioamatori
era interessati più all’aspetto tecnico della radiofonia che alla varietà dei contenuti. Gli apparecchi riceventi erano
soprattutto radio a galena, spesso vendute ancora da montare. Nel 1925, le uniche due stazioni che trasmettevano
programmi in radiodiffusione in Italia erano a Roma e Milano. Nel 1926, si aggiunse quella di Napoli.
Gli ascoltatori erano nel 1926 soltanto 26.000, di ceti abbienti appartenenti alla borghesia medio-alta, soprattutto
giovani, appassionati delle nuove tecnologie, abitanti nei centri urbani. L’URI voleva far crescere velocemente gli
abbonamenti e la vendita di apparecchi per creare un pubblico di massa.
L’aumento del numero dei radioascoltatori era frenato in Italia dal costo elevato degli apparecchi, da una
produzione non di serie degli apparecchi e dalle difficoltà di ricezione delle trasmissioni
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Per cercare di far crescere gli ascolti e la vendita di apparecchi radiofonici, l’URI, cerò una programmazione che
potesse incontrare i gusti del pubblico che era molto interessato ad ascoltare musica, programmi di
intrattenimento inoltre, l’obiettivo delle aziende costruttrici era produrre uno strumento domestico e di facile uso.
L’ente radiofonico voleva proporre programmi graditi a un pubblico potenzialmente molto vasto.
Nel 1925, quindi, fu fondato il settimanale dell’URI «Radiorario» che favorì la circolazione delle informazioni e il
dialogo con gli ascoltatori. Il Radiorario si caratterizzò con un dialogo dei lettori ascoltatori, c’era, infatti, uno
spazio chiamato la posta del lettore che instaurò una forma di dialogo tra i lettori e l’azienda radiofonica,
mettendo in luce i programmi più graditi e consigli su programmazioni da progettare e realizzare.

La diffusione dell’ascolto radiofonico fu alimentata dall’efficacia della pubblicità commerciale sulla radio e alla
radio. La raccolta delle inserzioni pubblicitarie fu affidata in esclusiva alla SIPRA (Società italiana pubblicità
radiofonica anonima), fondata nel 1926 per sfruttare un mercato limitato, ma in crescita. Nel 1929, il pacchetto di
maggioranza della SIPRA fu acquistato dalla SIP in cui avevano grande influenza le maggiori industrie italiane
Nella seconda metà degli anni Venti, aumentarono le inserzioni pubblicitarie sui giornali per la vendita di
apparecchi radiofonici, le campagne promozionali per la radiofonia e i radio concorsi. La pubblicità alla radio
divenne un elemento essenziale nella costruzione delle trasmissioni e una risorsa finanziaria indispensabile

RADIO COME STRUMENTO DI COSTRUZIONE DEL CONSENSO AL REGIME FASCISTA


L’aumento degli ascoltatori fu uno dei segnali della modernizzazione che stava avvenendo nella società italiana e
accompagnò il progetto del fascismo di istituzione di un regime totalitario di massa. Quello che accade in questo
periodo è che si intuisce che se la radio fosse diventata uno strumento per raggiungere fasce ampie della
popolazione poteva essere uno strumento utile, nelle mani del governo, per propagandare all’interno delle masse
per integrare fasce sempre più ampie della popolazione all’interno dello stato fascista. Inizialmente, però,
mussolini non comprese queste potenzialità della radio e riteneva fossero soprattutto i giornali uno strumento
valido di costruzione del consenso al regime fascista. Progressivamente, anche di fronte all’aumento degli
ascoltatori della radio, percepì che la radio potesse essere un forte strumento per aumentare i consenso al regime
fascista. La costruzione del consenso politico degli italiani e l’integrazione delle masse nello Stato fascista ebbero,
quindi, nella radio un valido strumento di sostegno.

Dopo la svolta totalitaria del regime del 1925, gli interessi industriali delle imprese e il sostegno dello Stato per lo
sviluppo della radiofonia si intrecciarono più strettamente con la rilevanza politica delle radioaudizioni. Crebbe
l’attenzione di Mussolini per le potenzialità delle trasmissioni radiofoniche per rafforzare il fascismo
I programmi radiofonici si adeguarono alle richieste del pubblico di musica e spettacoli teatrali. Le trasmissioni
erano ispirate a sentimenti di italianità, ai valori borghesi di stabilità e ordine e alla politica autoritaria del regime.
Uno de primi usi propagandistici della radio fu durante la cosiddetta «battaglia del grano», iniziata nel 1926. In
occasione del lancio di questa azione fu organizzata la trasmissione del discorso di mussolini. Questa fu, infatti, la
prova generale dell’ascolto collettivo della radio: molti teatri furono allestiti per diffondere il discorso di Mussolini
il 10 ottobre di quell’anno. Questo evento rese evidente a mussolini quanto la radio potesse essere un ben efficace
strumento di propaganda rivolta ad un numero di persone più ampio rispetto a quello che veniva raggiunto di
giornali. Per rendere però la radio uno strumento di propaganda politica era necessario diffondere apparecchi a
basso costo negli strati sociali meno abbienti. Le aziende che producevano apparecchi radiofonici, però, non
abbassarono i prezzi dei loro apparecchi radiofonici.

L’aumento del controllo statale portò nel 1927 alla trasformazione dell’URI nell’Ente Italiano per le Audizioni
Radiofoniche: nel suo consiglio di amministrazione 4 membri erano nominati dal governo, il governo, quindi,
aveva un controllo diretto nell’amministrazione e nella gestione dell’ente radiofonico in Italia. La convenzione
del 1927 tra lo Stato e l’EIAR stabilì il controllo totale del governo sulla radiofonia e si creò quel sistema
radiofonico in Italia che durò fino almeno agli anni Settanta.
Si era ormai definito l’assetto che condizionò gli sviluppi successivi della radio in Italia:
• regime di monopolio
• combinazione di controllo del governo e struttura aziendale privata, società privata controllata dallo stato
dove il governo ne può controllare la line editoriale
• ricorso a diversi sistemi di finanziamento (canone di abbonamento e pubblicità)
Questi tre elementi sono dei caratteri che rimarranno immutati anche nel momento della caduta del fascismo e
della nascita del sistema democratico repubblicano.

La radio, dal punto di vista del regime, aveva potenzialità che incominciarono ad essere prese in considerazione
in un secondo momento come strumento da affiancare alla carta stampata per la propaganda nei confronti del
regime. Ciò che interessava al pubblico che ascoltava la radio erano i programmi di intrattenimento piuttosto le
che le programmazioni del regime come i diversi discorsi di Mussolini. Gli esiti dell’ascolto di massa della radio
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furono in parte diversi dai progetti del regime. I ceti popolari, soprattutto contadini, all’inizio degli anni Trenta
erano ancora esclusi dall’ascolto. L’ascolto individuale e familiare si rivolgeva verso i programmi di
intrattenimento e alle trasmissioni. Da questo tipo di ascolto nacque un nuovo tipo di esperienza sociale che
prima non esisteva.

RADIO COME USO POLITICO E CONSUMO CULTURALE


Negli anni Trenta, ciò che interessava della radio era di trasformare l’EIAR un efficace mezzo per la propaganda
politica. La radio, dunque, si trasformò decisamente da mezzo di comunicazione a mezzo di propaganda. Intanto
si stava diffondendo anche in Italia lo stile di vita americano (o l’aspirazione). Attraverso la radio, si crearono
esperienze comuni di consumo materiale e culturale. Crebbe la standardizzazione dei costumi e dei consumi.
La radio favorì la tendenza alla standardizzazione dei costumi e dei consumi italiani, ciò che rese possibile tutto
ciò e permise di considerare la radiofonia come uno strumento di comunicazione con vasto impatto sociale e
culturale, fu rappresentato dal fatto che l’ascolto della radio presupponeva di ascoltare le trasmissioni in italiano.
Tutto questo accadeva in un’Italia in cui la lingua parlata era il dialetto e dove l’uso dell’italiano era limitato agli
uffici pubblici, nelle comunicazioni istituzionali e nella scuola, spazi limitati della vita e dell’esperienza della
maggior arte della popolazione italiani. L’ascolto della radio abitua gli italiani ad ascoltare, imparare e poi parlare
l’italiano. La radio ebbe, quindi, un ruolo fondamentale nell’uniformazione della lingua italiana e anche nei
consumi, grazie alle pubblicità che portavano i prodotti ad una diffusione nazionale.

Con la radio, si amplificarono le possibilità di controllo culturale della popolazione e di integrazione sociale.
Tutto ciò permetteva al regime di avere un controllo sulle rappresentazioni che venivano diffuse nel paese e
condizionare la costruzione dell’identità individuale e collettiva della popolazione italiana. In particolare, fu
l’informazione ad essere considerata dal regime fascista come strumento fondamentale per controllare la cultura.
Dal 1929, l’informazione fu affidata a un radiogiornale trasmesso da Milano. I radiogiornali diffondevano un tipo
di informazione che aveva come obbiettivo quello di rafforzare il potere politico del fascismo sulla popolazione.
Inoltre, dal 1934, il programma «Cronache del regime» fornì un approfondimento giornaliero orientato
politicamente a favore del fascismo. Le informazioni che circolavano in Italia, dunque, erano manipolate ai fini
della propaganda di regime. Per questo motivo dalla metà degli anni Trenta il governo fascista decise di vietare
l’ascolto di radio straniere. L’ascolto dei radiogiornali dall’estero, infatti, permetteva di avere un altro tipo di
visione e informazione che rendeva molto evidente quanto le notizie del regime fossero notizie che davano una
rappresentazione della realtà fortemente distorta. Per questo motivo il regime fascista, già negli anni della guerra,
cercò di disincentivare l’ascolto delle radio straniere ma questo continuò ad essere una costante nell’esperienza
dell’ascolto radiofonico negli anni del regime
Dal 1933, da Bari iniziarono le trasmissioni in lingua albanese dell’EIAR. Con la proclamazione dell’Impero nel
1936, l’incremento delle trasmissioni radio per l’estero ebbe la funzione di propagandare l’immagine del fascismo
nel mondo e sostenere la politica internazionale dell’Italia. Il regime investì, quindi, molte risorse in questo settore
delle trasmissioni fuori l’Italia.

A partire dagli anni in cui si sviluppò la guerra in spagna, l’ascolto in Italia delle emittenti estere fu scoraggiato e
poi vietato dal governo fascista. La contro-propaganda radiofonica verso gli ascoltatori in Italia organizzata dagli
esuli antifascisti si sviluppò con la guerra di Spagna e in Francia. Quello che veniva fatto era fornire notizie che di
fatto rappresentavano la realtà dal puto di vista degli anti-fascisti.
Con l’inizio della Seconda guerra mondiale, in Italia aumentarono gli ascolti clandestini delle radio estere,
contribuendo a erodere la compattezza del consenso al regime.

L’EIAR IN GUERRA
Durante la Seconda guerra mondiale, l’EIAR trasmetteva poche notizie del conflitto, che molto spesso non
corrispondevano alla realtà, e programmi rassicuranti. Le autorità italiane tentarono di disturbare le emissioni
provenienti dall’estero e clandestine, creando una serie di onde che interferivano per impedire e rendere
difficoltoso l’ascolto delle radio, tutto ciò con scarso successo. Per questa ragione aumentò la creazione di radio
clandestine, venivano costruite stazioni trasmittenti che volevano informare la popolazione italiana e condurre
una guerra che si combatteva anche con la diffusione di notizie diverse rispetto a quelle che il regime imponeva.
Durante questa fase aumentarono le trasmissioni di propaganda dell’EIAR verso il Medio Oriente in arabo e
inglese e poi verso la Russia per cercare di raggiungere un ascolto che andava oltre le frontiere. Questa iniziativa
rivelò però come mancasse una visone strategica complessiva del fascismo riguardo allo sfruttamento delle
trasmissioni radiofoniche rivolte all’estero. Mancava, infatti, una visione strategica della propaganda, aggravata
dall’organizzazione inefficiente e dai vuoti di informazione dell’EIAR.
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Nonostante la decisa repressione del regime fascista, durante la guerra l’ascolto delle radio estere assunse
dimensioni di massa. Dall’URSS trasmettevano Radio Mosca e Radio Milano Libertà, gestite da Togliatti e dai
comunisti italiani e controllate dal PCUS. Attraverso Radio Londra, il Foreign Office inglese trasmetteva
messaggi in codice e notiziari che traducevano in termini di propaganda la politica degli Alleati verso le nazioni
nemiche

Le trasmissioni verso l’Italia delle emittenti statunitensi erano caratterizzate da maggiore enfasi retorica e da
appelli che insistevano sull’emotività. Dopo l’annuncio radiofonico dell’armistizio dell’8 settembre 1943, la
creazione della Repubblica sociale italiana e la divisione in due dell’Italia, le attrezzature trasmittenti dell’EIAR
furono trasferite da Roma al Nord. Le trasmissioni radiofoniche della RSI erano fortemente propagandistiche e
controllate dagli occupanti nazisti
Dopo lo sbarco in Sicilia, nel luglio 1943, gli Alleati condussero anche attraverso la radio un’azione di
“penetrazione psicologica dell’Italia per sostenere le scelte di moderazione politica. Radio Bari, controllata dagli
Alleati anglo-americani, trasmetteva quattro notiziari ogni giorno e dava spazio alle voci democratiche. Le
trasmissioni insistevano sui notiziari e sulle informazioni giornalistiche, proponendo anche un ascolto radiofonico
che rifletteva e rilanciava in Italia la cultura musicale e di intrattenimento inglese e statunitense. Le più note
furono “Italia combatte” dava notizie sui combattimenti che vedevano anche le operazioni militari da parte dei
partigiani e “Bollettino della guerra partigiana in Italia. Anche in questo caso la radio viene usata come strumento
funzionale per la guerra, soprattutto per la liberazione.

1944: DALL’EIAR ALLA RAI


Attraverso le trasmissioni radiofoniche controllate dagli Alleati, si diffuse il modello di informazione
anglosassone, meno enfatico e più essenziale. Dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, l’EIAR cambiò
nome in RAI (Radio audizioni italiane). L’EIAR continuò a esistere come ente radiofonico fascista della
Repubblica sociale italiana che trasmetteva dal Nord Italia, dove erano presenti anche le truppe naziste. Alcune
formazioni partigiane installano radio clandestine al Nord: anche le radio partigiane furono uno strumento di
resistenza al fascismo
Negli ultimi mesi di guerra, intorno alla gestione della RAI si incrociarono poteri e progetti diversi. Le tensioni
intorno all’organizzazione e alla gestione della radio riflettevano la diversità di progetti per il dopoguerra esistente
tra Governo italiano, Comitato di liberazione nazionale e Alleati anglo-americani. Molti di questi contrasti si
ripresentarono alla fine della guerra, con il ritorno di tutta l’Italia alla vita democratica

28. RADIO E TELEVISIONE NELL’ETÀ REPUBBLICANA

DANNI DI GUERRA: GESTIONE DELLA RICOSTRUZIONE


La fine del conflitto lasciò grandi ferite, proprio le operazioni di guerra, infatti, avevano distrutto molte delle
antenne e delle stazioni trasmittenti. I danni causati dalla guerra agli impianti radiofonici furono ingenti. La Rai
acquisì la competenza sulla gestione dell’intero sistema radiofonico italiano. Inoltre, alcune delle radio partigiane
create negli ultimi mesi di guerra continuavo a desistere, non operavano piú nella clandestinità ma erano stazioni
trasmittenti autonome, indipendenti dalla rai e spesso collegate alle ex formazioni partigiane e a gruppi politici di
riferimento. Erano nate, inoltre, alcune emittenti radio autonome. Non c’era più il monopolio della rai ma anche
la presenza di altre radio che trasmettevano localmente nei territori vicini.
La guerra aveva portato anche conseguenze legate ai contenuti delle trasmissioni. L’esperienza maturata durante
la guerra, infatti, fu estremamente utile per la riorganizzazione della radio dal punto di vista culturale, politico e
industriale. I contenuti avvicinavano molto di piú la programmazione radiofonica che veniva proposta negli stati
uniti, con un tipo di ascolto più dinamico legato a programmi di intrattenimento con un’informazione
giornalistica che riprendeva lo stile anglosassone rispetto a quello che prevaleva in Italia.
I primi governi democratici italiani intesero riunificare l’apparato radiofonico, contemperando controllo politico e
servizio pubblico. L’obiettivo era quello di riunificare il sistema radiofonico italiano e riunificare l’Italia che, per
alcuni mesi era stata divisa e condizionata fortemente dalle scelte politiche del regime fascista. L’intenzione dei
governi democratici post fascisti era quello di riportare sotto il controllo pubblico l’intero sistema radiofonico
italiano.
Si confermò quindi la percezione dell’importanza della radio come strumento di azione politica per informare e
formare l’opinione pubblica italiana. Il governo nominò gli organi dirigenti ella rai, in base anche a quello che
erano sati i risultati elettorali che avevano visto emergere come partito di maggioranza la democrazia cristiana.
Alla guida del consiglio di amministrazione della RAI, nel 1946, quindi, lo storico cattolico liberale Arturo Carlo
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Jemolo fu sostituito dal democristiano Giuseppe Spataro che era un cattolico più vicino a de Gasperi e che poteva
garantire in modo più immediato gli orientamenti del governo democristiano sulle scelte della rai.
La rai però era un organizzazione particolare: era una società per azione, dunque privata ma con capitale sia
pubblico che privato. Nel Consiglio di amministrazione rientrarono i rappresentanti del gruppo SIP, che deteneva
la maggioranza delle azioni della concessionaria.
Si registrò una forte continuità con il periodo fascista: i vincoli della concessione erano i medesimi del 1927 e non
furono epurati i quadri dirigenti dell’EIAR. L’intenzione era non disperdere nella riconversione post-fascista della
radio le esperienze accumulate nei vent’anni precedenti.
Ritornò, però, subito il problema già alle origini del sistema radiofonico italiano: era urgente dotare l’intero
territorio nazionale di antenne trasmittenti, in particolare il Mezzogiorno e le isole. Proprio per questa difficoltà
tecnica, nei primi mesi successivi al secondo conflitto mondiale, le diverse sedi della rai trasmettevano una loro
propria programmazione perché era andata distrutta la rete che permetteva di avere un’unica programmazione.
Nei primi mesi del dopoguerra, infatti, esistevano programmazioni che avevano diffusione locale a causa della
distruzione di gran parte delle antenne trasmittenti. Erano attive soltanto le stazioni di Bari, Bolzano e Milano,
oltre ad alcune stazioni minori. Servivano, dunque, ingenti investimenti per la diffusione di reti trasmittenti, per
fare ciò fu mantenuto il canone di abbonamento, ma era inadeguato a coprire i costi della ricostruzione

LA DEMOCRAZIA DELLA RADIO: GESTIONE E CONTROLLO DELLA RAI


Nei primi mesi dopo la fine della guerra, la rai rifletté le tensioni politiche che attraversarono tutto il paese.
L’indirizzo dei governi democristiani fu di normalizzare rapidamente la situazione e di contenere l’influenza dei
partiti di opposizione, anche se all’interno del quadro democratico. Furono le forze politiche di ispirazione
cattolica a gestire la nuova RAI nel periodo della stabilizzazione democratica e del ritorno alla normalità
L’obiettivo della RAI era ritrovare la fiducia e la fedeltà del pubblico radiofonico. Erano però necessari grandi
investimenti per ampliare e garantire la diffusione del segnale radio su tutto il territorio nazionale. La rai doveva
riconquistare la credibilità e la fiducia del pubblico, indispensabile per garantirsi gli ascoltatori e il pagamento del
canone di abbonamento per ritornare alle inserzioni pubblicitarie.
Questa linea di scelta aziendale della rai si accompagnava ad un'altra esigenza: la riunificazione della rete
nazionale. La distruzione delle reti aveva, infatti, portato alla difficoltà di trasmettere la stessa programmazione
nello stesso omento su tutto il territorio nazionale. Per questa ragione le sedi regionali, che avevano ripreso la
programmazione dopo la guerra, avevano una certa autonomia nell’organizzazione del palinsesto
(organizzazione giornaliera e settimanale). Per garantire una programmazione uniforme su tutto il territorio
nazionale e per garantire un più stretto controllo da parte del governo sui contenuti trasmessi dalla rai, nel 1946 si
arrivò alla riunificazione della rete nazionale.
Furono create due reti: Rete Rossa e Rete Azzurra, sull’esempio della NBC. Le due reti offrivano programmi
complementari di vario genere. La rete rossa era dedicata alla programmazione legata all’informazione e a
programmi culturali e di intrattenimento. La rete azzurra forniva programmi più legati a trasmissioni di svago,
intrattenimento, soprattutto con musica e radiodrammi. Per garantire una maggiore vicinanza della
programmazione alle diversità sociali, culturali ragionali dell’Italia, ogni stazione aveva uno spazio di
programmazione regionale

La situazione del dopoguerra mostrava elementi di continuità e di rottura rispetto alla situazione precedente la
fine del conflitto. Fu confermato il regime di monopolio delle radiodiffusioni attraverso la concessione del
servizio in esclusiva alla RAI. La RAI, come in precedenza l’EIAR, si finanziava attraverso il canone e la
pubblicità
Nel dopoguerra, direttore generale della RAI fu nominato Salvino Sernesi, che impresse dinamicità all’azienda. Il
legame molto stretto tra la rai e il governo risultò evidente, considerando la proceduta che caratterizzava la
nomina delle figure di vertice dl azienda. La competenza della nomina del presidente e dell’amministratore della
rai era del ministro delle poste e delle telecomunicazioni, quindi di un ministro del governo. Dal 1947, il ministro
delle Poste e delle telecomunicazioni nominò il presidente e il consigliere delegato della RAI, affiancati da un
Comitato consultivo.

VIGILANZA DEL GOVERNO SULLA RADIOFONIA


Sulla base di una legge fu ridefinita l’organizzazione della rai. La riorganizzazione fu completata attraverso un
decreto del 1947, che prevedeva la creazione di due organismi:
• la Commissione parlamentare di vigilanza sull’indipendenza politica e l’obiettività informativa delle
radiodiffusioni; commissione che veniva nominata dal parlamento
• il Comitato per la determinazione delle direttive di massima culturali, artistiche, educative dei programmi
(organo tecnico del Ministero delle poste e delle comunicazioni).
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Di questi di organismi, ad avere un certo ruolo lo ebbe soltanto il comitato perché la commissione parlamentare
non riuscì ad esprimere quel ruolo che sulla carta avrebbe dovuto svolgere in quanto la capacità di controllo e
intervento sulla rai fu un esclusiva del governo.
In precedenza, il Parlamento era stato escluso dalla gestione del servizio, sottoposto al controllo del governo. Le
funzioni attribuite al Comitato di vigilanza furono però più formali che sostanziali

Furono ricalcati gli schemi giuridici che avevano regolato il rapporto tra l’EIAR e lo Stato fascista. Il governo,
attraverso il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, dal 1947 in poi accentuò la sua
ingerenza in questioni che per legge non erano di sua competenza (come le nomine dei funzionari e i contenuti).
L’intuizione di Andreotti sull’importanza strategica del controllo dell’ente radiofonico di stato fece sì che il
governo accentuasse ancora di più il suo ruolo di controllo all’interno della struttura amministrativa e dei
contenuti della rai. Il controllo si esercitava sull’influenza delle nomine al consiglio di amministrazione, inoltre,
questa influenza andava anche a toccare le scelte rispetto alle nomine dei dirigenti. Influenza che il governo
riusciva ad esercitare collocando nelle posizioni decisionali delle persone che garantivano un legame con i partititi
di governo, in particolare la democrazia cristiana, che potevano garantire all’interno della programmazione dei
contenuti la conferma della linea culturale e politica espressa dal governo.

LA RADIO E L’INFORMAZIONE RADIOFONICA NELL’ITALIA DELLA GUERRA FREDDA


Esistevano due edizioni del settimanale della RAI “Radiocorriere”, per l’Italia settentrionale e per quella centro-
meridionale; nel 1947, furono riunificate le due edizioni. Il contesto della “guerra fredda” influenzò anche
l’organizzazione aziendale e i programmi radiofonici. Intorno alla RAI crebbero forti tensioni politiche e
polemiche sulla sua imparzialità.
Risultò rilevante controllare l’attività svolta dalla radio soprattutto, nel momento in cui l’Italia si trovò all’interno
della tensione della guerra fredda.
Nel contesto della guerra fredda la radiofonia diventava un elemento chiave della competizione politica
internazionale e nazionale. Dunque, la volontà di controllore e di condizionamento da parte del governo
sull’organizzazione e la programmazione della rai era legittimata dalla volontà di collocare, in modo sempre più
fermo, la società italiana e le istituzioni pubbliche all’interno della sfera di influenza occidentale. La guerra
fredda, quindi, condizionò non soltanto la programmazione radiofonica, dove venivano escluse le minoranze
comuniste e di estrema destra, ma l’influenza portò anche ad un condizionamento dell’informazione giornalistica.
Proprio queste finalità politiche e di governo che la rai aveva assunto, portò a continue contese e polemiche
all’interno del parlamento rispetto all’effettiva imparzialità della rai che era un ente pubblico e avrebbe dovuto
rappresentare la pluralità di opinioni politiche.

L’informazione giornalistica fu gestita dalla RAI in modo generalmente unilaterale e funzionale alle scelte
politiche dei governi a guida democristiana. Risultò evidente quanto il controllo dell’informazione giornalistica
poteva costituire un elemento per condizionare l‘opinione pubblica in senso politico. L’informazione
giornalistica, più che altri generi radiofonici, fu spesso invasa da discussioni e polemiche soprattutto da parte del
partito comunista e socialista che denunciavano quanto il governo fosse in grado di controllare e condizionare
anche le informazioni giornalistiche trasmesse. La rappresentazione della realtà, mediata dallo strumento
radiofonico, risultava, infatti, funzionale alle finalità del governo.
In questi stessi anni di monopolio della radiofonia in Italia, però, era ancora possibile ascoltare altre stazioni
radiofoniche, differenti da quelle della rai: le trasmissioni in lingua italiana organizzate dalla propaganda
comunista erano trasmesse da Praga, ma poco ascoltate. Questa radio, in realtà poco ascoltata per le difficoltà di
ricezione del segnale, non ebbe un influenza determinante nella cultura e nella politica italiana in quanto, di fatto,
la radio che veniva ascoltata dalla maggioranza della popolazione era quella diffusa attraverso le antenne della
rai.
Il ruolo politico della radiofonia, dunque, era evidente. Generalmente, però, i partiti politici italiani non
possedevano una cultura teorica e tecnica per comprendere in modo preciso l’impatto della radio sulla società.
• La Democrazia cristiana intendeva mantenere, attraverso il governo, il controllo organizzativo ed
editoriale della RAI e l’influenza sulla formazione della cultura del pubblico italiano.
• Il Partito comunista italiano apparve bloccato nell’intransigente critica verso i nuovi mezzi di
comunicazione di massa e nella richiesta di riforme finalizzate a indebolire il potere democristiano

CONVENZIONE CON LA RAI DEL 1952: MONOPOLIO E SERVIZIO PUBBLICO


Il legame tra istituzioni pubbliche, governo e ente radiofonico fu rinnovato nel 1952 quando venne stipulato il
nuovo contratto di concessione del servizio radiofonico della rai. Nel 1952, fu rinnovata la convenzione di
concessione delle trasmissioni alla RAI, senza possibilità di intervento del Parlamento, ma solo del governo.
120

Soltanto il governo, espressione delle forze di maggioranza, aveva possibilità di intervenire sulle scelte
contenutistiche e organizzative della rai.
In questo contesto la rai vide crescere i propri ascoltatori e anche gli introiti, provenienti da canone e pubblicità.
Fu confermato, dunque, il regime di monopolio, anche sulla televisione. In questa fase, a rendere ancora più
stretto il rapporto tra istituzioni pubbliche e rai, fu l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) che decise di far
passare sotto il suo controllo diretto il pacchetto azionario di maggioranza della rai. La rai così accentuò il suo
ruolo di servizio pubblico e si ridussero i controlli formali sull’attività della Rai, ma rimasero stretti i legami tra
RAI e governo. Inoltre, le nomine delle principali cariche furono di esclusiva competenza del governo. Le
richieste dei partiti di opposizione di poter garantire al Parlamento la possibilità di controllo sulla RAI non furono
accolte

DIFFUSIONE DELL’ASCOLTO RADIOFONICO E PRODUZIONE INDUSTRIALE PER LA RADIOFONIA


Questa situazione della rai come servizio pubblico si rendeva evidente, in particolare, nel tipo di programmazione
che veniva proposta agli ascoltatori. Programmazione dove l’attenzione all’aspetto culturale della crescita e della
formazione aveva spesso la prevalenza su finalità di svago e divertimento. Questo intento pedagogico e culturale
ebbe una ricaduta evidente, anche se risulta sempre molto difficile misurare con precisione l’impatto sociale e
culturale di un mezzo di comunicazione. Nonostante ciò, tra il 1948 e il 1952 si consolidò la situazione
economica e finanziaria della RAI. Aumentò il numero degli abbonati: passarono da 1.976.118 nel 1947 a
4.800.170 nel 1953, con un incremento del 243% in sette anni. L‘aumento degli abbonati e l’aumento della
pubblicità permisero alla rai di investire in sperimentazioni tecniche e allargare il personale amministrativo e le
figure indispensabili per la realizzazione dei programmi radiofonici. Per questa ragion, poco prima dell’inizio
delle trasmissioni televisive, l’organizzazione economica della rai appariva risanata e in grado di incedere in
modo diffuso sulla società e sulla cultura di fasce molto ampie della popolazione.
La densità di apparecchi radiofonici per abitante, però, continuava ad essere inferiore a quella degli altri paesi
dell’Europa occidentale (101 ogni mille abitanti).
Nella convezione del 1952 era stato fatto esplicito divieto alla rai di produrre apparecchi radiofonici o televisivi da
vedere al pubblico, quindi, le industrie private italiane poterono sfruttare l’ampliamento del mercato
radioelettrico, con aumenti di produttività e di profitti. Fu soprattutto l’industria, dunque, a sfruttare questo
settore della radiofonia e televisione che contribuì ad aumentare i profitti delle aziende e contribuire alle
innovazioni tecnologiche dei prodotti e della trasmissione degli apparecchi radiofonici e televisivi.
In questi anni, inoltre, la rai registrò la tendenza all’accentramento delle funzioni direttive, tecniche e di
programmazione a Roma, nonostante la presenza delle sedi locali. L’organizzazione della RAI fu fortemente
accentrata a Roma per sviluppare l’attività radiofonica e poi televisiva per ottenere un più vasto controllo sociale.

TRE CANALI RADIOFONICI E IL PROGETTO EDUCATIVO DELLA RAI


Le discussioni sulla scelta tra intrattenimento e cultura riflettevano le tensioni tra ricerca di un mercato
pubblicitario e servizio pubblico. C’era chi sosteneva la trasmissione di contenuti culturali, attraverso programmi
con una densità di contenuto di tipo informativo e pedagogico e chi sosteneva, invece, la proposta di una
programmazione dove l’intrattenimento doveva avere in ruolo rilevante. Queste due linee, culturale -pedagogica e
quella che metteva maggiormente in risalto l’aspetto di intrattenimento, rappresentavano un confronto che
rifletteva orientamenti culturali e percezioni del ruolo che la rai doveva svolgere differenti.

Nel 1950 fu istituito il terzo programma radiofonico che differenziò la programmazione delle tre reti radiofoniche,
l’anno successivo fu stabilita una netta differenziazione tra le tre reti.
• Il programma nazionale si rivolgeva a un pubblico medio con informazione italiana ed estera,
aggiornamento sui problemi politici, sociali e artistici e trasmissioni per lo svago.
• Il secondo programma aveva un compito ricreativo e di intrattenimento, erano però sempre presenti
programmi informativi e di taglio culturale.
• Il terzo programma aveva finalità culturali, rivolto a un pubblico con livello di istruzione medio-alto e a
coloro che volevano migliorare la propria preparazione culturale
L’esistenza di questi tre canali rese evidente quanto coesistessero, con pesi diversi, le diverse tendenze che erano
già presenti negli anni precedenti, creando così un mezzo di identificazione tra il pubblico e la rai e in particolare
con il proprio canale di interesse.
Dalla fine degli anni Quaranta era cresciuta l’attenzione della RAI ai gusti del pubblico. C’era la tendenza a
mettere in onda trasmissioni che assecondavano le preferenze del pubblico, inoltre, fu mantenuto anche il
progetto di educazione civile e culturale proprio del servizio pubblico.
Tra i programmi educativi e culturali di lunga durata, più apprezzati dal pubblico, vi furono L’Approdo, La radio
per le scuole e Classe unica (programmazione che fu prevista sul secondo canale della radio rai, su quello che era
destinato soprattutto all’intrattenimento. Classe unica era un programma dove tutti i giorni della settimana erano
121

previsti dei brevi spazi dove erano invitati a parlare esperti che presentavano alcuni temi che potevano avere un
interesse genarle es. dalla letteratura italiana alla storia, fino alle innovazioni tecnologiche).
Soprattutto le trasmissioni culturali ed educative puntavano a promuovere l’unità e la solidarietà nazionale, nel
quadro di una visione politica moderata.

LE ORIGINI DELLA TELEVISIONE IN ITALIA


La sperimentazione per le trasmissioni televisive, in Italia, erano iniziate nel 1939, poi interrotte a causa della
guerra. Nell’arco di pochi anni, potendo contare sui brevetti e sulle invenzioni, venne ripresa l’attività
sperimentale a Roma e anche in alcuni sedi regionali. Nel 1949, l’attività sperimentale fu ripresa e rapidamente
potenziata. La prima trasmissione avvenne dagli studi di Torino, nel settembre 1949. Nel 1952, furono installati
due studi e un nuovo trasmettitore a Milano. Dagli studi di Roma, le prime immagini furono trasmesse nel 1953.
Il 1°gennaio 1954 fu inaugurato il regolare servizio televisivo in Italia. Inizialmente, le difficoltà che si avevano
eran simili a quelle dello sviluppo della radiofonia: i segnali arrivavano solo ad una parte ristretta della
popolazione, la rete raggiungeva circa 20 milioni di abitanti, pari al 43% della popolazione, soprattutto nel Nord e
Centro Italia. Inizialmente, quindi la visione di questo nuovo tipo di programmazione risultava essere molto
limitata. Nel corso del 1954 la rete si estese a tutta l’Italia centrale, nel 1955 alla Campania e nel 1956 alla
Calabria e poi alla Sicilia

Lo sviluppo delle trasmissioni televisive, l’aumento degli abbonati e la crescita della raccolta pubblicitaria
consolidarono la struttura organizzativa e finanziaria della RAI. Anche nel caso della televisione si ripropose la
scelta che accompagnò la nascita e lo sviluppo della radiofonia: la necessità di sostenere i costi delle trasmissioni
televisive con gli introiti pubblicitari. Il nuovo mezzo di comunicazione della televisione permise, quindi, alla rai
di ampliare i propri bilanci.

RAI COME IN DUSTRIA CULTURALE


La RAI diventò un’influente industria culturale e una potente società finanziaria. Era una realtà che merse con
chiarezza proprio dopo la Seconda guerra mondiale. Di fatto la rai era, ed è ancora oggi, la maggiore industria
culturale italiana, industria che già in questi primi anni di sviluppo della televisione aveva a disposizione una
pluralità di mezzi di comunicazione. La rai riuscì a condizionare, attraverso le commesse e gli appalti, ampi
settori economici (imprese elettriche, meccaniche, artistiche), grazie ai quali poté contare su risorse economiche
che permettevano continui investimenti e innovazioni nei prodotti, nelle trasmissioni ma anche investimenti che
andavano nella direzione dell‘innovazione dei centri di produzione che avevano come obbiettivo quello di
innovare e migliorare le prestazioni dei sistemi riceventi, trasmittenti e di registrazione delle trasmissioni. Quindi,
una complessa industria culturale con una crescente ruolo sia in campo economico che in quello sociale e
cultuale. L’industria televisiva fu al centro del processo di trasformazione dell’Italia, immagine e realtà della
rapida modernizzazione sociale, economica e culturale.

I tipi di contenuti che venivano proposti all’interno di una visione moderata della realtà, consona a quello che era
il profilo culturale della democrazia cristiana, erano legati alla cultura nazionale, lontani dall’enfasi nazionalista,
e tendevano a mettere in primo piano il ruolo e il valore della cultura italiana, rafforzando l’idea di costruzione di
un identità nazionale italiana.
Soprattutto nei primi vent’anni, i generi trasmessi dalla televisione (come quelli radiofonici) rispondevano al
progetto della dirigenza della RAI (e del governo che la controllava) di far crescere la coesione sociale e di
costruire un’identità nazionale condivisa. Questi obiettivi si realizzarono attraversi programmi:
• educativi (Non è mai troppo tardi); permetteva a persone dei ceti meno abbienti di imparare a leggere e a
scrivere e rappresentava un tentativo di creare un unità culturale italiana partendo proprio dallo studio di
una lingua comune.
• di informazione (Rotocalco e Tv7, oltre ai telegiornali);
• di intrattenimento (Lascia o raddoppia?, Il Musichiere, Campanile sera), programmi dove l’identità
italiana e di paese emergevano come elemento caratteristico dell’identità italiana. Programmi che
riscossero grande successo dove venivano messi a confronto rappresentati di diverse città, era l’occasione
per rappresentare anche le singolarità dei paesi dell’Italia che rappresentavano un idea di Italia unita e
coesa dove le identità cittadine venivano preservate.

Questo intento pedagogico di ricostruire un’identità italiana fu un tratto caratterizzante della programmazione
degli anni Quaranta e cinquanta.
122

LA CREAZIONE DELLO SPAZIO PUBBLICO TELEVISIVO


La crescita dell’industria televisiva italiana si inserì nel più generale sviluppo del Paese, con le sue contraddizioni.
Vi erano forti gli squilibri nell’ascolto radiofonico e televisivo tra città e campagna, tra Nord e Sud.
In questi primi anni della programmazione televisiva emerse la volontà della direzione della rai di fornire una
programmazione che individuava un pubblico nazionale indifferenziato, al quale proporre una programmazione
che andava incontro ad un pubblico generalista. Quindi, si trattava di una programmazione che cercava di
intercettare gusti di tutti. La RAI tentò di creare un pubblico unificato, proponendo informazioni e programmi
standardizzati.

La RAI, per questo suo legame istituzionale con il governo, confermò ciò che già era presente nelle trasmissioni
radiofoniche: le voci più rappresentate nelle trasmissioni informative erano le posizioni dei partiti al governo e in
particolare quelle della democrazia cristiana. La rai, infatti, convogliò il consenso verso i partiti al governo e gestì
la centralità della tv nella società italiana.

Si trasformarono le forme del confronto politico, anche se soltanto nel 1960 fu disciplinato l’uso della televisione
durante le campagne elettorali (Tribuna elettorale, diventata poi Tribuna politica). La televisione contribuì a
cambiare anche in Italia abitudini e mentalità della società e della politica. Cambiarono i rapporti tra vita privata
e vita pubblica. Si creò uno spazio pubblico allargato che favorì la costruzione di un’identità nazionale e una
maggiore uniformità culturale della popolazione.

La caratteristica particolare dell’esistenza di un monopolio di stato e di un unico ente radio televisivo rafforzò la
tendenza all’unificazione culturale della società italiana, i questi anni di rapida crescita economica e grande
mobilità all’interno della penisola italiana, dovuta ai flussi migratori interni. Questo fenomeno di mobilità sociale
e geografica si svolge all’interno, dunque, di un panorama culturale caratterizzato dal ruolo crescente svolto dalla
televisione di stato.

LEZIONE 34-35-36 [06-07-08/06]

29. LA FINE DEL MONOPOLIO E LE RETI PRIVATE

LA TELEVISIONE E IL SUO PUBBLICO


Quello che emerge dall’inizio degli anni Sessanta è come l’ascolto televisivo riuscì a creare una relazione
particolare tra il mezzo e i contenuti trasmessi al pubblico. Quello che bisogna sottolineare è quanto l’influenza
della televisione non fu unidirezionale ma reciproco: la televisione creò il suo pubblico e il pubblico creò la
televisione. Non si deve però considerare l’ascolto della televisione, con la tendenza a divenire un consumo
culturale di massa, come un’esperienza che portò ad una semplice omologazione cultura degli italiani. Questo
perché attraverso gli strumenti di comunicazione di sviluppa una relazione che non è mai di tipo univoco, anche
quando i mezzi non erano ancor interrativi.

A caratterizzare la programmazione televisiva è il tentativo, da parte della dirigenza della rai, di realizzare un
vero e proprio progetto pedagogico attraverso la televisione. Negli anni Cinquanta, in particolare durante la
presenza di Filiberto Guala come amministratore delegato della Rai (1954- 1956), la televisione ebbe una forte
impronta pedagogica e didattica, con una prevalente attenzione alla cultura umanistica. Maggiore attenzione era
dedicata a trasmissioni che avevano come obiettivo quello di potenziare e aumentare il livello medio della
popolazione italiana, attraverso trasmissioni che enfatizzavano la cultura umanistica: grande attenzione alla
musica classica, agli spettacoli teatrali e ai libri.
La TV era, dunque, pensata come un “educatore collettivo”, con una netta separazione tra i generi: informazione,
spettacoli, cultura.

La popolarità del nuovo mezzo, in realtà, fu alimentata in modo consistente dai telequiz e dai romanzi
sceneggiati. Un esempio di trasmissione è il musichiere che rappresentava un telequiz legato alla musica, teneva
insieme due forme di spettacolo che permettevano anche la vincita di una determinata somma di denaro.
Persisteva, quindi, all’interno della costruzione del palinsesto, questa volontà di proporre delle trasmissioni i tipo
educativo ma in realtà la gran parte delle preferenze del pubblico erano verso trasmissioni che non avevano taglio
educativo.
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IL CONSUMO TELEVISIVO
Il consumo televisivo crebbe per
• l’aumento dell’offerta;
• una migliore qualità dei prodotti trasmessi perché aumentò il numero delle antenne che poteva
trasmettere il segnale e quindi permettere una programmazione migliore e anche su scala più vasta
• il maggior reddito a disposizione delle famiglie; elemento che aiutò alla diffusione della televisione
• il crescente tempo libero, condizione indispensabile per usufruire della visone della televisione

L’informazione e le inchieste televisive rappresentavano in modo ottimistico la realtà italiana, mostrando


soprattutto i lati positivi della crescita economica italiana. Al di là delle intenzioni e della linea culturale della rai,
la televisione contribuì ad un condizionamento della cultura collettiva in una direzione diversa da quelle che
erano le intenzioni pedagogiche che la rai si prefiggeva. Si diffuse, infatti, nella società una mentalità influenzata
da ricerca del benessere, consumismo e individualismo che condizionò i modelli di comportamento.
La pubblicità associava il consumo di beni a uno stile di vita attraente. I consumi diventavano uno strumento di
integrazione sociale. La TV fu un potente mezzo di diffusione dell’American way of life, adattato alla realtà
italiana. Negli Sessanta, in Italia, la crescita economica permise una rapida diffusione della televisione. Nella
programmazione televisiva, non vi furono rotture rispetto all’impostazione generale degli anni Cinquanta

TELEVISIONE E RADIO NEGLI ANNI SESSANTA


Il perfezionamento delle tecnologie esistenti permise un migliore uso delle frequenze e la possibilità di registrare le
trasmissioni. Nel 1961 iniziò le trasmissioni il secondo canale televisivo. La radio perse importanza e diminuirono
i suoi ascoltatori, anche per il palinsesto rigido e l’assetto delle reti, rimasto immutato fino agli anni Settanta.
La televisione metteva i giornali e la carta stampata in una situazione di crescente difficoltà, ma la competizione
si giocava non soltanto tra televisione e carta stampata ma anche tra televisione e radio: gestite entrambe dalla rai.
La radio perse importanza perché la televisione aveva un coinvolgimento maggiore rispetto alla radio ma anche
perché, agli inizi degli anni Sessanta, la radio era caratterizzata da un tipo di programmazione rigido che era stato
superato dalle nuove forme i fruizione del tempo libero e i gusti del pubblico in rapido cambiamento. Di fronte
alla competizione all’interno della rai tra tv e radio, all’inizio degli anni Sessanta, la programmazione radiofonica
registrò comunque un certo cambiamento che rispondeva alla sfida lanciata dalla televisione. Nel 1962, i
programmi radiofonici furono affidati a varie direzioni, ognuna delle quali gestiva un “genere” di trasmissioni.
All’interno di ogni canale furono creati contenuti e schemi orari precisi, per proteggere la radio dalla concorrenza
della televisione. Questo era legato anche al tipo di pubblico che seguiva la programmazione radiofonica: la rai
individuò, nel pubblico radiofonico, un pubblico che si concentrava nelle ore del mattino dove a prevalere era
l’ascolto femminile e nelle ore pomeridiane dove il pubblico era soprattutto quello giovanile. Sulla base di questa
diversità di pubblico furono progettate e realizzate diverse programmazioni che andavano in questa direzioni. Si
invertirono, così, le fasce di ascolto rispetto al passato: negli anni Sessanta, la radio era più ascoltata al mattino.
La radio fu il banco di prova di trasmissioni e personaggi che furono poi trasferiti in TV.

Il linguaggio radiofonico fu in grado di recepire i cambiamenti delle cultura giovanile e così o programmi
diventarono più brevi e furono in grado di intercettare il gusto giovanile, pubblico che poteva garantire un ascolto
continui dei programmi. Le potenzialità della radio furono sfruttate anche per creare un maggior legame con il
pubblico, incominciando ad inserire spazi per la discussione con il pubblico che poteva chiamare con il telefono.
Lo strumento radiofonico riuscì a creare un contatto più ravvicinato con il pubblico, cosa che la televisione invece
non riusciva a fare. In controtendenza rispetto alla TV, la radio ricercò un maggiore contatto con il pubblico,
anche con l’intervento degli ascoltatori attraverso il telefono, a iniziare da “Chiamate Roma 3131”, dal 1969.
La radio riuscì ad intercettare le richieste di maggior partecipazione popolare e mediare con il pubblico
consentendo così ad aumento degli ascoltatori.

Negli anni Sessanta, la crescita degli ascolti e i bilanci in attivo della Rai si accompagnarono a disfunzioni nei
settori produttivi e nella gestione delle spese. La direzione generale della Rai di Ettore Bernabei (1961-1974)
consentì ai partiti di governo di continuare a esercitare un’egemonia culturale sul sistema radiotelevisivo italiano.
Le tensioni politiche italiane si riflessero all’interno della Rai, rafforzandone l’uniformità culturale e il verticismo
decisionale. I partiti di sinistra continuarono a sottovalutare le questioni strutturali del sistema e gli effetti socio-
economici, per concentrarsi sui contenuti e sull’informazione. La critica più serrata era verso l’informazione che
tendeva a marginalizzare le organizzazioni dei partiti di opposizione.

Quello che però si vede osservando la tipologia d programmazione della radio e della televisione, era andare nella
direzione di un rafforzamento della cultura di massa che non teneva conto dell’articolazione della cultura e della
società che tendeva sempre più ad aumentare. I qualche misura la volontà di influenzare ed orientare la’opinione
124

pubblica italiana, da parte della dirigenza della radio e della televisione, portava a costruirsi l’immagine di un
pubblico spesso uniforme. Tutto questo in un ambito i cui aumentavano sempre di più le trasformazioni interne
alla società. Questo per dire che, soprattutto la programmazione televisiva, non rispecchiava i cambiamenti che si
stavano sviluppando in tutta la penisola.

Negli anni Sessanta, i canali radiofonici della Rai furono sollecitati a un certo rinnovamento nella
programmazione dalla ricezione in Italia di alcune trasmissioni provenienti dall’estero. Dal 1966, le trasmissioni
di Radio Monte Carlo in italiano furono irradiate verso le regioni nord-occidentali, proponendo un modo
accattivante di ascoltare la musica e un ascolto di svago. L’ascolto di una radio simile, con l’assenza di
programmi culturali, fa entrare in circolo, nell’orizzonte della radiofonia italiana, un tipo di programmazione
diversa rispetto a quella che la rai ha sempre proposto ai suoi ascoltatori. La rai così viene sollecitata a cogliere
alcuni aspetti nei contenuti e nel linguaggio radiofonico di radio Monte carlo, per iniziare a proporre ai propri
ascoltatori un tipo di programmazione che, in qualche modo, cercava di cogliere i gusti del pubblico.

L’insieme dei movimenti di contestazione del ’68 furono un motivo che spinsero ulteriormente e modificare glia
assetti delle trasmissioni e dei programmi della rai. La contestazione giovanile del Sessantotto infatti:
• accentuò la domanda di partecipazione del pubblico ai mezzi di comunicazione di massa;
• alimentò la creazione di trasmissioni per una “radio fatta dagli ascoltatori”;
• incentivò la creatività degli autori e contribuì allo sviluppo di nuovi mezzi espressivi

Furono soprattutto le cosiddette radio libere, a caratterizzare questa fase della radiofonia in Italia. Alla fine degli
anni Sessanta e inizio anni Settanta, in Italia continuava ad esistere un monopolio statale sulle trasmissioni
radiofoniche e televisive: l’unico ente autorizzato a trasmettere trasmissioni radiofoniche e televisive era la rai, ma
da questi anni, inimicarono degli esperimenti di reti radiofoniche realizzate da privati. In particolare, erano gruppi
e movimenti di impegno politico e sociale militante che si posero l’obiettivo di fornire trasmissioni radiofoniche
alternative a quelle della rai. Iniziarono così a trasmettere radio private con portata locale, per alcune ore al
giorno, spesso collegate a movimenti sociali e politici, basandosi sul lavoro volontario. Tra le prime radio a
trasmettere vi furono Radio Attiva Massa (1968) e Radio Libera Partinico (1970). Questa volontà di dare
informazioni differenti rispetto a quelle trasmesse dalla rai, però portò molto spesso queste radio libere ad essere
messe sotto processo e poi chiuse, per rispettare la legge che sottolineava il monopolio statale su radio e
televisione.

LE EMITTENTI PRIVATE SENZA LEGGI: I PIRATI DELL’ETERE


Nella prima metà degli anni Settanta, si moltiplicarono le emittenti locali private, alcune promosse da movimenti
politici e soprattutto da società commerciali. Inizialmente, trasmettevano senza regolamentazioni e fuori della
legge, dato che era legalmente riconosciuto soltanto il monopolio pubblico affidato alla Rai. Continuava a
permanere, infatti, la norma che definiva l’esclusiva delle trasmissioni radiofoniche e televisive sotto il controllo
dello stato. Questa volontà di agire fuori dalla legge era motivata dall’idea di mettere in discussione questa idea
statale delle trasmissioni radiofoniche e televisive, agire al di fuori delle norme della legge provocò l’intervento
della magistratura che chiuse le emittenti radiofoniche avviando dei procedimenti giudiziari e portando in
tribunale i responsabili di queste radio che avevano operato fuori dai limiti della legge.

Agendo fuori della legge e con limitati mezzi tecnici ed economici, le «radio libere» diffondevano programmi
musicali ed informazione con uno stile più diretto e giovanile rispetto ai programmi della Rai. Spesso ognuna di
queste radio private era dotata soltanto di un vecchio ripetitore militare per trasmettere il segnale, un mixer, un
microfono e due giradischi. Le trasmissioni contavano sulle innovazioni tecnologiche che ne secondo dopoguerra
permisero di avere a disposizione apparecchi trasmittenti con costi relativamente bassi. I programmi radiofonici in
FM potevano essere ascoltati fino a pochi chilometri dalla stazione emittente: la Polizia postale o i tribunali
intervenivano per sospendere le trasmissioni.
All’inizio queste piccole radio non erano in grado di portare una vera e propria concorrenza con la rai perché
avevano uno sviluppo limitato però, per chi doveva garantir il rispetto della legge, voleva dire sopprimerle per
garantire il rispetto della legge che vedeva il monopolio statale su radio e televisione.

TELEVISIONI VIA CAVO


All’inizio degli anni Settanta, si diffuse l’interesse per la TV via cavo come mezzo di comunicazione di massa. Le
prime televisioni private trasmettevano via cavo, con una diffusione locale che però metteva in discussione il
monopolio della rai. Anche le televisioni via cavo, sfruttando le onde radio attraverso l’etere, erano fuori legge.
Nel 1971, iniziarono le trasmissioni via cavo di Tele Biella, la televisione privata che attraverso una battaglia
legale e mediatica ruppe il monopolio pubblico della Rai. Fu una lunga battaglia legale che fu sostenuta anche
125

attraverso un’associazione che legava insieme un numero di televisioni e radio private che avevano come
obiettivo di superare il monopolio televisivo e radiofonico della rai.
Nel 1974 le emittenti attive in Italia erano una trentina. L’aumento di numero delle «radio libere» fece crescere
l’esigenza di tutelare in modo organizzato l’emittenza privata. Nel 1974 fu fondata l’Associazione nazionale
teleradio indipendenti (ANTI) per difendere i diritti delle emittenti televisive e radiofoniche private accusate di
violare la legge.
Le emittenti con finalità commerciali, che si finanziavano attraverso la pubblicità, ebbero maggior propagazione e
durata nel tempo rispetto alle radio della militanza politica. Questo perché le radio con finalità politiche,
sostenute attraverso l’autofinanziamento, riuscirono con maggiore difficoltà a garantire la continuazione delle
trasmissioni.

La volontà di rompere il monopolio statale sulle trasmissioni radiofoniche e televisive portò i proprietari delle reti
televisive e radiofoniche, durante i processi, a richiedere che la norma, sulla base della quale queste radio e
televisioni erano condannate, fosse esaminata dalla corte costituzionale. Venne fatta emergere una questione di
costituzionalità della legge sul monopolio statale su radio e televisione. Nel 1974, la Corte costituzionale
attraverso due sentenze consentì:
• l’esistenza di un sistema televisivo misto via etere e via cavo;
• la rottura legale del monopolio radio-televisivo della Rai.
La legge sul monopolio del sistema radiotelevisivo venne considerata come una norma che violava la costituzione
per cui venne affermato il libero sfruttamento delle trasmissioni via etere e via cavo e venne dichiarato illegittimo
il monopolio della rai.
Una nuova sentenza della Corte costituzionale, nel 1976, equiparò il sistema di trasmissione via cavo a quello via
etere, quindi, la libertà di trasmissione doveva essere garantita sia per quelle che trasmettevano via onde
magnetiche e anche chi trasmetteva via cavo.
La decisione della Corte costituzionale del 1976 permise poi le trasmissioni radio-televisive via etere da parte di
reti private o straniere, che non avrebbero però dovuto superare l’ambito locale. Il timore era quello della
possibilità che uno o pochi imprenditori privati potessero avere un ruolo preminente rispetto alle altre società
private che avrebbero voluto garantire le trasmissioni radiofoniche e televisive. Quindi la corte costituzionale,
condannando il monopolio, manteneva alla rai l’esclusiva solo su scala nazionale

FINE DEL MONOPOLIO DELLA RAI


Tutte le sentenze portarono alla fine del monopolio della rai che però deve essere compreso non soltanto dal
punto di vista delle questioni legai e giudiziarie perché la nascita di un pluralismo delle reti televisive e
radiofoniche è legato ad una molteplicità di fattori che spiegano perché, proprio in questo momento, la questione
del monopolio della rai divenisse centrale nel dibattito pubblico e nella società.
La fine del monopolio pubblico delle trasmissioni radiofoniche e televisive ebbe molteplici radici:
• Economiche: le crisi e l’inflazione erosero la solidità finanziaria della Rai.
• Culturali: la crisi delle ideologie fece cadere le forti avversioni verso l’apertura del settore ai privati.
• Sociali: aumentarono la domanda e il consumo di TV e l’offerta della Rai era giudicata insufficiente, si
crearono così degli spazi che riuscivano ed essere superati dalle reti private che avevano programmazioni
e trasmissioni differenti e per un pubblico giovanile
• Commerciali: la televisione pubblica non riusciva a raccogliere le spinte del mercato di maggiori
investimenti pubblicitari.
• Politiche e culturali: crebbero le richieste di maggiore pluralismo (informazione…).
Questa situazione, particolarmente articolata, permise il rapido sviluppo delle reti televisive e radiofoniche
private. La fine dei divieti per le emittenti radio-televisive non si accompagnò all’emanazione una legge per
regolamentare il settore: verso il 1978 le emittenti private erano circa duemila e operavano all’interno di un
sistema dove non era definito per legge i diritti e i doveri che avrebbero dovuto rispettare le diverse emittenti
private.

LA GESTIONE POLITICA DELLA RAI E LA LEGGE DI RIFORMA


In questa fase, in cui iniziano ad emergere le reti privati, la rai fu portata ad attuare dei cambiamenti. All’inizio
degli anni Settanta, il meccanismo di controllo e di gestione del settore radiotelevisivo guidato dalla Democrazia
cristiana non era più sufficiente a garantire credibilità alla Rai. In questo periodo, insieme alle pressioni per la
rottura del monopolio radiotelevisivo, aumentarono nell’opinione pubblica le richieste di riforma della Rai. Nel
1975 il parlamento approvò una legge che puntava non a regolare il sistema radiotelevisivo complessivo, ma
soltanto a definire un quadro di legge che toccava le forme organizzative, i contenuti delle trasmissioni e il
rapporto tra azienda rai e istituzioni pubbliche.
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Dopo un intenso dibattito parlamentare, nel 1975 fu approvata la legge di riforma della Rai che stabiliva:
• il passaggio del controllo del servizio pubblico dal Governo al Parlamento che lo esercitava attraverso la
Commissione parlamentare di vigilanza (composta da forze di maggioranza e minoranza) dei servizi
radiotelevisivi: aumentò l’influenza dei partiti sulla Rai;
• la nomina di due terzi del consiglio di amministrazione da parte del parlamento;
• la conferma del monopolio dello Stato sulle trasmissioni radiotelevisive ma poi la corte costituzionale
rese queste norme illegittime nel ’76.

La legge di riforma della Rai del 1975, inoltre, stabiliva


• il riconoscimento del pluralismo culturale interno all’azienda attraverso l’autonomia data a reti e testate
giornalistiche in concorrenza tra loro; il pluralismo si tradusse in una situazione per cui le singole reti
televisive e radiofoniche e le testate giornalistiche furono spartiti tra i diversi partiti, i singoli partiti
avevano la possibilità di nominare dirigenti che garantivano una vicinanza ideologica.
• l’attribuzione di alcuni limitati spazi di programmazione per «l’accesso delle minoranze al mezzo
radiotelevisivo»: sindacati, confessioni religiose, movimenti politici e associazioni culturali che ne
facessero richiesta potevano autogestirsi alcuni minuti di trasmissione (Programmi dell’accesso, poi
Spaziolibero);
• costituzione della terza rete televisiva.

La riforma della Rai del 1975 della Rai fu il risultato di un compromesso politico che però fu poco attento alle
esigenze imprenditoriali e industriali del sistema radiotelevisivo. Negli organismi di vigilanza e di
amministrazione della Rai, fu garantita la rappresentanza non soltanto dei partiti politici di maggioranza, ma
anche di opposizione. L’esito fu però la spartizione da parte dei partiti della programmazione e dell’informazione
radiotelevisiva. Si irrigidì e si burocratizzò la struttura produttiva e amministrativa della Rai.

La mancanza di leggi che regolassero il settore privato favorì la concentrazione delle aziende televisive. Tra le
prime televisioni private vi furono Quinta Rete (Editore Rusconi), Antenna Nord e Tivu Malta.
Silvio Berlusconi fondò nel 1976 Telemilano, via cavo, che nel 1978 si trasformò in Canale 5. Nel 1978, il gruppo
editoriale Rizzoli-Corriere della sera acquistò il pacchetto azionario di Telealtomilanese.
Altri gruppi imprenditoriali privati rivolsero i propri investimenti allo sviluppo della tv per aumentare i profitti e
condizionare indirettamente la vita politica.

30. RADIO E TV NEGLI ANNI OTTANTA E NOVANTA

TRA PUBBLICO E PRIVATO


Dalla metà degli anni Settanta, nuove esigenze culturali della popolazione, pressioni del settore economico
privato e interventi dei partiti politici avevano determinato il cambiamento del sistema radiotelevisivo.
In Italia, come in Europa occidentale, nel settore radiotelevisivo prevalse la logica commerciale, ma gli Stati
agirono per garantire la presenza pubblica. In Italia si definì il prevalere, nel settore privato delle trasmissioni
radiofoniche e televisive, una logica commerciale. Radio radicale è una delle poche emittenti radiofoniche, nata
nel corso degli anni Settanta, che rimane come una testimonianza di quanto, nelle fasi iniziali della creazione di
un sistema radiofonico e televisivo privato, fosse anche presente la motivazione di tipo politico. Radio radicale,
infatti, fu una delle poche radio nella quale non era presente la logica commerciale, venivano trasmessi
programmi legati soprattutto ai partiti politici e ai discorsi di questo tipo, il tutto avveniva senza l’inserzione di
pubblicità.

Proprio la trasformazione complessiva della società italiana, i miglioramenti tecnologici e la presenza di nuove
aziende nel settore radiofonico e televisivo, fece emergere un cambiamento sostanziale nel sistema dei mezzi di
comunicazione di massa in Italia. Alla fine degli anni Settanta e inizio anni ottannata la televisione fu il fulcro del
sistema dei media di massa. La televisione negli anni Ottanta diventò il perno del sistema dei media.
L’obiettivo era quello di proporre una programmazione che potesse essere gradita dal pubblico per avere più
ascolti e quindi guadagnare di più dalla pubblicità che si trovava all’interno dei programmi, questo portò a dei
cambiamenti nel linguaggio e nei contenuti della programmazione televisiva e radiofonica. La presenza delle tv
commerciali, infatti, alimentò il cambiamento del linguaggio e dei contenuti delle trasmissioni.
Cambiò anche il rapporto con la politica, in due direzioni:
• l’influenza esercitata dalla politica sulla televisione;
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• l’impatto della televisione sulle forme della comunicazione politica, la presenza in video di esponenti
delle diverse formazioni politiche comportava un adeguamento dei contenuti proposti e del linguaggio
usato dai politici nel momento in cui comunicavano con la televisione

La pubblicità aumentò la sua importanza e influenzò in modo crescente l’informazione e la politica, condizionate
da forme di spettacolarizzazione. Fu introdotta la nuova formula del talk show, dove si mescolavano
intrattenimento e informazione.
Con la diffusione del talk show, diversi esponenti dei partiti politici che partecipavano a queste trasmissioni si
adeguavano ai limiti imposti da queste trasmissioni, per esempio si richiedeva linguaggio più rapido e quindi si
chiedeva agli esponenti politici un linguaggio più adeguato alle trasmissioni televisive.

CRISI E TENTATIVI DI RILANCIO DELLA RAI


La crisi economica, dalla metà degli anni Settanta, alimentò le trasformazioni tecniche, culturali e organizzative
del sistema radiotelevisivo. La Rai puntava a modernizzare programmi e struttura gestionale per permettere
anche il suo rilancio economico (Paolo Grassi, presidente dal 1977 al 1980).
Nel 1977, la Rai scelse il sistema Pal (tedesco) per la trasmissione di programmi a colori. Il problema, in questo
caso, era anche la sostituzione di apparecchi che potessero supportare le trasmissioni a colori. Questi apparecchi
erano però troppo costosi e le ore di programmi limitate quindi, l’acquisto dei televisori a colori, inizialmente, fu
una prerogativa delle fasce più abbienti della popolazione.
Dopo varie sperimentazioni, nel 1979 iniziarono le regolari trasmissioni della terza rete tv, con l’obiettivo del
decentramento regionale, in particolare dell’informazione. Il terzo canale era nato sulla base di quello che era
stato previsto nella legge di riforma del ’75. Questo canale doveva avere, secondo le intenzioni iniziali, l’obiettivo
di creare maggior radicamento territoriale della rai sul territorio italiano, con un ruolo di rete a servizio delle
comunità locali e delle regioni. L’obiettivo era quello di potenziare il decentramento della rai con un maggior
ruolo attribuito alle sedi regionali della rai per creare anche dei programmi specifici per interagire con un pubblico
locale. Questo obiettivo fu soltanto parzialmente raggiunto perché si realizzò un potenziamento delle sedi
regionali ma soltanto per quel che riguardava le informazioni giornalistiche.

Nonostante l’alta audience, la Rai fu spinta a cambiare anche per la competizione con le televisioni private. Il
modello televisivo della Rai era in crisi, superato dalle richieste del pubblico di nuovi programmi e stili più rapidi
e accattivanti. Erano ancora poco numerose le dirette televisive, che aumentarono dopo la riforma del 1975. Si
tentò di svecchiare la programmazione per rispondere alle richieste del pubblico, soprattutto nel settore
dell’informazione. Questo venne fatto per avvicinarsi al gusto sempre più diffuso nel pubblico televisivo.
A condizionar le trasformazioni della televisione in questi anni fu la presenza della pubblicità, la pubblicità era la
ragione di essere delle reti private. La centralità della rete commerciale portò alla nascita di nuovi stili e linguaggi
dell’intera programmazione.
Tra gli anni Settanta e Ottanta, la Rai però non sfruttò pienamente le nuove tecnologie e sottovalutò il ruolo della
pubblicità.

PALINSESTI E GENERI TELEVISIVI: L’EROSIONE DEL MONOPOLIO DELL A RAI


La fine del monopolio della rai ha portato ad un cambiamento radicale nell’interno sistema radiotelevisivo. Si
accelerò la tendenza del proliferare di stazioni private che videro emergere uno squilibrio all’interno del settore
privato delle radio e della televisione: si registrò, infatti, la tendenza alla concentrazione sotto il controllo di poche
proprietà, di numerose reti televisive.
La politica era al centro del discorso diretto dalla Rai agli spettatori, con forme che rispondevano più alle
aspettative dei partiti che alle esigenze del pubblico. Il decentramento regionale, che doveva realizzarsi con la
terza rete della Rai, non sfruttò tutte le sue potenzialità per avvicinare i territori e il pubblico. Il palinsesto della
Rai diventò un mosaico di generi, meno attenta ai contenuti e alle possibilità offerte dalle innovazioni tecniche.

Imprese editoriali e finanziarie che avevano investito mel settore radiofonico e televisivo, divennero proprietarie
di stazioni emittenti che avevano a capacità di trasmissione e diffusione dei propri programmi su un territorio
molto vasto, in alcuni casi su tutto il territorio nazionale. La pluralità di stazioni, che aveva caratterizzato la
prima fase della emersione delle stazioni radiofoniche televisive, già all’inizio degli anni Ottanta, si prospettava
come una situazione in cui, affianco alla presenza dell’ente pubblico Rai, si creava una concentrazione di
proprietà.
Investirono nel settore televisivo l’Editore Rusconi che possedeva Italia 1, la Mondadori era proprietaria di
Retequattro, mentre l’immobiliarista Silvio Berlusconi (Fininvest) acquisì Telemilano, divenuta poi Canale5.
Lo Stato non intervenne per regolamentare il settore televisivo e l’attività delle reti private. Fininvest divenne
proprietaria anche di Italia 1 (1982) e poi di Retequattro (1984), a condizioni vantaggiose. Questa capacità di
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acquisizione di altre reti televisive si inserisce all’interno della piú complessa questione dell’acquisizione, da parte
della Fininvest, di una parte della proprietà della Mondadori. In gioco, non c’era solo il controllo di tre reti
televisive ma anche la possibilità di un imprenditore privato, Fininvest, di avere il controllo anche su giornali di
grande diffusione.
Si è arrivati a questa situazione, a questa sorta di monopolio privato a causa della mancanza di regolamentazione,
favorita dal Partito socialista di Bettino Craxi e dall’inerzia della Democrazia cristiana. Tutta questa situazione
consentì a una singola azienda (Fininvest di Silvio Berlusconi) di monopolizzare di fatto il settore televisivo
privato.
La Fininvest strinse accordi con una serie si stazioni televisive private, presenti in molte regioni italiane, creando
un network, poi passò all’acquisto diretto di queste stazioni televisive private. Inglobando, quindi,- rapidamente
reti televisive private locali, Berlusconi costruì un network con una struttura simile ai network statunitensi.
Costruì poi anche una concentrazione multimediale con «Il Giornale», «Tv Sorrisi e canzoni», MedusaFilm e la
scalata a Mondadori. All’inizio degli anni Ottanta, quindi, si stava andando configurando un vero e proprio
conglomerato societario con a capo al Fininvest, a cui poi facevano capo tre reti televisive a diffusine nazionale e
tutto un sistema di proprietà editoriale che faceva si che tutte le proprietà sotto il controllo di Silvio Berlusconi
avessero una rilevanza nel settore editoriale privato che non aveva competitori. Questa situazione fu
maggiormente favorita dalla mancanza di leggi di regolamentazione del settore radiofonico e televisivo privato,
una norma avrebbe potuto limitare la concentrazione nelle mani di un unico imprenditorie privato di un potere
così rilevante, in quanto settore strategico da molti punti di vista.

PUBBLICITÀ, FINANZA E COMUNICAZIONE


La capacità della Fininvest di condurre questa scelta di concentrazione economica fu resa possibile anche dalla
capacità di raccolta pubblicitaria. Fininvest creò un sistema di società finanziarie e società di produzione, in grado
di accentrare e coordinare funzioni varie. Molto forte fu la capacità delle reti di Berlusconi di agire nella raccolta
pubblicitaria (Publitalia) e nel mercato della comunicazione, con trasmissioni di intrattenimento e fiction.
La legge del ’75 aveva determinato un tetto massimo di inserzioni pubblicitarie all’interno della rai e quindi
questo aveva determinato una sorta di domanda inevasa rispetto alla richiesta che gli imprenditori privati avevano
di pubblicizzare i loro prodotti attraverso la televisione. Per questa ragione i canali televisivi della Fininvest, visto
che non avevano limiti per gli spazi pubblicitari, riuscirono a offrire, a differenza di altri emittenti televisive,
enormi spazi pubblicitari.
Inoltre, attraverso indebitamento, appoggi politici e capacità creativa, Fininvest si rafforzò e ampliò la sua offerta
di programmi. Canale 5, Italia uno e rete 4 basavano la maggior parte della loro programmazione su soap opere e
film che provenivano dall’estero, quindi, l’acquisizione dei diritti per poterli trasmettere fu in grado di attirare un
pubblico vasto, ponendosi in alcuni casi, in competizione diretta con i programmi della rai. Questa capacità di
intercettare gli investimenti delle aziende che intendevano trasmettere pubblicità e la proposta di una
programmazione popolare che permetteva di avere alti ascolti, costituì il segreto del successo della Fininvest.
L’informazione giornalistica aveva però poco spazio nei canali della Fininvest per i costi di realizzazione e per i
limiti tecnici (diretta).

All’inizio degli anni Ottanta iniziò la “guerra dell’audience” con la Rai per aumentare gli ascolti e la raccolta
pubblicitaria. La capacità delle reti Fininvest di attrarre spettatori mise in discussione il primato, fino ad allora
indiscusso, della rai. In questa situazione la rai, pressata dalla competizione con le reti Fininvest, cercò di
recuperare gli ascolti perduti adeguando la propria programmazione ad uno stile e a contenuti che in parte si
avvicinavano al linguaggi, allo stile e ai contenuti della programmazione di Fininvest. Il primato della rai rimase
comunque per le informazioni giornalistiche visto che la Fininvest non puntò mai su questo aspetto.
Dagli anni Ottanta, si creò quindi in Italia un sistema misto con un duopolio pubblico-privato Rai-Fininvest:
sistema televisivo in cui c’erano due aziende, una pubblica e un privata, che si spartivano gran parte del mercato
pubblicitario e degli ascolti televisivi italiani. Le altre reti private continuarono ad esistere con però una capacità
di diffusione e di raccolta pubblicitaria locale, visto che era impossibile scalfire gli ascolti e le trasmissioni della rai
e della Fininvest.

FRAMMENTI DI TELEVISIONE: AU DIENCE E QUALITÀ


Alla luce di queste complesse variabili che implicano questioni che hanno a che fare con vicende economiche
(raccolta pubblicitaria e concentrazioni aziendali), questioni politiche e amministrative si ha questo cambiamento
all’interno del settore televisivo. Questo fece si ce la tipologia di comunicazione che aveva una maggiore
preminenza era un linguaggio e stile comunicativo il più possibile diretto, in grado di coinvolger emotivamente
glia ascoltatori, con una programmazione che raramente proponeva riflessioni e discorsi particolarmente
complessi. Anche la Rai abbandonò gran parte delle sue finalità pedagogiche (vale a dire di crescita culturale) e di
integrazione politica della cittadinanza (cioè di promozione della partecipazione di cittadini e cittadine) che era
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una nota caratterizzante delle sue trasmissioni, dal 1944 in avanti. Quindi, la presenza così predominante di
un’impresa televisiva privata condizionò il tipo di ascolto del pubblico e condizionò la stessa programmazione
della rai. Si, registrò così il passaggio da una televisione di massa a una televisione frammentata: differenziazione
dei gusti, attenzione alle richieste delle diverse tipologie di pubblico, sperimentazioni di programmi.

La concentrazione avvenuta nel settore televisivo privato e la concorrenza non regolamentata provocarono:
• il controllo di quote rilevantissime del mercato pubblicitario da parte di Rai e Fininvest;
• la crisi delle piccole tv locali;
• un abbassamento della qualità dei programmi con molti prodotti e format esteri.
Negli anni Ottanta, la Rai registrò forti difficoltà finanziarie e la crescita della lottizzazione politica, quindi
dall’influenza dei partiti politici all’interno della scelta delle figure dirigenti all’interno dell’organizzazione rai.
Si tentarono alcune sperimentazioni nella programmazione: “televisione verità” dove cronaca e fiction si
mischiavano.
Inoltre, il pubblico diventò parte attiva nelle trasmissioni, anche attraverso il telefono. La possibilità di introdurre
il pubblico nelle trasmissioni si sviluppò sia nei canali della rai che della Fininvest e divenne un asse importante
per quelle trasmissioni che volevano diminuire la distanza tra chi realizzava i programmi e i telespettatori.
Esempi di queste trasmissioni erano Rai Telefono giallo, Chi l’ha visto? Un giorno in pretura, Samarcanda.
Questo tentativo di creare un contatto con il pubblico vide la prevalenza delle reti private, soprattutto per quanto
riguardava le trasmissioni radiofoniche. Alla metà degli anni Ottanta, infatti, le reti radiofoniche della Rai furono
sorpassate negli ascolti dalle radio private soprattutto per gli alti livelli di ascolto da parte del pubblico giovanile.
Le reti radiofoniche private riuscivano ad avere programmazioni che riscontravano un maggiore gradimento da
parte del pubblico.

Aumentarono le ore di programmazione televisiva, sia della Rai, sia delle reti private. Le aziende (anche medie e
piccole), alla ricerca di spazi pubblicitari, indirizzarono verso le televisioni private molte risorse, mentre
diminuirono gli introiti pubblicitari di altri mass media (quotidiani e riviste). La mancanza di leggi sul sistema
radiotelevisivo si tradusse nel caos nelle frequenze, nell’assenza di regolamentazione del mercato pubblicitario e
della programmazione. Le frequenze erano ripetutamente comparse da interferenze che non permettevano la
fluida programmazione radiofonica.

LA RAI TRA CRISI E RINNOVAMENTO


Negli anni Ottanta, la Rai tentò un rinnovamento, con una maggiore capacità di raggiungere il pubblico,
soprattutto attraverso l’informazione e lo sport. Il carente controllo delle spese, le limitate entrate pubblicitarie e il
basso costo del canone (se confrontato con gli altri paesi europei) contribuirono a indebolire economicamente la
Rai. In difficoltà nella competizione su fiction e intrattenimento, la Rai continuò a prevalere nel settore
dell’informazione.
Negli anni Ottanta, crebbe l’influenza reciproca dei mezzi di comunicazione, si mescolarono i generi (svago,
notizie, cultura), i gusti e la domanda televisiva del pubblico si differenziarono.
La gestione della Rai era resa faticosa dalle divisioni politiche all’interno del Consiglio di amministrazione, dalle
difficoltà finanziarie e dagli scarsi investimenti per l’innovazione tecnologica. Questa origine politica della
composizione del coniglio di amministrazione della rai fece sì che all’interno dell’azienda si riflettessero le
contrapposizioni di tipo politico. Questa dimensione politica presente nella gestione della rai comportò una
difficoltà di gestione della stessa rai in quanto le logiche di tipo politico non sempre si accordavano con le logiche
imprenditoriali o con le logiche di programmazione. Come conseguenza a queste difficoltà, la rai diminuì gli
investimenti nel settore delle innovazioni tecnologiche, settore che aveva sempre reso la rai in grado di realizzare
tecnologie per migliorare la qualità dei programmi e la loro realizzazione.
Il presidente della Rai Sergio Zavoli (1980-1986) intendeva far convivere l’autonomia dell’azienda e la presenza
dei partiti e ridisegnare il ruolo della Rai nel sistema radiotelevisivo misto pubblico-privato. Per il rilancio del
sistema pubblico erano necessarie risorse economiche, innovazioni tecnologiche e un quadro legislativo per
regolamentare il settore radiotelevisivo. Scelte dell’azienda, dissensi tra i partiti e assenza di leggi impedirono una
reale riforma della Rai
In questa situazione diventò sempre più urgente la definizione di una legge, per regolamentare l’intero sistema
radiotelevisivo. Sulla base delle sentenze della Corte costituzionale era vietata la trasmissione simultanea su scala
nazionale dello stesso segnale o programma: alcuni pretori nel 1984 in tre regioni oscurarono quindi le
trasmissioni via etere delle tre reti Fininvest. Di fronte a questi interventi della magistratura, il governo decise la
riapertura delle emittenti, permettendo alle reti Fininvest di continuare a trasmettere, e rimandò a una nuova
legge la regolamentazione del settore radiotelevisivo (approvata poi soltanto nel 1990).

IL MONOPOLIO DELL’EMITTENZA PRIVATA: FININVEST E IL SU O PUBBLICO


130

Furono a lungo disattese dal Parlamento le nuove sentenze della Corte costituzionale (1981 e 1988) che
richiedevano al Parlamento leggi di disciplina dell’emittenza privata per tutelare il principio di pluralismo
(analogamente alla stampa). Si consolidò il monopolio della Fininvest nel settore privato e nella raccolta
pubblicitaria, togliendo la possibilità della nascita di effettivo pluralismo televisivo.
Dopo lunghe discussioni, la “legge Mammì” entrata in vigore nel 1990 fissò le norme antitrust (non più di tre reti
a ogni operatore privato) e istituì il garante per l’editoria e la radiotelevisione che doveva vigilare sul rispetto di
questa norma per evitare concentrazioni nel settore giornalistico e radiotelevisivo. Di fatto, la legge fotografò la
situazione esistente e favorì la posizione prevalente della Fininvest, che acquisì anche la pay-tv Telepiù.

Alla metà degli anni Ottanta, le tre emittenti Fininvest costituivano un polo alternativo a quello pubblico dei tre
canali della Rai. Canale 5 si rivolgeva a un pubblico indifferenziato, con telequiz e talkshow. Retequattro era
destinata a un pubblico prevalentemente femminile, con telenovelas e soap opera. Italia Uno aveva un pubblico
più giovane, con telefilm, film d’azione e musica

LE RADIO COMMERCIALI E I SISTEMI RADIOTELEVISIVI IN EUROPA


Negli anni Ottanta, le radio private adeguarono sempre più la programmazione agli interessi di precisi target di
ascoltatori. Piccole e medie aziende radiofoniche si accordarono per diffondere le trasmissioni a livello nazionale.
Si rafforzarono alcuni network esistenti (Italia Radio, Rete 105, Radio Deejay) e ne sorsero di nuovi (Rtl 102.5,
Radio Italia). I radioascoltatori delle emittenti radiofoniche commerciali superarono quelli della Rai.
La situazione del sistema radiotelevisivo italiano era anomala, in confronto a quella di altri paesi europei. In
Francia, una legge di riforma era stata approvata nel 1975: il governo controllava le nomine dei consigli di
amministrazione delle radio e tv pubbliche. Dagli anni Ottanta, iniziarono le trasmissioni di radio e tv private
sotto la tutela di un organismo di garanzia.
In Gran Bretagna nel 1955 iniziarono le trasmissioni tv di una azienda privata e finì il monopolio di Bbc. La Bbc
rimase finanziata dal canone e senza pubblicità, mentre le emittenti private si sostenevano attraverso le inserzioni
pubblicitarie.

LA POLITICA COME MARKETING E SPETTACOLO


In Italia, per la forte influenza dei partiti politici nella gestione e organizzazione della rai e i legami tra Fininvest e
partiti politici, si rese evidente quanto la politica influenzasse l’organizzazione e gli stessi contenuti della
programmazione televisiva e quanto lo stile e il linguaggio introdotto e alimentato dalle televisioni commerciali
stesse condizionando la vita politica. Dagli anni Ottanta, si affermarono gli spot televisivi politici: le campagne
elettorali si personalizzarono e il linguaggio si richiamava alle tecniche della pubblicità commerciale. La media
logic dettò le regole alla comunicazione politica, anche nell’informazione giornalistica.
Gli interventi di personaggi politici nei programmi Rai erano fortemente regolamentati, mentre per le presenze
sulle reti private non vi erano norme.
Nel 1994, Silvio Berlusconi fondò il partito di Forza Italia e usò le sue televisioni per sostenere la sua campagna
elettorale
Attraverso la televisione, la politica si personalizzò e si spettacolarizzò. Cambiarono forme e contenuti del
dibattito politico e dell’appartenenza collettiva ai partiti. Crebbe il ruolo del giornalista-intervistatore, intorno cui
ruota il talk show e che definisce i temi dell’agenda politica. Il personaggio politico intervistato si adeguò alla
logica dello spettacolo per essere presente in tv e avvicinare i telespettatori-elettori
L’interrelazione tra media e sistema politico modificò l’informazione e i contenuti delle proposte dei partiti. Negli
anni Novanta, l’integrazione sociale e politica degli spettatori-cittadini passò sempre più attraverso la televisione,
con un calo del numero di lettori e degli introiti pubblicitari per giornali e riviste. Nel 2001, Rai e Mediaset
raccoglievano oltre il 90% degli ascolti, una concentrazione che non aveva eguali in Europa

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