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Guido Formigoni

STORIA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE NELL’ETÀ


CONTEMPORANEA
Riassunti

CAPITOLO I LE ORIGINI DELLA CONTEMPORANEITÀ. LA CRESCITA DELL’EUROPA FINO ALL’ETÀ


DELLE RIVOLUZIONI
Sembra ormai universalmente riconosciuto che, per quanto sia sempre più difficile
rintracciare una data di transizione dalla modernità – intesa come epoca post-medievale – alla
contemporaneità, il periodo a cavallo tra il XVII e il XIX secolo sia un concentrato di eventi
inediti che mutarono profondamente il panorama politico ed economico mondiale, primo su tutti la
caduta dell’ancien régime, strettamente e conseguentemente connesso con la rivoluzione
francese e quella industriale. Se nel breve periodo non è facile riconoscere l’efficacia di tali
rivoluzioni, è invece nel lungo periodo che bisogna guardarne gli effetti, ed è per questo che la
cosiddetta “età delle rivoluzioni” è unanimemente considerata come principio della
contemporaneità. Diverso è il discorso per il sistema politico internazionale inteso come
complesso di interrelazioni relativamente stabili ed organizzate tra soggetti distinti, in cui il
comportamento di ciascuno influenza le scelte degli altri; un rudimento dello stesso era già presente
da prima degli eventi sopracitati, e con l’avvento della contemporaneità esso non restò certo
insensibile al mondo circostante. Occorre dunque trovare i punti d’unione tra avvio dell’epoca
contemporanea e politica internazionale, e per fare ciò è necessario andare indietro nel tempo,
nell’Europa pre- contemporanea, in quanto essa condizionò fortemente il mondo politico a causa
della sua preminenza economica, militare e, ovviamente, politica, dove già esisteva, dunque, un
tessuto di relazioni tra enti sovrani.
1. DALL’UNIVERSALISMO MEDIEVALE AGLI STATI MODERNI
Fin da dopo la caduta dell’impero romano, l’Europa è sempre stata attraversata da un
sentimento di rinnovamento dell’impero su base frammentata, ossia con una complicata rete di
relazioni tra autonomie locali ed elementi universali, eredità classiche e costumi germanici. È
questo quello che accadde nel Sacro Romano Impero, che pure non si differenziava troppo da
molte altre realtà sorte nello stesso periodo in altre parti del mondo. I due poteri che tenevano
incollati tutti i pezzi del complicato puzzle medievale erano, appunto, la religione Cristiana e
l’entità imperiale, che convivevano reciprocamente in maniera molto agitata, in una lotta
perpetua per determinare chi dei due dominasse effettivamente. A partire dal 1200 però, alcuni
potenti locali iniziarono ad accumulare potere fino a diventare gli unici sovrani di una vasta area
che si interponeva tra e al di sopra di potere locale e potere universale. Il concetto di impero andava
così pian piano sgretolandosi, lasciando posto a diversi poteri autonomi ed omogenei che
dimostravano il loro primato sui signorotti locali con una maggiore efficienza nella riscossione
delle imposte, o con una migliore organizzazione dell’apparato militare, giuridico e
religioso e via dicendo. Allo stesso tempo essi favorirono lo sviluppo e la diffusione di una
lingua comune e comprensibile a tutti, che divenne mezzo di espressione comune anche in
assenza di unità politica, primo segnale di “nazione”. L’accentramento del potere era però ancora
fortemente limitato dalla carenza delle infrastrutture e dalla difficoltà nei trasporti,e spesso
e volentieri incontrò svariati ostacoli da parte di organizzazioni sociali molto influenti nel
territorio, oltre che dal già citato potere religioso. Tuttavia, l’accentramento prevalse, tanto che tra il
XVII e il XVIII secolo si parla di assolutismo, ossia distacco – non necessariamente forzato –
dell’autorità da qualsiasi vincolo di consuetudine.

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2. I SUCCESSI DEI NUOVI STATI SOVRANI
Il processo di accentramento si evolveva con l’autoproclamazione del sovrano come
imperator in regno suo. Con tale formula, con la quale il sovrano si rifiutava di riconoscere
qualsiasi altra autorità al di fuori di se stesso, l’influenza papale negli affari statali risultava
praticamente nulla, fino addirittura a creare delle Chiese “nazionali” sottomesse al sovrano, il
cui potere non si riteneva più derivante dalla Chiesa ma da Dio stesso. Iniziarono, a partire dal XVI
secolo, a prendere forma nuovi concetti di sovranità: se da una parte il già malridotto Sacro
Romano Impero Germanico vedeva una forte riduzione dei territori in cui poteva vantare un vero e
proprio dominio, fino a ritrovarsi confinato al solo territorio germanico, dall’altra sopravanzava il
concetto di sovranità come potere assoluto e perpetuo proprio della repubblica, teorizzato
da Jean Bodin. Questo concetto implica la presenza di una sfera interna e di una esterna allo
Stato, e se all’interno di esso il sovrano non riconosce alcun ente a lui superiore, all’esterno deve
valutare la possibilità di confrontarsi con enti non subalterni che però riconoscono tale non
subalternanza; pertanto la sovranità in quanto tale dev’essere riconosciuta anche all’esterno
di uno Stato. Questo ebbe ripercussioni su vari aspetti di politica internazionale, non ultimi ad
esempio la ridefinizione del concetto di frontiera – da zona di transizione a confine ben
definito – e la creazione di un diritto di guerra. A partire dal 1500 inoltre, autori come
Machiavelli cominciarono a teorizzare lo Stato non più solo come patrimonio del re, ma anche
come corpo politico originale che il re aveva il dovere imprescindibile di mantenere ed
accrescere. Stati che rispondevano a questa definizione esistevano già alla fine del XV secolo
(Francia, Inghilterra, Spagna), e molti tentativi, specialmente nella penisola italiana, furono fatti,
sebbene il problema proprio dell’Italia restava comunque la forte presenza del papato. Un'altra
tappa chiave di questo periodo è l’apparire di un intreccio politico-economico assimilabile in
qualche modo al moderno capitalismo, che costituisca un’organizzazione del potere finalizzata a
moltiplicare la ricchezza del capitale. È il caso di città e Stati commerciali come Venezia e i Paesi
Bassi. Simili processi si verificarono anche nell’Europa nord-orientale, ad esempio in Ungheria e
nei territori polacco-lituani, e l’accentramento è sicuramente alla base dell’espansione del
principato di Mosca, che in breve tempo si espanse fino a diventare la conosciuta Russia
zarista. I processi di espansione e mantenimento dello Stato erano inoltre alimentati dalle guerre di
religione che seguirono i vari scismi del cristianesimo in varie professioni protestanti fortemente
politicizzate. La maggiore di esse, la guerra dei trent’anni tra protestanti tedeschi e impero e papato,
portò nel 1648 alla pace di Westfalia, universalmente riconosciuta come il momento a partire dal
quale si prospettò in Europa un panorama abbastanza ben definito di Stati indipendenti che si
riconoscevano reciprocamente, oltre che un processo di religionizzazione forzata di
territori secondo il principio cuius regio eius religio. Ciononostante, bisognerà aspettare il ‘700
per osservare la contiguità territoriale dei diversi possedimenti di uno Stato e di un monarca.
3. UN SISTEMA DI STATI E UN ABBOZZO DI SOCIETÀ INTERNAZIONALE
Il sistema di necessario riconoscimento reciproco portò molti teorici del ‘600 a pensare che
più che di una dissoluzione dell’universalità, si dovesse parlare di una trasformazione della
stessa. Voltaire conia il termine “comunità di Stati”, ripreso da Burke come “repubblica
diplomatica d’Europa”. Effettivamente di comunità si può parlare se si considerano gli elementi
su cui si dice che essa si reggeva: legami di parentela tra i sovrani, usi linguistici
reciprocamente comprensibili, convenzioni religiose e laiche. È in questo contesto che inizia a
svilupparsi un principio di diritto pubblico europeo, vincolante ma non sanzionato da
un’autorità superiore, che trae le sue origini già dal XVI secolo per mano di giuristi come Vitoria,
che sottolineava la necessità di un rapporto tra diritto naturale e diritto positivo, basato
sugli accordi tra Stati. Alla
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base di tale diritto stava il principio generale pacta sunt servanda, e nella sua evoluzione lo ius
publicum europaeum andò a coprire sempre più campi d’azione non solo in chiave esistente, ma
anche e soprattutto prospettica. Qui si colloca la nascita della diplomazia, ovvero dello studio
dei documenti ufficiali d’archivio necessaria ai sovrani per sostenere le proprie pretese, che si
evolse, a partire dal XVIII secolo, in quello che è l’insieme dei mezzi usato nello sviluppo dei
rapporti internazionali. Con la diplomazia nasce anche un rafforzamento degli scambi e delle
relazioni tra sovrani, e in particolare si sviluppa la tutela di tutti i rappresentanti all’estero di un
governo. Precursori di questi processi furono l’amministrazione pontificia, l’impero bizantino e
svariate città-Stato come Genova, Venezia e Firenze; c’è anche da dire che l’installazione di
rapporti diplomatici anche attraverso ambasciate era relativa anche alla ricchezza di uno Stato. Gli
ambasciatori erano fortemente influenti e godevano di grande autonomia, complice la lentezza
delle comunicazioni, e spesso erano al servizio di più di un monarca, con i conseguenti problemi
che ne scaturivano. Infine, la nascita delle cancellerie garantiva un’amministrazione centrali
di tutti gli affari statali, anche quelli relativi alle relazioni internazionali. Esse ruotavano intorno al
re e seguivano un’organizzazione strettamente gerarchica, e a partire dal 1500 iniziarono ad
articolarsi in maniera molto complessa e burocratica, con l’istituzione di segretari di Stato,
archivisti, traduttori, giuristi e funzionari.
4. GUERRA ED ECONOMIA TRA GLI STATI SOVRANI
Nonostante l’aumento delle relazioni internazionali, o forse proprio a causa di esso,
l’attività bellica rimase costante nel corso dei secoli assolutisti. Le guerre venivano combattute
per ambizione o difesa di un territorio o di un principe o per controversie dinastiche, da eserciti
pagati e forniti di ogni avanzata dotazione militare. Gli eserciti venivano mantenuti anche in tempo
di pace di modo che potessero essere pronti a qualsiasi evenienza, con un conseguente aumento
delle spese militari dello Stato. La guerra poi aveva assunto un aspetto diverso rispetto al
passato, soprattutto per merito degli olandesi: la già menzionata necessità di regolamentare i
conflitti si univa poi ad una guerra solo formale, poiché tra due Stati in lotta si mantenevano
generalmente tutti i rapporti commerciali. A causa dell’aumento delle spese belliche, che
restavano una voce primaria nel bilancio statale, fu avviata, anche in questo caso a partire dai Paesi
Bassi, una rivoluzione del sistema finanziario e bancario di modo tale da consentire crediti
per finanziare le guerre. In tal modo, economia e Stato erano sempre più relazionati tra di loro, fino
a che non prevalse una visione mercantilistica dello Stato, ovvero una prospettiva di
prosperità economica come prestigio ed arricchimento statale, e pertanto è responsabilità del
sovrano promuovere l’attività economica ed il commercio nello e dello Stato. Il commercio portava
inoltre i paesi Europei fuori dai confini continentali, ridefinendo totalmente le relazioni commerciali
e la tipologia di merci scambiate, sebbene la maggior parte del commercio restò a livello locale
almeno fino ai primi dell’800. Anche il commercio fu soggetto a consuetudini ed informalità che ne
garantissero una fluente esecuzione e che successivamente vennero codificate, riguardanti
specialmente lo scambio di moneta.
5. IL SISTEMA EUROPEO E IL MONDO NON EUROPEO
Quando si tratta delle relazioni che l’Europa ha avuto con il resto del mondo,è opportuno
parlare di sistemi. Tra di essi, nel quadro degli scambi con il vecchio continente, spicca soprattutto
il sistema islamico, che con l’Europa ha sempre vissuto a stretto contatto non solo commerciale.
Nel periodo di massima espansione, il sistema islamico andava dalle coste dell’Africa atlantica fino
all’impero Moghul dell’India. In mezzo, svariati imperi, Stati e enti autonomi che si sentivano tutti
uniti in una grande comunità di fedeli. I due sistemi si ritenevano reciprocamente alternativi ma
conosciuti, sebbene fino all’800 imperi islamici come quello Ottomano non ricevessero
considerazione né civile, né giuridica tra gli Stati europei. Tra gli altri sistemi, con cui l’Europa
ebbe rapporti più flebili, è
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importante citare quello cinese, che comprendeva Cina, Indocina e Giappone. Il sistema europeo
iniziò la sua esplorazione globale nel XVI secolo, sebbene già nei secoli precedenti si era
avvertita un’espansione verso est, soprattutto per necessità di terre coltivabili. Tuttavia le
esplorazioni cinquecentesche furono accompagnate da consistenti innovazioni tecnologiche che
permisero agli europei di sopraffare le popolazioni indigene, cosa che non poteva accadere nel
Medioevo, quando imperi come la Cina detenevano strumenti tecnologicamente molto più avanzati
di quelli europei. Alle scoperte di nuove terre seguì un loro sfruttamento selvaggio, con
l’importazione in Europa di nuove merci di altissimo valore commerciale. La competizione tra i vari
Stati europei sulla conquista di territori inesplorati crebbe in maniera sempre maggiore, fino
all’istituzione del trattato di Tordesillas, che suddivideva l’Oceano Atlantico in due sfere
d’influenza (spagnola e portoghese). Tra i nuovi soggetti che parteciparono a questa campagna di
conquiste non solo territoriali, ma anche commerciali, spiccano le Compagnie privilegiate,
ovvero enti privati che ricevevano monopoli da parte degli Stati per il commercio tra determinate
aree del pianeta. Tra esse è opportuno citare la Compagnia del Levante, quella della Moscovia e le
varie Compagnie delle Indie Orientali create da portoghesi, olandesi ed inglesi. Grazie alle
conquiste oltreoceano, le potenze europee potevano ricostruire un loro proprio impero, cosa che
ormai in Europea era diventata impossibile per via dei limiti autoimposti dagli stessi Stati;
potevano inoltre espandere, grazie alle innovazioni tecnologiche la loro influenza nel resto del
mondo. Nonostante possa sembrare rapido, questo processo durò circa tre secoli, e più che una
manifestazione della superiorità europea, esso era il segno del decadimento delle altre civiltà
e della capacità degli europei di saper meglio sfruttare strumenti creati da altri, come la polvere da
sparo. Inoltre, generalmente, il controllo da parte delle potenze europee era ristretto alle zone
costiere e ad alcuni punti di approdo commerciali.
6. EQUILIBRIO O EGEMONIA?
In questo periodo si acuì la lotta per l’egemonia sul continente, perpetrata per mano delle
grani case imperiali europee. Tale egemonia iniziò a concretizzarsi, sebbene ancora in maniera
modesta, quando, nel XVI secolo, salì sul trono asburgico Carlo V, che incarnava in se il sangue di
svariate famiglie reali europee. Più tardi, un tentativo fu fatto dalla Francia borbonica nella
persona di Luigi XIV, che fu però fermata da un’alleanza antifrancese composta da Gran Bretagna,
Paesi Bassi, Asburgo, Portogallo, Prussia e Savoia in occasione della guerra di successione
spagnola dei primi del ‘700. Nel 1713, a conclusione della guerra, fu firmato il trattato di
Utrecht, nel quale per la prima volta si inizia a parlare di un sistema di equilibro di potenza in
Europa, concetto voluto soprattutto dalla Gran Bretagna per mantenere la pace. Il concetto non
era ben definito, ma generalmente si pensa ad equilibrio come eventuale risposta degli Stati
europei ad un’attività di accrescimento della potenza di uno di loro, o ancora come stabilità data da
un sistema di controlli e contrappesi tra le diplomazie e le forze armate, ma ogni potenza
interpretava tale termine nei modi in cui le era più conveniente; questo portava spesso e volentieri
ad azioni unilaterali non sempre controbilanciate a spese di stati piccoli o “cuscinetto”, come
accadde per la Polonia, che si vide sottrarre sempre più territori fino alla cessazione della sua
esistenza alle soglie del XIX secolo.
7. L’EMERGERE DELLE GRANDI POTENZE
La lotta per l’egemonia portò alla ribalta definizioni come quella di grande potenza, che a
sua volta implicava l’esistenza di soggetti intermedi ed enti politici più piccoli e meno rilevanti. A
partire dalla pace di Westfalia si iniziarono a delineare i profili di cinque preminenti soggetti
nel panorama politico e diplomatico internazionale: Gran Bretagna, Francia, Russia, Impero
Asburgico e Russia.

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A quel tempo, il Sacro Romano Impero era soltanto una confusione di piccoli principati
senza nemmeno una vera e propria capitale unica; spettò agli Asburgo il compito di ridare lustro
alla realtà imperiale. Compito che riuscì loro piuttosto bene: la cacciata dei turchi da Vienna,
l’espansione territoriale nei Balcani e di influenza nella penisola italiana contribuirono sicuramente
a dare una nuova e forte immagine dell’Impero che, ormai ricco di diversi popoli unificati solo
grazie alle conquiste, necessitò di un lungo e faticoso processo di centralizzazione per poterne
garantire un’amministrazione ottimale.
Per quanto riguarda invece la Francia, essa era ineccepibile sotto l’aspetto
demografico e militare, ma peccava dal punto di vista finanziario ed organizzativo,
affidando sempre più ad intermediari privati la raccolta delle imposte. Era essa inoltre
bloccata nello sviluppo da sistemi e regole vessatorie create per controllare l’economia del
paese, a causa delle quali la sua influenza in Europa fu sopraffatta dal colosso inglese. È infatti la
Gran Bretagna che vanta un ruolo predominante in questo periodo storico, grazie anche ad
una situazione politica stabile e stabilizzata da un sistema di controlli e compromessi e
ad una flotta navale senza eguali nel mondo, che le consentì un’enorme influenza oltreoceano.
Proprio per via di questa manifesta superiorità, la classe dirigente inglese non si riteneva
intrinsecamente europea, sebbene condizionasse profondamente gli equilibri del continente con il
suo potere militare, marittimo e finanziario per la tutela dei propri interessi. Inutile dire che, a
fine ‘700 il forte impulso dato dalla rivoluzione industriale non fece altro che consolidare la
posizione britannica in Europa e
nel mondo.
Chi invece era ancora agli inizi del suo percorso verso una posizione egemonica in Europa
era la Prussia, un piccolo Stato tedesco in cerca di potere. Questa ricerca trovò il suo successo anche
in un’alleanza tra gli Hohenzollern, i governanti prussiani, e l’aristocrazia feudale e terriera,
per la formazione di un esercito che gli permettesse di essere superiore almeno ai vicini principati
per poterli gradualmente inglobare nella sua sfera d’influenza.
Vi è infine la Russia, che però soffriva di problemi di accettazione dovuti alla religione
ortodossa. Tale ostacolo fu superato grazie alle conquiste fatte nel XVIII secolo a danno di
Svezia, Turchia e Polonia, che garantirono allo zar il rispetto dei grandi d’Europa. Accanto alle
conquiste che si spinsero anche verso oriente fino alle coste siberiane, iniziò anche una forte
operazione di stabilizzazione statale che, unita al considerevole aumento della popolazione – e
quindi delle imposte e dell’apparato militare – diede alla Russia la possibilità di ottenere un posto
tra i potenti.
8. LE VICENDE RIVOLUZIONARIE SETTECENTESCHE
È a partire dal 1776 che inizia la cosiddetta “età delle rivoluzioni”. Alla base di tutto sta
indubbiamente la ribellione delle tredici colonie americane alla madrepatria inglese, che fondarono,
appunto, nel 1776 quelli che poi sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America. La rivoluzione
americana ebbe molta eco in Europa soprattutto per i toni nuovi ed illuminati che i coloni
utilizzarono e per i diritti che introdussero, tanto da indurre, mediante artifizi diplomatici, perfino la
Francia ad appoggiare l’indipendenza delle colonie. La nuova repubblica si poneva come modello
politico alternativo a quello europeo, che pure ne era la matrice, mettendo in risalto tutta una
serie di ideali e libertà inedite. Se poi da una parte la rivoluzione americana insegnò al Regno Unito
che anche la sua egemonia globale aveva un limite, e pertanto venne riorientata verso l’India, non
giovò certo alla Francia, già logorata da una crisi interna ed istituzionale. È in tale contesto che
anche nel paese governato da Luigi XVI iniziano ad attecchire le idee rivoluzionarie. Dopo la
contestazione aristocratica per la revisione delle esenzioni fiscali per i nobili, il re fu costretto a
convocare, dopo due secoli, gli Stati Generali. Ma sicuramente egli non tenne conto dell’enorme
peso che il Terzo Stato, il più povero ma anche il più numeroso, aveva
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nella nazione. È proprio nel contesto della rivoluzione francese che si inizia a sviluppare il
concetto di nazione come insieme di persone unite da una stessa lingua e un bagaglio culturale
e storico simile. Dopo un iniziale isolamento, nel 1792 la Francia tornava a far sentire la sua voce in
Europa nella guerra contro Austria e Prussia, unite in nome del mantenimento della tradizionale
“comunità europea” sotto la spinta dell’entusiasmo patriottico che coinvolse tutti i nuovi territori
conquistati, in un impeto di esportazione dei principi rivoluzionari. D’altro canto però la
politica espansiva non era altro che la ripresa della strategia borbonica di espansione verso le
“frontiere naturali” dei francesi.
9. L’IMPATTO DELL’IMPERO NAPOLEONICO SUL SISTEMA EUROPEO
L’opposizione alla nuova realtà francese era ovviamente organizzata in chiave di
mantenimento e tutela di interessi specifici delle diverse potenze europee, quali i porti dei
Paesi Bassi per gli inglesi e il fiume Reno per Austria e Prussia, ma le reazioni furono lente e
ambigue. Questo andò certamente a vantaggio di Napoleone Bonaparte, che in breve tempo
garantì una posizione egemonica della Francia nell’Europa Occidentale, implicitamente
tutelata dal fatto che essa non intaccava né il dominio britannico sui mari, né quello Russo
sull’Europa orientale. In politica interna, Napoleone si autoproclamò imperatore dei francesi,
ed instaurò una dittatura con l’obiettivo di un’espansione progressiva dell’influenza Francese in
tutto il territorio europeo, con vaghi richiami all’esperienza carolingia. Tali pretese ebbero
talmente effetto da far rinunciare Francesco II d’Asburgo al titolo di Sacro romano imperatore. Il
disegno napoleonico si sviluppò ben presto sia con conquiste, sia con l’imposizione di suoi
parenti e fedelissimi nei troni di Stati ormai divenuti satellite. Gli unici due grossi avversari del
generale rimanevano la Russia, con cui firmò una sorta di spartizione di sfere di influenza
nel 1807, e la Gran Bretagna, che ribadì il suo dominio sui mari con la vittoria di Trafalgar ma
che rimase debole nel continente a causa dell’imposto blocco contro le merci inglesi.
Ciononostante, Napoleone sapeva che l’unico modo per farsi valere davanti ai sovrani europei era
quello di continuare la sua politica di conquista, e fu proprio questo che lo portò al declino. La
fine iniziò a prospettarsi con le rivolte in Spagna e nel Tirolo, ma la prima, vera disfatta per
Napoleone fu la campagna di Russia del 1812, il cui esito fu una sconfitta non militare, ma per
l’impossibilità di ottenere qualsiasi obiettivo politico dalla vittoria. Il primo tracollo si ebbe nella
battaglia di Lipsia del 1813, dove Napoleone fu sconfitto da una coalizione russo-austro-
prussiana; a questo si unì una decisiva volontà di mantenimento dell’equilibrio e della pace in
Europa, basato sulla tradizione e sulla limitazione di accrescimenti particolaristici, che iniziò a
concretizzarsi nel trattato di Chaumont del 1814, dove fu stabilito il riconducimento della
Francia nei suoi confini originali e un impegno per il mantenimento della pace a seguito
del crollo degli equilibri dell’antico regime.

CAPITOLO II TRA ANTICO REGIME E NUOVO EQUILIBRIO POLITICO: IL CONGRESSO DI VIENNA


E IL “CONCERTO EUROPEO” (1815-1856)
L’età delle rivoluzioni fu indubbiamente il motore che consentì l’accelerazione dei processi
precedentemente citati, oltre all’introduzione di un nuovo, importantissimo soggetto nei rapporti
interni ed esterni degli Stati: l’opinione pubblica. Il già menzionato desiderio di ordine e stabilità
culminò nella gestione delle dinamiche europee da parte delle grandi potenze, ossia nel “concerto
europeo”, che comunque conobbe grossi limiti, dovuto anche e soprattutto dall’introduzione di
concetti come liberismo e nazionalità. Ciononostante, dalla caduta di Napoleone alla guerra di
Crimea, le grandi potenze non entrarono mai in guerra tra di loro.
1. IL SISTEMA DI VIENNA E LA SUA IDEOLOGIA

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Con la Pace di Parigi, fu ripristinato in Francia il governo di Luigi XVIII di Borbone,
data la manifesta impossibilità di eliminare o ridimensionare la potenza francese. Quasi
simultaneamente fu convocato a Vienna un Congresso con lo scopo di ripristinare la pace e
l’ordine in Europa. Principale fautore di tale Congresso fu Klemens Von Metternich, ministro
degli esteri austriaco che aveva ben chiaro l’obiettivo di un riequilibrio armonico che tenesse in
considerazione sia le debolezze della tradizione, sia le innovazioni delle rivoluzioni. Tale
equilibrio non doveva basarsi solo su contrapposizioni di potenza, ma soprattutto su un ordine
legittimato e condiviso dai grandi soggetti del panorama europeo che andavano ad incontrarsi a
Vienna come amici, sebbene con interessi differenti e spesso divergenti. La necessità di una
Restaurazione fu il principale concetto che scaturì dal Congresso, iniziato nel Settembre 1814 e
conclusosi nove mesi dopo. Inoltre Metternich aveva ben chiaro da tempo il ruolo che di lì a poco
avrebbe giocato l’opinione pubblica, e pertanto invocava la necessità di raggiungerla, convincerla o
quantomeno manipolarla. Una grossa differenza tra il sistema di ancien régime e quello della
Restaurazione era che il secondo necessitava di una legittimazione, per una comunità non più basata
su principi spontaneamente regolati, ma su principi di diritto. Tale legittimazione si concretizzò
nella concessione di costituzioni già in Gran Bretagna e Francia, data l’impossibilità di un
completo ripristino dei privilegi feudali, che furono invece sostituiti dalla codificazione
napoleonica. Durante il Congresso, le quattro potenze inglese, austriaca, russa e prussiana,
alla quale poi, grazie alle abili manovre del ministro degli esteri Talleyrand, si aggiunse anche
quella francese, si autoproclamarono responsabili dell’ordine europeo e invocarono la
proclamazione di un’effettiva comunità di Stati, escludendo di fatto le opinioni di Paesi più
piccoli e meno rilevanti. Tuttavia, a latere del Congresso iniziarono a svilupparsi visioni alternative
degli equilibri europei. Nel 1815 lo zar Alessandro, Francesco I d’Austria e Guglielmo III di Prussia
siglarono il trattato della Santa Alleanza, che impegnava i sovrani cristiani in un’azione
reciproca per la pace europea. Il trattato fu poi esteso a svariati sovrani ma non fu firmato né
dal Papa, né dal Regno Unito. Proprio dal Regno Unito partì invece la proposta di rinnovare il
principio di reciproca consultazione in caso di turbamenti portati dalla Francia all’assetto
europeo, clausola già evidenziata a Chaumont e riproposta, appunto, quando Napoleone riprese il
potere per ulteriori cento giorni. A partire da Vienna comunque, la legittimità degli Stati e
qualsiasi mutamento territoriale si basarono sempre più sul sistema dei trattati e degli accordi
sostenuti dal consenso europeo e mai più unilateralmente. Non era più il re il soggetto
dominante, ma bensì lo Stato stesso. Tra le altre cose, a Vienna furono inoltre regolarizzati il
protocollo diplomatico e la condanna della tratta degli schiavi, quest’ultima sotto
richiesta della Gran Bretagna, e i principi del Congresso ebbero ripercussioni anche sul panorama
culturale e letterario europeo. Nonostante i migliori propositi, sul piano pratico fu difficile per le
potenze attenersi ai principi del Congresso. In particolare, Russia e Prussia cercarono sempre più di
estendere la loro influenza rispettivamente sui Balcani e sul resto della Germania. Ma più di tutti
furono le mire russe sulla Polonia e quelle prussiane sulla Sassonia che provocarono un accordo
tra Austria, Francia e Gran Bretagna per contenere tali mire, che furono poi in parte accontentate.
Inoltre, fu ripreso il concetto di Stati cuscinetto, ovvero Stati minori creati per contenere le mire
espansionistiche delle grandi potenze, in particolare di quella francese; è in questa occasione
che per la prima volta furono trattate, nei limiti dell’epoca, le richieste dei sovrani sulle diverse
popolazioni. Per quanto riguarda il caso tedesco, alcune redistribuzioni territoriali portarono al
riconoscimento di 39 Stati sovrani riuniti in una confederazione che però non aveva competenze
né finanziarie, né commerciali, né doganali. Anche l’Italia fu soggetta ad incorporazione territoriale,
che portò ad un aumento dell’influenza austriaca e alla scomparsa delle città-Stato di Genova

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e Venezia; Paesi Bassi e Svizzera subirono anch’esse la riunificazione in Stati unici. Il trionfo della
Restaurazione si ebbe quando Napoleone fu definitivamente sconfitto a Waterloo, primo caso di
intervento “europeo” negli affari interni di uno Stato.
2. IL “CONCERTO EUROPEO” E LA DIPLOMAZIA DELLE CONFERENZE
Dopo la seconda sconfitta di Napoleone fu firmata una nuova pace di Parigi, che riportò
la Francia ai confini del 1790 ed ad una provvisoria occupazione militare straniera. Fu
un’ulteriore riconferma della volontà di cooperare per un concerto europeo, sebbene due tra le
grandi potenze, Gran Bretagna e Russia, riuscirono ad imporre una sorta di semi-egemonia
all’interno degli equilibri di Vienna: la prima infatti riuscì a impedire che si discutesse di libertà
dei mari o di questioni di pace con gli Stati Uniti, la seconda che si trattasse sui rapporti tra
Europa ed impero ottomano, questioni che in ogni caso non compromettevano più di tanto gli
equilibri europei. Il mantenimento del concerto europeo, almeno nell’immediato dopo-1815, fu
garantito da periodiche riunioni tra i rappresentanti delle potenze, come proposto dal ministro degli
esteri inglese Castlereagh. Nessuna potenza poteva essere esclusa in decisioni che riguardavano
l’Europa e in particolare la modifica dello status quo. Tuttavia non fu la Francia, che anzi si
dimostrò piuttosto accondiscendente al mantenimento degli schemi proposti e che lentamente si
riprese un ruolo di prestigio in Europa, a scuotere gli equilibri, ma piuttosto una serie di
rivoluzioni costituzionali e liberali, dovute ad un irrigidimento dei sistemi statali per
garantire il mantenimento dell’ordine. Già negli anni ’20 dell’800 questo sentimento si fece più
palese in Austria, dove però fu immediatamente represso da Metternich tramite i Decreti di
Carlsbad del 1819 che restrinsero vistosamente le libertà politiche, Spagna, Napoli e Grecia.
Ben presto l’obiettivo primario delle potenze a Vienna fu quello di opporsi alla rivoluzione
piuttosto che garantire l’equilibrio tanto agognato. Questo comportò anche una serie di interventi
“europei”, in particolare austriaci, per ripristinare l’ordine interno, ossia il potere reale, come
accadde a Torino e Napoli. Tali interventi portarono a non indifferenti tensioni tra le potenze,
come accade a Cadice nel 1812, quando la Spagna chiese l’aiuto russo per sedare una rivolta
militare, ma la Francia si sentiva legittimata ad intervenire in quanto riteneva lo stato iberico di sua
pertinenza. Inoltre si iniziò a disquisire sull’influenza che le decisioni di Vienna dovessero avere sui
possedimenti europei nel resto del mondo, in particolare al sorgere delle varie crisi in America
Latina, ma un documento firmato da Castlereagh annunciava che le politiche di restaurazione non
dovessero eccedere i confini europei. La prima parte del concerto europeo terminò con il
Congresso di Verona del 1822, dove la Francia fu autorizzata ad un intervento in spagna, col
disaccordo della Gran Bretagna. Da qui in poi, gli inglesi iniziarono ad agire controcorrente,
seguendo piuttosto per la prima volta l’opinione pubblica liberale, interna ed
internazionale come punto di riferimento per la politica estera del paese.
3. LA NASCITA DELL’ALTERNATIVA LIBERALE E NAZIONALE
La politica unilaterale britannica era un chiaro segnale che il dispotismo illuminato del
‘700 ormai non funzionava più. Nuove idee, come quella di “nazione”, iniziarono a prendere
sempre più piede nel panorama europeo, e proprio il concetto nazionale iniziò a diventare la base
della legittimazione di uno Stato, come accadde in Spagna, Francia e Gran Bretagna. Da
sempre vittima di speculazioni e operazioni politiche e culturali, l’idea di nazione era capeggiata
spesso e volentieri da linguisti e basava appunto gran parte del suo significato nella presenza di una
lingua condivisa, che pure spesso e volentieri all’interno di uno Stato conosceva infinite
variegature, o addirittura era frutto di rielaborazioni o macchinazioni appositamente create. È anche
opportuno specificare che non raramente l’aspetto linguistico non fu determinante nella nascita di
Stati-nazione, come accadde in Svizzera o nelle colonie centramericane. Dalla lingua si
passò poi alla
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cultura, e quindi alla ricerca o alla creazioni di testi letterari, miti e tradizioni che mettessero in
evidenza un passato comune. Non ci volle molto prima che l’800 fosse nominato il “secolo delle
nazionalità”: diversi teorici dell’epoca iniziarono ad avanzare ipotesi secondo le quali ad ogni
nazione doveva corrispondere una Stato, ipotesi che vennero riprese in occasione dell’indipendenza
di nuovi Stati, in netta contrapposizione ai principi della Restaurazione. Le spinte
nazionalistiche andavano sia verso una direzione unificatrice, come accadde in Italia e
Germania, sia frammentatrice, come nell’impero ottomano o, in maniera più flebile e controllata,
in Russia e nell’impero asburgico. Uno degli episodi di separazione più noti è quello belga degli
anni ’30, mentre sentimenti simili nascevano in Irlanda, in Catalogna e nei Paesi Baschi. I
movimenti nazionalistici partivano spesso e volentieri da gruppi elitari che però seppero sfruttare
la situazione economica e amministrativa per estendere le proprie idee alla popolazione. Ogni
nazione proclamava una sua particolare missione rivolta al futuro, senza necessariamente
badare al quadro d’insieme europeo, sebbene tutte fossero unte da un orizzonte culturale
romantico che prefigurava l’eliminazione delle prigioni dei popoli, ossia gli Stati determinati
dal Congresso di Vienna, e questo portò anche a un certo livello di fraternizzazione tra i diversi
movimenti. Il connubio tra mercantilismo e nazionalità si rispecchiò anche nella visione di una
nuova economia antimercantilista che però favorisse il commercio come antidoto alla
guerra, tramite un sistema di mercato mondiale autoregolato. Le idee economiche
proclamate da pensatori come Adam Smith ebbero una ricaduta sulle politiche economiche
inglesi, che a partire dal 1830 assunsero un volto liberale, fino a diventare antiprotezionistiche
nella seconda metà del secolo. Ciò ebbe ricadute sulla politica internazionale britannica, con
l’aumento di reti consolari all’estero che favorissero le attività economiche dei sudditi, e tale
comportamento fu presto imitato anche da altri paesi europei. Il nuovo ministro degli esteri inglese,
lord Palmerston, pur diffidando delle rivoluzioni, favoriva l’avvento di evoluzioni liberali in
Europa, senza però mai coinvolgere il Regno Unito in costosi legami con altri governi. Inoltre,
sebbene il liberismo portasse con se una forte polemica antimperialista, il Regno Unito accrebbe i
suoi possedimenti coloniali e il controllo su di essi.

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4. IL NUOVO EMISFERO OCCIDENTALE INDIPENDENTE
La spinta indipendentista iniziò ad arrivare dal continente americano, sulla scia degli Stati
Uniti e spesso per mano di élite massono-illuministiche e all’interno di sistemi giuridici
tradizionali. In particolare, dopo l’intervento francese in Spagna, iniziarono a nascere stati come
Venezuela e Paraguay e, dopo la rivolta militare di Cadice del 1820, si crearono gli Stati Uniti
del Rio della Plata, la Grande Colombia, il Messico e il Perù. Quasi contemporaneamente,
il Brasile si rese indipendente dal Portogallo. Un tentativo di federazione proposto da uno dei
maggiori patrioti dell’epoca, Bolivar, fallì nel 1826, e pertanto l’America latina e centrale
mantennero tale pluralità. Tali stati furono riconosciuti da Gran Bretagna e Stati Uniti, ma per tutto
il XIX secolo la sfera americana e quella europea rimasero geograficamente e politicamente
abbastanza separate mentre, al contrario, iniziarono a svilupparsi flussi migratori e
commerciali tra i due capi dell’Atlantico. L’intervento europeo nel continente americano fu
spesso e volentieri contrastato dalla Gran Bretagna, che intendeva a tutti i costi mantenere il
predominio navale dell’oceano Atlantico, ma non solo: accadde che gli Stati Uniti, nel 1823,
sotto la guida di Monroe, proclamarono l’attuazione di una dottrina, detta dottrina Monroe, che
determinasse la diversità netta tra il sistema europeo e quello americano; di conseguenza, gli
Stati Uniti non si opponevano all’attuale situazione coloniale del continente americano, ma
avrebbero contrastato in ogni modo un ripristino del dominio coloniale per mano europea su popoli
che avessero scelto la loro indipendenza. In tal modo, la potenza americana rimaneva protetta dagli
interessi navali inglesi e allo stesso tempo si ergeva a difesa della libertà e della
cooperazione simboleggiate dalla democrazia repubblicana, in una politica di costante
espansione sul suo territorio, a discapito soprattutto delle popolazioni indigene, definita dal
segretario di stato Adams come “destino manifesto”.
5. LE ORIGINI DELLA “QUESTIONE D’ORIENTE”
Dall’altro lato del mondo invece si doveva avere a che fare con la cosiddetta “questione
d’Oriente”, rappresentata in particolare dal decadimento dell’impero ottomano. Tale crisi,
che successivamente determinò la vera causa del crollo del concerto europeo, era dovuta a tutta una
serie di fattori, non ultime le agitazioni nei Balcani dovute a problemi nazionalistici, religiosi e di
innovazione economica. Presto il governo ottomano nei suoi domini si trasformò da militare a
burocratico, dimostrando l’incapacità di introdurre riforme modernizzanti, con un conseguente
indebolimento del governo centrale a vantaggio dell’organizzazione amministrativa ed economica
locale. A ciò si aggiunse la bramosia di alcune potenze europee di intervenire per interessi
strategici. In particolare, la Russia avrebbe tratto grandi vantaggi nell’avere uno sbocco sul
Mediterraneo tramite il controllo degli Stretti, accompagnata da motivazioni politiche date dal
carattere slavo e ortodosso delle popolazioni balcaniche. Anche Austria e Francia nutrivano
particolare interesse dalla crisi ottomana, per non parlare dei piani inglesi di instaurare un primato
navale anche nel Mediterraneo per facilitare le comunicazioni tra la madrepatria e le colonie
indiane, già in vista di un taglio dell’istmo di Suez. La Gran Bretagna si erse quindi a difesa
dell’impero ottomano in chiave anti Russa proprio per poter, nel lungo periodo, mettere in pratica le
sue idee. Tutto ciò venne fuori quando a partire dal 1821 arrivarono dalla Grecia spinte
indipendentiste. Se all’inizio la reazione delle potenze europee fu incerta, soprattutto per la netta
opposizione a qualsiasi pretesa rivoluzionaria, quando nel 1825 l’armata egiziana entrò in gioco
a difesa dello status quo ottomano, e la Russia optò, sotto Nicola I, verso obiettivi strategici, fu
guerra. Tale guerra si concluse solo dopo cinque anni, e dichiarò la libertà di navigazione per le
navi russe negli Stretti e l’indipendenza dello Stato greco. A partire da questo momento, la
debolezza dell’impero

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ottomano fu sempre più manipolata dalla Russia, che pure non impose mai il suo controllo assoluto
sugli Stretti, ma fu protagonista attivo nella politica del Sultano.
6. LE PRESSIONI NAZIONALI, I CONFINI LEGITTIMI E L’ARROCCAMENTO DEL SISTEMA
La prima, vera crisi del sistema di Vienna si ebbe con la deposizione del re francese
Carlo X, sostituito con Luigi Filippo d’Orleans, dichiaratosi re per volontà della nazione,
che ripristinò alcuni dei valori della rivoluzione, tra cui il tricolore, mantenendo comunque
un’intenzione di monarchia moderata, per placare l’agitazione che aleggiava tra le altre potenze
europee. La scintilla francese si trasmise subito nel vicino Belgio, dove i nobili locali chiedevano
una revisione delle regole economiche favorevoli all’Olanda. Nell’Ottobre 1830 anche lo
Stato belga si proclamò e fu riconosciuto come indipendente e neutrale, anche grazie all’appoggio
della Gran Bretagna, ma soprattutto complice anche qui come in Francia la cautela nell’intervento
espressa dall’Austria. La stessa Austria si arrogò poi, in nome del concerto europeo, il diritto di
intervenire per la repressione di moti rivoltosi nell’Italia centrale, allo stesso modo in cui la
Russia fece in Polonia più o meno nello stesso periodo. È in questo momento che Luigi Filippo
inizia a schierarsi a favore di un contro-intervento in caso di violazione dei diritti dei popoli
confinanti con la Francia. In Germania invece, rivolte popolari portarono alla formazione di
diversi governi costituzionali sotto gli occhi di un’impotente Austria e di una spaventata
Prussia. Nacque l’idea di un’unione monetaria e doganale tedesca, che prese forma negli
anni ’30 dell’800, che accrebbe notevolmente l’influenza prussiana negli Stati tedeschi ed escluse
l’Austria dall’area. Si vennero dunque a creare due aree in Europa: la prima più orientale ed
autoritaria, formata da Austria, Prussia e Russia, che nel 1833 firmarono tre accordi di
cooperazione reciproca a favore dell’interventismo europeo antirivoluzionario; la seconda,
occidentale e liberale composta da Belgio, Francia e Gran Bretagna. L’entente cordiale tra
queste ultime due potenze si manifestò già nel 1834, davanti a problemi dinastici che portano a
conflitti civili in Spagna e Portogallo. Ciononostante, le due monarchie si trovarono spesso in
competizione, soprattutto per la necessità francese di trovare un suo spazio autonomo nel
Mediterraneo, dimostrata dall’appoggio e al rafforzamento di potentati e colonie in Nord Africa e
Medio Oriente, fatta eccezione per l’impero ottomano che ormai era più o meno indirettamente
controllato dallo zar. Dato però anche l’interesse inglese in Turchia, la Gran Bretagna optò per un
distacco dalla Francia per salvaguardare il Sultano. Ciò comportò un riorientamento della potenza
francese verso il Reno, che preoccupò non poco Austria e Prussia, in un contrapporsi di sdegni
nazionalistici che fu interrotto solo da un cambio al governo francese. D’altro canto, la
cooperazione anglo-russa nel’impero ottomano portò nel 1841 al trattato degli Stretti, ovvero
alla chiusura degli Stretti alle navi da guerra in tempo di pace.
7. LA CRISI EUROPEA DEL 1848
Il 1848 fu teatro di una serie di rivolte diffuse in tutto il territorio europeo, con la sola
esclusione di Gran Bretagna e Russia. Tali rivolte erano accomunate dal desiderio
antireazionario, dalla composizione sociale borghese dei loro ideatori e dalla relativa
rapidità con cui vennero trasmesse le informazioni, grazie all’avvento del telegrafo; si iniziarono
inoltre a sviluppare i primi focolai socialisti. La scintilla partì ancora una volta da Parigi, dove
nel Febbraio fu proclamata la nascita della Seconda Repubblica, sebbene anche il nuovo
governo, con diversi stratagemmi, impedì che stati come Russia o Gran Bretagna si opponessero a
tale trasformazione, facendo sì che tutti i trattati del 1815 fossero dichiarati nulli eccetto quelli che
prevedevano clausole territoriali. Da qui in vari Stati europei i sovrani furono costretti a promulgare
o promettere carte costituzionali. Ben presto il sentimento arrivò anche in Austria, dove nel
Marzo iniziarono i disordini prima nella capitale, poi all’interno delle varie etnie che
componevano l’impero. In Italia iniziò a
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porsi una “questione” nazionale in cerca di un appoggio inglese o francese, che portò nel
Marzo alla prima guerra d’indipendenza italiana, timidamente capeggiata dai Savoia.
Similmente, anche la Germania iniziò la ricerca di un’unificazione politica, che però
incontrava opposizione da parte di molte potenze europee per via di una modifica palese dei confini,
cosa che riguardava in particolare la situazione linguistica che accumunava Germania ed Austria. Si
prospettarono allora due ipotesi contrapposte: una a guida austriaca basata su un concetto di
grande Germania e una a guida prussiana ma senza la parte territoriale austriaca. La seconda,
più consigliabile e fattibile, prevalse, ma Guglielmo IV di Prussia rifiutò la corona in quanto non
voleva essere legittimato da un’assemblea borghese. Vienna nel frattempo spense la guerra in
Italia sconfiggendo il Piemonte, proclamava un unico impero senza distinzioni di nazionalità,
guidato dal re Francesco Giuseppe, fortemente voluto dal principe di Schwarzenberg, e si
doveva occupare ora di spinose questioni autonomistiche in Ungheria. Le politiche del nuovo
reggente austriaco furono supportate sia dal congresso panslavo, che temeva l’aggressività
germanica, sia dai croati più specificamente, che aiutarono l’esercito viennese nella repressione in
Ungheria. Infine, a Roma la Seconda Repubblica francese dimostrò la sua vicinanza alla potenze
conservatici favorendo il ritorno sul trono reale del Papa. Sul piano politico-strategico quindi le
rivolte del 1848 furono piuttosto fallimentari. Ciononostante, contribuirono alla nascita e allo
sviluppo di una classe politica con reali ambizioni particolaristiche, dalla quale spiccano Cavour in
Piemonte, Schwarzenberg in Austria e Luigi Napoleone Bonaparte in Francia. Essi si
rendevano ormai perfettamente conto dell’importanza che aveva assunto l’opinione pubblica, e
pertanto lavorarono per portarla dalla loro parte. Per tale motivo, la restaurazione del 1849 fu
molto meno autoritaria della precedente. Nel frattempo, il fallito tentativo prussiano di unificare gli
Stati germanici protestanti del nord non aveva fatto altro che peggiorare i rapporti tra quest’ultimo e
l’Austria. Tuttavia, dopo il 1848 alcuni elementi devono far riflettere, in quanto fondamentali per
capire ciò che avvenne qualche anno dopo: nonostante la sconfitta, il regno dei Savoia non subì
alcuna revisione restauratrice; l’elezione di un Bonaparte in Francia aveva riacceso gli ideali
napoleonici, e con l’autoproclamazione di un secondo impero, la Francia e, in maniera più
sommessa, l’Italia, si accingevano a modificare per sempre lo status quo europeo.
8. L’ESAURIMENTO DEL “CONCERTO” NELLA GUERRA DI CRIMEA
Nel 1854, Russia e Turchia combatterono una guerra per il dominio della Crimea. Tale
conflitto, per quanto irrilevante dal punto di vista militare e politico, ebbe gravissime conseguenze
sul piano delle relazioni tra le potenze. Il favore del Sultano era molto ambito per il controllo degli
Stretti, e fino alla prima metà del secolo esso era indubbiamente rivolto tutto verso la Russia;
questo almeno fino a quando la Francia, col pretesto della protezione dei cattolici situati in
Terra Santa, entrarono a far parte del gioco, acuendo la tensione tra Parigi e Mosca. Contro lo zar
si rivolse poi anche l’opinione pubblica inglese, spaventata dalle mire espansionistiche russe; la
tensione anglo-russe aumentò inoltre con la guerra anglo-afghana del 1842, che gli inglesi persero e
che era di fondamentale importanza per mantenere il controllo sulla zona. La Russia, convinta che
la Gran Bretagna avrebbe accettato una spartizione dell’impero ottomano, chiese al sovrano di
firmare un trattato per ottenere il protettorato di Costantinopoli. Tuttavia tale presa di posizione
indignò gli inglesi che, appoggiati da Napoleone III, convinsero il Sultano ad entrare in guerra
contro la Russia. La guerra fu estremamente logorante per entrambe le parti. Dopo numerose
incertezze, dovute anche alle pressioni del Piemonte che nel frattempo aveva stretto un accordo con
Gran Bretagna e Francia, l’Austria entrò in guerra anch’essa contro la Russia. Trovatosi isolato, lo
zar accettò, dopo due anni di conflitto, una trattativa, che si svolse a Parigi e con la quale si
proclamò la pace e il ritiro russo su
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tutta la linea, oltre che la cessione della Bessarabia a Moldavia e Valacchia, la protezione europea in
generale sui cristiani in oriente e la smilitarizzazione russa del Mar Nero, voluta da lord
Palmerston. La frantumazione del concerto europeo è evidente, nonostante a Parigi si ribadì
nuovamente il consenso collettivo di fronte a modifiche dello status quo.

CAPITOLO III SOTTO LA BANDIERA DELLE NAZIONI: STATO E TERRITORIO NELL’EPOCA


DI
BISMARCK (1856-1890)
Dopo la guerra di Crimea si succedettero quattro conflitti in quindici anni, due dei quali
portarono alla formazione di due nuovi soggetti statali, Italia e Germania. Era ormai evidente che
il sistema di Vienna fosse ormai al tramonto, mentre il nazionalismo e le mosse prendevano sempre
più piede. Un’unica forma di equilibrio fu quella messa in atto da Bismarck, che fu cancelliere
tedesco tra il 1871 e il 1890.
1. LA RAPIDA INTEGRAZIONE ECONOMICA E POLITICA DEL MONDO
Nella seconda metà del secolo si assistette ad un boom industriale senza precedenti,
incentrato soprattutto su un’accelerazione dei trasporti via terra e via mare grazie alla ferrovia
ed al piroscafo, e garantì uno sviluppo economico incredibile degli Stati, in particolare dell’Europa
centrale e in maniera molto meno accentuata dell’Europa periferica. A ciò si aggiunsero la totale
scomparsa della servitù della gleba (1861) e l’avvio delle migrazioni di massa, con scopi
colonizzatori o per via della crisi degli equilibri tradizionali, specialmente in direzione del
continente americano. Si riaccese inoltre la sete di scoperte geografiche, che finalmente garantì il
completamento dei planisferi. Il commercio mondiale aumentò notevolmente, e con esso si sviluppo
un’economia mondiale basata in Europa, entrambi favoriti da un aumento dei paesi che
abbracciarono il libero scambio e da significativi miglioramenti del sistema dei trasporti,
capeggiati dall’apertura, nel 1869, del canale di Suez; dai cavi telegrafici sottomarini e dallo
sviluppo del sistema monetario e finanziario internazionale, con lo spostamento di molti Stati verso
una moneta a base aurea e la creazione di un sistema monetario il cui valore era fissato rispetto
all’oro, denominato Gold Standard e dominato dalla Sterlina inglese. Effettivamente, il Regno
Unito dominava in ogni campo, seguito a ruota dalla Francia, e finanza e politica iniziarono presto
ad intrecciarsi vicendevolmente, in quanto prestiti venivano concessi ai governi spesso in cambio di
commesse statali per le industrie pesanti. Ovviamente, anche le relazioni internazionali risentirono
di questa ventata di progresso: fu promossa ed attuata la cooperazione per la facilitazione e
l’ottimizzazione della nuova rete di scambi, tramite l’istituzione ad esempio di un ufficio
telegrafico internazionale, e nuove convenzioni per la tutela dalle epidemie e la
protezione dei prigionieri di guerra furono firmate; si svilupparono inoltre svariate società che
promuovevano la pace, a testimonianza della volontà europea di mantenere un certo equilibrio nel
territorio. L’uomo europeo, inoltre, iniziò a sentirsi in dovere di esportare la civiltà fuori dall’alveo
occidentale, e i primi segnali di una politica “mondiale” iniziarono ad arrivare dalle correnti di
pensiero mitteleuropee, e furono testimoniati sia dall’aumento delle sedi consolari europee fuori
dall’Europa stessa, sia dall’aumento di ambasciate di potenze non europee in Europa.
2. LA “PAX BRITANNICA”: LIBEROSCAMBISMO E POTERE MARITTIMO
La preminenza inglese di questo periodo fece spesso e volentieri parlare di pax britannica.
Effettivamente Londra guidava un impero in enorme espansione commerciale, finanziaria,
economica ed industriale, senza necessariamente bisogno che mostrasse la sua forza militare. In
particolare, il potere inglese si basava su tre principali fattori: la forza navale, che doveva essere per
definizione più potente della somma delle due successive in ordine di importanza; l’impero
formale, collegato ad un ancora più vasto impero informale; la crescita industriale, oltre che
ovviamente il libero scambio, che garantiva una
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diffusione pacifica e liberamente competitiva delle merci. La forza armata fu mostrata in
qualche occasione, in particolare durante la guerra dell’oppio del 1839, che garantì agli inglesi il
possedimento di Hong Kong e l’apertura privilegiata di diversi porti cinesi. Tale operazione fu
presto emulata da altre potenze europee, che con la Cina prima e col Giappone poi, siglarono simili
patti. Per il Regno Unito, le colonie ormai erano diventate un complemento, non più un perno, ma
erano comunque essenziali per il mantenimento di un’egemonia globale. In particolare, l’India era
essenziale per l’industria tessile, e pertanto fu sempre crescente il controllo inglese nella penisola,
fino ad un’amministrazione diretta della Corona nel 1857, successivamente all’ammutinamento dei
Sepoys, su metà del territorio. Simultaneamente, l’impero ottomano veniva più o meno direttamente
controllato dalle potenze europee, soprattutto dal punto di vista economico e finanziario, con
conseguenti limiti alla sovranità del Sultano, che oltretutto vide progressivamente ridursi anche i
possedimenti territoriali, con la caduta della Tunisia prima e dell’Egitto poi nelle mani degli
occidentali, che pure dal 1875 avevano già nelle loro mani il canale di Suez. Inoltre, grazie alla
politica liberale inglese, anche le altre potenze europee riuscivano in qualche modo a beneficiare
delle stesse possibilità commerciali e non solo create dal Regno Unito, in quella che è definita
un’egemonia aperta. Tale sistema però portò ovviamente alla creazione di non indifferenti
concorrenti; in particolare avanzavano sempre di più le mire commerciali di Russia e Stati Uniti.
Questi ultimi erano in fortissima espansione sotto ogni punto di vista, in particolare verso sud e
verso ovest, cosa che preoccupava non poco gli inglesi. Tale espansione fu provvisoriamente
interrotta da quattro anni di guerra civile, ma già verso la fine del secolo, con l’occupazione delle
isole Hawaii e Samoa nel Pacifico, si andava delineando l’obiettivo americano. La Russia invece,
pur mirando già da tempo ai Balcani, non disdegnò un’espansione verso Oriente, arrivando
anch’essa fino alle coste del Pacifico, senza però una strategia ben delineata; l’espansione fu
inoltre accompagnata da un tentativo di centralizzazione e modernizzazione dell’apparato
burocratico. Un’altra potenza in forte crescita era il Giappone, che dal 1868, nell’epoca
denominata Meiji, fu condotto ad un progresso demografico, industriale ed amministrativo
rapidissimo, grazie soprattutto al coinvolgimento di esperti provenienti dall’Europa.

3. L’IMPASSE DEL CONCERTO EUROPEO E L’AZIONE DI NAPOLEONE III


Tra i sovrani che avevano la responsabilità di condurre l’Europa a cavallo tra Restaurazione
e XX secolo, Napoleone III è sicuramente il più importante. Il suo obiettivo era quello di forzare
lo status quo viennese, che imponeva tra l’altro grosse limitazioni alla Francia, a vantaggio di una
nuova epoca di affermazione delle nazionalità. Il primo terreno su cui Napoleone III provò la
sua tattica fu l’Italia del 1856, ancora fortemente soggiogata dagli austriaci, tanto che dopo il 1848
le idee di indipendenza furono sovrapposte anche a quelle di libertà. Queste dovevano scaturire
primariamente dal Regno di Sardegna, che a partire dalla seconda metà del secolo conobbe un
notevole sviluppo economico, attuando politiche liberali che permettessero uno scambio di capitali
con gli stranieri, con l’ambizione di rendere l’intera penisola un punto cardinale dell’economia
europea. La tattica usata da Cavour, già presidente del Consiglio, fu subito quella di sfruttare i
dissidi tra le potenze europee a vantaggio dei Savoia, e in particolare cercò l’appoggio con i
francesi, suggellato dagli accordi di Plombières del 1858. In tali accordi era esplicito un
sostegno reciproco in caso di guerra; guerra che fu subito cercata contro il nemico asburgico al
fine poi di poter dividere la penisola in quattro Stati
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confederati. La guerra iniziò nel 1859 ma non durò troppo, in quanto Napoleone, visto il rischio di
mobilitazione della Prussia, si affrettò a firmare un armistizio a Villafranca. Nel frattempo però,
la Lombardia era conquistata, e nel centro Italia moltissime assemblee e governi provvisori
ribellatisi all’oppressore votarono per l’annessione al regno Sardo- Piemontese. Nel 1860, col
benestare del Regno Unito che convinse anche i francesi ad accettare un totale allontanamento
dell’Austria dalla penisola a favore di un unico Stato italiano, in cambio di Nizza e Savoia che
– stavolta col parere contrario del governo di Londra – finirono alla Francia. Presto cadde anche
l’Italia meridionale, governata dai Borbone, sotto gli occhi impotenti di Napoleone III, nel 1861 fu
creato il Regno d’Italia, subito riconosciuto da Regno Unito, Stati Uniti e Svizzera. In particolare
la Gran Bretagna vedeva il neonato Regno come un elemento liberale di stabilità, venutosi a
creare in maniera singolarmente moderata e a tutela dei principi di nazionalità, seppure nella
continuità della tradizione sabauda. Al completamento dell’unione mancavano ancora, tuttavia, il
Veneto, che fu annesso dopo breve tempo a seguito del completo abbandono degli Asburgo dalla
penisola, e Roma, sulla quale però si scontravano gli interessi francesi; Napoleone III aveva infatti
giurato protezione al Papa, che certamente non aveva intenzione di abbandonare il potere temporale.
Ciononostante, al crollo dell’impero francese nel 1870, la presa di Roma non conobbe grandi
difficoltà, fatto salvo per la rottura tra Stato italiano e Chiesa Cattolica. Per quanto riguarda
la politica estera, ben presto l’Italia si trovò ad occupare un posto di piccola tra le grandi e
grande tra le piccole, in uno stato di tensione continua soprattutto per le ambizioni della classe
politica liberale italiana.
4. BISMARCK, LA PRUSSIA E L’UNITÀ TEDESCA
L’avvento del sistema ferroviario portò notevoli benefici economici all’area tedesca,
ponendo ulteriori basi per un’unione politica. Questa iniziò a prefigurarsi nel 1859 con la nascita,
per mano di liberali e democratici del sud che pure accettarono la preminenza di Berlino,
dell’Unione nazionale tedesca; tuttavia, notevoli ostacoli provenivano ancora dagli Stati
intermedi e dalla stessa Berlino, dove il re era impegnato in una sfiancante lotta con il Parlamento
per la riforma dell’esercito. A dare una scossa agli eventi fu, nel 1862, Otto von Bismarck,
nominato dal re come cancelliere e ministro degli Esteri. Bismarck era da sempre convinto che la
Prussia si sarebbe potuta esprimere al meglio della sua potenza solo con lo smantellamento
dell’ordine tradizionale, ovvero con la definitiva rottura con l’Austria ma senza l’ostilità di
Francia e Russia. Mediante stratagemmi diplomatici ed interventi mirati in alcune situazioni
europee, come l’appoggio alla Russia nella repressione di una rivolta in Polonia o l’isolamento
dell’Austria tramite un’azione militare comune contro la Danimarca, Bismarck riuscì a fare in
modo che Gran Bretagna e Francia non si opponessero ad un’unificazione tedesca con la speranza,
da parte di Napoleone III, di ottenere anzi qualche vantaggio indiretto dall’operazione. Inoltre,
Bismarck riuscì a coinvolgere il neonato Regno italiano in un’alleanza antiaustriaca in una
guerra che avrebbe impegnato gli Asburgo su due fronti e che avrebbe fatto ottenere ai Savoia il
Veneto. L’Austria aveva dalla sua gli Stati intermedi tedeschi, ma crollò dopo sette settimane sotto
il peso dell’avanzamento tecnologico e numerico dell’esercito prussiano, e nella pace di
Praga accettò l’annessione di alcuni stati settentrionali che andarono a chiudere il corridoio tra le
“due Prussie”. La Germania nacque quindi in una confederazione di Stati storici e con la
momentanea assenza degli Stati meridionali. L’impero asburgico invece si riorientò in una cornice
bi-monarchica, dando maggior risalto alla componente ungherese e cercando un
miglioramento dei rapporti con neonato stato tedesco. Bismarck nel frattempo mirava
all’annessione della parte meridionale, nella quale però fervevano sentimenti antiprussiani guidati
dalla Francia, ma era già presente quell’unione monetaria e doganale instaurata diversi anni
prima. La
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goffaggine di Napoleone III nei negoziati fu pubblicizzata per tentare di umiliare isolare
diplomaticamente la Francia dalla Gran Bretagna, e l’inadeguatezza del Secondo impero si mostrò
nell’opposizione della Francia ad un’annessione degli Stati meridionali e nell’inizio di una guerra
contro la Prussia, nel 1870, in seguito ad una formalità dovuta alla candidatura di un
Hohenzollern al trono spagnolo allora vacante. Per la Francia fu la disfatta totale: l’esercito
imperiale fu sconfitto dopo poco tempo e l’imperatore fu fatto prigioniero a Sedan, con la
conseguente caduta dell’impero e proclamazione della Terza repubblica. Tuttavia, a guerra
finita Bismarck volle forse un po’ forzare la mano chiedendo l’annessione di Alsazia e
Lorena, senza forse pensare alle enormi conseguenze simboliche di tale gesto. Ad ogni modo, a
Versailles – a mo’ di ulteriore umiliazione – nel 1871 Guglielmo I di Prussia riceveva dai
principi tedeschi il titolo di sovrano del Reich di Germania. L’impero era federale ma con una
costituzione che mirava alla centralizzazione statuale ed un cancelliere dipendente dal solo
imperatore, un parlamento dai poteri circoscritti ma eletto a suffragio universale. A lato della
guerra vi fu l’episodio russo che, approfittando del conflitto, denunciò le clausole per la navigazione
del Mar Nero del 1856, scatenando la reazione britannica, sebbene alla fine le richieste russe furono
accolte e formalizzate in una conferenza internazionale a Londra, a dimostrazione che i
mutamenti dello status quo dovessero ancora passare per il consenso europeo.
5. LA CONCENTRAZIONE TERRITORIALE CRESCENTE: PROTEZIONISMO E NAZIONALISMO DOPO
IL
1870
La nascita della Germania era destinata a rimanere una tappa nella storia, una tappa che
segna sia la crisi dell’Europa illuministica e romantica, sia i due principali sbocchi dell’idea di
nazionalità: quella tedesca, basata sulla razza e sulla lingua, e quella latina, basata sulla
decisione volontaristica. Il principio della nazionalità ne risultava comunque vincitore, anche in
quegli Stati come l’Austria dove comunque la minoranza ungherese era riuscita a farsi valere e a
ottenere la giusta rilevanza autonomistica. Si iniziava in questo periodo a svilupparsi anche
l’identità nazionale del popolo ebraico. Inoltre l’accentramento statale vinceva su quello
federale e sulle diverse suddivisioni amministrative e sociali dell’antico regime, e non solo in
Europa. Tale centralizzazione era, ancora una volta, favorita dall’accelerazione nei trasporti e nelle
comunicazioni, e in ogni caso fu molto meno osteggiata rispetto al passato, anche perché ormai lo
Stato tutto si sentiva legato e legittimato da un sentimento nazionale che accomunava tutti. La
parola chiave di quest’epoca è in effetti “nazionalizzazione”, ovvero l’educazione delle masse ad
un’ideologia unificata per poter ulteriormente radicare nella mentalità popolare la legittimità
dello Stato. Si iniziò a sviluppare una progressiva democratizzazione dello Stato, e i primi effetti
di questo processo iniziarono a palesarsi anche in politica estera, dove già in America il parlamento
era tenuto a sorvegliare le operazioni come la ratifica dei trattati, e anche in Gran Bretagna il
parlamento iniziò ad interessarsi delle questioni internazionali. Altro fattore rilevantissimo in
questo campo era diventato l’opinione pubblica, sebbene essa fosse facilmente manipolabile
dai governi attraverso gli organi di stampa. Del resto i trattati e le clausole più importanti ed
impegnative erano ancora vincolate al segreto, sebbene non era rara la pubblicazione degli stessi
come strumenti di pressione o di manipolazione dell’opinione pubblica, anche attraverso i
cosiddetti libri di colore o le raccolte di trattati. I corpi diplomatici poi furono degradati a
meri organi esecutivi, sempre più controllati dallo Stato centrale. Negli ultimi trent’anni del
secolo poi, complice un forte aumento della competitività internazionale unito a ondate di crisi e
all’ingresso nel mercato industriale di nazioni arrivate in ritardo rispetto alle grandi potenze
industriali ormai consolidatesi, si iniziarono a sviluppare elementi protezionistici volti
all’autosufficienza, soprattutto in termini militari
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ed alimentari. Tale svolta si ebbe soprattutto nel Reich a partire dal 1879, con l’introduzione di una
tariffa generale tedesca che scatenò non poche divisioni interne al paese, e dazi furono
introdotti anche in Italia, Francia e Stati Uniti, senza che tuttavia il commercio internazionale ne
risentisse particolarmente, salvo una serie di guerre doganali dovute appunto all’innalzamento
dei dazi anche in maniera ritorsiva, fino addirittura ad annullare il commercio bilaterale,
annoverabile anche tra le cause che favorirono una riaccensione dell’imperialismo. Infine, è da
registrare un consistente rinforzamento degli eserciti sia in termini di uomini, sia di tecnologia, gli
eserciti permanenti diventarono quasi la norma in Europa, complice anche l’impatto che ebbe
nell’opinione pubblica Europea la dimensione totale della guerra civile americana.
6. IL “SISTEMA BISMARCKIANO” E L’EGEMONIA CONTINENTALE TEDESCA
La politica bismarckiana ebbe grande eco nel sistema di potenze europeo. Grazie
all’unificazione, il Reich divenne il paese più popolato d’Europa e decise di non stuzzicare troppo le
potenze vicine, rifiutando qualsiasi proposta di pangermanismo che inglobasse anche i territori
germanofoni dell’impero asburgico. Per dimostrare tutte le sue intenzioni pacifiste, soprattutto ad
Austria e Russia, nel 1873 fu istituita tra Guglielmo I e gli altri due sovrani la Lega dei tre
imperatori che, seppur abbastanza vaga, prefigurava un reciproco sostegno, ebbene
subordinato alla pace europea. Bismarck sostenne poi la Repubblica francese guidata da
MacMahon, sebbene il rapporto tra i due Stati rimase alquanto teso per via di qualche avvisaglia di
guerra nel 1875, in vista di una ristrutturazione dell’esercito, bloccato dall’intervento russo ed
inglese, ma soprattutto per il sentimento di revanscismo che pervadeva il popolo d’oltralpe a seguito
della perdita di due regioni strategicamente ed industrialmente fondamentali come l’Alsazia e la
Lorena, sentimento che entrò presto a far parte nel bagaglio nazionalista francese. Una sfida al
sistema bismarckiano arrivò in occasione di un dissidio tra Austria e Russia in seguito a rivolte
antiturche nei Balcani, in una sorta di ripristino dell’annosa questione d’Oriente. Bismarck optò
per un accordo tra Austria e Russia e soprattutto per tenersi il più lontano possibile dalla faccenda,
ma il Regno Unito impedì che si formasse un fronte comune europeo contro il Sultano per paura di
un eccessivo indebolimento turco. Visto che i turchi approfittavano di questa situazione di stallo, la
Russia si mosse per la guerra nel 1877, arrivando dopo pochi mesi a Costantinopoli e costringendo
il Sultano alla resa e al quasi completo ritiro dai Balcani, a favore di un grande Stato bulgaro ed
altri Stati slavi. La Gran Bretagna reagì allora con l’invio di navi a Costantinopoli, cosa che,
assieme allo scontento del governo viennese, portò lo zar verso una situazione di isolamento
diplomatico. Bismarck colse allora la palla al balzo, convocando un Congresso a Berlino per
risolvere la crisi e autoproclamandosi mediatore della stessa: lo Stato bulgaro fu ridimensionato,
Cipro fu assegnata agli inglesi e la Bosnia-Erzegovina agli austriaci. Inoltre la Russia ottenne
che l’indipendenza di Serbia, Montenegro e Romania, mentre le richieste dei francesi furono
reindirizzate verso le colonie. Bismarck manovrò alleanze anche sotto banco, firmando un
reciproco sostegno in caso di aggressione russa con l’Austria e una totale neutralità in
qualsiasi altro caso di guerra; era il primo trattato militare in tempo di pace. Ciononostante, il
patto dei tre imperatori fu rinnovato nel 1881, e l’anno successivo l’Italia firmò con Austria e
Germania una Triplice alleanza in chiave difensiva, per contrastare la politica coloniale che
la penisola stava attuando in Africa, che le stava causando non pochi problemi diplomatici.
L’alleanza con l’Austria rimandava irrimediabilmente però l’annessione di Trento e Trieste ai
territori del Regno. Italia ed Austria siglarono poi con la Gran Bretagna nel 1887, due accordi
mediterranei che garantissero lo status quo delle coste africane e del Vicino oriente. Nello stesso
anno Bismarck si impegnò con la Russia a una neutralità benevola e ad una localizzazione di un
eventuale conflitto che avesse coinvolto una delle due potenze, tramite un trattato di
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contro-assicurazione. In tal modo il cancelliere tedesco riuscì a impedire un conflitto tra Austria
e Russia e un’eventuale alleanza tra Russia e Francia.
7. LA SFIDA ALLO “SPLENDIDO ISOLAMENTO” INGLESE
Dopo l’espansione in oriente, la Gran Bretagna fu costretta da una serie di circostanze a
riconsiderare la sua posizione predominante in Europa e nel Mediterraneo: tra questa,
l’accrescimento dello Stato tedesco e la riaccensione delle tensioni nei Balcani. Diffidente nei
confronti di Bismarck, il primo ministro Disraeli optò per quello che venne chiamato lo
“splendido isolamento” del Regno Unito, ovvero una presa di distanza dalle vicende europee.
L’opinione pubblica inglese inoltre si rifiutava di sottostare al nuovo gioco di alleanze sempre
più vincolanti, in quanto l’impero restava comunque la priorità, e la potenza economica e militare
inglese era indubbiamente superiore a qualsiasi altra. Tuttavia, visto l’aumento della competitività
internazionale, anche il governo della Corona dovette adattare le proprie politiche verso una svolta
centralizzante che proteggesse il proprio commercio, senza tuttavia mai intaccare i principi
liberoscambisti. Anche il sistema imperialista, che pure era grande motivo di vanto e pezzo da
novanta del bagaglio nazionalista britannico, fu rivisto. Alcune colonie, capeggiate dal Canada,
ottennero lo status di Dominion ad amministrazione bianca ma autonoma tramite assemblee locali.
Gli inglesi riuscirono inoltre ad estendere la propria influenza anche sull’Egitto, dove erano
intervenuti nel 1882 a seguito di una rivolta antioccidentale per tutelare i numerosi interessi
finanziari presenti nell’area. Quasi contemporaneamente si innalzavano preoccupazioni
sull’arretratezza dell’apparato industriale e navale del Regno Unito, offuscato da una ripresa delle
conquiste coloniali in Africa e nel Pacifico, attuato anche per intralciare i disegni coloniali
bismarckiani. Frattanto, Bismarck dovette sottomettersi alla supremazia del nuovo sovrano,
Guglielmo II, che lo costrinse alle dimissioni nel 1890, dopo aver dimostrato all’Europa intera
che l’antico regime era ormai dissolto.

CAPITOLO IV POLITICA DI POTENZA, IMPERIALISMI E NAZIONALISMI: L’ANTAGONISMO ANGLO-


TEDESCO E LA GRANDE GUERRA (1890-1918)
Verso la fine del secolo le pressioni nazionalistiche a carattere imperiale si fecero sempre
maggiori in tutto il mondo, come dimostrato dalla forte crescita delle potenze americana e
giapponese. L’equilibrio da europeo dovette diventare dunque mondiale, e ovviamente ciò aveva
pochissime probabilità di riuscita, visto che ormai era anche impossibile tenere distinte le vicende
delle diverse zone geografiche.
1. L’AVVIO DELL’ETÀ DELL’IMPERIALISMO
Tra il 1880 e il 1914 iniziò a svilupparsi una politica di controllo del mondo da parte delle
potenze europee mediante operazioni politico-militari. Tale controllo era caratterizzato, a differenza
del passato, dalla convinzione di una superiorità culturale ed intellettuale degli europei,
che si sentivano in dovere di civilizzare i popoli arretrati. Simili idee erano riprese anche in
ambito religioso e letterario, oltre che mediante accurata storpiatura delle nuove teorie
evoluzionistiche scientifiche. Anche in campo giuridico fu introdotto il concetto di Stato
“civile”, prefigurando dunque degli standard di civilizzazione, che autorizzavano spesso e
volentieri i civilissimi Stati europei ad esercitare il loro controllo su Stati extraeuropei in maniera
più o meno formale, in particolare nell’Asia meridionale ed in Africa. Nel continente africano in
particolare, nel giro di quindici anni rimasero solo due Stati completamente indipendenti,
sebbene l’interesse europeo era tutto mirato all’India, sotto dominio britannico, e alla Cina. Tutto
questo accadeva perché le potenze europee, autolimitandosi in terra loro, dovevano in qualche modo
sfogare le loro pretese espansionistiche; inoltre iniziò a svilupparsi un’insoddisfazione nei
confronti del predominio britannico e dei benefici portati dalla pax britannica, che portò le
potenze coloniali a creare delle sfere di influenza privilegiate e
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ad accentuare la competizione. Ad ogni modo la potenza inglese non fu scalfita, anzi, vide un
aumento dei suoi possedimenti con la conquista della Birmania e di tutta una serie di territori che
le garantivano il controllo di quasi tutta l’area orientale dell’Africa. Spesso tali conquiste non erano
altro che il desiderio di difendere un prestigio in declino, o per impedire che altre potenze
avessero una qualche influenza nell’area, e molta dell’influenza inglese era ormai solo informale, e
l’eccessiva attenzione data alle politiche imperiali impedì al Regno Unito di entrare tra le potenze
che avviarono una seconda rivoluzione industriale, basata sulla chimica e l’elettricità e
capeggiata da Germania e Stati Uniti. Un’altra potenze imperiale era quella francese, che già dai
tempi di Napoleone III aveva occupato Algeria, Cocincina e Senegal, e durante la Terza repubblica
arrivò fino a Annam, Tonchino, Cambogia, Laos, Tunisia, Madagascar e buona parte dell’Africa
occidentale atlantica e sahariana, dove fu orgogliosa esportatrice dei valori europei ma allo stesso
tempo utilizzò la politica dell’assimilazione senza distinzioni di razza, una sorta di
francesizzazione. La Russia proseguì la sua espansione in Asia, mentre l’Italia volle includersi
nella gara di conquiste andando a colonizzare Eritrea e Somalia fino ad essere annientata in
Abissinia; il Belgio si lanciò sul Congo in maniera privata, tramite una compagnia di proprietà
del re. Qui, tramite un trattato stipulato a Berlino nel 1885, fu istituito un regime di sfruttamento
economico aperto per regolare il commercio e i principi generali della cooperazione e della
competizione, non appoggiato però dagli Stati Uniti che denunciavano una mancanza di
riconoscimento dei diritti dei capi africani.
2. LA “WELTPOLITIK” TEDESCA E L’ALLEANZA FRANCO-RUSSA
Dopo l’uscita di scena di Bismarck, la Germania intraprese quella che fu definita
“Weltpolitik”, ossia una politica tedesca su scala mondiale, appoggiata anche da letterati illustri
come Weber. La Germania effettivamente aveva i mezzi per ricercare l’influenza mondiale, ed
iniziò questo percorso con un aumento esponenziale delle esportazioni e, a partire dagli ultimi anni
del secolo, con iniziative sulle coste cinesi, pacifiche, asiatiche e in Africa centrale, accompagnata
da una politica di potenza dimostrata da un notevole incremento della forza navale.
Dall’altra parte, i tedeschi rifiutarono un rinnovamento del trattato di contro assicurazione stipulato
con la Russia, a riprova dell’imprudenza dei successori di Bismarck. Saltò anche il sistema
diplomatico architettato da Bismarck: negli anni ’90 Russia e Francia, nonostante gli interessi e le
politiche completamente divergenti siglarono un’alleanza difensiva a dimostrazione del
raffreddamento dei rapporti con il Reich. Accordi politici e militari furono stipulati anche negli
anni successivi in chiave sia antinglese, sia antitedesca. Tale alleanza era fortemente voluta in
Francia dai filoclericali e dalle elite conservatrici, oltre che dai finanzieri, visto che la Russia si
apprestava a una modernizzazione ed industrializzazione guidata proprio dal ministro delle Finanze
Vitte, ma era carente di una classe intermedia che fosse in grado di sorreggere tale sviluppo. Il
continente era dunque diviso tra la Triplice Alleanza e l’Alleanza franco-russa. Una forzatura di tale
bipolarismo venne quando l’Italia di Crispi volle tenare un’ulteriore espansione nel Corno
d’Africa ma fu osteggiata sia dagli alleati tedeschi, che erano tenuti ad aiutare solo in caso di
interessi nella Cirenaica, sia dai rivali francesi, con cui era in atto una spietata guerra doganale.
L’impresa italiana si risolse in una sonora sconfitta nel 1896, che dimostrò tutti i limiti difensivi
della Triplice.
3. LA “WELTPOLITIK” TEDESCA E L’ALLEANZA FRANCO-RUSSA
Tra il 1894 ed il 1905 si ebbero alcuni interventi in Asia che ebbero grande risalto, in quanto
segnarono i limiti europei in Cina e nel Pacifico per mano di Giappone e Stati Uniti . Il
Giappone iniziò la sua espansione sulla terraferma verso la Corea, annessa poi nel 1910, e ottenne
dalla Cina Formosa, la penisola di Liaotung e la isole Pescadores a seguito di una guerra.
Francia, Russia e Germania, che già avevano interessi strategici in Cina, crearono una
Triplice d’Estremo Oriente, che impose al Giappone la restituzione
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del Liaotung e offrì un prestito al governo cinese. Con questa alleanza poi, il governo cinese si vide
costretto a offrire concessioni anche territoriali alle tre potenze europee, escludendo dai giochi la
Gran Bretagna, e ad accettare un intervento europeo durante la sanguinosa rivolta
antioccidentale dei Boxers del 1900. Chi invece continuò a sostenere il libero scambio
erano gli Stati Uniti, che non mancarono di ribadirlo più volte mediante note ufficiali. L’influenza
tedesca intanto si estendeva anche nell’impero ottomano, soprattutto sotto forma di finanziamenti
per lo sviluppo dell’industria e dei trasporti. Tra Gran Bretagna e Francia invece la tensione salì
molto quando nel 1898 le due forze armate si incontrarono a Fashoda, nel territorio Sudanese
conteso tra le due. Lo scontro fu evitato solo grazie ad accordi reciproci di riconoscimento
delle posizioni: il Sudan alla Gran Bretagna e l’Africa occidentale alla Francia. La potenza
inglese era però in rapido declino sia economico, sia politico, nonostante l’immensa ricchezza. Non
fu certo aiutata dalla situazione dell’Africa meridionale, dove le colonie inglesi avevano
letteralmente circondato le province boere dell’Orange e del Transvaal; questo portò a delle
tensioni che sfociarono in guerra nel 1899, in particolare per il possedimento delle miniere d’oro
e di diamanti di recente scoperta. I boeri ottennero l’appoggio indiretto di Guglielmo II, e gli
inglesi dovettero investire molte risorse umane e militari prima di poter inglobare le due province e
i giacimenti minerari sotto il loro domino, che comunque ottenne ampia autonomia e il
mantenimento del regime di apartheid. È a questo punto che il primo ministro Chamberlain
iniziò a paventare l’idea di un’alleanza coi tedeschi che contrastasse l’avanzata francese e russa,
ma l’incapacità dei diplomatici tedeschi nel gestire la situazione fu cruciale affinché gli inglesi si
orientassero più verso una situazione di bipolarismo anglo-tedesco. D’altro canto, gli inglesi
siglarono un’alleanza con i giapponesi nel 1902, che tuttavia era abbastanza periferica rispetto
alla situazione europea. Ciononostante, i giapponesi, forti dell’appoggio britannico, nel 1904
avanzarono verso la Cina settentrionale fino ad entrare in guerra con la Russia. I rispettivi
alleati ne stettero fuori, e anzi Francia e Regno Unito firmarono una nuova entente cordiale nello
stesso anno, che segnò l’inizio dell’avvicinamento di quest’ultima all’alleanza franco-russa –
culminata poi con la firma della Triplice intesa nel 1907 – e la Russia subì un’inattesa e
decisamente simbolica sconfitta un anno dopo. La Francia inoltre migliorò anche i suoi rapporti con
l’Italia mediante reciproci riconoscimenti delle colonie e accordi politici, mentre tra Gran Bretagna
e Russia i rapporti rimasero sempre tesi; ciononostante, i due firmarono nel 1907 un accordo per la
divisione delle sfere d’influenza in Persia, Tibet ed Afghanistan, che chiuse i giochi in
Asia Centrale. Intanto, i rapporti tra Francia e Germania furono complicati da tensioni dovute
all’influenza in Marocco tra il 1905 ed il 1906, dove ancora una volta le manovre tedesche
risultarono nebbiose e fallimentari.
4. LO SVILUPPO DELLA POTENZA AMERICANA E LE PRIME REAZIONI
NAZIONALISTE ANTIEUROPEE
Le tensioni franco-tedesche in Marocco furono risolte nella conferenza di Algeciras,
dove fece per la prima volta la sua comparsa in campo europeo la potenza americana, ormai
stabilizzatasi sotto ogni punto di vista e pronta a dimostrare il suo ruolo globale nei giochi di potere.
Già nel 1895, gli Stati Uniti avevano dato quest’idea intervenendo nella guerra civile tra coloni e
spagnoli a Cuba, dove i repubblicani instaurarono un protettorato informale. Nel 1902 inoltre, gli
Stati Uniti misero le loro mani sulle Filippine, che diventarono territorio non incorporato
americano. Inoltre gli americani parteciparono sia commercialmente che militarmente ad attività in
Cina, ed ebbero un ruolo fondamentale nella mediazione tra Russia e Giappone nella guerra
del 1905, grazie anche alla figura del presidente Roosevelt. Roosevelt sosteneva inoltre la
necessità d’intervento degli Stati Uniti in America centrale in qualità di poliziotti internazionali,
in quanto i territori caraibici erano dominati da governatori autoritari ed
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instabili. A riprova di ciò, gli Stati Uniti ottennero anche il monopolio per la costruzione ed il
controllo di un canale interoceanico a Panama, stato di recente indipendenza dalla Colombia.
La tattica imperialista americana fu denominata della “porta aperta”, e basava le sue
necessità economiche dal boom conseguente alla seconda rivoluzione industriale, che seguiva la
spinta data dalla Grande depressione. A più riprese i presidenti americani incoraggiarono gli
investimenti delle imprese americane all’estero, mantenendo però sempre un certo livello
di protezionismo. L’influenza americana poi si espanse quando salì alla presidenza Woodrow
Wilson, democratico progressista con l’idea di voler estendere anche fuori dall’America il giusto
compromesso tra libertà e benessere che si era riusciti a trovare all’interno del Paese. Anche
lui tuttavia attuò operazioni militari per tutelare diritti umanitari ma soprattutto interessi americani,
come l’intervento in Messico nel 1913 a seguito di una crisi rivoluzionaria. La crescita della
potenza americana era ancora sottovalutata, in special modo dagli inglesi, ben più preoccupati dai
vicini tedeschi, ma in generale dagli europei, impegnati nella conquista del mondo meno sviluppato
e nelle crisi che in questo si svilupparono già dai primi anni del ‘900. Nel 1905 infatti, un
movimento occidentalizzato convinse lo Shah di Persia a concedere una costituzione e, ad un
suo successivo tentativo di revoca, fu fatto fuggire; tuttavia la Persia non riuscì nel suo intento di
indipendenza, e nel 1911 cadde in mano russa. Similmente, un raggruppamento chiamato Giovani
Turchi spinse nel 1908 il Sultano ottomano a concedere la mai applicata costituzione del 1876;
successivamente, lo stesso movimento mise in atto, sempre tramite il Sultano, un’accesa
repressione dei movimenti non islamici presenti nell’impero, fino a proclamare nel 1912 una
dittatura militare. Il nazionalismo iniziò a svilupparsi presso le civiltà arabe in generale, tanto da
portare nel 1905 alla creazione di un manifesto per la nascita di una nazione araba. In Estremo
Oriente, la guerra vinta dal Giappone portò l’impero a uscire dalla subordinazione europea, mentre
in Cina Sun Yatsen faceva nascere il partito nazionalista Guomindang, che nel 1911 pose fine
all’impero e instaurò una repubblica basata sui “tre principi del popolo”, ovvero
indipendenza, democrazia e socialismo; inoltre, Yatsen abolì tutti i trattati ineguali stipulati
con gli europei e tentò di far valere la presenza cinese nella società internazionale, ma la crisi
politica dovuta al trasformismo dei vecchi dirigenti impedì tale progetto, portando la Cina sempre
più sotto il controllo del Giappone e, di nuovo, delle potenze europee.
5. LA DIMENSIONE DI MASSA DEI “NAZIONALISMI INTEGRALI”
A partire dalla fine dell’800 l’attività politica internazionale conobbe nuovo fermento. I
giornali poi invadevano l’opinione pubblica di problemi mondiali, spesso sapientemente arricchiti
da tratti nazionalisti ed imperialisti alquanto spettacolari e banalizzati. Ad un certo punto però,
complice il costante alfabetismo che permise agli strati sociali inferiori di accedere ai mezzi di
informazione, i governi non riuscirono più a contenere l’ondata nazionalista, che presto assunse
tratti integralisti, con la nascita di partiti bellicisti ed aggressivi. In particolare, i tedeschi
conobbero la Lega pangermanica, che aveva lo scopo di unificare sotto lo stesso Stato tutti i
popoli germanofoni, e svariate e simili Leghe si svilupparono anche in Gran Bretagna, sebbene a
sfondo più imperialista; in Francia invece nacquero movimenti come l’Action Française, spesso
legati ad ideali monarchici e cattolici. Anche in Italia nacque un’Associazione
nazionalista, che trovò l’appoggio di vari letterati tra cui Gabriele D’Annunzio, e pure i due
imperi, asburgico e russo, complice la loro composizione multietnica, registrarono la presenza di
simili organizzazioni, che non raramente provocavano tensioni anche gravi. L’incremento del
nazionalismo non giovò certo alle relazioni internazionali, a ovvio discapito dei guadagni
economici e finanziari. Implicito dire che i risvolti nazionalistici portarono spesso e volentieri a
picchi razzisti notevoli, in particolare contro le minoranze e le comunità ebraiche; un episodio
particolare,
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l’affaire Dreyfus, scosse la Francia per diversi anni a cavallo tra i due secoli. Al contrario, si
svilupparono movimenti internazionalisti, come quello socialista ed antimilitarista riassunto nel
Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels. Simili posizioni furono assunte in
Francia ed in Germania, accompagnati da correnti pacifiste a carattere religioso, sferzate anche dai
messaggi lanciati da papa Leone XIII, che tentava di uscire dalla posizione arroccata in cui il suo
predecessore si era ritirato.
6. IL BIPOLARISMO INSTABILE E LE CRISI DI INIZIO SECOLO: LA POLVERIERA BALCANICA
A partire dal 1907 si ebbe un’escalation di tensione che si pone alla base del successivo
scoppio della grande Guerra; a farla da padrone erano il blocco austro- tedesco in continuo
contrasto con quello franco-russo, in vista di una possibile forzatura dello status quo. La
Gran Bretagna assunse un ruolo particolarmente neutrale benché orientato verso sentimenti
antitedeschi e dunque maggiormente propendente a stringere accordi con Francia e Russia. Un altro
dato allarmante doveva essere identificato nella corsa agli armamenti già in atto dalla fine
dell’800. Già nel 1899, lo zar Nicola II promosse a L’Aja una conferenza sull’arbitrato e la
condotta della guerra, conferenza poi replicata nel 1907 per controllare il riarmo navale;
entrambe furono un fallimento, specie per l’ostruzionismo tedesco, che dall’anno prima era entrato
in fortissima rivalità con il Regno Unito nel settore delle costruzioni navali. A questo dovette
aggiungersi la situazione nei Balcani, che a più riprese dette segnali più che preoccupanti; nel 1903,
la Serbia puntava all’indipendenza dagli Asburgo, appoggiata dalla Russia che aveva rinverdito i
suoi sentimenti panslavisti; nel 1908, con la decisione austriaca di abbandonare i progetti di
espansione su Salonicco e puntare invece sull’annessione della Bosnia-Erzegovina, vi fu uno
scontro tra i ministri degli esteri austriaco e russo riguardante proprio le modalità dell’annessione,
in quella che fu definita la crisi bosniaca. Nel 1911 invece si riaccese lo scontro tra Francia e
Germania per il controllo del Marocco, risolto con compensi territoriali tedeschi in
Camerun. La tensione marocchina spinse Giolitti ad avanzare più concretamente le sue mire sulla
Cirenaica e la Tripolitania, sottratte all’impero ottomano in una guerra che si estese fino
all’Egeo. Il sentimento antiturco nei Balcani poi si fece più forte nel 1912, quando Serbia,
Bulgaria, Montenegro e Grecia costituirono una Lega balcanica, sostenuti dalla Russia, ed
entrarono nella prima guerra balcanica contro il Sultano. Vittoriosa, la Lega si sfasciò per via di
un contenzioso tra Bulgaria e Russia, e l’anno dopo, durante la seconda guerra balcanica, gli
originari membri della Lega si allearono con Romania e Turchia ai danni della Bulgaria,
ottenendo una buona parte dei territori macedoni e l’indipendenza dell’Albania; il tutto veniva
visto con sguardo preoccupato da Vienna, che viveva in prima persona gli eventi. Nel frattempo la
Germania, delusa dalle spartizioni coloniali, riprese a focalizzarsi verso un’idea pangermanica
dell’Europa centrale che inglobasse proprio i Balcani. Tale idea prefigurava un rafforzamento
dell’esercito piuttosto che della marina, e pertanto avrebbe potuto incontrare i favori del Regno
Unito, ma rafforzava anche la rivalità con lo zar.
7. GUERRA PREVISTA, GUERRA CASUALE: IL 1914 E LO SCONTRO EUROPEO PER IL
PRIMATO MONDIALE
La guerra del 1914 nacque con premesse tutt’altro che previste, sebbene la tensione degli
anni precedenti facesse già pensare ad una precipitazione degli eventi. Tutto ebbe inizio il 28
Giugno, quando l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando viene ucciso a Sarajevo da
un terrorista serbo; tale evento portò Vienna a voler risolvere una volta per tutte il problema
slavo, inviando un ultimatum inaccettabile allo Stato serbo, che comprendeva anche indagini
della polizia austriaca in territorio serbo in chiave antiterroristica. Ai primi di Agosto dunque,
l’Austria, diplomaticamente appoggiata dalla Germania, iniziò a bombardare Belgrado,
scatenando la controffensiva russa, che mirava a difendere l’unico alleato nei Balcani; a questo
punto anche la Germania iniziò a
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mobilitarsi, provocando lo stato d’emergenza in Francia, mentre il governo britannico rimase
neutrale e favorevole ad una localizzazione del conflitto. Questo fino al 3 Agosto, quando la
Germania aggredì il neutrale Belgio per poter penetrare in Francia, che provocò l’azione inglese
in difesa dello Stato d’oltralpe. A guerra scoppiata poi, iniziarono a prendere forma i piani tedesco e
russo di ottenere mutamenti dello status internazionale in maniera, appunto, bellicosa. La guerra
dunque, coinvolse tutto il territorio europeo in brevissimo tempo, in un contesto che può essere
visto sia in maniera classica, ovvero come lotta tra due blocchi contrapposti, sia dal
punto di vista tedesco, che mirava ad un’egemonia europea come elemento di
sopravvivenza e che fu il reale motivo dell’ingresso in guerra del Regno Unito. I paesi neutrali
rimasero pochissimi; l’Italia, che inizialmente optò per uno status neutrale, forte della chiave
difensiva che assumeva la Triplice Alleanza, a seguito della pressione del fronte
interventista, che pure mirava ad un’espansione verso le terre adriatiche, decise di schierarsi a
favore della Triplice Intesa, entrando in guerra il 24 Maggio 1915. L’ingresso in guerra fu
preceduto dalla firma del segretissimo Patto di Londra nell’Aprile, che consegnava all’Italia
vincitrice le terre irredente, l’Istria e la Dalmazia, e fu osteggiato fino all’ultimo dal
Parlamento, che fu tuttavia intimidito dalle numerose manifestazioni di piazza. L’entusiasmo
iniziale era palpabile in tutta Europa, e metteva in evidenza il fallimento di tutti i movimenti
pacifisti ed internazionalisti, in primis l’Internazionale socialista e Papa Benedetto XV,
che avevano cercato in ogni modo di evitare il conflitto o almeno la sua europeizzazione. L’idea di
guerra-lampo scomparve quasi subito dai piani delle potenze, e il blocco del commercio
indebolì ben presto gli imperi centrali, mettendo ancora una volta in risalto la supremazia della
forza navale britannica che, sebbene ostacolata dai sottomarini tedeschi, riuscì ad escludere
tutte l merci dall’approdo in Germania. La Prima guerra mondiale fu dunque una guerra di
logoramento altamente tecnologizzata e nazionalizzata; fabbriche e città furono presto
militarizzate e tutte le risorse degli Stati furono devolute agli eserciti che combattevano al fronte e
le masse dovettero essere adeguatamente manipolate per evitare rivolte antigovernative che
mettessero in ulteriore difficoltà la posizione dello Stato in guerra; inoltre, fu registrato un
consistente aumento dei massacri di popolazioni, spesso a mo’ di capro espiatorio, come
accadde agli armeni, deportati e uccisi in Siria in enorme numero da parte del governo
ottomano che li accusava di connivenza con il nemico russo. Il rifiuto di compromessi da
ogni parte poi, segnò il fallimento delle politiche diplomatiche ottocentesche, e rese il clima bellico,
se possibile, ancora più teso e confuso: gli obiettivi politici erano ormai tutti posti in secondo piano
rispetto all’obiettivo della vittoria. Se da parte austro-tedesca si mirava ad un’egemonia
continentale, all’interno dell’Intesa iniziavano a prefigurarsi trattati segreti a sfondo
imperialista, in particolare a discapito dell’impero ottomano. L’unico tentativo valido di
mediazione arrivò dagli Stati Uniti neutrali, che minacciando di rivedere la loro posizione
ottennero la sospensione della guerra sottomarina attuata dai tedeschi, mentre nel 1916 il
presidente Wilson chiese e ottenne la pubblicazione degli scopi di guerra da entrambe le
parti, che mise alla luce le grosse ambiguità ed incertezze dei due fronti.
8. LA PRIMA GUERRA COMPIUTAMENTE MONDIALE: IL TORNANTE DEL 1917
Il 1917 fu l’anno cruciale: la Russia abbandonò la guerra per via di dissidi interni dovuti
ad una modernizzazione giunta troppo tardi, che portò alla rivoluzione, alla caduta dello zar e
ad un governo provvisorio, presto sostituito dai bolscevichi, una frangia a carattere
socialista guidata da Lenin che propose un’immediata pace senza annessioni né
indennità. Sul fronte italiano invece, l’esercito ebbe molto filo da torcere, soprattutto in seguito
alla disfatta di Caporetto, mentre in Germania il governo di Hindenburg aveva proposto nel
1916 un piano di militarizzazione industriale che però aveva fatto
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schizzare l’inflazione e procurato una grossa scarsità di beni di prima necessità. Il peso economico
della guerra si fece sentire anche oltremanica, mentre sempre i tedeschi optarono per una ripresa
della guerra sottomarina, che fu utilizzata come pretesto dagli americani per entrare, nel 1917
in guerra a fianco dell’Intesa. Le ragioni del debutto americano erano però legate soprattutto ai
prestiti che la repubblica oltreoceano aveva concesso alle nazioni in guerra e all’annientamento
degli imperi centrali e delle loro politiche militariste. L’ingresso in guerra fu annunciato come
un associazione, e non un’alleanza, per mantenere le distanze dagli obiettivi dell’Intesa. Wilson
inoltre si era assunto la responsabilità di condurre definitivamente gli Stati Uniti verso un ruolo di
leadership globale. A riprova di ciò, Wilson elencò nel Gennaio 1918, 14 punti che
riassumevano obiettivi generali e specifici per il mantenimento della pace, tra cui il principio
di autodeterminazione dei popoli, la libertà di navigazione e le limitazioni agli
armamenti. Nel frattanto, Germania e Russia conclusero un duro trattato di pace a Brest-
Litovsk, che garantì alla Germania di chiudere il fronte orientale per concentrarsi su quello
occidentale e ai territori distaccatisi dall’impero zarista – Polonia, Finlandia, Ucraina e Paesi
baltici – di proclamarsi come indipendenti. Con gli americani, la già fortemente indebolita forza
tedesca si esaurì, e nell’estate del 1918 fermò la sua avanzata in terra francese. Fu chiesto un
armistizio basato sui 14 punti wilsoniani, che fu rifiutato da Wilson stesso, in quanto egli non
voleva trattare con i governi militari responsabili del conflitto; questo portò al crollo dei vertici
politici tedeschi e all’abdicazione dell’imperatore, che precedette di poco la
proclamazione della Repubblica, riconfermata dalle elezioni del 1919. Al crollo austriaco
in Veneto seguì invece la proclamazione di uno Stato degli slavi del sud composto da serbi,
croati e sloveni, e lo stesso fecero ungheresi e cecoslovacchi: a Novembre del 1918 la
guerra poteva dichiararsi conclusa, lasciando un’Europa distrutta politicamente ed
economicamente e nove milioni di morti nelle trincee. Quattro imperi erano crollati e il
principio di nazionalità aveva trionfato.

CAPITOLO V IL TENTATIVO FALLITO DI UN NUOVO ORDINE MONDIALE: VERSAILLES E LA


DISCESA EUROPEA VERSO LA TRAGEDIA (1918-1945)
Alla fine della guerra parve a tutti opportuno il ripristino di un ordine mondiale simile a e
duraturo quanto quello di Vienna. Il presidente americano Wilson colse quest’occasione per
promuovere (imporre) la sua propria opinione sull’organizzazione giuridica della pace. Le
complicazioni di questo processo però sorsero quasi subito, in quanto ogni potenza – ed in
particolare quelle imperiali – mirava alla messa in sicurezza dei suoi propri interessi, e la neonata
Società delle Nazioni non riuscì a svolgere quell’attività mediatrice che si era preposta. Inoltre,
era evidente l’assenza sia di una potenza preponderante che imponesse l’ordine, sia di un
qualche genere di solidarietà tra i vincitori. Ciononostante, gli anni ’20 furono caratterizzati da
una consistente stabilità politica economica, che però crollò al primo colpo, ossia alla grande
crisi del 1929, che fece precipitare l’Europa e il mondo in una nuova ed ancora più disastrosa
guerra.
1. IL PROGETTO DI NUOVO ORDINE MONDIALE A VERSAILLES
Il sentimento che permeò tutto il 1919 era quello di una svolta dalle politiche del passato e di
tutti quei principi che la Grande guerra aveva fatto inesorabilmente crollare, tra cui la competizione
imperiale, l’equilibrio delle forze e la sovranità assoluta. I punti di riferimento del dopoguerra
diventarono Woodrow Wilson e Lenin che, nonostante incarnassero due principi ben differenti,
propagandavano entrambe una radicale rottura col passato. Il rivoluzionario russo prediligeva
una rivoluzione mondiale ed una rottura della tradizionale politica di potenza, tanto da aver
pubblicato, una volta preso il potere, tutti i trattati segreti stipulati dallo zar. Il modello
bolscevico però costituiva la minoranza
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tra le sinistre europee, e nella stessa Russia lo scontro tra comunisti ed anticomunisti portò ad una
violentissima guerra civile. Wilson invece propendeva per un approccio più riformista delle
classi dirigenti europee, e voleva utilizzare le pulsioni di massa per allontanare le minacce
della rivoluzione, tramite una democrazia liberale e nazionale. A questo si aggiungeva un
progetto per rendere permanente la gestione delle relazione internazionali in sostituzione dell’uso
della forza, e per poter controllare gli sviluppi dell’autodeterminazione nazionale. La proposta
di istituire un’organizzazione giuridica permanente chiamata Società delle Nazioni che
rispondesse a questi bisogni raccolse grande entusiasmo nell’opinione pubblica e qualche dubbio da
parte della classe dirigente, in quanto Wilson insistette sul fatto che essa dovesse anche vigilare sul
rispetto delle sovranità contro le aggressioni e i vari governanti europei non furono in grado
di accordarsi su alcuni punti. Inoltre, le falle del progetto iniziarono ad apparire già durante la
Conferenza di pace indetta a Parigi nel 1919, che si svolse in maniera tutt’altro che aperta e
pubblica. I quatto vincitori – Wilson, Clemenceau, Lloyd George e Orlando – presero le decisioni
più importanti in gran segreto, pur essendo sempre condizionati dal fatto che le loro scelte dovevano
risultare accettabili dai rispettivi parlamenti e opinioni pubbliche. Inoltre, dalla Conferenza furono
esclusi per principio i perdenti, che furono convocati solo per firmare il trattato con i vincitori, in
un’ulteriore contraddizione dei principi wilsoniani. Tuttavia il presidente americano riuscì a far
approvare a Versailles il trattato che istituisse la Società delle Nazioni, costituita da un Consiglio
composto da cinque membri permanenti e quattro eletti periodicamente ed
unanimemente da un’assemblea, che incarnava l’aspetto democratico dell’organizzazione
ed emanava decisioni impegnative, con sanzioni per chi non si atteneva alle decisioni della
Società; vi era inoltre un Segretariato permanente a rappresentanza dell’operato della Società.
Il trattato istitutivo inoltre prevedeva la pubblicazione dei trattati internazionali, che per
essere validi dovevano essere depositati. Tuttavia, nessun impegno riguardava gli aspetti economici,
che spesso assumevano caratteri nazionalisti e pertanto danneggiavano i rapporti internazionali.
2. NAZIONALITÀ E TERRITORI NELL’ELABORAZIONE DELLA PACE IN EUROPA
L’aspetto territoriale fu un altro terreno insidioso per le potenze vincitrici; la Germania era
l’unico Stato con cui si potesse trattare la pace, visto che gli altri Stati sconfitti si erano tutti dissolti.
La sconfitta inoltre non era stata totale, in quanto la Germania era ancora economicamente e
demograficamente solida, e mancò un accordo tra chi propendeva per un ridimensionamento
del suo ruolo internazionale (Francia) e il suo reinserimento nel sistema per evitare
ulteriori risentimenti (Stati Uniti e Regno Unito). Alla fine si optò per un trattato piuttosto severo,
che riteneva la Germania responsabile della guerra, e pertanto obbligata a pagare un prezzo
non solo economico: oltre ai risarcimenti di guerra fissati in 132 miliardi di marchi oro, il
governo tedesco dovette ridurre le proporzioni dell’esercito e restituire l’Alsazia e la
Lorena alla Francia, cedere il bacino carbonifero della Saar ad un’amministrazione
internazionale e Pomerania, Posnania e Slesia a favore della ricreazione di uno Stato
polacco, che beneficiava anche di un corridoio che attraversava la Prussia per avere sbocco al
mare su Danzica, che fu dichiarata città libera sotto il controllo della Società delle Nazioni; la
neonata repubblica di Weimar, composta da una coalizione di liberali progressisti,
socialdemocratici e cattolici, firmò questo umiliante trattato che indebolì ulteriormente la sua
immagine al mondo e all’opinione pubblica tedesca. Il criterio nazionalistico poi creò non pochi
problemi, in particolare al Regno Unito, che aveva a che fare con le lotte di indipendenza
dell’Irlanda, che fu definitivamente riconosciuta come nuovo Stato nel 1922; lo stesso principio
poi portava a lotte per confini non sempre chiari e definiti, o all’insorgenza di
micronazionalismi, soprattutto nei territori ex asburgici ed ex zaristi. Tali
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nuovi Stati risultavano poi dominati da una nazionalità maggioritaria che metteva ovviamente
in soggezione tutte le minoranze, spesso oggetto anche di violente discriminazioni razziali. I
principi nazionalisti poi si scontravano con la necessità di un cordone di Stati in chiave
antibolscevica: la Polonia ad esempio fu formata con territori ex asburgici, ex russi ed ex
tedeschi e, dopo una guerra con la Russia nel 1919, alcuni territori bielorussi ed ucraini, e anche nei
Balcani furono attuate svariate operazioni di incorporamento spregiudicato, fatto salvo per
Austria, Ungheria e Bulgaria che, in quanto sconfitte, videro i loro territori ridotti e pertanto
nazionalmente omogenei. Proprio all’Austria poi, fu formalmente impedita l’annessione su
base nazionale con la Germania. La definizione del nuovo ordine fu definito a tavolino e senza
consultazioni elettorali o plebisciti, e nella maggior parte si instaurò un governo liberal-
democratico. Tra i vincitori invece, la posizione più ambigua fu assunta dall’Italia: nonostante la
possibilità che ebbe di esercitare il ruolo di guida e tutela degli Stati balcanici, l’Italia preferì
concentrarsi sulle questione delle terre irredente, invocando il patto di Londra, che però risultava
obsoleto per due grandi motivi: l’impero asburgico era caduto e Wilson non si sentiva vincolato
all’accordo italo-britannico. Il tutto fu ulteriormente complicato dalla richiesta di annessione
all’Italia da parte di Fiume, non prevista dal patto. Orlando e Sonnino, gli inviati del governo,
non gestirono bene i rapporti con le potenze vincitrici, e abbandonarono la conferenza in
segno di dissenso, causando un moto di scontento nazionalista nell’opinione pubblica.
3. I PROBLEMI EXTRAEUROPEI E L’ABBANDONO AMERICANO DELLA SOCIETÀ DELLE NAZIONI
Il problema coloniale fu un’altra questione spinosa affrontata a Parigi, che vide gli Stati
Uniti scontrarsi con inglesi e francesi. Il compromesso fu offerto da Wilson in un avvio
all’indipendenza delle colonie con tutela della Società delle Nazioni tramite mandato
affidato ad una singola potenza. In questo modo, Francia e Gran Bretagna riuscirono a
spartirsi le zone del Medio Oriente che facevano parte del defunto impero ottomano, che
costituivano non solo un importante punto strategico commerciale, ma anche un’importante
fonte di risorse petrolifere. Ai francesi andarono Siria e Libano, dove furono abbastanza rigidi
nei confronti dei movimenti nazionali e religiosi locali, mentre gli inglesi si occuparono di
Palestina, Transgiordania ed Iraq, dove invece fu cercata una mediazione ed una
collaborazione con le elite locali; dall’altro lato si formò un governo indipendente nella
penisola araba. Sempre gli inglesi istituirono inoltre una sorta di protettorato in Persia, e
promisero al movimento sionista la futura costituzione di uno focolare nazionale ebraico in
Palestina che, sebbene non comprendesse il concetto di Stato, diede inizio ad una serie di
spostamenti di ebrei dall’Europa al Medio Oriente, specialmente dopo un inasprimento delle
persecuzioni nei loro confronti. Per quanto riguarda invece la Turchia, gli eredi del movimento
dei Giovani Turchi riuscirono ad abbattere il regime del Sultano e ad instaurare una repubblica
laica guidata da Mustafà Kemal, che riuscì a contrastare le potenze straniere revisionando il
trattato di Sèvres del 1920, che invece prevedeva una frammentazione del territorio in vari Stati
a base turca, armena e curda, provocando non poche tensioni e scontri. Il Giappone invece
ricevette gli ex possedimenti tedeschi in Cina e la Manciuria, sottratta al possedimento russo.
Anche stavolta non era presente il principio di nazionalità, e non fu troppo d’aiuto il trattato di
Washington del 1921, dove si proclamava il rispetto della sovranità statuale cinese senza però
chiarire gli aspetti economici e giuridici, lasciando di fatto la Cina sotto il controllo giapponese.
Venne poi trattato il tema del disarmo, che fu ovviamente posto ai vinti ma che riguardava anche,
in maniera progressiva, i vincitori, sebbene dei progressi in tal senso si videro solo nella
conferenza di Washington del 1921, dove furono fissati limiti proporzionali agli
armamenti navali. Tuttavia Wilson, sempre più preoccupato del ruolo americano all’estero,
iniziò a perdere i contatti con la situazione interna americana; il
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culmine di ciò fu il respingimento, da parte del Senato contrario ad alcuni emendamenti e
riserve, del trattato di Versailles, che metteva gli Stati Uniti fuori dai giochi della Società delle
Nazioni, che quindi perdeva il suo proponente e lo stato ormai più forte ed influente del mondo. Le
successive elezioni portarono alla presidenza il repubblicano Harding, a riprova dell’attaccamento
americano alla dottrina Monroe. Nel frattempo però, la nascita di organizzazioni
internazionali che tutelassero lavoro e sanità, o la creazione di gruppi di intellettuali che
elaboravano tematiche culturali e giuridiche internazionaliste dimostravano che la comunità
internazionale era intenzionata a creare una società civile internazionale. All’interno dei gruppi
socialisti e religiosi invece vi furono svariate spaccature; nel primo erano dovute soprattutto allo
scontro pro e contro il nuovo assetto russo, nel secondo alla divisione tra nazionalisti ed
internazionalisti, con i papi Benedetto XV e Pio XI schierati sempre a favore di questi ultimi.

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4. DALLA TENSIONE POSTBELLICA ALLA STABILIZZAZIONE “SENZA GUIDA”
La tensione tra Francia e Germania continuò per diversi anni dopo la fine della guerra. Le
richieste di riparazione ammontavano al reddito tedesco di due anni prebellici, e la cifra era
volutamente tanto alta da voler limitare la potenza germanica. Essa però si limitava già da sola: i
governi di coalizione Weimar erano molto deboli e spesso erano costretti ad includere partiti
nazionalisti antirepubblicani. Le reazioni antifrancesi si svilupparono inizialmente in chiave di
resistenza passiva, ma tale tattica portò nel 1923 all’occupazione francese della Ruhr,
disapprovata dagli inglesi ma appoggiata da Belgio ed Italia. Nell’Europa centrale invece, si ebbero
varie svolte autoritarie, in particolare in Ungheria, Romania, Bulgaria e Polonia, per
spostarsi poi verso oriente in Lituania e nel mediterraneo in Italia e Spagna. La Francia si prese
la responsabilità di tenere a bada in maniera diplomatica i sentimenti diffusi di revisionismo
europeo mediante una serie di alleanze tra Stati soddisfatti dai trattati di pace che
garantisse un legame economico con la Francia e la ripresa degli investimenti in Europa
centrale, eventualmente anche in modo tale da accerchiare la Germania, sulla scia dell’accordo
franco-russo dell’anteguerra. Proprio dalle ceneri russe nacque nel 1922 l’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche: Lenin riuscì a mantenere gran parte del precedente
territorio mediante un’apertura nei confronti delle nazionalità. Inizialmente, i sovietici non si
interessarono a ruoli di potenza, sbandierando il loro isolamento dalla società internazionale
ed europea, simbolizzato dal ripristino di Mosca come capitale. Il riconoscimento dell’URSS da
parte della comunità internazionale avvenne gradualmente: la prima fu la Germania con gli
accordi di Rapallo del 1922, seguita da Italia e Gran Bretagna nel 1924; con la nascita della
Terza internazionale comunista, la Comintern, la Russia si autoproclamava poi patria del
socialismo internazionale. In Italia invece, il dopoguerra ebbe conseguenze catastrofiche
che portarono, nel 1922, ad un governo di stampo fascista guidato da Benito Mussolini, che
a partire dal 1925 mostrò le sue intenzioni autoritarie e ultranazionaliste. Lo stesso Mussolini, nel
1924, contribuì a far naufragare un nuovo accordo sul rapporto tra sicurezza, arbitrato e disarmo nel
contesto della Società delle Nazioni, un tentativo di rinforzare la Società stessa che si rivelò invece
l’ennesima falla del sistema. Occorre poi mettere in conto una situazione economica internazionale
non certo rosea: i governi europei erano ancora fortemente provati dalla guerra, e l’inflazione era
alta ovunque; la situazione era poi peggiorata dal rifiuto dell’URSS di onorare i debiti contratti in
epoca zarista, cosa che creava non poche tensioni all’interno dell’Intesa. A partire dalla metà del
decennio però, arrivarono segnali positivi dal rapporto franco-tedesco: da parte tedesca, il ministro
degli Esteri Stresemann iniziò una politica di accettazione parziale dei trattati che
portasse ad un’eventuale revisione delle clausole peggiori e all’uscita dalla resistenza passiva;
da parte francese invece, il ministro degli Esteri Briand intendeva rivedere la posizione
francese nella Ruhr, che aveva portato lo Stato d’oltralpe ad un isolamento internazionale. I
pagamenti tedeschi furono dilazionati nel tempo a partire dal 1924 tramite il Piano Dawes, e con
il Patto di Locarno del 1925 i tedeschi accettavano i confini del Reno. Gli accordi franco-
tedeschi diedero una spinta stabilizzatrice a tutta l’economia europea, oltre a distendere i rapporti
e i vari meccanismi di alleanze. Dall’altra parte dell’Atlantico invece, i governi repubblicani di
Harding, Coolidge e Hoover mirarono ad un internazionalismo politicamente
disimpegnato; in altre parole, piuttosto che vincolarsi in cooperazioni politiche istituzionali,
preferivano utilizzare le relazioni internazionali per i loro obiettivi economici locali. Dopo la
prima guerra mondiale, New York era diventata la capitale mondiale della finanza, e buona
parte degli introiti americani si basava sul rientro dei prestiti di guerra concessi alle varie
potenze, mediante un sistema economico non segmentato che prevedeva anche il riavvio dei
programmi industriali europei; il gold

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standard fu ripristinato in una versione più elastica. Nonostante però l’influenza americana,
mancava ancora un regolatore, e questo si notava in maniera notevole in Europa, dove era ancora
viva la competizione finanziaria tra Regno Unito e Francia. D’altro canto, in cambio dei vantaggi
finanziari gli Stati Uniti chiedevano un sistema di porte aperte per le loro merci non
necessariamente reciproco, e anzi il flusso migratorio e commerciale verso gli USA fu di gran lunga
ridotto. La riprova della stabilità fu data dall’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni
nel 1926 e dalla firma del patto Briand-Kellogg del 1928, che impegnava gli Stati partecipanti
ad evitare il ricorso alla guerra come strumento di politica internazionale, ma che non
prevedeva strumenti di attuazione né di sanzione.

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5. L’IMPATTO INTERNAZIONALE DELLA GRANDE CRISI ECONOMICA
L’equilibrio ritrovato durò ben poco. A partire dal 1929 infatti, il sistema economico
americano, complice la cattiva distribuzione sociale del reddito e le difficoltà del settore agricolo
che non riuscivano ad assorbire l’incessante sviluppo industriale, esplose come una bolla, e più
precisamente una bolla speculativa che partiva da Wall Street: il crollo della borsa portò ad una
depressione senza precedenti, che in breve tempo ebbe conseguenze globali proprio a causa dei
già menzionati rapporti economici che gli Stati Uniti avevano con il resto del mondo. In Europa le
conseguenze arrivarono nel 1931: gli americani non fornirono più credito e il fallimento
dell’austriaca Credit-Anstalt, che deteneva partecipazioni in tutto il sistema industriale ex
asburgico, fu il primo, preoccupante segnale di crisi; nei paesi più dipendenti dalle risorse
americane, e in quelli con scarsa protezione sociale, la disoccupazione toccò picchi
impensabili, e ovviamente anche le colonie ne risentirono profondamente. Il mondo politico ed
economico guardava inerme la situazione senza sapere come reagire, finché non furono prese in
considerazione le teorie di John Maynard Keynes, che consistevano in un intervento diretto
degli Stati nell’economia tramite la manovra dei tassi d’interesse, la creazione
dell’occupazione e la redistribuzione dei redditi. Ancora una volta, gli Stati scelsero un
punto di vista nazionalista per mettere in atto tali politiche economiche, e il protezionismo
tornò ad essere protagonista indiscusso delle relazioni commerciali. Come successe in passato poi,
la chiusura delle frontiere aveva una ripercussione di carattere imperiale per sfogare la
necessità di un’area di influenza: i paesi vincitori della guerra allora rafforzarono le proprie, mentre
gli sconfitti inasprirono le proprie richieste revisioniste, mentre l’America introduceva nuove
politiche keynesiane, tra cui il New Deal del democratico Franklin Delano Roosevelt, al grido
di “America first”. Roosevelt sganciò inoltre il dollaro dall’oro per permetterne la svalutazione e
limitare la crisi speculativa bancaria, e contò su tutti quegli Stati, in particolare latinoamericani, che
dipendevano dal dollaro per creare una sorta di egemonia regionale. Il Regno Unito proclamò
invece l’inconvertibilità della Sterlina in oro nel 1931, sancendo la fine del vecchio sistema;
successivamente, il governo guidato da Mac Donald si impegnò in una riforma imperiale che
portò alla creazione del Commonwealth, una comunità che legava gli ex Dominions della
Corona, diventati ormai indipendenti; tale comunità prevedeva un’area di libero scambio con
un sistema di preferenze imperiali, e quindi chiusa verso l’esterno, che però non fu sostenuta
dalle basi produttive del Regno Unito e pertanto non ottenne i risultati attesi, e anzi fuori dai
Dominions la crisi crebbe, dando ampio spazio ai partiti anticoloniali come il Partito del
Congresso in India, fondato da Gandhi. Il franco rimase invece legato all’oro fino al 1936, e fu
creata un’area economica del franco, valorizzando le colonie di modo da renderle
complementari all’economia nazionale. Le risorse però erano limitate, e molte politiche economiche
fallirono anche per via dell’accrescersi di movimenti fascisti che portarono ad un rafforzamento
dell’esecutivo in chiave difensiva. In sostanza la Francia resse più di chiunque altro solo grazie al
ritardo dell’arrivo della crisi rispetto alla Germania e grazie alla riserva di stabilità data dalla
Francia rurale. L’URSS invece accrebbe il suo peso internazionale, con l’arrivo di Stalin e
dell’idea di socialismo in un solo paese, che portarono ad un’industrializzazione forzata e
ad un sistema politico autoritario e fortemente repressivo nei confronti delle minoranze e degli
oppositori, anche all’interno dello stesso partito comunista. Il Giappone mirava invece al primato
economico dell’Asia, mediante politiche economiche di svalutazione monetaria e
dumping industriale, mentre però cresceva la presenza americana in Cina. I primi sintomi di
tensione si ebbero con la crisi della Manciuria nel 1931, quando i giapponesi simularono un
incidente ferroviario per intervenire militarmente nella regione e contrastare i nazionalisti del
Guomindang, guidato da Chiang

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Kaishek, che dal 1928 contrastavano la presenza giapponese. I giapponesi crearono dunque lo
stato fantoccio del Manchukuò, che fu base per un’ulteriore espansione nel territorio, e le
reazioni, sia americane – con la dottrina Stimson che non prevedeva il riconoscimenti di
mutamenti territoriali avvenuti con la forza – sia della Società delle Nazioni, erano debolissime, e
nel 1933 il Giappone uscì dalla Società stessa, e mirò ad un controllo imperialista della Cina.
6. HITLER AL POTERE: REVISIONISMO E PROSPETTIVA IMPERIALISTICA
Anche la Germania, a partire dal 1932, iniziò il processo che l’avrebbe portata a diventare
una dittatura autoritaria. Già dalla fine degli anni ’20, su tutti i partiti nazionalisti, antisemiti e
revisionisti esistenti era emerso il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi
(NSDAP), un partito di estrema destra guidato da Adolf Hitler, già noto alle cronache per aver
tentato un putsch in Baviera nel 1923. Hitler prese a pretesto la crisi economica per richiamare la
comunità di popolo tedesca che doveva liberarsi dello straniero per tornare al suo antico
splendore, e in particolare degli infedeli affaristi ebrei senza patria. Nel 1932, il partito
nazista guadagnò la maggioranza assoluta dei voti, e nel 1933 Hitler fu nominato cancelliere da
Hindenburg e, alla morte di quest’ultimo, concentrò su di se tutto il potere in un regime totalitario
nel quale Hitler rappresentava il Führer. La sua politica estera era riassunta in tre fasi
eloquentemente spiegate nel suo “Mein Kampf”: liberazione dai vincoli di Versailles;
riunificazione dei tedeschi d’Europa in un Terzo Reich; costruzione di uno spazio vitale
mediante l’assoggettamento dei popoli inferiori, in particolare gli slavi. Per attuare ciò era
ovviamente necessario contrapporsi alla Francia, ma senza scatenare una reazione inglese. Hitler
costruì la sua tattica alternando azioni contro i trattati a gesti distensivi: decise di
abbandonare la conferenza sul disarmo e la Società delle Nazioni nel Novembre 1933, per poi
accettare la creazione di un Patto a Quattro proposta dall’Italia con Francia e Regno Unito, ma
quest’ultimo si rifiutò di ratificarlo. Tuttavia, tra Italia e Germania, almeno inizialmente, c’erano
una serie di divergenze, culminate nel 1934 col tentativo di putsch da parte dei nazisti austriaci
per annettere Vienna alla Germania, che fu impedita proprio da Mussolini. Nel 1935, dopo due anni
di riarmo coperto, avviò un’operazione di riarmo palese e ripristinò l’aviazione e la leva
obbligatoria, violando tutte le clausole non territoriali di Versailles e ridando slancio all’economia
tedesca, che spinsero il commercio estero verso l’Europa centro-orientale. A partire dal 1936 però, a
causa dell’ancora alto deficit pubblico e della carenza di mezzi finanziari, furono prese decisioni
sull’espansione territoriale. Nel frattempo, l’approccio della Società delle Nazioni – e quindi di
Francia e Regno Unito – al nazismo avvenne tramite una politica di appeasement: tutte quelle
azioni compiute da Hitler che non andavano a cozzare con l’equilibrio europeo venivano ritenute
accettabili, nella speranza di placare le mire del Führer, in quanto la mobilitazione bellica era
impossibilitata sia dalle scarsezze economiche sia dalla contrarietà dell’opinione pubblica. I vincoli
di Versailles furono poi scavalcati del tutto con un accordo navale anglo-tedesco molto
criticato dagli imperialisti inglesi. Nel frattempo la Francia, rimasta l’unica potenza antirevisionista
in gioco, cercò di migliorare i rapporti con l’Italia e l’URSS; quest’ultima entrò nel 1934 nella
Società delle Nazioni proclamandosi favorevole ad un concetto di sicurezza collettiva, e l’anno
dopo firmò con la Francia un patto di assistenza e non aggressione; a partire dal VII
Congresso del Comintern poi, venne proclamato l’antifascismo come priorità politica e
la nascita di fronti popolari, ovvero alleanze tra comunisti. Mussolini invece optò per la via
imperialistica come mezzo per migliorare le posizioni italiane affinché le grandi potenze
considerassero le richieste della penisola: nel 1935, il Duce ordinò l’invasione dell’Etiopia e,
dopo numerose esitazioni, l’Italia fu considerata paese aggressore dalla Società delle Nazioni, con
conseguenti sanzioni molto deboli; nel 1936 l’Italia era diventata impero ed uscì dalla Società. A
questo punto, Hitler
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decise di rimilitarizzare la Renania, scatenando ancora una volta blandissime reazioni, tra cui il
rinnovamento, da parte del Belgio della sua neutralità; al contrario, la convergenza verso una
politica aggressiva portò ad un avvicinamento tra Germania e Italia, che scaturì in un accordo tra i
due Stati e il Giappone, detto Asse Roma-Berlino- Tokio che, pur nella diversità di strategie e
nemici, era un mezzo propagandistico potentissimo. Gli Stati Uniti invece ripresero ad
interessarsi degli eventi internazionali solo a partire dal 1938, quando, a causa dell’atteggiamento
sempre più aggressivo del Giappone contro la Cina e per favorire la ripresa industriale, furono
varati una serie di provvedimenti volti a riarmare la marina e l’aviazione, seguiti dall’abrogazione
del trattato commerciale con i giapponesi nel 1939. Il primo vero scontro tra fascisti e
antifascisti avvenne nel 1936, con lo scoppio della guerra civile spagnola a seguito di un
pronunciamiento militare da parte del generale Francisco Franco contro il vittorioso
Fronte popolare repubblicano. Aiutati dai fascismi europei e contrastati debolmente dalla
Francia, a fronte di un Regno Unito che non intervenne, i militari presero il potere nel 1939,
instaurando un regime dittatoriale fascista. Altri regimi filofascisti o comunque di estrema
destra si instaurarono in Austria, Portogallo, Ungheria, Romania, Jugoslavia e Polonia.
7. LA DISCESA VERSO LA GUERRA NELL’EUROPA DEGLI ANNI ‘30
La seconda fase della strategia hitleriana prese forma a partire dal 1938, quando fu portato a
termine tramite plebiscito l’Anschluss con l’Austria, che inglobò non solo i tedeschi austriaci, ma
anche le risorse finanziarie e auree di Vienna. Nel Settembre fu poi annessa la Cecoslovacchia
con la scusa della regione tedesca dei Sudeti. Quest’annessione fu complicata da un’alleanza
difensiva che legava Praga con la Francia, ma l’ondata antisovietica che stava invadendo la
Francia fece sì che il governo di Daladier si accordasse con il primo ministro Chamberlain per
partecipare ad una conferenza a Monaco, promossa da Mussolini. Qui le pretese naziste sui Sudeti
furono accettate in un trionfo della politica di appeasement, e nel 1939 Hitler procedette a
smembrare tutta la Cecoslovacchia occupando militarmente Praga e ponendo l’area sotto
protettorato del Reich, mentre l’Italia annetté l’Albania, eliminando ogni eventuale dubbio
sulla nullità del trattato di Versailles. A questo punto, la Gran Bretagna si riattivò per garantire la
tutela dell’indipendenza polacca, rafforzare le attività di riarmo e trattare militarmente con l’URSS.
Nel frattempo, Hitler propendeva per la subalternità della Polonia, in preparazione di una
guerra contro le potenze occidentali, ma il rifiuto dei colonnelli di Varsavia ad accettare un
egemonia tedesca in Europa orientale e la decisione di Stalin di trovare un compromesso con la
Germania mediante il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop, il Führer optò per
un’invasione armata dello Stato polacco. Il patto russo-tedesco tutelava la Germania dal rischio
di una guerra su due fronti e dava all’URSS il tempo di rinforzare l’Armata rossa in vista di
un’eventuale espansione tedesca verso est, che probabilmente sarebbe stata caratterizzata da un non
intervento delle potenze occidentali; prevedeva inoltre clausole segrete su una futura
spartizione di aree di influenza europee. Hitler si mosse dunque verso Varsavia alla fine di
Agosto, provocando una dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Francia e Gran
Bretagna il 1° Settembre 1939. Inizialmente la guerra rimase localizzata allo storico contesto
del Reno, anche perché l’unico grande alleato di Hitler, Mussolini, seppur legato da un patto
d’acciaio siglato nel Maggio dello stesso anno, aveva convinto il dittatore tedesco a dilazionare
l’intervento italiano, in quanto i suoi militari erano impegnati in Spagna ed Abissinia, e
proclamò dunque la “non belligeranza”. A partire dalla primavera successiva, Hitler conquistò
rapidamente Danimarca e Norvegia, fino ad arrivare, nel Giugno 1940 a Parigi, dove il governo
francese fu costretto a firmare un armistizio che isolò completamente la Gran Bretagna, dove era
salito al governo Winston Churchill,
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strenuo oppositore del nazismo. Presa in considerazione la rapidità del conflitto, Mussolini si
convinse ad entrare in guerra aprendo un nuovo fronte in Grecia nell’Ottobre del 1940 e
ponendosi come obiettivo ultimo l’annientamento degli inglesi a Suez. Ma le forze italiane erano
mal preparate, e fu necessario l’intervento tedesco, che ne approfittò per conquistare la
Jugoslavia nella primavera del 1941. In molti Stati europei, tra cui alcuni appositamente creati,
salirono al potere governi nazionalisti che si schierarono con l’Asse alla ricerca di un loro spazio
vitale. Nel 1942 la Francia fu occupata totalmente, dopo che nel sud della Francia il maresciallo
Pétain aveva tentato di avviare un governo autoritario e antisemita con capitale Vichy. Nel
frattempo la strategia giapponese divergeva grandemente dagli obiettivi del patto tripartito che fu
rinnovato nel 1940: gli esponenti della Marina che presero il potere arrivarono fino
all’Indocina francese nel 1941 ma non riuscirono mai a muoversi troppo oltre la Manciuria a
nord, fino a firmare un patto di reciproca neutralità con l’URSS, mentre Hitler rinunciava al
fronte occidentale per muovere verso est.
8. TRASFORMAZIONE IDEOLOGICA E MONDIALIZZAZIONE DELLA GUERRA NEL 1941
L’ingresso in guerra degli Stati Uniti fu estremamente graduale e indiretto. Il Congresso
americano iniziò a vendere armi al Regno Unito a partire dal 1940, e nel 1941 approvò una legge
che garantisse un sistema di affitti e prestiti di equipaggiamenti militari a quei paesi la cui
sicurezza fosse ritenuta essenziale per la sopravvivenza degli Stati Uniti, che si rivelò di vitale
importanza per la Gran Bretagna e che rese gli Stati Uniti un “arsenale delle democrazie”
tutt’altro che neutrale. Nell’Agosto 1941, Churchill e Roosevelt firmarono la Carta atlantica, che
prefigurava una cooperazione tra i due paesi in chiave postbellica richiamando i principi
wilsoniani. La Carta, in quanto redatta ben prima della fine della guerra, metteva in risalto già da
allora la preminenza americana, mentre gli inglesi accettarono a malincuore le clausole
sull’apertura economica. Nel Giugno del 1941 invece, Hitler avviò l’operazione “Barbarossa”,
che prevedeva l‘invasione lampo dell’URSS secondo i piani di creazione dello “spazio vitale”,
basata sull’evidente superiorità numerica e tecnologica dell’esercito tedesco. Nel frattempo in
Indocina era iniziata una guerra economica tra Giappone e Stati Uniti, che culminò nel
Dicembre 1941 con l’attacco nipponico a Pearl Harbour, base americana nel Pacifico: da quel
momento gli americani entrarono apertamente in guerra contro il Giappone, dichiarazione a cui
seguì quella italiana e tedesca contro gli stessi Stati Uniti. Nella guerra si intrecciavano ora
ideologie e nazionalismi che distrussero totalmente l’idea di una comune civiltà europea. Se
uno degli scontri ideologici maggiori era quello tra il nazifascismo e il comunismo, ad essi si
aggiungeva la democrazia liberale occidentale; lo scontro a tre spiega adeguatamente
perché vi fu grande difficoltà a trovare un accordo per una coalizione antifascista, che fu
trovato solo per via delle mosse dell’avversario piuttosto che per forza di volontà. La strategia
hitleriana, ad ogni modo, iniziava a conoscere delle falle, specie dopo che Stalin riuscì a schierare
una consistente reazione basata sul nazionalismo russo. Stalin si unì poi alla Carta atlantica e
alla cooperazione economica con Roosevelt e Churchill, e agli inizi del 1942 il fronte
antifascista era coalizzato formalmente sotto la Dichiarazione delle Nazioni Unite in chiave
antinazista a occidente e difensiva a oriente; a partire dal 1943 i russi iniziarono la
controffensiva con la battaglia di Stalingrado, e nel Giugno 1944 si aprì finalmente un secondo
fronte con lo sbarco delle truppe alleate in Normandia. I nazisti non riuscirono neanche a
trovare appoggio nei prigionieri di guerra sovietici, diffidenti nei confronti dei tedeschi che li
consideravano razza inferiore in quanto slavi. Tra l’altro, la discriminazione razziale nazista
aveva mietuto vittime già dalla fine del 1941, quando fu attivata la “soluzione finale” di
deportazione e sterminio degli ebrei nei campi di concentramento. A oriente invece, i
giapponesi seppero far passare la loro espansione
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come rivendicazione dei popoli asiatici oppressi dal nemico occidentale, quindi in
chiave anticoloniale: Malesia, Borneo, Singapore e Filippine caddero nelle mani del Giappone,
fino al Giugno 1942, quando l’aviazione giapponese fu sconfitta dal riorganizzato esercito
americano nelle Midway. Gli italiani nel frattempo cercarono senza successo di trarre vantaggi
dalla loro sfera di influenza nei Balcani, ma a fine Luglio 1943 gli anglo-americani sbarcarono in
Sicilia, sancendo la fine del fascismo in Italia, che l’8 Settembre firmò l’armistizio con gli
Alleati. Hitler allora decise per una dispendiosa invasione della penisola per proteggere il suo
fronte meridionale, mentre organizzazioni di Resistenza partigiana iniziavano a concretizzarsi
non solo in Italia e in Europa – in Francia in particolare – ma anche in Asia, sebbene la
coordinazione tra i vari gruppi nazionali era spesso complicata – si veda il caso del CLN italiano
– e solo un’intesa in chiave di liberazione nazionale dall’oppressore, facendo passare le
ideologie in secondo piano, garantì un’efficace risposta al nemico comune.
9. I PROGETTI PER IL DOPOGUERRA
Da parte degli Alleati si profilò la necessità di evitare gli errori del 1918, e organizzare già
durante la guerra un sistema che garantisse una solida cooperazione tra i vincitori. Tale sistema
prese forma in diverse conferenze, tra cui quella di Teheran del 1943 e di Yalta del 1945, dove
emersero le esigenze staliniane di creare una sfera di influenza sovietica che evitasse nuove
aggressioni che andavano a scontrarsi con le preoccupazioni anticomuniste di Churchill, che vista la
situazione si offrì di negoziare con il dittatore russo, già prefigurando nel 1944 un
controbilanciamento di Stati occidentali guidati dalla Gran Bretagna che intendeva
mantenere comunque il Commonwealth e i punti strategici in Europa e nel Mediterraneo. D’altro
canto, Roosevelt prefigurava un mondo foggiato secondo il sistema americano, che
promuovesse dunque l’integrazione economica ed il commercio multilaterale che
favorissero la crescita ed attenuassero i conflitti. Perché questi obiettivi fossero concretizzati, gli
americani iniziarono a pianificare la creazione di organismi internazionali che garantissero il
funzionamento di tale cooperazione. Nel Luglio del 1944 presero avvio i lavori della conferenza di
Bretton Woods, dai quali nacquero una Banca Mondiale ed un Fondo Monetario
Internazionale, che avrebbero dovuto funzionare da supervisori del sistema monetario per
garantirne la stabilità, ponendo il dollaro come moneta internazionale dato il notevole impegno
americano nel finanziare tali strutture. Nacque poi, in vista del mantenimento della pace mondiale,
l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ufficializzata prima dagli Alleati a Dumbarton Oaks
nel 1944, e poi approvata da 50 Stati il 26 Giugno 1945 a San Francisco. La struttura
organizzativa era molto simile a quella della ormai defunta Società delle Nazioni
(un’Assemblea generale, un Segretariato permanente e un Consiglio di sicurezza
composto da 15 Stati di cui 5 permanenti e con diritto di veto), ma la neonata organizzazione si
proponeva come mantenitrice della pace e della stabilità piuttosto che della legalità
internazionale e della lotta alle aggressioni. Il veto dei cinque permanenti tutelava i Grandi da
decisioni sgradite e vincolava gli Stati più piccoli alle decisioni degli Stati più importanti, ma allo
stesso tempo vincolava i membri permanenti alla cooperazione. Il Consiglio aveva anche il potere di
inviare una forza militare creata ad hoc in caso di minacce alla pace e alla sicurezza
internazionale. Per quanto riguarda invece la pace in Europa occidentale, all’inizio i tre Alleati si
accordarono per un periodo di occupazione militare della Germania, che fu divisa in zone di
occupazione, mentre la questione polacca fu più delicata in quanto si cercò un compromesso per
un governo di coalizione nazionalista e comunista. Contrariamente a quanto accaduto nel
1919, la seconda guerra mondiale terminò con una resa incondizionata dell’avversario,
determinata dal suicidio di Hitler a Berlino e dallo sganciamento di due bombe atomiche
americane in territorio giapponese, che conclusero
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definitivamente il conflitto su ogni fronte nell’Agosto del 1945, conflitto che mieté almeno
cinquanta milioni di morti ed una pesantissima eredità per i posteri.

CAPITOLO VI DUE IMPERI MONDIALI? IL SISTEMA BIPOLARE DELLA GUERRA


FREDDA
(1945-1968)
Alla fine della guerra emersero due superpotenze extraeuropee che furono le protagoniste
dei successivi cinquant’anni in un mondo altamente polarizzato: URSS e Stati Uniti. Il secondo
dopoguerra fu caratterizzato proprio da questo conflitto ideologico tra comunismo e liberalismo, un
conflitto che non vide mai scontri armati diretti, per via del rischio di guerre atomiche letali per
l’intero pianeta, detto guerra fredda. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale però,
videro anche una consistente ripresa economica, in particolare nel settore occidentale del
mondo, cosa che portò anche ad una serie di relazioni integrative ed economicamente aperte,
mentre l’Unione Sovietica cercò sempre di mantenere la sua sfera di influenza in un sistema chiuso
e circoscritto.
1. LE SUPERPOTENZE E LA CRISI DELLA “GRANDE ALLEANZA”
Dopo il sistema nazifascista, un altro grande sconfitto della seconda guerra mondiale era il
sistema imperiale. I protagonisti della ricostruzione del mondo si preoccuparono di dargli un
carattere il più universalista possibile, che rifuggisse dagli orizzonti chiusi e particolaristici che
avevano caratterizzato le epoche precedenti. La collaborazione internazionale vinse sul
nazionalismo, e i maggiori responsabili della guerra furono puniti da un tribunale speciale a
Norimberga negli anni immediatamente successivi alla guerra, nel tentativo di delineare un
diritto internazionale che prevedesse una responsabilità nei confronti degli esseri umani che
valesse più di qualsiasi altra cosa; questo tentativo si concretizzò nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, approvata in sede ONU nel 1948. Ciononostante, le problematiche all’interno
della coalizione antifascista si fecero sempre maggiori una volta caduto il nemico comune, e i
tanto sbandierati concetti universalistici rimasero sempre e comunque relativi alle posizioni assunte
dalle singole superpotenze. Il termine superpotenza si riferisce ad uno Stato demograficamente ed
economicamente predominante rispetto agli altri, con progetti politici ed ideologici mondiali che gli
garantiscano un’area d’influenza estesissima. Tale epiteto poté essere dato solo a due grandi
Nazioni: la prima è quella americana che, in quanto non aveva registrato nessun danno territoriale,
poté rapidamente riprendere il controllo della propria situazione economica, che fiorì notevolmente
nei successivi vent’anni; la vittoria militare invece, le garantiva una sfera d’influenza soprattutto
in campo aeronavale, che rafforzava la tesi della responsabilità della sicurezza globale, e portò il
colosso americano ad avere fortissima influenza in aree strategiche come l’Estremo Oriente, il
Mediterraneo e l’Europa. Dall’altra parte, l’URSS aveva subito danni umani e materiali
incalcolabili, che furono rapidamente colmati dalle prospettive di sviluppo già concettualizzate
da Stalin, che prevedevano la concentrazione della forza lavoro sull’industria pesante a
discapito dei beni di consumo. Il ruolo sovietico poi, era ormai determinante in tutta l’Europa
orientale, soprattutto in chiave anticapitalista e quindi difensiva ma poco cooperativa e unilaterale,
che portò Stalin a optare per l’isolamento economico internazionale della sua area di influenza.
Essa comprendeva i territori conquistati nel 1939, che furono inglobati all’URSS dopo la guerra, ai
quali si unirono quegli Stati in cui si dovevano instaurare democrazie popolari pre-socialiste,
per non rompere immediatamente i rapporti con gli occidentali; la situazione però, fu più
complicata del previsto, e l’azione sovietica fu decisamente drastica, portando all’instaurazione di
governi monopartitici comunisti in breve tempo in Bulgaria, Romania, Polonia e
Ungheria, di modo da poter eliminare da subito le opposizioni di ogni tipo alla strada socialista
sotto lo sguardo preoccupato degli occidentali. Dal canto suo
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Stalin dimostrò che sottrarsi all’egemonia americana fosse possibile, ma dovette rinunciare
all’universalità dell’ideologia socialista. Nel blocco occidentale, nel frattempo, la Gran Bretagna
cercava di mantenere, nonostante le enormi perdite ed un’economia che stentava a ripartire anche a
causa della riforma del welfare e delle nazionalizzazioni messe in atto dal governo laburista di
Attlee, il suo carattere imperialista a fronte dell’opposizione americana. Nonostante i prestiti
economici provenienti dal nuovo Continente, mantenere un grosso sottosistema basato sulla sterlina
iniziò a risultare impossibile, e la Corona dovette lentamente abbandonare i suoi centri di influenza
a cominciare dall’India, che fu dichiarata indipendente nel 1947. Anche in Medio Oriente iniziò un
processo di distacco dal cordone occidentale, e il Regno Unito optò qui per concentrare tutta la sua
influenza a Cipro e Suez, abbandonando la Palestina, dove nacque un’enorme controversia per via
dei contrasti sorti tra i residenti palestinesi e gli ebrei che chiedevano il mantenimento delle
promesse riguardanti un loro Stato proprio in quell’area, contrastato però anche dagli Stati arabi.
Altro Stato profondamente lacerato fu la Francia che riuscì, grazie al Regno Unito, a rientrare
nello status di grande potenza, ottenendo un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU
ed un’area di influenza in Germania. La posizione francese fu tra le più antitedesche ed
imperialiste: fu immediatamente ripristinato il controllo coloniale tramite l’Union Française che
provocò non poche tensioni nei possedimenti. Dal punto di vista geografico invece, l’Europa
mantenne più o meno l’assetto di Versailles, cosa che provocò un’enorme spostamento più o meno
forzato di profughi che garantissero una sorta di omogeneità linguistica e etnica all’interno dei
confini stabiliti. Per quanto riguarda la Germania poi, fu stabilita a Potsdam l’unità monetaria ma
rimasero le già stabilite zone di occupazione, rinviando l’unificazione e la pace con il paese ad
un secondo momento. Era questo il nodo più evidente dei rapporti tra le potenze vincitrici, che portò
Churchill a definire l’Europa come divisa da una cortina di ferro; mentre l’URSS utilizzò la sua
zona di influenza per prelevare gli impianti industriali tedeschi a mo’ di riparazioni di guerra, gli
Stati Uniti iniziarono una politica di containment del nemico sovietico per impedirne una sua
espansione.
2. LA GUERRA FREDDA: BLOCCHI RIVALI IN EUROPA E DIVISIONE DELLA GERMANIA
La data d’inizio di quella che fu definita dal giornalista Walter Lippmann “guerra fredda”
è il 1947, ovvero quando la divergenza tra le due superpotenze non fu più solo di carattere
ideologico, ma anche istituzionale. La guerra fredda è, più precisamente, uno scontro ai limiti
del conflitto armato tra due superpotenze ed i blocchi ad esse collegati, rappresentanti due
progetti sociali caratterialmente ed ideologicamente opposti e totali, che prefigurava la distruzione
dell’avversario come fine unica dello scontro. Nel Marzo dello stesso anno, il presidente americano
Truman enunciò che gli Stati Uniti avrebbero aiutato qualsiasi popolo libero che intendeva
opporsi a tentativi di asservimento da parte di minoranza armate o pressioni esterne, ossia quella
che fu denominata dottrina Truman o containment. Il secondo step della strategia americana fu
quello ideato dal segretario di Stato Marshall di devolvere un gran numero di risorse monetarie
americane al fine di garantire la cooperazione e la ricostruzione dell’Europa, che
garantisse anche di rimodellare l’Europa in funzione americana, senza distinzione tra vinti e
vincitori; tale piano era stato creato in chiave naturalmente anticomunista, dato che una richiesta di
fondi da parte di Mosca fu rifiutata in quanto l’URSS si rifiutava di giustificarne l’utilizzo. I
sovietici riposero con la creazione del Cominform, un Ufficio di informazione per i partiti
comunisti dell’est europeo, quello italiano e quello francese. La gestione degli aiuti americani in
Europa fu controllata da un’apposita Organizzazione per la cooperazione economica
europea, e il sacrificio degli Stati europei dovuto alla perdita di parte della loro autonomia era
ricompensato proprio dal fatto che tali politiche avrebbero allontanato lo
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spettro del comunismo dall’Europa occidentale, controprovato dall’esclusione dei partiti
comunisti dai governi francesi, belga e italiani, segnale ultimo della profonda spaccatura all’interno
dei movimenti di liberazione nazionale e dalla chiusura della cortina di ferro ai confini con la
Cecoslovacchia, dove nel 1948 un colpo di Stato instaurò un regime filosovietico. Nel frattempo,
la provvisoria occupazione della Germania evolse presto in vera e propria divisione: mentre le tre
aree controllate dagli occidentali si univano in un unico blocco, in Germania orientale
socialdemocratici e comunisti andavano a creare il partito unico SED. Berlino, che si trovava in
zona orientale ma che era governata ancora dai due blocchi, fu il centro delle contrapposizioni: nel
1948, i russi cercarono di forzare gli occidentali ad abbandonare la capitale con un blocco
stradale e ferroviario, che fu però aggirato da un complesso ponte aereo che si concluse solo
un anno dopo con la nascita ufficiale di due Germanie: la Repubblica Federale Tedesca
(BRD) ad ovest e la Repubblica Democratica Tedesca (DDR) ad est; i due Stati non
firmarono mai accordi di pace, né si riconobbero a vicenda per molti anni, ma anzi proclamandosi
ciascuno come sola rappresentanza del popolo tedesco, sebbene nella legge fondamentale della
BDR veniva autorizzata l’adesione di altre parti della Germania che ne facessero richiesta. A ciò si
aggiunse la creazione, su idea anglo-francese, di un’alleanza politico-militare in chiave
difensiva, basata sull’accordo tra francesi ed inglesi firmato nel 1947 a Dunkerque ed esteso con
il patto di Bruxelles del 1948 a Belgio, Olanda e Lussemburgo; una volta che anche gli Stati
Uniti videro positivamente tale iniziativa, già sperimentata in America con la firma del trattato di
Rio del 1947, l’alleanza fu estesa nel 1949 anche a Stati Uniti e Canada e a Portogallo, Danimarca,
Norvegia, Islanda ed Italia – governata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi, che sperava
di trarre dall’alleanza una valorizzazione delle ragioni “nazionali” italiane – che firmarono il
patto atlantico, un’alleanza di soccorso reciproco in linea con la Carta dell’ONU.
3. LAGUERRA DI COREA, IL NUOVO EUROPEISMO E L’AVVIO DELLA GRANDE CRESCITA
ECONOMICA
L’espansione della guerra fredda fuori dall’Europa ebbe inizio nel 1949, quando Mao
Zedong instaurò un regime comunista in Cina, ponendo fine alla guerra civile cominciata già nel
1927. A questo si aggiunse l’annuncio che la prima bomba atomica prodotta in URSS era stata
sperimentata con successo, cosa che fece scattare un cambio di strategia all’interno dell’alleanza
euro-americana; fu annunciata una massiccia mobilitazione di risorse anche tedesche in vista di
un rafforzamento delle alleanze e di un riarmo convenzionale, e in questo contesto gli Stati
europei iniziarono a concepire progetti di integrazione come risposta alla minaccia comunista.
Il primo passo di questo progetto fu la proposta di un piano di ripresa della produzione di carbone
ed acciaio in BRD, ideato da Jean Monnet e presentato nel 1950 dal ministro degli Esteri francese
Schuman; tale produzione doveva essere però vincolata ad un quadro europeo e controllata da
un’autorità sovranazionale; di conseguenza nacque nel 1951 la Comunità europea del carbone
e dell’acciaio, che fu sottoscritta anche dall’Italia e dai paesi Benelux e appoggiata dagli Stati
Uniti. La Comunità, e tutto ciò che da essa si sviluppò fino all’attuale Unione Europea, non
comprometteva la sovranità statale, ma prevedeva la cessione di determinate quote di potere ad
organismi sovranazionali che si occupassero di produrre regolamenti coordinati ed omogenei
tra i vari paesi. Gli anni ’50 iniziarono inoltre con lo scoppio della guerra di Corea, un conflitto
nato per l’invasione del dittatore nordcoreano Kim Il-sung, filosovietico, nella parte meridionale
della penisola, amministrata da un governo filoccidentale, divisa da quella settentrionale all’altezza
del 38° parallelo nel 1945. La contrapposizione tra due Stati che incarnavano ognuno una delle
ideologie rappresentate dalle superpotenze diede a questa guerra un risalto immediato e globale,
che fu anche visto come il tentativo di Mosca di espandere la sua
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sfera di influenza. L’ONU dichiarò la Corea del Nord paese aggressore ed autorizzò l’invio di
truppe americane in difesa della Corea del Sud. Questo scatenò la reazione cinese, sebbene l’URSS
rimase prudente; nonostante un iniziale attacco esteso anche alla Cina, gli Stati Uniti dimostrarono
di voler mantenere il conflitto localizzato, fino a ripristinare lo status quo nel 1953. Sempre gli
Stati Uniti poi, decisero per una ricostruzione dell’indipendenza e dell’operatività giapponese,
firmando con altri paesi filoamericani il trattato di pace di San Francisco con il Giappone, che
apriva anche la strada ad un cauto riarmo dell’impero orientale. In Medio Oriente invece, la Gran
Bretagna manteneva la sua posizione strategica, ribadita con la firma del patto difensivo di
Baghdad tra il governo inglese e Pakistan, Iraq, Iran e Turchia, mentre all’interno del patto
atlantico nasceva la North Atlantic Treaty Organization, di carattere puramente militare; nel
quadro meramente europeo invece, per garantire la partecipazione della BRD, si preconizzò una
Comunità europea della difesa, un progetto simile a quello della NATO, nato nel 1952 ma
fallito due anni dopo per mano francese, che frenò non poco i progetti europeisti di Monnet e soci.
In compenso la BRD entrò a far parte della NATO nel 1955, grazie ad una revisione del patto di
Bruxelles che incluse Germania ed Italia e divenne Unione europea occidentale. Rifiutata poi
dal presidente tedesco Adenauer l’ultima richiesta sovietica di creare un’unica Germania neutrale
ma non più disarmata, la BRD lanciò la dottrina Hallstein, ovvero il rifiuto di relazioni
diplomatiche con tutti quegli Stati che avrebbero riconosciuto la DDR come Stato sovrano, fatta
eccezione per l’URSS, di modo che la Germania occidentale potesse diventare l’unico perno per
una futura riunificazione, mentre la cooperazione europea si estendeva anche agli ambiti economici,
partendo dalla CECA e dalle ceneri del piano Marshall, e arrivando alla creazione di un’Unione
europea dei pagamenti, con già ben chiaro il progetto di creare uno spazio economico
europeo comune. A ciò contribuì il notevole sviluppo economico a cavallo tra gli anni ’40 e ’50,
basato sul pluralismo sociale e la libera iniziativa e con un costante aumento della produttività del
lavoro, mantenendo comunque dei vincoli che permettessero l’austerità finanziaria e l’apertura dei
mercati delle valute e dei capitali, in una sorta di compromesso tra teorie keynesiane e
smithiane detto embedded liberalism. Il commercio fu facilitato dall’abolizione di alcune
barriere doganali e contingentamenti, e nacque un General Agreement On Tariffs and Trade,
che garantisse un costante contatto tra gli Stati per la semplificazione del commercio internazionale,
e i governi assunsero un ruolo sempre maggiore nel controllo della moneta mondiale. Il dollaro
diventò sempre più la base monetaria, tanto che il sistema cambiò nome in Gold Exchange
Standard, in quanto il dollaro era l’unica moneta convertibile in oro. Nonostante i trent’anni
immediatamente successivi alla guerra videro l’occidente come protagonista indiscusso dello
sviluppo economico, anche l’area sovietica recuperò terreno rispetto al passato, che però fu
squilibrato nel rapporto centro-periferia ed estremamente rigido e pianificato.
4. LA STABILITÀ BIPOLARE E LE EVOLUZIONI INTERNE AI DUE BLOCCHI: IL 1956
La prima metà degli anni ’50 fu caratterizzata da una cauta stabilizzazione, sebbene la
tensione ideologica fosse comunque altissima. La diplomazia americana iniziò ad occuparsi non
solo di tenere a bada le minoranze comuniste, ma anche di garantire un’evoluzione democratica di
quei paesi, specialmente europei, che tendevano ad avere maggioranze di sinistra o neutraliste.
Inoltre nel 1953 gli Stati Uniti strinsero un accordo con la Spagna, mettendo in evidenza il fatto
che il mondo libero si era ormai esteso anche ad un paese non certo democratico, e questo causò
tensioni nei rapporti tra americani ed europei. L’obiettivo del governo di Eisenhower e del
segretario di Stato Dulles era quello non più solo di contenere il comunismo, ma di farlo arretrare,
sebbene fossero più idee che fatti pratici. Il rischio di una guerra imminente fu stemperato
nel 1955 dalla
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convocazione a Ginevra di una conferenza tra i Quattro Grandi capi di governo che, sebbene non
ottenne grandi risultati, simboleggiò la volontà di cercare un punto di stabilità. In Europa nel
frattempo, i singoli Stati cercavano di ritagliarsi un proprio ruolo nel mondo: in particolare, l’Italia
cercò di conciliare la fedeltà alla potenza guida, la solidarietà con gli Stati europei e la necessità di
una libertà d’azione nel mediterraneo che le garantisse lo sviluppo della propria economia, mentre il
governo fu allargato ai socialisti, cosa che creò un notevole attrito con Washington. Francia e
Regno Unito invece, badarono più ai loro possedimenti imperiali, cercando ancora di farsi valere in
quanto grandi potenze, ma le logoranti guerre d’indipendenza delle colonie, specialmente in Asia
meridionale e nord Africa, crearono loro non pochi problemi: i francesi ebbero filo da torcere con i
ribelli in Indocina ed Algeria, mentre gli inglesi dovettero avere a che fare con i nuovi governi
nazionalisti di Egitto ed Iran, il tutto osservato con grande prudenza dagli Stati Uniti, sebbene
controllando sempre eventuali deviazioni a sinistra dei movimenti indipendentisti ed eventualmente
intervenendo in maniera tutt’altro che palese, come la mossa della CIA per riportare in Iran il
governo dello Shah in sostituzione di quello legittimo di Mossadegh. In Egitto invece, il presidente
Nasser decise, al rifiuto americano di stanziare finanziamenti già programmati per la costruzione
della diga di Assuan, di nazionalizzare il canale di Suez, causando le ire di Francia ed Gran
Bretagna che complottarono un intervento militare pretestuoso in Sinai congiunto con Israele,
che si rivelò un fallimento totale per via della presa di distanza immediata da parte di URSS e USA,
segno che le tattiche coloniali non funzionavano più. Nel blocco sovietico intanto si cercava di
mantenere la stabilità e l’unicità della dottrina comunista, ma numerose varianti nazional-
comuniste iniziarono a sorgere già alla fine degli anni ’40. La prima ad emergere fu quella della
Jugoslavia di Tito, che cercava un ruolo predominante nei Balcani, e dopo l’esclusione dal
Cominform, Tito divenne un abile interlocutore diplomatico dell’occidente; in Romania una spinta
nazionale e tradizionalista fu data da Nicolae Ceausescu, mentre negli altri Stati le purghe
garantivano l’omogeneità di pensiero dei dirigenti di partito. L’URSS aveva poi favorito la nascita
di un Consiglio di mutua assistenza economica e del principio di divisione socialista del
lavoro, che avvantaggiava economicamente la potenza russa che però doveva badare anche alla
periferia, esclusa – come tutto il blocco sovietico – dal commercio internazionale. La solidarietà del
blocco comunista si concretizzò nel 1955 con il Patto di Varsavia, in aperta contrapposizione con
la NATO. Quando poi nel 1956 Nikita Chruščëv diventò Segretario del partito, si iniziò a
prefigurare un principio di distensione: al Congresso del 1956 fu introdotto il concetto di
“coesistenza pacifica” con l’occidente, e a latere del congresso Chruščëv presentò un rapporto
segreto in cui denunciava il deviazionismo personalistico di Stalin. Il processo di disgelo fu
evidente anche negli Stati satellite, dove salirono al potere governanti più rappresentativi delle
identità nazionali dei singoli Paesi. Ciononostante, la transizione verso un governo più vicino al
popolo in Ungheria si trasformò in una durissima repressione da parte sovietica quando il
riformatore Imre Nagy iniziò ad aprirsi verso posizioni non coerenti con la linea del partito, come
ad esempio il pluralismo politico e la neutralità, con l’uscita dal Patto. Un intervento occidentale nel
paese fu escluso a priori da Chruščëv, che mantenne la posizione repressiva, rafforzando le
posizioni dei blocchi. Effettivamente, tra il 1950 e il 1960, l’unico Stato che cambiò posizione fu
Cuba, in seguito ad una rivoluzione che portò al potere un regime filosovietico guidato da Fidel
Castro, mentre dopo la sconfitta di Suez la Francia si orientò verso un rilancio europeo in
collaborazione con il Benelux, l’Italia e la BRD: nel 1957 furono firmati i trattati di Roma che
sancirono la nascita della Comunità europea, del mercato comune e posero le basi per una
futura unificazione delle politiche economiche e sociali, oltre che di un’agenzia per
l’energia nucleare civile. Pure l’ONU trovò il suo punto di equilibrio con

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l’ingresso, a metà degli anni ’50, dei paesi sconfitti della seconda guerra mondiale e di alcuni
satelliti dell’URSS, mentre il Segretario generale Hammarskjöld iniziava ad introdurre i concetti
di democrazia preventiva e peacekeeping.
5. LA DECOLONIZZAZIONE NEL QUADRO BIPOLARE
Con l’indebolimento delle potenze imperiali europee, le colonie videro aprirsi uno
spiraglio di indipendenza più ampio che mai; esso era visto di buon occhio anche dagli Stati
Uniti, che miravano all’integrazione del mondo extraeuropeo nel sistema globale, o perlomeno
alla sua estensione oltre il Giappone. La Francia manteneva il dominio sui territori coloniali con il
pretesto di prevenire infiltrazioni comuniste, cosa che rischiava di accadere soprattutto laddove i
movimenti di liberazione erano orientati a sinistra. Ciononostante, nel 1954 i francesi furono
costretti a riconoscere l’indipendenza dell’Indocina, che durante la conferenza di pace di
Ginevra fu suddivisa in due parti dal 17° parallelo. Se all’inizio la posizione americana fu
alquanto flessibile, dopo il 1950 il governo statunitense non si mise troppi problemi a
influenzare le rivolte indipendentiste verso orientamenti anticomunisti, mediante
rifornimenti finanziari e militari ed operazioni clandestine, anche a costo di appoggiare
governi autoritari; questo fu evidente in America Latina, dove la carta costitutiva
dell’Organizzazione degli Stati Americani fu interpretata come giustificativa per un
intervento collettivo volto alla prevenzione di regimi comunisti; regimi come quello di Peròn in
Argentina e di Vargas in Brasile, di stampo populista e nazionalista, furono tollerati, ma già nel
1954 la mano degli Stati Uniti era evidente nel colpo di Stato che rovesciò il presidente
guatemalteco Arbenz, che si era scontrato con gli interessi della multinazionale americana United
fruit. La strategia sovietica invece fu abbastanza incerta all’inizio, salvo poi sostenere
economicamente e militarmente la costruzione di governi e progetti in India, Egitto e nel
Vietnam del Nord, specie nella seconda metà degli anni ’50, fino ad appoggiare la rivoluzione
castrista a Cuba nel 1959 e l’indipendenza di Zambia, Uganda, Madagascar e Somalia negli anni
’60, senza tuttavia ad esportare mai appieno il proprio modello sociopolitico, anche se
adattamenti del marxismo accaddero in alcuni stati come Tanzania e Senegal. La Cina
invece entrò in forte contrapposizione con l’URSS tra il 1959 e il 1963, in quanto accusavano i
sovietici di competere in maniera eccessivamente pacifica col mondo occidentale, quando era
invece più importante espandere la rivoluzione a livello mondiale. Già nel 1959 poi, l’URSS
non appoggiò la Cina nello scontro contro l’India per il Tibet, e le tensioni tra le due potenze
sfociarono anche in scontro armato per alcune dispute territoriali; inoltre, non migliorò certo la
situazione l’annuncio dei cinesi nel 1964 del possedimento della tecnologia atomica. Gli Stati ex-
coloniali poi, cerarono di coalizzarsi per creare un nuovo punto di riferimento mondiale: nel 1955 fu
convocata a Bandung da India, Pakistan, Ceylon, Indonesia e Birmania una Conferenza
volta a chiamare a raccolta tutti quegli Stati che non si riconoscevano negli schieramenti dei blocchi
e pertanto non volevano schierarsi nella guerra fredda; l’azione di tali Stati doveva rispecchiarsi in
ambito ONU, organizzazione che doveva essere democratizzata e resa più efficiente. Un incontro
simile si svolse a Belgrado nel 1961 e vide la partecipazione anche di Egitto e Jugoslavia, dove
furono tracciate le linee guida per una coesistenza pacifica internazionale mediante un
neutralismo attivo; il blocco dei paesi non allineati si sviluppò gradualmente fino a trovare la
sua identità nella conferenza di Algeri del 1973, dove peraltro si iniziò a discutere del problema
del sottosviluppo economico e della nascita di un “Terzo Mondo”. Le questioni di questi Stati
furono poi, appunto, traslate in ambito ONU, dove fu creata una conferenza sui problemi del
commercio e dello sviluppo e dove il gruppo dei Paesi non allineati si coalizzò in quello che fu
chiamato “Gruppo dei 77”, sebbene forme di dialogo più circoscritte con i due blocchi ebbero
maggiore successo. La società internazionale diventava dunque per la
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prima volta veramente tale, e non più circoscritta al continente europeo. Questo complicava in parte
le cose, specie in ambito di omogeneità linguistica che rischiava di non garantire efficienza nella
cooperazione internazionale. Il ripudio del colonialismo da parte dell’ONU nel 1960 provocò
un aumento dell’utilizzo del veto da parte degli Stati Uniti, specie quando si trattava di votare
risoluzioni approvate in assemblea da una maggioranza di Stati del Terzo Mondo. Proprio a partire
dagli anni ’60 vi fu un’ulteriore ondata di Paesi di nuova indipendenza, specie in Africa, dove nel
1963 nacque anche un’Organizzazione per l’unità africana che prefigurava una cooperazione
regionale tra i nuovi Stati in chiave antirazzista e di prevenzione dei conflitti territoriali, che tuttavia
accaddero e anche spesso, a causa di movimenti separatisti creatisi all’interno di tali nuovi Stati,
come accadde in Congo e Nigeria, mentre la Repubblica sudafricana optava per un’uscita dal
Commonwealth britannico. Dopo l’indipendenza, i nuovi Stati mostravano tutta la debolezza di
strutture statali occidentalizzate ma approssimative che mal si addicevano al sistema sociale locale.
6. QUESTIONE ATOMICA, CRISI INTERNAZIONALI E COESISTENZA COMPETITIVA
La corsa agli armamenti tra le due superpotenze riguardava ovviamente anche le armi
atomiche. Ben presto iniziò una gara a chi costruiva l’arma più efficace e distruttiva, fino ad
arrivare nel 1953 alla bomba ad idrogeno, che sembrò almeno in teoria colmare le disparità,
almeno fino a quando non si iniziò a sviluppare la tecnologia missilistica. Questa prese avvio
nel 1957 con il lancio da parte dei sovietici del primo satellite artificiale in orbita permanente, lo
Sputnik; successivamente cominciò la corsa alla costruzione di missili balistici
intercontinentali, in una pericolosa corsa verso l’armamento che potesse rendere un blocco
nettamente più potente dell’altro; alcuni studiosi vedono in questo un effetto ancora più
stabilizzante della situazione, in quanto la minaccia atomica fungeva da valido deterrente,
sebbene questa è valutabile solo a posteriori. Eisenhower preferì invece puntare sulla dottrina della
minaccia massiccia, ovvero una riduzione delle spese militari convenzionali in vista
dell’annientamento dell’avversario con l’uso di armi di distruzione di massa, mentre il suo
successore, Kennedy, puntò più su una risposta flessibile, ovvero una crescita progressiva della
risposta ad un’eventuale minaccia, che comportò un aumento notevole della spesa per gli armamenti
convenzionali. Vi era poi Mao, l’unico che minaccerà l’uso del nucleare per combattere il
capitalismo senza preoccuparsi delle conseguenze, sebbene non vi fu mai un’azione cinese in questo
senso. Negli anni ’50 e ’60 poi, anche potenze del calibro di Gran Bretagna e Francia si aggiunsero
alla Cina nell’utilizzo del potenziale atomico, e probabilmente Israele, India e Pakistan si mossero
nella stessa direzione già da allora. Kennedy iniziò allora un rilancio della preminenza
americana nel mondo, con la dottrina della nuova frontiera, che consisteva nella emanazione di
consistenti aiuti allo sviluppo e la creazione di alleanze, specialmente in America Latina, in
opposizione alle rivoluzioni comuniste del Terzo Mondo e estendere l’egemonia occidentale ma
non la guerra fredda. Questo irrigidì di conseguenza i rapporti con i sovietici, che controbatterono
partendo da Berlino. Chruščëv lanciò nel 1958 un ultimatum agli occidentali perché
abbandonassero la capitale, che sarebbe dovuta tornare sotto il totale controllo sovietico, in
quanto era diventata il punto di fuga dei cervelli tedeschi da oriente ad occidente, occidente che
non cessava di ostentare tutta l’opulenza del boom economico. L’escalation della crisi portò, nel
1961, alla costruzione di un muro che separasse le due metà di Berlino, voluto dal presidente della
DDR Ulbricht e osteggiata, ma solo retoricamente, dalla controparte americana, in quanto congelò
provvisoriamente la situazione di crisi da una parte e stabilizzò la situazione della DDR dall’altra,
danneggiandone però l’immagine agli occhi della comunità internazionale. Un altro evento cruciale
di questo periodo è sicuramente la crisi di Cuba, dove gli Stati Uniti non tolleravano la presenza di
un governo filosovietico, e lo dimostrò già nel 1961,
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quando la CIA preparò un attacco ribelle all’isola caraibica nella Baia dei porci, che però non
suscitò la sperata rivoluzione contro il regime. L’anno successivo però, fu scoperto dalla stessa CIA
che i russi avevano installato a Cuba una quarantina di missili a medio e corto raggio, in
chiave ovviamente antiamericana. Kennedy diede grande enfasi alla crisi, “aiutato” anche dalla
spettacolarizzazione data dalla TV, pubblicando le foto fatte dagli aerei-spia americani delle
basi missilistiche, e intimò alle navi in arrivo dalla Russia verso Cuba con materiale costruttivo di
non procedere oltre; la più realistica minaccia di scontro armato della guerra fredda finì con un
accordo segreto tra le due superpotenze, con lo smantellamento delle basi cubane da una
parte e la promessa americana di non invadere Cuba e di smantellare i missili installati in Turchia ed
Italia dall’altra.
7. LA PRIMA DISTENSIONE DEGLI ANNI ‘60
Il picco cubano segnò un successivo momento di distensione nei rapporti tra le due
potenze; in URSS, appurato che nonostante lo smantellamento di Cuba il livello di dotazione
missilistica fosse sufficiente, vi fu un cambio di vertici e Brežnev prese il comando nel 1964. Il
processo di distensione consisteva in un riconoscimento bilaterale dello status quo della
situazione in Europa Centrale e della condizione non nucleare della BRD. La ripresa delle
relazioni diplomatiche fu simboleggiata nel 1963 dall’installazione di una linea telefonica
esclusiva permanente tra Mosca e Washington per la gestione delle emergenze e dal divieto di
test nucleari nell’atmosfera. Nel 1967 fu vietato l’utilizzo dello spazio a fini nucleari e l’anno
dopo fu bandita la proliferazione. Anche dalla Chiesa Cattolica arrivarono segnali di distensione
e rinnovamento: la salita al soglio papale di Giovanni XXIII portò una ventata di novità nel mondo
religioso, aprendo il dialogo con le superpotenze, e rinnovando profondamente la struttura
ecclesiastica nel Concilio Vaticano II; il percorso diplomatico di Papa Roncalli fu ripreso anche
dal suo successore, Paolo VI, che aprì la missione permanente della Santa Sede all’ONU.
In questo periodo tuttavia, la potenza americana fu scossa da un profondo problema che diede filo
da torcere a più di un presidente: da quando in Vietnam si costituirono due entità statali separate,
nel 1955, furono registrate diverse infiltrazioni comuniste da Nord verso Sud. Già Kennedy
intendeva arginare questi eventi mostrando i muscoli, e tra il 1963 e il 1965 la presenza
americana in Vietnam del Sud, sotto forma di funzionari e successivamente militari, aumentò
vertiginosamente, fino all’inizio, nel 1965, di bombardamenti mirati ma non di invasioni, che
avrebbero scatenato la contro risposta cinese. Nel 1968 seicentomila militari americani
combattevano in Vietnam, e le numerose morti degli occidentali iniziarono a destare qualche
preoccupazione e molte proteste negli stessi Stati Uniti e nei paesi alleati. È questo il periodo dello
sviluppo dei movimenti pacifisti e per i diritti civili delle minoranze. Il successivo sostegno
americano a numerose dittature, tra cui quelle pakistana, thailandese, indonesiana e filippina
provocarono reazioni negative nei governi europei. Anche in America Latina gli Stati Uniti
intervennero più volte a favore di regimi non democratici ma che contrastavano le dilaganti
guerriglie di ispirazione castrista più o meno appoggiati dal governo sovietico: Argentina, Brasile,
Repubblica Dominicana e Cile caddero presto sotto dittature di destra. In Medio Oriente nel
frattempo la crisi arabo-israeliana non si placava: Israele, in seguito al blocco navale posto da
Egitto e Siria nel 1967 ad Aqaba, decise di occupare territori in Cisgiordania, a Gaza, nel Golan e a
Sinai, con il sostegno di Washington, e a discapito della popolazione araba palestinese,
rappresentata dalla Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat.
8. NUOVI SOGGETTI E ARTICOLAZIONI DEI BLOCCHI IN EUROPA
A latere del processo distensivo tra le due superpotenze si andavano a creare nuovi soggetti e
situazioni che influirono sicuramente nei rapporti tra Mosca e Washington. In primis, dalla
neonata Comunità Europea iniziarono a svilupparsi alcune politiche
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protezionistiche culminate, nel 1966, nella Politica agricola comune, che tutelava i
produttori interni alla Comunità stessa. Intanto, la Gran Bretagna tentò di ripristinare una sorta di
propria sfera di influenza in risposta ai Trattati di Roma, andando a creare un’Area europea di
libero scambio che però non raccolse il consenso sperato, portando Londra ad uscire
completamente dalla strategia isolazionistica del dopoguerra per chiedere, nel 1961, la prima
adesione al MEC. In Giappone, invece, Washington appoggiò il consistente rilancio
dell’economia, visto come alternativa ai disordini ed alle crisi interne, che riportò in breve tempo la
produzione giapponese ai livelli prebellici, accompagnati da un basso profilo in politica estera. Fu
tuttavia dagli Stati Uniti che arrivarono alcuni segnali economicamente destabilizzanti, quando il
riarmo cominciò a non stimolare più la produzione e la bilancia entrò in deficit, senza però che il
dollaro, ormai mezzo centrale negli scambi mondiali, potesse svalutarsi. Ad ogni modo, tornando
all’Europa, si delineava la rinascita della grandeur francese per mano del presidente Charles de
Gaulle; dopo la concessione dell’indipendenza in Algeria, segnale ultimo che anche la Francia
abbandonava la via coloniale, De Gaulle cercò di dare alla Francia un maggiore spazio nell’area
europea a discapito del predominio americano; i primi segni di tale strategia si avvertirono quando
nel 1966 il presidente francese annunciò il ritiro dalle strutture militare atlantiche, ridando
autorità alle strutture di difesa statali e sviluppando un proprio programma di sviluppo
nucleare. De Gaulle firmò anche un trattato di cooperazione con la BRD che smorzò
notevolmente la secolare rivalità tra i due Stati, e fu di fondamentale importanza nella bocciatura
delle richieste inglesi di ingresso nella CEE, in quanto riteneva Londra ancora troppo legata a
Washington. Sempre De Gaulle fu ancora determinante in ambito CEE quando rifiutò derive
federaliste dell’organizzazione con il piano Fouchet del 1961 e si oppose più volte all’espansione
dei poteri comunitari, ma allo stesso tempo promuoveva l’ampliamento di un’Europa che andasse
dall’Atlantico agli Urali, nascondendo in questo una volontà di normalizzazione dei rapporti con
l’URSS. In Germania invece, la salita al potere del socialdemocratico Willy Brandt portò alla
ribalta la strategia dell’Ostpolitik, ossia una politica rivolta anche qui verso una
normalizzazione dei rapporti con il blocco sovietico che si contrapponesse alla politica di
forza usata da Adenauer. Proprio nel blocco orientale, il 1968 fu caratterizzato dalla cosiddetta
“primavera di Praga”, ovvero un allentamento delle catene della censura e una promozione del
decentramento ideologico e della dialettica politica messa in atto dal governo riformatore di
Dubček, senza mai mettere in dubbio la leadership di Mosca che tuttavia, nel timore di derive,
effettuò un cambio ai vertici mediante un intervento militare. A differenza degli eventi di Budapest
del 1956 però, Mosca qui dava dimostrazione di aver paura di perdere il controllo della
situazione nel mondo comunista.

CAPITOLO VII DECLINO E MORTE DEL BIPOLARISMO: GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E NUOVE


DIVISIONI DEL MONDO (DAL 1968 AD OGGI)
Tra gli anni ’60 e ’70 si ebbe la principale svolta nelle relazioni internazionali, che culminò
in un bipolarismo praticamente perfetto, accompagnato da una consistente distensione nei
rapporti ma allo stesso tempo da una continua reazione dei vari mondi alternati a quello bipolare
(europeo, giapponese, cinese), aiutato anche da un boom tecnologico in moltissimi campi e dallo
sviluppo finanziario. Se però gli Stati Uniti riuscirono a mantenere il loro ruolo di preminenza
internazionale, l’URSS tentò senza successo una ristrutturazione che la portò al crollo.
1. IL 1971 E IL 1973: AVVISAGLIE DI CRISI E APPANNAMENTO DELLA LEADERSHIP AMERICANA
La crisi della bilancia dei pagamenti americana fu tra le priorità del nuovo
presidente, Nixon, che decise di svincolare il dollaro dall’oro ed alzando i dazi sulle
importazioni per favorire i produttori locali: finiva così l’equilibrio di Bretton Woods, che
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lasciava invece spazio ad una finanza regolata da cambi fluttuanti, con il dollaro che nonostante
tutto permase come moneta leader negli scambi. Un altro duro colpo alla stabilità fu però dato dalla
crisi petrolifera iniziata dopo la tregua in Medio Oriente del 1967; il fronte israeliano fu
rafforzato dalla presa del potere di militari islamisti in diversi Stati della zona, tra cui Libia, Siria
ed Iraq, mentre la stessa Siria e l’Egitto sferrarono, nel 1973, un attacco contro Israele durante la
festività ebraica dello Yom Kippur, scatenando una ripresa delle ostilità. Sebbene il conflitto andò
a favore di Israele, esso ebbe delle ripercussioni economiche gravissime sui Paesi occidentali, in
quanto i maggiori Stati arabi produttori di petrolio, riuniti sin dal 1960 sotto il cartello dell’OPEC,
aumentarono vertiginosamente il prezzo dell’oro nero, con episodi di embargo verso Paesi
Bassi e Stati Uniti, maggiori sostenitori di Israele. Questo causò un’importante fase di
recessione specialmente in Europa e Giappone, e determinò un cambio di strategia di
Washington: infatti Nixon e il suo segretario di Stato Kissinger misero in atto una tattica di
riconoscimento reciproco e di negoziati per la stabilità bipolare, che enfatizzasse i limiti
della potenzialità americana contro le pretese universalistiche del passato, limitando la corsa
agli armamenti e gli interventi americani fuori dall’area continentale ed atlantica. Punti chiave della
nuova strategia americana furono il graduale disimpegno dal Vietnam, combinato ad un
continuo sostegno al governo del Sud, che garantisse una vietnamizzazione del conflitto, e l’inizio
nel 1971 delle relazioni diplomatiche con la Cina per bilanciarla potenza sovietica, che si
realizzò con successo in quanto Mao era sia in forte scontro con l’URSS, sia in cerca di aperture
commerciali per acquisire conoscenze tecnologiche. Ancora, Nixon iniziò una riduzione dei
costi degli arsenali nucleari, che fu interpretata dall’URSS come un implicito riconoscimento
della parità tra le due potenze, e diede inizio a negoziati per il controllo degli armamenti.
Nonostante Mosca preferisse parlare di coesistenza pacifica, recenti documenti hanno
dimostrato che la pianificazione nucleare sovietica era ancora mirata ad una possibile guerra per
il controllo dell’Europa, e non è un caso che vi fu un’ulteriore rincorsa agli armamenti
convenzionali per poter proiettare la propria potenza anche fuori dalla sua area geografica,
sfruttando ogni crisi esterna per colmare il baratro tra URSS e USA. Nel 1969 le trattative sul
controllo degli armamenti presero una svolta, con l’avvio dei colloqui sulla limitazione degli
armamenti strategici (SALT). Il primo trattato, il SALT I, fu firmato nel 1972, e poneva grossi
limiti sui sistemi di difesa antimissile – impedendo così che nessuna delle due Nazioni si
sentisse così protetta da tentare la prima mossa – e fissava un limite numerico temporale,
diverso per USA e URSS, per i missili intercontinentali.
2. I DIVERSI LIVELLI DI DISTENSIONE E LE NUOVE CERTEZZE ECONOMICHE
I negoziati sugli armamenti proseguirono poi nel 1974 a Vladivostok, quando Brežnev e
Ford firmarono un accordo che limitasse il numero di missili intercontinentali e bombardieri
strategici, rinnovato nel 1979 dall’accordo SALT II, che fu invece firmato da Carter e Brežnev.
Il periodo di rinnovata distensione fu accolto positivamente specialmente in Europa occidentale,
dove gli Stati riuscirono a costruirsi una maggiore autonomia. In particolare, Brandt firmava nel
1970 due trattati di non aggressione con Polonia e URSS e nel 1972 un trattato con la
DDR che riconosceva l’esistenza di due Stati in una sola nazione tedesca. Questo enorme
passo in avanti portò all’ingresso di BRD e DDR all’ONU nel 1973 e alla firma di altri trattati
tra BRD e Stati comunisti, come quello con la Cecoslovacchia per porre fine alla controversia
sui Sudeti. Nel 1971 poi fu posta dalle quattro potenze la base giuridica che evitasse ulteriori
tensioni sul controllo di Berlino. Il clima di stabilizzazione trovò piena realizzazione nella
Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, svoltasi nel 1972 a Helsinki
alla presenza di USA, Canada e 33 paesi europei. Da essa uscì un atto finale che garantiva
l’immutabilità e l’inviolabilità dei confini stabiliti nel 1945 ed una tendenza a
deideologizzare il
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confronto, includendo anche la citazione dei diritti umani. Di distensione non si poteva parlare
invece fuori dall’Europa: nel 1973 si concluse l’impegno americano in Vietnam, che comportò
l’invasione comunista della parte meridionale, e simili prese di potere avvennero in Laos e
Cambogia. Nel tentativo di mantenere una parvenza di contenimento dei sovietici, Nixon cercò
l’appoggio di alcuni Stati emergenti per mettere in atto una politica di containment localizzato.
L’amministrazione Nixon fu però scossa dallo scandalo Watergate del 1974, che portò il
presidente repubblicano alle dimissioni causando non pochi problemi ai vertici della superpotenza,
che mostrava in quella occasione tutta la sua fragilità; dopo una breve parentesi rappresentata dal
governo di Ford, nel 1976 prese il potere il democratico Carter, che doveva portarsi dietro, tra gli
altri, la spropositata crescita del costo delle materie prime e dei prodotti alimentari dei
primi anni ’70, dai primi problemi derivanti dalla produzione di massa legati ad un possibile
esaurimento delle risorse e dalla crisi petrolifera, il tutto contornato da un innalzamento dei
tassi di disoccupazione e da una compresenza di recessione industriale ed inflazione
monetaria, peggiorate periodicamente dall’insorgere di alcune piccole ma rilevanti crisi in aree
strategiche del mondo, che neanche le teorie keynesiane riuscivano a spiegare. Frattanto, i governi
europei erano impegnati nella gestione di ondate terroristiche ed instabilità elettorali;
esempio lampante era l’Italia, dove da dopo il 1974 si iniziò ad includere gradualmente il partito
comunista nell’area della maggioranza, suscitando non poche critiche da parte americana. Per
affrontare la crisi, alcuni paesi iniziarono a reintrodurre misure protezionistiche aggirando tutti
gli accordi internazionali e facendo riemergere il fantasma del nazionalismo degli anni ’30.
Ciononostante, alla fine degli anni ’70 la scelta deflazionistica americana, attuata dal nuovo
presidente della Federal Reserve Paul Volcker, sembrò far rientrare la crisi a livelli controllati,
grazie ad un innalzamento dei tassi d’interesse e della remunerazione e ad un
allentamento dei limiti ai movimenti finanziari transnazionali. È di questo periodo anche la nascita
di alcune organizzazioni intergovernative informali che mirassero ad un coordinamento
dell’approccio alla crisi: il primo vertice dei sei paesi più industrializzati – USA, Gran
Bretagna, BRD, Italia, Francia e Giappone – si tenne nel 1975 vicino Parigi; da esso, con
l’aggiunta del Canada, nacque il G7, che si riuniva almeno una volta ogni sei mesi. In questo
periodo si parla anche dell’avvento di una terza rivoluzione industriale, dominata dall’avvento
dei computer e della robotica e dal passaggio dalle economia di scala alla produzione
flessibile e della liberalizzazione del mercato come risposta per uscire dalla crisi economica,
cosa che accelerò notevolmente i processi economico-finanziari- commerciali nel blocco
occidentale e li rallentò notevolmente nel blocco orientale, che rimaneva chiuso nella sua rigidità.
3. IL TERZO MONDO TRA RIVOLUZIONI E STAGNAZIONE
I paesi del Terzo Mondo ebbero un discreto ruolo nei meccanismi politici degli anni ’70:
nel 1974 l’ONU approvò la Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati, che garantì
un accrescimento delle esportazioni dai paesi meno sviluppati; nel contempo, le politiche di
sviluppo erano anche supportate dalla Chiesa Cattolica anche tramite attività missionarie con scopi
valorizzativi. Tuttavia, la tensione ideologico-politica, specie in chiave bipolare, permase in maniera
fin troppo aggressiva. Già l’enfasi di Carter sui diritti umani aveva provocato il raffreddamento
dei rapporti tra USA e dittature filo- occidentali, specie in America Latina ed Asia centro-
orientale, dove si insediavano governi neutralisti o filosovietici. Un’ondata di rivoluzioni
preoccupanti per gli USA arrivava anche in Africa e Medio Oriente, in particolare con la presa del
potere di Siad Barre in Somalia nel 1970 e la nascita di nuovi soggetti statali a seguito della
caduta della dittatura di Salazar in Portogallo, che sancì l’indipendenza di Guinea Bissau,
Angola e Mozambico, lasciando sempre più isolato il Sudafrica. L’influenza americana in
America
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Centrale e Latina poi era fortemente diminuita a seguito delle critiche alle operazioni segrete
della CIA, mentre in Iran una rivolta a sfondo islamico provocò la fuga dello Shah nel 1978,
accompagnata dalla presa in ostaggio di 53 persone all’ambasciata americana, che durò per più
di un anno. Nonostante un’espansione dei governi socialisti però, l’URSS non si dimostrò in grado
di esercitare una strategia di influenza, rimanendo sempre chiusa nella logica dei paesi
satellite senza prendere in considerazione l’ipotesi di veri e propri alleati. Gli USA, intanto,
riuscivano a guadagnare nuovamente un’alleanza con l’Egitto di Sadat, che riuscì anche a trovare
un compromesso con Israele che culminò negli accordi di Camp David, mediati da Carter, tra
Begin e Sadat, che riportarono il Sinai in Egitto. La situazione dei paesi del Terzo Mondo però
era altamente esacerbata da un accrescimento del gap di reddito tra Stati ricchi e poveri, a cui si
aggiungevano spesso epidemie e gravissime carestie, che allontanarono per sempre le possibilità di
riavvicinamento futuro preconizzate nel periodo della decolonizzazione. Inoltre, i paesi che non
producevano né petrolio, né altre materie prime strategiche subirono danni enormi dalla crisi
petrolifera del 1973, e il flusso monetario mondiale difficilmente passava per tali paesi, che
rimasero isolati nella loro miseria. La sola forza dei paesi del Terzo Mondo risiedeva nel peso
numerico, fortemente accresciuto da un boom demografico – che si contrapponeva
all’invecchiamento del mondo sviluppato – che però non aveva di che sostentarsi. All’inizio degli
anni ’80 poi iniziò a profilarsi l’avvio di una crisi finanziaria nei paesi in via di sviluppo, in
particolare Messico e Polonia, che portò il FMI ad investire nelle aree tramite prestiti mirati che
arginassero la catastrofe in cambio di una maggiore apertura al libero scambio, una riduzione della
spesa pubblica, e la tutela di investimenti stranieri e privatizzazioni. Non è da sottovalutare poi la
nascita di potenze militari regionali quali Iran, Iraq, Siria, Libia, Israele, India e Pakistan,
che spesso entravano in conflitto tra di loro (guerra Iran-Iraq del 1980). Il blocco dei non-allineati
iniziò a perdere smalto, complice la transizione di molti governi verso regimi autoritari e guerre
interne al sistema, come quella tra le socialiste Vietnam e Cambogia del 1979, che diede un duro
colpo all’ideologia comunista, e alla nascita di nazionalismi etno-religiosi, specie negli ex domini
coloniali e nei paesi islamisti, sotto gli occhi del mondo occidentale più preoccupato della stabilità
che dello sviluppo del mondo, nonostante alcune timide aperture come quella di Brandt nel 1980,
che indicava come cruciale il rapporto nord-sud.
4. LA “SECONDA GUERRA FREDDA” DEGLI ANNI ‘80
Nuova tensioni tra i blocchi iniziarono a svilupparsi all’inizio degli anni ’80, sia per i motivi
sopra elencati, sia per divergenze sul modo di intendere la competizione pacifica. In realtà già dal
1977, in seguito a Helsinki, l’URSS e Carter si trovarono in disaccordo sull’applicazione dei diritti
umani, in quanto il presidente americano intendeva vincolare tutti i successivi rapporti col gigante
sovietico al rispetto degli stessi. Nel contempo, USA e Cina normalizzarono i rapporti, cosa che
preoccupò ulteriormente Mosca, che a partire dal 1977 iniziò a dispiegare missili nucleari a
raggio intermedio in Europa orientale, mossa pubblicizzata come misura di aggiornamento
dell’arsenale. La risposta atlantica non tardò, e la NATO installò nel 1979 missili Tomahawk
computerizzati che potessero sottrarsi ai radar. La tappa cruciale fu appunto il 1979, quando i
sovietici, in seguito all’avvento al potere di un partito marxista in Afghanistan senza il loro
sostegno, non si accontentarono di sostenerlo semplicemente ma, viste le difficoltà che tale governo
aveva nel gestire in particolare le guerriglie islamiste, mise in atto un intervento militare
imponendo un nuovo capo di governo. L’invasione costò all’URSS un gran numero di vittime e le
aspre critiche della comunità internazionale, oltre ad un rilancio del riarmo convenzionale
americano, con Carter convinto che i russi volessero espandere la loro area d’influenza per arrivare
al petrolio del Golfo Persico. Il Congresso respinse la ratifica del SALT II, fu introdotto un
embargo delle merci tecnologiche e delle vendite di grano
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all’URSS e USA e molti stati occidentali boicottarono le Olimpiadi di Mosca del 1980. A questo
si aggiunse la repressione avvenuta in Polonia, dove l’elezione al soglio pontificio del Papa polacco
Giovanni Paolo II nel 1978 aveva portato un’ondata di speranza che culminò con la nascita a
Danzica del sindacato cattolico Solidarność, che impose al governo di riconoscere alcuni
margini di libertà sindacale. Questo portò ad alcune sommosse che convinsero il nuovo premier
Jaruzelski a reprimere il sindacato ed arrestarne i leader con il pretesto dello stato d’assedio.
Solidarność poté gradualmente riprendere le sue attività solo due anni dopo, con la mediazione del
Papa che più di una volta visitò il paese. Negli Stati Uniti saliva invece alla presidenza nel 1981 il
repubblicano Ronald Reagan, che iniziò il suo mandato con dure critiche e attacchi nei confronti
dell’”impero del male”, e attuò una strategia conservatrice e liberista. Furono inoltre
innalzate le spese militari e finanziata la ricerca in particolare sullo sviluppo aeronautico e
missilistico rivolto all’Europa occidentale, dove fu proseguito il dispiegamento degli euromissili, e
fu annunciato l’avvio delle ricerche sul programma SDI, lo scudo stellare, che tuttavia non fu
mai realizzato ma che creò grossi problemi nelle relazioni USA-URSS, in quanto già solo la sua
sperimentazione violava alcuni trattati bilaterali; in ogni caso, l’URSS non avrebbe potuto
competere, in quanto iniziava ad arrancare dal punto di vista delle spese militari. La seconda guerra
fredda era comunque nel pieno degli eventi, ed ebbe culmine quando a Mosca nel 1983 si diffuse la
notizia di un attacco nucleare americano preventivo. Dall’altra parte però, le politiche militari
reaganiane riuscirono a sbloccare il dinamismo economico, e il paese crebbe sotto una nuova
flessibilità del lavoro ed un’economia dei servizi, sebbene vi fosse una notevole
deindustrializzazione di alcune regioni, un deficit commerciale con l’estero e un ulteriore deficit dei
conti pubblici, che portarono gli Stati Uniti a diventare per la prima volta pese debitore netto. La
diplomazia americana intanto riprese ad influenzare le aree del mondo ad essa care, come
l’America centrale e meridionale, con sostegno a candidati filoccidentali e “piani di pace”, fino ad
un indebolimento dovuto ad uno scandalo che nel 1986 portò alla scoperta di fondi neri per i
contras centroamericani ricavati dal commercio di armi per il regime iraniano.
5. I NUOVI POLI ECONOMICI E POLITICI: EUROPA OCCIDENTALE ED ASIA ORIENTALE
I due blocchi contrapposti erano però affiancati – come già detto – da altri sistemi ormai non
più così marginali; il primo è la CEE, che ormai aveva una popolazione e degli affari commerciali
notevoli, e che aumentarono considerevolmente dopo l’ingresso, nel 1973, di Irlanda, Danimarca
e Gran Bretagna; della Grecia nel 1981 e di Spagna e Portogallo cinque anni dopo; la debole
Gran Bretagna si trovò in linea su diverse questioni continentali, come la pesca e l’agricoltura,
sebbene fosse ancora legata a doppio filo con gli americani e mostrasse ancora tutto il suo
orgoglio nazionalista, culminato – sotto il governo Thatcher – con la guerra delle
Malvinas/Falklands contro l’Argentina del 1982, mentre la Francia di Mitterrand manteneva
ancora una parvenza di influenza in Africa, rimanendo però più flessibile rispetto all’era gollista. Si
sviluppò ad ogni modo una tendenza all’autonomia dagli USA, culminata nel 1979 col rifiuto di
rinunciare al progetto del gasdotto URSS-Europa, chiesto dagli americani dopo l’invasione
dell’Afghanistan. La CEE, intanto, metteva appunto nello tesso anno il Sistema monetario
europeo, che fissava le bande di oscillazione massima delle valute europee ed impegnava i
governi a controllare i cambi, anche per ridurre l’impatto delle fluttuazioni del dollaro e delle
politiche unilaterali americane ed incentivare lo sviluppo dei rapporti economici e commerciali. Ben
presto lo SME fu guidato dalla crescente economia tedesca, che divenne sempre più influente nel
sistema europeo, e a partire dal 1974, con gli accordi di Parigi, la CEE ebbe un rinnovato
Consiglio europeo, alla base della creazione di un vero e proprio governo comunitario. Furono
anche stabilite, a partire dal 1979, libere elezioni per la composizione
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di un parlamento europeo, e questi due organi si aggiunsero alla commissione, già operante dal
1965. A partire dal 1985 poi, anno dell’elezione di Jacques Delors alla guida della commissione,
i mercati europei furono unificati e fu avviata l’unificazione monetaria, insieme ad un
rafforzamento dei poteri parlamentari e ad una periodizzazione delle riunioni dei
ministri degli Esteri per la creazione di una politica estera comune, alla base dell’idea
federalista d’Europa teorizzata dallo stesso Delors e da altri illustri parlamentari europei come
Altiero Spinelli. I punti di vista su alcune questioni però, restarono alquanto divergenti, come per
quanto riguarda la guerra civile libanese del 1982.
Il Giappone invece proseguiva imperterrito il suo percorso di fortissima crescita
economica, superando nel 1980 gli Stati Uniti nel primato di maggior produttore
automobilistico mondiale; i consumi moderati e l’alto tasso di risparmio aiutavano sicuramente
lo sviluppo anche nei momenti di crisi, insieme a un gran risparmio energetico che rendeva il
Giappone meno dipendente dal petrolio, all’attenzione per la disciplina e la qualità e gli
investimenti in istruzione e ricerca. Al contempo, la forza nipponica si proponeva come leader
regionale, stringendo alleanze con Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, che
vantavano l’appellativo di “quattro tigri” del sud-est, anche per via di regimi stabili, seppure
semi-autoritari. Simili dinamiche si ebbero in India, Indonesia, Malesia e Filippine, a
dimostrazione della possibilità di sostituire l’integrazione militare con quella economica; già dal
1967 poi, Indonesia, Malaysia, Brunei, Filippine, Thailandia e Singapore erano unite
nell’associazione di integrazione regionale (precedentemente anticomunista) ASEAN.
Un altro paese dell’area asiatica che crebbe notevolmente era la Cina post maoista: nel
1980 Deng Xiaoping riprese il potere e investì notevoli risorse per modernizzare il paese senza
però mettere in discussione il predominio del partito comunista; sebbene inizialmente lo sviluppo si
incentrò prevalentemente nella costa, Xiaoping regolò i rapporti con l’URSS già a partire dal 1981,
mantenendo comunque la partnership tecnologico-militare con gli Stati Uniti; ciononostante, le
richieste di apertura pluralistica dal punto di vista politico vennero più volte stroncate, come
testimoniò il massacro di piazza Tienanmen del 1989, ma gli interessi economici nell’area erano
troppo forti per i partner internazionali per lasciare la Cina isolata.
Una sorta di regionalismo economico si sviluppò anche nel continente americano, dove
Washington pose le basi per quello che nel 1994 diventerà il NAFTA, un accordo per il libero
commercio nel Nord America, mentre processi analoghi avvenivano in America Latina con la
nascita del MERCOSUR e nel Pacifico con l’APEC, che integrò l’ASEAN. Sebbene ognuno di
questi sistemi avesse delle proprie peculiarità dal punto di vista strutturale ed economico, insieme
essi mettevano in evidenza l’inarrestabile decadenza del progetto socialista, mentre gli Stati Uniti
riorganizzarono la propria influenza mediante interventi indiretti e strutturali, detti di soft power.
6. LA FINE IMPREVISTA DEL BLOCCO SOVIETICO
Alla morte di Brežnev, e dopo una breve successione di alcuni membri del partito tra cui
Andropov, nel 1985 salì alla segreteria Michail Gorbačëv, che attuò politiche di ristrutturazione
del sistema economico, ovvero perestrojka, e di trasparenza – glasnost – dichiarando però di
voler sempre mantenere la tradizione leninista. In pratica, le intenzioni di Gorbačëv erano quelle di
introdurre elementi di flessibilità e liberalizzazione nei servizi, nell’agricoltura e
nell’artigianato, nel tentativo di superare definitivamente la guerra fredda. Il successo fu grande,
e nel 1987 la politica estera del nuovo segretario prese piede con l’accettazione dello
smantellamento dei missili “di teatro” in cambio del ritiro americano di missili Pershing e
Cruise: la politica della riduzione prendeva il sopravvento su quella della limitazione. Nel 1989
Gorbačëv decise poi di ritirare le truppe
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sovietiche dall’Afghanistan, dove però si scatenò una guerra civile, e di diminuire l’influenza
sovietica nel Corno d’Africa e in Africa meridionale, cercando però qui di lasciarsi dietro situazioni
stabili e pacifiche. Il Vaticano vide di buon occhio le nuove politiche sovietiche, e tre anni dopo
l’abolizione dell’ateismo di Stato, nel 1986, il Papa e il leader dell’URSS si incontravano per la
prima volta. Per quanto riguarda l’est europeo, Gorbačëv proclamava nel 1988 il ritiro unilaterale
delle forze convenzionali sovietiche dagli Stati satellite, in quanto da quando l’obiettivo
era passato da evitare il rischio di un’invasione ad evitare il rischio di una guerra, il loro
mantenimento in Europa orientale era inutile ed anzi dispendioso; la legittimità interna degli Stati
fu così rafforzata. Ungheria e Polonia furono le prime a cogliere i frutti della perestrojka: i
primi attuarono un’iniziale riforma economica in chiave liberale, seguita da una cauta apertura al
pluralismo politico, mentre i polacchi seguirono la strada inversa; gli altri paesi sembrarono
invece procedere in maniera inversa alle riforme russe, sperando in una fase transitoria. L’URSS
nel frattempo doveva avere a che fare con derive nazionaliste locali, come quelle del Nagorno-
Karabah del 1988, enclave armena dell’Azerbaigian, e dell’Abkhazia in Georgia, oltre con le
derive indipendentiste di Estonia, Lettonia e Lituania. Il 1989 fu poi l’anno della svolta per gli
Stati dell’Europa orientale, complice soprattutto la volontà sovietica di non interferire più negli
affari interni dei paesi satellite e quella americana di mantenere un livello di cautela, privilegiando
invece i rapporti con l’URSS. Le riforme politiche polacche portarono in quell’anno ad elezioni
libere che segnarono il trionfo di Solidarność, che conquisto 99 seggi su 100 al Senato, mentre
la camera bassa godeva ancora della maggioranza comunista; nell’agosto, questo portò al governo
di un premier non comunista, il cattolico-democratico Mazowiecki. In Ungheria invece fu
complice una cerimonia per la riabilitazione di Imre Nagy e delle vittime del 1956 che portò il
parlamento ad indire libere elezioni e alla trasformazione del PC in partito socialista. Budapest
decise poi di smantellare i controlli doganali che costituivano la cortina di ferro tra Ungheria
ed Austria, che fu di conseguenza invasa da un enorme numero di tedeschi orientali che
bypassavano così la frontiera tra BRD e DDR. La DDR appunto era in crescente decadenza, come
testimoniato dal supporto finanziario che ormai la BRD le dava da anni in cambio di
agevolazioni per i transiti di profughi e revisione dei diritti umani; nonostante Honecker si fosse
opposto alla perestrojka fino all’ultimo, il popolo lo costrinse alle dimissioni: fu proclamato un
governo provvisorio riformatore, e il 9 Novembre il Muro di Berlino fu iniziato ad essere
abbattuto, segnando di fatto la fine del regime comunista. Anche in Cecoslovacchia enormi
manifestazioni popolari portarono alla fine del regime con la cosiddetta “Rivoluzione di
velluto”: Vaclav Havel divenne presidente della Repubblica e Dubček presidente del
parlamento, finché nel 1993 l’entità ceca si separava da quella slovacca. Mentre poi in Bulgaria
una riforma del partito comunista garantirà allo stesso una vittoria alle libere elezioni del 1990,
una transizione più violenta si ebbe in Romania, dove il regime di Ceausescu fu abbattuto da
una congiura di palazzo e il dittatore e la moglie furono fucilati. Anche nei paesi senza diretta
influenza sovietica si ebbero grossi cambiamenti: il comunismo feudale albanese vide la sua
fine nel 1990, anche qui in maniera non troppo pacifica, mentre in Jugoslavia il problema
riguardava l’equilibrio tra le repubbliche e le nazionalità, che dopo la morte di Tito nel 1980
si faceva sempre più preoccupante: nel 1991 ogni repubblica proclamò l’indipendenza, e se la
Slovenia fu immediatamente riconosciuta dal governo jugoslavo, ci furono tensioni per quanto
riguardava territori contesi tra la neonata Croazia e la Jugoslavia, e ancora peggiori furono le
contese con la Bosnia-Erzegovina, che nel 1992 precipitò in una terribile guerra civile a base
etnica. In URSS invece le riforme economiche avevano portato il paese in recessione e il partito
comunista risultava fortemente indebolito, soprattutto dopo l’uscita dei riformisti radicali del
presidente del

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parlamento Boris Eltsin. Il territorio russo doveva poi cedere spazio alla nascita di repubbliche
indipendenti in Estonia, Lettonia e Lituania nel 1990 e immediatamente dopo tutte le
repubbliche che costituivano l’URSS si proclamavano autonome ed indipendenti. La neonata
Repubblica russa vide trionfare, nelle prime elezioni libere e dopo un tentativo andato a male di
colpo di stato – sventato dallo stesso Eltsin – Boris Eltsin come presidente, dopo il fallimento di
un accordo federale promosso da Gorbačëv; il partito comunista fu bandito dalla vita politica russa,
e nel Dicembre 1991, con le dimissioni di Gorbačëv da presidente dell’URSS, questa cessava la sua
esistenza. Una Comunità di stati indipendenti fu proposta da Russia, Bielorussia ed Ucraina e
raccolse il consenso delle otto repubbliche asiatiche, ma non ebbe grandi esiti. Il 3 Ottobre del
1990 poi, le due Germanie si riunificarono, dopo la rottura dei negoziati tra Stati tedeschi e vincitori
della guerra promossa dalla BRD e Kohl impose l’unione monetaria e la parità di cambio con
la DDR. Il patto di Varsavia fu sciolto e la cooperazione tra Europa occidentale e i nuovi Stati
orientali fu siglata dalla nascita dell’OSCE, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa.
7. I RIFLESSI DELLA “GLOBALIZZAZIONE” E DELLA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA
Con il crollo del regime socialista e di tutta una serie di dittature e sistemi oppressivi in
particolare in Europa, America Latina ed Africa il sistema capitalistico ebbe modo di espandersi: il
conflitto tra due modelli totalmente diversi lasciava spazio ad un unico ordine capitalista e
liberale che poteva garantire un periodo di pace dato dalla convergenza socioculturale di
un mondo unificato tecnologicamente ed economicamente; questo è il concetto della
globalizzazione, che prese sempre più piede dagli anni ’90 in poi. Un’analisi più profonda mette
poi in evidenza come l’allargamento del mercato sia un processo ineluttabile e neutrale, delle
quali conseguenze non si debba far altro che prendere atto adeguandovisi. A tal proposito viene
dunque creata un’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) nel 1995, evoluzione
della GATT a partire dallo Uruguay Round dei primi anni ’90. La creazione del WTO si rivelò
necessaria anche per l’espandersi di nuovi soggetti transazionali nelle transazioni commerciali, le
imprese multinazionali, che si affiancarono ad un’accelerazione dei flussi di merci e capitale
successivi alla liberalizzazione finanziaria. L’evoluzione nel mondo delle telecomunicazioni ha
permesso inoltre una valutazione in tempo reale degli operatori finanziari che riduce
fortemente i margini di manovra dei governi dei paesi industrializzati, che hanno dovuto cedere ai
processi di privatizzazione e deregolamentazione. Dal punto di vista politico, questi processi hanno
determinato una multilateralità delle relazioni diplomatiche che non coinvolgono più soltanto
gli Stati, ma anche e soprattutto le organizzazioni internazionali e non governative,
mettendo seriamente in discussione la sovranità statale e il concetto stesso di Stato. Dall’altro
lato però, le organizzazioni internazionali in particolare a carattere regionale compensano gli effetti
della globalizzazione garantendo delle aree di scambio privilegiate che tutelino
economicamente determinate regioni geografiche, e il commercio stesso mostra una tendenza alla
regionalizzazione. Ad ogni modo gli Stati giocano ancora un ruolo chiave nella tutela degli
interessi delle imprese e delle attività economiche dei propri cittadini, e le banche
centrali nazionali sono determinanti nella regolazione dei mercati. La globalizzazione ha inoltre
portato ad un’ulteriore divisione tra Stati con un enorme potenziale, dato da caratteristiche
ambientali o dall’enorme disponibilità di risorse umane, naturali, economiche o tecnologiche, e Stati
poveri sotto ogni punto di vista che non possono in alcun modo entrare nel processo di sviluppo.
Così se da una parte sono nati o stano nascendo giganti dell’economia e del commercio mondiale
come Giappone, India, Messico, Brasile e Cile – nonostante alcuni episodi di crisi finanziaria – aree
del mondo come l’Africa subsahariana o l’Europa post-socialista hanno ricevuto scarso
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dalla comunità internazionale e o sono totalmente emarginate dal mondo globale oppure le
poche risorse che possiedono sono sovrasfruttate da compagnie straniere che non lasciano nel
territorio che povertà e fame.
8. NUOVO ORDINE O NUOVO DISORDINE GLOBALE DOPO IL 1991?
La costruzione di un nuovo ordine mondiale mediante la globalizzazione
economica è stato uno dei maggiori obiettivi degli Stati Uniti sin da dopo il 1945. Tuttavia, con il
crollo del blocco comunista ci si rese conto che spontaneità economica e convivenza stabile
non erano necessariamente l’una conseguenza dell’altra. La valorizzazione dell’ONU nel periodo di
presidenza americana di Bush sr. portò al dispiegamento di forze di peacekeeping in svariate
aree del mondo. A questo si affiancarono una serie di crisi, prima delle quali l’invasione del
Kuwait ad opera dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1991, che fu contrastata da una forza
militare internazionale a maggioranza americana; in tale contesto, Bush dimostrò che dal
punto di vista strategico e militare gli Stati Uniti non potevano conoscere più rivali. Gli USA
conobbero negli anni ’90 un forte boom economico dato soprattutto dall’avvento di Internet,
ma allo stesso tempo una forte crescita dell’indebitamento netto con l’estero, e la
preponderanza militare si rivelava tale solo in campo aeronavale e tecnologico, e non in quello del
controllo reale sul territorio, per il quale gli americani non facevano altro che inviare ulteriori
soldati e risorse, come fu evidente nelle numerose crisi militari prima ed umanitarie poi che
esplosero dai Balcani all’Africa all’Asia durante tutto il corso degli anni ’90 e che si andarono ad
aggiungere alla decennale crisi israelo-palestinese, dove nonostante la creazione di
un’Autorità palestinese non si riuscì ad arrivare al principio “due Stati, due popoli”. La
separazione dell’economia dalla politica ha portato poi, dalla fine degli anni ’80, all’eliminazione
del principio di “taglia minima” per uno Stato, e all’accrescimento di nazionalismi estremi e
tendenze separatiste specialmente nei paesi più avanzati, come nel caso dei Paesi baschi o
dell’Irlanda del Nord, tendenze accentuate dall’introduzione in sede ONU del principio
dell’indivisibilità dei diritti umani, che metteva per la prima volta formalmente in discussione
il principio di sovranità statale, concretizzata in una serie di interventi militari a scopo
umanitario in determinate crisi statali, che però in diverse occasioni, tra cui è opportuno citare la
crisi somala del 1992 e quella bosniaca del 1992-1994, si dovette ritirare o non riuscì ad
impedire massacri di vite umane. Gli USA, nel frattempo, con Clinton prima e Bush jr. poi,
vollero dimostrare nuovamente il primato militare americano riportando l’ordine nei luoghi e
nei momenti decisivi delle crisi, come in Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel 1999, spesso
istituzionalizzando i propri interventi nel contesto NATO, dove furono inclusi – con il disaccordo di
Mosca – diversi Stati ex-comunisti. Un anno cruciale per la leadership americana fu certamente il
2001, con gli attentati terroristici di New York e Washington per mano della rete
terroristica islamista Al Qaeda. Questi episodi mostrarono l’altra faccia della globalizzazione,
ovvero la resistenza ad essa come risposta alle difficoltà di sviluppo e modernizzazione che
hanno causato insurrezioni a carattere religioso contro le élite tradizionali, accusate di essere
corrotte dall’Occidente. Dopo il 2001, e conseguentemente all’intervento americano in
Afghanistan per combattere Al Qaeda, iniziò a svilupparsi il concetto di attacco preventivo
rispetto alle minacce, concretizzato con il criticatissimo intervento in Iraq di forze americane ed
atlantiche senza il benestare dell’ONU; tale intervento segnò l’arresto di quell’ordine mondiale
duraturo preconizzato dopo il 1991. La Russia invece, dopo una serie di liberalizzazioni e
privatizzazioni e alcune tensioni con movimenti secessionisti, specie in Cecenia, riuscì a ritagliarsi
un nuovo spazio nell’economia mondiale grazie allo sfruttamento del commercio delle risorse
energetiche, in particolare gas e petrolio. Nel 2000 fu inclusa tra i Grandi della Terra (con la
modifica da G7 a G8), e iniziò a prendere i contatti per una partnership con la Cina,
ormai
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candidata ad essere il massimo contrappeso all’egemonia americana. L’Europa nel frattempo
cambiava volto, con la firma del trattato di Maastricht che modificava il nome da CEE a
Unione Europea e includeva l’integrazione di politica estera, interna e giustizia. Dieci anni dopo
si andava verso l’adozione di una moneta unica dalla quale si sottrassero solo Regno Unito,
Danimarca e Svezia. L’obiettivo dell’euro era ovviamente quello di affiancarsi al dollaro come
moneta internazionale, che se nel breve periodo rallentò l’allargamento dell’UE, a lungo andare
ne provocò anzi una rapida espansione, fino a raggiungere i 28 Stati membri nel 2013. Questo
portò ad una realtà comunitaria piuttosto composita e di vedute differenti che determina tuttora uno
scarso dinamismo economico e istituzionale culminato nella bocciatura di una
costituzione europea nel 2003. Al contempo però, altri venti paesi nel mondo, guidati da
Brasile, India, Cina e Sudafrica, hanno più volte dato prova di volere e potere contare qualcosa
nei processi economici e commerciali.

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