Nei secoli compresi tra il XIV e il XX ciò che chiamiamo Stato moderno europeo ha assunto forme diverse, infatti non c’è bisogno di dire che una signoria territoriale del Rinascimento è cosa ben diversa rispetto a uno Stato della successiva epoca assolutistica. La Rivoluzione francese, poi, rappresenta una vera e propria cesura che diede luogo a nuove forme di Stato, allo Stato di diritto e poi allo Stato costituzionale. La vicenda dello Stato moderno europeo inizia nella fase successiva al XIII secolo, quando si verificò una diffusa trasformazione del governo dei territori in Europa. Agli inizi del percorso dello Stato moderno abbiamo: Un signore che esercita i poteri di amministrazione della giustizia, esige le imposte e chiama alle armi in un determinato territorio, provincia, contea, principato o regno Un’assemblea rappresentativa che prende diverse denominazioni (Landtag, Parliament, Cortes, Stati generali ecc…) e che svolge la funziona di porre limiti al potere del signore, ribadendo i privilegi dei ceti che vi prendevano parte, e che collabora con lui per il governo del territorio La presenza di regole, per lo più di origine consuetudinaria, che però vengono sempre più messe per iscritto e che assumono il significato di un vero e proprio contratto tra il signore e le forze presenti sul territorio Quando abbiamo tutti questi elementi: un territorio caratterizzato in senso politico, un’assemblea istituzionale e un insieme di regole, allora possiamo parlare di Stato. Ovviamente non bisogna cercare in questa forma di Stato, propria della prima età moderna, quella forma di Stato che verrà molto dopo, nell’epoca degli Stati nazionali e degli Stati di diritto. In questo periodo, infatti, manca allo Stato qualsiasi pretesa monopolistica, sia sul versante dell’esercizio del potere, data la presenza dei signori territoriali, che su quello della cittadinanza, dato che l’appartenenza di un soggetto al territorio non generava un’obbligazione esclusiva col signore visto che rimanevano vive quelle verso il ceto, la corporazione, il feudo e la città. Quello che si vuole dire è che c’è già lo Stato, ma non c’è ancora la sovranità. Lo Stato moderno è il risultato della tensione, ma anche della collaborazione e dell’equilibrio, tra due poli: quello dei poteri del signore in via di concentrazione e istituzionalizzazione e quello della pluralità delle diverse forze e realtà presenti sul territorio che operano non solo sul vecchio piano di difesa dei propri privilegi, ma anche su quello nuovo di partecipazione al governo. Diverse forme hanno caratterizzato la vicenda complessiva dello Stato moderno europeo, la prima è quella dello Stato giurisdizionale, forma prevalente fino alla Rivoluzione francese. Lo stato giurisdizionale ha tre caratteri fondamentali: Un territorio inteso in senso unitario, ma in cui l’unità è preceduta, storicamente e logicamente, dalle parti che la compongono Un diritto, non unico, perché teso alla razionalizzazione dei tanti diritti particolari ma non alla loro eliminazione Un governo che non esprime la propria autorità uniformemente su tutto il territorio Entro questa forma di Stato, che dominerà in Europa fino alla Rivoluzione francese, si colloca la fase dell’assolutismo politico dei secoli XVI e XVII. Lo Stato assoluto è rappresentabile come una forma di governo coincidente con la stessa monarchia assoluta. Bisogna valutare attentamente il caso in cui le monarchie assolute europee siano state portatrici del principio di sovranità, perché, qualora ciò fosse vero, si genererebbe una radicale frattura con lo Stato giurisdizionale. Per verificare se lo Stato assoluto sia stato capace di produrre un’integrale abrogazione del diritto degli altri e di portare quindi all’uniformazione del diritto esaminiamo il punto più alto della formazione dello Stato assoluto europeo del XVII secolo: le celebri Ordonnances di Luigi XIV in materia di processo civile e penale, di commercio e di diritto marittimo e della navigazione, entrate in vigore a partire dal 1667. Nelle Ordonnances è presente un’idea nuova, quella secondo cui il diritto del sovrano sia di qualità diversa rispetto ai diritti esistenti e dunque capace di abrogazione nei loro confronti. Il diritto del sovrano contiene una forza che lo legittima a porsi al posto degli altri diritti, questa forza altro non è che la sovranità. I diritti particolari, però, erano abrogati solo per le parti che si mettevano in contrasto con la volontà del re, per il resto continuavano a esistere e, infatti, sarà necessaria la rivoluzione e i successivi codici per eliminarli. Non bisogna avere una concezione immobilistica dello Stato giurisdizionale, come se fosse rimasto identico a sé stesso dal XIV secolo fino alla rivoluzione. Abbiamo già ricordato l’enorme differenza che separa un dominio territoriale del XIV secolo e uno Stato assoluto del XVII. Il primo, in virtù del suo passato medievale, si limita a garantire l’equilibrio delle forze e degli ordinamenti sul territorio, mentre il secondo ha accresciuto la sua forza in campo militare e fiscale e ha creato una burocrazia direttamente dipendente dal sovrano. Non bisogna però dimenticare che entrambi fanno parte dello stesso Stato giurisdizionale e che pertanto devono molto al polo della pluralità. Del resto la caratteristica principale dello Stato giurisdizionale è l’elasticità e suo il continuo oscillare tra il polo della pluralità e quello dell’autorità del sovrano. La Rivoluzione francese, come già ampiamente ricordato, diede origine a una nuova forma di Stato. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’agosto 1789 troviamo subito l’affermazione della sovranità, secondo l’art. 3, infatti, il principio di ogni sovranità risiederebbe nella nazione. Altre autorità ormai non sono più tollerabili, c’è ora un solo corpo, quello della nazione, mentre tutti gli altri corpi sono spazzati via. Il monarca perde ogni legittimazione propria e può essere conservato solo in quanto espressione della sovranità della nazione e autorizzato da essa ad esercitare la propria autorità. La legge, come stabilito dalla Dichiarazione dei diritti, è al primo posto nella nuova forma di Stato, poiché contiene la volontà della nazione sovrana. La legge deve essere applicata in maniera uniforme e alla sua pronta esecuzione è impegnata la pubblica amministrazione, un nuovo soggetto destinato a rappresentare sempre più lo Stato in azione. Lo Stato che prende il posto di quello giurisdizionale è uno Stato legislativo e amministrativo. Lo Stato post-rivoluzionario, al posto dell’antica società fatta di privilegi e diritti di ceto, pone la società dei diritti individuali, fondata sul principio di uguaglianza (art. 1 della Dichiarazione “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”). È lo Stato di diritto la nuova forma politica che ricercavamo, il nuovo modello di Stato dominerà l’Europa del XIX secolo e della prima metà del XX e sarà dotato di una costituzione liberale che provvederà a equilibrare i poteri tra monarchia e parlamenti. La stessa legge assumerà la forma, sistematica, stabile e ordinata, del Codice. Lo Stato di diritto non era esente da pecche, scorgeva infatti nella democrazia una minaccia per la propria integrità. Nel corso del Novecento, con l’entrata in vigore delle Costituzioni democratiche, si affermò una nuova forma di Stato, diversa dallo Stato di diritto, che assunse la denominazione di Stato costituzionale. Si tratta di un distacco parziale perché la legge mantiene un ruolo rilevante, in effetti ciò che caratterizza lo Stato costituzionale odierno è proprio la presenza in esso di molti elementi che avevano caratterizzato la vicenda dello Stato moderno europeo in epoche diverse. Lo Stato moderno europeo durante la sue vicende ha avuto differenti costituzioni. Lo Stato giurisdizionale aveva una costituzione cetuale (una costituzione dei privilegi), composta dal popolo e dal signore. Il popolo, che non è assolutamente da pensare come qualcosa di uniforme ma come un’entità formata da molteplici soggetti collettivi legati tra loro da una serie di patti e contratti, era portatore di una serie di diritti e ordinamenti che formavano la legge fondamentale. Essa risultava intoccabile anche per il signore, nel caso in cui quest’ultimo non avesse rispettato le antiche consuetudini e avesse iniziato ad esercitare un potere tirannico il popolo, attraverso le proprie assemblee, poteva esercitare il diritto di resistenza. La costituzione cetuale genera forme di governo in cui la monarchia è affiancata da assemblee rappresentative e consigli, in cui convivevano componenti aristocratiche e popolari. Una forma per eccellenza in questo senso è il modello inglese del King in Parliament, con il Parlamento diviso fra la Camera dei Comuni e quella dei Lords. Alla costituzione cetuale fece seguito la costituzione cetual-assolutistica, la costituzione degli stati assoluti. L’opera di Jean Bodin Les six livres de la République (1576) descrive al meglio questo modello di costituzione, la maggiore differenza rispetto al passato è insita nel potere del sovrano che, assoluto e pertanto da nessun altro potere revocabile, sfugge alla logica tradizionale della costituzione mista, fatta dalla pattuizione e dal bilanciamento. Un tratto comune col passato è il ruolo che continuano a svolgere assemblee e consigli, rappresentativi della complessità del territorio. Ciò che distrusse definitivamente la costituzione cetuale non fu il principio di sovranità da solo, ma l’associarsi di tale principio con il giusnaturalismo moderno, con il paradigma dei diritti naturali individuali, quando diverrà chiaro che essa era il luogo di conservazione dei privilegi e che contrastava non solo con il principio di sovranità ma anche con quello di uguaglianza. È ciò che ritroviamo nell’opera di Hobbes il Leviatano (1651), dove la figura del sovrano è espressione della volontà degli individui usciti dallo stato di natura. Fondamentale in questo senso è il nuovo modo di intendere il popolo, insieme di individui sottoposti alla medesima legge e pertanto in posizione di perfetta uguaglianza. La rivoluzione decreterà la fine della costituzione cetuale e segnerà l’avvento dello Stato di diritto, con la sua costituzione liberale. La costituzione liberale instaura nuovi principi: il principio della presunzione di libertà, il criterio della riserva di legge (secondo cui solo la legge può limitare l’esercizio dei diritti dell’individuo) e il principio della costituzione come atto che garantisce i diritti e separa i poteri e opera per evitare forme di governo assolutistiche. Nel corso del Novecento la nuova società democratica intendeva riproporsi come volontà costituente, rinnovando il grande mito della rivoluzione, e, attraverso le Assemblee costituenti (prima fra tutte quella di Weimar del 1919), diede vita alla costituzione democratica. La costituzione democratica pretende di racchiudere il contenuto essenziale dei regimi politici che si stanno instaurando e indica i principi fondamentali e inviolabili che fanno sì che la costituzione si ponga su un piano superiore rispetto alle leggi ordinarie. Gli stati costituzionali di oggi sembrano riprendere la tradizione della giurisdizione, affidandole un ruolo che la rivoluzione le aveva sottratto. La costituzione democratica, infatti, è democratica anche perché punta alla mediazione pacifica dei conflitti, in modo da tutelare l’integrità della struttura pluralistica del corpo sociale, evitando l’applicazione di interpretazioni unilaterali riguardo ai destini della comunità politica. Il principio dominante è quello antico della ricerca dell’equilibrio fra le parti e non quello moderno della sovranità. Da qui la rinascita del costituzionalismo e delle dottrine di Locke e Montesquieu, che prevedevano un sistema di poteri limitati e bilanciati, e non puntavano alla totale distruzione dell’antico regime come invece desiderava fare Hobbes enunciando il principio della sovranità. Gli Stati costituzionali odierni, in quanto non più determinati dal principio di sovranità, possono impegnarsi nella costruzione di un Unione europea come forma politica e costituzionale comune, che si affermi sul piano sovranazionale senza però subordinare in senso gerarchico il diritto e la costituzione degli Stati membri.
2 Diritti di Pietro Costa
Avere un diritto significa pretendere legittimamente qualcosa. Avere un diritto significa imporre un obbligo e disporre anche della forza di un terzo (l’arbitro, il giudice, la comunità, il potere politico) che costringe l’obbligato a un comportamento conforme alla mia richiesta. Una società si ordina determinando i diritti e gli obblighi dei suoi membri. I diritti divengono spesso la posta in gioco di un conflitto fra parti sociali che mirano, rispettivamente, a conservare o a trasformare i vigenti equilibri di potere. L’età moderna viene spesso rappresentata come l’età dei diritti, ciò non significa, però, che i diritti nascano con la modernità, siamo infatti di fronte a un lento e lungo processo. La Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese si propongono come un momento di fondazione di un ordine che fa dei diritti del soggetto il proprio perno, ma le loro aspettative e il loro linguaggio sarebbero incomprensibili se avulsi dalle vicende precedenti, quali il giusnaturalismo e lo sviluppo costituzionale inglese. Il giusnaturalismo è un nuovo modo di pensare l’individuo: in un’Europa cinque-seicentesca dilaniata dalle guerra di religione serve un sovrano forte per sottrarre l’individuo all’insicurezza. Serve allora un nuovo criterio di legittimità che faccia leva non più sulla Rivelazione, data la fine dell’unità religiosa, ma sulla ragione. A partire dal primo Seicento, con Ugo Grozio, il giusnaturalismo si propone come nuovo paradigma e si fa portatore di un nuovo concetto: lo stato di natura, un’ipotetica condizione umana nella quale l’individuo rivela i suoi tratti originari, al di fuori di qualsiasi logica di potere e di obbedienza. Colto nella sua essenza umana, l’individuo per il giusnaturalista è un soggetto caratterizzato da bisogni e diritti fondamentali. Nel mondo medievale le prerogative e gli oneri dei soggetti non sono separabili dalle appartenenze a delle gerarchie, pensare allo stato di natura significa compiere un esperimento mentale nel quale le appartenenze e le gerarchie svaniscono e i diritti sono dovuti alla natura umana del soggetto. Nello stato di natura sono attribuite al soggetto due caratteristiche: la libertà e l’uguaglianza, nel medioevo la libertà apparteneva a un corpo collettivo, mentre con il giusnaturalismo diviene un attributo del soggetto. Il problema è far passare i diritti riferiti all’uomo dallo stato di natura alla realtà di tutti i giorni. Il primo grande episodio di una lotta per i diritti si scatena in Inghilterra negli anni ’40 del Seicento. È in corso in Inghilterra, come in Spagna e in Francia, il tentativo di costruire un potere sovrano forte e accentrato, capace di superare il particolarismo medievale. Questo tentativo viene però osteggiato da un’istituzione, il Parlamento, che si propone come custode delle proprie prerogative e dei diritti dei sudditi. Per fondare questi diritti i giuristi filo-parlamentari, come Edward Coke, ricorrono non al diritto naturale ma al diritto positivo, fondato su una tradizione immemore dai tempi della Magna Charta. Questo documento stabiliva la libertà dei baroni che, per i giuristi parlamentari, diviene libertà degli inglesi ed è questa libertà che il Parlamento dichiara di tutelare nei confronti di un potere sovrano che pretende di superare i limiti fissati dalla tradizione giuridica. La Petition of Rights del 1628, che impedisce l’arresto arbitrario, è il primo esempio di una garanzia procedurale che difende la libertà dei sudditi. Libertà come spazio protetto, libertà come partecipazione politica e libertà come espressione di pensiero sono temi che emergono nell’Inghilterra del Seicento senza che l’argomentazione giusnaturalista vi svolga un ruolo primario. La rivincita del giusnaturalismo deve attendere la seconda metà del secolo quando, dopo la caduta di Cromwell e la restaurazione Stuart, John Locke scrisse il Secondo trattato sul governo. Locke delinea l’immagine di un ordine che trova nella libertà e nella proprietà dei soggetti la propria struttura portante. Il sovrano non crea l’ordine, ma lo conferma e lo tutela ed è contrattualmente legato al rispetto e alla tutela dei diritti, nel caso in cui il sovrano venga meno al suo compito il popolo è sciolto dal vincolo di obbedienza. Con Locke viene meno l’antico requisito dell’unità di fede, essa viene privatizzata e si trasforma per ciascuno in libera scelta interiore, di conseguenza la tolleranza (ma non verso gli atei né i cattolici) può essere assunta come contrassegno del nuovo ordine. L’Inghilterra costituiva un’anomalia rispetto al continente europeo, dove la concentrazione assolutistica del potere non era stata efficacemente contrastata da alcuna istituzione rappresentativa e la religione godeva ancora di un’immediata valenza legittimante. In questo contesto la società e il sistema politico inglese si prestano a essere trasformati in modello da numerosi intellettuali francesi nel corso del Settecento, si pensi a Montesquieu e a Voltaire. Nelle pagine degli illuministi vengono denunciate le inadempienze dell’ordine reale nei confronti dell’ordine ideale, è nella denunciata divaricazione fra modello e realtà che si colloca una delle grandi parole d’ordine dell’illuminismo: la riforma. Gli illuministi attendevano la riforma, ma è la rivoluzione a scoppiare in Francia alla fine del Settecento. I diritti sono al centro dei dibattiti rivoluzionari, la Dichiarazione del 1789 dichiara quei diritti che, a detta degli illuministi, esistono da sempre e si propone di sottrarli all’oblio cui il despotismo li aveva condannati. I diritti menzionati nel testo rivoluzionario, la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressore, sono temi acquisiti nel secolo dei lumi, ma interviene una novità importante frutto della rivoluzione: a proclamare i diritti non è ora un singolo individuo, ma un nuovo soggetto collettivo, la nazione. È attraverso la nazione che i diritti naturali per eccellenza divengono diritti civili. Il nuovo ordine ha alla base la libertà e la proprietà, ma non si esaurisce in esse, poiché occorre la pienezza dei diritti politici perché l’individuo si realizzi completamente e assurga il rango di vero e proprio cittadino, per Sieyès la “cittadinanza passiva” non era sufficiente, bisognava raggiungere quella attiva. Sul terreno dei diritti si manifestò un conflitto fra le diverse anime della rivoluzione, ben presto l’ala radicale contestò il nesso proprietà-diritti politici in nome di una delle colonne portanti della rivoluzione: l’eguaglianza. In base a questo principio si deve l’adozione del suffragio universale nel 1792. La libertà e la proprietà, i grandi principi che gli uomini dell’Ottantanove avevano posto al centro del loro progetto, apparivano alla grande maggioranza dell’intellettualità ottocentesca il centro dell’ordine e il nucleo generatore della civiltà. In Inghilterra il processo di costruzione di una società ordinata intorno a questi due principi risaliva alla Glorious Revolution del 1688-89, mentre in Francia si dovrà attendere il Codice napoleonico, che accoglieva l’eredità “sana” della rivoluzione congelandone lo slancio egualitario e palingenetico. Anche nell’Italia e nella Germania dell’Ottocento, ancora prive dell’unità nazional-statuale, i temi della libertà, della proprietà e dei diritti svolgono un ruolo di grande rilievo. Nel 1848 si riunì a Francoforte un’assemblea costituente che voleva per la nuova Germania una costituzione fondata sui diritti fondamentali dei soggetti, la libertà e la proprietà. La cultura tedesca costruisce la sua visione della libertà e dei diritti in una frontale opposizione alla cultura illuministica e rivoluzionaria: la concezione tedesca della libertà, infatti, faceva a meno delle astrazioni giusnaturalistiche, i diritti non erano più un predicato immediato del soggetto, bensì l’effetto del prodotto che stringe gli individui a un’entità collettiva come lo Stato, la società o la nazione. Durante la prima parte dell’Ottocento viene ribadita la volontà di collegare i diritti politici alla proprietà. La democrazia era da un lato temuta come un’arma nelle mani di una massa giacobina, espressione del primato del numero a discapito della qualità, ma dall’altro era apprezzata in quanto segno del consenso attivo dei cittadini che legittimava il potere. Se nel secondo Ottocento i diritti civili erano un dato acquisito, vi era ancora molto da lottare per raggiungere i diritti politici, ma, lentamente, nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento la tendenza all’estensione dell’elettorato culminò con l’introduzione del suffragio universale maschile. Un altro problema era quello della questione sociale, innescata dal processo di industrializzazione, per risolverlo l’opinione pubblica si divise: secondo una prima strategia lo Stato non doveva assolutamente intervenire (si riteneva che il gioco della domanda e dell’offerta riuscisse a moltiplicare la ricchezza collettiva), Spencer invece diffidava dagli automatismi del mercato e pensava che lo Stato dovesse aiutare i soggetti deboli per favorirne l’integrazione, una terza strategia, infine, proponeva un’alternativa radicale al vigente ordine della libertà e della proprietà. All’interno di quest’ultima strategia matura la convinzione, espressa da Louis Blanc, che una prerogativa fondamentale dell’individuo sia il diritto al lavoro. I propugnatori di questo diritto non vogliono ottenere dallo Stato solo un intervento assistenziale ma pretendono da esso un diretto coinvolgimento nel processo produttivo, garantendo un’occupazione adeguata ad ogni cittadino. L’assemblea costituente francese del 1848 riconoscerà il diritto al lavoro, un diritto che nel Novecento obbligherà la collettività ad un intervento diretto nei confronti dei bisogni vitali dei soggetti. La socialdemocrazia tedesca e i partiti socialisti inclusero nei loro programmi una serie di diritti, sia politici che sociali. Dopo la Prima guerra mondiale prese corpo in Germania un coraggioso esperimento costituzionale, la costituzione di Weimar del 1919, disposta a concedere a tutti i diritti, civili, politici e sociali, un’inedita attenzione. L’intenzione dell’assemblea, di cui facevano parte schieramenti politici molto diversi, era quella di dare vita a una terza via, intermedia fra il puro liberalismo e le eversive proposte socialiste e comuniste, in modo da tamponare il conflitto e rendere possibile l’integrazione. Lo scopo di Naumann, uno dei più autorevoli costituenti, era quello di realizzare una democrazia capace di coniugare la tradizione occidentale, fondata sul rispetto della libertà e della proprietà, con l’attenzione ai bisogni vitali dei soggetti. L’esperienza weimariana avrà però vita breve, tanto che nel 1932 la Germania abbandonerà la democrazia costituzionale e si lascerà cadere fra le braccia di Hitler. Fino alla Prima guerra mondiale i diritti erano sempre riferiti al soggetto, mentre ora la centralità dell’individuo viene attaccata dalla rivoluzione leninista, dal fascismo e dal nazionalsocialismo. Nella costituzione sovietica del 1918 l’eguaglianza politica dei soggetti viene meno di fronte al determinante criterio della classe sociale (il voto degli operai valeva più di quello dei contadini). Il fascismo e il nazionalsocialismo vedevano nell’idea di un diritto attribuito a un soggetto l’espressione di un individualismo che essi miravano a stroncare. Nella Germania hitleriana i diritti dipendevano interamente dall’identità razziale del soggetto. I regimi totalitari del Novecento diedero luogo a una vera e propria battaglia contro i diritti, del resto se il potere mira a una totale manipolazione dei cittadini e a un annullamento delle diversità e delle autonomie individuali i diritti non possono che essere negati alla radice. Non è quindi casuale che la cultura anti-totalitaria degli anni Trenta punti forte sull’autonomia dell’individuo e sull’imprescindibilità dei suoi diritti fondamentali. Si consolidarono posizioni volte ad ammettere, accanto ai vecchi diritti, l’esistenza di nuovi: quelli sociali e politici. Questo clima pervade l’Assemblea costituente italiana del 1948 ma non solo, poiché è dello stesso anno la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo varata dall’Onu.
3 Giustizia e amministrazione di Luca Mannori e Bernardo Sordi
Il pubblico potere si manifesta secondo tre forme tipiche: la legge, la sentenza e l’atto d’amministrazione. La legge è immaginata come il comando destinato a creare o a modificare le norme che regolano la comune convivenza ed ha un carattere generale e astratto. Mediante la sua emanazione lo Stato persegue l’interesse di tutti i consociati e, proprio per il suo carattere di universalità, essa viene prodotta dal Parlamento, rappresentante la nazione intera. La sentenza è invece un comando particolare e concreto che ha come scopo l’imporre l’osservanza di un precetto legislativo a chi lo abbia violato. L’autore della sentenza è il giudice che, diversamente dal legislatore, non è abilitato a creare nuovo diritto, ma solo a pronunciarsi in merito a quello esistente. Il comando amministrativo, infine, rappresenta il momento di azione dello Stato e il suo essere attivo e operante, esso è diretto a perseguire un interesse pubblico, che fa prevalere su qualunque interesse privato. I tre poteri sono emersi come tali soltanto alla fine del Settecento, ma l’immaginario giuridico li ha insigniti di una sorta di dignità metastorica. Uno stereotipo formatosi nel corso del XIX secolo riteneva impossibile l’esistenza di uno Stato senza amministrazione, pertanto esso sarebbe sempre esistito e dall’amministrazione si sarebbero distaccate nel corso dei secoli legislazione e giurisdizione. Nel corso degli ultimi decenni questa teoria è stata rivista e corretta fino ad arrivare alla conclusione che, invece che da un graduale sviluppo dell’amministrazione, la vicenda dello sviluppo statuale avrebbe avuto un cammino segnato dal primato della giurisdizione. Per molti secoli, dal XIII secolo fino a un Settecento molto avanzato, la rappresentazione di gran lunga più condivisa del potere pubblico trovava il proprio paradigma elementare nell’atto del giudicare. Ciò era dovuto alla stessa realtà istituzionale, la quale continuò a condividere per tutto il corso dell’ancien regime due tratti profondi della configurazione medievale del potere. In primis il carattere composito e pluralistico dei corpi politici, lo Stato premoderno, infatti, era un grande contenitore di soggetti minori, quali città, comunità rurali, feudi, enti ecclesiastici e corporazioni, e il suo scopo era preservare il giusto equilibrio dei corpi di cui era contessuto. L’altro grande principio medievale è quello della preesistenza del diritto rispetto al potere, il diritto, infatti, trovava il proprio valore nella tradizione. La cultura giuridica protomoderna ha conservato a lungo una raffigurazione tecnica del potere, elaborata da giuristi francesi e italiani fra Due e Trecento, basata sulla iurisdictio, il cui contenuto consisteva nel ricomporre i conflitti sociali attraverso il richiamo a un diritto già dato. Alla politica veniva così negata ogni sorta di autonomia rispetto alla giustizia e i monarchi, i primi giustizieri del regno, presentavano la loro podestà legiferante come un semplice corollario di questa ben più ampia investitura. Questa concezione era destinata a venir erosa poco per volta nel corso dell’età moderna, ma anche a resistere fino alla crisi definitiva dell’antico regime. Gli Stati dell’età moderna, di fronte al difficile compito di consolidare il proprio potere, si trovarono costretti a espandere progressivamente il raggio delle proprie attività, assumendosi una gran quantità di compiti in più rispetto alla tradizione medievale e espandendo la dimensione e gli obiettivi dei loro apparati. Esaminando il caso francese si nota come, nel corso del Seicento, all’amministrazione della più antica e tradizionale Justice si aggiunse l’enorme comparto della Finance e la vasta regione della Police. Eppure, nonostante la creazione di questo grande apparato, non venne in alcun modo messa a punto una funzione amministrativa categorialmente contrapposta a quella giudiziaria e caratterizzata da una sua tipicità di atti e procedure. Secondo Alexis de Tocqueville l’idea di una gestione esecutiva e non più meramente giudiziaria del potere iniziò a diffondersi nel Sei-Settecento, in concomitanza con il dispiegarsi del progetto assolutistico in seno ad alcune grandi monarchie europee. Il sovrano assoluto, forte del suo progetto di monopolizzazione dell’autorità, avrebbe preso gradualmente atto che il tradizionale governo per magistrature poteva facilmente costituire un ostacolo al successo della sua impresa. I magistrati europei erano pervenuti ovunque a fare dei propri uffici una proprietà di ceto, sottraendoli alla disponibilità del principe. Di qui il tentativo da parte di quest’ultimo di costruirsi un apparato alternativo, in cui l’incaricato era il rappresentante della longa manus del potere sovrano. In Francia ciò si vede nel caso degli intendenti provinciali, i quali sottrassero molte funzioni alle vecchie magistrature. Nell’ambito di alcune esperienze europee, dunque, un’amministrazione esecutiva comincia realmente a esistere, in ogni caso, però, la sua presenza non è costituzionalmente riconosciuta, poiché il sistema continua a negare ogni autonomia al potere di comandare rispetto a quello di giudicare. Lo stesso costituzionalismo settecentesco classico che, per opera dei suoi interpreti (come Locke e Montesquieu), elabora la separazione dei poteri, non aveva in mente di formalizzare l’esistenza di un potere amministrativo, bensì di impedire che qualcosa di simile a un’amministrazione esecutiva venisse messa in atto. Ciò che spianò la strada alla rifondazione dei contenuti di giustizia e amministrazione fu la grande crisi che investì lo Stato di corpi alla fine del XVIII secolo. Declinava l’immagine che faceva dello Stato un grande conglomerato di enti minori in favore di una nuova percezione dell’ordine, i cui protagonisti emergenti erano solo lo Stato e l’individuo. Le basi di questo modello erano state gettate dalla metà del Seicento ad opera della cultura giuscontrattualista, ma riuscirono ad emergere realmente solo di fronte al dispiegarsi di una visione semplificata della società, in cui il proprietario prendeva il posto di quella miriade di status che avevano caratterizzato la tradizione medievale. Lo Stato non è più finalizzato a ricomporre i conflitti, ma a perseguire i suoi interessi (tramite l’amministrazione) e a difendere quelli dei suoi cittadini (attraverso la giurisdizione). La legge diventa l’enunciazione di una volontà generale, la sola legittima e obbligante. La Rivoluzione francese portò a termine il superamento del vecchio paradigma giustiziale avviato dall’Illuminismo. Fu vietato ai giudici di prendere parte a qualsiasi esercizio del potere legislativo, venne messo a punto un fitto sistema di codici e fu istituito il Tribunale della Cassazione, il guardiano supremo della legge, strumento di controllo del legislatore nei confronti del giudiziario. L’assemblea costituente si sbarazzò della vecchia società di corpi e creò una nuova amministrazione generale dello Stato, con il sistema territoriale francese diviso in municipalità, distretti, cantoni e dipartimenti (in cui le diverse parti erano pensate come sezioni di uno stesso tutto, ingranaggi di una medesima macchina indivisibile). La Rivoluzione dichiarò la fine del vecchio Stato regolatore e inaugurò la stagione dello Stato soggetto, titolare di responsabilità proprie, dall’educazione alla viabilità, dall’ordine pubblico all’assistenza sociale e alla sanità. Per quanto la Rivoluzione fosse animata da un’insofferenza profonda verso il caotico pluralismo premoderno, essa non aveva certo in programma di rimpiazzarlo con un monolitico Stato amministrativo, come quello che di lì a poco Napoleone avrebbe proposto a modello della maggior parte degli ordinamenti europei. L’ideale degli uomini dell’Ottantanove era invece quello di una società d’individui liberi che si sarebbero dovuti gestire da soli, in quanto liberi sia dalle maglie della società di corpi che dell’abbraccio soffocante dello Stato. L’amministrazione rivoluzionaria, formata da funzionari elettivi, continuava a scontare una netta inferiorità nei confronti della giurisdizione. Per Napoleone una società d’individui erigeva lo Stato in istanza di produzione del sociale, di qui la necessità di una amministrazione largamente autonoma rispetto alla legge, un’amministrazione collante della nuova società e componente basilare della nazione, capace di rafforzare l’identità nazionale. L’apparato amministrativo acquisì la forza di obbligare i cittadini a conformarsi in via definitiva ai suoi precetti, mentre il diritto amministrativo sanciva quell’insieme di norme che la pubblica amministrazione poteva applicare e interpretare. Napoleone elaborò il modello dello Stato agente in cui l’amministrazione è l’azione vitale del governo, quella che provvede incessantemente alla sicurezza generale, al mantenimento dell’ordine pubblico e alla soddisfazione di tutti i bisogni della società, mentre la giustizia è una cosa puramente facoltativa che, nella maggior parte dei casi, il cittadino non può neanche usare. Il periodo napoleonico segnò una grande differenza fra l’esperienza amministrativa continentale e quella anglosassone, mentre in Francia l’avvento dell’individualismo entrò in collisione frontale con la società di corpi, Inghilterra e America riuscirono a coniugare insieme modernizzazione sociale e morfologia pluralistica dell’ordinamento. In questi ordinamenti la funzione dello Stato continuò a consistere nel mediare fra interessi individuali più che nell’esprimere valori unitari, di qui un’immutata centralità della giustizia e un perdurante assenza dell’amministrazione esecutiva. La Restaurazione non cancellò la conquista napoleonica di una amministrazione completamente separata dalla giustizia e fattasi potere autonomo. Durante questo periodo l’amministrazione pubblica diventa una realtà anche in paesi non sottoposti all’ordinamento napoleonico, come Prussia e Austria, grazie al lento cammino delle riforme culminato nel pieno delle guerre napoleoniche. Ovunque preme il nuovo universo individualista e si assiste alla semplificazione del panorama politico, mentre è sempre più forte il rapporto bilaterale tra autorità e libertà, tra Stato e cittadino. In questo periodo la legge diventa fonte del diritto, la legge regge insieme la giustizia e l’amministrazione. Per descrivere i nuovi modi di esercizio dell’autorità i giuristi approntano un nuovo modello tipologico chiamato Stato di diritto. Quest’ultimo sintetizza i valori individualistici e le nuove aspettative di garanzia giuridica e sanziona nel nuovo soggetto amministrativo il monopolio di realizzazione dei compiti pubblici. Lo Stato di diritto è uno Stato retto attraverso le leggi. Le logiche separatiste, che hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo dell’amministrazione come potere, spingono per rivendicare la sua netta autonomia dalla giustizia, mentre le esigenze di tutelare i diritti individuali fanno emergere un fronte garantista che preme per sottoporre l’amministrazione agli stessi controlli offerti dal diritto comune per i rapporti fra singoli individui. La vicenda inglese contrappone allo Stato di diritto continentale la rule of law, in cui l’onnipotenza del Parlamento è costretta a venire a patti con la sostanziale intangibilità della common law of the land. Non bisogna pensare che lo Stato ottocentesco sia un complesso monolitico, infatti l’organizzazione è semplice e numericamente contenuta e la maggior parte dei bisogni dei cittadini è soddisfatta dagli enti territoriali minori, comuni e provincie. Anche il complesso dell’attività amministrativa è modesto e rimangono di tipo tradizionale le funzioni regolative di imprese e attività economiche. La centralità che la dimensione amministrativa assume nel panorama istituzionale di fine Ottocento dipende anche da una vera e propria esplosione dei compiti pubblici, infatti il prorompere della questione sociale e la necessità di dare risposte concrete ai bisogni dell’industrializzazione portarono, ovunque in Europa, all’assunzione di nuove responsabilità. Ne è investito anche il mondo anglosassone, costretto ad imboccare un proprio sentiero amministrativo. Gli anni ottanta inaugurano, con l’azione bismarckiana, la grande stagione della legislazione sociale, la solidarietà diviene compito pubblico e assume le sembianze di uno Stato provvidenza e all’attività giuridica, manifestazione tipica della sovranità, si affianca un’attività sociale. L’amministrazione non produce solo atti, è divenuta in prima persona fornitrice materiale di beni e servizi. L’amministrazione centrale non conoscerà per il momento grandi rivolgimenti, limitandosi a irrobustire la rete dei controlli statali e rinforzando i corpi locali. Dopo la Prima guerra mondiale si apre la grande stagione dell’interventismo e dell’economia regolata. La situazione è particolarmente evidente in Germania, dove gli obiettivi della costituzione di Weimar del 1919 sono costretti a calarsi in un quadro di accese tensioni sociali e di grave instabilità economico- finanziaria. Qui la mano pubblica conosce una rapida estensione in molti settori e si scoprono e si utilizzano nuovi strumenti di direzione dell’economia. L’ingresso dello Stato nell’economia è comunque un fenomeno generalizzato all’intera realtà occidentale, determinato dal trascinarsi degli effetti dell’economia di guerra e dai problemi della sua riconversione, dal premere del conflitto sociale e dal protrarsi di fenomeni di instabilità finanziaria, che diverranno vorticosi con la crisi mondiale del 1929. Nel 1926 un volumetto di John Maynard Keynes dal titolo emblematico, The end of laissez faire, traccia linee e contorni della nuova politica economica. I modelli ottocenteschi vengono travolti e Stato e mercato interagiscono sempre più vicendevolmente, con le attività dello Stato che entrano sempre più in concorrenza con quelle dei soggetti privati. Alla fine del primo conflitto mondiale il vero Stato amministrativo non si identifica più nello Stato a regime amministrativo, la cui volontà si esprime nella forma del provvedimento amministrativo, è, al contrario, lo Stato che entra in azione, ai cui organi è affidato il raggiungimento diretto dei fini della comunità. La diffusione dei piani, economici, urbanistici e di settore, inaugura negli anni Trenta quella stagione dell’economia manovrata che abbraccia, con notevoli differenze, regimi totalitari e regimi liberali. La Stato scende direttamente nell’arena economica, la statualità si compromette con gli interessi, diventa fattore attivo e condizionante dell’intera economia. Lo Stato si fa impresa e da soggetto politico diventa soggetto economico, si pensi al caso italiano, con l’istituzione dell’IRI durante il fascismo e quella dell’ENI e dell’ENEL negli anni ’50 e ’60. L’attività amministrativa aumenta le sue funzioni, così l’amministrazione diventa il campo d’azione di una serie di burocrazie, il modello ottocentesco dell’amministrazione è sopravvissuto ma ad esso se ne affiancano altri, le morfologie amministrative sono diventate plurali. L’utilizzo sempre più massiccio del diritto privato e commerciale da parte degli apparati pubblici comporta anche una rapida dissoluzione dell’unità amministrativa. Proliferano i soggetti e gli enti e la semplicità ottocentesca dell’organizzazione è poco più di un ricordo. All’amministrazione autoritativa e provvedi mentale, destinata a operare nella logica di tradizione tra autorità e libertà, si era affiancata l’amministrazione di prestazione, priva di funzioni monopolistiche, pluralistica, frammentata e disseminata lungo l’incerto confine tra il sociale e l’economico. Sul versante dei rapporti tra Stato e economia, l’avvio su larga scala di politiche di privatizzazione patrimoniale ha determinato un primo alleggerimento dello Stato. Il ritrarsi dello Stato come attore diretto dell’economia non ha cancellato le esigenze di regolazione economica, torna a imporsi uno statuto della regolazione. Lo Stato del presente continua a essere uno Stato a regime amministrativo, anche se questo regime è sempre più giustiziale, consensuale, cooperativo e aperto alle clausole del diritto comune. È ancora Stato di amministrazione diretta, fornitore di servizi sociali e prestazioni essenziali alla collettività, continua a essere attore dell’economia. La struttura organizzativa dello Stato non si è semplificata, ma al contrario si è fatta più complessa e frammentata.
4 Codici di Paolo Cappellini
Il Dizionario politico popolare, stampato a Torino nel 1851, descrive il codice così: raccolta di leggi, vi è il codice civile, il penale, quello di commercio ecc…, essi contengono rispettivamente leggi civili, criminali e commerciali. Sul Codice napoleonico si modellarono quasi tutti gli altri codici d’Europa. I codici che si sono succeduti nelle varie epoche hanno in comune il tentativo di unificare il diritto, si racconta che Luigi XI desiderasse che nel suo regno si usasse solo una consuetudine, un solo peso e una sola misura e che tutte le consuetudini fossero scritte in francese in un bel libro. Il Codice di Napoleone accolse tutto ciò, ma perché allora fu necessaria una Rivoluzione per compiere un’opera che all’apparenza sembrava tanto semplice e naturale? In realtà l’introduzione di un codice non era per nulla semplice e naturale perché, come attesta l’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, la parola code ha ancora il significato generale di raccolta di testi e fonti di diritto e si riferisce a opere molto diverse fra loro. La difficoltà di questo passaggio è nota anche alla storiografia, alle prese con la necessità di classificare tutta una serie di precedenti e figure intermedie, talora sfuggenti (dalla legge castigliana delle Siete Partidas di Alfonso X il Saggio alle grandi Ordonnances di Luigi XIV fino alla costituzione Leopoldina del 1786 che ebbe il pregio di abolire la pena di morte nel granducato di Toscana). Per identificare i testi di sopra bisogna chiamare in causa la nozione di consolidazione (da contrapporre a quella di codice), ovvero uno strumento che serve per classificare le diverse raccolte di leggi che si sono susseguite nel tempo e che spesso erano etichettate come codice. Le antiche consolidazioni si distinguono dai codici innovativi perché questi ultimi contengono materiale legislativo nuovo, manifestano novità nei contenuti e vanno a sostituire il precedente diritto comune. Questa tesi non è accettata da tutti, per alcuni, infatti, il carattere tipico della codificazione è la unificazione del diritto civile, attuata sostituendo al preesistente sistema pluralistico di fonti normative un unico testo legislativo di valore generale. Le compilazioni legislative del XVIII secolo sarebbero pure e semplici raccolte o consolidazioni parziali a scopo di razionalizzare la legislazione esistente, senza però mettere in questione il sistema tradizionale delle fonti. Molti si chiedono come mai i precursori di Napoleone, che condividevano molti dei suoi principi, non concepirono né realizzarono il progetto di una legislazione uniforme. Il concetto di codice modernamente dispiegato implica il tentativo di offrire un vero e proprio libro sacro secolarizzato e contemporaneamente un breviario della nuova religione del cittadino. Questo processo di secolarizzazione implica il radicale accantonamento del binomio “Dio e il Diritto” e la nascita di una religione secolarizzata. Affermava Diderot “Viviamo sotto tre codici, il codice naturale, il codice civile e il codice religioso. Finché questi tre tipi di legislazione saranno in contrapposizione tra loro sarà impossibile essere virtuosi, il vero legislatore non è ancora nato perché nulla è più difficile che estirpare pregiudizi inveterati e consacrati. Per realizzare una così violenta guerra contro la diversità è evidente che non bastassero gli sforzi di poche e isolate menti illuminate e neppure quelli dello Stato monarchico, dal momento che essi dovevano scontarsi con il freno rappresentato dalla tradizione giuridico-religiosa. Nell’ottica dei codificatori era assolutamente necessaria una secolarizzazione della legislazione, senza un cambiamento di valori a nulla sarebbe valsa l’introduzione di un codice-istituzione. Sotto l’antico regime il cattolicesimo era la religione dello Stato e, in conseguenza, i suoi dogmi passavano come le leggi fondamentali, il legislatore era legato e incatenato alle leggi della Chiesa cattolica. L’antico regime, nonostante il potere assoluto dei re, era un regime di diversità, le provincie erano ancora nell’89 tanti Stati distinti, separati da dogane e aventi un diritto differente. Se dunque sul medesimo territorio vi erano stati diversi e diverse classi allora il diritto non poteva essere uno, la secolarizzazione legislativa non era possibile per vie riformistiche ma solo per via rivoluzionaria, per mezzo di una tempesta che abbattesse la Regalità insieme alla Chiesa sua alleata. Non fu Napoleone che per primo concepì l’idea della codificazione, essa è un’idea dell’89. La Rivoluzione voleva stabilire l’unità e la libertà, Napoleone non accettò l’eredità rivoluzionaria che in parte: egli ripudiò la libertà e si impadronì della libertà. Viene riconosciuta la mutua implicazione tra rivoluzione e codice e il plusvalore politico di quest’ultimo che fa del codice un simbolo e un modello, un nuovo modo di concepire il diritto. Il valore costituzionale del Codice napoleonico sopravanzava la portata delle stesse costituzioni ottocentesche, poiché in esso soltanto trovava fondamento la disciplina dei rapporti sociali ed economici, organizzati intorno al valore chiave della proprietà (libro I: delle persone; libro II: dei beni e delle differenti modificazioni della proprietà; libro III: dei differenti modi coi quali si acquista la proprietà). Tutto questo mondo di valori, individualismo, esigenza di stabilità e libertà contrattuale, è destinato ad andare in frantumi sotto la pressione della crescita dell’industria e della questione sociale e poi dalle tempeste d’acciaio scatenate tra le due guerre mondiali. Il codice civile italiano del 1942 pone il lavoro tra i pilastri del sistema civilistico. La vicenda della riflessione sul codice e sulla sua funzione nella società che cambia ha conosciuto altri appuntamenti fondamentali, primo fra tutti il dibattito sul bisogno di un codice sempre più marginalizzato perché emerge sempre di più il contrasto tra civil law e common law. Il Codice comune europeo di diritto privato, quale codice senza Stato, tende sempre di più ad assumere i caratteri di una codificazione-razionalizzazione, il problema del codice è dettato dalla moltiplicazione dell’unità della persona. L’età dei codici è giunta al suo tramonto, ma ciò non significa che il concetto di codicizzazione debba necessariamente morire.
5 Proprietà e contratto di Paolo Grossi
Nell’antico regime il problema dell’appropriazione e appartenenza di un bene è risolto all’interno di una dimensione squisitamente economica, nel senso che è orientato da finalità essenzialmente economiche, in quest’ottica le attenzioni dell’ordinamento giuridico sono rivolte più alla cosa che al soggetto. La teoria e la prassi medievali della proprietà sono dominate dal rispetto verso la cosa e dalla tutela della produzione e tendono a valorizzare l’imprenditore sul bene piuttosto che il proprietario capitalista. Questa prassi diventerà, dal secolo XII in poi, la teoria del dominio diviso: sullo stesso bene possono coesistere un dominio utile e un dominio diretto. Quando in Francia scoppiarono i moti rivoluzionari l’universo giuridico si mostrava ancora in buona parte modellato secondo i vecchi schemi post-medievali anche se, ormai, se ne era completamente perduto il significato economico e i beni si trovavano ben spesso gravati da due ingiustificate situazioni proprietarie. L’individualismo borghese sottopone il problema della proprietà a una revisione fondamentale, se i medievali avevano condotto la loro analisi facendo della cosa il loro perno ora tutto si sposta sul nuovo soggetto-individuo inteso come uomo economico. La proprietà individuale ha una nuova valenza ed è una realtà che deve essere difesa ad ogni costo dal potere politico e dalle sue ingerenze. La proprietà viene inserita, per proteggerla da ogni ingerenza del potere, nel paradiso del diritto naturale. Il regime rivoluzionario cancella il vecchio assetto fondiario, ha fine la moltiplicazione della proprietà e se ne riafferma la unicità e la solitarietà. La nuova proprietà è collocata quale colonna portante dell’intero edificio della codificazione civile operata da Napoleone nel 1804. Il primo libro della costituzione del nuovo ordine borghese è dedicato alle persone, colte nelle loro qualità di proprietari, il secondo si rivolge alla statica proprietà e il terzo a quei mezzi che consentono la sua circolazione, primo fra tutti il contratto. La proprietà vi appare come un potere pieno sulla cosa e rappresenta il traguardo ultimo percorso faticosamente dalla classe borghese. La sistemazione napoleonica della proprietà sarà modello a quasi tutte le future codificazioni ottocentesche europee e latino-americane. La proprietà moderna è individuale e altamente potestativa perché dimensione esterna della libertà del singolo. La proprietà moderna è costruita sull’individuo e per l’individuo. Tutto ciò non è smentito nemmeno dall’inchiesta agraria compiuta da Stefano Jacini che fa emergere un paese reale ricco di varie forme di proprietà collettiva. Tra Ottocento e Novecento con le lotte sociali e le sempre più stringenti pretese del proletariato si fa strada una legislazione speciale da cui affiorano le istanze sociali. Queste ultime pongono dei limiti al potere del proprietario, vengono indicati i suoi doveri e, poco tempo dopo, la Repubblica di Weimar proclamerà che la proprietà obbliga. Quando la Prima guerra mondiale impone l’urgenza della produzione a causa delle impellenti esigenze belliche viene limitata ancor più la libertà d’azione del proprietario. Dopo la guerra si sentiva forte il bisogno di costruire una nuova proprietà partendo non più dal soggetto, ma dalla cosa, la cui concretezza impone differenziazioni negli statuti. Il montare delle finalità produttive provoca la tendenza a spostare sull’impresa il perno dell’attenzione. La proprietà e il contratto, lo strumento che assicura alla proprietà una libera ed efficace circolazione, sono posti al centro della codificazione napoleonica e sono le pietre angolari su cui si costruisce il moderno diritto. A fine Settecento, nel più generale passaggio da un antico a un nuovo ordine giuridico, si passa dai contratti al contratto. Il plurale sta a indicare che il consenso dei singoli soggetti non è più sufficiente per produrre effetti giuridici, quel consenso deve canalizzarsi entro grandi schemi operativi predisposti dall’ordinamento (i vari contratti), segnale che l’ordine giuridico esercita una sorta di controllo sulla libertà individuale. L’età nuova nata con la rivoluzione, che valorizza la libertà del singolo, stabilisce che non ha più rilievo la scelta di questo o quello schema contrattuale, ha rilievo l’accordo. Il contratto diventa così lo strumento dell’autonomia delle volontà dei singoli nell’esercizio del loro diritto di proprietà. È lo stesso Codice napoleonico a concepire il contratto come legge fra le parti. Il Novecento presenta due fatti nuovi: alla vecchia società elitaria si va sostituendo una società di massa e necessariamente vacilla il protagonismo di quegli strumenti concepiti per esaltare l’individualismo. Al contratto individuale si affiancano così altri contratti costituiti per una massa generica, è il caso dei contratti-tipo, formulari approvati da associazioni sindacali e di categoria e tendenti a razionalizzare la più intensa circolazione economica. Il secondo fatto novecentesco molto importante è la massiccia presenza di organismi collettivi che pretendono di far valere gli interessi dei singoli che, a livello individuale, erano destinati al massacro sociale e economico. Questi organismi, come i sindacati, pretendono di stipulare contratti collettivi, che esprimono la volontà e gli interessi di una categoria a prescindere dal consenso dei singoli.
6 Lavoro e impresa di Giovanni Cazzetta
Nel vivo dei rapporti economici imposti dall’affermarsi della società industriale, lavoro e impresa restano, nel diritto che segna quasi tutto il XIX secolo, dimensioni programmaticamente separate. Smantellando l’assetto corporativo, la Rivoluzione francese liberò il lavoro e ne proclamò i diritti. Libertà e uguaglianza privarono il lavoro delle minuziose regole del passato, le strutture portanti del nuovo ordine erano il contratto e la proprietà. Il sogno inseguito negli anni della rivoluzione era quello di promuovere un’immensa classe di proprietari medi e di produttori indipendenti, lontano da quel sogno, l’assetto normativo rivoluzionario si presenta come un inno all’individualismo e all’autonomia della volontà destinato a rivelare tutta la sua spietatezza di fronte all’industrializzazione. Incontro di volontà libere, il contratto è al centro dell’organizzazione sociale proposta dal codice civile francese del 1804. Il silenzio della legge di fronte alla realtà del mondo economico è logica conseguenza di una libertà conquistata che nulla impone oltre alla sua difesa, questo atteggiamento manifesta una fiducia ingenua nell’armonico relazionarsi di lavoro e proprietà e nel libero contratto. Il nuovo sistema normativo delineato agli inizi dell’Ottocento, oltre a trascurare il lavoro, tende a ignorare l’intero fenomeno della produzione. L’imprenditore è considerato un semplice commerciante, un soggetto dedito allo scambio e all’intermediazione. L’affermarsi del capitalismo industriale si pone inevitabilmente in contrasto con tale limitata visione del giuridico, ma riesce comunque a trarre vantaggi dai silenzi imposti dalla legge. Il vuoto giuridico fa sì che l’organizzazione e la disciplina della fabbrica siano affidate alla sola volontà dell’imprenditore e il lavoratore è così sottoposto ad una dittatura contrattuale. La legge era ricca di asimmetrie che infrangevano apertamente il presunto equilibrio del contratto individuale: in caso di dubbio nelle controversie si prestava fede alla voce del oggetto socialmente rispettabile e le coalizioni operaie venivano sanzionate pesantemente. Chi osserva le concrete condizioni della popolazione lavoratrice non può che prendere atto del baratro esistente tra i proclami connessi a libertà e uguaglianza e la realtà sociale dell’industrializzazione. Il pauperismo molto diffuso, i salari insufficienti, il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche e le condizioni lavorative insalubri e pericolose denunciavano la visibilità della scissione tra diritto e società civile, l’ingannevole uso della legge come arma posta nelle mani dei forti e l’assoluta indifferenza verso i problemi sociali insita nel formalismo della legge. L’obiettivo di creare una legislazione volta a consentire le peculiari esigenze del commercio spinge a infrangere l’unitaria affermazione di un diritto privato uguale e a introdurre una normativa speciale, un autonomo codice di commercio. La regolamentazione del traffico commerciale fu fornita cercando di stabilire un equilibrio tra le regole speciali e i principi guida cui non si intendeva rinunciare. Il Codice di commercio del 1807 pertanto stabilisce l’abbandono del riferimento soggettivo alla figura del commerciante (perché si rifiuta categoricamente l’idea di un diritto che appartiene a un solo ceto) e collega in modo oggettivo la disciplina del codice commerciale e la giurisdizione commerciale agli atti di commercio da chiunque compiuti. L’introduzione del codice di commercio fa emergere un dualismo tra gli interessi agrario-fondiari e quelli commerciali. Il codice di commercio del 1807 accenna in minima parte alle imprese e si concentra sul momento dello scambio, facendo riferimento a un capitalismo di tipo commerciale più che industriale. Sino all’inizio del Novecento l’industrializzazione si avvale di un quadro giuridico fortemente frammentato che impedisce riflessioni unitarie sui nessi tra lavoro e impresa, sullo sviluppo economico e sulla produzione capitalistica. In questo quadro formale povero di richiami alla realtà economica la linea di tendenza più marcata è quella di un’espansione delle regole speciali del commercio. Le certezze giuridiche collegate a un armonico ordine di una società di individui proprietari appaiono a fine Ottocento in crisi. Evidenziando sempre più la centralità della questione sociale è lo stesso sviluppo industriale a imporre nuovi compiti allo Stato e a reclamare una valutazione meno semplicistica del mondo degli affari. Si afferma l’esigenza di contenere attraverso specifiche regole le forme più intense di sfruttamento e di interrogarsi sui nuovi soggetti legati all’impresa capitalistica. La legislazione sociale pone in Europa il tema dell’apposizione di limiti nei confronti dell’incontrastata autonomia dei privati, di regole per un contratto individuale del lavoro che appare sempre più squilibrato. L’intervento dello Stato introdusse i primi vincoli alla disciplina del lavoro in fabbrica con provvedimenti quali la proibizione del lavoro notturno, la limitazione dell’orario di lavoro dei fanciulli e l’istituzione delle prime assicurazioni per gli infortuni sul lavoro. Molti giudici, ispirati da idee solidaristiche, chiesero a gran voce un codice del lavoro. Si forma una scissione tra legge sociale (volta a limitare l’autonomia individuale) e diritto civile, la legge sociale è classificata come diritto eccezionale, come transitorio diritto pubblico, incapace di incidere sul diritto privato. L’intervento della legge sociale supplisce al contrasto tra i formali principi privatistici di uguaglianza e la nuova realtà economico-sociale della realtà industriale che, generando situazioni di dipendenza e diseguaglianza, esige che lo Stato escluda in talune ipotesi l’operatività della libertà contrattuale. I nuovi problemi su cui si concentra la riflessione scientifica nel corso del Novecento sono la difesa del diritto degli azionisti e la tutela dei consumatori. I giuristi si confrontano senza pregiudizi con il contratto collettivo, constatando che la nuova fonte costringe a ripensare l’intero assetto delle fonti del diritto. La dimensione collettiva del lavoro spinge l’intera scienza giuridica a confrontarsi con la società industriale abbandonando le separazioni ottocentesche, lavoro e impresa devono essere legati da fili ben più solidi di quelli offerti dal libero contratto individuale. L’intervento dello Stato nella società diventa particolarmente ampio con la Prima guerra mondiale, quando una crescente produzione normativa, indirizzando, controllando e correggendo l’economia, pone radicalmente in discussione la visione del diritto come mero garante di un processo economico naturale. Superata la radicale negazione del conflitto collettivo e la finalizzazione dell’attività dell’impresa agli interessi superiori dello Stato imposta dai regimi autoritari, gli assetti costituzionali del secondo dopoguerra si appresteranno nuovamente a ripensare lo statuto giuridico dell’impresa e del lavoro. Lo Stato interventista dei tempi di guerra espande enormemente i suoi compiti pubblici, sino a proporsi ereticamente come imprenditore. La visione assolutistica della proprietà è costretta a compromessi con la preminenza della produzione e degli interessi pubblici. Nel contesto del corporativismo fascista italiano la Carta del lavoro del 1927 prospetta un’organizzazione privata della produzione in funzione di interessi nazionali. L’impresa è presentata come un tutto organico, come una comunità di interessi sociali preminenti rispetto a isolate scelte individualistiche. La caduta dell’ordinamento corporativo rese la scienza giuridica sempre più diffidente verso una subordinazione dell’individuo all’organizzazione e sempre più attenta a una valorizzazione del soggetto imprenditore alla ricerca del lucro. La rappresentazione congiunta di lavoro e impresa insisteva sulle relazioni armoniche tra datori di lavoro e operai, sino a prospettare la visione idilliaca di una comunità-impresa priva al suo interno di interessi contrastanti e completamente asservita all’interesse superiore della produzione. Questa visione fu assunta come base di riferimento ideologico dai corporativismi che, entro contesti dominati dall’assenza di democrazia, inseguirono l’obiettivo di eliminare la lotta di classe avvalendosi del forte ruolo dirigistico dello Stato. Il ritorno alla democrazia e alla libertà sindacale fu accompagnato da una crescente valorizzazione delle prospettive contrattualistiche che posero al centro l’inconciliabilità degli interessi legati al lavoro e all’impresa. Una progressiva incidenza dell’intervento della legge si afferma in tutti i contesti per garantire la tutela e la dignità dei lavoratori dipendenti, l’intervento statuale restava inoltre determinante per tutelare i consumatori e per riequilibrare lo strabordante potere economico-sociale delle grandi imprese. 7 Giustizia criminale di Mario Sbriccoli La storia del penale può essere pensata come la storia di una lunga fuoriuscita dalla vendetta. La prospettiva di fuoriuscita dalla vendetta è quella che meglio svela il tortuoso processo di incivilimento dei sistemi penali, valorizzando, in quei sistemi, la funzione di difesa giuridica delle persone, dei beni e della società. Allo stesso modo, la storia del processo penale può essere letta come la lunga storia del faticoso avvento di un apparato di protezioni e garanzie disposte intorno all’accusato e ai suoi diritti. La giustizia penale non è storicamente rappresentabile secondo lo schema di un costante progresso verso l’incivilimento, essa ha conosciuto infatti crisi e regressioni. Nella prima fase dell’esperienza cittadina medievale, tra XI e XIII secolo, la vendetta della vittima, o del suo entourage, è un suo diritto. La vendetta rappresentava un modo riconosciuto per ristabilire equilibri violati, per conseguire un risarcimento e ottenere soddisfazione. Un mezzo ordinario di giustizia, di origini germaniche, che riposa sulla convinzione che i crimini che colpiscono le persone sono affare privato e che pertanto non necessitano il coinvolgimento dei poteri pubblici. La vendetta era sovente causa di disordini e provocava una svalutazione dell’autorità, pertanto i poteri pubblici la contrasteranno con dissuasioni e divieti. Mediatori e pacieri si mettono all’opera perché la lacerazione indotta da un delitto venga sanata con reintegrazioni e risarcimenti, con scambi, indennizzi e ricompense. L’idea che il delitto è in primo luogo un offesa, che importa ripararlo più che punirlo, e che la riparazione deve passare per una trattativa, è saldamente installata nella cultura di quelle prime comunità cittadine. Questa concezione orienta la giustizia sull’appartenenza e sulla protezione, riservandola ai soli membri della comunità e non a quelli che di essa non fanno parte o che ne sono stati cacciati. Appartenenza, protezione e consenso rimandano al carattere comunitario della giustizia negoziata. Tra XII e XV secolo una mutazione radicale investe il panorama cittadino italiano, portandolo da una fase comunitaria, gestita con regole consuetudinaria, a una autoritaria, dominata da partiti e assemblee, che sfocerà in regimi signorili e poi in Stati territoriali. Nuove forme di governo di impongono, modificando il rapporto tra signore e sudditi, tutto questo induce a progressivi aggiustamenti dei regimi unitivi. La vendetta entrerà in conflitto con le logiche costituzionali del Comune maturo, ma salverà il suo nucleo distintivo (la soddisfazione) conferendolo alla negoziazione. Tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo al penale viene impresso un forte carattere di pubblicizzazione. I governi cittadini avvertono che la giustizia penale è un mezzo decisivo di governo e i giudici dei podestà iniziano ad agire per dovere nella persecuzione di tutti i reati, aprendo procedimenti in seguito a denunce e condannano il colpevole, anche quando la vittima, soddisfatta negozialmente, si è riappacificata con lui. Alcuni giuristi avviano una critica culturale che oppone all’autonomia cittadina un ordine nuovo fatto di norme di interesse generale, di pace pubblica e di giustizia retributiva. Si afferma il principio secondo cui chi commette un delitto non danneggia solo la vittima ma anche la respublica, la quale ha il diritto di soddisfarsi infliggendo la pena. Al giudice vengono accordati strumenti assai penetranti (compreso l’uso della tortura) e con ciò nasce il processo inquisitorio. Il nuovo modo di fare giustizia assume caratteri egemonici, la giustizia penale autoritativa era diretta in primo luogo alla repressione e si incardina su quattro presupposti tecnici: la legge, l’azione, la prova e la pena. La legge è il fondamento primo per una giustizia che privilegia la via della certezza. La legge ha carattere d’evidenza e possiede il vigore necessario per conseguire l’obbedienza, il dettato della legge non è passibile di trattativa è rappresenta un elemento antagonista alla logica del negoziato. La legge farà fatica a imporsi e a lungo resterà subordinata alla giustizia attribuita al potere del principe. La giustizia di tipo egemonico si avvale di un processo a prevalente azione pubblica, nel quale la raccolta di prove è affidata al potere di inchiesta del giudice ed è supportata da un ampio corredo di mezzi intrusivi e coercitivi, ai quali fa da contraltare la precaria disponibilità di strumenti difensivi a disposizione degli accusati. La pena è mezzo di esempio e di dissuasione e, essendo occasione di arbitrio del giudice, è luogo per il recupero della dimensione negoziale del giudizio, fondata sulla consuetudine, sull’equità e sulla misericordia. La giustizia così costruita e praticata svolge la funzione di modello, vi è la graduale instaurazione negli Stati nazionali di una giustizia fondata su ordinamenti e gerarchizzata, con centri dominanti e periferie subordinate. Malgrado ciò le tradizioni legate al passato non moriranno e l’attitudine negoziale e l’idea della ritorsione verranno bandite dal campo penale soltanto con l’arrivo della codificazione. Con le practicae criminales, la cui massima fioritura si ha nel Cinquecento, viene governato il processo penale e da esse via via col tempo si dipanerà un diritto penale aggiornato, tecnicamente più rigoroso e soprattutto autonomo. La Practica prescrive al giudice prima di tutto di accertare che il delitto sia veramente avvenuto e poi di proseguire con sopralluoghi, raccolta di indizi, ricerca di testimoni, interrogatori. Poi, una volta individuato il sospetto, seguirà la ricerca di prove a suo carico e il tentativo di ottenerne la confessione (anche attraverso la tortura), infine vi è la sentenza. Una nuova concezione del penale si impone in Italia e in Europa lungo tutto l’arco del XVI secolo. Tale concezione riposa sullo spostamento della rilevanza penale di un atto o di un comportamento dal piano del danno a quello della disobbedienza. Il perno di questa concezione è nell’idea secondo la quale qualsiasi violazione di un obbligo penale può essere assimilata a una forma di minacciosa indisciplina. Questo passaggio è legato a due profili: il profilo teorico, per cui vi è l’assunzione di ogni trasgressione penale nello schema dell’offesa alla respublica per cui la sola disobbedienza penale diventa motivo di pena, e il profilo storico, in base al quale tutti i reati vengono trattati in un processo penale che era stato costruito e pensato per la persecuzione dell’eterodossia religiosa e dell’opposizione politica radicale. L’impiego secolare di tale logica processuale, combinata all’avvento di una legislazione assai severa, farà maturare la convinzione che fare giustizia consista nel reprimere, che i criminali sono nemici e che gli Stati hanno il dovere di rappresentare sudditi e società nell’esercizio di un’efficace vendetta contro di essi. Questo sistema produce vari effetti secondari, tra cui la trasfusione dell’ordinamento delle practicae in grandi leggi generali emanate dai principi, l’orientamento del penale verso obiettivi di prevenzione generale (con l’inasprimento del sistema sanzionatorio e l’esemplare punizione dei colpevoli) e la formazione di un altro livello del penale, gestito dalle polizie, basato esclusivamente sul pregiudizio e sull’informazione. Il processo praticato dall’Inquisizione romana non è diverso dal coevo processo ordinario comunemente usato per l’alto criminale dagli Stati italiani, comuni sono infatti le fonti originarie, le regole, la dottrina di riferimento e la struttura. Il sistema processuale dell’Inquisizione mostra tuttavia tratti peculiari suoi propri, si pensi alla centralizzazione e alla gerarchizzazione dell’attività giudiziaria che l’Inquisizione realizza a scala italiana, producendo una unificazione giudiziaria che ignora i confini delle giurisdizioni statali. Altro dato peculiare è la legalizzazione dell’agire dei giudici, vincolati da testi normativi certi e orientati non dalla propria interpretazione ma da un severo insieme di regole al quale provvede la Congregazione del Sant’Uffizio. Ma l’Inquisizione si caratterizza anche per la mobilitazione di sinergie esterne all’apparato di giustizia (si basa infatti sull’appoggio del clero regolare e secolare) e, infine, per una stabile linearità di condotta (mentre la giustizia pubblica era invece ancorata al presupposto di doversi adattare ai singoli casi). L’Inquisizione è molto attenta al rigore delle forme e dà grande importanza al rispetto delle procedure e alla conservazione dei documenti. Il sistema processuale messo a punto dall’Inquisizione romana si presenta come tipo evoluto del processo penale egemonico e ha una grande forza d’attrazione sugli ordinamenti degli altri Stati italiani. La Constitutio Criminalis Carolina fu messa in vigore da Carlo V nel 1532, dieci anni prima che Paolo III. Con la bolla Licet ab initio, desse il là alla Santa Inquisizione. I due sistemi si trovano entrambi nel solco dell’egemonico maturo, colpiscono alcuni punti in comune, inusuali rispetto alle prassi consolidate dell’epoca. Lo scopo dell’Inquisizione era difendere il bene dell’ortodossia a discapito della libertà di pensiero, quanto al suo metodo, esso servirà ad alimentare e affilare il processo penale inquisitorio degli Stati continentali. Nel corso del Settecento per la prima volta nella storia d’Europa gli intellettuali svolgono una funzione critica di opposizione sul terreno del penale. Da Montesquieu a Voltaire, da Rousseau a Beccaria , un coro di intellettuali impose prima la discussione e poi la riforma del sistema penale europeo. In primo luogo si invoca la legge, che individui con certezza delitti e pene seguendo il principio dell’utilità sociale, il principio etico-religioso, che aveva dominato il penale per secoli, viene ridimensionato per fare luogo alla prevalenza dei diritti. Queste scelte dimostrano la volontà di secolarizzare il diritto penale. La responsabilità penale sarà personale e personale sarà la pena, che dovrà essere pubblica, certa e proporzionata al delitto, dissuasiva per gli altri e di emenda per il colpevole. Dal pensiero degli intellettuali emerge l’attitudine abolizionista, volta a bandire la pena di morte. Nessuna negoziazione, ma anche nessun irragionevole unilateralismo repressivo: le pene vanno addolcite e praticate principalmente con la multa e il carcere. La riflessione sulla giustizia praticata nei processi parte dalla figura e dal potere dei giudici, essi erano la personificazione della giustizia arbitraria e i riformatori decisero di sottoporli rigorosamente alla legge in un momento in cui l’ideologia anti-magistraturale era fortissima. Il processo venne rivisto con l’abolizione delle accuse segrete e l’istituzione di un inviolabile diritto alla difesa per gli accusati. Il processo penale passa così dall’essere una macchina per attingere prove contro l’imputato a un luogo volto a garantirgli l’esercizio della sua difesa. Nella Leopoldina, la legge toscana del 1786 voluta da Pietro Leopoldo, contiene robusti elementi di riforma insieme alle storiche abolizioni della tortura e della pena di morte. Nel Codice generale sui delitti e sulle pene e nell’Ordine giudiziario criminale voluti dall’imperatore Giuseppe II si individuano i primi esempi di codificazione penale moderna, largamente ispirata alle idee dei riformatori. La Rivoluzione francese, figlia dei principi elaborati dagli intellettuali riformatori, concretizza in norme e diffonde le nuove dottrine penali e i fondamenti del nuovo processo. La Dichiarazione del 1789 afferma le libertà dei cittadini di fronte a una giustizia penale sottratta al dominio dell’assolutismo, mentre il codice penale del 1791 pone un forte accento sulla difesa delle istituzioni pubbliche e dello Stato e una grande attenzione ai reati contro la proprietà. Il Codice penale varato da Napoleone Bonaparte nel 1810 nasce segnato dal disegno politico cesarista e i suo scopi principali erano difendere l’ordine sociale e quello pubblico, proteggere lo Stato e il governo, dissuadere e intimidire, minacciare e scoraggiare. Il Codice penale di napoleone stabiliva pene molto severe, morte e confisca dei beni erano comminate con larghezza. La fortuna di questo codice sta nella grande tutela che offriva al modello del diritto napoleonico, privato, individualistico e autoritario, del quale si sono innervati Stati di forme liberali, illiberalmente governati, ma anche nel fatto che si prestava ad assestamenti progressivi (leggi successive ne attenuarono le pene). Adottati in tutta Europa, i nuovi codici sanciscono la centralità della questione penale. Questa centralità è fatta di problemi concreti, ne è un esempio l’emergenza criminale che investe le campagne riversandosi poi sulle città e che la diffusione della stampa quotidiana tra i ceti proprietari rende oggetto politicamente sensibile e rischioso per i governanti. Ma vi era anche un altro aspetto della questione: garantire la minima libertà comportava la riscrittura o la cancellazione di una norma penale, ogni nuovo elemento portava con sé mutamenti dell’ordine penale vigente. I giuristi, caricati di una grande responsabilità, non riescono ad arginare il conflitto tra ordine e libertà. La contraddizione tra ordine e libertà va posta sullo sfondo dello scontro tra classi che segna il XIX secolo, ogni volta che si sentirà alle strette la classe di governo sceglierà l’ordine, anche se il sistema che ritiene così di difendere proclama di fondarsi sulla libertà. In Italia, negli Stati preunitari, tra il 1815 e il 1860, la giustizia è fortemente condizionata dalla difesa di regimi politici deboli e impopolari. Gli appartai badano a limitare la libertà dei sudditi per impedire che esprimano e diffondano dissenso politico, i garanti dell’ordine sono le polizie, che sfuggono alla garanzia della legalità. I codici degli Stati preunitari si ispirano a concezioni autoritarie e mostrano un carattere intimidatorio e repressivo, il processo nuovo si presenta ostile e costoso. Il Regno d’Italia nasce, nel 1861, sotto il segno dell’emergenza, per risolvere lo spinoso problema del brigantaggio il giovane Regno adottò il metodo della legislazione speciale d’emergenza. Alcuni giuristi si misero contro questa corrente e criticarono l’intrusione della ragion di Stato nella logica del penale e della giustizia. Una generazione di penalisti liberali realizzò dopo un difficile lavoro di trent’anni un codice penale di rilevante qualità. Il odice che prese il nome dal ministro Zanardelli era un codice liberale, con pene equilibrate, l’abolizione della pena di morte e uno spirito garantista. Ma il codice Zanardelli era praticato da una polizia orientata verso ben altre posizioni e si valeva di un sistema carcerario impresentabile. La crisi di fine secolo fu una drammatica crisi in primo luogo della legalità. Tra il 1894 e il 1900 riapparvero leggi d’eccezione e stati d’assedio, strumenti di un disegno autoritario diretto a fermare l’imperiosa domanda di cittadinanza che veniva dal mondo del lavoro. Contro questo disegno si opposero tanti esponenti della penalistica italiana che unirono le forze per affermare l’irrinunciabilità di sistema penale giusto, garantito e libero. Nella prima parte del Novecento in Italia il diritto penale si mette al passo del quadro costituzionale reale del paese, ma la presa del potere della destra fascista fa irrompere proprio nel penale lo scontro politico. Il fascismo puntava a disancorare il penale dalla tradizione liberale per trasformarlo in un’arma che lo Stato rivolgerà contro i suoi nemici. Non sarà più questione di diritti o di garanzie ma di autorità, lo Stato per essere forte deve farsi temere e a questo fine strumentalizzerà la questione penale. Corollario di questo principio è l’assunzione del criminale come nemico, in una gradazione che prevede l’annientamento degli oppositori politici e la severa punizione dei criminali comuni. Le leggi fascistissime del 1926 annientano l’opposizione politica, sopprimono i partiti e la stampa libera, ripristinano la pena di morte per i reati politici e istituiscono il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. I codici del 1930 alzano il livello della repressione, inasprendo considerevolmente il sistema delle pene e puntando sull’intimidazione. Il paradigma della superiorità/inferiorità, il principio di ineguaglianza, il pregiudizio della gerarchia sociale, l’intolleranza per la diversità e i molteplici corollari della dottrina della forza, una volta assorbiti nella legge e fatti operare come criterio di giustizia, vennero poi restituiti alla società sotto forma di ideologia e di visione delle cose. Di tutto questo i giuristi, i quali dimenticarono la funzione umanitaria e liberatrice del penale, portarono non piccola responsabilità. Dopo la liberazione, la conquista della democrazia restituì al sistema penale il suo carattere di misura dl grado di civiltà del sistema giuridico e dell’intera società. Grazie a pochi passaggi della Costituzione del 1948, ottennero solenne sanzione il principio di legalità, la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla difesa, la funzione rieducativa della pena e l’abolizione della pena di morte. A partire dagli anni Cinquanta il sistema penale italiano, invecchiato e in evidente ritardo rispetto allo sviluppo civile ed economico del paese, venne investito da una serie di emergenze: l’ordine pubblico era messo a rischio dai tanti conflitti politici, sindacali e studenteschi nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il terrorismo nei Settanta, la criminalità organizzata di stampo mafioso in un periodo molto lungo che conobbe le fasi di picco tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, la corruzione politica e in ultimo un forte sentimento di insicurezza. Nel frattempo il sistema normativo penale si è arricchito con una miriade di norme speciali destinate a disciplinare le materie più disparate. Gli Stati operano una crescente penalizzazione a tappeto, punteggiando di norme la marea di leggi che esce dai loro parlamenti senza avere la necessaria forza a farle rispettare. Le origini di questa crisi stanno probabilmente in quelle di un’altra crisi, quella dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione è il prodotto di una fase storica ormai tramontata e si è formato sulla base di presupposti politici e ideologici che stanno ormai da tempo alle nostre spalle. Il codice penale ha perso la sua centralità perché lo Stato si avvale fin troppo spesso del penale a mo’ di avvertimento. In questo quadro la pena cessa di essere presa sul serio, la minaccia di pena perde la sua funzione dissuasiva e degenera in una prospettiva di mera casualità per colpire categorie marginali e soggetti deboli, lasciando fuori comportamenti criminali coperti o protetti. Lo Stato sociale sta visibilmente evolvendo verso forme che si possono definire con l’espressione Stato di sicurezza, egemonizzato dai ceti che da tempo praticano una infastidita noncuranza per le regole e che tuttavia ne reclamano l’inflessibile applicazione verso i capri espiatori del loro sentimento di insicurezza. La questione della sicurezza è al centro dell’attenzione delle politiche penali di molti Stati d’Europa e si lega a questioni importanti quali l’immigrazione, il disagio delle periferie e quello del mondo giovanile urbano che nasce da un senso di precarietà e di apprensione per il futuro. Per affrontare tutti questi numerosi problemi serve un’accurata opera di riforma del sistema penale.
8 Relazioni internazionali di Stefano Mannoni
Le relazioni internazionali sono remote quanto la civiltà, l’attività diplomatica è da sempre stata oggetto di massima cura e attenzione. La specificità delle relazioni internazionali tra gli Stati moderni rispetto ai rapporti che le antiche città, i regni, gli imperi e i signori feudali intrattenevano tra loro consiste nella loro dimensione giuridica. È il diritto, lo ius gentium, che fa la differenza e la premessa del suo affiorare è la progressiva riduzione del panorama internazionale a una dialettica tra Stati sovrani in posizione di parità e uguaglianza. L’intuizione di questo diritto e lo sforzo di sistematizzarlo in forma compiuta non è riscontrabile prima del XVI secolo, anche se il Medioevo ha fatto la sua parte in questo senso, ristabilendo le prime immunità diplomatiche, l’extraterritorialità e la neutralità. La dialettica che nel XVII secolo si instaura tra Stato, potenza e diritto si rivela tanto necessaria quanto problematica, come conciliare infatti la sovranità dello Stato con l’obbligazione giuridica? Il trattato di Westfalia chiude nel 1648 la guerra dei Trent’anni. Gli storici dell’impero tedesca contestano che Westfalia meriti il primato di spartiacque epocale anche se esso determinò la conquista della sovranità da parte degli Stati a spese dell’impero e la cappa universalistica dell’impero si incrinò senza rimedio di fronte all’autonomia dei principi (processo lungo e iniziato con la pace di Augusta del 1555). La sovranità degli Stati era concepita come indipendenza da vincoli esterni e scudo insormontabile contro l’intervento negli affari domestici degli Stati. Ci si è chiesto se questa sovranità sia mai esistita in natura o sia una semplice invenzione dei giuristi, i sostenitori di questa ipotesi affermano che un numero ristretto di Stati ha goduto nel corso del tempo di una piena sovranità. Molti intellettuali di varie nazionalità sono in lizza per aggiudicarsi la palma di fondatore del diritto internazionale. La grande opera De iure belli ac paci, scritto nel 1625 da Ugo Grozio, rielabora e rinomina il condensato del pensiero scolastico e giusnaturalista ricevuto in eredità dai teologi. Il merito di Grozio è quello di portare a compimento l’operazione concettuale intrapresa da Francisco de Vitoria, da Francisco Suarez e da altri ancora lungo tre direttrici convergenti: concepire come unitaria la comunità internazionale, renderla coesa grazie al diritto naturale, autonomizzare lo ius gentium includendovi la consuetudine osservata dagli Stati. Al pensiero di Vitoria si deve l’allargamento dell’orbita internazionale a beneficio di tutto il mondo, cristiano e non, anche se di certo non lungo una traiettoria di apri dignità tra l’Europa e gli altri. Per Grozio è il diritto a regolare il rapporto tra gli Stati, esso si manifesta attraverso principi indispensabili per fondare una rete di obblighi gravante sugli Stati sovrani. Ma di che diritto si parla? Il diritto naturale è immutabile e necessario, mentre il diritto delle genti è variabile e frutto del consenso degli Stati. Per Suarez la differenza tra i principi del diritto delle genti e quelli del diritto naturale consiste nel fatto che i primi non si esprimono per iscritto ma nella consuetudine di tutte le nazioni. Ecco che la consuetudine, la prassi degli Stati, entra ufficialmente nel novero delle fonti del diritto internazionale. Nessuna disputa illustra meglio l’interconnessione tra potenza e diritto, tra diplomazia e dottrina quanto quella che si accende all’inizio del Seicento sulla libertà dei mari. I fatti sono ben noti: spagnoli e portoghesi pretendevano di consolidare un grande spazio di conquista ottenuto dopo il trattato di Tordesillas del 1493, ma le aggressive potenze marinare in ascesa si opposero ai progetti di iberici e lusitani, infine vi è la lotta ingaggiata dagli olandesi e poi dai francesi contro l’ambizione egemonica inglese. Grozio, nell’opera Mare liberum (1609), si scaglia contro la rivendicazione portoghese di dominio degli oceani e dichiara che il mare è in occupabile. La replica non giunse da Lisbona, ma da Londra, da dove John Selden afferma, in favore di una visione improntata sull’Oceanus britannicus, che il diritto naturale non dice nulla sul possesso della terra o del mare. Era l’affermazione di Grozio ad avere la meglio e il diritto naturale trionfava. La ricerca del consenso sulla disciplina della coesistenza sui mari doveva assillare almeno per due secoli ancora europei e americani, se le velleità di supremazia ispano-portoghesi vengono presto fugate, solo lenti progressi compie invece la questione del mare territoriale. Fino all’esaurimento delle guerre napoleoniche questa parte essenziale dello ius gentium rimarrà in balia dello scontro per l’egemonia. A farne le spese sono le piccole e le medie potenze. Esclusi dal traffico coloniale in tempo di pace dai monopoli navali stabiliti da Cromwell con l’Atto di navigazione, i mercanti neutrali vengono letteralmente perseguitati in tempo di guerra, con la confisca delle loro merci. Le leggi inglesi portarono a notevoli restrizioni degli scambi nel corso dei secoli XVII e XVIII, quando combattere il nemico significava in primis stritolare il suo traffico commerciale e la guerra di corsa era una realtà consolidata. I mari sono quasi in permanenza zone di guerra e il tentativo reiterato di alterare il regime draconiano imposto dai belligeranti recherà sostanziali benefici a terzi, troppo deboli per sostenere l’urto di un conflitto. Il bombardamento di Copenhagen da parte dell’ammiraglio Horatio Nelson nel 1801 segna la fine della seconda neutralità armata, ennesimo inutile guizzo di ribellione contro le ragioni della forza. La stagione che si apre con il Congresso di Vienna del 1814 e si chiude nel 1914 con lo scoppio della Grande Guerra è contrassegnata da una notevole stabilità della società internazionale e da una graduale evoluzione del suo diritto. Il caposaldo dell’ordine è quello di un equilibrio tra Stati sovrani che alternano momenti di conflittualità a una serrata concertazione diplomatica. Il club di Stati sovrani è ristretto ed esclusivo, la piena sovranità è un privilegio condiviso da pochi sulla base di un requisito, la civiltà, che costituisce il biglietto d’ingresso nella comunità internazionale. Ciò costituisce un fattore di discriminazione nei confronti di culture diverse da quella occidentale, ma anche un formidabile elemento d’ordine, dal momento che le crisi internazionali vengono monitorate e gestite da un ristretto gruppo di cancellerie. L’istinto anarchico degli Stati si manifesta nelle forme di un imperialismo dalla sfrontata brutalità, ma il senso di appartenenza a una comunità di destino, la condivisione del liberalismo, la fede nel progresso e il riconoscimento di un concreto interesse alla cooperazione aiutano a contenere le pulsioni distruttive e a propiziare lo sviluppo del diritto internazionale. Il fiorire di conferenze il proliferarsi di trattati multilaterali trova un terreno fertile nella convinzione che l’isolamento e l’autarchia non fossero più strade praticabili. Uno degli approdi più significativi del diritto internazionale ottocentesco consiste nell’umanizzazione della guerra. Quella del ricorso alle armi era infatti un’eventualità sempre più incombente nelle relazioni fra gli Stati che occorreva disciplinare con professionalità e non vanamente condannare o esorcizzare. A inaugurare una serie di trattati sullo ius in bello è la Conferenza di Parigi del 1856. In quella sede Gran Bretagna e Francia trovarono un compromesso sulla guerra marittima: i francesi abbandonarono la guerra di corsa e gli inglesi si pronunciarono contro una guerra commerciale indiscriminata. Le conferenze di Ginevra (1864), di San Pietroburgo (1868) e dell’Aja (1889-1907) presero posizione sul diritto della guerra terrestre. Fu adottato il principio di proporzionalità, che vieta ogni distruzione ingiustificata dall’obiettivo militare e interdice l’uso delle armi che infliggono inutili sofferenze. Furono inoltre affermati il principio di salvaguardia i civili da violenze e confische, la protezione accordata all’emblema della croce rossa e l’obbligo di trattamento umano dei prigionieri di guerra. Le distruzioni delle guerre mondiali hanno oscurato la portata di quest’opera di civiltà giuridica, una clausola stabilita all’Aja dispensa dal rispetto degli obblighi in caso di conflitto con potenze non firmatarie. L’arbitrato nel corso del XIX secolo si prestava a meraviglia a conciliare le ragioni del diritto con quelle della sovranità. Più che di un’alternativa alla diplomazia, l’arbitrato era la prosecuzione della conciliazione diplomatica sotto forma di professionale argomentazione giuridica. Il primo celebre arbitrato dell’età contemporanea è senz’altro il Jay Treaty, stipulato nel 1794 tra gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna per regolare controversie di confine e le pendenze patrimoniali nate dalla guerra di indipendenza. Non vi è dubbio, tuttavia, che l’arbitrato più celebre sia il caso Alabama, insorto nel corso della guerra civile americana. L’accusa mossa dal governo statunitense a quello britannico consisteva nell’avere questi consentito che nei suoi porti fosse varata una nave, l’Alabama appunto, destinata alla guerra di corsa per conto della Confederazione. Gli avvertimenti delle autorità consolari statunitensi non furono ascoltati, la violazione della neutralità era flagrante e i danni subiti dal commercio dell’Unione assai pesanti. Il tribunale arbitrario di Ginevra si espresse in merito alla vicenda e nel 1872 ne seguì un lodo arbitrale che accordava agli Stati Uniti un indennizzo per i danni subiti di 15.500.000 dollari d’oro. L’esito dell’Alabama incoraggiò il ricorso all’arbitrato e questo strumento si rivelò utile anche per risolvere la controversia del mare di Bering tra Stati Uniti e Gran Bretagna e quella delle riserve di pesa del Nord Atlantico. La capacità espansiva dell’arbitrato finiva là dove cominciava la zona degli interessi vitali e dell’onore degli Stati. La forza dell’arbitrato, la sua agilità, era anche la sua debolezza, poiché mai gli Stati avrebbero di buon grado accettato di sottoporsi preventivamente a forme vincolanti di giurisdizione. Il concerto europeo ha funzionato regolarmente fino agli anni Settanta dell’Ottocento, proseguendo poi con intermittenza la sua attività tra il crescendo della tensione delle alleanze contrapposte. Il concerto internazionale era animato dalla Gran Bretagna e un esempio della sua attività è la dichiarazione della Conferenza di Londra del 1871, con la quale una cordata di Stati riconosceva come principio essenziale del diritto internazionale che nessuna potenza può affrancarsi dalle obbligazioni di un trattato, il senso del documento era bloccare il disinvolto divincolarsi da parte della Russia degli obblighi internazionali. Il sistema dell’equilibrio non era chiuso al mutamento, si veda il riconoscimento giuridico delle repubbliche sudamericane fresche di indipendenza negli anni Venti (dichiarazione di Canning), purché esso fosse attentamente sorvegliato. L’intervento umanitario è un rimedio adottato in quegli anni nei confronti di governi di dubbia civiltà (impero ottomano) che non erano in grado di assicurare ai propri sudditi uno standard di autogoverno e protezione giudicato accettabile dalle potenze occidentali. A beneficiarne sono soprattutto i greci, che nel 1827 conquistano l’indipendenza grazie all’intervento occidentale contro la flotta turca. Della stessa natura sono le azioni collettive volte alla repressione della tratta degli schiavi. L’informalità era la forza del concerto europeo, ma anche il suo limite insuperabile e l’elegante sodalizio si spezzerà non appena l’Inghilterra abdica al ruolo di garante per schierarsi come parte di una coalizione. Il clima che aleggia a Versailles nel 1919, al termine del primo conflitto mondiale, è quello della resa dei conti. Il nuovo assetto non può quindi che nascere gravato dalle ipoteche e dai detriti lasciati dal crollo del vecchio. I Quattordici punti del presidente americano Woodrow Wilson sono il manifesto di un liberalismo che non dispera di fare proseliti, in essi erano affermati come principi l’autodeterminazione dei popoli, la libertà dei mari, la porta aperta ai traffici nelle colonie e soprattutto l’organizzazione internazionale per la tutela della pace. La Società delle Nazioni voleva la pace, ma non metteva fuori legge la guerra. Questo il limite principale di un’organizzazione internazionale che oltretutto doveva reggersi senza l’appoggio degli Stati Uniti, che si erano allontanati da quelli che ritenevano problemi solo europei scegliendo la via dell’isolazionismo. Il sistema di sicurezza collettiva previsto dal patto ruotava tutto sul divieto di aggressione e sull’obbligo di trattare prima di sparare. Il perno del sistema era l’organo politico, il Consiglio, composto da quattro membri permanenti (Italia, Giappone, Francia e Gran Bretagna) e da quattro eletti a rotazione dall’Assemblea generale, istituzione priva di significativi poteri. Il Consiglio deliberava all’unanimità. Nel 1928 il patto Briand-Kellog coinvolgeva i grandi assenti del teatro della Società, gli statunitensi, le parti condannavano il ricorso alla guerra quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Ad ogni modo la Gran Bretagna rivendicava il diritto di intervento armato a protezione degli interessi dell’impero e gli Stati Uniti facevano altrettanto con la dottrina Monroe. La creazione di una Corte permanente di giustizia sembrava porre le premesse perché lo Stato di diritto germogliasse nella società internazionale. La giurisdizione della Corte dipendeva sempre dalla libera volontà degli Stati che decidevano a sottoporsi al suo giudizio. La Società delle Nazioni ancora oggi non gode di buona stampa, nonostante per molti giuristi questa esperienza sia stata molto istruttiva, per noi che la guardiamo dall’alto di uno straordinario rigoglio di diritti umani e della cooperazione internazionale, essa impone rispetto e riconoscenza. Le dobbiamo sicuramente qualcosa se oggi possiamo parafrasare i latini affermando con una certa fiducia: sileant aarma inter leges!