I confini internazionali sono parte della costituzione stessa della nozione di migrazione, spesso è problematico identificare un luogo esclusivo di appartenenza di cui i migranti si allontanerebbero per fare ingresso più o meno definitivo in un altro luogo. Questo avviene, certamente, ma la storia dei sistemi sociali e politici dell’Africa sub-sahariana è caratterizzata soprattutto da spostamenti “circolari” sul territorio che non implicano necessariamente una rottura con una data società di appartenenza. La maggior parte degli studi sulle migrazioni sulle determinanti e sugli effetti di processi migratori da uno Stato a un altro, da un’area amministrativa ad un’altra con particolare enfasi e dibattito sull’influenza dei fattori che “spingono” i migranti a muoversi (push factors) e di quelli che invece li “attirano” nel contesto di destinazione (pull factors). Questi approcci si sono spesso intrecciati con le teorie della dipendenza e gli studi marxisti, che hanno enfatizzato le distorsioni del sistema marxisti, che hanno enfatizzato le distorsioni del sistema economico mondiale che producono sistemi di massa dalle varie periferie ai centri della produzione capitalistica mondiale. Alla nozione di migrazione si aggiunge quella di “mobilità umana”, utile a un’analisi che ha l’ambizione di ricomprendere tutta la complessità delle esperienze umane e politiche coinvolte nello spostamento delle persone sul territorio. Il concetto di mobilità umana diviene sempre più adeguato per abbandonare la consolidata dicotomia tra ambiente urbano e ambiente rurale nel caso di migrazioni tra città e campagne, analizzare i legami culturali, sociali ed economici che i migranti mantengono gli entrambi in un’unica forma di vita. Prediligere il concetto di mobilità umana rispetto a quello di migrazioni significa dunque innanzitutto marcare una distanza verso una serie di dicotomie fuorvianti (tra rurale e urbano, economia di sussistenza ed economia monetaria, tradizionale e moderno ecc.). Esso dà spazio alla prospettiva della circolarità e soprattutto della continuità sociale e culturale tra vari ambiti e sistemi data dalle reti stabilite dai migranti stessi. 1.1 Mobilità umana e livelihoods In Africa sub-sahariana la mobilità delle persone sul territorio è considerata una delle caratteristiche e fonti principali delle livehoods della popolazione rurale, dell’“insieme dei mezzi e delle possibilità di accesso a risorse e redditi che garantiscono la sopravvivenza, tanto degli individui quanto dei gruppi”. Lo spostamento sul territorio ha sempre costituito una strategia fondamentale delle popolazioni del continente per la regolazione delle zone di pascolo e caccia; in letteratura è piuttosto diffusa l’idea che la grande abbondanza di terre disponibili in rapporto alle persone che abbia fatto in modo che lo sfruttamento delle risorse potesse essersi fondato sulle mobilità del territorio. Secondo una nota tesi, tale scarsa densità demografica nelle zone rurali avrebbe determinato conseguenze importanti sulle forme dei rapporti sociali, economici e politici che hanno caratterizzato le società del continente, si ritiene che questo fatto abbia comportato l’elaborazione di sistemi sulle persone piuttosto che sulla terra. Dall’epoca precoloniale fino ad oggi, diversi soggetti identificati come “autorità tradizionali”, di cui si presume una legittimità consuetudinaria basata sulla discendenza, hanno detenuto rilevanti poteri nella distribuzione delle terre e nella risoluzione delle dispute sul regime fondiario locale. È proprio in rapporto alla mobilità delle persone che queste autorità hanno negoziato e sostanziato il proprio potere nei confronti delle autorità istituzionali formali: allocare nuove terre da coltivare può legittimare la propria autorità sulle terre stesse e sulle persone in questione, così come il proprio potere nel contesto dell’organizzazione del sistema politico e statale di riferimento. In rapporto a queste dinamiche, una potenziale fonte di discriminazione nell’accesso alle risorse naturali e politiche è rappresentata dalle modalità con cui si sono venuti a costituire gli status della popolazione. La mobilità delle persone è legata anche al contesto politico-economico generale, questo ha determinato sviluppi capaci di alterare anche radicalmente il contesto entro cui la mobilità e le migrazioni delle persone avvenivano e di generarne nuove forme. Si è dunque sottolineato come le migrazioni verso i centri urbani commerciali e industriali degli Stati coloniali e poi di quelli indipendenti costituito un pilastro delle livelihoods e della sopravvivenza stessa di molte unità familiari delle zone rurali dell’Africa. Ma la cesura delle crisi degli anni 70’ e 80’ ha comportato una sorta di inversione di tendenza, è cresciuto vertiginosamente il tasso di disoccupazione a fronte della mancanza di adeguate misure di protezione sociale. 1.2 Mobilità umana, forme del potere e sistemi sociali e politici L’analisi della mobilità umana e delle migrazioni nella storia dell’Africa sub-sahariana ha messo in evidenza come sia praticamente impossibile separare nei fatti le migrazioni “economiche” da quelle “politiche”, entrambe le tipologie spesso corrispondono nella pratica ad un unico fenomeno di mobilità sul territorio alla ricerca di migliori opportunità di vita. “Migrants voted with their feet” è l’espressione impiegata per descrivere la tipica migrazione politica: in assenza di altre realistiche possibilità verso il potere dominante, i migranti se sottrarrebbero fisicamente, varcando i confini del sistema politico o statale, o rifugiandosi in zone interne ma sostanzialmente fuori controllo delle autorità centrali; disangagement è il concetto con cui si è tentato di ricomprendere una serie di fenomeni di evasione o ritiro dalle strutture dominanti del potere, come forma alternativa al tentativo esplicito di cambiarle. Un problema fondamentale accomunò i Governi degli Stati coloniali prima e indipendenti poi: la questione di come strutturare lo spazio per un’efficacie azione di governo: la specificità della geografia politica degli Stati dell’Africa sub-sahariana sarebbe determinata dalle difficoltà incontrate dall’estensione del potere statale su territori rurali a bassa densità demografica. Il consolidamento dello Stato-nazione stesso è ancora una questione aperta, la riconcettualizzazione dello “spazio” non esclude una continua attenzione verso l’uso dei confini come classica modalità di esercizio politico del territorio. Il classico punto di partenza sui confini in Africa sub-sahariana è che, pur essendo l’elemento cardine nella definizione del fenomeno della migrazione, essi rappresentano una delle caratteristiche più deboli. Questa considerazione è dovuta a due fatti: 1) i confini sono rimasti immutati rispetto a quelli degli Stati coloniali, nonostante quest’ultimi fossero stati tracciati durante la spartizione coloniale; 2) anche nell’attuale epoca i confini degli Stati africani sono particolarmente vulnerabili al passaggio indipendente di persone e merci. L’incapacità delle amministrazioni di controllare adeguatamente i confini degli Stati ha portato l’analisi ad enfatizzare l’inutilità di queste delimitazioni geografiche. I confini, in realtà, hanno segnato la linea di demarcazione tra storie di sviluppo politico, economico e sociale così differenti da influenzare in maniera radicale anche le forme dei flussi migratori. In questi processi, fondamentale sarebbe il ruolo delle varie forme di autorità cosiddette tradizionali, con il potere di assegnare terre sia agli appartenenti alla comunità sia agli immigrati che vi si vogliono insediare. Uno dei punti più discussi è sicuramente quello relativo ai confini del potere di queste autorità: il famoso volume di Sara Berry (2001) problematizza la comune affermazione per cui “i capi conoscono i propri confini”, mostrando quanto sia complessa oggi una questione che fa riferimento a sviluppi politici di varie epoche. Le storie di migrazioni rientrano infine in un elemento fondamentale: l’elaborazione di particolari “narrative” storiche che sostanziano le rivendicazioni di “proprietà su” e “discendenza da” un dato territorio da parte di particolari gruppi della popolazione. L’elasticità di queste narrative permette di adattare vicendevolmente le esigenze di affermazione del potere politico e quelle dei diritti di accesso alla terra e altre risorse. 2. Migrazioni e forme del potere nei sistemi politici dell’epoca precoloniale Diverse fonti riportano i miti fondati sulle grandi migrazioni, la più famosa è l’espansione Bantu che interessò quasi tutto il continente; in epoca più recente, l’evoluzione dei flussi migratori e dei sistemi politici nel corso dell’Ottocento è stata influenzata da alcuni fenomeni di portata continentale e mondiale: la tratta schiavistica e il suo esaurirsi, l’intensificazione del commercio internazionale “lecito” e l’estensione delle aree interessate dai canali di scambio, la diffusione dell’Islam in alcune regioni e, infine, la spartizione e conquista coloniale da parte degli europei. Il graduale esaurirsi del commercio di schiavi nel corso dell’Ottocento comportò grandi trasformazioni nelle migrazioni, nelle fonti di stratificazione sociale e nelle strutture dei sistemi politici e statali africani paragonabili a quelle indotte quando la tratta raggiunse il suo apice. Gli sconvolgimenti in termini demografici si inserirono nelle grandi trasformazioni dello stesso tenore indotte dall’estendersi del commercio internazionale di beni preziosi e materie prime. In generale, il panorama sociale e politico precoloniale vide una miriade di spostamenti e migrazioni di piccola scala che molto difficilmente lasciarono la propria specifica impronta nelle fonti scritte coloniali e in quelle orali. In alcuni casi si svilupparono migrazioni in massa su grande scala, spesso in seguito allo sviluppo dei grandi Stati e imperi del continente o in seguito a lotte di successione e infine, creazione di un nuovo ordine politico-statale. Il più celebrato di questi fenomeni di migrazioni è sicuramente quello conosciuto come Mfecane o Difecane nell’Africa australe: quest’ultima è sempre stata un punto di passaggio per varie popolazioni, gli scambi commerciali che dalla costa percorrevano le reti di penetrazione verso l’interno furono tra i principali impulsi a fenomeni di crescita della concentrazione demografica. Dagli studi risalta una grande mobilità non solo delle popolazioni tra i vari sistemi, ma anche della portata territoriale dei sistemi stessi: gli insediamenti delle famiglie si spostavano in conseguenza di fattori ecologici, agricoli o politici e il consolidamento di un ampio sistema politico non sempre si originava da un processo di accentramento ed espansione di un nucleo abitativo di un “lignaggio reale”, anche quando si affermava un centro statale spesso si intrecciavano le influenze di una pluralità di autorità politico-sociali. Secondo Jeffrey Herbst le formazioni politiche africane precoloniali si sono sviluppate come logica risposta ai loro ambienti fisici, l’autorità centrale diminuiva nelle zone più periferiche, dove le comunità intrattenevano con il centro politico rapporti di vassallaggio che potevano diventare anche particolarmente deboli, sino a farsi puramente simbolici. In questa visione rientra l’idea che la base del potere nell’era precoloniale consistesse nel controllo delle persone più che del territorio. In generale la potenza di un leader aumentava con il numero di persone che era in grado di attirare sotto la propria tutela. In contrapposizione a questo approccio, altri studi hanno ricondotto l’analisi su sistemi sociali e politici precoloniali anche all’importanza della competizione su risorse chiave come la terra e l’acqua, una competizione che avrebbe opposto famiglie, gruppi ecc. Carola Lentz ritiene che se da una parte erano riconosciuti dei confini tra terrene e apprezzamenti a diverse famiglie, dall’altra parte le aree controllate dalle autorità riconosciute erano assai più difficili da definire. Quando invece le terre disponibili cominciavano a diventare più scarse i confini tra più territori sotto l’autorità di diversi capi tendevano ad essere definiti con più precisione. L’avanzamento e definizione del confine poteva realizzarsi proprio attraverso l’assegnazione di terre da coltivare a individui e famiglie da parte di una particolare autorità. Non era raro che diverse autorità rivendicassero il potere di assegnazione di terre sul medesimo territorio: le negoziazioni e i conflitti che ne conseguivano costituivano una dinamica fondamentale di sviluppo. A seconda del contesto, l’autorità sulle risorse potevano far riferimento a diverse autorità tradizionale o potevano essere accentrate in singole figure e leader. La mobilità umana viene considerata un fattore strutturale al centro delle dinamiche di produzione e riproduzione dell’ordine politico delle società africane precoloniali. Non si tratta solo di un determinismo geografico ed ambientale a formare la cultura politica di questa società, ugualmente determinante sarebbe l’opportunità e la contingenza storica. I flussi migratori più imponenti avvenivano al seguito di un leader sconfitto da una nuova autorità che sorgeva internamente al sistema politico o che proveniva da fuori e invadeva il territorio assoggettandone gli abitanti: il più famoso degli esempi è dato dal già citato caso dell’espansione dello Stato Zulu di Shaka nell’attuale Sudafrica. Le aree “di frontiera” verso cui si dirigevano i movimenti e i flussi migratori appena descritti erano costituite da zone di vuoto istituzionale, dove nessun sistema politico era in grado di esercitare un’effettiva legittimità e quindi aperte all’insediamento di nuovi gruppi che potevano instaurarsi un nuovo ordine sociale e politico. Il nuovo sistema politico poteva venire imposto dalla supremazia tecnologica e militare del gruppo immigrato, ma molto più spesso avveniva per via di un rimodellamento politico delle società esistenti che il gruppo immigrato riusciva ad operare. Quando invece i sistemi sociopolitici presenti erano solidi e ben organizzati i gruppi immigrati potevano esserne incorporati in una posizione di subordinazione e vassallaggio. Un ulteriore elemento analizzato è sicuramente il ruolo delle narrative storiche sui “primi arrivati” nel legittimare un dato ordine politico costituito e dominante, i nuovi sistemi sociali e politici venivano legittimati col tempo da una narrativa basata sul concetto chiave dei “primi arrivati”, i quali divengono i rappresentanti degli spiriti degli antenati “proprietari della terra”. Dal lato dei soggetti che si sono stabiliti in una posizione dominante, la narrazione presenta tipicamente le sembianze di storie di origine in una terra lontana che gli antenati lasciano, solitamente dopo un evento più o meno traumatico, per affrontare un lungo viaggio verso nuovi territori. La precedenza della narrativa dei “primi arrivati” diviene un fatto non puramente cronologico, bensì squisitamente politico, intendendo i “primi arrivati” come colore che per primi hanno stabilito un ordine sociale e civile, laddove regnava un mondo selvaggio, non organizzato, politicamente non inesistente. La narrativa proposta da chi si trova in una posizione subordinata, può essere diversa: essa giustifica l’instaurazione del nuovo ordine come emanazione di chi era già presente, che avrebbe “accettato” secondo i propri crismi l’autorità dei “nuovi arrivati” e l’avrebbe legittimata. In questo modo, le fondamenta rituali e tradizionali di chi era già presente verrebbero preservate nel corso del tempo assieme alla memoria del loro primigenio insediamento nel territorio. Queste narrative contengono due possibilità di disaccordo: 1) La prima è data dall’evento o elemento che poteva determinare lo status di “primi arrivati”: ossia se era da riferirsi ad un ordine puramente cronologico di insediamento, o ad uno status ottenuto, ad esempio, attraverso l’instaurazione di un nuovo ordine sociale, come abbiamo appena visto. 2) La seconda possibilità di disaccordo riguarda l’estensione socio-geografica del gruppo che rivendica lo status di “primi arrivati”: un gruppo poteva ritenere di rappresentare i “primi arrivati” e includere anche una serie di organizzazioni satellite stabilite in seguito, oppure queste stesse formazioni potevano a loro volta ritenersi dei gruppi di “primi arrivati” autonomi nei territori dove si sono stabiliti.
3. Amministrazione territoriale e migrazioni. L’effetto duale dello stato coloniale.
La spartizione dell’Africa da parte degli Stati europei risale all’ultimo quarto dell’Ottocento dopo il famoso Congresso di Berlino del 1884-85, ma la vera e propria costruzione dello Stato coloniale in molti contesti si protrasse fino ai primi due decenni del XX secolo. In origine, i vari Governi coloniali si differenziarono per il modello amministrativo sviluppato, frutto in parte del diverso approccio ideologico adottato nel rapporto con i “popoli indigeni” e in parte delle diverse tradizioni politiche e amministrative originatesi nel loro stesso contesto europeo. Una parziale eccezione a questo quadro fu costituita dalle cosiddette “colonie di settler”, dove fu un più massiccio insediamento di coloni nelle zone rurali, con le loro fattorie commerciali, e lo sviluppo dell’industria di estrazione dei metalli preziosi, imposero interventi molto più drastici. Si ritiene che gli Stati europei elaborarono una serie di risposta istituzionali al problema di come controllare la popolazione e il territorio in regioni scarsamente popolate: innanzitutto, furono istaurate suddivisioni territoriali locali con precisi confini, dentro cui la popolazione africana doveva risiedere e rispettare l’autorità locale di un loro “capo tradizionale”, inserito ora nella gerarchia amministrativa dello Stato coloniale. Vennero varate diverse normative che richiedevano alla popolazione rurale di dotarsi di speciali passaporti (pass laws). La griglia amministrativa dello Stato doveva rispecchiare, l’organizzazione sociale indigena delle popolazioni, ma questa, laddove si presentava come non dotata dei necessari requisiti di organizzazione e centralizzazione, doveva essere conformata alla necessità di instaurare un’amministrazione territoriale locale propria di uno Stato moderno: il complesso quadro dei rapporti tra le diverse società e le risorse del territorio venne negato. Questa operazione comportò il “congelamento” dei sistemi politici e statuali precoloniali all’interno di confini territoriali precisi. Uno degli elementi principali con cui il progetto coloniale si dovette confrontare furono sicuramente le forme di mobilità sul territorio della popolazione africana, verso le quali gli amministratori e i funzionari mantennero spesso un rapporto ambiguo e “duale”. Il tentativo di “territorializzare” si accompagnò ad uno sviluppo generale delle colonie che produsse nuovi flussi migratori: in epoca precoloniale la mobilità sul territorio delle popolazioni era un elemento chiave ma l’avvento dello Stato coloniale ne ha alterato significativamente le forme. Lo Stato coloniale comportò un’esperienza nuova nella storia del continente: l’istituzione di confini statali chiaramente definiti sul territorio. Furono estremamente “porosi”, facilmente violabili e anche all’interno delle colonie, l’emergere di migrazioni di manodopera maschile verso le città rappresentò una novità quasi assoluta. Nel periodo coloniale molte popolazioni intrapresero processi migratori di fuga dalle difficili condizioni di repressione a cui erano sottoposti. Push factors, classicamente furono le tasse, il lavoro forzato, le coltivazioni, le difficili condizioni di lavoro, la violenza quotidiana ecc. che in alcuni casi produssero vere e proprie fughe di massa verso regioni dove le condizioni erano meno opprimenti. Le nuove politiche sulla terra furono una delle forme di intervento coloniale che ebbe le maggiori conseguenze sulla mobilità delle persone, esse produssero un aumento della pressione demografica sui terreni ed ebbero forti conseguenze sulle spinte alla migrazione. Nelle colonie di settler del Sudafrica, Rhodesia del Sud e Kenya venne applicata la più esplicita politica di espropriazione diretta delle terre ai contadini francesi; una dinamica simile si verificò in quei territori che furono adibiti ad aree di conservazione e parchi naturali, a cui abitanti fu proibito di continuare a risiedervi “from hunters to poachers”. Altre politiche nazionali contribuirono ad assicurare la disponibilità di manodopera africana a basso costo. È il caso delle Pass Laws, che regolavano lo spostamento sul territorio in base alla durata dei contratti di lavoro. Queste furono imponevano (nel 1896) ai lavoratori un documento per accedere al lavoro nelle miniere e che avrebbe dovuto impedire loro di cambiare lavoro a piacimento. La gran parte dei migranti africani, tuttavia, si muoveva in maniera clandestina; le reti sociali stabilite dai migranti e le loro strategie collettive, permisero a questi migranti di esercitare una certa capacità di scelta e contrattazione sui salari e sulle condizioni di lavoro pur all’interno, comunque, di un contesto di scelte limitate. Il tema delle agency africana nei flussi migratori e nelle altre forme di mobilità però si deve anche confrontare con il ruolo molto importante giocato dalle cosiddette autorità tradizionali. Ad esse spesso era affidato proprio il compito di procurare i lavoratori africani per le imprese coloniali, dovevano mantenere un delicato quanto ambiguo equilibrio tra l’esigenza di soddisfare le direttive del Governo coloniale e quella di proteggere le proprie fonti di legittimità ed autorità tra le popolazioni su cui esercitavano il potere “tradizionale”. La mobilità sul territorio era largamente impiegata dalla popolazione anche come tattica per esercitare una scelta tra le imprese, private o statali, che impiegavano manodopera africana. In alcuni casi le dimensioni e le conseguenze di queste migrazioni erano tali da permettere ai migranti di esercitare un certo potere contrattuale con i datori di lavoro sulle condizioni di lavoro. Prima o poi le autorità si resero conto che vi erano dei limiti oltre i quali non potevano spingersi nelle politiche di sfruttamento e quindi furono costrette a rivedere le proprie scelte. Secondo alcuni autori, una delle più chiare continuità tra il periodo precoloniale e quello coloniale è l’uso da parte della popolazione della mobilità sul territorio, della migrazione, come una delle principali exit strategy al cospetto di situazioni politiche o sociali avverse, molto spesso le popolazioni delle aree rurali potevano incamminarsi verso aree remote quasi totalmente fuori dal controllo del potere coloniale. L’atteggiamento dei governatori e funzionari coloniali verso il fenomeno delle migrazioni fu spesso contraddittorio, se alcuni lo vedevano principalmente nel contesto dei processi di costituzione di una manodopera africana a basso costo, altri lo interpretavano come una distorsione delle “forme di vita tradizionali” della popolazione che avrebbe portato scompensi devastati per la società: i migranti erano visti come soggetti in via di “detribalizzazione” da salvare dai pericoli di una rapida modernizzazione e urbanizzazione. Sicuramente l’epoca coloniale fu un periodo della storia del continente in cui si consolidò una visione della stabilità sul territorio come condizione normale e civile di vita delle persone. Le migrazioni dovevano essere inquadrate solamente come un’eccezione temporanea e dovevano preludere comunque al raggiungimento di una qualche forma di stabilità.
Leonardo Bettini - Bibliografia Dell'anarchismo. Volume 1, Tomo 1. Periodici e Numeri Unici Anarchici in Lingua Italiana Pubblicati in Italia. 1872-1971 PDF