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LA DEMOCRAZIA NELLA "POLIS" GRECA

Gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future e
farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati, o non ne trovando degli usati, pensare de'
nuovi per la similitudine degli esempi. (Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio, III, 43)

Nel Sesto secolo, in molte città greche, le aristocrazie scacciano i tiranni e ne assumono il controllo politico.
Spesso ciò avviene grazie al sostegno anche delle armi di Sparta, che certamente fu centro e modello della
aristocrazia greca. Il potere, in tale città, era detenuto dai liberi, cittadini a pieno titolo, dediti innanzitutto
all’esercizio della guerra, gli Spartiati. Si trattava di una élite che si contrapponeva alla massa di ceti
dipendenti, Perieci ed Iloti. Tale contrapposizione creava una costante tensione tra le due classi che talora
sfociava in contrasti concreti vissuti come una vera e propria guerra. Il sistema spartano, pur suscitando
ammirazione negli aristocratici ateniesi e pur essendo oggetto di chiara approvazione ne "La costituzione degli
Ateniesi", primo testo in prosa attica, non è mai stato concretamente realizzato in Atene, tranne che nei due
periodi del 411 a.C. e del 404/403 a.C. dopo le sconfitte militari subite nel conflitto con Sparta.

Jones, nell’esaminare i motivi di tale fatto, evidenzia come, in Atene, ben difficilmente gli aristocratici "si
sarebbero adattati a una comunità così chiusa e spiritualmente sterile". In sostanza, in Atene, la nobilt6agrave;
era riuscita ad adattarsi ad un "sistema politico aperto" - la democrazia assembleare- nel quale il popolo
lasciava ai "signori" il diritto di dirigere lo Stato riconoscendo ad essi il possesso delle necessarie competenze
e di determinati valori.

I greci e gli altri

La città arcaica è molto piccola e la popolazione vive in grande parte nel contado interamente dedita ai lavori
agricoli. Fino a quando la situazione si mantiene tale, la lotta per il potere è solamente tra i signori che portano
le armi, e, a mezzo di esse, esercitano la loro egemonia. Le forme di governo che vengono attuate sono
essenzialmente la tirannide o l’oligarchia, ben poco distinguibili tra di loro. Ma ,con l’andar del tempo, le
attività dei campi si riducono decisamente e , nel Sesto secolo circa, una grande quantità di persone affluisce
in città prevalendo sui nobili, ormai ridotti a miserabili, e avendo come effetto la nascita della vera e propria
democrazia a seguito della spinta della popolazione alla gestione diretta della comunità. Quindi è da ritenersi
che il nascere della democrazia greca non abbia avuto, come presupposto, una innata spinta dei greci verso la
politica, ma il concreto verificarsi del fenomeno sopra descritto.
Erodoto sostiene , a tal proposito, che erano individuabili tentativi precedenti di organizzazione di stampo
democratico nell’ambito delle comunità persiane. Né vi è motivo per non prestargli fede, considerato che fa
riferimento ad eventi concreti ricordando le proposte in senso democratico al momento della morte di Cambise,
nonché il fatto che, mentre Dario marciava contro la Grecia, Mardonio, il suo collaboratore, abbatteva i tiranni
della Ionia ed instaurava democrazie nelle città. Di ciò non ci si deve stupire, perché i Greci, che sempre hanno
sostenuto la propria superiorità ed autonomia ideologica, in realtà, furono spesso collegati o, per lo meno,
vicini ai Persiani, anche nell’esperienza politica. Testimonianze di questi rapporti sono le facili relazioni di
alcuni uomini politici come Alcibiade, Temistocle e Lisandro.

Il cittadino guerriero

Il più antico regime democratico prevede la partecipazione all’Assemblea esclusivamente di coloro che godono
della cittadinanza. Di fondamentale rilevanza è, quindi, l’accertare chi godesse di essa nella città antica. In
Atene potevano essere cittadini i soli maschi adulti, figli di padre e madre ateniesi liberi dalla nascita, in grado
di combattere e, quindi possidenti, poiché solo chi aveva ricchezza poteva sostenere i costi per l’acquisto delle
armi. Di conseguenza una grande parte della popolazione, cioè i nullatenenti ed i figli di un solo genitore
libero, erano esclusi dalle funzioni politiche cittadine. Quando, però, sorge in Atene l’esigenza di avere a
disposizione una forte flotta e perciò di ricorrere a un gran numero di marinai, si attua una svolta fondamentale
nell’individuazione degli aventi il diritto alla cittadinanza, poiché la stessa viene estesa anche ai marinai benchè
nullatenenti e pertanto non in grado di armarsi : si può dunque fondatamente ritenere che l’ampliamento della
cittadinanza e, quindi, per così dire, una maggiore democrazia, sia strettamente connessa con la nascita , in
Atene, dall’impero marittimo.

Due sono i gruppi dirigenti principali che, a questo punto, si formano nell’ambito della città: da un lato una
minoranza di signori, gli oligarchi, che si riuniscono in eterìe, che rifiutano l’apporto dei nullatenenti, che non
accettano il sistema democratico e costituiscono per esso una minaccia costante; dall'altro coloro che accettano
di dirigere un sistema di cui sono parte maggioritaria i non possidenti.
Da tutto ciò emerge la rilevanza fondamentale della cittadinanza, da un lato perché solo chi è cittadino partecipa
al potere, dall’altro perché la prevalenza di un gruppo dirigenziale rispetto ad un altro è strettamente collegata
ai componenti della cittadinanza, sia come numero che come qualità. Sintomatico è il fatto che gli oligarchi,
conquistato il potere, abbiano immediatamente ridotto il numero di cittadini e che i democratici, riacquistato
il potere, abbiano escluso dalla cittadinanza i cittadini sostenitori degli oligarchi.

Caratterizzante del regime politico di Atene è anche il fatto che i cittadini, non poche volte pronti a contendersi
il bene della cittadinanza, si sono sempre trovati d’accordo, tranne che in situazioni eccezionali, nel non
estendere la cittadinanza al di fuori della comunità.

La "mucca"

Nell’ambito della società democratica era di rilevanza fondamentale una sorta di patto tra i non possidenti e i
signori, per il quale questi ultimi potevano dirigere la città democratica, ma dovevano fornire un sostanzioso
contributo economico per il funzionamento della comunità.

Il capitalista, dice Rosemberg usando una terminologia modernistica per rappresentare figurativamente questa
realtà, è dunque come una mucca che viene munta fino in fondo e che occorre mantenere con abbondante
foraggio affinché possa continuare a produrre latte: quanto più una persona guadagna, tanto più deve allo stato.
Proprio per questo il proletariato ateniese nulla ha in contrario ed anzi desidera che il ricco guadagni, anche
all’estero quanto più possibile ed è portato a sostenere una politica degli imprenditori imperialistica e volta
all’espansione. Significativo, a questo proposito, è il fatto che, proprio dopo l’ascesa al potere del proletariato,
Atene intraprese guerre espansionistiche sia contro i Persiani per la conquista dell’Egitto, sia, nella stessa
Grecia, per la conquista delle repubbliche di Egina e di Corinto, sue concorrenti commerciali. I signori,
naturalmente, per conquistare potere e prestigio, elargiscono, con generosità il proprio denaro anche
direttamente al demo.

Tipico è il caso di Cimone, l’antagonista di Pericle e di quest’ultimo. Egli, ampiamente possidente, non esita
ad aprire i suoi possedimenti al pubblico, lasciando ad ognuno la possibilità di raccogliere i frutti dei campi,
offrendo pranzi per tutti i poveri, organizzando feste con possibilità di accesso al consumo della carne e così
via, non trascurando di trattare con particolare favore i componenti del suo demo. Pericle, con minori
disponibilità economiche, ricorre ad altri metodi per ottenere lo stesso risultato, non esitando ad usare, senza
limiti e per fini personali, il denaro delle casse dello stato elargendolo, in vari modi, alla popolazione e
superando gli attacchi politici degli avversari con mosse ed atteggiamenti ad effetto.

Concezione personale dello stato

La concezione personale dello stato è quella per cui lo stato non ha una personalità giuridica autonoma al di
sopra e al di fuori delle persone, ma coincide esattamente proprio con le persone, con i cittadini. Questa
concezione di stato ha conseguenze precise quando la città è divisa da una guerra civile. Può allora accadere
che la comunità si separi anche fisicamente in più parti e che una parte divenga anti-stato e si proclami unico
e legittimo stato.
Ciò è quanto è accaduto ad Atene nel 411 a.C. quando gli oligarchi prendono il potere e la flotta di stanza a
Samo reagisce a tale situazione e costituisce un contro-stato mossa dalla convinzione che lo stato sono le
persone e che il " demo è tutto" in conformità alla ideologia democratica. Nel 404/ 403 a.C., nel corso della
più grande guerra civile dell’Attica, si crea, sempre in relazione alla concezione personale dello stato, una
divisione tripla della popolazione: si ha prima di tutto il predominio dei Trenta; poi i democratici costituiscono
una contr’Atene democratica al Pireo, mentre gli oligarchi si stabiliscono, divisi in due tronconi, ad Atene e
ad Eleusi. Infine, quando gli Spartani stabiliranno la pacificazione, verrà riconfermata la democrazia, pur
rimanendo ad Eleusi la repubblica oligarchica .

Un’altra situazione, sempre connessa con la concezione personale dello stato, si può creare al momento della
rottura del patto. In tale caso l’esule scacciato si coalizza con i nemici della città per poter ritornare. Ciò accade
poiché egli ritiene di essere stato messo al bando non dallo Stato considerato come entità sovrapersonale, ma
dai cittadini e, quindi, entra in guerra personale contro la propria città affinchè sia eliminata l’ingiustizia da lui
subita.

Mutare le leggi

Ma il popolo se è tutto, è al di sopra di ogni legge in quanto esso stesso fa la legge e questa non può considerarsi
immutabile ed indipendente dalla volontà popolare, ma si adegua ad essa concretizzandosi nel "kinèin toùs
nòmous"(nel mutare le leggi). Sia per i democratici, sia per i loro nemici, è utile rifarsi alla costituzione avita,
la pàtrios politèia. Diodoro Siculo tramanda che, sia i Trenta, sia Trasibulo, loro fervido oppositore, davano
un ruolo fondamentale a questa pàtrios politèia. Ciò benchè gli uni perseguissero l’abolizione della
democrazia radicale e l’altro ne volesse il ripristino più completo.

Questa contrapposizione appare anche nell’oratoria politica, tanto che il sofista Trasimaco, sostenitore della
tesi per cui la giustizia è il diritto del più forte, evidenziava che gli oratori "nella convinzione di sostenere gli
uni argomenti contrari a quelli degli altri, non si accorgono di mirare a un identico risultato e che la tesi
dell’avversario è compresa nel proprio discorso". Dal fatto che si fa riferimento ad una stessa parola
programmatica , emerge un fondamentale carattere della democrazia: tende a modellarsi sempre sull’ideologia
comune dominante. A questo proposito il Canfora afferma che il richiamo al passato come a un dato di per sé
positivo, si coniuga con la connotazione negativa dell’alterazione delle leggi vigenti(kinèin).Ma una
modificazione della legge avviene comunque con il passare del tempo, come afferma Aristotele, e il fine
perseguito non è la tradizione, ma il bene. Kinèin indica sia l’alterazione sia lo sviluppo e viene a coincidere
con l’epìdosis, progresso, per così dire, inevitabile. Aristotele in un excursus fornisce una sorta di archeologia
del diritto giungendo alla conclusione che è proprio quella sintesi di innovazione e conservazione che rende il
diritto una costruzione unica. Inoltre stabilisce una misura con la quale valutare quando innovare e quando
rinunciare a qualsiasi cambiamento: "Quando il miglioramento previsto è modesto, in considerazione del fatto
che abituare gli uomini a modificare alla leggera le leggi è un paradosso , è chiaro che conviene lasciare in
vigore norme palesemente difettose: giacché non ci sarà vantaggio tale da compensare lo svantaggio
dell’ingenerarsi di un’abitudine a disubbidire alle leggi".

Libertà/democrazia, tirannide/oligarchia

Il Pericle tucidideo, descrivendo il sistema politico ateniese, pone una contrapposizione tra democrazia e
libertà. La democrazia appare realizzare in realtà il prevalere anche violento del demo, cioè di una parte su
un’altra, tanto da assumere le caratteristiche proprie della tirannide, prima fra tutte la rivendicazione da parte
del popolo del diritto di essere al di sopra della legge, rivendicazione questa che è propria anche del tiranno.
Per altro, nel linguaggio politico ateniese si afferma anche il ben diverso concetto che colloca, da un lato la
democrazia e la libertà e, dall’altro, l’oligarchia e la tirannide. Lo stesso Tucidide, quando esamina il
significato e le conseguenze del colpo di stato oligarchico del 411, evidenzia che gli oligarchi hanno "tolto al
popolo di Atene la libertà cento anni dopo la cacciata dei tiranni". Il che significa contrapporre, alla libertà
democratica, la non libertà della tirannide e dell’oligarchia. Verosimilmente tali contrastanti teorizzazioni della
democrazia sono connesse con il fatto che, in concreto, la democrazia, nella Grecia classica, è sorta da un
compromesso tra popolo e signori ai quali il popolo affida il governo della città democratica, signori che
ritengono tale regime accettabile perché depurato da ogni residuo tirannico.

Altri pensatori greci, approfondendo il problema, si orientano nel suddividere ogni forma politica in due
sottotipi, quello buono e quello cattivo e Aristotele, addirittura, usa due termini parlando di politeia per la
democrazia buona e di demokratia per la democrazia irrispettosa della libertà. Emerge anche il concetto per il
quale ogni forma politico/costituzionale degenera nella sua faccia deteriore e, in tal modo, da una costituzione
si passa ad un’altra.

La teoria "ciclica"

Dario, cui si deve l’intervento più importante a proposito di tale tesi, afferma che, nel dibattito sulle tre forme
politiche, monarchia, democrazia e aristocrazia, ognuna di esse ottiene due opposte caratterizzazioni: Otane
evidenzia i difetti della monarchia ed esalta la democrazia; Megabizo condivide le obiezioni alla monarchia,
ma critica gli aspetti positivi della democrazia ed esalta l’aristocrazia; infine lo stesso Dario mette in luce gli
aspetti negativi del governo aristocratico e ritorna al punto di partenza esprimendo l’elogio della monarchia.
In relazione a tali contrastanti valutazioni dei tre sistemi, Dario evidenzia come, in realtà, "a parole", cioè in
linea astratta, tutti e tre siano ugualmente validi, essendoci, in ognuno di essi, una variante positiva in cui
operano allo stato puro i presupposti teorici su cui ciascuno si basa. I caratteri negativi delle tre forme di
governo si evidenziano, però, quando si passa dalla teoria alla pratica.Dario, a tal proposito, osserva che quando
vengono concretamente attuate, sia le democrazie che le aristocrazie pervengono ad una situazione di grave
disordine sociale che provoca il passaggio alla monarchia. Il potere monarchico deriva, dunque, da una stasis,
spesso sanguinosa, conseguente al fallimento di una delle due altre forme di governo. Ma, d’altra parte, anche
la cattiva monarchia determina una stasis, con connesso mutamento del regime .Da tutto ciò emerge che ogni
forma politico/istituzionale è sostituita da un’altra attraverso il doloroso passaggio dalla stasis, dalla guerra
civile.

Quale correttivo altamente positivo di questo eterno ripetersi del ciclo viene, in linea teorica, proposto il
sistema della costituzione "mista", che dovrebbe racchiudere in sé le forme migliori dei tre modelli unificandoli
ed eliminando gli effetti distruttivi di ciascuno di essi. Questo tema domina la riflessione greca, soprattutto in
epoca ellenistica e romana. Peraltro i sistemi concreti che vengono indicati come realizzanti, in Grecia, tale
tipo di costituzione hanno ben poco di misto ed appaiono essere oligarchie, essendo caratterizzati
dall’eliminazione della piena cittadinanza ai nullatenenti.

Polibio sostiene che, in Roma, si sarebbe realizzato concretamente e stabilmente il modello astratto della
costituzione mista e ciò in relazione all’originale soluzione che era stata data al problema della cittadinanza e
della sua combinazione con l’esigenza di un potere stabile e forte: Roma sarebbe sopravvissuta alla sconfitta
di Canne proprio grazie a tale costituzione.

La storia della democrazia greca.

Alla base della società greca primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan e in tribù.
Durante i sec. IX e X a.C. con l’espansione commerciale e coloniale un gran numero di Greci si erano resi
indipendenti dai legami terrieri arcaici, segnando l’inizio del declino della classe aristocratica.
Nel 630 a.C. ad Atene venne suscitato un primo tentativo di tirannide da parte di Cilone che sfruttò una
condizione di malcontento popolare.
In un passato mitico il primo sincretismo politico, di natura vagamente democratica, fu considerato attuato da
Teseo. Costui, sette secoli prima di Clistene, si configurò come un basilèus a cui venne attribuita, in parte dalla
tradizione, il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto almeno una parte dei poteri al démos.
Il primo vero passo verso la democrazia può essere considerato l’opera attuata da Dracone (VII sec.a.C.) che
mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per volere degli aristocratici. Quando però l’Attica fu scossa
da una crisi agraria che causò disordini civili, venne nominato per la città di Atene un aisymnetes affinché
regolasse la situazione politica e sociale.
Essendo stato nominato Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica, dunque, si avviò l'arché democratico,
ovvero l'inizio evolutivo di questa forma di governo.

Dall’intermezzo costituito dalla tirannide di Pisistrato(561 a.C.) che donò splendore artistico alla città di Atene,
si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che rappresenta solo una forma più popolare (demotikoteria) rispetto
a quella di Solone. Il momento della democrazia radicale venne contrassegnato dall'abbattimento
dell'areopagocrazia, periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica.
L'avvento della democrazia radicale (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure di Efialte (fautore della riforma del
462) e Pericle.
Circa mezzo secolo più tardi (nel 411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma della democrazia, di segno
opposto al precedente: il governo dei Quattrocento, favorito dai sostenitori della pátrios politeía, una posizione
moderata e centrista che proponeva l'accostamento Clistene/Solone, tipico di una concezione politica che
voleva salvare i tratti più moderati e conservatori della costituzione democratica. In forme assai più aspre si
presentò il colpo di Stato dei Trenta tiranni, che da un lato ripeté, dall'altro aggravò, in senso negativo,
l'esperienza dei Quattrocento.

La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano (kurios). Sieda
nell’Assemblea o nei tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini sono liberi e
uguali sotto l’egida della legge.

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Partecipazione all’Assemblea o Ecclesia

Per far parte dell’Ecclesia erano necessari due requisiti:

1.essere cittadino ateniese: una legge del 450 a. C., voluta da Pericle, stabiliva che divenisse cittadino solo chi
fosse nato da padre e madre ateniesi (mentre prima, e nella maggior parte delle altre poleis, bastava che fosse
cittadino il padre);

2.essere maggiorenne. La maggiore età si acquisiva a diciotto anni, per via dell’iscrizione sui registri del demo
(i demi erano le unità territoriali più piccole in cui era stata divisa l’Attica dalla riforma di Clistene –508 a. C.-
, dotate di autonomia dal punto di vista amministrativo. Questa frammentazione del territorio statale di Atene
era dovuta alla sua estensione -più di 2400 kmq, all’incirca come l’attuale Granducato di Lussemburgo-). Non
sempre questi registri erano sicuri: infatti molti meteci (che erano gli stranieri che si stabilivano ad Atene ma
erano privi dei diritti politici) riuscivano a farsi iscrivere e quindi a partecipare ai lavori dell’Assemblea che si
tenevano sulla collina della Pnice. Questa, nonostante le sue modeste dimensioni, bastava largamente poiché
molti Ateniesi spesso preferivano non assentarsi da casa, non rinunciando così a delle giornate lavorative.

Riunioni e funzionamento dell’Assemblea

In origine, l’Ecclesia si riuniva una volta per pritania, ovvero dieci volte all’anno; ma, col passare del tempo,
vennero aggiunte tre sedute supplementari per pritania. Ogni assemblea aveva il proprio ordine del giorno,
tuttavia, nel caso di una sventura pubblica o di un evento imprevisto che esigessero un provvedimento urgente,
potevano essere indette assemblee straordinarie. La seduta incominciava di buon mattino quando un segnale
era dato da una bandiera sventolante sulla Pnice. Così la polizia sbarrava le strade che conducevano all’Agorà
e spingeva i cittadini verso la collinetta della Pnice, cui si accedeva per una ripida scalinata e che poteva
raccogliere fino a 6000 persone. Presidente dell’Assemblea era l’epistate dei pritani (presidente anche della
Bulè), designato dall’estrazione a sorte ogni giorno, che, dopo una cerimonia religiosa in onore di Zeus, dava
inizio alla seduta. Si incominciava con la discussione delle proposte di legge della Bulè , i probuleumata: ogni
cittadino poteva prendere la parola e proporne emendamenti, salendo su una tribuna e mettendosi sul capo una
corona di mirto, simbolo d’inviolabilità. Dopo la discussione, i pritani indicevano le votazioni per alzata di
mano (epicheirotonìa) e il presidente, proclamatone il risultato, poteva togliere la seduta.

Poteri dell’Assemblea

All’Ecclesia competevano svariate funzioni:

1. le relazioni estere,
2. il potere legislativo,
3. il potere giudiziario e il controllo del potere esecutivo, con la nomina di tutti i magistrati.

In materia di politica estera l’Assemblea , sotto la direzione della Bulè, decideva della pace, della guerra e
delle alleanze e nominava gli ambasciatori. Per quanto riguarda invece il potere legislativo, l’Ecclesia non si
arrogava il diritto di abolire formalmente le leggi e votarne di nuove, ma trovava le forme necessarie per
legiferare attraverso decreti. Il popolo era anche supremo giudice, ma delegava il potere giudiziario ai tribunali,
intervenendo direttamente solo nelle questioni più delicate e importanti.

Riunioni straordinarie dell’Assemblea

Nel V secolo, in circostanze di particolare importanza, si riuniva anche l’Assemblea plenaria, convocata
nell’agorà, divisa per tribù e considerata come rappresentante l’intera città. Il minimo di unanimità era un voto
espresso da seimila suffragi. L’Assemblea plenaria era convocata per designare chi dovesse essere bandito per
ostracismo, per conferire l’adeia, cioè l’impunità o la grazia, o nel caso di collazione del diritto di cittadinanza.
Il bando per ostracismo venne decretato per la prima volta nel 487 e, con gli anni più frequentemente, nelle
circostanze gravi e nelle guerre perché non vi fossero continui dissensi in merito alla difesa nazionale e nella
politica interna, e servì così alle fazioni opposte a decapitarsi a vicenda. L’operazione dell’ostracophorìa si
effettuava in seduta plenaria durante la sesta pritania: il voto veniva espresso per mezzo di pezzi di
coccio, ostraca, e il condannato doveva lasciare l’Attica entro dieci giorni e per dieci anni, salvo eventuali
amnistie.

Composizione del Consiglio dei Cinquecento o Bulè

La Bulè, organizzata dalla riforma di Clistene (508 a. C.), era un organo composto da cinquecento membri
detti buleuti, sorteggiati, come afferma Tucidide, "per mezzo della fava" tra i demoti aventi più di trent’anni
che si presentassero come candidati. Questi solitamente non erano in grande numero dal momento che,
nonostante venissero retribuiti, dovevano comunque sacrificare un’intera annata agli affari pubblici. Prima di
entrare in carica i buleuti dovevano prestare giuramento e cingevano la corona di mirto, segno della loro
inviolabilità, mentre, al termine dell’annata, il Consiglio intero doveva rendere conto al popolo del proprio
operato. La Bulè era convocata dai pritani e si riuniva nel Buleuterio, situato a sud dell'agorà. Ma come
l’Ecclesia, non poteva sedere in permanenza per un’intera annata; per il disbrigo degli affari ordinari aveva
bisogno di una giunta direttiva controllata a turno da una delle dieci tribù per una decima parte dell’anno : essa
era costituita da cinquanta pritani (ovvero 1/10 dei buleuti) e presieduta da un epistate (sorteggiato ogni giorno
tra i pritani) che teneva per ventiquattro ore le chiavi dei templi dove si trovavano i tesori, gli archivi e i sigilli
dello Stato. Questa giunta aveva il compito di mettersi in relazione con l’Ecclesia , con i magistrati, gli
ambasciatori e gli araldi stranieri; convocava in caso di urgenza il Consiglio, l’Assemblea, gli strateghi e aveva
a disposizione le forze di polizia. Nell’esercitare le sue molteplici funzioni la Bulè nominava poi diverse
commissioni speciali: per controllare le entrate all’Assemblea, per sorvegliare l’amministrazione marittima o
per la consacrazione e le celebrazioni dei misteri (commissioni di ieropi).

Poteri della Bulè

A un tempo organo preparatorio-esecutivo e magistratura suprema, aveva tre mezzi per esercitare i suoi diversi
poteri:

1. presentava all’Assemblea i probuleumata che servivano di base ai decreti del popolo;


2. promulgava decreti per far eseguire le decisioni prese dall'Assemblea;
3. collaborava direttamente, col consiglio o con l’opera, con le altre magistrature.

La Bulè aveva attribuzioni importanti anche in campo finanziario, poiché sorvegliava l’impiego del denaro
pubblico e si occupava degli appalti delle imposte, delle concessioni minerarie, delle locazioni dei terreni sacri,
della costruzione e conservazione delle opere pubbliche (come si deduce dai conti sui lavori dell’Acropoli
nell’età di Pericle). Infine, fra le sue molte funzioni giudiziarie, si occupava della procedura rapida per punire
i reati contro la sicurezza dello Stato: l’eisangelìa. Un tempo chi giudicava i reati per eisanghelìa contro la
costituzione era l’Areopago: una legge di Solone gli riconosceva questo diritto. Ma, dopo la riforma di Efialte
(462 a. C.), la competenza in materia di questi crimini passò al Consiglio, che divenne così un organo centrale
della democrazia ateniese.

Tipi di magistrature

Anche con l’aiuto di un Consiglio permanente, il popolo non poteva fare eseguire le sue volontà che delegando
parte della propria sovranità a certi magistrati: tra i pubblici uffici si distinguevano le magistrature
propriamente dette, d’ordine governativo o politico (archai), e le funzioni puramente amministrative
(epimeleiai), senza dire delle funzioni subalterne (huperesiai), le quali potevano essere affidate anche a meteci
e schiavi. Qualsiasi cittadino poteva esercitare delle magistrature, che erano di breve durata, generalmente
annuali, e non potevano essere accumulate. Le magistrature, cui si poteva accedere per sorteggio o elezione,
erano tutte indipendenti le une dalle altre perché coordinate dal Consiglio, eccetto quelle militari, come la
strategia, dov’era necessaria una gerarchia. Infatti gli strateghi, comandanti in capo, davano ordine ai tassiarchi,
colonnelli di fanteria, e, per il tramite degli ipparchi, ai filarchi, colonnelli di cavalleria.

Responsabilità dei magistrati

I magistrati prima di entrare in carica dovevano prestare giuramento e sottoporsi alla prova della "dokimasia",
un primo esame davanti al Consiglio. Superata questa prova, essi erano persone inviolabili che godevano di
molte prerogative e di una speciale protezione. Ma la loro responsabilità era duplice; anzitutto finanziaria, e
poi morale e politica: ogni funzionario doveva presentare un rendiconto dei fondi pubblici di cui aveva avuto
la gestione (logos), verificato da un altro collegio di magistrati, i loghistài. Otre alla resa dei conti in senso
stretto e preciso della parola, c’era nel diritto pubblico ateniese un rendimento dei conti in senso largo,
l’euthuna, davanti agli euthunoi. I magistrati erano pertanto sottoposti a una sorveglianza incessante e
minuziosa e se commettevano atti illeciti potevano essere deposti dall’Assemblea, attraverso una votazione
per alzata di mano, epicheirotonìa, e rinviati davanti al tribunale. Era lo stesso principio democratico a esigere
questo rigido controllo sul potere esecutivo e a portare il popolo ateniese a una profonda diffidenza che non
risparmiò nessuno, neppure Pericle.
L’Areopago

Il più importante dei tribunali era l’Areopago, che sedeva sulla collina di Ares, vicino alla grotta delle Eumènidi

Il mito vuole che il nome derivi da Ares (Marte), che vi sarebbe stato giudicato per primo avendo ucciso
Alirrozio, figlio di Poseidone (Nettuno), che aveva tentato di rapirne la figlia Aleippe. Secondo la versione
eschilea (Eumenidi), l’Areopago avrebbe anche giudicato Oreste dopo che questi ebbe ucciso la madre
Clitemnestra: Oreste fu assolto e Atena, per placare l’ira delle Erinni, i demoni che perseguitavano il giovane
a seguito del matricidio, le rese divinità benefiche e protettrici della città di Atene, dette appunto Eumènidi.

Questo tribunale, probabilmente fondato da Solone e composto dagli ex-arconti, fu modificato nella sua
costituzione già subito dopo la riforma di Clistene poiché ne venne abbassato il valore. Infatti, sempre più
inferiore al compito affidatogli dalla tradizione, esso doveva apparire ben presto un’istituzione dell’altra età.
Era tale non solo per l’inamovibilità dei suoi membri, appartenenti alle classi ricche e nobili, ma anche per i
poteri per i poteri che aveva ereditato. Le sue attribuzioni, a un tempo giudiziarie e politiche, non erano ben
definite; ma, poiché comprendevano la sorveglianza delle leggi, potevano diventare esorbitanti. In compenso,
per i servizi resi nei momenti peggiori dell’invasione persiana, aveva acquistato maggiore prestigio. Era
dunque inevitabile che il popolo attaccasse questa roccaforte dell’aristocrazia. Nel 462 a. C. a capo del partito
democratico era Efialte. Da lui l’Areopago, già epurato per mezzo di provvedimenti giudiziari, ricevette il
colpo di grazia. Fu privato delle funzioni sovraggiunte e mal definite che gli conferivano la custodia sulla
costituzione e gli permettevano di esercitare un controllo sul governo ; perdette la giurisdizione dei reati di
assassinio che interessavano la città, delle infrazioni commesse contro l’ordine pubblico dai privati o dai
funzionari. Conservò soltanto attribuzioni di carattere religioso, del resto assai estese, poiché comprendevano,
insieme con la sorveglianza dei luoghi consacrati, la giurisdizione sui reati di assassinio premeditato (phonos
hekousios), di ferite inferte con intenzione omicida, di incendio di una casa abitata e di avvelenamento. La
separazione dei beni accumulati dall’Areopago era resa necessaria dal progresso delle istituzione politiche in
una grande città e, compiuta la democrazia, doveva andare a vantaggio di questa, anche se Efialte pagò poi
con la vita la sua devozione alla causa popolare.

Altri tribunali (dikastèria) e procedura giudiziaria

Al di sotto dell’Areopago stavano altri tribunali del sangue:

• il Palladio, che era competente in materia di omicidio involontario (phonos akousios) e di istigazione
all’assassinio;
• il Delfinio, che era competente se l’arconte re, incaricato dell’istruttoria, decideva che l’omicidio era
scusabile o legittimo (phonos dikaios);
• a Freatto, sulla riva del mare, erano giudicati coloro che, esiliati temporaneamente per omicidio
involontario, avessero commesso un nuovo omicidio con premeditazione;
• il Pritaneo, che era competente in materia di omicidio causato da ignoti, da animali o da oggetti.

Tutta la procedura seguita nei processi di sangue era di un arcaismo singolare: se la vittima, prima di morire,
perdonava l’uccisore, nessuno poteva far nulla contro di lui. Altrimenti i campioni della vittima erano il padre,
i fratelli e i figli. Questi potevano venire a patti con l’uccisore o deferirlo al tribunale. In questo caso l’istruttoria
avveniva in tre dibattimenti che venivano tenuti a un mese di intervallo, mentre il processo avveniva all’aperto,
affinché i giudici e l’accusatore sfuggissero al contagio propagato dall’impurità dell’accusato. Quel giorno
l’arconte re si toglieva la corona, simbolo d’inviolabilità, e offriva un sacrificio; ciascuna delle parti in causa
aveva il diritto di parlare due volte. Se poi i voti si dividevano in eguale misura tra l’accusa e la difesa,
l’accusato beneficiava del suffragio detto di Atena ( psephos Athenàs), in ricordo del voto espresso, secondo
la tradizione, dalla dea a favore di Oreste. Infine, scendendo dalla collina di Ares, l’assolto si recava alla grotta
delle Eumènidi e a ringraziare le dee con un sacrificio.
L’Eliea

Tutti gli affari che non erano di competenza dei tribunali del sangue erano, in via di principio, di competenza
del popolo. Questo era un compito enorme e, già dall’età di Pisistrato (tiranno dal 546 al 527 a. C.) , vennero
creati dei giudici che si occupassero delle cause civili. I più importanti erano i dieteti , semplici arbitri pubblici,
e gli eliasti , che dovevano avere almeno trent’anni compiuti e essere in pieno possesso dei diritti civici. Nel
V secolo gli eliasti, i dikastài per eccellenza, erano seimila, numero che, nel diritto pubblico, rappresentava
l’unanimità, come lo attesta la procedura dell’Assemblea plenaria (infatti non va dimenticato che, in molte
città, il nome di Eliea designava l’assemblea del popolo). I giudici, eletti per sorteggio (seicento per tribù),
dopo aver prestato giuramento, erano divisi fra i differenti tribunali civili e, di conseguenza, fra i magistrati
che li presiedevano. La maggior parte di questi giudici era fornita dalle classi medie e inferiori della città, del
porto e dei dintorni attratte da una retribuzione (misthophorìa)di due oboli al giorno e, dopo il 425, di tre oboli,
che potevano compensare i loro redditi spesso esigui. Anche ai vecchi piaceva l'idea di guadagnare qualche
soldo, attraverso cui costituirsi, con un'occupazione onorevole e poco faticosa, una modesta pensione; i ricchi,
invece, che avevano altro da fare e non erano attratti dal diobolo o dal triobolo, si tenevano volentieri in
disparte.
Il processo si divideva in due parti: l'istruttoria, che si svolgeva davanti all'arconte re, e il processo vero e
proprio, che aveva luogo davanti ai giudici riuniti nel tribunale designato dall'arconte. In quest'ultima fase, le
parti in causa pronunciavano personalmente i discorsi di difesa o di accusa; a ciascuna di esse era consentito
pronunciare due discorsi, il primo della durata di venti-quaranta minuti, il secondo di una decina di minuti. I
giudici dovevano infine procedere alla votazione; se l'imputato era assolto il processo era concluso; se risultava
colpevole, si valutava quale sanzione era opportuno infliggere.

La democrazia nel pubblico e nel privato

Pubblico e privato emergono come categorie determinanti nella democrazia così come Pericle la definisce e
attorno ad esse si organizzano tutte le qualità della democrazia. Le qualità attinenti ai rapporti pubblici si
possono definire primarie e riguardano i rapporti tra istituzioni e individui in quanto cittadini; le caratteristiche,
invece, attinenti alle attività, agli atteggiamenti e alle attese del singolo individuo sono classificabili come
secondarie.

Esattezza, quantificazione e possibilità di controllo sono caratteristiche di qualunque società: è necessario


esaminarle in modo relativo, attraverso il confronto di contesti socio-politici diversi. Questi atteggiamenti si
manifestano con particolare evidenza in tre aspetti: 1) l'uso della scrittura a carattere pubblico (leggi e
rendicontazione); 2) il trattamento del bisogno, dell'indigenza; 3) l'espressione della decisione pubblica
attraverso il voto (quantificazione, maggioranza, calcolo dei voti, rotazione delle cariche, ostracismo).

Pericle arrivò al potere nel 461a.C., dopo che fu ostracizzato Cimone e vi rimase fino al 429, anno della sua
morte a causa della pestilenza che si era abbattuta su Atene. Con lui si può parlare di attivismo ed ottimismo,
in una prospettiva edonistica: l'età periclea rappresenta un'eccezione nella storia greca, poichè la cultura greca
è fondamentalmente pessimistica. Il divario esistente tra il livello dei principi promossi da Pericle e la
situazione storica si rende manifesto nel terzo discorso da lui pronunciato nello scritto di Tucidide, autore che,
nell'Epitafio, ci fornisce importanti informazioni anche riguardo all'efebia.

LA DEMOCRAZIA NEL PUBBLICO

Trasparenza nelle leggi e polemica sull'eccesso di legislazione


Il primo punto tocca il tema della nomografia, la scrittura delle leggi. Questa non è stata creata dalla
democrazia, nè è plausibile l'idea di alcuni studiosi che le aristocrazie siano radicalmente ostili alle leggi scritte;
occorre, certo, sottolineare che la democrazia ha promosso grandemente lo sviluppo della scrittura. Non solo,
ma la democrazia ha sviluppato un tipo di scrittura pubblica a contenuto legislativo in un modo che fa di questo
tipo di nomografia una forma democratica per eccellenza. In un passo di Strabone si legge l'elogio che Eforo
fa di Zaleuco di Locri, a suo parere il primo autore di una costituzione scritta: egli non si ferma a constatare la
maggiore giustizia di questo tipo di legislazione, ma loda soprattutto il fatto che le leggi siano formulate in
maniera semplice(nòmoi haplòi). Al contrario, i cittadini di Turii, che avevano voluto superare i Locresi in
quanto a precisione di dettagli (nomoi akribei^s), sono giudicati negativamente da Eforo, perchè, secondo lui,
"si governano bene coloro che si attengono alle leggi stabilite in maniera semplice", mentre le leggi
eccessivamente complicate sono "a totale beneficio dei sicofanti". Leggendo passi di Isocrate e Senofonte, si
individua l'esigenza di precisione, determinazione, specificazione che è tipica della democrazia; la stessa
esigenza, però, si trova anche nel quadro di una concezione aristocratica o democratico-conservatrice o
moderata. Lo studioso Buchner ha rilevato come l'atteggiamento democratico esiti tra una pratica, che è quella
di attenersi puntualmente alle leggi, e una teoria, che è quella di rinunciare alle leggi, in favore delle norme
dettate dai costumi (la formazione del carattere dell'individuo diventa, in questa situazione, il tratto
determinante.). D'altra parte, Isocrate contrappone tra loro due prospettive opposte, quella della precisione e
quella dell'onestà, che non ha bisogno di molte leggi scritte. La contraddizione, comunque, non esiste: essa
esiste soltanto alla luce di un'interpretazione statica e assoluta di akrìbeia. Poco convincente è il rimedio
proposto dal Buchner: la contraddizione risulterebbe inesistente in virtù del fatto che le due concezioni
sarebbero entrambe oligarchiche. L'akrìbeia, però, non significa osservare solo puntualmente le leggi, ma ha
a che fare più direttamente con la forma scritta; essa deriva dall'eccesso di precisione nel dare ascolto
all'esigenza democratica di certezza e trasparenza del diritto. Particolarmente interessante è il frammento di
Menandro che recita: "Gran bella cosa le leggi, ma chi le guarda con troppa puntualità si rivela un sicofante".
E' evidente che l'akrìbeia è respinta come un pericolo da quest'autore. Essa è vista come un pericolo anche dai
Trenta, che, stando all'aristotelica Costituzione degli Ateniesi, decisero di abolire le leggi di Solone, suscettibili
di controversia: questo tipo di leggi lascia troppa materia alla discrezione dei giudici poichè è
talmente akribei^s, talmente minuzioso, da fornire materia a dibattiti infiniti e a una decisione soggettiva da
parte dei giudici. L'accusa mossa a Solone riguardo alle sue leggi "nè semplici nè chiare" viene da parte
antidemocratica: la chiarezza e la trasparenza erano il fine della democrazia nella sua ricerca di esattezza, ma
l'oscurità ne è il risultato storico. L'eccessiva quantità di leggi e l'eccessivo controllo sono inclusi nell'immagine
negativa applicata storicamente alla democrazia del IV secolo.

Rendicontazione e trasparenza

All'interno della democrazia l'idea di eùthyna, "rendiconto", assume una posizione centrale. Per quanto
riguarda il controllo sui magistrati, a Sparta essi non sono soggetti a rendiconto, per lo meno non
periodicamente; il rendiconto ateniese, invece, ha scadenze regolari e, in teoria, risponde a esigenze di
chiarezza e di quantificazione. L'oggetto dell'azione politica viene sottoposto al controllo generale, che deve
fare astrazione dalla persona dei magistrati e giudicare obiettivamente le loro spese. Il cittadino è invitato a
vedere i testi delle leggi e, se ne è in grado, a leggerli: questi testi, infatti, sono di dimensioni medie, non tanto
lunghi come certi testi legislativi delle aristocrazie. Diversamente, i testi di contabilità sono fitti di sezioni e
sottosezioni, dati aritmetici e finanziari, e non è casuale che proprio la cultura democratica propaghi l'enorme
diffusione di questo tipo di epigrafia. La democrazia ateniese classica induce nell'uomo comune della città
democratica abitudine a leggere e a contare: l'esposizione pura e semplice, affinché ognuno possa leggere, è
un tratto tipico solo della democrazia. La trasparenza, caratteristica pubblica e primaria della democrazia
classica, è messa in evidenza nel ritratto che Tucidide fa di Pericle, definendolo "trasparentemente
incorruttibilissimo in fatto di denaro".

La quantificazione del bisogno


Pericle e Cimone sono due opposti esempi di elargizione. La novità radicale della politica sociale di Pericle è
quella delle indennità pubbliche, cioè denaro pubblico distribuito come ricompensa per l'esercizio di una
funzione pubblica (giurato, consigliere, magistrato, soldato). La liberalità di Cimone consiste nel lasciare i
campi senza sorveglianza a disposizione di "coloro che lo vogliano": ciò che conta è la virtù dell'individuo
Cimone, non la quantità di povertà e bisogno che è soddisfatta. Analogamente è indeterminato il numero di
persone che godono della "mensa dei poveri" di Cimone, e così anche tutti quei poveri a cui Cimone,
incontrandoli per strada, donò vestiti o spiccioli. Quelle qui illustrate sono forme di elargizione arcaica e
aristocratica, mentre soltanto a partire dall'età periclea abbiamo cifre di assistiti o pagati dallo Stato ateniese.

La quantificazione nella decisione politica

Nelle votazioni, legge della maggioranza che prevale sulla minoranza, è evidente e facile da osservare la
connessione tra democrazia e quantificazione; la quantificazione dei voti è la connotazione fondamentale della
democrazia, come si deduce dalle Supplici di Eschilo. A Sparta, i ghèrontes sono eletti con la procedura
dell'acclamazione: i giudici vengono rinchiusi in un edificio e ascoltano e valutano le acclamazioni ricevute
dai candidati, decidendo quale tra loro abbia ricevuto gli applausi più forti. Questa procedura, a cui manca
quella completa quantificazione che la cheirotonìa democratica rende invece possibile, ha ricevuto un
perfezionamento che consiste nel voto per diàstasis, "discessione". La cheirotonìa rende identificabili, al
primo colpo d'occhio, maggioranza e minoranza, nel caso si tratti di due posizioni opposte, inoltre, la mano
sollevata allontana l'occhio del giudice dal viso del semplice cittadino e lo porta a considerare solo la quantità
che il cittadino rappresenta. Plutarco opera una distinzione tra analogia aritmetica e analogia geometrica: la
prima si fonda sulla base del numero, mentre la seconda è basata sui meriti di ciascuno; nella prima l'ìson fonda
il dìkaion, nella seconda il dìkaion decide dell'ìson. La teoria democratica non aveva bisogno della proporzione
aritmetica, nè traeva da essa vantaggi, anche se la quantificazione democratica è una forma aritmetica molto
pronunciata. Quantificazione, verificabilità, visibilità, trasparenza, astrazione della singola personalità,
generalizzazione, bilanci sono tratti che si accordano bene con il razionalismo e l'intellettualismo avanzanti
nel V secolo.

Maggioranza e unanimità

Nell'Iliade, il desiderio di unanimità arriva quasi all'ossessione: bisogna che tutti siano coinvolti e approvino.
In caso di disaccordo, nemmeno l'autorità può imporre la sua volonà. Il fatto che l'autorità possa avere difficoltà
a far applicare la sua autorità rientra nella concezione greca, secondo cui le decisioni che riguardano una
molteplicità di soggetti devono essere prese almeno con un minimo di partecipazione dei soggetti medesimi.
Nel primo libro dell'Iliade, con l'episodio di Agamennone, si può notare come l'assemblea abbia un ruolo di
convalida della decisione del capo: stenta ancora a vedersi una pluralità di soggetti che si possano
democraticamente diversificare nella scelta. Già nell'Odissea si profila l'idea di una spaccatura del corpo civico
e della vittoria della maggioranza: va emergendo una più articolata funzione politica del demos. Anche a Sparta
si profila l'idea di una maggioranza, nell'elezione dei ghèrontes. Qualche secolo più tardi, Tucidide ci
testimonia come l'assunzione di una decisione avvenga tramite il voto, dopo aver ascoltato e discusso una
proposta: l'unanimità sarebbe l'ideale, però, per bloccare decisioni terribili, la maggioranza deve bastare.
Ancora nella società del V secolo, le tendenze unanimistiche sono molto forti. Nelle democrazie moderne si
vede il problema della reversibilità del rapporto tra maggioranza e minoranza, mentre nella polis c'è meno
l'idea del succedersi, al governo, di un partito all'altro: ci sono ondate di uomini legati da amicizia che si
succedono e i ruoli politici sono addirittura rotanti. Il conflitto è tra uomini, non tra raggruppamenti sociali,
anche perchè alcuni gruppi, come donne, stranieri, schiavi e minorenni, sono già esclusi dalla polis: questo
alimenta ulteriormente la vocazione quasi-unanimistica. I decreti di età ellenistica, contenenti dati numerici
riguardo alle votazioni, che ci sono pervenuti, registrano risultati del tipo largamente maggioritario o quasi-
unanimistico e ugualmente si riscontra in Asia Minore, dove maturò, sotto l'influenza attica e ionica, la
generalizzazione dell'idea democratica, propria appunto dell'età ellenistica.
LA DEMOCRAZIA NEL PRIVATO

Attivismo e ottimismo nella concezione di Pericle

Pericle arrivò al potere nel 461a.C., dopo che fu ostracizzato Cimone e vi rimase fino al 429, anno della sua
morte a causa della pestilenza che si era abbattuta su Atene. Con lui si può parlare di attivismo ed ottimismo,
in una prospettiva edonistica: l'età periclea rappresenta un'eccezione nella storia greca, poichè la cultura greca
è fondamentalmente pessimistica. Nell'Epitafio, Pericle fa un largo uso di parole indicanti gioia, soddisfazione,
fiducia, mentre rifiuta gli aspetti di dolore e fatica; egli aggiunge anche la proclamazione del diritto al riposo,
sottolineando la sua visione positiva e ottimista del lavoro. L'attivismo di Pericle nasce proprio dal fatto che la
condizione economica contribuisce alla valutazione della persona, il lavoro produce quindi ricchezza ed
equilibrio sociale e il non lavorare è fonte di vergogna per un cittadino. L'ottimismo pericleo è l'ottimismo
dell'intelligenza: egli vede ottimisticamente la città e i suoi bisogni e individua la realizzazione fisica e
intellettuale dell'uomo nel "vivere come si vuole", nella "vita rilassata, spensierata".

Questo ottimismo si ritrova nelle Supplici di Euripide (appartenenti approssimativamente al 423), riguardo agli
dei: "Qualcuno ha detto che i mali sono per i mortali più numerosi dei beni, ma io ho un'opinione contraria a
questa, e cioè che il bene per i mortali sia superiore al male; se così non fosse, non saremmo neppure in vita".
Proseguendo, però, nella lettura, si rientra via via nel quadro di una concezione pessimistica, allontanandosi
dalla concezione periclea: il bene offerto dagli dei è superiore al male, ma poi gli uomini si rovinano la vita
con le proprie mani. La parte positiva della rappresentazione di Euripide ha molto in comune con il
platonico Protagora: Protagora racconta come l'uomo, nato indifeso, abbia acquistato successivamente, come
dono degli dei, l'intelligenza, la voce, la parola, poi avrebbe incominciato a onorare gli dei e solo in seguito
avrebbe inventato abitazioni e vestiti e imparato a procurarsi da mangiare e da bere e a sfruttare gli alberi.
Secondo Protagora, infine, gli uomini si sarebbero ritrovati a vivere in condizioni di rivalità e ostilità, finchè
Zeus, visto qui in una luce positiva, non ha mandato sulla terra aidòs, pudore nel senso di rispetto reciproco,
e dìke, giustizia. In Euripide, all'interno di una nozione positiva di natura e lavoro, il progresso consiste nell'
abilità nel venire a capo delle difficoltà e il lavoro ha un effetto trascinante; l'idea protagorea è che la divinità
collabori alla nascita della civiltà e della città.

Il sofista Prodico di Ceo, nel mito di Eracle al bivio, afferma che la virtù (areté) porta alla felicità,
contrariamente al vizio (kakìa): l'idea di poter raggiungere una buona condizione sociale, economica, di
rispetto, è ottimistica, ma allo stesso tempo sottolinea come sia necessario passare attraverso la fatica, poichè
la via della virtù non è "piacevole e facile" come quella del vizio. Il nesso presentato tra eudaimonìa e areté è
socratico ed è proprio per questo che è Senofonte, un socratico, a diffondere le teorie di Prodico; l'idea di
Prodico è però permeata da un moralismo che evita di enfatizzare l'efficacia dell'intelligenza umana, della
ragione, della capacità di scelta e che esalta invece il ruolo della virtù. In questo Prodico si differenzia da
Pericle, il quale invece sottolinea il ruolo fondamentale dell'intelligenza umana dichiarando che l'uomo è
intelligente, capace, la natura gli offre mezzi e occasioni, riuscire dipende solo da lui. Queste due differenti
concezioni trovano un riscontro a livello lessicale, nelle parole che i Greci utilizzavano per indicare il
lavoro: érgon è il lavoro inteso come opera, come realizzazione, mentre pònos è un termine che sottolinea la
fatica, il rovescio della medaglia. Nella realtà, le due cose si combinano, tra le due nozioni c'è solamente una
diversità d'accento: la concezione pessimistica è che i risultati si ottengono con fatica. Su questo versante è
schierato anche Esiodo, che mette in luce la facilità con la quale si imbocca la strada della kakìa, facile e piana,
e la fatica del perseguire la areté, la cui via è lunga, scoscesa e aspra. Esiodo rivela pessimismo anche per
quanto riguarda la nozione del tempo, con le quattro età della decadenza dell'uomo; una concezione ottimistica,
però, si intreccia con questa, ed è la prospettiva di poter utilizzare bene il tempo, per realizzazioni operose.

Questo modo di guardare al tempo è carico di attivismo, oltre che di ottimismo, e rappresenta uno dei due
grandi filoni della storia greca, che si intrecciano con naturalezza fin dal patriarca del pessimismo greco,
Esiodo: l'ottimismo che enfatizza la produttività di Euripide e Pericle e il pessimismo innato della sofistica,
che mette l'accento sulla fatica, la rinuncia, la sofferenza. Queste concezioni colgono ciascuna un diverso
aspetto della realtà; il dato fondamentale è, però, l'elaborazione di una teoria della vita, nel corso del V secolo,
che emerge da una nuova situazione di ordine politico e culturale, quale la democrazia periclea e lo sviluppo
della sofistica. Il punto di forza del pessimismo di Prodico (che ha ascendenze esiodee, ma assume una forma
moralistica che è l'esito nobile del pessimismo) è il fatto che trova riscontro nella realtà; esso, però, si presenta
anche come una scelta d'élite, poichè la via ripida e faticosa che conduce alla virtù non è percorribile da tutti
e, di conseguenza, solo pochi possono giungere alla felicità.

Pericle difende lo stile di vita libero e il diritto alla felicità, che è conquistabile grazie alla politica della città:
il suo è un edonismo libertario, egli anticipa le filosofie edonistiche cirenaica ed epicurea. Pericle è ottimista
e fiducioso anche verso gli stranieri e non li allontana: le parole più ricorrenti su questo argomento indicano
fiducia, spensieratezza e buona disposizione d'animo (pisteùein, eupsychìa, rathumìa). Il termine rathymìa,
spensieratezza, si trova in un contesto che può destare qualche perplessità riguarda a saggezza di decisione dal
punto di vista militare: Pericle difende la libertà del corpo, schierandosi apertamente contro la concezione
spartana della formazione fisica a fini militari. Egli muove una critica alla mentalità e all'educazione oplitica,
promuovendo l'idea di uno stile di vita libero e dichiarando: "Amiamo il bello senza sprechi, e ci dedichiamo
alla cultura, senza che questo comporti mollezza". Pericle esalta il lavoro come fonte di ricchezza,
contrapponendo l'attivismo alle ricchezze aristocratiche e evocando quei ceti nuovi che emergono nel V secolo.

Verso l'edonismo?

Con Pericle, il politico è luogo di armonia, mentre il privato è sede delle differenze, ed è la polis stessa che
autorizza e armonizza le differenza del privato. Lo stile di vita proposto da Pericle non è costrittivo nè
repressivo, ma si basa sulla "vita rilassata" (aneiméne dìaita) e sulla "facilità dell'animo", spensieratezza
(rathymìa), sull'ottimismo e sul gusto del bello senza sprechi. E' una filosofia di diritto alla felicità nella libertà,
di uguaglianza formale per tutti, dove ciascuno può esplicare la propria personalità; si trova qui la teoria
democratica della democrazia, in quanto Tucidide rende con obiettività di storico alcuni concetti che pur vanno
contro il fondo comune e generalizzato del pensiero greco e, quindi, che lui non necessariamente condivide
per intero. Pericle, nel suo discorso, fa riferimento alle "belle case private": grandi residenze aristocratiche si
trovavano, a quell'epoca, in campagna, ma probabilmente non è da intendersi ad esse il riferimento di Pericle.
E' improbabile, inoltre, che egli abbia suggerito una identica forma delle case, anche se alcuni scavi al Pireo
hanno rilevato la presenza di case-tipo, popolari; più probabilmente, il suo accenno è basato su un
apprezzamento del bello e della qualità della vita e sulla difesa della proprietà privata. Il suo elogio delle belle
case sembra reggersi su un auspicio e un annuncio: "C'è una bella casa nel tuo futuro". Il privato delle case è,
per Pericle, un compenso al lavoro, come lo sono il pubblico e il religioso. A pagare per il benessere che egli
realizza, però, sono altri, in primo luogo quelli delle città dell'impero: "Da tutta la terra vengono ad Atene tutti
i prodotti, per la grandezza della città".

Sul piano militare è esplicito il desiderio di Pericle di voler eliminare la fatica eccessiva, che si contrappone al
pensiero di Prodico, secondo il quale è kakìa il vivere facilmente e secondo il piacere. Prodico esorta ad
imparare la guerra per poter aiutare gli amici, Pericle invece ha una vocazione alla pace e un ideale antieroico,
egli ha fatto della quotidianità un valore e si preoccupa che la vita non sia occupata da pensieri troppo gravi.
Egli ha una concezione laica dell'esistenza e per lui la sofferenza non è un valore. Gli elementi della
soddisfazione culminano, secondo la morale tradizionale, nella fama e nal prestigio; Pericle, prima ancora di
parlare della fama, polemizza contro la diffamazione che un dissenziente può operare nei riguardi di chi vive
"a modo proprio". Al di là di obblighi civili e militari, resta quindi per Pericle una rilevante quantità di spazio
personale, ed è qui che si inserisce il tema edonistico: con Pericle è allargata la libertà individuale, con una
grande considerazione per la dignità dell'individuo. Questo tema è rieccheggiato in Aristotele, nella Politica,
dove egli afferma che la democrazia si basa sulla libertà ed è l'unica costituzione in cui gli uomini vivono in
libertà: ne sono prova il governare e essere governati a turno e il vivere come si vuole.

La libertà della polis


Nelle guerre persiane si espresse compiutamente la profonda aspirazione alla libertà del popolo greco, che si
coalizzò per far fronte alla comune minaccia di un'invasione persiana.

Ma questo stesso impulso verso la libertà grazie al quale i Greci riuscirono a difendersi dal dominio straniero,
sul fronte interno si presentava come desiderio di ogni singola polis a preservare la propria libertà, la propria
autonomia. Questo fu il motivo che impedì la formazione di un organismo statale.

In seguito alla vittoria greca nelle guerre persiane, per evitare una vendetta da parte del re, fu stretta un'alleanza
fra gli Ateniesi e gli Ioni: un'alleanza che, inizialmente piuttosto elastica, si trasformò in predominio della città
di Atene. Non fu possibile per Pericle istituire un diritto di cittadinanza comune perché fondamento
della polis era l'esercizio personale del diritto di voto da parte di ogni cittadino, cosa possibile in territori
limitati.

L'abbattimento, nel 404, delle Lunghe Mura di Atene, atto terminale della guerra del Peloponneso e fine
dell'egemonia ateniese, fu salutato come "inizio della libertà" per la Grecia. Ma proprio la polis spartana, uscita
vittoriosa da questa guerra, assunse il ruolo che la rivale era stata costretta ad abbandonare. L'avversione del
popolo greco ad ogni legame e subordinazione provocò una reazione antispartana, che portò alla costituzione
di una lega guidata da Atene, ma da allora le parole autonomia e eleutheria indicarono la piena parità fra gli
aderenti ad un'alleanza.

Il senso greco di libertà si manifestò ancora una volta contro Filippo il Macedone, che però riuscì a vincere le
forze elleniche e a costringere tutte le città ad associarsi in una confederazione sotto al suo dominio. Ma questa
unificazione dell'intera Ellade realizzatasi nella lega di Corinto avvenne solo per pressioni esterne e il dominio
della Macedonia, uno stato comunque affine alla Grecia, era interpretato come signoria straniera e privazione
della libertà.

Il dualismo Sparta-Atene

Il dualismo Sparta - Atene, manifestatosi dopo le guerre persiane, derivava da una sostanziale differenza etnica
tra le due polis e non da una contesa per il predominio. Da un lato c'erano gli Spartani: conservatori, cauti,
riflessivi, la loro forza risiedeva nella sophrosyne oltre che nel valore militare; dall'altro lato stavano gli
Ateniesi: rapidi a decidere e a agire, desiderosi del nuovo, protesi verso il futuro. Questa contrapposizione
aveva i suoi effetti anche nella vita politica interna. La preparazione bellica e l'esaltazione della virilità erano
i supremi valori sia per il singolo sia per la comunità nell'ambito della polis spartana. Solo gli interessi della
comunità avevano valore e solo in base ad essi fu rigidamente regolata dallo Stato la vita dell'individuo.

Ad Atene la situazione era diversa. Intorno al 507 Clistene aveva riordinato lo stato. Grazie alla politica navale
di Temistocle la città era diventata la più forte potenza marittima greca; nel contempo, pur rimanendo la
maggior parte della popolazione contadina, la vita si andava progressivamente spostando verso la città. Tra i
cittadini poi, acquistò peso la classe sociale dei teti - i non possidenti - che si erano distinti come marinai e
artigiani e potevano quindi avanzare diritti politici. Anche se già con Solone ai teti era stata concessa la
partecipazione all'assemblea popolare e ai tribunali dei giurati, in realtà però essi non avevano interesse ad
accedere alle cariche in quanto non retribuite. Erano comunque consapevoli di avere pari diritti rispetto agli
altri cittadini e di poter far pesare il loro voto. L'isonomia, l'antico nome usato da Clistene per designare la
legge comune che legava tutti i cittadini e conferiva loro gli stessi diritti, venne gradualmente sostituito da
democrazia, termine coniato in origine dagli avversari aristocratici per indicare il governo del basso popolo e
che in seguito assunse significato non dispregiativo riferendosi ad una forma statale in cui a governare è la
collettività. Infatti in Atene il potere era direttamente esercitato dal popolo, perché magistrature e consigli
vennero ridotti a organi dell'assemblea popolare e la giustizia era amministrata a sorte fra i cittadini.

Eguaglianza e libertà secondo Pericle


Eguaglianza e libertà sono le basi della democrazia ateniese. Nell’epitafio di Pericle, dello storico Tucidide, lo
statista ateniese spiega il suo ideale politico e lo fa con un costante raffronto fra la sua città e Sparta. Per tutte
le stirpi greche bene supremo era la libertà; così era anche per Sparta, ma ai singoli abitanti bastava
l’indipendenza della patria. Anche gli Ateniesi avevano una spiccata sensibilità statale e disposizione al
sacrificio, ma per loro non era tollerabile trascorrere la vita soggetti alla coercizione dello stato.

Al totalitario stato spartano Pericle antepone la concezione statale ateniese. Ad Atene la sfera privata è separata
dalla sfera statale e lo stato cerca di evitare ogni ingerenza e di lasciare ad ogni cittadino la possibilità di
strutturare liberamente la propria vita. Il simbolo della democrazia per gli Ateniesi era l’invito dell’araldo, che
chiedeva se qualcuno volesse prendere la parola. Secondo Pericle, poi, ogni cittadino è in grado sia di occuparsi
degli affari privati sia di formulare il proprio giudizio in merito a quelli pubblici.

L’opposizione fra le forme statali in vigore a Sparta e a Atene deriva da una diversa volontà politica, alla quale
contribuisce il diverso peso che viene dato nelle due polis alla personalità individuale. Anche a Sparta, come
nelle altre città greche, si formarono uomini di notevole levatura, ma essi rappresentavano soltanto il loro
mondo: non si ponevano come individui singoli e il loro valore non scaturiva da sorgenti interiori. Per primo
fu l’ateniese Temistocle ad essere apprezzato come l’uomo che aveva salvato la Grecia con le sue doti
personali. Per la prima volta Tucidide lo indica come individuo che ha messo il suo genio a servizio della
collettività. Temistocle fu il primo ed altri seguirono e Pericle trasse le debite conseguenze dall’aumentata
importanza del singolo, cercando di assicurargli il suo posto nella società.

E’ lo stesso Pericle a precisare che uguaglianza indica, nel diritto privato, l’essere tutti uguali davanti alla
legge, mentre in ambito politico l’abolizione di privilegi di nascita e censo, ma non lo stesso grado di influenza
sulla collettività. Unico parametro per quest’ultimo aspetto è l’aretè. All’uguaglianza meccanica, che ha
compimento nell’assemblea popolare, è affiancata una differenziazione che apra la via ai più abili cosicchè
anche i più poveri possano avere un’influenza politica. Pericle afferma che l’umanità accoppia adempimento
dei compiti privati, sensibilità statale e intelligenza politica. Anziché l’educazione spartana alla guerra, è
necessaria una formazione integrale dell’uomo, che può essere ottenuta solo se viene concesso all’individuo
di poter sviluppare tutte le proprie inclinazioni.

Senza la concezione periclea di libertà e uguaglianza sarebbe inconcepibile il liberalismo moderno, che però
nasce da una mentalità individualistica, mentre per Pericle l’individuo deve sì essere socialmente libero, ma
sopra di lui è la polis che obbedisce a leggi proprie. Lo stato ha la priorità perché è la sola comunità di
formazione naturale entro cui l’uomo può esistere e dal benessere della quale dipende quello del singolo. Di
conseguenza l’individuo poteva usufruire della sua libertà subordinatamente agli interessi della società. La
valutazione della persona, comunque, andava oltre al semplice concetto di democrazia e aprì un nuovo
momento nel pensiero politico greco.

Se a Sparta trovava espressione l’idea politica di socialismo, perché dominanti sono i fini dello stato, la
convinzione di Pericle è che la comunità, nonostante la sua preminenza, possa raggiungere il suo fine supremo
solo se ogni cittadino può sviluppare la propria personalità liberamente.

La politeia, come stato democratico, era per i Greci non una costituzione scritta, ma la forma di vita creata da
un popolo in base alla sua natura e alla sua indole. Gli avversatori di questa forma attaccavano in modo violento
la parole uguaglianza e libertà: all’uguaglianza "aritmetica" veniva contrapposta un’uguaglianza "geometrica",
che non concedesse uguali diritti a uomini non uguali ma che li graduasse in base ai meriti, e la libertà
democratica diveniva sinonimo di sfrenatezza e arroganza e ad essa era opposta la sophrosune. In effetti
sull’ideale democratico di libertà – per sfuggire al servilismo nei confronti di un despota – ricadeva il rischio
della sfrenatezza assoluta, un rischio che lo stesso Pericle vide. Egli afferma che, se nella vita privata ognuno
è totalmente libero di compiere ciò che più gli piace, in quella pubblica evita, per timore, di tenere una condotta
illegale. Il timore di cui parla lo statista ateniese è un timore etico, è paura di violare i limiti che i doveri verso
la società impongono alla libertà individuale. Pericle, rifiutando la coercizione spartana ma ritenendo che il
timore etico sia innato in tutti popoli, sostiene che è necessaria l’ubbidienza volontaria, ma più che altro la
intende come esigenza ideale.
Dopo Pericle: degenerazione dell'ideale di libertà

Nello stesso periodo di Pericle si andava affermando la teoria che il giusto e l’immorale si fondano su
convenzioni e non provengono dalla natura; anche lo stato fu investito da questa concezione. Il sofista
Antifonte dichiara che le leggi sono una limitazione alla natura umana dalla quale l’individuo è spinto a
perseguire i propri interessi: viene così abolito il limite posto dalle leggi sociali e dall’etica alla libertà
individuale.

Contemporaneamente si fece largo la tendenza a considerare la stato un’associazione di deboli contro il diritto
naturale dei più forti. Nella mentalità ci fu quindi un cambiamento che portò l’individuo a sentirsi parte non
più di un tutto – lo stato – a cui fosse legato indissolubilmente, ma comprimario dei suoi diritti di fronte allo
stato. Dato evidente è che l’ottimismo di Pericle, che vedeva il successo della democrazia nella libera dedizione
dei cittadini, non aveva un efficace riscontro nella realtà perché l’egoismo individuale e di classe prese il
sopravvento su una sensibilità politica che guardava soprattutto alla collettività.

L’uguaglianza divenne livellamento meccanico e la libertà venne intesa dalla massa nel senso che il popolo,
che aveva la sovranità, non dovesse essere ostacolato nelle sue decisioni. La degenerazione e la decadenza
dell’Atene democratica era stata causata dalla corruzione dell’idea statale nei cittadini.

Platone afferma che, nel IV secolo, i democratici sono suscettibili a qualsivoglia forma di costrizione e
schiavitù. Nella forma più radicale di democrazia è lo stesso popolo che governa da despota, ma in questo caso
non esiste più lo stato, perché esso c‘è dove le leggi hanno vigore. Il popolo ateniese provava avversione per
qualsiasi guida, però l’assemblea popolare non era in grado di reggere la situazione politica, in particolare
quella esterna. Fino a quando la polis ebbe a che fare con gli altri stati greci, la democrazia riuscì a reggersi,
ma nello scontro con la rigida monarchia di Filippo ebbe la peggio.

A causa del particolarismo i Greci non erano riusciti a costruire una nazione; a causa dello scadimento dell’idea
politica la forza della singola polis era stata annientata. L’impulso dei Greci alla libertà li portò alla distruzione.

La libertà come fattore creativo nella vita culturale

Nonostante la degenerazione e l’esasperazione del concetto di libertà avesse portato ad un’evoluzione in


negativo della politica greca, fu proprio la libertà che diede allo spirito greco lo slancio indispensabile per
produrre opere di notevole valore.

Inizialmente lo spirito indipendente innato nell’uomo greco si innalzò al di sopra della massa quasi
esclusivamente in personalità singole. Con le guerre persiane ci fu un notevole incremento della creazione
personale in tutta la nazione e questo movimento vide il suo centro propulsore in Atene, dove fu lo stesso
Pericle ad incitare i suoi concittadini nell’affinare le loro inclinazioni e a offrire loro la base su cui potessero
cooperare. Atene diventava così anche centro culturale della Grecia. Ma Pericle non voleva che ciò valesse
solo per un ristretto gruppo sociale: la sua democrazia doveva essere uno stato colto, all’interno del quale tutti
i cittadini dovevano partecipare dei beni di un’umanità completa, si creandoli sia usufruendone. Per questo
ebbe cura che ci fossero ricreazione dal lavoro, gare e conviti per la celebrazione di sacrifici e grandiosi edifici.

Agli Ateniesi Pericle attribuisce una gioia cosmica, che è ricettiva di tutto ciò che è bello e grande e che sia
stimolo alla cooperazione.

Lo statista ateniese ritiene che le opere della poesia più alta dovevano essere accessibili a tutti i cittadini, come
lo erano quelle dell’architettura e delle arti figurative: con il pagamento da parte dello stato del biglietto
d’ingresso anche i più poveri potevano assistere alle rappresentazioni teatrali, che non erano semplicemente
spettacolo, ma trasmettevano un messaggio ed erano investite dall’interesse di tutti. L’alto livello culturale
complessivo faceva sì che nessun cittadino ateniese fosse analfabeta, nonostante non ci fossero né l’obbligo
scolastico né scuole statali; comunque lo stato riteneva suo compito provvedere alla cultura per quanto
riguardava le cose pubbliche e si faceva carico delle spese per gli edifici dell’Acropoli, per le opere scultoree,
per i ginnasi e per le feste religiose. La consuetudine di commemorare pubblicamente i caduti in guerra fornì
l’occasione di creare la letteratura in prosa, a cui contribuirono le discussioni dell’assemblea popolare, perché
l’orecchio dei cittadini ateniesi si era tanto raffinato da esigere dagli oratori uno stile perfetto.

Su questa base culturale si svilupparono grandi personalità che aprirono nuove vie su tutti i fronti.
La libertà permise il progresso dell’indagine scientifica. La libertà spirituale di uomini come Eschilo, Sofocle
e Euripide permise loro di creare opere ispirate alla loro personale concezione della vita.
Autonomia e libertà caratterizzano lo spirito di costoro, anche se ciò non implica soggettivo arbitrio perché
per i Greci l’elemento creativo nell’arte non significa libera fantasia, bensì imitazione di una realtà oggettiva.
Ciò era vero per le arti figurative come per la poesia drammatica, per l’indagine scientifica – che prestò
attenzione al dato empirico – come per la storiografia – nella quale la libertà soggettiva trovava un limite nella
legge dell’aletheia.

Libertà nell’assumere un atteggiamento soggettivo e obbedienza alla legge dell’aletheia avevano pari peso
nella scienza greca, anche se presto si rafforzò l’individualismo, che in politica ebbe risultati eversivi e
disgreganti mentre accadde diversamente per arti e scienze.

Nella tragedia quanto più scompare la divinità, tanto più si afferma l’uomo nella sua tragicità individuale.
Nella scultura emerge lo sforzo di ritrarre la figura umana. Questo nuovo spirito non si prefigge di rinnegare
gli antichi canoni: rappresenta non un declino ma uno sviluppo. La centralità dell’uomo espresso nell’arte si
trasferì anche al pensiero. La sofistica nel suo soggettivismo si propone di affermare la libertà
dell’atteggiamento personale di fronte alle cose. E anche l’opposizione filosofica di materialismo e idealismo
si precisa nella libertà di atteggiamento dei Greci.

Per Pericle la libertà e la scienza dovevano avere piena libertà di sviluppo quanto la personalità individuale.
Anche la libertà scientifica rientrava nella libertà democratica, anche se al di sopra di tutto stava l’interesse
dello stato.

Omero e la negazione della libertà di parola

In uno studio sulla libertà di parola nell'antichità è quasi d'obbligo soffermarsi ad analizzare il mondo descritto
da Omero; questa esigenza non ha solo ovvi motivi cronologici, ma deriva anche dal riconoscimento
dell'importanza del ruolo didattico che ebbero i poemi omerici nei secoli successivi.

Occorre anzitutto notare che quella descritta da Omero è una "società stratificata", ovvero assimila elementi
propri di epoche diverse. Sinteticamente, risulta che il potere di decidere spettava ai basileis (fra i quali vi era
comunque un capo, Agamennone), affiancati da boulephoroi (consiglieri, anziani, indovini), con facoltà più
che altro di persuadere. Il ruolo del demos (popolo) doveva essere piuttosto marginale: esso poteva tutt'al più
condizionare uno scontro sorto tra i basileis. Esisteva comunque una certa tensione tra la sfera militare e quella
civile: come rimarca Aristotele, "Agamennone poteva sostenere attacchi verbali nelle assemblee, ma quando
uscivano in campo aperto aveva anche l'autorità di condannare a morte". Nonostante questa pregnanza
dell'aspetto militare, il ruolo della parola viene esaltato in vari passi.

Sembra che il diritto di parola non fosse limitato da leggi particolari, ma piuttosto regolato da consuetudini e
dalla necessità di parlare katà moiran o katà kosmon (secondo misura). Questo traspare chiaramente dal
celebre episodio di Tersite: l'uomo del demos viene punito non per l'atto in sé di prendere la parola, ma per
aver detto frasi sconvenienti, anche se accuse simili erano già state pronunciate, con esito diverso,
dall'aristocratico Achille. Si ripropone quindi la tensione tra un diritto non regolamentato da criteri oggettivi e
una rigida organizzazione gerarchica.
Ma forse l'episodio più significativo a questo proposito è quello in cui Agamennone sottrae Briseide ad Achille
con queste parole: "sì che tu sappia che sono più forte di te ... e tremi anche un altro di parlarmi alla pari".
Questa è l'aperta negazione di una reale possibilità di un uguale potere di parola in una società strutturata come
quella omerica.

L'ideologia "isegorica"

Nel mondo della polis quello della parola era il principale strumento di potere: è quindi ovvio che, soprattutto
nell'età di Solone, gli strati emergenti lottassero per ottenere il diritto di esprimersi in assemblea, definito con
i termini isegorìa e parrhesìa. Semplificando una questione molto dibattuta, si può tradurre il primo con
"uguale potere di parola", attribuendogli un valore prevalentemente civile; il secondo come "libertà di parola",
con carattere più etico. Tuttavia i due termini si sovrappongono spesso e assumono sfumature diverse a seconda
dell'autore.

Nei testi del V secolo. il dibattito sul diritto di parola viene associato a quello sulle varie forme di governo
(politeiai); tali riflessioni, pur mantenendo carattere prevalentemente teorico, nascono però da una realtà
vissuta. L'anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi, pur essendo di parte aristocratica, riconosce la
coerenza dell’ordinamento preso in esame, in cui a uguali funzioni militari ed economiche corrisponde un
uguale potere di parola. D'altra parte, è preoccupato che questa estensione dell'isegorìa possa determinare una
"svalutazione" della qualità della parola, quindi ritiene che tale diritto dovrebbe essere riservato unicamente a
quelli che egli definisce "i migliori" (cioè agli aristocratici), ignorando le importanti funzioni svolte dal resto
della popolazione. Nel Protagora di Platone anche Socrate si mostra perplesso riguardo alla disomogeneità
dell'assemblea, ma Protagora replica che Zeus ha distribuito a tutti l'arte politica, quindi è giusto che tutti
partecipino alle decisioni. Erodoto invece, senza addentrarsi in disquisizioni teoriche, si limita a constatare un
dato di fatto: che Atene, con l'introduzione dell'isegorìa, era diventata la polis più potente di tutte. Infine
Euripide, in un passo delle Supplici, evidenzia la relazione che lega l'isegorìa alla libertà e all'uguaglianza,
insieme a sottolineare un aspetto di questo diritto spesso dimenticato: la libertà di tacere.

Nel IV secolo la riflessione sul diritto di parola lascia il posto a riaffermazioni di questo principio e
considerazioni di carattere deontologico riguardo a quanti di tale diritto avevano fatto una professione:
i rhetores. Emblematica è l'affermazione di Eschine: "E' necessario che l'oratore e la legge parlino lo stesso
linguaggio".

Ma contemporaneamente Senofonte attribuisce allo stoico Zenone questa significativa osservazione: "Non
andrà in malora lo stolto, se si opporrà al saggio?". La stoltezza ha ormai preso il posto delle differenze
gerarchiche o sociali.

Le restrizioni all’isegorìa

Dall'orazione di Eschine Contro Timarco si possono ricavare diverse informazioni sulla procedura delle
assemblee in Atene. Nella formula di apertura del dibattito veniva data la precedenza ai cittadini che
avessero compiuto i 50 anni, secondo il modello gerontocratico già presente in Omero; tuttavia questa
norma ai tempi di Eschine non doveva più essere ufficialmente operante, sebbene sentir parlare un
giovane continuasse a sembrare sconveniente. Dopo questa notazione, Eschine illustra le categorie
escluse dal diritto di parola: chi è venuto meno ai propri doveri verso i genitori, chi ha scialacquato il
patrimonio, chi si è prostituito (è questa l'accusa rivolta a Timarco) e chi non ha preso parte alle
spedizioni militari a lui prescritte o ha gettato lo scudo. Il principio di fondo della censura è chiaro: chi
si mostra indegno, anche se nella vita privata, non può che nuocere all'assemblea; c'è quindi un'analogia
tra l'ambito della colpa e quello in cui viene applicata la pena. Ma Demostene si spinge oltre, volendo
applicare la censura agli avversari della democrazia, in quanto essa doveva difendersi anzitutto dai
nemici interni. In effetti, l’affermazione del regime dei Quattrocento fu resa possibile dall’abolizione di
alcune misure restrittive alla libertà di parola: sebbene un’assoluta isegorìa in teoria potesse garantire
la possibilità di rovesciare sul nascere un tentativo oligarchico, di fatto i congiurati si assicurarono il
totale controllo delle assemblee, senza che alcuna legge li potesse più ostacolare.

Comunque, l'esclusione dal diritto di parola diventò in breve strumento di lotta politica, specie in quella
che si può considerare la sua forma più radicale, l'esilio, tramite l'ostracismo.

Ideologia e pratica concreta

Resta da stabilire se nella pratica il diritto di parola fosse realmente uguale per tutti, come sancito in
teoria, indipendentemente dal fatto che spesso pochi ne usufruivano. Tucidide e Plutarco narrano come
Pericle, dopo la guerra del Peloponneso, avendo la popolazione contro, fece temporaneamente
sospendere le assemblee; ma si tratta di un caso unico. Molte testimonianze sottolineano la varietà tra
le parti in contrasto, sia a livello di fazioni, sia di singoli oratori. Erodoto, descrivendo un'assemblea
riguardante l'interpretazione di un oracolo, contrappone prima i "più anziani" agli "altri", poi narra
come l'intervento di Temistocle abbia confutato gli interpreti ufficiali; Plutarco descrive un diverbio tra
il celebre Milziade e il giovane Sofane (sebbene biasimando quest'ultimo); lo stesso Plutarco, Tucidide e
Senofonte parlano di oratori sconosciuti che contrastano grandi rhetores. Anche il teatro inoltre, con
Aristofane ed Euripide, dipinge spesso scene di reale isegorìa.

Tuttavia, sebbene chiunque potesse parlare, lo scarto maggiore tra ideologia e pratica reale si può
cogliere sul piano della "qualità" della parola espressa: il pieno esercizio della libertà di espressione
poteva condurre a risultati drammatici. Da un lato, vi erano le limitazioni regolari alla parrhesìa,
fondate sul principio che l’assenza di proposte sovvertitrici garantisce la democrazia, a cui si
affiancavano restrizioni che riguardavano argomenti particolarmente delicati, per evitare pericolose
tensioni. Tuttavia, l'isegorìa alla base del regime democratico doveva garantire che tali restrizioni non
venissero percepite come arbitrarie, mentre il potere dispotico era visto come naturalmente associato
all’arbitrio, come testimoniano le tragedie e le Storie di Erodoto.

D’altra parte, vi erano le reazioni spontanee della folla, che spaziavano dal semplice schiamazzo
(thorybos) a minacce ben più gravi all’incolumità dell’oratore. Tuttavia le conseguenze, soprattutto
psicologiche, del thorybos non vanno sottovalutate, specialmente quando a parlare era un oratore di
scarsa esperienza: Demostene, reduce da una brutta esperienza di tal genere alla sua prima orazione,
dipinge spesso lo schiamazzo assembleare come una forma di intolleranza, oltre a denunziare l’uso
manovrato a cui questo fenomeno si prestava. Quanto a episodi più gravi, Erodoto ad esempio narra la
tragica fine di un membro della boulè, Licida, morto lapidato insieme alla moglie e ai figli per aver
proposto di accettare le offerte di Mardonio. Racconti simili sono stati descritti da Licurgo e Aristotele,
ma accanto a essi ce n’è uno di Eschine che testimonia l’esistenza di intimidazioni alla libertà di
espressione anche da parte di singoli: un tale Cleofonte avrebbe minacciato di "tagliare la gola col suo
coltello a chiunque avesse parlato di pace".

Il ruolo di Aristofane

Durante la guerra del Peloponneso si può constatare una notevole libertà di parola lungo l'intero periodo
sia da parte dei commediografi, come Aristofane, che prendevano spunto dalla vicende a loro
contemporanee per i testi delle opere sia da parte dei filosofi, come Socrate, che mettevano in discussione
le certezze in un epoca di guerra. Il problema che verte sulla libertà di parola è sicuramente
simboleggiato meglio da Aristofane che da Socrate perché gli ateniesi non temevano la critica in campo
politico, avevano fiducia in loro stessi, nella loro autodisciplina, nel proprio giudizio e nei loro capi
politici. Quindi gli Ateniesi non erano colpiti dalle commedie, mentre lo erano dagli attacchi dei filosofi,
questa caratteristica dipende anche dal demos incolto che è preda dei demagoghi: i filosofi infatti
tendevano a condannare la democrazia e ad insegnare forme alternative di governo.

Il ruolo di Diotipe

D'altra parte Diopite aveva proposto una legge che condannasse coloro che insegnassero astronomia e
che negassero l’esistenza degli dei, per cui dal 432 al 429 a.C. furono colpiti per lo più gli intellettuali
per le loro idee in quanto era presente il timore di perdere il sistema democratico che era stato
conquistato da Atene provocato da superstizioni religiose e dalla corruzione dei giovani, ricavata da un
nuovo tipo di educazione prettamente sofistica.

Letto in quest’ordine di idee anche l'episodio della mutilazione delle erme acquista un risvolto
ideologico-politico, poiché era stato provocato dagli esponenti delle classi aristocratiche di Atene per
disturbare la spedizione in Sicilia, segno che non era ben accetto nessun cambiamento anche se il
tentativo fallì e la spedizione si effettuò dando luogo a una perdita totale dell’esercito.

L’esito della mutilazione delle Erme:

La mutilazione colpì l’emotività popolare in modo così brusco da dare inizio a una serie di condanne e
processi tra cui la vittima più illustre fu Alcibiade e il clima in città era ricco di tensione si impediva una
vendetta divina. L'obiettivo dei capi oligarchici era stato raggiunto con una combinazione di terrorismo
e infine di propaganda per instaurare il loro regime, così nel 411 a.C. l'assemblea votò l'insediamento di
un Consiglio composto da 400 membri a discapito della democrazia.

Alcibiade, ritornato in patria, ottenne il comando militare e la democrazia fu rinstaurata, ma il demos si


mostrò tollerante e non perseguitò i responsabili del colpo di stato; con questa tolleranza firmò la sua
condanna quando Sparta nel 404 a.C. vinse la guerra e instaurò in Atene il governo dei Trenta Tiranni.

Pericle e l'idea di democrazia

Pericle fu l'uomo che realizzò pienamente la democrazia in Atene e le diede un formamento teorico. Non a
caso il termine stesso di democrazia comparve per la prima volta nell'età che da Pericle prese il nome.
Idea centrale di Pericle fu che l'assemblea di tutti i cittadini ateniesi, l'Ecclesia, avesse il diritto di decidere il
destino di Atene senza altri limiti che quelli imposti da se stessa. Egli riteneva la democrazia la forma più
evoluta di governo, per cui Atene, madre della democrazia, poteva e doveva considerarsi scuola della Grecia.

Sul piano culturale Pericle incentrò la celebrazione della democrazia intorno al concetto di kleos, cioè la fama
che si riverbera nel tempo, dando luogo ad una memoria. Mentre precedentemente il kleos era raggiungibile
solo dagli aristocratici, o da chi avesse i mezzi necessari per far celebrare le proprie gesta attraverso canti,
monumenti e operein suo ricordo, la democrazia offrì al cittadino comune la possibilità di consegnare il suo
nome alla storia attraverso la partecipazione attiva all'assemblea.
Pericle sosteneva orgogliosamente: "Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e
molte prove e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un
altro" (Tucidide II,41,4).

Nell'ottica di Pericle democrazia ed economia di mercato rappresentavano le due facce di una stessa medaglia.
Egli riteneva che gli Ateniesi sviluppando l'economia di mercato si erano svincolati dalle rigide norme
precostituite dalla tradizione, rendendosi individui liberi e in grado di far funzionare la libera assemblea
democratica. Attraverso la partecipazione all'assemblea popolare i cittadini ateniesi gestivano il governo della
cità in ogni suo aspetto. Le funzioni svolte nella democrazia moderna dai vari apparati governativi,
amministrativi, giudiziari e militari erano prerogative dirette dell'Ecclesia, che sceglieva i cittadini destinati
alle diverse mansioni, riservandosi il diritto di controllo permanente sulle loro attività e di revoca dalle loro
cariche in qualsiasi momento.

La funzione giurisdizionale aveva una enorme importanza nella democrazia ateniese, perché non si limitava a
risolvere le controversie tra i cittadini, ma stabiliva anche se essi avevano adempiuto alle loro mansioni
pubbliche e ai loro doveri religiosi, oltre che deliberare sulla conformità delle decisioni popolari rispetto alla
costituzione di Atene. Nell'età di Pericle l'attività giuridica era svolta dall'insieme delle giurie popolari: l'Eliea.

Pericle e la demagogia

Il passaggio da Pericle al dopo-Pericle non si presentò con la semplicità di un lineare processo di involuzione
della democrazia. Il processo passò attraverso soglie diverse, per assestarsi in forme che ad Aristotele appaiono
sempre più radicali. Riguardo Pericle la visione di aristotelica rivela forti analogie con quella di Tucidide. Per
entrambi egli rappresenta una soglia di equilibrio instabile dopo la felice parentesi dell'areopagocrazia.

La figura di Pericle viene accostata da tutti e due gli autori, ed in particolare da Aristotele (cif. Costituzione
degli Ateniesi cap.29), all'evoluzione, o meglio involuzione del significato di demagogo (dal
greco demagogòs), originariamente semplicemente corrispondente a "capo del démos", che acquisì solo
successivamente una accezione negativa. Pericle si trovò diviso tra una situazione di 'meglio relativo', favorito
dalla sua posizione politica, e un 'peggio sicuro'.

Allo stesso modo, tra V e IV sec., considerando il clima di antidemagogia presente, il termine demagogo si
distribuì equamente sul versante positivo e negativo: si avviòl già a diventare una parola negativa, ma mostrò
pur sempre la sua neutralità originaria, la sua compatibilità con un senso positivo.

Dopo Pericle: da democrazia radicale a moderata? Il giudizio

Secondo Aristotele la democrazia del V sec. è distinguibile da quella del IV sec. perché col 403 a.C. cominciò
una nuova, e undicesima, fase costituzionale che, a suo giudizio, si protrasse fino ai suoi giorni; ma, per lui,
questa fase non era diversa in quanto moderata. Egli sostiene che dal 403 a.C. in poi non ci fu uno strappo di
tipo costituzionale, perchè anzi dice che si verificò una crescita del potere popolare: "Di tutto, infatti, il popolo
ha fatto se stesso sovrano, e tutto è amministrato con decreti e con tribunali, in cui è il popolo a comandare"
(42,2). Aristotele fa riferimento al rapporto tra bulé e ecclesìa da un lato, e agli istituti giudiziari dall'altro:
sotto questo profilo, la continuità tra V e IV sec. è evidente." Infatti anche i giudizi della bulé sono passati alla
competenza del demos": persino nel passaggio di un passaggio di una competenza dal Consiglio dei
Cinquecento all'assemblea egli vede il rafforzamento della exousía ("potere") popolare, anche se all'interno
della struttura democratica, il Consiglio dei Cinquecento sembrò un momento un po' meno "popolare"
dell'assemblea.

Forme e uomini della politica tra V e IV sec.

Per i capi politici nel IV sec. era molto diffuso il termine rhétores, uomini politici che esprimevano - o
cercavano di guadagnare - il loro potere, il loro prestigio, la loro influenza politica, sugli interventi in
assemblea. Nel IV sec. la politica divenne professione. Il rhétor era, in definitiva, il politico professionale, che
si formava nelle scuole di retorica , sia quelle formali, sia quella scuola "di fatto" che era la stessa
partecipazione alle assemblee. Egli era il proponente di leggi e norme nell'assemblea, nel consiglio, nei
tribunali ecc. e colui che contrastava o sosteneva iniziative prese da altri. Spesso tra i politici del V sec. Era
più comune l'accostamento di rhétores kaì strategoí. Gli strategoí presiedevano i tribunali nei casi in cui
entrano in vigore leggi militari o nelle dispute tra trierarchi; hanno il diritto di assistere alle riunioni
della boulé e di rivolgersi ad essa senza un'autorizzazione speciale.

Nel cap. 28 della Costituzione degli Ateniesi i demagogoí sono ordinati secondo coppie, a volte claudicanti,
non omologhe tra loro. Lo schema della coppia ha in realtà una valenza diversa nei diversi casi: ora si tratta
semplicemente di una coppia di demagogoí che si succedono nel tempo, ora di una coppia di antagonisti che
individua un bipolarismo molto preciso nella tradizione della democrazia radicale, ora, infine, di una coppia
di persone che hanno operato nello stesso campo e in qualche modo sono state anche rivali tra loro, ma
appartengono alla stessa matrice.
Tutto il sistema delle coppie prelude nel suo insieme alla nascita di qualcosa di nuovo facendo riferimento alla
situazione creatasi ad Atene dopo le Arginuse ed Egospotami. Vi si individuano tre grandi correnti politiche:
le due che riproducono in maniera rigida la dicotomia e il bipolarismo del V sec., e una terza posizione,
intermedia, che si formò intorno all'idea di pátrios politeía, la costituzione attiva o dei padri.

Dopo Pericle nell'opposizione tra Nicia e Cleone, emersero connotazioni di ordine sociologico e
comportamentale nel modo della demegoría: Cleone faceva i suoi discorsi al popolo tra urla e insulti, vestiva
e gesticolava in maniera incomposta.

Il profilarsi sulla scena politica di personaggi come Teramene e Cleofonte fu il segno dell'emergere di nuovi
ceti che ambivano alla leadership politica. Con ciò si assistette a un altro assestamento verso il basso, nel
processo di declino già individuato da Aristotele, e al tempo stesso a un notevole cambiamento sociologico.

Cleofonte fu il primo a creare la diobelía . Da lui in poi, fu un susseguirsi di demagoghi che


volevano thrasýnesthai (strafare) e charízesthai (guadagnarsi credito).Sembrerebbe, in sostanza, un continuo
peggiorarsi della situazione fino al tempo di Aristotele. Pericle dunque rappresentò una soglia ancora
largamente positiva: ma una nuova soglia, che segnò con sicurezza il declino, è rappresentata da Cleofonte.
Dopo Pericle, e soprattutto da Cleofonte in poi, fu un acuirsi dei comportamenti demagogici, di prepotenza,
corruzione e sobillazione della folla.

Schieramenti nella democrazia: da un polo al tripartitismo

Nella prima democrazia (da Clistene ad Efialte) non era ancora presente una radicale divaricazione nelle
prospettive politiche, interne ed esterne, di Atene. Clistene, infatti, non ebbe un vero e
proprio antistasiótes (oppositore/antagonista) dopo il confronto con gli oligarchi raccolti intorno a Isagora.
Clistene restò senza rivali: lo schema bipolare dei due partiti non era ancora emerso in maniera chiara. La
democrazia nacque come forma generalizzata, che unificava intorno a prospettive comuni un'intera città.
Semmai l'avversario era la tirannide, che porta totalmente fuori dal campo della democrazia.

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Solo con la coppia Santippo-Milziade l'unità "sociologica" di fondo della prima democrazia cominciò a
incrinarsi ed articolarsi.

Altra coppia che si discosta dallo schema dicotomico/bipolare è quella formata da Temistocle e Aristide. In
realtà, sul terreno della politica di impero, i due agirono nello stesso senso, Aristide con maggior rispetto per
gli alleati, Temistocle facendo posto ad una certa aggressività: il loro, comunque si trattò di successione, più
che di un vero e proprio antagonismo.

Poi, con l'evoluzione tipica dei processi organici si giunse al periodo della radicale contrapposizione, della
classica divaricazione dei contrari. Il bipolarismo emerge con chiarezza nell’opposizione Efialte-Cimone;
con Pericle-Tucidide il bipolarismo si affermò in maniera più netta.
Il personaggio che pose fine a questo processo fu Teramene. La storia del bipolarismo si concluse alla fine del
V sec. quando si assistette al sorgere di un partito del centro che segnò la nascita di una nuova tradizione
democratica.

Questo fu il segno dell'emergere di nuovi ceti che ambiscono alla leadership politica. Cleofonte, opposto a
Teramene, era un esponente della nuova classe "borghese". Si assistette ad un altro assestamento verso il basso,
nel processo già individuato da Aristotele, e al tempo stesso emersero, nuove connotazioni di ordine
sociologico e comportamentali nel mondo della demagoría. Ad es. Cleone faceva i suoi discorsi tra urla e
insulti. Teramene rappresenta quella posizione moderata intermedia che divenne, nella cultura politica del IV
sec., la soluzione migliore. Cleofonte fu il primo a fornire la diobelía , l'indennità dei due oboli. Iniziò poi una
successione di demagoghi che volevano thrasýnesthai (strafare) e charízesthai (guadagnarsi credito).

Passaggio tra V e IV sec.

Nel 403 a.C. avvenne la restaurazione della democrazia dopo i Trenta tiranni. Si diffuse una tripartizione in
oligarchi, democratici, oligarchi democratici; questi ultimi finirono con l'identificarsi con i democratici
moderati che vagheggiavano la pátrios politeía.

L'idea di tripartizione era intrinseca alla storia politica di Atene. Originariamente infatti vigeva quella
tripartizione su base regionale che sottintendeva interessi economici diversi all'epoca di Solone: i Pediaci (della
pianura), i Diacri ( della zona montuosa), i Paralii ( della costa).

La tripartizione è individuata da Aristotele come un processo in cui i due opposti si risolvono nella forma
media. La patrìos politeia divenne infatti un momento di sintesi , un recupero della tradizione democratica
clistenica che fece i conti con la situazione reale del momento.

Legislazione del V sec.

In questo periodo fu emessa una notevole quantità di leggi e decreti. La separazione tra queste norme non è
del tutto rigida.

I decreti sono virtualmente norme individuali, o con un tempo limitato di validità, e quindi non possono essere
estranei del tutto alla definizione di nòmoi. Inoltre un passo del IV libro della Politica di Aristotele ne dà una
classificazione sociologica, ideologica e politica a seconda dei vari tipi di democrazia: dopo la seconda
restaurazione democratica il problema della revisione delle leggi della "selva" legislativa è diventata
fondamentale. Con l'esplosione legislativa del V sec., in piena corrispondenza con i caratteri della democrazia
radicale, leggi e decreti si sono moltiplicati; quindi alla fine del medesimo secolo risulta necessario per la
cultura dell'epoca una revisione delle norme.

I "nuovi" politici

Elementi della trasformazione democratica tra V e IV sec. consistettero nel cambiamento dei politici
nell'estrazione sociale (che registra un notevole calo di livello), nella professione esercitata, nei comportamenti
personali tenuti nella sfera delle attività pubbliche.

Nel testo di Aristotele viene indicato appunto un passaggio dall'antico al moderno. Gli archaîoi includono i
politici fino a Pericle compreso , ma costui pur essendo tra gli epierkeîs, è pure il primo dei béltistoi o nuovi
politici. La linea divisoria passa più o meno tra Pericle e Cleone, anche se non li divide quella bathytáte
tomé (taglio profondissimo) che secondo Plutarco intercorre invece tra Pericle e l'oligarchico Tucidide di
Malesia.
Cleone fu un personaggio nuovo nelle origini, nella professione, nei comportamenti, ma in sostanza, si
differenzia di poco da Pericle in tema di iniziative politiche: egli continuò la politica bellicistica periclea anche
se in toni più acuti e incrementa il sistema delle indennità dicastiche inventato da Pericle, usando non più solo
i soldi della Stato, ma aggiungendo del suo.

Il cambiamento della struttura del conflitto politico si verificò anche nel modo diverso in cui si conseguì il
potere. Alle coppie dei grandi rivali che si susseguirono per gran parte del V sec. segue la pletora, in parte
anonima dell'epoca successiva; dai demogoghi si passò ai rhétores, ai demagoroûntes, ai politeuómenoi (intesi
come politicanti).

Professionalizzazione della politica

Nel IV sec. si assistette, soprattutto per il grande ruolo dell'oratoria, a una specializzazione della politica.

Il V sec., sia da un punto di vista culturale sia politico, fu molto vivo per i grandi scontri di idee e di principi
sottoposti ad una lacerante forza propulsiva. Nel IV sec. la fecondità del modello greco venne consolidata
anche, se in forme più blande, attraverso la professionalizzazione.

In questo processo si affiancò alla coppia rhétores e strategoí un'altra categoria di personaggi politici, sono le
nuove cariche finanziarie che vennero rivestite con le elezioni forse per quattro anni (il che costituisce una
forzatura del principio democratico della rotazione annuale).Tutto questo significa che la scienza delle finanze
progredì nel pubblico e nel privato, poichè si fece strada l'idea del guadagno e dell'imprenditoria. Ad ogni cosa
si accostarono le idee di capitale e di interesse. Accanto alla professionalizzazione si assistette ad una
concentrazione del potere che si riscontrò nella tendenza a rieleggere più volte uno stesso individuo.

Certamente nel IV sec. ci furono politici che si arricchirono e ricchi che presero parte alla vita politica. La
struttura del conflitto politico cambiò, mentre si consolidò l'aspetto istituzionale: nuovi ceti in crescita
economica raggiunsero il potere. La democrazia non si colorò di quella moderazione intesa come un ritorno
indietro a livelli acquisiti di partecipazione a diritti e istituzioni.

D'altra parte però, si sviluppò l'idea di homónoia, cioè concordia che consistette nella rimozione di ostilità
radicali, grazie all'assestarsi delle varie parti sociali in ruoli diversi; in tal senso si può parlare quindi di una
democrazia in forma moderata in cui, però, il divario fra ceti abbienti e meno abbienti aumentò.

Economia del IV sec.

Nel IV sec. si registrò un crescente scontro e una marcata disomogeneità tra il gruppo dei ricchi, costituito
dalla vecchia aristocrazia fondiaria e dagli esponenti del nuovo ceto borghese, e quello dei poveri invece piccoli
contadini schiacciati dai debiti e artigiani, che in quasi tutta la Grecia portarono ad una forte crisi.

La democrazia ateniese offrì una soluzione a questo nuovo problema grazie allo sviluppo di ceti privi di
proprietà che costituirono nuove situazioni economiche con l'affiorare di una mentalità imprenditoriale che
risultò un prolungamento della mentalità periclea, ma che si presentò in forme talora degradate e con una non
lieve sofferenza sociale.

Indennità e sussidi

Nel IV sec. si assistette alla crescita di una povertà non generalizzata, ma piuttosto ad una maggior lacerazione
del tessuto sociale un maggior divario tra ricchi e poveri.
Il dikastés continuò ad essere pagato, ma la somma non era molto elevata. Si ebbe una sorta di divaricazione,
di polarizzazione, per cui le forme assistenziali non vennero meno gli elementi meno abbienti accedettero con
frequenza.

Una democrazia come quella dell'età di Pericle, che teneva continuamente occupati i cittadini nell'attività
politica, doveva essere retribuita. La partecipazione all'Ecclesia e alle altre assemblee era pagata con
due oboli per ogni giorno di seduta (quanto bastava per acquistare il minimo cibo giornaliero); mentre i marinai
erano pagati tre oboli per ogni giorno di servizio sulle navi.

IL PENSIERO POLITICO GRECO

Un primo problema deriva dalla necessità di usare termini attuali per descrivere ed interpretare tale concetto,
con il rischio di " modernizzare" quanto è oggetto di esame e, quindi, di non esprimere esattamente il relativo
significato, attribuendone ad esso uno attuale. Un’altra difficoltà è quella connessa con l’esigenza di riuscire a
cogliere l’ampiezza del contenuto e del significato di un concetto del passato, oltre che di riuscire a descriverlo
ed esprimerlo, in tutta la sua portata, con parole adeguate.

Tali problemi e difficoltà emergono in misura notevole e, in particolare, quando si esamina il termine di
democrazia, parola ampiamente presente nel linguaggio politico moderno il cui significato e portata sono, però,
del tutto diversi da quelli ad essa attribuiti nel periodo della democrazia greca.
Nella Grecia del quinto e del quarto secolo,demokratia è una parola polemica e di "lotta" che esprime il
carattere aggressivo di questa forma di governo che viene intesa come kràtos, cioè come dominio esclusivo ed
anche violento di una parte (il popolo) sull’altra, sui propri avversari. Il significato attuale ha perso
completamente ogni connotazione di tale genere ed esprime valori del tutto assenti dalla nozione greca ed,
anzi, opposti ad essa.

Oggi con la parola democrazia, si intende far riferimento ad un sistema politico caratterizzato dalla tolleranza
e cioè da una situazione in cui posizioni differenti si scontrano, ma senza violenza e prevaricazione e con
reciproca accettazione. Sarebbe quindi errato, allorché si intende indicare la nozione greca di democrazia, il
far riferimento al significato attualmente attribuito a tale espressione.L'antropologo Gernet, cercando di
esprimere una connotazione sommaria della democrazia greca, evidenzia come, con riferimento alle nostre
concezioni politiche, essa dovrebbe considerarsi una oligarchia, cioè una situazione di dominio e
concentrazione di potere di una parte sull’altra, tanto che si deve ritenere che fossero più democratiche le città
con il maggior numero di schiavi e cioè le città nelle quali vi era maggiore disparità tra il mondo dei liberi e il
mondo degli schiavi: ciò perché, appunto, il carattere essenziale della democrazia era quello di appropriazione
e di dominio esercitato dal popolo, tanto da poter affermare che "i diritti dell’uomo non sono propriamente a
cuore alla democrazia".
Mentre nel quinto secolo la democrazia era innanzitutto "politica" e cioè si esplicava essenzialmente sul piano
politico e non solo sul piano economico (ogni cittadino di ceto popolare aveva rilievo in quanto tale e la sua
posizione non era contrapposta e di rivendicazione nei confronti di chi possedeva la ricchezza in quanto,
appunto, possidente), nel quarto secolo emerse la contrapposizione tra il ceto popolare, in quanto privo di
ricchezze e il ceto di chi aveva le proprietà e la ricchezza. Ciò tra l’altro è deducibile da parecchie orazioni di
Demostene nelle quali si evidenzia la necessità di cessare i processi volti a colpire i ricchi e l’esigenza di un
patto sociale attraverso il quale si garantiscano sovvenzioni pubbliche al popolo.

Nella seconda metà del quarto secolo la democrazia , oltre a colpire sul terreno dell’economia diviene
"totalizzante" poiché coinvolge tutte le attività del cittadino che esercita il suo kràtos sia come uomo politico
che come giudice e, comunque, in modo molto ampio addirittura utilizzando un’azione di censura e di
intervento nell’elaborazione artistica, determinando ciò che i comici devono dire ed esprimere. Va evidenziato
che non esiste una teoria della democrazia greca elaborata da chi sosteneva tale istituto e che le uniche teorie
in proposito possono essere ricavate da ciò che ne hanno detto i suoi avversari.

Di fondamentale rilevanza è l’opera di Tucidide dalla quale, in sostanza, emerge la sussistenza di un nesso
contemporaneamente di identità e di contraddizione tra libertà e democrazia. Nell’epitafio di Pericle, riportato
da Tucidide, il concetto di democrazia appare essere in antitesi con quello di libertà perché la democrazia si
manifesta come la negazione della libertà di chiamare a far parte del demo.
Tucidide, al contrario, identifica il regime democratico con il concetto di libertà quando, parlando del colpo di
stato del 411 ad Atene, afferma che, in tale occasione, fu tolta al popolo la libertà conquistata cento anni prima
con la cacciata dei tiranni. Da questi due contrastanti idee di democrazia ne derivano altre due ugualmente
opposte l’una all’altra: da un lato, da parte di chi identifica la democrazia con la libertà, vi è la coincidenza di
oligarchia e tirannide, mentre, dall’altro lato chi ritiene che la democrazia sia kràtos, cioè dominio oppressivo
ed esclusivo del popolo in contrapposizione alla libertà e alla uguaglianza, identifica la stessa democrazia con
la tirannide intesa come dominio del popolo ai danni degli oligarchi e cioè dei possidenti e di coloro che
vorrebbero un regime di libertà e di uguaglianza in cui sia premiata la competenza e la qualità piuttosto che la
violenza.

Il pensiero politico greco tenta di superare questo contrasto nella concezione di democrazia, introducendo un
concetto correttivo valido per ciascuna forma costituzionale, prevedendo una forma buona ed una cattiva per
ognuna di esse e, quindi, una buona ed una cattiva democrazia, un buona ed una cattiva oligarchia, una buona
ed una attiva monarchia (tirannide). Ciò significa che ogni forma costituzionale presenta delle possibilità
positive e delle possibilità negative che permettono di esprimere, in ogni situazione particolare, valutazione
positiva o negativa a seconda che prevalgano le une o le altre. Questa elaborazione del pensiero greco è
teorizzata esplicitamente da Aristotele che, addirittura, usa due termini diversi per indicare le due possibilità
nell’ambito della democrazia, politeia per individuare quella buona e demokratìa per la cattiva, identificando
la politeia con un regime in cui un consistente ceto medio attenua i conflitti di classe con un regime di scontro
di classi e di prevalenza ed affermazione del kràtos del popolo. Quest’ultima situazione si realizza soprattutto
nel quarto secolo ed è caratterizzata dal costante scontro, soprattutto sulla ricchezza connessa con l’iniziativa
del popolo volta all’appropriazione di essa. La politeia per Aristotele è una forma ideale di costituzione mista,
in cui convivono in armonia un po’ di monarchia, un po’ di oligarchia e un po’ di democrazia.

Inoltre va evidenziato il limite preciso della riflessione politica greca, costituito dal fatto che essa non ha
approfondito a sufficienza e risolto il problema fondamentale sulla natura del regime che si instaura quando
il demo esercita il kràtos :questo è un regime di democrazia e di libertà o di oligarchia e tirannide? Esemplare
è il colloquio tra il giovane Alcibiade ed il vecchio Pericle. Pericle, che non esita ad affermare che è legge
valida sia quella proposta dal tiranno sia quella proposta dagli oligarchi se trova il consenso degli altri membri
della compagine sociale e che non è legge quella imposta con la violenza, evita di pronunciarsi in ugual modo
quando Alcibiade gli chiede se sia legge valida quella imposta dal demo con la violenza.

La democrazia ateniese caratterizzata dall’esercizio del kràtos e, quindi, anche dalla legge imposta
dal demo senza il consenso generale, è stata effetto di varie critiche. In particolare i sofisti hanno evidenziato
la contrapposizione tra la legge così imposta e la natura, poiché quella è spesso in contrasto con i principi
fondamentali della natura. Per natura tutti gli uomini sono uguali e devono essere trattati allo stesso modo: la
legge, al contrario, introduce spesso situazioni di disuguaglianza e di prevaricazione, ad esempio prevedendo
categorie di uomini liberi e di uomini schiavi in contrasto con l’uguaglianza naturale. Questa teoria è,
evidentemente, critica verso il regime democratico di Atene, che è fondato proprio sulla disuguaglianza e sulla
prevaricazione di chi fa parte del demo nei confronti di chi ne è escluso.

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