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Domenico Oliva

Democrazia o δημοκρατία?

Il sostantivo democrazia sembra essere uno dei termini più inflazionati del
lessico moderno e contemporaneo, tuttavia, è un vocabolo che trattiene al
suo interno molteplici significati, ambiguità e a volte apparenti contraddi-
zioni su cui, spesso, si basano equivoci che derivano da una scarsa cono-
scenza dell’etimologia, quindi del significato, del termine sia da un punto
di vista filologico che storico. Bisogna andare alle sue origini, al suo sen-
so, cercando ed interpretando le tracce storiche oltre che l’applicazione,
con i suoi significati, di tale vocabolo.
Il termine δημοκρατία, come tutti sappiamo, deriva etimologicamente dal-
le due parole δῆμος (demos) e κράτος (kratos) che tradizionalmente ven-
gono tradotte con popolo e potere ma è bene precisare che, innanzi tutto, il
termine δῆμος ha molteplici significati, può essere la comunità, la colletti-
vità nel suo insieme oppure una parte di essa, quella meno abbiente, meno
ricca, che si contrappone all’altra parte, rappresentata dagli aristocratici,
dai grandi signori o anche da figure tiranniche; così come pure il termine
δῆμος può identificarsi con una delle comunità locali dell’Attica nella qua-
le c’erano tanti demos o la più piccola unità territoriale presso gli Ioni.
Dall’altro lato la seconda parola che compone il termine democratìa è krà-
tos, tradotto con potere ma anche forza; il κράτος, che deriva da κρατείν
cioè potere, presso i Greci è anche la mitica personificazione della for-
za, che vuol dire anche violenza e, solo più semplicemente, forza. Il termi-
ne democratìa, pertanto, è un termine che in greco rappresenta ed evoca un
significato violento ed è una parola che, in realtà, viene inventata dai ne-
mici del regime popolare.
La prima attestazione di questa parola si rinviene, infatti, in un piccolo
scritto di un anonimo autore del V secolo a.C. il quale per primo adopera
questo termine per indicare la violenza popolare cioè il regime che lui de-
finisce inaccettabile, detestabile, e in cui i poveri contano. Appare verosi-
mile che l'autore di tale scritto, conosciuto anche come Costituzione degli
Ateniesi, fosse di idee oligarchiche, poiché al suo interno rifiuta i principi
democratici posti alla base della costituzione ateniese in cui il popolo con-
ta ed esercita il potere direttamente.
In realtà i democratici Ateniesi non si autodefinivano mediante il termine
δημοκρατία, bensì usavano solo il termine δῆμος tanto che alcuni oratori,
di cui si ha traccia attraverso gli storici, affermano che demos è tutto non è
una parte, quindi non è un sistema, un regime, e indica quella parte più co-
sciente della comunità, che si riconosce nel potere popolare, che si mobili-
ta direttamente e presiede all'assemblea esercitando direttamente il potere;
quindi essi non adoperano il termine democratìa per definire il loro siste-
ma poichè è un termine appannaggio del sistema oligarchico, è parola usa-
ta per dare una connotazione negativa appunto per quel κράτος che lo
compone.
Col tempo il termine democratìa diventa di uso più comune come avviene
ad esempio in Demostene il quale, nel IV sec. a.C., si pone il problema di
guidare la comunità riferendosi ai grandi valori del passato e richiamando
la democrazia come il sistema politico di Atene e affermando la democra-
tìa come parte integrante dell’identità politica di Atene che non è più la
grande potenza di un tempo.
Un notevole ed importante contributo alla definizione del termine demo-
cratìa proviene da Aristotele il quale nella Politica,1 nei libri terzo e quar-
to (dedicati rispettivamente al cittadino, alle costituzioni e alla monarchia e
poi alla democrazia e oligarchia), mette a punto una definizione interessan-
te. Secondo Aristotele, infatti, democrazia e oligarchia sono due sistemi
opposti e la democrazia non è altro che il governo dei poveri; infatti, se in
una città di 1.300 abitanti 1.000 sono ricchi e sono anche la maggioranza e
governano quella è un oligarchia (da ὀλίγοι [oligoi] pochi e ἀρχή [archè]
potere, comando); se invece governano i 300 che sono poveri quella è una
democrazia, aggiungendo che i poveri sono anche maggioranza. Bisogna
precisare che Aristotele non era un ateniese ma un meteco, un μέτοικος,
che è il nome che si dava agli stranieri greci residenti nelle πόλεις (poleis) ,

1
Nella Politica, in greco Τὰ πολιτικὰ quindi le cose che riguardano la Polis, Aristotele
analizza le realtà politiche a partire dall'organizzazione della famiglia, intesa come nucleo
base della società, per passare ai diversi tipi di costituzione.
figlio del medico di Filippo di Macedonia, ed era malvisto ad Atene poichè
si sospettava fosse una spia del re di Macedonia. In realtà egli osservava
un fenomeno particolare e cioè che non era affatto vero che nell'equilibrio
sociale dell’Atene dell’epoca i poveri fossero necessariamente sempre la
maggioranza; infatti poteva accadere che in un regime assembleare in cui
governasse l'assemblea popolare si radunasse una piccola parte delle per-
sone che potevano andare all'assemblea e questa circostanza è affermata
anche da Tucidide il quale afferma che al massimo ne andavano 5.000
all'assemblea mentre, in realtà, i cittadini aventi diritto erano 35.000, quin-
di governava di fatto un'assemblea che era una minoranza; questo è quanto
accadeva nell’Atene di Tucidide del V secolo a.C. quindi quei 5.000 in re-
altà erano, in un sistema così semplificato, elementare, primitivo, come
quello assembleare, coloro i quali attivamente partecipavano alla politica.
Aristotele, vissuto nel IV secolo a.C., ripensava alla storia passata e soprat-
tutto al colpo di stato del 411 a.C. successivamente al quale governò, per
quattro mesi, la βουλή (Bulè), il consiglio (oligarchico) dei 400 e, una vol-
ta destituito, l’assemblea dei 5.000 costituita da cittadini scelti tra coloro
che avevano abbastanza denaro da sostenere la città con i cavalli e con gli
scudi ovvero in grado di essere arruolati come opliti e sostenuta anche da
Teramene, appartenente alla fazione moderata dei 400, il quale “assieme al
popolo, atterriti, erano costretti, a rovesciare la democrazia per alzata di
mano” come ci riporta Diodoro (anch’egli antidemocratico) in uno con A-
ristotele.
Rispetto a tale episodio, ottenuto con l’azione clandestina delle eterie in
ambito istituzionale, con l’intimidazione, con i complotti giudiziari fino a
giungere alla violenza aperta e al terrorismo, Aristotele parla di ἀνάγκη
(anankè), che in greco antico assume il significato di necessità ma anche di
fato, e intende far passare l’idea che l’avvento dell’oligarchia fosse per A-
tene un male minore, cui il popolo si sarebbe consapevolmente adattato,
dietro la spinta delle forze ostili alla democrazia, cedendo alla forza delle
circostanze e realizzando, così, la κατάλυσις, cioè lo scioglimento, la crisi
del δῆμος con il consenso del medesimo.
Le eterie, dal greco ἑταῖρος cioè compagno, erano associazioni nelle quali
i membri, per lo più nobili con in comune interessi militari e politici, si le-
gavano fra di loro attraverso un giuramento avendo come obiettivo la se-
gretezza e il cui scopo generale consisteva nella volontà di sottrarsi al con-
trollo pubblico, rifiutando programmaticamente il principio democratico
della pubblicità della politica. Lo stesso Platone vi fa cenno dando una i-
dea chiara dei meccanismi sottesi alla vita politica dell’epoca: “Per restar
nascosti organizzeremo cospirazioni e società segrete, ed esistono maestri
di persuasione che offrono la capacità di parlare al popolo e nei tribunali
con tutto ciò, useremo ora la persuasione, ora la violenza, in modo da poter
sopraffare senza renderne giustizia”.
È chiaro, pertanto, quanto sia stato avversato il modello che comunemente
chiamiamo democrazia anche presso gli intellettuali del tempo se, nella ti-
pologia delle forme di governo descritte, Platone la definisce governo del
numero o della moltitudine classificandola come la meno buona delle for-
me buone, fra cui eccelle invece l’aristocrazia; di opinione analoga è Ari-
stotele che classifica la democrazia come una forma degenerata di
πολιτεία (politeia), la costituzione per antonomasia, nella quale il governo
della maggioranza agisce nell’interesse di tutti al contrario della democra-
zia che, invece, è il governo dei poveri contro i ricchi, e quindi il governo
di una parte che agisce nel suo esclusivo interesse trascurando il bene co-
mune.
Ma è un sistema definibile in modo rigoroso oppure ci sono vari modelli
possibili?
Erodoto dice che nella Persia alla fine del VI secolo a.C. l'esigenza di un
potere che fosse di tutti fu sollevata dall'alto da un notabile che volle pro-
spettare questa soluzione come una soluzione adatta all'impero persiano,
tuttavia egli fu sconfitto nel dibattito politico che lo stesso Erodoto imma-
gina e la Persia continuò ad essere un impero con a capo un re.
Altro modello può essere considerato quello della “monarchia militare”,
che in senso ampio potrebbe essere definibile anche democrazia militare,
che si rinviene e identifica nei poemi omerici e consistente nel fatto che
tutti coloro che avevano la cittadinanza, la pienezza del diritto, direttamen-
te esercitavano il dominio che ne conseguiva; esempio tipico è quanto ri-
portato nel racconto omerico in cui vi è una assemblea militare nella quale
i capi convocano e in tale contesto è emblematico l’episodio di Tersite,
personaggio di umili origini, descritto da Omero come il peggiore fra i
guerrieri achei giunti lì, pavido e codardo, oltre che brutto fisicamente,
gobbo, zoppo, dalle gambe arcuate e con la testa ovale, il quale osa affron-
tare e criticare Agamennone che è il più autorevole dei vari Βασιλείς , dei
vari sovrani2 con compiti prevalentemente militari, facenti parte di una o-
ligarchia di pari che, in ogni caso, non escludeva un primus inter pares
quale era, appunto, Agamennone.
Questo modello possiamo pensare non sia mai scomparso lasciando un'e-
redità anche nella città di epoca classica, pertanto, ci si chiede quale sia il
fondamento della cittadinanza dell'Atene del V e IV secolo a.C.; quale se
non l'identità di combattente, il cittadino soldato.
Anche a Sparta, in senso ampio, si può parlare dell’esistenza di una sorta
di democrazia come sostiene lo stesso Isocrate il quale, ateniese, tra il V e
il IV secolo a.C. affermava3 che la democrazia perfetta sarebbe stata quella
di Sparta, che la tradizione attribuiva a Licurgo quale padre dell'ordina-
mento politico e sociale e redattore della μεγάλη ῥήτρα, l’atto in cui erano
venivano indicate le riforme istituzionali e legislative, prodotte sulla base
di un responso dell’oracolo di Delfi, le cui origini, secondo gli storici anti-
chi tra i quali Plutarco, risalgono al X – IX secolo a.C. o al VI – V sec.
a.C. secondo gli storici moderni. Gli spartiati, in ogni caso, sono cittadini
soldati e sono gli unici detentori di una pienezza della cittadinanza in
quanto combattenti, sotto di loro ci sono schiavi e semi schiavi che non
sono considerati uomini e non sono cittadini in quanto estranei alla comu-
nità degli eguali sia perché di altra razza e non puri come gli spartiati e sia
perchè sottomessi con la forza e, spesso, ridotti al rango di schiavi. All'in-
terno della comunità spartiata c’è l'eguaglianza assoluta e tutti gli aventi
diritto sono ugualmente partecipi dell’assemblea decisionale, la ἀπέλλα

2
Nome la cui origine etimologica è ancora molto discussa e che, nell’antica Grecia, desi-
gnava il re; esso è stato identificato con la probabile forma micenea pasireu che nel XIII
sec. a.C. indicava, tuttavia, un signore sottoposto al vero e proprio re, l'ἄναξ (anax) il wa-
naka miceneo che era il re assoluto con caratteri sacrali, titolo attribuibile ad Agamenno-
ne. Nondimeno il termine βασιλεύς finì col prevalere, già in Omero, per designare il mo-
narca, istituto che sussisteva ancora agli inizi del I millennio a.C. in tutte le regioni del
mondo greco; successivamente i suoi poteri furono gradualmente delimitati e assorbiti
dalle aristocrazie; infatti nel V sec. a.C. la monarchia sussisteva solo a Sparta e in alcune
regioni periferiche del mondo greco. Tracce dell’antica funzione sacrale del βασιλεύς e
della monarchia restano nell’Atene dell’ἄρχων βασιλεύς (l’arconte re) che era uno dei no-
ve arconti.
3
Isocrate, Areopagitico, 61
(apella), che accoglieva i cittadini superiori ai trent’anni, si riuniva una
volta al mese e all’interno della quale non avveniva nessuna discussione
ma si approvavano o bocciavano le proposte presentate; nondimeno Sparta
è considerata nel V sec. a.C., paradossalmente, il modello tipo delle oligar-
chie.
Queste varie condizioni e sistemi di governo delle numerose πόλεις sicu-
ramente confondono però è innegabile come il fondamento cittadino-
soldato stia alla base delle democrazie ma, nello stesso tempo, sia il mo-
dello spartano; naturalmente si allarga il campo quando la cittadinanza
piena, legata comunque alla funzione militare, si estende ad altri gruppi
sociali che è quello che avviene nell’Atene classica in cui non più soltanto
chi si arma a sue spese è cittadino ma anche chi muove le navi quindi chi
finanzia, in un certo senso, l’organizzazione militare.
Ma come si giunge alla democrazia? Quale rotta sociale e politica viene
percorsa per giungere al sistema democratico? Aristotele riferisce che la
prima e più antica espressione della sovranità fu la monarchia ereditaria,
accanto alla quale sorse (pur essendo controversa tale circostanza), fin da
epoca molto remota, la magistratura militare del polemarco, – da
πόλεμος (polemos), guerra e ἄρχω (arco), essere a capo – che nell’antica
Atene era il più alto titolo militare e, avendo successivamente perso impor-
tanza, a decorrere dal V - IV sec. a.C. aveva acquisito funzioni di tipo
amministrativo, sacrale e giurisdizionale; fra l’XI e il X secolo a.C., sareb-
bero sorti gli arconti, dal greco ἄρχων, i quali, nel numero di nove, erano
magistrati rivestiti di supremazia e alla più insigne di tale magistratura,
quella degli eponimi – composto dalle due parole ἐπί (epì), sopra e ὄνομα
(onoma) o ὄνυμα, nome – spettava l’onore di dare il nome all’anno oltre ad
avere la funzione originaria ed essenziale della protezione dei diritti priva-
ti4; essi venivano nominati dall’Aeropago5, il più antico tribunale di Atene

4
È da sottolineare quanto scrive Aristotele in merito alla circostanza che ai nove arcontati
erano eleggibili, in origine, soltanto i membri dell'aristocrazia degli eupatridi – i nobili di
nascita che persero di importanza in seguito alle riforme di Solone tra il VII e VI sec. a.C.
– e fra essi si usava scegliere, a sua detta, in ragione della dignità sociale e della ricchez-
za, appunto ἀριστίνδην καὶ πλουτίνδην.
5
Da Αρειος πάγος, colle di Ares, in quanto trae il nome da quello di una rupe presso
l’Acropoli di Atene, dove sarebbe stato giudicato Ares per l’uccisione di Alirrozio, mitico
figlio di Poseidone e della ninfa Eurite.
e composto da ex arconti, le cui attribuzioni, in origine assai ampie, venne-
ro ridotte intorno al 462-461 a. C..
Successivamente, nel VI secolo a.C., gli ateniesi, indeboliti dalla lotta tra
le diverse fazioni dell'aristocrazia, chiamarono al potere Solone, all'epoca
arconte, affinché potesse dirimere le controversie e far ritornare, così la
pace sociale. Egli – oltre a tutta una serie di riforme sociali che riguarda-
vano la gestione dei debiti personali, la gestione della partecipazione alla
vita pubblica in base al censo, la divisione dei cittadini liberi in quattro
classi sociali che contribuiva a dare forza all’istituzione di un governo ti-
mocratico (da τιμή [timè],censo) – ebbe il merito di ridimensionare il peso
sociale ed economico dell'aristocrazia e di garantire, direttamente o indiret-
tamente una maggiore partecipazione popolare alla vita pubblica ateniese
dando vita ad una embrionale forma democratica. Si istituì l’ecclesia, as-
semblea che era sovrana e discuteva su quanto poteva interessare la città,
della quale facevano parte tutti i cittadini di sesso maschile e della quale si
tenevano riunioni regolari che, dopo la parte formale, uguale per tutte le
sedute, prevedevano la discussione dei progetti di legge, i cosiddetti
προβουλεύματα (probuleumata), presentati dalla βουλή.
Le riforme di Solone, benché importanti, innovative e moderne non risol-
sero il problema dei conflitti tra aristocrazia e classi medie tanto che il si-
stema, precedentemente creato, venne “rovesciato” nel momento in cui as-
sunse il potere, intorno al 560 a.C., l’aristocratico Pisistrato – anche se gli
storici sono concordi nel ritenerlo osservante delle leggi di Solone e rispet-
toso delle forme costituzionali, tanto che le magistrature avrebbero conti-
nuato a eleggersi come prima – per mezzo di una guardia armata, ottenuta
con il pretesto della protezione della propria persona, con la quale occupò
l’acropoli. Egli diede vita ad una sorta di vero e proprio principato che du-
rò sino alla sua morte e durante il quale cercò, in ogni modo possibile, di
accattivarsi il popolo con feste e divertimenti, attraverso una politica fisca-
le che accrebbe le entrate statali, promuovendo la piccola proprietà, favo-
rendo i meno abbienti attraverso un piano di opere pubbliche e ottenne, co-
sì, benché fosse un tiranno, un giudizio tutto sommato positivo dagli stori-
ci antichi anche grazie alle larghe vedute che mostrò nell'esercizio del po-
tere politico e all'abilità che esercitò in varie difficili occasioni nell’ambito
della politica esterna alla città di Atene attraverso accordi e alleanze che
garantirono il predominio di Atene in tutto l’Ellesponto. Il periodo della
tirannide dei Pisistratidi, dei due figli di Pisistrato, Ipparco che muore pri-
ma assassinato ed Ippia, termina con la loro cacciata da Atene, avvenuta
intorno al 511/510 a.C., ad opera degli Alcmeonidi; un particolare molto
strano, se si pensa a Sparta come città retta da un sistema oligarchico e
considerando che Sparta era amica dei Pisistratidi, è rappresentato dal fatto
che gli Alcmeonidi vennero appoggiati dall’esercito spartano anche se, a
distanza di tempo, salito al potere Clistene la cui attività si concentrò sulla
restaurazione e il consolidamento della costituzione di Solone in uno con
le istituzioni cittadine, gli spartani proposero nuovamente ad Ippia il loro
appoggio per restaurare la tirannide ad Atene; cosa che non avvenne per
l’opposizione delle altre πόλεις.
L’esperienza della tirannide e dell’esercizio del potere esercitato senza il
consenso dei cittadini gettò il seme per una rielaborazione del concetto
stesso di tirannide nella popolazione ateniese, facendo nascere una vera e
propria avversione, una fobia per la stessa; già nel V secolo a.C., infatti, la
tirannide non è più vista come una mera forma di governo ma è divenuta
un concetto ideologico che identifica il tiranno con chi è nemico interno
della città – mentre prima la parola τύραννος (turannos) non aveva ancora
una accezione negativa e si intendeva come signore della città – probabil-
mente perché la comunità dei cittadini si è evoluta giungendo ad elaborare
una propria concezione del vivere politico fondata su di un insieme di va-
lori morali, giuridici e politici, e di scelte economiche che appaiono essere
antitetici alla tirannide e tutti facenti capo ad un governo del popolo, ad un
concetto di politica intesa come ϰοινόν (coinon), spazio comune in cui
confrontarsi e governare la città, pertanto, uno spazio contrapposto alla vi-
olenza e all'arbitrio di uno solo soggetto; nasce, quindi, un concetto, basato
sull’uguaglianza davanti alla legge [la cd. ἰσονομία (isonomia), ἴσος (isos),
uguale e νομος (nomos), legge], sempre più vicino al concetto di una de-
mocrazia che, nell’Atene di cui si parla, è soprattutto il risultato di un infi-
nito numero di circostanze a volte tra loro concordanti, altre volte discor-
danti e opposte l’una all’altra se non addirittura in un equilibrio paradossa-
le.
Abbiamo visto, infatti, il modello di governo di una πόλις oligarchica,
Sparta, che viene indicato come modello democratico per eccellenza men-
tre la stessa città nel VI sec. a.C. interviene nella lotta contro la tirannide,
che Tucidide definì uno dei fattori di sviluppo della Grecia arcaica, e nel V
e IV sec. a.C. viene identificata non solo come esempio del potere oligar-
chico ma anche come punto di riferimento delle oligarchie; una città che
aiuta Clistene, il quale aveva precedentemente collaborato con i tiranni, a
ristabilire la “democrazia”.
Circostanze, pertanto, che ci fanno conoscere una realtà violenta non solo
per i colpi di stato e le interferenze, dirette e indirette oltre che militari, di
πόλεις nei confronti di altre πόλεις ma anche tutta una giungla fatta di in-
trighi, complotti, macchinazioni interne tra fazioni che, a volte, hanno por-
tato alla creazione di un vero e proprio clima “terroristico” all’interno del
popolo come lo stesso Tucidide6 scrive attirando l’attenzione sul clima di
intimidazione che il popolo, pur ancora vigente la democrazia, si trovava a
dover fronteggiare, attribuendo un ruolo importante nell’accentuare questo
clima di insicurezza anche al trasformismo politico dei personaggi politici.
D’altra parte il sistema democratico, la democrazia e il suo corretto fun-
zionamento si basavano sulla trasparenza, sulla pubblicità, sul mettere in
comune tutto ciò che riguardava la vita della comunità politica in maniera
fiduciosa e, pertanto, essa era gravemente danneggiata dal sospetto reci-
proco da parte dei componenti del corpo civico e dal desiderio, originato
dalla sfiducia e dalla paura, di mascherare i propri veri orientamenti. A ciò
si aggiunga l’attività dei gruppi organizzati i cui membri, che mostravano
reciproca ostilità accusandosi pretestuosamente nei tribunali e dalla tribuna
degli oratori, erano poi strettamente associati nell’ambito privato a scopo
di profitto. L’attività svolta da costoro in sede pubblica era puramente pre-
testuosa e mirava all’obiettivo di nascondere i propri veri interessi ed o-
rientamenti e, dunque, di ingannare il popolo.

6
Si radunavano ancora il popolo e la βουλή eletta con la fava, ma non deliberavano nulla
che non avessero deciso i congiurati, e gli oratori erano scelti tra questi ultimi e le orazio-
ni erano esaminate prima da loro. Nessuno degli altri replicava, temendo e vedendo il
gran numero dei congiurati, e se uno si opponeva subito moriva in modo adatto, né si fa-
ceva ricerca dei colpevoli né processo dei sospettati. Ma il popolo se ne restava tranquillo
e aveva un tale spavento da considerare un guadagno se uno non subiva violenza, anche
se taceva.
In realtà la confusione nel considerare, valutare e interpretare il termine è
generata soprattutto dal fatto che noi usiamo impropriamente la parola de-
mocrazia, è un vocabolo che abbiamo traslato ad una realtà totalmente di-
versa rispetto a quella delle πόλεις e ne consideriamo il suo senso rispetto
alla realtà dei sistemi rappresentativi, elettivi, parlamentari moderni ed è in
quel momento che si crea il grande equivoco. Ciò da un punto di vista
strettamente tecnico-formale e giuridico ma non certamente dal punto di
vista sociale, politico ed umano; sotto quest’ultimo aspetto, in effetti, i
meccanismi sottesi al sistema democratico ateniese, qualunque sia il senso
di tale termine, sono identici a quelli della società moderna e contempora-
nea se pensiamo che, oltre a quanto detto, Pericle – considerato l’uomo il-
luminato dell’Atene del V sec. a.C. nonchè principale artefice del periodo
d’oro della città, grande mecenate che portò ad una rinascita edilizia, ar-
chitettonica, artistica, culturale oltre che “democratica” della città – ebbe
una così profonda influenza personale sulla società ateniese tanto
che Tucidide, storico suo contemporaneo, lo acclamò come "primo cittadi-
no di Atene" affermando che Atene era "di nome una democrazia ma, di
fatto, governata dal suo primo cittadino” e sottolineandone il carisma così
spiccato da imbonire il popolo come conferma anche Plutarco quando so-
stiene che gran parte delle opere di Pericle sono da considerarsi un tentati-
vo di cercare il favore del popolo in modo da ridurre il prestigio dell'Areo-
pago di cui non faceva parte.
La democrazia antica era, secondo il pensiero politico classico solo una
delle possibili forme di governo che potevano essere descritte nel panora-
ma politico del mondo conosciuto mentre, nonostante esimi studiosi ne
abbiano inutilmente cercato tracce fondanti, nel sistema politico romano è
arduo rinvenire un sistema che richiami la “δημοκρατία” greca, basti os-
servare che in realtà la parola democrazia in latino non esiste e già questo
particolare è indicativo; per tutta l’epoca romana, infatti, e per buona parte
del Medioevo, la parola democrazia scompare del tutto, mentre il suo con-
cetto politico si dissolve in una accezione più ampia e la res publica roma-
na esprime l’idea di una “cosa di tutti”, che è cosa ben diversa rispetto a
quel “potere del popolo”, il κράτος, di cui parlava la lingua greca.
Secondo Polibio, infatti, il sistema politico romano si basava su u-
na costituzione mista, da lui considerata esempio di equilibrio tra i tre or-
gani che la costituivano, che era la summa, il risultato, il punto di arrivo
dell’esperienza e dell’evoluzione delle tre forme di governo più importanti
che caratterizzarono la vita istituzionale di Roma, ovvero
la monarchia rappresentata a Roma dai consoli, l'aristocrazia (da άριστος
[aristos] nobile e κράτος [kratos] potere) rappresentata dal senato e
la democrazia rappresentata dai comizi, benché il venir meno del potere
patrizio a favore della plebe non può essere considerato un fenomeno di
democratizzazione del sistema di governo romano, in senso moderno, ma
soltanto un allargamento della base della res publica riguardo alla quale,
intendendola in un senso prettamente patrimoniale, Cicerone afferma
“La res publica è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggrega-
to di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione
del diritto e per la tutela del proprio interesse”.
Ritornando alla Grecia, il momento della decisione, nell’esercizio del pote-
re democratico dell’antica Atene, era quasi sempre estremamente unanime
e il potere esercitato era unitario. La democrazia moderna, invece, implica
un enorme pluralismo di voci, una grande difficoltà di arrivare a decisioni
unanimi, proprio perché la decisione deve tener conto di una enorme plura-
lità di opinioni diverse. Non bisogna sottovalutare il fatto che le criticità
della democrazia antica erano, secondo gli intellettuali dell’epoca, maggio-
ri degli aspetti positivi. Platone, ad esempio, sosteneva che la forma demo-
cratica fosse la meno buona delle forme buone, fra cui eccelleva
l’aristocrazia, e la meno cattiva delle forme cattive, di cui quella più dege-
nerata era la tirannide; infatti rispetto alla città ideale di cui parlava ne La
Repubblica, la democrazia rappresentava una delle possibili degenerazioni
perché, nell'insieme, l'idea era quella che il potere dovesse avere una forte
concentrazione e una forte unità.
Perciò uno dei limiti fondamentali, se non addirittura il rischio principale,
della democrazia può essere proprio l'incapacità di decidere che rappresen-
ta una delle criticità del sistema democratico. La storia del concetto
di democrazia dimostra come i processi storici siano sempre stati processi
aperti, tendenze, idee, progettualità e adeguamenti quasi mai realizzazioni
compiute in modo completo e definitivo appunto perché le imperfezioni
della storia umana, costituite dai limiti propri dell'uomo, impediscono di
credere nell'esistenza di un modello che debba e, soprattutto, possa essere
realizzato perfettamente. Sarebbe, quindi, un errore immaginare che, nella
storia, si possa realizzare una attuazione perfetta di un qualsiasi modello di
ordinamento. In una democrazia reale come quella greca, all’interno di
un’assemblea relativamente ristretta, si rendeva necessaria la presenza di
soggetti che, avendone diritto, fossero in grado di prendere la parola e di
avanzare delle proposte valide, logiche e sensate poichè su di esse si basa-
va il voto dell’assemblea pur essendo, nel voto, ogni testa uguale all’altra.
Aristotele sosteneva che essendo l’elezione una selezione essa fosse ari-
stocratica, partendo dal presupposto che i componenti del popolo fossero
tutti uguali e che nessun individuo avesse maggiore diritto di comandare
rispetto ad un altro, l’unica forma squisitamente democratica risultava es-
sere il sorteggio che veniva adottato ad Atene per la nomina dei magistrati
adottando anche criteri di rotazione secondo i quali chi era stato estratto un
anno non poteva essere messo nell’urna l’anno successivo. A tale criterio
di rotazione vi era, tuttavia, un'eccezione rappresentata dalla nomina degli
strateghi – lo στρατηγός (da στρατός, esercito e ἄγω, condurre) era ciascu-
no dei dieci membri di una magistratura ateniese che avevano il comando
dell’esercito e della flotta – i quali erano indispensabili alla sopravvivenza
della democrazia e della città stessa e venivano scelti in base alla loro
competenza. Questo fatto determinò la messa a fuoco di un altro problema
ovvero la improponibilità di questa pratica a causa della enorme divisione
del lavoro e conseguente indisponibilità di uomini evidenziando un altro
limite della democrazia che, invece, prevedeva il sorteggio.
La soluzione, pertanto, anche alla luce della storia, è quella di partire da un
modello che bisogna assumere sin dall’inizio come imperfetto consideran-
do la democrazia come un modello, un progetto ma anche un idea-
le incompiuto, intravedendo la forza della democrazia, rispetto ai modelli
dispotici e dittatoriali, nella sua perenne incompiutezza e nella conseguen-
te continua ricerca del perfezionamento e miglioramento della stessa.
I due termini del nostro linguaggio ovvero democrazia e sistema rappre-
sentativo noi li usiamo come sinonimi perfetti e questo dipende dal fatto
che le democrazie moderne, successive alla svolta rappresentata sia dalla
Rivoluzione Francese che dal nascere di sistemi liberali dopo la Restaura-
zione, essendo sistemi impiantati in grandi Stati nazionali non possono che
essere rappresentativi, cosa che per gli antichi greci era inconcepibile tanto
che Erodoto racconta di non essere stato creduto quando disse che in Per-
sia qualcuno voleva instaurare la democrazia.
In realtà non fu creduto perché sembrava inverosimile che in un impero
enorme come quello persiano si tentasse di introdurre il sistema democra-
tico, così come concepito nell’antica Grecia, come sistema di governo.
Gli Stati liberali dell'Ottocento, frutto anche dell’illuminismo e dei grandi
stravolgimenti politici e sociali, senz’altro istituzionali ma non ancora e-
gualitari, erano Stati che andavano affermando alcuni diritti fondamentali,
ma non universali. Per esempio il suffragio era ridottissimo e in Italia fino
al 1882 votava solo il 2%, della popolazione attiva. A un certo punto, ver-
so la fine dell'Ottocento, lo schema dello stato liberale puro, basato su di
una ristrettezza della partecipazione dei cittadini alla vita politica, è andato
affievolendosi dietro la spinta dei grandi movimenti popolari, dei movi-
menti socialisti, dei movimenti popolari cattolici, i quali permisero che le
grandi masse entrassero a far parte della vita politica e sociale e questa fu
una grande novità.
Successivamente si avviò una compenetrazione fra il liberalismo – ispirato
agli ideali di tolleranza, libertà ed eguaglianza propri del movimento illu-
minista e consistente nella sostanziale affermazione che l'uomo ha dei di-
ritti che sono connaturati alla sua umanità e che non sono diritti di classe o
diritti acquisiti e secondo il quale l’individuo ha un valore autonomo e bi-
sogna tendere a limitare l’azione statale – e le principali istanze dei mo-
vimenti democratici. Il risultato di questa compenetrazione fu arrivare a
concludere che i diritti fondamentali della tradizione liberale dovevano es-
sere generalizzati, poiché ne richiedevano una maggior condivisione le e-
normi masse umane che entravano attivamente nella storia della società.
Tale elemento può essere considerato il principale nesso
tra liberalismo e democrazia.
Nel processo di transizione dai governi monarchici e aristocratici a quelli
democratici, in realtà, bisognerebbe parlare di sistemi rappresentativi i
quali sono di vario tipo e, in varia misura, anche democratici o di tendenza
democratica; d’altra parte nel XIX secolo la lotta per il suffragio universa-
le è una grande spinta che amplia il beneficio del voto in uno Stato che è lo
Stato liberale e questa tendenza verso il suffragio universale ha spinto i re-
gimi rappresentativi verso forme sempre più democratiche.
Benjamin Constant – pensatore liberale, strenue difensore delle conquiste
politiche indotte dalla rivoluzione francese, protagonista centrale nel peri-
odo della restaurazione – quando nel 1819 pronunciò il famoso discorso,
che gli valse l’elezione alla Camera dei deputati, La libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni, affermò che la libertà degli antichi è au-
tonomia politica collettiva mentre quella dei moderni è libertà privata indi-
viduale, asserendo che l'errore fondamentale della Rivoluzione francese fu
la pretesa di realizzare la libertà degli antichi in una situazione ove era at-
tuabile solo quella dei moderni. Secondo Constant, una delle differenze più
importanti fra la politica antica e la politica moderna, è il carattere rappre-
sentativo dei nostri governi, cosa del tutto assente nelle poleis greche, de-
mocratiche o aristocratiche che fossero, e negli altri regimi dell'antichità.
Essendo il potere politico lì gestito senza mediazioni, la libertà degli anti-
chi consisteva nell'esercitare collettivamente, ma direttamente, molte fun-
zioni della sovranità e tale libertà collettiva era compatibile con l'asservi-
mento completo dell'individuo all'autorità dell'insieme, mentre per libertà
bisogna intendere il «pacifico godimento dell'indipendenza privata». Solo
ad Atene, secondo Constant, ci sono tracce di questa libertà privata: Atene,
infatti, era una città di commercianti e interesse del commercio è la libertà
dall'interferenza del potere pubblico, che finisce per ostacolare i traffici.
Egli adopera il termine libertà in un senso molto ampio di fatto vuol dire
sistema politico aperto, democratico, quasi usa come sinonimi libertà e
democrazia che sono invece termini lontani l'uno dall'altro. Lui va più alla
sostanza delle cose perché si rende conto che non si tratta soltanto del tra-
sferimento ad una grande realtà territoriale di un modello che sembrerebbe
legato alla piccola comunità, ma si riferisce anche ad un elemento sostan-
ziale cioè il fatto che nel mondo delle città democratiche antiche il potere
sociale, la pressione sociale, del soggetto politico, costituito dai nullate-
nenti che sono cittadini, è di gran lunga superiore alla possibilità di incide-
re sul funzionamento dello Stato della comunità da parte dei medesimi nul-
latenenti in un sistema di tipo parlamentare rappresentativo; da qui la for-
mulazione secondo cui quanto meno lo Stato, meno la comunità, interferi-
sce nella vita individuale di ciascuno tanto più siamo vicini alla vera liber-
tà che è quella dei moderni. Come esempio della validità di tale teoria ad-
duce la ricchezza sostenendo che nell'antichità la ricchezza viene spremuta
socialmente dal potere sociale mentre oggi la ricchezza si può nascondere,
il potere politico si basa sulla ricchezza e in questo consiste la libertà dei
moderni.
Chiaramente regime di libertà e regime democratico non sono affatto la
stessa cosa tanto che ci sono regimi di libertà in cui le libertà personali e i
diritti individuali sono garantiti ma in cui il suffragio è ristretto, ma il mo-
vimento democratico ha sempre spinto in direzione e verso l'allargamento
il più vasto possibile di tale beneficio.
Uno dei fondatori del moderno concetto di democrazia, Rousseau , teoriz-
zò invece il concetto di democrazia diretta intesa come una forma di de-
mocrazia direttamente riconducibile a quella in dell'antica Grecia, legata
ad una dimensione sociale molto piccola quale quella della città e non ad
una grande dimensione, come quella della realtà dello Stato moderno. È
chiaro che, in una grande dimensione statale, l'idea che ci possa essere una
democrazia semplicemente diretta, con una naturale e diretta partecipazio-
ne di tutti al potere esecutivo, renderebbe impossibile il funzionamento di
un qualsiasi sistema politico adottato in quello stato. Chiaramente Rousse-
au si rivolgeva ad un pubblico che viveva una situazione nella quale vige-
vano gli Stati Assoluti, vere e proprie entità nelle quali sussisteva un'altis-
sima concentrazione di potere proveniente direttamente dall'alto; egli arri-
vò a condannare la rappresentanza in quanto negazione e degenerazione
dell’istituto democratico tanto che affermava che gli inglesi non avrebbero
meritato di essere liberi, dal momento che rimettevano la loro libertà nelle
mani del potere legislativo, vale a dire di alcuni eletti; egli sosteneva che le
decisioni ed il voto dovessero essere a maggioranza e tale sistema di voto
era quello espresso dall’assemblea popolare e indicava non tanto
l’imposizione di una certa scelta da parte del maggior numero di individui,
quanto il segno esteriore della volontà generale, cioè una volontà retta e
conforme al bene comune. È, quindi, sulla base di tali motivazioni che le
critiche mosse all’idea di democrazia diretta erano basate sull'intuizione
che gli Stati non possono funzionare se non attraverso una qualsiasi forma
di rappresentanza. Quando durante la Rivoluzione Francese le idee di
Rousseau trovarono finalmente applicazione, il suo pensiero fu sottoposto
a quella che egli stesso avrebbe considerato una distorsione inaccettabile,
infatti venne introdotto il concetto di delega, secondo il quale la sovranità
veniva esercitata dagli eletti dal popolo; nel concetto di democrazia di
Rousseau, al contrario, non c’era posto per la lotta politica, così come non
c’era posto per i partiti in quanto avrebbero potuto imporre la loro volontà
generale sui singoli componenti del gruppo e la loro volontà particolare ri-
spetto agli obiettivi di tutta la comunità. Per Rousseau bisognava, invece,
che ogni cittadino votasse in piena libertà, interrogando la sua coscienza e
decidendo se la proposta che gli veniva fatta fosse conforme o no alla vo-
lontà generale. È chiaro che con la democrazia è stato introdotto e si è af-
fermato un altro concetto fondamentale, quello di diritto politico, cioè il
diritto di prendere parte alle decisioni collettive e mentre inizialmente esi-
stevano solo i cosiddetti Stati liberali che, spesso, non erano affatto demo-
cratici, perché potevano prendere parte alle decisioni collettive soltanto al-
cuni cittadini – generalmente coloro che pagavano una certa quota di tasse,
quindi gli abbienti con conseguenti gravi limitazioni di voto – successiva-
mente è avvenuta l'estensione del suffragio elettorale, fino a che esso non è
divenuto universale. Questa estensione non è stata altro che una conse-
guenza della estensione a tutti i componenti di una società di alcuni diritti
fondamentali che erano stati richiesti dal liberalismo.
In epoca moderna abbiamo raggiunto un grande risultato, l'affermazione
della Carta dei diritti dell'uomo, però i diritti dell'uomo sono continuamen-
te violati; lo sperimentiamo ogni giorno nelle nostre città, nella nazioni,
così come nelle grandi vicende storiche contemporanee; questo però non
significa che aver sancito la Carta dei Diritti dell'uomo sia stata una cosa
inutile perché, comunque, siamo stati in grado di affermare un criterio, un
principio cui fare riferimento e sulla base del quale poter criticare la realtà
esistente. In realtà nella “lotta” continua per una affermazione sempre
maggiore della democrazia e per un suo perfezionamento esisterà sempre
un divario tra forma e sostanza, cioè un divario tra i diritti effettivi e le
forme e le procedure per la loro messa in pratica, per tale motivo la ten-
denza della democrazia deve essere quella di adeguare la sostanza alla
forma.
Eppure i rischi per la democrazia sono sempre attuali, molti rappresentanti
politici, deputati, membri del Parlamento, in realtà, nonostante il divieto di
mandato imperativo curano gli interessi di partito; essi hanno spesso un
mandato vincolato dal partito tanto che se non eseguono le direttive del
partito probabilmente vengono eliminati, è vero che il partito dovrebbe ag-
gregare interessi diversi però in un sistema politico come quello italiano ci
sono tanti partiti e c'è il rischio che ognuno dei partiti diventi un gruppo di
interessi e in questo caso il rappresentante del partito attraverso di esso di-
venta un rappresentante di interessi. In relazione a questa ambivalenza tra
rappresentanza di interessi particolari e rappresentanza politica non solo è
possibile ma è frequente la degenerazione del divieto di mandato imperati-
vo cioè che dei deputati vengano eletti perché tutelino interessi particolari;
in quel caso lo stato di cose che si determina non solo può alimentare delle
forme di corruzione ma a un certo punto lo stesso Parlamento, in questo
rapporto di scambio che si viene a creare fra l'elettore e l'eletto, rischia di
diventare una sorta di borsa della politica; un mercato in cui l'elettore da al
candidato il voto ovvero da un sostegno che gli consente di avere una certa
quota di potere; infatti un eletto ha tanto più potere quanti più voti riceve.
Dall'altra parte l’eletto o l’eligendo promette in cambio del voto alcuni be-
ni o “favori” che vengono elargiti attraverso le risorse pubbliche di cui
l'uomo politico dispone, la pensione, la pressione fiscale, il posto di lavoro
e qualche volte anche una legge creata ad hoc; è il rapporto clientelare, ba-
sato sul do ut des, ma non è uno scambio economico o almeno non princi-
pale bensì uno scambio di beni che sono nel mercato politico; questa è una
delle caratteristiche della democrazia che Bobbio, considerato il massimo
teorico del diritto e il massimo filosofo italiano della politica nella seconda
metà del XX secolo, ritiene sia inevitabile.
L’effetto di tale sistema è che il cittadino si disaffeziona rispetto
all’assenza di un adeguato impegno da parte dei parlamentari e, più in ge-
nerale, dei politici, nei confronti della cosa pubblica. Tali circostanze van-
no valutate nell’ambito di un contesto più ampio, che tenga conto dei mu-
tamenti che si stanno verificando negli equilibri, nella società stessa; è
cambiato, per esempio, il rapporto tra dimensione politica e dimensione
economica , è indubbio che sono molte le carenze a carico della classe po-
litica, ma è altrettanto vero che vi è un insieme di grandi soggetti, econo-
mici per esempio, che oggi nutrono un interesse a delegittimare il sistema
politico nel suo complesso, una sorta di oligarchia economico/finanziaria
multinazionale, ma non solo, parallela ai governi democratici. La delegit-
timazione del sistema politico nel suo complesso, infatti, apre grandi spazi
di opportunità per le decisioni del sistema economico e, di conseguenza,
degli attori dei processi economici. Congiuntamente a questo effetto si
produce uno dei maggiori fattori di disagio della democrazia contempora-
nea, cioè la tendenza alla crescita di fattori oligarchici all'interno della de-
mocrazia e questa minaccia può essere considerata uno dei temi cruciali
del nostro tempo. Ma se c’è un governo, c’è sempre una divisione tra chi
governa e chi è governato. Rousseau stesso fu costretto a riconoscere che è
contro natura che la maggioranza della popolazione governi e una mino-
ranza sia governata: spetta invece alla seconda il compito di prendere le
decisioni. Cosa resta allora della democrazia nella sua concezione moder-
na? Per capirlo bisogna riferirsi alla politica.
La politica è l’organizzazione del potere: se si rifiuta una visione utopistica
che descriva la convivenza tra gli uomini come naturalmente pacifica e
priva di qualsivoglia regola, senza giudici, senza poliziotti, senza prigioni
ecc., dobbiamo riconoscere la necessità di un potere per difendersi gli uni
dagli altri. Ma lo stesso potere può rivelarsi pericolosissimo e può compor-
tare il rischio di essere danneggiati da un individuo che abbia capacità e
forze superiori rispetto a qualunque altro al nostro livello. Si configura così
un problema di limitazione del potere che viene affrontato attraverso
la divisione dei poteri.
Quando, allora, la democrazia come tale tende ad essere la più perfetta
possibile e realizzata pienamente? Quando essa può avvicinarsi il più pos-
sibile a quella connessione fra democrazia formale e democrazia sostanzia-
le? Nel momento in cui viene a costituirsi un insieme di connessioni, un
insieme di rapporti, che non si esauriscono nei diritti politici, ma che metta
in campo, per esempio, l'importanza dei diritti sociali e dei diritti economi-
ci. Non può esistere solo il Parlamento come elemento garante della demo-
crazia reale, e quindi come mediatore principale di quella rappresentanza
puramente politica, esistono molti altri momenti della vita pubblica nei
quali la partecipazione, magari non direttamente politica, a realtà associa-
tive, alle istituzioni locali, ecc., possono costituire, ognuno attraverso il
proprio contributo, momenti di organizzazione di una società più ricca e
complessa.
Non vi è dubbio che, a carico della classe politica, siano da imputare limiti
attitudinali, carenze, incapacità decisionali, inefficienze e inettitudini orga-
nizzative tali da allontanare anche i cittadini più motivati. Ciò avviene ad
esempio nella nostra realtà italiana, dove la riforma elettorale non ha ridot-
to bensì accresciuto il numero dei partiti, e dove il cosiddetto "bipolari-
smo", che avrebbe dovuto semplificare i rapporti fra le forze politiche, ha
costituito invece motivo di litigiosità fra i partiti e di incapacità degli stessi
a coniugare le proprie scelte con un’idea di interesse generale.
Ormai è sempre più diffusa l’idea che reputa ormai impossibile parlare del
bene comune come di una sorta di valore assoluto e che, però, ritiene che
la democrazia debba costituire una continua mediazione tra le libertà degli
individui e l’insieme di una società, o interesse comune. È sempre dietro
l’angolo il rischio che l’esasperazione delle libertà individuali conduca a
forme di scomposizione, divisione, tali da mettere in discussione quel tes-
suto comune della società di cui la democrazia non può non essere espres-
sione. È pienamente condivisibile il pensiero di Ralf Dahrendorf, filoso-
fo, sociologo e politico tedesco, secondo il quale in un paese democratico
sussiste sempre il pericolo del totalitarismo. Questo però non significa che
non ci siano altri pericoli per la democrazia. È verosimile tenere alta
l’attenzione nei confronti di un passaggio ad un regime oclocratico, appun-
to sulla base di quella scomposizione prima affermata; l'oclocrazi-
a (dal greco antico: ὅχλος, óchlos, moltitudine o massa, e κράτος, kratos,
potere) si configura come uno stadio di governo deteriore nel quale la gui-
da della collettività è alla mercé di volizioni delle masse.
L'oclocrazia è un chiaro stadio di degenerazione della democrazia, uno
stadio in cui il potere del Popolo si tramuta in potere dell'ochlos, ossia di
una moltitudine disordinata e senza identità, e nel quale ci si illude di eser-
citare liberamente la propria funzione mentre, in realtà, la massa è diventa-
ta uno strumento animato nelle mani di pochi che la seducono anche di-
stribuendo denaro e beni materiali di ogni genere.
Polibio7 descrive in maniera magistrale tale fenomeno, che oggi appare es-
sere più attuale che mai, nella sua teoria ciclica delle forme di governo,
l'anaciclosi (dal greco: ἀνα, in e κύκλος, ciclo, circolo), che è una teoria
dell'evoluzione ciclica dei regimi politici i quali, man a mano che si dete-
riorano, si susseguirebbero secondo un andamento circolare, ciclico nel
tempo e, giunti all'ultimo stadio, ritornerebbero alla forma iniziale di par-
tenza riprendendone lo sviluppo.
Il popolo, la società, in questo stato di non governo diventerebbe così cor-
rotto, avido, spasmodico nella soddisfazione delle proprie pulsioni più e-
goistiche, cessando così di essere un popolo libero. Una parte della filoso-
fia del diritto e della politologia si chiede se la democrazia debba essere
trasformata in una democrazia liberale, ovvero in una democrazia essen-
zialmente formale che non corrisponda più alla sua etimologia, una demo-
crazia che non indichi più il demos kratos, il potere del popolo. Secondo
tale assunto se si rispettasse il suo nome, la democrazia risulterebbe im-
possibile da praticare; l’auto governo del popolo di fatto implica sempre
uno sdoppiamento e se veramente si dovesse interpretare il termine demo-
crazia alla lettera si arriverebbe all'anarchia. Infatti sia Marx che Lenin a-
vevano ipotizzato che il prodotto finale del processo storico sarebbe stato
una società senza classi, senza Stato, senza una parte preposta al comando
ed un'altra all'obbedienza, una società che si reggerebbe spontaneamente e
che costituirebbe una democrazia nel senso originale del termine. Non di-

7
Finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza [...],
essi stimano più di ogni altra cosa l'uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando
subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi,
non tenendo più in gran conto, a causa dell'abitudine, l'uguaglianza e la libertà di parola,
cercano di prevalere sulla maggioranza; in tale colpa incorrono soprattutto i più ricchi.
Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie
virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i mo-
di. Quando sono riusciti, con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e
avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia (Poli-
bio, Le Storie, libro VI, cap. 9).
mentichiamo, infatti, che a seguito della rivoluzione sovietica nacque un
potere strutturato in modo alternativo rispetto al modello parlamentare e-
lettivo e la circostanza che questa altra forma di potere abbia subito tra-
sformazioni che la hanno profondamente snaturata rispetto al suo punto di
partenza non deve togliere importanza al fatto che quando nacque era un
“esperimento” che, una volta abbattuta la monarchia, si proponeva un ri-
torno moderno alla democrazia diretta attraverso i consigli o i soviet che
rappresentavano un tentativo di realizzare il potere diretto degli interessati
superando il problema della delega. Infine, non si può prescindere dalla
considerazione che tra i pericoli per l’attuale democrazia vi è quello, peral-
tro già individuato da Max Weber, cioè la possibilità che in un clima privo
di iniziativa, le istituzioni, che in sé rendono possibile il mutamento, fini-
scano per esserne di impedimento. È il caso di quelle moderne democrazie
in cui è presente un forte elemento burocratico, ossia un vero e proprio
“ceto” burocratico sul quale non riescono ad influire né gli interessi della
popolazione, né le iniziative dei dirigenti eletti e la rivendicazione di inte-
ressi che vengono dal basso si scontra con il muro di gomma della buro-
crazia8.

8
Biagio De Giovanni, Norberto Bobbio, Domenico Settembrini, Ralf Dahrendorf, Do-
menico Fisichella

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