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Nel 1993 Miller, Castles e Hein de Haas hanno pubblicato un libro chiamato “The age of
migration”. Ma perché dovremmo vivere nell’”era della migrazione”? Perché ci sono almeno tre
elementi di novità rispetto al passato:
1. INTENSIFICAZIONE DELLE MIGRAZIONI: Anche in termini di paesi che sono interessati dal
fenomeno migratorio. E ciò è stato favorito dallo sviluppo tecnologico, in grado di facilitare
gli spostamenti.
Ma proviamo ora a vedere un po’ le ragioni che sin dall’inizio della storia hanno spinto le persone
a spostarsi:
1. I CAMBIAMENTI CLIMATICI: Le persone migrano per raggiungere aree del mondo messe
meglio dal punto di vista climatico.
2. I LEGAMI TRA IL PAESE D’ORIGINE E QUELLO DI DESTINAZIONE: Pensiamo ai paesi che
erano colonie di alcune realtà europee.
3. MOTIVI ECONOMICI: Si migra alla ricerca di condizioni economiche migliori.
4. CONFLITTI E PERSECUZIONI: Si migra per sfuggire a situazioni spiacevoli e oppressive sul
piano personale.
5. REPRESSIONE POLITICA: Si migra per smettere di essere vittima della sacrosanta libertà di
pensiero, manifestazione e associazione.
Tuttavia, spesso non è facile distinguere con chiarezza una o un’altra ragione di migrazione: si
tratta di idealtipi che, nella realtà, poi si traducono alle volte in un intreccio di fattori. Di base,
comunque, una persona migra per cercare un miglioramento della propria vita.
Per i paesi riceventi, le migrazioni naturalmente hanno degli effetti sul piano demografico, e a
questo proposito è interessante in primissima battuta fare riferimento al fatto che le migrazioni
possono rappresentare una risorsa per paesi che soffrono di un calo demografico; ecco,
inizialmente in effetti è così, ma poi bisogna tenere in conto che si è destinati ad assistere a un
fenomeno per il quale anche gli immigrati si allineano all’andamento demografico del paese in
generale. Ci sono degli effetti anche sul piano politico-istituzionale: come gestire le migrazioni,
come inquadrare un migrante, come disciplinare la sua permanenza, fino a quando considerarlo
un migrante, ecc.
Continuiamo con le conseguenze di carattere economico: ci sono delle implicazioni sul mercato del
lavoro, o pensiamo al ruolo delle rimesse inviate dai migranti sui paesi d’origine. Sono da prendere
in considerazione anche le implicazioni dal punto di vista culturale e identitario, e anche dal punto
di vista della vita quotidiana. Insomma, tanti aspetti da tenere in conto che avremo modo di
approfondire.
Il dato del 2020 è che i migranti a livello internazionale sono il 3,6%. Significa che solo il 3,6% della
popolazione mondiale si è spostata; attenzione però, perché questo corrisponde comunque a più
di 270 milioni di persone. Ovviamente, queste statistiche hanno dei limiti oggettivi, perché bisogna
sempre capire bene chi considerare un migrante e fino a quando, e questo è diverso anche a
seconda dei singoli stati. Di questi 270 milioni il 48% sono femmine e il 52% sono maschi, e sempre
più femmine di quel 48% sono primo-migranti. Per la maggior parte, sono persone migranti per
ragioni economiche o per ragioni famigliari.
Nel 2019, i principali paesi origine di fenomeni migratori sono, in ordine: India, Messico, Cina,
Russia e Siria. In realtà, la Russia compare anche come principale paese di arrivo: USA, Germania,
Arabia Saudita, Russia, Inghilterra. La bivalenza della Russia si spiega con il fatto che rappresenta
un punto di approdo dall’area asiatica ad est in relazione soprattutto a una certa attrattività di
manodopera.
Partiamo dal presupposto che noi consideriamo immigrati solo una parte delle persone non
autoctone presenti sul nostro territorio. Non consideriamo immigrati i tedeschi o gli inglesi, al
contrario per noi è immediatamente un immigrato chi proviene dal Marocco o dall’Albania. Tra un
po’ di anni, è probabile che smetteremo di considerare immigrati i Brasiliani. Ecco, già da qui
capiamo quindi che la categoria del migrante non è immodificabile. La nostra percezione di
immigrato cambia nel corso del tempo.
Mentre la mobilità umana è una caratteristica di tutta la storia dell’umanità, il controllo di questa
mobilità è un fatto molto più recente. In questo senso, possiamo ritenere che la figura del
migrante sia un’invenzione della società moderna, proprio perché si tratta di categorie che non
esistono in natura, sono convenzionali, arbitrali, in relazione e in funzione ai regimi e alle
regolamentazioni degli stati.
Il confine tra immigrato e non immigrato è labile: molti immigrati attualmente regolari in Italia
sono stati precedentemente irregolari; anzi, si tratta di una gran parte degli immigrati in Italia.
Naturalmente, è possibile anche il processo inverso. Insomma, nulla è immodificabile, è tutto
mutevole e suscettibile di modificazioni. Essere immigrato non è una caratteristica dell’individuo,
ma dipende dai processi di costruzione sociale e dalle norme che regolano gli ingressi e la
permanenza in un paese. Spesso, con il termine di immigrato non si allude soltanto a una
cittadinanza straniera, ma anche a una condizione di inferiorità socioeconomica.
Abbiamo una costante necessità di categorizzare, etichettare, inquadrare. Ma nella nostra epoca è
sempre più difficile. Nell’era delle migrazioni alle volte è anche impossibile, perché la
composizione attuale dei popoli è il risultato di una commistione e di un intreccio di spostamenti. Il
risultato è cercare forzatamente di categorizzare e capire dove collocare una terza generazione di
persone discendente da una prima generazione migrante che ha conservato il fenotipo di origine
ma che non sa magari nulla del proprio paese di “provenienza” ed è interamente e unicamente
legata al paese in cui si trova e in cui sono approdati i nonni.
L’immigrazione è una sfida alla sovranità nazionale, soprattutto per quanto riguarda il controllo dei
movimenti. Negli USA l’immigrazione è ormai considerata una componente integrante ma
soprattutto una base fondativa della società contemporanea, mentre in Europa il fenomeno
migratorio continua a rimanere qualcosa di ben separato dalla dimensione europea. Gli immigrati,
nel Vecchio Continente, sono esclusi dall’idea di appartenenza completa e incondizionata,
dall’appartenenza allo stato-nazione.
LEZIONE 04/10/21
Abbiamo visto che, negli ultimi decenni, le migrazioni hanno guadagnato una grande salienza
politica, tanto da generare un importante dibattito su più fronti. Nell’età delle migrazioni, queste
rappresentano uno dei fattori del processo di globalizzazione, ed è proprio in quest’ottica che le
andremo a studiare. Lo sviluppo di tecnologie e comunicazioni non solo hanno facilitato gli
spostamenti, ma anche il mantenimento dei contatti tra la parte della famiglia migrata e quella
eventualmente restata nel paese d’origine (transnazionalismo).
Le migrazioni sono una sfida dal punto di vista culturale per la società e gestionale per lo stato;
non sempre i regimi politici sono in grado di controllare i flussi, e soprattutto di mediare tra norme
di circoscrizione e irregolarità, nel senso che, ovviamente, più sono rigide le norme in tema di
immigrazione, più è “difficile” che gli immigrati siano regolari. C’è, però, anche un discorso di sfida
di lealtà rispetto a uno stato, nel senso che un immigrato può manifestare un legame, una fedeltà,
rispetto allo stato di appartenenza, a quello in cui è approdato o a entrambi.
Dal punto di vista sociologico, le migrazioni sono un complesso di relazioni sociali in cui entrano in
gioco non solo i migranti, ma anche coloro i quali non sono migranti nella misura in cui il
fenomeno migratorio ha così tante e molteplici implicazioni che è ineluttabilmente destinato a
toccare tutti. Ad ogni modo, dal punto di vista metodologico, invece, bisogna ricordare che non si
possono considerare solo gli italiani, per esempio, o i tedeschi, perché la migrazione non è una
categoria della differenza; bisogna evitare di categorizzare, sforzandosi di considerare il complesso
del fenomeno migratorio come istanza del tutto normale e che esiste da sempre e che riguarda
tutti. Se mai, con riferimento alle categorie, si usino delle categorie analitiche, ma non di certo
delle categorie di senso comune. Bisogna, anche, sul solco di quanto appena detto, evitare di
adottare il così detto “nazionalismo metodologico”, ossia un approccio che studia le migrazioni
necessariamente all’interno del quadro di uno stato-nazione.
Ma cerchiamo ora di entrare nel vivo, presentando alcune dicotomie tipiche del discorso
migratorio costruite sulla base di alcuni criteri tipici di discriminazione. Quello che è importante
ricordare è sempre che queste variabili vanno interpretate con un presupposto di fluidità, nel
senso che, come già abbiamo detto, rispetto al fenomeno migratorio e in particolare alla figura del
migrante si tratta di fattori o categorie che non sono definitivi né irreversibili. Segue l’elencazione
delle dicotomie:
- RIFUGIATO: Persona che risiede al di fuori del proprio paese d’origine, che non può o
non vuole ritornare a causa di un “ben fondato timore di persecuzione per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione
politica.”
- RICHIEDENTE ASILO: Persona che si sposta attraverso le frontiere in cerca di protezione,
ma che non sempre rientra nei rigidi criteri della Convenzione di Ginevra.
- VITTIMA DEL TRAFFICO: Persona straniera (spesso donna) che viene coinvolta in un
attraversamento delle frontiere con la forza o più spesso con l’inganno, condizionata
nella libertà di scegliere lavoro e residenza e costretta a svolgere attività che procurano
introiti alla rete che ha organizzato il suo ingresso o ne gestisce il soggiorno.
- SFOLLATO INTERNO: Come i rifugiati, gli sfollati interni sono civili costretti a fuggire da
guerre o persecuzioni. A differenza dei rifugiati, però, non attraversano un confine
internazionale riconosciuto. Restano quindi all’interno del Paese di origine.
Maurizio Ambrosini, sociologo italiano, ha stilato la lista che segue con l’intento di presentare gli
idealtipi fondamentali di migrante:
1. IMMIGRATI PER LAVORO: Un tempo, i migranti per lavoro erano in prevalenza maschi e
poco istruiti. Poi, nel corso del tempo, è accaduto che aumentassero le donne primo-
migranti e il capitale umano che i migranti in generale che portavano con sé. Tuttavia,
tutt’ora spesso i migranti vanno a ricoprire i lavori delle così dette “cinque P”: pesanti,
pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente. Questo, volendo, anche perché,
delle volte, ci possono essere delle difficoltà relative al riconoscimento di titoli di studio
esteri.
3. IMMIGRATI QUALIFICATI E IMPRENDITORI: Ci sono paesi, come gli USA o il Canada, che
hanno dei veri e propri programmi per attrare gli skilled migrants, vale a dire, appunto,
quei migranti altamente qualificati che possono giovare all’imprenditoria nazionale
apportando il proprio prezioso contributo. Anche l’Italia ci sono esempi di imprenditorialità
etnica, ma
4. FAMILIARI AL SEGUITO: È un flusso molto importante, soprattutto nel corso degli ultimi
anni. Per quanto riguarda i ricongiungimenti famigliari, in Europa sono la più rilevante
fonte di nuovi ingressi; in particolare, questa categoria è divenuta sempre più importante
soprattutto a seguito delle restrizioni all’ingresso per motivi di lavoro. NEGLI USA, i 2/3
dell’immigrazione autorizzata è legata proprio ai ricongiungimenti famigliari, che
rappresentano il principale motivo d’ingresso anche in Italia.
5. IMMIGRATI IRREGOLARI: Ne abbiamo già parlato un po’. Quello che però ora si intende
sottolineare, è che la percezione sociale di migranti irregolari è molto variegata; in alcuni
casi, sono percepiti come vittime dello sfruttamento, mentre in altri sono percepiti come
una minaccia all’ordine e alla sicurezza; altri ancora poi, li vedono specificamente come
competitori sleali nel mercato del lavoro. Ora, se noi percepiamo i migranti irregolari come
vittime dello sfruttamento, è necessario fare qualcosa per tutelarli; se li percepiamo come
minaccia, è necessario mettere in atto una serie di provvedimenti di controllo; se li
percepiamo come competitori sleali, è necessario procedere con sanzioni per i datori di
lavoro che li assumono. Questo per dire che la percezione sociale dei migranti irregolari ha
e deve avere delle conseguenze inevitabili e specifiche a seconda di come si configura. Ma
quali sono le ragioni alla base dell’immigrazione regolare? Spesso si tratta di catene
migratorie, ovvero delle reti sociali che favoriscono l’immigrazione anche quando non è
permessa; oppure, si può spiegare a partire dalle esigenze dei paesi più ricchi che hanno
bisogno di manodopera a basso costo facilmente; ancora, esiste la ragione legata alla
difficoltà di riconoscimento delle migrazioni forzate, e da ultima quella legata al ruolo di
istituzioni che agevolano l’ingresso o l’insediamento.
L’immigrazione irregolare ha dei costi, innanzitutto a livello individuale, perché significa
una maggiore vulnerabilità del migrante, ma anche a livello familiare, perché c’è
l’impossibilità di un ricongiungimento, a livello sociale, nella misura in cui il clandestino è
percepito come una fonte di concorrenza sleale sul mercato del lavoro, e a livello politico-
culturale, in riferimento ai rischi per la coesione sociale e le tensioni.
6. RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO: Ne abbiamo già parlato a proposito delle categorie di
migranti forzati.
7. VITTIME DI TRATTA: Ne abbiamo già parlato a proposito delle categorie di migranti forzati.
A proposito della percezione sociale dei migranti, di cui parlavamo, cerchiamo di approfondire un
altro aspetto non da trascurare che è il linguaggio. In effetti, contribuisce a plasmare la percezione
sociale che abbiamo degli immigrati: per esempio, in Germania, per anni, è stato utilizzato il
termine gastarbeiter, che richiama il lavoratore ospite, con un’idea di provvisorietà, temporaneità,
quando in realtà molti sono tranquillamente rimasti in Germania per poi ricongiungersi anche con
la propria famiglia. Il linguaggio crea confini e attribuisce determinati ruoli sociali: se utilizzo il
termine “filippino” per indicare il collaboratore domestico, mi aspetto che chi proviene dalle
Filippine ricopra quel preciso ruolo. Il linguaggio crea aspettative, ha conseguenze concrete.
Molti autorevoli studiosi dicono che “la ricchezza sbianca”: più alcuni gruppi sociali acquisiscono
potere, prestigio e ricchezza, più noi non li percepiamo più come immigrati ma tendiamo a
considerarli come parte della nostra comunità.
Le migrazioni difficilmente sono una scelta di un singolo individuo che decide di spostarsi per
determinate ragioni. La questione non è così semplice, e le teorie che andremo a vedere, lette in
maniera integrata, ci permettono di affrontare la complessità che contraddistingue questo tema.
Partiamo dal presupposto che ogni movimento migratorio ha un’implicazione su tre livelli:
- MACRO STRUTTURE: Parliamo di economia, relazioni fra stati, tentativi di controllo dei
flussi da parte di regimi politici e quant’altro.
- MESO STRUTTURE: Ci riferiamo alle reti di immigrati, alle comunità di immigrati, a dei
networks che permettono di spiegare perché le migrazioni continuano anche in quei
contesti in cui apparentemente non avrebbe più così senso migrare.
- MICRO STRUTTURE: Fanno riferimento alle scelte individuali delle persone, che sono
sempre e comunque da contestualizzare.
Prima di procedere con l’elencazione delle teorie, però, dobbiamo fare un’ulteriore premessa, la
quale consiste nella precisazione del fatto che i migranti non si spostano semplicemente dai paesi
poveri ai paesi ricchi, perché, come dice una sociologa statunitense, altrimenti ci sarebbero 2
miliardi di immigrati, e non 270 milioni. I migranti non sono i più poveri, banalmente perché i più
poveri non hanno le risorse e gli strumenti per partire; e poi, tra l’altro, nel momento in cui i paesi
in via di sviluppo progrediscono, aumenta l’immigrazione: in un paese in crescita economica
circolano più informazioni e ci sono più risorse per partire; sembra paradossale, ma si tratta di un
fenomeno effettivamente osservato.
Bene, ora possiamo finalmente presentare le teorie sulle cause dell’immigrazione, che vanno lette
in maniera complementare e non esclusiva, tant’è che derivano da approcci differenti: le prime tre
hanno un risvolto economico, la quinta e la sesta storico-strutturale, mentre la quarta e la settima
sociologico.
1. TEORIA NEOCLASSICA: Questa teoria rientra nelle così dette “teorie funzionaliste”, cioè si
basa sull’assunto che tutte le forze sociali tendono verso l’equilibrio. Questo significa che la
teoria neoclassica inquadra le migrazioni come una parte intrinseca dell’interno processo di
sviluppo, grazie alla quale il surplus di forza lavoro nelle aree rurali compensa la mancanza
di forza lavoro nelle aree urbane. La teoria neoclassica sostiene che i migranti scelgono di
migrare sulla base di differenziali salariali e sulla base delle opportunità di impiego.
Dunque, secondo questa teoria, la scelta di partire è un investimento mirato a raggiungere
una situazione più proficua che si decide di compiere alla luce di un’analisi costi-benefici. È
una scelta, dunque, sicuramente individuale e razionale che rientra nell’orbita di un
mercato auto-regolato che guida indirettamente le azioni dei migranti.
Tuttavia, questo approccio ha ricevuto diverse critiche: è ovviamente irrealistico che una
persona abbia a disposizione tutte le informazioni sul mercato del lavoro di tanti paesi per
poter condurre un’analisi costi-benefici così scrupolosa; inoltre, se davvero le persone
migrassero solamente alla luce di un simile criterio, così oggettivo e universale, andrebbero
tutte più o meno nelle stesse aree del mondo, quando invece non è evidentemente così; e
ancora, di certo il fattore economico in generale, al di là di come si decida di configurarlo,
non è di certo l’unica variabile che interviene nella scelta di migrare.
2. TEORIA DELLA NUOVA ECONOMIA DELLE MIGRAZIONI: Nasce come risposta alla teoria
neoclassica, tentando di superare tutte le critiche che erano state mosse rispetto alla
stessa. Questa teoria sposta l’attenzione dall’individuo al gruppo sociale, che può essere la
famiglia o la comunità, nel senso che la scelta di migrare si svilupperebbe proprio
all’interno di un gruppo sociale. Grazie alla migrazione di uno dei membri del gruppo
sociale, è possibile diversificare e minimizzare i rischi: se all’interno di una famiglia un
componente parte, a fronte di una crisi nel paese di partenza le rimesse di quel
componente saranno preziose per affrontare meglio la crisi. Dunque, le migrazioni
sarebbero un discorso di minimizzazione dei rischi e di tutela di un gruppo sociale,
sostanzialmente la famiglia, in un contesto in cui, pertanto, le migrazioni assumono i
connotati di un processo che non è riconducibile esclusivamente al singolo individuo. In
questo senso, in effetti, è emblematico l’esempio delle badanti dell’est, che notoriamente
agiscono all’interno di una strategia famigliare ricorrendo all’invio di risorse economiche
nel posto d’origine.
3. TEORIA DEL MERCATO DUALE DEL LAVORO: Questa teoria viene sviluppate da Piore nel
1979, e sostiene che le migrazioni internazionali sono causate dalla domanda strutturale
delle economie avanzate di lavoratori. Quindi, le migrazioni internazionali sarebbero
indotte dalla domanda strutturale, da parte delle economie avanzate, di lavoratori non
scolo con scarse qualifiche ma anche altamente qualificati. In particolare, la necessità di
manodopera di bassa qualifica è evidente nelle città globali, come New York, Milano,
Londra, Parigi, e quant’altro, delle metropoli in cui si concentrano tutte le attività
strategiche per il funzionamento dell’economia globalizzata e in cui si può osservare la
contrapposizione tra settore primario e settore secondario: vi è una polarizzazione
dell’economia per la quale nel primario abbiamo alti lavoratori ben pagati, magari maschi e
bianchi, mentre nel secondario abbiamo lavoratori che soddisfano i bisogni dei primi, come
pulizia e assistenza, e tendenzialmente irregolari e/o femminili. Tuttavia, attenzione,
perché il secondario è fondamentale tanto quanto il primario per il funzionamento del
sistema, al quale servono persone più pagate di altre e persone più vulnerabili di altre.
La teoria del mercato duale del lavoro ritiene che le migrazioni vadano spiegate a partire
dai paesi economicamente avanzati e dai pull-factors annessi. Le grandi economie avanzate
sostengono una domanda strutturale di lavoratori anche low-skilled che sono a servizio dei
lavoratori del primario, il quale, quindi, come settore, genera un fabbisogno di
manodopera che si traduce in un fabbisogno nell’ambito della pulizia, della ristorazione,
dell’assistenza, ecc. Insomma, le migrazioni sarebbero guidate da fattori di attrazione
strutturali che caratterizzano i paesi avanzati, alle volte, i fattori, addirittura potenzialmente
più “forti” dei sistemi di controllo e dei limiti imposti dalle normative in materia di
immigrazione regolare. Serve lavoro immigrati perché serve una manodopera docile e
vulnerabile, e spesso i discorsi pubblici razzisti e xenofobi servono a giustificare e
legittimare lo sfruttamento dei migranti.
In ogni caso, anche qui abbiamo delle critiche: innanzitutto non tutti i migranti possono
essere interpretati come “vittime del capitalismo”, nel senso che alcuni migranti riescono
davvero a migliorare le proprie condizioni di vita, e poi la scelta di migrare non può essere
letta in maniera deterministica, ovvero determinata dal mercato capitalista.
4. TEORIA DEI NETWORKS: Questa teoria risposta l’attenzione sull’agency del migrante, il
quale ha la capacità di creare dei networks, ossia degli insiemi di legami interpersonali che
connettono i migranti e i non migranti nelle aree di origine e destinazione attraverso legami
di amicizia, conoscenza e comunità d’origine. Quest’approccio è più esauriente dal punto di
vista concettuale, e supera i limiti delle precedenti teorie riportando l’attenzione
sull’agency. I migranti, basandosi sui propri legami, possono sfidare anche le restrizioni
governative. Oltre al capitale umano e al capitale finanziario c’è, pertanto, il capitale
sociale, inteso come insieme di risorse connesse al possesso di un network durevole, più o
meno istituzionalizzato e di mutua conoscenza. Quando dicevamo che questa teoria è in
grado di continuare a spiegare le migrazioni anche quando apparentemente non ci
sarebbero più ragioni per spostarsi in un determinato contesto, è perché, allora, secondo
questa teoria, anche se in Italia il mercato del lavoro non è più così propositivo, visto che
c’è già là una parte della famiglia decidono di andare là lo stesso piuttosto che migrare da
solo in Germania, nonostante ci possano magari essere delle opportunità migliori. Ma
attenzione, i networks non sono solo quelli famigliari: possono fungere da incentivo anche
networks di amici o di connazionali.
In conclusione, dunque, la teoria dei networks si concentra sui fattori auto-propulsivi;
grazie ai legami prodotti, i flussi migratori continuano anche quando vengono meno le
condizioni che avevano inizialmente favorito quel flusso migratorio, in questo senso si parla
di “auto-propulsione”. Queste reti rappresentano le mesotrutture che consentono di unire
l’agency dell’individuo con il contesto. Inoltre, forniscono una serie di opportunità, di
carattere lavorativo, relazionale, organizzativo, e quant’altro, e perciò permettono di
rafforzare il senso di appartenenza. Nei paesi di arrivo, i migranti iniziano a costruire le
proprie strutture sociali ed economiche, le quali, a loro volta, aiutano ad auto-perpetuare
le migrazioni. Le reti sono anche delle fonti cognitive, di informazioni, di strategie e di
riduzione dei costi della migrazione, come quelli psicologici. In ogni caso, invece, la teoria
neoclassica e quella della nuova economia delle migrazioni su quelli di espulsione, e quella
del mercato duale del lavoro sui fattori di attrazione.
LEZIONE 06/10/21
5. TEORIA DEL SISTEMA MONDO: Secondo le teorie che adottano un approccio storico-
culturale, la migrazione non è una scelta volontaria e razionale, ma è una scelta di forza
maggiore indotta da condizioni strutturali sussistenti riconducibili ai cambiamenti e alle
trasformazioni intercorsi nell’evoluzione del mondo. Inizialmente, la teoria del sistema
mondo viene sviluppata per spiegare le migrazioni interne, ma poi viene estesa anche a
quelle internazionali. Il punto di partenza è la struttura complessiva del mercato globale,
soprattutto rispetto ai rapporti di dominazione che la caratterizzano. La teoria del sistema-
mondo considera la migrazione internazionale come un sottoprodotto del capitalismo
globale perché le risorse economiche del pianeta vengono ridistribuite a partire da un
“nucleo” (paesi ricchi) verso le “periferie” (paesi poveri): lo sviluppo industriale dei paesi
del Primo mondo genera ricchezza mentre i Paesi del Terzo Mondo acquistano importanza
soltanto come luogo di approvvigionamento di forza lavoro e materie prime. In questo
meccanismo di distribuzione impari, il mercato e le sue leggi diventano il mezzo con il quale
i paesi ricchi sfruttano a loro vantaggio i paesi poveri che vengono così considerati ottimi
fornitori di risorse naturali a basso costo e nello stesso tempo acquirenti obbligati di
prodotti finiti.
Chi emigra non è integrato nelle economie di sussistenza del proprio paese ma sente, come
deprivazione grave, la mancanza di beni di consumo da acquistare sul mercato. La critica
principale a questa teoria è che sembra un meccanismo automatizzato difficile da
contemplare che, in più, ignora qualsiasi altro aspetto legato alla dimensione dell’individuo
nella scelta di migrare. Non possiamo leggere i migranti meramente come “vittime” del
sistema mondiale.
7. TEORIA ISTITUZIONALISTA DELLE MIGRAZIONI: Il capitale sociale fornito dai networks non
è l’unica forma di auto-propulsione che consente alle migrazioni di auto-perpetuarsi. In
effetti, la teoria istituzionalista è fortemente legata a quella dei networks, nel senso che la
scelta di migrare si sviluppa sempre all’interno di un contesto. Da un punto di vista
sociologico, le istituzioni sono quelle relazioni sociali stabili e consolidate che tendono a
istituzionalizzarsi, e, ovviamente, il concetto di istituzione è legato a quello dei network. La
teoria istituzionalista individua in particolare due tipi di organizzazioni: quelle “pro-
immigrati”, ossia enti e associazioni che offrono sostegno ai migranti e ai loro diritti, che
rappresentano un capitale sociale per i migranti che facilita il loro arrivo, e quelle
“criminali”, ossia organizzazioni che speculano, lucrano e trafficano sull’immigrazione, le
quali, però, in alcuni casi sono funzionali alle organizzazioni del primo tipo. Ecco, questi due
tipi di istituzioni sociologiche sono una fonte di perpetuazione per le immigrazioni.
Quello che abbiamo compreso è che la scelta di migrare non è una mera scelta individuale. Non si
tratta di un’azione individuale economica, ma di un agire sociale. Proprio l’approccio sociologico ci
ha consentito di spiegare alcune anomalie, come il perpetuarsi delle migrazioni in condizioni
apparentemente sfavorevoli rispetto a quelle iniziali.
- DEPRIVAZIONE RELATIVA: Se all’interno della mia comunità alcuni miei vicini hanno un
figlio che, emigrato in Inghilterra, manda delle rimesse grazie alle quali i miei vicini si
iniziano a costruire una casa più bella, inizio a provare un senso di deprivazione relativa
che può far sì che anche all’interno della mia famiglia si inizi a pensare alla migrazione;
- BRAIN DRAIN: Nella società di partenza, le migrazioni possono portare a una perdita di
“menti brillanti”, con un conseguente peggioramento
Da tutte queste teorie possiamo notare come gli stati nazionali abbiano un ruolo sempre più
marginale nel controllo della mobilità umana, a dispetto di quello che si potrebbe pensare.
Dunque, la stessa domanda di lavoro nelle economie avanzate fa proseguire l’immigrazione; le
economie avanzate hanno bisogno di manodopera straniera e a basso costo. E in questa lettura
ampia di queste prime lezioni dobbiamo parlare di un altro tema: le migrazioni e le prospettive di
sviluppo dei paesi d’origine.
Le rimesse in denaro rappresentano un flusso imponente che supera spesso gli investimenti
stranieri indiretti e i finanziamenti nazionali. Rappresentano un giro d’affari veramente corposo nel
loro complesso, a cui si aggiunge parallelamente una sorta di giro d’afffari informali che interessa
beni materiali. I migranti inviano delle rimesse per via di obblighi informali che hanno rispetto alla
propria famiglia d’origine, quella strategia di diversificazione e riduzione dei rischi di cui
parlavamo. C’è anche una valenza di ricompensa psicologica, è un modo per ottenere
soddisfazione dal fatto di dimostrare un certo tipo di successo in grado di compensare alla
frustrazione e alla difficolta cui si va incontro nel paese di approdo, dal punto di vista
dell’immigrato chiaramente. Poi è chiaro che sono materialmente molto utili per chi le riceve. A
seguito della pandemia, il flusso di rimesse è calato drasticamente, e, indubbiamente, le rimesse
stimolano i consumi, fanno aumentare il reddito nazionale del paese, possono incentivare
investimenti nel paese, fanno girare l’economia insomma. Tuttavia, dalla parte degli svantaggi,
innanzitutto le rimesse aumentano le disparità di reddito e quindi le differenze di stili di vita nel
paese; inoltre, possono avere un negativo impatto inflazionistico, possono far sì che ci sia il rischio
che il paese diventi troppo dipendente dalle rimesse, e poi possono favorire la fuga di cervelli a
partire dal senso di deprivazione relativa che incentiva l’immigrazione.
Ecco, proprio il capitale umano è un altro tema fondamentale a proposito degli effetti sui paesi
d’origine. Innanzitutto, c’è il fenomeno, relativamente al capitale umano, del “brain drain”, ossia la
classica “fuga di cervelli”. Ma poi, c’è anche il fenomeno del “brain gain”, espressione con cui si
intende il trasferimento delle competenze dei migranti maturate all’estero a favore del proprio
paese d’origine, e questo invece è un dato positivo chiaramente. Questo può avvenire o attraverso
le migrazioni di ritorno o attraverso delle iniziative imprenditoriali con riferimento al proprio
paese. Per esempio, i migranti europei, tornati dagli USA, hanno contribuito alla modernizzazione
del proprio paese.
Infine, il terzo tema è quello della diaspora e del transnazionalismo. Le diaspore sono delle
aggregazioni di gruppi etnici in paesi stranieri accomunati da una stessa provenienza. Le diaspore
possono rappresentare, attraverso dei legami transnazionali, delle opportunità di sviluppo. Un
modo è quello del “co-sviluppo”, ossia il contributo delle comunità migranti allo sviluppo dei
propri paesi di origine attraverso opportuni progetti. Sappiamo che i legami transnazionali sono
anche facilitati dalle nuove tecnologie.
Quindi, proviamo a trarre delle conclusioni da tutto questo quadro teorico. In primo luogo,
abbiamo visto che queste teorie ci permettono di comprendere ancora meglio che le migrazioni
sono un atto collettivo che comprende sia migranti che riceventi, un atto strettamente intrecciato
alle trasformazioni della società. Le migrazioni sono generate dalle trasformazioni e a loro volta
generano trasformazioni. I migranti non sono soggetti passivi, vi è un’agency che non rende
possibile una lettura meramente vittimistica dei migranti, e che, d’altra parte, si inserisce nel
quadro di un contesto, di alcuni fattori strutturali dalla natura più disparata. Le migrazioni vanno
lette in maniera integrata. Facciamo un esempio: la teoria neoclassica può essere applicata alle
migrazioni tra paesi ricchi di migranti altamente qualificati; la teoria del mercato duale del lavoro,
invece, può esser usata per spiegare le migrazioni che provengono da paesi di povertà, per
spiegare la posizione di quei migranti che si ritrovano a occupare posizioni di particolare
vulnerabilità; le teorie storico-strutturali aiutano invece a comprendere situazioni come il
caporalato. Non possiamo scegliere una sola teoria che ci sembra la più plausibile: servono tutte e
sono complementari.
LEZIONE 11/10/21
POLITICHE MIGRATORIE
La governance dei flussi migratori è un tema molto attuale, e abbiamo visto quanto i flussi
migratori siano in grado di sfidare lo stato-nazione a livello non solo culturale ma anche gestionale.
Le politiche migratorie sono tutte quelle leggi, normative e misure che sono state ideate e
implementate con l’obiettivo esplicito di influenzare il volume, l’origine, la direzione e la
composizione interna dei flussi migratori. Ma attenzione, perché esiste un altro sistema di
regolamentazione che prende il nome di “politiche non migratorie”, ovvero normative e misure
che non sono state ideate per regolare le migrazioni ma che hanno comunque un impatto su
queste; per esempio, è il caso di azioni relative al mercato del lavoro, o al sistema di welfare,
insomma ambiti la cui regolamentazione e configurazione può avere un impatto sulle migrazioni.
La linea principale europea dagli anni ’80 a oggi è stata una linea di chiusura in termini di politiche
migratorie, perché negli anni delle prime crisi occupazionali la popolazione iniziava a percepire le
migrazioni come un peso. Tuttavia, con l’arrivo del nuovo millennio, le istituzioni europee hanno
decretato che una politica di chiusura non è più sostenibile, perché sono un fenomeno essenziale
e integrante della globalizzazione, che non è arrestabile, controvertibile o negabile. In ogni caso, le
migrazioni sono sempre state al centro delle preoccupazioni per una parte significativa di europei
e italiani, soprattutto rispetto alla figura del migrante legata alla provenienza da un paese povero e
in cerca di un’occupazione umile.
Le politiche migratorie sono in grado di agire non in termini di volumi di immigrati, ma riescono a
incidere sulla composizione delle migrazioni, sulla selezione delle migrazioni, sulla posizione dei
migranti. Non è più possibile pensare che le migrazioni sia un risultato solo dei fattori push. Quindi,
solo parzialmente le politiche migratorie riescono a influenzare il volume delle migrazioni,
politiche migratorie che hanno quattro criteri di classificazione:
- Controllo dei confini: serve a prevenire l’ingresso degli immigrati non desiderati, come i
richiedenti asilo, i clandestini, ecc. In questo caso, gli strumenti utilizzati sono muri,
visti, documenti di identificazione, la detenzione dei migranti irregolari che fa da
deterrente, sanzioni contro lo smuggling.
- Ingresso e permanenza: parliamo di tutti quei documenti che permettono a un
immigrato di entrare regolarmente e poi risiedere regolarmente nel paese di
destinazione. In questo caso, gli strumenti utilizzati sono permessi di soggiorno,
permessi per lavoro, sistemi di ingresso a punti, campagne di regolarizzazione
(sanatorie).
- Politiche di integrazione: politiche che riguardano l’inclusione dei migranti nel
territorio, inclusione economica, sociale, culturale, lavorativa, ecc. E si tratta di un’area
in cui rientra anche la definizione dei diritti degli immigrati. In questo caso gli strumenti
generalmente utilizzati sono programmi per la conoscenza della lingua o corsi di
cittadinanza.
- Politiche di uscita: sono le politiche volte al ritorno, volontario o forzato, nei paesi
d’origine; sono programmi che aiutano i migranti che vogliono fare ritorno a rientrare
nel paese di provenienza. In questo caso, gli strumenti generalmente utilizzati sono le
misure per stimolare il rientro.
2. CTIZENSHIP: Le politiche che si basano sulla nazionalità dei migranti, in particolare l’Europa
ha dei criteri molto restrittivi nei confronti dei paesi del Terzo Mondo
3. CATEGORIE DI MIGRANTI: Le politiche possono essere rivolte a una o a delle categorie
specifiche di migranti.
4. STRUMENTI DI POLICY: Sono gli strumenti legali e pratici che servono a regolare
l’immigrazione.
Queste aree vanno distinte perché spesso i paesi, in queste quattro aree, non si muovono nella
stessa direzione. Per esempio, nei paesi del Golfo ci sono delle regole di ingresso e permanenza
molto semplici, ma per quanto riguarda le politiche di integrazione viene riconosciuto un ventaglio
di diritti molto scarso. In Europa tendenzialmente è il contrario, ci sono politiche di ingresso e
permanenza piuttosto severe ma che, se rispettate, conducono a una permanenza connotata dal
riconoscimento di diversi diritti. Ciò non toglie, poi, chiaramente, che alcuni paesi possano
mantenere la stessa linea da tutti i punti di vista.
Gli stati nazionali hanno un ruolo centrale nell’elaborazione e nell’implementazione delle politiche,
ma non è possibile comprendere la governance delle migrazioni senza considerare anche il livello
sovranazionale e quello locale.
Per quanto riguarda il livello europeo, con il Trattato di Amsterdam del 1999 i temi migratori
divengono di competenza europea. Gli stati membri non intendono cedere la propria sovranità
nazionale sulle tematiche migratorie, e quindi, per questo, si parla di “lenta comunitarizzazione” a
questo proposito. Pertanto, perlomeno inizialmente, venivano adottati strumenti non vincolanti,
tra cui si ricordano i “Common Basic Principles on Immigrant Integration”; il primo principio, degli
undici totali, definisce l’immigrazione come un processo bidirezionale dove vengono inseriti anche
i nativi, cioè gli autoctoni che appartengono alla maggioranza, per questo bidirezionale. Oppure, il
terzo principio recita che il lavoro è centrale nell’integrazione, il quarto parla dell’importanza della
lingua, della storia e delle istituzioni sempre ai fini dell’integrazione: bisogna far sì che i migranti
acquisiscano una conoscenza base in questi ambiti.
Altri strumenti non vincolanti sono le conferenze ministeriali sui temi migratori che
periodicamente si tengono tra gli stati per definire alcuni orientamenti.
Per quanto riguarda il livello nazionale, su cui evidentemente gravava maggiormente il peso delle
migrazioni prima della pertinente integrazione europea, non è sufficiente comunque per
comprendere e neanche gestire le migrazioni, tanto che poi questa critica si è tradotta nella critica
al nazionalismo metodologico, ovvero la tendenza a pensare i confini degli stati siano un buon
presupposto per studiare “a blocchi” l’immigrazione.
Ad ogni modo, come dicevamo, ha una rilevanza in questo senso anche il livello locale.
Banalmente, i comuni hanno un ruolo determinante nell’implementazione e nell’attuazione delle
politiche d’integrazione. È a livello locale che si pongono le questioni pratiche e concrete da
risolvere, dettate dalla compresenza sul medesimo territorio di gruppi etnici differenti. E
attenzione, perché il livello locale non solo può influenzare le politiche migratorie, ma può anche
esercitare una sorta di pressione sul livello nazionale, anche pensare dei nuovi approcci. A livello
locale è anche possibile attivarsi, e in particolare le città possono porsi come terreno di sfida alle
politiche di esclusione decise a livello nazionale. Le città possono essere intese sia come spazi in
cui le politiche nazionali vengono declinate e implementate, ma anche come spazi di resistenza in
cui emergono reti di supporto per gli immigrati. Un esempio in quest’ultimo senso sono le
“sanctuary cities”, che sono un fenomeno che si è visto sia in USA che in Europa seppur con forme
diverse: negli USA e nel Canada si è trattato di esperienze più legate alla protezione dei migranti
irregolari dalle conseguenze del loro status irregolare, mentre in UK si è trattato di esperienze più
legate all’impegno nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati.
A questo punto è evidente che ci possa essere una discrasia tra linea a livello nazionale e linea a
livello locale. Per descrivere quel complesso di attori coinvolti nella gestione dell’immigrazione
faremo riferimento al concetto di “governance multilivello”. Già un sistema come questo abbiamo
visto che pone un problema di convergenza e divergenza tra i vari livelli, e per studiare queste
dinamiche è molto utile fare riferimento ai quattro idealtipi di configurazioni proposti da Scholten.
Questi, per cercare di mettere ordine, presenta:
- MODELLO CENTRALISTA: Nel modello centralista vediamo, tra i diversi livelli, delle
relazioni gerarchiche “top-down” in cui il livello nazionale determina cosa debba fare il
livello locale. Inoltre, vengono messi in atto dei meccanismi per controllare che
effettivamente sia così, e quindi in questi casi abbiamo spesso delle strutture nazionali
che coordinano le politiche migratorie, come il ministero dell’interno che se ne fa
carico.
- MODELLO LOCALISTA: Nel modello localista ci sono delle relazioni “bottom-up” (il
contrario di prima). Ciò che viene fatto localmente rimane lì, nel senso che non ha
un’espansione universale, ma ogni istanza locale è autonoma nella gestione.
- GOVERNANCE MULTILIVELLO: In questo caso troviamo delle interazioni verticali che
però sono biunivoche. Nessuno dei due ha la priorità, si tratta di un confronto, di uno
scambio fluido che risponde a una logica di dialogo mutuale.
- DECOUPLING (SCOLLEGAMENTO/DISACCOPPIAMENTO): In questo modello, nello
stesso ambito d’intervento sono poste in essere politiche a volte scollegate e a volte in
contraddizione tra di loro. Non solo ci può essere un conflitto tra diversi livelli, ma può
anche diminuire l’efficacia delle politiche stesse, perché si passano messaggi
contrastanti se c’è divergenza tra livello nazionale e livello locale.
LEZIONE 13/10/2021
A proposito della politicizzazione dei temi migratori, c’è un tema a proposito dello scarto che
esiste tra i discorsi politici e i provvedimenti concretamente attuati, un gap tra le politiche “on
paper” e la loro implementazione. Per esempio, per anni la Francia è stata un’icona del modello
assimilazionista, ma quando però ci si è trovati a implementare un modello simile nel concreto
nelle periferie e nelle situazioni locali si è di fatto passati a un modello multiculturale a tutti gli
effetti. Nella retorica un modello assimilazionista, nella pratica un modello multiculturale.
In Europa vi è una “basic non-acceptance of immigration” come l’ha definita Penninx nel 2004, e vi
è una difficoltà da parte dei paesi a rinunciare alla propria sovranità nazionale. Vi è una ricerca
molto interessante che ci aiuta a comprendere che le politiche a favore dell’immigrazione possono
essere trovate sia all’interno degli schieramenti di destra che a quelli di sinistra. L’apertura nei
confronti dell’immigrazione nell’orientamento di destra è riconducibile all’idea del liberismo del
mercato del lavoro, un’idea liberista del mercato di lavoro, mentre in quelli di sinistra è
riconducibile a una concezione cosmopolita e umanitaria. Per quanto riguarda gli atteggiamenti di
chiusura, invece, abbiamo a destra ragioni di identitarismo e nazionalità, mentre a sinistra ragioni
di salari e tutela dei lavoratori nativi.
Tuttavia, c’è una sostanziale convergenza nelle politiche europee di inclusione. A partire dal 2000, i
paesi europei, pur nella specificità della propria storia e dei propri contesti, si sono trovati a dover
affrontare delle sfide comuni dovute alla diversità etnica e culturale. In primo luogo, la prima sfida
è quella relativa al mantenimento della coesione sociale, anche alla luce della presenza di attori
diversi con identità differenti. La seconda sfida è legata al combattere gli svantaggi strutturali dei
migranti, la cui discriminazione contraddice il principio di uguaglianza formale sostenuto dai vari
stati. Vediamo quali sono comunque i punti di convergenza alla luce di queste sfide comuni.
Vi è una condivisione anche nella facilitazione della naturalizzazione dei migranti e dei loro figli,
anche se le regole per la cittadinanza in Italia sono ancora abbastanza restrittive. È molto difficile
in effetti sostenere l’inclusione di gruppi che nella società che formalmente non sono ancora parte
della società, per questo la facilitazione della naturalizzazione è stata un altro punto di
convergenza.
Il terzo punto è legato al concetto di “denizenship”, ossia “semicittadinanza”, espressione con cui
si fa riferimento alla progressiva e parziale estensione dei diritti civili, sociali e politici ai cittadini di
paesi terzi soggiornanti di lungo periodo. Quindi, sostanzialmente, intendiamo proprio questo
ampio bagaglio di diritti riconosciuti, un altro punto che accomuna le politiche di integrazione
europee.
Inoltre, un altro tempo è quello della “membership transnazionale”, vale a dire la doppia
cittadinanza. Potendo mantenere anche la propria cittadinanza di origine, c’è più probabilità che il
migrante faccia richiesta di cittadinanza.
Poi ci sono i diritti garantiti ai migranti irregolari, come l’istruzione o la sanità. Indubbiamente, in
questo riconoscere dei diritti anche ai clandestini ha giocato un ruolo fondamentale la società
civile.
Tale convergenza in fatto di integrazione è legata anche al fatto che vengono concessi dei fondi
comunitari per finanziare alcuni progetti stabiliti precisamente a livello europeo con obiettivi
specifici
Infine, abbiamo la convergenza a proposito dell’”integrazione civica”. Rientrano in questo ambito
gli accordi di integrazione, i test di cittadinanza e quant’altro che i migranti devono sostenere
come condizione di permanenza. L’integrazione civica chiede al migrante, nel momento in cui fa
ingresso nel paese, un certo livello di conoscenza della lingua, della cultura e dei valori peculiari
del paese ospite. Questo significa che l’integrazione non è più un punto di arrivo, un traguardo, ma
un punto di partenza: le politiche di integrazione diventano anche politiche di selezione.
L’acquisizione della lingua, delle norme, dei valori, delle regole e dei principi delle società riceventi
diventa una condizione per l’accesso e per l’acquisizione dei diritti, e l’onere dell’integrazione cade
quasi unicamente sui migranti, senza che sia plasmata anche sulla società ospitante. Dunque,
l’enfasi si sposta sul merito dei migranti. Più sei simile a quelli che ti ospitano, insomma, più è
facile entrare. Per esempio, in Italia, chiunque abbia almeno 16 anni ed entra in Italia deve
sottoscrivere un accordo di integrazione per cui si impegna ad avere almeno un A2 di lingua, ad
acquisire una conoscenza sufficiente dei principi della Costituzione, ecc.
2. MODELLO DEL LAVORO TEMPORANEO: Il così detto “gasterbeiter”, questa figura del
lavoratore temporaneo che poi in teoria torna al proprio paese. In pratica, come abbiamo
visto, è stato più un ideale che altro, tipico comunque dei paesi più restii a vedersi come
paesi di immigrazione, che poi comunque si sono dovuti “arrendere”. Nel modello del
lavoratore temporaneo abbiamo un regime restrittivo della cittadinanza (ius sanguinis) un
accesso limitato al welfare o altre politiche restrittive. Tuttavia, dopo gli anni ’90, come
abbiamo visto in virtù della convergenza europea, anche laddove vigeva questo regime ha
trovato spazio una maggiore flessibilità.
3. MODELLO DELLA RESIDENZA PERMANENTE: Caratterizza l’esperienza dei paesi che hanno
avuto un passato coloniale, come Inghilterra, Francia o Paesi Bassi. Si connota per un
trattamento preferenziale riservato ai migranti delle ex-colonie, anche se, in questi paesi,
l’uguaglianza formale tra migranti e nativi non è corrisposta a un’effettiva uguaglianza di
opportunità, anche appunto per i provenienti dalle ex-colonie nonostante il trattamento
preferenziale.
Ovviamente, questi idealtipi non riescono a spiegare la complessità della realtà, ci sono moltissime
situazioni ibride. Alcuni paesi, quindi, non rientrano in questi modelli, e soprattutto tutti i paesi
non sono statici nella gestione dell’immigrazione, perché ci sono sempre nuove sfide da
affrontare.
Indubbiamente, i regimi migratori hanno delle conseguenze concrete sull’inclusione dei migranti.
Per esempio, se dichiaro che un migrante è un lavoratore temporaneo, questo troverà delle
barriere all’accesso alla vita associata, la discriminazione aumenterà e anche per i migranti sarà più
difficile sentirsi parte della società. Le politiche hanno un’influenza anche sui processi di
inclusione.
Abbiamo iniziato a capire come le migrazioni abbiano portato a una crescente convivenza etnica,
culturale, religiosa e quant’altro. Ovviamente, non tutte le migrazioni danno origine a gruppi etnici
separati (pensiamo per esempio a un austriaco che migra in Germania). L’Europa si è trasformata
velocemente in una società multietnica, abbiamo visto che le migrazioni temporanee sono
divenute stabili, che c’è l’arrivo di molti migranti per ragioni umanitarie e poi che la diversità è un
esito anche dell’insediamento di proveniente da ex-colonie.
Il tema della convivenza interetnica è un tema molto ampio. Cercheremo di partire dalla
formazione delle minoranze etniche, per poi affrontare la dicotomia tra assimilazione e
integrazione, i diversi modelli di integrazione e infine i rischi legati alla convivenza interetnica, con
elementi come stereotipi, pregiudizi, discriminazione e razzismo.
Una minoranza etnica non lo è solo in termini strettamente numerici e statistici, ma anche nella
misura in cui ha un ruolo più marginale nell’accesso alle risorse socialmente rilevanti. Il concetto di
minoranza è l’esito sia di un auto-definizione che di un etero-definizione. Quest’ultima proviene
dal gruppo maggioritario che attribuisce a quello minoritario delle caratteristiche che vengono
disprezzate, mentre l’auto-definizione sono i membri del gruppo minoritario che si sentono in una
posizione di inferiorità numerica e sociale. Le minoranze sono, di nuovo, l’esito di un processo di
costruzione sociale.
LEZIONE 18/10/21
ASSIMILAZIONE O INTEGRAZIONE?
In questa lezione proveremo a chiederci come gli immigrati e i loro discendenti divengono parte
della società e come lo stato e la società civile possano favorire o meno questo processo. Alcuni
definiscono questo processo “assimilazione”, altri “integrazione”, o “incorporazione”, o ancora
“inclusione”. Non c’è un accordo sul termine da utilizzare e non c’è un accordo neanche su quale
debba essere precisamente l’esito di questo processo.
Il primo termine utilizzato per definire questo processo è “assimilazione”, elaborato dalla Scuola di
Chicago all’inizio del ‘900 in relazione ai flussi migratori che interessavano Chicago in quel periodo.
L’interesse per l’inclusione degli immigrati nasce proprio qui, nel contesto in cui Park e Brugess nel
1924 definiscono l’assimilazione come quel
“processo di interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi acquisiscono le memorie, i
sentimenti e gli atteggiamenti di altre persone e gruppi e, condividendo la loro esperienza e la loro
storia, sono incirporati con loro in una vita culturale comune”.
Ovviamente sono i migranti che sono chiamati individualmente ad acquisire i caratteri della società
di arrivo, a indentificarsi con la società d’arrivo lasciando indietro le proprie peculiarità culturali.
L’assimilazione, e questo è il punto chiave, è un’idea di processo unilaterale che muove e viene
portato avanti dagli immigrati che si assimilano al gruppo maggioritario spogliandosi di tutti i
propri riferimenti culturali e venendosi a indentificare completamente con il gruppo maggioritario.
- Matrimoni Misti;
- Dispersione territoriale: non concentrando i migranti in un singolo quartiere o città, questo
avrebbe favorito i contatti con i nativi;
- Incorporazione nella vita culturale e sociale
Implicitamente, si sta sostenendo una superiorità della cultura del paese di arrivo; l’obiettivo,
secondo i teorici classici, è quello di acquisire l’american way of life che avrebbe offerto ai migranti
nuove opportunità e garantito loro successo (self-made man americano).
Questa assimilazione era dunque desiderabile per tutti, si immaginava che i migranti
abbandonassero le proprie peculiarità culturali per acquisire in maniera irreversibile quelle della
società maggioritaria. Il concetto di “assimilazione” ha sia una connotazione descrittiva, nel senso
che è in grado di descrivere quello che accade quando i migranti si uniformano alla società
ricevente, che una connotazione prescrittiva, nel senso che indica ciò che è opportuno che si
verifichi: il concetto di assimilazione, infatti, è stato utilizzato anche in termini prescrittivo, i
migranti devono assimilarsi, è un vero e proprio progetto politico desiderabile in relazione a
un’uniformazione e partecipazione completa.
Ellis Island è stato un esempio dell’assimilazionismo. Oggi è un isolotto parzialmente artificiale alla
foce del fiume Hudson nella baia di New York. L'originaria superficie (poco più di un ettaro) fu
incrementata fra il 1890 e il 1930 con i detriti derivanti dagli scavi della metropolitana di New York,
fino a raggiungere gli 11 ettari. Antico arsenale militare, dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura,
è stato il principale punto d'ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti.
ll porto di Ellis Island ha accolto oltre 12 milioni di immigranti provenienti da tutto il mondo dal
1892 al 1954. Prima della sua apertura, avvenuta il 1 gennaio del 1892, già oltre 8 milioni di
persone erano transitate per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan.
Gli stranieri che approdavano al porto di Ellis Island avevano l'obbligo di esibire ai medici del
Servizio Immigranti i documenti d'imbarco con le informazioni sulla nave che li aveva condotti e i
documenti d'identità per il riconoscimento personale, che sarebbero stati visionati e approvati
durante le ispezioni mediche e burocratiche.
Le ispezioni mediche, alle quali ciascun immigrante doveva sottoporsi, avevano lo scopo di
valutare le condizioni fisiche e psicologiche dei pazienti esaminati, evitando in questo modo
contagi da malattie infettive.
Al contrario di quanto accadeva ai passeggeri di terza e quarta classe, obbligati a scendere dalla
nave e stanziare sul molo durante lo svolgimento delle ispezioni, i passeggeri agevolati ed
economicamente stabili, che durante il tragitto fino a New York avevano viaggiato nelle classi
prima e seconda della nave, avevano il privilegio e il vantaggio di sottoporsi alle pratiche
d'ispezione direttamente a bordo.
Durante i controlli medici, i pazienti di ogni grado e ceto sociale a cui veniva diagnosticato un
problema fisico o psicologico venivano immediatamente contrassegnati con un simbolo disegnato
sulla schiena e sottoposti a controlli specifici.
I contrassegni usati per distinguere i pazienti sani da quelli malati si diversificavano in base al
problema che la persona presentava. Per esempio, quando un immigrato veniva associato a un
problema legato alla sfera psicologica veniva contrassegnato sulla schiena da una croce; se il
problema diagnosticato risultava ernia, il soggetto veniva contrassegnato con una X. Lo stesso
accadeva, con altri simboli, a coloro che soffrivano di patologie respiratorie, problemi di vista e
perfino alle donne in gravidanza.
Le persone ritenute sane e senza alcun problema di salute venivano accompagnate verso le stanze
dei Registri, nelle quali avrebbero potuto registrare, per mano di ispettori addetti, il proprio nome,
il luogo di nascita, il luogo di destinazione, lo stato civile, la disponibilità di denaro, la professione, i
precedenti penali e le possibili referenze a conoscenti già presenti sul suolo statunitense per
ottenere la completa idoneità di soggiorno negli Stati Uniti d'America. Al termine della
registrazione, venivano accompagnate al molo e fatte imbarcare sul traghetto per Manhattan. Gli
immigrati che non avevano ottenuto l'idoneità e presentavano difficoltà fisiche venivano isolati e
sottoposti a controlli più specifici. Coloro i quali presentassero infermità o problematiche che li
rendevano inabili al lavoro o che necessitassero di cure dal costo elevato, venivano
immediatamente espulsi.
Secondo il vademecum destinato ai nuovi venuti, i migranti considerati anziani, deformi, ciechi,
sordi, portatori di malattie contagiose, mentalmente instabili e con qualsiasi altra infermità, erano
esclusi dal suolo americano. Coloro che appartenevano a una o più di queste categorie venivano
respinti, espulsi e obbligatoriamente reimbarcati sulle navi dalle quali erano giunti, che secondo la
legislazione americana avevano il dovere di riportarli ai porti di provenienza.
Malgrado la legge avesse permesso tali manovre, nel 1907 si registrò la percentuale più alta di
flussi migratori con un numero complessivo di 1 004 756 persone approdate. Dal 1917 ci fu un
nuovo tentativo di ridurre e limitare i flussi in entrata. A tal proposito, vennero introdotti un test
dell'alfabetismo che obbligava gli immigranti in arrivo a saper scrivere e a leggere per sostare in
America e, dal 1924, quote d'ingresso (che definivano un numero totale d'immigranti da
accogliere). Le quote ammettevano un numero complessivo di 17.000 immigranti provenienti
dall'Irlanda, 7.500 provenienti dal Regno Unito, 7.400 dall'Italia e 2.700 dalla Russia.
In successione, lo Stato americano emanò delle nuove leggi per diminuire gli ingressi: la legge
Chinese Exclusion Act prevedeva di limitare la presenza di immigranti di origine cinese sul
territorio, la legge Alien Contract Labor Law impediva alle aziende e agli imprenditori di far
lavorare gli immigrati sotto contratto e la legge Origins Act Law limitava fortemente gli ingressi,
secondo un sistema di quote nazionali che discriminavano palesemente gli immigrati provenienti
dall'Europa meridionale e orientale, escludendo virtualmente gli asiatici.
Inoltre, la depressione economica scoppiata nel 1929 ridusse il numero degli immigrati dai
241.700 ricevuti nel 1930 ai 97.000 del 1931 fino ai 35.000 ricevuti nel 1932. Gli espulsi a forza
dagli Stati Uniti furono 62.000 nel 1931, 103.000 l'anno successivo e 12.700 nel 1933.
7. SEGREGAZIONE RESIDENZIALE: Non è avvenuto come pensavano gli assimilazionisti che gli
immigrati
Nel 1933 Glazer dichiara la fine dell’assimilazionismo, sommerso di falle e critiche. Ma nella sua
valenza descrittiva, e non prescrittiva/normativa, nel 21esimo secolo ritorna facendo tesoro delle
critiche e diventando “neo-assimilazionismo”. Viene recuperato il concetto di assimilazione nel suo
significato di “processo di divenire simili”.
“Come processo sociale che si verifica spontaneamente e spesso inintenzionalmente nel corso
dell’interazione tra maggioranza e gruppi minoritari, l’assimilazione resta un concetto chiave per lo
studio delle relazioni integruppo.” Alba e Nee 1997
L’assimilazione, in questa nuova lettura dei primi anni del 2000, viene reinterpretata come
processo non intenzionale che si verifica durante l’interazione tra minoranze e gruppi maggioritari.
Il fatto che alcuni gruppi entrino a far parte di un altro paese o società porta sicuramente a un
processo di avvicinamento, anche se all’interno del neo-assimilazionismo i migranti non sono
soggetti passivi che abbandonano tutto per lasciarsi all’acquisizione dellka nuova cultura.
Proprio in risposta al declino di concetto di assimilazione, intorno agli anni ’70 in Europa inizia a
essere utilizzato questo termine che riconosce che il processo di adattamento non è un onere a
carico dei migranti ma è un processo che coinvolge anche le società di arrivo. In maniera generale,
l’integrazione è percepita come qualcosa di desiderabile, di buono, da raggiungere.
Le caratteristiche dell’integrazione:
- BIDIREZIONALITÀ: Non riguarda solo i migranti, ma anche la società di arrivo, la quale pure
ha dei doveri, come promuovere la conoscenza della lingua mediante dei corsi di lingua,
per esempio.
Tuttavia, anche il concetto di integrazione ha attirato delle critiche: all’interno delle società di
arrivo possono esserci già delle tensioni, dei problemi, non sempre le società di arrivo possono
essere considerate coese e compatte (perché questo è un po’ il presupposto che si dà per scontato
in effetti).
Ma passiamo ora ai famosi modelli di integrazione (quello che abbiamo visto finora, i modelli di
regimi migratori, avevano a che fare con ingressi e permanenza, ora invece parliamo di modelli di
inclusione):
Come avremo intuito, nessun livello funziona perfettamente, tant’è che si è parlato di “crisi
dell’integrazione”. È chiaro che sono modelli ideali che non rispecchiano la situazione attuale,
neanche nei paesi citati che ormai si sono staccati da quelle etichette tradizionali. Nessun modello
sembra aver portato una buona soluzione o dei buoni risultati, tanto che all’inizio del 21esimo
secolo si è fatta strada la “crisi dell’integrazione”, è peggiorata molto la percezione di una possibile
convivenza pacifica tra gruppi diversi. Il dibattito sull’integrazione si è trasformato in un dibattito
sulla sicurezza, da una fase di celebrazione della diversità culturale si è passati a una sempre
maggiore “integrazione civica” per la quale viene richiesto un determinato livello di conoscenza
linguistica, culturale, sociale, ecc. pare di nuovo l’integrazione aver fatto un passo indietro rispetto
all’idea del peso dell’inclusione che grava più sul migrante in sé come singolo che ha questa
responsabilità. Inoltre, spesso gli stati non vengono guidati da un’idea precisa, spesso si va avanti
per tentativi, iniziative ed esperimenti, a livello anche locale.
In Europa, le migrazioni temporanee sono diventate permanenti e hanno dato luogo alla
formazione di minoranze etniche visibili per le quali si sono instaurati tanti problemi in termini di
discriminazione e razzismo ( e ricordiamo che non sempre le minoranze coi loro problemi sono
visibili e rilevanti, tipo austriaci in Germania ). Le politiche che negano l’immigrazione ma tollerano
i movimenti irregolari o lo sfruttamento dell’immigrazione conducono alla marginalizzazione
sociale dei migranti e a nuove forme di razzismo. Infine, indubbiamente, la concessione ai migranti
di pieni diritti, inclusi il diritto di cittadinanza, previene problematiche simili.
LEZIONE 20/10/21
Abbiamo visto che tutti i modelli hanno presentato dei limiti, e abbiamo visto anche una
tendenziale convergenza delle politiche migratorie in Europa verso l’”integrazione civica”. Oggi
vedremo le sfide legate alla convivenza interetnica: abbiamo tutti le stesse opportunità di fare
carriera? Di accedere al mercato pubblico e privato delle abitazioni? Di essere trattati allo stesso
modo rispetto ai servizi?
Accanto alla riuscita del progetto migratorio di molti migranti che si sono inseriti completamente,
vi sono anche delle esperienze di insuccesso, di discriminazione. Spesso gli immigrati si ritrovano
ingabbiati nei così detti “bad jobs”, spesso in diverse esperienze europee si sono create delle zone
con dei quartieri etnici, segregati, e questo va ad alimentare l’idea della presenza straniera come
minaccia. A seguito della pandemia si è diffusa ancora di più l’idea degli stranieri come una
minaccia verso cui essere ostili. Si tratta di una serie di meccanismi che proveremo a riassumere.
Abbiamo detto che le differenze etniche sono un processo di costruzione sociale, ma alcuni aspetti
sono considerati non desiderabili. Alcune differenze etniche ricevono una valutazione sociale
negativa, e siamo quindi al primo punto. Le caratteristiche ascritte, alcune perlomeno, dei
migranti, vengono considerate dalla maggioranza indesiderabili. C’è un processo di valutazione
sociale delle differenze, cui, in alcuni casi, viene attribuita una connotazione negativa, e questo ha
delle conseguenze nella posizione dei migranti rispetto al mercato del lavoro. Spesso i migranti si
trovano a occupare le posizioni più basse della stratificazione sociale, ritrovandosi ai margini. E
tanto più i migranti si collocano ai gradini più bassi non soltanto a livello economico ma anche a
livello sociale e politico, più aumenta la percezione di distanza sociale. Per alcuni migranti sarà
quindi più difficile accedere a determinate posizioni, perché si sono cristallizzate anche alcune
associazioni tipo filippino-domestico.
Quindi si alimenta un circolo vizioso anche alimentato dalle campagne xenofobe.
Su quali evidenze si afferma l’idea della discriminazione etnica? Ebbene, non è solo un sentire di
senso comune, ma ci sono anche dei dati che dimostrano la pervasività delle discriminazioni
etniche nei confronti dei migranti in Europa, e quindi anche in Italia. I dati che stiamo per mostrare
sono stati raccolti da un’agenzia europeo. Quando si parla di questi temi, c’è un problema di
raccolta dati a monte, per alcune ragioni tipo che molti di quelli che subiscono discriminazioni
simili non riportano, perché lo reputano inutile o perché temono ritorsioni. Questo fenomeno
prende il nome di “under reporting”. Riusciamo tuttavia a studiare il fenomeno del razzismo
attraverso alcune domande a campionamento casuale che sono state poste nel biennio 2019-20
tipo:
- “Quanto ti sentiresti a tuo agio nell’avere un vicino di casa disabile”/ “Quanto ti sentiresti a
tuo agio nell’avere un parente disabile”? Risultato 6.9/5.45
- Nell’avere un vicino ebreo? 5.51/5.09
- Un gay/bisessuale? 5.29/4.53
- Transessuale? 4.98
- Musulmano? 4.51
- Rifugiato? 4.38
- Rom? 3.82
(la scala va da 1 a 7)
L’antisemitismo è l’odio nei confronti degli ebrei. Più recentemente è stata elaborata però una
definizione più precisa dall’IHRA:
“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli
ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o
alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto.”
L’antisemitismo si può esprimere nella forma di attacchi fisici, verbali, minacce, odio,
discriminazioni, e quant’altro. L’antisemitismo è in crescita, tanto che nel 2018 ben il 73%
intervistati di religione ebraica lo considerava un problema, e la crescita registrata è di dieci punti
percentuali rispetto al 2012. In Italia, la percentuale di persone che nega la shoah è passata dal
2,7% nel 2004 al 15,6% nel 2019.
LEZIONE 25/10/21
Abbiamo iniziato a parlare della convivenza interetnica, con tutte le sfide del caso approcciate con
dati a livello europeo che mettono in evidenza una situazione di discriminazione acuta per alcune
categorie. Abbiamo visto gli ebrei con l’antisemitismo, mentre ora passiamo ai Rom.
I Rom (Roma People), sono 10-12 milioni in Europa, sono una delle minoranze più numerose e
discriminate in Europa, e si chiamano così come “termine ombrello” per indicare alcune sotto-
minoranze come i Rom propriamente, ma anche i Sinti, Caminanti, ecc. (In Italia abbiamo questi
tre principalmente). Sono una delle minoranze più colpite da discriminazioni (antiziganismo), tanto
che la Commissione Europea ha elaborato un programma apposito a questo proposito.
La percezione negativa nei confronti dei Rom in Italia raggiunge una percentuale che sfiora l’80%,
quando in paesi come il Regno Unito si aggira attorno al 23%. I dati più recenti ci mostrano che il
41% degli appartenenti ai gruppi Rom hanno sperimentato una discriminazione nei cinque anni
precedenti, e l’85% dei bambini Rom sono a rischio di povertà. Il dato è preoccupante anche in
relazione ai giovani: la condizione di neet, per esempio, colpisce anche molto i Rom, nel senso che
già in Italia abbiamo il tasso più alto d’Italia e dentro a queste persone ci sono molti Rom.
Un’importante percentuale degli Europei pensa che la discriminazione sia diffusa nel proprio
paese: per i Rom lo pensa il 61%. Meno della metà degli Europei, poi, si dichiara a proprio agio
nell’immaginare un rapporto affettivo con una persona Rom.
L’Etnocentrismo è un modo molto emotivo e poco razionale di guardare il mondo. Tutti noi
abbiamo una tendenza a classificare ciò che ci circonda evidenziando le differenze tra noi e gli altri.
Abbiamo questa tendenza e ce l’abbiamo da sempre. L’etnocentrismo possiamo definirlo come un
fenomeno antropologico universale che l’uomo ha da sempre. È un modo di guardare il mondo
pensando se stessi come il centro del mondo, il mio mondo funge da criterio per giudicare gli altri
ponendosi in una posizione superiore. Si considera il proprio gruppo superiore, e quindi, il gruppo
al quale si appartiene, viene considerata la misura per giudicare tutti gli altri.
Diceva Erodoto, nel V secolo a.C.: “se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie
tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione,
preferirebbe quelle del suo paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie
costumanze”.
Il termine è stato utilizzato per la prima volta da William Graham Sumner nel 1906 (o 1966), per
indicare una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti
gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso.
LEZIONE 27/10/21
Potremmo definire l’etnocentrismo come una distorsione percettiva e cognitiva positiva a favore
del proprio gruppo di appartenenza e negativa verso gli altri gruppi. Ci sono i così detti “inganni
dell’etnocentrismo”, che sono due:
L’etnocentrismo implica una semplificazione e una mancata comprensione della dimensione della
relatività e della diversità. Il fatto di classificare la realtà tra “noi e loro” crea una certa solidarietà
all’interno del gruppo del “noi”: ci si sente pare di un gruppo; tuttavia, per fare questo e nel fare
questo, le caratteristiche del “gruppo noi” vengono assunte come “migliori”, “giuste” e “più
desiderabili”, e quindi il “gruppo altri” passa come inferiore, cosa che può favorire evidentemente
atteggiamenti di ostilità e aggressività nei confronti “degli altri”.
Nel momento in cui abbiamo di fronte una persona la riconosciamo nella sua esistenza e abbiamo
una percezione nei suoi confronti che, tuttavia, non si costruisce nel vuoto, ma si costruisce, al
contrario, in un contesto di credenze e rappresentazioni sociali preesistenti, che si consolidano sin
dall’infanzia di ogni individuo in relazione sia alla società in cui vive che allo stretto contesto in cui
cresce. La costruzione sociale dell’altro riguarda processi che sono profondamente segnati dalla
tradizione, dai valori e dalle credenze di tipo culturale. Si tratta di costruzioni sociali che
paradossalmente ostacolano la nostra conoscenza mediante l’esperienza, nel senso che ci
forniscono già una prospettiva in cui inquadrare qualcosa prima ancora di poterlo esperire
effettivamente.
“Gli italiani sono mafiosi”, “Gli zingari rubano”, “Le filippine sono brave domestiche”, sono esempi
di stereotipi costruiti su base etnica. Gli stereotipi non sono necessariamente negativi, anche “I
napoletani sono allegri” è uno stereotipo, uno stereotipo è semplicemente una generalizzazione
indebita su un’intera categoria di persone (gruppo etnico) di comportamenti, qualità intellettuali o
morali. Si tratta di rappresentazioni rigide, standardizzate e valutazioni stigmatizzanti riferite a
interi gruppi sociali: si appiattiscono le differenze tra casi individuali e si semplifica la realtà.
Gli stereotipi hanno delle conseguenze serie e concrete: se una donna filippina cerca lavoro in
Italia, inevitabilmente, alla luce dello stereotipo esistente, subisce una certa pressione dovuta a
questo ed è impensabile che non sia influenzata dall’idea che probabilmente fare la domestica sia
la strada più naturale e percorribile.
Abbiamo definito gli stereotipi come generalizzazioni indebite, come “tutti gli italiani sono
mafiosi”, dato per scontato che non necessariamente hanno valenza negativa. I Pregiudizi, invece,
hanno a che fare con considerazioni prevenute tendenzialmente di carattere negativo.
La categorizzazione sociale è un processo attraverso cui noi organizziamo la realtà circostante, che,
se compresa, ci consente di comportarci in maniera adeguata nei diversi contesti. Tutti noi, in
maniera naturale, organizziamo la realtà che ci circonda. La categorizzazione sociale, dunque, ci
permette anche di indentificare i singoli individui come membri di un gruppo sociale perché
condividono alcune caratteristiche. Tuttavia, il problema sorge quando attribuiamo caratteristiche
negative o ipersemplifichiamo le categorie di un gruppo. Pertanto, mentre il processo di
categorizzazione sociale ci riguarda nella comprensione delle realtà, stereotipi e pregiudizi
rappresentano categorizzazioni sociali distorte, in quanto rischiano di non farci comprendere
precisamente la realtà. L’uomo ha una paura istintiva per tutte le forze che non può controllare, e
quindi l’uomo si sforza di compensare questa impotenza con delle rappresentazioni sociali, con
l’immaginazione.
Esempi di stereotipi sono “gli zingari rubano”, o “le filippine sono brave domestiche”. I Pregiudizi,
invece, sono attitudini o credenze per lo più negative verso i membri di un gruppo sociale. Sono
atteggiamenti di rifiuto rispetto a una persona semplicemente in quanto appratente a un
determinato gruppo. Il Pregiudizio ignora l’esperienza diretta, che quando è positiva con una
persona rispetto alla quale si nutrono pregiudizi, viene automaticamente metabolizzata come una
semplice eccezione. Il Pregiudizio parte da generalizzazioni stereotipate, parte da un sentimento di
ostilità. Quando, per fare un esempio di pregiudizio, si dice “non mi piacciono gli italiani”, creo
automaticamente una distanza rispetto a loro. Stiamo parlando dell’avversione verso un gruppo
che nasce nel momento in cui si relaziona ad altri gruppi.
A volte, stereotipi e pregiudizi sono latenti, non sempre sono espliciti; ma anche quando sono
presenti implicitamente nelle nostre quotidiane assunzioni, nel nostro linguaggio, hanno
comunque un impatto significativo sulla realtà che ci circonda. Pregiudizi e stereotipi modificano
l’immagine di un gruppo in maniera negativa, e lo stessa minoranza verso cui si rivolge interiorizza
quello stereotipo o pregiudizio negativo. Pregiudizi e stereotipi portano a uno svantaggio
materiale in termini di opportunità, di diritti, ma anche in termini psicologici, perché chi subisce
percepisce e interiorizza: banalmente, si può arrivare a un ridimensionamento spontaneo delle
proprie ambizioni. Se si considera gli appartenenti a una minoranza adatti solo a lavori manuali,
ecco che quando ci si presenta per un lavoro diverso si può essere automaticamente portati a
escluderlo. Stereotipi e pregiudizi trascurano la variabilità all’interno di un gruppo sociale, perché
si fa una generalizzazione smisurata e incondizionata. C’è la necessità anche, da parte del gruppo
dominante, di mantenere i propri privilegi dietro a questi fenomeni, che conducono a situazioni di
etnostratificazione e a conseguenze negative sull’integrazione dei migranti.
Spesso, i migranti divengono i capri espiatori, soprattutto per le classi subalterne che sono quelle
che si sentono più in competizione con loro. Si mischia l’elemento legato al pregiudizio etnico con
quello legato alla collocazione sociale. Proprio l’individuare un capro espiatorio permette di
sfogare paure, frustrazioni, nei confronti di un gruppo percepito come diverso e quindi
minaccioso, è un vero e proprio processo di dislocazione delle paure. Il capro espiatorio permette
anche di compattare gli individui contro un presunto nemico comune, che poi rappresenta la
legittimazione teorica di fenomeni sociopolitici come il populismo.
Questo è un esempio di pregiudizio subdolo, implicito, che infatti aveva generato molte
polemiche: c’è un’associazione del tutto ingiustificata tra apparenza entica e conoscenza lacunosa
della lingua italiana.
Ma perché abbiamo stereotipi e pregiudizi? Secondo gli psicologi sociali, si tratta di una naturale
tendenza alla categorizzazione sociale, mentre i sociologi sottolineano quanto si tratti di un
prodotto dell’apprendimento sociale, e hanno la funzione di mantenere i privilegi dell’in-group: c’è
la paura che i propri privilegi possano essere messi a repentaglio dagli altri gruppi minori (ansia di
status), paura che poi viene quindi scaricata sulle minoranze visibili. Noi apprendiamo le
competenze e gli atteggiamenti connessi ai nostri ruoli sociali attraverso la socializzazione, che
avviene nelle diverse agenzie di socializzazione: la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i mass
media, le pubblicità.
LEZIONE 08/11/21
LA DISCRIMINAZIONE
La discriminazione è una violazione dei diritti umani che viene punita dalla legge. La Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, all’articolo 1 e all’articolo 2 parla dell’incondizionata equità e
uguaglianza di tutti gli esseri umani. Di base, una discriminazione è un trattamento meno
favorevole di una persona a causa della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale. Le basi
della discriminazione, generalmente, sono il sesso, la razza, il colore, l’origine etnica o sociale, le
caratteristiche genetiche, la lingua, la religione, le credenze, l’appartenenza politica, quella a una
minoranza etnica, la disabilità, l’età, l’orientamento sessuale. Purtroppo, come vediamo, non è più
possibile studiare la discriminazione sulla base di un unico fattore.
La stessa legislazione europea non è ancora pronta ad affrontare la discriminazione secondo un
approccio intersezionale, che consideri contemporaneamente più variabili. L’Europa ha un quadro
normativo estremamente avanzato, comunque, tanto da poter vantare una delle migliori posizioni
al mondo in questo senso. In particolare, due sono le direttive più importanti:
I problemi, più che altro, si verificano quando queste normative devono essere implementate,
tant’è vero che in Europa non si può di certo dire che non ci sia la discriminazione. Diverse agenzie
europee sono impegnate nella raccolta di evidenze empiriche che lo testimoniano, in particolare
nei confronti di alcune categorie di persone.
Non sempre la discriminazione è facile da cogliere. Quando si parla di discriminazione, infatti,
bisogna sempre distinguere tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta. La prima ha
luogo quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto non sarebbe stata un’altra
persona in una situazione analoga. La discriminazione diretta è chiaramente quella più immediata
da cogliere: un esempio potrebbe essere un locale che mette fuori un cartello con scritto
esplicitamente che le persone nere non entrano.
D’altro canto, la discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio, una prassi,
un atto o un comportamento apparentemente neutrali mettono una persona appartenente a un
determinato gruppo o con una caratteristica specifica in una posizione di particolare svantaggio
rispetto ad altre persone. Proviamo anche qui a fare un esempio: quando nelle graduatorie di
accesso, per dire, a una casa di riposo, vengono tenuti in considerazione dei criteri che,
inevitabilmente, aprono più le porte a qualcuno e le chiudono più a qualcun altro. Questa, nello
specifico, prende il nome di “discriminazione istituzionale”, che è una declinazione specifica della
discriminazione indiretta.
Un dubbio che potrebbe sorgerci ora è: qual è il legame tra stereotipo, pregiudizio e
discriminazione? Beh, il legame potrebbe essere quando si discrimina sulla base di uno stereotipo
o di un pregiudizio.
IL RAZZISMO
Non esiste una definizione univoca di razzismo, e soprattutto si manifesta in diverse forme, con
diverse prassi, e quant’altro, tanto che alcuni preferiscono parlare di “razzismi”. In ambito
accademico, per esempio, il termine “razzismo” è stato introdotto solo nel 1945 con un volume in
cui era definito come il dogma secondo il quale un gruppo etnico è condannato per natura
all’inferiorità.
Il razzismo è un fenomeno storico, sociale e culturale molto ampio. Provando a darne una
definizione più attuale, che è quella maggiormente in uso, potremmo definire il razzismo come
l’attribuzione a un gruppo minoritario di caratteristiche negative considerate naturali e immutabili,
creando le circostanze che mantengono quel gruppo in condizioni di svantaggio rispetto alla
maggioranza. Si crea una vera e propria gerarchia tra razze e culturale: non è più il “noi vs loro”
della visione etnocentrica, ma una gerarchia di più gruppi che vengono ordinati in superiori e
inferiori, sulla base di differenze considerate connaturate e immutabili.
La lingua, la storia, la capacità di pensiero di gruppi minoritari sono messe in discussione negate,
con la conseguenza che questa inferiorità attribuita viene spesso interiorizzata dai gruppi
razzializzati. Il razzismo diventa un vero e proprio strumento di difesa della maggioranza, che
quindi non è solo una questione di ideologia, ma anche di subordinazione, di mantenimento della
gerarchia, dei privilegi, ecc. Tuttavia, vi sono delle letture alternative del razzismo:
In entrambi i casi, i membri delle minoranze vengono poste in una condizione di subalternità, di
inferiorità. È diverso il razzismo dalla xenofobia, che è una generica paura dello straniero, quando
invece il razzismo è una vera e propria credenza, convincimento.
Diversi sono anche i modi in cui si manifesta il razzismo. Si è manifestato in forma di schiavitù e
segregazione, di apartheid, di caporalato, e di “everyday racism”. Il razzismo è come la
discriminazione, a volte palese ed esplicito, a volte subdolo e velato, come quello alla base della
“discriminazione istituzionale”. Tendenzialmente, è rivolto soprattutto verso alcuni gruppi come i
neri, i migranti, gli ebrei e gli zingari.
LEZIONE 10/11/21
Entrambe le forme di razzismo, comunque, creano gerarchie tra gruppi e, inoltre, un altro
elemento comune è che c’è alla base un’idea di dominazione: i membri dei gruppi minoritari sono
ritenuti inferiori, ed è proprio questa inferiorità che giustifica la dominazione.
Il Razzismo è un fenomeno occidentale moderno, che nasce nel 1700, nel pieno dell’Illuminismo,
anche se ci sono state forme di proto-razzismo precedenti in Spagna. Insomma, è nel ‘700 che si
inizia a provare a classificare il genere umano in razze, tentativo che cozzava, paradossalmente,
con correnti come quella del Giusnaturalismo di quell’epoca. Nel 1800, il Razzismo diventa uno
strumento per giustificare lo sfruttamento degli altri popoli, proprio durante l’espansione coloniale
il razzismo diviene fondamentale per legittimare la subordinazione e la dominazione di altri popoli.
Il Razzismo, poi, si concretizza nelle forme più estreme in occasione della WWII, dopo la quale
viene fermamente e unanimemente condannato; ma, nonostante ciò, nella seconda metà del ‘900
si diffondono nuove forme di razzismo, e tutt’oggi il razzismo è un fenomeno presente e diffuso,
seppur evoluto.
La prima classificazione razziale viene formulata da Carlo Linneo nel 1700, ed era così strutturata:
La classificazione contiene già in sé i germi del razzismo: esistono già delle razze superiori e delle
razze inferiori sulla base di attribuzioni stereotipate e arbitrarie. Durante il colonialismo, il
razzismo funzionò da “dispositivo legittimante” in grado di giustificare le condizioni di dominio e
sfruttamento in atto nei confronti degli schiavi delle colonie.
Che all’interno della specie umana esistano tantissime differenze, è innegabile; tuttavia, è
praticamente impossibile ricondurre ogni individuo a una razza specifica, perché ci sono incroci
infiniti. Dopo gli orrori della WWII, la scienza iniziò a muoversi dalla legittimazione del razzismo
(come nei secoli precedenti) a una delegittimazione del razzismo, tant’è che nel 1967 gli esperti
riuniti a Parigi hanno riconosciuto che le dottrine razziste sono sprovviste di qualsiasi base
scientifica. La scienza, in sostanza, aveva riconosciuto che le razze non esistevano.
Bene, ma una volta riconosciuto questo, si è tolta ogni base al razzismo? No, decisamente non è
stato sufficiente. Infatti, c’è stata una vera e propria metamorfosi del razzismo. Le razze sono una
costruzione sociale, e anche alcuni attivisti utilizzano questo termine perché è meglio portare
l’attenzione sul problema piuttosto che far finta che non esista. Il Razzismo, dunque, viene
considerato da alcuni come un fatto sociale totale che pertiene a tutte le dimensioni del vivere.
Inoltre, se esistono dei tratti fenotipici visibili che differenziano tra loro gli individui e se accade
che gli individui che condividono tratti fenotipici simili si comportano allo stesso modo, ciò non è
riconducibile alla razza ma solo a cause di tipo storico, culturale e sociale. Tuttavia, anche le razze
intese come costruzioni sociali, sono rilevanti e in grado di produrre delle conseguenze, connesse
ai nuovi razzismi.
La prima delle nuove forme è stata definita nel 1987 “razzismo differenzialista”. La tesi principale
è la necessità di preservare la propria cultura dal rischio di ibridazioni, e questa necessità è
sostenuta utilizzando un argomento anti-razzista, come il valore, l’importanza e la preziosità della
differenza. Si richiede, pertanto, la riduzione degli ingressi dei migranti o l’espulsione di quelli
presenti. Il diritto alla differenza per sostenere una causa anti-ibridazione.
Per quanto riguarda invece la discriminazione inversa, i nativi si sentono discriminati con gli
stranieri che sembrano finire per assumere una posizione privilegiata. Si favoriscono i gruppi
minoritari a scapito dei nativi, con il risultato del mancato rispetto del principio di uguaglianza e
dell’apparentemente paradossale posizione di inferiorità e subalternità dei nativi. Si richiedono
norme per favorire, quindi, gli autoctoni.
1. SCELTA RAZIONALE: La rivalità tra nativi e immigrati per l’accesso soprattutto a risorse
scarse, come gli asili nido o l’edilizia pubblica, investe soprattutto le fasce più deboli della
popolazione. C’è quindi, vista la scarsità di risorse e la propria fragilità, la necessità
razionale di escludere i migranti. Ci sono delle supposte motivazioni razionali al razzismo
che in realtà non lo sono.
2. APPROCCIO FUNZIONALISTA: C’è un timore per la presenza degli immigrati per via del loro
impatto sull’identità del gruppo dei nativi, con alcuni immigrati che vengono anche
percepiti come impossibili da assimilare per via di una distanza culturale veramente troppo
ampia. Un esempio di distanza culturale forte è quella percepita nei confronti dei
musulmani che risiedono in Europa.
I fenomeni di razzismo non possono essere letti in maniera isolata: per esempio, gli attacchi a
Liliana Segre nascono da un antisemitismo diffuso. La crescita dei fenomeni di odio e razzismo va
letta quindi all’interno di un contesto caratterizzato dalla presenza dell’immigrazione, che di certo
ha facilitato il processo di recupero dei fenomeni razzisti, attraverso una veicolazione
dell’immigrazione come invasione, come pericolo, come minaccia. I fattori socio-economici,
inoltre, hanno contribuito ad alimentare il razzismo, con molti cittadini che si percepiscono come
impoveriti e finiscono per cadere in sentimenti di frustrazione, malcontento, di ansia da status, in
grado di condurre all’accanimento contro chi è più semplice da individuare e più semplice da
attaccare. Indubbiamente, la retorica populista gioca e ha giocato con dinamiche di questo tipo,
semplificando l’avversario a pochi tratti riconoscibili, mistificando la realtà effettiva delle cose. I
canali tradizionali della politica non sono più contesti in cui i cittadini sentono di potersi far valere
e rappresentare, e quindi diventa più probabile che ci si abbandoni a circostanze di protesta
violente, a cui, paradossalmente, ci si sta abituando: si sta assistendo a una normalizzazione
dell’odio, a un’accettazione sociale dell’odio, e anche questo naturalmente contribuisce a favorire
la crescita del razzismo dei giorni nostri. Naturalmente, hanno una responsabilità pure i media e la
pandemia dei giorni nostri.
LEZIONE 15/11/21
LEZIONE 17/11/21
Presentazione di gruppo.
LEZIONE 22/11/21
L’inclusione dei migranti nel mercato del lavoro è considerata come uno dei principali parametri di
valutazione del processo di integrazione dei migranti, che pur tuttavia riguarda tantissimi ambiti.
In Italia, i migranti costituiscono il 10% della forza lavoro.
Tendenzialmente, i migranti si trovano in una situazione di svantaggio strutturale: infatti, sono
spesso impiegati nei così detti “bad jobs”, si trovano ad affrontare un maggior rischio di
disoccupazione, si trovano spesso in situazioni di sovra-qualificazione (condizione per la quale ci si
trova a svolgere una professione per la quale basterebbe un livello di qualificazione inferiore a
quello di cui si gode effettivamente, sono sovente penalizzati dalla discriminazione nell’accesso e
nella permanenza nel mercato del lavoro, e sono vittime, molte volte, della discriminazione
intersezionale, ossia vittime di una discriminazione che muove da due o più basi discriminatorie
simultaneamente.
Il paradigma assimilazionista vedeva il fatto di mantenere i propri legami originari con la propria
comunità come una barriera all’integrazione, ma invece, in relazione all’ambito del lavoro,
potrebbe rappresentare una facilitazione: se un mio connazionale conoscente lavora all’interno di
un’azienda che ha bisogno di personale, ho accesso a questa opportunità di lavoro più facilmente
e agevolmente. Pertanto, possiamo ritenere che la solidarietà all’interno di una comunità, per certi
versi può agevolare l’integrazione lavorativa, ma per altri presenta dei rischi, come quello della
specializzazione etnica per la quale, al di là delle inclinazioni e qualificazioni specifiche, a un certo
punto si crea una corrispondenza, una sorta di linearità, tra provenienza e collocazione
professionale. Questo, poi, spiana, ovviamente, la strada alla costruzione di stereotipi lavorativi.
Inoltre, un altro problema della logica delle reti lavorative etniche è il fatto che preclude l’accesso
a determinati settori agli appartenenti ad altre comunità, senza contare il fatto che non favorisce
la mobilità sociale, con la conseguenza che si crea, al contrario, una situazione di stratificazione
sociale.
L’appartenenza a un determinato gruppo etnico, dicevamo, spesso viene associata a una posizione
sociale. Le reti etniche producono questo come effetto principale, per cui si assiste a una
etnicizzazione di alcuni mestieri e settori produttivi: quello del collaboratore domestico viene
relazionato all’essere filippino, quello della badante all’essere ucraina, e così via. Quello che si
deve sempre tenere presente, pertanto, è che niente di tutto ciò è un dato naturale, ciò a cui
assistiamo è sempre riconducibile a un processo di stratificazione sociale.
Dunque, a seguito del ruolo delle reti etniche, della creazione e del rafforzamento di stereotipi,
della giustificazione delle discriminazioni quotidiane, ecco che i migranti si concentrano in alcuni
settori specifici in cui sono sovrarappresentati, con il risultato che, per esempio, in alcune
professioni c’è uno scarto enorme tra componente immigrata e componente autoctona. Spesso, i
migranti si trovano all’interno di occupazioni con scarse possibilità di miglioramento professionale,
e il ruolo di badante che abbiamo già citato ne è l’esempio. È forse l’esempio più lampante ed
emblematico dei processi di etnicizzazione e genderizzazione del mercato del lavoro,
genderizzazione perché lo stereotipo non è degli ucraini, ma delle ucraine.
Pertanto, più esistono e funzionano questi meccanismi, più c’è la possibilità che un lavoratore
straniero svolga un “classico lavoro da immigrato”. E ciò è ancora più probabile per le donne
straniere, tant’è che più della metà di loro si osserva un impiego come domestiche o assistenti
familiari.
Vi sono principalmente due strategie volte ad abbattere le barriere e questi meccanismi patologici
nell’ambito lavorativo relazionati ai migranti:
Ovviamente, nella pratica, si può assistere anche a manovre strategiche che rappresentano
un’ibridazione di queste due strategie.
LEZIONE 24/11/21
MIGRAZIONI FEMMINILI
In primo luogo, la variabile genere influisce sull’esposizione alla discriminazione, aprendo le porte
alla discriminazione intersezionale. Inoltre, influisce in termini di inclusione nel mercato del lavoro,
nel senso che la provenienza da un determinato paese abbinata al fatto di essere donna viene
associata a una professione stereotipata. Le donne sono più esposte ad abusi e discriminazioni,
soprattutto se irregolari o impegnate in lavori irregolari; le donne sono vittime di stereotipi di
genere, per esempio i datori di lavoro possono ritenere che non siano le breadwinner all’interno
della famiglia.
Rispetto al passato, c’è una crescente visibilità delle donne migranti che emigrano per prime, e
quindi anche una crescente rappresentanza di famiglie transnazionali con la madre all’estero.
Insomma, rispetto al passato, le donne nell’ambito delle migrazioni ricoprono un ruolo sempre più
attivo.
Da una parte, la migrazione delle donne può essere vista come una strategia emancipativa
all’interno di una ristrutturazione dei ruoli di genere. Tuttavia, la migrazione al femminile
potenzialmente innesca delle nuove vulnerabilità. Pertanto, la lettura che si può dare delle
migrazioni femminili è piuttosto ambigua. In ogni caso, la lettura non deve essere etnocentrica:
bisogna evitare di pensare che le donne che arrivano in Europa da altri paesi vengano a trovarsi in
paesi migliori, in condizioni migliori, con una libertà maggiore da dogmi patriarcali, ecc. Bisogna
sfuggire al rischio di dare una lettura etnocentrica.
Abbiamo visto che le donne, anche gli uomini ma soprattutto le donne, si ritrovano a svolgere una
ristretta cerchia di mansioni legate principalmente al lavoro domestico e di cura. Si ritrovano
quindi in mercati di lavoro segregati, con bassi salari, scarse o nulle prospettive di aumenti salariali
o di avanzamento carrieristico, e sovraqualificazione.
Le donne migranti, quindi, rappresentano una risorsa sia per i paesi d’origine (es. rimesse), sia per i
paesi d’arrivo, caratterizzati sempre di più dall’assenza di politiche di welfare.
La migrazione, per una donna, può essere un’occasione di mobilità sociale, di indipendenza
economica, di maggiore autonomia, di maggiore partecipazione nei processi decisionali all’interno
della famiglia. D’altro canto, però, le differenze di genere possono rimanere inalterate e sono
costrette a permanere in condizioni di vulnerabilità e dipendenza.
LEZIONI 29/11/21
Presentazione e dati.
LEZIONE 01/12/21
Nel nostro Paese, al 1° gennaio 2018, i minori di seconda generazione, stranieri o italiani per
acquisizione, sono 1,3 milioni e costituiscono il 13% dell’intera popolazione minorenne. Circa il
75% di questi è nato in Italia, il 66% si concentra nelle Regioni del Nord e la maggior parte
proviene da quelle collettività che presentano una più lunga storia di immigrazione nel nostro
Paese.
La vera novità degli ultimi anni – riporta la ricognizione Istat – è rappresentata dal crescente
numero di giovani immigrati che diventano cittadini italiani, uscendo quindi dal collettivo degli
stranieri, pur continuando a far parte di quello delle seconde generazioni.
In Italia, così come in Europa, le provenienze dei migranti di seconda generazione sono molto
diversificate, il che fa sì che studiare le seconde generazioni nel contesto europeo sia ben diverso
da farlo nel contesto statunitense, in cui c’è una prevalenza di prime generazioni provenienti da
Asia e Messico.
I migranti di seconda generazione sono importanti perché, posto che non si possono considerare
immigrati in molti casi, ci spiegano come alcune caratteristiche ascritte influenzino l’accesso ad
alcune opportunità. Le seconde generazioni, in particolare, sono sovraesposte ai rischi di
esclusione sociale e lavorativa.
Quando si studiano, per esempio, i parametri del successo scolastico, tra le categorie sopra citate
emergono delle differenze anche importanti, che tendenzialmente vedono i 2.0 più vicini ai nativi
che gli altri. Quando si parla di seconde generazioni, è possibile cogliere due orientamenti, che non
sono necessariamente da leggere in maniera alternativa:
- Una prospettiva che pone l’accento sui vantaggi e le opportunità di essere migranti di
seconda generazione, come il fatto di conoscere più di una lingua, più ambienti culturali.
- Una prospettiva che pone l’accento sugli aspetti più problematici, come la trasmissione dei
vantaggi socioeconomici dalle prime generazioni, la ridotta mobilità sociale, il rischio di
radicalizzazione delle seconde generazioni, il conflitto tra cultura dei genitori e cultura del
paese di destinazione.
Entrambe le prospettive sono utili per comprendere la complessità del fenomeno, e pertanto
vanno considerate in maniera integrata.
Le capacità individuali, relazionali e il supporto anche emotivo da parte della propria famiglia sono
elementi chiave per l’interruzione della trasmissione dei potenziali svantaggi. Esiste un volume
chiamato “Autobiografie di una generazione su.per., il successo degli studenti di origine
immigrata” in cui l’autrice si è chiesta quali fossero i fattori chiave per il successo dei migranti di
seconda generazione:
- Risorse individuali;
- Supporto famigliare;
- Insegnanti: spesso nelle autobiografie emergeva una figura significativa tra gli insegnanti
incontrati durante il percorso scolastico;
- Relazioni amicali;
- Migrazione come esperienza: la capacità di trasformare la migrazione in un’esperienza
dalla quale imparare, soprattutto elementi come la flessibilità, il cambiamento e
l’adattamento.
Questi sono stati gli elementi comuni tra le storie di successo e redenzione dei migranti di seconda
generazione raccolte nel testo.
All’interno della scuola si ritrovano alcuni progressi e alcuni problemi. Per quanto riguarda i primi,
si è registrato un incremento delle iscrizioni presso licei e istituti tecnici e anche un incremento
degli studenti di seconda generazione tra quelli che ottengono i risultati migliori. Per quanto
riguarda invece i problemi, si registrano una riduzione degli anni di studio, un minore livello di
istruzione raggiunto, un minore rendimento scolastico e un maggiore tasso di ripetenze e
abbandoni.