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La testimonianza di Shahram Khosravi1

Il testo di Khosravi, Io sono confine, rappresenta una preziosissima eccezione nel campo
della produzione accademica in materia. Per la prima volta pubblicato nel 2010 in lingua
inglese, “Illegal” Traveller: An Auto-Ethnography of Borders esce in stampa in Italia con la
casa editrice Eleuthera solo nel 2019. In qualità di migrante e antropologo, l’autore riesce a
rendere incerto il discrimine tra queste due realtà e, in quanto punto di convergenza di
due mondi distinti, le mette in relazione dialogica. La postura auto-etnografica lo porta
dunque a rievocare la figura del testimone, significativa poiché direttamente presente e
coinvolta, ma ancor più perché tendenzialmente inascoltata, lasciata muta. Raccoglie “gli
scarti della Storia”, ne cuce le fila, nella speranza che da questi frammenti possa nascerne
una nuova, più inclusiva. Le storie della sua narrazione sono appunto quelle dei cosiddetti
“illegali”, individui criminalizzati aprioristicamente per semplificare la vita dei moderni
stati-nazione. “Questo libro è il risultato congiunto della [sua] personale esperienza
nell’‘incarnare un confine’, del lavoro etnografico sul campo con i migranti clandestini tra
il 2004 e il 2008, e dei corsi tenuti sul tema della migrazione irregolare e dell’antropologia
dei confini” (p. ??).

Nel paragrafo precedente ho seguito il processo di decostruzione del pensiero egemone


occidentale messo in atto da Balibar e Fassin, indubbiamente fondamentale. La loro
analisi, tuttavia, in quanto formulata inevitabilmente a partire dall’“interno”, giunge
lontano tanto quanto un tale sguardo può permettere. Khosravi, dal canto suo,
procedendo per percorso inverso, riesce a conferire alla riflessione quel carattere di
umanità che solo l’esperienza vissuta può dare. Dove i primi, per esempio, incontrano la
figura deumanizzata del migrante e, spinti da un senso di giustizia, cercano di
riqualificarla, egli vive, scegliendo di partire lontano per circostanze di necessità e, per una
malsana configurazione del presente, trovandosi addosso l’identità di profugo, imposta
dall’alto e distante dalla sua percezione di sé. La narrazione che ne scaturisce non può che
essere differente. Questo scarto è evidente già nel titolo nella sua versione originale: non
dice migrante o profugo bensì viaggiatore, traveller. Le frontiere si impongono infatti
plasmando identità, e i nomi che scegliamo di attribuire loro sono indubbiamente
rappresentativi delle stesse. Scegliere di dare un diverso nome a fenomeni e persone
significa scegliere di dargli nuovo volto.

Oltre la decostruzione: un ribaltamento di prospettiva

Il testo apre con un’immagine estremamente suggestiva. Si tratta di una foto a raggi X di
un container nel quale, come “sagome lattiginose”, figurano stipati dei clandestini subito
dietro il carico merci. “L’immagine a raggi X”, afferma l’autore, -“testimonia la topografia
1
Tutte le citazioni presenti in questo capitolo sono tratte dal libro Io sono confine (Khosravi, 2019).
egemonica dei confini”, rendendo visibili gli invisibili (p. 19). Si tratta di corpi
depoliticizzati, ridotti a silhouette sfumata della mera struttura fisica: “sono le creature
immolate nel rituale di frontiera” (p. 58). Come già accennato, Agamben parla in proposito
di homo sacer e ricorda di come nel diritto romano con questo termine si indicassero coloro
i quali non era considerato omicidio uccidere. Difatti, “la loro vulnerabilità è manifesta nella
loro ‘animalizzazione’” (p. 58). Polli, serpenti, pecore: questo è, non a caso, il lessico
diffuso in ambienti migratori per indicare i trafficanti e i loro clienti.

Peraltro, la narrazione di frontiere come linee divisorie tra stati -o gruppi- rappresentati
come internamente omogenei, contribuisce a costruire la condizione di profugo come
innaturale. E la naturalizzazione di un tale assetto geo-politico, caratterizzato dalla totale
sovrapposizione di identità e origine, afferma Malkki (1992), definisce come patologico il
superamento di queste barriere. Infatti, come afferma Khosravi, “i trasgressori di confini
spezzano il legame tra ‘natività’ e nazionalità, mettendo in crisi lo Stato-nazione” (p. 21).
Di contro, quest’ultimo proietta su queste figure l’immagine del pericolo assoluto, così che,
una volta criminalizzate in partenza, sia possibile perpetuare qualsiasi tipo di ingiustizia
legittimamente. Tuttavia, come Khosravi insiste a sottolineare, “laddove esiste un confine ne
esisterà anche il superamento, legale o illegale”(p. 24). Ne consegue che, quantomeno in
riferimento alla contemporaneità, sia la presenza stessa di frontiere escludenti, e non il
movimento in sé, a definire in termini di illegalità il loro superamento.

I confini si manifestano oggi come muri senza tempo, impongono contemporaneamente ai


cosiddetti non-cittadini l’immobilità e una mobilità forzata, che si coniuga nell’andirivieni
degli individui tra campi di detenzione. Inoltre, come già accennato, le frontiere sono
costruite da paesi ricchi a discapito di altri più poveri: separano Stati, sì, ma soprattutto
diverse modalità di accesso alle risorse. Non a caso, “ogni confine tra Stati è anche in certa
misura un confine di classe”, e per chi detiene i privilegi è importante che questo venga
mantenuto. È degno di nota, infatti, come le frontiere non abbiano sempre e comunque lo
scopo di tenere fuori i migranti, ma piuttosto di tenerli al loro posto. Con questo obbiettivo
costruiscono percezioni del sé svilenti, da vittima. Un esempio estremamente esplicativo
di questa dinamica è la pratica dello stupro, caratteristica di tutte le zone di frontiera e
messa in atto tanto da contrabbandieri quanto dagli stessi funzionari dello stato. In questo
modo, leggiamo in Io sono confine, “l’impunità dei violentatori e l’indifferenza delle
autorità rivelano il modus operandi patriarcale proprio dello Stato-nazione, che combina
questa mascolinità militarizzata con il cosiddetto approccio securitario interno”(p. 80) .

D’altro canto, la produzione di soggetti e identità non è e non può essere esclusivo
monopolio degli Stati. Infatti, l’azione di violare i confini è tutt’altro che passiva e
inconscia. L’autore racconta in proposito la reazione di migranti e rifugiati durante la
“crisi dei profughi” del 2015/2016. Di fronte alla decisione dei governi di blindare le
frontiere, rifugiati e migranti inscenarono proteste animate da slogan quali “Aprite i
confini!” e “Libertà! Libertà!”. Avviene così che, “riprendendo i termini ‘libertà’ e
‘apertura’ mettevano [...] a nudo il legame esistente tra gli steccati oppressivi innalzati in
Europa e (quelli) a Kabul, Damasco, Istanbul, Teheran e in tutta la Palestina” (p. 10).
L’antropologo ricorda di come iniziarono a sedersi sulle rotaie dei treni, in mezzo alle
strade, bloccando quella mobilità dalla quale erano sistematicamente esclusi. Dunque, se,
come sottolinea Torpey in uno studio sulla storia del passaporto, oggigiorno gli Stati-
nazione detengono il monopolio del significato legittimo del movimento, protestando,
attraversando frontiere, i migranti si riappropriano del diritto di ridefinire attivamente e
autonomamente il senso del proprio muoversi nello spazio. Non a caso, “la parola
movimento indica l’azione di muoversi e spostarsi ma anche un’attività organizzata che
sfida le strutture esistenti e punta al cambiamento sociale. In entrambi i sensi, il
movimento dei trasgressori di confini aveva generato una soggettività che attraverso un
gesto eminentemente politico sfidava il regime delle frontiere e l’ordine esistente delle
cose” (p. 10).

A questo punto, assumendo la prospettiva di queste individualità, nelle quali egli stesso si
riconosce, Khosravi formula la seguente questione: “che cosa vedremmo se il confine lo
guardassimo dall’altra parte?” (p. 12). Farlo, inevitabilmente, conduce a storicizzare e
politicizzare queste stesse frontiere ora rappresentate tendenzialmente come statici e
insormontabili muri: un’azione prospettica e necessaria.

Scegliere di migrare

Ripercorrendo la vita e poi il viaggio di Shahram Khosravi, emerge come egli, per la sua
esperienza, non abbia mai avuto un occhio strettamente interno. In qualche modo ha
sempre sentito addosso quel confine che chiama “invisibile”, in forme distinte è sempre
stato discriminato. Questo perché, nato in Iran sui monti del Bakhtiari, si è trasferito
giovane ad Esfahan, seconda città del paese. Le sue origini rurali, per la lingua e lo stile
degli abiti, poco si armonizzavano con il contesto urbano. Inoltre, il fatto di avere la casa in
un quartiere ebraico, lì minoranza etnica, lo ha portato a guardare ai margini
diversamente. Così, “l’esilio, avvenuto anni dopo, ha riaperto vecchie ferite, perché ogni
esperienza di alienazione ne richiama un’altra” (p. 34).

La situazione è poi peggiorata con lo scoppio nel 1979 della rivoluzione islamica, che
malguardava province come il Bakhtiari, e del conflito tra Iran e Iraq nel 1980. In tutto il
paese veniva fomentata la cultura del fronte e del martirio. Infatti, una volta conseguito il
diploma, anche Khosravi viene chiamato ad arruolarsi. Sapendo di andare incontro a
morte certa decide però di disertare: inizia così la sua vita da clandestino, inizialmente in
patria e poi all’estero.

A questo punto, l’autore ci tiene a fare una precisazione: diversamente da quanto dice la
gran parte degli studi sulla migrazione, che suddividono i migranti in volontari e forzati, la
migrazione, anche nel più drammatico dei casi, è sempre e comunque una scelta. Nel suo
caso, dice, si è trattato di scegliere tra la guerra e l’espatrio, ma in ogni modo di una sua
decisione. Ovviamente, ciò non toglie che si tratti di una scelta estremamente
condizionata. Difatti, migrare è una scelta dura, in primis perché implica inevitabilmente
l’addio ai propri cari. In secondo luogo, perché necessita di un certo livello di
finanziamenti - il che già di per sé è un grande fattore escludente- e di un ampio apparato
di informazioni, ossia di un’industria e una cultura migratoria sviluppate.

Khosravi, benestante di famiglia, era riuscito a raccogliere sufficiente denaro; tuttavia, se


già di famiglia non erano propensi al movimento - con reticenza si erano trasferiti nel
grande centro -, negli anni Ottanta, dall’Iran non esisteva alcun flusso emigratorio.
Pertanto, in mancanza di una rete a cui rivolgersi, non sorprende che il suo primo
tentativo di fuga, nel settembre del 1986, sia fallito. Giunto a Iranshahr, nel Belucistan, era
infatti stato fatto arrestare dalla sua stessa guida. Effettivamente, la pratica di consegnare
alla polizia i “pesci piccoli”, lasciando libero campo a quelli “grandi”, era piuttosto diffusa.
Anche nel carcere dove stette a quel punto per un mese la dinamica era evidentemente
quella. Infatti, “dei cento detenuti di quel piccolo penitenziario, la maggioranza era
costituita da appartenenti all’etnia locale”, arrestati per il semplice svolgimento di attività
qualche anno prima quotidiane (p. ??).

Paradossalmente, il mese di detenzione si mostrò di estrema utilità. Infatti, quando, cinque


mesi dopo, ritentò la partenza, Khosravi aveva oramai una rete di contatti tale da
permettergli di avere qualche speranza in più. Tramite un carcerato afghano divenuto suo
amico, era entrato in contatto con Homayoun, un altro ragazzo afghano che lavorava come
muratore ad Esfahan. Questi, dovendo tornare a Kabul per sposarsi, si era offerto di
accompagnarlo sotto pagamento. Nel gennaio del 1987, l’autore ripartì, questa volta verso
Zahedan, sempre nel Belucistan. Tuttavia, visto l’alto rischio di essere catturati nelle città
vicine alla frontiera, decisero di limitare la permanenza ad un giorno, raggiungendo
immediatamente Zabol. Di qui, per vie secondarie, si diressero verso la catena montuosa
che separa l’Iran dall’Afghanistan. Per ore camminarono, fino a giungere di fronte ad una
strada di campagna. È con quest’immagine in realtà che parte il primo capitolo.
Apparentemente serena e solitaria, quella strada, quel confine, era teatro di dinamiche
sanguinolente. Lo superarono. Un passo e l’inizio di un’altra storia, un’altra identità.
Rapidi continuarono, per tredici ore camminando attraverso i monti. Mai sarebbe potuto
riuscire senza la guida di Homayoun. Necessariamente, per migrare bisogna affidarsi, sempre
sperando di essersi affidati alla persona giusta.

Alla fine di questa traversata, giunsero in un accampamento per profughi afghani nella
provincia di Nimroz. Questo era però controllato dai muhajeddin, i miliziani alleati del
governo. Perciò, un signore anziano si offerse di nasconderli e con loro divise il suo poco
cibo. Difatti, anche l’ospitalità incondizionata lungo il cammino è un fattore estremamente
determinante per la riuscita di una partenza, e non sempre si è così fortunati da
incontrarla. Purtroppo, però, vennero subito scoperti anche da un giovane, meno ospitale,
di cui dovettero pagare il silenzio. Era Homayoun a gestire le “bustarelle”, parte
ineliminabile dei costi di viaggio. In ogni modo, onde evitare ulteriori pretese da parte del
ragazzo, la notte stessa lasciarono l’accampamento a bordo di un pick-up, fino a
raggiungere una cittadina da cui avrebbero poi preso un pullman per Quetta. Prima di
salire a bordo, Homayoun si era curato di dissimulare l’identità di Shahram. Gli aveva
dato vestiti più consoni e detto di fingersi un afghano che aveva a lungo vissuto in Iran,
per dare ragione del suo accento farsi. Però, a nulla servirono tutte queste precauzioni: il
conducente immediatamente se ne accorse, costringendoli nuovamente a ricorrere al
denaro per continuare. Una volta giunti a Quetta, il lavoro di Homayoun sarebbe stato in
teoria finito. Tuttavia, la città non offriva nessun tipo di prospettive di partenza per
Shahram. Alla sede dell’UNHCR un funzionario gli aveva consegnato un attestato privo di
qualsiasi valore legale o politico, aggiungendo di non poter fare altro. Gli consigliò
piuttosto Karachi, più sicura per i migranti iraniani. Fu Homayoun allora ad organizzargli
quest’ulteriore spostamento per via aerea -via terra sarebbe stato troppo rischioso.
Quantomeno, grazie all’attestato ricevuto era infatti possibile comprare voli nazionali.

Così, Khosravi continuò il viaggio solo. Arrivato a destinazione venne costretto a pagare
un’ulteriore mazzetta, rito di passaggio imprescindibile per entrare e uscire da Karachi.
Con un taxi giunse alla Cantt Station, luogo di raduno dei migranti. Non a caso, “ogni
grande città ha un luogo analogo ed è di fondamentale importanza per la condivisione di
informazioni utili al viaggio” (p. ??). L’autore venne così a conoscenza del lessico per
parlare del mercato migratorio (dal lal è il trafficante, mosafer il migrante senza documenti,
daftarche il passaporto e così via). Apprese che chiedere aiuto all’UNHCR è totalmente
inutile: di fronte a soprusi e violenze, i membri dell’organizzazione si barricano dentro la
propria sede non intervenendo mai in soccorso. Inoltre, gli venne insegnato che per avere
qualche speranza di riuscita “bisogna sempre mentire ai funzionari dell’Immigrazione” (p.
??). Bisogna saper raccontare la storia che vogliono sentirsi dire, vestirsi luridi e dotarsi di
un volto di disperazione. Solo così è possibile avere qualche chance di riuscita, benché
rimangano ugualmente ridotte. Ad ogni modo, Shahram prese alloggio all’hotel Salimar, e
lì rimase otto mesi. L’instabilità politica aveva infatti portato il governo pakistano a
rinforzare i controlli sulle frontiere: “Karachi era diventata un vicolo cieco” (p. 82).
Tuttavia, come un suo amico e dal lal gli disse – e come, molto più avanti, anche Amir, tra i
più famosi dal lal al mondo, ribadì – “nessuno può chiudere le porte del mondo”; infatti,
“la migrazione è come un fiume, puoi metterci un sasso e magari fermarla per un po', ma
presto l’acqua trova un’altra strada” (p. 83).

Era l’ottobre del 1987, quando finalmente Khosravi riuscì a partire. Andò in India, a New
Delhi, perché all’epoca giravano voci, che poi ebbe modo di confermare, che lì l’UNHCR
era molto più disponibile. Tuttavia, onde evitare qualsiasi tipo di rischio, ai suoi compagni
del Salimar non comunicò nulla del viaggio, se non a pochissimi fidati. Non a caso, altro
detto fondamentale tra i migranti è: “non fidarti di nessuno, nemmeno di tuo fratello” (p.
86). La segretezza è infatti vitale per la riuscita di una partenza. Solo ad arrivo compiuto
saranno i pochi informati a comunicare ai restanti la notizia e a condividere con loro le
preziosissime informazioni riguardanti un viaggio andato a buon fine.

Della permanenza a New Delhi l’autore porta bei ricordi. Infatti, con i 50 dollari che gli
forniva l’UNCHR, insieme ad alcuni aiuti che riusciva a farsi arrivare da casa, era riuscito
a trovare un appartamentino con molti altri iraniani. La comunità lì era piuttosto estesa.
Inoltre, la grandezza della città permetteva di passare più facilmente inosservati,
abbassando di molto i rischi legati alla clandestinità. Non a caso, le zone di frontiera sono
per molti uno spazio che, a causa della lontananza da casa e dell’anonimato, permette di
esprimersi e reinventarsi senza il peso dei pregiudizi altrui; sono “‘aree di tolleranza’ per
comportamenti considerati ‘immorali’”(p. 92) . In proposito, l’autore ricorda la storia di
Hiva, prostituta afghana conosciuta al mercato della Defence Colony - la Cantt Station di
New Delhi. Per lei, migrare aveva significato poter svolgere il suo mestiere senza per
questo essere discriminata.

Infine, a dicembre del 1987, Khosravi affrontò l’ultima tappa del suo viaggio. Era in quel
periodo riuscito ad entrare in contatto con Nour, dal lal dalla reputazione affidabile, che gli
aveva procurato un passaporto e organizzato per 2.000 dollari lo spostamento finale:
sarebbe andato in Svezia. In realtà, la scelta era stata piuttosto casuale: dopo un anno e
mezzo di vagabondaggio, la questione della destinazione aveva perso di importanza.
D’altronde, tendenzialmente, sono più le contingenze geo-politiche del momento e la
disponibilità economica a determinare il luogo di arrivo. E così partì. In ogni modo, per
precauzione, prima di arrivare a Stoccolma, Nour aveva meticolosamente pianificato un
lungo scalo ad Heathrow, così da depistare poi i funzionari dell’immigrazione nella
ricostruzione dell’itinerario. Come previsto infatti, giunto a destinazione, Khosravi venne
fermato e interrogato dalla polizia dell’aeroporto. Non credendo alla sua versione dei fatti,
questi lo rinchiusero in cella per due notti, per poi passare il caso all’Ufficio migrazioni. A
questo punto, venne trasferito nel campo profughi di Kiruna, 145 km a nord dell’emisfero
artico, dove rimase i successivi sei mesi prima di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.

Oggi, Khosravi insegna antropologia all’università di Stoccolma. Tuttavia, nonostante lo


sforzo per superare tutti questi confini, ancora non è riuscito a smarcarsi totalmente dalla
categoria di escluso. Infatti, il confine invisibile, nella mente e nello sguardo delle persone,
che ti impone la marginalità, la semi-cittadinanza come caratteristica ineludibile, incarnata,
permane. Per questo afferma: “io sono confine”. Per esempio, anni dopo, nel 2006, durante
viaggio con alcuni colleghi dell’università per una conferenza a Bristol, di nuovo, unico tra
tutti, venne fermato all’aeroporto e interrogato da una funzionaria su sue questioni
personali. Di fronte al suo rifiuto di rispondere a domande private sulla madre,
l’impiegata rispose che era tenuto a farlo per legge. Come gli spiegò quest’ultima, “la
nuova legge anti-terrorismo le dava il diritto di metter[lo] in stato di fermo, da nove ore a
nove giorni […], [e lo obbligava] a rispondere a qualsiasi domanda; la mancata
collaborazione [sarebbe stata] perseguibile in base al paragrafo 18(1) del comma 7 della
legge antiterrorismo promulgata nel 2000” (p. 168). Dunque, bloccato in una condizione di
immobilità paralizzante - la mancata “collaborazione” gli impediva persino di tornare in
Svezia - riuscì a smarcarsi da questa situazione solo quando l’agente si rese conto che era
disposto all’arresto pur di non rispondere alle domande sui suoi genitori. Solo a quel
punto, “la guardia (gli) augurò un buon soggiorno a Bristol!”(p. 169) .

La figura del dal lal

Verso la fine del testo, Khosravi inserisce un breve excursus biografico. Si tratta della storia
di Amir Heidari, il dal lal più noto tra iraniani, iracheni e curdi. Le testimonianze riportate
risalgono a due interviste dal carcere, la prima nel 2004, mentre scontava una condanna di
due anni per falsificazione di documenti, e la seconda nel 2009, durante una detenzione di
quattro anni per “traffico di esseri umani”. Questa traccia risulta di fondamentale
importanza per analizzare sia come i “trafficanti” vengono rappresentati sia i ruoli che essi
svolgono realmente. La questione assume centrale rilevanza nel contesto di una “cultura
dello scetticismo”, in base alla quale le procedure di concessione d’asilo tendono a tutti i
costi ad individuare discrepanze nelle narrazioni dei richiedenti e a focalizzarsi sui mezzi
piuttosto che sui motivi della fuga. Non a caso, inevitabilmente, la parte relativa al transito
è quella in cui è più facile reperire contraddizioni narrative: nell’ottica di un profugo,
omettere passaggi è necessario per proteggere sé e le altre persone coinvolte. Inoltre,
“l’unico mezzo che attualmente i rifugiati hanno per accedere alla Fortezza Europa è
rivolgersi ai trafficanti di esseri umani, motivo per cui la criminalizzazione dei trafficanti
ha criminalizzato anche loro” (p. 190).

Innanzitutto, bisogna ricordare che ogni dal lal è diverso dagli altri, per interessi e per
metodi adottati - i quali sono estremamente condizionati dal contesto geo-politico del
momento. Per esempio, dagli anni ’80, in cui l’autore è partito, agli ultimi anni, le
prospettive di guadagno sono decisamente mutate. Si pensi che, dei 2.000 dollari dati da
Khosravi a Nour per l’ultimo spostamento, la metà era servita per il biglietto aereo ed altri
500 per corrompere alcuni funzionari dell’aeroporto, così da lasciarne 500 in tornaconto.
Invece, “oggi un trafficante può guadagnare quasi 7.000 dollari per ogni migrante inviato
dal Pakistan in Europa”(p. 178) . Sicché, attualmente, il traffico di esseri umani risulta
essere un’attività estremamente redditizia, tanto più se si calcola che queste cifre devono
essere moltiplicate per le centinaia di migliaia di individui portati oltre la frontiera ogni
anno. Di contro, i trafficanti conosciuti dall’autore a Karachi o New Delhi non si erano
affatto arricchiti: “Mahmood (amico di Nour) è proprietario di una piccola bottega a
Toronto, un altro dal lal conosciuto alla Cantt Station fa il tassista a Stoccolma […], Pooya,
incontrato a New Delhi, ha gestito per anni un piccolo ristorante persiano a Toronto e
quando nel 2008 è rimasto senza lavoro ha pensato di traferirsi in Europa […]” (p. 179).
Molto spesso, infatti, l’attività del dal lal era portata avanti da migranti che, nell’attesa di
racimolare denaro sufficiente per la propria partenza, organizzavano quelle altrui.

Ad ogni modo, è da sottolineare come l’aumento dei costi di viaggio (se nel 1998 andare
illegalmente dall’India al Canada richiedeva 2.500 dollari, nel 2005, il prezzo variava dai
12 ai 20.000 dollari) e il corrispondente aumento dei guadagni da parte dei “trafficanti”
siano strettamente legati ai rischi della tratta, diretta conseguenza delle politiche
migratorie adottate dai paesi ricchi. Perciò, prima di essere un’attività illecita e redditizia,
quella del dal lal è l’unico mezzo a disposizione dei migranti per raggiungere i paesi di
destinazione. È un dato di fatto che, senza il loro intervento, per queste persone sarebbe
impossibile tentare l’accesso al mondo dei diritti.

Mi rendo conto che associare l’immagine dei trafficanti di esseri umani - ancor più quando
si pensa alla gestione attuale dei barconi nel Mediterraneo - all’idea dei diritti umani
risulta difficile se non contraddittorio. Dunque, proprio per questo, per ampliare lo
spettro, è utile parlare della storia di Amir. Non a caso, Khosravi lo definisce un “trafficante
esistenzialista”.

Nato in Iran da genitori curdi nel 1953, Amir Heidari ha fatto raggiungere l’Europa a
decine di migliaia di richiedenti asilo senza alcun scopo di lucro. Infatti, nonostante sia in
carcere in Svezia dagli anni Novanta, continua ugualmente a gestire la rete organizzativa
da lui creata, benché, secondo quanto afferma la polizia, risulti nullatenente.
Indubbiamente, Amir costituisce un eccezione nel suo ambiente: sicuramente per l’ampio
lasso di tempo durante il quale ha svolto quest’attività, oltre due decenni, quando
tendenzialmente un dal lal lavora quanto basta ad accumulare capitale per aprire
un’attività legale e sicura, ossia non più di qualche anno. Tuttavia, ciò che ne fa un caso
così esemplare sono le convinzioni anticapitaliste e antirazziste che lo hanno spinto in
questa direzione, e la franchezza con cui parla della sua attività.

Date le sue origine curde, fin da giovane, Amir ha sentito la necessità di intervenire contro
le persecuzioni perpetrate ai danni della propria gente. Inizialmente si era rivolto alle
Nazioni Unite e poi a tutte le ambasciate europee di Ankara affinché esercitassero
pressioni sul governo turco, dissuadendolo dal deportare curdi e dissidenti politici in Iran.
Poiché però si rese conto che “tutti quei bei discorsi dell’Occidente sui diritti umani erano
solo parole” (p. ??), decise di portare avanti la causa per altre vie. In un primo tempo le
persone che aiutava erano principalmente curde e attivisti politici. Così, aprì un piccolo
negozio di tappeti: ogni tappeto venduto serviva a mettere in salvo all’estero una vita.
Tuttavia, poiché la rendita dell’attività era relativa, iniziò ad organizzare viaggi anche per
non militanti. Si trattava di compensare le carenze economiche di alcuni tramite le
disponibilità di altri. Un altro elemento interessante è che Amir non lavorava solo, bensì
sempre in gruppo. All’inizio erano in pochi ma, sul finire degli anni ’80, la rete di Amir era
ormai costituita da cinquanta persone, dislocate in varie città, anche europee, così da
monitorare i passeggeri ad ogni tappa. Era fondamentale che il viaggio fosse quanto più
possibile sicuro, per questo ha sempre scelto di far viaggiare i suoi clienti in aereo. Inoltre,
lavorare in gruppo gli ha permesso di portare avanti l’organizzazione anche dalla
prigione. Peraltro ha scritto un piccolo volumetto gratuito, Rahnamaye taghazaye panahanegi
(Linee guida per richiedenti asilo)2, che contiene informazioni base per un viaggio
clandestino: quali sono le procedure burocratiche per chiedere asilo, cosa dire o meno alla
polizia e ai funzionari dell’Immigrazione, come presentare in modo vincente il proprio
caso e come comportarsi in aeroporto.

Amir Heidari non si definisce un trafficante: “(io le persone) le accompagno fino a un


confine dove possono chiedere asilo”(p. 187). Pertanto, se questo è il suo ruolo, in che
modo differisce da quello, per esempio, di un avvocato dell’Immigrazione? Perché egli è
considerato un criminale e quest’ultimo no? L’unica risposta che ritengo plausibile è che, a
differenza di un avvocato, per quanto mosso da nobili intenzioni, Amir, operando in un
campo extra-normativo, non risponde della morale delle nazioni europee. Dunque,
semplicemente, è un criminale perché è scomodo. Non a caso, quando nel 2004 finì di
scontare la sua pena in Svezia, invece di venir rilasciato, Amir fu trasferito in un altro
braccio della prigione, isolato da qualsiasi contatto con l’esterno. Infatti, avendo ottenuto
lo status di profugo negli anni ’80, deportarlo avrebbe costituito un problema. Tuttavia,
quando l’autore scriveva, nel 2009, la deportazione appariva ancora come l’unica
prospettiva possibile: le autorità mai gli avrebbero permesso di restare in Svezia da uomo
libero.

Conclusione

Se nel secondo capitolo, tramite i resoconti di Fassin e Balibar, si è mostrato come gli stati
nazione costruiscano dispositivi di esclusione nei confronti del Terzo mondo, qui emerge
evidente l’impatto che tali dispositivi hanno. Innanzitutto, si può monetizzare
quest’impatto semplicemente prendendo in considerazione il notevole aumento dei costi
di viaggio di chi espatria e delle rendite per i trafficanti. D’altra parte, parallelamente, è
possibile rendersi conto delle ricadute pratiche di questi dispositivi quando si osserva il
grado elevatissimo di rischio che gli individui migranti si assumono. Se prima si
prediligevano spostamenti in aereo, ora la scena è indubbiamente dominata dai
rischiosissimi viaggi in mare. Inoltre, si pensi a quanto detto nel capitolo precedente in
merito al momento di valutazione delle richieste d’asilo, costruito, tramite il sistema della
doppia valutazione, sulla base di politiche dell’obbligo e della pena. Il fatto che si tratti di
un sistema appositamente costruito per mantenere al minimo il numero degli ingressi è,
agli occhi dei funzionari dell’Immigrazione e dell’opinione pubblica, mistificato dall’idea
di una presunta ragion di stato. Questa dinamica è ben chiara agli occhi di chi invece si
trova costretto a farla propria per non vedersi rifiutato aprioristicamente l’accesso.
2
La versione riveduta e corretta del testo era stata inserita sul sito web www.amirheidari di modo da consentirne la
consultazione gratuita. Il sito, tuttavia, è stato chiuso dalle autorità svedesi dopo il suo nuovo arresto nel 2005.
Khosravi, per esempio, ne venne a conoscenza appena giunto alla Cantt Station grazie alle
informazioni dei suoi compagni sulla sede dell’UNHCR di Karachi: bisogna mostrarsi
sudici e disperati, solo così si può aver qualche speranza di venire accettati. Anche il
volumetto scritto da Amir, dove illustra nel dettaglio cosa dire o evitare di fronte ai
funzionari dell’Immigrazione, è significativo al riguardo: il paradosso dell’assistenzialismo
e dell’ospitalità, o meglio dell’ostipitalità3, delle nazioni occidentali è messo nero su bianco.

Lo sguardo esterno di Khosravi fa risaltare le ambiguità delle politiche migratorie in modo


lampante. E sempre grazie alla stessa prospettiva la realtà di queste persone si svincola
dalle pesanti narrazioni fondate su paradigmi dualistici. Sulla base di queste ultime infatti,
questi non potrebbero che essere o felici in casa propria o drammaticamente disperati di
fronte alla porta di una “casa altrui”. Una prospettiva analoga, ugualmente marginale e di
confine, è trattata nel capitolo che segue. In entrambi i casi, quel che si cerca di mettere in
risalto è il fatto che, se la realtà quotidiana viene veramente ascoltata e guardata, spesso e
volentieri, essa va oltre le stringenti categorie di vittima o di resistente. Innanzitutto
perché un tale pensare implicherebbe l’assumere il (o un) potere centrale come costante
termine di paragone, fatto assolutamente discutibile. Inoltre, anche se coinvolto, non è
detto che quest’ultimo sia sempre guardato secondo criteri esclusivamente di antagonismo
o di consenso: come mostrerò nel prossimo capitolo, è molto più probabile, nella vita di
tutti i giorni, una sovrapposizione o alternanza di queste due prospettive.

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“Ostipitalità” è un termine coniato da Derrida per indicare il carattere ostile dell’ospitalità contemporanea.

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