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1) INTRODUZIONE.
Un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana.
In rapporto ai cambiamenti interni alla società italiana, sono cambiati anche i protagonisti
dell’emigrazione, la loro estrazione sociale, le loro condizioni di partenza gli stessi fattori che li
hanno spinti a emigrare. Le epoche delle emigrazioni sono diverse, ma quella significativa è
l’epoca delle grandi migrazioni intraeuropee degli anni dello sviluppo industriale del dopo guerra
che ha avuto il suo culmine e l’inizio del suo declino circa mezzo secolo addietro quando
l’emigrazione era conseguenza ma anche fattore dello sviluppo sociale ed economico (1945-1973).
I protagonisti delle immigrazioni di oggi sono diversi anche da quelli che partivano agli inizi degli
anni 90 (momento della cosiddetta fuga di cervelli). Il momento di svolta si data ai primi anni della
crisi (dal 2005). La nuova emigrazione può essere quella costituita da giovani oppure la “sun
migration”, ovvero la migrazione di chi va alla ricerca di clima temperato, come anziani e
pensionati. Nei paesi di destinazione risultano arrivare ogni anno un numero di italiani di gran lunga
superiore a quello di chi risulta avere lasciato l’Italia. C’è qualcosa che non fa quadrare i conti, le
rivelazioni italiane finiscono per sottostimare la portata del fenomeno. La nuova emigrazione è
diretta verso una molteplicità di destinazioni ma la maggioranza dei nuovi emigranti sceglie pochi
paesi all’interno dell’Unione Europea (Francia, Svizzera, Germania). Da dove provengono quelli
che se ne vanno? Dal Nord, ciò si spiega anche con il fatto che per i giovani meridionali oltre che
l’alternativa dell’emigrazione all’estero resta quella delle le migrazioni interne.
Le destinazioni: dove sono gli emigrati italiani e dove vanno i nuovo emigrati.
In Argentina e Germania si registra la massima presenza italiana, importanti anche Stati Uniti e
Brasile, molto meno rilevanti sono l’Asia e l’Africa. In Europa le presenze più elevate si registrano
in Germania, Francia, Regno Unito, Svizzera, Belgio e Spagna.
Novità nelle emigrazioni che identificano un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana:
Cambiamento (distanza sociale) degli emigranti di oggi rispetto a quelli della precedente
grande ondata migratoria,
Cambiamento delle comunità degli italiani residenti all’estero, migrazioni interne all’Unione
Europea (emigrazione interna, almeno prima della Brexit),
Cambiamento della distribuzione in base al genere,
Cambiamento della struttura per classi di età con un certo ringiovanimento (nei nuovi flussi
è alta la percentuale di giovani).
Fino alla scorso decennio parlando di giovani italiani all’estero ci si riferiva sostanzialmente alle
seconde e terze generazioni, oggi la figura protagonista tra i giovani italiani all’estero non è più
quella del figlio dell’emigrante, bensì quella del nuovo migrante.
accanto alla ricerca di un’occupazione altrove in risposta alla mancanza di occasioni offerte dal
contesto locale, vi siano drivers quali la volontà di fare esperienza e o la ricerca di stili diversi di
vita. Ma si tratta di drivers la cui azione è meno probabile quando a emigrare è un giovane con
basso livello formativo proveniente dal Mezzogiorno.
Comunque il principale fattore di spinta durante questi anni è rappresentato dalla crisi
occupazionale.
inseriscono i lavoratori provenienti da paesi del Terzo Mondo e dall’Europa dell’est. Nel 1973
avvengono prima la crisi petrolifera e poi la crisi del modello produttivo fordista taylorista; è la fase
di inizio dei processi di delocalizzazione e chiusura di grandi imprese. A partire da quegli anni ha
inizio la fase di stasi dell’emigrazione italiana verso l’Europa. Alla crisi industriale causata dai due
shock petroliferi (1973 e 1979) segue il periodo della jobless growth (crescita senza occupazione)
che caratterizza tutti gli anni Ottanta. Quando negli anni ‘90 l’Italia riprende il flusso migratorio la
composizione migratoria è diversa, infatti la componente giovanile e scolarizzata diventa
importante. Questa ripresa ha luogo nel momento di unificazione europea che favorisce la mobilità.
La deindustrializzazione aveva comportato una riduzione dell’occupazione nelle grandi imprese.
L’evoluzione del settore terziario comporta una destrutturazione del modello occupazionale. Il
passaggio da un’economia trainata prevalentemente dall’industria a un’economia fondata sul
terziario e sui servizi è la chiave di svolta del passaggio dall’emigrazione del dopoguerra a quella
attuale.
A cambiare sono anche la domanda di lavoro e di offerta: alla domanda di lavoro industriale si
contrappone una domanda varia e frastagliata per settori specifici di impiego, con richieste di
qualifiche, disponibilità a carichi di lavoro elevati e con tempi mutevoli. Inoltre al ridursi della
domanda di lavoro industriale si riduce l’area delle occupazioni manuali. Nell’estensione della
domanda di lavoro ci sono anche degli aspetti nuovi positivi:
aumenta la richiesta di ricercatori stranieri
aumenta l’entrata delle donne in aree tradizionalmente considerate maschili
si verifica una forte internazionalizzazione del mercato del lavoro resa più praticabile dalla
libera circolazione della manodopera all’interno dell’Unione Europea.
Espansione della domanda e riduzione della qualità del lavoro nei paesi di immigrazione.
La grande crescente presenza di lavoratori stranieri nelle aree di destinazione è l’espressione di una
domanda concentrata in attività di basso livello di produttività che deve essere compensata da un
minor costo e una maggiore flessibilità del lavoro, cioè quello che gli immigrati garantiscono. I
settori occupazionali sono molteplici: industria manifatturiera, edilizia, ristorazione, settore
sanitario. L’inserimento lavorativo degli italiani è difficilmente circoscrivibile a un settore
lavorativo con assoluta prevalenza. Benché le occupazioni rientrino nell’ambito del terziario,
emerge una notevole biforcazione tra chi riesce a inserirsi nei settori avanzati e chi invece è
impiegato in occupazioni più elementari (ma in Germania il settore dove si concentrano
maggiormente gli italiani è l’industria).
Molte volte questi lavoratori sono poco protetti, infatti la diffusione di forme contrattuali atipiche,
precarie e con accordi che prevedono una riduzione dei salari, della protezione dell’impiego e
delle condizioni di lavoro rispetto al passato, sono molto diffuse. Un esempio sono i mini jobs ,
ovvero i lavori con un compenso mensile massimo di 400/500 € per il quale non è previsto
versamento degli oneri contributivi assicurativi, diffusi nell’area della ristorazione, dell’attività
alberghiera e dei servizi di pulizia. All’interno del precariato gli immigrati occupano una posizione
centrale (in Francia il lavoro atipico è enormemente cresciuto nel mercato del lavoro, si sono estesi i
contratti a tempo determinato per periodi brevi e la normativa sui licenziamenti è divenuta molto
meno rigida, in Inghilterra si sono diffusi i contratti “a zero ore”). In sostanza la liberalizzazione del
mercato del lavoro aumenta la precarietà riducendo i sistemi di employment protection (le garanzie
dei lavoratori sulla stabilità dell’occupazione).
un accesso incerto alle risorse del welfare. Il proletariato, invece, è formato da lavoratori occupati in
lavori a tempo indeterminato e stabili, anche con prospettive di avanzamento.
(Proletariato = stabilità VS Precariato = instabilità occupazionale)
Un punto importante sul quale Standing batte è quello delle politiche del welfare. È indubbio che i
precari sono largamente esclusi da alcune prerogative riguardanti la sicurezza sociale. Non va però
dimenticato che anche il proletariato ha subito il restringimento dei benefici e dei diritti.
L’importanza dell’insicurezza economica e della precarietà è riconosciuta da tutti gli analisti del
capitalismo contemporaneo. Ma vedere la precarietà come una classe è un aspetto controverso e
condiviso da pochi studiosi.
Per quel che riguarda i migranti italiani, la condizione precaria riguarda sia i soggetti appartenenti
alla classe alta che quelli di fascia inferiore.
Sempre Standing afferma che i membri del precariato possono essere definiti mezzi cittadini
(denizen) in quanto non sarebbero dei veri cittadini perché sul piano dei diritti civili, politici e
sociali si trovano in una posizione svantaggiata. I nuovi migranti italiani sono già denizen a
prescindere. Ma perché le persone se ne vanno allora? Perché le condizioni che trovano nelle aree di
immigrazione sono comunque migliori rispetto alla situazione di partenza.
5) DA SOLI O ASSOCIATI?
Nuovi migranti, nuove catene migratorie.
Coloro che partono ora sono i primi protagonisti dell’emigrazione italiana che sono già stati
all’estero per i motivi più vari (studio, turismo,..). Le nuove generazioni di migranti frequentano i
social media e utilizzano vari sistemi di comunicazione che consentono loro di rimanere in stretto
contatto dopo la partenza con i luoghi d’origine. Ha cambiato natura anche la catena migratoria che
non è più costituita da parenti o compaesani che ti accolgono e ti fanno conoscere il paese di
destinazione. Semmai, quando c’è, la catena (catena migratoria = meccanismo che lega i nuovi
emigranti a parenti, amici o conterranei che già risiedono nei paesi di migrazione facilitandone
l’inserimento nella società di destinazione), è fatta dal gruppo dei pari e fa sì che si instaurino
legami forti. Stellon sostiene che la nuova emigrazione viaggia nella rete, in essa comunica, si
aggrega, costruisce eventi. Costruisce attraverso la rete un riferimento identitario.
Tuttavia, ma mano che le generazioni si sono succedute, le associazioni hanno avuto difficoltà ad
adeguarsi alle trasformazioni sociali e culturali degli emigranti, con la conseguenza di un loro
indebolimento e scarso rinnovamento. Attualmente il principale problema per l’associazionismo
storico è la scarsa capacità di attrarre giovani con il risultato dell’invecchiamento degli associati.
Diverso è invece il discorso per le associazioni di rappresentanza e di patronato. Uno degli elementi
di indebolimento di questo tipo di associazioni è dovuto all’emergere, negli ultimi decenni, di nuove
strutture di rappresentanza istituzionali, a partire dai parlamentari eletti all’estero e dalla
rivitalizzazione del Cgie (consiglio generale italiano all’estero).
sovrappopolata dove l’alleggerimento demografico poteva implicare anche dei vantaggi per
l’economia locale. Tutto questo non è più vero, oggi si tratta solo di una perdita della
popolazione e di una modificazione della struttura della sua piramide di età, con una
riduzione delle classi in età del lavoro e un invecchiamento della popolazione.
La spirale economico-demografica.
I dati del cambiamento demografico si sommano a quelli della crisi economica aggravando la
situazione del Mezzogiorno. A partire dagli anni ‘90 è iniziato il declino dell’economia di questa
parte del paese, inoltre si assiste alla cessazione della politica di intervento straordinario e si riduce
la domanda di lavoro. Anche il flusso di investimenti sia pubblici che privati si mantiene sempre
molto basso. In poche parole il Mezzogiorno non si è mai ripreso dalla deindustrializzazione.
La spirale consiste nel fatto che i giovani partono, così si riduce l’offerta potenziale di lavoro e la
desertificazione demografica, a sua volta, riduce la possibilità di ripresa economica per il
restringersi di un mercato locale anche a causa dell’impoverimento dei possibili sbocchi di
consumo.
Questo processo di inaridimento della realtà produttiva e di marginalizzazione sociale delle aree
interne, soprattutto del Mezzogiorno, è causa e al contempo effetto dell’emigrazione. Gli elementi
di svantaggio sul piano sociale, economico e culturale non solo si sommano ma si rafforzano
reciprocamente, nel presente ma anche in prospettiva. È in questo contesto che va compresa
l’esistenza dei cosiddetti Neet (Not in employment, education or training): persone che si trovano
fuori dal lavoro, dalla scuola e che non frequentano corsi di formazione professionale. La situazione
occupazionale che deriva da questo quadro è caratterizzata da un tasso di disoccupazione del 20%
quasi doppio rispetto alla media nazionale.
Ieri e oggi.
Passato: gli immigrati con le rimesse contribuivano al progresso economico delle regioni
meridionali e riducevano il divario tra Nord e Sud. I vantaggi dell’emigrazione di allora:
lo sviluppo sociale,
la spinta alla scolarizzazione di massa, alla mobilità sociale,
il miglioramento dei salari
◊ drivers non puramente economici, i migranti altamente qualificati si spostano anche per
cercare un lavoro ben retribuito, con un possibile sviluppo di carriera, e una migliore qualità
di vita.
C’è poi anche un terzo polo rappresentato dei paesi dell’Est, i loro migranti sono presenti
nell’Europa del sud e nell’Europa del nord e solitamente lavorano nel settore manifatturiero, nelle
costruzioni, nel trasporto e nel lavoro domestico, ovvero nelle occupazioni meno qualificate. I
cittadini provenienti dai paesi occidentali solitamente invece ricoprono posizioni professionali nei
settori dell’informazione, nella comunicazione, nelle attività assicurativa e finanziaria, nell’ambito
educativo e nei servizi professionali.
La crisi dell’Europa mediterranea è una conseguenza di una politica economica restrittiva imposta
a livello europeo, a partire dagli anni della crisi, che ha creato depressione economica,
disoccupazione giovanile, sovraccarico del sistema di previdenza sociale in un quadro di mancanza
di investimenti capaci di incrementare la produttività. Ovviamente non tutto è attribuibile alle scelte
europee. Possibilità e margini di intervento di politica economica e sociale da parte degli stati ce ne
sono e sono notevoli.
relazioni intraeuropee e, in particolare, delle migrazioni interne all’Unione. A parte gli effetti
immediati e concreti, l’esito del referendum inglese e la conseguente Brexit hanno un significato
ancora più generale quali indicatori del nuovo clima che si respira in Europa, un clima meno aperto
e meno solidale, con possibili rientri forzati, senza contare che dei 600 mila immigrati italiani molti
si ritroveranno in una condizione irregolare (per studenti: problema costosissimo di pagamento tasse
universitarie e di accesso al welfare britannico, per operai: difficoltà di regolarizzazione e rientri
forzati).