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Quelli che se ne vanno. Pugliese

Sociologia dei processi migratori (Università degli Studi di Torino)

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QUELLI CHE SE NE VANNO di E. Pugliese

1) INTRODUZIONE.
 Un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana.
In rapporto ai cambiamenti interni alla società italiana, sono cambiati anche i protagonisti
dell’emigrazione, la loro estrazione sociale, le loro condizioni di partenza gli stessi fattori che li
hanno spinti a emigrare. Le epoche delle emigrazioni sono diverse, ma quella significativa è
l’epoca delle grandi migrazioni intraeuropee degli anni dello sviluppo industriale del dopo guerra
che ha avuto il suo culmine e l’inizio del suo declino circa mezzo secolo addietro quando
l’emigrazione era conseguenza ma anche fattore dello sviluppo sociale ed economico (1945-1973).
I protagonisti delle immigrazioni di oggi sono diversi anche da quelli che partivano agli inizi degli
anni 90 (momento della cosiddetta fuga di cervelli). Il momento di svolta si data ai primi anni della
crisi (dal 2005). La nuova emigrazione può essere quella costituita da giovani oppure la “sun
migration”, ovvero la migrazione di chi va alla ricerca di clima temperato, come anziani e
pensionati. Nei paesi di destinazione risultano arrivare ogni anno un numero di italiani di gran lunga
superiore a quello di chi risulta avere lasciato l’Italia. C’è qualcosa che non fa quadrare i conti, le
rivelazioni italiane finiscono per sottostimare la portata del fenomeno. La nuova emigrazione è
diretta verso una molteplicità di destinazioni ma la maggioranza dei nuovi emigranti sceglie pochi
paesi all’interno dell’Unione Europea (Francia, Svizzera, Germania). Da dove provengono quelli
che se ne vanno? Dal Nord, ciò si spiega anche con il fatto che per i giovani meridionali oltre che
l’alternativa dell’emigrazione all’estero resta quella delle le migrazioni interne.

 Fuga di cervelli e fuga di braccia.


Fuga di cervelli: alla base della scelta di emigrare c’è una ricerca di diverse modalità esistenziali,
orientamenti cosmopoliti, opportunità e diversi stili di vita. Gli altamente scolarizzati e qualificati
hanno dato una spinta alla migrazione, ma la crisi ha esteso l’area dei soggetti interessati
comprendendovi anche una componente meno ricca di capitale umano e di credenziali. Inoltre la
situazione è cambiata per le nuove caratteristiche del mercato del lavoro locale e per la minore
disponibilità all’accoglienza da parte dei paesi di immigrazione. Come sostengono molti operatori
nel campo dell’emigrazione all’estero “si è prestato troppa attenzione alla fuga dei cervelli e poco ci
si è resi conto della fuga delle braccia“. Ciononostante la collocazione nel mercato del lavoro dei
nuovi giovani migranti europei è precaria.

 Di nuovo la “valigia di cartone”.


Per effetto della emigrazione non solo si riducono le classi giovanili e in età del lavoro, ma questo
implica anche una riduzione della fertilità che a lungo andare si traduce in una peggioramento
della struttura demografica. Questo è legato alla situazione del Mezzogiorno che acquista di
nuovo il ruolo di area fornitrice di manodopera necessaria per lo sviluppo delle altre regioni e per
paesi stranieri (così come in epoca fordista).
Un’ultima tematica trattata nel libro riguarda la questione dell’associazionismo: da un lato il modo
in cui i nuovi migranti si pongono nei confronti delle associazioni di rappresentanza o di solidarietà
esenti, dall’altro il modo in cui essi affrontano i problemi attraverso nuove forme di associazione.
Anche le catene migratorie sono cambiate. Costituite da parenti, amici o paesani, quelle
tradizionali indirizzavano i nuovi emigranti e li aiutavano a sistemarsi in un contesto nuovo e non
conosciuto. Quelli di ora non hanno bisogno di quel tipo di aiuto. Il vantaggio che dà il conoscere
già il contesto nel quale avrà luogo la propria esperienza migratoria o la disponibilità di strumenti
comunicativi molto rapidi suggeriscono una condizione di maggiore forza rispetto agli emigranti del
passato. Ai tempi delle grandi migrazioni intereuropee la valigia di cartone rappresentava la povertà
in un contesto tuttavia di progresso e in una prospettiva di stabilità, miglioramento delle condizioni
e acquisizione di diritti. Ora questa prospettiva sembra essere venuta meno e la valigia sembra
rappresentare le condizione precarie dei nuovi migranti.

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2) QUANTI SONO, DOVE VANNO, DA DOVE VENGONO.


 Una realtà trascurata.
Ad aver lasciato l’Italia sono quasi 700.000 cittadini italiani dei quali meno della metà sono tornati.
Il nostro paese non sembra però voler prendere atto della questione. È stupefacente come non
venga quasi mai recepita né a livello politico né dalle forze governative. La sottovalutazione
dell’emigrazione nel discorso politico e istituzionale rafforza il convincimento comune che si tratti
di un fenomeno senza grandi implicazioni sociali. Se ne trascurano gli effetti sia sui protagonisti
sia sul paese, invece è urgente occuparsene. Bisognerebbe attuare una politica di assistenza, di
protezione e di rappresentanza degli emigranti.
Per quel che riguarda le istituzioni, l’Oecd nel suo ultimo rapporto sulle migrazioni ha fatto notare
come l’Italia sia tornata ai primi posti nella graduatoria mondiale dei paesi di emigrazione,
preceduto solo da paesi come Cina, India e Siria.

 Perché ne arrivano più di quanti ne partono.


L’Istat ci permette di conoscere, sulla base delle cancellazioni anagrafiche, per ogni singolo anno,
quante persone se ne vanno dall’Italia (ma non ci permette di sapere quanti cittadini italiani
risiedono all’estero), mentre l’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) ci permette di sapere
il numero dei cittadini italiani residenti all’estero. Il paradosso starebbe nel fatto che “ne partano
meno di quanti ne arrivano” cioè gli istituti di rilevazione dei paesi di immigrazione registrano un
arrivo di italiani di gran lunga superiore a quello delle partenze fornito dall’Italia —> Es: per l’Istat
tra il 2012 e il 2016 hanno lasciato l’Italia per andare in Germania 60.700 persone mentre per gli
uffici della Germania ne sarebbero arrivati oltre 274 mila. È probabile che la sottovalutazione sia
dovuta al fatto che solo una parte di coloro che lasciano il Comune di residenza per andare
all’estero provvedano in tempi brevi a richiedere la cancellazione anagrafica dal loro Comune. La
scelta di cancellare la residenza dal paese di provenienza è libera, quella di iscriversi presso i
registri dell’ufficio federale tedesco oltre che obbligatoria, è utile e conveniente. Inoltre è possibile
che gli italiani ufficializzino la loro partenza solo dopo diversi anni e magari dopo diversi
spostamenti tra vari paesi prima di stabilirsi in modo definitivo. Questo spiega la discrepanza tra i
due fattori. È significativa l’indicazione di diversi soggetti che ritardano e evitano la cancellazione
anagrafica (immobili con un intento esplorativo e coloro che procrastinano la cancellazione in attesa
di una decisione definitiva). Per venire a capo del fenomeno bisogna fare riferimento non solo a
ogni possibile fonte statistica ma anche a motivi sociali e psicologici che finiscono per influire sulle
decisioni riguardanti il progetto migratorio e quindi sulla scelta di cancellare o meno l’iscrizione
anagrafica nei Comuni di provenienza.

 La formazione delle collettività degli italiani all’estero.


L’Italia non ha mai cessato di essere paese di emigrazione, nonostante il flusso sia stato per un
periodo modesto.
I movimenti migratori italiani per l’estero hanno subito delle evoluzioni:
 anni 50/60: sostituzione dell’emigrazione transoceanica con quella verso i paesi europei e, in
Europa, affermarsi delle destinazioni come Svizzera e Germania rispetto alle iniziali Francia e
Belgio. (anni ’60: massimo picco dell’emigrazione italiana all’estero e numero elevatissimo di
rientri).
All’origine dei movimenti migratori europei di questi anni c’è il modello “Gastarbeiter” (lavoratore
ospite, Germania) che si basa sul principio che il lavoratore immigrato vive nel paese di
immigrazione temporaneamente come ospite con una prospettiva di ritorno al paese di provenienza.
Gli immigrati rappresentano in quella fase la componente della classe operaia sulla quale si
scaricano le difficoltà del mercato del lavoro delle economie avanzate. Essi sono i primi ad essere
espulsi dal processo produttivo nel momento di crisi.
Ex. Paesi riguardanti l’immigrazione italiana:

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◊ Svizzera: complicato sistema di permessi di soggiorno, suddivide i lavoratori italiani in


frontalieri, stagionali, annuali e permanenti.
◊ Germania: modello Gastarbeiter, postula un ritorno dell’immigrato. In realtà funzionerà solo
in parte, alla fine molti italiani ritorneranno definitivamente ma una parte significativa
resterà in Germania.
◊ Francia: applica agli immigrati il modello repubblicano, ovvero offre pari diritti per pari
doveri producendo positive ricadute concrete e rendendo possibili maggiori occasioni di
mobilità sociale.
 anni 70: declino migrazione intraeuropea, sviluppo emigrazioni avvenute in seguito a grandi
spostamenti delle grandi imprese italiane in paesi del Terzo Mondo. Si trattava soprattutto di
una emigrazione temporanea di soggetti scolarizzati, in prevalenza tecnici e ingegneri. I rientri di
questi anni (70/80) avvengono in un clima diverso, infatti sono migliorate le condizioni
economiche dell’Italia, sono aumentate le aspettative della popolazione e la durezza
dell’esperienza migratoria incentiva il rientro. In Germania viene promulgata l’Anwerbenstop, il
decreto che imponeva la cessazione del reclutamento di manodopera dall’estero da parte delle
imprese.
Questa apparente “fine dell’emigrazione” è dovuta:
 da una parte alla riduzione dell’effetto push per il miglioramento della situazione
economica in Italia;
 dall’altra al ridimensionamento dell’effetto pull, conseguente a una minore e meno stabile
domanda di lavoro per gli italiani nelle aree di immigrazione.
Bonifazi individua due grandi periodi riguardanti i processi migratori dell’Italia del dopoguerra:
 grande emigrazione intraeuropea
 crescita dell’immigrazione, emigrazione stagnante.
In seguito suddivide la seconda fase in altre tre fasi:
1. moderato surplus migratorio dura dagli anni ’70 agli anni ‘80
2. diciotto anni seguenti, fa registrare una crescita inattesa e straordinaria delle iscrizioni
all’estero
3. inizia con la crisi economica del 2008, prevede una contrazione delle iscrizioni e un forte
aumento delle cancellazioni.
Dal 2008 le partenze aumentano con un alto tasso di incremento. Per i cittadini italiani il saldo
migratorio (persone rimaste all’estero) è perennemente negativo. Le iscrizioni, cioè i rientri degli
italiani, sono di entità molto modesta e l’elevato numero complessivo degli iscritti è dovuto
pressochè completamente alla componente straniera. Il numero di partenze del 2016 è il più alto a
partire dal 1971.

 Le destinazioni: dove sono gli emigrati italiani e dove vanno i nuovo emigrati.
In Argentina e Germania si registra la massima presenza italiana, importanti anche Stati Uniti e
Brasile, molto meno rilevanti sono l’Asia e l’Africa. In Europa le presenze più elevate si registrano
in Germania, Francia, Regno Unito, Svizzera, Belgio e Spagna.
Novità nelle emigrazioni che identificano un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana:
 Cambiamento (distanza sociale) degli emigranti di oggi rispetto a quelli della precedente
grande ondata migratoria,
 Cambiamento delle comunità degli italiani residenti all’estero, migrazioni interne all’Unione
Europea (emigrazione interna, almeno prima della Brexit),
 Cambiamento della distribuzione in base al genere,
 Cambiamento della struttura per classi di età con un certo ringiovanimento (nei nuovi flussi
è alta la percentuale di giovani).
Fino alla scorso decennio parlando di giovani italiani all’estero ci si riferiva sostanzialmente alle
seconde e terze generazioni, oggi la figura protagonista tra i giovani italiani all’estero non è più
quella del figlio dell’emigrante, bensì quella del nuovo migrante.

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 Provenienze: ne partono più da regioni ricche che da regioni povere.


Per quanto riguarda le provenienze c’è una novità: per la prima volta da oltre un secolo nella storia
dell’emigrazione italiana le aree di massima emigrazione verso l’estero non sono le regioni del Sud
bensì quelle del Nord, in particolare la Lombardia, superata solo ora dal Lazio. Le regioni che
presentano i più alti tassi di sviluppo si trovano ad essere anche le regioni di forte emigrazione. I
protagonisti sono i proletari (giovani in cerca di lavoro e operai licenziati delle fabbriche colpite
dalla crisi), soggetti altamente scolarizzati (che trovano occupazioni di alto livello sulla base della
loro qualificazione ottenuta in Italia, per alcuni si tratta solo di una tappa del loro percorso
migratorio e per questo viene chiamata “emigrazione di rimbalzo”) e i tecnici (occupati in industrie
colpite dalla crisi). In sostanza l’emigrazione è la conseguenza della crisi.
Per emigrare è fondamentale avere un capitale umano e sociale, i più scolarizzati, coloro che
hanno già viaggiato o che hanno maggiori relazioni in Italia e all’estero e coloro che non sono
frenati da dei legami forti, saranno avvantaggiati mentre altri “non ce la faranno nemmeno a
emigrare”.

3) CHI SONO QUELLI CHE SE NE VANNO: CAUSE, ASPIRAZIONI, FIGURE


PREVALENTI.
 Età, genere e istruzione.
La nuova emigrazione italiana è essenzialmente emigrazione giovanile, la prima classe di età è
quella compresa tra i 18 e i 34 anni a seguire la classe di età compresa tra i 35 e 49 anni.
La componente femminile rispetto al passato ha un’incidenza decisamente più alta collocandosi
intorno al 45% del totale. L’elemento più importante è che nell’esperienza migratoria di oggi la
componente femminile ha spesso un ruolo autonomo e indipendente da quello maschile. Le giovani
donne raramente partono come coniugi al seguito così come avveniva nella vecchia emigrazione,
soprattutto quelle più scolarizzate si muovono in modo indipendente: l’emigrazione femminile
per studio e per lavoro è autonoma. C’è da precisare che nel passato la condizione di persona a
seguito e a carico attribuita alle donne era anche sovradimensionata rispetto alla realtà e che
lavoro, ufficiale oppure al nero, delle donne era sottostimato.
Nel 2016 gli emigrati laureati erano 25.000 pari al 30,8% (spinti dai vantaggi della “brain
circulation” cioè della mobilità internazionale degli studiosi), mentre si è ridotta la migrazione delle
persone con più bassi livelli di istruzione, anche se è il 70% della nuova emigrazione è costituita
da persone con titolo di studio inferiore alla laurea. Tra questi giovani, anche altamente scolarizzati,
ci sono anche stranieri già residenti in Italia oltre “nuovi italiani” (stranieri che hanno ottenuto la
cittadinanza italiana).

 Fattori di spinta e fattori di richiamo.


Le motivazioni che spingono ad emigrare sono molteplici e riguardano sia elementi strutturali sia
fattori soggettivi che possono essere comuni o diversi da soggetto a soggetto. Negli ultimi anni della
letteratura internazionale si parla sempre più spesso di drivers (fattori di spinta o di richiamo alla
base dell’inizio e della prosecuzione dell’emigrazione) e del push-pull effect (che spiega come i
migranti vengono spinti dal basso reddito delle loro aree di provenienza e attratti dalle migliori
condizioni e prospettive nelle aree di arrivo). Questi approcci sostengono che le migrazioni, a lungo
andare, dovrebbero portare a un superamento dei divari e a una situazione di equilibrio. La critica a
questo modello non sta nell’individuazione della spinta determinata dagli squilibri, ma nel presunto
riequilibrio determinato dall’emigrazione.
L’importante però è dare il giusto peso ai diversi drivers, ricercando le spiegazioni sia a livello
generale (macro, ad esempio squilibri di reddito tra regioni) che a livello di scelta individuale
(micro) che a livello di rete sociale o di catena migratoria (meso). Così è evidente che quello che
spinge il giovane altamente scolarizzato di un’area metropolitana, magari di estrazione sociale
borghese, non è necessariamente lo stesso fattore che è alla base dell’emigrazione di un giovane
poco scolarizzato e proveniente da un’area marginale. Così nel primo caso si può pensare che

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accanto alla ricerca di un’occupazione altrove in risposta alla mancanza di occasioni offerte dal
contesto locale, vi siano drivers quali la volontà di fare esperienza e o la ricerca di stili diversi di
vita. Ma si tratta di drivers la cui azione è meno probabile quando a emigrare è un giovane con
basso livello formativo proveniente dal Mezzogiorno.
Comunque il principale fattore di spinta durante questi anni è rappresentato dalla crisi
occupazionale.

 Tipologie di migrazioni e di protagonisti.


Anni 2000: gli elementi attivatori delle migrazioni di questi anni sono stati:
 il processo di integrazione europea (contribuendo alla partenza e alla circolazione di
giovani, spinti anche dalla volontà di fare esperienze o attratti da stili di vita diversi
dai loro rientrando perciò nei cosiddetti lifestyle migrations)
 e successivamente la crisi (contribuendo alla partenza per motivi di lavoro).
Di significativa importanza sono state le migrazioni:
◊ femminili indipendenti
◊ di professionisti qualificati (uomini d’affari, ingegneri, consulenti e personale delle
organizzazioni internazionali)
◊ di studenti
◊ di persone anziane (Sun migrations, verso paesi a sud del mondo o verso paesi europei
accomunati dal costo della vita più basso e dal clima caldo; verso mete dove si trovano dei
loro congiunti come figli; verso paesi dell’Europa dell’est al seguito di persone che sono al
loro servizio come badanti). Questa scelta ha la sua origine nell’impoverimento della
situazione demografica del Mezzogiorno con l’aumento delle famiglie di anziani soli.
Ecco alcune innovazioni nel vocabolario riguardante gli spostamenti:
 mobile: chi può decidere se partire e dove andare.
 migrante: chi, spinto dalla mancanza di reddito e di lavoro, cerca una soluzione per la sua
sopravvivenza o per migliorare la propria condizione in un altro territorio o nel proprio
paese o all’estero.
 free movers: chi si muove all’interno di uno spazio di libera circolazione (l’UE).

4) UNA NUOVA CLASSE DI PRECARI? MERCATO DEL LAVORO E OCCUPAZIONE.


 Immigrazione e occupazione nell’età fordista.
Durante le grandi migrazioni intraeuropee le fabbriche assorbivano massicce quantità di forza
lavoro non qualificata e il lavoro era basato sui principi del taylorismo (mansioni semplici e
scarsa autonomia dei lavoratori). Questo modello produttivo era capace di assorbire lavoratori
nazionali ma anche immigrati, che in un periodo di sviluppo industriale con una domanda di lavoro
in espansione erano i benvenuti, e gli elevati ritmi e carichi di lavoro erano compensati dagli alti
salari. La stabilità, i salari elevati e l’estensione dei diritti sul lavoro erano andati caratterizzando la
condizione degli immigrati nei paesi europei sviluppati, in quello che si chiama modello fordista.
Inoltre l’incremento del reddito, lo sviluppo produttivo, il miglioramento delle condizioni di lavoro
e lo sviluppo del welfare facevano parlare di quel periodo come della golden age mentre le
migrazioni attuali sono quelle dell’età della precarietà.
Contadini e braccianti trovavano subito un’occupazione al momento dell’apertura dei canali
migratori. Il ruolo dell’industria non era solo quello di destinazione occupazionale degli immigrati,
ma più in generale quello di fattore trainante della domanda di lavoro. Man mano che si espandeva
l’economia e lavoratori locali entravano in settori e collocazioni professionali più alte, si aprivano
spazi per i lavoratori immigrati.

 Mercato del lavoro e occupazione in Europa all’epoca della ripresa dell’emigrazione


italiana.
Dopo gli anni 70 la domanda di lavoro è meno intensa e si concentra nel settore terziario dove si

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inseriscono i lavoratori provenienti da paesi del Terzo Mondo e dall’Europa dell’est. Nel 1973
avvengono prima la crisi petrolifera e poi la crisi del modello produttivo fordista taylorista; è la fase
di inizio dei processi di delocalizzazione e chiusura di grandi imprese. A partire da quegli anni ha
inizio la fase di stasi dell’emigrazione italiana verso l’Europa. Alla crisi industriale causata dai due
shock petroliferi (1973 e 1979) segue il periodo della jobless growth (crescita senza occupazione)
che caratterizza tutti gli anni Ottanta. Quando negli anni ‘90 l’Italia riprende il flusso migratorio la
composizione migratoria è diversa, infatti la componente giovanile e scolarizzata diventa
importante. Questa ripresa ha luogo nel momento di unificazione europea che favorisce la mobilità.
La deindustrializzazione aveva comportato una riduzione dell’occupazione nelle grandi imprese.
L’evoluzione del settore terziario comporta una destrutturazione del modello occupazionale. Il
passaggio da un’economia trainata prevalentemente dall’industria a un’economia fondata sul
terziario e sui servizi è la chiave di svolta del passaggio dall’emigrazione del dopoguerra a quella
attuale.
A cambiare sono anche la domanda di lavoro e di offerta: alla domanda di lavoro industriale si
contrappone una domanda varia e frastagliata per settori specifici di impiego, con richieste di
qualifiche, disponibilità a carichi di lavoro elevati e con tempi mutevoli. Inoltre al ridursi della
domanda di lavoro industriale si riduce l’area delle occupazioni manuali. Nell’estensione della
domanda di lavoro ci sono anche degli aspetti nuovi positivi:
 aumenta la richiesta di ricercatori stranieri
 aumenta l’entrata delle donne in aree tradizionalmente considerate maschili
 si verifica una forte internazionalizzazione del mercato del lavoro resa più praticabile dalla
libera circolazione della manodopera all’interno dell’Unione Europea.

 Espansione della domanda e riduzione della qualità del lavoro nei paesi di immigrazione.
La grande crescente presenza di lavoratori stranieri nelle aree di destinazione è l’espressione di una
domanda concentrata in attività di basso livello di produttività che deve essere compensata da un
minor costo e una maggiore flessibilità del lavoro, cioè quello che gli immigrati garantiscono. I
settori occupazionali sono molteplici: industria manifatturiera, edilizia, ristorazione, settore
sanitario. L’inserimento lavorativo degli italiani è difficilmente circoscrivibile a un settore
lavorativo con assoluta prevalenza. Benché le occupazioni rientrino nell’ambito del terziario,
emerge una notevole biforcazione tra chi riesce a inserirsi nei settori avanzati e chi invece è
impiegato in occupazioni più elementari (ma in Germania il settore dove si concentrano
maggiormente gli italiani è l’industria).
Molte volte questi lavoratori sono poco protetti, infatti la diffusione di forme contrattuali atipiche,
precarie e con accordi che prevedono una riduzione dei salari, della protezione dell’impiego e
delle condizioni di lavoro rispetto al passato, sono molto diffuse. Un esempio sono i mini jobs ,
ovvero i lavori con un compenso mensile massimo di 400/500 € per il quale non è previsto
versamento degli oneri contributivi assicurativi, diffusi nell’area della ristorazione, dell’attività
alberghiera e dei servizi di pulizia. All’interno del precariato gli immigrati occupano una posizione
centrale (in Francia il lavoro atipico è enormemente cresciuto nel mercato del lavoro, si sono estesi i
contratti a tempo determinato per periodi brevi e la normativa sui licenziamenti è divenuta molto
meno rigida, in Inghilterra si sono diffusi i contratti “a zero ore”). In sostanza la liberalizzazione del
mercato del lavoro aumenta la precarietà riducendo i sistemi di employment protection (le garanzie
dei lavoratori sulla stabilità dell’occupazione).

 Precariato come classe o come condizione?


Guy Standing parte dalla precarietà per costruire la tesi dell’esistenza di una classe particolare,
distinta dalla classe operaia e dal proletariato, che egli definisce precariato. È nel passaggio tra
fordismo e post-fordismo che nasce questa nuova classe. Il precariato è formato da persone la cui
vita lavorativa passa attraverso lavori insicuri, disoccupazione, insicurezza nelle condizioni di vita e

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un accesso incerto alle risorse del welfare. Il proletariato, invece, è formato da lavoratori occupati in
lavori a tempo indeterminato e stabili, anche con prospettive di avanzamento.
(Proletariato = stabilità VS Precariato = instabilità occupazionale)
Un punto importante sul quale Standing batte è quello delle politiche del welfare. È indubbio che i
precari sono largamente esclusi da alcune prerogative riguardanti la sicurezza sociale. Non va però
dimenticato che anche il proletariato ha subito il restringimento dei benefici e dei diritti.
L’importanza dell’insicurezza economica e della precarietà è riconosciuta da tutti gli analisti del
capitalismo contemporaneo. Ma vedere la precarietà come una classe è un aspetto controverso e
condiviso da pochi studiosi.
Per quel che riguarda i migranti italiani, la condizione precaria riguarda sia i soggetti appartenenti
alla classe alta che quelli di fascia inferiore.
Sempre Standing afferma che i membri del precariato possono essere definiti mezzi cittadini
(denizen) in quanto non sarebbero dei veri cittadini perché sul piano dei diritti civili, politici e
sociali si trovano in una posizione svantaggiata. I nuovi migranti italiani sono già denizen a
prescindere. Ma perché le persone se ne vanno allora? Perché le condizioni che trovano nelle aree di
immigrazione sono comunque migliori rispetto alla situazione di partenza.

5) DA SOLI O ASSOCIATI?
 Nuovi migranti, nuove catene migratorie.
Coloro che partono ora sono i primi protagonisti dell’emigrazione italiana che sono già stati
all’estero per i motivi più vari (studio, turismo,..). Le nuove generazioni di migranti frequentano i
social media e utilizzano vari sistemi di comunicazione che consentono loro di rimanere in stretto
contatto dopo la partenza con i luoghi d’origine. Ha cambiato natura anche la catena migratoria che
non è più costituita da parenti o compaesani che ti accolgono e ti fanno conoscere il paese di
destinazione. Semmai, quando c’è, la catena (catena migratoria = meccanismo che lega i nuovi
emigranti a parenti, amici o conterranei che già risiedono nei paesi di migrazione facilitandone
l’inserimento nella società di destinazione), è fatta dal gruppo dei pari e fa sì che si instaurino
legami forti. Stellon sostiene che la nuova emigrazione viaggia nella rete, in essa comunica, si
aggrega, costruisce eventi. Costruisce attraverso la rete un riferimento identitario.

 Associazionismo storico: ascesa e declino.


Il ruolo dell’associazionismo e delle strutture di rappresentanza e difesa degli immigrati è
importante nella quotidianità della vita di chi vive e lavora fuori dal suo paese. Al centro di questa
realtà c’è la spinta di affrontare insieme le necessità e i problemi dell’esperienza migratoria. Le
associazioni tendono a creare i presupposti per facilitare l’inserimento lavorativo e rafforzare gli
interessi a ricostruire nuclei familiari. Nelle attività di sostegno e di tutela dei diritti, un ruolo
fondamentale è stato svolto in passato dalle associazioni di rappresentanza degli immigrati oltre alle
grandi organizzazioni sindacali. Tra le associazioni di rappresentanza e sostegno possiamo
ricordare:
◊ Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie), nata all’interno del movimento
operaio negli anni ’60.
◊ Missionari di S. Carlo, associazionismo a carattere religioso.
◊ Associazionismo su base territoriale.
L’associazionismo ha accompagnato l’intera storia dell’emigrazione italiana all’estero sia in Europa
che e Oltreoceano. Già alla fine dell’Ottocento in America operavano le associazioni italiane di
mutuo soccorso, le associazioni a carattere politico e culturale e altre ancora come le iniziative a
carattere religioso con una funzione di difesa e protezione degli emigrati.
La catena migratoria ha sostituito i canali istituzionali di reclutamento di manodopera per il lavoro
all’estero. Ad aiutare i lavoratori italiani sono stati soprattutto parenti e amici che li avevano
preceduti nell’emigrazione.

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Tuttavia, ma mano che le generazioni si sono succedute, le associazioni hanno avuto difficoltà ad
adeguarsi alle trasformazioni sociali e culturali degli emigranti, con la conseguenza di un loro
indebolimento e scarso rinnovamento. Attualmente il principale problema per l’associazionismo
storico è la scarsa capacità di attrarre giovani con il risultato dell’invecchiamento degli associati.
Diverso è invece il discorso per le associazioni di rappresentanza e di patronato. Uno degli elementi
di indebolimento di questo tipo di associazioni è dovuto all’emergere, negli ultimi decenni, di nuove
strutture di rappresentanza istituzionali, a partire dai parlamentari eletti all’estero e dalla
rivitalizzazione del Cgie (consiglio generale italiano all’estero).

 I nuovi emigrati, le nuove associazioni e l’associazionismo in rete.


L’associazionismo in rete: lo strumento più efficace è la rete e ad essa ricorrono i nuovi emigranti. I
giovani immigrati nei paesi europei spesso sono in contatto costante e si mobilitano su tematiche
particolari attraverso i processi comunicativi resi possibili dalle reti. Si scambiano così informazioni
utili, svolgendo anche le funzioni una volta svolte dalle associazioni tradizionali e più in generale
dalla catena migratoria. Un aspetto significativo è il crescente ruolo dei social network nel generare
un circuito di informazioni, tra immigrati e potenziali migranti, relative non solo alla scelta
abitativa, al costo della vita, alle procedure per ottenere l’assicurazione sociale, eccetera, ma anche
e soprattutto alle opportunità di lavoro, alle modalità contrattuali, alle paghe e agli orari di lavoro.
Non si deve comunque sottovalutare la capacità di tutela delle associazioni storiche che
mantengono la loro forza. Le associazioni nuove invece non risultano avere un grande peso e a
volte sono effimere in quanto l’aggregazione avviene intorno a una tematica singola.
Granovetter distingue tra:
 Associazionismo tradizionale: legami con un forte senso di appartenenza, di solidarietà e
sostegno reciproco, ma con un grado di apertura più limitato e un più modesto accesso a
conoscenze e nuove relazioni (legami forti).
 Associazionismo nella rete: facile accesso a informazioni e contatti utili, possibilità di
relazioni con una vasta area di soggetti diversi, ma mancano l’aggregazione e la solidarietà
(legami deboli).
È possibile, tuttavia, trovare dei punti di contatto tra le due forme. Infatti l’utilizzo della rete come
elemento di comunicazione e di informazione, anche se non risolve la questione della
rappresentanza e della costruzione di una soggettività sociale, ne costituisce una premessa e una
possibilità.

6) AL NORD E ALL’ESTERO: I GIOVANI MERIDIONALI IN FUGA DALLA CRISI.


 L’emigrazione nel Mezzogiorno.
Nel Mezzogiorno l’immigrazione è di nuovo protagonista, anche se in modo più silenzioso rispetto
a cinquant’anni fa. Allora, come ora, si assiste a trasformazioni demografiche legate
all’emigrazione. Gli studiosi all’epoca notavano delle implicazioni negative dei cambiamenti
demografici, si parlava di senilizzazione, femminilizzazione, spopolamento e marginalizzazione
della popolazione, ma i vantaggi sul piano economico e sociale furono innegabili. La situazione
demografica veniva riequilibrata dagli elevati tassi di natalità, inoltre, il mantenimento forte dei
legami familiari garantiva il ritorno frequente dei migranti.
L’emigrazione dal Mezzogiorno, interna e all’estero, oggi fatica ad entrare nel dibattito nonostante
sia un fenomeno sempre più frequente. In questo contesto il Mezzogiorno torna ad acquistare di
nuovo un ruolo di area fornitrice di manodopera necessaria per lo sviluppo delle altre regioni
italiane ed europee, allo stesso modo in cui lo aveva svolto mezzo secolo addietro all’epoca delle
grandi migrazioni intraeuropee. Ma ciò con diverse ricadute:
 la prima riguarda le condizioni nelle quali avvengono la nuova emigrazione meridionale e
l’inserimento degli emigrati in un mercato del lavoro dominato dalla precarietà
 l’altra si riferisce agli effetti sul Mezzogiorno nel nuovo contesto demografico. All’epoca
delle grandi migrazioni del dopoguerra il Mezzogiorno era considerato un’area

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sovrappopolata dove l’alleggerimento demografico poteva implicare anche dei vantaggi per
l’economia locale. Tutto questo non è più vero, oggi si tratta solo di una perdita della
popolazione e di una modificazione della struttura della sua piramide di età, con una
riduzione delle classi in età del lavoro e un invecchiamento della popolazione.

 Gli effetti dell’emigrazione sulla struttura della popolazione.


Particolarmente sensibile a queste tematiche è stata la Svimez (Associazione per lo sviluppo del
Mezzogiorno), che ha monitorato l’evoluzione delle tendenze demografiche migratorie del
mezzogiorno e ha messo in evidenza la costante perdita annua di popolazione e le implicazioni
negative che ne derivavano. Il rapporto del 2011 lancia l’allarme sull’invecchiamento demografico
(tsunami demografico), in questo modo si riduce anche il possibile sostegno per molti anziani
basato sulla solidarietà familiare intergenerazionale. Le prospettive sono preoccupanti anche a causa
del calo delle nascite (i tassi di fertilità sono ora più alti al Nord).
Si registra inoltre una minore propensione per i meridionali di migrare all’estero, mentre più vasta
è la propensione a emigrare al Nord (questo spiega il modesto contributo delle regioni meridionali
all’emigrazione verso l’estero). Per oltre la metà si tratta di giovani di età compresa tra i 15 e i 34
anni (essi contribuiscono per tre quarti al saldo migratorio complessivo del Mezzogiorno), ma sono
soprattutto i giovani più preparati e laureati che lasciano il sud con conseguenze non solo per la
piramide demografica ma anche per il futuro stesso del Mezzogiorno, trasformata nell’area dove la
quota più anziana della popolazione è impoverita del proprio capitale umano.
L’investimento familiare per dare ai giovani della famiglia opportunità di mobilità sociale consiste
spesso nella formazione presso alcune università del Nord, ma raramente assistiamo ad un ritorno
dato il carattere povero dell’economia locale e le carenze sul piano della domanda di lavoro. La
necessità individuale di migrare ha come risvolto negativo anche un depauperamento delle zone di
provenienza e del perdurare del gap tra le diverse aree del nostro paese.

 La spirale economico-demografica.
I dati del cambiamento demografico si sommano a quelli della crisi economica aggravando la
situazione del Mezzogiorno. A partire dagli anni ‘90 è iniziato il declino dell’economia di questa
parte del paese, inoltre si assiste alla cessazione della politica di intervento straordinario e si riduce
la domanda di lavoro. Anche il flusso di investimenti sia pubblici che privati si mantiene sempre
molto basso. In poche parole il Mezzogiorno non si è mai ripreso dalla deindustrializzazione.
La spirale consiste nel fatto che i giovani partono, così si riduce l’offerta potenziale di lavoro e la
desertificazione demografica, a sua volta, riduce la possibilità di ripresa economica per il
restringersi di un mercato locale anche a causa dell’impoverimento dei possibili sbocchi di
consumo.
Questo processo di inaridimento della realtà produttiva e di marginalizzazione sociale delle aree
interne, soprattutto del Mezzogiorno, è causa e al contempo effetto dell’emigrazione. Gli elementi
di svantaggio sul piano sociale, economico e culturale non solo si sommano ma si rafforzano
reciprocamente, nel presente ma anche in prospettiva. È in questo contesto che va compresa
l’esistenza dei cosiddetti Neet (Not in employment, education or training): persone che si trovano
fuori dal lavoro, dalla scuola e che non frequentano corsi di formazione professionale. La situazione
occupazionale che deriva da questo quadro è caratterizzata da un tasso di disoccupazione del 20%
quasi doppio rispetto alla media nazionale.

 Ieri e oggi.
 Passato: gli immigrati con le rimesse contribuivano al progresso economico delle regioni
meridionali e riducevano il divario tra Nord e Sud. I vantaggi dell’emigrazione di allora:
 lo sviluppo sociale,
 la spinta alla scolarizzazione di massa, alla mobilità sociale,
 il miglioramento dei salari

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 gli immigrati accumulavano risparmi per gli investimenti familiari


 l’alleggerimento della pressione demografica migliorò le condizioni di vita dei
contadini
 le rimesse alzarono il livello del reddito e dei consumi stimolando la domanda dei
beni e sviluppando l’economia.
 Oggi: emigrazione come funzione emancipatrice, costituita da precarietà (anche se lavori
meglio retribuiti), senza grande possibilità di miglioramento, rimesse alla rovescia (flusso di
denaro dalle famiglie verso i giovani).
I figli degli immigrati furono scarsamente coinvolti nelle emigrazioni; quelli che se ne vanno ora
non sono i figli di quegli immigrati, ma spesso i figli dei loro figli.

7) I NUOVI EMIGRANTI NEL CROCEVIA MIGRATORIO ITALIANO.


 L’Italia come crocevia migratorio.
L’Italia ha sempre rappresentato un crocevia migratorio: lo spazio migratorio riguardante l’Italia è
rappresentato soprattutto dal bacino del Mediterraneo, anche se essa ha fatto registrare partenze
sia per i paesi transoceanici che per il sud del mondo che per l’Europa dell’est. Raramente il
carattere di crocevia migratorio è stato così evidente come è ora per la presenza di un numero di
cittadini stranieri soggiornanti in Italia pari a 5 milioni e di cittadini italiani all’estero pari a 4
milioni.
Il flusso di ingresso e quello di uscita tendono ad avvicinarsi. Dunque possiamo dire che l’Italia,
paese storicamente di emigrazione, è stato esclusivamente tale fino agli anni 70 del Novecento
per diventare poi paese prevalentemente di immigrazione. La concentrazione più elevata della
emigrazione e della immigrazione si trova nel centro Nord e nella provincia di Milano. Emigrazione
e immigrazione riflettono le dinamiche del mercato del lavoro, dello sviluppo economico e delle
politiche sociali, infatti la loro diffusione all’interno del paese esprime un processo di
internazionalizzazione e segmentazione del mercato del lavoro.
In un mercato del lavoro caratterizzato da fenomeni di segregazione occupazionale etnica e di
genere è comprensibile come un paese possa al contempo attrarre immigrati e contribuire alla
migrazione verso altre nazioni. Così lavoratori dell’Europa dell’est sono arrivati e arrivano in Italia
per soddisfare una domanda di lavoro concentrata su alcuni segmenti come fare le badanti o i
braccianti. In questo modo c’è una significativa presenza di lavoratori immigrati anche in aree con
elevati tassi di disoccupazione poiché essi soddisfano una domanda di lavoro rispetto alla quale
l’offerta locale è insufficiente.

 I nuovi italiani e l’emigrazione di rimbalzo.


Emigrazione di rimbalzo: l’Italia è un trampolino di lancio per altre mete più ambite. Ad esempio
emigranti arrivati come prima tappa in regioni del Mezzogiorno e poi trasferiti nel Nord o in altri
paesi europei (esperienze vissute sia da italiani che da stranieri). La migrazione di rimbalzo a volte
è un’alternativa a un’emigrazione di ritorno non coronata dal successo e determinata dalla crisi o
dovuta anche a scelte di ricongiungimento familiare.
Nuovi italiani: immigrati che hanno acquisito la cittadinanza italiana, i loro figli nati in Italia o
all’estero, quelli che hanno preso la residenza in Italia e si possono muovere in Europa.

 Mezzogiorno d’Italia e Mezzogiorno d’Europa.


Il dualismo italiano tra Nord e Sud si esprime a livello europeo come dualismo tra paesi dell’Europa
del Nord e paesi dell’Europa mediterranea.
L’Europa mediterranea è sia paese di immigrazione che emigrazione e i paesi che ne fanno parte
hanno delle analogie sociali, economiche e demografiche:
◊ diminuzione delle nascite
◊ flusso migratorio costituito da giovani (anche donne, non a carico) con una presenza
significativa della componente altamente scolarizzata

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◊ drivers non puramente economici, i migranti altamente qualificati si spostano anche per
cercare un lavoro ben retribuito, con un possibile sviluppo di carriera, e una migliore qualità
di vita.
C’è poi anche un terzo polo rappresentato dei paesi dell’Est, i loro migranti sono presenti
nell’Europa del sud e nell’Europa del nord e solitamente lavorano nel settore manifatturiero, nelle
costruzioni, nel trasporto e nel lavoro domestico, ovvero nelle occupazioni meno qualificate. I
cittadini provenienti dai paesi occidentali solitamente invece ricoprono posizioni professionali nei
settori dell’informazione, nella comunicazione, nelle attività assicurativa e finanziaria, nell’ambito
educativo e nei servizi professionali.
La crisi dell’Europa mediterranea è una conseguenza di una politica economica restrittiva imposta
a livello europeo, a partire dagli anni della crisi, che ha creato depressione economica,
disoccupazione giovanile, sovraccarico del sistema di previdenza sociale in un quadro di mancanza
di investimenti capaci di incrementare la produttività. Ovviamente non tutto è attribuibile alle scelte
europee. Possibilità e margini di intervento di politica economica e sociale da parte degli stati ce ne
sono e sono notevoli.

8) EPILOGO. SE BREXIT MEANS BREXIT.


La Brexit avrà conseguenze dirette sulla emigrazione italiana verso la Gran Bretagna, questa non
avverrà più all’interno di uno spazio di libera circolazione e residenza e non si potrà più godere dei
diritti sociali di cittadinanza. La Brexit rappresenta anche la radicale inversione di tendenza rispetto
al processo di integrazione. Ciò non significa che le spinte migratorie e i movimenti
necessariamente si ridurranno, ma la prosecuzione della nuova emigrazione italiana avverrà con
maggiori difficoltà nella scelta delle destinazioni, nelle condizioni di inserimento e nel godimento
dei diritti, infatti il Regno Unito non avrà il ruolo svolto finora per l’emigrazione italiana quale
primo paese di destinazione. La rappresentazione dominante nell’immaginario britannico
dell’immigrato italiano lo vede come cameriere di bar o di ristorante ma in realtà ci sono anche
molti accademici e non mancano giovani alla ricerca di esperienze formative. Ma la condizione più
problematica è quella della componente operaia nei confronti della quale si è espresso il massimo
livello di risentimento da parte della componente più proletaria e popolare dell’elettorato britannico
in occasione del referendum sulla Brexit. Il Regno Unito ha sempre mantenuto una posizione
particolare rispetto all’Unione Europea, sia non condividendo la stessa moneta, sia per la gestione
della politica migratoria rimanendo fuori dallo spazio Schengen (zona di libera circolazione dove i
controlli alle frontiere sono stati aboliti per tutti i viaggiatori, salvo circostanze eccezionali). Le
restrizioni alle libertà dei migranti emerge in maniera clamorosa nel Regno Unito dove il diritto ai
benefici sociali è definito dalla condizione di lavoratore e non dalla cittadinanza sociale. Il che è in
contrasto radicale con il carattere universalistico del sistema di welfare britannico. Alla base di
questa erosione c’è l’assunto che i migranti rappresentino un carico eccessivo per il sistema del
welfare. E proprio sulla base di questo assunto alla vigilia del referendum nel febbraio 2016 fu
firmato un accordo, poi invalidato ovviamente dall’esito del referendum, riguardante condizioni e
limiti per avere l’accesso ai benefici o per esserne esclusi. Ma già nel 2013 erano state introdotte
norme riguardanti l’esclusione dei disoccupati cittadini di stati membri dell’UE dal sussidio.
Ne deriva un quadro di durezza e precarietà delle condizioni di lavoro disponibili e accettate dai
lavoratori immigrati in un contesto di generale aumento delle disuguaglianze e di precarietà
crescente dei lavoratori autoctoni.
Il paradosso è che la Gran Bretagna è sempre stato il paese più aperto agli stranieri, alla mobilità
dei migranti e che più aveva favorito, a partire dagli anni ’90, la libertà di circolazione, espressione
di una società liberale.
Quali che saranno i livelli e i modi di chiusura alla mobilità e alla immigrazione degli italiani e
degli europei in generale che il governo inglese deciderà di applicare, l’effetto sarà pesante sui
protagonisti della nuova emigrazione verso questa destinazione e su quelli che c’erano dapprima.
L’inversione di tendenza non riguarda solo il Regno Unito ma l’intero quadro generale delle

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relazioni intraeuropee e, in particolare, delle migrazioni interne all’Unione. A parte gli effetti
immediati e concreti, l’esito del referendum inglese e la conseguente Brexit hanno un significato
ancora più generale quali indicatori del nuovo clima che si respira in Europa, un clima meno aperto
e meno solidale, con possibili rientri forzati, senza contare che dei 600 mila immigrati italiani molti
si ritroveranno in una condizione irregolare (per studenti: problema costosissimo di pagamento tasse
universitarie e di accesso al welfare britannico, per operai: difficoltà di regolarizzazione e rientri
forzati).

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