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Vittorio Daniele, Paolo Malanima

Il divario Nord-Sud in Italia


1861-2011

Rubbettino
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TEL (0968) 6664201
www.rubbettino.it

Progetto Grafico:
Ettore Festa, HaunagDesign
Indice

Introduzione

1. Diversità e divari dopo l’Unità

2. Il prodotto

3. Il lavoro

4. La produttività
Appendici
Riferimenti bibliografici
Introduzione

Il tema di questo libro è l’economia del Mezzogiorno d’Italia nei 150


anni che vanno dall’Unità al primo decennio del XXI secolo.
Le differenze di sviluppo fra il Nord e il Sud del paese
cominciarono ad attrarre l’attenzione di uomini di cultura, politici,
economisti, storici, geografi, a partire dagli anni Settanta
dell’Ottocento. Da allora il dibattito non si è più arrestato. Il perdurare
di una questione meridionale in Italia deriva proprio dalla persistenza
di uno squilibrio fra due aree territoriali all’interno degli stessi confini
nazionali. Divari di sviluppo esistono anche in altri paesi. In Italia,
tuttavia, il dualismo fra Nord e Sud è particolarmente forte e si è
rivelato finora irriducibile, nonostante gli interventi fatti.
Il punto di vista adottato in questo volume è quello storico ed
economico. Riteniamo che il divario fra Nord e Sud sia un aspetto
della crescita moderna dell’economia del paese e che quindi vada
esaminato all’interno del processo di modernizzazione che l’Italia ha
attraversato nell’ultimo secolo e mezzo della sua storia. Crescita e
divergenza regionale hanno contraddistinto questo processo in Italia
più che in altri paesi. Prima dell’Unità esistevano differenze fra aree
all’interno della nuova nazione, ma non c’era un vero divario
economico fra Sud e Nord. Il divario Est-Ovest e cioè fra le regioni
dell’Adriatico (meno avanzate) e quelle che si affacciavano sul
Tirreno (più sviluppate) era maggiore di quello Sud-Nord. Il reddito
medio al Nord e al Sud era più o meno lo stesso; la distribuzione
della manodopera fra agricoltura, industria e servizi era anch’essa
analoga nelle due parti del paese. Dato che la crescita moderna di
una nazione non può interessare tutte le regioni allo stesso tempo,
anche in Italia, come altrove, cominciarono a manifestarsi differenze
di sviluppo dalla fine dell’Ottocento; da quando, cioè, iniziò la
crescita del paese, che si concentrò in alcuni poli di sviluppo nelle
regioni del Nord-Ovest, più vicine ai paesi europei che si andavano
industrializzando. Accadde allora in Italia quello che accadeva in tutti
i paesi che da agricoli stavano diventando industriali: le differenze
economiche regionali si approfondivano.
L’industrializzazione fu, dunque, la causa immediata delle
ineguaglianze di sviluppo. Anche in Italia, come altrove, l’industria
moderna, concentrata dapprima in alcune aree che godevano di
condizioni favorevoli, si diffuse sempre di più e finì per interessare
nuovi territori e nuove popolazioni; nel Centro-Nord come nel
Mezzogiorno. Questa diffusione si verificò soprattutto nel periodo
1950-75. Anche il Mezzogiorno ebbe allora la sua crescita moderna
e la sua industrializzazione. Se, dunque, l’industrializzazione fu
causa del ritardo di sviluppo del Sud, in un primo tempo, essa fu
anche causa del suo avvicinamento al Nord, in un secondo. Questo
avvicinamento è stato, tuttavia, di breve durata e, tutto sommato,
superficiale. Quando la diffusione dell’industria e la sua crescita si
sono interrotte in tutto il paese, dopo gli anni Settanta del
Novecento, il Mezzogiorno si è allontanato di nuovo dal Nord.
In tutta questa vicenda, le politiche economiche dei governi che si
sono succeduti hanno avuto una loro importanza. Ne parleremo! Più
importanti sono stati, tuttavia, a nostro avviso, i processi impersonali
generati dai cambiamenti nelle tecniche e nei mercati dei beni e dei
fattori di produzione. Come in tutte le vicende di crescita e declino,
più rilevanti delle scelte consapevoli dei governanti e delle opinioni
dei singoli su come risolvere i problemi dell’economia, sono le scelte
meno consapevoli sui beni che si acquistano ogni giorno sul
mercato, sul tipo di lavoro che s’intende svolgere, su come
consumare e investire il proprio reddito.
L’abbondantissima letteratura sui problemi del Mezzogiorno
italiano è costituita in larga prevalenza da dibattiti sul perché in Italia
ci siano un Nord e un Sud, sugli sbagli commessi, e su cosa si
dovrebbe fare per avvicinare le due parti del paese. Tutto questo
esula dai nostri interessi. Più modestamente si è cercato di
raccogliere informazioni, in prevalenza quantitative, su come sono
andate le cose, ricostruendo soprattutto i cambiamenti nella
produzione, nel lavoro e nella produttività. Si è cercato poi, alla fine
del volume, di presentare un’analisi delle ragioni del divario Nord-
Sud. Il nostro obiettivo è stato quello di capire meglio i meccanismi
della disuguaglianza regionale in un esempio nazionale di crescita
moderna: quello che ha interessato l’Italia da fine Ottocento e che si
è concluso fra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.
Nel primo capitolo vengono descritte le differenze fra Nord e Sud
nei decenni immediatamente successivi all’Unità; nel secondo si
esamina il prodotto pro capite per regione e, poi, nel Nord e Sud; nel
terzo si considera il mercato del lavoro per regione e nelle due
grandi aree del paese; nel quarto si combinano i risultati dei due
capitoli precedenti e si discute il tema della produttività. Alcuni dei
materiali raccolti e ordinati, che possono risultare utili ai lettori, sono,
infine, presentati nell’Appendice del volume.

Nel volume, salvo diversa indicazione, i termini Nord e Centro-Nord


sono usati come sinonimi; lo stesso dicasi per Sud, Sud e Isole, e
Mezzogiorno. La divisione fra Nord e Sud è quella convenzionale. Si
rimanda, tuttavia, all'Appendice, p. 184.
Le opere sono citate in forma abbreviata nelle note a piè di pagina.
La citazione completa si trova nella Bibliografia.
1. Diversità e divari dopo l’Unità

Ci sono tanti divari: fra individui, gruppi sociali, paesi; nella


ricchezza, nel reddito, nei caratteri fisici delle persone... In tutti i casi,
parlando di divario s’intende l’allontanamento di individui, gruppi
sociali, territori, da un carattere assunto come riferimento; spesso un
valore medio. All’epoca dell’Unità esistevano tanti divari in Italia. Ce
n’erano nel Nord e ce n’erano nel Sud. Fra villaggio e villaggio, fra
città e città, fra territorio e territorio; fra individui nella lingua, nella
statura, nella ricchezza. Molti di questi divari erano allora assai più
profondi di quanto non siano oggi. La modernizzazione del paese ha
eliminato le diversità locali e appiattito le differenze (almeno quelle
culturali).
È opinione di molti storici, che esistesse un divario profondo
anche nell’economia fra il Nord e il Sud dell’Italia, e che esso
affondasse le sue radici in differenze di sviluppo economico, politico,
culturale anche molto remote. Qualcuno ha ricordato divari esistenti
nell’antichità greco-romana e anche precedenti fra le due parti del
paese. Secondo altri, già dall’epoca tardo-medievale sarebbe
evidente l’esistenza di «due Italie»1. Le differenze di sviluppo si
sarebbero approfondite nei secoli successivi. Molti sono
dell’opinione che, all’epoca dell’Unità, «le differenze fra Nord e Sud»
fossero «già nettamente marcate»2.
È obiettivo di questo capitolo passare in rassegna queste
differenze. Si vedrà che molte diversità esistevano, nel 1861 e nei
decenni immediatamente successivi, nel mosaico di territori che
formavano lo Stato unitario. È discutibile il fatto che ci fosse allora un
vero divario economico fra Nord e Sud; un divario, cioè, nella
capacità produttiva e nel reddito medio degli abitanti delle due parti
del paese. Gli indicatori sociali testimoniano diversità fra Nord e Sud.
Non necessariamente, però, le diversità sociali implicano l’esistenza
di diversità economiche. Si vedrà che un divario economico profondo
si generò, in Italia come in altri paesi, durante lo sviluppo che iniziò
alla fine dell’Ottocento e che oggi viene indicato con l’espressione di
«crescita moderna». Da allora questo divario si è approfondito.

1. L’INSIDIA DELLE CIFRE

1.1. La popolazione
All’epoca del primo censimento unitario, effettuato nel 1861, l’Italia,
con 25,8 milioni di abitanti3, era uno dei paesi più popolosi d’Europa:
al quinto posto nel continente dopo la Russia, la Germania, la
Francia e l’impero austro-ungarico4.Per densità di abitanti, l’Italia era
seconda soltanto al Belgio e ai Paesi Bassi e stava alla pari con
l’Inghilterra e l’Irlanda. Se si eccettua la Campania, che è sempre
stata la regione più densamente popolata del paese, ieri come oggi,
la densità era superiore nel Nord (Fig. 1)5. Al di sotto della media
nazionale, di 85 abitanti per km2, l’unica regione settentrionale era il
Veneto. Tutte le altre erano regioni del Mezzogiorno6. Nel complesso
la densità a In questo, come nei grafici seguenti in questo Capitolo,
la retta verticale indica il valore medio dell’Italia. Il coefficiente di
variazione delle densità regionali è 0,44. Il coefficiente di variazione
è una misura della dispersione dei valori intorno alla media e, quindi,
delle differenze dei singoli casi regionali rispetto alla media italiana (il
cui valore è scritto a fianco della linea verticale). Riporteremo il
coefficiente di variazione in nota ai grafici seguenti su base regionale
e ne discuteremo i valori.
Fonte: Appendice 3.2.
FIGURA 1
Densità della popolazione nelle regioni italiane nel 1861 (abitanti per
km2)

Nord era di 91 abitanti per km2, mentre a Sud era di 77. Una
differenza stimabile fra 10 e 20 abitanti per km2 in più nel Nord
rispetto al Sud era esistita anche in epoche precedenti, almeno da
quando disponiamo di dati relativamente attendibili per stimare la
popolazione italiana, e cioè dal xvi secolo7.
Nelle regioni del Mezzogiorno vivevano, nel 1861, 9,5 milioni di
abitanti. A Nord erano ben 16,3 milioni8. Gli abitanti del Sud erano
allora il 37 per cento della popolazione italiana. Da quella data non ci
sono stati cambiamenti di rilievo nel peso relativo delle due parti del
paese9. Al censimento del 2001 la popolazione del Sud era il 36 per
cento; più o meno come 140 anni prima.

1.2. L’urbanizzazione
Parlando di divari economici nell’Ottocento e prima, un indicatore
fondamentale è sempre stato considerato l’urbanizzazione. Quanti
più sono gli abitanti urbani rispetto al totale, tanto più sviluppati sono
i settori dell’industria e dei servizi e tanto più avanzato è un paese.
Così si pensa. Anche il settore agricolo deve essere più sviluppato in
un’area con elevata urbanizzazione, perché la popolazione
contadina, oltre che se stessa, deve nutrire un numero elevato di
abitanti che non lavorano la terra e vivono nelle città. L’agricoltura
deve, perciò, essere più produttiva. Ragionando in questi termini e
considerando come urbano (nell’Ottocento) un centro di almeno
5.000 abitanti, allora l’area più avanzata di tutto il mondo risulterebbe
la Sicilia, con 66 abitanti urbani su 100 sia nel 1800 che nel 1861.
Proprio così! Per un confronto, si tenga presente che in Inghilterra, il
paese con l’economia più sviluppata, il tasso di urbanizzazione era
allora di meno di 50 abitanti su 100; in Europa nel suo complesso
sfiorava i 2010. L’Europa, in media, era, dunque, tre volte meno
urbanizzata della Sicilia. Ragionando negli stessi termini, il
Mezzogiorno era assai più avanzato del Nord. Nel 1861, per quanto
meno esteso e con meno abitanti del Nord, il Sud aveva il doppio di
centri urbani. Aveva l’unica grande capitale, Napoli, che contava
320.000 abitanti nel 1800 e 420.000 nel 1861; mentre Roma ne
aveva rispettivamente 153 e 188. Il tasso d’urbanizzazione, sempre
calcolato considerando come città i centri con più di 5.000 abitanti,
era del 43 per cento11. Nel Centro-Nord l’urbanizzazione, in calo
rispetto al tardo Medioevo, ristagnava intorno al 17-18 per cento12
(Tab. 1).

TABELLA 1
Numero di città, abitanti urbani, popolazione e urbanizzazione (%)
nel 1800 e 1861 nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno
I dati si riferiscono ai centri abitati con almeno 5.000 abitanti.
Fonte: database in www.paolomalanima.it. Per il 1811 si veda anche
MARTUSCELLI, La popolazione del Mezzogiorno nella statistica di Re
Murat.

Le cifre, come si sa, possono essere insidiose. Lo sono certamente


in questo caso! È quasi sempre vero che, nelle economie del
passato, un’area più urbanizzata è più avanzata e più ricca di
un’area meno urbanizzata. Non è vero nel caso dell’Italia
dell’Ottocento! Sin dall’antichità romana, l’habitat rurale del Sud era
diverso da quello del Nord. La popolazione contadina, dispersa nella
campagna a Nord, era agglomerata a Sud in grossi borghi. In Sicilia
specialmente – dicevano i viaggiatori ancora all’inizio del Novecento
– si poteva camminare giorni e giorni senza vedere anima viva nelle
campagne; finché s’incontrava un grosso borgo di migliaia di
persone, abitato per la maggior parte da contadini13. Nelle città più
popolose della Puglia, come Bari, Barletta, Altamura, con 10-15.000
abitanti ciascuna, a metà Settecento viveva un numero di famiglie
contadine che andava dal 40 all’80 per cento del totale14.Di città si
deve parlare, oppure di grossi borghi rurali che città non sono?
Dipende dal problema che lo storico si pone. Certo, in casi come
questi, un’elevata urbanizzazione non significa un più elevato livello
di sviluppo economico.

1.3. La struttura professionale


La struttura professionale è ancora più importante
dell’urbanizzazione, come indicatore di benessere relativo.
Un’economia più moderna o un’economia che attraversa la fase
della modernizzazione ha una quota più elevata di occupati
nell’industria. Quando esistono censimenti che registrano anche la
professione degli abitanti, come in Italia, si può pensare di avere a
disposizione una base documentaria certa per valutare il livello di
sviluppo dell’economia. Non è così! Guardiamo quale immagine ci
forniscono della distribuzione del lavoro industriale nelle diverse
regioni italiane i primi tre censimenti unitari (Tab. 2). Le percentuali
riportate nella tabella si riferiscono agli occupati per regione nel
settore secondario rispetto alla forza lavoro complessiva. Si tratta del
tasso di attività o tasso di partecipazione.

TABELLA 2
Forza lavoro occupata nel settore secondario in base ai censimenti
del 1861, 1871 e 1881 (% della forza lavoro complessiva)

Fonti: MAIC, Statistica del Regno d’Italia. Popolazione. Censimento


generale al 31 dicembre 1861; MAIC, Statistica del Regno d’Italia.
Popolazione classificata per professioni. Censimento 31 dicembre
1871; VITALI, Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce della
ricostruzione della popolazione attiva (per il 1881).
L’immagine che i censimenti del 1861, 1871 e 1881 ci forniscono
della struttura professionale dell’Italia nel suo complesso è quella di
un paese ancora povero. L’agricoltura è il settore fondamentale e
occupa intorno al 65 per cento della forza lavoro, come in ogni
economia arretrata di tipo tradizionale. Il resto della forza lavoro si
divide fra industria e servizi15.
I dubbi nascono non appena, dall’Italia nel suo insieme, passiamo
a esaminare le percentuali dell’industria per le due grandi aree del
paese e per regione16. Vediamo, intanto, che, seguendo questi dati
alla lettera, l’industria risulterebbe più importante a Sud che a Nord.
La differenza è rilevante: ben 4-8 punti percentuali. Vediamo poi che
nelle varie regioni meridionali l’industria è più importante che in
quelle settentrionali. Se si eccettua, infatti, il caso della Sardegna, le
altre regioni del Sud appaiono più «industrializzate» di quelle del
Nord. In Lombardia e Piemonte, ad esempio, la percentuale degli
occupati nell’industria è assai inferiore (di una decina di punti) a
quella di regioni come la Calabria e la Sicilia.
Dobbiamo credere a queste cifre? Sappiamo che all’epoca una
decisa prevalenza del Nord nell’industria non esisteva ancora17. Non
è, però, eccessivo ritenere che la Calabria fosse più avanzata della
Lombardia, almeno stando ai dati dei censimenti? Il fatto è che le
donne meridionali partecipavano meno di quelle settentrionali alle
attività agricole; forse perché nel Sud i campi erano lontani dai centri
dove le famiglie contadine vivevano18. Dato che di solito svolgevano
qualche attività domestica nel settore industriale, e soprattutto nel
settore tessile, i funzionari del censimento consideravano
sbrigativamente queste donne come occupate nell’industria. E
occupate nell’industria a domicilio erano effettivamente. Nei primi tre
censimenti, in Calabria, fra il 71 e il 78 per cento della forza lavoro
impegnata nell’industria era femminile, mentre in Lombardia la
percentuale era di 40-49 e in Piemonte di 33-3419. L’Italia di fine
Ottocento era un paese relativamente arretrato, con un settore
industriale ancora debole. L’industria a domicilio era ancora la forma
d’industria più diffusa. Sarebbe errato concludere che il Sud fosse
più avanzato del Nord. Sarebbe errato, però, cancellare la presenza
dell’industria a domicilio che i primi censimenti unitari documentano,
e che era forte sia nel Mezzogiorno che a Nord20.
Altri indicatori, che si riferiscono alle condizioni sociali21,
suggeriscono una visione differente da quella offerta dai tassi di
urbanizzazione e dai censimenti.

2. GLI INDICATORI SOCIALI

2.1. La statura
Da tempo gli storici utilizzano i dati sulla statura delle popolazioni del
passato per cogliere differenze di sviluppo economico e in
particolare nel livello dei consumi alimentari. Si sa, infatti, che il
nutrimento nei primi anni di vita influenza decisamente la statura
degli individui22. Anche la struttura genetica di una popolazione23 o il
tipo di dieta hanno, però, la loro influenza sulla statura, a quanto
scrivono gli specialisti di antropometria storica, e non solo, dunque,
la disponibilità di prodotti.

FIGURA 2
Statura delle reclute per regione nel 1879-83
Il grafico si riferisce alle stature delle reclute negli anni 1879-83 e
quindi ai nati approssimativamente negli anni 1859-63. Il coefficiente
di variazione è, in questo caso, molto basso, uguale a 0,01. La figura
può ingannare! Come si vede, infatti, le differenze regionali nella
statura divergono di pochi centimetri e, quindi, la dispersione intorno
alla media è molto bassa.
Fonte: SVIMEZ, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861-
1961, p. 70.

Gli Italiani nati intorno alla metà dell’Ottocento non erano più bassi
dei loro contemporanei spagnoli o portoghesi. Erano più bassi delle
popolazioni dell’Europa centro-settentrionale24. La statura delle
reclute del 1871, nate, quindi, intorno al 1851, era in Italia di 162,4
cm. Le reclute del 1879-83, nate nel 1859-63, erano un po’ più alte:
165,2 cm25. Le regioni meridionali si trovavano tutte al di sotto della
media italiana, con la Sardegna (che, tuttavia, presenta differenze
genetiche rispetto al resto del paese) all’ultimo posto. Il Veneto era al
primo posto, con le reclute più alte, sia nel 1871 che negli anni
successivi. Non pare, tuttavia, che il Veneto si trovasse, dal punto di
vista nutrizionale, in una posizione privilegiata rispetto ad altre
regioni del nuovo stato26 (Fig. 2). La polenta era il nutrimento di base
di gran parte della popolazione. La pellagra, che deriva proprio da
un’alimentazione povera di vitamine del gruppo B, basata sul mais,
ne era la conseguenza. Il rapporto sulla pellagra, pubblicato nel
1880, rivelava la diffusione della malattia nelle campagne dell’Italia
centro-settentrionale. Dei 100.000 contadini affetti dalla malattia, la
maggior parte viveva in Lombardia, Veneto, Emilia27. Il mal della
rosa, come anche veniva chiamata la pellagra, era assente nel
Mezzogiorno dove, per ragioni climatiche (la scarsa umidità nel
periodo estivo), il mais era poco diffuso. Era, però, presente la
malaria, che funestava, in particolare, le coste centro-
meridionali28.Nel 1881 la mortalità per malaria, in tutto il paese, era
di 50 persone all’anno su 100.000. La maggior parte abitava nel
Mezzogiorno29.
In Italia, dal 1861 la statura media è aumentata sensibilmente. Le
ricostruzioni di Brian A’Hearn e Giovanni Vecchi, mostrano come
l’incremento, misurato per gli iscritti alla leva degli anni 1861 e 1980,
sia stato di 11,6 cm30. Il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno nella
statura (che nel 1861 era di 3,2 cm) è rimasto più o meno invariato,
diminuendo di appena 4 millimetri. Sebbene l’aumento nel tempo
della statura media sia indubbiamente connesso ai progressi nel
benessere, le differenze nella statura possono, tout court, essere
assunte come indicatori delle differenze nei livelli di sviluppo
economico? È necessaria cautela! Il caso del Friuli Venezia Giulia
può essere esemplificativo. In Friuli, l’altezza media era (ed è)
significativamente superiore a quella delle altre regioni. Nel 1861, la
statura media dei militari del Friuli sopravanzava quella della più
sviluppata Lombardia di 2,4 cm. Nel 1980, la differenza era
aumentata lievemente, passando a 2,8 cm. Tra le due regioni non
esiste alcun divario economico.

2.2. Mortalità infantile e speranza di vita


La mortalità infantile viene di solito assunta come un importante
indicatore di divari economici. Più alta è la mortalità nel primo anno
di vita, più arretrato è un paese. Nella seconda metà dell’Ottocento
esisteva una forte differenza fra la situazione italiana e quella di altre
nazioni dell’Europa centro-settentrionale31. Una mortalità nel primo
anno di età superiore al 200 per mille dei nati vivi, come quella
italiana, era assai elevata. Gli scarti fra le regioni non erano molto
ampi (Fig. 3). La più alta mortalità infantile si trovava allora non in
una regione del Sud, ma in Emilia Romagna, con 231 per mille,
mentre la più bassa era quella di una regione meridionale, la
Sardegna, con 168. Tutte le altre regioni meridionali si situavano al
di sopra della media nazionale, di 204,7. Sopra alla media nazionale
si trovavano, tuttavia, anche le Marche, l’Umbria, la Lombardia, il
Veneto.
Se si considera la mortalità nel primo mese di vita, scopriamo che
essa era assai più alta nelle regioni del Nord che in quelle del Sud e
delle Isole. Non di poco! Nel primo decennio unitario, nel primo mese
di vita morivano nel Centro-Nord 120 neonati su mille; nel Sud e
Isole erano 71 (il 40 per cento in meno), con la Sardegna al 58,5, il
valore più basso in tutta Italia. Il clima doveva giocare un ruolo non
secondario in questo vantaggio del Mezzogiorno. Molti neonati erano
vittime di malattie favorite dal freddo invernale, più rigido a Nord che
a Sud. Forse anche la minore partecipazione delle donne meridionali
in lavori fuori casa, quelli agricoli32, contribuiva. Fatto sta che le cose
cambiavano dopo il primo mese. La mortalità fra 1 mese a 1 anno
era, infatti, del 112,2 per mille a Nord e del 141,1 a Sud33.

FIGURA 3
La mortalità nel primo anno di vita per regione negli anni 1874-75
(per mille)
Il coefficiente di variazione è, in questo caso, assai basso: 0,08.
Fonti: FELICE, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori
sociali (1871-2001). Si vedano anche le serie dal 1861 al 2011 in
ATELLA, FRANCISCI, VECCHI, Salute, pp. 73-130 e p. 422, Tab. 7. Dal
1863 al 2007 serie della mortalità anche in SVIMEZ, 150 anni di
statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, pp. 96-8.
Un’elevata mortalità infantile è quasi sempre, ma non sempre,
associata con una bassa speranza di vita, o aspettativa di vita alla
nascita (il numero di anni che, in media, l’individuo vivrà). In Italia la
speranza di vita nel 2009 era di più di 80 anni; fra le più elevate al
mondo. Nel 1871 era di soli 33 anni (Fig. 4). Il livello italiano era
ancora quello tipico delle società tradizionali prima dell’Ottocento.
Nel caso dell’Italia la correlazione inversa fra elevata mortalità
infantile e speranza di vita negli anni ’70 dell’Ottocento è bassa. La
Sicilia, con elevata mortalità infantile, presenta una speranza di vita
piuttosto alta, mentre il Lazio, con mortalità infantile inferiore alla
media, era all’ultimo posto, in Italia, per la speranza di vita, con soli
29 anni.

FIGURA 4
Speranza di vita alla nascita per regione nel 1871
Il coefficiente di variazione è di 0,08.
Fonti: FELICE, I divari regionali in Italia base degli indicatori sociali
(1871-2001). Si vedano anche le serie dal 1861 al 2011 in ATELLA,
FRANCISCI, VECCHI, Salute, pp. 73-130 e p. 420, Tab. 5. Si vedano
anche i dati per regione dal 1901 al 2010 in SVIMEZ, 150 anni di
statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, pp. 93-5.

2.3. L’analfabetismo
Un indicatore assai importante del grado di sviluppo di un paese è
costituito dall’alfabetismo. Anche sotto questo profilo, l’Italia nel suo
insieme si trovava, nei primi decenni dopo l’Unità, in una posizione
arretrata rispetto ad altri paesi europei. Nel 1871, circa il 70 per
cento della popolazione italiana poteva venire definita come
analfabeta. Nell’impero austriaco gli analfabeti erano allora meno del
30 per cento, in Prussia il 12, in Belgio e Francia si superava di poco
il 30. Peggio dell’Italia, quanto a istruzione, si trovavano il Portogallo,
la Spagna, buona parte dell’Europa orientale e l’impero russo, in cui
l’analfabetismo superava l’80 per cento (e, in alcune sue regioni,
anche il 90)34.Nel 1861, alla data del primo censimento (in cui si
rilevò anche il grado d’alfabetizzazione)35, nel complesso dell’Italia,
un elevato livello di alfabetizzazione caratterizzava le province al
confine con le frontiere franco-svizzere. Da quest’area avanzata,
l’analfabetismo cresceva procedendo verso Sud. Nel Centro le città
erano relativamente alfabetizzate, ma non le campagne. Nel Regno
di Napoli36, eccezion fatta per poche città come L’Aquila, Sulmona,
Teramo e, in misura minore, Chieti, l’analfabetismo imperava. Delle
25 province del Mezzogiorno, 22 avevano un tasso
d’alfabetizzazione inferiore al 10 per cento. L’analfabetismo
dominava nelle due isole maggiori e superava i livelli del Meridione
della penisola.

FIGURA 5
Tasso di analfabetismo per regione nel 1871 (%)

In questo caso il coefficiente di variazione è più alto: di 0,21.


Fonti: CIPOLLA, Istruzione e sviluppo, p. 79. Si vedano le serie in
A’HEARN, AURIA, VECCHI, Istruzione, pp. 159-208 e Tab. 10, p. 425. Si
vedano anche le serie in SVIMEZ, 150 anni di statistiche italiane:
Nord e Sud 1861-2011, pp. 775 ss.
Nel secondo censimento, quello del 1871, in media gli analfabeti
erano l’84 per cento degli abitanti del Sud e Isole e il 59 per cento di
quelli del Centro-Nord (Fig. 5). Una differenza di 25 abitanti su 100
fra le due parti del paese era ragguardevole. Quasi tutte le regioni
del Centro si trovavano al di sopra della media nazionale, quanto ad
analfabetismo; come quelle meridionali. La Basilicata, la Calabria, la
Sardegna, la Sicilia e gli Abruzzi superavano l’80 per cento e, in
qualche caso, si avvicinavano al 90. Il divario Nord-Sud
nell’istruzione era forte.
Nel 1911 la situazione era alquanto migliorata in tutto il paese.
Rimaneva forte lo svantaggio del Mezzogiorno nell’istruzione:
«ancora il 60 per cento circa della popolazione meridionale era
analfabeta, a fronte del 30-40 per cento del Centro-Nord-Est e del 13
per cento circa del triangolo industriale»37.
I primi censimenti unitari definivano come analfabeti coloro che
«non sanno leggere»38, anche se capaci di tracciare
approssimativamente la loro firma. In realtà, tuttavia, era la capacità
di fare la propria firma che sbrigativamente veniva assunta come
regola per distinguere gli alfabeti dagli analfabeti. Essere in grado di
disegnare il proprio nome è, tuttavia, un criterio molto labile per
distinguere il grado d’istruzione di un individuo. Ha scritto Carlo M.
Cipolla che «tra l’analfabeta e l’alfabeta, c’è la schiera grigia e
numerosa dei semi-analfabeti»39 e che «il confine tra alfabetismo ed
analfabetismo è decisamente vago». «Ogni valutazione quantitativa
del fenomeno semi-analfabetismo può essere solo arbitraria»40.
L’Italia nel suo complesso si trovava, all’epoca dell’Unità, in questa
zona grigia, anche se il grigio dell’analfabetismo era più scuro al
Sud, un po’ meno al Centro e meno ancora al Nord.
L’istruzione è un buon indicatore dello sviluppo? Se guardiamo le
cose dal punto di vista internazionale si può dire decisamente di sì.
Esiste, infatti, un’elevata correlazione tra livello di sviluppo nazionale
e indicatori del grado medio d’istruzione. Tuttavia, non sempre gli
indicatori sociali sono in grado di rappresentare fedelmente quelli
economici. Per esempio, nell’Ottocento, nei paesi nordici (Norvegia,
Finlandia...), il grado di analfabetismo era basso rispetto ad altre
nazioni, anche se si trattava di paesi con economie ancora arretrate.
3. GLI INDICATORI ECONOMICI

3.1. I salari
Gli indicatori relativi al reddito pro capite, all’aspettativa di vita e
all’istruzione vengono spesso combinati a formare quello che viene
definito come Indice di sviluppo umano41. Di indici di sviluppo umano
ne esistono decine, costruiti con criteri diversi. Di solito la
graduatoria dei paesi del mondo sulla base dell’indice di sviluppo
umano non è molto diversa da quella sulla base del prodotto pro
capite42. Nel caso delle regioni d’Italia all’indomani dell’Unità gli
indicatori sociali e gli indicatori economici presentano numerose
differenze. Sono queste differenze che vogliamo ora esaminare.
Per le economie del passato, i redditi che conosciamo meglio
sono i salari. Purtroppo, però, una ricerca approfondita sui salari in
Italia per regione all’epoca dell’Unità manca ancora del tutto.
Sarebbe importante per individuare le differenze esistenti fra regioni.
Quello che al momento sappiamo non ci permette se non di cogliere
ordini di grandezza molto grossolani.
Per il periodo precedente l’Unità è più agevole documentare la
tendenza dei salari nelle due parti del paese che le differenze di
livello (Figg. 6 e 7)43. Nel Settecento i salari diminuirono in
agricoltura e nell’industria, sia nel Nord che nel Sud, confermando
una tendenza verso il basso che fu comune a tutta Europa (o quasi,
in quanto l’Inghilterra costituisce una parziale eccezione). Mentre,
però, nella media europea, i salari aumentarono a partire dal terzo
decennio dell’Ottocento, in Italia essi rimasero stazionari su livelli
bassi fino ai due primi decenni dopo la formazione dello stato
unitario, sia a Nord che a Sud. Nel complesso, fra l’inizio del
Settecento e l’Unità, i salari reali si ridussero della metà. In realtà è
possibile che i salari a giornata si siano ridotti, ma che le famiglie
abbiano contenuto la caduta del reddito familiare con un aumento
dell’impegno lavorativo. Le donne soprattutto dovevano lavorare di
più nel 1861 che nell’anno 1700. Di solito, nelle economie arretrate,
quando il reddito dei lavoratori maschi si riduce, anche le donne
entrano nel mercato del lavoro. Probabilmente aumentò anche il
lavoro minorile. Si verificò anche in Italia una «rivoluzione
industriosa»44, motivata dal bisogno di mantenere i livelli di vita,
mentre il salario reale a giornata, per l’aumento dei prezzi, perdeva
potere d’acquisto.

FIGURA 6
Salari reali nell’industria a Nord e a Sud 1700-1861 (1700=1)

Fonte: MALANIMA, An Age of Decline. Product and Income in


Eighteenth-Nineteenth Century Italy.

FIGURA 7
Salari reali nell’agricoltura a Nord e a Sud 1700-1861 (1700=1)
Fonte: MALANIMA, An Age of Decline. Product and Income in
Eighteenth-Nineteenth Century Italy.
Come si vede nei grafici, mentre sono diversi gli andamenti annui,
condizionati dalle vicende locali dell’agricoltura e dei prezzi, i trend
sono più o meno gli stessi. All’Unità, i salari reali di muratori o di
braccianti non rivelano l’esistenza di grandi differenze fra Nord e
Sud. Un maestro muratore guadagnava a Milano 2 lire al giorno nel
1861. A Napoli riceveva 40 grana. In entrambi i casi il salario
giornaliero corrispondeva a circa 9 grammi d’argento. Sappiamo che
i salari nell’industria e nell’agricoltura cominciarono ad aumentare
dai primi anni Ottanta dell’Ottocento, contemporaneamente all’avvio
della crescita moderna dell’economia (Fig. 8). Tuttavia, agli inizi del
Novecento, i salari in Italia erano ancora bassi, se confrontati con
quelli di altri paesi dell’Europa settentrionale sulla via
dell’industrializzazione. Nel 1905, i salari nell’industria erano il 40 per
cento di quelli della Gran Bretagna, e poco più della metà di quelli di
Belgio, Francia e Germania. Erano il 30-35 per cento di quelli degli
Stati Uniti. La situazione era di poco migliorata nel 191345.

FIGURA 8
Salario reale per ora di lavoro in Italia 1861-1913 (lire del 1861)

L’indice è composto da salari di muratori e di lavoratori agricoli. Si è


supposto un lavoro giornaliero pari a 10 ore. I salari sono stati
ponderati sulla base del peso relativo dei lavoratori nell’industria e
nell’agricoltura nel periodo considerato (utilizzando i dati relativi alla
forza lavoro riportati nell’Appendice 4). Si veda, per un confronto, la
Fig. 9 nel Capitolo 3, dove gli stessi salari agricoli e industriali sono
presentati separatamente, a giornata e in lire del 1911.
Fonte: FENOALTEA, Production and Consumption in post-Unification
Italy:New Evidence, New Conjectures.

I dati disponibili per l’industria in alcune regioni d’Italia intorno al


1911 rivelano differenze regionali, ma non consentono di avere un
quadro soddisfacente dei divari fra Nord e Sud. Esistono differenze
fra regioni sia nel Nord che nel Sud. I salari nel Mezzogiorno, però,
non sono più bassi di quelli del Nord46. Quelli di lavoratori maschi in
agricoltura nel 1910 sono di 0,22 lire all’ora nel Nord, 0,20 nel Centro
e 0,23 nel Sud. Quelli delle femmine, sempre in agricoltura, sono
rispettivamente di 0,13, 0,11 e 0,1047.In sostanza non ci sono
differenze rilevanti, per quanto, passato ormai mezzo secolo
dall’unificazione, i divari economici fra regioni, come si vedrà, si
andassero formando o ampliando.

3.2. La produzione agricola


Grazie alle ricerche di Giovanni Federico, sappiamo oggi che il trend
del prodotto agricolo, più o meno stazionario nei primi due decenni
dopo l’Unità, cominciò ad aumentare dal decennio 1880-90, quando
iniziò la crescita moderna (Fig. 9)48.
Quanto all’andamento nelle due parti del paese, è stata tradizione
sottolineare l’inferiorità del Mezzogiorno in termini di fertilità della
terra e dotazione di risorse naturali. «Ora, se l’Italia non è un paese
naturalmente ricco, – scriveva Nitti nel 1901 – l’Italia meridionale è la
parte più povera di tutta Italia»49. Gli svantaggi geografici del Sud
cominciarono a essere rilevati sin dalle origini della Questione
Meridionale, negli anni Settanta dell’Ottocento50. Giustino Fortunato
scrisse che «naturalmente povero è il Mezzogiorno, che ragioni
fisiche distinguono a prima vista e rendono inferiore al resto della
penisola»51. L’agronomo emiliano Giuseppe Cuboni affermò, a sua
volta, nel 1909, che, dall’inizio settentrionale dell’Appennino, cioè a
Sud della Pianura Padana, finisce l’Europa e comincia l’Africa52.
Queste le sue parole: «Al di qua e al di là dell’Appennino vi è un
contrasto climaterico dei più forti che s’incontrano al mondo. Da una
parte è l’Europa che finisce, dall’altra è l’Africa che comincia». La
Padana sarebbe in Europa, secondo questa sommaria, ma efficace
distinzione, mentre il Centro e il Sud dell’Italia sarebbero in Africa53.
A suo giudizio, il limite centrale dell’agricoltura meridionale era
costituito dall’«arresto della vegetazione durante i mesi d’estate».

FIGURA 9
La produzione agricola pro capite in Italia dal 1861 al 1913 (lire
1911)
Fonti: FEDERICO, Le nuove stime della produzione agricola italiana, e
FEDERICO, L’agricoltura italiana: successo o fallimento?, p. 113, che
riporta un analogo grafico, ai confini dell’epoca, mentre questo nella
Figura 9 è ai confini attuali.
Temperature, precipitazioni, natura dei terreni sono
profondamente diversi a Nord dell’Appennino – e cioè in Europa – e
a Sud – e cioè in Africa –. Anche i rendimenti della terra sono
diversi. Quelli del grano, ad esempio, erano, fra il 1815 e il 1880, di
5-9 quintali per ettaro nel Nord, di 4-8 nel Centro e di 3-7 nel Sud54.
Le differenze nelle rese dei cereali forniscono, però, una
testimonianza imperfetta sul grado di produttività di un’agricoltura. Le
differenze fra Nord e Sud diventano assai minori se, oltre ai cereali,
teniamo conto anche degli altri prodotti della terra. Olivi, viti, piante
d’agrumi, gelsi, erano, infatti, assai diffusi nel Mezzogiorno. Dal
prodotto di queste piante dipendeva la ricchezza di regioni come la
Puglia, la Campania e la Sicilia55.
Tuttavia è dal valore della produzione agricola pro capite che
dipendono gli effettivi consumi della popolazione. E se dividiamo la
produzione aggregata, così come di recente è stata ricostruita, per la
popolazione, allora le cose cambiano rispetto a quanto siamo soliti
pensare. Guardiamo la Figura 10! Vediamo in questo diagramma
l’effetto che ha sul prodotto agricolo regionale quella differenza di 14
abitanti per km2 di cui si è parlato all’inizio di questo capitolo.
In lire del 1911, nel 1891 il prodotto agricolo pro capite nel Nord è
di 201 lire, mentre nel Sud è di 23456. Se poi guardiamo alle diverse
regioni, scopriamo che la Lombardia, dotata di tanti terreni fertili, ma
anche densamente popolata, si trova in penultima posizione quanto
a prodotto agricolo per abitante, mentre la Puglia, insieme
all’Umbria, si trova in prima posizione e la Sardegna in seconda.
Tutte le regioni del Mezzogiorno, eccetto la Campania (fertilissima,
ma popolatissima), si trovano al di sopra della media nazionale,
insieme a quelle del Centro, mentre quelle del Nord si trovano al di
sotto.

FIGURA 10
Il prodotto agricolo pro capite in Italia per regione nel 1891 (lire 1911)

Il coefficiente di variazione è di 0,29.


Fonti: FEDERICO, L’agricoltura italiana: successo o fallimento? Le
stime di Federico, secondo le regioni italiane nei confini dell’epoca,
sono state divise per la popolazione per regione nei confini
dell’epoca di SVIMEZ, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud
l86l-196l, p. 13. Dato che nel 1891 non fu tenuto il censimento, la
popolazione regionale del 1891 è stata ricostruita per interpolazione
in base ai dati dei due censimenti più vicini: quelli del 1881 e del
1901.
I dati sulla produttività del lavoro agricolo, che si ottengono
dividendo il prodotto totale per il numero dei lavoratori agricoli,
confermano più o meno questa gerarchia fra regioni (Fig. 11).
Ancora nel 1911 la produttività del lavoro agricolo è, nella media
italiana, di 780 lire. Nel Nord è di 758 e nel Sud di 821. Le stime
elaborate indipendentemente da Zamagni, Esposto e Federico
concordano57. Solo più tardi, e cioè fra la Prima e la Seconda guerra
mondiale, il prodotto per addetto in agricoltura nel Nord superò
quello del Mezzogiorno. In un’economia di tipo tradizionale la
disponibilità di risorse per addetto conta molto.

FIGURA 11
La produttività del lavoro in agricoltura nel 1911 (lire 1911)

Il coefficiente di variazione è di 0,30.


Fonte: FEDERICO, Ma l’agricoltura meridionale era davvero
arretrata?, p. 321.
Il fatto è che la dotazione di terreni coltivabili per lavoratore era quasi
sempre inferiore a 1 ettaro nelle popolose regioni del Nord. Era
intorno a 1-2 ettari in quelle del Centro e di più di 2 ettari nel
Mezzogiorno (di nuovo con l’eccezione della popolatissima
Campania), fino ad arrivare a più di 5 ettari in Sardegna. Se
dividiamo la popolazione del Nord per la superficie agraria e
forestale (169.000 km2), otteniamo 96 abitanti per km2 nel 186158. Il
risultato per il Mezzogiorno, in cui la superficie agraria e forestale è
di 118.000 km2, è di soli 80 abitanti per km2 (Tab. 3). Se poi si fa il
rapporto fra popolazione e seminativi, il Mezzogiorno conta 41
abitanti in meno per km2. Ecco una differenza importante nel
confronto fra Nord e Sud!

TABELLA 3
Superficie agraria e forestale, seminativi, popolazione e abitanti per
km2 di superficie agraria e forestale e per seminativi nel 1861

Fonte: SVIMEZ, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861-


1961.

3.3. La produzione industriale e i servizi


Si è già visto prima che le cifre dei primi censimenti unitari relative
alla struttura professionale sono insidiose e fuorvianti. Le pazienti
ricerche di Stefano Fenoaltea sull’industria italiana dall’Unità alla
Grande Guerra consentono ora di far luce sulla struttura
dell’industria per regione e sui divari. All’epoca dell’Unità, l’industria,
per lo più organizzata nella forma a domicilio, produceva meno del
20 per cento del prodotto interno lordo. Luciano Cafagna scrisse
che, alla vigilia dell’Unità, esistevano in Italia «meno di un migliaio di
piccole fabbriche (fra seta, cotone, lino e lana)»59. Queste piccole
fabbriche si trovavano, per la maggior parte nel Nord. Un progresso
rilevante del settore secondario si registrò, tuttavia, solo dagli anni
’80 dell’Ottocento. Sempre Luciano Cafagna ha ricordato spesso che
la produzione di seta all’epoca dell’Unità era «per oltre ¾ localizzata
nella Italia settentrionale» e che essa «formava un business di
grandi dimensioni»60, capace di generare profitti e stimolare
investimenti considerevoli. Allora la seta rappresentava un 5 per
cento del Pil dell’Italia centro-settentrionale. La localizzazione della
manifattura serica nel Nord costituiva senza dubbio un vantaggio per
Piemonte, Lombardia, Veneto. Le ricerche di Francesco Battistini
hanno mostrato come, nel valore totale del prodotto del setificio
italiano nel 1870, ben il 95 per cento fosse realizzato nel Centro-
Nord61
Il numero di imprese costituite sotto forma di Società era modesto
se confrontato con quello di altre nazioni. Nel 1864, in tutto il Regno
esistevano 281 Società anonime e 96 in accomandita, fra nazionali
ed estere. Le «province meridionali», come riporta un annuario
statistico dell’epoca, ne avevano 52, a fronte delle 73 della Toscana,
delle 56 della Lombardia e alle 39 dell’Emilia. Le Società delle
province napoletane erano quelle con maggiore capitale impiegato:
ben 225 milioni a fronte dei 59 della Lombardia62.
La curva del prodotto industriale pro capite, nella ricostruzione di
Fenoaltea, piatta fino al 1880, comincia a crescere da quell’epoca
(Fig. 12). Si ha un arresto della crescita nella prima metà degli anni
’90, seguito da un andamento verso l’alto fino alla Grande Guerra. A
quest’epoca il prodotto dell’industria è il 23-24 per cento del prodotto
totale.

FIGURA 12
La produzione industriale pro capite in Italia dal 1861 al 1913 (lire
1911)

Fonti: FENOALTEA, Lo sviluppo dell’industria dall’Unità alla Grande


Guerra: una sintesi provvisoria; FENOALTEA, La formazione dell’Italia
industriale: consensi, dissensi, ipotesi; FENOALTEA, I due fallimenti
della storia economica: il periodo post-unitario.

Quanto al quadro regionale, le ricerche di Fenoaltea hanno rivelato


che la posizione di vantaggio del Nord si profila e si consolida solo
dalla fine dell’Ottocento e non prima. Nel 1871 c’è un modesto
vantaggio del Nord: il prodotto pro capite industriale è di 63 lire (del
1911) nel Nord e di 57 nel Sud. In posizione di vantaggio si trovano
la Lombardia, il Piemonte e la Liguria. In compagnia, però, della
Campania e della Sicilia. Quasi tutto il Centro e il Sud si collocano,
comunque, al di sotto della media nazionale, anche se lo
scostamento dal valore medio è modesto davvero (Fig. 13).
All’epoca dell’Unità, i servizi, quanto a valore complessivo
prodotto, erano più importanti dell’industria, e rappresentavano poco
meno del 30 per cento del prodotto aggregato63.Metà di quanto
veniva prodotto in Italia proveniva dal settore primario; l’altra metà,
insieme, dai settori secondario e terziario.
Anche nel caso dei servizi, i primi tre censimenti unitari
suggeriscono un’immagine probabilmente fuorviante (anche se con
certezza è impossibile dire). Stando ad essi, in tutta Italia la
popolazione attiva nel terziario sarebbe il 16-17 per cento del totale.
Il Nord avrebbe un vantaggio nel 1861 rispetto al Sud (18 a 15 per
cento); il Sud avrebbe un vantaggio nel 1871; nel 1881 vi sarebbe
parità.

FIGURA 13
Il prodotto industriale pro capite in Italia per regione nel 1871 (lire
1911)

Il coefficiente di variazione è di 0,21.


Fonte: FENOALTEA, Lo sviluppo dell’industria dall’Unità alla Grande
Guerra.

I dati elaborati da Emanuele Felice per il 1891 suggeriscono un


divario ragguardevole fra Nord e Sud, di circa il 40 per cento (Fig.
14). Il Lazio, data la presenza della capitale, in cui i servizi hanno un
peso rilevante, contribuisce molto a questo divario. Il divario, infatti,
si riduce al 25 per cento se si esclude il Lazio.

FIGURA 14
Il prodotto del settore terziario pro capite in Italia per regione nel
1891 - (lire 1911)

Il coefficiente di variazione è di 0,53.


Fonte: FELICE, Il valore aggiunto regionale. Una stima per il 1891 e
per il 1911 e alcune elaborazioni di lungo periodo (1891-1971).

I servizi ferroviari avvantaggiavano certamente il Nord nei confronti


del Mezzogiorno. Nel 1870, le linee ferroviarie del Regno Unito si
estendevano per 25 mila chilometri, quelle della Germania per 20
mila e quelle della Francia per 26 mila chilometri64. Nel 1861, l’Italia
poteva contare su appena 2.520 chilometri di ferrovie: il 10 per cento
di quelle britanniche. Le differenze regionali nella dotazione
infrastrutturale erano notevoli. Alla vigilia dell’Unità, nel 1859, la rete
ferroviaria piemontese si estendeva per 819 chilometri, quella del
Lombardo-Veneto per 522, quella della Toscana per 101, quella dello
Stato Pontificio per 257 e quella del Regno delle Due Sicilie per
appena 99 chilometri65. Analoga la situazione per le strade. Nel
1863, i chilometri di strada per mille abitanti erano 4,7 in Piemonte,
6,5 in Lombardia e appena 1,7 nel Mezzogiorno continentale66.

3.4. Differenze sociali e divari economici


Un tempo, nell’Antichità e nel basso Medioevo, l’Italia era stata ricca,
sia in termini assoluti che in paragone con le altre economie
mediterranee ed europee. All’epoca dell’Unità, l’Italia era povera; sia
in termini assoluti che comparativi67. Il reddito medio di un abitante
era circa il doppio della linea della povertà. In euro del 2010 il reddito
annuo degli Italiani era intorno a 2.000 per persona. Le prime
inchieste sociali, e in particolare quella presieduta da Stefano Jacini
e preparata fra il 1881 e il 1886, rivelano le condizioni difficili di gran
parte della popolazione.
Quando il reddito medio della popolazione è così basso non c’è
molto spazio per divari fra aree. Se una regione si trovasse molto al
di sopra di un’altra, questa seconda regione potrebbe venire spinta
al di sotto del reddito di sussistenza; che è il minimo necessario per
mantenersi in vita. Nel mondo ricco del xxi secolo ci sono paesi
avanzati che hanno un prodotto pro capite 50-60 volte superiore a
quello dei paesi poveri. Nelle economie agrarie tradizionali,
differenze così forti non erano possibili; e l’economia italiana intorno
all’epoca dell’Unità era un’economia tradizionale e povera. Un 80-90
per cento della popolazione condivideva l’uguaglianza nella povertà.
Il prodotto pro capite dell’Italia nel 1870 era inferiore a quello di
tutti i paesi dell’Europa occidentale e molto vicino a quello di
economie come la Spagna e il Portogallo a Sud e la Scandinavia a
Nord. In questi paesi non aveva ancora preso avvio la crescita
moderna (Tab. 4).

TABELLA 4
Prodotto pro capite in Italia e nei paesi dell’Europa occidentale nel
1870

Paesi Pil pro capite


Regno Unito 3.190
Paesi Bassi 2.757
Belgio 2.692
Svizzera 2.102
Danimarca 2.003
Francia 1.876
Austria 1.863
Germania 1.839
Svezia 1.662
Italia 1.635
Norvegia 1.360
Finlandia 1.140

La moneta in cui la serie è presentata è quella che compare nel


volume di A. Maddison citato nelle Fonti e che consente di effettuare
confronti fra paesi diversi. Si tratta dei dollari internazionali del 1990
a parità di potere d’acquisto (PPA).
Fonti: MADDISON, The World Economy: Historical Statistics. Il dato
relativo all’Italia è quello in MALANIMA, The Long Decline of a Leading
Economy, App. 3.

In un bel saggio sul Nord e Sud in Italia, pubblicato nel 1994, ha


scritto Luciano Cafagna: «va nettamente messa da parte l’idea che
la sperequazione fra le due parti del paese abbia un’origine post-
unitaria e sia in qualche modo effetto di una politica perseguita dai
governi»68. Mentre è condivisibile la seconda parte di questa
affermazione69, quanto ricordato nelle pagine precedenti suggerisce
qualche dubbio sulla prima parte. Ha aggiunto Cafagna: «la
consapevolezza di un preesistente diverso livello di sviluppo iniziale
fra le due parti d’Italia al momento dell’unità è un elemento
essenziale per intendere meglio la natura del successivo, persistente
ed aggravato, dualismo»70.
Vera Zamagni ha riassunto concisamente quanto emerge dalle
ricerche disponibili sull’economia italiana all’indomani dell’Unità e sui
divari regionali, scrivendo: «nell’età preindustriale non possiamo
attenderci di trovare una grande differenza nel prodotto nazionale
pro capite fra le diverse regioni agrarie. È, tuttavia, di grande
importanza prendere in esame altri indicatori che possano spiegare
perché un’area, che mostra un reddito pro capite simile a quello di
un’altra area, è capace a un certo punto di decollare grazie allo
slancio del settore industriale, mentre l’altra resta stagnante»71.
L’esistenza di divari negli indicatori sociali, là dove vi è uguaglianza
negli indicatori economici, può comportare divari futuri. In effetti
alcune differenze a vantaggio del Nord, che abbiamo ricordato, quali
la larga presenza dell’industria serica, un migliore sistema
ferroviario, e una più elevata alfabetizzazione, costituivano
condizioni favorevoli nel processo di modernizzazione e
contribuirono al più rapido decollo del Nord; anche se, in termini di
Pil pro capite, le differenze Nord-Sud nei primi decenni post-unitari
erano modeste. Come si vedrà nel Capitolo 2, anche la
localizzazione del Nord, più vicino alle regioni europee investite dalla
Rivoluzione Industriale, giocava a vantaggio delle regioni
settentrionali. Fu l’industrializzazione, più forte a Nord, che
determinò l’ampliamento del divario. Alla vigilia della Prima guerra
mondiale, il vantaggio dell’industria nel Nord era già considerevole72.
Era, dunque, il prodotto agricolo pro capite, più elevato nel
Mezzogiorno, che attenuava la differenza nel prodotto pro capite;
dato che l’agricoltura era il settore maggioritario e costituiva una
metà del prodotto dell’Italia.
Nel 1891, quando cioè sono disponibili dati più attendibili sulle
differenze fra regioni in termini di prodotto pro capite, il Sud era in
vantaggio sul Nord per il prodotto agricolo di un 15-20 per cento. La
differenza nel prodotto dei servizi in termini pro capite era, invece, a
vantaggio del Nord di un 30-40 per cento. Nel prodotto industriale,
sempre pro capite, nel 1881 esisteva un vantaggio del Nord di un 10
per cento; che nel 1901 si era ampliato al 30 per cento (Fig. 15). Nel
complesso, secondo i nostri calcoli, il vantaggio del Nord sul Sud nel
prodotto pro capite nel 1891 era fra il 5 e il 10 per cento73.
Purtroppo non è disponibile, per quest’epoca, un indice territoriale
del costo della vita. Sarebbe assai utile per misurare la differenza
Nord-Sud, nel potere d’acquisto della parte del reddito che veniva
destinata ai consumi privati. L’indice elaborato per l’epoca
successiva alla Prima guerra mondiale e fino al 2011 rivela
l’esistenza di una differenza Nord-Sud nei prezzi fra il 10 e il 20 per
cento. I prezzi nel Mezzogiorno sono sempre stati più bassi di quelli
del Nord nell’ultimo secolo74. Per il periodo precedente la Prima
guerra mondiale, le conoscenze sono più incerte. Sembra, tuttavia,
che la correzione dei divari Nord-Sud per tenere conto delle
differenze territoriali nel potere d’acquisto «non possa essere troppo
distante da quella stimata per il periodo fra le due guerre»75, quando
la differenza Nord-Sud nel costo della vita era intorno al 15 per
cento76. Accettando questa correzione, alla fine dell’Ottocento, il
divario Nord-Sud svanirebbe del tutto nel livello dei consumi privati
(a cui si riferisce l’indice del costo della vita)77.

FIGURA 15
Divari regionali nel prodotto industriale pro capite rispetto alla media
nazionale nel 1871 e 1911 (%)
Fonti: elaborazione dei dati di FENOALTEA, La crescita industriale
delle regioni d’Italia dall’Unità alla Grande Guerra: una prima stima
per gli anni censuari, e FENOALTEA, L’economia italiana dall’Unità alla
Grande Guerra.

È difficile pronunciarsi sul divario nel prodotto pro capite nei tre
decenni dall’Unità al 189178. Dato che nel 1891 il divario era
modesto e stava crescendo, è possibile che nel 1861, nelle due aree
del paese, il livello del prodotto pro capite fosse lo stesso.
L’esistenza di una differenza nel costo della vita di un 15 per cento
per quell’epoca annullerebbe i divari calcolati da vari autori. D’altra
parte, a quell’epoca, la produzione industriale, che generò la
differenza fra Nord e Sud, non era decisamente maggiore nelle
regioni settentrionali (in termini pro capite).
Come si è visto, gli indicatori sociali o socio-economici, come la
statura, la mortalità infantile e la speranza di vita, indicavano un
leggero vantaggio a favore del Nord. Nel caso dell’alfabetizzazione,
pur con tutte le cautele che abbiamo ricordato, il vantaggio era più
forte. Si è notato, però, che gli indicatori sociali e gli indicatori
economici non sono la stessa cosa. Ne vogliamo un esempio? Oggi
gli indicatori sociali presi in esame in questo capitolo sono molto
simili a Nord e a Sud79. Ne dobbiamo dedurre che anche i redditi
medi degli abitanti delle due parti del paese sono molto simili?
Sappiamo che non è così.
1. ABULAFIA, The Two Italies. Sui secoli preunitari si veda, tuttavia, la
ricostruzione sintetica di VITOLO, MUSI, Il Mezzogiorno prima della questione
meridionale, che propone una visione «più dinamica nel tempo di quanto non si
tenda a credere» (p. X).
2. CAFAGNA, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, p. 36. Un divario
economico fra Nord e Sud prima dell’Unità è stato sostenuto anche da ECKAUS, Il
divario Nord-Sud nei primi decenni dell’Unità; ECKAUS, L’esistenza di differenze
economiche tra Nord e Sud d’Italia al tempo della Unificazione; ESPOSTO,
Estimating Regional Per Capita Income: Italy, 1861-1914; ESPOSTO, Italian
Industrialization and the Gerschenkronian “Great Spurt”.
3. Nei confini attuali. Si veda l’Appendice 3.
4. LIVI BACCI, La popolazione nella storia europea.
5. Grafici a barre, come quello della Figura 1, suggeriscono in maniera immediata
l’esistenza di un divario regionale rispetto alla media dell’Italia, rappresentata dalla
linea verticale. Altri grafici simili a questo sono riportati nel corso di questo
capitolo. In ogni caso le regioni sono disposte in ordine decrescente dell’indicatore
preso in considerazione.
6. Sulle densità per regione si veda l’Appendice 3.2.
7. MALANIMA, L’economia italiana, Appendice I.
8. Si veda il primo censimento unitario: MAIC, Statistica del Regno d’Italia.
Popolazione. Censimento generale al 31 dicembre 1861; integrato con le aree non
ancora comprese nel Regno. Si vedano i dati regionali nell’Appendice 3.
9. Nonostante l’emigrazione dal Sud verso il Nord dopo la Seconda guerra
mondiale. Dell’emigrazione si parlerà nel Capitolo 3.
10. Per i confronti su scala europea, si veda MALANIMA, Urbanisation 1700-1870.
11. Si vedano anche le considerazioni sull’urbanizzazione meridionale di
BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, p. 10.
12. La lieve differenza fra questo tasso di urbanizzazione e quello presentato, per
il Centro-Nord, in MALANIMA, Urbanisation and the Italian Economy during the
last Millennium, dipende dalla diversa definizione di Centro-Nord, che, in questo
volume, include il Lazio (nell’articolo citato il Lazio è escluso). Si veda anche
MALANIMA, Italian Cities 1300-1800. A Quantitative Approach.
13. Si vedano le considerazioni sui centri urbani meridionali di BENIGNO, Assetti
territoriali e ruralizzazione in Sicilia.
14. SALVEMINI, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età
moderna.
15. Questo tema è al centro del Capitolo 3, a cui si rimanda per maggiori dettagli.
16. Come rilevato anche da ECKAUS, Il divario Nord-Sud nei primi decenni
dell’Unità, p. 223 e, dopo di lui, anche da ZAMAGNI, A Century of Change.
17. Si veda soprattutto FENOALTEA, L’economia italiana, pp. 217 ss.
18. I contadini maschi si sottoponevano al pendolarismo per raggiungere le terre
da coltivare. Per le donne rimanere lontane da casa per lunghi periodi non era
possibile (né era socialmente ammissibile).
19. Si veda la nota all’Appendice 4.
20. Come si vedrà nel Capitolo 3.
21. Sul tema degli indicatori sociali nei decenni postunitari si veda TONIOLO,
VECCHI, Nel secolo breve il lungo balzo del benessere degli Italiani; e anche
VECCHI, Il benessere dell’Italia liberale (1861-1913).
22. Per l’Italia in generale, il tema della nutrizione è esaminato in VECCHI,
COPPOLA, Nutrizione e povertà in Italia, 1861-1911 e SORRENTINO, VECCHI,
Nutrizione, pp. 3-36.
23. Sulle differenze genetiche fra Nord e Sud si veda il bell’articolo di PIAZZA,
L’eredità genetica dell’Italia antica.
24. REIS, How Poor was the European Periphery before 1850?
25. ARCALENI, La statura dei coscritti italiani delle generazioni 1854-1976. In
prospettiva di lungo periodo è anche lo studio di FEDERICO, Heights, Calories
and Welfare: a new Perspective on Italian Industrialization, 1854-1913.
26. Come mostrò BERENGO, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica
all’Unità.
27. MAIC, La pellagra in Italia. 1879. La pellagra era meno diffusa nel Centro,
anche se la «semplice polenta di farina di granturco, il più delle volte senza sale»,
costituiva spesso, anche in questa parte dell’Italia, «il vitto ordinario di questa
povera gente» (JACINI, Atti della Giunta per l’Inchiesta agraria, xi, I, Provincie di
Roma e Grosseto, pp. 787-88). Sulla pellagra si veda soprattutto DE BERNARDI,
Il mal della rosa.
28. BONELLI, La malaria nella storia demografica ed economica d’Italia.
29. ATELLA, FRANCISCI, VECCHI, Salute, p. 88.
30. A’HEARN, VECCHI, Statura.
31. REIS, How Poor was the European Periphery.
32. Come si è visto nel precedente par. 1.3. e come si vedrà più ampiamente nel
Capitolo 3.
33. ISTAT, Tendenze evolutive della mortalità infantile in Italia.
34. È sempre assai utile, come introduzione al tema, il bel libro di CIPOLLA,
Istruzione e sviluppo, da cui sono riprese alcune informazioni riportate in queste
pagine.
35. Riprendiamo questi dati, relativi al primo censimento unitario, da SALL-MANN,
Les niveaux d’alphabétisation en Italie au XIXE siècle, pp. 201 e passim (si veda
in particolare l’utile Appendice al volume).
36. Si vedano, in particolare, gli studi di LUPO, “Tra le provvide cure di Sua
Maestà”. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, sul Regno di
Napoli e di VIGO, “... quando il popolo cominciò a leggere“. Per una storia dell
alfabetismo in Italia, su tutta Italia.
37. ZAMAGNI, Istruzione e sviluppo economico. Il caso italiano 1861-1913.
38. SVIMEZ, Cento anni di statistiche sulle regioni d’Italia, p. 151.
39. CIPOLLA, Istruzione e sviluppo, p. 7.
40. CIPOLLA, Istruzione e sviluppo, p. 9.
41. Come è stato fatto da FELICE, I divari regionali, e, prima di lui, da FEDERICO,
TONIOLO, Italy, ed ESPOSTO, Estimating Regional per Capita Income: Italy,
1861-1914.
42. DANIELE, La crescita delle nazioni. Fatti e teorie, p. 40.
43. Sarebbe più interessante paragonare il livello dei salari anziché il trend, come
nei due grafici. Un confronto del livello dei salari reali richiederebbe la costruzione
di due indici dei prezzi basati sullo stesso paniere. Per il Sud non sono ancora a
disposizione serie tali da permettere la costruzione di un indice con paniere uguale
a quello usato per la serie relativa al Nord. C’è poi il fatto, importante, che a Nord
era diffusissimo il mais nell’alimentazione, mentre a Sud il consumo di mais era
eccezionale. Il mais aveva un prezzo pari a circa la metà di quello del grano.
Costruendo per il Nord un indice dei prezzi contenente il mais, il potere d’acquisto
dei salari settentrionali risulterebbe superiore (ma mangiando polenta tutti i giorni
invece di pane, si gode effettivamente di una migliore qualità di vita?).
44. Si tratta dell’espressione resa nota da DE VRIES, The Industrious Revolution
and the Industrial Revolution, e DE VRIES, Industrious Revolution. Consumer
Behavior and the Household Economy 1650 to Present.
45. I dati che precedono sono ripresi da ZAMAGNI, An International Comparison
of Real Industrial Wages, 1890-1913: Methodological Issues and Results, pp. 118-
19.
46. Come risulta dai dati raccolti da ZAMAGNI, Industrializzazione e squilibri
regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Appendice B, pp. 233-35. Si veda
anche SVIMEZ, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, p. 495,
dove sono riportati i salari orari minimi di maestri muratori per regione nel 1910.
47. ARCARI, Le variazioni dei salari agricoli in Italia dalla fondazione del Regno al
1933; e FEDERICO, Le nuove stime della produzione agricola italiana, 1860-1910.
48. Come si può vedere, è soprattutto la revisione del prodotto agricolo nazionale
per regione (che ci dà un prodotto agricolo pro capite nel Mezzogiorno superiore
del 15 per cento circa a quello del Nord nel 1891), che modifica il rapporto relativo
Nord-Sud in termini di prodotto pro capite.
49. NITTI, Scritti politici, p. 147.
50. Sul tema si veda in particolare la ricostruzione di GALASSO, Passato e
presente del meridionalismo.
51. FORTUNATO, La questione meridionale e la riforma tributaria.
52. CUBONI, I problemi dell’agricoltura meridionale.
53. Parole simili a quelle di Cuboni usava nello stesso anno 1909 FORTUNATO, Il
Mezzogiorno e lo Stato Italiano. Discorsi politici (1880-1910), p. 404.
54. PORISINI, Produttività e agricoltura: i rendimenti del frumento in Italia dal 1815
al 1822, p. 24.
55. Come ha messo in rilievo TINO, Le radici della vita. Storia della fertilità della
terra nel Mezzogiorno (secoli XIX-XX), pp. 52 ss. e passim, che ha rivisto il tema
della povertà naturale del Mezzogiorno, su cui esiste un’ampia bibliografia. Sul
tema si vedano, ad esempio, i saggi di ROSSI DORIA, Scritti sul Mezzogiorno.
56. Una conclusione che contrasta con quella di ECKAUS, Il divario Nord-Sud nei
primi decenni dell’Unità, p. 224, il quale affermava che «il Nord aveva un margine
di almeno il 20 per cento in più rispetto al Sud nella produzione pro capite in
agricoltura» e che «nel complesso sembrerebbe plausibile una differenza del 15-
20 per cento nel reddito pro capite» a favore del Nord.
57. Si vedano FEDERICO, Ma l’agricoltura meridionale era davvero arretrata?, p.
321, ZAMAGNI, Le radici agricole del dualismo italiano, ESPOSTO, Estimating
Regional per Capita Income, FELICE, Divari regionali, p. 132. Federico riporta le
stime precedenti di Zamagni e Esposto nella Tav 1 del suo articolo.
58. Questa stima e quella successiva relativa al Sud sono riprese da SVIMEZ, Un
secolo di statistiche italiane, p. 18.
59. CAFAGNA, Profilo della storia industriale italiana, p. 285.
60. CAFAGNA, Nord e Sud nella storia dell’Unità d’Italia, p. 49.
61. BATTISTINI, Seta ed economia in Italia. Il prodotto 1500-1930, p. 307.
62. A. DELL’ACQUA, Annuario Statistico del Regno d’Italia per l’anno 1865,
Milano 1865, p. XXXV.
63. Come si precisa nella premessa all’Appendice 1, il rilievo dei servizi sul
prodotto aggregato calcolato da Fenoaltea è diverso dal nostro.
64. LUZZATTO, L’economia italiana dal 1861 al 1894, pp. 7-9.
65. SVIMEZ, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861-1961, p. 477.
66. ECKAUS, L’esistenza di differenze economiche tra Nord e Sud.
67. MALANIMA, The Long Decline of a Leading Economy.
68. CAFAGNA, Nord e Sud, p. 190.
69. Anche se sono vere le violenze e i misfatti, compiuti dai governi post-unitari a
danno del Sud, raccontate con partecipazione da APRILE, Terroni e da GUERRI, Il
sangue del Sud.
70. CAFAGNA, Nord e Sud, p. 191. Anche CIOCCA, Ricchi per sempre?, pp. 93
ss. considera il divario fra Nord e Sud come un carattere della storia italiana
precedente alla crescita moderna del paese.
71. ZAMAGNI, Comments on the Paper by Emanuele Felice, p. 81.
72. Il libro di ZAMAGNI, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia, si riferisce
proprio al periodo che precede la Prima guerra mondiale.
73. In FELICE, Il valore aggiunto regionale, il divario fra Nord e Sud è, nelle due
stime presentate, intorno al 10 per cento. Si veda anche FELICE, Divari regionali e
intervento pubblico, p. 124. In CIOCCA, Ricchi per sempre?, p. 22, il divario Nord-
Sud nel 1891 è del 20 per cento.
74. AMENDOLA, VECCHI, Costo della vita, e Tabb. 23, 24, 25, pp. 436-37.
75. AMENDOLA, VECCHI, Costo della vita, p. 411.
76. AMENDOLA, VECCHI, Costo della vita, p. 407, scrivono che, durante il
ventennio fascista, «per consumare lo stesso paniere di beni al Nord occorreva
spendere circa il 15 per cento in più che al Sud».
77. Come si nota nel Capitolo 2, par. 4.3., è possibile che i divario fra i prezzi del
Nord e quelli del Sud si sia manifestato all’epoca del divario economico. In un
paese povero, i prezzi dei generi di consumo sono più bassi che in un paese ricco.
78. In BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito, pp. 220-34 viene proposta una
ricostruzione del Pil regionale, presentato nelle Tabb. 15 e 16, pp. 428-29. Il
divario Nord-Sud, che non tiene conto delle differenze nei prezzi, viene stimato in
circa un 15 per cento. Le informazioni fornite alla p. 234 sui metodi di elaborazione
sono sommarie.
79. Come mostra FELICE, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori
sociali (1871-2001).
2. Il prodotto

Dal 1861 al 2010 il reddito medio degli Italiani è aumentato 13 volte.


Da povera e agricola, qual era alla data dell’Unità, l’Italia è divenuta
una delle nazioni più avanzate al mondo. Il processo di sviluppo e
modernizzazione ha interessato tutto il paese. Anche nel
Mezzogiorno redditi e consumi sono cresciuti e il miglioramento del
tenore di vita si è accompagnato con una profonda trasformazione
della struttura economica e sociale. Se confrontiamo il Mezzogiorno
con altri paesi del mondo, esso appare come un esempio di
successo economico. Il suo Pil pro capite è aumentato di ben 9 volte
in 150 anni. Le cose cambiano quando il confronto si fa con il Nord
del paese, il cui Pil pro capite è aumentato di 15 volte1. Pur partendo
da condizioni economiche analoghe, Nord e Sud hanno raggiunto
livelli di sviluppo diversi. Più avanzato e industrializzato il primo,
meno il secondo. Dall’incompiuta, minore industrializzazione del Sud
dipende il suo ritardo economico.
Nel lungo periodo dal 1861 al 1951, il divario Nord-Sud è andato
sempre aumentando, con la sola eccezione del ventennio 1953-73,
che coincide con la fase dell’industrializzazione meridionale.
Nell’epoca post-industriale, apertasi alla metà degli anni Settanta, il
Mezzogiorno ha perso di nuovo terreno rispetto al Nord. Se si
guarda al percorso di sviluppo del Nord e del Sud, l’Italia costituisce
l’esempio di un paese diviso; uno dei casi più notevoli in cui, entro gli
stessi confini nazionali, esiste una persistente e incoercibile
divaricazione nelle condizioni economiche regionali.
1. DISUGUAGLIANZE REGIONALI

1.1. Convergenza e divergenza


Come per le nazioni, anche per le regioni i divari nei livelli di sviluppo
sono il risultato di differenze nei tassi di crescita di lungo periodo2.
Prima che la crescita moderna si avviasse, le differenze di sviluppo
tra Stati e regioni erano assai inferiori a quelle attuali.
In uno studio sulla divergenza economica internazionale,
l’economista Lant Pritchett ha calcolato che, nel 1870, il reddito per
abitante della nazione più ricca al mondo, gli Stati Uniti, fosse 8,7
volte il reddito di sussistenza3. Poiché il reddito per abitante non può
scendere al di sotto di quanto consente di sopravvivere, si tratta del
massimo divario possibile per quella data. Nel 2008, il rapporto tra il
reddito pro capite degli Stati Uniti e quello della nazione più povera,
la Repubblica Democratica del Congo, era di 125 volte. I divari
internazionali erano cresciuti enormemente.
Anche in una nazione che non ha ancora imboccato il sentiero
della crescita moderna, in cui il settore predominante è quello
agricolo, le differenze regionali nei livelli di reddito pro capite sono
modeste4. Certamente vi saranno regioni più prospere di altre; gli
abitanti delle città saranno mediamente più ricchi di quelli delle
campagne e anche tra le zone rurali vi saranno livelli di produttività e
di benessere diversi. L’entità dei divari interregionali sarà, però,
influenzata dal livello di sviluppo complessivo del paese. Tanto più il
reddito medio nazionale sarà prossimo a quello di sussistenza, tanto
più i divari saranno contenuti.
Analogamente a quanto accade tra le nazioni, anche tra le regioni
l’avvio dello sviluppo accresce le differenze. Soprattutto quando una
nazione è estesa, l’industrializzazione, con cui prende avvio la
crescita moderna, non può interessare tutto il territorio nazionale allo
stesso tempo. È assai più probabile, invece, che riguardi
inizialmente alcune aree, o poli di crescita, con un qualche vantaggio
rispetto ad altre: disponibilità di materie prime, presenza
d’infrastrutture, posizione geografica favorevole o un qualche evento
storico particolare in grado d’influenzarne lo sviluppo futuro5.
In una regione che s’industrializza, la produttività cresce
rapidamente, e con essa il prodotto per abitante. Ne consegue che il
decollo economico genera squilibri economici o amplifica quelli
esistenti. Lo si osserva, oggi, nei paesi in via di sviluppo e a rapida
crescita, come India o Cina in cui, al procedere
dell’industrializzazione, i divari regionali aumentano6. Gli effetti
squilibranti saranno tanto maggiori quanto più elevato sarà il grado
di concentrazione geografica dell’industria. Poiché lo sviluppo tende
a essere cumulativo, le regioni industrializzate attraggono forza
lavoro e capitale dal resto del paese. Ciò accresce il grado di
concentrazione industriale e la polarizzazione delle attività
economiche. Perlomeno in una prima fase, i differenziali di sviluppo
fra regioni tenderanno a crescere.
In una fase successiva, tuttavia, l’aumento del costo dei fattori, o
diseconomie determinate dall’elevata concentrazione nei poli di
crescita regionali, tendono a favorire la diffusione dell’industria verso
le regioni meno sviluppate, dove i salari sono più bassi. Anche
l’emigrazione dalle regioni agricole verso quelle industriali e le
politiche di riequilibrio territoriale, favorendo la riallocazione dei
fattori di produzione tra settori e regioni, possono sostenere i
processi di convergenza regionale7. Nonostante l’azione di queste
forze riequilibratrici, però, difficilmente emergerà una geografia
economica omogenea. In tutti i paesi, anche in quelli con minori
divari interni, la distribuzione geografica delle attività economiche
continuerà a presentare differenze regionali.

1.2. I divari regionali: un confronto tra nazioni


Un confronto dei divari regionali tra paesi diversi non è semplice. Un
primo problema riguarda il concetto stesso di «regione». I dati
disaggregati disponibili per le singole unità territoriali – le regioni –
dei diversi paesi non sempre permettono di effettuare comparazioni
attendibili, data la loro diversa ampiezza. Quanto più l’unità di base
della comparazione, la regione, è piccola tanto più le disparità
regionali nel prodotto pro capite risultano elevate8.
Nel caso dei paesi europei sono disponibili dati omogenei e
disaggregati a livello regionale per una serie di variabili economiche
e, fra di esse, il Pil pro capite. Tuttavia le unità territoriali
subnazionali considerate hanno ampiezza assai diversa e, in alcuni
casi, comprendono regioni composte da una sola area
metropolitana, come quelle di Parigi, Londra o Bruxelles, il cui
reddito medio è molto elevato9. Chiaramente, quando si confrontano
aree metropolitane come quelle citate, con altre aree, dello stesso o
di altri paesi, i divari nei livelli di sviluppo risultano molto alti.
Per confrontare i divari interni dell’Italia con quelli di altre nazioni,
utilizziamo i dati contenuti in uno studio di Giovanni Iuzzolino10, che
considera regioni piuttosto ampie e di dimensioni relativamente
omogenee. L’indicatore utilizzato è il Pil pro capite. La Figura 1
illustra la relazione tra un indice di squilibrio regionale e il Pil pro
capite nei 27 paesi dell’Ocse. Nel grafico, gli assi sono centrati
rispetto ai valori mediani del campione di nazioni considerato. Ne
deriva che tutti i paesi che si trovano al di sopra dell’asse orizzontale
(con valori superiori a 100) hanno squilibri interni maggiori di quelli
che, invece, si trovano al di sotto dell’asse.
Il grafico mostra l’esistenza di una correlazione inversa e
statisticamente significativa, tra le due variabili. Tanto maggiore il
livello di sviluppo, tanto minore, in media, la disuguaglianza
regionale. In Messico, Slovacchia, Ungheria, Turchia e Repubblica
Ceca, si riscontrano i maggiori divari. L’Italia, il cui livello di sviluppo
è analogo a quello mediano del gruppo di nazioni considerate, ha un
grado di disuguaglianza regionale maggiore di quello mediano e
analogo a quello della Grecia che, tuttavia, ha un livello di Pil pro
capite più basso di quello italiano. Tra le nazioni europee con livelli di
sviluppo confrontabili a quello dell’Italia, solo il Belgio ha divari
regionali maggiori.
In molti dei paesi considerati, il grado di disuguaglianza interna è
fortemente influenzato dalla presenza di una regione, di norma
coincidente con quella in cui si trova la capitale, con valori del Pil pro
capite particolarmente elevati. È il caso dell’Ungheria, della
Slovacchia e del Belgio. Eliminando tale regione dal calcolo
dell’indice di squilibrio, questo si riduce considerevolmente. La
Figura 2 illustra la correlazione precedente dopo l’esclusione della
regione più ricca di ciascun paese dal calcolo dell’indice. La
correlazione inversa tra indice di squilibrio e livello di sviluppo è
ancora evidente. Si nota come in Messico e Turchia gli squilibri
interni rimangano lo stesso elevati, mentre in Slovacchia, Ungheria,
Repubblica Ceca e Belgio diminuiscano considerevolmente, proprio
per il fatto che la regione più ricca polarizzava fortemente la
distribuzione regionale del reddito pro capite. In Italia, l’esclusione
della regione più ricca non modifica il valore dell’indice di squilibrio
regionale. Colpisce, anzi, un fatto. In Italia gli squilibri regionali
risultano, ora, maggiori che in tutti gli altri paesi con livelli di sviluppo
analoghi. Non è solo l’entità dei divari interni, ma anche, come
vedremo dopo, la loro persistenza, a rendere l’Italia un caso
particolare tra tutti i paesi avanzati.

FIGURA 1
Squilibri regionali e livello di sviluppo nei paesi dell’Ocse nel 2005 (1)
Il grafico illustra la relazione tra il Pil pro capite in dollari USA (parità
di potere d’acquisto) e l’indice di Theil (indice del grado di squilibrio
tra le regioni) nell’anno 2005. Gli assi del grafico sono centrati sul
valore mediano.
Fonte. IUZZOLINO, I divari territoriali di sviluppo in Italia nel confronto
internazionale.

FIGURA 2
Squilibri regionali e livello di sviluppo nei paesi dell’Ocse nel 2005 (2)
Il grafico illustra la relazione tra Pil pro capite in dollari USA, a parità
di potere d’acquisto, e l’indice di Theil (indice del grado di squilibrio
tra le regioni) nell’anno 2005. Nel calcolo dell’Indice di Theil di
ciascun paese è stata esclusa la regione più ricca. Gli assi del
grafico sono centrati sul valore mediano.
Fonte:IUZZOLINO, I divari territoriali di sviluppo in Italia nel confronto
internazionale.

2. LA CRESCITA DELL’ITALIA

2.1. Il ritardo iniziale


Come altri paesi mediterranei, l’Italia conobbe tardi la sua
Rivoluzione Industriale. Nel 1861, la struttura produttiva era ancora,
in larga misura, quella tipica di un’economia preindustriale11.
Esistevano, è vero, alcuni insediamenti manifatturieri di rilievo. Si
trattava, però, di casi isolati12. Nell’Italia di allora, l’agricoltura, il
principale settore economico, forniva circa la metà del prodotto
complessivo, a fronte del 18 per cento dell’industria13. Rispetto ad
altri paesi europei, in particolare a quelli di prima industrializzazione,
il divario di sviluppo era significativo14. Fino ai primi del Seicento,
come scrisse Carlo M. Cipolla, «l’Italia settentrionale era ancora uno
dei paesi più sviluppati d’Europa. Tre generazioni più tardi l’Italia era
un paese sottosviluppato, prevalentemente agricolo, importatore di
manufatti ed esportatore di prodotti agricoli»15. Il lento declino
dell’economia italiana aveva ridotto gradualmente il reddito pro
capite che, alla metà dell’Ottocento, risultava, in termini reali,
inferiore a quello di cinque secoli prima16.
Si stima che nel 1861 i consumi medi annui fossero di 1.123 euro
per abitante (a potere d’acquisto del 2000), pari al 75 per cento del
reddito17. Si tratta di 3 euro al giorno; un valore di poco superiore alla
soglia di povertà assoluta. È ovvio che, quando i redditi sono molto
bassi, i consumi sono, quasi completamente, volti al soddisfacimento
dei bisogni primari, in primo luogo all’alimentazione. Nei primi anni
dopo l’Unità, la spesa per beni alimentari e tabacco rappresentava,
infatti, il 70 per cento del totale. Ben poco rimaneva per altri
consumi.
Povera di materie prime, specie di carbon fossile e ferro, con
sistemi giuridici e amministrativi ereditati dagli Stati preunitari, e,
dunque, di fatto da unificare, l’Italia partiva da condizioni di
svantaggio. Notevoli le carenze nelle infrastrutture, in particolare in
quelle ferroviarie. Anche per questo motivo, come ebbe a scrivere
Luciano Cafagna, mancava, all’epoca dell’Unità, «una originaria
complementarietà, di fatto o potenziale, fra le due sezioni principali
del paese giunto ad unità politica»18. Non esisteva, cioè, una vera
integrazione economica. Nel 1860, il livello d’industrializzazione pro
capite dell’Italia era inferiore a quello medio europeo e simile a
quello della Spagna. In termini aggregati, la produzione industriale
complessiva del paese era un terzo di quella della Francia e meno di
un settimo di quella del Regno Unito19.
Nei principali settori industriali il ritardo italiano era notevole.
Come rilevato da Vera Zamagni, nell’industria cotoniera, concentrata
principalmente in Lombardia e Piemonte, era in attività mezzo
milione fusi nel 1860, a fronte dei 30 milioni del Regno Unito, dei 5,5
milioni della Francia e dei 2 milioni della Germania20. Il settore
meccanico, composto da tante piccolissime officine, contava pochi
stabilimenti di grandi dimensioni. Nel 1865, solo due imprese,
l’Ansaldo di Sampierdarena e l’Officina Meccanica Nazionale di
Napoli, raggiungevano i 700 addetti21.
Il ritardo dell’industria italiana era anche tecnologico. Per
esempio, per quasi tutto il primo decennio unitario, la raffinazione
della ghisa in acciaio non fu che un’eccezione: nemmeno un
ventesimo della ghisa prodotta veniva affinata. Nel complesso, l’Italia
produceva 30.000 tonnellate di ghisa, mentre la Francia 1 milione e
l’Inghilterra 3,8 milioni22.
In agricoltura, l’elevato numero di contadini in rapporto alla
superficie coltivabile determinava un basso prodotto per addetto e, di
conseguenza, bassi salari23. Sino alla fine del secolo, il progresso
tecnico nel settore agricolo fu lento e non in grado di generare
consistenti incrementi di produttività. Secondo alcune stime, nel
1911, la produttività del lavoro in agricoltura era compresa tra un
terzo e la metà di quella della Gran Bretagna24. In un’Europa
interessata da profonde trasformazioni economiche e sociali, l’Italia
appariva in ritardo anche ai contemporanei. L’economista Francesco
Ferrara osservava nel 1866: «il mondo d’intorno procede a passi
concitati; le invenzioni, i metodi nuovi, i bisogni della vita sociale
sorgono ogni giorno a rigenerare tutti i rami d’industria, ma l’Italia
vede ed ammira come più non si può, non fa, non invidia»25.

2.2. L’avvio della crescita


Da povera e arretrata qual era alla data dell’Unità, l’Italia è divenuta
una delle nazioni più sviluppate al mondo. Tra il 1861 e il 2010, il Pil
aggregato è aumentato di 30 volte, quello pro capite di 13 volte (Fig.
3). Il tasso di crescita del Pil pro capite è stato dell’1,7 per cento
all’anno: un valore non dissimile da quello di altre economie
sviluppate. Per avere un’idea degli effetti che la crescita ha avuto sul
tenore di vita, si consideri che alla data dell’Unità il prodotto pro
capite era intorno ai 2.000 euro (del 2010), cioè 5,5 euro al giorno.
Nel 2010, aveva raggiunto 25.668 euro, cioè 70 euro al giorno.
L’intensità della crescita è stata assai diversa nel tempo. La
Tabella 1 riporta i tassi di crescita medi annui di alcuni periodi. Nei
primi decenni post-unitari, fino al 1895, l’incremento medio annuo del
Pil pro capite è modesto, di poco inferiore all’1 per cento. Una
discontinuità si registra alla fine del secolo. Nell’età giolittiana (1896-
1913), l’economia attraversa una forte espansione: il prodotto
aggregato aumenta del 2,4 per cento all’anno, quello pro capite
dell’1,7 per cento. Alla vigilia della Prima guerra mondiale il Pil pro
capite è già dell’85 per cento più alto di quello del 1861. Per l’Italia si
è ormai avviata la crescita economica moderna.

FIGURA 3
Pil e Pil pro capite in Italia 1861-2010 (1861=1)

Fonte: Appendice 1.1.

Nel primo decennio del Novecento, la produzione industriale cresce


a tassi mai registrati prima, mentre il peso dei settori a più elevata
intensità di capitale – estrattivo, meccanico, siderurgico – aumenta
notevolmente26. Il numero di società per azioni, che passa da 379 a
3.203 tra il 1863 e il 1915, è un indice della crescita dimensionale
dell’industria.

TABELLA 1
Tassi di crescita medi annui del Pil, della popolazione e del Pil pro
capite 1861-2010 (%)

Fonte: Appendice 1.1.

I cambiamenti della struttura produttiva si riflettono sulla struttura del


commercio con l’estero. Nel 1861, la composizione del commercio
internazionale era quella tipica di un paese agricolo: l’85 per cento
delle esportazioni proveniva dal settore primario, mentre solo il 15
per cento dal manifatturiero. La seta, con oltre il 30 per cento, aveva
il peso maggiore nella bilancia commerciale italiana. Con
l’industrializzazione la situazione muta radicalmente. Alla vigilia della
Prima guerra mondiale, la quota delle esportazioni di manufatti
raggiunge già il 36 per cento del totale; alla fine degli anni Trenta ne
rappresenta ormai quasi la metà27.

2.3. La transizione energetica


L’andamento dei consumi energetici illustra la discontinuità causata
dall’avvio della crescita economica28. Nel corso dell’Ottocento, in
Italia, il consumo pro capite di energia si attestava attorno ai 16-18
Gigajoule all’anno (o 11-12.000 Calorie al giorno). Oggi sono 140
Gigajoule all’anno o 90.000 Calorie al giorno.

FIGURA 4
Il consumo pro capite di energia in Italia 1800-1911 (in Gigajoules)

Fonte: MALANIMA, Transizione energetica e crescita in Italia, 1800-


2010.

Come mostra la Figura 4, sino alla fine del secolo il profilo dei
consumi, pur soggetto a un’ampia volatilità, non mostrava alcun
trend crescente. È dal 1880 che esso cresce decisamente. Con
l’avvio della crescita si compie la transizione energetica, cioè il
passaggio dalle fonti energetiche tradizionali a quelle fossili,
necessarie per sostenere lo sviluppo dell’industria. Fino alla fine
dell’Ottocento, fonti di tipo vegetale (la legna da ardere e il cibo per
gli uomini e animali da lavoro) e acqua e vento, fornivano la quasi
totalità del’energia utilizzata. L’industrializzazione aumenta il
consumo di combustibili fossili, che passano dal 7 per cento dei
consumi totali nel 1861 al 27 per cento nel 1900 (Tab. 2).
TABELLA 2
Consumi energetici 1861-2000 (%)

Nella tabella, per «elettricità primaria» s’intende l’elettricità generata


dalle cadute d’acqua o idroelettricità.
Fonte: MALANIMA, Energy Consumption in Italy in the 19th and 20th
Centuries.

Povera di materie prime e di combustibili fossili, l’Italia comincia a


importare quantità crescenti di fonti di energia (prima carbone, poi
petrolio, più tardi gas naturale).

2.4. La fase industriale


La Grande depressione degli anni Trenta colpì l’economia nazionale
in maniera significativa: secondo le stime di Albert Carreras ed
Emanuele Felice, tra il 1929 al 1932 la produzione industriale si
ridusse del 15 per cento29. Tra il 1920 e il 1940 la crescita del Pil fu
comunque significativa: il 2,4 per cento all’anno. Alla vigilia della
Seconda guerra mondiale il prodotto aggregato era 4 volte quello
all’epoca dell’Unità.
Per il secondo conflitto, le stime sono molto incerte: quello che si
può dire con certezza è che il Pil abbia subito un calo assai
significativo. Gli anni della Ricostruzione sono quelli dell’esodo dalle
campagne e delle massicce migrazioni. Tra il 1950 e il 1956 circa un
milione di contadini abbandona l’agricoltura, alimentando consistenti
flussi migratori, in larga misura diretti verso le città e le fabbriche del
Nord. Inizialmente, l’emigrazione non riguarda solo i meridionali:
sono centinaia di migliaia i braccianti e lavoratori agricoli provenienti
dalla pianura padana a riversarsi nelle città manifatturiere.
Successivamente è il Sud a dare il contributo più grande: nel
complesso, tra il 1951 e il 1971, sono oltre 4 milioni i meridionali che
emigrano verso il Nord30.
Verso la metà degli anni Cinquanta si avvia la fase del miracolo
economico31. I saggi di aumento del prodotto sono assai elevati: tra il
1951 e il 1973 — anno del primo shock petrolifero — si attestano
mediamente sul 5,4 per cento all’anno. In poco più di un decennio,
tra il 1951 e il 1964, il Pil raddoppia; rispetto a quello del 1861, è 10
volte superiore.
Il tenore di vita degli italiani migliorò notevolmente. Dal 1861 alla
vigilia della Seconda guerra mondiale, cioè in 80 anni, il Pil per
abitante era aumentato di 2,5 volte. Negli anni del miracolo
economico i ritmi del cambiamento sono assai più rapidi: in poco più
di un ventennio, nel periodo 1951-73, il Pil per abitante aumenta di
2,7 volte. Il benessere si diffonde e i consumi crescono. Alla fine
degli anni Settanta, un italiano medio è ormai assai più ricco, istruito
e in salute dei suoi antenati. Il reddito degli italiani è ormai analogo a
quello britannico e solo del 10 per cento inferiore a quello tedesco e
francese. L’analfabetismo, che nel 1951 riguardava ancora 13 italiani
su cento, si è ormai ridotto a circa il 5 per cento. La vita media si è
notevolmente allungata, superando abbondantemente i 70 anni.
Il primo shock petrolifero (1973) apre una fase di rallentamento
della crescita, assai evidente se confrontata con il boom precedente
(Fig. 5). L’Italia, come altri paesi economicamente avanzati, registra
ritmi di sviluppo lenti. Negli anni Ottanta e Novanta il tenore di vita
continua a migliorare. Un peggioramento, non solo in termini relativi,
si registra nell’ultimo decennio: il reddito pro capite diminuisce. Nel
2010, per effetto congiunto della crisi economica globale dei due
anni precedenti, e della bassa crescita registrata dall’Italia, il Pil pro
capite ritorna, in termini reali, ai livelli di dieci anni prima, arretrando
rispetto a quello delle principali economie europee.
Dal 1861 al 2010 la posizione internazionale dell’Italia è cambiata
considerevolmente. La Figura 6 mostra l’andamento del Pil pro
capite italiano rispetto a quello del Regno Unito e alla media delle
altre economie dell’Europa occidentale. Tra il 1861 e i primi del
Novecento, l’Italia perde terreno sia rispetto al Regno Unito — la
nazione europea più ricca nel 1861 — sia nei confronti delle altre
economie dell’Europa occidentale. Come osservato in precedenza, il
tasso di crescita dell’Italia è inferiore a quelli delle nazioni first
comers, Inghilterra in testa. Una prima fase di convergenza si
registra nel periodo giolittiano, in cui l’Italia recupera, in parte, il
ritardo iniziale.

FIGURA 5
Tassi medi annui di crescita del Pil aggregato e pro capite, 1951-
2010 (%)

Fonte: Appendice 1.1.


FIGURA 6
Pil pro capite dell’Italia rispetto a quello del Regno Unito e di 12
paesi occidentali dal 1861 al 2010 (%)

Fonti: elaborazione su dati di MADDISON, Statistics on World


Population, GDP and per capita GDP, 1-2008 AD; per l’Italia i dati sono
quelli dell’Appendice 1.1.

Se si eccettuano gli anni delle due guerre mondiali, per i quali, come
s’è detto, le stime sono assai incerte, si osserva come il processo di
convergenza nei confronti delle nazioni più sviluppate si compia
soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta. In quella fase, l’Italia
colma rapidamente il divario di partenza, raggiungendo livelli di
reddito analoghi – o di poco inferiori – a quelli delle altre grandi
economie europee.

2.5. Il cambiamento strutturale


Durante il processo di sviluppo, la struttura economica e sociale si è
profondamente trasformata. In tutte le nazioni, man mano che
l’economia si sviluppa, il contributo dei settori economici cambia, sia
in termini di occupazione, sia di valore aggiunto prodotto. Il
contributo del settore primario (agricoltura, foreste e pesca)
diminuisce a favore di quello secondario (industrie estrattive,
manifatturiere, costruzioni) e di quello terziario (servizi pubblici e
privati). Raggiunto un certo stadio di sviluppo, il peso dell’industria
declina, mentre quello dei servizi continua ad aumentare.
Come mostra la Tabella 3, nel 1861 l’agricoltura costituiva di gran
lunga il settore economico principale. Il suo contributo alla
formazione del prodotto nazionale era più del 50 per cento, mentre
quello dell’industria solo del 18 per cento. Durante la fase di sviluppo
dell’era giolittiana i cambiamenti furono sensibili: tra il 1891 e il 1911
il peso dell’agricoltura scese dal 47 al 38 per cento, quello
dell’industria passò al 24 per cento.

TABELLA 3
Pil per settori 1861-2009 (%)
Fonte: Appendice 1.1.

Nel 1934, il prodotto dell’industria superò quello dell’agricoltura. Fino


al 1951, dal settore primario proveniva, tuttavia, un quarto del
prodotto interno. Negli anni del miracolo economico la
trasformazione strutturale fu tumultuosa: il peso dell’agricoltura calò
drasticamente, sia in termini di contributo alla produzione, sia in
termini occupazionali. Nel 1971, l’Italia era una nazione industriale
con un settore dei servizi in rapida espansione: il settore secondario
rappresentava il 39 per cento sul prodotto aggregato, quello terziario
oltre la metà. Dalla metà degli anni Settanta, il peso dell’industria
cominciò a declinare, mentre i servizi pubblici e privati continuarono
ad espandersi. Nel 2010, solo il 22 per cento del valore aggiunto
prodotto proveniva dall’industria, poco più del 2 per cento
dall’agricoltura, mentre dai servizi proveniva ben il 75 per cento.
L’Italia era divenuta un’economia postindustriale.

3. I DIVARI REGIONALI IN ITALIA

3.1. Il punto di partenza


Il processo di crescita delle regioni è avvenuto con differenti velocità.
Nel 1891, i divari regionali erano assai contenuti (Tab. 4) 32. Se in
alcune regioni dell’Italia Nord-Occidentale, come Liguria e
Lombardia, il prodotto pro capite era significativamente superiore
alla media nazionale, anche nel Mezzogiorno vi erano regioni
relativamente prospere. In Campania il prodotto pro capite era di
poco inferiore a quello lombardo, mentre in Puglia e nelle isole
maggiori era analogo a quello medio nazionale. Una situazione di
relativa arretratezza caratterizzava alcune regioni del Sud, come
Abruzzi, Calabria e Basilicata, mentre nel Nord era il Veneto ad
avere i redditi più bassi.
TABELLA 4
Pil pro capite regionale 1891-2010 (in euro del 2010)

Fonti: Appendici 2.3. e 1.1. (per il Pil nazionale in euro 2010).

La gerarchia regionale nel prodotto per abitante non rendeva ancora


possibile una divisione secondo la linea Nord-Sud. Lo si può vedere
nella Cartina 1, che mostra come sia al Sud, sia al Nord, vi fossero
regioni più sviluppate della media nazionale. Una situazione
differente si osserva nel 1911: mentre le regioni del Nord-Ovest,
Liguria, Piemonte e Lombardia, hanno livelli di sviluppo nettamente
superiori alla media italiana, alcune regioni del Mezzogiorno, come
Puglia e Sicilia, registrano un relativo arretramento.
Nel 1891 la geografia regionale dello sviluppo era diversa da
quella che si delineerà in seguito. In un’economia agricola, quale
quella dell’Italia dell’epoca, in cui il processo d’industrializzazione era
ancora agli inizi, il fatto che i divari regionali fossero contenuti non
deve stupire. Differenze nella produttività agricola potevano
determinare, è vero, differenze nei redditi. Come si è visto nel
Capitolo 1, però, la minore densità della popolazione faceva sì che il
prodotto per abitante nell’agricoltura al Sud risultasse maggiore.
Naturalmente, le differenze regionali dipendevano anche dai livelli
relativi d’industrializzazione. In talune industrie, però, come quelle
metalmeccanica, cartaria e dello zolfo, il Sud non era affatto in una
posizione di svantaggio. Indagini quantitative, come quelle di
Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli, contribuiscono a rafforzare
l’immagine di un Sud con livelli d’industrializzazione non molto
dissimili da quelli medi nazionali33. Da questi studi emerge come,
all’indomani dell’Unità, la distribuzione dell’industria fosse assai
diversa da quella che andò configurandosi a partire dai primi anni del
Novecento. Nel 1871, il Triangolo industriale, l’area di maggiore
industrializzazione del paese, compresa tra Genova, Torino e
Milano, non era ancora evidente. Al Nord, spiccava la Lombardia,
con un livello d’industrializzazione nettamente superiore a quello
italiano. Al Sud, l’indice d’industrializzazione della Campania era
analogo a quello medio nazionale; in Sicilia superiore. In Abruzzo e
Molise e in Calabria si era a un livello più basso.
Certamente, l’industria meridionale aveva indubbi svantaggi
competitivi che sarebbero diventati determinanti in seguito. Tra
questi, la ristrettezza del mercato interno e la distanza geografica
dalle grandi economie europee in via d’industrializzazione
rappresentavano, probabilmente, quelli principali. È bene ricordare
come l’industria dell’epoca fosse assai diversa da quella attuale. In
larghissima misura, era composta da unità produttive di piccole
dimensioni e a bassa intensità di capitale. In alcuni settori, come
quello metalmeccanico o estrattivo, esistevano impianti di dimensioni
significative. Nella maggior parte dei casi, però, le attività industriali
erano ancora di tipo artigianale e non di rado svolte a domicilio.

CARTINA 1
I divari regionali nel Pil pro capite 1891 e 1911
(media nazionale = 100)

Fonte: Appendice 2.3.


Nel 1871, la distribuzione delle attività economiche rifletteva
ancora i confini amministrativi ed economici degli Stati preunitari.
L’economia italiana non era, infatti, ancora integrata. In un’economia
proto-industriale, in cui il settore agricolo è predominante, le attività
manifatturiere tendono ad essere scarsamente concentrate; la loro
distribuzione dipende, innanzitutto, da risorse e mercati locali. Prima
che l’Italia venisse unificata, la dimensione dei mercati era tracciata
dai confini e dalle norme, incluse quelle commerciali (si pensi ai
dazi), di ciascuno degli Stati preunitari. L’industria era localizzata in
prossimità dei mercati principali, in particolare là dove risiedevano le
élites legate alle funzioni amministrative e di governo. In altre parole,
erano più industrializzate quelle province o quelle aree in cui si
trovavano le capitali dei precedenti Stati e le città più popolose;
meno industrializzate le aree periferiche di unità politiche più vaste.
3.2. La formazione dei divari
L’avvio della crescita industriale generò radicali cambiamenti. La
progressiva riduzione dei costi di trasporto, determinata dal rapido
sviluppo delle reti ferroviarie, l’integrazione commerciale tra regioni e
la crescente competizione estera determinarono la chiusura di molte
imprese meridionali. Così accadde, per esempio, nei settori
estrattivo e metallurgico34. Fortemente ridimensionata, l’industria
meridionale non fu interessata da quel processo di crescita che si
verificò, invece, in una parte limitata del paese: le regioni del Nord-
Ovest.
Nelle sue tendenze di fondo, il divario Nord-Sud appare come il
risultato del graduale processo di riallocazione dei fattori di
produzione, delle manifatture e delle attività commerciali, che ha
luogo man mano che il mercato interno si integra e gli scambi sono
favoriti da reti di trasporto più efficienti. La nascita degli squilibri
regionali e del dualismo può, così, essere interpretata alla luce delle
teorie della localizzazione e, in particolare, della «nuova geografia
economica», secondo cui l’integrazione economica e l’obiettivo di
ridurre i costi di trasporto, spingono le imprese a concentrarsi nello
spazio e a localizzarsi in prossimità del mercato principale, cioè
quello di maggiore dimensione35. I vantaggi della localizzazione
accentrata consentono alle imprese di servire anche gli altri mercati,
di minore ampiezza, da un unico centro produttivo. Nel caso
dell’Italia, il mercato più ampio, perché geograficamente vicino e
meglio collegato ai mercati europei, era il Nord, quello periferico il
Sud.
L’effetto che l’industrializzazione del Nord da un lato, e
l’integrazione economica dall’altro ebbero sull’industria del Sud e,
conseguentemente, sulla formazione dei divari regionali, fu colta dai
primi meridionalisti. Nel 1898, Ernesto Ciccotti notava come
l’industria del Sud risentisse della crescente concorrenza, mentre
quella del Nord traesse grandi benefici, oltre che dalla viabilità più
sviluppata e dalla sua posizione rispetto al porto di Genova, anche
dalla vicinanza agli Stati più industrializzati. L’Italia unita, aggiungeva
Ciccotti, «divenne il grande mercato della sua regione industriale»36 .
Considerazioni analoghe vennero espresse dall’economista Antonio
De Viti De Marco, che mise in evidenza come le tariffe
protezionistiche del 1887 avessero, di fatto, «obbligato il
Mezzogiorno agricolo a comprare dal Nord industriale gli articoli del
suo consumo»37. Il ruolo che la peculiare geografia italiana ebbe
sulla formazione degli squilibri regionali fu sottolineato da Francesco
Saverio Nitti, che osservò come la «conformazione dell’Italia -che
non ha riscontro in nessun paese d’Europa» determinasse, «in un
primo periodo, grandissimo esodo di ricchezza dal Sud al Nord»38.
Nel primo decennio del Novecento, durante la fase di decollo
economico dell’Italia, si delineò una nuova mappa dello sviluppo. Tra
il 1881 e il 1913 la produzione industriale italiana crebbe a tassi
sostenuti39. La crescita modificò non solo la struttura produttiva, ma
anche la geografia economica dell’Italia. Il primato del Nord-Ovest
divenne netto: nel 1911, ben il 55 per cento del valore aggiunto
industriale proveniva dal Triangolo industriale, solo il 16 per cento
dal Sud40. Di conseguenza, la posizione regionale nella graduatoria
dei redditi si modificò. Nel 1911, la Campania era ormai l’unica
regione meridionale ad avere un prodotto pro capite analogo a
quello medio italiano. Il ritardo del Mezzogiorno aumentò: il divario
rispetto al Nord aveva raggiunto i 20 punti percentuali. Il
meccanismo del dualismo economico si era messo in moto.

3.3. Una lunga divergenza


La Prima guerra mondiale contribuì ad accrescere i divari regionali.
Le enormi risorse che lo Stato destinò allo sforzo bellico
aumentarono considerevolmente il capitale dell’industria41. Oltre agli
stabilimenti addetti alle produzioni militari, ad essere favorite furono
le grandi imprese nei settori di base, localizzate prevalentemente al
Nord. Per la gracile struttura produttiva del Mezzogiorno il conflitto
non offrì, invece, significative opportunità di espansione42.
Nel 1920, Liguria, Lombardia e Piemonte sono le regioni più
sviluppate; il Mezzogiorno, invece, è in ritardo di sviluppo. Il
processo di divergenza tra le regioni del Centro-Nord e quelle del
Sud continua in tutto il periodo fascista. Nel 1936, nelle tre regioni
del Triangolo industriale viveva il 25 per cento della popolazione
italiana e si produceva ben il 36 per cento del reddito nazionale. Il
prodotto interno lordo della Lombardia era pari al 75 per cento di
quello dell’intero Mezzogiorno. Tutte le regioni meridionali, eccezion
fatta per Campania e Sardegna, avevano un reddito pro capite
inferiore al 75 per cento di quello italiano (Cartina 2).

CARTINA 2
I divari regionali nel 1936 e nel 1951
(media nazionale = 100)

Fonte: Appendice 2.3.

La struttura industriale italiana era polarizzata: l’industria


metallurgica, meccanica, chimica e tessile era quasi totalmente
concentrata nelle regioni del Nord. Nel 1937, al Nord, e in particolare
nel Triangolo industriale, si concentrava l’85 per cento degli addetti
all’industria e l’88 per cento delle imprese con più di 100 addetti43.
Qualche avanzamento si ebbe nella struttura industriale del Centro e
del Nord, anche fuori dal Triangolo industriale. In Toscana, Veneto,
Emilia e Marche si realizzò un rafforzamento tecnologico e
organizzativo delle imprese operanti in settori tradizionali, come
quelli dell’abbigliamento, del cuoio o del legno. Si trattò di un
processo importante, perché permise alle tradizioni artigianali locali
di continuare a vivere e, in molti casi, d’iniziare quel percorso verso
la piccola e media industria, alla base di molti successi del periodo
post-bellico44.
Nel complesso, però, il processo d’industrializzazione accrebbe le
differenze territoriali e il dualismo nella struttura produttiva tra il Nord
industriale e il Sud agricolo. La realizzazione di bonifiche e di alcune
infra-strutture nel Mezzogiorno non colmò, infatti, il divario di crescita
rispetto al resto del paese. Il blocco all’emigrazione – dovuto alle
restrizioni imposte da alcuni paesi, come gli Stati Uniti, e dal regime -
determinò una crescita significativa della popolazione meridionale.
Tra il 1920 e il 1941, la popolazione del Sud passò da 13 a quasi 16
milioni. La crescita demografica influenzò negativamente
l’andamento del reddito per abitante. Alla vigilia della Seconda
guerra mondiale, in Abruzzi e Basilicata, il prodotto pro capite
superava di poco la metà di quello medio italiano, mentre in Calabria
era addirittura inferiore. Condizioni migliori esistevano in Campania e
Sardegna. Nel suo complesso, però, il Mezzogiorno era un’area
sottosviluppata.
Scrisse Manlio Rossi Doria, a proposito del Sud durante il
fascismo, che furono quelli «gli anni della disperazione nera in tutto il
Mezzogiorno, resa più grave dal continuo, rapido aumento della
popolazione presente, per la cresciuta eccedenza naturale
determinata dalla ridotta mortalità e per l’assoluta mancanza di
sbocchi migratori»45.

3.4. Un’economia dualistica


La Seconda guerra mondiale acuì il divario: nel conflitto la struttura
produttiva meridionale subì, in proporzione, danni maggiori. Nel
1951 la distinzione tra Centro-Nord e Mezzogiorno appariva netta. In
tutte le regioni meridionali, il prodotto pro capite era inferiore a quello
medio nazionale: in Campania, la regione del Sud più ricca,
raggiungeva appena il 69 per cento di quello dell’Italia; in Calabria,
Sicilia e Basilicata circa il 60 per cento. Nel Nord, le tre regioni del
Triangolo industriale occupavano i primi posti nella graduatoria dei
redditi, seguite dall’Emilia e dalla Toscana. Nel complesso, il Pil pro
capite delle regioni del Mezzogiorno era il 53 per cento di quello del
Centro-Nord.
In Liguria, Piemonte e Lombardia si produceva quasi il 40 per
cento del prodotto interno italiano. Il primato delle tre regioni era
evidente anche rispetto al resto del Nord. In Veneto, Emilia e nelle
diverse «Italie agricole» del Nord, elevata disoccupazione e diffuse
condizioni di miseria, specie nelle campagne, determinavano
consistenti migrazioni verso le vicine città industriali o verso
l’estero46.
Anche nelle regioni del Centro si registrava una situazione di
ritardo. Nelle Marche, come in Umbria, il reddito medio era
significativamente inferiore a quello medio nazionale. Scendendo
verso Sud il ritardo appariva in tutta la sua gravità. In Campania,
Basilicata e, soprattutto, in Calabria e Sicilia i bassi livelli di reddito
rivelavano solo in parte la situazione di profonda arretratezza sociale
di queste regioni. Nel 1951, il tasso di analfabetismo, che in Sicilia
era del 25 per cento, raggiungeva il 32 per cento in Calabria, a fronte
del 13 per cento nazionale. In quest’ultima regione, la mortalità
infantile era ancora assai elevata: l’89 per mille contro una media
nazionale del 67.
Nei primi anni Cinquanta, la struttura produttiva del Mezzogiorno
era quella tipica delle aree in ritardo di sviluppo. L’agricoltura, che
occupava il 56 per cento degli addetti, contribuiva al 34 per cento del
Pil dell’area. Dalle attività industriali proveniva solo il 24 per cento
del Pil, a fronte del 38 per cento del Centro-Nord.

3.5. La convergenza
Nonostante la struttura produttiva nazionale fosse ormai dualistica,
con l’industria concentrata al Nord, nella seconda metà degli anni
Cinquanta si avviò un processo di convergenza tra le due aree. Alla
base di questo processo vi furono diversi fattori, tra cui:
1. l’accelerazione della crescita economica dell’Italia e il
conseguente cambiamento strutturale;
2. la massiccia emigrazione Sud-Nord;
3. le politiche d’intervento straordinario.
Nei primi anni Cinquanta, l’Italia era ancora in una situazione di
relativo ritardo. Godeva pertanto del vantaggio dei late-comer: bassi
costi di produzione e la possibilità di compiere un balzo tecnologico
adottando le tecniche delle economie più avanzate. L’ampio bacino
di forza lavoro disoccupata, specialmente al Sud, garantiva bassi
livelli salariali che rendevano competitive le merci italiane. Questi
fattori strutturali, insieme con l’aumento della domanda interna ed
estera furono decisivi per il boom economico che si avviò alla fine di
quel decennio. L’adesione al Mercato unico europeo favorì le
esportazioni che, nel periodo 1958-63, crebbero a un tasso annuo
prossimo al 16 per cento47. I tassi di risparmio e d’investimento
furono altissimi, mentre i consumi pubblici e privati aumentarono
considerevolmente.
L’espansione della produzione industriale accrebbe la domanda di
lavoro. Ciò determinò una riallocazione settoriale e geografica della
manodopera, dall’agricoltura all’industria e dal Sud al Nord. Il
cambiamento strutturale fu rapido e radicale. Tra il 1951 e il 1971, la
forza lavoro nel settore primario in Italia passò dal 44 al 17 per
cento: un calo di oltre 5 milioni di occupati48. Al Sud, come al Nord, la
contrazione del settore agricolo fu imponente. Il passaggio di forza
lavoro da un settore a bassa produttività (agricoltura) a uno a elevata
produttività (industria) alimentò la crescita economica49. Nelle regioni
povere, dove la forza di lavoro sottoccupata in agricoltura è
maggiore, la riallocazione settoriale tende a produrre più elevati
guadagni di produttività. Così fu anche in Italia. Il cambiamento
strutturale fu un potente fattore di convergenza economica
regionale50.
Per avere un’idea delle relazioni tra cambiamento strutturale e
crescita si guardi la Figura 7. Sull’asse orizzontale si riportano le
quote dell’occupazione agricola (rispetto a quella industriale) e, su
quello verticale, i tassi di crescita regionali nel periodo 1951-71. Il
legame tra le due variabili è molto forte: le regioni che nel 1951
avevano una maggiore quota di occupati in agricoltura, cioè un più
alto potenziale di cambiamento strutturale, nei vent’anni seguenti
crebbero più velocemente di quelle più industrializzate.

FIGURA 7
Struttura occupazionale e crescita economica (1951-71)

Sull’asse orizzontale si riporta la differenza tra la quota di occupati


nell’agricoltura e nell’industria nel 1951, su quello verticale i tassi di
crescita del Pil pro capite nel periodo 1951-71.
Fonti: Appendici 2.3. e 4.
Insieme con i profondi cambiamenti strutturali, altri fattori
favorirono la convergenza. A partire dal 1950, vennero assunti alcuni
importanti provvedimenti di politica economica a favore del Sud. Il
primo fu la riforma agraria. Le proprietà terriere superiori ai 300 ettari
vennero scorporate per essere assegnate ai contadini. La
redistribuzione della proprietà fondiaria, che nel Mezzogiorno
interessò 470 mila ettari, oltre ad avere effetti sociali, fece
aumentare la produzione agricola. Gli effetti economici non furono,
però, in grado di modificare il dualismo Nord-Sud51.
Il secondo provvedimento fu l’istituzione della Cassa per il
Mezzogiorno, con cui prese il via la fase dell’intervento straordinario.
In una prima fase, l’intervento fu diretto alla preindustrializzazione
del Sud, cioè alla creazione d’infrastrutture essenziali, come strade,
acquedotti, alle bonifiche e alla costruzione di scuole, necessarie per
lo sviluppo industriale. Il programma d’investimenti fu fondamentale
per ridurre le profonde carenze infrastrutturali del Sud. Vantaggi
consistenti da questa politica trassero le imprese del Nord, fornitrici
di beni e servizi52.
L’effetto indiretto dell’intervento straordinario fu rilevante anche in
seguito. In uno studio del 1974, l’economista Bruno Ferrara,
stimando l’interdipendenza Nord-Sud, concludeva osservando come
gli investimenti in opere pubbliche determinassero benefici
occupazionali e sui redditi per la stessa area in cui si realizzava
l’investimento (Sud), mentre quelli in impianti industriali favorissero
in misura maggiore le aree economiche a struttura forte (Nord)
rispetto a quelle in cui si localizzava l’investimento53.
Dal 1957 l’azione della Cassa per il Mezzogiorno venne
esplicitamente diretta all’industrializzazione. Una serie di leggi
stabilì, infatti, la concessione di contributi in conto capitale e di
agevolazioni fiscali per le imprese. Le imprese a partecipazione
statale vennero obbligate a localizzare al Sud il 60 per cento dei
nuovi investimenti e il 40 per cento di quelli complessivi, mentre alle
pubbliche amministrazioni fu imposto di riservare il 30 per cento
delle commesse di fornitura alle imprese meridionali e il 40 per cento
degli investimenti al Mezzogiorno. Furono, poi, costituiti consorzi tra
enti locali per la creazione di aree o nuclei di sviluppo industriali per
favorire la localizzazione d’imprese nelle aree depresse54.
In questa seconda fase, nel Mezzogiorno sorsero grandi
complessi industriali – «poli di sviluppo» – in settori a elevata
intensità di capitale: chimica, petrolchimica e siderurgia assorbirono
la quota prevalente degli investimenti delle imprese pubbliche; una
quota minore andò all’industria metalmeccanica. Campania, Puglia,
Sicilia e Sardegna furono le regioni maggiormente interessate
dall’industrializzazione per poli. Per investimenti, ma anche per
fatturato e occupazione, il gruppo delle imprese a partecipazione
statale rappresentò la principale concentrazione industriale del
Mezzogiorno. Anche alcune imprese private come Fiat, Montedison,
Olivetti e Pirelli -insieme ad alcune a capitale straniero –
realizzarono investimenti nel Sud55. Nel complesso, tra il 1950 e il
1975, il processo di accumulazione nelle regioni meridionali fu
intenso: gli investimenti crebbero, ampliando considerevolmente la
base industriale dell’area (Fig. 8).
Nel corso degli anni Sessanta, il divario Nord-Sud diminuì56. In
quegli anni, la dinamica positiva nei redditi fu sostenuta da un
recupero di produttività nel settore agricolo e, in misura ancora più
forte, in quello manifatturiero. Le distanze tra le regioni meridionali e
quelle più ricche del Nord, si ridussero. Nel 1973, in Calabria, il
prodotto per abitante raggiunse il 63 per cento della media
nazionale, in Campania sfiorò il 70 per cento, in Sardegna superò
l’80 per cento57.

FIGURA 8
L’accumulazione nel Mezzogiorno 1951-2005
Investimenti fissi lordi industriali nel Mezzogiorno in percentuale del
Centro-Nord. Calcoli su valori ai prezzi costanti.
Fonte: SVIMEZ, L’evoluzione macro-economica del Mezzogiorno e
del Centro-Nord, 1951-2009.

3.6. La fine della convergenza


Nel 1971, la geografia industriale italiana presenta una nuova
configurazione. Nel ventennio precedente, l’industrializzazione si è
gradualmente diffusa, interessando intensamente le regioni del
Nord-Est e del Centro58. È un modello d’industrializzazione
«leggera», basato su piccole e medie imprese manifatturiere che, in
diverse aree, danno origine a sistemi produttivi locali a elevata
specializzazione settoriale: i distretti industriali.
La diffusione dell’industria aveva fatto venir meno la storica,
spiccata differenziazione tra il Triangolo industriale e il resto del
paese. Il Centro-Nord aveva raggiunto, nel suo complesso, livelli
d’industrializzazione medio-alti. La linea di demarcazione con il Sud
passava lungo il confine del Lazio e dell’Abruzzo, comprendendo,
nella parte più industrializzata del paese, l’Umbria e le Marche59.
Secondo un’efficace definizione di Arnaldo Bagnasco, si era
configurata una «Terza Italia», l’area della piccola e media impresa,
collocata fra il Nord-Ovest, l’area della grande impresa, e il Sud
economicamente marginale60.
La politica d’intervento straordinario cominciava a manifestare i
suoi limiti negli anni Settanta. In particolare dopo l’istituzione delle
regioni, la sovrapposizione di compiti e obiettivi, di funzioni e
competenze tra organi diversi, aveva fatto perdere all’intervento per
il Mezzogiorno le sue finalità originarie61. Come osservato da
Pasquale Saraceno, che ne era stato uno dei più autorevoli
sostenitori, l’intervento straordinario venne diffusamente concepito
come «assegnazione di risorse indiscriminate in rapporto al loro
uso», mentre la questione meridionale si ridusse «a poco più di una
scelta di amministrazioni appaltanti di opere pubbliche»62. I grandi
insediamenti industriali nei settori di base, localizzati dalle
partecipazioni statali, non avevano stimolato la crescita di un
apparato produttivo in grado di sostenere endogenamente la crescita
del Sud. Nel contempo, la crescente concorrenza delle più efficienti
imprese del Nord aveva spiazzato parte del meno efficiente sistema
produttivo meridionale63.
Negli anni Settanta, mentre le regioni del Centro-Nord, pur
seguendo percorsi diversi, ottenevano risultati economici
convergenti, il divario Nord-Sud si riaprì. La lunga fase espansiva
che aveva interessato l’economia italiana era giunta al termine. Gli
shock petroliferi degli anni Settanta avevano innescato una profonda
riorganizzazione del sistema industriale italiano colpendo, in
particolare, le grandi imprese dei settori ad elevata intensità
energetica (petrolchimico, siderurgico, alluminio), che costituivano
l’apparato industriale meridionale. Gli investimenti al Sud
cominciarono a diminuire: quelli industriali, in particolare, caddero
dal 13 all’8 per cento del Pil dell’area tra la prima e la seconda metà
degli anni Settanta64.
Nonostante gli investimenti attuati, l’industrializzazione del Sud
era stata parziale. Nel 1970, l’industria manifatturiera contribuiva
appena al 18,6 per cento del valore aggiunto del Sud, a fronte del 35
per cento del Centro-Nord. Si trattava di una sproporzione notevole,
che risultava ancora maggiore nel confronto con il Nord-Ovest, in cui
la quota del manifatturiero saliva al 43 per cento. Dalla metà degli
anni Settanta in poi, sia a Nord che a Sud il peso dell’industria
cominciò a diminuire e quello dei servizi ad aumentare. Mentre al
Nord il processo di terziarizzazione avveniva, in maniera del tutto
fisiologica, in un’economia che aveva raggiunto una «fase matura»
dello sviluppo industriale al Sud riguardava un’economia che non
aveva attraversato una compiuta fase d’industrializzazione. Ne
risultò una struttura produttiva e occupazionale sbilanciata, in cui
l’agricoltura continuava ad avere un peso relativamente elevato
(indice, questo, del ritardo economico dell’area) mentre il peso del
settore dei servizi era analogo a quello delle economie più avanzate
e industrializzate. Questo processo fu, nel Mezzogiorno, reso
possibile dall’espansione del settore pubblico, ipertrofico sia rispetto
al reddito prodotto in loco, sia rispetto all’occupazione nei settori di
mercato.
Pur seguendo «modelli» diversi di sviluppo economico, Nord e
Sud si erano, però, pienamente integrati. Il Sud aveva fornito forza
lavoro ed era divenuto il grande mercato interno del Nord. Quella del
Sud era stata, dunque, per molti aspetti, un’integrazione passiva.
Tra il 1951 e il 1993, la spesa per l’intervento straordinario si era
attestata mediamente allo 0,7 per cento del Pil italiano, con un picco
negli anni Settanta (Tab. 5). Negli anni Ottanta e fino al 1993,
quando l’intervento straordinario giungeva a conclusione, l’impegno
finanziario per il riequilibrio regionale si era gradualmente affievolito,
mentre il divario Nord-Sud si riapriva65.

3.7. Il divario rimane ampio


Nella prima metà degli anni Novanta, la chiusura dell’Intervento
straordinario66 e le severe restrizioni fiscali, imposte dai criteri di
Maastricht per l’adesione dell’Italia all’Unione europea, comportano
una riduzione dei flussi di spesa verso le regioni in ritardo. Il divario
Nord-Sud si amplia raggiungendo un livello analogo a quello degli
anni Sessanta.

TABELLA 5
Spesa per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno 1951-1998

Periodi Media annua In % del Pil italiano


(milioni di euro 2008)
1951-57 1.518,80 0,73
1958-65 2.320,60 0,74
1966-70 2.328,90 0,70
1971-75 5.807,70 0,90
1976-80 7.119,10 0,90
1981-86 5.973,80 0,65
1987-93 6.305,30 0,57
1994-98 6.081,30 0,49
1951-98 4.592,90 0,70

Fonte: SVIMEZ, 150 anni di crescita, 150 anni di divari.


Nella seconda metà degli anni Novanta, si avvia la «nuova politica
regionale», in cui il decentramento istituzionale, la concertazione tra
più soggetti e l’approccio «dal basso verso l’alto», cioè centrato sulle
vocazioni e le risorse dei territori, sono i tratti distintivi. Gli strumenti
della nuova politica regionale, come i Patti territoriali e i Contratti
d’area e di programma, oltre alle numerose leggi d’incentivazione
agli investimenti, danno risultati di gran lunga inferiori alle attese e,
certo, non in grado di ridurre significativamente le diseconomie alla
localizzazione industriale nell’area.67 Nel Sud, la capacità di
attrazione d’investimenti esterni rimane assai modesta, in particolare
per quelli di provenienza estera.68
La geografia dei redditi regionali del 2010 è molto simile a quella
del 1973 (Cartina 3). La posizione di diverse regioni nella
graduatoria del Pil pro capite è cambiata: alcune hanno conosciuto
avanzamenti, altre sono arretrate. Certo, in tutte il Pil pro capite è
cresciuto. Non è sostanzialmente cambiata, però, la geografia
economica complessiva del paese. Ancora sono le regioni del Nord,
Lombardia in testa, a registrare i più alti livelli di reddito pro capite e
quelle del Sud, con la Calabria in coda, quelli più bassi. Nel
Mezzogiorno, solo l’Abruzzo, con il Molise e la Sardegna, hanno un
Pil pro capite superiore al 75 per cento di quello medio nazionale; le
altre sono regioni in ritardo di sviluppo.
Le differenze Nord-Sud emergono nette anche nel confronto con
altre regioni d’Europa. Nel 2007, nella graduatoria del Pil per
abitante di 301 regioni dei 27 paesi dell’Unione europea (più la
Turchia), la Lombardia si collocava al 29° posto, seguita dalla
provincia di Bolzano al 30° e dall’Emilia al 36°. Calabria e Sicilia
occupavano, invece, il 227° e 228° posto69. Considerando che ai
vertici della graduatoria si trovavano piccole regioni con grandi aree
metropolitane, come Londra, Parigi o Bruxelles, è evidente che in
Lombardia, e nelle altre regioni del Nord, i livelli di Pil pro capite
erano tra i più elevati al mondo. Nelle regioni più arretrate del Sud
erano, invece, analoghi a quelli di altre regioni in ritardo della Grecia
e del Portogallo, cioè di nazioni con livelli di sviluppo sensibilmente
inferiori a quello italiano.

CARTINA 3
I divari regionali nel Pil pro capite 1973 e 2010
(media nazionale = 100)

Fonte: Appendice 2.3.

3.8. Nord e Sud: due economie interdipendenti


Nord e Sud sono diventate col tempo due economie interdipendenti.
Per tale ragione, le politiche di sviluppo, pur specificamente dirette
all’obiettivo del riequilibrio regionale, hanno prodotto effetti sia al Sud
che al Nord. In un’economia dualistica, l’attuazione di politiche di
sviluppo tende a generare dipendenza economica nelle regioni
arretrate. Questa dipendenza è data dal fatto che la realizzazione
degli investimenti e l’aumento dei redditi e dei consumi inducono, in
una prima fase, un eccesso d’importazioni rispetto alle esportazioni.
Poiché nelle regioni arretrate, l’offerta interna è insufficiente per
soddisfare la domanda interna di beni e servizi, una parte di questa
viene soddisfatta da importazioni nette.
Questo deficit nella bilancia commerciale segnala la dipendenza
macroeconomica dall’esterno. Il deficit è, infatti, reso possibile dal
settore pubblico, i cui trasferimenti di risorse finanziano le
importazioni nette di beni e servizi nelle regioni arretrate. Se
transitoria, la dipendenza è un aspetto fisiologico delle politiche di
sviluppo: quando la base produttiva delle regioni aumenta, la
dipendenza si allenta fino a scomparire.
Dagli anni Cinquanta in poi, il meccanismo della dipendenza
caratterizza lo sviluppo economico meridionale. Tra il 1951 e il 2004
le importazioni nette (la misura del deficit commerciale) del Sud
hanno rappresentato, mediamente, il 18-20 per cento del Pil
dell’area. Secondo il meccanismo della dipendenza, queste
importazioni nette sono state finanziate, in larghissima misura, da
trasferimenti pubblici.
Essendo un dato strutturale, la dipendenza del Mezzogiorno dai
trasferimenti, indica evidenti limiti nelle politiche di sviluppo e, in
particolare, in quelle per l’industrializzazione. Come in una sorta di
pentola bucata i trasferimenti verso il Sud hanno aumentato i
consumi, ma non si sono tradotti in un aumento della base produttiva
in grado di sostenere la domanda70. Si è, così, determinata una
sperequazione tra capacità di consumo e capacità interne di
produzione di cui la dipendenza economica rappresenta uno degli
effetti71.
Nel caso del Mezzogiorno, la dipendenza non è stata, però,
interamente determinata dall’attuazione delle politiche di sviluppo e,
segnatamente, da quelle per l’industrializzazione. A partire dagli anni
Settanta, infatti, e in progressione nei decenni seguenti, non sono né
le politiche di riequilibrio territoriale né, tantomeno, come osservano
Alfredo del Monte e Adriano Giannola, i «poteri taumaturgici» della
classe politica locale a determinare i flussi di spesa pubblica verso il
Mezzogiorno72. Più banalmente, essi sono il risultato dell’azione
redistributiva implicita nel modello di Stato sociale che si afferma in
Italia. Un modello in cui l’erogazione di servizi pubblici è pressoché
uniforme sul territorio nazionale, mentre il prelievo fiscale, che
finanzia la spesa, è commisurato, secondo criteri di progressività,
alla capacità contributiva. Poiché questo modello opera in un paese
con elevate differenze regionali di sviluppo, esso implica un’azione
redistributiva. Le risorse finanziarie che originano dalle regioni
meridionali (tasse, imposte e contributi) sono, infatti,
significativamente inferiori alla spesa per servizi (sanità, assistenza
pubblica), trasferimenti alle famiglie (pensioni) e alle imprese,
acquisti di beni e servizi, investimenti, redditi agli occupati pubblici.
Il Sud ha ricevuto (e continua a ricevere) una spesa pubblica per
abitante minore di quella del Nord, ma parte di questa spesa è stata
finanziata da trasferimenti netti dalle regioni più sviluppate73.
Nel percorso di sviluppo del Sud, il reddito disponibile delle
famiglie e i consumi sono aumentati. Anche il reddito prodotto è
aumentato, ma in misura insufficiente per sostenere i consumi interni
all’area. Dagli anni Settanta in poi, per usare un’efficace espressione
di Carlo Trigilia, quello del Sud appare come uno «sviluppo senza
autonomia», se con autonomia si intende una maggiore capacità di
produzione endogena, cioè una maggiore industrializzazione74.
Ne è prova il fatto che, il divario tra Nord e Sud nei consumi per
abitante è inferiore rispetto a quello nel prodotto per abitante. Il
divario nei consumi si riduce ulteriormente se si considerano le
differenze nel livello medio dei prezzi – stimate nell’ordine del 10-20
per cento – che accrescono il potere d’acquisto del reddito nelle
regioni meridionali75.
I trasferimenti dal Nord al Sud rappresentano solo un aspetto
dell’interdipendenza economica tra le due aree. Poiché il Sud fa
parte di un mercato nazionale perfettamente integrato, le sue
importazioni riguardano, in larghissima misura, beni e servizi prodotti
al Nord verso cui affluiscono flussi di reddito per il loro pagamento76.
Dagli anni Cinquanta, il Sud è stato, infatti, il principale mercato di
quelle regioni che hanno finanziato le sue importazioni nette.
Indirettamente, i trasferimenti verso il Sud hanno sostenuto lo
sviluppo economico della parte più avanzata del paese.
L’intervento pubblico non implica di per sé un uso inefficiente delle
risorse. Quando l’obiettivo della redistribuzione prevale su quello
dello sviluppo è possibile, però, che si generino effetti perversi, ossia
disfunzionali per lo sviluppo stesso: clientelismo politico, spreco di
risorse, e formazione di posizioni di rendita in settori o attività
protette e assistite dal settore pubblico. Si tratta di effetti che
indeboliscono ciò che gli economisti chiamano capitale sociale,
ovvero quel sistema di comportamenti improntati al senso civico,
essenziale per il buon funzionamento della società e delle
istituzioni77. Si tratta di carenze socio-istituzionali, che si traducono
anche in una peggiore qualità dei servizi pubblici, tra cui quelli
fondamentali come istruzione, sanità e giustizia78. Riflettendosi sui
diritti di cittadinanza, oltre che sullo sviluppo economico, le
differenze nella qualità dei servizi costituiscono un aspetto rilevante
del divario Nord-Sud.

FIGURA 9
Divari regionali 1891-2010

Nel grafico, gli squilibri regionali sono misurati dall’indice di Theil


Fonti: Appendici 2.1. e 2.2.

4. LA MISURA DEI DIVARI

4.1. L’evoluzione dei divari regionali


Dopo aver esaminato la storia dei divari regionali, è opportuno ora
misurarne l’ampiezza nel corso del tempo tramite indicatori di sintesi.
La Figura 9 illustra l’andamento degli squilibri attraverso uno di
questi indicatori, l’indice di Theil. L’aumento dell’indice segnala un
aumento degli squilibri, ovvero un processo di divergenza regionale;
una sua diminuzione un processo di convergenza.
Schematicamente, è possibile individuare almeno tre fasi
nell’evoluzione dei divari. Nella prima fase, che va dal 1891 alla fine
della Seconda guerra mondiale, le ineguaglianze regionali si
approfondiscono e si consolidano. Raggiunto il massimo nei primi
anni Cinquanta, il valore dell’indice comincia a diminuire. Comincia
la seconda fase. Due date possono, approssimativamente,
racchiudere il processo di convergenza tra le regioni italiane: il 1953
e il 1973. Si tratta di una fase di riduzione dei divari le cui dinamiche
sono ampiamente documentate dagli studi empirici79.

FIGURA 10
Divari regionali e Pil pro capite 1891-2010

Nel grafico, il Pil pro capite dell’Italia è ai prezzi 1911. I divari


regionali sono calcolati attraverso la deviazione standard.
Fonti: Appendici 1.1., 2.1. e 2.2.
Questa fase di convergenza nei livelli di reddito s’interrompe
bruscamente con il primo shock petrolifero. Si apre la terza fase, dal
1973 al 2010, in cui episodi di divergenza si alternano ad altri di
convergenza. Negli anni Ottanta i divari aumentano; alla metà degli
anni Novanta, l’indice di squilibrio raggiunge il massimo del periodo,
con un valore analogo a quello di trent’anni prima. Segue una debole
riduzione che si protrae fino al 2010. Nel complesso, però, questa
fase di convergenza appare assai modesta e non tale da portare a
una riduzione degli squilibri regionali se non in tempi molto lunghi.
L’andamento delle ineguaglianze regionali in relazione allo
sviluppo economico nazionale è illustrato nella Figura 10, che riporta
l’andamento della deviazione standard in corrispondenza dei livelli di
Pil pro capite italiano dal 1891 al 2009. Si nota, come in precedenza,
un aumento degli squilibri fino al 1951, una riduzione fino al 1971 e,
in seguito, una sostanziale stabilità.

4.2. Nord e Sud


Nella Figura 11, le due curve del Pil pro capite del Nord e del Sud
descrivono le vicende delle due grandi sezioni del paese. Dalla fine
dell’Ottocento, a perdere terreno nei confronti del Nord sono sia le
regioni inizialmente più ricche -Campania, Puglia, Sicilia -sia quelle
più povere. Anche la geografia economica delle regioni del Nord
cambia sensibilmente. Le differenze interne al Nord e al Sud, che
connotavano la distribuzione regionale dei redditi nell’immediato
periodo postunitario, divengono via via meno evidenti. Man mano
che il Nord e il Sud divengono al loro interno più omogenei, i tratti del
dualismo si consolidano.
La divergenza Nord-Sud può essere esaminata in prospettiva
diversa, guardando al peso del Mezzogiorno nell’economia italiana
sia in termini economici, sia in termini demografici (Fig. 12). Nel
1861, il Mezzogiorno rappresentava il 37 per cento della popolazione
nazionale e contribuiva per una quota analoga alla produzione
aggregata del paese: non vi erano, dunque, differenze apprezzabili
nel prodotto pro capite tra Nord e Sud.
Nel 1914 il contributo del Mezzogiorno al Pil italiano era sceso al
31 per cento, mentre la popolazione era il 36 per cento di quella
nazionale. Nel periodo 1920-40, il peso relativo del Pil meridionale
cala di oltre 5 punti, passando dal 29 al 25 per cento, mentre la
quota della popolazione sale di circa un punto percentuale. Nel
1951, anno in cui il divario è massimo, il Mezzogiorno contribuisce al
24 per cento della produzione aggregata nazionale, ma in esso
risiede il 37 per cento degli italiani. Tra il 1951 e il 1973, intensi flussi
migratori riducono la popolazione meridionale mentre la quota del
prodotto aggregato aumenta.

FIGURA 11
Pil pro capite nel Sud e nel Centro-Nord 1861-2010
(Indice 1861=1)

Fonte: Appendice 1.2.

FIGURA 12
Popolazione e Pil del Sud rispetto all’Italia 1861-2010 (%)

Fonti: Appendici 1.2. e 3.1.


Nel 2010, il peso del reddito prodotto nelle regioni meridionali è
poco meno di un quarto di quello nazionale. A causa di dinamiche
migratorie differenti nelle due aree del paese, il peso demografico
del Sud si è, però, lievemente ridotto e ciò ha consentito un
recupero, assai modesto, come si intuisce, in termini di Pil pro
capite.
L’evoluzione del divario Nord-Sud è illustrata nella Figura 13, in
cui è rappresentato il rapporto fra il Pil per abitante del Sud e quello
del Nord. Sull’entità del divario Nord-Sud nel 1861 non vi è alcuna
certezza80. Le stime disponibili sono molte diverse. Per esempio,
Richard Eckaus ha stimato che il Pil per abitante del Sud fosse
inferiore del 15-25 per cento rispetto a quello del Nord. Alcuni autori,
come Guido Pescosolido hanno sostenuto che questi dati
sovrastimino le effettive differenze81. Ipotizzando che tra il 1861 al
1891 il divario fosse cresciuto, è plausibile che alla data dell’Unità
non vi fossero differenze significative tra Nord e Sud. Si può, però,
anche supporre che nel 1861 esistesse lo stesso divario del 5-10 per
cento che troviamo nel 1891. Esiste, dunque, un margine
d’incertezza nel quale è possibile collocare i valori del divario 82.

FIGURA 13
Il divario di sviluppo Nord-Sud 1861-2010 (%)

Pil pro capite del Sud in percentuale di quello del Nord. Poiché la
dimensione iniziale del divario Nord-Sud è incerta, per gli anni 1861-
1900 si riporta una banda di possibili valori. L’ampiezza della banda
passa dal 10 per cento nel 1861 a zero nel 1900 (si veda
l’Appendice 1.3.).
Fonti: Appendici 1.2. e 1.3.

4.3. Il costo della vita e il divario Nord-Sud


Dal punto di vista strettamente economico, il tenore di vita di un
individuo dipende dalla quantità di beni e servizi che il suo reddito gli
consente di acquistare. Due elementi sono, dunque, da tenere in
considerazione: il reddito nominale di cui l’individuo dispone e il
livello medio dei prezzi dei beni e servizi. Dato il reddito, un più alto
livello dei prezzi riduce il potere d’acquisto. Ai fini della
determinazione del tenore di vita (o del benessere economico) è,
dunque, necessario prendere in considerazione il reddito reale, cioè
il reddito nominale diviso per il livello dei prezzi.
I prezzi non variano solo nel tempo, ma anche nello spazio: i
medesimi beni o servizi possono avere prezzi diversi in aree diverse.
Per valutare quale sia l’effettivo potere d’acquisto di un dato reddito
nelle diverse aree, si utilizzano indici spaziali dei prezzi, altrettanto
noti come indici di «parità del potere d’acquisto» (PPA). Si tratta di
indici che misurano le differenze tra il livello medio dei prezzi di un
«paniere» standard di beni e servizi in una determinata area rispetto
alla media del complesso delle aree. Le differenze nel prezzo del
paniere consentono, appunto, di stimare le differenze geografiche
nel «costo della vita».
In Italia, il costo della vita presenta significative differenze
regionali. In uno studio del 1996, l’economista Luigi Campiglio ha
effettuato confronti nel prezzo di un paniere di beni e servizi
composto da 185 articoli tra 12 città italiane mostrando differenze
notevoli – dell’ordine del 20-30 per cento – tra le città del Nord e
quelle del Sud83. Costruendo un indice dei prezzi rappresentativo dei
consumi delle famiglie, Luigi Cannari e Giovanni Iuzzolino hanno
stimato che, nel 2006, nel Mezzogiorno il livello dei prezzi fosse
inferiore del 16-17 per cento rispetto al resto dell’Italia84. Le
differenze regionali risultavano assai elevate, fino a raggiungere il 29
per cento tra Lombardia, la regione con i prezzi più alti, e Basilicata
e Calabria, quelle con i prezzi più bassi.
È interessante capire le ragioni di queste ampie differenze
regionali. Se si considerano i prezzi dei prodotti alimentari,
dell’abbigliamento e dell’arredamento – che rappresentano circa un
terzo della spesa per consumi delle famiglie – il costo della vita nel
Mezzogiorno risulta inferiore di appena il 3 per cento rispetto al
Centro-Nord. Sono gli affitti e i servizi (questi ultimi rappresentano il
38 per cento della spesa delle famiglie) a presentare le differenze di
prezzo più ampie tra le due aree. In particolare, il divario nel costo
della vita tra Nord e Sud è spiegato, per oltre due terzi, dal diverso
livello delle spese per l’abitazione che includono i cosiddetti «fitti
figurativi imputati», cioè quegli affitti solo figurativamente pagati dalle
famiglie che abitano in un’abitazione di loro proprietà85; includendo i
soli fitti effettivi, cioè quelli realmente pagati dai locatari, il
differenziale territoriale nei prezzi si riduce al 10 per cento.
Il peso che gli affitti, in particolare quelli figurativi, hanno nel
determinare le differenze nel costo della vita tra Nord e Sud emerge
chiaramente dalla ricerca condotta nel 2010 dall’Istat in 20 città
italiane, la maggior parte capoluoghi di regione86. Anche in tal caso i
risultati mostrano come esista un differenziale tra i prezzi medi delle
città del Nord e quelle del Sud, ma assai meno ampio da quello
risultante dagli studi sopra citati. La città più cara risultava Bolzano,
con un livello medio dei prezzi superiore del 5,6 per cento rispetto
alla media nazionale; quella meno cara Napoli, con un livello dei
prezzi inferiore di circa il 6 per cento alla stessa media. Nel
complesso, la dispersione dei prezzi nelle 20 città rispetto alla media
era contenuta: del 3,7 per cento. Questo risultato è, in larga misura
dovuto al fatto che l’Istat include nel suo indice gli affitti reali, mentre
trascura quelli figurativi.
Attraverso un dettagliato lavoro di ricostruzione statistica, gli
economisti Nicola Amendola e Giovanni Vecchi mostrano come i
divari regionali nel costo della vita costituiscano un aspetto
strutturale del percorso di sviluppo economico dell’Italia. Secondo
questi studiosi, a partire dal Secondo dopoguerra, il livello medio dei
prezzi al Sud è stato sistematicamente inferiore a quello medio
nazionale87. Il divario Nord-Sud nel livello dei prezzi, che nel 1951
era di circa il 9 per cento, si è progressivamente ampliato fino a
raggiungere quasi il 17 per cento nel 2011. Anche in precedenza il
divario era significativo. Gli indici disponibili per alcuni anni mostrano
come, nel periodo 1923-38, il costo della vita nel Mezzogiorno fosse
inferiore del 12-15 per cento rispetto a quello del Centro-Nord.
L’esistenza di differenze nel costo della vita può avere
conseguenze notevoli sul livello di benessere economico degli
individui. Un esempio può essere utile. Secondo le stime di
Amendola e Vecchi, nel 2011, fatto 100 il livello medio dei prezzi in
Italia, l’indice dei prezzi era 106,1 al Nord e dell’89,4 per cento al
Sud. Per un lavoratore con un salario di 2.000 euro, ciò si traduceva
in un reddito reale di 1.888 euro al Nord e di 2.237 euro al Sud: una
differenza non trascurabile nel potere d’acquisto!
Pur con la necessaria prudenza, gli indici regionali dei prezzi
possono essere utilizzati per comparare il Pil pro capite nominale
con quello reale, calcolato cioè in termini di «parità di potere
d’acquisto», del Nord e del Sud. Come si può vedere nella Tabella 6,
le differenze sono considerevoli: al Sud il Pil pro capite reale è più
alto del 10 per cento di quello nominale, al Nord il contrario. Ne
consegue che il divario di sviluppo Nord-Sud si riduce, risultando di
un 10 per cento inferiore rispetto a quello che si ottiene
considerando, come abbiamo fatto fin’ora, il Pil pro capite nominale.

TABELLA 6
Il Pil pro capite e il divario Nord-Sud aggiustato
per il costo della vita 1923-2010

Nella Tabella, il Pil pro capite in «parità di potere d’acquisto» PPA o


reale, indica il valore ottenuto dividendo il Pil pro capite nominale per
gli indici dei prezzi del Nord e del Sud. La misura del divario è, qui,
come in altri casi, ottenuta dividendo il Pil pro capite del Sud per
quello del Nord e moltiplicando per 100.
Fonti: per il Pil pro capite, Appendice 1.2.; per gli indici di prezzo,
AMENDOLA, VECCHI, Costo della vita, pp. 436-37.
Un’avvertenza! Il calcolo del Pil pro capite in parità di potere
d’acquisto, non offre le stesse informazioni che si ottengono
calcolando i salari o i redditi disponibili reali. Solo una parte del Pil è
spesa, infatti, per consumi delle famiglie: in Italia, poco meno del 60
per cento. Un’altra parte si traduce in spesa per beni d’investimento
da parte delle imprese, in consumi delle pubbliche amministrazioni e
in esportazioni nette. È evidente che è solo il livello dei consumi a
influenzare direttamente il benessere economico degli individui. È,
dunque, alla spesa per consumi, e non al Pil nel suo complesso, che
bisognerebbe guardare per stimare gli effetti che le differenze nel
costo della vita producono sul tenore di vita delle persone.
Al momento non sono disponibili indici del costo della vita per i
primi decenni postunitari, per cui non è possibile affermare quale
fosse, in termini reali, il divario Nord-Sud. Non si può escludere,
però, che le differenze nel costo della vita si siano manifestate man
mano che il divario di sviluppo tra le due aree andava aumentando,
portando ad un più alto livello medio dei prezzi dei beni e dei servizi
nella parte economicamente più sviluppata del paese.

4.4. Redditi e indicatori sociali


Finora abbiamo esaminato il divario nel Pil pro capite. Un indicatore
importante del livello di sviluppo, ma non l’unico. Basandosi su una
concezione dello sviluppo inteso come processo che aumenta le
capacità (capability) e le possibilità di scelta degli individui, le
Nazioni Unite hanno adottato l’indice di sviluppo umano; un
indicatore sintetico dello sviluppo, ottenuto come media di tre
indicatori: speranza di vita, livello d’istruzione e reddito pro capite88.
Questi tre indicatori misurano quelle che le Nazioni Unite hanno
definito come le tre dimensioni fondamentali dello sviluppo umano.
Emanuele Felice ha calcolato l’indice di sviluppo umano per le
regioni italiane dal 1891 al 2001. I dati relativi al 1891, mostrano
l’esistenza di significative differenze Nord-Sud (Tab. 7). Secondo
Felice, in quell’anno, l’indice di sviluppo umano nel Mezzogiorno era
il 78 per cento di quello dell’Italia; nel Nord Ovest si registrava il
valore più elevato, il 127 per cento, mentre nel Nord Est e Centro
scendeva al 105 per cento. Il divario del Sud rispetto al Nord-Ovest
era, dunque, di quasi 40 punti percentuali.

TABELLA 7
Indice di sviluppo umano delle regioni italiane, 1891-2001
Rispetto all’indice dell’Italia = 100. I confini delle regioni sono quelli
dell’epoca.
Fonte: FELICE, Divari regionali e intervento pubblico, p. 153.
Nel corso del Novecento le differenze regionali si riducono
notevolmente. Nel 1938, l’indice di sviluppo umano era il 90 per
cento di quello medio nazionale; era il 95 per cento nel 1971 mentre,
nel 2001, lo scarto tra il valore del Mezzogiorno e quello dell’Italia
era di appena 4 punti percentuali. È interessante notare come
l’andamento del Pil pro capite e degli indicatori dello sviluppo umano
rivelino andamenti opposti. Mentre il divario Nord-Sud nei redditi pro
capite si è ampliato nel tempo, quello nello sviluppo umano si è
ridotto. Le differenze fra i due indici non sono di poco conto.

FIGURA 14
Pil pro capite e sviluppo umano in 18 nazioni
e nel Mezzogiorno, 1871

Nel grafico, il Pil pro capite di ciascun paese è espresso in


percentuale rispetto al valore mediano.
Fonti: elaborazioni su dati CONTE, DELLA TORRE, VASTA, The Human
Development Index in Historical Perspective, per l’indice di sviluppo
umano; FELICE, Divari regionali e intervento pubblico, per l’indice di
sviluppo umano nel Mezzogiorno; MADDISON, The World Economy:
Historical Statistics, per il Pil pro capite.
Il basso punteggio del Mezzogiorno in quest’indice alla fine
dell’Ottocento era dovuto essenzialmente al fatto che, come
abbiamo visto nel Capitolo 1, i livelli d’istruzione nelle regioni
meridionali erano più bassi di quelli nel resto del paese. Un divario di
ben 50 punti percentuali, secondo i calcoli di Felice. Per quel che
riguardava la speranza di vita, invece, la condizione del Sud non era
significativamente diversa da quella media nazionale.
È assai importante, dunque, chiedersi se i divari nell’istruzione (e
nell’indice di sviluppo umano) siano rappresentativi dei divari nel
reddito. Ciò che si può dire è che, quando si considerano tutti i paesi
del mondo, la correlazione esistente oggi tra i due indicatori, Pil pro
capite e indice di sviluppo umano, è molto elevata89. Se si confronta,
però, la graduatoria internazionale del Pil pro capite con quella
dell’indice di sviluppo umano, si osserva come le posizioni relative di
ciascun paese nelle due graduatorie non sempre coincidano. La
Figura 14 illustra la correlazione tra indice di sviluppo umano e Pil
pro capite nel 1871 in 18 paesi più il Mezzogiorno. Il grafico mostra
come l’Italia, insieme con altre nazioni oggi ad elevato reddito medio,
avesse un indice di sviluppo umano inferiore rispetto a quello
mediano e simile a quello della Spagna. Giappone e Finlandia erano
più arretrate, sia in termini di reddito che di sviluppo umano90. Nel
Mezzogiorno, il valore dell’indice era prossimo a quelli di queste due
nazioni. Tra i paesi considerati la correlazione tra sviluppo
economico e umano è significativa, ma non particolarmente
elevata91, a dimostrazione che gli aspetti considerati dai due
indicatori (Pil pro capite e indice di sviluppo umano) sono diversi.
1. Si vedano le Appendici 1 e 2, in cui sono riportate le serie con i valori del Pil.
2. La formazione della divergenza internazionale è esaminata da LUCAS, Some
Macroeconomics.
3. Si veda PRITCHETT, Divergence: Big Time.
4. Un riferimento teorico è il modello di Friedmann sulla formazione delle gerarchie
regionali nei livelli di sviluppo, contenuto nel classico studio di FRIEDMANN,
Regional Development Policy.
5. Per la formazione di una geografia economica polarizzata si veda KRUGMAN,
Commercio internazionale e geografia economica.
6. Si veda, per esempio, WU, Comparing Regional Development in China and
India.
7. Per le teorie dello sviluppo squilibrato si vedano, per esempio, MYRDAL, I Paesi
del benessere e gli altri; HIRSCHMAN, La strategia dello sviluppo economico.
8. LEONARDI, Coesione, convergenza e integrazione, p. 112. Si veda, inoltre,
DAVIES, HALLET, Interactions Between National and Regional Development.
9. Per esempio, ciò accade per le unità statistiche utilizzate per classificare le
regioni europee, come quelle di livello NUTS 2.
10. IUZZOLINO, I divari territoriali di sviluppo in Italia nel confronto internazionale.
11. Sul periodo dall’Unità alla Prima guerra mondiale è importante il volume di
TONIOLO, Storia economica dell’Italia liberale 1850-1918
12. Per l’industria, si vedano, tra gli altri, BIANCHI, La rincorsa frenata; AMATORI,
COLLI, Impresa e industria in Italia.
13. Si vedano, tuttavia, FENOALTEA, La crescita economica dell’Italia postunitaria
e The Growth of the Italian Economy, 1861-1913, che presenta valori diversi (che,
tuttavia, non modificano il quadro complessivo).
14. Come si è mostrato nel Capitolo 1, par. 3.4.
15. CIPOLLA, Storia facile dell’economia italiana, p. 70.
16. MALANIMA, L’economia italiana; MALANIMA, The Long Decline of a Leading
Economy.
17. TONIOLO, VECCHI, Nel secolo breve il lungo balzo del benessere degli
Italiani.
18. CAFAGNA, La questione delle origini del dualismo economico italiano, p. 193.
19. BAIROCH, International Industrialization Levels from 1750 to 1980. Si veda
anche TONINELLI, Il processo di industrializzazione.
20. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro, p. 41.
21. L’Officina Meccanica Nazionale di Napoli era sorta in seguito alla fusione delle
fabbriche di Pietrarsa e dei Granili. Per un esame dei settori industriali dell’epoca
si veda, tra gli altri, LUZZATTO, L’economia italiana dal 1861 al 1894, p. 123.
22. Il tema è ampiamente discusso in GIANNETTI, Tecnologia e sviluppo
economico italiano 1870-1990.
23. FEDERICO, MALANIMA, Progress, Decline, Growth.
24. O’BRIEN, PRADOS DE LA ESCOSURA, Agricultural Productivity and
European Industrialization.
25. FERRARA, Rassegna di Finanza, in «La Nuova Antologia», 1866, gennaio, cit.
in LUZZATTO, L’economia italiana, p. 13.
26. Il tema costituisce l’argomento centrale in FENOALTEA, L’economia italiana
dall’Unità alla Grande Guerra. Si veda anche AMATORI, L’Italia, p. 342.
27. VASTA, Italian Export Capacity in the Long-Term Perspective (1861-2009), pp.
138-141.
28. MALANIMA, Transizione energetica e crescita in Italia, 1800-2010.
29. CARRERAS, FELICE, L’industria italiana dal 1911 al 1938, p. 310.
30. DEL MONTE, GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, pp. 167-70.
Si ritornerà più ampiamente su questo tema nel Capitolo 3.
31. Per un’analisi della crescita economica negli anni del «miracolo economico»,
NARDOZZI, Miracolo e declino.
32. Nelle Appendici 2.1., 2.2. e 2.3. si riportano i differenziali regionali annui e i dati
per decennio a prezzi del 1911.
33. CICCARELLI, FENOALTEA, Through the Magnifying Glass. Si veda, inoltre,
FENOALTEA, La crescita industriale delle regioni d’Italia. Piero Bevilacqua scrive
che «al momento dell’Unità d’Italia le distanze tra il Nord e il Sud, sul piano della
struttura industriale non erano così rilevanti come lo sarebbero diventate in
seguito»: BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale, p. 29.
34. L’impatto di tali fattori sull’industria del Sud è discusso da BEVILACQUA,
Breve storia dell’italia meridionale, pp. 48-53.
35. Oltre al lavoro di KRUGMAN, Increasing Returns and Economic Geography,
per gli effetti dell’integrazione si veda anche KRUGMAN, Geografia e commercio
internazionale.
36. CICCOTTI, Mezzogiorno e settentrione d’Italia, pp. 89-101.
37. DE VITI DE MARCO, La questione meridionale, p. 37.
38. NITTI, Nord e Sud, p. 449.
39. Secondo le stime di Stefano Fenoaltea, la produzione industriale crebbe a un
tasso medio annuo del 4,2 per cento: FENOALTEA, L’economia italiana dall’Unità
alla Grande Guerra.
40. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro, p. 111.
41. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro, pp. 282-88.
42. DEL MONTE, GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, p. 89.
43. BIANCHI, La rincorsa frenata, p. 52.
44. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro, pp. 374-75.
45. ROSSI DORIA, Scritti sul Mezzogiorno, p. 144.
46. CAMERA DEI DEPUTATI, Atti della commissione parlamentare d’inchiesta
sulla miseria.
47. Si veda COHEN, FEDERICO, Lo sviluppo economico italiano, 1820-1960, pp.
107 ss.
48. Il tema della forza lavoro verrà sviluppato più ampiamente nel Capitolo 3.
49. Il contributo della trasformazione strutturale alla crescita economica italiana è
stato analizzato da TEMPLE, Structural Change and Europe’s Golden Age.
50. Per gli effetti del cambiamento strutturale nella crescita degli anni 1950-70 si
veda KINDLEBERGER, Lo sviluppo economico europeo e il mercato del lavoro, e,
più di recente, con particolare riferimento ai divari regionali: PACI, PIGLIARU,
Structural Change and Convergence, e CAPASSO, CARILLO, DE SIANO,
Migration Flows, Structural Change and Growth Convergence.
51. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale, pp. 97-98. Si veda anche
BARBAGALLO, Mezzogiorno e questione meridionale (1860-1980).
52. Uno studio del 1949 aveva già previsto che gli effetti di reddito della spesa
aggiuntiva della Cassa si sarebbero distribuiti per il 60 per cento al Nord e per il 40
al Sud. Si veda, CAFIERO, Storia dell’intervento straordinario, p. 41 e LEPORE,
La valutazione dell’operato della Cassa per il Mezzogiorno.
53. FERRARA, Nord-Sud. Interdipendenza di due economie.
54. CAFIERO, Storia dell’intervento straordinario, pp. 42-54.
55. Per una dettagliata analisi di questi temi, DEL MONTE, GIANNOLA, Il
Mezzogiorno nell’economia italiana, pp. 159-85.
56. In AMENDOLA, SALSANO, VECCHI, Povertà, p. 310 si legge che alla «fine
degli anni Sessanta», si verificò «una considerevole dilatazione del divario della
povertà tra Nord e Sud». I dati presentati a p. 432 (Tab. 20) mostrano una stabilità
della percentuale di poveri sulla popolazione totale fra 1967 e 1972 sia nel Nord
che nel Sud. La povertà sembra ridursi dal 1973 e il divario Nord-Sud nella povertà
sembra aumentare da tale data.
57. Si veda anche la successiva Cartina 3.
58. BIANCHI, La rincorsa frenata, p. 199.
59. CONTI, SFORZI, Il sistema produttivo italiano, p. 306.
60. BAGNASCO, Tre Italie, p. 7.
61. Per una disamina delle diverse fasi dell’Intervento straordinario si vedano, oltre
al volume di CAFIERO, Storia dell’intervento straordinario, anche LA SPINA, La
politica per il Mezzogiorno e PUGLIESE, Mezzogiorno, meridionalismo ed
economia dello sviluppo.
62. SARACENO, L’unificazione economica italiana è ancora lontana, p. 66.
63. DEL MONTE, GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, pp. 250-251.
64. DEL MONTE, GIANNOLA, Istituzioni economiche e Mezzogiorno, p. 52.
65. Si vedano anche i dati in LEPORE, La valutazione dell’operato della Cassa per
il Mezzogiorno.
66. La Cassa per il Mezzogiorno era stata sostituita dall’Agenzia per lo Sviluppo
del Mezzogiorno nel 1986, mentre la chiusura dell’Intervento straordinario era
stato decretata nel 1992. Si veda, tra gli altri, D’ANTONIO, L’economia del
Mezzogiorno dopo la fine dell’intervento straordinario.
67. Per un esame critico, ancorché assai realistico, della nuova politica regionale
si veda, in particolare, ROSSI, Mezzogiorno del Nord. Una valutazione diversa è
contenuta nel volume di VIESTI, Mezzogiorno a tradimento. Per i limiti della nuova
programmazione si vedano anche SCARLATO, Lo sviluppo del Mezzogiorno:
come superare lo stallo? e GIUNTA, L’incoerenza attuativa della Nuova politica
regionale.
68. Si veda, per esempio, DANIELE, MARANI, Organized Crime, the Quality of
Local Institutions and FDI in Italy.
69. Dati relativi al Pil pro capite in parità di potere d’acquisto per le regioni NUTS
2: fonte: EUROSTAT, Statistical Yearbook 2010.
70. Si veda DE BONIS, ROTONDI, SAVONA, Sviluppo, rischio e conti con
l’esterno, in cui si mostra come l’importo delle risorse che dal Sud vanno verso il
Nord per l’acquisto di beni e servizi sia maggiore del flusso dei trasferimenti netti
ricevuto dal Sud.
71. Le cause e le conseguenze dello squilibrio tra consumi e produzione sono
ampiamente esaminati da Enrico e Guglielmo WOLLEB, Divari regionali e
dualismo economico.
72. DEL MONTE, GIANNOLA, Istituzioni economiche e Mezzogiorno, p. 63.
73. La differenza tra entrate e spese delle Amministrazioni pubbliche prende
tecnicamente il nome di residuo fiscale Per esempio, negli anni 2004-06, in
Lombardia la differenza tra entrate fiscali e spesa pubblica pro capite è stata di
-4.565 euro, mentre in Calabria di 3.853 euro. STADERINI, VADALÀ, Bilancio
pubblico e flussi redistributivi regionali. I caratteri disfunzionali ai fini dello sviluppo
economico della dipendenza macroeconomica del Mezzogiorno dai trasferimenti
pubblici sono esaminati da RICOLFI, Il sacco del Nord.
74. TRIGILIA, Sviluppo senza autonomia, p. 170.
75. Le differenze nel costo della vita tra Nord e Sud verranno affrontate nel
successivo par. 4.3.
76. Si veda CANNARI, CHIRI, La bilancia di pagamenti di parte corrente.
77. Per gli effetti perversi della dipendenza dalla spesa pubblica si vedano i citati
volumi di TRIGILIA, Sviluppo senza autonomia; DEL MONTE, GIANNOLA,
Istituzioni economiche e Mezzogiorno.
78. Si vedano, per esempio, lo studio di BRIPI, CARMIGNANI e GIORDANO, La
qualità dei servizi pubblici in Italia, quello di ALAMPI, LOZZI, Qualità della spesa
pubblica nel Mezzogiorno e CARMIGNANI, GIACOMELLI, La giustizia civile in
Italia: i divari territoriali.
79. PACI, SABA, The Empirics of Regional Economic Growth in Italy.
80. Il tema è stato discusso nel Capitolo 1.
81. ECKAUS, L’esistenza di differenze economiche tra Nord e Sud d’Italia al
tempo dell’unificazione; PESCOSOLIDO, Unità nazionale e sviluppo economico in
Italia (1750-1913).
82. I dati annuali relativi al Pil pro capite del Sud e del Nord sono riportati
nell’Appendice 1.2. Stime che tengono conto del margine d’incertezza relativo al
periodo 1861-1900 sono riportate nell’Appendice 1.3.
83. CAMPIGLIO, Il costo del vivere. Nord e Sud a confronto.
84. CANNARI, IUZZOLINO, Le differenze nel livello dei prezzi al consumo tra Nord
e Sud.
85. L’affitto imputato rappresentano una sorta di costo opportunità, ovvero l’affitto
cui si rinuncia abitando in un’abitazione di proprietà che, alternativamente,
potrebbe essere data in fitto a terzi.
86. ISTAT, UNIONCAMERE, ISTITUTO G. TAGLIACARNE, Le differenze nel
livello dei prezzi al consumo tra i capoluoghi delle regioni italiane.
87. AMENDOLA, VECCHI, Costo della vita, e anche AMENDOLA, VECCHI, AL
KISWANI, Il costo della vita al Nord e al Sud d’Italia.
88. La nozione di sviluppo umano ha i suoi fondamenti nei lavori di SEN, Lo
sviluppo è libertà. I dati internazionali sull’indice di sviluppo umano sono contenuti
nei Rapporti sullo sviluppo umano, editi annualmente delle Nazioni Unite.
89. Si veda, per esempio, DANIELE, La crescita delle nazioni, pp. 36-42.
90. Si confronti il lavoro di CONTE, DELLA TORRE, VASTA, The Human
Development Index in Historical Perspective,
91. Il coefficiente di determinazione parziale R2 è pari a 0,47.
3. Il lavoro

In Italia, all’epoca dell’Unità, due terzi della forza lavoro era attiva
nell’agricoltura. Dell’altro terzo, una metà era occupata nell’industria
e l’altra nei servizi. La grande maggioranza della popolazione in età
da lavoro svolgeva qualche attività; spesso, più d’una.
La crescita moderna dell’Italia, dal 1880 in avanti, introdusse
importanti modifiche nel mercato del lavoro. Su due in particolare
soffermeremo la nostra attenzione in questo capitolo:
1. la diminuzione relativa della forza lavoro rispetto alla popolazione;
il declino, cioè, del tasso di attività o tasso di partecipazione;
2. il cambiamento nella struttura della forza lavoro, vale a dire nella
sua distribuzione fra le diverse occupazioni. Il numero degli
occupati in agricoltura diminuì da fine Ottocento in termini relativi,
mentre si accresceva l’occupazione nell’industria e nei servizi.
L’Italia ha attraversato, in un secolo e mezzo, tre fasi di sviluppo
economico:
1. la fase pre-industriale, che è durata fino al 1880 circa;
2. la fase industriale, dal 1880 al 1970-80;
3. la fase post-industriale, in cui si trova dagli anni 1970-80.

Nella fase agricola o pre-industriale, la struttura dell’occupazione


nel Mezzogiorno e nel Nord erano molto simili. Nella fase industriale
la crescita della forza lavoro occupata nell’industria è stata assai
maggiore nel Nord che nel Mezzogiorno; per quanto anche il Sud
abbia avuto la sua industrializzazione. Nella fase post- industriale, i
servizi hanno assorbito sempre più forza lavoro sia a Nord che a
Sud. Anche in questa fase, tuttavia, la forza lavoro nell’industria del
Mezzogiorno è rimasta relativamente assai inferiore a quella nel
Nord del paese.

1. POPOLAZIONE E LAVORO

1.1. Il lavoro nelle società contadine tradizionali


In una società agricola, come quella italiana per buona parte
dell’Ottocento, la divisione del lavoro è sempre imperfetta. Esiste, è
vero, una differenza fra le occupazioni dei maschi e quelle delle
femmine; le prime svolte soprattutto fuori dell’abitazione e le
seconde in prevalenza entro le mura domestiche. Sia i maschi che le
femmine, tuttavia, sono spesso occupati, a fianco dell’agricoltura, in
attività varie, che oggi inseriremmo nei settori secondario e terziario.
Il mondo contadino è il mondo delle pluriattività, come spesso si
dice. Con l’avvio dell’industrializzazione le cose cambiano. La
pluriattività viene eliminata dalla divisione del lavoro1.
Oltre alla scarsa divisione dei ruoli, un’altra differenza distingue il
mondo contadino del passato rispetto a quello attuale: la
partecipazione al lavoro coinvolge una quota della popolazione più
ampia di quanto non accada nelle economie avanzate attuali. Oggi si
definiscono in età da lavoro le classi d’età fra i 15 e i 64 anni. Nel
mondo contadino d’ieri anche i bambini, non appena erano in grado,
cominciavano a lavorare coi loro padri, madri e fratelli maggiori. Sui
campi, inoltre, si lavorava fin quando si era in grado di farlo, e quindi
anche dopo quella che oggi è l’età della pensione. Nel 1881, circa il
64 per cento dei bambini fra i 10 e i 14 anni lavorava2. Il lavoro
minorile si ridusse in seguito fino a raggiungere il 10 per cento subito
dopo la Seconda guerra mondiale e il 3,6 nel 1961; più o meno
come in altri paesi con un livello di sviluppo analogo a quello
dell’Italia. Se, per gli anni dal 1861 al 1936, facciamo il rapporto fra i
lavoratori maschi e la popolazione maschile fra 15 e 64 anni, e lo
esprimiamo in termini percentuali, il risultato è sempre superiore a
100 (si colloca fra 102 e 111)3. Segno questo che, oltre agli
appartenenti alla fascia d’età 15-64 anni, c’era una percentuale in
più che partecipava al lavoro pur essendo minore di 15 anni oppure
di età superiore ai 64.
La grande trasformazione, rappresentata dalla crescita moderna,
comporta una crescente specializzazione dei ruoli e una riduzione
dell’impegno lavorativo dei minori e degli anziani. Proprio per queste
ragioni, anche in Italia le prime informazioni statistiche relative alla
forza lavoro (quelle, cioè, dei censimenti di fine Ottocento)
forniscono una rappresentazione imperfetta delle attività svolte dalla
popolazione. Pur con tutte le imperfezioni, esse consentono, tuttavia,
di cogliere le tendenze di lungo periodo nel mondo del lavoro. È su
queste che vogliamo ora soffermarci.

1.2. Popolazione e migrazioni


La Tabella 1 riassume alcuni grandi cambiamenti che hanno
interessato la società italiana dal 1861.
Nel corso dei 140 anni dal 1861 al 2001, la popolazione è
cresciuta in Italia di circa 30 milioni: da 26 milioni a 56, al tasso
annuo dello 0,56 per cento4.

TABELLA 1
Popolazione (in migliaia) (P), forza lavoro (L) (in migliaia), tasso di
partecipazione (L/P)(%) e indici (con base 1 nel 1861) 1861-2001
I dati sulla popolazione si riferiscono alla popolazione presente (cioè
i residenti meno gli emigrati e più gli immigrati) e ai confini attuali
dell’Italia. I dati sulla forza lavoro, tratti dai censimenti, e quindi
anche il tasso di partecipazione, sono inferiori, a partire dal 1981,
rispetto a quelli tratti dalle rilevazioni delle forze di lavoro (come
spiegato nel successivo par. 1.3. e nella nota all’Appendice 4).
Fonti: Appendici 3.1. e 4.1.
Sul movimento demografico e sull’offerta di lavoro, l’emigrazione
ha esercitato un ruolo importante5. Dal 1861 al 1985 sono emigrati
dall’Italia 26 milioni di abitanti; una cifra equivalente a tutta la
popolazione del paese nel 1861. Questa emigrazione non fu sempre
permanente. La perdita di popolazione fu, nel complesso, di 8
milioni. Quanto alla cronologia, l’emigrazione fuori dell’Italia
raggiunse il suo massimo fra il 1890 e la Prima guerra mondiale;
diminuì fra le due guerre; riprese dal 1946 al 1970; poi si ridusse e,
infine, cessò del tutto. Dall’inizio del xxi secolo, l’Italia è diventata un
paese d’immigrazione.
Questo flusso d’emigrazione interessò tutte le regioni, ma fu
considerevole dal Sud, dalle Isole e dal Nord-Est (il Veneto e l’Emilia
Romagna). Fu più modesto dal Nord-Ovest (Piemonte, Lombardia e
Liguria) e dal Centro (Toscana, Umbria, Marche e Lazio)6. Dal
momento che, come di solito accade, la maggior parte degli emigrati
erano maschi in età da lavoro, l’influenza sull’offerta complessiva di
manodopera fu ragguardevole. In valore assoluto, l’offerta di lavoro
fu dunque inferiore a quanto avrebbe potuto essere.
La prima fase di emigrazione prese inizio intorno al 1880. Da
allora alla Prima guerra mondiale emigrarono dall’Italia 13,5 milioni
d’individui; in larga prevalenza (l’80 per cento) maschi7. Il deficit
migratorio fu di 4 milioni. Le regioni la cui emigrazione superò l’8 per
mille annuo della popolazione furono il Veneto, le Marche, gli Abruzzi
e Molise, la Basilicata e la Calabria. In valore assoluto, le regioni in
cui l’emigrazione superò i 10.000 individui all’anno furono il
Piemonte, la Lombardia, il Veneto, la Toscana, gli Abruzzi e Molise,
la Campania, la Calabria e la Sicilia. Se l’emigrazione è correlata
con difficili condizioni economiche nelle aree di partenza, come si
vede queste aree non furono soltanto le regioni meridionali. I paesi
verso cui gli emigrati italiani si diressero furono, all’inizio, in larga
prevalenza paesi mediterranei ed europei (per il 72 per cento).
Tuttavia, nella prima fase dell’emigrazione italiana, le Americhe
andarono aumentando d’importanza come zone d’immigrazione
dall’Italia. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, verso le Americhe
si dirigeva il 45 per cento degli emigranti italiani (mentre nei primi
anni Ottanta erano il 30 per cento).
È vero che l’allontanamento di adulti in età da lavoro impoverisce
di capacità produttive il paese da cui i migranti si allontanano. D’altra
parte, come notava Francesco Saverio Nitti fra Otto e Novecento,
per un paese con elevata densità demografica rispetto alle risorse
disponibili, e, quindi, povero, come l’Italia, la riduzione della
pressione demografica ha più effetti positivi che negativi8.
Soprattutto quando i lavoratori emigrati inviano i redditi, guadagnati
in altri paesi, alle famiglie che abitano ancora nel paese d’origine9.

1.3. La forza lavoro dal 1950


I dati relativi alla forza lavoro, che verranno utilizzati in questo
capitolo, comprendono gli occupati e i disoccupati alla ricerca di
lavoro. Sono esclusi i giovani in cerca della prima occupazione.
Sempre nella Tabella 1, si vede che la forza lavoro complessiva è
aumentata in Italia in un secolo e mezzo, ma assai meno della
popolazione. Mentre la popolazione è più che raddoppiata nel
periodo che prendiamo in considerazione, la forza lavoro è cresciuta
più o meno del 50 per cento. Si nota, inoltre, che la forza lavoro
crebbe dall’Unità ai decenni fra le due guerre, passando da 14
milioni a circa 20. Poi è cresciuta ben poco: solo di circa 1 milione in
mezzo secolo.
Bisogna, però, essere cauti al proposito. I dati sul lavoro che
utilizziamo in prevalenza in questo capitolo, sono ricavati dai
censimenti della popolazione10; che sono l’unico documento che
consente di coprire con cifre omogenee tutto il secolo e mezzo di cui
ci occupiamo11. Le indagini sulle forze di lavoro da parte dell’ISTAT
(svolte a cominciare dal 1959) rivelano una crescita dal 1971 al
2001, da circa 20 a 24 milioni. È, questo, il risultato d’indagini
campionarie compiute più volte all’anno e, dal 2004, ogni settimana,
con l’obiettivo di quantificare le unità di lavoro che compongono la
forza lavoro nel suo complesso12. L’ISTAT, come gli istituti statistici
degli altri paesi dell’Unione Europea, ha adottato a partire dal 1971 il
metodo di calcolare le unità di lavoro. Un’unità di lavoro è un
occupato impegnato a tempo pieno nell’attività produttiva, o la
quantità di lavoro equivalente prestata da lavoratori a tempo parziale
o da lavoratori che svolgono un doppio lavoro. Se due occupati
lavorano a tempo parziale, mezza giornata ciascuno, formano una
sola unità lavorativa. Un occupato che lavora il doppio, nelle
ricostruzioni della forza lavoro corrisponde a due unità di lavoro
standard. Nei censimenti della popolazione (riguardanti tutta la
popolazione e non soltanto campioni), che noi abbiamo seguito per
presentare una visione omogenea dei cambiamenti della forza
lavoro nel corso di un secolo e mezzo, chi svolge un’occupazione
rappresenta una sola unità lavorativa, indipendentemente dal tempo
dedicato alla sua attività. Due lavoratori che sono occupati mezza
giornata ciascuno figurano come due unità e non una. Non c’è
dubbio che serie di dati sulle unità di lavoro sono preferibili a serie
della forza lavoro basate sui censimenti. Rappresentano il volume
complessivo di tempo di lavoro prestato in attività produttive.
Essendo disponibili dati sulle unità di lavoro anche per il ventennio
1951-71, utilizzeremo anche questi per i sessanta anni fra il 1951 e il
200913, mentre le serie della forza lavoro ci serviranno per confronti
di più lungo periodo (Tabella 2).

TABELLA 2
Forza lavoro (L) e Unità di lavoro (Ula) nel Nord, nel Sud e in Italia
(migliaia), e indici (base 1 nel 1951), 1951-2001

Fonti: Appendici 4.1 e 4.9.

La crescita moderna dell’Italia, come quella di ogni altro paese


dell’Europa occidentale e mediterranea, fu accompagnata da due
grandi cambiamenti nella forza lavoro: il declino del tasso di
partecipazione e il cambiamento strutturale. Ad essi volgiamo ora
l’attenzione.

2. IL TASSO DI PARTECIPAZIONE

2.1. Il trend della forza- lavoro


Il tasso di partecipazione o tasso di attività14 è il risultato del rapporto
fra la forza lavoro e la popolazione. Aumentando la forza lavoro,
come si è visto, a un tasso inferiore a quello degli abitanti, essa è
diminuita in termini relativi. Nel 1861, era uguale al 55 per cento
della popolazione. Nel 2001 si era ridotta al 38 per cento, se
prendiamo i dati sulla forza lavoro ricavati dai censimenti, e al 42, se
prendiamo le unità di lavoro calcolate dall’ISTAT nelle indagini
campionarie sulle forze di lavoro. Il declino è stato continuo fino al
1971. Si è verificato un recupero modesto dopo quella data. Prima
del moderno sviluppo industriale, la dimensione della forza lavoro
era molto vicina a quella della classe di età da 15 a 64 anni. Nel
1861 solo l’11 per cento della popolazione in questa classe di età
non lavorava; nel 1911 era pari al 15 per cento; nel 1971 al 43 e nel
2001 al 4415.
Ci si potrebbe chiedere se anche il tempo di lavoro complessivo
sia diminuito realmente in questo lungo arco di tempo. Il declino nel
tasso di partecipazione che la Tabella 1 rivela potrebbe essere
ingannevole. Si potrebbe pensare che nelle società agrarie del
passato molti lavoratori, e soprattutto molte lavoratrici, svolgessero
in agricoltura attività a tempo parziale che noi non abbiamo modo di
registrare. Dopo tutto i dati dei censimenti ci informano sul numero
dei lavoratori, come si è visto, ma non sul tempo che ciascuno di
essi dedicava effettivamente al lavoro. I dati sulle unità di lavoro non
dovrebbero soffrire di questo difetto e dovrebbero rappresentare
realmente il cambiamento nel volume delle forze di lavoro, ognuna
delle quali dedica lo stesso tempo all’attività produttiva. Come si è
notato, non è certo, però, che, fra il 1951 e il 1971, le stime
disponibili siano del tutto attendibili. Solo dal 1971 possiamo
procedere con maggiore sicurezza.
In realtà informazioni dirette e indirette suggeriscono una caduta
del tempo totale dedicato al lavoro. Sappiamo che nel Sei e
Settecento i lavoratori di tutta Europa si trovarono costretti a lavorare
sempre di più per l’aumento della pressione demografica sulle
risorse e per il peggioramento nei livelli di vita; come i salari reali per
tutta l’Europa moderna rivelano16. Calcoli indiretti suggeriscono che
in Italia, durante il xix secolo, il tempo dedicato al lavoro fosse
intorno alle 2.500-3.000 ore per lavoratore all’anno17. Questo
risultato coincide coi dati diretti che abbiamo a disposizione per il
periodo fra il 1880 e il 1913. Alla fine del xix secolo, ogni lavoratore
era occupato, nell’industria, per poco meno di 3.000 ore all’anno (10
ore al giorno, 6 giorni alla settimana per 49 settimane)18. Per quanto
riguarda il lavoro in agricoltura, esso variava con le stagioni. Una
media annua di 2.500-3.000 ore di lavoro non pare irrealistica. In
Italia, le ore di luce sono circa 5.000 in un anno19 e, dal 1880 al
1938, abbiamo informazioni dirette sulle famiglie contadine e i loro
tempi di lavoro20. Più di 3.500 ore di lavoro all’anno e, talvolta, anche
più di 4.000, erano tutt’altro che eccezionali sia per i maschi, che per
le femmine, che per i minori. Più tardi, nella seconda metà del
Novecento, le ore di lavoro diminuirono. Nel 1971 erano circa 2.000
nell’industria21. Erano passate a 1.600, alla fine del secolo scorso22.
Il trend nazionale della forza lavoro dipende direttamente da
fenomeni demografici (la struttura per età della popolazione),
differenze geografiche regionali (fra Nord e Sud), caratteristiche
sociali (la partecipazione femminile all’attività lavorativa), oltre che
istituzioni e culture. Il mercato del lavoro – ha scritto Robert Solow –
costituisce una vera e propria «istituzione sociale»23. Prendiamo ora
in esame questi fattori.

2.2. Forza lavoro e struttura per età


Si potrebbe pensare che la riduzione del tasso di partecipazione sia
dipesa da ragioni di carattere demografico e cioè dalla contrazione
delle fasce di età fra 15 e 64 anni24. Non è così (almeno fino al
censimento del 2001)! Anzi è vero piuttosto il contrario. Come risulta
dalla Tabella 3, la percentuale di popolazione in età da lavoro è,
infatti, aumentata, passando da valori intorno al 60 per cento
all’inizio del Novecento al 68. L’aumento è dovuto alla diminuzione
del tasso di natalità, che ha ridotto la popolazione al di sotto dei 15
anni ben più di quanto non sia aumentata quella degli anziani e
vecchi.

TABELLA 3
Percentuale della popolazione in età da lavoro sulla popolazione
totale (P15-64/P) (col. 1) e percentuale della forza lavoro sulla
popolazione in età da lavoro (L/P15-64) (col. 2) 1861-2001
Fonti: Appendice 4 per la forza lavoro e dati ISTAT (Sommari e
Annuari, vari anni). Si veda anche SVIMEZ, 150 anni di statistiche
italiane: Nord e Sud 1861-2011, p. 59, Tab. 9, che, pur con
differenze, rivela un simile trend. Si vedano, per un confronto, anche
i dati in BATTILANI, FAURI, Mezzo secolo di economia italiana 1945-
2008, p. 256.
Se fino ad ora la popolazione in età da lavoro è cresciuta in termini
relativi, non sarà così in futuro25. Tenendo conto della forte caduta
nel tasso di fertilità e di una pur rilevante immigrazione, che potrà
compensare in parte tale caduta, gli scenari relativi ai prossimi
decenni non sono confortanti. Il tasso di partecipazione potrebbe
cadere di qualche punto percentuale a causa dell’aumento
considerevole del numero di anziani e vecchi rispetto alla
popolazione in età da lavoro. Nel 2002 c’erano in Italia 3,55 individui
in età da lavoro per ogni ultra-sessantacinquenne. Verso la metà del
xxi secolo il rapporto potrebbe scendere a 1,30-1,70. Ogni lavoratore
italiano si troverebbe gravato di un peso supplementare26.
Se scomponiamo la forza lavoro totale per gruppi di età e sesso,
scopriamo che la forza lavoro maschile, nelle età da 25 a 44 anni, è
rimasta stabile, mentre è diminuita nei gruppi fra 45 e 64 e
soprattutto in quelli da 14 a 2427.
Il tasso di attività italiano, calcolato rispetto alla popolazione in età
da lavoro (15-64 anni), è basso, in confronto con quello di altri paesi
dell’Unione Europea. «Dalle statistiche comparate – ha scritto
Pierluigi Ciocca – risulta come pochi Italiani lavorino e quelli che lo
fanno lavorino poco»28.

TABELLA 4
Forza lavoro (L) sulla popolazione in età da lavoro (P15-64) nel 2002
e 2009 in alcuni paesi dell’Europa occidentale (%)
Fonte: European Economic Statistic, 2010, Eurostat.
Le differenze fra il tasso di partecipazione in Italia e in altri paesi
europei venivano rilevate già negli anni Settanta del secolo scorso
da Giorgio Fuà. A suo giudizio, l’entità della flessione del tasso di
attività nel nostro paese costituiva una vera e propria «anomalia»,
per i suoi «livelli eccezionalmente bassi»29. È possibile che la bassa
partecipazione che caratterizza l’Italia possa derivare da forme di
lavoro occulto o «alla macchia», come notava Fuà nello studio
appena citato. Anche ammettendo che l’entità della forza lavoro sia
sottostimata di qualche punto percentuale, con dati più attendibili
l’Italia potrebbe raggiungere alcuni altri paesi mediterranei quali la
Grecia e la Spagna, ma non i paesi più a Nord (rispetto ai quali la
differenza è troppo forte).

2.3. Il tasso di partecipazione: Nord e Sud


Venendo all’offerta di lavoro, se in un’economia, come quella italiana
nella sua fase della crescita moderna, la produttività dei suoi
lavoratori aumenta e ciò consente di lavorare di meno (meno
lavoratori e meno ore da parte di ciascun lavoratore), la cosa non
può che avere un significato positivo. L’offerta di lavoro si riduce
perché ogni lavoratore può impegnarsi meno dei lavoratori che lo
hanno preceduto. Tutti possono permettersi di avere più tempo
libero. Questo sviluppo è un elemento centrale della
modernizzazione economica che ha interessato gran parte del
mondo negli ultimi due secoli. La crescita moderna ha generato più
tempo libero. Dall’epoca di Adamo ed Eva, condannati a
guadagnarsi da vivere col sudore della fronte, non era mai accaduto
che ci si potessero procurare più beni e servizi sudando di meno.
Osservando il problema dal lato della domanda, un basso tasso di
attività è l’effetto di una modesta domanda di lavoro da parte delle
imprese e rappresenta, quindi, lo scarso dinamismo di un’economia,
non in grado di offrire opportunità di occupazione a chi è capace di
lavorare. Quando le opportunità mancano, parte della popolazione in
età da lavoro abbandona il mercato del lavoro sfiduciata.
Lavorerebbe se ne avesse l’opportunità. Non trovando
un’occupazione, non la cerca ormai più e, quindi, non fa più parte
della forza lavoro. La conseguenza è che il tasso di attività si riduce
perché si riduce il numero dei lavoratori o di chi è in cerca di lavoro o
di entrambi.
Le istituzioni che regolano il mercato del lavoro possono
contribuire a mantenere basso il tasso di attività. I sindacati, ad
esempio, proteggono la forza lavoro, ma non chi si trova ai margini
del mercato del lavoro e, cioè, chi è inoccupato. Cercando di
garantire l’occupazione di chi è già occupato e il suo livello salariale
possono contribuire a limitare la domanda di lavoro da parte delle
imprese. Il sistema della sicurezza sociale – sistema pensionistico
ed età pensionabile, assistenza all’infanzia, importante per la
partecipazione femminile al mercato del lavoro – contribuiscono
anch’essi a determinare il tasso di partecipazione. I comportamenti
sociali e le credenze religiose possono svolgere una funzione non
secondaria. Nei paesi islamici le donne, di solito, non lavorano; e
anche nei paesi europei avanzati, e forse in Italia più che in altri,
l’idea di una donna inoccupata in casa pare, comunque, meno
preoccupante di quella di un uomo. Un uomo che non lavora è un
disoccupato; una donna che non lavora in fabbrica o in ufficio è una
casalinga (e non proprio una disoccupata). Scrisse Paolo Sylos
Labini che «esiste un optimum nel grado di flessibilità» nel mercato
del lavoro30. Un’alta flessibilità scoraggia aumenti della produttività;
una flessibilità molto bassa favorisce l’aumento della produttività, ma
frena quello dell’occupazione. In Europa, aggiungeva, la flessibilità è
minore che negli Stati Uniti, e in Italia è inferiore a quella di molti
paesi europei.
Nel tasso di attività, la differenza fra Nord e Sud è sempre esistita
nell’ultimo secolo e mezzo e col tempo si è venuta approfondendo
(Tab. 5). Mentre nel 1861 la differenza era solo di 5 punti percentuali
e nel 1871 e 1881 di 9, all’inizio del terzo millennio era di 13 (con un
balzo dopo il 1981). La differenza fra i tassi di attività nelle due parti
del paese nel 1861-81 dipendeva dalla bassa partecipazione della
popolazione femminile meridionale al lavoro agricolo, solo
parzialmente compensata dalla più alta presenza relativa delle
donne del Sud nel settore industriale (o meglio proto-industriale)31.
L’industrializzazione delle regioni centro-settentrionali del paese
spazzò via la protoindustria in quelle meridionali e ridusse la
partecipazione femminile al mondo del lavoro. In seguito, come si
vedrà, la più bassa diffusione dell’industria moderna nel
Mezzogiorno ha avuto come effetto una più bassa domanda di
lavoro.
Si è visto nel capitolo precedente il divario che separa Nord e Sud
in termini di prodotto pro capite nel primo decennio del nuovo
millennio. Il divario Nord-Sud in termini di tasso di attività – ben 13
punti percentuali di differenza – è fenomeno altrettanto grave.
Scrivevano nel 1982 Luigi Di Comite e Cesare Imbriani che il basso
tasso di partecipazione italiano «non è che la risultante di un tasso di
attività di livello normale per il Nord e di un tasso anomalo per il
Sud»32.
A ciò si aggiunga il fatto che la disoccupazione è sempre stata
assai più elevata nel Mezzogiorno che nel resto del paese. I dati
disponibili a partire dal 1951 mostrano una percentuale di
disoccupati nel Mezzogiorno sulla forza lavoro circa doppia (e in
qualche anno tripla) rispetto a quella nel Centro-Nord33. Negli anni
Novanta del Novecento e nel primo decennio del
TABELLA 5
Tasso di partecipazione (L/P) nel Nord e nel Sud dal 1861 al 2001
(%)

I dati della tabella riguardano la forza lavoro e non le unità di lavoro.


Il tasso di partecipazione calcolato sulle unità di lavoro è riportato nel
successivo par. 2.4.
Fonte: Appendice 4.5.

XXI secolo, la disoccupazione è stata del 5-8 per cento nel Centro-
Nord e del 15-20 per cento nel Sud e Isole.

2.4. Forza lavoro e tasso di attività: Nord e Sud dal


1951
La Figura 1, che si riferisce alle unità di lavoro (Ula), illustra bene
l’entità del fenomeno appena descritto durante i 50 anni fra il 1951 e
il 2001. Si vede come, in mezzo secolo, la forza lavoro sia
aumentata debolmente in tutta Italia e come nel Mezzogiorno non ci
sia stato nessun aumento. Il trend relativo al Sud è una linea retta: le
unità di lavoro erano 6,5 milioni nel 1951 e 6,6 nel 2001, con un
aumento, cioè, dello 0,03 per cento all’anno; mentre la popolazione
del Mezzogiorno aumentava, nello stesso cinquantennio, dello 0,3
per cento all’anno e, quindi, 10 volte più rapidamente. Il Sud di oggi
è molto diverso da quello all’indomani della Seconda guerra
mondiale. A rimanere uguale è il volume della sua forza lavoro.
Questa differenza di 10 volte fra l’aumento della popolazione e
quello dei lavoratori è uno degli aspetti dell’arretratezza relativa del
Mezzogiorno. Una buona parte della popolazione in età da lavoro e
interessata a lavorare rimane fuori dal mercato del lavoro; pur
ammettendo una sottoregistrazione delle forze di lavoro nel
Mezzogiorno, che certamente esiste.

FIGURA 1
Unità di lavoro (Ula) in Italia, Nord e Sud dal 1951 al 2001 (migliaia)
Fonte: Appendice 4.9.

FIGURA 2
Tasso di partecipazione (in Ula rispetto alla popolazione) in Italia, nel
Centro-Nord e Sud-Isole dal 1951 al 2009 (%)
Fonti: Appendice 4.9 (per le Ula) e 3.1. (per la popolazione). Poco
diversi sono i dati sulle unità di lavoro in SVIMEZ, 150 anni di
statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, p. 440 (Tab. 3).

Nella Figura 2 è rappresentato l’andamento del tasso di


partecipazione in Italia e nelle due parti del paese. Le curve relative
al Nord e al Sud rivelano un andamento ciclico molto simile. Come si
vede, le differenze sono trascurabili. Quello che non è trascurabile è
il trend discendente del tasso di partecipazione nel Mezzogiorno;
mentre a Nord esso è di nuovo orientato verso l’alto, dopo la
flessione degli anni Sessanta prima e degli anni Novanta dopo34.

2.5. Il lavoro delle donne


Sui cambiamenti nel tasso di attività in Italia, il lavoro femminile ha
svolto una funzione assai importante.
Nelle colonne 1 e 2 della Tabella 6, vediamo la percentuale dei
lavoratori e delle lavoratrici sul totale della forza lavoro.
Confrontando il dato del 1861 con quello del 2001, si potrebbe avere
l’impressione di una lunga stabilità: le lavoratrici rappresentavano il
37 per cento del totale sia nel 1861 che nel 2001. Possiamo notare,
tuttavia, come, nel lungo periodo, si sia verificata una relativa
diminuzione, sensibile già fra le due guerre, ma più forte nei tre
censimenti del 1951, 1961 e 1971. Seguì una ripresa, che riportò il
lavoro femminile al livello relativo della fine dell’Ottocento.

TABELLA 6
Tasso di partecipazione (L/P) nel Nord e nel Sud dal 1861 al 2001
(%)

Percentuali della forza lavoro maschile (Lm) e femminile (Lf) sul


totale della forza lavoro (L), sulla popolazione maschile (Pm) e
femminile (Pf), sulla popolazione in età da lavoro maschile (Pm15-
64) e sulla popolazione in età da lavoro femminile (Pf15-64) 1861-
2001
Fonti: DANIELE, MALANIMA, The Changing Occupational Structure in
Italy 1861 – 2001, e Appendice 4.
Il tasso di partecipazione maschile e femminile (dato dal rapporto
della forza lavoro maschile con tutta la popolazione maschile e della
forza lavoro femminile con tutta la popolazione femminile) rivela le
tendenze verso il basso che abbiamo già notato in precedenza.
I confronti con altri paesi dell’Europa occidentale e centrale
mostrano chiaramente la scarsa partecipazione della popolazione
femminile italiana. I bassi tassi di partecipazione della forza lavoro
nel suo complesso, che già abbiamo richiamato, non dipendono
tanto dalla minore partecipazione maschile, ma dal basso livello
della partecipazione femminile. Mentre della popolazione femminile
fra 15 e 64 anni solo il 41 per cento lavorava nel 2001 (140 anni
prima era il 68 per cento) (Tab. 6, colonne 5 e 6), nell’Unione
Europea nel suo complesso la percentuale era del 58, nei Paesi
Bassi del 69, in Belgio del 55, in Germania del 64, in Francia del 63,
in Spagna del 55, in Portogallo del 6235. Non c’è paese dell’Unione
Europea che abbia una percentuale di donne che lavorano inferiore
a quella dell’Italia.
La Tabella 7 consente d’individuare il tasso di attività specifico per
la popolazione maschile e quella femminile nelle due parti del paese.
Nel Mezzogiorno si può cogliere una dinamica simile a quella del
Nord, cioè in diminuzione sin dall’epoca dell’Unità. Si nota poi che
sia il tasso di attività maschile rispetto alla popolazione maschile
(colonne 1 e 3) che quello relativo alla popolazione femminile
(colonne 2 e 4) sono sempre più bassi a Sud.

TABELLA 7
Forza lavoro maschile rispetto alla popolazione maschile (Lm/Pm) e
forza lavoro femminile rispetto alla popolazione femminile (Lf/Pf) nel
Centro-Nord e nel Sud 1861-2001
Fonti: DANIELE, MALANIMA The Changing Occupational Structure in
Italy 1861-2001, e Appendice 4.

Ricapitolando si può, dunque, dire che il basso tasso di attività in


Italia rispetto ad altri paesi europei deriva soprattutto dal basso tasso
di attività femminile e, in modo particolare, dal basso tasso di attività
delle donne del Sud.
Per approfondire queste differenze Nord-Sud nel tasso di attività e
nel lavoro più in generale, è necessario esaminare ora l’altro
cambiamento decisivo intervenuto nell’ultimo secolo e mezzo
(insieme alla riduzione del tasso di partecipazione): quello nella
struttura del lavoro.
3. IL CAMBIAMENTO STRUTTURALE

3.1. I settori di attività


La Figura 3 illustra bene il cambiamento nella struttura della forza
lavoro nell’ultimo secolo e mezzo. È, questa, una delle
trasformazioni più importanti che hanno interessato la società e
l’economia italiana nell’ultimo secolo e mezzo.

FIGURA 3
Forza lavoro per settore di attività (%) 1861-2001

Fra parentesi (sull’asse delle ascisse) è riportato l’indice della


produttività del lavoro. Il tema della produttività sarà esaminato nel
Capitolo 4.
Fonte: Appendici 4.6.-4.8.

All’inizio della modernizzazione economica, la metà e più del Pil si


formava nel settore agricolo, dove era occupato il 60-70 per cento
della forza lavoro36. Dal 1861 al 2001 il prodotto pro capite crebbe,
come si è visto nel capitolo precedente, di 13,6 volte. La produttività
del lavoro in agricoltura aumentò, nel complesso del periodo
considerato, di 12 volte, mentre quella nel settore secondario di 19 e
nel terziario di 1437. Le ragioni del cambiamento strutturale sono
proprio in queste cifre e nelle diverse elasticità dei beni prodotti dai
tre settori dell’economia alle variazioni nel reddito38. Quest’ultimo
concetto venne ben chiarito da Adam Smith, quando scrisse che,
mentre la domanda di cibo (di beni, cioè, provenienti dall’agricoltura)
è limitata dalla capacità dello stomaco di ciascuno di noi, la
domanda di beni diversi da quelli agricoli non ha confini altrettanto
precisi. Quando aumenta la capacità produttiva in agricoltura e,
quindi, aumenta la disponibilità di beni primari, la domanda
aumenterà sempre più lentamente. Ognuno, soddisfatto il bisogno di
cibo, impiegherà parte del suo reddito in aumento per soddisfare
bisogni di tipo secondario (più elastici del cibo al reddito): comprerà
più abiti, e poi la casa, l’automobile, il frigorifero, la televisione...
A quanto scritto da Smith possiamo aggiungere che, se il reddito
di ognuno continuerà ad aumentare, non verranno acquistate (di
solito!) due-tre case, due-tre automobili, due-tre frigoriferi, ma ci si
orienterà verso beni immateriali, e cioè i servizi (che comprendono il
lavoro della donna delle pulizie, del cuoco e del servitore del
ristorante, dell’attore, del cantante, dei preti e dei carabinieri). Un
paese che percorre il sentiero della crescita moderna passerà,
dunque, a tipi di domanda via via diversi. La struttura del suo Pil si
modificherà e, di conseguenza, si modificherà la struttura della sua
occupazione. Il motore primo di tutto questo processo di
trasformazione è il progresso tecnico, che permette di accrescere la
disponibilità di beni e servizi, e provoca il cambiamento osservato
prima reagendo con l’organizzazione dei bisogni umani. Come
avviene per la struttura del Pil, che abbiamo esaminato nel Capitolo
2, analogamente anche la struttura della forza lavoro attraverserà tre
fasi successive: 1. quella agricola o pre-industriale; 2. quella
industriale; 3. quella del terziario o post-industriale39. Il cambiamento
strutturale nel prodotto e nella forza lavoro presentano somiglianze
cronologiche, ma anche differenze.
3.2. Tre epoche
Osservando il cambiamento nella struttura dell’economia dalla
prospettiva dell’occupazione possiamo cogliere in Italia queste tre
fasi con la seguente cronologia (Tab. 8):
– la fase pre-industriale: durò fino a che l’industria non cominciò a
crescere in maniera sensibile e continuativa. In Italia questa fase si
chiuse verso il 1880. Durante questa fase, il 60-70 per cento della
forza lavoro era occupato nell’agricoltura, il 15-20 per cento
nell’industria e il restante 15-20 per cento nei servizi40. Il reddito
medio annuo di un italiano era più o meno stabile, nel lungo
periodo, intorno ai 2.000 euro del 201041;
– la fase industriale: cominciò con l’aumento d’importanza, in termini
di occupazione e anche di prodotto, dell’industria, dal 1880 circa42
e si chiuse un secolo dopo, verso il 1980. In questa fase il reddito
medio annuo passò da 2.300 a 18.000 euro 2010. La forza lavoro
crebbe nel settore secondario fino a raggiungere il 40-45 per cento
del totale, negli anni Sessanta e Settanta del secolo passato43. A
quell’epoca il 20 per cento della forza lavoro si trovava nel settore
primario e stava diminuendo rapidamente. Il resto era occupato nel
terziario;
– la fase post-industriale: è iniziata negli anni Ottanta. Fra il 1980 e il
2000 il reddito medio annuo è passato dai 18.300 a 26.500 euro
del 2010. Nei cinquanta anni dal 1961 al 2011 il peso relativo dei
servizi è raddoppiato in termini di forza-lavoro. Le unità di lavoro
nel terziario si avvicinavano al 70 per cento del totale intorno al
2010; nell’industria erano il 26-27 e nell’agricoltura il 3-4 per
cento44.

TABELLA 8
Composizione della forza lavoro per settore economico 1861-2001
(%)
Fonte: Appendici 4.6.-4.8

La Figura 4 fornisce un’estrema sintesi di questo cambiamento


strutturale in Italia.
Il passaggio attraverso queste tre fasi è molto meno evidente
nella realtà di quanto non appaia da questa, schematica,
rappresentazione. Mentre un paese si trova nella fase post-
industriale, i paesi con cui ha contatti commerciali possono trovarsi
nelle due fasi precedenti e il paese in questione può espandere la
sua industria grazie al mercato esterno; occupando, cioè, spazi di
domanda di beni industriali sui mercati esteri. Ciò può consentire la
crescita dell’occupazione nel settore secondario. Di solito, tuttavia,
quando un paese è nell’epoca post-industriale anche il costo del
lavoro è elevato in confronto con quello di paesi che attraversano
l’epoca industriale. La competizione con quei paesi nell’industria
diventa difficile. Il cambiamento strutturale nella forza lavoro non può
essere esaminato solo nel contesto nazionale.
FIGURA 4
Rappresentazione schematica della distribuzione della forza lavoro
per settori in Italia dal 1930 al 2010 (%)

La stessa struttura occupazionale di tipo post-industriale che


presenta l’Italia risulta dai dati relativi ad altri paesi dell’Unione
Europea vicini all’Italia quanto a livello di sviluppo (Tab. 9)45. Sotto
questo profilo, l’Italia presenta anzi una percentuale di forza lavoro
nel terziario tutto sommato modesta, in linea con il valore medio
dell’Unione Europea nel suo complesso, ma inferiore a quella dei
paesi avanzati del Nord Europa46.

TABELLA 9
Occupazione per settore di attività in alcuni paesi dell’Unione
Europea nel 2010 (%)
Fonte: WOZOWCZYK, MASSARELLI, European Union Labour Force
Survey-Annual Results 2010, Eurostat.

3.3. Il cambiamento strutturale del lavoro femminile


Il quadro risulta più chiaro se passiamo a esaminare il cambiamento
strutturale della forza lavoro femminile nei tre settori di attività. Nel
settore primario, come si vede confrontando le colonne 1 e 4 della
Tabella 10, il lavoro maschile ha sempre dominato: più o meno i
lavoratori sono stati intorno al 60-70 per cento e le lavoratrici al 30-
40. Nel settore secondario le cose sono andate diversamente. Nella
fase preindustriale della storia economica italiana si era vicini a una
vera e propria parità: su 100 occupati nell’industria nel 1861, 52
erano i maschi e 48 le femmine. Arrotondando per tenere conto
dell’imprecisione dei primi censimenti, si può dire che i maschi erano
il 50-60 per cento e le femmine il 40-50. Quando l’industria era per lo
più organizzata nella forma del lavoro a domicilio, il lavoro femminile
era, dunque, ragguardevole. Ma il lavoro a domicilio diventò, dalla
fine dell’Ottocento, non concorrenziale con quello di fabbrica. Molte
donne furono costrette ad abbandonare l’industria domestica
tradizionale, soprattutto nel settore tessile. La percentuale delle
femmine rispetto alla manodopera totale si ridusse della metà e
continuò a diminuire finché raggiunse il minimo nel 1961. La ripresa
successiva non permise, comunque, di raggiungere di nuovo i livelli
di 140 anni prima. Mentre nell’industria tradizionale lavoravano molte
donne, l’industria moderna è in prevalenza maschile. Nel terziario
tradizionale, viceversa, la presenza femminile era modesta. È
divenuta forte e quasi pari a quella maschile nel terziario
contemporaneo.
Si è vista prima (nella Fig. 2), la caduta del tasso di attività in Italia
dal 1960 al 1975. Questa caduta derivò dall’abbandono
dell’agricoltura, che interessò sia il lavoro maschile che quello
femminile. Mentre molti maschi passarono a lavorare nelle fabbriche,
per le donne l’abbandono dell’agricoltura e dell’industria tradizionali
significò una caduta dell’impegno lavorativo senza alternative. Negli
anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, le donne che abbandonavano
l’agricoltura e l’industria diventavano casalinghe; uscivano, cioè dal
mercato del lavoro senza farvi ritorno. Rispetto alla popolazione
femminile, la percentuale della forza lavoro femminile si ridusse nel
Nord del 25 per cento in 140 anni; nel Sud la riduzione fu di più del
50 per cento47.

TABELLA 10
Percentuale della forza lavoro maschile e femminile sulla forza
lavoro nei settori primario (Lma/La e Lfa/La), secondario (Lmi/Li e
Lfi/Li) e terziario (Lms/Ls e Lfs/Ls) 1861-2001
Fonte: Appendice 4.
Conviene, a questo punto, seguire l’andamento di ogni settore in
maniera cronologica, distinguendo il Nord e il Sud.
Si vedrà che, mentre all’avvio dell’industrializzazione le differenze
Nord-Sud nella partecipazione della forza lavoro erano modeste o
inesistenti, in seguito, con l’industrializzazione, le cose andarono
diversamente.

4. DALL’AGRICOLTURA
ALL’INDUSTRIA E AI SERVIZI
4.1. L’agricoltura
Come si vede dal grafico (Fig. 5), alla fine dell’Ottocento non vi era
una vera differenza fra la percentuale di forza lavoro occupata in
agricoltura nel Nord e nel Sud del paese. In entrambi i casi si era
intorno al 65 per cento. In termini relativi, la forza lavoro in
agricoltura diminuì nel Nord sin dall’inizio del Novecento (anche se in
termini assoluti aumentò fino al 1921). A

FIGURA 5
Quota della forza lavoro nel settore primario a Nord e a Sud 1861-
2001

Fonte: Appendice 4.6.

Sud le cose andarono in maniera differente. La forza lavoro agricola


rimase intorno al 60 per cento fino all’indomani della Seconda guerra
mondiale, quando diminuì drasticamente. Era l’epoca in cui le
campagne venivano abbandonate e in cui avveniva un travaso di
popolazione dall’agricoltura all’industria. Una differenza Nord-Sud,
tuttavia, rimase anche in seguito.
Come sempre accade, la ragione dell’abbandono dell’agricoltura
da parte di tante famiglie fu l’effetto dei differenziali salariali fra
lavoro agricolo e lavoro industriale e delle opportunità d’impiego che
l’industria forniva. I salari nell’industria rimasero sempre superiori a
quelli nell’agricoltura e favorirono il travaso di forza lavoro fra i due
settori. Come l’andamento dei salari dal 1951 al 1990 mostra, i salari
aumentarono rapidamente dalla metà degli anni Cinquanta alla metà
degli anni Settanta. Il differenziale fra quelli nell’industria e quelli
nell’agricoltura, ancora modesto nei primi anni Cinquanta, si venne
ampliando, in valore assoluto, negli anni Sessanta e Settanta (Fig.
6).

FIGURA 6
Salari annui nell’agricoltura e nell’industria dal 1950 al 1990 (migliaia
di lire del 1951)
Fonte: ROSSI, SORGATO, TONIOLO, I conti economici italiani, pp. 44-5.
Nell’articolo di Rossi, Sorgato, Toniolo, da cui sono tratti i dati dei
salari (vedi Fonte), vengono riportate le retribuzioni lorde per unità di
lavoro nell’agricoltura, industria e servizi. Si tratta di valori medi per
occupato in milioni di lire correnti. Nel grafico le retribuzioni sono
state espresse in lire 1951.

4.2. L’industria: la fase iniziale


In termini percentuali, il prodotto del settore secondario non ha mai
superato in Italia quello dei servizi, come si è visto nel capitolo
precedente48. La sua quota sul complesso del Pil andò, tuttavia,
aumentando a partire dal 1880 circa e raggiunse il massimo negli
anni Settanta del Novecento. Come si vede nel grafico (Fig. 7), la
vicenda dell’industria italiana negli ultimi 150 anni inizia con una
quota del prodotto industriale di poco inferiore al 20 per cento.
Intorno al 2010 la quota è di poco superiore al 20 per cento, dopo
aver raggiunto, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso,
valori intorno al 40 per cento. Si tenga, tuttavia, presente, che il
settore industriale è quello in cui l’aumento della produttività del
lavoro è più forte e i cui prodotti diminuiscono di prezzo rispetto a
quelli degli altri settori. La diminuzione del peso dell’industria nel
prodotto aggregato è, almeno in parte, effetto di questo secondo
cambiamento. Il valore del prodotto dell’industria nel suo complesso
diminuisce se diminuisce il prezzo dei suoi prodotti.
Se si guarda alla percentuale della forza lavoro rispetto al totale,
come nell’agricoltura, così anche nel caso dell’industria non esisteva
una differenza fra Nord e Sud negli anni successivi all’Unità. I primi
censimenti ci mostrano che sia a Nord che a Sud la forza lavoro nel
settore secondario si collocava fra il 15 e il 22 per cento fino all’inizio
del Novecento49 (Fig. 8).

FIGURA 7
Percentuale del prodotto industriale sul Pil dal 1861 al 2010

Fonte: Appendice 1.1.


FIGURA 8
Quota della forza lavoro nel settore secondario a Nord e a Sud
1861-2001

Fonte: Appendice 4.7.

FIGURA 9
Salario reale a giornata nell’industria e nell’agricoltura 1860-1913
(lire 1911)
Per l’industria si tratta del salario di lavoratori non qualificati e, per
l’agricoltura, del salario dei braccianti.
Fonte: FENOALTEA, Production and Consumption in post-Unification
Italy, pp. 290-91.

L’avvio dell’industrializzazione fu accompagnato da un aumento


della produttività del lavoro50 e dei salari. Sia nell’industria che
nell’agricoltura i salari erano diminuiti, sia pure di poco, negli anni
Sessanta e Settanta dell’Ottocento (Fig. 9). Cominciarono ad
aumentare con l’inizio della crescita: dagli anni Ottanta, cioè. Da
quella data si venne ampliando il differenziale salariale fra le
occupazioni nell’agricoltura e quelle nell’industria: era di solo il 50
per cento all’epoca dell’Unità e di circa il 100 per cento all’inizio del
nuovo secolo. La forza lavoro cominciò, come sempre accade, a
spostarsi verso le occupazioni meglio retribuite. Nelle campagne
esisteva una riserva di manodopera inoccupata o sottoccupata, che
migrava verso i lavori che consentivano redditi più elevati. L’elevata
elasticità dell’offerta di lavoro all’aumento della produttività
nell’industria costituisce una delle ragioni fondamentali della crescita
del settore industriale51.
CARTINA 1
Quota della forza lavoro nel settore secondario nel 1861 e 1911
(media nazionale = 100)

Fonte: Appendice 4.7.


E solo dall’inizio del Novecento che la quota della forza lavoro nel
settore secondario52 del Nord supera decisamente quella del
Mezzogiorno. Nel 1911 esisteva già un divario evidente
nell’occupazione industriale fra Nord e Sud53 (Cartina 1). Il Sud
aveva perso terreno rispetto al Nord e specialmente rispetto a
Lombardia, Piemonte, Liguria. Sopravviveva nel Mezzogiorno
l’industria a domicilio in cui era ancora attiva buona parte della
popolazione femminile. Nel Sud la curva della forza lavoro nel
secondario è piatta intorno al 20 per cento fin dopo la Seconda
guerra mondiale (come risulta dalla Fig. 8). Da allora
l’industrializzazione interessò, tuttavia, anche il Mezzogiorno.

4.3. L’industria: dal 1950 in poi


Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si mise in movimento un
processo di sviluppo, che è stato esaminato nel Capitolo 2, e che qui
può essere richiamato per sommi capi guardando al ruolo del
lavoro54.
FIGURA 10
Saldo migratorio del Mezzogiorno rispetto al Nord 1955-2005
(migliaia)

Fonte: NOVACCO, Per il Mezzogiorno e per l’Italia, pp. 77-8.


Il cambiamento fondamentale fu costituito dalla crescita rapida del
settore secondario, caratterizzato da un’elevata produttività55 e
rapido cambiamento tecnico56, e dallo spostamento della forza
lavoro dal settore primario, comparativamente meno produttivo,
verso l’industria. La forte espansione dell’industria a Nord attrasse
manodopera sia dalle campagne del Nord, che anche da quelle del
Mezzogiorno. Per quanto i flussi di emigrazione dal Mezzogiorno
verso l’estero siano continuati, a quell’epoca divenne molto
significativa l’emigrazione interna. Fra il 1955 e il 1975 il saldo
migratorio dal Sud verso il Nord fu in media di 120.000 persone
all’anno57. Le fabbriche del Nord avevano a disposizione un’«offerta
illimitata» di forza lavoro, e cioè manodopera a buon mercato per
l’industria in espansione58 (Fig. 10). Il flusso di emigranti dal Sud
verso il Nord accrebbe la velocità del cambiamento strutturale che si
andava allora verificando59.
A quell’epoca, come si è visto, non crebbe affatto la manodopera.
Il tasso di partecipazione andava, anzi, diminuendo proprio perché
molte donne che abbandonavano l’agricoltura non trovavano (o non
cercavano) occupazione nell’industria. La fonte principale della
popolazione lavoratrice fu allora la riserva di manodopera agricola o
la disoccupazione nascosta in agricoltura, che si era generata con
l’aumento della produttività nel settore primario. Nel giro di venti anni
(1951-71) la manodopera nell’agricoltura diminuì di 5 milioni e
mezzo; nell’industria aumentò di 2 milioni e mezzo e nei servizi di
altri 2 milioni e mezzo. Nel complesso la forza lavoro diminuiva di
circa mezzo milione di unità. La caduta riguardava il Mezzogiorno.
Nel Nord la manodopera rimaneva più o meno stabile, grazie anche
all’immigrazione dal Mezzogiorno. Dato che al contempo la
popolazione aumentava di 6 milioni e mezzo, il tasso di attività
subiva una riduzione netta, come si è visto. Si trattò di un
cambiamento decisivo e rapido nella struttura della forza lavoro.
In Italia il cambiamento nella struttura della forza lavoro fu
particolarmente forte, perché la disponibilità di forza lavoro
impegnata nell’agricoltura e spesso sottoccupata, pronta a trasferirsi
nell’industria, era particolarmente rilevante. Nel 1950 era il 44 per
cento (del 39 nel Nord e del 55 nel Sud) del totale, mentre in
Germania era del 25, nei Paesi Bassi del 14, in Francia del 29, in
Svezia del 21, in Belgio dell’11, nel Regno Unito del 6. Nell’Europa
occidentale solo Spagna, Portogallo e Grecia superavano l’Italia, con
una percentuale del 4860. Della crescita del Pil realizzata in Italia e
Spagna in quegli anni, è stato calcolato che da mezzo a un punto
percentuale dipendesse proprio dal trasferimento di forza lavoro
dall’agricoltura all’industria61.
Investimenti pubblici e privati si dirigevano verso il Sud e
contribuivano alla formazione del capitale fisso per l’industria locale,
che pure andava espandendosi. La Cassa del Mezzogiorno
finanziava in questi anni le infrastrutture idriche, viarie, industriali,
per lo sviluppo del Sud62. L’industria del Mezzogiorno, che si
costituisce allora con la creazione di poli di sviluppo, si afferma in
settori manifatturieri come l’industria meccanica, elettronica,
aeronautica, e automobilistica63. Nascono i grandi centri siderurgici, i
poli petrolchimici, le industrie meccaniche, chimiche, cartarie. La
formazione del capitale in questi settori è effettuata con capitali
pubblici (le Partecipazioni Statali) e soprattutto di grandi gruppi
privati e piccoli e medi imprenditori64. Imponente è, dal 1957, la
presenza dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (sorto nel
1933). Non tutte le regioni del Mezzogiorno furono coinvolte da
questo processo di crescita industriale. Dall’industrializzazione del
Mezzogiorno non furono toccate le regioni dell’Abruzzo e Molise,
della Basilicata e della Calabria. Ha scritto Piero Bevilacqua: «a
macchia di leopardo, su un territorio sempre più differenziato al suo
interno, si venivano diffondendo nuove realtà dinamiche, anche se in
buona parte dipendenti da centri di comando esterni. Tra il 1960 e il
1975 sono sorte infatti ben venticinque “aree di sviluppo industriale”
e diciotto “nuclei industriali”»65.
La crescita delle esportazioni giocò un ruolo importante in questa
fase dell’economia italiana. Ha scritto Augusto Graziani che «fu il
dinamismo delle esportazioni che rese possibile al paese una rapida
industrializzazione e una simultanea apertura agli scambi con
l’estero»66. I più bassi salari dei lavoratori italiani favorivano la
competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali. La
ricerca più recente ha mostrato come proprio in quegli anni
l’esportazione dall’Italia di beni manufatti cresca in modo
consistente67.
Facendo un confronto fra la quota della forza lavoro nell’industria
a Nord e a Sud nel 1951 e nel 2001, possiamo cogliere un’evidente
differenza (Cartina 2). Il Mezzogiorno, il cui settore industriale era
stato danneggiato assai più di quello del Nord dagli eventi della
Seconda Guerra Mondiale68, si presentava come un’area arretrata
nel 195169. Fra 1951 e 1971 la forza lavoro nel settore secondario
era cresciuta nel Veneto, in Emilia e Toscana, Umbria e Marche. Fra
il 1971 e il 1981 l’industria si venne diffondendo anche nel Centro
con la formazione dei distretti industriali70. La polarizzazione
industriale della prima fase della crescita moderna veniva
gradualmente sostituita da un processo di diffusione. La
distribuzione geografica della forza lavoro industriale nel 2001 rivela
sono l’effetto dei progressi compiuti nei tre decenni dopo la fine della
guerra.
Il flusso di manodopera meridionale verso il Nord e il flusso di
capitali verso il Sud, ebbero effetti positivi e contribuirono realmente
a ridurre i divari nel prodotto pro capite; anche se, come messo in
evidenza da Del Monte e Giannola, ebbero anche effetti «perversi» e
alimentarono settori improduttivi. A loro giudizio, il flusso di
trasferimenti pubblici consegnava «al ceto politico locale uno
strumento tanto potente al fine di controllo della società quanto
inefficace nel promuovere lo sviluppo»71.

CARTINA 2
Quota della forza lavoro nel settore secondario nel 1951 e 2001
(media nazionale = 100)

Fonte: Appendice 4.7.


In quest’epoca, il Mezzogiorno divenne il partner più importante del
sistema produttivo del Centro-Nord, nel senso che gran parte delle
merci prodotte nelle regioni settentrionali trovavano nel Sud un
mercato. La domanda meridionale di merci del Nord era, a sua volta,
sostenuta dai redditi originati dai trasferimenti pubblici verso il
Mezzogiorno72. Nel 1981 le importazioni nette del Mezzogiorno
avevano un valore pari al 28 per cento del Pil dell’Italia73.
In sintesi si può dire che operò, per qualche decennio, un
processo virtuoso di crescita e di scambi Nord-Sud che non era
esistito in precedenza, né esisterà in seguito (almeno con la stessa
intensità)74. La manodopera si muoveva da Sud a Nord, i capitali
privati e pubblici da Nord a Sud, le merci prodotte dalle fabbriche del
Nord trovavano nel Sud un mercato importante. Fra la fase agricola
e quella post-industriale, i tre decenni dopo la Seconda Guerra
Mondiale furono la vera epoca industriale dell’Italia75.

4.4. I servizi
La transizione dell’Italia verso la sua fase post-industriale,
conformemente a quanto stava accadendo in altre economie
avanzate, comportava il passaggio verso attività caratterizzate da
più bassi tassi di crescita76. Finiva l’epoca della riduzione dei divari
che era stata generata dagli elevati tassi di sviluppo del Pil tipici
della fase industriale. Il cammino verso la convergenza, che
caratterizza l’approccio neoclassico allo sviluppo, non tiene conto a
sufficienza del cambiamento strutturale77 che accompagna lo
sviluppo e del passaggio da attività con elevati livelli di produttività,
nella fase industriale, ad attività con livelli di produttività assai
modesti, nella fase post-industriale78.
Per quanto riguarda la quota della forza lavoro del Mezzogiorno
nel settore dei servizi, un divario Nord-Sud non c’è mai stato (Fig.
11). La percentuale dei servizi sul totale della forza lavoro era di
poco inferiore al 20 per cento alla fine dell’Ottocento. Il livello del 20
per cento fu superato, sia a Nord che a Sud, alla vigilia della
Seconda guerra mondiale. Vi fu una lieve superiorità del Nord per
qualche decennio, presto colmata dal Mezzogiorno, che di slancio
superò il Nord alla fine del xx secolo. Per quanto riguarda i servizi,
specialmente quelli improduttivi, il Mezzogiorno non ha mai avuto
niente da invidiare al Nord79. Gli aiuti provenienti dai governi centrali
per la costruzione delle infrastrutture e dell’industria negli anni
Sessanta e Settanta, e i flussi di trasferimenti pubblici a sostegno dei
redditi e dell’occupazione, ebbero, insieme alle conseguenze
positive che abbiamo ricordato, anche conseguenze perverse e
perniciose, quali il clientelismo locale e la proliferazione del terziario
improduttivo. Tra gli effetti perversi dell’intervento straordinario a
favore del Mezzogiorno vi fu quello di aver consegnato «al ceto
politico locale uno strumento tanto potente al fine di controllo della
società quanto inefficace nel promuovere lo sviluppo»80.

FIGURA 11
Quota della forza lavoro nel settore terziario a Nord e a Sud 1861-
2001

Fonte: Appendice 4.8.


Dagli anni Settanta, con l’espansione del ruolo dello Stato e con
la creazione delle Regioni, l’economia meridionale accentua i suoi
tratti di dipendenza dai trasferimenti pubblici. La quota
dell’occupazione nella pubblica amministrazione assume una
dimensione ipertrofica, superiore a quella delle economie più
avanzate. Il sovradimensionamento dell’occupazione nei servizi
pubblici ha rappresentato una redistribuzione implicita interregionale
di risorse di notevole entità. Secondo alcune stime, negli anni
Novanta, circa la metà dei salari complessivi del pubblico impiego
del Sud poteva essere considerato un sussidio81.
Quello del Sud è stato un processo di terziarizzazione non
fisiologico, speculare all’incompleto sviluppo industriale dell’area,
«con i suoi riflessi in elevati tassi di disoccupazione, bassi tassi di
attività ed esubero di manodopera in agricoltura» 82. Il Sud è
divenuto un’economia post-industriale senza essere mai stato una
compiuta economia industriale.
È interessante notare, al proposito, la differenza fra Nord e Sud
nella forza lavoro nel settore terziario. Si può vedere, nella Tabella
11, come ci sia analogia nella distribuzione percentuale nel settore
del commercio, negli alberghi e ristoranti, nelle comunicazioni, e
anche nei servizi personali nelle due parti del paese. Mentre nel
Nord l’occupazione relativa nei servizi alle imprese e nel credito e
assicurazioni sono maggiori che a Sud, il Mezzogiorno ha una
superiore percentuale nella pubblica amministrazione (il doppio
rispetto al Nord) e nell’istruzione e sanità (dove la percentuale è
assai superiore a quella del Nord). I servizi non di mercato risultano
prevalenti rispetto a quelli di mercato.
Sia il Nord che il Sud si sono affacciati alle porte del nuovo
millennio con più del 60 per cento della loro forza lavoro nei servizi,
percentuale che sfiora il 70 all’inizio del secondo decennio; mentre la
quota del prodotto dei servizi nel 2010 è il 73 per cento del Pil
italiano. Anche in questo caso, tuttavia, come in quello dell’industria,
l’aumento del peso del settore, come quota del prodotto, può
dipendere in parte dall’aumento dei prezzi dei servizi rispetto ad altri
beni, e, in termini di occupazione, dal minore aumento della
produttività rispetto ai settori agricolo e, soprattutto, industriale83.

TABELLA 11
Forza lavoro nei servizi nel Nord e Sud (migliaia) nel 2006 e valori
percentuali.
Fonte: elaborazione CNEL (www.cnel.it) su dati ISTAT.

4.5. La specializzazione
Lo sviluppo economico si accompagnò, come si è visto, con radicali
cambiamenti nella composizione dell’occupazione. Nel Nord
l’industria assunse un peso via via crescente, mentre al Sud fu
l’agricoltura ad avere un peso comparativamente maggiore. Dopo il
1911, le differenze divennero nette. La Figura 12 illustra tali
differenze attraverso un indicatore che misura – per i due settori – il
grado di «specializzazione relativa» dell’economia regionale. Una
regione è considerata «specializzata» in un settore economico se la
quota di occupazione in quel settore è maggiore della media
nazionale.

FIGURA 12
Indice di specializzazione economica per settori. Nord e Sud, 1861-
2001
Le due curve di ogni grafico indicano la maggiore specializzazione
delle due sezioni del paese nei tre settori di attività (il Sud è più
specializzato nell’agricoltura, meno nell’industria, e al pari del Nord
nei servizi).
Fonti: DANIELE, MALANIMA, The Changing Occupational Structure in
Italy 1861-2001 (dove questo tema della specializzazione è più
ampiamente esaminato e la costruzione dei grafici analizzata) e
Appendice 4.
I grafici mostrano come l’economia del Sud sia relativamente
specializzata nell’agricoltura e quella del Nord nell’industria.
Un’analisi più dettagliata della composizione dell’occupazione
mostra come nel Sud siano le attività economiche spazialmente
vincolate ad avere un peso comparativamente maggiore: oltre
all’agricoltura, costruzioni e servizi non di mercato. Si tratta di attività
la cui localizzazione dipende dalla disponibilità di risorse fisse (come
la terra) e dalla distribuzione geografica della popolazione. Al
maggior peso occupazionale dell’agricoltura e delle costruzioni
corrisponde, al Sud, una minore produttività. Il peso dell’occupazione
nei servizi pubblici è spiegato, più che da ragioni economiche, da
motivazioni politiche e sociali: questo comparto ha assorbito una
quota della forza lavoro in eccesso, supplendo alla debolezza
strutturale della domanda di lavoro da parte del settore privato.
Di converso, sono i comparti a localizzazione non vincolata, in
primis quello manifatturiero, a pesare meno nella struttura
occupazionale e produttiva meridionale. Si tratta di quelle attività la
cui localizzazione è determinata, innanzitutto, da fattori economici:
prossimità a mercati ampi; infrastrutture; costo dei fattori,
produttività, capitale umano... da quei fattori, cioè, che determinano
la struttura dei vantaggi competitivi delle regioni e in cui il Sud si
trova, storicamente, in una situazione di relativo svantaggio.
1. Al tema della pluriattività nella società italiana pre-moderna furono dedicati due
numeri della rivista «Istituto Alcide Cervi Annali», 11, 1989, el2, 1990. A questi
numeri si rimanda per un approfondimento del tema.
2. TONIOLO, VECCHI, Italian Children at Work, 1881-1961; e anche
CINNIRELLA, TONIOLO, VECCHI, Lavoro minorile.
3. Come si vedrà nella successiva Tabella 6 (col. 5).
4. Si vedano i dati essenziali sulla popolazione italiana contemporanea in DEL
PANTA, LIVI BACCI, PINTO, SONNINO, La popolazione italiana dal Medioevo a
oggi. Per un esame dei cambiamenti demografici dal 1861 si veda DE SANTIS,
Due secoli di storia della popolazione italiana.
5. I dati sull’emigrazione sono tratti da ISTAT, Sommario di statistiche storiche
italiane 1861-1955 e ISTAT, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975.
Utili ricostruzioni di carattere complessivo sono: BIRINDELLI, Le migrazioni con
l’estero; DEMARCO, La formazione dell’Italia economica contemporanea, pp. 179-
264.
6. Si vedano i dati dell’emigrazione per regione in MONTI, Il Mezzogiorno nel
mondo, p. 42.
7. Riprendiamo queste e le successive informazioni sulla prima fase
dell’emigrazione italiana da DI COMITE, L’emigrazione italiana nella prima fase del
processo transizionale.
8. NITTI, Scritti politici, pp. 108 ss.
9. Si vedano le serie delle rimesse in MONTI, Il Mezzogiorno nel mondo, p. 78.
10. Si avvertirà esplicitamente quando si utilizzeranno dati diversi da quelli dei
censimenti della popolazione.
11. Tre lavori importanti sul tema delle forze di lavoro in Italia, da noi utilizzati, già
erano fondati sui dati dei censimenti: VITALI, Aspetti dello sviluppo economico
italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva; VITALI, La
popolazione attiva in agricoltura attraverso i censimenti italiani (1881-1961); e
ZAMAGNI, A Century of Change.
12. Si veda ISTAT, Annuario statistico italiano, il volume del 2010 (Cap. 9) e, più in
generale gli Annuari ISTAT del 2000-10.
13. Le serie delle unità di lavoro sono riportate nell’Appendice 4.9.
14. Talora per tasso di partecipazione o di attività s’intende il rapporto della forza
lavoro con la popolazione in età da lavoro, e cioè fra 15 e 64 anni di età. Qui si
usano le due espressioni come risultati del rapporto fra forza lavoro e popolazione
totale.
15. Come si vedrà fra poco, ciò vale per la forza lavoro nel suo complesso, ma
non per la forza lavoro maschile, che era superiore al numero degli abitanti maschi
nella classe di età da 15 a 64 anni (come si è detto nel precedente par. 1.1.).
16. DE VRIES, Industrious Revolution, sottolinea i cambiamenti nell’intensità
lavorativa. Nella sua interpretazione, questi cambiamenti non dipendono, tuttavia,
da un peggioramento dei livelli di vita.
17. Questo problema è discusso in MALANIMA, The Long Decline of a Leading
Economy, Appendix 1. La cifra di 4.000 ore lavorative all’anno «dalla remota
antichità fino alla fine del secolo scorso» (l’Ottocento), proposta da FOURASTIÉ,
La produttività, p. 42 sembra troppo elevata.
18. ZAMAGNI, An International Comparison of Real Industrial Wages, 1890-1913,
p. 113.
19. Consideriamo le ore di luce per anno come il limite massimo di impegno
lavorativo in una economia agricola.
20. Queste inchieste sono state esaminate da FEDERICO, Contadini e mercato:
tattiche di sopravvivenza.
21. FEDERICO, La struttura industriale.
22. Le stime Eurostat relative alla Comunità Europea nel 2000 sono di circa 1.700
ore e sono 1.690 nel 2009: European Economie Statistic, 2010, Eurostat.
23. SOLOW, Il mercato del lavoro come istituzione sociale.
24. Gli aspetti demografici sono discussi, con riferimento alle differenze Nord-Sud,
in DI COMITE, IMBRIANI, Struttura per età della popolazione e mercato del lavoro
nel Mezzogiorno d’Italia. In particolare viene esaminata la struttura della forza
lavoro in relazione alle vicende della transizione demografica nelle due sezioni del
paese.
25. DE SANTIS, Due secoli di storia della popolazione italiana, p. 67.
26. BIJAK, KUPISZEWSKA, KUPISZEWSKI, SACZUK, KICINGER, Population
and Labour Force Projections for 27 European Countries, 2002-2052; e SACZUK,
Labour Force Participation Scenarios for 27 European Countries.
27. FUà, Occupazione e capacità produttive: la realtà italiana, p. 15.
28. CIOCCA, Eeconomia italiana: un problema di crescita, p. 5
29. FUà, Occupazione e capacità produttive, p. 19.
30. SYLOS LABINI, La condizione del Mezzogiorno, p. 23.
31. Si è discusso il problema nel Capitolo 1.
32. DI COMITE, IMBRIANI, Struttura per età della popolazione e mercato del
lavoro nel Mezzogiorno d’Italia, p. 492.
33. Si vedano i dati in NOVACCO (a cura di), Per il Mezzogiorno e per l’Italia.
34. Si vedrà oltre come questa caduta del tasso di partecipazione negli anni
Sessanta e Settanta sia da attribuirsi all’abbandono del settore primario da parte di
tanti lavoratori e soprattutto alla diminuzione forte della partecipazione femminile.
Le donne che abbandonavano l’agricoltura solo di rado trovavano occupazione
nell’industria, che è rimasta sempre in prevalenza maschile. Il tema venne
esaminato, in un saggio del 1982, da DI COMITE, IMBRIANI, Struttura per età
della popolazione e mercato del lavoro nel Mezzogiorno d’Italia.
35. European Economie Statistic, 2010, Eurostat.
36. MALANIMA, The Long Decline of a Leading Economy.
37. Questi dati sono basati sulle serie delle Appendici 1 e 4.
38. è questo l’approccio al cambiamento strutturale dal lato della domanda
proposto da CLARK, The Conditions of Economie Progress.
39. Sotto il profilo sociale, concetto di società post-industriale fu introdotto nel
1974 da BELL, The Corning of Post-industrial Society. Dal punto di vista
economico è ancora importante il punto di vista espresso da BAUMOL,
Productivity Policy and the Service Sector.
40. A questa fase della storia economica italiana è dedicato l’articolo di
MALANIMA, The Long Decline of a Leading Economy.
41. Si vedano i dati sul prodotto pro capite in euro 2010 nell’Appendice 1.1. (la
stima arrotondata di 2.000 euro del 2010 si riferisce all’Ottocento).
42. Sull’avvio dell’industrializzazione italiana si veda soprattutto FENOALTEA, La
crescita industriale delle regioni d’Ltalia dall’Unità alla Grande Guerra;
FENOALTEA, Lo sviluppo dell’industria dall’Unità alla Grande Guerra.
43. Se prendiamo le unità di lavoro, invece dei lavoratori nei censimenti (come
abbiamo fatto nella Tabella 4), la fase industriale è durata ancora meno.
44. Vi è, tuttavia, qualche differenza fra i dati ISTAT e quelli Eurostat (su cui è
basata la successiva Tabella 9).
45. Assai utile su questo tema: BREITENFELLNER, HILDEBRANDT, High
Employment with Low Productivity?
46. Almeno nei dati Eurostat che sono riportati nella Tabella 9. I dati ISTAT per lo
stesso periodo sono di poco superiori.
47. Si veda la precedente Tabella 7 (col. 2 e 4).
48. Si veda anche l’Appendice 1.
49. Si veda, comunque, quanto si è detto nel Capitolo 1, par. 1.3. e nella nota
all’Appendice 4, e cioè che si è tenuto conto della sovraregistrazione
dell’occupazione nell’industria nelle regioni meridionali e che si è corretta in base a
ZAMAGNI, A Century of Change: Trends in the Composition of the Italian Labour-
Force, 1881 -1981.
50. Sul tema si ritornerà più ampiamente nel Capitolo 4.
51. Come sottolineato da KINDLEBERGER, Lo sviluppo economico europeo e il
mercato del lavoro.
52. Si veda, sulla forza lavoro durante questa fase, CHIAVENTI, I censimenti
industriali italiani 1911-1951: procedimenti di standardizzazione.
53. A questo tema fu dedicato il lavoro di ZAMAGNI, Industrializzazione e squilibri
regionali in Italia.
54. Su questa fase dell’economia italiana, si veda soprattutto NARDOZZI, Miracolo
e declino. LItalia tra concorrenza e protezione. Sul tema dei cambiamenti nella
forza lavoro si veda anche CAINELLI, STAMPINI, Appendice 1. Problemi di
standardizzazione a livello provinciale dei consimenti industriali italiani: 1951-1991;
CAINELLI, STAMPINI, I censimenti industriali in Italia (1911-1991).
55. Si veda soprattutto ANTONELLI, BARBIELLINI AMIDEI, GIANNETTI, GO-
MELLINI, PASTORELLI, PIANTA, Innovazione tecnologica e sviluppo industriale
nel secondo dopoguerra.
56. GIANNETTI, PASTORELLI, Il sistema nazionale di innovazione negli anni
Cinquanta e Sessanta.
57. Al tema dell’emigrazione dal Sud verso il Nord e agli effetti benefici che il
flusso migratorio poteva avere per l’economia del Mezzogiorno dedicò attenzione
in varie occasioni V. Lutz negli anni ’50. Si veda in particolare LUTZ, Alcuni aspetti
strutturali del problema del Mezzogiorno, e LUTZ, Una revisione critica della
dinamica di sviluppo del Mezzogiorno.
58. Il modello di LEWIS, Economie Development with Unlimited Supply of labour,
sull’offerta illimitata di manodopera fu applicato al caso italiano da
KINDLEBERGER, Lo sviluppo economico europeo e il mercato del lavoro.
59. Come è stato richamato e discusso da CAPASSO, CARILLO, DE SIANO,
Migration Flows, Strutural Change and Growth Convergence ed anche CAPASSO,
CARILLO, VINCI, Nuove teorie della crescita e dualismo.
60. Eccettuati i dati relativi all’Italia, gli altri sono ripresi da KINDLEBERGER, LO
sviluppo economico europeo e il mercato del lavoro, p. 83.
61. Secondo i calcoli presentati da TEMPLE, Structural Change and Europe’s
Golden Age.
62. LEPORE, La valutazione dell’operato della Cassa per il Mezzogiorno, pp. 291
e 297.
63. RITROVATO, I divari regionali nel Mezzogiorno nei primi venti anni
dell’intervento straordinario, p. 571.
64. GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell’economia italiana.
65. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, p. 101.
66. ORAZIANI, l’economia italiana 1945-1970. Introduzione, p. 33.
67. VASTA, Italian Export Capacity.
68. PADOVANI, Le scelte della ricostruzione nel Sud d’Italia, e PADOVANI, Aspetti
della struttura industriale del Mezzogiorno.
69. La polarizzazione dell’industria nel triangolo fra Torino, Milano e Genova
diviene evidente quando consideriamo che in quest’area dove viveva meno di un
quarto della popolazione italiana operava il 58 per cento delle società e vi si
trovava il 55 per cento della potenza installata: CARACCIOLO, Il processo
d’industrializzazione.
70. Si veda CONTI, SFORZI, Il sistema produttivo italiano; BRUSCO, SABA, Per
una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta.
71. DEL MONTE, GIANNOLA, Istituzioni economiche e Mezzogiorno, p. 71. Gli
effetti redistributivi dell’occupazione nel settore pubblico sono esaminati, fra gli
altri, da ALESlNA, DANNINGER, ROSTAGNO, Redistribution through Public
Employment: the Case of ltaly.
72. DEL MONTE, GIANNOLA, Istituzioni economiche e Mezzogiorno, pp. 60-1.
73. GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, p. 612.
74. A questo proposito è ancora molto importante il saggio di CAFAGNA, La
questione delle origini del dualismo economico italiano. Per quanto si riferisca al
periodo post-unitario, permette anche d’inquadrare le relazioni Nord-Sud nel
periodo successivo.
75. Si vedano, comunque, i rilievi fatti nel Capitolo 2, 3.7.
76. Per l’Unione Europea nel suo complesso, si veda BREITENFELLNER, HILDE-
BRANDT, High Employment with Low Productivity? p. 117.
77. Si veda, tuttavia, PACI, PIGLIARU, Strutural Change and Convergerne.
78. I metodi con cui viene stimato il prodotto del settore terziario nel Pil, basato per
molti settori sugli stipendi degli occupati, può suggerire una crescita della
produttività nel terziario anche quando non ve ne è nessuna.
79. Il tema è affrontato e discusso in DEL MONTE, GIANNOLA, Il Mezzogiorno
nell’economia italiana, pp. 343 e ss.
80. DEL MONTE, GIANNOLA, Istituzioni economiche e Mezzogiorno, p. 71.
81. Si veda il lavoro di ALESINA, DANNINGER e ROSTAGNO, Redistribution
Through Public Employment: The Case of ltaly.
82. WOLLEB EWOLLEB, Divari regionali e dualismo economico, p. 98.
83. Inoltre, in molti servizi, il calcolo del prodotto è effettuato sulla base del salario
che i dipendenti percepiscono (anche se un aumento dei salari nei servizi può non
significare affatto un aumento dell’utilità dei consumatori di servizi).
4. La produttività

L’aumento del prodotto pro capite nel secolo e mezzo dopo l’Unità è
derivato principalmente dal progresso delle tecniche e dalla più
ampia dotazione di beni capitali di cui si sono avvalsi i lavoratori nei
campi, nelle fabbriche, negli uffici. Grazie a migliori tecniche e a
maggiori beni capitali, ogni lavoratore è stato capace di produrre
assai più di quanto non producesse prima. Delle due variabili chiave
del recente processo di sviluppo, le conoscenze tecniche sono state
più importanti dei beni capitali.
L’avvio della crescita ha segnato in Italia una forte discontinuità.
Fino all’Ottocento inoltrato, nell’economia italiana, come nelle altre
economie agrarie pre-moderne, sia le conoscenze che i beni capitali
a disposizione dei lavoratori crescevano lentamente; di solito più
lentamente della popolazione. La capacità di produrre, e cioè la
produttività, aveva, perciò, la tendenza a diminuire. Con essa
diminuiva il reddito medio degli abitanti. È solo dall’Ottocento che in
Italia, come in altri paesi dell’Europa prima e del mondo poi, la
capacità produttiva ha cominciato a crescere più rapidamente della
popolazione.
Dopo avere visto nei due capitoli precedenti l’andamento del
prodotto e della forza-lavoro, possiamo, a questo punto, esaminare i
cambiamenti nella produttività. Si è già visto come l’aumento della
capacità produttiva abbia determinato, in una sua prima fase, il
divario economico fra Nord e Sud e come, in seguito, la diffusione
delle conoscenze e delle strutture produttive moderne abbia
coinvolto aree sempre più ampie e più lontane dai poli in cui la
crescita si era concentrata all’inizio. Tuttavia, quando questo
processo di crescita della capacità produttiva ha cominciato a
procedere assai più lentamente di prima (dal decennio 1970-80), la
convergenza del Mezzogiorno verso i livelli di reddito del Nord si è
interrotta e si è verificato anzi un nuovo arretramento in termini
relativi. I divari regionali hanno, dunque, descritto in Italia una curva
simile ad una U rovesciata: l’ineguaglianza regionale è dapprima
aumentata; si è poi ridotta. Il percorso della U rovesciata è rimasto,
però, incompleto, dal momento che, a partire dalla metà degli anni
Settanta, i divari sono nuovamente aumentati. Nel caso dell’Italia la
U rovesciata somiglia molto di più a una S rovesciata che a una
parabola.

1. LE FONTI DELLA CRESCITA

1.1. La contabilità della crescita


Perché un’economia possa produrre un reddito crescente nel tempo,
è necessario che essa accumuli fattori di produzione: la dotazione di
capitale fisico (macchinari, impianti e attrezzature...) e il numero dei
lavoratori occupati deve aumentare. L’aumento di questi fattori non è
sufficiente, tuttavia, a sostenere la crescita del prodotto nel lungo
periodo. In tutti i paesi, una quota importante della crescita
economica dipende, infatti, anche da fattori intangibili: conoscenze,
tecnologia e anche efficienza dei sistemi sociali e istituzionali (che si
riflette sulla capacità d’innovare e sul grado complessivo di
produttività di un sistema economico)1. Le conoscenze e le
competenze dei lavoratori prendono il nome di «capitale umano», la
cui accumulazione può essere approssimata (sia pure in maniera
imperfetta) dall’aumento dei livelli medi di scolarità. Il progresso
tecnologico e l’efficienza complessiva del sistema economico
vengono considerati insieme, in un’unica variabile chiamata
«produttività totale dei fattori», PTF. L’idea centrale della «contabilità
della crescita» (come viene sinteticamente indicato questo metodo)
è che si possono stimare i contributi alla crescita complessiva del
prodotto derivanti dalle variazioni nei beni capitali, nel lavoro e nelle
tecniche, conoscenze, istituzioni; cioè nella PTF.
Nel caso dell’Italia, i risultati della «contabilità della crescita»
confermano quanto già noto per altre economie sviluppate2.
Come mostrano i dati riportati nella Tabella 1, tra il 1861 e il 2007
l’accumulazione di capitale fisico, ha contribuito alla crescita del
prodotto per un 30-40 per cento. Il ruolo del fattore lavoro è stato
minore, di circa il 10 per cento. Il residuo 50-60 per cento della
crescita economica è dovuto alla PTF, cioè a tutte le variabili diverse
dal capitale fisico e dal lavoro, cioè, ripetiamo, maggiore capitale
umano, migliori tecniche e maggiore efficienza3.
È utile esaminare anche come le variabili abbiano giocato nei
diversi periodi. Nella Tabella 1 sono escluse le due guerre mondiali,
considerate come epoche di rottura dell’evoluzione economica
dovute a fenomeni esterni all’economia.

TABELLA 1
Il contributo del capitale, del lavoro e della produttività totale dei
fattori( PTF) alla crescita del Pil in Italia dal 1861 al 2007
I numeri tra parentesi nella seconda riga dall’alto indicano stime
diverse delle quote dei fattori capitale e lavoro sul prodotto
aggregato. Le quote dei fattori sono usate per ponderare i tassi di
crescita dei fattori. Nella tabella si usano valori diversi (nelle coll. 2-3
e in quelle 5-6). Nella parte della tabella con i valori percentuali, si
stima il contributo percentuale del capitale, del lavoro e della PTF alla
crescita del Pil.
Fonti: per il capitale: ROSSI, SORGATO, TONIOLO, I conti economici
italiani: una ricostruzione statistica, 1890-1990; ERCOLANI, La
documentazione statistica di base. Per il lavoro: Appendice 4.

Il primo periodo (1861-1913) è quello di avvio della crescita


moderna4; il secondo (1921-36) è l’epoca fra le due guerre mondiali
e coincide, nella sua seconda metà, col ristagno dell’economia
internazionale, colpita dalla grande crisi; il terzo (1951-81) è l’epoca
della forte crescita dell’economia italiana e della radicale
trasformazione della società e delle culture; il quarto (1981-2007) è
l’epoca post-industriale successiva alle due crisi petrolifere del 1973
e del 1979, ma anteriore alla crisi del 2008-095.
Come si vede, nei quattro periodi individuati, il peso del capitale,
del lavoro e della PTF non si discosta molto dai valori medi relativi al
lungo periodo 1861-2007. L’eccezione è il trentennio 1951-81. Il
tasso di crescita del Pil ha sfiorato allora il 5 per cento. In questo
caso vediamo che, mentre il ruolo del capitale è solo di poco
superiore a quello del lungo periodo 1861-2007, quello del lavoro è
modesto e quello della produttività assai elevato. È, questa, l’epoca
in cui avviene l’esodo dalle campagne verso l’industria in
espansione, che, però, non assorbe tutta la forza lavoro che
abbandona l’agricoltura. Il tasso di partecipazione ha una caduta
sensibile, come si è visto nel Capitolo 3. La stessa epoca, tuttavia, si
caratterizza per l’elevata produttività del sistema economico.
L’innovazione nei prodotti, nei mercati, nell’organizzazione
aziendale, svolge una funzione importante6. L’aumento del grado
d’istruzione porta il suo contributo a questo incremento forte nella
PTF7.

1.2. La produttività del lavoro


Mentre l’analisi della produttività totale dei fattori per il Nord e il Sud
non è possibile, per la mancanza di dati disaggregati per area
geografica relativi al lungo periodo preso in esame, è possibile,
invece, un esame del prodotto per addetto, o produttività del lavoro8,
per le due grandi aree del paese. L’andamento della curva che si
ottiene rappresenta l’operare congiunto di diverse variabili che
rendono più produttivo il lavoro del singolo lavoratore e che sono
costituite dalla quantità di attrezzature e macchine che il lavoratore
usa (il capitale per addetto), dalle conoscenze tecniche che quelle
attrezzature incorporano, dal grado d’istruzione del lavoratore (il
capitale umano).
La Figura 1 mostra la tendenza del prodotto per addetto, che è
aumentata, nel complesso, di 18 volte nell’epoca in esame. Il tasso
di crescita annuo della produttività del lavoro dal 1861 al 2007 è
stato del 2 per cento9. Ammettendo che nel corso del secolo e
mezzo preso in considerazione i tempi di lavoro di ogni addetto si
siano dimezzati10, come sembra probabile che sia accaduto, allora
l’aumento diviene pari a circa il 4 per cento all’anno (e a 35 volte nel
complesso del periodo esaminato).
La crescita è graduale per un lungo periodo di tempo. Diviene
forte nei decenni 1951-81 e poi rallenta. Come si vede dai dati della
Tabella 2, essa descrive una parabola. I valori sono crescenti fino al
culmine del trentennio successivo alla Seconda guerra mondiale.
Dopo gli anni ’70 c’è stato un forte rallentamento. In particolare, è
opportuno notare che la crescita della produttività che il grafico nella
Figura 1 pur rivela dagli anni Novanta fino al 2010, dipende in realtà
dalla crescita che si è avuta nel settore terziario. Nell’industria la
produttività è rimasta stazionaria11.

FIGURA 1
La produttività del lavoro in Italia dal 1861 al 2010 (lire 1911)

Fonti: le fonti del grafico sono le stesse delle Appendici 1.1. e 4.1.

La Figura 2 mostra con chiarezza la parabola, prima ascendente, poi


discendente, della produttività del lavoro dal 1900 al 2010. Il motore
primario della crescita italiana fino a metà degli anni Settanta era
stata l’innovazione nel settore dell’industria; con l’elevata produttività
che essa aveva generato. Il presidente dell’Istat Giuseppe De Meo,
in un articolo del 1967, stimava che, negli anni dal 1951 al 1966,
l’aumento di produttività del lavoro fosse stato del 110 per cento
nell’agricoltura, del 128 nell’industria e del 54 nei servizi12. Nella fase
industriale i tassi di crescita sono alti e aumentano nel tempo. Nella
fase postindustriale i tassi risultano drasticamente ridimensionati.

TABELLA 2
Tassi annui di crescita della produttività del lavoro dal 1861-2007 (%)

Fonti: Appendici 1.1. e 4.1.

FIGURA 2
Tassi annui di crescita della produttività del lavoro dal 1900 al 2010
Nel grafico si riporta la variazione percentuale di un anno sul
precedente. Sono esclusi i dati relativi agli anni della Prima e
Seconda guerra mondiale.
Fonti: Appendici 1.1. e 4.1.
Come già visto nel Capitolo 1, la produttività del lavoro in
agricoltura era superiore nel Sud ancora alla vigilia della Prima
guerra mondiale. È questa la ragione per cui la produttività del lavoro
nei tre settori congiunti è maggiore nel Mezzogiorno nei primi
decenni dopo l’Unità (Fig. 3). Allora l’industrializzazione del paese
non era ancora iniziata e, dato il peso determinante dell’agricoltura, il
livello della produttività del lavoro nel suo complesso era superiore
nel Mezzogiorno. All’inizio del nuovo secolo, tuttavia, le due curve,
relative al Nord e al Sud, s’intersecano. Nel periodo che segue, il
vantaggio del Nord si consolida.

FIGURA 3
La produttività del lavoro nel Nord e nel Sud dal 1861 al 2007 (lire
1911)
Nel grafico, i valori sull’asse verticale sono in logaritmi. I dati sono
per decennio.
Fonti: Appendici 1.1. e 4.1.

2. LE RAGIONI DEL DIVARIO FRA


NORD E SUD

2.1. Le ragioni immediate


Nella nostra analisi, il divario fra Nord e Sud è stato principalmente
esaminato come divario nel Pil pro capite. Le ragioni immediate
dell’allontanamento del Sud rispetto al Nord nel Pil pro capite
possono dipendere da una minore produttività del lavoro o da un
minore tasso di attività o da entrambi. È possibile precisare quali dei
due fattori del divario abbia avuto maggiore importanza nei periodi
che abbiamo preso in considerazione. Possiamo, infatti, scomporre il
Pil pro capite per mezzo della seguente formula:
Nel primo membro abbiamo il prodotto (y) diviso per la popolazione
(p), e, cioè, il prodotto pro capite. Nel secondo membro, abbiamo la
produttività del lavoro, o prodotto (y) per addetto (L)13, moltiplicata
per il tasso di partecipazione (L/P), cioè del numero di addetti sulla
popolazione. La formula è una semplice identità, come si vede
eliminando la L nel secondo membro14. I tassi di aumento del Pil pro
capite debbono risultare uguali alla somma dei tassi di aumento
della produttività e della partecipazione o attività della forza lavoro.
Diventa possibile, utilizzando la formula, precisare quale delle due
cause abbia svolto una maggiore influenza nei diversi periodi
considerati15.

TABELLA 3
Variazioni annue del divario Sud-Nord nel prodotto pro capite (Dy),
nella produttività del lavoro (Dp) e nel tasso di attività (Do) 1861-
2007 (%)

La somma delle colonne 2 e 3 deve essere uguale al valore della


colonna 1. Se noi indichiamo con Dy il tasso di variazione annuo del
divario Sud-Nord nel prodotto pro capite, con Dp, il tasso di
variazione annuo Sud-Nord nella produttività del lavoro, e, con Do, il
tasso di variazione annuo Sud-Nord nel tasso di attività, abbiamo:
Dy=Dp+Do.
Fonti: Appendici 1.2., 3.1. e 4.1.

Nella colonna 1 (Dy) della Tabella 3 è riportato il tasso annuo di


variazione del divario del Pil pro capite del Sud rispetto a quello del
Nord (che è dato dal tasso annuo di variazione del rapporto fra il Pil
pro capite nel Sud e quello nel Nord). Il segno meno indica che il
rapporto del Pil pro capite del Sud rispetto a quello del Nord è
andato peggiorando nel periodo considerato e, quindi, che il
Mezzogiorno ha perso terreno. Vediamo che ha un segno positivo
solo il tasso Dy dei trenta anni 1951-81; durante i quali il
Mezzogiorno si è avvicinato al Nord. Nella colonna 2 è riportata la
variazione annua percentuale del rapporto fra la produttività del
lavoro nel Sud e quella nel Nord (indicata con Dp). In questo caso,
nei periodi 3 e 4, e cioè dal 1951 al 2007, si è avuto un
miglioramento del Sud in termini di produttività; nel periodo 4,
peraltro, si potrebbe piuttosto parlare di stabilità che di aumento. La
colonna 3 riporta il divario Sud-Nord in termini di tasso di attività (Do)
fra i due anni indicati. In questo caso tutti i valori sono negativi. Il
tasso di attività del Sud, già inferiore a quello del Nord all’epoca del
primo censimento nel 1861, è arretrato di continuo rispetto ad esso.

2.2. La periodizzazione
Abbracciando tutto il lungo periodo dal 1861 al 2007, vediamo (nella
riga 5) che il Sud ha perso terreno rispetto al Nord, in termini di Pil
pro capite, arretrando ogni anno dello 0,40 per cento. A questo
arretramento ha contribuito sia l’occupazione che la produttività. La
produttività ha contribuito di più. Possiamo commentare l’andamento
dei valori della Tabella 3 facendo riferimento ai diversi periodi:
1. 1861-1911: nel primo mezzo secolo di vita unitaria (riga 1), i valori
si discostano di poco da quelli relativi ai 150 anni di storia unitaria
nel loro complesso (riga 5). Il Sud è arretrato rispetto al Nord sia
in termini di produttività, sia per il più basso tasso di attività. È
l’epoca in cui l’industria, che si afferma in alcune regioni del Nord,
con la sua alta produttività del lavoro, genera un sempre più
elevato divario nella produttività complessiva del lavoro nel Nord
rispetto al Sud16;
2. 1921-1936: l’epoca del fascismo (riga 2) è quella in cui
l’arretramento del Sud rispetto al Nord è maggiore (al tasso annuo
dell’1,5 per cento). L’arretramento del Mezzogiorno è assai forte
sia nella produttività (che diminuisce dell’1 per cento all’anno), che
nell’occupazione (che diminuisce di un mezzo punto percentuale
all’anno). Dato che nel Nord il settore industriale, più produttivo
dell’agricoltura, si va rafforzando e che nel Sud l’agricoltura
continua ad essere il settore dominante, la produttività del sistema
economico del Nord si allontana sempre di più da quella del Sud.
La differenza in termini di produttività è forte. Su questo
arretramento può avere svolto la sua influenza la politica contro
l’emigrazione da parte del fascismo e le leggi Usa di contenimento
dell’immigrazione negli anni ’20. La popolazione del Sud era il 35
per cento della popolazione italiana nel 1921 e il 37 per cento nel
1951. Dai dati elaborati nella Tabella 3, si potrebbe riassumere il
cambiamento avvenuto fra la Prima e la Seconda guerra
mondiale, dicendo che il Mezzogiorno si riempie di disoccupati e
che chi lavora è poco produttivo (i due fenomeni sono legati nel
senso che, quando l’offerta di lavoro è in esubero rispetto al
capitale disponibile, la produttività del lavoro è bassa);
3. 1951-1981: i trenta anni fra il 1951 e il 1981 (riga 3) sono l’epoca
in cui il Mezzogiorno guadagna mezzo punto percentuale all’anno
rispetto al Nord nel Pil pro capite. Questo progresso in termini
relativi deriva completamente da guadagni nella produttività. Il
tasso di attività relativo del Sud rispetto al Nord rimane più o
meno invariato. Nel Sud arriva l’industria moderna. Dal Sud la
forza lavoro emigra verso Nord. La popolazione del Mezzogiorno
è il 37 per cento del totale del paese nel 1951 ed è il 35 per cento
trenta anni dopo17. Nel 1971 si raggiunge di nuovo un divario del
Sud rispetto al Nord uguale al 65 per cento (il Pil pro capite nel
Sud è, cioè, il 65 per cento di quello del Nord, come nel 1930).
Quaranta anni di divario sono stati riassorbiti. Ma questa parziale
convergenza non prosegue. Infatti
4. 1981-2007: negli anni fra il 1981 e il 2007 (riga 4), si ritorna
indietro fino al livello anteriore alla Seconda guerra mondiale.
Intorno al 2010, il Pil pro capite del Sud è circa il 60 per cento di
quello del Nord, come nel 1930.

2.3. Crescita e ineguaglianze


Queste le cause immediate. Ma come ci sono le cause, così ci sono
anche le cause delle cause, in una progressione infinita. Mentre le
cause immediate sono più facili da individuare, man mano che si
procede verso le cause delle cause aumentano le difficoltà e cresce
la componente interpretativa dell’analisi. Ci sono state interpretazioni
del divario Nord-Sud in Italia che hanno cercato d’individuare nella
storia antica o medievale18 o nelle differenze genetiche19 le prime
scaturigini del divario italiano. Noi non abbiamo cercato ragioni così
remote. Il divario in Italia è, a nostro avviso, un effetto particolare
della crescita moderna del paese, che ha avuto origine quando la
crescita moderna è iniziata, a fine Ottocento.
Che la crescita moderna comporti ineguaglianze è stato ripetuto
spesso. Fu, tuttavia, Simon Kuznets, in un articolo pubblicato negli
anni Cinquanta, a ipotizzare l’esistenza di una relazione non lineare
tra sviluppo economico e disuguaglianza nella distribuzione del
reddito20. La sua analisi non si riferiva a ineguaglianze fra aree
geografiche, ma ai cambiamenti nella distribuzione fra individui
all’interno delle società che iniziavano il percorso dello sviluppo.
Schematizzando, secondo Kuznets, in un’economia arretrata e con
un basso livello di reddito, le disuguaglianze tra individui sono
contenute. Man mano che si avvia l’industrializzazione, l’aumento
dei redditi medi si accompagna con la crescita della disuguaglianza.
Individui, famiglie e gruppi sociali che sono impegnati nelle attività
industriali nuove, con alti livelli di produttività, si allontanano dalla
relativa eguaglianza caratteristica del mondo agrario tradizionale.
L’ineguaglianza aumenta. Man mano, però, che i lavoratori vengono
assorbiti dalle attività nuove e più produttive, i redditi più elevati si
generalizzano. Raggiunto un certo livello di sviluppo, la distribuzione
tende a divenire più egualitaria. Una parte sempre più ampia della
popolazione gode infine dei redditi elevati derivanti dalle attività
moderne, che intanto sono diffuse e sono diventate dominanti. Si
procede verso la convergenza nei redditi. L’andamento della
disuguaglianza nei redditi ipotizzata da Kuznets sarebbe, dunque,
descritta da una U rovesciata: crescente in una prima fase dello
sviluppo, decrescente in una seconda21 (Fig. 4).
Su scala geografica, con riferimento, cioè, a economie regionali o
nazionali, la relazione di Kuznets è suggestiva. Essa suggerisce,
infatti, che la divergenza, che caratterizza le prime fasi dello
sviluppo, sia destinata, prima o poi, a lasciare spazio a un
progressivo riequilibrio delle condizioni economiche regionali, cioè
alla convergenza. Anche le regioni si allontanano in un primo tempo
e convergono in un secondo.
Uno dei primi studi diretti a verificare l’ipotesi di Kuznets facendo
riferimento alle regioni, invece che agli individui, fu condotto da
Jeffrey Williamson negli anni Sessanta22. Basandosi su dati relativi a
ventiquattro paesi, tra cui l’Italia, Williamson sostenne che l’aumento
delle disparità regionali e del dualismo Nord-Sud sarebbe tipico delle
prime fasi di sviluppo, mentre la riduzione degli squilibri e del
dualismo avverrebbe nelle fasi più mature. Come nel caso delle
disuguaglianze di reddito tra individui, anche quelle fra regioni e fra
nazioni avrebbero, dunque, un andamento simile ad una u
rovesciata.
Dal punto di vista diacronico, i risultati ottenuti da Williamson
implicano che tutti i paesi dovrebbero presentare, in qualche periodo
della propria storia economica, divari regionali crescenti. Dal punto di
vista comparativo implicano, invece, che le nazioni con livelli di
sviluppo elevati dovrebbero avere, in media, divari interni minori di
quelle meno sviluppate o in via di sviluppo.

FIGURA 4
Relazione tra ineguaglianze regionali e sviluppo
Nel grafico, al crescere del reddito pro capite nazionale, il grado di
ineguaglianza tra le regioni, misurato da un qualche indice di
squilibrio (sull’asse delle ordinate), aumenta. Raggiunto il massimo
per un certo livello di reddito x, le ineguaglianze cominciano a ridursi.
Si verifica, cioè, convergenza nei redditi pro capite regionali.

2.4. L’esempio della Spagna


I numerosi lavori che, con dati e tecniche diverse, hanno sottoposto
a verifica i risultati ottenuti da Williamson offrono un quadro non
univoco. Per esempio, un’analisi riferita a un gruppo di paesi
europei, mostra come la relazione tra livello di sviluppo nazionale e
divari regionali abbia effettivamente l’andamento di una U
rovesciata23. Tale andamento risulta anche da altre ricerche, riferite
alla Francia e agli Stati Uniti, basate su serie storiche di lungo
periodo24. Secondo questi studi, a partire dalla fine dell’Ottocento,
sia in Francia che negli Stati Uniti, lo sviluppo economico è stato
caratterizzato da due fenomeni strettamente connessi: aumento del
grado di concentrazione regionale delle industrie e conseguente
aumento delle disparità regionali. Da una certa fase in poi, il grado di
concentrazione delle industrie è diminuito e la divergenza ha lasciato
il posto a un processo di convergenza regionale.
Altri studi, riferiti al contesto dell’Unione europea, mostrano, però,
scenari meno confortanti25. Secondo tali lavori, mentre in tutte le
nazioni studiate si riscontra la fase ascendente delle ineguaglianze,
la fase discendente, di progressiva riduzione degli squilibri,
riguarderebbe solo alcune di esse. Poiché l’andamento dei divari
può essere influenzato da specifici fattori nazionali, l’ipotesi di
convergenza ammette eccezioni.
Prima di passare al caso italiano, esaminiamo l’andamento nel
tempo delle disuguaglianze regionali in due paesi europei, Spagna e
Gran Bretagna, per i quali sono disponibili serie storiche di lungo
periodo del Pil pro capite regionale. La Figura 5, riferita alla Spagna,
illustra l’andamento dei divari regionali nel Pil pro capite – misurati
da un indicatore sintetico di squilibrio, la deviazione standard26 - per
il periodo 1860-2008. Un aumento del valore dell’indicatore segnala
un aumento dei divari regionali, una sua diminuzione un processo di
convergenza regionale.
Si nota dal grafico come il grado di disuguaglianza sia
leggermente più alto quando nel campione s’include la regione con
la capitale, ovvero la Comunidad di Madrid, mentre sia più basso
quando la si esclude. Come si vede, il valore dell’indicatore prima
aumenta, raggiunge un massimo nel 1914 e tende, poi, a diminuire.
L’andamento conferma l’ipotesi richiamata in precedenza: aumento
dei divari in una prima fase dello sviluppo, loro riduzione in una
seconda.

FIGURA 5
I divari regionali in Spagna 1860-2008
Nel grafico, i divari regionali sono calcolati attraverso la deviazione
standard del Pil pro capite di 17 Comunità Autonome rispetto
all’indice Spagna = 100.
Fonti: per gli anni 1860-1975, MARTÍNEZ-GALLARAGA, New Estimates
of Regional GDP in Spain, 1860-1930; per gli anni 1995 e 2008
elaborazioni su dati Instituto Nacional de Estadistica.
Nel caso della Gran Bretagna, invece, lo squilibrio regionale dalla
fine dell’Ottocento a oggi è, tutto sommato, basso e in riduzione
dopo il 1911. Nei trenta anni dopo il 1970, tuttavia, il divario è andato
aumentando, anche se si mantiene modesto27. L’ipotesi di
Williamson non sembra verificata, perlomeno nella parte in cui
prevede una riduzione delle disuguaglianze al crescere dei livelli di
reddito nazionali.
La relazione ad U capovolta può sembrare dunque incompleta,
nel senso che essa si riferisce a un’epoca limitata del processo di
sviluppo nazionale, quella esaminata da Williamson, che consentiva
di individuare una tendenza alla convergenza.
È possibile, infatti, che alla riduzione degli squilibri succeda una
fase diversa, in cui gli squilibri regionali aumentano di nuovo. Questa
ipotesi trova conferme in alcune esperienze nazionali, come quelle
esaminate dall’economista Orley Amos, che mostrano come
l’evoluzione dei divari regionali segua non due, ma tre fasi:
divergenza, convergenza, divergenza28.

2.5. Divergenza, convergenza, divergenza


E il caso italiano? Trova la ricostruzione di Williamson una conferma
o una smentita nel caso italiano?
Riflettendo sull’esperienza italiana, Jeffrey Williamson scriveva
nell’articolo del 1965: «le conoscenze a proposito del dualismo
regionale italiano suggeriscono previsioni ottimistiche sull’ampiezza
futura del divario Nord-Sud nel percorso che l’Italia sta attraversando
verso la maturità economica e il raggiungimento delle economie più
avanzate»29. La sua tesi di un’evoluzione dei divari nel corso dello
sviluppo a forma di una U rovesciata sembrava trovare conferma nel
caso dell’Italia durante gli anni Sessanta. All’inizio
dell’industrializzazione (e fino alla vigilia della Seconda guerra
mondiale), la crescita italiana aveva, infatti, percorso il braccio
ascendente della U rovesciata; erano, cioè, aumentati i divari fra le
regioni meridionali e quelle settentrionali sia in termini di prodotto
che di distribuzione settoriale della forza lavoro.
Il percorso dell’economia italiana nei primi tre decenni postbellici,
coi suoi forti ritmi di crescita, aveva avvicinato il Mezzogiorno ai livelli
del Nord. La pressione demografica nel Sud si era allentata grazie
alle migrazioni interne verso il Nord. Era aumentato il reddito medio
degli abitanti meridionali. Il flusso di capitali verso il Sud aveva
favorito l’espansione industriale del Mezzogiorno (che aveva allora la
«sua» industrializzazione). Il cambiamento strutturale, con il
passaggio di lavoratori dall’agricoltura all’industria, era stato
profondo e rapidissimo. Tutto questo processo era trainato dalla forte
crescita dell’industria, in particolare di quella manifatturiera, che in
alcuni anni superò il 10 per cento rispetto all’anno precedente.
Nel 1965, all’epoca dell’articolo di Williamson, era difficile
prevedere che questa crescita del prodotto industriale si sarebbe,
infine, interrotta. Da tassi di crescita molto elevati si passò a tassi
inferiori, talora di molto, al 5 per cento. Non solo il Mezzogiorno non
finì di percorrere il braccio discendente della U rovesciata, ma risalì il
braccio che aveva cominciato a discendere.
La Figura 6, illustra la relazione tra l’ineguaglianza regionale e il
livello di sviluppo economico dell’Italia dal 1891 al 2009. Si nota
come, in una prima fase, il grado d’ineguaglianza regionale aumenti
al crescere del Pil pro capite. Ci si muove lungo il ramo ascendente
della parabola - la U rovesciata – fino al 1951, quando i lavoratori
nell’industria sono il 31 per cento del totale. Segue un’altra fase, in
cui la parabola discende, fino a un minimo negli anni della prima crisi
petrolifera, il 1973, quando l’industria occupa il 45 per cento della
forza lavoro. Si apre poi un’altra fase, la terza, in cui l’ineguaglianza
tra le regioni tende ad aumentare di nuovo, anche se in maniera più
contenuta che in passato. In quest’ultima fase si compie la
transizione dall’industria ai servizi e l’Italia diviene un’economia post-
industriale.
Il caso italiano conferma, dunque, solo in parte la teoria elaborata
da Williamson. La relazione tra divari regionali e sviluppo
economico, nelle sue diverse fasi, più che a una U rovesciata,
somiglia a una S rovesciata: divergenza, convergenza, di nuovo
divergenza.
In Italia i divari regionali di sviluppo si sono ridotti, in misura
significativa, nella fase di più intensa industrializzazione e crescita
economica. La convergenza si è interrotta successivamente,
quando, a partire dai primi anni Settanta, il rallentamento dei tassi di
sviluppo annui della produzione industriale determinò un deciso
declino dei tassi di crescita del Pil (Fig. 7).

FIGURA 6
Relazione fra ineguaglianza regionale e Pil pro capite dell’Italia,
1891-2009
Il grafico riporta sull’asse verticale l’indice di disuguaglianza
regionale di Williamson e, su quello verticale, il Pil pro capite
dell’Italia (in euro 2010, in logaritmi).
Fonti: Appendici 1 e 2.

Nella fase dell’industrializzazione si era verificato un processo


virtuoso di aumento della produttività, trasferimento della forza
lavoro dall’agricoltura all’industria, emigrazioni interne, formazione
del capitale nel Mezzogiorno grazie agli investimenti privati e alle
politiche di riequilibrio territoriale. Questo processo stava
esaurendosi negli anni Settanta. Fra il 1936 e il 1951 circa 10 milioni
di persone lavoravano nell’agricoltura italiana. Nel 1981 il numero
era sceso a meno di 3 milioni di persone. L’offerta di lavoro non era
più «illimitata». Le crisi petrolifere possono avere esercitato
un’influenza sulla caduta dei tassi di crescita nel settore industriale
sia per le ripercussioni dirette sull’industria italiana, sia per quelle
indirette, e cioè la caduta della domanda estera di prodotti italiani30.

FIGURA 7
Tassi di variazione annui del prodotto industriale 1950-2010 (%
rispetto all’anno precedente)
Fonti: Appendice 1 e 4.

2.6. Verso la maturità


Il primo paese industriale, l’Inghilterra, raggiunse la fase della
maturità economica ben prima dell’Italia. L’economista Nicholas
Kaldor, riflettendo sull’evoluzione dell’economia inglese e cercando
di spiegare la ragione del suo «basso saggio di sviluppo», scriveva
nel 1966: «la tesi che intendo sostenere è che rapidi saggi di
sviluppo sono associati con il rapido saggio di sviluppo del settore
“secondario” dell’economia – soprattutto il settore manifatturiero – e
che questo corrisponde allo stadio intermedio di sviluppo economico
– è la caratteristica della transizione dall’“immaturità” alla maturità –
e che il problema dell’economia britannica è che essa ha raggiunto
uno stadio elevato di “maturità” prima di altri, col risultato che essa
ha esaurito il potenziale di rapido sviluppo prima di aver raggiunto
livelli particolarmente elevati di produttività o di reddito reale per
persona»31.
In questa fase di crescita industriale gran parte della popolazione
abbandona l’agricoltura e offre il proprio lavoro nell’industria; la
produttività del lavoro aumenta nell’industria; i prezzi dei prodotti
industriali si riducono in termini reali; i redditi crescono e aumenta la
domanda di prodotti industriali; i vantaggi della crescita coinvolgono
gradualmente anche le regioni più lontane dai poli di sviluppo.
Questo processo virtuoso di cambiamento strutturale genera infine lo
spostamento dell’economia verso il settore dei servizi, che, secondo
Kaldor, è inevitabilmente meno produttivo della manifattura32. I tassi
di crescita dell’economia tutta non possono che essere inferiori. La
domanda interna di beni industriali è più angusta in questa fase
rispetto all’epoca precedente: non si tratta più di costruire case,
ferrovie, ponti, strade, automobili, elettrodomestici, per soddisfare
una domanda nuova di questi beni; come era accaduto nella fase
dell’industrializzazione. Si tratta piuttosto di mantenere in attività le
attrezzature che ci sono e di consentire il ricambio delle strutture che
si vengono usurando. Nel settore manifatturiero, si passa dall’epoca
della creazione di beni nuovi all’epoca del metabolismo industriale.
Anche il fatto che l’industria sperimenti un forte aumento della
produttività, può, infine, rivelare i suoi effetti negativi in quanto i
prezzi dei suoi prodotti diminuiscono e, con essi, diminuisce il valore
complessivo di quanto l’industria produce. Aumentando la
produttività del lavoro, inoltre, c’è sempre meno bisogno di lavoratori.
Il prodotto dell’industria e l’occupazione nell’industria diminuiscono
anche per questo motivo.
In questa fase, l’industria può accrescere il suo rilievo relativo,
occupando, ad esempio, quote più ampie del mercato estero, anche
se di solito, anche sotto questo punto di vista, l’economia matura
può trovare difficoltà. I salari di un’economia matura sono ben più
elevati di quelli delle economie concorrenti. La prospettiva di Kaldor
è, tuttavia, eccessivamente pessimistica. I servizi non sono
necessariamente improduttivi33; per quanto nei servizi non si abbiano
quasi mai i tassi di crescita della produttività che sono caratteristici
del settore manifatturiero34. Cambiamenti volti a una maggiore
efficienza nelle istituzioni, nei mercati, possono favorire la ripresa
della crescita. È vero che il settore industriale non può più contare su
un serbatoio di forza lavoro inoccupata o sottoccupata nel mondo
rurale. Questo serbatoio si è ormai esaurito. Ci possiamo, però,
chiedere se, in una prospettiva globale e non nazionale, il serbatoio
sia esaurito davvero. Nei paesi in ritardo di sviluppo il cambiamento
strutturale è ancora in corso. Su scala globale si genera un flusso di
lavoro dalle campagne del mondo arretrato verso le economie
avanzate. L’Italia è inserita, più di altri paesi in questo flusso.

3. SOCIETÀ, ISTITUZIONI,
GEOGRAFIA

3.1. Le cause delle cause


L’esame del ruolo dei fattori di produzione e delle cause prossime
offre una prima spiegazione del divario Nord-Sud. Come abbiamo
visto, questo divario è da attribuire a differenze nella produttività del
lavoro e nel tasso di occupazione. In altre parole, in una prima fase,
il Sud si è sviluppato meno del Nord per minore capacità di
accumulare quei fattori che incidono sulla produttività. In seguito, il
differenziale di produttività tra Nord e Sud si è gradualmente ridotto,
ma il divario nel reddito si è mantenuto ampio, e in alcuni periodi
allargato, a causa della minore capacità del Sud di creare
occupazione.
Ma per quali motivi il Sud ha avuto a lungo un divario di
produttività rispetto al Nord? E perché, poi, la capacità di generare
occupazione è stata – e continua a essere – sistematicamente
inferiore? A queste domande si potrebbe rispondere semplicemente
dicendo che il Sud non ha conosciuto un compiuto percorso di
sviluppo industriale. L’industria in Italia è stata a lungo concentrata
nel Nord-Ovest per poi diffondersi nel Nord-Est e nel Centro. Nel
Sud, l’industrializzazione è stata parziale e limitata: è questo il nodo
irrisolto dello sviluppo economico meridionale.
Alla domanda sulle cause del divario Nord-Sud si potrebbe,
dunque, rispondere che una minore produttività e un minor tasso di
occupazione hanno determinato un minor prodotto pro capite. Si
potrebbe aggiungere, poi, che alla base di queste dinamiche vi è
stato uno sviluppo tardivo e assai modesto del settore industriale.
Questa risposta sarebbe, però, per molti versi incompleta e, forse,
tautologica. Perché il Mezzogiorno non si è industrializzato con gli
stessi tempi e con la stessa intensità del Nord? Perché non ha
recuperato il ritardo attraendo investimenti e capitali? Quali le ragioni
del suo percorso di sviluppo?
Rispondere a queste domande significa andare oltre le cause
immediate del divario. Significa chiedersi se tra Nord e Sud vi siano
differenze sociali, istituzionali, culturali o storiche in grado di
spiegare l’evoluzione economica delle due aree.
Come abbiamo accennato, un’indagine sulle cause remote o
fondamentali dello sviluppo economico rischia di portare a un gioco
di rimandi, in cui di una causa se ne cercano altre per arrivare, a
ritroso, fino a una presunta causa fondamentale. Questa causa è
stata, di volta in volta, individuata nell’esperienza medievale dei
comuni al Centro-Nord o nelle dominazioni araba e normanna al
Sud35.La causa ultima del divario può essere ricercata ancor più in
profondità. Se individuata in una diversità culturale, antropologica o
genetica tra gli Italiani del Nord e quelli del Sud, questa causa
diventa la spiegazione ultima, causa causarum. Così, alla fine
dell’Ottocento, Cesare Lombroso o Alfredo Niceforo rivestirono di
un’apparenza pseudo-scientifica la tesi, assai diffusa nell’opinione
pubblica, anche tra quella colta, di una diversità antropologica dei
meridionali36.Allo stesso modo, con linguaggi e tecniche diverse, nel
2010, lo psicologo Richard Lynn ha imputato agli italiani del Sud un
minore quoziente d’intelligenza, che spiegherebbe il divario nei
redditi rispetto al Nord37.
Più modestamente, noi crediamo che, analogamente a quanto
accaduto in altri paesi, anche in Italia, la formazione e, perlomeno in
una prima fase, l’evoluzione dei divari regionali sia stata l’effetto
dello sviluppo economico che, come generalmente accade, si
accompagna con un processo di concentrazione geografica
dell’industria. Ciò che rende il caso italiano diverso da quello di altre
nazioni è la mancata convergenza regionale, cioè la persistenza del
divario per circa un secolo.

3.2. Società e istituzioni


È innegabile, fra Nord e Sud esistono, e sono esistite storicamente,
diversità socio-istituzionali. Per esempio, per ragioni storiche, al Sud
si sono radicate forme di criminalità organizzata che costituiscono un
vincolo allo sviluppo. Mafia e camorra erano già presenti alla data
dell’Unità, come documentò Pasquale Villari, nelle sue Lettere
meridionali del 1875. Maggiori tassi di criminalità, per quei reati
riconducibili alla criminalità organizzata, caratterizzano il Sud dal
1861 in poi. È nella seconda metà del Novecento, e in particolare
dagli anni Settanta in poi, che i fenomeni mafiosi si diffondono e
diventano più virulenti, abbandonando la loro connotazione di
fenomeno rurale per inserirsi nell’economia criminale e in quella
legale. Come è stato mostrato più volte e come è intuibile, una
maggiore presenza criminale riduce gli investimenti, soprattutto
quelli esterni al Mezzogiorno, deprime la produttività e rallenta la
crescita economica38.
La criminalità organizzata è più soffocante proprio in quelle regioni
in cui il ritardo è maggiore: Calabria, Campania, Sicilia. Tuttavia,
altre regioni del Sud sono state a lungo in una condizione di grande
ritardo economico, pur non avendo, storicamente, al loro interno
fenomeni criminali. Per esempio, Abruzzo, Molise e, in misura
minore, Basilicata solo in anni recenti hanno imboccato un percorso
di crescita tale da fargli recuperare, almeno in parte, il ritardo iniziale.
Perché, dunque, queste regioni hanno accumulato, nella prima metà
del Novecento, un notevole ritardo di sviluppo?
Si potrebbe ricercare la causa del divario in fenomeni
socioistituzionali, per esempio nella minore presenza al Sud di
fenomeni associativi e cooperativistici o in un minor «capitale
sociale». Già nell’Ottocento, al Sud le forme di associazionismo
erano assai meno diffuse del Nord39. La scarsa partecipazione
politica e di ciò che oggi diremmo civismo furono evidenziate dai
meridionalisti e dalle prime inchieste, come quella condotta nel 1876
da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino in Sicilia. La Basilicata è la
regione in cui il sociologo Edward Banfield svolse, negli anni
Cinquanta, la ricerca su cui basò la teoria del «familismo amorale»,
per spiegare quella mancanza di partecipazione alla vita pubblica e
quella carenza di senso civico che caratterizzerebbero storicamente
gran parte del Sud40. Individualismo e familismo cui si sono
associati, nel tempo, fenomeni d’illegalità e forme deteriori di
esercizio del potere politico: clientelismo e inefficienza nella gestione
delle risorse.
Gli studi mostrano come alcuni indicatori del «capitale sociale»,
come il grado di «fiducia», siano correlati con il livello di sviluppo
regionale41. Dire quale peso abbiano effettivamente questi fenomeni
nello sviluppo economico è, comunque, assai difficile. A livello
internazionale, le diverse esperienze di sviluppo si accompagnano
con profonde differenze nei modelli culturali, nei sistemi di valori,
nelle caratteristiche sociali e istituzionali.
Certo, in Italia questi fattori possono avere avuto un ruolo.
Tuttavia, la crescita economica sostenuta degli anni Cinquanta e
Sessanta mostra come lo sviluppo economico sia, innanzitutto,
determinato da fattori economici. Le comparazioni con altre aree
europee in ritardo di sviluppo – come quelle del Sud della Spagna –
mostrano, poi, come le carenze nel «capitale sociale» non spieghino
i processi di divergenza e convergenza di lungo periodo42.
È, infine, assai ragionevole che i sistemi socio-istituzionali siano, a
loro volta, influenzati dall’evoluzione economica. Per esempio, nel
caso del Sud, la dipendenza macroeconomica dai trasferimenti
pubblici ha certamente favorito il consolidarsi di fenomeni
disfunzionali allo sviluppo come clientelismo, ricerca di posizioni di
rendita e anche di forme di criminalità43. I fattori culturali esercitano
la loro influenza sullo sviluppo economico, ma essi sono, a loro
volta, modificati dagli incentivi di natura economica e istituzionale
che si determinano nel tempo.
La ricerca delle cause fondamentali del ritardo è, dunque, assai
complessa, e diventa ardua quando si voglia ricercare una causa
soltanto, talvolta prescindendo dalle concrete dinamiche storiche ed
economiche.

3.3. La geografia
A nostro parere esiste un fattore che, pur non rappresentando certo
la causa ultima e fondamentale, può contribuire, insieme con altre, a
offrire una spiegazione della formazione del divario Nord-Sud.
Questo fattore, spesso trascurato nelle analisi, è la geografia. Il Sud
era ed è distante dai principali mercati. Era ed è distante dai grandi
paesi più sviluppati, dalle aree economicamente centrali d’Europa.
La distanza geografica del Sud è stata accresciuta da croniche
carenze infrastrutturali e da una orografia difficile, che ha a lungo
rallentato le comunicazioni e gli scambi anche all’interno dello stesso
Mezzogiorno.
La distanza dai grandi mercati disincentiva la localizzazione
industriale. Come mostrano i modelli della «nuova geografia
economica», la localizzazione industriale è un processo che tende
ad autoalimentarsi: la presenza di imprese aumenta la dimensione
del mercato e ciò attrae altre imprese, in un circolo virtuoso. In
questo processo, si forma e si consolida la distanza tra aree
industrializzate e aree periferiche. Al Sud, la localizzazione
industriale non ha mai offerto convenienze maggiori che al Nord. La
peculiare geografia dell’Italia, un paese «troppo lungo», contribuì
certamente a determinare la perifericità economica del Sud. La
geografia fu un fattore tra i tanti, non certo l’unico. Lo svantaggio
localizzativo si cumulò ad altri. Un crescente divario di produttività,
una persistente mancanza d’infrastrutture, presenza di criminalità,
carenze socio-istituzionali, politiche economiche non sempre
efficienti. A fronte di ciò, non vi furono convenienze tali da rendere i
benefici della localizzazione industriale maggiori dei costi. Una volta
avviato, il meccanismo del dualismo economico si autoalimentò.
La Rivoluzione Industriale e l’industrializzazione sono avvenute in
Inghilterra e poi nell’Europa occidentale. Se fossero avvenute in
Africa, le cose, per il nostro Mezzogiorno (e non solo per il nostro
Mezzogiorno!), sarebbero certamente state diverse. Ma così non fu!
Attualmente, tuttavia, il processo dell’industrializzazione non è finito
e tanti paesi stanno attraversando la fase industriale. Questi paesi
sono la Cina, l’India, ma anche quelli del Mediterraneo che
circondano il nostro Mezzogiorno (in Africa settentrionale e nel
Vicino e Medio Oriente). Da questi paesi vengono merci (soprattutto
dalla Cina), ma anche lavoratori (dall’Africa settentrionale) che
immigrano in Italia, e proviene anche domanda di merci e servizi. In
questi paesi la transizione verso la modernità e lo sviluppo sta
continuando. Il Mezzogiorno può essere coinvolto in questi
cambiamenti più di quanto non possa esserlo il Nord.
1. Il tema è al centro del lavoro di DANIELE, La crescita delle nazioni.
2. Per un confronto fra i dati della Tabella 1 con la contabilità della crescita
elaborata in altri studi relativi all’Italia, si veda l’utile Tabella 1.4. in CIOCCA, Ricchi
per sempre?, p. 23.
3. In numerosi calcoli della PTF si tiene conto del grado d’istruzione dei lavoratori.
La L della nostra tabella, dovrebbe includere, seguendo questo metodo di calcolo,
non solo le unità di lavoro fisico o le ore lavorate, ma anche le capacità dei
lavoratori. Il grado d’istruzione, in questo caso, non sarebbe più compreso nella
PTF (come invece risulta nel nostro calcolo). Trattando nella Tabella 1 un periodo
di 150 anni circa e non essendo disponibili dati accurati sulle ore lavorate da ogni
unità di lavoro e sul grado d’istruzione, abbiamo dovuto semplificare il
procedimento ed effettuare i calcoli sul numero complessivo degli addetti.
Assumendo che, nel corso del tempo, anche i tempi di lavoro si siano ridotti,
l’apporto del lavoro risulterebbe ancora minore, rispetto a quello indicato nella
Tabella.
4. Per un calcolo della contabilità della crescita in questo primo periodo, tenendo
conto anche delle risorse naturali, si veda: MALANIMA, Alle origini della crescita in
Italia 1820-1913.
5. Questa periodizzazione, che verrà seguita anche nelle pagine seguenti,
corrisponde a epoche importanti nella storia dell’economia italiana. Essa dipende,
tuttavia, anche dalla disponibilità delle fonti da utilizzare (come i censimenti nel
primo anno di ogni decennio, che sono serviti per costruire le serie della forza
lavoro nell’Appendice 4). Si è preferito escludere la crisi iniziata nel 2008.
Prendendo i valori dell’anno 2010 per il Pil, il lavoro e il capitale, i risultati per
l’ultimo periodo preso in considerazione sarebbero inferiori.
6. Su questa fase della storia economica italiana si veda soprattutto ANTONELLI,
BARBIELLINI AMIDEI, Innovazione tecnologica e mutamento strutturale
dell’industria italiana nel secondo dopoguerra.
7. Con riferimentoagli anni 1981-2000, il tema è discusso da BRANDOLINI,
CIPOLLONE, Multifactor Productivity.
8. Qui usiamo indifferentemente le espressioni di produttività del lavoro e prodotto
per addetto. In realtà una stima più soddisfacente della produttività del lavoro
sarebbe data dal rapporto fra il prodotto (totale o di un settore) e le ore totali di
lavoro svolte. Dato che per l’intero periodo qui esaminato una stima della
produttività del lavoro, intesa come prodotto per ora lavorata, non è possibile, ci
limitiamo al rapporto fra il prodotto e gli occupati (e cioè al prodotto per addetto).
9. Come si può vedere confrontando la Tabella 2, riga 5, con la Tabella 1, riga 5, il
saggio di crescita del Pil, del 2,37 per cento, è stato superiore a quello della
produttività del lavoro, del 2 per cento. Quest’ultimo è stato, però, superiore a
quello del Pil pro capite, che è stato dell’1,8 per cento.
10. Com’è effettivamente accaduto nell’industria.
11. Come si vede nella successiva Figura 7 in questo stesso Capitolo.
12. DE MEO, Redditi e produttività in Italia (1951-1966), p. 65.
13. Anche in questo caso, teniamo conto della produttività per addetto e non,
come sarebbe più corretto avendo dati attendibili, della produttività per ora
lavorata.
14. Esempio: se Y/L è uguale a 20 e la forza lavoro è uguale al 40 per cento della
popolazione (0,40), il Pil pro capite Y/P è uguale a 8 (20•0,40=8).
15. Infatti anche il tasso di diminuzione o aumento del prodotto pro capite del Sud
rispetto a quello del Nord (e cioè il divario in termini di Pil pro capite), deve
risultare uguale alla somma dei divari Sud-Nord nella produttività e nel tasso di
attività. Una presentazione più ampia di questo metodo è riportata in DANIELE,
MALANIMA, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia, pp. 290-91.
16. L’entità del divario Nord-Sud nel 1911 fu ben chiarito da ZAMAGNI,
Industrializzazione e squilibri regionali in Italia.
17. Si vedano i dati dell’Appendice 3.1.
18. Come fanno GUISO, SAPIENZA, ZINGALES, Long Term Persistence.
19. Si veda LYNN, In Italy, North-South Differences in IQ predict Differences in
Income, Education, Infant Mortality, Stature, and Literacy, e la replica di DANIELE,
MALANIMA, Are People in the South less Intelligent than in the North?
20. KUZNETS, Economic Growth and Income Inequality.
21. Si vedano anche, con riferimento al Mezzogiorno, le interessanti
considerazioni di PIGLIARU, Il ritardo economico del Mezzogiorno: uno stato
stazionario?
22. WILLIAMSON, Regional Inequality and the Process of National Development.
23. BARRIOS, STROBL, The Dynamics of Regional Inequalities.
24. Per il caso francese, COMBES, LAFOURCADE, THISSE, TOUTAIN, The Rise
and Fall of Spatial Inequalities in France; per quello statunitense, KIM, Economic
Integration and Convergence.
25. DAVIES, HALLET, Interactions Between National and Regional Development.
26. La deviazione standard, o scarto quadratico medio, misura il grado di
variabilità (dispersione) di un insieme (popolazione) di dati. Con riferimento agli
squilibri regionali, tanto maggiore è la deviazione standard, tanto maggiore sarà la
dimensione degli squilibri stessi. Ne consegue che una diminuzione della
deviazione standard segnala un processo di convergenza nei redditi pro capite
regionali.
27. CRAFTS, Regional GDP in Britain 1871-1911: Some Estimates, pp. 54-64.
28. AMOS, Unbalanced Regional Growth and Regional Income Inequality.
29. WILLIAMSON, Regional Inequality and the Process of National Development,
p. 28.
30. Con riferimento agli Usa, si veda NORDHAUS, Who’s Afraid of a Big Bad Oil
Shock?, e NORDHAUS, A Retrospective on the Postwar Productivity Slowdowns.
31. KALDOR, Le cause del basso saggio di sviluppo economico del Regno Unito,
p. 220.
32. Questo stesso problema era già stato discusso da FOURASTIÉ, La
produttività, all’inizio degli anni ’50.
33. Al proposito si veda il saggio di FABRICANT, Productivity in the Tertiary
Sector.
34. Come sottolineato da NORDHAUS, Baumol’s Diseases: a Macroeconomic
Perspective. Conferma la prospettiva di Nordhaus con riferimento all’Europa e
anche all’Italia HARTWIG, Testing the Baumol-Nordhaus Model with Eu Klems
Data.
35. Si veda il classico studio di PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane.
36. Per i pregiudizi e gli stereotipi sui meridionali si vedano, per esempio,
PETRACCONE, Le “due Italie”, e DICKIE, Darkest Italy.
37. LYNN, In Italy, North-South Differences in IQ predict Differences in Income,
Education, Infant Mortality, Stature, and Literacy.
38. Si vedano, tra gli altri, CENTORRINO, OFRIA, Criminalità organizzata e
produttività del lavoro nel Mezzogiorno, PERI, Socio-Cultural Variables and
Economia Success e, per gli effetti sugli investimenti esteri, DANIELE, MARANI,
Organized Crime, the Quality of Local Institutions and FDI in Italy.
39. NUZZO, Un secolo di statistiche sociali.
40. BANFIELD, Le basi morali di una società arretrata.
41. Per uno studio sulle regioni europee si veda, per esempio, TABELLINI, Culture
and Institutions: Economie Development in the Regions of Europe.
42. Per una comparazione tra Italia e Spagna si veda lo studio di BOLTHO, Why
do Some Regional Differentials Persist and Others do not?
43. Si veda COSTABLLE, Istituzioni e sviluppo economico nel Mezzogiorno.
Appendici

LE FONTI E L’ELABORAZIONE
1.Il Prodotto interno lordo dell’Italia (1861-2010)
1.1 Il Pil dell’Italia
1.2 Il Pil del Nord e del Sud (prezzi 1911)
1.3 I margini d’incertezza (1861-1900)

2. Differenziali del Pil pro capite regionale (1891-2009)


2.1 Le regioni del Nord (1891-2009)
2.2 Le regioni del Sud (1891-2009)
2.3 Il Pil pro capite regionale (1891-2001) (prezzi 1911)

3. La popolazione (1861-2001)
3.1 La popolazione presente per regione
3.2 La densità demografica per regione (abitanti per km2)

4. Il lavoro (1861-2009)
4.1 La forza lavoro (1861-2001)
4.2 La forza lavoro. Settore primario (1861-2001)
4.3 La forza lavoro. Settore secondario (1861-2001)
4.4 La forza lavoro. Settore terziario (1861-2001)
4.5 Il tasso di partecipazione (1861-2001)
4.6 Settore primario rispetto alla forza lavoro totale
4.7 Settore secondario rispetto alla forza lavoro totale
4.8 Settore terziario rispetto alla forza lavoro totale
4.9 Le unità di lavoro (1951-2009)

LE FONTI E L’ELABORAZIONE
Nel periodo di cui ci occupiamo in questo volume, i confini dell’Italia
nel suo complesso e delle regioni sono cambiati. Tutte le serie
presentate si riferiscono all’Italia nei confini politici attuali e alle
regioni (o aggregazioni di regioni, come l’Abruzzo, che comprende il
Molise) nei confini attuali. Nel Nord o Centro-Nord (CN) sono incluse
le regioni dalle Alpi fino al Lazio compreso (e cioè Piemonte – con
Val d’Aosta –, Lombardia, Veneto – con Friuli Venezia Giulia e
Trentino Alto Adige –, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e
Lazio); nel Sud o Sud-Isole (si) sono incluse tutte le altre regioni
(Abruzzi con Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e
Sardegna).

Appendice 1 Il Pil e il Pil pro capite dell’Italia (1861-


2010)
1.1. Il Pil dell’Italia
1.2. Il Pil del Nord e del Sud (prezzi 1911)
1.3. I margini d’incertezza (1861-99)

Per gli anni 1861-1913, le serie del prodotto interno lordo pro
capite e aggregato (Appendici 1.1.e 1.2.) sono quelle presentate in
MALANIMA, An Age of Decline. Product and Income in Eighteenth-
Nineteenth Century Italy, e in MALANIMA, The Long Decline of a
Leading Economy. Le fonti su cui queste serie sono basate sono
costituite dalle due serie di G. Federico per l’agricoltura (FEDERICO,
L’agricoltura italiana: successo o fallimento?,e FEDERICO, Le nuove
stime della produzione agricola italiana, 1860-1910; le serie sono ai
confini dell’epoca) e di S. Fenoaltea per l’industria (FENOALTEA, La
crescita industriale delle regioni d’Italia; FENOALTEA, La formazione
dell’Italia industriale, FENOALTEA, Lo sviluppo dell’industria dall’Unità
alla Grande Guerra; le serie sono ai confini del 1911). Entrambe le
serie (per l’agricoltura e per l’industria) sono state rielaborate per
tenere conto dei confini attuali dell’Italia. La stima del settore
terziario è basata sulla ricostruzione di V. Zamagni per gli anni 1891
e 1911 (nell’ambito della revisione della contabilità nazionale
promossa dalla Banca d’Italia) (I conti economici dell’Italia). Per i
metodi seguiti nell’elaborazione dei dati per i tre settori, si veda I
conti economici dell’Italia 1, REY, VITALI (a cura di); 2, FEDERICO,
FENOALTEA, MAROLLA, ROCCAS, VITALI, ZAMAGNI, BATTILANI, REY (a
cura di); 3, FEDERICO, FENOALTEA, BARDINI, ZAMAGNI, BATTILANI, REY
(a cura di), CARRERAS, Un ritratto quantitativo dell’industria italiana,
presenta un’utile rassegna delle elaborazioni dei conti nazionali
italiani. I dati sui servizi negli anni 1861-1911 sono interpolati in base
alla percentuale dei servizi sul totale nel 1861 in MADDISON, A
Revised Estimate of Italian Economic Growth, 1861-1989, e nel
1891 e del 1911 in I conti economici dell’Italia. Per ricostruire il
prodotto del settore terziario, si è assunto, come valore per il 1861,
quello del 27 per cento proposto nel saggio di MADDISON,A Revised
Estimate of Italian Economic Growth; e, per il 1891 quello di V.
Zamagni in I conti economici dell’Italia. I valori intermedi fra le due
date sono stati interpolati.
La presente serie del prodotto interno lordo pro capite per gli anni
1861-1913 è molto simile a quella presentata da Fenoaltea
(FENOALTEA, La crescita economica dell’Italia postunitaria e
FENOALTEA, The Growth of the Italian Economy, 1861-1913) (si veda
la successiva Fig. 4).
La serie del Pil pro capite nell’Appendice 1.1. e quella di Fenoaltea
differiscono soltanto nella parte iniziale per il diverso rilievo dei
servizi. Nella serie di Fenoaltea il peso dei servizi sul totale è del 35
per cento nel 1861 e del 37 nel 1911; nella serie riportata
nell’Appendice 1.1. è del 27 per cento nel 1861 e del 38 nel 1911.
Sui servizi si veda anche BATTILANI, The «Bel Paese» and the
Transition to a Service Economy. Per i primi 50 anni dopo l’Unità, la
ripartizione del Pil per settore di attività è tutt’altro che certa, salvo
per gli anni benchmark (1891 e 1911),in I conti economici dell’Italia.
Per la ripartizione del Pil per settore di attività nel periodo successivo
si sono usati i dati ISTAT,dei Sommari di statistiche storiche, e degli
Annuari (per il periodo dopo il 1985).
La serie complessiva del prodotto interno lordo fra il 1861 e il 2004
era stata presentata in DANIELE, MALANIMA,Il prodotto delle regioni e il
divario Nord-Sud in Italia (1861-2004). Dal 1913 al 1950 la serie
precedente del Pil pro capite (e quella presentata nelle successive
Appendici 1.1. e 1.2.) riprende i tassi di variazione annua da
MADDISON,A Revised Estimate of Italian Economic Growth. Si è
tenuto conto della revisione dei conti nazionali per il 1938 e il 1951 in
I conti degli Italiani. La serie di CARRERAS, FELICE, L’industria italiana
dal 1911 al 1938: ricostruzione della serie del valore aggiunto e
interpretazioni per il settore industriale presenta differenze con le
precedenti serie dell’ISTAT quanto alla struttura del settore industriale
per branche di attività, ma non differisce dai nostri risultati se non
marginalmente. Sia gli anni della Prima che quelli della Seconda
guerra mondiale, richiederebbero una revisione approfondita (che al
momento non è ancora stata fatta).
Per il periodo 1952-1969 la serie segue quella elaborata da ROSSI,
SORGATO, TONIOLO,I conti economici italiani: una ricostruzione
statistica, 1890-1990 . Dal 1970 la serie segue quella dell’ISTAT.
Per consentire confronti internazionali, specialmente con
MADDISON,The World Economy: Historical Statistics, la serie viene
presentata anche in dollari internazionali 1990 a parità di potere
d’acquisto. La nostra serie e quella di Maddison differiscono per il
periodo 1861-1913, mentre sono quasi identiche per il periodo che
segue il 1913 (Fig. 1).

FIGURA 1
Due serie del Pil pro capite 1861-2004 ($ internazionali 1990 Geary-
Khamis PPA)

La curva A (più spessa) è la nostra. La curva più sottile (B)


rappresenta la serie di MADDISON, A Revised Estimate of Italian
Economic Growth of Italian Economic Growtth, e MADDISON, The
World Economy: Historical Statistics. Le differenze maggiori
riguardano il periodo 1861-1913 (le ricostruzioni per gli anni
benchmark in I conti economici dell’Italia, sono successive al suo
saggio A Revised Estimate of Italian Economic Growth, su cui sono
anche basate le successive ricostruzioni di Maddison).
La serie del Pil pro capite nell’Appendice 1.1. presenta alcune
differenze rispetto a quella pubblicata da BRUNETTI, FELICE, VECCHI,
Reddito, p. 427, Tab. 14, ma elaborata, a quanto si scrive a p. 211,
nota 1, in una ricerca congiunta svolta dalla Banca d’Italia, dall’ISTAT
e dall’Università di Roma «Tor Vergata», coordinata da Alberto
Baffigi. Assumendo il Pil del 2010, pari al valore ISTAT di euro
1.548.816 milioni, e la popolazione di 60.340.328 abitanti, il Pil pro
capite è uguale a 25.668 euro. Questa è la stima ISTAT ed è uguale
nelle due serie. Fra il 1861 e il 2010 la serie in BRUNETTI, FELICE,
VECCHI, Reddito, aumenta di 12,69 volte, mentre la nostra di 12,88
(Fig. 2). A partire da questo stesso valore del Pil pro capite nel 2010,
per il 1861 abbiamo 2.022 euro del 2010 nella serie in (B)
(25.668/12,69 = 2.022) e 1.993 nella nostra (A, curva più spessa)
(25.668/12,88 = 1.993). La differenza per il 1861 è dell’1,4 per cento
e, quindi, veramente modesta. Si vede, infatti, nelle Figure 2 e 4, che
le due serie sono quasi identiche nell’anno iniziale.
Procedendo a ritroso dal 2010, vediamo che anche i dati per i 60
anni dal 1950 al 2010 descrivono due curve quasi identiche, con
differenze annue inferiori in ogni caso all’1 per cento. Le cose
cambiano se esaminiamo il periodo precedente. Suddividiamo il
periodo 1861-1950 in due sottoperiodi: 1910-1950 e 1861-1913.
1910-1950: opportunamente è stato rivisto il periodo della Prima
guerra mondiale. Ora al posto del picco, troviamo una linea piatta
(Figg. 2-3). Sicuramente il picco va smussato. L’operazione
compiuta può, però, sembrare eccessiva. Una lunga tradizione ci ha
insegnato che, durante la Prima guerra mondiale, la produzione
industriale aumentò considerevolmente (come scrisse CARACCIOLO,
La grande industria nella Prima guerra mondiale). Finché non
verranno forniti elementi sull’operazione compiuta e sui metodi usati,
non ci sentiamo di accettare la soluzione proposta.
Anche gli anni della Seconda guerra mondiale sono stati rivisti
(ma in maniera meno drastica). Nel periodo fra le due guerre
mondiali il Pil pro capite è inferiore a quello della nostra serie di un
15-20 per cento (Fig. 3).
1861-1913: in lire 1911 il Pil pro capite nel 1861 nella nostra serie
è uguale a 336, in quella in BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito, a
341, in quella di Fenoaltea a 371 (riportando la serie di Fenoaltea ai
confini attuali e al costo dei fattori) (FENOALTEA, La crescita
economica dell’Italia postunitaria; FENOALTEA, The Growth of the
Italian Economy, 1861-1913) (Fig. 4). Per il periodo 1861-1913, la
correlazione della serie in BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito, con
quella nostra (A con tracciato più spesso) è di 0,991 (della nostra
serie A con quella di Fenoaltea è di 0,997).
FIGURA 2
Due serie del Pil pro capite 1861-2010 (euro 2010)

La curva A (più spessa) è la nostra, riportata nelle Appendici 1.1. e


1.2.; la curva B è quella in BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito, p. 427,
Tab. 14.

FIGURA 3
Due serie del Pil pro capite 1910-1950 (euro 2010)
La curva A (più spessa) è la nostra, riportata nelle Appendici 1.1. e
1.2.; la curva B è quella in BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito, p. 427,
Tab. 14.

FIGURA 4
Tre serie del Pil pro capite 1861-1913 (lire 1911)
La curva A (più spessa) è la nostra, riportata nelle Appendici 1.1. e
1.2.; la curva B è quella in BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito, p. 427,
Tab. 14.

Nelle Appendici 1.1. e 1.2. si è supposto che il divario fra Nord e


Sud, che è inferiore al 10 per cento, nelle nostre stime relative al
1891 (come mostrato nei Capitoli 1 e 2), basate sui dati di Federico,
Fenoaltea e Felice (citati nella successiva nota all’Appendice 2),
stesse aumentando e che, quindi, intorno al 1861 non vi fosse
nessun divario. Su questo punto non vi è alcuna certezza. Si
potrebbe anche supporre che esistesse, nel 1861, lo stesso divario
del 5-10 per cento che troviamo nel 1891. Per tale ragione,
nell’Appendice 1.3., si offre una stima del Pil pro capite in cui si
ipotizza l’esistenza di un differenziale Nord-Sud di circa 10 punti
percentuali nel 1861 (e, quindi, un rapporto fra il Pil pro capite del
Sud e quello del Nord di 0,90). Il campo di variazione fra il Pil pro
capite nel Nord e nel Sud è rappresentato nella Figura 13 del
Capitolo 2. Le due serie gradualmente convergono verso i valori
delle serie contenute nell’Appendice 1.2., cioè quelle ottenute
attraverso i dati relativi agli anni benchmark. Ovviamente, l’esistenza
di un differenziale del 10 per cento al 1861 implica una revisione sia
per il Pil pro capite del Sud, sia per quello del Nord. al fine di
mantenere lo stesso valore del Pil pro capite per l’Italia, considerato
il diverso peso delle due aree nella formazione del Pil aggregato
nazionale. Inoltre, l’applicazione di tale differenziale implicherebbe
una revisione dei dati delle singole regioni, al ribasso per le regioni
del Sud e al rialzo per quelle del Nord.

Appendice 2 Differenziali del Pil pro capite regionale


(1891-2009)
2.1. Le regioni del Nord (1891-2009)
2.2. Le regioni del Sud (1891-2009)
2.3. Il Pil pro capite regionale (prezzi 1911)(1891-2001)
Le fonti del prodotto pro capite e aggregato del Nord e del Sud
sono le stesse delle Appendici 1.1.e 1.2. Per gli anni 1891, 1911, 1938
si utilizzano i dati sul prodotto dei settori: agricoltura (FEDERICO, Le
nuove stime della produzione agricola italiana, 1860-1910 e
FEDERICO, L’agricoltura italiana: successo o fallimento?); industria
(FENOALTEA, La crescita industriale delle regioni d’Italia dall’Unità alla
Grande Guerra: una prima stima per gli anni censuari e FENOALTEA,
Lo sviluppo dell’industria dall’Unità alla Grande Guerra: una sintesi
provvisoria); servizi (FELICE, Il reddito delle regioni italiane nel 1938
e nel 1951. Una stima basata sul costo del lavoro, e FELICE, Il valore
aggiunto regionale. Una stima per il 1891 e per il 1911 e alcune
elaborazioni di lungo periodo (1891-1971).
Le serie annuali sono ottenute partendo dagli anni
benchmark,ottenendo il prodotto per abitante in ciascun settore e
interpolando i divari regionali nel prodotto per abitante rispetto
all’Italia. Per il 1951-59 si utilizzano i dati del reddito aggregato
contenuti in SVIMEZ, Cent’anni di statistiche italiane; per la regione
Marche si effettua un raccordo tra le serie per gli anni 1956-59. Per
gli anni 1963-69, si riprendono i dati contenuti in UNIONCAMERE,
1963-69, I Conti Economici Regionali, 1963-70. Per il 1970-79:
SVIMEZ, I conti del Centro-Nord e del Mezzogiorno nel ventennio
1970-1989. Per il periodo 1980-2009: dati ISTAT, Conti economici
regionali. Per ottenere i differenziali delle due tabelle, il Pil pro capite
regionale è stato diviso per quello nazionale (in altri casi, in questo
volume, come anche nell’Appendice 1.2., si è diviso il Pil pro capite
del Sud per quello del Nord).
I dati erano già stati presentati in DANIELE, MALANIMA, Il prodotto
delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004). Rispetto alla
serie presentata nel precedente articolo, nelle serie presentate
nell’Appendice 2 sono state introdotte marginali modifiche fino al
1950 e modifiche più marcate nei dati relativi ai due decenni
successivi.
Serie regionali del prodotto interno lordo pro capite sono state
elaborate anche da FELICE, Divari regionali e intervento pubblico (le
cui stime si riferiscono alle regioni nei confini dell’epoca) e in
BRUNETTI, FELICE, VECCHI, Reddito. Come mostrato in DANIELE,
MALANIMA, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia
(1861-2004), esistono alcune differenze fra le nostre serie e quelle di
Felice (soprattutto nei dati per regione, che, in FELICE sono state
elaborate nei confini dell’epoca), mentre è molto simile il profilo
generale del rapporto fra Pil pro capite del Nord e del Sud. La serie
del Pil pro capite nazionale utilizzata in BRUNETTI, FELICE, VECCHI,
Reddito, per l’elaborazione delle serie regionali del Pil pro capite alle
pp. 428-29 (Tabb. 15 e 16) non è uguale a quella del Pil per abitante
a p. 425 (Tab. 14).
Per ottenere serie annuali del Pil pro capite delle regioni italiane ai
prezzi del 1911, ai prezzi del 1951, in euro del 2010 e in dollari
internazionali del 1990 a parità di potere d’acquisto (PPA) è
sufficiente moltiplicare il valori annui relativi alle varie regioni delle
Appendici 2.1 e 2.2 rispettivamente per i valori annui nazionali delle
colonne relative a lire 1911, lire 1951 e euro 2010 nell’Appendice 1.1.

Appendice 3 La popolazione (1861-2001)


3.1. La popolazione presente per regione
3.2. La densità demografica per regione

Le serie della popolazione e della densità demografica si


riferiscono alla popolazione presente, che corrisponde alla
popolazione residente cioè gli abitanti registrati in un comune, anche
se viventi fuori – meno gli emigrati e più gli immigrati. I dati della
popolazione presente possono essere inferiori a quelli della
popolazione residente a causa degli emigrati; essendo stata l’Italia
per lungo tempo paese di emigrazione.
Le serie seguenti sono basate sui dati ISTAT, Sommario di
statistiche storiche, 1958, 1976, 1985 e da dati ISTAT per gli anni
successivi. Dal momento che le serie della popolazione vengono
utilizzate nei nostri calcoli del prodotto interno lordo, aggregato e pro
capite, è sembrato preferibile fare riferimento alla popolazione che
partecipa direttamente alla produzione del Pil; escludendo, dunque,
quella che vive fuori dai confini nazionali (quindi la popolazione
presente anziché quella residente). Si riporta la popolazione
regionale negli anni dei censimenti. Dal momento che nel 1891 il
censimento non fu tenuto, i dati regionali sono stati interpolati in
base ai due censimenti più vicini (del 1881 e del 1901).
L’estensione delle regioni per il calcolo delle densità è la
seguente:

Appendice 4 Il lavoro (1861-2009)


4.1. La forza lavoro (1861-2001)
4.2. La forza lavoro. Settore primario (1861-2001)
4.3. La forza lavoro. Settore secondario (1861-2001)
4.4. La forza lavoro. Settore terziario (1861-2001)
4.5. Il tasso di partecipazione (1861-2001)
4.6. Settore primario rispetto alla forza lavoro totale
4.7. Settore secondario rispetto alla forza lavoro totale
4.8. Settore terziario rispetto alla forza lavoro totale
4.9. Le unità di lavoro (1951-2009)

Le serie dell’Appendice 4 si riferiscono alle forze di lavoro, intese


come l’insieme degli occupati e dei disoccupati (alla ricerca attiva di
lavoro). È esclusa la popolazione in cerca di prima occupazione. Il
tasso di partecipazione (o tasso di attività) dell’Appendice 4.5. è
calcolato come il rapporto fra la forza lavoro, come appena definita,
e la popolazione.
L’Appendice 4 è stata elaborata nell’ambito del progetto
internazionale per la storia comparata della struttura occupazionale
(International Network for the Comparative History of Occupational
Structure INCHOS), , coordinato da Osamu Saito (Hitotsubashi
University) e Leigh Shaw-Taylor (Cambridge Group for the History of
Population and Social Structure). Maggiori dettagli sulle fonti usate
sono contenuti in DANIELE, MALANIMA, The Changing Occupational
Structure in Italy 1861-2001. A National and Regional Perspective (in
corso di stampa). In questo contributo sono riportate più numerose
serie relative alla forza lavoro (in tutto 41 tabelle). Ringraziamo i
coordinatori del progetto per i loro consigli e suggerimenti a questo
testo, che sono risultati utili anche per la preparazione del Capitolo
3.
I dati relativi al 1861 e 1871 sono basati su MAIC, Statistica del
Regno d’Italia. Popolazione. Censimento generale al 31 dicembre
1861, e MAIC, Statistica del Regno d’Italia. Popolazione classificata
per professioni. Censimento 31 dicembre 1871, aggiustati, tuttavia,
per tenere conto della sovraregistrazione dell’occupazione
nell’industria nelle regioni meridionali, sulla base di ZAMAGNI, A
Century of Change: Trends in the Composition of the Italian Labour-
Force, 1881-1981. I dati dei censimenti per quanto riguarda
l’occupazione industriale nel 1861 e 1871 sono quelli presentati nel
Capitolo 1 (senza modifiche rispetto ai censimenti). I dati fra il 1881 e
il 1961 sono basati su VITALI, Aspetti dello sviluppo economico
italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva. Si veda
anche, per un confronto coi nostri dati: SVIMEZ, Cento anni di
statistiche sulle regioni d’Italia, pp. 18-27.
Una ricostruzione della forza lavoro in base ai censimenti è l’unica
possibile per disporre di dati omogenei e comparabili nel lungo
periodo dall’Unità al 2001. Questi dati, tuttavia, non sono comparabili
con quelli delle rilevazioni campionarie delle forze di lavoro effettuate
dall’ISTAT a partire dal 1959, con periodicità trimestrale (come si è
detto nel Capitolo 3, dove sono stati utilizzati sia i dati dei
censimenti, riportati nelle Appendici 4.1.-4.8., che quelli delle unità di
lavoro dell’Appendice 4.9.). Dal 2004 le rilevazioni ISTAT delle unità di
lavoro seguono le regole dettate dalla Comunità Europea. Negli
Annuari di statistiche italiane dell’ISTAT, i risultati di queste rilevazioni
sono contenuti nel capitolo Lavoro, mentre quelle desunte dai
censimenti della popolazione, e da noi utilizzate nelle Appendici
4.1.-4.8., sono contenute nel capitolo Censimenti.
Le serie dell’Appendice 4.9. sono riprese da: 1951-1991: Crenos,
Regio 1951-93; 1992-1998: SVIMEZ, I conti economici delle regioni
italiane 1970-1998 (basati su fonti ISTAT per quanto riguarda le unità
di lavoro); 2000-2009: ISTAT, Conti economici regionali nuova serie. I
dati per gli anni 2008 e 2009 sono ripresi da SVIMEZ, 150 anni di
statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, pp. 420 ss. Per la
definizione di «unità di lavoro», si rimanda al Capitolo 3, 1.3. Si sono
tenute presenti anche le serie in NOVACCO (a cura di), Per il
Mezzogiorno e per l’Italia, Tab. 4.
APPENDICE 1.
Il Prodotto Interno Lordo dell’Italia (1861-2010)

1.1 Il Pil dell’Italia (1861-2010)


1.2 Il Pil del Nord e del Sud (1861-2010) (prezzi 1911)
1.3 I margini d’incertezza (1861-1900)
Appendice 1.1.
Il Pil dell’Italia (1861-2010)
Appendice 1.2.
Il Pil del Nord e del Sud (1861-2010) (prezzi 1911)
Appendice 1.3.
Il margini d’incertezza, 1861-1900 -Pil pro capite e
aggregato (prezzi 1911)
APPENDICE 2.
Differenziali del Pil pro capite regionale (1891-2009)

2.1 Le regioni del Nord (1891-2009)


2.2 Le regioni del Sud (1891-2009)
2.3 Il Pil pro capite regionale (prezzi 1911) (1891-2001)
Appendice 2.1.
Le regioni del Nord (1891-2009) (Italia = 1)
Appendice 2.2.
Le regioni del Sud (1891-2009) (Italia = 100)
Appendice 2.3.
Il Pil pro capite regionale (1891-2001) (prezzi 1911)
APPENDICE 3.
La popolazione (1861-2001)

3.1 La popolazione presente per regione


3.2 La densità demografica per regione
Appendice 3.1.
La popolazione presente per regione (migliaia)
Appendice 3.2.
La densità demografica per regione (abitanti per km2)
APPENDICE 4.
Il lavoro (1861-2001)
4.1 La forza lavoro (1861-2001)
4.2 La forza lavoro. Settore primario (1861-2001)
4.3 La forza lavoro. Settore secondario (1861-2001)
4.4 La forza lavoro. Settore terziario (1861-2001)
4.5 Il tasso di partecipazione (1861-2001)
4.6 Settore primario rispetto alla forza lavoro totale
4.7 Settore secondario rispetto alla forza lavoro totale
4.8 Settore terziario rispetto alla forza lavoro totale
4.9 Le unità di lavoro (1951-2009)

Abbreviazioni:
P popolazione presente;
L forza lavoro totale;
La forza lavoro nel settore primario;
Li forza lavoro nel settore secondario;
Ls forza lavoro nel settore terziario.
Appendice 4.1.
La forza lavoro (1861-2001), L (migliaia)
Appendice 4.2.
La forza lavoro. Settore primario (1861-2001), La
(migliaia)
Appendice 4.3.
La forza lavoro. Settore secondario (1861-2001), Li
(migliaia)
Appendice 4.4.
La forza lavoro. Settore terziario (1861-2001), Ls
(migliaia)
Appendice 4.5.
Il tasso di partecipazione (1861-2001), L/P (%)
Appendice 4.6.
Settore primario rispetto alla forza lavoro totale, La/L
(%)
Appendice 4.7.
Settore secondario rispetto alla forza lavoro totale,
Li/L (%)
Appendice 4.8.
Settore terziario rispetto alla forza lavoro totale, Ls/L
(%)
Appendice 4.9.
Le unità di lavoro (1951-2009) (migliaia)
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