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RIASSUNTO UNICO DI “BAMBINI E RAGAZZI TRA BANDE E PARANZE”

Il volume esamina emblematiche rappresentazioni letterarie dell'infanzia, riferibili al difficile contesto del
meridione d'Italia, luogo dove sembra più urgente la necessità di riconfigurare l'orizzonte valoriale delle
giovani generazioni permettendo ai bambini di scegliere. I bambini, infatti, non hanno scelto poiché la facile
via della deviazione, del rifiuto dello Strato e della legge, fino ad arrivare alla perdizione in una realtà
smarrita è l’unica scelta possibile. Si tratta di una “obliquità morale” dove la coscienza devia in maniera così
incontrollata da incidere anche sull’infanzia che dovrebbe essere tutelata. Il punto più basso di questa
deviazione è riconoscibile nell’utilizzo della violenza che i bambini e i ragazzi come “l'unico dispositivo
identitario” ovvero che esistono e si riconoscono, solo nella possibilità e nella capacità di essere violenti, di
imporsi, di sopraffare, una vera e propria gara al massacro. I ragazzi, quindi, preferiscono la strada della
devianza perché il sistema educante (familiare o sociale) ha permesso uno sradicamento della funzione
dell’educatore creando una nuova educazione truce che insegna a “morire”. Lo sguardo pedagogico prende
in analisi, quindi, “infanzia tradita” (infanzia che viene strappata). Le storie di autori come Biagio Miraglia e
Roberto Saviano diventano amaro resoconto di uno spaccato del nostro violento vivere quotidiano. Si tratta
di una letteratura che, a ben vedere, 'fa' pedagogia, perché pone sul piano culturale un'emergenza di
natura sociale ed esistenziale e richiama ad un maggiore senso di responsabilità nei confronti di generazioni
fanciulle che non dovremmo mai più lasciare nelle mani di “bande e paranze”.

Il testo fa riferimento dal punto di vista pedagogico a come in letteratura si tratta queste infanzie particolari
in modo tale da comprenderle ed evitarle. Per fare ciò bisogna partire innanzitutto dall’individuazione di un
contesto sociale e culturale che fornisce una rappresentazione incontaminata della realtà individuando
forme spontanee di matrice infantile. Una tradizione letteraria che possiamo definire come depositaria di
questa genuinità narrativa è senz'altro il Romanticismo calabrese. Un romanticismo che deve la sua
scoperta grazie all'analisi attenta di Francesco De Sanctis. I suoi corsi (scuola democratica e scuola liberale)
tenuti presso Università di Napoli avevano come oggetto l’essenza del rinnovamento ideologico e letterario
del romanticismo ottocentesco. Il critico fece un’attenta differenziazione delle esperienze letterali che
sono: liberali cioè autori riferibili ad una scuola facente capo a Manzoni e democratici a cui erano riferibili
autori di ispirazione mazziniana. Le lezioni dedicate alla Scuola liberale erano principalmente sulla realtà
letteraria di Napoli ma le ultime due trattavano invece della letteratura calabrese dove lo scrittore aveva
notato questa spontaneità che potremmo definire Romanticismo naturale opposto invece a quello
convenzionale napoletano. Sembra che questa naturalezza possa prender vita grazie anche alla giovinezza
degli intellettuali. Gli autori di cui scrive De Sanctis sono: Campagna, Mauro, Miraglia e Padula a cui
attribuisce un’autonomia artistica frutto della ricezione incontaminata dei valori romantici. De Sanctis
individua nella “ricezione” l’elemento fondamentale della letteratura romantica calabrese, questo era
dovuto alla lettura dei libri degli scrittori romantici che faceva breccia nei cuori dei giovani intellettuali e
permetteva loro di reinterpretare a loro modo la poetica romantica. Luigi Renna ha sottolineato quanto il
momento di fruizione fosse propedeutico a quello di rielaborazione. Cione d’altro canto mette in evidenza
una certa superficialità nella reinterpretazione calabrese del romanticismo. Egli, infatti, afferma che è una
narrazione che si concentra sulle figure del corsaro e del brigante dove l’eroe è condannato a placare la
propria sete di vendetta; quindi, si tratta di un chiaro esempio di connessione con la tematica della
“deviazione della retta via”. Nelle pagine romantiche calabresi, infatti, si evincerebbe un eccessivo elogio
della fuorilegge come simbolo della negazione di una realtà corrotta che può essere contrastata solo
attraverso la violenta ribellione del brigante.
Per poter comprendere la costruzione di tale narrazione è fondamentale analizzare la situazione che venne
a configurarsi in Calabria nella prima metà del diciannovesimo secolo. In uno scritto del 1919 di Vittorio
Gualtieri, egli ribadisce le brillanti intuizioni di De Sanctis sulla naturalità dell'esperienza letteraria
calabrese, ponendo l'accento sul motivo per cui solo la Calabria seppe generare un moto autonomo di
poetica spontaneità. A livello sociale, l'analisi di Gualtieri metteva in evidenza un sistema di causa-effetto
relativo ad accumuli di soprusi, violenze, ingiustizie, tali da seminare la voglia di ribellione alla legge imposta
dall’alto mediante la modalità brigantesca. Inizia a farsi luce un'immagine delle Calabria che diviene
scenario sociale all'interno del quale si verifica la prima delle esperienze infantili e giovanili di “ devianza”.
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Nonostante ciò, la narrazione è ancora collocata in un alone di positività poiché le violenze e la crudeltà
vengono rielaborate in chiave romantica, popolare e genuina che “depura” la presenza di queste derive
valoriali presenti nel fenomeno del brigantaggio. I protagonisti delle novelle e dei poemetti calabresi
riprendono gli eroi titanici di Byron (romantico inglese): combattere contro le ingiustizie in nome
dell'umanità. La sincerità tipica calabrese emerge dal fatto che c’è un’ispirazione lirica spontanea. Si evince
il collegamento tra la sollecitazione byroniana e il canto dolente e poetico di dolori e difficoltà del popolo
calabrese, perennemente stretto nell'angosciante necessità di scegliere tra la rassegnazione e la reazione
violenta (brigante).
Questi sono argomenti cari anche a Bosco, anche lui come Gualtieri sostiene l’autonomia e l’autenticità
delle esperienze calabresi in risposta alle critiche soprattutto quelle di Cione, il quale affermava che De
Sanctis avrebbe combinato la vivacità rappresentativa dei calabresi per aderenza alla natura. Molti anni
dopo abbiamo la critica di Sansone che mette in discussione la possibilità di individuare un’autonomia nella
letteratura calabrese dovuto al fatto che i giovani scrittori calabresi si trasferirono a Napoli dopo pochi anni
di apprendistato nei loro luoghi natii. Sansone finisce anche per qualificare il dato della ricezione calabrese
dicendo che è una versione troppo semplificata della lettura delle più importanti pagine della cultura.
Arrivando addirittura a definire che il romanticismo calabrese non è che è un aspetto del romanticismo
convenzionale napoletano. De Sanctis smentisce le posizioni di Sansone definendo il suo giudizio generico e
non supportato da una adeguata conoscenza dei fatti e dei testi anzi la letteratura dei calabresi si
dimostrava ancora più autonoma e forte da restare viva in terra straniera.
De Sanctis ci offre anche un chiarimento in merito alle forme e ai generi dei racconti calabresi. La forma è
molto importante, infatti, si parla di spiritualizzazione della forma che ha la base nell’immaginazione così si
delinea una sostanza romantica fantastica arrivando anche al grottesco. Le forme espressive tipiche degli
scrittori romantici furono la romanza e la ballata, il romanzo e la novella in versi. Dalla leggenda, depositaria
di mistero, veniva originandosi la romanza, la quale altro non è che la leggenda da cui si taglia via il
racconto, non rimanendovi che il motivo lirico e musicale. Poi quando si sviluppò di più la letteratura, vi fu
un genere che riunì la Leggenda e la Romanza: la Novella, nata da un evidente bisogno di lirismo, dalla
possibilità di ritagliare uno spazio adatto a narrare i sentimenti più profondi e immediati, le istanze fanciulle
e istintive. Nonostante il successo iniziale della novella in versi ma mano poi essa comincia a ripiegarsi su sé
stessa fino a spegnersi del tutto. Miraglia vedeva nella prosa la modalità compositiva più efficace, infatti,
giungere ad una prima significativa esperienza calabrese nel campo della prosa bisogna arrivare
direttamente al Miraglia del 1856 con le “Cinque novelle” che si pongono comunione tra la novella in versi
e la modernità che si innesta. Le novelle sono le prime testimoniane che ci permettono di ricostruire la
prima tracce di un decorso a sud dell’infanzia.

In  Cinque Novelle in Prosa (1856) di Biagio Miraglia è possibile trovare una fantasia letteraria vicina alle


caratteristiche “più gotiche” e bizzarre dell’infanzia che sono riconducibili al poeta
tedesco Goethe, avvicinandosi al mondo fiabesco della tradizione tedesca e nord-europea (con demoni,
spiriti e magia) e prende luogo in un’ambientazione onirica. Qui troviamo una prefazione (Prefazione
fantastica) che introduce le cinque novelle in prosa, la quale esplicita le intenzioni dell’autore riguardanti
l’opera, descrivendo una propensione ad un’innovazione stilistica e formale. L’innovazione, Miraglia cerca
di equilibrarla alla rielaborazione dei contenuti tradizionali e personali. Durante la stesura dell’opera,
l’autore si trovava in Piemonte, luogo dove immagina, per la prima volta, le creature fantastiche che
saranno poi rappresentate nelle sue opere. Tali creature danno a Miraglia anche un rammento della sua
terra natia (Strongoli, Calabria) e della sua infanzia: una “voce” che afferma di sentire in Piemonte
gli ribadisce più volte di averla già udita in passato (“Noi siamo quei suoni misteriosi che attonito udivi nel
vento”). Miraglia inserirà, poi, nel racconto un omuncolo che prende vita dal fumo della caffettiera, il quale
avverte lo scrittore di “rifiutare le stolte deviazioni sentimentali che ha appena udito dalle divine fanciulle”
(fanciulle immaginarie che si presentano allo scrittore come “la speranza e l’amore”). Spesso, Miraglia, nel
testo riprende l’aspetto climatico piemontese, grigio e nuvoloso. Il demone dell’omuncolo  riprende lo
scrittore, dicendogli che amore e speranza sono futili dinanzi al secolo del progresso, dove regna la
malignità logica del mondo. Durante il conflitto col demone, in un momento di dubbio del poeta, si
presenta l’apparizione di una fanciulla che suona il pianoforte, reindirizzando Miraglia
verso l’ideale “dell’amore antico”. La prefazione si chiude, quindi, con questo conflitto tra la freddezza
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logica dell’innovazione ed il calore dell’amore antico: un conflitto tra la freddezza del Piemonte ed il calore
delle terre della Calabria, le quali sebbene lontane ed arretrate sul punto di vista culturale, sono deposito di
sfere emotive e sentimentali che l’autore conserva nei ricordi dell’infanzia. Miraglia descrive il Meridione
(di cui sente la nostalgia) “bello ed infelice”, fratturato tra passione e dolore. L’opera si esplica, quindi, in un
“viaggio a ritroso” dello scrittore con lo scopo di recuperare i ricordi della sua infanzia.
La prima novella, L’imeneo nella tomba, è una storia semplice e con pochi personaggi e potremmo
considerarla anche una presentazione dell’intera raccolta. Gli avvenimenti prendono luogo sull’Appennino
calabro con protagonisti due quindicenni, Carlo (“povero e plebeo”) ed Alfredo (figlio della nobiltà), che si
contendono l’amore di Sofia. Il contrasto tra i due ragazzi che vive la fanciulla rispecchia il contrasto sociale
potere-povertà. Alla fine, è Alfredo a vincere il cuore della giovinetta e Carlo, sentendosi tradito, scappa dal
villaggio bruciando la capanna dove era nato. La parte più dolorosa, per Carlo, è il fatto che Sofia condivide
le sue stesse umili origini. Dopo il tradimento, Carlo rovescia la sua rabbia su Sofia attraverso le parole: il
tradimento che avverte non è solo come amante, ma anche come appartenente ad una classe e ad un
mondo. Dopo ciò, abbiamo la prima “esperienza deviante” di Carlo: il ritiro nelle foreste per pianificare la
sua vendetta. Nel giorno delle nozze con Alfredo, Sofia sente il peso della nostalgia di Carlo, il quale irrompe
nel corteo nuziale guidando un gruppo di briganti. Carlo, nella confusione del combattimento, rapisce Sofia
ed Alfredo lo insegue a galoppo. Carlo, durante la fuga, si sente oscillare tra vendetta e nostalgia e dopo
aver seminato il suo nemico si ferma un attimo per riprendere fiato e adagia Sofia su dei fiori. Alfredo li
raggiunge e Carlo è costretto a svegliare Sofia, la quale reagisce con il tono di una “gioia infantile”:
tale configurazione infantile del personaggio è fondamentale per decodificare queste novelle dal
“paradigma” letterario dell’infanzia. Ormai non aveva più senso combattere, ma Carlo non poteva dare
soddisfazione ad i suoi nemici: decide, quindi, di uccidersi portando Sofia con sé (“ Poiché l’ira degli uomini
mi ti vuol rapire, la morte ci sposerà negli abissi”).
La seconda novella, La vergine pescatrice del capo-colonna, è più lunga ed approfondita. Ai fini di una
lettura pedagogica della rappresentazione letteraria dell’infanzia nel meridione, è importante prestare
attenzione alla descrizione del sentimento dualistico verso il Sud Italia (in particolare, per la Calabria), dove
da una parte vi è il rimpianto di una grandezza perduta, e dall’altra vi è la speranza del ritorno ad una
“grandezza passata”. Miraglia riprende le riflessioni di Vincenzo Cuoco in Platone in Italia,  un romanzo
storico scritto in forma epistolare che l'autore finge di aver tradotto dal greco. In tale scritto, Cuoco prestò
una grande attenzione per i dettagli del luogo; inoltre, l’autore intende affermare la supremazia culturale
italiana rispetto al resto d'Europa e può essere considerata come un preannuncio della corrente d'orgoglio
nazionale che si svilupperà in tutto il primo Ottocento. Miraglia riprende le località meridionali descritte da
Cuoco ed alla bellezza dei luoghi accosta la descrizione della bellezza della protagonista (una giovane
vergine  che vide in una barca da pesca col padre). Verrà raccontato, poi, l’incontro tra la fanciulla ed
un misterioso giovane (vestito come un eremita). Il contrasto tra la grazia della fanciulla e l’oscurità
enigmatica del giovane viene ricalcato da un’antica canzone (cantata dalla fanciulla ed altre giovani)  che
racconta l’amore eterno tra la Dea del mare ed il Dio del fuoco. Il protagonista della novella è Eugenio, un
giovane che appartiene ai ranghi alti della società. Egli denuncia la società corrotta, volendo portarla alla
libertà. Il Governo, però, intercetta le sue intenzioni e costringe il protagonista a vivere una “vita di stenti”
(esilio). Qui è molto chiara la provocazione di Miraglia sul tema dell’oppressione dei potenti sui deboli, la
quale è giudicata da due prospettive: una dal basso, di un popolo sfruttato, una dall’alto, di chi vorrebbe
uguaglianza e, per questo, viene colpito alle spalle. Eugenio, quindi, viene “esiliato” e si staziona in una
piccola comunità di pescatori indossando panni di un eremita. Il giovane si rifugia nel piccolo santuario di
Capo Colonna, dove un tempo sorgeva il tempio di Giunone Lacinia: qui, Miraglia riprende i luoghi e le
descrizioni di Vincenzo Cuoco (dal libro Platone in Italia). La vista della giovane pescatrice ridona ad Eugenio
il senso della vita. Col tempo i due giovani diventano due amanti ma, una notte, Eugenio è rintracciato dal
governo e la spiaggia dove giacevano i due diventa “territorio di caccia”. I giovani, per fuggire, si tuffano nel
fondo del mare, ma soltanto la fanciulla riesce a riemergere: lei prova a cercarlo con la mano ed impazzisce
dal dolore e dai sensi di colpa (poiché era stata una sua idea rifugiarsi verso gli scogli); allora maledice il
mare e si lascia catturare. Viene imprigionata e torturata per avere informazioni riguardo ad Eugenio. Lei
non cede e viene lasciata andare. Ormai ha perso il senno e vaga per il luogo del delitto chiamando il nome
del suo amato. Miraglia paragona la voce della fanciulla alla “parola della  virtù  antica, che invano echeggia
in questi tempi codardi”. 
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Nella terza novella, Il Rinnegato ritorna ad una collocazione ambientale più circoscritta e ad una descrizione
ambientale meno estesa. Durante una notte, sul monte Sila, si intravede un monastero, dove avviene
una scena di amore disperato: Carlo, di origini umili, ama e Gabriella, figlia di nobile stirpe baronale. Carlo
era destinato al sacerdozio, educato da un vecchio uomo di fede; invece, Gabriella avrebbe dovuto soltanto
scegliere il miglior partito per convolare a nozze secondo la modalità consona alla sua estrazione sociale.
Ma questo sconveniente amore porta terribili conseguenze: il padre di Gabriella la esilia nel monastero e fa
arrestare e chiudere nei sotterranei il povero giovane che verrà venduto come schiavo ai corsari. Tutto ciò
porta ad entrambi un volersi ancora più forte di prima, il sentimento che ha Gabriella nei suoi confronti
aumenta e Carlo, al tempo stesso, ha giurato vendetta e ha promesso a sé stesso di riavere Gabriella.
Miraglia riesce nella delineazione psicologica del protagonista sospeso tra malinconia d’affetti e sete di
vendetta (e ripudio) a ogni senso di appartenenza, primo fra tutti quello religioso. Quindi esce un antieroe,
un bandito interiore e sofferto. Quando gli assalitori forzano le porte, tutte le monache fuggono
spaventate, ma soltanto una rimane incredula. Gabriella lo ha riconosciuto e non sa come reagire, in
quanto ha davanti colui che è diventato un infedele nemico del signore, ma al tempo stesso ella è stata la
causa di tutto ciò: Carlo. L’incontro tra di loro è intenso, quanto tragico. Infatti, tra i due, si scatenano eventi
sovrannaturali (la terra trema, la montagna si spacca e le mura crollano) vietando la fuga dei due
amanti. Alla fine, solo Carlo rimane in vita con Gabriella tra le braccia ai piedi della  croce, rimasta intatta.
L’amore negato si sostanzia, nell’eterna separazione: i due amanti sono condannati a non potersi sfiorare
nemmeno nell’aldilà, in quanto si proietta nell’oltretomba la stessa netta divisione: Carlo all’inferno e
Gabriella al purgatorio, lontani per sempre in una distanza forse ancor più crudele.
Nella quarta novella, Le Gemelle, Miraglia si concede una pausa della tematica del brigantaggio e si
concentra sul motivo sentimentale ed amoroso, inteso come amore impossibile che genera sofferenza.  Le
protagoniste sono due sorelle, Adelina e Beatrice, gemelle bellissime ed amorevoli, che si completano a
vicenda poiché una è timida e l’altra sicura di sé, una delicata e pensosa e l’altra passionale e inquieta. La
scena si svolge in Calabria: Adelina affacciata sul mare, intravede la figura di un uomo, Alfredo. Ella si
invaghisce di lui, ma Beatrice prende coscienza di quanto sta accadendo e si dispera, poiché era già
innamorata lei dell’uomo. L’infelice incastro non fa che accrescere il desiderio di Beatrice per Alfredo ma la
situazione precipita quando vengono stabilite le nozze tra sua sorella e l’uomo che ella tanto desidera.
Miraglia, così costruisce un incastro di opposte pulsioni passionali che generano un nuovo tratto
psicologico. Beatrice chiede ad Alfredo, ormai suo cognato, un ultimo ballo, ed i due sentono un palpito
nuovo che neanche Alfredo riesce a controllare quando Beatrice gli confessa il suo amore. Ad un
tratto Miraglia cambia prospettiva restituendo una calma illusoria, infatti, quando Beatrice si sveglia,
capisce che l’unico destino possibile è il catartico annullamento nella natura che la circonda. Beatrice si
suicida in un rito che sembra più il ritorno alla dimensione edenica delle terre divine.
Fino alla terza novella, Miraglia ha unito tutti gli elementi sentimentali, politici e sociali in ogni singola
narrazione, cercando di miscelare in maniera fluida tutti gli argomenti, mentre nelle ultime due si concentra
solo due tematiche, brigantaggio e amore. [Volendo  ricapitolare le vicende  in uno schema chiaro e lineare:
Carlo (prima novella) si fa brigante per amore; Eugenio diviene quasi un eremita per le sue aspirazioni  di
uguaglianza e giustizia sociale; Carlo (terza novella)  attua una sorta di inclinazione religiosa dell’essenza
brigantesca, fuggendo dalle regole  (religiose, non giuridiche)  del suo mondo]. 
La quinta ed ultima novella, Il re della Sila, racconta del Duca di San Giovanni in Fiore, nobile di Spagna,
temuto e rispettato da tutti. Egli è in procinto di compiere un viaggio attraverso la Sila, ma gli arriva un
messaggio da parte del re delle foreste Marco, nel quale afferma che quello è il suo territorio e i baroni, se
lo attraversano, devono pagare un pegno in denaro altrimenti verranno considerati suoi nemici. Tale
messaggio è una ferita nell’orgoglio del Duca e, con un esercito armato, attraversa le foreste. Il Duca nota
che il suo nome è riconosciuto e temuto in quei luoghi e si tranquillizza, ma un nuovo messaggio lo turba
definitivamente: Marco gli comunica che l’oltraggio è compiuto e la condanna è certa. Miraglia, inserisce i
primi versi poetici, utilizzando anche il poeta Dante, i quali sembrano emanare l’angoscia che si dischiude
alla speranza di salvezza e stati d’animo di uomini che non nascondono un sollievo per un pericolo
scampato. Ma questa serenità dura poco, una dozzina di briganti sfrecciano veloce a cavallo ed in breve
tempo bloccano tutte le vie d’uscita per il duca ed il suo esercito. Cantando la sventura dei nemici, i
briganti rovesciano grandi massi giù dalle rupi. Il Duca e i suoi accampamenti si dividono i compiti per
attuare la miglior difesa possibile. Fatto prigioniero il Duca, uno dei briganti esce dalla capanna (del duca)
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ed esclama ai calabresi che ora il Duca è prigioniero del re Marco ed il suo esercito è libero di tornare a casa
dalla propria famiglia, ma in caso provino a liberare il Duca sarà distrutto: qui è raffigurata la differenza
sostanziale tra i briganti ed i seguaci del Duca. Infatti, i primi condividono ideali, passioni, e anche dolori,
mentre i secondi sono legati dal vincolo dell’obbligo e del bisogno che è un legame più fragile in cui non c’è
comunione di ideali. Ciò significa che il popolo delle armate del Duca è più vicino ai briganti, che a colui che
li guida, accettando di ritirarsi in cambio di sopravvivenza.  Il Duca viene condotto in una caverna dove
avviene un vero e proprio processo a suo carico. Ci sono monaci, eremiti, figure oscure  e il re della Sila.
Miraglia, ce lo descrive come un uomo tozzo e forte nella figura, dall’espressione fiera, acuta e dura.
L’organizzazione di questa società alternativa è perfetta: un monaco legge, dal Libro Nero, i misfatti
attribuiti al Duca circostanziando gli eventi e i delitti con date, nome e dettagli e ad ognuno corrisponde la
precisa collocazione numerica della banda in cui le vittime collaterali di tali delitti sono state accolte come
briganti e servire Re Marco. La figura del brigante assume una valenza salvifica, di accoglienza, di rifugio nei
confronti di ogni violenza ed ingiustizie. Il passaggio relativo alla sentenza rappresenta l’anti-società, una
giurisdizione alternativa, un antistato che trova le sue regole lontano da tutto ciò che si conforma alla
norma legalmente e socialmente conosciuta. Vi è, però, un colpo di scena: Marco è il fratellastro
primogenito e illegittimo del Duca, colui che avrebbe dovuto ereditare gran parte del patrimonio, ma
il Duca occulta i documenti relativi alle intenzioni paterne e con false accuse fa rinchiudere Marco. Il Re
della Sila si arricchisce di un livello argomentativo che apre alla messa in discussione del fine ultimo di gesta
e vendette. Il re brigante denuncia la consapevolezza di appartenere allo stesso mondo artefice di soprusi e
malefatte. Il paesaggio maestoso della Calabria spinge Marco in un momento di riflessione: l’incapacità di
esultare davanti alla sua vendetta compiuta diventa la profonda ammissione di incompiutezza dei gesti
violenti e vendicatori, realizzando di non aver mai amato ed ha risposto all’odio con un odio ancora più
feroce. La pacata sofferenza di questi pensieri si interrompe quando ad un tratto, va a cavallo  dove è
rinchiuso il fratellastro. La “condanna a vivere” si rivela gesto di saggezza. 
A testimonianza di compimento Miraglia sostanzia in poesia la rappresentazione viva e sentita del
romantico brigante evocando il suo spettro.

Come detto in precedenze, nel volume “bambini e ragazzi tra bande e paranze” sono state presentate due
realtà difficoltose e strettamente legate: una dei ragazzi calabresi, un’altra dei giovani del Vesuvio. Si tratta
dell’unione tra la lettura romantica calabrese e la feroce letteratura partenopea contemporanea. La
versione romantica della “ribellione giovanile”, con la rappresentazione del ragazzo che si “rifugia” presso
una banda (che lo accoglie in quanto vittima di soprusi ed ingiustizie) finisce, molto spesso, nella limitata
categorizzazione di scelta deviante, di caduta dei valori dell’umanità. Prima di arrivare alla scrittura
partenopea contemporanea (con particolare riferimento agli scritti di Saviano), bisogna fare ricorso agli
scritti calabresi di Miraglia, il quale sottolinea in numerosi lavori le differenze tra il Meridione ed il
Settentrione italiano che ha potuto constatare in prima persona.
Per il poeta Biagio Miraglia, il Piemonte di Vittorio Alfieri rappresenta il punto di ritrovo tra cultura e
letteratura italiana, tra l’altro ben consapevoli e definite, poiché i piemontesi sembrano non perdere mai il
loro spirito italiano, e quindi il loro patriottismo, nella loro poetica. Questa forte unione politica, ideale e
sociale porterà presto tutto il Settentrione a creare una produzione scritta originale, ovvero il romanzo,
diversamente dal meridione in cui si resta fermi sui classici artisti e non c’è ancora spazio per nuove
ideologie; infatti, la nuova forma del “romanzo” che si sviluppa nel settentrione si svilupperà, in meridione,
in maniera confusionaria. Infatti, coloro che appartengono al mezzogiorno amano farsi guidare dalle
memorie dei loro maggiori filosofi. Nel meridione influente è il pensiero filosofico di Pasquale Galluppi, al
quale Miraglia attribuisce un rispetto e un’importanza simile a quella dell’Alfieri, e afferma che il loro scopo
era lo stesso, cioè quello di chiudere il capitolo della vecchia poesia e di aprire un capitolo nuovo fatto di
novità. Un altro dei motivi del ritardo culturale del meridione è il suo stretto legame alle proprie radici
storiche. Lo scrittore calabrese, Galluppi, ci mostra una sottile ed importante differenza tra il popolo del
meridione ed il popolo del settentrione: i meridionali, in particolare i Napoletani, hanno molte qualità dei
greci antichi, sono d’ingegno, hanno un rapido apprendimento, amano le novità e lo spettacolo, hanno
spesso il dono della parola ma peccano di generalità e con la stessa facilità accettano un’innovazione e poi
la ripudiano; al contrario, i settentrionali hanno un ingegno più tardo e una fantasia limitata e inoltre
amano la vita calma e tranquilla, insomma due popoli radicalmente diversi tra loro. Nel meridione, data la
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fondamentale influenza della Magna Grecia, è inevitabile il sorgere di numerosi poeti e un diretto rapporto
tra “armonia universale” della natura e il bisogno dell’uomo di esprimere tale armonia e tale splendore,
attraverso poesie, canti e balli, questo è ciò che rappresenta il rapporto interiore, sentimentale ed empatico
tra uomo e natura. Differentemente, per i nordici il contatto con la natura è più grigio e avaro e credono di
appartenere ad un insieme più complesso, dunque non intendono di avere un rapporto con la natura ma
con la patria stessa. Infine, possiamo dire che lo spirito del meridione è caratterizzato da una parte da
amore ed evasione sentimentale, dall’altro lato da vendetta, ribellione e lotta disperata contro
l’oppressione. C’è da dire che già Francesco Ruffa (1819) indicò che le opere meridionali sono ricche oltre
ad avvenimenti come suicidi e vendette, anche di credenze a fate, magie e spiriti e questo dona un’aria
meravigliosa all’opera. Dunque, possiamo dedurre come nella nuova novella c’è un aspetto interessante,
cioè la descrizione della meraviglia della natura, bellissima e misteriosa che si interseca con l’animo
dell’uomo. Questo poeta spostandosi successivamente dalla Calabria verso il nord ha potuto constatare in
prima persona il divario culturale tra meridione e settentrione e mette in evidenzia quindi la spontaneità
letteraria da una parte e il fermento culturale nazionale dall’altra. Lo stesso Miraglia, infatti, nella sua opera
“Discorso” da un lato restituisce dignità alla produzione calabrese e dall’altro apprezza la consapevolezza
culturale. In questa sua opera il poeta ci rappresenta l’unificazione nazionale e la vena artistica rinnovata
da Alfieri come un’unica matrice storico-culturale che si espande da Nord verso Sud e dona alla nazione una
nuova consapevolezza culturale e politica. Nello scritto di Miraglia Discorso, l’autore attua un ulteriore
confronto fra le diverse realtà della penisola italiana (parla della poetica dell’Italia superiore e dell’Italia
inferiore nel IV secolo). Miraglia riesce ad elencare numerosi autori e poeti del Settentrione (come Alfieri,
Parini e Foscolo), ma trova difficoltà a riscontrare tale compattezza ideologica, politica e culturale nel
Meridione. La prima cosa che nota è il disordine, dovuto dall’assenza di una passione storico-politica (che
genera il sentimento patriottico): il moto politico, sociale e culturale del Nord genera una nuova
consapevolezza di appartenenza nazionale inesistente nella letteratura del Sud, nella quale manca
“l’elemento reale, l’ambiente necessario, cioè la vita della nazione”. Volendo schematizzare quanto
approfondito, si possono utilizzare i seguenti punti:
•l’esperienza letteraria calabrese come perifericità culturale, ma originale ed autonoma: non rappresenta il
centro della cultura meridionale, ma mantiene dei caratteri propri ed originali
•le novelle di Miraglia, con ragazzi “devianti” che si allontanano dalla rettitudine sociale, sentimentale,
umana e valoriale
•l’individuazione del brigante come topos (luogo comune) della ribellione e opposizione alle ingiustizie
•la consequenzialità sociale e culturale tra un’incompiutezza storico-letterario-politica (che si evidenzia
nella spaccatura Nord-Sud dell’800) ed una decaduta dei valori presente nella realtà quotidiana della
contemporaneità che, paradossalmente, “diviene letteratura” (=diventa oggetto di scritti e romanzi).
La letteratura che nell’800 era testimonianza di una distanza e narrava le vicende di “romantiche
deviazioni” diviene l’ultima possibilità di denuncia di bambini e ragazzi armati, violenti, ma disperati e persi.

Per quanto riguarda Roberto Saviano e l’analisi della scrittura partenopea, dobbiamo citare il best seller del
2006 ambientato a Napoli, con il titolo di “Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno del dominio
della camorra”. La Camorra, in realtà non si chiama così, o meglio essa stessa non si riconosce in questo
nome poiché è un termine generico dato dalla cronaca. Il suo vero nome è “‘ o sistema”, ovvero “un
sistema”. Questa è un’espressione che rende maggiormente l’idea di quanto sia capace di ramificazione,
elevazione ed espansione. Quest’organizzazione criminale coincide con l’economia e la commercialità.
Molti scrittori È stata necessaria una giusta distanza di inquadramento per poter parlare di fenomeni tanto
complessi. Lo stesso Raffaele La Cipria ha raccontato l’armonia perduta della sua Napoli. In Miraglia
possiamo osservare l’intenzione di migliorare il sistema sociale, questo tema ritorna in La Cipria ma come
testimonianza di un brusco arresto cioè all’autore sembra evidente che ci sia stata una frattura maggiore in
un sistema all’interno del quale già erano presenti delle disuguaglianze, miserie e difficoltà ma erano
equilibrate in una sorta di ordine composto. In La Cipria possiamo trovare una malinconia nei confronti di
una terra che egli sa essere sopraffatta da mali incurabili diventando così una città in cui si preferisce fare i
napoletani e non esserlo perché ciò avrebbe significato l’obbligo di guardare in faccia la realtà capendo la
necessità di cambiare le cose. Quando un universo complesso come Napoli costruisce una realtà parallela
con le sue regole arriva a permeare in ogni parte della società in maniera capillare e in ogni livello non
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arrestandosi neanche di fronte all’età dell’innocenza. La criminalità a Napoli viene sottovalutata, tale
sottovalutazione finisce per essere uno dei cardini da cui prende origine una Napoli trasformata da luogo
d’incanto a luogo di perdizione, da culla della civiltà e di cultura a un campo di degrado. Per riequilibrare
tale situazione ci vorrebbe la Politica ma in una città come Napoli questo richiede un esercizio di
autorevolezza da parte dello Stato che non c’è. Ancora prima di Saviano, Antonio girelli scriveva che la
diffusa criminalità rappresenta per Napoli una catastrofe giacché determina una mutazione genetica negli
abitanti coinvolgendoli anche passivamente nel turbine di denaro mal guadagnato.
I luoghi più degradati di Napoli, hanno dei nomi incantevoli, come ad esempio “Le Vele’’ di Scampia, che
doveva essere un esempio di una nuova urbanizzazione, alludono al sogno di far volare con il vento le vele.
Saviano lo definisce “un'utopia di cemento che nulla ha potuto opporre alla costruzione della macchina del
narcotraffico che si è innervata sul tessuto sociale di questa parte di terra”. A Scampia le case e i quartieri
sono gestiti dalla Camorra, la droga si vende per strada senza nascondersi; tutto questo è simbolo
dell’esercizio di un potere assoluto senza restrizioni. Un altro esempio è “Il Rione dei Fiori” di Secondigliano,
soprannominato addirittura “il terzo mondo" in quanto luogo sottratto alla convivenza civile, dove si
spaccia eroina in mezzo alla strada, sui banchi di scuola ricoperti di dosi nei loro pacchettini bianchi e dove
ad ogni angolo c’è una vendita della Comorra. Le strade sono intitolate “alla ricerca del tempo perduto” e
“alla Gerusalemme liberata” ma nessuno sa arrivarci. C’è poi da citare il “ Parco Verde” che si trova a
Caivano, uno dei quartieri più pericolosi di Napoli nonché la centrale di spaccio più estesa di Europa, luogo
dell’infanzia scandalizzata, violentata e venduta, luogo che più volte si è tinto di rosso di un sangue
innocente che non racconta più soltanto degrado ma abisso. In questo luogo troviamo un piccolo
mausoleo dedicato ad un ragazzo di nome Emanuele, un ragazzino di quindici anni con la faccia asciutta,
scura e spigolosa e uno di quei tipi che ti immagini come un ragazzo da non frequentare, che è morto sul
lavoro. Il suo lavoro era fare rapine. Emanuele era parte del parco e l’appartenenza a certi luoghi ti macchia
a vita. Questi sono luoghi in cui non si entra, poiché sono loro ad entrare nella vita delle persone e
soprattutto dei bambini che sono i bersagli più facili della Camorra. Il passo successivo che ha fatto Saviano
è quello di raccontare del “passaggio’’ ossia l’evoluzione dell’individuo che si distacca dai normali
avvicendamenti dei corsi umani. Il “passaggio” si sostituisce ai normali susseguirsi degli stadi di maturazione
dei bambini che vede l’infanzia attraversare l’adolescenza, giungere alla giovinezza per poi approdare
all’età adulta invece in questi quartieri, dall’infanzia o dall’adolescenza si passa direttamente alla
criminalità. I bambini venivano arruolati appena diventavano capaci di essere fedeli al clan, tutti avevano
dai dodici ai diciassette anni. Saviano inizia a seguire i percorsi dei primi fanciulli perduti, partendo dal
quartiere di Scampia. L’autore percorre le linee di demarcazione territoriale lungo le quali le famiglie si
dividono piazze di spaccio o appalti. A Scampia, però, vivono anche tanti ragazzi innocenti, che però la sorte
li ha collocati in mezzo alla droga, alle armi e al crimine. In “Gomorra”, la prima giovinezza interrotta è
quella di una ragazza ventiduenne, chiamata Gelsomina Verde, che è stata uccisa poiché era stata fidanzata
con un ragazzo, Gennaro Notturno, che era stato condannato a morte. Il ‘’passaggio’’ citato
precedentemente si colloca anche al bivio delle decisioni rispetto alla vita da scegliere. Infatti, Saviano ci
riporta l’esempio di due fanciulli Anna e Francesco. Anna vuole diventare maresciallo dei carabinieri e vuole
cambiare la sua vita. Francesco, diciottenne, afferma che ormai è tardi per cambiare la sua vita ed è
intenzionato a non cambiarla per nessun motivo al mondo. Il punto è che anche se si sceglie di cambiare
strada, non ci si salva, una volta dentro al giro del crimine, non ne puoi uscire. Gelsomina e Anna sono state
vittime inconsapevoli e innocenti che hanno pagato solo per il fatto di trovarsi in compagnia di chi ha
deviato. Nelle prime pagine di “Gomorra”, compaiono bambini con il ‘’ferro in mano’’, con l’aria da duro. A
Secondigliano i bambini hanno perfettamente consapevolezza di come si muore, sono in possesso di armi e
sanno benissimo le loro conseguenze. Saviano intervista un ragazzino chiedendogli della morte e degli
agguati; il ragazzo si presentò con il suo soprannome ovvero “Pikachu”, poiché era biondo e in carne. Dai
cartoni animati si passa ai racconti della morte. Proprio Pikachu, nell’intervista introduce un altro ragazzino
chiamato “Tonino Kit Kat” soprannome messo per la quantità di dolciumi che mangiava. Il ragazzino si
atteggiava a piccolo boss, aveva tutto il torace ricoperto da lividi, i quali erano frutto dei colpi di pistola che
il giubbotto antiproiettile fermava un centimetro prima di penetrare nella carne. Per addestrarli a non avere
paura delle armi, gli facevano indossare il giubbotto antiproiettile e poi gli sparavano addosso. Questa è una
pratica che diventa plagio psicologico, violenza fisica e lavaggio del cervello dei bambini. La possibilità di
mostrarsi pronti a perdere la propria innocenza, la propria gioventù, la propria umanità, si sostituisce un po’
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alla volta ai normali desideri che il ragazzino dovrebbe avere e coltivare fino ad arrivare all’esame estremo
ossia il momento in cui quei piccoli bambini riusciranno a premere il grilletto. Proprio su questa evoluzione
Saviano scrive “La Paranza dei bambini’’, i bambini qui hanno comportamenti e responsabilità da
camorristi maturi e iniziano la loro carriera molto presto bruciando le tappe. I ragazzini prendono possesso
di strade e pistole, guardano con disprezzo chi cerca di andare avanti onestamente. La totale assenza
educativa prende il sopravvento in una pedagogia negativa. Crescere può diventare quasi una perdita di
tempo nei quartieri come Scampia, Secondigliano e Caivano. Come esempio di ciò nel libro vi è riportato
l’intervista di un ragazzo, il quale lavorava onestamente in un bar per 200 euro al mese, dopo poco tempo
abbandona questo lavoro e si ritrova a lavorare per la Camorra, affermando di guadagnare quasi 400 euro a
settimana. La Camorra è ormai l’unica strada che i bambini conoscono per vivere. Saviano inoltre racconta
la sua storia di quando fin da piccolo il padre, che non era un camorrista, lo portava a sparare poiché un
uomo può essere tale avendo laurea e pistola. L’autore quindi fin da bambino si trova a fare i conti con
l’educazione più difficile da interpretare cioè l’educazione di mezzo che sta tra giustizia e strada.

Saviano è molto legato all’età dell’infanzia e dal suo bagaglio pieno di fragilità e incanto. Dal suo capolavoro
“Gomorra” possiamo notare come lui, in ogni situazione, focalizza sempre la posizione e la situazione dei
bambini, capendo come hanno subito determinati cambiamenti, causati da alcune esperienze che in quella
determinata fascia d’età hanno mutato la loro vita notevolmente. Possiamo capire quanto egli ci tenga ai
fanciulli anche dal suo commento sul fatto che Totò e Simone, attori nel film sopraelencato, sono stati
bocciati alla loro scuola di appartenenza e allo stesso tempo hanno vinto uno dei premi più importanti,
quello del “Gran Premio della Giuria”, al festival più celebre del cinema, il festival di Cannes; con questa
affermazione lo scrittore non voleva ovviamente denigrare il ruolo della scuola o sottovalutare il suo potere
di educazione e valutazione ma voleva sottolineare come alcuni ragazzi sappiano essere talentuosi lontani
dai banchi di scuola e come sappiano mostrare il loro talento quasi come un miracolo e, riflettendo sulla
citazione di Danilo Dolci “sognando gli altri come ora non sono .. ciascuno cresce solo se sognato”, lui
aggiunge che questi ragazzi hanno mostrato il loro talento cercando di uscire fuori da quell’etichetta che
nelle loro zone avevano e tutto questo va tutelato, questi ragazzi vanno tutelati.
Il pallone è visto da Saviano come oggetto di coesione, definito da lui “oggetto di relazione di massa”, che
mette insieme generazioni diverse, ceti sociali diversi e crea dinamiche, discussioni e obiettivi e proprio per
questo assume un ruolo fondamentale come simbolo quando si parla di infanzia. Saviano attraverso il
pallone ci racconta l’infanzia di Lionel Messi, il quale intorno all’età di dieci anni è stato affetto da una
specie di sindrome da nanismo e dato ciò il suo corpo non cresceva, a differenza degli altri bambini; questo
però non lo ha fermato e come tutti sappiamo al giorno d’oggi è uno dei calciatori più importanti del
mondo del calcio. Saviano, per descrivere al meglio la situazione di Messi in relazione al pallone ci fa un
ulteriore esempio, quello del calabrone, il quale nonostante si sostenga che le sue ali non sosterrebbero il
peso del suo corpo, vola inconsapevolmente e dunque batte quella teoria; allo stesso modo Messi batte
quel muro costruito dalla sua malattia attraverso “il pallone” (sotto forma di determinazione) e diventa uno
dei calciatori più influenti. Oltre alla storia di Messi, Saviano ci offre un altro esempio, ovvero quello di
Clemente Russo, grande pugile e ci fa vedere come in quel di Marcianise ci sono alcuni ragazzi che non si
fanno corrompere dalla Camorra e hanno, invece, un altro spirito, quello della libertà sfuggendo alla
tentazione della Camorra facendo boxe, che rappresenta un sogno di un futuro migliore. Ma lo sport che fa
da padrone è il calcio e quindi Saviano ci riporta sull’idea del pallone e dell’insieme di giochi e compagnie: ci
fa notare come i capisquadra siano sempre i più bulli e mai i più bravi e l’ultima parola sul tocco del pallone
è del proprietario di esso, che anche se è un giocatore mediocre è comunque sempre il possessore del
pallone e può modificare o ribaltare la situazione. Saviano ci fa una differenza che tira in ballo lo stato
d’animo di tutti quanti noi, la differenza tra i vari palloni: il “super tele”, il “tango”, ma in particolare il
“super santos” che solo a guardarlo significava festa, allegria, correre per le strade all’aria fresca, i modi per
scavalcare cancelli per recuperarlo, insomma con il super santos c’era aria di spensieratezza e lo possiamo
quasi paragonare all’aquilone pascoliano. Ma poi, come ogni racconto di Saviano, questa spensieratezza
viene sempre interrotta dalla cruda realtà. Infatti, Saviano ci racconta di un gruppo di ragazzi dagli 8 anni
ciascuno su per giù, tra cui Rino; questi ragazzi tutti i giorni prendevano il bus per recarsi a Piazza Plebiscito
per giocare insieme sotto gli occhi delle statue dei personaggio più influenti della storia, Rino affrontava
sempre la stessa sfida ogni giorno, cioè quella di calciare il pallone contro l’indice della statua di Carlo V e
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per quante volte il restauratore ricostruiva l’indice, tante volte Rino lo distruggeva con il pallone, era
diventata ormai una sfida. Ed è in queste ore di gioco e di spensieratezza però che coloro che vendevano la
droga prendevano in considerazione ragazzini come Rino, abili e furbi, per farsi dare un segnale all’arrivo
della polizia, con un semplice calcio al pallone, per sgattaiolare. Questo segna per questi bambini
l’immediato passaggio dall’infanzia all’essere più adulti. Dopo anni questi ragazzi parteciparono ai provini
per la squadra Juniores del Napoli ma il loro sogno fu infranto, poiché il loro boss, Tonino Porcello li
reclamò e, pur volendo, questi ragazzi non poterono ribellarsi; dopo un po' uno di loro, Dario, cercò di
ribellarsi e fu ritenuto inaffidabile e perciò allontanato, riuscendo così a salvarsi. Rino non si ribellò. Il calcio
rappresenta, ora, per Rino l’anima dell’uomo grattata via giorno dopo giorno e la paranza, ormai, ha preso il
posto della squadra. Rino inizia a giocare in squadre sempre più inferiori, fino a quando fa parte della
squadra del clan Di Lauro, dove alcuni di loro, fingendosi poliziotti, li portano in macchina e li uccidono per
strada come cani. A Dario arriva la notizia e si precipita subito su quella piazza dove sono cresciuti tirando
calci ad un pallone e, calciando ancora quel super santos preso dal dolore, realizza di aver vinto contro la
squadra della paranza solo che degli avversari facevano parte dei suoi migliori amici.
Dai due film-capolavori di Saviano “La Paranza dei bambini” e “Bacio feroce”, possiamo individuare bene la
regione che l’autore prende in considerazione per spiegare il fenomeno della Camorra e della perdizione
dell’anima dell’uomo, ovvero quella dell’infanzia, un periodo della vita dell’essere umano dove si è fragili,
vulnerabili, in questa fase c’è il vero proprio senso dello “smarrimento umano”. Possiamo dire che Saviano
in realtà, attraverso i suoi scritti, più che parlare di Camorra fa vera e propria pedagogia. Raccontando
questo punto di rottura nell’età dell’infanzia obbliga in qualche modo tutti a non poter girare lo sguardo e
ad osservare questa cruda realtà, dove i bambini, con la loro ingenuità, si fanno affascinare dal potere del
“tutto e subito”, senza nessun sacrificio onesto, inconsapevoli di ciò che c’è dietro e del male che riescono a
fare attraverso la loro violenza, così scelgono di fare i criminali. Possiamo notare come nel romanzo di
Saviano (la paranza dei bambini) i protagonisti hanno dei soprannomi, per somiglianza, difetti ecc. questo
già ci fa capire come in quei clan si perde la propria identità. Inoltre, analizzando il significato del termine
“paranza”, che in ambito della pesca indica un’imboscata che si fa ai pesci ingannandoli con la luce
conducendoli nella rete, possiamo capire il senso di queste “bande”, ragazzi ingannati e accecati dalla luce
oscura del potere. Nicolas Fiorillo, ossia o’ Maraja’, è il capo della paranza dei bambini, uniti dalla voglia di
conquistare un territorio, quello di Napoli, denominata “paradiso abitata da diavoli”, una Napoli degradata,
tutto questo narrato in dialetto, scelta molto importante dell’autore in quanto questo uso rappresenta
proprio il realismo e la concretezza della storia stessa in ogni sfaccettatura, senza filtri. La storia inizia con
l’umiliazione di Renatino il quale ha ammirato la fidanzata del capo e tutti i membri della paranza lo
deridono, qui abbiamo il primo grande problema di questo contesto, il bullismo accompagnato talvolta
dalla violenza, questo Saviano lo racconta in maniera cruda. C’è da dire che questi bambini fanno parte di
famiglie “normali”, figli di professori e piccoli professionisti, questo ci fa capire quanto è sottile la linea tra
legalità ed illegalità, tra normalità e camorra. Nicolas o’ maraja’ è figlio di un professore di ginnastica e di
una madre che ha una lavanderia e questo per lui non è una buona base per avere potere, cosa che per lui,
come altri ragazzini, vale ancor più del denaro. È paradossale come lui abbia buone capacità per poter
andare bene a scuola e come allo stesso tempo sappia come gestire la vita di strada (spaccio). Il rapporto
che lui ha con la madre è qualcosa di bellissimo e tremendo allo stesso momento; fa rabbrividire un
momento in cui la madre pensa al figlio, alle sue capacità e che probabilmente riuscirebbe a stare bene
anche in negozio, poi pensa che magari sta bene dove sta fuori dalla scuola e lontano dalla lavanderia, poi
un pizzico di ragione le pervade la mente e pensa “ma dov’è?” e cerca di non darsi una risposta, ma in cuor
suo sa l’istinto e i movimenti di suo figlio. Intanto la paranza cresce e accresce il proprio potere acquistando
le prime armi e passando dallo spaccio alle rapine. Vivono in una realtà dove o si comanda o si viene
comandati, o sei servo o padrone. Man mano la paranza organizza un proprio covo dove riunirsi e via via
non rappresentano più la famiglia di appartenenza ma qualcosa di più grande, il loro obiettivo è di
diventare temuti ed invidiati. Saviano, infatti, afferma che loro erano come chi non ha iniziato ancora a
vivere poiché non avevano paura di nulla, infatti, nel momento in cui Agostino, un membro del gruppo,
esterna la sua paura viene espulso dal gruppo. Un elemento importante che si è sviluppato in questa
paranza è il rito, come giuramento di fedeltà. La paranza avanza sempre di più fino ad arrivare ad un gesto
estremo, dettato dal Maraja’ per acquisire il maggior rispetto, cioè “fare un pezzo”, cioè uccidere, in questo
caso l’obiettivo erano due stranieri (denominati “neri” o “pocket coffee” nella storia) alla fermata del bus,
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ma non ci riescono e Drone verrà punito per aver sottratto un’arma e per averla portata con sé, la
punizione sarà far concedere sessualmente la sorella a tutta la paranza. Il primo morto la paranza la fa in un
modo agghiacciante, cioè per sbaglio, un giorno in strada parte un colpo e colpisce un ambulante
innocente. Ma solo quando uccide un capo piazza, o’ Mellone, Maraja’ si sente uomo. Diventa talmente
“spietato” per il potere che quando, successivamente, non ha più appoggio per piazze e affari cede la vita di
Dumbo, amico del suo fratellino Christian, in mano ad un boss e spiega poi al fratellino che andava fatto e
non si poteva evitare e diventa il suo “educatore” del terrore. Alla morte di Dumbo, il suo caro amico
Dentino indignato esce dal gruppo e si vendica del Maraja’ uccidendo Cristian. Dopo questa vicenda la
madre di Nicolas diventa madre della camorra incitando la paranza alla vendetta del figlio morto, il padre
invece lascia la famiglia portando con sé quel po' di umanità che era rimasta in quella famiglia.
Con il secondo romanzo “Bacio feroce” Saviano ci pone un mix di letteratura, cronaca, sociologia, filosofia e
pedagogia, non perdendo mai di vista il tema dell’infanzia. Da un lato abbiamo la presenza della paranza
che è sempre più fortificata e dall’altra parte uccisioni ripetute di boss, parenti traditi ecc., ogni situazione
la rappresenta fissando sempre il punto sull’infanzia. In questo romanzo Dentino, che ha ucciso il fratello
del Marajà, diventa padre e Nicolas attende quella nascita per fare una nuova vendetta ma, in ospedale,
quando vide quella creatura ricordò il fratello da piccolo che dormiva e la sua sete di vendetta si placò, poi
tornato a casa iniziò a piangere. La madre vedendolo nella disperazione si diede tutte le colpe e liberò
l’anima di Nicolas da quel peso della morte del fratello che portava sulle spalle, dal peso di non aver
vendicato il fratello e dalle sue paure. Poi, dopo un po', lo incita a cambiare preda e quindi lo fa puntare su
Dentino. La storia di questo romanzo ci illustra come a mano a mano le paranze diventano sempre più
influenti e commettono crimini sempre peggiori. Ci sono due madri però che non hanno perso la speranza e
si affidano, invano, agli assistenti sociali per salvare la vita dei propri figli, ma troppo tardi si accorgono che
hanno già varcato la soglia; la madre di Biscottino gli chiede se è stato lui a commettere un omicidio e, dopo
la risposta non esaustiva del figlio, la madre gli chiede di fare come quando era piccolo, cioè di darle un
bacio, ed è lì che lui dà alla madre un bacio feroce, tenero e terribile. Questo è ciò che rappresenta la
sconfitta, la rassegnazione di una madre. Infine, Nicolas lo uccide strangolandolo per questo suo tradimento
e infine dandolo fuoco, poi trovò lì vicino una foto dove c’era la paranza al completo, si abbracciavano ed
erano complici tutti, lanciò anche quella nel fuoco dicendo “ora è finita davvero”. Ci troviamo di fronte ad
una realtà dove i soldi piegano le coscienze e i piccoli comprano case ai grandi. Qui troviamo nuovamente la
figura del padre di Nicolas che non cede a quei soldi sporchi, macchiati e sempre più lontano dalla visione
della famiglia, resta con dignità nella sua sconfitta. Dopo un po' ò Marajà a sua volta diventa padre e
quest’ulteriore avvenimento ci mostra come questi bambini non hanno avuto il tempo di essere tali. Al
termine di questo secondo romando Saviano ci da una riflessione pedagogico-letteraria molto importante
sul tema da lui affrontato, l’infanzia: “il bambino a Napoli è “ò criaturo”, è vicino al creato, a Dio, è sacro e
porta con sé il dono della vita, ma spesso non gode dei diritti dell’infanzia e i genitori sperano che la vita dei
propri figli sia migliore della loro, ma non sempre è così, perché attraverso il rubare e l’uccidere ò criaturo
sfida la morte ogni giorno”.

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