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N.

19 - 2015

LE LINGUE DEL SALENTO


A CURA DI ANTONIO ROMANO

2015
L'IDOMENEO
N. 19 - 2015
LE LINGUE DEL SALENTO

Università del Salento


Dipartimento di Beni Culturali

Ideazione e progettazione del presente volume: Giovan Battista Mancarella & Antonio Romano
con la collaborazione di Mario Spedicato, Monica Genesin ed Eugenio Imbriani

Editor in Chief
Mario Spedicato (Università del Salento, Lecce)

Scientific Board
Mario Lombardo (Università del Salento, Lecce)
Paul Arthur (Università del Salento, Lecce)
Luisa Cosi (Conservatorio “Tito Schipa”, Lecce)
David Gentilcore (Università di Leicester)
Hubert Houben (Università del Salento, Lecce)
Eugenio Imbriani (Università del Salento, Lecce)
Maria Luisa Martinez De Salinas (Università di Valladolid)
Josè Pedro Paiva (Università di Coimbra)
Livio Ruggiero (Università del Salento, Lecce)
Antonio Romano (Università di Torino)

Editorial Staff
Giuseppe Caramuscio
Francesco Danieli
Sarah M. Iacono
Pietro Manca
Carlo Miglietta

Editorial Office
Università del Salento, Dipartimento di Beni Culturali
Via Dalmazio Birago, 64
73100 Lecce (Italy)

In collaborazione con
Società di Storia Patria per la Puglia - Sezione di Lecce

ISSN 2038-0313
Journal website: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/idomeneo

© 2015 Università del Salento – Coordinamento SIBA

http://siba.unisalento.it

2
SOMMARIO

MARIO SPEDICATO, Prefazione p. 7

ANTONIO ROMANO, Introduzione p. 9

GIOVAN BATTISTA MANCARELLA, Premessa p. 17

Abbreviazioni p. 20

GIOVAN BATTISTA MANCARELLA, Storia linguistica del Salento p. 21

ANTONIO ROMANO, Una selezione di carte linguistiche del Salento p. 43

JOACHIM MATZINGER, Messapico e Illirico p. 57

SIMONA MARCHESINI, Epigrafi messapiche del Salento p. 69

DONATO MARTUCCI, Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica “sul


campo”: i lavori per l’edizione delle Nuove ricerche per il Corpus p. 79
Inscriptionum Messapicarum

MARCO MAGGIORE, Manoscritti medievali salentini p. 99

ANTONIO MONTINARO, Testi salentini nel progetto ADATest (Archivio


Digitale degli Antichi Testi di Puglia) p. 123

FABRIZIO LELLI, Le lingue della minoranza ebraica in Salento p. 139

GIOVAN BATTISTA MANCARELLA, Dialetti salentini p. 147

ANTONIO ROMANO, Proprietà fonetiche segmentali e soprasegmentali p. 157


delle lingue parlate nel Salento

ANGELIKI DOURI, DARIO DE SANTIS, Griko and Modern Greek in p. 187


Grecìa Salentina: an overview

EKATERINA GOLOVKO, Interferenze tra salentino, griko e italiano p. 199


regionale

MARCELLO APRILE, VALENTINA SAMBATI, Greco e romanzo nella p. 209


Grecìa salentina: un caso di simbiosi

3
GIOVANNI BELLUSCIO, MONICA GENESIN, La varietà arbëreshe di San p. 221
Marzano di San Giuseppe

IMMACOLATA TEMPESTA, L’italiano regionale. Il Salento p. 245

FERNANDO SALAMAC, Letteratura dialettale salentina p. 257

EMILIO FILIERI, Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e p. 267


Francesco Morelli

EUGENIO IMBRIANI, Modi di raccontare in Salento p. 291

ALESSANDRO BITONTI, Musica e testi in Salento fra tradizione p. 303


e modernità

CLAUDIO RUSSO, Come sta il dialetto salentino? Indagine sull’uso del p. 315
dialetto salentino in Internet, musica e produzioni audiovisive

ALESSANDRO BITONTI, CLAUDIO RUSSO, ANTONIO ROMANO, Il dialetto p. 329


salentino nei prodotti cinematografici

RECENSIONI

EMILIO GENTILE, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di


un mondo. Storia illustrata della Grande Guerra (Giuseppe p. 353
Caramuscio)

GIOVANNI SOLIMINE, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia p. 356


(Giuseppe Caramuscio)

LINDA SAFRAN, The Medieval Salento: Art and Identity in Southern p. 359
Italy (Pietro De Leo)

CARLO POERIO, Mille Ottocento Quarantotto, prefazione di Sigismondo p. 360


Castromediano, con uno scritto di Alessandro Laporta
(Giuseppe Caramuscio)

SALVATORE COPPOLA, Fortiter in re, suaviter in modo. Monsignor p. 365


Giovanni PANICO, il diplomatico salentino al servizio della
Santa Sede negli anni di Pio XI: La missione diplomatica di
Panico in Colombia, Argentina, Cecoslovacchia, Baviera e
Saar (1923-1935) (Giuseppe Caramuscio)

4
MARIO FRANCHINI, Japigia. Uno stato sovrano del IV sec. a.C. p. 369
(Francesco Danieli)

LICEO SCIENTIFICO “G. BANZI BAZOLI”, Scuola e Ricerca (Giuseppe p. 371


Caramuscio)

AA. Vv., In bilico. Storie di animali terrestri. Nuovi racconti italiani p. 379
(Irene Pagliara)
Prefazione

Dedicare un numero della rivista alle lingue del Salento è diventato quasi
inevitabile dopo le ultime esperienze editoriali che hanno visto protagonisti p.
Giovan Battista Mancarella e Antonio Romano. Debbo dire che proprio in
seguito alla pubblicazione del volume “Tierra de mezcla. Accoglienza ed
integrazione nel Salento dal Medioevo all'Età contemporanea” (2012) che
questo progetto ha iniziato ad enuclearsi e concretizzarsi. In quella circostanza
ho capito che potevo contare sulla piena disponibilità e collaborazione di due
dei maggiori esperti della storia della lingua salentina che mi hanno consentito
di metterlo subito in calendario e di fissare i tempi necessari per confezionare
un fascicolo che avesse come oggetto un tema così attuale ed importante sul
piano delle conoscenze di settore.
La Rivista, ora può dirsi, che con questo volume monografico ha rilanciato
su basi nuove e più aggiornate il problema linguistico della “regione” Salento.
Non si parte certamente da zero, ma serviva richiamare gli studi sin qui condotti
a termine per avanzare nuove proposte e nuove letture sull'articolato e non
sempre univoco a livello soprattutto euristico panorama linguistico salentino.
Senza rinunciare di andare oltre con nuove acquisizioni che potessero dare più
stimolanti prospettive alla ricerca. Si è partiti dalla Carta dei dialetti italiani per
passare al Dizionario dialettale del Salento seguendo metodi di analisi molto
diversi tra di loro. Ogni studioso, geloso della sua autonomia, nel passato ha
applicato differenti criteri di studio a seconda delle lingue di volta in volta
analizzate. La novità dei contributi contenuti in questo fascicolo è quella che
tutte le lingue assumono una lettura unitaria, vengono cioè studiate seguendo
una terminologia coerente e modalità di trascrizione piuttosto uniformi. Un
risultato non proprio trascurabile, addebitabile certamente alla duttilità e alla
competenza degli autori dei saggi, ma in molto particolare al lavoro di indirizzo
e di coordinamento che i curatori hanno saputo imprimere al progetto di ricerca.
Nel volume si respira aria nuova che va certamente apprezzata e valorizzata se
gli studiosi chiamati a collaborare, dall'esperto del lessico a quello della
fonetica, da chi si occupa delle condizioni sociolinguistiche allo stesso storico
della lingua hanno fatto ricorso a criteri di lettura unitari e a conformi norme
interpretative. All'interno di questo percorso è possibile anche isolare delle
novità assolute che vanno riconducibili per un verso all'inclusione dell'arberesh
tra le varietà linguistiche del Salento e per l'altro ai contributi sul salentino e
l'italiano regionale nei media, che costituiscono una mini sezione del volume,
foriera di interessanti e stimolanti sviluppi di ricerca.
Prefazione

Anche la prospettiva viene assicurata. L'approccio unitario con i problemi


della lingua consente di guardare al futuro con aspettative incoraggianti. Altri
importanti risultati potranno essere conseguiti se partendo dalla necessità di
mettere in campo un metodo unitario si accetta la mutua interferenza tra le
lingue insieme all'autonomia di ciascuna e se si rinuncia ad un'eccessiva
teorizzazione e sfruttamento di dati per arrivare ad una descrizione pancronica,
universale, capace di garantire approdi condivisi e rigorosamente verificati.
Siamo senza dubbio all'inizio di un nuovo percorso che va sostenuto ed
alimentato soprattutto dalle nuove leve della ricerca, quei giovani ricercatori
particolarmente coinvolti che possono contare prima di tutto sull'esperienza
collaudata dei loro maestri al fine di imbastire una rete di collaborazioni in
grado di spaziare anche su quei temi linguistici che per ragioni diverse sono
rimasti ai margini di questo fascicolo della Rivista.

Lecce, Università degli Studi, settembre 2015

Mario Spedicato

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Introduzione

Il Salento, in generale, vanta una lunga tradizione di studi. Da secoli ormai,


religiosi, letterati, studiosi, imprenditori, viaggiatori e turisti (inizialmente solo)
cólti si aggirano per le nostre terre incuriositi dai paesaggi naturali e culturali
che offre questo territorio.
Da un secolo a questa parte (partendo dai primi contributi nell’Archivio
Glottologico Italiano fondato da G.I. Ascoli) le biblioteche di studi salentini si
sono arricchite anche di studi linguistici molto avanzati ad opera di illustri glot-
tologi e dialettologi di fama internazionale (ricordo qui, naturalmente, Gerhard
Rohlfs e Oronzo Parlangeli, ma l’elenco sarebbe lungo). Le motivazioni e gli
elementi d’interesse di questi studiosi sono spesso diversi, così come lo sono la
loro formazione e il loro metodo di ricerca.
Da decenni, infine, lingue e dialetti del Salento sono stati oggetto d’incisive
campagne d’inchiesta linguistica. Si può dire che tutti i dialetti e le parlate
alloglotte, così come l’italiano regionale, siano ormai stati schedati accurata-
mente e inventariati con modalità di raccolta di volta in volta diverse, produ-
cendo descrizioni particolareggiate e allestendo cospicui archivi di documenta-
zioni sonore (anche se spesso non pubblicamente fruibili; su tutti: la CDI-
Salento e il NADIR-Salento).
Ancora più recentemente, molti cultori locali hanno cominciato a dotare i
comuni salentini di opere nostalgiche a carattere lessicografico (spesso anacro-
nistiche per impostazione e carattere, e nell’approccio alla lingua che cambia,
ma con significative eccezioni) con l’obiettivo di descrivere, insieme a tradi-
zioni e miti locali, anche aspetti di una lingua spesso definita ingiustamente
‘vernacolare’.
L’ultimo traguardo è quello della raccolta on-line di quantità significative
d’informazioni, prodotte con i metodi più svariati e disposte su siti istituzionali
o amatoriali. Su internet oggi è possibile trovare, oltre che numerose produzioni
liriche nei vari dialetti, versioni digitalizzate di documenti rari della storia
linguistica del Salento, così come blog, in cui ciascuno usa la sua lingua (in una
modalità scritta) per parlare di temi quanto mai diversi, e raccolte di materiali
audio-video riversati in modo più o meno organizzato su questo affascinante
canale di comunicazione. Disuniformemente e, spesso inaffidabilmente, alcuni
siti web offrono dati e considerazioni interessanti sulla situazione linguistica
dell’area, rappresentata con l’occhio – spesso ingenuo – di che ci vive e
s’inorgoglisce dell’unicità linguistica che presume di possedere sulla base della
propria esperienza personale oppure di chi la percorre fugacemente e pensa di
coglierne i lati migliori.
Introduzione

La ricerca scientifica, in tutte le sue forme istituzionali (accademica,


scolastica, societaria) ha la missione di osservare e descrivere con metodi
rigorosi questo brulicare di attività, ma – date le esigenze che emergono da più
parti – ha ora anche il dovere di rispondere alle numerose incertezze che il
cittadino comune manifesta sullo status, l’uso e le modalità di sopravvivenza di
queste varietà linguistiche.
Ecco dunque che, con questo volume, allestito in tempi piuttosto rapidi, ma
non per questo con risultati parziali e incompleti (per alcune materie trattate
sono intervenuti, infatti, alcuni dei maggiori specialisti nazionali e non),
cominciamo a provare a riassumere le informazioni più attendibili che posse-
diamo su questa regione linguistica riguardo ai vari aspetti della strutturazione
del repertorio linguistico dei suoi abitanti e sulle condizioni storiche che hanno
portato alla sua composizione.
Senza farla apposta, mentre i colleghi palermitani stavano per presentare il
loro “Lingue e Culture in Sicilia” (a cura di Giovanni Ruffino, Palermo, Centro
di Studi Filologici e Linguistici Siciliani), nell’autunno 2013 il Prof. Spedicato
propose a p. G.B. Mancarella e a me di cominciare a pensare a un volume su
“Le lingue del Salento”. Il piano del volume (che – se ne avessimo avuto
conoscenza in quel momento – avrebbe potuto ricalcare ancora di più quello dei
due volumi dell’opera più ambiziosa e robusta a cura del Prof. Ruffino) fu
discusso nella primavera 2014 (poco più di anno fa) decidendo di procedere con
la selezione di articoli/temi che pareva verosimile si sarebbe riusciti a racco-
gliere entro i termini di scadenza imposti dalla periodicità semestrale della
rivista “L’Idomeneo” che li avrebbe accolti.
Non è andata molto male rispetto al progetto iniziale: entro i primi di
giugno di quest’anno (2015) erano giunti puntuali (o in anticipo) tutti i
contributi presenti nel progetto iniziale e, tuttavia, altri se n’erano aggiunti (e
altri, purtroppo, erano venuti meno).
Considerate le condizioni di pesante lavoro cui sono stati sottoposti molti
degli autori che hanno aderito al progetto nel periodo in questione e le tempi-
stiche ristrette – appunto –, il volume rappresenta un successo davvero notevole
(se teniamo anche conto che non beneficia di nessun contributo delle istituzioni
che di solito incoraggiano questo genere di lavori). Nulla toglie che, in futuro,
àuspici stavolta le organizzazioni governative locali e regionali, se ne possa
allestire uno ancora più organico ed esaustivo.
Nella sua composizione presente, si possono ravvisare alcune sezioni
implicite che provo e far risaltare introducendo i singoli contributi.
Il volume si apre con un saggio dal titolo “Storia linguistica del Salento” nel
quale p. Giovan Battista Mancarella riassume decenni di progressi nella cono-
scenza della storia linguistica di questo territorio sulla scorta delle diverse
valutazioni che sono state condotte, da vari autori e in diverse prospettive di
studio, in base a considerazioni dialettologiche, glottologiche e filologiche. La

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Antonio Romano

sua lettura è determinante ai fini della costruzione del quadro d’insieme al quale
partecipano tutti i contributi del volume1.
Segue un mio breve compendio bibliografico e cartografico (“Una selezione
di carte linguistiche del Salento”) che aiuta a situare geograficamente le località
esplorate nei diversi capitoli e a collocare le aree di diffusione delle varietà
linguistiche studiate. Alcune carte, forniscono anche elementi utili per discutere
di fenomeni dialettali in grado di discriminare le parlate delle diverse sub-aree
che si possono individuare – nonostante la presenza di enclave alloglotte –
all’interno di una regione linguistica sorprendentemente compatta (il confine tra
dialetti salentini e dialetti pugliesi si situa in un’area di particolare infittimento
di isoglosse ed è per questo tra i più netti d’Italia)2.
A questo punto inizia una sezione dedicata a una lingua presente nel nostro
territorio verosimilmente alla fine delle epoche preistoriche ed estintasi con la
conquista romana del Salento. Il messapico è infatti documentato (ne abbiamo
notevoli attestazioni scritte raccolte in corpora monumentali dal VI al II s. a.C.)
in tempi e modi che non risultano incompatibili con l’idea di una messapiz-
zazione delle popolazioni insediate precedentemente negli stessi spazi e che ci
hanno lasciato manufatti in continuità con l’affermarsi di questi.
Sebbene, nell’opinione comune, si tratti di una “lingua misteriosa e
incomprensibile” non mancano degli esperti di livello internazionale che ne
abbiano già suggerito una collocazione geolinguistica storica e proposto possi-
bilità di decifrazione che hanno ottenuto un certo consenso tra gli specialisti

1
Inutile ricordare numerosi altri lavori immancabili di quest’autore, tra i quali ricordiamo
SALENTO. Monografia regionale della Carta dei Dialetti Italliani, a cura di p. G. B. Mancarella,
Lecce, del Grifo, 1998, e – più recentemente – il DDS – Dizionario Dialettale del Salento, di
G.B. MANCARELLA, P. PARLANGELI, P. SALAMAC, Lecce, Grifo, 2011, che si è affiancato al
celebre VDS – Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), di G. ROHLFS, München,
Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, 1956-1961 (ed. it. 3 voll., Galatina,
Congedo, 1976).
2
Nel 2013-14, insieme al collega Matteo Rivoira dell’Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano, ho
svolto un lavoro di ricerca piuttosto approfondito sulle parlate romagnole. Sebbene anche l’area
linguistica e culturale su cui insistono questi dialetti sia ben individuata nella percezione comune
(al punto che – amministrativamente – si trova in una regione il cui nome è, appunto, Emilia-
Romagna), risulta quanto mai difficile individuare dei fenomeni linguistici in grado di delimitarla
altrettanto nettamente di quanto avvenga per Puglia-Salento. In effetti, bisogna anche riconoscere
che, nella Carta dei Dialetti Italiani di G.B. PELLEGRINI (in M. CORTELAZZO, a cura di, Profilo dei
dialetti italiani, Pisa, Pacini, 1977), i dialetti romagnoli rientrano nella stessa area dei dialetti
gallo-italici, e si differenziano da quelli emiliani per una suddivisione interna di rango inferiore a
quella che si presenta invece al confine tra il Salento, antica Terra d’Otranto, e l’area confinante
pugliese dell’antica Terra di Bari. Gli specialisti sanno bene, infatti, che nel nostro caso, il primo
ricade tra i dialetti meridionali estremi, mentre la seconda tra quelli meridionali tout court. Pur
tuttavia, persistendo nel paragone, si può pensare a quanto il romagnolo sfumi (indispettendo la
maggior parte degli autori che lavorano su questi confini) anche al contatto coi dialetti
marchigiani e toscani che ricadono invece, rispettivamente, in due diverse suddivisioni dello
stesso ordine delle nostre due.

11
Introduzione

(ricordo qui, in particolare tra gli italiani, L.G. De Simone, F. Ribezzo,


V. Pisani, O. Parlangeli, C. Santoro e C. De Simone). In quest’ordine di consi-
derazioni s’inseriscono i contributi su “Messapico e Illirico” di Joachim
Matzinger e l’aggiornamento sulle “Epigrafi messapiche del Salento” di Simona
Marchesini. Abbiamo a che fare qui con lavori di due dei maggiori esperti dei
temi trattati. Il primo discute dei problemi che si pongono nel ricercare le
affinità tra le due lingue e nel ritenere che l’una possa discendere dall’altra,
sottolineando il profondo legame protostorico che dev’essere esistito tra le due
opposte sponde dell’Adriatico. La seconda invece dettaglia quantita-tivamente
le iscrizioni raccolte e analizzate nell’ambito dell’allestimento del MLM3.
A questi due capitoli possiamo associare anche il notevole contributo di
Donato Martucci finalizzato alla pubblicazione di una raccolta di documenti
epistolari in grado di fornire una ricostruzione storica delle motivazioni che
hanno stimolato il nostro interesse (nazionale e locale) nell’acquisizione di dati
su questo legame (oltre che sulle qualità generali di queste antiche popolazioni):
“Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica “sul campo”: i lavori per l’edizione
delle Nuove ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum”.
Segue, cronologicamente, una sezione nella quale si trovano i seguenti
contributi.
Dapprima, un’accurata e meticolosa presentazione dei “Manoscritti medie-
vali salentini” di Marco Maggiore. Una rassegna discussa e commentata delle
prime affermazioni scritte delle lingue che, nel frattempo – latinizzati o sosti-
tuiti i Messapi con insediamenti di epoca romana, in seguito forse a condizioni
di diffusa discontinuità –, gli abitanti delle nuove comunità esistenti in questi
territori si erano ritrovati a parlare in epoca medievale. Il saggio è un’autentica
perla per due motivi: 1) la completezza della trattazione delle conoscenze
storiche sui manoscritti più rappresentativi di questo scorcio temporale e 2)
l’aggiunta ragionata di numerosi e sorprendenti nuovi ritrovamenti avvenuti
negli ultimi decenni – grazie all’operosità del gruppo di ricerca guidato da
Rosario Coluccia – che permettono di rintracciare nel salentino antico l’origine
di molte forme attuali.
Segue, ancora, una metodica classificazione dell’intero corpus di “Testi
salentini nel progetto ADATest (Archivio Digitale degli Antichi Testi di
Puglia)” di Antonio Montinaro. Si tratta di un contributo altrettanto importante
perché riassume per categoria e per periodo l’insieme dei documenti in volgare
utili alla conoscenza della storia linguistica salentina nei secoli che vanno dal
XIII al XVI.
Sull’ampio orizzonte cronologico di questi ultimi due contributi s’inserisce
il capitolo su “Le lingue della minoranza ebraica in Salento”, di Fabrizio Lelli

3
C. DE SIMONE, S. MARCHESINI, Monumenta Linguae Messapicae, Wiesbaden, Reichert, 2002; v.
anche MNAMON (http://lila.sns.it/mnamon/index.php?page=Scrittura&id=50).

12
Antonio Romano

che osserva e descrive magistralmente la convivenza e la contaminazione


(anche in ambito cólto) tra le lingue della minoranza ebraica e le altre lingue
presenti sul territorio. Il contributo non tralascia di estendersi sino ai giorni
nostri, includendo importanti considerazioni su episodi di età moderna e
contemporanea.
Passando gradualmente a una visione sincronica delle parlate che presen-
tano la maggiore diffusione in questa regione, i due contributi che seguono si
concentrano particolarmente sulle caratteristiche fonetiche e, in parte,
morfologiche e lessicali, dei dialetti salentini romanzi, non senza occasionali
considerazioni sulle altre lingue parlate dai salentini, cioè il griko e l’arbëresh
(limitatamente alle due aree alloglotte), e l’italiano regionale. Si comincia con
“Dialetti salentini”, di p. Giovan Battista Mancarella, e si prosegue con il mio
“Proprietà fonetiche segmentali e soprasegmentali delle lingue parlate nel
Salento” nel quale ho riportato cursoriamente anche considerazioni sulla grafia
dialettale da riservare ai principali fatti di pronuncia che allontanano queste
parlate dall’italiano (unica lingua di alfabetizzazione della maggior parte degli
scriventi).
La quarta sezione che potremmo individuare, nella quale sfuma quest’ul-
timo contributo, è quella sulla descrizione delle lingue delle comunità alloglotte
e delle loro condizioni di mutua interferenza (anche storica). A questa parte-
cipano Angeliki Douri e Dario De Santis, con il loro intervento dal titolo “Griko
and Modern Greek in Grecìa Salentina: an overview”, che ci ricorda come
anche il neogreco stia avendo una certa circolazione nelle comunità ellenofone
salentine, e Ekaterina Golovko con un contributo dall’eloquente titolo “Inter-
ferenze tra salentino, griko e italiano regionale”, che estende considerazioni su
ben tre codici linguistici conviventi. A questa sezione partecipano anche – e li
ringraziamo per l’onore che ci fanno – alcuni colleghi attualmente impegnati
nelle attività di un nuovo soggetto impegnato nello studio delle lingue di mino-
ranza, il CeSMIL - Centro di Studi sulle MInoranze Linguistiche dell’Università
del Salento.
Marcello Aprile e Valentina Sambati ci presentano un lavoro dal titolo
“Greco e romanzo nella Grecìa salentina: un caso di simbiosi” nel quale fanno
riferimento a una risorsa on-line in allestimento presso l’Ateneo salentino (sotto la
loro responsabilità scientifica): il VSDS -Vocabolario Storico dei Dialetti Salentini.
“La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe” è, invece, il
risultato del lavoro di ricerca svolto in questa località, in diverse occasioni, da
Giovanni Belluscio e Monica Genesin e che ora si propone come una prima
descrizione linguistica, ricca di dettagli originali, nella quale i due autori riassu-
mono le principali osservazioni offerte da altri lavori frammentari.
Una sezione indipendente è quella alla quale appartiene l’unico contributo,
autorevole, che si concentra sulle caratteristiche dell’italiano regionale salentino.
L’articolo di Immacolata Tempesta “L’italiano regionale. Il Salento” ci propone,

13
Introduzione

oltre a un elenco ragionato delle principali peculiarità su vari piani, una serie di
riflessioni sui regionalismi salentini studiati da R. Rüegg nel 1956, messi in
riferimento ad alcune forme che emergono oggi grazie agli strumenti interattivi
ideati da Th. Krefeld per un osservatorio on-line della variazione geolinguistica
italiana.
Altra sezione è quella che s’inaugura coll’articolo di Fernando Salamac
dedicato alla “Letteratura dialettale salentina” e nel quale l’autore ricorda i
principali autori di riferimento del paesaggio letterario salentino (già rappresen-
tato magistralmente in indimenticabili lavori di autorità come D. Valli e M. Marti,
ma esplorato anche in modo suggestivo da altri autori di un certo peso come, tra
gli altri, il rimpianto G. Pisanò)4. In questo contributo si ripropone una visione
parlangeliana dei rapporti che intercorrono tra lingua e dialetto (così com’era stata
inserita nel complesso quadro imbastito ne La Nuova questione della lingua al
quale avevano partecipato vari autori, in senso più generale), e si fa riferimento
indiretto a una distinzione fondamentale tra poesia dialettale popolare, ‘irriflessa’,
e poesia dialettale cólta, spesso ispirata a canoni espressivi indotti da altri ambiti
linguistico-culturali e proposti in vesti dialettali5.
In questa stessa sezione rientrano due schede magistrali di Emilio Filieri
rifluite in un saggio originale intitolato “Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio
Caputo e Francesco Morelli”, con una disamina cólta di schemi e suggestioni
presenti nell’opera di questi due poeti, in un modo che solo un occhio attento sa
cogliere e solo una penna esperta e convincente è in grado di illustrare.
Questa sezione avrebbe potuto accogliere altri contributi ai quali non abbia-
mo pensato: la vitalità scritta di questo dialetto e la popolarità della scrittura
dialettale in molti ambiti è, infatti, ora confermata, oltre che dai numerosi blog e
spazi di espressione virtuali (trattati, comunque, nel contributo di C. Russo
infra), da recenti pubblicazioni come quella della “Costituzione italiana in dia-
letto salentino”6 oppure da rubriche regolari che si presentano in vari contesti
mediatici (come “L’oroscopo” di LecceNews24.it o “Simu Salentini” di
Piazzasalento)7.

4
Non dimentico, però, qui il contributo di analisi linguistica di alcuni testi letterari proposto da
M.T. ROMANELLO, Per la storia linguistica del Salento, Alessandria, dell’Orso, 1986, pp. 65-66.
5
Il concetto è stato in più occasioni discusso da p. G.B. Mancarella. Riguardo ai contenuti di
un’intervista a p. Mancarella realizzata da P. Parlangeli, mi diffondo anch’io in A. ROMANO,
Prefazione, in A. ROMANO & M. SPEDICATO (a cura di), Sub voce Sallentinitas: Studi in onore di
G.B. Mancarella, Lecce, Grifo, 2013, pp. 7-15. Non escludo che, in questo momento storico, si
possa presentare una terza via.
6
Pubblicata dallo squinzanese Vincenzo Serratì (Galatina, Congedo, 2014).
7
L’uso del dialetto è frequente nelle opere di carattere paremiografico, di cui questo volume non
tratta, e nei numerosi calendari annuali o strenne natalizie pubblicati nei vari comuni, nei circoli
scolastici e culturali di paese. Tra le altri fonti scritte che restano da approfondire in contributi a
venire vi sono quelle legate a una letteratura d’evasione o alla scrittura teatrale (Cunti te papa
Caliazzu, commedie di R. Protopapa etc.). Non sfuggirà, infine, che il dialetto scritto è diffuso

14
Antonio Romano

Un’altra sezione legata a questi temi è quella riservata alla letteratura orale,
per la quale ci è giunto un solo, ma rappresentativo, contributo di Eugenio
Imbriani che, in “Modi di raccontare in Salento”, riassume tre diverse narrazioni
di tipo autobiografico che s’inseriscono in un quadro storico-culturale molto
suggestivo.
Resta da approfondire, in questa dimensione, la letteratura popolare di
tradizione orale di cui abbiamo raccolte anche organiche, almeno fino agli anni
’60 (Li cunti te la nonna di N.G. De Donno, sulla scorta di quella di Pietro
Pellizzari) e trattazioni autorevoli in varie sedi8.
Quanto all’ultima sezione di questo volume, originariamente pensata per
coprire il settore dell’uso del dialetto e delle lingue minoritarie nella musica,
nell’arte e nei social media, abbiamo avuto un buon riscontro in tre contributi. I
primi due sono: quello di Alessandro Bitonti dal titolo “Musica e testi in Salento
fra tradizione e modernità” e quello di Claudio Russo, “Come sta il dialetto
salentino? Indagine sull’uso del dialetto salentino in Internet, musica e
produzioni audiovisive”. Entrambi si presentano davvero molto interessanti, con
dati e considerazioni originali e buoni spunti di approfondimento.
Non siamo riusciti ad avere invece una buona copertura sulla lingua dei
canti di tradizione e nella musica popolare nelle aree di minoranza, argomento
che troverebbe dati cospicui nei lavori presenti nei cataloghi di molti editori
salentini e non9.

ormai anche in ambito enigmistico (si vedano i simpatici Crucisalento, con gli incroci dialettali di
Roberta Vittorini).
8
Ricordo, tra molti altri, i contributi di: I.M. MALECORE, La poesia popolare nel Salento, Firenze,
Olschki, 1967 (Biblioteca di Lares); E. VERNOLE, Folclore salentino. Due romanze: Sabella e
Verde Lumìa, « Rinascenza Salentina », I/2, 1933, pp. 88-97; G.B. BRONZINI, La canzone epico-
lirica nell’Italia centro meridionale, Roma, Signorelli, vol. I (1956), vol. II (1961); ID.,
Narrazione pubblica e privata: testo e contesto in Puglia, in “Lingua e Storia in Puglia”, 24,
1984, pp. 61-88; S. LA SORSA, Alcune fiabe salentine, in “La Zagaglia”, 25, 1965, pp. 88-100.
Oltre ai noti materiali raccolti da E. De Martino e D. Carpitella, cospicue risorse costituite da
schede e materiali sonori raccolti in Salento su impulso di O. Parlangeli sono depositati presso la
Discoteca di Stato (ICBSA - Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi) del Ministero dei
Beni Culturali. Per l’area grika, oltre a quelli contenuti nei noti saggi di G. Morosi e M. Cassoni e
al best seller di B. MONTINARO, Canti di pianto e d’amore dall’antico Salento, Milano, Bompiani,
1994, ricordo la raccolta manoscritta di V.D. Palumbo, pubblicata recentemente da S. TOMMASI,
Io’ mia forà... Fiabe e racconti popolari (raccolti da V.D. Palumbo 1883-1912), 2 voll.,
Calimera, Ghetonia, 1998, e da S. SICURO, Ìtela na su pò... Canti popolari della Grecìa Salentina
da un quaderno (1882-1885) di V.D. Palumbo, Calimera, Ghetonia, 1999.
9
Analisi etnolinguistiche sono, ovviamente, presenti in E. DE MARTINO, La terra del rimorso,
Milano, Il Saggiatore, 1976, pp. 59-80, e nel più recente lavoro di F. GERVASI, I suoni giusti del
tarantato: neurofisiologia, cultura, trance e potere della musica, in “Medicina & Storia”, XIII (3,
n.s.), 2013, pp. 143-166. Su questo tema, sono molto numerosi i riferimenti folcloristici (che
valgono anche per tutta l’area: tra gli altri, P. DE GIORGI, Tarantismo e rinascita: i riti musicali e
coreutici della pizzica-pizzica e della tarantella, Lecce, Argo, 1999).

15
Introduzione

Conclude la sezione un terzo contributo originale “Il dialetto salentino nei


prodotti cinematografici”, di Alessandro Bitonti, Claudio Russo e me mede-
simo, il quale, partendo dall’osservazione della lingua dei prodotti cinemato-
grafici, solleva anche questioni applicative, nel momento in cui si presenta la
necessità di convenzionalizzarne la scrittura – almeno quella d’autore (così
come aveva fatto N.G. De Donno, per poesie, cunti e proverbi) – destinata a
traduzioni e adattamenti di prodotti artistici di pregio in italiano e nelle lingue
straniere.
Con questo contributo propositivo si conclude un volume nel quale non
sono stati toccati argomenti importanti, legati ad esempio all’antroponomastica
e alla toponomastica. L’auspicio è che si possa allestire, in futuro, un secondo
volume che, insieme a questi, contenga un approfondimento della variabilità
dialettale di lessico e della sintassi (nell’ambito di trattazioni possibilmente più
ampie) e che non dimentichi di prendere in considerazione altre lingue del Sa-
lento, fin qui ancora poco considerate: la lingua dei rom salentini (delle famiglie
oggi integrate di Muro Leccese, Taurisano, Galatone, Veglie etc. e dei gruppi di
recente immigrazione, come i xoraxanè del campo-sosta “Panareo” di Lecce)10,
nonché le lingue di tutti i nostri concittadini di diversa origine che si sono ormai
stabilmente insediati nei centri di tutto il Salento per ragioni spesso molto
diverse11.

Torino, 21 luglio - Parabita, 22 luglio 2015

Antonio Romano

10
Delle cui condizioni linguistiche si trovano riferimenti sporadici in F. MANNA, La musica
zingara, in A. ARLATI, F. MANNA, C. CUOMO (a cura di), Gli zingari. Storia, tradizioni, lingua e
cultura di un “popolo senza patria”, Milano, Teti, 1996, e, più in generale, in A. SCALA,
Contributi alla conoscenza dei prestiti lessicali greci nei dialetti degli zingari dell’Italia
meridionale di antico insediamento (Atti del Sodalizio Glottologico Milanese, Vol. I-II), 2009,
pp. 46-52.
11
Si veda L. PERRONE (a cura di), Transiti e approdi: studi e ricerche sull’universo migratorio nel
Salento, Milano, FrancoAngeli, 2007.
Cfr. anche gli contributi di A.R. Petrelli, F. Danieli, E. Imbriani, R. Grilli e A De Marco in M.
SPEDICATO (a cura di), Tierra de Mezcla, Galatina, EdiPan, 2012.

16
Premessa

In un recente convegno su “Salento terra di accoglienza” (Atti in Tierra de


mezcla, Lecce, Società di Storia Patria, 2012), insieme alla documentazione
degli immigrati nel nostro territorio in epoca medievale e contemporanea, i
diversi relatori hanno indicato la loro graduale integrazione e, spesso anche, i
loro influssi culturali e linguistici trasmessi alla comunità di accoglienza.
Più complessa deve essere stata la storia dei movimenti migratori che, in età
antica e preromana, hanno attraversato il nostro territorio, specie quando gruppi
umani, arrestati inizialmente lungo la costa, sono poi penetrati nel territorio e
hanno incontrato gli indigeni, autoctoni o di lunga permanenza. Le diverse
ondate di popolazioni arrestate nel territorio, senza aver cancellato abitudini e
influssi di precedenti gruppi etnici, hanno creato la premessa di una comune
identità culturale e linguistica che poi, in epoca romana, ha finito per assumere i
tratti originari del popolo “salentino”, in opposizione al vicino popolo “pu-
gliese” della Murgia, confluiti insieme nella REGIO SECUNDA.
Oggi il Salento linguistico, mentre si distingue dal territorio pugliese, per
tutta una serie di tratti distintivi, presenta una distinzione con dialetti a sistema
di 5/7 vocali nel territorio settentrionale, e dialetti a sistema di sole 5 vocali nel
territorio centro-meridionale. Tale distinzione, riconosciuta già alla fine del XIX
secolo con la ricostruzione dei due diversi sistemi fonetici, ha presupposto
l’origine dei due sistemi da quello comune a 7 vocali del latino volgare, ma non
ha però spiegato per quale motivo gli antichi e, o stretti (continuatori di i, u
larghi) si siano chiusi in i, u nel territorio centro-meridionale.
Una prima interpretazione degli studiosi del XX sec. ha proposto una
distinta origine dei due sistemi: un più antico sistema latino a 7 vocali, risolto a
5, sarebbe stato trasportato, via mare, in Sicilia e Calabria e, attraverso la Via
Appia, anche in Salento; un altro sistema latino più recente a 9 vocali, risolto a
7, sarebbe stato trasportato in tutto il resto del territorio romanizzato prima della
riforma di Diocleziano (fine del III sec. d.C.).
Tale proposta fa supporre un’antica romanizzazione del Salento con l’arrivo
di un sistema latino senza ancora la distinzione qualitativa di Ī, Ū e Ĭ, Ŭ e poi una
più recente romanizzazione del territorio pugliese con Ī, Ū passati a i, u stretti, e
Ĭ, Ŭ passati a i, u aperti.
Un sistema a 5 vocali arrivato in tutto il Salento prima del completo pas-
saggio del sistema latino da quantitativo a qualitativo, sembra escluso, a nostro
parere, dalle fonti storiche: Roma ha iniziato la conquista del Salento con la
fondazione della colonia romana a Brindisi (244-240 a. C.) e più tardi quella di
Lecce (102 a. C.); alla fine del I sec. a.C., diventata padrona del Salento, con la
Premessa

distribuzione del’antico patrimonio agricolo dei Messapi alle nobili famiglie ro-
mane, seguite dai numerosi schiavi per la coltivazione, e ai veterani, ha creato le
condizioni per un’intensa latinizzazione dei residui abitanti del nostro territorio.
Dal punto di vista linguistico un sistema a 5 vocali non può essere arrivato
in tutto il Salento: oggi i dialetti del territorio brindisino-orietano conoscono
sempre dialetti a 5/7 vocali, mentre solo quelli del territorio leccese-otrantino
conoscono dialetti a sole 5 vocali, sistemi diversi che, storicamente, non
possono tutti e due continuare un sistema latino di tipo arcaico.
Una seconda interpretazione, dello stesso periodo, ha ugualmente tenuto
distinte le origini dei due sistemi salentini. Nel territorio del Salento meri-
dionale, ritenuto d’antica ellenizzazione, si sarebbe affermato un sistema a 5
vocali, di origine greca, con e, o stretti confusi con i, u; in quello settentrionale
invece si sarebbe affermato un diverso sistema a 5 vocali con e, o stretti con-
fluiti in e, o aperti.
Un sistema a 5 vocali d’origine greca non può essere arrivato nel Salento,
perché è territorio di antica romanizzazione: i contributi di M. Lombardo, quelli
dei partecipanti ai Convegni sulla Magna Grecia e a quelli della Società dei
Comuni Messapici, Peuceti e Dauni, hanno sempre escluso la dominazione dei
Greci di Taranto sul territorio dei Messapi (la serie delle iscrizioni messapiche
va dal V sec. a.C. sino al I sec. d.C.).
I Messapi dal V sec. a.C., hanno lottato contro Taranto e, anche se ne hanno
subito l’influsso culturale, sono rimasti sempre indipendenti in un loro territorio
di città federate, con Brindisi capitale, sino alla conquista romana. Il rapporto
con i Greci in epoca preromana «non aveva portato mai né ad un vero e proprio
dominio politico né ad una assimilazione culturale e linguistica delle genti
messapiche. È solo con l’età tardo-antica col massiccio intervento dei Bizantini
[…] che la presenza greca nel Salento verrà ad assumere caratteri di dominio
politico e culturale tali da lasciare tracce significative anche nella lingua delle
popolazioni salentine di età moderna» (M. Lombardo, I Greci in Terra
d’Otranto, p. 21).
Anche il sistema a 5 vocali ipotizzato per il Salento settentrionale non è
proponibile, perché è stato ottenuto secondo una ricostruzione arbitraria. Per
Avetrana, in continuazione di Ĭ, Ē, Ĕ; Ŏ, Ō, Ŭ sono state ritenute rappresentative
solo le forme con finale di prime condizioni per cui PIPER, CRETA, PEDE > pèpe,
crèta, pède; PORTA, SOLE, NUCE > pòrta, sòle, nòce. In tutto il Salento
settentrionale e, o stretti e aperti si distinguono sempre secondo le diverse
condizioni finali, per cui PISCE, SERA > pesce, sera ma PISCES, ACETU > li pisci,
l’acitu; così anche NUCE, DOLORE > noce, dulore, ma NUCES, DOLORES >
duluri, nuci; mentre PEDE, DENTE > pede, tente ma PEDES, DENTES > pieti,
tienti; NOVA, MORTE > nova, morte, ma NOVU, MORTI > nuevu, muérti, tutti
mutamenti che non possono rinviare al sistema proposto con la seconda
interpretazione.

18
p. Giovan Battista Mancarella

Una terza interpretazione ha dimostrato che i due sistemi, oggi presenti nei
dialetti del Salento, continuano il comune sistema a 7 vocali del latino volgare
che, solo in epoca medievale, si è distinto in due schemi con l’arrivo della
metafonia: solo nel Salento settentrionale ha modificato gli originari i, u larghi
in e, o nelle forme con finale di prime condizioni e li ha chiusi in i, u nelle
forme con finale di seconde condizioni nel nuovo sistema a 5/7 vocali; nel
Salento meridionale, lo stesso sistema a 7 vocali, senza metafonia, ha fatto
confluire i, u larghi con i, u nel nuovo sistema a sole 5 vocali.
La prospettiva storica della terza interpretazione, fondata sul comune
sistema a 7 vocali del latino volgare, trasportato anche in tutto il Salento, ci
restituisce l’antica unità linguistica del nostro territorio preromano il quale, già
diversa da quella del territorio pugliese per ragioni di natura etnica, si è
maggiormente differenziata quando il comune latino, arrivato nella REGIO
SECUNDA, è stato recepito dagli Apuli con influsso osco-sannita.
In epoca medievale, oltre alla metafonia arrivata in una sola parte del
Salento, diverse altre innovazioni hanno raggiunto tutto il territorio a Nord della
Via Appia e hanno complicato il processo fonetico di molti dialetti della costa
adriatica, compresi quelli pugliesi, con la distinzione sillabica, la dittongazione
delle vocali di sillaba libera, turbamento e palatalizzazione soprattutto di A in
sillaba libera: un processo però che ha finito per fissare definitivamente, non più
tardi del secolo VIII, i tratti dialettali delle nuove unità del territorio italo-
romanzo.
Da quello stesso secolo, anche il dialetto salentino, come sistema di un
comune territorio di antica unità sociale e culturale, non ha conosciuto nessun
altro mutamento fonetico (anche se qualcuno continua sostenere la chiusura di i,
u larghi in i, u per influsso bizantino), ma solo prestiti lessicali di popolazioni,
transitate o arrestate, nel Salento, da Bizantini, Germani, Normanni, Francesi (e
da Spagnoli, anche come veicolo dei nostri arabismi): elementi lessicali
ricordati, in parte, anche in Tierra de mezcla.

Sava-Squinzano 16 luglio 2015


p. Giovan Battista Mancarella

19
Abbreviazioni
abl. ablativo
acc. accusativo
AIS Atlante (linguistico ed etnografico) Italo-Svizzero
alb. albanese
ALS Associazione Linguistica Salentina
cit. citato
ALI Atlante Linguistico Italiano
arb. arbëresh
BCDI Bollettino della Carta dei Dialetti Italiani
BnF Bibliothèque nationale de France
c. carta
cd. cosiddetto/a
cfr. confronta (con)
CDI Carta dei Dialetti Italiani
CeRDEM Centro di Ricerche e Documentazione sull’Ebraismo nel Mediterraneo
CMC Computer Mediated Communication
CeSMIL Centro di Studi sulle MInoranze Linguistiche (Università del Salento)
dat. dativo
DDS Dizionario Dialettale del Salento (di G.B. MANCARELLA et alii)
e.v. era volgare
f. femminile
fasc. fascicolo
gen. genitivo
gk. griko
gr. greco
i.-e. indo-europeo
inf. inferiore
it. reg. italiano regionale
lat. latino
m. maschile
mess. messapico
MLM Monumenta Linguæ Messapicæ (di C. DE SIMONE e S. MARCHESINI)
ms. manoscritto
nom. nominativo
nr./num. numero
p. pagina
p. es./ ad es. per esempio
pl. plurale
sal. salentino
sal.a. salentino antico
sec. secolo
sg. singolare
SLS Studi Linguistici Salentini
s.v. sub voce (sotto la voce)
v. vedi
VDS Vocabolario dei Dialetti Salentini (di G. ROHLFS)
vs. versus (in contrapposizione a)
VSDS Vocabolario Storico dei Dialetti Salentini (di M. APRILE e V. SAMBATI)

20
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 21-42
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p21
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Storia linguistica del Salento

p. Giovan Battista Mancarella

1. Popoli e lingue nel Salento

1.1. Fonti storiche e tradizioni gloriose

Le fonti letterarie, tanto quelle che fanno riferimento alla fondazione della
colonia greca di Taranto, che quelle che raccontano la progressiva conquista
romana della Messapia, ci offrono sicure notizie sulle popolazioni dell’antico
Salento e loro rapporti con gli abitanti dei territori vicini12.
I Greci di Taranto cominciarono ben presto a estendere il loro territorio in
direzione della cinta collinare, oltre la prima cerchia della quale non riuscirono
mai a sfondare e raggiungere la costa adriatica per un porto sul mare. Analogo
tentativo avviarono anche nello stesso territorio pianeggiante in cui, una volta
almeno, furono costretti a retrocedere, respinti dagli indigeni, vicino a Valesio.
Al culmine della massima espansione, il territorio dei Greci di Taranto,
comprendeva una zona greco-tarantina e una zona a influenza tarantina13. Al
territorio strettamente greco-tarantino, sulla base delle testimonianze,
appartenevano con necropoli a ceramica greca, i punti da S. Vito sino a Statte e
Crispiano; al territorio a influenza tarantina, con necropoli a ceramica indigena
e ceramica greca appartenevano Monacizzo, Torricella (sulla costa), Grottaglie
e Montemesola nel territorio collinare: «si ha l’impressione, in queste località,
di essere in una zona di confine tra l’ambiente greco e quello indigeno e questa
impressione è confermata dalla presenza di numerose cinte murarie relative a
piccoli, ma ben fortificati centri, di cui però la mancata esplorazione non
consente di precisare a quale dei due ambienti appartenessero»14.
Centri più schiettamente indigeni erano Manduria, Oria, Francavilla
(territorio pianeggiante), Ceglie M., Martina, Laterza, Ginosa (territorio
collinare), «anch’essi poderosamente fortificati e ricchi nelle loro vaste
necropoli di materiale caratteristicamente e prevalentemente indigeno, benché
anche qui non manchino numerosi esemplari di ceramica greca»15. Fuori del

12
M. LOMBARDO, Tra mito e storia: le tradizioni letterarie, in F. D’ANDRIA, M. LOMBARDO (a
cura di), I Greci in terra d’Otranto, Galatina, Congedo, 1999, p. 15.
13
A. STAZIO, La documentazione archeologica in Puglia, in “La città e il suo territorio”, Atti del
VII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 1969, pp. 265-285.
14
STAZIO, La documentazione..., cit., p. 272.
15
STAZIO, La documentazione..., cit., p. 273.
Storia linguistica del Salento

territorio di Taranto alcuni punti isolati hanno conservato ceramica greca e


soprattutto monete greche, come il tesoretto a Sava (del 480 a.C.), a Maruggio
(380 a.C.), Carosino (314 a.C.), Torre Ovo (fine IV sec.), Oria (300-280 a.C.),
Francavilla (235 a.C.), Mesagne (230 a.C.)».
Le fonti letterarie e le testimonianze archeologiche ci assicurano che, nel
momento in cui i Greci occuparono il territorio di Taranto, essi dovettero
sostenere un durissimo scontro con gli indigeni del luogo i quali, dopo la
sconfitta, dovettero rifugiarsi in una parte del territorio brindisino, abbandonato
da precedenti coloni cretesi. Alcune testimonianze storiche farebbero credere
che, in epoca più antica, anche altri gruppi greci abbiano occupato stabilmente
altri punti del Salento a seguito “delle gloriose emigrazioni di età eroica”
quando grandi condottieri greci, alla guida di gruppi greci avrebbero fondato nel
Salento le loro leggendarie città:«Stando alle notizie conservate dalle tradizioni
letterarie greco-latine, la presenza dei Greci in Terra d’Otranto risalirebbe alla
più remota antichità che la cultura classica antica associava all’esistenza degli
“eroi”, protagonisti di vicende straordinarie […], anzi l’origine stessa delle
popolazioni presenti nel Salento di età classica, e delle loro città, veniva fatta
risalire proprio all’arrivo di genti provenienti dall’Egeo e dalla Grecia, per lo
più sotto la guida di figure più o meno note dell’orizzonte “eroico”»16.
Con un’antica emigrazione, Peucezio, sarebbe arrivato in Puglia e avrebbe
dato origine al popolo dei Peuceti; Japigio avrebbe fondato la città di Hyria in
cui i cretesi si sarebbero trasformati in Japigi e Messapi; Diomede avrebbe
fondato Brindisi, Idomeneo avrebbe fondato Uria; Messapo, originario della
Beozia avrebbe dato il suo nome al territorio della Messapia ecc. «Stando
dunque a queste redazioni, non solo la presenza dei Greci nel Salento risalirebbe
alle più remote antichità, ma [...] le origini stesse delle popolazioni e delle città
messapiche sarebbero da attribuire a genti e gruppi di origine egeo-balcanica. In
realtà tali “conclusioni” non appaiono affatto accettabili sul piano della
ricostruzione storica»17.
Alcuni storici e linguisti moderni hanno accettato l’origine greca della
popolazione salentina, anche per il prestigio di Taranto, popolazione che ne
avrebbe accolto il dominio sociale e linguistico. Wuilleumier, su un’attestazione
di Florio, ritiene che al tempo di Archita «Tarente fut un jour la capitale de la
Calabre, l’Apulie, et la Lucanie entière, [...] Brindes elle même, centre de la
résistence messapique, a été hellénisée par Tarente»18, e aggiunge anche, sulla
testimonianza di F. Lénormant, che al tempo di Archita i Greci della
confederazione italiota, con capitale Taranto, erano diventati padroni d’Italia19.

16
LOMBARDO, Tra mito e storia..., cit., p. 9.
17
LOMBARDO, Tra mito e storia..., cit., p. 10.
18
P. WUILLEUMIER, Tarente dès origines à la conquête romaine, Paris, E. de Boccard, 1939
(ristampa 1969), p. 74.
19
Riguardo ai linguisti sostenitori dell’antica ellenizzazione del Salento v. 2.2.

22
p. Giovan Battista Mancarella

1.2. Indigeni del Salento

Prima dell’arrivo dei Greci e dei Messapi arrivarono nel Salento «altre
popolazioni affini ai Latini e agli Oschi. Ma è certo fuori dubbio che le genti
che parlavano dialetti indeuropei (messapi, greci, oschi) trovarono nella
penisola salentina una popolazione indigena a cultura alquanto evoluta, se nel
racconto dei Parteni stanziatisi a Taranto, si parla non di “barbari” ma di
“semibarbari” trovati sul posto dai colonizzatori»20.
Gli indigeni del VII sec. incontrati dai Greci e dai Messapi nel Salento,
secondo alcuni studiosi, erano greci d’antica emigrazione: secondo altri erano
invece gruppi di nomadi d’origine mediterranea e indeuropea, arrivati per
successive emigrazioni.
Gli abitanti del Salento antico, secondo alcune tradizioni letterarie, erano di
antiche e nobili origini greche, legate a “emigrazioni di età eroica”, tradizioni
erudite e letterarie che «costituiscono uno dei modi tipici da parte dei Greci e
della loro cultura “storica” di caratterizzare l’identità dei loro interlocutori
“indigeni”», origini greche, secondo M. Lombardo, non accettabili sul piano
della ricostruzione storica (nota precedente).
In epoca pregreca e premessapica, ha sostenuto F. Biancofiore, a Sud di
Taranto le antiche comunità indigene a civiltà di Matera, costituite da
agricoltori in aree cintate, sono state influenzate da elementi allogeni a civiltà di
Laterza, nomadi dediti alla caccia e pesca, abitanti nelle caverne lungo la costa:
«L’incontro dovette essere con i gruppi di cacciatori di sezione agricola sul
comune terreno della stessa prassi venatoria e forse furono i cacciatori autoctoni
che stanziando nelle caverne costiere, ebbero i primi contatti con i gruppi
allogeni»21.
Le comunità a civiltà di Laterza erano proto-appenniniche, in continuità di
antichi gruppi di lingua indeuropea, partiti da varie regioni del mondo
balcanico-egeo-anatolico, le cui testimonianze sono state rinvenute a Cellino,
Oria, Acquarica (ipogei, vari manufatti): rinvenimenti che confermano come
questi gruppi a civiltà di Laterza «sono diventati protoappenninici qui, in
rapporto dialettico con le comunità a civiltà di Matera» (stessa pagina). La
successiva fase storica delle comunità apulo-salentine è stata quella di una
economia mista con agricoltura, allevamento, economia di tipo subappenninico
che perdura sino al VI secolo.
Archeologi e linguisti, sulla base delle testimonianze dei vari ritrovamenti e
delle tradizioni onomastiche, hanno meglio indicato l’identità delle antiche
popolazioni arrivate nel Salento.
20
O. PARLANGÈLI, Brevi cenni di storia linguistica del Salento, in “Nuovo Annuario di Terra
d’Otranto2, Galatina, 1957, p. 4.
21
F. BIANCOFIORE, Origini messapiche, in “Atti del Convegno dei Comuni Messapici, Peuceti e
Dauni”, Manduria 1971, Bari 1973, p. 13.

23
Storia linguistica del Salento

Nell’Odissea, poema composto non più tardi del 1148 a.C., gli abitanti della
costa adriatica apulo-salentina sono indicati Siculo-sicani: «queste
denominazioni non possono che riferirsi a condizioni storiche superate […]
giacché in quel tempo il processo di indeuropeizzazione era già avvenuto»22.
I Liguri e i Siculo-sicani, d’origine mediterranea, avevano preceduto e
tracciato il passaggio, seguito più tardi dagli indeuropei sulla costa adriatica. Le
genti balcaniche, per raggiungere la Sicilia, erano sbarcati, sostiene G. Alessio,
sulla costa adriatica, dove non trovarono grossi ostacoli da parte degli indigeni
ma, contemporaneamente, sono arrivati anche gli Apuli: costoro, anche se
mediterranei e affini ai Siculo-sicani, si stabilirono nell’area della Murgia;
quando poi si confusero con gli Indeuropei, mantennero l’originaria
denominazione di Apuli.
Dal punto di vista linguistico la compattezza del territorio siculo-sicano è
testimoniata «dalla pronunzia cacuminale di alcuni nessi consonantici, o alcuni
fenomeni di assimilazione delle occlusive sorde e sonore alle nasali
precedenti»23 (kambare campare, tando tanto, angora ancora ecc. È d’origine
mediterranea *g r a b a > gravina, e forse anche Sallentum, etnico balcanico.
Dal punto di vista culturale è d’origine mediterranea il trullo, presente tanto
in territorio collinare che in quello del tavoliere salentino, come testimonianza
di antiche popolazioni a cultura agricola.
Questi tipi di costruzioni agricole a forma circolare, con pietre a secco e
tetto a cupola, presenti soprattutto nei territori circummediterranei «ripetono,
tradotti in pietra, forme caratteristiche sorte nei più primitivi cicli culturali […]
l’origine delle forme primitive che si possono ritenere sorte nel bacino
mediterraneo nel corso dei tempi preistorici, andarono incontro a modificazioni
di forme e sviluppi architettonici, pur rimanendo invariate attraverso i millenni
l’elemento fondamentale: la cupola in aggetto»24.
Oggi nel territorio collinare, abitato dagli antichi Apuli, è presente il trullo a
cono, mentre nel territorio pianeggiante, abitato dagli antichi Siculo-sicani, è
presente il trullo a tronco di cono.
Gli Indeuropei, arrivati nel Salento durante il primo millennio, erano Illiri
provenienti da un territorio di confine con la Grecia settentrionale, e occuparono
il territorio pianeggiante sino alla cinta collinare, territorio occupato dagli
Apuli, anch’essi indeuropei di precedente immigrazione.
Da alcune affinità presenti nelle iscrizioni dei due territori, F. Ribezzo ha
intravisto un’antica unità linguistica tra i diversi gruppi Dauni, Japigi e
Messapi; secondo O. Parlangèli invece «mi sembra ormai chiaro che i

22
G. ALESSIO, Apulia et Calabria nel quadro della toponomastica mediterranea, in “Atti del VII
Congresso Internazionale di Scienze Onomastiche”, Firenze-Pisa 1961, pp. 65-129.
23
ALESSIO, Apulia et Calabria..., cit., p. 81.
24
R. BATTAGLIA, Osservazioni sulla distribuzione e sulla forma dei trulli, in “Atti del II
Convegno Storico Pugliese”, Bari 1952, pp. 34-43.

24
p. Giovan Battista Mancarella

documenti a nostra disposizione non ci consentono di pensare a un’intima e


costante unità linguistica […] , ciò però non esclude in epoche più antiche una
più vasta unità (etno)linguistica che generalmente chiamiamo “japigia”»25.
Alla fine del V sec. a.C. i Messapi del Salento furono aiutati dagli altri
gruppi illiri per combattere contro i Greci di Taranto, quando furono tutti
sconfitti e distrutta la loro città di Carovigno. Dopo quell’occasione non ci sono
ricordati altri conflitti con le forze unite dei tre gruppi.
Altro gruppo d’origine indeuropea presente nel Salento era quello degli
Oschi.
Ancor prima della fondazione della colonia romana di Brindisi (244 a.C.)
l’osco era diffuso nel Salento, almeno presso la classe alta: Il nostro poeta
Quinto Ennio, nato nel 239 a.C., afferma di essere “rudino”, di origine
messapica e faceva sottendere un personale bilinguismo messapico-latino; più
problematico è quanto ha riportato Gellio: Q. Ennius tria corda habere se
dicebat quod loqui Graece, Osce et latine sciret. Ennio, arrivato a Roma dopo
essere stato soldato nell’esercito romano, parlava greco, osco e latino: si è molto
discusso di quel trilinguismo per capire cosa Ennio avesse inteso con loqui
osce26. L’altro nostro poeta, Marco Pacuvio, nato a Brindisi, nipote di Ennio, è
stato ritenuto osco da Festo per il fatto che il Poeta abbia usato due volte il
sostantivo UNGULUS ‘anello’; anche V. Pisani lo ha ritenuto osco per l’origine
del suo gentilizio e per le molte «tracce dirette del suo dialetto natio»27.
La lingua osca dei due nostri Poeti, nati in territorio messapico continuava,
a nostro parere, quel sistema italico utilizzato da diversi parlanti messapici per
comunicare con i gruppi oschi presenti nel comune territorio, coi quali hanno
lottato insieme, prima contro Taranto, e poi anche contro Roma, se gli storici
romani hanno celebrato le loro vittorie contro i Messapi e Sallentini.
La Jovila di Martano, come testimonianza osca d’epoca preromana, lascia
aperti molti problemi. Lo stemma del Comune riproduce un cavaliere su cavallo
con lancia impugnata e seguente iscrizione: VIRUM IN SILICES VERTIT
//MARTIUS PEGASEUS AEGIDE (tradotta: Marzio Pegaseo, con l’egida // fece
tornare in pietre gli esseri umani)28.

25
O. PARLANGÈLI, Studi Messapici, Milano, Memorie dell’Ist. Lomb. di Scienze e Lettere, 1960,
p. 12.
26
A. PROSDOCIMI, Il conflitto di lingue, in “Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna Grecia”,
Napoli 1976: «Ennio parlava osco e osco intendeva come suo cor; la sorella viveva a Brindisi non
molto lontano da Rudie, e doveva conoscere bene, se non parlava come prima lingua l’osco; suo
figlio Pacuvio, nipote di Ennio, portava un nome osco», p. 157.
27
V. PISANI, Storia della Lingua latina, vol. I, Torino, Rosenberg & Sellier, 1962, p. 233.
28
D. SARACINO, La Jovila di Martano, Galatina, Congedo, 2010, p. 112.

25
Storia linguistica del Salento

La struttura di questa Jovila è molto diversa da quelle rinvenute a Capua


analizzate; soprattutto la traduzione, fatta in latino, non conferma una sua antica
e originaria dedica di un luogo sacro ai morti29.

1.3. Greci, Messapi e Romani

I Greci di Taranto, dopo gli iniziali tentativi di espansione territoriale,


cominciarono a oltrepassare il confine collinare per aprirsi un porto sulla costa
adriatica e avere più diretti rapporti con la Grecia. I Messapi, uniti agli altri
Illiri, intrapresero diverse lotte contro Taranto e intorno al 520 a.C. furono
sconfitti e videro incendiata la loro città di Carovigno; a questa prima vittoria
greca ne seguirono anche altre. Non molto tempo dopo, nel 475-470 a.C., i
Messapi riescono a sconfiggere pesantemente i Greci e la vittoria degli Japigi-
Messapi sarebbe stato l’ultimo atto di una guerra unitaria terminata come
conclusione delle tensioni espansionistiche dei Tarantini, i quali vengono alla
fine sconfitti dagli indigeni coagulati «almeno in tale occasione dalle forze
epicorie su scala forse ‘nazionale’»30 e, a seguito di questa sconfitta, Taranto
passa da un governo monarchico a quello democratico. Nel V sec. a.C. le fonti
infatti non registrano altri scontri dei Messapi contro Taranto e ci parlano di
alleanze del re messapo Arta con gli ateniesi, la prima volta contro Taranto nella
guerra a favore di Turi, e la seconda volta nella spedizione ateniese della Sicilia
del 413 a. C, con 150 uomini31.
Senza la collaborazione degli altri gruppi illirici, quelli della Messapia
continuarono a combattere contro i Tarantini guidati da Archita nel 360 a. C, da
Archidamo nel 338 a.C., e da Alessandro il Molosso nel 326 a.C.
Alla fine del IV sec. a.C. i Messapi cominciano a difendersi dagli attacchi
romani: intorno agli anni 307-306 il console Volumnio «combatté con successo
molto battaglie e prese con la forza molte città messapiche»32, lasciandovi
guarnigioni romane nel territorio messapico almeno sino al 302 a.C. Durante le
guerre contro Taranto il console Ennio Barbula il 10 luglio del 280 celebra la

29
V. PISANI, Le Lingue dell’Italia antica oltre al latino, Torino, Rosenberg & Sellier, 1964,
pp.78-86.
30
M. LOMBARDO, I Messapi: aspetti della problematica storica, in “Atti del XXX Convegno di
Studi sulla Magna Grecia”, Napoli 1993, p. 95.
31
C. SANTORO, La latinizzazione della Regio II: il problema linguistico. In “La Puglia in età
repubblicana”, Atti del I Convegno di studi nella Puglia romana, Mesagne 1986, Galatina 1988,
pp. 127-166.
32
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 144.

26
p. Giovan Battista Mancarella

vittoria sui Tarantini, Sanniti e Salentini33; con l’aiuto di Pirro i Tarantini e i


loro alleati vincono a Eraclea e anche ad Ausculum nel 279 a.C.34
La completa capitolazione messapica dovette avvenire alcuni anni dopo, a
seguito d’una serie di campagne terminate negli anni 267-266 a C. quando i
Fasti Triumphales Capitolini ricordano, per esempio, il trionfo di Marco Attilio
e Lucio Libone del 25 gennaio 267 a.C., per la vittoria sui Salentini; quello di
Fabio Pittore del primo febbraio dello stesso anno per la vittoria sui Salentini e
sui Messapi35.
I Messapi, dopo la fondazione della colonia romana di Brindisi (244-240),
entrano a far parte dell’esercito romano: nel 225 a.C. sono alleati di Roma con
50.000 fanti e 7.000 cavalli e, ancora, per tutto il periodo delle lotte contro
Annibale (217-203): nella battaglia di Canne (216 a.C.), sotto il comando di
Cornelio Cetego, sono presenti «Calabri e le coorti dei Salentini»36. Dopo la
battaglia di Canne i Tarantini e i Metapontini si ribellarono a Roma e aderirono ad
Annibale37, mentre i Messapi restarono fedeli a Roma: Annibale, per vendetta,
saccheggiò alcune città messapiche e fece razzia di 4.000 cavalli (214 a.C.). Forse
a seguito di queste violenze dei Cartaginesi, alcune città messapiche passarono
dalla parte di Annibale, come riporta Livio ipsorum iterim Sallentinorum
ignobiles urbes ad eum defecerunt e i Romani, con Quinto Fabio, occuparono
Manduria e portarono via 3.000 prigionieri e un cospicuo bottino38.
Dalla partenza di Annibale dall’Italia (203 a.C.), stando al silenzio delle
fonti, i Salentini restano sottomessi ai Romani senza particolari sofferenze e
ribellioni sino all’inizio del 90 a.C. Lo spirito nazionale non era spento e,
quando scoppiò la Guerra Sociale, i Salentini si alleano con gli Irpini, i
Venosini, i Lucani e i Sanniti per liberarsi dal dominio romano. Alla fine della
guerra Carlo Metello sconfigge definitivamente i Messapi (89 a.C.), e da quel
momento «tutta l’Italia entrò a far parte dello Stato romano, tranne, per allora, i
Lucani e i Sanniti»39.
Dopo la Guerra Sociale, i Salentini, a seguito delle varie deportazioni,
privati dei loro campi e schiavi dei nuovi padroni, seguono il progressivo
processo di colonizzazione che ha comportato, dopo un iniziale spopolamento,

33
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 271.
34
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 145: Nella vittoria tarantina a Eraclea non sono
nominati i Salentini; in quella ad Ausculum sono invece nominati, Cfr. P. WUILLEUMIER,
Tarente..., cit., p. 117.
35
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 272.
36
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 242.
37
V. LA BUA, Il Salento e i Messapi di fronte al conflitto tra Annibale e Roma, in G. UGGERI (a
cura di), L’età annibalica e la Puglia (Atti del II Convegno di Studi sulla Puglia romana,
Mesagne 1988) pp. 43-69.
38
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 156, n. 264, n. 268.
39
LOMBARDO, I Messapi: aspetti..., cit., n. 264, n. 268.

27
Storia linguistica del Salento

una nuova ristrutturazione fondiaria, e la graduale integrazione alla lingua dei


Romani.
In un Salento spopolato arrivano i veterani romani che, con le loro squadre
di schiavi, destinati alla cultura dei vigneti, danno origine a tutta una nuova
serie di centri fondiari. In tutto il territorio brindisino si avviò un’economia
agricola «condotta da schiavi e liberti che, in un primo momento devono essersi
anche affiancati, nella conduzione dei fundi, ai legittimi proprietari, esponenti di
una classe più elevata»40.

2. Latinità regionale

2.1. G. Morosi e F. Ribezzo

Con la pubblicazione del saggio Il vocalismo del dialetto leccese Giuseppe


Morosi, segnava l’inizio, nel 1874, della descrizione scientifica dei dialetti
salentini. Anche se centrato a descrivere la parlata di Lecce, il contributo
rendeva regione delle affinità e delle diversità locali, le quali, pur nella
continuità territoriale di una comune unità amministrativa, distinguevano e
caratterizzavano le parlate più settentrionali (Taranto-Brindisi) e quelle più
meridionali (Capo di Leuca) nei confronti della parlata del capoluogo di Terra
d’Otranto. Le distinzioni fonetiche delle sezioni periferiche sono così indicate:
al tipo propriamente leccese si rifanno tutte le parlate del circondario di Lecce e
del circondario di Gallipoli perché presentano la stessa dittongazione leccese
per gli antichi continuatori delle vocali brevi Ĕ, Ŏ; al tipo fonetico calabro-
siciliano si rifanno tutte le parlate della regione del Capo da Maglie-Ruffano
sino ad Alessano-Gagliano perché ignorano la dittongazione di tipo leccese; alle
parlate del circondario di Brindisi si rifanno quelle che hanno la dittongazione
di tipo leccese, ma hanno anche mutamenti per e, o stretti condizionati dalle
vocali finali; al tipo apulo-barese si rifanno tutte le parlate settentrionali della
Terra d’Otranto, da Ceglie-Ostuni sino a Martina-Mottola perché palatalizzano
sempre A di sillaba libera (kepe, kantere) e rendono semimute tutte le vocali
atone.
Nel 1903 Salvatore Panarese con Fonetica del dialetto di Maglie completò
il quadro delle particolarità dei dialetti del Salento meridionale con riferimento
a quelli di Presicce, Montesano, Gagliano ecc. Contrariamente agli esiti del
sistema a 5 vocali di tipo ‘siciliano’, a Maglie si incontrano le forme paese,
mese, turnese, contro i plurali paisi, li misi, turnisi, la dulore/li duluri, ndoru
odoro; e con dittongazione di tipo leccese anche siéru, miéru, piéttu, mmiéssi,
tiémpu, kurtiéddu; in continuazione di o aperto non si trovano forme dittongate

40
C. MARANGIO, La romanizzazione dell’Ager Brundisinus, in “Ricerche e Studi”, 8, Brindisi
1975, p. 99.

28
p. Giovan Battista Mancarella

ma solo casi di -EOLO > *-IOLU > -ulu come lanzulu, falauru, pasulu, lattarulu,
kurisciulu, Vagnulu Bagnolo.
F. Ribezzo col suo contributo Il dialetto apulo-salentino di Francavilla
Fontana del 1912 offrì la descrizione di un dialetto dell’estrema zona
settentrionale e, dal confronto degli esiti del suo dialetto di Francavilla con
quelli più vicini, raccolse una serie di tratti per individuare il confine tra il tipo
dialettale salentino e quello pugliese.
I tratti dei vicini dialetti di Ceglie M., Ostuni, Martina si oppongono a quelli
di tutta la zona brindisina per: a) la dittongazione delle vocali di sillaba libera
kàipe capo, pàine pane (Ceglie), pàile pelo, féile filo, acéite aceto, sàuke sugo,
nipàute nipote, làune luna (Martina), kepe, pene (Taranto); b) le desinenze del
Perfetto indicativo: akkièbbe, trovai, nganiébbe salii (Ostuni), vidibbe, vidi,
sapibbe seppi (Taranto), contro i perfetti della zona brindisina kantài, seppi
ecc.; c) l’indebolimento di tutte le vocali atone, e soprattutto di -u finale: kàipe,
kepe a Ceglie, Ostuni, Martina e Taranto.
I particolari esiti di tipo pugliese vengono a coincidere, secondo l’Autore,
lungo la linea della Murgia «che partendo da Mottola e passando tra Ceglie e
Francavilla, degrada man mano verso Brindisi» e precisamente lungo quello che
è stato «il confine tra la Messapia e l’Apulia dell’antichità classica» (p. 1).
F. Ribezzo, per primo, ha cercato di proporre l’interpretazione storica della
distinzione fonetica dei dialetti salentini: per tutti i dialetti fa riferimento a un
sistema fonetico a 7 vocali di antica latinità ragionale con questa differenza che,
quelli del territorio settentrionale sono diventati di tipo metafonetico, ma non
specifica quando, e quelli invece del territorio centro-meridionali si sono risolti
a sole 5 vocali quando gli antichi e, o stretti si sono risolti in i, u come quelli di
tipo siculo-calabrese «Delle lontane concordanze del leccese-otrantino con
questi dialetti la ragione etnica e storica mi par quella da me accennata […] e
cioè il sostrato greco η > e > i , ω > ou > u» p. 3.

2.2. G. Rohlfs e H. Lausberg

Con i suoi contributi (1924-1976) G. Rohlfs ha sostenuto che le colonie


ellenofone del Salento sono la continuazione delle antiche popolazioni della
Magna Grecia che, per tutto il periodo romano, hanno parlato greco sino alla
conquista dei Normanni del secolo XI. Il massiccio elemento greco si spiega
bene «quando ammettiamo in questa Terra d’Otranto un intenso e lungo
ingranaggio linguistico tra Greci e Latini in un lungo ambiente bilingue ex
temporibus antiquis. Possiamo ritenere che questi Greci del Salento rimontano,

29
Storia linguistica del Salento

più o meno alle popolazioni della Magna Grecia»41. A sostegno di un’antica


ellenizzazione del Salento riporta le testimonianze degli storici, E. Ciaceri e A.
Momigliano42 che, a nostro parere riguardano un influsso culturale e non
politico e sociale di Taranto sui Messapi. Roma secondo l’Autore «non si sforzò
di reprimere l’ellenismo nell’antica Magna Grecia che, politicamente distrutta
da Roma […] si continuò etnicamente nei suoi ultimi rifugi nell’estremo
Mezzogiorno d’Italia, cioè nelle montagne dell’Aspromonte in Calabria e nella
Puglia meridionale» (Ivi).
Date queste premesse, il dialetto salentino non può che avere origini solo
medievali. Nella traduzione italiana della Grammatica (1966-69), in parte
modificando quanto aveva scritto nell’edizione tedesca, ha affermato che
l’aspetto del dialetto salentino è solo apparentemente arcaico perché «non
rispecchia affatto uno stadio antico di romanità, benché deve essere considerato
come il risultato di una neoromanizzazione posteriore, che in sostanza si insediò
nell’Italia meridionale soltanto dopo l’espulsione degli Arabi da parte dei
Normanni e dopo il crollo della potenza bizantina. Soltanto a datare da
quell’epoca […] le popolazioni greche o arabizzate, furono conquistati alla
romanità». Tale aspetto molto arcaico sarebbe derivato da una «lingua italiana
che non proveniva tanto da una determinata regione italiana, quanto piuttosto
corrispondeva ad una specie di koiné43 italiana amministrativa e letteraria».
La reazione alle teorie di G. Rohlfs divise gli studiosi in tre ambiti di
ricerca: alcuni difesero l’origine medievale della comunità ellenofone; altri
difesero l’antica romanizzazione del Salento; altri, più accanitamente,
sostennero l’inesistenza di una lingua italiana preletteraria.
Alla critica di C. Battisti e ad altri che avevano riaffermato l’origine
medievale delle colonie ellenofone del Salento, come risultato della
dominazione bizantina con l’uso del greco nell’amministrazione e nella liturgia,
G. Rohlfs rispose soprattutto con la Historische Grammatik der
unteritalienischen Gräzität (1950) e poi anche con la traduzione italiana
Grammatica storica dei dialetti italo-greci (1977), in cui dimostra che il
dialetto greco del Salento è autoctono, indipendente dal neogreco e diverso dai
dialetti arcaici di alcune isole greche: quello delle comunità ellenofone
continua, sostiene l’Autore, l’antico dialetto magnogreco di Taranto.
Nei confronti degli italianisti si limita solo a eliminare nella traduzione
italiana l’esistenza della koiné al tempo di Federico Barbarossa.

41
G. ROHLFS, Fra Latini e Greci nel Salento, in C. SANTORO, C. MARANGIO (a cura di), “Studi in
onore di Francesco Ribezzo”, Mesagne, Museo Civico Archeologico “Ugo Granafei”, 1978, pp.
211-212.
42
ROHLFS, Fra Latini e Greci..., cit., pp. 216-217.
43
ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966, p.
100 (abbreviata GSLI).

30
p. Giovan Battista Mancarella

Alla critica degli storici e alle testimonianze epigrafiche e archeologiche, si


oppone dimostrando che il greco salentino continua il dialetto magno greco di
Taranto, e che nell’Italia meridionale, territorio di antica ellenizzazione, non c’è
traccia dell’antico sistema fonetico latino a 7 vocali, comune ai dialetti
dell’Italia settentrionale e a tutto il resto il territorio romanzo. Molti dialetti
dell’Italia centro-meridionale, secondo i due studiosi, G. Rohlfs e H. Lausberg,
presentano diversi sistemi fonetici, tutti a 5 vocali.
Dalle ricerche condotte da H. Lausberg (1933) risulterebbe che i dialetti
meridionali continuano esiti fonologici non di antica origine romana. Da tener
presente che lo Studioso ha fondato le sue classificazioni dialettali sulla base
delle sole forme con finale non metafonetica, e ha ritenuto rappresentative
alcune forme estratte da un complesso panorama di varietà in continuazione di
vocali etimologicamente uguali. Ci limitiamo a segnalare solo i due diversi
sistemi fonologici a cinque vocali del dialetto pugliese e salentino, come sono
riportati nella GSLI.
Sistema D, presente nel Salento meridionale, derivato dalle seguenti
confluenze: Ī Ĭ Ē > i, SPĪCA, NĬVE, CATĒNA > spica, nive, katina; Ō Ŭ Ū > u:
VŌCE, NŬCE, ŪVA > vuce, nuce, uva; Ĕ A Ŏ > e, a, o [= i, e, a, o, u];
Sistema E, presente in territorio pugliese e anche brindisino, derivato da
altre confluenze: Ĭ Ē Ĕ > e: NĬVE, CATĒNA, PĔDE > neve, katena, pede; Ŏ Ō Ū >
o: CŎRE, SŌLE, NŬCE > kore, sole, noce; Ī A Ū > i, a, u [= i, e, a, o, u].
In tutto il Salento s’incontrano esiti sempre costanti e senza varietà di esiti:
tratto fondamentale della loro distinzione nei confronti dei dialetti meridionali e
pugliesi. Secondo gli esiti del Sistema E i dialetti brindisini sarebbero di tipo
“meridionale”, comune a tutto un territorio esteso sino a Salerno, e quindi
diversi dai dialetti leccesi-otrantini. La distinzione tra dialetti pugliesi e salentini
invece, secondo il Profilo di G. Bertoni, è dato dalla presenza della vocale atona
finale del pugliese, contro la finale bene articolata dei salentini, mentre il tipo
brindisino a sistema metafonetico si distingue da quello leccese-otrantino non
metafonetico44.
La Carta di G.B. Pellegrini segna la vocale finale indistinta lungo la Via
Appia, con l’isoglossa n. 25, la confusione di e, i finali con l’isoglossa n. 26 e il
territorio a sistema metafonetico con l’isoglossa n. 27 lungo il confine che dalla
costa brindisina raggiunge quella jonica dopo Avetrana (v. Carta 1).
V. Pisani nel 1956 ha dimostrato che tutti i sistemi a 5 vocali indicati da G.
Rohlfs e H. Lausberg, sono il risultato del nuovo ordinamento dell’antico
sistema comune a 7 vocali (si veda in seguito).

44
G. BERTONI, Profilo linguistico dell’Italia, Modena, Società tip. modenese, 1940, pp. 59-60.

31
Storia linguistica del Salento

2.3. G. Devoto e E. De Felice

Il sistema vocalico del latino classico, che era fondato, secondo G. Devoto
«sul doppio criterio delle differenze di quantità e di qualità», si è risolto nel
nuovo sistema volgare fondato «unicamente su differenze di qualità» e più
precisamente «le vecchie distinzioni quantitative, in parte sono andate perdute,
in parte sono state qualitativamente nuove, a questo scopo espressamente
introdotte». Il nuovo sistema a 7 vocali con due e e due o «non valido
uniformemente per tutto il mondo romanzo, peccando per eccesso nelle aree
conservative, e per difetto in quelle innovative»45.
Anche se partito dall’ambiente osco-umbro, il sistema a 7 vocali è il
risultato di un processo avvenuto per tappe successive, ed è stato preceduto da
una primo sistema arcaico a 5 vocali con la confluenza delle coppie parallele
quantitativamente diverse (Ī Ĭ > i, Ē Ĕ > e ecc.) rimasto in alcuni punti della
Sardegna.
Un successivo un sistema a 7 vocali con Ĭ Ē > i (oppure in e), Ŭ Ō > u
(oppure in o) si è risolto a 5 vocali quando i (e) e u (o) si sono confusi con i (< Ī)
e u (< Ū). La confluenza delle tre vocali estreme, secondo G. Devoto, può essere
avvenuta anche in due tempi: RĪPA > i, distinto da PĬLUM, ACĒTUM > i (oppure
e); in un secondo momento, per una esagerazione della tendenza
all’aggruppamento, queste due serie siano state assorbite in quella di RIPA46.
«Questo sistema è stato introdotto per via mare in Sicilia, mentre per via
terra, lungo l’itinerario della Via Appia, ha raggiunto il Salento […] e quindi si
è conservato fino ai giorni nostri, sia pure semplificandosi: attraverso
l’assorbimento della e chiusa in i e della o chiusa in u»47.
Il mutamento del vocalismo latino si completa quando, con la distinzione di
Ī Ĭ e Ū Ŭ si fissa un sistema a 9 vocali risolto a 7 vocali quando i e > i e o u > u e,
come sistema del latino volgare, viene trasportato tanto nell’Italia settentrionale,
che in quella meridionale sino alla Via Appia, prima della riforma di
Diocleziano.
Lo stesso Autore aggiunge due note sui dialetti salentini.
Il dialetto del Salento meridionale a 5 vocali non può essere messo a
confronto con fatti analoghi del mondo greco o bizantino. «Fra lo svolgimento
generico del greco e quello latino in Sicilia non sembra perciò stabilire, per
quanto riguarda il vocalismo nessun contatto» perché lo schema dei dialetti

45
G. DEVOTO, Il sistema protoromanzo delle vocali (1930), Scritti Minori, vol. I, Firenze, Le
Monnier, 1966, p. 328.
46
DEVOTO, Il sistema protoromanzo..., cit., p. 334.
47
DEVOTO, L’Italia dialettale, in “Atti V Convegno Studi Umbri”, Gubbio-Perugia 1968, p. 99;
Scritti Minori, Firenze, Le Monnier, 1972, p. 45.

32
p. Giovan Battista Mancarella

meridionali appare sotto due forme, a seconda è condizionato o no da


metafonia48.
Nel sistema meridionale non può essere avvenuto lo stesso raggruppamento
di e stretto con i (e di o stretto con u) come nel sistema del tipo “siciliano”,
perché non è possibile dimostrare che le forme metafonetiche siano più antiche
di quelle non metafonetiche. Quest’apparente coincidenza col sistema siciliano
è dovuta al sostrato osco-umbro che nell’Italia meridionale, in certe condizioni
era arrivato a confondere Ē lungo con Ī lungo, e Ō lungo con Ū lungo, per cui la
spinta al mutamento vocalico «nel latino centro-meridionale ha ricevuto un
secondo impulso, che ha condotto a un ulteriore fatto di raggruppamento e che
quindi viene sol per caso a coincidere parzialmente coi fatti siciliani»49.

2.4. V. Pisani e O. Parlangèli

Il mutamento del sistema vocalico latino, da quantitativo a qualitativo,


secondo V. Pisani «va senza scorto nell’osco in cui E O [sono] diventati i largo e
rispettivamente u», tendenza passata anche alle altre popolazioni del gruppo
osco-umbro, con questa differenza che, mentre nell’Italia meridionale la
chiusura è avvenuta sino a i, u, nel resto del territorio latino si è arrestata sino a
e, o stretti, «in altri termini mentre l’Italia meridionale ha seguito l’evoluzione
greca, la rimanente Romània ne ha subito l’influsso, ma ha raggiunto dei
risultati più indipendenti»50.
La distinzione tra sistema a 7 vocali e quello a 5 vocali, con la confluenza di
i, u larghi in i, u, – secondo questa prima interpretazione – sarebbe stata d’epoca
antica, perché quello a 5 vocali si sarebbe prodotto «presso quegli Oschi che coi
Greci dell’Italia meridionale vivevano in giornaliero contatto» p.176.
Nel Salento il sistema di origine osca avrebbe seguito completamente
l’evoluzione greca perché territorio di bilinguismo greco, ma non
completamente ellenizzato, come sostenuto da G. Rohlfs, perché il mutamento
qualitativo era stato esteso anche in Calabria e Sicilia in cui il latino non era
stato del tutto eliminato e si era rifugiato specialmente presso le classi più
evolute. Anche in quei territori il nuovo sistema fonetico si è risolto a sole 5
vocali perché «hanno accettato l’antico passaggio di e, o in i, u» come il sistema
greco, ma hanno rifiutato altri mutamenti del greco più recenti51.

48
DEVOTO, Il sistema protoromanzo..., cit., p. 335.
49
DEVOTO, Il sistema protoromanzo..., cit., p. 336.
50
V. PISANI, Geolinguistica e indeuropeo, Roma, Reale Accademia dei Lincei (Serie VI, vol. IX,
fasc. III), 1940, pp. 176-178; ID., Il sostrato osco-ombro, in “Atti del Convegno di Studi Umbri”
Gubbio 1967, Perugia 1970, pp. 159-163. P. G.B. MANCARELLA, Schede di storia linguistica
salentina, in “Studi Linguistici Salentini”, 20, 1993-1994, pp. 43-155, pp. 135-138.
51
PISANI, Geolinguistica..., cit., p. 180; Il sostrato osco-umbro, cit., p. 163.

33
Storia linguistica del Salento

Il mutamento di η in ι e di υ in ου è avvenuto alla fine del V secolo a.C., e


V. Pisani ricorda che nello stesso periodo i grammatici latini cominciano a
parlare di una differenza di timbro per Ī Ĭ (V sec. a.C.), per Ē Ĕ (IV sec.), mentre
la più antica testimonianza per la distinzione Ō Ŏ è quella di Terenziano Mauro
del 250 a.C. Dopo questa data il nuovo sistema qualitativo a 7 vocali è stato
trasportato in tutte le regioni italiane con due e, o chiusi e aperti. In seguito lo
stesso Studioso modificherà l’interpretazione non più greca del sistema a 5
vocali di tipo “siciliano”.
Un contributo importante, a sostegno del comune sistema a 7 vocali
d’origine osca, è stato quello di O. Parlangèli il quale, prima di stampare la sua
tesi di laurea, sostenuta col prof. Pisani, pubblicò la ricerca sul dialetto di
Loreto Aprutino nel 195252.
A Loreto l’antico sistema comune a 7 vocali risulta così conservato: i largo
risolto in ö (vocale turbata o mista, di solito trascritta ö, p. 118): kannöle
candela, pöre pero, kapölle capello, frödde freddo (pp. 117-118), diversamente
dai continuatori di Ī > i: live ulivo, spike spiga, fritte fritto, grille grillo; u largo
si è risolto sempre in u: kute coda, kruce croce, cipulle cipolla, plummu piombo
(p. 122), diversamente dai continuatori di u che si palatalizzano: füme fumo,
vittüre vettura, frütte frutto, sürde sordo (p. 124).
Le due particolarità del sistema di Loreto: distinzione di i da i e, e di u da u
o; soluzione di i largo in ö, e di u largo risolto sempre in u nel nuovo sistema a 7
vocali: i, ö, e, a, u, ü (p. 145).
Questi, e anche altri esiti diversi per uguali vocali etimologiche, fanno
supporre che i timbri di i, u larghi non si erano fissati, in epoca romana, in e, o
stretti nell’Italia settentrionale, né chiusi in i, u per influsso dei Greci dell’Italia
meridionale: quei due timbri dovevano essere rimasti oscillanti secondo una
variabilità fonologica sino all’arrivo della metafonia «Sembra che sia lecito
pensare che in tutta l’area meridionale i suoni vocalici nei quali confluirono gli I
e gli E e rispettivamente gli U e gli O non furono dappertutto gli stessi, ma a Sud
[…] tendevano verso i, u (tanto che si confusero cogli I U); più a Nord invece
tendevano verso e, o e rimasero (o si stabilizzarono dati -A, -E, -O), ma
divennero i, u dati -I, -U» (p. 75).
Nell’Italia centro-meridionale, con l’arrivo della metafonia, gli antichi i, u
larghi si sono stabilizzati in e, o stretti (dati -A, -E, -O), oppure in i, u (dati -I, -
U), mentre nell’estremità della penisola, dove non era arrivata la metafonia, gli
stessi i, u larghi finirono per avvicinarsi ad I, U, coi quali finirono per
confondersi. La distinzione tra dialetti metafonetici e non metafonetici «Corre
lungo una linea che si può, spesso con estrema precisione, identificare con il
massimo raggiunto dell’occupazione longobarda nel secolo VIII. Ora io penso

52
O. PARLANGÈLI, Il dialetto di Loreto Aprutino, Milano, Hoepli, 1952; rist. Scritti di
Dialettologia, Galatina, Congedo, 1972, pp. 41-104 ecc., p. 158.

34
p. Giovan Battista Mancarella

che il confine linguistico debba essere stato determinato dalla netta divisione fra
territori longobardi, quindi aperti ad ogni eventuale penetrazione innovativa
proveniente dal Nord, e territori bizantini per necessità chiusi a difesa e ostili ad
ogni penetrazione settentrionale (ivi).
V. Pisani ritenne storicamente valido il principio della variabilità fonologica
e, non solo abbandonò la sua teoria dell’origine greca del sistema a 5 vocali di
tipo “siciliano”, ma nella recensione alla Grammatik di G. Rohlfs mise in
discussione i 5 sistemi fonologici, ritenuti origine dei diversi dialetti
meridionali.
Il sistema di tipo “siciliano” del Salento meridionale (Sistema D) e quello
del Salento settentrionale (Sistema E) rappresentano un ulteriore sviluppo del
sistema a 7 vocali, che è stato comune a tutta la penisola, perché «esso consiste
nella diffusione al latino del sistema vocalico Osco»53. Nel caso dei due sistemi
D, E si tratta di una riduzione del comune sistema tripartito (i, é, è, a, ò, o, u)
nei nuovi sistemi bipartiti (i, è, a, ò, u) p. 61. Una riduzione a sistemi tripartiti
diversi nei due territori del Salento, sulla testimonianza dei soli esiti fonologici,
non rinviano a una diversa origine etimologica: il sistema di Lecce-Otranto (D)
ha fatto sempre confluire Ī Ĭ Ē in i, e Ō Ŭ Ū in u, mentre quello di Brindisi ha
distinto Ī da Ĭ Ē e Ū da Ŭ Ō; con l’arrivo della metafonia i continuatori di Ĭ Ē, Ŭ Ō
si sono chiusi in i, u, e i continuatori di Ĕ Ŏ, rimasti sempre distinti da Ĭ Ē, Ŭ Ō, si
sono dittongati in ié, ué.

3. Proposte e soluzione

3.1. Sistema comune e dialetti meridionali

G. Rohlfs-H. Lausberg (2.2.) e G. Devoto-E. De Felice (2.3.) hanno


sostenuto che nel Salento, e anche in una parte del territorio della Lucania, non
è stato trasportato il sistema d’origine osca a 7 vocali del latino volgare.
Nel Salento, secondo questi due Studiosi, territorio d’antica ellenizzazione,
l’attuale sistema dei dialetti più meridionali continua quello greco a 5 vocali, di
origine megaloellenica, e più propriamente di Taranto, rimasto anche nella
Lucania centrale, ma rivitalizzato, in epoca medievale, dai Bizantini. Dal punto
di vista linguistico ritengono di trovare conferma dagli esiti dei dialetti attuali
della Lucania, scelti dalle forme non metafonetiche.
Tale interpretazione non regge dal punto di vista storico: nessuna fonte ha
mai documentato un’antica ellenizzazione del Salento, né una completa
bizantinizzazione dell’antico TEMA DI LUCANIA; non regge neppure dal punto di
vista linguistico: nel Salento settentrionale oggi c’è un sistema di tipo

53
V. PISANI, Recensione a “G. ROHLFS, Grammatik der italienischen Sprache und ihrer
Mundarten”, Paideia, VI, n.1, 1951, pp. 57-66.

35
Storia linguistica del Salento

‘napoletano’, mentre in quello meridionale c’è un sistema di tipo ‘siciliano’ e,


tutti e due, rinviano a un più antico sistema comune a tutto il territorio salentino.
Per la Lucania i due Studiosi hanno fondato la loro classificazione con la scelta
delle sole forme non metafonetiche ed escluso quelle metafonetiche, contro ogni
principio della linguistica romanza.
Anche per G. Devoto-E. De Felice il sistema a 7 vocali del latino volgare
non sarebbe arrivato nel Salento e in due punti del territorio calabro-lucano: a
Sud della linea Taranto-Brindisi un sistema intermedio, a 7 vocali e risolto a 5,
dopo essere stato trasportato in Sicilia a Calabria, è approdato nel Salento,
mentre altri due sistemi intermedi si sarebbero affermati nel territorio lucano, a
Tursi di tipo ‘sardo’, e a Castelmezzano di tipo ‘balcanico’.
La proposta di questi due sistemi presenti a Tursi e a Castelmezzano,
sostenuta da Rohlfs-Lausberg, e ritenuta valida anche da Devoto-De Felice,
risulta, come già visto più sopra, storicamente e linguisticamente non più
sostenibile. Allo stesso modo non è sostenibile l’approdo di un sistema
intermedio a 7 vocali, risolto a 5, nel Salento prima del III sec. a.C. Il Salento
non può essere stato latinizzato prima del territorio apulo-tarantino: nel Salento
settentrionale esiste lo stesso sistema metafonetico a 5/7 vocali simile a quello
dei dialetti apulo-campani, mentre nel territorio del Salento meridionale si trova
il sistema a sole 5 vocali non metafonetico, in corrispondenza di una
romanizzazione iniziata con la fondazione della colonia romana di Brindisi (244
a.C.) e poi di Lecce (210 a.C.). Tale distinzione linguistica si è prodotta solo in
epoca medievale, quando il comune sistema a 7 vocali del latino volgare, non ha
potuto raggiungere il territorio meridionale: la zona di Lecce, con parziali esiti
metafonetici, viene a confermare la sua posizione di stacco tra una zona
innovativa e un’altra zona conservativa.
Con la proposta Pisani-Parlangèli siamo portati a credere che, anche in tutto
il territorio meridionale, sia arrivato il comune sistema a 7 vocali d’origine osca,
e che l’ondata medievale, partita dal Nord, ha mutato i, u larghi in e, o nelle
forme con finale di prime condizioni, mentre li ha mutati in i, u, nelle forme con
finale di seconde condizioni; nei territori in cui i, u larghi non sono stati
raggiunti dell’innovazione, si sono avvicinati sempre di più ai normali i, u coi i
quali si sono alla fine confusi. Questa proposta, a mio parere, ci suggerisce
anche: la latinizzazione nel territorio meridionale, non sempre coeva in tutti i
suoi punti, sia stata recepita secondo particolari abitudini locali e che,
soprattutto, ha salvaguardato la comune identità di un’antica regione a unità
sannita.
Identità ancora riconoscibile nei dialetti della Lucania centrale, dai
molteplici esiti fonetici in continuazione di vocali etimologicamente uguali in
un territorio a contrasto con dialetti di un territorio vicino a sistema compatto di
tipo ‘napoletano’, e da dialetti di un altro territorio non molto lontano a sistema
di tipo ‘siciliano.

36
p. Giovan Battista Mancarella

Per i dialetti dell’antico territorio della diocesi di Anglona-Tursi sono stati


proposti alcuni sistemi a 5 vocali, arrivati in quel territorio senza una
documentata ragione storica per spiegare l’attuale complessità di esiti nello
stesso punto linguistico. Il territorio del Tema di Lucania, di cui Tursi era
capitale, ha dovuto sostenere l’afflusso di funzionari e parlanti di classi sociali
diverse e soprattutto quando, con la partenza dei Bizantini, dovette accogliere i
profughi di vicini e lontani villaggi distrutti dagli Arabi, alcuni dei quali rimasti
in un proprio quartiere di Tursi. Il prestigio sociale e culturale di Tursi aumentò
quando, distrutta Anglona, divenne sede vescovile.
La complessità di esiti diversi nel territorio di Tursi non può essere
attribuita a un ipotetico sistema latino diverso da quello ‘italico’ presente in
tutto un comune territorio centro-meridionale: è solo il risultato, a nostro parere,
dell’incontro di parlanti arrivati nel nuovo territorio da punti diversi, nei quali
una debole innovazione aveva, solo in parte, modificato l’antico sistema a 7
vocali con esiti si tipo ‘napoletano’, accanto a residue forme risolte con esiti di
tipo ‘siciliano’.
V. Pisani ha sostenuto che anche i diversi sistemi a 5 vocali, come proposti
da G. Rohlfs e H. Lausberg per il territorio meridionale, sono continuatori del
sistema del latino volgare (o ‘italico’), diversamente risolti nei punti in cui
l’innovazione metafonetica, arrivata con scarsa energia, ha fissato esiti parziali,
analogici e difformi per uguali vocali etimologiche.

3.2. G. Falcone e C. Santoro

Con la pubblicazione del suo contributo sulla Bovesìa54, Giuseppe Falcone


entrò come lo studioso più documentato nel dibattito storico delle colonie
ellenofone presenti nell’Italia meridionale, e con la sua documentazione, frutto
di ricerche nelle comunità romaiche della Calabria, avallava la loro origine
bizantina, già affermata da G. Morosi.
Una diretta continuità megaloellenica delle colonie ellenofone, secondo
G. Falcone, è esclusa dalle fonti storiche, e gli attuali dialetti romaici della
Calabria non sono lo sviluppo autonomo del greco delle antiche città della
Magna Grecia, mentre i dialetti romanzi dello stesso territorio continuano un
comune latino regionale. Con le sue ricerche egli è arrivato a dimostrare che il
greco calabrese è, almeno per molti aspetti, simile a quello di altri dialetti
arcaici della Grecia e non autonomo: «se in Calabria il greco avesse avuto
un’evoluzione autonoma in senso moderno, avremmo avuto un bovese, a
sostrato dorico affine allo zaconico e a dialetti del genere, invece c’è differenza
tra lo zaconico e il bovese che è di tipo meridionale molto simile ai dialetti di

54
G. FALCONE, Il dialetto romaico della Bovesìa, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere,
1973, 428 pp.

37
Storia linguistica del Salento

Cos, Rodi e Chio; il bovese non può essere l’esito di una evoluzione autonoma
del greco magaloellenico, ma une mélange di lingua comune e di dialetti
importati sulle pendici dell’Aspromonte in epoca bizantina»55.
Il processo di romanizzazione del BRUTTIUM risulta “congruamente”
documentato sotto un triplice profilo archeologico, epigrafico e storico-
istituzionale, analizzato e descritto in diversi contributi, e linguistico in cui ha
raccolto tutti i relitti di onomastica, con una particolare sezione riservata agli
apporti lessicali tardo-latini.
L’attuale distinzione dialettale è il risultato della divisione territoriale
quando, con l’avanzata dei Longobardi di Benevento, i Bizantini cedettero una
parte del loro Catepanato di Calabria, nel quale penetrarono, almeno in parte,
tanto la metafonia delle vocali e, o stretti, che quella delle vocali e, o aperti: nel
territorio rimasto possesso dei Bizantini, le vocali strette si confusero con i, u
nel sistema a 5 vocali di tipo “siciliano”.
Nel 1983, Ciro Santoro, col suo contributo sulle Iscrizioni messapiche56,
sostenne che, con la conquista del Salento, i Romani avevano trovato il popolo
messapico autonomo e politicamente indipendente dai Greci di Taranto, come
confermavano appunto le numerose iscrizioni raccolte da F. Ribezzo e
O. Parlangèli, alle quali egli ne aveva aggiunte altre 140, scoperte dopo il 1969.
Secondo G. Rohlfs queste testimonianze epigrafiche non escludono che il
Messapi abbiano usato un bilinguismo messapico-greco: «Per ogni attività
commerciale e per qualsiasi rapporto culturale e politico […] avevano bisogno
di una seconda lingua che potesse servire da veicolo internazionale. Per i
Messapi, prima della dominazione romana questa seconda lingua non poteva
essere altra che la lingua greca di Taranto, Jdronto, Callipoli»57.
Attraverso le fonti storiche C. Santoro ricorda i diversi episodi di scontro tra
Messapi e Taranto a partire dal V sec. a.C. quando i Tarantini distrussero la città
messapica di Kàrbina, e le successive vittorie dei Messapi; importante la figura
del re messapico Arta alleato degli Ateniesi per combattere anche contro
Taranto; altri scontri con Archita e condottieri greci come Archidamo,
Alessandro il Molosso in aiuto dei Tarantini, mai penetrati nel territorio del
Salento. Tutti questi episodi dimostrano come i Messapi si siano sempre opposti
al tentativo di un dominio greco; a livello culturale c’è sicuramente l’influsso
greco testimoniato anche dall’uso dell’alfabeto tarantino usato dai Messapi per
le loro epigrafi, ma non della lingua greca: «L’inizio del processo di
latinizzazione linguistica della Penisola Salentina va posto come terminus post
quem nel 244, anno della deduzione della colonia di diritto romano a

55
FALCONE, Il dialetto romaico..., cit.
56
C. SANTORO, Nuovi Studi Messapici, Galatina, Congedo, 1983.
57
G. ROHLFS, Grammatica storica dei dialetti italo-greci (Calabria, Salento), Monaco, Beck,
1950 (trad. del manoscritto tedesco di S. Sicuro, Galatina, Congedo, 1977, nuova ed. 2001), p.
211.

38
p. Giovan Battista Mancarella

Brindisi»58, processo terminato con la Guerra Sociale, quando a partire del I sec.
d.C., non ci sono più epigrafi messapiche ma solo latine.

3.3. Ellenisti e bizantinisti

Con la pubblicazione della Grammatica storica dei dialetti italo-greci59


G. Rohlfs rispose con il risultato del sistema linguistico delle comunità
ellenofone il quale, nella fonetica, morfologia e lessico, secondo lo stesso
Studioso, risulta autonomo nei confronti del neogreco e dei dialetti moderni
della Grecia, perché continua il greco antico di Taranto a testimonianza di
un’antica ellenizzazione di tutto il territorio salentino. Questo suo contributo, a
parte consensi e riserve, non affronta, secondo diversi studiosi, il problema
fondamentale della romanizzazione del Salento e dei suoi dialetti, per cui la
teoria di un’antica ellenizzazione crolla completamente senza una
documentazione storica.
Un suo discepolo ritiene conclusa la lunga questione dell’antica origine
della grecità meridionale perché «gli ultimi contributi di Rohlfs rendono ormai
difficile il tentativo di sostenere l’ipotesi di un’origine bizantina »60 e come
conferma ripropone i 5 sistemi indicati nella GSLI in questo modo: il sistema E
(Salento settentrionale) è diverso di quello D (Salento meridionale) e possono
essere spiegati con «visione fonologica storica dei sistemi nella storia» di
Lausberg: col principio della “fusione di apertura” in Puglia I U brevi sono
diventati e, o stretti; e col principio “della fusione di chiusura” E O lunghi sono
diventati i, u. La distinzione tra i due sistemi è antica perché «è probabile che il
sistema napoletano (a quattro gradi) riposasse sul sostrato umbro e quello
siciliano (a tre gradi) sul sostrato greco, come ipotizzato da Lausberg»61.
F. Fanciullo ritiene che il sistema a 5 vocali di tipo “siciliano” risulti «da
una semplificazione per ipodifferenziazione fonologica in un contesto bilingue
di quello romanzo comune (a 7 vocali: i, ẹ, ę, a, ǫ, ọ, u), semplificazione
innescata dal vocalismo tonico del greco bizantino, in sostanza non diverso da
quello neogreco, nel quale si hanno solo cinque vocali / i e a o u /. Ma il
vocalismo ‘siciliano occupa un’area [...] ben più vasta di quella per la quale è
documentabile una consistente grecofonia medievale, sicché, accettando
l’ipotesi dell’influsso greco a questo tipo di vocalismo, s’accetta di conseguenza
che l’apporto del greco nel romanzo italiano meridionale sia stato non
esclusivamente “passivo” […] ma anche, quanto meno in un certo periodo

58
C. SANTORO, La latinizzazione della Regio II: il problema linguistico, in “Atti del I Convegno
di Studi nella Puglia romana”, Mesagne 1986, Testi e Monumenti, VI, 1988, pp. 127-166.
59
ROHLFS, Grammatica storica dei dialetti italo-greci..., cit., p. 213.
60
TH. STEHL, Apulien und Salento, in G. HOLTUS et alii (a cura di), Lexicon der Romanistischen
Linguistik, V, Tübingen, Niemeyer, 1988, p. 698.
61
STEHL, Apulien und Salento..., cit., p. 704.

39
Storia linguistica del Salento

“attivo”, ossia abbia effettivamente, condizionato, costituendone il punto di


riferimento, una parte del romanzo italiano»62.
Da sempre sostenitore d’una origine bizantina del sistema a 5 vocali del
Salento meridionale, T. Franceschi, in una recente presentazione ha scritto:
«Questa punta meridionale della penisola salentina concorda col resto della
provincia di Lecce nel tipo di vocalismo che suol definirsi siciliano e che io
attribuendolo all’influsso del greco medievale su questo possesso di Bisanzio,
preferisco denominarlo bisantino – con riduzione delle vocali medio-alte alle
rispettive i, u che restan così separate dalle sole vocali medio-alte, ossia dalle e,
o aperte del sistema neolatino dell’inizio della nostra era e che son rimaste
nell’italiano»63.

Appendice

Comunità ellenofone

Le comunità ellenofone, presenti nel territorio otrantino, sono il resto della


presenza del massiccio dominio bizantino che ha lasciato «tracce significative
anche nella lingua della popolazione salentina di età moderna»64: un dominio
politico dei Greci mai imposto in epoca preromana, quando i Messapi hanno
sempre lottato per l’indipendenza del proprio territorio sino a quando sconfitti
dai Romani, rimasti come schiavi, sono stati latinizzati e integrati nel popolo
conquistatore.
Nessuna fonte storica ha finora documentato un’antica ellenizzazione del
Salento, così come non è stato ancora documentato un Salento medievale
latinizzato dai soldati dell’esercito normanno65.
In epoca pre-normanna esistevano comunità con soli latini o con soli greci,
e anche comunità miste. Dopo il secolo XI, i centri abitati non dovevano essere
molto diversi da come appaiono nella Relazione dell’Abate Epifani del 1412, e
dalle relazioni di Brancaccio (1577), con casali e terre di soli greci come
Galatone, Casarano piccolo, Alliste, Neviano, e casali latini come Copertino,
Parabita, Matino, Melissano; con greci e latini insieme si trovava Casarano
grande. Dalle relazioni di Brancaccio troviamo «castelli dove si parla greco

62
F. FANCIULLO, Latino e greco nel Salento, in B. VETERE (a cura di), Storia di Lecce. Dai
Bizantini agli Aragonesi, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 472-473.
63
T. FRANCESCHI, Presentazione a “M. GRIMALDI, Nuove ricerche sul vocalismo tonico del
Salento meridionale. Analisi acustica e trattamento fonologico dei dati”, Alessandria, Dell’Orso,
2003, p. IX.
64
LOMBARDO, Tra mito e storia..., cit., p. 21.
65
C.D. POSO, Il Salento Normanno. Territorio, istituzioni, società, Galatina, Congedo, 1988. Per
la politica normanna a favore della Chiesa latina e greca da parte di Roberto il Guiscardo, v. pp.
89-102.

40
p. Giovan Battista Mancarella

solamente: Soleto, Sternatia, Strudà, Neviano, Zollino; castelli dove si parla


greco e latino: Galatina, Aradeo, Noha, Martano, Castrignano, Melpignano,
Carpignano, Cursi, Bagnolo; castelli dove si parla latino solamente e ci sono
preti greci e latini: Alessano e altri venti centri come Maglie, Abbazia di Casale
e Galatone»66.
Per tutto il periodo che va dal decreto del Patriarca Niceforo Foca (968) che
aveva comandato all’Arcivescovo di Otranto di non permettere «in omni Apulia
et Calabria latine non amplius sed grece divina ministeria celebrare»67 sino
alla fine del XVI secolo68, la comunità latina ha dovuto partecipare alla liturgia
greca. Anche se privata della liturgia latina, la comunità locale ha continuato il
suo volgare nella comunicazione sociale, non solo nell’ambito familiare, ma
anche con gli stessi alloglotti presenti, specialmente nelle comunità miste: oggi
il dialetto di tutto il territorio meridionale (Otranto-Castro-Ugento) è quello di
tipo arcaico a 5 vocali come si era fissato alla fine del secolo VIII.
Il dialetto salentino, parlato anche durante il periodo bizantino, è
documentato da alcuni frammenti di testi dialettali trascritti con grafia greca,
come la Formula di confessione69, la Predica salentina (circa 1350)70, i Capitoli
di Bagnolo nella doppia stesura con grafia greca e grafia latina71. Questi testi, a
nostro avviso, ci assicurano che i parlanti di una classe più elevata, in forza di
una loro tradizione colta del greco nell’amministrazione e nella liturgia, abbiano
usato il loro dialetto romanzo nei rapporti familiari e la grafia greca per
trascrivere anche testi in volgare salentino.
Dal sec. XV le diverse comunità miste, con greci e latini, unitariamente
hanno avviato la nuova organizzazione sociale con lingua, liturgia, e cultura
latina in forza di un’antica e completa romanizzazione con tracce, in tutte e due
i sistemi, del recente dualismo greco-latino.

66
O. PARLANGÈLI, Sui dialetti romanzi e romaici del Salento, Memorie dell’Ist. Lombardo di
Scienze e Lettere, Milano, Hoepli, 1953 (ristampa a cura di p. G.B. Mancarella, Galatina,
Congedo, 1988).
67
M. CASSONI, Il tramonto del rito greco in Terra d’Otranto, con Introduzione, appendici e indici
a cura di M. Paone, Lecce, Besa, 2000, p. 15; G. LISI, La fine del rito greco in Terra d’Otranto,
Brindisi, Edizione Amici della Biblioteca “A. De Leo”, 1988.
68
Nel 1585 il cardinale Alessandrini nelle istruzioni date al vescovo di Nardò dice di «tollerare la
presenza dei preti greci nei paesi che li avevano ab antiquo», ma nello stesso tempo di sopprimere
qualsiasi manifestazione di rito greco, perché il popolo non intendeva più la loro lingua e perché
«i sacerdoti stessi essendo ignoranti né anco essi forse intendono quel che leggono». ANTONIO
PIZZURRO, Dizionario Onomastico Allistino, Lecce, Grifo, 2009, Premessa p. 5.
69
O. PARLANGÈLI, Una Formula di confessione salentina, in “Omagiu lui Alexandru Rosetti”,
Bucureşti, Editura Academiei Republicii Socialiste România, 1966, pp.663-666.
70
O. PARLANGÈLI, Storia linguistica e storia politica nell’Italia Meridionale, Firenze, Le
Monnier, 1960 (La “predica salentina” in caratteri greci, pp. 143-179).
71
B.F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche università in Terra d’Otranto, Galatina, Congedo,
1978, pp. 179-186.

41
Storia linguistica del Salento

Nel periodo longobardo-bizantino, il bilinguismo del Salento meridionale,


in cui si era imposto il rito greco, aveva opposto una maggioranza di ellenofoni
a una minoranza di latini: questi, rimasti piccoli gruppi di parlanti e senza
contatti con quelli del Salento centro-settentrionale, non avevano potuto
conoscere le innovazioni arrivate dall’Italia centrale. Nel periodo normanno, col
ripristino del latino nella liturgia e nella lingua dell’amministrazione pubblica,
si rovescia la composizione delle comunità miste, con i latini che rafforzano
l’uso del loro sistema romanzo e diventano maggioranza, mentre gli ellenofoni
finiscono per essere assorbiti; le comunità di soli ellenofoni si rinchiudono nel
loro monolinguismo greco e, avendo perduto ogni rapporto con la Grecia, hanno
incominciato a sviluppare i moderni dialetti grichi, diversi, non solo dal neo
greco, ma diversi anche da quelli della Bovesìa calabrese.

42
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 43-56
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p43
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Una selezione di carte linguistiche del Salento

Antonio Romano

1. Premessa
Le carte linguistiche riprodotte qui di seguito e nel resto di questo volume
sono il risultato di una rielaborazione di immagini già proposte in lavori
precedenti. Il loro allestimento in questa sede si giustifica: 1) come corredo a
contributi che fanno riferimento ad alcuni dei trattamenti storico-evolutivi; 2)
come elemento a favore di argomentazioni geolinguistiche e dialettologiche.
Nel primo caso, grazie alle carte selezionate, i riferimenti all’evoluzione
storica del vocalismo e di altri fenomeni (tracciati ad es. nei due capitoli a cura
di G.B. Mancarella) acquistano visibilità anche in base alla loro diffusione
areale e alla loro collocazione rispetto alle aree greca e albanese. Una
rappresentazione cartografica è utile anche per avere un riscontro dei luoghi
menzionati nei codici e nei manoscritti e delle località di rinvenimento delle
epigrafi cui accennano i vari capitoli. Nel secondo caso, le carte aiutano a
definire l’area salentina rispetto a quella dialettologicamente pugliese nelle
province di confine, ma aiutano anche a osservare la definizione di sub-aree la
cui estensione, oltre a rafforzare la tradizionale divisione dialettale per bande
trasversali (salentino settentrionale, centrale e meridionale), suggerisce la
possibilità di guardare a suddivisioni ulteriori lungo altri assi e sulla base di
nuovi apporti documentari che, pur confermando talora ipotesi geolinguistiche
che erano state già avanzate in passato, ritrovano oggi una certa vitalità grazie
agli sviluppi di ricerche più recenti o in corso1.

1
Si veda, tra gli altri, il contributo di I. Tempesta in questo volume. In anni recenti, tuttavia, le
uniche carte pubblicate per queste aree in ambito dialettologico mi pare siano solo quelle di
P. PARLANGELI, Carte linguistiche, in G.B. MANCARELLA (a cura di), Salento. Monografia, Lecce,
Del Grifo, 1998, pp. 351-390, ID., Alcune carte linguistiche del Salento, in “Studi Linguistici
Salentini”, 21, 1995, pp. 83-122, e ID., Nuove carte linguistiche del Salento, in “Studi Linguistici
Salentini”, 22, 1996, pp. 105-129. Una rassegna generale delle fonti principali, fino al 1999, è
presente anche in A. ROMANO, Analyse des structures prosodiques des dialectes et de l’italien
régional parlés dans le Salento: approche linguistique et instrumentale, Lille, Presses Univ. du
Septentrion, 2001, che propone anche una grossolana suddivisione (p. 93) sulla base della diffusione
di preferenze intonative diverse, con un limite meridionale per il cosiddetto ‘schema intonativo
leccese’ (ormai pansalentino) che ricalca abbastanza fedelmente il limite meridionale del fascio di
isoglosse qui tracciato nella carta n. 4). Cfr. l’altro mio contributo in questo volume.
Una selezione di carte linguistiche del Salento

In molti casi è, quindi, opportuno riferirsi, oltre che alle fonti menzionate
sommariamente nelle carte e qui esplicitate, anche a un insieme di ricerche territo-
riali più aggiornate di cui si può avere notizia in altre fonti aggiunte per completezza.
Gli antichi insediamenti, preistorici, messapici e romani sono stati
debitamente e utilmente cartografati in diverse fonti2. In particolare ricordiamo:
D. NOVEMBRE, Ricerche sul popolamento antico del Salento con
particolare riguardo a quello messapico, Lecce, Annuario Liceo-Ginnasio G.
Palmieri, 1965-19663.
Una carta più aggiornata è, tuttavia, quella di:
F. D’ANDRIA, Greci e Messapi nella documentazione archeologica del
Salento, in Atti del convegno Nazionale dell’Associazione Italiana di Cultura
Classica (1989), Cavallino, Capone, 1992, pp. 110-128.
Si veda anche il contributo di S. MARCHESINI in questo volume.
Gli antichi casali medievali descritti numerose fonti storiche trovano una
collocazione in riferimento alle contee e alle diocesi nella carta a p. 128 di:
C.D. POSO, Il Salento normanno: Territorio, istituzioni, società, Galatina,
Congedo, 19884.
Sulla questione dell’estensione storica dell’area ellenofona, in particolare,
molti lavori si rifanno ai seguenti titoli:
G. ROHLFS, Lexicon graecanicum Italiae inferioris, Tübingen, Niemeyer,
1964 (1a ed. Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität, Halle,
Niemeyer, 1930).

2
In rapporto a questi, è relativa la presenza di sporadici testi epigrafici in greco, come quelli delle
incisioni delle grotte Poesìa (Roca Vecchia) e Porcinara (Leuca) o quello presunto della mappa di
Soleto. Per la colonizzazione greca in generale si veda la ricca bibliografia raccolta in G. NENCI,
G. VALLET (a cura di), Biblioteca topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole
tirreniche, Pisa-Roma-Napoli, Scuola Normale Superiore-École française de Rome-Centre
J. Bérard de Naples, 1977-2012 (21 voll.). Per riferimenti più specifici su queste iscrizioni si
vedano invece, rispettivamente: C. PAGLIARA, La Grotta Poesia di Roca (Melendugno-Lecce).
Note preliminari, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e
Filosofia”, 17, 1987, pp. 267-328 e ID., Roca, in G. NENCI, G. VALLET, Bibliografia
topografica..., cit., XVI, pp. 198-229; ID., Santuari costieri, in “Atti del XXX Conv. di Studi sulla
Magna Grecia - I Messapi (Taranto-Lecce, 4-9 ottobre 1990), 1993, pp. 503-526 (con riferimento
allo studio pionieristico di C. DE GIORGI, La Grotta Porcinara al Capo di Leuca, in “Il Giusti”,
1(8), 1884, pp. 57-59); TH. VAN COMPERNOLLE, “La Mappa di Soleto”, in M.A. ORLANDO (a cura
di), Le scienze geo-archeologiche e bibliotecarie al servizio della Scuola, Maglie-Monteroni,
L’Alca-Kollemata, 2005, pp. 19-32 e S. MARCHESINI, in questo volume.
3
Le località messapiche di Puglia, sulla base dei ritrovamenti epigrafici, sono già nella Tav. I di
O. PARLANGELI, Studi Messapici, Milano, Memorie dell’Ist. Lomb. di Scienze e Lettere, 1960.
4
Il volume offre una preziosa documentazione generale sul popolamento in epoca normanna.

44
Antonio Romano

O. PARLANGELI, Sui dialetti romanzi e romaici del Salento, Memorie


dell’Ist. Lombardo di Scienze e Lettere, Milano, Hoepli, 1953 (rist.
fotomeccanica, Galatina, Congedo, 1989)5.
L’estensione dell’area ‘greca’ ricalca, infatti, piuttosto fedelmente quella
proposta da questo autore a p. 152 sulla base delle testimonianze sulla
diffusione del rito greco nella Relazione dei Greci di Otranto presente nel ms.
miscellaneo Brancacciano I B 6 di Napoli.
L’area albanofona è quella descritta in:
G.B. MANCARELLA, Bilinguismo e diglossia nell’Albania Salentina, in
“Studi Linguistici Salentini”, 15, 1987, pp. 69-79 (cfr. “Quaderni della Facoltà
di Magistero”, 9 (1987), Università degli studi di Lecce, 1988, pp. 75-88).
Per entrambe queste aree esistono tuttavia testimonianze moderne ricordate in:
N. VACCA, La Grecia e l’Albania Sallentine nell’Atlante del Pacelli, in
“Rinascenza Salentina”, 3/3, 1935, pp. 139-150.
Il riferimento in questo caso è, infatti, proprio quello di:
G. PACELLI, Atlante sallentino, o sia la provincia di Otranto divisa nelle sue
diocesi ecclesiastiche (versioni ms. 1803-1811, una delle quali presso la Brindisi,
Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo), Cavallino, Capone, 19866.
Per una trattazione più generale si veda ancora PARLANGELI, Sui dialetti
romanzi e romaici..., cit., pp. 161 e 165 che stabilisce il confine tra l’area
salentina e quella pugliese in base agli esiti del vocalismo tonico e al limite
meridionale del trattamento di NT > nd, NC > ng, MP > mb.
Questi trattamenti sono approfonditi da:
M. D’ELIA, Ricerche sui dialetti salentini. Atti e memorie dell’Acc.
Toscana La Colombaria, 21, a. 1956, Firenze, Olschki, 1957, 133-179.
In particolare, questo riferimento definisce le fasce di conservazione di ND e
MB e la fascia di assimilazione bidirezionale di LC.
Questi elementi di distinzione geolinguistica sono cartografati poi in:
G.B. PELLEGRINI, Carta dei dialetti d’Italia, in M. CORTELAZZO (a cura di),
Profilo dei dialetti italiani, Pisa, Pacini, 1977.
Tra le altre fonti menzionate nelle carte, ricordiamo ancora:
H. LAUSBERG, Die Mundarten Südlukaniens, Halle, Niemeyer, 1939.
C. MERLO, L’Italia dialettale, in “L’Italia dialettale”, 1, 1924, pp. 12-26.
Molte isoglosse sono inoltre ispirate a quelle proposte nei lavori pubblicati
nel Bollettino della Carta dei Dialetti Italiani (BCDI)7:
5
Anche in rif. a ROHLFS, Lexicon..., cit., PARLANGELI, Sui dialetti romanzi..., cit., p. 159, discute
della massima estensione ipotetica di quest’area.
6
L’atlante era noto anche attraverso BENITO SPANO, Gli atlanti corografici del can. Giuseppe
Pacelli (1764-1811) nel quadro della cartografia salentina del primo Ottocento, Bari, Cressati,
1958.

45
Una selezione di carte linguistiche del Salento

G. B. MANCARELLA, Il confine settentrionale dei dialetti salentini, in


BCDI, 4, 1969, pp. 109-137.
L. GRAZIUSO, Linee di confine nella sezione orientale della Provincia di
Lecce, in BCDI, 4, 1969, pp. 95-101.
F. SEBASTE (1969), Il confine tra i dialetti salentini settentrionali e centrali,
in BCDI, 4, 1969, pp. 139-143.
Un altro utile riferimento maturato nell’ambito della Carta dei Dialetti
Italiani (CDI) è, infine:
P. SALAMAC, Aree linguistiche nel Salento, in G.B. MANCARELLA,
P. SALAMAC (a cura di), Romanizzazione e riflessi linguistici della Regio II,
Lecce, Adriatica Ed. 19788.
Dati originali sono quelli offerti anche da:
M. GRIMALDI, “Nuove ricerche sul vocalismo tonico del Salento
meridionale: analisi fonetica e fonologica”, Tesi di Dottorato in Linguistica
Italiana dell’Università di Firenze, a.a. 1997-1998.
Ulteriori fonti sono:
F. AVOLIO, Bommèsprə. Profilo linguistico dell'Italia centro-meridionale,
San Severo, Gerni, 1995.
TH. STEHL, Apulien und Salento, in G. HOLTUS et alii (a cura di), Lexicon
der Romanistischen Linguistik, 4, Tübingen, Niemeyer, 1988, pp. 695-7169.
Una fonte di informazioni rilevante ai fini dell’analisi del trattamento del
vocalismo atono (finale) è offerta dai seguenti saggi:
M. MELILLO, Prosodia e vocalismo atono dei dialetti di Puglia (parte
seconda: le atone e:i), in “Lingua e Storia in Puglia”, 24, 1984, pp. 1-34.
M. MELILLO, Prosodia e Vocalismo Atono dei Dialetti di Puglia nelle
versioni della parabola del figliuol prodigo, in Saggi del Nuovo Atlante fonetico
pugliese, Università degli Studi di Bari, 4/IX, 1986a.
M. MELILLO, Prosodia e Vocalismo Tonico dei Dialetti di Puglia nelle
versioni della parabola del figliuol prodigo, in Saggi del Nuovo Atlante fonetico
pugliese, Università degli Studi di Bari, 4/VIII, 1986b10.

7
Alcuni di questi fanno riferimento alla suddivisione storica dell’area salentina in diocesi, secondo
un’intuizione che è già presente in PARLANGELI, Sui dialetti romanzi e romaici..., cit., p. 149. Cfr.
G.B. MANCARELLA, La nozione di area linguistica applicata alle parlate salentine, in “Lingua e
Storia in Puglia”, 11, 1981, pp. 49-72.
8
La lista completa dei comuni esplorati nell’ambito della CDI è invece in P. SALAMAC,
F. SEBASTE, Le prime mille inchieste della Carta dei Dialetti Italiani, in “Studi Linguistici
Salentini”, 2 (Προτίμησις – scritti in onore di V. Pisani), 1969, pp. 7-53.
9
Utili riferimenti e valutazioni sono presenti anche in M. LOPORCARO, Puglia & Salento, in
M. MAIDEN, M. PARRY (a cura di), The Dialects of Italy, London, Routledge, 1997, pp. 338-348.
Opere più recenti sulla scia di queste sono: M. LOPORCARO, Profilo linguistico dei dialetti
italiani, Roma-Bari, Laterza, 2009, e F. AVOLIO, Lingue e dialetti d’Italia, Roma, Carocci, 2009.

46
Antonio Romano

Fonti di dati e considerazioni utili per l’analisi della variazione dialettale del
sistema dei possessivi sono:
G.B. MANCARELLA, Distinzioni morfologiche nel Salento, Bari, Università
degli Studi, Facoltà di Magistero - Dialettologia Italiana, Quaderno n. 3, 1981.
G.B. MANCARELLA (a cura di), Salento. Monografia, Lecce, Del Grifo, 1998.
P. PARLANGELI, Salento dialettale. Saggio dell’Archivio Fonetico Salentino,
Lecce, Grifo, 2013 (in part, pp. 41-43).
Per l’italiano regionale, infine, l’unico riferimento organico resta ancora:
A.A. SOBRERO, M.T. ROMANELLO, L’italiano come si parla in Salento,
Lecce, Milella, 198111.
In conclusione, sulla scorta di questi riferimenti, ci è parso utile riportare
qui le seguenti carte:
Carta n. 1: carta generale, con la suddivisione territoriale in Comuni e
Province, con l’estensione delle aree alloglotte e con le principali isoglosse
proposte da vari autori per stabilire i confini settentrionali dell’area
propriamente salentina12.

10
Più recentemente, questi fenomeni sono stati studiati per l’italiano regionale da A. ROMANO,
F. MANCO, Incidenza di Fenomeni di Riduzione Vocalica nel Parlato Spontaneo a Bari e a Lecce,
In F. ALBANO-LEONI, F. CUTUGNO, M. PETTORINO, R. SAVY (a cura di), Il Parlato Italiano (Atti
del Convegno Naz., Napoli, 13-15 Febbraio 2003), Napoli, D’Auria, 2004 (CD-ROM).
11
Gli ulteriori approfondimenti prospettati da A.A. SOBRERO, M.T. ROMANELLO, I. TEMPESTA,
Lavorando al NADIR. Un'idea per un atlante linguistico, Galatina, Congedo, 1991, hanno offerto
un ottimo quadro teorico, ma risultati solo moderatamente incisivi. Si veda ancora, tuttavia,
l’interessante lista di tratti proposta in A.A. SOBRERO, Italiano regionale: fra tendenze unitarie,
risorgive dialettali e derive postalfabetiche, in T. TELMON, G. RAIMONDI & L. REVELLI (a cura di),
Coesistenze linguistiche nell'Italia pre- e postunitaria (Atti del XLV Congresso internazionale di
studi della Società di Linguistica Italiana, Aosta/Bard/Torino 26-28 settembre 2011), Roma,
Bulzoni, 2012, pp. 129-143. In una considerazione più generale si vedano i riferimenti ai dialetti e
l’italiano regionale salentino in C. GRASSI, A.A. SOBRERO, T. TELMON, Introduzione alla
dialettologia italiana, Roma-Bari, Laterza, 2003, e T. TELMON, Varietà regionali, in
A.A. SOBRERO (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi,
Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 93-149.
12
Come noto, cospicue fonti di dati sui dialetti sono: AIS – K. JABERG & J. JUD, Sprach- und
Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen, Universität Zürich-Ringier, 1928-1940; ALI –
M. BARTOLI, B. TERRACINI, G. VIDOSSI, C. GRASSI, A. GENRE, L. MASSOBRIO, Atlante Linguistico
Italiano, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995-2012 (8 volumi pubblicati); VDS –
G. ROHLFS, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), München, Verlag der
Bayerischen Akademie der Wissenschaften, 1956-1961 (ed. it. 3 voll., Galatina, Congedo, 1976);
DDS – G.B. MANCARELLA, P. PARLANGELI, P. SALAMAC, Dizionario Dialettale del Salento,
Lecce, Grifo, 2011. A questi bisognerà aggiungere ora, previa verifica di un certo numero di
forme dubbie, il saggio di P. PARLANGELI, Salento dialettale..., cit. Una fonte contenente dati
interessanti raccolti nel XIX secolo su una selezione di parlate salentine (Aradeo, Arnesano,
Brindisi, Copertino, Galatone, Lecce, Maglie, Marittima, Muro Leccese e Specchia, alle pp. 476-
490, che includono anche l’illustrazione delle parlate di Martina Franca, Massafra, Ostuni e

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Una selezione di carte linguistiche del Salento

Carta n. 2: carta dialettale della diffusione di fenomeni distintivi interni


sulla base di valutazioni riguardanti il vocalismo tonico.
Carta n. 3: carta dialettale delle località nelle quali si presenta un
trattamento distintivo del vocalismo atono (finale).
Carta n. 4: carta dialettale della diffusione di fenomeni che permettono di
distinguere un’area interna nota come ‘corridoio bizantino’.
Carta n. 5: carta dialettale che testimonia la diffusione nelle diverse località
di uno dei trattamenti considerati nella carta n. 4 (ND > nn), sulla base degli esiti
presenti nei dati della Carta dei Dialetti Italiani (CDI) per le voci ‘quando’ e
‘mondo’.
Carta n. 6: carta dialettale che testimonia l’attestazione nelle diverse
località delle forme corrispondenti alla voce ‘altro’ (con implicazioni sul
trattamento di LT), sulla base degli esiti presenti nei dati della CDI.
Carta n. 7: carta dialettale relativa alla variazione morfologica nel sistema
dei possessivi.
Carta n. 8: carta che definisce l’estensione dell’area in cui è diffusa una
‘pronuncia salentina dell’italiano regionale’ sulla base di diverse fonti e di
alcuni fenomeni caratteristici.

Taranto, nonché quelle del griko di Calimera e Sternatia, pp. 679-687) è, infine, notoriamente
disponibile in G. PAPANTI, I parlari italiani in Certaldo (alla festa del V centenario di messer
Giovanni Boccacci), Livorno, F. Vigo, 1875.

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Una selezione di carte linguistiche del Salento

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Una selezione di carte linguistiche del Salento

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Una selezione di carte linguistiche del Salento

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L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 57-66
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p57
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Messapico e illirico

Joachim Matzinger

1. Messapico, greco e latino


Per quanto riguarda la situazione linguistica del Salento antico si può constatare
la presenza di tre lingue a noi conosciute1: in primo luogo la lingua locale
tradizionalmente denominata messapico2 attestata attraverso ca. 600 iscrizioni3
dal VI sec. a.C. in poi, il greco antico e il latino che con l’avanzata del potere
romano e l’incorporazione successiva del territorio salentino nelle strutture
politiche, economiche e sociali della repubblica romana4 ha infine sostituito sia
il messapico5 che il greco6 e sta così alla base delle varietà apulo-salentine
1
Occorre notare che conosciamo solo quelle lingue che sono documentate in forma epigrafica.
Non è esclusa la possibile presenza di altre lingue pre-messapiche che sono andate perdute senza
alcuna traccia. Per completare il profilo linguistico antico non solo del Salento, ma dell’intera
Puglia antica si deve ricordare che nelle zone confinanti (odierna Campania e Basilicata)
abitavano genti (p. es. gli irpini) che parlavano varietà osche (vedi p. es. E.T. SALMON, Samnium
and the Samnites, Cambridge, Cambridge University Press, 1967, pp. 46-49, E. LEPORE, La
tradizione antica sul mondo osco e la formazione storica delle entità regionali in Italia
meridionale, in E. CAMPANILE (a cura di), Lingua e cultura degli oschi, Pisa, Giardini, 1985, pp.
63-65 e F. GRELLE, M. SILVESTRINI, La Puglia nel mondo romano, storia di una periferia. Dalle
guerre sannitiche alla guerra sociale, Bari, Edipuglia, 2013, pp. 32-33).
2
Sotto il termine messapico – la denominazione attribuita alle genti locali da parte dei greci – si
comprendono non solo la lingua attestata nelle epigrafi del Salento proprio ma anche le
testimonianze delle epigrafi della Peucezia e della Daunia (vedi S. MARCHESINI, Le lingue
frammentarie dell’Italia antica. Manuale per lo studio delle lingue preromane, Milano, Hoepli,
2009, p. 139, F. GRELLE, M. SILVESTRINI, La Puglia..., cit., p. 32 e cfr. qua anche la nota 11).
3
L’edizione decisiva del corpus messapico noto fino all’anno 2000 è la pubblicazione in due
volumi a cura di C. DE SIMONE, S. MARCHESINI, Monumenta Linguae Messapicae, Wiesbaden,
Reichert, 2002. Oltre alle epigrafi locali sono documentate anche alcune glosse di difficile
interpretazione attribuite alle genti antiche del Salento (vedi O. PARLANGÈLI, Studi messapici,
Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1960, pp. 391-417).
4
Vedi p. es. V.A. SIRAGO, Puglia romana, Bari, Edipuglia, 1993, pp. 105-133, M. PANI, Il
processo di romanizzazione, in A. MASSAFRA, B. SALVEMINI (a cura di), Storia della Puglia 1.
Dalle origini al Seicento, Bari, Laterza, 2005, pp. 17-31 e F. GRELLE, M. SILVESTRINI, La
Puglia..., cit.
5
Le epigrafi messapiche nell’alfabeto messapico, mutuato e adattato dall’alfabeto greco di
Taranto, terminano nel primo sec. a.C. e dimostrano così l’abbandono della lingua locale a favore
del latino, condizione essenziale per fruire di tutti i vantaggi e diritti da parte dei cives Romani,
specialmente dopo la concessione del diritto di cittadinanza romana a tutti i popoli dell’Italia
nell’89 a.C. È molto probabile che questo abbandono sia l’ultima conseguenza di una certa fase di
bilinguismo messapico-latino, vedi p. es. C. DE SIMONE, Italien, in G. NEUMANN, J. UNTERMANN
Messapico e Illirico

dell’italiano7. Mentre sia il greco che il latino presentano estesi corpora testuali
il messapico è documentato solo frammentariamente ed è per questo
caratterizzato da un’attestazione difettiva. Tra le epigrafi messapiche su pietra o
su vari tipi di ceramica si trova soltanto una decina di iscrizioni abbastanza
lunghe, però spesso di difficile interpretazione. La maggior parte di queste
epigrafi, in maggioranza appartenenti al contesto funerario8, consiste invece
nella denominazione della persona defunta9. Complessivamente il lessico
messapico sinora interpretato con certezza è molto limitato10. Una conseguenza
inevitabile della limitata documentazione consiste alla fine anche in una
conoscenza molto limitata del sistema grammaticale del messapico, il che rende
più difficile l’analisi della parentela ovvero dell’appartenenza linguistica del

(a cura di), Die Sprachen im Römischen Reich der Kaiserzeit (Kolloquium vom 8. bis 10. April
1974), Köln-Bonn, Rheinland-Verlag / Rudolf Habelt Verlag, 1980, pp. 76-77, C. DE SIMONE,
Lingue e culture nelle Puglie nel III-II sec. a.C., in G. UGGERI (a cura di), L’età annibalica e la
Puglia. Atti del II convegno di studi sulla Puglia romana (Mesagne, Museo Archeologico «Ugo
Granafei»), 1988, pp. 26-27 e C. SANTORO, La latinizzazione della Regio II: il problema
linguistico, in M.T. LAPORTA (a cura di), Ciro Santoro. Studi linguistici vari, Galatina, Congedo,
1994, p. 292. Non a caso alcune epigrafi messapiche rivelano interferenze non solo con il greco
ma anche con il latino, vedi J. MATZINGER, Einführung ins Messapische, 2014, pp. 57-62 (pubbl.
elettronica, pdf al link: https://www.academia.edu/8686856/Einführung_ins_Messapische.
6
Non si entra nella vexata quaestio dell’origine del greco salentino (griko) che secondo una teoria
– sostenuta specialmente da Gerhard Rohlfs (vedi p. es. G. ROHLFS, Grammatica storica dei
Dialetti Italogreci (Calabria, Salento), Galatina, Congedo, 1977, pp. 211-221) – rappresenterebbe
il successore del greco antico, cioè pre-bizantino. A mio avviso pare invece più probabile che il
griko risalga al greco medievale portato nel Salento nel periodo bizantino (vedi per una
discussione recente la tesi di dottorato presso l’Università di Venezia di V. BALDISSERA, Il
dialetto grico del Salento: elementi balcanici e contatto linguistico, 2013, pp. 10-19, pubbl.
elettronica, pdf al link: http://dspace.unive.it/handle/10579/3020).
7
Per la (storicamente complicata) situazione dialettale della Puglia e del Salento vedi p. es.
M. LOPORCARO, Puglia and Salento, in M. MAIDEN, M. PARRY (a cura di), The Dialects of Italy,
London-New York, Routledge, 1997, pp. 338-348 e G.B. MANCARELLA, Salento. Monografia
regionale della “Carta dei Dialetti Italiani”, Lecce, Edizioni del Grifo, 1998 (specialmente il
primo capitolo sulle basi storiche, pp. 26-45).
8
Come nota S. MARCHESINI, Le lingue frammentarie..., cit., p. 143: «Stando alla nostra
documentazione si può affermare che il contesto più comunemente associato con la scrittura è
quello funerario».
9
L’ambito più noto del messapico è dunque il sistema antroponomastico che abitualmente
prevede la combinazione bimembre di un prenome con un gentilizio, vedi Ivi, pp. 96-97. Grazie a
queste documentazioni antroponomastiche è documentata almeno una buona parte della flessione
nominale del messapico.
10
P. es. si conoscono solo poche forme verbali, quasi tutte nell’ambito semantico delle dediche.
Però, anche se il contesto generale di queste dediche è ovvio, la semantica precisa dei verbi usati
ci sfugge (cfr. p. es. pido, HIPADES, (NI)LIGAVES; forme epigraficamente documentate sono
rese in maiuscole, mentre le forme delle epigrafi perdute, e dunque note solo in forma di ritratti,
sono rese in corsivo); per una discussione recente del sistema verbale del messapico vedi p. es.
J. MATZINGER, Einführung..., cit., pp. 41-52.

58
Joachim Matzinger

messapico, prendendo in considerazione che è proprio e prevalentemente la


grammatica che è decisiva a questo proposito.

2. Caratteristiche del messapico e dell’illirico


Prima di discutere la parentela del messapico e la possibile relazione con
l’illirico dell’altra sponda adriatica, è opportuno riassumere brevemente le
caratteristiche delle due lingue comparate.

– Il messapico «è la lingua della seconda regione augustea, Apulia et Calabria,


documentata epigraficamente a partire dal VI sec. e che, nei limiti in cui la
conosciamo, rappresenta tratti che la distinguono alquanto nettamente dalle altre
lingue dell’Italia antica»11. Che il messapico non appartenga al gruppo
linguistico delle lingue italiche (latino-falisco, lingue sabelliche, venetico)
risulta chiaramente dello sviluppo diverso di indo-europeo *o conservata nelle
lingue italiche, ma mutata in a nel messapico (cfr. la desinenza del nom. sg. dei
temi maschili i.-e. *-os nel latino arcaico -os, sabellico -s12, venetico -os opposta
a messapico -AS, o la desinenza del dat.-abl. pl. i.-e. *-bhos nel latino arcaico
-bos, -bus, osco -fs, -ss, umbro -s13, venetico -bos opposta a messapico -bas)14.
La differenza del messapico rispetto alle lingue italiche è infine un punto
rilevante che giustifica l’opinione che i cosiddetti messapi, e dunque la loro

11
Definizione di C. DE SIMONE, La lingua messapica, in S. MOSCATI (a cura di), Salento, porta
d’Italia. Atti del Convegno Internazionale (Lecce 27-30 Novembre 1986), Galatina, Congedo,
1989, p. 109. Nonostante la differenziazione culturale delle tre subregioni della Puglia antica
(Messapia, Peucezia, Daunia; vedi p. es. E. DE JULIIS, Popoli e culture della Puglia preromana.
La preistoria, le genti indigene, i coloni greci, in A. MASSAFRA, B. SALVEMINI (a cura di), Storia
della Puglia 1..., cit., pp. 8-10) si osserva una certa uniformità linguistica di tutte le epigrafi
messapiche, a prescindere da qualche differenza grafica. Se fossero esistite diverse varietà di una
«lingua messapica» comune, o se si tratta forse di una koiné messapica deve restare una questione
aperta, cfr. anche C. DE SIMONE, Messapic Language, in S. HORNBLOWER, A. SPAWFORTH (a cura
di), The Oxford Classical Dictionary, Oxford, Oxford University Press, 1996 (Third Edition), p.
963: «There may have been a local unitary language spoken in an area which went from Gargano
to the Capo di Leuca, but so far this can only be a hypothesis. It would also be possible to think of
some form of linguistic unity subsuming a number of dialects…».
12
Prima della documentazione epigrafica la desinenza *-os subì sincope della vocale *o nelle
lingue sabelliche, vedi p. es. K. TIKKANEN, A Sabellian Case Grammar, Heidelberg, Winter,
2011, p. 26.
13
La desinenza del sabellico -fs, poi con assimilazione in -(s)s (vedi J. STUART-SMITH, Phonetics
and Philology. Sound Change in Italic, Oxford, Oxford University Press, 2004, p. 93) risale alla
forma proto-sabellica *-fs con sincope della vocale.
14
Un’altra differenza fonologica importante consiste nel fatto che le medie aspirate i.-e. (cioè
*bh, *dh, *gh) subirono nel proto-italico una fricativizzazione mentre nella protostoria del
messapico persero l’aspirazione e divennero semplicemente occlusive (b, d, g), vedi per questa
tematica lo studio di J. STUART-SMITH, Phonetics..., cit.

59
Messapico e Illirico

lingua, venivano dall’altra parte del mare15. Già nell’antichità circolava così il
topos letterario dell’origine oltreadriatica dei messapi: una teoria tramandata
anche da Erodoto in modo tipicamente mitografico, cioè alla ricerca delle radici
mitico-eroiche, che ascrive ai messapi un’origine cretese, mentre un’altra teoria
favoriva invece una provenienza dai Balcani16. Quest’ultima idea trova forte
appoggio nei dati dell’archeologia che ribadisce diverse somiglianze tra le due
culture da ambedue le sponde dell’Adriatico, sia nei riti funerari che nella
tipologia della ceramica17. Anche da parte della linguistica fu già sottolineato
che l’onomastica (toponomastica e antroponomastica) apulo-salentina e quella
balcanico-occidentale mostrano evidenti concordanze18. Per questi motivi lo
sviluppo della propria cultura messapica, rispettivamente iapigia è oggi
ampiamente considerato come il risultato di una confluenza di tradizioni
culturali oltreadriatiche (cioè balcaniche, ma anche micenee in una fase
anteriore e poi greco-ellenistiche) con tradizioni culturali locali già esistenti
prima di questo nuovo insediamento.
– Illirico invece è un termine che richiede qualche chiarimento in
considerazione di una certa confusione e imprecisione della sua applicazione
non solo nella letteratura divulgativa, ma anche nella letteratura scientifica.
Secondo una concezione diffusa in ambito storico, archeologico e linguistico
nel corso del Novecento e nel frattempo completamente superata, veniva
compresa tutta la zona balcanico-occidentale dall’Istria al nord fino all’Epiro
nel sud come abitata dagli «illiri»19. Le ricerche recenti basate su metodologie

15
Ovvero i messapi non facevano parte dell’immigrazione protostorica dei proto-italici nella
penisola italica che procedeva successivamente da nord a sud.
16
Per i messapi nella storia antica vedi p. es. M. LOMBARDO, I messapi: aspetti della
problematica storica, in G. PUGLIESE CARRATELLI (a cura di), I Messapi. Atti del trentesimo
convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna
Grecia, 1991, pp. 35-109 e M. LOMBARDO, La Puglia prima dei greci. Fonti antiche e problemi
storici, in P. CAPUZZIMATI (a cura di), La Puglia prima della colonizzazione, Taranto, Provincia
di Taranto, 1997, pp. 15-37. Le fonti antiche sui messapi sono raccolte in M. LOMBARDO, I
messapi e la Messapia nelle fonti letterarie greche e latine, Galatina, Congedo, 1992.
17
Vedi p. es., pp. 8-10
E. DE JULIIS, Le origini della civiltà iapigia, in S. MOSCATI (a cura di), Salento, porta d’Italia...,
cit., pp. 82-83 e ID., Popoli e culture della Puglia preromana..., cit., p. 8.
18
Vedi p. es. M. DORIA, Riflessioni sulle concordanze toponimiche preromane tra le due sponde
dell’Adriatico, in «Abruzzo, rivista dell’Istituto di Studi Abruzzesi», 18, 1979, pp. 11-39 e
C. SANTORO, Toponomastica messapica, in «Lingua e Storia in Puglia», 23, 1984, pp. 71-115.
19
Questo concetto di una zona illirica estesa, anzi estesissima secondo qualche studioso, che
assumeva quasi tutta l’Europa centro-meridionale come habitat illirico, fu giustamente criticato
come «panillirismo» ed è oggi totalmente abbandonato, vedi J. MATZINGER, Die Albaner als
Nachkommen der Illyrer aus der Sicht der historischen Sprachwissenschaft, in O.J. SCHMITT,
E.A. FRANTZ (a cura di), Albanische Geschichte. Stand und Perspektiven der Forschung,
München, Oldenbourg, 2009, p. 18 (con ampia bibliografia) e G. TAGLIAMONTE, Alla ricerca
delle «ancora oscure vestigia illiriche», in G. TAGLIAMONTE (a cura di), Ricerche archeologiche

60
Joachim Matzinger

aggiornate sottolineano invece che, sia dal punto dell’archeologia, che della
linguistica, è l’odierno Montenegro e l’Albania centro-settentrionale con il suo
rispettivo hinterland, il territorio che nell’antichità formava l’area insediata
dagli illiri propri, cioè dagli Illyrii proprie dicti come li chiama Plinio il
Vecchio20. A differenze dei messapi, questi illiri veri e propri non hanno
lasciato nessuna traccia della loro lingua21. Come unica fonte alla nostra
disposizione della loro lingua restano le testimonianze onomastiche22, cioè nomi
di persone, e la toponomastica nell’area abitata di queste genti illiriche. A
questo proposito si deve immediatamente segnalare che manca finora sia una
compilazione, che un’analisi dell’onomastica illirica vera e propria secondo
criteri moderni della linguistica. Le raccolte disponibili23 aderiscono tutte al
superato concetto dell’illirico e comprendono dunque materiale linguistico che
non appartiene all’illirico vero e proprio. In considerazione di ciò, non si
dispone neanche di una fonologia storica dell’illirico che presenterebbe
un’analisi degli sviluppi storici dall’indoeuropeo all’illirico. Vista la confusione
del materiale e la qualità tanto divergente delle etimologie proposte24, si
riscontrano ben spesso contraddizioni nell’analisi storica del materiale

in Albania. Incontro di studi (Cavallino-Lecce 29-30 aprile 2011), Roma, Aracne, 2014, pp. 56-
58.
20
Ivi, p. 18-19 e nei dettagli R. KATIČIĆ, Ancient Languages of The Balkans, The Hague-Paris,
Mouton, 1976, p. 158. Anche minuziosi studi onomastici confermano la limitazione della vera e
propria zona onomastica illirica nei territori sopra menzionati (Ivi, pp. 178-184; così le zone
dalmatiche e liburniche, al contrario di quanto precedentemente pubblicato, non appartengono alla
zona centrale onomastica illirica e devono essere considerate indipendenti; ne deriva che deve
restare aperta la posizione linguistica di queste zone onomastiche dalmatiche e liburniche:
rappresentano anche lingue diverse, oppure in qualche modo varietà di un’unità linguistica
balcanico-occidentale, «illirica»?).
21
Ivi, p. 169 e J. MATZINGER, Die Albaner..., cit., p. 19.
22
Questa documentazione limitata, più limitata di quella messapica, nasconde completamente le
informazioni sulla grammatica illirica. Limitate sono anche le informazioni delle glosse, sotto
molti aspetti incerte, ascritte agli illiri (per la loro ultima analisi vedi H. EICHNER, Illyrisch – Die
unbekannte Sprache, in A. LIPPERT (a cura di), Die Illyrer. Archäologische Funde des 1.
vorchristlichen Jahrtausends aus Albanien, Asparn a.d. Zaya, Museum für Urgeschichte, 2004,
pp. 93-94). Un interesse speciale tuttavia spetta alla notizia negli scoli all’Odissea 5.281 che la
parola ῥινóς significa ‘nebbia’ presso gli illiri (e ‘nuvolagli’ dagli enotri) che sarebbe bene
comparabile all’albanese re, risp. rê ‘nuvola’ nella varietà ghega (per un tentativo di ricostruire
una protoforma comune vedi J. MATZINGER, Messapisch und Albanisch, in «International Journal
of Diachronic Linguistics and Linguistic Reconstruction», 2, 2005, pp. 36-37).
23
Per una presentazione critica delle raccolte principali vedi R. KATIČIĆ, Ancient Languages...,
cit., pp. 167-169.
24
Come nota R. KATIČIĆ, Ancient Languages..., cit., p. 174: «On the whole, the Illyrian
etymologies that could be proposed do not reach the standard of the Thracian ones». Tante
etimologie illiriche sono infatti basate su una metodologia nel frattempo superata della linguistica
storica comparativa e non hanno più valore. Il desiderato più urgente nella ricerca illirica è
dunque una risistemazione dei dati onomastici dell’illirico vero e proprio sulla cui base sarà
possibile fare etimologie moderne.

61
Messapico e Illirico

linguistico illirico. Da chiarire è ancora – senza entrare nei dettagli – p. es. lo


sviluppo di i.-e. *o (> a in messapico25) per cui si trovano esempi con a (p. es.
nel nome dell’affluente Buenë presso Scutari, nell’antichità chiamato Barbanna
da una protoforma *bórbā- ‘palude’, cfr. greco βόρβορος ‘fango’), ma anche
esempi con o, che appare p. es. nel nome della città principale degli illiri
Scutari, greco Σκόδρα, latino Scodra probabilmente da una protoforma
*skódro-, cfr. lituano skardùs ‘ripido’ (v. anche n. 32). Incerta è anche la
posizione dell’illirico rispetto al suo inserimento nelle lingue i.-e. satem o nelle
lingue i.-e. centum26 perché nelle etimologie proposte si incontrano due riflessi,
lo sviluppo satem p. es. nel nome maschile Bardyl(l)is derivato della radice i.-e.
*bhreh1g’- ‘brillare, splendere’ (cfr. vedico bhrājate ‘brilla, splende’27) accanto
al riflesso centum p. es. nell’idronimo Genusus28 che sarà derivato del lessema
i.-e. *g’enu- ‘ginocchio’ (cfr. vedico jānu-)29. Finché non sono risolti in maniera
soddisfacente i vari e difficili problemi della fonologia storica dell’illirico vero
e proprio è, al momento attuale, impossibile se non inutile effettuare una
comparazione linguistica tra il messapico e l’illirico.

3. Albanese e illirico
Come compensazione della mancanza di informazioni fondamentali della lingua
illirica, si può infine ricorrere ai dati linguistici dell’albanese tanto più che
anche questa è una lingua balcanica. Però, al contrario di un’opinione molto

25
Cfr. il nom. sg. -AS < i.-e. *-os o il termine TABARA < *to-bhor-ā- che viene di solito tradotto
come ‘sacerdotessa’.
26
Le lingue i.-e. si distinguono secondo lo sviluppo delle occlusive dorsali *k (velare), *k’
(palatale), *kw (labiovelare). Nelle lingue centum (p. es. le lingue italiche, germaniche, celtiche) la
velare e la palatale si fusero nell’articolazione velare mantenendo le labiovelari, mentre nelle
lingue satem (p. es. le lingue indo-ariche, slaviche) è caratteristico il cambiamento delle palatali in
sibilanti e/o affricate e la fusione delle velari e labiovelari nell’articolazione velare (vedi p. es.
B.W. FORTSON, Indo-European Language and Culture. An Introduction, Oxford, Wiley-
Blackwell, (Second edition) 2010, pp. 58-59). Specialmente per l’illirico cfr. anche R. KATIČIĆ,
Ancient Languages..., cit., p. 174: «It has remained controversial whether Illyrian was a centum-
or a satem-language. In the Illyrian material there are centum and satem etymologies and it is not
easy to decide which ones are to be accepted as decisive».
27
Da questa radice derivano anche l’aggettivo albanese (i) bardhë ‘bianco’ (vedi B. DEMIRAJ,
Albanische Etymologien. Untersuchungen zum albanischen Erbwortschatz, Rodopi, Amsterdam-
Atlanta 1997, pp. 90-91) e il nome maschile messapico (gen.) BARZIDIHI (vedi J. MATZINGER,
Messapisch und Albanisch, cit., p. 45).
28
Il nome di questo fiume dell’odierna Albania centrale fu in seguito sostituito dalla nuova
denominazione Scampīnus che tramite lo slavo è riflessa nell’albanese ghego Shkumbî (vedi
J. MATZINGER, Die Albaner..., cit., pp. 26-27).
29
D’altra parte l’isoglossa centum-satem non ha più il valore rilevante che una volta aveva nella
linguistica storica comparativa. In considerazione del fatto che alcune lingue i.-e. mostrano triplici
riflessi delle occlusive dorsali i.-e. (p. es. l’armeno e specialmente anche l’albanese) ogni
attestazione illirica deve essere analizzata per se stessa.

62
Joachim Matzinger

diffusa, l’albanese non è il successore dell’illirico30, ma il successore di una


lingua balcanica antica differente dall’illirico. L’autonomia linguistica
dell’albanese emerge evidentemente dalla rappresentazione fonologica della
toponomastica balcanico-occidentale (rispettivamente delle zone antiche
illiriche oggi abitate dagli albanesi) continuata nell’albanese, che mostra una
differenza insormontabile dei sistemi fonologici dell’illirico e del proto-
albanese31 e che per questo motivo impedisce assolutamente di assumere una
discendenza dell’albanese dall’illirico32. Ciò nonostante è possibile e talvolta
persino istruttivo comparare dati fonologici, lessicali e anche morfologici
messapici con quelli albanesi33. Nel seguito è presentata una brevissima34 scelta
di alcune queste comparazioni.

— Sembra probabile che il messapico appartenga a un sottogruppo specifico


delle lingue i.-e. che mostrano riflessi distinti di tutte e tre le occlusive dorsali35
e che comprende fra l’altro anche l’albanese36.

30
E neanche del tracio come viene sostenuto attraverso un’altra ipotesi (vedi J. MATZINGER, Die
Albaner..., cit., pp. 15-16).
31
Il sistema fonologico del proto-albanese è ricostruito secondo le regole della ricostruzione
linguistica interna. Con il termine proto-albanese si intende lo stadio linguistico ricostruito
dell’albanese che abbraccia il periodo dopo la dissoluzione dell’unità linguistica i.-e. nel secondo
millennio a.C. fino ai contatti con il latino tra il terzo e primo sec. a.C. Per la periodizzazione
della storia linguistica dell’albanese prima dei documenti scritti, vedi S. SCHUMACHER,
J. MATZINGER, Die Verben des Altalbanischen. Belegwörterbuch, Vorgeschichte und Etymologie,
Wiesbaden, Harrassowitz, 2014, pp. 206-207; Ivi, pp. 205-276 una versione aggiornata della
fonologia storica dell’albanese.
32
Cfr. p. es. il nome albanese della città Scutari Shkodër (con articolo definito posposto Shkodra)
che nel confronto con la forma antica Σκόδρα/Scodra offre due particolarità della fonologia
storica dell’albanese, ovvero il gruppo shk e la vocale ó tonica. Nelle parole ereditate i.-e.
dell’albanese invece il gruppo *sk è passato in h (vedi S. SCHUMACHER, J. MATZINGER, Die
Verben..., cit., p. 243), mentre la vocale tonica *ó è divenuta albanese á (vedi S. SCHUMACHER,
J. MATZINGER, Die Verben..., cit., p. 211). Sotto l’aspetto cronologico questi due mutamenti sono
già antichi nella storia linguistica dell’albanese e mostrano così una differenza fra illirico sk, ó e il
contemporaneo proto-albanese *h, *á escludendo così anche una tradizione diretta del nome
antico nell’albanese. D’altra parte nell’adattamento dei prestiti latini nell’albanese il gruppo latino
SC /sk/ è sostituito dal gruppo shk e la vocale tonica latina ó dall’albanese ó che sorse
secondariamente nella storia linguistica albanese (vedi J. MATZINGER, Der lateinisch-albanische
Sprachkontakt und seine Implikationen für die Vorgeschichte des Albanischen und der Albaner, in
W. DAHMEN, G. HOLTUS, J. KRAMER, M. METZELTIN, W. SCHWEICKARD, O. WINKELMANN (a cura
di), Südosteuropäische Romania. Siedlungs-/Migrationsgeschichte und Sprachtypologie.
Romanistisches Kolloquium XXV, Tübingen, Narr Verlag, 2012, p. 82) ed è proprio questo
adattamento tardo nella storia linguistica dell’albanese che si riscontra nel nome Shkodër
provando dunque anche il prestito abbastanza tardo di questo toponimo nell’albanese attraverso il
latino, rispettivamente proto-romanzo.
33
Vedi J. MATZINGER, Messapisch und Albanisch, cit.
34
Per i dettagli vedi Ivi.
35
È rilevante in questa domanda la congiunzione -ΘI ‘e’ (variante -SI dopo sibilante) la cui
etimologia *-kwe (cfr. latino -QUE) è molto probabile (vedi V. ORIOLES, Il messapico nel quadro

63
Messapico e Illirico

— Il messapico ara- ‘terreno, campo’37 trova un pendant molto somigliante


nell’albanese arë ‘campo’. È senz’altro possibile ricostruire una protoforma
*h2r°h3ā-38 come base comune di ambedue i lessemi.
— Il termine messapico BILIA ‘figlia’ (rispettivamente il termine maschile
BILE- ‘figlio’) può essere comparato con l’albanese bir (antico albanese bīr)
‘figlio’, bijë ‘figlia’. Etimologicamente sono derivati della radice i.-e. *bheyH-
(→ grado zero *bhiH- > *bhī-) che è la base del verbo albanese mbin
‘germinare’39, però con suffissi diversi, cioè il messapico bilia-/bile- <
*bhī-liyā/o- (ampliamento di una forma più originale **bhī-lo-) vs. l’albanese
bir < *bhī-ro-40.
— Solo pochi sono i dati morfologici che permettono di comparare il messapico
e l’albanese. Nell’ambito nominale è almeno notevole che sia il messapico, che
l’albanese continuino nei temi maschili in -o- la desinenza i.-e. *-osyo
(messapico -AIHI41, albanese -i/-u42). Per quanto concerne il sistema verbale si
nota che sia il messapico, che l’albanese hanno conservato formalmente e

indoeuropeo: tra innovazione e conservazione, in E. CAMPANILE (a cura di), Rapporti linguistici e


culturali tra i popoli dell’Italia antica, Pisa, Giardini, 1991, pp. 161-162) e confermerebbe una
conservazione delle labiovelari nel proto-messapico. Per analizzare questa difficile tematica sono
richieste ulteriori analisi vedi I. HAJNAL, Methodische Vorbemerkungen zu einer Paleolinguistik
des Balkanraums, in A. BAMMESBERGER, T. VENNEMANN (a cura di), Languages in Prehistoric
Europe, Heidelberg, Winter, (Second Edition), p. 140 e J. MATZINGER, Einführung ins
Messapische, cit., pp. 26-28.
36
Vedi B.W. FORTSON, Indo-European Language..., cit., pp. 59, 449-450.
37
Attestato nell’iscrizione di Vaste MLM 1 Bas (originale perduto, vedi C. DE SIMONE, S.
MARCHESINI, Monumenta..., cit., pp. 113-115) ... θotoria marta pido vastei basta veinan aran...
‘Marta Θotoria diede il suo proprio terreno alla città di Vaste’.
38
Come è stato dimostrato in J. MATZINGER, Messapisch und Albanisch, cit., p. 33 è tanto
impossibile derivare i due lessemi da una protoforma *h2ag’ro- (cfr. latino AGER ‘campo’), quanto
assumere una protoforma *h2r°h3wā- (cfr. latino ARVUM ‘terreno arabile’) per il messapico,
altrimenti non esclusa per l’albanese arë.
39
Vedi S. SCHUMACHER, J. MATZINGER, Die Verben..., cit., p. 215.
40
Per i dettagli della ricostruzione vedi B. DEMIRAJ, Albanische Etymologien..., cit., p. 102,
J. MATZINGER, Messapisch und Albanisch, cit., p. 34. Non è affatto da connettere con il termine
latino FĪLIUS ‘figlio’ che invece deriva della radice i.-e. *dheh1i- ‘succhiare’ (per le questioni della
ricostruzione vedi M. WEISS, Outline of the Historical and Comparative Grammar of Latin, Ann
Arbor-New York, Beech Stave Press, 2011, p. 114).
41
La desinenza -AIHI (con le sue varianti) è la forma più attestata del sistema morfologico
messapico, e allo stesso tempo la forma più forte discussa, perché secondo un’altra spiegazione
sarebbe derivata da i.-e. *-ī che funziona come morfema del gen. sg. in alcune lingue i.-e. tra cui
il latino (vedi M. WEISS, Outline of the Historical, cit., p. 203; il latino arcaico possedeva anche la
desinenza -OSIO, poi abbandonata, vedi ID.). Vista la mancanza di spazio rimandiamo alla
discussione sul tema in J. MATZINGER, Messapisch und Albanisch, cit., p. 39-40 e, più ampia, con
la bibliografia aggiornata, in J. MATZINGER, Einführung ins Messapische, cit., pp. 34-36, dove
vengono presentati tutti gli argomenti in favore di una derivazione del messapico -AIHI da *-
osyo.
42
Per i dettagli della ricostruzione del gen. sg. dell’albanese vedi S. SCHUMACHER, J. MATZINGER,
Die Verben..., cit., p. 213.

64
Joachim Matzinger

semanticamente i due modi verbali i.-e. del congiuntivo e dell’ottativo43. Nel


sistema preteritale44 del messapico troviamo – se le ricostruzioni sono corrette –
riflessi di una formazione in *-s- che in altre lingue i.-e. è il suffisso del
cosiddetto aoristo sigmatico: la 3.sg. HIPADES (variante OPADES) ‘dedicò’ <
*supo-dheh1-s-t e la 3.pl. STAHAN ‘collocarono’ < *stah2-s-n°t. Anche
nell’albanese è continuata questa formazione nella categoria degli aoristi
caratterizzati dal suffisso -v-45. Comunque, in nessun caso si tratta di isoglosse
che collegherebbero il messapico e l’albanese esclusivamente46.

4. Conclusioni
Da quanto osservato in precedenza emerge che l’attestazione limitata del
messapico rende difficile una comparazione con altre lingue. Nel caso
dell’illirico una comparazione è quasi esclusa vista la documentazione così
limitata di questa lingua antica. La comparazione con l’albanese invece rivela
qualche somiglianza, ma priva di un carattere esclusivo tranne la possibile
concordanza nello sviluppo delle occlusive dorsali. Nonostante queste
complicazioni è legittimo fare delle riflessioni sulla posizione linguistica del
messapico e infine raggiungere queste conclusioni:

(a) Il messapico non è una lingua italica.


(b) Accettata la provenienza del messapico dai Balcani, sono molto probabili
contatti originali e così anche concordanze con le lingue antiche dei Balcani.
Purtroppo, data la documentazione difettiva di queste lingue, è quasi
impossibile definirle e perciò è assolutamente escluso affermare che il
messapico sia un discendente oppure un dialetto dell’illirico. Al di là di questo,
non è affatto necessario assumere una discendenza del messapico dall’illirico,
poiché il messapico può essere semplicemente il rappresentante di una lingua
balcanica autonoma e indipendente dall’illirico, come è anche l’albanese.

43
Cfr. messapico congiuntivo 3.pl. beran ‘portino’ accanto all’ottativo 3.pl. berain ‘debbano
portare’ dalla radice i.-e. *bher- ‘portare’, vedi S. MARCHESINI, Le lingue frammentarie..., cit., pp.
152-153 e J. MATZINGER, Einführung ins Messapische, cit., p. 42 (la conservazione di queste due
categorie differenzia il messapico morfologicamente dalle lingue italiche, nelle quali nel caso del
sabellico, l’ottativo fu abbandonato, mentre nel latino è confuso con il congiuntivo ereditato i.-e.
formando il nuovo congiuntivo latino). Per le due categorie corrispondenti nell’albanese vedi
S. SCHUMACHER, J. MATZINGER, Die Verben..., cit., p. 55-58 (sul congiuntivo) e pp. 74-76, 177-
182 (sull’ottativo).
44
Anche se nel corpus messapico sono attestate alcune forme verbali evidentemente preteritali, è
tuttavia impossibile riconoscere l’organizzazione dei tempi preteritali messapici dalle epigrafi e,
dunque, inutile parlare di categorie specifiche come aoristo oppure perfetto. Al momento attuale è
preferibile denominarle semplicemente forme preteritali.
45
Vedi S. SCHUMACHER, J. MATZINGER, Die Verben..., cit., pp. 149-154.
46
Le categorie del congiuntivo e dell’ottativo si trovano p. es. anche nel greco antico, la
formazione dell’aoristo sigmatico d’altra parte è molto diffusa nelle lingue i.-e. Queste categorie
sono perciò quasi inutili per determinare la parentela linguistica precisa.

65
Messapico e Illirico

(c) Possibili contatti e concordanze p. es. con l’albanese (ara-, BILIA ecc.) si
spiegano piuttosto nel quadro di contatti linguistici protostorici47 delle lingue
i.-e. protobalcaniche, forse nell’ambito di una lega linguistica protostorica delle
lingue i.-e. nei Balcani48.
(d) La vera storia linguistica del messapico, invece, si svolgeva nel suo
territorio antico apulo-salentino e deve essere considerata in primo luogo
nell’ambito di una storia linguistica di tutta l’Italia antica di cui faceva parte
anche il messapico, nonostante la sua differenza dalle lingue italiche. Qui nel
Salento antico, rispettivamente nella Puglia antica, scorrevano gli sviluppi
interni del messapico e avvenivano i contatti linguistici/culturali prima con il
greco antico e poi con il latino che alla fine si imponeva come mezzo generale
di comunicazione nel Salento come nel resto dell’Italia e causava infine
l’abbandono completo della lingua messapica. Con l’abbandono del messapico
più o meno all’inizio del nuovo millennio, però, il Salento entrava in un altro
periodo della sua storia linguistica, la quale non è meno complicata e oscura
della precedente e richiede ancora tanti approfondimenti e chiarimenti.

47
Da non escludere naturalmente, accanto alle innovazioni risultate dal contatto linguistico, le
concordanze che appartengono in queste lingue al fondo ereditato comune dalla protolingua i.-e.
48
Nella linguistica storica i.-e. si discute il concetto di un sottogruppo di lingue a cui
appartenevano l’albanese, il greco, l’armeno e il frigio che nella protostoria formavano – molto
probabilmente nei Balcani – una lega linguistica chiamata ‘indoeuropeo balcanico’ (tedesco
Balkanindogermanisch, inglese Balkan Indo-European, cfr. B.W. FORTSON, Indo-European
Language..., cit., pp. 11, 383; da non confondersi con la lega linguistica balcanica dei tempi
moderni). Un carattere molto rilevante di alcune lingue appartenenti a questa «lega linguistica
antica» è la distinta conservazione delle tre occlusive dorsali, come è forse anche il caso nel
messapico (vedi paragrafo 3) e che avvicinerebbe dunque il messapico a questo sottogruppo i.-e.
che sarebbe poi un altro argomento molto forte per la provenienza balcanica di questa lingua.

66
Epigrafi messapiche [Foto: cortesia S. Marchesini]

MLM 4 Uz (Ugento)

MLM 34 Me (Mesagne)

67
Epigrafi messapiche [Foto: cortesia S. Marchesini]

MLM 1 Ur (Uria)

MLM 17 Rud (Rugge)

68
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 69-78
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p69
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Epigrafi messapiche del Salento

Simona Marchesini

1. Definizione dell’ambito geografico


Se con il termine “messapico” si indicano generalmente tutte le iscrizioni
attestate nella II Regio augustea, Apulia et Calabria, corrispondente all’attuale
Puglia, in realtà l’aggettivo si riferisce in origine solo alla Messapia, ovvero
all’antica terra tra due mari, a sud della linea ideale che congiunge Taranto a
Brindisi, quindi al Salento. I due distretti, a sud e a nord di questa linea, sono da
riferire però in toto alla lingua messapica, con differenze che possiamo ritenere
diatopiche o dialettali. In questo contributo si fa riferimento dunque a tutto il
complesso delle iscrizioni provenienti dalla Puglia in età preromana.

2. Dati quantitativi delle iscrizioni e aggiornamenti


Il corpus delle iscrizioni messapiche si attesta numericamente tra quelli
medio-bassi dell’Italia preromana, se rapportato ad altri complessi più numerosi
come quello etrusco, che conta ad oggi oltre 11.000 testi. Per numero di
iscrizioni, comunque, l’epigrafia messapica supera per consistenza il corpus
venetico, quello osco-umbro, quello retico o celtico.
Rispetto alle 545 iscrizioni pubblicate nel 2002 nel corpus Monumenta
Linguae Messapicae1, si sono aggiunte, in tempi più recenti, alcune novità, sia
di iscrizioni singole che di gruppi di testi.
Ne forniamo qui un breve cenno, senza un particolare approfondimento
ermeneutico, data la natura del presente contributo.
1. Castro (Lecce), Castrum Minervae, Athenaion: due testi di destinazione
pubblica rinvenuti nel 2009, datati al IV secolo a.C.2. Il primo è un blocco di
calcarenite (blocco A), reimpiegato in un muro di terrazzamento agricolo,
pertinente alle fortificazioni di età messapica. L’iscrizione (blocco A) trascritta
dai primi editori è: ]allasti pla[ /r aihi gankidiḥ[ / ]ḍazimaihi bạ[ / ]ịḥị ạ[.
Nel testo, incompleto, si possono individuare con sicurezza la terminazione in
genitivo di una formula onomastica maschile, probabilmente ]Ar aihi

1
C. DE SIMONE, S. MARCHESINI, Monumenta Linguae Messapicae, Wiesbaden, Reichert, 2002
(d’ora in poi = MLM).
2
F. D’ANDRIA, M. LOMBARDO, Due nuove iscrizioni messapiche da Castro, in F. D’ANDRIA (a
cura di), Castrum Minervae, Galatina, Congedo, 2009, pp. 67-78.

69
Epigrafi messapiche del Salento

Gankidiḥ[i composta dal prenome Ar as e dal gentilizio Gankide- per ora


senza riscontri nel repertorio onomastico messapico. Il nome Dazimos (qui al
genitivo Dazimaihi) è invece molto comune. La seconda iscrizione è scolpita su
un blocco di calcare interpretato come altare: ]hazzava anda maṭ[ / ]matroạṭẹ[.
Se il prenome Hazzava è noto nella forma con unica zeta Hazava (MLM 6 Mu)
e nel genitivo del gentilizio Hazavidihi, e anda è nota come probabile
congiunzione “e”, ciò che segue deve per il momento rimanere sub iudice,
perché non rapportabile con alcuna sequenza finora attestata in messapico.
2. Vaste, Luogo di culto di Piazza Dante, due iscrizioni con le sequenze
ošš[ e [oššoviz[3, il primo su una tazza di ceramica e l’altro su un manufatto in
pietra; dallo stesso contesto provengono numerosi vasi con iscrizioni di una sola
lettera (probabili sigle) dipinte prima della cottura. Il contesto religioso
individuato a Piazza Dante si data tra il IV ed il III sec. a.C. È da notare qui che
l’interpretazione fornita dagli editori del nome Ošš[o come teonimo femminile,
pur compatibile con la situazione contestuale del santuario, contrasta con quanto
fino ad oggi noto per il nome Ošš[o, prenome maschile con tema in -on (*Os-
yōn-, *-ōnas) noto da iscrizioni come Oššo Hazzava aotori (MLM 36 Rud),
dove Oššo, prenome maschile, e Hazzava, prenome femminile, entrambi al
nominativo, dedicano alla divinità aotōr, espressa al dativo. È da notare anche
che la forma femminile di questo PN è *Oššova (MLM 6 Mu: Oššovaš no
Hazava(s)-θi: “sono di Ossova e di Hazava”);
3. Ostuni, grotta di Santa Maria di Agnano: complesso di iscrizioni edite da
P. Poccetti nel 2008 – che ora ammontano nel complesso a ca. 40 unità4 –
inquadrabili in gran parte cronologicamente tra IV e III secolo a.C. I supporti
epigrafici (ceramica da cucina, frammenti di laterizi e ceramica da tavola),
provengono in gran parte dall’interno della grotta, in parte anche dall’area ad
essa prospiciente. Tra questi spicca, tra le quattro iscrizioni su vasellame da
cucina, la nota base onomastica dazim[---, una terminazione gentilizia in

3
Cfr. G. MASTRONUZZI, P. CIUCHINI, Offerings and rituals in a Messapian Holy Place: Vaste,
Piazza Dante (Puglia, Southern Italy), in “World Archaeology”, 43, 4, 2011, pp. 676-701;
G. MASTRONUZZI, Alcune osservazioni sulla cronologia del luogo di culto di Piazza Dante a
Vaste (LE): contesti stratigrafici con monete, in L. GIARDINO, G. TAGLIAMONTE (a cura di),
Archeologia dei luoghi e delle pratiche di culto (Atti del Convegno di Cavallino, 26-27 gennaio
2012), Bari, Edipuglia, 2013, p. 216,
4
P. POCCETTI, Un Case Study per l’identificazione di un santuario messapico: il materiale
epigrafico dalla grotta di S. Maria di Agnano (Ostuni, Brindisi), in X. DUPRÉ RAVENTÓS,
S. RIBICHINI, S. VERGER (a cura di), Saturnia Tellus. Definizioni dello spazio consacrato in
ambiente etrusco, italico, fenicio-punico, iberico e celtico (Atti del Convegno Internazionale di
Roma 10-12 novembre 2004), Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 2008, pp. 233-249; cfr.
anche M. LOMBARDO, Tombe, iscrizioni, sacerdoti e culti nei centri messapici: aspetti peculiari
tra sincronia e diacronia, in L. GIARDINO E G. TAGLIAMONTE (a cura di), Archeologia..., cit., pp.
161-162.

70
Simona Marchesini

---]laides e il tema onomastico zare[---, per il quale cfr. Zaras a Balesium


(MLM 12 e 14 Bal) e il gentilizio Zarres a Brindisi e Carovigno: MLM 4 Br,
MLM 3 Car. Una tendenza corsivizzante ha poi individuato P. Poccetti nelle tre
iscrizioni su laterizio, che presentano l’attestazione della base onomastica art-
nella forma ]arta[ (nr. 3)5. Nel gruppo di 25 iscrizioni su vasellame da tavola si
riconosce invece, assieme a molti testi frammentari, di poche lettere ciascuno,
una situazione di plurigrafismo, dovuto molto probabilmente alla differenziata e
diacronica frequentazione della grotta: tipi grafici settentrionali o apuli, si
alternano alle varianti grafiche più meridionali o salentine. Alcune sequenze
risultano qui ripetute in alcuni testi, che Poccetti raccoglie (p. 241) in 11 unità:
in particolare è attestato qui un tema tarna- le cui forme in genitivo Ψarnaihi e
la sua variante Trannaihi, talvolta accompagnati dal verbo essere non espresso
alla 1a ps. sing. dell’indicativo vengono interpretate preferibilmente da Poccetti
come riconducibili a un unico – e nuovo nel panorama messapico – teonimo.
Infine le tre iscrizioni su laterizi (tegole), eseguite in modo poco accurato,
presentano testi assai lacunosi, e solo in parte (con ---?]arta[---) riconducibili a
temi onomastici già noti (cfr. Artahiaihi, genitivo dell’appositivo maschile
sempre a Ostuni: MLM 2 Os).
4. Conversano (Bari), dalla tomba femminile 1 di via Mercadante:
iscrizione su coppetta rinvenuta nel 1990, datata agli ultimi decenni del IV sec.
a.C., edita da F. Ferrandini Troisi nel 20056, recante prenome maschile
messapico Dazos.

Non appartiene alle novità epigrafiche messapiche, ma è forse opportuno


citare qui la cd. “mappa di Soleto”, documento eccezionale e unico nel suo
genere. Nel 2003, durante una campagna di scavo a Soleto, Fondo Fontanella, si
rinvenne un frammento di vaso attico a vernice nera con alcuni toponimi graffiti
sulla superficie7. Il documento è stato oggetto di discussione critica sin dalla sua
scoperta, soprattutto per quanto concerne la sua autenticità. Recentemente M.
Lombardo ne ha offerto un quadro epigrafico, rimandando “l’onere della prova”
ai negatori della autenticità.
Un gruppo di iscrizioni (ca. 50 unità), le cui caratteristiche grafiche
impediscono una sicura attribuzione ad ambito epigrafico messapico, sono state

5
POCCETTI, Un Case Study..., cit., p. 237.
6
F. FERRANDINI TROISI, Sulle tracce di Dazos, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Bari”, XLVIII, 2005, pp. 71-75.
7
M. LOMBARDO, La cd. “mappa di Soleto”, in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di),
Antiquitas. Scritti di Storia Antica in onore di S. Alessandrì, Galatina, Congedo, 2011, pp. 203-
212. Cfr. da ultimo anche M. LOMBARDO, Iapygians: the Indigenous Populations of Ancient
Apulia in the Fifth and Fourth Centuries B.C.E., in T.H. CARPENTER, K.M. LYNCH,
E.G.D. ROBINSON (a cura di), The Italic People of Ancient Apulia, Cambridge, Cambridge
University Press, 2014, pp. 47-48.

71
Epigrafi messapiche del Salento

considerate dubiae nel corpus MLM: i loro tipi alfabetici e la scarsità di


informazioni linguistiche dovuta al numero ridotto di lettere impedisce una
sicura attribuzione a un ambito epigrafico esclusivo.

3. Fasi alfabetiche e caratteristiche epigrafiche


L’ambito cronologico dell’epigrafia messapica copre un ambito che va dalla
metà del VI alla fine del II secolo a.C. L’alfabeto messapico (Tav. 1), derivato
in massima parte da quello laconico di Taranto, prevede una fase di
sperimentazione (Fase I: fig. 1) con tipologie alfabetiche di diverse tradizioni
epigrafiche, come quella corinzia e quella ionica8. In poco tempo (fase II)
l’alfabeto assume caratteristiche peculiari, che lo differenziano dal modello
originario, mostrando l’aggiunta di nuovi tipi grafematici come il segno a croce
per /š/, i vari tipi di segno a tridente per alcune realizzazioni di dentali (v. Tav.
I). Le lettere, soprattuto a partire dalla fase II/III sono in genere ben normate,
ovvero scritte in modo regolare e ordinato, in alcuni casi rubricate con pigmenti,
curate nella dispositio, sia che l’iscrizione sia di destinazione pubblica che
privata.
Come si vede in fig. 1, la parte più consistente della produzione epigrafica è
da attribuire senz’altro alla fase VI, collocata cronologicamente nel III secolo
a.C. Anche le ultime iscrizioni rinvenute, stando a quanto fin oggi pubblicato,
confermano questa tendenza.
Dall’analisi cronologica delle iscrizioni eseguita mediante seriazione
epigrafica9 durante la redazione del corpus MLM è emerso un dato cronologico
che ha imposto di rialzare la fine dell’epigrafia messapica di ca. un secolo
rispetto a quanto preventivamente supposto10. A quanto pare le guerre
annibaliche che hanno interessato la Puglia dopo la battaglia del Trasimeno nel
217 e fino al 205/4 a.C., con le conseguenze di recessione economica e sociale
che ne sono conseguite, hanno sancito al contempo anche un progressivo
declino della cultura scritta locale, che venne nel corso del II e I secolo
gradatamente rimpiazzata da quella latina nel processo di romanizzazione.

8
S. MARCHESINI, La situazione Alfabetica: l´Italia meridionale e la Sicilia, in “Confini e frontiera
nella grecità d’Occidente” (XXVIII Congresso Internazionale di Studi sulla Magna Grecia,
Taranto, 8-13 octobre 1997), Napoli, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia,
1999, pp. 173-212.
9
Per la metodologia utilizzata nella periodizzazione di iscrizioni con l’ausilio di seriazione si
rimanda a quanto espresso in S. MARCHESINI, Seriazione ed epigrafia. L’impiego di BASP (The
Bonn Archaeological Software Package) nello studio di iscrizioni, in “Archeologia e Calcolatori”,
15, 2004, pp. 257-266; ID., L’alfabeto atestino. Determinazione cronologica dele iscrizioni dopo
analisi con strumenti informatici (The Bonn Archaeological Software), in “Incidenza dell’Antico”,
8, 2010, pp. 127-142: ID., The Elymian language, in O. TRIBULATO (a cura di), Language and
Linguistic Contact in Ancient Sicily, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 95-114.
10
C. DE SIMONE, Die messapischen Inschriften und ihre Chronologie, in H. KRAHE (a cura di),
Die Sprache der Illyrer, II, Wiesbaden, Harrassowitz, 1964; cfr. MLR, I, p. 6.

72
Simona Marchesini

Il ductus delle iscrizioni messapiche è solitamente destrorso. Non mancano,


soprattutto nelle fasi epigrafiche più antiche, esempi di boustrophedon o di falso
boustrophedon, ovvero con cambiamento di verso e non di ductus tra una riga e
l’altra: si continua a scrivere nella stessa direzione, ma al cambio di riga si
capovolge l’oggetto, in modo da ottenere un effetto bustrofedico, evidentemente
su imitazione di esempi epigrafici greci.
Le iscrizioni messapiche sono scritte senza soluzione di continuità, quindi
– eccetto che in casi sporadici – senza spazi bianchi o interpunzioni. Gli errori
di scrittura, solitamente ben attestati nelle altre tradizioni epigrafiche dell’Italia
antica, sono rari nell’epigrafia messapica11. Questo fa ritenere che vi siano state
scuole di scrittura specializzate, anche se la pratica scrittoria, dato il numero
complessivo di iscrizioni, non si deve essere estesa anche agli strati sociali più
bassi.

Fig. 1 - Fasi epigrafiche messapiche (elaborazione: Marchesini).

4. Varianti grafiche/varianti fonologiche


Rispetto all’epigrafia messapica salentina, nel distretto settentrionale, in
ambito Daunio/Peuceta, si registrano delle differenze grafiche (allografi) che
rispondono molto probabilmente ad esigenze di notazione grafica per la
realizzazione di differenze fonologiche tra Nord e Sud della Puglia. Data

11
S. MARCHESINI, Excursus metodologico sugli errori di scrittura. Analisi di un corpus epigrafico
dell’Italia Antica, in “Studi Classici e Orientali”, 50, 2007, pp. 1-58.

73
Epigrafi messapiche del Salento

l’esiguità del numero di iscrizioni e la tipologia quasi esclusivamente


onomastica (nomi personali, marchi e teonimi) dei testi del distretto
settentrionale, non si può determinare con precisione il tipo di relazione
linguistica esistente tra Messapico e Daunio/Peuceta: è presumibile che si tratti
di varianti diatopiche della stessa lingua (dialetti)12. Ma la motivazione di tali
differenze grafematiche va ricercata anche nella cronologia, ovvero alla diversa
età di formazione dei due alfabeti. L’alfabeto settentrionale, sorto in età più
recente, potrebbe aver registrato quei mutamenti fonologici intervenuti nella
lingua dal momento dell’introduzione della scrittura (nel VI sec. a.C.) fino al
IV/III sec. a.C. Per quanto riguarda le modalità dell’adozione della scrittura nel
distretto settentrionale della Puglia si deve osservare un prevalente vettore
messapico: i tipi alfabetici sono sostanzialmente gli stessi, anche se in alcuni
casi non si esclude l’apporto di modelli greci circolati localmente.

5. I supporti epigrafici e le classi testuali


Pur non coincidendo la classificazione dei supporti epigrafici con quella
delle classi testuali, possiamo fare alcune valutazioni statistiche, almeno per
alcune classi di materiali, fermo restando che talvolta una tipologia testuale è
presente in supporti di diversa tipologia. Ad esempio le iscrizioni con nomi di
persona si possono trovare nelle tombe, sugli oggetti di possesso personale
come teche, vasi o su cippi e stele.
Come si vede nella tabella di fig. 2 – tenute da parte le iscrizioni disperse,
per le quali non si hanno notizie relative al supporto epigrafico – la maggior
parte delle iscrizioni messapiche è praticata su elementi tombali, tombe a
cassone o comunque elementi pertinenti a tomba. Questo dato fornisce
informazioni anche sulla destinazione primaria della scrittura nella antica
Apulia e in particolare nel Salento. La maggior parte dei testi è infatti da riferire
alla sfera funeraria, con l’esplicitazione del nome della persona defunta:
prenome e gentilizio nel caso di defunti di sesso maschile, prenome e
patronimico nella maggior parte delle iscrizioni riferite a defunti femminili.
Seguono le iscrizioni su ceramica/vasellame di piccole o medie dimensioni,
per lo più da cucina o da mensa, il cui numero si è recentemente accresciuto
anche grazie alle iscrizioni dalla grotta di S. Maria di Ostuni (v. sopra).
L’onomastica, sia personale che divina, è la tipologia di testo maggiormente
rappresentata in questa classe; alcuni frammenti ceramici presentano sigle con
poche lettere. Seguono per entità numerica i pesi da telaio, per lo più
piramidette fittili di piccole dimensioni, classe di supporto molto rappresentata

12
Cfr. da ultimo S. MARCHESINI, Quali lingue, quali popoli nell’Apulia di V e IV secolo, in L.
TODISCO (a cura di), La comunicazione verbale tra Greci e indigeni in Apulia nl V-IV secolo a.C.:
quali elementi?, in “Atti del Seminario di Studi linguistici, archeologici e storici” (Bari, 30
ottobre 2012), Napoli, Loffredo, 2013 (= Ostraka 15), pp. 19-33.

74
Simona Marchesini

nei siti dauni (Ruvo, Arpi), ma presente parimenti anche in Salento, con
iscrizioni di nomi personali o divini.
Su cippi, stele, colonne si trovano iscrizioni di carattere ufficiale, in cui
talvolta si riconoscono formule onomastiche, come nel caso dei cippi di Otranto
(MLM 1-3 Hy).
Segue la classe dei laterizi, caratterizzati per lo più da brevi iscrizioni,
anche a carattere di sigla.
Le altre categorie come vasche o bacini, i pochi oggetti in metallo come ad
esempio l’astragalon in bronzo da Canosa (MLM 2 Can) o il caduceo di
Taranto (MLM 1 Ta), contengono ciascuna pochi esemplari. Per quanto
riguarda la categoria di oggetti metallici iscritti, la scarsità numerica delle loro
attestazioni non è però da ritenersi indicativa dell’effettiva pratica di scrivere su
oggetti di metallo. Come succede spesso nel corso della storia, questo materiale
è soggetto spesso a riutilizzo.
Il mondo messapico ha conosciuto anche un’epigrafia ufficiale o
monumentale, come dimostra la categoria degli elementi architettonici, tra cui
spiccano anche testi di una certa lunghezza come ad esempio il testo sulla
cornice di un elemento architettonico di Azetium (MLM1 Az: oltre 50 lettere), o
quella di Valesio (MLM 13 Bal) o ancora la pietra lacunosa di Brindisi (MLM 4
Br) con ben 13 righe iscritte.
Vi sono poi anche le iscrizioni di destinazione sacra, come dimostra la
presenta nel testo di nomi divini, come ad esempio i femminili Aprodita,
Damatra oppure il maschile Taotor o Zis. Il complesso senz’altro più ricco di
iscrizioni sacre è quello di “Grotta Poesia” di Rocavecchia (Melendugno,
Lecce), con una superficie di grotta, in antichità accessibile solo dal mare, di
circa 500 mq iscritti in gran parte con testi di contenuto votivo in tre lingue e
alfabeti: messapico, daunio e latino. Di questo complesso si conoscono ad oggi
purtroppo soltanto 21 testi, pubblicati in modo provvisorio nei MLM 3-24 Ro, e
si attende la pubblicazione definitiva di tutto il complesso.
Tra le categorie testuali sono note infine anche alcune iscrizioni magiche,
come quella sul citato astragalo di Canosa, o la piramidetta fittile (peso da
telaio) MLM 3 Os da Ostuni, incisa con segni iconici, sigle e nessi, o infine
l’iscrizione sull’ipogeo “Palmieri” di Lecce (MLM 48 Lup), con la ripetizione
del nome proprio Alzenas. A questa categoria appartiene anche il coppo iscritto
da Bovino, un documento unico nel suo genere, con singole lettere e nessi
alfabetici di due tradizioni grafiche diverse, daunia e neopunica, incise
all’interno di una griglia sulla superficie convessa del coppo13.

13
Un piccolo corpus di testi messapici interpretabili come magici sono raccolti in S. MARCHESINI,
Il coppo iscritto di Bovino, Foggia, Grenzi, 2004.

75
Epigrafi messapiche del Salento

Fig. 2 - Tipologia dei supporti epigrafici (elaborazione S. Marchesini).

6. Considerazioni conclusive
L’epigrafia messapica è nel complesso, se valutata in confronto con le altre
tradizioni epigrafiche preromane, assai ricca e connotata da spiccato formalismo
e regolarità. In particolare emerge una tendenza all’epigrafia monumentale,
normata e poco soggetta a errori, che spicca proprio in modo contrastivo
rispetto all'epigrafia di altri popoli italici. È interessante anche notare che il
mondo messapico non partecipa alla cosiddetta koiné etrusco-italica. L’insieme
di caratteri archeologici, epigrafici, religiosi e cultuali che investono la maggior
parte dei popoli italici e degli Etruschi (come ad esempio le cd. “iscrizioni
parlanti”, i calendari rituali, il pantheon), sembrano non coinvolgere
direttamente il mondo messapico, al di là di contatti culturali tipici delle zone di
confine. Tale mondo rimane piuttosto permeato, come dimostra subito anche
l’adozione dell’alfabeto, dai caratteri della compagine greca presente nella costa
ionica, con cui la cultura locale, pur in una dialettica spesso conflittuale, si trova
spesso a misurarsi.

76
Simona Marchesini

77
Epigrafi messapiche [Foto: cortesia S. Marchesini]
MLM 1 Di (Diso)

MLM 2 Hy (Otranto)

MLM 6 Mu (Muro Leccese)

78
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 79-96
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p79
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica “sul campo”: i lavori per


l’edizione delle Nuove ricerche per il Corpus Inscriptionum
Messapicarum

Donato Martucci

1. Introduzione
Nel giugno del 1944 viene pubblicato dalla Reale Accademia d’Italia,
Centro Studi per l’Albania, a cura di Francesco Ribezzo, il volume Nuove
ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum. Questo doveva
rappresentare un primo supplemento al Corpus Inscriptionum Messapicarum
già pubblicato dallo stesso Ribezzo, a puntate, sulla “Rivista Indo-Greco-
Italica”, da lui diretta, dal 1921 al 1937, e si doveva inserire in un più vasto
progetto di pubblicazione di un Corpus Inscriptionum Italicarum, in cui
raccogliere sistematicamente le iscrizioni dialettali di tutta l’Italia pre-romana.
Per la preparazione di questo volume, il glottologo francavillese decise di
adottare un nuovo metodo di indagine, che non si basasse, come era accaduto
fino a quel momento, soltanto sullo studio filologico “da tavolino” di materiale
epigrafico scoperto durante scavi sistematici o fortuiti, ma sull’esplorazione
diretta del terreno, giacché: “Il monumento epigrafico preromano in specie, se
anche riesca a sottrarsi alla legge del damnat quod non intelligit da parte del
rinvenitore ignorante, non è detto che al dotto venga incontro da se stesso;
bisogna muoversi per incontrarlo”1.
Il volume, quindi, fu il risultato di diverse ricerche sul campo eseguite in
Puglia, tra il 1941 e il 1942, in periodo di guerra e con tutte le difficoltà di
comunicazione e mobilità immaginabili nelle zone periferiche del sud Italia
durante gli anni Quaranta. Questo articolo, attraverso il materiale documentario
inedito conservato nell’archivio storico dell’Accademia Nazionale dei Lincei,
ricostruisce tutti i lavori preparatori che portarono Ribezzo e la Reale
Accademia d’Italia alla pubblicazione del suddetto volume. Quindi, le fasi
preparatorie, la richiesta di fondi, i permessi delle autorità, ma anche le
difficoltà incontrate, il bisogno di tornare più volte nello stesso posto per
rivedere i materiali epigrafici, le piccole invidie dei colleghi, le soddisfazioni di
veder riconosciuto il proprio merito, fino alle incomprensioni tra Ribezzo e il

1
F. RIBEZZO, Prefazione, in F. RIBEZZO (a cura di) Nuove ricerche per il Corpus Inscriptionum
Messapicarum, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1944, p. 11.

79
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

Centro di Studi per l’Albania nell’ultima fase del lavoro, quando bisognava
pubblicare i risultati.
La ricostruzione è strettamente cronologica e si limita al periodo che va dal
1940 al 1943, arco temporale documentato dalle lettere e dalle relazioni
conservate in archivio.

2. Il progetto
Il 1o aprile 1940, Francesco Ribezzo, allora ordinario di Glottologia presso
la R. Università di Palermo, invia un progetto di ricerca al Centro di Studi per
l’Albania, per la raccolta e lo studio delle iscrizioni Japigo-Messapiche
rinvenute negli ultimi anni in Puglia, in prosecuzione del lavoro sul Corpus
Inscriptionum Messapicarum, che aveva pubblicato negli anni precedenti sulla
Rivista Indo-Greco-Italica da lui diretta:

Eccellenza Presidente del Centro di Studi Albanesi, Roma

L’impulso dato da codesto Centro, per volontà del Duce, agli studi intorno all’Albania,
lo stesso programma di convergenza di tutte le attività letterarie, filologiche, storiche e
scientifiche fissato nel costituirne l’organo di pubblicità incoraggia a sperare che
codesta ille Presidenza voglia inserire nei compiti che si propone di realizzare anche
qualcun altro che rappresenta già attività italiane di questo glorioso ventennio.
Come codesta ille Presidenza conosce, il sottoscritto con gl’incoraggiamenti finanziari
dell’Accademia Prussiana di Berlino, della R. Accademia dei Lincei e del Ministero
della P.I. Italiana raccolse e pubblicò negli anni 1921-1936 il Corpus Inscriptionum
Messapicarum e cioè le iscrizioni di lingua presumibilmente illirica della zona apulo-
salentina. Molti glottologi, ma specialmente studiosi specializzati della penisola
balcanica, vi scorsero subito la lingua madre dell’albanese e precisamente di ciò che
dell’albanese non è d’infiltrazione greca o latina, serba o bulgara, rumena o turca. Presto
il Corpus fornì agli studiosi l’impulso per indagini del più alto valore storico e
glottologico, sia in Europa che in America.
Disgraziatamente l’esiguità dei fondi disponibili, nonostante il premio di fondazione
Paladino della Società Reale di Napoli, costrinse il sottoscritto a limitare la sua attività
alla regione a sud di una linea tirata da Monopoli a Taranto, cioè entro i confini
assegnati dal Mommsen alla sua raccolta di iscrizioni messapiche, abbandonando al loro
destino quelle scoperte da Bari fino a tutta la penisola garganica. Si aggiungano a queste
le iscrizioni di lingua japigo-messapica scoperte dopo il 1936 in alcuni scavi della costa
salentina, quelle rinvenute nella necropoli scoperta durante gli scavi dell’anfiteatro di
Lecce e quelle che verranno fuori negli scavi in corso di Gnazia, senza parlare di altre
ultimamente recuperate, tra cui quella di Carbina (Carovigno), distrutta nel secolo VI
av. Cr., e presumibilmente del secolo VIII.
In un articolo in preparazione per il 2º fascicolo della Rivista d’Albania il sottoscritto ha
tentato di ricostruire, sulla base dei nuovi elementi forniti dalle notizie e dalle iscrizioni,
la storia delle relazioni tra costa illiro-albanese e costa sud-italica in età preromana,
giungendo a constatare, attraverso la identità di molti nomi etnici, di luogo, personali e

80
Donato Martucci

gentilizi la continuità delle stesse condizioni etnografiche e demografiche sulle due


sponde dell’Adriatico fino alla conquista romana. Questo sapere non potrà che
accrescersi crescendo il numero dei monumenti epigrafici conosciuti.
Per il momento egli desidererebbe di essere messo in condizione, con adeguate
indennità di viaggio e di lavoro, di potere rintracciare e fotografare quelle ancora inedite
di cui ha notizia sia attraverso le collezioni pubbliche e private, sia attraverso
esplorazioni sistematiche delle campagne e degli scavi fortuiti od ufficiali. Questo
materiale, recuperabile con tempestivi sopraluogo e ripetuti contatti con ricercatori della
regione, potrebbe egli illustrare in una serie di articoli nella Rivista d’Albania, in vista
di raccogliere poi tutto in un corpo generale delle iscrizioni Japigo-messapiche, ciò che
pare che avesse in mente di fare l’Unione Accademica Internazionale.
Con osservanza
Prof. Francesco Ribezzo
Ord. di Glottologia nella R. Università di Palermo2

Questa lettera d’intenti fu presentata il 19 aprile all’adunanza del Consiglio


direttivo del Centro di Studi per l’Albania, allora presieduta dal Presidente della
Reale Accademia d’Italia, Luigi Federzoni; durante la discussione ricevette
l’apprezzamento dell’accademico Roberto Paribeni e si decise di dare mandato
all’accademico Clemente Merlo di esaminare la proposta di Ribezzo e di dare
un parere sulla sua realizzazione3.
Il 25 aprile, Francesco Ercole scrive a Ribezzo assicurandogli che dopo la
prossima adunanza del Consiglio del Centro Studi, gli risponderà in merito alla
richiesta di fondi per la ricerca, nel frattempo sollecita l’invio dell’articolo per il
secondo fascicolo della Rivista d’Albania4.
Il 23 novembre, in preparazione dell’adunanza del Consiglio direttivo del
Centro del 5 dicembre, Giuseppe Schirò scrive nuovamente a Ribezzo:

Sarebbe opportuno che Voi faceste sapere il tempo, ossia il numero delle settimane che
progettate di destinare alla raccolta del materiale e quale all’incirca, dovesse essere
l’indennità spettante per il viaggio e il lavoro di cui fate accenno.
Queste notizie sono indispensabili perché il consiglio possa regolarsi in base alla
disponibilità dei fondi.

2
Ribezzo a Federzoni, 1 aprile 1940, in ARCHIVIO STORICO DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DEI
LINCEI (=ASANL), Fondo Accademia d’Italia, Centro di Studi per l’Albania (=CSA), b. 1, fasc.
6.
3
Cfr. Verbale Adunanza CSA, 19 Aprile 1940, in ASANL, Fondo Accademia d’Italia, CSA, b. 1,
fasc. 4.
4
Cfr. Ercole a Ribezzo, 25 aprile 1940, in ASANL, Fondo Accademia d'Italia, CSA, b. 14, fasc.
217; circa la pubblicazione del suddetto articolo, si vedano anche: Ribezzo a Ercole, 7 maggio
1940, ibidem; Schirò a Ribezzo, 8 maggio 1940, ibidem; Ercole a Ribezzo, 10 maggio 1940,
ibidem; Ercole a Ribezzo, 20 agosto 1940, ibidem.

81
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

Ove Vi incresca che il preventivo annuale che Vi prego di fare, sia presentato sotto il
Vostro nome, si potrebbe, eventualmente, presentarlo come una proposta da me o da
qualche altro membro del Consiglio […]5.

La risposta di Ribezzo è datata 5 dicembre (lo stesso giorno dell’adunanza),


giorno in cui scrive una cartolina a Schirò informandolo che non avrebbe potuto
compilare un preventivo in breve tempo giacché era molto occupato6.
Dato che per l’adunanza Ribezzo non aveva fornito alcuno schema di
preventivo, probabilmente ci pensò lo stesso Schirò a redigerne uno, dato che
agli atti è presente una Proposta della raccolta delle iscrizioni japigo-
messapiche del prof. Francesco Ribezzo, in cui, tra le altre cose possiamo
leggere:

Il lavoro proposto dal Ribezzo, che l’Unione Accademica Internazionale pare avesse in
mente di fare, tende a illustrare gli antichissimi stretti rapporti fra i popoli delle due
sponde adriatiche dell’Italia meridionale e dell’Albania.
L’opera del Ribezzo può essere subito affrontata anche perché essa annualmente, non
richiederà una grande somma. Anche computando un massimo di tre mesi di missione,
sul bilancio del Centro verrebbe ad aggravarsi una spesa che si aggira sulle 10.000 lire.
Il progetto del Prof. Ribezzo fu letto nell’adunanza del 19 aprile u.s., però si decise di
soprassedere in attesa di leggere l’importante articolo dello stesso studioso che è stato
poi pubblicato nel secondo numero della «Rivista d’Albania»”7.

Oltre questo, tra gli atti dell’adunanza, è presente anche una copia del
progetto di ricerca proposto da Ribezzo il 19 aprile, accompagnato da un
biglietto manoscritto del Presidente della Reale Accademia d’Italia, Luigi
Federzoni8, e una lettera di Clemente Merlo, nella quale lo studioso, “letto
l’articolo da lui pubblicato nel fascicolo di luglio della Rivista d’Albania, pur
non consentendo con lui nelle estreme conseguenze, sarei d’avviso che il
sussidio richiesto possa essergli concesso”9.
Il Consiglio, letta la proposta e il parere di Merlo, approva il progetto di
Ribezzo10.
Nei giorni successivi, sia Ercole che Federzoni scriveranno a Ribezzo per
comunicargli l’approvazione del progetto di ricerca; in particolare, Federzoni gli
scrive:

5
Schirò a Ribezzo, 23 novembre 1940, ibidem.
6
Ribezzo a Schirò, 5 dicembre 1940, ibidem.
7
Proposta della raccolta delle iscrizioni japigo-messapiche del prof. Francesco Ribezzo, allegato
al verbale dell’adunanza del CSA, 5 dicembre 1940, Ivi, b. 1, fasc. 6.
8
In cui si chiede ai membri del Consiglio di “facilitarlo in queste sue ricerche ed esplorazioni”
(Ibidem).
9
Merlo a Federzoni, 3 dicembre 1940, ibidem.
10
Cfr. Verbale adunanza CSA, 5 dicembre 1940, ibidem.

82
Donato Martucci

Sono lieto che questo lavoro, che viene affidato alla vostra particolare e ben nota
competenza, metterà ancora in luce gli stretti rapporti della gente italica con la sponda
orientale adriatica, e che l’impresa, oltre a servire ai fini storici per i quali, sotto gli
auspici della Reale Accademia d’Italia, verrà affrontata da voi, concorrerà ad accrescere
il prestigio degli Studi italiani in questo campo11.

3. La ricerca sul campo


Nel febbraio del 1941, oltre a richiedere a Ribezzo un nuovo articolo per la
Rivista d’Albania12, la Reale Accademia d’Italia, comincia i preparativi per la
missione in Puglia del glottologo: in particolare è conservata la corrispondenza
di Federzoni con il Sottosegretario di Stato per la Guerra, Alfredo Guzzoni, al
quale l’accademico richiede il nullaosta per Ribezzo e un eventuale fotografo al
seguito, affinché possa fotografare le iscrizioni nei musei pubblici o privati
delle province di Bari, Taranto e Lecce13. Il nullaosta viene concesso da
Guzzoni e comunicato a Federzoni in una lettera datata 3 marzo 194114.
Il 12 marzo Schirò invia a Ribezzo la documentazione con il nullaosta del
Ministero e la lettera di presentazione di Federzoni al Sopraintendente alle
antichità e Belle Arti di Taranto, dal quale dipendevano tutti i musei della
Puglia15.
Nell’ultima decade di marzo comincia la prima missione in Puglia di
Ribezzo, sulla quale, al suo ritorno, compilerà la seguente relazione (datata 1
settembre 1941):

11
Federzoni a Ribezzo, 13 dicembre 1940, Ivi, b. 14, fasc. 217; si veda anche: Ercole a Ribezzo, 9
dicembre 1940, ibidem.
12
Cfr. Ribezzo a Schirò, 1 febbraio 1941, ibidem; Schirò a Ribezzo, 5 febbraio 1941, ibidem.
13
Cfr. Federzoni a Guzzoni, 19 febbraio 1941, ibidem.
14
Cfr. Guzzoni a Federzoni, 3 marzo 1941, ibidem. Nella medesima missiva, il Sottosegretario fa
presente a Federzoni che qualora Ribezzo avesse voluto portare con sé un fotografo, avrebbe
dovuto comunicarne per tempo le generalità al Ministero. La risposta di Federzoni a Guzzoni è
datata 11 marzo 1941 (ibidem). Per la questione del fotografo si veda anche la lettera di Schirò a
Ribezzo del 18 marzo, in cui scrive: “Secondo il mio modesto parere, sarebbe anche opportuno
che il fotografo Vi sia designato dall’autorità militare o di pubblica sicurezza del luogo. Ad ogni
modo regolatevi come credete opportuno” (Schirò a Ribezzo, 18 marzo 1941, ibidem).
15
Cfr. Schirò a Ribezzo, 12 marzo 1941, ibidem; risposta di Ribezzo a Schirò è datata 17 marzo
1941 (Ibidem).

83
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

Ecc. il Presidente della R. Accademia d’Italia


per il Centro di Studi per l’Albania, Roma.

In esecuzione dell’incarico ricevuto dall’E.V., su approvazione di mia proposta da parte


del Centro di Studi per l’Albania in data 5 dicembre 1940-XIX, di raccogliere e
pubblicare le iscrizioni J[apigo] M[essapiche] scoperte in questi ultimi anni nelle
Puglie, ai fini scientifici e culturali indicatimi nella lettera 28143 dell’Eccellenza V. in
data 13 Dicembre s.d., ho creduto opportuno dividere il lavoro in due parti, visitando
prima le province di Bari e Foggia e rimandando ai mesi di Settembre-Ottobre
l’esplorazione nelle province di Taranto, Brindisi e Lecce.
Tra difficoltà di ogni genere causate dallo stato di guerra, da Palermo raggiunta Taranto
il 21 Marzo 1941-XIX, mia prima cura fu quella di prendere contatto con la
Soprintendenza alle Antichità per le Puglie sia per conoscere il materiale epigrafico
entrato in quel Museo Nazionale dopo il 1937, sia per far diramare istruzioni
agl’Ispettori delle sedi che mi proponevo di visitare.
Con mio rincrescimento dovetti constatare che un gruppo di iscrizioni su lapidi scoperte
a Viesti sull’estremo Promontorio Garganico, e segnalate dal defunto Soprintendente
Quagliati, non si erano potute ancora trasportare a Taranto dopo la morte dell’Ispettore
onorario Dr. Michele Petrone e mio primo e supremo proposito fu quello di raggiungere
con ogni mezzo quella località. Dal vivo interesse e dalla cortesia del Dr. Ciro Drago
potei ottenere la fotografia di una breve iscrizione japigia dipinta sotto il piede di un
vasetto trovato a Canosa e conservato nel Museo di Taranto.
Nell’itinerario Taranto - Francavilla Fontana - Locorotondo - Bari non ho creduto
opportuno, appartenendo alla provincia di Taranto, toccare le località Masseria Arcuri
Vecchi e Masseria Aulone di Francavilla, nella prima delle quali si trova una iscrizione,
probabilmente messapica, rotta e gettata nella fossa di una tomba in cui è stato piantato
un albero d’ulivo e che bisognerebbe raccomandare alla Soprintendenza di scavare al
più presto.
Raggiunta Bari presi contatto con la Direzione di quel Museo Provinciale Dr. Michele
Gervasio, per indagare se nuovi elementi epigrafici, prodotto di scavi fortuiti o di
rinvenimenti accidentali, fossero entrati in quel Museo dopo il 1937. Seguendo le sue
indicazioni, feci una prima punta a Rutigliano (Azetium). Ivi, nel Palazzo Sugliapasseri,
potei prendere il facsimile e la fotografia di una iscrizione peucetica scoperta anni prima
in contrada Castiello, dei tre lunghi righi della quale avanza disgraziatamente solo la
parte destra.
Una seconda punta da Bari feci a Canosa di Puglia (Canusium). Qui riuscii a trovare
nella vetrina delle oreficerie, esistente nel piccolo Museo di quella Casa Comunale,
l’iscrizione peucetica in pointillé, incisa sulla cerniera di una scatola argentea, scoperta
dal Dr. Bartoccini ed illustrata da me, solo su di un apografo, in Japigia VI, f. 3. Ma per
poter collazionare aspettai inutilmente che di detta vetrina si rinvenisse la chiave. Sarà
necessario ritornare appena si faccia ordine al Podestà di aprire la vetrina. Potei per
fortuna collazionare, per gentile concessione dell’avv. Pietro Petrone, l’iscrizione
japigia impressa su un massiccio oggetto di bronzo in forma di astragalo rinvenuto nello
scavo per la fognatura e prendere facsimile e fotografia di due piccole iscrizioni su un
vasetto canosino inedito, anch’esso in casa dell’avv. Petrone.

84
Donato Martucci

Per le difficoltà di trovare mezzi di comunicazione ed alloggio, nella congestione


prodotta dallo stato di guerra, non ho potuto raggiungere Ruvo e Corato. La visita al
Museo di Jatta, ove ne ottenga concessione, sarà oggetto di un altro viaggio. Si tratta
infatti di ricercare e collazionare importante materiale epigrafico di cui non si ha più
notizia diretta. A Lucera ho potuto ancora una volta collazionare una piccola iscrizione
daunia nel Museo Comunale “R. Bonghi”. Nulla di tal genere ho potuto trovare nel
Museo Comunale di Foggia, nonostante la vicinanza di Arpi.
Raggiunta, tra difficoltà immaginabili, Viesti Garganico, riuscii a collazionare e
fotografare con disagio, essendo necessario costruire il palco, le iscrizioni daunie
murate nel frontespizio della casa rurale Abatantuono in numero di tre, più un’altra su
piccolo cippo in contrada Carmine, Pezza della Fontana Vecchia. Per vedere il resto
bisogna aspettare che vengano aperti i cassoni legati al Comune dal defunto Ispettore
Michele Petrone16.

Al suo ritorno da questa prima ricerca sul campo, Ribezzo comunicò al


Centro di Studi per l’Albania tutte le criticità affrontate e descritte nella
relazione, tanto che, in breve tempo, Ercole scrisse due lettere, una a Michele
Gervasio, Direttore del Museo di Bari, per cercare di recuperare le chiavi della
vetrina delle oreficerie del Museo di Canosa di Puglia17, e l’altra al Podestà di
Viesti, il Sig. Mafrolla, per permettere a Ribezzo di visionare e fotografare i
materiali che il defunto Ispettore onorario, Michele Petrone, aveva lasciato al
Comune di Viesti e che non erano ancora stati trasportati al Museo Nazionale di
Taranto18. Nell’archivio storico dell’Accademia Nazionale dei Lincei è
conservata la risposta a quest’ultima missiva da parte di Mafrolla, il quale, il 3
maggio, scrive a Ercole che se Ribezzo avesse voluto prendere visione del
materiale epigrafico, avrebbe dovuto aspettare il completamento dell’ultimo
lotto dell’edificio scolastico del Comune, presso il quale sarebbe stata adibita
una stanza a Museo locale con i materiali lasciati in eredità dal defunto
Petrone19.
In novembre, Ribezzo torna in Puglia per proseguire le sue ricerche nelle
province di Taranto, Brindisi e Lecce. Di questo secondo viaggio compila la
seguente relazione:

Relazione sul viaggio nelle tre province di


TARANTO, BRINDISI e LECCE per la preparazione del Il Supplemento
al CORPUS INSCRIPTIONUM MESSAPICARUM

In esecuzione dell’incarico speciale conferitomi da questa Reale Accademia d’Italia per


la preparazione di un secondo Supplemento al CIM, contenente le iscrizioni venute alla

16
RACCOLTA DELLE ISCRIZIONI JAPIGO-MESSAPICHE. Prima relazione, 1 settembre 1941,
ibidem.
17
Cfr. Ercole a Gervasio, 18 aprile 1941, Ivi, b. 7, fasc. 38.
18
Cfr. Ercole a Mafrolla, 18 aprile 1941, ibidem.
19
Cfr. Mafrolla a Ercole, 3 maggio 1941, Ivi, b. 14, fasc. 217.

85
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

luce o recuperate nel quinquennio 1937-1942 nella Penisola Salentina, il giorno 10


Novembre del 1941 ho intrapreso il primo viaggio. A Taranto ho potuto aver
conoscenza di una iscrizione scoperta a Grottaglie, ora nel Museo Nazionale di Taranto,
ed ho iniziato escursioni e studi per indagare con quale località antica o segnata nella
carta archeologica moderna il trovamento possa riconnettersi. A Francavilla Fontana ho
potuto raccogliere qualche nuova indicazione, oltre quelle segnalate nel CIM, ma per
difficoltà inerenti allo stato di guerra non ho potuto accedere alla Masseria Aulone.
Poco di nuovo ho trovato a Ceglie Messapico, ove i trovamenti fortuiti nella necropoli
prossima al Paretone paiono cessati, dopo l’ultimo del 1933.
Di Carovigno sopra Brindisi ho potuto recuperare all’epigrafia arcaicissima il
monumento originale di CIM n. 30 che si credeva scomparso, ma che ora è passato con
tutta la collezione De Simone, in cui si trovava occultato, al Museo Provinciale di
Lecce. Ne ho potuta scoprire una inedita nel castello Dentice di Frasso. A Manduria mi
è stata segnalata l’iscrizione messapica di un vasetto scoperto nel 1936 e conservato
nella biblioteca “M. Gatti”, ed una latina arcaica recentemente trovata nella contrada
Curticàuri. In Oria mi è riuscito di scoprire il frammento di una iscrizione messapica
inedita nella collezione del conte G. Martini-Carissimo, ora allogata nel Castello Svevo,
a lui ceduto dallo Stato. Nulla è segnalato di nuovo dal Museo “San Giovanniello” del
Comune di Brindisi, dopo la morte del compianto Isp. Con. Comm. Pasquale Camassa
seguita al bombardamento della città.
Un maggior numero d’indicazioni mi è stato possibile raccogliere per Valesio; ma
assorbita, com’è, la località archeologica dagli agri circostanti di Torchiarolo, S. Pietro
Vernotico e Squinzano, è spesso assai difficile sapere in quale dei tre paesi una lapide
sia andata a finire. Su una indicazione del Dr. R. Bartoccini, ora Soprintendente a
Milano, mi è stato possibile vedere in Aradeo, sotto Galatina, l’iscrizione inedita
rinvenuta a Valesio nel 1932 dal compianto Dr. Chimico Comm. Vincenzo Grassi, per
quanto a causa del color grigio della pietra e della cattiva esposizione di luce sia stato
necessario ripetere il sopraluogo e le fotografie in posizioni diversissime. Altra
iscrizione inedita rinvenuta nel 1936 trovasi a S. Pietro Vernotico presso l’avv.
G. Marzano. Di una terza mi fornì cortesemente un apografo di mano ignota il Dr.
Bartoccini ed io e l’Avv. Marzano facciamo ricerche per scovarla.
Il lavoro più proficuo è stato fatto a Lecce, se anche limitato per ora ad un ordinamento
sommario delle numerose iscrizioni messapiche rinvenute nella necropoli scoperta
accanto al piano di posa dell’Anfiteatro Romano, la cui costruzione, seguendo
un’iscrizione latina recentemente rinvenuta nel piano dell’arena e da me supplita, per
me dovrebbe attribuirsi a Traiano. Nella prossima adunanza del Consiglio del Centro di
Studi per l’Albania mi riservo di presentare tutto il materiale fotografico. Il lavoro di
revisione critica e di collazione dei facsimili con gli originali può però dirsi appena
cominciato, trovandosi la collezione lapidaria per la maggior parte coperta dai
puntellamenti anticrollo per la protezione antiaerea. Di Rusce, presso Lecce, ho potuto
recuperare l’originale dell’iscrizione CIM n. 115, non potuto vedere finora neanche dal
Droop e dal Whatmough, ed ora passato con tutto il materiale genuino o sospetto della
collezione De Simone nel Museo Provinciale di Lecce. Di Rusce mi son state possibili
altre quattro nuove acquisizioni epigrafiche. Dagli scavi di Roca è stato possibile
ricavare solo il frammento d’iscrizione segnalato dalle Notizie degli Scavi.

86
Donato Martucci

Di Alezio ho potuto bensì procedere ad una revisione del materiale conservato nel
Museo Comunale di Gallipoli, ma con i mezzi e il tempo a mia disposizione non mi è
stato possibile fissare sul terreno la tomba non ancora scavata in contrada Monte d’Elia,
dotata, pare, di un’iscrizione messapica, come le altre tombe ultimamente scoperte in
quella località. Un piccolo frammento d’iscrizione arcaica ho da Vaste, dopo la
pubblicazione del materiale scoperto fino al 1935. A nessuna nuova esplorazione mi è
stato concesso di procedere a Muro Leccese, dopo le indicazioni raccolte dal Comm.
Pasquale Maggiulli. Da Ugento si era vociferato che provenisse una iscrizione che si
dice posseduta dal Dr. Luigi Corvaglia di Melissano. Quando fui sul posto trovai in
paese il Dr. Corvaglia ed ora che gli ho scritto non ho ottenuta ancora risposta.
Dell’iscrizione trovata nella contrada Teresiani di Alessano (Veretum), dopo mia
autopsia nel Museo Comunale di Gallipoli, ho potuto procedere ad una disposizione
diversa dei due frammenti.
Sono convinto che una esplorazione più in largo o più in fondo avrebbe potuto rendere
qualche cosa di più, ma dato lo stato di guerra e l’impossibilità di poter raggiungere,
senza la macchina, luoghi più periferici o più isolati, ho dovuto limitarmi a raccogliere
indicazioni. Più che ad altro ho tenuto a render conto di quanto di inedito è a
conoscenza e ad allegarne fotografia, riservando ad altro viaggio la revisione più
minuziosa di quanto ho potuto vedere ora per la prima volta, senza aver avuto agio
sopraluogo di procedere ad uno studio ponderato dei facsimili, delle fotografie e dei
20
calchi per la costituzione dei testi .

Durante questo primo viaggio nel Salento, Ribezzo è anche oggetto di un


articolo del notiziario mensile dell’Ente Provinciale per il Turismo di Lecce, Il
Salento Turistico, in cui gli viene dedicato un lungo articolo intitolato: La Reale
Accademia d’Italia per lo studio delle affinità fra l’Albania e la Penisola
Salentina. Qui, oltre a mettere bene in evidenza i legami storici tra l’Albania e il
Salento, viene proposta l’organizzazione di un convegno italo-albanese,

da indire a Lecce sotto gli auspici della Reale Accademia d’Italia, con la partecipazione
di illustri personalità dei due Paesi, e che, partendo dalle basi dell’etnografia, della
storia, dell’archeologia e della linguistica comune, allargasse le sue finalità a tutte le
attività scientifiche, turistiche e culturali che possano alimentare negli abitanti dell’una
e dell’altra sponda adriatica, la reciproca conoscenza dei loro paesi e della loro storia,
non trascurando di estendere questo ricambio ad ogni altra attività ed interesse di ordine
economico e commerciale21.

Tornato a Roma, informa il Centro Studi dei risultati della sua missione e
invia copia dell’articolo appena citato. L’11 dicembre Schirò scrive a Ribezzo
appoggiando la proposta lanciata nell’articolo circa un convegno italo-albanese

20
Relazione sul viaggio nelle tre province di TARANTO, BRINDISI e LECCE per la preparazione
del Il Supplemento al CORPUS INSCRIPTIONUM MESSAPICARUM, 5 febbraio 1942, ibidem.
21
La Reale Accademia d'Italia per lo studio delle affinità fra l'Albania e la Penisola Salentina, in
“Il Salento Turistico”, anno 1, n. 8, novembre 1941, p. 4.

87
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

da tenersi a Lecce, tuttavia, “il momento attuale sarà il maggiore ostacolo che
potrà infrapporsi all’attuazione della bella proposta”22. Nella stessa missiva,
Schirò chiede a Ribezzo di redigere “un esposto dei caratteri e dell’importanza
della vostra opera”23, probabilmente per la richiesta di un premio in denaro alla
Reale Accademia d’Italia (Classe di Scienze Morali)24. Questa, molto
interessante per inquadrare il lavoro di Ribezzo e i suoi propositi futuri, è datata
1 febbraio 1942 e la si può leggere integralmente in appendice a questo
articolo25.
Nell’archivio sono conservate anche alcune lettere che testimoniano di una
polemica innescata dallo storico Gennaro Maria Monti nei confronti del Centro
Studi e dell’incarico dato a Ribezzo di raccogliere il materiale epigrafico in
Puglia. La prima di queste lettere è datata 10 febbraio ed è indirizzata da Monti
a Schirò:

Mi scrivono da Lecce, ufficialmente, che, per incarico del Vostro Centro, “il prof.
Ribezzo ha iniziato una serie di interessanti indagini intese ad accertare i rapporti storici
e culturali fra le due coste adriatiche, con particolare riferimenti a quelli che nei secoli
legarono l’Albania alla Penisola Salentina”. È vero? Non nego l’alta competenza di
Ribezzo per l’antichità: ma per il M. Evo e l’Evo Moderno? E poi non dimenticate che
io sono Presidente della Deputazione Storica Pugliese, che ha una Sezione a Lecce.
Questo Vi dico, non per volermi inframettere, ma per ragioni di giurisdizione...
26
storica .

La seconda lettera di Monti a Schirò, circa lo stesso argomento, è datata 24


febbraio ed è una risposta ad una lettera dello stesso Schirò a Monti non
conservata in archivio, ma da quanto scrive Monti, si può dedurre cosa Schirò
gli avesse fatto presente nella sua missiva circa il lavoro di Ribezzo e le pretese
di “giurisdizione storica” avanzate da Monti:

22
Schirò a Ribezzo, 11 dicembre 1941, in ASANL, Fondo Accademia d'Italia, CSA, b. 14, fasc.
217.
23
Ibidem.
24
In una lettera del 14 aprile 1942, Ercole comunicherà a Ribezzo che per l’anno corrente non era
stato possibile assegnargli alcun premio e che sarebbe stato opportuno ripresentare la domanda
l'anno seguente (Ercole a Ribezzo, 14 aprile 1942, ibidem).
25
PER UN'EDIZIONE NAZIONALE DEL “CORPUS INSCRIPTIONUM MESSAPICARUM”
come codice diplomatico della lingua madre dell’albanese e nel quadro dell’epigrafia preromana
della penisola, ibidem. Questo documento venne trasmesso a Federzoni da Ercole con una lettera
accompagnatoria il 24 febbraio (Cfr. Ercole a Federzoni, 24 febbraio 1942, ibidem). Tra i
materiali per l'adunanza del CSA del 23 marzo 1942, è conservata un’altra relazione di Ribezzo,
più breve e concisa, per la richiesta del premio all’Accademia (Cfr. Breve relazione sull’attività
scientifica presente e sui desiderata del Prof. Francesco Ribezzo, Ivi, b. 1, fasc. 10).
26
Monti a Schirò, 10 febbraio 1942, Ivi, b. 13, fasc. 182.

88
Donato Martucci

Caro Amico,
grazie della Vostra ultima.
Vi debbo, però, una risposta, perché, pur attraverso il Vostro garbo, vedo che avete...
sorriso alquanto delle mie informazioni circa Ribezzo etc. Ora è vero che si tratta di
competenze ben lontane nei secoli, ma è pure vero che a Lecce non l’hanno intesa così,
sia in una lettera del Presidente dell’Ente Turismo a me, sia nel comunicato ufficiale che
Vi accludo e che riguarda tutti i secoli di storia.
A ogni modo, il 5 marzo terrò una conferenza in teatro a Lecce su Albania e Terra di
Otranto e metterò i puntini sugli i. Da Voi certo non attendo chiarimenti ufficiali, ma,
con il Vostro tatto, all’occasione, Vi prego chiarire le... sfere di competenza27.

Sulla questione, comunque, non si conservano altre lettere o documenti,


quindi presumiamo che le polemiche non si protrassero oltre.
Il 25 febbraio, Schirò trasmette a Ribezzo una copia della lettera che George
Pascu aveva inviato l’8 febbraio a Ercole per complimentarsi dei risultati delle
ricerche del glottologo italiano28.
Nell’adunanza del Consiglio Direttivo del Centro Studi del 23 marzo,
vengono presentati i risultati delle due missioni di ricerca di Ribezzo in Puglia e
si annuncia una loro prossima pubblicazione29.
Subito dopo, cominciano i preparativi per una ulteriore missione a Taranto
da svolgersi a maggio; viene, dunque, richiesto alla Questura di Roma un
lasciapassare30 e, al Rettore dell’Università di Palermo, le agevolazioni che a
Ribezzo erano state concesse l’anno precedente in occasione dei viaggi in
Puglia31. Vengono, inoltre, stanziati i fondi per la ricerca32.
Questa la relazione scritta da Ribezzo al suo ritorno dalla missione:

RELAZIONE DEL PROF. FRANCESCO RIBEZZO IN ORDINE ALLA MISSIONE


per la preparazione del Corpus Inscriptionum Messapicarum.

In esecuzione della missione affidatami dalla Reale Accademia d’Italia dal 16 Maggio
all’8 Giugno 1942-XX ho intrapreso il nuovo viaggio onde continuare la ricerca di
materiale epigrafico inedito o non ancora criticamente edito per la preparazione del I
Supplemento al Corpus Inscriptionum Messapicarum.

27
Monti a Schirò, 24 febbraio 1942, ibidem.
28
Cfr. Schirò a Ribezzo, 25 febbraio 1942, Ivi, b. 14, fasc. 217; Pascu a Ercole, 8 febbraio 1942,
Ivi, b. 13, fasc. 197.
29
Cfr. Verbale adunanza CSA, 23 marzo 1942, Ivi, b. 1, fasc. 10. Si vedano anche gli allegati:
Comunicato stampa e Raccolta delle iscrizioni japigo-messapiche (Ibidem).
30
Cfr. Pellati al Prefetto di Roma, 14 aprile 1942, Ivi, b. 13, fasc. 217; Prefetto di Roma a Pellati,
16 aprile 1942, ibidem; Pellati al Questore di Roma, 22 aprile 1942, Ivi, b. 7, fasc. 44; Pellati a
Prefetto di Roma, 25 aprile 1942, Ivi, b. 13, fasc. 217; Schirò a Ribezzo, 2 maggio 1942, ibidem.
31
Cfr. Ercole a Leotta, 13 aprile 1942, ibidem; Leotta a Ercole, 22 aprile 1942, ibidem.
32
Cfr. Ercole a Capo Ufficio Amministrazione della Reale Accademia d’Italia, 25 aprile 1942,
ibidem.

89
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

Il progresso degli studi consiglia ormai di classificare tra le iscrizioni di lingua


messapica quella dei Pedicoli, ossia quelle rinvenute nella zona costiera da Gnazia a
Monopoli e Rutigliano di Puglia per cui i segni della occupazione illirica, oltre che nella
lingua e nella tradizione storica, sono evidenti anche nella toponomastica e
nell’onomastica. Perciò da Taranto, di cui ho dovuto far base delle mie nuove ricerche
ho proseguito in auto, non essendo ancora collegata con ferrovia, per Gnazia
sull’Adriatico. Constatato con i propri occhi quali possibilità vi siano di nuovi
trovamenti di lingua messapica in margine ai nuovi scavi ufficiali che la Soprintendenza
alle Antichità di Taranto si propone di fare nell’area di questa città sepolta, ho
continuato il mio viaggio per Bari e Rutigliano, della cui nuova iscrizione messapica,
dopo lunga preparazione, ho potuto assicurare alla scienza, dato lo stato di corrosione in
cui si trova la pietra, una riproduzione fotografica ed una lezione critica soddisfacente.
Da Taranto stessa ho potuto fare due sopralluoghi utilissimi uno a Porto Satùro
sull’Ionio e l’altro nella contrada detta Rusce tra Grottaglie e Villa Castelli, che
rappresentano il punto di saldatura tra la civiltà preistorica delle Puglie e la civiltà
illirica di cui è parte la lingua messapica. A questa Rusce è forse da attribuire una
iscrizione del R. Museo di Taranto, di cui il Whatmough assicura la provenienza da
Grottaglie ed asserisce, senza dimostrarla, la messapicità, in mancanza di una buona
riproduzione fotografica e di una lezione critica, che presumo di aver dato.
Nuove esplorazioni del terreno ho condotto a Francavilla, Oria, Manduria, Valesio
(Brindisi). In quest’ultima località la speranza di rintracciare una epigrafe messapica
scomparsa, ha condotto alla scoperta di un’altra. A Lecce, fin dove lo ha permesso il
puntellamento anticrollo dei locali delle lapidi messapiche nel Museo Provinciale
Castromediano, ho atteso alla revisione del materiale epigrafico scoperto nella necropoli
dell’Anfiteatro Romano ed alla preparazione del fascicolo del Supplemento con le
iscrizioni messapiche inedite o non ancora criticamente edite del detto Museo. Pur nelle
difficoltà di sostare e pernottare in località lontane dal capoluogo, più di una punta ho
potuto fare nei paesi a sud del Capo di Lecce.
Del resto, date le particolarità del terreno archeologico e l’intimo nesso che in questa
regione esiste tra città antica, necropoli ed area epigrafica, ogni nuova esplorazione di
iscrizioni deve procedere mano con mano con la preparazione della Carta Archeologica
affidata alla nota competenza del Soprintendente Dr. Ciro Drago. Per il momento ho
dovuto precederla io stesso con accurati studi topografici atti a determinare le zone
archeologiche e le aree epigrafiche proprie delle iscrizioni messapiche.
Con i risultati di questo viaggio un nuovo passo avanti ho fatto per la preparazione del I
Supplemento al CIM33.

La comunicazione successiva tra il Centro Studi e Ribezzo è datata 22


settembre e trattasi di una lettera di Ercole al glottologo in cui il Direttore del
Centro afferma di aver letto la relazione dell’ultima missione in Puglia e che
l’ha trovata interessante. Si deduce, inoltre, che è stata decisa la pubblicazione
di un volume con i risultati delle ricerche e il commento critico al materiale
rinvenuto, così “dimostreremo che le missioni di questi due anni e le spese

33
RELAZIONE DEL PROF. FRANCESCO RIBEZZO IN ORDINE ALLA MISSIONE per la
preparazione del Corpus Inscriptionum Messapicarum, 1 settembre 1942, Ivi, b. 1, fasc. 11.

90
Donato Martucci

sostenute danno il loro frutto”34. Nella stessa lettera è annunciata un’ultima


missione che concluderà il ciclo delle ricerche sulle iscrizioni japigo-
messapiche in Puglia35.
In ottobre vengono stanziati i fondi per quest’ultima missione36.
Sfortunatamente, di quest’ultima missione non si conserva la relazione inviata
da Ribezzo.

4. La pubblicazione: Nuove ricerche per il Corpus Inscriptionum


Messapicarum
Il 23 gennaio 1943, Schirò scrive a Ribezzo per sapere a che punto siano i
lavori sul “Supplemento al C.I.M.”37.
Durante l’adunanza del Consiglio direttivo del Centro Studi del 12 luglio,
oltre a leggere la relazione di Ribezzo sull’ultima missione da lui compiuta per
la raccolta delle iscrizioni epigrafiche (relazione non conservata in archivio), si
annuncia che tutto il materiale raccolto è già stato interpretato e illustrato dal
Ribezzo, che il volume è già in corso di stampa e che uscirà col titolo di
“Supplemento al Corpus Inscriptionum Messapicarum”. Inoltre, non appena
consentito, il Centro di Studi per l’Albania ripubblicherà, in veste appropriata,
tutto il Corpus pubblicato dal 1921 al 1937 dallo stesso Ribezzo, a puntate, sulla
Rivista Indo-Greco-Italica38.
A questo punto, sembrano sorgere dei dissapori tra Ribezzo e il Centro
Studi. Da una lettera di Schirò apprendiamo che il glottologo voleva rimandare,
per non meglio precisati motivi, la stampa del volume:
il Ribezzo, da par suo, crede fare il pesce in barile. Inchiodatelo e tenetelo stretto col
morso: intanto dite a Bardi di portare avanti la stampa del lavoro. Ove costui, cioè il
Ribezzo, volesse rimandare all’avvenire – per qualunque ragione – la pubblicazione del
lavoro, fategli dire che non è possibile, pena la restituzione in contanti di tutte le spese
fino ad oggi affrontate.
Egli sente moltissimo gli argomenti di Creso, anche dal lato negativo. Ma poi, che va
cercando all’età di 70 anni?39.

34
Ercole a Ribezzo, 22 settembre 1942, Ivi, b. 13, fasc. 217.
35
Inoltre, Ercole lamenta il fatto che Ribezzo sfori sempre il tetto dei fondi messi a disposizione
dalla Reale Accademia d’Italia e non presenti le adeguate ricevute delle spese effettuate (Ibidem).
36
Cfr. Ercole a Capo Ufficio Amministrazione Reale Accademia d’Italia, 24 ottobre 1942,
ibidem. Cfr. Ercole a Ribezzo, 24 ottobre 1942 (Ibidem), in cui si chiede di non sforare nelle
spese perché l’Accademia non può rimborsargli più di quanto stanziato.
37
Schirò a Ribezzo, 23 gennaio 1943, ibidem.
38
Cfr. Verbale adunanza CSA, 12 luglio 1943, Ivi, b. 1, fasc. 11.
39
Schirò a Riggio, 2 agosto 1943, Ivi, b. 7, fasc. 37.

91
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

Queste frizioni, sembrano confermate da un’altra lettera, non datata, ma che


probabilmente era stata scritta da Schirò poco prima di quella citata in
precedenza, in cui possiamo leggere:

Evitare col Ribezzo comportamenti di sorta che frenerebbero a lungo il lavoro con lo
scopo di... aumentare le spese del Centro. Il Ribezzo deve solamente presentare i
dattiloscritti al più presto e correggere le bozze40.

Il 26 agosto, la signorina Riggio, che aveva momentaneamente sostituito


Schirò al Centro Studi, dato che quest’ultimo era partito in “grigio-verde”,
scrive a quest’ultimo per informarlo della situazione:

è venuto questa mattina il Prof. Ribezzo per ritirare quelle famose fotografie del suo
volume. Essendo in precedenza passato da Bardi, era stato informato del loro invio al
Centro; le abbiamo infatti ricevute: si tratta di una ventina di fotografie “di prova”.
Ha insistito molto per averle dicendo che gli sono indispensabili per metterle in ordine
dopo un certo spostamento avvenuto.
La Signorina Iori si è battuta bene e non ha consegnato niente insistendo nel dire che al
Centro non è pervenuto quanto egli desidera. Non so fino a che punto il Ribezzo abbia
creduto a questa storiella, in quanto Ferrari lo aveva assicurato di averci mandato il
pacco da due giorni. Per evitare le sue frequenti visite la Signorina gli ha detto che
avrebbe pensato il Centro stesso, se mai, a fargli recapitare le sue colonne. Che cosa
debbo fare? Credete che possiamo mandargliele, tanto più che lui assicura che gli
occorrono come “prova”?41.

Al 20 settembre è datato un appunto fatto recapitare dal Centro Studi al


Conte Pellati affinché informasse il Presidente della Reale Accademia d’Italia,
Federzoni, che il Supplemento al Corpus Inscriptionum Messapicarum era stato
dato alle stampe42.
Questa è l’ultima informazione conservata nell’archivio riguardante i lavori
per la pubblicazione del volume di Ribezzo. Le ultime due lettere a lui
indirizzate, invece, riguardano le condoglianze che gli rivolgono Schirò ed
Ercole per la perdita del figlio e sono datate 5 ottobre 194343
Nel giugno del 1944, finalmente, esce il volume, curato da Ribezzo, con il
titolo Nuove ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum.

40
Schirò a Riggio, non datata, ibidem.
41
Riggio a Schirò, 26 agosto 1943, ibidem. Il 3 settembre, in una nuova lettera, la Riggio esorta
ancora Schirò a rispondergli circa la questione delle foto di Ribezzo (Riggio a Schirò, 3 settembre
1943, ibidem).
42
Appunto per il Conte Pellati, 20 settembre 1943, Ivi, b. 9, fasc. 50.
43
Schirò a Ribezzo, 5 ottobre 1943, Ivi, b. 13, fasc. 217; Ercole a Ribezzo, 5 ottobre 1943,
ibidem.

92
Donato Martucci

Appendice
PER UN’EDIZIONE NAZIONALE DEL “CORPUS INSCRIPTIONUM
MESSAPICARUM”
come codice diplomatico della lingua madre dell’albanese e nel quadro
dell’epigrafia preromana della penisola

ALL’E. PRESIDENTE DELLA REALE ACCADEMIA D’ITALIA,

Quest’opera apparentemente piccola di mole, ma frutto di ricerche lunghe e faticose, è


stata presentata per il premio a questa Reale Accademia in due copie delle puntate o
dispense in cui è uscita finora. Nella sua veste ancora disadorna essa dev’essere
soprattutto valutata come il primo tentativo di dare con le circa duecento iscrizioni
messapiche, grandi e piccole, raccolte dai primi tempi dell’umanesimo fino all’anno
1937, quasi il codice diplomatico di un’antica lingua balcanica, trasferita verso il 1000
av. Cr. da una corrispondente migrazione etnica sulla prospiciente costa apulo-salentina
del Mare Adriatico.
In questa lingua l’Albania risorta a nazione e ricostituita in regno sotto l’unica corona
del Re Imperatore Vittorio Emanuele III, oggi, alla luce delle scienze storiche e
linguistiche, vede la lingua madre dell’albanese nel nucleo di diretta discendenza indo-
europea. Come tale e in presenza delle nostre cresciute responsabilità civili e politiche,
l’E.V. vedrà se non sia opportuno e consigliabile di prepararne un’edizione nazionale.
Ma per essere valutata appieno e da tutti i punti di vista questa raccolta speciale
dev’essere collocata nel quadro di un’attività più larga, la cui tradizione ci appartiene, e
di un programma assai più vasto, che questa Reale Accademia, erede ed attuatrice dei
compiti più squisitamente nazionali delle nostre gloriose Accademie regionali, non può
lasciare di far proprio. Questa piccola opera s’inserisce in realtà in tutto un sistema di
ricerche di epigrafia dialettale da me e da altri istituite in quelle regioni dell’Italia
preromana, sulle quali si fondò press’a poco la divisione amministrativa di Augusto ed
in cui, se partiamo dal concetto che storia di nazioni così antiche è in fondo storia della
loro lingua, si compendia ciò che di più reale della storia di tanti popoli dell’Italia e in
parte dell’Europa antica ed antichissima resta sul terreno archeologico della nostra penisola.
La ricerca su cui questa piccola opera si basa, scioglie, così come mi è stato possibile,
un voto di Teodoro Mommsen e di Ariodante Fabretti, i primi raccoglitori,
principalmente ex libris, di iscrizione messapiche nel quadro generale dell’epigrafia
dialettale dell’Italia antica. Progettata trentacinque anni fa nel mio libro La Lingua degli
Antichi Messapii e promossa al suo principio da due Accademie principi d’Europa,
Prussiana e dei Lincei, la mia raccolta è in realtà una lunga e faticosa esplorazione sul
terreno, non condotta cioè soltanto sul materiale di precedenti collezioni, in un comodo
studio o in una bene attrezzata biblioteca, ma viaggiando e frugando per decennii per lo
più nelle borgate e nelle campagne di tre province, in musei municipali appena
organizzati, nelle collezioni o ripostigli di anticaglie di oscuri amatori di provincia, in
libri manoscritti spesso irreperibili e persino nelle carte di famiglie private.
La semplice raccolta del notiziario d’iscrizioni di antico trovamento, sia per
rintracciarne le copie più dirette o più attendibili, sia per indagarne i passaggi di
proprietà o le vicende delle lapidi allo scoperto, e tutto ciò nella speranza di poterne
recuperare il monumento originale, fornirebbe materia per uno schedario molto

93
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

voluminoso e pieno di particolari interessanti. Non parlo della non meno voluminosa
serie di lettere con corrispondenti di provincia allo scopo di sincerarmi della realtà e
consistenza del trovamento di ciascuna iscrizione nuova prima di accedere sul posto,
supplendo per decennii con mezzi privati ad una funzione dello Stato. Taccio del lavoro
necessario per individuare il materiale falso o sospetto e i luoghi di fucinazione, per la
preparazione di calchi e fotografie di quello genuino, per la revisione critica delle lapidi
sul posto e finalmente delle spese per ordinazione di carattere diacritico e lapidario e di
quelle più elevate per materiale fototipico, allo scopo di salvare almeno il duplicato
fotomeccanico di monumenti la cui conservazione non mi pareva sicura.
So semplicemente che sulle puntate del mio CIM fino al 1933 si sono fondati il
Whatmough per i Prae-Italic Dialects II, alle pp. 258-423, ed il Krahe per il suo
Lexikon altillyrischer Personennamen e che oggi l’autorità dei miei risultati, epigrafici
o glottologici, viene in generale considerata come massgebend nelle scuole d’Europa e
d’America, come si esprime il Blumenthal, Idg. Forsch. LVIII (1941), p. 28. Invece le
lezioni date dal Whatmough, attraverso un sistema di trascrizione spesso molto lontano
dall’aspetto e dal valore reale delle lettere antiche e dalla stessa pratica epigrafica,
fondate su una revisione meticolosa dello stato letterale dell’iscrizione, ma con
impressioni di cose viste di passaggio, senza possibilità di revisione e senza l’appoggio
di alcuna fototipia, talvolta anche senza averne potuto conoscere l’originale, sono da
accogliere con qualche riserva.
Torno ad insistere altresì sull’avvertenza che il CIM, condotto fino al 1937, non può
essere valutato indipendentemente dall’opera che vengo svolgendo per incarico di
questa Reale Accademia per ampliarlo e completarlo fino ad oggi. Ho già pronti per
essere presentati alla prossima adunanza del Consiglio del Centro di Studi per l’Albania
i manoscritti di due dei tre Supplementi progettati per il CIM, corredati di costoso
materiale fotografico, ma i cui facsimili necessitano di nuova collazione dopo la prima
autopsia dei monumenti scoperti o recuperati alla scienza nei miei ultimi viaggi. Essi
sono:
I. Supplemento contenente le iscrizioni dialettali di antico e recente trovamento
della Daunia e Peucezia;
II. Supplemento alle iscrizioni messapiche edite dei Calabri e Sallentini,
contenente iscrizioni di nuova scoperta o di recente recupero, di cui una
d’importanza capitale nella storia dell’epigrafia;
Finalmente il CIM non può essere disgiunto da un complesso di articoli, se non
presumo, fondamentali dai punti di vista storico, onomastico, linguistico e storico-
religioso, promossi e pubblicati da questa Reale Accademia tra gli anni 1940-1942, al
fine di illustrare sulla base più larga e positiva possibile le millenarie relazioni tra
popoli, lingue e famiglie delle due prospicienti coste dell’Adriatico, la balcanica e
l’italica. Essi sono:
I. Premesse storico-linguistiche sull’autoctonia illirica degli Albanesi nella
RIVISTA D’ALBANIA I (1940), pp. 114-141;
II. L’originaria area etno-linguistica dell’albanese e la sopravvivenza di una
parola peonica in Italia nella RIVISTA D’ALBANIA II (1941), pp. 129-147;
III. Italia e Illiria preromana nel volume ITALIA E CROAZIA;
IV. Riti, miti, culti e leggende di derivazione sud-illirica in Italia nel volume
ITALIA E CIAMURIA.

94
Donato Martucci

(I due volumi sono a disposizione della R. Accademia; non ancora gli estratti a
disposizione del sottoscritto)

Questo complesso di lavori, per quanto formi oggetto e fine a se stesso, è tuttavia parte
di un programma più vasto. Da lungo tempo ho posto mano ad una raccolta sistematica
di iscrizioni dialettali di tutta l’Italia preromana, cominciando da quelle di più recente
trovamento:

I. SICILIA. Iscrizioni sicane e sicule in alfabeti mediterranei – Iscrizioni italiche di


Sicilia;

II. BRUZIO e LUCANIA. Iscrizioni ausoniche – Iscrizioni osco-lucane;

III. CAMPANIA. Iscrizioni ausoniche in alfabeto etrusco – Iscrizioni osco-


sabelliche;

IV. LAZIO. Iscrizioni latine delle origini – Iscrizioni falische;

V. REGIONE SABELLICA. Iscrizioni di latinità presabellica – Iscrizioni umbro-


sabelliche;

VI. PICENO. Le iscrizioni etruscoidi del nord- e sud-Piceno fino a quella


recentemente scoperta del Guerriero di Capestrano; (preparato per la stampa)

VII. TRANSPADANA. Iscrizioni liguri-lepontine – Iscrizioni celtiche;

VIII. VENETO. Iscrizioni retiche – Iscrizioni venete.

Di questo materiale dialettale una parte è stata da me pubblicata prima e dopo dei tre
volumi dei Prae-Italic Dialects del Conway e Whatmough in articoli e memorie
comparse nelle ventuno annate della RIVISTA INDO-GRECO-ITALICA da me diretta
e sospesa pe le difficoltà internazionali causate dallo stato di guerra; una piccola parte,
presentata sei anni or sono in saggio manoscritto a questa Reale Accademia abbracciava
iscrizioni picene e retiche di recente scoperta (petroglifi).
Un nuovo CORPUS INSCRIPTIONUM ITALICARUM che, nella patria stessa di
questi monumenti organizzi ed inquadri convenientemente, e cioè tanto dal lato
epigrafico, quanto da quello storico-glottologico, almeno il materiale di più recente
scoperta o inedito, non esiste ancora. Intanto, esaurito lo spoglio delle fonti filologiche,
su cui per un secolo si sono principalmente basate tutte le ricerche di storia antica,
queste iscrizioni, insieme con la carta archeologica e con la toponomastica delle origini,
costituiscono oggi tutto ciò che di reale dell’Italia preromana sussiste sul terreno della
penisola e tutto ciò che può contribuire ancora utilmente al progresso degli studi.
La raccolta di questi cimeli, tanto più preziosa quanto più rari, dovrebbe rivestire per
l’Italia un carattere di continuità e perpetuità in armonia del quale bisognerebbe creare
gli organi di studio e gli strumenti di ricerca. Solo l’interesse scientifico si dimostra il

95
Francesco Ribezzo e la ricerca epigrafica "sul campo"

più atto a suscitare e promuovere la volontà della ricerca e l’opera della conservazione.
Si tratta innanzi tutto della presentazione tecnica e del primo trattamento scientifico del
materiale o di recente scoperta o man mano che si venga scoprendo in margine a scavi
ufficiali o trovamenti fortuiti, o di quello che, comparso in un secolo e scomparso in un
altro, si venga recuperando dal nostro inesauribile terreno archeologico.
Tutto ciò ad evitare che monumenti linguistici così rari, ma d’importanza capitale per
noi e per il mondo e la cui conservazione investe la responsabilità stessa della nazione,
dopo essere rimasti per anni o decennii all’aperto ed esposti all’opera demolitrice degli
agenti atmosferici, vadano dispersi o distrutti anche prima di essere conosciuti e
studiati.

Prof. Francesco Ribezzo


Ord. di Glottologia nella R. Università di Palermo

ROMA I Febbraio 1942-XX

96
Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. I 29 inf., c. 29r (v. § 6 del contributo di
Marco Maggiore in questo volume). Fonte: adamap.it

97
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. San Marco 692, c. IIv (è l’unico
codice greco, v. § 2 del contributo di Marco Maggiore in questo volume).
Fonte: adamap.it

98
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 99-122
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p99
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Manoscritti medievali salentini

Marco Maggiore

1. Introduzione
Nel passare sinteticamente in rassegna le tradizioni manoscritte medievali
del Salento in quanto espressione delle molteplici lingue e culture del territorio,
è necessario partire da alcune considerazioni di fondo che chiamano in causa
aspetti peculiari della storia regionale. Il primo elemento di specificità è legato
alla presenza, in un arco di tempo che supera i confini cronologici del Medio
Evo, di scritture redatte in alfabeti diversi da quello latino, segnatamente in
caratteri israelitici e greci. La presenza dei primi è legata alle vicende storiche
della comunità ebraica salentina1, mentre la ricchezza dei secondi chiama
direttamente in causa la durevole vitalità dell’esperienza culturale italo-greca di
Terra d’Otranto, che pervenne anche a esprimere personalità letterarie di
primissimo piano come quella di Nettario di Casole, poeta bizantino vissuto a
Otranto tra il XII e il XIII secolo; essa è peraltro certamente da mettere in
relazione con la sopravvivenza fino ai giorni nostri dell’enclave dialettale
grecanica a sud di Otranto, relitto di un’area grecofona un tempo
verosimilmente più vasta2.
Proprio a sistemi di scrittura diversi da quello latino sono affidate le più
antiche testimonianze scritte del volgare romanzo locale, pervenuteci
inizialmente in caratteri ebraici, e per lungo tempo prevalentemente in alfabeto
greco. Solo più tardi, dalla seconda metà del XIV secolo, e in modo più
consistente a partire dal pieno Quattrocento, il volgare salentino si affaccia
anche nei manoscritti in grafia latina e in usi fino ad allora riservati alla lingua
di ascendenza classica. A determinare questo decisivo passaggio sono in buona
parte le scelte delle classi dirigenti impiantatesi sul territorio, tra le quali si
distingue in particolare la casata degli Orsini del Balzo, che fra Tre e
Quattrocento instaura un dominio che si pone in varie occasioni in posizione
autonoma e perfino antagonistica rispetto al potere centrale napoletano. La
promozione del volgare locale negli usi cancellereschi, statutari e notarili va di
pari passo con la diffusione dei modelli linguistici di provenienza toscana, che
ebbero ricezione anzitutto in seno alle corti baronali. Questo volgare salentino

1
Per questo tema si rinvia direttamente al contributo di FABRIZIO LELLI nel presente volume.
2
Si vedano in proposito i capitoli di ANGELIKI DOURI e DARIO DE SANTIS e di EKATERINA
GOLOVKO (cfr. le carte nel contributo di ANTONIO ROMANO) nel presente volume.

99
Manoscritti medievali salentini

tre-quattrocentesco, tra i cui campioni si annoverano anche prodotti letterari e


paraletterari di valore solitamente modesto, si configura fin dagli esordi come
un tipico prodotto di koinè3 nel cui impasto sono riconoscibili apporti di diversa
origine: al sostrato dialettale (più o meno pervasivo a seconda dei testi e degli
scriventi) si sovrappongono elementi desunti dal toscano letterario, che
convivono variamente con tratti che riconducono alle varietà del meridione
continentale (in particolare a Napoli, capitale politica e linguistica del Regno) e
con usi dovuti all’influsso del modello grafico e linguistico latino. In queste
scritture si possono peraltro segnalare specifiche peculiarità grafiche, come il
persistente impiego di <ch> per rendere l’affricata postalveolare [ʧ] che
accomuna il salentino ad altre varietà meridionali estreme4, o l’uso del
digramma <lh> per la laterale palatale, tipico però solo di alcuni codici5.
Un’altra caratteristica della produzione manoscritta salentina (greca, latina,
ebraica) richiama una constatazione di fatto: in séguito a varie circostanze
storiche, poco o nulla di tale produzione è rimasto sul territorio. Ben prima della
distruzione della biblioteca di Casole durante l’invasione turca del 1480, i
manoscritti greci prodotti nel monastero otrantino furono soggetti a successive
espropriazioni, e si trovano oggi sparsi in numerose biblioteche italiane e
straniere. Un fondo importante di codici latini di provenienza salentina è invece
conservato presso la BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE di Parigi (= PBnF):
tali manoscritti, in origine appartenuti alle locali biblioteche signorili, erano
confluiti in diversi momenti del Quattrocento nelle collezioni librarie aragonesi
di Napoli, per poi essere traslati Oltralpe come parte del bottino di guerra dopo
la discesa in Italia di Carlo VIII di Valois (1494-95). Le eccezioni a tale
“diaspora” non sono molte: tra queste si segnala il cosiddetto Codice di Maria
d’Enghien, oggi conservato nel fondo pergamenaceo dell’Archivio di Stato di
Lecce (vedi infra § 7).
Un tale stato di dispersione libraria ha certamente contribuito all’oblio delle
relative tradizioni manoscritte, determinando lacune nella storia linguistica
regionale. Gli studi dell’ultimo quarantennio hanno tuttavia consentito
significativi progressi: se già le ricerche di M. Treves e di L. Cuomo avevano
acquisito alla conoscenza degli italianisti le antiche tracce in alfabeto ebraico (§
2), successive indagini di A. Jacob, R. Distilo e (in tempi più recenti)
D. Arnesano hanno portato alla luce numerose testimonianze volgari (romanze)

3
Cfr. R. COLUCCIA, Lingua e politica. Le corti del Salento nel Quattrocento, in P. VITI (a cura di),
Letteratura, verità e vita. Studi in ricordo di Gorizio Viti, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
2005, pp. 129-172.
4
Cfr. R. COLUCCIA, «Scripta mane(n)t». Studi sulla grafia dell’italiano, Galatina, Congedo, 2002,
p. 37.
5
Cfr. R. DISTILO, Una pagina sconosciuta della tradizione scrittoria provenzale: il grafotipo
<lh> in Italia, in Actes du XVIIe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes (Aix
en Provence, 29 août – 3 septembre 1983), a cura di J.-C. BOUVIER, 9 voll., Aix en Provence,
Université de Provence 1984-1986, vol. VIII, 1986, pp. 267-292.

100
Marco Maggiore

in manoscritti greci salentini, che vanno ad aggiungersi a quelle già studiate da


O. Parlangèli. Sul versante dei testi in grafia latina, un apporto significativo è
venuto dagli studi di R. Coluccia e collaboratori, la cui attività ha prodotto
anche uno strumento digitale dedicato alla tradizione manoscritta pugliese,
l’Archivio digitale degli antichi manoscritti della Puglia (d’ora in avanti
ADAMaP), consultabile in rete e su supporto informatico6. Allo stesso gruppo
di studio si devono anche nuove edizioni critiche, come quella della
Grammatica di Nicola de Aymo a cura di R.A. Greco7 e quella del Librecto di
pestilencia curata da V.L. Castrignanò (per i due testi, vedi infra § 4)8, cui si
aggiungerà a breve l’edizione corredata da uno studio linguistico dello Scripto
sopra Theseu re, commento salentino al Teseida di Boccaccio (§ 5)9. Tali
iniziative editoriali hanno consentito un significativo aumento delle conoscenze
sulla storia linguistica medievale della subregione.
I paragrafi seguenti richiameranno gli aspetti principali della produzione
manoscritta salentina entro il termine convenzionale del 149210. Rinviando alle
schede filologiche del citato ADAMaP per gli aspetti più strettamente tecnici
(codicologici e paleografici), prenderemo in considerazione i codici soprattutto
in quanto testimoni della cultura volgare romanza, provando a evidenziare i dati
più significativi sul piano storico-linguistico11.

6
R. COLUCCIA, A. MONTINARO (a cura di), Archivio Digitale degli Antichi Manoscritti della
Puglia. Censimento e ricostituzione virtuale della biblioteca, Lecce-Rovato, Pensa Multimedia,
2012; cfr. il contributo di ANTONIO MONTINARO nel presente volume; v. anche su internet
all’indirizzo http://www.adamap.it/STUDI/CONSULTAZIONE/ConsultazioneStudi.aspx.
7
R.A. GRECO (a cura di), La grammatica latino-volgare di Nicola de Aymo (Lecce, 1444): un
dono per Maria d’Enghien, Galatina, Congedo, 2008.
8
V. L. CASTRIGNANÒ, Il Librecto di pestilencia di Nicolò di Ingegne (1448), «cavaliero et
medico» di Giovanni Antonio Orsini del Balzo, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo –
Centro di Studi Orsiniani, 2014.
9
L’edizione del testo è già disponibile nella tesi di dottorato M. MAGGIORE, Un commento al
Teseida di Boccaccio di provenienza salentina (II metà del XV secolo), tutori L. Serianni,
R.A. Greco, “Sapienza” Università di Roma, 2013; la pubblicazione di un volume per le cure di
chi scrive è prevista per il 2015/2016 nella collezione «Beihefte zur Zeitschrift für romanische
Philologie» diretta da W. Schweickard per la casa editrice De Gruyter (Berlino).
10
Il rispetto di tale termine impone l’esclusione di testi notevoli come l’anonimo Trattato di
igiene e dietetica (peraltro proveniente da Taranto, dunque di area peri-salentina) risalente al 1505
circa, o ancora l’importante Esposizione del Pater noster, unica opera in volgare di Antonio de
Ferrariis Galateo, dei primi anni del sec. XVI (per questi e altri testi sia consentito il rinvio alle
schede dell’ADAMaP e alla bibliografia ivi raccolta).
11
Una prima panoramica sugli antichi testi salentini (compresa la documentazione epigrafica), da
aggiornare tuttavia alle acquisizioni successive, è offerta da M.T. ROMANELLO, L’affermazione
del volgare nel Salento medievale, in «Archivio storico per le province napoletane», 96, 1978, pp.
9-63. In particolare si attingerà, rinviando a luoghi puntuali solo in caso di citazioni letterali, a
R. COLUCCIA, Lingua e cultura fino agli albori del Rinascimento, in B. VETERE, (a cura di), Storia
di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 487-571; ID., Il volgare nel
Mezzogiorno, in L. SERIANNI, P. TRIFONE (a cura di), Storia della lingua italiana, 3 voll., Torino,
Einaudi, vol. III, Le altre lingue, 1994, pp. 373-405; ID., La Puglia, in F. BRUNI (a cura di),

101
Manoscritti medievali salentini

2. Codici ebraici e greci


Solo pochi cenni essenziali dedicheremo alle tradizioni allografe del Salento
medievale. Le più antiche attestazioni di voci in volgare salentino ricorrono,
addirittura già nel X secolo (in anni cioè non lontani da quelli dei famosi Placiti
campani), nell’opera di Shabbetay Donnolo, medico ebreo nato a Oria verso il
913 e vissuto nell’Italia meridionale bizantina (con un probabile lungo
soggiorno a Otranto), morto dopo il 982. Nel suo trattato di farmacologia,
conservato da codici di epoca posteriore12, egli si serve di denominazioni
botaniche attinte al greco, al latino e anche al volgare italoromanzo, anche se
per la maggior parte di queste voci è oggettivamente ardua l’attribuzione all’una
o all’altra delle varietà in gioco. Oltre ad alcuni toponimi rinvianti a località
meridionali come Oria, Otranto e Rossano Calabro, si ricorderà tra le voci
“romanze” almeno QWQWMRYNA (secondo la traslitterazione di M. Treves),
termine indicante il cocomero asinino (Echallium elaterium) che «a Lecce ancor
oggi […] si chiama cocomerina»13. Più interessanti sul piano linguistico le 154
glosse salentine rinvenute in un codice della Mišnah dell’ultimo quarto del sec.
XI, il manoscritto ebraico De Rossi 138 della Biblioteca Palatina di Parma, alle
quali L. Cuomo ha dedicato un importante articolo14. Si tratta di brevi scritture,
quasi tutte annotazioni lessicali ancora una volta di carattere botanico come
lentik(k)la nigra 9, meluni rutundi 13, iśkarole salβateke 15, kukuzza lunga 1715
e molte altre; tra i lessemi si rinvengono però anche voci verbali, che danno
luogo a brevissime frasi come frikane forte ‘si sfregano vigorosamente’ 123.

L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, Torino, U.T.E.T., 1992-1994, vol. II, pp. 687-727; ID.,
Lingua e politica, cit.; ID., Migliorini e la storia linguistica del Mezzogiorno (con una postilla
sulla antica poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci), in «Studi linguistici italiani»,
35, 2009, pp. 161-206; ID., La cultura delle corti salentine, in L. PETRACCA, B. VETERE (a cura
di), Un principato territoriale nel regno di Napoli? Gli Orsini del Balzo principi di Taranto
(1399-1463), Atti del Convegno di studi (Lecce, 20-22 ottobre 2009), Roma, Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo – Centro di studi orsiniani, 2013, pp. 87-127.
12
Il più antico è il ms. FIRENZE, BIBLIOTECA MEDICEA LAURENZIANA (= FBML) plut. LXXXVIII,
37, del XIV secolo, utilizzato per la sua edizione parziale del testo da M. STEINSCHNEIDER,
Donnolo. Pharmakologische Fragmente aus dem zehnten Jahrhundert, in «Archiv für
pathologische Anatomie», 38-42, 1867-1868.
13
M. TREVES, I termini italiani di Donnolo e Asaf (sec. X), in «Lingua nostra», 22, 1961, pp. 64-
66 (a p. 66).
14
L. CUOMO, Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138, in
«Medioevo Romanzo», 4, 1977, pp. 185-271. Nell’esemplificazione che segue si offre
direttamente la traslitterazione dell’autrice, rinviando per i dettagli al saggio, in particolare
all’edizione delle glosse (pp. 228-271).
15
Così l’autrice rende la sequenza traslitterata qwqwç’ lwng’, cfr. CUOMO, Antichissime glosse...,
cit., p. 233; tuttavia ci sembra più probabile che il W ebraico sia da associare in questo caso a un
grado vocalico /'ɔ/ (longa), una realizzazione ['luŋga] essendo inattesa in area salentina,
particolarmente a questa altezza cronologica.

102
Marco Maggiore

Nel complesso questa documentazione testimonia la ricchezza e la vivacità


delle comunità giudaiche locali e il forte legame di alcuni loro esponenti con gli
ambienti di cultura greca e latina del territorio.
Nella Terra d’Otranto medievale è soprattutto la cultura bizantina a
conoscere un rigoglioso sviluppo, in particolare tra i secoli XIII-XIV, allorché si
assiste a una notevole fioritura della produzione libraria16. Si segnala in questi
secoli la fervida attività di un centro di irradiazione come il monastero di San
Nicola di Càsole, presso Otranto, ove si giunse fino all’instaurazione di «una
vera e propria attività di prestito librario»17, ma il greco si scrive e si legge
anche in vari contesti di natura scolastica, fino all’ambiente “domestico” «delle
dinastie di preti secolari, residenti nei villaggi dell’entroterra, i quali
tramandavano di padre in figlio la spiritualità orientale e la cultura greca». Sono
centinaia i codici greci di provenienza salentina identificati, numerosi dei quali
si connotano anche per una peculiare grafia, la minuscola barocca otrantina cui
ha recentemente dedicato una monografia D. Arnesano18. Nell’alveo di questa
cospicua attività scrittoria, gli studi dell’ultimo settantennio hanno messo in
luce la presenza di numerose testimonianze del volgare romanzo locale,
registrate in alfabeto greco soprattutto a partire dai primi decenni del Trecento19.
Si tratta in molti casi di scritture avventizie, glosse esplicative e marginalia
annotati sui codici da scriventi che si servivano del greco come lingua di
cultura, ma parlavano abitualmente i dialetti provenienti dal latino. Non
mancano peraltro testi di una certa estensione e di notevole importanza
culturale.
Il codice FBML plut. 57 36 è un palinsesto pergamenaceo, composto tra la
fine del Due e gli inizi del Trecento, che raccoglie vari testi di argomento
grammaticale, segno che fu probabilmente utilizzato in una delle scuole di
greco attive in Terra d’Otranto. Oltre ad alcune brevi glosse romanze, esso ci
trasmette due antichi componimenti in volgare altrimenti ignoti, uno dei quali,
trascritto sul verso di c. 104, appartiene al genere della «canzone di malamata»
(incipit: ββελλου μεσσερε ασσαι δουρμιστι), mentre dell’altro, leggibile a c. 17
(αμουρι αμουρι δ’αμουρι λα μια μουρτι σε αλτρου ομου), ci è conservato per

16
Cfr. A. JACOB, Culture grecque et manuscrits en Terre d’Otrante, in Atti del III congresso
internazionale di studi salentini e del I congresso storico di Terra d’Otranto (Lecce, 22-25
ottobre 1976), Lecce, Centro Studi Salentini, pp. 51-77 (a p. 54); D. ARNESANO, La minuscola
«barocca». Scritture e libri in Terra d’Otranto nei secoli XIII e XIV, Galatina, Congedo, 2008, p.
10.
17
M. APRILE, R. COLUCCIA, F. FANCIULLO, R. GUALDO, La Puglia, in M. CORTELAZZO et al. (a
cura di), I dialetti italiani: storia, struttura, uso, Torino, U.T.E.T., 2002, pp. 679-756 (a p. 695).
18
Cfr. ARNESANO, La minuscola «barocca», cit. (da p. 14 derivano le citazioni precedenti).
19
Cfr. R. DISTILO, Apulien und Salento. b) Salento, in Lexicon der romanistischen Linguistik, a
cura di G. HOLTUS, M. METZELTIN, C. SCHMITT, 8 voll., Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1988-
2011, vol. II,2, pp. 220-227. I dati sui manoscritti e sui testi citati di seguito (ivi incluse le
sequenze in caratteri greci) derivano dalle utili schede riassuntive curate da F. Giannachi in
ADAMaP.

103
Manoscritti medievali salentini

una circostanza eccezionale il nome dell’autore, un non meglio noto Nicola


Dettore menzionato nell’explicit (σε αππελλα νικολα δεττορε λου δεττορε). I
due brevi testi, segnalati per la prima volta da D. Arnesano20 e più di recente
studiati da A. De Angelis21, rappresentano una preziosissima traccia di
tradizioni liriche diffuse nel Mezzogiorno e indipendenti dalla meglio nota
direttrice che a partire dalla fine del Duecento si concretizzò nell’allestimento
dei grandi canzonieri latori della lirica delle Origini22. Riconduce allo stesso
periodo, ma a un contesto di tipo più strettamente scolastico, il carme λ’αουκα
λα πεννα ντενδεσε conservato a c. 51r nel ms. greco 1276 della BIBLIOTECA
APOSTOLICA VATICANA (= CVBAV): il breve componimento in alessandrini
che esorta allo studio letterario e all’apprendimento dell’arte della scrittura è
riconducibile all’area salentina settentrionale secondo R. Distilo, che ha studiato
il testo insieme a una lauda alla Vergine (ω βερτζενε σαντισσεμα) di analoga
struttura metrico-ritmica trasmessa dal ms. Phil. Gr. 49 della BIBLIOTECA
NAZIONALE AUSTRIACA di Vienna, anch’esso ricopiato tra i secc. XIII e XIV23.
Non mancano documenti in prosa di estensione anche notevole. Il testo
«indubbiamente più importante per ampiezza e filologicamente più
problematico è costituito dalle Sentenze morali di Gregorio Nazianzeno, una
traduzione-adattamento in “salentino” (risalente ai primi decenni del ’300) dei
59 tetrastici del Nazianzeno e di un loro commento interpretativo in prosa»24.
Conservato dal ms. CVBAV Ott. gr. 2252, il testo, potenzialmente assai
significativo per la nostra conoscenza delle antiche varietà romanze del
territorio, è purtroppo ancora inedito. Sono invece ben noti altri lacerti di prosa
in caratteri greci, tutti di argomento religioso: una predica della prima metà del
Trecento (FBML San Marco 692, cc. IIv-IVv) e un frammento confessionale
della seconda metà del secolo (MILANO, BIBLIOTECA AMBROSIANA [= MBA] F
122 sup., cc. 20r e segg.) sono stati studiati dal Parlangèli25. Un gruppo di testi
(una serie di articoli religiosi, una confessione ritmica più alcune glosse) ci è
conservato dal codice MBA B 39 sup., databile intorno alla metà del

20
In D. ARNESANO, D. BALDI, Il palinsesto Laur. Plut. 57.36. Una nota storica sull’assedio di
Gallipoli e nuove testimonianze dialettali italo-meridionali, in «Rivista di Studi Bizantini e
Neoellenici», 41, 2004, pp. 113-139.
21
A. DE ANGELIS, Due canti d’amore in grafia greca dal Salento medievale e alcune glosse
greco-romanze, in «Cultura Neolatina», 70 (2010), pp. 371-413.
22
Per un inquadramento generale del problema, cfr. R. COLUCCIA, Introduzione, in ID. (a cura di),
I poeti della Scuola siciliana. III. Poeti Siculo-Toscani, Milano, Mondadori, 2008, pp. V-CII.
23
Cfr. R. DISTILO, Scripta letteraria greco-romanza. Appunti per i nuovi testi in quartine di
alessandrini, in «Cultura neolatina», 46, 1986, pp. 79-99.
24
DISTILO, Salento, cit., p. 221, dove è offerto anche un interessante stralcio del testo.
25
O. PARLANGÈLI, La Predica Salentina in caratteri greci, in H. LAUSBERG, H. WEINRICH (a cura
di), Romanica. Festschrift für Gerhard Rohlfs, Halle, Niemeyer, 1958, pp. 336-360, ristampata in
ID., Storia linguistica e storia politica nell’Italia meridionale, pp. 143-174; ID., Formula
confessionale salentina, in Omagiu lui Alexandru Rosetti la 70 de ani, Bucarest, EA, 1965, pp.
663-667.

104
Marco Maggiore

Quattrocento: i testi erano stati attribuiti dal Pagliaro ad area calabrese, ma più
di recente R. Distilo li ha ascritti al Salento26.
Sono notevoli anche le glosse in volgare che si rinvengono sui margini di
vari codici di provenienza otrantina, che oltre a rendere una preziosa
testimonianza dell’attività di apprendimento del greco, forniscono non di rado la
prima attestazione di voci appartenenti al fondo dialettale. Tra i documenti di
questo tipo si possono ricordare almeno le antiche glosse del codice Cryptensis
Z α IV (gr. 8) della BIBLIOTECA DELLA BADIA GRECA DI GROTTAFERRATA
(secc. XIII ex.-XIV in.), considerate come provenienti dalla Sicilia da
L. Melazzo che ne ha procurato il testo e lo studio integrale27, ma dichiarate
salentine sulla base di considerazioni linguistiche da R. Distilo28, e, ormai tra la
fine del XV e il pieno XVI secolo, le annotazioni lessicali all’Iliade del ms.
CVBAV Ott. gr. 5829, caratterizzate tra l’altro da notevoli spie morfologiche di
“otrantinità” come la terminazione -ra delle voci verbali di 6a del perfetto (ad
es. συνελθεῖν : βεννιρα 1r, cfr. sal. vènnira ‘vennero’). Ma le scritture
avventizie sui margini dei manoscritti greci possono riservare ulteriori sorprese:
un esempio notevole sono le sparute glosse bilingui in inglese e in volgare
romanzo, risalenti forse al Trecento, che si leggono sulle cc. 122v e 123r del
ms. CVBAV Gr. 14 (ad es. κάρνε: φλές; πίσσε: φίσχ, ecc.)30: si tratta con ogni
probabilità della più antica documentazione nota della lingua inglese in
territorio italiano. Un altro caso significativo si verifica a c. 1r del ms. CVBAV
Ott. gr. 154, dove una mano diversa da quella che ha copiato il codice, e
risalente al più tardi alla prima metà del sec. XVI, ha vergato il distico iniziale
del sonetto CII del Canzoniere di Petrarca: Tξεσαρου πόη κε λ τραδιτούρ δε

26
Si veda da ultimo R. DISTILO, Tradizioni greco-romanze dell’Italia meridionale. Per i testi
romanzi dell’Ambros. B 39 sup., in «Helikon», 1982-1987, pp. 351-374.
27
L. MELAZZO, Le glosse volgari nel codice Criptense gr. Z α IV, in «Bollettino del centro di
studi filologici e linguistici siciliani», 14, 1980, pp. 37-112.
28
R. DISTILO, Tradizioni greco-romanze dell’Italia meridionale, I. Appunti sulla scripta
«siciliana» del codice Crypt. Γ.α. VI, II. Per le glosse del cod. Crypt. Z. α. IV, in «Cultura
Neolatina», 45, 1985, pp. 171-200 (ristampato in ID., Káta latínon. Prove di filologia greco-
romanza, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 43-81). Un’ulteriore spia lessicale che riconduce queste
glosse al Salento è recentemente segnalata da M. MAGGIORE, Italiano letterario e lessico
meridionale nel Quattrocento salentino, in «Studi Linguistici Italiani», 29, 2013, pp. 3-27 (a pp.
22-23).
29
Un’edizione parziale si trova in A. COLONNA, Glosse meridionali in un codice omerico, in
«Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Classe di Lettere e Scienze morali e
storiche», 89, 1956, pp. 195-212.
30
Segnalate da ARNESANO, BALDI, Il palinsesto Laur. Plut. 57.36, cit., pp. 130-131, n. 78; inoltre
cfr. M. MAGGIORE, Volgare italoromanzo, greco e inglese in un codice medievale salentino, in
corso di stampa negli atti del XLVI Congresso Internazionale della Società di Linguistica Italiana
(Università per Stranieri di Siena, 27-29 settembre 2012) [testo consegnato nel 2012]; C.
SCARPINO, Le glosse italo-inglesi del ms. Vat. Gr. 14, in «Studi linguistici italiani», 29, 2013 (ma
2014), pp. 153-197.

105
Manoscritti medievali salentini

αξυττου / κυ φετξε ιλ δον δε λα ουνορατα τεστα31. Il fatto dimostra che neanche


le genti ellenizzate di Terra d’Otranto tra Quattro e Cinquecento erano
insensibili al fascino della letteratura toscana, il cui successo è attestato dai
coevi manoscritti in grafia latina (vedi § 5).

3. Lettere mercantili, lettere dalla corte


Il dinamismo dell’antica comunità ebraica del Salento, di cui già si è detto
nel precedente paragrafo, è testimoniato anche dal gruppetto di lettere
mercantili in volgare (e in grafia latina) datate tra la fine del Tre e l’inizio del
Quattrocento, oggetto di un fondamentale contributo di A. Stussi32. Cinque di
queste lettere sono indirizzate da un «Sabatino Russo judio de Leze» (1,2) a
Biagio Dolfin veneziano. Dai testi apprendiamo che Sabatino aveva costituito
col Dolfin una compagnia in colleganza per commerciare ad Alessandria per
conto del socio, il quale restava in Venezia. Nella seconda epistola il mercante
ebreo informa il destinatario della depredazione subita dalla propria nave da
parte dei corsari; tuttavia le tre lettere successive vedono Sabatino
verosimilmente impegnato a discolparsi da un’accusa di imbroglio. La
circostanza sembra confermata dal contenuto della sesta missiva, indirizzata allo
stesso Biagio da un altro ebreo salentino, Mosè de Meli, il quale scrive
espressamente per informare il veneziano «de la gaba che ve à fatto Sabatyno
judeo de Cobertyno chy sta mo’ i(n) Leze de li besa(n)ty CIII de oro che pellao
delu vostro (et) adusseli i(n) Leze» (6,1-3). Al di là dell’interessante spaccato di
cronaca mercantile che ne emerge, i documenti rivestono grande interesse dal
punto di vista storico-linguistico: si tratta di una delle più antiche e genuine
testimonianze del volgare scritto locale. La lingua delle lettere di Sabatino
Russo e Mosè de Meli è un impasto il cui fondo rinvia decisamente alle varietà
salentine settentrionali (come prova ad esempio la frequente confluenza di -E e -
I nel grado -i: quelly cuntrati, alcuny altry cosi, lli spesi, ecc.), entro cui si
notano anche alcuni elementi desunti dal veneziano: un venetismo vistoso delle
sole lettere di Sabatino è, ad esempio, l’uso dell’obliquo di prima singolare
come soggetto: mi Sabatino Russo … vi fazo assaperi (1,2-3; 2,2), mi ò perdutu
lu mio e llu vosstru (3,12), ecc. (ma Mosè impiega regolarmente hio). Tali
elementi sono stati opportunamente interpretati «come una sorta di

31
Si segue la trascrizione di R. COLUCCIA, Manifestazioni del plurilinguismo e affermazione
dell'italiano nella regione galatinese, in «Medioevo Romanzo», 17, 1992, pp. 251-270 (a pp. 259-
260). Così l’originale petrarchesco: «Cesare, poi che ’l traditor d’Egitto / li fece il don de
l’onorata testa».
32
A. STUSSI, Antichi testi salentini in volgare, in «Studi di filologia italiana», 23, 1965, pp. 191-
224; si cita dalla ristampa in ID., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani,
Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 155-181.

106
Marco Maggiore

adeguamento anticipato della lingua del mittente a quella del ricevente»33 e


ricondotti a una fenomenologia tipica dello scritto epistolare.
Le lettere dei mercanti ebrei salentini rappresentano una preziosa
testimonianza superstite di quegli usi scritti legati al mondo dei commerci e alla
vita degli ambienti mercantili e finanziari del Salento medievale, la cui
consistenza originaria dobbiamo immaginare ben più vasta degli sparuti lacerti
che ce ne sono pervenuti. In parte diverso (benché non meno soggetto a
un’ingente dispersione documentaria) è il caso della produzione epistolare
legata alla vita delle corti e all’attività delle cancellerie: in questo settore si
segnalano sette lettere in volgare della regina Maria d’Enghien (per questa
figura, cfr. § 4) redatte dalla sua cancelleria a partire dal 1420, delle quali sei
risultano spedite da Lecce e una da Galatina: i documenti testimoniano l’ormai
piena accoglienza nelle scritture ufficiali della corte orsiniana del volgare
locale, un volgare che è tuttavia sublimato in una koinè già ben lontana dalla
lingua delle testimonianze mercantili dell’inizio del secolo. Si sono conservate
anche lettere prodotte da privati cittadini: la più antica è quella forse autografa
inviata da tale Tuccio Barella di Galatina al capitano di Copertino Nicola
Reppatito il 9 marzo 1422 e pubblicata da G. Vallone34.

4. La corte degli Orsini del Balzo di Taranto


Per assistere alla fioritura di un’autentica (ma non sempre pienamente
autonoma) cultura manoscritta volgare, bisogna tuttavia attendere la nascita di
un potentato territoriale in Salento. Tale circostanza si realizzò con alterne
vicende tra il 1399 e il 1463, allorché la dinastia dei Del Balzo Orsini impiantò
sull’attuale territorio pugliese un ampio dominio che comprese nei periodi di
massima estensione il principato di Taranto, il ducato di Bari, le contee di Lecce
e Soleto, la baronia di Tricase e numerose città della provincia di Terra
d’Otranto35. Fondatore di questa signoria fu Raimondo del Balzo Orsini, ma si
riconosce in particolar modo alla moglie di lui Maria d’Enghien (che sposò
dopo la morte di Raimondo il sovrano Ladislao di Durazzo, divenendo regina di
Napoli) e al figlio Giovanni Antonio il merito di aver promosso e incentivato
l’impiego del volgare per gli usi della corte e dell’annessa cancelleria. Non è
dunque un caso che ci siano pervenuti alcuni codici che testimoniano l’impegno
culturale di queste figure.

33
COLUCCIA, La Puglia, cit., p. 689. Per l’analisi linguistica dei testi cfr. STUSSI, Antichi testi
salentini, pp. 165-175.
34
Cfr. G. VALLONE, Autonomismo orsiniano e volgare salentino, in «Sallentum», 4, 1981, pp. 49-
59.
35
Cfr. C. MASSARO, Otranto e il mare nel tardo Medioevo, in Otranto nel Medioevo tra Bisanzio
e Occidente, a cura di H. HOUBEN, Galatina, Congedo, 2007, pp. 175-226 (in particolare a p. 175);
ma si vedano, più di recente, almeno i saggi raccolti nel volume a cura di PETRACCA-VETERE, Un
principato territoriale, cit.

107
Manoscritti medievali salentini

Del cappellano della regina Maria, frate Nicolao de Aymo dell’ordine dei
predicatori, ci resta un’interessante opera di grammatica latina,
l’Interrogatorium constructionum gramaticalium, redatto nell’anno 1444 e
trasmesso da due manoscritti: l’unico testimone integrale è il pregiato
pergamenaceo conservato presso la BIBLIOTECA COMUNALE AUGUSTA di
Perugia (ms. D 38), probabile esemplare di dedica, elegantemente miniato e
composto di 93 cc. copiate in gran parte da una mano unica; un altro testimone,
conservato presso la BIBLIOTECA NAZIONALE di Napoli (ms. V H 135), risale al
1453 e trasmette solo una versione incompleta del testo (appena 15 cc.).
L’Interrogatorium di Nicola de Aymo, preceduto da una dedicatoria a Maria
d’Enghien, è uno strumento pensato dal suo autore per agevolare
l’apprendimento del latino da parte di giovani discenti: l’autore, seguendo il
modello di altre grammatiche simili pubblicate in Italia fra Tre e Quattrocento
(a partire dalle celebri Regulae di Francesco da Buti), si serve del volgare locale
come lingua di traduzione, documentando così «un’attività pedagogica locale
legata all’insegnamento del latino: i(n) Leche è una bona scola de gramatica si
dichiara un po’ pomposamente a c. 92v B 22-3»36. Il volgare
dell’Interrogatorium è una lingua meramente subalterna al latino, di cui non di
rado ricalca artificiosamente le strutture (ad es. lo nuostro maistro, lo quale
intrante in la scola tucti li scolari tacono, lege apertamente 55r A 16-8).
Tuttavia, come documenta l’edizione commentata a cura di R. A. Greco,
corredata di un utile glossario37, nel testo affiorano non di rado elementi
vernacolari, con preziose attestazioni di voci salentine come nusterça ‘l’altro
ieri’ < NUDIUS TERTIUS (cfr. VDS38 s.v. nustierzu), groffolare ‘russare’ (VDS
s.vv. groffulare, gruffulare), insetare ‘innestare’ (VDS s.vv. insetare, nsetare,
nsitare), scardare (pissi) ‘squamare’ (VDS) ecc.
Fra Lecce e Taranto si dispiega l’attività del figlio di Maria d’Enghien, quel
Giovanni Antonio del Balzo Orsini che con la sua spregiudicata attività politica
giunse fin quasi a costituire una signoria all’interno del Regno di Napoli.
Principe di Taranto dal 1420, gran conestabile del Regno dal ’35 e conte di
Lecce dal ’46, Giovanni Antonio (come apprendiamo anche dal suo epistolario
superstite) incrementò l’uso scritto del volgare presso la propria corte39, verso la
quale attirò vari personaggi di estrazione salentina protagonisti di una qualche
attività culturale. Fra questi ebbe un ruolo particolare il gallipolino Jachecto
Maglabeto, segretario e cancelliere dell’Orsini, in seguito caduto in disgrazia e
fatto giustiziare dal principe nel 1458. Ancora nell’agosto 1456, su istanza di

36
COLUCCIA, Lingua e politica, cit., p. 136.
37
GRECO, La grammatica latino-volgare, cit.
38
Si cita sotto questa sigla G. ROHLFS, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), 3
voll., Galatina, Congedo, 1976 (ristampa anastatica dell’ed. München, Verlag der Bayerischen
Akademie der Wissenschaft 1956-1959).
39
Che aveva probabilmente in Lecce la sua sede principale: cfr. COLUCCIA, Lingua e politica, cit.,
pp. 141-142.

108
Marco Maggiore

Jachecto, il suo servitore Aurelio Simmaco de Jacobiti de Tossicia (piccolo


centro dell’Abruzzo) si cimentava in due rifacimenti in ottave, rispettivamente
della Batracomiomachia (non volgarizzata direttamente dall’originale greco,
bensì dalla traduzione latina dell’umanista Carlo Marsuppini) e del libro VI
dell’Eneide: entrambi i poemetti40 sono pervenuti nel ms. PBnF It. 1097, che
contiene anche un sonetto caudato dello stesso Jachecto e un’invettiva in versi
contro il traditore Pietro Turditano firmata da un altro servitore del dignitario
gallipolino, tale Falcecto, che nel congedo invita la propria canzone a recarsi
senza paura presso il principe […] quale in Lecce sedy. Il manoscritto parigino,
redatto verosimilmente al di fuori della corte pugliese benché in collegamento
con essa, entrato successivamente nella biblioteca di Giovanni Antonio, «può
considerarsi un tentativo di Jachecto […] di risolvere i contrasti con il potente
signore»41.
L’opera più interessante connessa all’attività del principe è tuttavia un
trattato in volgare sulla peste composto nel marzo 1448 e trasmesso dal ms.
PBnF It. 455 col titolo di Librecto di pestilencia. Il suo autore è un Nicolò di
Ingegne, cavaliero et medico dell’Orsini. La trattazione del Librecto si svolge
nella forma di un dialogo in cui lo stesso principe di Taranto, al quale l’opera è
dedicata, figura come personaggio che interagisce con due suoi medici di corte,
«Aloysi Tafuro de Licio» e «Symone de Musinellis de Butonto». Il recente
studio sul testo42, oltre ad offrirne l’edizione completa, ha raccolto le notizie
biografiche disponibili su Nicolò: medico originario di Galatina, egli completò i
suoi studi di medicina con ogni probabilità a Padova, e risulta morto tra il 1453
e il 1464. È inoltre emersa la dipendenza del Librecto da un trattato di medicina
in volgare pressoché coevo, il De preservatione a peste del medico padovano
Michele Savonarola. Il pervasivo influsso della fonte veneta, che l’Ingegne ha
utilizzato «per costruire l’impalcatura concettuale e teorica del suo testo», ha
delle conseguenze sulla facies linguistica del Librecto, che pure non è priva di
spie di tipo salentino come i casi di accordo al quarto genere (per questo
fenomeno cfr. oltre, § 6)43; qualche elemento di meridionalità si rinviene inoltre
nel lessico44. Nel prologo (c. 2r.a 2-3) Nicolò si professa autore anche di

40
L’edizione dei due testi è procurata da M. MARINUCCI (a cura di), Batracomiomachia.
Volgarizzamento del 1456 di Aurelio Simmaco de Iacobiti, Padova, Esedra, 2001; ID. (a cura di)
Sexti Libri Publii Vergilii Maronis Aeneidos vulgari rhytmo traductio per Aurelium Simmacum de
Jacobictis (a. 1456), Trieste, Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Scienze del
Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione, 2004.
41
COLUCCIA, Lingua e politica, cit., p. 149.
42
CASTRIGNANÒ, Il Librecto, cit., in partic. pp. XIX-XXV per le notizie su Nicolò, pp. XLIII-LIII
per le fonti dell’opera. La successiva citazione testuale si legge a p. LVII.
43
Per questa casistica nel Librecto, sia consentito il rinvio a M. MAGGIORE, Evidenze del quarto
genere grammaticale in salentino antico, «Medioevo letterario d’Italia», X, 2013 (ma 2014), pp.
71-122, in particolare alle pp. 107-108.
44
L’elenco di voci locali presentato a p. LXXIII dell’edizione raccoglie alcuni item lessicali
appartenenti ai dialetti salentini ma per lo più attestati anche in altre aree dell’Italo-Romania. Tra

109
Manoscritti medievali salentini

un’altra opera dedicata all’Orsini e purtroppo non pervenutaci, concernente «la


doctrina del guberno di stato et vita principale». Le opere di Nicolò, «primi
esempi di prosa volgare letteraria a contenuto didascalico prodotta in sede per
esigenze specifiche di un pubblico locale»45, rappresentano uno dei riflessi
dell’intraprendenza di Giovanni Antonio in campo culturale.
Merita un cenno anche un altro codice appartenuto alla biblioteca di
Giovanni Antonio, l’attuale ms. PBnF It. 440 contenente una versione italiana
del Tresor di Brunetto Latini, copiato da un non meglio noto «Johanne(m)
Rubeu(m) [scil. Giovanni Russo] de Artilj d(e) Cup(er)tino» il 1° marzo 1459,
secondo quanto assicura l’explicit di c. 123r 20-21. Il volgarizzamento è quello
assegnato convenzionalmente a Bono Giamboni, che probabilmente interessava
all’Orsini soprattutto per la sezione finale, contenente un vero e proprio
manuale di comportamento politico. Il testo trasmesso dal codice parigino
risulta «caratterizzato da un buon numero di fenomeni linguistici in senso
salentino e meridionale: in particolare il sistema grafo-fonetico presenta
fenomeni di notevole interesse». Ma la commutazione linguistica attuata dallo
scriba copertinese può spingersi fino al livello lessicale: ad esempio, fatto finora
non segnalato, si incontrano nel Tresor salentino le prime attestazioni
conosciute di voci a diffusione regionale come derlampare ‘lampeggiare’ e
derlampi ‘lampi’ (3 occorrenze totali)46. Almeno in un caso, inoltre, il Russo
sembra arricchire l’esposizione (concernente le cause e l’origine delle maree)
con un’annotazione di sapore locale: «comu allu mar(e) piccolino d(e)
Tara(n)to, ch(e) va doy fiate jnt(ro), / jurno (et) nocte, (et) reto(r)na arreto» (c.
29r 31-32).

questi, il tipo più strettamente connesso al Salento sembra «jncignato [iniziato] 35v. A 15-16»
(ma 20-21), che si collegherebbe a sal. ncignare ‘cominciare’ (< lat. ENCAENIARE VDS). Tuttavia
il contesto di ricorrenza suggerisce forse una diversa interpretazione semantica, che ricondurrebbe
piuttosto a it. insegnare con resa grafo-fonetica del passaggio di tipo meridionale -ns- > [nts]
(come già sal.a. incingharia : ego docerem nella Grammatica di Nicola de Aymo): «de alcunj
doctorj me fo jncignato el fricare di denti cum ipsa [triàca] essere utile» (p. 86, corsivo aggiunto).
Un’altra voce interessante è il tipo verbale «acchiano [trovano] 45v. B 29» (cfr. sal. acchiare
‘trovare’ VDS, con paralleli in altre varietà del Mezzogiorno), che testimonierebbe l’esito locale
di -FL- (cfr. lat. AFFLARE). Tuttavia anche in questo caso il contesto lascia qualche dubbio, dal
momento che il verbo, piuttosto che come sinonimo di trovare, sembra utilizzato per glossare
tagliano: «glj dicti carnj menutamente tagliano overo acchiano cum un grosso cultello» (p. 110).
45
COLUCCIA, Lingua e politica, cit., p. 143. La successiva citazione si legge a p. 151.
46
Si legga ad esempio il brano seguente: «p(er) lu ferire de li ue(n)ti int(ro) le nube | medesmo
p(er) la collesion(e) (et) inpetuosita si si po g(e)n(er)are foco (et) q(ue)sto si | chama derlampar(e)
comu nuy uidimo spisse fiate (et) q(ue)sta si e la p(ri)ma occasione p(er)ch(e) li t(ro)nj |20 (et) li
de(r)lampi si fanno (et) si alcuno mi adema(n)dasse p(er)ch(e) si uedino aua(n)ti li de(r)lampi
ch(e) | si auia lu t(ro)no illo e p(er)o ch(e) lo ue(n)to e piu p(re)sto ch(e) lu audire» (17r 17-21).

110
Marco Maggiore

5. I libri del conte di Ugento


Ancora alla potente dinastia Del Balzo-Orsini, benché a un ramo collaterale,
appartiene un’altra figura di nobile salentino coinvolta, ormai nella seconda
metà del Quattrocento, nell’allestimento di una collezione libraria. Angilberto
del Balzo, conte di Ugento dal 1463 e duca di Nardò dal 1483, implicato nella
congiura baronale del 1485-1487, venne tratto in arresto il 4 luglio del 1487 da
Ferrante d’Aragona, che lo fece imprigionare nel carcere di Castelnuovo in
Napoli, da cui non fece più ritorno. Nella capitale del regno seguirono il Del
Balzo anche i suoi beni espropriati, che comprendevano una biblioteca ricca di
almeno un centinaio di pezzi latini e volgari: ne conosciamo la composizione
grazie alla fortunata sopravvivenza di un manoscritto, il codice PBnF Lat. 8751
D, che contiene alle cc. 137r-188v un dettagliato inventario dei beni della
famiglia di Angilberto47. Fonte preziosa di informazione sulla cultura materiale
dell’epoca, gli inventari del barone ribelle aprono un interessante spaccato
anche sui manoscritti (e sulle prime stampe) circolanti nelle corti salentine del
secondo Quattrocento. Del centinaio di titoli qui elencati è stato possibile
identificare una ventina di codici angilbertiani latini e volgari sopravvissuti, tutti
conservati attualmente presso la Bibliothèque nationale parigina (cfr. supra §
1). Un’occhiata all’elenco di tali titoli permette di apprezzare la buona
diffusione delle opere delle Tre Corone (con particolare riguardo per il
cosiddetto Boccaccio minore) anche in una corte periferica come quella
ugentina: si incontrano infatti, tra l’altro, un libro de Dante (num. 40),
Triumphi, Sonetti et Canzonetti del Petrarcha (num. 32) con altri due esemplari
dei Trionfi (numm. 33 e 34), lo libro de Griseyda cum Pandiro [cioè il
Filostrato di Boccaccio] colligato cum li dibij del Philocolo (num. 43), lo libro
de la Fiammetta (num. 9), lo libro de la vita de Dante (num. 7), le tre deche de
Tito Livio in tre volumi (num. 82) e soprattutto Centonovelle (cioè il
Decameron, num. 39).
Se i volumi associati a questi titoli non ci sono purtroppo pervenuti, almeno
un importante testimone della cultura volgare salentina è giunto fino a noi. Al
n° 30 degli inventari librari di Angilberto figura lo libro del rescripto del
Theseo. Jn carta bonbicis. Si tratta dell’anonimo commento al Teseida di
Boccaccio trasmesso col titolo di Scripto sopra Theseu re da un solo codice
parigino, il PBnF It. 581, che reca su un foglio di guardia la nota di possesso lo
conte de Ducento [= Ugento]. Le chiose al Teseida, intervallate dalle

47
L’inventario dei volumi appartenuti ad Angilberto (tratto dal ms. PBnF Lat. 8751 D, alle cc.
148r-182v) è edito una prima volta da T. DE MARINIS, La biblioteca napoletana de re d’Aragona.
Supplemento, 2 voll., Verona, Valdonega, 1969, vol. I, pp. 162 e segg. Più di recente, cfr.
L. PETRACCA, Gli inventari di Angilberto del Balzo conte di Ugento e duca di Nardò: modelli
culturali e vita di corte del Quattrocento meridionale (Paris, Bibliothèque nationale de France,
ms. Latin 8751D), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo – Centro di studi orsiniani,
2013.

111
Manoscritti medievali salentini

trascrizioni di sole 133 ottave del poema, si distendono per ben 122 fogli, da
cui tuttavia non si ricava alcuna informazione né sull’autore né sulla
committenza del testo, e neppure sull’identità del trascrittore. Il commento,
recentemente oggetto di studio ed edizione critica (cfr. § 1 n. 8)48, si è rivelato
del tutto indipendente dal resto della tradizione esegetica medievale incentrata
sull’opera boccacciana. Il manoscritto che ci trasmette il testo non ne
rappresenta l’originale ma piuttosto una copia, trascritta con ogni probabilità tra
gli anni ’60 e ’70 del Quattrocento per conto di Angilberto da uno scriba
verosimilmente salentino. L’ignoto autore, che come detto non conosceva gli
altri commenti più antichi o contemporanei al Teseida, ha costruito non senza
abilità una sorta di enorme centone sulla base di un gruppo di fonti ben precise:
tra queste si annoverano chiose alla Commedia dantesca, volgarizzamenti
ovidiani di area toscana (in particolare l’Ovidio volgarizzato di Arrigo
Simintendi), più alcuni commenti latini trecenteschi a Seneca tragico e alla
Consolatio boeziana (entrambi opera di Nicola Trevet) e alle Metamorfosi
(Pierre Bersuire). L’impiego massiccio di fonti toscane e la mole enorme del
testo sono forse tra le ragioni che hanno determinato un protratto disinteresse
verso il commento da parte degli studiosi: tale disinteresse è tuttavia
ingiustificato, dal momento che lo Scripto sopra Theseu re rappresenta, a conti
fatti, il più esteso e significativo testo di ambizione letteraria proveniente dal
Salento medievale.
L’esame ecdotico del testimone unico, inoltre, ha consentito di dare corpo
all’ipotesi dell’esistenza di un ramo meridionale della tradizione del Teseida di
Boccaccio, individuabile all’interno del macro-gruppo α dello stemma codicum
dell’opera49. Entro questo ramo della tradizione, il commentatore ha operato
sulla base di un testimone del Teseida inquinato da guasti di trasmissione, ai
quali nella maggior parte dei casi non ha saputo porre rimedio ope ingenii.
L’esegesi dell’anonimo meridionale si rivela inoltre pesantemente attardata su
motivi allegorizzanti di matrice scolastica, sicuramente superati nel secondo
Quattrocento, ma certo consoni agli interessi religiosi testimoniati dalla
composizione della biblioteca di Angilberto (vedi oltre). Se dunque il testo non
si caratterizza per eccelsi valori retorico-stilistici o ermeneutici, esso è una
preziosa fonte di conoscenza della cultura locale. I brani indipendenti da
antecedenti toscani sono ricchi di voci lessicali a diffusione meridionale e
talvolta specificamente salentina, come amochare ‘coprire’, annicchare

48
Per una prima presentazione del testo, cfr. M. MAGGIORE, Lo Scripto sopra Theseu re: un
commento al Teseida di provenienza salentina (II metà del XV secolo), in «Medioevo letterario
d’Italia», 7, 2010, pp. 87-122.
49
Cfr. M. MAGGIORE, Sulla ricezione medievale del Teseida nell’Italia meridionale, in
M. MARCHIARO, S. ZAMPONI (a cura di), Boccaccio letterato. Atti del convegno internazionale
(Firenze, 10-12 ottobre 2013), Firenze, Accademia della Crusca, 2015, pp. 415-436.

112
Marco Maggiore

‘nitrire’, ganghe ‘guance’, lucculare ‘urlare’, magiara ‘strega’, nachiro


‘nocchiero’, sghectata ‘spettinata’ (cfr. sal. gnettare, nghiettare ‘pettinare’
VDS), rugiare ‘borbottare’, ursolo ‘piccolo recipiente per liquidi’ e altri
ancora50. In una sequenza dedicata a temi astrologici è inoltre riportata una
denominazione popolare (attribuita alla gente comune) della costellazione delle
Iadi, li fauchi (letteralmente ‘le falci’)51; tale astronimo coincide perfettamente
con alcuni nomi dialettali di stelle documentati dal Rohlfs per i dialetti salentini:
li trè ffáuci (Oria), li fáuci (Latiano, Erchie, Torre S. Susanna), col significato di
‘bastone di Giacobbe, cintura d’Orione, costellazione boreale che si compone di
tre stelle (˹le falci˺, ˹le tre falci˺)’ e, con identico valore, la fagge a Cursi,
Galatina, Parabita (VDS s.v. fáuce). L’analisi linguistica rivela del resto, sul
fondo della consueta scripta regionale, elementi che potrebbero ricondurre alle
varietà salentine centro-settentrionali, e forse più particolarmente a Nardò.
L’esistenza di una «scuola scriptoria neretina»52 attiva negli anni ’60-’70
del secolo al servizio della corte di Angilberto è in effetti un fatto accertato,
dato che tra i codici superstiti della collezione angilbertiana non pochi risultano
trascritti da amanuensi domenicani attivi nel centro salentino: un Nicolaus de
Neritono (scil. Nicola di Nardò) copia nel 1466 e nel 1472 due volumi di pregio
e di gran formato (mss. PBnF It. 3 e 4, num. 44 dell’inventario: Jtem peczi duj
de la biblia in vulgare); da Nardò proveniva anche Guido da Bosco,
domenicano che trascrive l’Omnis mortalium cura (o Confessionale) di S.
Antonino di Firenze (PBnF It. 595, cfr. num. 24 dell’inventario: Jtem libro de
Summa fratris Antoninj), e certamente salentino è anche lo scriba che ha
eseguito per Angilberto la copia parigina del volgarizzamento del De civitate
Dei (ms. PBnF It. 87, num. 28: Jtem lo libro de Augustino de civitate Dei) che
sul piano paleografico denuncia precisi punti di contatto con l’esemplare unico
del commento al Teseida53.
Con l’eccezione dello Scripto, i testi volgari appartenuti ad Angilberto si
denunciano come copie trascritte in loco a partire da originali toscani. Non
mancano però ulteriori ragioni di interesse: nella brevità di questa rassegna si
segnalerà almeno il notevolissimo glossario di vocaboli ebrej richati in latino
(dove latino sta in realtà per volgare) che Nicola di Nardò ha trascritto in uno
dei due volumi del volgarizzamento della Bibbia da lui copiati, il ms. PBnF It.
4, alle cc. 226r-294r. Questo glossario ebraico-latino è «indizio di una attività
lessicografica bilingue che, nel Salento della fine del sec. XV, può spiegarsi

50
Si rinvia per ulteriori dettagli a MAGGIORE, Italiano letterario, cit.
51
«Onde queste Yades sono sei stelle, le quali la gente comune li ànno posto nome “li fauchi”»
(24v. a 20-22).
52
COLUCCIA, Lingua e politica, p. 163.
53
Cfr. MAGGIORE, Lo Scripto, cit., p. 90.

113
Manoscritti medievali salentini

anche con la presenza di attivi gruppi ebraici»54. Meno interessante ai fini della
presente trattazione (perché redatto in latino) è infine il Dialogus inferni
compilato da un altro domenicano, frate Agostino da Lecce. L’opera è
conservata dal ms. PBnF lat. 3453, esemplare di dedica offerto ad Angilberto
che sembra dunque esserne il committente: la circostanza conferma gli interessi
religiosi del conte di Ugento e il suo stretto legame culturale con le comunità
domenicane del territorio.

54
COLUCCIA, Lingua e politica, pp. 160.

114
Marco Maggiore

Lecce, Archivio di Stato, fondo pergamenaceo, Codice di Maria d'Enghien


(vedi § 7 in questo contributo). Fonte: adamap.it

115
Manoscritti medievali salentini

Parigi, BnF, It. 455, c. 1r (v. § 4 del contributo di Marco Maggiore in questo
volume). Fonte: adamap.it (da Gallica.fr - Bibliothèque nationale de France).

116
Marco Maggiore

6. Il Sidrac salentino: un antico testo brindisino?


Gli inventari dei libri di Angilberto del Balzo recano, al num. 52, la
menzione di un Libro de Sidrac. Non è sicuro, e anzi è stato messo in dubbio55,
che a questa indicazione corrisponda il manoscritto superstite che ci tramanda il
testo medievale fino ad oggi meglio noto e studiato dell’intera Puglia, la
redazione salentina dell’enciclopedia medievale nota appunto come Libro di
Sidrac. Il testo è organizzato nel suo nucleo centrale come una serie di paragrafi
di argomento scientifico introdotti da interrogative che si immaginano poste da
«lo re Botus» al filosofo Sidrac (tra le domande, ricordiamo a titolo d’esempio
«58. Perché non à facto deo che quando l’omo abesse maniato una volta, ipso
de avesse assay tocta una semana senza più bisogno de maniare?»; «169. Devesi
l’omo delectare cum le femine?»; «186. Si lo myo patre et la mia matre non
fossero stati, como seria yo nato?»; «243. Perché pute l’uscito de l’omo?»;
«363. Se uno homo trova un altro homo indosso alla sua mulhera, che deve illo
fare?», ecc.). L’enorme fortuna di questo testo nel Medioevo è testimoniata da
«oltre sessanta versioni romanze e numerose traduzioni inglesi, tedesche,
fiamminghe»56. La redazione che qui ci interessa è trasmessa dal codice
composito MBA I 29 inf., copiato intorno alla metà del secolo: P. Sgrilli ne ha
fornito l’edizione critica integrale corredata da un profilo linguistico che
costituisce tuttora un punto di riferimento per gli studi sul salentino antico,
superando il vecchio contributo del De Bartholomaeis che comprendeva
un’edizione parziale del testo57.
Sulla base di questi lavori si è soliti collocare il Sidrac salentino nella fascia
settentrionale del Salento, accostandolo in particolare alle varietà parlate nei
dintorni di Brindisi. Sennonché il giudizio sulla “brindisinità” del Sidrac,
avanzato con cautela già dal De Bartholomaeis58, confermato da Sgrilli e oggi
comunemente accettato dagli studiosi, non è in realtà privo di elementi
problematici. Tra le prove principali a supporto di questa ipotesi, Sgrilli
richiama ad esempio i casi d’uso di un articolo «pl. femm. li» che «tra i dialetti
del Salento caratterizza il brindisino»59. Ma la studiosa si riferisce qui ad
attestazioni come tucti li arti del mundo 33v.9, li carni de li homini 26r.42, li
condiciuni de li gienti non so’ fermi né stabili 22r.22-23, li dominaccioni 4v.40
e molte altre che si riconducono in realtà non al fenomeno fonologico

55
Ivi, p. 163.
56
P. SGRILLI, Il “Libro di Sidrac” salentino, Pisa, Pacini, 1983, p. 17, n. 17.
57
V. DE BARTHOLOMAEIS, Un’antica versione del «Libro di Sidrac» in volgare di terra
d’Otranto, in «Archivio glottologico italiano», 16, 1902, pp. 28-68. Per il volume di Sgrilli, cfr. n.
precedente.
58
Ivi, in particolare alle pp. 31, 38 n, dove il De Bartholomaeis si interroga circa la possibilità di
attribuire il testo alla varietà di Nardò o a quella di Brindisi.
59
SGRILLI, Il “Libro di Sidrac” salentino, cit., p. 107.

117
Manoscritti medievali salentini

tipicamente brindisino di annullamento dell’opposizione tra -E e -I atone finali,


bensì a uno specifico schema di accordo morfologico tipico delle varietà
salentine centro-meridionali già segnalato da C. Merlo60 e che studi più recenti61
hanno definito nei termini di un quarto genere grammaticale alternante,
riconoscibile accanto agli schemi d’accordo “canonici” di maschile, femminile e
neutro (alternante). Si tratta di un tipo flessivo che associa regolarmente, nella
classe di sostantivi discendente dalla terza declinazione latina, a un femminile
singolare (normalmente ereditario) un maschile plurale: è il tipo la carne f.sg.
vs. li carni m.pl., di cui restano relitti nei dialetti salentini odierni (per lo più in
locuzioni cristallizzate come me rrìzzicanu li carni). Ne consegue che la lingua
del Sidrac risulta in realtà rispettare pressoché regolarmente (cioè con eccezioni
di entità non tale da ricondurle a un quadro strutturale) la distinzione tra -E e -I
in posizione finale, tendendo a opporre sistematicamente al maschile li carni
l’atteso femminile le tempeste (e non *tempesti). Per la lingua del Sidrac è
dunque possibile ripristinare l’ipotesi già evocata dal De Bartholomaeis di un
collegamento col tipo neretino.
Tale ipotesi, se accettata, potrebbe indurre a rivalutare l’indicazione del
Libro de Sidrac negli inventari di Angilberto, titolare del ducato di Nardò, al cui
servizio abbiamo visto operare un gruppo di scribi neretini; in tal caso ci si
potrebbe chiedere una volta di più se il codice ambrosiano non provenga
proprio dalla biblioteca del nobile salentino. Si osserverà tuttavia che, a
differenza dei manoscritti sicuramente appartenuti al conte, tutti esemplari di
ottima fattura formale, l’ambrosiano è un codice composito di scarso pregio,
privo di note di possesso e difficilmente sospettabile di aver mai figurato in una
biblioteca baronale62: inoltre la datazione comunemente accettata (ultimi anni
della prima metà del secolo) sembrerebbe troppo alta per sostenere l’ipotesi
dell’appartenenza del codice ad Angilberto, dato che l’attività di copia di
manoscritti per la sua biblioteca non risulta più antica degli anni ’60 del secolo.

7. Le città: statuti, ordinamenti, cancellerie e notai


Ragioni di spazio impongono di dedicare solo brevi cenni a quella parte
assai rilevante della produzione manoscritta che ha a che fare con le attività
economiche e amministrative dei diversi centri del Salento nel XV secolo. Le
testimonianze più significative vengono in particolare da Lecce, Galatina e
Nardò. Statuti e ordinamenti municipali, protocolli notarili, testi amministrativi
di vario tipo documentano usi sociali e giuridici non meno che linguistici e

60
C. MERLO, L’articolo determinativo nel dialetto di Molfetta, «Studj romanzi», 17, 1917, pp. 69-
99, in partic. pp. 88-89.
61
V. FORMENTIN, M. LOPORCARO, Sul quarto genere in romanesco antico, «Lingua e stile», 47,
2013, pp. 221-264; M. MAGGIORE, Evidenze del quarto genere, cit.
62
Si rinvia in proposito alla relativa scheda contenuta nell’ADAMaP.

118
Marco Maggiore

culturali del territorio, e sono pertanto oggetto del massimo interesse da parte
degli storici della lingua.
Una documentazione particolarmente ricca proviene da San Pietro in
Galatina (oggi solo Galatina): i capitoli della locale bagliva (giurisdizione),
trascritti dal notaio Urbano Perrono intorno al 1496-1499, sono stati pubblicati e
studiati da M. D’Elia63; dello stesso testo, tuttavia, è stata recentemente scoperta
una versione più antica, risalente al 146464: la fortunata circostanza suggerisce
un confronto tra le due diverse redazioni, finora non ancora tentato ma assai
promettente «al fine di misurare la variazione linguistica e testuale in
diacronia»65. Un altro documento amministrativo proveniente da Galatina e
oggetto di uno studio linguistico è il registro delle entrate e delle uscite
dell’erario compilato da Stefano Mongiò nel 147366.
Proviene invece da Lecce il cosiddetto Codice di Maria d’Enghien, un
pregevole pergamenaceo messo insieme nel 1473 da un copista salentino per
conto di un altrimenti ignoto Antonello Drimi. Il manoscritto, attualmente
conservato presso l’ARCHIVIO DI STATO di Lecce (cfr. § 1), raccoglie un
coacervo di materiali vari (statuti, dazi, bandi, capitoli, leggi fiscali) riferibili
principalmente all’attività della regina Maria d’Enghien, morta nel 1446 (vedi
supra § 4). I testi, per la maggior parte in volgare e stesi dalla mano
quattrocentesca principale in una elegante minuscola umanistica posata, è stato
oggetto di una trascrizione accurata, corredata di utili riproduzioni
fotografiche67. Non sono pochi i motivi di interesse linguistico: tra questi, si
possono qui almeno segnalare alcune liste di toponimi locali, relativi a località
menzionate all’interno di disposizioni fiscali di vario tipo: in un bando
promulgato da Martuzo Carazulo de Leze capitaneo de la cità et suo districto
che fissa una serie di ricompense per la cattura dei lupi che imperversavano sul
territorio, incontriamo per esempio (casale) trepuze (Trepuzzi), turchiarulo
(Torchiarolo), campie (Campi Salentina), sancta maria de noue (Novoli),
munturoni (Monteroni), uernule (Vernole), bance (Vanze), struta (Strudà)
insieme a molte altre località, tra cui un casale de segine (da mettere in
relazione con l’odierno toponimo Cesine), cioè l’attuale Acaya, nome che il
borgo avrebbe assunto a partire dal secolo successivo68.

63
M. D’ELIA (a cura di), Capitoli della Bagliva di Galatina, Bologna, Commissione per i testi di
lingua, 1968.
64
Cfr. C. MASSARO, Potere politico e comunità locali nella Puglia tardomedievale, Galatina,
Congedo, 2004, pp. 129-145.
65
COLUCCIA, Migliorini e la storia linguistica, cit., p. 194.
66
Cfr. M. APRILE, Un «quaterno» salentino di entrata e uscita (1473), in «Bollettino storico di
terra d’Otranto», 4, 1994, pp. 5-83.
67
M. PASTORE, Il codice di Maria d’Enghien, Galatina, Congedo, 1979.
68
Non a caso una mano più tarda ha annotato nunc Achaya sul margine destro: cfr. PASTORE, Il
codice, cit., pp. 28, 68.

119
Manoscritti medievali salentini

Merita da ultimo una menzione speciale un resoconto fiscale scritto a Nardò


nel 1491, ormai a ridosso dei limiti cronologici imposti alla nostra rassegna. Il
documento riguarda gli introiti della Corte del Capitano e le rendite della
bagliva dell’anno precedente, ma il suo principale motivo di interesse risiede
nel fatto che vi sono registrate con dovizia di dettagli «le pene comminate in
séguito a fatti di microdevianza insorti nel centro salentino», accompagnate
spesso da fedeli resoconti di «risse, liti familiari, piccoli furti, violazione di
norme e divieti, inviti piuttosto ruvidi, bestemmie, minacce e insulti»69. Nel
testo, pubblicato ma ancora privo di uno studio linguistico70, incontriamo
pertanto ingiurie e minacce vividamente trascritte come «portame li forfichi, ca
te mecto le mano alli capilli» 452, «io vollio talliare la fache ad te et ad
molliereta» 639, «yo te vollio cachare le ’ntrame» ‘cavare le budella’ 722, «yo
te vollio cachare l’occhi» 852, e così via. Questi e altri notevoli «lacerti di
oralità spontanea»71, al di là del loro evidente interesse antropologico, meritano
particolare attenzione da parte degli studiosi, costituendo una testimonianza
preziosa della realtà del parlato nel Salento medievale.

69
COLUCCIA, Migliorini e la storia linguistica, cit., p. 197.
70
Se si eccettuano le osservazioni dello studio cit. nella n. precedente. Il testo si legge in
S. SIDOTI OLIVO, Per il ‘Libro dei baroni ribelli’. Informazioni da Nardò. Testi, in «Bollettino
storico di Terra d’Otranto», 2, 1992, pp. 137-174.
71
COLUCCIA, Migliorini e la storia linguistica, cit., p. 198.

120
Marco Maggiore

Parigi, BnF, It. 1097, c. 1r (v. § 4 del contributo di Marco Maggiore in questo
volume). Fonte: adamap.it (da Gallica.fr - Bibliothèque nationale de France).

121
Manoscritti medievali salentini

Parigi, BnF, It. 581, c. 1r (v. § 5 del contributo di Marco Maggiore in questo
volume). Fonte: adamap.it (da Gallica.fr - Bibliothèque nationale de France).

122
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 123-137
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p123
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Testi salentini nel progetto ADATest


(Archivio Digitale degli Antichi Testi di Puglia)

Antonio Montinaro

1. Introduzione
Il Salento, in età medievale, è uno straordinario crocevia di culture che si
esprimono attraverso lingue differenti1. L’italoromanzo convive non solo con il
latino, ma anche con il greco e l’ebraico, dai quali ne viene influenzato almeno
sul piano grafico, essendovi numerose attestazioni di testi, talvolta brevi o
brevissimi, trascritti ricorrendo a sistemi grafici non latini. Addirittura le prime
attestazioni italoromanze sono in caratteri greci ed ebraici.
Nel corso degli ultimi anni il patrimonio testuale prodotto nell’estremo
lembo orientale della penisola italiana è stato oggetto di indagini via via più
approfondite, condotte con approcci differenti, che hanno consentito di
ricomporre un articolato quadro d’insieme2.
Il fiorire di studi e ricerche ha consentito da una parte di gettare le basi per
approfondimenti successivi, dall’altra di sviluppare progetti di ricerca che,
grazie allo sfruttamento delle più avanzate tecnologie informatiche, rendono
agevolmente usufruibili numerose informazioni riguardanti i testi e i loro
testimoni manoscritti e a stampa.
Nel presente contributo, attraverso il ricorso a uno di questi strumenti,
denominato ADATest, si traccerà una panoramica della produzione volgare
realizzata in Salento nel corso dei secoli XIII-XVI.

1
Il Salento è la subregione che riunisce – per tradizione storica, culturale e linguistica – l’intera
provincia di Lecce, quasi tutta quella di Brindisi e parte di quella di Taranto, territori grosso modo
rientranti nella circoscrizione storicamente denominata Terra d’Otranto.
2
Per l’italoromanzo si veda almeno R. COLUCCIA, Migliorini e la storia linguistica del Mezzogiorno
(con una postilla sulla antica poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci), in «Studi
linguistici italiani», XXXV, 2009, pp. 161-206, in cui si fornisce un nutrito censimento; per il greco
il rinvio, quasi obbligatorio, è a D. ARNESANO, La minuscola «barocca». Scritture e libri in Terra
d’Otranto nei secoli XIII e XIV, Galatina, Congedo, 2008, cui si possono aggiungere A. CAPONE (a
cura di), Circolazione di testi e scambi culturali in Terra d’Otranto tra Tardoantico e Medioevo,
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, e le recenti acquisizioni presentate in occasione
del convegno dal titolo Gli uomini e le lettere: personaggi, testi e contesti della Terra d’Otranto di
cultura bizantina, svoltosi a Lecce il 16-17 aprile 2015; per l’ebraico punto di partenza può essere
F. LELLI (a cura di), Gli ebrei nel Salento. Secoli IX-XVI, Galatina, Congedo, 2013; cfr. anche ID., in
questo volume.

123
Testi salentini nel progetto ADATest

2. Il progetto ADATest
Il progetto ADATest (Archivio Digitale degli Antichi Testi di Puglia), ideato
e diretto da chi scrive, nasce nel 2015 nell’àmbito del programma per giovani
ricercatori FutureInResearch.
Esso è finalizzato alla costituzione e alla messa in rete di un (1) archivio
testuale digitale delle opere in italoromanzo elaborate in Puglia nel corso dei
secoli XIII-XVI, cioè dal momento in cui si registrano le prime testimonianze
locali in lingua volgare (in caratteri latini, greci ed ebraici), fino all’età in cui
prendono campo forme diverse di erudizione con la costituzione di biblioteche e
di collezioni di varia natura; all’archivio testuale si affiancano una (2) banca
dati e una (3) sezione studi3.

Fig. 1 - Home page del portale ADAMaP, www.adamap.it.

3
In età medievale il toponimo Apulia, usato anche da Dante Alighieri (cfr. De vulgari eloquentia, I,
XII, 7), non designa esclusivamente i territori oggi facenti parte dell’attuale regione amministrativa,
ma indica l’intera Italia meridionale continentale. Sebbene già a partire dal Cinquecento si inizino ad
avere attestazioni relative all’esistenza di una specifica varietà linguistica pugliese, l’unità
amministrativa si realizza solo con l’unificazione d’Italia ed è il frutto di una serie di accorpamenti:
si riuniscono «la Terra d’Otranto [...] e la Terra di Bari, caratterizzate da sviluppi diversi», e a esse si
accorpa «la Capitanata, sottratta in tal modo agli storici collegamenti con il Molise; dai confini della
nuova struttura amministrativa viene invece esclusa una parte di quella che oggi è la provincia di
Matera, che per tradizione sarebbe difficilmente separabile rispetto al territorio pugliese. In una sola
realtà amministrativa confluiscono così terre e popolazioni con storia, cultura e lingue differenti»
(cfr. R. COLUCCIA, Migliorini e la storia linguistica del Mezzogiorno (con una postilla sulla antica
poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci), cit., p. 173).

124
Antonio Montinaro

L’archivio informatizzato dei testi (1), in fase di allestimento, permetterà la


loro lettura e l’esecuzione di analisi linguistiche; la banca dati (2), già
consultabile (come la sezione successiva), consente di eseguire ricerche sulle
opere presenti nell’archivio e sui loro testimoni, attingendo i dati da schede
filologiche precedentemente immesse nel sistema (le schede forniscono anche
collegamenti ipertestuali utili per la visione digitale dei testimoni); la sezione
studi (3) raccoglie lavori dedicati alle opere archiviate e alla loro tradizione
testuale.
Ogni fase del progetto si pone obiettivi intermedi che, oltre a concorrere al
raggiungimento del risultato finale, apportano contributi autonomi. È il caso del
censimento delle opere prodotte nei secoli oggetto di indagine e dei testimoni che
le tramandano, che permette di rilevare la loro reale consistenza e di individuare
gli attuali luoghi di conservazione. Si tratta di un elemento di estremo interesse,
perché dei codici confezionati in Salento nel Medioevo è rimasto in sede assai
poco: le testimonianze di un passato di notevole spessore culturale e linguistico
sono oggi variamente dislocate in biblioteche e archivi situati fuori dai confini
regionali e, in molteplici casi, nazionali (su 79 testimoni manoscritti registrati nel
sito, solo 1 è conservato in Salento4, appena 3 sono custoditi nel barese5, mentre i
restanti sono così distribuiti: 50 in altre regioni d’Italia6, 25 all’estero7)8.

4
Lecce, Archivio di Stato, Fondo pergamenaceo, cod. Maria d’Enghien [tot. 1].
5
Conversano, Archivio Diocesano, 169 A-B, 176 A-B, 179 A-B [tot. 3].
6
Avellino, Biblioteca Provinciale «Scipione e Giulio Capone», Tafuri-Tozzoli 72 [tot. 1];
Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, A 1586 [tot. 1]; Bologna, Biblioteca Universitaria, Fondo
principale 4019 [tot. 1]; Cava de’ Tirreni, Biblioteca del Monumento Nazionale Abbazia
Benedettina della SS. Trinità, VI G 1 [tot. 1]; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashb.
1830 II 2, Ashb. 1830 II 3, Ashb. 1830 II 4, Ashb. 1830 II 5, Ashb. 1830 II 6, Ashb. 1830 II 7,
Ashb. 1830 II 8, Ashb. 1830 II 9, Ashb. 1830 II 10, Ashb. 1830 II 140, Ashb. 1830 II 420, Ashb.
1830 II 515, Ashb. 1830 II 516, Plut. 57 36, S. Marco 692 [15]; Firenze, Biblioteca Nazionale
Centrale, Pal. 171 [tot. 1]; Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 1939 [tot. 1]; Grottaferrata,
Biblioteca della Badia Greca, Crypt. Ε γ IX (Gr. 291), Crypt. Γ α VI (Gr. 298), Crypt. Ζ α IV (Gr.
8) [tot. 3]; Milano, Archivio di Stato, Militare p.a. Piazze forti Com. A-B, b. 323 [tot. 1]; Milano,
Biblioteca Ambrosiana, B 39 sup., F 122 sup., I 29 inf., Z 226 sup. [tot. 4]; Milano, Biblioteca
Trivulziana, Triv. 26, Triv. 2144 [tot. 2]; Napoli, Biblioteca del Monumento Nazionale
dell’Oratorio dei Girolamini, CF I 8, CF II 7, CF III 6 [tot. 3]; Napoli, Biblioteca Nazionale
«Vittorio Emanuele III», I A 23, XII E 7, XII F 2, XII F 51, XII G 6, XII G 42 [tot. 6]; Padova,
Pontificia Biblioteca Antoniana, Scaff. XXI n. 500 [tot. 1]; Parma, Biblioteca Palatina, Parm. 315
[tot. 1]; Pavia, Biblioteca Universitaria, Ald. 532 [tot. 1]; Perugia, Biblioteca Comunale Augusta,
D 38, F 27 [tot. 2]; Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, N VII 78 [tot. 1]; Venezia,
Archivio di Stato, Procuratori di San Marco - Misti Busta 181, fasc. XV [tot. 1]; Venezia,
Biblioteca d’arte del Civico Museo Correr, Cicogna 1474 [tot. 1]; Venezia, Biblioteca Nazionale
Marciana, It. Cl. II 2, It. Cl. IX 77 [tot. 2].
7
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. L VII 266, Ott. gr. 58, Ott. gr. 154,
Ott. gr. 2252, Vat. gr. 1276, Vat. lat. 13029 [tot. 6]; København, Det Kongelige Bibliotek, GKS
1599 4° [tot. 1]; London, British Library, Add. Man. 22824 [tot. 1]; Paris, Bibliothèque Nationale
de France, It. 3, It. 4, It. 87, It. 97, It. 440, It. 454, It. 455, It. 457, It. 581, It. 595, It. 928, It. 939,
It. 1097, It. 2231 [tot. 14]; Valencia, Biblioteca General i Histórica de la Universitat, 449 [tot. 1];

125
Testi salentini nel progetto ADATest

Complessivamente ad oggi nella banca dati si registrano 68 opere e 86 testimoni


(79 manoscritti e 7 a stampa)9.
ADATest è consultabile liberamente nel portale ADAMaP (Archivio Digitale
degli Antichi Manoscritti della Puglia), www.adamap.it, diretto da Rosario
Coluccia e coordinato dal sottoscritto, che ospita e promuove progetti scientifici
finalizzati a ricomporre in forma virtuale il patrimonio di manoscritti, edizioni e
testi riconducibili alla Puglia (secoli XI-XVI) e attualmente dispersi in
biblioteche e archivi italiani e stranieri; oltre ad ADATest, il portale ospita i
progetti BTO (Biblioteca di Terra d’Otranto: reperimento, catalogazione e
digitalizzazione di manoscritti greci ed ebraici - secoli XI-XVI), diretto da
Alessandro Capone, e AFITO (Archivio Filosofico di Terra d’Otranto), diretto
da Luana Rizzo (cfr. Fig. 1)10.

3. Testi salentini in italoromanzo (secc. XIII-XVI)


ADATest consente di ricostruire virtualmente il patrimonio testuale prodotto
nel Salento nel corso del Medioevo, fornendone un quadro ampio e allo stesso
tempo sfaccettato; la banca dati permette infatti di effettuare ricerche
utilizzando parametri differenti (autore, copista, tipologia testuale, ecc.). In
questa sede i testi saranno classificati per secolo, genere letterario e sistema
grafico usato per la composizione; sotto l’indicazione dell’autore e dell’opera,
cui segue fra parentesi la datazione, si registrano i testimoni manoscritti e a
stampa, di cui si forniscono informazioni essenziali (per i manoscritti: luogo di
conservazione, fondo [se presente], segnatura, datazione e, tra parentesi, luogo
di redazione [se conosciuto]; per le stampe: luogo di edizione o di stampa,
editore e/o tipografo e anno di edizione o di stampa)11. Per approfondimenti e la
bibliografia si rimanda alle schede filologiche presenti nel sito.
SECOLO XIII [TOT. 6]
LETTERATURA [TOT. 4]

Warszawa, Archiwum Glówne Akt Dawnych, MK 94 [tot. 1]; Wien, Österreichische


Nationalbibliothek, Phil. Gr. 49 [tot. 1].
8
Per informazioni, anche bibliografiche, su questa vera e propria emigrazione di codici, talvolta
forzosa, si rinvia ad A. MONTINARO, Tradizioni manoscritte in era digitale, in P. DIVIZIA (a cura
di), Il viaggio del testo. Convegno internazionale di Filologia Italiana e Romanza (Brno, 19-21
giugno 2014), Firenze, Franco Cesati, in stampa.
9
Per maggiori dettagli, anche quantitativi, sui dati immessi nella banca dati cfr. R. COLUCCIA,
A. MONTINARO, Censimento e ricostituzione virtuale dell’antica biblioteca manoscritta pugliese
(secc. XIII-XV), in ID. (a cura di), ADAMaP (Archivio Digitale degli Antichi Manoscritti della
Puglia. Censimento e ricostituzione virtuale della biblioteca), Lecce-Rovato, Pensa Multimedia,
2012, pp. 3-15, pp. 10-12.
10
I responsabili informatici del portale sono Diego Bergamo (programmazione) e Tonia Bruno -
SB Soft (grafica).
11
Per agevolare l’esposizione, sotto la dicitura Manoscritti si riportano sia codici, sia documenti
singoli come lettere conservate in buste, che in ADATest mantengono etichette distinte.

126
Antonio Montinaro

CARATTERI GRECI [TOT. 4]


[1] Nicola Dettore da Puglia, Componimento d’amore (sec. XIII seconda
metà).
Manoscritti [tot. 1]: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 57
36, sec. XIII fine / sec. XIV inizio [cfr. Fig. 2].
[2] Anonimo, Componimento del tipo “canzone di malamata” (sec. XIII
seconda metà).
Manoscritti [tot. 1]: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 57
36, sec. XIII fine / sec. XIV inizio.
[3] Anonimo, Glosse (sec. XIII seconda metà).
Manoscritti [tot. 1]: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 57
36, sec. XIII fine / sec. XIV inizio.
[4] Anonimo, Glosse scritte per esercizio grammaticale (sec. XIII fine / sec.
XIV inizio).
Manoscritti [tot. 1]: Grottaferrata, Biblioteca della Badia Greca, Crypt. Ζ
α IV (Gr. 8), sec. XIII fine / sec. XIV inizio.
LETTERATURA RELIGIOSA [TOT. 2]
CARATTERI GRECI [TOT. 2]
[1] Anonimo, Lauda alla Vergine (sec. XIII fine / sec. XIV inizio).
Manoscritti [tot. 1]: Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Phil.
Gr. 49, sec. XIII fine / sec. XIV inizio.
[2] Anonimo, Testo di natura religiosa (sec. XIII fine / sec. XIV inizio).
Manoscritti [tot. 1]: Grottaferrata, Biblioteca della Badia Greca, Crypt. Ε
γ IX (Gr. 291), sec. XIII fine / sec. XIV inizio.

SECOLO XIV [TOT. 6]


LETTERATURA [TOT. 1]
CARATTERI GRECI [TOT. 1]
[1] Anonimo, Carme che invita ad apprendere l’arte della scrittura e lo
studio letterario (sec. XIV inizio).
Manoscritti [tot. 1]: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,
Vat. gr. 1276, sec. XIV inizio.
LETTERATURA RELIGIOSA [TOT. 3]
CARATTERI GRECI [TOT. 3]
[1] Anonimo, Formula confessionale (sec. XIV).
Manoscritti [tot. 1]: Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 122 sup., sec. XIV
metà [cfr. Fig. 3].
[2] Anonimo, Formula di confessione (sec. XIV).
Manoscritti [tot. 1]: Grottaferrata, Biblioteca della Badia Greca, Crypt. Γ
α VI (Gr. 298), sec. XIV.

127
Testi salentini nel progetto ADATest

Fig. 2 – Nicola Dettore da Puglia, Componimento d’amore (sec. XIII seconda metà).
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 57 36, c. 17v. Fonte: adamap.it

128
Antonio Montinaro

[3] Anonimo, Predica scritta come commento alla Formula di invito della
«Liturgia» di Giovanni Crisostomo (sec. XIV metà).
Manoscritti [tot. 1]: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, San Marco
692, sec. XIV metà.
SCRITTI GIURIDICI E PRATICI [TOT. 2]
CARATTERI LATINI [TOT. 2]
[1] Mosè de Meli da Lecce, Lettera di Mosè de Meli a Biagio Dolfin (sec.
XIV fine / sec. XV inizio).
Manoscritti [tot. 1]: Venezia, Archivio di Stato, Procuratori di San Marco
- Misti Busta 181, fasc. XV, incartamento a.
[2] Sabatino Russo da Lecce, Lettere di Sabatino Russo a Biagio Dolfin (sec.
XIV fine / sec. XV inizio).
Manoscritti [tot. 5]: Venezia, Archivio di Stato, Procuratori di San Marco
- Misti Busta 181, fasc. XV.
[1] Incartamento a.
[2] Incartamento a.
[3] Incartamento senza sigla.
[4] Incartamento a.
[5] Incartamento a.

SECOLO XV [TOT. 23]


COMMENTO [TOT. 1]
CARATTERI LATINI [TOT. 1]
[1] Anonimo, Scripto sopra Theseu re (sec. XV metà).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliotheque Nationale de France, It. 581,
1487 ante (Nardò?).
ENCICLOPEDIE [TOT. 2]
CARATTERI LATINI [TOT. 2]
[1] Anonimo, Libro di Sidrac (sec. XV secondo quarto).
Manoscritti [tot. 1]: Milano, Biblioteca Ambrosiana, I 29 inf., sec. XV
secondo quarto.
[2] Giovanni Russo da Copertino, Volgarizzamento del «Tresor» di Brunetto
Latini (1459).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliotheque Nationale de France, It. 440,
1459 ante (Nardò).

129
Testi salentini nel progetto ADATest

Fig. 3 – Anonimo, Formula confessionale (sec. XIV).


Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 122 sup., sec. XIV metà, c. 21r. Fonte: adamap.it

130
Antonio Montinaro

LETTERATURA [TOT. 7]
CARATTERI LATINI [TOT. 4]
[1] Nicola de Aymo, Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444).
Manoscritti [tot. 1]: Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, D 38, 1444
(Lecce) [cfr. Fig. 4].
[2] Rogeri de Pacienza di Nardò, Balzino (1498).
Manoscritti [tot. 1]: Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, F 27, 1498
post (Lecce).
[3] Rogeri de Pacienza di Nardò, Sonetti (1498 circa / 1499 circa).
Manoscritti [tot. 1]: Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, F 27, 1498
post (Lecce).
[4] Rogeri de Pacienza di Nardò, Triunfo (1499 circa).
Manoscritti [tot. 1]: Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, F 27, 1498
post (Lecce).
CARATTERI GRECI [TOT. 3]
[1] Anonimo, Glosse ambrosiane (sec. XV metà).
Manoscritti [tot. 1]: Milano, Biblioteca Ambrosiana, B 39 sup., sec. XV
metà (Casole [presso Otranto]).
[2] Anonimo, Glosse all’«Iliade» (sec. XV fine / sec. XVI inizio).
Manoscritti [tot. 1]: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,
Ott. gr. 58, 1538.
[3] Anonimo, Trascrizione in caratteri greci del sonetto CII del
«Canzoniere» di Petrarca (sec. XV).
Manoscritti [tot. 1]: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,
Ott. gr. 154, sec. XV.

LETTERATURA RELIGIOSA [TOT. 8]


CARATTERI LATINI [TOT. 6]
[1] Nicola di Nardò, Bibbia in volgare (II, Liber Esdrae-Liber Ezechielis)
(1466 ante).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliotheque Nationale de France, It. 3, 1466
ante (Nardò).
[2] Nicola di Nardò, Bibbia in volgare (III, Liber Danielis-Apocalypsis
Ioannis) (1472 ante).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliotheque Nationale de France, It. 4, 1472
ante (Nardò).
[3] Frate Roberto Caracciolo da Lecce, Quaresimale (1475).
Ed. antiche [tot. 31]:
[1] Senza note tipografiche [Milano? Tip. del Servius? 1476 circa?];
[2] Senza note tipografiche [Venezia? Tip. del Datus? 1475 circa];
[3] Senza note tipografiche [Mantova, Johan Schall, 1475 circa];

131
Testi salentini nel progetto ADATest

[4] Senza note tipografiche [Venezia, Tommaso de’ Blavi];


[5] Milano, Leonardo e Oldorico teutonici compagni [Leonhard Pachel e
Ulrich Scinzenzeler], 1476;
[6] Treviso, Michele Manzolo, 1479;
[7] Treviso, Michele Manzolo, 1480;
[8] Firenze, Nicolò di Lorenzo, 1480;
[9] Milano, Leonhard Pachel e Ulrich Scinzenzeler, 1480;
[10] Treviso, Michele Manzolo, 1480;
[11] Treviso, Michele Manzolo, 1482;
[12] Venezia, Tommaso de’ Blavi, 1482;
[13] [Milano], Andrea Zarotto, 1482;
[14] Venezia, Tommaso de’ Blavi, 1483;
[15] Venezia, Tommaso de’ Blavi, 1485;
[16] [Milano], Andrea Zarotto, Giovanni da Legnano, 1486;
[17] Venezia, Bernardino Rizzo [da Novara], 1487;
[18] Venezia, Giovanni Rosso [Rubei], 1488;
[19] Milano, Ulrich Scienzenzeler, 1491;
[20] Firenze, Lorenzo de’ Morgianis e Giovanni de Petris, 1491;
[21] Venezia, Tomaso de Piatiis [Piasi], 1493;
[22] Venezia, Pietro da Pavia, 1500;
[23] Milano, Johann Angelus Schinzenzeler, 1500;
[24] Venezia, Cristoforo De Pensis, 1502;
[25] Venezia, per Bernardino Venetiano di Vidali, 1508;
[26] Venezia, Giovanni Rubei, 1509;
[27] Venezia, Agostino de Zanis, 1514;
[28] Milano, Giovanni Scinzenzeler, 1515;
[29] Milano, Giovanni Scinzenzeler, 1521;
[30] Venezia, Giovanni Tridino, 1524;
[31] Venezia, Bartolomeo Imperatore e Francesco suo genero, 1554.
[4] Frate Roberto Caracciolo da Lecce, Specchio della fede (1490).
Ed. antiche [tot. 6]:
[1] Venezia, [Giovanni Rosso] Giovanni di Lorenzo, 1495;
[2] Venezia, Bartolomeo de Zanis, 1505;
[3] Venezia, Giorgio de Rusconibus, 1517;
[4] Venezia, Pietro de Quarengis, 1517;
[5] Venezia, Bernardino de Bindonis, 1537;
[6] Venezia, Bartolomeo e Francesco Imperatore, 1555.
[5] Guido di Bosco da Nardò, Volgarizzamento del «Confessionale»
(«Omnis mortalium cura») di Sant’Antonino da Firenze (1487 ante).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliotheque Nationale de France, It. 595,
1487 ante.

132
Antonio Montinaro

[6] Anonimo, Volgarizzamento del «De civitate Dei» di Sant’Agostino (1487


ante).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliothèque Nationale de France, It. 87, 1487
ante (Nardò).
CARATTERI GRECI [TOT. 2]
[1] Anonimo, Articoli religiosi (sec. XV metà).
Manoscritti [tot. 1]: Milano, Biblioteca Ambrosiana, B 39 sup., sec. XV
metà (Casole [presso Otranto]).
[2] Anonimo, Confessione ritmica (sec. XV metà).
Manoscritti [tot. 1]: Milano, Biblioteca Ambrosiana, B 39 sup., sec. XV
metà (Casole [presso Otranto]).

MEDICINA [TOT. 1]
CARATTERI LATINI [TOT. 1]
[1] Nicolò di Ingegne di Galatina, Librecto di pestilencia (1448 ante).
Manoscritti [tot. 1]: Paris, Bibliotheque Nationale de France, It. 455,
1448 ante (Taranto).

SCRITTI GIURIDICI E PRATICI [TOT. 3]


CARATTERI LATINI [TOT. 3]
[1] Maria d’Enghien, Epistolario (1422-1433).
Manoscritti [tot. 3]:
[1] Conversano, Archivio Diocesano, 169 A-B, 1422 (Lecce).
[2] Conversano, Archivio Diocesano, 176 A-B, 1422 (Lecce).
[3] Conversano, Archivio Diocesano, 179 A-B, 1433 (Lecce).
[2] Anonimo, Codice di Maria d’Enghien (1473 circa).
Manoscritti [tot. 1]: Lecce, Archivio di Stato, Fondo pergamenaceo
Codice di Maria d’Enghien, 1473 circa (Lecce).
[3] Rogeri de Pacienza di Nardò, Lettere (1498 circa / 1499 circa).
Manoscritti [tot. 1]: Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, F 27, 1498
post (Lecce).

VETERINARIA [TOT. 1]
CARATTERI LATINI [TOT. 1]
[1] Prete Angelo Tarantino de Liccio, Mascalcia (sec. XV).
Manoscritti [tot. 1]: Napoli, Biblioteca del Monumento Nazionale
dell’Oratorio dei Girolamini, CF II 7, sec. XV.

133
Testi salentini nel progetto ADATest

SECOLO XVI [TOT. 5]


LETTERATURA RELIGIOSA [TOT. 3]
CARATTERI LATINI [TOT. 3]
[1] Antonio de Ferrariis Galateo, Esposizione del «Pater Noster» (1504
ante).
Manoscritti [tot. 15]:
[1] Avellino, Biblioteca Provinciale «Scipione e Giulio Capone», Tafuri-
Tozzoli 72, 1504 (Lecce);
[2] Lecce, Biblioteca Provinciale «Nicola Bernardini», 342, sec. XVII
inizio;
[3] Lecce, Biblioteca Provinciale «Nicola Bernardini», 43, sec. XVII fine
/ sec. XVIII inizio;
[4] Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», XV F 43, sec.
XVII fine / sec. XVIII inizio;
[5] Galatina, fondo Papadia, senza segnatura, sec. XVIII;
[6] Presicce, Biblioteca «Arditi di Castelvetere», 25, sec. XVIII;
[7] Brindisi, Biblioteca Arcivescovile «Annibale De Leo», D 2 10, sec.
XVIII fine;
[8] Galatone, fondo Tafuri, senza segnatura, sec. XVIII fine;
[9] Presicce, Biblioteca «Arditi di Castelvetere», 25bis, sec. XVIII fine;
[10] Lecce, Biblioteca Provinciale «Nicola Bernardini», 49, sec. XVIII
fine / sec. XIX inizio;
[11] Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», XIII B 37/b
13, sec. XIX inizio;
[12] Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», 700 S.
Martino, 1868;
[13] Bari, Biblioteca Provinciale «Santa Teresa dei Maschi», cart. XCIV
1, sec. XIX;
[14] Napoli, Biblioteca del Monumento Nazionale dell’Oratorio dei
Girolamini, XXVIII 4/35 1, sec. XIX;
[15] Napoli, Biblioteca del Monumento Nazionale dell’Oratorio dei
Girolamini, XXVIII 4/35 2, sec. XIX.
[2] Belisario Acquaviva da Nardò, Parafrasi e commento al «Pater Noster»
in volgare (1516 ante).
Manoscritti [tot. 1]: Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele
III», XII F 2, sec. XVI inizio (Nardò).
[3] Belisario Acquaviva da Nardò, Trattato di etica cristiana in volgare
(1516 ante).
Manoscritti [tot. 1]: Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele
III», XII F 2, sec. XVI inizio (Nardò).

134
Antonio Montinaro

Fig. 4 – Nicola de Aymo, Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444).


Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, D 38, 1444 (Lecce), c. 1r. Fonte: adamap.it

135
Testi salentini nel progetto ADATest

MEDICINA [TOT. 1]
CARATTERI LATINI [TOT. 1]
[1] Anonimo tarantino, Trattato di igiene e dietetica (1505 circa).
Manoscritti [tot. 1]: Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele
III», XII E 7, 1505 circa [cfr. Fig. 5].

SCIENZE NATURALI [TOT. 1]


CARATTERI LATINI [TOT. 1]
[1] Matteo Tafuri da Soleto, Pronostico in volgare (1571).
Manoscritti [tot. 1]: Cava de’ Tirreni, Biblioteca del Monumento
Nazionale Abbazia Benedettina della SS. Trinità, VI G 1.

4. Conclusioni
I dati ricavati dalla banca dati di ADATest delineano un quadro ricco e
variegato. Complessivamente si registrano 40 testi salentini prodotti in
italoromanzo fra il sec. XIII e il sec. XVI (particolarmente ben rappresentato
risulta il sec. XV, con 23 testi)12. Di questi, 15 sono vergati in caratteri greci,
mentre i restanti 25 sono elaborati in caratteri latini; giova osservare che i testi
in grafia greca sono gli unici attestati nel sec. XIII e che la loro presenza si
assottiglia sul finire del sec. XV fino a svanire nel corso del sec. XVI. Degli 8
generi attestati predominano quello religioso (16 testi) e quello letterario (12),
gli unici rilevati a partire dal sec. XIII, cui seguono per incidenza gli scritti
giuridici e pratici (5), le enciclopedie (2), gli scritti medicali (2), i commenti (1),
le opere di veterinaria (1) e di scienze naturali (1).
Questi primi risultati, già utili ai fini della ricerca intrapresa, saranno presto
integrati con l’inserimento di nuove schede riguardanti testi in grafia ebraica,
opere documentarie e inediti individuati nel corso degli spogli. Ciò consentirà
nel giro di poco tempo di accrescere sensibilmente il corpus, predisponendolo
anche al trattamento informatico necessario per l’imminente allestimento
dell’archivio testuale.
Per tale via, grazie ad ADATest, il Salento si riapproprierà di un segmento
importante della propria storia culturale e linguistica, offrendolo a tutti coloro
che per motivi diversi, ricerca, passione o semplice curiosità, vorranno ad esso
avvicinarsi.

12
È opportuno precisare che nella prima fase della ricerca condotta per ADAMaP si è prestata
particolare attenzione ai testi prodotti entro il primo quarto del sec. XVI, estendendo lo spoglio a
tutto il Cinquecento solo in séguito al lancio di ADATest.

136
Antonio Montinaro

Fig. 5 – Anonimo tarantino, Trattato di igiene e dietetica (1505 circa).


Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», XII E 7, 1505 circa, c. 251v.
Fonte: adamap.it

137
Iscrizione funeraria di Glyka, figlia di Sabinos, IV secolo (?), da Otranto (Colle della
Minerva, reimpiegata in abitazione privata). L’epigrafe, in greco e in ebraico, ci
mostra la situazione di bilinguismo della popolazione ebraica nei primi secoli
dell’insediamento diasporico in Terra d’Otranto. Il testo greco legge: “Qui giace
Glyka figlia di Sabinos e di [...]ais morti prima”. Il testo ebraico presenta la formula
consueta: “Il loro giaciglio [sia] con i giusti” [Foto: cortesia CERDEM / M. Mascolo].

138
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 139-145
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p139
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Le lingue della minoranza ebraica in Salento

Fabrizio Lelli

1. Introduzione
Tra i più antichi insediamenti della diaspora europea occidentale, le
comunità ebraiche sono attestate in Terra d’Otranto fin dall’epoca imperiale
romana. La presenza di nuclei ebraici nella Puglia meridionale è in larga parte
da associare all’importanza del porto di Brindisi per le comunicazioni con il
Mediterraneo orientale. In età medievale il rilievo dei porti pugliesi per il
transito di merci e viaggiatori verso la penisola balcanica e l’Oriente (in
particolare all’epoca delle Crociate) fu parimenti responsabile della fioritura di
numerosi centri di cultura ebraica nella regione adriatica1.
Il ruolo di spicco che gli ebrei pugliesi ebbero nell’intrattenere relazioni
commerciali con altre aree della diaspora dipese dalla varietà delle loro
provenienze (perlopiù dal vicino Oriente, dall’Africa settentrionale, dalla
penisola balcanica, dall’Italia settentrionale, dalla Spagna e dal Portogallo, dalla
Provenza, dalla Sicilia), che certamente arricchì il loro bagaglio linguistico e
incrementò l’integrazione di elementi di culture diverse all’interno della loro
tradizione di fede2.

2. Le lingue della fede e del sapere


Nell’epoca più antica del loro insediamento gli ebrei di Terra d’Otranto,
oltre al latino, dovevano certamente parlare il greco, l’ebraico e l’aramaico,
lingue più comunemente impiegate nell’area palestinese per la comunicazione
quotidiana e la liturgia, oltre che per la trasmissione dell’eredità intellettuale
giudaica. Le più antiche iscrizioni tombali rinvenute nel Salento, così come in
altre aree della Puglia e della Basilicata3, mostrano la costanza dell’uso

1
Si veda, per una bibliografia recente sull’insediamento ebraico salentino, F. LELLI (a cura di),
Gli ebrei nel Salento (secoli IX-XVI), Galatina, Congedo, 2013.
2
Sulle testimonianze manoscritte prodotte da ebrei giunti in Salento dalle provenienze più
disparate si veda A. DAVID, I manoscritti ebraici come fonti storiche dell’ebraismo salentino
quattrocentesco, in LELLI (a cura di), Gli ebrei nel Salento..., cit., pp. 257-271. Si veda inoltre
F. LELLI, Mobilità ebraica nell’Adriatico meridionale tra Tre e Quattrocento: il caso degli Ibn
Šoham, in A. GROSSATO (a cura di), Le tre anella. Al crocevia spirituale tra Ebraismo,
Cristianesimo e Islam, «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», 6, 2013, pp. 137-160.
3
Si veda G. LACERENZA, L’epigrafia ebraica in Basilicata e Puglia dal IV secolo all’alto
Medioevo, in M. MASCOLO (a cura di), KETAV, SEFER, MIKTAV. La cultura ebraica scritta tra

139
Le lingue della minoranza ebraica in Salento

affiancato del greco e dell’ebraico. Anche se la lingua ellenica fu impiegata


sempre più raramente nell’epigrafia a partire dal VII secolo (in un primo
momento a vantaggio del latino)4, tale fenomeno dovrà spiegarsi più come esito
della tendenza degli ebrei europei a sottolineare la loro identità mediante il
ricorso esclusivo alla lingua della Scrittura, piuttosto che alla perdita di
consuetudine con l’idioma ufficiale dell’impero bizantino, utilizzato nei primi
secoli dell’era volgare anche all’interno del rito giudaico. Si dovrà ricordare che
Terra d’Otranto e Calabria rimasero più a lungo di altre regioni del Meridione
d’Italia peninsulare nella sfera diretta d’influenza politica dell’impero Romano
d’Oriente e che comunità ellenofone sono rimaste vitali fino ai nostri giorni nel
Salento. Le dispute medievali tra cristiani ortodossi ed ebrei nell’area
potrebbero essersi svolte appunto in tale lingua5. È significativo, tuttavia, che
nel dibattito polemico (1220) tra gli ebrei di Otranto e l’abate di Casole, Nicola-
Nettario, quest’ultimo sottolinei che i suoi oppositori solevano parlare tra loro
in ebraico6, indicazione rilevante della persistenza della lingua santa nella
comunicazione quotidiana e non solo in quella dotta o nella sfera liturgica.
Certamente l’attività di preghiera e di studio dei testi tradizionali nelle
importanti scuole ebraiche locali si svolse sempre in ebraico, come dimostra il
numero relativamente ampio di manoscritti, principalmente di carattere
scientifico, copiati per uso didattico in Salento7. Che l’ebraico fungesse inoltre
da lingua franca per le comunicazioni intercomunitarie è provato, ad esempio,
dal frammento conservatoci dalla Genizà del Cairo di una lettera ivi spedita dal
Salento che riferisce un drammatico episodio avvenuto a Otranto nel X secolo8.

Basilicata e Puglia, Bari, Di Pagina, 2014, pp. 189-267. Oltre alle varie epigrafi funerarie
conservate, l’unica iscrizione ebraica rimasta nell’area salentina pare quella proveniente da una
sinagoga leccese, murata in palazzo Adorno, risalente al XV secolo (L. SAFRAN, The Medieval
Salento: Art and Identity in Southern Italy, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2014,
p. 44). Un’ulteriore incisione in caratteri ebraici conservata nelle prigioni del castello di Lecce
dev’essere ancora studiata per consentirne l’esatta datazione (certamente successiva al XVI
secolo).
4
Si veda L. SAFRAN, The Medieval Salento..., cit., p. 42.
5
Si veda E. PATLAGEAN, La «Dispute avec les juifs» de Nicholas d’Otrante (vers 1220) et la
question du Messie, in M.C. MUZZARELLI, G. TODESCHINI (a cura di), La storia degli ebrei
nell’Italia medievale tra filologia e metodologia, Bologna, Istituto per i beni artistici, culturali e
naturali della regione Emilia-Romagna, [1990], pp. 19-27.
6
PATLAGEAN, La «Dispute avec les juifs»..., cit., p. 22.
7
Si veda supra, nota 2; F. LELLI, La scienza ebraica nel Medioevo: manoscritti copiati in Puglia
e Basilicata, in MASCOLO (a cura di), KETAV, SEFER, MIKTAV..., cit., pp. 313-327.
8
Si veda, in proposito, J.H. SCHIRMANN, Zur Geschichte der hebräischen Poesie in Apulien und
Sizilien, in «Mitteilungen des Forschungsinstituts für hebräische Dichtung», 1, 1933, pp. 96-147:
99; A. SCHARF, Byzantine Jewry from Justinian to the Fourth Crusade, London, Routledge &
K. Paul, 1970, p. 170.

140
Fabrizio Lelli

3. Testimonianze letterarie
Le testimonianze letterarie ebraiche composte nel Salento bizantino – in
particolare le opere scientifiche e filosofiche di Shabbetày Donnolo (912-913 –
dopo il 982) e il Sèfer yuhasìn (Libro delle discendenze) di Ahimà‘ats ben
Palti’èl (1017 – dopo il 1054), eseguite da ebrei nativi del Salento o discendenti
da ebrei salentini, mostrano come l’amalgama di tradizioni ebraiche, latine ed
elleniche circolanti nell’area potesse essere trasmesso di generazione in
generazione in un ebraico classico estremamente elegante9. Nel Sèfer yuhasìn,
capolavoro della letteratura ebraica medievale, l’autore, nato e residente a
Capua, racconta con orgoglio la genealogia della propria famiglia, a suo dire
vissuta ininterrottamente a Oria Messapica dall’epoca della deportazione degli
ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 68-70 e.v. fino
all’invasione islamica del 925. In una lingua poetica, che ricalca modelli biblici
ma si serve anche dell’alta tradizione letteraria rabbinica, Ahimà‘ats ricorda le
vaste competenze intellettuali dei suoi antenati, che avrebbero stabilito a Oria
un’accademia capace di attrarre personalità di prestigio da tutte le aree della
diaspora. Tra gli episodi narrati, notevole rilievo hanno quelli che mettono in
luce i contatti culturali tra Terra d’Otranto e Costantinopoli, Terra d’Israele e
Africa settentrionale. I protagonisti si trovano a loro agio sia di fronte a emiri
islamici sia di fronte a imperatori greci, probabile allusione alla loro capacità di
servirsi abilmente di lingue diverse nella comunicazione orale10. Shabbetày
Donnolo, nell’introduzione al suo Sèfer hakmonì (Libro del sapiente), afferma
di aver tratto ispirazione da opere composte in greco e in arabo11. Sebbene la
competenza dell’autore in quest’ultima lingua sia dubbia, è certo che egli
ricorse al vasto patrimonio scientifico ellenico per la redazione dei suoi trattati e
per la sua professione di medico. Anche alcuni midrashìm (composizioni
letterarie che ampliano nuclei narrativi contenuti nella Scrittura), i cui luoghi di
produzione sono ancor oggi oggetto di discussione, potrebbero essere stati
realizzati in area salentina, data la ricorrenza di lessemi di origine greca in
contesti fortemente ispirati da tradizioni latine medievali12.
Il rinnovato prestigio della lingua biblica a discapito dell’aramaico, proprio
delle regioni italiane meridionali, spiega l’eleganza dell’ebraico impiegato in
produzioni cronachistiche analoghe al già menzionato Sèfer yuhasìn, quasi
certamente da attribuire all’area estremo-meridionale della penisola (ad esempio

9
Si veda, in particolare, R. BONFIL, History and Folklore in a Medieval Jewish Chronicle: The
Family Chronicle of Ahima‘az ben Paltiel, Leiden, Brill, 2009.
10
Si veda AHIMA‘AZ BEN PALTIEL, Sefer yuhasin. Libro delle discendenze. Vicende di una
famiglia ebraica di Oria nei secoli IX-XI, a cura di C. COLAFEMMINA, Cassano delle Murge,
Messaggi, 2001.
11
Si veda ŠABBETAY DONNOLO, Sefer hakhmoni, a cura di P. MANCUSO, Firenze, Giuntina, 2009.
12
Si veda, in proposito, A. GEULA, Midrašim composti nell’Italia meridionale, in LELLI (a cura
di), Gli ebrei nel Salento..., cit., pp. 43-74.

141
Le lingue della minoranza ebraica in Salento

il Sèfer Yosippòn [Libro di Yosippòn], i Divre ha-yamim le-Yerahme’el


[Cronache di Yerahme’el] e il Sèfer ha-yashàr [Libro del giusto]13), così come
nell’ampia produzione innografica composta da varie scuole pugliesi (le
principali furono a Oria, Bari e Otranto), certamente indebitate con i modelli
poetici elaborati in Palestina e Babilonia ma anche in area balcanica
ellenofona14. Tale produzione, estesa senza soluzione di continuità dal IX al XV
secolo, fu esportata in altri centri della diaspora, contribuendo al mantenimento
dell’eredità culturale pugliese nelle epoche successive all’abbandono dell’Italia
meridionale da parte delle comunità giudaiche (processo storico avviato alla
fine del XV e concluso alla metà del XVI secolo)15.

4. Relazioni con le parlate locali


Contemporaneamente allo sviluppo di un volgare neolatino, anche gli ebrei
salentini dovettero iniziare a servirsi delle parlate romanze locali, come si
evince da un codice della Mishnà, probabilmente copiato in area otrantina alla
fine dell’XI secolo, che conserva una tradizione particolarmente autorevole
dell’importante corpus giuridico redatto nei primi secoli dell’e.v.16 Il Ms. Parma
De Rossi 138 è significativo per la presenza di glosse marginali vergate in una
grafia ebraica che cela termini in volgare estremo-meridionale, utilizzati per
spiegare voci di difficile interpretazione17. Sono inoltre di particolare interesse
alcune correzioni apportate al testo stesso della Mishnà dallo scriba del codice.
Esse rivelano – soprattutto nella vocalizzazione – il rapporto con le lingue
parlate nella regione in cui operò il copista18.
Tali affinità si rilevano anche nell’analisi di una delle più antiche iscrizioni
ebraiche dell’Italia meridionale a noi note, di area venosina. Alla distinzione
fonetica tra i due segni diacritici qamàts e patàh (indicatori di vocali di timbro
/a/) allude anche l’uso nell’epigrafe delle matres lectionis ’àlef e he per
segnalare qamàts all’interno di parola19. Troviamo forse un’allusione a questa

13
Si veda F. LELLI, Rapporti letterari tra comunità ebraiche dell’impero bizantino e dell’Italia
meridionale: studi e ricerche, in «Materia giudaica», 9/1-2, 2004, pp. 217-230.
14
Si veda F. LELLI, Innografia ebraica salentina e poesia liturgica balcanica: il mahazor di
Corfù, in LELLI (a cura di), Gli ebrei nel Salento..., cit., pp. 75-104; O. IRSHAI, Confronting a
Christian Empire: Jewish Life and Culture in the World of Early Byzantium, in R. BONFIL et al. (a
cura di), Jews in Byzantium. Dialectics of Minority and Majority Cultures, Leiden, Brill, 2013,
pp. 17-64.
15
Si veda LELLI, Innografia ebraica salentina e poesia liturgica balcanica..., cit.
16
Si veda L. CUOMO, Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138,
in «Medioevo romanzo», 4, 1977, pp. 185-271
17
Si veda M. RYZHIK, Il sistema delle cinque vocali e la pronuncia degli ebrei d’Italia, in LELLI
(a cura di), Gli ebrei nel Salento, cit., pp. 363-378. Sulla distinzione delle tradizioni della lingua
della Mishnà si veda inoltre M. BAR-ASHER, I tipi diversi della lingua della Mišna, in «Tarbiz»,
53, 1984, pp. 187-220 (in ebraico).
18
Si veda M. RYZHIK, Il sistema delle cinque vocali..., cit., p. 364.
19
Ivi, pp. 376-377.

142
Fabrizio Lelli

stessa pronuncia alla fine del Medioevo nel volgarizzamento del Liber
interpretationis Hebraicorum nominum di S. Gerolamo eseguito da Nicolò da
Nardò20. L’opera, composta nel 1472 e probabilmente motivata dall’interesse
della corte di Angilberto Del Balzo, duca di Nardò, per la filologia e in
particolare per la lingua biblica, rielabora ed amplia il testo di San Girolamo e
presenta traslitterazioni in caratteri latini di termini ed espressioni ebraiche della
Scrittura. Alcune rese fonetiche sono indicative della pronuncia ebraica degli
informatori del redattore. Ad esempio, è diffuso il suffisso possessivo nominale
di 3° persona plurale -on (in luogo del biblico -an / -am): “Abdom Seruente
alloro o loro seruo [= in ebraico biblico ‘abdàm]”21. Sono altresì frequenti i casi
di /o/ che trascrive qamàts (ad esempio: “Bosori Carne mia [= in ebraico biblico
beśarì]”22. È difficile stabilire se tali vocalizzazioni, divergenti dal sistema più
usato in area sefardita e italiana centro-settentrionale, derivino da una continuità
con la pronuncia importata dalle regioni del vicino Oriente o siano occasionate
da un’influenza ashkenazita (anche se pare più probabile che gli ebrei della
regione centro-europea abbiano subito un’evoluzione analoga ma indipendente,
per contatto diretto con la Palestina o Bisanzio)23.
Il carteggio scambiato tra i mercanti ebrei Sabatino Russo da Copertino e
Moisè Meli da Lecce e il collega cristiano veneziano Biagio Dolfin dimostra
che già alla fine del XIV secolo la parlata romanza salentina era usata come
lingua franca tra mercanti di aree (e fedi) diverse nella penisola24.
È difficile affermare l’esistenza di un giudeo-salentino con caratteri distinti
da altre forme giudeo-romanze italiane estremo-meridionali. Oltre alle glosse
del codice di Parma, di cui si è detto, tracce di questa koiné compaiono nelle
traduzioni giudeo-italiane – soprattutto del corpus biblico e di testi liturgici –,
ove ricorrono frequenti termini e costrutti delle parlate estremo-meridionali,
indizio che i redattori, attivi nell’Italia centro-settentrionale a partire dal XIII
secolo, si servirono di una lingua che faceva tesoro di varie esperienze
precedenti al loro arrivo nei nuovi luoghi di residenza. In altre parole, gli ebrei
italiani meridionali, nei loro spostamenti, continuarono a portare con sé il
proprio bagaglio linguistico volgare. Si può anche pensare che gli ebrei italiani
seguissero le stesse tendenze dei primi prosatori in lingua del sì: essi avrebbero
cioè fuso varietà diverse delle parlate giudeo-italiane regionali. Di tali

20
Ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Ital. 4.
21
RYZHIK, Il sistema delle cinque vocali..., cit., p. 377.
22
Ibidem.
23
Si veda M. WEINREICH, History of the Yiddish Language, translated by Shlomo Noble with the
assistance of Joshua A. Fishman, Chicago e London, The University of Chicago Press, 1980, pp.
389-390
24
Pubblicato per la prima volta da A. STUSSI, Antichi testi salentini in volgare, in «Studi di
Filologia Italiana», 23, 1965, pp. 191-224 e, con lo stesso titolo ma con modifiche, in ID., Studi e
documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 155-181. Si
tratta del più antico documento in volgare salentino giunto ai nostri giorni.

143
Le lingue della minoranza ebraica in Salento

esperienze restano i materiali liturgici e paraliturgici conservati nel mahazor


(innario) della comunità italiana (“pugliese”) di Corfù25. Sull’isola, che fino alla
fine del ’700 fu governata dalla repubblica di Venezia, gli ebrei esuli dalla
Puglia trovarono riparo e ricrearono – come altrove, in area ottomana – una
comunità che mantenne a lungo tradizioni importate dalla penisola. La
protezione veneziana permise loro di conservare l’autorevolezza della lingua
italiana d’origine, mentre nell’impero Ottomano le comunità di origine italiana
vennero del tutto assorbite, anche linguisticamente, da quelle di provenienza
iberica26. In una giudeo-lingua che rivela i caratteri della koiné estremo-
meridionale sono, ad esempio, le didascalie della cena pasquale conservate dal
rito di Corfù27. Nell’isola rimase vitale, almeno fino alla fine del XIX secolo,
anche una variante parlata moderna della stessa giudeo-lingua, nota come
pugghisu. La crescente influenza del neo-greco, dopo l’assorbimento delle isole
Jonie nel nuovo Stato ellenico, e la partenza degli ebrei italiani corfioti verso
altre destinazioni, soprattutto Trieste, alla fine del XIX e all’inizio del XX
secolo, posero fine a questa tradizione28.
Come è dubbia la conoscenza dell’arabo di Shabbetày Donnolo, incerte
sono le competenze in questa lingua di ebrei giunti in Puglia dall’Africa
settentrionale, dall’area iberica o siciliana in epoche successive a quella
dell’autore oritano. La presenza di glosse giudeo-arabe in una miscellanea
medica manoscritta composta quasi certamente in Salento nella seconda metà
del Quattrocento potrebbe testimoniare a favore di quest’ipotesi29.
Traduzioni di opere scientifiche (soprattutto di carattere medico e
astronomico) dal latino in ebraico, eseguite da dotti pugliesi nel XV secolo, ci
lasciano comprendere la piena padronanza della lingua classica, necessaria alla
professione ippocratica, molto praticata dagli ebrei medievali soprattutto in area
iberica, provenzale e italiana.
Dal XVI al XIX secolo la presenza di ebrei nel Salento fu quasi nulla,
certamente irrilevante dal punto di vista intellettuale e linguistico. Anche nel
periodo successivo all’unificazione dell’Italia, quando vennero meno le

25
Si veda F. LELLI, Liturgia, lingue e manifestazioni letterarie e artistiche degli ebrei di Corfù, in
T. CATALAN, A. DI FANT, F. LELLI e M. TABOR (a cura di), Evraikì. Una diaspora mediterranea
da Corfù a Trieste, Trieste, La Mongolfiera Libri, 2013, pp. 31-58.
26
Si veda F. LELLI, L’influenza dell’ebraismo italiano meridionale sul culto e sulle tradizioni
linguistico-letterarie delle comunità greche, in «Materia giudaica», 11/1-2, 2006, pp. 201-216.
27
Si veda M. RYZHIK, Le didascalie per la cena pasquale nella tradizione degli ebrei nell’Italia
meridionale, in LELLI (a cura di), Gli ebrei nel Salento, cit., pp. 379-406. Per una bibliografia più
ampia su queste produzioni si veda LELLI, L’influenza dell’ebraismo italiano meridionale..., cit.
28
Si veda F. LELLI, Storia della presenza ebraica a Corfù dalle origini al 1891, in T. CATALAN et
al., Evraikì..., cit., pp. 17-30.
29
Si veda F. LELLI, Una compilazione medica ebraica del XV secolo: il manoscritto St. Peterburg
EVR II A 11, in A. CAPONE (a cura di), Gli uomini e le lettere: personaggi, testi e contesti della
Terra d’Otranto di cultura bizantina (in preparazione).

144
Fabrizio Lelli

restrizioni nei confronti dei cittadini di fede giudaica del nuovo Stato, fu scarso
il ripopolamento ebraico nella regione.

5. L’ebraico moderno nel Salento


Sia pure per un breve periodo, l’ebraico fu riattivato tra il 1944 e il 1947,
quando nel Salento furono allestiti quattro campi di transito, gestiti dalle
Nazioni Unite e dalle Forze Alleate per ospitare profughi ebrei, in massima
parte sopravvissuti alle persecuzioni naziste nell’Europa centro-orientale. Nei
campi di Santa Maria al Bagno, Santa Cesarea, Tricase Porto e Santa Maria di
Leuca lo yiddish divenne la parlata più diffusa. Molti dei profughi vi appresero
l’ebraico da insegnanti inviati dall’yishùv della Terra d’Israele (la presenza
ebraica nella Palestina mandataria) e anche l’italiano, grazie alla frequentazione
dei nativi e all’inserimento degli adolescenti nelle scuole locali.
Di questa pagina poco nota della storia contemporanea d’Italia restano
alcune composizioni poetiche in yiddish e alcune scritte ebraiche conservate
nelle ville trasformate in abitazioni per i profughi. Si tratta perlopiù di testi che
tradiscono la volontà dei superstiti della Shoà di tornare da popolo libero in
Terra d’Israele30.
In Salento l’ebraico ha accompagnato i primi passi della diaspora del
giudaismo europeo nell’età antica e la formazione del moderno Stato d’Israele.
Come le prime comunità di età romana veicolarono in occidente contenuti e
lingue dell’area palestinese – e in seguito della diaspora babilonese –, così i
profughi ebrei scampati alla Shoà si formarono durante la loro breve esperienza
in Puglia alle nuove competenze linguistiche necessarie all’insediamento in
quello che di lì a poco sarebbe divenuto il nuovo Stato d’Israele. Come nella
Puglia antica e medievale, dopo la catastrofe della distruzione del Tempio di
Gerusalemme, l’ebraico rifiorì e fece passare in secondo piano altre lingue
parlate dagli ebrei dell’epoca, così nei campi di transito pugliesi del dopoguerra
l’ebraico, rivitalizzato a partire dalla fine del XIX secolo, divenne la lingua
nazionale per migliaia di esuli che, nella trasformazione della lingua santa in
idioma di comunicazione quotidiana, videro realizzate le speranze di
riaffermazione della propria dignità a seguito di un lungo periodo di
persecuzioni perpetrate dalla maggior parte dei loro paesi d’origine.

30
Si vedano alcune testimonianze nel sito, curato da F. LELLI, www.profughiebreinpuglia.it

145
Variazione nella resa grafica di voci dialettali (a ci vs. a cci, -ddh- vs. -ddhr-, -tu / de /
te / te la / de le / della) con soluzioni inattese (noscie)
[da volantini e manifesti di feste e sagre o rappresentazioni teatrali salentine].

146
146
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 147-156
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p147
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Dialetti salentini

p. Giovan Battista Mancarella

0. Introduzione
I primi studiosi dei dialetti salentini, G. Morosi, S, Panareo, F. Ribezzo,
hanno distinto tre zone del Salento linguistico, separato dal vicino territorio
apulo-tarantino. Tutto un antico territorio salentino, abitato da greci, messapi,
italici, è stato romanizzato e riunito nella REGIO II APULIA ET CALABRIA, con
evidente distinzione di gruppi etnici sul confine della Via Appia, a Nord della
quale c’erano gli Apuli, e a Sud, c’erano Calabri, Messapi, Sallentini. Una
romanizzazione coeva per tutto il comune territorio regionale ma, per il Salento
in particolare, a partire dal 244 a.C. con la fondazione della colonia romana di
Brindisi.
La testimonianza di una coeva romanizzazione apulo-salentina è
confermata, secondo V. Pisani, dal comune sistema del latino a 7 vocali di
origine osca. Nel passaggio dal vocalismo quantitativo a quello qualitativo E, O
lunghi, in ambiente osco, si sono confusi con I, U brevi nei timbri di i, u larghi
nel nuovo sistema qualitativo a 7 vocali (i, į, e, a, o, ų, u); trasportato presso gli
altri gruppi osco-umbri, gli originari i, u larghi si sono risolti nei timbri di e, o
stretti (i, ẹ, ę, a, ǫ, ọ, u); gli oschi dell’Italia meridionale invece, a contatto dei
Greci, sono arrivati a chiudere i, u larghi in i, u come nel sistema greco a 5
vocali (i, e, a, o, u).
G. Devoto e E. De Felice sostengono che Sicilia, Calabria e Salento siano
stati romanizzati prima del territorio campano-pugliese.
Secondo questi due Studiosi il passaggio dal vocalismo quantitativo a
qualitativo è certamente partito da un ambiente osco-umbro, ma per tappe
successive è stato trasportato nei territori romanizzati.
Un sistema intermedio con Ī, Ĭ > i, Ū, Ŭ > u a 7 vocali (i, e, e, a, o, o, u) si
sarebbe risolto a 5 vocali quando e, o stretti si sono confusi con i, u: questo
sistema sarebbe stato trasportato prima in Sicilia e Calabria e poi, attraverso la
Via Appia, anche nel Salento.
L’ultimo sistema con I, U lunghi, distinti da I, U brevi nel sistema a 9 vocali
si è risolto a 7 vocali quando i, u larghi si sono confusi con i, u ed è stato
trasportato in tutto il territorio romanizzato sino alla Via Appia, dividendo così
Salento settentrionale con sistema recente a 7 vocali, e Salento meridionale con
sistema più antico a 5 vocali.
Dialetti salentini

O. Parlangèli ha segnalato i particolari esiti di Loreto Aprutino a sostegno


del sistema comune a 7 vocali d’origine osca, risolto nel sistema a 5 vocali in
alcuni territori meridionali.
Il dialetto di Loreto A., punto linguistico isolato e periferico del territorio
abruzzese, presenta queste particolarità: Ī distinto da Ĭ Ē, e Ū distinto da Ū Ŏ:
spike, live ulivo, fritte, grille (< Ī) ma kannöle candela, pöre pero, kapölle
capello, frödde freddo (< Ĭ Ē); e così anche kute coda, kruce, cipulle (< Ū Ŏ),
distinti da füme fumo, vittüre vettura, grütte grotta (< Ū sempre palatalizzato). I
particolari esiti degli i, u larghi, indicati da V. Pisani in cui erano confluiti Ĭ Ē, e
Ū Ŏ, non si erano anticamente chiusi in e, o stretti in territorio centro-
settentrionale, né si erano chiusi in i, u nel territorio meridionale.
Gli originari i, u larghi secondo una variabilità fonologica, ha sostenuto O.
Parlangèli, sono stati resi più vicini a e, o stretti nel territorio italiano centro-
settentrionale, mentre sono stati resi più vicini a i, u in quello meridionale. I due
timbri oscillanti i/e, o/u con l’arrivo della metafonia, solo in epoca medievale, si
sono risolti in i, u nelle forme con finale di seconde condizioni, mentre si sono
risolti in e, o nelle forme con finale di prime condizioni nel nuovo sistema a 5/7;
nel territorio in cui non è arrivata l’innovazione, i. u larghi si sono avvicinati di
più a i. u con i quali si sono confusi nel sistema a sole 5 vocali.
La diversa condizione sociale e politica dell’Italia, divisa in epoca
medievale, ha fatto coincidere il territorio occupato di Longobardi con dialetti
metafonetici di tipo “napoletano” e quello posseduto dai Bizantini con dialetti
non metafonetici di tipo “siciliano”: Loreto ‘terra di nessuno’, non raggiunto
dall’innovazione, ha mantenuta la distinzione Ī, Ū > i, u, mentre Ĭ Ē, Ŏ Ū > i, u
larghi.
V. Pisani ha riconosciuto valido il principio della variabilità fonologica e ha
confermato che il sistema a 5 vocali di tipo “siciliano” si è formato in epoca
medievale e si è arrestato nel Bruttium, nel ’600, sul confine del territorio dei
Longobardi di Benevento.
Alcuni studiosi continuano a sostenere che il Salento non è stato
romanizzato perché i suoi abitanti (Messapi in maggioranza) ellenizzati da
Taranto in epoca antica, hanno continuato il dialetto greco sino alla conquista
normanna per cui, ancora oggi conserverebbero un vocalismo di tipo greco a 5
vocali. Sino a quando essi non dimostreranno che Roma non abbia latinizzato
l’antico territorio magno greco, non potranno sostenere l’origine greca del
sistema a 5 vocali del Salento meridionale.

148
p. Giovan Battista Mancarella

1. Vocalismo tonico1

1.1. Varietà settentrionale


A nord della Via Appia i dialetti di S. Vito dei Normanni, Carovigno,
Ostuni, Villa Castelli e S. Giorgio, anche se fondamentalmente di tipo
“salentino”, presentano un parziale indebolimento delle vocali finali e traccia di
sonorizzazione delle occlusive post-nasali d’influsso “pugliese”, ma poi vocali
toniche sempre chiare di tipo salentino, e senza distinzione tra esiti di vocali
libere e vocali chiuse.
L’unità linguistica del territorio settentrionale è data dalla costante
metafonia per e, o chiusi e aperti secondo il tipo napoletano: in tutte le inchieste
del territorio brindisino, orietano e in quello neretino, almeno sino a Galatone e
Aradeo, troviamo sempre peci, pesci, croci, sotta (prime condizioni), acitu,
pisci, cruci, furnu (seconde condizioni).
Nelle inchieste di S. Pancrazio, S. Donaci, Leverano si trovano solo isolate
forme con esiti metafonetici (mese/misi, pesce /pisci), mentre in quella di
Copertino si trovano esiti metafonetici con i sostantivi e i verbi, e alcune
oscillazioni con gli aggettivi (fredda/friddu, toce/tuci dolce, dolci, kina/kinu
surda/surdu).
In diverse inchieste sono state raccolte forme particolari: la rita (Latiano,
Carovigno), lu paise (Oria, Francavilla), curta, surda (Francavilla, Galatone):
ad Aradeo si trova monte, fronte, orpe, volpe, ucca, cepudda, umbra, unda,
surda, tuce, skundu, kanusku.
In continuazione di e, o aperti si trova sempre lu pete/li piéti, lu sciélu, la
serra/li siérri, lu parente/li pariénti, lenta/liéntu, lu sciénnuru, u fuécu, lu cori,
fori, lu uértu, cuéttu/cotta; sempre senza dittongo méju, méglio, pésciu peggio;
con qualche oscillazione ossu e uéssu, uévu e ovu, cuérnu e corni.
Nel territorio di Nardò la metafonia per e, o aperti risulta costante sino a
Copertino; a Galatone e Aradeo la dittongazione si trova solo per e (piéti,
tiémpu, fiénu) e manca sempre per o (focu, novu, socru).

1.2. Varietà centrale


Il territorio del Salento centrale, comprendente Lecce e paesi limitrofi,
presenta esiti metafonetici solo in continuazione di e, o aperti.
A partire da S. Pancrazio, Cellino, San Donaci, S. Pietro Vernotico,
Torchiarolo (pr. di Brindisi), Salice, Veglie, Leverano, Carmiano. Arnesano,

1
SALENTO. Monografia regionale della Carta dei Dialetti Italliani, a cura di p. G. B. Mancarella,
Lecce, del Grifo, 1998, cfr. 2.1; 2.2; p. G.B. MANCARELLA, Distinzioni fonetiche nell’Italia
Meridionale. Dialetti salentini. Collana del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere,
Università di Lecce n. 6., 1983, pp. 86-89; ID., Distinzioni morfologiche nel Salento, Università
degli Studi Bari, Facoltà di Magistero, Dialettologia Italiana, Quaderno n. 3, Bari, 1981.

149
Dialetti salentini

Campi, Cavallino, Lequile (pr. di Lecce), in continuazione di e, o chiusi si trova


sempre sira, mise, tila, pilu, capiddu, china, piena, sule, ura, vuce, cepudda,
munte, cuta, russa. Forme particolari incontrate nelle varie inchieste: tela, rete,
mese (Carmiano), rete, mese (Arnesano), mese, paese (Campi, Cavallino), tela,
mese, rete (Lequile), staggione (Carmiano).
L’alternanza metafonetica per e, o aperti è presente in tutto questo territorio:
lu pete, aperta, core, morta (prime condizioni): li pièti, apiértu, fuécu ,muértu
(seconde condizioni).
Nel dialetto di Lecce, e anche in quelli vicini (Carmiano, Lequile,
Cavallino, ecc.), in posizione iniziale, quando è preceduto da una palatale, o
dentale, l’antico dittongo si riduce a e: scecu gioco, lecu luogo, ressu grosso,
ertu orto, émmini uomini, contro i normali luécu, ruéssu, uértu di S. Pietro V.,
Torchiarolo, Campi, Veglie ecc. Fuori del territorio leccese la dittongazione
condizionata per e, o aperti si trova anche a Castrì tièmpu, fiérru, cuéru, muéri,
nu trenu tuono, secru suocero, néu nuovo, uértu e ertu. Carpignano conosce
diversi casi con dittongo solo per e aperto niérvu, piéttu, siénti, ma più
frequentemente celu, centu, pettu, castellu.

1.3. Varietà meridionale


Il Salento meridionale ritrova la sua unità linguistica nella completa
mancanza della metafonia, in continuità dell’antico sistema comune a 7 vocali
risolto a 5 con e, o chiusi confluiti in i, u.
In tutto il territorio di Maglie, Alessano e Ugento, come in quello di Lecce
si trova pice, sira, fridda, sicca, ura, umbra, vuce, vucca, curta, surda, sutta;
nelle diverse inchieste si trova anche mese, paese, sete, croce, noce, staggione,
tosse, onda, monte (Alessano, Castrignano dei Greci e del Capo, Bagnolo ecc.).
In continuazione di e, o aperti si trova sempre lu pete/li peti, aperta/apertu,
core, focu, rossa/rossu grossa, grosso; in diverse inchieste si trova con
dittongazione iérnu, nviérnu, tiémpu, iéntu, fiérru; Galatina conosce diverse
forme dittongate (sembrano rare senza dittongo come menzu, pertu), ma non
presenta nessuna forma dittongata per o aperto, allo stesso modo dei vicini
Aradeo, Galatone, Gallipoli (in parte anche Carpignano).
Il territorio di Gallipoli si presenta come area linguistica di compromesso:
fondamentalmente è di tipo meridionale, ma è stato raggiunto da parziali
innovazioni di tipo brindisino. Le forme verbali e gli aggetti presentano per e, o
chiusi esiti di tipo meridionali idda, china, fridda, bbìu bevo, crìu credo, curta,
russa, raspunnu, scundu a Gallipoli, Alezio, Sannicola; i sostantivi, specie se di
sillaba libera, presentano esiti condizionati di tipo brindisino come a Nardò,
pepe, penna, sera, tela, pesce, stedda, fronte, monte, colore, sutore, napote,
croce, noce (prima condizioni) e citu. misi, paisi, culuri, naputi, nuci, cruci
(seconde condizioni), accanto però a site, nive, pira, sita, catina (sillaba libera).

150
p. Giovan Battista Mancarella

Nei dialetti dello stesso territorio le forme con e aperto, date le seconde
condizioni, risultano generalmente dittongate li piéti, tieni tiémpu, agniéddu,
mentre le forme con o aperto ignorano sempre il dittongo focu, crossu, sciocu,
sonnu come i dialetti di Galatone e Aradeo.

1.4. Vocali turbate


Nei dialetti dell’estremo Salento settentrionale le vocali toniche di sillaba
libera, sotto un forte accento, si dittongano o si turbano: per Taranto, G. Morosi
precisa: a in sillaba libera “declina ad ä” e riporta käpe, kräpe; F. Ribezzo per
Taranto e Ceglie M., ha segnato con A palatalizzato käpe, käse, oppure con
dittongazione kaipe, kaise; tale dittongazione è stata più estesa a Martina F.
G. Grassi, nelle forme di sillaba libera ha inteso rappresentare con i il
dittongo éi, per cui dike, amike (= déike, améike), e analogamente con u ha inteso
rappresentare quello che egli definisce ‘il tipico suono martinese’ per cui pertuse,
muse (= pertòuse, mòuse).2
M. Melillo nella Parabola di Martina F. segna käse, pekkäte, oppure pene
pane, sene sano, turnete tornato; traccia di turbamento è presente in uaññòune
ragazzo, do fele due figli, la vete vita3.
Nelle inchieste ALI alla c. 8 ‘capo’ si trovano queste risposte: a kääpe
Crispiano, Taranto, Villa Castelli; alla c. 56 ‘polmone’: pulmòune Crispiano,
Taranto, Ceglie; alla c. 71 ‘piede’ li péete Villa Castelli.4 Per Martina F.,
C. Grassi osserva: «Abbiamo indicato con ä il timbro caratteristico della a
tonica in determinate condizioni. Essa suona al tempo palatalizzata e tendente
all’indistinto [...]. Fra i borghesi essa tende nettamente verso ä o addirittura
verso à»5
A. Romano, con gli strumenti della fonetica strumentale, ha osservato per un
campione di 18 forme lessicali del dialetto di Martina «fenomeni di estrema
perturbazione, instabili e diversi gradi di palatalizzazione oltre a indizi di
frangimento vocalico e all’apparizione di alcuni tratti di nasalizzazione [...]
soprattutto per le forme “muro”, “sudore”, ma anche per “pigna” di sillaba
chiusa»6.

2
G. GRASSI, Il dialetto di Martina Franca. Prima parte Fonetica, Martina Franca, 1925, pp. 16-
31.
3
M. MELILLO, Le Parabole del Figliuol Prodigo nei dialetti italiani. I dialetti della Puglia,
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1970, pp. 111-112.
4
P. G.B. MANCARELLA, Inchieste ALI e distinzioni linguistiche nel Salento, in “Studi Linguistici
Salentini”, 21, 1995, pp. 50-51.
5
ATLANTE LINGUISTICO ITALIANO, Verbali delle Inchieste, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato
1995, Tomo II, inchieste di Grassi a Cisternino, Ceglie M., Brindisi, Guagnano e Leverano, pp.
741-778; inchiesta di Franceschi a Calimera, pp. 779-784.
6
A. ROMANO, Analisi acustica di alcune vocali toniche di Martina Franca, in “Studi Linguistici
Salentini”, 22, 1996, pp. 87-104.

151
Dialetti salentini

1.5. Vocali salentine7


I tratti di turbamento e inizio di frangimento vocalico riscontrati nei dialetti
del territorio di Taranto, sono costanti nei dialetti nei dialetti “pugliesi”
compreso quello di Fasano, del territorio amministrativo di Brindisi.
Il vocalismo tonico “salentino” ignora qualsiasi tipo di palatalizzazione o
turbamento, tratto riconosciuto da G. Devoto, come distintivo da quello
“pugliese”«per la chiarezza delle vocali toniche tanto di sillaba libera che chiusa
e soprattutto l’assenza della metafonia che avvicina questa regione ala stessa
Toscana»8.
Altri tratti fonetici del consonantismo e della morfosintassi distinguono tutti
i dialetti salentini da quelli pugliesi, compreso anche il sistema metafonetico del
territorio brindisino, molto diverso da quello pugliese: il territorio brindisino, in
comune ai dialetti non metafonetici di Lecce e di Otranto, conosce sempre esiti
uguali tanto in sillaba libera che chiusa, mantiene intatte tutte le vocali finali,
con la sola confluenza di -i, -e finali in i.
Dalle inchieste raccolte per la Carta dei Dialetti Italiani, tutte le vocali
toniche sono chiare e distinte; solo per Taranto, Crispiano, Massafra,
Castellaneta, abbiamo trovato inizio di turbamento, più frequente per a tonico,
per Martina F. e soprattutto per Fasano, dialetto di sicuro tipo pugliese simile
quello vicino di Mola di Bari.

2. Vocalismo atono

2.1. Atone finali


Tutti i dialetti dell’estremo Salento settentrionale, nella misura in cui sono
colpiti dal forte accento dinamico di tipo pugliese, tendono a indebolire e vocali
atone finali. Da Fasano a Taranto con finale ridotta troviamo frittə, kaldə,
kapiddə ecc., e così anche a Mottola, Ginosa, Massafra ecc.; in questi stessi
dialetti anche le pretoniche e le intertoniche sono indebolite vəcinə, təlarə,
tərəkatə, furmìkələ, tuménekə ecc.
In alcuni dialetti a finale risulta spesso mantenuto veste nera, sémela a
Leporano, frummìkela, vardìkula a Monteiasi; a S. Giorgio, Carosino,
Grottaglie tutte le atone finali sono bene articolate.

7
Salento, Monografia, cit., § 2.2.
8
G. DEVOTO, Per la storia delle regioni d’Italia, in “Rivista storica italiana”, 72/2, 1960, p. 127,
p. 126.

152
p. Giovan Battista Mancarella

2.2. Atone interne


Nei dialetti a sistema finale a 3 vocali (a, e, u), tutte le atone interne si
risolvono sempre in i: in tutto il territorio di Brindisi-Oria, e anche in diversi
dialetti del territorio di Taranto, e in quelli del territorio di Nardò vicinu,
viddanza, finestra, fibbraru, tilaru, ticembri ecc., anche a Galatone, Copertino,
Melissano; ugualmente a Campi, Squinzano, Novoli, Carmiano, Arnesano, ecc.
Nel territorio di Lecce molti dialetti confondono i, e sempre in e: bbecinu,
feskare, tenimu, cerviddu, febbraru, petukkiu, scennaru, accanto a forme del
tipo mulinaru, kikare, priare. Stessi esiti anche nei dialetti del territorio di
Otranto prekare, tenimu, sekundu, peperussu con qualche rara forma del tipo
tinìa.
In diversi dialetti del territorio di Ugento i, e si aprono in a: vatire,
matudda, fabbraru, talaru, vanire, fanescia, prakare a Gagliano, Castrignano
C., Acquatica, Montesano, Salve; fanescia , napute, vennardìa, ddasciunu
anche a Castrì, Collepasso, Galatina, Gallipoli, Tuglie, Taviano ecc.
Un particolare mutamento con vocale atona armonizzata da finale è
presente in diversi dialetti del territorio brindisino secondo questo tipo: mònuku
/ mònaka / mònici / mòneke a Oria, Erchie, Torre S.S., Sava, S. Pancrazio,
presente anche nel Salento meridionale a Gagliano, Castrignano C., Corigliano,
Patù, Galatina, Gallipoli, Sannicola; nel Salento centrale è più diffuso il tipo
mòniku, mònika, mònici, mònike, e in quello di Lecce mòneku, mòneka, mòneci,
mòneke; altri tipi, in parte armonizzati, sono presenti a Racale, Alessano,
Sternatìa, Alezio, Montesano, Bagnolo.
Per la domanda n. 6 ‘ortica’ troviamo. ardìkula a Carovigno, Latiano;
ardika a Ostuni, Ceglie M.; virdìkula a Brindisi, Mesagne; ardika a Tuglie,
Sannicola; erdìkula a S. Pietro L., Lequile; urdìka, vurdìkula a Torre S.S.,
Leporano, Sava; lurdiku, lurdìkulu a Carpignano,Vernole, Lizzanello, Seclì.

3. Consonantismo9

3.1. Sonorizzazione delle postnasali


Nei dialetti dell’estremo Salento settentrionale i gruppi -MP- -NT-, -NC- si
sonorizzano, anche se non con la stessa intensità dei dialetti pugliesi di Fasano e
Mola di Bari: a Ostuni, Taranto, Ginosa, Martina si trova venge vinco, tièmbe,
viange bianco, kiande pianta, kambane; spesso gli informatori hanno realizzato
solo forme con parziale sonorizzazione.
Tutti i dialetti del territorio brindisino non presentano traccia di
sonorizzazione, ma solo l’assimilazione italica di -MB-, -ND- del tipo jamma,

9
Salento, cit., § 2.3.

153
Dialetti salentini

kiummu, quannu, funnu; in alcuni punti tale sonorizzazione sembra limitata o


secondo il kiumbu/quannu, oppure quandu/kiummu.

3.2. Particolari esiti di consonante + L

D. 184 ‘caldo’: kaldu Massafra; kalle Fasano, Martina, Crispiano; kaddu


Maglie, Cursi, Aradeo, Bagnolo, Galatina; kaḍḍu Collepasso, Corigliano,
Cutrofiano, Neviano; kàutu Latiano, Francavilla, Oria Lecce, Novoli, Cavallino;
kate Villa Castelli; kàvetu Taranto, Carosino, Alessano; kotu Grottaglie,
Castrignano C.
D. 185 ‘alto’ iàldu Fasano, Ginosa; iàltu Massafra, Mottola; àutu, bbàutu,
vàutu Lecce, Novoli, Maglie, Botrugno.
D. 186 ‘altro’ alde Castellaneta, Ginosa, Laterza, Massafra, Palagiano; addu
Ostuni, Carovigno, Crispiano; addu, adu Villa Castelli; adu Mottola; atu
Martina F., Palagianello, aḍḍu Collepasso, Neviano, Galatone, Alliste; àutru
Arnesano e in molte inchieste del territorio meridionale; atru Latiano, Oria,
S. Vito; àutru Lecce, Lizzanello, Novoli, Copertino; otru Monteparano,
Pulsano, S. Giorgio, Sava; otre Taranto10.
D. 191 ‘calce’, d. 192 ‘falce’ kagge, fagge Ostuni, Collepasso, Corigliano,
Cursi, Neviano, Nardò; kàugge, fàugge Martignano, Sternatia, Cannole,
Carpignano; kàuce, fàuce Latiano, Avetrana, Lecce, Lizzanello, Maglie; fuàce,
kuàce Francavilla; kace, face S. Michele, Villa Castelli; koci, foci Grottaglie,
Castrignano C.
D. 193 ‘calza’ kuazettu, kauzettu in molte inchieste; kàuzi Cannole, Castrì,
Cerfignano, Maglie, Racale, kazzi Collepasso, Tuglie, Seclì, Galatina, Gallipoli;
kosi, kozi Salve, Patù, Castrignano C., Miggiano.
D. 207 ‘palta’ palta Crispiano, Martina, Massafra; palda Castellaneta,
Ginosa, Laterza, Mottola, Ostuni; pata Mottola; pàuta Lecce, Guagnano,
Novoli, Calimera; pota Taranto, Massafra, Monteiasi, S. Vito, Carosino,
Grottaglie.

4. Morfologia11

4.1. Desinenze del Presente Indicativo

I dialetti dell’estremo territorio tarantino-brindisino, per analogia al presente


diku, formano i presenti monosillabici, come i dialetti pugliesi, stoku, doku,
voku Castellaneta, Mottola, Laterza, Ginosa, Ceglie, Ostuni, S. Michele; la
stessa desinenza è applicata anche ad altri presenti: pàsseku, védeku, mòreku

10
Cfr. la carta n. 6 nel contributo di A. ROMANO, in questo volume.
11
Salento, cit., § 3.2.

154
p. Giovan Battista Mancarella

Mottola, Castellaneta; mòreku Palagianello; voku Carosino; veku, voku Lizzano;


veku Ostuni, S. Michele, Villa Castelli.
Nei dialetti brindisini e leccesi si trova vàu, stàu, tàu Latiano, Erchie,
Avetrana, Salice, Copertino; krài vàu, tokke bbàu Gagliano; stòu, vòu, tòu Oria,
Francavilla, Grottaglie, Sava, Manduria.

4.2. Desinenze del Perfetto Indicativo

Formazione con –HABUI > *EBUI, passibbe, facibbe venibbe Castellaneta,


Palagiano, Crispiano; formazione con -AVI. -IVI: kantài, partivi in molti dialetti
del Salento; terza persona: kantàu o kantòu diversi dialetti; quarta persona:
passammu, vidimmu Gallipoli; passàumu, partìumu dialetti brindisini; quinta
persona: passastive, vidìstive Taranto, Ginosa; perdìreve durmìreve Fasano;
pasàstipu, itistìstipu Avetrana, Manduria; passàstivu, itìstivu Sava; vinìsturu
Torre SS.; passàstara, vinìstara Grottaglie; sesta persona: passàrane, kantàrane
Gallipoli; passara, vinera, vitera molti dialetti del brindisino.

4.3. Periodo ipotetico

Con due Imperfetti dell’Indicativo. Ci tineve fame, me mangiava kualke


kosa; ci tinìa fame mi mangiava kualke kosa; ci era tenutu sordi m’era/m’ìa
kkattata la kasa, molti dialetti salentini.
Col Congiuntivo: ci avesse avutu i sordi m’avesse kkattata a kasa Taranto,
Castellaneta; ce avesse avutu i solde m’avesse kkattata a kasa Ginosa; ce avesse
tenutu i solde m’era kkattata na kasa Palagiano; ce tenài i solde m’avesse kkattata
na kasa Fasano; c’era avute le solde, era iésse kkattata sta kasa Ceglie M.

5. Distinzioni linguistiche
I dialetti del territorio salentino si distinguono da quelli del territorio
pugliese e, gli uni gli altri, accanto ad alcuni tratti comuni a tutti i dialetti
meridionali, presentano particolarità originarie indipendenti.
Il primo motivo di alcuni esiti diversi in tutto l’attuale territorio apulo-
salentino è stato attribuito alla diversa composizione della popolazione al
momento della conquista romana: i conquistatori, proprio per il diverso aspetto
etnico dei due territori, tennero separate le popolazioni nella REGIO SECUNDA,
con Apulia a nord della Via Appia, e a sud la romana Calabria. In tal modo i
Romani confermarono le precedenti unità sociali e culturali: quella del territorio
del nord posseduto dagli Apuli a partire dalla collina della Murgia, e quella del
territorio a sud posseduta dai Messapi. Per tutta la fase preromana Apuli e
Messapi, anche se di comune origine indeuropea, avevano occupato territori
separati perché portatori di tradizioni culturali diverse, arrivati su tutta la fascia

155
Dialetti salentini

adriatica in tempi successivi e da non comuni regioni di stanziamento, dopo


percorsi molto diversi.
Da tutte le fonti letterarie risulta che la romanizzazione dei due territori è
stata coeva, e la conquista romana raccontata con le continue vittorie
dell’esercito romano, con due sole sconfitte: quando italici, lucani e salentini si
allearono con Annibale, e quando si allearono con Pirro; l’ultimo tentativo dei
Messapi fu stroncato durante la Guerra Sociale, quando i Messapi furono
deportati in massa, e i pochi superstiti diventarono schiavi dei nuovi padroni di
tutto il loro patrimonio terriero.
Anche se è stata coeva, la latinizzazione è stata altro motivo di alcuni tratti
linguistici diversi nel territorio della Apulia e della Calabria.
In territorio apulo dovette arrivare un latino trasportato da parlanti, a
maggioranza di origine italica, con particolari abitudini fonetiche; in territorio
messapico invece deve essere giunto un latino trasportato da parlanti a
maggioranza federati: oggi i dialetti pugliesi presentano l’assimilazione e la
sonorizzazione di alcune consonanti di sicura origine sannita; i dialetti salentini
presentano solo alcune forme con l’assimilazione italica di -ND-, -MB- (forse di
più recente origine).
Il terzo motivo di tratti diversi nei due territori è stato attribuito alla diversa
condizione sociale delle due popolazioni in epoca medievale.
Con la dominazione bizantina iniziata nel VI secolo, Bisanzio tenne uniti i
due territori nel TEMA DI LONGOBARDIA, con capitale Bari: quando i
Longobardi di Benevento occuparono tutto il territorio di Bari, e anche una
parte del Salento, Bisanzio restrinse la sua occupazione al solo territorio oltre
Otranto-Gallipoli. Nello stesso periodo si stavano diffondendo le due
innovazioni, partite dal Nord, nel territorio occupato dai Longobardi: la
distinzione sillabica e il condizionamento delle vocali finali su quelle toniche.
Nel territorio pugliese, occupato presto e più lungamente dai Longobardi il
sistema a 7 vocali del romanzo comune risolve e o aperti e chiusi con esiti
sempre distinti in sillaba libera e in sillaba chiusa e, ugualmente, sempre distinti
secondo finali di prime e seconde condizioni. Altra innovazione, arrivata però
dalla fascia adriatica, produce in territorio pugliese la dittongazione di tutte le
vocali di sillaba aperta: kaine > kene cane, féile filo, méise mese, sòule sole,
solo, kréude crudo, fòume fumo, léuce luce, ecc.
Nel territorio del Salento settentrionale, per diverso tempo occupato dai
Longobardi, arriva solo l’innovazione dell’influsso delle vocali finali su quelle
toniche; nel territorio occupato più lungamente dai Bizantini arriva o un parziale
influsso per le vocali toniche e, o aperti, oppure singole forme metafonizzate.

156
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 157-185
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p157
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Proprietà fonetiche segmentali e soprasegmentali


delle lingue parlate nel Salento

Antonio Romano

1. Introduzione
In una visione sincronica, il Salento dialettale presenta significative
condizioni di variazione geolinguistica, ma al contempo rappresenta una sub-
regione linguisticamente compatta.
La solidità dei codici linguistici diffusi in quest’area, così come la vitalità
delle diverse parlate, offre ancora oggi condizioni per condurre ricerche appro-
fondite sui vari livelli di strutturazione dei sistemi dialettali e sulla convivenza tra
dialetti romanzi e varietà alloglotte (mentre persiste un certo interesse per le
condizioni di mistilinguismo e mutua interferenza tra questi e l’italiano)1.
Molti degli argomenti d’interesse descrittivo o teorico sono approfonditi
oggi in varie sedi e da un numero crescente di autori internazionali2.
Anche aspetti relativi alla strutturazione fonetica e fonologica beneficiano
di studi molto avanzati condotti nei laboratori leccesi, con una certa risonanza
internazionale e con notevoli ricadute sul territorio3.
Per riannodare il filo che lega i risultati della ricerca accademica e il tessuto
culturale locale e nazionale, ho pensato di contribuire con questo breve stato
dell’arte, con una rassegna di riferimenti e risultati complessivi che possono
rivelarsi d’interesse per un pubblico più ampio.

1
All’interesse di queste considerazioni ho dedicato spazio nel mio contributo in A. ROMANO,
Norma e variazione nel dialetto salentino di Parabita, in M. SPEDICATO (a cura di),
NeoΠΡΟΤΊΜΗΣΙΣ: Scritti in memoria di Oronzo Parlangèli a 40 anni dalla scomparsa (1969-
2009), Galatina, EdiPan (Grafiche Panico), 2010, pp. 237-268.
2
A contributi sperimentali come quello di O. PROFILI, Le parler grico de Corigliano d'Otranto
(Province de Lecce). Phénomènes d’interférence entre ce parler grec et les parlers romans
environnants, ainsi qu’avec l’italien, Thèse de Doctorat de l’Univ. de Grenoble, 1983 (pubblicata
parzialmente in « Studi Linguistici Salentini », 14, 1986), sono seguite le ricerche avanzate di vari
autori. Per alcuni aspetti in passato piuttosto trascurati, come la sintassi, si vedano, tra gli altri:
F. DAMONTE, J. GARZONIO (a cura di), Studi sui dialetti della Puglia, Padova, Unipress, 2007, pp.
3-28; V. BALDISSERA, Il dialetto grico del Salento: elementi balcanici e contatto linguistico,
Dottorato di ricerca in Lingue, Culture e Società Moderne (a.a. 2012-2013), Venezia, Università
Ca’ Foscari, 2013. Ampie riflessioni sono, infine, nei lavori di Adam Ledgeway (si veda, tra gli
altri, A. LEDGEWAY, La sopravvivenza del sistema dei doppi complementatori nei dialetti
meridionali, in P. DEL PUENTE (a cura di), Dialetti: per parlarne e parlare (Atti del II Convegno
Internazionale di Dialettologia, ALBaII, Potenza-Venosa-Matera, 13-15/05/2010), Rionero in
Vulture, Caliceditori, 2011, pp. 239-262).
3
Penso, in particolare, alle ricerche di M. Grimaldi e B. Gili Fivela presso l’Università del Salento.
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Dedico qui sommariamente il § 2 al consonantismo e alla fonosintassi, il § 3


al vocalismo, il § 4 ai fatti soprasegmentali (prevalentemente all’intonazione).

2. Consonantismo

Nella pronuncia dei suoni consonantici presenti nelle produzioni dei


parlanti salentini (piuttosto indipendentemente dalla lingua parlata), colpiscono
due o tre caratteristiche molto appariscenti ma anche piuttosto variabili
diatopicamente e diafasicamente. Tra queste è immediato ricordare: 1) la
presenza di esiti di cacuminalizzazione (che non necessariamente dànno luogo
in tutte le località alla diffusione di suoni cacuminali); 2) l’incertezza nelle
opposizioni sordo/sonoro. Ciononostante, a un’occhiata più attenta, altri fatti
notevoli emergono che possono contribuire a segnalare, da un lato la salentinità
originaria del parlante che si esprime in diverse lingue, dall’altro l’estraneità del
non salentino che si cimenti alla pratica delle lingue del Salento. Alcuni di
questi, infine, impegnano considerevolmente nella resa grafica che lo scrivente
semi-colto, o spesso persino il colto (quando non lo specialista), gestisce a fatica e
che necessitano quindi di spiegazioni e segnalazioni appropriate sulle quali vale la
pena spendere qualche parola in questa sede.

2.1. Suoni cacuminali

I dialetti salentini centrali possiedono notoriamente questo tratto, comune a


dialetti siciliani e calabresi centro-meridionali4. Si tratta della celebre resa degli
esiti di LL latina, nonché dei nessi tr, dr e str.
A questi sono dedicati numerosi studi descrittivi e sperimentali che hanno
permesso di mettere in evidenza la funzionalità del tratto e le sue condizioni di
realizzazione articolatoria e acustica5.

4
A quest'argomento sono dedicati importanti recenti studi che hanno contribuito a una revisione
oggettiva e a una descrizione documentata dei meccanismi articolatori ed evolutivi alla base del
fenomeno. Tra questi ricordiamo in generale: CHIARA CELATA, Analisi del processo di retroflessione
dei nessi con vibrante nei dialetti romanzi, in “Quaderni del Laboratorio di Linguistica della Scuola
Normale Superiore di Pisa”, 5, 2005 (http://alphalinguistica.sns.it/QLL/QLL04_05/Celata_
Chiara.pdf, ultimo accesso 06/10/2009); ID., Analisi dei processi di retroflessione delle liquide in
area romanza: con dati sperimentali dal còrso e dal siciliano, Tesi di Dottorato, Scuola Normale
Superiore di Pisa, 2006 (http://alphalinguistica.sns.it/tesi/celata/tesi_Celata.htm); CARMELO LUPINI,
La retroflessione delle consonanti in Europa. Meccanismi di formazione e distribuzione, in
A. ROMANO, M. SPEDICATO (a cura di), Sub voce Sallentinitas: Studi in onore di G.B. Mancarella,
Lecce, Grifo, 2013, pp. 217-229.
5
Si veda già A. ROMANO, A phonetic study of a Sallentinian variety (southern Italy), in Atti del
XIV Congresso Internazionale di Scienze Fonetiche (ICPhS99, San Francisco, USA, 1-7 Agosto
1999), pp. 1051-1054; A. COSTAGLIOLA, R. KATIWADA, Salentinian cacuminals/retroflexes
(Apulia, southern Italy): a preliminary articulatory study, in A. PAMIES, E. MELGUIZO (a cura di),
New Trends in Experimental Phonetics, Language Design, special issue 1, 2008, pp. 39-46.

158
Antonio Romano

Aspetti che restano invece da approfondire riguardano la diffusione dialet-


tale, la variabilità diamesica e generazionale (nonché quello della resa grafica).
In questa sede mi limito a ricordare che tutti i dialetti salentini centro-
meridionali (non quelli più settentrionali e solo limitatamente quelli più
meridionali), presentano il noto esito -ḍḍ- per lat. -LL-. In molti di questi è
possibile un’opposizione fonologica con /dd/, che in molti altri casi resta
prevalentemente solo teorica (a Parabita: caddu ‘caldo’ vs. caḍḍu ‘callo (o
gallo)’). Una pronuncia cacuminale è comune (ma non obbligatoria) anche per i
nessi -ḍṛ-, -ṭṛ- e -ṣṭṛ- (si pensi a ḍṛittu ‘dritto’, in contesti di mantenimento della
sonorità, inṭṛa ‘dentro’ e ṣṭṛittu ‘stretto’).
Se, da un lato, è interessante studiare i casi di neutralizzazione che si
verificano nei dialetti del Capo di Leuca, in quelli alto-salentini (secondo il
modello pugliese) e in alcuni dialetti griki, in termini funzionali occorre ancora
sottolineare le modalità di opposizione nelle realizzazioni di questi esiti con
quella delle affricate (e fricative) postalveolari nei dialetti in cui sono
vigorosamente attestati e costituiscono, anzi, un tratto-bandiera. Si pensi ad es. a:
aḍḍa ‘altra’ vs. aggia ‘abbia’, quaṭṛu ‘quadro’ vs. quaṭṭṛu ‘quattro’, ṭṛija ‘una
triglia’ vs. cija ‘un ciglio’ (o ṭṛittu ‘dritto’ vs. cittu ‘zitto’ o tittu ‘detto’, in contesti
di perdità di sonorità), manḍṛa ‘mandria’ vs. mangia ‘id.’ etc.6 A titolo d’esempio
riporto qui solo una rappresentazione spettrografica (v. Fig. 1) per illustrare le
caratteristiche acustiche distintive di questi suoni e due immagini di risonanza
magnetica per sottolinearne alcune distinte condizioni articolatorie (v. Fig. 2).
Le rese cacuminali di tr (come quelle di ḍḍ) non presentano vibrazioni, ma
si caratterizzano per articolazioni occlusive o affricate. Oltre che per un locus
acustico più basso (intorno a 2000 Hz), queste articolazioni si
contraddistinguono per una fase di tenuta nitida e una fase di rilascio con una
quantità variabile di frizione (una soluzione cacuminale senza affricazione è
possibile in certe pronunce), ma comunque nettamente meno estesa di quella
delle affricate postalveolari e dentali7.

6
Nelle preoccupazioni del cultore locale rientra anche quella della grafia da adottare per questi
suoni. Diverse soluzioni sono state suggerite storicamente (anche da non linguisti, come C. De
Giorgi o S. Castromediano) e diverse grafie più o meno innovative e più o meno coerenti si
diffondono oggi negli scritti in salentino comune o in griko (alle grafie storiche ‹ḍḍ›, ‹dh›/‹ddh› o
‹ddw›, negli ultimi decenni si sono aggiunte soluzioni prima inedite come ‹∂∂›, ‹ddr› o ‹ddrh›, per
non parlare di quelle per tr e str). Sul piano fonologico, in griko, effettivamente, l’opposizione tra
suoni cacuminali (che presentano normalmente una resa grafica con ‹ḍḍ›) e suoni alveo-dentali (resi
con ‹dd›), caratterizzata da un rendimento funzionale basso o nullo, non è solidissima: molti parlanti
che esibiscono la pronuncia cacuminale parlando in salentino romanzo non la usano in griko in
contesti corrispondenti a quelli di altre varietà dove la distinzione è invece regolarmente mantenuta.
Il fenomeno non è però generale (e meriterebbe una valutazione quantitativa) e quindi non giustifica
la semplificazione di ‹ḍḍ› con ‹dd› presente in molti testi (e spesso legata a scelte tipografiche).
7
Si noti invece la resa dell’affricata postalveolare da parte dello stesso locutore: il rilascio
presenta un rumore più intenso e più diffuso, anche tenendo conto della maggiore o minore
tendenza a deaffricare le rese di /ʧ/ in molti dialetti di quest’area (come in fiorentino).

159
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Sul piano articolatorio:


“Le principali caratteristiche che sembrano apparire, più che a delle vere
e proprie retroflesse, lasciano pensare [... ad] articolazioni apico-
postalveolari con grado di labializzazione molto ridotto (o addirittura
nullo). Sembrano interessanti, invece, il sollevamento del dorso verso la
regione palato-velare [...] e l’avanzamento della radice della lingua” 8.

Fig. 1 - Spettrogrammi di na cija ‘un ciglio’ e na ṭṛija ‘una triglia’ pronunciate dal
locutore FC33 di Parabita* [immagini su dati pubblicati in Romano (1999)].
*Per le località e le aree menzionate si veda il mio contributo “Una selezione di carte linguistiche
del Salento” in questo volume.

Fig. 2 - Immagini per Risonanza Magnetica (IRM) corrispondenti al momento occlusivo


dell’affricata apico-(post)alveolare (labializzata) [ʧ] (a sinistra) e del nesso tr salentino
(a destra). I suoni sono stati da me articolati in un contesto d’invariabilità vocalica
(a_a). Tra le caratteristiche dell’articolazione cacuminale, si notano, la ridotta
protrusione delle labbra, l’avanzamento della radice della lingua e il sollevamento del
dorso (che determina un leggero arretramento dell’articolazione e un appiattimento
trasversale del pre-dorso) [immagini tratte da Romano (2002)].

8
A. ROMANO, La fonetica strumentale applicata ai dialetti d’Italia a un secolo dall’“Etude sur la
phonétique italienne” di F.M. Josselyn, in A. REGNICOLI (a cura di), La fonetica acustica come
strumento di analisi della variazione linguistica in Italia (Atti delle XII Giornate di Studio del
GFS di Macerata, 13-15 dicembre 2001), Roma, Il Calamo, 2002, pp. 7-14, p. 12.

160
Antonio Romano

2.2. Neutralizzazione di sonorità


Ascoltando un parlante salentino si ha talvolta l’impressione di sentir
pronunciare suoni sonori in luogo dei sordi e viceversa, quando questi si trovino
in posizione intervocalica. Il fenomeno interessa soprattutto l’opposizione /t/ ~
/d/ (più marginalmente anche /k/ ~ /ɡ/ e altri ostruenti)9.
In molte aree si ha comunemente te/ti ‘di’, tai ‘dai’ e tormi ‘dormi’, ma con
frequenti rese grafiche conservative: de/di ‘di’, dai ‘dai’ e dormi ‘dormi’. Il
motivo di queste oscillazioni nella notazione delle iniziali è nel fatto che una
sonora originaria si mantiene solo in condizioni di raddoppiamento (e cioè se è
/dd/, v. dopo) altrimenti tende ad assordirsi, confondendosi con le rese di /t/ (a
loro volta spesso indebolite) e neutralizzando la sua opposizione con questa in
posizione intervocalica o iniziale assoluta (v. es. nelle Figg. 3 e 4). Si ha,
quindi: tai e ddai ‘dài e dài’, to’ musci e ddo’ surgi ‘due gatti e due topi’, te
capu ‘di testa’ (o ‘daccapo’) vs. e dde capu ‘e di testa’ (o ‘e daccapo’), tormi e
ccittu ‘dormi e zitto’ vs. cittu e ddormi ‘zitto e dormi’ etc.)10. Anche la forma di
citazione di voci come tispiettu ‘dispetto’ o tisonore ‘disonore’ è piuttosto con
t-, ma esistono contesti in cui, diversamente da casi come tàula ‘tavola’ o
tilaru/talaru ‘telaio’, possono recuperare una dd- (cce ddispiettu ‘che dispetto’,
cce ddisonore ‘che disonore’)11.

Fig. 3 - Spettrogrammi di criti ‘credi’ e ccite ‘uccide (= che cosa?)’ pronunciate


rispettivamente dai locutori FS55 di Tuglie e FC47 di Parabita. Entrambi presentano
tracce di sonorità irregolari prima di un rilascio decisamente rumoroso.

9
Molte voci con D originaria hanno un esito dominante con /t/ in alcuni dialetti centrali (si pensi a
critimu ‘crediamo’ e (v)iti ‘vedi’). In questi dialetti una forma di tipo crita può valere tanto per
‘grida’ quanto per ‘creta’. Nei dialetti del Capo si preferisce, invece, la soluzione con d (in tutti
questi casi, ma persino in esempi come padate ‘patate’).
10
L’argomento è trattato in dettaglio in un noto contributo di J. TRUMPER, A.M. MIONI,
Osservazioni sulla lenizione nei dialetti salentini e pugliesi, in “Lingua e contesto”, 1, 1975, pp.
167-177 ed è discusso in G.B. MANCARELLA, Salento, in M. CORTELAZZO (a cura di), Profilo dei
dialetti italiani, 16, Pisa, Pacini, 1975. Il fenomeno è menzionato anche come fatto notevole
dell’arbëresh di San Marzano (e del griko, v. dopo) da L.M. SAVOIA, La parlata albanese di
S. Marzano di S. Giuseppe: appunti fonologici e morfologici, in “Zjarri”, 27, 1980, pp. 8-26.
11
Questa regolarità può risultare spesso oscurata se si adotta una grafia senza doppie iniziali (v. dopo).

161
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Fig. 4 - Spettrogrammi di sal. creatura ‘id.’ e gk. pu pai? ‘dove vai?’ pronunciate
rispettivamente dai locutori FS55 di Tuglie e BL65 di Calimera. In quest’ultimo caso la
consonante intervocalica è addirittura approssimante.

2.3. Consonanti doppie e intrinsecamente lunghe


Come in molti dialetti italo-romanzi, nei dialetti salentini alcune consonanti
sono distintive in base alla loro lunghezza (secondo la cosiddetta geminazione
lessicale o distintiva). Tra queste si trovano universalmente soltanto /p/, /t/ (e
[ʈ]), /k/ (e [c]), /s/, /ʃ/, /m/, /n/, /r/ e, più limitatamente, /f/ e /ʧ/ (ad es. in crapa
‘capra’ ~ (c)rappa ‘grappolo (v. Fig. 5), citu ‘aceto’ ~ cittu ‘zitto’, quaṭṛu
‘quadro’ ~ quaṭṭṛu ‘quattro’, spacu ‘spago’ ~ spaccu ‘spacco’, asu ‘asso’ ~ assu
‘asse’, fame ‘fame’ ~ famme/i ‘fammi’, mpanu ‘avvito’ ~ mpannu ‘addormento’
o face ‘fa’ ~ facce ‘faccia’)12.
Si hanno poi, con rese esclusivamente doppie in alcune posizioni, /ʦ/, /ʣ/,
/ɲ/, /b/ e /ʤ/ (limitatamente anche /d/, con [ɖː], e /ɡ/, con [ɟː])13. Infatti, come in
altri dialetti meridionali, anche in Salento le consonanti /b/ e /ʤ/ sono realizzate
con suoni intrinsecamente lunghi in posizione postvocalica e iniziale assoluta14.

12
Accenni alla funzionalità delle geminate in griko (anche fonosintattiche) si trovano in
A. ROMANO, Acoustic data about the Griko vowel system, in M. JANSE, B. JOSEPH, Π. ΠΑΎΛΟΥ,
Α. ΡΆΛΛΗ & Σ. ΑΡΜΟΣΤΉ (a cura di), Μελέτες για τις Νεοελληνικές Διαλέκτους και τη
Γλωσσολογική Θεωρία / Studies in Modern Greek Dialects and Linguistic Theory, Nicosia,
Research Centre of Kykkos Monastery, 2011, pp. 73-84. A Calimera si ha ad es. mana ‘madre’
vs. manna ‘fascio di paglia’, kanò ‘basto (v.)’ vs. kannò ‘fumo’. Osserviamo che anche qui sono
diffuse le geminate iniziali (come in ttèni ‘pettine’ o kkutèo ‘pago’, v. § 2.5) e la neutralizzazione
di sonorità delle scempie vista sopra (poradi/porati ‘olivo’, rodinò/rotinò ‘rosso’ etc.).
13
Uno studio sperimentale dedicato alla lunghezza intrinseca di /b/ nel dialetto di Taurisano è offerto
da T. KAMIYAMA, A. GAILLARD-CORVAGLIA, Le occlusive bilabiali in salentino (Puglia): uno studio
acustico e percettivo, in R. SAVY, C. CROCCO (a cura di), Analisi prosodica: teorie, modelli e sistemi
di annotazione (Atti del II Conv. Nazionale AISV – Ass. Italiana di Scienze della Voce, Salerno, 30
Nov.-2 Dic. 2005), Padova: ISTC/EDK ed., p. 106+pp. 683-694.
14
Nella grafia delle voci con questi suoni, gli scriventi oscillano notevolmente. Un’impostazione
razionale ed ecologica (come quella assunta da N.G. De Donno) regolarizza queste grafie col
ricorso costante a ‹bb› e ‹gg(i,e)› (ad es. bbasta ‘basta’ e sàbbutu ‘sabato’, ggiurnu ‘giorno’ e
staggione ‘stagione’) o a ‹b› e ‹g(i,e)› (ad es. àrbulu ‘albero’ o chiumbu ‘piombo’, orgiu ‘orzo’ o
cangiu ‘cambio’). Ovviamente, lo stesso vale per /ʦ/ e /ʣ/ (e /ɲ/) che presentano questa regolarità
anche in italiano (benché opacizzata da un’ortografia etimologizzante); si hanno quindi: ‹zz› e

162
Antonio Romano

Fig. 5 - Spettrogrammi di sal. crapa ‘capra’ e crappa ‘grappolo’ pronunciate da FC33 di


Parabita. Si noti la durata ridotta della resa di /p/ (associata a una maggiore durata della
vocale precedente).

Sui rapporti di durata tra scempie e geminate in italiano e nelle sue varietà
sono già stati condotti studi sperimentali nei diversi ambiti (articolatorio,
acustico e percettivo). La lunghezza delle geminate rispetto alle scempie è stata
valutata in diverse condizioni sperimentali e per velocità d’eloquio variabili: le
durate delle scempie italiane a 4÷5 sill/s risultano nell’ordine dei 70÷90 ms,
mentre quelle delle geminate, più variabili, si attestano sui 110÷150 ms,
determinando un rapporto medio di 1:1,62.
Nelle geminate salentine da me misurate in produzioni di laboratorio (su un
corpus di più di 400 parole in frasi cornice) di parlanti di Parabita (FC33 e
GM32) e Alezio (GT31)15 questo rapporto è risultato generalmente più alto
(rispettivamente 1:2,00; 1:1,69, 1:1,78). I tempi di realizzazione di /p, t, k/
scempie hanno inoltre mostrato una debole ma sistematica dipendenza dai
contesti (sopra)segmentali (una durata dell’ordine di 80 ms in ˈVsCV e una
generalmente più breve, fino a 40 ms, in ˈVCV e VˈCV) vs. le rese geminate
(caratterizzate da una durata media di 154±21 ms). Coi tempi misurati nei
contesti intervocalici (soprattutto per VˈCV), le realizzazioni delle scempie
tendono a essere sonorizzate e, spesso, soprattutto nel caso di GM32, ad
assumere rese approssimanti (v. § 2.2 e Fig. 4; cfr. § 2.5). Al contrario, le
geminate tendono a essere aspirate (con tempi di rilascio che arrivano a circa il
40% della durata complessiva). In certe posizioni (ˈVCCV) e in determinate
condizioni di riduzione vocalica, questa aspirazione può colorarsi
timbricamente in funzione della vocale seguente (a scapito della qualità di
quest’ultima, v. Fig. 6).

‹ẓẓ› (ad es.: zzaccu ‘prendo’ e cozza ‘cozza’, ẓẓingu ‘recipiente di zinco’ e piẓẓulu/paẓẓulu ‘soglia,
pietra angolare’) vs. ‹z› e ‹ẓ› (ad es. forza ‘forza’, carẓa ‘garza (o guancia)’ etc.).
15
A. ROMANO, Indici acustici di alcune geminate iniziali salentine, in G. MAROTTA, N. NOCCHI (a
cura di), La coarticolazione (Atti delle XIII Giornate di Studio del GFS, Pisa, 26-28 Novembre
2002), Pisa, ETS, 2003, pp. 233-241; ID., Geminate iniziali salentine: un contributo di fonetica
strumentale alle ricerche sulla geminazione consonantica, in R. CAPRINI (a cura di), Parole
romanze. Scritti per Michel Contini, Alessandria, Dell’Orso, 2003, pp. 349-376.

163
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Fig. 6 - Spettrogrammi di sal. utte ‘botte’ e utti ‘botti’ pronunciati dal locutore FS55 di
Tuglie. Si noti la scadente qualità vocalica dei segmenti finali di queste rese (ancora
chiaramente /e/ e /i/, sebbene in buona misura desonorizzate), la realizzazione aspirata di
/tt/ e il ‘colore’ assunto dal rilascio di questo in funzione del timbro della vocale seguente.

2.4. Altre caratteristiche consonantiche16

2.4.1. Due sc(i,e) distinte per lunghezza


Molti dialetti salentini presentano comunemente una distinzione di
lunghezza del suono costrittivo postalveolare sordo. Il suono presente nei
corrispondenti dialettali di it. ‘vostri/e’ ([ʃː], come in [ˈoʃːi]/[ˈoʃːe]) e quello
presente, ad esempio, nei corrispondenti dialettali di it. ‘oggi’ ([ʃ], come in
[ˈoːʃi]/[ˈoːʃe]) definiscono – diversamente da quanto accade in italiano, in cui
questo suono si presenta intrinsecamente lungo in posizione postvocalica – due
fonemi distinti17. Il problema si complica leggermente per quei dialetti che

16
Riporto qui considerazioni riguardanti le sole varietà romanze. Per il consonantismo griko,
rinvio sommariamente alla voce enciclopedica “Greca, comunità”, in Enciclopedia dell’Italiano
(a cura di R. SIMONE, G. BERRUTO E P. D’ACHILLE), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana
“Treccani”, I, 2010, pp. 614-615 (A. Romano). In questa, ho sottolineato contrastivamente la
presenza in griko di alcune soluzioni che sono marginali (ad es. la diffusa presenza della laterale
palatale /ʎ/, sostituita da /j/ in alcuni dialetti: ìglio vs. ìjo ‘sole’) o, addirittura, assenti negli altri
dialetti salentini (ad es. i resti di una costrittiva interdentale /θ/ quasi sempre resa o con [t], ad es.
litàri ‘pietra’ a Martignano, o con [s], ad es. lisàri a Calimera, e la funzionalità di un fonema
costrittivo velare sordo /x/). Un discorso a parte meriterebbe la fonotassi; in particolare la
diffusione di nessi consonantici inusuali come /fʧ/, /vl/ o /(s)kl/ (come in èfcero ‘vuoto’, avlài
‘solco’ o àscla ‘scheggia’) o, in condizioni ancora più interessanti, la presenza del nesso /fs/ che,
in quei dialetti in cui non ha fatto in tempo a essere sostituito da /ʦ/, alterna con questo più o
meno liberamente (fsomì/tsomì ‘pane’). Ugualmente interessante, infine, è il nesso /ft/ che è
spesso soggetto ad assimilazione (ad es. a Sternatia ftiro > ttìro ‘pidocchio’).
17
La necessaria distinzione grafica di questi mette nelle condizioni di ricorrere a soluzioni inedite
nella lingua di alfabetizzazione dei dialettofoni col risultato che, in mancanza di una convenzione
universalmente accettata, questi spesso esitano nella lettura della soluzione proposta o ne inventano
una nuova a ogni occasione: sc(i,e) vs. (s)ç di alcuni autori e sc(i,e) vs. ssc(i,e) di altri che si
dissociano dalle soluzioni adottate dagli specialisti (comunemente šš vs. š, oppure la soluzione

164
Antonio Romano

presentano un fenomeno di latente neutralizzazione dell’opposizione tra /ʃ/ e /ʧ/


legata al fatto che quest’ultimo, in contesto intervocalico, assume correntemente
una pronuncia [ʃ] (deaffricata) e porta alcune parole alla confusione con quelle
con [ʃ] originario, ad es. uce ‘voce’ vs. us¢e ‘acerbe’.
Un suono di tipo [ʃ] caratterizza, infine, alcune parlate periferiche che se ne
servono per la resa dei nessi /sp/, /st/ e /sk/ (in quest’ultimo caso anche come
esito di nessi lat. S + palatale): špetta ‘aspetta’, vištu ‘visto’, šcatta ‘schiatta’18.

2.4.2. Due z distinte per sonorità


In italiano (anche se una riflessione in merito è trascurata dalla maggior parte
dei parlanti) sussiste generalmente un’opposizione tra una zeta sorda e una zeta
sonora, ad es., tra razza ‘insieme d’individui’ e razza ‘pesce’19. Anche i dialetti
salentini, oppongono /ʦ/ e /ʣ/ e i parlanti nativi sanno ad es. che a mazza ‘id.’
corrisponde una pronuncia con /ʦ/ (doppia) mentre a màẓẓaru ‘tipo di pietra (e,
per est., persona rozza)’ corrisponde una pronuncia con /ʣ/ (doppia)20. Non
occorre certo uno studio strumentale per mostrare le condizioni di tenuta di
quest’opposizione (rafforzata dalle condizioni di geminazione intrinseca, v. §
2.3): a Parabita, ad es., si distingue benissimo tra puzzu ‘pozzo’ e puẓẓu ‘polso’ e
tra fazzu ‘faccio’ e faẓẓu ‘falso’ (v. Fig. 7).
Malgrado ciò, i salentini hanno innovato nella pronuncia di alcune forme
generalizzando la sonora in contesti non etimologici (ben al di là delle sole
posizioni iniziali in cui il fenomeno ha preso piede nell’italiano contemporaneo):
oltre a it. zio e zappa ([ˈʣiːo] e [ˈʣapːa], in luogo dei tradizionali [ˈʦiːo] e
[ˈʦapːa]), che pure associano infallibilmente a sal. zziu e zzappa ([ˈʦːiːu] e
[ˈʦːapːa]), alcuni parlanti di questa regione hanno cominciato a dire graẓẓie,
staẓẓione (selezionando di preferenza /ʣ/ prima di /j/) e pinẓa (quest’ultimo,
comunque, lessicalizzato, in opposizione a forme che consentono /ʦ/ dopo /n/,
come ad es. senza)21.

controintuitiva del VDS, šc(i,e) vs. sc(i,e)). Ritenendo anche queste poco adatte, per il ricorso a
simboli speciali non sempre disponibili sulle tastiere, si può introdurre – esclusivamente per quello
dei due suoni che non si presenta in italiano – la soluzione ‹s¢› (che fa ricorso al carattere ‹¢› ormai
comunissimo). Si potrà quindi avere osci e osce, per ‘vostri/e’ vs. os¢i o os¢e per ‘oggi’.
18
Nei dialetti centro-salentini il fenomeno è attestato solo come caratteristica individuale o stilistica.
19
E questo avviene in modo piuttosto indipendente dalla notazione di semplici e doppie: si pensi
alle diverse zeta presenti nelle espressioni prezzo dell’azoto e spazi azzurri.
20
La mancata distinzione grafica in italiano tra questi due suoni produce incertezze negli
apprendenti stranieri (e persino nei parlanti nativi, per le voci meno comuni) e la sua
generalizzazione alla grafia del sal. (romanzo e griko) determina un certo numero di parole dalla
dubbia lettura per il non dialettofono. La confusione che ne consegue sta alterando la
distribuzione di questi suoni in griko (che distingue tradizionalmente /ʦ/ da /ʣ/) nelle produzioni
dei neo-parlanti revivalisti che imparano la lingua dallo scritto.
21
Non si tratta qui, come nei dialetti alto-meridionali, di un’assimilazione di sonorità postnasale,
ma di una distribuzione lessicalizzata (visto che, appunto, in sal. si trovano diffusamente parole
con la sorda dopo /n/).

165
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Fig. 7 - Spettrogrammi di sal. fazzu ‘faccio’ e faẓẓu ‘falso’ pronunciate dalla locutrice
AG74 di Parabita. Si noti la realizzazione sorda di tipo [ʦ] presente nella parola
analizzata a sinistra (con tempi simili di tenuta e rilascio) e la realizzazione sonora di
tipo [ʣ] a destra (con tempo di tenuta più lungo di quello di rilascio e progressivo
indebolimento della sonorità).

Fig. 8 - Spettrogrammi di sal. sarza ‘salsa’ e carẓa ‘branchia, guancia’ pronunciate dal
locutore FC33 di Parabita. Si noti la realizzazione sorda di tipo [ʦ] presente nella parola
analizzata a sinistra (con parziale desonorizzazione della resa di /r/) e le diverse
condizioni di resa della sonora (a destra; cfr. Fig. 7).

2.4.3. Affricazione di /s/


In alcuni dialetti salentini centro-settentrionali (come in parti di Toscana e
Lazio)22, originari nessi /ns/ e /rs/ (e, altrove – o anche qui nell’it. reg. –, /ls/)
dànno luogo comunemente a pronunce di tipo [nʦ] e [rʦ] (e occasionalmente
[lʦ]), confondendo i parlanti che spesso non sanno più se la parola originaria
fosse di un tipo o dell’altro (e se ricorrere nell’ortografia a ‹ns›, ‹rs› e ‹ls›
oppure a ‹nz›, ‹rz› e ‹lz›)23. In questo caso, uno studio acustico mirato potrebbe

22
Nei più meridionali soltanto /ns/ (si pensi anche solo a sirsa ‘suo padre’, con un chiaro [rs]), ma
con possibilità di ribaltamento in favore di /ns/ e /rs/ anche nei casi di /nʦ/ e /rʦ/.
23
La risoluzione di questo problema preoccupa molti autori locali i quali talvolta propugnano
implicitamente un modello di regolarizzazione a favore di una grafia con ‹s› persino nella notazione
di affricazione storica (ad es. *sensa, *forsa), riservando quella con ‹z› alle condizioni in cui si
presenta l’affricata sonora (ad es. *spunzali, *carze). Inutile dire che, in mancanza di un’indicazione
esplicita, queste grafie restano inadeguate per suggerire un’esatta ricostruzione fonetica al lettore
italofono (la seconda perché comunque ambigua, la prima perché addirittura fuorviante). Sarebbe

166
Antonio Romano

chiarire le condizioni di sviluppo dell’elemento epentetico che genera la


percezione e la ricostruzione di un’affricata (v. es. in Fig. 8)24.

2.5. Pregeminazione e cogeminazione


La lunghezza consonantica in salentino è generalmente funzionale anche
all’inizio di parola al punto che molte parole sono lessicalizzate con una
consonante lunga iniziale anche in italiano. Le geminate iniziali dànno luogo a
una pregeminazione che può essere trascritta con il raddoppiamento del simbolo
della consonante (v. sopra), come avviene ad es. in cconza ‘aggiusta, prepara’ o
ccatta ‘compra, acquista’.

Fig. 9 - Spettrogrammi di sal. lenta ‘lenta’ e llenta ‘allenta’ (in alto) e cinca ‘chiunque’
e ccinca ‘qualunque cosa’ (in basso) pronunciate dal locutore GM32 di Parabita. Si noti
la diversa lunghezza delle fasi visibili delle consonanti iniziali.

utile osservare invece che la pronuncia maggioritaria di ‹z› è quella sorda, almeno all’interno di
parola (sebbene qui con diversi capovolgimenti rispetto all’italiano standard, v. sopra zappa, pinza,
danza etc., e numerosi ipercorrettismi come per brezza, frizzante etc.): uno schema (forse non
ottimale perché non adatto a quelle varietà che hanno davvero sen[s]a e for[s]a) potrebbe essere,
allora, quello con ‹nz› e ‹rz› anche per [n(t)s] e [r(t)s] (confermando ‹nẓ› e ‹rẓ› per [ndz] e [rdz]). Si
avrebbero in questo modo: forza ‘forza’ e corza ‘corsa’ come senza ‘senza’ e senzu ‘senso’.
24
Una ricerca sperimentale condotta sull’italiano toscano è quella descritta in L. TURCHI,
B. GILI FIVELA, L’affricazione di /s/ postconsonantico nella varietà pisana di italiano, in
F. ALBANO LEONI, F. CUTUGNO, M. PETTORINO, R. SAVY (a cura di), Il Parlato Italiano (Atti del
Conv. Naz. di Napoli, 2003), Napoli, D’Auria, 2004 (CD-ROM, art. A06).

167
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Si hanno tuttavia consonanti doppie iniziali anche nei casi di


cogeminazione, cioè quando il raddoppiamento iniziale dipende da condizioni
fonosintattiche (cogeminazione, come ad es. in a ccasa ‘a casa’ o sta’ ccuse ‘sta
cucendo’, v. § 2.6)25.
La pregeminazione è presente in numerose voci ed è imputabile a diverse
ragioni evolutive26. Sono numerose le coppie di parole che si oppongono per
questa caratteristica. Nel dialetto di Parabita ad es. si ha (v. anche ess. in Fig. 9):
munta ‘munta’ vs. mmunta ‘monta (v.)’, nutu ‘nudo’ vs. nnutu ‘nodo’,
lenta ‘lenta’ vs. llenta ‘allenta’, ronca ‘roncola’ vs. rronca ‘roncare’; [...]
funda ‘(pro)fonda’ vs. ffunda ‘affonda’, sutta ‘sotto’ vs. ssutta ‘asciutta’,
s¢iummu ‘gibbo/gobba’ vs. sciummu ‘ingobbisco’; [...] chiare ‘chiare
(agg.), tuorli’ vs. cchiare ‘trovare’, conza ‘malta’ vs. cconza ‘aggiusta,
ripara, prepara’; [...] cinca ‘chiunque’ vs. ccinca ‘qualunque cosa’, cite
‘chi’ vs.ccite ‘che cosa’27.

Sono pregeminate anche alcune parole dell’it. reg. sal.: già e bene (e tutto
ciò che inizia per g(i, e) e per b, che sono geminate intrinseche, v. sopra), tre (e
in alcuni idioletti anche due), dio e merda, ci, più, cioè, ciò, ciao, re28.
Come anticipavo, alcuni casi di pregeminazione sono legati a una
geminazione intrinseca e sono resi meno trasparenti dalla cogeminazione29.

25
Nella scrittura corrente, pregeminazione e cogeminazione risentono di esitazioni e semplificazioni
talvolta deleterie. Oltre che intrinseca e lessicale (v. §2.3), la geminazione di consonanti iniziali può
essere infatti fonosintattica e prodursi, quindi, per un’originaria assimilazione totale (v. § 2.6). Se,
nel primo caso, non può essere trascurata perché indurrebbe una pronuncia inadeguata in un lettore
che non sia di madrelingua, negli altri due, non può essere semplificata perché produrrebbe il rischio
di una compromissione irreversibile del significato del testo scritto.
26
Per una rassegna si veda A. ROMANO, Geminate iniziali salentine..., cit., p. 352. Studi
sistematici su questo fenomeno nei dialetti salentini e pugliesi sono in P.M. BERTINETTO,
M. LOPORCARO, Geminate distintive in posizione iniziale: uno studio percettivo sul dialetto di
Altamura (Bari), in Annali della SNS, Classe di Lettere e Filosofia (sezione in onore di Luigi
Blasucci) - Preprint in QLL, 1/2000 (nuova serie), 2000, pp. 87-104; F. FANCIULLO, Il
rafforzamento fonosintattico nell’Italia meridionale. Per la soluzione di qualche problema, in
A. ZAMBONI et alii (a cura di), La dialettologia oggi fra tradizione e nuove metodologie (Atti del
Conv. Int. di Pisa, 2000), Pisa, ETS, 2001, pp. 347-382.
27
A. ROMANO, Geminate iniziali salentine..., cit., pp. 354-355. Si noti, ad es., che l’indicazione
della doppia cc- nel verbo cconza ‘aggiusta, ripara, prepara’ (geminata lessicale) è necessaria
perché una sola c- in questo caso è esclusiva del nome conza ‘malta di calce’. La condizione è
diversa da quella di cchiare ‘trovare’ perché, in questo caso, la flessione verbale di ccunzare non
presenta mai voci con a- prostetica (o etimologica), mentre si ha ad es. acchia ‘trova’.
28
Si noti che in queste varietà dialettali, diversamente da quanto accade in siciliano e calabrese
meridionale, le vibranti iniziali si allungano solo nei casi di pregeminazione (sono lessicalizzate ad
es. in rrobba ‘roba’ o rri(v)are ‘arrivare’) e/o per cogeminazione (Rufano ‘Ruffano’ vs. a Rrufanu ‘a
Ruffano’).
29
Ad es. la doppia gg- di ggiurnu dipende dal fatto che l’affricata postalveolare sonora è una
geminata intrinseca in tutta l’area salentina. Si ha, quindi, inevitabilmente nu ggiurnu ‘un giorno’.
In ṭṭṛe ggiurni ‘tre giorni’ la gg- iniziale è dovuta anche alla cogeminazione dato che ṭṭṛe (forma

168
Antonio Romano

La cogeminazione (o raddoppiamento (fono)sintattico) è un fatto saliente di


diverse varietà italo-romanze e della stessa lingua italiana nella quale è oggetto
di studio da tempo da parte di studiosi di tutto il mondo30.
In salentino si verifica dopo un ristretto numero di parole:
1) le preposizioni a e su, così come ṭṛa, cu’ ‘con’ e pe’/pi’ ‘per’ (a mme/mmìe
‘a me’, cu’ mme/mmìe ‘con me’, pi’ mme/mmìe ‘per me’ etc.)31;
2) le congiunzioni e e cu (non o, ci, ma, ca etc.) e la negazione no/nu, il
pron. interr. cce/cci (cce/cci ffazzu? ‘che faccio?’), l’intens. comp. cchiùi
nella sua forma tronca (cchiù’ o cchiù fforte ‘più forte’);
3) gli indefiniti quarche e ogne (quarche ffiata ‘qualche volta’, ogne ffiata
‘ogni volta’), i pron. forti e i verbi monosillabici (è mmortu ‘è morto’, po’
mmurire ‘può morire’, ha’ ffattu ‘ha fatto’32 etc.).
Tra le parole piene ricordiamo ṭṭṛe ‘tre’ e gli altri numerali composti con essa.
Invece, diversamente dall’italiano, le parole tronche non sono cogeminanti.
Si ha, quindi, ad es.: ṭṭṛe mmusci ‘tre gatti’, in cui la mm- non è lessicale (la
forma generale del nome è infatti musciu), ma è dovuta all’effetto cogeminante
di ṭṭṛe; altri esempi possono essere quelli di a Llecce ‘a Lecce’ o a mmenẓatía ‘a
mezzogiorno’ (vs. ’a menẓatía ‘il mezzogiorno’ di certi dialetti). Nell’esempio
no sta’ mmi sigge cu mmangiu si hanno raddoppiamenti iniziali per mi e mangiu
dato che sta’ (v. modale) e cu (cong.) sono parole cogeminanti33.

che è, tra l’altro, pregeminata) ha proprietà cogeminanti (e quindi tutte le parole seguenti con
consonante iniziale sono pronunciate con una lunga iniziale). Più complesso il caso di bb- che in
diverse parlate alterna con v- (o con assenza di consonante iniziale): si ha quindi a bbèspara ‘nel
pomeriggio’ vs. sta vèspara/èspara ‘questo pomeriggio’ (si noti che vèspara è soggetto a
variazione dialettale anche per quanto riguarda la cd. intertonica: vèspara/vèspera
/vèspira/vèspra).
30
M. LOPORCARO, Lengthening and Raddoppiamento Fonosintattico, in M. MAIDEN, M. PARRY (a
cura di), The Dialects of Italy, London-New York, Routledge, 1997, pp. 41-51.
31
Il rifiuto di alcuni autori nell’esplicitare graficamente le doppie fonosintattiche, oltre che
impegnare in modo significativo il lettore (che deve ricordare i contesti in cui queste si
manifestano nel parlato), oscura alcune variazioni di forma e ne ipercorregge altre rendendo
incongruenti certe rappresentazioni, nelle quali non si riconoscono altri fenomeni come ad es. la
coalescenza/crasi di vocali a contatto. Le parole sobbra ‘su, sopra’ o inṭṛa ‘in, dentro’ ad es., così
come nnanzi (o nnanti) ‘davanti’ etc., acquistano proprietà preposizionali per via del fatto che si
accompagnano sempre a un a seguente (nnanzi a, sobbra a, inṭṛa a) che non sempre appare nelle
espressioni (v. dopo), ma che è responsabile della cogeminazione. L’autore che manca di
riconoscere questi effetti può attribuire potere cogeminante a inṭṛa e scrivere ad es. *inṭṛa la rotta
invece di inṭṛa alla rotta (o inṭṛ’alla rotta) ‘nella grotta’ che induce più efficacemente la
pronuncia della doppia /ll/. Grafie di questo tipo andrebbero sistematicamente uniformate: *inṭṛa
’na bbarracca → inṭṛa a nna bbarracca (o inṭṛ’a nna bbarracca) ‘dentro una baracca’, inṭṛa allu
stipu oppure inṭṛ’u stipu ‘nello stipo’ (non *inṭṛa lu stipu o *inṭṛu stipu).
32
È questo uno degli elementi di discriminazione più forti tra le parlate salentine: la forma ausiliare
ha’ (e la sua sostituta è’) è cogeminante solo nei dialetti settentrionali (da Galatone in su).
33
La mancata distinzione grafica di sta’ (< stae, stave, staje per apocope) da ’sta (dimostr., <
quista o questa per aferesi) causa difficoltà di lettura se non si indica la cogeminazione (sta’

169
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Ricordo infine che, cogeminazione e riduzioni vocaliche a confine di parola


sono spesso compresenti e il loro ruolo complementare. Ad es. in espressioni
come pane e ccasu ‘pane e formaggio’, la separazione tra pane ed e è fin troppo
artificiosa dato che nel parlato comune si ha pan’e ccasu e la percezione (e la
ricostruzione grafica) della congiunzione è prevalentemente imputabile
all’allungamento della consonante iniziale di casu che risulta dalla proprietà
cogeminante di e (la parola pane non ha questa proprietà).

2.6. Altri fenomeni fonosintattici

Come si vede dagli esempi presentati sopra, nella formazione dei gruppi di
parole e nella produzione degli enunciati sono numerosi i fenomeni di contatto
tra parole che ricevono trattamenti regolari. Solo alcuni di questi, come
l’elisione, l’aferesi e alcuni casi di assimilazione sono di solito considerati
adeguatamente (spesso con eccessiva fiducia negli espedienti ortografici
dell’italiano)34.
Molti dei fenomeni più caratteristici sono dovuti ad assimilazione:
(parziale) am pos¢ia/pàuta (< an pos¢ia/pàuta) ‘in tasca’, nu mbale (< nun
(v)ale) ‘non vale/serve’; (totale) nu llu sape (< nun lu sape) ‘non lo sa’, nu
ppozzu (< nun pozzu) ‘non posso’ etc.35.

ccerne ‘sta cernendo’ è diverso da ’sta (v)este ‘questo vestito’; lo sa il parlante nativo che vede
subito un verbo in cerne e un nome in (v)este o, in mancanza degli apostrofi, perché la lunghezza
iniziale di ccerne candiderebbe subito lo sta del primo esempio a verbo modale). Allo stesso
modo sta’ cchio(v)e ‘sta piovendo’ si distingue da ’sta chiai ‘questa chiave’. L’indicazione della
cogeminazione è tanto più fondamentale in quei casi in cui si ha anche polisemia funzionale,
come per cima, che vale tanto ‘cima (n.)’ quanto ‘cima (v.)’:’sta cima è dunque ‘questa cima’
mentre sta’ ccima è ‘sta cimando’.
34
Accade spesso che una risegmentazione attribuisca alla parola seguente la consonante finale
assimilata di alcune parole funzionali (ad es. no/nu mbole invece di non/nun (v)ole ‘non vuole’, a
ncoḍḍu invece di an coḍḍu ‘in collo’).
35
Questi argomenti sono a volte collegati a considerazioni generiche sulla determinazione dei
confini delle parole e sulle oggettive capacità degli scriventi di riconoscere condizioni diverse da
quelle dell’italiano, lingua esclusiva di alfabetizzazione. Nei testi dei semi-colti salentini si
ritrovano spesso aggiu *nuttu per aggiu nnuttu ‘ho portato’ (l’ultima parola analoga di nduttu di
altri dialetti), *nimu per n’imu ‘ci siamo’ (o ‘gli abbiamo, ne abbiamo’, in altri dialetti nd’imu),
*miti per m’iti ‘mi avete’, *sane per s’(h)ane ‘(lett.) si ha’, *s’assittatu invece di s’ha’ ssittatu ‘si
è seduto’, *s’indirizza invece di si ndirizza ‘si raddrizza’, *ca ta (m)misu invece di ca t’ha’
(m)misu ‘che ti sei messo’ etc. D’altra parte, la mancata regolarizzazione in certi testi di ha’, a’,
*a per ‘ha’ e ‘hai’ o degli articoli la, ’a, *a ‘la’, ’na, na, n’ ‘una, un’’,’nu, nu, ’n ‘uno, un’
produce letture foneticamente corrette, ma rivela spesso un’analisi grammaticale superficiale e/o
un approccio prescientifico. Anche il trattamento delle preposizioni+articolo è soggetto a
oscillazioni, ad es.: allu, a llu e a’ lu (→ allu) oppure sullu, su llu e su lu (→ sullu). Molti autori
salentini – si vede dall’uso che ne fanno anche in assenza di fenomeni di apocope (in sincronia) –
attribuiscono potere geminante all’apostrofo. Ad es.: a’ li frati mei ‘ai miei fratelli’ va letto come
alli frati mei.

170
Antonio Romano

Altri esempi di parole che si presentano ambigue di primo acchito per un


lettore che non sia parlante nativo sono aggiu ‘ho’ e tocca ‘(ti) tocca’ che, in
virtù del loro impiego in espr. perifrastiche (così come per i verbi va’ e s¢ià’),
erano seguiti da preposizioni o congiunzioni poi semplificatesi: aggiu a o tocca
cu corrispondono a valori deontici forse diversi, ma traducibili con ‘devo’36. Si
noti infine che negli esempi aggiu ppacare/ppajare ‘devo pagare’ vs. aggiu
pacatu/pajatu ‘ho pagato’, la distribuzione della doppia consonante iniziale del
verbo retto si presenta in modo esattamente speculare rispetto all’italiano che ha
infatti p- nel traducente del primo caso (aggiu[pp]acare vs. it. devo[p]agare) e
pp- nel secondo (aggiu[p]acatu vs. it. ho[pp]agato)37.
Infine, come anticipato sopra, l’indicazione esplicita nella grafia della
cogeminazione permette di mostrare la regolarità con cui le voci con d-,
possono essere presenti tanto con dd- quanto con t-, in certi dialetti, come negli
esempi: ti/te l’aggiu ddare ‘te lo/a devo dare’ vs. nu/no tti/tte la pozzu tare ‘non
te la posso dare’ oppure ti/te l’aggiu tittu ‘te l’ho detto’ vs. ti l’aggiu ddire
‘devo dirtelo’.

3. Vocalismo
Come illustrato dalla vasta messe di contributi che sono stati dedicati allo
studio del vocalismo dialettale nel corso dei decenni38, quest’aspetto di
strutturazione è stato senz’altro quello più indagato anche nello studio delle
parlate salentine.
Una classificazione generale dei tipi dialettali macroscopici, in base al
trattamento che questi hanno riservano ai diversi gradi di apertura originari del
‘vocalismo tonico’ e in associazione a fenomeni di dittongazione e metafonesi,
ha da tempo gettato le basi per un’interpretazione storica delle condizioni
attuali, rivelando divergenze e affinità tra le parlate in base alle modalità con cui
è avvenuta la lessicalizzazione di forme con determinati esiti o in cui si è fissata
la flessione nominale o verbale39.

36
Come nel caso di tocca, invariabile alla persona ma con tempi verbali diversi (es.: ha’ ttuccatu
(cu) mmi mmanés¢iu/mmanis¢iu ‘ho dovuto sbrigarmi’), anche altre forme coniugate come aggiu
presentano la stessa proprietà in costrutti simili: imu[ff]are ‘dobbiamo fare (lett. abbiamo a fare)’,
n(d)’imu[mm]angiare ‘dobbiamo mangiarci (lett. ci abbiamo a mangiare)’.
37
In altre parole, aggiu e tocca sono cogeminanti se seguiti da infiniti in seguito alla caduta di a e
cu. Ma questa condizione è ben più generale: è doppia la consonante iniziale di paca nell’espr. nu
mbole cu ppaca ‘non vuole pagare’ perché cu è cogeminante, ma la ragione non appare più
altrettanto chiaramente in nu mbole ppaca dove cu è caduto.
38
Si vedano, in questo volume, i capitoli di G.B. MANCARELLA.
39
Dittongazione metafonetica e metafonesi delle vocali alte sono state descritte accuratamente in
ben noti lavori: A. CALABRESE, Metaphony in Salentino, in « Rivista di Grammatica Generativa », 9-
10, 1985, pp. 3-140; ID., Metaphony revisited, in « Rivista di Linguistica », 10, 1, 1998, pp. 7-68.

171
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

2.1. Contributi acustici allo studio del vocalismo salentino


Lo studio di fatti microscopici, in una prospettiva sincronica, può aiutare a
dare una visione diversa della stessa materia, descrivendo con dati oggettivi
alcune particolari condizioni40.
Trascurando in prima battuta il riferimento alla descrizione dei dittonghi e
delle differenze indotte dalla metafonesi e guardando ai timbri vocalici che
caratterizzano i singoli dialetti, possiamo che siamo di fronte a una condizione
piuttosto omogenea: il vocalismo salentino romanzo, così come quello griko,
poggia su un sistema a tre gradi d’apertura e, quindi, 5 timbri in posizione
accentata: /i e a o u/ (con /e/ e /o / timbri medi).
Cominciamo però subito a notare che i timbri medi /e/ e /o/ presentano
frequentemente realizzazioni più aperte (di tipo [ɛ] e [ɔ]) e, talvolta,
contraddistinguono variazioni dialettali, o anche solo usi idiolettali, in cui si
affermano rese di tipo più chiuso ([e] e [o]).
In alcuni dialetti la distribuzione di questi suoni assume una certa regolarità
e segue principi prevedibili che definiscono situazioni particolari e rivelano,
forse, resti di fenomeni più antichi o sedimenti di sistemi finora considerati
estinti in quest’area. D’altra parte, indizi di condizioni microscopiche meno
uniformi e tracce di contaminazione più o meno recente (per interferenze varie:
areali, dell’italiano, della scolarizzazione, dei media...) non si possono
escludere. Restano quindi da esplorare situazioni diverse e con un’attenzione ad
aspetti forse secondari, fin qui trascurati, ma che potrebbero arricchire le
conoscenze dialettologiche di tutta l’area.
Per illustrare succintamente alcune delle principali caratteristiche rilevabili
acusticamente dei timbri vocalici che costituiscono questi sistemi, mi avvarrò in
questa sede di una serie di risultati in parte già pubblicati in lavori precedenti.
La presentazione delle qualità timbriche dei sistemi discussi segue le
tradizionali modalità degli studi di quest’ambito, avvalendosi di diagrammi
cartesiani (F1-F2)41. In questi grafici si riportano i valori misurati nella porzione
di maggiore stabilità del timbro di un suono vocalico pronunciato da un dato
parlante per due delle principali componenti del timbro del suono42.

40
È questa la direzione intrapresa, da una ventina d’anni a questa parte, anche da M. Grimaldi e
suoi allievi. Si veda anche M. GRIMALDI, Nuove ricerche sul vocalismo tonico del Salento
meridionale. Analisi acustica e trattamento fonologico dei dati, Alessandria, Dell’Orso, 2003.
41
Cfr. F. FERRERO, Le vocali: problemi di classificazione e misurazione spettroacustici. Un
contributo, in « Quaderni del Centro di Studi per le Ricerche di Fonetica », XV, 1996, pp. 93-118;
F. FERRERO, A. GENRE, L.J. BOË, M. CONTINI, Nozioni di Fonetica acustica, Torino, Omega, 1979.
42
Al problema della stabilità dei timbri misurati (e sulla diffusione in diverse aree dialettali di
vocali tendenti alla dittongazione) ho dedicato un contributo specifico in A. ROMANO,
Osservazione e valutazione di traiettorie vocaliche su diagrammi formantici per descrivere il
polimorfismo e la dittongazione nei dialetti pugliesi, in F. SÁNCHEZ MIRET & D. RECASENS (a cura
di), Experimental Phonetics and Sound Change (with special reference to the Romance
languages), München, LINCOM, 2013, pp. 121-143.

172
Antonio Romano

Le misurazioni sono state in parte effettuate mediante script per Matlab™


da me realizzati durante il mio Dottorato di Ricerca e che sono serviti anche per
il tracciamento dei grafici pubblicati nei miei primi lavori43. Le misure ottenute
in anni più recenti sono, invece, di solito, eseguite col programma PRAAT44.
La definizione delle aree di esistenza dei fonemi vocalici è avvenuta, in tutti
i casi qui discussi, mediante uno script per R che ha permesso il tracciamento di
ellissi eccentriche al 100% che riuniscono tutti gli allofoni, cioè tutte le varie
realizzazioni che il fonema riceve in funzione di vari condizionamenti45.
Come esempio di sistemi pansalentini, avevo pubblicato qualche anno fa
quelli relativi a più di 150 parole pronunciate da due locutori di Parabita e
Sannicola (v. Fig. 10).

Fig. 10 - Diagrammi di dispersione dei vocoidi accentati prodotti dal locutore FC di


Parabita (a sinistra) e dalla locutrice FM di Sannicola (a destra). Ellissi eccentriche al
100% [dati di Romano (1999a&b)]46.

43
Un’applicazione di questi è in A. ROMANO, A phonetic study of a Sallentinian variety..., cit.
44
P. BOERSMA, D. WEENINK, Praat: doing phonetics by computer (http://www.praat.org). La
misurazione è avvenuta sullo spettrogramma visualizzato nella finestra interattiva e con l’aiuto
dei tracciati formantici suggeriti dal programma stesso. Dato che, in generale, questi sono
condizionati da variazioni numeriche discrete (con salti di una certa consistenza in funzione delle
dimensioni della finestra di visualizzazione), una verifica sistematica è stata condotta sulle sezioni
spettrali nella porzione intermedia di ciascun vocoide (misurando le prime tre formanti).
45
Lo script, definito presso il Laboratorio di Fonetica Sperimentale “Arturo Genre” di Torino, è
il risultato di una collaborazione con la Dott.ssa M.J. Ginzo Villamayor dell’Università di
Santiago de Compostela. Le ellissi sono quelle dello Spanning Ellipsoid method implementato da
M. Maechler nell’ambiente di sviluppo ed esecuzione di R (The R Project for Statistical
Computing (http://www.r-project.org/).
46
A. ROMANO, A phonetic study... cit., e ID., Analyse des structures prosodiques des dialectes et
de l’italien régional parlés dans le Salento: approche linguistique et instrumentale, Thèse de
Doctorat de l’Université Stendhal de Grenoble, 1999 (pubblicata a Lille, Presses Univ. du
Septentrion, 2001).

173
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Fig. 11 - Diagrammi di dispersione dei vocoidi accentati prodotti in griko dai locutori
BL e GT di Calimera. Ellissi eccentriche al 100% [dati di Romano 2007].

In questi, sebbene il particolare addensamento di realizzazioni in certe aree


del grafico lasciasse presagire un condizionamento segmentale e la
determinazione di allofoni particolari, non era parso ravvisare condizioni di
regolarità sufficienti per delineare condizioni di variazione sistematica.
È invece interessante notare come un sistema simile sia comune anche al
griko di Calimera e Martano e all’arbëresh di San Marzano di San Giuseppe
(che però presenta un fonema vocalico in più).
A queste parlate alloglotte ho avuto modo di dedicare studi precedenti,
svolgendo inchieste specifiche ancora in parte inedite. In particolare, propongo
in Fig. 11 i dati relativi alle misurazioni condotte sulle produzioni di due
parlanti griki di Calimera (entrambi caratterizzati da rese delle vocali medie
tendenzialmente medio-alte)47.
In Fig. 12, invece, presento dati inediti relativi alle produzioni di due
parlanti arbëresh di San Marzano da me registrati nel 2004 sulla base del
questionario definito da Carmine De Padova48.

47
Per dettagli sul corpus e sulle divergenze con i dai dei parlanti di Martano, v. A. ROMANO, Acoustic data..., cit.
48
C. DE PADOVA, Influsso romanzo nel lessico albanese di San Marzano, Tesi di Laurea
dell’Università di Lecce, Facoltà di Magistero (rel. G.B. Mancarella), 1973-1974. Al momento
sono stati spogliati soltanto i dati relativi ad alcune risposte come ad es.: dorë ‘mano’, detë
‘mare’, shumë ‘molto’, pakë ‘poco’, pështannë ‘poi’, dillë ‘cera’, u vette ‘io vado’, u shkonjë ‘io
passo’, ti shkonje ‘tu passavi’, u shkonja ‘io passavo’, sabbjë ‘sabbia’, jesë ‘(io) sto’, rrenjëtë ‘le
radici’, guardiannë ‘guardiano’, u llosë ‘io gioco’, shuekë ‘gioco’, një ndarë shuekë ‘un bel
gioco’, vanjunë e djallë ‘bambino’, kannë / kàmbuli / kembëlë ‘canna / canne’, u (katë) vettë ‘io
me ne vado’, një helë buk ‘una fetta di pane’, u hipë ‘io salgo’, u rrusë ‘io scendo’, u ngrinjë ‘io
alzo’, u bbashonjë ‘io abbasso’, shokë ‘marito’, shokjë ‘moglie’, jatti / tatta ‘padre’, (k?)unazë
‘anello’, jemë / memmë ‘madre’, u kkam urjë ‘io ho fame’, u bbenjë ‘io faccio’, fjerrë ‘ferro’,
uddë ‘strada’, u vinjë ‘io vengo’, erë ‘vento ‘, barkë ‘ventre’, krimbë ‘verme’, turpë ‘vergogna’,
venna ‘vena’, krakë ‘braccio’, grikkë ‘bocca’, arë ‘oro’, u ddua ‘io voglio’, ti ddo ‘tu vuoi’, aì

174
Antonio Romano

In questi dati, oltre all’elemento di differenziazione relativa dalle parlate


romanze circostanti (e da quelle salentine) della vocale centrale accentata, salta
subito all’occhio la scarsità di rese di timbri medio-alti e medio-bassi (solo le
rese di /o/ si rivelano leggermente più aperte)49.
A San Marzano, come nella maggior parte del Salento (e nonostante la
presenza di contrasti tra medio-alte e medio-basse dei dialetti pugliesi vicini,
come quello di Ceglie M. e di Martina F.), non c’è nessuna ragione per supporre
gradi di apertura fonologici diversi da quelli alto, medio, e basso50.

Fig. 12 - Diagrammi di dispersione dei vocoidi prodotti in arbëresh dai locutori PZ e SG


di San Marzano. Ellissi eccentriche al 100% [dati originali raccolti nel 2004].

ddo ‘lui vuole’, në dduammi ‘noi vogliamo’, iju dduanni ‘voi volete’, atò dduannjënë ‘loro
vogliono’, vanjunnjë / vaz ‘ragazza’, vanjunni ‘il ragazzo’, bbennjë ‘faccio’, mielë ‘farina’, një
stregë ‘una strega’, fekutë ‘fegato’, dderprë ‘volpe’, ze ‘voce’, gjallë ‘vivo’, u rronjë ‘io vivo’,
zokë ‘uccello’, zokëtë ‘gli uccelli’, u vrasë ‘io uccido’, nannëtë ‘nonna’, nannëlë ‘nonno’, nipë
‘nipote (m.)’, mbes ‘nipote (f.)’, arr ‘noce’, nutë ‘nodo’, uklë ‘zio’, u llenjë ‘io nasco’, ti llenë ‘tu
nasci’, u ddesë ‘io muoio’, një mmiz ‘una mosca’, deljë ‘pecora’, krip ‘sale’, dielë ‘sole’, maç
‘gatta’, kjatrorë ‘gelo / brina’, cimellëtë ‘gemello’, ula ‘fratello’, mottrë ‘sorella’, hënnë ‘luna’,
lluttë ‘lutto’, drittë ‘luce’, te ‘terra’, i kkukjë ‘rosso’, kri ‘testa’, mi ‘topo’, shtëpi ‘casa’, libbrë
‘libro’, gjakë ‘sangue’, shi ‘pioggia’, pippë ‘pipa’, ufflë ‘aceto’, valë / varëtë ‘olio / oli’, ulinjë /
ulinjëtë ‘oliva / le olive’, një ppallë ‘una palla’, u nisë ‘io parto’, u ppierë ‘io torno’, ljoppë
‘vacca’, ljappattë ‘pala’, utë ‘gomito’, surdatë ‘soldato’, e re ‘nuova’, i re ‘nuovo’, nùvula / nuljë
‘nuvola’, fjumë ‘fiume’, glunjë ‘ginocchio’ (ringrazio G. Belluscio per la revisione di queste
forme: errori residui nella loro rappresentazione o nelle loro glosse restano miei, naturalmente).
Per una presentazione ricca d’informazioni sulla parlata di questa località si veda il contributo di
G. BELLUSCIO e M. GENESIN, in questo volume.
49
Il locutore più anziano SG, più autentico (e più spontaneo nel corso della registrazione),
presenta una dispersione maggiore dei valori delle poche occorrenze di /ə/ che si spingono
talvolta anche nella regione di [ɜ/ɛ] e di [ɐ].
50
A questo proposito avrebbe giovato tener conto dei recenti rilievi di F. Fanciullo, in un lavoro
di cui mi è giunta notizia a impaginazione conclusa (v. F. FANCIULLO, I vocalismi (tonici)
romanzi: siamo così sicuri di quello che è successo? Un caso “transizionale”, in Andirivieni
linguistici nell’Italo-romània, Alessandria, Dell’Orso, 2014, pp. 67-95).

175
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Nel momento in cui pubblicavo i dati di Fig. 10, però, si stava concludendo
“l’indagine a tappeto in 36 località, fra la linea Gallipoli-Maglie-Otranto e il
Capo di Leuca, e il ricorso all’analisi acustica e statistica” di M. Grimaldi51.
L’analisi dei dati raccolti in quello studio ha evidenziato la presenza di un
processo di armonia vocalica che coinvolge le vocali medie, quando sono
seguite dalle vocali alte atone -i oppure, meno diffusamente, -u.
“Questo processo si concentra in 19 comuni nel triangolo delimitato da
S. Maria di Leuca a sud, Ruffano a est e Andrano a ovest e “produce
l’innalzamento delle vocali medie aperte /ɛ, ɔ/ nelle rispettive medie
chiuse [e, o]”. Si ha ad es.: [ˈmeti] / [ˈmetu] ‘mieti / mieto’ vs. [ˈmɛte]
‘miete’; [ˈdenti] ‘denti’ vs. [ˈdɛnte] ‘dente’ e [ˈʃoki] / [ˈʃoku] ‘(tu) giochi /
(io) gioco’ vs. [ˈʃɔka] ‘gioca’ o [ˈnotːi] ‘notti’ vs. [ˈnɔtːe] ‘notte’”52.

e di “Lecce”
e di “serpi”

[e] [e]
(-i) [o] (-i)
(-i)
[ɛ] [ɛ] [ɔ]
(-e/a) [ɔ] (-e/a) (-e/a) vs. (-i)
(-e/a)

Fig. 11 – Diagrammi di dispersione dei vocoidi accentati prodotti dai locutori GV50 e
ST22 di Tricase. Ellissi eccentriche al 100%. Si nota la polarizzazione di valori imposta
alla vocale media anteriore dall’armonia vocalica, con le significative eccezioni per
GV50 di: Lecce (e tre), realizzato con una medio-alta, e serpi (e mei), con effetti di
centralizzazione. Si nota invece la più netta separazione dei timbri anteriori per ST22
che non sembra distinguere in nessun modo le rese della vocale media posteriore, più
nettamente orientata – in modo incondizionato – verso un timbro medio-basso
[dati originali raccolti nel 2000].

51
M. GRIMALDI, Nuove ricerche sul vocalismo tonico del Salento meridionale: analisi fonetica e
fonologica, Tesi di Dottorato in Linguistica Italiana dell’Università di Firenze, a.a. 1997-1998. Si
veda ora A. CALABRESE, M. GRIMALDI, L’interfaccia fonetica-fonologia nella metafonia del
Salento meridionale, in A. ROMANO, M. SPEDICATO (a cura di), Sub voce Sallentinitas: Studi in
onore di G.B. Mancarella, Lecce, Grifo, 2013, pp. 277-288.
52
CALABRESE, GRIMALDI, L’interfaccia fonetica-fonologia..., cit., pp. 277-278. Si noti che in
questo passaggio si assume come forma base dei due fonemi quella medio-aperta /ɛ, ɔ/. I dati dei
due locutori in Fig. 10 non sembrano aderire a questo modello che invece potrebbe manifestarsi in
altre aree.

176
Antonio Romano

Condizioni di variazione sistematica si trovano, infatti, anche nella pronuncia


dei locutori di Tricase le cui produzioni sono state da me raccolte e analizzate nel
2000 (dati rimasti inediti finora). In queste, in particolare, sembrano staccarsi in
modo evidente alcune rese medio-basse (diffuse e caratteristiche del Salento
meridionale), con una distribuzione dipendente da condizioni di armonia
vocalica, ma – in alcuni casi – anche in un modo che lascia pensare a una
lessicalizzazione (v. Fig. 11). In particolare, per le vocali medie, si concentrano
sistematicamente in un’area più alta i valori misurati per i timbri di diverse
realizzazioni di pedi ‘piedi’, erti ‘alti’, letti ‘id.’, mei ‘miei’, serpi ‘id.’ (vs. pede
‘piede’, mele ‘miele’, tre ‘id.’ e serpe ‘id.’ + Lecce + ertu ‘alto’, lettu ‘letto’) e, in
modo meno convincente, quelli di cori ‘cuori’, forti ‘id.’, soni ‘suoni’, socri
‘suoceri’, morti ‘id.’, tostu ‘duro’ (vs. palora ‘parola’, forte ‘id.’, sona ‘suona’,
rota ‘ruota’, notte ‘id.’, dorme ‘id.’, tosse ‘id.’, dole ‘duole’ + sonu ‘suono’)53.

Fig. 12 - Spettrogrammi di due enunciati prodotti dal locutore GN di Patù (Ventimila


lire? ‘id.’ e Ca se ggià l’aggiu truat’a ddecimila! ‘Che se già l’ho trovata a diecimila!’).
In entrambi i segmenti accentati prepausali (evidenziati), la resa di /i/ risulta
notevolmente dittongata ([ie̯ ]) [dati originali raccolti nel 1995].

53
I dati discussi da GRIMALDI, Nuove ricerche..., cit., sono nettamente più consistenti (e
mostrano, infatti, un effetto più marginale di -u, rispetto a -i).

177
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Fig. 13 - Diagrammi vocalici di locutori di Patù. Ai centroidi misurati per i due parlanti
sono riferite le traiettorie percorse dai timbri instabili presenti nelle rese di /i/ accentato
prepausale (in enunciati come quelli proposti in Fig. 12). Si nota come in entrambi i
casi, l’allungamento della vocale comporti una variazione qualitativa che produce timbri
dittongati (rispettivamente di tipo [ie̯ ] e [ië̯ ]) [dati originali raccolti nel 1995].

Questi fenomeni sono senz’altro degni di menzione, in vista di una


caratterizzazione fonetica delle varietà del Capo di Leuca (v. carta n. 2).
Insieme a quelle dell’area ugentina, queste esibiscono però un altro carattere
interessante: un’evidente instabilità timbrica che, in condizioni di allungamento,
soprattutto delle vocali alte, risalta notevolmente anche all’ascolto (v. Figg. 12 e
1354). A questo tratto, altrettanto caratteristico, sarebbe opportuno dedicare studi
più approfonditi.

2.2. Recenti sviluppi negli studi sul vocalismo salentino


Più recentemente, inoltre, mi è stato infine possibile mettermi sulla pista di in
una particolarità degna di attenzione ancora maggiore: in seguito alle ripetute
segnalazioni della Prof.ssa Rosanna Bove di Galatone55, ho finalmente potuto
verificare, con indagini mirate, la presenza in territorio salentino di un dialetto che
– tra le sue diverse peculiarità (che non aveva mancato di sottolineare lo stesso
Mancarella)56 – presenta un sistema a 4 gradi di apertura e 7 fonemi vocalici57.

54
Le variazioni non dipendono da condizioni di coarticolazione. L’indice di frangimento definito in
A. ROMANO, Osservazione e valutazione di traiettorie vocaliche..., cit., applicato a vocoidi così
realizzati, risulta pari a 20 e 24 per SD e 76 e 109 per GN, valori che sono tipici di rese dittongate.
55
Cfr. anche R. BOVE, Fonetica del dialetto di Galatone, Lecce, Del Grifo 2009.
56
G.B. MANCARELLA, L’onomastica galatéa del XVI secolo, in « Studi Linguistici Salentini », 18,
1992, pp. 73-83 (anche in Galatone nella seconda metà del ’500 – IV centenario del Sedile,
Galatone 8-11 nov. 1990, « Quaderni della Biblioteca Comunale », 1, 1993, pp. 53-60); cfr. anche
G.B. MANCARELLA, Salento. Monografia regionale della “Carta dei Dialetti Italiani”, Lecce,
Edizioni del Grifo, 1998, pp. 90-91.

178
Antonio Romano

Fig. 14. Diagrammi di dispersione dei vocoidi accentati prodotti dal locutore GC e dalla
locutrice FL di Galatone (a destra). Ellissi eccentriche al 100% [dati di Romano 1999].

È questo un caso decisamente interessante messo bene in evidenza anche


dalle analisi acustiche. In Fig. 14 si può infatti osservare come si determinino
aree di esistenza ben distinte per timbri medio-alti e medi (tanto anteriori quanto
posteriori)58.
Un’altra situazione che determina la diffusione di distinzioni su quattro
gradi di apertura è quella del condizionamento segmentale.
Ne ho individuata una sistematica nel dialetto di Tuglie (segnalato da
R. Bove per presunte altre regolarità)59.
L’analisi condotta su questo dialetto ha confermato, in effetti, una
distribuzione distinta per i due timbri medio-alto e medio(-basso)60. Non si tratta
di fonemi distinti, ma di un unico fonema medio (anteriore o posteriore) con
due varianti combinatorie (tassofoni). A Tuglie, i parlanti – tanto i più anziani,
da me intervistati per lo studio menzionato, tanto i più giovani, sulle cui

57
A. ROMANO, Il vocalismo del dialetto salentino di Galàtone: differenze d’apertura
metafonetiche, tracce isolate di romanzo comune e interferenze diasistematiche, in A. ROMANO,
M. SPEDICATO (a cura di), Sub voce Sallentinitas: Studi in onore di G.B. Mancarella, Lecce,
Grifo, 2013, pp. 247-276.
58
I due fonemi medi posteriori si oppongono più stabilmente nel sistema e presentano una
distribuzione condizionata in parte da metafonesi. Tuttavia a Galatone si ha, ad. es: pórtu ‘(il)
porto’ vs. pòrtu ‘(io) porto’, ógghiu ‘olio’ vs. ògghiu ‘voglio’, córu ‘crosta (cuoio)’ vs. còru
‘coro’ oppure sóle ‘sole (astro e agg. fpl.)’ vs. sòle ‘suole’. Opposizioni si possono stabilire anche
per éte ‘vede’ e ète ‘è’; il contrasto tra le medie anteriori, è rafforzato, comunque, da esempi come
candéla ‘id.’, caténa ‘id.’, és¢iu ‘vedo’, séte ‘id.’, téla ‘id.’ etc. vs. ècchia ‘vecchia’, èrta ‘alta’,
èrva ‘erba’, finèscia ‘finestra’, pète ‘piede’, pètra ‘pietra’, tèrra ‘id.’ etc.
59
BOVE, Fonetica..., cit., pp. 27, 36.
60
A. ROMANO, Il dialetto salentino di Tuglie: una rassegna e un contributo alla descrizione
fonetica del suo vocalismo, in G. CARAMUSCIO (a cura di), Virtute e Canoscenza: per le Nozze
d’Oro di Luigi Scorrano con Madonna Sapientia, Lecce, Grifo, 2015, pp. 375-390.

179
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

produzioni ho eseguito più recentemente delle misurazioni (i cui risultati sono


presentati in parte in Fig. 15) – producono sistematicamente vocali medie più
aperte quando seguite da /r/ (indipendentemente dal fatto che questo sia o no
tautosillabico). Il fenomeno è così evidente che, se nel caso dei parlanti adulti
considerati inizialmente permetteva di osservare timbri medio-alti in
distribuzione complementare con quelli medi o medio-bassi (simili a quelli per i
quali si è definito uno statuto fonologico a Galatone), nel caso dei parlanti più
giovani si radicalizza determinando una distinzione (fonetica) tra timbri medio-
o quasi-alti e timbri chiaramente medio-bassi (senza soluzioni intermedie).

Fig. 15. Diagrammi di dispersione dei vocoidi accentati prodotti dalla locutrice FP e dal
locutore ST di Tuglie. Ellissi eccentriche al 100%
[dati di Romano 2015 (FP) e inediti (ST)].

2.3. Carenza di dati sul vocalismo finale e prospettive di studio


Un altro aspetto che resta ancora da indagare è quello del vocalismo finale
non accentato. Notoriamente61, infatti, il salentino presenta una ripartizione
dialettale anche in (1) dialetti che conservano quattro timbri finali, -u/-a/-i/-e, e
(2) dialetti che conservano tre timbri finali, -u/-a/-i (data la neutralizzazione tra
-e e -i che si produce nei dialetti alto-salentini). Il sospetto è che la separazione
si presenti attraverso condizioni di transizione lungo le aree di confine tra i due
sistemi62. Questa sembrerebbe ad es. la condizione di Avetrana, che ha accolto
61
V. il contributo sui dialetti salentini di G.B. MANCARELLA in questo volume.
62
Ulteriori distinzioni potrebbero emergere anche nelle modalità di realizzazione di -e in quei
dialetti che lo serbano distinto da -i, dato che anche questo potrebbe essere variabilmente
realizzato più o meno aperto, si vedano ad es. le condizioni gallipoline e, in generale, la
variazione lungo l’asse ininterrotto Nardò-Ugento o lungo quello Lecce-Otranto. A partire da un
certo momento, infatti, il vocalismo finale in queste aree ha seguito un’evoluzione in stretto
contatto con le condizioni del griko, che prevede anche -o. Sfortunatamente, anche lo studio del
vocalismo finale griko è stato finora piuttosto trascurato in termini dialettali e/o contrastivi.

180
Antonio Romano

storicamente comunità provenienti da aree limitrofe e che, pur determinando


condizioni di confusione nella finale di cane / cani, parente / parienti o nuestri
(m.) / nostri (f.), presenta esiti potenzialmente distinti, almeno sul piano acustico.
La Fig. 16 suggerisce una possibilità di rappresentazione dei dati (che
sarebbero significativi soltanto con un numero più consistente d’informatori).
Alla prima esplorazione, infatti, anche in questo caso si presenta un vocalismo
che prevede essenzialmente una /e/ media anteriore (in opposizione a una media
posteriore più estesa nella regione delle medio-basse)63.
Gli esiti in posizione accentata non sembrano correlare con il vocalismo
finale. Invece, le misure sulle rese di /i/ < -i (mpl. e 2a p.) e di /i/ < -e (sg., fpl. e
3a p.) si disperdono in un’area sensibilmente diversa (sebbene con notevoli
sovrapposizioni) ed estesa verso il centro.
Per concludere, riguardo al vocalismo, diciamo che la situazione salentina,
unificata da fatti macroscopici consolidatisi storicamente, risulta, quindi, piuttosto
variegata e offre ancora numerose possibilità di approfondimento a studiosi seri e
formati all’insegna dell’interdisciplinarità, dell’onestà intellettuale, della
correttezza scientifica e dello studio rigoroso.

[e] di “pete”
[o] di “vote”
[e] di “terra” [ɛ] di “fera”

[ɛ] di “(a)pertu”
[ɔ] di “nora”
[ɔ] di “rote”
[ɛ] di “cera” [ɔ] di “rota”

Fig. 16. Diagramma di dispersione dei vocoidi accentati e non accentati finali prodotti
dalla locutrice AN di Avetrana. Ellissi eccentriche al 100%
[dati inediti raccolti nel 2004].

63
La condizione della presenza di /r/ nelle rese più aperte (già studiata in un dialetto in cui è
sistematica, v § 2.2) sembra essere presente anche qui, ma in modo irregolare.

181
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

4. Intonazione
Come ho già avuto modo di segnalare64, i dialetti salentini si caratterizzano
per proprietà ritmico-intonative geograficamente piuttosto uniformi e compatta-
mente contrapponibili a quelle delle aree pugliesi confinanti. Tuttavia una certa
variazione intonativa si presenta soprattutto nella modalità interrogativa totale
(domanda sì/no). Per questo intonema, i dialetti salentini meridionali, al di sotto
del ‘corridoio bizantino’ (v. carta n. 4), esibiscono infatti uno schema finale
ascendente (sull’ultima vocale accentata degli enunciati) e poi discendente (sulle
vocali finali). Invece, i dialetti centro-settentrionali esibiscono più spesso uno
schema di tipo piatto+ascendente (v. Fig. 17).

Fig. 17 – Profili intonativi di domande totali di tipo ‘salentino rustico’ (a sinistra) e


‘urbano (pansalentino)’ rilevati rispettivamente in produzioni di parlanti di Marittima,
Patà e Uggiano la Chiesa vs. San Cesario di Lecce, Sannicola e Mesagne in enunciati
del tipo Nu cane? ‘un cane?’(LSV = estensione dell’ultima vocale accentata)
[adattato da Romano 2001].

Nei dialetti con intonazione ‘rustica’, al contorno terminale descritto si


associa solitamente un’altezza melodica piuttosto bassa in corrispondenza delle
sillabe preaccentuali e un profilo protonico poco modulato ma con sistematici
innalzamenti allineati con un certo ritardo rispetto alle posizioni contrassegnate
da elementi accentati lessicalmente o da elementi funzionali forti (v. Fig. 18).
Questi profili, giudicati di tipo siciliano65, si ritrovano diffusamente in buona

64
A. ROMANO, Accento e intonazione in un’area di transizione del Salento centro-meridionale, in
P. RADICI COLACE, G. FALCONE, A. ZUMBO (a cura di), Storia politica e storia linguistica
dell’Italia meridionale (Atti del convegno internazionale di studi parlangeliani, Messina, 22-23
Maggio 2000), Messina-Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 2003, pp. 169-181.
65
Cfr. A. ROMANO, Definizione di sei sotto-varietà intonative del salentino: prime valutazioni dei
risultati di un test di riconoscimento, in F. CUTUGNO (a cura di), Fonetica e fonologia degli stili
dell’italiano parlato (Atti delle VII Giornate di Studio del "Gruppo di Fonetica Sperimentale"
dell’Ass. It. di Acustica, Napoli, 15-16 Nov. 1996), Roma, Esagrafica, 1997, pp. 59-77; ID., Analyse
des structures prosodiques..., cit. Il riferimento all’intonazione palermitana è possibile grazie allo
studio di M. GRICE, The intonation of interrogation in Palermo Italian, Tübingen, Niemeyer, 1995.

182
Antonio Romano

parte del territorio salentino nelle produzioni di parlanti più anziani e,


soprattutto, in ambito rurale. La loro presenza in varietà alto-salentine o di
confine (v. Fig. 19), per quanto attenuata o negoziata con elementi più generici
caratterizzanti le aree alto-meridionali (finale comunque più alta), conferma una
diffusione almeno originariamente più ampia.
A questi si contrappongono profili nettamente differenziati per la presenza
di un andamento piatto o leggermente ascendente sull’ultima vocale accentata
seguito da un’ascesa più marcata sulla postaccentuale (v. Fig. 20).

Fig. 18 – Profili intonativi di domande totali di tipo ‘salentino rustico’ (con contorno
finale ascendente+discendente) rilevati per tre giovani locutrici di Poggiardo, Casarano
e Acquarica del Capo. Enunciati del tipo “Voi cu tte la dicu/cuntu ntorna?”.

Fig. 19 – Profili intonativi secondo un modello di domanda totale di tipo pugliese (con
contorno finale ascendente+alto-discendente) rilevati per due giovani locutori di Ostuni.
Enunciati del tipo “Vuè ca te la cond’arreta?”.

183
Proprietà fonetiche segmentali soprasegmentali delle lingue parlate nel Salento

Fig. 20 – Profili intonativi secondo il modello di domanda totale di tipo ‘salentino


leccese (urbano?)’ (con contorno finale ascendente) rilevati per tre giovani locutori di
Lecce, Galatina e Tuglie. Enunciati del tipo “Vuè/oi cu tte la cuntu ntorna?”.

Fig. 21 – Profili intonativi secondo il modello di domanda totale di tipo ‘salentino leccese
(urbano?)’ (con contorno finale ascendente) rilevati per una giovane locutrice di Maglie e
due locutori di Gallipoli e Soleto. Enunciati del tipo “(V)o(i) cu tte la cuntu ntorna?”.

Fig. 22 – Profili intonativi secondo il modello di domanda totale di tipo ‘salentino


settentrionale’ (con contorno finale discendente+ascendente) rilevati per due giovani
locutrici di Mesagne e due di Manduria. Enunciati del tipo “(V)uè cu tti la contu arretu?”.

184
Antonio Romano

Questo schema si afferma robustamente (al punto da essere spesso l’unico


attestato anche in italiano regionale) nelle città del Salento centrale e
diffusamente nelle parlate delle località della stessa fascia (v. Fig. 21)66: si tratta
di un cliché intonativo che i parlanti delle aree in cui è maggioritario quello
visto sopra, lungo la linea di frontiera, sono talvolta in grado di menzionarlo
come elemento di identificazione dei ‘vicini’67.
La percezione è rafforzata da rapporti di lunghezza vocalica diversi: il
modello ascendente+discendente induce infatti a un maggior controllo della
durata della vocale finale (di solito più breve di circa il 30% rispetto alla vocale
accentata)68. Lo schema ascendente favorisce invece una maggiore lunghezza
finale (con un accorciamento relativo contenuto al 20%)69.

5. Conclusioni
In questo breve spazio ho inteso riassumere i principali risultati ottenuti nel
corso di ricerche accademiche condotte sulle caratteristiche fonetiche dei
dialetti e delle lingue parlati oggi nel Salento e contribuito con un insieme di
indicazioni pratiche sul loro sfruttamento nella pratica quotidiana degli
operatori culturali che di questi s’interessano.

66
Gioverà osservare che è proprio questo schema che si attesta nelle produzioni salentine greche e
romanze dei parlanti della Grecìa salentina; cfr. A. ROMANO, Convergence and divergence of
prosodic subsystems of the dialects spoken in the Salento (Italy) - a linguistic and instrumental
approach, in Atti del I convegno ICLaVE (Barcellona, Spagna, 30 Giugno - 1o Luglio 2000),
2000, pp. 168-178; ID., Variabilità degli schemi intonativi dialettali e persistenza di tratti
prosodici nell’italiano regionale: considerazioni sulle varietà salentine, in A. ZAMBONI, P. DEL
PUENTE, M.T. VIGOLO (a cura di), La dialettologia oggi fra tradizione e nuove metodologie (Atti
del Conv. Internazionale di Pisa, 10-12 Febbraio 2000), Pisa, ETS, pp. 73-91; A. ROMANO,
F. PAPASPIRU, P. MAIRANO, Ορισμένες σκέψεις σχετικά με την προσωδία του Γκρίκου, in
Proceedings of the 4th Modern Greek Dialects and Linguistic Theory (Chios, Grecia, 11-14
Giugno 2009), 2010, pp. 160-168.
67
La variante qui osservata presenta un appiattimento su un tono relativamente basso nel corso
della vocale nucleare (ultima accentata) e una risalita finale di 3,5÷4 semitoni. È un vero peccato
che, in mancanza di adeguata documentazione o in presenza di limiti oggettivi nei modi in cui
sono condotte le loro ricerche, nessuno di questi due schemi dominanti (da me illustrati in decine
di pubblicazioni in diverse lingue) sia stato descritto nei recenti lavori di colleghi italiani
impegnati nella descrizione fonologica delle varietà intonative dell’italiano regionale. Una
parziale eccezione è nel lavoro di A. STELLA, B. GILI FIVELA, L’intonazione nel parlato dell’area
leccese: prime osservazioni dal punto di vista autosegmentale-metrico, in L. ROMITO, V. GALATÀ,
R. LIO (a cura di), La fonetica sperimentale: metodi e applicazioni (Atti del IV Convegno AISV,
Università della Calabria, 3-5 dicembre 2007), Torriana (RN), EDK, 2009, pp. 260-293.
68
Nelle produzioni dei parlanti alto-salentini questa riduzione può essere ancora più drastica; nei
dati di Ostuni analizzati si presenta nell’ordine del 50%.
69
Si noti che su questo dato non influisce la preferenza lessicale dei dialetti alto-salentini e
jonico-salentini per arretu/arreta vs. ntorna (sillaba accentata aperta vs. chiusa). Tanto a Ostuni
quanto a Manduria e Mesagne la scelta è per la prima soluzione e tuttavia i secondi, che si
orientano verso il modello dello schema finale ascendente (v. Fig. 22), presentano durate finali
significativamente maggiori (98±10 vs. 67±16 ms; t = 5,1675, gdl = 15, p < 0,001).

185
Cartello stradale di benvenuto presente all’ingresso di Martignano (2003)
[Foto: cortesia A. Romano]
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 187-198
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p187
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Griko and Modern Greek in Grecìa Salentina:


an overview

Angeliki Douri – Dario De Santis1

1. The Greek-speaking language island of Grecìa Salentina


Griko is a language related to Greek, spoken by about 20,500 people in the
southernmost edges of the regions of Apulia and Calabria, in southern Italy.
Griko is considered both a dialect of M. Greek (Greek perspective) and a
minority language (Italian view). The present study deals with the situation of
Griko in Grecìa Salentina in the Apulia region.
The Greek-speaking enclave of Grecìa Salentina, located in the sub-
peninsula of Salento, is made up of nine villages (Calimera, Castrignano dei
Greci, Corigliano d’Otranto, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto,
Sternatia and Zollino) which cover an area of 143.90 km². The total population
of Grecìa is 41,500 inhabitants, nearly half of whom are believed to be Griko-
speakers2 Most Griko-speakers are elderly people, pointing to a language in
strong regression, which has in fact already died out in Melpignano and Soleto.

2. Origins and history of Griko


A long-standing debate over the origins of Griko has produced two main
theories for the origins of Griko. According to the first theory, developed by
Giuseppe Morosi in 18703, Griko originated from the Hellenistic koine when, in
the Byzantine era (around 1000 AD), waves of immigrants arrived from Greece
in Salento. Some decades after Morosi, G. Rohlfs4, in the wake of Hatzidakis
(1892)5, claimed instead that Griko was a local variety of Greek evolved
directly from the Ancient Greek spoken in the colonies of Magna Graecia.
1
The collaboration on this research topic between Angeliki Douri and Dario De Santis dates back
to 2010, when she was preparing her Master’s degree thesis at the Albert Ludwigs University in
Freiburg im Breisgau (Germany) and he had just completed his studies at the Università degli
Studi di Bari (Italy). They are now employed as language instructors respectively at the
Sismanoglio Megaro General Consulate of Greece in Istanbul and at the Istanbul University
(Turkey).
2
A. ROMANO, P. MARRA, Il griko nel terzo millennio: «speculazioni» su una lingua in agonia,
Parabita (LE), Il Laboratorio, 2008, p. 51.
3
G. MOROSI, Studi sui dialetti greci della terra d’Otranto, Lecce, Editrice Salentina, 1870,
passim.
4
G. ROHLFS, Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina, Congedo, 1974, passim.
5
G. HATZIDAKIS, Einleitung in die neugriechische Grammatik, Leipzig, Olms, 1892, passim.
Griko and Modern Greek in Grecìa Salentina

3. The linguistic repertoire of Grecìa Salentina


In order to describe the linguistic repertoire of Grecìa Salentina, Romano
and Marra adopt the expression «triglossia without trilingualism»6, that is, when
there is a potential polyglossia in a community but no one is able to master all
the codes. In Grecìa Salentina, there is an interplay among three codes:
(regional) Italian, Sallentinian (the local Romance dialect) and Griko. The
diagram below, devised by Romano and Marra7 illustrates the structure of the
linguistic repertoire of the three generations (N=elderly people/grandparents;
G=adults/parents; F=young people/children).

Fig. 1 Scheme of the linguistic repertoire of Grecìa Salentina


[Romano, Marra 2008: 39].

Elderly people (N) speak Griko among themselves and Sallentinian with the
parents (G). With the children (F) they use Sallentinian as well and occasionally
Italian, although it must be noted that their knowledge of Italian is incomplete.
The parents typically have an incomplete/passive knowledge of Griko, which,
however, they use very seldom or not at all. With N they speak Sallentinian (not
Griko) and with F mostly a rather regionalized variety of Italian or Sallentinian.
Lastly, young people (F) do not speak and do not understand Griko. They

6
ROMANO, MARRA, Il griko nel terzo millennio..., cit., p. 38 (all translations by the authors of the
present paper).
7
Ivi, p. 39.

188
Angeliki Douri, Dario De Santis

communicate with N in Sallentinian, whereas with G they employ either


Sallentinian or a form of Italian less regionalized compared to their parents’
one. However, it must be noted that this is just a simplification, as the actual
linguistic repertoire may vary considerably from family to family depending on
several factors (age, social class, personal experiences etc.).
The main cause of Griko’s regression clearly emerges from this description:
the competition with Salentino, which has encroached on the domains once
occupied by Griko. In short, Griko is no longer the language used within the
group of peers to guarantee sense of belonging and group solidarity8. There is
practically no communicative function left for Griko.
The relegation of Griko to a position of subordination to Italian and
Sallentinian has been determined by several historical and socio-economic
events. People stopped passing on Griko to their children as it was associated
with the condition of backwardness and ignorance of most its speakers (poor
peasants), whereas Italian was the language of progress, social emancipation
and success.
Fortunately, the spread of welfare into the communities has put an end to
the negative connotations of Griko. Since the late 70s there has been a renewal
of interest in Griko, with many individuals, associations and authorities taking
initiatives for the preservation and promotion of this threatened language.

4. Griko at schools of Grecía Salentina


In order to investigate the position of Griko in the educational system, we
conducted a field research made up of a phase of observation, during which we
attended several Griko classes, and a series of targeted interviews with the main
actors of Griko teaching (Griko teachers, regular teachers, headmasters,
students, students’ parents)
The most evident and striking pattern that emerges from the research is that
there is no unified agreement among the schools about the modalities for
teaching Griko, rather, every school acts on its own. The headmasters decide, on
the basis of the resources available, whether, how and in which grades Griko
courses are held. Normally, Griko should be taught from the nursery up to the
middle school, but for some years now, schools are not able to ensure such a
continuity of teaching. Griko courses consist of a small amount of hours
(typically less than twenty) carried out one hour per week and not even for the
whole scholastic year. The shortness of Griko courses is due firstly to the lack
of economic resources (financial backing for the teaching of Griko is
completely dependent on the provisions of Law No 482 of 15 December 1999),
and to a lesser extent to the lack of available hours in the schedule.

8
I. MANOLESSOU, The Greek dialects of Southern Italy: an overview, in «Cambridge papers in
Modern Greek» 13, 2005, pp. 103-125.

189
Griko and Modern Greek in Grecìa Salentina

Although Griko is a compulsory subject at school it is taught by external


experts employed specifically to give these courses. None of these experts have
Griko as their native language, but most of them have learnt it as a child. The
selection of the experts is carried out autonomously by the headmasters, i.e. not
by some standardized procedure based on examinations or qualifications. At the
time of research (2010-2011), ten years since Law 482 had come into force,
only two courses had been organized for the training of Griko teachers.
Griko lessons typically revolve around folklore: the pupils learn songs,
poems, dances and the traditions related to Griko. Very few lessons are
dedicated to the language’s structural features and to actual language practice.
Consequently, even after several years of Griko, the students’ knowledge of the
language is restricted to very basic vocabulary and some poems and songs. The
lack of a modern, scientifically grounded, method for the teaching of Griko
represents a severe obstacle to the learning of the language at school.

5. The teaching of M. Greek in Grecìa Salentina


The teaching of M. Greek in Grecìa dates back to the 1970s, when some
schools started offering comparative courses of Griko and M. Greek. However,
it was only in 1994 that the teaching of M. Greek in Grecìa became official and
systematic. Since then, the Greek Ministry of Education has been sending native
teachers of M. Greek to the schools of Salento every year.
Today M. Greek is taught as an optional subject in curricular and extra-
curricular time, in some primary and middle schools in the villages of Grecìa as
well as in other towns of Salento. In addition, some courses of M. Greek for
adults are also offered.
It must be noted that the Greek government sends native teachers to
numerous foreign countries where there are Greek-speaking communities in
order to maintain and foster the Greek language and culture outside Greece. The
case of Salento is unique in that in the other countries M. Greek is taught as a
second language to communities of Greek immigrants or of Greek descent,
whereas in Grecìa the teachers must teach M. Greek as a foreign language to
people who are not of recent Greek origin and in most cases have never had any
contact with M. Greek.

6. Modern Greek, a threat or a resource for Griko?


In the last decades the contacts between Greece and Grecìa have become
more and more intense. Besides language teaching these contacts include
pairings between schools and towns of Grecìa and Greece, cultural meetings,
excursions, school trips and student exchanges. The intensification of the
relations between these two regions can have positive as well as negative
consequences for the setting of Grecìa. The earnings which come in from the

190
Angeliki Douri, Dario De Santis

tourism sector, the development of an intercultural dimension and the


opportunity to broaden the intellectual horizons of the communities are
certainly positive. It remains to be seen, however, whether and how the
coexistence with M. Greek can benefit the position of Griko.
Some schools of Grecìa make use of a comparative method Griko -
M. Greek. The teachers who have tried out this method claim that it presents
more cons than pros and needs much improvement in order to yield good
results. Firstly, there is not enough time available for the comparative teaching:
the lessons are carried out in only one hour, which means thirty minutes for
each language, too little to achieve any significant results. Furthermore, up till
now there is no scientifically tested methodology for the comparative teaching
of these two languages which could be implemented in the courses. A serious
obstacle to the implementation of the comparative method is the fact that none
of the teachers master both languages: bilingual teachers of Griko and M. Greek
still do not exist. Another comment made by the teachers is that the pupils’ poor
competence in both languages does not allow them to take advantage of the
knowledge of one language to learn the other one. Rather, the incomplete
competence makes the pupils confuse the two languages. Moreover, some
teachers underline that apart from basic vocabulary, the languages present quite
different feature (pronunciation, grammar, even the alphabet).
As far as the advantages are concerned, the comparative method stimulates
the interest of the pupils who are fascinated by discovering the similarities and
the links between their grandparents’ language and a foreign language. In
addition, the students may reappraise the value of Griko by comparing it with a
“more prestigious”, national language. On the other hand, the comparison of the
two languages presents the opposite risk that students may give preference to
M. Greek over Griko, a phenomenon that many informants have already
noticed.
The question whether is better to use or to not use the comparative method
belongs to a much wider question: whether it is right to teach M. Greek at all in
Grecìa Salentina. There are two main schools of thought on this issue: those
who push for a “restoration” of Griko on the basis of its affinity with M. Greek,
and those who push for a valorization of the local minority language, respectful
to the peculiar features it has acquired during its natural development including
all the contaminations with the neighboring Romance languages9. The
advocates of the first position argue that without the assistance of M. Greek, the
Griko language as it is today has no future and will soon die out. The advocates
of the opposite side maintain that M. Greek is a foreign language extraneous to

9
A. SOBRERO, A. MIGLIETTA, Politica linguistica e presenza del grico in Salento, oggi,in
C. GUARDIANO, E. CALARESU, C. ROBUSTELLI, A. CARLI (a cura di) Lingue, Istituzioni, Territori:
riflessioni teoriche, proposte metodologiche ed esperienze di politica linguistica, Roma, Bulzoni,
2005, pp. 209-226, p. 213.

191
Griko and Modern Greek in Grecìa Salentina

the reality of Grecìa Salentina and that, therefore, it must not be involved in the
process of protection of Griko.
The first question we asked ourselves with regard to this topic is why the
Greek government does not address its efforts (and financing) to the safeguard
of Griko rather than to the promotion of M. Greek. The answer is that the long
struggle for the standardization of M. Greek still leads the Greek government to
adopt language policies firmly against the local varieties and dialects. Besides,
it is very likely that Greece foresees more economic and political advantages in
the spread of the Greek language into Salento, rather than in the protection of a
threatened language, which, although related to M. Greek, remains a foreign
language to the Greeks.
Glossing over these considerations, we believe that a proper use of M.
Greek can benefit Griko in many ways. First of all M. Greek can contribute to
solve the problem of the incompleteness of Griko vocabulary which make this
language inadequate for communication in a modern society.
It has been observed that some fluent Griko-speakers who attend M. Greek
courses, make regular use of M. Greek terms to fill the lexical gaps of their
native language. This occurs in a natural way, without any constriction or
encouragement to do so. In addition, it is likely that Griko would be more
exposed to assimilation if the lexical borrowings came from the Romance
languages than if they came from M. Greek. Another point in favor of a
restoration through M. Greek is that Greek elements, thanks to their linguistic
features, are more suitable for lexical integration in Griko than Italian and
Salentine elements. Unfortunately, at the moment just a few Griko-speakers also
know M. Greek to such an extent so as to combine the two.

7. Reversing Language Shift in Grecìa Salentina


This section will deal with the issue of reversing language shift (RLS) in
Grecìa Salentina, with the ultimate goal of providing recommendations on the
actions to take on behalf of Griko. In doing so, we will refer chiefly to
Fishman’s Graded Intergenerational Disruption Scale (GIDS)10, attempting to
adapt this model to the particular situation of Griko.
Before getting to the heart of the matter, some preliminary remarks are
needed. Any RLS program is destined to fail if it is not supported by the
community’s will to maintain its ancestral language. With reference to our case,
the community of Grecìa, although well-disposed towards the minority
language, is still lacking a strong motivation to return to speaking the language.
The prerequisite for saving Griko is the rise of a Griko identity among the

10
J. FISHMAN, Language maintenance, language shift, and reversing language shift, in
T.K. BHATIA, W.C. RITCHIE (a cura di) The handbook of bilingualism, Oxford [i.a.], Blackwell
Publishing, 2004, pp. 406-446, p. 427.

192
Angeliki Douri, Dario De Santis

inhabitants of the area: people must speak Griko in order to feel themselves
integrated into the community11. Instead, today this function is fulfilled by the
Salentine dialect.
The function of the GIDS is twofold as it constitutes a framework that
assesses the status of vitality and endangerment of the language and at the same
time prescribes a sequence of necessary steps to be undertaken in order to
ameliorate the current status of the language12. The scheme below13 displays the
eight stages of reversing language shift. Read upside down, it indicates the
severity of intergenerational dislocation.
Fishman’s GIDS scale:
III. Educational, work sphere, mass media and (quasi-)
governmental operations in Xish at the highest
(nationwide) levels.
IV. Local/regional mass media and (quasi-)governmental
services in Xish.
V. The local/regional (i.e. non-neighborhood) work
sphere, both among Xmen and among Ymen*.
4b. Public schools for X-ish children, offering some instruction via Xish,
but substantially under Yish curricular and staffing control
4a. Schools in lieu of compulsory education and substantially under Xish
curricular and staffing control
II. RLS-efforts to transcend diglossia, subsequent to its attainment?
5. Schools for Xish literacy acquisition, for the old and/ or for the young,
and not in lieu of compulsory education
V. The organization of intergenerational and
demographically concentrated home-family-
neighborhood efforts: the basis of Xish mother-tongue
transmission.
VI. Cultural interaction in Xish primarily involving the
community-based older generation (beyond the age of
giving birth).
VII. Reconstructing Xish and adult acquisition of XSL.
A. RLS to attain diglossia (assuming prior ideological clarification)?
* Y=Majority language, X=Minority Language, XSL=Minority Second
Language

11
ROMANO, MARRA, Il griko nel terzo millennio..., cit., p. 88.
12
J. FISHMAN, Language maintenance, language shift, and reversing language shift, cit., pp. 426.
13
Ivi, p. 427.

193
Griko and Modern Greek in Grecìa Salentina

The author of the model specifies that the undertaking of any RLS measures
must be preceded first by a comprehensive study of the socio-linguistic setting
of the minority language14, something that has not been done yet for Griko and
hence constitutes the most pressing priority. With regard to the degree of
endangerment, Griko places itself at the last stage (8th): the language «has lost
its native speakers to such a degree that it must first be learned as a second
language before further socio-functional repertoire expansion can be envisioned
for it»15. Moreover, the Griko language needs to be reconstructed since its
vocabulary is too poor to allow one to fully express oneself in the whole set of
situations of modern society.
The reconstruction of Griko demands in first place the creation of a Griko
koine out of the several varieties of the villages and the codification of a unified
system of transcription of the language, measures apt to put an end to the
current fragmentation. The creation of a written standard variety must be carried
out with care taking into account insofar as possible the actual local parlances.
The linguists who will carry out the operation will be called on to take a
series of choices. In my opinion, the alphabet should remain the Latin one, since
the employment of the Greek alphabet would just distance the language from its
speakers and to make the learning more difficult for the students. As lending
language we would recommend M. Greek for several reasons: thanks to the
similarity of its linguistic features with Griko, M. Greek is more suitable for
integration than the Romance languages; the employment of a close kindred
lending language make the process of integration seem more natural and thus
more justifiable and acceptable by the speakers themselves; in addition, using
M. Greek reduces the risk of assimilation of Griko to the lending language. In
fact, whereas a massive presence of Italian and Salentine terms would drive
speakers to switch code from Griko to the languages that they master, this
would not occur with M. Greek which is a foreign language to them.
The method devised by Fishman is bottom-up, as it aims to restore the
usage of the language in the minority group starting not from the institutions
and the institutionalized space but rather from the community and the informal
space. Indeed, the most important role in the process of RLS is assigned to the
cluster home-family-community: it is in this informal linguistic domain that the
intergenerational Xish mother-tongue transmission must be based. Referring to
the eight stages, stage 6 «may be viewed as the dynamic fulcrum of a field of
forces. If stage 6 is not attained and vigorously retained, the RLS efforts
concentrated at other stages will be less contributory to the intergenerational
continuity of Xish»16.

14
Ivi, p. 426.
15
Ivi, p. 427.
16
Ivi, p. 428.

194
Angeliki Douri, Dario De Santis

The failure of all the efforts made on behalf of Griko so far seems to lie in
the negation of this basic principle affirmed by Fishman that the home and the
community are the linchpins of RLS. Rather, the authorities have always
concentrated their actions on the last four stages (4 to 1), neglecting the first
four which constitute the bottom of the process. The notorious Law 482
represents the most striking example of a faulty minority language policy
insofar as it limits itself to enforce language rights which in some cases, e.g. in
Grecìa, virtually nobody can exercise. Apparently the legislator misses out the
fact that the straightforward enforcement of language rights does not suffice to
spread or safeguard a language.
A serious mistake that the government’s minority language policies very
often commit is that of delegating the greatest responsibility for fostering the
endangered language to the educational system. By doing so, the school
substitutes the home and community as the main catalyst of language
transmission. Fittingly, Fishman states that «intergenerational mother tongue
transmission is a function of the childhood intimacy and spontaneity that
characterizes home-family-neighborhood life»17, hence, schools cannot fulfill
the duty of a natural mother-tongue language transmission.
It is undeniable that the core of RLS lies in the “home-family-neighborhood
life”. Nonetheless, J. Fishman is the first to wonder «whether the attainment and
maintenance of stage 6 (in weak RLS movements) is at all susceptible to
planning»18.
In my view, a straightforward implementation of the GIDS cannot succeed
in rescuing Griko. This language is indeed at such a weak stage that it cannot
start in families without it also being institutionalized. In Grecìa Salentina, the
bottom-up approach must be combined with a top-down one. The state and the
local authorities must strive to involve the community in the process of RLS to
make the people protagonists for the safeguard of their own language. A good
provision could consist in granting economic incentives to Griko-speaking
families who take care of passing on the ancestral language to the children.
The revitalization of the minority language within the community must be
reinforced by the education system whose role and strategies need to be revised.
School and community must be always linked and work in close cooperation in
order to foster the minority language successfully. The school for its part must
teach the minority language in such a way that it can be actively used outside
the classrooms’ walls and come back into the community. Only the
establishment of this linkage «enables the threatened language to become a first
language of a new generation and [that] enables the school for children to be

17
Ivi, p. 431.
18
Ivi, p. 431.

195
Griko and Modern Greek in Grecìa Salentina

more than constantly (intergenerationally) a second language teaching


institution»19.

8. Final recommendations and remarks


We would like to conclude this article with some recommendations specific
to the RLS efforts in Grecìa Salentina. Firstly, the revision of the national law
and/or the issue of a regional law on the protection of the minority language are
needed. The legislation has to take into account the current situation and the
actual needs of the Griko minority and to allocate sufficient funds to this
purpose. The main aim of the authorities at any level must be to enhance the
people’s commitment to maintain their minority language. This could be done
relying on the rise of a Griko identity based on the uniqueness of the Griko
language.
The reconstruction of the language should be carried out in such a way as to
ameliorate the prestige of Griko and its suitability in modern society. The
standard written variety created must not be perceived as foreign by the native
speakers.
As far as the education system is concerned, various improvements are
required. Firstly, a scientific method and appropriate didactic material for the
teaching of Griko have to be devised. Courses of Griko for adults should be
held on a large scale. The study of Griko should be continuative and intensive
throughout the scholastic period, from nursery school to high school, for all the
children of Grecìa.
The nursery school should make use of Griko as language of instruction,
drawing also on the large amount of games, stories, lullabies and children’s
rhymes of the Griko tradition. Such a use of Griko in early infancy would not
require a great competence in the language and perhaps the parents might also
be able to speak some Griko to their children at home.
The study of Griko should continue in primary schools, either as medium of
instruction alternating with Italian or as a subject but for a considerable amount
of hours. The lessons should focus on the active use of the language through
language immersion situations. The participation of elderly fluent speakers into
the classes would be a welcome contribution and compensate for the non-
fluency of the teachers. As for these last, they should be trained to teach Griko
through specific university courses and their skills regularly upgraded and
refreshed.
In middle school, the teaching of Griko might be carried out through a
comparative method with M. Greek. The learning of M. Greek would both give
an additional motivation to study Griko and provide them with a foreign
language to use in their future. The high schools specialized in classical studies

19
Ivi, p. 15.

196
Angeliki Douri, Dario De Santis

of Salento could combine the study of Ancient Greek with that of Griko. In this
way middle school pupils would not underestimate the discipline of Griko
because it does not continue in the following levels of education.
As a basic principle, the minority language ought to be taught combined
with the interests of the pupils of each school level in order to keep their
motivation high. Moreover, the folklore should not be the final goal of
instruction, rather the medium of access to the language.
It is desirable that the academic world and in particular the University of
Salento also commits itself to the RLS efforts, providing the necessary
expertise, training teachers and staff and above all promoting research in this
field.

References
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• JOSHUA FISHMAN, Language maintenance, language shift, and reversing
language shift, in TEJ K. BHATIA, WILLIAM C. RITCHIE (eds.), The handbook
of bilingualism, Oxford [i.a.],: Blackwell Publishing, 2004, pp. 406-446
• GEORGIOS HATZIDAKIS, Einleitung in die neugriechische Grammatik,
Leipzig, Olms, 1892.
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ULRICH AMMON, NORBERT DITTMAR, KLAUS MATTHEIER, PETER TRUDGILL
(eds.), Sociolinguistics: An International Handbook of the Science of
Language and Society, Berlin/New York, Walter de Gruyter, 2006, pp. 2431-
2442
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“Cambridge papers in Modern Greek”, 13, 2005, pp. 103-125.
• GIUSEPPE MOROSI, Studi sui dialetti greci della terra d’Otranto, Lecce,
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• OLGA PROFILI / Όλγα Προφίλη, “Η ελληνική στη Νότια Ιταλία”, in
ANASTASIOS FIVOS CHRISTIDIS / Αναστάσιος Φοίβος Χριστίδης (ed.),
Διαλεκτικοί θύλακοι της ελληνικής γλώσσας, Athens, YPEPTH - Kentro
Ellinikis Glossas, 1999, pp. 31-37.
• GERHARD ROHLFS, Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina,
Congredo, 1974.
• ANTONIO ROMANO, PIERSAVERIO MARRA, Il griko nel terzo millennio:
«speculazioni» su una lingua in agonia, Parabita (Lecce), Il Laboratorio,
2008.
• ALBERTO SOBRERO, ANNARITA MIGLIETTA, Politica linguistica e presenza
del grico in Salento, oggi, in CRISTINA GUARDIANO, EMILIA CALARESU,
CECILIA ROBUSTELLI, AUGUSTO CARLI (eds.), Lingue, Istituzioni, Territori:
riflessioni teoriche, proposte metodologiche ed esperienze di politica
linguistica, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 209-226.

197
In alto a sinistra: Santo con cartiglio nel complesso pittorico della chiesa di San
Mauro di Gallipoli (il testo greco è solo parzialmente leggibile dopo il tentativo
di asportazione di ignoti). In alto a destra: Santa Barbara nella chiesa di Santa
Maria della Croce di Casaranello (Casarano). Oltre che per la picchettatura,
l’affresco è compromesso lateralmente da incisioni in greco bizantino datate (e
oggi linguisticamente preziose). In basso: esempio di segnaletica bilingue
(italiano e greco moderno) a Calimera [Foto di A. Romano, 2004].

198
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 199-208
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p199
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Interferenze tra salentino, griko e italiano regionale

Ekaterina Golovko1

1. Introduzione
In un precedente lavoro2 sono stati esaminati tratti di convergenza tra il
dialetto griko, il dialetto salentino e l’italiano regionale. Sono stati presi in
considerazione alcune categorie morfosintattiche ed è stata proposta l’idea di
considerazione del Salento come un’area linguistica unica. Tra le categorie
prese in considerazione ci sono: costruzioni progressive, perfetto analitico,
selezione degli ausiliari e l’assenza del futuro del tipo greco.
In questo breve lavoro invece sarà esaminata un’altra categoria che
dimostra la convergenza tra il dialetto salentino e il dialetto griko: il sistema del
verbo copula. Mostreremo che il verbo copula presenta un sistema unico per
tutte e tre le varietà, che può essere chiamato “sistema salentino”, cioè il sistema
con due copule, formatosi come conseguenza di influenza del sistema dialettale
sulla varietà parlata del greco (il dialetto griko) e più recentemente sulla varietà
dell’italiano.
Quando si tratta del contatto tra le varietà e l’esistenza delle varietà
dominanti, il caso del Salento, è particolarmente interessante perché non
presenta l’opposizione binaria, tra una varietà dominante socialmente e una
varietà dominante linguisticamente. Ad esempio, la lingua italiana è la lingua
nazionale che ha più prestigio e diffusione; allo stesso tempo fino agli anni 70-
80 è stato sempre il dialetto salentino ad essere la lingua realmente parlata e
quindi linguisticamente dominante. La coesistenza dei due sistemi linguistici e
delle pratiche correnti della popolazione risultano nella formazione delle varietà
d’italiano effettivamente parlato, strutturalmente distante dalla varietà
nazionale3. Quindi come conseguenza del contatto delle categorie
morfosintattiche vengono replicate dal dialetto nella varietà regionale
dell’italiano. In questo contributo esamineremo il verbo copula il sistema del
quale presenta particolare interesse per l’analisi della situazione di contatto.

1
Ringrazio Vladimir Panov per la sua collaborazione e l’aiuto nella stesura del presente lavoro.
2
E. GOLOVKO, V. PANOV, Salentino Dialect, Griko and Regional Italian: Linguistic Diversity of
Salento, in «Working Papers of Linguistic Circle», University of Victoria, Canada, 23, 2013, pp.
51-80.
3
Per la descrizione del processo di formazione dell’italiano regionale vedere E. GOLOVKO, The
Formation of Regional Italian as a Consequence of Language Contact. The Salentino Case, in
«Journal of Language Contact», 5, 2012, pp. 117-143.
Interferenze tra salentino, griko e italiano regionale

Il sistema con due copule è tipico di alcune lingue romanze, ad esempio lo


spagnolo, il catalano, il portoghese. L’emergenza di questo sistema è dovuto
alla grammaticalizzazione del verbo latino STARE nel passaggio dal latino alle
lingue neo-latine. In questo passaggio il verbo ha sostituito il verbo ESSERE in
un numero di contesti, tra cui, ad esempio, locativi e copulari. Il cambiamento
dal sistema latino a quello spagnolo (o anche dei dialetti meridionali d’Italia)
consiste nel cambiamento lessicale del verbo STARE. Nel latino esso aveva una
chiara componente lessicale di ‘rimanere, stare in piedi’ e significava una
posizione fisica. Il verbo ESSERE invece essendo copula era semanticamente
vuoto. Attualmente questi verbi occorrono tutti e due nei contesti copulari ma
hanno usi differenziati (oltre a quelli, passivi, locativi, esistenziali ecc che
saranno presi in considerazione molto brevemente in questo contributo). Quello
che si può notare è che l’uso del verbo STARE si è esteso a contesti copulativi
(perdendo in parte il contenuto lessicale), cioè ai contesti che in latino erano
esclusivamente tipici per il verbo ESSE diventando un elemento grammaticale,
cioè una testa funzionale e non più lessicale. Questo tipo di analisi è stato
presentato nei numerosi lavori sul cambiamento sintattico4, il quale è descritto
per lo spagnolo e catalano come “structural simplification occurred to avoid
feature syncretism”5.
A livello sincronico la selezione del verbo ESSERE o STARE viene
motivata dai valori aspettuali e quindi dalla tipologia dei predicati che
selezionano: individui veri e propri (individual-level predicates, in seguito IL)
oppure stadi di individui (stage-level predicates, in seguito SL). Solitamente
questi due gruppi di predicati vengono descritti in base alla distinzione
aspettuale e temporale. In questo lavoro seguirò la definizione proposta da
F. Silvagni6 basata anche sul lavoro di G.N. Carlson7. L’autore afferma che la
distinzione tra IL e SL è aspettuale e potrebbe essere sommariamente definita in
modo seguente. IL e SL secondo Carlson8 codificano la differenza tra “speaking
of characteristics” e “speaking of happenings”, cioè IL sono predicati che
descrivono proprietà e le caratteristiche intrinseche delle entità non
trasmettendo tratti temporali e quindi non sono aspettualmente marcati; SL

4
E. VAN GELDEREN, Grammaticalization as Economy, Amsterdam, John Benjamins, 2004; ID.,
Where did late merge go? Grammaticalization as feature economy, in “Studia Linguistica”, 62/3,
2008, pp. 287-300; I. ROBERTS, A. ROUSSOU, Syntactic Change: a Minimalist Approach to
Grammaticalization, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
5
M. BATLLORI, F. ROCA, Grammaticalization of ser and estar in Romance, in D. JONAS,
J. WHITMAN, A. GARRETT (a cura di), Grammatical Change: Origins, Nature and Outcomes,
Oxford, Oxford University Press, 2012, pp. 73-92.
6
F. SILVAGNI, Ser-I, Estar-S, in E. GOLOVKO, M. MAZZOLI (a cura di), Copulas, numero speciale
di “Lingue e Linguaggio” (in stampa), 12, 2015.
7
G.N. CARLSON, Reference to kinds in English, Amherst, MA, University of Massachusetts
dissertation, 1977.
8
CARLSON, Reference.., cit., p. 75.

200
Ekaterina Golovko

invece descrivono manifestazioni delle entità e quindi codificano contenuti


aspettuali i quali sono in diretta dipendenza con l’informazione temporale
sull’evento9. L’ipotesi sulla differenza aspettuale tra due tipi di predicati ci porta
alla distinzione tra Eventi e Stati secondo Z. Vendler10. In questo caso IL sono
Stati e SL sono Eventi di due tipi (dinamici e non dinamici)11. Questa analisi è
perfettamente coerente per lo spagnolo il quale permette l’uso di ser e estar (in
caso di cambiamenti semantici) per IL e esclusivamente estar per con SL.
In seguito passiamo alla descrizione e al confronto tra i sistemi del
salentino, italiano regionale e il griko. Per confrontare 3 varietà verranno
confrontati seguenti contesti: copulare (eventi vs. stati dinamici e non dinamici),
locativi, passivi.

2. La selezione del verbo copula in salentino, italiano regionale e


nell'italiano standard

2.1. Salentino

Nel dialetto salentino, come in altri dialetti meridionali e dell’estremo


meridione, esistono due copule verbali, verbi essere e stare. Diversamente
dall’italiano standard in cui esiste solamente un verbo copula essere e il verbo
stare mantiene la sua componente lessicale (vedere gli esempi in (47) e (48)).
Nel salentino il principio della selezione della copula è semantico e aspettuale e
dipende dal predicato nominale che segue il verbo copula. In (1), (2), (3) sono
illustrati tipici predicati IL che richiedono il verbo essere:
IL:

(1) Suntu salentinu . (2) Iddhu è ertu, bbasciu, siccu.

‘Sono salentino’ ‘Lui è alto, basso, magro’

(3) Iddha ete de Cutrufianu.

‘Lei è di Cutrofiano’

In (4), (5), (6) e (7) invece sono riportati esempi dei predicati SL con il
verbo stare:

9
SILVAGNI, Ser-I, Estar-S, cit.
10
Z. VENDLER, Verbs and Times, in “The Philosophical Review”, 66, 1957, pp. 143-160.
11
Cfr. SILVAGNI, Ser-I, Estar-S, cit.

201
Interferenze tra salentino, griko e italiano regionale

(4) Osci stau mutu contentu (presciatu). (5) Iddhi stannu a Llecce.

‘Oggi sono molto contento’ ‘Loro sono a Lecce’

(6) Moi stau a ccasa. (7) De dumìneca stau sempre a mmare.

‘Adesso sono a casa’ ‘Passo sempre la domenica al mare’

Il verbo essere in salentino può avere sia le forme piene che le forme
contratte. In seguito è riportato il paradigma di coniugazione:

(7) Singolare Plurale

1 ieu suntu (su’) nui simu

2 tie sinti (si’) ui siti

3 iddhu/iddha ete (è) iddhi suntu (su’)

Solo la forma contratta può essere usata come ausiliare:

(8) Su’ statu a mmare.

‘Sono stato al mare’

Sia nella prima posizione che nella posizione finale ambedue le forme sono
possibili come in (9) e (10):

(9) Su’/ suntu salentinu. (10)De Lecce suntu / su’.

‘Sono salentino’ ‘Sono di Lecce’

Il verbo nella posizione finale è tipico per le costruzioni latine con il verbo
nella posizione postnominale, come in (11):

Latino Dialetto salentino Italiano st. Italiano reg.


(11) Marcus sum. (12) (Lu) Francescu su’. (13) Sono Marco. (14) Marco sono.

Nel salentino la posizione finale del verbo è dovuta, in questo caso, al


mantenimento dell’ordine latino SOV. Invece in italiano standard l’ordine di

202
Ekaterina Golovko

parole è SVO. La posizione finale del verbo è tipica anche per la varietà
regionale dell’italiano in Salento. La differenza tra le due varietà in questo caso
è espressa dalla posizione del verbo. Come possiamo vedere dagli esempi (13)-
(14) invertendo l’ordine di parole viene cambiata la varietà dell’italiano da
quella standard a quella regionale meridionale.
Nella posizione copulare il verbo essere è spesso usato nella forma
contratta, quando è possibile, cioè nella 1a, 2a, 3a persona singolare e in 3a
persona plurale:

(15) È cchiù ertu de mie.

‘È più alto di me’

Nelle frasi esclamative e interrogative viene usata una forma speciale del
verbo essere, gghe (che corrisponde a gghera all’imperfetto):

(16) Cce gghè bbeddhu! (17) Cce gghera bbeddhu.

‘Che bello!’ ‘Com’era bello!’

Nel Salento centrale, ad esempio a Gallipoli e a Galatina, questa forma


potrebbe essere trovata solamente nella terza persona, sia nel presente che
nell’imperfetto. D. Bertocci e F. Damonte12 hanno avanzato l’ipotesi che essa
derivi dall’amalgama del clitico locativo e obliquo, diffuso nella zona del
Salento centrale e anche in Calabria. Questo clitico potrebbe venire dal latino
INDE (con retroflessione della consonante dentale).
Un’analoga forma molto ristretta del verbo essere è bbè (Lecce e il nord di
Lecce), anche questa usata dopo elementi cogeminanti13:

(18) E bbè ccuntentu. (Rohlfs) (19)E bbèra lu rre.

‘Ed era contento’. ‘Ed era il re’

Questa forma potrebbe essere spiegata dalla regola proposta da Rohlfs che
le parole che cominciano con la ‘b’ sono preservate nell’Italia settentrionale e in
Toscana. Invece al sud il passaggio b > v è stato osservato. In salentino, come in

12
D. BERTOCCI, F. DAMONTE, Distribuzione e morfologia dei congiuntivi in alcune varietà
salentine, in F. DAMONTE, J. GARZONIO (a cura di), Studi sui dialetti della Puglia, Padova,
Unipress, 2007, pp. 3-28.
13
Si veda il contributo di A. ROMANO, in questo volume.

203
Interferenze tra salentino, griko e italiano regionale

alcuni dialetti della Calabria, esiste la forma geminata bb- nella posizione
iniziale invece di v-, la quale può essere riscontrata in Sicilia, Calabria
settentrionale e Napoli14: cchiù bbautu, bbeccu etc. 15

La distribuzione dei verbi essere e stare potrebbe essere caratterizzata in


modo seguente.
Il verbo essere è copula per eccellenza e manca il contenuto lessicale e
aspettuale. In salentino descrive quelli che sono Stati secondo la classifica di
Vendler:

(20) ’ste mile su’ mmature. (21) Lu Luca è ertu.

‘Queste mele sono mature’ ‘Luca è alto’

Il verbo stare invece è usato per Eventi (dinamici e non-dinamici) secondo


la classifica di Vendler:

(22) Lu Luca stave a casa de l’Anna. (23) De ggiòvane, l’Anna stìa sempre stizzata.

‘Luca è a casa di Anna’. ‘Da giovane, Anna era sempre nervosa’.

(24) Lu Luca sta’ presciatu.

‘Luca è contento’

È importante notare che nella parte centrale del Salento, Calimera - Galatina
- Sogliano Cavour - Cutrofiano, nella zona di antico contatto tra il sistema greco
e il sistema romanzo, i parlanti preferiscono il verbo essere nelle frasi come
(25), cioè con Eventi non dinamici. Questa caratteristica si trova anche in
catalano moderno16. Invece in altre zone del Salento viene accettato
esclusivamente il verbo stare, come dimostrato nell’esempio (23). Questa

14
G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti: fonetica, Torino,
Einaudi, 1966, p. 195.
15
Secondo il suggerimento dei curatori, bisognerebbe tenere in maggiore considerazione la
variazione micro-areale che spazia da je/jera a gge/ggera. Alla soluzione centro-settentrionale
bbe/bbera è dedicata una nota in F. FANCIULLO, Il rafforzamento fonosintattico nell’Italia
meridionale. Per la soluzione di qualche problema, in A. ZAMBONI et alii (a cura di), La
dialettologia oggi fra tradizione e nuove metodologie (Atti del Conv. Int. di Pisa, 2000), Pisa,
ETS, 2001, pp. 347-382.
16
BATLLORI, ROCA, Grammaticalization..., cit.

204
Ekaterina Golovko

differenza potrebbe essere dovuta all’interferenza tra il sistema greco e il


sistema romanzo, ma richiederebbe un ulteriore studio approfondito.

(25a) De ggiòvane l’Anna era mutu rraggiata.

‘Da giovane, Anna era molto arrabbiata’

(25b) De ggiòvane l’Anna era mutu stizzata.

‘Da giovane, Anna era molto nervosa’

Con i locativi viene usato esclusivamente il verbo stare:

(26) Lu Luca stave intra llu sciardinu.

‘Luca è nel giardino’

Le costruzioni passive, molto rare in salentino, preferirebbero il verbo


essere.

(27) Le ulìe su’ ccodde.

‘Le olive sono


raccolte’

Dopo una preliminare analisi possiamo affermare che la distribuzione delle


copule essere e stare in salentino è molto simile al sistema spagnolo e
corrisponde alla distinzione tra predicati IL e SL.

Tipo di frase Verbo usato


Copulare IL essere
SL stare
Locativa stare
Passivo essere

2.2. Italiano regionale

L’italiano regionale salentino è caratterizzato da due copule essere e stare


che sono usate secondo il modello salentino, cioè per distinguere due tipi di
predicati: IL e SL.

205
Interferenze tra salentino, griko e italiano regionale

Nella tabella seguente verranno confrontati esempi tratti dall’italiano


regionale e italiano standard:

Tipo di frase Italiano regionale Italiano standard


Copulare IL Francesco sono. Sono Francesco.
SL Sto depresso. Sono depresso.
Locativo Mo’ sto al mare Adesso sono al mare.
Passivo La casa è costruita.

In seguito (28) - (30) alcuni esempi dell’uso del verbo stare come copula
nei predicati eventivi non dinamici e esistenziali (30):

(28) Mo’ sto al mare. (29) Stiamo ancora in viaggio.

(30) Oggi ci sta Rai3 a Otranto.

Invece in italiano standard il verbo stare è usato nelle espressioni locative o


di posizione. Ad esempio, nell’esempio (47) potrebbe essere sostituito con il
verbo ‘trovarsi’:

(31) Il negozio sta in via Indipendenza 3. (32)Lui le sta sempre vicino.

Dagli esempi riportati è chiaro che il sistema dell’italiano regionale replica


il sistema dialettale come conseguenza del contatto.

2.3. Griko17

In seguito verranno presentati esempi del griko che dimostreranno come


anche il dialetto griko ha due copule verbali, la selezione delle quali dipende
dalla semantica del predicato.

In (33) è riportato il paradigma del verbo essere al presente e in (34) del


verbo stare:

17
Tutti gli esempi in griko sono stati forniti grazie alla preziosa collaborazione di Luigi Tommasi
(Calimera). La forma grafica è quella definita in base alle indicazioni dei curatori di questo
volume.

206
Ekaterina Golovko

(33) Singolare Plurale (34)SingolarePlurale

1 ime imesta 1 steo stèome

2 ise isesta 2 stei stèete

3 ene, en, e ine 3 stei stèune

Con IL in griko viene usato il verbo essere, come in salentino:

(34) Evò ime salentino. (35)Itta mila ine janomèna.

‘Sono salentino’ ‘Queste mele sono mature’

Con SL viene usato il verbo stare:

(36) Sìmmeri steo cherùmeno/prikò.

‘Oggi sono allegro/triste’.

(37) O Ggiuvanni diaenni (stei) poddhì cerò sto spiti is Anna.

‘Giovanni passa molto tempo a casa di Anna’

(38) E Anna stei stitsài (lissài) sti kàmbara ti.

‘Anna è arrabbiata in camera sua’.

Invece con eventi non dinamici che designano e che esprimono stadi
limitati nel tempo viene selezionato anche il verbo essere, come in dialetto
salentino della zona centrale (vedi esempio 25):

(36) Motte (dopu) ìone kiatereddha (koràsi), e Anna este poddhì stitsai/nervosa.

‘Da giovane, Anna era molto nervosa/arrabbiata’

Questo fenomeno potrebbe essere dovuto all’influenza greca sul sistema


romanzo e non completa convergenza tra due sistemi. Se questa ipotesi fosse
vera, vuol dire che all’interno della zona linguistica salentina esistono delle
micro-aree, la cui coerenza deve essere indagata in profondità.

207
Interferenze tra salentino, griko e italiano regionale

Nel griko i locativi vengono utilizzati esclusivamente con il verbo stare:

(39) Àrtena steo sti kKalimera.

‘Adesso sono a Calimera’

(40) O Ggiuvanni stei sto spiti is Anna. (41) O Ggiuvanni stei sto cipo.
‘Giovanni è a casa di Anna’ ‘Giovanni è nel giardino’

Con i passivi viene usato sempre il verbo essere:

(42) O spiti e’ fabbrikao atto Ggiuvanni (43) E jineka ene ’gapimèni.

‘La casa è costruita da Giovanni’ ‘La moglie è amata’

Il griko è un dialetto del greco moderno, come già affermato in un lavoro


precedente18, che condivide tratti tipici del greco e dei suoi dialetti.
Nonostante questo come conseguenza del contatto continuativo con la
varietà romanza ha assimilato alcuni tratti tipici del salentino tra cui il sistema
delle copule che quasi interamente condivide con il dialetto salentino. Il
contatto presumibilmente non è stato unilaterale ma anche il griko ha
influenzato il sistema romanzo. Come è stato dimostrato, nella zona centrale del
Salento, nell’aria della Grecìa salentina, con i predicati eventivi non dinamici i
parlanti ammettono il verbo essere nel dialetto salentino, anche se non sono
parlanti del griko. Questa divergenza dalle altre zone del Salento potrebbe
essere spiegata dall’influenza del greco sul sistema romanzo.

3. Conclusioni
In questo contributo sono stati presentati dati relativi al sistema delle copule
in salentino, italiano regionale e in griko. Si osserva una convergenza tra i tre
sistemi e si può affermare che il salentino è stato il sistema che ha
maggiormente influenzato le altre due varietà, anche se in periodi storici
diversi19. Possiamo quindi affermare che il salentino è stato sempre una varietà
dominante a livello linguistico.
Dal materiale presentato è chiaro che la zona presenta un forte interesse per
studi più approfonditi.

18
GOLOVKO, PANOV, Salentino..., cit.
19
Una situazione simile è stata osservata per la comunità greca di Calabria nel lavoro di
M. KATSOYANNOU, Le parler grico de Gallicianò (Italie): description d’une langue en voie de
disparition, Thèse de doctorat de l’Université de Paris VII, 1995, che ha studiato su un piano
sintattico le interferenze tra i diversi sistemi coinvolti.

208
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 209-219
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p209
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Greco e romanzo nella Grecìa salentina:


un caso di simbiosi

Marcello Aprile, Valentina Sambati1

1. Lingua e cultura materiale nella Terra d’Otranto dell’età moderna


Il sito www.vocabolariosalentino.it raccoglie il risultato della prima fase di
una ricerca dalle ambizioni molto più ampie, progettata, per ora, interamente in
rete che coprirà, nelle intenzioni dei due autori, l’intera Terra d’Otranto.
Vi è stato indagato il rapporto tra lingua e cultura materiale in un’area oggi
ristretta del Salento, nota come Grecìa salentina. In essa, da secoli, convivono
due lingue e culture in simbiosi da secoli, e forse da millenni: quella greca e
quella romanza. Non è certo questa la sede per ripercorrere le basi di una delle
questioni più dibattute dell’intera storia della linguistica, quella dell’origine
delle comunità greche del Salento: più semplicemente, i documenti che abbiamo
preso in considerazione, redatti da notai della Grecìa salentina dei secoli XVII e
XVIII, ci raccontano perfettamente, in controluce, una realtà di simbiosi. Il caso
più diretto è dato, né si poteva pensare diversamente, dai nomi di luogo. Il
saggio qui effettuato sui catasti onciari di Martano, Calimera e Castrignano de’
Greci ci restituisce una realtà complessa e sovrapposta e ci consente anche di
toglierci diverse soddisfazioni: un bel manipolo di elementi lessicali non era
mai venuto fuori prima dalle ricerche sul greco del Salento, come petrusella
(dal greco *πετροσύλλα ‘trifoglio incarnato’, LGII 397), Donaci (dal greco
δονάκιον < δόναξ ‘canna palustre’, EWUG § 561), Saprè (per cui l’unico rinvio
è al calabrese sapra ‘midollo dell’albero infracidito, polvere di legno fracido
che serve da esca’, dal greco antico σαπρός, LGII 448) e Alonaci (da una base
attestata nel grico, ἁλώνι ‘aia’, con il suffisso diminutivo grico -aci; ma che
come diminutivo in sé non era prima altrimenti noto). Si tratta di elementi
sommersi dall’erosione lessicale a cui il greco del Salento è andato incontro
negli ultimi secoli che il grande studioso non poteva raccogliere. Ci sembrava
però giusto farli riemergere dall’oblio.
Sappiamo, dove esistono studi storici sulla strutturazione della società, che i
centri qui studiati, quelli in cui ancora oggi sopravvivono (Calimera, Martano,
Martignano, Zollino, Castrignano dei Greci, Corigliano, Sternatia), o sono

1
All’interno di un lavoro condotto in comune dai due autori, i §§ 1. e 3. vanno attribuiti a
Marcello Aprile, il § 2. a Valentina Sambati.
Greco e romanzo nella Grecìa salentina

sopravvissute fino a pochi anni fa (Soleto, Melpignano) comunità grecofone


accanto e in simbiosi con quelle romanze, non erano particolarmente complessi,
sul piano dell’articolazione sociale (Lisi 1985; Palma 2014)2. Le professioni
danno l’idea di una società piramidale con una larghissima base agricola e un
allevamento di sussistenza. A Calimera, centro di cui si è esaminato il catasto
onciario, pochi artigiani e commercianti si affacciavano sulla pubblica piazza e
sulla strada de li Montinari, segnatamente nel tratto vicino alla piazza stessa.
Tra contadini possidenti, massari e bracciali (cfr. per le differenze le voci del
Glossario), il 59% dei laici del paese aveva un’occupazione agricola.
Quanto al territorio, lo spazio urbano dei nostri avi era, coerentemente con
la situazione demografica, molto più ristretto di quello dei centri attuali. Se
Martano sembra essere cambiata meno, per esempio (e ci imbattiamo con
frequenza nella citazione del quartiere Catumerea, dal chiaro nome greco, κάτω
μερέα ‘la parte di sotto’), Calimera consisteva di tre vie curvilinee, ancora oggi
lo scheletro del centro urbano: strada detta li Costantini (via Costantini), strada
de li Maieri (via Mairo), strada detta li Montinari (via Montinari), con altri
punti di riferimento nella Madrice Chiesa e nell’isola delli Miccoli (il nome,
oggi informale, del Largo dei Caduti), «che doveva essere caratterizzat[a] da un
capillare tessuto residenziale a vicoletti ciechi, o spesso comunicanti tra loro»
(Lisi 1985: 18).
I testamenti, le carte dotali, i catasti onciari e gli altri documenti notarili da
noi presi in considerazione per questo lavoro offrono un materiale di grande
valore storico per studiare la società e la vita familiare dei secoli passati nel loro
ambiente. La schedatura e l’interpretazione linguistica di questi dati permettono
una migliore conoscenza della cultura materiale e della vita quotidiana delle
popolazioni salentine, greche e romanze, nei secoli considerati, che per il
momento sono il Settecento e l’Ottocento. Si tratta di un’operazione, in parte, di
archeologia della cultura, che riporta alla luce forme lessicali e oggetti a volte
non più usati o resi marginali dall’avanzamento tecnologico (Varvaro 1998: 29),
ma che hanno talvolta resistito fino ad anni molto recenti.
Certo, documenti del genere tagliano fuori intere porzioni del reale per le
quali sarà necessario il ricorso ad altre tipologie di fonti, comprese quelle
letterarie; mancano però, rendendo impossibili molte di queste verifiche,
tipologie di testi come i Ricordi e i Libri di famiglia di cui sono così ricchi il
Medioevo e l’età moderna in Toscana e che consentono conclusioni molto
puntuali. Ma quello che, in positivo, i documenti dell’Archivio di Stato di Lecce
ci possono offrire vale sicuramente la pena di un approfondimento. Si tratta di
centinaia di documenti perfettamente datati e localizzati che permettono di
mettere al loro posto altri tasselli della storia linguistica del meridione3.
2
Si vedano i riferimenti bibliografici in fondo al contributo.
3
Coluccia 1998: 92: «Nella società meridionale tra Medioevo e Rinascimento il notaio ricopre un
ruolo di primo piano per la vita civile delle comunità e per la regolamentazione dei rapporti

210
Marcello Aprile, Valentina Sambati

Peraltro, hanno già attirato l’attenzione degli storici della lingua i documenti di
altre aree del Mezzogiorno redatti in periodi immediatamente precedenti (tra
Quattro e Cinquecento), come gli inventari e i protocolli notarili di Terra di
Bari, su cui comincia a delinearsi una bibliografia promettente (cfr., per una
sintesi molto aggiornata, Castrignanò 2014), o i documenti lucani (Compagna
1983, per la sola, impeccabile edizione dei testi). La Terra d’Otranto è invece,
per studi di questo genere nell’età moderna, un luogo ignoto, mentre la
bibliografia degli ultimi cinquant’anni ha consentito progressi importanti per
l’epoca medievale4, con ampi margini di miglioramento ancora possibili, come
dimostrano, per esempio, le ricerche di taglio storico che hanno consentito la
scoperta di un nutrito gruppo di Statuti salentini quattrocenteschi (Massaro
2004).
Da una parte, testamenti, inventari, eredità e carte dotali ci mostrano un
aspetto della vita familiare di cui si sa pochissimo, quello della cultura materiale
(il vestiario, la struttura delle case, ecc.: si tratta di veri e propri ecotipi di cui
abbiamo ora un’immagine molto più dettagliata del passato), in cui il Salento
greco partecipa senza dubbio ad un sistema molto ampio, che coinvolge tutto il
Regno di Napoli: e il fatto che non vi siano studi che affrontino da un punto di
vista storico-linguistico questi temi non inficia il fatto che gli oggetti e arredi
della Terra d’Otranto siano diffusi anche in Terra di Bari o in Lucania, fino alla
capitale del Regno, Napoli. Di tutti i testi, i più adatti per la nostra prospettiva
sono le carte dotali, fatto normale se si pensa che prima dell’abolizione della
possibilità di stipulare la dote, avvenuta solo nel 1975 (con l’articolo 47 della
legge 151 del 19 maggio di quell’anno), essa «è stata il cardine dei rapporti
patrimoniali fra coniugi: per circa sette secoli in Italia – tra il 1100 e il 1700
[…] – si è considerato assiomatico che i rapporti patrimoniali fra coniugi
fossero regolati dal sistema dotale, sulla base di tutta una tradizione che
affondava le sue radici nel diritto romano» (Pene Vidari 1986: 110).
Dall’altra parte, i catasti onciari ci mostrano aspetti sociali ed economici
della vita “pubblica”, questa volta con una caratterizzazione molto più ristretta
del territorio: la civiltà contadina, con la sovrapposizione di greco e romanzo
evidente nei toponimi, i mestieri, la strutturazione dei centri urbani. Questi
documenti, importanti per la storia sociale ed economica non meno che per
quella linguistica, erano redatti in doppio originale e traggono il loro nome dal
fatto che i beni erano valutati in once, nome dal doppio valore di unità di misura

economici e giuridici tra ceti e individui. Un’importanza almeno pari questa figura professionale
riveste per le vicende e l’espansione del volgare».
4
Solo per citare le edizioni di testi commentati dal punto di vista linguistico: Sgrilli 1983 (per il
Sidrac salentino di area settentrionale, redatto prima del 1475), Aprile 1994 (per un Quaterno di
entrate e uscite erariali redatto da Stefano Mongiò nel 1473 a Galatina), D’Elia 1968 (per i
Capitoli della Bagliva di Galatina del 1496-99), Maggiore 2013 (per un commento al Teseida del
Boccaccio nella versione salentina).

211
Greco e romanzo nella Grecìa salentina

e di moneta, esistente da secoli nel Regno. Il catasto settecentesco, molto


diverso da quelli successivi, «costituiva una base per l’accertamento di tutti i
redditi, ivi compresi quelli immobiliari che confluivano in un nucleo familiare e
l’imposta che ne derivava funzionava, in definitiva, come imposta unica del
reddito globale» (Salvati 1957: 354).

2. Contenuto e tipologia testuale di capitoli matrimoniali e carte dotali


Il primo passo della ricerca è stata la selezione dei documenti relativi
all’area oggi denominata “Grecìa salentina” conservati presso l’Archivio di
Stato di Lecce. Per ogni centro sono stati presi in considerazione campioni
rappresentativi di atti notarili relativi a capitoli matrimoniali e carte dotali di
tutti i notai presenti nell’elenco del comune. Il quadro documentario di partenza
ci è sembrato piuttosto solido: tre catasti onciari e 101 atti di 23 diversi notai
distribuiti tra i nove comuni che ancora oggi sono riconosciuti come di
minoranza greca, redatti tra il 1686 e il 1854 e pervenuti in originale.
Tutte le carte sono state trascritte con criteri rigidamente conservativi,
mantenendo tutte le particolarità grafiche dell’originale, compresa la
punteggiatura del tempo, che segue un sistema parzialmente differente rispetto a
quello di uso comune oggi, e l’alternanza di maiuscole e minuscole, che non
corrisponde sempre alle consuetudini attuali. Gli interventi editoriali si sono
limitati al minimo indispensabile: scioglimento delle abbreviazioni tra parentesi
tonde, inserimento di tre punti tra parentesi quadre ad indicare le parti di testo
mancanti perché illeggibili a causa di macchie sull’originale o per altri motivi
meccanici.
Gran parte del Glossario oggi a disposizione dei navigatori sul sito citato in
apertura si fonda sull’esame di capitoli matrimoniali e carte dotali, che
consistevano in una promessa, dinanzi ad un notaio, da parte dei genitori della
dotante (o di altri soggetti), a consegnare un certo numero di beni agli sposi
dopo il matrimonio. Nell’atto, dopo la presentazione delle parti, seguiva una
minuziosa descrizione del corredo della sposa e dei beni mobili della casa (in
cui non potevano mancare letto, isolato simbolicamente dal resto dalla casa
dalla cortina, cassa e banca: Calvelli 1995: 287) che generalmente consisteva
nell’elencazione, a volte di tipo valutativo, di:
- arredi del letto (antiletto, cortina, cortinaggio, letto, lettèra, matarazzo,
padiglione, pagliaccio, paglianio, paglione, pomo, saccone, saccogna, scanno,
sproviere, stramacco, trabacca, travaccola, tristelli, ecc.). Ogni oggetto è
minuziosamente descritto per evidenziarne gli eventuali elementi di pregio;
- biancheria da letto (capetale, capezzale, chisciuni, coperta, coscino,
cusciniera, guanciale, imbottita, lanzuolo, manta, pennarola, sopracoperta,
sponza, ecc.), con frequente indicazione, preziosa per noi, ma anche per storici
di vari interessi, dei materiali e della tipologia di fattura;

212
Marcello Aprile, Valentina Sambati

- dote di vestiario (avantisino, calzetta, camisa, canduscia, cappone,


corpetto, cuperciere, faccioletto per la testa, facciolettone, fostiano, giuppetto,
giuppo, giuppone, gonna, gonnaccia, gonnellino, guannaccello, guardacore,
lubretto, mantesino, mantile, manto, pettera, pettiglia, salvietta, salvietto,
scialle, scicamano, scigafacci, sciugatojo, serenichio, sottanello, sottanietto,
spallaccio, spalliere, sproviere, stomacale, stuaboccha, stusciafacce, tamantile,
velo, veste, vestitura)5;
- corredo per la tavola (mandilone, tovaglia, tovagliolo, vancale);
- oggetti e utensili da cucina (caldara, camastra, fersura), di particolare
povertà;
- la cassa o il cassone, mattra, baullo e burò per conservare il corredo che
poteva essere di diverso tipo di legno (di apeto, di noce) ed avere o meno la
serratura con la chiave.
A volte venivano consegnate in dote anche delle chiusure olivate (terre con
alberi d’olivo), il telaio (talaro), denari contanti e gioielli (anello, bracciale,
bottone, catena, corallo, coretto, croce, ditale, fibia, filedda, filograna, fioretto,
ingranata, gallone, puntale, spillone).
L’unità con cui si misurava la ricchezza di una dote si chiamava pannina, e
stava ad indicare un certo numero di pezzi per ogni tipo di panno. La dote più
ricca, di pannina dieci, si è riscontrata a Corigliano d’Otranto nel 1751, quella
più povera, di pannina quattro, a Melpignano nel 1782; siamo in una media che
documenta, in generale, condizioni di vita piuttosto povere, in un quadro
generale per la Terra d’Otranto in cui le tradizioni nuziali di centri come Tricase
o Cutrofiano obbligavano le spose a portare in dote corredi da cinque pannina,
Mesagne da sette, Taviano da otto e Salve da dieci (Bianco 1995: 3).

3. Struttura delle voci


Ciascuna voce del Glossario è così impostata:
a) area del lemma, posto in grassetto con indicazione della marca
grammaticale (es.: avantiletto, avanti letto, s.m.);
b) area della definizione (che può presentare, a seconda dei casi, ulteriori
suddivisioni specifiche; i significati sono ordinati con i numeri 1., 2., ecc.);
c) area delle attestazioni, in cui si dà conto delle occorrenze del lemma nei
documenti spogliati e della sua datazione, con tutte le eventuali varianti
fonetiche e grafiche;
d) area del commento e dei confronti lessicografici, in cui si dà conto della
documentazione delle voce in altri repertori in cui essa compare.

5
Cfr. l’accurata ricostruzione complessiva dell’abbigliamento delle donne di Terra d’Otranto
operata da Bianco 1995: 5-9 sulla base dei documenti dell’Archivio di Stato di Lecce; la studiosa
ravvisa che «attraverso l’analisi congiunta di tali documenti possiamo affermare che, a partire dal
XVII sec. fino alla prima metà del XIX sec., l’abbigliamento rimaneva pressoché immutato»
(Bianco 1995: 5). Per l’iconografia sono essenziali Costumi popolari 1992 e Paone 1975.

213
Greco e romanzo nella Grecìa salentina

In alcuni casi, specialmente in relazione a lemmi che presentano una certa


complessità semantica, si preferisce separare i diversi sintagmi in cui essi
compaiono per meglio determinarne le caratteristiche. Si sono utilizzate in
questi casi le lettere dell’alfabeto italiano (a., b., ecc.) e poi greco (α., β., ecc.).
Vediamo, per illustrare le caratteristiche delle voci del glossario, il solo
sommario di una voce molto complessa in termini di definizione della cultura
materiale, cuperciere:
1. ‘fazzoletto per la testa di grandi dimensioni’
1.a. con indicazione del materiale
1.a.α. cuperciere di cambraja
1.a.β. cuperciere di fustiano
1.a.γ. coperciere di seta
1.a.δ. cuperciere di tela marzulla
1.a.ε. cuperciere di tela ordinaria

1.b. con indicazione del tipo di ornamento


1.b.α. cuperciere con argento
1.b.β. cuperciere co la cocchiella
1.b.γ. cuperciere colla costedda
1.b.δ. cuperciere con fringi, fringa, fringo
1.b.ε. cuperciere con l’oro
1.b.ζ. cuperciere con pendaglie
1.b.η. cuperciere con pizzilli
1.b.θ. cuperciere con seta
1.b.θ1. cuperciere con seta mischia
1.b.ι. cuperciere con trena
1.b.κ. cuperciere con uscia
1.b.λ. coperciere con zaccarella

La voce, come si vede, non presenta problemi linguistici in senso proprio:


nel caso di un’analisi meno attenta agli sviluppi della cultura materiale
avremmo potuto cavarcela con la definizione iniziale della voce, ‘fazzoletto per
la testa di grandi dimensioni’, e magari con la prima attestazione, che per la
cronaca, nei nostri testi, è a Melpignano nel 1695 e ricorre nei Capitula
Matrimonialia Guido – De Donno redatti dal notaio Nicola Maria Durante (carta
59v): «copercieri n(umer)o sei [...], et uno di crambaia con pizzilli d’azza
bianche, [...]».
Nel caso di questa voce, attraverso una divisione così serrata, che è un
evidente debito contratto con il rigore del Lessico Etimologico Italiano (LEI),
fondato a Saarbrücken da Max Pfister e oggi da lui diretto insieme con
Wolfgang Schweickard, abbiamo pertanto un unico significato intorno a cui è
costruita una griglia in cui le attestazioni sono suddivise secondo l’indicazione
del materiale e del tipo di ornamento (ma in tanti altri casi, come avantiletto,
che il lettore-navigatore potrà esaminare per proprio conto, ci sono indicazioni

214
Marcello Aprile, Valentina Sambati

ancora più di dettaglio che oltre agli elementi considerati includono anche quelli
su tipo di tessitura e qualità), con ulteriori sfumature e specificazioni affidate
alle lettere greche: abbiamo così, per quanto riguarda i materiali (a.), il
cuperciere di cambraja (α.), di fustiano (β.), di seta (γ.), ecc., e per quanto
riguarda gli ornamenti (b.), il cuperciere con argento (α.), co la cocchiella (β.),
colla costedda (γ.), ecc.
Questo ci aiuta, nel quadro dello studio del rapporto tra parole e cose, ad
avere un’idea chiara di come queste ultime funzionassero: con quali materiali,
con quali ornamenti venissero costruite, a quale scopo servissero
effettivamente6.
In altri casi, le informazioni fornite ci sembrano interessanti per la storia
linguistica tout court: per esempio, dall’esame delle forme concorrenti viene
fuori in modo molto chiaro l’avanzamento del processo di italianizzazione (ben
prima dell’Unità) contrapposto alla resistenza delle forme linguistiche
caratterizzate localmente. Vediamo, per esempio, la voce lanzuolo, lenzuolo,
lanzulo, che abbiamo distinto secondo i criteri che abbiamo appena visto
(materiale, qualità, tipo di tessitura), ma anche secondo criteri fonetici.
Vediamo, allora, prima il sommario, riservandoci il commento alla fine del
ragionamento:
1. forma fonetica locale: lanzulo, lanzolo ‘lenzuolo’
1.a. con indicazione del materiale
1.a.α. lanzoli di (lino) marzullo
1.a.β. lanzuli di tela
1.a.γ. lanzoli di tela ordinaria

2. forma fonetica di compromesso: lanzuolo, lansuolo


2.a. con indicazione del materiale
2.a.α. lanzuolo di bombace
2.a.α1. lanzuolo di bambace e canape
2.a.β. lanzuolo di canapa, canape
2.a.γ. lanzuolo di lino
2.a.γ1. lanzuolo di lino marzullo
2.a.γ2. lanzuolo di lino paesano
2.a.γ3. lanzuolo di lino rustico
2.c.δ. lanzuolo di Bergalla/percalla/vergalla
2.a.ε. lanzuolo di seta
2.a.ε1. lanzuolo di seta paesana
2.a.ζ. lanzuolo di tela
2.a.ζ1. lanzuolo di tela marzulla
2.a.ζ2. lanzuolo di tela ordinaria
2.a.ζ3. lanzuolo di tela paesana

6
Com’è troppo noto per essere ulteriormente specificato, dietro il nesso parole e cose ci sono un
movimento culturale già ottocentesco e una rivista, Wörter und Sachen, fondata a Graz nel 1909.

215
Greco e romanzo nella Grecìa salentina

2.a.ζ4. lanzuolo di tela rustica, rustici


2.a.ζ5. lanzuolo di tela sottile

2.b. con indicazione della qualità


2.b.α. lanzuolo di Londra

2.c. con indicazione del tipo di tessitura


2.c.α. lanzuolo d’orletto
2.c.β. lanzuolo a tocco

3. forma fonetica toscana: lenzuolo


3.a. con indicazione del materiale
3.a.α. lenzuolo di bombace
3.a.β. lenzuolo di canape
3.a.γ1. lenzuolo di lino marzullo
3.a.γ2. lenzuolo di lino paesano
3.a.δ. lenzuolo di percalla
3.a.ε. lenzuolo di tela
3.a.ε1. lenzuolo di tela marzulla
3.a.ε2. lenzuolo di tela ordinaria
3.a.ε3. lenzuolo di tela paesana

La documentazione presenta tre possibilità, per chi scriveva a quei


tempi:
- la prima, quella locale, lanzulo, è documentata anche dal VDS 1,285
s.v. lanzulu (è pansalentina) ed è trattata in questa voce sotto 1.: per
essa, come dimostra Rohlfs 1966 § 126, bisogna prendere come base
latina -IŌLUS (come per le forme meridionali cetrulo, pasulu, ecc.).
All’interno di 1. sono lasciate anche le attestazioni della forma di
compromesso lanzolo, una sorta di costruzione artificiale che
presenta una ricostruzione della o toscana al posto di u, tratto
percepito come basso;
- la seconda, maggioritaria, è lanzuolo (2.): è ben attestata in toscano
(è, per es., in Pietro Aretino, GDLI 8,954) ma deve essere stata
percepita come una sorta di forma di compromesso perché condivide
la a protonica con la forma locale, ma si forma da -ĬOLUS e viene
quindi dal toscano;
- la terza è lenzuolo, forma percepita come compiutamente toscano-
italiana e specchio, pertanto, dell’italianizzazione avanzante (3.).
Abbiamo quindi, l’una accanto all’altra e in concorrenza darwiniana, una
soluzione locale, una di compromesso e una toscana: un modo a nostro avviso
corretto di affrontare la storia linguistica del Salento rispettandone la
complessità e le dinamiche sociolinguistiche.
Per i significati ci si è serviti con larghezza di vocabolari di lingue europee,
a cominciare da REW, TLF/TLFi, DCECH (per le sigle si rinvia alla

216
Marcello Aprile, Valentina Sambati

bibliografia), della lingua italiana (GDLI, TLIO, DEI, DELI, LEI, ecc.), di
vocabolari dialettali (a cominciare dal fondamentale VDS di Rohlfs), anche del
resto del Mezzogiorno (NDC, vari vocabolari di area barese, VS, ecc.).
È stato possibile, a volte, definire meglio il significato di determinati lemmi
grazie all’impiego di alcune fonti orali che si sono rivelate fondamentali al fine
di avere una descrizione più precisa degli oggetti esaminati. È il caso di
ingallata, definito dal GDLI semplicemente come ‘tipo di ricamo’ ma descritto
con abbondanza di particolari da alcune informatrici che vivono nel territorio
grecanico. Ma il ricorso a questo tipo di fonti, come d’altra parte ai vocabolari
dialettali, è stato prudente e mirato; per fare un paragone pensato per documenti
più antichi dei nostri, ma ad essi assimilabile senza difficoltà, «anche quando il
vocabolo ricorrente [in testi antichi] sia ancora in uso nella lingua o nei dialetti
(e registrato nei vocabolari), nulla ci autorizza a stabilire un’effettiva identità tra
l’oggetto medioevale e quello con la medesima denominazione appartenente
all’epoca attuale o subattuale» (Coluccia 1998: 97). Le difficoltà relative alla
distinzione tra tovaglia di tavola e tovaglia di mano, per cui i lessici usano la
medesima definizione di ‘tessuto per ricoprire la mensa’ senza ulteriori
spiegazioni di dettaglio, mentre le testimonianze orali sembrano contraddire i
dati offerti dai testi (ne parleremo diffusamente al § 2.14.), rendono conto
pienamente della complessità del problema della continuità della cultura
materiale e della sua documentazione linguistica.

Bibliografia

Repertori
• DEI = CARLO BATTISTI, GIOVANNI ALESSIO, Dizionario etimologico
italiano, Firenze, Barbèra, 1950-1957, 5 voll.
• DI = WOLFGANG SCHWEICKARD, Deonomasticon Italicum. Dizionario
storico dei derivati da nomi geografici e da nomi di persona, Tübingen,
Niemeyer, 1997-.
• EWUG = GERHARD ROHLFS, Etymologisches Wörterbuch der
unteritalienischen Gräzität, Halle, Niemeyer, 1930.
• GDLI = SALVATORE BATTAGLIA (poi GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI),
Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961-2002, 21 voll.
• LGII = GERHARD ROHLFS, Lexicon graecanicum Italiae inferioris.
Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität, Tübingen,
Niemeyer, 19642.
• NDC = GERHARD ROHLFS, Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria,
Ravenna, Longo, 1982.
• REW = WILHELM MEYER-LÜBKE, Romanisches Etymologisches
Wörterbuch, Heidelberg, Winter, 1972.

217
Greco e romanzo nella Grecìa salentina

• TLF = Dictionnaire de la langue du XIXe et du XXe siècle (1789-1960),


publié sous la direction de PAUL IMBS, Paris, Centre national de la recherche
scientifique/Gallimard, 1971-1994, 16 voll.
• TLFi = Trésor de la langue française informatisé, consultabile online a
partire da http://atilf.atilf.fr/.
• TLIO = Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, diretto da PIETRO
BELTRAMI (poi da PAOLO SQUILLACIOTI), consultabile online a partire da
www.vocabolario.org.
• VDS = GERHARD ROHLFS, Vocabolario dei Dialetti Salentini, München,
Bayerischen Akademie der Wissenschaften, 3 voll. (con VDSSuppl si indica
il terzo volume) (ristampa: Galatina, Congedo, 1976).
• VS = Vocabolario siciliano, Catania/Palermo, Centro di Studi Filologici e
Linguistici Siciliani, 1977-2002, 5 voll.

Studi
• Aprile 1994 = MARCELLO APRILE, Un “quaterno” salentino di entrata e
uscita (Galatina 1473), in «Bollettino Storico di Terra d’Otranto» 4 (1994),
5-83.
• Bianco 1995 = ANNALISA BIANCO, I. Panni e vestiture, in Piccolo Giannuzzi
1995, 1-9; II. Ori, argenti e beni giocali, in Piccolo Giannuzzi 1995, 141-
147; III. Arredi e paramenti sacri, in Piccolo Giannuzzi 1995, 191-194.
• Calvelli 1995 = MARIA TERESA CALVELLI, IV. Quadri e cornici, in Piccolo
Giannuzzi 1995, 233-237; V. Mobili e interni, in Piccolo Giannuzzi 1995,
285-290; VI. Ceramiche, utensili e suppellettili, in Piccolo Giannuzzi 1995,
346-350.
• Castrignanò 2014 = VITO LUIGI CASTRIGNANÒ, Testi notarili pugliesi del sec.
XV. Edizione critica, spoglio linguistico e lessico, tesi di dottorato, Roma,
Sapienza Università, a.a. 2013-14.
• Coluccia 1998 = ROSARIO COLUCCIA, Ancora su lessico quotidiano e cultura
materiale in inventari notarili pugliesi del secondo Quattrocento, in
D’Onofrio-Gualdo 1998, 91-114.
• Compagna 1983 = ANNA MARIA PERRONE CAPANO COMPAGNA, Testi lucani
del Quattro e Cinquecento. I. Testi, Napoli, Liguori, 1983.
• Costumi popolari 1992 = Costumi popolari di Terra d’Otranto tra Sette e
Ottocento (con una nota di MARIO CAZZATO), Galatina, Congedo, 1992.
• D’Elia 1968 = Capitoli della Bagliva di Galatina, a cura di MARIO D’ELIA,
Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1968.
• D’Onofrio-Gualdo 1998 = Le solidarietà. La cultura materiale in linguistica
e in antropologia, Atti del Seminario di Lecce (novembre-dicembre 1996), a
cura di SALVATORE D’ONOFRIO E RICCARDO GUALDO, Galatina, Congedo,
1998.
• Lisi 1985 = GIUSEPPE LISI, Economia e classi sociali in Calimera alla metà
del Settecento, Galatina, Editrice Salentina, 1985.

218
Marcello Aprile, Valentina Sambati

• Maggiore 2013 = MARCO MAGGIORE, Un commento al Teseida di Boccaccio


di provenienza salentina (seconda metà del XV secolo), tesi di dottorato,
Roma, Sapienza Università, a.a. 2012/2013.
• Palma 2014 = PANTALEO PALMA, Calimera nell’Ottocento. Istituzioni,
società, economia in un paese della Grecìa salentina, Calimera (LE),
Ghetonìa, 2014.
• Paone 1976 = MICHELE PAONE, Il costume popolare salentino. Storia, arte,
poesia, Galatina, Congedo, 1976.
• Pene Vidari 1986 = GIAN SAVINO PENE VIDARI, Dote, famiglia e patrimonio
fra dottrina e pratica in Piemonte, in La famiglia e la vita quotidiana in
Europa dal ’400 al ’600: fonti e problemi, Atti del Convegno internazionale
(Milano, 1-4 dicembre 1983), Como, New press, 1986, 109-121.
• Piccolo Giannuzzi 1995 = CHIARA PICCOLO GIANNUZZI, Fonti per il barocco
leccese, Galatina, Congedo, 1995.
• Rohlfs 1966-69 = GERHARD ROHLFS, Grammatica storica della lingua
italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-1969, 3 voll. (si cita per
numero di paragrafo).
• Salvati 1957 = CATELLO SALVATI, La funzione del Catasto onciario nel
sistema tributario napoletano ed il valore dell’oncia, in «Rassegna degli
Archivi di Stato» 17/3 (settembre-dicembre 1957), 349-359.
• Sgrilli 1984 = Il «Libro di Sidrac» salentino, a cura di PAOLA SGRILLI, Pisa,
Pacini, 1984.
• Varvaro 1998 = ALBERTO VARVARO, Parole e cose, in D’Onofrio-Gualdo
1998, 17-31.

219
Processione dei carrettieri di San Marzano di San Giuseppe (TA), 18 marzo
2015 [Foto: cortesia di Antonio Cosma]

220
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 221-243
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p221
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

La varietà arbëreshe di San Marzano


di San Giuseppe

Giovanni Belluscio, Monica Genesin 1

1. Premessa
1.1. L’isola alloglotta di San Marzano

La varietà di San Marzano, unica testimonianza linguistica ancora vitale di


un’isola alloglotta costituita anticamente da un gruppo di paesi albanofoni
localizzati nella provincia di Taranto2, è la più vivace della Puglia, dato che negli
altri due centri, Chieuti e Casalvecchio di Puglia in provincia di Foggia, lo stato di
conservazione della lingua sembra essere più compromesso. Il punto di partenza
per descrivere la situazione sociolinguistica di un dialetto dovrebbe essere
costituito dall’indicazione del numero dei locutori: questo non è però possibile
1
I paragrafi (e relativi sottoparagrafi) sono così ripartiti: 1 e 3 a Monica Genesin, 2 a Giovanni Belluscio.
2
La colonia fu costituita allorquando il nobile albanese Demetrio Capuzzimati, dimorante in Oria,
acquistò nel 1530 il feudo sammarzanese che venne ripopolato con gente non regnicola, di etnia
albanese la quale portò nella nuova patria lingua, consuetudini e il rito greco, cfr. P. COCO, Casali
albanesi nel Tarentino: studio storico-critico con documenti inediti. Grottaferrata, Scuola
tipografica italo-orientale S. Nilo, 1921; ID., Gli Albanesi in Terra d’Otranto, in «Iapigia» X,
1939, pp. 329-41; E. TOMAI-PITINCA, Istituzioni ecclesiastiche dell’Albania tarantina, Galatina,
Congedo editore, 1984; V. MUSARDO TALÒ, Il casale albanese, in C. D’ANGELA, G. CARDUCCI (a
cura di), San Marzano tra età antica e età moderna. San Marzano, Cassa Rurale di San Marzano,
1992, pp. 105-110; ID., San Marzano di San Giuseppe. Un’isola culturale in Terra di Puglia,
Lecce, del Grifo, 1997. A livello di pratiche culturali, una particolarità che differenzia questo
paese dalle comunità limitrofe è costituita anche dalla «processione devozionale dei carrettieri»
che si svolge il 18 marzo, alla vigilia della festa dedicata a San Giuseppe, santo patrono del paese.
Una lunga teoria di cavalli carichi di fascine di frasche d’ulivo, bardati a festa, di razze diverse e
provenienti anche da altra zone della Puglia, è preceduta da devoti che portano ceppi e rami
d’ulivo. Appena i carri arrivano nel sagrato della chiesa, dove è stata collocata la statua del santo,
i quadrupedi sono fatti inginocchiare davanti alla sacra immagine per continuare poi in uno spazio
dove viene scaricata la legna che servirà per la costruzione di un enorme falò. Come rileva V.
Musardo Talò, l’origine del falò e del patronato di San Giuseppe risalirebbe, secondo la tradizione
popolare. all’anno 1866, quando all’antivigilia della festa, un evento prodigioso, un violento
nubifragio, sradicò numerosi alberi di ulivo fornendo materiale per il falò alla povera gente che
non aveva legna da ardere. Nella foto donataci da Antonio Cosma, sono riprodotti alcuni momenti
della processione che si è svolta nel corso della festa patronale del marzo 2015, cfr. V. MUSARDO
TALÒ, Tracce storiche su San Marzano di San Giuseppe, Taranto, Mondese, 1987, p. 97;
E. IMBRIANI, La sarta di Proust. Antropologia e confezioni, Bari, Edizioni di Pagina, 2008, pp.
96-98.
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

poiché in Italia la lingua non è oggetto di indagine nel censimento ISTAT e


quindi le uniche informazioni ufficiali disponibili riguardano il numero degli
abitanti che ammontano a circa 9.000, sulla base dei dati del 20133. Questa
parlata4, come le altre varietà della diaspora dell’Italia meridionale, condivide
l’appartenenza al gruppo dialettale tosco, tipico dell’area albanese meridionale,
presentando numerosi tratti comuni in special modo con i dialetti albanesi
dell’area meridionale più estrema5 e con l’arvanitica (le varietà greco-albanesi).
Analogamente alle parlate della diaspora e a tutte le varietà alloglotte che si
trovano in particolari contesti di contatto, essa presenta, in seguito al prolungato
uso del bilinguismo, un vasto insieme di fenomeni di interferenza. Questi ultimi
vanno dalla presenza di enunciati mistilingui (code-switching), che combinano
elementi dell’italiano regionale e del dialetto romanzo locale, al passaggio
funzionale dal dialetto arbëresh, all’italiano regionale o al dialetto romanzo locale
in corrispondenza di un’intera frase (code-mixing)6 in relazione a un «mutamento
in (almeno) uno o più degli elementi o fattori del flusso della situazione
comunicativa in atto, vale a dire con qualche cambiamento [...] nelle intenzioni
comunicative o nell’argomento o nei ruoli»7. Si rileva inoltre la tendenza ad
incorporare proprietà e dispositivi della morfosintassi e della fonologia romanzi
(cfr. §§ 1 e 2), mentre in campo lessicale (cfr. § 3) si incontrano numerosi prestiti
dalle varietà romanze circostanti e dall’italiano regionale, adottati con un processo
di integrazione variabile.

3
http://www.comuni-italiani.it/073/025/statistiche/popolazione.html.
4
Tra i primi che si interessarono alle particolarità di questo idioma occorre menzionare il principe
Luciano Bonaparte, seguito da Jan Hanusz, cfr. L.L. BONAPARTE, Albanian in Terra d’Otranto, in
«Transactions of the Philological Society of London», 1884, pp. 492-501, ID., Albanian, Modern
Greek, Gallo-Italic, Provencal and Illyrian still in use (1889) as linguistic islands in the
Neapolitan and Sicilian Provinces of Italy, in «Transactions of the Philological Society of
London», 1891, pp. 335-364; J. HANUSZ, L’albanais en Apulie, in «Mémoires de la Société de
Linguistique de Paris», VI, 1888, pp. 263-67.
5
Cfr. GJ. SHKURTAJ, Shënime për të folmen arbëreshe të San Marcanos, in «Studime
Filologjike», 4, 1979, pp. 113-141.
6
In questi casi il bilinguismo e i fenomeni di code-mixing/switching «sono generalmente regolati
da fattori psicologici, demografici (età, sesso), relativi allo status e infine da fattori situazionali, di
registro, e naturalmente dai fattori pragmatici sottesi alla costruzione e all’interpretazione del
significato», cfr. L.M. SAVOIA, Variazione e mescolanza linguistica nei sistemi arbëreshë: code-
mixing, prestiti e convergenza in condizione di bilinguismo, in Studi sulle varietà arbëreshe.
Cosenza, Università della Calabria, 2008, pp. 1-62. Alcuni esempi di interferenza in un
frammento di parlato continuo sono riportati nel § 2.4.
7
G. BERRUTO, Italiano regionale, commutazione di codice e enunciati mistilingui, in
M. CORTELAZZO, A.M. MIONI (a cura di), Atti del XVIII Congresso internazionale di Studi. Roma,
Bulzoni, 1990, pp. 110 ss.

222
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

1.2. Alcune osservazioni di carattere sociolinguistico

Dopo un periodo buio, a cavallo tra gli anni ’60 e gli ’80 nel quale l’uso
dell’arbëresh era scoraggiato e sanzionato nel processo di apprendimento
scolastico, divenendo oggetto di riprovazione da parte degli stessi parlanti,
l’antico patrimonio linguistico e culturale è stato oggetto di alcuni interventi di
recupero e di valorizzazione, in particolare attraverso gli sforzi profusi dal prof.
Carmine De Padova che ha condotto un’intensa attività di ricerca in campo
lessicografico, etnomusicale ed etnografico8. Nell’ultimo decennio si registra un
rinnovato interesse, sia a livello di amministrazione locale, che di operatori
culturali, associazioni civiche e scuole, grazie alla legge nazionale del 15
dicembre del 1999 n. 482 che stabilisce «Norme in materia di tutela delle
minoranze linguistiche storiche», e alla successiva legge approvata dalla
Regione Puglia, allo scopo di offrire un sostegno economico e un supporto,
invero assai ridotto rispetto alle reali esigenze, a progetti volti alla tutela e
promozione del patrimonio linguistico e culturale delle comunità alloglotte.
Sono state avviate iniziative9, gran parte delle quali svolte nella scuola, che
hanno avuto un positivo impatto e hanno contribuito a sensibilizzare i
sammarzanesi su questa importante eredità storico-culturale tramandata da
generazioni, attirando l’attenzione anche delle fasce di età più giovani che
solitamente presentano una conoscenza assai superficiale o totalmente passiva
dell’antico idioma, o addirittura ignorano i fondamenti dell’arbëresh, il cui uso è
confinato a ristretti ambiti familiari e colloquiali specialmente tra parlanti
anziani. È ovvio che non bastano alcune azioni positive e tanta buona volontà10
per invertire la tendenza alla scomparsa di una varietà linguistica che, fino a

8
C. DE PADOVA, San Marzano di S. Giuseppe. Castrovillari, Edizioni «Il Coscile», 1998; ID.,
Anketa gjuhësore për të folmen arbëreshe të San Marcanos, in “Dialektologjia shqiptare”, V,
Akademia e Shkencave e RPS të Shqipërisë, Instituti i gjuhësisë dhe i letërsisë, Tiranë, 1987, pp.
372-413. La meritoria opera del prof. De Padova è documentata anche in un filmato realizzato per
la RAI nel 1978 dal regista Vittorio De Seta e riguardante il mondo della scuola, cfr.
www.scuola.rai.it/articoli/scuola-e-minoranze-linguistiche-lesempio-di-carmine-de-
padova/5393/default.aspx (su cortese segnalazione dell’amico Livio Greco) [L’episodio relativo a
San Marzano e al maestro De Padova “Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua”
dell’inchiesta “Quando la scuola cambia” di V. De Seta (1978) è ora visionabile all’indirizzo:
http://www.archiviosonoro.org/puglia/archivio/archivio-sonoro-della-puglia/fondo-teche-
rai/programmi-dinformazione/tutti-i-cittadini-sono-uguali-senza-distinzione-di-lingua.html,
ultimo accesso 15 luglio 2015, N.d.C.].
9
Si sono organizzati scambi culturali con l’Albania, corsi di lingua albanese per gli insegnanti
dell’istituto scolastico comprensivo «G. Skanderbeg», mentre è in corso un progetto di raccolta
lessicale sulla base del sistema concettuale dell’Atlas Linguarum Europae (ALE), che è stato
utilizzato anche per ricerche lessicografiche in altre aree arbëreshe.
10
Ricordo la splendida iniziativa della squadra di rugby «Skanderbeg» guidata da Emilio
Piccione, già studente dei corsi di albanese presso l’università del Salento e autore di un
apprezzato saggio sulla storia locale, che promuove l’uso dell’arbëresh anche nella pratica
sportiva, attraverso una cooperazione tra le diverse generazioni di sammarzanesi.

223
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

poco tempo fa, era considerata come espressione di una cultura inferiore.
Ancora oggi manca infatti un’azione coordinata tra amministrazione e
associazioni locali, mentre, a livello scolastico, si avverte la necessità di
personale con un’approfondita conoscenza dell’arbëresh e in possesso degli
strumenti e della metodologia didattica per l’insegnamento della lingua
minoritaria. Sarebbe inoltre fondamentale un diretto e attivo coinvolgimento in
tutte le iniziative dei veri depositari di questa parlata, gli anziani, ovvero la
generazione degli ultrasessantacinquenni, rappresentata in particolare dalle donne.
1.3. La ricerca sul campo

Nell’impossibilità di fornire un quadro esaustivo della parlata di San


Marzano, ci limiteremo a proporre una breve descrizione a livello fonologico (§
2), morfologico, morfosintattico e lessicale (§ 3), sulla base di alcune interviste,
realizzate nel periodo novembre 2014-febbraio 2015, e di registrazioni effettuate
nel 2004 da G. Belluscio. Nel corso dell’indagine sul campo ci siamo avvalsi di
una decina di informatori, ai quali siamo grati per la pazienza, gentilezza e
disponibilità dimostrate, di età compresa tra i 60 e i 90 anni, di istruzione medio-
bassa (diploma di scuola elementare e, in un caso, di scuola media superiore) che
hanno trascorso gran parte della loro vita nella comunità di origine, tranne brevi
esperienze di emigrazione in paesi di lingua tedesca (Svizzera e Germania)11. Per
completare la raccolta e l’analisi dei dati abbiamo utilizzato anche le ricerche
condotte da L.M. Savoia pubblicate in tempi diversi e riunite nel volume Studi
sulle varietà arbëreshe e il contributo di Gj. Shkurtaj. A causa della mancanza di
dati aggiornati e per motivi di spazio, si è invece deciso di rimandare la
discussione su altri aspetti più specifici di natura sociolinguistica quali la
complessa dinamica relativa al rapporto tra l’italiano e l’arbëresh, le condizioni
d’uso di quest’ultimo e le variazioni funzionali presenti nel repertorio linguistico
dei parlanti di questa comunità.

2. Fonetica e fonologia
L’inventario fonologico di questa parlata, così come quelli della maggior
parte delle parlate italo-albanesi, è composto da sei fonemi vocalici, da due
semivocali (glides12) e da ventisei fonemi consonantici. La struttura del sistema
fonemico si presenta pertanto come nella tabella sottostante:

11
Siamo particolarmente grati a Emilio Piccione per averci messo in contatto con i nostri pazienti
e gentili informatori, tra i quali merita un plauso speciale la signora Anna Todaro, accanto alle
signore Vita Tarantino e Lucia Flora.
12
Sui ‘glide vocalici’, benché l’analisi di tipo post-bloomfieldiano sia datata, rimandiamo a
E.P. HAMP, Il sistema fonologico della parlata di Vaccarizzo Albanese, Rende, Centro Editoriale
e Librario dell’Università della Calabria, 1993, pp. 73-80, dove viene proposta una trattazione
esaustiva del problema.

224
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

Fig. 1 – Inventario fonemico della parlata di San Marzano di S. G.

Sulla base dei materiali sonori raccolti da Belluscio nel 2004 e da Genesin e
Lafe nel 2014 proporremo una descrizione di tipo fonetico-fonologico13
limitatamente ai fenomeni più rilevanti e, dove lo si riterrà necessario, faremo
riferimento anche alle prime attestazioni/descrizioni di questa parlata pubblicate
nell’ultimo ventennio del XIX sec. da L.L. Bonaparte14, da J. Hanusz nonché
all’analisi e ai risultati proposti da L.M. Savoia15. Come si vedrà, questa parlata
presenta una considerevole variabilità fonetica-fonologica, morfologica,
sintattica e lessicale, sia tra parlanti (dovuta alla differenza di età, di sesso e di
cultura, aspetto comunque già rilevato da Savoia) sia nell’eloquio di uno stesso
parlante (così come risulta dalla trascrizione fonetica stretta di una
conversazione libera della durata di circa quindici minuti, e che rappresenta
anche la base principale di questa nostra analisi). Tutti gli studi dedicati a questa

13
Tutte le trascrizioni fonetiche strette sono state eseguite da G. Belluscio e il materiale integrale
(quattro fogli manoscritti), dal quale sono stati estrapolati gli esempi, è consultabile in
www.academia.edu/12842268/.
14
BONAPARTE, Albanian in Terra d’Otranto, cit., e ID., Albanian, Modern Greek, Gallo-Italic,
Provençal, and Illyrian still in use (1889) as linguistic islands in the Neapolitan and Sicilian
Provinces of Italy, cit. È utile ricordare che Bonaparte non era un linguista professionista, egli
aveva studiato scienze naturali interessandosi in particolare di rettili e della loro chimica,
spostando successivamente il suo interesse verso la dialettologia, e così «l’erpetologo si trasformò
in dialettologo in Bonaparte», cfr. E.P. HAMP, On Bonaparte and Neogrammarians as Field
Workers, in D. HYMES (a cura), Studies in the History of Linguistics: Traditions and Paradigms,
Indiana University Press, Bloomington and London, 1974, p. 391.
15
L.M. SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano di S. Giuseppe: appunti fonologici e
morfologici, in «Zjarri», 27, 1980, pp. 8-26.

225
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

parlata isolata, a partire dal 1884 e fino ad oggi, confermano tale variabilità, la
quale viene però proposta solo in modo descrittivo e mai analitico. L’unico
approccio sistematico e originale nello studio e nella descrizione morfonologica
dell’albanese di San Marzano resta tuttora Savoia (1980), al quale rinviamo per
tutti gli aspetti fonologici e grammaticali spiegati per mezzo dei moderni
approcci della fonologia e della grammatica generativa, offrendo così un quadro
complessivo dei processi superficiali e profondi di alcune delle strutture
grammaticali più rilevanti. Alla variabilità diacronica, già registrata e proposta
dagli studiosi che ci hanno preceduto, aggiungeremo nuovi materiali a conferma
di una situazione dialettale disgregata e, per dirla con Gangale, tipica dei sistemi
linguistici ‘defungenti’16.

2.1 Vocalismo

2.1.1 Durata
L’opposizione fonologica di durata sembra essere stata del tutto
neutralizzata17. Tale situazione risulta già cristallizzata nei testi proposti da
Bonaparte, mentre Hanusz, che a parer nostro si dimostra essere molto più
preciso e attendibile, rileva e trascrive sei soli casi di lunghezza vocalica: tē (=
dhe) ‘terra’, hōr ‘città’, u hāń ‘io mangio’, hīr ‘entra!’, tè̥ pḕu ‘ti vidi’, argalī̀
‘telaio’. Difficile dire se si tratta di lunghezza reale o invece di lunghezza
enfatica, poiché siamo in assenza di una precisa verifica (per mezzo di coppie
minime) indispensabile per poter ritenere che nel 1889 l’opposizione di durata
fosse ancora fonologica. Anche nei nostri materiali appaiono casi in cui alcune
vocali vengono realizzate come [+lunghe], ma anche in questo caso sembrano
piuttosto realizzazioni di tipo enfatico che di reale durata vocalica storica e
distintiva. Alcuni esempi tratti dal parlato spontaneo sono: duart [dɔːɾt] ‘le
mani’, të thërres [t̬ fɾɛːs] ‘chiamo’, ferurë [fəˈɾuɾəː] ‘ferito’, im kunat
[imʊkuˈnaːt̬ ə] ‘mio cognato’), i seguenti provengono invece da frasi tradotte
dall’italiano in albanese: 1.3. u ka gunfjurë [ˌkwaɣ̊un'fjuːɾᵊ] ‘si è gonfiato’, 1.5b.
shtumpi [ˈʃtuˑmpiː] ‘il pestello’, 1.13. qetë [ˈcʰjɛːtˑɛ] ‘i buoi’, brirët [ˈbriɪtʰɛ] ‘le
corna’, 1.16. duke ngarë duke ngarë (a San Marzano duke = tue) [taŋˈgaːɾə
taŋˈg̊ aːɾə] ‘camminando, camminando’, 1.21. ec te ai [ɛʦ dˑɛaˈiː] ‘vai da lui’)18.

16
Si vedano in merito G.T. GANGALE, Lingua arberisca restituenda. Crotone, Tipografia Pirozzi,
1976, e G. BELLUSCIO, Giuseppe Tommaso Gangale per la rinascita dell’arbërishtja nella
Calabria centrale: l’utopia dimenticata… l’utopia realizzata, in «Hylli i Dritës», 3, N. S., 2007,
pp. 37-50.
17
Solo SHKURTAJ, Shënime për të folmen e San Marcanos, cit., attesta il mantenimento della
durata vocalica distintiva secondo i canonici tre gradi di lunghezza, ‘lunga, media, breve’ per solo
cinque fonemi vocalici e, cosa abbastanza strana e inspiegabile, non per /ə/. Anche in questo caso
senza proporre coppie minime distintive.
18
I numeri che precedono gli esempi indicano i punti precisi del materiale trascritto (cfr. nota 13).
Le trascrizioni dei materiali sonori del 2004 (informatore Vito Leo, 60 anni, traduzione di frasi

226
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

Né bisogna dimenticare che qui stiamo operando a livello di parlato spontaneo,


per cui, diversamente dalle singole parole richieste ai parlanti (direct elicitation)
con questionari lessicali, la variabilità19 dipende soprattutto dal contesto
(nell’esempio 5b la lunghezza della vocale atona è il risultato di una pausa piena
e non di una reale lunghezza!). Nei circa 130 segmenti in cui abbiamo suddiviso
il parlato continuo, in base alle pause di respiro, è possibile notare come parole
e sintagmi ripetuti si presentano con la ‘normale’ variabilità del parlato
spontaneo. Si tenga quindi presente che tutti i dati linguistici proposti da noi e
dagli autori che ci hanno preceduto non hanno mai valore di assoluta univocità e
regolarità.
Ricordiamo che altre brevi attestazioni dialettali, provenienti da
Roccaforzata20, centro albanofono del Tarantino distante solo 12 chilometri da
San Marzano, non presentano evidenza di lunghezza vocalica e confermano
quindi (sia per questo fenomeno che per taluni altri) una particolare omogeneità
tra le due parlate.
2.1.2 Qualità vocalica
Per una oggettiva valutazione della qualità fonetica delle vocali non si può
prescindere dall’analisi elettroacustica, ciò non sarà per ora oggetto di questa
descrizione ma di successivi e più approfonditi studi su questa parlata, così
come da oltre vent’anni si è già operato per un cospicuo numero di altre parlate
arbëreshe. La pressione dialettale delle varietà romanze, con le quali da oltre
mezzo millennio ha interagito e alle quali si è fortemente avvicinata
l’arbërishtja di San Marzano, mostra oggi nella fonetica di questa parlata
importanti tracce21. Nel vocalismo tonico si nota una limitata presenza di
frattura vocalica come nei casi: 104 dielli [ˈdːiɛɐɫi] ‘il sole’, 117 tubarinë
[tubːaˈɾiᵊnə] ‘lampada’, 118 dritë [ˈdːɾiɪth] ‘luce’, 71 di ditë atje [dˑiˈdiɪt̬ at̬ iˌɛ]; la
realizzazione aperta delle vocali di media altezza come [ɛ] e [ɔ], mentre /ə/
viene pronunciato con una maggiore chiusura rispetto alla sua realizzazione

dall’italiano in albanese) sono preceduti da numerazione puntata (1.1 ecc.) mentre le trascrizioni
della registrazione del parlato spontaneo raccolto nel 2014 (prodotto dalla novantenne Vita
Tarantino) hanno numerazione semplice (da 1 a 121). Nonostante l’età avanzata l’informatrice
presenta un eloquio molto tonico e una buona articolazione.
19
In merito ai diversi fattori che possono interagire nella produzione della durata vocalica
rimandiamo al lavoro pionieristico di P. DELATTRE, Some factors of vowel duration and their
cross-linguistic validity, in «Journal of the Acoustical Society of America», 34, 1962, pp. 1141-
1143, e al successivo contributo di L. LISKER, On ‘explaining’ vowel duration variation, in
«Glossa», 8:2, 1974, pp. 233-243.
20
Si veda E. AAR, Gli studi storici in Terra d’Otranto, in «Archivio storico italiano», Quarta
Serie, Tomo VI, Firenze, 1880, pp. 100-114.
21
Per un excursus tipologico dialettale e dell’italiano regionale pugliese e salentino rimandiamo
alle annotazioni schematiche in L. CANEPARI, Italiano standard e pronunce regionali, Padova,
Cleup, 1980, pp. 75-77, nonché ai diversi contributi in questo volume.

227
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

canonica (intorno a F1 500 Hz, F2 1500 Hz), tale variabilità allofonica può
presentarsi come: [ə]~[ə̝]~[ɘ].

2.1.3. Accento
Ricorrono le regolari condizioni di accentazione proprie dell’albanese e
delle parlate arbëreshe. Fenomeno innovativo (che questa parlata condivide con
le parlate molisane) è invece lo spostamento in avanti dell’accento nei gruppi
vocalici ua, ie nella flessione verbale e nominale (cfr. § 2.1.5).
2.1.4. Vocalismo atono
L’aspetto più importante riguarda la frequente riduzione o centralizzazione
nonché cancellazione vocalica e la preponderante e quasi generalizzata presenza
di /ə/ epitetico in quasi tutte le forme terminanti in consonante22.
La riduzione/centralizzazione vocalica già rilevata per la lingua albanese
standard23 e in numerosi studi dedicati alle parlate arbëreshe è l’esito delle
strategie temporali proprie dell’albanese (lingua tendenzialmente ad isocronia
accentuale) ma che nel caso di San Marzano si intreccia con la varietà romanza
locale anch’essa a forte isocronia accentuale. Gli effetti prodotti da questo tipo
di isocronia sono: ‘1. riduzione qualitativa/quantitativa in atonia con esiti [ə],
accompagnata da soppressione di sillabe pretoniche, e 2. relativo aumento della
velocità a discapito delle sillabe atone’24. Ecco qualche esempio: 65 ka vatur e

22
I materiali sonori dimostrano in modo chiaro e netto la pressione dialettale romanza,
innanzitutto attraverso la presenza di code-switching verso il romanzo (con successivo ritorno
all’albanese; vedi il successivo punto 2.4), la soluzione dei nessi consonantici con inserzione di
elementi vocalici, la regolarizzazione delle parole terminanti in consonante con l’aggiunta di un
elemento vocale epitetico, di solito [ə], ma anche [i] o [u], e infine, con lo spostamento
dell’accento nei gruppi vocalici /ˈua/ e /ˈie/ (< sia da ‘ie’ che da ‘ye’), ciò permette una
regolarizzazione sillabica a favore di una realizzazione parossitona, più normale per l’italiano:
shkruanja [ʃkɾuˈaɲːa] ‘scrivevo’, [ʃkɾuˈaɡəʃɲa] ‘mi scrivevo’ ecc. invece delle originarie
proparossitona *[ˈʃkɾuaɲːa] e proproparossitona *[ˈʃkɾuaɡəʃɲa] (per i dittonghi e gruppi vocalici si
veda il successivo § 2.1.5) Ci sembra difficile sostenere qui il mantenimento, senza soluzione di
continuità, delle forme albanesi medievali note grazie ai primi documenti scritti della lingua
albanese (dal 1555 con Gjon Buzuku e fino alla prima metà del XVII secolo) come sostiene
invece G. LAFE, Note linguistiche da San Marzano di San Giuseppe, in B. DEMIRAJ,
M. MANDALÀ, SH. SINANI (a cura di), Edhe 100! Studi in onore del prof. Francesco Altimari in
occasione del 60° compleanno, Tirana, Albpaper, 2015, p. 324. Nella quasi totalità le parlate
arbëreshe infatti, tra gli altri aspetti che le accomunano, condividono proprio la cancellazione
delle vocali finali, fenomeno prodotto dalla tipologia strutturale delle strategie temporali della
lingua, dove la presenza di un forte accento tonico tende a scolorire la qualità vocalica delle atone
fino alla cancellazione.
23
G. BELLUSCIO, A. MENDICINO, L. ROMITO, L’albanese standard: vocalismo e strategie
temporali, in «Quaderni del Dipartimento di linguistica dell’Università della Calabria», 8, 1997,
pp.105-116.
24
L. ROMITO, J. TRUMPER, Problemi teorici e pratici posti dall’isocronia, in «Quaderni del
Dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria», 10 (Serie Linguistica 4), 1993, pp.
89-118.

228
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

bërë vizitë [k̬ aˈvatːɾ̥ ɛbːəɾˈviːst] ‘è andata a fare visita’, 80 katër muaj (o)spedale
a Rimini [ˌkatɾ̥ muaj spəˈdaːl aˌrɪmənɪ] ‘quattro mesi di ospedale a Rimini’ (al
successivo § 2.4 altri esempi con commutazione di codice illustrano lo stesso
fenomeno sia nella varietà romanza sanmarzanese che nell’albanese)25.
Se da un lato si assiste alla riduzione/erosione vocalica in atonia dall’altra
questa varietà presenta anche un esteso inserimento di /ə/ atono, col quale
vengono regolarizzate le normali forme albanesi terminanti in consonante a
favore di un modello proprio del dialetto romanzo e dell’italiano che invece
fonotatticamente presentano come normale la terminazione in vocale: im kunat
[imʊkʊˈnatə] ‘mio cognato’26 ecc.
Ora, a parte i casi di cancellazione (in posizione interna o finale di parola,
raramente in posizione iniziale), il vocalismo atono si presenta qui uguale a
quello tonico, cioè con sei fonemi i quali possono subire la perdita di colore e la
conseguente realizzazione come [ə]. Risultano invece rari i casi in cui è /ə/ a
subire l’effetto di colorazione vocalica, e quando ciò avviene il passaggio è
sempre e solo in direzione di [u]27: 51 i vëllai [ivʊˈɫaj] ‘suo fratello’ (ma 60
[jiˈwɫaˑj] ‘suo fratello’, 71 [mɛjwvˈɫaːn] ‘con suo fratello’, 76 [ɪt̬ wˈvwa]), 1.6.

25
Altrettanto indicative sono le realizzazioni delle vocali atone nei prestiti romanzi riportati da De
Padova: Nəkɔla ‘Nicola’, spənalə ‘spalla (< spinale)’, dəskurs ‘discorso’, prədəkoj ‘brontolare (<
predicare)’, mastəkoj ‘masticare’, cfr. C. DE PADOVA, Anketa gjuhësore për të folmen arbëreshe
të San Marcanos, cit.
26
Altri esempi tratti da Savoia (1980) riguardano i casi di forme participiali in -u(a)r e che
appaiono regolarizzate in -urë: shëruar [ʃəˈɾuɾə] ‘guarito’, punuar [puˈnuɾə] ‘lavorato’, mbluar
[ˈmblʲuɾə] ‘riempito’, shkrehur [ˈʃkɾɛɣuɾə] ‘sparato’, krehur [ˈkɾɛɣuɾə] ‘pettinato’, njohur
[ˈɲːɔɣuɾə] ‘conosciuto’.
27
Su questa realizzazione posteriore (vowel backing) nel vocalismo atono concordano sia
SHKURTAJ, Shënime për të folmen arbëreshe të San Marcanos, cit., il quale riporta: shurbej,
zburthej, vurte:t, kushtu, che L.M. SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano..., cit. : [kuˈtu],
[kuˈmiʃ], [kunˈdɔɲ] (ma non nel caso di [muˈʧɔɲ] regolarmente derivato dal dialetto romanzo
(am)mucciare, si tratta quindi di un comune caso di centralizzazione /u/ > [ə]). G. Lafe non tratta
questo aspetto. Esempi si trovano già nelle prime attestazioni di Bonaparte (materiali ricevuti per
corrispondenza da padre D.L. De Vincentiis e a nostro parere da considerare come poco sicuri) e
Bonaparte (1890, raccolti personalmente dall’autore): kumíš (< këmishë) ‘camicia’, kupúts (<
këpucë) ‘scarpa’, kunborə (< këmborë) ‘campana’; di Hanusz: kumbòr ou ke̥ mbòr ‘campana’, e di
G. MEYER (Recensione a L.L. Bonaparte, Linguistic Islands of the Neapolitan and Sicily
Provinces of Italy, in «Zeitschrift für Romanische Philologie», Band 15, 1891, pp. 546-550):
kupútsɛ-tɛ < këpucët ‘scarpe’, kosul’a < kësula ‘berretto’, šapoka < shapka ‘cappello’ (ma
BONAPARTE, Albanian, Modern Greek, Gallo-Italic…, cit., p. 348 riporta šàrpɛkɛ). Dai dati
‘grezzi’ di De Padova, benché deboli da un punto di vista ‘scientifico’, privi di discussione e con
molte incongruenze interne (sono sufficienti due soli esempi tra i tanti: 22 dəkanisərə ‘fritto’ e 340
tiganis ‘friggere’; 74f mjessu ‘giugno’ ma 307 ğğuńńə) citiamo: 147 kumbora < këmbora
‘campana’, 180 mulağğə (sic!) < mëllagë ‘malva’, 156 kulunzə (sic) < vëllënxë. Per una schematica
descrizione del trattamento di [ə] atono in altre parlate arbëreshe rimandiamo a J. TRUMPER,
G. BELLUSCIO, Multivalency of the mid-central vowels: the case of Albanian (Poster presentato at
LabPhon 3, Oxford, August 1993 e ora consultabile in www.academia.edu/5153024/).

229
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

kështu bëhen [kuʃtuˈbˑətɛnɛ] ‘così si fanno’ (ma 96 [k̬ əʃˈtʊ]), 106 shërbenin
[ʃʊɾˈbɛtəðən] ‘lavoravano’.

2.1.5. Gruppi vocalici


Particolarmente interessante risulta il trattamento dei gruppi vocalici28 ua
[ˈua] e ie [ˈiɛ] che in questa parlata si presenta schematicamente con i seguenti
esiti:

Fig. 2 – Sviluppi interni dei gruppi vocalici ua, ie.

Ricordiamo che anche in questo caso si riscontra una enorme variabilità


idiolettale sia fonetica che fonologica e che non vi sono regole assolute che
possano descrivere o prevedere i diversi esiti, tuttavia un apprezzabile tentativo
di sistematicità è stato proposto da Savoia29 a riguardo delle forme verbali e
sostantivali.
Fatta eccezione per le parlate albanesi molisane che presentano il gruppo
vocalico uo [uˈɔ]~ [wɔ] e alcune parlate del crotonese in cui ricorre anche [ˈue],
tutte le parlate arbëreshe mantengono gli originali gruppi ua [ˈua], ie [ˈiɛ] o
presentano esiti secondari monottongati: [u(ː)], [i(ː)]30.
Oltre alla spiegazione del contatto linguistico con le varietà romanze
circostanti, non sembrano esserci altri elementi utili per motivare il meccanismo

28
Seguiamo la tradizione albanese che li definisce togje zanorë e preferiamo quindi il termine
‘gruppo vocalico’ al posto di dittongo, che invece riserviamo all’unione tra una vocale preceduta
o seguita dal glide /j/. Nel caso di questa parlata assistiamo anche al raro passaggio da gruppo
vocale a dittongo /ˈua/ > /wa/ e /ˈiɛ/ > /jɛ/.
29
SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano..., cit., pp. 8-9.
30
Siamo semplicemente in presenza di sviluppi paralleli, simili a quelli avvenuti nell’area
dialettale ghega, nell’Albania settentrionale, per cui riteniamo che sia assolutamente fuori luogo
proporre un qualsiasi paragone o vicinanza tra queste parlate e i dialetti d’Albania, soprattutto
quando la documentazione storica dimostra, come nel caso del monottongamento, che si tratta di
uno sviluppo seriore, così come dimostrato in G. BELLUSCIO, The Arbëresh Dialect of San Basile
from the 'Dottrina Cristiana' (1834) until today, in B. DEMIRAJ (a cura di), Sprache und Kultur
der Albaner – zeitliche und räumliche Dimensionen, München, Harrassowitz (in stampa).

230
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

di questo e di altri mutamenti linguistici31 che saranno descritti per il


consonantismo. Abbiamo già accennato al cambiamento che ha interessato i due
gruppi vocalici nella precedente nota 22, aggiungiamo ora un elemento a parer
nostro decisivo riguardante alcuni esempi di diversa realizzazione di vocali
dittongate nel dialetto di Manduria32 (nella stessa area dialettale in cui ricade
San Marzano) e nel dialetto urbano della città di Cosenza in cui si presenta una
diversa accentazione:
Manduria Cosenza
occhio uècchi ùacchju
olio uèju ùagliu
uomini uèmini ùammini
osso uèssu ùassu

Come si vede, San Marzano condivide questo tratto presente anche nella
varietà romanza con la quale interagisce. Già negli esempi raccolti da Bonaparte33
ricorre tale realizzazione ascendente: bekkuàmi, bekkuàmia (per i bekùari, e
bekùara [bɛˈkuaɾ] ‘benedetto, -a’, ‘contraddetta’ però da Hanusz il quale registra
la realizzazione originaria Bekùami, Bekùmia34. Non essendo questo il luogo per

31
Si vedano in W. LABOV, On the mechanism of linguistic change, in «Georgetown Monographs
on Language and Linguistics», 18, 1965, pp. 91-114, le valutazioni delle motivazioni storiche,
sociali e culturali che secondo l’autore sottostanno ai mutamenti fonetici in contesti anglofoni
degli Stati Uniti d’America. Non crediamo che nel caso della nostra parlata arbëreshe si possa
prendere in considerazione l’aspetto ‘prestigio’ linguistico ecc., mentre si può supporre piuttosto
un naturale mutamento dovuto alla pressione del contatto linguistico. Purtroppo non ci sono di
particolare aiuto sia i dati forniti dalle prime attestazioni del dialetto che quelli più recenti di
Savoia (sette informatori) e Shkurtaj (dati raccolti non in situ bensì in Albania dai componenti di
un gruppo folcloristico di S. Marzano) poiché entrambi forniscono sì dei dati linguistici ma solo
in modo complessivo (cioè dandoci una media e non una valutazione statistica), mentre per
un’analisi approfondita di tali mutamenti, seguendo il modello laboviano, sarebbe necessario un
gruppo campione più ampio e rappresentativo delle diverse classi sociali, culturali, di età e di genere.
32
Gli esempi per Manduria sono tratti da P. BRUNETTI, Vocabolario essenziale, pratico e illustrato
del dialetto manduriano, Manduria, Barbieri, 1989, pp. 375-6, riportati in grafia originale, per i
quali, non è possibile dire se la pronuncia sia /uˈe/ [ˈuecːi] o /we/: [ˈwecːi], in ogni caso si presenta
simile alla realizzazione ascendente dei dittonghi riscontrata a San Marzano; gli esempi per Cosenza
provengono da una parlante da noi intervistata e in tutti i casi l’esito dell’originaria <o> è [ˈu(ː)a]:
uacchju [ˈʊːacːʊ] ecc. Ricordiamo che Savoia solo nel caso degli esiti di ie richiama la realizzazione
dialettale romanza: «secondo una pronuncia genericamente meridionale dei dittonghi metafonetici»,
cfr. SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano di S. Giuseppe..., cit., p. 9.
33
BONAPARTE, Albanian, Modern Greek, Gallo-Italic…, cit., p. 344-45.
34
Bisogna sempre fare molta attenzione nel considerare le varie attestazioni come ‘assolute’ e
univoche. I materiali raccolti sul posto da Hanusz in verità non ‘contraddicono’ i dati di
Bonaparte pubblicati nel 1884 ma raccolti da un sacerdote non albanese, non linguista e,
soprattutto, senza alcuna conoscenza dell’albanese. Il prete De Vincentiis avrà sicuramente fatto
del suo meglio, ma ha trascritto ciò che ha ascoltato con l’uso di scarsi mezzi grafici e piegando i
foni dell’albanese, o meglio interpretandoli secondo il target ‘tipico’ del parlante italiano (si
pensi, per un attimo, alla difficoltà degli studenti italiani di oggi nell’individuare, pronunciare e

231
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

affrontare i dettagli della questione, ci limiteremo a dare solo il ventaglio di


realizzazioni basandoci sia sui nostri materiali che su quelli pubblicati in passato:
2.1.5.1 ua = [ˈua]35: mua [ˈmʊa] ‘a me’, muaj [ˈmʊaj] ~ [ˈmʊəj] ‘mese’;
2.1.5.2 ua > [uˈa]: shkruaheshim [ʃkɾuˈaɡəʃi] ~ [ʃkɾuˈanəʃəm] ‘ci scrivevamo’;
2.1.5.3 ua > [wa]36: të thuash [təˈhwaʃˑə] ‘che tu dica’, ke të thuash [k̬ aˈhwaʃ]
‘devi dire’, dua të vij [dwaˈviɲːə] ‘voglio venire’;
2.1.5.4 [we] (nei nostri materiali solo nelle varie realizzazioni del prestito
guerra37): të guerrës [t̬ əˈɡwɛrsɛ] ‘della guerra’, te guerra [tɛ̞ˈɣwɛra] ‘in
guerra’; Savoia dà [ˈkwɛʎɛ] ‘cavalli’;
2.1.5.5 ie = [ˈiɛ]: ndë krye [ndˈkɾiˑɛ] ‘in testa’, dielli [ˈdːɪɛaɫi] ‘il sole’;
2.1.5.6 ie > [iˈɛ]: djeg [diˈɛɡ] ~[djɛɡ] ‘io brucio (qualcosa)’ (da Savoia);
2.1.5.7 ie > [jɛ]: zienj [zjɛɲ] ‘cuocio’, ziejta [ˈzjɛda] ‘io cossi’, bieme [bjɛmːɛ]
‘dammelo’ (da Savoia);
2.1.5.8 [jɛ]: u vjeta [ʊˈbjɛtːa] ‘rimasi’, atje [ɐˈdjɛ] ‘lì’, si jetë [sˑiˈʝɛːðə] ‘come
sta’, nëng jetë [nəŋgəˈʝɛˑð] ‘non sta’, jesë [jɛsə] ‘era’;
2.1.5.9 altri esempi di dittonghi (lista non completa) estratti dal parlato
spontaneo analizzato sono38:
2.1.5.10 ij: dij [ˈdːij] ‘sapeva’, të vijë [ðvɪj] ‘che venisse’, vijën [ˈvijənə]
‘venivano’; ja: itja [ˈitja] ‘ero, stavo’; ji: t’jipji [ˈtjip̬ jɪ] ‘per dare’, i
vëllai [jiˈwɫaˑj] ‘il fratello’; ëj: arrëi [aˈrəj] ‘arrivò’; jo: ajo [aˈjɔ], jo
[iˈʝɔ] ~ [ʝˑɔː] ‘no’; ej: të vej [ðvɛj] ‘che andasse’; ja: ia lë [jaˈlˑɛ] ~
[jaˈlːɛ] ‘glielo/a lascio’.
2.2 Consonantismo
Ci limiteremo in questo paragrafo a una trattazione generale delle
particolarità più rilevanti del consonantismo tralasciando i fenomeni sporadici
(che pure compaiono nelle registrazioni) e le variabili meno comuni dovute
piuttosto alla normale variazione idiolettale.

trascrivere le diverse realizzazioni di th). Dalla varietà/variazione delle prime attestazioni di


questa parlata, emendate le incongruenze interne e le sviste oggettive, risulta già per quel tempo
una variabilità dialettale-idiolettale che non si discosta molto dalla situazione attuale.
35
Savoia, Lafe e Shkurtaj registrano anche la variante [ˈuɛ] alternante di [ˈua]: grua [ˈɡɾuɛ] ‘donna’.
36
Il dittongo [wa] è presente anche come non esito di /ˈua/ e ciò è attestato nei prestiti romanzi
come: guanjuni [ɣwaˈɲʊnɪ] ‘il bambino, il ragazzo’, kuannu [ˈkwanːʊːːː] ‘quando’, o è l’esito di
particolari condizioni fonetiche come nel caso di yt vëlla [ɪt̬ ˈwvwa] ‘tuo fratello’.
37
Altre ricorrenze nel parlato spontaneo analizzato sono: të guerra [t̬ əˈɡwɛra], ndë guerrë
[ndəˈɣwɛra], të guerrë [tʊˈɡwɛr], të guerrë [t̬ əˈɡwɛˑr] si noti in questi esempi la relativa stabilità
del dittongo in confronto alla variabilità di të e della occlusiva velare iniziale /g-/.
38
Abbiamo lasciato fuori dalla lista altri dittonghi come: /uw/: pupullarë [pʊwˈɫaˑɾə] ‘popolari’,
/jo/: destinacjonën [dˑɛst̬ inaˈʦjɔnən] ‘la destinazione’, /ia/: kërdia [k̬ əɾˈðia] ‘credevo’, /wo/: kuore
[ˈkwɔˑɾə] ‘cuore’ ecc. tutti prestiti romanzi con evidenti adattamenti alla pronuncia locale.

232
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

2.2.1 Sonorizzazione
La principale specificità riscontrata nel consonantismo è senza dubbio il
‘diffuso’ effetto di sonorizzazione delle consonanti sorde. L’impressione uditiva
è confermata anche dalla verifica sui sonogrammi di un buona porzione del
parlato continuo registrato. Diversamente da altre parlate arbëreshe in cui si
assiste alla (quasi) regolare desonorizzazione di consonanti sonore in posizione
finale di parola, nella parlata di San Marzano tale fenomeno è sconosciuto
anche perché in parte esso viene inibito dal mantenimento (inserimento) di
elementi vocalici, come già discusso nel precedente § 2.1.4. Concordiamo
pienamente con Savoia39 nel considerare tale fenomeno come un processo
variabile dipendente da ‘stile di pronuncia e da fattori extralinguistici’40.
Esempi di sonorizzazione delle consonanti sono riportati già da Bonaparte,
Hanusz e Meyer, i cui dati confermano storicamente la variabilità del fenomeno.
Diamo solo qualche esempio estrapolato tra i tanti casi di sonorizzazione che
ricorrono nel materiale registrato: 2 kur tata im [kuɾˈðat̬ aim] ‘quando mio
padre’, 66 lartëtë [ˈlaɾtəðə] ‘sopra’, 69 im kunat atje [ˌimukuˈnaːðadjɛ], 60 të
tim shoqit [t̬ əðəmˈʃɔcəðɪ], 98 të mos të vij maj më [ðmɔsðvɪjˈmaimʌ] ‘che non
venga più’, 76 si jet e si nëng jet it vëlla [sˑiˈʝɛːðə ɛ s̬ i nəŋɡəʝɛˑðɪt̬ wˈvwa], 74 ti
kushullon me Krishtin [t̬ ɪk̬ ʊʃʊˌlɔnmɛˈkɾiʃtədɪ] ‘tu parli con Cristo’.
2.2.3 Durata consonantica
Altro particolare aspetto del consonantismo è l’anomala presenza di
consonanti geminate, fenomeno estraneo all’albanese e alle parlate arbëreshe e

39
Savoia spiega molto bene il processo di sonorizzazione delle ostruenti tramite una precisa e
chiara regola fonologica, contestualizzandolo all’interno dell’area dialettale pugliese e
confrontando la situazione di San Marzano anche con i dati provenienti dalle comunità
ellenofone: «al processo di sonorizzazione operante in questo dialetto sembrano corrispondere tipi
simili di pronuncia nei dialetti romanzi attuali dell’area tarantina o salentina (…) inoltre, almeno
in alcune varietà griche più a sud di S. Marzano esiste un processo di sonorizzazione analogo»,
cfr. SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano..., cit., pp. 11-12.
40
Variabilità vi è anche nell’unico caso di desonorizzazione /ð/ > [t] che ricorre solo in pochi casi
(nessuno nel nostro materiale sonoro) tanto da non essere stato rilevato neanche in SHKURTAJ,
Shënime për të folmen arbëreshe të San Marcanos, cit., p. 166. Nelle attestazioni di fine XIX
secolo ricorrono in Hanusz gli esempi: tē = dhe ‘terra’, te̥ mb = dhëmb ‘dente’, te̥ ndr = dhëndërr
‘genero’ (per cui il fenomeno sembra circoscritto solo alla posizione iniziale di parola), a questi
vanno aggiunti altri esempi registrati da Savoia in cui il mutamento avviene anche in posizione
interna. Anche in questo caso la parlata di San Marzano presenta un fenomeno fonetico condiviso
con i dialetti romanzi circostanti, come dimostrano i regolari casi di desonorizzazione di /d/ nel
dialetto di Manduria: tòrmiri ‘dormire’, ti ‘di’, toppu ‘dopo’, tonna ‘donna’ ecc., cfr. P.
BRUNETTI, Vocabolario essenziale, pratico e illustrato del dialetto mandriano, cit. Bisogna quindi
pensare per San Marzano ad un’evoluzione /ð/ > [d] > [t], considerato che /ð/ > [d] è molto
frequente anche nella parlata odierna, come risulta dal materiale analizzato, nel quale però,
sorprendentemente, sia per/ð/che per /d/, non ricorre nemmeno un caso di desonorizzazione. Per
una trattazione approfondita di questo fenomeno, basata anche su recenti analisi di tipo
elettroacustico, rinvio al § 2.2 del contributo di A. ROMANO, in questo volume.

233
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

che sembra essere soltanto di tipo fonetico non essendo stata ancora investigata
la sua eventuale funzionalità oppositiva nel sistema.
Presentiamo qui, per la prima volta, alcuni dati numerici ottenuti da un
piccolo numero (non statisticamente rappresentativo ma qualitativa-mente
indicativo) di casi estratti sempre dal parlato spontaneo. Prima di tutto va detto
che a) i casi sono stati scelti tra quelli meno problematici per la misurazione, b) la
scelta è stata effettuata anche sulla base della nostra precedente trascrizione
fonetica eseguita solo su base uditiva e non strumentale. Il risultato ottenuto
dimostra che la diversa percezione della durata di alcune consonanti risulta tale
solo nel confronto interno alla parlata e che questa differenza non sempre viene
mantenuta, come accade nel caso di due ripetizioni contigue di una stessa parola
(p. es. kapòta ‘capii’: 1. 86,94 ms., 2. 38,50 ms.; dritë ‘luce’: 1. 126,94 ms., 2.
90,27 ms41). Dal risultato ottenuto risulta un rapporto tra consonanti lunghe e
brevi pari a 1:1,69.
Se si confrontano i nostri risultati con quelli presentati da Romano42 risulta
evidente che alcune delle realizzazioni registrate a San Marzano presentano una
durata simile alle geminate dei dialetti salentini, mentre altre si posizionano
all’interno dell’insieme delle scempie (cfr. Tab. 2). Resta tuttavia ancora oscuro
il motivo per cui i parlanti realizzano le consonanti come ± lunghe, così come
pure stupiscono i casi di 115 dritë e di 116 tub:arinë (esclusi dal calcolo) i
quali, benché uditivamente siano stati ritenuti rispettivamente come non
geminato e geminato, di fatto essi presentano le durate, il primo di una geminata
(126,94 ms) e il secondo di una scempia (93 ms).
Bisogna infine ribadire che l’albanese manca strutturalmente di
un’opposizione fonologica tra consonanti geminate e scempie e che gli albanesi
e gli arbëreshë hanno spesso difficoltà nel realizzare il target delle geminate
italiane così come pure ad applicare le relativamente più difficili regole del
raddoppiamento fonosintattico.

41
In tabella è stata inserita in entrambi i casi la prima realizzazione.
42
Non possiamo qui scendere nei dettagli della questione, cosa che richiederebbe innanzitutto un
corpus di dati più robusto e sicuramente un’indagine ad hoc, nonché un’analisi approfondita per
valutare se vi siano e quali siano eventualmente le cause che producono tale fenomeno, come pure
per stabilire se vi sono casistiche differenti all’interno del sistema e quali siano i contesti e le
cause che producono l’aumento della durata consonantica. Ringraziamo il collega A. Romano per
averci dato la possibilità di leggere in anteprima il suo contributo che compare in questo volume e
per aver messo a nostra disposizione i recenti risultati ottenuti dalla sua indagine elettroacustica
sui dialetti salentini e presentati al § 2.3.

234
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

/C:/ ms /C/ ms
2 vet:e t 151,14 14 atëherna t 60,69
5 set:embre t 168,03 8 itja t 91,48
22 ka b:ari b 124,26 32 kapota p 86,94
37 vi:n:i n 133 33 pata t 101
[116 tub:arinë b 93] 67 ditë t 79,58
91 tubë b 91
[115 dritë t 126,94]
Tot. 576,43 Tot. 510,69
x̄ 144,11 x̄ 85,12
σ 19,49 σ 13,84
Tab. 1 – San Marzano. Misurazioni di durata consonantica

C (x̄ ms) C: (x̄ ms)


San Marzano di S. G. 85,12 144,11
Dialetti salentini 70÷90 110÷150
Tab. 2 – Confronto tra la durata consonantica dei dialetti salentini
e l’albanese di San Marzano.

2.2.4 Nessi consonantici


Sulla base dell’intuizione di Solano (1979)43 e sulla sua suddivisione delle
parlate arbëreshe in base al diverso esito dei nessi consonantici kl, gl, pl, bl e fl,
è oramai noto che questa parlata fa parte dell’area arcaica conservativa. Tutti i
nessi sono mantenuti (anche se talvolta con modificazioni fonetiche come nel
caso 40 të klanj = qaj [təkɾaːɲə] ‘che io pianga’) e presentano realizzazioni
allofoniche del fonema laterale che si può presentare sia come più o meno
palatalizzato [lj] che come [ʎ]. L’esempio 40 è l’unico caso che ricorre nel
frammento di parlato da noi analizzato e trascritto, per cui per gli altri
riportiamo esempi tratti da Savoia (1980): gjuha [ˈɡlʲuka] ~ [ˈɡʎuka] ‘la lingua’,
plak [ˈplʲakə] ‘vecchio’, mbluar [ˈmblʲuɾə] ‘riempito’.
2.3 Mutamenti consonantici
Possiamo rappresentare in modo sinottico le principali mutazioni ricorrenti
nel consonantismo di questa parlata con i due grafici in Fig. 3, in essi diamo le
possibili variazioni, tutte allofoniche e non strutturali, sensibilmente variabili sia
in base al parlante che al contesto (e spesso anche nello stesso contesto la
realizzazione può essere diversa, come nel caso della parziale o totale
sonorizzazione dei contoidi sordi).

43
F. SOLANO, I dialetti albanesi dell’Italia meridionale, Castrovillari, Circolo Cult. Zjarri, 1979.

235
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

Fig. 3 – Rappresentazione sinottica complessiva


dei principali mutamenti consonantici.
I grafici vanno letti limitatamente ai singoli passaggi e mai come fasi
successive (per es. /θ/ può diventare [h] ma questo esito non subisce un
successivo passaggio e diventare [f]; le frecce indicano le direzioni dei
mutamenti, le doppie frecce indicano mutamenti reciproci). Dal grafico si
deduce che la classe di contoidi maggiormente interessata dai mutamenti
fonetici è quella delle fricative, mentre tra le occlusive sono maggiormente
interessate le dentali e le velari.
Diamo ora l’elenco dei mutamenti consonantici seguendo l’ordine dello
schema e corredati da esempi:
2.3.1 /ð/44 > [t]: registrato già nelle prime attestazioni di Bonaparte, Hanusz e
Meyer (matə ‘grande’) non ricorre nel parlato spontaneo raccolto nel 2014,
Savoia registra un buon numero di casi: u dredh [u ˈdɾɛtə] ‘io torco’, u
vjedh [u ˈvːjɛtə] ‘io rubo’, i madh [i ˈmatə] ‘grande’, u e lidh [u ɛ ˈʎːitə] ‘io
lo lego’ tutti però esiti alternanti con /d/ e /ð/ in base a una «variabilità non
inerente, legata a gruppi di parlanti, a blocchi d’uso, complementari, solo in
parte discriminati dall’ètà»45.
2.3.2 /ð/ > [d]: prime attestazioni in Hanusz: dàrd-a (= dardha) ‘pera’, ūd (= udhë)
‘strada’, mad (= madh) ‘grande’, bard (Bonaparte bardə; = bardh) ‘bianco’
ecc., Meyer: derpra (< dhelpra) ‘volpe’;
2.3.3 /d/ > [t]: mutamento secondario come possibile esito di 2.3.2 (cfr. nota 40);
2.3.4 /t/ > [d]: Bonaparte: Spirti Šéndidi = shë(n)jtit ‘Spiritus Sancti’.
2.3.5 /t/ > [ð]: passaggio non regolare di sonorizzazone e lenizione; esempi dalle
registrazioni: 2 kur tata im [kʊɾˈðat̬ aim] ‘quando mio padre’, 76 si jet e si

44
Ribadiamo che i mutamenti non sono regolari e automatici, per cui ricorrono anche casi dove i
fonemi originali sono preservati, per es. /ð/ è mantenuto in 78 ardhur [aɾðɾ] ‘venuto’, [ɛˈðɛ] ‘e,
anche’ ecc.
45
SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano..., cit., p. 10.

236
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

nëng jet it vëlla [sˑiˈʝɛːðə ɛ s̬ i nəŋɡəʝɛˑðɪt̬ wˈvwa] ‘come sta, come non sta tuo
fratello’.
2.3.6 /θ/ > [h]: Hanusz hom (= thom) ‘dico’, hik (= thikë) ‘coltello’, ma: θìńa (=
thënja) ‘dicevo’ θrón (= thron) ‘sgabello’, ùθul (= uthull) ‘aceto’, giθ (=
gjithë) ‘tutto’, con mantenimento di /θ/. Dai nostri materiali: 25 ai tha [ai
ha] ‘lui disse’, 4 më kanë thënë [mk̬ anˑəˈhənːə] ‘mi hanno detto’, 46 thom
[həm] ‘dico’, 53 kam thënë u [kam həˈnːu] ‘ho detto io’, 65 thotë se
[hɔtəs̬ ɛ] ‘dice che’, però 65 thonë gjithë46 [θ̬ənəɟiθː] ‘dicono a tutti...’.
2.3.7 /h/ > [f]: è utile ricordare che nel suo primo scritto sull’albanese in Terra
d’Otranto (materiali ricevuti per corrispondenza) Bonaparte (1884) riporta i
casi di finja (= thonja) ‘dicevo’ e baf (= bath) ‘fava’ che vengono
successivamente corretti nel 1890: batth, gitthə, ecc.; a questi aggiunge
funjə (< hunj) ‘mazzate’ (lett. ‘pali’), fund (< hundë) ‘naso’, mafiér (<
mahjere) ‘coltello’.
2.3.8 /h/ > [ɣ] e [ɣ] > [ɡ]: Hanusz: šòg (< shoh) ‘vedo’, nìgni (< njihni) ‘conoscete’,
gljug (< gluhë) ‘lingua’; 21 shkruaheshi [ʃkɾuˈaɡəʃi] ‘ci si scriveva’;
2.3.9 /k/ > [ɡ]: 26 kur kam zënë [kuɾˌɣaməˈzən] ‘quando ho iniziato’; (Meyer bugrɛ
< bukur ‘bello’);
2.3.10 /θ/ > [s]: non ricorrono casi nel materiale da noi analizzato; due soli esempi
sono riportati da Lafe (puth [pus] ‘io bacio’) e Savoia (i thatë [isːaːt]
‘secco’);
2.3.11 /s/ > [z], /z/ > [ʒ] e /ʃ/ > [ʒ]: in questi tre casi, peraltro molto comuni in
buona parte delle parlate albanesi, siamo di fronte a fenomeni di
assimilazione anticipatoria: këmishë [kuˈmiʃə] ~ [kuˈmiʒə] ‘camicia’, u
ziheshnja [uˈziɣəʒɲa] ‘mi arrostivo, mi cuocevo’ (da Savoia), dal nostro
materiale: 3 im shoq [imˈʒ̊ɔcɪ] (~ [ˈiməʃɔcɪ]).

2.4. Code-switching
Chiudiamo questa parte dedicata alla fonetica, ritornando al fenomeno di
interferenza già anticipato nel precedente § 1 (e le note 6 e 7) che a nostro
avviso spiega in toto la variazione fonetica/fonologica in questa parlata che,
come le altre parlate periferiche del Catanzarese, è stata pesantemente investita
dalla pressione dialettale romanza. Nella nostra trentennale esperienza di ricerca
sul campo nelle comunità, non abbiamo memoria di un così frequente cambio di
codice come quello testimoniato nei quindici minuti di parlato spontaneo qui
preso in esame, dal quale abbiamo estrapolato otto esempi che riconducono a un
altro contesto in cui i parlanti che interagivano erano arbëreshë e albanesi giunti
in Italia dopo con l’esodo degli inizi anni ’90 dello scorso secolo47. Nel caso

46
Nei quindici minuti di parlato spontaneo ricorrono 20 casi di /θ/ > [h], tutti esiti della
coniugazione del verbo thom ‘dico’, mentre solo in quattro casi /θ/ viene pronunciato come tale,
tre volte in gjithë [ɟiθ] ‘tutto, -a, -i, -e’ e una volta in e tharë [ɛˈθaɾ] ‘secca’.
47
False partenze, traduzioni di interi sintagmi, ‘confidenza/ammiccamento’ linguistici, sono
analizzati e spiegati in M. MADDALON, G. BELLUSCIO, Italo-Albanians and Albanians: a

237
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

presente non sussistono le stesse condizioni analizzate nel 2002, e forse la


commutazione potrebbe essere collegata alla presenza di uno degli intervistatori
‘non arbëresh’. L’informatrice si trovava tuttavia nella propria abitazione e
interagiva linguisticamente anche con la figlia e la nipote e anche se il contesto
non era del tutto neutro e naturale, non riusciamo comunque a spiegarci questo
continuo passaggio tra italiano (dialetto) e albanese. Il materiale che qui
proponiamo dimostra, più di qualsiasi altra prova come i due codici (albanese e
romanzo) convivano e si fondino perfettamente in uno stesso parlante, con una
continua azione osmotica che lascia passare dall’uno all’altro continue
modificazioni fonetiche e, come si vedrà nel paragrafo seguente, anche
morfologiche, sintattiche e lessicali.
4 mio më… im shoq [mio mə… ˈiməˌʃɔcɪ] ‘mio ma(rito)… mio marito’;
22 agghjë avutë sta kartollina ddë Bbari [aɟəˌvutə stakaɾthɔˈlːina dəˈbːaːɾɪ]
‘ho avuto (ricevuto) questa cartolina da Bari’;
22a kam patur këtë kartolinë ka Bari [kamə patɾə cɔkaɾtọˈlːinɛ kaˈbːaːɾɪ ‘ho
avuto questa cartolina da Bari’;
32 al cuore kapoda u… ndë zëmbr kapote u [alˈkwoɾɛ kapodaˈu |
ndəˈzəmbɾ k̬ ap̬ ọt̬ ɛˈu] ‘al cuore capii io’;
41 hannë venut’ gli a(mici)… kanë ardhë li amiçi [ˌanəvənut ʎiˈa … |
kaˌnaɾðʎiaˈmiˑʧə] ‘sono venuti gli amici’ (…) ma ç’ka… ma c’è
succè… ç’ka suçëdurë? [maʧk̬ aːː maʧːɛsːuˈʧˑɛ ʧk̬ asːuʧːəˈduːˌɾə] ‘ma
che è… ma che è succe’… che è successo?’;
42 hann’ pigghja… kanë marrë [ˌanpiˈɟaˀ … | kanˈmar] ‘hanno preso’;
49 u giurn dë la… ditën dë lla [uˈʤuɾnðgaː | ˈdːitˑənðla] ‘il giorno della…’;
79 pur’ che erë na cos’ dë nièntë… e ish një punë e mosgjë [pʊɾək̬ ɾɛˈɛɾə
nakosdəˈnjɛntə | ˀɛ iʃɲəpʊnːɛː mɔsəɟəˑ].

3. Morfologia

3.1. La morfologia nominale


La varietà di San Marzano, in accordo con le altre parlate arbëreshe, si
presenta come una lingua generalmente flessa, dato che nomi, pronomi e
aggettivi subiscono modificazioni a seconda del genere, numero e caso. Il
genere è costituito dalle classi dei temi maschili e femminili, cui si affianca, in
una posizione marginale, il neutro, che è riservato a participi e aggettivi
sostantivati e a nomi-massa; cfr. [ˈmiʃtə] ‘la carne’, [ˈvaʎət] ‘l’olio’, [tə
ˈhəŋɡɾətə] ‘il mangiare’. La categoria del numero è espressa dal singolare e dal
plurale per la cui formazione le varietà albanesi dispongono di vari meccanismi:

problematic case of (socio-)linguistic contact, in R. RAPP (a cura), Sprachwissenschaft auf dem


Weg in das dritte Jahrtausend, Akten des 34. Linguistischen Kolloquiums in Germersheim, vol I,
Mainz, Peter Lang, 2002, pp. 193-202.

238
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

uscite speciali tra le quali i morfemi /-(əɾ)ɛ/ nei sostantivi, /a/ per gli aggettivi48,
cfr. sg. /ˈkɾakə/ ‘braccio’ vs. pl. /ˈkɾakɛ/ ‘braccia’, /ʃtəˈpi/ ‘casa’ vs. /ʃtəˈpiɾɛ/
‘case’ , sg. /ˈcɛn:ə/ ‘cane’ vs. pl. /ˈcɛn:ə/ ~ /ˈcɛn:ɛ/ ~ /ˈcɛn:əɾɛ/ ‘cani’, /i ˈǝmbľǝ/
‘dolce’ vs. /ˈtǝmbľa/ ‘dolci’; modificazioni della vocale radicale (metafonia)
/ˈpľakə/ ‘vecchio’ vs. /ˈpľɛcə/ ‘vecchi’, o della consonante finale
(palatalizzazione), per effetto di antiche uscite di plurale in seguito cadute; non
mancano, a livello residuale, formazioni di plurale irregolare cfr. sg. /ˈɡɾuɛ/
‘donna’ vs. pl. /ɡɾa/ ‘donne’, accanto a processi di livellamento che hanno
favorito l’estensione del tema non marcato di singolare sul plurale, cfr. /ˈdɔɾə/
sg. ‘mano’ vs. /ˈdɔɾə/ pl. ‘mani‘ (cfr. nell’albanese: sg. dorë vs. pl. duar). Uno
dei tratti che l’arbëresh di San Marzano condivide con tutte le varietà albanesi
della diaspora e della madrepatria e che rappresenta uno dei fenomeni linguistici
più caratteristici delle lingue dell’area balcanica, è costituito dalla posposizione
dell’articolo determinativo, anche in combinazione con le marche casuali, /i, u/
per il maschile, /a/ per il femminile e /tǝ/ per il neutro nel singolare, mentre nel
plurale si incontra l’unica forma /tǝ/, cfr. /ˈðambi/ ‘il dente’, /ˈkɾaku/ ‘il
braccio’, /ˈud:a/ ‘la strada’, /ˈɡɾuvja/ ‘la donna’ (vs. forma indeterminata
/ˈɡɾuɛ/). A differenza delle parlate romanze nelle quali la proprietà di caso e
definitezza sono espresse in forma analitica attraverso un sistema di
determinanti e di preposizioni, nell’arbëresh di San Marzano e in tutte le varietà
albanesi i formativi di caso e definitezza sono incorporati al nome per formare
una flessione specializzata che si contrappone al tipo indeterminato. A titolo di
esempio si forniscono alcune frasi contenenti forme determinate e
indeterminate, tratte dalle conversazioni con i nostri informatori di San
Marzano. Si noti nelle frasi seguenti la marca di caso e definitezza è separata
dal tema nominale tramite trattino e che il caso genitivo è segnalato da un
articolo preposto che caratterizza anche la maggior parte degli aggettivi in
questa e in altre varietà arbëreshe:
(1) acc. sg. m. det.:
/u ˈduǝ ʃɔk vaˈɲ:un:ǝ-ni/
‘io voglio vedere il bambino’
(2) acc. sg. f. det.:
/aˈp:ena ʦǝ ľam ˈfacǝ-nǝ/
‘non appena lavammo la faccia’
(3) gen. sg. m. det.:
/i ˈwła-i tǝ im ˈʃɔcǝ-ti/
‘il fratello di mio marito’
(4) gen. sg. f. det.:
/kuɾ ˈiʃi ˈmot-i tǝ ˈɡwɛɾ-sɛ/
‘quando era il tempo della guerra’

48
Cfr. SAVOIA, La parlata albanese di S. Marzano..., cit., p. 19.

239
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

Nella flessione indeterminata si registra invece la tendenza allo spostamento


della marca casuale nei determinanti, come si rileva dagli esempi tratti dal
contributo di Savoia49:
(5) acc. sg. m. indet.:
/u ˈbjɛt:a me vaˈɲ:un:ǝ ˈvet/:
‘io rimasi col bambino da sola’
(6) gen. sg. f. indet.:
/tǝ ˈɲǝ-uti ˈpuʎ:ɛ/
‘di una gallina’
(7) gen. sg. m. indet.:
/tǝ ˈɲǝ-uti ˈcɛn:ǝ/
‘di un cane’.

3.2. La morfologia verbale


La dialettica di conservazione vs. innovazione si incontra anche nel sistema
verbale che si caratterizza per l’estensione della formante in nasale, tipica della
formazione di presente della prima coniugazione, ai temi in vocale e ai
numerosi prestiti romanzi. Nella corrispondente formazione di aoristo occorre il
morfema /t/ [cfr. esempi in (8)], assecondando una tendenza che si manifesta
anche nelle altre varietà arbëreshe, dato che la più comune formazione di aoristo
con morfema /v/ non presenta invece alcuna produttività, ma è applicata a un
gruppo chiuso di verbi, che solitamente rientrano tra gli ‘irregolari’ o ‘supplettivi’
(da un punto di vista prettamente sincronico) [cfr. esempi in (9)]:
(8) aor. I sg. /ˈfʎet:a/, II /ˈfʎet:e/, III /ˈfʎet:i/, I pl. /ˈfʎet:əmə/, II /ˈfʎet:ətə/, III
/ˈfʎet:ənə/, (alb. I sg. fjeta, II fjete, III fjeti, I pl. fjetëm, II fjetët, III fjetën), cfr. pres.
/fʎeɲ/ ‘dormire’50; aor. I sg./ˈpit:a/, II /ˈpit:e/, III /ˈpit:i/, I pl. /ˈpit:əmə/, II /ˈpit:ətə/,
III /ˈpit:ənə/, (alb. I sg. piva, II pive, III piu, I pl. pimë, II pitët, III pitën), cfr. pres.
/piɲ/ ‘bere’.
(9) aor. I sg. /ˈklev:a/vs. I pl. /ˈklev:əmə/ ‘(io) fui vs. (noi) fummo’ (alb. I sg. qesha vs. I
pl. qemë), I sg. /ˈtav:a/51/ vs. I pl. /ˈtav:əmə/ ‘(io) diedi vs. (noi) demmo’ (alb. I sg.
dhashë, vs. I pl. dhamë), I sg. /ˈpav:a/ vs. I pl. /ˈpav:əmə/ ‘(io) vidi vs. (noi)
vedemmo’ (alb. I sg. pasha vs. I pl. pamë), I sg. /ˈrav:a/ vs. I pl. /ˈrav:əmə / ‘(io)
caddi vs. (noi) cademmo’ (alb. I sg. rasha vs. I pl. ramë)’, I sg. /ˈhavva/ vs. I pl.
/ˈhavvəmə/ ‘(io dissi) vs. (noi) dicemmo’ (alb. I sg. thashë vs. I pl. thamë).

49
Ivi, p. 19.
50
Si noti che viene regolarizzata l’alternanza /fʎe/ (tema di presente) ~ /fje/ (tema di aoristo) che
occorre invece in molte varietà albanesi.
51
Per l'esito *[ð] > [t] in inizio di parola, cfr. SAVOIA, La parlata albanese di San Marzano..., cit.,
p. 10.

240
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

Negli esempi sopra riportati si possono inoltre osservare alcuni fenomeni di


carattere fonologico tipici di questa parlata, quali l’allungamento consonantico
nella formante di aoristo e la sua estensione a tutte le persone del singolare e
plurale. Si nota una buona conservazione anche delle forme verbali
caratterizzate da alternanze morfonologiche del consonantismo e del vocalismo
della base radicale per effetto di fenomeni apofonici e metafonetici:
(10) pres. ind. I sg. /ˈmjɛʎǝ/ vs. I pl. /ˈmjɛʎ:ǝmi/ vs. aor. I sg. /ˈmɔʎ:a/ ‘(io) mungo vs.
(noi) mungiamo vs. (io) munsi’; pres. ind. I sg. /ˈdjɛɡǝ/ vs. aor. II sg. /ˈd:ɔɟ:ɛ/ ‘(io)
brucio vs. (tu) bruciasti’.

Un’innovazione significativa, indizio di una certa iconicità morfologica,


riguarda la costituzione delle forme non attive di imperfetto che si distinguono
dalle corrispondenti attive solo per la presenza vs. assenza della marca /s/, che
indica la categoria marcata52, cfr. imperfetto attivo, non marcato: /-ɲa/, /-ɲε/, /-
i/, vs. non-attivo, marcato ( più morfologia): /-ʃ-ɲa/, /-ʃ-ɲε/, /-ʃ-i/ ecc.

3.3. Alcune osservazioni sulla morfosintassi

A livello morfosintattico è interessante notare l’occorrenza di un particolare


costrutto che costituisce un fenomeno di convergenza balcanica53, modellato
probabilmente sul greco come sembra confermare la sua presenza anche in
dialetti dell’Italia meridionale, sia di area grecanica che romanza (Salento,
Calabria meridionale, Sicilia)54. Si tratta di un tipo di subordinazione, introdotta
generalmente da un complementatore (ma nella varietà di San Marzano manca)
52
Cfr. M. GENESIN, J. MATZINGER, La formazione di imperfetto e aoristo nella varietà arbëreshe
di San Marzano di San Giuseppe (TA): alcune osservazioni fra diacronia e sincronia, in Edhe
100! Studi in onore del prof. Francesco Altimari in occasione del 60° compleanno, cit., pp. 208
ss.
53
G. ROHLFS, La perdita dell’infinito nelle lingue balcaniche e nell’Italia meridionale, in Omagiu
lui Iorgu Iordan cu prilejul implinirii a 70 de ani, Bucureşti, Editura Academiei RPR, 1958, pp.
733-744; B. D. JOSEPH, The Synchrony and Diachrony of the Balkan Infinitive: A Study in Areal,
General, and Historical Linguistics. Cambridge, Cambridge University Press, 1983; I. KRAPOVA,
Subjunctives in Bulgarian and Modern Greek, in M.L. RIVERO, A. RALLI (a cura di), Comparative
Syntax of Balkan Languages, Oxford, Oxford University Press, 2001, pp. 105-126.
54
J. TRUMPER J., L. RIZZI, Il problema sintattico di CA/MU nei dialetti calabresi mediani,
Quaderni del Dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria 2, 1985, pp. 63-76;
A. CALABRESE, The Sentential Complementation of Salentino: a Study of a Language without
Infinitival Clauses, in A. BELLETTI (a cura di), Syntactic Theory and the Dialects of Italy, Torino,
Rosenberg & Sellier, 1993, pp.28-98; S. CRISTOFARO, Aspetti diacronici e sincronici della
subordinazione infinitiva in alcuni dialetti calabresi e pugliesi e nelle lingue balcaniche: una
prospettiva tipologico-funzionalista, in P. RAMAT, E. ROMA (a cura di), Sintassi storica. Atti del
XXX Congresso Internazionale della Società di Linguistica Italiana, Roma, Bulzoni, 1998, pp.
495-518; E. M. REMBERGER, Morfosintassi verbale dei dialetti neogreci in Calabria, in W. BREU
(a cura di), L'influsso dell'italiano sul sistema del verbo delle lingue minoritarie, Bochum,
Brockmeyer, vol. 29, 2011, pp. 17-39.

241
La varietà arbëreshe di San Marzano di San Giuseppe

col verbo incassato di forma finita, selezionato da verbi modali quali ‘potere,
dovere, volere/occorrere’: si tratta di un fenomeno di convergenza balcanica,
modellato probabilmente sul greco come sembrerebbe confermare la sua
presenza anche in dialetti dell’Italia meridionale (Salento, area calabrese e
siciliana):
(11) /u ˈdua tǝ ʃɔkǝ vaˈɲ:unǝni/
‘(io) voglio vedere il bambino’
(12) /nǝŋɡ do preokupuket ka fatte tǝ mia/
‘non si vuole preoccupare dei fatti miei’
(13) /kamǝ ˈzǝnǝ tǝ ľɪʤɔɲǝ cɔ kaɾtuˈlinɛ/
‘ho iniziato a leggere questa cartolina’.

Analogamente alle altre varietà arbëreshe, si incontrano delle strutture


costruite da una forma invariabile dell’ausiliare ‘avere’ (kam) o ‘volere’ (dua),
seguite originariamente dal modo congiuntivo, che vengono utilizzate come un
‘futurum necessitatis’ o ‘voluntatis’ dato che il valore modale prevale rispetto a
quello temporale/aspettuale55; dal punto di vista formale si può inoltre rilevare
che l’introduttore del congiuntivo /tǝ/ ha subito un processo di univerbazione
con il costituente precedente56. Nella nostra varietà sembra però prevalere il
modello con ausiliare kam, di cui si fornisce sotto un esempio proveniente dalle
nostre registrazioni (si noti che in questo caso il carattere necessitativo è del
tutto esclusivo):
(14) /al:albaˈnese katǝ kuʃulɔʃ/
‘all’albanese devi parlare’

Riflette invece un fenomeno dovuto al contatto con le vicine varietà


romanze la struttura progressiva formata con l’ausiliare ‘stare’ (in altre aree
arbëreshe occorre ‘essere’)57:
(15) /ˈjɛsǝ ɛ ˈʎʎaɡɡǝmǝ/
‘mi sto lavando’.

55
L.M. SAVOIA, Alcuni elementi per una classificazione dei dialetti arbëreshë, in F. ALTIMARI,
L.M. SAVOIA (a cura di), I dialetti italo-albanesi, Roma, Bulzoni, 1994, p. 191; SHKURTAJ,
Shënime për të folmen arbëreshe të San Marcanos cit., p. 131. F. Altimari ipotizza che la
formazione di futuro con ausiliare „avere’, attestata nell’arbëresh, sia un balcanismo non più
presente nella maggior parte delle lingue di quell’area, sorto sulla base del costrutto del latino
balcanico habeo ad cantare, alternativo al tipo cantare habeo che si è sviluppato nel resto della
Romània; cfr. F. ALTIMARI, Il futuro necessitativo dell’albanese d’Italia: influenza italo-romanza
o arcaismo balcanico?, in W. BREU (a cura di), L’influsso dell’italiano sulla grammatica delle
lingue minoritarie. Problemi di morfologia e sintassi (Atti del Convegno internazionale di
Costanza, 2003), Rende, Università della Calabria (Albanistica 17), 2005, pp. 1-21.
56
Nell’occorrenza di /tǝ/ la gran parte delle varietà presenta limitazioni e alternanze determinate
da fattori di carattere fonologico e morfologico, cfr. SAVOIA, Ivi, p. 191.
57
SAVOIA, Ivi, p. 190.

242
Giovanni Belluscio, Monica Genesin

3.4. Il lessico

Il lessico manifesta un carattere composito, dato che anche lo stesso filone


autoctono riunisce elementi alloglotti di diversa origine tra cui un buon numero
mutuato dal greco medievale, mentre lo strato lessicale di origine romanza è
assai variegato e numeroso con elementi delle parlate tarantine e prestiti
dall’italiano regionale58. Allo strato albanese appartengono numerosi lessemi
che si riferiscono ad ambiti semantici legati alla sfera dell’universo (fenomeni
atmosferici, mondo vegetale, minerale, animale) e dell’uomo (corpo, organi
sensoriali, sentimenti etc.): /ˈdiełi/ ‘il sole’, /ˈbɔɾa/ ‘la neve’, /ˈmɔti/ ‘il tempo
(atmosferico)’, /ˈmɔła/ ‘la mela’, /ˈcɛpa/ ‘la cipolla’, /ˈcɛn:i/ ‘il cane’; /ˈburi/
‘l’uomo’, /ˈgɾuvja/ ‘la donna’, /ˈkɾia/ ‘la testa’; /ˈʎeʃtǝ/ ‘i capelli’, /ˈfaca/ ‘il
viso’. Dal confronto con il lessico della madrepatria emergono, in alcuni casi,
delle discrepanze nell’indicazione di determinati referenti: nell’arbëresh di San
Marzano tra i sostantivi si incontrano per CAPELLI, BOCCA, le forme /ˈʎeʃtǝ/,
/ˈgɾi:ka/ che nello standard si equivalgono invece a ‘lana’ e ‘gola’, mentre il
sammarzanese /ʎǝˈkuɾǝ/ ‘donna di facili costumi, prostituta’ costituisce
probabilmente la particolare evoluzione semantica di un termine che si riferiva
alla ‘pelle’; tra gli aggettivi i concetti AMMALATO e BELLO sono espressi
dai termini (i, e) /ˈkɛc/ (albanese standard (i,e) sëmurë) e, rispettivamente, (i,e)
/ˈndaɾǝ/ (albanese standard (i,e) bukur) che nella madrepatria si equivalgono a
‘cattivo’ e, rispettivamente, ‘separato, distinto’59. Tra i verbi si segnala
l’innovazione /kuʃuˈlɔɲ/ ‘parlare’, che si incontra anche in altre varietà
arbëreshe dell’area adriatica in opposizione al più diffuso tipo /fʎas/ ~ /fjas/60 e
che potrebbe costituire una particolare evoluzione del prestito latino-romanzo
këshilloj ‘consigliare’ attraverso «un’estensione di significato causato dalla
contiguità concettuale tra PARLARE e CONSIGLIARE, con il secondo, più
specifico, in origine sottordinato (il consigliare come una forma del parlare) che
estende il proprio campo semantico al primo, più generico»61.

58
SHKURTAJ, Shënime për të folmen arbëreshe të San Marcanos, cit., pp. 135-138; DE PADOVA,
Anketa gjuhësore për të folmen arbëreshe të San Marcanos, cit., pp. 372-413.
59
“L’evoluzione semantica verso BELLO potrebbe essere il risultato dello sviluppo semantico-
cognitivo di DISTINTO’, cfr. LAFE, Note linguistiche da San Marzano..., cit., p. 329.
60
SAVOIA, Alcuni elementi per una classificazione dei dialetti arbëreshë, cit., p. 193.
61
LAFE, Note linguistiche da San Marzano..., cit., p. 329.

243
Persistenza di voci dialettali in italiano regionale (con e senza adattamento: *ursulo e
lutrini) e ricostruzione di forme presunte (*loti per cachi)
[da volantini pubblicitari di supermercati salentini].

244
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 245-256
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p245
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

L’italiano regionale. Il Salento

Immacolata Tempesta

1. La variazione geolinguistica
La regionalità è un carattere riconosciuto della variazione dell’italiano, non
solo di quello contemporaneo ma anche nella storia della lingua italiana, non
solo nel parlato ma anche in produzioni letterarie di vario genere (si veda ad
esempio D’Achille 20121). La pervasività dell’attributo geolinguistico ha
portato a considerare la variazione diatopica come connaturata allo stesso uso
dell’italiano, tenendo presente che sociolinguisticamente l’italiano regionale,
almeno nelle sue forme meno interferite dal dialetto, non ha, a differenza
dell’italiano popolare, come indicatori specifici la violazione della norma e la
stigmatizzazione.
I geosinonimi indicano varietà di uso dell’italiano che non lasciano
trasparire, in generale, collocazioni sociali o particolari gradi di istruzioni2. I
confini tra una varietà regionale, una sociale, una diafasica sono peraltro quelli,
in alcuni casi molto laschi, di un continuum, come ha indicato egregiamente
G. Berruto3 per tutte le varietà del repertorio, e molti fenomeni possono
ricorrere in più varietà e in contesti comunicativi diversi.
La distanza strutturale tra il dialetto che agisce sostraticamente sui
regionalismi e l’italiano gioca un ruolo importante nella promozione e nella
diffusione delle voci regionali.
Robert Rüegg nel suo questionario dottorale del 19564, su cui torneremo più
avanti, chiedeva di riconoscere se la voce interessata fosse italiana o di qualche
determinata area.

1
P. D’ACHILLE, Parole: al muro e in scena. L’italiano esposto e rappresentato, Firenze, Cesati,
2012; cfr. anche ID., L’italiano regionale, in M. CORTELAZZO (a cura di), I dialetti italiani. Storia,
struttura, uso, Torino, Utet, 2002, pp. 26-42.
2
Per una discussione del concetto di geosinonimo si veda E. DE FELICE, Definizione del rango,
nazionale o regionale, dei geosinonimi italiani, in Italiano d’oggi. Lingua nazionale e varietà
regionali, Trieste, Lint, 1975, e ora anche R. REGIS, voce Geosinonimi, in R. SIMONE,
G. BERRUTO, P. D’ACHILLE (a cura di), Enciclopedia dell’Italiano, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana “Treccani”, vol. I, 2010, pp. 561-564 (cfr. Treccani.it).
3
G. BERRUTO, Le varietà del repertorio, in A.A. SOBRERO (a cura di), Introduzione all’italiano
contemporaneo. La variazione e gli usi, vol. 1, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 3-36.
4
R. RÜEGG, Zur Wortgeographie der italienischen Umgangssprache, Köln, Romanisches
Seminar der Universität Köln, 1956.

245
L’italiano regionale. Il Salento

Gli studi sull’italiano regionale continuano a suscitare grande interesse e,


recentemente, anche i nuovi media hanno mostrato una forte attenzione a questa
dimensione di variazione, rilevata, nei social network, anche da internauti non
esperti del settore. Le pagine dedicate sono numerose, come i post in cui si
disserta, si scherza, si discute su tratti, voci e costrutti dell’italiano regionale.
Succede così di trovare nei post, soprattutto di giovani, riferimenti a
espressioni del tipo:

Al nord a pomeriggio si fa un pisolino a sud ci si appoggia

oppure commenti a foto di prodotti locali:

solo chi vive in Salento sa che è una meloncella5

oppure piccoli test, come quello sulla transitività di verbi intransitivi:

dove si dice “si scende la pattumiera”?, avete sentito dire “salire la spesa”?

La rete è stata ed è una buona officina per allargare la conoscenza degli usi
regionali.
Thomas Krefeld è il principale ideatore del progetto Metropolitalia6, gioco
in rete sull’italiano regionale, creato come osservatorio on-line della variazione
geolinguistica italiana7.
Il rapporto fra la varietà regionale e le varietà gerarchicamente superiori,
almeno nel repertorio sociolinguistico tradizionale, il rapporto con l’italiano
comune e con i dialetti rimangono assai controversi.
Regionalismi come meloncella nascono da una simbiosi fra italiano e forme
locali.
Non vi è, peraltro, una stretta sovrapposizione fra aree dialettali e aree
dell’italiano regionale. In Salento, ad esempio, la diffusione dell’aspirazione
dell’occlusiva dentale sorda -t- presenta un andamento molto interessante sia
diatopicamente sia per il rapporto fra italiano regionale e dialetto sottostante. In
dialetto l’aspirazione è uno dei fenomeni che configurano il confine
settentrionale, da Brindisi a Oria e Sava – anche se risulta assente in alcuni

5
La meloncella è un ortaggio estivo simile al cetriolo (la voce presenta diversi geosinonimi già
nel Salento).
6
Metropolitalia (2012): http://www.metropolitalia.org/. Il progetto ha ricevuto una ‘honorary
mention’ del premio Ars elettronica (http://www.aec.at/prix/gewinner/#digitalcommunities). Cfr.
TH. KREFELD, Metropolitalia: die Neuen Medien und die Modellierung (Ein interaktives
Observatorium für Sprecher und Sprachwissenschaftler), http://www.metropolitalia.gwi.uni-
muenchen.de/downloads/metropolitalia-291010.pdf.
7
Anche l’Accademia della Crusca dedica, in rete, uno spazio specifico a “La variazione
linguistica”.

246
Immacolata Tempesta

punti importanti dell’area, come Francavilla Fontana e Taranto –, presentandosi


molto vitale nella zona perileccese (v. Fig. 1). In italiano regionale l’aspirazione
presenta due caratteri geograficamente, oltre che sociolinguisticamente,
importanti: rispetto al dialetto è presente anche ai confini settentrionali e si
rafforza ancor più nell’area periurbana, in una dinamica di espansione sia
geografica che sociale8.

Fig. 1 – L’aspirazione dell’occlusiva dentale sorda in italiano regionale e in dialetto9.

2. L’italiano regionale in Salento


La frammentazione linguistica dell’area è nota già da tempo.

“Il Salento ha rilevato, ben al di là della tradizionale tripartizione fra area


centrale, settentrionale e meridionale, un profilo molto movimentato
all’interno del sistema dialettale” (Sobrero, Romanello, 1981, p. 41).

Come le altre aree linguistiche anche quella salentina presenta delle


specificità lessicali, morfosintattiche, pragmatiche, tonetiche, fonetiche, testuali,
con ampi studi al riguardo10.
8
Si veda A.A. SOBRERO, M.T. ROMANELLO, L’italiano come si parla in Salento, Lecce, Milella,
1981.
9
Ivi, pp. 130-136. Cfr. Carta n. 8 nel contributo di A. ROMANO, in questo volume.
10
Fra gli altri, G.B. MANCARELLA, Salento, Pisa, Pacini, 1975; A.A. SOBRERO, I. TEMPESTA, La
Puglia una e bina, in “Italiano e oltre”, 2, 1996, pp. 107-113; E. TAMBORRINO, Indicare il tempo.
Osservazioni nell’area salentina, Bari, Palomar, 2006; I. TEMPESTA, M.R. DE FANO, Lingua e
cultura. Le innovazioni di ‘geco’ e ‘lucertola’, in G. MARCATO (a cura di), Tra lingua e dialetto,
Padova, Unipress, 2010, pp. 245-252; I. TEMPESTA, Quale italiano regionale oggi? Attraversando

247
L’italiano regionale. Il Salento

Il primo importante risultato è che non esiste un quadro omogeneo,


salentino, dell’italiano, essendoci significative variazioni fra le diverse
microaree.
Certo esiste una serie di fenomeni linguistici che possono ricorrere in
particolare nel parlato, ma, come per tutte le varietà, sarebbe necessaria una
ricorsività significativa di uso per poter sostenere che siamo in presenza di una
varietà regionale salentina.
Sono considerati salentini11:
- per la fonetica:
I. l’anaptissi di un vocoide centrale nei gruppi consonantici
complicati (atmosfera > attomosfera);
II. la realizzazione aspirata delle occlusive sorde lunghe o precedute da
consonante nasale o vibrante (attore > atthore, antico > anthico, arto
> artho);
III. la realizzazione mediante sequenza di contoidi postalveolari dei
gruppi consonantici /tr/, /dr/, /str/ (ad es. in tre, strada, quadro);
IV. l’apertura generalizzata delle vocali intermedie toniche (pèra);
V. la pronuncia con iato in presenza di dittongo (ad esempio fu/oco);
VI. il rafforzamento di -b- intervocalica (roba > robba);
VII. l’affricazione della sibilante postnasale (penso > penzo);
VIII. il rafforzamento di -g(i)- intervocalica (orologio > orologgio);
IX. la desonorizzazione di -g(i)- in -c- (tragedia > tracedia) e possibile
spirantizzazione di -c-12;
- per la morfosintassi13:
I. il metaplasmo di genere (la diabete);
II. la posposizione del possessivo (la casa tua è piccola);
III. la preferenza per il passato remoto (questa mattina ti svegliasti
tardi);
IV. l’uso di verbi pronominali intensivi (mi sono visto un film);

la Puglia, in F. CUGNO, L. MANTOVANI, M. RIVOIRA, M.S. SPECCHIA (a cura di), Studi linguistici
in onore di Lorenzo Massobrio, Torino, Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano, 2014, pp. 997-
1010. Per una trattazione più generale dei temi si vedano: M. CERRUTI, Le strutture dell’italiano
regionale, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2009; N. DE BLASI, Geografia e storia dell’italiano
regionale, Bologna, Il Mulino, 2014; T. TELMON, Varietà regionali, in A.A. SOBRERO (a cura di),
Introduzione all’italiano contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, vol. 2, 1993, pp. 93-149; ID., Gli
italiani regionali contemporanei, in L. SERIANNI, P. TRIFONE (a cura di), Storia della lingua
italiana, Torino, Einaudi, vol. 3, 1994, pp. 597-626.
11
Si veda TELMON Varietà regionali, cit., e SOBRERO, TEMPESTA, La Puglia una e bina, cit.
12
Il fenomeno, in apparente contraddizione con quello precedente del rafforzamento, si spiega
con una distribuzione areale interna all’area salentina. La desonorizzazione di -g(i)-, in parole
quali tracedia, è in forte regressione anche in dialetto.
13
Si veda SOBRERO, TEMPESTA, La Puglia una e bina, cit.

248
Immacolata Tempesta

V. il superlativo reso con l’iterazione dell’aggettivo positivo (bello


bello);
VI. l’uso transitivo di verbi intransitivi (salire la spesa);
VII. l’allocuzione inversa (vieni qui, mammina);
VIII. i metaplasmi di numero (il pantalone);
IX. il diminutivo con suffisso -uccio (caruccio, Pinuccio);
X. la perifrasi sta + indicativo presente (sta mangia);
XI. l’iperestensione della preposizione a (vado al calzolaio);
- per il lessico:
XII. l’uso di stare per essere;
XIII. l’uso di tenere per avere;
XIV. un’ampia gamma di voci lessicali legate, in particolare, a flora,
fauna e specialità gastronomiche.
Un elemento poco indagato, ma che rappresenta una forte spia della
provenienza regionale è l’intonazione, la pretonica è non marcata, come nello
standard, la tonica è media e la postonica conclusiva passa da media a alta nelle
interrogative, rimane media nelle sospensive, rimane bassa nelle conclusive.
Questi tratti, seppure costituiscano i possibili tasselli di una lingua
regionale, hanno ranghi di uso e gradi di vitalità molto differenziati, per poter
costituire un documento unico di riconoscimento areale14.

3. La ricerca
Abbiamo condotto una ricerca su alcune delle voci utilizzate da Rüegg nella
sua indagine sull’italiano regionale del 1956. Rüegg inviò a 124 informatori un
questionario con 242 schede relative ad altrettante nozioni. Ogni scheda
conteneva una serie di sinonimi: all’informatore si chiedeva di indicare le voci o
espressione usate, eliminando quelle sconosciute o conosciute ma con
significati diversi da quello annotato sulla scheda, di segnalare l’ordine di
frequenza e gli usi (antiquato, volgare, letterario ecc.) se l’informatore
dichiarava di usare più sinonimi nell’italiano parlato.
Le collocazioni diatopiche che il Rüegg utilizza sono varie e di diverso
grado di specificazione: si va dall’indicazione più ampia di Nord (da Fiume a

14
Non mancano però oggi studi che hanno contribuito a definire in modo inequivocabile le
caratteristiche ritmico-intonative che rendono facilmente riconoscibile un parlante salentino anche
quando parla in italiano (v., tra gli altri, A.ROMANO, Analyse des structures prosodiques des
dialectes et de l’italien régional parlés dans le Salento: approche linguistique et instrumentale,
Lille, Presses Univ. du Septentrion, 2001; A. STELLA, B. GILI FIVELA, L’intonazione nel parlato
dell’area leccese: prime osservazioni dal punto di vista autosegmentale-metrico, in L. ROMITO,
V. GALATÀ, R. LIO (a cura di), La fonetica sperimentale: metodi e applicazioni (Atti del IV
Convegno AISV, Università della Calabria, 3-5 dicembre 2007), Torriana (RN), EDK, 2009, pp.
260-293).

249
L’italiano regionale. Il Salento

Forlì) , Centro (Marche, Umbria e Lazio), Sud, a quella della singola località, o
di un’area, più o meno vasta, di cui si riportano le località di confine.
Dell’elenco di voci del Rüegg, nella ricerca condotta in Salento15 si sono
considerate:
- voci attestate su tutto il territorio nazionale (fede);
- voci attestate come voci del Sud (compare, fare la cucina, rassettare, pezza);
- voci attestate al Centro e al Sud (molliche);
- voci attestate da Roma a Palermo (coppino);
- voci attestate specialmente in Lombardia, Ticino, Siena (salvietta);
- voci attestate soprattutto in area toscana (panciotto);
- voci attestate da Bari a Napoli (sottano);
- voci attestate specialmente al Nord (imposte, trapunta, bruma).
Si sono confrontate tali voci con il corpus presente in Metropolitalia e con i
risultati di una ricerca lessicale condotta in Salento, in cui si è chiesto
all’informatore l’eventuale conoscenza della parola, il significato, la
collocazione nel repertorio (italiano, dialetto, altro e in questo caso si è richiesta
la specificazione), la collocazione areale (in tutto il territorio o in determinate
aree di cui si chiesta la specificazione).
Si sono scelte voci che nello studio del 1956 risultavano variamente
collocate per esaminare il grado di mantenimento di voci meridionali e quello di
espansione, anche in Salento, di voci provenienti da altre aree, a conferma che
l’italiano regionale è una varietà molto dinamica in cui transitano tratti, forme,
voci, costrutti destinati ad affermarsi o a retrocedere in microaree sempre più
limitate o a essere considerati fatti del dialetto e non più dell’italiano.
Telmon (Varietà regionali, cit.) distingue i geosinonimi ‘vitali’, che
possono presentare espansione areale (come panetteria rispetto a forno nelle
aree centromeridionali) o rimanere vitali nella propria area (come stomaco per
petto in Piemonte), dai geosinonimi ‘desueti’, per obsolescenza del referente
(come cochetto per bozzolo del baco da seta con l’abbandono della
bachicoltura) o per imposizione di altro geosinonimo (come prosciutto al posto
di giambone in Piemonte).

3.1. Da nord a sud


Compariamo i risultati per le singole voci16.

15
Le indagini qui considerate hanno riguardato i centri di Parabita, Monteroni e Campi, con 18
informatori, 6 giovani, 6 adulti, 6 anziani.
16
Per la voce fede ‘anello nuziale’, attestata da Rüegg su tutto il territorio nazionale, nei nostri
dati sono registrate molte interferenze con l’omonima fede, indicata con il significato di ‘credere
in una religione, fiducia ecc.’. Solo in 3 casi gli informatori hanno dato il corrispettivo ‘anello’,
attribuendo ‘fede’ sempre all’italiano.

250
Immacolata Tempesta

Compare.
Negli esiti del Rüegg la voce, n. 2 del campo Famiglia, risulta rilevata
(16/24) al Sud con il significato di “testimonio a un matrimonio”. La stessa
voce risulta usata su tutto il territorio nazionale (27/46), insieme con “padrino”
(45/95), per indicare il padrino di battesimo o di cresima. Al Sud è attestata
anche la voce “comparello” per “figlioccio”. La voce è assente in
Metropolitalia.
Già negli esiti raccolti da Rüegg la voce presenta vari significati, da quelli
più diffusi, di area nazionale, “padrino” e “padrino di battesimo e cresima” a
quello di “testimonio a un matrimonio” attestato soprattutto al Sud. Nei nostri
dati “compare” è attribuito, in modo quasi uguale, al dialetto (8) e all’italiano
(6), e in tre casi all’italiano meridionale (in un caso manca l’attribuzione). Il
significato prevalente è un generico “padrino” (9), ma troviamo anche
“testimone di nozze” (2), “padrino di battesimo e di cresima” (2), “padrino del
battesimo del figlio” (1), in un caso, relativo ad un anziano, dialettofono di
Parabita, “chi ha fatto il sangiovanni [padrino di battesimo]”.
In tre casi viene dato il significato di “amico, compagno di giochi,
associato”, con tre diverse attribuzioni, “amico” all’italiano meridionale,
“compagno di giochi” al dialetto, “associato” all’italiano.

Molliche.
Corrisponde alla voce n. 62 del campo Cibo e compare, al Centro e al Sud,
con il valore di “briciole”17.
In Metropolitalia, mollica è attestato in due espressioni:
a) La pasta al forno si cucina con la mollica
b) Perché togli sempre la midolla del pane?
Mollica in a) è registrata in 5 risposte, distribuite a nord, in particolare area
lombarda, a sud, in particolare in Sicilia e in area campana, a Salerno e Eboli.
Midolla in b) è registrata in 5 risposte per l’area lombarda, a Brescia, per
l’area centrale, in particolare toscana, e a sud, in area cosentina e in area
brindisina.
Molliche, nella nostra ricerca, è stata attribuita in due casi al dialetto, con il
significato di ‘briciole’, in un caso a italiano-dialetto, in 15 casi all’italiano. Il
significato attribuito va dal prevalente ‘briciole’ a quello di ‘parte interna/molle
del pane’, ‘pezzetti di pane’, ‘pane e briciole di dolce’.
La maggior parte delle risposte sembra indicare un’identificazione della
voce con l’italiano.

17
Presente da Mantova a Genova come sdrucciola (mòlliche).

251
L’italiano regionale. Il Salento

Coppino.
Nel questionario del Rüegg, voce n. 75, campo Cibo, si chiedeva di indicare
gli usi corrispondenti a “ramaiolo” (Per prendere il brodo dalla pentola, dalla
zuppiera si usa il ramaiolo). Coppino è la voce rilevata (18/31) da Roma a
Palermo18.
In Metropolitalia è riportata l’espressione “Mi passi il coppino?” con 6
attestazioni, rilevate al nord, in particolare in Veneto, ma, soprattutto, al sud, in
Sicilia e in Abruzzo.
Nei nostri dati è sempre stato riconosciuto come “mestolo”, in 17 casi
coppino è attribuito al dialetto, definito salentino in due casi, meridionale in
altri due19.
Si tratta di un geosinonimo retrocesso nel repertorio nel dialetto da cui la
voce, italianizzata, proviene.

Salvietta.
La voce, n. 88 del campo Abbigliamento, è data da Rüegg in corrispondenza
di “asciugamano” e riguarda soprattutto la Lombardia, il Ticino e Siena. È
assente nei dati di Krefeld.
Salvietta è, secondo i nostri informatori voce dell’italiano, solo in un caso
viene attribuita all’italiano settentrionale (con il significato di ‘tovagliolo’ e
‘asciugamano’). La voce, nei nostri dati, presenta tuttavia vari significati:
‘asciugamano’ (6, in due casi ‘asciugamano piccolo’), ‘tovagliolo’ (6, in un
caso ‘tovagliolo di carta per la pulizia’), ‘mappina’ (4), ‘strofinaccio’ (3),
‘fazzoletto’ (2, in un caso di carta), ‘stoffa’ (1), ‘straccio’ (1)20.
L’attribuzione all’italiano fa pensare a un’affermazione della voce, che però
presenta una forte dispersione semantica da cui trapela una limitazione nella
conoscenza del termine.

Panciotto.
Voce n. 96 del campo Abbigliamento, è rilevata soprattutto in area toscana
per ‘gilè’, assente nei dati di Krefeld.
Nei dati salentini è stato definito soprattutto ‘gilet’ (11); con questo
significato panciotto è attribuito all’italiano, in un caso al romano. Nei casi in
cui non è conosciuto il corretto significato gli informatori ricostruiscono un
significato a partire da pancia alterata con -otto: ‘pancera/fascia per la pancia’
(2), di cui 1 it., 1 d., ‘indumento maschile’ (1), it., ‘pancia grossa’ (4), 2 it., 2 d.
La voce presenta un buon riconoscimento semantico e con il significato di
‘gilet’ viene attribuito all’italiano.

18
Ramaiolo nel corpus dello studioso tedesco risulta soprattutto di area toscana.
19
In un caso la voce è assente.
20
Alcuni informatori hanno dato più significati.

252
Immacolata Tempesta

Sottano.
La voce, n. 109 del campo Abitazione, è attestata da Bari a Napoli, per
‘pianterreno’. In Metropolitalia è attestata in tre risposte, tutte baresi, per
‘ambiente a piano terra o di sotto’.
In Salento solo due informatori riconoscono la voce come ‘abitazione
sottostante’, ‘locale sottostante’ e l’attribuiscono a un generico italiano
regionale, italiano del sud. 6 informatori danno il significato di sottoveste,
sempre attribuita al dialetto, per una sovrapposizione con sottana, in due casi si
dà il significato di residuo, posa di un recipiente, e si attribuisce al dialetto.
Negli altri casi gli informatori dichiarano di non conoscere la voce.
Sottano, a differenza ad esempio di panciotto, presenta una forza di
irraggiamento molto tenue, risultando sconosciuto il suo stesso significato.

Imposte.
Voce n. 120 del campo Abitazione, con il significato di “persiane esterne a
due battenti-persiane”, è diffusa specialmente al Nord (24/40), assente nei dati
raccolti da Krefeld.
Nei nostri dati, in 8 casi il significato dato è ‘scuri’ (1), ‘persiane’ (2),
‘sportelli per finestra’ (3), ‘infissi per finestra’ (2); la voce è stata attribuita
all’italiano, eccetto un caso, con il significato di ‘persiana’, ricondotta al
dialetto e un caso, sempre con il significato di ‘persiana’, ricondotta a italiano
meridionale21.
Trapunta.
Voce n. 128 del campo Abitazione, con il significato di “coltrone” risulta
rilevata soprattutto al Nord (28/52). Non è riportata da Krefeld.
È la voce più riconosciuta dagli informatori salentini, sempre attribuita
all’italiano, con il significato di ‘coperta’ (10), ‘coperta imbottita / pesante /
invernale’ (7), in un caso ‘lenzuolo’.
Rassettare.
Voce n. 130 del campo Abitazione, con il significato di ‘riordinare la casa’
(La mattina la domestica deve riordinare la casa), ricorre specialmente al Sud
(14/20), è assente nei dati raccolti da Krefeld.
Nei dati salentini in 15 casi è riconosciuta come: sistemare (4), mettere in
ordine (6), mettere a posto (1), pulire (2), riordinare (2). La voce è attribuita
all’italiano, eccetto tre casi di attribuzione al dialetto (2 con valore di sistemare,
uno di pulire)22.

21
In 8 casi è stato interpretata con il significato di ‘tasse’, in un caso di ‘imporre a qualcuno’.
22
In un caso è dato come ‘stare seduti’, in un altro come ‘ricamare’, in un caso non si conosce il termine.

253
L’italiano regionale. Il Salento

Fare la cucina.
Voce n. 72 del campo Cibo, è riportata dal Rüegg a Sud per ‘rigovernare le
stoviglie’ (5/7).
Nei nostri dati è reso con più significati:
- ‘cucinare’, 10 risposte, in cui ‘fare la cucina’ risulta attribuito in 5 casi
al dialetto (1 al dialetto meridionale), in 5 casi all’italiano;
- ‘pulire/mettere in ordine’, 5 risposte: 2 con attribuzione al dialetto, una
assente, una all’italiano comune, 1 all’italiano regionale meridionale
(l’informatore aggiunge ‘forse’);
- ‘comprare la cucina/arredare la cucina’: 3 risposte, 1 dialetto, 2 italiano.
L’espressione appare oggi molto debole, sia per la dispersione semantica
rilevata dai vari significati ad essa assegnati, sia per la collocazione nel
repertorio oscillante fra italiano e dialetto, con una collocazione su italiano
comune e una su italiano meridionale.

Pezza.
Voce n. 133 del campo Abitazione, con il significato di ‘cencio per
spolverare’ è rilevata specialmente al Sud (24/29)23.
In Salento 12 informatori l’attribuiscono al dialetto (dialetto ‘di Frosinone’
in un caso, dialetto meridionale in un altro). In un caso è attribuita a italiano e
dialetto, in 5 casi all’italiano.
Il significato prevalente è ‘stoffa’ (10); troviamo anche ‘straccio’ (3),
‘strofinaccio’ (1), ‘canovaccio usurato’ (1), ‘avanzo di stoffa, panno per lavare’
(2), ‘stato mentale’ (1).
Come compare, pezza presenta una sorta di indebolimento con il
riferimento prevalente al dialetto e una significativa dispersione semantica.

Bruma.
Voce n. 182 del campo Tempo, con il significato di ‘nebbia densa-nebbia’ si
rileva al Nord (4/4). Non è riportata nei dati di Krefeld.
In Salento, 11 informatori non riconoscono la voce. Solo quattro danno il
significato di ‘nebbia leggera, foschia, nebbia’, altri tre indicano ‘chi osserva’,
‘colore’, ‘scura’. In tutti i casi la voce è attribuita all’italiano e la competenza
risulta molto debole.

3.2. Quale italiano in Salento?


La frammentarietà dialettale dell’area salentina, dimostrata da un’ampia
letteratura, il diverso peso di variabili sociolinguistiche, che hanno favorito o
ostacolato l’affermazione e la propagazione di caratteri linguistici di

23
In KREFELD, Metropolitalia, cit., l’omonimo pezza è riportato nell’espressione “Devo mettermi
a dieta, non c’è pezza!” in Piemonte e nell’area bolognese.

254
Immacolata Tempesta

determinate aree, portano a riproporre la domanda se si possa configurare un


italiano regionale del Salento. Certo la letteratura ci propone una serie di
peculiarità fonetiche, morfosintattiche, lessicali, tonetiche, alle quali abbiamo
accennato prima, ma, a un’osservazione più ravvicinata, il Salento appare,
ancora una volta, aperto a più soluzioni. Così, da una parte, l’aspirazione della
dentale, considerata in letteratura tratto salentino, non risulta carattere comune e
non è presente con la stessa intensità in tutto l’italiano del Salento, dall’altra,
voci considerate del sud, quindi anche salentine, come coppino, pezza, compare,
sono oggi catalogate come dialettali, mentre voci di altre aree, come panciotto o
salvietta, vengono riconosciute come voci dell’italiano.
Se confrontiamo le collocazioni areali e di repertorio date dal Rüegg con gli
esiti della nostra ricerca possiamo constatare la labilità di tali collocazioni.
Coppino, compresa tra le voci dello studioso tedesco, è oggi riconosciuta
come voce decisamente dialettale, del proprio dialetto o attribuita, con uno
sguardo più ampio, in due casi, al dialetto meridionale. Nessun informatore ha
definito coppino italiano, seppure di varietà bassa. Tutti gli informatori hanno
dato come corrispettivo italiano mestolo.
La regionalità in Salento è una regionalità in movimento: ancora un volta il
repertorio dell’italiano si conferma pluridimensionale.
L’attribuzione del carattere regionale è stato, peraltro, uno dei temi centrali
nell’ambito della variazione linguistica non solo per l’italiano. Per accertarsi
della regionalità delle voci raccolte, P. Rézeau nel Dictionnaire des
régionalismes en France24, dopo aver raccolto fra gli specialisti delle varie
regioni all’incirca 300 item regionali, ha sottoposto tali voci a dei test di
riconoscimento accogliendole fra i regionalismi solo se il tasso di
riconoscimento era superiore al 75%. Nella Svizzera italiana, E.M. Pandolfi25 è
ricorsa alle competenze e alle percezioni personali, oltre che alla consultazione
dei dizionari, per studiare i ticinesismi, distinguendo, sulla base di una
suddivisione già operata da A. Petralli26, fra ticinesismi assoluti, quelli che non
hanno un corrispettivo italiano né per il significante né per il significato (corso
di ripetizione ‘richiamo annuale al servizio militare’), semantici, con un
corrispettivo italiano per il significante e non per il significato (brutto ‘peso
lordo’), lessicali, quelli con un corrispettivo italiano per il significato e non per
il significante (ramina ‘rete di confine’) e quelli morfosintattici (ad es. aver
bisogno con reggenza zero per ‘aver bisogno di qualcosa’).

24
P. REZEAU (a cura di), Dictionnaire des régionalismes en France, Bruxelles, De Boeck-
Duculot, 2001.
25
E.M. PANDOLFI, Misurare la regionalità. Uno studio quantitativo su regionalismi e
forestierismi nell’italiano parlato nel Canton Ticino, Locarno, Dadò, 2006.
26
A. PETRALLI, L’italiano in un cantone. Le parole dell’italiano regionale ticinese in prospettiva
sociolinguistica, Milano, Franco Angeli, 2006.

255
L’italiano regionale. Il Salento

Rüegg aveva adottato il criterio del raffronto con il toscano e della ‘forza’ di
espansione che permette di distinguere fra geosinonimi forti, che tendono a
estendersi, e geosinonimi deboli che tendono a scomparire. In Salento, la breve
indagine svolta mostra un irrilevante riconoscimento della regionalità di voci
che nel Rüegg risultano prodotte in aree geolinguistice definite, seppure con
largo margine di approssimazione, come mostrano i rapporti fra numero di voci
ricorrenti in una determinata area e totali di esiti ottenuti.
Voci attestate nella ricerca di Rüegg come voci del Sud (compare, fare la
cucina, rassettare, pezza) sono ora variamente collocate, riportate all’italiano.
Tutte le voci qui esaminate sono attestate nel Disc27, eccetto coppino. Del
probabile carattere regionale, il dizionario conserva traccia solo in tre casi: per
sottano (dato come sinonimo di ‘basso, abitazione al livello o sotto il livello
della strada’), compare (per ‘padrino’) e salvietta con il significato di ‘piccolo
asciugamano’. Solo sottano è riportato come regionalismo assoluto; compare è
dato come regionale con il significato di ‘padrino’, ma viene considerato non
marcato per ‘testimone di nozze’; così salvietta risulta regionale per
‘asciugamano’, non marcata per ‘tovagliolo’.
Nascono d’altra parte nuovi regionalismi: è su Repubblica.it del 20 giugno
2015 l’elenco di commenti, con conseguenti post sui social network, relativi alla
diffusione areale dell’insieme cucitrice/ciappatrice (questa considerata
salentina)/pinzonatrice/graffettatrice/spillatrice/pinzatrice.

4. Conclusioni
In generale, appare difficile separare il carattere regionale di un elemento
che potrebbe appartenere a varietà diverse o al dialetto o che non rientra nella
consapevolezza regionale del parlante. Sembra valere per il Salento quanto
Pandolfi (Misurare la regionalità..., cit.) riporta per la Svizzera italiana:
“la presenza nell’IRT di molti ticinesismi ‘non classici’ che compaiono
diffusamente nei testi esaminati delinea una regionalità marcata in modo
‘sottile’, differenziando l’IRT da ogni altro italiano regionale in modo
diffuso, non solo per i termini classici riportati dalla letteratura sul tema”
(Pandolfi 2006, p. 60).

La regionalità non è, in altre parole, quella della singola voce, del singolo
suono, ma emerge dall’insieme di un’espressione, di un testo, di un’interazione,
è una caratterizzazione diffusa e sottile che interessa tutta la comunicazione,
non solo linguistica; è – potremmo dire – un fatto culturale che la lingua,
sottoposta a continue dinamiche sociolinguistiche, riflette solo parzialmente.
Anche se nei social network piace, soprattutto fra i giovani, anche per il
Salento, cercare e evidenziare forme di italiano definite salentine.

27
Disc – F. SABATINI, V. COLETTI, Dizionario Italiano, Firenze, Giunti, 1997.

256
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 257-266
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p257
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Letteratura dialettale salentina

Fernando Salamac

1. Il Settecento
Mentre l’Europa risentiva dell’Illuminismo1, che convogliava tutti gli
ambiti del sapere nella pubblicazione dell’Encyclopédie ou Dictionnaire
raisonné des sciences, des arts et des métiers2, il Salento è totalmente estraneo a
questo movimento a causa del clero napoletano che, pur di salvaguardare
l’identità politica, culturale e linguistica, predilige ignorarlo piuttosto che
combatterlo. Di conseguenza nei testi letterari salentini del XVIII sec. non
sussiste alcun eco né della Rivoluzione storico-politica del 1789 né di quella
illuministica, favorendo l’Arcadia e l’accademia, come si evince dalla numerosa
presenza di composizioni di natura lirica, vicina alla letteratura napoletana del
Seicento.
La Letteratura dialettale salentina del Settecento presenta: due poemetti in
ottave, uno di carattere giocoso Viaggio de Leuche e l’altro di carattere satirico
contro un sindaco La Iuneide; due commedie, La Rassa a bute, ambientata a
Lecce, e Nniccu Furcedda, campestre e contadina, ambientata in una masseria
francavillese; inoltre, un buon numero di componimenti lirici monodici, di
differente metro (la maggior parte sono sonetti e madrigali) e di argomento
variante dalla volgarità scurrile all’esaltazione della vita dei Santi3.
Nelle opere citate si riscontra in primo luogo l’aspetto giocondo a discapito
dell’impegno civile e politico, in secondo l’assenza di figure di forte rilievo e in
alcuni casi l’anonimato, e infine il municipalismo riguardante la vita cittadina.
1
Kant asserisce nell’opera Beantwortung der Frage: Was ist Aufklӓrung (1784): «L’Illuminismo
è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è
l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è
questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di
decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere
aude! Abbi il coraggio di servirti della propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo».
2
«L'opera che iniziamo [...] ha due scopi: in quanto Enciclopedia, deve esporre quanto più è
possibile l'ordine e la connessione delle conoscenze umane; in quanto Dizionario ragionato delle
scienze, delle arti e dei mestieri, deve spiegare i principi generali su cui si fonda ogni scienza e
arte, liberale o meccanica, e i più notevoli particolari che ne costituiscono il corpo e l'essenza» (da
P. CASINI (a cura di), D’Alembert-Diderot. La filosofia dell'Encyclopédie, Bari, Laterza, 1966, p.
44).
3
M. MARTI (a cura di) Letteratura dialettale salentina, Il Settecento, Galatina, Congedo, 1994.
pp. 15-16.

257
Letteratura dialettale salentina

Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano narra il pellegrinaggio da


Salice al Santuario di Santa Maria di Leuca. Il componimento è strutturato in
ottave ed è diviso in tre Canti, dove emerge da un lato echi della mitologia e
dall’altra le letture di Dante, Petrarca e Tasso. In merito all’opera rimangono
dubbi sull’anno del viaggio che secondo Marti avviene intorno al 1691-1692,
dato che i pellegrini furono ricevuti a Cutrofiano, da Don Giovanni Filomarino,
figlio di Alfonso, Duca di Cutrofiano, e dalla moglie Donna Teresa Erriquez,
che si erano sposati il 4 Febbraio 1690, trasferendosi da Campi a Cutrofiano4.
L’espressione La Rassa a bute è stata tradotta dal Marti come la ‘Grascia5
dei volta giri’. Inizialmente il gesto di Grasciere Andrea di far sposare una
facoltosa vedova con il potente Titto sembra nascere dall’amicizia, in realtà
trapela il puro opportunismo politico-umano e la brama di potere per garantirsi
un nuovo bacino di voti, vista l’imminente conclusione del proprio mandato.
Tale bramosia viene contrapposta al senso del dovere, personificato dal Maestro
di piazza, il quale invita i Leccesi affinché caccino quei cacacchia. L’opera in
prosa ha suscitato un particolare dibattito in merito alla datazione. Il Parlangèli,
primo editore di questa “commedia”, ritiene che essa risalga al 1672 in base ai
raffronti con le Memorie del cronista G. Cino. Marti sostiene invece che sia
stata probabilmente composta tra 1720 -1730. Secondo Valli, l’interpretazione
dell’illustre studioso di Novoli comporta il fatto di considerare la Rassa a bute
come una naturale continuazione delle commedie cinquecentesche-secentesche,
volte ad un’esigenza educativa nella rappresentazione, mentre quella del Marti
propone una netta rottura con la struttura scenografica del passato verso il
dramma in musica, presente nel repertorio napoletano6.
Nniccu Furcedda, il titolo deriva dall’essere claudicante di Nniccu che
necessitava della stampella furcedda per camminare, appartiene al genere della
farsa pastorale, prendendo in considerazione come esempi l’Aminta del Tasso e
Pastor Fido del Guarini. Infatti, la farsa è ambientata in una masseria del sud
Fallachia, nelle vicinanze di Francavilla Fontana. La vicenda ruota intorno
all’avidità di Nniccu che non vuole che la figlia sposi Paolo, ma bensì Rocco,
laureato in legge. Quando quest’ultimo propone il contratto di nozze, Nniccu va
su tutte le furie.
Sul piano contenutistico la farsa è anche rusticana, confrontando le
commedie di Rozzi di Siena o le rappresentazioni dialettali dell’Allione in
Piemonte, del Ruzzante nel Veneto. Nell’opera di Girolamo Bax riscontriamo

4
G. DE NISI, Salice «Terra Hidrunti», Ostia Lido di Roma, Esse-Gi-Esse, 1968, p. 112.
5
Grascia, dal lat.*crassia, derivato di CRASSUS, indicava durante il Medioevo le vettovaglie in
genere, specialmente i cereali; la fornitura dei viveri e anche il dazio o imposta di consumo
sull’introduzione dei generi alimentari in città; ufficiali della g. cui era affidata dagli istituti
medievali la sovrintendenza sui rifornimenti con l’incarico di vigilare sui mercati, sui prezzi al
minuto, sui pesi e misure ecc.
6
D. VALLI, Storia della poesia dialettale nel Salento, Galatina, Congedo, 2003, pp.18-19.

258
Fernando Salamac

«un umore sprizzante, spigliato, vivace, dinamicamente continuo, non è il solo


il risultato della felicità delle battute e degli interventi inopinati dei personaggi
[…] e (anche) il risultato del congruo e magistrale uso del dialetto»7. La forza
del dialetto si associa alla comicità: «la compagine linguistica consegue effetti
di comicità proprio nel confronto scenico con la lingua, popolare degli altri
personaggi e quindi nella serie di equivoci che ricorrono nella comunicazione
[…] e raggiunge i migliori effetti di comicità proprio nei punti in cui riesce a
realizzare una sorta di plurilinguismo»8.
La Juneide ossia lecce strafurmatu, sottotitolo puema eroecu dedecatu alli
Signuri Curiosi, tratta l’elezione del nuovo sindaco forestiero (simbolo del
degrado sociale della città), voluta a furor di popolo in seguito al malgoverno
vigente, e gli illeciti compiuti dallo Juni e dalla sua giunta, quali il furto di una
colubrina e la rielezione tramite la corruzione dei decurioni. Tale opera
costituisce una parte rilevante all’interno delle letteratura dialettale riflessa in
particolar modo per il genere del puema eroecu ovvero eroicomico, tuttavia può
esser letta anche in chiave ironica e personale di un determinato avvenimento
della storia della città di Lecce, allorché Giuseppe Romano, soprannominato
Juni, era sindaco.
Dato per assodato che gli eventi trattati accaddero a Lecce tra il 1768 e il
1770, il Marti sostiene con certezza che la Juneide fu scritta tra la fine del 1770
e l’inizio del 1771.

2. Ottocento
Questo secolo, al di là delle vicissitudini dei singoli stati (Regno delle due
Sicilie, Lombardo-Veneto, Granducato di Toscana ecc.), sancisce l’unità
d’Italia.
Nel Salento si costituiscono tre nuclei culturali:

1) Nell’area centrale salentina, Maglie con G. Refolo, C. Valacca,


P. De Lorentiis, G. Vaccina, S. Panareo e A. De Fabrizio;
2) Nell’area occidentale, Gallipoli con S. Buccarella, G. Marzo, G. Susanna
e N. Patitari;
3) Nell’area settentrionale, lungo l’asse Brindisi-Ostuni con A. Lotesoriere,
A. Chimienti, P. Pignatelli e O. Paolo Orlando.
La poesia dialettale salentina, liberatasi dall’incombenza politico-culturale
di Napoli, viene arricchita dal regionalismo, dal realismo e dal popolarismo
romantico sulla scia di autori come Trilussa e Porta in riferimento al dialetto,
mentre Prati, Giusti e la tarda Scapigliatura milanese in riferimento alla lingua.
7
MARTI (a cura di) Letteratura dialettale salentina, Il Settecento, cit., p. 106.
8
M.T. ROMANELLO, Per la storia linguistica del Salento, Alessandria, dell’Orso, 1986, pp. 65-66.

259
Letteratura dialettale salentina

Inoltre essa risente del ruolo svolto da Carducci in termini di mediazione nei
confronti della letteratura romantica tedesca e di quella francese.

2.1. Francesc’Antonio D’Amelio

Il D’Amelio (1775-1861) segna l’incontro tra Settecento arcadico e


romanticismo popolare, tra lingua e dialetto; apre una stagione poetica che si
concluderà con Giuseppe De Dominicis, il quale inaugurerà un nuovo ciclo
della poesia dialettale, che vede tra i protagonisti: Raffaele Pagliarulo, Enrico
Bozzi, Oberdan Leone, oltre al gruppo di Maglie.
Mentre il D’Amelio inserisce l’ironia all’interno delle tematiche della
poesia arcaica, il De Dominicis predilige un realismo di estrazione romantica.
L’autore pubblica un raccolta di poesie Puesei a lingua leccese. I critici lo
giudicarono negativamente. Imbriani lo considerava mediocre perché da un lato
percepiva il servilismo o comunque il senso di compromesso, dall’altra aveva
infranto l’obiettivo proprio della letteratura dialettale: «se la nostra nazione ha
adoperato la lingua aulica, illustre per esprimere in esso i suoi concetti comici»9.
Altri critici, come il Bicci10, segnalavano la mancanza nelle liriche di amor
patrio.
D’Amelio, con lo scherzo e l’ironia, segna la fine di quella stagione poetica
che vedeva sul viale del tramonto diverse correnti, dalla musicalità dell’ultima
Arcadia alla spontaneità naturale del Meli, dalla rusticità corale delle canzoni
popolari all’esordiente sfumatura di sensibilità romantica. Uno degli aspetti
dell’opera del D’Amelio è l’intenzionalità come si evince dalla lingua, cioè il
«dialetto rusciaro dal frasario brioso, pittoresco, originale, dal codice linguistico
quanto mai vario e duttile, dalle locuzioni e dai modi proverbiali frizzanti,
sintetici, ed efficaci, proprio della cultura dei ceti subalterni tra ’700 e ’800»11.
Leggendo Puesei a lingua leccese, non c’è traccia di grandi ideali patrioti o
civili né di principi universali. La modesta vita e la conservazione dell’impiego
rigettano l’ambizione di far carriera e di raggiungere la fama letteraria che non è
ipotizzabile nel perimetro delle mura cittadine e delle serene amicizie. Anche
nei componimenti più solenni come Lu buccamentu de Nnibale e Scipione
permane il disimpegno, legato alle situazioni di contorno, e l’estraneità
all’ambito politico, economico e morale. In altri termini D’Amelio, distante dal
trionfalismo del Risorgimento, predilige la storia dei gesti comuni (Enea,
vedendo Priamo perire davanti i suoi occhi, preferisce vivere piuttosto che

9
V. IMBRIANI, Rec. a Puesei a lingua leccese de lu Francescantoni d’Amelio de Lecce, in «Nuova
Antologia» fasc. XI, novembre 1868, pp. 628-629.
10
Patriota garibaldino.
11
E. PANARESE, Appunti per uno studio del dialetto rusciaro dameliano, Estratto da “Tempo
d’oggi” (Maglie), V, 1978, pp. 16-21.

260
Fernando Salamac

morire da eroe). Nel contesto dell’arcadia umana, l’autore sperimenta l’ironia e


l’umorismo12.

2.2. Giuseppe De Dominicis

Il De Dominicis (1869-1905) pubblica nel 1892 Scrasce e gesurmini ‘Rovi


e gelsomini’ che viene accolto positivamente dai lettori. Nel 1893 vede la luce
l’opera in versi Lu nfiernu, che anticipa di sette anni i Canti de l’autra vita
‘Canti dell’oltretomba’, costituiti da Nfiernu, Purgatoriu, Paraisu, Uerra a
mparaisu ‘Guerra in Paradiso’
Nel 1895 per commemorare la morte del Duca Sigismondo Castromediano,
compone un carme a più movimenti dal titolo Allu Duca de Caddinu. Salutu ‘Al
duca di Cavallino. Saluto’, dimostrando di saper integrare, anche
nell’improvvisazione, la metrica classica alla spontaneità popolare del dialetto.
Nel 1902 esce il poema Li martiri d’Otrantu, costituito da cinquanta lasse
di quattro quartine di endecasillabi per un totale di ottocento versi, tanti furono
coloro che morirono per mano dei turchi nel 1480.
La critica non accettò che il De Dominicis fosse il più importante esponente
della poesia dialettale salentina. I Canti de l’autra vita furono intesi dal Gabrieli
come «trasparente allegoria satirica di apocalittiche palingenesi»13; dal Pagano
come «una difesa attraverso il sarcasmo e la causticità, dal pianto e dalla
miseria, un’ironia creata per sconfiggere la commozione»14, e dal Pasolini come
«l’intervallo di scetticismo, di scherzosità che finiscono col trasformare
l’autentica, violenta, faziosa (e poetica) fedeltà reazionaria, in quella
addomesticata nostalgia che è la costante più negativa delle poesie vernacole»15.
Marti, invece, pone il De Dominicis nell’olimpo della letteratura salentina
di fine Ottocento come assonanza del momento magico della nuova borghesia
leccese in contrapposizione all’anarchia e a favore del sistema basato sulle
classi, influenzate dall’ideologia della sinistra democratica caratterizzante i
giovani intellettuali salentini di fine secolo16.
Nell’autore riscontriamo due aspetti, in primo luogo il realismo come fonte
di ispirazione e in secondo la natura popolare di tale ispirazione come si desume
dal racconto Lu ellanu e San Pietru, nel quale la forma e lo sviluppo sono

12
VALLI, Storia della poesia dialettale cit., pp. 73-82.
13
F. GABRIELI, Il Capitano Black, in «Gazzetta del Mezzogiorno», 14 settembre 1976.
14
V. PAGANO, Celebrazione dei poeti dialettali di Terra d’Otranto, in T. PELLEGRINO (a cura di)
Le Celebrazioni salentine. I ciclo, Lucugnano, Edizioni dell’Albero, ottobre 1952, pp. 26-29.
15
P.P. PASOLINI, La poesia dialettale del Novecento, in Passione e ideologia, Milano, Garzanti,
1960, pp. 47-52.
16
M. MARTI, Per una linea della lirica dialettale salentina, in Dalla Regione per la Nazione,
Napoli, Morano, 1987, pp. 338-341.

261
Letteratura dialettale salentina

conformi al racconto popolare, che l’autore innalza citando alla fine di ogni
canto un passo dantesco.
Soltanto in un secondo momento il De Dominicis, pur mantenendo la
struttura popolaresca della trama e del linguaggio, si avvale della dantesca
discesa nell’aldilà.
La genesi della poesia è paragonata dal De Dominicis al lavoro
dell’artigiano di Castrì (riferimento non casuale) che costruisce il cesto
aggiungendo vimine a vimine, senza trama preordinata, che non sia la spinta
formale di un racconto realistico. La genesi dei Canti è testimoniata dallo
sviluppo editoriale. Lu nfiernu del 1893 differisce dall’edizione del 1900.
Analogamente le due cantiche Paraiusu e Uerra a mparaisu, pubblicate nel
1895 sul settimanale ‘La Raspa’, sono differenti da quelle del 1900, in quanto
alcuni canti furono eliminati e altri profondamente ritoccati sul piano logico-
narrativo.
Così Francesco D’Elia considerava i canti del De Dominicis: «il poeta, sotto
forma di racconto popolare, vuole tracciare la vicenda delle rivoluzioni sociali,
le quali partono dall’insurrezione a causa dell’ingiustizia Nfiernu, resistono per
azione istigatrice di un capopopolo Purgatoriu e Paraisu, si nobilitano per
l’idea di acquisire l’uguaglianza Uerra a mparaisu, per poi concludere nella
restaurazione Tiempu doppu»17.
L’ultima opera pubblicata è Spudhiculature 1903, rimasta incompiuta.
Nonostante questo aspetto, l’autore avrebbe dato vita ad un scritto di ampio
respiro, in cui si scontrano i sentimenti umani. Si intravede l’influenza di
Baudelaire e Goethe che segnano il passaggio verso la lucida follia
nietzschiana18. La forza della poesia di Capitano Black, pseudonimo del De
Dominicis, sorge dall’umorismo tanto reale quanto amaro, in grado di
contrappore con maestria l’universale al particolare, la nobiltà alla miseria, la
fantasia alla realtà. Infine è indubbia la grandezza dell’autore che abbandona
l’improvvisazione per diventare letterato di mestiere.
Li martiri d’Otrantu19 dimostrano come l’impulso popolare venga celebrato
nel mito, rafforzando il repertorio retorico e la ricercatezza stilistica. Infatti il

17
F. D’ELIA, La nuova poesia del Capitano Black, in «Corriere meridionale», 8 luglio 1897.
18
VALLI, Storia della poesia dialettale, cit., pp. 141-153.
19
Il 29 luglio1480 la flotta turca fu avvistata in prossimità di Otranto. Un parlamentare turco chiese
la resa, ma l’assemblea popolare optò per la resistenza ad oltranza, iniziata da Lanzilao De Marco
che gettò la chiavi della città in mare. I cittadini di Otranto, consapevoli dell’imminente caduta,
inviarono un corriere per chiedere aiuto a re Ferdinando, che dopo esser venuto a conoscenza
dell’accaduto, disse: «E il destino triste di Otranto è prossimo!». Acmet Breche-Dente, Gran Visir di
Maometto II, ordinò di attaccare la città. Il 12 agosto i turchi espugnarono Otranto, che fu vittima
delle più crudeli violenze. Dei 12.000 (F. SAVIO, nella Storia dell’Evo Moderno, parla di 19.000;
A.P. GUGLIELMOTTI, in Storia della Marina Pontificia, di 10.000 unità), sopravvissero circa 800, i
quali al cospetto di Acmet furono invitati a scegliere tra morire o rinnegare Gesù. Ma gli 800,
credendo fermamente nella fede cristiana, rifiutarono di diventare seguaci del falso profeta. Gli

262
Fernando Salamac

pensiero del popolo, basandosi su schemi e dicotomie semplici, identifica


l’invasore turco come il male assoluto e il martire otrantino come il bene assoluto;
in base a questa visione, l’autore propone una serie di contrapposizioni: la
bellezza della natura all’orrore del conflitto bellico, la gratuità dello sterminio
all’apoteosi della fede, l’atroce malvagità alla divina spiritualità.

2.3. Enrico Bozzi

Il Bozzi (1873-1934) pubblica la prima raccolta di versi nel 1905 Fogghe


mmedhate, in cui già emerge l’onesta povertà come caposaldo della sua poetica.
Due anni dopo vede la luce la seconda raccolta Ragghi ‘Ragli’. Se Fogghe
mmedhate è una sintesi tra giocosità e autorevolezza, tra tristezza e allegria, la
seconda, con richiami veristici e scapigliati, ma elevati in termini di finezza e
proprietà, propone ‘la parola’, se pur espressa con un raglio, dinanzi alla cieca
abbondanza e all’indecenza del vizio. La terza raccolta, risalente al 1912, è la
Banda de la Lupa che presenta la polisemia20.
Nelle tre raccolte Bozzi si ispira al repertorio lirico tardo ottocentesco
(Aleardi e Prati) e alla tradizione scapigliata, in particola modo al realismo
sociale con l’anticlericalismo o il progressismo politico. Tali valori risentono
dell’ambiente salentino. Ne consegue in primis lo sguardo rivolto alle questioni
sociali in cui imperversa il dramma della povertà e dell’iniquità, in secondo
luogo la necessità di rifugiarsi nella fantasia e in un amaro intimismo che
guarda al ricordo, alla nostalgia e alla delusione.
L’indipendenza artistica gli consente di creare quel margine dal reale, con
cui delimita il dolore della realtà per isolarsi nella polisemia e
nell’immaginazione.

Otrantini accettarono con giubilo la sentenza di morte. Mentre legati con le mani a tergo si
apprestavano a morire presso il colle della Minerva, a trecento passi dalla città, una giovane otrantina
che il De Dominicis chiama Idrusa (nome di fantasia, che deriva dal fiumicello nascente da M. Idro
che passa presso Otranto, conosciuto come Idrusa, nome antico della città) incontrò i due fratelli e
chiese loro: «O fratelli miei, dove andate?». Rispose uno: «Andiamo a morire per amore di Gesù
Cristo». Dopo aver udito ciò, la fanciulla cadde tramortita a terra agonizzante e mentre un turco tentò
di rialzarla, Idrusa sguainò la turca scimitarra e lo uccise. Decollato Primaldo avvenne il primo
miracolo, il corpo rimase in piede, nonostante i tentativi dei turchi, e cadde da sé allorché furono
decapitati tutti i martiri. Il primo miracolo comportò anche la conversione di Berlabei, ma fu
condannato alla pena del palo e oggi lo si venera come martire insieme ai 40 di Sebaste. La causa
della beatificazione fu trattata nel 1660 dalla S. Congregazione dei Riti. I corpi dei martiri rimasero
per circa un anno esposti all’intemperie. Solo nel settembre dell’anno successivo Alfonso
d’Aragona, giunto all’ecatombe, ordinò che le reliquie fossero portate nella Chiesa di S. Eligio,
prima nella confessione della metropolitana e in seguito in apposita cappella, in armadi di noce
chiusi da cristalli, dove tutt’ora sono. E. TOMA TRONCI, Otranto le Origini, l’Eccidio, Galatina,
Editrice Salentina, 1971, pp. 87-109.
20
La lupa è il simbolo della città di Lecce, la banda si riferisce ad un complesso musicale o
combriccola chiassosa di gente spensierata oppure alla brigata. Il gioco polisemico è una
caratteristica presente nel Conte di Luna, pseudonimo del Bozzi.

263
Letteratura dialettale salentina

Non è un caso che nella presentazione di Fogghe mmedhate, P. Marti


collochi la produzione del Conte di Luna tra quella del D’Amelio, artefice della
forma, e quella del Del Dominicis, artefice della parlata popolare.
Secondo Il Valli, il Bozzi è la sintesi sul piano stilistico-tematico tra i due
modelli salentini, soffermandosi sull’etica e sulla giustizia21.
La prima tematica nasce dal buon senso e dall’accontentarsi grazie alle
astuzie e agli interessi che la società e il tempo comportano; la seconda deriva
dalla realizzazione dei bisogni primari del cibo e del denaro: la povertà e la
fame producono non la rivolta, ma la furbizia per poter sopravvivere.
L’impellenza di salvarsi dall’inedia affievolisce i grandi principi, che trovano
eco solo nella fantasia.

3. Il Novecento
A partire dal 1950, meditando sulla seconda Guerra Mondiale e
sull’impianto sociale della regione, la poesia dialettale salentina conosce una
fase di ammodernamento che influenza le fonti, lo stile e la mansione della
poesia stessa. Nel Salento tale cambiamento si afferma negli anni ’70 con
Cronache e paràbbule di Nicola G. De Donno (1972) e con Nu vecchju diarie
d’amore di Pietro Gatti (1973).
De Donno, Caputo e Gatti sono favorevoli all’autonomia letteraria e
linguistica del dialetto dalla lingua italiana come cultura egemone. Le tematiche
e le tecniche rispecchiano la letteratura nazionale, ma il dialetto estende il
particolare regionale su un piano universale e cala le virtù della poetica italiana
nel contesto di una provincialità mutata.
I capisaldi di questa poetica sono l’individualismo e il soggettivismo, anche
quando esse scaturiscono dall’oggettività di situazioni o figure storicamente e
geograficamente circoscritte. Coniugando l’espressione alle tecniche e ai ritmi
poetici, Gatti approda alla poetica degli oggetti, Caputo alla poetica delle parole
e De Donno all’eleganza nella sperimentazione.

3.1. Nicola G. De Donno


La ribellione dalla periferia e la scelta provincialistica lo indirizzano verso la
lingua dialettale, come si evince dalla nota di una raccolta di dieci sonetti, edita in
un periodico della sezione magliese della Società di Storia Patria. Nella produzione
del letterato sussistono due sonetti dal titolo Li risultati dopu la legge truffa che
delineano la manovra politica, storicamente nota come “legge truffa”22.

21
VALLI, Storia della poesia dialettale, cit., pp. 173-183.
22
Costretti a fronteggiare la pressione della sinistra e minacciati dalla possibile avanzata della
destra, De Gasperi e i suoi alleati, tentarono in vista delle elezioni del ’53, di proteggere la
coalizione centrista con la modifica del sistema elettorale, che avrebbe assegnato il 65% dei seggi
alla Camera a quel gruppo di ‘apparentati’ che ottenessero almeno la metà dei voti. Nonostante

264
Fernando Salamac

La disposizione di natura provincialistica sorge dalla crisi esistenziale della


Seconda Guerra Mondiale dovuta alla mancata realizzazione degli entusiasmi
giovanili. Visto quell’insuccesso, il successivo rinnovamento diviene più ambiguo.
Al posto della propaganda fascista, subentra la normalizzazione e la
colonizzazione egemonica da parte dei poteri forti, volti ad eliminare la cultura
e lo spirito popolare ricco di povertà e sacrifici. In quest’ottica il dialetto
difende la dignità umana avvalorata dalla tradizione e dalla virtù.
L’interesse verso i testi letterati23 e verso i proverbi24 comporta la tenuta
semantica delle immagini, eliminando lo spazio tra sviluppo logico ed
interpretazione critica del testo25.
La vita vissuta si intreccia con l’insoddisfazione personale, poiché il reale
non combacia con l’immaginazione; basti pensare a Cronache e paràbbule, in
cui affiorano eventi di vent’anni di vita nazionale, paesana e familiare, e La
guerra de Otràntu, in cui persiste il sacrificio della povera gente carica di valori
civili e religiosi. Nella canzone Testamentu26 approda, come la filosofia
gentiliana, al dubbio sull’esistenza di Dio e al suicidio della ragione, di
conseguenza alla morte come unica certezza. Ma in una successiva lirica, il
poeta priva la morte del dominio della ragione, assegnandolo alla vita, perché è
la storia ad essere risucchiata dal vortice della vita stessa.
3.2. Il principio linguistico di Parlangéli e il principio letterario di Marti e Valli
Nel 1968 Oronzo Parlangéli, interessandosi alla letteratura dialettale salentina27,
avanza un’interpretazione linguistica dell’italiano. Nell’Italia contemporanea
scompare la contrapposizione tra lingua italiana, in qualità di espressione
nazionale, e lingua dialettale, in qualità di espressione locale, circoscritta dal
punto di vista geografico. La divergenza attuale riguarda la sfera socioculturale,
così la lingua italiana si presenta come il vertice di questa piramide
comunicativa, contrapponendosi al dialetto come base di tale realtà28.
Decade la separazione tra letteratura dialettale riflessa e quella spontanea, in
quanto ciascun componimento rivela il quadro sociale ed economico di una

questa strategia, la coalizione di governo fu sconfitta, mancando per poche decine di voti la meta
del 50% e il premio di maggioranza. Si registrò la disfatta di De Gasperi e una lunga fase di
transizione. A. GIARDINA, G. SABATUCCI, V. VIDOTTO, Profili storici 3 dal 1900 a oggi, Bari,
Laterza, 2004, p. 882.
23
Lo studente magliese 1897-1884; Maglie giovane 1893-1895; la Pialla 1893-1894.
24
Oppressioni e resistenza nei proverbi di lavoro salentini 1978; Dizionario dei proverbi salentini 1995.
25
VALLI, Storia della poesia dialettale, cit., pp. 197-200 e 229-234.
26
La canzone è tratta dall’ultima raccolta dell’autore, Palore.
27
O. PARLANGÉLI, Considerazioni sulla letteratura dialettale salentina, in Almanacco Salentino,
Cutrofiano, Toraldo & Panico, 1968, pp. 180-203.
28
ID., Considerazioni sulla classifica dei dialetti italiani, in Studi linguistici in onore di Vittore
Pisani, Brescia, Paideia, 1969, pp. 715-760.

265
Letteratura dialettale salentina

realtà arretrata, espressa dalla lingua dialettale. Inoltre la poesia ‘laureata’ è


conosciuta dagli autori dialettali.
Secondo il Parlangéli, letteratura dialettale è meno importante, perché è
rivolta a soggetti analfabeti o dialettofoni interessati ai personaggi o a istituzioni
locali. Infine è la lingua letteraria a determinare la letteratura dialettale e a
stabilire ogni legame tra lingua e dialetto.
Il Marti e il Valli propongono nei tre volumi della collana Biblioteca
salentina di cultura il ‘principio letterario’, con cui hanno selezionato i testi
della Letteratura dialettale salentina: «Occorreva un discrimine critico: e noi
abbiamo creduto di poterlo individuare nella differenza tra produzione
dialettale spontanea, popolare, e produzione dialettale riflessa e, sia pure in
qualche misura, dotta e tecnicamente consapevole»29. Si riscontra che Li misteri
di Gesù Cristo, La storia di Ciro e tanti altri che, esenti dalla consapevolezza
tecnica letteraria, sono stati esclusi e sarebbero collocabili in una specie di semi-
dialetto.
Ritengo che i due principi presentino dei limiti. Il principio letterario pecca
in termini di soggettività. A tal proposito Mancarella sostiene: «diversi testi del
Valli sembrano contraddire a tutte le positività proclamate in termini generali e
perché sembrano convalidare, invece, la loro negatività di subordinazione e di
dipendenza culturale»30.
Il principio linguistico, rivolgendo tutta la letteratura dialettale a soggetti
analfabeti o dialettofoni, esclude la possibilità che l’autore componga in dialetto
per il proprio piacere piuttosto che per i lettori; in secondo luogo non bada alla
connotazione e allo sviluppo politico che dialetto acquisisce in termini di
autonomia linguistica e letteraria per gli autori salentini del Novecento. A tale
riguardo De Donno reclama l’indipendenza del dialetto nei confronti
dell’italiano ed è il dialetto, come forma di civiltà, a condurlo verso il
rinnovamento lessicale e verso conoscenze d’avanguardia.

29
MARTI (a cura di) Letteratura dialettale salentina, Il Settecento, cit., p.10.
30
G.B. MANCARELLA, Letteratura dialettale nel Salento, in «Studi linguistici salentini», 31, 2007,
Lecce, del Grifo, p. 100.

266
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 267-290
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p267
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

Emilio Filieri

1. Erminio Giulio Caputo (1921-2004)


Era il luglio del 1986 quando Erminio Giulio Caputo1 affidava alla pagina
bianca di una semplice agenda2 il suo verso sofferto, pronto a raccogliere e a
condensare tutto un mondo, l’intero universo, nel ritmo di alcune sillabe aspre,
L’universu nţra nu jersu, con l’animo ebbro di infinito e intimamente lacerato3
nel dolore dell’uomo in pena:

L’universu nţra nu jersu

me mmini n’terra e m’ausi fenca a Tie


Tie patrunu ieu servu
Tie riccu ieu purieḍḍu
Tie sule ieu noviluniu.

Cu me scunna la notte
st’universu nfinitu ndu se mbriacanu
matasse de lu tiempu
e de lu spazziu…

1
Nato da genitori salentini a Campobasso il 26 novembre 1921, fu con la famiglia a Trani, a
Lucera, a Lecce e a Novoli; come segretario comunale o direttore di ragioneria trascorse circa due
anni a Campi Bisenzio (FI) e sette anni a Jesi nelle Marche. Rientrato nel capoluogo salentino fra
1964 e ’65, Caputo morì a Lecce in data 8 febbraio 2004.
2
Come già detto altrove, l’agenda di uso comune è relativa all’anno 1985 e presenta la copertina
consunta, con la pubblicità commerciale di un esercizio leccese. Molte pagine sono vergate recto
e verso, con notevoli cancellature, abrasioni, correzioni, talora illeggibili; compaiono pure
semplici indicazioni di autori, come Borges, Eliot, Papini, Eraclito, De Donno, Bodini.
3
Si consenta il rinvio E. FILIERI, La forza della speranza, in E.G. CAPUTO, Erminio
Giulio Caputo. Dieci Inediti. 1986-2003, introduzione di Lidia Caputo, Martina Franca di
Taranto, Artebaria, 2012, pp. 47-59 [Collana curata da Rosario Jurlaro]. Per il laboratorio
dinamico della letteratura dialettale nelle terre di Puglia si veda Letteratura del Novecento in
Puglia. 1970-2008, a cura di Ettore Catalano, Bari, Progedit, 2010, p. X.; cfr. anche ID., Sugli
Inediti di E. G. Caputo e sulla sua poesia, in ID., Letteratura e Unità d’Italia. Dalla regione alla
nazione, Bari, Progedit, 2011, pp. 117-142. Su alcune recenti puntualizzazioni si veda D. VALLI,
Due poeti dialettali. Nicola Giuseppe De Donno ed Erminio Giulio Caputo, in Sei poeti salentini.
Letteratura del Novecento in Puglia. 1970-2008, cit., pp. 335-349.

267
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

e cu bbicia murire la morte


le spere ferme subbra n’ura eterna
e l’universu nţra nu jersu

conocchia4 ca ne ccogghie
stu rivulu de vita ca scarsiccia.
Torre Lapillo, luglio 1986

Ecco di seguito la mia traduzione:

L’universo in un verso

mi getti a terra e mi alzi fino a Te


Tu padrone io servo
Tu ricco io poverello
Tu sole io novilunio.

Mi nasconda la notte
quest’universo infinito in cui s’ubriacano
grovigli del tempo
e dello spazio […]

e possa vedere morire la morte


le sfere ferme sopra un’ora eterna
e l’universo in un verso

conocchia che raccoglie


questo rivolo di vita che scarseggia.

L’anafora del rilievo pronominale Tie/ ieu percorre i primi quattro versi dei
tredici complessivi, e caratterizza il componimento con un abbinamento
antitetico tutto svolto nella dicotomica distanza iniziale, sino alla metafora del
‘sole’ identificato con il Tu-Dio, con la netta e necessaria contrapposizione
all’Io-novilunio, emblematicamente posta a fine strofa. L’Io è novilunio, Luna
senza luce, satellite con la faccia buia rivolto alla Terra: è l’oscurità dell’uomo
segnato dalla morte, ma pure aperto al passare dei ‘quarti’ lunari e con la
tremula speranza della Luna piena, pienamente illuminata dal ‘sole’
In tale prospettiva il poeta alimenta immagini di poesia visionaria: «Cu me
scunna la notte/ st’universu nfinitu ndu se mbriacanu/ matasse de lu tiempu/ e
de lu spazziu»; Caputo poeta avverte il bisogno di nascondimento nella notte,
fra la ricerca di un rifugio e il senso del continuo e infinito raggomitolarsi
dell’universo, ebbro dei suoi intrecci fra tempo e spazio. Il congiuntivo

4
Com’è noto, la conocchia o rocca è strumento della filatura, lungo i secoli considerata attività
muliebre per eccellenza e nella tradizione popolare divenuto anche simbolo di virtù domestica.

268
Emilio Filieri

desiderativo sembra concretizzarsi sino all’immagine della “morte della morte”:


il desiderio di vedere ‘morire la morte’ si nutre di fiducia, diviene speranza
alimentata dalla fede, per la vittoria della Vita in un’ora eterna. Così l’immane
presenza delle matasse dell’universo possono risolversi in un verso, vera
conocchia in grado di raccogliere il rivolo della vita, l’estrema lingua di un
ruscello ormai scarso di acque, destinato all’ultimo inaridimento, come a
riecheggiare Montale con l’eco del gorgoglio strozzato. La metafora ardita del
‘verso’ come atto della filatura si coniuga con il significato del ‘verso’
raccoglitore dell’ultima acqua vitale, in sinestetica visione dell’universo,
concentrato in un verso: è una visione biblico-onirica di vorticoso verticalismo,
significativa della forza e dell’energia della poesia dialettale, capace di esaltare
la propria concretezza e inventività, con scambio di modi, con interferenze e
con interconnessioni di ricchezza letteraria e di coscienza d’arte, in rinnovata
sensibilità rispetto alla lingua italiana.
Il citato breve quaderno caputiano dei dieci componimenti poneva al centro
ideologico-spirituale l’antica torre di una piccola terra di mare, Torre Lapillo.
Già cantata nella raccolta La chesùra5, per Caputo Torre Lapillo è il segno di
pietra connotativo dei suoi versi, come montaliana scheggia eretta tra paesaggi
di sabbia e di onde, in intima relazione con l’interiore orizzonte dell’anima.
Pullulante del sentimento indigeno di un luogo ricco di storia e di incontri, il
suo paese intimo si apre come varco verso l’oltre atemporale, a partire dal punto
di pietra rappresentato dalla torre, nella storia vedetta contro le incursioni e
contro le scorrerie piratesche, su quel mare Jonio percorso da Ulisse: per Caputo
quella petrosa torre diviene punto di approdo e proiezione verticale, nella
dimensione dell’Io fisico a confronto con il Tu metafisico, con densa vena
religiosa in tensione di ascesi6.
A dire il vero, a discernere temi e tempi, adiacenze e prospettive della
poesia dialettale caputiana, negli ultimi decenni sono intervenuti studiosi e
critici impegnati in ampia esegesi, con saggi significativi sulla figura e sulla
produzione in versi di Erminio Giulio Caputo, in vero disvelando profondità di
pensiero e suggestioni in grado di sostenere la serietà e la forza del suo
linguaggio poetico, come già detto, ben oltre le limitazioni spesso assegnate allo
strumento linguistico del dialetto7.

5
Esemplare appare l’Introduzione di Nicola G. De Donno alle trentadue poesie della raccolta La
chesùra (1980) [Il fondo chiuso], Cavallino di Lecce, Capone, 1980, p. 82, ora in E.G. CAPUTO,
Biancata. Opera omnia, t. II, Galatina, Congedo, 2001, pp. 51-73.
6
Cfr. G. BÀRBERI SQUAROTTI, I miti e il sacro. Poesia del Novecento, Cosenza, Pellegrini, 2003, pp.
121-122.
7
A tal riguardo si veda il notevole contributo sul trilinguismo in Letteratura italiana di M. MARTI,
Il trilinguismo delle lettere “italiane” e altri studi di italianistica, Galatina, Congedo, 2012, pp.
7-25. Per altri aspetti, cfr. M.A. GRIGNANI, Convergenze unificanti e spinte centrifughe nell’uso
della lingua, in Il Novecento. Storia della Letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, Milano,
Il Sole 24Ore, 2005, p. 245.

269
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

Fra i primi a individuare il “barocco dell’anima” espresso da Caputo nei


suoi versi, Donato Valli8 costituisce termine a quo e imprescindibile riferimento
della critica successiva, ma per efficacia e lucidità giova subito segnalare le
sempre caratterizzanti e puntuali annotazioni di Mario Marti9: dai due maestri si
diparte la riflessione sull’eclettismo caputiano per compresenza di contenuti, in
varietà di fonti e di modelli, arricchita dallo sguardo retrospettivo di Gino
Pisanò10, pronto a intravedere la rappresentazione di una mappa tematica
caputiana sviluppata sul tema-chiave ‘Salento’. Proprio Pisanò segnalava come
«la terra genesiaca, medesima nei suoi segni iconici, millenari, epperò violata,
contraffatta, perduta a se stessa» fosse centrale per Caputo, il quale viveva
all’insegna del sentimento del ‘sacro’ senza privarsi di una linea satirica, a
contrassegnare corde interiori di risentimento morale. Tra l’altro proprio Valli
richiamava la chiara e per molti aspetti esemplare introduzione di Nicola G. De
Donno11, preposta alle trentadue poesie della raccolta caputiana La chesùra,
volendo segnalare direzioni differenti della poetica caputiana, ora modulata su
aspirazione elegiache, ora condensata su vortici mistico-religiosi, ora aperta a
istanze pedagogico-civili.
A parere di chi scrive12, però, decisiva e centripeta rimane l’ispirazione
mistico-religiosa, sviluppata in prolungata intensità e in pieno coinvolgimento
emotivo e fantastico, con un incessante senso di ricerca poetica e intellettuale,
per la sofferta adesione al Verum a lungo scandagliato e rivissuto in intimo
profondo sentimento. Senza escludere le altre richiamate sollecitazioni e la pure
non sotterranea tensione civile, in direzione comunitaria, sembra necessario
segnalare in Caputo la prevalenza del tema mistico-religioso, a spirale rispetto
alle pure ricordate varie linee, convergenti verso quel nucleo denso e concentrato
per forza e intensità di svolgimento13. Se ne veda un esempio nella seguente
poesia, sconsolata confessione di Caputo, sulla socratica scia del sapere a grado
zero14, come a dire dalla terra fra Jonio e Adriatico, scio nihil scire:

8
D. VALLI, La letteratura dialettale salentina. Dall’Otto al Novecento, Galatina, Congedo, 1995,
pp. 825-826.
9
M. MARTI, Per una linea della lirica dialettale salentina, Napoli, Morano, 1987, pp. 408-410.
10
G. PISANÒ, Prefazione, in E.G. CAPUTO, Biancata. Opera omnia, Galatina, Congedo, 2001, pp.
7-11.
11
N.G. DE DONNO, Prefazione, in E.G. CAPUTO, Biancata, I, cit., pp. 51-73.
12
Si veda E. FILIERI, Sugli Inediti di E. G. Caputo e sulla sua poesia, in E. FILIERI, Letteratura e
Unità d’Italia. Dalla regione alla nazione, cit., pp. 127-128; cfr. anche ID., La forza della
speranza, in E.G. CAPUTO, Dieci Inediti. 1986-2003, cit., pp. 47-59.
13
FILIERI, Erminio Giulio Caputo. Dieci inediti, cit., pp. 55-56.
14
Si veda Platone, Apologia di Socrate, 6 21c-21d-21e. Ormai nota è la massima «[ἓν οἶδα ὅτι]
οὐδὲν οἶδα», So di non sapere, spesso per estensione «Sapiente è colui che sa di non sapere»; cfr.
anche M.M. MACKENZIE, The Virtues of Socratic Ignorance, in «Classical Quarterly», 38 (1988a),
pp. 331-350.

270
Emilio Filieri

E sacciu sulu ca nun ssàcciu nienti

e ssacciu sulu ca nun ssacciu nienti


e ssuntu priggiunieru de nu suennu

ulia cu cchiamu ma nun m’esse uce


ulia me mou ma me ţrou nchiuatu.

S’apre lu celu e mmoscia n’auṭru celu


nutu de stiḍḍe…

e jeu cima frundusa


struncunisciata allu jentu
arviru ca sta brucia
faciḍḍe d’odiu e de paura
quantu cchiu mueru cchiu sbampandu iu.

Torre Lapillo, luglio 1986

E so soltanto di non sapere niente

e so soltanto di non sapere niente


e sono prigioniero di un sogno

vorrei chiamare ma la voce s’ingorga


vorrei muovermi ma mi trovo crocefisso.

Si schiude il cielo e mostra un altro cielo


nudo di stelle…

ed io ramo frondoso
sconvolto dal vento
albero che brucia
faville d’odio e di paura
più mi consumo e più vivo ardendo.

L’ultimo ‘vero’ è approdo lontano, ma il processo di avvicinamento


simbolicamente si diparte con l’eco socratica, dal ‘sapere di non sapere’,
nell’aura estiva affidata in vernacolo alla pagina bianca come una confessione
agostiniana: “io so che non so nulla”, e diviene E sacciu sulu ca nun ssàcciu
niente15 per il tramite platonico dell’Apologia. Se l’unica vera saggezza è sapere
che non sai nulla, nell’istintiva lingua materna già il verso caputiano riecheggia
da vicino l’esito latino scio me nihil scire, unico viatico per conoscere se stessi,

15
E. FILIERI, Sugli Inediti di E.G. Caputo e sulla sua poesia, in Letteratura e Unità d’Italia…,
cit., pp. 122-123.

271
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

e come a richiamare il motto sul frontone del tempio delfico di Apollo16. Così: /
e suntu priggiunieru de nu suennu/ ulìa cu cchiàmu ma nun m’esse uce/ ulìa me
mòu ma me ţrou nchiuàtu […].
Nel ‘cunto’ della propria vita, Caputo ab initio echeggia il motto socratico-
platonico marcato in vernacolo. Cosi la caputiana conscientia sui per massima
sapienza accoglie e riconosce il tratto strutturale dell’essere uomo: né sapiente
come dio, né ignorante come bestia, il poeta supera e trascende l’acquisizione
socratica di “filosofo per tutta la vita”17: inchioda la sua carne e si trova,
crocefisso, per inverarsi oltre l’astrattezza e per oggettivarsi sino all’offerta di sé.
Mi pare che tale snodo segnali il suo distacco dalla migliore tradizione
greco-latina, per innestarsi dolentemente sullo stigma giudaico-cristiano, lungo
dolorose tappe di arduo percorso, come tasselli di aspro mosaico. Il poeta
avverte il desiderio struggente del quid cercato, mai irrimediabilmente perduto,
mai definitivamente conquistato, come prigioniero di un sogno in cui il carattere
antropico della voce pare smarrito. Oltre il sogno, oltre l’altra prigione, la
ricerca è verso la ‘vita vera’, ma nel conato di moto, nell’abbozzato movimento,
la riduzione a carne inchiodata sulla croce affaccia l’apertura della più alta
possibilità.
Già presente nella raccolta Ầprime Signore18, nel componimento XXX (ulìa
cu rritu ma nun m’esse uce… ulìa me mòu ma me sentu nchiuàtu), per antitesi
abbreviata il desiderio impotente di parlare segnala la restituzione di valore a
ogni sillaba, a ogni sforzo, e la redenzione della lingua poetica, per dare segno
all’ineffabile. Il carattere ritmico-semantico ricorre alla pura vibrazione, in un
flash logico-fantastico, per l’estremo recupero del senso profondo e della
comunione possibile oltre la morte. Cosi scrive: e jeu cima frundusa/
struncunisciàta allu jentu / arviru ca sta bruçia/ façidde d’odiu e de paura/
quantu cchiù mueru cchiù sbampandu vivu./
Appare tormentata, ma palese l’accettazione della dimensione umana della
sofferenza, condicio sine qua non di ogni possibile ascesi dell’uomo, e insieme
possibilità della discesa dell’infinito verso l’umanità dolente. Il viaggio
caputiano non è la sfida del mito, di un Icaro del Duemila, carico di piume e di
cera, di illusioni e di orgoglio, ma neppure il suo viaggio pare assimilabile a una
sfrontata illuministica conquista, in lineare assetto di tecnologica progressione.
Il cammino caputiano rievoca un itinerario a ‘vocazione eroica’, come per altri
aspetti ricordava Giorgio Barberi Squarotti19 e il poeta assume e trasforma il
peso e la griglia corporei nel simbolo vegetale, a grado minimo tra i viventi: jeu

16
Com’è noto, sull’architrave del portale al santuario di Delfi era riportato il celebre
motto «Γνῶθι σεαυτόν» («conosci te stesso»), che sarà poi fatto proprio da Socrate.
17
ID., Erminio Giulio Caputo. Dieci inediti, cit., p. 53.
18
E.G. CAPUTO, Componimento XXX, in Ầprime Signore. Spilu de site, in Biancata. Opera
omnia, t. III, cit., pp. 70-71.
19
BÀRBERI SQUAROTTI, I miti e il sacro, cit., pp. 121-122.

272
Emilio Filieri

cima frundusa/ struncunisciàta allu jentu/, ‘io ramo frondoso/ sconvolto al


vento’ e poi arviru ca sta bruçia. Nell’immagine del ‘roveto ardente’, in Caputo
si intravedono insieme il fuoco e l’arsura, la consunzione e l’ipotesi di
rigenerazione, come intuizione di nova spes. L’Io non è soltanto ramo, ma
‘cima’, punta di ramoscello tesa all’estremo verso l’alto, e non semplicemente
sconvolta al vento, ma struncunisciàta, punta marcata in senso intensivo, con
termine espressionistico arcaizzante, per rappresentare la piccola fronda
lungamente solcata dalla violenza e sconquassata e tramortita al vento.
L’utilizzazione del topos in notazione realistica impregna di forte e
totale coinvolgimento, e si costituisce come correlativo dell’acceso mondo
interiore. Pare di intravedere nell’ alto della chioma dell’albero un ramoscello
d’ulivo schiantato alla tramontana, lungo i litorali del Capo di Leuca, mentre
l’albero contorto si strugge alla fiamma di un incendio estivo, icastica immagine
dello sconvolgente intimo segreto fuoco. Pure l’intuizione della natura come
sacra e sofferta epifania riecheggia nella rappresentazione biblico-cristiana del
mondo naturale e soprattutto della morte, che sopravviene in poesia nel solco
della la memoria di Ungaretti: quantu cchiù mueru cchiù sbampandu vivu,
endecasillabo in cui la vampa è fiamma che estenua e consuma come atto
penitenziale, metafora dell’anima pronta alla luce, tra favilla e cenere.
Proprio in alto grado di calore e luce il fuoco avvolge e sostiene il disprezzo
del male, per una grazia a soffrire sconosciuta agli scettici, nella consapevole
ripresa del breve componimento LI nella raccolta Ầprime Signore, sul modello
ungarettiano di Sono una creatura dalla raccolta Allegria. Nel momento della
rivelazione di un cielo schiuso a mostrare la verità ultima, priva di ogni orpello
e nuda di ogni scintillante illusione (nutu de stiḍḍe, nudo di stelle), la morte
veramente deve scontarsi vivendo, nell’estrema coscienza dell’essere insipiente
dinanzi all’infinita sapienza, umana vampa dinanzi all’eterno. Si scorge il solco
illustre di testi poetici novecenteschi in intreccio di tematiche, risalenti alle
origini della mitologia classica e al suo incrocio con la tradizione giudaico-
cristiana20.
Si scorgono riecheggiamenti di autori come Virgilio e Dante21, e Agostino
con Petrarca dei Trionfi sino al libro biblico di Qoelet22, e a intersezioni con
Comi23, con Damaso Alonso24 e Turoldo25, con i poeti barocchi e con il già

20
E. BIANCHI, Introduzione a Poesie di Dio. Itinerario spirituale nel Novecento italiano, Torino,
Einaudi, 1999, pp. XIII e sgg.
21
Si veda P. BIGONGIARI, L’ermetismo e Dante, in Atti del convegno Dante nella letteratura
italiana del Novecento, a cura di Silvio Zennaro, Roma, Bonacci, 1979, pp. 202-216.
22
M. LUZI, Esperienza poetica ed esperienza religiosa, in Enciclopedia delle religioni, IV,
Firenze, Vallecchi, 1972, coll. 1675-1676.
23
G. COMI, Opera omnia (a cura di Donato Valli), Ravenna, Longo, 1977, passim; cfr. anche
C. CAPOROSSI, Ascetico Narciso. La figura e l’opera di Girolamo Comi, Firenze, Olschki, 2001.
24
D. VALLI, Prefazione, in E.G. CAPUTO, Ầprime Signore. Spilu de site, in Biancata. Opera
omnia, t. III, cit., p. 17.

273
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

citato Ungaretti26, nel continuum del dialogo ermeneutico. Il poeta Caputo verso
l’ultimo approdo pare indicare non una fine, ma un inizio, per ‘cominciamento’,
come se il suo Dio nell’ossimorico ‘attimo eterno’ si rivelasse dall’altro cielo,
disponibile a farsi cogliere dall’uomo-lingua di fiamma: nell’incendio
purificatore delle ultime scorie, bruciate come faville d’odio e paura (façiḍḍe
d’odiu e de paura), ogni limite umano si discioglie e si sublima
nell’incandescenza dell’amore. L’uomo nella dedizione della morte può trovare
la sua vera consacrazione: oltre l’allegoria della purificazione dal male, il legno
inchiodato di ogni giorno è il correlativo della personalissima condivisione della
croce.
Del resto alla creazione lirica di Caputo, come alla migliore poesia, sembra
appartenere una condizione imprescindibile, e lo ricorda lo stesso Valli: «non
solo scoprire per gradi la sua bellezza e il suo messaggio, ma anche prestarsi a
continue mutazioni esegetiche a seconda dei lettori e dei tempi»27. Il peculiare
statuto della letteratura caratterizza il destino di ogni ‘lirica intuizione’ e per la
sua polisemia, la poesia si declina in molti modi e l’identità semantica di un
termine si svolge nella ricezione dei destinatari e nella consistenza delle sue
divaricazioni, lungo la pluralità delle sue differenze. Ma riguardo al travaglio
stilistico di Caputo, occorre dire che il suo impegno appare notevole e che la
propria vocazione poetica si commisura e si confronta con gli strumenti della
sua ‘officina’, risonante e densa di ripensamenti, modifiche, correzioni e
interventi incessanti. In particolare, in Caputo il dialetto in alcuni momenti
sembra forgiato su misura e ricostruito per lemmi trascelti, riscoperti nella
pertinenza della sua personale poetica, preziosa e individualissima28. E tale
travaglio nella direzione di un limae labor significativo si alimenta di un
prolungato esercizio, sia di approfondimento sia di esemplificazione,
testimoniato anche dall’agenda dei Dieci Inediti ricordata in avvio: nella
sezione ‘Rubrica’ di quel suo taccuino traspare il lavoro sulle figure retoriche e

25
Cfr. A. RUSCHIONI, David Maria Turoldo mistico-poeta, in Alvaro critico e altri saggi, Milano,
Vita e Pensiero, 1995, pp. 249-250; e sempre della Ruschioni anche Luci senza tempo. Amicizia e
poesia, Milano, Vita e Pensiero, 2007, pp. 151-155. Si veda pure P. TUSCANO, La dignità
dell’uomo nella poesia di David M. Turoldo, in In un concerto di voci amiche. Studi di
Letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, t. II, a cura di
A. L. GIANNONE, Galatina, Congedo, 2008, pp. 719-720.
26
G. UNGARETTI, Il dolore. Mio fiume anche tu, e Tutto ho perduto, in Vita di un uomo. Tutte le
poesie, Milano, Meridiani Mondadori, 1982, p. 201 e 228-229.
27
D. VALLI, Aria di casa. Cronache di cultura militante, I, Congedo, Galatina, 1999, pp. 257 e
263; cfr. M. CORTI, Princìpi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, pp. 18 e
sgg.
28
Di recente, per merito della figlia Lidia, è stato possibile avvicinare un aspetto inedito, ma di
sicuro interesse della personalità caputiana, legato alle sue traduzioni in dialetto di significative
poesie della letteratura italiana (Leopardi, Montale, Fortini, Quasimodo) insieme con esemplari
della spagnola (G. Lorca), della russa (da E. Evtušcenko), della cilena (da P. Neruda) e della
rumena (E. Jebeleanu).

274
Emilio Filieri

in genere sui traslati, su figure di elocuzione o di significato e sui tropi, anche


sui metasememi, per individuare parole evocative di immagini e di ‘visioni’,
come processo di affinamento e di progressiva familiarità, sino alla conquista di
un suo ‘dialetto poetico’ in grado di dire e pronunciare il senso del limite e
dell’ineffabile.

2. La musa di Francesco Morelli (1878-1965)

2.1. Fra dialetto e lingua

L’interesse critico per il poeta dialettale salentino Francesco Morelli è


abbastanza recente; nato a Squinzano di Lecce il 25 ottobre 1878 e ivi
scomparso il 28 novembre 1965, il Morelli ebbe produzione letteraria
abbondante29, con numerose raccolte in dialetto e in lingua, di esiti e gusto
diseguali, ma con un valore storico-critico significativo, al crocevia di modelli
dialettali in Terra d’Otranto e, per la poesia in lingua, alla confluenza di
differenti poetiche tra Otto e Novecento. In tal senso, ben oltre i repertori e gli
interventi eruditi, merita peculiare citazione l’articolo di Ennio Bonea
pubblicato sulla rivista «Apulia»30, a commento della Prefazione di Trilussa31
alla silloge del Morelli Fugghiazze sciàline (Foglie ingiallite)32.
Bonea avviò una disamina ampia della produzione poetica dialettale
salentina tra Otto e Novecento33, ma in relazione al Morelli l’intervento del
critico salentino poi trovò minori rilanci accademici, e maggiore eco
pubblicistica. Con tali premesse si consolidò nella nativa Squinzano
l’associazione culturale dedicata al Morelli, operosa in memoria del poeta
considerato genius loci del natio borgo. Al suo nome, sovente sostituito con
l’ipocoristico Ciccio, quell’associazione dedicò la pubblicazione di un’agile
antologia delle sue poesie (coeva all’articolo di Bonea) e poi, nei primi anni del
nuovo millennio, la ristampa di una sua raccolta in vernacolo34. Sino al 1953
29
Si consenta il rinvio a E. FILIERI, La poesia dialettale di Francesco Morelli tra Capitano Black
e Conte di Luna, già in Giuseppe De Dominicis e la poesia dialettale tra ’800 e ì900, a cura di
G. Rizzo, Atti del Convegno di Studi-Cavallino di Lecce (Le), 17-19 marzo 2005, Galatina,
Congedo, 2005, pp. 125-146; ma ora si veda la monografia E. FILIERI, Aedo delle Muse.
F. Morelli fra Otto e Novecento, Trepuzzi di Lecce, Maffei, 2014, pp. 9-37 e sgg.
30
E. BONEA, De Dominicis Capitan Black (1869-1905), in «Apulia», a, 1985, marzo, n. 1, pp. 63
e sgg.
31
Carlo Alberto Salustri, noto come Trilussa (anagramma del cognome) nacque e morì a Roma
(1871-1950).
32
F. MORELLI, Fugghiazze sciàline, Lecce, Prospettive Regionali, s. d. [ma 1953]; a tale raccolta
è riferita la Prefazione postuma di Trilussa.
33
Si veda M. DELL’AQUILA, La lirica dialettale pugliese e lucana tra ‘800 e ‘900, in «Otto e
Novecento», Anno V, n. 3-4 Mag.-Ag. 1981, pp. 151-196.
34
Cfr. F. MORELLI, Fugghiazze sciàline, con prefazione di A.L. Carluccio, Lecce, Manni, 2001,
pp. 17-196.

275
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

Morelli pubblicò le sue opere a Lecce, come di seguito: Fiori e sorrisi. Versi
giovanili, R. Tip. Ed. Salentina, 1909; Fiori d’Arancio, Nuova Tipografia Sociale,
1913; Per la nascita di Bartoluccio Morelli, R. Tip. Ed. Salentina, 1915; Per le
fauste nozze del dott. Bartolo Aulizio con la distinta signorina Dirce Milanese, R.
Tip. Ed. Salentina, 1933; Liriche, L’Italia Meridionale editrice, 1934; Canti in
vernacolo, L’Italia Meridionale editrice, 1935; Mussolineide, L’Italia Meridionale
editrice, 1935; Saggio delle nuove poesie in vernacolo, dal vol. Pampane Siccate
di prossima pubblicazione, Cafaro, 1936; Poesie in vernacolo, II saggio, dal vol.
Pampane Siccate di prossima pubblicazione, Cafaro, 1936; Poesie in vernacolo,
III saggio, dal vol. Pampane Siccate di prossima pubblicazione, Cafaro, 1936;
Liriche, Cafaro, 1937; Vata, Cafaro, 1938; Post nubila Phoebus. Al Dottor Adolfo
De’ Crisogono, R. Tip. Ed. Salentina, 1939; Fugghiazze sciàline, Ed. Prospettive
Regionali 1953. Dopo il 1953, invece pubblicò presso le editrici di Milano e di
Torino: Fiori d’arancio ed edera, Milano, Gastaldi, 1954; Tramonto e aurora (10
giugno 1940-18 aprile 1948), Milano, Gastaldi, 1955; Fra i campi pipando,
Torino, Carteggio, 1957; Liriche sparse, Torino, Carteggio, 1957; Ultime faville,
Torino, Carteggio, 1960.
Sull’itinerario dialettale del Morelli appare opportuno richiamare35
ascendenze e presenza del ‘caposcuola’ Giuseppe De Dominicis, modello nel
dialetto salentino come «lingua te lu tata», la lingua del papà, accanto al
capostipite Francescantonio d’Amelio36: Capitan Black - De Dominicis37
costituì richiamo ricorrente nelle creazioni del Morelli, non insensibile però alle
istanze ironico-satiriche e talvolta onirico-utopiche di Enrico Bozzi, altro
significativo interprete della poesia dialettale in Terra d’Otranto, a cavaliere tra
Otto e Novecento. Con lo pseudonimo “Conte di Luna” Bozzi indicava «il
rifiuto d’ogni realtà quotidiana, casalinga, terrestre, e il rifugio nel sogno e
nell’utopia»38; e proprio il “Conte di Luna” dedicava il componimento Lu primu

35
FILIERI, La poesia dialettale di Francesco Morelli..., cit., pp. 120-121.
36
Cfr. D. VALLI, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella, 1985, pp.
10-12; e M. MARTI, Per una linea della lirica dialettale nel Salentina, in Dalla regione per la
nazione, Napoli, Morano, 1987, passim; e V. MARUCCI, Poeti dialettali, in V. MARUCCI,
A. STELLA, Le letterature dialettali, in Da Manzoni a De Sanctis. Storia della Letteratura
Italiana, diretta da Enrico Malato, vol. VII, Milano, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2005, p. 1022.
37
Giuseppe De Dominicis (1869-1905) nacque a Cavallino di Lecce, borgo già noto per i natali
del duca patriota Sigsmondo Castromediano, poi deputato e memorialista. Cfr. G. DE DOMINICIS,
Canti de l’autra vita. Li martiri d’Otrantu, a cura di D. Valli, Galatina, Congedo, 2005; e anche
Le poesie di Capitano Black, Congedo, Galatina, 1976, pp. 180-324, con nota introduttiva di
M. D’Elia (ristampa dell’edizione Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1926). Cfr. M. DELL’ARCO,
P.P. PASOLINI (a cura di), Poesia dialettale del Novecento, Parma, Guanda, 1952.
38
MARTI, Per una linea della lirica dialettale nel Salentina…, cit., passim. E. Bozzi (Taranto
1873-Milano 1934) fu notevole per inventiva, situazioni liriche a effetto e atmosfere ai limiti
dell’ironia surreale; impiegato presso l’Acquedotto Leccese, morì dopo un incidente con un tram.
Tra le sue pubblicazioni Fogghe mmedhate, Lecce, Tipografia sociale, 1905; Ragghi: versi in
dialetto leccese, Calimera, V. Taube, 1907; e La banda de la lupa: versi in dialetto leccese,

276
Emilio Filieri

fiuru (Il primo fiore) al «carissimo amico Ciccio Morelli per la nascita
dell’atteso figliolo Bartoluccio»39, a testimoniare una bella amicizia del poeta
squinzanese nel rapporto con il poeta leccese e con i sodali salentini, tra librerie
e botteghe artigiane, tra fogli volanti e periodici a Lecce, piccola ‘capitale’
barocca e poi liberty, in bilico tra sonnolenta conservazione e slanci, in fervore
culturale e civile40. Per il contesto culturale nel Salento, tra prosa e poesia, con
riviste e periodici leccesi significativi in un dibattito di idee anche di rilevanza
nazionale, si rinvia a Donato Valli41 e a Mario Marti42.
Nell’ambito agricolo, con una viticoltura subordinata alla fornitura soltanto
di un prodotto di base43 e destinata a un ridimensionamento nel medio-lungo
termine, si colloca la presenza umana di Francesco Morelli; ma in prospettiva
storico-letteraria, emblematico dell’interesse economico e del coinvolgimento
psicologico-emotivo di Morelli nella produzione vitivinicola è il componimento
L’ode al vino44, per trentuno strofe di sei endecasillabi (ABABCC), sulla scia di
modelli del Sette-Ottocento, con scelte metriche in direzione popolareggiante.
Nel 1937 l’ode era pronto per una delle Feste nazionali del vino e dell’uva45; e
poi di nuovo fu proposta con il titolo Bacchica in Ultime faville46, senza
modifiche. Le prime due strofe rivelano subito l’impegno classicheggiante del
poeta: Morelli non è immemore del mito di Ampelo, pastore amato dal dio
Bacco-Dioniso e ucciso da un toro imbizzarrito; e in quel momento una delle
Parche trasformò Ampelo in vite47. Come consapevole cantastorie, Morelli si
elevava a bardo della diffusa presenza della vite in Terra d’Otranto, con
apostrofi, anastrofi e traslati, in un rapido excursus su feste e riti greco-latini
all’insegna del vino (Omero, Catullo, Orazio, Catone) senza dimenticare Mosè.
Poi in rime scorrevoli poneva in campo gli autori della poesia italiana48: « […]/
il Redi con i suoi versi faceti,/ il Medici, il Chiabrera ed il Parini,/ il Giusti, il
Cavallotti, il Cavalcanti,/ lo Stecchetti, il Marino ed altri tanti.//».

Lecce, Stabilimento tipografico Giurdignano, 1912; Poesie in dialetto leccese ed in…pulito,


Lecce, R. Tip. Ed. Salentina, 1922. Si veda ampiamente D. VALLI, Enrico Bozzi, in Letteratura
dialettale salentina. Dall’Ottocento al Novecento, I, Lecce, Congedo, 1995, pp. 359-374.
39
E. BOZZI, Lu primu fiuru, in Per la nascita di Bartoluccio Morelli, Lecce, Salentina, 1915, pp. 21-22.
40
Letteratura dialettale salentina. Dall’Ottocento al Novecento, a cura di D. Valli, cit., pp. 7-8.
41
VALLI, Cento anni di vita letteraria nel Salento…, cit., in particolare pp. 73-131.
42
M. MARTI, La vita culturale, in Storia di Lecce. Dall’Unità al secondo dopoguerra, a cura di
Maria Marcella Rizzo, Bari-Roma, Laterza, 1992, pp. 575-615.
43
È noto, il “vino da taglio” era rielaborato altrove, poi etichettato con celebri marchi di vini,
anche esteri.
44
MORELLI, Fra i campi pipando, cit., 1957, pp. 132-139.
45
Istituita dal Ministero dell’Agricoltura nei primi anni ’30, la Festa del Vino prevedeva
esposizione e degustazione dei prodotti, con premi e bande musicali: cfr. Circolari del Ministero
Agricoltura-Prefettura di Lecce, 1935-38.
46
MORELLI, Bacchica, in Ultime faville, cit., 1960, pp. 73-80.
47
Si vedano Nonno, Dionisiache, XI, XII.1-117 e XII.117-291; e anche Ovidio, Fasti, III.407-414.
48
MORELLI, Fra i campi pipando, cit., pp. 135.

277
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

Il gusto enumerativo proseguiva in sonorità accattivanti, con le varietà dei


vini (piemontese Luglienga, Berzamino, Calabrese, Negretto, Cataratto
siciliano, Lagrima marchigiano); con i vitigni autoctoni della Puglia salentina,
Somarello (o Susumaniello), Primitivo, Negroamaro. Morelli enumerava altri
vini, omonimi di località, il Reno, lo Champagne, il Chianti e i laziali Frascati e
Albano, in suoni evocativi di gusti, si direbbe ampelo-geografici, con accenti
eno-poetici:
Chi numerar può i vini rinomati?
Reno, Sciampagna, Chianti49, Grignolino50,
Barbaresco, Tokai51, Frèisa52, Frascati,
Aleatico, Barolo53, Bardolino54,
Valpolicella, Zagarese55, Albano,
Capri, Barbera, Màlaga56, Squinzano.

Giunto finalmente alla denominazione del vino identificativo della propria


terra, l’autore si spingeva a tessere l’elogio dello Squinzano: «È lo Squinzano
l’eccellente vino,/ alcoolico, frizzante, preferito/ che nel bicchier scintilla, qual
rubino,/ aprrezzato da ognun, da ognun gradito;/ esso dovunque gode grande
stima,/ ed è tra i vini più pregiati in cima.//». Nelle strofe successive, il poeta
indicava attività di artigiani e di operatori vari, con riferimento alla ricchezza
derivante dal nettare di Bacco; poi accennava a varietà e a innesti più resistenti,
a rimedi contro le numerose malattie della vite. La poetica oraziana dell’utile
dulci, rilanciata dalle odi del Parini in senso illuministico, rifluiva nel Morelli
attraverso il vitalismo georgico-carducciano, per una sorta di poetico ‘Enotrio
Romano’ salentino, con l’agricoltore savio protagonista in relazione con la flora
e fauna e con la madre-terra. Nella rievocazione del mito dionisiaco il salentino
si correlava con le origini italiche della terra già chiamata Enotria, e con i poeti
nazionali cantori del vino, come Lorenzo de’ Medici, Giambattista Marino o il
Redi, Parini, Giusti, Cavallotti, sino a Stecchetti-Olindo Guerrini57. Il mito
dionisiaco del vino farmaco-nutrimento assurgeva a mito italico e nel suo nome
Morelli segnalava l’identità nazionale del canto bacchico, parte integrante del

49
Si veda A. SALTINI, Vino, conti e contadini. Cinquant’anni di scontri per le denominazioni del
Chianti, Firenze, Nuova Terra Antica, 2009, pp. 25-27.
50
Nel 1968 tale vino rosso del Piemonte fu definito «individualista ed anarchico» da Luigi
Veronelli, celebre enologo.
51
In Friuli-Venezia Giulia, vino bianco secco.
52
In Piemonte, soprattutto nell’astigiano, la Freisa era vinificata spesso in versione spumante.
53
Gran vino rosso, legato anche al conte Cavour e alla marchesa Juliette Colbert Falletti.
54
Della zona del Garda, rosso rubino chiaro.
55
Garganico e della Puglia centrale; vino colore rosso rubino intenso.
56
Vini liquorosi e dolci dall’omonima città spagnola.
57
Cfr. L. STECCHETTI (Olindo Guerrini), Postuma, ediz. critica a cura di C. Mariotti e M. Martelli,
Roma, Salerno, 2001.

278
Emilio Filieri

patrimonio letterario: apparteneva lo Squinzano all’élite enoico-poetica italiana,


in grado di competere con i rivali transalpini e dal Salento all’Italia, di fronte
allo Sciampagna, Morelli si poneva come aedo dalla regione per la nazione.
Dopo la prima raccolta in lingua58, occorre ricordare la risposta del Pascoli59
alle sollecitazioni avanzate dallo squinzanese. Alla scomparsa di Carducci,
primo modello del Morelli, il poeta di Myricae costituiva riferimento in grado di
offrire credito alle aspirazioni poetiche del salentino. Con una nota da Bologna
(15 febbraio 1911), il Pascoli così scriveva: «Egregio sig. Morelli, scrivo a lei
ciò che il Manzoni scrisse al De Amicis: “Se le dicessi che i versi mi paiono
senza difetti, sarei un adulatore; ma parlerei egualmente contro il mio intimo
sentimento se dicessi che non mi par di vederci il presagio di un vero poeta”».
Era uno sprone a perfezionarsi; e tale nota pascoliana si accompagna alla
Presentazione di Trilussa per la raccolta Fugghiazze sciàline 60, con il poeta
romanesco attento alle peculiarità dialettali: fra suggestioni ora foscoliane ora
leopardiane, lungo tali direttrici, una in italiano, l’altra in dialetto, si svolge
l’intero percorso lirico-esistenziale del salentino, fra Pascoli, allievo del maestro
Carducci, e lo stesso Trilussa.
Resta da dire che, a sollevare gli animi nelle difficoltà, nelle periodiche crisi
agrarie, la cultura musicale e il sodale sentimento di canto e poesia
caratterizzavano diverse occasioni della vita civile a Squinzano, nei primi del
Novecento, fra intermezzi di concerti, sessioni in piazza, riunioni di
filodrammatica, con Tito Schipa e con i celebri maestri d’orchestra Ernesto e
Gennaro Abbate61. Il Morelli usufruì anche delle traduzioni in dialetto da
classici italiani e stranieri, avviata da De Dominicis e Bozzi, in acquisizione di
consapevolezza letteraria, come «rivendicazione di una autonomia culturale, di
un’identità regionale che saranno il patrimonio di idee e di forme dei poeti della
generazione novecentesca»62. Di là da giudizi limitativi63, appare del tutto
condivisibile il riconoscimento di “capolavoro” riservato da Mario Marti ai
Canti dell’autra vita di De Dominicis, «momento magico della nuova borghesia
leccese e salentina del tempo»; per molti aspetti anche del Morelli si può dire
che fu poeta rappresentativo della borghesia provinciale, abbastanza aperta

58
MORELLI, Fiori e sorrisi. Versi giovanili, cit.
59
Si veda FILIERI, La poesia dialettale di Francesco Morelli tra Capitano Black e Conte di Luna,
cit., pp. 115.
60
Cfr. MORELLI, Fugghiazze sciàline, cit., [1953].
61
A proposito di vino e musica, lo stesso Vittorio Bodini ricordava sulla rivista«Omnibus» (5
dicembre 1950) che a Squinzano, dopo la vendemmia, negli stabilimenti si intonavano romanze.
Cfr. A.L. GIANNONE, Nota introduttiva a V. BODINI, Squinzano, vino a Milano, Nardò, Besa,
2007, pp. 7-9, già in V. BODINI, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di Giannone ( Besa
2003), pp. 85-90; FILIERI, Aedo delle Muse. F. Morelli fra Otto…, cit., pp. 22-25.
62
D. VALLI, Storia della poesia dialettale nel Salento, Galatina, Congedo, 2003, p. 71
63
Cfr. P.P. PASOLINI, La poesia dialettale del Novecento, in Passione e Ideologia, Milano,
Garzanti, 1960, pp. 47-52.

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Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

nella prospettiva sociale, ma «aristocraticamente compartecipe di cultura»64.Tra


le raccolte, come già detto, da notare Per la nascita di Bartoluccio Morelli
(1915): in quest’ultima silloge compare il citato Lu primu fiuru di Enrico Bozzi,
con data «Lecce, 24 gennaio 1915». Bozzi immaginava «lu presciu», la gioia
intensa dell’amico Morelli per il figlio «primu fiuru graditu e predilettu», «il
primo fiore gradito e prediletto» dell’unione del poeta squinzanese con la
moglie Vata, Addolorata; così concludeva il Conte di Luna65, nell’augurio a
Francesco e alla sua sposa66: «[…]/ Quandu la terra è bona, è nnu piccatu/ nu
sciardinu cu bessa bandunatu:// a ddu splende lu sule, siì ssicuru,/ doppu nu
picca a dhai nasce nu fiuru:// e crai la provvidenza bu nde manda/ tanti…cu nde
faciti na ghirlanda.//».
E più avanti Morelli pubblicò Liriche (1934) e Canti in vernacolo (1935).
Con Liriche, in particolare Morelli trattava degli affetti familiari e dei ricordi
autobiografici, fra infanzia e adolescenza, e poi degli aspetti della vita paesana,
sino a toccare temi patriottici in componimenti come Giovinezza italica,
confluito in Ultime faville67, e ancora All’Italia e Agli Eroi del mare, poi nel
1957 inseriti in Liriche sparse68. Ma Fugghiazze sciàline (Foglie ingiallite)
rimane la raccolta centrale del suo impegno poetico dialettale.

2.2. Fugghiazze sciàline69

Il titolo della raccolta Fugghiazze sciàline risentiva della suggestione


esercitata dalla precedente silloge proprio del Bozzi Fogghe meddhate (Foglie
miste), del 1905; così l’iniziale titolo di Pampane siccate (Pampini secchi),
adottato per i Saggi-Prova presso Cafaro nel 1935-36, fu abbandonato a favore
di Fugghiazze sciàline. La silloge di Morelli vantava la citata Presentazione di
Trilussa (postuma); l’itinerario poetico del romano Carlo Alberto Salustri-
Trilussa era ben noto, «sotto il segno d’una volontà di distacco dalle griglie dei
motivi fissati dal repertorio degli epigoni belliani», a smascherare le mitologie
retoriche con una sua propria ironia, ma in «uno spirito che guardava con

64
Ibidem. MARTI, Per una linea della lirica dialettale nel Salentina, in Dalla regione…, cit., p. 394.
65
BOZZI, Lu primu fiuru, in Per la nascita di Bartoluccio Morelli, cit., pp. 21-22.
66
Componimento in sei strofe, di cui la prima, la terza e la quinta sono tetrastiche a rima alterna
(ABAB), mentre seconda, quarta e sesta sono strofe di sei endecasillabi, in distici a rima baciata
(CCDDEE). Mia la traduzione: «[…] e le delizie le ponga nel vostro petto/ il profumo di questo
figlio prediletto.// Quando la terra è buona, è un peccato/ che un giardino venga abbandonato://
dove splende il sole, sii di ciò sicuro,/ dopo un poco lì nasce un fiore;// e domani la Provvidenza
ve ne mandi/ tanti… per farne una ghirlanda.//»
67
MORELLI, Ultime faville, cit., p. 70.
68
ID., Liriche sparse, cit., p. 19-22 e 59-60.
69
“Giallo” (pure giàlinu, jàlinu, sciàlenu); anche scialanutu “gialliccio”: G. ROHLFS, Vocabolario
dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), vol. III, München, Verlag der Bayerischen Akademie der
Wissenschaften, 1961, p. 1108.

280
Emilio Filieri

consentimento umano alla natura dell’uomo e alla tragicità del destino»70, come
un aspetto significativo di trepida vicinanza all’uomo del “piccolo orizzonte”.
Agli occhi di Trilussa, il poeta Morelli era «delicato artista squinzanese»71,
perchè nei versi del salentino, «quasi tutte le manifestazioni della vita entrano
nella rappresentazione dell’arte, e nella poesia del Morelli, infatti, non c’è
restrizione di codesta materia»72. Ancora: «Ricco, abbastanza ricco di soggetti!
[...]Con lui si osserva e si vede in atto questa nostra vita, in una grandiosa serie
di scene dolorose, patetiche, scherzose, [...]; si ascoltano dialoghi di schietto
sapore paesano, e si distinguono in prevalenza moti di bene, e la vena profonda
ora delle lagrime ora del sorriso». E aggiungeva: «In tutti i campi il Morelli ha
saputo spigolare, magistralmente. Nei suoi versi è vivo e fedele il concetto
“popolare”». In aggiunta, per una sorta di polittico di scene a tratti pure
“grandiose”, il poeta romanesco segnalava la vena ora patetico-sentimentale ora
giocoso-scapigliata di Morelli, talora con colori mesti, più spesso con immagini
solari, in correlazione con la schiettezza dei sapori paesani. Se la vena patetico-
sentimentale emergeva nel titolo, con le disillusioni rappresentata dalle Foglie
ingiallite, pure a settantacinque anni il poeta intendeva elevare una voce
significativa in un mondo fortemente identitario, di usi e costumi e idee vissuti
con un senso di densa e solidale umanità.
In effetti la capacità di vivida rappresentazione traspare in particolare in
alcune di quelle poesie dialettali, come A Schinzanu miu e Li maccarruni, con
parole sintomatiche, nella declinazione di suoni popolari in ritmo e tradizione
letteraria73. L’«impaesamento» sostanziava la poesia di Morelli, con una
valenza ‘metaletteraria’ di dettato poetico, per modelli culti adottati nell’ordito
di umori e sentimenti della civiltà contadina; letture scolastiche e origine
‘rurale’ di temi e motivi si correlavano in presenza di una borghesia consolidata,
nel rifiuto dell’anarchia e nella ricerca della stabilità. Era un realismo
partecipativo di gesti e volontà concordi, nel sostrato dell’antica civiltà: tra i
panni dell’artigiano elaboratore di vini e versi vernacolari, oppure con la tunica
del letterato classicheggiante, Morelli rivestiva di volta in volta anafore,
similitudini, anastrofi e iperboli, tra commozione e slancio vitalistico, in un
verismo tenuamente ‘sociale’, con il gusto dell’aristocrazia dell’arte, «quasi
sempre con la sua fida pipa tra le labbra e spesso con un rustico bastone appeso
all’avambraccio»74, ma poeta attento alla dimensione civile, mai rinserrato nella
“torre d’avorio75. Dopo tre diverse agili pubblicazioni-saggio di poesie

70
L. DELLI COLLI, Trilussa, in Il Novecento. Letteratura Italiana Contemporanea, diretta da
G. Mariani e M. Petrucciani, vol. I, Roma, Editorale La Scuola,1996, pp. 398 e 400.
71
Cfr. F. MORELLI, Fugghiazze sciàline, cit., pp. 17-196 (riedita nel 2001).
72
TRILUSSA, Sentimenti di luce e armonia. Presentazione, in Fugghiazze sciàline, cit., p. 13.
73
Cfr. G. DE DOMINICIS, Canti de l’autra vita. Li martiri d’Otrantu, cit., pp. 8-9.
74
G. CARRUGGIO, Francesco Morelli, (1937), cit., pp. 8-17: rimase in disparte dalle lotte politiche.
75
Cfr. MORELLI, Il mio epitaffio, in Fra i campi pipando, cit., p. 110.

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Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

dialettali, tutte presso l’editore Cafaro di Lecce76, prove per tastare il gusto dei
suoi lettori e verificare la propria condizione poetante, Morelli pubblicò nel
1953 la citata silloge Fugghiazze sciàline; da tale raccolta alcuni componimenti
emergono per la scelta di temi cari al Morelli e ricorrenti anche in lingua: è il
caso di A Schinzanu miu77, su modulazioni articolate come l’«impaesamento» e
i cromatismi del luogo natio: «Mo’ ca largu nde stau, e a tïe iou pensu,/ nnu
velu te tristezza sullu core/ se spande, e sentu, ‘ntra te mie, nnu sensu/ te bene,
te piacere e te tulore78». E continuava in tono esclamativo: «Terra amata! Païse
miu natiu,/ quantu si’ beddru! Quantu me si’ caru!/ Ola t’ogn’ura lu pinsieri
miu/ a tie, alle case toi, allu campanaru,// a ddre sire te luna, c’allu friscu,/
ssittati a terra o stisi, se schirzava;/ ogni tantu s’aprìa nnu sarginiscu79,/ se
cuntavano cunti, e se cantava80.».
Le sensazioni di piacere e di lusinghevoli illusioni si intrecciano con il
sentimento della nostalgia, nella distanza fisica da recuperare, rispetto al nido
«Païse miu natiu», segnalato come polo dell’appartenenza identitaria. Le
annotazioni esclamative si sostanziano del valore della memoria nella visione
idillica del ricordo infantile; esclusa appare la visione della città come abitato
caotico, e l’immagine del borgo è rurale, con suoni arcaizzanti rievocativi di
ritmi e cadenze naturali, in una sorta di autobiografia generazionale
riconoscibile nella verità semplice del gioco e dell’età ludica. In tale ottica lo
stile aderisce al parlato con un personale naturalismo etico-esistenziale, si
direbbe fenotipico, non immemore di un ambiente, fra storia individuale e
patrimonio della comunità d’appartenenza. La rievocazione tocca le stagioni
felici dell’infanzia, nella trascorsa semplicità di una passata naturalezza, nell’età
ricca di piccole gioie, tra cibo, vesti e giochi lieti, mai appesantiti dal timore del
futuro incombente, ben distanti dal dolore e dall’angoscia poi provate dal poeta

76
La prima Saggio delle nuove poesie in vernacolo (1935, di 9 componimenti) nel sottotitolo
recitava Dal vol. Pampane Siccate di prossima pubblicazione; la seconda Poesie in vernacolo.
Secondo saggio (1936, di 18), e la terza pubblicazione Poesie in vernacolo. Terzo saggio (ancora
nel 1936, di 14), per 41 componimenti dialettali in tutto, ventuno dei quali poi riversati nella
raccolta Fugghiazze sciàline.
77
MORELLI, Fugghiazze sciàline, cit., pp. 80-81. A Schinzanu miu si sviluppa in nove strofe
tetrastiche di endecasillabi a rima alterna (ABAB), con taluni versi irregolari; è vergato sui motivi
della lontananza (mo’ ca largu nde stau) e dei contraddittori sentimenti (sensu/ te bene, te piacere
e te tulore) ispirati dall’amato paese natio.
78
Mia la traduzione in italiano di tutte le poesie dialettali del Morelli; per quanto possibile si è
conservata la costruzione del dialetto: «A Squinzano mio. Ora che sono lontano, e a te io penso,/
un velo di tristezza sul cuore/ si spande, e avverto dentro di me un senso/ di bene, di piacere e di
dolore insieme.//».
79
Anguria o cocomero.
80
Così la seconda e la terza strofa: «Terra amata! Paese mio natio,/quanto sei bello, quanto mi sei
caro!/ Vola d’ogni ora il mio pensiero/ a te, alle tue case, al campanile,// a quelle sere di luna,
nella frescura/ seduti a terra o pur distesi, si scherzava;/ ogni tanto s’apriva un’anguria,/ si
raccontavano storie e si cantava.//».

282
Emilio Filieri

negli anni maturi: «Come lu ientu lesti su’ passati/ ddri giurni llecri, senza nnu
pinsieri;/ ma vivi ntr’allu core su’ ristati/ attraverso te tanti dispiaceri81.». E poi
nel flash-back coinvolgente:
Spissu ddru tiempu vene a mente mia,
quando, mmutatu, cu na vesticeddra
a riche russe e brù, alla mèscia scia,
culla marenda ntr’alla panareddra82.

Nel ricordo addolcito dalla distanza temporale, a Morelli quella stagione


appariva ricca di sentimenti, più vitale, vera e solidale; pur povera e priva di
mezzi, era densa di momenti spontanei e diretti. In tal senso la sesta strofa si
trasforma in una carrellata di giochi tradizionali, per una sintesi poetico-
demologica, fra usi popolari, da un lato83; e ricostruzione del dolce tempo del
passato, dall’altro. Ecco di seguito:
Quando, cu tanti strei, (parienti e amici)
sciucava a ’uerra, a tueccu, a scopa, a nuci84,
a spacca chianche85, a nùzzuli, a cuntrici86,
scàrica lu muentu87, a bota-cruci88.

81
Nella quarta strofa il poeta riflette sulla fugacità del tempo: «Come il vento son trascorsi/ quei
giorni allegri, senza alcun pensiero;/ ma nel cuore sono restati vivi/ pur tra tanti dispiaceri.//».
82
Nella quinta e sesta strofa così la poesia in italiano: «Spesso sovviene quel tempo,/ quando,
abbigliato, con un vestitino/ a righe rosse e blu, raggiungevo l’asilo/ con la merendina nel piccolo
paniere.// Quando, con tanti ragazzi, parenti e amici/ giocavo alla guerra, a tocco, a scopa, con le
noci,/ a spacca chianche, a noccioli, a dadi di ossicini, a scàrica lu muentu, a bota-cruci !!!».
83
Cfr. A. MIGLIETTA, Così giocavano. Giochi fanciulleschi in Salento e oltre, Lecce, Manni,
2008, pp. 37-41; ma notevole per la tradizione squinzanese I. PASSANTE, L’Idioma della mia
gente, Galatina, Editrice Salentina, 2004, pp. 303-309.
84
Da una distanza convenuta, con la paddhra (una noce grossa, fra le più dure e robuste), si tentava
di colpire a turno una serie di noci, che costituivano lu piattu (la posta), tenute allineate e dritte su
una riga. Le noci colpite, rimaste riverse per terra lontane dalla riga, costituivano la vincita.
85
La chianca è pietra piatta, compatta, utilizzata anche nella pavimentazione di piazzette.
Riguardo al gioco di spacca chianche, a turno ogni bambino lanciava in aria un soldino, per farlo
cadere quanto più possibile vicino a una stabilita fessura tra chianca e chianca; vinceva colui che
più si avvicinava o faceva cadere il soldino nella fessura e così intascava tutte le monete: cfr.
I. PASSANTE, L’Idioma della mia gente, cit., p. 309.
86
Nell’antica Grecia, le ossa delle zampe posteriori di pecore, agnelli e capre (gli astragali) erano
lanciati per predire il futuro o per le scommesse. Detto anche gioco con l’aliosso o astragalo, il
dado di osso era chiamato cuntrìce o pallice nel dialetto leccese
87
Noto altrove come prima la luna, scàrica lu muentu era un gioco di forza, praticato da due
squadre in numero pari di elementi; una volta stabilito con la conta chi “stava sotto”, il
malcapitato doveva piegarsi con le mani sulle ginocchia, mentre gli altri giocatori gli saltavano
sulla schiena. Durante i salti si recitava una filastrocca e se ne mimava il contenuto: prima la
luna, poi doi lu bue, e tre la figghia te lu re, ecc.; chi sbagliava andava sotto e si ricominciava.
88
Il gioco a palma e croce si praticava con una moneta lanciata in aria e da riprendere sul dorso di
una mano; la moneta non doveva cadere a terra: vinceva chi riusciva a stringere in pugno il
maggior numero di monete.

283
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

La freschezza della rievocazione pare riecheggiare di grida e risa di ragazzi,


nella concitazione del gioco, con gustose sonorità di voci dialettali, in rime
alterne e consonanze a mezzo verso, spesso con doppie (’uerra, tueccu, spacca,
nùzzuli), metafonesi (tueccu, muentu) e insistenza sui nessi -ci (in amici/
cuntrici, nuci/ cruci). La piena dei sentimenti si condensa nelle immagini del
brio e della vitalità, nell’immediatezza povera di mezzi e spontanea; poi
subentrava il ‘male’ di vivere, la sofferenza e la perdita incombenti, nel riparo
della memoria: «Te tante cose, vecchie e nu scirrate89,/ se nde prisenta
quarchetuna trista:/ sempre a ddoi pensu… Ahimmè, ddo’ brutte tate,/ ca te
chiantu me ’nvèlanu la vista !//». Ed ecco il passaggio sulla fine dei propri cari:
Quandu lu tata a ’nfrunte me vasau
l’ùrtima fiata, e poi se nde partiu…
quando la mamma a ’Ncelu se ’nde ulau,
e piersi cu iddra lu cunfortu miu90.
O luechi amati, o veri e cari amici,
mo’ ca stau largu, quanta pena prou!
Passu sulu tra bui giurni filici!
Surtanto ’mmienzu a bui la pace trou!

Ma in una società industrializzata e via via caratterizzata da crescente


presenza massmediatica, il poetare stesso si poneva all’attenzione del Morelli
secondo linee più rispondenti alla tradizione letteraria fra Carducci e Pascoli,
come nel caso del componimento Lu poeta91. La rappresentazione dell’arte
poetica è inizialmente intesa secondo l’inveterata immagine sognante del poeta,
“fanciullo” delle bolle di sapone:

Lu poeta
Bolle ca per l’aria òlano
face lu striu te l’acqua e lu sapune,
te li cchiù belli suenni te la mente
lu poeta nde face nna canzune;

89
Scirrare equivale a ‘dimenticare’.
90
Nella settima e nell’ottava strofa affiorano i momenti di maggiore sofferenza per il poeta, la
scomparsa prima del padre e poi della madre: «Di tante vecchie cose, mai dimenticate,/ sovviene
qualcuna assai triste:/ sempre a quelle due penso…. Ahimé, son due brutte date,/ che di pianto
m’oscurano la vista.// Quando mio padre in fronte mi baciò/ l’ultima volta, e poi se ne dipartì…/
quando la mamma in Cielo volò via,/ e con lei persi il mio conforto//. O luoghi amati, o amici veri
e cari,/ ora che sono lontano, quanta pena provo!/ Soltanto tra voi trascorro giorni felici!/ Soltanto
in mezza a voi trovo la pace! ».
91
MORELLI, Lu poeta, in Fugghiazze sciàline, cit., p. 17. In tre strofe di sei versi ciascuna, aperte
dal settenario sdrucciolo al primo verso, seguito dagli endecasillabo, il poeta pone in rima il
secondo e il quarto verso, mentre restano irrelati il primo e il terzo, con la rima baciata del quinto
e sesto endecasillabo a concludere ogni strofa; nelle prime due strofe il settenario è sdrucciolo,
piano nella terza e ultima strofa.

284
Emilio Filieri

sbandatu pellu mundu vai e disperu, 5


ma ntr’allu core sou nc’è l’universu92.
S’entusiasma a nna ponnula93,
a nnu fiuru, a nnu cantu te luntanu,
a nna stiddra ca striscia, a nnu tramontu,
a nnu risu, a nnu neu, a nna baciamanu; 10
basta nnu nienti e bola come ceddru,
nnu nienti basta, e perde lu cirvieddru.
Ma mute fiate è mesciu
ca conza e sconza, cria e cullu martieddhu
sull’oru e sull’azzaru cuerpi tai, 15
singa marmi cull’abile scarpieddhu;
ama cchiui te li sordi nnu carizzu,
e a ncelu nde lu porta nn’uecchiu-rizzu.

Il componimento vive sia della similitudine incipitaria, instituita tra poeta e


striu “fanciullo”, sia dell’analogia con la figura del “maestro” caratterizzante
l’ultima strofa. In tal senso Lu poeta appare veramente una dichiarazione di
poetica del Morelli, emblematica nell’evidenziare i modelli culturali dell’autore
salentino. Dalla premessa dei primi versi, la suggestione del Fanciullino di
Pascoli trova svolgimento nella seconda strofa, con il senso della scoperta e
dell’incanto del poeta, tra brividi e tripudi tutti suoi, con «tinnulo squillo come
di campanello», perché al poeta-Fanciullo tutto «appare nuovo e bello»94, dalla
vista di una farfalla alle stelle cadenti delle notti estive. Ma assai significativo è
il rinvio di Morelli al ‘mestiere’ di poeta come mesciu, cioè maestro d’arte,
Artiere; in tal caso il nume tutelare appare Carducci, il poeta di Rime nuove, in
particolare per il componimento di settantadue versi CV. Congedo (vv. 19-24)95.
Il salentino pare collocarsi al crocevia tra i due poeti ‘maggiori’, in una visione
poetica a modello integrato, in cui l’ascendenze pascoliana lascia ampio spazio
(mute fiate, molte volte) alle istanze carducciane, trasposte in dialetto salentino
con l’assimilazione dell’immagine del maestro-artiere: il poeta mesciu fa e

92
La poesia così è trasposta in italiano: «Il poeta. Bollicine che per l’aria volano/ crea il fanciullo
dall’acqua e dal sapone,/ dei più bei sogni d’immaginazione/ il poeta va a comporre una canzone;/
se ne va allo sbando, vago e perso,/ ma nel suo cuore vive l’universo.// S’entusiasma a una
farfalla,/ a un fiore, a un canto da lontano,/ a una stella cadente, a un tramonto,/ a un sorriso, a un
neo, a un baciamano;/ basta un niente e vola come un uccello,/ un niente basta e perde il
cervello.// Ma molte volte è maestro,/ che fa e disfa, crea e con il martello/ dà colpi sull’oro e
sull’ acciaio// incide i marmi con l’abile scalpello;/ ama più del denaro una carezza,/ e in cielo lo
trasporta un occhiolino.//».
93
Ponnula equivale a ‘farfalla’.
94
Cfr. G. PASCOLI, Il Fanciullino, in Pensieri e discorsi, Bologna, Zanichelli, 1907, pp. 1-2.
95
Cfr. G. CARDUCCI, Congedo. Rime nuove, Libro IX, in Poesie, Bologna, Zanichelli, 1906, pp.
773-774: «Il poeta è un grande artiere,/ Che al mestiere/ Fece i muscoli d’acciaio:/ Capo ha fier,
collo robusto,/ Nudo il busto,/ […].//».

285
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

disfa, crea e con il martello dà colpi sull’oro e incide e riga i marmi con l’abile
scalpello96.
Tuttavia la vena poetica del Morelli non pare esaurirsi nel richiamo
all’auctoritas dei ‘maggiori’ del canone letterario italiano; l’attenzione alla vita
reale salentina, alle sue tradizioni popolari lo spingeva nella direzione di una
poesia dialettale non priva d’accenti ironico-satirici con ritmi e sonorità in
versioni ludico-verbali. È il caso del componimento Li mmaccarruni (I
maccheroni), giocosamente modulato sulla varietà del cibo in copiosa proposta
culinaria, correlata con la tradizione salentina e meridionale. In tal senso
significativo è il precedente di Enrico Bozzi Lu mugghi piattu (Il miglior
piatto)97, in strofe di sei versi ottonari, variamente rimanti98. Se alcune opzioni
lessicali sembrano riprese dal Bozzi “Conte di Luna”99, nell’idea del cibo come
desiderio onirico, la scelta metrica di Morelli è a favore del verso più lungo, il
doppio settenario100 o martelliano. E il Morelli adotta nuovi lemmi per nuovi
manicaretti, in rima baciata, con il senso del riso oltre l’idillio intimista,
nell’anti omologante libertà creativa sul tema del cibo e della cucina, tra
riscoperta delle radici e persistenza della memoria, secondo spazi vergini e
alternativi101. Ecco i primi sette distici sui quattordici del componimento:

Li mmaccarruni
Racoste, cernie, tregghie, iaddruzzi, cutulette
e ficatu rustutu, gnemmarieddri102 e purpette,//
turdi allu spitu, liepri, genuvese risotti,
àunu103 alla cacciatora, rusbiffi, panzarotti,//
ostriche, pizze rustiche, spizzatieddri, frittate,
e purpi alla pignata104, sardeddre raganate105,//

96
Nelle Rime nuove (1861-1887) Morelli trovò motivi di apertura alla dimensione civile, con
l’immagine del poeta ‘grande fabbro’, pronto a trasformare sentimenti, amore, intuizioni e ricordi
in un messaggio di bellezza e di verità.
97
E. BOZZI, Lu mugghi piattu, in Poesie in dialetto e in… pulito, Lecce, R. Tipografia Ed.
Salentina, 1922, pp. 313-314.
98
Nel componimento di Bozzi la struttura della strofa è varia, o con distico iniziale a rima baciata
e quattro versi a rima alterna (AABCBC), o a rima alterna per quattro versi e distico finale a rima
baciata (ABABCC).
99
FILIERI, La poesia dialettale di Francesco Morelli tra Capitano Black e Conte di Luna, cit., p. 131.
100
Non mancavano precedenti di doppio settenario, tra Carducci e Gozzano; nella poesia di
Morelli emerge una specifica espansione enumerativa: si veda anche A. PRETE, Sottovento.
Critica e scrittura, Lecce, Manni, 2001, p. 115.
101
Cfr. F. BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino, Einaudi, 1990, p. 27.
102
È noto, gli gnemmarieddri sono involtini di interiora, in genere arrostiti, dal gusto prelibato.
103
Dal lat. AGNU(M), “agnello”.
104
La pignata è la pentola di terracotta smaltata, da porre sulla brace; fondamentale per cuocere i
legumi e il polpo.
105
Raganato equivale a “gratinato”, “cosparso di briciole di pane”.

286
Emilio Filieri

satizza, sangunazzi106 e calamari fritti,


carne alla pizzaiola, uddratieddri107 suffritti,//
frittura te caccioppule, prissutti, mortadelle,
minìtule108 allu furnu, cirveddre, mozzarelle//
su’ cose cannarute, su’ cibi te sostanza;
però nu’ sunti piatti che bbìnchianu la panza.//
Su’ pietanze prigiate pe’ gustu e pe’ sapore,
ma su’ lli maccarruni li beddri te lu core109.//

Nel Morelli la gioiosa enumerazione di pietanze e di intingoli per certi


aspetti palesa una sorta di abbandono sensualistico, in cui si esalta la
molteplicità di soluzioni offerte dalla pasta110. Il poeta squinzanese articolava il
tema per accumulazione entusiastica, in vena emulativa, nel superamento
antropologico di una condizione di fame storicamente vinta nel nome dei
maccheroni, per una gratificazione alimentare poeticamente solutiva nel nome
del cibo più popolare e accessibile. Le prelibatezze citate erano pietanze di
pregio, sia per gusto sia per sapore, ma occorreva ammettere che «su’ lli
maccarruni li beddri te lu core»: “sono i maccheroni i belli del cuore”, in una
metafora poetica di immagine sociale, come visione d’insieme estetico-
sentimentale. Senza dimenticare suggestioni anche del napoletano Di Giacomo,
nella direzione di un ‘verismo sentimentale’111 con pittoriche punte affettivo-
scapigliate112, Morelli procedeva a inalberare in poesia la bandiera del piatto più
popolare, i maccheroni, nella correlazione tra dato empirico-materiale (sazietà)
e componente affettivo-paesana (produzione etnico-familiare e casalinga,
“fatt’an casa”), ma con l’ottica storico-demologica (acqua e grano, trasformati

106
Ora meno frequente, il sangunazzo (sanguinaccio) è l’insaccato di sangue e grasso, insaporito
con sale e spezie.
107
Gli uddratieddri sono le chiocciole in letargo, chiuse nella loro conchiglia; detti anche moniceddri.
108
La minìtula è una varietà di funghi dal largo ombrello.
109
Si veda la trasposizione in lingua: «Li mmaccarruni. Aragoste, cernie, triglie, galletti, cotolette/
e fegato arrostito, involtini e polpette,// tordi allo spiedo, lepri, genovese, risotti,/ agnello alla
cacciatora, roast-beef, panzarotti,// ostriche, pizze rustiche, spezzatino, frittate,/ e polpo a pignata,
sardelle gratinate,// salsiccia, sanguinacci e calamari fritti,/ carne alla pizzaiola, chiocciole
soffritte,// frittura di carciofi, prosciutti, mortadelle,/ funghi al forno, cervella, mozzarelle// son
golosità, son cibi di sostanza;/ però non sono piatti che saziano la pancia.// Son pietanze di pregio
per gusto e per sapore,/ ma son solo i maccheroni i belli del cuore.//».
110
BOZZI, Lu mugghi piattu, in Poesie in dialetto e in…pulito, cit., pp. 313-314: «Cu llu burru o la
recotta/ o mescati a lli legumi,/ sulu a ddrai fazzu la botta,/ sulu a ddrai perdu li lumi!/»; mia la
traduzione: «Con il burro, o la ricotta/ o mischiati ai legumi,/ solo allora faccio la botta,/ solo
allora perdo i lumi!/ ecc.».
111
Salvatore Di Giacomo (1860-1934) fu notevole poeta dialettale; cfr. R. GIGLIO, Poeti e pittori
napoletani fra Otto e Novecento […] all’ombra di don Salvatore, in Giuseppe De Dominicis e la
poesia dialettale…, cit., pp. 91-96.
112
FILIERI, La poesia dialettale di Francesco Morelli..., cit., p. 133.

287
Poeti dialettali salentini: Erminio Giulio Caputo e Francesco Morelli

in raffinata dote alimentare, per usi e tradizioni locali)113, secondo toni e ritmi
popolareggianti, propri di una comunità, nella dichiarata coscienza d’arte del
poeta. La segnalazione del carattere ‘popolare’ del piatto è subito confermata ai
versi successivi:
Pastu nu su’ te lussu, a tutti su’ cratiti,
comu li faci faci, su’ sempre sapuriti:
a brotu, culla sarsa, allu furnu, scarfati,
àgliu ògliu, culle sarde, te casu mpurvirati,
culla ricotta frisca o skante114, culle cozze,
misi a còcere luenghi o puru fatti a stozze115.
Sempre su’ sapuriti: o suntu perciatelli116
o zzite117, menze zzite, zzitoni, vermicelli,
pinne, sciabò118, cagghiubbi119, laïane120, bucatini,
linguine, sagne ricce, stacchioddre121, filatini.
Ognunu, culla fame, fusce ntr’alla cucina
cullu piattu a nna manu, all’àutra la furcina,
ogni tantu li proa, cu vìscia la cuttura,
e, a via te assaggi, spìccia ca scumbra la firsura122.

113
In Salento, Brindisi aveva il primato nella produzioni di pasta; cfr. V. CORRADO, Notiziario
delle produzioni particolari del Regno di Napoli riserbate al real divertimento, (già Napoli 1792)
Bra-Cuneo, Slow Food, 2005, pp. 112.
114
Ricotta forte, detta anche ascuante, di sapore deciso e intenso; dal latte di pecora, è semi-molle
e spalmabile .
115
Così la traduzione: «Non sono un pasto di lusso, a tutti son graditi,/ con ogni preparazione
sono saporiti:// in brodo, con la salsa, al forno, scaldati,/ aglio e olio, con le sarde, di cacio
spolverati,// con la ricotta fresca o forte, con le cozze,/ messi a cottura lunghi o anche spezzati.//».
116
Bucatini di maggiore spessore.
117
Pasta a tubi lunghi e fini.
118
È una lasagna (sciabò, sciablò) dal bordo arricciato (anche “reginella”); da jabot (ornamento
dentellato, di gonna): cfr. L’Italia della pasta. Tradizioni, formati e ricette […], Milano, Touring
Club Italiano, 2003, p. 130.
119
Detti anche “cavatelli”, maccheroncini arrotolati con ferri da calza (detti “cavaturi”); cfr.
M. CORTELAZZO, P. ZOLLI, Dizionario etimologico della Lingua Italiana (DELI), Bologna,
Zanichelli, 19992, ad vocem.
120
Dette anche laïane ’ncannulate (lagane attorcigliate); è una pasta propria del Salento, di
lasagne a strisce lunghe e larghe arrotolate in forma elicoidale.
121
Anche “strascenate”: con una faccia liscia, l’altra rugosa, sono rettangoli di pasta passati
(strascinati) su un tagliere zigrinato; cfr. Puglia. Guida turistica e gastronomica, Novara, Istituto
Geografico De Agostini, 1979 (Regione Puglia).
122
E per concludere: «Son sempre saporiti: siano perciatelli/ o zite, mezze zite, zitoni,
vermicelli,// penne, sciabò, cavatelli, lagane, bucatini,/ linguine, sagne ricce, strascinate, filatini.//
Ognuno con la fame, corre dentro la cucina/ con il piatto in una mano, nell’altra la forchetta,//
ogni tanto ne prova e accerta la cottura,/ e a furia di assaggi, ne svuota il calderone.//». La firsura

288
Emilio Filieri

A sfiorare tratti di maschera bulimica, il poeta pare allontanare il mondo


esterno ostile, violento e devastato, per ostentare in risata il legame simbiotico
con i maccheroni. Giocoso manifesto poetico dell’Italia ‘regina della pasta’ e in
particolare nell’antica Terra d’Otranto, regione di trafilatori di maccheroni nel
Mezzogiorno propositivo, sotto il tono burlesco il componimento di Morelli
rivela capacità poetica identitaria in comunicazione universale e merita uno
spazio significativo in virtù di una prospettiva diacronica e di un’eredità
culturale da valorizzare anche sul piano letterario: i maccheroni non erano un
pasto esclusivo di gruppi elitari, ma a tutti erano graditi, in ogni salsa e secondo
ogni ricetta; con tale dichiarazione ideologicamente esplicita, Morelli definiva
l’altra sua linea di poetica, antielitaria e popolareggiante. La poesia è efficace e
vivida, con effetti scenici sino all’iperbole conclusiva e ‘teatrale’123:
l’andirivieni con la scusa di accertare il punto di cottura dei maccheroni, si
conclude con il calderone svuotato. I maccheroni assurgono così a simbolo di
convivialità e collante di condivisione, nella reciprocità del ben vivere e il
‘primo piatto’ favorisce l’integrazione tra individuo, gruppo e collettività. La
memoria letteraria risale così a momenti di vita sociale conviviale, già
poeticamente celebrati nell’antica Grecia tra l’erudito e il parodistico, spesso
all’insegna del vino; del resto la tradizione letteraria italiana offriva
componimenti tra i più noti, dal Redi124, a Carducci e al Pascoli125, avvertibili
per implicita memoria. Ma nel Morelli sembrano affacciarsi pure arcaiche
maschere magnogreche e italiche, in una vis comico-ironica non estranea al
sorriso del venosino Orazio, nella luce di una più aperta atmosfera scapigliata, e
con ammiccamenti verbo-corporei di teatro meridionale.

BIBLIOGRAFIA
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Einaudi, 1990.

è propriamente il pentolone, il calderotto (quatarottu) è invece più piccolo e stretto: cfr. anche
Vocabolario degli accademici della Crusca, 4a ediz. (1729-1738), vol. 1, p. 509.
123
Per umori da commedia tra Scarpetta e E. de Filippo, cfr. Natale in casa Cupiello. Commedia
in tre atti, Torino, Società Editrice Torinese, 1943.
124
Cfr. F. REDI, Bacco in Toscana (1685), in Poesie del Seicento, a cura di C. MUSCETTA,
P.P. FERRANTE, vol. II, Torino, Einaudi, 1964; del celebre scienziato (1626-1698), anche F. REDI,
Bacco in Toscana (1685), a cura di C. Chiodo, Roma, Bulzoni, 1996.
125
Cfr. G. PASCOLI, Solon, in Poemi conviviali, Bologna, Zanichelli, 19052, pp. 5-8; anche
G. PASCOLI, Poemi conviviali, con due saggi di G. Contini e nota bio-bibliografica, Milano,
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289
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290
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 291-302
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p291
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Modi di raccontare in Salento

Eugenio Imbriani

1. Cose di famiglia
Antonietta mi racconta una storia dolorosa, risalente a oltre un secolo fa,
che riguarda la sua famiglia. Abita con il marito in un paese della provincia di
Lecce, i figli o sono sposati o vivono fuori per lavoro; nella grande vecchia
casa, appartenuta ai nonni, custodisce un tesoro di cimeli, oggetti, fotografie,
documenti, suppellettili, solitamente consegnati a una esistenza riservata,
nascosta, ma che di volta in volta recupera come supporto della narrazione,
esibendoli e facendoli, in qualche modo, parlare.
Che gli oggetti non siano solo strumenti d’uso o merci è un concetto da
considerare acquisito alla riflessione filosofica e antropologica1; essi, infatti,
spesso attraggono e condensano su di sé investimenti affettivi o comunque
carichi di senso, e ciò appartiene all’esperienza di tutti, come è facile
comprendere; se è vero che la società industrializzata ha favorito le relazioni
circolari tra produzione e consumo, lo è altrettanto che le cose, nella loro
biografia, si sottraggono, a un certo punto, al loro destino di merce, e diventano
altro2: un banale souvenir è testimone di un viaggio, un dono innesca e risponde
a complesse dinamiche sociali, le reliquie di un santo, un minuscolo disco di
farina consacrato in un rito cattolico, un simulacro richiedono la venerazione
dei fedeli; e si potrebbe andare avanti a lungo con gli esempi. L’antropologo
inglese Daniel Miller si è ampiamente soffermato sugli arredi casalinghi, ciò
con cui componiamo la scenografie in cui conduciamo le nostre esistenze, «il
mondo delle piccole cose e delle relazioni di intimità che riempiono la nostra
vita»3 e che fanno fede del modo in cui immaginiamo noi stessi e proviamo a
rappresentarci agli altri: vestiti, libri, mobili, decorazioni, ninnoli, fotografie,
quadri, fiori, scarpe, la loro disposizione, si compongono in un linguaggio denso
di significati.

1
Cito solo J.-P. WARNIER, La cultura materiale, Roma, Meltemi, 2005; R. BODEI, La vita delle
cose, Roma-Bari, Laterza, 2009; F. DEI, P. MELONI, Antropologia della cultura materiale, Roma,
Carocci, 2015.
2
Cfr. A. APPADURAI, a cura di, The social life of things: commodities in cultural perspective,
Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
3
D. MILLER, Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, Bologna, Il Mulino, 2014,
p. 11.

291
Modi di raccontare in Salento

a.

b.
Fig. 1 – Ventagli da teatro, ricamati a mano appartenuti alla nonna dell’informatrice.

La casa di Antonietta spiega bene il suo forte legame con la famiglia, nel
suo sviluppo diacronico, con gli avi e le più giovani generazioni, combina gli

292
Eugenio Imbriani

elettrodomestici e i segni della modernità, le foto e i giochi di figli e nipoti con


vecchi corredi rimasti intatti; mi porta tre custodie di cartone: due contengono
altrettanti «ventagli da teatro», ricamati a mano, perfettamente conservati,
l’altro l’acconciatura «degli otto giorni»4, appartenenti alla nonna omonima,
andata in sposa a Domenico il 18 luglio 1883 (figg. 1a&b e 2); la mia
interlocutrice possiede anche il contratto di matrimonio, la fotografia che ritrae
gli sposi, l’abito splendido della nonna, in seta pura e pizzo chantilly, il
ventaglio, le scarpe, i gioielli, i colletti inamidati del nonno; dei tredici figli che
i nonni misero al mondo, cinque moriranno poco tempo dopo la nascita.
Antonietta è una abilissima narratrice, possiede la materia fin nei minimi
dettagli, e di volta in volta supporta il suo racconto mostrando opportunamente
gli oggetti/testimoni5. Domenico si dedicava alla gestione dei suoi cospicui
possedimenti terrieri e ciò comportava un notevole impegno; forse per questo il
primogenito maschio Raimondo (la sorella maggiore era regolarmente fidanzata
con un bellissimo uomo molto serio) si preoccupava di difendere l’onorabilità
della sorelle più piccole dalle insidie dei coetanei; in particolare, Nicoletta, che
all’epoca dei fatti era una solida ragazza non ancora ventenne, godeva delle
attenzioni di un giovane, Raffaele, il quale, peraltro, si limitava a mandarle
qualche messaggio da molto lontano, facendosi notare all’uscita dalla chiesa o
nei pressi dei campi di proprietà di Domenico quando vi si recava la famiglia;
ciò bastava per mettere in allarme Raimondo, il quale era, per giunta, pungolato
e istigato dai suoi amici, molto solleciti in questo genere di sostegno solidale.
Raimondo, che da par suo aveva giustappunto messo nei guai una ragazza, il cui
figlio, sebbene non riconosciuto, fu accudito da Domenico, affrontò l’aspirante
fidanzato, il quale, però, a quanto pare, non demorse.
L’epilogo romanzesco si consumò nel pomeriggio della festa patronale,
nella piazza del paese, quando Raimondo, nel tentativo di accoltellare Raffaele,
colpì a morte, invece, il fratello di lui, che era sposato e aveva figli piccoli. Si
nascose in campagna, ma, il giorno dopo, il padre andò a prenderlo col calesse
insieme con un amico e lo condusse dai carabinieri. Raimondo uscì di galera
che aveva cinquant’anni, sposò la figlia dell’uomo che lo aveva accompagnato a
costituirsi, fu un matrimonio grandioso. Non mi soffermerò su altri dettagli6;
quel che interessa qui soprattutto è che Antonietta continua a raccontare tirando
fuori e mostrando oggetti legati agli avvenimenti, alle persone coinvolte,
all’epoca; faccio qualche esempio, una bandiera italiana della prima guerra
mondiale (a Raimondo era stata proposta la libertà in cambio del suo
arruolamento volontario, ma egli stesso e la sua famiglia si opposero); le
fotografie e le lettere da lui ricevute mentre era in carcere, comprese quelle delle

4
Indossata una sola volta, all’uscita pubblica l’ottavo giorno dopo il matrimonio.
5
I nostri incontri sul tema si sono svolti nell’estate del 2013; ha preferito non essere registrata.
6
Per una più completa descrizione degli avvenimenti e una riflessione più approfondita rimando a
E. IMBRIANI, Sull’ironia antropologica, Bari, Progedit, 2014.

293
Modi di raccontare in Salento

ammiratrici (il suo gesto aveva lasciato il segno), i libri che si era portato a casa
dalla “villeggiatura”, così la chiamava, l’elmetto usato in guerra dallo zio
Oronzo, ritratti, monili e ancora fotografie: la figlia di Raimondo si chiamava
Nicoletta, che morì pochi giorni dopo aver partorito il sesto figlio, un bambino
dalle dimensioni mostruose, morto anch’egli (ecco la foto), lo avevano
chiamato Domenico: tante cose sembrano tornare, in questa storia. Antonietta
tiene le fila dei membri, anche i più lontani, della sua famiglia; sono fili elastici,
nessuno si allontana tanto da non poter essere raggiunto, o recuperato. Forse il
suo modo di raccontare è vicino a quello che gli antropologi visuali definiscono
fotoelicitazione, cioè l’esercizio di chi trae spunto dalle immagini per spiegare e
raccontare il loro contenuto, individuare i personaggi e il contesto, solitamente
con l’aiuto di altre persone presenti, informate dei fatti, disponibili e dire la
loro. Antonietta, però, parla lei, non ha bisogno di altri, le cose che conserva ed
esibisce al momento, con misura e controllo, costituiscono parte fondamentale
del suo mondo di affetti e relazioni, e vengono utilizzate non come stimolo per
il ricordo, o non solo, ma come uno stimolo per la comprensione, che serve a
chi ascolta più che a chi espone: esse, in qualche modo, diventano parole.

Fig. 2 – Acconciatura posticcia «degli otto giorni» appartenuta alla nonna


dell’informatrice.

294
Eugenio Imbriani

2. Dove sono andate le parole…


Quando Cici chiama conviene accorrere perché i suoi inviti mascherano un
tono imperativo; ormai ci conosciamo da un bel po’ di anni, ci sentiamo, vado a
trovarlo. Ha una vastissima cerchia di amici pronti a lasciarsi affascinare dalla
sua arguzia, dalla inesauribile energia che riesce a trasmettere, dalle storie che
racconta, dalla bravura di cantante, suonatore di armonica, compositore;
disposti anche a cedere alle sue insistenze o a sottoporsi al compito (qualche
volta è successo, con risultati alterni) di raffreddarne la vis polemica: tratto di
un carattere che nessuno definirebbe docile.
Il motivo di questa particolare convocazione, in un giorno di piena
primavera del 2013, sta nel sottopormi l’idea di una nuova pubblicazione. Nel
2012 era uscita la sua autobiografia7, corredata di un cd di sue canzoni, mentre
Fernando Bevilacqua stava completando il montaggio di un documentario sulla
sua figura al quale ha lavorato a lungo (Io sono un albero, 2013), ma Cici ha nel
frattempo maturato nuove idee e vuole darvi corso in tempi rapidi, perché è
vero che non ha nessuna intenzione di morire, come spiega sempre tra il serio e
il faceto, ma, essendo nato nel 1923, teme che non gli basti il tempo per portare
a termine quanto progetta di fare. In questo caso, vuole preparare una sorta di
antologia del suo meglio, raccogliere insieme i riconoscimenti e gli attestati che
ha ricevuto, le pagine dei giornali, dei libri, delle tesi di laurea che parlano di
lui, fotografie, locandine, riproporre alcune delle sue composizioni che
predilige; questo volume autoprodotto, in effetti uscirà, in pochissime copie,
stampate in copisteria, qualche tempo dopo, e direi che ne rappresenta piuttosto
bene la personalità: egli offre generosamente agli amici i risultati che ha
ottenuto con il suo impegno e le sue virtù, non un vero e proprio testamento,
piuttosto una pietra miliare, la sintesi di quel che ha fatto sin qui, il resto verrà8.
Vive a Calimera, cittadina a sud di Lecce, che conserva nel nome
benaugurale (significa buon giorno) la chiara matrice greca, condivisa ormai
solo da una decina di paesi vicini; il territorio che essi occupano è denominato
Grecìa salentina, al quale corrisponde, sul piano amministrativo, l’Unione dei
comuni della Grècia salentina. In paese, come in altre località vicine, si parla
ancora il dialetto di matrice greca, sebbene da tempo si registri una progressiva
caduta dell’uso: sul piano storico-istituzionale, la normalizzazione religiosa
imposta dal Concilio di Trento ha determinato la fine del rito greco e la
progressiva riduzione dell’area grecofona; inoltre, le politiche di diffusione
della lingua italiana e la scolarizzazione si sono accompagnate alla
disapprovazione sociale dell’uso del dialetto; a questo si aggiunga il prevalere,
con il tempo, nei paesi grecanici, del dialetto romanzo usato nel resto della
provincia. Insomma, molti solidi motivi hanno causato la inesorabile erosione

7
C. CAFARO, Io scrivo la realtà, a cura di E. IMBRIANI, Calimera, Kurumuny, 2012
8
C. CAFARO, I frutti nati dall’amore che ho seminato, Calimera, 2014.

295
Modi di raccontare in Salento

delle parlate allofone nella regione, dal grico all’albanese al romanes, e dello
stesso vernacolo romanzo.
Nella casa di Cici si entra da un cortile chiuso da un cancello; non si può
sbagliare, accanto al campanello, una mattonella in ceramica avvisa: «Cici
Cafaro, poeta popolare»; è un dono della figlia, che sostituisce un vecchio
cartello più grande. Cici ci tiene molto al suo titolo, lo indossa come un abito
quotidiano, sa che gli spetta, perché gli è da molti (artisti, professori, studenti)
riconosciuto; è un testimone privilegiato della cultura tradizionale del territorio,
ma ne è anche un protagonista, in quanto autore di prose e di testi poetici,
compositore ed esecutore di canti, mattatore sul palcoscenico, con la sua
armonica, e nelle serate con gli amici: inesauribile, instancabile. Ha pubblicato
una serie di libri, oltre alla autobiografia citata9, ha rilasciato numerose
interviste sia in trasmissioni televisive che in film documentari; a dispetto di un
limitatissimo curriculum scolastico, insomma, è una persona che riflette e
ragiona sui temi che gli stanno a cuore: la cultura, la tradizione, la sua lingua.
Cici ama parlare di sé, sottolineare i propri meriti, le proprie qualità, e lo fa non
solo perché ha una alta opinione di sé, ma per marcare la differenza con quanti,
pur avendo avuto la fortuna di studiare e laurearsi, rivelano, poi, una sostanziale
pochezza intellettuale e operativa, mostrandosi indifferenti o poco reattivi di
fronte alla lenta scomparsa di un mondo e della lingua che ne è stata espressione
elettiva.
Gli spazi delle stanze sono occupati dai quaderni, dai libri, da cd musicali,
da dvd, dalle targhe e dai trofei ricevuti (per i meriti canori e artistici e per
l’ineguagliata competenza nel raccogliere funghi), le pareti sono tappezzate da
fotografie e manifesti incorniciati che lo vedono protagonista in varie occasioni
pubbliche (soprattutto concerti) sia in Italia che in Grecia, articoli di giornale, e
ancora cartoline e lettere ricevute, scatti inviatigli da amici: tutto parla di lui e
ruota intorno alla sua figura e dice in modo esplicito il modo in cui egli vuole
rappresentare se stesso ed essere riconoscibile per gli altri (figg. 3 e 4).
Il rapporto con il grico è un elemento fondamentale di questa costruzione
identitaria; Cici parla e scrive sia in grico che in italiano, e quotidianamente,
nelle consuete relazioni con i conoscenti, si esprime del vernacolo romanzo, ma
la lingua che sente interamente sua è quella appresa da piccolo e poi così
maltrattata, disprezzata, ora soggetta a tentativi di recupero, perché rivalutata in

9
L. CHIRIATTI, F. CORLIANÒ, M. COSTANTINI, Decalimerone. Novelle popolari di... Centopozzi di
acetosella acqua, Calimera 1992: alcune novelle contenute della raccolta sono state narrate da
Cici Cafaro e ne recano la firma. C. CAFARO et alii, Loja j’agapi. Parole per amore, Calimera
1997: il volume è una raccolta di poesie scritte in griko da cinque autori; XR.E.K. TARTARIS, To
ellenofono idioma griko tis N. A. Italias, Korintos – Calimera 2000: il libro contiene dei testi di
Cici sulla parlata grika, scritti in griko, presentati e tradotti in greco da Tartaris; Le poesie di Cici
Cafaro poeta della Grecìa, Calimera 2001; C. CAFARO - Poeta Popolare, L’amore di un Padre.
Stornelli, rime, poesie e racconti in lingua, dialetto e griko, Calimera 2004; I Brindisi di Cici
Cafaro, Calimera 2004; Le poesie per Gesù Bambino di Cici Cafaro, Calimera 2004.

296
Eugenio Imbriani

termini di patrimonio. Ma troppo tempo si è perso: questo è, in definitiva, il


maggior cruccio di Cici, poiché una lingua, se non viene parlata, muore, o
vivacchia fino a quando parlanti non ce ne saranno più. Egli vede, allora, se
stesso come un argine alla decadenza, alla perdita, al rifiuto, usa il grico quanto
può, lo mette per iscritto, compone poesie, canti, memorie; è terribilmente
irritato per il fatto che questo impegno non viene assecondato quanto sarebbe
necessario e perché ritiene di muoversi nell’ingiustificato torpore della stessa
gente di Calimera, che invece dovrebbe sentirsi custode della lingua.
Mi pare molto bella e significativa questa poesia che scelgo tra le tante che
ha scritto a questo proposito: si intitola E glossama, la nostra lingua; anche la
versione italiana è di Cici:

E glossama La nostra lingua

En’orio t’o zisi È bello il vivere


En’orio s’o agapisi È bello amare
En’oria e glossama ni milisi È bello parlare la nostra lingua
Ea tui ene e glossa Che questa è la lingua
Ca mas ficane e antenai Che ci hanno lasciato gli antenati
Ce sopu ziso e ti limonò mai E finché vivrò non la dimenticherò mai
Oria glossa Grica Bella lingua greca io sempre t’amo
Evò panta s’agapò Ma dove sono andate le parole
Ma pu pirtane itta loja Che parlavamo una volta
Ca milusamo ena cerò. Quanto ti penso mi piange il cuore
Dopu se penseo mu clei e cardia Perché non t’ama tutta la gente
Jatì esse agapà oli e jetonia. Ma la gente che non t’ama
O jeno ca es’agapà ene atto alio noisi, È perché capisce poco
Milume t’in glossamma ni camome na Parliamo la nostra lingua
zisi. Per farla vivere.

La perdita della lingua grica non costituisce un tema nuovo nella


produzione saggistica e letteraria; la Grecìa salentina ha prodotto non pochi
letterati che ne hanno saputo cogliere e sfruttare le potenzialità, trasponendola
sapientemente nella scrittura, a cominciare dalla seconda metà dell’Ottocento.
Cici non è una persona colta, nel senso comune del termine, perché non ha
frequentato che poche classi di scuola elementare, e ne è molto rammaricato, ma
si iscrive orgogliosamente nella lista degli autori grecanici, cercando di adattare
la sua scrittura ai canoni proposti dai redattori di vocabolari e grammatiche,
come fa anche con la lingua italiana; ha una concezione molto moderna del
concetto di cultura: non libresca, ma frutto dei saperi che si coltivano nella
molteplicità dell’esperienza umana, del lavoro e dell’impegno nella vita sociale:
e la sua esperienza è stata molto varia di situazioni e densa di passioni.

297
Modi di raccontare in Salento

Fig. 3 – Cici Cafaro, poeta popolare di Calimera.

Fig. 4 – Trofei e riconoscimenti ricevuti da Cici Cafaro di Calimera.

Dal suo punto di vista, non può essere la nostalgia il motore che guidi la
ricerca delle parole perdute (dove sono andate le parole…), ma la percezione di
un impoverimento linguistico, culturale, e la convinzione altrettanto netta che
non ce lo possiamo permettere: in uno dei nostri ultimi incontri di lavoro, giunto
alla fine della dettatura di un brano in prosa (mi usa, infatti, ogni tanto, come

298
Eugenio Imbriani

dattilografo), Cici si rese conto che mancava qualcosa, e aggiunse al momento,


come ultimo rigo: «jatì posse glosse fseri na milisi, tosse forè ise antrepo»,
quante lingue sai parlare tante volte sei uomo.

3. Le tabacchine di Tricase
Si sarà compreso, a questo punto, che nel presente articolo mi propongo di
illustrare modalità e temi narrativi strettamente legati all’esperienza e
all’esistenza stessa dei narratori, in un contesto che possiamo definire popolare,
poiché i protagonisti non sono autori colti e non hanno alle spalle una
consolidata esperienza letteraria. Attingono racconti dalla vita propria, da quella
dei loro cari, ci mostrano il loro singolare punto di vista sulla storia, ci svelano
come questa ha attraversato le loro esistenze, lasciando dei segni più o meno
profondi10; raccontare di sé, dei propri trascorsi, non equivale a immergersi nel
passato, né a compiere, come si dice, un tuffo nella memoria, perché l’atto del
ricordare si svolge adesso, è un esercizio che il presente opera adesso, spinto da
sentimenti o necessità che appartengono al momento in cui i ricordi si attivano;
la memoria non è semplicemente un magazzino di dati, ma una funzione che
costruisce, elabora, riflette, seleziona: già, perché non tutto si può ricordare, ed
esistono filtri sociali, morali, affettivi, che favoriscono l’oblio11.
Tricase è un bel posto, a un passo dal mar Adriatico, a sud di Otranto; del
vasto querceto che la circondava, e che forniva la materia utile alla conciatura
delle pelli, arte nella quale i suoi abitanti precipuamente eccellevano, sono
rimaste poche tracce, in particolare una quercia monumentale, giustamente
famosa. Rimestare nella memoria a Tricase può voler dire toccare ferite ancora
sensibili; le guerre, le disgrazie, hanno portato lutti qui come altrove, ma
l’avvenimento più doloroso per la comunità rimane l’incredibile massacro di
gente inerme, durante una manifestazione di piazza, perpetrato dai carabinieri il
15 maggio 1935, quando spararono sulla folla causando cinque morti, tra cui un
ragazzo quindicenne colpito alla schiena, e trenta feriti; aggiungiamoci oltre
settanta arresti e cinquantadue rinvii a giudizio. Sullo sfondo, dal punto di vista
delle autorità, c’era probabilmente il timore di una protesta sovversiva, o
addirittura di una rivolta antifascista; dall’altra parte c’era, mescolato in alcuni,
forse, con un forte risentimento verso il potere, il timore molto concreto di
perdere il lavoro, vista la delibera del 30 aprile 1935, resa ufficiale dal prefetto
il 14 maggio, di chiudere i Consorzi agrari (compreso quello denominato Capo
di Leuca), e costituirne uno solo a Lecce12.

10
Cfr. P. CLEMENTE, Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie di vita, Ospedaletto, Pacini,
2013.
11
Rinvio per questi temi a E. IMBRIANI, Dimenticare. L’oblio come pratica culturale, Nardò,
Besa, 2004.
12
Su questi temi e la bibliografia relativa cfr. V. SANTORO, S. TORSELLO, a cura di, Tabacco e
tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento,

299
Modi di raccontare in Salento

A Tricase la presenza della fabbrica per la lavorazione del tabacco risale al


1902: è nota per tutti come A.C.A.I.T., acronimo di Azienda Cooperativa
Agricola Industriale di Tricase, ed ha costituito per un lungo periodo di tempo
un polo economico fondamentale nella vita della cittadina, perché forniva
occupazione soprattutto alle donne, particolarmente in inverno, quando il lavoro
nei campi ristagnava e gli uomini non sempre trovavano la possibilità di trovare
“la giornata”. Ora, due giovani studiose, Ornella Ricchiuto e Dalila Urso, hanno
condotto una ricerca molto interessante tra le donne che hanno lavorato presso
l’A.C.A.I.T., raccogliendone le storie di vita, dirigendo l’attenzione sulle
condizioni del loro lavoro, inquadrando, tuttavia, la attività che vi esercitavano
all’interno del più ampio contesto della loro esistenza13. La tecnica di raccolta
delle informazioni è piuttosto complessa; sono state svolte delle interviste
registrate nelle abitazioni delle persone individuate, ma sostanzialmente le si è
lasciate parlare liberamente; le sollecitazioni sono talvolta passate attraverso il
commento di fotografie o osservazioni sugli oggetti casalinghi o quelli meglio
conservati; è accaduto che i parenti fossero d’aiuto nel dialogo con persone
particolarmente anziane; sono nate belle intese amichevoli e forse anche un po’
complici; le annotazioni sul taccuino hanno aiutato nella ricostruzione di pezzi
di registrazione meno fortunati. Sono undici storie di donne raccontate nelle
loro case; in brevi note introduttive vengono descritti gli ambienti in cui si sono
svolti gli incontri.
Tutte le vite sono uniche, e ognuno, nel ripercorrerla, se ne fa una propria
idea. Lucia Brigante declina il passato con la fatica e con la fame:
Allu furnu de a Pane e birra, addhunca nc'è a puteca de mieru, scivene
cu cattavane a cinnere, finta cinnere, cu la sporta ranne, cu le pezze...
Scivi, te dava u pane contrabbannu, de susu mantivi e pezze e mantivi a
cinnere e paria ca te cinnere... così era, tutto a contrabbannu. Scivene,
cujivene e fojie reste e nu tanivane sale cu llu cucinamu... all'acqua de
mare, a contrabbannu, te vadia a finanza te fregava... a contrabbanno,
intra ursili piavane l'acqua de mare, intra ursili ca se vavia primu: cu
mantene l'acqua frisca tanivene sti ursili de crita, piavane l'acqua de
mare cu cucinamu, comu ieu comu tutte. E scivene e vagnone (nu scivane
e ristiane ranni perchè iddhe erane chiù soggette) e cucinavane cu
l'acqua de mare e foie reste, foia fritta e cusì se facia salata nu pocu e se
no nu nc'era nenzi. Nu nc’era nenzi… (ivi).

Per Assunta Serafino, loquace, estroversa, resta centralissima la vicenda del


padre, eclissatosi a Montevideo, dove si era recato emigrante e aveva costituito

Introduzione di Alessandro Portelli, Lecce, Manni, 2002; S. COPPOLA, Quegli oscuri martiri del
lavoro e della libertà. Anatomia di una sommossa (Tricase, 15 maggio 1935), Castiglione,
Giorgiani, 2015.
13
O. RICCHIUTO, D. URSO, Oltre il tabacco. Storie di donne a Tricase. Una ricerca antropologica,
in corso di stampa.

300
Eugenio Imbriani

un nuova famiglia, lasciando in Italia moglie e figli, e conosciuto, finalmente,


dopo tanti anni. In fabbrica bisognava rispettare la consegna del silenzio,
bisognava tacere e lavorare, era assolutamente vietato mangiare qualcosa; le
operaie erano controllate dalle maestre energiche e severissime, chiunque
poteva essere sospeso dal lavoro per una sciocchezza, una parola mal tollerata,
un ritardo, una risata, un gesto ritenuto irrispettoso. Bisognava maneggiare le
foglie del tabacco, stenderle, selezionarle, curarne la seccatura e l’imballaggio;
l’odore impregnava i vestiti, i capelli, la pelle. Chiunque sia vissuto nei paesi in
cui erano attive le fabbriche conosce quel profumo, non sgradevole, che
aleggiava in inverno e che si accentuava appena una tabacchina, con la sua
divisa, ti passava vicino; racconta ancora Assunta:

L’odore del tabacco era come una cosa... mmmh... quando incomincia
una cosa a bruciare all’inizio. L’odore, era odore del tabacco... eri tenire
nu camice che si impregnava dell’odore del tabacco! Pure i capelli si
impregnavano di tabacco che tante volte quando stavi all’'imballaggio
(la machina scinnia il tabacco e tie tuccava stavi sempre cu carchi u
tabacco cu vene bellu sozzu), in testa te nchivi tutta de chiru tabacco
spriculatu!!! scivi a casa la sera e tocca te lavavi la capu! (ivi).

Non si era solo tabacchine; il lavoro bisognava aggiungerlo alle occupazioni


consuete, ai doveri domestici, ed era stagionale, per cui nei mesi liberi si faceva
altro, in campagna e altrove. Lucia Grimani, per esempio, «amante dei fiori»,
nel periodo in cui il magazzino era inattivo faceva la sarta:

Poi io quando finivo il periodo al magazzino facevo la sarta. Tannu finivo


i quattro-cinque mesi alla fabbrica, e poi andavo a sciurnata a casa delle
persone. Prima non c’erano mercati, non c’erano boutique, era tutto
confezionato con la sarta! E quindi le persone ti chiamavano e dovevi
andare a casa loro: ti portavano la macchina da cucire e tu cucivi
quattro cinque giorni, dipende che famiglia grossa era. Quando cucivo,
sempre a sciurnata stavi... andavi alle sette della mattina e a
mezzogiorno ti facevano il pranzo, poi la sera di nuovo e quando
imbruniva, verso le sei-sette, lasciavi e te ne andavi a casa.
Guarda, lavoro ne ho fatto! Anche perché prima non c’era niente, tutto a
mano dovevi fare: cominciavi dalle mutandine fino alla sottana, il
reggiseno, la gonna, la veste, il soprabito, il tailleur... veniva tutto cucito
a casa (ivi).

Nelle testimonianze c’è la vita trascorsa e condivisa all’interno della


comunità, compaiono i riferimenti ai luoghi frequentati, ai mille lavori
domestici, ai mestieri, all’apprendistato presso le sarte e gli artigiani, ai tempi
dell’anno, alla vita dura; traspare in controluce la comunità in una dimensione
corale e plurale, ma, ovviamente, le storie non sono sovrapponibili, concorrono

301
Modi di raccontare in Salento

ad aggiungere tessere che, comunque, faticano a combaciare, a un mosaico


destinato a rimanere incompleto.
A dispetto delle immagini stereotipate anche troppo note che rappresentano
i vecchi paesi dell’Italia meridionale come lenti e sonnacchiosi, da questi
racconti si ricava invece una impressione di grande mobilità e di vivacità; è raro
che qualcuno si trovi da solo, si procede in gruppi e a frotte, per andare al
lavoro, in chiesa, al mercato, a prendere l’acqua, a scuola.

Mi fermo qui, anche se, come è chiaro, numerosi altri casi potrebbero essere
presentati e discussi; ho preferito proporre delle modalità autonarrative di
produzione di storie, perché è più facile cogliere l’impronta dell’autore e la sua
intenzione riflessiva, e l’abilità che gli è propria nell’uso degli strumenti
linguistici, iconici, materiali di cui dispone; le storie di vita contribuiscono certo
a fornire informazioni utili alla ricostruzione di avvenimenti di più o meno vasta
portata, ma rimangono storie personali e in quanto tali restano intimamente
vere, anche se imprecise, confuse, troppo o poco elaborate.

302
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 303-312
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p303
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Musica e testi in Salento fra tradizione e modernità

Alessandro Bitonti

1. Introduzione
Il quadro che oggi compone il Salento musicale è quanto mai variegato. In
un’area che assiste sempre di più al riconoscimento e allo sviluppo delle proprie
risorse ambientali e culturali, la musica sembra diventare un marchio identitario,
rappresentativo di valori nuovi e allo stesso tempo tradizionali, che è in grado di
stabilire contatti e partecipazione sociale a livello non soltanto endemico.
In linea con quanto avviene nel panorama nazionale, la canzone dialettale
salentina si confronta con la produzione in lingua italiana, riuscendo tuttavia a
rompere i confini tradizionali di fruizione e a infiltrarsi in spazi commerciali e
di gusto sempre più ampi. Se, dunque, si parla ormai da tempo di sdoganamento
dei dialetti, nella stessa direzione sembrano tendere le produzioni musicali
scritte nel codice autoctono.
Il salentino è rappresentativo di una subcultura e di valori che non hanno
più a che fare con la subalternità sociale, con le povere condizioni di vita o di
lavoro, con lo stigma sociolinguistico; la sua passata connotazione di inferiorità
diventa invece veicolo di trasmissione culturale e simbolo di appartenenza
identitaria, se non addirittura un vero e proprio tratto distintivo del patrimonio
materiale e immateriale locale.
Questo processo di sdoganamento della musica salentina passa attraverso i
canali della comunicazione e di intrattenimento e attraverso l’influenza del
mercato e del consumo discografico, sempre più di massa, che porta alla
promozione e al rimodellamento della subcultura, soprattutto da parte delle
giovani generazioni.
Sul piano diacronico, ma limitandoci alla produzione del XX e del XXI
secolo, si può osservare una bipartizione della produzione musicale nell’area
indagata: da una parte una sezione legata alla musica folclorica (fatta di
stornelli, di canti popolari e di pizzica, generi che si fondono con la musica
dialettale d’autore), dall’altra una produzione originale e moderna caratterizzata
da un «collage massmediale»1 fatto di prelievi dai fumetti, dalla televisione,
dalla musica stessa, dalle lingue straniere. Il ruolo del dialetto è, insieme all’uso
frequente di cambi di codice, quello di trasmettere contenuti ideologici e
identitari nel modo più espressivo possibile.
1
G. CARTAGO, La lingua della canzone, in I. BONOMI, A. MASINI, S. MORGANA (a cura di), La
lingua italiana e i mass media, Roma, Carocci, 2008, pp. 199-221, p. 211.

303
Musica e testi in Salento tra tradizione e modernità

2. I canti della tradizione


I canti della tradizione sono soprattutto legati alla memoria e all’oralità2: il
brano veniva adattato al dialetto dei singoli centri creando variazioni non solo sul
piano melodico ma anche su quello linguistico. Dal punto di vista tematico è
possibile operare una classificazione di questa tradizione distinguendo alcune
tipologie prevalenti: i canti di lavoro, i canti di protesta, i canti d’amore, i canti di
invettiva o di dileggio, i canti festivi o religiosi, i canti terapeutici, i canti funebri e
le ninnenanne.
Date le precarie condizioni economiche e sociali, i canti di lavoro e quelli di
protesta sono spesso collegati, facendo emergere la situazione di subalternità
delle classi povere e la limitata possibilità di riscatto sociale3. Ciò che online
oggi si può ascoltare è, ad esempio, la produzione di alcuni gruppi (come
Aramiré o Officina Zoè) che, su melodie tradizionali, scrivono o incorporano
testi, frasi o spesso intere strofe, nel dialetto locale.
Temi frequenti sono, dunque, quelli legati all’emigrazione o alle condizioni
di lavoro. Una figura meritevole di nota, collegata con l’economia locale del
passato, è quella della tabaccara: contadina che lavorava presso i tabacchifici,
assoggettata al potere del padrone. La dinamica dello sfruttamento è ad esempio
leggibile nel classico brano Fimmene fimmene4:
Fimmene, fimmene ca sciati allu tabaccu, / ne sciati doi e ne turnati
quattru. / Ci te lu disse cu chianti zagovina, / passa lu duca e te manda
alla rovina. / Ci te lu disse cu chianti lu tabaccu, / lu sule è forte e te lu
sicca tuttu. / Ci te lu disse cu chianti lu salluccu, / passa lu duca e bu lu
tira tuttu.

L’amore è invece il tema principale delle composizioni popolari salentine.


Si tratta generalmente di canti poetici eseguiti dagli uomini. Nel passaggio
seguente5 l’innamorato aspetta di incontrare la propria amata e il patimento
d’amore è costruito con l’uso di meteoronimi come friscure, chiovere, nivicare,
derlampare, tronicare opposti a immagini poetiche come nu campu de fiori o
musiche d’amore in un gioco galoppante di similitudini.
Donna ci stai alle càmbare ‘nzarrata, / e iu stau qua ffore e ccoju le
friscure. / Lu chiovere me pare n’acqua rosata, / e lu nivicare nu campu
de fiori. / Lu derlampare na lettricitata, / e lu tronicare musiche d’amore.
/ Mo scerne bella se me porti amore.

2
Lodevole è, in questo senso, il progetto dell’Archivio Sonoro Puglia (consultabile al sito
http://www.archiviosonoro.org/puglia/) che ha registrato e raccolto per il Salento numerosi materiali
della tradizione musicale orale relativi non solo alle diverse pizziche ma anche agli stornelli, ai canti
funebri e ninnenanne, coprendo un arco temporale che va dagli anni ’50 del secolo scorso (con le
prime campagne di registrazione di Alan Lomax e Diego Carpitella) ad oggi.
3
Temi frequenti sono quelli legati all’emigrazione e alle condizioni lavorative.
4
Versione registrata da Alan Lomax nel 1954.
5
Donna ci stai alle càmbare ’nzarrata, registrazione di Alan Lomax del 1954.

304
Alessandro Bitonti

Dai toni irriverenti sono le canzoni di dileggio. Si tratta di un vero e proprio


scherno nei confronti di alcune classi sociali, in particolare quelle dei prelati o
dei monaci. Una registrazione di L. Stifani (1999), Lu monacu, racconta ad
esempio la seduzione di una donna da parte di un monaco pellegrino. L’azione è
scandita dall’atto dello spogliarsi del religioso, mentre il ritornello fa leva sul
punto di vista della donna che dà l’allarme per chiedere soccorso.
E fuciti fuciti fimmane / scia’ chiamati mammama / lu monacu ole mi
scanna / lu monacu ole mi scanna. / Fuciti fuciti fimmane / scia’ chiamati
mammama / lu monacu ole mi scanna / pe la soddisfazion!6

È chiara, in questo brano, l’allusione sessuale che rappresenta un altro


leitmotiv di questa produzione goliardica. Il ritmo allegro e incalzante della
canzone consente un parolare tendenzialmente basato sull’economia linguistica
con l’imperativo scia’ invece di sciati, col ricorso a soluzioni metricamente più
adatte prese in prestito dagli esiti più frequenti nell’area, con la posposizione in
enclisi del possessivo in mammama, con la forma lessicale apocopata
soddisfazion. L’andamento ritmico e la progressione tematica è favorita dalla
ripetizione di interi versi e dal cambiamento di alcune parole nelle strofe7.
Un’altra area interessante della musica popolare salentina ha a che fare con
la lingua e con la cultura dell’alloglossia grica. Si tratta della strina, ovvero di
composizioni musicali eseguite durante il periodo delle festività natalizie e
pasquali, quando i cantori giravano per le vie del paese e bussavano alle porte
delle case e delle masserie per raccogliere la questua: il nome stesso di questo
genere rimanda alla parola strenna, ovvero ‘dono’.
La strina racconta gli eventi relativi alla nascita o alla morte di Gesù e ha
anche una funzione augurale. La sua struttura è, a tutti gli effetti, bipartita: nella
prima parte, dopo l’introduzione, si narrano le vicende religiose legate alla
festività, mentre la seconda sezione assume una direzione di tipo pagano con
frasi che riguardano la benedizione della casa e dei suoi abitanti, gli auguri per
un raccolto produttivo e infine la richiesta della questua.
Le varianti oggi più diffuse della strina sono quelle nel dialetto areale, ma la
sua versione più nota sembra essere tendenzialmente diglottica.
Arte p’ôttasa ettù sti mmassaria / ivloò ti stràa ce to limbitari, / ivloò ti
mmana ce ta pedìa / apoi to ciuri p’ône o ggenerali. / Ivloò to topo
p’ôkame sitari: / triakoscia tùmena ce tria na kami; / motti isi kampagna
pai kalà, / ce o stesso patruna s’agapà. / Bon Capudannu, qui si fa la
strina / comu la fice Santu Silivestru, / ca li Rre Mmaggi l’hannu fatta
’mprima, / ’nci l’hannu ’ndutta a stu mundu ’niversu.

6
L. STIFANI, Io al santo ci credo, Lecce, Aramirè, 1999.
7
Il ritornello è ovviamente l’unità portante di questo prodotto musicale ed è intervallato dalla
seguente strofa: Lu monacu si lliau la tunica!/ Uh, che paura me vinne! Per favorire lo sviluppo
della narrazione, nelle strofe, la parola tunica viene cambiata prima in scarpe poi in camisa e
ancora in cazzetti e mutande, fino ad arrivare all’epilogo, apertamente allusivo all’atto sessuale.

305
Musica e testi in Salento tra tradizione e modernità

In questa versione8 entrambe le strofe riguardano l’augurio e la benedizione


della casa che accoglie i cantori. Tuttavia la prima parte è interamente nella
lingua alloglotta, mentre la seconda, nella quale si introducono elementi della
dottrina cattolica, è in dialetto. Sembrerebbe, la parte dialettale, una sorta di
aggiunta argomentativa con funzione non solo di tipo esplicativo, ma anche di
rafforzamento delle finalità augurali del coro.
In una versione completamente in dialetto9, si possono notare, inoltre, i
frequenti cambi di codice in direzione dell’italiano. Come evidente nella strofa
riportata di seguito, si tratta di completi inserti frasali in lingua.
A cquai io su’ rrivatu a cquai me fermu / ’rretu le porte de ste case toe. /
Insieme agli strumenti noi cantiamo / e qualche verso a vostra signoria.

Anche in questo esempio, la scelta del codice è funzionale: mentre il dialetto


rappresenta il codice privato, intimo (l’interprete sembra parlare a sé stesso),
l’italiano si attiva nel momento in cui il testo è eseguito in presenza di un
interlocutore, presumibilmente sconosciuto, al quale occorre dimostrare
deferenza; significativo è, a tal proposito, il deittico vostra signoria che conferma,
come in una forma di captatio, il clima ossequioso dell’esecuzione canora.
I canti terapeutici raccontano, più di tutti, il disagio sociale ed economico di
un’area profondamente rurale e della condizione di subalternità che i suoi
abitanti hanno vissuto a lungo. Ci riferiamo ovviamente alla pizzica che, ormai
simbolo identitario per eccellenza, rappresenta uno spazio della coreutica e della
musica popolare tra i più dibattuti e discussi, soprattutto dopo la campagna di
ricerca condotta nel 1959 da De Martino e dalla sua équipe10. La pizzica, o
pizzica pizzica, è generalmente associata alla iatromusica e alla iatrodanza del
tarantismo ma, come sintetizzato da I. Tempesta e A. Bitonti (2013):
«nella tradizione salentina sono attestati tre diversi tipi di danza [e di
musica]: la pizzica tarantata, la pizzica-pizzica, e la pizzica scherma. La
differenza fra queste tipologie coreutiche consiste nel fatto che la prima si
riferisce all’azione coreutica che ha lo scopo di curare dal morso della
taranta, la seconda potrebbe essere considerata una variante laica della
prima in quanto accessibile a tutti, ballata in coppia ed è culturalmente
associata al corteggiamento e all’eros (viene per questo spesso definita
come pizzica de core). La pizzica scherma, eseguita in particolare dagli
uomini, simula un combattimento con delle armi e prende il nome anche
di danza delle spade»11.

8
Testo (con adattamento grafico suggerito dai curatori) basato su quello disponibile all’indirizzo:
http://www.laterradelrimorso.it/lastrina(ingriko), consultato il 26.05.2015.
9
Cfr. http://www.laputea.com/it/cultura-salento/musica-salento/cantisalentini, consultato il
26.05.2015.
10
E. DE MARTINO, La terra del rimorso, Milano, Il Saggiatore, 1976, pp. 59-80.
11
I. TEMPESTA, A. BITONTI, Cultura letteraria e tradizioni linguistiche in Puglia. Fra ragni e
tarantole. Identità e lingue nuove, Roma, Aracne, 2013, p. 35 (corsivi miei). Per un
approfondimento si veda P. DE GIORGI, Tarantismo e rinascita, Lecce, Argo, 1999.

306
Alessandro Bitonti

La struttura poliritmica della pizzica, che si ripete ciclicamente e


regolarmente all’interno della medesima composizione, è modellata da
strumenti come il violino, l’armonica, la fisarmonica, ma soprattutto il
tamburello, che seguono un tempo in 4/4. In queste melodie:
«si riflettono due momenti tipici delle tecniche religiose: dilatazione ed
esasperazione della crisi che musicalmente si risolvono in particolari
tecniche espressive (ritmica accentuativa, sincope, effetti strumentali, vari
modi di percussione del tamburello, grida, lamentazioni ritmate); e
controllo della crisi che si riflette soprattutto nell’ostinato del ritmo
isometrico»12.

La varietà armonica di questo genere musicale è data, dunque, da una


sezione melodica (del violino ad esempio) e da una ripartizione ritmica (delle
percussioni).
Un esempio significativo può essere la canzone Lu rusciu de lu mare13,
testo noto e dalle numerose varianti sia melodiche che testuali. Si tratta di un
canto gallipolino che racconta di un amore sofferto fra un soldato e la figlia di
un re separati dalle differenze di classe (nell’ultima strofa si paragona la
condizione dei due amanti al conflitto fra turchi e aragonesi).

Na sira ’nde passai pe lle padule / e ’ntisi le ranòcchiule cantare. / Comu


cantanu bbelle a una a una / parìane lu rusciu de lu mare. / Lu rusciu de
lu mare è mmutu forte / la fija de lu rre se dà alla morte. / Iddha se dà
alla morte e jeu alla vita / la fija de lu rre sta sse mmarita. / Iddha sta sse
mmarita e jeu me ’nzuru / la fija de lu rre me dà nu fiuru. / Iddha me dà
nu fiuru e jeu na parma / la fija de lu rre se ’ndi ae alla Spagna. / Iddha
se ’ndi ae alla Spagna e jeu ’n Turchia / la fija de lu rre è lla zzita mia.

Da un punto di vista musicale, il testo si presta a diverse varianti ritmiche e


melodiche, mentre sul piano linguistico è evidentemente costruito attraverso
distici dalla struttura rimica irregolare (AB CB DD EE FF GH II) con la
collocazione di rime baciate nei tre distici centrali e in quello finale. La misura
della canzone è in 4 beat, ma l’unità ritmica dei due versi è composta dalla
giunzione di un dodecasillabo e un endecasillabo.
Altro elemento caratteristico di questa composizione è l’uso della figura
retorica dell’anadiplosi. Il racconto è sviluppato attraverso la ripresa nel
dodecasillabo di un segmento sintattico contenuto nell’endecasillabo del distico

12
D. CARPITELLA, L’esorcismo coreutico musicale del tarantismo, in D. CARPITELLA (a cura di),
Musica e tradizione orale, Palermo, S.F. Flaccovio, 1973, pp. 57-93, p. 73.
13
Il testo proposto è la trascrizione di una versione del canto tradizionale eseguita dai Negramaro,
un gruppo salentino la cui produzione musicale è in lingua italiana. Il video, consultabile
all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=CEzD2Qc75X4 (consultato il 02.06.2015),
rappresenta un inserto del film Una donna per amica, girato in Puglia.

307
Musica e testi in Salento tra tradizione e modernità

precedente. Si ha quindi cantare/cantanu per i primi due distici, lu rusciu de lu


mare fra il secondo e il terzo, se dà alla morte fra il terzo e il quarto, sta sse
mmarita fra il quarto e il quinto, me dà nu fiuru fra il quinto e il sesto, se ’ndi ae
alla Spagna fra gli ultimi due distici.
A sottolineare la passione e il coinvolgimento emotivo dell’amato serve
l’alternanza del sintagma la fija de lu rre con il pronome personale iddha che a
sua volta è messo in opposizione con il deittico di prima persona jeu.
A livello lessicale il testo è denso di arcaismi come rusciu ‘rumore’ (forse
dal greco ρόθιον), ranòcchiule ‘rane’, fiuru ‘fiore’, zzita ‘fidanzata’, padule
(aree rurali dominate da uliveti); si conserva il pronome personale iddha ‘lei’
(da ILLA con cacuminalizzazione di LL) e alcune voci verbali come ae ‘va’ e i
verbi mmarita ‘maritarsi’ (da MARITĀRE, derivato da MARĪTUS) e ’nzuru
‘prendere in moglie’ (dalla voce latina INUXORĀRE) che sono usati secondo il
loro valore semantico originario.

3. Sdoganamento e modernità della canzone dialettale


Un passaggio significativo dell’evoluzione musicale in Salento è quello
rappresentato dagli anni ’90 quando, come ci ricordano diversi studi di
Grimaldi14, il dialetto locale vive una seconda rinascita grazie al gruppo dei Sud
Sound System. Questi ridisegnano la tradizione folclorica tradizionale, sia sul
piano sonoro che su quello testuale, attorno a un genere musicale che è quello
del reggae15.
La dimensione del parlato diventa dunque prioritaria, così come il ritmo
rispetto alla melodia; ne consegue un nutrito uso di figure retoriche (epanalessi,
anadiplosi, anafora, polittòto), utili per enfatizzare il contenuto del testo, sia
pure con l’assenza di strutture metriche rigide. I versi sono liberi ma carichi di
allitterazioni (es. parlu peccè ieu sacciu)16, di rime interne (es. lu core me batte
a du l’anima me atte) e spesso anche di rime morfologiche (es. te lu Salentu
enimu, cucummari mangiamu, e a dunca sciamu sciamu, mentimu fuecu e
mpezzecamu). Abbondano anche diversi elementi fàtici (es. ehi, viniti quai)
utilizzati per creare o marcare la coesione con il pubblico.
L’operazione linguistica dei Sud Sound System si è concentrata anche sulla
commistione tra il codice nazionale e quello locale con la creazione di parole

14
Si vedano, fra tutti, M. GRIMALDI, Parole antiche in suoni moderni. L’uso del dialetto salentino
nella musica giovanile hip-hop, in G. MARCATO (a cura di), Giovani, Lingue e dialetti, Padova,
Unipress, 2006, pp. 425-431; ID., Dialetto, lingua e letteratura: alcuni esempi recenti di narrativa
pugliese, in G. MARCATO (a cura di), Dialetto, memoria e fantasia, Padova, Unipress, 2007, pp.
321-328.
15
A livello nazionale questa tendenza comincia verso la fine degli anni ’80 e si concentra intorno
all’hip-hop, genere che favorisce l’espressività e l’immediatezza testuale e che si rifà alle
caratteristiche orali della lingua.
16
Gli esempi sono tratti da GRIMALDI, Parole antiche..., cit..

308
Alessandro Bitonti

adattate, utilizzando alcuni tratti bandiera dell’area (ingegnu, besegnu, ritegnu,


convegnu), che convivono con forme arcaiche o popolari (sciana, ncarrare,
trappitu). Frequenti sono anche fenomeni di cambio di codice (es. Camenandu
a tiempu sulla giusta rotta). Si tratta, ovviamente, come sostiene M. Grimaldi
(2006), di un uso consapevole del dialetto che si serve dell’italiano «per
marcare emotivamente la narrazione e dare enfasi al contenuto semantico che si
intende porre in evidenza»17.
L’innovazione linguistica di questo gruppo salentino sta, come sostiene
ancora Grimaldi (2006), nell’uso di un dialetto che «sostanzialmente appare
integro»18 per veicolare tematiche e messaggi nuovi, dalla politica alla questione
meridionale, dal disagio giovanile al contatto con le radici.
Queste stesse caratteristiche sono ben visibili in una delle ultime produzioni
della band salentina. L’ultimo album, Sta tornu (2014), contiene canzoni nelle
quali dialetto, italiano e lingue straniere (inglese e spagnolo) si intersecano, ma
la tendenza alla conservazione dialettale rimane comunque molto forte.
Ogghiu tornu a casa mia, / cu dentu n’arveru de ulia, / comu la petra de
parite / o dha pajara ca me ole bene, / coloratu de lu sule, / niuru comu
nu scursune, / sutta n’arveru de fica, / me defrisca sta sciurnata.

La strofa, tratta dal brano omonimo, si caratterizza per una struttura metrica
instabile, rime imperfette, frequenti consonanze e un lessico prettamente
dialettale, senza parole adattate o inserti in italiano. La scelta delle frasi
nominali rende immaginifico il passaggio esemplificato: la stretta relazione fra
parole e cose (tipiche e radicate nel territorio), come arveru de ulia, petra de
parite, pajara, sule, scursune, arveru de fica, è funzionale alla rappresentazione
che si vuole trasmettere del Salento.
Se in passato il dialetto era conservato nelle canzoni della tradizione, la
band leccese ha invece inaugurato un nuovo modo di fare musica e ha il merito
di aver certamente promosso nuovi utilizzi della lingua locale secondo modalità
altrettanto innovative. I testi delle vecchie canzoni erano patrimonio soltanto
delle generazioni più adulte, mentre il processo in atto vede il dialetto
strettamente agganciato alle giovani classi generazionali.
A tutti gli effetti, le fasce giovanili fruiscono di testi musicali che
rispecchiano il repertorio attuale. Le nuove produzioni infatti non riguardano
l’uso esclusivo del dialetto, ma quell’insieme linguistico che caratterizza il
giovanilese: le lingue straniere, il dialetto (che ha funzione ludica ed
espressiva), i tecnicismi (soprattutto del mondo dell’informatica e di internet),
la lingua della televisione e dei media, l’uso di ideofoni.

17
GRIMALDI, Parole antiche..., cit., p. 429.
18
Ivi, p. 430.

309
Musica e testi in Salento tra tradizione e modernità

Tra i gruppi che, più di tutti, oggi utilizzano queste caratteristiche della
lingua giovane si può senza dubbio citare la band Boom Da Bash19 che, così
come avevano fatto i Sud Sound System, sposa generi come l’hip-hop e il
raggamuffin, con tendenze verso il soul e la musica elettronica, per creare testi
di contestazione o di impegno civile20. Il panorama d’azione risulta dunque
ampio e moderno e altrettanto ricchi sono gli usi linguistici.
I Boom Da Bash, mossi i primi passi nel territorio Salentino, sono riusciti
nel giro di pochi anni a imporsi nel panorama musicale italiano ed europeo e
hanno inciso, dal 2008 ad oggi, 3 album e 15 singoli.
Osservando i lavori pubblicati dalla band, si può immediatamente rilevare
che, su un totale di 52 canzoni licenziate, solo 2 hanno un titolo in dialetto e 4
hanno un titolo in italiano, mentre le restanti 46 hanno un titolo in lingua inglese
(con sporadiche mescolanze con la lingua creola giamaicana). Dunque, la
tendenza che sembrerebbe prevalere è quella della lingua straniera, ma
ascoltando i testi la prospettiva muta sensibilmente.
Per quanto riguarda la produzione in dialetto, si confermano le
caratteristiche già menzionate per i Sud (quindi l’uso di rime, di allitterazioni, di
metafore e di altre figure retoriche).
La novità di questo gruppo sta nella forte mescolanza dei sistemi: il contatto
linguistico si realizza attraverso cambi di codice ed enunciati mistilingui. Il
testo di Somebody to love (2013), ad esempio, è composto dal ritornello in
inglese, dalla prima strofa in dialetto, dalla seconda in inglese e dall’ultima in
entrambe le lingue:
Sine mai na fiata pruei quiddu ca faci / quai li bueni troanu sulu cauci /
quandu sbagli dimme comu faci / scarichi la culpa sempre sull’autri / and
if you feel everything is so wrong to you / maybe the reason why your life
is not good is only you.

Si è in presenza di una commutazione di codice che serve a segnalare un


ulteriore sviluppo argomentativo e a rimarcare il contenuto del ritornello (You
are the reason why your life is not good).
Altrettanto interessante è il singolo del 2014, L’importante. Si tratta del
remake di una canzone degli Otto Ohm (band romana nata alla fine degli anni
’90) scritta interamente in italiano e della quale si riprendono le sonorità e il
refrain21. La versione dei Boom Da Bash si presenta con una strofa iniziale
costruita su frequenti frapposizioni tra dialetto, italiano e inglese, realizzando
dei code-switching interfrasali con funzione di citazione nello spostamento

19
Nata nel 2002 dall’unione di musicisti di area brindisina.
20
Altrettanto interessante, ma diversa nelle caratteristiche musicali e negli usi dialettali, è la
produzione di due gruppi emergenti come Salento Guys e Io te e Puccia.
21
Il titolo della canzone è Amore al terzo piano.

310
Alessandro Bitonti

all’italiano (la frase non c’è voluto niente è contenuta nel testo originario) e con
funzione di cambio di tema nel passaggio alla lingua straniera22:
Bbeddhra tra mmie e ttie / non c’è voluto niente / tra mmie e ttie / So it’s
easy to fall in love / Non c’è voluto niente / It’s so easy to fall in love.

Nel testo, costruito anche in questo caso soprattutto con strofe monocodice,
si trovano commutazioni fra italiano e dialetto (ad es. Salentu porta l’amore,
reggae apre lu core, in maggiore), oltre a cambi interfrasali, ovvero code-
mixing, fra italiano, dialetto e lingua straniera (ad es. Nu bbadare a cquantu
suntu bad).
L’innovazione si registra, ancora una volta, con il ritornello che si chiude
con una sospensione dell’enunciato in italiano e con l’inserimento di una
proposizione mistilingue in inglese e in creolo giamaicano, adottando non solo
le sonorità ma anche la lingua del reggae (dove nuh seh potrebbe essere tradotto
come ‘don’t say’)23:
non c’è voluto niente sai, ci vuole molto più tempo per
Girl you nuh seh it’s easy to fall in love with a girl like you.

Altri testi hanno ancora le stesse caratteristiche: è il caso di Reality show e


Danger dove si mescolano inglese e dialetto (es. Big combination moi a quai;
Qua cc’è fuecu moi fatte nu flash / Ci ne uei tocca ccacci lu cash / Cu sta
combu in cima / Spaccamu ogne clash) dove, oltre agli anglismi, combu e clash
sembrano cripticamente fare riferimento al gergo dell’informatica e delle band
musicali24. In Danger, inoltre, diventa ancora più forte il contatto con il creolo:
quasi l’intero ritornello e anche le strofe in inglese sono fortemente interferite
con il codice giamaicano.
Au subbra internet nu bbau in chat / Essu a mtv senza effetti au flat /
Suntu lu don dada comu a supercat / Percè tegnu na fìmmena, la cchiù
bombocklaat / Suntu famosu e insisti / Bbeddhra, nu ttutti òlenu ffannu li
tronisti / Resti flashata dopu ca nda isti / Ma lampu se a’ capiti li testi, si!
/ E ppe ccerti ete tuttu normale / Lu successu li face sballare.

22
Anche il testo di Un attimo presenta alcune commutazioni di codice italiano-dialetto (es. Una
volta impara, ca nienti ede pe ssempre / ca tuttu po ccangiare, forse ci cci minti l’ànima. /
Un’altra volta impara nu ssèrvenu le guerre).
23
Altri creolismi sono ripresi nella sezione in inglese.
24
Combu (adattato al dialetto locale da combo) può avere diversi significati: è abbreviazione di
combination (una serie di azioni che si possono effettuare nei videogiochi), il nome di una casa
discografica italiana, Combo record. Si tratta di un sostantivo che appartiene al mondo
dell’informatica e al mondo della musica: Combo è anche un gruppo musicale composto da pochi
elementi, il titolo di un album di Giuliano Palma & the Bluebeaters e il titolo di un album degli
Otto Ohm. Lo stesso vale per Clash, gruppo britannico degli anni ’80 musicalmente vicino alla
band salentina. Creola è anche la parola bombocklaat, traducibile con l’aggettivo ‘esplosivo’.

311
Musica e testi in Salento tra tradizione e modernità

In particolare, come evidenziato nel testo precedente, si rafforza il contatto


fra dialetto e linguaggio giovanile con termini dell’informatica (internet, chat),
della televisione (mtv, tronisti), della musica (don dada e supercat25) e
formazioni tipiche del giovanilese come flashata o sballare.

4. Riassumendo
Ampia bibliografia ha dimostrato che il dialetto rinasce nelle nuove forme
comunicative, in particolare quelle legate all’utilizzo dei nuovi media, dei social
network e delle strumentazioni informatiche26. Sembra dunque chiaro, come
sostiene R. Sottile (2013)27, che i sistemi linguistici locali sopravvivono «anche
nella capacità di farsi ‘inserto’ prevalentemente espressivo all’interno e accanto
alla lingua nazionale, tornando ad apparire in una serie di nuovi contesti» come
possono essere quelli della musica e della canzone.
Questa dialettalità nuova caratterizza la produzione musicale attuale
dell’area salentina, ma va sottolineato come il legame con la tradizione
folclorica sia ancora oggi ben saldo. Tenendo in considerazione la dimensione
sincronica, si possono individuare oggi almeno tre tendenze della musicalità
salentina: quella rappresentata dai canti della tradizione, la musica di rottura e di
protesta legata ai generi del rap o del reggae, e una tendenza innovante fatta di
recupero di tratti (culturali e linguistici) locali e di forti mescolanze di codici. In
generale si può affermare che il panorama a cui si guarda si caratterizza per un
forte orientamento conservativo della tradizione musicale del secolo scorso, con
spunti innovativi molto spesso imperniati su schemi e motivi del folclore locale.
Ma buona parte della musica locale di oggi passa anche attraverso gruppi che
godono di prestigio e di un diffuso consenso soprattutto da parte dei giovani.
Da un lato, pertanto, si trova il rinnovato interesse per la musica folclorica
locale, dall’altro il sentimento di reazione sociale dei gruppi giovanili determina
produzioni che guardano all’intero repertorio e puntano sul dialetto e sul
contatto linguistico come risorse espressive dal grande potenziale.
25
Don dada è un’espressione creola, che significa ‘il più cattivo fra i cattivi’, resa popolare dal
deejay giamaicano Super Cat’s.
26
Si vedano, fra gli altri, i lavori di G. BERRUTO, Quale dialetto per l’Italia del Duemila? Aspetti
dell’italianizzazione e ‘risorgenze’ dialettali in Piemonte (e altrove), in A.A. SOBRERO,
A. MIGLIETTA (a cura di), Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, Galatina, Congedo, 2006, pp.
101-123; L. COVERI, La canzone e le varietà dell’italiano. Vent’anni dopo (1990-2010), in
A. MIGLIETTA (a cura di), Varietà e variazioni: prospettive sull’italiano. In onore di Alberto
A. Sobrero, Galatina, Congedo, 2012, pp. 107-117; G. ALFIERI, D. MOTTA, R. SARDO, Lingua e
dialetto nella comunicazione mediatica: cinema, radio e tv, in G. RUFFINO (a cura di), Lingue e
culture in Sicilia, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, vol. I, 2013, pp. 716-
739; R. SOTTILE, Dialetto letterario e dialetto ‘destrutturato’. La canzone neodialettale siciliana
tra ideologia e ‘nuovi usi’, in G. MARCATO (a cura di), Le mille vite del dialetto, Padova, CLEUP,
2014, pp. 489-497.
27
R. SOTTILE, Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni, Roma, Aracne, 2013, p.
27.

312
Trascrizione dell’incipit del coro nel canto ‘oh bella tomma’ (VITO RAELI, Il canto
dei mietitori tricasini, in “Rinascenza Salentina”, II (5-6), 1935, pp. 272-279, p.
278) [fonte: http://emeroteca.provincia.brindisi.it]

Lancio di un recente disco del gruppo musicale dei Sud Sound System
[fonte: http://www.sudsoundsystem.eu/]

313
La grafia del gruppo tr con cacuminalizzazione (e la pregeminazione) in N.G. De
Donno [dalle copertine delle raccolte pubblicate rispettivamente a Maglie (“Tempo
d’Oggi”, 1980) e per i tipi di Piero Manni (1986)].

Immagine delle due facciate di un’incisione di parlato dialettale salentino risalente


al 1914 (Archives de la Parole, gallica.bnf.fr). Il disco contiene la voce di Nicola
Cacudi (storico e critico d’arte, Monteroni di Lecce, 1882-1963) e della consorte
Maria (Lecce, 1888-?) [La registrazione è stata eseguita il 17 marzo 1914 presso la
Faculté des lettres di Parigi “La Sorbonne” da Ferdinand Brunot (1860-1938),
professore di storia della lingua francese].

314
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 315-328
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p317
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Come sta il dialetto salentino?


Indagine sull’uso del dialetto salentino in Internet, musica e
produzioni audiovisive

Claudio Russo

1. Introduzione
Il quadro generale in cui si iscrive lo stato di salute del dialetto salentino
non sembra essere foriero di particolare prosperità sociolinguistica: il rapporto
ISTAT relativo all’anno 2012 conferma il costante calo dell’uso esclusivo dei
dialetti su tutto il territorio nazionale (in interazioni con familiari, amici ed
estranei) a favore dell’uso esclusivo dell’italiano o, in misura minore, dell’uso
combinato dei due codici1. La Tab.1 permette una parziale, rapida occhiata del
fenomeno in esame (le informazioni pertinenti all’uso di altre lingue sono state
elimitate per ragioni di impaginazione, ma sono disponibili nel testo integrale).

Tab. 1. Abitudini linguistiche degli italiani tra 18 e 74 anni. Fonte: Istat, ottobre 2014.

Molti autori si sono occupati (e continuano a occuparsi) magistralmente


della questione, ma allo stato dell’arte sembra mancare un’effettiva misurazione
della salute dei codici dialettali del territorio italiano che faccia capo a uno
standard riconosciuto internazionalmente (come, ad esempio, il protocollo
UNESCO per le lingue in pericolo stilato a Parigi nel 2003, di norma non

1
ISTAT, L’uso della lingua italiana, dei dialetti e di altre lingue in Italia. Anno 2012, Roma,
ISTAT, 2014; v. sitografia.
Come sta il dialetto salentino?

applicabile ai dialetti2), probabilmente anche a causa della strabiliante varietà di


difficile catalogazione, la “polimorfia delle diverse situazioni regionali”
segnalata da G. Berruto nell’introduzione al decimo volume della collana
“Lingua e Dialetto nell’Italia del Duemila”3. Le iniziative di politica linguistica
internazionale hanno concentrato la loro attenzione su 31 minoranze
linguistiche sparse su tutto il territorio nazionale: l’atlante UNESCO delle
lingue del mondo, aggiornato nel mese di gennaio 2014, comprende tanto
alcune effettive minoranze linguistiche quali l’arbëresh, il franco-provenzale e il
ladino quanto alcuni dialetti come il lombardo, il romagnolo, il piemontese e il
“South-Italian” (termine ipoteticamente onnicomprensivo, ma verosimilmente
limitabile al napoletano); a ogni voce dell’atlante corrisponde uno specifico
codice ISO e i dialetti non sono contemplati nella classificazione. Questa
peculiare ottica sembra riflettere la visione di M. Loporcaro (2009) quando,
riferendosi alla scelta dell’italiano a scapito dei dialetti, scrive che

“Mentre si produce, questo processo storico, ormai probabilmente


irreversibile è generalmente percepito su scala nazionale come fattore di
progresso. Proiettati su scala planetaria, tuttavia, gli effetti di questo
processo vanno inseriti nel quadro della riduzione della diversità culturale
attualmente in atto. Riduzione che sta portando rapidamente all’estinzione
in massa delle lingue del mondo, la stragrande maggioranza delle quali, si
calcola, ha di fronte a sé pochi decenni di vita”4.

Il dialetto salentino, in tutte le sue varianti, non costituisce un’eccezione a


questo quadro generale: è anch’esso soggetto a una diminuzione d’uso, a un
“prevedibile, atteso depotenziamento”, per usare le parole di A. Sobrero
(2006)5, seppure con un’intensità minore rispetto ai dialetti del Settentrione
dovuta probabilmente a parametri sociali quali l’alta concentrazione di comuni
popolati da meno di 10000 abitanti (73 sui 97 totali nella sola provincia di
Lecce)6 e il notevole tasso di abbandono scolastico dopo la licenza media
(stando ai dati ISTAT, la Puglia è al 4° posto nella classifica nazionale per

2
In virtù del fatto che l’Atlante UNESCO delle lingue del mondo associa codici ISO identificativi
a ogni lingua, ma non ai dialetti (v. UNESCO, Language Vitality and Endangerment, in
“International Expert Meeting on UNESCO Programme Safeguarding of Endangered
Languages”, (Parigi, 10-12 marzo 2003); v. sitografia.
3
G. BERRUTO, A mo’ di introduzione, in A.A SOBRERO, A. MIGLIETTA (a cura di), Lingua e
dialetto nell’Italia del Duemila, Galatina, Congedo, 2006, pp. 5-13.
4
M. LOPORCARO, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Bari, Laterza, 2009.
5
A.A. SOBRERO, Lecce: italiano e dialetto degli adulti, fra lavoro e media, in SOBRERO,
MIGLIETTA (a cura di), Lingua e dialetto..., cit., pp. 325-340; cfr. A. MIGLIETTA, Lecce: italiano e
dialetto dei bambini, fra scuola e gioco, in SOBRERO, MIGLIETTA (a cura di), Lingua e dialetto...,
cit., pp. 311-324.
6
Cfr. A. PULIMENO (a cura di), Compendio Economico-Statistico, I comuni della provicia di
Lecce, Lecce, Camera di Commercio, 2014.

316
Claudio Russo

numero di abbandoni). Ulteriori approfondimenti mirati sono reperibili in un


interessante prospetto sulla situazione sociolinguistica dei centri rurali in
Tempesta (2000)7.
Tuttavia, sarebbe erroneo e sociolinguisticamente ingenuo affermare che il
dialetto salentino stia subendo passivamente questo accantonamento
progressivo.
Nel 2006, A. Sobrero e A. Miglietta hanno contribuito con due inchieste
sull’uso del dialetto nei mezzi di comunicazione di massa, nelle transazioni
commerciali e negli istituti scolastici; i risultati segnalano tanto una
stigmatizzazione del dialetto in ambiente scolastico affiancata a una prima
esposizione al salentino in ambito familiare, quanto una sua vitalità (non sempre
re-legata a fini umoristici) nei mezzi di comunicazione di massa, seppure in
alternanza intra- e interfrasale con l’italiano. Anche M. Grimaldi ha esplorato a
più riprese gli utilizzi del salentino nella comunicazione mediata dal computer
(2004) e le sue declinazioni nei fortunati domini della musica reggae, rap e hip-
hop (2008)8.
Il presente lavoro, articolato in tre sezioni esplorative e una conclusiva, si
prefigge di esporre il dinamico vigore dialettale nel dominio di Internet, della
musica contemporanea e delle produzioni audiovisive a fine artistico e
documentaristico nel tentativo di analizzarne gli aspetti sintattici, ortografici e
soprasegmentali (ove possibile) e di ampliare la percezione dell’attuale stato di
salute del dialetto salentino nell’attesa di progetti di ricerca di più solida
strutturazione.

2. La salute del dialetto salentino – il Web


La presenza e la rappresentazione del dialetto salentino nel dominio di
Internet gode di una notevole disponibilità di prodotti generati da fonti
variamente autorevoli: la libera (o quasi) espressione garantita dalla natura del
World Wide Web ha permesso il proliferare di blog amatoriali a contenuto
dialettale che si sono affiancati ad enti di stampo accademico e a una dettagliata
pagina dedicata su Wikipedia.
Generalmente, i siti amatoriali si concentrano su contenuti lessicali e
idiomatici di carattere colloquiale: sono infatti reperibili pagine contenenti
proverbi, filastrocche e locuzioni dialettali a volte affiancati dalle relative
traduzioni, spesso tendenti a una corrispondenza uno-a-uno tra dialetto e
italiano. Quando l’attenzione dell’autore si sposta su produzioni dialettali più
prolisse e articolate – come storie brevi o testimonianze – la ben nota

7
I. TEMPESTA, Pratiche di lingua e di dialetto, Galatina, Congedo, 2000.
8
M. GRIMALDI, Il dialetto rinasce in chat, in “Quaderni del dipartimento di linguistica
dell’Università di Firenze”, 14, 2004, pp. 123-137; ID., Dialetto, lingua e identità: nuovi usi,
forme nuove, identità diverse, in “L’Idomeneo”, 9 (2007), 2008, pp. 99-121.

317
Come sta il dialetto salentino?

commutazione di codice non tarda a emergere. A volte, gli autori compiono


salti commutativi frequentissimi, al limite della sistematicità, come
nell’esempio (1), tratto dal blog Leccesi Dentro Group:

(1) Lu Papa, con non chalance, minte nu pete subbra ’lla millelire, e con
un cenno di OK, ringrazia lu polizziottu. Lu polizziottu, ’ndi fice l’ecchiu
rizzu, a mò di dire capisci a me, “poi spartimu”.

Le commutazioni di codice intra- e interfrasali sembrano realizzarsi (in


questa sede) in corrispondenza dei costituenti informativi, in particolare nei
costituenti di modalità. A livello sintattico è interessante notare la sequenza
capire + dativo (il cd. accusativo preposizionale), tipica dell’italiano regionale
di matrice napoletana; a livello lessicale, risulta degna di nota la presenza di
forestierismi ormai entrati pienamente nell’uso quali OK e non chalance.
Quest’ultimo elemento ci permette di giungere alla complessa questione del
livello ortografico volto a rendere la parlata dialettale: il forestierismo in esame
è soggetto a deglutinazione, probabilmente per via dalla percezione di una
negazione come quella dell’italiano (non); altra caratteristica degna di nota è la
trascrizione della forma apocopata mo’ con la forma accentata graficamente mò.
È noto che le varietà diamesiche legate all’uso informale della CMC tendano a
semplificare punteggiatura e accentuazione (e ogni giudizio su un’ipotetica
collocazione diastratica del profilo linguistico impiegato da un autore deve
risultare da una minuziosa analisi dei tratti linguistici di un testo di dimensioni
consistenti) ma la scelta di un accento in funzione di apostrofo è anomala per la
dimensione diamesica in esame: solitamente gli accenti vengono spesso resi
graficamente come apostrofi, in particolar modo quando si presentano su lettere
maiuscole; tuttavia, non sembra essere questo il caso: il testo presente sul blog è
curato nella scelta e nel posizionamento di apostrofi e virgolette, ma
sovrabbonda di accenti grafici (nei casi di nò per no, dò per do’ o doi → it. due
e il sopracitato mò per mo’) a indicare, probabilmente, la consistenza di questo
testo come esemplare della tipica commistione di dialetto e italiano (non sempre
realizzata come semplice commutazione di codice) e delle difficoltà a far
rifluire nello scritto il risultato di una riflessione metalinguistica sul parlato
spesso incompleta9.

9
Non disponendo di indicazioni e di fonti di riferimento, anche gli autori dialettali ricorrono
aleatoriamente a grafie incoerenti e non convenzionali non emendate da un’attenta cura editoriale.
Ad es. lo stesso A. VALENTI, In grazia di Dio, Milano, Baldini & Castoldi, 2014, scrive mò per
mo’ o du per ddu/ddhu/ddhru ‘dove’ (v. dopo): se nel primo caso la scelta non impedisce la
lettura, la seconda mette a dura prova la leggibilità del testo anche per un madrelingua (che,
quindi, non solo non trova una forma grafica che questa parola assume comunemente, ma è
confuso dal ricorso a una forma che invece rappresenta una delle tipiche rese grafiche di una
preposizione+articolo).

318
Claudio Russo

Una scansione, seppur superficiale, della presenza del dialetto salentino in


Internet non sarebbe completa senza una breve menzione al fenomeno dei social
network.
Secondo un articolo recentemente pubblicato sulla rivista Wired, il social
network che vanta il maggior numero di utenti sul territorio italiano è Facebook.
Ovviamente, ci risulta impossibile scandagliare i contenuti delle conversazioni
private degli utenti per attestare la presenza (o l’assenza) del salentino sulla
piattaforma virtuale targata Zuckerberg. Tuttavia, questa particolare piazza
virtuale prevede la possibilità per gli utenti di costituirsi in gruppi il cui
contenuto è liberamente visualizzabile da utenti terzi, in quella che sembra
essere una forma un po’ più recente dei newsgroups sparsi su vari server. In
questo particolare dominio, l’uso del dialetto è limitato a commenti sporadici o
a gruppi dedicati, in genere a fine umoristico. A titolo esemplificativo, l’estratto
(2) proviene dal gruppo Improbabili traduzioni italiane dal dialetto du Salentu,
che pubblica immagini e aggiornamenti di stato che calcano locuzioni tipiche
del parlato spontaneo (il simbolo ← indica calco dall’espressione fonte
immediatamente successiva):
(2)
A’ che non ti vedo ← A’ ca nu tte visciu;
Dove ti sei fatto l’estate, ti fai pure l’inverno ← Addhu’ t’ai fattu u ’state,
te faci puru u ’mbiernu;
Dove arriviamo mettiamo lo zippo ← Addhu’ rrivamu mintimu u zzippu.

Un altro tipo di contenuti tratti da questo particolare gruppo contiene


costrutti a carattere esplicitamente contrastivo. Generalmente, tali esempi sono
rappresentati da immagini che affiancano un vocabolo italiano a un
corrispondente salentino secondo la struttura (3):
(3)
In Salento nulla si rompe... al massimo SI SCASCIA!
In Salento non si seppelliscono i morti, SI PRECANO!
In Salento non ci si diverte... CI SI SGUARIA!

Di fronte a contenuti di questo tipo, un’obiezione naturale ha come


argomento l’assenza effettiva del codice dialettale: la prima serie di esempi,
infatti, propone una sua evocazione per mezzo dell’italiano (e, a volte,
dell’inglese) più che un suo effettivo utilizzo. I due fenomeni interessanti propri
di questo particolare gruppo sono immediatamente consequenziali a questo tipo
di post: in primis, questa comunità sembra essere un focolaio di riflessione
metalinguistica in costante evoluzione; in secondo luogo, presenta anche casi di
produzione spontanea da parte degli utenti, sotto forma di commenti ai post.
Un ultimo tipo di contenuti propone, come abbiamo anticipato, proverbi e
detti di saggezza popolare. A scopo esemplificativo, prendiamo alcuni esempi

319
Come sta il dialetto salentino?

dal gruppo Pruverbi Caddhipulini (l’equivalente italiano è introdotto dal


simbolo ←):
(4)
Ci quarda lu sou nu’ cchiama latru ciujeddhri ← Chi è attento alle sue
proprietà non teme furti;
Ttacca lu ciucciu addhrù ole u patrunu ← Fa’ come ti dice il padrone;
Bbrutti, li curaddhri toi! ← Espressione usata per segnalare un
atteggiamento irritante;
Allu mbidiusu, ogni bbene te l’addhi ’nde ccappa a ’ncanna ← Ogni
fortuna può causare invidia.

Gli esempi in (4) fanno risaltare uno degli aspetti problematici della
rappresentazione del dialetto. All’interno dei contenuti gestiti e approvati dai
moderatori, la mancanza di accordo ortografico sulla resa dell’occlusiva
retroflessa sonora porta all’emergere tanto di rese in -ddh- (come in
caddhipulini) quanto di rese in -ddhr- (come in ciujeddhri e addhru). La
scansione dei commenti, inoltre, ha rivelato esempi di resa in -dd- (nel caso
dell’istanza addu) da parte di alcuni membri.
Ulteriori esplorazioni della Rete hanno fatto emergere pagine contenenti sì
materiale in dialetto salentino, ma di natura tutt’altro che informale. Una delle
pagine in questione è il sito di Giuseppe Presicce che, nelle sue quattro sezioni
principali ospita una premessa alla consultazione delle pagine completa di una
breve bibliografia, un dizionario e una serie di pagine dedicate a fenomeni
morfosintattici, fonetici e fonologici del salentino di Scorrano: questa risorsa
virtuale si allontana dalle caratteristiche delle varianti diamesiche del dialetto
scritto trasmesso per assumere una dimensione pedagogica al limite del rigore
accademico; non mancano, infatti, descrizioni dei tipici fenomeni di aferesi e
betacismo, un intero paradigma della prima coniugazione verbale e un
dizionario della variante salentina di Scorrano.
Non mancano, infine, risorse on-line più formalizzate, spesso basate su ricerche
d’archivio. Un esempio su tutti è il Vocabolario Storico dei Dialetti Salentini
(VSDS) che si prefigge la riproduzione delle attestazioni di forme dialettali
salentine (greche e romanze) ricorrenti in documenti d’epoca (come ad es. quelli
del Codice diplomatico pugliese)10.

3. La salute del dialetto salentino – Musica


La scelta di concentrare l’attenzione della presente sezione sulla musica
salentina contemporanea tralasciando la trattazione del repertorio popolare non
deriva da un giudizio negativo nei confronti di quest’ultimo: fermo restando il

10
Informazioni più dettagliate su questo sito si trovano nel contributo di M. APRILE e V. SAMBATI, in
questo volume.

320
Claudio Russo

ruolo fondamentale di tale tesoro culturale (come, peraltro, dimostrano le


presenze alle manifestazioni a esso dedicate), per il presente lavoro si è preferito
esplorare una più recente declinazione del codice dialettale in ambito artistico.
L’uso del dialetto salentino nelle produzioni musicali non è certo un fatto
nuovo: il lavoro di Grimaldi (2007)11 ha già fornito un’accattivante analisi a
campione dei testi prodotti dai Sud Sound System, inquadrandone
efficacemente la cornice sintattica e gli espedienti metrico-lessicali.
Oltre ai già citati Sud Sound System, chi volesse approcciarsi ulteriormente
al ricorso al salentino nel reggae, nel rap e nell’hip-hop, potrà trovarne delle
occorrenze nei lavori degli Après la classe, dei Boomdabash, degli SteelA e di
Rankin Lele, Papa Leu & Marina (senza contare tutti i gruppi e gli artisti di
differente orgine geografica che fanno ricorso al dialetto salentino nelle loro
opere).
In questa sede, restringeremo l’attenzione su due artisti locali, di diverso
genere, le cui produzioni abbondano di materiale dialettale degno di nota:
Andrea Baccassino e Mino De Santis.
Andrea Baccassino è un cantante, scrittore e regista originario di Nardò. I
primi due album della sua discografia si distinguono principalmente per la
presenza di contenuti dialettali parodistici e umoristici, affiancati da melodie
celebri di canzoni nazionali e straniere. Si tratta di cover nelle quali l’autore ha
saputo adattare testi dialettali, magari opinabili, ma sempre caratterizzati da una
qualità metrica e ritmico-melodica apprezzabile.
Il dialetto è, naturalmente, quello di Nardò, del quale spiccano alcune
caratteristiche fonologiche di rilievo, come ad es.:

I. la presenza di occlusive palatali (geminate), laddove in altri dialetti si


hanno rese approssimanti (intrinsecamente geminate, in alcuni casi
laterali, come in italiano; es. figlio: [ˈfiʎːo] < lat. FILIU → sal. sett..
figghiu: [ˈfiɟːu]);
II. la presenza di esiti approssimanti palatali per le occlusive velari
originarie (come pagare: [paˈɡaɾe] < lat. PACĀRE → pajare:
[paˈjaɾe]);
III. la dittongazione delle vocali latine Ĕ > jè e Ŏ > wè, condizionata dalla
presenza di -I e -U in fine di parola, come in mieru (lat. MĔRU) e fuecu
(lat. FŎCU)12.

11
M. GRIMALDI, Il dialetto sopravvive in rete… e in rap, in “Italienisch Zeitschrift für Italienische
Sprache und Literatur”, 56, 2007, pp. 84-94.
12
Maggiori dettagli su questi trattamenti nel dialetto in questione sono in G.B. MANCARELLA (a
cura di), Salento. Monografia, Lecce, Del Grifo, 1998, e nel contributo di G.B. MANCARELLA, in
questo volume; per il lessico si veda anche G.B. MANCARELLA, P.PARLANGELI, P. SALAMAC,
Dizionario Dialettale del Salento, Lecce, Grifo, 2013.

321
Come sta il dialetto salentino?

A livello lessicale, le raccolte prese in esame presentano un numero


notevole di vocaboli afferenti ai lavori manuali in cui il repertorio dialettale
affonda le radici: cantinieri, agricoltori e muratori sono rappresentati a vario
titolo in tutti e due gli album, mediante i vocaboli raccolti in Tab.2:

Tab. 2: lessico specialistico ordinato per campi semantici

Muratura Vino Campagna


Ntùnica Intonaco Tampagnu Coperchio Casu Formaggio

Conza Malta Lagnu Stantìo Fesca Cestello


Fracassu Nettatoio Mieru Vino Sprù¢ini Cicoria selv.

Àndita Impalcatura Spuntare Acetificare Fondu Campo


Lletticare Traballare Spittirrare Traboccare Indimare Vendemmiare

Rruecculare Crollare Citu Aceto Scurzune Serpente


Mesciu Capocantiere Mbrillare Inebriarsi
13
Ruèzzulu Attrezzo Stumpare Pestare
Ppuntata Collegata Igne Vigne

Fatìa Lavoro Bbinchìre Riempire


Scruefulare Scivolare Otte Botte

Le strutture testuali proprie di quest’autore presentano fenomeni di


commutazione di codice per enfatizzare l’effetto umoristico: in (5), il testo in
italiano viene pronunciato a ridosso del verso in dialetto imitando l’andamento
prosodico che ricorda la salmodia responsoriale; alternativamente, la
commutazione di codice costituisce un espediente impiegato per comporre i
versi rispettando la struttura sillabica della canzone di partenza (6):
(5)
Cocu meu (Gregorio mio.)
Quantu mieru spuntatu! (Quanto vino acetato.)
Era lu nueu, (Era quello nuovo.)
Lu ecchiu s’era spicciatu! (Il vecchio era terminato.)
(6)
Se, se per impastare conza
Servirai,
Malitetta Bbitoniera!

13
Attrezzo utilizzato per realizzare la mistura d’intonaco preparatoria. Alcuni informatori della
variante di salentino in questione (neretina) hanno riconosciuto il termine come arcaico e
totalmente in disuso, complice la diffusione dell’intonaco premescolato.

322
Claudio Russo

Che importa se, se per impastare basta un’ora:


Che fretta c’era,
Malitetta Bbitoniera,
Che fretta c’era cu tti scasci propriu mo'?
(Canzone originale: “Maledetta primavera” di Paolo Cassella e Gaetano Savio)

Infine, sono presenti sporadici esempi di reduplicazione che però, data


l’esigua quantità non permettono generalizzazione alcuna. Per completezza,
sono riportati in (7):
(7)
• Quattru pari pari
• Ti nu fondu ripa ripa a ccasa mia

La variante di dialetto salentino del secondo autore preso in esame in questo


lavoro si differenzia per fonologia, lessico ed espedienti retorici. Mino De
Santis, originario di Tuglie, è un cantante giunto alla produzione di tre album
ascrivibili a un genere cantautorale à la De Andrè. A livello fonologico, la
variante di salentino cui l’autore fa ricorso è pienamente identificabile con la
varietà meridionale, in quanto annovera:
IV. la lenizione delle laterali palatali e la loro riduzione ad approssimanti
palatali (lat. FILIU → fiju: [ˈfiju]);
V. la ritenzione delle occlusive velari sorde intervocaliche (lat. PACĀRE →
pacare: [paˈkaɾe]) e la realizzazione delle sonore come sorde (lat.
GUBERNA(T) → cuverna : [kuˈvɛɾna]; lat. *EXQUADRA(T) → squatra:
[sˈkwaʈʂa]);
VI. un sistema vocalico di tipo siciliano, con esiti dittongati solo in casi
sporadici.
L’analisi del livello sintattico presenta degli interessanti casi di
reduplicazione (8) nominale e aggettivale:
(8)
IX. ca tappa tappa s’ave fatte quattru chiese.
X. se lu squatra palmu palmu,
XI. la sacciu mattone mattone,
XII. vau casa casa, rione rione.
XIII. nda unu ca camina rrenza rrenza
XIV. tamme bbisciu pocu pocu,
XV. moddhre moddhre squaja sotta llu pete.
XVI. poi chianu chianu se nde vane tutti,

Dei fenomenti di reduplicazione in (7), le reduplicazioni nominali tendono


ad assumere funzioni avverbiali (è possibile interpretare la sacciu mattone
mattone come la “conosco dettagliatamente” e se lu squatra palmu palmu come

323
Come sta il dialetto salentino?

“lo guarda attentamente”) e le reduplicazioni aggettivali sembrano adempiere,


come accade in italiano14, alla funzione del grado superlativo.
Il vocabolario cui De Santis fa ricorso a un dialetto generale e variegato (i
soggetti delle sue composizioni sono preti, prostitute, ubriaconi, cani randagi,
emigranti etc). Per questo motivo, risulta impossibile stilare un prospetto
lessicale che presenti una suddivisione netta e oggettiva che resti all’interno di
accettabili limiti di brevità. Le strutture testuali delle canzoni, tuttavia,
sembrano favorire una gamma lessicale di notevole ampiezza grazie all’utilizzo
combinato di dialoghi e sequenze narrative.

4. La salute del dialetto salentino – Video


Questa breve sezione dell’articolo stride con la scelta aprioristica di
escludere la musica popolare dall’indagine preliminare sullo stato di salute del
dialetto salentino15. Infatti, se da una parte il panorama musicale è vario
abbastanza da permettere un tale distacco, le produzioni cinematografiche
tendono a imboccare una direzione contraria: la pizzica tende infatti a emergere
e a permeare le scenografie delle opere audiovisive, o addirittura a diventarne
fulcro e oggetto principale (si vedano ad esempio i casi del film “Pizzicata” di
E. Winspeare e del video-documentario “Il sibilo lungo della taranta” di
P. Pisanelli)16. Il lavoro sul tarantismo di Pisanelli permette di assistere a una
serie di dialoghi in salentino, italiano e – seppur in uno spazio minore
appositamente ritagliato – in griko. In questa produzione, il dialetto viene fatto
vivere tanto in versi quanto in prosa, nelle poesie, nelle testimonianze e nelle
conversazioni dei partecipanti che ruotano intorno al fenomeno del tarantismo,
ovviamente dominatore incontrastato dei campi semantici entro cui i dialoghi si
realizzano17.
Altri prodotti, invece, si distaccano lievemente da questo dominio e
custodiscono apprezzabili campioni di dialetto salentino parlato, sia recitato sia
spontaneo. Restando sullo stesso filone artistico, in “Sangue Vivo”, diretto da
Winspeare e prodotto da Maurizio Tini nel 2000, vengono proposti convincenti
fenomeni di commutazione di codice tra salentino e un italiano con evidenti
interferenze di carattere soprasegmentale. I dialoghi scorrono fluidi e credibili,
corroborati dalla scelta mai ingombrante di metafore e modi di dire che tuttora
risultano vivi e vitali nel salentino parlato spontaneo (uno fra tutti, a scopo
puramente esemplificativo, u vilénu ca porti a ’ncorpu).

14
Probabilmente, con differenti connotazioni di carattere diastratico.
15
Di questa tratta il contributo di A. BITONTI, in questo volume.
16
Si vedano gli approfondimenti proposti in questo stesso volume: nel contributo di A. BITONTI
sul dialetto nella musica e in quello di A. BITONTI, A. ROMANO, C. RUSSO.
17
Per questo lessico tematico rimando all’articolo di I. TEMPESTA, S. DE MASI, Parole e immagini
dal passato al futuro. Il tarantismo in Salento, in A. ROMANO, M. SPEDICATO (a cura di), Sub voce
Sallentinitas: Studi in onore di G.B. Mancarella, Lecce, Grifo, pp. 197-214.

324
Claudio Russo

Volendo spingersi oltre le più convenzionali forme di produzione


audiovisiva si rientra nel dominio di Internet. Per ovvie ragioni pratiche, è
virtualmente impossibile fornire un elenco esaustivo dei prodotti audiovisivi che
riportano materiale in dialetto salentino; saranno pertanto menzionati solo i tre
elementi maggiormente pertinenti a questo lavoro di ricognizione del parlato
dialettale spontaneo, tutti consultabili sul sito di ricerca video Youtube.com (v.
“Risorse Video” in bibliografia).
Il primo contributo è suddiviso in quattro distinti video consultabili dal
canale dell’utente “Pinna Bianca” (Alessio Corvaglia) in cui il protagonista
assoluto è un parlante spontaneo in età avanzata (“Nonno salentino”). Tolti i
video in cui lo si vede principalmente alle prese con la difficoltà di pronuncia di
parole (ad es. quelle con attacco /ks/, /ps/ etc.), il materiale del canale riporta
intriganti scambi conversazionali di parlato dialettale spontaneo.
Il secondo contributo – composto di due video – è consultabile sul canale di
Federico Mudoni sotto il titolo La questione meridionale. In questi video, una
signora in età avanzata espone le sue opinioni sociali e politiche con vivide
espressioni salentine nel primo video, con un dinamico parlato soggetto tanto a
espressione mistilingue quanto a commutazione di codice con l’italiano.
Il terzo contributo consiste in un unico video caricato sul canale “adrilecce’s
channel” e riporta la registrazione di uno scherzo telefonico ai danni di una
signora residente nel comune di Nardò. Il video (o, per meglio dire, l’audio) è
fondamentalmente una concentrazione densissima di turpiloquio in dialetto
salentino nella sua variante neretina, a dimostrazione di come, ancora oggi, “il
dialetto di una cosa esprima il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa
esprima il concetto”, come afferma Camilleri riprendendo Pirandello in La
lingua batte dove il dente duole.18
Già dalla descrizione di questi video salta agli occhi come i parlanti di età
avanzata, spontanei e competenti, manifestino una notevole fluidità della
commutazione di codice. Il dialetto salentino in una forma monocodica trova
invece maggiore espressione in alcuni doppiaggi parodistici di film o spot
pubblicitari celebri, solitamente prodotti da parlanti più giovani19. La ricerca
delle parole doppiaggio salentino nel motore di ricerca di Youtube produce
5.120 risultati (data di ultima consultazione 04/03/2015, non presenti in
sitografia per ovvie ragioni di brevità).

18
Si veda anche A. CAMILLERI, T. DE MAURO, La lingua batte dove il dente duole, Bari, Laterza,
2013.
19
Il fenomeno è già segnalato e discusso in M.T. ROMANELLO, Sulla reazione della fonte, in
M.T. ROMANELLO, I. TEMPESTA (a cura di), Dialetti e Lingue Nazionali (Atti del XXVII
Congresso della Società di Linguistica Italiana, Lecce, 28-30 ott. 1993), Roma, Bulzoni, 1995, pp.
121-133.

325
Come sta il dialetto salentino?

5. Conclusioni
Gli andamenti sull’uso del dialetto prospettati dall’ISTAT sembrano essere
chiari: dal 1995 al 2012, il territorio nazionale ha assistito a una generale,
drastica riduzione dell’uso esclusivo o prevalente del dialetto nella
comunicazione quotidiana. Alcuni fenomeni socioculturali menzionati nella
sezione introduttiva sembrano sufficienti a ipotizzare una maggiore persistenza
d’uso dei dialetti meridionali, in particolar modo del dialetto salentino; tale
persistenza è difficilmente percepibile da uno sguardo veloce al prospetto su
scala nazionale. Per verificare tale ipotesi, sono stati scandagliati blog, gruppi
Facebook e risorse video online alla ricerca di contenuti in salentino. Inoltre,
sono state analizzate le produzioni dialettali di due cantautori precedentemente
ignorati dalla letteratura specializzata. Queste indagini hanno ulteriormente
confermato i fenomeni di commutazione di codice già analizzati da altri autori,
hanno evidenziato l’assenza di accordo ortografico fra i parlanti e hanno
brevemente esplorato alcuni fenomeni di reduplicazione.
I materiali apportati nel corso del presente lavoro non permettono una
diagnosi esaustiva sull’attuale stato di salute del dialetto salentino, ma sembrano
essere indice di un codice dialettale che attinge e si mescola all’italiano
condividendone spazi e domini, seppure in misura minoritaria.

Sitografia20
Dialetto salentino, pagina di Wikipedia.it,
https://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_salentino
Dialogue sur les superstitions (1914),
http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1281832.r=lecce.langFR
ISTAT (2014a), L’uso della lingua italiana, dei dialetti e di altre lingue in Italia,
http://www.istat.it/it/archivio/136496
ISTAT (2014b), Giovani che abbandonano prematuramente gli studi.
http://noi-italia.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pil[id_pagina]=36 -
Visualizzato il: 16 marzo, 2015.
L. FOGGETTI (2014), Lo scenario social, digital e mobile in Europa e in Italia,
www.wired.it/internet/social-network/2014/02/17/lo-scenario-social-digital-e-
mobile-europa-e-italia/
UNESCO (2003), Language Vitality and Endangerment,
http://www.unesco.org/new/fileadmin/MULTIMEDIA/HQ/CLT/pdf/Language_vit
ality_and_endangerment_EN.pdf
Vocabolario Storico dei Dialetti Salentini, http://www.vocabolariosalentino.it/
Risorse Blog:
Andrea Baccassino, sito web personale,
http://www.baccassino.com/

20
Dove non indicato diversamente, la data di ultima visualizzazione corrisponde al 24.05.2015.

326
Claudio Russo

Dialettario, presso Lecceweb.it,


http://www.lecceweb.it/community/dialettario.php
Detti & proverbi, presso Salentoadventures,
https://salentoadventures.wordpress.com/detti-proverbi/
Frasi, detti, modi di dire dialettali salentini, presso Gioacchino Vilei: il mio Salento,
http://gion1947.blogspot.it/2009/02/frasidettimodi-di-dire-dialettali.html
Il salentino come si parla a Scorrano, presso Dialetto salentino e dintorni, di Giuseppe
Presicce, http://comunicazione3.wix.com/dialetto-salentino-1
Mino De Santis, sito web personale,
http://www.minodesantis.com/
Vocabolario del dialetto Gallipolino, presso Gallipolinweb.it,
http://www.gallipolinweb.it/gallipolinwebit/vernacolo/213-
vocabolariodialettogallipolino.html
Vocabolario Salentino e Leccese / Italiano, presso Leccesi Dentro Group,
http://leccesidentrogroup.altervista.org/blog/vocaboli/vocabolario/
Gruppi Facebook:
Ane ba curcate.
https://www.facebook.com/pages/ANE-BA-CURCATE/113671795329547?fref=ts
Ane bba ncoi paparine!!!!.
https://www.facebook.com/PaparinaMan
Il Salento XIX.
https://www.facebook.com/ilsalentoxix
Improbabili traduzioni italiane dal dialetto tu Salentu.
https://www.facebook.com/pages/Improbabili-traduzioni-italiane-dal-dialetto-tu-
Salentu/512813502084675?fref=ts
Parabitasmile Ottimo.
https://www.facebook.com/parabitasmile.ottimo
Pruverbi caddhipulini.
https://www.facebook.com/pages/Pruverbi-
caddhipulini/1400477800187055?fref=ts
Tuttu dialettu leccese.
https://www.facebook.com/pages/Tuttu-dialettu-leccese/159322870768706?fref=ts
Risorse Video:
Parlato spontaneo, presso Canale Youtube di Alessio Corvaglia.
https://www.youtube.com/user/alessio88corvaglia/videos
Parlato spontaneo, La questione meridionale, presso Canale Youtube di Federico Mudoni.
https://www.youtube.com/watch?v=LiUKwuXRz9E
Parlato telefonico e turpiloquio, presso Canale Youtube “Adrilecce’s channel”.
https://www.youtube.com/watch?v=5fAOOIho9EA

327
Celeste Casciaro sul set di “In grazia di Dio” (di E. Winspeare, 2013)
[Foto di Salvatore Bello, cortesia di E. Winspeare]

Anna Boccadamo sul set di “In grazia di Dio” (di E. Winspeare, 2013)
[Foto di Cosimo Cortese, cortesia di E. Winspeare]

328
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 329-350
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p329
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo1

1. Introduzione
Al di là degli scopi commerciali, i prodotti cinematografici vengono
solitamente realizzati per essere fruiti da un determinato tipo di pubblico.
Naturalmente la tendenza dovrebbe essere quella di poter abbracciare il numero
maggiore di utenti e, per fare ciò, i registi necessitano di una lingua aperta,
sufficientemente marcata ma, possibilmente, priva di elementi criptici. Questo,
in linea di principio, vale per le opere a carattere nazionale o internazionale; ma
quando il prodotto audiovisivo riguarda aree geograficamente marginali, la
componente verbale diventa il marchio caratterizzante dell’intera narrazione.
In questo senso il dialetto non solo rappresenta un modello linguistico, ma è
anche rappresentativo di valori culturali e sociali. Se in passato il dialetto veniva
variamente utilizzato in opere disimpegnate (come Poveri ma belli di Dino Risi)
o anche di tipo documentaristico (come La terra trema di Luchino Visconti),
oggi il dialetto serve sia a marcare la diatopia e la diastratia dei personaggi che a
veicolare immagini e atteggiamenti rispetto a un dato tema. Il ruolo del dialetto
è quindi quello di connotare, sul piano valoriale ma anche stilistico, l’opera
cinematografica.
2. La produzione filmica salentina
Una parte della produzione filmica salentina2 non fa uso esclusivo del dialetto
(v. §§ 3 e 4), ma pone particolare attenzione alla variazione linguistica mettendo
in relazione i diversi elementi del repertorio dell’italiano contemporaneo. I poli
linguistici sono rappresentati, dunque, dal dialetto salentino e dall’italiano
dell’uso medio che si dissolvono in un continnum fatto di italiano regionale e
popolare e di registri colloquiali, spesso tendenti verso il basso.
Nel cinema made in Salento risulta oggi evidente una continuità diacronica
e sincronica con i prodotti di altre aree e, in linea con gli studi di Raffaelli e

1
I paragrafi sono così ripartiti: 1 e 2 ad A. Bitonti, 3 e 4 ad A. Romano e 5 ai tre autori. C. Russo,
ha inoltre rivisto e commentato costruttivamente l’intero contributo.
2
Il Salento, insieme alla Puglia, ha avuto in anni recenti uno sviluppo crescente sul piano delle
produzioni cinematografiche e crescente è ancora l’interesse da parte dei cineasti, non solo locali.
Secondo i dati della Fondazione Apulia Film Commission, dal 2008 a oggi oltre 80 prodotti
cinematografici e televisivi sono stati realizzati in Puglia.
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Rossi3, si possono senza dubbio riconoscere prodotti dalla dialettalità imitativa,


stereotipata ed espressiva.
Attori come Roberto Benigni, Massimo Troisi o Carlo Verdone avevano
favorito, a partire dagli anni ’80, una caratterizzazione dialettale costituita da
forte variabilità linguistica ma anche da tratti areali marcati facilmente
riconoscibili. Tale attenzione alla variabilità è ancora oggi molto viva e le
sceneggiature che vengono scritte sono contraddistinte da un certo ibridismo
linguistico, grazie al quale è possibile innestare marche dialettali su testi italiani.
Per quanto artificiale possa essere tale operazione, i risultati sembrano andare
sia nella direzione di un certo uso realistico delle lingue (anche se spesso con
risultati poco convincenti) sia nella conservazione di personaggi stereotipati ai
quali vengono affidati determinati tratti linguistici.
In questa sezione prenderemo in esame tre film girati e ambientati in
Salento: Liberate i pesci (Cristina Comencini, 2000), Fine pena mai (Davide
Barletti e Lorenzo Conte, 2007) e Il paese delle spose infelici (Pippo
Mezzapesa, 2011).

2.1. Liberate i pesci


Liberate i pesci è una commedia del 2000 girata quasi completamente in
italiano. Il setting è quello di una salentinità onnipresente, anche nell’italiano
regionale dove si esprime soprattutto attraverso marche fonetiche e prosodiche
(v. es. al § 4, anche in riferimento alle condizioni di oralità simulata)4.
Fortissima è la presenza di un italiano dell’uso medio che si risolve spesso
con la riduzione del congiuntivo a favore dell’indicativo (1, 2) e con frequenti
dislocazioni (3):
(1) Michele: stavi nella culla, piccolo piccolo, mi guardavi con
quell’aria, tutto schifato, come se puzzavo.
Giovanni: puzzassi.
[…]
Michele: io voglio che vi sposate davanti a me.

(2) Michele: svelti, prima che arrivano i Siamesi!

(3) Michele: […] domani, papà lo interroga lui al maestro.

3
Fra tutti si vedano S. RAFFAELLI, La lingua filmata. Didascalie e dialoghi nel cinema italiano,
Firenze, Le Lettere, 1992; ID., Il parlato cinematografico e televisivo, in L. SERIANNI, P. TRIFONE
(a cura di), Storia della lingua italiana, Torino, Einaudi, 1994; F. ROSSI., Il linguaggio
cinematografico, Roma, Aracne, 2006; ID., La lingua del cinema, in M. APRILE (a cura di),
Lingua e linguaggio dei media (Atti del Convegno di Lecce, 22-23 settembre 2008), Roma,
Aracne, 2010, pp. 89-120.
4
Si segnalano anche regionalismi lessicali come ad esempio femmina e sposalizio, sentiti come
regionali e che il GRADIT (T. DE MAURO (a cura di), Grande dizionario italiano dell’uso,
Torino, Utet, 1999) marca come obsoleti.

330
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

All’italiano popolare appartengono alcuni usi verbali scorretti (4, 5),


occorrenze occasionali di allocuzioni inverse (3, 6) e frequenti malapropismi
lessicali, legati soprattutto a forestierismi (7):

(4) Michele: […] perché lui non riusciva a impararmi proprio niente.

(5) Michele: eehhh, ci hai riflesso eccome.

(6) Michele: quando ha finito la scuola gli ho detto: senti a papà, da


uomo a uomo, ma tu da grande che cosa vuoi fare?

(7) Laguna (per ‘lacuna’), videoghem (per ‘videogame’), kalascichinikorf


(per ‘kalashnikov’).

Come evidente dagli esempi, tutti questi tratti sono affidati a un unico
personaggio: un ricco e incolto malavitoso locale. In maniera stereotipica si
sottolineano i caratteri del boss mafioso attraverso un registro basso e usi
linguistici impropri con lo scopo sostanziale, trattandosi di una commedia, di
creare ironia ed effetti ludici.
In questo film il dialetto è invece affidato alla presenza di un gruppo di
musicisti locali, i Sud Sound System5, che iniziano e concludono la loro scena
cantando dei loro brani. Il dialogo invece è costruito attraverso enunciati
mistilingui spesso possibili grazie alla presenza di omofoni:
(8) Saverio: mmh, questa è terra di pasticciotti, la terra di rustici, la terra
de la pasta culle cozze, de pignata de purpu, culle padate […].

Anche dal punto di vista del contenuto si citano pietanze della cucina
locale6 che servono a tratteggiare alcuni aspetti culturali del Salento e a
evidenziare il rapporto fra il racconto e l’ambientazione.

2.2. Il paese delle spose infelici


Il paese delle spose infelici, film drammatico del 2011, è ambientato nella
provincia tarantina; palesi sono le marche diatopiche e diastratiche.
Dell’italiano regionale ad esempio, si può notare l’uso di mo’ (Francesco: mo’
vengo!) al posto di ‘adesso’, l’accusativo preposizionale (Commerciante: saluta
a Tommaso, maleducato!), l’ausiliare tenere al posto di ‘avere’ (Fratello di
Zazà: […] tiene i capelli lunghi come una femmina.) e il verbo stare invece del
locativo ‘c’è’ (Zazà: oh, devi venire? Sta pure il tagadà!; Zazà: ma a Bari non
sta il campo in erbetta?), forme apocopate come uaglio’ e raga’, l’uso
5
Di cui si discute nel contributo di A. BITONTI, in questo stesso volume.
6
In una seconda scena del film si sentiranno citare i turcinieddhri (involtini fatti di interiora di
agnello) e i cìciri e ttria (pasta con ceci), piatti tradizionali della gastronomia salentina.

331
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

transitivo di verbi di movimento (Amico: escilo tu il film che ci dobbiamo


vedere), espressioni come stanno uccisi a fiato oppure [mettetevi le pattine se
no] fanno le stampe a terra.
Al registro colloquiale appartengono enunciati contenenti l’avverbio manco
(Zazà: manco se ha vinto la coppa dei campioni; Zazà: non si prende manco il
fastidio di venire), inversioni sintattiche degli elementi frasali per produrre
costruzioni marcate (Zazà: questo tutte le para, mister!; Madre: nemmeno dal
gommista sta andando.). Anche in questo film, come per il precedente, si
registrano semplificazioni nell’uso dei modi verbali con l’indicativo al posto del
congiuntivo (Annalisa: avete paura che mi butto?; Zazà: e se poi morivi?; Zazà:
[…] che se ero grande, ti portavo via io; Zazà: se stavi tu qua, col cazzo che ti
venivo a trovare!). Al giovanilese appartengono i numerosi disfemismi (Zazà: il
culo ci fanno quelli!; Amico: quella è una troia; Francesco: che cazzo fai,
aho!?; Amico: vieni a fartelo anche tu un trimone; parole come stronzate,
ricchione, coglione).
In questo film, dunque, il dialetto (d’influenza dichiaratamente pugliese, più
che salentina) è un codice latente, mitigato dalla presenza di un italiano
regionale altamente interferito e orientato verso il basso. Va sottolineato inoltre
come al centro dello sviluppo narrativo vi sia un gruppo di adolescenti e i tratti
utilizzati hanno prevalentemente carattere emotivo ed espressivo, mettendo in
rilievo la componente ludica della comunicazione giovanile.

2.3. Fine pena mai


Altrettanto significativo è l’uso del dialetto in Fine pena mai, film
drammatico del 2007, nel quale la voce narrante, che è quella del protagonista,
si esprime sempre in italiano mentre i dialoghi sono un continuo passaggio dalle
varietà dell’italiano al salentino: il dialetto utilizzato è sicuramente preminente
rispetto all’italiano, ma assenti sono gli arcaismi, che avrebbero sicuramente
reso più criptica la testualità7.
Anche in questo caso rilevanti sono i tratti tonetici, prosodici e fonetici
dell’italiano regionale che saranno esemplificati meglio nel §38.
Dato il tema sociale del film9, si potrebbe pensare ad una significativa
differenziazione linguistica dei personaggi. Tale caratterizzazione è parzial-
mente stereotipica: i criminali parlano in dialetto, le donne in italiano e il
protagonista, probabilmente per esigenze narrative e di comprensibilità, utilizza

7
Riferimenti ad alcune scelte operate nei suoi prodotti sono in D. BARLETTI, Cinema, realtà,
docufiction, in APRILE (a cura di), Lingua..., cit., pp. 149-152 [NdR].
8
Vanno qui evidenziati in particolare i casi specifici di raddoppiamento fonosintattico o di
pregeminazione (ad es. s’ha ppermessu, l’ha ssapire, a rrobba).
9
Ricordiamo che si tratta di un film/documentario, ambientato negli anni ’80, sulla vita di un
malavitoso salentino.

332
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

il misto. In realtà la lingua non è diastraticamente diversificata: tutti tendono a


mescolare italiano e dialetto in vario modo. Solo un personaggio femminile, la
moglie del protagonista (Daniela), sembra utilizzare l’italiano (regionale), anche
quando gli altri interlocutori producono commutazioni di codice, come
nell’esempio seguente:

(9) Antonio: a te pure piace divertirti, quantu a mmie la rrobba la vendo e


pportu li sordi a ccasa, e bbasta. (Pausa). Dì un po’, ti sembro uno
zombie?
Daniela: non mi piace quello che sta succedendo?
Antonio: ma cce ha ssuccedere?

Il dialetto, in questo passaggio e in molti altri, serve a marcare il ruolo


dominante del protagonista principale e a connotare il ruolo del personaggio
femminile come debole e marginale.
Si può sostenere che è il misto, non più la varietà locale, a contrassegnare
alcuni ruoli. I cambi di codice presenti nello scambio successivo evidenziano,
ad esempio, il carattere negativo di un altro personaggio femminile (la moglie di
un boss) in opposizione alla moglie del protagonista (ritratta come personaggio
dai caratteri negativi meno spiccati):

(10) Moglie di Nasino: le donne come te non devono essere tristi. Te lo


posso dare nu consiglio da amica? Con gli uomini devi giocare, comu
allu casinò. Devi farli sentire belli, bravi, importanti; tocca cu bbluffi. Tie
faci finta ca su’ lloro ca proteggono noi.
Daniela: sembra che stai parlando di bambini.
Moglie di Nasino: no cani, su’ ccomu cani.

Gli enunciati mistilingui italiano/dialetto sono realizzati sia attraverso


commutazioni di codice sia mediante cambi di codice intrafrasale. Nella
seguente interazione, il ruolo dell’italiano non è marginale, serve piuttosto a
demarcare la presa e la chiusura dei turni di conversazione.

(11) Gianfranco: io non so contare (pausa) acquai qualcunu s’ha


ppermessu cu ppigghia na cosa ca nu gli appartiene e, cu ttuttu lu
rispettu, signurìa l’ha ssapire addù sta sta rrobba.
Informatore: a rrobba ca sta ccercati ha passata de cquai, ma nun bè
ccosa noscia. Mo’ andate a mare e restateci.
Antonio: non c’è problema, io so contare, sciamu cumpa’!

Casi di commutazione di codice come questo mettono in evidenza fattori


emotivi legati alla situazione comunicativa: ognuno dei personaggi deve
dimostrare il proprio potere e afferma il proprio ruolo cercando di governare la
conversazione e i relativi passaggi di turno.

333
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Nell’esempio seguente invece la transizione all’italiano non sembra


motivata. Si è in presenza di code-mixing, frequenti in questa produzione,
possibile per la compatibilità sintattica e lessicale fra italiano e dialetto.
(12) Nasino: Toniu, noi dobbiamo rimanere uniti, ‘ncucchiati.
Antonio: nu bbè ffacile restare uniti se qualcunu tene l’hotel e gli altri
niente.
Nasino: cumpa’, pe sta fiata nunn’aggiu ‘ntisu; me bbasta cu mme teni
d’occhiu lu vagnone, cu mme scopri ca sta mme futte e ccu mme lu spari,
se si’ ccapace.

Tuttavia, Nasino enfatizza il suo enunciato traducendo in dialetto


l’aggettivo ‘uniti’ con ncucchiati, rendendo funzionale il suo cambio di codice.
Anche la frase in dialetto contiene lessemi strutturalmente vicini all’italiano e
questo evita quei code-switching che, chiaramente, nelle produzioni
cinematografiche servono a favorire la comunicabilità e la comprensibilità da
parte del pubblico.
Nonostante il riflettore stretto su vicende della malavita salentina, non
siamo in presenza di un gergo, né di un dialetto arcaico o criptico, ma di un
mistilinguismo funzionale alla progressione drammaturgica che sottolinea,
senza calcare troppo la mano, i ruoli sociali e i punti di vista dei personaggi.
La lingua di Fine pena mai, pertanto, è di tipo imitativo: si può sostenere,
senza tenere in considerazione l’appropriatezza di ogni enunciato, che l’uso del
misto (tendenza già significativa negli anni ’80, gli anni di ambientazione della
pellicola) è la scelta più vicina al repertorio attuale dell’italiano. Ma questo vale
anche per gli altri prodotti cinematografici esaminati, caratterizzati, oltre che dai
cambi di codice, anche da numerosi colloquialismi, da usi espressivi dei dialetti
e delle varietà regionali e diastratiche di area salentina.

3. Dialettalità salentina al cinema

3.1. Recitare è mentire?


L’attore (o il doppiatore), si sa, è un professionista in grado d’incarnare
diversi personaggi, stili e modi. Tra questi rientrano in molti casi la scelta della
lingua (quando possibile) e il controllo sugli usi di questa, anche quando si
tratta d’interpretare o doppiare personaggi che parlano ‘male’10.
In molti casi, anche assistendo a un’interpretazioen singola, siamo in grado
di dire se l’interprete stia recitando ‘bene’ (cioè se ci sta ingannando) o se reciti

10
Per una rassegna di argomenti in tema si veda E. DI FORTUNATO, M. PAOLINELLI (a cura di), La
questione doppiaggio: barriere linguistiche e circolazione delle opere audiovisive, Roma, Aidac,
1996; M. PAOLINELLI, E. DI FORTUNATO, Tradurre per il doppiaggio. La trasposizione linguistica
dell’audiovisivo: teoria e pratica di un’arte imperfetta, Milano, Hoepli, 2005.

334
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

‘male’ (cioè se si sta tradendo), oppure se stia facendo finta di ‘recitare male’
(perché il suo personaggio mente o finge). Questo ci è consentito in modo tanto
più agevole quanto più il tipo di lingua (e il diasistema) ci è familiare.
Sappiamo che, per varie ragioni, da un certo momento in avanti si è
cominciato a narrare più diffusamente di fatti legati a specifiche realtà regionali
nei media. Formati alla scuola del cinema dei ‘telefoni bianchi’ o della prima
televisione italiana, molti autori hanno lavorato dapprincipio edulcorando alcuni
contenuti (ma questo non ci riguarda qui) oppure stemperando le maggiori
asperità del dialetto nella convinzione che questo dovesse lasciar posto a una
lingua monolitica, mezzo della coesione nazionale e del progresso11.
In quella lingua, però, molti nostri personaggi non erano a loro agio e gli
italiani più avvertiti erano immediatamente in grado di smascherare l’inganno e
giudicare istrionica la prova (immaginiamo che questo dev’essersi verificato
anche alcune volte a teatro)12.
Il cinema dei dialettofoni, dunque, non decolla e, d’altra parte, anche uno
straordinario “Riso Amaro” può suonare poco convincente su questo piano in
certe sue parti, sacrificate nell’apprezzabile anelito di raggiungere un pubblico
allargato (v. §§ 1 e 2).
A un certo momento però, come si vedrà nelle sezioni seguenti, qualche
autore alla spicciolata ci prova e si accorge che, probabilmente grazie al fatto
che i tempi sono maturi per questo: 1) un certo pubblico nazionale (e perfino
internazionale, a condizione di fornire un adeguato servizio di adattamento)
viene raggiunto lo stesso; 2) lo spettatore scopre nuovi paesaggi sonori, ancora
più realistici, e si affeziona alle sonorità di uno spazio linguistico
smisuratamente vario; 3) la finzione ci guadagna perché lo spettatore esperto
non si sente ingannato. Come non menzionare, a questo punto, “L’albero degli
zoccoli” (di Ermanno Olmi, 1978) e, più vicino a noi, “L’uomo che verrà” (di
Giorgio Diritti, 2009)13?
Quanto tutto questo stia giovando oggi ai dialetti singoli e alla
preservazione della diversità linguistica nazionale è una questione che molti
specialisti si stanno ponendo, anche alla luce di esempi diversi e talvolta molto
più generali. È così che, mentre ci interroghiamo sulla vitalità interna ed

11
Su questi temi si veda anche A. ROSSI, La lingua del cinema: Introduzione, Analisi linguistica,
Testi, Riferimenti bibliografici, in I. BONOMI, A. MASINI, S. MORGANA (a cura di), La lingua
italiana e i mass media, Roma, Carocci, 2003, pp. 93-126.
12
Si pensi anche a Carmelo Bene che si è fatto apprezzare senz’altro moltissimo per i contenuti
della sua opera e magari anche per l’ottima recitazione – all’orecchio attento, però, all’ascolto
delle sue numerose e splendide esecuzioni, non sfugge l’impaccio della lingua.
13
La critica italiana si è invece divisa sulla scelte linguistiche di Spike Lee, comprensibilmente
spaesato (come noi lo siamo di fronte agli slang americani), nel suo pur dignitoso (e spettacolare)
“Miracolo a Sant’Anna” (2008).

335
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

esterna dei dialetti14, anche la lingua dei media e dei prodotti commerciali, in
generale, sta cambiando, lasciandosi affascinare sempre più spesso da questi15.
Nel paragrafo seguente proviamo a dare un giudizio qualitativo su alcuni
prodotti cinematografici salentini ricorrendo ad alcune osservazioni specifiche
che possono sembrare quantitative, e quindi oggettive, ma che altro non sono
che il frutto di una riflessione condotta con il punto di vista di un madrelingua
salentino, esperto non in quest’arte, ma in quella – appresa sul campo – di non
farsi imbrogliare dal suo interlocutore.

3.2. Prodotti più o meno interessanti sul piano linguistico


I pionieri nel documentare pregi e difetti delle genti salentine in opere di
carattere cine-televisivo si presentano già con caratteristiche ben diverse sul
piano linguistico.
Utili ma frammentari brani di parlato spontaneo sono nell’episodio “Le
tarantate” (o “La vedova bianca”, di Gianfranco Mingozzi in “Le italiane e
l’amore”, 1961) e nel documentario “Tarantula” (di G. Mingozzi, 1962, con
commento sonoro di Salvatore Quasimodo)16.
Si avverte, invece, una condizione di oralità simulata, caratterizzante molti
prodotti cinematografici degli anni ’60-’80, in alcuni lavorati semi-professionali
giunti fino a noi, nei quali il riferimento maldestro all’italiano e la cattiva
abitudine della sonorizzazione in studio (era anche il periodo del grande
successo del playback) produce materiali molto poco affidabili17.

14
Si vedano, tra gli altri, G. FRANCESCATO & P. SOLARI FRANCESCATO, Timau: tre lingue per un
paese, Galatina, Congedo, 1994; G. BERRUTO, Lingue minoritarie e sociolinguistica del contatto.
in C. CONSANI, P. DESIDERI (a cura di), Minoranze linguistiche. Prospettive, strumenti, territori,
Roma, Carocci, pp. 17-31.
15
A questo tema sono ora dedicati alcuni contributi in A. ROMANO, M. RIVOIRA, I. MEANDRI (a
cura di), Aspetti prosodici e testuali del raccontare: dalla letteratura orale al parlato dei media
(Atti del X Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana di Scienze della Voce, Torino 22-24
gennaio 2014), Alessandria, Dell’Orso, 2015.
16
Quest’ultimo è ora distribuito in DVD in allegato a G. MINGOZZI, La taranta: il primo
documento filmato sul tarantismo, Calimera, Kurumuny, 2009.
17
Uno degli ultimi esempi è stato il corto “Giulietta la Zingara” di Mario Fiordaliso
(AssoCineClub di Lecce), ispirato alla novella di M. MONTINARI, La zingara, in “La Zagaglia:
rassegna di scienze, lettere ed arti”, X (39), 1968, pp. 344-350. Il filmato è stato premiato al
Festival Internazionale del Cinema di Salerno nel 1985. I suoi testi sono recitati in studio (con
sonorizzazione scarsamente sincronizzata e voice-talent opinabile; le registrazioni sono avvenute
a Lecce nello studio di Fulvio Monaco, ma il montaggio verosimilmente a Cinecittà). Il dialetto,
che sarebbe stato lingua naturale di quasi tutti i dialoghi della pellicola, è relegato a due o tre
parole intercalate inavvertitamente. I salentinissimi ‘attori-doppiatori’ sembrano invece fieri del
loro italiano scolastico e istrionico. Siamo, appunto, negli anni ’80, momento di massima
affermazione dell’italiano regionale anche in contesti di dialettalità spontanea (repressa, con
risultati talvolta umoristici). Si deve a Mario Monsellato la recente riproposizione del filmato su
youtube (https://www.youtube.com/watch?v=oT_sXVACJPk). Cfr. I. TEMPESTA, A. BITONTI,
Cultura letteraria e tradizioni linguistiche in Puglia. Fra ragni e tarantole. Identità e lingue
nuove, Roma, Aracne, 2013.

336
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

Condizioni linguisticamente imbarazzanti si determinano qua e là anche in


prodotti recenti e con buona distribuzione. Ad es. in Fine pena mai (di Davide
Barletti e Lorenzo Conte, 2007, oggetto di più accurate riflessioni al § 2.3),
Claudio Santamaria recita in salentino con deciso accento romano18.
Ma persino in opere dello stesso autore, si notano risultati linguisticamente
più o meno convincenti volta per volta. Molto, nella qualità complessiva, dipende
dal copione, ma nelle performance dei singoli interpreti molto dipende dagli attori
stessi (che si ritrovano talvolta da un film all’altro) e dalle modalità d’interazione
tra loro. Ad es. ne “I galantuomini” (di E. Winspeare, 2008) si nota una
recitazione maggiormente istrionica in certi passaggi (sicuramente a causa delle
forzature nel code-switching per evitare soluzioni dialettali poco comprensibili, v.
§2). In alcuni casi si tratta degli stessi attori di cui, invece, si offre al § 4 una
valutazione linguistica di alcune prestazioni giudicate molto convincenti.
Molto altro si potrebbe dire ed esemplificare, in quest’ambito, ma ci
limitiamo qui solo a due annotazioni finali di carattere molto diverso. Infatti, da
un lato, resta interessante il documento che offre Gitanistan - Lo Stato immagi-
nario delle famiglie Rom-Salentine (di Pierluigi De Donno, Claudio Giagnotti,
2014) che non ci è stato possibile visionare finora. Dall’altro, agli antipodi, una
menzione a parte merita, naturalmente, “I Resti di Bisanzio” di Carlo Michele
Schirinzi (2014) e tutta la filmografia di nicchia legata all’attività di questo
regista. Le sue produzioni si avvalgono di strumenti narrativi sofisticati, basati
su immagini e modalità di ripresa e montaggio sperimentali e avanguardiste,
nelle quali le produzioni linguistiche dei locali emergono raramente, costruendo
una sorta di colonna sonora ‘dissociata’, volta a indurre una visione
provocatoria dell’esperienza di vita in territorio salentino19.

4. Dialetto e identità nel cinema di E. Winspeare


Concentrandoci sull’opera di E. Winspeare, cominciamo col dire che, nel
complesso, mutatis mutandis, la cifra di quest’autore è fortemente identitaria e
poggia quindi notevolmente sulle sonorità della lingua20.

18
Questa condizione è tuttavia interessante perché fa rivivere ai salentini l’esperienza, poi non
così insolita, del trapiantato in Salento da altre regioni d’Italia che impara le lingue locali. La
situazione è però molto diversa perché l’apprendimento avviene in quel caso in modo spontaneo e
si basa sulla lingua realmente parlata e udita. Nella recitazione, purtroppo, invece, il canale di
apprendimento è mediato dallo scritto (v. Conclusioni). Un caso diverso è quello di Cosimo
Cinieri (tarantino) che sfoggia una pronuncia adeguata in “Pizzicata” (v. § 4.1).
19
Nonostante gli autori siano consapevoli dei rischi di limitare a una dimensione locale
l’universalità di un’opera d’arte, è interessante notare come i tratti dialettali siano qui chiamati in
causa sia come portatori d’identità culturali locali, sia come rappresentanti universali di culture
“lontane” (o meglio, “periferiche”).
20
Lui stesso ha ammesso in più occasioni di essere motivato da una grande passione per il
territorio (si dice “ammalato di salentinitudine”) e impegnato nella “ricerca dell’autenticità”.

337
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Oltre all’occasionale commistione di codice che caratterizza complessiva-


mente molti dei suoi lavori (v. § 2), la scelta della lingua è rinviata in fondo alle
competenze e alle capacità specifiche dei singoli attori (che infatti interpretano
personaggi di paesi diversi) e alla moderazione nell’uso di arcaismi e idiotismi
di non facile accesso all’intera comunità salentina. Una cura è inoltre riposta
nella stesura iniziale delle sceneggiature (in collaborazione con autori diversi),
nella specializzazione del dialetto allo stile del personaggio e alle situazioni
fittizie che vive nel film.
Così come accade nella vita reale, nella trama del film si ricostruiscono,
infatti, situazioni sordide, nelle quali domina il ricorso a un dialetto turpe e
volgare, che si alternano con momenti di estrema poesia, in cui lo stile dei
dialoghi può rasentare il bucolico.
Da un sottofondo di usurai, contrabbandieri, politici corrotti, ladri, drogati e
prostitute, che esprimono concetti rozzi con modalità di costruzione dei
messaggi talvolta sgraziate e incolte (quasi tutti capaci di esprimere una certa
tenerezza), emergono personaggi, giovani e anziani, talora deboli e corruttibili,
ma dotati di un’onestà di fondo che li fa parlare in modo elaborato ma schietto
(talvolta gli stessi che sono inclini al vizio si ritrovano momentaneamente
redenti a esprimere emozioni di grande poesia, mentre gli ‘onesti’ possono
perdere le staffe).
Data la buona disposizione degli interpreti e del direttore, nella qualità
linguistica di questi prodotti (forse anche perché i tempi sono cambiati) spesso
quasi non s’avverte la condizione di oralità simulata.
Consideriamo in particolare la lingua di tre film.

4.1. Pizzicata
“Pizzicata” è un film del 1996 sceneggiato e diretto da Edoardo Winspeare
e interpretato in parte da attori non professionisti, ma vede la partecipazione di
Cosimo Cinieri (tra gli altri) in uno dei ruoli principali del film.
Con questo prodotto siamo negli anni ’90 e assistiamo alla ricerca
pionieristica dell’uso di un linguaggio pseudo-spontaneo nella finzione. Si tratta
di una novità (1) rispetto ai film-documentario dei decenni precedenti, in cui la
lingua poteva essere spontanea, ma basata su un testo altrettanto imprevedibile,
oppure improvvisata, e (2) rispetto alle narrazioni cinematografiche precedenti
(e successive) basate sì su uno script, ma concepito e recitato prevalentemente
in italiano. Si afferma in questo film il ricorso a una narrazione originale e a una
scrittura che fa ricorso per la prima volta a personaggi la cui lingua esclusiva è
il dialetto e a interpreti che offrono spesso una recitazione egregia sul piano
della spontaneità linguistica.
È questo uno dei fatti salienti che approfondiamo nei paragrafi seguenti con
esempi da due film successivi in cui la tecnica pare affinarsi e in cui si

338
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

generalizza il ricorso a non professionisti (che, in qualche modo, cominciano a


diventarlo).

4.2. Sangue vivo


“Sangue Vivo” è un film del 2000 diretto da E. Winspeare e sceneggiato da
G. Cecere e dallo stesso regista21. Tutti gli attori salentini sembrano
perfettamente a loro agio con le lingue adoperate nel corso del film (italiano e
dialetto) e con il loro uso nella recitazione.
Da questo film abbiamo selezionato e commentato i seguenti passaggi22.
1) Scena 2, (Madre) M’aggiu ddisciatata de scantu – nu ssacciu percé... U cafè
te lu pi(j)i? ‘Mi sono svegliata all’improvviso – non so perché... Il caffé te lo
prendi? [vs. Lu cafè nu tte lu piji? (p. 8)]23. I dettagli dell’analisi sono
disponibili in Fig. 1.

Fig. 1 – Voce di Addolorata Turco (Madre): U cafè te lu pi(j)i? ‘Il caffé te lo prendi?’
(enunciato, dislocato tipico del parlato, nel quale il primo sintagma è tematizzato e il
secondo presenta un’intonazione interrogativa totale tronca) [00h01m40s].

21
V. G. CECERE, E. WINSPEARE, Sangue vivo: soggetto e sceneggiatura, Nardò, Besa, s.d. [2006].
22
L’estrazione dell’audio è avvenuta dal DVD distribuito da Dolmen Home Video srl.
23
Per ogni passaggio analizzato si riporta tra [ ] il testo tratto da G. CECERE, E. WINSPEARE,
Sangue vivo, cit. Si noti la buona cura riposta dagli autori nella trascrizione del parlato dialettale
(diversamente da quanto accade in molta ‘cattiva’ letteratura locale).

339
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Fig. 2 – Voce di Lucia Chiuri (Ada) Varda ca t’aggiu ntisu: ca si’ ssutu n’ura rreta, ca
te pi(j)avi a màchina e ttutt'u restu (l’enunciato, enfatico, presenta una dichiarativa non
terminale, con rilievi melodici significativi e abbassamento tonale sull’accento di
gruppo, seguita da un’enumerazione chiusa con due segmenti continuativi, distinti per
posizione, e un segmento terminale dichiarativo): si noti il tono extra-acuto (480 Hz)
sull’elemento accentato della seconda continuativa [00h04m41s].

2) Scena 2, (Pino) Vane e ccòrcate, ancora ha’ lluciscire ‘Vai a coricarti, deve
ancora fare giorno’ [vs. Va ccùrcate c’ancora ha llucire (p. 9)]24. L’esempio è
stato isolato per mettere in evidenza: 1) il doppio accento nella dichiarativa non
terminale (Vààne e ccòrcate), segnale extralinguistico di contrarietà e 2)
l’intonazione dimessa (in tono e intensità) dell’appendice. Purtroppo la qualità
del sonoro [00h01m48s] non è tale da consentire un’estrazione affidabile dei
parametri.
3) Scena 6, (Ada) Varda ca t’aggiu ntisu: ca si’ ssutu n’ura rreta, ca te pi(j)avi
a màchina e ttutt'u restu ‘Guarda che ti ho sentito: che sei uscito un’ora fa, che
ti prendevi la macchina e tutto il resto’ [vs. Ti ho sentito che sei uscito un’ora
fa. Che prendevi la macchina e tutto quanto25 (pp. 11-12)]. I dettagli dell’analisi
sono offerti in Fig. 2.

24
L’interpretazione di Pino Zimba è quasi sempre molto spontanea (a costo di deviazioni
significative dal testo del copione).
25
Nella sceneggiatura originale, questo personaggio (Ada) avrebbe dovuto avere “un lieve
accento della Svizzera francese” (G. CECERE, E. WINSPEARE, Sangue vivo..., cit., p. 11). Così non
è stato: l’ottima interpretazione di Lucia Chiuri ha prodotto qui una soluzione particolrmente
espressiva e interessante da analizzare sul piano prosodico.

340
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

Fig. 3 – Voce di Antonio Malagnino (Rocco) Tie si’ statu? (l’enunciato presenta un
focus intonativo sul primo elemento, determinando una soluzione intonativa tipica, con
valori di f0 più bassi sull’elemento focalizzato e sviluppo melodico ascendente-
discendente sul resto)26 [00h29m00s].

4) Scena 24, (Rocco) Tie si’ statu? ‘Sei stati tu?’ [vs. Si’ statu tie? (p. 54)]. I
dettagli dell’analisi sono presentati in Fig. 3 e descritti in didascalia.

5) Scena 33, (Giovanni) U Dunatu addù stane? ‘Dov’è Donato?’ [vs. Dunatu
arù sta? (p. 86)]. V. Fig. 4.

6) Scena 35, (Giovanni) Dici ca zzìata tene rrobba ’e valore? ‘Dici che tua zia
tiene roba di valore qui?’ [vs. E ddici ca zzìata tene rrobba de valore cquai? (p.
87)]. L’enunciato presenta il tipico profilo terminale salentino meridionale
estremo della domanda sì/no (montante-discendente, v. Fig. 5)27.

7) Scena 35, (Giovanni) Jùtame cu llu spoštu ‘Aiutami a spostarlo’ [vs. Aiùtame
cu llu spostu. (p. 89)]. L’enunciato presenta un interessante fenomeno di crasi
intonativa (v. Fig. 6).

26
L’argomento è discusso in A. ROMANO, P. MATTANA, Comparaison des corpus d’AMPER-
ITA : l’incidence diatopique de la variable focus dans les données salentines et de l’aire centrale,
in A. PAMIES, M.C. AMORÓS & J.M. PAZOS (a cura di), Experimental Prosody (IV Congreso Int.
de Fonética Experimental, Granada, 23-25/02/2008), Language Design, sp. issue 2, pp. 293-301.
27
Si tratta del tipico profilo che è stato discusso approfonditamente in A. ROMANO, Analyse des
structures prosodiques des dialectes et de l’italien régional parlés dans le Salento: approche
linguistique et instrumentale, Lille, Presses Univ. du Septentrion, 2001; v. § 4 del contributo di
A. ROMANO, nel presente volume.

341
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Fig. 4 – Voce di Claudio Giangreco (Giovanni) U Dunatu addù stane? (l’enunciato è


relativo a un’interrogativa parziale dislocata il cui contorno terminale si caratterizza per
la presenza di un melisma con funzioni appellative sulla vocale dell’elemento
paragogico) [00h40m55s].

Fig. 5 – Voce di Claudio Giangreco (Giovanni) Dici ca zzìata tene rrobba ’e valore?
(enunciato interrogativo totale con errori di rilevamento di f0 nella breve porzione
iniziale della proposizione principale e profilo terminale ascendente-discendente)
[00h42m10s].

342
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

Fig. 6 – Voce di Claudio Giangreco (Giovanni) Jùtame cu llu spoštu (enunciato di tipo
imperativo con intonazione finale di domanda coda – come se fosse Jùtame cu llu
spoštu, voi?). Si noti l’ottima rilevazione dei valori di f0 nonostante il passaggio sia
caratterizzato dal trillo dei grilli notturni (ben visibile sullo spettrogramma tra i 5,2 e i
7kHz) [00h43m22s].

8) Scena 36, (Donato) M’eri ccuntare stammane? ‘Mi dovevi parlare stamane?’
[vs. Stammane vulìi mme parli... (p. 92)]. L’enunciato si caratterizza come una
domanda più appendice; il tipico andamento interrogativo ascendente-
discendente è localizzato su cuntare, con profilo discendente su stammane. Dati
i rumori del bosco (tra i quali l’ululato di un gufo a ca. 1 kHz), la qualità del
sonoro [00h45m25s] non consente un’estrazione affidabile dei parametri su
tutto il passaggio.

8) Scena 36, (Giovanni) T’ha’ (r)ricurdatu? ‘Ti sei ricordato?’ (p. 92).
L’enunciato [00h45m27s] si caratterizza per un profilo di domanda simile a
quello descritto al punto 6).

9) Scena 41, (Ada) Bambini! Fermi! Che state combinando? [assente nel
copione (p. 103)]. V. Fig. 7.

343
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Fig. 7 – Voce di Lucia Chiuri (Ada) Bambini! Fermi! ( ) Che state combinando?
(enunciati in italiano regionale diviso in tre segmenti intonativi: uno vocativo, uno
imperativo28 e uno interrogativo parziale (con un movimento melodico finale sub-
standard talvolta presente nelle produzioni dei nativi salentini impacciati con l’italiano,
e qui perfettamente confacente al personaggio) [00h49m50s].

10) Scena 41, (Ada) Dilli tie cu ccancia vita ‘Digli tu di cambiare vita’ [vs.
Diglielo tu di cambiare vita (p. 105)]. Il passaggio [00h50m30s] (anche questo
all’apparenza autentico) è interessante perché vi si osserva un’intonazione
dialettale che non focalizza il deittico, trattandolo – al contrario – come se fosse
un inciso (è dubbio che in italiano standard Diglielo tu di cambiare vita si possa
realizzare senza accentare il ‘tu’ – verosimilmente la frase corrisponde quindi
meglio a Digli di cambiare vita). I rumori della strada non disturbano
l’estrazione dei valori di f0 ma il passsaggio si caratterizza per una certa
desonorizzazione vocalica (voce sospirata).
11) Scena 64, (Ucciu) St’avventura? L’addhu ccunta’ a nnipùtima.
‘Quest’avventura, la devo raccontare a mio nipote.’ [vs. St’avventura l’aggiu
ccuntare a nnapùtama! (p. 142)]. V. Fig. 8.

28
Si noti il timbro della vocale accentata di fermi particolarmente chiuso, in base alle condizioni
di armonia vocalica descritte da M. Grimaldi per l’area di provenienza verosimile dell’attrice (cfr.
§2 in A. ROMANO in questo volume).

344
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

Fig. 8 – Voce di Antonio Carluccio (Ucciu) St’avventura? L’addhu 29ccunta’ a


nnipùtima. (frase divisa in due enunciati secondo una modalità che non è solo di
dislocazione, ma anche di tematizzazione enfatica, ed è tipica del salentino centrale: in
sostanza, sull’elemento dislocato si percepisce quasi un’intonazione di domanda, in
base allo schema diffuso nell’area di provenienza dell’attore30) [01h14m22s].

In questa carrellata d’esempi, pur tratti da produzioni in condizioni di


oralità simulata, notiamo l’emersione di tratti dialettali specifici che offrono
l’opportunità di studiare meglio le caratteristiche di variazione diatopica del
dialetto su diversi suoi piani di strutturazione, da quello segmentale e lessicale a
quello morfosintattico, nonché sul piano dell’organizzazione prosodico-
sintattica, sempre a cavallo tra dialetto e italiano (lingue in contatto) e nello
spazio della variazione consentita per questi due codici nelle dimensioni
stilistica ed espressiva.
Qualche elemento di discussione meritano però ancora le modalità con cui è
gestita la cura linguistica di questi prodotti nella loro diffusione (e
commercializzazione) nel momento in cui si allestiscono edizioni in lingue
diverse.

29
È questo un altro indice dialettale e sociolettale. La confusione di addhu con il più legittimo
aggiu, previsto anche dal copione, è discussa in A. ROMANO, Norma e variazione nel dialetto
salentino di Parabita, in M. SPEDICATO (a cura di), NeoΠΡΟΤΊΜΗΣΙΣ: Scritti in memoria di
Oronzo Parlangèli a 40 anni dalla scomparsa (1969-2009), Galatina, EdiPan (Grafiche Panico),
2010, pp. 237-268, § VIII.
30
Anche per questo si veda A. ROMANO, Analyse des structures prosodiques..., cit.; si tratta in
questo caso dell’andamento piatto-ascendente della domanda sì/no, solo leggermente attenuato nella
sua parte finale per garantire la continuazione (non si tratta, infatti, di una vera e propria domanda).

345
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

4.3. In grazia di Dio


“In grazia di Dio” è un film di E. Winspeare del 2013, con soggetto e
sceneggiatura di Edoardo Winspeare e Alessandro Valenti31.
Sul piano linguistico, forse ancor più che nei film precedenti, “In grazia di
Dio” si caratterizza per un uso molto fluido del dialetto da parte degli attori
(non professionisti), con modalità di code-switching o di ricorso all’italiano che
riproducono piuttosto fedelmente quelle che si possono osservare nella vita
reale nel territorio di ambientazione (famiglia, amici, scuola, uffici... rapporti
personali, argomento conversazionale, linguaggi tecnici e settoriali... profilo
caratteriale, stati d’animo, condizioni ambientali...).
Per questo film disponiamo di una copia dei documenti di lavoro messaci a
disposizione dall’amabile generosità dello stesso Edoardo Winspeare che qui
approfittiamo per ringraziare.
Nel documento di lavoro (script) definito prima della lavorazione, gli autori
sottolineano come i dialoghi del film siano:
“scritti in un italiano popolare colorato di espressioni salentine. Questo
per favorire la comprensibilità di chi non parla il dialetto del Capo di
Leuca. Nel film invece i personaggi parleranno la loro lingua di ogni
giorno e quindi, a seconda delle situazioni, si esprimeranno in dialetto
stretto, in italiano oppure in un misto italo-salentino.”

E, in effetti, la lista-dialoghi finale differisce notevolmente dallo script


predefinito e definisce le battute reali che si susseguono nel film e che risultano
persino più convincenti della sceneggiatura originale.
Così come nel tessuto narrativo del film si afferma l’idea di un recupero dei
valori di solidarietà e di condizioni di vita ‘ecologiche’, la successione di battute
nel film evidenzia impressionanti possibilità di cooperazione linguistica tra i
personaggi che, sottraendosi talvolta da un contesto generale in cui dominano la
confusione, l’inganno l’egoismo e l’indole individuale, rivelano sorprendenti
capacità d’intesa.
Oltre al lessico più quotidiano e più caratteristico che possiamo apprezzare
nelle produzioni linguistiche di quest’area, i dialoghi riproducono ottimamente
anche il ricorso alle espressioni più colloquiali e ai trivialismi32.
In questo caso, rispetto ad es. alle scelte di “Pizzicata” gli autori si sono
affrancati dagli scrupoli che li avevano indotti a escludere un lessico troppo
locale, favorendo soluzioni di più ampia circolazione, quando non sostituzioni
con elementi dialettali estranei alla lingua dell’interprete, ma più vicini alle
forme dell’italiano (notevole ad es. ciuveddi ‘nessuno’ → nisciunu sottolineato
dallo stesso Winspeare in una presentazione del film del 1997).

31
Si veda ora A. VALENTI, In grazia di Dio, Milano, Baldini & Castoldi, 2014.
32
Tenendo conto, ad es., che il lessico giovanile si rinnova in alcune pratiche, introducendo
italianismi (televisivi) come sfigata o scupata nei significati ben noti.

346
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

Nel film “In grazia di Dio” si ha diffusamente proprio ciuveddi, così come
si hanno nsigna ‘incomincia’, pos¢ia ‘tasca’, o espressioni come zzìccame
‘prendimi’ e spìcciala ‘smettila’, per non parlare di cozze ‘chiocciole’
cucummarazzu ‘cetriolo, meloncella’33, crìtimi ‘finocchi marini, critmi’, cisuria
‘appezzamento di terreno’, s¢iuttiddu ‘peperonata’ e il comunissimo musciu
‘gatto’, tutti difficilmente comprensibili a un pubblico non salentino34.
Alle numerose soluzioni idiomatiche che sono state attenuate o hanno
ricevuto rese perifrastiche, se ne accompagnano però diverse che sono state
lasciate affiorare spontaneamente. Tra queste notiamo: trasìmulu intra
‘portiamolo dentro (lett. entriamolo dentro)’, ne curcamu ‘ci corichiamo /
andiamo a letto’, stai nguajatu ‘sei inguaiato / sei nei guai’, s¢iamu (cu)
zzappamu ‘andiamo a zappare / lavorare la terra’, dàmmene nu stozzu
‘dammene un pezzo’, stai scus¢itata ‘sei spensierata / senza pesi sulla
coscienza’, t’hai scerrata ‘ti sei scordata’, t’hai stizzata ‘ti sei arrabbiata’,
m’ha’ sculatu ‘mi ha sfiancato’.
Sul piano sintattico-intonativo, oltre che alle numerose attestazioni di
modalità di costruzione della frase tipiche o esclusive delle lingue di
quest’area35, si confermano modalità di focalizzazione / tematizzazione e profili
intonativi come quelli illustrati nel § 4.2 (ad es. intra ne scàffane ‘ci sbattono
dentro’, ma tie sapivi? ‘ma tu sapevi?’, con la tipica intonazione salentina
meridionale).
Esilarante (anche se artefatta) da un lato, ma ricca di ammiccamenti (alla
potenzialità reale di queste modalità di comunicazione tra persone che si
conoscono) è infine la scena in cui avviene il seguente scambio di battute:
CROCEFISSO: Oooh (saluto)
VITO: Eeehi (ricambio)
CROCEFISSO: mmeh? (come va?)
VITO: mah. (si tira...)
CROCEFISSO: Ah! (vieni)
VITO: Nooo (non posso)36

33
A questo proposito, si veda il contributo di I. TEMPESTA, in questo volume.
34
Sottolineo ancora un certo numero di espressioni tipiche, comuni nel Salento e di ridotta
circolazione al di fuori dell’area meridionale (ma, in alcuni casi, associabili ad arcaismi
dell’italiano): jat’a ttie ‘beato/a te’, focu meu! ‘(lett.) fuoco mio (≈ povero/a me)!’, lampu!
‘accidenti!’, pensa cu stai bbona ‘non preoccuparti’, tte vegna nu fùrmine ‘che ti venga un
accidenti’, si’ ppropiu fiacca ‘sei proprio cattiva’.
35
Si veda il contributo di E. GOLOVKO, in questo volume.
36
Nella sceneggiatura originaria lo scambio di battute ‘interiettive’ era più complesso:
CROCEFISSO (C): Ohu (Saluto); VITO (V): Ohi (Saluto di risposta); C: Beh? (Come va?); V: Mah...
(Come sempre); C (unisce il pollice all’indice imitando il gesto di una tazzina di caffè bevuta);
V: Hmm (Non ho tempo); C: Meee’ (Dài); V: Beh, ehi! (Basta, non insistere! Devo andare) [Vito
fa segno con la mano che deve proseguire, mette in moto la macchina e parte]; C: Mmah. (Chi lo
capisce) [Interviene un astante spoltronato su una sedia di fronte al bar, N]; N: Ouh! (Làssalu
pèrdere, non lo considerare); C (in mancanza di meglio, si rivolge allora a N): Pst!... (gesto della
tazzina); N: Mah! (E sia).

347
Il dialetto salentino nei prodotti cinematografici

Queste osservazioni qualitative (e, impressionisticamente, quantitative) con-


fermano l’intenzione verista degli autori, ma sottolineano soprattutto l’interesse
e lo stimolo alla ricerca sul linguaggio che può venire dal loro prodotto. Tra le
numerose riflessioni che possiamo fare su questi dati linguistici ce n’è, inoltre,
una nuova, che tiene conto del crescente impiego di lingue non standard nella
produzione cinematografica in generale e che si pone di fronte ai numerosi
problemi della traduzione audiovisiva37, a cominciare dai sottotitoli in italiano e
– vista anche la circolazione internazionale che sta avendo il cinema salentino –
dall’uso dell’italiano come lingua-ponte per l’adattamento in altre lingue38.
Oltre alla ricerca linguistica in fase di realizzazione, ce n’è una anche nelle
operazioni di postproduzione (definizione dei sottotitoli in italiano, traduzione
dei testi nelle altre lingue in cui avviene la distribuzione). Conviene considerare
adeguatamente la faccenda, anche in considerazione delle scuole e degli
specialisti che operano sul territorio, ma soprattutto facendo leva sul patrimonio
plurilingue che i salentini si sono guadagnati con l’emigrazione, poi con
l’emigrazione di ritorno, e ora con l’immigrazione.

5. Conclusioni
Abbiamo passato in rassegna alcune forme di manifestazione del dialetto
nel cinema italiano, con particolare riferimento a prodotti relativi all’ambiente
culturale salentino. Nei materiali analizzati si osservano a grandi linee le stesse
dinamiche d’uso del dialetto nel cinema nazionale, ma con tempi e
caratteristiche talvolta notevolmente diversi.
Prima del neorealismo il ricorso al registro umile e agli inserti dialettali
avveniva con fini prevalentemente ludici. Nel cinema di ambientazione

37
Secondo alcuni tra i più apprezzati testi specialistici del settore, per “traduzione audiovisiva”
s’intende l’insieme di tutte quelle tecniche che rendono possibile il trasferimento linguistico dei
dialoghi originali dei testi audiovisivi in altre lingue, per permetterne una più ampia diffusione e
assicurarne la fruizione anche a un pubblico straniero (cfr., tra gli altri, E. PEREGO, La traduzione
audiovisiva, Roma, Carocci, 2005, p. 7). Su questi temi si veda anche: N. MARASCHIO, L’italiano del
doppiaggio, in G. NENCIONI et alii, La lingua italiana in movimento, Firenze, Accademia della
Crusca, 1982, pp. 135-158; M. PAVESI, Osservazioni sulla (socio)linguistica del doppiaggio, in
R. BACCOLINI, R.M. BOLLETTIERI BOSINELLI, L. GAVIOLI (a cura di), Il doppiaggio. Trasposizioni
linguistiche e culturali, Bologna, CLUEB, 1994, pp. 129-142; PEREGO, La traduzione..., cit.; J. DÍAZ
CINTAS, La traducción audiovisual. El subtitulado, Salamanca, Almar, 2001. Si considerino anche le
prospettive didattiche intraviste da A. BENUCCI, Language, culture and didactics of the Italian
cinema, in C. BUFFAGNI, B. GARZELLI (a cura di), Film translation from East to West. Dubbing,
subtitling and didactic practice, Berna-Francoforte, Peter Lang, 2012, pp. 281-304.
38
Un esempio su tutti può essere offerto da una scena che manca nella versione finale del film
nell’episodio in cui la protagoinista Adele baratta altre merci con galline e uova. L’astante le
chiede a un certo punto Nunn è ca su’ stajate, no? che è una bella frase salentina difficile da
rendere anche in italiano. Il traduttore non salentino a questo punto, condizionato in parte dal più
semplice testo italiano “Le fanno le uova?”, riporta “Ich hoffe, sie legen Eier.” laddove forse,
partendo dal dialetto (e per fortuna non ci mancano i bilingui), avrebbe sottotitolato “Sie werden
doch wohl noch Eier legen?” (marcando presupposizione e diffidenza).

348
Alessandro Bitonti, Antonio Romano, Claudio Russo

salentina, questo si è verificato ancora in tempi recenti e non cessa di accogliere


l’approvazione del grande pubblico (anche nazionale).
Abbiamo sottolineato come in molti casi ‘nazionali’ analizzati si assiste
ancora a una sorta di impasto pseudo-dialettale; il dialetto spesso non è
utilizzato come espressione della meravigliosa frammentarietà della penisola o
con valenza sociolinguistica, bensì rappresenta uno strumento linguistico per la
costruzione di determinati cliché culturali, di caratteri stereotipati a determinate
varietà (la furbizia del napoletano, la bonomia del bolognese, la sagacia del
fiorentino ecc.). Seppur presenti in alcune produzioni discusse al § 2, in un certo
cinema salentino (v. §§ 3 e 4) questi elementi sono indubbiamente secondari e,
anche quando alcune espressioni colorite e ammiccanti – come nella vita
normale – suscitano ilarità, il loro apporto s’inserisce in un quadro più
complesso, nel quale domina diffusamente l’accettazione implicita (la
consapevolezza) della dignità di queste lingue.
Grazie al Neorealismo gli italiani hanno imparato a “non vergognarsi più
del loro modo di esprimersi”39: il dialetto si è liberato della sua funzione
puramente comica, per diventare la rappresentazione di un mondo e di
un’epoca, con finalità anche ideologiche e morali.
D’altra parte, se il parlato filmico nazionale, dagli anni Settanta in poi, si è
arricchito e colorato di varianti di italiano medio-basso, di impasti plurilingui, di
dialetti (seppur ibridati), il parlato cine-televisivo tradotto ha cominciato, e
continua tuttora, ad avvicinarsi sempre più al parlato nazionale, per arrivare ai
tempi moderni in cui si osserva l’introduzione di una certa creatività nella
traduzione, che talora cerca sia di riprodurre l’intrecciarsi delle varietà
sociolinguistiche dell’originale, sia di ricreare le lingue inventate dei film
fantastici e fantascientifici40.
Nel caso salentino, siamo spesso di fronte a produzioni che privilegiano il
dialetto (o il dialetto italianizzato), come lingua naturale e ricorrono all’italiano
per i sottotitoli e, eventualmente, come lingua-ponte per gli adattamenti o, più
spesso, per la sottotitolazione in lingua straniera.
Tuttavia, spiace concludere che, nonostante l’abilità di registi e attori nel
generare un’oralità simulata di livello professionale, talvolta le sceneggiature e
gli adattamenti scritti risentono ancora d’incertezze linguistiche inaccettabili,
soprattutto per quelle aree in cui ha ancora un senso riferirsi al dialetto come
lingua vitale e promettente.
Laddove i professionisti del settore hanno progressivamente affinato le loro
capacità di adattare (tradurre o anche solo sottotitolare nella lingua d’origine)
produzioni in lingua marcate diatopicamente e diastraticamente, la formazione
nella gestione di materiali linguistici dialettali in postproduzione sta
dimostrando una persistente impreparazione.

39
F. ROSSI., Lingua italiana e cinema, Roma, Carocci, 2007.
40
M. PAVESI, La traduzione filmica: aspetti del parlato doppiato dall'inglese all'italiano, Roma,
Carocci, 2005.

349
RECENSIONI
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 353-355
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p353
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

EMILIO GENTILE, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un


mondo. Storia illustrata della Grande Guerra, “i Robinson/Letture”, Roma-
Bari, Laterza, 2014, pp. 227, € 18.

Sulla prima guerra mondiale ritorna Emilio Gentile, uno dei contemporaneisti
italiani più accreditati anche in campo internazionale, a sette anni di distanza
della sua ultima monografia sul tema, L’Apocalisse della modernità. La Grande
guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, 2008). Lo studioso, ben noto autore di
numerosi e affascinanti lavori sul fascismo italiano (classica la sua
interpretazione del regime come “religione della politica”), nel suo itinerario è
riuscito sapientemente a conciliare un rinnovato approccio alla storia politico-
istituzionale con l’attenzione alla storia delle idee, di cui dà piena conferma in
quest’ultimo libro, edito in occasione del centenario della prima guerra
mondiale.
Gentile presenta un’ampia sintesi delle vicende politico-militari del 1914-18,
avendo cura di affiancare alla narrazione un corrispondente apparato
iconografico in funzione non puramente illustrativa, ma di documento vero e
proprio con una sua specificità: scorrono così foto, cartoline, copertine di riviste
e giornali, opere artistiche significative dei temi della propaganda e della
cronaca di guerra, quali la rappresentazione del nemico in forme bestiali, le
trincee, la morte e la mutilazione dei militari, il rapporto guerra-società.
La tesi di fondo sostenuta dall’Autore, che attraversa tutto il racconto per
rendersi esplicita alla fine, può essere sintetizzata dall’espressione
«l’inevitabilità di una guerra evitabile», che dà il titolo al terzo capitolo: a
giudizio di Gentile, tutta la storia del 1915-18 è un tragico e gigantesco gioco
tra caso e necessità. Lo scatenarsi della prima guerra mondiale è stato deciso da
non più di una decina tra capi di Stato e di governo, responsabili della politica
estera e delle forze armate, eppure anche questi individui dotati di poteri
eccezionali sembrano non essere completamente padroni della situazione storica
che stavano vivendo, ma pedine di uno spaventoso meccanismo predisposto da
tempo.
Lo storico esamina quindi i paradossi di questa guerra, ben visibili sin dal suo
insorgere. Nel 1914 la maggioranza delle Nazioni che scende in guerra è
governata da forze che, sia pure in linea di principio, si proclamano contrarie
alla guerra stessa. Anche gli orientamenti dei grandi gruppi capitalistici (salvo
l’industria bellica) non appaiono propensi a scatenare conflitti molto estesi nello
spazio e nel tempo. I piani militari non prevedono una guerra di posizione o una
guerra totale. Il comportamento delle potenze belligeranti dimostra che il
conflitto, nelle modalità attraverso cui si sviluppò, non era stato programmato
dalle gerarchie militari. Anche l’assenza di precisati progetti di rivendicazione

353
Recensioni

da parte di tutti i contendenti (tranne l’Italia), confermata in occasione delle


trattative di pace, dimostra in quale atmosfera di sorpresa si svolsero le
operazioni militari quantomeno nel primo anno, che vide la compresenza
dell’uso di tecnologie distruttive avanzate e di armi tradizionali o addirittura
medioevali.
Le diplomazie negli ultimi cinquant’anni – osserva Gentile – riuscite ad evitare
scontri diretti tra le grandi potenze e a trovare soluzioni sufficientemente
condivise. Eppure, ben poco viene fatto per scongiurarla: perfino la Seconda
Internazionale Socialista si dissolve quando entrano in gioco i valori patriottici
che finiscono per imporsi su ogni convinzione pacifista. Ancora cent’anni fa la
guerra veniva concepita dalla mentalità dei decisori politici e dell’opinione
pubblica uno strumento non eccessivamente distruttivo, dai costi sostenibili e il
più idoneo a risolvere le più complesse diatribe internazionali. Era dominante la
concezione etica della guerra, secondo la quale individui e popoli avrebbero
avuto comunque da guadagnare, quanto meno in senso morale, dall’esperienza
bellica. È stato proprio a partire dal primo conflitto mondiale che la cultura ha
preso coscienza in merito alla insostenibilità morale e materiale della guerra.
La Belle Époque conteneva già in sé le profonde contraddizioni che sarebbero
esplose nel ’14, prefigurata in tantissime pagine di letterati e filosofi; era il
punto di approdo di un processo che aveva visto l’uomo contemporaneo
costruttore della più evoluta civiltà della Storia, ma anche distruttore di ciò che
avevo costruito. Intellettuali come Thomas Mann ripudiavano quella civiltà di
matrice “illuministica” contrapposta alla Kultur che nella Germania aveva
trovato la sua massima espressione. Se qualcuno, come Freud, espresse
delusione per una civiltà che non aveva mantenuto le sue promesse, altri, come
lo scrittore inglese David H. Lawrence, ritenevano che la stessa modernità fosse
già gravida di un destino di catastrofe. La guerra produsse la distruzione delle
certezze dell’uomo europeo ritenute intoccabili, a cominciare dalla sua
superiorità sulle altre civiltà, che appariva in discussione già alle truppe
coloniali chiamate a combattere. Come è potuto accadere – si chiede Gentile –
che la “modernità trionfante” abbia potuto trasformarsi in pochi mesi in
“modernità massacrante”? Anche in questa analisi furono gli intellettuali delle
parti contendenti a rispondere, compresi quelli che avevano salutato lo scoppio
della guerra con spirito patriottico o bellicista. Servendosi di numerose citazioni
di fonti letterarie, l’autore ci restituisce il clima intellettuale del dopoguerra,
convergente su un punto: le categorie con cui la civiltà europea aveva pensato e
ordinato il reale erano state distrutte e sepolte per sempre sotto le macerie della
guerra.
Nell’ultima parte (Postilla storiografica, pp. 213-220), Gentile ci riassume il
ricchissimo dibattito storiografico che, sviluppato già all’indomani della
conclusione del conflitto fino agli anni ottanta del secolo scorso, è stato poi
ripreso negli ultimi tempi da prospettive assai differenti. La rassegna mette in

354
Recensioni

evidenza come preoccupazione costante degli studiosi sia stata quella di


ricondurre le motivazioni di un evento così immane a categorie di concause o
addirittura ad una sola, sufficientemente forte da spiegare una siffatta
conseguenza.
Pur ritenendo i totalitarismi del secolo scorso un portato della prima guerra
mondiale, Gentile non nasconde una punta polemica verso quelle interpretazioni
di tali sistemi politici come una “conseguenza inevitabile” della Grande
Guerra: lo storico risponde con solide argomentazioni a favore della tesi
opposta, portando ad esempio la realtà post-bellica di Paesi non attraversati da
soluzioni autoritarie. In realtà – è la conclusione dello storico – la modernità
non ha portato necessariamente ad una guerra di tali dimensioni, ma ha
significato dopo due guerre mondiali la ripresa del progresso scientifico e dello
sviluppo civile. In una valutazione a un secolo di distanza non va sottovalutato
pertanto il peso dei fattori contingenti che una classe dirigente all’altezza della
situazione avrebbe saputo gestire in modo meno disastroso.

Giuseppe Caramuscio

355
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 356-358
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p356
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

GIOVANNI SOLIMINE, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia,


“Saggi Tascabili”, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 192, € 12.
Qualche anno fa provocò scalpore un’affermazione dell’allora ministro
dell’Economia Giulio Tremonti, secondo il quale «con la cultura non si
mangia». In realtà, di sorprendente, in tale ‘aforisma’, c’era solo un’inedita
sincerità, che esplicitava ciò che da sempre era palese dai fatti: la scarsa
convinzione nell’investimento in cultura da parte della classe dirigente italiana.
Lo stesso Tremonti ne ha offerto ampia dimostrazione, operando le più feroci
riduzioni di spesa per la Scuola e l’Università cui l’Italia repubblicana abbia
mai assistito. Espressa poi da un ministro per di più anche docente universitario,
la frase sopra menzionata assume la forma di un paradosso logico, che gli
antichi esemplificavano con la famosa antinomia: «Il cretese Epimenide dice
che tutti i cretesi sono bugiardi». Infatti, se la proposizione fosse vera, non si
spiegherebbe come il colto Tremonti figuri ai primi posti fra i parlamentari
benestanti; viceversa, dovremmo concludere che gli uomini politici,
mediamente piuttosto distanti dall’indigenza, siano simmetricamente in
possesso di una formidabile preparazione culturale. Se alle indagini della
magistratura è spettato poi il compito di fare luce sulla capacità reddituale di
molti dei nostri amministratori (non sempre derivante da attività culturali stricto
sensu), Giovanni Solimine si è fatto carico, con quest’agile e utilissima
pubblicazione, di spiegare in modo scientifico cosa si debba intendere per
‘cultura’ e per ‘mangiare’ nella società del XXI secolo e quindi, alla luce di una
corretta interpretazione, individuare le numerose e proficue interrelazioni tra i
due fattori che alla nostra classe politica appaiono incompatibili.
L’Autore, docente presso La Sapienza ed esperto di beni archivistici e librari,
riprende alcuni temi da lui già trattati in due precedenti monografie, centrati
sull’analisi della situazione della cultura italiana emergente da significativi dati
statistici. Nel presente volume, questi dati vengono letti nella reciproca
correlazione, nel tentativo di comprendere le radici dell’arretratezza culturale
del nostro Paese, che sembra non aver ancora colmato il divario rispetto agli
standard internazionali, reso evidente sin dalla prima inchiesta
sull’analfabetismo, all’indomani dell’Unità. Allo scopo Solimine compie una
doppia ricognizione: da una parte individua i possibili motivi di tale disastrosa
situazione e le pesanti ricadute sociali ed economiche; dall’altra cerca di
aggiornare il significato di ‘cultura’ in una società investita dai mutamenti
indotti dalle tecnologie digitali che hanno modificato i tradizionali concetti di
istruzione, alfabetizzazione e comunicazione.
Gli indicatori della povertà culturale del nostro Paese sono molteplici e
allarmanti: quelli più generali riguardano il basso numero di diplomati e di

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Recensioni

laureati, di coloro che non seguono alcun tipo di educazione formale (indicati
con l’acronimo anglosassone NEET, Not Education, Employment or Training),
degli analfabeti di ritorno o dei ‘nuovi’ analfabeti ossia soggetti che, pur avendo
espletato o quasi l’obbligo scolastico, rivelano serie difficoltà nelle competenze
linguistiche (literacy) e logico-matematiche (numeracy). Peraltro in Italia queste
sacche di marginalità sono distribuite in maniera disomogenea sul territorio:
determinanti appaiono l’area geografica di appartenenza, l’origine sociale e il
tipo di scuola frequentata, mentre le storiche differenze tra i sessi sono state
superate a vantaggio delle donne. Le indagini internazionali (la più accreditata
fra queste, il PISA – Programme for International Student Assessment)
mostrano quale sia il vero spread dell’Italia rispetto ai Paesi più avanzati.
Sarebbe tuttavia ingiusto attribuire le responsabilità della situazione attuale
esclusivamente a determinati governi o alla classe politica nel suo complesso:
anche gli imprenditori, a giudizio di Solimine, non mostrano coraggio
nell’individuare politiche innovative in grado di stimolare la crescita di nuove
professionalità.
Ma quali sono le competenze imprescindibili richieste dalla nuova
organizzazione del lavoro? Solimine, riprendendo documenti e interventi di
autorità internazionali, ce li sintetizza così: «L’esercizio del pensiero critico,
l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività e la disponibilità positiva
nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace,
l’apertura al lavoro di gruppo» (p. 20). Come si può notare, si tratta di
competenze che superano la tradizionale separazione tra i saperi, anche se li
presuppongono, e hanno come denominatore comune la flessibilità
nell’adattarsi alle situazioni continuamente nuove indotte dai sempre più
accelerati processi di cambiamento. Un’altra dimensione sulla quale l’autore si
sofferma è quella del sapere come “bene comune immateriale”, in cui
scompaiono le barriere tra natura e cultura, soggettivo e oggettivo,
caratteristiche queste sempre più proprie del mondo della rete (pp. 42-48). Tanti
gli spunti offerti dal libro, che riporta le più significative e aggiornate prese di
posizione in campo internazionale a proposito del ripensamento del ruolo e dei
compiti della cultura e dell’educazione: ci piace ricordare, tra gli altri la
segnalazione del neologismo capabilities (p. 47), definite «non solo le capacità
personali ma le ‘opportunità concrete’, le libertà positive di cui il cittadino
dispone», nonché una messa in discussione delle seduzioni della meritocrazia,
che oggi va intesa prioritariamente come politica tesa a valorizzare le capacità
di ognuno (pp. 48-53).
Le conclusioni dell’Autore, quindi, evidenziano una serie intricata di concause.
La marginalità sociale produce ignoranza, che a sua volta è legata ad una
fruizione molto carente o nulla dei beni culturali. Perché l’investimento in
cultura e in formazione diventi produttivo non basta facilitare le condizioni di
accesso alla cultura, ma occorre anche che questa sia avvertita come “bene

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Recensioni

comune”. Questo comporta prendere le distanze dal modello politico-culturale


proposto dal capitalismo avanzato che, secondo Solimine, si mostra inadeguato,
perché punta eccessivamente sulla corsa sfrenata al raggiungimento della
felicità individuale, trascurando i valori comunitari. Le politiche del futuro
dovranno pertanto puntare all’educazione ai beni immateriali e materiali di
godimento comune, fra i quali – va ricordato – ci sono anche le risorse
ambientali e la memoria storica, sedimentata nelle forme urbanistiche,
monumentali e architettoniche.
Come si può vedere, il discorso di Solimine è molto più profondo rispetto al
calcolo ragionieristico costi/benefici dell’investimento formativo: a parte la
difficoltà della determinazione immediata dei costi sociali dell’ignoranza
elevata e diffusa (che nel medio-lungo termine può tradursi in bassa
consapevolezza della partecipazione politica e abbandono dell’esercizio della
cittadinanza attiva, disagio sociale con potenziale disponibilità a forme di
illegalità), il ragionamento che l’autore sviluppa non riguarda tanto, come
potrebbe apparire ad un approccio superficiale, la valorizzazione delle risorse
culturali, ma l’intero sistema politico-sociale di un Paese. Non si tratta insomma
di pensare ad una immediata monetizzazione dei beni culturali in chiave
turistica, ma di reimpostare i valori a partire dalla cultura, che comporta un
ripensamento ben più profondo sul modello di sviluppo attualmente dominante.
Se è vero che un sistema formativo adeguato alle sfide dei nostri tempi ha costi
importanti per il bilancio statale – peraltro da sottoporre a verifica nel loro
rapporto con i benefici – il prezzo che si paga per l’ignoranza è senz’altro
superiore e ha delle conseguenze socialmente incalcolabili. Ancor più
preoccupante è la percezione inadeguata del problema da parte dei decisori
politici e della stessa opinione pubblica, più propensa a mettere in relazione la
crisi che stiamo vivendo con fattori esclusivamente economici. Mentre Paesi
poveri di risorse naturali ed energetiche stanno compiendo grossi sforzi per
investire in formazione, premiati da significativi avanzamenti nella posizione in
graduatoria, in Italia le cifre non occupano le prime pagine dei giornali.
La chiarezza espositiva consente all’Autore di esaminare problematiche
complesse in modo comprensibile ma senza semplificazioni o banalizzazioni:
egli, offrendo una risposta esemplare ai luoghi comuni utilizzati dalla classe
politica, di cui spesso si nutre anche parte dell’opinione pubblica, mostra come
davanti alle grandi questioni ci si debba porre attenendosi rigorosamente alle
cifre e ai fatti. La panoramica proposta non poteva essere esaustiva, ma va
riconosciuta, tra suoi non pochi meriti, la sua capacità di sintetizzare tanti
motivi di riflessione e dati molto aggiornati nella dimensione di un tascabile,
dimostrando, anche in modo diretto, come si possa offrire un utile contributo
alla divulgazione della cultura senza cadere nell’approssimazione o nello
sfoggio di erudizione.
Giuseppe Caramuscio

358
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 359
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p359
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

LINDA SAFRAN, The Medieval Salento: Art and Identity in Southern Italy,
“The Middle Ages Series”, University of Pennsylvania Press, Philadelphia ,
2014 , pp. 470.
A ricostruire attentamente l’arte e l’identità del Salento in età medioevale si è
dedicata con cura e maestria Linda Safran, ricercatrice presso il Pontificio
Istituto di Studi Medioevali di Toronto, in questo recente volume.
L’opera si articola in 8 capitoli (Nomi; Lingue; Appartenenze; Status; Cicli di
vita; Rituali e altre pratiche nei luoghi di culto; Rituali e pratiche in casa e
nella comunità; Teorizzazione dell’identità salentina; Banca dati; Località del
Salento con testi e immagini informative circa l’identità).
Essi sono preceduti dall’Introduzione, nella quale l’autrice chiarisce cosa
significhi arte e identità nel contesto del suo disegno espositivo, per poi
delineare la geografia del Salento medioevale (l’antica Calabria) che aggregava
all’attuale provincia di Lecce, quelle di Brindisi e Taranto; le tappe significative
della sua storia dall’impero bizantino alla conquista normanna, seguita dalle
dominazioni sveva, angioina ed aragonese, che lasciarono interessanti tracce e
monumenti in tutto il territorio multietnico nel quale le culture latina, greca,
araba, ebraica si mescolarono e alle quali si sarebbe poi aggiunta anche l’etnia
albanese.
The Medieval Salento attinge così dall’arte, dalla storia, dall’archeologia, e
dall’etnologia per ricostruire l’identità di questa “regione” attraverso costumi,
linguaggi e tradizioni consentendo al lettore di esplorare la cultura e le arti,
attraverso un organico database delle fonti “materiali” costituito da oltre 300
testi e tante immagini (162 b/n e 19 a colori) indicizzate tenendo conto del sito
in cui sono presenti.
È un quadro davvero incantevole che – delineato e dipinto da una “viaggiatrice
straniera” – contribuisce notevolmente a divulgare partendo da solide basi
indicate nelle note e nelle fonti primarie e secondarie nella vasta bibliografia, il
patrimonio meraviglioso del tallone d’Italia.
Quei tesori che Giuseppe Gigli già nella prima metà del XX sec. aveva in parte
fotografato nei due prestigiosi volumi (1: Lecce e dintorni, 2: Gallipoli, Otranto
e dintorni con 150 illustrazioni, Bergamo, 1911-1912). Immagini che se fossero
state utilizzate in questo lavoro avrebbero fornito ulteriori tasselli talora
dimenticati, anche se purtroppo alcuni di essi sono stati distrutti o deteriorati.

Pietro De Leo

359
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 360-364
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p360
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

CARLO POERIO, Mille Ottocento Quarantotto, prefazione di


Sigismondo Castromediano, con uno scritto di Alessandro Laporta,
“Piccola Biblioteca del Risorgimento salentino” 2, Galatina,
Congedo, 2014, pp. 132.

Nel 1848 la situazione del Regno delle Due Sicilie assume, nel contesto Nel
1848 la situazione del Regno delle Due Sicilie assume, nel contesto italiano,
particolari caratteristiche. Il re Ferdinando II, spaventato dagli avvenimenti
verificatisi in Sicilia, concede la Costituzione, e solo per la pressione
dell’opinione pubblica acconsente ad inviare truppe per la guerra federale
(altrimenti nota come “prima guerra d’indipendenza”). Ma la sua politica
ambigua non fa venir meno la storica diffidenza dei patrioti verso la monarchia
borbonica che, unita all’impreparazione dei liberali, dà luogo alla prima
controrivoluzione della Penisola. Quando si riuniscono per la prima volta i
deputati (quasi tutti liberali moderati) del Parlamento napoletano, si sparge voce
che il sovrano stia per preparare un colpo di Stato; alla folla che si va radunando
in piazza, il 15 maggio il re risponde facendo occupare dall’esercito i punti
chiave della città, sciogliendo la Camera e indicendo nuove elezioni. Ma la
rivolta urbana di Napoli è sostanzialmente diversa da quelle di Palermo e di
Milano, sia per il gran numero di partecipanti provenienti dalla provincia, sia
per il fatto che la plebe napoletana, a differenza dei disoccupati e dei
sottoccupati di Milano e di Palermo, non si schiera dalla parte degli insorti.
Come sappiamo, poi Ferdinando II si varrà degli avvenimenti del 15 maggio
quale pretesto per richiamare le truppe impegnate nella guerra contro l’Austria.
Anche le agitazioni nelle campagne, ineludibile riferimento per l’intelligenza
dei moti del ‘48, contribuiscono a rendere singolare la situazione nel Sud
d’Italia. Pur con una notevole varietà di casi locali, le rivolte rurali, molto più
estese rispetto al ’20-’21, pongono quale nodo principale la questione
demaniale, dovuta alla mancata o non puntuale applicazione delle leggi eversive
della feudalità promulgate nel Decennio francese. Alla perenne fame di terra si
aggiungono gli effetti della crisi economica, cosicché nel ’48 le occupazioni di
terre, il rifiuto di pagare le tasse, gli incendi della documentazione fiscale
divengono fatti quotidiani. Il movimento contadino meridionale (molto più
autonomo e spontaneo dell’analogo settentrionale) suscita il panico dei
possidenti, anche di quelli di orientamento liberale. Non a caso, mentre nelle
campagne lombarde e venete le formazioni della Guardia Nazionale vedono
schierati insieme contadini e proprietari, nel Mezzogiorno esse sono costituite
per la massima parte da proprietari a difesa della proprietà. Né i democratici
delle zone rurali – più sensibili ai problemi dei contadini di quanto non lo siano

360
Recensioni

i liberali della Capitale – riescono a influire sugli esiti del ’48 nel Mezzogiorno:
a differenza di quanto contemporaneamente accade a Venezia, il loro punto di
vista non viene rappresentato a Palermo e a Napoli.
Riproporre una significativa interpretazione coeva di questa delicata
contingenza storica da parte di un protagonista e testimone oculare è l’obiettivo
di questa piccola pubblicazione, piccola solo per il formato, dato che il suo
contenuto è relativo alle memorie di uno dei protagonisti più autorevoli del ’48
meridionale, il liberale barone napoletano Carlo Poerio. Per la Collana “Piccola
Biblioteca del Risorgimento Salentino” (diretta da Alessandro Laporta) esce
pertanto in ristampa anastatica questo volumetto, invero molto prezioso perché
finalmente presenta in adeguata veste editoriale e con aggiornata cura l’unico
scritto di Poerio di cui abbiamo notizia. Tale operazione vede la luce sull’onda
della forte ripresa dell’interesse sul patriota salentino Sigismondo
Castromediano – che con Poerio condivise gli ideali liberal-nazionali e
l’esperienza delle carceri borboniche – stimolato a sua volta dalla celebrazione
dei centocinquant’anni della Nazione italiana. Tra i più appassionati e
competenti protagonisti di questa renaissance ritroviamo lo stesso Laporta – dei
cui lavori sull’argomento ci siamo occupati in un precedente numero della
rubrica – nonché il Comune di Cavallino e il Centro Studi, intitolato al
Castromediano e a Gino Rizzo, sensibili patrocinatori delle pubblicazioni
sul/del patriota. Anche nel presente caso, la collaudata sinergia fra lo studioso e
le Istituzioni ha prodotto, come ragguardevole frutto, una pubblicazione che al
Castromediano si ricollega in modo indiretto: essa infatti ristampa le memorie
del Poerio, che questi affidò al Duca Bianco in virtù dell’amicizia nata e
consolidatasi durante il periodo di detenzione trascorso insieme, come detenuti
per reati d’opinione e per attività liberale. Il patriota salentino le valorizzò solo
a dieci anni dalla scomparsa dell’amico, nel 1877, così come promessogli,
pubblicandole in dodici puntate sul Cittadino Leccese, nella forma del romanzo
d’appendice, mutilo dell’ultima parte, finora non rintracciata. Non fu estranea,
inoltre, all’operazione promossa dal Castromediano, l’intenzione di difendere
l’amico dalle accuse rivoltegli da parte reazionaria e la volontà di rendere nota,
d’altra parte, la solidarietà che il primo ministro inglese Gladstone (indicato
nello scritto del Castromediano come “il misterioso straniero”) espresse ai
prigionieri politici nelle carceri borboniche. Tale occasione editoriale è rimasta,
fino ad oggi, la prima ed ultima, finché l’intuito e la perseveranza di Laporta
non ce l’hanno restituita nella sua forma originale, apportando un notevole
contributo all’arricchimento del quadro del Risorgimento nazionale e
meridionale in particolare.
Ci è gradito segnalare, inoltre, che questa edizione voluta e curata da Laporta ha
ottenuto una menzione speciale da parte del Comitato Organizzatore della
quarta edizione del Premio Poerio-Imbriani, istituito, in memoria di questi due
patrioti napoletani, dalla Regione Campania, dal Comune di Napoli e da altri

361
Recensioni

autorevoli Enti e Istituzioni nazionali e campani. Un riconoscimento più che


meritato, che premia i tanti sforzi che il direttore emerito della Biblioteca
Provinciale di Lecce ha prodotto, e continua a produrre, per scoprire e
valorizzare tracce bibliografiche e documentarie importanti destinate altrimenti
a rimanere sepolte nell’oblio.
Questa del Poerio è una delle più sentite testimonianze, edite a partire sin dalla
metà dell’Ottocento, scritte allo scopo di operare una riflessione sulle vicende
del lungo Quarantotto, veri e propri istant book, pubblicate spesso a ridosso
degli avvenimenti e come tali non privi della carica emotiva che caratterizza
questo genere editoriale. Laporta, nel suo fine e utilissimo contributo in
conclusione del testo (Il 1848 di Carlo Poerio nel panorama contemporaneo),
passa in rassegna le principali fonti memorialistiche del tempo relative a quei
moti rivoluzionari, ricordando come la più famosa di esse, destinata a fungere
da capofila e da modello narrativo per tutte le altre sull’argomento, I Casi di
Romagna di Massimo d’Azeglio, influenzerà molto, a cominciare dal titolo, I
Casi di Napoli di Giuseppe Massari, considerata la più accreditata fonte
storiografica per il Regno delle Due Sicilie in quel periodo. Entrando più
direttamente nel raffronto tra lo scritto di Poerio e gli altri contemporanei sul
tema, anche di parte avversa, Laporta ci guida da par suo nella pubblicistica
storiografica e letteraria del tempo, offrendoci una panoramica degli approcci e
dei punti di vista sviluppati nella seconda metà dell’Ottocento, non
dimenticando il rapporto tra Poerio, il mondo anglosassone (prediletto referente
della libertà) e la terra salentina, veicolato dal Castromediano. Emergono in
proposito i meriti del duca di Cavallino nell’aver saputo valorizzare le memorie
dell’amico, di cui non fanno cenno nemmeno quegli autori che più si erano
spesi nell’apologia di Carlo Poerio uomo e politico.
La narrazione di Poerio, partendo dai moti meridionali del ’21 e dalle
insorgenze precedenti il ‘48, denuncia la degenerazione delle istituzioni
politiche e giuridiche del Regno della Due Sicilie e si arresta al 21 gennaio
1849, stando alle parole del Castromediano che fissa a tale data la ricezione del
manoscritto. Il racconto del patriota dedica ampio spazio agli episodi
succedutisi in tutto l’arco del ’48, dalle composte manifestazioni popolari a
Napoli e nelle province, l’alternarsi dei diversi ministeri (in uno dei quali Poerio
fu incaricato del Ministero della Istruzione Pubblica), con l’analisi dei loro
errori e l’individuazione dei meriti; fino a giungere all’«imprudente protesta»
delle barricate, la cui degenerazione nel sangue, a giudizio del Poerio, è da
attribuire al partito reazionario che altro non aspettava che l’occasione utile a
liquidare per sempre i conti.
La testimonianza di Poerio ripropone il problema della validità della
memorialistica come fonte storiografica attendibile, data l’influenza delle
inevitabili componenti personali sulla ricostruzione degli avvenimenti. La
nobile testimonianza riproposta da Laporta si muove in effetti nell’alveo di una

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Recensioni

Storia etica, che nella spiegazione dei fatti utilizza soprattutto categorie morali
in lotta fra loro: alla ferocia (descritta anche nei suoi più cruenti particolari), alla
corruzione, al ricorso alla delazione, all’inganno, all’oppressione delle forze
reazionarie Poerio contrappone l’elevatezza d’animo dei patrioti, il loro
idealismo, lo spirito di sacrificio, la consapevolezza di avere dalla propria parte
la Ragione e la Storia. Il patriota napoletano non sembra cogliere le differenze
tra le varie insorgenze, in primis quelle tra il Mezzogiorno continentale e la
Sicilia. Risultano trascurati i fattori sociali ed economici del tempo che, come
abbiamo premesso, sono tutt’altro che secondari nella determinazione degli
schieramenti nel ’48 napoletano e meridionale e nella dinamica degli
avvenimenti. La sua visuale politica monarchico-costituzionale e liberale, tipica
di un aristocratico illuminato, pur in una visione semplificata delle
problematiche, giustamente lo porta a sottolineare le violazioni di tali principi
da parte dei diversi ministeri che si avvicendano nel corso del drammatico ’48:
il legiferare per via di decreto e non di prassi parlamentare, il non aver
provveduto, in via preliminare, all’elaborazione di una legge elettorale, la
mancanza di una regolamentazione sulla libertà di stampa e sulla Guardia
Nazionale, lo scollamento tra l’Amministrazione centrale e la periferia del
Regno, l’aizzare la divisione tra la popolazione e l’esercito e, soprattutto, il non
aver saputo evitare lo scontro con la Sicilia. Poerio non nasconde le profonde
divisioni all’interno del governo, che si manifestano con orientamenti e
provvedimenti oscillanti tra il dialogo e la chiusura. Egli difende in particolare,
tra i vari esecutivi, quello insediatosi il 6 aprile (il terzo in ordine di
successione), cui riconosce il merito dell’approvazione di una equilibrata legge
elettorale, la volontà di avviare un confronto con il Parlamento, l’invio di un
aiuto militare a Venezia che resisteva all’assedio austriaco e il tentativo di
pacificazione tra le diverse componenti politico-sociali del Regno. A suo
giudizio, le caute riforme avviate vengono sabotate dall’empia setta retrograda,
con cui egli designa l’alleanza delle forze reazionarie, che con ogni mezzo
prepara e ottiene la sua rivincita. A questo fattore, però, Poerio non dimentica di
aggiungere l’impreparazione dei liberali a sostenere lo scontro armato, che egli
però non estende, riprendendo il più classico nodo del rapporto tra un ceto che
si candida alla direzione del governo e i ceti popolari, difesi sì dalle accuse di
fanatismo e di propensione allo scontro, ma che restano abbastanza anonimi
sullo sfondo. Manca insomma quella consapevolezza manifestata
dall’intellighentia napoletana all’indomani di un altro snodo fondamentale della
storia del Mezzogiorno continentale, la vicenda della Repubblica partenopea del
1799.
Insistere su questi, e su altri limiti, dell’interpretazione di Poerio serve per
meglio collocare la sua posizione nel dibattito di quel tempo e successivo.
Risulterebbe tuttavia eccessivamente ingeneroso, da parte nostra, spingere
troppo sulla denuncia di ciò che manca, perché al contemporaneo, e per di più

363
Recensioni

coinvolto totalmente, non si può chiedere ciò che non può dare: una spiegazione
critica dei fatti, l’acquisizione di una prospettiva globale, una disamina
imparziale (ammesso che il postero riesca a conseguire tali obiettivi). Resta
ammirevole lo sforzo di obiettività – da notare la totale assenza a riferimenti
personali – la carica (peraltro contenuta) di passionalità, il dignitoso rifiuto della
vendetta, la fiducia nel futuro, la sensazione, più che la speranza, di un
sacrificio non inutile. Tutti valori che non è inutile rivisitare attraverso la
testimonianza di questa generazione di patrioti di cui oggi si avverte, nella
politica e nella società civile, un disperato bisogno.

Giuseppe Caramuscio

364
L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 365-368
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p365
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

SALVATORE COPPOLA, Fortiter in re, suaviter in modo. Monsignor


Giovanni PANICO, il diplomatico salentino al servizio della Santa Sede
negli anni di Pio XI: La missione diplomatica di Panico in Colombia,
Argentina, Cecoslovacchia, Baviera e Saar (1923-1935), Castiglione
(LE), Giorgiani ed., pp. 334.
Dopo una quarantennale attività di studio dedicata al movimento sindacale e
contadino nel Salento, in questi ultimi anni Salvatore Coppola ha allargato
l’area della propria ricerca includendovi temi di storia delle relazioni
internazionali, profittando del periodo di impegno professionale in Spagna.
Infatti a Madrid, nell’Archivio storico del Ministero degli Esteri, egli ha avuto
l’opportunità di compulsare, fra l’altro, documenti utili alla ricostruzione dei
rapporti tra il Vaticano e i regimi fascisti europei. Sulla scia di tali indagini, lo
studioso ha cercato altri riscontri nell’Archivio Segreto Vaticano (ASV) e in
quello della Segreteria di Stato-sezione degli Affari Ecclesiastici Straordinari,
esaminando la documentazione del periodo 1922-1939, resa disponibile da
Benedetto XVI a partire dal 2006. Nell’esame di tali incartamenti, Coppola si è
imbattuto nella corposa documentazione riguardante il noto prelato, originario
di Tricase, Giovanni Panico, riferita all’incarico, da questi ricevuto, di una
delicata missione diplomatica svolta per quattro intensi mesi tra il 1934 e il
1935 nella Saar. Come è noto, quest’importante Regione tedesca (al confine tra
Belgio, Francia e Germania) ha costituito a lungo una delle questioni lasciate in
eredità dalla Grande Guerra, la cui soluzione era stata rinviata per essere
affidata in seguito ad un plebiscito, da tenersi appunto nel gennaio del 1935.
L’incarico, assegnato a Panico da Pio XI, mirava a garantire la neutralità della
Santa Sede durante la consultazione popolare e a ricompattare il clero della
Regione, spaccato tra una componente annessionista (capeggiata da alcuni
vescovi) schierata per il ritorno senza condizioni alla Germania ormai nazista, e
una parte incline al mantenimento dello status quo ossia l’amministrazione della
Saar da parte della Società delle Nazioni, almeno sino a quando il pericolo
nazista non fosse ridimensionato. Nella circostanza Panico seppe richiamare
all’ordine i vescovi favorevoli all’annessione e segnalare molto lucidamente,
nelle relazioni, le potenzialità negative del movimento nazista per la religione e
per la società.
A questo punto è sembrato doveroso a Coppola portare alla luce in modo più
organico l’attività diplomatica di Panico che, per limiti documentari, la
narrazione del presente volume ferma al 1935, termine coincidente con gli
incarichi ricevuti durante il pontificato di Pio XI. La Pia Fondazione di Culto e
Religione - Polo Didattico Universitario - Azienda Ospedaliera intitolata al
card. Panico, che tra i suoi scopi ha la promozione e la diffusione di studi

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Recensioni

intorno alla figura del prelato, ha incoraggiato la ricerca dello studioso e


sostenuto le spese di pubblicazione del volume, prolungando così l’attività
commemorativa del cinquantenario della scomparsa di Panico.
In effetti la figura di Giovanni Panico è associata, dall’opinione collettiva del
Salento, soprattutto alla fondazione dell’ospedale a Tricase, del quale, pur attivo
promotore, non riuscì a vedere l’inaugurazione, causa l’improvvisa e prematura
scomparsa. Merito precipuo di Coppola è quello di aver condotto una seria
indagine basata su fonti inedite e finalizzata alla ricostruzione dell’opera
diplomatica dell’ecclesiastico, che lo rese molto meritorio per la Santa Sede e lo
illustrò agli occhi delle altre parti politiche con cui negoziò, documentate da
apprezzamenti assai lusinghieri e da riconoscimenti e onorificenze ufficiali.
Fatta eccezione per una monografia del 1966, ad opera di mons. Carmelo
Cassati, arcivescovo, nipote di Panico e suo segretario nell’ultimo decennio di
vita, gli studi sul diplomatico hanno ricevuto un forte impulso a partire dal
1995, quando è stata celebrata la ricorrenza del centenario della sua nascita. Tra
i contributi più notevoli, spiccano quelli di mons. Francesco Monterisi, nunzio
in Bosnia-Erzegovina, e di Donato Valli, che presenta una prima ricostruzione
dell’attività diplomatica di Giovanni Panico. Apporti degli studiosi locali, alcuni
dei quali ecclesiastici, sono frequentemente apparsi sul periodico diocesano
Siamo la Chiesa. Riferimenti alla figura e all’opera del Nostro sono presenti
anche in monografie specifiche di autori stranieri sulle aree geografiche che lo
hanno visto protagonista (Saar, Cecoslovacchia, America Latina).
Il presente volume, dopo aver riportato gli indirizzi di saluto delle autorità civili
e religiose afferenti a Tricase, presenta una lucida Prefazione di Marek Smid,
docente presso la Facoltà di Teologia Cattolica dell’Università “Carlo IV” di
Praga, che sottolinea l’importanza del lavoro di Panico soprattutto dal punto di
vista dell’Europa centro-orientale, e l’utilissima Introduzione dello stesso
Coppola, nella quale l’autore fornisce una breve biografia del prelato, dà conto
dello stato attuale degli studi e giustifica i criteri metodologici da lui seguiti
nella ricerca. Il grosso dei contenuti viene articolato in sette capitoli, ognuno dei
quali riguarda una missione diplomatica specifica svolta dall’ecclesiastico
tricasino. In Appendice, infine, viene ricordato l’impegno umanitario di Panico
in favore dei prigionieri di guerra deportati in Australia attraverso la
presentazione di documenti del Ministero degli Esteri. Ma l’analisi del periodo
australiano è ancora lontana dall’essere completa, essendo il periodo del
pontificato di Pio XII ancora sottoposto al segreto archivistico.
Prima dell’esperienza della Saar, il giovanissimo Panico era stato nominato
addetto alla nunziatura di Bogotà (1923-26) e segretario presso quella di Buenos
Aires (maggio 1926-aprile 1931). In Colombia sostituì il nunzio Vicentini,
espulso dal cattolicissimo governo a causa delle sue continue interferenze nelle
vicende politiche del Paese, che tra la fedeltà al Cattolicesimo e la difesa delle
proprie prerogative politiche e culturali optò in difesa di queste ultime. Nei

366
Recensioni

Paesi latino-americani Panico affrontò con successo le questioni relative al


patronato che appunto alcuni governi volevano esercitare sulla nomina dei
vescovi e sull’insegnamento religioso nelle scuole. Promosse la trasformazione
della presenza dei cattolici nella società, da intervento politico in impegno
apostolico grazie all’Azione Cattolica. Aspetti comuni della missione latino-
americana, pur nella diversità delle situazioni, sono quindi da identificare nella
politica tendente a riunire i cattolici in presenza di un panorama politico
instabile e a stabilire punti fermi entro i quali far interagire il potere politico con
le istituzioni ecclesiastiche in un clima di reciproca collaborazione. Egli, inoltre,
si spese molto in direzione del potenziamento delle missioni in favore degli Indi
e degli afro-americani e riuscì pazientemente a ricucire le relazioni
diplomatiche, dimostrando a un tempo fermezza nel campo dottrinale e
flessibilità e dolcezza nella relazione interpersonale. Da qui l’espressione latina
con cui il segretario di Stato pontificio Gasparri lo inquadrò e che giustamente
Coppola ha individuato come la più efficace sintesi della personalità di Panico
al punto da utilizzarla quale titolo del libro.
Dal 1931 viene inviato a Praga, dove rifulgeranno le sue abili doti diplomatiche:
anche in Cecoslovacchia occorre rinsaldare i rapporti fra le autorità
ecclesiastiche locali e il governo. Allo scopo Panico viene chiamato a sostituire
il nunzio, espulso dal governo cecoslovacco perché ritenuto responsabile
nell’alimentare la tensione tra cattolici cechi e slovacchi. Coppola segue il
diplomatico anche nel periodo 1931-gennaio 1933, quindi dall’ottobre 1933 al
novembre 1935, (eccettuata la parentesi della Saar), contribuì efficacemente
ancora per favorire l’unità dei cattolici (esasperatamente divisi tra slovacchi,
cechi, tedeschi dei Sudeti, polacchi della Slesia), non pochi dei quali venivano
attratti dal fascino del regime hitleriano, ai quali suggerì l’intesa con i
socialdemocratici in funzione antinazista. Spostato nella nunziatura di Monaco
di Baviera, sostituisce il nunzio proprio nella fase delle trattative per il
Concordato tra Santa Sede e governo guidato da Hitler. La Baviera, in quei
torbidi anni, ricopre la funzione di avamposto della Chiesa cattolica in
Germania e al contempo funge da culla e da laboratorio del nazismo montante:
è a Monaco che Hitler presenta il suo partito, è lì che il leader del
nazionalsocialismo fallisce il tentativo di colpo di stato. Coopera con il vescovo
di Monaco per favorire nel clero la presa di coscienza della pericolosità
dell’ideologia nazista, la cui propaganda raccoglie proseliti in quella Regione,
coagulandoli intorno a parole d’ordine antisemite e antibolsceviche. Panico
comprende che il nazismo non merita aperture di credito da parte del mondo
cattolico e che occorre superare sia le poco meditate simpatie nei confronti della
demagogia sia la paura nei confronti delle violenze e delle ritorsioni.
La carriera diplomatica di Panico si svilupperà attraverso altre tappe, con la
guida della delegazione apostolica a Sidney (fino al 1948), successivamente con
la nomina a nunzio in Perù (fino al 1954), delegato apostolico in Canada (fino al

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Recensioni

1959) e poi, fino al 1962, nunzio in Portogallo. Tutto questo periodo, a partire
dal 1948, è coperto dal segreto e le carte del pontificato di Pio XII non sono
ancora disponibili. È stato Ercole Morciano, studioso delle istituzioni e delle
figure ecclesiastiche salentine, a fornire un primo resoconto del periodo
australiano attingendo alle fonti ministeriali irlandesi.
Come giustamente ha richiamato mons. Salvatore Palese in un’altra recensione
a questo volume, sarà necessario colmare le lacune biografiche che ancora
permangono, una volta che l’Archivio personale di mons. Panico sarà
completamente riordinato e quando saranno disponibili importanti documenti
riguardanti gli altri periodi del percorso diplomatico-pastorale del prelato
tricasino. Conoscere la sua formazione giovanile e lumeggiare meglio la rete di
rapporti, tra i quali spicca quello – lunghissimo – con il card. Ottaviani;
lumeggiare gli anni della sua formazione sacerdotale tra il 1910 e il 1919, tra gli
anni conclusivi del pontificato di Pio X e quelli di Benedetto XV; approfondire
il rapporto con Pio XI; ancora, inquadrare ancor meglio la vicenda di Panico nel
clima politico e culturale nel quale la Chiesa di allora andava aggiornando le
sue posizioni, dalla lotta al modernismo alla ricostruzione post-bellica,
dall’individuazione delle possibili alleanze politico-sociali alla ridefinizione del
ruolo del laicato, dal rilancio dei seminari al ripensamento sul diritto canonico,
sono i compiti cui la ricerca storiografica dovrà assolvere.
Pur nelle differenze, spesso profonde, che intercorrono tra Paesi dell’America
Latina, la allora neonata Cecoslovacchia e le Regioni tedesche, è possibile
cogliere un elemento a tutte le missioni espletate da Panico: il giovane sacerdote
salentino viene inviato in aree dove è necessaria una forte opera di mediazione e
di ricucitura di rapporti in crisi. Attraverso la sua opera, sono chiaramente
identificabili da un lato le linee guida della diplomazia vaticana davanti ai
grandi processi di trasformazione indotti dalla modernità, anche in Paesi più
arretrati come quelli latino-americani, e dall’altro il difficile rapporto tra la
costruzione dello Stato laico e democratico e la salvaguardia dell’azione
pastorale della Chiesa, per non parlare della posizione assunta dalla Santa Sede
davanti a ideologie e movimenti all’epoca inediti e di non immediata lettura,
come il nazismo, testimoniata dalle frequenti oscillazioni del clero nazionale e
anche delle alte gerarchie rispetto alla loro interpretazione.
Coppola, nel superare una tradizione che ha sottolineato prevalentemente i tratti
personali del card. Panico, conduce il lettore tra i meandri della documentazione
dell’ASV, aiutandoci a decodificare il linguaggio prelatizio, elegante ma ricco
di significati impliciti. Ci pare opportuno sottolineare anche questo merito
dell’autore, non secondario fra i tanti da lui acquisiti con la pubblicazione di
questo volume che – va ricordato – è il primo lavoro organico sul primo
decennio dell’attività diplomatica di Panico.

Giuseppe Caramuscio

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Idomeneo (2015), n. 19, 369-370
ISSN 2038-0313
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MARIO FRANCHINI, Japigia. Uno stato sovrano del IV sec. a.C., 2 tomi,
Lecce, Capone Editore, 2005, pp.
È sempre opera ardua recensire il lavoro altrui, perché criticare spietatamente
risulta molto più immediato rispetto al mettersi in discussione, all’intepretare, al
comprendere, all’accogliere.
Per questo mi affaccio in punta di piedi e con estrema delicatezza sull’opera
monumentale di Mario Franchini, medico umanista salentino che nel 2005 ha
editato due poderosi tomi dal titolo impegnativo: Japigia. Uno stato sovrano del
IV sec. a.C. Un titolo che rimanda alla memoria l’opera cinquecentesca di
Antonio Galateo, il De situ Japigiae, ma che se ne discosta per impostazione e
contenuti, per contesto storico-culturale di partenza, per sensibilità.
La fatica editoriale di Franchini è un itinerario sentimentale lungo i centri
messapici del sec. IV a.C., un viaggio sui generis alla riscoperta delle radici
identitarie del popolo che abitò il Salento tra l’VIII e il III secolo prima di
Cristo, certamente non una ricostruzione storica, tantomeno geografica, dei
luoghi della Terra di Mezzo. Piuttosto un tentativo di comprensione di buona
parte dell’attuale, attraverso un raffronto metastorico, in alcuni casi azzardato
ma senza dubbio avvincente.
Più di mille pagine compongono i due tomi. Sono pagine che potrei definire
poetiche, piene zeppe di puntini di sospensione, punti e a capo, righi costituiti
da una sola parola, spesso un’interiezione. Il fraseggiare è icastico eppure
emotivamente coinvolgente, tanto simile ai racconti immaginifici che nelle
calde sere d’estate, sotto ad un albero, e nelle rigide sere d’inverno, dinanzi al
camino, i nonni raccontavano ai propri nipoti, incantandoli.
La leggerezza dello scritto, così, fa scorrere rapidamente pagine altrimenti
impegnative. In tal modo, tra considerazioni di alto spessore umano, intuizioni
filologiche ed etnografiche, racchiuse tra innumerevoli accenti lirici, nel primo
tomo il lettore viene edotto su ciò che culturalmente la presenza dei Galli, degli
Elleni e dei Romani nel Salento, come pure sugli usi e sui costumi degli
autoctoni Japigi e sulla lingua di Terra d’Otranto, che ancora oggi registra tali
commistioni etniche. Il secondo tomo, invece, è una sorta di diario di viaggio
attraverso i centri maggiori e minori della Terra tra i due Mari, in cui l’Autore
accompagna il lettore alla scoperta dell’indole più profonda del “comparto
japigio”, con Aradeo, Seclì e Neviano, Cavallino, Lecce, Manduria, Mesagne,
Montesardo, Oria, Ostuni, Racale, Ugento; del “comparto gallico”, con Alezio,
Copertino, Galatone, Lequile, Leverano, Maglie, Nardò, Parabita, Tuglie e
Veglie; del “comparto ellenico”, con Alliste, Brindisi, Casarano, Felline,
Galatina, Gallipoli, Melissano, Otranto e Taranto.
Non tutto può essere accolto senza obiezioni storiche e filologiche in questa
pubblicazione di Mario Franchini. Di certo, però, ci si può lasciare ammaliare

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Recensioni

dal suo canto aedico, una sorta di macchina del tempo che catapulta in ere
lontanissime in cui si andò codificando il DNA culturale di una terra, il Salento,
in cui ancora oggi regna sovrana la “convivialità delle differenze”.

Francesco Danieli

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Idomeneo (2015), n. 19, 371-378
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LICEO SCIENTIFICO “G. BANZI BAZOLI”, Scuola e Ricerca, Nuova


Serie, Anno I, 2015, Lecce, Edizioni Grifo, 2015, pp. 214.
L’uscita di una pubblicazione concepita e nata all’interno della progettazione
scolastica va salutata comunque come un fatto positivo, stante ormai la
rarefazione di tale genere nel panorama editoriale; il fenomeno, per il suo
significato, richiederebbe approfondimenti ad hoc, non tutti riconducibili alla
scarsa disponibilità di risorse finanziarie. In questo caso, si tratta in realtà di una
ripresa dopo quindici lunghi anni di silenzio, in non casuale concomitanza con il
recente avvicendamento alla dirigenza del Liceo “Banzi” di Lecce. Del rilancio
dell’iniziativa si è fatto promotore in particolare Ennio De Simone, docente di
Scienze Naturali nell’Istituto, già coordinatore redazionale della Rivista, che,
proprio a sottolineare la continuità formale e sostanziale ne conserva il nome e,
in Appendice, ripropone gli Indici dei quattro precedenti numeri. Ma soprattutto
mantiene l’impostazione adottata sin dal 1996 (anno di battesimo della Rivista),
tesa a superare lo schema del tradizionale Annuario: i dati generali e statistici
relativi all’istituzione scolastica e i saggi di erudizione scritti da docenti e capi
d’Istituto, che tradizionalmente caratterizzavano quel tipo di pubblicazione,
lasciano il posto ad un progetto più articolato e convincente perché in linea con
il nostro tempo, in grado di offrire una presentazione ragionata di parti
significative dell’attività didattica viva e, soprattutto, di rafforzare quanto più
possibile il legame della Rivista scolastica con il territorio in senso lato, riferito
cioè sia agli operatori in esso impegnati che – in buona parte – ai contenuti
proposti. Il lavoro risulta ancor più apprezzabile perché svolto, nell’arco di un
anno scolastico, da docenti dell’Istituto in concomitanza con il loro ordinario
impegno: oltre al già menzionato De Simone, Maria Francesca Giordano e
Massimo Stevanella, titolari dell’insegnamento di discipline umanistiche, hanno
saputo operare non solo in veste di curatori, ma anche come autori di saggi della
miscellanea, riuscendo felicemente a integrare competenze e interessi
professionali differenti in un prodotto editoriale credibile dal punto di vista
scientifico e in buona parte fruibile anche dal lettore comune. Non
dimentichiamo che destinatari privilegiati di un siffatto lavoro restano gli
studenti e le loro famiglie.
Uno degli obiettivi dichiarati della Rivista è quello di dialogare con forze
culturali esterne al mondo della scuola, ma capaci di muoversi in direzione di
obiettivi comuni: nella lista degli autori troviamo un giornalista, alcuni docenti
e ricercatori universitari, docenti e studenti del “Banzi” non più in organico ma
simpateticamente rimasti legati ai loro pregressi percorsi di vita e di studio. Non
si tratta però di un’operazione di facciata, perché diversi di tali autori hanno già
preso parte a specifiche iniziative attivate durante l’anno scolastico; altri
contributi vengono proposti all’insegna di consolidati rapporti umani e di

371
Recensioni

ricerca (ci limitiamo a ricordare, a titolo d’esempio, la fertile produzione


scientifica scaturita dalla collaborazione tra Ennio De Simone e Livio Ruggiero
sulla ricerca scientifica e la sua storia nel Salento). Insomma, un progetto
culturale di ampio respiro, in grado di gettare ponti tra scuola ed extra-scuola,
tra l’attività didattica e la riflessione teorica, tra le diverse discipline, tra docenti
e studenti, tra docenti in servizio e non, tra la ricerca sul territorio e i quadri di
riferimento nazionali e internazionali, e ancora tra la scuola, la comunità
scientifica e il mondo del lavoro.
Nell’insieme, la Rivista accoglie ben diciassette contributi, ben distribuiti tra
argomenti di Storia della Scienza, di Letteratura, di Storia della Filosofia
(disposti nella sezione Studi) e resoconti/riflessioni intorno ad esperienze
didattiche coerenti con la vocazione istituzionale del “Banzi” (raccolti nella
sezione Didattica). In realtà tali distinzioni rispondono solo all’esigenza di
praticità di lettura, perché in molti di essi si intravede, più o meno esplicitato,
l’obiettivo di abbattere le barriere tra il sapere tecnico-scientifico e quello
umanistico, come d’altra parte i confini tra ricerca e didattica. Notevole è, al
riguardo, il saggio che giustamente viene posto in apertura degli Studi, quasi
una sorta di manifesto della Rivista, con cui Fabio Minazzi riprende,
attualizzandola, l’antica querelle sul rapporto tra la scienza e le tecniche: Les
lunettes ne sont pas les idées? Sul valore culturale della tecnica. Lo studioso,
attualmente docente presso l’Università dell’Insubria, ripropone nel titolo una
famosa frase del grande storico della scienza Alexandre Koyré volgendola in
forma interrogativa: Minazzi analizza alcuni brani di Galilei per dimostrare
come le tecniche rappresentino la risposta a problemi pratici incontrati
dall’uomo e costituiscano, con le teorie scientifiche, un unico patrimonio non
separabile nelle sue componenti e nei suoi momenti. Contro la visione, ancor
oggi presente, delle “due culture” contrapposte (C.P. Snow, 1959), le
affermazioni dello scienziato pisano (qui letto anche e soprattutto come
filosofo) valgono quale riferimento imprescindibile per la comprensione della
storia della scienza e per la costruzione del nostro futuro, avvalendosi delle
sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni.
Allo scopo, fondamentali rimangono due grandi obiettivi connaturati al sapere
scientifico: la consapevolizzazione collettiva delle acquisizioni della ricerca e
una razionale spendibilità pratica di queste. È Livio Ruggiero, docente emerito
dell’Università del Salento, naturalista e storico della scienza, a occuparsi del
tema, partendo dalla vicenda professionale del più eclettico scienziato salentino,
Cosimo De Giorgi, che tanto si spese nella missione di divulgatore della scienza
da lui considerata parte imprescindibile del suo lavoro. Nel saggio Cosimo De
Giorgi e la Scienza per tutti, Ruggiero sottolinea, ripercorrendo alcune fasi della
produzione del De Giorgi e della sua diffusione in ambienti non specialistici, le
implicazioni sociali e culturali del problema: quali innovazioni tecnico-
scientifiche rendere di dominio pubblico? In che modo? La ricerca deve

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Recensioni

limitarsi a fornire i dati, lasciando ai tecnici il compito delle applicazioni?


Occorre puntare più sugli aspetti morali rispetto a quelli materiali? Non a caso
lo scienziato salentino non volle disperdere i testi dei suoi interventi divulgativi
ma provvide a stamparli integralmente, a partire dai temi della propria ricerca
sul territorio di più immediato impatto sul grande pubblico: la sismologia e il
clima. Fatto più unico che raro, oggi possiamo disporre anche dei materiali
didattici elaborati dal docente De Giorgi e dai suoi allievi, fonte preziosissima
per la ricostruzione di questo spaccato di storia delle idee scientifiche. Prodotti
straordinari di tale lavoro furono l’Osservatorio Meteorologico e l’Orto
Botanico di Lecce (da tempo scomparsi), nonché una serie di Gabinetti
scientifici scolastici e di collezioni naturalistiche, restituiti alla collettività
alcuni anni fa grazie alla paziente azione di recupero e di catalogazione condotta
proprio da Livio Ruggiero e da Ennio De Simone.
Lo stesso De Simone torna ancora su Cosimo De Giorgi, autentico trait d’union
tra la storia del territorio, la storia della scienza e la riflessione sui grandi temi
da essa provocati, cui De Simone ha dedicato una parte cospicua del suo
percorso di ricerca. A offrire spunti di riflessione è la scoperta di Un inedito
diario di Cosimo De Giorgi, uno scritto ‘minore’ dello studioso che, pur non
aggiungendo elementi significativi alla ricostruzione tuttora lontana dal poter
dirsi conclusa, offre spunti di riflessione, spiragli sulla sua vita privata,
frammenti utili a ricostruire la sua personalità. Compilato tra l’ottobre del 1914
e il settembre 1922 (quando lo scienziato fu colpito dalla malattia che poi si
rivelerà letale), il diario è tutto declinato, in una prosa molto schematica, sulla
vita personale e sulle attività di ricerca, in cui non trovano se non uno sbiadito
riflesso persino gli eventi della prima guerra mondiale, cui il De Giorgi si
riferisce in modo molto schematico e saltuario, annotando la propria donazione
in favore degli orfani di guerra.
Sempre a proposito del rapporto tra la sensibilità collettiva e ricerca scientifica,
uno dei temi attualmente più avvertiti è costituito dalla salvaguardia non solo
dell’ambiente in generale, ma anche delle sue specificità. Gli Appunti di
fitostoria del Salento di Piero Medagli e di Antonella Albano, entrambi
componenti del Laboratorio di Botanica Sistematica dell’Università del Salento,
riprendono le fasi salienti della storia del paesaggio salentino, per ricostruirne le
caratteristiche originarie. Gli autori individuano nella prima metà del XVIII
secolo il momento cruciale della distruzione dell’enorme patrimonio boschivo
del Salento, sia per le esigenze di una popolazione in aumento che per
l’evolversi della legislazione in senso antifeudale. Emergono processi di
antropizzazione che hanno condizionato in modo differente le diverse aree della
Puglia, salvaguardandone alcune, distruggendone totalmente altre, a causa delle
condizioni climatiche montuose o mediterranee, in molti casi in modo
totalmente irrecuperabile.

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Recensioni

Di autori e temi di origine salentina – ma dal respiro meridionale e nazionale –


si occupano Massimo Melillo (La lezione culturale e politica di Lina Durante),
e tre autrici, nell’ordine di presentazione Antonella Manca (Il mare nella poesia
di Vittorio Bodini), Pasqualina Mairo («Io e mia moglie»: strati di senso nel
romanzo del salentino Michele Saponaro) e Maria Francesca Giordano (Tina
Aventaggiato: la voce dolce di una terra dura).
Melillo, giornalista, traccia le linee del bilancio di tre incontri tenutisi presso il
Liceo nell’anno scolastico intorno alla figura e all’opera della nota intellettuale
salentina, in occasione del decennale della sua scomparsa. Il giornalista disegna
il profilo della Durante, militante nei partiti storici della Sinistra italiana, erede
della lunga e gloriosa tradizione meridionalistica di Tommaso e Vittore Fiore,
di Salvemini, di Dorso, ecc., che contribuì operosamente a quella stagione
culturale che alimentò il riformismo dei governi di centro-sinistra. A livello del
recupero delle tradizioni salentine, costituì il Canzoniere Grecanico Salentino,
oggi animato dai suoi diretti discendenti che portano il suo cognome. Melillo
ascrive ancora a merito di Lina Durante la precoce scoperta dell’Albania, molto
prima che i flussi migratori degli anni novanta del secolo scorso ci ponessero in
drammatico confronto con quella realtà. L’articolo è completato da
un’Appendice in cui si riportano interventi critici sulla produzione della
scrittrice da parte di Tommaso Fiore, di Giacinto Spagnoletti e di Nicola
Carducci, apparsi tutti nel 1964.
Allo spirito degli scritti della Durante – che ci restituiscono una
rappresentazione non idilliaca del Salento – si ricollega la recensione-saggio di
Maria Francesca Giordano che, nella sua funzione di docente di Lettere e di
responsabile della Biblioteca d’Istituto, coordina da diversi anni Progetti
Lettura tesi alla promozione di una fruizione critica, tra le giovani generazioni,
di opere letterarie capaci di suscitare dibattiti. Nella fattispecie il suo contributo
punta l’attenzione sul recente romanzo di Tina Aventaggiato, “Vento freddo
sull’Arneo”, che presenta una galleria di personaggi molto ben caratterizzati
sullo sfondo di una delle vicende più tormentate del Salento del secondo
dopoguerra: l’occupazione delle terre incolte situate in un’area all’incrocio tra le
provincie di Lecce, Brindisi e Taranto, avvenuta ai primi degli anni cinquanta
del Novecento. Ognuna delle avventure esistenziali che animano il romanzo è
rappresentativa dei processi storici coevi, fra i quali viene ben evidenziata la
dialettica tra le opposte polarità dell’emancipazione/marginalità delle donne.
Ancora alla terra salentina e ai suoi significati profondi guarda il contributo di
Antonella Manca, dirigente del Liceo “Banzi”, la quale, oltre ad assicurare la
sua convinta adesione culturale ed emotiva alla rinascita della Rivista, vi ha
voluto cooperare attraverso alcune sue riflessioni in merito ad uno degli
elementi identitari del Salento, il mare, nell’interpretazione del suo cantore di
più conclamata dimensione internazionale. La poetica di Vittorio Bodini, cui
viene reso omaggio per il centenario della nascita, viene richiamata nella sua

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Recensioni

attrazione/repulsione per i luoghi natii: il mare diviene la metafora dell’energia


rinnovatrice della natura contrapposta alla staticità della società.
Rimaniamo nella letteratura salentina (ma in questo caso il Salento è il luogo
d’origine dell’autore) con il saggio di Pasqualina Mairo, docente emerita del
Banzi, che ci guida alla lettura di un romanzo di Michele Saponaro, il noto
letterato originario di S. Cesario di Lecce, il quale nell’occasione utilizza non
già lo sfondo del Meridione per collocare i suoi personaggi e le sue storie, ma
ambienti borghesi e urbani fortemente modernizzati, che Mairo analizza
secondo la linea interpretativa della cosiddetta “narrativa blu”. Si tratta della
produzione realista del primo Novecento, che lavora intorno a temi soprattutto
sentimentali, dalla fabula piuttosto semplice, dalla scrittura molto fluida e dai
personaggi stereotipati. Nella fattispecie Pasqualina Mairo riscontra come la
ribellione della protagonista femminile non venga correlata alle istanze
emancipazionistiche, ma ad un conflitto interiore che la conduce ad uscire dagli
schemi del matrimonio e dai condizionamenti di un rinnovato mito di
Pigmalione.
Contemporaneamente dentro ai saperi e al di sopra di essi, la Filosofia occupa,
nell’economia della Rivista, un suo specifico spazio di riflessione, che tre saggi
presentati da altrettanti docenti pongono bene in evidenza assumendo, quale
punto di partenza, determinate prospettive di alcuni autori (non a caso
prevalentemente di area tedesca, vero e proprio cuore pulsante della coscienza
critica europea) per poi allargarle a tematiche di forte attualità. In tal senso si
muove Lidia Caputo, docente di Materie Letterarie che, nel suo intervento su
Comunicazione e intersoggettività nella Società contemporanea, ripercorre le
più significative tappe del pensiero filosofico rispetto ai temi del linguaggio e
della comunicazione. In particolare si sofferma sul rapporto tra intersoggettività
e neoumanesimo nel Novecento, prendendo in esame le modalità di
comunicazione offerte dalle tecnologie multimediali e soffermandosi sugli esiti
più interessanti dell’ermeneutica.
Il già citato Stevanella, docente di Filosofia e Storia, propone un’originale
interpretazione del pensiero del filosofo medioevale tedesco Maestro Eckhart
con un saggio dal titolo Per un rinnovamento spirituale del cristianesimo e
della sua Chiesa. L’opportunità della mistica medioevale nell’opera di Meister
Eckhart. Riprendendo la sua concezione del divino come superamento della
distinzione tra Soggetto e Oggetto, Stevanella rilegge il mistico tedesco
attraverso Erich Fromm e Carlo Sini: nell’odierna società industriale, a causa
del dominio dell’economia, si assiste alla produzione indefinita di oggetti e alla
reificazione degli individui, in cui si smarrisce il senso stesso della trascendenza
come unità originaria su cui tanto ha insistito lo Eckhart.
Il tema della comunicazione viene ripreso da Elisabetta Leonetti, docente di
Filosofia e Storia, che si rivolge ad Hannah Arendt: Vita activa e Vita
contemplativa. Nel saggio viene esaminato proprio il testo Vita activa per

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evidenziare il tentativo di recupero della soggettività e del fare contro lo


storicismo assoluto di matrice hegeliana: in tale ottica è l’agire politico che
meglio esprime la responsabilità dell’uomo, come attuato dall’antica polis
greca. In essa, a giudizio della Arendt, va individuata «l’esperienza della
comunità che per prima scoprì l’essenza e l’ambito del politico», caratterizzata,
secondo l’Autrice, dall’azione comune basata sul discorso. La politica pertanto
consiste in un rapporto orizzontale tra pari, cioè tra cittadini impegnati a vario
titolo nella ricerca del bene comune attraverso il discorso. La riflessione sulla
vita pubblica porta la Leonetti, sulla scia della filosofa tedesca, ad una critica
esplicita non solo dei regimi totalitari, ma implicitamente anche di alcuni aspetti
delle democrazie attuali. Alla riflessione sul significato della libertà umana la
Leonetti intende affiancare le considerazioni sviluppate dalla filosofa tedesca
nel testo incompiuto La vita della mente sulla facoltà del pensare e in
particolare su quella del volere. In esso la Arendt prende le distanze dal cogito
cartesiano, ritenuto atto artificioso di separazione dell’io dal mondo, e recupera
piuttosto il senso della spiritualità interiore attraverso Aristotele e Agostino.
Merito, quindi, degli autori dei tre saggi di Filosofia è quello di saper rileggere
classici temi e opere del pensiero con uno sguardo fortemente attualizzato, allo
scopo di suscitare spunti di dibattito sul rapporto tra la razionalità tecnica e la
politica, tra la dimensione individuale e quella collettiva, e sul progetto
complessivo di uomo e di società cui la nostra civiltà è chiamata a rispondere.
La sezione Didattica presenta sei resoconti relativi a progetti e ad attività svolti
nel Liceo “Banzi” nell’arco dell’ultimo decennio. Anna Rita Lorenzo, titolare
dell’insegnamento di Matematica e Fisica, descrive i presupposti teorici e lo
svolgimento di Extreme Energy Events. Come la scuola Secondaria Superiore
può collaborare con gli enti di ricerca. Il liceo leccese è infatti inserito in un
progetto di ricerca riguardante l’interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera
terrestre, che derivano dall’esplosione di supernovae. Il progetto, che ha visto
nel corso degli anni l’intervento, fra gli altri, di Antonino Zichichi, prevede
l’operatività di un laboratorio installato nella scuola con il contributo fattivo sia
dei tecnici dell’Università del Salento che degli studenti afferenti al progetto.
Un classico episodio della storia della matematica è ripreso dalla prof.ssa di
Matematica e Fisica Antonietta Rochira (Alla ricerca delle soluzioni delle
equazioni di 3° e 4° grado), che individua un substrato storico alla didattica
della matematica, di cui nella scuola italiana si avverte la carenza. La docente
non dimentica di sottolineare un aspetto particolarmente curioso della vicenda,
perché l’autore della soluzione esprime questa anche in versi, quasi a
sottolineare la complementarietà tra gli apparentemente distanti linguaggi della
matematica e della letteratura.
Il protagonismo studentesco viene direttamente rappresentato da Giulia
Lapenna, già studentessa del “Banzi”, che nel suo contributo Alternanza scuola-
lavoro: una finestra sul futuro, ricorda l’esperienza personale e di gruppo svolta

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a partire dall’a.s. 2011/12 al 2013/14 nel settore chimico-biologico. Dopo aver


ricordato il quadro normativo-pedagogico alla base dei progetti di raccordo
scuola-lavoro, la Lapenna descrive le attività svolte in laboratorio
evidenziandone le principali ricadute sul bagaglio culturale dello studente, quali
l’abitudine alla metodologia della ricerca (anche in gruppo) e alla presentazione
delle proprie esperienze in forma multimediale, oltre, ovviamente, con
l’aumentata competenza nell’uso di strumentazioni avanzate.
Pinches of incense: apologia, pogrom and holy flames of fundamentalism.
Granelli sulla strada delle buone pratiche è il titolo del resoconto offerto da
Daniela Nuzzo, docente di Materie Letterarie presso il “Banzi”, consistente in
un’analitica disamina delle fasi di un progetto CLIL, svolto nel corrente anno
scolastico in una quinta. La metodologia Content and Language Integrated
Learning, avviata già in ambito europeo più di vent’anni fa, come è noto, punta
all’apprendimento contemporaneo di una lingua straniera e contenuti di una o
più discipline non linguistiche. L’autrice, coinvolta direttamente nel progetto in
qualità di docente di Latino, evidenzia criticamente potenzialità e limiti della
metodologia adottata, che nella fattispecie si è articolata intorno al tema
conduttore del fondamentalismo considerato nell’arco di due millenni di storia.
Uno dei principali problemi didattici evidenziati dalla Nuzzo è quello
dell’intersezione dell’insegnamento in lingua con una disciplina come il Latino,
che è difficile qualificare come “non linguistica”, della quale si sono sfruttati gli
aspetti legati alla cultura e alla civiltà. Numerosi gli esiti positivi del progetto,
dall’utilizzazione delle tecnologie multimediali all’incremento della
partecipazione degli studenti.
Maria Laura Spano, già docente del “Banzi”, si sofferma su Didattica scolastica
- didattica museale: un’interazione possibile, riprendendo una personale ricerca
condotta nella stessa scuola negli anni scolastici 1996-97 e 1997-98, i cui
risultati trovarono sbocco in un Convegno e in una mostra didattica svoltisi tra il
novembre e il dicembre 1997. Importante per la memoria storica del liceo,
l’articolo sottolinea a più riprese le potenzialità formative della didattica
museale, rilevando la specificità di questa rispetto ad un’attività meramente
divulgativa.
Un altro resoconto di esperienza svolta qualche anno fa è presentato ancora da
Ennio De Simone in Birdwatching in ambiente urbano. Proposta per
un’esperienza di didattica attiva, che nell’ambito del suo itinerario
professionale molto si è speso nell’osservazione scientifica dei volatili. In
sottesa polemica contro l’introduzione artificiosa di animali da allevamento
nell’ambiente naturale, tale esperienza ha identificato quali obiettivi prioritari
l’affinamento delle abilità di osservazione e delle competenze nel campo della
sistematica e ha dimostrato quali risultati si possano ottenere anche
dall’osservazione in città se ci si impegna in progetti di questo tipo.

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Come si può osservare da questa panoramica, un tema forte attraversa, in modo


più o meno dichiarato, diretto o indiretto, tutti i saggi ospitati nella Rivista:
l’instaurarsi di una stretta e feconda dialettica tra le “due culture”. Superata sul
piano epistemologico, la scuola italiana risente tuttora della separazione
artificiosa tra i diversi campi del sapere, che si manifesta in modi scontati ma
significativi. Ad es., mentre difficilmente nelle antologie letterarie si trovano
spiegati i motivi dell’utilità di una poesia, poiché ad essa viene riconosciuto un
valore intrinseco, nei manuali scientifici ci si preoccupa di far capire l’utilità di
principi o di enunciazioni elencandone le applicazioni. Le indicazioni che
emergono dai contributi presentati in Scuola e Ricerca vanno nella direzione
dell’approccio storico-critico alla ricerca scientifica, al suo modo di costituirsi e
ai suoi risultati. Frutto di un’attenta pianificazione, peraltro allestita e attuata in
tempi brevi in rapporto all’impegno oggettivamente gravoso, questo numero
offre, anche ad uno sguardo rapido, l’effetto di un coro ben orchestrato. Il
percorso quindi è stato al meglio riattivato e reso pervio: non resta che
sfruttarne le tante notevoli potenzialità che ora appaiono finalmente dischiuse.

Giuseppe Caramuscio

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L'IDOMENEO
Idomeneo (2015), n. 19, 379-385
ISSN 2038-0313
DOI 10.1285/i20380313v19p379
http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento

AA. Vv., In bilico. Storie di animali terrestri. Nuovi racconti italiani,


Neviano, Musicaos Editore, 2015, pp. 130.
La raccolta, contenente dodici racconti inediti, opera di autori nati tra gli anni
Settanta e Ottanta, cerca di offrire una risposta all’esigenza di raccontare il
proprio tempo, ponendosi sulla direttrice tracciata dalle diverse antologie
letterarie giovanili susseguitesi negli ultimi decenni, dal progetto tondelliano
degli Under 25 fino alle più recenti La qualità dell’aria e L’età della febbre.
Il sottile fil rouge che tiene insieme i dodici racconti è ben svelato proprio dal
titolo della stessa. In bilico. Il titolo fa emergere con evidenza il tema, che
potremmo definire tutt’altro che “nuovo” in letteratura: la precarietà.
Innumerevoli volte, leggendo, ci siamo misurati con il senso di precarietà degli
autori o dei loro personaggi, che fosse generato dalla paura della morte, dalla
delusione di aspettative lungamente cullate, dalla perdita dei valori di
riferimento o dalla disgregazione della concezione ben definita del sé. Pertanto,
per poter illuminare il significato delle sfumature di precarietà di cui parlano
questi racconti, è opportuno fare riferimento a quanto esplica Angela Leucci
nella “prefazione” della raccolta, Avulsi da un insolito destino: «l’equilibrio
mancato dei nostri giorni descrive una cifra stilistica ben diversa, che punta
dritta alla quotidianità» (p. 8), per cui ciascuno dei racconti sviluppa in maniera
autonoma il tema, concentrando l’attenzione ora sui risvolti “materiali” ora su
quelli esistenziali, più spesso su entrambi, di quel senso di incertezza che
investe in maniera sempre crescente la vita di oggi. I dodici racconti si
configurano quindi come altrettante “storie di animali terrestri”, riportando
l’attenzione su alcuni aspetti tutt’altro che secondari. Innanzitutto le storie, o
meglio la necessità di raccontare storie, assecondando quell’istinto “narrante”
dell’uomo, per cui Stephen Jay Gould propose la definizione per la nostra
specie non di homo sapiens, ma di homo narrator. In secondo luogo il concetto
di animalità, estremamente complesso e ricorrente nella storia del pensiero, che
non indica meramente la parte più istintiva e legata ai bisogni essenziali
dell’uomo, ma implica, a mio avviso, la lacerazione e il dubbio che accompagna
l’individuo che vede entrare in crisi la sua “corazza” antropocentrica che
credeva “altra” rispetto alla dimensione animale ed è costretto a fare i conti con
tale presa di coscienza. Infine l’attributo “terrestre”, che sembra escludere quasi
totalmente qualsiasi possibile trascendenza da un universo del tutto orizzontale.
Il primo racconto che si incontra, avventurandosi tra le pagine, è Cicchetto e
l’Equilibrista Felice, di Marina Piconese. In questo caso è un vero e proprio
animale, un bel gatto persiano, a provocare la crisi e il “risveglio” del
protagonista, Felice, un anziano che vive all’insegna della routine e
dell’abitudine, dalla quale viene un giorno scosso assistendo ad un evento fuori
dall’ordinario. Il gatto, ribattezzato Cicchetto in quanto artefice di qualcosa a

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Recensioni

cui, in effetti, non si potrebbe credere in uno stato di “sobrietà”, offrendo i suoi
baffi (che tra l’altro sono risaputamente degli importanti strumenti di
percezione) come filo su cui Felice possa passeggiare come un equilibrista,
costituisce pertanto l’elemento perturbante che spinge il protagonista a riscattare
la sua vita da “ignavo”, fatta di occasioni mancate, a causa della sua indolenza
di fondo e della sua paura del cambiamento. Felice, il cui nome finalmente
corrisponde al suo stato d’animo, scopre il senso della sua esistenza proprio
restando sospeso sul filo, al di sopra delle teste dei passanti incuranti e d’altra
parte, come sottolinea la voce narrante, «chi di voi, per strada, alzerebbe gli
occhi al cielo per vedere se all’ultimo piano di qualche palazzo un vecchio sta
per caso trotterellando in bilico sui baffi di un persiano bianco?» (p.12). In altre
parole chi di noi, immerso nel flusso di una vita frenetica, ha ancora il tempo e
la voglia di sollevare per un po’ lo sguardo da “terra” e stupirsi?
Nel secondo racconto, Sarah di Marco Goi, che trae ispirazione da un grave
fatto di cronaca ormai tristemente famoso, la narrazione viene condotta dal
punto di vista della protagonista della vicenda, che in un pomeriggio d’agosto
come tanti altri va incontro al suo drammatico destino con l’inconsapevolezza e
la fiducia tipica della sua età. Il terribile avvenimento si configura, nel racconto,
come un incubo, in cui non a caso svolge una funzione fondamentale la
televisione. Proprio attraverso la tv, la protagonista prende lentamente coscienza
del fatto che sia accaduto qualcosa di terribile, anche se la significativa
mancanza dell’audio ne compromette la piena comprensione, quasi a
sottolineare come l’informazione possa a volte, volontariamente o meno,
mistificare la realtà. Risvegliatasi dal brutto sogno, tuttavia la ragazzina va
nuovamente incontro alla sua sorte, che tutti conosciamo. Anche in questo caso
a dominare è il senso di precarietà, tra la vita e la morte senza dubbio, ma anche
tra la menzogna e una verità non ancora pienamente chiara.
Nel racconto di Angela Leucci, intitolato L’attesa, il senso di precarietà è
strettamente legato al mondo del lavoro, ma non tanto alle problematiche
connesse all’instabilità dello stesso, quanto alle difficoltà che possono essere
correlate allo scrupoloso svolgimento della propria professione. Fanny
Millefoglie, la protagonista, è una giornalista di provincia che dopo anni di
onesta dedizione al suo lavoro si trova a dover affrontare suo malgrado un guaio
giudiziario, i cui dettagli, a rendere ancora più angosciante l’attesa, vengono
rivelati solo poco a poco. La giornalista scopre così che a nulla vale la propria
coscienziosità, quando qualcuno «si sveglia una mattina e si sente diffamato»
(p.26), per cui la libertà di stampa non finisce dove inizia la libertà dell’altro,
ma laddove inizia la sua percezione di libertà. E allora, in una situazione così
labile e precaria in cui da un momento all’altro tutto può cambiare, non resta
altro che riappropriarsi della libertà dell’attesa, accettandola come una sorta di
“vita” pirandelliana finalmente libera dalla “forma”?

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Il cielo in un bicchiere, di Belisario Laveneziana, riporta l’attenzione su un


episodio di cronaca ormai entrato nella memoria collettiva italiana, la tragica
morte di Alfredino, il bambino di sei anni precipitato in un pozzo artesiano nel
1981. Un episodio che ha colpito particolarmente l’opinione pubblica, segnando
di fatto, attraverso un’interminabile diretta a reti unificate, la prima tragica
“spettacolarizzazione” televisiva di un dramma privato, come evidenziato in
maniera efficace e intensa nella canzone Alfredo dei Baustelle, tratta dall’album
Amen del 2008. Proprio all’avvio della canzone del gruppo di Montepulciano
sembra rimandare l’incipit del racconto, in cui ci troviamo già in medias res e
siamo immersi nel flusso di coscienza del bambino che, caotico e affannato,
accavalla la realtà, il sogno e il ricordo consolatorio della madre. Anche
attraverso un significante, che dà più volte l’idea dello sprofondamento fisico, la
vicenda tristemente nota si snoda fino al tragico esito, lasciando aperta l’unica
residua speranza di un ricongiungimento possibile tra madre e figlio, anche se al
di fuori dell’hic et nunc. Il racconto si concentra dunque sulla dimensione
privata e intima del dramma, ma non si può non notare che allo
“sprofondamento” fisico del povero Alfredino è corrisposto un progressivo
“sprofondamento” etico della nostra società.
Il racconto successivo, Un verde così acido da far diventare viola d’invidia
anche Picasso, di Valentina Luberto, ci porta invece nel mondo dell’editoria,
mettendo di fronte uno scrittore di successo e il suo editore, che confidando nel
genio del primo gli ha lasciato carta bianca per l’ultimo parto della sua mente,
Indossavo le bretelle solo per farti dispetto. Alla maniera di un moderno
Belluca pirandelliano, una domenica il nostro scrittore convoca il suo editore e
comincia a comportarsi in modo delirante e folle, smontando a poco a poco tutte
le certezze del suo interlocutore, per un motivo che scopriremo infine essere la
ricerca di un’ispirazione per il finale del proprio romanzo. La storia sembra
declinare con leggerezza l’eterna lotta tra il mondo dell’arte e quello del
mercato, segnando una rivincita dell’arte che, snaturata dalla mercificazione,
riesce a prendere il sopravvento sulla logica economica, rappresentata
dall’editore che viene messo letteralmente al tappeto dalla trovata del
protagonista.
Segue L’altro Sud di Gianluca Conte, una sorta di racconto di formazione o
“antiformazione” che segue le vicissitudini del protagonista nel suo percorso
controcorrente, che dalla grande città lo riporta verso il suo piccolo paese natale,
situato a Sud del Sud. Infatti, Oronzo Canà, il cui nome probabilmente
costituisce un omaggio “letterario”del padre del protagonista al personaggio cult
dei B-movie interpretato da Lino Banfi, dopo un’esperienza da punkabbestia
nella capitale che lo porta all’amara constatazione che tutti i suoi compagni non
erano altro che dei «punkabbuecchiu, che in salentino stava per “punk per
finta”» (p. 43), ossia dei clochard con la carta di credito dei genitori a

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disposizione e quindi con un futuro ben avviato non appena si fossero ricreduti,
decide di ritornare a casa per fare tutto il possibile per tirare avanti in maniera
dignitosa. Ed ecco delinearsi l’altro Sud, certo molto diverso dall’immagine
edulcorata del paradiso vacanziero, che sembra più che altro riflettere con le sue
modalità e le sue specificità i mali e i guai del Paese intero. Attraverso il taglio
ironico e disincantato del punto di vista del protagonista, tutta una galleria di
personaggi del paese, per lo più emblemi di una multiforme precarietà, sfila
davanti a noi: da Olga Calligaris, una donna anziana, ricca e colta, ritenuta
“pazza” dai benpensanti del paese che non riescono a cogliere le sue angosce
esistenziali, a Mirella Deodato, pensionata vittima di atti criminosi che denuncia
con vigore l’ingiustizia e accusa la vigliaccheria del protagonista, passando per i
Guscio, i criminali “padroni” del paese, e per vari altri personaggi caduti in
disgrazia o in attesa di un riscatto sociale. In questo contesto, che concorre a
distruggere la dignità che ciascuno cerca affannosamente di mantenere, Oronzo
cerca di sopravvivere o di «sottovivere», come afferma significativamente,
adeguandosi ad una morale utilitaristica, che tuttavia non riesce a placare la sua
coscienza, che assume la forma del “fantasma” di Mirella, quasi a ricordare che
la dignità, pur non avendo vita facile nel bisogno, può ancora resistere.
Una direzione opposta si trova invece nel racconto successivo, Parigi sotto la
pioggia di fuoco, di Antonio Montefusco, il cui protagonista, che si esprime in
prima persona, si allontana dalla sua terra per seguire i suoi progetti di studio e
ricerca e, come spesso accade, si ritrova ad accumulare le esperienze lavorative
più varie per poter far fronte alla vita quotidiana. In particolare, il lavoro da
sorvegliante “precario” nel Museo d’Arte Moderna di Parigi, a contatto con
grandi espressioni artistiche frutto di un’epoca culturalmente ricca e vivace,
offre l’occasione di evidenziare, anche per mezzo dell’accostamento di un
lessico legato all’immaginario di quella che Alessandro Aresu ha definito
“generazione Bim Bum Bam” (come la citazione di Doraemon o del Crystal
Ball) ai nomi di grandi artisti e scrittori, uno stridente contrasto tra un passato
“glorioso” e un presente fatto di plastica, cattivo gusto e nuovi miti sempre più
commerciali. La tranquillità di una domenica, all’apparenza come tutte le altre,
viene però interrotta bruscamente dall’apparizione quasi onirica di un flash mob
guidato dal cantante sudcoreano Psy e costituito da una folla danzante al ritmo
della sua hit più famosa. Una danza frenetica e quasi infernale, coinvolto nella
quale il protagonista scopre con stupore e una certa incredulità Gigi, il suo
“maestro”, dando vita ad una vera e propria riscrittura del Canto XV
dell’Inferno dantesco, laddove il sommo poeta riconosceva con altrettanta
meraviglia il suo maestro Brunetto Latini tra i violenti contro natura. Anche
Gigi, come Brunetto, sprona il suo discepolo a seguire la sua aspirazione e
profetizza il suo successo, sebbene lontano dall’ambiente ostile che lo ha
ostacolato. La presenza del modello dantesco, per comprendere pienamente il

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valore del quale non si potrebbe trascendere dalla lunga frequentazione che con
esso il Novecento poetico e narrativo ha avuto, potrebbe svolgere, per il
protagonista, la funzione di un baluardo attraverso cui interpretare ciò che lo
protagonista, la funzione di un baluardo attraverso cui interpretare ciò che lo
circonda per poter difendere i valori in cui crede.
Segue Prede, di Paolo Merenda, un unicum nella raccolta, in quanto unico
racconto riconducibile al genere giallo. L’ispettore del Corpo forestale Luca
Sangiorgio deve far luce sulla scomparsa misteriosa di due ragazzi e di alcuni
animali nel Parco nazionale d’Abruzzo, che si somma ad un altro scandalo che
aveva già coinvolto un suo collega, causando non pochi problemi al corpo delle
guardie forestali del parco, precedentemente colpito duramente dalla crisi e dai
licenziamenti ad essa conseguenti. In questo clima di tensione, seguiamo il
dipanarsi del “garbuglio” attraverso la progressiva decifrazione degli indizi a
disposizione, che rivelano un’amara e quanto mai insospettabile verità. Il
racconto presenta un finale aperto, per cui si determina la particolare situazione
in cui il lettore ha appreso la verità, raggiungendo un grado di conoscenza
superiore a quello della maggior parte dei personaggi, diventando per così dire
“complice” di quei pochi che sanno ed evidentemente, anche se non è affermato
esplicitamente, terranno nascosta la soluzione del caso. Non si tratta di un giallo
non risolto che, come accade nel “giallo assoluto” di Gadda, riflette
metafisicamente lo smarrimento conoscitivo ed esistenziale che deriva
dall’impossibilità di ricomporre il caos del mondo. La verità è offerta al lettore,
ma non riesce a svelarsi, dando piuttosto l’impressione di un caos che si
potrebbe ricomporre, ma non viene ricomposto di proposito perché andrebbe a
turbare un “ordine” ritenuto più importante, o almeno funzionale a garantire la
stabilità delle istituzioni.
La precarietà esistenziale campeggia, invece, in Rafting di Luigi De Gregorio,
che come suggerisce il titolo implica una discesa metaforica tra le rapide e le
asperità del proprio pensiero. Trascendendo dalla concezione sequenziale e
lineare del tempo e immergendosi totalmente in Kairòs, ossia in un tempo
declinato in un’accezione qualitativa e non quantitativa, il protagonista ci
trascina attraverso una discesa vorticosa nell’esplorazione dei tanti interrogativi
che popolano la sua mente. Emerge un senso di estraneità a tutto ciò che lo
circonda, un tentativo di disgregare quell’edificio di certezze che poggia su
«regole, che pesano come tegole… che realizzano un tetto sotto cui nascondere
la vera identità» (p. 91), sempre che esista una vera e univoca identità, come
dolorosamente costatava il buon Vitangelo Moscarda. A questo punto non resta
che accettare questo stato di sospensione, vivere in una sorta di terra di mezzo,
come afferma il protagonista: «nella luce del crepuscolo che non so se arriverà
notte o sorgerà sole» (p. 93).

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Annarita Pavone, nel suo La terrazza di asfalto, focalizza l’attenzione sul


problema della precarietà del lavoro, che finisce per pervadere tutti gli aspetti
della vita, trascinando anche gli affetti e i sentimenti nella voragine
dell’incertezza. Gianluca, il protagonista, dopo aver lavorato per un’intera estate
in un campo profughi per far fronte ad un periodo di emergenza, si ritrova
disoccupato. Durante il viaggio di ritorno verso casa dei suoi genitori, che
rappresenta l’ennesima involuzione nella sua vita, si ferma in una piazzola di
sosta dalla quale si gode di un suggestivo panorama della costa adriatica e la
contemplazione del mare innesca una riflessione esistenziale, che lo conduce ad
un bilancio della propria vita. Una vita che sembra destinata alla paralisi, priva
di un cardine solido attorno a cui far ruotare il resto, e che porta Gianluca a
ripensare a quella dei profughi con cui è entrato in contatto, maturando la
convinzione che forse anche per lui l’unica prospettiva è proprio quella di
andare lontano.
Gli ultimi due racconti appartengono allo stesso autore, Paolo Colavero. Il
primo, La strada da dentro, offre uno spaccato della vita di periferia in una non
meglio precisata città del Nord Italia, filtrato dalle esperienze e dalla prospettiva
degli avventori di un bar. Il bar, che rappresenta «una grotta, un rifugio e un
eremo» (p. 107), assume la valenza di un riparo rispetto alla vita che scorre al di
fuori, sulla strada, un osservatorio distaccato e sicuro da cui contemplare e
commentare ciò che accade e il mondo e una società interessati da incessanti e
preoccupanti trasformazioni. Il significato del racconto è quindi ben sintetizzato
dal titolo, poiché le paure connesse all’evoluzione della nostra società vengono
esorcizzate attraverso la chiusura, simboleggiata dalla porta chiusa del bar «a
sigillare l’ambiente. Dal freddo e dal mal destino di fuori» (p. 105). Dal
realismo soffocante del primo testo si passa invece al secondo racconto
dell’autore, Vertigine da tacco a spillo, che oscilla tra il reale e il fantastico. La
sorte del protagonista, che si paragona più volte e probabilmente non solo
metaforicamente ad un ragno nella sua tela, appare assimilabile a quella del
kafkiano Gregor Samsa, che avendo perso le sue caratteristiche umane è
condannato a subire il disprezzo e il ribrezzo degli altri. In questo modo, per
non sottostare agli sguardi indiscreti degli altri, il personaggio vive rintanato in
casa, attendendo l’oscurità per avere gli unici contatti con il mondo esterno
attraverso la sua tela, che potrebbe pertanto simboleggiare la “corazza” dietro
cui ci si nasconde per relazionarsi, rivelando la causa di ciò non tanto nel
disgusto che potrebbe leggere negli occhi degli altri, quanto nel senso di
vertigine in lui provocato dalla banalità del mondo. Una forma diversa di
emarginazione, che tuttavia affonda le sue radici nell’incapacità di comprendere
e accettare la diversità e la complessità.
A lettura conclusa, si può affermare che l’attraversamento dei dodici racconti
produce proprio la sensazione che il titolo fin da principio ha voluto
comunicare: il senso di instabilità, di precarietà, che può certo derivare dalle

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Recensioni

condizioni concrete e materiali in cui ci troviamo a vivere, ma che


sostanzialmente è riconducibile all’impossibilità di dare un’interpretazione
univoca e definitiva al caos labirintico del mondo che ci circonda e che
probabilmente va accettato nella sua multiformità, non abbandonando mai
tuttavia quell’atteggiamento che Calvino ha mirabilmente definito «sfida al
labirinto».

Irene Pagliara

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