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Adolfo Zavaroni

LA LINGUA DEGLI ANTICHI LIGURI.

ISCRIZIONI E FIGURE SACRE SU DUE ROCCE DI CAMPOCATINO


(ALPI APUANE)

§ 1. Da Campocatino (comune di Vagli Sotto, Garfagnana, circa 1000 metri s.l.m.) il sentiero
CAI n°147 che porta verso l’eremo di San Viano raggiunge una terrazza a strapiombo sulla valle di
Arnetola per poi scendere ripidamente verso l’eremo. Sul terrazzamento vi sono varie rocce iscritte.
Le visitai e fotografai insieme agli amici Giancarlo Sani e Mauro Colella, esperti ricercatori
d’incisioni rupestri e bravi fotografi. Era il 26 giugno del 2008.
Nel 2008 stavo già studiando le iscrizioni rupestri della valle di Ospitale nel Frignano (studio
iniziato nel giugno del 2007), ma non potevo avere l’esperienza acquisita nei successivi anni.
Siccome in alcune di quelle iscrizioni sono menzionati degli Umbri, Ombri e in una di esse si citano
gli Osci e il console romano Gneo Pompeo Strabone, padre del Pompeo nemico di Giulio Cesare,
ero ancora incerto su chi fossero quegli Umbri, ma etichettai la lingua delle iscrizioni come “nord-
umbra” perché alcune caratteristiche lessicali e grammaticali mostravano che la lingua era
certamente italica e più vicina grammaticalmente all’umbro che al latino. Solo nel 2011, con lo
studio delle iscrizioni che trovai sul Ponte d’Ercole (Frignano, Appennino modenese) potei avere la
certezza che i Friniati chiamavano se stessi Ombri, Umbri. Così incominciai ad accostare alla
dizione “nordumbro” pure l’aggettivo “friniate” e successivamente preferii usare solamente il
secondo.
Per circa otto anni fui molto scettico sul fatto che i Friniati fossero Liguri come attestava Tito
Livio. Quanto alle affinità trovate dagli archeologi, in verità un po’ saltuarie, che portavano a
ritenere provata una comunanza fra Friniati e Liguri nelle suppellettili e negli usi funerari, pensavo
che esse testimoniassero stretti contatti e scambi, ma non fossero sufficienti a provare un’unità
linguistica. Il mio scetticismo non era causato soltanto dal fatto che gli antichi Friniati chiamassero
se stessi Umbri, Ombri, ma anche dalla letteratura linguistica riguardante l’antica lingua dei Liguri:
essa non solo m’induceva a pensare che non si conosceva nulla di probante sulla sua tipologia ed
origine, ma anche a credere che la scrittura fosse poco o per nulla diffusa nell’attuale territorio
ligure, dove parevano documentate soltanto incisioni rupestri senza iscrizioni. La presenza delle
rarissime iscrizioni trovate in territorio ligure e redatte in alfabeto etrusco su stele e reperti
archeologici m’induceva a pensare che i Liguri non avessero un alfabeto nazionale.
D’altronde tuttora chi volesse cercare in internet qualche notizia sulla lingua degli antichi Liguri,
alla voce Liguri in Wikipedia leggerebbe: “Della lingua parlata si conoscono solo antroponimi e
toponimi (tipici i suffissi -asca o -asco = desinenza per villaggio). Non conoscendo la scrittura, non
hanno lasciato propri testi.” Il redattore della voce Ligures francese di Wikipédia più cautamente
scrive: “En l’absence de tradition écrite dans leur culture, les seules connaissances que l’on possède
sur les Ligures et leur présence, ne sont attestées que par les sources grecques et latines; sources
étayées et confortées au moyen de l’archéologie.” Le corrispondenti voci in inglese e tedesco
riportano semplicemente che molto poco si sa della lingua degli antichi Liguri (si riportano le teorie
esistenti) e non si dice se usassero o no la scrittura.
Vari archeologi liguri sono dell’opinione che i loro avi di 2000 anni fa non sapessero scrivere.
Dopo lo studio della pietra altare di Busana (Alto Appennino reggiano) e di un cippo iscritto al
Passo dell’Ospitalaccio poco lontano dal Passo del Cerreto e dopo alcuni sondaggi sul materiale
fotografico trovato in internet relativo alle incisioni rupestri della Liguria, nei mesi centrali del 2015
2

iniziai a pensare che la lingua e il sistema scrittorio degli antichi Friniati fossero comuni a tutti i
Liguri o almeno a quelli che abitavano nei territori della Liguria attuale e della Garfagnana. In altre
parole, le iscrizioni dell’Appennino tosco-emiliano trovate da altri e da me stesso nelle province di
Modena, Reggio e Pistoia sarebbero state incise da persone la cui lingua, scrittura e religione erano
essenzialmente le stesse dei Liguri che abitavano nell’Appennino ligure e nella Lunigiana, Alpi
Apuane incluse. Dunque, si fece strada in me l’idea che Tito Livio avesse ragione nel chiamare
Ligures i Friniates e che invece di dubitare delle sue affermazioni avrei dovuto cercare di sapere se
nel territorio ligure attuale e nelle Alpi Apuane esistevano rocce incise con iscrizioni simili a quelle
dell’Appennino tosco-emiliano.

Fig. 1. Roccia presso Campocatino lungo il sentiero che porta all’eremo di San Viano (foto di Mauro Colella)
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§ 2. La Fig. 1 riguarda una roccia sita nel punto più alto del sentiero che porta all’eremo di San
Viano. La superficie presenta parecchie incisioni con soggetti diversi, tra cui spiccano figure
reticolate che ritengo alludano, qui come in altre incisioni rupestri, all’Altromondo e alle divinità
ctonie. Nella parte bassa di Fig. 1 si nota una strana incisione la cui forma richiama le lettere della
moderna scrittura corsiva maiuscola e in particolare il P di tipo P, P. Ritenendo probabile che
l’incisione fosse recente ‒ a ciò ero indotto anche dalla profondità e larghezza dei solchi in
contrasto con la maggior parte delle incisioni ottenute per raschiatura o con solchi poco profondi
dell’Appennino tosco-emiliano ‒ per lungo tempo trascurai di esaminare le fotografie che ritraevano
il segno. Ma ora, esaminando con attenzione la parte superiore, vedo che i presunti riccioli di un P
non esistono: in realtà a destra c’è la legatura di tipo ligure = os, a sinistra c’è un segno
assimilabile alla legatura = di (da notare che sul trattino denotante i fu inciso un falcetto tenuto
dall’antropomorfo soprascritto sull’adiacente a). Tra queste due legature è possibile discernere una
legatura = astr i cui tratti hanno tuttavia anche uno scopo figurativo, come ho cercato di
evidenziare in Fig. 2.
In Fig. 2 le linee bianche marcano
le lettere, le azzurre evidenziano un
antropomorfo che in una mano regge
un falcetto e sotto l’altro braccio tiene
due teste inscritte dentro le rotondità
di r ed o. Di questo antropomorfo è
segnato anche il capo per mezzo di
una cavità tondeggiante a cui è
tangente una curva che denota sia s
della legatura st ( ) facente parte di
astr sia la falce che taglierà la testa
del dio denotato dall’antropomorfo.1
Mi sembra che s sia replicato (non è
raro che una lettera in legatura sia
replicata inserendo successivamente
lo stesso segno o un suo equivalente
per facilitare la lettura) da una linea
sinuosa che in basso è tangente al
Fig. 2. Parte superiore di un segno complesso riprodotto in Fig. 3. tratto mediano dell’a e poi coincide
con la gamba destra dello stesso a
nella parte superiore, prima di entrare nella gobba di r.
Insomma, le linee bianche della Fig. 2 portano a leggere di+astr+os = diastros. Questo termine
non è attestato tra le iscrizioni dell’Appennino tosco-emiliano finora note, mentre da un primo
esame mi pare presente al Ciappo delle Conche (Finale Ligure). Sulla fiancata orientale del Ponte
d’Ercole (presso Lama Mocogno, Appennino modenese) è però leggibile più di una volta il nome
Tarcuastros che interpretai come ‘Volgi-astro’ (Zavaroni 2012: 42, 92 ecc.). Supposi anche che il
dio con tale nome corrispondesse a Mogh Roith ‘garzone di Ruota’, a volte chiamato anche Mac
Roith ‘figlio di Ruota’ (‘Ruota’ è un dio, non una dea: in antico irlandese roth ‘ruota’ è maschile).2

1
Sui due dèi, l’uno senior e l’altro puer, che ciclicamente sono il “troncatore” e il “decapitato” mi sono soffermato in
altri lavori: Zavaroni 2014: 35; Zavaroni 2015a: 30, 36; Beneventi - Zavaroni 2015: 151-158.
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Generalmente gli studiosi, da O’Rahilly (1946: 519, n. 4) a Sterckx (2005: 85-86), concordano nel ritenere che Mogh
Roith e Mac Roith echeggino lo stesso dio preromano che essi considerano una divinità solare. Questo ruolo mi pare
riduttivo: a mio avviso il dio non era soltanto solare; oltreché apollineo e salutifero era un dio guerriero assimilabile a
Marte e al Dioniso-Eros tracico. Per la sua funzione di psicopompo era un dio veneratissimo.
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La rappresentazione più chiara della coppia formata da un dio giovane garzone e da un dio
vecchio o maturo è in un pannello del famoso calderone di Gundestrup, in cui si vede un dio
barbato che alza le braccia reggendo con la mano destra una ruota raggiata. La ruota è tenuta stretta
anche da un ragazzo che tiene le ginocchia piegate in avanti come se volasse e ha un elmo dotato di
due corna terminanti con una pallina (alludono al principio dualistico vita-morte che permea ogni
essere dell’universo). A destra e a sinistra di queste due figure divine si vedono due lupi-pantere che
vanno verso destra; più in basso, tre grifi vanno verso sinistra, mentre sotto il ragazzo c’è un
serpente con la testa di ariete, simbolo anch’esso del principio dualistico, della riproduzione della
vita soggetta alla morte e soggetta alle vicissitudini del bene e del male.
L’epiteto tarcuastros allude, a mio avviso, al fatto che il dio è ‘colui che fa girare gli astri’ o
‘girante-astro’. Il primo componente *tarcu- del nome ha la radice ie. *terku̯- ‘girar(si)’ di lat.
torquēre ‘girare, torcere, piegare’ > ‘governare’. Il secondo componente è *astros ‘astro’: cfr. greco
helik-ásteros ‘che compie una rivoluzione astrale’. Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che
il nome è scritto sotto e perfino dentro delle ruote che certamente alludono alla rotazione del cielo
ed ai cicli universali. Analogamente diastros può essere inteso come un nome composto da *di(o)-
e da *astros ‘astro’. Ma il significato del nome è dubbio perché la radice del primo termine
potrebbe essere *dei̯ h2- ‘rilucere, splendere’ (LIV 108) o **dei̯ h1- ‘affrettarsi, correr dietro, danzare,
ruotare, volteggiare’ (IEW 187, LIV 107). Quindi è dubbio se si debba intendere diastros come
‘lucente astro’ o come ‘rotante astro’. L’esistenza di tarcuastros rende più probabile la tesi che
diastros sia un suo sinonimo.
Sul Ponte d’Ercole rimane una sbiaditissima figura in cui davanti alla testa del dio tarcuastros ci
sono degli uccelli. Qui sulla roccia di Campocatino il nome divino diastros è associato a degli
uccelli (linee rosse in Fig. 2; altri uccelli sono evidenziati in Fig. 3). Questi uccelli testimoniano che
gli dèi o il dio con tali nomi sono coinvolti nella riproduzione di esseri viventi, dato che nelle
incisioni rupestri europee gli uccelli da millenni simbolizzavano il soffio vitale ed erano considerati
dei vettori di anime.
In Fig. 3 si vede come la scritta diastros con le annesse figure sia la parte superiore di una
composizione più lunga la cui parte inferiore a prima vista sembra contenere un ricciolo. Ma un
esame attento m’induce a ritenere che il ricciolo non sia tale e ci siano linee aventi una duplice
funzione: scrittoria e figurativa. Quella figurativa consiste nel permettere di percepire il profilo del
volto di un vecchio col naso molto grande. Tra naso e bocca furono delineati due uccelli.
La curva in basso è incisa con una profondità simile a quella di un tratto diritto quasi verticale
che collega la suddetta curva con la scritta diastros. Ma dopo il semicerchio di base un altro tratto si
dirama verso sinistra salendo fino a incontrare la curva del d di diastros. Dall’altro estremo della
semicirconferenza di base parte verso destra un segmento rettilineo, dopo il quale si notano gli
occhi della faccia di vecchio. Il segmento rettilineo fa anche parte del contorno di un uccello e
precisamente della coda. Insomma, tenendo conto della complessità figurativa e della polivalenza
scrittoria dei tratti nelle incisioni rupestri liguri, ritengo che l’incisore volesse far percepire, oltre
alle figure, una legatura

(tustr) formata da + (tus+tr),


dove r è lo stesso della scritta diastros. Utilizzando anche os di diastros, possiamo leggere tustros,
che è un frequente nome divino significante ‘Picchiatore, Colpitore’.
Sul piano religioso questo complesso insieme figurativo e scrittorio conferma quanto già si è
potuto dedurre da tante altre elaborate incisioni liguri, cioè l’esistenza di due dèi antagonisti
strettamente connessi, il dio senior e il dio giovane. Tustros ‘Picchiatore’ nel suo aspetto fecondo e
creatore è comparabile con il gallico Sucellos ‘Buon Colpitore’ e con il Giove Ottimo Massimo
rappresentato come uomo maturo e barbato, mentre nel suo aspetto malefico e mortifero gli furono
attribuite le funzioni di un burbero Vulcano-Efesto e del maligno dio irlandese Elcmar rivale di
Dagda ‘Buon-dio’ (che rispecchia appunto un dio simile a Sucellos). Diastros è identificabile con il
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Fig. 3. Incisioni sulla roccia di Fig. 1 (foto di Adolfo Zavaroni).


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dio giovane o fanciullo che in una splendida pietra recuperata da un edificio a Rovinamala di
Montecreto è chiamato anche Mars ‘Marte’ (dativo marti) ed è ritratto come puer insieme al dio
senior e ad una mezza ruota (su ciò vedi Beneventi-Zavaroni 2015: 151 ss.).
A mio avviso Diastros, detto anche Tarcuastros, corrisponde al dio norreno Ullr, runico danese
[o]wlþuþewaR. Il nome runico è composto da un primo membro [o]wlþu- < *wulþu- e da *þewaR
‘servo, garzone’. Per *wulþu- sussiste lo stesso dubbio che per il ligure *di- di diastros, perché lo si
può intendere come ‘splendente’ o come ‘rotante, girevole’ (proposte etimologiche citate da de
Vries 1962: 633)
In Fig. 3 si vede come il volto del dio vecchio sia posto in basso, mentre il nome Diastros è
scritto in alto ed è sovrapposto ad una figura antropomorfica che ora ha una testa umana ora una
testa di uccello (aquila?). Ciò potrebbe indicare che il dio vecchio è correlato agli Inferi, mentre
Diastros è correlato alle sommità e probabilmente è un dio del cielo diurno luminoso come Giove.
Si noti, però, che s e il secondo t di tustros si allungano fino in alto e che la stanga del t è alla
sommità di tutto l’insieme: ciò potrebbe indicare che il dio senior Tustros ha potere su tutto
l’universo, compreso il cielo. Si ha una situazione analoga a quella del dio nordico Odino che,
quand’è “in viaggio” (> agli Inferi) viene sostituito da Ullr come capo degli dèi.
A sinistra rispetto alla scritta diastros dei tratti abbastanza marcati e visibili formano il segno
che sul piano grafico può denotare soltanto una legatura tu. Il tratto orizzontale superiore prosegue
meno profondo verso destra dove sembra far parte del contorno di martelli di Tunar ( , , ).
Anche il tratto obliquo finale denotante u in legatura pare proseguire con profondità minore e
larghezza di poco maggiore. Non escludo che tale allungamento appartenga ad una scritta mal
visibile perché fu raschiata troppo superficialmente. In ogni modo resta il fatto che tu si presenta
come un termine a sé. Nell’ipotesi che sia un termine compiuto, per interpretarlo dobbiamo optare
per una base radicale *tu- che potrebbe essere l’esito di differenti radici indoeuropee: *teu̯H-
‘coprire, tutelare, proteggere’, *teu̯h2- ‘gonfiar(si), accrescere, ingrossar(si)’, *(s)teg-/(s)tog-
‘coprire’, *teu̯-g- ‘colpire, picchiare; ascia’ (nelle iscrizioni friniati [g] non è attestato: svanì prima
dell’uso della scrittura; probabilmente ciò avvenne anche nella scrittura degli altri Liguri). Non
essendoci altre attestazioni, l’interpretazione non può essere sicura. In via provvisoria ipotizzo che
tu sia un imperativo 2a sing. di un verbo *tuōm ‘tutelo, difendo, proteggo’ (cfr. lat. tueor, tuor). Si
tratterebbe di un’invocazione (‘proteggi’) rivolta al dio Diastros.
Sotto tu c’è una chiazza chiara attraversata da solchi artificiali e contornata in modo da
richiamare sia un martello di Tunar sia il guscio di una tartaruga di cui fu forse disegnata anche la
testa al di fuori della chiazza. La tartaruga potrebbe simbolizzare sia il mondo coperto dalla volta
celeste sia la ciclica permanenza di una divinità nell’aldilà (periodo del letargo).
Presso il lato destro di Fig. 3 è possibile ricostruire la scritta in legatura dar (qui del tipo ).
Questo termine appare miriadi di volte su pietre dell’Appennino tosco-emiliano e dell’Appennino
ligure. Come ho scritto più volte (da ultimo vedi Zavaroni 2015a: 13), ritengo che dar derivi dalla
radice ie. *dher- ‘balzare, montare, accoppiarsi’ da cui si hanno pure gr. θoρóς, θoρή ‘sperma’ e il
nome divino airl. Daire (< *Darios) indicante un dio fecondatore. Rimane aperto il problema
morfologico se dar sia un imperativo 2a sing. o un sostantivo. A mio avviso si tratta di un arcaico
imperativo usato come nomignolo o appellativo nel linguaggio familiare e popolare e poi adottato
dalla lingua religiosa ufficiale (Zavaroni 2015a: 13). Ciò avvenne per i verbi etruschi śi e śeu del
Liber Linteus di Zagabria, i quali sono esatti corrispondenti degli imperativi liguri si ‘semina, getta,
eiacula’ e seu = siv ‘scuoti(ti), muovi(ti), àgita(ti)’: essi furono usati come nomi divini nelle formule
eiser śic śeuc “gli dèi sia ‘Semina’ sia ‘Genera’” e nunθenθ etnam farθan aiseraś śeuś “annunci
allora il parto degli dèi ‘Genera’” (Zavaroni 2015b: 101).

§ 3. La Fig. 4 mostra come la superficie del masso di Fig. 1 fosse interamente coperta di segni
fra loro sovrapposti, per lo più scarsamente incisi e oggi difficili da leggere proprio a causa delle
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sovrapposizioni. Questo accavallarsi di scritte è indizio che chiunque poteva incidere o farsi
incidere l’iscrizione, evidentemente come segno di riverenza o come implorazione di un favore,
senza che le scritte precedenti fossero ritenute sacre (> intoccabili). Scritte quali dar, cus, cusar,
incise migliaia di volte su altre pietre e rocce della Liguria, sono facilmente ricostruibili. Per le
parole nuove e di rara attestazione la ricostruzione è molto più aleatoria. Ovviamente più è fitto il
groviglio dei tratti che si accavallano più è alta la probabilità di fare ricostruzioni arbitrarie.

Fig. 4. Incisioni sulla roccia di Fig. 1 (foto di Adolfo Zavaroni).


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In Fig. 5 presento la ricostruzione di scritte cusar di varie dimensioni, poco diverse l’una dall’altra,
essendo la forma base più diffusa. Avevo già trovato cusar su una roccia sacra ai piedi della
Pietra di Bismantova (Appennino reggiano), mentre il presumibile imperativo 2a sing. cus ‘scuotiti,
diménati, scopa’ è scritto in quantità incalcolabili su varie rocce della Liguria che ne sono
completamente ricoperte: le sovrapposizioni formano un groviglio tale che solo alcune scritte si
possono vedere nelle foto computerizzate, anche perché esse furono scalfite leggermente e le
intemperie le hanno rese spesso impercettibili. La forma più comune della legatura è .
Riesaminato tutto il dossier, ritengo che *cus- abbia l’area semantica di lat. quatiō e percutiō,
percussī il cui senso primario è ‘scuoter(si), vibrare (un colpo)’ con allargamento a ‘colpire,
abbattere’. La radice indoeuropea è *(s)qu̯eh1t- ‘scuotere, scrollare, dimenar(si)’ (LIV 563).

Fig. 5. Evidenziazione di alcune scritte contenute nell’area di Fig. 4.


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Occorre quindi supporre che s finale in ligure *cus- denoti un suono enfatico /ss/ o sia uno
sviluppo /s/ < /ss/, dove ss sarebbe l’esito di -t-s- come in lat. per-cussi ecc. Un imperativo cus
implica un presente indicativo *cus(s)ōm, forma intensiva di *cutiōm come lat. quassō da quatiō,
mussō da mut(t)iō ecc. L’interpretazone ‘scuoter(si)’ è la più idonea nelle due scritte di Ospitale cus
lie lia ‘scuotiti, con la corrente corri’, cus il(s)i scuv ‘scuotiti, con la rivolta (o anche: rivòltati)
àgitati’ (per lia, scuv e il(s)i vedi Zavaroni 2011 rispettivamente alle pagine 214, 221, 210). Nelle
iscrizioni di Bismantova cusis tuna\urus è la ‘scossa (con possibile traslato a ‘percossa’) del
Tonante’. Quindi è dubbio se cusar significhi ‘colui che scuote’ o ‘colui che si scuote, si dimena’.
Siccome nelle iscrizioni liguri (< friniati) spesso si ha una forma di verbo attivo anche là dov’è
necessario attribuirle un valore mediale o riflessivo, è probabile che cusar abbia entrambi i sensi.
Sul masso di Campocatino in esame mi pare più congruo che si abbia il traslato ‘scuoti(ti),
diménati’ > ‘fotti’. Un indizio è fornito dalla scritta stessa: è ricostruibile quasi sempre la forma
piuttosto che la meno complicata e la più corretta : ciò potrebbe essere dovuto
all’intenzione di far leggere pure = dar che alluderebbe al dio della monta, dello sperma,
dell’accoppiamento (vedi § 2 alla fine).
In Fig. 5 sono evidenziate alcune scritte cusar e anche dar (in alto) e probabili cuar in cui non
appare un s in legatura (tipo ). In effetti l’appellativo divino cuar è ben attestato nell’Appennino
tosco-emiliano e può essere associato a dar. Il senso di cuar è ‘fecondatore, colui che ingravida’
(Zavaroni 2012: 113): la sua radice è *k̑u̯eh1- ‘gonfiare, fecondare’ (LIV 339).

Fig. 6. Particolare della Fig. 5 (in basso, zona delle linee azzurre).

In Fig. 6 è ingrandita un’area di Fig. 5, in basso nella zona delle linee azzurre. Nello spigolo
basso a sinistra ho evidenziato delle scritte dar, ma focalizzando su di esse lo sguardo lo si distoglie
da disegni che gli incisori intesero presumibilmente delineare. La rappresentazione più sorprendente
di Fig. 6 è quella di una persona protesa in avanti come se fosse ginocchioni (linee bianche). Il suo
capo ovoidale ha più di un profilo e varie facce si potrebbero percepire interne alla testa (vedi anche
Fig. 7). Del personaggio chinato si vede pure un braccio, la cui mano è coperta da una testa
digrignante. Davanti a questa fu forse disegnata un’ape o una farfalla, ma le curve delle ali furono
sostituite, come spesso avviene per le linee arcuate, da profili di volti umani. Un’altra ape è
ricostruibile in sovrapposizione con una delle scritte dar. Api e farfalle sono, come gli uccelli,
simboli di nuove vite.
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Il capo del personaggio chinato e proteso in avanti è attraversato da scritte cusar lievemente
incise. Quindi possiamo arguire che il personaggio sia il dio cusar. Ma che egli non potesse essere
rappresentato secondo un modello uniforme, ben definito, è dimostrato dalla rappresentazione: nelle
sue terga sono percepibili più animali fra cui i mostruosi serpenti delineati in Fig. 6, oltre a canidi, a
facce umane terrificanti e al felino mortifero tratteggiato in Fig. 7.

Fig. 7. Diverse percezioni del particolare riprodotto in Fig. 5.

Nel fianco in basso del personaggio (Fig. 6) ho evidenziato anche delle natiche (femminili?) che
probabilmente si sovrappongono al contorno di un vaso: poiché il vaso alluderebbe all’aqua vitae
prodotta dal dio Cusar, è probabile che pure le terga siano quelle di una divinità della generazione.
Sempre in Fig. 6 ho annotato alcune delle scritte cus ricostruibili nell’area.

Fig. 8. Composizione sulla stessa roccia di Campocatino a cui è attinente la Fig.1 (foto di Mauro Colella).

In Fig. 7, nel terzo riquadro, ho cercato di delineare un’altra visione, cioè quella in cui invece
della schiena di una persona protesa in avanti si percepisce una grande testa umana. Ma anche in
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questo caso la visione è multiforme. È dubbio se la testa umana sia avvolta da un copricapo la cui
parte superiore termina in una testa belluina (possibile analogia con il copricapo di Aita, il dio
etrusco assimilato al greco Ade, re degli Inferi) o se una belva mortifera incomba sul capo per
ricordare che la vita è continuamente sotto la minaccia della morte.

Fig. 9. Particolare dell’area di Fig. 8 con scritte cusar e dar.

§ 4. Anche la composizione di Fig. 8 si trova sulla roccia di Fig. 1. Sebbene essa a prima vista
sembri incomprensibile, occorre supporre che riflettesse e comunicasse dei concetti che i
contemporanei dell’incisore potevano comprendere. Che il soggetto generale sia di carattere
filosofico-religioso e abbia attinenza con le altre rappresentazioni incise sulla roccia e in particolare
con quelle delle Figg. 2-7 si deduce immediatamente, se si riesce a leggere la scritta più evidente
che si trova sotto la composizione, di fianco alla chiazza biancastra visibile in Fig. 8. Come ho
evidenziato in Fig. 9, in quel punto si può leggere cusar due volte (due scritte sovrapposte di cui
una con lettere minori: linee bianche e gialle) e anche dar (linee blu e azzurre). Se poi si scruta la
Fig. 10 concernente lo stesso punto della superficie, si può notare che vi sono altre scritte cusar sia
frammiste a quelle suddette sia ad un livello leggermente più basso.

Fig. 10. L’area di Fig. 9 in un’altra foto con ulteriori redazioni della scritta cusar.
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In Fig. 9, essendo la foto migliore e con maggiore risoluzione, si vede pure che le scritte sono
sovrapposte a delle figure. Oltre ad una antropomorfizzazione delle a (operazione frequente nelle
scritte liguri e normale in dar), si possono percepire altre figure dai cui particolari se ne sviluppano
altre (Fig. 11). Anche qui ogni centimetro della superficie appare lavorato.

Fig. 11. Figure umane soprascritte sulla legatura cus delle scritte di Fig. 9.

Tra i personaggi visibili nell’area di Fig. 11 sono riconoscibili la dea “mozzata” (vedi sotto)
seduta e il suo cane (primo riquadro). In verità in quell’area si possono percepire più teste canine e
teste umane due delle quali, sotto la dea seduta, sono inserite in un settore circolare (riprodotto nel
2° riquadro) che richiama la volta celeste e il martello di Tunar ‘Tonante’ (su cui vedi il § 2). Le
cosce e ginocchia della dea si sovrappongono sia a due volti umani sia ad un cane accucciato che
volge la testa (2° riquadro). Al posto del capo della dea è possibile ricostruire un vaso in posizione
obliqua, mentre al di sopra dei seni fu incisa una piccola testa che richiama quelle medusee che
erano raffigurate sulla corazza di Atena-Minerva.
Nel secondo riquadro di Fig. 11 ho evidenziato un capo umano velato, probabilmente femminile,
al posto del petto della dea “mozzata”. Davanti ad esso è percepibile un bambino invece del cane
del primo riquadro. Più a sinistra vedo una testa umana, probabilmente di una persona vecchia di
sesso mal definibile, con un cappello simile al pètaso di Hermes-Mercurio, ma senza alette. Al di
sopra del cappello è visibile una roncola che allude alla morte incombente sul personaggio. Davanti
ad essa ci sono altre teste umane di cui alcune hanno dimensioni millimetriche. Poco più sotto è
percepibile un’ulteriore testa umana (secondo riquadro) emergente da una forma ovoidale dentro cui
si potrebbe vedere delineata (primo riquadro) anche una minuscola figura femminile seduta che
tiene in braccio un bambino (?). Le ridottissime dimensioni potrebbero suscitare scetticismo circa
l’effettiva presenza di tali figure, ma a me essa pare confermata dall’esistenza di figure analoghe su
altre superfici.
Nel secondo riquadro ho tentato di evidenziare, all’altezza della spalla della figura col capo
velato, un cane accucciato che volge la testa. Come si è detto sopra, in quel punto potremmo anche
percepire o le ginocchia della dea “mozzata” (Fig. 11, primo riquadro) o una faccia umana o
alternativamente un vaso, sulla cui superficie ci sarebbero dei rilievi. Il vaso sarebbe tenuto da un
dio col busto curvato in avanti e la testa chinata sul capo della persona velata: la sua figura (non
evidenziata in Fig. 9 né in Fig. 11) sarebbe inscritta dentro la legatura cus di cusar.

§ 5. Vidi per la prima volta rappresentata la dea “mozzata” sul “masso della Pescaia” presso
Piteglio (Appennino pistoiese). Qui, in una cavità appositamente scavata, fu scolpito il corpo, visto
un po’ da dietro e un po’ di fianco, di una donna senza testa e senza braccia, china in avanti (Fig.
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12).3 La dea è rappresentata in una cavità che ovviamente allude al mondo sotterraneo e le sue
natiche sono a contatto con quel che sembra il tronco di un “albero della vita”. Sotto il tronco c’è
una cavità arcuata dentro cui si possono percepire figure diverse a seconda di dove si fissa
l’attenzione, ad esempio teste umane e di animali (Fig. 12). Dal collo e dalla spalla mozzata della
dea sembrano uscire fiotti di sangue che in parte scendono verso cavità sottostanti ed in parte
entrano in un vaso (o forse due) posto sotto il suo seno. È da supporre che secondo un mito ligure il
sangue della dea mozzata si trasformi in sperma per la fecondazione universale, sperma che in parte
irrora una radice dell’albero della vita ed in parte è raccolto in vasi dal dio creatore.
Il tronco d’albero che pare
poggiare sulla schiena della dea si
può percepire anche come una
grande testa umana con i capelli
all’insù. Forse tra i capelli furono
vagamente scolpite altre teste e
alcune scritte dar. La bocca della
grande testa è aperta. Pure nella
barba appuntita sono forse segnate
minuscole teste.
Il petto della dea fu scolpito in
modo che uno dei seni potesse
essere inteso anche come il muso,
forse canino, di un animale infero
di cui in effetti si vedono pure le
orecchie e un occhio.
La testa umana della dea pare
Fig. 12. La dea “mozzata” del masso della Pescaia di Piteglio (PT). essere raffigurata all’esterno della
cavità, in corrispondenza del collo
mozzato, di fronte alla testa della bestia infera. In Fig. 13 la testa umana, pur con qualche ambiguità
dovuta ad uno sdoppiamento del mento e della bocca, si vede abbastanza distintamente.

Fig. 13. Particolare di Fig. 12 con la testa della dea.

3
Vedi Zavaroni 2007: 86-91. Secondo quanto mi fu riferito alcuni anni fa, questo masso fu coperto dal proprietario
attuale del terreno, per impedire la visita di “intrusi” che in verità inizialmente avevano avuto il permesso del suo
genitore. Il masso sarebbe anche stato danneggiato da una ruspa. Colgo l’occasione per ricordare il carissimo Gabriele
Bonino, scomparso pochissimi anni dopo la scoperta da lui effettuata con i giovani amici della società culturale
Armonia di Piteglio (Appennino pistoiese). Le accuratissime fotografie prese da Gabriele Bonino, Mauro Colella e
Giancarlo Sani sono state il mezzo indispensabile per il progresso dei miei studi sull’arte rupestre dell’Appennino
tosco-emiliano, arte che oggi finalmente so di dover attribuire agli antichi Liguri.
14

È da notare che i capelli sono separati dal volto tramite una


banda ricurva simile alla lama di una falce. La chioma ha una
foggia che richiama la testa oblunga di un animale: cerva?
cavallo? Per di più, tra la testa canina e la sponda della cavità, da
alcuni punti di osservazione, è percepibile una testa di vecchio
barbato (Fig. 14) che alluderebbe al dio senior sposo della dea
mozzata.
Nelle numerose visite al masso della Pescaia cercai
insistentemente delle scritte e credetti anche di trovarne. Sbagliai
nel leggerne due effettivamente presenti, ma con notevoli
difficoltà epigrafiche dovute allo stato delle superifici molto
erose: ritenevo che fossero latine, mentre ora posso affermare
che sono liguri. Ne lessi altre, supponendo che fossero teonimi
Fig. 14. Masso della Pescaia etruschi, dove ora vedo solo labili segni casuali. Non vidi dei
(Piteglio). Testa barbata di vecchio. nomi divini liguri, poiché non sapevo che potessero esistere e
comunque non possedevo le chiavi per la decifrazione.

Fig. 15. Scritte scur e cusar sovrapposte nella zona della dea “mozzata” sul masso della Pescaia di Piteglio.

Ora mi è facile constatare, sebbene ciò possa sembrare fantasioso per chi non abbia svolto il
necessario esercizio, che nella zona della dea “mozzata” fu scritto più volte cusar con le usuali
legature. Com’è evidenziato in Fig. 15, questo nome sembra più di una volta in sovrapposizione con
= scur. Suppongo che scur, non attestato nelle scritte finora trovate, abbia la radice *(s)keu̯-
‘coprire, avvolgere, coperto, nascosto, scuro’ (scur < *sku-ur) ecc. di lat. (ob)scūrus e sia uno degli
appellativi del dio ctonio chiamato anche cusar ‘scotitore’.
Nel precedente studio sul masso della Pescaia non notai il rapporto della dea “mozzata” con i
cani, ma le rappresentazioni su uno dei fianchi del masso sacro sopra Campo Pianelli, ai piedi della
Pietra di Bismantova (Appennino reggiano), mi hanno indotto a riesaminare le fotografie prese nel
2006. Sul masso di Bismantova (vedi Fig. 16) è raffigurato un cane a cavalcioni sul tronco di un
corpo umano seduto, privo delle gambe, delle braccia e della testa. Tra il tronco umano e il cane
sono scavati dei solchi profondi che formano un’altra figura di cane più piccola, di cui è disegnata
una seconda testa, sovrapposta a quella formata dallo scavo, con un’incisione più sottile. Mi sembra
che i solchi più profondi formino la scritta osmos che ritengo essere il nome del cane. Nelle
iscrizioni di Ospitale le basi *us-, *os- sono degli sviluppi per monottongazione della radice
indoeuropea *h1eus- ‘bruciare, ardere’ ed esprimono non solo ‘bruciare’, ma anche ‘ardere di
sdegno o di passione’.4 Siccome è presente pure un tema *usm- con la stessa area semantica,
4
Ad Ospitale sono attestati gli imperativi 2a sing. os, us, ose, osi, use, usi, gli indicativi presenti 1a sing. osio, osom >
oso, uso, usmo, 3a sing. osit, il futuro 1a sing. usmiso, i congiuntivi esortativi 2a sing. usai, usei e forse l’isolato usia, il
15

Fig. 16. Ricostruzione di figure incise sulla parete occidentale del masso di Bismantova (foto di A. Zavaroni).

necessitativo osela. Le forme use, usi sono anche sostantivi in ablativo (‘con ardore, con passione’). Infine, osul (o
forse osulos) e usil significano ‘ardente’. Si noti che in etrusco usil è un nome del sole (Zavaroni 2011: 229).
16

suppongo che osmos significhi ‘ardore, calore > ‘passione amorosa’. Un tal senso non è molto
diverso da quello del nome Saimér di un cagnolino menzionato in un episodio della mitologia
irlandese. Secondo questo racconto, Partholón ‒ che nella tradizione medievale irlandese era il capo
del secondo gruppo di persone che colonizzarono l’Irlanda (il primo gruppo dopo il diluvio
universale) ‒ in preda alla gelosia, uccise con uno schiaffo il cagnolino (airl. mescú ‘lap-dog, cane
da coccole’) della moglie Delgnat la quale lo aveva tradito con un paggio di nome Toba (variante
Topa).5 Dopo aver colpito a morte il cane della moglie, Partholón inseguì il suo paggio e uccise
anche lui. Questo episodio fu tramandato come il primo adulterio ed il primo omicidio per gelosia
d’Irlanda. Il significato del nome Saimér del cagnolino della moglie di Partholón pare essere
‘piacere, diletto, sensualità, lascivia’:6 quindi c’è una certa convergenza semantica con il ligure
osmos ‘ardore, passione’, nome del cane della dea “mozzata”.
Tornando al tronco femminile rappresentato col cane in Fig. 16, a contatto col suo collo fu
disegnata la lama di un’ascia. È da notare che in altre rappresentazioni liguri al posto di una divinità
senza testa è disegnato un falcetto che allude al dio mozzatore a sua volta ciclicamente mozzato. Il
contorno della lama dell’ascia interferisce con quelli di una coppa (che a mio avviso contiene aqua
vitae, cioè sperma per la fecondazione universale) e di un martello di Tunar (che dà vita o morte a
seconda del lato con cui colpisce). L’estremità del martello rivolta a sinistra pare sagomata come il
profilo di un viso umano che forse simbolizza “vita, (ri)generazione”.
Il manico dell’ascia sopra menzionata attraversa un corpo umano femminile poco sotto i seni.
Questo corpo è tratteggiato in una chiazza biancastra. Mi pare ovvio che si tratti di una
rappresentazione della dea mozzata nel suo aspetto integro, sebbene le gambe non si vedano,
essendo coperte da una veste. I tratti nell’ovale del volto non sembrano tracciati: forse ciò doveva
contribuire a denotare una dea Bianca, lunare. Il suo braccio destro è ripiegato in modo da
sovrapporsi al manico dell’ascia la cui lama tocca il collo della dea mozzata. La mano destra pare
reggere un vasetto dentro il cui contorno l’incisore scavò una profonda coppella: in questa figura
vedo una riprova di quanto sostengo da parecchi anni, cioè che le coppelle generalmente alludevano
al potere fecondante: infatti il vasetto della dea, datrice di vita e di morte, non può che contenere
aqua vitae. D’altronde a destra rispetto al vasetto sono raffigurati, con più sovrapposizioni, parecchi
vasi aventi la stessa funzione simbolica.
Non è chiaro se il braccio sinistro della dea sia nascosto da questi recipienti. Comunque sia, esso
sarebbe tangente alla figura di un cagnolino ‒ pure essa eseguita nella chiazza biancastra già
menzionata ‒ disegnato nella posa assunta dai cagnolini quando sono tenuti in braccio.
Tra le figure evidenziate in Fig. 16 c’è pure quella di una donna vista di fianco, col busto
inclinato in avanti e il sedere proteso all’indietro. La sua testa è seminascosta dalla testa di un cane
aggrappato al petto della dea. Varie teste canine ‒ e pure umane, di cui almeno una demoniaca ‒
sono incise sotto il cane aggrappato alla dea e più a destra rispetto ad esso. Una testa canina è
disegnata anche davanti alle cosce della dea. Questa rappresentazione ha presumibilmente lo stesso
significato simbolico delle rappresentazioni visibili nelle Figure 17 e 18.
La Fig. 17 riproduce una composizione incisa sulla Roccia 6 di Foppe di Nadro (Valcamonica).
Anati (1982: 301), che data all’850-700 a. C. l’esecuzione dell’opera (datazione più bassa secondo
autori successivi), nella sua didascalia scrive:

Sulla destra appaiono figurazioni di carattere erotico: sull’estrema destra si vede una scena di accoppiamento. Alla
sua sinistra una donna sembra indulgere alla carezza di un cane: tra le due figure descritte, più in alto, uno strano essere
antropomorfo dalle gambe divaricate e le braccia levate in alto, sembra defecare.

5
La variante Toba potrebbe essere la deformazione di un originario nome verbale a.irl. tóbae ‘caedes, taglio,
troncamento, strage’ (da cui tópach ‘tagliato, mozzato, corto’) pertinente con la figura e il ruolo della dea mozzata.
6
Cfr. a.irl. sámas ‘piacere, gradimento’, gael. sáimh ‘piacere, sensualità, lascivia’, gael. sáimhear ‘dedito al piacere’.
17

Il supporre che gli incisori camuni, solitamente considerati dei sacerdoti dagli archeologi, fossero
presi da un gusto per l’iperrealismo tale da rappresentare sulle rocce esseri mortali intenti a defecare
o ad atti sessuali con animali è il frutto di una visione dell’“arte” che ritengo non rifletta
minimamente quella degli antichi abitanti dell’Europa preromana. Ciò mi mette molto in guardia
dalle interpretazioni “sociologiche”, oggi alla moda, di tanti studiosi di arte rupestre.

Fig. 17. Scena con cani sulla Roccia N. 6 a Foppe di Nadro (da Anati 1982, 301).

In Fig. 17 il dio che solleva un’asta a tre punte è caratterizzato proprio dalle tre punte. Egli
corrisponde al dio che in altre rappresentazioni della Valcomonica e dell’Europa più in generale ha
una mano con tre dita. Un tal dio è raffigurato anche su due pietre di Rovinamala (comune di
Montecreto, Appennino modenese: Beneventi - Zavaroni 2015: 149 ss.). A mio avviso, le tre dita,
come le tre teste o tre facce in rappresentazioni di questo grande dio, alludono al fatto che egli ha
potere sui tre mondi: cielo, terra, sottosuolo (secondo altri l’allusione sarebbe alla conoscenza di
passato, presente e futuro).
Sempre in Fig. 17, un poco più in alto, una dea è raffigurata a braccia alzate, a mani aperte ed a
gambe divaricate, mentre i germi fecondanti (o lo spirito vitale) le escono dall’utero e scendono
verso una coppia intenta al coito. Il maschio di questa coppia ha grandi mani con le dita aperte,
anch’esse simbolizzanti il potere fecondante (Zavaroni 2007b). Insomma, la dea non defeca come
ritenne Anati, ma emette gli embrioni vitali che passeranno nell’utero della donna durante il coito.
La donna disegnata più sotto è soggetta alla penetrazione virtuale e alla fecondazione da parte del
dio “Grandi-mani” affinché la fecondazione possa avvenire. Ritengo che il dio “Grandi-mani” sia
un equivalente arcaico del dio latino Silvano. Silvano era detto Inuus, ab ineundo passim cum
omnibus animalis ‘dal penetrare senza distinzione tutti gli animali’ (Servio, Aen. 6, 775). Secondo il
rituale tramandato da Sant’Agostino (c. D. 4, 11) la partoriente doveva essere preservata contro la
violenza del dio Silvano, assicurandosi la tutela di Intercidona, Pilumnus e Deverra. Vedo in questi
residui di credenze, non più comprese alla fine della repubblica romana, la flebile eco di una
concezione religiosa in cui un ruolo indispensabile nella generazione degli esseri viventi (piante
incluse) era assegnato a dèi preposti alla fecondazione universale. Non è un caso che proprio sulle
Alpi Apuane e in Lunigiana in età romana il dio Silvano fosse particolarmente venerato:
evidentemente fu assimilato al grande dio fecondatore (e mortifero) ligure.
18

In Fig. 17, di fianco al dio con la verga a tre punte sta un serpente, altro simbolo di fecondazione.
Le figure sottostanti sono poco leggibili, mentre più in alto c’è la costruzione che allude
all’Altromondo, il luogo in cui risiedono gli dèi della (ri)generazione.
Al centro della composizione di Fig. 17, ai piedi del dio Tre-punte, c’è una donna accosciata con
le braccia alzate. Un cane sembra tenere il muso tra le sue cosce. In altri petroglifi camuni e
scandinavi, solitamente male interpretati come scene di caccia, un cane tiene il muso dietro il
posteriore di una cerva o anche di un cervo. Siccome il cervo e la cerva sono le ipostasi
zoomorfiche delle grandi divinità creatrici-distruttrici, suppongo che il cane, assistente del dio
redentore di anime, abbia la funzione di annusare i genitali di una divinità fecondatrice per aspirarne
le aure contenenti embrioni o soffi vitali che poi porterà in questo mondo. In altre parole il cane si
appropria del potere fecondante inalandolo come “aura” (si pensi agli arcaici centauri ed ai
gandharva indiani). Questo è il motivo non detto (per gli scrittori del Medioevo sarebbe stato molto
pericoloso parlare di teorie sulla creazione) per cui nel mito irlandese Partholón, assimilabile al dio
Tre-dita o Tre-facce, uccide il cagnolino di sua moglie Delgnat: il grande dio non vuole che i germi
o le aure della fecondazione universale siano portati sulla terra dal suo garzone e dal cane.

Fig. 18. La dea mozzata e i cani sul masso della Pescaia (foto di Mauro Colella).

In Fig. 18 ho cercato di evidenziare visioni che non avevo captato nel redigere un precedente
saggio sul masso della Pescaia e neppure durante le prime fasi di questo articolo. Dal punto da cui
fu scattata la foto le differenze di profondità tra cavità e rilievi sono appiattite e nella parte bassa si
può percepire un cane (che secondo altre visioni pare far parte di una muta) fra due gambe umane: il
cane si alza e mette il muso contro delle pudenda femminili che sembrano rappresentate da un
segno . Il busto e il capo della persona non si riescono a percepire ed è probabile che nessuno
degli incisori del masso abbia mai tentato di raffigurarli. Più in alto, però, sono segnate altre due
gambe di una persona seduta di cui il resto del corpo fu tratteggiato molto lievemente. Solo in
alcune foto appare la linea che ne delimita il dorso e la nuca e s’intuisce che sul suo grembo furono
disegnati cani accovacciati.
In Fig. 18, a destra, l’associazione dea ~ cane fu probabilmente rappresentata facendo in modo
che sotto il corpo in rilievo della dea mozzata potesse essere percepito un cane al posto del vaso la
cui figura prevale da altri punti di osservazione.
Se si cambia anche di poco il punto di osservazione, un cane nell’atto di mettere il muso contro
dei genitali femminili sembra percepibile anche in altri punti della cavità in cui sono fuggevolmente
visibili le scene evidenziate in Fig. 18. Alcune di queste ulteriori scene, che si accavallano in modo
da sfumare l’una nell’altra, sono marcate in Fig. 19.
La dea associata ai cani raffigurata e spesso rappresentata come mozzata è chiamata proprio
mutua ‘mutila, mozzata’ nelle scene incise sulla grande roccia sotto la Pietra di Bismantova: un tal
19

nome deriva dalla base *mut- che nelle iscrizioni del Frignano esprime ‘mutilare tagliare, mozzare’.
(stessa radice di lat. mutilō ‘tronco’; Zavaroni 2011: 217). Tenendo presente ciò, è possibile
interpretare il nome dell’antica dea irlandese Delgnat, moglie di Partholón. Siccome gnat riflette il
gallico gnata ‘figlia, ragazza’, la base *del- è riconducibile alla radice ie. *delh1- ‘asciare,
spaccare’. Se Delgnat riflettesse *delgh-+gnata, il senso non cambierebbe perché *delgh- è un
ampliamento di *delh1- e ne ha la griglia semantica. Insomma, Delgnat significa ‘Tronco-figlia’ >
‘la figlia (> ragazza) mozzata’.
Il racconto dell’uccisione del cane di Delgnat pare la debole eco di un antichissimo mito
risalente a un’epoca in cui si credeva che gli dèi morissero e rinascessero ciclicamente combattendo
tra loro e che esistessero pure animali divini i quali partecipavano alle vicende degli dèi
antropomorfici.

Fig. 19. Masso della Pescaia. Altre rappresentazioni di cane che annusa la dea mozzata (foto di Mauro Colella).

A tale epoca risalirebbe pure il nucleo di credenze da cui si sviluppò la saga del divino eroe
nordirlandese Cúchulainn ‘cane di Culann’. Culann è il nome di un dio Fabbro. Com’è narrato nel
Táin bó Cuailnge, il nome Cúchulainn fu dato al divino fanciullo dopo che egli uccise il feroce cane
che proteggeva il gregge di Culann Cerd ‘Culann l’Artigiano’. Il fanciullo, il cui spirito e valentìa
guerresca lo fanno assimilare ad un Marte, promette di sostituirsi al cane ucciso servendo Culann,
20

finché non avrà portato al Fabbro un cucciolo in grado di compiere lo stesso ruolo. Culann è un dio
assimilabile al latino Vulcano ed il suo gregge allude metaforicamente alle anime dei defunti.
Quindi nel suo ruolo infero Cúchulainn è un custode delle anime nell’Aldilà. Infatti il gregge di
Culann pascola nella Mag Muirthemne che in Dinnshenchas Érenn C è definita come ‘Pianura
dell’Oscurità / Copertura del mare’. D’altronde fra i divieti, pena la perdita delle proprie facoltà, che
Cúchulainn deve rispettare, ci sono anche il non mangiare carne di cane e il non uccidere canidi.
Tali divieti alludono al fatto che lo stesso Cúchulainn è, come dice il nome, un canide. Il padre
naturale di Cúchulainn si chiama Conchobar, composto da con ‘cane’ e da un secondo elemento
variamente interpretato: con+cobar ‘lover of canines, hound-lover’ o ‘che ha il cane vittorioso’ o
‘che ha il cane d’aiuto’. La prima interpretazione mi sembra la più pertinente.
Inoltre, Cúchulainn è addestrato alle arti marziali da Scáthach che echeggia una dea infera
mortifera il cui nome significa ‘Ombra’. Cúchulainn genera un figlio con Aífe (scritto anche
Aoíbhe) ‘Piacevole, Attraente, Bella’, sorella di Scáthach e sua rivale (cioè un suo alter ego).
Questo rapporto fra dio marziale e canide (cfr. Marte e il lupo) si nota anche nelle labili tracce delle
figure che un tempo dovevano essere ben visibili sul Ponte d’Ercole nell’Appennino modenese
(Zavaroni 2012: 32, 47, 50, 81, 83, 86) e in altre rappresentazioni liguri, fra cui quelle incise su
varie rocce sotto la Pietra di Bismantova (Appennino reggiano). Possiamo quindi supporre che la
storia del paggio di Partholón e del cagnolino di Delgnat fosse intrecciata con quella di un ragazzo
divino inteso come dio guerriero e rivale del dio senior creatore di anime. Il ragazzo divino era
assistito da un lupo o cane bellicoso, alter ego del cagnolino da coccole di Delgnat, moglie del
burbero dio creatore. I nomi liguri dar ‘che monta, si accoppia’, cuar ‘fecondatore’ e cusar
‘scotitore’ si riferiscono al dio creatore, il quale fu poi assimilato a diversi dèi latini (Vulcano,
Saturno, Dite) e in particolare a Silvano.

§ 6. La composizione incisa sulla roccia di Campocatino riprodotta in Fig. 8 è indubbiamente


strana e complessa sul piano simbolico. Da un altro punto di osservazione (come in Fig. 20)
potrebbe essere considerata
antropomorfica e relativa ad
una persona tozza che indossa
una veste che lascia scoperti
soltanto i piedi. Ma contro una
tale ipotesi sta il fatto che da
una certa distanza lo sguardo
può percepire più teste a due
diversi livelli. Come al solito,
la composizione suscita più
visioni e il loro focalizzarsi
dipende dai punti su cui cade lo
sguardo.
In un’altra foto (Fig. 22)
pare più agevole distinguere
dei particolari; ma scegliendoli
se ne tralasciano altri. Nella
ricostruzione di Fig. 21, in alto
al centro c’è un rilievo fatto in
modo tale da sembrare ora una
testa umana ora canina ora un
confuso insieme di più teste. A
Fig. 20. Roccia di Campocatino: altra vista della composizione di Fig. 8.
sinistra pare presente una testa
più piccola di specie altrettanto
21

ambigua. A destra si può percepire ora una faccia umana ora un teschio (come in Fig. 22), ma è
altrettanto possibile cogliere due cani accucciati l’uno sotto l’altro (cfr. Fig. 21).

Fig. 21. Roccia di Campocatino: evidenziazione di tratti della composizione delle Figg. 8 e 20 (da foto di M. Colella).

Fig. 22. Percezione di teste nella parte superiore di Fig. 20.

La piccola testa di sinistra, senza lineamenti del viso come in altre rappresentazioni della dea
mozzata, può essere intesa come appartenente ad una figura umana distesa il cui corpo è
parzialmente coperto dalla grande testa avente tratti sia umani che canini, mentre a destra dei cani
starebbero sulle gambe (Fig. 23). Subito sotto si può percepire la figura di una donna distesa (più
altre di minori dimensioni e scarsamente in rilievo) con dei cani protesi verso il suo ventre: si
tratterebbe di una rappresentazione della dea Mutia ‘mozzata’ (Figg. 21, 23).
Ardua rimane l’interpretazione della struttura in cui questi personaggi sembrano contenuti. Da
alcuni punti di osservazione le due appendici tondeggianti in basso sembrano due ruote: se tali
fossero, esse potrebbero essere intese come le ruote di un carro con alte sponde. A sinistra
sembrerebbe pure esserci un gancio per il traino. Ma il significato cosmico o mitico di un tale carro
mi sfuggirebbe. Le divinità coinvolte nella rappresentazione sono certamente infere, ctonie,
coinvolte nel ciclo “vita-morte, fecondazione-distruzione”. Ciò è confermato anche dal nome
tumuos (con t iniziale replicato in diversa forma) che si può leggere in una scritta che a destra sale
22

un poco verso l’alto (Fig. 21) e dalla scritta tumumus (linea rossa in Fig. 22) che si può leggere
nella linea sinuosa che passa sotto le teste più alte. Ho trovato la scritta tumumus anche a Busana e
Bismantova (Appennino reggiano), al Ponte d’Ercole e nella valle di Ospitale (compreso il sito di
Caselle: Appennino modenese), in alcuni siti della provincia spezzina e sul Ciappo delle Conche
presso Finale Ligure. Formalmente tumumus sembra un presente indicativo 1a plur. la cui
terminazione consueta è -mus (più raro -mos). Tuttavia tumumus spesso non è connesso
sintatticamente con altre parole ed appare laddove sono scritti dei nomi divini. Quindi suppongo che
sia il nominativo plurale (il singolare richiederebbe piuttosto -umos) del superlativo dell’aggettivo
tumuos già attestato a Bismantova (Zavaroni 2014: 33, 42) e in altri siti liguri: tumuos è
interpretabile come ‘quello del gonfiore’ (stessa etimologia di lat. tumeō), in riferimento sia al
turgore sessuale, sia alla crescita, abbondanza e ricchezza. A Bismantova e sulla stessa pietra di
Busana esiste pure il femm. tumua, sicché un plurale tumumus sarebbe un superlativo plurale in
-umus (cfr. lat. postumus e maxumus, plurumus accanto a maximus, plurimus) e indicherebbe ‘i
ricchissimi’, appellativo idoneo per le divinità infere.
D’altronde in Fig. 22 ho evidenziato con tratti neri la possibilità di leggere dar, ma è arduo
stabilire se si tratti di un termine a sé o della seconda parte di un nome che inizia più a sinistra.

Fig. 23. Evidenziazione di alcune figure sovrapposte in un particolare di Fig. 21.

§ 7. Su un’altra roccia di Campocatino,


distante qualche metro dalla precedente, appare
la superficie riprodotta in Fig. 24. Al di sotto
della linea mediana di frattura della crosta
superficiale si nota la sagoma di una roncola,
mentre un altro pennato è disposto obliquamente
verso l’alto e ha il manico in parte sovrapposto
alla roncola orizzontale. In Fig. 25 sono
evidenziate le scritte incise dentro i contorni dei
due utensili e nelle loro vicinanze.
La lettura delle lettere nel manico della
roncola orizzontale è difficile perché la scritta fu
molto probabilmente modificata causando delle
Fig. 24. Campocatino. Roccia incisa con pennati. sovrapposizioni. Una redazione sembra essere
23

batom (sopra batus) astros (Figg. 25, 26); ma è possibile che un d sia stato soprascritto sopra l’a e
lo si sia collegato al t mediante un mal visibile raccordo denotante u. Così, trascurando il b iniziale,
si sarebbe ottenuto dutom / dutus come variante di batom /batus. L’alternanza -om / -us è tra un
singolare e un plurale di maschile in caso accusativo.

Fig. 25. Campocatino. Roccia incisa con pennati: iscrizioni (foto di A. Zavaroni).

Fig. 26. La scritta batom astros e varianti (da foto di A. Zavaroni).


24

L’alternanza dutom / batom è tra due sinonimi significanti ‘morto, defunto’. La radice di dutom
è *dheu̯- ‘svanire, perire, perdere i sensi, morire’ di got. dauþs, anord. dauðr, aat. tōt ecc. ‘morto’.
Mentre *duto- non era finora attestato, il tema *bato- è riconducibile alla base *ba- da cui si ha il
termine ligure ba che funge sia da imperativo 2a sing. col senso ‘uccidi, estingui’ sia da sostantivo
in caso ablativo col senso ‘morte’. Sono anche attestati l’imperativo 2a sing. non apocopato bai (2
casi), il presente indicativo 3a sing. bat e forse bas (2 casi incerti, in uno dei quali una diversa
opzione sarebbe bat), che pare essere un sostantivo significante ‘morte’. Questi termini potrebbero
essere imprestiti dal gallico: cfr. airl. ba e bás ‘morte’ (accanto a bath) e il tema verbale *ba-
‘morire’. L’etimologia delle suddette parole irlandesi è una questione aperta.
Il termine dopo batom o dutom è leggibile come astros con legatura str di tipo consueto ( ) e
con s di grande spessore: indizio che la scritta subì modifiche anche in questo punto. D’altronde un
ulteriore segnale di cambiamenti è che r e os furono incisi in un rialzo che denota l’attaccatura della
lama. Il piccolo o ha la forma di un vaso, a sua volta con figure in rilievo, per motivi simbolici,
mentre s in legatura con o è mal percepibile ed è suggerito più da esigenze morfologiche che da
chiari segni epigrafici. La gobba di r è ripetuta più volte in dimensioni diverse per altri motivi
simbolici (allusione alla crescita). Il nome astros vale ovviamente ‘astro’ (vedi diastros nel § 2).

Fig. 27. Il termine urit.

Nella lama si legge (Fig. 27) il termine finale urit con legatura it di tipo : si tratta di un presente
indicativo 3a sing. derivante dalla base *ur- = *or- (da indoeuropeo *h3er- / *h3 - ‘metter(si) in
moto, sollevar(si), sorgere’; cfr. lat. orior) frequentemente attestata sia con valore transitivo sia con
valore mediale riflessivo.
In conclusione, dentro la roncola orizzontale si può leggere:
1) batom (anche: batus) astros urit ; 2) dutom (anche: dutus) astros urit.
Ambedue le scritte significano: “il morto (anche: i morti) Astros fa sorgere’. Ovviamente Astros
è il dio solare che nel sorgere porta con sé delle anime rigenerate.
La ricchezza di dati ricavabili dalle incisioni di questa roccia, dove a prima vista si notano solo
dei pennati, è incredibile. La sua superficie fu lavorata anche là dove tenderemmo a vedere solo
delle increspature naturali. Per di più, furono incise delle iscrizioni con lettere così piccole che ad
occhio nudo non si notano. Non si notano neppure altre scritte in caratteri abbastanza grandi, ma
ottenuti con lievi raschiature effettuate tra lievissimi rilievi che riproducono rappresentazioni di
carattere sacro. In Fig. 28 ho cercato di evidenziare la scritta ricostruibile subito sotto la roncola
orizzontale. Solo l’analisi computerizzata delle fotografie, effettuate senza presentirne l’esistenza,
mi ha permesso di ricostruirla. Leggo urustom strumat che interpreto come ‘il sorgere (elevazione,
il venir su) fluisce’.
Il dubbio di lettura maggiore riguarda -m finale di urustom che obbliga a considerare il termine
un neutro, essendo esso il soggetto dell’intransitivo strumat ‘scorre, fluisce’. Su due massi sotto la
Pietra di Bismantova (Appennino reggiano) invece di urustom ho letto urustos (per una delle
scritte vedi Fig. 29) che pare essere il nome di un dio solare, dato che dentro la legatura us e l’o
sembrano tratteggiate due facce rotonde. È possibile che il neutro urustom fosse un nome comune e
urustos un aggettivo usato come appellativo divino. Per la formazione urusto- richiama quella di
aggettivi latini come augustus, robustus, onustus, vetustus ecc. La sua radice è quella di urit. Non è
25

chiaramente definibile il senso di urustos, essendo incerto fra ‘colui che fa (ri)sorgere’, ‘sorgivo (>
‘origine’) o ‘che risorge, si leva’. Il neutro urustos sembrerebbe significare ‘il sorgere, il levarsi’.

Fig. 28. La scritta urustom strumat.

Il presente indicativo 3a sing. strumat


deriva dalla base *strum- che si alterna con
*strom- e deriva dalla radice *sreu̯-
‘scorrere, fluire’ (cfr. germ. *straum-)
Sono attestate varie voci verbali ed i
sostantivi strumom (nominativo e accus.
neutro) e strumiam (accusativo femm.)
‘corrente, corso’ (Zavaroni 2011: 224).
Nella parte superiore della superficie
rocciosa visibile nelle Figg. 24, 25 ci sono
Fig. 29. La scritta urustos sul masso sacro di Bismantova.
altre scritte dentro e fuori il contorno del
pennato. Dentro (Fig. 30) ho ricostruito
bustraut tustrut ‘ha picchiato ha colpito’. Il soggetto è il dio ambivalente nel ruolo di mortifero.
Il perfetto indicativo 3a sing. bustraut è un verbo formatosi sul nome bustros ‘picchiatore,
colpitore’, da *bhau̯- ‘picchiare, colpire’ (più precisamente dal suo derivato bhūd-sti- da cui si hanno
pure lat. fūstis e il tardo fūstigō: cfr. IEW 112). Le basi equivalenti *бostr-, *бustr- ( > *bostr-,
*bustr- per deaspirazione) ricorrono molte volte nelle iscrizioni friniati. Più rare sono le basi senza r
(*бost- eccetera). Altrettanto frequente è la base *tustr-, *tostr- dalla radice ie. *(s)teu̯-d- ‘colpire,
picchiare’ con caduta di s- mobile. Anche il verbo tustrom ‘batto, martello, colpisco’ è
denominativo, essendo formato su tustros ‘picchiatore’, sinonimo di бustros, bustros.
Il perfetto indicativo 3a sing. tustrut ‘ha picchiato ha colpito’ è scritto anche di fianco al pennato
(Figg. 25, 31) nella strana forma dovuta ad esigenze figurative. Come a volte accade, i due t
di tust hanno la forma ad ascia; la gobba di r, molto piccola, è intersecata dalla linea che denota il
fondo del secondo u legato con un t che ha la traversa obliqua (ut di tipo ).
26

Fig. 30. Scritte dentro il contorno del pennato superiore (da foto di Mauro Colella).
27

Sotto tustrut, a sinistra rispetto al pennato, c’è un’iscrizione che inizia con = tiut, 3a sing. del
perfetto indicativo del verbo ligure tiom ‘trafiggo, infilzo, uccido’ (frequentissimo è l’imperativo ti
‘trafiggi, uccidi’), da ie. *(s)teig- ‘pungere, bucare’ col solito dileguo di /g/ (Zavaroni 2011: 226).

Fjg. 31. Le scritte tustrut e tiut duto bustraut sulla roccia dei pennati a Campocatino (da foto di Mauro Colella).

Dopo tiut si hanno due piccoli segni: la loro piccolezza li rende mal discernibili, anche perché,
credo, devono dare l’idea di un infilzamento con un’arma appuntita. Il primo di essi sembra
leggibile come = du; il secondo pare essere = to. Insomma, avremmo duto, presumibile
ablativo di un sostantivo neutro *dutom ‘morte’: i già menzionati dutom / dutus (vedi sopra per
l’etimologia) sarebbero l’accusativo sing. e plur. di un maschile *dutos ‘morto, defunto’.
Infine avremmo bustraut, la cui lettura non è agevole per la disparità nella profondità dei tratti
che rendono più incerta la percezione di quasi tutte le lettere. In particolare risulta difficile la
28

percezione della legatura finale aut ( ) le cui lettere sono più piccole.
In conclusione, l’iscrizione sembra essere tiut duto bustraut ‘ha trafitto a morte ha colpito’.

Fig. 32. Scritte ricostruibili nella striscia che sta al di sopra della roncola orizzontale (da foto di A. Zavaroni).

§ 8. A cavallo di un cordone naturale della superficie, ma in gran parte ritoccato dagli incisori, si
notano delle scritte interferenti con le figure fittamente incise sulla superficie l’una come appendice
dell’altra. Ciò che ho tentato di ricostruire, con l’attenzione quasi del tutto rivolta alle iscrizioni, si
vede in Fig. 32. Partendo da sinistra, in alto, è
evidenziato il nome divino cusar ‘colui che (si)
scuote’ che almeno in un caso è sovrapposto a
dar ‘colui che monta, si accoppia’. Possibile, ma
difficile da verificare, è la presenza di mars
‘Marte’ (attestato in altre iscrizioni liguri) in
sovrapposizione parziale con cusar. Più sotto
sembra presente il teonimo tumua ‘Gonfia,
Copiosa, Ricca’ (per l’etimologia vedi il § 6).
Poi, su diversi livelli, sono ripetuti i teonimi
cusar e dar. Circa a metà di Fig. 32 c’è un
fantastico intreccio di bassorilievi in miniatura
riguardanti la dea “mozzata”. Secondo una delle
ricostruzioni (Fig. 33 B) la dea è rappresentata in
due scene. Nella prima è supina e il suo cagnolino
le sta sulle cosce. Nella scena successiva la dea è
sdraiata di fianco con la testa vicina a quella di un
neonato. Sovrapposto alle figure c’è due volte
l’epiteto tomua ‘la mozzata, troncata’ (Fig. 32).
Fig. 33. Particolare di Fig. 32. Leggo tomua due volte anche dentro un
successivo contorno avente forse la sagoma di un uccello (Fig. 32), dentro il quale ci sono altre
piccole figure che sfumano l’una nell’altra. Ma almeno in un caso la lettura va completata in
29

tomuar che è un nome d’agente come tanti altri nomi terminanti in -ar, -ur.
La radice indoeuropea di tomua e tomuar è *tem-, causativo *tom- ‘tagliare’. In varie iscrizioni
si ha pure il tema toms-, dove s ha funzione intensiva. Ad esempio, ad Ospitale, oltre agli imperativi
2a sing. tom, tome, si ha l’indicativo presente 1a sing. tomsom > tomso. A Rovinamala di
Montecreto sono attestati tom, tomue (altra forma di imperativo), tomso, tomsumos, tomumus e
al Ponte d’Ercole abbiamo gli indicativi pres. 3a sing. tomat e tomuat, 1a pl. tomumus, tomsemus,
1a sing. tomsom, l’imperativo tom e anche il sostantivo tomsur ‘Tagliatore, Spaccatore’ che
equivale a tomuar.
In Fig. 32 sotto le rappresentazioni della dea mozzata è ricostruibile il nome divino druar ( ).
Le parti curve sono delineate in modo da rappresentare anche dei profili di facce umane. Druar è
attestato ad Ospitale, Rovinamala e Ponte d’Ercole e sembra a volte un appellativo di Drumbos. La
sua radice è probabilmente *dreu̯-, ampliamento (secondo IEW 205) di *der- ‘correre, camminare,
trottare’; ma mi sembra probabile che esso significhi ‘girevole, versatile’. Infatti su una pietra di
Rovinamala druar segue cardos, che è comparabile con lat. cardo, -inis ‘cardine’, da ie. *(s)ker-d-
‘muoversi girando, agitarsi’, ampliamento di *(s)ker- ‘girare, piegare’ (IEW 934-935). Altre radici
indoeuropee significanti ‘correre, muover(si) rapidamente’ hanno prodotto termini indicanti
‘girare’. Il senso ‘girevole, versatile’ permetterebbe un’assimilazione con il dio latino Vertumnus
che in età arcaica, prima dell’instaurarsi della supremazia di Giove nel culto romano, doveva essere
uno degli dèi più importanti in qualità di governatore dei cicli universali, del volgere delle stagioni e
del ciclo vita-morte-vita. Il segno iniziale di Druar e Drumbos consisteva comunemente nella
legatura = dr che alludeva sia ai cicli sia alla natura ambivalente del dio.

Fig. 34. Minuscola figura di dormiente con testa canina (particolare di Fig. 30).

Minuscoli segni di scrittura sembrano presenti anche sul corpo del(la) dormiente di Fig. 34. Ma
la loro lettura, almeno in base alle fotografie in mio possesso, mi sembra molto difficile. Una
possibile, ma incerta lettura è osmos, forse in sovrapposizione con tomua. Come si è visto nel § 5,
osmos (‘ardore, calore’ > ‘passione amorosa’) sarebbe il nome del cane della dea mozzata.

§ 9. La roccia di Campocatino con le incisioni delle


roncole è completamente ricoperta di figure, sebbene ciò
difficilmente appaia ad un osservatore abituato a cercare e
percepire soltanto i segni incisi più nettamente. Qui
presento alcune delle tante rappresentazioni.
La Fig. 35 concerne un’area rettangolare alta circa 3,6
cm. che in Fig. 28 sarebbe in corrispondenza della seconda
gamba dello m della scritta strumat. Vi si può riconosce la
dea mozzata associata a dei cani. Un cagnolino è tenuto
sotto braccio dalla dea che è in piedi come se corresse. La
sua figura appare agitata, anche perché altri minuscoli
Fig. 35. Particolare di Fig. 26. disegni che sfumano l’uno nell’altro sono incisi dove
dovrebbero essere le gambe. Fra essi vedo altre ambigue
figure piccolissime della dea mozzata che s’intrattiene con un cane.
30

Accanto al viso della dea c’è un oggetto con un’appendice conica, forse un vaso capovolto o una
conocchia. Il capo della dea è in procinto di essere morsa dalla bocca di una testa molto più grande.
Questa testa, però pare sdoppiarsi: naso e bocca concorrono a formare un piccolissimo tronco di
corpo femminile che preme il volto di una donna. D’altra parte, come in altre figurazioni, sul busto
della dea delineata in Fig. 35 campeggia una
faccia con la bocca aperta.
Trovo molto artistica la rappresentazione di
Fig. 36, la cui altezza è di circa 5 centimetri.
Anche qui è raffigurata la dea mozzata col cane.
Come al solito le figure si sdoppiano, si molti-
plicano indefinitamente. In Fig. 36 ho scelto
alcune delle varie ricostruzioni possibili. La dea è
in piedi ed il suo corpo ora pare visto di fronte
con la testa voltata ora di fianco in atteggiamento
amoroso con un’altra persona il cui corpo è però
sfuggente: ora sostituito da un corpo femmineo o
di ragazza/o di minore statura ora dai corpi di due
cani aderenti al petto e al ventre della dea.
Molto bella è la figura di un terzo cane visto di
fronte come se le sue zampe pendessero dalle
ginocchia di un’ulteriore figura femminile seduta
(non evidenziata in Fig. 36) che tiene il cane sulle
gambe e che pare avere più facce.
Fig. 36. La dea mozzata e il cane. Nella rappresentazione della dea stante vista di
fianco evidenziata in Fig. 36 il braccio non c’è (in
effetti la dea in quanto “mozzata” è spesso raffigurata senza arti) e al di sotto del moncherino pare
delineato un vaso che ritengo alluda alla raccolta del sangue della dea trasformato in liquido
spermatico per la fecondazione universale.
La Fig. 37 è un esempio dei tantissimi
ritratti percepibili nello spazio della Fig. 28.
Il volto a destra col mento pronunciato
potrebbe anche essere percepito come un
corpo femminile visto da dietro. Inoltre tale
volto si può sdoppiare in due profili.
Semplicità e linearità sono bandite dalle
espressioni artistiche dei Liguri per i quali
l’universo è continuamente mutevole: gli
esseri viventi, compresi gli dèi, sono sempre
Fig. 37. Piccoli ritratti. in evoluzione e cambiamento: l’ambiguità, il
sembrare più cose, l’accavallarsi di entità
sfuggevoli, non ben determinabili, sono i concetti che ispirano l’arte ligure che d’altra parte si limita
alla sfera religiosa e alla concezione dell’universo collegata alla religione. Ritengo che anche i
numerosissimi volti umani ora giovanili ora barbati, ora senili ora grotteschi e le facce di animali,
belve e mostri che ho visto su numerose rocce e pietre incise dell’Appennino tosco-emiliano e della
Liguria siano espressioni di esseri divini, alludano ad epifanie soprannaturali o almeno surreali, a
cui ovviamente sono spesso attribuiti aspetti e atteggiamenti visibili nella realtà umana e terrena.
La Fig. 38 ritrae una piccola area presso il bordo sinistro del masso (vedi Fig. 24) su cui sono
incise le roncole. Vi vedo un gruppo di animali, per lo più cani, che si accalcano lungo quello che
sembra essere il bordo di un rialzo rappresentato dal cordone naturale ‒ ma su cui gli incisori hanno
lavorato ‒ che divide in due parti la superficie. Se però si continua a guardare la Fig. 38 per cercare
31

il significato della rappresentazione, balzano agli occhi altre immagini: facce umane deformi,
mostruose o di defunti, teste canine con tre facce, volti che è difficile dire se siano umani o canini o
comunque bestiali. Vari disegni di facce e teste sfumano l’uno nell’altro in un volgere mutevole di
fantasmi. Anche qui abbiamo un’espressione artistica improntata al concetto che la realtà è illusoria,
formata da esseri in continuo mutamento.

Fig. 38. Branco di cani raffigurati sulla roccia dei pennati a Campocatino (da foto di A. Zavaroni).

Alcuni dei cani raggruppati sembrano intenti a frugare o mangiare qualcosa (animale?) che sta
sotto. Al di sopra dei cani intenti a frugare o mangiare c’è un gruppo di teste ora animali ora umane
a seconda di come si fissa lo sguardo. Altri, a destra in alto in Fig. 38, sono rappresentati uno dietro
l’altro. Questo insieme, però, dà adito anche alla percezione di un corpo femminile semidisteso.
Al di sotto di quello che sembra essere il bordo di un precipizio si vedono tre cani che accostano
le teste l’una all’altra.
Se distogliamo lo sguardo e successivamente guardiamo il masso nella zona in cui ci sembrava
di aver visto dei cani messi l’uno dietro l’altro, può accadere che si percepisca al loro posto un
corpo femminile disteso all’indietro, col busto sollevato e la testa senza i lineamenti del volto (Fig.
39). Presso questa figura ce n’è un’altra in piedi e dietro questa una terza che tiene in braccio dei
piccoli cani; ma al posto dei cani si può pure percepire una faccia con tratti sia canini sia umani.
All’altezza del braccio della terza persona c’è una rotondità che probabilmente rappresenta una testa
mozzata e sotto questa si vede una persona umana più piccola che impugna un coltello. È da
supporre che il coltello sia l’arma con cui è stata tagliata la testa e che l’autore della decapitazione
sia il personaggio più piccolo: egli è presumibilmente il deus puer, equiparabile ad un Marte
bambino o ad un latino Vediovis (che era raffigurato come un deus puer) che taglia la testa al dio
senior per succedergli all’inizio del nuovo anno, dopo il caos universale dei giorni successivi al
solstizio invernale (poi divenuti i giorni dei Saturnali nella Roma arcaica). Il dio senior è forse il
32

personaggio più vicino alla donna semisdraiata che certamente raffigura la dea mozzata. La testa del
dio può essere percepita o come barbata e chinata verso la dea o come belluina e minacciosa. In Fig.
39 ho cercato di evidenziare i due modi, perdendo la potenza espressiva dell’incisore. È da notare
che il ventre della dea si confonde con una faccia, essa pure avente connotati tanto canini quanto
umani. Si è già visto come la dea fosse chiamata dai Liguri Mutua (§ 5), Tomua (§ 8) e Tumua (§
6). I primi due appellativi la indicano come ‘mozzata’, il terzo come ‘gonfia, ricca, che accresce’.

Fig. 39. Particolare della Fig. 24.

Fig. 40. Particolare della Fig. 32.

Una rappresentazione straordinaria è riprodotta in Fig. 40. Si vede una figura umana seduta che
ha sulle gambe incrociate un oggetto quadrato, forse una tavoletta istoriata. Dentro la tavoletta a
destra sono raffigurati più uccelli, come al solito sovrapposti e alcuni dentro il contorno di altri. A
sinistra c’è una figura mal definibile anche a causa della sua piccolezza: un bambino? un feto? Poco
probabile è che sia la dea mozzata. In ogni modo ritengo che si sia voluto alludere all’infusione del
33

soffio vitale (simbolizzato dagli uccelli) all’atto della creazione degli esseri viventi. È inoltre da
notare che la tavoletta quadrata e le gambe su cui essa poggia formano una specie di mascherone
che potrebbe rappresentare una fonte dell’acqua della vita.
Il personaggio seduto ha in testa un cappello con falde larghe e al di sopra di esso si vede una la
sagoma avente la forma di un mezzo uovo dentro cui appaiono i profili di due facce che si
fronteggiano. Mi pare possibile che esse alludano ai due genii, l’uno tendente al bene e l’altro al
male, che si contendono le anime rigenerate. La sagoma del mezzo uovo contiene pure la legatura
sar di una scritta cusar. È da supporre che cusar sia il nome del personaggio divino seduto. A
destra in alto si possono delineare varie figure a seconda di come l’occhio struttura i pieni e i vuoti:
oltre a una testa che non si sa se sia canina o bovina o felina si può percepire una testa di cavallo
chinata verso il dio. Alla sinistra del dio si può percepire una cornucopia che però si fonde con la
parte superiore del corpo di un uccello. D’altronde un’altra cornucopia si può vedere più a sinistra.
Il primo corno dell’abbondanza pare avere la superficie lavorata con la figura di una donna, ma il
contorno della cornucopia stessa richiama il corpo senza gambe di un uomo che leva in alto le
braccia (non evidenziato in Fig. 40).
Sulla sinistra in basso le figure percepibili che si accavallano sono varie e numerose. Ho
evidenziato quella di una persona seduta sulla cui testa c’è una macchia più scura avente la forma di
un uccello acquatico, simbolo di generazione.

§ 10. In Tabella 1 è riportato l’alfabeto modello delle iscrizioni liguri. Esso è stato dedotto
dall’esame delle iscrizioni friniati (Zavaroni 2011: 1). Nelle iscrizioni liguri che ho trovato finora si
nota un raro uso del grafo = (che trascrivo per affinità visiva con б), denotante
presumibilmente il suono aspirato [bh] (da indoeuropeo [bh] e a volte [dh]). Mentre ie. [bh] in umbro
e latino passò a [f], in ligure si ebbe lo sviluppo [bh] > [b] per deaspirazione. Questa deaspirazione
avvenne evidentemente dopo l’adozione della scrittura e ovviamente vi fu un periodo in cui la
deaspirazione era facoltativa. È probabile che per influenze esterne in alcune aree geografiche la
scomparsa dell’aspirazione sia stata più rapida.

Tabella 1. Alfabeto modello delle iscrizioni liguri, desunto da quelle del Frignano.
34

In ogni modo tra le iscrizioni dell’Appennino tosco-emiliano e tra quelle della Liguria attuale
finora esaminate non esiste un grafo che marchi [f]. Siccome non esistono neppure i grafi g e h, è da
supporre che le gutturali sonore [g] e [gh] fossero svanite prima dell’uso della scrittura. Ovviamente
si pone allora il problema della presenza di nomi con g come Genua nella toponomastica7 e nella
onomastica in generale. Siccome noi per il momento conosciamo solo la loro forma latinizzata,
occorre valutare caso per caso se la presenza di g sia dovuta ad una mediazione gallica o alla
traduzione latina di nomi il cui senso era noto.
Poco usato, nel territorio dell’attuale Liguria, appare anche l’uso di grafi per [v] distinto da [u],
[u̯]. Non è finora apparso, nella Liguria attuale e nelle Alpi Apuane, il segno che in rare iscrizioni
del Frignano denota [ʎ] (l laterale palatale reso in italiano con {gl} in gli, figlio ecc.) in parole che
iniziano per li-. Questo l palatalizzato è a volte denotato dal trigrafo lil : ad esempio lilitu deve
essere letto come [ʎitu] (ital. [gli-tu]), mentre pi è da traslitterare in [gli-pi].
Anche Z denotante [ts] non è ancora apparso in iscrizioni della Liguria, mentre in rare iscrizioni
friniati appare in parole desunto dall’etrusco. Il segno Z è presente quattro volte nell’iscrizione di
Beverino, ma tre di essi, alla fine dell’ultima riga, sono simboli del principio dualistico che secondo
i popoli dell’Europa arcaica permeava il mondo: quindi Z è assimilabile a , , , , , , , ,
3, dove il simbolo è formato da asce o falci stilizzate i cui manici si sovrappongono o si incrociano
e le cui lame comunque sono opposte. Nel quarto caso Z fu usato invece di un normale s perché si
voleva suggerire la duplicità di lettura del termine in cui è inserito, duplicità resa possibile dalla
presenza del successivo segno a croce il quale denota sia it sia ti. Insomma, si voleva indurre a
leggere sia бusit sia бusti i quali esprimono concetti contrapposti ‘crea, fa diventare’ e ‘colpisci,
picchia’ (Zavaroni 2016).
Rispetto al Frignano, in Liguria i segni per [m] sono normalmente , , mentre rari sono quelli
di tipo , : l’ultimo è usato in qualche legatura.
È poi da tener presente l’assenza del rotacismo [s] > [r] che caratterizza l’umbro e il latino.
L’uso di legature nelle iscrizioni che finora ho trovato nell’attuale Liguria e alta Toscana è
frequente come nelle iscrizioni dell’Appennino emiliano. In Tabella 2 sono riportate alcune delle
legature finora riscontrate nell’attuale territorio ligure e a Campocatino.

= am = ama = astr = au = aut = ci = di = dr

= du = im , , = lu , = it , = om = ir = mu = li
, = os = drus = tous = tu = str , = ut = tiut = ri

= udr = tus = tustr , = st , = tr , = to = uru , = ti

= cus , = cus = , = si = dar = irmu = cusar = scur = cuar

Tabella 2. Esempi di legature riscontrate nell’attuale territorio ligure e a Campocatino.

7
La prima attestazione di Genua è su un cippo miliario del 148 a.C. (CIL I¹ 540 = CIL V 8045) trovato a Verona, su cui
si legge S(purius) Postumius S(puri) f(ilius) S(puri) n(epos) / Albinus co(n)s(ul) / C[X]XII Genua Cr[e]mo[nam] /
XXVII.
35

Riferimenti bibliografici

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Liber Haruspicinus: istruzioni per gli aruspici”, with an English translation of the Etruscan text,
2015, in www.academia.edu/.
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L’iscrizione di Beverino (La Spezia), in www.academia.edu/.

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