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PALATINO 313

Dante Poggiali, Firenze


è uno dei codici più importanti contenenti il testo della Commedia di Dante Alighieri,
uno dei primi progetti di illustrazione dell’intero poeta, tuttavia non portato a termine,
come provano lo squilibrio quantitativo tra le cantiche e la presenza di spazi vuoti
deputati per vignette e lettere capitali. È anche abbastanza alterato per manomissioni
nel corso del tempo.
Fu realizzato intorno al 1325-1350 ed è adornato da 37 miniature della bottega
di Pacino da Bonaguida, ed è scritto in litterae textualis, un tipo di scrittura
sviluppatasi nella Francia Settentrionale quale evoluzione della minuscola carolina.
Non ha la canonica impostazione a monocolonna della scrittura in textualis, come nel
caso dell’Egelton 943, Hamiltoniano 203, l’Urb 366, e le tre copie del Boccaccio, ma
l’impostazione è a bicolonna e presenta uno stretto specchio rigario. Il Pal. 313
rappresenta uno dei pochi codici dell’Antica Vulgata che usa la forma grafica in
littera textualis, e reca un commento a cornice.
Il Palatino 313 risultò appartenente a Piero del Nero, letterato e uomo politico
fiorentino; fu acquistato da Gaetano Poggiali che usò il suddetto codice per l'edizione
della sua Commedia, e che per questo motivo è conosciuto anche con il nome
di Dante Poggiali. Queste annotazioni, scritte in lingua volgare da varie mani ai
margini del testo della Commedia e risalenti al secondo quarto del XIV secolo (e si
discute se quella che annota l’Inferno sia di Jacopo Alighieri), costituiscono un
fondamentale strumento di conoscenza dell’opera di Dante, e, insieme alle
illustrazioni primo trecentesche che le accompagnano rappresentano uno
straordinario e antichissimo esempio di commento illustrato.
Famoso per la presenza al suo interno di una serie di chiose che prendono il nome di
"Chiose Palatine". Forse è il primo commento realizzato a Firenze, commento
anonimo, era stato considerato all’inizio come una fase embrionale dell’Ottimo e poi
smentito. Ricondotto anche a Iacopo Alighieri per la formula in chiusura IA, che non
è l’acronimo per Iacopo alighieri, ma è una semplice formula di chiusura attinta
dall’orizzonte notarile.
La datazione delle glosse è ante quem 1333 e che non hanno un termine post quem.
Ciò contribuisce la difficile datazione del commento a rendere difficile anche la
collocazione cronologica del manoscritto. Come è accaduto per coloro che si sono
approcciato a questo codice (tra i quali studiosi Singelton, Mais, Petrocchi, Baldo,
Spagnesi) non sono d’accordo della datazione del manoscritto. Le datazioni proposte
vanno dal 1330 alle soglie del 1350. Non giova l’impostazione grafica, e nemmeno la
situazione iconografica. La difficoltà delle interpretazioni storico-artistiche inoltre è
divergente con quelle paleografiche e codicologiche.
Il manoscritto si presenta come un progetto incompiuto, da un punto di vista
esegetico, e da un punto di vista del corredo iconografico.
Il progetto iconografico prevedeva un corredo esteso, ma noi abbiamo solo 37
miniature, cioè tutto l’inferno illustrato, con due illustrazioni al purgatorio e una sola
illustrazione al paradiso. Due capilettera abitati solo per Inferno e Paradiso, rimasto
vuoto il Purgatorio: nell’Inferno Dante allo scrittoio; nel Paradiso l’arcangelo
Gabriele. Dunque, purgatorio e paradiso dovevano essere illustrate ma non sono state
realizzate. Il Dante Poggiali è ritenuto a lungo il portatore più antico del corredo
illustrato della Commedia, uno stimolante work in progress in cui l’illustrazione si
intreccia in modo complesso con il testo e il commento. Chi ha progettato questo
libro ha inteso costruire un sistema capace di tenere insieme testo, glosse e vignette,
rispettando rigorosamente le scansioni strutturali dell’opera, la vignetta miniata
offrendo una sorta di sintesi visiva del canto che sta per iniziare o che si è appena
concluso.
Lo status attributivo legato alle singole miniature: non c’è stato un progetto
unitario, non vi è un unico miniatore responsabile delle illustrazioni. È qui un caso
emblematico in cui è difficile la schedatura tecnica del codice: coesistono addirittura
sei mani diversi e sicuramente operanti in distanza di tempo, e ciò dimostra quanto è
stata tormentata la genesi della redazione del manoscritto già in fase di bottega. È
stata sicuramente una committenza di lusso che non badava a spese (sintomatico è la
presenza di un enorme consumo di pergamena en mes de page).
Gli spazi erano stati calcolati per il testo della Commedia, ma per il caso delle Chiose
gli spazi erano un po' fumosi. Inoltre, colui che faceva i calcoli, doveva non solo far
coincidere i fogli di pergamena con la grafia, e anche ciò era calcolato nel preventivo
della committenza. Per la prima volta, se prestiamo fede alla tradizione alta, qui vi era
la volontà di far coincidere il testo di Dante con il testo delle Chiose.
Probabilmente l’interruzione del progetto è stata indotta anche dalla difficoltà di far
coincidere testo primario con testo secondario e per di più il corredo iconografico;
colui che doveva redigere tale manoscritto si trovava di fronte a difficoltà non
indifferenti.

SCHEDA
Manoscritto membranaceo, guardie cartacee; sec. XIV, 2° quarto, data stimata;
Firenze;
Dimensioni: mm 298 x 210 (c. 30r); le dimensioni di alcune carte sono soggette a
discrete variazioni. Taglia: 508 (medio-grande). Proporzione: 0.7. 

Fascicolazione: Cesura di fascicolo tra le cantiche. Fascicolo prevalente: 4 bifogli


(quaternione).

Disposizione del testo: bicolonnare con i versi spezzati e commento a cornice per la
prima cantica. 

Osservazioni:
Scrittura e mani: Mano 1: progetto originario, patina linguistica fiorentina; Mano 2:
aggiunta a progetto originario; Mano 3: aggiunta a progetto originario; Mano 4:
aggiunta a progetto originario. Per le peculiarità paleografiche e codicologiche, il
manoscritto si presenta come un unicum all'interno della tradizione trecentesca. Le
colonne, evidentemente troppo strette per contenere l'endecasillabo, spezzano il verso
non sempre in coincidenza con l'emistichio. Le carte palinseste e il retro delle
miniature incollate testimoniano come il codice sia passato attraverso un elaborato
periodo di progettazione e sono riprova del fatto che è un prodotto di bottega.

Le Chiose Palatine, dal nome del manoscritto, sono impostate come una cornice che
inquadra il testo e l’iconografia. Sono in volgare a tutto l’Inferno ed elaborate da un
unico estensore toscano, se non fiorentino, unico responsabile sia del testo sia delle
glosse di tutta la prima cantica, al quale si sono aggiunti altri due estensori che hanno
trascritto delle chiose sporadiche ai primi quattro canti del purgatorio in latino alla
fine del Trecento. In particolare, le chiose del purgatorio e del paradiso non sono di
prima mano, ma sono traduzioni in latino del commento di Iacopo della Lana
(esempio emblematico della fortuna della sua esegesi).

Presenta la tipologia della rubrica in volgare lunga (così come in Triv).


IMPAGINAZIONE: bicolonnato; Le colonne, evidentemente troppo strette per
contenere l'endecasillabo, spezzano il verso non sempre in coincidenza con
l'emistichio, non c’è una corrispondenza tra rigo e verso, è un unicum di tutti i codici.
La strutturazione riprende il Riccardiano Braidense: quest’ultimo differisce solo in
quanto la colonna è singola.

CHIOSE PALATINE
DATAZIONE: ante quem 1333, controprova dalla Cronica di Giovani Villani, data
del crollo di Ponte Vecchio a causa dell’alluvione, sopra il quale le Chiose affermano
si trova ancora la statura di Marte. Post quem, 1321, in quanto non abbiamo alcuna
indicazione. Commento non collocabile ai primi anni Venti poiché la Commedia a
Firenze non era ancora arrivata; slittiamo la datazione ai primissimi anni Trenta,
quando l’opera cominciò a circolare anche in zona fiorentina.
È un commento anonimo, non abbiamo tracce autoriale nel commento. Per l’Inferno
esse furono stilate dalla mano principale, che è sicuramente fiorentina; altre due mani
diverse e più tarde apposero alcune chiose soprattutto a Purg e Par. Una quarta mano
è riconoscibile in alcuni interventi di minore interesse. Le chiose al Purg e al Paradiso
derivano dal commento di Iacopo della Lana, ma le une sono tradotte in latino e
abbreviate, le altre sono in volgare. Con le Chiose Palatine si intenderà indicare
l’apparato relativo all’Inferno della mano principale.
Fin a quando non uscì nel 2000 l’Edizione Nazionale, si riteneva che il commento
fosse attribuibile allo sviluppo esegetico di Iacopo Alighieri.
Delle 174 glosse nelle Expositiones di Iacopo Alighieri, 147 glosse sono state
trascritte nelle Chiose Palatine. L’autore delle Chiose Palatine ha saccheggiato il
commento di Alighieri il figlio.
Altro indizio molto forte è che alla fine delle glosse ci sono le iniziali di Iacopo
Alighieri ( .ja.) e che ha portato a credere di essere difronte alle glosse di Iacopo.
Tuttavia, esistono delle tracce e indizi che ci permettono di smentire ciò: ja non è una
sigla esclusiva del manoscritto, ma è un segno convenzionale per dire che l’enunciato
finiva là, come una specie di punto fermo.
Seconda prova a sfavore è che la glossa all’inferno 1.1 non ritrova riscontro nelle
glosse di Iacopo Alighieri; la glossa capitolo III v. 83 non presenta la sigla IA;
eppure, la glossa è presa parimenti da Iacopo Alighieri. In altre parole, la sigla ricorre
anche per chiose che non sono riconducibili a quest’ultimo.
Il commento di Iacopo è riprodotto per più della metà, in lezione talvolta migliore di
quella offerta dalla tradizione. Un’ altra caratteristica delle Palatine è che l’autore dà
importanza alle fonti storiche, come nella glossa capitolo XII v. 134 in cui parla di
Attila: l’autore utilizza come sua fonte la Cronica di Giovanni Villani, cronica che
viene utilizzata anche dall’Ottimo commento; quindi, significa che la Cronica
circolava anche prima della sua diffusione ufficiale. Inoltre, le fonti privilegiate sono
la Bibbia e il Dante con Dante.
Glossa I. 31 è replicata due volte, presa parimenti da Iacopo Alighieri e si conclude
con la sigla IA;
un'altra da Bambaglioli volgarizzato che circolava dagli inizi degli anni 30.
Ultima glossa è che contribuisce a dimostrare la conoscenza dello strumento
esegetico, XVIII v. 1: alla fine della glossa c’è una citazione dalla Declaratio di
Guido da Pisa.
Le Chiose Palatine, inoltre, sono state considerate per molto tempo una prima
versione dell’Ottimo Commento. S. Bellomo aveva notato che nell’Ottimo c’era una
forte presenza delle Chiose Palatine, così come vi erano affinità autoriali e quindi si
pensava che l’autore avesse messo mano alle Chiose Palatine, in un secondo
momento allargate nella versio maior dell’Ottimo.
In recenti studi ci si è resi conto che i due commenti presentano differenti
interpretazioni e dunque non sono imputabili allo stesso autore.
Le Chiose hanno anche un carattere di totale incompiutezza, non solo perché si ha il
commentato solo all’inferno, pochi canti del purgatorio e del paradiso, ma anche
perché il progetto iniziale probabilmente doveva prevedere tutte e tre le cantiche. Ma
l’incompiutezza si evince anche nelle glosse stesse. Esempi:
- Inferno XIV v. 15, primo esempio di incompiutezza, probabilmente perché il
commento è una copia e quindi il copista ha fatto una lacuna, o perché voleva
l’autore voleva lasciare uno spazio per la lacuna e poi riprenderlo in un
secondo momento, tipologia di errore frequentissimo.
- Inferno II v. 10 altro esempio di incompiutezza.
Fonti che ci attestano la dimensione di sperimentalismo dell’esegesi dantesca, che
porterà con il tempo a Guido da Pisa o Iacopo della Lana.
Lo sperimentalismo si evidenza anche nell’aspetto delle rubriche: qui hanno una
particolarità in un LEMMA PARTICOLARE.
La rubrica è un apparato paratestuale e introduttivo al canto. Qui le rubriche hanno
due caratteristiche: i canti sono chiamati capitoli; quindi, la rubrica non è più legato al
testo primario ma al commento. Si aggancia alla rubrica una prima glossa, quasi
proemiale.
Fitta è la relazione anche tra esposizione verbale e l’apparato iconografico, ma con
una non fedeltà al testo della Commedia. Esempio tale è la rappresentazione di
Gerione nelle bolge: la rappresentazione di Gerione sembra seguire le chiose e non il
testo dantesco. La chiosa introduttiva, infatti, suggerisce che Dante e Virgilio
"passaro il fiume" in groppa a Gerione il quale, infatti, è rappresentato come una
sirena o comunque un animale marino al di sotto del quale è presente il Flegetonte.
Gerione non è più un mostro alato, ma un demone che naviga nel fiume e prende
Dante, non sull’orlo del baratro, ma sulla riva.
Non sappiamo se il miniatore sia stato influenzato dalla rubrica, o se circolava l’idea
di una fisionomia di Gerione un mostro marino, cioè sia il miniatore sia il
commentatore erano d’accordo che Gerione era un mostro marino.
Anche nel manoscritto m676, tardo trecentesco che tramanda l’Ottimo, presenta una
illustrazione libera in cui il miniatore napoletano ha aggiunto in uno spazio bianco
lasciato dall’autore che era Andrea Lancia: anche qui Gerione naviga sul fiume.

ASPETTO CODICOLOGICO E ICONOGRAFICO DEL PALATINO 313


L’illustrazione è squisitamente narrativa, indifferente a qualsiasi implicazione di
tipo morale o allegorico. In scena sono il pellegrino in viaggio con le sue guide in un
mondo di cui sono raffigurati, in modo sintetico ed efficace, i tratti più significativi,
compresa la varia tipologia delle pene infernali, l’angelo portiere nel Purg, la struttura
dei cieli attraversati in volo per giungere alla visione di Dio, qui evocati con pochi
tratti in una delle rare immagini dedicate, a quest’altezza cronologica, a illustrare
realisticamente l’ascesa all’Empireo e in generale l’esperienza paradisiaca del
pellegrino.
Nella pagina incipitaria dell'Inferno, nella vignetta vi è una illustrazione simultanea:
Dante smarrito nella selva / Dante ai piedi del colle davanti alle tre fiere / Dante parla
con Virgilio indicandogli la lupa. Dante è replicato con l’intento da parte
dell’illustratore di elaborare una scena in movimento. È evidente che da questo
codice in poi la tecnica dell’illustrazione simultanea diverrà diffusissima, anche in
miniature libere, non incorniciate.
 Tabula immagine che apre l’inferno I, attribuita a un maestro dantesco e che
ha caratteristiche narrative particolari:
- La replica del personaggio, che abbiamo visto già con il maestro delle Effigi
domenicane, come nel Purgatorio del Triv.1080. Operazione che serve a dare
dinamismo alla scena. Va da letta da sinistra verso destra: Dante smarrito,
incontra le tre fiere, a colloquio con Virgilio. Tutto intorno una serie di dettagli
riconducibili al primo canto: la selva, le tre fiere, il sole. Immagine che è stata
sovrapposta a un riquadro bianco che poi è stato sanato all’inizio del 400 da un
altro artista. Nel Quattrocento si presentava con il frontespizio che presentava
testo commedia, capolettera con dante allo scrittorio, testo Chiose a tenaglia e
un riquadro bianco. Qualcuno ha disegnato Dante dopo lo smarrimento, con le
tre fiere, e Dante a colloquio con Virgilio con il sole e le stelle in cielo (dunque
anche con un ampliamento) che illuminano l’ascesa impedita dalle fiere.
Nell’Ottocento sopra il riquadro disegnato è stata sovrapposta e incollata la
miniatura che vediamo oggi, verosimilmente di area fiorentina e coevo al
manoscritto Pal. Probabilmente questa operazione di restauro è stata
determinata dal fatto che questo codice doveva avere un alto valore. colui che
ha fatto ciò, ha ritagliato da un altro codice che doveva contenere il testo della
Commedia è sovrapporlo al codice Palatino. Vi è anche coerenza in questa
operazione: colui che nell’Ottocento ha fatto questa operazione sapeva bene
che il maestro dell’illustrazione era lo stesso, ossia il primo maestro daddesco è
lo stesso che ha realizzato le miniature fino al canto V dell’Inferno.
- In Infer. III: illustrazione simultanea e Dante replicato: Dante vestito in
azzurro- Virgilio in colloquio con Caronte sulla barca (ma senza anime).
Virgilio prende per mano Dante e attraversano la porta dell’Inferno, dato dal
nero che ne deriva, il fuoco che viene fuoco, e la scritta sull’ingresso. Nel testo
della Commedia, Dante fuori dall’inferno incontra prima gli ignavi (senza
infamia e senza lodo), e poi solo dopo arrivano alla trista riva dell’Acheronte.
Dunque, qui c’è un’inversione, ma determinata dalla fonte ben precisa che è
l’Eneide. Nell’Eneide, Enea e la Sibilla incontra prima Caronte e poi entra nei
Campi Elisi. Questo dettaglio ci fa pensare che nei primi lavori iconografici
dell’opera gli artisti si siano rivolti a cartoni iconografici pregressi. I precedenti
nella scesa dell’Inferno erano Enea e San Paolo (come lo stesso Dante dice), e i
maestri, influenzati anche dalla presenza di Caronte ed elementi che
rimandavano a Virgilio, così come il primo maestro daddesco, probabilmente
si rifacevano a cartoni iconografici ripresi dall’Eneide.
Conferma del fatto che chi allestiva il progetto iconografico conosceva poco la
Commedia: l’artista mette l’immagine non solo attraverso il testo primario, ma
attraverso le fonti, creando corti circuiti evidentissimi.
- Inferno V: l’illustratore mette in scena Minosse e le anime in attesa, e non
Paolo e Francesca e men che mai la loro storia.
 Dall’ Inferno canto VI fino al XIII interviene il secondo miniatore daddesco:
- Inferno VI- Dante e Virgilio sono rappresentati solo una volta, allo stesso
tempo è un’opera statica ma anche dinamica perché nella stessa tabella stanno
avvenendo vari momenti: Virgilio che lancia la terra nelle fauci di Cerbero-
Cerbero che scuoia l’anima dei golosi- Cerbero che si mostra fiera crudele. La
cornice che chiuse la tabella ha un colore più chiaro rispetto il primo maestro
daddesco.
Cerbero qui è rappresentato più vicino al testo della Commedia. Dante quando
narra dei demoni non dà una descrizione fisica oggettiva, come nel caso di
Cerbero usa l’avverbio “caninamente”. La fattezza demoniaca è realizzata in
questo modo nel Palatino, ossia Cerbero con tre teste, peloso, con gli artigli, il
fuoco che esce dalla bocca le orecchie. Diversamente, nello Strozziano 152
Cerbero è rappresentato davvero come un cane con tre steste, segue la
rappresentazione classica.
 Responsabile della parte più corposa, dall’ Inferno XIV fino al XXXIII e anche
nelle illustrazioni del Paradiso, interviene la terza mano, detto maestro
pacinesco della bibbia Trivulziana. È stato ritrovano, infatti, lo stesso
maestro delle miniature nel manoscritto Trivulziano 2139 che tramanda la
Bibbia, databile agli anni 30 del Trecento.
- Canto XXV Inferno: Dante e Virgilio rappresentati una solo volta- Vanni Fucci
inghiottito dai serpenti mentre fa il gesto delle fiche contro Dio, e l’arrivo di
Caco. Caco nella descrizione che fa Dante è un Centauro, qui troviamo un
cavaliere in groppa a un cavallo e in più con l’aggiunta di un drago, elemento
che non troviamo da nessuna parte. sempre più i maestri troveranno difficoltà
nella rappresentazione iconografica anche per il fatto che i modelli di
riferimento, come l’Eneide o altri auctoritas cominciano a venir meno, come lo
stesso Dante afferma “taccia Lucano taccia Ovidio!”. Altra particolarità è la
presenza delle descrizioni sopra le immagini.
Per mostrare questa difficoltà facciamo anche un riferimento al codice
napoletano Filippino: le miniature hanno lo sfondo nero nell’Inferno. Vanni
Fucci fa il gesto di bestemmia, e il mostro che arriva che dovrebbe essere Caco
rappresentato come un demone alato con il fuoco che esce da tutti i buchi. La
particolarità consiste anche da un altro punto e indicativo: una delle cinque
mani delle Chiose Palatine inserisce accanto una nota che non è riferita al testo
di Dante, ma alla miniatura. La nota riferisce che Caco si sarebbe dovuto
dipingere come centauro e non come lo vediamo.
- Inferno XVII: altro equivoco fondamentale che nasce forse dalla lettura della
prima glossa. O l’illustratore è stato influenzate dalla Chiosa Palatina o si tratta
di un codice circolante con Gerione che naviga il fiume, e non è un unicuum
perché anche nell’ M 676 (mezzo secolo dopo se diamo fede alla datazione di
Petrocchi) in cui Gerione naviga sul fiume. Dante invece dice che Gerione
fluttua nell’aria come se navigasse nell’acqua e forse questo ha generato
l’equivoco di rappresentazione.

 Quarta mano più tarda maestro daddesco (per Salmi è pacinesco, tra storici
dell’arte anche non vi sono accordi) responsabile solo di questa immagine di
Purgatorio IX: tre personaggi e l’angelo custode dell’ingresso del Purgatorio.
L’altro personaggio Sordello è stata la guida nella valletta dei due.
Rappresentazione fedele delle scale. Si intravede la fase di interruzione del
progetto: qui manca il capolettera e che non è mai stato realizzato.
 Quinta mano tardo gotica sana la tabula lasciata bianca del Purgatorio I:
incolla la miniatura sullo spazio lasciato bianco. All’inizio del Quattrocento
questo manoscritto si presentava con la miniatura soglia, ossia delle prime
cantiche bianche, perché probabilmente dovevano essere realizzate in un
secondo momento. Questa miniatura però non ha alcuna attinenza con il
percorso: a sinistra con Dante e Virgilio che escono dall’Inferno “e quindi
uscimmo a riveder le stesse”. Caso emblematico di miniatura di raccordo
tra cantiche.

 Sesta mano:
- il capolettera dell’Inferno è pacinesco con Dante allo scrittoio.
- V canto Inferno: al centro il giudice infernale Minosse, con due diavoli uno
alato e uno no, e un altro che spunta dalla roccia e spinge verso il basso
un’anima verso il fuoco dell’inferno. La rappresentazione in parte è aderente,
ma in altra misura no perché non esistono collaboratori con Minosse ma è solo,
ma giudica e manda secondo la Bibbia. Con la sua coda ci cinge tante volte
devono essere i cerchi destinati all’anima stessa, ma qui manca la coda e quindi
particolare di rottura con la descrizione di Dante. La rappresentazione stessa di
Minosse, così come accadrà con Cerbero, è legata solo all’aspetto demoniaco e
non umano, ma per di più non è legato al modello classico, ma è legato al
modello biblico (Apocalisse di San Giovanni), cioè presenta tre volti così come
era Lucifero.
- Inferno VII: tabula con Dante e Virgilio che si approcciano al cerchio degli
avari e prodighi. Incontrano Pluteo e mostra il suo essere demoniaco solo per il
linguaggio, ma Dante non si abbandona alla descrizione fisica. Ancora una
volta viene assimilato l’aspetto demoniaco come nel caso di Cerbero e
Minosse, qui con le ali di pipistrello e un altro demone a supporto. Vuole
essere meramente la rappresentazione della forza del male: ali, peluria, fuoco
che esce dal buco, tratti che vuole dimostrare come i due si stanno avvicinando
alla forma del male. Anche nell’M 676 in Inferno VII presenta Pluteo come un
demone dai tratti demoniaci. Nuovamente, testimonia il carattere della serialità
dell’iconografia.
- Inferno VIII: Dante e Virgilio si approcciano alla città di Dite. Presenta gli
stessi tratti demoniaci. Attenzione mancata che troviamo a questa altezza
all’aspetto antropico della rappresentazione di Dite, una vera e propria città
turrita. È una costante questo tipo, come nello Strozziano 152, totale
antropizzazione della città infernale.
- Inferno IX: nuovamente la rappresentazione della città di Dite. Le tre furie che
invocano anche l’arrivo di Medusa e Virgilio manifesterà il sentimento di
paura, perché la ragione molte volte invoca questo nobile ragione e dunque
bisogna concedersi alla manifestazione della grazia, ossia dell’angelo che con
un’asticella di legno apre le porte della città di Dite. Aletto fa lo stesso gesto
che abbiamo visto nel parmense: il gesto del graffiarsi, quasi scuoiarsi,
rappresentante l’ira. Le furie (donne) rappresentate anche nel Filippino, ma qui
fuori della città di Dite. Ugualmente nell’ M676, qui la scena è simultanea
perché Virgilio va vesso la porta per colloquiale con le Furie e poi ritorna a
Dante comunicandogli l’esito negativo e copre lo sguardo di Dante perché le
Furie invocano la Medusa; le furie si adirano e al centro Aletto compie il gesto
dell’ira.
- Inferno X: aderenza alla descrizione topografica e fisica, perché quando i due
giungono nel cerchio degli eretici, l’autore descriva un cerchio come un luogo
immediatamente all’interno della città di Dite, ma non hanno una collocazione
ben precisa. Merlatura marcata delle mura di Dite e attenzione alla
rappresentazione delle anime: dalla cintola in su Farinata degli Uberti e
Cavalcante Cavalcanti che viene fuori con il mento. Ma le due anime dovevano
essere nella stessa tomba come spiega Dante, non separate, anche perché erano
parenti (suoceri), ma qui poste in due are differenti. È un’interpretazione di
ipercorrettismo perché Dante marca la divisione e lontananza tra i due,
lontananza fisica e lontananza morale, ossia parlano di argomenti diversi.
L’aspetto fisico corrisponde, in virtù al realismo figurale (Auerbach),
all’aspetto morale. Cavalcanti è un’anima dimessa, rispetto al grande rispetto
che Virgilio incita a Dante di dare a Farinata degli Uberti. C’è un approccio
completamente differenti, anche nelle risposte sibilline di Cavalcanti, che non
presuppongono altro, rispetto al discorso con Farinata. Questa distanza fisica,
concettuale, sentimentale, morale, è marcata dall’illustratore dalla presenza di
due aree differenti. Anche nel Filippino ugualmente i due sono posti in aree
differenti.
- Inferno XI: Dante si tappa il naso perché vuole raffigurare il puzzo che il
profondo abisso gitta, con cui si apre il canto. Contemporaneamente Virgilio
mostra la tomba vuota di Anastasio.
- Inferno XII: altro punto dolente della rappresentazione dantesca dell’inferno, e
cioè il Minotauro. Qui non è rappresentato secondo la forma canonica, ma
come un Centauro, errore comunissimo che commette anche il Filippino, e
Strozziano 152; solo il Codex Italicus e quello di Budapest lo rappresentano
come un vero Minotauro
- Inferno XIII: Dante ha compiuto il gesto di spezzare il ramo che comincia a
sanguinare per far parlare Pier delle Vigne. Dante descrive la selva popolata
dalle arpie, ma non le descrive. L’illustratore avrà preso come modello
all’Eneide, dove nel III libro al verso 217 e 218 di dice che le arpie hanno la
bocca sempre bianca per colpa dellal fama. Questo pallore è stato qui allargato
alla rappresentazione di tutto il corpo delle arpie, ed è in questo caso un
unicuum. Infatti, nello Strozziano hanno il volto umano e non sono raffigurate
di bianco.
- Inferno XIV: qui interviene il maestro pacinesco, e qui è uno di quei casi che la
raffigurazione rispecchia in modo fedele il testo.
- Inferno XV: incontro con Brunetto Latini, come l’uomo s’etterna. Cerchio dei
sodomiti, in cui la maggior parte erano uomini di chiesa. Ma i due si stringono
la mano segnando l’affetto tra i due, ma ciò non è presente nel testo. Stesso
gesto di affetto che si rivela anche nel Filippino.
- Inferno XIX: i simoniaci. Rappresentai in maniera fedele, conficcati a testa in
giù. Nello strozziano 152 sono inseriti nelle anfore, ma nell’ m676 sono
rappresentate solo le anfore. Mirko Tavoni in un saggio del 1992 attribuisce
all’anfora un forte valore simbolico, in conformità con il gesto della fractio
lagunculae del profeta Geremia. Lo studioso, considerando impossibile la
rottura da parte di Dante di un fonte fatto di marmo e a forma di pozzetto e
facendo rif. ad alcune illustrazioni conservate in codd. trecenteschi
della Commedia, in cui i simoniaci sono raffigurati infilati a testa all’ingiù in
anfore di terracotta, propone che i battezzatori siano per l’appunto anfore di
terracotta, a parer suo utilizzate a Firenze al tempo di Dante nel battesimo per
infusione e alloggiate in fori che si aprivano nel pavimento nella vasca centrale
dell'antico fonte di San Giovanni, ora perduto.
La rottura dell’anfora è un gesto simbolico, che fa riferimento a Geremia
capitolo XVIII e XIX, in cui viene raccontata la profezia della distruzione di
Gerusalemme con la rottura del vaso di argilla. Probabilmente Dante aveva in
mente proprio quell’episodio mentre racconta il suo presunto racconto
biografico: l’episodio potrebbe rimandare alla fascinazione biblica e il
contraltare di Gerusalemme sarebbe Firenze. Ciò indicherebbe una
autoinvestitura profetica, così come Geremia profetizza la distruzione di
Gerusalemme.

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