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Finalmente L’incendio di via Keplero

L’Incendio di via Keplero disprigionò fuori la Fase A, tra la fine di luglio e la fine di dicembre del
1930, poi B1 nei due pomeriggi estivi del 16 e 17 giugno 1931, poi, prima del 5 luglio dello stesso
anno, B2a con B2b con B2c, poi, forse poco dopo forse nello stesso tempo, alcune cosiddette
appendici, poi, sempre nel 1931, la Fase C. Poi, finalmente, quando la Carpioni e il padrone di casa
e la comitiva della Lingera e Myriam e il prof. Vioroni e Térésaaah e il suo ospite, per non dire del
Baistrocchi e di altre emergenze polemiche che erano già state buttate giù ma non ancora così giù
da eclissarsi del tutto nei cofani dell’ingegnere, allora, infine, l’Incendio non potè a meno di liberare
le sue proprie emendate fiamme, come faville senza scintille, nel 1940, sulle pagine del Tesoretto.
(1)
In quell’occasione, una didascalia premessa al titolo, che poi scomparirà nelle successive edizioni,
lo qualificava come «Studio 128 per l’apertura del racconto inedito». Dicitura intrigante e nello
stesso tempo misteriosa che non ha mancato di attirare l’attenzione di Contini che vi si sofferma
nell’Introduzione agli «Accoppiamenti giudiziosi»: «L’autocaricatura Studio 128 – osservava
Contini – enfatizza la mania variantistica dell’autore, che proclama ad alta voce la modalità del suo
comporre, confermata in Accoppiamenti dalla datazione 1930-35; resta oscuro l’apertura del
racconto inedito, visto che il prodotto ha un aspetto perfettamente rotondo e irrelato, anche se
l’origine (o almeno chi scrive lo ignora) possa essere stata di una composizione atta a figurare in un
romanzo milanese come Un fulmine sul 220. Forse l’espressione è solo una prosecuzione della
precedente enfasi» (Contini 1989: 49). Ora, con la pubblicazione dei Disegni milanesi, si è in grado
di meglio valutare quanto vi fosse di effettivamente iperbolico in quello «studio 128» e di togliere il
sospetto di enfasi che pesava sull’«apertura del racconto inedito».
Vi è stato poi chi si è soffermato più attentamente sulla dicitura «studio», ricordando che già il
Racconto italiano suddivideva i materiali in «note» e «studi», le prime attinenti alla «sistemazione
dell’opera», i secondi «tentativi di composizione, pezzi della composizione, da inserire nel romanzo
o da rifiutare», ricordando altresì che per il Gadda del Racconto italiano uno studio «è già una cosa
completa, finita, se pur riveste i caratteri di tentativo». (2) Definizione che ben si addice agli Studi
imperfetti, prima pubblicazione gaddiana in Solaria.
Muovendosi nella stessa direzione, Isella vi ha scorto, memore dell’appartenenza degli studi a
«sinfonie» nello stesso Racconto italiano, un implicito riferimento alla terminologia musicale. (3)
Osservazione quanto mai pertinente, se si tiene conto della particolare storia dell’Incendio. Così
come uno studio musicale – «composizione a fini specialmente didattici, in cui l’esecutore deve
affrontare difficoltà meccaniche e tecniche» (4), prodotto quindi relativamente impersonale –,
l’Incendio, venendo a mancare dei suoi quadri intrisi di dolente autobiografismo e di risentita
polemica, si risolve in un esercizio di stile (non impersonale, certo, ma di molto stemperato) più e
più volte eseguito e perfezionato, un divertissement dichiaratamente irrisorio nei confronti della
sedicente poetica della simultaneità futurista.
Non va dimenticato, tuttavia, che la designazione quale «apertura del racconto inedito» lascia
intendere non solo l’esistenza di un disegno di più ampie dimensioni (di cui il pezzo dato alle
stampe non è che una ouverture), ma anche che il grosso del concerto sarebbe prima o poi arrivato.
L’edizione del Tesoretto, in altri termini, non segna ancora la definitiva dimissione del più
ambizioso progetto, che starà in bonaccia ancora a lungo per poi arenarsi del tutto solo diversi anni
dopo.
Come la maggior parte dei testi gaddiani, l’Incendio, dopo essere stato pubblicato in rivista, sarà
successivamente raccolto in volume. Nel 1953, sprovvisto della didascalia del Tesoretto a
significare la oramai definitiva rinuncia, confluirà nelle Novelle dal Ducato in fiamme. La raccolta,
«libro da me fatto el quale di poi molt’anni ho ponzato» (SGF II 68), accoglie quattordici racconti
che coprono un arco di tempo di oltre un ventennio, con l’Incendio, unico racconto ad intrattenere
una relazione diretta con il titolo del volume, in penultima posizione. (5) Certo non mancano, come
ha puntualmente indicato Rodondi, possibili agganci tra gli altri racconti e il titolo stesso della
raccolta; ciò non toglie che «le novelle (= notizie) dal ducato (= dallo stato del duce merda)
consegnato alle fiamme: (della lussuria demenziale, della follia narcissica, e delle bombe al
fosforo)» (6) ci riportano direttamente al caseggiato di via Keplero e alle follie narcissiche
consegnate, ma questa volta da Gadda stesso, alle fiamme annichilanti e nello stesso tempo
purificatrici del «fuoco del numero 14», tanto più ora che se ne conosce l’originario disegno. (7)
Dieci anni dopo, nel 1963, Gadda pubblicherà gli Accoppiamenti giudiziosi (RR II 1252-276). Di
fatto, gli Accoppiamenti ripropongono, minimamente modificati e diversamente collocati, gli stessi
racconti delle Novelle, ai quali se ne aggiungono cinque altri (Una visita medica, estratto della
Cognizione, La sposa di campagna, La gazza ladra, Il club delle ombre e Accoppiamenti
giudiziosi), con Cugino barbiere che congloba L’armata se ne va di Novelle e il cambiamento di
titolo di Saggezza e follia, che diventa La cenere delle battaglie. Al titolo fanno seguito gli estremi
1924-1958, che opportunamente comprendono anche gli scritti più datati estratti dalla Meccanica e
dal Racconto italiano. Alcuni racconti recano poi in calce una datazione estensiva ad indicarne il
periodo di elaborazione: è il caso dell’Incendio, siglato 1930-1935. Il volume sarà più volte
ristampato, con lievi modifiche che comunque non coinvolgono il nostro racconto, per arrivare
all’edizione definitiva delle Opere, esemplata sulla princeps degli Accoppiamenti giudiziosi ed
emendata dai guasti, regolarizzata negli accenti e nelle grafie e lievemente corretta nella
punteggiatura (RR II 1274-276).
Secondo una consuetudine ampiamente attestata, alla stampa dei volumi gaddiani presiede una
revisione in cui l’Autore non si limita a controllare la correttezza delle bozze e ad emendarne
eventuali refusi, ma interviene attivamente sul testo modificandone l’originaria lezione. E nel
passaggio dall’edizione in rivista alle Novelle e poi agli Accoppiamenti, intervengono dei
cambiamenti su cui vale la pena soffermarsi. (8) Tutto sommato insignificanti, in vero, le correzioni
apportate nel passaggio dalle Novelle agli Accoppiamenti, che si limitano di fatto a qualche lieve
modifica della punteggiatura. Più cospicui, invece, gli interventi che segnano il passaggio
dall’edizione in rivista alle Novelle. Intanto, è più massiccio l’intervento sulla punteggiatura, di
volta in volta mirato a rallentare o ad accelerare il ritmo del dettato. L’edizione nelle Novelle si
arricchisce poi della nota sul «panerone» dello Zavattari, del tutto assente in quella del Tesoretto
dell’Incendio, e amplia la prima nota giustapponendo al già chiosato «Gioànn, gioannìn» le tre
glosse sul milanese «magütt», l’italianizzato «bindello» e l’italiano «sfrigolarsi».
Altre aggiunte vengono ad arricchire la precisione rappresentativa, incrementandone così la
comicità: (9) «generale Buttafava, reduce dalla Moscova e dalla Beresina» (rr. 64-65), «per portare
o smuovere un baule così» (rr. 135-36), «era ancora alle prese col rubinetto, con un bigoncioletto-
bidet, con certe sue pentoline e gran travasi d’acqua, ma piantò lì subito ogni cosa, sapone e
salvietta e mastello e acqua e tutto» (rr. 147-49), «dopo una fatica e un terrore e un sudore infiniti»
(r. 160) , «tra il gradino di marmo di Carrara e il ferro […] della ringhiera» (r. 168), «frutti di mare
in ghiaccio di entrambe le sponde» (rr. 267-68). Altre aggiunte ancora insistono sulla coralità del
racconto con incisi che coinvolgono tanto il narratore («si inorridisce solo a pensarlo, non dico poi a
riferirlo», rr. 176-77) quanto la comunità fabulante («alcune signore povere e al dir d’ognuno
alquanto malandate», «questa la salvò per miracolo certo Pedroni Gaetano», rr. 6 e 133-34).
Del tutto in linea con la consuetudine gaddiana è poi l’intervento sull’onomastica e sulla
toponomastica. Di scarso rilievo il primo, che si limita a sostituire «Luigioni» del Tesoretto con
«Bertolotti» (il capo del drappello di pompieri che salvano lo Zavattari, rr. 288-90) (10). Più
determinante il secondo, che introduce degli elementi eccentrici alla toponomastica milanese,
sfumando il racconto in un’ultima trovata comica. Riporto qui di seguito l’explicit del racconto,
indicando in neretto i cambiamenti intervenuti nel passaggio dal Tesoretto alle Novelle:
Sicché l’autolettiga della Croce Verde, al quinto viaggio, si può dire che non era arrivata
ancora alla guardia medica di via Paolo Sarpi, che già l’avevano fatta voltare indietro di
volata verso l’obitorio della clinica universitaria, là in fondo alla città degli studi di
dietro del nuovo Politecnico, macché in via Botticelli! più in là, più in là! in via
Giuseppe Trotti [da Ponzio], sì, bravi, ma passato anche via Celoria, però, passato via
Mangiagalli, e poi via Polli, via Giacinto Gallina, al di là di Pier Gaetano Ceradini,
di Pier Paolo Motta, a casa del diavolo.

Ineccepibile, anche se ridondante, il referto urbanistico dell’edizione del Tesoretto, con


l’indicazione di via Ponzio che ancora oggi è la via in cui si trova l’obitorio milanese. Infatti, se si
percorre via Botticelli venendo dal centro ci si ritrova in via Ponzio: il che significa che si è
oltrepassato anche via Celoria e via Mangiagalli (essendo via Celoria, via Mangiagalli e via
Botticelli le tre successive traverse di Viale Romagna che si trovano appena davanti alla Città degli
Studi). In una possibile descrizione, dunque, l’indicazione delle tre vie risulterebbe un’inutile
ripetizione, ovviamente presupponendo che chi ascolti le conosca tutte e tre. Sostituendo via Ponzio
con via Trotti, del tutto inesistente, Gadda crea una divaricazione tra la meta dell’autolettiga e la sua
descrizione, (11) accentuandola poi con l’inserzione di altre vie inventate o comunque eccentriche
rispetto ad una possibile descrizione, facendo germinare in chiave giocosa l’originaria e pertinente
via Mangiagalli. (12)
Segnalo infine, per concludere questo excursus sulle varianti a stampa, un singolare intervento
difficilmente catalogabile. La fine del racconto nelle Novelle, proprio nel passaggio qui sopra
riportato, recava «Poletecnico» in luogo di «Politecnico», lezione dell’edizione del Tesoretto e in
seguito di tutte le altre versioni. La curatrice dell’Incendio, schierandosi con Rodondi, considera la
lezione delle Novelle un refuso di stampa (Gadda 1995: 238, n. 20); mentre Contini,
nell’antologizzare il racconto, peraltro dichiaratamente estratto dalle Novelle, non solo non
emendava la lezione, ma la corredava pure di una nota: «Poletecnico: con forestierismo
meridionale, a significare, proprio in relazione a uno degli istituti più tradizionalmente milanesi, la
mutazione etnica conseguente all’abbondante immigrazione nella metropoli» (Contini 1968: 1061).
Difficile dire chi abbia ragione. Per quanto mi riguarda, mi limiterò ad osservare che non mancano
negli scritti di Gadda delle puntate antimeridionali, anche se il più delle volte rimangono confinate
nelle private lettere agli amici. (13) Inoltre, se si desse ragione a Contini, si potrebbe ricollegare ad
un ipotetico interlocutore non del tutto milanese l’esuberanza delle indicazioni stradali fornite,
oppure anche a un coro di persone le cui voci si sovrappongono in un comico impasto di dialetto
milanese e di dialetto meridionale («di dietro del nuovo Poletecnico»).
Dire perché il disegno originale dell’Incendio non sia mai giunto ad un’edizione a stampa, vista e
considerata l’estrema volubilità di Gadda, non è cosa facile. Altri progetti di più ampio respiro,
quali il Racconto italiano, La meccanica o Un fulmine sul 220 (per non citare che i primi), si sono
arenati sugli scogli dell’incostanza gaddiana. La frammentarietà è una costante della sua opera,
tanto connaturata che si può dire che non ci sia racconto o romanzo che non ne sia toccato. (14)
Come ha detto giustamente Gorni, «la scommessa di Gadda narratore è quella di comporre una
materia che […] nasce per intervalla e per frammenti, in una prosa di qualche tenuta narrativa»
(Gorni 1984: 310).
Ancora, si potrebbe parlare di «soverchia volontade di dire», anche se non è esattamente alle donne
che hanno intelletto d’amore che Gadda si vuole rivolgere. Ovviamente, accanto a questa
incontentabilità nella misura va posta un’incontentabilità nella forma, che lo porta a rielaborare più
e più volte uno stesso scritto senza che questo mai risponda alle sue esigenze. Per non parlare delle
sue premesse epistemologiche che, se venissero rigorosamente applicate in ambito letterario, lo
condannerebbero inevitabilmente alla frammentarietà: per dirla con Roscioni, «singula enumerare
[…] postula di necessità un obiettivo irraggiungibile e continuamente fuorviante: omnia
circumspicere» (Roscioni 1995a: 56).
Eppure la descrizione di un incendio in un caseggiato è per molti aspetti quanto di più congeniale
alla poetica gaddiana (Italia 1994: 267). Dal punto di vista rappresentativo, permette di cogliere la
realtà denudata della sua veste formale, di spingersi oltre «il caramello delle sistemazioni di
superficie» (SGF I 852): è la chiave che permette di entrare nelle «illibate case» e di passare al filo
di lama debolezze, manie e miserie solitamente celate. Dal punto di vista gnoseologico, è un
momento in cui il fenomeno assurge ad exemplum privilegiato della realtà, perenne deformazione
in atto a cui non è ovviamente estraneo l’io-conoscente (sarà un caso che tra le persone coinvolte vi
è pure Gadda-personaggio?). Dal punto di vista narrativo, infine, costituisce già di per sé un ordito
sufficientemente resistente a supportare la giustapposizione di moduli narrativi autonomi, quali
sono i vari quadri narrativi e descrittivi, così da poter ovviare alla congenita frammentarietà
gaddiana.
Se nel Racconto italiano Gadda denunciava la difficoltà a legare i personaggi (SVP 460),
nell’Incendio il problema non si pone nemmeno, poiché i personaggi coinvolti sono tra di loro in
relazione per il solo fatto di abitare nello stesso caseggiato. Ed il fuoco, che scompagina ogni
gerarchia ed ogni differenza, è elemento connettivo dei più potenti. Semmai ci si può porre il
problema, e Gadda se lo è posto, di legare tra di loro i vari quadri. Questi, che verosimilmente
avrebbero dovuto essere inseriti in flash-back dopo la descrizione dell’incendio, patiscono in un
certo senso la mancanza del fuoco, cosicché Gadda si sente in dovere di istituire tra di loro dei
legami.
Così la signora Carpioni appare in più quadri: protagonista della Fase A, e poi dell’alternativa App.
III, vede sfilare la comitiva della lingera (B2a) per ritrovarsi infine nell’abbozzata conclusione
(App. II); conclusione che, come già detto, tenta di riunire e legare in poche righe la pluralità di
personaggi che si erano presentati nei vari quadri. Lo stesso Gadda è elemento connettivo di più
quadri: appare citato in B1 (e poi in C) nel presentare il Baistrocchi («non conoscete Anacleto
Baistrocchi? Eppure celebre quasi come Carlo Emilio Gadda»), per poi ricomparire quale
personaggio nella visita alla poetessa, nonché come spettatore privilegiato di App. II (e quindi, in
definitiva, dell’intero racconto).
Il Baistrocchi intesse dei legami più fini con Térésaaah (entrambi letterati, entrambi alla ricerca di
un proprio lauro; (15) con inoltre Solaria nominata in B2c, quasi a voler fornire la chiave
d’identificazione per il Baistrocchi) e con il prof. Della Vacca di App. III (che, dopo aver preso in
cura l’inquilina ninfomane, meditava un’opera sulla grafomania circoscritta però alla «grafomania
delle Signore della Pia Casa, esclusi i quotidiani, i periodicî letterari, e le ricerche del tempo
perduto» – TDL 69; Gadda 1995: 276). I due quadri della chiromante (B2b) e della poetessa (B2c)
hanno in comune più elementi. Nel breve catalogo dei successi di Myriam compaiono la poetessa di
«Singhiozzi dell’Anima» e l’amico pittore Volcazio Penella, nonché una frecciatina ai critici: tutti
ripresi in B2c. Inoltre la tematica bellica è ben presente in entrambe le scene.
In B2b la poetessa è figlia di un generale a riposo; il professor Vioroni e il quartetto Cavagna, con la
loro scelta «musica da camera», permettono l’innesto di una digressione sull’operato dei generali in
guerra. In B2c la tematica si affaccia subito con un’incidentale rievocazione di Gadda-personaggio
che ricorda le sue origini milanesi, quindi rimane in sottofondo con la continua evocazione dei
ritratti del Savoia Cavalleria (poi materializzatesi nel cavalleggero «tutto d’un pezzo» che suona
alla porta di Térésaaah), per esplodere infine nella digressione sui ritratti dei due «fulmini di
guerra» (App. I).
Questo tentativo di dar coerenza al racconto, istituendo dei rimandi che conferiscano organicità ad
un disegno sentito ancora come frammentario, è però paradossalmente contrastato dalla descrizione
dell’incendio che fin da subito, pur non avendo ancora «l’aspetto rotondo e perfettamente irrelato»
che Contini indica come caratteristica dell’edizione definitiva, si difende caparbiamente da ogni
aggiunta esterna. Si ha l’impressione che la dinamica rappresentazione dell’incendio mal
sopporterebbe la giustapposizione degli altri quadri, che ne rallenterebbero inevitabilmente il ritmo
banalizzando nello stesso tempo lo straordinario risultato prodotto sì dalle successive rielaborazioni,
ma già in nuce fin da B1. A questo si aggiunga che quasi tutti i quadri si interrompono bruscamente,
quasi a voler significare l’imbarazzo di Gadda nel collegarli tra di loro: forse una proroga
momentanea, si potrebbe pensare, in attesa di trovare dei tratti connettivi funzionali. Comunque sia,
rimane fuori discussione l’estrema congenialità dell’evento da descrivere e le difficoltà evocate non
sono sufficienti, da sole, per giustificare l’abbandono del progetto originario.
Se si vuole proficuamente discutere sulle ragioni del fallimento, è prima di tutto necessario
determinare, seppur approssimativamente, il momento in cui Gadda abdica definitivamente.
Sicuramente non è il 1940 la data che fa testo: la didascalia premessa al titolo nell’edizione del
Tesoretto, come già notato, è in questo senso di per sé significativa. Il 1940 segna semmai una
prima momentanea rinuncia a pubblicare il racconto completo, come si deduce da una lettera a
Contini del 25 novembre 1939: «NON posso recarmi da te perché sono sotto pompatura dei vari
Beltempo – Tesoretto – e quello di G. Ferrata. Inoltre c’è Bonsanti che tempesta già» (Gadda 1988b:
33). Ammesso che la pressione del Tesoretto riguardasse effettivamente l’Incendio e non un altro
racconto, c’è da credere che Gadda avesse promesso alla rivista il disegno originario. Solo così si
spiegherebbe la «pompatura», visto che l’ultima elaborazione della sola descrizione dell’incendio
risale al 1935, cioè quasi cinque anni prima.
è pressoché certo che nel 1945 Gadda fosse ancora determinato a portare a compimento il racconto.
Non si spiegherebbe altrimenti l’accordo concluso con Bompiani per la pubblicazione di una serie
di racconti raccolti sotto il titolo di L’incendio di via Keplero (RR II 1233-235). È il primo annuncio
di quelle che saranno le Novelle dal Ducato in fiamme, in seguito pubblicate presso Vallecchi per
riscattare il mancato impegno per la pubblicazione del Racconto italiano. Ma quel che ci interessa è
soprattutto il titolo del volume promesso e mai consegnato a Bompiani. Se si considera che spesso il
titolo del volume è determinato dal più lungo racconto (o parte, o saggio) in esso contenuto (La
Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine, L’Adalgisa, I viaggi la morte, Novella seconda e forse
anche gli Accoppiamenti giudiziosi), (16) si capisce che l’Incendio decurtato non sarebbe stato
sufficientemente corposo per figurare come racconto eponimo. Ciò significa che fino al 1945 Gadda
pensava ancora di portare a termine l’originario disegno. E ancora nell’ottobre del 1946, intervistato
da Leonetto Leoni sulla sua attività letteraria, Gadda annunciava di voler perfezionare l’accordo con
Bompiani, dove però il buon esito della vicenda sembrava più che altro sospeso alla promessa fatta
all’editore. (17)
Se la dimissione del progetto è da iscriversi tra il 1945 (accordo con Bompiani) e il 1953 (data di
pubblicazione delle Novelle oramai sprovviste della promettente didascalia), bisogna cercare in
questo arco di tempo un avvenimento significativo che ne possa rendere conto. Anche se entrando
nel terreno delle ipotesi è sempre meglio procedere con prudenza, non mi sembra azzardato
ravvisare nell’inizio della stesura del Pasticciaccio il momento determinante per il definitivo
accantonamento dell’Incendio. Nel qual caso si capirebbe pure il ritardo nel consegnare a Bompiani
il volume promesso, che nel 1946, cioè in pieno Pasticciaccio, era oramai sospeso al tenue filo di
un impegno editoriale. Non solo la messa in cantiere del romanzo romano assorbe molte delle
energie e dell’iniziale entusiasmo dello scrittore, ma lo stesso Pasticciaccio, per molti aspetti
complementare all’Incendio, avrebbe forse fatto del racconto milanese un ozioso doppione agli
occhi dei lettori e della critica.
Le analogie tra i due scritti sono in effetti importanti. Un palazzo al centro di un dramma; il dramma
stesso quale chiave che permette di accedervi e di poter descriverne l’intimità riposta denudata del
suo consueto habitus formale; uno statuto ancora una volta esemplare del fenomeno che nel
Pasticciaccio porta Ingravallo ad indagare le infinite cause che hanno determinato il tragico evento
della morte di Liliana Balducci e del meno drammatico furto alla Menegazzi. A queste analogie di
fondo si possono aggiungere i recuperi, peraltro limitati, che il Pasticciaccio opera nei confronti
dell’Incendio: la Myriam quale parziale modello della Zamira, la bicicletta piena di musica del
Balossi, la descrizione stessa del palazzo, (18) nonché altri elementi contenuti nel racconto dato alle
stampe. Senza contare il massiccio ricorso al dialetto in rapporto osmotico tra lingua dei personaggi
e lingua del narratore inaugurato proprio dall’Incendio di via Keplero.
Che poi il Pasticciaccio abbia goduto di un più ampio sviluppo e persino (a voler proprio prestar
fede all’Autore) di una conclusione, non deve stupire più di tanto poiché, al di là delle pressioni
esterne intervenute nel caso del Pasticciaccio, la vicenda del romanzo condivide con il racconto
anche la caratteristica di essere estremamente congeniale alla poetica gaddiana. In egual misura dai
punti di vista rappresentativo e gnoseologico, sicuramente maggiore dal punto di vista narrativo.
Se l’incendio è congeniale alla narrativa gaddiana, il fatto che sia onnicomprensivo pone come
arbitraria la rappresentazione di un dato personaggio piuttosto che di un altro, mentre un delitto
pone d’emblée come privilegiati i personaggi che vengono toccati dal dramma e dalle indagini che
successivamente si dispiegano; cosicché non è più nemmeno necessario legare i vari quadri, poiché
se il dramma fornisce l’ordito, la trama è in ogni caso giustificata dall’inchiesta che ne segue. E a
maggior ragione quando il commissario è un commiassario-filosofo con la «fissazione», fin da
subito segnalata, che sia necessario «riformare in noi il senso della categoria della causa»,
sostituendo «alla causa le cause», senza di che non è nemmeno pensabile interpretare, o «sberretà»,
quell’intricato «gliuommero» che è il reale (RR II 16-17).
Ritorna poi alla memoria quanto Gadda scriveva, a mo’ di giustificazione, nel pensato congedo per
il San Giorgio in casa Brocchi: «Quanto alle bonarie punte antiambrosiane, è inutile farne una
questione tragica: l’autore sorride di quel che conosce e sorriderebbe egualmente e forse più <d’>
altri campanili <e> d’altri impasti di gente, in quanto se ne occupasse» (Gadda 1995: 148).
Evidentemente il momento di occuparsene era arrivato e il Pasticciaccio testimonia di un nuovo
interesse di Gadda per un’altra realtà sociale e linguistica.
Se il Pasticciaccio segna il definitivo abbandono del disegno originario dell’Incendio, resta da
spiegare per quale motivo il racconto non sia stato portato a termine molti anni prima. Al di là della
datazione estensiva apposta in calce al racconto in Accoppiamenti giudiziosi, datazione che pone
l’ultima rielaborazione nel 1935, ci sembra che già nel 1931, con la Fase B e la Fase C già scritte,
non mancasse molto per concludere degnamente il racconto.
è cosa ovvia ricordare ancora una volta la proverbiale incostanza di Gadda (incostanza determinata
soprattutto dalla sua incontentabilità) che lo portava a disaffezionarsi dei suoi lavori. In una lettera a
Silvio Guarnieri, ad esempio, Gadda scriveva a proposito della Cognizione e del Pasticciaccio: «la
mia incontentabilità di cincischiatore di frasi e catastrofi pubbliche e il lavoro per vivere sono le
cause del ritardo e forse dell’impossibilità di arrivare alla fine» (Gadda 1993c: 31 – lettera del 10
agosto 1955).
Ma il tarlo dell’insofferenza, perlomeno per quanto riguardava il Pasticciaccio, si era già insediato,
come risulta da una lettera del mese prima a Contini: «Se la mala salute non mi tormenterà, ho in
programma la fine di quel benedetto Pasticciaccio che ormai, a furia di sentirne parlare, m’è venuto
pressoché in uggia, vista la sua sublime fessaggine» (Gadda 1988b: 95 – lettera del 24 luglio del
1955). E anche dopo essersi dimesso dalla Rai per dedicarsi al romanzo romano, pur venendo a
mancare l’impedimento del «lavoro per vivere», l’insofferenza invece non verrà meno: «Sono stufo
di questa boiata. Tu però non dirlo perché dovrebbe essere il mio capolavoro», confessava a Giulio
Cattaneo (Cattaneo 1991: 144). Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Ciononostante credo che
per l’Incendio sia necessario considerare anche un altro motivo, soprattutto perché, lo ripetiamo, si
ha l’impressione che la meta non fosse per nulla lontana.
Abbiamo già parlato della prudenza gaddiana che, pur ricollocata più pertinentemente all’anno di
pubblicazione del racconto nel Tesoretto, avrebbe comunque concorso all’esclusione dell’episodio
del Baistrocchi. Dovendo però considerare gli anni precedenti, dal 1931 in poi, tale prudenza
assume un ruolo ben più determinante. Le puntate polemiche contenute nel racconto, infatti,
sarebbero state molto poco opportune in quegli anni, tanto in ambito familiare che in ambito
letterario.
Dice Manzotti a proposito della Cognizione: «Si è indicata nello scioglimento del legame con la
madre e con la casa e con i luoghi dell’infanzia la contingenza che rende possibile quel fare i conti
col passato – in bilico tra vendetta e discolpa o giustificazione – che è la Cognizione» (Manzotti
1996: 214). Se questo è vero per la Cognizione lo dovrebbe essere anche per l’Incendio, perlomeno
per quanto riguarda una possibile pubblicazione, giacché la scrittura aveva già agito. Non credo che
la madre di Gadda avrebbe stentato molto a riconoscersi nella signora Carpioni tra le fauci del
commendator Unghioni e non credo nemmeno che Gadda stesso si sarebbe permesso di pubblicare
il racconto vivente la madre. (19) Se la morte della madre, avvenuta nell’aprile del 1936, avrebbe
potuto, da una parte, far scattare la molla decisiva per portare finalmente a compimento l’Incendio,
dall’altra però, il fatto stesso di metter mano di lì a poco alla Cognizione rendeva obsoleto il
racconto nella sua componente autobiografica di contro all’urgenza espressiva del futuro romanzo.
Ma le possibili remore non si limitano ai soli affetti familiari. Senza dimenticare la polemica nei
confronti dei padroni di casa e la legge che immancabilmente li favoriva, pubblicare il racconto in
quegli anni, soprattutto in virtù del poco lusinghiero ritratto del Baistrocchi, avrebbe significato in
ambito letterario non solo giocarsi la collaborazione con Solaria e il suo appoggio nella
pubblicazione dei volumi, ma anche inimicarsi di riflesso il mondo letterario fiorentino che aveva
nella rivista un importante punto di riferimento. Senza contare che anche altre riviste, fiorentine e
non, avrebbero probabilmente guardato con occhio poco benevolo un’uscita di quel genere.
Insomma, la posizione di Gadda in ambito letterario non era abbastanza forte per potersi permettere
di pubblicare il racconto così com’era: farlo avrebbe significato, avrà pensato Gadda, condannarsi
alla soffocante vita ingegneristica, dalla quale sperava di sottrarsi anche grazie alle seppur poco
remunerate collaborazioni giornalistiche. Nella storia dell’Incendio vi è dunque tutta una serie di
ragioni (di concause, direbbe Gadda) che hanno portato al differimento prima e alla dimissione poi
di un progetto narrativo che ha impegnato Gadda in modo intermittente per quasi un decennio, fino
alla pubblicazione nel Tesoretto della sola descrizione dell’incendio prodigiosamente ampliata e
rielaborata.

Passiamo ora a considerare quello che è il risultato definitivo delle elaborazioni della descrizione
dell’incendio. Come è già stato osservato, in IVK, cioè il quaderno che ospita la Fase C, dopo
l’episodio dell’ex-garibaldino si trova una linea divisoria a matita rossa cui è soprascritto «Rifatto
fin qui». Segno che, nel rielaborare C, Gadda tiene sotto gli occhi il quaderno e ricopia in pulito,
dilatandoli ulteriormente, l’introduzione e gli episodi (escluso quello del Baistrocchi) che fin da B1
costituivano il traliccio originario. Se è certo che la versione che presiede alla vulgata è del 1935,
meno certo è stabilire se quest’ultima versione sia quella ricavata a contatto con C, oppure se fra di
esse sia ancora necessario presupporre altre fasi elaborative.
A prima vista, si sarebbe portati ad abbracciare la seconda ipotesi, poiché l’incremento da C a
Incendio è complessivamente doppio rispetto a quello che si era verificato nel passaggio da B1 a C,
(20) e se si considerano i vari episodi ve ne sono alcuni che subiscono uno sviluppo del 369 %
(donna incinta salvata dal facchino) o addirittura del 742 % (Zavattari salvato dai pompieri).
Tuttavia, se si include a C l’episodio del Baistrocchi, si noterà che l’incremento da C alla vulgata
(112 % complessivamente) corrisponde più o meno a quello intervenuto tra B1 e C, tanto che viene
quasi da pensare che Gadda abbia ampliato i primi cinque episodi per risarcire la perdita dell’ultimo
episodio espunto.
L’argomento rimane però congetturale e forse la corrispondenza dell’incremento è del tutto casuale.
La stessa nota «Rifatto fin qui» potrebbe essere considerata una sorta di pro memoria in attesa di
ampliare anche l’ultimo episodio. Se così fosse, si potrebbe pensare che, «sotto pompatura» nel
1939, Gadda non abbia avuto il tempo o la voglia di metter mano anche all’ultimo corposo episodio
del Baistrocchi e abbia così deciso di escluderlo, cosicché alle possibili ragioni già esposte per
l’espunzione andrebbe aggiunta anche la più volte evocata incostanza gaddiana. Anche se, si
potrebbe obiettare, Gadda avrebbe potuto benissimo includerlo così com’era nella versione del
Tesoretto, ciò che avrebbe oltretutto regolarizzato la sua anormalità, dal punto di vista quantitativo,
rispetto agli altri cinque episodi. Argomenti e contro-argomenti si sprecano quando ci si trova a
dover fare i conti con una carenza di dati e soprattutto con una personalità come quella di Gadda.
L’unica cosa che si può fare in questi casi è indicare le possibili ipotesi e lasciare ad altri, qualora lo
ritenessero opportuno (e magari con l’ausilio di altre informazioni), decidere della questione.
Avendo la fortuna di poter considerare le tre successive elaborazioni della descrizione dell’incendio
ci si trova quasi in imbarazzo, poiché ci si sentirebbe in dovere di rendere conto di ogni
cambiamento che interviene, sia esso un’aggiunta, una sostituzione o un’espunzione; tanto più
quando è fin da subito chiaro che non vi è quasi nulla di gratuito o di capriccioso in Gadda, ma di
volta in volta il cambiamento risponde a delle esigenze ben precise. Credo però che risulterebbe
estremamente ripetitivo fare un elenco circostanziato del consistente materiale che viene ad
aggiungersi nel passaggio da C alla vulgata, foss’anche limitatamente all’episodio della bimba e del
pappagallo salvati dal Besozzi che abbiamo preso in specifica considerazione in B1 e in C. Fermo
restando che rimangono operanti le due tendenze già segnalate fin dall’esame delle correzione
interne a B1, e cioè l’incremento della drammaticità e nello stesso tempo della comicità della
rappresentazione (dove la drammaticità, come già detto, è al servizio della comicità stessa) e
giudicando queste due tendenze sufficientemente illustrate, ci si limiterà ad osservare ancora che la
tendenza all’incremento della comicità, già dominante in B1 e in C, diventa decisamente
prevaricante nel passaggio all’Incendio. Lasciando stare anche quegli interventi che hanno di volta
in volta un carattere peculiare, ci si soffermerà piuttosto su due altre tendenze che intervengono in
modo specifico, se non proprio esclusivo, nel passaggio da C alla vulgata: da una parte, la resa della
simultaneità dell’evento, dall’altra, la resa della coralità del referto.
Preliminarmente andrà notato che le successive elaborazioni ci mostrano un costante arricchimento
della pagina a partire da una struttura di base che rimane pressoché invariata. Non si tratta di
riscrittura ex novo, che riutilizza quanto già scritto per integrarlo in una struttura più articolata e
ricca. Nelle rielaborazioni a cui sottopone la pagina, Gadda innesta via via sul dettato originario
delle nuove digressioni, caratterizzazioni, osservazioni, ecc. lasciando però intatta la struttura di
base. Lo spostamento, foss’anche di unità minime, è estremamente raro e la rielaborazione si muove
in maniera pressoché esclusiva nel senso della dilatazione e dell’ampliamento.
Si assiste allora, quando l’ampliamento si attua per inserti relativamente brevi, ad un proliferare di
accumulazioni che comunque non intaccano la struttura di base della frase, ma la rendono soltanto
più complessa in ragione di quelle stesse inserzioni che ne hanno allontanato gli elementi di base. E
così è anche nel caso di digressioni di più ampio svolgimento, dove semmai si creano nuovi
paragrafi a partire anche da una sola frase (come per il § 7) o il paragrafo stesso si suddivide in più
paragrafi non sempre autonomi (come i §§ 4-5). Questa particolare tecnica dilatatoria garantisce
sempre e comunque la persistenza di una struttura impeccabile e rigorosa soggiacente
all’impressione di estremo disordine che se ne ricava ad una prima lettura.
Un’analisi della struttura logico-argomentativa dell’Incendio non farebbe che confermare
l’osservazione di Manzotti, il quale parla di «una straordinaria elaborazione sintattica (e
argomentativa) che si fonda su di un dominio ineguagliato dell’arte del periodo e della consecuzioni
dei periodi» e di «rigoroso strutturazione [che] regge – o permette – il lussureggiante proliferare
sintattico e semantico». (21) Detto questo, va comunque tenuto presente, perlomeno limitatamente
all’Incendio, che la rigorosa strutturazione di base non è l’immediato frutto di una intelligenza
straordinariamente coordinatrice, quanto piuttosto il risultato ultimo di reiterati innesti che mai
intaccano quella stessa struttura di base che rimane rigorosamente invariata.
Per venire al problema della resa della simultaneità, questa particolare tecnica dilatatoria non solo
permette il rampollare di numerosissime digressioni e aggiunte, ma anche la loro compresenza
all’interno di una stessa struttura logico-argomentativa. Questo significa, se prendiamo ad esempio
il primo paragrafo dell’Incendio, che la simultaneità non è resa solo dalla quantità impressionante di
informazioni contenute, ma anche dal fatto che tutte queste informazioni sono supportate da un
medesimo periodo. E il fatto che gli elementi di base subiscano una deriva crea una tensione
costante che concorre alla resa stessa della simultaneità. È dunque senz’altro vero, per citare ancora
Manzotti, che «la sintassi e le stesse strutture semantiche si fanno iconiche dei contenuti che esse
veicolano» (Manzotti 1993c: 39).
Se abbiamo parlato del primo paragrafo introduttivo è proprio perché in esso è assolutamente
eccezionale lo sforzo prodotto al fine di rendere la simultaneità. Di fatto, la sua elaborazione tende,
da una parte, all’unificazione di tutto il racconto sotto l’insegna temporale di quei «tre minuti»
esplicitamente indicati in apertura (r. 3), dall’altra, alla resa della simultaneità (e della confusione)
dell’evento all’interno del paragrafo stesso. Ho già accennato alla profusione di notizie in esso
contenute e alla loro appartenenza ad un medesimo periodo logico. A ciò andranno aggiunte le
innumerevoli anticipazioni e riprese, tanto quelle vincolate nei confini del paragrafo quanto quelle
che si propagano al di fuori. Subito dopo l’indicazione di tempo si pone l’indicazione del luogo,
«ululante topaia» (r. 3), che compendia il neutro «in quel casamento» (B1, r. 3; C, r. 3), (22)
ponendo fin da subito in primo piano la componente acustica, che costituirà il sottofondo costante
di tutto il racconto. Per rimanere nel primo paragrafo si segnala la Maldifassi che strilla (rr. 11-12),
delle urla generiche (r. 12), gridi e richiami (rr. 12-13), stridi e pianti (r. 25); laddove in B1 e in C
non c’erano che grida e richiami (B1, r. 6; C, r. 8).
Altro elemento costante è ovviamente l’incendio. È il fuoco che apre e chiude il primo paragrafo
(«fuoco», r. 1; «face», r. 26), istituendo così una perfetta circolarità. L’eccezionale lontananza del
complemento dal predicato («che ne disprigionò fuori», r. 4 – «le sue proprie spaventose faville», r.
17) crea un effetto sospensivo già presente fin da B1, ma che in Incendio, per l’ulteriore deriva
conseguente alle inserzioni, non sopporterebbe la tensione se il predicato non venisse ripreso in
perifrasi («non potè a meno di liberare», r. 17); la stessa coppia «poi, finalmente» (r. 12) è ripresa
con «allora, infine» (r. 16), con un complessivo recupero a chiasmo che determina la specularità del
paragrafo.
Altro artificio che istituisce circolarità è costituito dall’attenzione riportata sulle donne a fine
paragrafo, con il «nuovo terrore delle scarmigliate» (r. 23) che rinnova lo «spavento repentino della
casa» (r. 5) da riferirsi in particolar modo alle «donne seminude» (r. 4). Tra le stesse «scarmigliate»
ve ne sono alcune «a piè nudi» (r. 23) con i «loro mille nati» (r. 25), che varia in chiasmo la «lor
prole globale» (r. 5).
Ma l’intento di rendere la simultaneità si spinge ben oltre i confini del paragrafo. Al di là dei motivi
di fondo (quali il fuoco, il fumo e le grida), il compito è affidato soprattutto alle anticipazioni che
porranno le successive descrizioni sullo stesso piano sincronico del paragrafo iniziale. Viene
innanzitutto potenziato il catalogo iniziale, che ora comprende pure il Besozzi con la bambina e il
pappagallo (rr. 9-10) e il Balossi con la Maldifassi (rr. 10-12). Si aggiunge a potenziare l’elenco
anche «poi alcuni signori» (r. 8), che in C erano compresi con le signore: «poi alcune signore […] e
[…] signori» (C, r. 6).
Il catalogo così potenziato, oltre che rendere l’idea della confusione e tener in sospeso la lettura
divaricando la distanza tra predicato e complemento, sfianca il valore temporale degli otto «poi»
che risultano pressoché desemantizzati. Se nel catalogo vengono esplicitamente anticipati solo tre
dei cinque episodi che saranno poi sviluppati, non mancano per gli altri due (vecchio Zavattari
salvato dai pompieri e donna incinta salvata dal Pedroni) dei possibili rinvii: al primo ci porterebbe
la notazione dell’arrivo dei pompieri (r. 14), determinanti nel suo salvataggio; al secondo
l’alternativa di fine paragrafo «alcune a piè nudi…, altre in ciabatte» (rr. 23-24) che anticipa la
situazione dell’altra donna salvata dal Pedroni, l’Isolina Fumagalli, «in zoccoletti da camera che
però uno lo seminò subito giù per le scale» (rr. 153-54). Ma al di là di questi possibili rinvii, non
certo di immediata percezione, il fatto stesso che i due episodi non siano esplicitamente menzionati
non disturba più di tanto. Anzi, contribuisce a rendere la caoticità, sempre comunque implicita alla
simultaneità dell’evento, facendo il paio con i due accenni irrelati ad Anacarsi Rotunno (r. 8) e alla
Carpioni (r. 10).
All’elenco potenziato del primo paragrafo si aggiungono le notazioni sui pompieri in arrivo «a tutta
carriera» (r. 14), che anticipa «fuoruscirono in corsa» del § 2 (r. 29), le guardie municipali (r. 15) e
la Croce Verde (r. 16). Insomma, il primo paragrafo, riunendo in poche righe protagonisti e
comparse, anticipa gran parte degli avvenimenti che godranno in seguito di una più ampia
descrizione, annullando così la nozione del tempo. A partire dal secondo paragrafo non ci sarà uno
svolgimento dell’azione, ma un avvolgimento, (23) come «un pitone nero» che si riavvolga «su sé
stesso», similitudine non certo casuale che appare poco prima della conclusione del paragrafo (rr.
20-21), e lo stesso «morularsi a globi e riglobi» (r. 20) rimanda in un certo senso alla morulazione
costituita dai successivi episodi sviluppati a partire dal paragrafo iniziale.
Il secondo e il terzo paragrafo risultano dalla scissione del § 2 di C. Il secondo paragrafo registra
l’aggiunta della descrizione del pompiere che a malapena riesce a salire sull’autoscala già in
partenza. Ancora una volta lo scopo è di rendere la simultaneità e la concitazione del momento: non
solo tramite la struttura argomentativa, con l’aggiunta che è introdotta da «nel mentre» (r. 30), ma
anche tramite il rinvio istituito dal predicato verbale «gli riuscì d’abbrancare» (r. 31), che richiama
l’iniziale «gli riuscì fatto» (r. 3), e perfino sfruttando le potenzialità dei significanti, che vengono ad
accavallarsi in «reggiscala dell’autoscala» (r. 32) e in «abbottonare la bottoniera» (r.33). Il terzo
paragrafo, anche se separato, mantiene comunque con il precedente dei legami molto stretti: la
ripresa a chiasmo di «sirene» (rr. 27 e 38) e di «elettriche» (rr. 28 e 37), pur non avendo lo stesso
referente, istituisce la specularità dei due blocchi, controbilanciando quella stessa progressione
temporale interna che pur scandisce la descrizione dell’arrivo dei pompieri (dalle stazioni al traffico
cittadino).
Conclusasi la parte introduttiva, il racconto prosegue con la rassegna degli episodi. Oramai garantita
dall’introduzione (e in modo particolare dal § 1) la simultaneità degli eventi, le aggiunte che
intervengono nelle descrizioni dei cinque episodi rispondono ad altri intenti. Questo non significa
che venga meno l’attenzione di Gadda al problema specifico della simultaneità della
rappresentazione all’interno dei singoli episodi (che anzi viene perseguita, seppur meno
caparbiamente, con gli stessi artifici) e dell’evento in genere (di volta in volta ribadita con
l’istituzione di punti di contatto a quello stesso primo paragrafo che fa da conduttore della
simultaneità).
Vi è perfino l’inserzione di un nuovo paragrafo che, aprendosi sulla considerazione già presente in
C a conclusione del primo episodio («“L’incendio”<,> dissero tutti, “è una delle cose più terribili
che sia”»), recupera e compendia alcuni elementi dell’espunto episodio del Baistrocchi, del
frammento relegato nell’apparato critico di B2c e dell’abbozzata conclusione di App. II. (24)
Questo settimo paragrafo dell’Incendio è la replica del primo, con la sola differenza che qui
l’attenzione si focalizza sugli oggetti devastati dal fuoco e sull’intervento dei pompieri, laddove il §
1 si concentrava sullo sfollamento delle persone e sull’arrivo dei pompieri stessi. Ma, pur tenendo
conto di questo nuovo bastione della simultaneità che interviene a riportare l’attenzione sull’evento
collettivo dopo il diffuso episodio iniziale, il problema della resa della simultaneità passa comunque
in secondo piano e al suo posto subentra, anche a detrimento della resa stessa della simultaneità, il
proposito di rappresentare le infinite relazioni del reale.
Non bisogna prendere troppo sul serio l’accenno a Marinetti e prodigarsi nel trovare nell’Incendio
eventuali convergenze con il linguaggio futurista: è una delle tante frecciatine, e nemmeno la più
acuminata, che il disegno originario dell’Incendio prevedeva. Di fatto, l’unico accenno certo al
futurismo nell’Incendio, oltre che l’esplicita menzione del suo fondatore e caposcuola, è
rappresentato da quel «simultanare» (r. 2) che rimanda appunto alla simultaneità tanto sbandierata
da Marinetti. Ancora una volta bisogna stare attenti a non farsi abbagliare da questa «ancella» della
«Circe bagasciona». Che la resa della simultaneità sia determinante è senz’altro vero, ma questo
non significa che l’Incendio debba venir considerato una sorta di duello in cui si sfida l’offeso sul
proprio terreno. Certo, Gadda non butta il sasso per poi nascondere la mano: la resa della
simultaneità dell’evento è una preoccupazione costante nel racconto. Ciò non toglie che la
divergenza tra Gadda e il futurismo non vada tanto cercata nel risultato (in vero notevole nel primo
e suggestivo ma discutibile nel secondo) quanto piuttosto nel cuore stesso delle due poetiche.
L’accenno a Marinetti e alla sua presupposta simultaneità è uno sberleffo contro un letterato e una
poetica per nulla amata da Gadda, uno sberleffo dietro al quale si cela una profonda divergenza di
idee. (25)
Per Gadda futurismo significa rappresentazione assolutamente superficiale della realtà. Alla stessa
Masino di Monte Ignoso, Gadda rimproverava: «La maniera giunge talvolta ai limiti di un futurismo
deteriore, tutta notazione dell’immediato percepire e niente espressione del profondo apprendere»
(SGF I 714). Rappresentare la realtà, per Gadda, non corrisponde per niente all’intuizione
immediata del fenomeno. La realtà è un tutto e il fenomeno non può essere estratto da questo fitto
tessuto che si estende senza limiti di spazio e di tempo. È il principio leibniziano della ragione
sufficiente, che postula che «jamais rien n’arrive, sans qu’il y ait une cause ou du moins une raison
déterminante», (26) principio deterministico che Gadda condivide con la sola riserva che alla causa
vadano sostituite le cause, tutta una serie di cause, un’infinità di cause, giacché ad uno stesso effetto
concorrono più cause e a tutte queste concause concorrono a loro volte altre concause e così di
seguito fino all’infinito.
In Un’opinione sul neorealismo Gadda dice: «E poi, cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé,
chiusi nell’involucro della loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini
(Spinoza direbbe modi): mi valgono in una aspettazione, in una attesa di ciò che seguirà, o in un
richiamo di quanto li ha preceduti e determinati» (SGF I 629). La superficiale notazione esteriore,
seppur resa intuitivamente, di cui pecca il futurismo non si scontra solo con la complessità del dato,
ma misconosce anche un’altra premessa epistemologica fondamentale, e cioè che l’io-conoscente
non è su un’isola dalla quale può osservare il reale. L’io-conoscente è parte del reale e non può
sottrarsi alla sua perenne deformazione, e lo stesso atto conoscitivo, che elegge il dato a «pausa
della deformazione in atto» implica a sua volta una deformazione: «Il dato è per gli altri uno stacco
sicuro dalla terra ferma, una predella ferma per spiccare un bel salto. Per me è lo stacco da una tolda
traballante (bateau ivre): o una predella già essa moventesi. Conoscere è deformare» (Meditazione,
SVP 667-68).
Certo non è possibile applicare rigorosamente queste premesse epistemologiche in ambito letterario,
ché le conseguenze sarebbero paralizzanti. Ma chi pretende, come Marinetti, di simultanare quel
che accade non tenendone conto, finisce per ammassare parole vane, suggestive finché si vuole ma
vane: tanto lontane da una forma di conoscenza quanto la casa-pacco postale lo è dalla realtà: «La
casa non è una casa (pacco postale): ma è un grumo o convergenze di complessi di relazioni volute
dall’abitare, dal riposare, dal ripararsi, dallo scrivere – dalle possibilità economiche di costruirla
(nodo di relazioni economiche) – dal non terremoto – dalle relazioni della calce che indurisce, dalle
relazioni ferro, mattoni, tecnica, ecc. ecc. (Milioni di miliardi di relazioni convergenti.) Soltanto il
cervello pleistocenico della borghesuccia pensa la casa come un oggetto (pacco postale), avulso
dalla coesistenza infinita» (SVP 666). La pretesa simultaneità futurista, indipendentemente dagli
esiti, è risibile proprio perché ha una visione della realtà estremamente superficiale.
Ma lasciamoci alle spalle i futuristi, con i quali Gadda ha veramente ben poco a che fare, e veniamo
a considerare le applicazioni pratiche nell’Incendio delle premesse epistemologiche gaddiane.
L’episodio della bambina e del pappagallo salvati dal Besozzi è particolarmente adatto ad illustrare
questa tendenza, tendenza che può ancora essere posta sotto l’insegna della simultaneità. Non più la
simultaneità dell’evento in sé, ma la simultaneità delle infinite cause e delle infinite relazioni che
convergono nel dato: nel caso specifico, i personaggi coinvolti nell’incendio.
Se in B1 il Besozzi salva la bimba e il pappagallo perché si trova sulle scale ad aspettare la madre
della bambina «nella speranza d’un buon incontro», già nel passaggio a C il referto si fa più
circostanziato, con inoltre la variante alternativa in cui si contemplano le abitudini del Besozzi che
in Incendio sarà poi integrata nel testo. In Incendio si assiste proprio ad un importante incremento
della rappresentazione dell’abitudinarietà dei personaggi coinvolti nei cinque episodi. Nel caso dei
salvatori dei primi tre episodi, tale incremento ha lo scopo di rendere conto dei motivi che hanno
portato alla coincidenza delle loro traiettorie con quella dei salvati. Nel caso dei salvati, invece,
l’incremento, anche se non è del tutto estraneo allo stesso intento, mira piuttosto a contrapporsi alla
rappresentazione puntuale e drammatica degli effetti dell’incendio, fornendo nello stesso tempo la
storia dei vari personaggi coinvolti. Il personaggio dell’Incendio non è un personaggio-pacco
postale: ha una sua storia e delle abitudini che devono essere rappresentate non solo perché sono
l’essenza stessa della sua rappresentazione, ma anche perché concorrono in quel preciso momento a
determinarne le reazioni.
Ritornando al Besozzi, il suo salvataggio è il frutto di tutta una serie di motivi che lo hanno portato
a trovarsi sulle scale proprio in quel momento: abita al piano di sopra nella pensione della Isolina
Fumagalli, è povero, disoccupato, costretto a arrabattarsi durante la notte per trovare di che vivere e
quindi durante il giorno dorme, alzandosi verso le cinque pomeridiane sbrigativamente si dà una
sistemata, dopodiché si veste ed esce sulle scale andando su e giù nella «speranza d’un buon
incontro», quel giorno poi aveva incontrato la madre della bimba cosicché, quando sente le urla
della bambina e del pappagallo, si precipita a salvarli. Senza scordarsi di salvare, pro domo sua,
l’orologio d’oro sul comodino.
Lo stesso discorso vale anche per il facchino Gaetano Pedroni e il «magütt» Ermenegildo Balossi,
provvidenziali soccorritori che incrociano la loro orbita con una donna incinta il primo e la
Maldifassi il secondo, episodi in cui Gadda si diverte a sottolineare la fortuita convergenza delle
traiettorie mostrandone la loro eccezionale opportunità: la donna-baule è salvata da un facchino e la
Maldifassi con la caviglia slogata da un vero acrobata dei tetti. Stessa eccezionale opportunità
nell’episodio del vecchio Zavattari che viene salvato dai pompieri «con le maschere».
Quanto ai salvati, il personaggio che fruisce di un più ampio sviluppo nel passaggio ad Incendio è
proprio lo Zavattari, che in B1 e in C era congedato in poche righe. Praticamente del tutto nuovi i
§§ 13-14 che si sviluppano da due osservazioni minime presenti nelle versioni precedenti: «il
vecchio Zavattari» apre il § 14 in cui si descrivono le sue abitudini e la miseria della sua camera;
«consocio della ditta Fratelli Giboli, negozietto di ostriche di Taranto», una volta sostituito il nome
della ditta con «Carabellese Pasquale», è all’origine del § 14 in cui si parla della sua pescheria e
delle massaie che la frequentano. Pur rimanendo valida la motivazione filosofica che giustifica
comunque e sempre il proliferare di nuove digressione e l’innesto di nuove osservazioni, non va
dimenticata la irrefrenabile dispersività di Gadda, che non di rado si lascia prendere la mano. Non a
caso il paragrafo successivo, rivenendo allo Zavattari dopo la digressione del § 14, eccentrica
rispetto a via Keplero, si apre con l’autoironica osservazione: «Ma tutto questo non c’entra: quel
che si voleva dire è che il vecchio…» (cfr. nota di commento alla r. 272 di Incendio).
E non va dimenticato nemmeno che, in un evento come l’incendio, la ricerca di quelle che Gadda
chiama le «concause» non è appannaggio esclusivo della filosofia, ma risponde pure al dispiegarsi
della curiosità popolare. L’incendio rappresenta un caso in cui filosofia gaddiana e curiosità
popolare coincidono, un caso in cui lo stupore popolare, colpito potentemente nei sensi, raggiunge
lo stupore filosofico. Ciò significa che in linea di massima non sarebbe nemmeno necessario
evocare le premesse gnoseologiche gaddiane per rendere conto di tutte le notazioni, escluse
ovviamente quelle che pertengono al narratore, che intervengono nel racconto. La straordinaria
concentrazione della curiosità popolare attorno all’evento basterebbe a giustificarle, cosicché la
scrittura, ancor prima di essere rappresentazione di un modo di vedere il reale proprio dell’Autore, è
mimesi (e nel caso specifico dell’Incendio anche parodia) della comunità fabulante che attorno
all’incendio dispiega la sua voce.
Veniamo così a parlare dell’altra tendenza operante in modo macroscopico nel passaggio da C
all’Incendio, e cioè il tentativo di rendere l’idea di questa comunità fabulante riducendo al minimo
la distanza tra la voce del narratore e tutte le voci che si articolano attorno all’evento. Come dice
Domenighetti, «l’impressione finale è quella di un narratore che parla soprattutto attraverso una
pluralità di discorsi non suoi, dentro una sorta di coro di voci popolari, come scrivesse passando il
microfono a più persone e annotandone le testimonianze, e fra una testimonianza e l’altra
inframmezzandone la sua voce» (Domenighetti 1992: 200).
Giustissima osservazione, che però andrebbe lievemente corretta o precisata. Non si tratta di
narrazione in presa diretta, ma di narrazione a posteriori che terrebbe conto di tutte le
«testimonianze» raccolte: il tempo del racconto è infatti il passato (prevalente l’imperfetto nelle
descrizioni delle abitudini, il passato remoto nella puntualità) e la notazione «la Carpioni, anzi mi
sbaglio, la Maldifassi» (rr. 10-11), che Domenighetti considera «correctio [che] proietta il locutore
nell’universo del rappresentato, creando la sensazione di un resoconto in presa diretta»
(Domenighetti 1992: 201), misura in realtà lo scarto tra il tempo della narrazione e il tempo
dell’evento narrato, con l’io narrante che quasi vuol mostrare il suo imbarazzo nel coordinare in un
referto coerente la pluralità di testimonianze raccolte, annunciate a chiare lettere fin dall’apertura:
«Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14».
Non solo, ma un inserto di questo tipo presuppone la presenza di un pubblico in ascolto, di un
destinatario immediato. Nello stesso senso si muovono ancora, e in maniera più esplicita, notazioni
del tipo: «la signora Arpàlice Maldifassi, cugina del famoso baritono Maldifassi, Eleuterio
Maldifassi! ma sì!… andiamo! che aveva cantato anche alla Scala, in del 1908… nel Mefistofele…»
(rr. 162-64), oppure «si inorridisce solamente a pensarlo, non dico poi a riferirlo» (rr. 176-77), (27)
o ancora la conclusiva descrizione della meta dell’autolettiga, che pone il narratore nella situazione
di dover spiegare ad un pubblico dove si trova l’obitorio della clinica universitaria. La posizione
stessa che il narratore assume risponde dunque ad un intento mimetico poiché riproduce la
situazione enunciativa propria del resoconto orale. Gli esempi proposti rappresentano un numero
molto esiguo di casi in cui si svela questa particolare soluzione prospettica del narratore: molti altri
se ne potrebbero ancora proporre. Ma quel che conta, una volta segnalato il fenomeno, non è tanto
fare un elenco esaustivo dei casi in cui si realizza, quanto piuttosto notare che quasi tutti
intervengono nel passaggio da C alla vulgata.
Lo scarto tra narratore e personaggi, e più in generale tra narratore e vox populi, viene nello stesso
tempo assottigliato tramite la massiccia acquisizione nella lingua del narratore di espressioni e
movenze che appartengono a quella stessa comunità fabulante di cui si finge di voler riportare le
«testimonianze». Espressioni come «fu una vera fortuna e una gran misericordia di Sant’Antonio da
Padova» (r. 78-79), «questa la salvò per miracolo» (r. 133), (28) «Anche qui… si vide proprio il dito
del Signore» (rr. 194-95), che rifanno il verso allo stupore delle massaie, vengono riprese dal
narratore senza soluzione di continuità. Così è anche per le numerose esclamative, quali ad esempio
«una dispettosa!» (r. 107), «ed era già al quinto mese!» (r. 130), «inviato da Dio!» (r. 135), «Dio!
Dio!» (r. 176); o ancora «brutti vigliacchi!» (rr. 167-68), caso in cui si palesa il sovrapporsi di voci,
poiché il narratore sta esplicitamente riportando in discorso indiretto libero l’esclamazione della
Maldifassi.
Lo stesso avviene nel § 9 (nuovo rispetto a C) in cui si dice del salvataggio del Pedroni che,
scendendo le scale, si trascina ora con sé anche l’Isolina Fumagalli: la voce del Pedroni, che «quella
sera» (r. 146) aveva raccontato il suo salvataggio (oramai già sconfinante nell’epopea) si intrefola
con la voce del narratore senza soluzione di continuità.
Per quanto concerne la lingua, si potrebbe riproporre la nota che Gadda stesso appone Quattro figlie
ebbe e ciascuna regina:
In questo disegno milanese «su cartone vecchio», alla tentata rappresentazione di un
«interno» si sono voluti adibire, a tratti, i modi mentali e i modi idiomatici propri de’
personaggi che in quell’interno esagitavano il loro spirto vitale. L’orditura sintattica, le
clausole prosodiche, l’impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio, devono
perciò ritenersi funzioni mimetiche del clima, dell’aura di via Pasquirolo o del
Pontaccio: che dico, dell’impetus e dello zefiro parlativo i quali dell’ambiente
promanano, o prorompono. E ciò non soltanto nel dialogato, ma nella didascalia e nel
contesto in genere, quasicché a propria volta l’autore si tuffi nella bagnarola e
nell’acqua medesime ove poco prima erano a diguazzare i suoi colombi. Quanto
all’impeto, è un impeto ricco, nativo, a cui non si sogliono imporre freni accademici o
mediazioni teologiche: e vien celebrato nelle cronache quale «bella spontaneità» o
«bella immediatezza del dire». E del ragionare e dell’essere, dunque. (Adalgisa, RR I
374)
Adattati i riferimenti alle circostanze del caso, l’Incendio risponde alle stesse esigenze, con la lingua
che si muove dagli inserti dialettali dei personaggi, riportati in discorso diretto, alle preziosità
letterarie e alle torsioni espressionistiche proprie del narratore, mantenendosi per lo più a livello di
un italiano popolare, non di rado ottenuto partendo dal dialetto, a cui si aggiungono tournures
tipiche della prosa giornalistica.
Prima di concludere e di dedicarci al commento dell’Incendio, credo s’imponga ancora un’ultima
osservazione. Nel rendere conto dell’ingente materiale che è si venuto ad aggiungere nel passaggio
da B1 a C, e soprattutto da C alla vulgata, si è tentato di scorgere dietro a questa complicazione
rappresentativa delle linee di forza: si è così parlato di incremento della drammaticità e della
comicità della rappresentazione, di resa della simultaneità dell’evento, dell’applicazione in ambito
letterario di premesse epistemologiche – senza dimenticarsi di evocare, per dirla con Gorni, il
«temperamento così splendidamente dispersivo» di Gadda (Gorni 1984: 301) – e, infine, di mimesi
e parodia delle voci che si articolano attorno all’incendio. Ora, non si vorrebbe aver dato l’idea di
tendenze operanti l’una indipendentemente dall’altra, ché non è proprio il caso. Non si tratta di
classi a tenuta stagna, giacché nella maggior parte dei casi lo stesso fenomeno può essere ricondotto
a più di una di esse.
Così, per fare solo un esempio, se prendiamo la conclusiva descrizione della meta dell’autolettiga
(che in Incendio sostituisce il paragrafo conclusivo di B1 e C), possiamo scorgervi la compresenza
di più intenti: mimesi del parlato, comicità, manifestazione della complessità del reale nel garbuglio
toponomastico e resa della simultaneità. Quest’ultima, seppure meno evidente, è perseguita con
l’introduzione dell’espressione in explicit «a casa del diavolo» che rimanda a «Se ne raccontavano
di cotte e di crude sul fuoco del numero 14», dove si noterà che il cortocircuito tra le due
espressioni è suscettibile a sua volta di essere scomposto e riassegnato nelle sue componenti
all’intento mimetico (espressioni di stampo dialettale), all’intento comico («dirne di cotte e di
crude» per un incendio e identificare l’obitorio con la «casa del diavolo»), all’intento di
rappresentare una realtà complessa (espressioni che denotano caos o comunque indeterminazione).
Université de Genève

Note
1. Il Tesoretto, Almanacco delle Lettere e delle Arti (Milano: Primi Piani, 1940), 58-72. Nel 1939
aveva già ospitato alcune favole di Gadda (cfr. la Nota di Claudio Vela, SGF II 906-07) e il racconto
Ronda al Castello (estratto da Un fulmine sul 220, poi confluito nelle Meraviglie d’Italia). Nel
1941, edito da Mondadori, Gadda vi collaborerà ancora con L’Adalgisa (Disegno su tre fogli
espunto dal romanzo inedito «Un fulmine sul 220»).
2. v. scheda bibliografica del racconto nella Nota di Rodondi (RR II 1280). Citazioni da SVP 393 e
576.
3. Dante Isella, I «Disegni milanesi» di C.E. Gadda, Gadda 1995: xii. Il termine «sinfonia», a
designare ciascuna delle tre parti di cui dovrà comporsi il romanzo (cfr. Racconto, SVP 415), fa la
sua prima apparizione in una nota compositiva del 21 luglio 1924 (SVP 417).
4. Alberto Basso (a cura di), Dizionario Enciclopedico Universale Della Musica e dei Musicisti, Il
lessico, vol. IV, (Torino: UTET, 1984), 450-51.
5. Per una precisa ed esauriente ricostruzione della genesi della raccolta, delle sue vicende editoriali
e della sua fortuna, si veda la già citata nota di Rodondi, particolarmente RR II 1235-252. Mi limito
a mettere in evidenza, giacché interessa il problema della datazione della Fase A dell’Incendio, le
due occorrenze in cui Gadda indica il 1931 come estremo più basso per i racconti delle Novelle:
«Però la cosa a cui lavoro con più urgenza è un libro di dodici-quindici racconti, scritti in varie
epoche, dal ’31 ad oggi» rispondeva Gadda a Franciosa che lo interrogava a proposito del
Pasticciaccio (Gadda 1993b: 28); «Il volume raccoglie 14 miei racconti editi su clandestine riviste,
inediti in volume, nel corso del venticinquennio, anzi ventennio 1931-1951» scriveva a Contini il 2
gennaio del ’53 annunciandogli la prossima pubblicazione (Gadda 1988b: 86). Molto significativa
la concessione cronologica a Contini che permette di spostare perlomeno al 1926 il termine post
quem, arrivando così a comprendere i racconti (Le novissime armi, Papà e mamma, L’armata se ne
va) espunti dalla Meccanica (composta nel 1928). Tuttavia, tale termine non è ancora del tutto
credibile se si considera che non solo Papà e mamma è dichiaratamente annunciato in
Accoppiamenti giudiziosi come risalente al 1924, ma anche che il breve racconto Dopo il silenzio è
estratto dal Racconto italiano (1924-25). Evidentemente Gadda sta tentando di far passare per meno
datati di quel che siano i racconti delle Novelle e indicando il 1931 vuol forse significare la loro
posteriorità, o perlomeno la contemporaneità, rispetto alla Madonna dei Filosofi, prima
pubblicazione in volume che aveva segnalato il suo ingresso nel mondo delle lettere.
6. Gadda 1983d: 88. Per altre autoesegesi del titolo della raccolta, a giustificazione della sua
pertinenza, v. anche Gadda 1988b: 86; Gadda 1974c: 82; SGF I 1120-121; Gadda 1993b: 28.
7. Si noterà che nel 1951 il titolo previsto per il racconto in Novelle era Medagliere del garibaldino
(RR II 1242) – come se, spossessato oramai definitivamente della sua originaria combustione, il
fenomeno puramente esteriore dell’incendio non potesse nemmeno più reclamarne il nome.
8. Per le considerazioni che seguono, cfr. Gadda 1995: 238-39, in cui Italia fornisce l’apparato
evolutivo della tradizione a stampa, soffermandosi pure in un breve commento sugli interventi più
cospicui.
9. I rinvii si riferiscono all’Incendio riproposto e commentato qui di seguito. Il corsivo è nostro, a
segnalare le aggiunte.
10. Forse perché, come suggerisce Rodondi, «più connotato in direzione regionale» (RR II 1251).
11. Si badi bene che la descrizione non riguarda, come solitamente si pensa, l’itinerario
dell’autolettiga (di cui si dice solo, molto pertinentemente, che dirigendosi verso la guardia medica
di via Paolo Sarpi, a sud-ovest rispetto a via Keplero, aveva poi dovuto invertire la marcia per
dirigersi verso l’obitorio della clinica universitaria, che si trova giustappunto ad est rispetto alle due
altre vie). La descrizione vuole piuttosto spiegare ad un ipotetico interlocutore dove si trova
l’obitorio, e perciò si prodiga nel fornire più termini di riferimento.
12. Inesistenti via Polli e via Giuseppe Trotti; via Giacinto Gallina e via Ceradini (ma Giulio) sono
due parallele a Viale Romagna non troppo distanti dalle altre vie citate; esiste anche via Motta (ma
Emilio), che si trova però dall’altra parte della città.
13. E, proprio in una lettera a Contini del novembre 1945, Gadda scriveva: «Pratolini è a Milano
[…]. Potrai averne l’indirizzo da qualche milanese o melanese: io lo ignoro» (Gadda 1988b: 28).
14. Definizione accettata da Gadda stesso per i racconti delle Novelle: «Quanto al frammento
narrativo è giustissima clausola e chiave: poiché veramente si tratta di involontarî espunti da
narrazioni più ampie: […] espuntî involontari, simili a quei pezzi di affresco che contengono alcuni
volti o alcune figure e oggetti superstiti da un più folto e organato collegio, che è andato sommerso
nel tempo» (Gadda 1988b: 88-89 – lettera del 22 luglio 1953).
15. Cfr. TDL 24 e 48; Gadda 1995: 252 e 261.
16. Nell’edizione in rivista del racconto Accoppiamenti giudiziosi (apparso in Palatina, tra il
numero di gennaio-marzo 1957 e quello di aprile-giugno 1958) la quinta puntata si chiudeva con la
dicitura «continua» e, nell’ideare la nuova raccolta Gadda si era proposto di concludere il racconto
(cfr. RR II 1255-260). Se lo avesse fatto, forse avrebbe superato il San Giorgio, l’unico ad essere
più esteso.
17. «A Bompiani ho promesso, e intendo mantenere la promessa, un volume di racconti che mi
stanno molto a cuore, L’incendio di via Keplero; il ritardo nella consegna è dovuto al fatto che devo
ultimare alcuni di essi» (SGF I 950-51). Si noterà che la risposta all’inchiesta di Leoni era destinata
ad apparire su Pesci Rossi (a I, n. 10, ottobre 1946), cioè la rivista dell’editore Bompiani. Il che non
può non far nascere qualche dubbio sulla sincerità dell’affermazione di Gadda, probabilmente
dettata più che altro da criteri di opportunità. Se è corretta l’ipotesi proposta sopra, comunque, tra i
racconti ancora da completare ci dovrebbe essere lo stesso Incendio.
18. Si confrontino le due descrizioni: «cinque piani, compreso il terreno, due scale, tre (prima due,
cassato in rigo) quartieri ogni piano e scala» (cfr. Gadda 1995: 247, apparato critico relativo alla p.
155 di NDL1); «Drento, poi, c’ereno du scale, A e B, co sei piani e dodici inquilini cadauna, due per
piano» (Pasticciaccio, RR II 19). E nei due casi non viene mai fornita la precisa geografia interna
del palazzo.
19. Resterebbe da spiegare il proposito di pubblicare la Fase A sul Resto del Carlino (vedi sopra).
Ma il semplice proposito, visto che di fatto non si è mai concretizzato, nulla toglie alla nostra
osservazione.
20. Da B1 a C vi era stato un incremento del 113 %, mentre da C a Incendio è del 240 %. Si
rimanda alla tavola sinottica della sezione precedente.
21. Gadda 1987a: xxix. Alla struttura logico-argomentativa del primo paragrafo dell’Incendio ha
dedicato una dettagliata analisi Domenighetti 1992: 177-87. Sui paragrafi 4 e 5 si è soffermato
invece lo stesso Manzotti (Manzotti 1993c: 35-39), studiando la resa della simultaneità tramite la
struttura frasale nell’episodio (e più precisamente nelle manifestazioni di paura) della bambina e del
pappagallo.
22. I rinvii a B1 e C si riferiscono rispettivamente, per il primo paragrafo, a Gadda 1995: 251 e 281
(la numerazione delle righe è progressiva e non tiene conto, come invece indicato Gadda 1995, dei
cambi di pagina dei quaderni).
23. L’antitesi è usata dallo stesso Gadda per definire in generale in suo lavoro letterario (cfr. RR II
970).
24. Quasi tutto il paragrafo, una volta sostituita l’osservazione iniziale, è di fatto il risultato della
dilatazione della novella che il Baistrocchi scrive in seguito all’incendio: «Perché insomma la
novella disfociò in una cornucopia di psicologia analitica, dove furono bisturizzate le intime
perplessità de’ pompieri, fra cateratte d’acqua potabile sopra le minacciate cose, scale mobili,
isolatori di porcellana semiusti, aggrovigliati fili e vetri in briciole, in un lago d’acqua e di melma,
fra gli stivaloni de’ salvatori e il protervo cic-ciac delle ciabatte femminine dentro di quella
catastrofica lavanderia» (si cita dalla Fase C, IVK 7; Gadda 1995: 285; ma cfr. anche in B1, TDL
24; Gadda 1995: 252-53). L’immagine delle donne che sguazzano nella melma è comunque ripresa
da App. II, che presta pure al § 7 i tavolini da notte (cfr. TDL 61-62; Gadda 1995: 274). Infine il
frammento di B2c, oltre alla perifrastica osservazione che «l’incendio è una delle cose più
pericolose che possono darsi», si associa ad App. III nel menzionare i tavolini da notte (cfr. Gadda
1995: 272, apparato critico relativo a TDL 53).
25. Si veda, per le poche occorrenze in cui Gadda indugia sul futurismo, per lo più irridendolo e
denigrandolo, Rinaldi 1982: 361-63.
26. G.W. Leibniz, Essais de Théodicée (Paris: Garnier-Flammarion, 1969), Première partie, § 44,
128.
27. Aggiunta intervenuta, come già notato, nel passaggio dall’edizione del Tesoretto alle Novelle.
28. Anche questa aggiunta interviene con le Novelle.

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