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Fase B – L’incendio e i suoi quadri

Molto più consistente e molto più complessa della prima stesura, la Fase B dell’Incendio di via
Keplero si trova in un secondo quaderno, (1) da Gadda stesso chiamato «Quaderno dei temi e dei
disegni di lavoro» (da qui la dicitura TDL) e iniziato il 1° dicembre del 1928. Nel quaderno,
nonostante la dicitura gaddiana, solamente poche pagine contengono delle liste di temi e progetti in
cantiere (nonché note di vario genere), (2) essendo invece il quaderno quasi interamente occupato
dalla ristesura del San Giorgio in casa Brocchi (pp. 87-167) e da parecchio materiale da assimilare
all’Incendio di via Keplero (pp. 18-70, 73-75 e 170-72).
Contrariamente alla Fase A, di cui non è stato possibile fornire una datazione precisa per mancanza
di indicazioni esplicite da parte dell’autore, la Fase B gode, sotto questo aspetto, di uno statuto
privilegiato, poiché la prima descrizione dell’incendio (quella che per intenderci costituirà la
struttura portante della versione definitiva), oltre al titolo del racconto, reca, variamente modulati,
luogo e data di composizione: «Milano 16-6-’31. – 16 giugno 1931. – Milano: 16-6-’31». (3)
A questa prima descrizione dell’incendio (B1), che occupa in TDL le pagine da 19 a 25, fanno
seguito due note compositive. Nella prima, a p. 26, Gadda si propone una sommaria classificazione
delle parti che dovranno costituire il racconto:
1.a parte: descrittiva come sopra
2.a parte: narrativa
3.a parte: nuovamente descrittiva
4.a parte: fine della narrazione

Questa nota, che dovrebbe permettere di meglio capire quali fossero a questa altezza cronologica gli
intenti di Gadda, pone però alcuni problemi. Ma andiamo con ordine, e tentiamo di individuare a
cosa corrispondano queste quattro parti. È indubbio che la prima parte descrittiva vada identificata
con la descrizione dell’incendio (B1) contenuta nelle pagine che precedono immediatamente la
nota: il «come sopra» non lascia dubbi in proposito. Alla terza parte («nuovamente descrittiva»)
andrebbe riferita un’ulteriore nota compositiva che si trova nella pagina seguente (p. 27 di TDL), in
cui Gadda elenca i vari sottoepisodi che dovranno costituirla:
– Episodio del baccanale di velocipedastri, motocicli, ecc.…
– Arrivo dei pompieri: mancanza d’acqua: le autopompe non passano sotto il passaggio
a livello. ecc. –
– Cause dell’incendio e pezzo satirico sulle macchine del caffè espresso, pellicole
(Berlino), benzina (Parma)
– Episodio della chiromante che fa i massaggi. –
– Episodio della visita di Gadda alla poetessa. –

Se due di questi episodi saranno diffusamente sviluppati (l’«episodio della chiromante che fa i
massaggi», siglato B2b, alle pagine 27-45 e l’«episodio della visita di Gadda alla poetessa», B2c,
alle pagine 46-56), lo stesso non si può dire per gli altri tre: mentre il pezzo che prevedeva la
descrizione delle cause dell’incendio (di cui abbiamo già parlato nella trattazione della Fase A) non
sarà semplicemente nemmeno abbozzato, i primi due episodi previsti pongono invece qualche
problema.
è difficile dire che cosa Gadda avesse in mente per il primo dei due, (4) mentre è piuttosto esplicito
circa i contenuti del secondo. Nel quaderno, di fatto, troviamo (nell’ordine narrativo alle pp. 75, 18
e 170-72) un episodio intitolato «La comitiva della Lingera» (B2a), in cui Gadda descrive lo
scontro tra le autopompe in arrivo e la sgangherata gang metropolitana: incidente che ritarda
l’intervento dei pompieri nello spegnimento del fuoco in via Keplero. Credo che la rinuncia a porre
mano al secondo episodio previsto sia da imputare a ragioni di misura: sarebbe stato forse
eccessivo, dopo l’episodio della Lingera, causare ancora dei ritardi ai soccorsi, bloccando le
autopompe ad un passaggio a livello e facendo venir meno l’acqua nel momento di maggior
bisogno. Mi sembra quindi ipotizzabile un agglutinamento dei primi due episodi in uno solo, con il
non meglio precisato episodio del «baccanale di velocipedastri» che si carica pure della funzione
ritardante, e grottesca, che originariamente prevedeva la stesura di un secondo episodio.
Una volta identificate le due parti descrittive con B1 e B2, (5) si pone il problema di capire a cosa
dovrebbero corrispondere la seconda e la quarta parte comprese nella classificazione di p. 26.
Basandosi sulla nota che Gadda fa immediatamente seguire alla lista («il tema della parte 2 a. e 4a. –
narrazione è ancora in gestazione»), Paola Italia ne conclude semplicemente che non sono mai state
sviluppate (Italia 1994: 274). Ma, se così fosse, la Fase A si troverebbe di fatto esclusa dalla
struttura delineata, essendo del tutto incompatibile con la nota apposta a fine lista. Per uscire
dall’impasse si potrebbe postulare la non esaustività della classificazione e dare quindi per acquisita
la presenza della Fase A quale preambolo o introduzione al racconto. (6)
Questa soluzione si scontra però con due obiezioni che a mio avviso le sono fatali: da una parte, ci
si chiede per quale motivo Gadda, nel momento in cui delinea la struttura del racconto (e cioè in
fase progettuale, che non fosse altro che il Racconto italiano ci mostra essere esuberante piuttosto
che carente), avrebbe dovuto omettere la semplice indicazione di un frammento narrativo che gli era
costato parecchio lavoro e che nell’economia generale del racconto, qualora vi fosse stato incluso,
avrebbe giocato un ruolo importante (per la sua consistenza, per i temi contenuti e per il suo stesso
statuto narrativo); dall’altra parte, mi sembra che la prima descrizione dell’evento incendio
abbozzata in B1, soprattutto in considerazione dell’incipit (che arriverà pressoché invariato alla
vulgata: «Se ne raccontano di cotte e di crude sul fuoco del N. 14. – Ma la verità è che neanche S.E.
Filippo Tommaso Marinetti potrebbe simultanare quel che stava succedendo in quel casamento…»),
mal sopporterebbe di essere preceduta da un’introduzione o preambolo. Si è dunque quasi costretti a
concludere che le pagine comprese in NDL1 non facessero già più parte del progettato racconto nel
momento in cui Gadda stese la nota compositiva di p. 26 di TDL.
Ciò detto, se consideriamo attentamente le altre pagine contenute in questo secondo quaderno e che,
pur appartenendo inequivocabilmente all’Incendio, vengono nei Disegni milanesi relegate ad
appendici perché, secondo la curatrice, «difficilmente assimilabili alle due note compositive»
(Gadda 1995: 235), ci accorgiamo che la struttura risulta essere meno lacunosa di quanto Italia non
sostenga. Al di là dell’Appendice I (che si trova alle pp. 57-60 di TDL, cioè di seguito all’«episodio
della visita di Gadda alla poetessa»), la cui estraneità non è determinata da nient’altro che dal fatto
di costituire una digressione sui ritratti di due militari che si trovano nell’appartamento della
poetessa, e dell’Appendice IV (pp. 73-74), che è costituita da un’abbozzata nota su Giovanni
Keplero e Giordano Bruno, mi sembra che le altre due appendici abbiano tutte le carte in regola per
essere considerate proprio la seconda e quarta parte narrative previste dallo schema.
L’Appendice II (pp. 61-62), in cui viene rappresentato Gadda-personaggio che da fuori contempla
l’incendio del caseggiato, concluderebbe degnamente il racconto, (7) mentre l’Appendice III (pp. 61
e 63-70), parziale ripresa e rielaborazione della Fase A, su cui vengono ad innestarsi nuove
digressioni, può benissimo andare ad occupare la seconda parte narrativa. Resterebbe da spiegare,
ché altrimenti questa ipotesi ne sarebbe irrimediabilmente compromessa, la già citata nota apposta
da Gadda a fine lista («il tema della parte 2a. e 4a. – narrazione è ancora in gestazione»). Ebbene,
credo che la soluzione più semplice stia nell’ammettere che Gadda sia ritornato in un secondo
momento sulla decisione di cassare del tutto l’episodio della signora Carpioni, proponendosi di
reintegrarlo di nuovo nel racconto, seppur riadattato in vista della nuova posizione che avrebbe
dovuto occupare: non più quale preambolo, ma di seguito alla descrizione dell’incendio.
Per quanto concerne i tempi di stesura, si è pure in grado di fornire un termine ante quem per la
composizione dei vari quadri descrittivi compresi in questa seconda fase. In un altro quaderno,
infatti, Gadda annota in data 5 luglio 1931: «L’Incendio di via Keplero in progetto giugno-luglio
1931 e già abbozzata nei tratti descrittivi e negli spunti lirici sul quaderno giallo del rifacimento»,
(8) cui fa seguito la frase: «Il terrore del fuoco di Myriam, del prof. Vioroni» (Myriam e il prof.
Vioroni sono i due protagonisti dell’«episodio della chiromante che fa i massaggi», B2b). Se la
prima parte descrittiva (B1) è stata iniziata il 16 giugno 1931, ora sappiamo anche che una prima
stesura della terza parte descrittiva (quindi B2a, B2b, e B2c) è stata portata a compimento prima del
5 luglio 1931. (9) Quanto alle appendici, non è possibile determinare il momento preciso della loro
stesura, anche se c’è da credere che non si discostino molto dalla data limite fornita per le parti
descrittive.

B1 – Prima descrizione dell’incendio


Alle pagine 19-26 di TDL troviamo la prima descrizione dell’incendio che, progressivamente
ampliata ed arricchita, diventerà poi lo straordinario e pirotecnico racconto che tutti conoscono. In
questo «abbozzo», così lo definisce Gadda (e ne ha ben donde, se si considera il risultato finale),
sono già presenti tutti e cinque gli episodi del racconto definitivo: la bambina di tre anni e il
longevo pappagallo salvati dal pregiudicato Achille Besozzi (§ 1), la donna incinta soccorsa dal
provvidenziale facchino (§ 2), (10) l’Arpalice Maldifassi trascinata giù per le scale dal garzone
muratore Ermenegildo Balossi (§ 3), il vecchio e catarroso Zavattari salvato da tre volonterosi
(sempre § 3) e il caso ferale dell’ex-garibaldino Carlo Garbagnati (§ 4). Apre la descrizione, come
nell’edizione a stampa, una sorta d’introduzione in cui viene annunciato l’incendio (ancora § 1); la
chiude, contrariamente alla versione definitiva che invece sfuma nel «dedalo gallinaceo» (Italia
1994: 281), una sorta di ricapitolazione dove si tirano le somme dell’evento (§ 9).
I §§ da 5 a 8, nonché gran parte del paragrafo conclusivo, sono poi occupati da un sesto episodio:
quello del giovane scrittore proustiano Anacleto Baistrocchi, autore tormentatissimo e nello stesso
tempo, «benché proustiano», tormento di Chiaretta e di Alice. Questo episodio, il più diffuso di
tutti, sebbene cassato dall’edizione a stampa del racconto, sarà ancora presente nella Fase C.
Rimandiamo dunque, per una discussione sul personaggio e sui probabili motivi dell’espunzione
dell’episodio, alle pagine in cui parleremo di questa terza fase.
Quanto ai cinque primi episodi, va notato che in questa prima stesura Gadda li risolve in maniera
alquanto rapida. Ma, pur dedicando loro poco più di un accenno (se paragonato al risultato finale),
(11) essi contengono già in germe gran parte degli sviluppi e delle digressioni che verranno poi ad
aggiungersi progressivamente nelle varie fasi elaborative.
Prendiamo ad esempio l’episodio della bambina e del pappagallo salvati dal Besozzi:
[riga 1] Gli effetti, lì per lì, furono terrificanti: una bimba di tre anni, rimasta sola in
casa con un pappagallo, chiamava [riga 2] disperatamente la mamma, e grosse lacrime,
come disperate perle, le cadevano nel caffelatte: nel mentre il povero [riga 3] e
variopinto uccello, che in gioventù aveva appartenuto nientemeno che al compianto
nob. Emmanuele Greppi, [riga 4] quand’era giovane, che poi fu sindaco di Milano,
quand’era un po’ meno giovane, (perché i pappagalli vivono anche [riga 5] 200 anni,
purché non mangino dell’edera o del prezzemolo) svolazzava paurosamente con impeti
subiti verso la bimba, [riga 6] mozzati dalla perfidia della catenina, che lo legava al
paletto. Prese a stridere a sua volta, come impazzito: «Viva [riga 7] l’Italia, Viva
l’Italia!» egutturava disperato per propiziarsi la sorte mentre la bimba urlava
terrorizzata: finché [riga 8] il pregiudicato Achille Besozzi che abitava al piano di sopra
si fece coraggio, tra il fumo e la paura, sfondò l’uscio e [riga 9] salvò la creatura e
l’uccello. Egli aveva udite le grida e sapeva che la bimba era sola perché aveva atteso la
madre sulle [riga 10] scale buie, nella speranza d’un buon incontro.– (12)

Come si può ben vedere, siamo ancora molto lontani dal testo della vulgata. Il dettato di base, che
rimarrà sostanzialmente invariato, sarà sottoposto ad una dilatazione straordinaria dando luogo
nell’edizione definitiva a tre paragrafi (§§ 4-6). Ma le aggiunte che verranno progressivamente ad
ampliare l’episodio trovano nella concisa versione di B1 il loro supporto: così i §§ 4-5
dell’Incendio svilupperanno le rr. 8-9, mentre le rr. 9-10 sono alla base del § 6. Insomma, nel
percorso che porta alla vulgata si assiste ad un ampliamento che molto di rado tocca le strutture
portanti di B1. Gli elementi di base, siano essi interni ad uno stesso periodo (come nel caso del
primo paragrafo) oppure affidati a periodi indipendenti (così le rr. 9-10 rispetto a quanto precede),
subiranno una notevole deriva in seguito alle numerose aggiunte, ma mai e poi mai verranno
eliminati o stravolti. Al più si assiste a lievi spostamenti, come nel caso della digressione sulla
longevità del pappagallo che nell’Incendio verrà posposta ad inizio del § 5.
L’apparato critico di questo episodio, così come dell’intera stesura, testimonia di un elevato grado
d’elaborazione delle pagine gaddiane. In linea generale, gli interventi di Gadda si muovono
sostanzialmente in due direzioni: al di là di notazioni più fini che riguardano la prosodia e la ricerca
dell’espressione che meglio risponda alla volontà dell’autore, si osserva, da una parte, una tendenza
a calcare sul pathos e la drammaticità della rappresentazione, dall’altra, un incremento importante
di elementi che rimandano ad una caratterizzazione ironico-grottesca dei personaggi coinvolti
nell’evento.
Nell’episodio specifico che abbiamo qui sopra riportato, corredato dall’apparato critico relativo, è
operante soprattutto la seconda delle due tendenze, con l’attenzione che si concentra non tanto sulla
bambina, ma piuttosto sul pappagallo (ed in modo particolare sulla sua longevità). Non mancano
comunque, seppur minimi, degli interventi che colorano drammaticamente la scena, come la
cassazione della lezione «dei più spaventosi» in favore del più incisivo «terrificanti» (r. 1), la
sostituzione in due sedi dell’insipido «dire», riferito al pappagallo, con «stridere a sua volta» (r. 6) e
con «egutturava disperato» (r. 7), o ancora l’inserimento della «paura» ad affiancare il
semplicemente descrittivo «fumo» (r. 8). Queste due tendenze, come avremo modo di osservare
ancora, non sono limitate solo a questa prima stesura, ma sono operanti (e in maniera esponenziale)
su tutto l’iter elaborativo che porta da B1 alla vulgata.
Un fenomeno particolare e degno di nota, quasi il segno di uno dei motivi che con ogni probabilità
saranno determinanti nel naufragio del progettato racconto, è l’espunzione della canzone libica
«Tripoli bel suol d’amore», irriverentemente messa in bocca ad un pappagallo, in favore di un meno
compromettente e più neutro «Viva l’Italia, Viva l’Italia!» (rr. 6-7). Il bersaglio della prima stesura
era il patriottismo «nel senso bandierone della parola» (Gadda 1974c: 12) proprio al regime fascista
che, alla ricerca di modelli eroici, rispolverava antichi miti (la Roma imperiale) e esaltava quei
momenti della storia patria (come appunto il colonialismo di inizio secolo o, prima ancora,
l’impresa dei Mille) che avrebbero dovuto informare lo spirito degli Italiani. Contro la vacuità di
questo patriottismo parolaio e l’abbagliamento che provocò durante il ventennio fascista nel
«poppppolo con quattro p», Gadda sentenzierà severamente in Eros e Priapo (SGF II 257),
condannando in toto il personaggio e il periodo. Per il momento, 1931, ciò che maggiormente
disturba Gadda è appunto questo vacuo patriottismo che, nel caso specifico, si propaga da una
canzone di guerra e, per ecolalia, arriva ad esercitare le sue presupposte virtù esemplari (sia inteso
ovviamente in senso ironico) nell’animo del pappagallo terrificato dalla paura.
Seppure neutralizzata, o piuttosto camuffata, questa vena polemica riaffiora però di nuovo dopo il
«Viva l’Italia, Viva l’Italia!», con l’inserimento di una finale («per propiziarsi la sorte») che viene
pure ad assumere un significato metatestuale. Che quel «propiziarsi la sorte» sia da riferire alle
motivazioni superficiali e utilitaristiche di molti finti patrioti piuttosto che ai reali intenti di un
pappagallo è senz’altro vero. Ma è altresì vero che, con la correzione apportate all’originale
egutturazione del pappagallo, Gadda stesso miri, se non proprio a propiziarsi la sorte, perlomeno a
non avversarsela del tutto.
Nello stesso senso si muoveva già una correzione nella Fase A, laddove Gadda ironizzava sulla
legge che immancabilmente favoriva i padroni di casa:
In quei giorni, per combinazione, la Legge aveva facilitato: sicché il loro viso [dei
padroni di casa] raggiava una felicità nuova e piena, la palla del mondo rotolava gioiosa
nella luce, i carabinieri erano belli, i ministri intelligenti, S.E. il prefetto era di certo un
grand’uomo: aveva finalmente capito quali fossero «i veri interessi della nazione» e
cessarono perfino dal brontolare contro D’Annunzio e le spese navali. (NDL1157;
Gadda 1995: 242).

Accanto a «carabinieri», «ministri» e «prefetto» Gadda aveva posto le rispettive varianti alternative
«angeli», «santi» e «padreterno», quasi a voler stemperare nell’azzurro ultramondano la polemica
diretta contro le ben più concrete gerarchie terrestri. Vi è dunque in Gadda una prudenza nel
criticare apertamente gli aspetti deteriori della società di quegli anni che avessero direttamente a che
fare con il regime o con influenti membri o categorie di esso. Questa attitudine, che non mancò in
seguito di suscitare critiche, non gli impedì comunque di includere nell’edizione a stampa una
sferzata sarcastica contro i proliferanti ex-garibaldini in crescita esponenziale, anche se la chiave di
lettura per una corretta identificazione del bersaglio polemico va cercata non tanto nelle sue opere a
stampa quanto nell’epistolario. (13)
Come avremo ancora modo di vedere, questa non è l’unica remora di Gadda: altre ragioni, vuoi
familiari, vuoi letterarie, saranno all’origine di espunzioni, correzioni, rielaborazioni e infine della
dimissione di un ampio progetto narrativo la cui carica polemica deve essere sembrata troppo
pesante a Gadda stesso, sicuramente preoccupato dalle reazioni e dalle conseguenze di una sua
eventuale pubblicazione.

B2a: La comitiva della «Lingera»


L’«episodio del baccanale di velocipedastri, motocicli, ecc.», che nella nota compositiva di p. 27
figurava in testa alla lista degli episodi che avrebbero dovuto costituire la terza parte descrittiva,
viene da Gadda sviluppato, con il titolo di «La comitiva della Lingera», alle pp. 75, 18 e 170-72 di
TDL.
Quanto alla spiegazione del termine «lingera», si ricorre ad una nota che lo stesso Gadda appone
all’edizione in volume di Tirreno in crociera. Nel rievocare, «da bordo del Conte Rosso», Corso
Garibaldi e la sua «semiteppa» serale, Gadda chiosa: «Teppa, o anche lingéra, t[ermine] lomb[ardo]
= pluralità o quasi corpus cittadino de’ giovini che vengono assumendo una tal quale disonesta
arroganza, in un tono allegro, provocatore e bravardo» (Castello, RR I 210). Il termine è ancora una
volta chiosato in Quando il Girolamo ha smesso…, dove gode pure di una considerazione
linguistica: «la lingéra è la teppa, la malavita: in una sfumatura piuttosto blanda e scherzosa. Il
lingéra è il teppista, il bullo. Probabile parafonia dall’ital. leggiero» (Adalgisa, RR I 342).
Nelle poche pagine, scarsamente elaborate, che compongono questo quadro descrittivo in sé
concluso, Gadda descrive prima di tutto, in toni ironico-grotteschi, la sguaiata e chiassosa
combriccola: un «baccanale novecentesco in bicicletta, motocicletta, furgoni-bicicletta e furgoni-
motociclo» che sfila davanti agli occhi della signora Carpioni indignata, la quale non può esimersi
dal commentare: «Ma che teppa che c’è ancora a Milano!». (14) Il povero corteo è aperto da otto
biciclette per un totale di sedici passeggeri, tutti e sedici intonanti «una specie di nenia ansimata a
cadenza ossìtona, in vecchio lombardo di fuori porta». (15) Segue quindi un’enorme e
rumorosissima motocicletta su cui stanno il «cavaliere della luna» e la «regina della festa» (in realtà
«una faccia patibolare», lui, e un «povero corpo sudato, incipriato, e pieno di malanni», con le
ascelle e «la dannunziana saggina» al vento, lei). (16) Vien dietro il grosso della comitiva: una
baraonda di furgoncini aperti dal cui fondo spuntan fuori piedi «gorgonzoloidi», da far «levare un
inno ai bagni popolari».
è su questa rumorosa e spensierata combriccola che in un secondo tempo piombano le autopompe in
arrivo a sirene spiegate. Colti di sorpresa, non tutti riescono a scostarsi per cedere il passo ai
pompieri: il furgone occupato dal «Casciavit» e dal «Biscella» viene investito in pieno e trascinato
per una decina di metri, «coi due terrorizzati che vi si aggrappavano pallidi nel presagio livido dello
stritolamento». Evitata per miracolo la tragedia, i due non evitano però una buona dose di
scapaccioni da parte dei pompieri. (17)
A p. 57 di TDL, cioè alla pagina in cui Gadda sta sviluppando la digressione sui ritratti di due
militari (App. I), si trova pure una nota relativa a questo episodio: «Battuta per la lingera: Tatàra –
tàc, tatàra –tàc era il Balossi Ermenegildo che arrivava da Cinisello con la sua bicicletta piena di
mùsica» (Gadda 1995: 267). Difficilmente integrabile al racconto (il Balossi al momento
dell’incendio, già in B1, è sul tetto a lavorare), l’appunto testimonia comunque di un’estemporanea
inventio che Gadda non si lascia scappare, ma fissa immediatamente sulla pagina. La felice
immagine, come del resto gli altri elementi di questo frammento, non troverà posto nel racconto;
l’immagine, tuttavia, verrà recuperata e rielaborata nel Pasticciaccio per descrivere la bicicletta del
Pestalozzi: «La bicicletta era na scatola de musica, con un cro cro nei mozzi. Pareva la macchina de
li denti rotti da sgranocchià er torrone: ma il torrone manco p’er cavolo, in quelli posti!». (18)
Anche la comitiva della Lingera troverà una sua collocazione, seppur limitata ai pittoreschi nomi
dei suoi componenti, in un altro scritto gaddiano. In Quando il Girolamo ha smesso… (RR I 327,
329-30) Gadda farà menzione del «Casciavìt», del «Biscella», del «Baüscia» e del «Pistola», (19)
componenti della banda a cui appartiene pure Bruno (l’ex-garzone macellaio del Testori), detto a
sua volta «el Lingéra». All’onomastica verrà anche dedicata una nota: «I soprannomi sono autentici,
e d’uso comune per giovani nel linguaggio della lingéra. […] Biscella = ricciutello, da bisc =
ricciuto e, prima, ricciolo. Pistòla = gergale per ragazzotto in età pubere […]. Baüscia è bava,
saliva: e anche il bavante o salivante; in ital. moccioso, da moccio = mucco nasale; dicesi dai
ragazzi maggiori per deprimere il più piccolo appetto a loro, come indegno di loro […] casciavìt =
cacciavite o tiravite = buono a nulla: (di artiere, di giocatore, di ginnasta, ecc.)» (RR I 342).
Sono pagine, queste di B2a, «intonate tutte in quella benevolenza che ha il savor della sènapa», per
dirla con le parole che Gadda utilizzerà di lì a poco in Della musica milanese scagliandosi contro i
«milanesi frastuoni», siano essi il risultato «della natural costituzione, gutture e idiomi» oppure
prodotti con «gli artefatti delle macchine, pifferi, e petardi loro di ogni generazione». Sapor di
senape che è la conseguenza dei suoi nervi «particolarmente offesi dalla gazzarra» (RR I 221).

B2b – La chiromante che fa i massaggi


Sorte analoga all’episodio della comitiva della Lingera per «l’episodio della chiromante che fa i
massaggi», che viene ampiamente sviluppato, con il titolo «La chiromante», alle pagine 27-45 di
TDL. È un pezzo di bravura del Gadda comico-grottesco, il quale posa uno sguardo impietoso e
nello stesso tempo divertito, e non esente da deformazioni caricaturali, sul misterico operato di
Concetta Loscìro, prima giovane cameriera nel rozzo spaccio di vini del padre in via Vitruvio, poi
riconvertitasi, dopo che una revolverata in una rissa le portò via il suo grande amore, in Myriam, «la
più autorevole cartomante pugliese di Milano»:
…di mistero, in mistero, oggi un fante di briscola, domani una donna di cuori: poi
l’asso, il re di denaro, la Peppa Tenciaa. Tutto il futuro le era passato come una verità
davanti gli occhî nerissimi, con tutte le segrete convergenze de’ cuori e delle picche, dei
denari e dei fiori – tutta la sintassi de’ dispiaceri delle eredità, degli aborti, delle malattie
misteriose, dei desiderî dei tradimenti, degli amorosi inganni e de’ patimenti dell’amore
e di mille mali d’amore, quelli che si vedono e non si sentono e quelli che si sentono ma
non si vedono, che sono dentro i visceri o ne vengono fuori some serpi dal muro; s’era
travasata nella sintassi magica della pugliese che parlava per enigmi bitontini all’anima
delle avare e calde friulane, o delle milanesi scalcagnate a cui il primo amore avesse
fatto cilecca. (20)

Il pezzo è incentrato sull’evento del massaggio della «pitonessa pugliese» al prof. Agilulfo Vioroni,
violoncellista reumatico costretto all’immobilità. (21) Ma prima di descrivere il grottesco e
ambiguo massaggio, Gadda indugia sui successi dell’arte magica di Myriam.
Vengono contemplati cinque casi, non tutti ugualmente sviluppati: poco più di un accenno per il
caso della moglie di un tranviere, che temeva di partorire «un mostro con coda di ciuco», cui
ottenne invece un bel maschio; o ancora per la moglie di un «dinamico amministratore della Gran
Cassa del Comune di Milano», cui propiziò la nascita di un bel figlio maschio predicendogli: «Tu
camperai ottant’anni, e fino all’ultimo giorno di tua vita pagherai tasse per aumentare il dinamismo
finanziario di tuo padre»; così anche per il caso della moglie di un analfabeta, preoccupata di
partorire una guardia daziaria, cui fece invece partorire un critico, «che perfezionandosi sempre più
nel mestiere divenne finalmente un analfabeta».
Un po’ più d’attenzione è prestata alla femmina che riuscì ad ottenere alla moglie di un generale a
riposo trovatasi inspiegabilmente incinta: la giovane, dopo un’infanzia passata tra le monache, finì
poi per sposarsi a diciassette anni e, durante il viaggio del marito in Estremo Oriente, compose
«Singhiozzi dell’anima», un libro di poesie molto apprezzato soprattutto in grazia dell’avvenenza
della «grande poetessa». Fra gli estimatori anche il pittore romano Volcazio Penella che, sebbene
non apprezzasse del tutto le poesie («Singhiozzi dell’Animaccia!», aveva ribattezzato il libro),
mostrava comunque di apprezzare in sommo grado la poetessa («Però, come anima, è bona»
soggiungeva disfatto dalla convinzione»). E l’arte magica di Myriam contempla anche rituali per
propiziarsi e mantenere l’amore dell’amata: è il caso di un bel giovane napoletano innamoratosi di
una ragazza appartenente alla buona società milanese: a questo consigliò di portare uno scapolare
con la fotografia della ragazza «in atto di suonare il pianoforte», e di palpare di tanto in tanto un
corno di corallo mormorando: «amore mio, non sarai d’altro giammai, giammai!».
Ad ognuno di questi cinque casi contemplati è vincolata una polemica specifica. Il primo, nella sua
grottesca caricatura, vuol più che altro mettere in ridicolo la credulità popolare che accompagna
l’operato di Myriam, credulità peraltro sottesa anche agli altri quattro casi e in generale all’intero
frammento. Nel secondo caso è trasparente il riferimento alle disastrose imprese finanziare del
padre Francesco Gadda, «bozzoliere fallito» nonché costruttore di case di campagna esposte al
«monsone delle ipoteche», tema che costituirà una costante nell’opera di Carlo Emilio. (22) Il terzo
e il quarto caso colpiscono i critici e il mondo letterario, e anticipano temi e personaggi che
costituiranno il prossimo quadro descrittivo di B2c, con la visita di Gadda alla poetessa. L’ultimo
caso, infine, riporta in primo piano la credulità popolare (a cui si aggiunge una frecciatina alle
ragazze bene di Milano) (23) incorniciando così il breve catalogo.
Dopo aver delineato la parabola magica di Concetta-Myriam, l’attenzione si focalizza sulla «scena
del massaggio» (TDL 30; Gadda 1995: 265). Il beneficiario, o piuttosto la vittima, è il prof. Agilulfo
Vioroni, che viene fatto spogliare e sdraiare su un lettino. Una bellezza molto lontana dai canoni
classici, «una figura poco amica di Fidia o di Michelangiolo», direbbe Gadda (SGF II 614), quella
del prof. Vioroni, dalle «grosse e pelose mammelle, che si squartavano cadendo una di qua e una di
là come d’un animale darwiniano», dalle «cosce enormi e bluastre», dai «grossi alluci o pollici
pedagni» che «brillavano, come di luce propria in cima de’ piedi gialli e rotondi d’un giallo da
pollastro».
In un primo momento, al massaggio redentore di Myriam, accompagnato da formule magiche
«spiritualizzate nell’aria», la lombaggine del prof. Vioroni oppone una strenua resistenza. Allora la
Myriam, che interpretava questa resistenza come un oltraggio alla sua vis medendi, diventava
terribile: «gli strappava rabida l’asciugamani e si accaniva improvvisamente nel massaggio per tutto
il grosso ventre che pareva un pallone drago semisgonfio, deformantesi nel capriccio del vento»,
coprendo nello stesso tempo il professore implorante pietà di mortificanti vituperi («… Io ti punirò,
Agilulfo vilissimo, io ti castigherò come meriti, vile suino…») e di sputi gialli alla liquirizia.
Solamente allora, quando i dolori reumatici del professore «si dissolvevano in una sensazione di
patimento estremo», cessava di tormentare il vilissimo «Lulfo», i cui lamenti parevano «il gemito
preagonico d’un porco sgozzato».
Molto apprezzato dalla signora Teresa l’operato di Myriam («Ma si può sapere che cosa fa a mio
marito per farlo diventare così bello?…» chiedeva piena di gratitudine rincasando), soprattutto
perché nel frattempo aveva occasione di iniziare ai misteri della vita il garzone del macellaio; meno
entusiasta il Vioroni che, «a dire il vero, si sentiva blandamente rincoglionito: ma non disperava per
l’avvenire».
Il personaggio del professor Vioroni offre poi lo spunto per una lunga digressione (che s’innesta
nella scena del massaggio, spaccandola in due) sul «folle carnevalone del 1929» in cui si era esibito
quale violoncellista nel quartetto Cavagna. Durante i trionfali concerti indetti dalla «Unione
Cooperativa Impiegati Civili pro orfani d’ambo i sessi» il quartetto Cavagna aveva avuto modo di
eseguire la «Marcia del fante», la «Marcia dell’alpino», il «Passo del bersagliere», la «Marcia del
cavaliere appiedato», l’«Inno dell’Artigliere», l’«Inno del Mitragliere», l’«Inno del Bombardiere»,
l’«Inno del Carabiniere», l’«Inno del Finanziere», il «Canto del Lanciafiamme», la lirica «Gas
asfissiante», una «Serenata», un’«Ave Maria», e infine, per non scontentare nessuno, un «Inno alla
Marina militare».
Dopo tanta esibita ed ossessionante insistenza, appare più che naturale, o perlomeno non
inaspettata, una nuova digressione attorno ad un’esperienza profondamente radicata nella biografia
gaddiana: mi riferisco ovviamente all’esperienza bellica. Questa digressione, preannunciata dalla
«scelta musica da Camera» del quartetto Cavagna, trova il suo appiglio nella figura del Direttore di
Sala, «l’appaltatore del buffet», costretto a farsi in quattro per accontentare tutti i festanti e
traspiranti impiegati civili presenti. All’appaltatore, sfinito dopo tanta fatica, ma soddisfatto e
convinto «che avrebbe saputo vettovagliare un’armata in guerra, con meno impaccio che un
generale d’armata non vettovagli dieci battaglioni congelati d’alpini», Gadda presta una riflessione
poco lusinghiera sull’operato dei generali durante la Grande Guerra:
Egli pensava che «basta pensare a tutto», magari notarsele, le cose<,> per non essere
presi mai alla sprovvista. Così se i generali d’armata tenessero un taccuino, con su
scritti i reparti di cui dispongono e di cui devono, sia pure loro malgrado, occuparsi,
questo notes faciliterebbe nei loro cervelli la penetrazione della verità logistica: che è
bene che tutti i reparti dipendenti dall’Armata abbiano da mangiare almeno una volta al
giorno. […] Ma, secondo una più profonda strategia, la «forza di volontà degli alpini
supplisce a tutto». E così fu, dalla bufera glaciale del Pian di Neve emergendo l’eccelso
Adamello. (TDL 42; Gadda 1995: 259).

Sebbene la tematica percorra l’intera opera gaddiana (contraddicendo così il proposito contenuto nel
Giornale di guerra: «i giudizi poco benevoli verso i superiori sono chiusi in questo diario come in
una tomba», SGF II 631), l’invettiva contro i per nulla amati «generalazzi» («la cui immagine in me
– scriveva a Piero Gadda Conti – non è disgiunta dal ricordo della straziante agonia morale che
costarono le loro malefatte in guerra», Gadda 1974c: 12) si attua in questo caso innestandosi sulla
rievocazione di un fatto bellico del tutto assente dai diari di guerra.
La vicenda cui Gadda allude in questo passaggio sembra essere la stessa che di lì a poco fornirà lo
spunto per alcune pagine di quel fiero e tragico resoconto che è Impossibilità di un diario di guerra:
nelle pagine in questione Gadda racconterà di una durissima corvée notturna sul ghiacciaio
dell’Adamello nell’aprile del 1916, il cui scopo era per l’appunto il vettovagliamento dei reparti
avanzati (Castello, RR I 138-40). Vale allora per questo excursus la definizione di «risarcimento
postumo […] della materia assente» che Gorni applica alle prose belliche del Castello di Udine
(Gorni 1995: 157). È il risarcimento postumo di un periodo in cui Gadda aveva intermesso la
redazione del suo diario: dal 15 febbraio al 4 giugno del 1916, cioè quel periodo di milizia che lo
aveva visto combattere sull’Adamello; mancanza che Gadda stesso deplorò e a cui tentò di ovviare,
seppur sommariamente, già nel Giornale di guerra. (24)
Noteremo ancora, a proposito di questo passaggio, il segno di una persistenza simbolica nella
rievocazione e nella rappresentazione dell’Adamello, che riaffiora costantemente, assurgendo a
simbolo culminale della vita eroica di Gadda, quale sublime cuspide alta su tutto: «manifesto
adamante», «eccelso Adamello», «valichi altissimi dell’Adamello», e ancora «eccelso Adamello»
sono le designazioni che lo accompagnano nel suo apparire. (25)
Per quanto riguarda il personaggio di Myriam, si noterà che esso non è isolato all’interno dell’opera
gaddiana. La prima apparizione di una figura simile la troviamo ne La Madonna dei filosofi, ad
apertura del racconto eponimo della raccolta, dove è questione della «bella strega» (questa però
coinvolta in rapporti piuttosto torbidi con l’Esecrando, a cui avrebbe nottetempo baciato le natiche e
giurato fedeltà, acquistandone così «perniciosa bellezza») e del «gran dottore» a cui avrebbe fatto
perdere la testa versandogli di straforo nel boccale un filtro d’amore: scampato alla malìa e alle
legnate dei familiari della «megera», il miracolato e rinsavito «doctor insaniens» avrebbe posto una
lampada votiva alla Madonna affrescata sulle mura del Castelletto (RR I 71-73).
Con la bella strega, la Myriam di questo secondo quadro descrittivo ha in comune non solo
l’esercizio dell’arte magica, ma anche il lavoro quale cameriera in un’osteria (sebbene tale attività
sia nel caso di Myriam pertinente alla sua vita di Concetta Loscìro, mentre la bella strega tuttora
«mesceva a un piccolo posteggio sulla strada di Vittuone»). Nella descrizione dell’operato delle due
troviamo poi anche, usate per fini analoghi, le stesse metafore mutuate dalle carte: se la formula che
propiziava il «poculum amatorium» della bella strega contemplava, tra l’altro, l’elencazione «di
tutte le donne maritate che di notte, oltre al re di denari, si sognano anche del fante di picche», tra le
«stupende formule magiche» della Myriam che accompagnano il massaggio redentore al prof.
Vioroni vi è pure questa: «… Dico che guarirai, dico che ti salverai, o Vioroni. Tu devi guarire,
Lulfo Vioroni, tu sarai più terribile del fante di picche, quando non perdona alla donna di cuori…
Sollievati, voglio che ti sollievi». (26)
La figura di Myriam trova poi la sua prosecuzione nel Pasticciaccio con la Zamira Pàcori,
«rimagliatrice, carzonara, tintora, in qualche caso merciara, impirica de guarì la sciatica per segreto
d’erbe, indovina chiromante e cartomante patentata con spaccio di liquori […], maga orientale con
diploma di prima classe» (RR II 148), nonché «ex puttana» ed ora ruffiana, il cui laboratorio-
bettola-postribolo, «punto d’incontro dei vitali compossibili», è il crocevia obbligato di ogni male e
di ogni mistero nel romanzo. Il carattere di Zamira è tratteggiato molto più dettagliatamente rispetto
a quello delle sue due antecedenti letterarie e, di fatto, nella sua determinazione vengono a confluire
non solo le figure della bella strega e di Myriam, ma anche quella della Filomena di Notte di luna
(RR II 1082-085, 1095-099): lascivia, laidezza, vecchiaia, nonché, quale tratto caratteristico e
definitorio, la mancanza dei denti davanti – anche se la «caverna della bocca» di Filomena risulta
dalla deficienza dei due incisivi superiori, mentre il «fornice oscuro» di Zamira dal vuoto di tutti
otto gli incisivi (RR II 200).
Questo però non giustifica la parentela che Italia ravvisa tra la cupida ostessa Filomena e Myriam
(Italia 1994: 277). I tratti comuni tra le due sono in realtà ben pochi: un generico accenno
all’arruffio dei capelli (che comunque è caratteristica piuttosto comune alle donne gaddiane) e il
lavoro stesso di ostessa non sono elementi connettivi sufficientemente validi, poiché manca a
Filomena (al di là della divaricazione implicita in tutti quegli elementi che ne fanno
un’anticipazione di Zamira) la ragione prima di una possibile identificazione, e cioè l’iscrizione
all’ordine delle chiromanti. La coeva Filomena, (27) dunque, è tutt’altra cosa di Myriam, sebbene i
tratti delle due, assieme a quelli della «bella strega», convergano poi nel Pasticciaccio a creare il
personaggio della Zamira.
Se l’affascinante figura di Myriam sarà parzialmente ripresa nel Pasticciaccio, e se diversi spunti
polemici saranno sviluppati in altre sedi ancora, non mancano elementi, seppur minimi, che
verranno recuperati nell’edizione definitiva dell’Incendio: è il caso del Barletta, in questo episodio
accompagnato da due altri vini grossi pugliesi (Trani e Bitonto), che Concetta serve ai rustici
avventori dello spaccio di vini del padre. Non solo l’Incendio recupera il vino Barletta, che sarà la
«medesìna» del vecchio Zavattari, ma anche la dicitura di «panerone» ad esso applicato. E se
nell’edizione definitiva il termine avrà bisogno di essere chiosato, in questo episodio viene a
chiudere la breve digressione sui tre corposi vini baresi, che «per quella loro consistenza piena e
densa e per quel gravare che fanno sullo stomaco in grazia delle sostanze coloranti che naturalmente
contengono, par quasi che più che bere siano un nutrirsi, tanto che vengono chiamati col nome
generico di «panerone» (TDL 28; Gadda 1995: 255).
In questo abbozzo trova posto tutta una serie di notazioni che danno al racconto, così come viene
delineandosi a questo stadio progettuale, una carica polemica molto consistente, seppure, come è
usuale in Gadda, attuata attraverso la lente deformante dell’ironia e della caricatura grottesca.
Bersaglio principale è la credulità popolare, alimentata dai mille dispiaceri e dalle mille speranze, in
cui trova terreno fertile la sedicente chiromante e cartomante pugliese. Nel delineare la parabola di
Myriam, da serva in via Vitruvio a massaggiatrice in via Keplero, Gadda ironizza sul suo operato e
sull’irrazionale, ingenua, disperata credulità che ne accompagna il cammino. (28) Ma sullo sfondo
di questa ironica rappresentazione trovano posto altre puntate polemiche: contro il padre, contro i
critici, contro le signorine milanesi, contro il remissivo musicista inabile e la più vispa moglie, per
non parlare della staffilata ai generaloni. Niente di tutto questo arriverà mai a bruciare in via
Keplero.

B2c – La visita di Gadda alla poetessa


Anche l’ultimo episodio di cui fa menzione la nota compositiva di p. 27 viene diffusamente
sviluppato: alle pp. 46-56 di TDL, infatti, troviamo descritta la visita di Carlo Emilio Gadda alla
poetessa di «Singhiozzi dell’Anima», la cui onomastica è inizialmente incerta tra «Lyda»
«Térésaaah» e «Giudittah» (TDL 46; Gadda 1995: 270). Decisosi per la seconda delle tre
alternative, rimarrà oscillante la lunghezza della vocale finale e la sua maggiore o minore
aspirazione: si passa da un neutro «Térésah» a un iperbolico «Térésaaaahh», con una prevalenza
comunque netta della prima forma attestata: «Térésaaah».
La scena si svolge al «piano di sotto», cioè, secondo la seriazione desunta dalla nota compositiva di
p. 27, al piano inferiore rispetto a quello che ospita i coniugi Vioroni. (29) Dopo un breve
preambolo in cui si introducono i personaggi, l’impacciato e timido visitatore da una parte e la bella
poetessa dall’altra, pressoché tutto il frammento si snoda secondo la forma del discorso diretto in un
susseguirsi di botta e risposta. In un primo momento, oggetto di discussione sono i singhiozzi
dell’anima di Térésaaah, verso i quali Gadda si mostra estremamente lusinghiero, elogiando in
particolar modo la resa lirica dei suoi cieli e dei suoi tramonti:
«… Vi piacciono dunque davvero i miei cieli?… anche i tempestosi?…» disse
deliziosamente provocatrice Térésaaah.–
« […] voi trasfigurate il nembo in una significazione che… che… trascende il nembo
stesso… il quale, di fronte all’eterno, non è se non un transeunte…» (Anche se
accompagnato da grandine) pensò dentro di sè…
«… E i tramonti? Vi pare che io renda i tramonti?»
«… Sono meravigliosi, Térésaaaha… Voi avete superato i romantici da una parte e i
frammentisti dall’altra, che è tutto dire<,> vi siete | avvicinata, in certi momenti, per
intensità lirica ai dolci amici dell’Esule… In certi altri si direbbe teniate da Beonio-
Brocchieri…»
«… Davvero?… Si direbbe che Voi conosciate l’arte della lusinga, Gadda; poiché
realmente io sono un’ammiratrice dei cieli di Beonio-Brocchieri; le sue luci scandinave,
i suoi tramonti lapponi, sono unici, direi<,> nella nostra letteratura…». (TDL 48-49;
Gadda 1995: 261).

La prima domanda che ci si pone riguarda ovviamente l’identità della poetessa. Italia, affermando
che «il frammento ha buone possibilità di derivare da un’esperienza realmente vissuta», liquida
sbrigativamente la questione identificando la donna in Corinna Teresa Ubertis, poetessa ed autrice
di romanzi rosa, nota appunto con lo pseudonimo di Térésah. (30) Credo invece che la realtà sia
molto più complessa e che nella rappresentazione di Térésaaah converga tutto un fascio di intenti
polemico-satirici irriducibili ad un bersaglio specifico.
In primo luogo, dimenticandoci per un attimo della militanza letteraria di Térésaaah, credo che
oggetto dell’ironia sia molto genericamente la figura della donna nel suo rapporto con il mondo
delle lettere. Si pensi alla vanesia Donna Clorinda Frinelli de Il guerriero, l’amazzone, lo spirito
della poesia nel verso immortale del Foscolo, che delle tre voci che animano la conversazione è
quella con un rapporto meno privilegiato con il cervello. Quando tenta di entrare in materia lo fa
sistematicamente con un «mi dicono che», unendo a conoscenze di seconda mano strafalcioni
enormi che palesano la sua ignoranza. Analogamente, Térésaaah parla più che altro per sentito dire
e incorre anch’essa in una gaffe alquanto significativa che mette in luce tanto la sua ignoranza che
la sua vanità. (31) La sua ignoranza in ambito letterario è altresì messa in luce nel passaggio sopra
citato con l’indifferenza che mostra nei confronti di una tradizione letteraria, probabilmente a lei
sconosciuta, infervorandosi invece per Beonio-Brocchieri. (32) In questo senso il frammento «ha
buone possibilità di derivare da un’esperienza realmente vissuta», senza per questo scomodare
improbabili incontri, peraltro non attestati, con scrittrici dell’epoca.
In secondo luogo, ricordandoci che Gadda è pur sempre in visita a una donna di lettere, l’ironia
investe la letteratura femminile in genere e tutta una tradizione letteraria che in essa si esaurisce.
Consideriamo i magisteri indicati da Gadda nell’ironica valutazione dell’eccellenza lirica di
Térésaaah. Posto che l’«Esule» sia da identificarsi con il Foscolo, (33) vi è da credere che i suoi
«dolci amici» altri non siano che l’Aleardi e il Prati, rappresentanti del cosiddetto secondo
Romanticismo. L’Aleardi e il Prati (il primo di ascendenza marcatamente foscoliana, nonché poeta
di spiccato carattere pittorico-descrittivo; il secondo meno dipendente dal modello foscoliano, ma di
vena particolarmente patetica) saranno ancora chiamati in causa ne La battaglia dei topi e delle
rane, scritto del 1959 in cui Gadda, tra l’altro, passerà al filo della sua ironia gli strafalcioni
rappresentativi dei poeti dell’Ottocento, dal Foscolo al Carducci. La breve rassegna – da cui si
salvano «l’eccelso Leopardi, […] i dialettali, il Porta, il Belli: impeccabili nel significar per
immagini» (SGF I 1168) – intende colpire quei poeti che hanno sacrificato la realtà in nome di un
pretestuoso slancio poetico.
In quest’ottica, ritornando al nostro frammento, particolarmente colpevoli sono stati il Prati e
l’Aleardi (comunque iscritti in una lignée ben precisa, per l’appunto chiamata in causa) che hanno
portato l’aspetto più deteriore del Romanticismo al vuoto sentimentalismo estetizzante che ha
caratterizzato il secondo Romanticismo. Di Beonio-Brocchieri abbiamo già detto, e lo stesso
discorso che vale per la donna nelle lettere vale anche per la donna di lettere; sennonché l’ignoranza
di una donna di lettere è ancora più deprecabile e la sua ammirazione per i cieli di Beonio-
Brocchieri deprezza altresì la statura letteraria di Térésaaah verso una prosa giornalistica di patente
non certo nobile. Per quanto riguarda l’accenno ai frammentisti, non credo che vadano iscritti nella
tradizione che dal Foscolo arriva all’Aleardi e al Prati: se sono accennati è piuttosto per suggerire
ironicamente, accanto all’incomparabile pathos di ascendenza ottocentesca che pervade la poesia di
Térésaaah, la sua presupposta concentrazione lirica (ma in realtà «accompagnata da grandine»).
(34)
L’ironia è diretta, lo ripetiamo, non tanto sulla Ubertis in particolare, quanto piuttosto sulla
letteratura femminile in genere. È significativo, in questo senso, l’iniziale incertezza onomastica sul
nome della poetessa. Che Gadda si sia poi deciso per «Térésaaah», credo dipenda sostanzialmente
da due motivi: da una parte, il nome evocava inequivocabilmente, richiamandosi appunto alla
scrittrice rosa, una produzione considerata per eccellenza un sottoprodotto della letteratura, ciò che
permetteva di deprezzare la letteratura femminile in genere; dall’altra, lo pseudonimo stesso della
Ubertis era troppo suggestivo per non sfruttarlo ironicamente.
Ma in Térésaaah bisogna soprattutto vedere l’incarnazione della letteratura lacrimosa, patetica, del
tutto incurante delle realtà delle cose, di una letteratura in cui la coerenza rappresentativa è troppo
volentieri negletta in nome di una soggettività di fatto inconsistente e che si risolve a volte in
descrizioni pittoriche del tutto vuote. Non è forse un caso, in quest’ottica, che nell’appena citata
Battaglia dei topi e delle rane (SGF I 1164) Gadda proponga un ritrattino del Foscolo in cui
convergono tre elementi definitori della poetessa (il temporale, i sussulti e i singhiozzi), come a
voler confermare la non esclusività della tara poetica che dovrebbe così includere nel medesimo
giro d’orizzonte polemico più di un autore e quasi una tradizione. E il Foscolo, a cui questa
tradizione fa capo, sarebbe allora colpito meno indirettamente di quanto il solo accenno all’«Esule»
lasciasse in un primo momento intendere. La rappresentazione di Térésaaah, infatti, permette anche
di attribuire retrospettivamente un’impronta femminile, e si sa quale sia la concezione gaddiana in
proposito, a tutta una tradizione poetica particolarmente aborrita, suggerendone la persistenza nella
letteratura femminile di inizio secolo.
Si noterà infine che la discussione tra i due nel frammento, dopo pochi preamboli, è aperto da
Térésaaah con un «Voi siete stato molto gentile con me, Gadda, molto buono con i miei singhiozzi
dell’Anima…», che lascia intendere un precedente interessamento ed un giudizio espresso in altra
occasione. Ora, l’unica donna recensita in quegli anni è stata Paola Masino, e proprio nel periodo in
cui Gadda stava scrivendo la seconda fase dell’Incendio. Dovendo recensire per Solaria i primi due
romanzi della Masino (Monte Ignoso e Decadenza della morte), Gadda esprimerà un giudizio
estremamente negativo sul primo, serbando «un cavalleresco silenzio» sul secondo. Credo che la
forzata recensione (Gadda tentò in un primo momento di declinare l’invito di Solaria, adducendo
motivi di tempo) (35) – e per di più di un’autrice che, après coup, si era rivelata si scarso valore –
abbia fornito a Gadda, scrittore quanto mai altri reattivo, l’impulso a rappresentare in modo
negativo una donna di lettere.
Con questo non voglio dire che Gadda abbia voluto in questo frammento rappresentare la Masino,
anche se non mancano dei punti di contatto tra la critica alla Masino e il nostro frammento. (36)
Rimango dell’idea che il bersaglio polemico principale è molto generalmente la donna nel mondo
delle lettere, e che la forzata recensione di un autrice femminile, piuttosto che la recensione della
Masino in particolare, sia all’origine della stesura di queste pagine.
Ma ritorniamo alla cortese visita di Gadda-personaggio alla poetessa. Dalla «divina poesia» di
Térésaaah, la discussione si sposta sulla «indigesta prosa» di Gadda. A fare da pendant fra i due
momenti vi è un breve scambio di battute sulle rispettive collaborazioni letterarie: la prima invitata
dal Corriere del Pomeriggio, il secondo, con gran dispetto della poetessa, da Solaria. (37) Stizzita
da questa collaborazione a lei negata, Térésaaah non si trattiene dall’esprimersi alquanto
negativamente sulla prosa del suo ospite, di cui peraltro non ha verosimilmente mai letto nulla:
«Dicono che la vostra prosa sia indigesta… che voi siate una zanzara» | «Può darsi…,
ma voi, Térésah, che ne dite?…»
«Io certo vi trovo certo un po’ strano… certo, ma son sicura che <nei> tramonti, potrete
far meglio…»
«… Dicono che siate oscuro, retorico “puntuale”<,> noioso, un grammatico
sgrammaticato, sconclusionato, barocco, gratuito, incapace di sintesi: dicono che siate,
quando pure lo stile, non altro che un professore di calligrafia… ma voi avete fatto il
ginnasio?…»
«… Anche il liceo Térésaaah…»
«Allora se avete studiato conoscerete la sintassi – perché Vi trascurate così? Perché
scrivete così male? Non potreste darle una ripassatina? (TDL 50-51; Gadda 1995: 262)

Materna e protettrice, Térésaaah si lascia quindi andare a previsioni degne di Myriam: «Suvvia,
Gadda, io vi predico che voi emenderete e scriverete il più bel romanzo del 900: sarà un romanzo
d’anime, tutto ombre, luci, chiaroscuri: si intitolerà: Una donna». Infervorandosi pure nel disegnare
la trama del futuro romanzo, un romanzo tutto anime: «voi dovrete occuparvi delle anime, e
soltanto delle anime… Anime! Anime! Anime!»
L’incontro tra i due si chiude quindi sulla poetessa che chiede a Gadda di apporre un autografo sul
suo album, non prima però di averlo sfogliato insieme ed essersi raccomandata ancora una volta alla
sincerità del suo ospite: «Vi voglio sincero! tutto verità! tutta anima!» (38) L’interruzione della
visita è provocata dall’improvviso arrivo dell’amante di Térésaaah, un cavalleggero del Savoja
Cavalleria, «alto, dritto, tutto d’un pezzo», che innesca una breve digressione sul precedente amante
della poetessa, questo però solo «cavaliere dell’ideale» e «apportatore di tristezze»: uno
sgangherato insegnante di ginnastica pressoché analfabeta che aveva per alcuni mesi ingrigito la
vita di Térésaaah. Se nella previsione di Térésaaah possiamo ravvisare, per dirla con Italia, «una
sorta di profezia (titolo a parte)» (Italia 1994: 278) del capolavoro gaddiano, il romanzo delineato
dalla poetessa grazie al quale Gadda «darà nome al secolo» ricorda in certi aspetti, da una parte, il
Racconto italiano, dall’altra, il romanzo stesso della Masino. (39)
Ma occupiamoci, fatto ben più spinoso, della critiche mosse da Térésaaah alla prosa di Gadda.
Roscioni, nel leggere il brano sopra citato, non ha avuto nessun dubbio in proposito, e l’ha
considerato come una reazione alle critiche che Gargiulo aveva espresso nella sua recensione alla
Madonna dei Filosofi (Roscioni 1997: 260). Ed in effetti non mancano gli elementi che spingono ad
una lettura in questo senso. Gargiulo non era stato molto tenero con il primo libro gaddiano, di cui
aveva sottolineato la mancanza di organicità, la gratuità delle rappresentazioni, la preziosità del
lessico: (40) critiche che ritornano puntualmente nelle parole della poetessa. Gadda se ne ebbe
molto a male (Gadda 1974c: 17-21) e scrisse anche a Gargiulo una lettera in cui esprimeva, peraltro
molto cortesemente, il suo disappunto (Roscioni 1997: 260).
A prima vista si sarebbe dunque portati a dare del tutto ragione a Roscioni. Se non fosse che, così
facendo, si cadrebbe inevitabilmente in contraddizione con la nota che dava già per composto
questo ultimo quadro descrittivo in data 5 luglio 1931. Come è possibile che Gadda abbia potuto
riferirsi alla critica di Gargiulo quando non ne è venuto a conoscenza che perlomeno una decina di
giorni dopo? è il caso di invocare ancora una volta «li mistere dell’anema» di Myriam? Oppure
bisogna posporre la stesura di B2c a dopo l’intervento di Gargiulo, sconfessando così la nota
compositiva? (41) La risposta, più che dalla magia, viene dalla filologia. La soluzione al problema è
fornita dall’apparato critico, che ci permette di scartare le due alternative, entrambe ugualmente
aborrite. Riproduco ancora una volta il passaggio, indicando però questa volta in neretto le lezioni
inserite:
«…Dicono che siate oscuro, retorico, “puntuale”, noioso, un grammatico
sgrammaticato, sconclusionato, barocco, gratuito, incapace di sintesi: dicono che
siate quando pure lo stile, non altro che un professore di calligrafia…». (TDL 51;
Gadda 1995: 271)

Si noterà che le critiche della poetessa che sono immediatamente referenziali all’intervento di
Gargiulo («puntuale» tra virgolette, quasi a voler indicare la citazione, «gratuito», «incapace di
sintesi») sono tutte lezioni inserite. Il fenomeno è molto frequente nei quaderni gaddiani, e
difficilmente si riesce a capire se l’intervento sia avvenuto al momento stesso della stesura o
solamente in un secondo tempo. Ciò non toglie però che in questo caso specifico si sia autorizzati a
considerare le lezioni inserite come il risultato di una revisione posteriore alla stesura originaria. E
per quel che è del dettato di base, non è necessario chiamare in causa Gargiulo. Lo stesso Gadda,
nel Racconto italiano, lamentava la sua difficoltà nell’organizzare in un disegno sistematico il suo
romanzo in fieri, i cui personaggi erano tra le pecorelle più indisciplinate che un can pastore
disperasse di dover governare (SVP 460). E si poneva altresì il problema delle reazioni che questa
«mancanza di fusione» avrebbe provocato nella critica (SVP 261). Infine, quanto allo stile, è ancora
una volta Gadda stesso, prima di chiunque altro, a rendersi conto della sua eccentricità rispetto al
«nitore di Solaria» (Gadda 1984b: 43).
Insomma, la mia impressione è che la critica di Gargiulo, in fondo, non abbia fatto altro che mettere
il dito su quegli aspetti della prosa di Gadda che lui stesso giudicava difettivi o quanto meno
insoliti. La critica in bocca alla poetessa sarebbe dunque nata da questa preoccupazione, e forse
anche da alcune perplessità già nell’aria prima dell’intervento di Gargiulo. La recensione di
Gargiulo non ha dunque fornito lo spunto per queste pagine. Semmai, ha determinato la revisione di
un frammento che di per sé si rivelava eccezionalmente idoneo ad accogliere la nuova e cocente
polemica: nuova non per i contenuti, ma per la determinazione oggettiva di un bersaglio.
Ad una lettura che pretenderebbe di vedere nell’intervento del Gargiulo il motivo determinante
della stesura di questo ultimo quadro descrittivo si oppone poi anche la nota compositiva di p. 27 di
TDL, stesa immediatamente di seguito alla prima descrizione dell’incendio (B1), che prevedeva tra
i pezzi descrittivi l’episodio della «visita di Gadda alla poetessa». Nonché la prima comparsa in
B2b, nell’elencazione dei successi dell’arte magica di Myriam, della «grande poetessa». È
innegabile che Gadda, anticipando in B2b il personaggio, abbia voluto conferire organicità ad un
disegno che, così come veniva formandosi per quadri descrittivi giustapposti, si presentava
forzatamente slegato. (42)
Va notato infine che questo terzo quadro descrittivo testimonia di un’opzione rappresentativa non
più esperita in nessun altro scritto gaddiano, e cioè l’autorappresentazione in terza persona (Italia
1994: 277). Solamente nella fase elaborativa del San Giorgio, che nasce e si sviluppa sugli stessi
quaderni dell’Incendio (NDL1 e TDL), ci troviamo di fronte ad un analogo procedimento, anche se
il «pittore novecentista» in cui si identifica Gadda-personaggio si discosta dall’immagine dello
scrittore, rientrando piuttosto in una sfera ideale, mentre il Gadda-personaggio di questo frammento
è rappresentazione più fedele, seppur caricaturata, dello scrittore stesso. Nel San Giorgio il
personaggio è dissacratore della moralità latina incarnata da Cicerone, pittore di nudità e di angeli
dagli attributi fin troppo umani, corruttore della buona educazione del contino Gigi sul cui volto
vorrebbe veder dipingersi la «casta porpora» dell’imbarazzo: rappresentante, insomma, di un
dissacrante Novecento che vuol mettere alla porta il morente Ottocento e il suo fatuo perbenismo
impersonato dall’austera contessa Brocchi. (43)
Il Gadda-personaggio in visita a Térésaaah è invece timido ed impacciato di fronte alla donna,
ossequioso e cerimoniale verso la poetessa, accomodante e disponibile fino alla remissione agli
ammonimenti e ai consigli della donna di lettere. Le due antitetiche rappresentazioni mettono così
in rilievo due aspetti della personalità di Gadda: da una parte si dà corpo all’atteggiamento del
Gadda scrittore che solitamente rimane confinato nelle pagine; dall’altra, per contro, si raffigura il
comportamento ordinario di Gadda nel rapporto con gli altri, l’abito sociale di impeccabile urbanità
che lo ha sempre contraddistinto.
Come ho già avuto modo di osservare in più occasioni, il procedere nella considerazione dei
materiali compostivi del racconto ci mostra un progressivo incremento della sua vena polemica.
Come fiume in piena (fiume di lava incandescente, si dovrebbe dire), la polemica ha trascinato con
sé gli affetti familiari, l’arpagonico padrone di casa, la sguaiata lingera, la sedicente chiromante e
gli autentici creduloni, fino ad arrivare in questo frammento ad investire il privilegiato ambito
letterario. Un progressivo accumularsi di detriti incandescenti, un magmatico e fluido flusso
sotterraneo che avrebbe dovuto trovare sfogo a Milano con epicentro in via Keplero 14.
Ma, anche di questo terzo ed ultimo quadro descrittivo, nessun elemento avrà il privilegio di
riconfluire, nemmeno parzialmente accennato, nell’edizione a stampa del racconto. (44) Cosicché
l’Incendio di via Keplero, così come lo conoscevamo, ci appare sempre di più come un fuoco cui
hanno rubato le scintille.

Appendici
Questo secondo quaderno contiene anche quattro altri frammenti che, per essere «difficilmente
assimilabili alla nota compositiva» (Italia 1994: 276) di p. 27, sono stati relegati in appendice ai
Disegni milanesi. La prima appendice, che si trova alle pp. 57-60 di TDL, ospita una digressione
satirica e nello stesso tempo risentita sull’operato di due militari: il cavaliere di Gran Croce nobile
Temistocle Silurati e il generale Gran Cordone Anassimandro Trombati. (45)
Al primo, che «aveva seminato la parola fondovalle in tutte le riviste e i giornaletti militari
dell’epoca», si doveva la costruzione di «forti con cupole in cemento armato dello spessore di ben
quattordici centimetri», rivelatisi poi del tutto inadatti alla bisogna, e per l’irrisoria copertura
(«venivano giù dei marocchi che invece di 14 ce ne volevano 140 di centimetri») e per la loro
visibilità («la cupola […] pareva esclamare: guardate che son qui: sparate qua»). Al secondo, un
«pregevolissimo studio sull’ attacco frontale, nel quale veniva dimostrato in modo lampante che chi
attacca ha l’iniziativa dell’azione, cosa che in guerra è tutto, mentre chi viene attaccato frontalmente
si limita a sparare la sua mitragliatrice sull’attaccante, dietro il facile sofisma de’ suoi reticolati».
L’attacco frontale del Trombati, dalla teoria alla pratica, permetterà di conquistare «il cocùzzolo di
1707 bis», che sarà però presto spazzato via dal pesante contrattacco nemico («dopo cinque minuti
arriverà il primate d’Ungheria, in forma di marmitta da 381, circondato da quattro vescovi da 305,
otto diaconi da 210, sedici spring-granata da 152 e un cinquecento cinquanta cinque fra pretoccoli e
chierichetti da 105; 57; e 67»), reazione che farà imbestialire lo sbigottito generale: «Ma dov’è
andato a finire questo cocuzzolo? Se il cocuzzolo non si presenta entro due ore, lo deferisco al
tribunale di guerra».
Queste pagine appartengono al filone dolorosamente rievocativo dell’esperienza bellica e, qualora
fossero state integrate ad uno dei quadri descrittivi, sarebbero venute ad incrementare la vena
polemica nei confronti dei poco amati generaloni. Qui è presa di mira quella riprovevolissima
attitudine degli alti comandi ad agire senza conoscere la realtà dei fatti, innamorati come sono delle
loro teorie e delle loro parole; quelle parole che, come è detto in Meditazione milanese, sono «le
ancelle d’una Circe bagasciona, e tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinno»
(SVP 747).
Italia, relegando queste pagine in appendice, avanzava l’ipotesi che la digressione potesse trovare
appiglio nei ritratti che campeggiano nell’appartamento della poetessa (Gadda 1995: 235). Ipotesi
molto fondata, se si pensa al modo stesso in cui sono introdotti i due personaggi («I due fulmini di
guerra avevano l’aria di essersi completamente dimenticati il gioco dei tarocchi»), che lascia
intendere la considerazione di un’immagine fissa. (46) Che poi questi ritratti dovessero essere
appesi proprio nell’appartamento della poetessa, diversi indizi sembrano confermarlo: innanzi tutto,
la contiguità delle due stesure; in secondo luogo, la presenza dei ritratti del Savoia Cavalleria che
irritano il visitatore in B2c giustificherebbero pienamente una digressione di questo tipo; infine, non
va dimenticato che la tematica bellica era già stata affacciata ad inizio frammento nel presentare la
poetessa e il suo visitatore. (47)
Ma l’ipotesi è tanto fondata che vien quasi il dubbio che non abbia ragione di essere formulata. La
mia impressione, in altri termini, è che sia necessario restituire a tutti gli effetti queste pagine a B2c,
togliendo loro l’indebito statuto di appendice. Le ragioni che hanno portato la curatrice alla drastica
soluzione di escluderle dall’episodio della visita alla poetessa sono, a quanto è dato a capire,
sostanzialmente due: da una parte la loro eccentricità rispetto alla narrazione di B2c, dall’altra la
presenza, fra B2c ed App. I, di un frammento minimo ancora una volta, sempre a detta di Italia,
«non assimilabile al racconto». (48)
La prima ragione apparirà perlomeno debole al lettore di Gadda: ci si chiede che cosa resterebbe
della sua opera se si dovesse dar palla nera a tutto ciò che non pertiene propriamente alla
narrazione. La seconda ragione, cioè la presenza di un frammento fra le sue stesure a mo’ di
discrimine, è a prima vista più consistente. Se non fosse che almeno due obiezioni le possono essere
mosse contro.
Prima di tutto si noterà che lo scioglilingua bresciano che è oggetto di discussione non manca di
trovare riscontro nella figura della poetessa, ricordata ad inizio di B2c come «un pezzo di
bresciana» (TDL 46; Gadda 1995: 260). Secondariamente, non bisogna dimenticarsi dello statuto di
impromptus che comunque grava su tutto il materiale contenuto nei vari quaderni. Escludere da B2c
le pagine sui due ritratti (e il periodo sullo scioglilingua bresciano, addirittura confinato
nell’apparato critico) risulta essere un’ingiustificata petizione di principio, dove si vuol dimostrare
la linearità narrativa di un testo escludendo quegli elementi che la disturbano in modo patente.
Credo necessario revocare la mozione di ostracismo, restituendo così al terzo quadro descrittivo
quanto gli appartiene senza troppo preoccuparsi della coerenza o meno della narrazione. (49) La
reintegrazione permetterebbe oltretutto di meglio intendere la battuta sulle mal celate cupole del
Silurati («occhieggianti tra il verde come dicevano dei campanili le poetesse di allora innamorate
della montagna»), che ci riporta alla considerazione di Térésaaah quale rappresentante di una
categoria (la letteratura femminile in genere) piuttosto che come bersaglio specifico dell’ironia in
B2c. (50)
Ma ritorniamo ai due militari. Poco proficuo è lo scandaglio della rappresentazione del Silurati che,
fatta eccezione per alcuni elementi minimi, rimarrà confinata in questo frammento. (51) Più ricca di
considerazioni, anche perché maggiormente sviluppata, la rappresentazione che coinvolge il
Trombati, tanto nella sua genesi quanto nella sua prosecuzione. Da una parte, infatti, il Trombati
ripropone la figura del generale Marocco-Tromba della Meccanica, formidabile giocatore di scopa
ma del tutto incurante dei suoi battaglioni; anche se la fissazione per l’attacco frontale è elemento
recuperato e contrario, poiché del Marocco-Tromba Gadda aveva sottolineato la reticenza ad
assumersi la benché minima iniziativa. (52) Le considerazioni sull’attacco frontale, pur non
trovando un fautore nel generale della Meccanica, sembrano comunque essere recuperate dallo
stesso scritto, anche se da un passaggio di poco precedente in cui, commentando un intervento
giornalistico di Cadorna, Gadda metteva l’accento, come in questo frammento, sull’inutile sperpero
di vite umane per la conquista di un insignificante cucuzzolo o quota (RR II 552-53). Dall’altra
parte, oltre alla cristallizzazione del personaggio di Trombati a partire da due rappresentazioni
distinte della Meccanica, il doloroso ricordo delle vite umane sacrificate invano alla strategia del
nulla ricomparirà costantemente nell’opera di Gadda. (53)
La seconda appendice, che segue immediatamente alle pp. 61-62 di TDL, conserva un abbozzo di
conclusione (dunque la quarta parte prevista dallo schema di p. 26) in cui ritroviamo Gadda-
personaggio che da fuori «ammira, estasiato, la vorace avidità delle fiamme». Ad una prima
constatazione quasi puerile (con il fuoco e il fumo nero che gli fanno esclamare: «i colori
dell’Ambrosiana!») subentra nell’animo dello spettatore la coscienza, sempre comunque venata di
ironia, della tragicità dell’evento, per arrivare infine alla cognizione ultima e conclusiva che «tutto,
tutto [era oramai] pulvis et umbra». (54) Impeccabile l’intervento di Italia, che così commenta il
ricorso al passo oraziano:
è Orazio [Odi, IV, VII, v. 16] a concludere, quasi a dare «senso e contezza» a una
visione della realtà su cui Gadda ha lungamente meditato alla fine degli anni Venti e che
viene qui certificata nelle forme dell’inventio: «pulvis et umbra sumus», a emblema
della caducità della vita non eternizzata dalla letteratura e di una letteratura falsa, non
aderente alla vita. Il passo oraziano occorre infatti in altri due luoghi cronologicamente
contigui: ne I viaggi la morte del 1927 [SGF I 582] a conferma di un’intuizione
nichilista dell’oltre vita contrastata solo dalla forza del «potente poeta» cui spetta
attuare, «contro la tenebra sopravveniente, la consacrazione degli eroi»; e nella
Meditazione milanese [SVP 797 e 1350], in una postilla al Cap. XX che associa il
virgiliano decadere dell’umana semenza «verso le ombre e le rive acherontee»,
all’oraziano dissolversi «ubi <decidimus> del vigore e dell’amor nostro verso la notte
dove pulvis et umbra sumus». L’incendio diventa così, metaforicamente, terreno
dissolvimento, certificazione della mortalità e della vanitas vanitatum; brucia e dissolve
tutto ciò che successivamente sarà Gonzalo a negare: le vane e vuote parvenze, le
«figurazioni non valide», tutti i simboli di questa negabile realtà: dai comodini da notte
di Térésah, ai racconti di Anacleto Baistrocchi. (55)

In questa conclusione si palesa lo sforzo di conferire organicità al racconto con la rievocazione di


più o meno espliciti richiami ai vari quadri narrativi e descrittivi: l’accenno al «meraviglioso
novecento dell’architetto Porcelli» che brucia «con voluttà neroniana» e la presenza della Carpioni
richiamano la Fase A; le «farfallazze di celluloide ardente» ci riportano alla prima descrizione
dell’incendio (B1) ed in particolare alla dolorosa perdita del Baistrocchi, peraltro chiamato in causa
direttamente ricordando «i manoscritti del giovanotto»; anche Térésaaah con i suoi autografi è
esplicitamente nominata, con inoltre una descrizione minima di un tramonto che pare un ammicco
ironico alla poetessa. L’unico quadro non evocato è quello della chiromante; ciò che ci porta a
credere, sulla scorta della già citata nota «Il terrore del fuoco di Myriam, del prof. Vioroni», che la
conclusione prevedeva una speciale attenzione per i due personaggi di B2b: e si pensa all’ironia che
avrebbe potuto investire una veggente che si lascia sorprendere da un incendio.
Punto d’arrivo dei vari quadri, questa conclusione influenzerà in seguito le due ultime fasi
elaborative dell’Incendio, dalla Fase C alla definitiva versione che presiede alla vulgata: solo
momentaneo il recupero nella Fase C dell’accenno all’architetto Porcelli (IVK 1; Gadda 1995: 281)
che non arriverà alle stampe; definitiva invece la ripresa dell’immagine delle «proterve ciabatte»
che «sguazzavano nell’acqua sporca, con un cic ciac da lavanderia modello», che arriverà
rielaborata alla vulgata. (56) L’edizione a stampa recupererà poi anche i tavolini da notte della
signora Carpioni, modulando inoltre la sua conclusione sulla corsa dell’autolettiga in direzione del
cimitero (mentre in App. II «dilontana nella filantropia»).
La terza appendice si trova alle pp. 61 e 63-70 e vede ancora una volta protagonista la signora
Carpioni, ora però ribattezzata Arpàlice Carpioni. (57) Difficile determinare lo statuto di queste
pagine: da una parte, si potrebbe credere che l’intento di Gadda fosse di assimilarle a quelle
contenute nel primo quaderno (Fase A); dall’altra, per la presenza di elementi non sovrapponibili, si
ha l’impressione che si tratti di un vero e proprio rifacimento.
La sostanziale complementarità di queste pagine rispetto a quelle di NDL1 concorre a
caratterizzarle come aggiuntive. Viene presentata in modo più particolareggiato la signora Carpioni:
si dice delle sue abitudini domestiche («si levava ogni mattina alle quattro ed era in faccende e in
triboli fino alle undici»), della sua singolare dieta («una crosta di pan secco, e un mezzo fiasco di
Trani»), dell’umor nero che il vino le versava nell’anima (cominciava a brontolare contro tutto e a
maledire la Caterina, la vecchia serva «settantatreenne e semicieca»), della diffidenza nei confronti
delle domestiche in genere (dalla cui «avidità rapace» bisognava difendere le propria «roba»
vecchia, giacché «tutto può servire!»), del dispetto provocatole dalla Caterina nel gettare
nell’immondizia gli avanzi dei pasti (mentre «era tutta roba buona»: «si deve buttar via niente»). Si
dice del «filantropo» commendator Unghioni, che «recentemente […] si era benignato di
concederle l’onore e la lauta larghezza di farle riparare il gabinetto senza aumento del canone».
Poi, occasionata dal sentimento tra il materno e l’erotico della signora Carpioni nei confronti
dell’Unghioni («aveva per lui una tenerezza strana che dava nel Freud»), viene sviluppata una lunga
digressione (pp. 67-69) su «un’amica di una sua amica», rinchiusa nella «Pia Casa delle Signore»
dopo che un’insana passione per il proprio padron di casa l’aveva portata a «veri e propri accessi di
ninfomania». Fatta rinchiudere dallo stesso padron di casa («Mio audace torello», così era chiamato
nelle lettere infuocate che riceveva dall’invaghita inquilina), «quel po’ po’ di carogna» era pure
riuscito a convincere i parenti della necessità di lasciare il massiccio mobilio dov’era, così da poter
ancora riscuotere l’affitto. (58) Le condizioni della ninfomane-grafomane si erano poi aggravate
(l’audace torello era diventato, prima «Mio bel maschione», quindi «Mio pirlone»), tanto che le
suore, che non osavano più leggere le sue lettere, chiamarono in causa l’alienista Della Vacca (era il
nome del professore).
Sin qui, per quel che è della possibile assimilazione di queste pagine a NDL1, tutto bene. Di fatto, ci
sono però due elementi che renderebbero problematica tale assimilazione. Il primo è costituito dalla
contemplazione, nella particolare dieta seguita dalla Carpioni, del mezzo fiasco di Trani, laddove a
p. 167 di NDL1, nella scena che si svolge nell’osteria dello Zavatta, la signora «dava chiaramente a
divedere che il campo etilico era un territorio a lei inesplorato». Il secondo, ben più consistente e
problematico, è la riscrittura della scena del gabinetto rigurgitante, che in queste pagine costituisce
un flash-back, venendo a situarsi subito dopo la lieta notizia della sua riparazione. (59) Insomma, se
queste pagine avessero dovuto confluire nel racconto accanto a quelle contenute in NDL1, Gadda
avrebbe dovuto appianare la divergenza etilica della Carpioni (nonché fissarne l’onomastica) e
cassare una delle due scene del gabinetto (o compendiare le due in una).
Assimilazione o rifacimento, dunque? La soluzione viene forse da uno dei quaderni che ospitano il
Fulmine sul 220. A p. 24 di questo quaderno si trova la seguente nota del febbraio 1932: «In seguito
all’interessamento di Tecchi e di Betti sembra possibile una mia collaborazione nel Resto del
Carlino» cui fa seguito un elenco di «Titoli da servire per materia già in parte fatta e scritta»:
– La fidanzata dell’ex-tenente
– Il sonnifero di Darmstadt (consiglio dei ministri)
– Invito a pranzo: (mecenatismo verso un letterato)
– Il pagamento dell’affitto. (vecchia signora, ecc.)
– L’ordine del disordinato Il disordine dell’uomo ordinato

Dove è altresì annotato che si tratta di «Temi di lavoro 1932» (Italia 1994: 283). Ora,
l’interessamento di cui parla Gadda data almeno del 21 marzo 1931 (Gadda 1984b: 88), cioè tre
mesi prima della stesura della seconda fase dell’Incendio. In quell’occasione, Gadda comunicava a
Tecchi di aver già pronti tre lavori e un quarto ancora in elaborazione da proporre al giornale; di
questi quattro lavori, tre sono esplicitamente nominati: «un pezzo delle manovre di artiglieria», «la
caricatura del filosofo settecentesco tolta dalla M.[adonna] dei f.[ilosofi]» e «La fidanzata di Elio».
Il quarto lavoro non è nominato, ma è accomunato a «La fidanzata di Elio» per essere «pure
originale» (cioè inedito) (Gadda 1984b: 88-89).
Per oltre un anno Gadda tentò di far pressioni su Tecchi affinché il giornale gli pubblicasse
qualcosa, ma nell’aprile del 1932 la tanto desiderata collaborazione naufragò definitivamente
(Gadda 1984b: 108). Se ritorniamo a considerare l’elenco di titoli, ci accorgiamo che uno solo dei
lavori citati nella lettera vi è compreso, «La fidanzata dell’ex-tenente», mentre i due pezzi espunti
dai racconti già pubblicati non vi fanno più parte. È ragionevole pensare che qualcuno abbia
comunicato a Gadda che un’eventuale collaborazione con il giornale non avrebbe comunque
previsto la pubblicazione di pezzi già editi, e che quindi fosse necessario all’autore prodigarsi per
inviare dei lavori originali. Se così fosse, ci si aspetterebbe di trovare nell’elenco dei titoli non solo
«La fidanzata di Elio», ma anche quel quarto lavoro che la lettera a Tecchi definiva appunto come
«originale».
Poste le premesse, non resta oramai che trarre la conclusione: l’unico titolo sotto cui si potrebbe
celare l’innominato lavoro preannunciato a Tecchi non può che essere «Il pagamento dell’affitto.
(vecchia signora, ecc.)», in cui non è difficile identificare la Fase A dell’Incendio. Questo vuol dire
che Gadda, ancor prima di porre mano alla Fase B, aveva già previsto di destinare le pagine in cui
era protagonista la signora Carpioni ad altra pubblicazione. Si comprende allora per quale motivo la
Fase A, al momento di stendere la lista di p. 26 di TDL, non facesse già più parte del racconto e
perché Gadda avesse apposto la nota «il tema della parte 2 a. e 4a. – narrazione ancora in
gestazione». Le pagine comprese nell’App. III non andrebbero allora considerate aggiuntive rispetto
a quelle della Fase A, ma piuttosto alternative: oramai destinato al Resto del Carlino l’episodio del
pagamento dell’affitto (se non di fatto almeno idealmente), Gadda recupera parzialmente l’episodio,
variandolo e adattandolo alla nuova posizione che avrebbe dovuto assumere nella struttura delineata
a p. 26. Non più quale preambolo al racconto ma di seguito alla descrizione dell’incendio: ciò che
comportava, in sostanza, una riduzione quantitativa.
Un altro argomento che si potrebbe portare in favore dell’ipotesi della versione alternativa è
l’addensarsi, nella chiusa di App. III, di simboli di morte. Così si conclude il frammento (siamo a
casa della Carpioni):
Delle interminabili carovane di formiche entravano, e dei mosconi verdi svolazzavano
dalla finestra, il cre-cre tenace del topo (fermezza di carattere) lavorava, la notte, contro
gli stipiti della novecentesca casa (tacà su con la baùscia) ma la signora Arpalice, quelle
poche ore che dormiva, in grazia del Trani, non c’era topo che potesse svegliarla, come
invece certi scrittori nevrastenici. (TDL 70; Gadda 1995: 277)

Se le formiche e il topo (variante insolita del più comune tarlo) simbolizzano per lo più
l’indifferente passare del tempo (con il topo che qui comunque lavora tenacemente al disfacimento
della casa), la presenza della mosca quale simbolo di morte convoglia gli altri due simboli verso una
connotazione del tempo quale decedere verso la morte stessa. (60) Lo straordinario concentrarsi di
tali simboli si giustifica forse come risarcimento in seguito al venir meno delle pagine della Fase A
in cui si descriveva il disastroso iter della Carpioni, pagine che preparavano e idealmente
determinavano l’incendio del caseggiato. Se il disastro era stato lungamente preparato nella Fase A,
secondo un dispendioso procedimento che potremmo chiamare di simbolismo realistico, (61)
venendo a cadere quelle pagine era necessario sopperire con elementi che immediatamente
evocassero l’imminente tragedia: l’idea del decedere verso il disastro è quindi dato per simboli
letterari in una sorta di simbolismo ad uso spiccio, di un simbolismo cioè che non richiede
importanti porzioni di testo per attuarsi.
Va ancora detto, per concludere, che la rappresentazione della Carpioni (dunque della madre) non è
certo più benevola rispetto alla Fase A. Dedita al bere, maldicente, astiosa nei confronti della
domestica, gelosa della sua roba (per quel deprecabile «istinto del serbare» che ispirerà
l’introduzione di Carabattole a Porta Ludovica, SGF I 231), succube del padrone di casa secondo
una relazione che richiama per analogia l’altra invaghita inquilina poi rinchiusa per eccessi di
ninfomania (dove il pensiero corre alla ninfomane assunta dall’Umanitaria che «nella migliore delle
ipotesi aveva insegnato lingua francese», RR II 500-03). La Carpioni di App. III è colpita assai più
duramente che non nella Fase A, dove dopotutto faceva la figura della vittima incolpevole. Posta
l’identificazione con la madre, vi è da credere che i rapporti si fossero parecchio inaspriti nel
frattempo. Si potrebbe forse supporre che la decisione di cambiare appartamento pur rimanendo
nello stesso palazzo non sia estranea a questo sfogo: se così fosse, la stesura di questo frammento
andrebbe posta dopo l’ottobre del ’31.
Il quaderno accoglie infine, alle pp. 73-74, una nota su Giovanni Kepler e Giordano Bruno.
Preannunciata poche pagine prima, (62) la nota viene però sviluppata in un unico senso. Subito
accantonato il primo dei due personaggi («Giovanni Kepler – astronomo – 1571-1630», è tutto
quello che se ne dice), Gadda stende una concisa cronistoria in flash-back del nolano sul rogo
dell’inquisizione:
Giordano Bruno… rompiscatole 1544 [sic] – 1600 (diciassette febbraio, Campo dei
Fiori, sic ustulatus periit). Il Nolano, legato al palo, rivolse il viso al sole che anche
quella mattina, a dispetto di Copernico, girava regolarmente intorno al mondo e alla
Cupola e ripensò il collegio dei domenicani<,> la sua vita errabonda, la casa dei
Calvinisti e degli Anglicani, l’«oratio valedictoria»<,> la vecchia e raffinata gentilezza
del suo ospite veneto, e l’ospitalità di Castel Sant’Angelo. Ripensò il viso di Bellarmino
e le pagine di lui, così ardenti di Fede. Ripensò tutte le porcherie e le volgarità che
aveva scritto dal Candelajo alla Bestia trionfante, tutte le brutte | parole che aveva
stampato, nella terra dove le brutte parole non si stampano, ma solo si dicono. Nella
terra de’ petrarchisti, del < > e del < >, egli aveva osato scrivere che amore è fatto di
«suspir, lacrime, rizzamenti» nella terra dove tutto è chiamato per quello che dovrebbe
essere, egli aveva chiamato tutto per quello che è. Di sé aveva osato confessare «che
non basterebbero le nevi del Caucaso per spengere la sensualità.» Sic ustulatus periit: e
l’incendio delle legna sotto le sue grame carni ne contrasse la dolorosa faccia in un
anelito senza speranza. – (TDL 73-74; Gadda 1995: 277)

Se nella terra degli aristotelici e dei petrarchisti Bruno aveva osato andare contro e oltre le
apparenze di una conoscenza fallace, nella terra del perbenismo borghese e delle Téréseeeh Gadda
si proponeva di svelarne la vacua essenza. Non a caso il nome del nolano riapparirà di lì a pochi
mesi nel programmatico Tendo al mio fine, in due occasioni che riflettono i due campi
d’applicazione, gnoseologico e rappresentativo. La prima ad inizio testo:
Era ed è legge [in senso lato, agnatizio e tribuico = sistema delle inibizioni che
costituiscono eredità normativa della tribù. Nel caso del Ns. la tribù è il ceto
mercantivo-politecnico di Milano e dintorni (NdA)] che custodisce ed impone l’inutilità
marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la
qual si devolve profonda, deformazione perenne, indagine, costruzione eroica.
«Umbra prufunda!», diceva di sé l’Arrostito: Tendo a dare di questa devoluzione un
segno, tenue e forse indecifrato algoritmo in sul marmoreo muro della legge, della virtù
e dell’inutilità veneranda: che m’hanno chiuso e piegato: quanto non il filo di spini mi
chiuse e le baionette del re di Prussia dov’è la sabbia di quella sua provincia di
Hannover. (63)

La seconda poco oltre:


Coglierò ghirlande di rose e sentirò mùsiche di dolcissimi pifferi: e farò vedere su nave
grandissimi commodori e armirati, e corbe di bròccoli: e tutto saravvi: pomposi fùnebri,
orazioni bellissime, atti inimitabili, suspir, lacrime, intenerimenti e indurimenti, alterni
[definizione bruniana dell’amore, alquanto mitigata dal Ns. Prima pecca e poi non pecca
di eccessivo petrarchismo (NdA)]: e con me saranno li animi piegati ad amare, sofferire,
indurire: e se qualche mal odore torcerà lo stomaco a qualcheduno delli eroi,
manderemo per sali ed aròmi, da corroborarlo. (RR I 121 e 123, nota d’autore integrata)

Analogamente a Bruno, Gadda non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, spingendosi oltre
un’edulcorata rappresentazione di superficie incapace di cogliere il reale nella sua complessità e
nella sua (spesso) miseria. Contrariamente a Bruno, non saranno le sue carni ad essere destinate al
rogo, bensì quella stessa realtà rappresentata: l’incendio si carica così esplicitamente di una
significazione simbolica e diventa evento catartico che si pone al culmine di una rappresentazione
del reale in cui dolorosa ironia e divertita polemica hanno camminato insieme. Ma l’«ignita zolla»,
per dirla con Montale, si è dischiusa solo con la pubblicazione dei Disegni milanesi.
Université de Genève

Note

1. Per la descrizione del quaderno ci affidiamo ancora una volta a Pinotti (Gadda 1995: 114-15): «il
quaderno è identico al precedente, tranne che per i motivi (qui bianchi e ocra) che decorano la carta
Varese della copertina; l’interno dei piatti di copertina così come i due contigui fogli di risguardo
sono rivestiti di carta marrone (quello finale è piegato in due metà incollate sul recto per celare una
grossa macchia di inchiostro blu che si intravede nel margine interno): anche in questo caso il taglio
superiore è tinto in rosso, e gli altri seghettati. Consta di 196 pp. da noi numerate a matita sul solo
recto».
2. Per una descrizione più dettagliata del contenuto di questo secondo quaderno, si veda Italia 1994:
272-73.
3. Da un’intervista rilasciata ad Alberto Ciattini e Giulio Cattaneo risulta che questa prima
descrizione dell’incendio (B1) sarebbe stata scritta «di getto in due pomeriggi estivi» (cfr. Gadda
1993c: 149). Per il malinteso sull’anno di questa prima stesura (Gadda, influenzato dagli
intervistatori, la pone nel 1930), cfr. Italia 1994: 270.
4. Si potrebbe supporre, ma l’ipotesi val quel che vale, che la comitiva della Lingera dovesse far
parte del drammatico iter della Carpioni, che effettivamente assiste in B2a alla sfilata della sguaiata
combriccola, non potendo esimersi dal commentare: «Ma che teppa che c’è ancora Milano!».
5. Anche se, all’atto pratico, gli episodi di B2 risulteranno narrativi piuttosto che descrittivi.
6. Ciò che sembrerebbe suggerire a due riprese Italia, la quale osserva che «lo schema palesa subito
delle lacune» (Gadda 1995: 234) e ancora, più letterariamente, che «lo scheletro costruttivo palesa
subito ineludibili lacune» (Italia 1994: 274), anche se nei due casi non affronta esplicitamente il
problema, ma si affretta ad affermare la mancata stesura delle due parti narrative.
7. Il ruolo di conclusione attribuibile all’Appendice II è peraltro ammesso anche in Italia 1994: 285.
8. Il «quaderno giallo del rifacimento» in questione è ovviamente TDL, che per l’appunto contiene
la ristesura del San Giorgio in casa Brocchi.
9. Con qualche riserva per B2a, che comincia a p. 75, cioè di seguito alla quarta e ultima appendice.
10. Qui però Zampironi: forse con onomastica irriverente, ma poi all’atto pratico antifrastica, nei
confronti della donna incinta e del suo contenuto.
11. Il rapporto, dal punto di vista meramente quantitativo, tra B1 e la vulgata è di 1 a 4. Se poi a B1
si toglie l’episodio del Baistrocchi, il rapporto tra B1 e la versione definitiva del racconto diventa di
poco più di 1 a 7. Si rimanda alla tavola sinottica più avanti.
12. TDL, pp. 19-21 (Gadda 1995: 251). Apparato critico (Gadda 1995: 265): (1) lì] prima lì, (ma la
virgola non è stata cassata) • terrificanti] prima dei più spaventosi (2) mamma,] segue mentre la
povera bestia • caffelatte:] segue finché un poco di buono che (3) e variopinto] ins. • in gioventù]
ins. • nientemeno che] ins. (4) quand’era giovane, che poi fu sindaco di Milano, quand’era un po’
meno giovane] ins. nell’interl. inf. (un po’ è ins. nell’ins.) (5) purché non mangino] da se non
mangiano • dell’] ins. • del] ins. • verso la bimba] ins. (6) mozzati] spscr. a frenati • al paletto] var.
altern. a lapis allo stollo • a stridere a sua volta] spscr. a ad urlare sprscr a a dire • impazzito:]
segue «Tri<poli> segue Tripoli bel (con pp. indecifr. ins. e cass. in interl.) suol d’amore (su queste
due ultime parole è spscr. «Viva l’Italia) (7) egutturava disperato] ins. e prima diceva segue per
(disperato è ins. nell’ins. e segue p. cass.) • per propiziarsi la sorte] ins. sconfinando nella pagina a
fronte (per è ins. nell’ins.) (8) il pregiudicato Achille] spscr. a un poco di buono • Besozzi] ins.
nell’interl. inf. • che abitava al piano di sopra] ins. • e la paura] ins. (9) la creatura e l’uccello] trasp.
da e l’uccello e (non cass.) la creatura (con -a su -in<a>) • aveva udite le grida e] ins. (10) buie] ins.
13. Si veda la nota di commento alle rr. 292-93 dell’Incendio.
14. La presenza della signora Carpioni in questo frammento non solo la scagiona, come già detto,
dalla responsabilità dell’incendio, ma esclude altresì una possibile identificazione con la signora
Arpàlice Maldifassi che già in B1 era la protagonista del terzo dei sei episodi originariamente
previsti. Italia, invece, basandosi sul fatto che in App. III la signora Carpioni sarà chiamata non più
Adalgisa ma Arpàlice, sostiene l’ipotesi dell’identificazione, considerando «Adalgisa Carpioni»,
«Arpàlice Maldifassi» e «Arpàlice Carpioni» semplicemente come varianti onomastiche (Italia
1994: 272, n. 9).
15. La nenia in questione («Ol pareva ch’ol me mazzèva – E intanta el me consolèva»), che non si è
riusciti ad identificare, è chiosata da Gadda nel margine inferiore del foglio: «Pareva che mi
ammazzava – e invece mi consolava». Per altre canzoni popolaresche della lingera si veda ancora
Quando il Girolamo ha smesso… (RR I 316) e la Nota al testo di Dejanira Classis (RR II 1315).
16. Cfr. La morte del cervo, vv. 7-8: «Di capegli e di barba era rossigno | come saggina, folte avea le
ascelle», in G. D’Annunzio, Alcyone (Milano: Mondadori, 1992), 496. La reminiscenza, come si
può vedere, è però limitata al solo v. 8, laddove in D’Annunzio la similitudine si riferiva al verso
precedente, e cioè ai capelli e alla barba del Centauro.
17. L’episodio si configura così come una sorta di vendetta letteraria nei confronti di questi bravi
(nel senso manzoniano) metropolitani, tanto alla luce della definizione di Tirreno in crociera qui
sopra riportata, quanto per quella «mania dell’ordine e della compostezza formale» (cfr. La festa
dell’uva a Marino, Castello, RR I 243) a cui si sottrae per l’appunto la comitiva della Lingera.
18. RR II 217. E più oltre: «[Clelia] sbirciò il Pestalozzi che arrancava sulla sua musica» (244).
19. Questi ultimi due soprannomi erano in TDL varianti alternative dei primi due (Gadda 1995: 267,
apparato critico relativo alla p. 171 di TDL).
20. TDL 30-31; Gadda 1995: 255. Variante alternativa: a Pepatencia (glossato dallo stesso Gadda
nel margine inferiore: «Espressione dialettale e grossa de’ lombardi per dire la donna di picche.
Letteralmente: Giuseppina sporca»).
21. Materializzazione di un sogno di Gadda, esacerbato dai rumori nocivi: «in casa mia prende
dimora il Silenzio», dirà ne La casa (RR II 1124). Solitamente però l’idiosincrasia musicale investe
i musicanti di strada, «lerci pidocchi», per dirla con Gadda, della milanese «città elettrica» (SGF II
20). Si veda ancora, per questa fobia, Della musica milanese (RR I 222-23), Le bizze del capitano
in congedo (RR II 970-72), e ancora La casa (RR II 1118-119). Si noterà ancora che la prima
lezione del nome del professore, con onomastica più trasparente, era «Violoni» (Gadda 1995: 268,
apparato critico relativo alla p. 30 di TDL).
22. Le citazioni sono da Cognizione, RR I 584. Per altre occorrenze significative, si vedano RR I
76-77 e SGF I 226-27. Più in generale, per la figura di Francesco Gadda si veda Roscioni 1997: 17-
29. Si noterà ancora, posta l’identificazione, che per una curiosa coincidenza il vaticinio di Myriam
circa la longevità del nascituro si è poi rivelato esatto: «Sono li mistere dell’anema […] che noi
chiromante leggiamo, come le bambini leggeno in tel sillabario», avrebbe detto la pitonessa
pugliese nella sua «sintassi magica».
23. Sembra che le ragazze della buona società milanese al tempo di Gadda, naturalmente per sua
esplicita dichiarazione, suonassero tutte il pianoforte (tanto da dar luogo alla costruzione
giustappositiva «pianoforte-signorina», RR I 221). Non solo: sembra che il possesso di quest’arte,
unita alla conoscenza del francese, alla pratica della pittura e alla capacità di condurre
un’automobile, fossero le caratteristiche indispensabili di una buona ragazza da marito (cfr. RR I
100). La pratica del pianoforte veniva peraltro dismessa non appena la ragazza si maritava (cfr. RR I
224).
24. Cfr. SGF II 646 e postilla, da riferirsi alla stessa pagina, in nota al testo (1124). La nota è redatta
il 26 ottobre 1916 e chiude il secondo quaderno di guerra (Giornale di guerra per l’anno 1916).
Non è escluso, ma questo potrebbe dircelo solamente Myriam, che un primo tentativo di
risarcimento fosse già stato tentato nel successivo «diario del Carso» caduto «preda ai tedeschi»
(SGF II 782) durante la ritirata di Caporetto. Se così fosse, le prose belliche del Castello di Udine
risulterebbero essere un risarcimento di secondo grado.
25. Le citazioni sono tratte nell’ordine da: RR I 140; RR I 176 (dove troviamo pure, alla pagina
precedente, il sintagma «nella bufera […] glaciale»); RR II 545 (poi in RR II 628); RR II 1087.
26. Gadda 1995: 257, TDL 35. La metafora ricorre ancora in Primo libro delle Favole (SGF II 25).
27. Notte di luna, come abbiamo già avuto modo di notare, nasce sullo stesso quaderno che ospita la
Fase A dell’Incendio.
28. Si pensi, analogamente, alla «gratitudine e […] reverenziale fifarella […], speranza e religiosità
collettiva, senso orfico del mistero e della trascendenza nel gran cuore del popolo» nei confronti di
Zamira (RR II 149).
29. Ma la seriazione dei due episodi non sarà in questo caso da ritenersi meramente ideale, poiché
molti elementi, oltre alla contiguità delle due stesure in TDL, concorrono a confermarla. Vedi, qui di
seguito, le considerazioni sui rapporti fra la «grande poetessa» di cui si fa menzione in B2b e
Térésaaah.
30. Italia 1994: 277: «Térésah, al secolo Corinna Teresa Ubertis (Frassineto Po [Alessandria] 1877
– Roma 1964) moglie dello scrittore E.M. Gray, raggiunse una certa notorietà con alcune raccolte di
poesie (Il campo delle ortiche, Brigola, Milano, 1897; Il cuore e il destino, Carabba, Lanciano,
1911), opere teatrali e libri per ragazzi. Alcuni accenni al curioso personaggio si leggono in
Letteratura italiana, Storia e geografia, L’età contemporanea, Il rosa, a cura di A. Arslan, Par. 2.2,
Di Liala ce n’è una sola, Torino, Einaudi, 1989, pp. 1039-042; si veda in particolare la p. 1041».
31. Si veda, qui di seguito, il suo dispetto nel venire a conoscenza della collaborazione di Gadda a
Solaria e il successivo giudizio espresso sulla prosa del suo ospite.
32. Vittorio Beonio-Brocchieri (Lodi, 1902 – Milano, 1979), studioso di storia delle dottrine
politiche, giornalista e romanziere, collaborò pure al Corriere della Sera, dove dal 1930 e per oltre
un trentennio fu una delle firme in terza pagina, soprattutto in qualità di inviato speciale nei diversi
paesi extraeuropei. Le corrispondenze dei suoi viaggi, compiute come aviatore solitario in regioni
pressoché ignote o al seguito di spedizioni scientifiche, vennero più tardi raccolte in volume. Ma nel
giugno-luglio 1931, le «incomparabili» descrizioni delle «luci scandinave», dei «tramonti lapponi»
e, più oltre, delle «aurore boreali» e delle «fate morgane», che Térésaaah ammira sommamente, non
possono trovare il loro referente oggettivo che nel Corriere della Sera, dalle cui pagine Beonio-
Brocchieri aveva avuto modo di riferire della sua spedizione in Groenlandia del 1930. Gli articoli
apparvero il 31 agosto, 17 settembre, 26 settembre e 4 ottobre 1930 con il titolo Con la spedizione
di Hoec in Groenlandia. Di tramonti è questione nell’articolo del 17 settembre, mentre le aurore
boreali sono descritte il 4 ottobre.
33. Così anche in Accoppiamenti giudiziosi (RR II 919). Non dimentichiamoci inoltre che il nome
della poetessa rimanda alla Teresa amata infelicemente dall’Ortis.
34. Nessuno dei «vociani» è mai ricordato, se non incidentalmente, nell’opera di Gadda.
35. Così scriveva Gadda a Carrocci in una cartolina del 17 giugno 1931 da Milano: «Per la Masino,
francamente, se non hai ancora spedito i libri e se non ho frainteso, è meglio che non me li mandi
neppure. Non ho tempo, proprio. Vedi se puoi trovare un altro e te li rimanderò. Comunque, dimmi
qualcosa» (Gadda 1979a: 337). Gadda fu però costretto a fare la recensione che spedì a Carrocci il
26 del mese seguente accompagnata da queste parole: «Se ti va e non temi conseguenze spiacevoli,
pubblicala: io ho fatto del mio meglio. Se non ti va o se non vuoi pubblicarla, ti prego vivamente di
rimandarmela – la terrò come ricordo della fatica fatta» (Gadda 1979a: 341). La recensione fu
pubblicata in Solaria, a. IV, n. 78, luglio-agosto 1931 (SGF I 712-15).
36. Si pensi ad affermazioni quali: «la maniera giunge talvolta ai limiti d’un futurismo deteriore,
tutto notazione dell’immediato percepire e niente espressione del profondo apprendere»; o ancora:
«vitalizzazioni dell’inanimato a jose: acque, monti, mobili di casa, nuvole, torrenti, ombre» (SGF I
714). Per non parlare del romanzo tutto anime delineato dalla poetessa a Gadda (vedi sotto), a cui si
accosterà: «Separazione di anime. Nuovo riaccostarsi di anime» e «torturato andare di anime» (SGF
I 713), espressioni che Gadda utilizza nel riassumere il romanzo della Masino.
37. Che peraltro Térésaaah mostra di non conoscere neppure: «… è un uomo di gusto…». «Di chi
parlate?…». «… Dicevo, che Solaria, se v’ha invitato, è un uomo di gusto». «… Ah! siete troppo
gentile…». La riga precedente: il Corriere della Sera, ovviamente. Riferimento che cade non
casualmente dopo l’entusiastica valutazione di Beonio-Brocchieri.
38. L’album degli autografi non può non far pensare al «Libretto dei visitatori» di Villa Desinge
(Gadda 1983d: 55). Ma l’incontro tra Gadda e la Rodocanachi è del 1935, cosicché l’analogia varrà
semplicemente come indice di un costume mondano-letterario assai diffuso.
39. La storia di una donna sposata che ha per amante un anarchico ci riporta al Molteni del
Racconto italiano, che nell’incompiuto gaddiano si carica progressivamente di una
caratterizzazione anarchica, fino a prospettare in una nota compositiva (SVP 548) lo sviluppo di
alcune pagine in cui si delinea la sua storia dinamitarda e sovversiva, pagine poi sviluppate
effettivamente solo in Notte di luna (RR II 1103-105). D’altro canto, la vicenda stessa
dell’adulterio, e l’abulia che caratterizza l’amante della donna ha non pochi tratti in comune con il
romanzo della Masino (se ne veda il riassunto di Gadda in SGF I 713-14). Inoltre Gadda, nel
criticare la Masino, l’accusa di «fuochi d’artifizio gratuiti», ciò che ci riporta allo scambio di battute
fra Gadda e Térésaaah quando quest’ultima gli porta in scena l’anarchico: «“… Dovrò farli saltare
in aria tutt’e tre?…” chiese lo psicastenico con fare preoccupato. “Ma che dite, Gadda, si vede che
l’anarchico sarà tolstoiano… evangelico… certi spettacoli pirotecnici dovreste intuirlo, sono da
lasciare agli scrittori di quart’ordine”». Ma queste somiglianze, come quelle evocate più sopra, sono
troppo generiche per affermare un influsso diretto del libro della Masino su questo frammento.
Senza contare che l’argomento potrebbe essere reversibile: si potrebbe arrivare ad affermare, in altri
termini, che Gadda abbia recensito la Masino con lo stesso spirito con cui ha redatto questo
frammento. Si noterà infine, ad ulteriore conferma di un’interpretazione ampia della polemica, che
Una donna è il titolo del romanzo d’esordio di Sibilla Aleramo (1906).
40. La recensione apparve sulla Nuova Antologia, a. LXVI, n. 1424, 16 luglio 1931. Si può ora
leggere in Alfredo Gargiulo, Letteratura italiana del Novecento (Firenze: Le Monnier, 1958), 547-
52, da cui si cita. Ecco alcuni giudizi di Gargiulo (il corsivo è nostro): «Gadda scherza mirando al
ridicolo, e in tale scherzo portando soprattutto un acre compiacimento letterario» (549); «il Gadda
si vale spesso, oltre che della sostenutezza e preziosità letterarie…»; «Si sa che anche nell’arte del
Dossi persisté, quasi sempre, qualcosa di gratuito» (550); «non meraviglia che una disposizione
quale è quella di Gadda, così indifferente e generica, si rifiuti a tradursi in realizzazioni d’arte
sufficientemente motivate nei nessi e negli sviluppi. Essa comporta un’attenzione poco più che
puntuale. Consideriamo nel libro il caso estremo: quale interesse sintetico animò Gadda, nello
scrivere La Madonna dei Filosofi? Nessuno; e il racconto risulta infatti svagato e slegato in una
misura appena verosimile».
41. Cosa che, sia detto tra parentesi, rimetterebbe radicalmente in discussione il movente della
stesura del frammento.
42. L’anteriorità di B2b rispetto a B2c è garantita da più elementi. Innanzitutto dalla maggiore
elaborazione del titolo del volume della poetessa in B2b, che dall’originaria lezione «Anima!»
diventa «Singhiozzi dell’Anima» (soprascritto ad «Anima!»), con «Sussulti dell’anima» come
variante alternativa (cfr. TDL 33 e suo apparato critico in Gadda 1995: 256, 268); mentre in B2c il
titolo sarà nelle due occorrenze «Singhiozzi dell’Anima» (TDL 46-47; Gadda 1995: 260-61), anche
se nella prima delle due occorrenze alla lezione originaria sarà soprascritto «Sussulti dell’Anima»
(Gadda 1995: 270, apparato critico relativo alla p. 46 di TDL). Oltre a ragioni filologiche
(contiguità delle due stesure e diverso grado di elaborazione del titolo), concorrono anche ragioni
rappresentative. Gadda, rivolgendosi in B2c alla poetessa, è in imbarazzo sulla desinenza da
pronunciare: signora o signorina? (TDL 46; Gadda 1995: 260). Anche se si può spiegare altrimenti
(signorina può parere irriverente, in quanto equivalente di zitella), mi sembra che tale imbarazzo
abbia più senso se rapportato a quanto veniamo a sapere in B2b della tumultuosa vita sentimentale
della poetessa, che si ingarbuglia ancor di più durante il viaggio in Estremo Oriente del «Capo
Macchinista delle Regie Siluranti» con cui si era accoppiata, periodo durante il quale la giovane
diventa poetessa e si fa ammirare un po’ da tutti e particolarmente dal pittore romano Volcazio
Penella. D’altra parte, il riferimento a Penella è in B2c appena accennato (TDL 48; Gadda 1995:
261), ciò che presupporrebbe la precedente introduzione del personaggio di B2b. Inoltre, la
comparsa dell’amante cavalleggero in B2c illumina retrospettivamente B2b, dove è pure questione
del Savoia Cavalleria in un passaggio poco chiaro giocato sul filo dell’ambiguità (TDL 33; Gadda
1995: 256). Infine, in B2b non si fa alcuna menzione del nome d’arte «Térésaaah»: occasione
troppo ghiotta di dileggio a cui Gadda, se il nome gli fosse già stato presente, non avrebbe a mio
avviso saputo resistere.
43. Il ruolo di trasgressore sarà poi demandato a Volcazio Penella, personaggio che dunque nasce
nel San Giorgio. Per il progressivo quindi definitivo subentrare di «Volcazio Penella» in luogo di
«Gadda», cfr. la Nota di Pinotti al testo del San Giorgio (Gadda 1995: 111).
44. E neppure se ne trova traccia in altri scritti gaddiani, fatta eccezione per un elemento minimo.
Nel notare i ritratti dei cavalleggeri del Savoia Cavalleria (e il loro «impertinente» motto «Savoje
bonnes nouvelles») appesi nell’appartamento di Térésaaah, Gadda ne è irritato (TDL 47, 52; Gadda
1995: 261-62) e contrappone loro in una breve nota – che, così come la troviamo nel frammento,
rimane eccentrica rispetto alla narrazione – i fanti della Brigata Cuneo ed il loro «Cunensis
Constantissima» (TDL 54; Gadda 1995: 263). La stessa contrapposizione tra i due corpi militari la
si ritrova in Un fulmine sul 220 (Gadda 1995: 100) e poi in Ronda al castello (SGF I 98-101), che
ne deriva, dove fruisce pure di una nota in cui Gadda, da una parte, dichiara fieramente di aver
militato nella Brigata Cuneo, dall’altra, ribadisce lo sdegno nei confronti del Savoia Cavalleria, il
cui motto «mena buono daddovero» (100). L’accostamento proposto parrebbe tuttavia alquanto
tenue, se non fosse che nei due casi, cioè in B2c e in Ronda al castello, Gadda propone lo stesso
pasticcio oraziano: in nota a Ronda al castello per esteso (p. 101: «Vixi duellis nuper idoneus – et
militavi non sine gloria», di contro al «Vixi puellis…» di Carmina, III, 26, vv. 1-2); in B2c, cassato
in rigo, limitato al solo primo verso (Gadda 1995: 271, apparato critico relativo alla p. 48 di TDL).
45. Si noti la stridente onomastica, soprattutto nel caso di Temistocle Silurati, costruttore di inadatte
fortificazioni di contro al suo omonimo greco, il valoroso generale ateniese (528-462 a.C. circa) a
cui si deve la fortificazione di Atene e la costruzione del porto, pure fortificato, del Pireo.
46. Le digressioni da fotografie o dipinti è espediente narrativo non insolito in Gadda: in Cinema
(RR I 53-54) è questione del ritratto del colonnello Metjura (poi in Domingo del señorito en
escasez, RR II 1008), nella Cognizione (RR I 620-21) del dagherrotipo del generale Pastrufacio-
Garibaldi, ne La domenica (RR II 785) del ritratto del generale Ravasco.
47. Nel riferire le origini milanesi di Gadda-personaggio, l’autore aveva incidentalmente
rammentato: «Una volta un colonnello durante una manovra a 15 kilometri dai tognini gli chiese di
dov’era: “di Milano, Signor Colonnello”, disse l’ingenuo Gadda. “Al solito! Tutti di Milano, questi
lombardi, tutti gran cittadini!” urlò il colonnello fuori di sé: due dì dopo il colonnello aveva
conquistato il cocuzzolo di 1307 bis, a dispetto dei finti milanesi, che ci rimasero in tre…» (TDL
46-47; Gadda 1995: 260). Dove si noterà la prossimità con il Trombati e il suo cocuzzolo (anche se,
con scarto minimo e in fondo del tutto insignificante, di quota 1707 bis).
48. TDL 56-57; Gadda 1995: 272. Il frammento, che riproduciamo qui di seguito, comincia a p. 56
(cioè l’ultima di B2c) e finisce a p. 57 (la prima di App. I): «Qua s’eri bo de dàghel s’eri miga bo de
dìghel, dess che so bo de dìghel so miga bo de dàghel, era una libera traduzione del gran motto
dogale: “Chi vol non pol, chi pol non vol; chi sa non fa, chi fa non sa: e ’l mondo cussì va” | Lo
scioglilingua bresciano, riguardante la timida offerta di un garofano all’amata: “Quando ero buono
di darglielo, non ero buono di dirglielo: adesso che son buono di dirglielo, non son più buono di
darglielo”».
49. Peraltro B2c, anche emendato secundum Italia, non è esente da indugi narrativi: si veda il
tentativo di introdurre la Brigata Cuneo in opposizione al Savoia Cavalleria, che dimostra un
procedere a tentoni della narrazione. Inoltre, immediatamente prima, precisamente a TDL 53, si
trova un frammento che Italia, giudicandolo ancora una volta «non riferibile direttamente a questo
episodio», relega nell’apparato critico: «E la casa bruciava, bruciava, fra la meraviglia dei pompieri
che, trafelati, non cessavano dall’in<n>affiarla: l’ing. Gavirati, tumefatto, dava ordini
impressionanti: mentre il gran cuore di Milano, commosso, trovava che “l’incendio” è una delle più
pericolose cose che possono darsi, per noi, per le nostre case, per i nostri tavolini da notte. –» (TDL
53; Gadda 1995: 272).
50. In Strane dicerie contristano i Bertoloni, parlando delle «ville […] che “occhieggiavano di tra il
verzicare dei colli”» (RR I 381), Gadda annotava: «Occhieggiare e verzicare sono due pennellate
maestre de’ grandi paesisti, specie donne, tra il 1900 e il 1930» (404). Manzotti, sulla scorta di un
frammento dell’inedito Villa in Brianza, certifica nel commento del passo in Cognizione lo
specifico riferimento ad Ada Negri (Gadda 1987a: 43-44).
51. Oltre all’appena citato riferimento all’ochieggiante Ada Negri, si noterà il recupero lessicale di
«marocchi» nella Cognizione (Gadda 1987a: 128, con nota di Manzotti) e un minimo accenno
ironico sulle fortificazioni ne La casa, la cui «struttura in calcestruzzo armato» sarà tale «da far
trasecolare gli ufficiali del genio disegnatori di fortezze» (RR II 1121).
52. Cfr. RR II 567-71. Non a caso in TDL si trova la variante onomastica, ma cassata in rigo, di
Marocco-Pompa (TDL 57; Gadda 1995: 278). Si noterà inoltre che la metafora del gioco delle carte
ad alludere alla strategia bellica è presente anche in questo frammento (i tarocchi sopra citati); ed
era originariamente affiorata, ma con trapasso esplicito in similitudine, nel Giornale di Guerra,
dove i generali erano definiti «Zimarroni ricchi d’argenterie che giocano alla guerra come
giocherebbero a tresette» (SGF II 458).
53. L’occorrenza più prossima è in Meditazione breve circa il dire e il fare, dove è questione di un
generale eccitato dalla parola «sfondamento» a dispetto di ogni criterio di opportunità (SGF I 453-
54); la più pregnante ed icastica nella Cognizione, dove dei generali si dirà che «ci strofinano sopra,
alle quote, come fossero zolfanelli, i battaglioni massacrati» (RR I 579).
54. Questo progressivo appropriarsi di una cognizione da un punto di partenza allegro-ironico
ricorda molto da vicino una nota critica del Racconto italiano che voleva l’anima manifestarsi per
strati, anche se là si prevedeva di demandare a personaggi differenti i diversi gradi
dell’appercezione (SVP 550).
55. Italia 1994: 285-86. Si citerà ancora, sempre dalla Meditazione milanese, un passaggio ancora
più significativo in cui alla constatazione che «tutta l’umana vita non è che nomi, carte, bolli,
titoloni ed oricalchi, biglietti da visita, e sontuose designazioni: e tuttociò non sarà se non polvere e
ombra» si oppone la «potente analisi» che sola «cava dall’ombra le cose» guadagnando alla
coscienza un altro pensiero (SVP 848-49). Ma, d’altra parte, è altresì necessario notare che il ricorso
alla formula oraziana affiora due volte in contesti senza troppe pretese speculative. In Un fulmine
sul 220: «… ora il regno del Fumagalli [la sua macelleria] era polvere ed ombra» (Gadda 1995: 55).
E in Eros e Priapo, dove è pure presente la stessa contrapposizione tra gli incorruttibili alberi (per
cui si veda Roscioni 1995a: 49-51) e gli effimeri atti degli uomini, dove per uomini si intenderà nel
caso specifico gli innamorati che dei platani fanno uso improprio: «Questi grandi alberi urbani che
ne vedono di tutti i colori o ne sentono in tutte le note della scala paion dire a que’ birbi: “Ovvia! è
il tempo vostro, l’ora fuggitiva della notte. Dacché sarete più che notte, sarete polvere ed ombra”»
(SGF II 288). Stessa contrapposizione, dicevamo, che si trova già in App. II, giacché poco prima di
concludere sull’oraziano «pulvis et umbra», Gadda evoca i «lontani pioppi» da cui «saliva la
tenebra, con diademi di stelle».
56. In Fase C nell’episodio del Baistrocchi sarà: «il protervo cic-ciac delle ciabatte femminili dentro
il guazzo di quella catastrofica lavanderia» (IVK 7; Gadda 1995: 285); e in Incendio: «il protervo e
indefesso cic-ciàc, e cicìc e ciciàc, delle ciabatte femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge
di specchio, e immagini benedette di San Vincenzo de’ Liguori dentro lo sguazzo di quella
catastrofica lavanderia» (rr. 135-38). Stante l’assenza di una datazione precisa della Fase C (un
generico 1931 è indicato nel quaderno), la derivazione della lezione definitiva da C piuttosto che da
App. II certifica la posteriorità di Fase C rispetto ai vari quadri di B e anche rispetto alle appendici
(se non tutte, perlomeno le prime due).
57. Ciò che non significa, come implicitamente sostiene Italia, che Arpàlice Maldifassi e Adalgisa
Carpioni debbano venir considerate varianti onomastiche di un unico personaggio (Italia 1994: 272,
n. 9). La signora Carpioni ha fin da subito (Fase A) una caratterizzazione ben precisa che non
appare per niente nella rappresentazione di Arpàlice Maldifassi nella prima descrizione
dell’incendio (B1); senza contare che la Carpioni era presente nell’episodio della lingera (B2a) e
dunque fuori dal caseggiato in fiamme. Personalmente, credo che la variazione onomastica sia da
considerare un lapsus: tanto è vero che nella seconda descrizione dell’incendio (Fase C) si trova
ancora una volta Arpàlice Maldifassi, e non già Arpàlice Carpioni, all’interno del caseggiato.
58. I vetusti e massicci mobili della donna forniscono lo spunto per un mini-pastiche su terzina
dantesca (Purg., V 13-15): «avrebbero potuto, invece della torre, suggerire al Poeta il termine della
misura per la fermezza di carattere dell’Ottocento: Vien dietro a me e lascia dir le genti | sta come
torre (soprascritto a tavolino, a sua volta soprascritto a cifonino) ferma che non crolla | Giammai la
cima, per soffiar de’ venti». (Gadda 1995: 279, apparato critico relativo alla p. 69 di TDL).
59. Il confronto delle due descrizioni, e dei relativi apparati critici, certifica senza ombra di dubbio
l’anteriorità di NDL1 rispetto a TDL per la maggiore elaborazione di lezioni di NDL1 che saranno
assunte in TDL senza correzioni (Italia 1994: 272, n. 9).
60. Per le formiche, Gadda 1987a: 207, 420 e 433 (con relative note di Manzotti); per il tarlo, 139,
293 e 318 (con nota e rimandi alle pp. 139-40); per la mosca, infine, si veda la schedatura di
Roscioni 1995a: 48-49, nonché Gadda 1995: 293, 259 e 294 (con nota a p. 295).
61. Si veda quanto Gadda dirà degli Idilli moravi di Tecchi (SGF I 852).
62. Italia informa che a p. 71 di TDL si trova un elenco di temi di lavori: tra questi, oltre a «La
vecchia madre» che la curatrice considera come il primo germe della Cognizione, anche «Keplero e
Bruno» (Italia 1994: 286).
63. RR I 119 e 121 (nota d’autore integrata nella citazione). Per un’applicazione in ambito
epistemologico del bruniano «Umbra prufunda sumus», cfr. La casa (RR II 1124).

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