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Lo spunto di cronaca

Nell’opera di Gadda non ci sono molte tracce di incendi: sembra persino che la cosa non suscitasse
molto interesse nel giovane ingegnere. Nella sua esperienza di emigrante in Argentina, Gadda ha
occasione di alloggiare presso una famiglia a Buenos Aires dove vive anche Encarnación, «40enne
che soffre in silenzio perché non le faccio la corte» (Gadda 1984a: 88 – lettera del 21 aprile 1923),
appassionata di pompieri:
quando ne sente la rapida tromba, vola al bancone rovesciando qualunque cosa. E poi
per tre ore li decanta entusiasmata, chiedendomi se anche a me piacciono i pompieri.
Essa si meraviglia che io non mi precipiti a mia volta a vederli e continui invece a
mangiare le patate fritte con la faccia sopra pensiero. (Gadda 1987b: 73 – lettera del 20
maggio 1923)

Cosa può mai essere un incendio per un tenente degli alpini in congedo che ha combattuto
nell’«orrore giallo e feroce delle cose furibonde» (Castello, RR I 150)? Ancor prima, lo stesso
Giornale di guerra e di prigionia registra senza nessun entusiasmo descrittivo «un grosso incendio
di alcuni casolari» a cui Gadda assiste nel novembre del ’15. Laconico il commento del
sottufficiale: «Il fuoco fu provocato dalla trascuratezza dei soldati maiali». (1)
Se si scorre l’intera opera letteraria gaddiana ci si accorge che il tema del fuoco è relativamente
poco frequentato. Di descrizioni non se ne parla nemmeno, tutt’al più troviamo qualche similitudine
e qualche notazione o accenno. Così una chiacchierata divampa «come una fiamma da un vaso di
benzina», (2) la concitazione della borsa di Milano ricorda «una folla impazzita che cerchi scampo
da un cinema in fiamme» (Meraviglie, SGF I 33), le stesse faville di un focherello che si involano
per il camino andando a morire nel vento paiono «i fanti delle antiche battaglie verso l’oceano:
spalla contro spalla, uscite da un unico incendio, anelanti nella corsa comune verso un di fuori dove
tutto si confonde» (Passeggiata, RR II 937). Così nella parabola discendente di Daniele Classis,
mentre il vino gli annaffia la gola, il fuoco gli brucia il pagliaio (RR II 1030); oppure, osservando la
campagna intorno a Marino, Gadda annota «un incendio vano di stoppie, che bruciano incontro
all’autunno» (Castello, RR I 234).
Non è il caso di passare in rassegna tutte le occorrenze in cui si trovano accennati fuochi, incendi o
pompieri, ché si finirebbe per annoiare il lettore. Più interessante è invece rilevare quelle occorrenze
in cui il fuoco, da elemento, si fa simbolo dell’insofferenza dell’Autore, simbolo di una
combustione interna, di un’atrabiliare personalità che trova nella scrittura un irresistibile sfogo ai
propri malumori, consegnando di riflesso al catartico rogo delle fiamme quelle manifestazioni di
vita prima passate al filo di lama dell’ironia dissacrante. Non a caso le Favole, vero e proprio
campionario delle idiosincrasie gaddiane, saranno indicate come «minimissime favuzze o faville
d’un foco sopr’a duo rocchietti stento e d’una manata di stipa» (SGF II 65). Altro caso
macroscopico, di cui si è già detto, è rappresentato dalle Novelle dal Ducato in fiamme, titolo
incompreso che Gadda si premura più volte di spiegare.
Al di là di questi due casi in cui un’intera raccolta è posta sotto il segno del fuoco, vi sono altre
occorrenze in cui il fuoco è invocato come terza manubia di Thina, il «fulmine stroncatore,
scavezzacolo» che «dove stianta, non ne rimane che poco odore d’arsiccio» (RR I 718, SGF II 952).
Così in Teatro, che si conclude sull’antifrastica nota di sollievo: «Fortunatamente non si era
avvertito, in tutta la meravigliosa serata, il benché minimo odore di bruciaticcio». (3) O ancora in
Libello, dove Gadda passa in rassegna le catastrofiche conseguenze dello sposalizio tra l’Uggia e il
Cattivo Gusto che hanno fatto di Milano «una brutta e mal combinata città»:
Posate, posate, gentile Teresa, gentile Carlotta. Il milleotto è diventato mille-nove.
Nessun Romeo rampicherà mai fino alla vostra poggiolante maturità (la vostra
permanente alquanto spettinatella non si dilunga alle trecce): se non forse il pompiere
dall’elmo di ottone, sulla scala Porta, quel giorno che sarà andata a fuoco la casa. (SGF
I 95)

Simile il caso de La festa dell’uva a Marino, dove, nel bailamme della sagra, al fuoco si sostituisce
il proposito dinamitardo dell’Autore stesso:
Iracondo contro il garofano rosso e pazzo d’odio contro tutte le nàcchere, medito sul
Sagrato della Sagra dell’uva, medito una polpetta di dinamite. Me la rimastico
voluttuosamente, come una cicca consolatrice: ne penso accuratamente le dimensioni:
venticinque centimetri, facciamo anzi trenta: è un bel tubo, no? Penso al diametro
interno: quattro centimetri, un pollice e tre quarti. Penso la nuvola di calcinacci che
farebbe, più gloriosa di quella del Tièpolo, con una sirena di pompieri in arrivo. Intanto
briciole e farina di Musagete ripioverebbero giù dal cielo, con pezzi di coscia di Carmen
da mezz’etto l’uno, con le castagnette incastagnate, con frantumi di corni di toro e di
toreri… Tutta una voluttuosa pioggia sopra gli elmi dei pompieri ciechi in un polverone
indescrivibile… (RR I 235)

Merita infine considerazione il caso di La nostra casa si trasforma: e l’inquilino deve subire (SGF I
373-78), scritto in cui Gadda si lamenta dei peggioramenti che la costruzione ha subito negli ultimi
trent’anni a detrimento del quieto vivere e del benessere dell’inquilino. Numerosissimi i punti di
contatto tra questo sfogo del ’59 e l’Incendio.
Tanto per cominciare, il casamento in cui si suppone che l’Autore abiti è «un falansterio di otto
[piani], con 128 nuclei familiari», cosicché, vista la pochezza dei muri, si è costretti a sentire la vita
«della famiglia italiana moltiplicata per 128». Non c’è chi non scorga in questa iperbole una
coincidenza con quella che segna lo «studio 128». Ma c’è di più. Tra tutti i rumori che Gadda è
costretto a sopportare ci sono tra l’altro quelli della «vita coi tacchi, la vita coi tatacchi»; quelli del
«ottuagenario capitano di magazzini a riposo, pluridecorato al valore» che soffre di catarro cronico,
incurabile, che da mezzanotte fino alle quattro del mattino espelle «tutto lo stock di catarro
pazientemente accumulato nei bronchi durante le ore di tepore»; quelli della diva sfiorita ed
alcolizzata che inveisce rincasando contro il ritratto di Garibaldi e poi inscena un duetto con il
novantatreenne pappagallo Zack. Quando lo scritto si chiude sull’amara constatazione che «il diritto
è una bella balla: e che Giove Pluvio [manifestatosi con la risciacquatura dell’inquilino del piano di
sopra che ogni mattina pulisce dalle «estrinsecazioni canine» della notte il suo terrazzino] è un
cialtrone, un istrione e un porcone», chi ha visto le fiamme di via Keplero sente che manca
qualcosa: se non un bell’incendio, almeno il suo auspicio o una tremenda maledizione distruttiva.
Nulla di strano, dunque, che l’Incendio sia sempre stato considerato il risultato di una combustione
metaforica. Se questo rimane vero, e anzi la conoscenza dei materiali che costituiscono il disegno
originario lo ribadisce e lo esplicita, non è mancato chi abbia cercato un ancoraggio fattuale che
rendesse conto dell’opzione gaddiana di articolare un racconto attorno ad un incendio. Mi riferisco
a Roscioni, il quale, dopo aver menzionato un’esplosione che avvenne in uno degli stabilimenti per
la produzione dell’ammoniaca in cui Gadda lavorò, osserva: «Non avrebbe lo stesso Gadda, di lì a
poco, immaginato un’analoga situazione per accendere lo stupefacente bengala dell’Incendio di via
Keplero?» (Roscioni 1997: 236). Roscioni si riferisce all’esplosione che si verificò il 5 novembre
1930 nella sala sintesi di Anzin, di cui Gadda stilò un rapporto inviato poi per lettera alla Direzione
dell’«Ammonia Casale» «datata da Mons, li 9 novembre 1930» (Gadda 1982c: 41-46).
Ora, se è vero che la cronologia milita in favore di questa suggestione (si ricorda che NDL1 recava
sul frontespizio «27 luglio 1930. Sterkrade. Kaiserhof»), è anche vero che il rapporto in nulla
ricorda quello che sarà poi il racconto: si tratta di uno scritto rigorosamente tecnico, in cui Gadda
descrive, evidentemente in ottemperanza ai suoi doveri professionali, le conseguenze
dell’esplosione sugli impianti e le sue componenti. C’è poi peraltro da credere che Gadda non fosse
nemmeno presente al momento dell’incidente, visto che le «circostanze in cui si verificò lo
scoppio» sono riportate «secondo il referto verbale del Direttore dell’Officina sig.r ing.r Baville».
Detto questo, la suggestione rimane comunque operante, e non è da escludere che Gadda si sia
deciso a metter mano all’Incendio proprio in seguito a tale avvenimento. L’ipotesi avrebbe così il
pregio di rendere conto di uno dei due estremi della datazione estensiva «1930-1935».
Sull’altro versante cronologico, va ancora segnalato uno scritto che, stampato nel 1936, descrive
l’incendio che distrusse la cupola del Duomo di Como nella notte tra il 27 e il 28 settembre 1935.
(4) In questo scritto non mancano infatti le convergenze con l’Incendio: al di là dei «vigili delle
borgate e città vicine» che «furono telefonicamente chiamati in rincalzo», delle «batterie di
autopompe [che] corsero l’autostrada nella notte», della «folla ululante nella tenebra affocata» (SGF
I 219), si consideri la testimonianza raccolta dall’architetto di Fabbrica in cui, per dirla con
Domenighetti, «è facile riconoscere la mano di uno stesso scrittore, inesorabilmente spinto alla
combinazione di elementi tragici e umoristici» (Domenighetti 1992: 208):
«[…] l’incendio ripassò infine una terza volta (a fare il giro della cupola), con alte,
libere lingue di fuoco tra la rovina completa del manto metallico che a poco a poco
abbandonò gli appigli, si sollevò accartocciandosi… e si afflosciò poi in vaste falde
rugose, come la pelle di un vecchio pachiderma. Durante il giro finale, cascate di fuoco,
quasi colate di metallo, cominciarono a precipitare dagli occhi tondi dello zoccolo
marmoreo della calotta sulle falde del tetto da cui s’erge il tiburio. Furono quelli
momenti (e parvero eterni!) di maggior trepidazione, di maggior fatica; di vero eroismo
dal parte delle diverse squadre di pompieri, di qui di Milano e di Como sovratutto,
ch’erano in alto sempre pericolosissimamente esposti». Acrobati nella notte e nel fuoco,
con inesauribili lance d’acqua, dal fermo coraggio. (SGF I 220)

Purtroppo non sappiamo con esattezza quando sia stato scritto l’articolo, ma c’è da credere che si
oltrepassi la data limite per l’Incendio, poiché l’occasione per la sua stesura sembra essere il nuovo
progetto per la ristrutturazione piuttosto che l’incendio stesso (SGF I 223).
Ma al di là di questi due accadimenti che avrebbero potuto segnarne gli estremi compositivi, c’è un
fatto ben più determinante nella storia dell’Incendio di via Keplero. È stata più volte messa in
evidenza la curiosità di Gadda per la cronaca, e soprattutto la cronaca nera, tanto che Alba Andreini
ha parlato di «topos fisso dell’aneddotica» gaddiana (Andreini 1988: 83-84; cfr. Cattaneo 1991:
109-14). Più in generale, la fonte giornalistica agisce in più luoghi dell’opera gaddiana, passando da
inserti minimi che rimandano alla prosa giornalistica fino ad arrivare a veri e propri spunti da cui
nasce un intero racconto. Quando il prestito si attua per inserti minimi, non sempre la fonte è
esplicitamente indicata. Si confrontino queste tre occorrenze:
La catarsi o la tragedia stessa fu lei a «costar la vita» ai due giovani. (Prosa giornalistica
tipo). (RR I 413)

Un sinistro lampo illividì quel proposito nel cervello del Barbagallo. Vide il camioncino
ribaltato alla quarta curva del tornante, Il Mazzellini inanime «in un lago di sangue»,
«l’autista in preda a choc». (RR II 993)

Viveva, Eucarpio, in una città industre, dove lo spettacolo della operosità comune è lieto
incitamento a operare, e conforto a vivere. Quali erano le persone più vicine al suo
cuore, dopo la moglie e i figlioli? Erano le sorelle, i cognati, i cugini, le cugine, i nipoti,
gli abiatici e i parenti tutti: le mogli dei cugini e i mariti delle cugine. (RR I 860)

Nel primo caso non solo l’espressione è posta tra virgolette, ma vi è pure un’indicazione esplicita di
provenienza. Nella seconda occorrenza, invece, il prestito è segnalato dal solo impiego del
virgolettato. Mentre nella terza, l’espressione si insinua discreta, senza soluzione di continuità,
anche se non si stenterà a riconoscere nell’espressione «gli abiatici e i parenti tutti» una formula
tipica degli annunci mortuari.
Gli esempi in cui Gadda accoglie nel testo, il più delle volte con intenti comici, delle espressioni
tipiche della prosa giornalistica potrebbero essere moltiplicati a piacimento. Ma più che la loro
frequenza, in vero notevole, ci interessa la loro provenienza. Fra gli esempi che abbiamo riportato
sopra, ve n’è uno che instrada il lettore verso la soluzione. La formula tipica dell’annuncio
mortuario che si insinua nell’elenco degli affetti di Eucarpio, infatti, era già stata utilizzata
nell’Adalgisa nella comica ed irresistibile rassegna delle nerolistate colonne di un giornale
esplicitamente indicato: il Corriere della Sera (RR I 466).
La semplice consultazione degli Indici vede il quotidiano milanese citato sedici volte, dal Giornale
di guerra e di prigionia al Pasticciaccio nella redazione di Letteratura. Più volte indicato come
lettura di Gadda stesso, il Corriere della Sera entra prepotentemente in scena nella Meccanica, dove
viene descritto il Venzaghi alle prese con il «Corriere del 2 ottobre 1915», descrizione in cui si
riportano degli interi stralci del quotidiano (RR II 551-53). Nella Madonna dei Filosofi, la vendita
della biblioteca dei Ripamonti è annunciata sul Corriere della Sera (RR I 92). Della musica
milanese è ispirato da un articolo di Arnaldo Fraccaroli apparso sul quotidiano milanese (RR I 223,
in nota). In Quando il Girolamo ha smesso…, infine, le donne volgono in fabula e in orgasmo le
notizie dei numerosissimi furti di gioielli che il Corriere riportava quotidianamente (RR I 305).
Veniamo così a considerare l’attenzione quasi morbosa che Gadda prestava ai fatti di cronaca nera,
attenzione che si rifletteva sulla sua attività scrittoria. Mancano delle ricerche condotte in tal senso e
per lo più ci si è limitati ad osservare i fenomeni più appariscenti indicandone una derivazione
genericamente giornalistica. Eppure credo che tale ricerca, certo dispendiosa, porterebbe, per la
consistenza del fenomeno, a risultati piuttosto sorprendenti. (5) Non solo dei fatti di cronaca sono
incidentalmente ricordati all’interno di uno scritto, ma ci sono casi in cui il fatto di cronaca
determina la stesura stessa di un racconto o di un romanzo.
Così, se da una parte abbiamo ad esempio una «Origoni Carlotta di anni 4» su cui si rovescia una
pentola di acqua bollente (RR II 972), o una guardia trucidata sotto casa e diciassette persone morte
in un attentato in un teatro milanese (RR II 1054), oppure ancora il caso Pirroficoni o Girolimoni
(RR II 92-94, 364-65); dall’altra abbiamo un racconto come Claudio disimpara a vivere che
«adombra un più drammatico e anzi addirittura ferale mancamento di ponte verificatosi negli anni
tra il 1920 e il 1930 in una laboriosa città della pianura padana» (RR I 351, nota), abbiamo Dejanira
Classis, racconto incompiuto ispiratosi al matricidio di Renzo Pettine, (6) abbiamo ancora lo stesso
Pasticciaccio su cui agisce la suggestione «del delitto delle sorelle Stern per mano dell’ex-
cameriera». (7) E, per venire al dunque, a questi andrà d’ora in poi aggiunto anche l’Incendio di via
Keplero, su cui opera inequivocabilmente e potentemente la suggestione di un fatto di cronaca
verificatosi nel giugno del 1929: un incendio dagli esiti drammatici tristemente noto come
«l’incendio di via Boltraffio». (8)
L’incendio di via Boltraffio occupò la cronaca milanese del Corriere della Sera per alcune
settimane: dal 12 giugno 1929 (con l’articolo che riferiva del tragico incidente del giorno prima) al
3 luglio (a tumulazione avvenuta delle quattro vittime al cimitero milanese del Musocco). La tragica
vicenda aveva suscitato l’interesse della stampa e il cordoglio popolare per la sua drammaticità e
per lo stillicidio di morte che aveva colpito la famiglia di Oreste Guidi. In seguito alle ustioni
riportate nell’incendio, propagatosi da una fabbrica di celluloide situata nel cortile interno
dell’edificio, perirono la sera stessa all’ospedale il piccolo Giampiero di dieci mesi ed Enzo di otto
anni, i due figli maschi del Guidi. Il giorno dopo moriva anche l’ultima figlioletta, Lucia di tre anni.
I funerali delle tre giovani vittime si celebrarono il 13 giugno e il giornale, nel darne notizia,
registrava la solidarietà manifestata dalle autorità comunali e dalla popolazione di Milano,
convenute a sostenere lo strazio del Guidi.
Il 16 giugno il Corriere ritornava sulla vicenda, parzialmente rassicurando dello stato di salute,
comunque ancora grave, di Maria Moro e di Caterina Sormani, la moglie e la madre del Guidi pure
coinvolte nell’incendio. Ma pochi giorni dopo, la sera del 20 giugno, morì anche la moglie del
Guidi e tragedia si assommò a tragedia e funerale a funerale. Le quattro vittime furono infine
tumulate a Musocco, il 2 luglio, in quattro fosse contigue. Più di due mesi dopo, il 18 settembre,
annunciando le nuove disposizioni di legge per le sostanze infiammabili, il Corriere rammentava il
pietoso caso della famiglia Guidi «dolorosissimo e ancor vivo nel ricordo di tutti».
«Milano ricorda incendi ben più vasti e paurosi, ma lontana è la memoria di una fiamma micidiale
come quella che ha portato la desolazione e la morte nella sfortunata famiglia del fotografo Guidi»
(14 giugno, rr. 430-33), così commentava l’anonimo cronista le drammatiche conseguenze
dell’incendio di via Boltraffio. Di incendi, in vero, è piena la cronaca del Corriere Milanese. (9) Nel
solo periodo che abbiamo preso in considerazione (maggio 1929 – agosto 1931) se ne contano non
meno di una cinquantina: dal grandioso incendio che distrugge i Magazzini Generali in via Farini
(25 luglio 1929), senza far vittime ma causando ingentissimi danni materiali, a quello quasi comico
provocato da una pipa e immediatamente spento senza conseguenze (25 agosto 1931).
E non è nemmeno infrequente trovare dei possibili punti di contatto con l’incendio gaddiano. Così,
per limitarci ai due casi appena citati, nell’incendio di via Farini un’autopompa finisce per errore in
via Bramante, dove rimane bloccata in un avvallamento; e, in via Farini stessa, gli idranti stradali
prospicienti ai Magazzini Generali si rivelano sprovvisti d’acqua, cosicché i pompieri sono costretti
a cercarne altri, «il più vicino dei quali hanno trovato almeno a trecento metri di distanza». Come
non ricordarsi del pezzo previsto dalla nota compositiva di p. 27 di TDL: «Arrivo dei pompieri:
mancanza d’acqua: le autopompe non passano sotto il passaggio a livello. ecc.–»?
Anche nel secondo incendio vi è un malinteso che coinvolge i pompieri e, infatti, il breve trafiletto
reca l’ironico titolo: «Tre autopompe per spegnere il fuoco di una pipa». Il fuoco, subito sedato
dall’improvvido fumatore, aveva allarmato la portinaia che si era affrettata a chiamare i pompieri,
poi accorsi «con ben tre autopompe». Ma al di là di questo, si osserva un’espressione quale «senza
por tempo in mezzo» (detto appunto dell’affrettato allarmismo della portinaia) che potrebbe
ricondurci alla Isolina Fumagalli, la quale «senza por tempo in mezzo la si mise immediatamente a
strillare» (r. 150). Il responsabile dell’incendio, tale Davide Ripamonti (un nome caro a «chelli
’recchie», per dirla con Ingravallo), (10) è ospite di alcuni parenti e dorme in un «ottomana in
cucina», precaria situazione che lo accomuna al Besozzi ospite della Fumagalli (cfr. Incendio, rr.
89-97). Infine, la brace della sua pipa cade proprio sull’ottomana mandandola a fuoco; quasi
immediata la reazione del Ripamonti, che spegne le fiamme con «il getto di un estintore»: possibile
rinvio alle «cataratte d’acqua potabile sopra le ottomane pisciose» di via Keplero (rr. 114-15).
Se nel caso dell’incendio di via Farini l’accostamento appare piuttosto interessante (non solo
tematicamente, ma anche per la prossimità cronotopica con l’incendio di via Boltraffio), (11) il
secondo potrebbe essere del tutto casuale, anche se va detto che nessuno degli elementi messi in
evidenza sono presenti in B1, e solamente l’ottomana quale precaria dimora del Besozzi si trova in
C.
Ma veniamo all’incendio di via Boltraffio 1, vero e proprio modello dell’Incendio gaddiano. Se nei
casi sopra citati si potrebbe comunque parlare di coincidenza, e se per Claudio disimpara a vivere,
Dejanira Classis e il Pasticciaccio si registra una generica suggestione tematica che però non ha
lasciato evidenti tracce nella scrittura, il caso dell’Incendio di via Keplero è ben diverso, poiché non
solo si ispira a un fatto di cronaca, ma in esso trova quasi la sua matrice. Le convergenze tra
l’articolo anonimo di cronaca e il racconto gaddiano sono infatti piuttosto consistenti.
«Se ne raccontano di cotte e di crude sul fuoco del N.° 14», così inizia il racconto fin da B1, incipit
che arriverà alla vulgata pressoché invariato. Se è vero che l’espressione, come già notato, rimanda
naturalmente al dispiegarsi di infinite voci attorno ad un evento così drammatico, è anche vero che
se prediamo in considerazione i due articoli del 12 e del 13 giugno ci troviamo di fronte a due
versioni divergenti dell’accaduto. Nell’articolo del 12, il Guidi si trova sulle scale e, appena si
accorge delle grida di allarme e poi del fumo, risale per soccorrere i suoi familiari. La descrizione è
particolareggiata, da persona informata dei fatti:
Trovò la porta a vetri chiusa, e poiché il vano delle scale in pochi istanti era divenuto
tutto fiammeggiante, non perse tempo a bussare; sfondò addirittura la vetrata,
producendosi ferite alle mani. Noncurante di ciò, corse subito dentro, facendo l’appello
dei suoi perché uscissero. Ma non era facile portar fuori la sua vecchia madre Caterina
Sormani fu Isodoro vedova Guidi, che ha settant’anni ed è inferma. Il Guidi e la moglie
sua Maria Moro di Angelo, di 33 anni, la quale teneva in braccio il figlioletto
Giampiero, di 10 mesi, tentarono di sorreggerla, mentre a loro si aggrappavano
piangendo altri due figli del fotografo: Enzo, di anni 8, e Lucia di 3. Il gruppo dei
disgraziati poté appena affacciarsi al pianerottolo, ma dovette subito retrocedere:
l’atmosfera infiammata era irrespirabile e nulla più si vedeva dentro un grande vortice
fumoso e nero. (12 giugno, rr. 113-30)

Nell’articolo del giorno dopo, invece, si viene a sapere che il Guidi, al momento dell’incendio,
«lavorava nel vicino stabilimento Bernini» e che si precipita a casa non appena informato della
disgrazia. Ma, quando arriva, «i suoi cari erano già stati portati alla Guardia medica» e solo più
tardi, all’ospedale, viene a sapere del grave stato dei suoi familiari (13 giugno, rr. 260-67). Ben
diversa è dunque la seconda versione della drammatica vicenda:
Pare che due dei piccini del Guidi; la piccola Lucia di anni 3 ed Enzo di 8 anni, si
trovassero sul pianerottolo nel momento in cui la terribile fiammata sprigionatasi nel
magazzino salì vorticosamente le scale, sì che essi ne furono investiti.
Terrorizzati essi invocarono la mamma che uscì di casa col piccolo Giampiero di 10
mesi in braccio, seguita dalla vecchia madre. Per un po’ la figlia stette, angosciata,
nell’appartamento, ma, spaventata dalle fiamme che lambivano anche le finestre
esterne, cercò scampo precipitandosi istintivamente per le scale. Ma la corsa fu breve:
gli sventurati, asfissiati dal fumo e dai gas rotolarono svenuti proprio mentre i pompieri
coraggiosamente salivano per salvarli. Così si spiegano le gravi ustioni riportate dagli
infelici (13 giugno, rr. 245-59).

L’espressione in incipit del racconto trova così un appiglio nei testi. E ci si immagina la reazione
dell’ipercritico Gadda di fronte alla profusione di notizie infondate e devianti verso l’eroico del
primo articolo di cronaca. (12) Ovviamente, anche la lettura corale dell’espressione viene ad essere
fondata sui fatti, vista la notevole eco che l’incendio in questione ha avuto nella cronaca e nella
popolazione.
Ma c’è di più, molto di più. Dei cinque episodi che arriveranno alla vulgata, ma che fin da B1
costituiscono il traliccio originario della descrizione dell’incendio, due provengono in maniera
lampante dal giornale (la bimba di tre anni salvata dal Besozzi, la donna incinta salvata dal Pedroni)
ed altri due (la Maldifassi salvata dal Balossi, il vecchio Zavattari salvato dai pompieri) trovano
pure un possibile riscontro negli articoli di cronaca. Flora Procopio rimanda evidentemente alla sua
coetanea Lucia, la figlioletta del Guidi tragicamente morta. La donna incinta, alla «ventiseienne
Adele Cattaneo fu Giovanni che si trovava in condizioni di avanzata maternità» (12 giugno, rr. 171-
192). A Teresa Grassi, ustionatasi nel fuggire per le scale (12 giugno, rr. 203-05), si accosterà la
Maldifassi trascinata giù per le scale dal Balossi. Il caso del «vecchio, abitante in un quartierino al
secondo piano» (14 giugno, rr. 497-505) è ripreso con l’episodio del vecchio Zavattari. E si noterà
che questi quattro casi, pur non trovandosi nello stesso articolo, si presentano comunque nello
stesso ordine dell’Incendio. La stessa parte introduttiva del racconto gaddiano trova nella
preliminare descrizione giornalistica delle cause dell’incendio, del disordinato fuggi fuggi dal
casamento in fiamme e dell’arrivo dei soccorsi il suo corrispettivo. Insomma, fin nella sua
strutturazione, l’Incendio di via Keplero segue fedelmente gli articoli di cronaca a cui si ispira.
Ma andiamo a vedere più da vicino i quattro episodi. Più che comprensibile la sostituzione di Flora
Procopio alla piccola Lucia: il racconto non persegue dei fini lacrimosi, e Gadda vuole piuttosto
dare uno spaccato tragicomico della vita svelata e stravolta dall’incendio. Si potrebbero anche
invocare delle ragioni di rispetto, ma non credo che la cosa preoccupasse troppo Gadda. Nel caso
contrario non avrebbe neppure scritto il racconto ispirandosi alla vicenda o, pur facendolo, avrebbe
del tutto omesso l’episodio della bimba. Invece ci troviamo con una Flora Procopio che con la
sventurata Lucia non condivide solo l’età, ma anche dei tratti descrittivi, drammatici negli articoli di
cronaca e in definitiva comico-grotteschi nel racconto.
Così, nell’articolo del 13 giugno, veniamo a sapere che Lucia ed il fratello maggiore Enzo si
trovano sul pianerottolo quando una fiammata li investe: «Terrorizzati essi invocarono la mamma
che uscì di casa col piccolo Giampiero di 10 mesi in braccio» (13 giugno, rr. 250-51). In Incendio,
fin da B1 troviamo, invertite le posizioni, la stessa descrizione: la bimba è rimasta in casa e la
madre è assente, quando avverte la presenza del fuoco la bimba chiama «disperatamente la
mamma» (TDL 19-20, Gadda 1995: 251), più sotto replicato con «urlava terrorizzata». Se poi
rivolgiamo la nostra attenzione al salvatore, abbiamo fin da subito il Besozzi sulle scale che «tra il
fumo e la paura, sfondò l’uscio e salvò la creatura e l’uccello». Situazione che riproduce il
presupposto tentativo di salvataggio di Oreste Guidi descritto nell’articolo del 12 giugno riportato
qui sopra. Non solo, ma si noterà che il Guidi, ancor prima di imbattersi nel fumo era stato messo in
allarme dalle grida che salivano dal cortile, mentre il Besozzi accorre perché sente le invocazioni
della bimba. Nei due casi, l’informazione è vincolata dalla stessa movenza sintattica: «Egli aveva
udito l’allarme» per il Guidi (12 giugno, rr. 109-10), «Egli aveva udite le grida» per il Besozzi
(TDL 20).
Nel passaggio a C non si segnalano, tra le aggiunte intervenute nell’episodio, dei nuovi punti di
contatto, mentre la versione definitiva dell’Incendio si arricchisce di nuovi elementi tratti dal
giornale. Sul versante dei salvati, ma questa volta si tratta del pappagallo, la «taparella gialla, di
stecchi di frassino» (rr. 58-59) «lambita» dal fuoco rimanda, genericamente, alle «persiane dei primi
piani», «lambite da lingue di fiamma», che «rimasero bruciate in tutto o in parte» (12 giugno, rr. 70-
72) e, più particolarmente, alla reazione della moglie del Guidi che, «spaventata dalle fiamme che
lambivano anche le finestre esterne» (13 giugno, rr. 253-54), cerca scampo precipitandosi per le
scale con al seguito figli e suocera. Sul versante dei salvatori, abbiamo il Besozzi che interviene non
«appena capito il pericolo» (r. 81), situazione che riproduce quella del Colombo, uno dei proprietari
della fabbrica di celluloide di via Boltraffio, che «intuito il pericolo» tenta di spegnere il fuoco (r.
38). Abbiamo poi un’osservazione quale «un fumo che ventava su dalla tromba delle scale come la
fosse un camino» (rr. 82-83) che riprende l’analoga osservazione ripetuta due volte negli articoli:
«La stretta tromba delle scale ha compiuto […] l’ufficio di un grande camino, aspirando fumo e
fiamme» (12 giugno rr. 86-88), «La tromba delle scale ha fatto come da camino alle fiamme e ai
gas» (14 giugno, rr. 452-53).
La donna incinta salvata dal Pedroni, come detto, trova in Adele Cattaneo il suo corrispettivo
giornalistico. Meno numerosi in questo caso i punti di contatto specifici della descrizione, anche
perché l’attenzione rivoltale, tanto negli articoli quanto nel racconto, è minore. È nell’articolo del
12 giugno che se ne descrive il salvataggio: la donna è imprigionata in casa e invoca aiuto, i
pompieri la sentono dalla strada e corrono in suo soccorso; tentano di scendere per le scale ma
devono tornare indietro per il fuoco; la donna sviene e i pompieri allora la calano dalla finestra con
delle corde (rr. 171-192). In B1 e in C, invece, la donna è sulle scale svenuta e il facchino (non
ancora Pedroni, ma Zampironi) la salva. Nel passaggio alla vulgata la descrizione si arricchisce
dell’intero § 9 in cui narratore e Pedroni raccontano di come fu salvata la donna. In questo
paragrafo, che trasfigura in epopea l’azione del Pedroni, si assume la descrizione parzialmente già
recuperata per il Besozzi.
Il Pedroni, infatti, nel portare in salvo le due donne (donna incinta e Isolina Fumagalli) «mandò in
frantumi la prima vetrata» (rr. 155-56), così come il Guidi avrebbe sfondato la vetrata di casa per
salvare i suoi familiari (citato sopra). È poi interessante la notizia data nell’articolo del 16 giugno:
«La Cattaneo ha dato ieri felicemente alla luce una florida bambina» (rr. 542-43), che Gadda
recupera nel concludere la stesura di C: «La donna incinta non abortì» (IVK 9, Gadda 1995: 286).
Questa confortante notizia non arriverà alla vulgata, nella quale si creerà invece una divaricazione
minima ponendo la donna al quinto mese di gravidanza (r. 130), mitigando così la gravità della
situazione. Va inoltre notato che l’episodio è introdotto nell’Incendio, fin da C, con la formula «Una
donna incinta, altro caso pietosissimo» (r. 130), che ricalca parzialmente la formula che introduce il
caso corrispettivo nell’articolo di cronaca: «Un altro drammatico salvataggio…» (12 giugno, r.
171).
Non credo poi che sarà passata inosservata, al lettore di Gadda e a maggior ragione a Gadda stesso,
la singolare coincidenza onomastica di «Adele Cattaneo fu Giovanni» con Adele Gadda fu Johan.
Quanto basta per adombrare, dopo il caso di Dejanira Classis e prima del Pasticciaccio e della
Cognizione, un altro matricidio, anche se appare chiaro fin da B1 che la signora Adalgisa Carpioni
non sarà coinvolta nell’incendio (pur ritrovandosi poi nel catalogo iniziale della vulgata in
menzione irrelata e oramai spossessata di ogni referenza).
La signora Arpàlice Maldifassi prenderebbe spunto da Teresa Grassi, (13) di cui, in vero, si dice ben
poco nell’articolo di cronaca (cfr. 12 giugno, rr. 203-05). Tuttavia, non mancano nemmeno in questo
caso delle coincidenze. Oltre all’omoteleuto onomastico, la Grassi è una donna quarantaquattrenne,
età non molto distante da quella che si potrebbe indovinare nella Maldifassi. Inoltre la Grassi, così
come la Maldifassi, trova scampo fuggendo dalle scale, anche se nel racconto è provvidenziale
l’intervento del Balossi, mentre nell’articolo di cronaca non si menzionano dei salvatori. (14) Il
nome del Balossi, a sua volta, potrebbe essere stato suggerito dal milite della Croce Verde «Alfredo
Bricconi» (14 giugno, rr. 355-58), feritosi ad un braccio durante l’azione di salvataggio: «Baloss»
(cfr. nota di commento alla r. 212 di Incendio), corrisponde infatti all’italiano «briccone». Nel
passaggio alla vulgata, inoltre, la Maldifassi riproduce parzialmente il disperato urlo di Maria Moro
delirante all’ospedale: «Al fuoco, al fuoco! Salvate i miei bambini, per carità! Salvatemi!» (21
giugno, rr. 574-75); così la Maldifassi: «Sofèghi! Sofèghi; ahi ahi la mia gamba, salvatemi! per
caritàa del Signor!» (rr. 187-88). E un inserto del narratore quale «secondo raccontò poi» (r. 166),
che si inframmezza alla voce della Maldifassi, riproduce un’analoga formula usata dal cronista:
«secondo quanto il Colombo più tardi ha narrato» (rr. 33-34).
Al vecchio salvato dai pompieri di cui si dà notizia nell’articolo del 14 giugno abbiamo infine
accostato lo Zavattari dell’Incendio. Non manca tuttavia un aggancio, seppur minimo, con l’ex-
garibaldino Carlo Garbagnati che, anche a causa di un «vizio di cuore» di cui soffre (r. 301), finisce,
nonostante l’intervento dei pompieri, «a casa del diavolo». Lo stesso vecchio di cui parla l’articolo,
infatti, soffre di un mal di cuore (14 giugno, r. 488), anche se, contrariamente al Garbagnati, il male
finisce per salvargli la vita. Il vecchio, non potendo fuggire per le scale, si rinchiude in casa e viene
così portato in salvo dai pompieri. Vicenda che ricorda dunque più da vicino quella dello Zavattari,
che tra l’altro soffre «d’asma e di catarro bronchiale» (r. 235), in cui è provvidenziale e ha buon fine
l’intervento dei pompieri.
Oltre alla ripresa, nello stesso ordine, dei quattro casi sviluppati più o meno diffusamente negli
articoli e, all’interno di ogni singolo episodio del racconto, di elementi coincidenti anche se non
sempre appartenenti al caso corrispondente, l’Incendio gaddiano presenta una prima parte
introduttiva che non manca di trovare riscontro nella cronaca giornalistica.
Così il più prezioso «disprigionò» di Incendio (r. 4), e già di B1, ha il suo corrispettivo nel più
comune «sprigionarsi» (rr. 248 e 447). I «gridi e [gli] strazianti richiami» (rr. 12-13), presenti a
partire da C, sono in coppia anche nell’articolo del 12 giugno: «grida di terrore e richiami al
soccorso» (r. 103). Le «lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse» (r. 18), assenti in B1 e in C, si
trovano già in più luoghi degli articoli: «lingue di fiamma» (r. 64), «lingue di fuoco» (rr. 466 e 490),
«lingue di fuoco» che salgono ai piani superiori «repentinamente» (r. 477). Nella prima occorrenza
le lingue di fiamma sono poi immediatamente seguite da «volute di fumo» (rr. 64-65), consecuzione
che si riscontra anche nell’Incendio (rr. 19-20). Il caotico sfollamento dal casamento di via Keplero
trova riscontro nel fuggi fuggi degli operai dallo fabbrica di celluloide: «Operai ed operaie
balzarono dai rispettivi posti e si precipitarono nel cortile dalla porta che era aperta; qualcuno
scavalcò i finestroni pure verso il cortile, e non è escluso che in questa fuga disordinata altro
materiale infiammabile sia stato involontariamente mandato ad alimentare l’incendio» (12 giugno,
rr. 48-53).
E, spingendoci oltre i limiti del paragrafo iniziale dell’Incendio, i soccorsi convenuti in via
Boltraffio, e cioè pompieri (r. 131) con autopompe e un’autoscala (r. 133), i vigili (r. 138), la Croce
Verde (r. 143), i carabinieri (r. 199), e poi gli ingegneri dei pompieri (r. 508), sono tutti ripresi
nell’edizione a stampa del racconto (nell’ordine alle rr. 14, 29 e 32, 15, 16, 126 e ancora 126),
mentre in B1 si parlava solo dei pompieri a cui si aggiungevano in C delle autopompe. Inoltre la
guardia medica di via Paolo Sarpi verso cui si era diretta in un primo momento l’autolettiga della
Croce Verde con l’ex-garibaldino Carlo Garbagnati (rr. 302-03) è citata anche nell’articolo del 12
giugno, con le «lettighe della Croce Verde» che portano i feriti «all’istituto medico di via Paolo
Sarpi» (rr. 161-62), istituto medico più sotto indicato come «Guardia medica» (r. 198).
Le «grida di spavento e di allarme» dell’articolo del 12 giugno (r. 31) e «l’allarme gettato nel
cortile» (r. 110) si compendiano in Incendio, già a partire da C, nelle «grida di spavento su dal
cortile» (r. 273) che mettono in allarme lo Zavattari; e il «fumo acre» che penetra nell’appartamento
dello stesso Zavattari (r. 281) è presente anche nel primo articolo di cronaca (12 giugno, r. 46).
Infine, la conclusiva descrizione, caotica e fuorviante, della destinazione dell’autolettiga (rr. 305-
08) potrebbe riprendere la dettagliata descrizione dell’itinerario del corteo funebre nei funerali dei
tre figli del Guidi (14 giugno, rr. 350-52 e 395-99).
Certo, per alcune analogie proposte potrebbe valere la nota che Contini ha apposto alla menzione
della guardia medica di via Paolo Sarpi: «è un punto topico della cronaca giornalistica» (Contini
1968: 1061). Nello stesso modo, se si prendessero in considerazione tutti gli incendi riportati dalla
stampa, non sarebbe difficile trovarvi alcuni degli elementi del racconto gaddiano che noi, invece,
abbiamo considerato come dipendenti dallo specifico referto di cronaca dell’incendio di via
Boltraffio. Insomma, un incendio è un incendio: c’è il fuoco, c’è il fumo, la gente cerca scampo, si
avvertono i pompieri e la Croce Verde che, una volta arrivati, tentano di spegnere il fuoco e di
soccorrere i feriti. Il linguaggio utilizzato è per lo più sempre lo stesso, e non si farebbe certamente
fatica a trovare lingue di fuoco, fumo nero e asfissiante, grida di terrore e invocazioni di aiuto. Ciò
non toglie che il racconto gaddiano ripropone la stessa situazione del tragico fatto di cronaca di via
Boltraffio: un incendio in un caseggiato in un pomeriggio estivo, (15) quattro episodi molto simili
ripresi nello stesso ordine, le scale invase dal fumo quale luogo privilegiato del dramma, un epilogo
da obitorio (16), riproducendo a volte fedelmente all’interno dei vari episodi rappresentazioni e
movenze già in opera negli articoli di cronaca.
Ora, se l’Incendio di via Keplero trova inequivocabilmente lo spunto e direi perfino la matrice
nell’incendio di via Boltraffio, resta da spiegare come mai, essendo il fatto di cronaca del giugno
1929, Gadda abbia deciso di scrivere il racconto solamente un anno dopo. La risposta la suggerisce
forse una nota compositiva del Racconto italiano:
Diga del Gleno. – Può servire a qualche accenno Species Italiae. (Lavoro italiano –
Malafede – Improvvisazione – Scarsezza economica ecc.) Vedi il ritaglio di Corriere
della sera che conservo. (SVP 415 – nota compositiva del 14 maggio 1924)

Questa nota compositiva mette in evidenza un aspetto fondamentale, e cioè che il ricorso al fatto di
cronaca in vista di un futuro «studio» è subordinato alla rilettura del ritaglio di giornale conservato
(e nel caso specifico si tratta ancora del Corriere della Sera). Lo stesso potrebbe essere accaduto per
l’Incendio di via Keplero. Rimasto impressionato dall’esplosione nello stabilimento di Anzin,
Gadda si ricorda del drammatico incendio di via Boltraffio che aveva lungamente occupato la
cronaca milanese del Corriere.
Decide così di scrivere un racconto imperniato attorno ad un incendio; ma, trovandosi all’estero e
dunque nell’impossibilità di rivisitare il fatto di cronaca, differisce la descrizione dell’incendio vero
e proprio. Pone comunque mano alla Fase A, nella quale esprime tutto il suo malumore nei
confronti della madre e dell’arpagonico padrone di casa, titolando fin da subito il racconto
«L’incendio di via Keplero» e delineando minutamente la catastrofica parabola della signora
Carpioni. E solamente nel giugno del 1931, cioè una volta ritornato a Milano e avuto il tempo di
documentarsi, affronta la descrizione dell’incendio. Ma, come abbiamo visto, non tutti quegli
elementi che ci riportano all’incendio di via Boltraffio entrano nell’Incendio gaddiano fin dalla
prima stesura (B1): le varie tappe elaborative ne registrano un incremento importante. Questo
potrebbe significare che Gadda, nel rielaborare la descrizione dell’incendio, non solo tiene di volta
in volta davanti agli occhi la descrizione precedente, ma anche che quegli stessi articoli di cronaca
da cui ha tratto lo spunto non sono troppo distanti dalla sua scrivania.
Nello spostarsi da via Boltraffio a via Keplero, l’incendio non ha percorso molta strada. Poco più di
un chilometro separa infatti le due vie: si percorre via Boltraffio da via Farini, al primo incrocio si
prende a destra in via Alserio; dopo quattrocento metri si arriva a Piazzale Lagosta, da dove si
prosegue imboccando a sinistra viale Zara; altri seicento metri e ci si trova via Keplero sulla destra.
Inutile però cercare un appiglio nella realtà: quando Giampaolo Dossena, agli inizi degli anni
Settanta, aveva percorso via Keplero alla ricerca dell’«ululante topaia» aveva dovuto constatare che
il numero civico 14 non esisteva neppure (Dossena 1972: 358-59). E ancora oggi nessuna targa lo
indica: la numerazione si interrompe al 10 per ricominciare un centinaio di metri dopo con il 18.
Nel mezzo un giardino pieno di sterpi (saranno ancora robinie?) e qualche imprecisata costruzione
tra il magazzino e la fabbrica.
Forse proprio per questo l’incendio gaddiano si è spostato al 14 di via Keplero. Nessun palazzo,
nessuna Maldifassi, nessuno Zavattari o nessun Anacarsi Rotunno che sia avrebbe avuto niente da
recriminare. (17) Ma il 14 non è un numero come tutti gli altri, il 14 è il numero portafortuna di
Gadda: «Il mio numero è il 14: nato non dirò in che anno a Milano il 14 novembre: laureato ibidem
non dirò di che alloro il 14 luglio. Della presa della Bastiglia non me ne frega un fico secco» ( I
numeri e le lettere che preferiscono, SGF I p. 1008). E non si pensi ad un’ironica uscita
estemporanea. Fin dalla Madonna dei Filosofi, Gadda aveva tentato di ricondurre al 14 (nel caso
specifico era il 14 di aprile) la stampa del volume, giudicandolo di buon auspicio (RR I 791, 795), e
così sarà anche per altre raccolte gaddiane, poste sotto la protezione del numero fortunato con
un’esplicita data di stampa o, come nel caso del Castello di Udine, preceduto dalla nota del gran
commentatore Feo Averrois datata «Firenze, li 14 novembre dell’anno 1933 di N.S.» (RR I 115),
giorno del quarantesimo compleanno di Gadda. E le stesse Novelle dal Ducato in fiamme recano
«l’improbabile data del 14 aprile» (RR II 1240).
Se il numero civico è giustificato dalla scaramanzia, come spiegarsi la scelta di via Keplero?
Lasciamo la parola a Dossena:
E chi vi dice che Gadda sia mai stato anche una volta sola in via Keplero? E sapete che
non è una domanda seria, meno ancora, domandarsi perché avrà scelto via Keplero per
collocarci l’incendio. Perché è un trisillabo piano che suona leggermente buffo, ma non
inassimilabile, in una gola con accento milanese, o anche in un contesto fonico
milanese, perché a scriverla ci si mette una k; perché quando Gadda pensa Keplero
pensa, senza pensarci, mille cose che voi non pensate. Pensa che Johannes Kepler,
contemporaneo di Galileo e sostenitore del sistema copernicano, era un matematico e un
astronomo tedesco: una bella contrapposizione alla bassa Italia, grumo di irrazionalità,
di quella via milanese con incendio (e il racconto stava nelle Novelle del [sic] ducato in
fiamme, dove ducato era l’Italia del Duce, avviata a incendio rovinoso). E nello stesso
tempo Keplero aveva il suo ramo gaddiano: era un astrologo, azzeccò molte predizioni,
gli morì pazza la moglie, gli morì pazzo un figlio, e la sua mamma del Keplero,
settantenne (la mamma) fu condannata per stregoneria: e in sostanza, girala come vuoi,
fu lui a farla condannare per stregoneria: mirabile matricidio mediato, per interposte
istituzioni. E se avete letto qualcosa di Gadda, a sentir matricidio finalmente vi suona
un qualche campanellino in testa. Ma tutto questo è detto solo perché avete fatto una
domanda poco seria. (Dossena 1972: 359)

E perché allora non dire della parziale omofonia che lega Johannes Kepler al nonno materno di
Gadda, Johan Lehr? O ancora ricordare, come suggerisce Domenighetti, che i personaggi all’interno
del caseggiato «intersecano le loro traiettorie come le orbite dei pianeti descritte da Keplero»
(Domenighetti 1992: 175)?
Tutte ragioni più o meno suggestive. Tutte ragioni, escludendo ovviamente la «k» cui Gadda
avrebbe potuto pensare «senza pensarci». Quel che è certo è che Gadda conosceva bene via Keplero
e i suoi dintorni. (18) E che i matemi e le quadrature di Keplero, oltre che regolare il moto dei
pianeti e le scadenze dei contratti di affitto, «perseguono nella vacuità degli spazi senza senso
l’ellisse del nostro disperato dolore» (Cognizione, RR I 674).
Université de Genève

Note

1. Giornale, SGF II 501. Per altri incendi causati dai soldati, v. SGF II 513-14.
2. RR II 1069. Similitudine ripresa tale e quale in Notte di luna (RR II 1084).
3. RR I 20. Poco prima Gadda aveva registrato la presenza di un pompiere che aveva
inavvertitamente fatto capolino sulla scena: «Egli non faceva parte del capolavoro: è un pompiere,
per spegnere il fuoco, se avviene l’incendio, poiché tutto è previsto nei moderni teatri. Qualche
arrosto metropolitano non è che un’eccezione a confermare la regola» (RR I 13).
4. Prima di essere incluso ne Gli anni, Del Duomo di Como fu pubblicato sulla Gazzetta del Popolo
(17 luglio 1936).
5. Nella nostra ricerca, quasi esclusivamente limitata alla cronaca milanese del Corriere, ci siamo
imbattuti in domestiche che congiurano per derubare i loro padroni, in americanesse o inglesi
derubate da avvenenti giovanotti, in una profusione di furti di gioielli e pellicce, in gioielli
dimenticati da qualche svampita signora, in investimenti stradali quasi quotidiani, ecc.
6. Si veda la nota di Piero Gelli nell’edizione da lui curata di Novella seconda (1971) e soprattutto
le pp. 159-61. Per il Corriere della Sera quale fonte di informazioni per il caso giudiziario in
questione, si veda la nota del 23 marzo 1928 contenuta nei quaderni (cahiers d’études, come li
definisce Gadda stesso) che ospitano il Racconto italiano (ora riprodotta da Isella nella Nota al testo
di Dejanira Classis, RR II 1314-317).
7. Così rispondeva Gadda a Luigi Tundo in un intervista apparsa in Paese Sera il 22 dicembre 1957
(Gadda 1993b: 57): «l’occasione esterna di narrare i casi di Liliana Balducci mi venne, dopo la
liberazione, da un amico; da Giorgio Zampa che, allora, a Firenze, mi narrò di un fatto di cronaca
appena accaduto». Come indica Vela in nota (rimandando a Andreini 1988: 145), si trattava del
«delitto delle sorelle Stern per mano dell’ex-cameriera, rintracciabile sul Risorgimento liberale ai
numeri 24, 26, 27 e 28 febbraio 1946» (pp. 237-38). Cfr. anche G. Pinotti, Nota al testo, RR II
1137, n. 3.
8. Che l’Incendio di via Keplero facesse il verso alla prosa giornalistica era sicuramente stato capito
fin dalla sua prima apparizione nelle pagine del Tesoretto. Le rese anagrafiche dei nomi di alcuni
personaggi e l’indicazione della loro ragione sociale («Flora Procopio di Giovan Battista», «Besozzi
Achille di anni 33, pregiudicato in linea di furto», «Pedroni Gaetano del fu Ambrogio di anni 38,
facchino alla stazione centrale», «il garzone […] Ermenegildo Balossi di Gesualdo, d’anni 17, da
Cinisello»), nonché altre formule e movenze tipicamente giornalistiche sono infatti piuttosto
evidenti. Tuttavia nessuno, fino ad ora, si era mai assunto l’onere di andare a sfogliare (termine
improprio, poiché oggi ci si imbatte oramai nelle riproduzioni fotografiche su microfilm) le pagine
di cronaca dell’epoca. Ringrazio il prof. Gorni che mi ha incitato e indirizzato nella ricerca. Gli
articoli sono riprodotti di seguito a questi paragrafi di introduzione e commento.
9. Per dirla con Gadda: «Corriere Milanese è il titolo della cronaca cittadina (cioè milanese) del
Corriere della Sera, assai agevolmente redatta» (Adalgisa, RR I 423).
10. Paola Ripamonti era la nonna paterna, corno nobile e bello della famiglia. Come dice la scheda
autobiografica: «Nato a Milano il 14 novembre 1893 da genitori lombardi […], il Gadda ha nella
sua ascendenza paterna il sangue dei Ripamonti (Manzoni, Promessi sposi)» (SGF II 873).
11. L’incendio di via Farini segue di poco più di un mese quello di via Boltraffio. Inoltre il numero
1 di via Boltraffio si trova proprio all’angolo con via Farini.
12. A ben vedere, si potrebbe fare lo stesso discorso per lo stato di salute dei familiari del Guidi:
l’articolo del 12 giugno dà la piccola Lucia, la madre e la nonna materna ustionate «ma non gravi»
(rr. 165-67); il giorno dopo il giornale annuncia la morte di Lucia (13 giugno, rr. 223-24) e parla di
condizioni non «tranquillanti» per la madre e la nonna (rr. 228-232); il 14 giugno le due donne
sarebbero «in gravi condizioni» (rr. 290-93); il 16 giugno il loro stato non è tale da «destare serie
preoccupazioni» (rr. 533-37); il 21 giugno anche la moglie del Guidi muore e per la madre di lui si
nutrono ormai «ben poche speranze di salvezza» (rr. 599-600); finalmente il 3 di luglio le
condizioni della madre del Guidi sono «stazionarie, ma con sintomi di miglioramento» (rr. 680-84).
13. Il nome stesso della donna potrebbe aver suggerito quella della poetessa di «Singhiozzi
dell’Anima». Negli articoli troviamo anche una «Teresina Moro Maffezzoli», sorella della moglie
del Guidi (14 giugno, rr. 338-39).
14. Si noterà per inciso che l’encomio ricevuto dal Balossi il Giorno dello Statuto (cfr. Incendio, rr.
231-33) non trova riscontro nella cronaca, giacché nessuno dei soccorritori intervenuti nello
spegnimento dell’incendio di via Boltraffio è stato premiato l’anno successivo (la lista dei nomi dei
premiati appare sul Corriere Milanese del 30 maggio 1930).
15. L’incendio di via Boltraffio scoppia alle 15.30 dell’11 giugno, l’incendio gaddiano verso
farragosto (r. 4) nel tardo pomeriggio (cfr. rr. 90, 135 e 199).
16. La sola differenza strutturale starebbe nella descrizione delle cause dell’incendio. Mentre gli
articoli vi si soffermano lungamente prima di passare al tragico caso della famiglia Guidi e agli altri
«eroici salvataggi», Gadda non ne parla minimamente. Se non nel previsto ma mai sviluppato
sottoepisodio annunciato dalla nota compositiva di p. 27 di TDL: «Cause dell’incendio e pezzo
satirico sulle macchine del caffè espresso, pellicole (Berlino) benzina (Parma)». Nulla a che vedere
con le cause dell’incendio di via Boltraffio, scoppiato in seguito ad un’errata manipolazione della
celluloide. Si noterà comunque, filo peraltro molto tenue, che le «pellicole (Parma)» potrebbero
rimandare ad Oreste Guidi, fotografo di professione (12 giugno, r. 111).
17. Si pensi a quel che Gadda scriverà a Contini, pur riferendosi alla Cognizione: «il mio lavoro è
logicamente, esteticamente, e narrativamente sbagliato, fondandosi sulla stolta speranza di narrare
intorbidendo le acque per dépister il lettore dalla traccia della sua reale esistenza» (Gadda 1988b:
103 – lettera del 9 aprile 1963).
18. Così scriveva, «Da bordo del Conte Rosso, luglio 1931», a proposito dell’impulso (di esibita
ascendenza baudelairiana) a viaggiare: «“Anima mia, che cosa fai di bello?” “Forse non ti bastano il
bazar Garibaldino, la carovaniera Farini, lontanante, nei tramonti rossi, verso il Gebel
sherlokholmesco dei Corni di Canzo, non Corso Como forse, né l’area passerella di Corso Como?
Non i regni misteriosi del Califfo di via Mac-Mahon, né le stelle infinite sopra la savana tremante di
viale Zara, né la jungla di robinie che ha nome Keplero, né i verdi silenzi della Martesana, nel cui
fondo, verdi angui pittinati dalla corrente, le lattughe non lamentano la siccità tanto deprecata dal
comm. Colombo?”» (Tirreno in crociera, Castello, RR I 182).

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