31 agosto
Se non siete mai caduti vittime della sindrome di Stendhal, significa che non avete visitato la
cappella Sansevero a Napoli..
Difficile descrivere l’esperienza. Entrando in questo spazio ristretto e stracolmo di opere d’arte si ha
la sensazione di essere quasi assaliti dalla bellezza, una bellezza cui non si può sfuggire, che
riempie ogni dettaglio del campo visivo. La differenza cruciale, rispetto a un qualsiasi altro
affastellamento barocco di arte, è che alcune delle opere visibili all’interno della cappella non si
limitano a regalare un piacere estetico, ma fanno leva su un secondo e più intenso livello di
emozione: la meraviglia. Si tratta, cioè, di sculture che a prima vista sembrano “impossibili”, troppo
elaborate e realistiche per essere figlie d’un semplice scalpello, in cui la grazia delle forme si sposa
con un’abilità tecnica difficile anche solo da concepire.
È proprio a causa della straordinaria maestria di Sanmartino nello scolpire il velo che attorno al
Cristo è nata una delle leggende più dure a morire – tanto che di quando in quando ci cascano anche
riviste specializzate o siti per altri versi ineccepibili.
Stiamo parlando della leggenda secondo cui il principe Raimondo di Sangro, committente
dell’opera, avrebbe in realtà realizzato personalmente il velo, apponendolo sulla scultura del
Sanmartino e pietrificandolo poi con una tecnica alchemica di propria invenzione; non si
spiegherebbe altrimenti la prodigiosa liquidità del drappeggio, e la “trasparenza” del tessuto.
La leggenda ha conosciuto un revival importante nell’era di internet grazie alla diffusione di articoli
di questo tenore:
La notizia sta nella recente scoperta che il velo non è di marmo, come si era finora creduto, bensì
di stoffa finissima, marmorizzata con un procedimento alchemico dal Principe stesso a tal punto da
costituire insieme alla scultura sottostante un’unica opera. Nell’Archivio Notarile è stato
rintracciato il contratto tra Raimondo di Sangro ed il Sammartino per la realizzazione della statua.
In esso si legge che lo scultore si impegna ad eseguire “di tutta bontà e perfezione una statua
raffigurante Nostro Signore Morto al naturale da porre nella chiesa gentilizia del Principe”.
Raimondo di Sangro si obbliga, oltre a procurare il marmo, “ad apprestare una Sindone di tela
tessuta, la quale dovrà essere depositata sopra la scultura; acciò, dipodichè, esso Principe
l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minutioso di
marmo composito in grana finissima sovrapposto al velo … dinotante come fosse scolpito di tutto
con la statua”. Il Sammartino si impegna inoltre a “non svelare al compimento di essa (statua) la
maniera escogitata dal Principe per la Sindone ricovrente la Statua”. Allo stupefacente contratto si
aggiunge un ulteriore documento nel quale è riportata la ricetta per fabbricare il marmo a velo. Se
i due documenti stabiliscono senza equivoci i limiti dell’abilità del Sammartino mettono altresì in
rilievo il talento alchemico del Sansevero che pone la sua perizia operativa al servizio della sua
dottrina ermetica, dal momento che si impegna nella realizzazione di una delle immagini
misteriche per eccellenza del simbolismo cristiano, quella della Sindone, il lenzuolo in cui fu
avvolto il corpo di Gesù deposto dalla croce.
(Tratto da Restaurars)
Scavando un po’ più a fondo, si viene a sapere che la “clamorosa” scoperta non è affatto recente ma
risale addirittura agli anni ’80. È opera della studiosa napoletana Clara Miccinelli, che si interessò a
Raimondo di Sangro dopo essere stata contattata dal suo spirito durante una seduta medianica.
La Miccinelli pubblicò un paio di libri, nel 1982 e 1984, sull’enigmatica figura del principe,
massone e alchimista, che il folclore vuole a metà strada fra lo scienziato pazzo e il genio assoluto.
Il documento rinvenuto dalla Miccinelli è in realtà un falso. Così si pronuncia il Museo della
cappella Sansevero al riguardo:
Il documento […], trascritto e pubblicato da Clara Miccinelli, è concordemente ritenuto dagli
studiosi non autentico. In particolare, un’analisi molto accurata del documento è stata condotta
dalla prof.ssa Rosanna Cioffi, che nella nota 107 di pag. 147 del suo libro “La Cappella
Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica” (sec. ed., Salerno 1994) elenca e argomenta ben
nove motivazioni – francamente incontrovertibili – per cui il documento non può ritenersi autentico
(dalla carta non filigranata, alla grafia differente da qualsiasi altro atto rogato dal notaio Liborio
Scala, al fatto che il foglio in questione si presenta sciolto rispetto al volume contenente tutti gli atti
rogati nel 1752, al “signum” del notaio che solo in questo documento è diverso da quello presente
in tutti gli altri atti, etc.). […]
Documenti sicuramente autentici, e liberamente consultabili, sono invece quelli conservati presso
l’Archivio Storico del Banco di Napoli, portati alla luce da Eduardo Nappi e pubblicati in diverse
occasioni: dalla fede di credito del 16 dicembre del 1752, in cui Raimondo di Sangro definisce la
realizzanda scultura come “statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo”, al
pagamento di 30 ducati (a saldo di 500 ducati) del 13 febbraio 1754, in cui il principe di Sansevero
descrive inequivocabilmente il Cristo come “ricoperto da una sindone di velo trasparente dello
stesso marmo”. Senza contare, inoltre, che sempre il principe in una delle famose lettere a Giraldi
sul “lume eterno”, pubblicata per la prima volta nel maggio 1753 sulle “Novelle Letterarie” di
Firenze, parla del Cristo velato in questo modo: “la statua di marmo al naturale di nostro Signor
Gesù Cristo morto, involta in un velo trasparente pur dello stesso marmo, ma fatto con tal perizia,
che arriva ad ingannare gli occhi de’ più accurati osservatori”. […]
Tutte le testimonianze documentarie, dunque, vanno in un’unica direzione: il Cristo velato è
un’opera interamente in marmo. A tagliare la testa al toro – come si dice – è venuta infine
un’analisi scientifica non invasiva condotta dalla società “Ars Mensurae”, che ha decretato non
essere presente nell’opera alcun materiale diverso dal marmo. Il resoconto dell’analisi è stato
riportato nel 2008 in: S. Ridolfi, “Analisi di materiale lapideo tramite sistema portatile di
Fluorescenza X: il caso del ‘Cristo Velato’ nella Cappella Sansevero di Napoli”. […] Riteniamo
che il fatto che il Cristo del Sanmartino sia interamente in marmo aggiunga – e non sottragga –
fascino all’opera.
La Miccinelli, in seguito, ha trovato in casa sua uno scrigno contenente una serie incredibile di
manoscritti gesuiti che rivoluzionerebbero totalmente l’intera storia delle civiltà precolombiane così
come la conosciamo. Il “caso” ha diviso la comunità etnografica, rischiando perfino di incrinare i
rapporti accademici con il Perù (vedi questo articolo), visto che molti specialisti italiani ritengono i
documenti autentici, mentre per la gran parte degli studiosi anglosassoni o sudamericani restano dei
falsi abilmente costruiti. L’aspro dibattito non scoraggia la professoressa napoletana, che sembra
non riesca a frugare in un cassetto senza scoprirvi un inedito: nel 1991 è il turno di un autografo di
Dumas che le ha permesso di decrittare le simbologie alchemiche del conte di Montecristo.
Ora tratteremo di un’altra leggenda relativa alla cappella Sansevero, quella delle due “macchine
anatomiche” conservate nella cavea.
Il Principe, come un vero e proprio stregone, sta mescolando il suo composto in un enorme
mastello. Finalmente, ecco la reazione tanto attesa: il misterioso liquido è pronto. Dall’altra parte
della stanza, i due servi legati e imbavagliati non riescono nemmeno a urlare. Il maschio sta
singhiozzando, mentre la femmina, anche se immobilizzata, rimane vigile e all’erta – forse la nuova
vita che porta in grembo le impedisce di cedere alla paura, le impone di tentare una difesa ormai
impossibile. Il Principe non ha molto tempo, deve agire in fretta. Versa il liquido colorato in una
strana pompa, e si avvicina alle due vittime: nei loro occhi egli legge un terrore senza nome.
Comincia con il maschio, incidendo la giugulare e inserendo tramite una grossa siringa il liquido
nella circolazione sanguigna. Sarà il cuore a pompare il preparato alchemico attraverso tutto il
corpo, e il Principe rimane a guardare il volto di quell’uomo in agonia mentre il denso veleno entra
in circolo. Ecco, è finita: il servo è morto. Ci vorranno due o tre ore perché il composto si
solidifichi, e di sicuro più di un mese affinché la putrefazione faccia il suo corso e la carne cada del
tutto dallo scheletro e dal reticolo di vene, arterie e capillari marmorizzate dal procedimento.
Ora è il turno della donna.
Quella che avete appena letto è la leggenda che circonda le due “macchine anatomiche” visibili
ancora oggi nella cavea della Cappella Sansevero. Il Principe Raimondo di Sangro le avrebbe
realizzate sacrificando la vita di due servi, in modo da ottenere un’esatta rappresentazione del
sistema vascolare, con un livello di accuratezza altrimenti impossibile da raggiungere. Alla
leggenda accenna anche Benedetto Croce nel suo Storie e leggende napoletane (1919): “Per lieve
fallo, fece uccidere due suoi servi, un uomo e una donna, e imbalsamarne stranamente i corpi in
modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie e le vene, e li serbò in un
armadio…” Le due “macchine” sono effettivamente un maschio e una femmina (incinta, anche se il
feto è stato trafugato negli anni ’60), i loro scheletri avvolti dalla fittissima rete dell’apparato
circolatorio.
La leggenda “nera” dei servi uccisi senza pietà nasce evidentemente dalla figura di Raimondo di
Sangro, la vita e l’opera del quale appaiono – proprio come il Cristo di Sammartino di cui abbiamo
parlato nel precedente articolo dedicato alla Cappella Sansevero – coperte da un velo, quello del
simbolo.
Straordinario intellettuale e inventore, appassionato di chimica, fisica, tecnologia, Raimondo di
Sangro fu sempre visto con sospetto in quanto massone e alchimista, tanto da diventare nella
fantasia popolare una sorta di diavolo.
La scienza era agli albori, e nel cuore del Settecento il razionalismo non aveva ancora abbandonato
la simbologia alchemica: com’è noto, gli alchimisti operavano realmente (la chimica si svilupperà
proprio a partire da queste ricerche), ma ogni procedimento o preparato era anche interpretato
secondo livelli di lettura metafisici. Raimondo di Sangro si fregiava di aver concepito decine di
invenzioni, fra cui un palco pieghevole, una tipografia a colori, una carrozza marittima, macchine
idrauliche e marmi alchemici, carte ignifughe e tessuti impermeabili, fino al celebre “lume eterno”;
ma la notizia di queste sue creazioni ci è giunta dalla sua stessa Lettera apologetica, pubblicata nel
1750, e alcuni studiosi ritengono che quelle stesse invenzioni, al di là che fossero esistite o meno,
vadano interpretate come simboli della ricerca alchemica del Principe. Così come simbolica appare
la scelta originaria di installare le due “macchine anatomiche” su piattaforme girevoli
nell’Appartamento della Fenice: forse Raimondo di Sangro le considerava figurazioni della rubedo,
lo stadio della ricerca della celebre pietra filosofale in cui la materia si ricompone, garantendo
l’immortalità.
Oggi, le “macchine” stupiscono ancora gli studiosi per il realismo e l’accuratezza della loro fattura,
a dimostrazione di una conoscenza pressoché perfetta del sistema circolatorio nel Settecento.
Versioni moderne, queste sì realizzate per iniezione di polimeri siliconici su cadaveri veri, sono
visibili nelle celebri mostre Body Worlds di Gunther Von Hagens, l’inventore della plastinazione
(ne avevamo parlato qui).
Per approfondire: un articolo sull’acquisto delle “macchine” da parte del Principe; untrattato sul
simbolismo esoterico delle sue invenzioni; un saggio sulla figura di Raimondo di Sangro con
particolare riferimento ai suoi rapporti con la Libera Muratoria. Infine, il sito del Museo della
Cappella Sansevero..