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V. BODINI, Corriere spagnolo (1945-1954), ed. de A. L.

Giannone, [Seconda edizione, con l’aggiunta di una Premessa


(pp. 7-8) e di una Appendice. Quattro lettere di Vittorio Bodini
dalla Spagna (pp. 30-40)], Nardò, Besa Muci 2013.

NOCHES DE ESPAÑA
Passa il sereno tutta la notte gelando, sotto
la neve o la pioggia, durante gli inverni
che in regioni come la Castiglia sono ben
più rigidi dei nostri, ad aprire porte a ogni
chiamata, ricevendo una mancia che si
aggira in media sui due reali (cinque lire
all’incirca). Vi sono poi case, come
qualcuna in cui ho abitato, i cui portoni
non possono aprirsi dall’interno, così il
suo intervento non solo è richiesto per
entrare, ma anche per uscire. Bisogna
affacciarsi a una finestra a chiamarlo 1.

FLAMENCO
Forse ciò che grida, da noi come in
Andalusia, è l’antico sangue arabo; e fa
sbagliare i nostri poveri carrettieri e
braccianti, perché non hanno musiche e
canzoni loro, e così non possono fare altro
che storpiare inni e marce militari.
Questa è la genesi del flamenco, e che
anche qui, dove ha trovato un
meraviglioso linguaggio, esso rimanga
fondamentalmente una condizione
dell’anima, lo dimostra il fatto che il
flamenco resta flamenco senza chitarra,
senza canto, senza ballo; basta un batter di
palme, basta un gesto, un’espressione del
viso. A Malaga un prete, padre Manolo,
intona solennemente il Tantum ergo: dopo
poche frasi il canto comincia a titubare, a
inquietarsi, a storcersi in disperate
involuzioni, le braccia si allargano di
scatto come per aprire di colpo una
soffocante cortina: siamo in pieno
flamenco (E i gitani di Avila quando esce
in processione il Cristo del Gran Poder, di
cui mantengono la chiesa a loro spese, lo
seguono con battute di palme e di tacchi).
Il solo istrumento che tolleri il flamenco è
la chitarra. Nessuno sa cosa sia una
chitarra se non l’ha sentita suonare da uno
spagnolo. Come non sa cosa sia un
garofono se non l’ha visto qui fra i capelli

1
Corriere spagnolo, cit., p. 50.
o sul petto d’una donna. Suonano
grattando le corde con una incredibile
sveltezza, e subito se ne staccano dei
granellini d’una sabbia fina, scintillante di
mille colori e riflessi, scivolando con una
fuga dolcissima e irraggiungibile: quando
la mano ha cessato di grattare, quando si
ferma, quando si distacca dalle corde,
continua quella dolcissima precipitazione,
continua la chitarra a suonare da sola 2.
Nella corrida ogni fase ha il suo tempo
rigorosamente stabilito. Benché i
picadores non avessero potuto entrare, era
tempo che entrassero in azione i peones
per infilare nel collo del toro le
banderillas, delle asticciuole acuminate;
ma gli spettatori volevano le banderillas
de fuego, che conficcandosi nel corpo si
spezzano e producono lo sparo di
mortaretti e saltarelli. È raro che si debba
ricorrere a questo mezzo per aizzare i tori
al combattimento, ma è ancor più raro ciò
che avvenne questa volta. Vennero i
peones e infilarono le banderillas, ma le
infilarono male: due caddero al suolo, le
altre penetrarono poco. Gli uomini erano
disorientati, in preda all’agitazione: questa
non era una corrida. Cominciano a
esplodere le banderillas nella carne del
toro, a mandare fumo e scintille, e
detonazioni fortissime e il toro immobile
come un idolo arcigno e peloso 3.

MIEL DE ITALIA Y LIMONES DE ESPAÑA


I diversi gradini del flamenco possono
compararsi ai gradi della perfezione
teosofica nelle religioni orientali: la
siguiriya ne costituisce l’esercizio
supremo. Ora Silverio Franconetti diventò
il più grande siguiriyero dei suoi tempi, e
oggi viene ricordato come il ‘divino
Silverio’, con un attributo che non deve
dividere se non con Lope de Vega e col
torero Manolete, e nell’incomposto
olimpo flamenco, pieno di corazze di
gamberi, d’ossi d’olive e vuote bottiglie di
Manzanilla e cognac Domecq, il suo posto
è fra le ombre dei massimi cantaores del

2
V. BODINI, Corriere spagnolo, cit., p. 54.
3
V. BODINI, Corriere spagnolo, cit., p. 64.
passato: fra Zio Luís e don Antonio
Chacón 4 [...]
– Non l’avrebbe cantata meglio il signor
Silverio! –disse un uomo anziano che era
seduto di fronte a me, e aveva sotto un
giacchettino scuro una camicia bianca a
grosse righe color carota, che portano solo
i gitani, con una strana eleganza da
presidiari (p. 78).

MADRILEÑO EN MADRID
No, Madrid non è di quelle città che vi
intimidiscono, lasciandovi sentire a ogni
passo che non furono fatte per voi; al
contrario qui tutto è affabilmente riportato
alle dimensioni d’una scacchiera animata
di vive passioni, e a ciascuno è dato,
secondo le sue forze, di tendere a una
vicenda: dai pedoni che in colletto duro
prendono il caffelatte nel Molinero, alle
dame, alle ineguagliabili dame che
sfolgorano negli occhi una luce rischiosa.
Come questa di Fina, mentre seduti nel
fondo d’una lunga automobile scarlatta,
m’introduce ai misteri del madrilenismo e
pare puerilmente orgogliosa del suo
compito [...]
– E poi –dissi–, per Madrid ho delle
ragioni speciali. Io sono quasi spagnolo:
sono un italiano del Sud, e questa
dovrebbe essere la vera capitale del mio
paese. Vi è in noi la medesima
combinazione di follia e di realismo, le
stesse inerzie febbrili, lo stesso bianco
della calce contro il cielo. E il basilico, la
chiocciola, il gelsomino, sono parole che
pronunziamo con l’identica intimità un
po’ dialettale, come se le
accompagnassimo d’una strizzatina
d’occhi. In Italia queste cose non le
capiscono: vi sono considerate costumi di
arretrate province meridionai (pp. 101-102).

CRISTO EN EL ESCORIAL
Poi la strada non è più dritta. La macchina
imbocca tre o quattro curve più ripide e
sbocca d’un tratto sul fianco del
Monastero. Quando lo vedo non riesco a

4
V. BODINI, Corriere spagnolo, cit., p. 74.
crederci. È questo l’Escorial? Dopo tanta
pietra entrataci negli occhi, è l’ultima cosa
che ci sarebbe aspettato, questa smisurata
mole, più massiccia e più informe della
stessa montagna. Sembra un gigantesco
foruncolo cresciuto sul collo della Sierra
del Guadarrama. Non si sa neanche dove
cominci e dove finisca, poiché ha lo stesso
colore grigiastro e torvo delle nuvole, e le
case intorno son costruite nella medesima
pietra e architettura 5.

RETRATO DE DON JUAN


Mentre camminavo a caso, guidato dal
bianco delle lapidi, dietro un cipresso mi
sorprese un tramonto così remoto e
fantastico come se stesse tramontando in
un altro mondo. La pelle del cielo s’era
squarciata e in tutto il cielo già nero
lasciava vedere, in quel punto, delle
budella tinte di viola, di giallo e verde, e
illuminate crudelmente da una luce
spettrale. Era il più pauroso tramonto che
mai avessi veduto. Restai per un momento
inchiodato dov’ero, dietro il cipresso, poi
m’allontanai in fretta, senza voltarmi,
come se avessi assistito a un delitto, e
raggiunsi il cancello d’entrata oltre il
quale, discesa la rampa, era tutto un
cerchio di tenebre, con un solo lume in
lontananza. Veniva da una baracca d’assi
e di fango. Spiando alla finestruccia dai
vetri rotti, incollati con delle bende di
carta, vidi quattro uomini intenti a giocare,
vestiti della casacca color miele degli
interratori madrileni, e un banco di
mescita d’osteria. Dovevo avere una
faccia di fantasma perché uno dei
giocatori alzando gli occhi verso la
finestra ebbe un sussulto, a cui gli altri
volsero anch’essi di scatto dei visi inquieti
dove già il tristo mestiere aveva fatto le
sue fosche uova. Dovetti entrare in quella
taverna miserabile, tanto diversa dalle
taverne dei vivi che forse quei giochi di
carte non potevano avere altra posta che
schegge d’ossa 6.

5
V. BODINI, Corriere spagnolo cit., p. 110.
6
V.BODINI, Corriere spagnolo cit., pp. 88-89.

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