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Deviazione di Luce d’Eramo: il racconto di una (quasi) indicibile ... https://journals.openedition.

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Laboratoire italien
Politique et société

24 | 2020
Écritures de la déportation
Dossier

Deviazione di Luce d’Eramo: il


racconto di una (quasi)
indicibile deportazione
volontaria
Le Détour de Luce d’Eramo : l’histoire d’une (presque) indicible déportation volontaire
Luce d’Eramo’s Deviation: the story of an (almost) unspeakable voluntary deportation

DANIELLA AMBROSINO
https://doi.org/10.4000/laboratoireitalien.4461

Résumés
Italiano Français English
Luce d’Eramo nel ’44-’45 è stata a 18 anni operaia volontaria in Germania, poi internata a
Dachau per tre mesi, quindi da evasa ha condiviso l’esistenza precaria di una massa
vagante di clandestini nel Terzo Reich sotto le bombe. Nel romanzo autobiografico
Deviazione (1979) ha esplorato aspetti poco noti dei Lager, come l’estrazione sociale di
internati e carcerieri, e la condizione dei lavoratori stranieri. In Deviazione il racconto
dell’esperienza dei Lager è intrecciato alla ricognizione del dopo, di come quell’esperienza
sia stata rimossa da chi l’aveva vissuta, e come abbia potuto riemergere e diventare oggetto
di scrittura solo in un lungo arco di tempo. La rimozione è connessa al fatto che la
protagonista di Deviazione è una deportata diversa: dopo uno sciopero organizzato dalla
Resistenza francese, rimpatriata per riguardo alla sua famiglia fascista, all'improvviso, di
fronte a un gruppo di rastrellati, ha fatto in modo di farsi arrestare con loro e ha gettato via
i documenti, finendo così a Dachau. Un «salto compiuto d'impeto alla cieca», tanto
impossibile da raccontare che lei stessa l’ha ignorato per trent’anni. Ma che, per gradi,
riesce ad affrontare ricercando le ragioni del proprio silenzio attorno a sé e dentro di sé,
senza sconti. L’indicibilità qui narrata non dipende, come in Adorno o in Wiesel, da
situazioni che oltrepasserebbero la parola, ma è tutta imperniata sul contesto sociale, e
sulla coscienza sociale della protagonista; gradualmente si scioglie e si fa racconto vivido,
preciso, sulla via indicata da Primo Levi, di condivisione di un'esperienza estrema.

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En 1944, à 18   ans, Luce d’Eramo partit en Allemagne pour s’engager comme ouvrière
volontaire. Internée à Dachau, elle parvint à s’échapper trois mois plus tard et partagea
l’existence précaire d’une masse d’étrangers clandestins errant dans le IIIe  Reich, sous les
bombes. Dans le roman autobiographique Le Détour (1979), où elle explore des aspects
méconnus des camps nazis (l’extraction sociale des détenus et des geôliers, la condition des
travailleurs étrangers), l’expérience du camp de concentration est étroitement liée au
processus de remémoration ultérieur   : comment cette expérience fut refoulée, puis
remonta à la surface et devint, au fil du temps, un objet d’écriture. Ce refoulement est lié au
fait que la protagoniste du Détour est une deportée différente des autres : après une grève
organisée par la Résistance française, rapatriée du fait de sa famille fasciste, elle tombe
soudain, dans une rue, sur un groupe ratissé par les nazis, se fait arrêter avec eux, jette ses
papiers d’identité et se retrouve à Dachau. Un bond « franchi à l’aveuglette », si difficile à
énoncer qu’elle l’ignora pendant trente ans. Mais pas à pas, elle réussit à y faire face en
cherchant autour d’elle et en elle-même les raisons de son propre silence. L’indicible, qui
ici ne dépend pas de faits censés être au-delà des mots, comme cela le fut pour Adorno et
Wiesel, est ancré dans le contexte social et dans la conscience sociale de la protagoniste ; et
peu à peu, tout cet indicible fond et devient un récit vivant et précis, qui nous fait partager
une expérience extrême, sur le chemin tracé par Primo Levi.

Luce d’Eramo lived in Germany in 1944-1945, when she was 18: she arrived as a volunteer
worker, was later interned in Dachau, escaping three months later to share the precarious
existence of a wandering mass of illegal foreigners under the bombs during the Third
Reich. In the autobiographical novel Deviation (1979), she explored little-known aspects of
the Nazi camps, such as the social origin of inmates and jailers, and the condition of foreign
workers. In Deviation the concentration camp experience is intertwined with the
recognition of what happened afterwards: how she repressed the memory of that
experience and how it could re-emerge and become the object of writing only after a long
period of time. This repression is related to the fact that the protagonist of Deviation is a
different deportee: repatriated due to her fascist family after a factory strike organised by
the French Resistance, she came across a group of people captured by Nazis in the streets
and was arrested along with them, threw away her identity papers and ended up in Dachau.
A ‘blind leap forward’, a story so difficult to tell that she ignored it for thirty years. Yet, little
by little, she managed to face it through seeking – around herself and within herself – the
reasons for her own silence. The unspeakable here does not depend on facts assumed to be
beyond words, as it does for Adorno or Wiesel, but centres on the social context and social
conscience of the protagonist, and gradually melts to become a vivid, precise tale, that
succeeds in sharing an extreme experience, on the path traced by Primo Levi.

Entrées d’index
Mots-clés : camps de concentration, déportation, mémoire, refoulement, classes sociales
Keywords: concentration camps, deportation, memory, memory repression, social
classes
Parole chiave: Lager, deportazione, memoria, rimozione, classi sociali

Texte intégral
Ringrazio Corinne Lucas Fiorato e Véronique Abbruzzetti per aver letto e discusso
il testo e per i loro suggerimenti.

1 Nella narrativa sui Lager nazisti, fatta da chi nei Lager c’è stato, Deviazione
occupa un posto particolare, disallineato: oltre a far luce su aspetti poco noti di
Dachau, esplora i campi dei lavoratori stranieri (volontari e deportati) e l’esistenza
precaria di una massa di clandestini nella Germania bombardata, tra il febbraio
1944 e i primi mesi del 1945. Per di più è un’opera in cui il racconto
dell’esperienza dei Lager da giovane è inseparabile dalla ricognizione sul dopo, in
modo autocritico, da parte di una scrittrice matura: come cioè quel vissuto, dopo
la guerra, abbia o non abbia potuto trovare posto nella sua vita, come sia stata
rimossa e abbia lavorato sotterraneamente, in quali circostanze abbia potuto
riemergere e diventare oggetto di scrittura. Infine è un’opera dove l’osservazione

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dei comportamenti umani e l’analisi psicologica sono inseparabili da un’intensa


attenzione agli aspetti sociali delle vicende e dei personaggi.
2 Scopo di quest’articolo non è tuttavia di inquadrare Deviazione nell’ambito
della letteratura sulla deportazione e sui Lager1, e nemmeno di studiare come sia
stato interpretato dalla critica2. Il libro, uscito nel 1979 da Mondadori, è stato un
best seller e ha suscitato in Italia un gran numero di articoli, interviste,
trasmissioni televisive; le traduzioni in Francia, Germania, Spagna, Argentina,
Giappone, hanno ricevuto a loro volta numerosi commenti. Per ragioni di spazio
non potrei, nell’ambito di quest’articolo, esaminare sia il libro sia l’accoglienza che
ha avuto. La ricezione, nel suo complesso, richiederebbe uno studio a sé, ancora
da fare, anche perché il libro è stato ripubblicato in Italia nel 2012, tradotto negli
USA e in Gran Bretagna nel 2018 – accolto nuovamente da articoli di stampa sui
più prestigiosi giornali3 e sta per essere riedito in Francia4. Perciò mi sembra
importante, per ora, analizzare, nelle sue molte pieghe, il singolare percorso con
cui la scrittrice ha affrontato narrativamente il nodo della deportazione nella
propria vita.
3 L’autrice di Deviazione nello scrivere non è mossa tanto dall’urgenza di
raccontare i Lager, quanto di capire perché ha taciuto così a lungo
quell’esperienza e le circostanze che l’hanno portata nei campi nazisti, e cosa
questo tacere ha comportato nella sua vita.
4 È stato, come vedremo, un progressivo mettere tra parentesi un periodo
cruciale, senza più pensarci, come non fosse mai esistito: una vera e propria
rimozione che è venuta meno solo col tempo e a tappe successive5.
5 Il suo silenzio –   durato così a lungo   – non è dipeso solo dal riguardare
un’esperienza estrema in tempi di sconvolgimenti estremi, un viaggio al fondo
della nefandezza umana – espressione che, non a caso, etimologicamente rimanda
al divieto di dire; non concerne l’ineffabile nel senso di irriducibile al linguaggio;
non nasce soltanto dalla umana resistenza a rivivere l’orrore, né è radicato in
un’incomunicabilità esistenziale: tutti fattori, questi, chiamati in causa a vario
titolo da quanti hanno parlato di indicibilità a proposito dei Lager.

L’indicibilità in Deviazione
6 Qui possiamo accennare solo per sommi capi a tale questione, vessatissima
soprattutto in Francia, e che ha riguardato soprattutto, per ovvie ragioni, la Shoah
e i campi di sterminio. Molti superstiti dei Lager si chiudono nel silenzio, per altri
tacere è impossibile, raccontare è un bisogno e un dovere. Ma come dire
l’«indicibile»?
7 Secondo Annette Wiviorka si trattava, più che indicibilità, di inudibilità6. Prim
o Levi ha parlato più volte dell’incubo che perseguitava gli internati, di non essere
creduti, o di essere ascoltati con indifferenza da chi era restato fuori dai campi7. Al
di là dell’enormità del male, che risultava incredibile e comunque talmente «fuori
dal mondo» da poter essere considerato ormai superato e irripetibile, quindi
amputato, era ovunque molto diffusa una disposizione a voltar pagina, a
dimenticare quella che doveva essere una parentesi, ora che la guerra era
finalmente finita e i nazisti sconfitti: un muro di gomma in cui si imbatterono i
reduci che erano stati i primi a raccontare. In Francia Albert Béguin, e gli ex
deportati Maurice Delfieu, David Rousset, Robert Antelme, che hanno pubblicato
le loro opere nel 1946 e nel 1947, hanno ripetutamente ricordato questo
atteggiamento testimoniato anche da Imre Kertész in Ungheria; in Italia Ferruccio
Parri e Vittorio Foa attestano un’analoga disposizione a non farsi turbare dai
racconti dei sopravvissuti8.

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8 Se resistenze di questo genere pesavano sulle testimonianze, contro la creazione


letteraria peserà, dal 1951, anche l’interdetto di Adorno: «scrivere poesie dopo
Auschwitz è barbaro»9. Contro questo interdetto, come è noto, protestò con tutta
la sua opera Paul Celan, reduce dei Lager e poeta, e per giunta in lingua tedesca10.
Adorno nel tempo chiarì il senso della sua intransigenza, la modificò –   in
particolare dopo le critiche di Enzensberger –, e infine ammise nel 1966 che forse
aveva sbagliato, per concludere: «Quando la situazione non ammette più arte, [...]
ha nonostante tutto bisogno di essa»11.
9 D’altra parte, fin dalle prime testimonianze, i reduci hanno sperimentato
un’inadeguatezza del linguaggio ordinario a trasmettere fino in fondo la realtà che
avevano vissuto12. George Steiner ha raccomandato il silenzio di fronte
all’«innominabile», ma riconosce la necessità di una narrazione della Shoah che
tenga viva la memoria, dosando parole e silenzi13. Georges Perec ha scritto sulla
questione riflessioni a mio avviso decisive, affermando che solo la letteratura,
malgrado tutti i rischi di fallire, poteva risolvere l’aporia di dire l’indicibile, perché
«i fatti, da soli, non parlano»14. Elie Wiesel dal canto suo, dopo aver raccontato
nel celebre La nuit (1958), venduto in milioni di copie, la sua prigionia nei campi
di sterminio, ha suscitato molte polemiche affermando che «Treblinka e
Auschwitz non si raccontano»15 e che «L’Olocausto transcende la storia. È l’evento
ultimo, l’estremo mistero, per sempre incomprensibile e intrasmissibile»16.
Tuttavia, in dialogo con Jorge Semprún, ammette pure che «se taire est
impossible»17. Semprún, dal canto suo, è sempre stato convinto che l’invenzione
era necessaria per raccontare la verità dei campi, e ribadisce che per lui «rien des
camps n’est indicible. Le langage nous permet tout. Mais c’est une écriture
interminable, jamais achevée, […] parce qu’il y a un infini travail de mémoire,
[…] allant de pair avec l’infini travail de l’écriture»18.
10 In Italia domina la posizione di Primo Levi, che al ritorno da Auschwitz scrisse
anche poesie (1945-1946); pur essendo, come si è visto, ben consapevole della
difficoltà di raccontare quella realtà, è tuttavia convinto che, se l’inumano fa parte
dell’uomo, come i Lager dimostrano, anche questa «mala novella»19 può, anzi
deve, passare per il linguaggio. Levi ammette tuttavia un altro limite incolmabile:
a raccontare dei sommersi non possono essere loro ma solo i salvati, quelli che,
malgrado tutto, non hanno toccato il fondo: il vero annichilimento dell’essere
umano non sarà mai narrato dall’interno20. Agamben ammette anche lui questo
limite alla testimonianza e all’immaginazione, ma nega che l’unicità della tragedia
voglia dire indicibilità, categoria che la mistica attribuisce a Dio; fare di Auschwitz
una realtà assolutamente sottratta al linguaggio significa ricongiungersi ai nazisti
nell’estinguere la testimonianza21.
11 In tutta questa discussione Luce d’Eramo non è mai intervenuta direttamente.
Il punto di vista che emerge dalle sue opere resta appartato e diverso. Il limite che
vede nelle testimonianze e nei racconti, almeno fino agli anni 1953-1954, sta
piuttosto nella provenienza sociale degli autori: osserva che sono quasi sempre
intellettuali e borghesi colti, mentre ovviamente la stragrande maggioranza dei
deportati, di bassa estrazione sociale, resta muta (cf. Deviazione, p. 326)22. Per
quanto riguarda il rapporto della letteratura con «l’inenarrabile», si situa
senz’altro sul versante di Perec, di Levi e di Semprún. Tutti i suoi libri sono
dedicati in qualche modo a raccontare fenomeni umani al limite, spingendo la
parola a misurarsi con situazioni estreme23.
12 L’indicibilità con cui si confronta la protagonista di Deviazione, –   e che si
trasformerà presto in rimozione   – ha piuttosto un’affinità con la sordità nei
destinatari del discorso, di cui hanno parlato i primi scrittori della deportazione;
come vedremo in seguito, le radici del non poter dire affondano nel sociale, tanto
nel contesto sociale quanto nella coscienza sociale della protagonista. Solo che, nel

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suo caso, l’indicibilità non sta tanto nella deportazione in sé – dato che il girone
dell’inferno in cui si è ritrovata per tre mesi non era forse il più profondo – ma
nell’averla affrontata volontariamente, il che rende la protagonista –   suo
malgrado – un caso singolare, se non unico24; e la prima difficoltà è di rendere
comprensibile all’interlocutore come ciò sia stato possibile. E ciò rende
Deviazione un racconto senza precedenti, rispetto a quelli di chi è stato deportato
per ragioni razziali o politiche, o rastrellato per caso.
13 Sul piano personale e su quello letterario, strettamente intrecciati in una
scrittrice, l’indicibilità da cui nasce Deviazione ha che fare con le oscillazioni della
memoria di fronte alle resistenze che incontra nel mondo esterno ed interno; ma,
indipendentemente dalla natura dei fatti narrati, sta soprattutto al fondo stesso
della scrittura autobiografica, attraverso cui i ricordi si concretizzano diventando
racconto e tuttavia proprio per questo diventano qualcosa di diverso dal ricordo
stesso. L’autrice, attraverso lunghi intervalli di silenzio, ha quindi sentito la
necessità di ritornare più volte sulla scrittura delle proprie esperienze tedesche
per portare alla luce quello che ne era restato fuori, che non collimava o
addirittura cambiava il senso del già scritto, inserendolo in un contesto più
complesso, portando così «il più lontano possibile» il suo tentativo di
«ritrovamento e ricreazione scritturale del vissuto». Addirittura ha potuto parlare
di Deviazione come della «storia del conflitto tra la mia memoria e la mia
scrittura»25.
14 A smontare tutta questa indicibilità, a rovesciarla nel suo contrario di
condivisione, è dedicata in particolare l’ultima parte dello straordinario iter
narrativo, zigzagante nella memoria, di Deviazione.
15 Si tratta d’un romanzo26 costruito lungo l’arco di molti anni, dove il proprio
vissuto nei Lager e le dinamiche della sua rimozione sono indagate con una
necessità di capire che va oltre le circostanze storiche, e riguarda i lettori di ogni
tempo. Delinea un percorso che, nella sua singolarità, oggi ci colpisce per aver
attraversato cambiamenti profondi restando sempre, indissociabilmente, solitario
e solidale27.
16 Come è noto, la struttura di questo «giallo» della memoria rispecchia l’ordine, o
piuttosto il disordine, con cui le vicende del suo passato di ragazza nei Lager
nazisti e dintorni sono tornate presenti all’autrice, a distanza di tempo, e si sono
fatte racconto. Per questo sono conservate, all’interno del romanzo, le date in cui
sono stati scritti i diversi episodi.
17 Deviazione si apre con brevi scene –   scritte negli anni 1953-1954, in prima
persona e in presa diretta   – della vita di una ragazza in fuga da Dachau,
clandestina nella Germania devastata, nei campi di transito dove s’incrociano e
s’ammassano stranieri di tutti i paesi d’Europa, in una babele senza precedenti, un
presente senza domani28. Con un brusco passaggio la parte successiva, Finché la
testa vive, del 1961, è centrata sulla lotta di quella ragazza, Luzi, per sopravvivere
dopo che un muro le è crollato sulla schiena, mentre portava soccorso ai sepolti
sotto le macerie di un bombardamento. C’è ancora l’io narrante, ma racconta al
passato, asciuttamente, fatti conclusi, lontani nel tempo.
18 Qui per la prima volta affiora che Luzi non è stata rastrellata. Al comandante
russo cui si rivolge per trasferirsi definitivamente in URSS, Luzi rivela che a
diciott’anni è partita volontaria per la Germania come semplice operaia,
scappando di casa «coi ritratti di Hitler e Mussolini nello zaino», per andare
personalmente «a toccare con mano la verità tra fascisti e antifascisti». Ma dopo
qualche mese di duro lavoro all’IG Farben di Francoforte aveva collaborato a
organizzare uno sciopero in fabbrica, per cui era stata arrestata, incarcerata e poi
trasferita a Dachau29.
19 Il primo tabù, il volontariato da fascista, adesso è rotto; ma per molti anni la

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scrittrice si è fermata a questa semplice ammissione, senza particolari. Solo nella


parte centrale del romanzo, Nel Ch 8930, scritta nel 1975, racconta ormai in terza
persona, guardandosi da fuori: e prende vita il campo di lavoro coatto, i soprusi e
le discriminazioni a cui sono sottoposti i lavoratori stranieri, lo sciopero che i
nazisti fanno marcire. Vediamo la diciottenne Lucia, figlia di un sottosegretario di
Stato della Repubblica di Salò, alle prese con un’oppressione che le si presenta,
prima che ideologica, innanzitutto di classe, fino a concepire spontaneamente
l’idea di uno sciopero –   proprio mentre uno sciopero veniva effettivamente
organizzato da resistenti francesi sabotatori. L’immersione nel vivo nella realtà
operaia, l’attrito con i compagni di lavoro, che diffidano di lei e la deridono, porta
Lucia traumaticamente –   e con risvolti tragicomici   – sia a fare i conti con la
propria educazione borghese e le barriere di classe, sia a constatare che le
«promesse nazifasciste di civiltà» e giustizia sociale in cui aveva creduto altro non
erano che propaganda31, così come la porta a schierarsi coi prigionieri russi e slavi
pagando un prezzo pesantissimo, e infine a conquistare ciò a cui, pur negandolo,
tiene più di tutto: la fiducia dei compagni di lavoro. È così che le fotografie di
Hitler e Mussolini finiscono strappate e gettate nella stufa già il giorno del
compleanno del Fuhrer, in aprile, (Luzi è partita per la Germania l’8 febbraio del
194432).
20 Solo a questo punto la protagonista di Deviazione confessa: «C’è un fatto che ho
eluso. A forza di dire che ero stata deportata a Dachau, ci ho creduto. Ma non è
vero. I miei compagni vennero trasferiti in quel Lager. Io no. Fui rimpatriata.»33
Inizia così la densissima, conclusiva parte da cui prende nome il romanzo,
intitolata appunto La Deviazione e scritta negli anni 1976-1977, di nuovo in prima
persona: ma si tratta di un’io narrante ormai completamente problematico, che
mette continuamente in discussione se stesso e i propri ricordi.
21 Sul piano narrativo, quindi, Deviazione porta al limite il tentativo di ricostruire
in un racconto il proprio vissuto attorno al nodo dell’esperienza nei Lager: col
ricorso a una molteplicità di approcci diversi che si succedono nel tempo, da
angolazioni diverse, puntando l’attenzione su obiettivi diversi, man mano assedia
e sgretola la resistenza di quel vissuto alla parola, fino a sfociare in un dialogo
serrato, fitto di svolte, con se stessa e col lettore, un corpo a corpo vittorioso con
ciò che tenta di sottrarsi al racconto.

La deportazione e gli antefatti


22 Al segreto più scottante, che riguarda la sua deportazione a Dachau, Luce
d’Eramo non può che arrivare per gradi, come ha fatto fino ad ora, sempre
cercando ogni volta le parole stringenti, l’ordine del discorso più capaci di portare
il lettore in situazione e in sintonia con essa, fino al punto in cui anche le vicende a
lui più estranee possono essere vissute narrativamente.
23 L’io narrante dunque non rivela subito tutto «il fatto che ha eluso», ma solo un
antefatto: che dopo lo sciopero in fabbrica, non è stata deportata a Dachau con gli
altri, ma rimpatriata.
24 L’annunciato rimpatrio significa per Lucia il ritorno in famiglia e al proprio
destino sociale. La vita in fabbrica le ha aperto un nuovo orizzonte, in cui non si
può più essere felici da soli, ma ora la differenza che la separa dai nuovi compagni
– di classe, prima che politica – riprende il sopravvento anche se lei la rifiuta34.
Tutti gli organizzatori dello sciopero infatti vengono incarcerati, ma lei –   per
riguardo ai suoi – viene presto rimessa in libertà e rispedita alla sua baracca, tra le
compagne, con cui condivide fame e disagi e che tuttavia la sentono
irriducibilmente diversa per la sua origine sociale e la sua educazione, per quanto

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ora sia volgare, famelica e piena di pidocchi come le altre (la chiamano «la
studentessa»)35.
25 Lì scopre che l’hanno derubata del pacco ricevuto da casa, e che la considerano
una spia, una che ha venduto i compagni. L’ingiustizia dell’accusa e l’impossibilità
di convincerle respinge indietro Lucia alla famiglia da cui proviene, nonostante
tutti i suoi sforzi per affrancarsene. La natura dolorosa dei rapporti di Lucia con la
famiglia ha già venato la narrazione, trapelando da molti cenni36. Sotto il timore
di essere ricondotta all’ovile c’è ancora l’aspettativa di essere cercata dai suoi, e
questa aspettativa, che sarà dura a morire, è stata e continuerà ad essere delusa,
segno di un’incomprensione profonda, ma prima ancora di una mancata
reciprocità affettiva che pesa sotterraneamente nella vita di questa ragazza
ribelle37.
26 Nel dormiveglia in cui le si affaccia l’idea di uccidersi, la famiglia – da cui sta
per essere riassorbita e da cui si sente sostanzialmente negata – le si affaccia alla
mente sotto forma di oggetti:

Al pensiero dell’indomani e dei giorni seguenti, mi decisi di colpo. Tutto il


dopo mi venne contro, mi schiacciò in una volta sola, che ci farò con questo
che ho vissuto qui. D’un tratto vidi i mobili di mogano, le porcellane
d’autore, l’argenteria inglese di casa mia e risi di cuore. Un piacere m’invase,
vedevo e cancellavo, tac, via, via.38

27 Allora Lucia senza esitare mette mano alle bustine di veleno per topi,
conservate nello zaino accanto alle lettere della madre. Si salverà solo perché di
veleno ne prende troppo tutto insieme, e questo le provoca un vomito violento e
provvidenziale. Si risveglia in una clinica per soli tedeschi: il console italiano si
prodiga per assicurarle quanto di meglio si può trovare in quei giorni di sfacelo in
Germania. Sarà appunto lui ad annunciarle il suo rimpatrio d’ufficio.
28 Questi antefatti, e la crisi del rapporto con la famiglia, sono di fondamentale
importanza per capire quello che accade a Lucia quando, dimessa dall’ospedale,
dopo un giorno di treno sbarca a Verona. In apparenza è tornata quella di prima:
ma non riesce a colmare la distanza interiore, abissale, che la separa dalla
«normalità». Il pensiero di tornare a casa le pesa come un incubo. Riassapora la
propria libertà, tentando invano di provarci gusto. Ma «tutto era così scontato che
dovevo ricordarmi il suicidio per non ritrarmi chissà dove»39.
29 Il suicidio tentato nel Lager, infatti, le ha lasciato dentro un orrore indelebile
già nel momento in cui lo attuava: non le appare più in nessun modo come una via
d’uscita40. Tenere presente che Lucia nel vagabondare per Verona, di fronte
all’insensatezza della vita a cui il rimpatrio la consegna, si ricorda del suicidio non
come una possibile salvezza (come era stato nel momento di attuarlo)41, ma come
un freno che la riporta in questo mondo, è di fondamentale importanza per
interpretare il senso di ciò che farà poi per uscire dall’impasse: qualunque cosa
sia, non sarà un cupio dissolvi.
30 Quella notte a Verona, dimentica del coprifuoco, s’imbatte in una ronda di
repubblichini che le chiedono i documenti, e la portano in caserma con gli altri
fermati per strada. E qui accade di nuovo qualcosa di fondamentale e di
premonitore: «Rientravo nella mia pelle, ad ogni passo cadenzato mi rianimavo,
in colonna verso la fabbrica coi compagni.»42
31 Qui tocchiamo con mano il cambiamento che è avvenuto in lei in quei mesi.
Lucia si sente estranea alla propria famiglia, ma rientra nella propria pelle
marciando sotto scorta armata. Ritrovando l’eco dell’oppressione a cui è stata
sottoposta in Germania si sente se stessa, perché è in quell’oppressione, nel
contrapporsi ad essa insieme ad altri, che – dopo mesi di solitudine atroce – ha
trovato se stessa e i propri compagni.

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32 Ma proprio questa improvvisa consapevolezza le fa scattare un senso di allarme:


«Mi accorsi che non avevo pensato un attimo a loro, per tutta la giornata, dal
momento che ero arrivata a Verona, come se non fossero mai esistiti ed ebbi uno
strano senso di paura alla scoperta di come m’era stato facile passar sopra a
quei mesi così recenti»43 (questa paura di dimenticare si dimostrerà, negli anni,
terribilmente fondata).
33 Sui due piedi allora Lucia decide: «Non sarei tornata a casa. Sarei andata a
lavorare in una fabbrica a Milano, meglio a Torino, più lontano dai miei.»44 Ma
l’indomani mattina all’alba, quando i repubblichini la rilasciano, tutti gli ostacoli
che minacciano il suo progetto le si affollano in mente. Si convince che stavolta il
padre, avvisato dalla polizia, non potrà fare a meno di cercarla: tanto più,
possiamo aggiungere, che era una figlia minorenne, 19 anni appena compiuti45.
Come sottrarsi alla ricattura da parte dei suoi46? Con la Resistenza non ha
contatti, e chiunque avrebbe diffidato di lei. Un’ondata d’amarezza la sommerge:

figlia di fascisti notori, […] rimpatriata dai Lager nazisti, Martine avrebbe
detto bene quello che tutti avrebbero pensato: che m’ero salvata giocando le
mie carte fasciste. Peggio, quelle carte s’erano giocate da sole. […] Ero
annientata dal dolore e da una vergogna che mi paralizzava i passi. Dovevo
strapparmi di dosso la mia condizione. […] Per prima cosa dovevo buttare le
carte d’identità che tenevo nel mio zaino. Che decisione tremenda, sempre
col tempo contro di me.47

34 In quel momento le si para davanti un branco di persone scortate da SS, che da


una traversa vengono verso di lei. Un SS le fa cenno col mitra di scostarsi. Lei
resta immobile. Un altro s’avvicina. A questo punto la bocca di Lucia articola in
tedesco: «Guarda che grido». Il milite s’inchioda. Lei continua: «ancora un passo
verso di me e gridiamo tutti. È il nostro segnale».
35 È chiaro che non è stata una provocazione premeditata, ma un atto che coglie di
sorpresa lei per prima. Immediatamente il sergente che comanda il plotone le
intima di mettersi in colonna con gli altri e lei scatta nei ranghi. A quel punto non
le resta che disfarsi dei documenti. Finge d’inciampare, cadendo a terra si sfila lo
zaino, piegandosi per il dolore, «subito sospinta dalla canna del mitra allungavo
l’occhio sullo zaino a terra come volessi recuperarlo», l’SS lo allontana con un
calcio.

Guardai svelta il numero del portone davanti a cui era rimasto al suolo, e,
trotterellando su una gamba sola, m’imprimevo la sagoma del palazzo, delle
case successive (contavo i portoni), finché lessi la targa della via. A ogni
buon fine, pensavo, a ogni buon fine. Seguitavo a stamparmi in testa le vie
che attraversavamo, fingendo a tratti di posare il piede storto con dolore,
afflitta di non sentirmi rinata, di non vivere l’importanza di quello che avevo
fatto, nell’incapacità di godere della mia liberazione interiore, per l’ansia di
non scordarmi il nome di quella via, per l’affanno di dover camminare
saltando su un piede solo, accanto agli arrestati che mi guardavano di
malanimo, oppressa da un senso d’esibizionismo più forte di ogni altro
moto del mio animo.48

36 La scena brevissima della deportazione è tra le più emblematiche della capacità


della scrittura di Luce d’Eramo di rappresentare stati d’animo complessi, la
simultaneità di tensioni contrastanti; un esempio della sua antiretorica profonda,
che nasce dal registrare come nell’animo umano gli slanci affermativi coesistono
con i dubbi, le incertezze, le resistenze.
37 È una scena che ci coglie alla sprovvista, così come non la prevedeva quella
ragazza del ’44 fino al momento in cui ha agito. Ma c’è voluto tempo per arrivare a
dirla; è stato necessario rivivere prima molti altri fatti, per condurre il lettore a
comprendere cosa c’è dietro e precipita in questo gesto irreversibile.

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38 Ora la deportazione di Lucia è un fatto compiuto. È successo tutto in un paio di


minuti, non c’è stato tempo per riflettere, la decisione, in un certo senso, s’è presa
da sola: nell’interagire con quel gruppo di rastrellati comparsole di fronte per
caso, Lucia si è messa dalla loro parte, non idealmente ma alla lettera,
fisicamente: ne condividerà il destino, qualunque sia. Ormai Lucia non può più
tornare indietro, si è messa nella condizione di non poterlo più fare, anche se la
sua mente, «a ogni buon fine» cerca disperatamente di mantenere aperto uno
spiraglio49.

Di fronte all’estremo – un’azione che


diventa indicibile
Che le cose fossero andate così, l’ho poi negato anche a me stessa. [...] Ho
presto detto – finché me ne sono convinta – che dopo lo sciopero era stata
deportata a Dachau coi compagni. Ho soprattutto sepolto l’atto compiuto in
quel lontano 2 agosto a Verona come qualcosa da cancellare. Volevo che
m’avessero catturata e rinchiusa i nazisti, al punto che a poco a poco anche
il mio primo volontariato s’è perso nel vago, i mesi all’IG Farben si sono
annebbiati e persino il soggiorno al K-Lager di Dachau è scivolato
nell’ombra, quasi contenesse situazioni che mi costringevano a rammentare
il resto.50

39 Com’è potuto succedere?


40 Le implicazioni della sua scelta di fatto, al momento Lucia non le conosce
ancora. È stato davvero «un salto […] compiuto d’impeto, alla cieca»51. Conosce la
realtà dei campi di lavoro e del carcere, ma non può immaginare cosa l’attende
adesso: al suo arrivo a Dachau, infatti, l’impressione più forte sarà lo
sbalordimento52. Tra le implicazioni ce n’è una particolarmente grave, che lei non
sospetta minimamente: visto dall’esterno, il suo gesto è talmente fuori dalla
comune misura, talmente inaudito, che si rivela incomprensibile fin da subito, fin
dal vagone-merci del convoglio dei deportati, quando Lucia entra in contatto con
un giovane – forse un partigiano – a cui non è sfuggito quello che lei ha fatto. Che
motivo può avere avuto una di fingere così per farsi arrestare, se non quello di
spiare? In quel vagone-merci quindi Lucia non impara soltanto «che cosa
significava stare realmente dall’altra parte»53, comincia a capire anche che questa
scelta, nella sua radicalità, è destinata ad essere radicalmente incompresa anche
da chi a sua volta si è schierato dalla stessa parte. E quindi a isolarla, proprio lei
che cercava disperatamente dei compagni. È questo il dramma più profondo di
Deviazione.
41 Nelle lunghe ore di abbrutimento durante il trasporto in vagone, schiacciata
contro il compagno di prigionia tormentato come lei dalla fame, dalla sete, dal
fetore e dalla diarrea, Lucia tenta di dimostrargli la propria buonafede
raccontandogli tutta la sua storia. Lui per tutta risposta sparisce, solo all’arrivo la
blocca per dirle con odio:

«Sangue fascista non mente» […]


«È tutto quello che…» gli ho balbettato.
M’ha lasciata andare e «Si dà il caso che ho sete, ma non fino a bere le tue
balle» […]
«La commedia è finita», m’ha sussurrato, «puoi tornare a casa».54

42 Che il proprio gesto, quella «necessità di ritrovarmi tra compagni che a Verona
m’aveva spinta a cercar rifugio tra deportati sconosciuti»55 risulti non credibile
proprio a coloro a cui più le preme comunicarlo, e cioè a coloro che si presume

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condividano con la sua stessa rivolta contro l’ingiustizia, è un dolore atroce che
spinge Lucia a chiudersi e a ritrarsi in se stessa: è l’inizio di una rimozione su cui
agiranno, come vedremo, anche molti altri fattori.

Quel gesto di Verona, ch’era l’atto più sociale della mia vita, m’era diventato
tra le mani un atto morale (di cui avevo pudore) non appena l’avevo
compiuto, già nel vagone-merci, dal momento in cui il mio compagno di
diarrea me l’ha puntato contro. Il bisogno di giustizia sociale che m’aveva
travolto a Verona s’è ridotto all’istante in un episodio incomunicabile, un
aneddoto segreto della mia storia personale.56

43 Il primo passo della cancellazione è quello di tenere per sé la deportazione


volontaria anziché subita – non parlarne più con nessuno. All’inizio è necessario
anche per non farsi identificare57. Poi il silenzio diventa silenzio anche con se
stessi.
44 A Dachau del resto tutto tende a distruggere l’impulso di condivisione – di non
salvarsi da sola – che era all’origine del suo gesto a Verona. Intanto con la durezza
inimmaginata delle sofferenze, al cui confronto le condizioni del primo Lager
erano quasi di benessere: lì aveva potuto conservare la propria rabbia, «e qui,
dove si respirava l’intollerabile, quasi passava lo sdegno, in una specie di
intontimento»58. «La fiacca del corpo assopiva il cervello», già sopraffatto dalla
constatazione della «assoluta normalità del delitto, violenza fisica, delazione,
perversione, come tran-tran dei rapporti, subito familiari, naturali»59.
45 Con chi lottare, del resto? Lucia è tagliata fuori dai triangoli rossi, i detenuti
politici, che stanno in baracche separate: i nazisti, con sua grande delusione,
l’hanno messa tra le asociali, i triangoli neri: delinquenti comuni e prostitute,
pronte a denunciarsi tra loro. E i triangoli neri «erano schivati da tutti, in
particolare dai triangoli rossi che ne temevano le soffiate agli SS». Del tutto
inaccessibili, per Lucia, sono le baracche degli Osten – russi e polacchi – con cui
aveva fraternizzato a Francoforte, e quelle degli ebrei. Impossibile ritrovare i
vecchi compagni dell’IG Farben, dimostrare loro che non s’era salvata da sola,
riprendere a lottare insieme60.
46 Va detto che la stessa singolarità della situazione di Lucia, del suo modo di
sentire e ragionare, se la isola, le permette anche di avere sulla realtà dei Lager
uno sguardo e un modo di reagire particolare, di borghese che scopre le
discriminazioni sociali non per via ideologica, ma direttamente per esperienza
vissuta61: in questo Lucia, nel guardarsi attorno a Dachau, porta a fondo il
percorso che già l’aveva trasformata ai tempi della fabbrica. «Avevo una
sensazione agghiacciante […]: la società del K-Lager non faceva che portare al
parossismo la selezione del mondo esterno, non era un’altra realtà ma soltanto
un’esasperazione inaudita dell’ordine di fuori.» Si tratta di un’intuizione fuori dal
coro: nella maggior parte dei racconti dei reduci, anche di Levi, l’universo
concentrazionario appare subito come un mondo a parte, totalmente avulso dal
resto della società, basato su un’altra logica (e per altri versi anche questo è vero, a
partire dall’«assoluta normalità del delitto» che ha sbalordito Lucia)62. Perciò nel
dopoguerra la visione dominante sarà quella del nazismo come di un fenomeno
eccezionale, non radicato nell’ordine sociale normale, e quindi facilmente
estirpabile, anzi già estirpato per sempre.
47 La giovane Lucia invece è colpita dal fatto che anche a Dachau i ricchi, i potenti,
salvo eccezioni non ci sono, in qualche modo si sono messi al riparo, come
sempre; perfino tra gli ebrei, con cui non ha contatti diretti, la discriminazione
sociale le sembra prevalere su quella razziale63. La stragrande maggioranza degli
internati, anche politici, le risulta di bassa o modesta condizione sociale.
48 Si accorge che anche i carcerieri sono dei sottoposti, bassa manovalanza. La

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convinzione che le guardie, nella loro brutalità, sono degli schiavi aguzzini di
schiavi, le dà animo, per non farsi schiacciare dal terrore che suscitano64.
49 Di conseguenza Lucia comincia a mettere in atto con i guardiani una tattica di
«guerra psicologica» che le risulta efficace per ridurne la pericolosità e che cerca
d’insegnare alle compagne di baracca; e arriverà a cantare inni nazisti per
sconcertarli e confonderli, mentre fruga nella spazzatura in cerca di cibo, covando
fantasticherie su come organizzare una rivolta65.
50 Tuttavia proprio questo suo sguardo e comportamento non ideologizzato,
basato esclusivamente sui fattori socioeconomici –   anzi ormai tendente a
sospettare nelle ideologie una copertura, uno specchietto per le allodole – finisce
con essere motivo d’incomprensione coi potenziali compagni, quelle rare volte
Lucia che ne incontra qualcuno.
51 D’altronde Lucia, tutta assorbita com’è nel proprio recente sguardo sociale, non
vede di buon occhio i triangoli rossi –   che a loro volta la schivano in quanto
triangolo nero –

[...] erano quelli in cui la percentuale di Akademiker [...] era maggiore che
presso gli altri colori. In discreta parte impiegati negli uffici
d’immatricolazione, d’amministrazione, nelle infermerie, avevano un occhio
di riguardo per i loro simili, che destinavano nelle cucine. Scrivani,
contabili, infermieri, tagliapatate (sempre in sottordine agli internati
tedeschi), questi Akademiker stavano meglio di chi lavorava fuori nelle cave,
negli altiforni, o a stendere il catrame nelle strade. Io li vedevo di malocchio
proprio per questo, perché il loro «capitale mentale» anche se inutilizzato li
teneva al coperto da molte angherie. Potevano più agevolmente del basso
popolo dei reclusi continuare a comportarsi secondo i valori che avevano
avuto nel mondo «civile».66

52 Lucia inoltre non li sente davvero solidali con tutti i più indifesi in quanto tali,
ma solo con chi la pensa come loro. Perciò il contatto di Lucia con le internate
politiche, quando avviene, è totalmente traumatico: l’aggrediscono di notte ai
gabinetti, dieci contro una, la picchiano duramente perché «canta gli inni nazisti».
Il pestaggio la fa scontrare brutalmente col fatto che la sua tattica, elaborata in
completa solitudine, è del tutto incomprensibile alle altre e che la loro logica
politica è del tutto estranea alla sua. «Non mi rendevo conto d’aver ruminato
sempre da sola e che ciò che credevo d’aver capito era trasparente solo a me […]
Devo aver perduto i sensi, più per il dolore morale che per il male fisico.»67
53 Ripensandoci nel 1977 dirà:

Da quello che ho raccontato fino adesso, è chiaro che la deviazione nel mio
animo era già avviata quando ancora vivevo le vicende che poi ho rimosso.
[…] Ero così volontaristica, il mio sentimento degli abissi sociali era così
recente e generico, in bianco e nero (ricchi /poveri, istruiti/ignoranti,
schiavisti/schiavi), che non ero certo in grado di continuare a percorrere
allora, con le mie sole forze, la strada imboccata a Frankfurt-Höchst.68

54 Quel che le sfugge e capirà solo molti anni dopo è che a Dachau come altrove,
«anche quando non uccideva le singole persone, l’organizzazione
concentrazionaria raggiungeva il suo vero scopo: distruggere la coscienza sociale
degli internati»69. Non vede con chiarezza che tutti loro sono spinti a ridursi
ciascuno a monade che tenta di salvarsi da solo, giorno per giorno, a qualsiasi
prezzo, e quasi sempre senza nemmeno riuscirci70. Non si rende conto che in lei
agisce precisamente questo processo, quando tutta la sua ribellione si riduce a
sottrarsi all’annientamento fisico credendo con questo di sottrarsi anche a quello
morale: non si rassegna ad essere vittima71, se non può con altri allora da sola. Ha
visto eroi morire per non piegarsi, e le sembra che abbiano fatto il gioco dei
nazisti, perché la loro vita si era fermata a prima72. Partita da Verona per non

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essere separata dai compagni incarcerati, ora pensa soltanto a fuggire e alla morte
che incombe con l’inverno che arriva.
55 Una volta evasa, il suo desiderio di stare con chi sta più in basso si riduce e si
rifugia nel passare inosservata, confondersi nella folla , essere «una di loro, come
loro, e basta»73. «La ragazza di Thomasbräu e di Asilo a Dachau quasi non
sembra la stessa del Ch 89 e della fuga da Verona. […] Del bisogno di “lottare
assieme” che m’aveva animata all’IG   Farben, della necessità di ritrovarmi tra
compagni che a Verona m’aveva spinto a cercar rifugio tra deportati sconosciuti,
nessuna traccia.»74 Anche se ogni tanto il pensiero delle creature lasciate indietro
nel Lager, che saranno state punite per colpa sua, l’angoscia75.
56 Il trauma fisico che la colpisce a Magonza darà un nuovo giro di vite alla
rimozione dei suoi volontariati.
57 Intanto perché il dover contrastare la perdita di controllo sul proprio corpo,
nonostante incontri continuamente sulla sua strada amici e alleati con cui
solidarizzare, di fatto le cambia la prospettiva, da sociale a esistenziale:

Riconoscevo la mia costrizione nell’aria stessa che respiravo, misurando la


vanità del rancore che m’aveva spinta a unirmi ai deportati a Verona, a
evadere da Dachau per convincere i compagni che si poteva non chinare la
testa. Per che cosa poi? Per ritrovarmi in carozzina.

Ero battuta. Qui m’aspettava il nemico più nascosto: Non c’era scampo
collettivo. L’ultimo scontro era individuale, con la morte. Ed era uno
scontro così schifoso irrazionale impari che il resto era niente al
confronto.76

58 Poi perché rientra «con le gambe imprigionate nell’ambiente da cui» era


«fuggita due volte»77. Quando ancora è in Germania, nel lottare per non farsi
schiacciare, costruendo una rete fittissima di amicizie e rapporti personali dentro
e fuori l’ospedale, Lucia ancora una volta evita come la peste il rientro in Italia e in
famiglia. Vuole andarsene in URSS, in una società collettivista, dove si fa a meno
di Dio, rendersi indipendente, ricominciare una nuova vita78. Ma le circostanze la
costringono a rientrare, e alla fine lei decide di non sottrarsi a questa sfida: ancora
una volta senza immaginare quanto difficile e quanto subdola sarà.

La rimozione al rientro nella


«normalità»
59 Tornata in Italia, non solo si ritrova stigmatizzata dall’invalidità, ma suscita
negli interlocutori allarme e sconcerto non appena accenna al volontariato;
l’«occhio sociale»79 ce la inchioda come a una menomazione irreparabile, non a
caso connessa a quella fisica: si ritrovava così marchiata non solo dalla carrozzina,
ma dall’essere «una che se l’è cercata» e che per di più rifiuta pure di pentirsene.
60 Nel 1946, ancora in ospedale, decisa a lavorare e ad avere malgrado tutto «una
vita normale», si rivolge a tutti gli enti possibili: associazioni reduci dalla
prigionia, partigiani, partiti politici, istituti cattolici. Ma ogni volta che lei specifica
che, essendo andata in Germaia volontaria può fare da «cavia sociale», s’accorge
che i suoi interlocutori «si irrigidivano, gli sguardi rientravano, le voci si facevano
inquisitoriali. […] ogni volta, le stesse domande sospettose, la stessa incredula
perplessità».

«Non te ne penti amaramente?» lo sguardo che scivolava sul mio corpo in


carrozzina.
«No» […] «Anche uno sbaglio può insegnare a…» […]

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«Va pure,» s’incrinò la voce, «non ti preoccupare, la cosa resta tra noi, non
te l’useremo contro», e, come un fiotto di pena traboccasse dallo sguardo
che mi fissava le gambe sul posapiedi della carrozzina, «hai pagato anche
troppo, non pensarci più, torna tranquilla all’ospedale».
«Poveretta, che destino!» sentii sospirare mentre il portantino amico mi
spingeva via.
«D’altra parte,» replicò qualcuno, «se l’è voluto».80

61 Ancora una volta si ripete quindi, stavolta in chiave di compatimento, il dialogo


tra sordi con gli antifascisti che già l’aveva scottata a Dachau: lei che, talmente
immedesimata in ciò che sente, non prevede le reazioni negative altrui, loro
incapaci di staccarsi dal proprio punto di vista per afferrare che quel percorso
anomalo va nella loro stessa direzione di fondo81. Solo che ora la carrozzina
diventa per gli altri la conseguenza inevitabile dei suoi (sciagurati) volontariati82,
la prova che non avrebbe dovuto deragliare dai binari che le erano offerti dalla
famiglia, dal suo ceto, dalla prudenza e da tutte le regole.
62 Infatti – constata il lettore – ha trasgredito anche le norme della trasgressione:
non si è unita – se non inizialmente in fabbrica – alla Resistenza, non si è iscritta
a nessun partito nel dopoguerra (anche perché ne è stata respinta con sospetto)83,
non ha seguito i canali regolamentari dei fascisti ravveduti, ha continuato a
cercare di aprirsi una via di testa propria, e per di più insiste nel non rinnegare
quella volontà di toccar con mano che le ha permesso di aprire gli occhi e di capire
quello che capisce adesso.
63 A ciò si aggiunge il consiglio pratico di non far trapelare nulla, per evitare che
magari non le concedano la pensione d’invalidità84.
64 E come se non bastasse, c’è la famiglia: ha riaccolto nel suo seno la figliola che
non ha saputo stare al suo posto, e ora sorvola sul passato, per non farle troppo
pesare quanto sia già stata punita dalla vita85. C’è il fatto capitale, appurato da
Lucia solo nel 1946, che il padre non l’aveva fatta cercare alla notizia che lei era
stata rimpatriata:

Da allora, credo, ho cominciato a togliere di mezzo la mia nuova partenza da


Verona. Era stato un pericolo immaginario che mio padre mi cercasse. Avrei
potuto tranquillamente andare a lavorare in una fabbrica a Torino o altrove.
Che errore di valutazione.

Forse è stato questo l’ostacolo più intimo – per trent’anni – al ricordo del
dietrofront di Verona, una reticenza a parlare della famiglia.86

65 Ma il lettore sente che al di là del rimettere in discussione i rapporti con la


famiglia, ha pesato come un macigno sul ricordo di Verona la nuova
consapevolezza che il suo salto di classe avrebbe forse potuto essere compiuto
senza ricorrere al mezzo estremo della deportazione.
66 Infine, ad allontanare i ricordi di quella che diventerà «la parentesi tedesca»87,
si aggiunge anche la nuova famiglia di Lucia, il matrimonio con un giovane
conosciuto a Bologna, la nascita del figlio, la ripresa degli studi, tutto un mondo di
sensazioni ed esperienze nuove che ovviamente l’assorbono nel privato, così come
l’assorbirà in futuro la crisi coniugale in cui rimane a lungo impantanata, come
pure le difficoltà economiche.
67 Tutto converge e coopera insomma a farle rimuovere quel doppio volontariato
in Germania. Tanto che, scrive nel 1977, invece di chiedersi come avesse potuto
dimenticare, c’era piuttosto da meravigliarsi del contrario: «dopo un tale
affossamento, profondo capillare stratificato, come mai la mia Germania m’è
tornata a galla? Sia pur a squarci, a intervalli; “epurata”…».
68 Vien fuori che la sua vicenda tedesca le è tornata presente «esclusivamente nei
periodi di estrema difficoltà, d’emergenza assoluta»88. Paradossalmente, riviverne

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certi momenti l’ha aiutata a liberarsi. Prigioniera della paralisi, della febbre, della
droga con cui allevia i dolori alle ossa, incapace di risolversi alla separazione, con
un figlio piccolo da crescere, «che altro potevo fare se non cercare un’immagine
meno imprigionata di se stessa?» Le viene «naturale il ricordo dell’evasione da
Dachau, nell’ottobre del ’44, svaniti i mesi precedenti. […] Mi pareva il tempo più
libero e felice della mia esistenza, sola, senza documenti, senza identità, senza
rifugio, vivevo giorno per giorno»89. È stato allora che ha scritto i racconti delle
sue peripezie da evasa clandestina.
69 Qui però incontriamo un altro fattore sociale di rimozione del ricordo molto
importante: una censura estetica che nasce dal confronto tra la propria memoria e
i resoconti dai Lager che circolavano.

Leggevo i libri sui Lager e, pur sapendo che erano stati scritti da ufficiali o
da internati «con capitale mentale» come dicevano i nazisti (i famosi
Akademiker), cioè da borghesi che s’erano custoditi nella nicchia della loro
preesistente moralità, e mai da operai, da evasi o da chi ne avesse condiviso
la condizione scoperta, ugualmente diffidavo delle mie percezioni dirette.
[...] cercavo d’equiparare i miei ricordi alle giuste memorie di quegli autori,
che m’erano proposti come modelli imprescindibili per esempio da Elio
Vittorini. «Lei deve liberarsi dall’oppressione del ricordo» mi scriveva nel
1957.90

70 Per di più è come se nel dopoguerra dai racconti dei reduci ci si attendessero
soprattutto conferme a ciò che già si riteneva di sapere, e non aperture verso
nuove, forse inquietanti riflessioni91. Quest’atmosfera che dominava anche la
cultura più progressista, può dar conto anche del fatto che lo stesso Se questo è un
uomo di Primo Levi incontrò sulle prime tante difficoltà: rifiutato da Einaudi (e
precisamente da Cesare Pavese e Natalia Ginzburg)92, uscì nel 1947 presso una
piccola casa editrice con scarsa circolazione, e solo nel 1958 fu ripubblicato da
Einaudi in 2000 copie.
71 Come i primi racconti, anche Finché la testa vive nasce in un periodo
estremamente critico: in un ospizio per invalidi, dove Luce è andata a finire col
figlio adolescente dopo la separazione, assediata dai debiti. Lì, dove i suoi simili le
risultano insopportabili, nella loro lamentosità, nell’ossessione dei mali fisici,
nelle figure deformate, a un certo punto viene folgorata: «proprio io guardavo con
occhio estetico i miei compagni di umiliazione fisica. Io ero diventata quell’occhio
sociale che m’aveva funestato l’esistenza. […] Stavo lì come un’assassina che aveva
ucciso mentalmente i propri sottouomini»93.
72 Scrivendo allora la storia del rapporto col proprio corpo menomato, Luce fa i
conti col nazismo inconscio che ha scoperto annidato dentro di sé, e che insidia gli
esseri umani di ogni tempo e di ogni luogo; ma nel 1977 constata che liberarsi una
volta per tutte del «rospo della paralisi»94 le ha ridato autonomia, equilibrio e
stabilità anche nella vita pratica. Sembra quindi avviarsi a risolvere la storia della
sua «deviazione»95 in questa chiave: «il blocco della mia memoria era stato legato
alla lotta contro la pressione sociale che mi voleva confinare al ruolo di
invalida»96.
73 Senonché la ricerca dei moventi della propria rimozione è stata troppo
massacrante perché lei possa accontentarsi di questa risposta. E butta tutto
all’aria:

Oh Dio, tanti mesi d’un rovello indicibile per ritrovarmi con questa storia
edificante d’una minorata che ce l’ha fatta. […]
Tutta una vita per negare agli altri il diritto di giudicarmi sul metro della
paralisi, per farlo in proprio. Hanno vinto. Io sono loro.97

74 Così riprende la ricerca di episodi del passato che contraddicono la spiegazione

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della rimozione legata alla dipendenza fisica.


75 E ne trova molti, legati a un altro genere di pressione: la negazione del senso di
ciò che lei aveva fatto andando a lavorare in Germania e facendosi deportare. Il
suo primo fidanzato, Gheorg, le ripete che «quella era un’avventura votata alla
perdizione, che la sete d’abisso m’aveva attratta, che avevo voluto partire in
Germania per nichilismo»; le spiega che lì non c’era niente da capire, lei scopriva
«quello che lui sapeva già, […] la violenza, la crudeltà, la miseria, mali che è una
follia andarsi a cercare»98. Insomma, il giovane nega alla radice il senso di quella
esperienza.
76 Quel fidanzato Lucia lo lascia; ma trent’anni dopo scrive «forse la scoperta
dell’impossibilità di quel legame ha aperto la prima crepa nella mia memoria. Mi
c’era voluto tanto (perdere Gheorg) per non rinnegare la mia Germania, che ho
cominciato a temerla». Anche perché purtroppo Gheorg non è il solo: «ognuno
aveva un giudizio bello e fatto su quello che avevo vissuto, ancora prima che
cominciassi a parlare. Ognuno mi vedeva con gli stessi occhi di Gheorg, per
apprezzarmi le persone da cui rifuggivo, e diffidare di me quelle a cui tendevo»99.
77 Resta che il primo volontariato in fabbrica, che pure implicava il non facile
riconoscimento d’esser stata una convinta fascista100, ha potuto essere enunciato
prima, mentre il «dietrofront a Verona»101 è rimasto sepolto molto più a lungo.
Sul treno-merci diretto a Dachau, l’aveva bloccata il non esser creduta, ma quando
viene creduta le si spalanca davanti un riflesso di diffidenza e incomprensione
ancora più profondo. Se il primo volontariato poteva ancora spiegarsi con
l’inesperienza, quello di Verona era un colpo di testa, una pazzia, un’assurdità: e
lei, se insiste a non pentirsene e a non considerarlo tale, è una persona eccessiva,
smodata, da cui guardarsi102. Anzi, il suo è stato un gesto nichilistico, una volontà
di autodistruzione, da cui prendere le distanze.
78 Perciò al lettore di oggi risulta che di fronte a questo fraintendimento
sistematico della natura più profonda del suo gesto, la rimozione del dietrofront di
Verona è stata anche una protezione del suo significato autentico. Dire che si è
stati semplicemente deportati avvicina al destino comune, permette di essere
come tutti gli altri, «una di loro»103, e salva l’essenziale: l’internamento,
l’esperienza della condivisione fisica, le scoperte che si sono fatte sulla propria
pelle. Anche per questo, per poter essere una qualunque, per smettere di essere
un’eccezione incomprensibile, Luce d’Eramo ha voluto che l’avessero deportata i
nazisti104.
79 Solo che, a furia di ignorarla, la deportazione volontaria e il suo significato, col
tempo perdono realtà anche per chi l’ha vissuti. Infatti l’io narrante di Deviazione
continua a rovistare nei primi tempi del dopoguerra, in questo viaggio al fondo
della propria rimozione, un fondo a cui non riesce ancora ad arrivare.
80 A un certo punto comincia a non andarle giù che «la colpa è sempre di
qualcos’altro»:

Che ho fatto sino adesso se non lasciare intendere che il concorso di


circostanze era tale… [...] E sempre quest’innocenza, quest’inestirpabile
nobiltà d’intenti e di sentire che m’è così propria.105

81 Sicché alla fine è lei stessa che non si crede più, diffida totalmente di sé:

E allora m’è venuto il sospetto più atroce che mi potesse balenare: [...]
Sostenevo d’aver tradito i miei Lager. E SE NON AVESSI TRADITO
PROPRIO NIENTE? [...]
Forse non sei mai passata realmente dall’altra parte, una tra i tanti; forse sei
sempre stata una che si china sugli «umiliati e offesi»; quel salto sociale del
’44 a cui tieni tanto, la tua coscienza non l’ha fatto. [...] Quello che hai
scoperto adesso nei tuoi Lager, hai voluto vedercelo tu, ce l’hai messo tu,

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non c’è stato nella realtà: nel segreto della tua mente tu sei rimasta sempre
da questa parte, CIO’ CHE CERCHI NON È MAI ESISTITO.106

82 Alla luce di questo sospetto che diventa sempre più certezza, la scelta di
diventare operaia e il gesto di Verona diventano «discese agli inferi, secondo il
dantesco amor di conoscenza imparato a scuola. Non c’era bisogno di scomodare
la lotta di classe per questo» […]: «non facevo che inseguire un sogno, un come
avrei voluto averla vissuta quell’esperienza, rincorrevo un ricordo prodotto dal
mio desiderio».
83 Quest’approdo, che sulle prime le pare tremendo, alla fine è per lei quasi
un’illuminazione, e un sollievo. Tutto torna. Finito quell’estenuante corpo a corpo
con se stessa.
84 Ma non è ancora finita. All’io narrante viene in mente d’andare a cercare le
lettere di quando stava all’IG Farben.
85 In uno schedario ritrova le lettere conservate nello zaino buttato a Verona:
qualcuno l’avrà raccolto e spedito le carte alla famiglia. Da quelle lettere e dai
pochi frammenti rimasti di lettere di Lucia, vien fuori che la «rabbia sociale» era
vera, fin dal primo volontariato; ma che il cordone ombelicale con la famiglia non
s’era spezzato tanto presto, lei sentiva che se fosse tornata sarebbe stata
riassorbita nel proprio ambiente, perciò a Verona s’era risolta a uno strappo
totale, ma il contraccolpo (Dachau) era stato terribile, superiore alle sue forze.
S’era messa in salvo da sola. Poi aveva sperato di poter riprendere un cammino
insieme, ma alla fine non ce l’aveva fatta a sostenere una scelta che sembrava
esigere sempre nuove rinunce:

L’ultimo strappo dal proprio ambiente l’ha fatto con Gheorg il poeta. Ma
questo strappo l’ha definitivamene convinta dell’impossibilità di conciliare
affetti privati e lotta collettiva. Era ormai accalappiata dalla dissociazione
– coltivata da chi non lotta – che battersi per la giustizia sociale era
incompatibile con una felicità personale. Era votata a volersi compiere nel
privato.107

86 Così si era ricongiunta alla ragazza che nel Lager «aveva scelto una rivolta
solitaria, durata trent’anni…»: «fuggita da Verona, ma anche da Dachau», dalla
condivisione estrema della sorte comune «di chi sta dall’altra parte senza i mezzi
per uscirne»; e infine aveva «preso l’ambiguità della propria coscienza sociale
per impossibilità oggettiva di condividere con chichessia quello che aveva capito; e
in questo modo s’è scordata, guarda caso, degli atti con cui era pur andata di
persona dall’altra parte»108.
87 A questo punto finiscono per davvero tutti i contorcimenti dell’animo cui
abbiamo assistito fin qui: tutti questi cambi di pelle –   come un serpente   –
nell’interpretare e giustificare la propria rimozione, ricostruirne ragioni e
conseguenze, erano tentativi per non riconoscere il motivo di fondo: che lei non
aveva retto al passo compiuto. «Tra me e me ero segretamente cosciente d’essere
io ad aver ceduto. Proprio perché il salto di classe a Dachau era stato infinito, il
terrore ne era stato così violento da portarmi a ripararmene nell’oblio»109.
88 Alla luce di quanto capiamo ora, quel salto a Verona era stato un tentativo
estremo di vincere la spinta contraria che –   non solo dall’esterno, ma, suo
malgrado, dall’interno   – la risospingeva nella vita borghese e privata. Il suo
silenzio successivo era dunque vergogna non di quello che aveva fatto, come tutti
pretendevano da lei110, ma di non aver continuato fino in fondo sulla strada della
condivisione reale: «è astuta la vergogna, si fa pudore, silenzio»111.
89 Pure, gli strappi in senso contrario non sono mancati. Da evasa, un tentativo di
ricongiungersi ai vecchi compagni l’aveva pur fatto, il 7 febbraio del 1945, a rischio
della vita, reintroducendosi di nascosto nel suo primo Lager, quello dell’IG

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Farben. E adesso che è riuscita a riconoscere il suo cedimento, senza scuse e senza
sconti, l’ultimo pezzo di vita rimosso può essere raccontato112.
90 È allora che, in una delle scene più impressionanti del romanzo, il suo primo
Lägerfuhrer la riconosce e s’infuria, la riempie di calci sputi ceffoni, l’insulta,
l’accusa di tradimento, la fa sbattere in cella: «“Ecco perché abbiamo perso la
guerra,” mormora, “per le canaglie come te”, e mentre così dice, non sa che
trentadue anni dopo non lo ricorderò con odio perché almeno lui ci ha dato atto di
avergli fatto perdere la guerra»113.
91 La tortuosa deviazione durata trent’anni si chiude così su Lucia che, ancora una
volta evasa con l’aiuto d’una compagna, fugge verso la città dove non sa che
l’attende il muro: «finalmente (ridevo tra le lacrime), anch’io sono stata picchiata,
da sola, personalmente, adesso sono proprio come loro bastonata sputata, in tutto
come loro, non ricadrò nel mio ceto, mentre correvo correvo verso Magonza»114.
92 Al lettore resta indelebile l’incontro con una persona che, pur potendolo evitare,
non s’è risparmiata l’esperienza di quei Lager che milioni di persone dovevano
subire in quegli stessi anni tremendi. Nel bilancio di una vita intensa e difficile, il
suo giudizio su se stessa alla fine si basa sulla convinzione vissuta da
giovanissima, carica di implicazioni politiche, che non si può stare realmente dalla
parte degli ultimi senza condividerne anche le condizioni di esistenza: un’idea di
solidarietà ardua, poco diffusa, allora e adesso, anche tra chi sostiene attivamente
la causa degli oppressi. Luce d’Eramo con i suoi avatar Lucia/Luzi ha faticato
molto a prendere sul serio questa convinzione e a misurare la propria vita con
questo metro di giudizio, arrivando a concludere che ce l’ha fatta solo a tratti. La
resistenza a fare i conti con la propria «ambiguità sociale» è stato il fattore
principale che ha rischiato di cancellare nel silenzio quell’esperienza estrema, e
quanto questa le ha insegnato sulla società umana. Ma con la forza di
rappresentazione della scrittura ha trascinato in questo percorso anche i lettori
più lontani dall’essere altrettanto severi con se stessi, lasciandoli con un sottile
disagio di sé, che li interroga.
93 Un percorso di vita tanto insolito, d’eccezione, diventa così un percorso di
consapevolezza per tutti, la storia degli smarrimenti attraverso cui si può perdere
il senso delle proprie azioni, e dell’ostinazione con cui si può riuscire a non
mentire a se stessi, riconquistando anche quel senso perduto.

Notes
1 Quanto a Luce d’Eramo, va detto che mantenne per tutta la vita una grande attenzione
alla letteratura sulla deportazione e sui Lager (cf. anche Deviazione, Milano, Feltrinelli,
2012, p. 326), scrivendo negli anni vari articoli e recensioni sul tema, come risulta dal suo
archivio, donato dal figlio Marco d’Eramo all’Archivio del Novecento dell’Università di
Roma La   Sapienza, diretto da Francesca Bernardini. Oltre ad essere in corrispondenza
epistolare con due autori che ammirava particolarmente, Primo Levi e Liana Millu,
L. d’Eramo era amica di Edith Bruck e si preparava a scrivere su Etty Hillesum. Nell’elenco
delle sue ultimissime letture, scritto poco prima di morire (febbraio 2001) troviamo Dopo il
fumo di Liana Millu, Face à l’extrême di Tzvetan Todorov e I sommersi e i salvati di Primo
Levi (l’ultimo con l’annotazione: «riletto dieci volte, sconvolgente»): cf. F. Bernardini, I
documenti di Luce d’Eramo nell’Archivio del Novecento, in Luce d’Eramo: un’opera
plurale crocevia dei saperi, a cura di M. P. De Paulis, C. Lucas Fiorato e A. Tosatti, Roma,
Sapienza Università Editrice (in corso di stampa), pp. 47-48. Una ricognizione su tutti gli
interventi della scrittrice sul tema dei Lager e del nazismo esula però dai limiti del presente
lavoro.
2 Luce d’Eramo ha scritto dopo Deviazione molti altri romanzi, saggi e racconti. Per una
bibliografia sulla sua opera, comprensiva di tutte le traduzioni, e aggiornata rispetto a
quella contenuta nell’edizione Feltrinelli di Deviazione del 2012, rimando al volume Luce
d’Eramo: un’opera plurale crocevia dei saperi, op. cit., pp.   377-394. Ad essa vanno
aggiunti, ovviamente, gli importanti contributi originali raccolti nel volume medesimo.

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L’elenco degli articoli di giornale – reperibili presso l’Archivio del Novecento – tuttavia non
è completo, ma presenta solo una selezione.
3 Ad esempio su «The New York Times», «Harper’s Bazaar», «The Guardian», «The
Telegraph», «Financial Times».
4 L. d’Eramo, Le Détour, trad. di C. Lucas, Parigi, Le Tripode, 2020.
5 Si basa invece su una volontaria rinuncia l’itinerario, dal silenzio al racconto della
deportazione, che Jorge Semprún, autore di Le Grand Voyage (1963), ha delineato in
L’Écriture ou la Vie, Parigi, Gallimard, 1994.
6 A. Wieviorka, Indicible ou inaudible ? La déportation : premiers récits (1944-1947),
«Pardès», nn. 9-10, 1989, pp. 23-59.
7 P. Levi, I sommersi e salvati, Torino, Einaudi, 1991, p. 3-4; Id., Se questo è un uomo,
Torino, Einaudi, 1984, p. 74.
8 Cf. S.   Nezri-Dufour, Primo Levi ou la transmission difficile de la mémoire de la
Shoah, «Cahiers d’études romanes», n.   33, 2016, pp.   59-69. Online:
[https://journals.openedition.org/etudesromanes/5248] (consultato nell’ottobre   2019);
I. Kertész, Essere senza destino, trad. it. di B. Griffini, Milano, Feltrinelli, 2004 [1975],
p. 215.
9 T. W. Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft, trad. it. Critica della cultura e società, in
Prismi: saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1972, p. 22.
10 Cf. P. Celan, Il meridiano, in La verità della poesia: «Il meridiano» e altre prose, a
cura di G. Bevilacqua, Torino, Einaudi, 1993, pp. 15-16.
11 T. W. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1970, p. 327; Id., L’arte e le arti,
in Id., Parva aesthetica: saggi 1958-1967, trad. di E. Franchetti, Milano, Feltrinelli, 1979,
p. 181; cf. P. Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz: Paul Celan e Theodor W. Adorno,
Firenze, Giuntina, 2010.
12 Su come abbiano affrontato questo nodo due scrittori e una scrittrice (Robert
Antelme, Primo Levi e Charlotte Delbo), cf. L.   Pipet, La notion d’indicible dans la
littérature des camps de la mort, Parigi, L’Harmattan, 2000.
13 G. Steiner, Langage et silence, trad. di L. Lotringer, Parigi, Seuil, 1969, in particolare
pp. 188-190. Cf. M. Ruszniewski-Dahan, Romanciers de la Shoah : si l’écho de leur voix
faiblit…, Parigi, L’Harmattan, 1999, p. 20.
14 G.   Perec, Robert Antelme ou la vérité de la littérature, «Partisans», n.   8, 1963,
pp.   121-134, ora in Id., L. G., une aventure des années soixante, Parigi, Seuil, 1992,
pp. 87-93. Vedi anche, in un altro contesto, ciò che scrive in W ou Le souvenir d’enfance,
Parigi, Gallimard, 1993 [Denoël, 1975], p. 63.
15 E. Wiesel, Paroles d’étranger : textes, contes et dialogues, Parigi, Seuil, 1982.
16 Id., Trivializing the Holocaust, «The New York Times», 16 aprile 1978 (trad. mia).
17 J. Semprún e E. Wiesel, Se taire est impossible, Parigi, Mille et une nuits, 1995.
18 J. Semprún, intervistato da M.-L. Delorme e G. Herzlich, «Le Monde des débats»,
maggio 2000.
19 P. Levi, Se questo è un uomo, op. cit., p. 68.
20 Id., I sommersi e i salvati, op. cit., pp. 8 e 64.
21 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz: l’archivio e il testimone, Torino, Bollati
Boringhieri, 1998, pp. 30 e 146.
22 Provenienza sociale confermata da C. Greppi, L’ultimo treno: racconti del viaggio
verso il lager, Roma, Donzelli, 2012, pp. 24-25 e note 58 e 59. In questo volume si può
trovare un’ampia bibliografia della letteratura concentrazionaria, in Italia e non solo.
23 Cf. D.   Ambrosino, Temi, strutture e linguaggio nei romanzi di Luce d’Eramo,
«Linguistica e letteratura», vol. XXVI, nn. 1-2, 2001, pp. 195-251.
24 Unico caso di deportazione volontaria documentata, a mia conoscenza, è quello
dell’ufficiale polacco Witold Pilecki, che d’accordo con il suo comando si fece internare ad
Auschwitz allo scopo di organizzarvi una rete di resistenza tra i militari polacchi che a quel
tempo vi venivano internati, per poter far da sponda a un attacco dall’esterno, che non
avvenne mai. Si fece appunto rastrellare all’alba per le strade di Varsavia il 19 settembre
1940 e rimase ad Auschwitz fino all’aprile del 1943, quando con altri compagni riuscì ad
evadere dalla panetteria del Lager. Il suo rapporto del 1945 ai suoi superiori, redatto sulla
base di quello del 1943, è stato pubblicato solo nel 2012 (W.   Pilecki, The Auschwitz
Volunteer, Los Angeles, Aquila Polonica, 2012, trad. it. Il volontario di Auschwitz, Milano,

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Piemme, 2014).
25 Cf. L.   d’Eramo, «Deviazione»: pagine scritte sui miei andirivieni. Non
un’autobiografia ma il romanzo del conflitto tra due memorie: quella personale e quella
storica. Una confessione d’autore, «Il manifesto», 9 febbraio 1980, p. 4.
26 Si tratta di un romanzo e non di un’autobiografia, perché con la scrittura costruisce
una storia, e per di più una storia di cui fa parte integrante la scrittura stessa nel suo
rapporto con la memoria: cf. L. d’Eramo, loc. cit.
27 La tensione tra «solitaire» e «solidaire» è al centro di un racconto di Albert Camus,
intitolato «Jonas ou l’Artiste au travail», e di tutta la raccolta L’Exil et le Royaume, dove
spesso l’unico modo di essere solidali è di restare soli (A. Camus, Théâtre, récits, nouvelles,
a cura di R. Quilliot, Parigi, Gallimard, 1962, p. 1654).
28 Le vicende di uno sciame di lavoratori stranieri, tra cui molte donne, molti sans
papiers o sotto falso nome, sfollati o evasi, che cercano di sopravvivere nella Germania in
fiamme sotto i bombardamenti alleati, sono state narrate da L. d’Eramo in una serie di
racconti: Idilli in coro (1951), La straniera (1954), ed altri, poi raccolti col titolo Il
convoglio dei lituani, Milano, Edizioni Esse, 1958. Di questi solo due, Thomasbräu e Asilo
a Dachau, sono entrati a far parte di Deviazione. Tutti gli altri, già ripubblicati nella
raccolta Racconti quasi di guerra, Milano, Mondadori, 1999, si possono leggere oggi in
L. d’Eramo, Tutti i racconti, a cura di C. Bello Minciacchi, Roma, Elliot, 2013.
29 L. d’Eramo, Deviazione, p. 143. Tutte le citazioni si riferiscono all’edizione Feltrinelli
del 2012, op. cit.
30 Scritto per la prima volta per la prima edizione tedesca di Finché la testa vive
(Solange der Kopf lebt, trad. di K. Stiller, Stoccarda, Radius Verlag, 1976). Cf. Deviazione,
p. 341.
31 Ibid., pp. 211 e 199-200.
32 Ibid., p. 142.
33 Deviazione, p. 245.
34 Martine, sua compagna di sciopero, sulle soglie del carcere, le ha detto: «Salvati
almeno tu. Gioca le tue carte fasciste». Lucia l’ha guardata «così profondamente offesa che
lei ha scosso impercettibilmente la testa: “Non capirai mai niente” ha pronunciato in un
soffio» (ibid., p. 246).
35 Ad esempio Deviazione, pp. 188, 226.
36 Ibid., p. 254.
37 Soltanto nel racconto Il 25 luglio, pubblicato molti anni dopo Deviazione, capiremo
quando profondo fosse stato il legame con la famiglia, e che scappando di casa per vedere
la verità coi propri occhi, Lucia si sottrae con uno strappo alla «verità» che le propongono i
genitori. Sull’importanza che ha avuto nella sua storia il rapporto con la famiglia, vedi infra
par. La rimozione al rientro nella «normalità» e note 85 e 86, e Deviazione, pp. 360-361,
370-371 e 378-379.
38 Deviazione, p. 254.
39 Ibid., p. 262.
40 Ibid., p. 255. Il «peso dell’impotenza che m’aveva schiacciato la notte del suicidio,
quando ormai volevo risalire in vita e non potevo» rimane nel dopoguerra, nell’affrontare
la paralisi (ibid., p. 304).
41 Ibid., p. 254.
42 Ibid., p. 262.
43 Loc. cit. (sottolineatura mia). Siamo al 2 agosto 1944 (ibid., p. 360) e sono passati
circa sei mesi dall’arrivo di Lucia in Germania.
44 Ibid., p. 262.
45 Allora la maggiore età in Italia si raggiungeva a 21 anni.
46 Ogni volta che ci torna sopra, rientrare in famiglia significa per lei sempre più anche
«ricadere nel proprio ceto» e voltare le spalle ai compagni.
47 Deviazione, p. 266.
48 Ibid., pp. 266-268.
49 «Comunque, le scelte di fatto aiutano», scriverà L. d’Eramo più avanti (p. 383).
50 Ibid., p. 268 (corsivo mio).

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51 Ibid., pp. 269-270.
52 Ibid., p. 275.
53 Ibid., p. 270.
54 Deviazione, pp. 272-273. A Dachau Lucia incontrerà una volta sola di sfuggita il suo
amico-nemico del vagone merci, ormai convinto, nel vederla lì come tutti gli altri, che non
mentiva. Lei cerca di persuaderlo a fuggire: «Ha fatto no con la testa. “Mi condanni?” Di
nuovo no, e gli è scappato un sorriso giovane» (p. 273-274).
55 Ibid., pp. 268-269 (corsivo mio).
56 Ibid., p. 304 (corsivo dell’A.). Cf. ibid., p. 269.
57 «Dunque, non fiatare. Solo il tuo compagno del vagone merci sa chi sei, ma, anche se
ti odia, non ti tradirà» (Deviazione, p. 281).
58 Deviazione, p. 275 (cf. p. 276).
59 Ibid., p. 276.
60 Deviazione, p. 277.
61 Lore Ditzen ha osservato a questo proposito che Deviazione è anche uno studio in
forma narrativa degli aspetti positivi e negativi di un’educazione borghese (Uno studio del
comportamento borghese, «L’informatore librario», marzo 1980).
62 Lucia adotta d’istinto quello che secondo Jean Améry era il punto di vista proletario,
di chi cioè continuava a combattere, dentro i Lager, la guerra dei poveri contro i ricchi,
«senza avvertire alcuna contraddizione». Dal loro punto di vista, la logica del Lager «non
era altro che una acutizzazione graduale della logica economica». Cf. J. Améry (H. Mayer),
Jenseits von Schuld und Sühne: Bewältigungsversuche eines Überwältigen, Monaco,
Szczesny, 1966, trad it. Intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987,
pp. 42-43 e p. 48.
63 Deviazione, pp. 282-283.
64 Ibid., pp. 286-287.
65 Ibid., pp. 287-288 e 290-292.
66 Ibid., p. 283. Su questo punto l’opinione di Lucia contrasta in parte con l’esperienza
di Améry, scrittore che Luce d’Eramo stimava moltissimo, secondo cui l’intellettuale aveva
meno mezzi di difesa; ma anche Améry sottolinea che ciò non valeva per chi fosse dotato di
una forte appartenenza politica o religiosa. Cf. J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, op. cit.,
pp. 44-45 e 48-49.
67 Deviazione, p.   292. L’incomprensione tra lei e le prigioniere politiche avrà
un’ulteriore conferma, quando Lucia le affronterà nella loro baracca, per avere una
spiegazione (pp. 294-296). Lucia tra l’altro rimprovera loro di non essere solidali con i più
reietti in quanto tali, ma solo con quelli che la pensano come loro.
68 Ibid., p. 304.
69 Ibid., p.   297: «l’odio per i nazisti diventava una passione esclusiva che non
accomunava socialmente gli internati. Già artatamente divisi in comunità arbitrarie di
gialli rossi verdi rosa neri, i deportati si sentivano minacciati non tanto nella propria
solidarietà sociale di ceti dominati, come invece era, ma nella propria individualità.»
(corsivo dell’A.).
70 Cf. P. Levi, I sommersi e i salvati, op. cit., p. 25.
71 Ibid., p. 274.
72 Cf. ibid. p. 67.
73 Ibid., pp. 37 e 40.
74 Ibid., pp.   268-269. Sulla «solitudine stesa da Dachau sui miei pensieri», e sulla
durevole regressione che ha comportato, cf. anche p. 298.
75 Ibid., p. 69.
76 Ibid., pp. 302-303 (corsivo dell’A.).
77 Ibid. p. 310.
78 Ibid., pp. 137-138 e 140 ss.
79 Deviazione, p. 311.
80 Ibid., pp. 314-315.
81 Meno drammatica, ma ugualmente senza possibilità d’intesa, è la discussione con il

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partigiano Vittorio, Deviazione, pp. 356-359.


82 Per questo Lucia si affanna a dimostrare che il muro le è caduto addosso per un
seguito imprevedibile di circostanze. Ha un disperato bisogno di negare ogni rapporto tra il
suo trovarsi in Germania e l’incidente: «La sola idea che avrei potuto evitare la sorte che
m’era toccata mi faceva impazzire. […] Non la reggevo più di una frazione di secondo»
(Deviazione, pp. 302-303).
83 Quanto sia pesato questo rifiuto lo si vede anche a pp. 348-349: «mi rivolgevo col
pensiero agli uomini dietro il tavolo nell’associazione partigiani, nel comitato della
Resistenza: mettetemi alla prova come nel Ch 89, accoglietemi vi prego». Ne è nato,
confesserà alla fine, un «rancore» duraturo per tutti coloro che l’avevano «pregiudicata e
respinta» nella condizione sociale da cui tentava di uscire (ibid., p. 381).
84 Ibid., pp. 315-316.
85 Cf. ad esempio ibid., p. 360.
86 Deviazione, pp.   360-361. Su questo punto dolente tornerà di nuovo in seguito
(pp. 370-371).
87 Quanto fosse forte la pressione sociale per far diventare l’esperienza dei Lager una
«parentesi», lo conferma con questa precisa espressione anche Robert Antelme in
Témoignage du camp et poésie, «Le Patriote Résistant», n. 53, 15 maggio 1948, p. 5.
88 Deviazione, p. 319 (corsivo dell’A.).
89 Ibid., pp. 324-325.
90 Ibid., pp. 328-329. Vittorini dirigeva a quel tempo la collana I Gettoni per Einaudi. La
lettera di cui si parla qui è conservata nell’archivio di Luce d’Eramo presso l’Archivio del
Novecento dell’Università di Roma La Sapienza ed è citata per esteso da Francesca
Bernardini, art. cit., pp. 27-29.
91 Una lunga lettera ad Alberto Moravia del 1957 documenta il disagio di Luce, che gli
ricorda come lui l’abbia sottoposta a «una specie d’interrogatorio sui campi di
concentramento. Voleva che Le esponessi, in fretta e di seguito, la storia del mio viaggio in
Germania. […] quel giorno mi è sembrato più del solito che Lei facesse le domande senza
aspettare sul serio una risposta» (corsivo mio). La lettera cerca di riprendere quel discorso
delineando le tappe della propria esperienza, e di andare oltre: «vedo nel tragico fenomeno
dei Lager e delle deportazioni a catena, la fase più acuta, nella forma più tenebrosa, di una
cecità che sempre minaccia l’uomo». Alcuni passi della lettera in questione sono riportati
da F. Bernardini, art. cit., pp. 31-32.
92 R.   Chiaberge, Chi bocciò Primo Levi, «Atlante», 15   aprile 2014. Online:
[http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/chi_boccio_primo_levi.html]
(consultato nell’ottobre 2019).
93 Ibid., p. 334.
94 Ibid., p. 340.
95 Ibid., p. 304 («la deviazione del mio animo»); cf. supra, par. Di fronte all’estremo
– un’azione che diventa indicibile e n. 68.
96 Ibid., pp. 341-342 (corsivo mio).
97 Deviazione, pp. 341-342.
98 Deviazione, pp. 345-346 (corsivo dell’A.). Cf. più avanti: lui le dice che è «guidata da
un istinto di autodistruzione» (p. 349).
99 Ibid., p. 350 (corsivo mio).
100 Deviazione è stato in Italia il primo libro in cui un’appartenente alla generazione che
aveva 18 anni nel 1943, nata e cresciuta nel Ventennio, faceva apertamente i conti con
l’esser stato fascista. (Vittorini a suo tempo aveva stabilito che il problema non si poneva:
cf. E.   Vittorini, Fascisti i giovani?, «Il   Politecnico», n.   15, 5   gennaio 1946, p.   3). Nel
dopoguerra si erano provati a render conto del proprio passaggio da fascismo ad
antifascismo solo rarissimi intellettuali più anziani: Davide Lajolo con Classe 1912 (1945) e
Il voltagabbana (1963), Ruggero Zangrandi con Il lungo viaggio: contributo alla storia di
una generazione (1948), poi ampliato in Il lungo viaggio attraverso il fascismo (1962),
Guido Piovene con La coda di paglia (1962).
101 Ibid., pp. 378 e 383.
102 Cf. ad esempio supra, par. Di fronte all’estremo – un’azione che diventa indicibile e
n. 53. Anche in Deviazione l’A. a p. 296 parla di «blocco della memoria dovuto [...] alla
paura di apparire smodata».

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Deviazione di Luce d’Eramo: il racconto di una (quasi) indicibile ... https://journals.openedition.org/laboratoireitalien/4461

103 Cf. supra, nota 73.


104 Vedi supra, nota 50.
105 Deviazione, pp. 365-366 (corsivo dell’A.).
106 Ibid., p. 366 (corsivi dell’A.).
107 Ibid., pp. 377-379
108 Ibid., p. 379 (corsivo mio).
109 Ibid., pp. 380-381.
110 Ibid., p. 379.
111 Ibid., p. 334.
112 Ibid., pp. 383 ss. Già sapevamo che anche nel Durchgangslager di Asilo a Dachau
non c’era capitata per caso, ma nel tentativo – rischiosissimo – di rientrare di nascosto nel
K-Lager mortale da cui era fuggita, per convincere il suo amico-nemico partigiano a
evadere anche lui. Un «dettaglio» che nel 1954 lei ha amputato (Deviazione, p. 298).
113 Deviazione, pp. 386-387.
114 Ibid., p. 387.

Pour citer cet article


Référence électronique
Daniella Ambrosino, « Deviazione di Luce d’Eramo: il racconto di una (quasi) indicibile
deportazione volontaria », Laboratoire italien [En ligne], 24 | 2020, mis en ligne le 03 juin
2020, consulté le 24 janvier 2023. URL : http://journals.openedition.org
/laboratoireitalien/4461 ; DOI : https://doi.org/10.4000/laboratoireitalien.4461

Auteur
Daniella Ambrosino
Daniella Ambrosino est née à Rome en 1947. Après une maîtrise en Lettres classiques à
l’université de Rome La Sapienza, elle a soutenu un doctorat de troisième cycle à l’EHESS
de Paris en anthropologie sociale et culturelle du monde gréco-romain, sous la direction de
Pierre Vidal-Naquet. Elle a travaillé depuis sur la littérature grecque ancienne mais aussi
sur la littérature contemporaine, en particulier sur l’œuvre de Luce d’Eramo, qu’elle a
fréquentée pendant des années, jusqu’à la mort de l’écrivaine. Elle a collaboré (comptes
rendus d’ouvrages et colloques, articles et essais) à divers journaux, revues et publications
scientifiques (Quaderni di storia, Museum criticum, Linguistica e letteratura, Cahiers
d’études italiennes, etc.). Elle a traduit articles et livres du français et de l’anglais. Elle vit à
Rome, où elle a exercé comme fonctionnaire de la Cour constitutionnelle italienne, au sein
du service Recherches.

Droits d’auteur

Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0


International - CC BY-NC-ND 4.0

https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/

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