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Letterature 64
Collana diretta da M. Palumbo e A. Saccone
fondata da G. Mazzacurati
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Antonio Gargano

Con accordato canto


Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII
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ISSN
1828-8421

Liguori Editore

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© 2005 by Liguori Editore, S.r.l.


Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Settembre 2005

Gragano, Antonio:
Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII/Antonio
Gargano
Letterature
Napoli : Liguori, 2005

ISBN 978 - 88 - 207 - 3881 - 5 (a stampa)


eISBN 978 - 88 - 207 - 6280 - 3 (eBook)

ISSN 1828-8421

1. Letterature comparate 2. Poesia italiana e spagnola I. Titolo II. Collana III. Serie

Aggiornamenti:
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INDICE

XI Prefazione

PARTE PRIMA
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3 «La fortune d’une littérature». Note sulla ricezione della


letteratura italiana in Spagna
1. Premessa 3; 2. Un difficile rapporto: da Imperial alla «Propalladia» di
Torres Naharro 6; 3. Un felice connubio: dalla poesia «italianizzante» di
Boscán e Garcilaso all’«Agudeza y arte de ingenio» di Gracián 15; 4. Un
dialogo in periferia: dal melodramma del Metastasio al «momento»
dannunziano 29; Nota bibliografica 38.

45 Modelli e stagioni del petrarchismo europeo


1. Criteri per una definizione: variazioni e livelli del codice petrarchista 45;
2. «Un petrarchismo senza Petrarca» 51; 3. Dal «Petrarca non tradito» al
«manierismo petrarchista» 57; 4. Il dissolvimento del codice. Petrarca, oltre
il petrarchismo 73.

PARTE SECONDA

79 Aspetti della poesia di corte. Carvajal e la poesia a Napoli al


tempo di Alfonso il Magnanimo

89 Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: pro-


blemi e prospettive di ricerca
1. Una cultura poetica quadrilingue 89; 2. Canzonieri, poeti e poesie
bilingui 95; 2.1. Canzonieri bilingui 95; 2.2 Poeti bilingui 99; 2.3. Poesie
bilingui 102.

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 INDICE

111 La rinascita dell’egloga in volgare nei canzonieri quattro-


centeschi. Note preliminari

PARTE TERZA

123 «Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinque-


centesche dei Trionfi

141 Garcilaso de la Vega e la nuova poesia in Spagna, dal retaggio


«cancioneril» ai modelli classici

157 L’ode tra Italia e Spagna nella prima metà del Cinquecento
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181 L’egloga a Napoli tra Sannazaro e Garcilaso

203 La «doppia gloria» di Alfonso D’Avalos e i poeti-soldati


spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acuña)

PARTE QUARTA

219 La poesia nell’epoca di Filippo II: modelli italiani (Caro,


Rainerio) e soluzioni ispaniche (Ramı́rez Pagán, Lomas
Cantoral, de la Torre, Herrera)
1. La poesia spagnola alla metà del secolo 219; 2. Il ‘libro di rime’
italiano 223; 3. Due sonetti di Annibal Caro e Antonfrancesco
Rainerio 227; 4. Peripezie dei sonetti del Caro e del Rainerio in terre
iberiche 231; 4.1 Diego Ramı́rez Pagán 232; 4.2 Jerónimo Lomas
Cantoral 233; 4.3 Francisco de la Torre 235; 4.4 Fernando de
Herrera 238; 5. Brevi conclusioni 243.

247 Quevedo e il canone breve

259 Lettura del sonetto «Lo que me quita en fuego me da en


nieve» di Quevedo: fra tradizione e contesti
1. Testo, tradizione e convenzione 259; 2. Il motivo della mano che
copre 261; 3. Dal «concettino» al concetto 267; 4. «Las hazañas del fuego
y de la nieve» 272.

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INDICE 

279 Quevedo e le «poesı́as relojeras»

291 Indice dei nomi


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PREFAZIONE

I quattordici studi raccolti nel volume che il lettore ha tra le mani


sono stati scritti e pubblicati in un periodo poco meno che trilustre,
dai primi anni novanta a oggi. In tal senso, tenuto conto cioè sia
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della varietà delle circostanze che sono all’origine del loro concepi-
mento sia della distanza dei tempi a cui risalgono le singole realizza-
zioni, la raccolta difficilmente potrebbe farsi rientrare nella categoria
dei libri organicamente ideati e unitariamente composti. Tuttavia,
non credo che si possa negare come le varie tessere che lo compon-
gono, una volta assemblate, pur nell’autonomia delle singole genesi,
vadano oltre la mera unità garantita dal nome dell’autore e abbiano
finito per generare un disegno a suo modo coerente che per grandi
linee, almeno, potrebbe essere descritto nel modo seguente: il tenta-
tivo di ricostruire, facendo leva su alcuni episodi significativi, il
radicale rinnovamento a cui si vide sottoposta la tradizione poetica
spagnola in accordo alle esperienze e ai modelli lirici italiani, fino alla
completa emancipazione da essi in concomitanza dei grandi poeti
barocchi, con i quali la direzione dell’influenza conobbe spesso
un’inversione di rotta.
Nella prima delle quattro sezioni in cui gli studi sono stati
ripartiti, due scritti introducono alle successive sezioni interamente
dedicate, come si è detto, al fenomeno lirico, il quale risulta cronolo-
gicamente scomposto nelle tre fasi che coincidono grosso modo,
rispettivamente, con l’esperienza di una cultura poetica quadrilingue
presso la corte napoletana in età aragonese; col processo di radicale
rinnovamento operato in epoca carolina da Garcilaso de la Vega
soprattutto, ma anche da poeti come Boscán, Cetina o Acuña, a
partire sia del modello offerto dal Canzoniere e dai Trionfi petrarche-
schi, sia da quelli, non sempre assimilabili, proposti dai contempora-
nei poeti italiani, come Bernardo Tasso o Jacopo Sannazaro, o
direttamente dai classici; con lo sforzo di aggiornamento, infine,

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 PREFAZIONE

compiuto dalla generazione dei poeti filippini nei confronti dell’or-


mai abusata maniera petrarchesca e, di lı̀ a poco, con la travolgente
rivoluzione formale del linguaggio lirico barocco, di cui furono prota-
gonisti i grandi poeti che, come Francisco de Quevedo, tra la fine del
Cinquecento e le prime decadi del secolo seguente, contribuirono a
imporre un gusto che, più d’ogni altro, si voleva originale.
Si è inteso cosı̀, tramite l’assemblaggio dei contributi selezionati,
proporre al lettore un percorso che lo accompagni nel vasto e
complesso territorio delle intense relazioni tra letteratura italiana e
spagnola in età moderna, con prevalente attenzione per la produ-
zione lirica, anche se, come già accennavo, la prima parte fa posto a
un più generale panorama dei rapporti tra le due letterature fra tardo
Medioevo e primo Novecento e, insieme, a una visione di sintesi dei
modelli e delle stagioni del petrarchismo europeo, all’interno dei
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quali – panorama e visione – il moderno fenomeno lirico spagnolo e


il suo rinnovamento trovano la loro storica collocazione e motiva-
zione.
Nel secondo Quattrocento, la corte aragonese di Napoli costitui-
sce un privilegiato campo d’indagine per cercare di scoprire se e con
quali modalità le produzioni poetiche, napoletana e castigliana, inte-
ragiscono, una volta che esse siano venute in contatto, grazie alla
confluenza presso la corte napoletana di un gruppo di verseggiatori
spagnoli con un largo esercizio di una maniera poetica ad alto tasso
di codificazione, qual era quella cancioneril. Si scoprirà, allora, che
nel contesto culturale napoletano trovano la più plausibile spiega-
zione fenomeni diversi come, da un lato, certe esperienze precorri-
trici di un poeta come Carvajal, il quale dovette condividere l’inte-
resse professato dagli ambienti colti per la poesia popolare o
popolareggiante, e, d’altro lato, quel significativo, seppur misurato
per quantità, insieme di peculiari testimonianze dell’interazione tra le
diverse tradizioni poetiche che risulta formato da canzonieri, poeti e
singoli componimenti bilingui.
Ma il modello poetico italiano, nei generi petrarcheschi come in
quelli neoclassici, risultò agli spagnoli assai più proficuamente avvici-
nabile e imitabile solo dopo che essi ebbero assimilato la lezione
umanistica, il che avvenne tardi, non prima delle ultime due decadi
del XV secolo, grazie soprattutto all’opera di un grammatico come
Antonio de Nebrija. Solo allora si crearono le condizioni che resero
possibile una «traiettoria poetica» come quella di Garcilaso de la
Vega, esemplare nell’illustrare la rivoluzione a cui deve la propria

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PREFAZIONE 

nascita il moderno linguaggio lirico spagnolo, e ciò – si badi bene –


nel breve spazio di un decennio (1526-1536); tanto bastò – difatti –
al geniale toledano per passare dai balbettii di un’incipiente imita-
zione dei sonetti petrarcheschi, dov’è dato riconoscere ancora gli
ingredienti a cui ricorreva la poesia cosiddetta cancioneril, ai maturi e
splendidi esperimenti dei generi neoclassici, come l’egloga o l’ode,
dove la lezione del Petrarca risulta profondamente assimilata e mira-
bilmente fusa con quella appresa direttamente dai classici. Una tale
capacità di bruciare le tappe è unica nel panorama letterario spa-
gnolo della prima metà del Cinquecento, dal momento che le avan-
guardie poetiche pervennero a risultati simili solo alla metà del
secolo, con l’anno 1554 assunto come data simbolica ad indicare che
il processo di assimilazione della lingua poetica italiana, iniziatosi
circa tre decenni prima, poteva ormai considerarsi un fenomeno
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totalmente consumato, come – del resto – mostrano in forma esem-


plare le diverse traduzioni cinquecentesche dei Trionfi petrarcheschi,
in particolare la complessa vicenda redazionale della versione di
Hernando de Hozes.
Alla successiva generazione di poeti spagnoli, quella cioè piena-
mente attiva nei decenni posteriori alla metà del secolo, prima che –
tra la fine degli anni ottanta e l’inizio della decade seguente –
s’imponesse una nuova e decisiva svolta, spettò il non facile compito
di superare il modello fondato sul binomio Garcilaso-Petrarca, pur
nella sostanziale fedeltà ad esso. A favorire tale corso, un contributo
non trascurabile venne ancora una volta dall’Italia, mediante quella
pluralità di voci a cui fecero da canale le antologie poetiche che
conobbero un’enorme fortuna e una larga diffusione, dentro e fuori
della nostra penisola, a partire dalla prima raccolta giolitina del ‘45.
Nei Fiori delle rime de’ poeti illustri, libro allestito da Girolamo Ruscelli
nel 1558, poeti come Ramı́rez Pagán, Lomas Cantoral, Francisco de
la Torre e il «divino» Herrera dovettero leggere i sonetti gemelli del
Caro e del Rainerio, da cui presero le mosse per imbastire i loro
esperimenti tardo rinascimentali e manieristici.
Negli ultimi tre scritti, grazie ad altrettanti sondaggi nella poesia
amorosa e morale di Francisco de Quevedo, si è preteso di dar conto
della nuova svolta di fine secolo, in occasione della quale codici,
forme e temi della tradizione petrarchesca, ma non solo di essa,
risultano spesso rovesciati in nome di arditezze fondate sull’eccezio-
nalità del concetto, come accade nei due sonetti quevediani presi in
esame, dove l’elaborazione ingegnosa presiede allo svolgimento che,

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 PREFAZIONE

rispettivamente, vi ricevono il canone breve e il motivo della mano


che copre, entrambi di origine petrarchesca; o come avviene anche
nella selva dello studio conclusivo, dedicata al tema letterario della
«material macchinetta misuratrice del tempo», che, alla stregua degli
altri componimenti che formano il gruppo delle «poesı́as relojeras» di
Quevedo, finı̀ per alimentare le trame simboliche di cui sono intes-
suti i sonetti di Ciro di Pers, saldando almeno in parte il debito di
gratitudine che la poesia spagnola aveva contratto nei confronti di
quella italiana in epoca moderna.
In tema di gratitudine, desidero cogliere l’occasione per ringra-
ziare coloro senza il cui invito, spesso seguito da incoraggiamento,
nessuno degli studi ora raccolti sarebbe stato intrapreso né, tanto
meno, avrebbe visto la luce: I. Arellano, P. Botta, F. Bruni, A. M.
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Compagna, E. Cancelliere, G. Caravaggi, B. López Bueno e gli


amici del gruppo P.A.S.O. delle Università di Cordova e di Siviglia,
S. Manferlotti, G. Mazzocchi, M. de las N. Muñiz Muñiz, G. Poggi,
V. Roncero, E. Sánchez Garcı́a, A Várvaro, N. von Prellwitz. Sono
pure assai grato agli amici e colleghi M. Palumbo e A. Saccone per
l’accoglienza che hanno voluto riservare al volume nella collana che
dirigono, e della quale hanno saputo conservare il carattere aperto e
plurale che il fondatore si era prefisso. Un ringraziamento partico-
lare, per il maggior debito contratto dal raccoglitore, deve essere
espresso a Flavia Gherardi e Núria Puigdevall, la cui generosità ha
sottratto i presenti scritti al loro destino, altrimenti ineluttabile, di
disiecta membra.

A. G.
Napoli, 9 luglio 2005

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PREFAZIONE 

Gli studi qui raccolti e, in alcuni casi, tradotti dallo spagnolo erano stati
precedentemente pubblicati nelle sedi seguenti, in ordine cronologico:
«La fortune d’une littérature». Note sulla ricezione della letteratura italiana in
Spagna, in F. Bruni (a cura di), Contributo italiano alla vita letteraria e intelletuale
europea, Torino, Banca Nazionale dell’Agricoltura-UTET, 1993, pp. 269-92.
«Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei «Trionfi», in
«Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione Romanza»,
XXXV, 2 (1993), pp. 485-98.
La oda entre Italia y España en la primera mitad del siglo XVI, in B. López
Bueno (a cura di), La oda («Segundo encuentro internacional sobre Poesı́a del
Siglo de Oro. Sevilla-Córdoba, 16-21 de noviembre de 1992»), Sevilla, Universi-
dad de Sevilla, 1993, pp. 121-45.
Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: problemi e prospettive di
ricerca, in «Revista de Literatura Medieval», VI (1994), pp. 105-24.
Aspetti della poesia di corte. Carvajal e la poesia a Napoli al tempo di Alfonso il
Magnanimo, in Atti del XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona
d’Aragona. Celebrazioni alfonsine (Napoli, 1997), a cura di G. D’Agostino e G.
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Buffardi, Napoli, Paparo Edizioni, 2000, vol. II, pp. 1443-1452.


La «doppia gloria» di Alfonso d’Avalos e i poeti-soldati spagnoli (Garcilaso,
Cetina, Acuña), in La espada y la pluma. Il mondo militare nella Lombardia
spagnola cinquecentesca («Atti del Convegno Internazionale di Pavia, 16-18 otto-
bre 1997»), Viareggio, Mauro Baroni editore, 2000, pp. 347-60.
El renacer de la égloga en vulgar en los cancioneros del siglo XV. Notas
preliminares, in P. Botta, C. Parrilla, I. Pérez Pascual (a cura di), Canzonieri
iberici, A Coruña, Editorial Toxosoutos, 2001, vol. II, pp. 71-84.
La poesia nell’epoca di Filippo II: modelli italiani (Caro, Rainerio) e soluzioni
ispaniche (Ramı́rez Pagán, Lomas Cantoral, de la Torre, Herrera), in Spagna e
Italia attraverso la letteratura del secondo Cinquecento («Atti del Colloquio Interna-
zionale, I.U.O. – Napoli 21-23 ottobre 1999»), a cura di E. Sánchez Garcı́a, A.
Cerbo, C. Borrelli, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2001, pp. 443-74.
Garcilaso y la nueva poesı́a en España: del acerbo cancioneril a los modelos
clásicos, in «Cervantes», II (2002), pp. 129-44.
La égloga en Nápoles entre Sannazaro y Garcilaso, in B. López Bueno (a cura
di), La égloga («Sexto encuentro internacional sobre Poesı́a del Siglo de Oro.
Sevilla-Córdoba, 20-23 de noviembre de 2000»), Sevilla, Universidad de Sevilla,
2002, pp. 57-76.
Lectura del soneto «Lo que me quita en fuego me da en nieve» de Quevedo: entre
tradición y contextos, in «La Perinola. Revista de Investigación Quevediana», VI
(2002), pp. 117-36.
Il petrarchismo, in P. Boitani, M. Mancini, A. Varvaro (diretta da), Lo spazio
letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare, vol. III, La ricezione del testo, Roma,
Salerno editrice, 2003, pp. 559-94.
Quevedo y las «poesı́as relojeras», in «La Perinola. Revista de Investigación
Quevediana» («Actas del Congreso Internacional “Quevedo, lince de Italia y
zahorı́ español”. Palermo, 14-17 de mayo de 2003. Número coordinado por I.
Arellano y E. Cancelliere»), VIII (2004), pp. 187-99.
Quevedo e il canone breve, inedito. Relazione presentata al Convegno «La
scrittura e il volto. Napoli, 11-12 aprile 2005», i cui Atti sono in corso di
stampa.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE».
NOTE SULLA RICEZIONE DELLA
LETTERATURA ITALIANA IN SPAGNA

1. Premessa
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Nel tessere l’elogio del «saggio esemplare» di Mario Praz sui Rapporti
tra la letteratura italiana e la letteratura inglese, pubblicato nel 1948,
Claudio Guillén ha sottolineato come «lo studio delle influenze
internazionali è compito irto di ostacoli, trappole e possibili malinte-
si»1. È probabile che molti dei «malintesi» in cui incorre chi pretende
di studiare le cosiddette influenze letterarie siano dovuti all’imposta-
zione data dai comparatisti della «stagione francese» – secondo la
denominazione di Guillén – tra la fine del passato secolo e l’inizio del
nostro, e che comunque essi possano essere in buona misura evitati
grazie a quel rinnovamento teorico del comparativismo, di cui il libro
di Guillén costituisce un’ampia e documentatissima trattazione.
Quanto alle pagine che seguono, confesso che esse restano in larga
misura estranee alle preoccupazioni teoriche a partire dalle quali si è
costituito il rinnovato quadro del comparativismo, e piuttosto risul-
tano animate da un criterio empirico; il che però non vuol dire che
manchino di qualsiasi principio ispiratore, e ciò al di là sia di
puntuali omissioni e dimenticanze sia di un certo eclettismo nella
forma d’esposizione.
In primo luogo, per il quadro complessivo che qui si è inteso
tracciare, ho creduto che – finché ciò fosse stato possibile – si
dovesse evitare l’atomismo delle singole opere o autori, privilegiando
da un lato i grandi generi letterari, e procedendo dall’altro a una
trattazione cronologica dettata da un principio di assoluta sincronia

1
C. Guillén, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il
Mulino, 1992. Cito da p. 251.

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 PARTE PRIMA

tra le due letterature. Un tale atteggiamento ha comportato delle


conseguenze, di cui mi limiterò a illustrare le più evidenti per mezzo
di due brevi esempi. In qualche lettore potrà destare sorpresa il fatto
che manchi un paragrafo esclusivamente dedicato alla presenza della
letteratura italiana nell’opera di Cervantes, o, più esattamente, che se
ne parli solo laddove si fa riferimento ai due generi della novella e del
romanzo pastorale, e nulla si dica invece a proposito di una que-
stione cosı̀ importante qual è il rapporto tra il Chisciotte e l’Ariosto.
Parimenti, qualche altro lettore potrà rimpiangere che, dopo aver
appreso della diffusione di Dante nel Quattrocento, nulla gli venga
detto del dantismo nel periodo della Controriforma, per esempio, o
alla fine del secolo passato. È che, pur nei limiti del presente
contributo, non si è inteso tanto tracciare la fortuna di questa o
quella opera, di questo o quell’autore, ma si è cercato piuttosto di
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cogliere quale funzione fosse chiamata a svolgere, nelle grandi fasi


storiche, la letteratura italiana nella formazione e nello sviluppo di
quella spagnola. Giungo cosı̀ all’altra questione che mi preme affron-
tare preliminarmente.
In secondo luogo, difatti, debbo avvertire che l’intero quadro che
si presenta è stato concepito secondo un partito preso iniziale. Negli
ultimi decenni del XIV secolo, e per tutto il Quattrocento, la lettera-
tura italiana è presente in Spagna in forma non trascurabile. Ciono-
nostante, il riuso che possono farne i letterari spagnoli è piuttosto
parziale e, in ogni caso, limitato ad alcuni aspetti, e ciò vale sia nei
riguardi dei nostri tre grandi autori trecenteschi, sia in quelli della
più recente letteratura umanistica. Perché? Molto probabilmente
perché i letterati spagnoli, pur avvicinandosi alle opere e agli autori
di provenienza italiana, risultavano però carenti di quella formazione
classica che doveva risultare indispensabile per assimilare fino in
fondo non solo le opere degli umanisti, com’è ovvio, ma anche la
sintassi volgare del Decameron, il linguaggio lirico del Canzoniere
petrarchesco, e finanche la mirabile costruzione allegorica dantesca.
Il momento di svolta si colloca negli ultimi decenni del Quattro-
cento, quando quella carenza viene superata grazie alla realizzazione
di un programma propriamente umanistico, del quale le Introductio-
nes latinae (1481) di Nebrija possono essere assunte a massimo
emblema. I risultati non si faranno attendere. Segnali di profondo
rinnovamento, che attengono anche a un diverso rapporto con la
letteratura italiana, sono già presenti tra la fine del Quattrocento e
l’inizio del Cinquecento. E tuttavia il processo giunge a completa

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

maturazione durante il regno di Carlo V, soprattutto nel secondo


quarto del secolo. Prende cosı̀ avvio un secolo di letteratura spagnola
che, per il numero di capolavori prodotti e per l’altissimo valore
medio delle restanti opere, può essere considerato un autentico
miracolo che non ha uguali nelle altre letterature europee dell’epoca.
Un’epoca, peraltro, durante la quale per motivi di diverso ordine
«Italia y España constituı́an [...] un espacio cultural único», come ha
giustamente affermato Francisco Rico. All’interno di questo «spazio
culturale unico», e con la cultura spagnola che ha sanato le sue
carenze di formazione, la letteratura italiana è ora in grado di fungere
da modello con cui bisogna di volta in volta misurarsi, vuoi per
imitarlo vuoi per fare i conti con esso. E allora, per non fare che
qualche esempio, la moderna lirica spagnola ha origine con la costi-
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tuzione di un linguaggio petrarchesco, oppure la formazione della


prosa rinascimentale vede uno dei suoi momenti più significativi
nella traduzione di un testo italiano, il Cortegiano di Castiglione, e
finanche un autentico capolavoro come il Lazarillo, che pure non ha
alcun parallelo nella letteratura italiana, si spiegherebbe di meno se
non tenessimo conto della voga epistolografica proveniente dall’Ita-
lia. È una fase che possiamo considerare sostanzialmente conclusa
alla metà del secolo, anche se continuerà a dare i suoi splendidi frutti
nei primi decenni della seguente metà. A partire dall’ultimo venten-
nio del Cinquecento, la letteratura spagnola, profondamente rinno-
vata dal contatto con quella italiana, ha ormai acquisito un’inedita
autonomia, che se da un lato le permette di recuperare forme e temi
della tradizione autoctona preumanistica, dall’altro non le impedisce
di svolgere a sua volta la funzione di modello da imitare: il caso di
Marino e Lope è, in tal senso, esemplare. Dal Settecento in poi,
quando i centri europei di produzione culturale si spostano in dire-
zione settentrionale, le letterature italiana e spagnola, da una posi-
zione divenuta marginale, continuano a mantenere contatti, anche
significativi, ma di natura affatto diversa. Non a caso, nel terzo e
ultimo paragrafo, ci si è visti spesso costretti a far riferimento a
quella che tradizionalmente era definita la fortuna di singole opere o
autori italiani: una presenza più o meno diffusa, più o meno tardiva,
ma che comunque ha poco a che vedere con l’anteriore funzione
modellizzante.

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 PARTE PRIMA

2. Un difficile rapporto:
da Imperial alla «Propalladia» di Torres Naharro
Alla fine del 1448 o, più probabilmente, nel 1449, Iñigo López de
Mendoza, marchese di Santillana, inviò al connestabile di Portogallo
un manoscritto dei suoi «decires e canciones» accompagnato da
un’epistola, destinata a diventare col tempo assai celebre, nella quale
a un certo punto si legge:

Los ytálicos prefiero yo – so emienda de quien más sabrá – a los


françeses, solamente ca las sus obras se muestran de más altos inge-
nios, e adórnanlas e conpónenlas de fermosas e peregrinas ystorias; e a
los françeses de los ytálicos en el guardar el arte, de lo qual los ytálicos,
syno solamente en el peso e consonar, no se fazen mençión alguna2.
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Pressappoco negli stessi anni – alla metà del secolo – in un’altra


lettera, nella quale si dirigeva al figlio minore, al tempo studente a
Salamanca, pregandolo di volgere «al nuestro castellano idioma»
alcuni canti della traduzione latina dell’Iliade di Pier Candido De-
cembrio, il marchese confessava con grande dignità la propria incom-
petenza nei confronti non solo del testo greco originale, ma anche di
quello latino dell’umanista italiano, per poi concludere con una
formula consolatoria d’ispirazione classica:

diredes que la mayor parte o quasi toda de la dulçura o graçiosidad


quedan y retienen en sı́ las palabras y vocablos latinos; lo cual como
quiera que lo yo non sepa, porque no lo aprendı́ [...]. Ca difı́çil cosa
seria agora que, después de assaz años e no menos travajos, yo quisiese
o me despusiesse a porfiar con la lengua latina [...]. E pues no
podemos aver aquello que queremos, queramos aquello que podemos.
E si careçemos de las formas, seamos contentos de las materias3.

Non essendo il caso di soffermarci su quell’argomento che ri-


mane costante nei due passi, vale a dire il contrasto tra «materias» e
«formas», che Francisco Rico ha giustamente definito «di indubbio
gusto scolastico»4 e che pertanto la dice lunga sulla formazione

2
Vd. El «Prohemio e Carta» del marqués de Santillana y la teorı́a literaria del s. XV, a c. di A.
Gómez Moreno, Barcelona, PPU, 1990.
3
I. López de Mendoza, marchese di Santillana, Obras completas, a c. di A. Gómez
Moreno e M.P.A.M. Kerkhof, Barcelona, Planeta, 1988, pp. 455-57.
4
F. Rico, El quiero y no puedo de Santillana, in Primera cuarentena y tratado general de
literatura, Barcelona, El festı́n de Esopo, 1982. Cito da p. 34.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

culturale del marchese, mi preme far notare che le due citazioni


rimandano ad altrettante questioni, tra le quali le connessioni sono
tutt’altro che superficiali: se nel primo passo il riferimento è al
problema dei rapporti con la letteratura italiana all’interno della
tradizione romanza, nel secondo si pone la questione dei rapporti
con la tradizione classica che a sua volta difficilmente potrebbe
separarsi da quella dei rapporti con la cultura umanistica italiana.
Forse, per farci un’idea di tali rapporti, non c’è nulla di meglio che
cominciare col dare un’occhiata alla biblioteca dello stesso Santil-
lana: la famosa biblioteca di Guadalajara, dove il marchese era
andato accumulando numerose opere italiane, e altre latine che
provenivano pur sempre dalla nostra penisola, e alla cui formazione
avevano fortemente contribuito intellettuali come Juan de Lucena e
Nuño de Guzmán, i quali nei lunghi soggiorni italiani cercavano,
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compravano e ordinavano copie per il loro insigne compatriota.


Il grande interesse per la Divina Commedia, per esempio, vi è
attestato dalla presenza, oltre che di una copia in italiano, dalla
traduzione dei due commenti di Pietro Alighieri e Benvenuto da
Imola e, soprattutto, dalla versione spagnola in prosa che per inca-
rico dello stesso marchese aveva preparato Enrique de Villena, lavo-
randoci per un intero anno tra il ’27 e il ’28. Trascritta negli ampi
margini di un manoscritto italiano della Commedia e «condotta in
stretta obbedienza alla singola parola»5, ossia seguendo il principio
del tradurre verbum verbo, la versione fu realizzata perché il marchese
se ne potesse servire di aiuto nella lettura dell’originale italiano.
Circa un ventennio prima della traduzione di Villena, nei primi anni
del secolo, in un clima di rinnovamento poetico mirante a una
nobilitazione colta, filosofica e retorica insieme, della poesia, un
genovese stabilitosi a Siviglia, Francisco Imperial, aveva contribuito
in modo decisivo alla diffusione di Dante in terra iberica svolgendovi
la funzione – com’è stato sinteticamente scritto – di «mediatore fra la
cultura italiana tardo medievale e quella castigliana dell’epoca dei
primi Trastámara»6. Imperial – specialmente col Dezir a las siete
virtudes – aveva introdotto quelle elaborate costruzioni allegoriche
dantesche che diventeranno presto di moda nella poesia del regno di
Juan II, aveva sperimentato per primo l’endecasillabo di tipo italiano,

5
J.A. Pascual, La traducción de la «Divina Commedia» atribuida a D. Enrique de Aragón,
Salamanca, Universidad de Salamanca, 1974. Cito da p. 17.
6
G. Caravaggi, Francisco Imperial e il ciclo della «Stella Diana», in M. Picone (a cura di),
Dante e le forme dell’allegoresi, Ravenna, Longo, 1987, pp. 149-68. Cito da p. 149.

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 PARTE PRIMA

e aveva infine modellato il suo linguaggio poetico con elementi del


sistema espressivo dantesco, ciò ottenendo anche attraverso la ri-
presa letterale di alcuni versi del poeta italiano. Si tratta di elementi
che si ritroveranno, in misura e forme diverse, nei due massimi poeti
del secolo, lo stesso Santillana e Juan de Mena. Non potendo entrare
nello specifico dei singoli rapporti testuali, nient’affatto sporadici,
che le opere degli autori menzionati intrattengono con la Commedia,
mi limiterò a segnalare, sul piano generale, che due elementi di
derivazione dantesca, lo schema del sogno o della visione, e la
costruzione allegorica, si ritrovano alla base di importanti decires
narrativi del marchese, quali l’Infierno de los enamorados e la Comme-
dieta de Ponça (1436) e anche delle maggiori opere poetiche di Juan
de Mena, la Coronación (1438) e il Laberinto de Fortuna (1444). E
tuttavia, bisogna subito aggiungere che come per il secondo dei
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componimenti di Mena la vicinanza alla Divina Commedia è dovuta


alla comune appartenenza allo stesso genere di poema medievale, più
che a una sua diretta dipendenza dal poema italiano, cosı̀ – anche nei
casi in cui la relazione si manifesta più strettamente – i due elementi
segnalati finiscono col costituire la caratteristica più macroscopica,
un semplice involucro esterno, dietro il quale le divergenze risultano
spesso radicali.
Di Petrarca il marchese possedeva nella sua biblioteca le tradu-
zioni italiane del De viris illustribus e del De remediis utriusque fortunae,
alcuni frammenti dell’anonimo volgarizzamento castigliano del De
vita solitaria, e un manoscritto contenente Sonetti e Canzoni in morte
di madonna Laura. In effetti, l’inizio della diffusione di Petrarca in
Spagna risale almeno agli anni immediatamente posteriori alla morte
del poeta, e il tramite dovette essere costituito dagli ambienti curiali
avignonesi. Con un destino in parte simile a quello del Boccaccio,
lungo l’intero Quattrocento non fu il poeta in volgare bensı́ il prosa-
tore latino ad affermarsi: Petrarca divenne presto una vera e propria
auctoritas, le cui opere latine in prosa (o almeno alcune di esse) se da
un lato si prestavano a una lettura di tipo «medievalizzante» (preva-
lente ricerca di sententiae ed exempla, da porre generalmente al servi-
zio di una lezione morale; attenzione maggiormente pronunciata nei
confronti dei contenuti; marcato gusto per lunghe liste di nomi,
ecc.), d’altro lato contribuirono notevolmente a trasmettere e diffon-
dere in Spagna materiali classici e patristici. Il che non tardò ad avere
ricche conseguenze all’interno di un certo settore della cultura spa-
gnola. Se prescindiamo dall’anonima versione del De vita solitaria,

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

letterariamente alquanto povera, è esattamente alla metà del secolo


che il futuro arcivescovo di Granada, nonché uno dei grandi anima-
tori della Preriforma spagnola, Hernando de Talavera, traduce le
Invective contra medicum per il signore di Oropesa, vale a dire quel
Fernando Alvarez de Toledo per la cui consolazione Santillana com-
pone il Bı́as contra fortuna, opera che è stata definita «una exposición
tan rotunda y plena de la moral estoica»7, a cui non sono estranei né
Seneca né il De remediis petrarchesco. Non a caso la traduzione di
quest’ultima opera del Petrarca dovrà attendere, all’inizio del secolo
successivo, la sollecitudine di Francisco de Madrid, seguace di Tala-
vera, e fratello di quell’Alonso Fernández che a sua volta era stato
allievo dell’Arcivescovo e traduttore dell’Enchiridion di Erasmo. In
conclusione, le opere latine del Petrarca influenzano e contribui-
scono a formare un ambiente culturale dalle forti relazioni personali
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ed intellettuali, con il quale di fatto coincide il «terreno dove spunte-


ranno atteggiamenti religiosi, intellettuali, convergenti con l’erasmi-
smo»8. Il poeta in volgare s’imporrà solo a partire dal terzo decennio
del XVI secolo, in un mutato contesto culturale; ma la straordina-
rietà dell’evento sarà tale che si può tranquillamente affermare che il
petrarchismo cinquecentesco segna la nascita di una nuova lingua
poetica, con la quale ogni poeta spagnolo sarà destinato a fare i conti
ininterrottamente fino ai nostri giorni. Fino a quando però quell’e-
vento non si verifica, la presenza di Petrarca nella poesia cosiddetta
cancioneril del Quattrocento risulta circoscritta e non sempre evi-
dente, eppure niente affatto inesistente. Spetta ancora una volta a
Santillana il merito di aver condotto un coraggioso, anche se poco
riuscito, esperimento col quale intese rinnovare radicalmente le
forme poetiche, introducendo il più fortunato genere metrico ita-
liano: il sonetto. Nell’arco di un ventennio circa (1438-1455) il
marchese compose quarantadue sonetti, nei quali peraltro il modello
petrarchesco influı̀ solo superficialmente o – come ha scritto Lapesa
– costituı̀ «una bella manera prestigiosa, una “fermosa copertura”
más, como antes las alegorı́as de los decires narrativos»9. Con la sola
eccezione di Santillana, ha scritto lo stesso Lapesa in un saggio
fondamentale, «l’influenza di Petrarca nella lirica è molto più difficile

7
R. Lapesa, La obra literaria del Marqués de Santillana, Madrid, Insula, 1957. Cito dalle
pp. 217-18.
8
F. Rico, Cuatro palabras sobre Petrarca en los siglos XV y XVI, in Convegno Internazionale
Francesco Petrarca, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976, p. 49-58, p. 56.
9
Lapesa, La obra literaria, cit., p. 189.

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 PARTE PRIMA

da valutare [...] sarebbe arrischiato affermare che qualsiasi poeta


castigliano anteriore a Boscán avesse familiarità col Canzoniere pe-
trarchesco»10. Eppure Francisco Rico ha brillantemente dimostrato
che esiste un Petrarca «a la maniera cancioneril», vale a dire che,
specialmente nella generazione dell’ultimo quarto del secolo e degli
inizi del successivo, cosı̀ ben rappresentata nel Cancionero General del
1511, non mancarono poeti i cui componimenti contenevano tracce
più o meno profonde di poesia petrarchesca. La cosa sorprendente è
però che esse non risultano immediatamente evidenti, ma sono come
mimetizzate, perché gli autori hanno sottoposto l’originale italiano a
un processo di rifacimento nei termini del codice poetico spagnolo
quattrocentesco. Nuclei di poesia petrarchesca vengono cosı̀ espressi
mediante il lessico, la sintassi, la metrica e le figure retoriche che
caratterizzano la poesia cancioneril. Né fa difetto la varietà di solu-
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zioni, com’è facile accorgersi confrontando un componimento quale


Al tiempo que en mı́ porfia di Alvar Gómez, nel quale nessun lettore di
Petrarca riconoscerebbe il Triunphus Cupidinis se la rubrica del Can-
cionero de Gallardo non l’avvertisse che si tratta de «El Triunpho de
Amor de Francisco Petrarca traduzido por Alvar Gómez de Guadala-
jara»; confrontandolo, dicevo, con un componimento di Costana
quale Tiene tanta fuerça amor, dove il motivo petrarchesco vi è svolto
in maniera tale da mostrare l’indubbia familiarità che il poeta dovette
avere col Canzoniere. Tra i due poli cosı̀ esemplificati gli studi
inaugurati da Rico sapranno certamente «delimitare una considere-
vole presenza di Petrarca nella poesia “a la castellana” delle genera-
zioni prossime o contemporanee a Boscán e a Garcilaso»11.
Che nel corso del XV secolo Boccaccio fosse letto più di Dante e
Petrarca, ce lo conferma peraltro il fatto che la biblioteca del mar-
chese fosse cosı̀ ben fornita di codici boccacciani (Fiammetta, Corbac-
cio, Filocolo, Philostrato, Teseide), a cui bisogna poi aggiungere le
traduzioni castigliane di opere in italiano (Ninfale d’Ameto, oggi
perduta) e in latino (Genealogia deorum, De montibus), oltre alla
versione italiana della Vita Dantis. È comunque all’erudito autore
delle opere latine che viene rivolta maggiore attenzione, con la

10
R. Lapesa, Poesı́a de cancionero y poesı́a italianizante (1962), in De la Edad Media a
nuestros dı́as, Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71. Cito da p. 148.
11
F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in AA.VV., Doce
consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés, Roma,
Publicaciones del Instituto Español de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30. Cito da p.
129.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

conseguenza che «in un primo momento diventa autorità morale e


culturale al pari di tante altre autorità latine e medievali, compresi il
Dante della Commedia e il Petrarca latino»12. All’inizio del secolo
risale la versione del De casibus i cui primi otto libri furono tradotti
col titolo di Caı́da de prı́ncipes da Pero López de Ayala, e che fu poi
continuata e condotta a termine nel 1422 da Alonso de Cartagena.
Al De casibus, entro la metà del secolo, si aggiunsero le versioni della
Genealogia e del De montibus, entrambi presenti nella biblioteca del
marchese, e solo alla fine del secolo, nel 1494, quella del De mulieri-
bus. «Non furono le opere latine di Petrarca e Boccaccio – la trita
filosofia e la raccolta semierudita – quelle che per prime ottennero
l’ammirazione?», ha difatti affermato Marı́a Rosa Lida facendo ri-
corso a un’interrogazione retorica13. «Raccolta semierudita»: fu que-
sta, difatti, la dimensione che più segnò la prima fase del rapporto
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degli scrittori quattrocenteschi col Boccaccio. Una fase che fu carat-


terizzata, più che da un’imitazione vera e propria, da singole e
frequenti citazioni, le quali erano a loro volta dettate dal prevalente
interesse per gli aspetti dottrinari ed edificatori. Cosı̀, per non fare
che qualche esempio generale, al De mulieribus attinsero costante-
mente gli autori di quella fiorente tradizione letteraria costituita dal
dibattito sui difetti e sulle virtù delle donne, mentre una funzione
analoga svolse il Corbaccio all’interno della complementare tradizione
di letteratura misogina. Ed è significativo che da un’opera come il
Filocolo i letterati del Quattrocento estraessero quelle tredici Questioni
d’amore che maggiormente indulgono al gusto medievale, richiaman-
dosi in particolare ai francesi jugements delle corti d’amore. L’imita-
zione, quando ci fu, cominciò col riguardare soprattutto lo stile, o
per meglio dire quel «virtuosismo retorico» che – come ha scritto
Samonà – si presenta ai quattrocentisti spagnoli «con la stessa opu-
lenza delle opere latine e che li spinge con ogni probabilità a mettere
l’italiano della Fiammetta sullo stesso piano di generica elevatezza
stilistica del latino del De claris mulieribus o del De casibus virorum
illustrium»14. Del resto, proprio la Fiammetta sarebbe stata – secondo
un’autorevole ancorché invecchiata tradizione critica – alla base di
12
J. Arce, Boccaccio nella letteratura castigliana: panorama generale e rassegna bibliografico-
critica, in Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, Firenze, Olschki, 1978, pp. 63-105.
Cito da p. 64.
13
M.R. Lida de Malkiel, Juan de Mena poeta del prerrenacimiento español, México, El
Colegio de México, 1950. Cito da p. 17.
14
C. Samonà, Studi sul romanzo sentimentale e cortese nella letteratura spagnola del Quattro-
cento, Roma, Carucci, 1960. Cito dalle pp. 78-79.

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 PARTE PRIMA

un fortunato genere narrativo, la cosiddetta novela sentimental, che


fiorı̀ in Spagna nella seconda metà del Quattrocento con alcuni
prolungamenti fin nel secolo successivo. Anche se da tempo è stato
convincentemente contestato un tale valore fondante, quest’opera
testimonia comunque di una più matura fase nel rapporto col Boc-
caccio. Tradotta solo nel 1497, anche se abbondantemente letta nei
decenni anteriori, la Fiammetta rappresenterà l’opera nei confronti
della quale gli autori spagnoli esercitarono un’imitazione che non si
limitava più al solo «virtuosismo retorico», ma si spingeva ben oltre,
in direzione di una nuova concezione del narrare: basti pensare – per
limitarmi all’esempio forse più vistoso – al Grimalte y Gradissa di
Juan de Flores che dell’opera italiana costituisce «una immaginosa
continuazione»15.
Nella biblioteca del marchese un posto di rilievo occupavano i
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classici, i quali – sebbene non mancassero copie in latino – erano


presenti molto più spesso in volgarizzamento italiano o castigliano,
né erano del tutto assenti le opere di umanisti italiani come Leo-
nardo Bruni, Giannozzo Manetti o Pier Candido Decembrio, an-
ch’esse per lo più in versione castigliana, a testimonianza diretta dei
rapporti di Santillana col mondo umanistico italiano, a cui fecero
spesso da mediatori intellettuali quali il vescovo di Burgos, Alonso de
Cartagena, Nuño de Guzmán, Juan de Lucena. In ciò la biblioteca
del marchese è specchio fedele, al più alto livello naturalmente, delle
relazioni tra la Spagna e la cultura umanistica italiana, nella stessa
misura in cui «el quiero y no puedo» espresso nella lettera al figlio,
menzionata all’inizio, è stato giustamente assunto ad emblema del
«drama del prehumanismo español», il quale è stato definito come:

La tragicommedia di una élite di curiali e nobili abbagliati dalla cultura


di moda in Italia, e incapaci di seguirla (o addirittura di comprendere
di cosa si trattasse in realtà) per essersi formati attingendo ad una
tradizione culturale completamente distinta16.

In effetti, già a partire dal XVI secolo, un cospicuo numero di


classici recuperati dagli umanisti italiani e alcune opere degli stessi
umanisti circolavano in Spagna, ad opera di rappresentanti più o
meno alti della nobiltà e del clero oltreché dei curiali o burocrati. Nei
confronti di queste opere, ossia della nuova cultura umanistica di

15
Ivi, p. 75.
16
Rico, Primera cuarentena, cit., p. 33.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

provenienza italiana, gli spagnoli mostrarono una varietà di atteggia-


menti che Francisco Rico ha sinteticamente descritto in una mezza
pagina che conviene riprodurre per intero:

Molti non si resero conto (o non vollero farlo) che le novità bibliografi-
che che allora si diffondevano formavano solo una parte di un più
vasto continente intellettuale: e si limitarono a usarle con impassibile
neutralità, mescolandole indifferentemente con le autorità medievali
che continuavano a costituire la base e l’orizzonte del loro mondo.
Altri, invece, videro molto bene che nelle pagine dei classici o degli
umanisti affiorava un ideale che puntava contro il paradigma del
sapere generalmente accettato: il paradigma scolastico (vale a dire,
specialistico, tecnico); e poiché lo videro molto bene, disprezzarono e
attaccarono tali pagine, anche se in qualche caso non seppero evitare
piccoli contagi. I terzi, poi – ma l’enumerazione dovrebbe prolungarsi
–, riconobbero negli studia humanitatis un fermento creativo e cerca-
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rono di appropriarsene: sfortunatamente, quando era già tardi; perché


avevano irrimediabili vizi di formazione e non erano capaci di inten-
dere pienamente la nuova cultura, né di assimilarla se non in alcuni
tratti superficiali, copiati, inoltre, con metodi e strumenti caduchi, a
cominciare dall’impossibile impegno di avvicinarsi allo stile classico
mediante le ricette della precettistica medievale e di dar prova di
erudizione accumulando nomi antichi o riferimenti mitologici – per
esempio – racimolati nei poveri repertori dell’età oscura17.

La storia dei rapporti tra gli intellettuali spagnoli e la cultura


umanistica italiana nei primi tre quarti del secolo è nel suo com-
plesso ancora tutta da scrivere, anche se in questi ultimi vent’anni si
sono andati accumulando studi specifici di grande qualità su singoli
fenomeni, aspetti, autori e opere, che permettono fin d’ora di intra-
vedere alcune linee generali lungo le quali quella storia dovrà neces-
sariamente articolarsi.
Gli «irrimediabili vizi di formazione» saranno superati e, di conse-
guenza, anche in Spagna si sarà in grado di intendere pienamente e
assimilare la nuova cultura umanistica, solo negli ultimi due decenni
del secolo, quando Antonio de Nebrija, dopo un decennio trascorso
in Italia, avrà fatto proprio il programma educativo di Lorenzo Valla,
e con le Indroductiones latinae (1481) e il suo magistero nell’Univer-
sità di Salamanca avrà cominciato a formare le prime generazioni di

17
F. Rico, Imágenes del Prerrenacimiento español: Joan Roı́s de Corella y la «Tragèdia de
Caldesa», in Homenaje a Horst Baader, Frankfurt-Barcelona, Hogar del libro, 1984, pp.
15-27. Cito dalle pp. 15-16.

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 PARTE PRIMA

giovani studenti sui grandi maestri delle lettere antiche. Né mancó il
diretto apporto degli umanisti italiani, alcuni dei quali come Lucio
Marineo Siculo e Pietro Martire d’Anghiera – per limitarci ai casi più
famosi – si trasferirono in Castiglia, dove rimasero il resto della loro
vita, impegnati nel magistero di poesia latina e di eloquenza a
Salamanca, il primo, nell’educazione del fiore della nobiltà presso la
stessa corte reale, il secondo.
Le conseguenze di una cosı̀ profonda trasformazione culturale
non si fecero attendere; esse risultano ben visibili già nei decenni a
cavallo tra i due secoli, in quella che suole definirsi l’epoca dei Re
Cattolici. La stessa poesia di tipo cancioneril non fu esente da un
avvio di rinnovamento dovuto alla crescente penetrazione della cul-
tura umanistica, sia per i contatti con gli autori classici sia per quelli
con i contemporanei poeti rinascimentali italiani. Si è già detto delle
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infiltrazioni della poesia di Petrarca. È ora il caso di notare che nella


seconda edizione del Cancionero general di Hernando del Castillo,
pubblicata di nuovo a Valenza nel 1514, fecero il loro ingresso generi
poetici tipicamente italiani e riprodotti in lingua italiana: alcuni
capitoli, tra i quali uno famoso del Bembo, e i sonetti di Bertomeu
Gentil: accanto ad essi, si trovano pure le coplas castigliane di Boscán
che rifanno una ben nota canzone petrarchesca, o la sestina in
dodecasillabi di arte mayor che Crespı́ de Valldaura scrisse per la
morte della regina Isabella. Da Valenza a Napoli il passo è breve.
Nella città partenopea, si pubblica nel 1517 la Propalladia di Torres
Naharro. Tra le poesie che fungono da «antepasto» e «postpasto» alle
commedie, ne troviamo non poche che appartengono alla tradizione
poetica italiana: di nuovo capitoli e sonetti, ma anche epistole, una
satira e un ritratto. E, naturalmente, il teatro dello stesso Torres
Naharro è impregnato delle preoccupazioni teoriche che intorno a
tale genere si venivano elaborando in Italia, anche se poi non è
sempre facile trovare significativi punti di contatto tra le commedie
dello spagnolo e le opere italiane. Cosı̀ come nel teatro di Juan del
Encina, specie in quello posteriore alle dieci rappresentazioni rac-
colte nell’edizione del 1507, è possibile scorgere un progressivo
avvicinamento alle concezioni teatrali italiane, che non poco deve
alla conoscenza del dramma pastorale italiano e ai contatti con i
poeti che ruotavano nell’orbita di Isabella d’Este (il Tebaldeo, per
esempio): conoscenza e contatti che furono certo favoriti dai due
soggiorni romani iniziati, rispettivamente, nel ’12 e nel ’14. Ma,
anche al di là della poesia e del teatro, il rinnovamento del clima

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

culturale, per l’assimilazione della cultura umanistica, è ben evidente


– per non fare che qualche esempio – nell’adozione di tecniche e
prospettive degli umanisti italiani in campo storiografico da parte di
Alonso de Palencia; nell’uso sapiente delle fonti petrarchesche nel
capolavoro dell’epoca, la Celestina di Fernando de Rojas; nella rice-
zione della geografia umanistica; nelle stesse traduzioni dall’italiano,
tra le quali vide finalmente la luce, nel 1496, quella del Decameron,
ecc. ecc.

3. Un felice connubio: dalla poesia «italianizzante»


di Boscán e Garcilaso all’«Agudeza y arte
de ingenio» di Gracián
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Poco meno di un secolo separa il giudizio di Santillana nel Prohemio e


Carta, laddove il marchese esprimeva la sua preferenza per la varietà
metrica dei francesi rispetto al più limitato repertorio metrico degli
italiani, dalla presa di posizione di Boscán nella Carta a la duquesa de
Soma, che il barcellonese antepose al secondo libro dell’edizione
postuma (1543) della poesia sua e di Garcilaso, e nella quale fin
dall’inizio leggiamo:

Este segundo libro terná otras cosas hechas al modo italiano, las quales
serán sonetos y canciones, que las trobas d’esta arte assı́ han sido
llamadas siempre. La manera d’éstas és más grave y de más artificio y
(si yo no me engaño) mucho mejor que la de las otras18.

dove con «otras» Boscán si riferisce alle «coplas [...] hechas a la


castellana» raccolte nel primo libro, le cui forme metriche sono
storicamente imparentate – come ben sapeva il marchese – con
quelle della poesia francese. Le forme metriche italiane si prende-
vano cosı̀ la rivincita rispetto al più severo giudizio di Santillana,
tanto più che la Carta a la duquesa de Soma, nel difendere quelle
forme e nell’illustrarne la storia, intendeva in effetti giustificare il
rivoluzionario rinnovamento poetico che lo stesso Boscán e Garcilaso
venivano conducendo dalla metà degli anni venti, nel segno del
codice metrico e poetico italiano («por qué no provava en lengua
castellana sonetos y otras artes de trobas usadas por los buenos

18
Obras poéticas de Juan Boscán, a c. di M. de Riquer, A. Comas, J. Molas, Barcelona,
CSIC, 1957.

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 PARTE PRIMA

authores de Italia») e di un modello poetico determinato, quello


petrarchesco naturalmente («Petrarcha fué el primero que en aquella
provincia le [l’endecasillabo] acabó de poner en su punto, y en éste
se ha quedado y quedará, creo yo, para siempre»). Boscán, non a
torto, rivendicava a sé il primato del rinnovamento: «he querido ser el
primero que ha juntado la lengua castellana con el modo de escrivir
italiano»; eppure, non è difficile riconoscere che la sua poesia si
muove in «un’area di sperimentalismi a metá strada fra il nuovo e
l’antico», e il suo petrarchismo «ammette [...] come presupposto
culturale determinante, una sintesi della dialettica consumata dei
canzonieristi quattrocenteschi e del rigore logico della tradizione
catalana (con Ausias March all’apice)»19. In ogni caso, è a un amico
di Boscán e suo compagno di sperimentazione («si Garcilaso [...]
alabándome muchas vezes este mi propósito y acabándomele de
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aprovar con su enxemplo»); è dunque al toledano Garcilaso de la


Vega che spetta l’enorme merito di aver creato, specie con la più
matura produzione del secondo soggiorno napoletano tra il ’32 e il
’36, la moderna lingua poetica castigliana, che coincide sostanzial-
mente con quella del petrarchismo rinascimentale italiano: una lin-
gua che un autorevole studioso ed editore del poeta ha definito a due
livelli, «strettamente apparentati, da una parte, al linguaggio normale
di Toledo e del nord della Spagna e, d’altra parte, alla scrittura
classica e italiana»20. I modelli poetici sono noti: da un lato Petrarca,
nella versione restaurata dal Bembo; dall’altro, in coincidenza con i
fitti contatti stabiliti nell’ambiente umanistico della corte vicereale, i
contemporanei poeti italiani: lo stesso Bembo, Ariosto, e soprattutto
Sannazaro e l’Arcadia. E a proposito di quest’ultimo, oltre ai pur
importanti rapporti intertestuali, è ancor più significativo segnalare
che dal poeta napoletano, forse più che da ogni altro, Garcilaso
apprese una lezione che doveva rivelarsi decisiva per lo sviluppo della
sua poesia, quella riguardante il sapiente uso e adattamento delle
fonti classiche. Il che peraltro ci porta ad accennare a un’altra
questione, quella dei generi neoclassici, ossia lo sforzo che in Italia –
e in Europa – i poeti stavano compiendo «per conciliare la metrica e
le forme esistenti – sviluppate in Italia durante i secoli XIV e XV,

19
G. Caravaggi, Alle origini del petrarchismo in Spagna, in «Miscellanea di studi ispanici»,
XXIV (1971-73), pp. 7-101. Cito dalle pp. 92 e 100.
20
E.L. Rivers, L’humanisme linguistique et poétique dans les lettres espagnoles du XVI e siècle,
in A. Redondo (a cura di), L’humanisme dans les lettres espagnoles, Paris, Vrin, 1979, pp.
169-76. Cito da p. 171.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

soprattutto da parte di Petrarca e del petrarchismo – con i generi


poetici grecolatini [...] che l’umanesimo della fine del XV e del
primo terzo del XVI aveva di nuovo sentito e coltivato»21; a tale
sforzo Garcilaso partecipò con risultati eccellenti, se si ricorda che,
accanto ai sonetti e alle canzoni petrarchesche, la sua poesia si
arricchı̀ presto di generi quali l’ode e l’epistola oraziana, l’elegia,
l’egloga, per limitarsi a quelli più significativi.
La già menzionata edizione del ’43, nella quale la poesia di
Boscán dei primi tre libri veniva stampata accanto a quella di
Garcilaso del quarto, svolse una funzione di primaria importanza,
contribuendo in modo decisivo a diffondere ed imporre la nuova
poesia di tipo «italianizzante». Il processo, avviato negli anni venti,
può dirsi pienamente compiuto qualche anno dopo la metà del
secolo: buon testimone ne è il Cancionero general de obras nuevas
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nunca hasta aora impressas assi por ell arte española como por la toscana
del 1554. Difatti, con la poesia di Cetina e Acuña, due poeti di
formazione italiana, e con quella di Hurtado de Mendoza, Silvestre e
Montemayor, maggiormente compromessi rispetto ai primi con la
vecchia tradizione poetica «a la castellana», il trionfo della metrica
italiana e della nuova poetica fu assicurato. Da questo punto di vista,
è davvero emblematico lo sforzo compiuto nel 1552 da Fernando de
Hozes che sottopose l’intera sua versione dei Trionfi petrarcheschi a
un puntuale rifacimento, in ossequio alla nuova norma metrica che
prescriveva che «ninguno [verso] tenga acento en la última»; una
norma che del resto, proprio in quegli anni, cominciava ad essere
condivisa dalla quasi totalità dei poeti, anche se non tutti l’adotta-
rono con la severità di Hozes e, ancor prima di questi, dal Garcilaso
maturo. Parimenti, alla metà del secolo, la costituzione del nuovo
sistema dei generi metrici e poetici si era sostanzialmente compiuta:
accanto al sonetto e alla canzone petrarcheschi, e ai generi neoclas-
sici già menzionati a proposito di Garcilaso, è forse il caso di
ricordare almeno l’ottava, il capitolo in terzine e la favola mitologica
in endecasillabi sciolti, inaugurati da Boscán, l’epistola in terzine da
Hurtado de Mendoza, il madrigale da Cetina, ecc. Quanto poi ai
poeti italiani che ebbero una maggior influenza in questa seconda
fase, oltre a quelli di primo piano, un posto di rilievo occuparono il
napoletano Tansillo e i poeti raccolti da Ludovico Domenichi nelle

21
C. Guillén, Sátira e poética en Garcilaso (1972), in El primer Siglo de Oro. Estudios sobre
géneros y modelos, Barcelona, Crı́tica, 1988, pp. 15-48. Cito da p. 21.

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 PARTE PRIMA

antologiche Rime diverse del 1545. Con quest’ultimo episodio s’inau-


gura, di fatto, l’influenza di quel cosiddetto «petrarchismo mediato»,
che doveva svolgere un ruolo di primaria importanza nei confronti
della poesia spagnola dei due decenni successivi, gli anni ’60-’80,
attraverso le prime due raccolte delle Rime diverse, i Fiori e i primi
due tomi delle Rime scelte.
A un’iniziativa di Garcilaso e al sapiente lavoro di Boscán si deve
quello che forse non a torto è stato giudicato «il miglior libro di prosa
scritto in Spagna durante il regno di Carlo V» (Menéndez Pelayo),
vale a dire la traduzione del Cortegiano di Castiglione, che Boscán
terminò nel 1533 e che fu pubblicata l’anno seguente. Realizzato
secondo una concezione totalmente moderna della traduzione («Yo
no terré fin en la traducción deste libro a ser tan estrecho que me
apriete a sacalle palabra por palabra, antes, si alguna cosa en él se
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ofreciere, que en su lengua parezca bien y en la nuestra mal, no


dexaré de mudarla o de callarla», promette Boscán nella dedica a
Gerónima Palova de Almogávar)22, il Cortesano ebbe un’influenza
enorme, dando cosı̀ un contributo decisivo alla diffusione di alcuni
temi e idee della cultura rinascimentale italiana. Sebbene, come
dialogo, non abbia esercitato una grande influenza sulle numerose
opere spagnole appartenenti allo stesso genere, ad eccezione dello
Scholástico di Villalón, il suo apporto è stato invece decisivo per
quanto riguarda la diffusione della concezione neoplatonica dell’a-
more. A tale riguardo, è forse il caso di ricordare brevemente che
l’altra opera fondamentale, gli Asolani del Bembo, fu tradotta solo
nel 1551; ad essa seguirono nella seconda metà del secolo ben tre
versioni dei Dialoghi d’amore del giudeo spagnolo Leone Ebreo.
Bisogna dire, comunque, che il dialogo o il trattato d’amore non
ebbe molti imitatori tra gli spagnoli, se prescindiamo dai pochi casi
segnalati da Menéndez Pelayo, tra i quali si trova quello intitolato
Dórida che apparve a Valladolid nel 1593. Tornando alla traduzione
di Boscán, la sua importanza maggiore consiste nel fatto che essa
costituisce un esempio ammirevole di prosa rinascimentale; una
prosa che se da un lato si definisce in contrasto con la prosa artistica
e latineggiante del secolo anteriore, come ha sottolineato la Mor-
reale:

Una prosa che non pretende più di essere latina, ma di fluire secondo i
propri canali in stretta relazione con la lingua parlata. [...] non è meno

22
B. Castiglione, El Cortesano, traducción de J. Boscán, Madrid, CSIC, 1942.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

significativo lo sforzo di Boscán di rispettare il genio della lingua e di


restaurarla nella sua purezza, dopo l’irruzione di latinismi – o pseudo-
latinismi – del periodo precedente23

d’altro lato, segue un preciso ideale estetico, che già Garcilaso aveva
sinteticamente segnalato:

[Boscán] guardó una cosa en la lengua castellana que muy pocos la


han alcanzado, que fue huir del afectación sin dar consigo en ninguna
sequedad (A la magnı́fica señora doña Gerónima Palova de Almogávar).

Quest’ultimo giudizio permette anche di collocare facilmente la


traduzione di Boscán nel quadro della riflessione spagnola cinque-
centesca sulla propria lingua e letteratura, una riflessione che peral-
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tro è impegnata a «condurre sulla realtà locale una verifica di alcuni


principi della dottrina extra-spagnola»24, vale a dire della dottrina
linguistico-letteraria italiana. Nel corso del XVI secolo, difatti, tra i
letterati spagnoli si andarono avvicendando le due linee che si erano
formate in Italia a proposito della questione della lingua, quella costi-
tuita dalla «concezione formalistica, aulica, retorica del Bembo» e
quella del «realismo linguistico del Castiglione»25. Se il rifiuto dell’afe-
tación e l’importanza concessa all’uso nel Dialogo de la lengua, che
Juan de Valdés scrisse a Napoli nel 1535, legano la posizione valde-
siana a quella del Castiglione (e di Boscán e Garcilaso, in Spagna), le
posizioni bembiane sembrano risultare maggiormente assimilate nella
riflessione spagnola del più tardo Cinquecento, in Herrera o Medina
per esempio, con un punto di svolta, alla metà del secolo, costituito
dal Discurso sobre la lengua castellana (1546) di Ambrosio de Morales,
dove «l’assunzione delle posizioni bembiane è tutt’altro che completa
[...] e viene continuamente contemperata da riserve e precisazioni
che mantengono i criteri della lingua d’arte molto più ancorati al
terreno dell’uso di quanto non avvenisse nel Bembo»26.
A un trentennio circa di distanza dalla prima divulgazione e
successo in Italia del Furioso data la diffusione in Spagna del «canone

23
M. Morreale, Castiglione y Boscán: el ideal cortesano en el Renacimiento español, 2 voll.,
Madrid, Real Academia Española, 1959. Cito da p. 24.
24
L. Terracini, Lingua come problema nella letteratura spagnola del Cinquecento (con una
frangia cervantina), Torino, Stampatori, 1979. Cito da p. 125.
25
Ivi, pp. 121-22.
26
Ivi, p. 175.

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 PARTE PRIMA

di Ferrara», come Antonio Prieto ha chiamato il modello epico-


narrativo desumibile dai poemi del Boiardo e dell’Ariosto. Difatti, se
si prescinde dalla versione del Morgante che risale agli anni 1533-35,
è intorno alla metà del secolo che si concentrano sia le due tradu-
zioni del Furioso – quella fortunatissima di Gerónimo de Urrea
(1549) e quella meno nota di Hernando de Alcocer (1550) – sia la
traduzione dell’Innamorato di Francisco Garrido de Villena (1555).
Val la pena di notare che in Spagna il poema del Boiardo gode di
una notevole fortuna, che per qualche tempo tende addirittura ad
oscurare quella del Furioso, quando in Italia, sopraffatto fin dal 1520
dalla fama del capolavoro ariostesco, risulta di una qualche popola-
rità solo in aree culturalmente provinciali. Ciò si spiega se si tien
conto del particolare tipo di lettura che, da un lato, tendeva a
considerare il secondo Orlando come una semplice continuazione del
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primo, e dall’altro vedeva nei due poemi, presi nel loro complesso, la
rappresentazione di un omogeneo complesso di vicende eroiche.
Tutto ciò si può constatare con evidenza maggiore, rispetto alle
traduzioni, in quelle opere che debbono considerarsi delle continua-
zioni dei poemi italiani come, per esempio, La segunda parte de
Orlando (1555) di Nicolás Espinosa, o il Verdadero suceso de la famosa
batalla de Roncesvalles (1555) dello stesso Garrido de Villena. Pur
seguendo piuttosto da vicino i poemi cavallereschi italiani, da cui
traggono personaggi, episodi, situazioni e tecniche narrative, le trame
di queste continuazioni risultano subordinate a un grande disegno di
gesta eroiche, ove la dimensione epica si concretizza poi nel doppio
proposito nazionale e genealogico. Tale tradizione, inaugurata da
Espinosa e Garrido de Villena, che potremmo sinteticamente definire
come un’epopea di importazione italiana costruita attorno a un
personaggio della locale mitologia nazionale (per es., Bernardo del
Carpio), raggiunge il suo pieno compimento in autori del tardo
rinascimento o addirittura del secolo successivo, come Agustı́n
Alonso o Balbuena, le cui opere segnano anche una maggiore origi-
nalità nei confronti dei modelli italiani. E tra i modelli, oltre ai due
Orlando, bisogna annoverare le cosiddette giunte; cosı̀ Espinosa co-
nobbe e utilizzò l’Innamoramento di Orlando di Niccolò degli Ago-
stini, Garrido de Villena e Barahona de Soto l’Angelica innamorata di
Vincenzo Brusantino ecc. Ma la vera fioritura del genere si ebbe in
Spagna con un gruppo di opere in cui si fusero «motivi ariosteschi da
un lato, [e] i grandi temi nazionali dall’altro (le nuove conquiste,
europee e transoceaniche, la guerra contro i Turchi, la Controrifor-

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

ma»27. Gli autori di queste opere, per quanto tendessero ad «assu-


mere un atteggiamento antiariostesco, e a difendere una posizione di
“veridicità”, contrapposta in assoluto ai poemi “fittizi”», in omaggio
ai nuovi ideali estetici dell’aristotelismo ormai imperante, tuttavia
«non seppero resistere al fascino poetico» dei poemi cavallereschi
italiani, dai quali ricavarono se non «prestiti vistosi» quanto meno
«dei moduli stilistici che sono non meno evidenti»28. Si tratta di un
numeroso gruppo di opere che occupa tutta la seconda metà del
secolo: da La Carolea (1560) di Sempere a La Dragontea (1598) di
Lope di Vega, passando per La Araucana (1569-89) di Ercilla, che è
considerato il capolavoro della serie.
L’Arcadia di Sannazaro, che pur aveva svolto un’importante
funzione nel rinnovamento della poesia – come ho già accennato a
proposito di Garcilaso –, e che fu presto considerata un autentico
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capolavoro del genere pastorale, circolò a lungo in Spagna nella


lingua originale, prima di ricevere ben quattro traduzioni, di cui però
solo una conobbe la stampa, quella pubblicata a Toledo nel 1547.
Pur costituendo il modello del romanzo pastorale che si sviluppò in
Spagna nella seconda metà del secolo, tuttavia solo pochi elementi
marginali accomunano l’opera italiana ai primi due romanzi spagnoli
che fondarono il genere, la Diana (1559) di Montemayor e la Diana
enamorada (1564) di Gil Polo. L’influenza dell’Arcadia sul romanzo
pastorale spagnolo era comunque destinata ad aumentare notevol-
mente nella parte finale del secolo, a partire da El Pastor de Fı́lida
(1582) di Luis Gálvez de Montalvo, come meglio vedremo in se-
guito.
Con la pubblicazione in Italia delle Lettere dell’Aretino del 1538
cominciò la voga del genere epistolare, le cosiddette «lettere volgari».
La straordinaria fortuna della raccolta dell’Aretino ebbe un imme-
diato riverbero in Spagna, dove le «popolarissime Epı́stolas familiares
(1539-1541) di Guevara, se da un lato sorgono favorite dalla prima
consegna dell’Aretino, dall’altro si traducono subito in toscano e
contribuiscono a riorientare il corso originario delle lettere volgari»29.
Nel 1551, a pochi mesi dall’originale italiano, l’editore Marcolini
pubblicava l’anonima traduzione spagnola de La zucca del Doni che,
oltre alla più significativa importanza per la tradizione apoftegmatica

27
G. Caravaggi, Studi sull’epica ispanica del Rinascimento, Pisa, Università di Pisa, 1974.
Cito da p. 135.
28
Ivi, p. 164.
29
F. Rico, Introducción a Lazarillo de Tormes, Madrid, Cátedra, 1987. Cito da p. 69.

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 PARTE PRIMA

e quella emblematica, ha un certo rilievo per lo stesso genere episto-


lare a causa delle lettere che vi sono inserite. La fortuna del genere,
intorno alla metà del secolo, acquista in Spagna un valore partico-
lare, se si considera che degli stessi anni è la composizione di
quell’autentico capolavoro della narrativa europea rinascimentale che
è il Lazarillo de Tormes, un racconto pseudo-autobiografico sotto
forma epistolare. Minore fortuna ebbe, invece, la novella, con l’ecce-
zione di pochi casi tra cui è da menzionare almeno El Patrañuelo
(1567) di Timoneda, che Menéndez Pelayo giudicò «la primera
colección española de novelas escritas a imitación de las de Italia»30, e
che comunque ebbe il merito di introdurre un genere nuovo desti-
nato ad avere il massimo successo nel secolo seguente. Sempre in
ambito narrativo val la pena di ricordare la traduzione – o meglio, il
rifacimento – del Baldus di Teofilo Folengo, opera che in Spagna,
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come nel resto d’Europa, dovette leggersi molto, soprattutto tra gli
studenti di latino. L’anonimo rifacimento spagnolo, condotto sulla
redazione Toscolana del 1521, si pubblicò a Siviglia nel 1542, ed è
interessante per più di un motivo. In primo luogo, il rifacitore
sembra compiere un cammino inverso a quello del Folengo, perché –
come scrive Blecua – «l’italiano parte da uno schema topico dei libri
di cavalleria, e dell’epica in generale, per scrivere un’opera parodica.
Il suo rifacitore ricostruisce questo archetipo eroico, eliminando
l’elemento parodico e aggiungendo di suo descrizioni e situazioni
tipiche dei libri di cavalleria»31. In secondo luogo, vi sono introdotte
le due biografie di Falcheto e di Cingar, e quest’ultima può essere
avvicinata per più di un tratto al Lazarillo, tanto più che l’opera è di
dodici anni anteriore alla prima edizione conosciuta del capolavoro
del romanzo picaresco.
Una funzione non trascurabile nella formazione del teatro spa-
gnolo dovette svolgere l’arrivo in Spagna delle compagnie italiane, la
cui presenza, documentata fin dal 1538, divenne maggiormente
consistente ed organizzata tra il 1574 e il 1587, quando a Madrid e a
Valenza operarono le compagnie del celebre Alberto Naselli, detto
Ganassa, e di Stefanello Bottarga. La presenza di tali compagnie
esercitò una doppia influenza: se da un lato, attraverso il loro

30
M. Pelayo, Orı́genes de la novela («Edición nacional de las obras completas de M.
Pelayo»), Santander, CSIC, 1943, III, p. 75.
31
A. Blecua, Libros de caballerı́as, latı́n macarrónico y novela picaresca: la adaptación
castellana del «Baldus» (Sevilla, 1542), in «Boletı́n de la Real Academia de Buenas Letras de
Barcelona», XXXV (1971-1972), pp. 147-239. Cito da p. 155.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

repertorio molto vario (tragedie, tragicommedie, rappresentazioni


pastorali, commedia dell’arte), esse contribuirono alla formazione dei
generi teatrali spagnoli, d’altro lato dettero un decisivo apporto alla
dimensione spettacolare del teatro, attraverso l’introduzione delle
macchine teatrali e lo sviluppo della scenografia nel teatro di corte.
Oltre a ciò le traduzioni – alla metà del secolo – de La Ramnusia
dello Schioppi e Il Sergio del Fenarolo attestano l’interesse per la
commedia italiana, a cui si rifà anche l’autore che forse più di tutti
contribuı̀ a formare il nuovo teatro spagnolo: il sivigliano Lope de
Rueda, che in almeno due delle quattro commedie conservateci – Los
engañados e Medora – segue da vicino modelli italiani, e che anche nei
più originali pasos dovette attingere a certe situazioni drammatiche
tipiche dell commedia dell’arte. Più recentemente, nella Comedia de
Sepúlveda, e nelle Tres comedias di Timoneda, è stato riconosciuto il
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tentativo di adattare la commedia erudita italiana, cosı̀ come il


tentativo di resuscitare la tragedia antica, negli adattamenti di Pérez
de Oliva per esempio, fu probabilmente ispirato a quello che aveva
compiuto il Trissino in Italia.
È cosa risaputa che gli ultimi due decenni del XVI secolo segna-
rono una profonda trasformazione del gusto letterario, che coinvolse
la quasi totalità dei generi. Dal punto di vista teorico, comunque, il
panorama spagnolo seguitò a presentare il grande vuoto che si era
aperto all’indomani della pubblicazione, nel 1496, de El arte de poesı́a
castellana di Juan del Encina. Molto diversamente stavano le cose in
Italia dove, com’è noto, l’affermarsi dell’aristotelismo, a seguito della
divulgazione della Poetica, aveva prodotto, a partire dal commento
del Robortello del 1548, un’abbondante fioritura di trattati teorici.
Naturalmente, anche in assenza di trattati, la riflessione estetica
italiana non era affatto sconosciuta in Spagna, come attestano i
prologhi alle diverse opere, i discorsi in difesa della poesia, i com-
menti alla poesia dei grandi autori e, infine, i singoli passi di opere
letterarie che trattano più o meno esplicitamente di questioni esteti-
che. Il primo trattato completo si ha, tuttavia, solo nel 1596, anno in
cui vide la luce la Filosofı́a antigua poética del medico di Valladolid
Alonso López Pinciano. Prima di esso c’erano stati, in verità, due
trattati: l’Arte poética en romance castellano (1580) di Miguel Sánchez
de Lima, e l’Arte poética española (1592) di Juan Dı́az Rengifo. Ma si
trattava, dopotutto, di modesti manuali di versificazione, che si
limitavano a divulgare i precetti metrici di Antonio da Tempo, a cui
l’Arte di Sánchez de Lima aggiungeva alcune idee tratte dalle Genea-

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 PARTE PRIMA

logie deorum boccacciane, conosciute attraverso la traduzione italiana


di Giuseppe Betussi. La Filosofia antigua poética del Pinciano, consi-
derata a buon diritto il maggior contributo teorico spagnolo, viene
pertanto a colmare un vuoto durato un secolo. Pur non essendo
priva di spunti originali, essa è comunque un’opera di vasta sintesi
delle idee aristoteliche che si erano andate elaborando in Italia nella
seconda metà del Cinquecento. Benché citi i soli Vida e Scaligero, il
Pinciano dà prova di aver letto con attenzione e profondità Robor-
tello, Castelvetro, Minturno, Fracastoro e, in modo particolare, i
Discorsi del poema eroico del Tasso, con il quale coincide pressoché
totalmente sui precetti del genere epico. Di assoluta mancanza di
originalità si è parlato, invece, a proposito del maggiore continuatore
del Pinciano per quanto riguarda la teoria letteraria aristotelica, cioè
Francisco Cascales. Le sue Tablas poéticas, che furono pubblicate
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solo nel 1617 benché fossero state terminate più di dieci anni prima,
sono state definite dal loro maggiore studioso come un «plagio literal»
di tre trattati poetici italiani, tra quelli che avevano raggiunto più
larga diffusione: il commento di Robortello alla Poetica aristotelica, la
redazione italiana L’arte poetica del Minturno, e i Discorsi dell’arte
poetica del Tasso. Del resto, l’utilizzazione di redazioni superate a
proposito delle ultime due opere menzionate, confermerebbe il giudi-
zio di «catedrático provinciano» data del Cascales, il che comunque
non impedı̀ al suo trattato di diventare la poetica di maggiore
influenza e diffusione a partire dalla metà del secolo. A questa data
risale l’Agudeza y arte de ingenio di Baltasar Gracián, opera che aveva
conosciuto una doppia redazione, nel ’42 e nel ’48, e che è da
considerare la maggiore teoria e antologia del concettismo. Molto si
è discusso, fin dai tempi della prima redazione, dell’influenza che
sull’opera di Gracián aveva esercitato il primo trattato teorico ita-
liano di tipo sistematico sulla poesia concettista, il Delle acutezze di
Matteo Pellegrini, apparso appena tre anni prima di quello spagnolo,
nel 1639. È stato giustamente osservato che tale questione ha fatto
spesso dimenticare

la vera dimensione assoluta delle opere dei due scrittori e quella


relativa dell’importanza che entrambe hanno nel singolo ambito delle
rispettive letterature di ogni paese e, infine, nel processo di sviluppo
complessivo della modalità concettista letterario-barocca32.

32
A. Garcı́a Berrio, España e Italia ante el conceptismo, Madrid, CSIC, 1968. Cito da
p. 55.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

In ogni caso, il raffronto sistematico operato da Garcı́a Berrio ha


confermato sostanzialmente il giudizio a suo tempo espresso da
Benedetto Croce, per il quale «alcune somiglianze si riscontrano qua
e là nella parte teorica del suo [di Gracián] lavoro col libro del
Pellegrini. Ma, per conto nostro, preferiamo credere che si trattasse
d’incontro fortuito».
L’Agudeza di Gracián si colloca alla fine di un periodo splendido
per la poesia spagnola, quando questa aveva ormai dato i suoi
migliori frutti, e il suo prestigio aveva di fatto invertito la direzione
d’influenza tra poesia spagnola e italiana, rispetto ai tempi di Boscán
e Garcilaso. Ciò premesso, e benché Petrarca e i rinascimentali
continuassero ad esercitare la loro influenza anche sulle successive
generazioni, va comunque detto che il nuovo gusto poetico spingeva
gli spagnoli a mostrare una più spiccata preferenza «per quelli italiani
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che ostentavano maggiormente l’affettazione, come Tansillo, Tor-


quato Tasso, alcuni dei poeti presenti nelle Rime scelte I e Rime scelte
II e i quattrocentisti Tebaldeo e Aquilano»33. Dei contemporanei,
Torquato Tasso è certamente il poeta che gode di maggiore presti-
gio. Alla sua poesia si avvicinarono in modo particolare poeti come
Francisco de la Torre e Francisco de Medrano; anzi, per quest’ul-
timo costituisce – come ha notato Dámaso Alonso – il poeta seguito
con maggior fedeltà, dopo Orazio. Lo stesso Góngora, buon conosci-
tore della letteratura italiana, in una fase iniziale corrispondente agli
anni 1582-85, quando usò la poesia italiana come «falsilla para sus
propios ejercicios escolares»34, compose un gruppo di sonetti a diretta
imitazione di quelli del Tasso. Nella produzione più matura, dove –
come sostiene lo stesso Alonso – «qui e là si aprono brevi spazi nei
quali s’intravede un modello italiano»35, i rapporti si fanno più me-
diati; e, tuttavia, tracce della poesia del Tasso non mancano neppure
nei componimenti maggiori, il Polifemo e le Soledades. Sulla presenza
dell’altro grande poeta italiano, il Marino, Juan Manuel Rozas, che
ha dedicato alcuni studi al problema, ha recentemente osservato che
«i risultati [...] non sono vistosi per quel che riguarda la quantità» e
che solo «tre o quattro autori (lasciando da parte lo spinoso problema
Marino-Góngora) presentano una sufficiente affinità col napoleta-

33
J.G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid, CSIC, 1960, p. 308.
34
D. Alonso, Notas sobre el italianismo de Góngora, in Obras completas, vol. VI, Madrid,
Gredos, 1982, pp. 331-98. Cito da p. 397.
35
Ivi, p. 398.

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 PARTE PRIMA

no»36. Tra questi «tre o quattro autori», ci sono certamente i due poeti
Villamediana e Soto de Rojas, ai quali lo stesso Rozas ha dedicato
altrettanti studi tra quelli prima menzionati. Quanto, poi, allo «spi-
noso» problema dei rapporti tra Góngora e Marino, si allude al fatto
che, presto notate le relazioni tra i due poeti, e ciò fin dal tempo del
commento di Salcedo Coronel, la difficoltà è consistita nello stabilire
la direzione dell’imitazione. Solo in tempi recenti, Antonio Vilanova,
in uno studio fondamentale sulle fonti del Polifemo, si è pronunciato
a favore dell’imitazione da parte del cordovese nei confronti del
napoletano. Diverso è il caso dei rapporti tra Marino e Lope de
Vega, a proposito dei quali i debiti contratti dal primo hanno per-
messo a Dámaso Alonso di dare a un suo studio sull’argomento il
titolo di Lope despojado por Marino, che suggestivamente suggella
quanto già si diceva circa l’inversione avvenuta nella direzione del-
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l’influenza.
Il prestigio del Tasso, già grande nella lirica, non soffre paragoni
nel genere epico. Il modello ariostesco aveva dominato in Spagna
pressoché incontrastato fino al 1590 circa; poi, a partire dall’ultimo
decennio del secolo, le dottrine e il modello tassiani cominciano a
diffondersi, e riescono a imporsi completamente in pieno XVII
secolo. Tale processo prende il via dalla traduzione di Juan de
Sedeño della Gerusalemme liberata, che vide la luce nel 1587, e a cui
fecero seguito altre due traduzioni: quella di Cairasco, a pochi anni
di distanza, rimasta inedita, e quella di Sarmiento de Mendoza, che
fu pubblicata nel 1649. Forse, più ancora degli stessi traduttori, a
svolgere un ruolo decisivo fu Cristóbal de Mesa, che in un giovanile
soggiorno romano aveva avuto occasione di frequentare direttamente
il Tasso; ciò avveniva, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei
novanta, in un periodo in cui a Roma attorno al Tasso si era raccolto
un folto gruppo di ammiratori spagnoli, tra i quali Cascales, Virués,
Baltasar de Escobar, López de Aguirre ed altri. L’incontro col Tasso
era destinato a risultare determinante sull’evoluzione poetica del
Mesa, per il quale il Tasso costituı̀ il «singular oráculo de la épica
poesı́a», come egli stesso scrisse nel prologo della Restauración de
España. Per tutto ciò, Mesa «si rivela subito come il più acceso
divulgatore della poetica tassiana»37 sia per quanto attiene alle dot-
trine sul poema eroico, sia per quello che riguarda la costituzione di

36
J.M. Rozas, Sobre Marino y España, Madrid, Editora Nacional, 1978. Cito da p. 71.
37
Caravaggi, Studi sull’epica ispanica, cit., p. 238.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

un’epopea nazionale sulla falsariga della Liberata. Mesa fissa le carat-


teristiche tematiche e formali della nuova epica erudita in tre poemi,
il primo dei quali – diviso, come la Liberata, in venti canti – tratta un
tema tipico della Reconquista, come indica lo stesso titolo: Las Navas
de Tolosa (1594); il secondo, la già menzionata Restauración de
España (1607), rielabora materiali tasseschi provenienti sia dalla
Liberata che dalla Conquistata; il terzo, infine, El patrón de España
(1612), che si compone di soli sei canti. Oltre Mesa, il tentativo di
costituzione di un poema eroico ispanico fu portato avanti da un’in-
tera generazione di poeti che annoverava Juan de la Cueva, lo stesso
Alonso López Pinciano, Cristóbal de Figueroa e, naturalmente, Lope
de Vega. Quest’ultimo, che negli anni giovanili aveva già tentato la
materia ariostesca con Hermosura de Angelica (1602), è anche l’autore
di quella Jerusalén conquistada (1609), che può considerarsi l’imita-
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zione più importante del modello tassiano. Tale imitazione della


Gerusalemme, di cui Lope utilizza entrambe le versioni, è evidente nel
numero dei ventiquattro canti, nell’idea centrale del poema – il tema
delle Crociate –, nella forma metrica, nella ripresa di episodi e
situazioni, e perfino nel titolo; e tuttavia i due poemi, pur prescin-
dendo dalla disparità degli esiti, rivelano significativi contrasti in
questioni fondamentali per l’estetica dell’epoca, come per la conce-
zione dell’unità strutturale del poema, o l’atteggiamento verso la
storicità dell’argomento trattato.
A proposito de El pastor de Fı́lida, si è già accennato alla nuova
tappa del romanzo pastorale spagnolo negli ultimi due decenni del
secolo XVI e nei primi di quello successivo; una tappa che, per
quanto riguarda i modelli, fu segnata dalla crescente importanza
assunta dall’Arcadia di Sannazaro che divenne, insieme alla Diana di
Montemayor, l’indiscutibile modello seguito dagli autori spagnoli del
periodo. Bisogna tuttavia precisare che scarsi sono i rapporti con
l’opera italiana nella Galatea (1585) di Cervantes, che si colloca
pertanto in una linea di perfetta continuità con la tradizione nazio-
nale; mentre l’Arcadia (1598) di Lope, nell’utilizzare diversi elementi
dell’omonima opera italiana, li combina, spesso originalmente, con
quelli che trae dalla tradizione spagnola immediatamente anteriore.
È comunque all’inizio del secolo XVII, con le Tragedias de amor
(1607) di Arze Solórzano e, sopratutto, con El Siglo de Oro (1608) di
Bernardo de Balbuena, che il modello sannazariano trionfa su quello
nazionale, il che peraltro significa che la vena «lirica» maggiormente
caratteristica del mondo arcadico sannazariano prende il soprav-

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 PARTE PRIMA

vento su quella «narrativa» o «romanzesca» della tradizione locale, la


quale nel mezzo secolo circa che separa la Diana di Montemayor
dall’Arcadia di Lope era andata esaurendo le proprie possibilità. Del
resto, Sannazaro non fu l’unico italiano ad essere imitato, se si tien
conto dell’immensa fortuna critica ed editoriale che arrise all’Aminta
del Tasso, nella traduzione di Juan de Jáuregui, e che fu certamente
favorita dal grande valore della traduzione medesima, di cui già nel
Quijote si affermava che «felizmente ponen en duda cuál es la traduc-
ción o cuál el original» (II, 52).
Grande fu anche il debito che la prosa narrativa e il teatro
seicenteschi contrassero nei confronti delle raccolte di novelle ita-
liane. La grande novellistica spagnola ha un anno di nascita: quel
1613, anno in cui videro la luce le Novelas ejemplares di Cervantes, il
quale nel prologo della raccolta rivendicava a sé il primato del
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genere:

Yo soy el primero que he novelado en lengua castellana, que las


muchas novelas que en ella andan impresas todas son traducidas de
lenguas extranjeras, y éstas son mı́as propias, no imitadas ni hurtadas.

E, infatti, prima di Cervantes troviamo traduzioni dall’italiano o


tentativi isolati d’imitazione del modello italiano. Per le prime, se
escludiamo il Decameron che circolava in castigliano fin dalla fine del
XV secolo, è negli anni ottanta del secolo successivo che si erano
concentrate le traduzioni di alcune importanti raccolte italiane: nel
1583 videro la luce le Piacevoli Notti di Straparola col titolo di
Primera parte del honesto y agradable entretenimiento de damas y galanes;
nel 1589 una scelta del Novelliere di Bandello fu tradotta in spagnolo,
attraverso il francese, e apparve come Historias trágicas ejemplares; e
l’anno seguente Luis Gaytán de Vozmediano pubblicò una Primera
parte de las cien novelas di Gianbattista Giraldi Cinthio. Quanto ai
tentativi d’imitazione, essi erano risultati piuttosto isolati e parziali:
accanto al già menzionato Patrañuelo di Timoneda, si dovrebbero
citare almeno i racconti in verso del Licenciado Tamariz e, immedia-
tamente prima di Cervantes, le Noches de inverno (1609) di Antonio
de Eslava. Né si possono tralasciare quei casi di opere di più ampio
respiro, in cui gli autori intercalano delle novelle: a volte ci si trova
dinanzi ad autentici capolavori del genere, come risulta per le novelle
inserite da Mateo Alemán nel Guzmán de Alfarache, o dallo stesso
Cervantes nella prima parte del Quijote.
Le Novelas ejemplares furono dunque all’origine di un fenomeno

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

di vera e propria esplosione editoriale del genere novellistico, che


durò pressoché inalterato dagli anni venti sino alla fine del secolo.
Nelle numerose raccolte che si susseguirono, accanto al modello
cervantino, continuò ad operare l’imitazione delle raccolte italiane,
sia per il ricorso alla cornice, l’uso della quale era invece assente
dall’opera di Cervantes, sia per la ripresa di specifiche novelle. Lo
stesso Lope de Vega, che pur giudicava il genere «más usado de
italianos y franceses que de españoles», e che riteneva di esservi poco
portato («Yo, que nunca pensé que el novelar entrara en mi pensa-
miento»), fu indotto a praticarlo sotto l’insistente invito di Marta de
Nevares, alias Marcia Leonarda, per la quale scrisse quattro novelle.
E poiché era convinto che le raccolte di novelle fossero solo dei
«libros de grande entretenimiento» e che, per risultare «ejemplares»,
dovessero essere scritte da «hombres cientı́ficos», nell’introduzione
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alla sua seconda novella enunciò il principio che lo aveva ispirato


nella composizione:

Ya de cosas altas, ya de humildes, ya de episodios y paréntesis, ya de


historias, ya de fábulas, ya de reprehensiones y ejemplos, ya de versos
y lugares de autores pienso valerme, para que ni sea tan grave el estilo
que canse a los que no saben, ni tan desnudo de algún arte que le
rimitan al polvo los que entienden.

Per altro verso, le difficoltà di comporre novelle, per lui che non
si era mai dedicato al genere, avrebbero dovuto essere facilmente
superabili «habiendo hallado tantas invenciones para mil comedias».
La connessione tra i due generi, teatrale e novellistico, è importante
per molte ragioni, la cui trattazione ci porterebbe assai lontano
dall’obiettivo di queste pagine; è però il caso di ricordare rapida-
mente che Lope ricavò i soggetti di numerose sue commedie da
novelle italiane, in particolare da quelle di tre autori: Boccaccio,
Bandello e Giraldi Cinthio, e che in generale i novellieri italiani
svolsero una funzione non trascurabile nel fornire argomenti alla
commedia spagnola del Secolo d’Oro.

4. Un dialogo in periferia:
dal melodramma del Metastasio al «momento» dannunziano
Con l’arrivo di Elisabetta Farnese, e del nutrito gruppo di parmensi
che l’aveva seguita, alla corte madrilena, il teatro italiano – e l’opera

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 PARTE PRIMA

soprattutto – vi ebbe uno spazio sempre maggiore, che contribuı̀ a


favorire la fortuna del melodramma di Pietro Metastasio, a partire
dagli anni trenta del secolo. Né a tale fortuna è estraneo il fatto che a
rappresentarne i melodrammi nei giardini del Buen Retiro fosse stato
chiamato il più celebre tenore dell’epoca, Carlo Broschi, detto il
Farinello. Rappresentazioni e traduzioni, comunque, non furono
limitate al periodo della Farnese; anzi, la fortuna del Metastasio, che
durò settant’anni circa, raggiunse le punte di massima intensità nella
seconda metà del secolo, più precisamente nel ventennio 1750-1769.
Numerose furono le traduzioni, alcune delle quali – spesso accompa-
gnate dal testo italiano – furono più volte ristampate. Qualcuna di
esse meritò l’attenzione di più di un autore: tale fu il caso de L’isola
disabitata tradotta nientemeno che da Jovellanos, Ramón de la Cruz
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e F. Sánchez Barbero. A tale fortuna non fu da meno il Metastasio


lirico, specie l’autore di celebri canzonette, quali La libertà e La
partenza, che conobbero traduzioni e imitazioni da parte dei migliori
poeti spagnoli, tra cui Meléndez, Cienfuegos e Arriaza. Allo stesso
Metastasio, che l’aveva utilizzata nelle canzonette e nelle arie dei
melodrammi, deve la propria diffusione un tipo di strofa che, cono-
sciuta col nome di octavilla italiana, fu largamente usata dai poeti
romantici spagnoli.
Il neoclassicismo conobbe presto la sua teorizzazione con la
Poética di Ignacio de Luzán, che si pubblicò nel 1737 ed esercitò
un’influenza decisiva sui poeti neoclassici spagnoli. Luzán, che era
vissuto a lungo in Italia, dove peraltro aveva composto il primo
abbozzo della Poética, quei sei Ragionamenti sulla poesia scritti in
italiano che lesse pubblicamente a Palermo nel 1728; Luzán – dicevo
– dà prova nella sua Poética di conoscere bene la trattatistica italiana,
a cui fa spesso riferimento, menzionando sia i più antichi commenta-
tori della Poetica aristotelica, sia gli autori suoi contemporanei, tra
cui Orsi, il conte Monsignani, Gravina e, soprattutto, il Della perfetta
poesia del Muratori. Sembra, comunque, certo che l’influenza italiana
sia stata indebitamente sopravvalutata, a svantaggio delle fonti classi-
che, e che si debba ritenere che:

Luzán adottò delle teorie poetiche senza prestare alcuna attenzione alla
nazionalità delle loro fonti, perché, in quanto legislatore poetico, la sua
prima lealtà era – doveva per forza essere – nei confronti della tradi-
zione occidentale. Se dopo Aristotele e gli altri antichi Luzán si riferiva
con maggiore frequenza agli italiani, ciò era dovuto solo al fatto che in

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

Italia, più che in qualsiasi altro paese moderno, c’era stata una forte
tradizione di commenti sulla Poetica aristotelica38.

Col regno di Carlo III, a partire dal 1759, i contatti con l’illumi-
nismo italiano, milanese e napoletano, si fanno più significativi,
soprattutto nell’ambito economico-giuridico. Dal 1774, anno in cui
si pubblicò la traduzione del famoso trattato del Beccaria, Dei delitti e
delle pene, fino alla fine degli anni ottanta, furono tradotte diverse
opere degli illuministi italiani, tra cui quelle del Filangieri, del Geno-
vesi e del Galiani. È ovvio, comunque, che queste versioni attestano
un interesse tardivo, e che quasi tutte le opere tradotte dovettero
circolare ed essere conosciute negli ambienti riformatori spagnoli
nella lingua originale. Stando soprattutto alla testimonianza conte-
nuta nei Diarios di Jovellanos, in ambito religioso, una certa ripercus-
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sione dovettero avere le opere del teologo Pietro Tamburini; mentre,


a giudicare dal numero di traduzioni ed edizioni, una notevole
diffusione ebbero le opere del Muratori di contenuto religioso e
morale, quali La devoción arreglada del cristiano o La Filosofı́a moral.
Agli anni settanta appartiene pure un episodio di storia culturale
reso famoso dal racconto che ne fece Leandro F. de Moratı́n nella
biografia di suo padre, Nicolás. All’indomani della caduta del conte
di Aranda, nel 1772, un gruppo di intellettuali spagnoli tra i quali lo
stesso Nicolás, i poeti Iriarte e Cadalso, e numerosi altri, prese a
riunirsi nella «Fonda de San Sebastián», nella madrilena strada che
portava lo stesso nome. Alla «tertulia», in cui si discuteva di diversi
temi di politica culturale, e molto di teatro, parteciparono anche
alcuni eruditi italiani residenti nella capitale. Costoro, tra i quali si
trovavano Pietro Napoli Signorelli e Giambattista Conti, che svol-
sero un apprezzabile ruolo di mediazione tra le letterature dei due
paesi, portarono nelle conversazioni puntuali ragionamenti sulla poe-
sia petrarchista e rinascimentale; e tra le letture di poesia italiana ci
furono «muchos sonetos y canciones de Frugoni, Filicaja, Chiabrera,
Petrarca, y algunos cantos del Tasso y del Ariosto», sempre secondo
la testimonianza di Leandro. A parte i poeti di epoche passate, i
contemporanei citati – Filicaia e Frugoni – fecero parte della romana
Accademia degli Arcadi, a cui non a caso apparteneva, in qualità di
socio corrispondente, lo stesso Nicolás F. de Moratı́n. È chiaro che

38
R.P. Sebold, Análisis estadı́stico de las ideas poéticas de Luzán: Sus orı́genes y su natura-
leza, in El rapto de la mente, Madrid, Editorial Prensa Española, 1970, pp. 57-97. Cito da p.
89.

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 PARTE PRIMA

la «Fonda» non fu un’accademia né una scuola poetica; l’importanza


dell’episodio – per quanto ci riguarda – consiste piuttosto nel segna-
lare che la lirica italiana continuò a costituire per i neoclassici
spagnoli un valido modello, alla cui configurazione contribuivano sia
gli arcadi settecenteschi, sia – e in misura forse maggiore – i classici
da Petrarca a Tasso.
Sulla fortuna del teatro italiano, a proposito del Metastasio, si è
già detto; una fortuna certo più limitata arrise al teatro del Goldoni,
del quale sono testimoniate le rappresentazioni di una trentina di
drammi giocosi e di una quarantina di commedie nei teatri barcello-
nesi, più ancora che in quelli della capitale, ma anche in teatri
minori. È significativo, comunque, che a diffondersi in Spagna, a
partire della metá del secolo, furono per primi i drammi musicali:
evidentemente, il teatro del veneziano s’inseriva nel cammino aperto
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dal melodramma metastasiano. Solo nel 1770, o – se si preferisce –


nel 1765 con la rappresentazione de La esposa persiana, ebbe inizio
una seconda fase caratterizzata dalla diffusione della commedia pro-
priamente detta. Eppure, nonostante una tale presenza, sono minime
le tracce che il commediografo veneziano ha lasciato nelle opere dei
due maggiori autori di teatro: Leandro F. de Moratı́n e Ramón de la
Cruz. Tanto più che entrambi conoscevano bene e ammiravano
molto il teatro dell’italiano; il primo ci ha lasciato, tra l’altro, un
ammirato ricordo dell’incontro che ebbe, lui ventisettenne, col com-
mediografo ormai ottuagenario a Parigi nel 1787; il secondo fu
addirittura il più importante traduttore del Goldoni nel XVIII secolo:
alle sue traduzioni e adattamenti si deve in buona misura la diffu-
sione spagnola dei drammi giocosi.
Minimi, oltreché dubbi, sono anche i contatti segnalati tra la
poesia del Parini e alcuni autori spagnoli, tra i quali Jovellanos, lo
stesso Leandro, e Cadalso. Si sa che nel 1796, un certo Antonio
Fernández Palazuelo tradusse le prime parti del Giorno, ma la sua
traduzione non ebbe diffusione alcuna, tant’è che fino ad epoche
recenti si dubitava che fosse stata persino pubblicata. La relazione tra
l’ode del Parini, L’innesto del vaiuolo (1765) e quella di Manuel José
Quintana, A la expedición española para propagar la vacuna en América
bajo la dirección de don Francisco Balmis, proverebbe che la poesia del
Parini dovette attendere i primi anni del XIX secolo per essere
valorizzata; una sorte, del resto, che condivise col teatro dell’Alfieri.
A proposito di quest’ultimo, le sue tragedie raggiunsero la notorietà
in Spagna solo nel cinquantennio circa che seguı̀ alla sua morte. Il

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

periodo di massima diffusione, comunque, si ebbe tra il 1805 e il


1823. Al 1805, difatti, risalgono le prime traduzioni della Congiura
dei Pazzi, e della Virginia; ben presto seguiranno le rappresentazioni
affidate all’interpretazione di Isidoro Máiquez, uno dei maggiori
attori del tempo: quelle del Polinice (1806) e dell’Oreste (1807), su
testi tradotti, rispettivamente, da Antonio Saviñón e Dionisio Solı́s.
A partire dall’invasione francese del 1808, Alfieri era destinato a
diventare il drammaturgo della lotta contro Napoleone. In tale con-
testo si collocano le rappresentazioni nel 1812, prima a Cadice e poi
a Madrid, del Bruto primo, che nella traduzione spagnola fu significa-
tivamente ribattezzato Roma libre, e nel 1813 della Virginia, nella
traduzione di Dionisio Solı́s. A partire dal 1823, i maggiori diffusori
del teatro alfieriano (Saviñón, Máiquez, Sánchez Barbero) subirono
le conseguenze della restaurazione fernandina, ma l’interesse per le
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opere dell’Alfieri perdurò in varie forme fino alla metà del secolo.
Una tale «falta de sincronı́a en relación con el gusto dominante» –
come l’ha definita Arce – non caratterizza solo il caso dell’Alfieri, ma
anche quelli del Parini e, in misura minore, del Metastasio e del
Goldoni; e ancora di più si verificherà nel caso del Leopardi, a
proposito del quale si può parlare di una sua diffusione in Spagna
solo alla fine del secolo. Ma tornando ai primi decenni dell’Otto-
cento, la letteratura italiana ben poco incide su quel «gusto strano,
che sembra preso dal francese, dal tedesco e dall’inglese», che –
secondo Manuel José Quintana – va affermandosi nella penisola
iberica. Anche se è opportuno distinguere l’area catalana dal resto
della penisola. In Catalogna, infatti, il contributo italiano alla cultura
romantica è sicuramente più consistente, come testimonia una serie
di fattori ed episodi, che dalla fondazione dell’Europeo giunge fino
agli studi di Milà y Fontanals: la breve vita, negli anni 1823-24, di
un giornale quale El Europeo, che ebbe forti legami e affinità con il
milanese Conciliatore, e che fra i suoi principali redattori contava due
italiani, Luigi Monteggia e Fiorenzo Galli, provenienti appunto dalla
rivista lombarda; la presenza di intellettuali come López Soler che
diresse la nuova rivista barcellonese El Vapor (1833-35) dove ritrovò
espressione l’italianismo lombardo, e come Aribau, a cui si deve una
traduzione parziale dell’Ildegonda di Tommaso Grossi (opera che
peraltro Monteggia aveva ampiamente presentato sulle pagine del-
l’Europeo), e al cui stimolo dobbiamo la traduzione de I promessi sposi
di Juan Nicasio Gallego, numerose volte ristampata a partire dagli
anni 1836-37; la pubblicazione da parte di Joan Cortada della tradu-

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 PARTE PRIMA

zione catalana de La fuggitiva dello stesso Grossi, nel 1834, e di


quella castigliana de La disfida di Barletta di Massimo D’Azeglio, nel
1836; l’interesse per il Manzoni mostrato, prima, da José Quadrado,
autore della traduzione degli Inni sacri e di uno dei primi saggi
stranieri su I promessi sposi, uscito sul settimanale maiorchino La
palma nel 1841, e, successivamente, dal filologo e romanista Milà y
Fontanals, che fu un vero cultore dell’opera del milanese.
Fuori di Catalogna, la letteratura romantica è più tardiva: per
muovere i primi decisivi passi deve attendere il ritorno, nel l833,
degli intellettuali liberali esiliati in Francia ed Inghilterra, e di conse-
guenza molto deve alla letteratura di questi due paesi. L’interesse per
le opere italiane è limitato al romanzo storico di Grossi, D’Azeglio,
Cantù e Guerrazzi; ai libri di storia dello stesso Cantù, oltre che di
Colletta e Botta; agli scritti di vario genere di Silvio Pellico, il cui
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successo durò per più di un trentennio. Insieme a Cantù e Pellico, è


comunque Alessandro Manzoni l’autore più conosciuto in Spagna.
Si è già accennato alla presenza del Manzoni in area catalano-
maiorchina, dove la sua sorte – resa inseparabile da quella di Tom-
maso Grossi, avvolta nella musica di Bellini e Donizetti, con Scott
come costante pietra di paragone – oscillò tra «la bolgia di Dante e i
pinnacoli di Gaudı́», da un lato, e «la riduzione sentimentale della
media degli uomini onesti, rappresentati dal Llausás», dall’altra. Cosı̀
si è espresso Oreste Macrı̀ nella sua monografia sulla Varia fortuna del
Manzoni in terre iberiche39. Con la prima delle due espressioni, l’ispa-
nista italiano alludeva a una lettura del Manzoni che, in contrasto
con le posizioni moderate e concilianti assunte da Monteggia e Galli
sull’Europeo, andava prendendo consistenza sulle pagine del Vapor; si
trattava di una lettura byroniana, per cosı̀ dire, che nell’opera dello
scrittore milanese tendeva a mettere in risalto «quell’eloquenza delle
passioni che dà origine a personaggi veementi, contrapposizioni
acute, scene di forte chiaroscuro», e che sarebbe risultata in sintonia
col futuro sviluppo dell’arte catalana. In secondo luogo, si alludeva
all’atteggiamento di José Llausás, autore di una Reseña crı́tica de la
literatura italiana contemporánea (1841), nella quale Manzoni risultava
ridimensionato a discepolo di Scott, allo stesso livello di un Tom-
maso Grossi, al quale andavano peraltro le maggiori simpatie, e, in
sostanza, a uno scrittore per nulla paragonabile agli «hombres gigan-

39
O. Macrı̀, Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con una premessa sul metodo
comparatistico), Ravenna, Longo, 1976.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

tes literarios» sia dell’antica tradizione italiana, che di quella contem-


poranea francese, inglese e tedesca. A un tale ridimensionamento si
può intendere che reagı̀ la «critica oggettiva» di un Quadrado o di un
Milà, che nei loro studi riportarono il Manzoni nel più ampio raggio
del romanticismo europeo. Assai più ridotto fu il ruolo che il Man-
zoni ebbe nel romanticismo spagnolo, anche a causa del carattere
che quest’ultimo assume, come ben spiega Macrı̀: «il Manzoni non
poteva entrare come componente di fondo nella linea chimerico-
fatalista dal Don Alvaro al Don Juan, la linea che la letteratura
centrale sentı́ come unica carta possibile nel gioco creativo del
romanticismo europeo»40. I promessi sposi vi furono, comunque, pre-
sto conosciuti: in un primo momento nella pessima e mutilata
traduzione di Félix Enciso Castrillón, del 1833; poi, per fortuna,
venne la traduzione assai più corretta, e più volte ristampata, di Juan
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Nicasio Gallego, un canonico di Siviglia, che fu stimolato all’impresa


da Aribau. A partire dalla metà del secolo seguirono altre traduzioni.
Scarsissime furono invece le imitazioni, che si limitano a quelle
registrate nel racconto leggendario El lago de Carucedo (Tradición
popular) di Enrique Gil y Carrasco, e, in misura minore, nel romanzo
El Señor de Bembibre dello stesso autore, e infine nel romanzo storico
di area periferica, Ave Maris Stella, di Amós di Escalante. Una
menzione a parte merita lo straordinario successo che riscosse l’ode
napoleonica Il Cinque maggio, di cui si conoscono ben ventisei ver-
sioni distinte, anche se le più diffuse – da quella di Rubı́ a quella di
Llausás – coprono gli anni 1844-68 (e la prima catalana è addirittura
del 1867): un’epoca piuttosto tardiva, che si spiega probabilmente
con l’atteggiamento antifrancese e antinapoleonico della storia e
della cultura spagnola.
In tutta la prima metà del secolo XIX, nella cultura spagnola non
vi è alcuna traccia di Leopardi, neppure la semplice menzione. La
valutazione critica della sua poesia ha inizio poco dopo la metà del
secolo, col saggio di Juan Valera, Sobre los cantos de Leopardi (1855),
e continuò, a un quindicennio di distanza, con le riflessioni di José
Alcalá Galiano contenute in Poetas lı́ricos del XIX: Leopardi, e con
quelle che Menéndez Pelayo gli dedicò – a cavallo tra i due secoli –
in vari suoi scritti. Posteriore e, in parte, contemporanea a tale
valutazione critica è la presenza di un leopardismo – certo, tardivo –
nella poesia spagnola: negli ultimi due o tre decenni del secolo XIX,

40
Ivi, p. 36.

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 PARTE PRIMA

è dato riscontrare tracce della poesia o del pensiero leopardiani in


poeti non di primo piano, come Joaquim Maria Bartrina e Federico
Balart, cosı̀ come il «diffuso leopardismo» d’inizio secolo XX è tanto
più evidente in poeti periferici come, per esempio, Carlos Fernández
Shaw. Numerosi sono i riferimenti al poeta italiano nelle opere di
Unamuno, che diede prova di una vera devozione nei suoi confronti.
Le preferenze andarono a «La ginestra» – che tradusse – e al «Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia», echi del quale si ritrovano
nella poesia «Aldebarán». Più in generale, bisogna riconoscere un
fatto che lo stesso Unamuno ribadı̀ in più di una occasione, vale a
dire che «il verso libero leopardiano e la sua sobrietà nell’uso della
rima hanno contribuito – com’è noto – alla libertà delle strutture
formali nelle prime poesie unamuniane»41. Unamuno ebbe vaste
conoscenze della letteratura italiana, come dimostrano le ricerche di
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Foresta e di González Martı́n. La stessa devozione, se non maggiore,


che provava per Leopardi, l’ebbe – tra i poeti italiani suoi contempo-
ranei – per Carducci, mentre per D’Annunzio nutrı̀ sempre una
profonda avversione, che si spinse fino all’insulto, come quando lo
definı̀ «insoportable comediante, vano y hueco», in uno scritto non a
caso dedicato a Carducci, in occasione della sua morte. Carducci fu
conosciuto e ammirato in Spagna soprattutto negli ambienti liberali e
democratici, dove però la sua opera letteraria era meno nota dell’atti-
vità politica. Si sa dell’entusiasmo che il poeta e canonico maior-
chino, Miguel Costa y Llobera, riservò alle Odi barbare, la cui lezione
metrica già accolta nelle poesie in castigliano che formano il volume
Lı́ricas (1879), risulta pienamente assimilata nella raccolta Horacianes
(1906), in catalano. In ogni caso, come ha scritto Vari, «el encuentro
Carducci-Unamuno es sin duda alguna el episodio más importante
del carduccianismo español»42. I primi contatti con l’opera del poeta
maremmano dovevano risalire al 1891, anche se le menzioni ad essa
s’infittirono nel periodo 1904-10, e si spinsero con frequenza minore
fino al 1936, anno in cui è datata l’ultima menzione del Carducci.
Benché ne conoscesse approfonditamente l’opera, Unamuno non
sfuggı̀ al fascino di una personalità, per la quale Carducci era spesso
noto più che per la stessa opera, come si è già accennato: ciò almeno
fanno presupporre alcuni giudizi del basco, tra i quali il seguente:

41
J. Arce, Leopardi en la crı́tica y la poesı́a españolas, in Literaturas italiana y española frente
a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982, pp. 316-32. Cito da p. 328.
42
V. B. Vari, Carducci y España, Madrid, Gredos, 1963. Cito da p. 217.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

«Carducci, el hombre indomable e integérrimo, el gran ciudadano de


Italia, el excelso poeta civil, cuya grandeza como poeta le proviene de
su grandeza como hombre y como italiano». Di Carducci, Unamuno
tradusse le due poesie: «Miramare» e «Su Monte Mario»; frequenti
risultano i riferimenti al concetto carducciano di «rima rigeneratrice»
che lo spagnolo prima rifiutò e, successivamente, a partire dagli anni
1909-10, accettò e praticò; dal 1904, anno a cui risale la traduzione
di «Miramare», l’uso della strofa saffica divenne maggiormente fre-
quente nella poesia di Unamuno: il fenomeno, che pur si potrebbe
spiegare attraverso un rinnovato legame con la tradizione poetica
spagnola, non deve comunque ritenersi estraneo alla lezione metrica
carducciana, se lo stesso Unamuno, in una lettera a Carlos Vaz
Ferreira scrive «en mis Poesı́as verás muchos sáficos al modo carduc-
ciano»; l’influsso si fa ancora più evidente nella successiva raccolta,
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Rosario de sonetos lı́ricos, del 1911.


La diffusione di D’Annunzio in Spagna ebbe come canale princi-
pale la letteratura ispanoamericana, e in particolare l’opera di Rubén
Darı́o, che esercitò una notevole influenza sugli esponenti del moder-
nismo. Nelle Prosas profanas, che Darı́o pubblicò a Buenos Aires nel
1896, è già possibile riscontrare le prime tracce di dannunzianesimo,
quando nessuna delle poche opere in verso pubblicate dall’italiano e
nessuno dei suoi romanzi erano stati ancora tradotti in spagnolo. A
cominciare da L’Innocente, le traduzioni videro la luce a partire dal
1900, lo stesso anno in cui Darı́o compı̀ il suo primo viaggio in Italia,
che doveva dar luogo a quel Diario dove i riferimenti a D’Annunzio
si fanno frequenti. È questo il periodo di maggiore influsso dannun-
ziano, che – insieme alla poesia del Carducci – dovette spronarlo
all’uso della metrica barbara, e che culminò col Canto a la Argentina,
dove si nota una relazione soprattutto con le Laudi. Attraverso la
lezione di Rubén Darı́o, il dannunzianesimo giunge a due poeti
modernisti: Francisco Villaespesa, di cui interessano – dal nostro
punto di vista – soprattutto le raccolte La copa del rey de Tule ed El
alto de los bohemios, entrambe degli ultimissimi anni del secolo, e
Manuel Machado, a proposito del quale più che di concreti contatti
testuali si è parlato di «un temperamento estrechamente afı́n al de
D’Annunzio»43. Una breve menzione merita pure la lirica di Ramón
Pérez de Ayala, in cui gli echi dannunziani risultano, spesso inestri-

43
F. Meregalli, D’Annunzio en España, in «Filologı́a Moderna», 15-16 (1964), pp. 265-
89. Cito da p. 275.

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 PARTE PRIMA

cabilmente, intrecciati a quelli che risalgono alla poesia di Whitman.


In Pérez de Ayala, peraltro, sono maggiormente presenti i rapporti
con la poesia dell’Alcyone, una raccolta che per il resto aveva ricevuto
scarsa attenzione. L’episodio più significativo del dannunzianesimo
spagnolo resta, comunque, l’opera di Ramón del Valle Inclán. La
lettura di D’Annunzio si avverte già nei racconti di Femeninas (1895)
e nell’Epitamio (1897), anche se le suggestioni dannunziane si fanno
più consistenti nelle Sonatas, specialmente in quella de primavera, e
nelle Comedias bárbaras, la prima delle quali è del 1907. Successiva-
mente D’Annunzio è scarsamente presente in Valle Inclán; e, più in
generale, un atteggiamento di disinteresse per l’opera dell’italiano e
la fine di quel «momento» dannunziano, come già nel 1895 l’aveva
definito con qualche esagerazione Andrés González Blanco, si verifi-
cano intorno al 1920, quando la cultura spagnola aveva come punto
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di riferimento intellettuali come D’Ors, Jiménez, Antonio Machado


e, sopratutto, Ortega y Gasset, tutti caratterizzati da un radicale
disinteresse per l’opera dannunziana. A tale atteggiamento sfugge,
forse, il solo teatro: nel 1930, Ricardo Baeza inizia la pubblicazione
del Teatro completo di D’Annunzio, un’opera progettata in dieci
volumi, di cui vedranno la luce unicamente i primi due, che peraltro
contengono traduzioni dello stesso Baeza e di Villaespesa risalenti
agli anni 1906-1911. Non a caso il teatro di Garcı́a Lorca che forse
conosceva i due volumi di Baeza è l’ultima manifestazione letteraria
in cui non è escluso che si possa rinvenire qualche elemento di
provenienza dannunziana.

Nota bibliografica
Nella premessa cito C. Guillén, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura
comparata, Bologna, Il Mulino, 1992.
Trattazioni generali, anche se non sistematiche, sono le seguenti: A. Farinelli, Italia e
Spagna, Torino, Bocca, 1929, 2 voll.; J.G. Fucilla, Relaciones hispanoitalianas,
Madrid, C.S.I.C., 1953; F. Meregalli, Le relazioni tra la letteratura italiana e la
spagnola. I.: fino all’abdicazione di Carlo V, Venezia, Libreria Universitaria,
1961; Id., Storia delle relazioni letterarie tra Italia e Spagna. II, fasc. 2: La
letteratura italiana in Spagna nell’epoca di Filippo II, Venezia, Libreria Universi-
taria, 1967; III: 1700-1859, ivi, 1962; IV: del 1859, ivi, 1963; IV, fasc. 2: la
letteratura italiana in Spagna nel sec. XX, ivi, 1964; si veda anche la sintesi dello
stesso Meregalli, La ricezione delle letterature occidentali nella letteratura spagnola.
La letteratura italiana in F. Meregalli (a cura di) Storia della civiltà letteraria
spagnola, Torino, UTET, 1990, vol. II, pp. 1056-69; J. Arce, Literaturas
italiana y española frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982. Un repertorio

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

bibliografico ancora utile è: J. Siracusa-L. Laurenti, Relaciones literarias entre


España e Italia, Boston, Hall, 1972.
L’epistola al connestabile di Portogallo è citata nella recente edizione El «Prohemio e
Carta» del marqués de Santillana y la teorı́a literaria del s. XV, a c. di A. Gómez
Moreno, Barcelona, PPU, 1990; mentre la lettera al figlio lo è da I. López de
Mendoza, marqués de Santillana, Obras completas, a c. di A. Gómez Moreno e
M.P.A.M. Kerkhof, Barcelona, Planeta, 1988, pp. 455-57. Su quest’ultima
lettera, cfr. F. Rico, El quiero y no puedo de Santillana, in Primera cuarentena y
tratado general de literatura, Barcelona, El festı́n de Esopo, 1982. Sulla biblio-
teca del marchese, lo studio classico è M. Schiff, La bibliothèque du Marquis de
Santillane, Paris, Ecole Pratique des Hautes Etudes, 1905. Sulla traduzione
della Commedia di E. de Villena, cfr. J.A. Pascual, La traducción de la «Divina
Commedia» atribuida a D. Enrique de Aragón, Salamanca, Un. de Salamanca,
1974; J.A. Pascual e R. Santiago Lacuesta, La primera traducción castellana de
la «Divina Commedia»; argumentos para la identificación de su autor, in Serta
Philologica F. Lázaro Carreter, vol. II, Madrid, Cátedra, 1983, pp. 391-402; e il
recente contributo di C. Zecchi, La traduzione della Commedia dantesca attri-
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buita a Enrique de Villena: il «Paradiso», in «Annali di Ca’ Foscari», XXVII


(1988), pp. 327-45. Per F. Imperial, oltre a G. Caravaggi, Francisco Imperial e
il ciclo della «Stella Diana», in M. Picone (a cura di), Dante e le forme dell’allego-
resi, Ravenna, Longo, 1987, pp. 149-68, si veda l’ed. del Dezir a las siete
virtudes y otros poemas, a c. di C.J. Nepaulsingh, Madrid, Espasa-Calpe, 1977,
a cui si rimanda per ulteriore bibliografia sull’autore. Sull’italianismo del
marchese di Santillana e di Juan de Mena, è d’obbligo il rinvio agli studi
classici di R. Lapesa, La obra literaria del Marqués de Santillana, Madrid,
Insula, 1957, e M. R. Lida de Malkiel, Juan de Mena poeta del prerrenacimiento
español, México, El Colegio de México, 1950. Su Petrarca in Spagna, si veda
F. Rico, Cuatro palabras sobre Petrarca en los siglos XV y XVI, in Convegno
Internazionale Francesco Petrarca, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei,
1976, pp. 49-58; e, per una diversa ipotesi sulla sua prima diffusione, A.D.
Deyermond, The Petrarchan Sources of «La Celestina» (1961), Westport, Green-
wood Press, 1975, (soprattutto il cap. «Petrarch’s Latin Works in Spain and
Portugal»). Un’utile raccolta di prose petrarchesche, contenente i testi dei
volgarizzamenti dell’anonimo traduttore del De vita, di Talavera e di F. de
Madrid, è F. Petrarca, Obras I. Prosa, a c. di F. Rico, Madrid, Alfaguara,
1978. Cfr. anche P.E. Rusell, Francisco de Madrid y su traducción del «De
remediis» de Petrarca, in Estudios sobre literatura y arte dedicados al profesor E.
Orozco Dı́az, vol. III, Granada, Universidad de Granada, 1979, pp. 203-20.
Per la presenza di Petrarca nella poesia quattrocentesca, cfr. R. Lapesa, Poesı́a
de cancionero y poesı́a italianizante (1962), in De la Edad Media a nuestros dı́as,
Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71; e F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la
lengua del petrarquismo, in AA.VV., Doce consideraciones sobre el mundo hispano-
italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés, Roma, Publicaciones del
Instituto Español de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30. Dei sonetti del
marchese di Santillana esistono tre recenti edd.: di J. Solá-Solé, Barcelona,
Puvill, 1980; di M.P. Kerkhof e D. Tuin, Madison, Medieval Hispanic
Seminary, 1985; dello stesso Kerkhof, Madrid, Cátedra, 1986. Ad esse si
rinvia per ulteriore bibliografia sull’argomento. Su Boccaccio in Spagna, si
veda J. Arce, Boccaccio nella letteratura castigliana: panorama generale e rassegna
bibliografico-critica, in Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, Firenze,

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 PARTE PRIMA

Olschki, 1978, pp. 63-105. Sulle traduzioni delle opere latine del Boccaccio:
per il De Casibus, F. Fernández Murga, El Canciller Ayala, traductor de
Boccaccio, in Estudios románicos dedicados al prof. A. Soria Ortega, vol. I,
Granada, Un. de Granada, 1985, pp. 313-24; E.W. Naylor, Pero López de
Ayala’s Translation of Boccaccio’s «De casibus», in Hispanic Studies in Honor of
Alan D. Deyermond. A North American Tribute, Madison, Medieval Hispanic
Seminary, 1986, pp. 205-15; e B. Mion, Per un’edizione critica della traduzione
spagnola del «De Casibus virorum illustrium», in «Annali di Ca’ Foscari», XXVIII,
1-2, 1989, pp. 263-80; per le Genealogie, J. Piccus, El traductor español de «De
Genealogia deorum», in Homenaje a Rodrı́guez Moñino, vol. II, Madrid, Gredos,
1966, pp. 59-75; per il De mulieribus, F. Fernández Murga e J.A. Pascual, La
traducción española del «De Mulieribus Claris» de Boccaccio, in «Filologı́a Moder-
na», LV (1975), pp. 499-511; degli stessi autori, Anotaciones sobre la traducción
española del «De Mulieribus Claris» de Boccaccio, in «Studia Philologica Salmanti-
censia», I (1977), pp. 53-64; e l’ed. a c. di G. Boscaini, La traduzione spagnola
del «De mulieribus claris», Verona, Un. di Verona, 1985. Sui rapporti tra novela
sentimental e Boccaccio, cfr. C. Samonà, Studi sul romanzo sentimentale e cortese
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nella letteratura spagnola del Quattrocento, Roma, Carucci, 1960. Per la tradu-
zione della Fiammetta, cfr. Juan Bocacio, Libro de Fiameta, a c. di L. Mendia
Vozzo, Pisa, Giardini, 1983. Sulla penetrazione della cultura umanistica in
Spagna sono fondamentali i lavori di F. Rico: Nebrija frente a los bárbaros,
Salamanca, Un. de Salamanca, 1978; Un prólogo al Renacimiento español, in
Homenaje al profesor Marcel Bataillon, Sevilla, Universidad de Sevilla-Université
de Bordeaux III, 1979, pp. 59-94; e Imágenes del Prerrenacimiento español: Joan
Roı́s de Corella y la «Tragèdia de Caldesa», in Homenaje a Horst Baader,
Frankfurt-Barcelona, Hogar del libro, 1984, pp. 15-27. Per un giudizio diverso
da quello di Rico sul «prehumanismo español», cfr. O. Di Camillo, El humani-
smo castellano del siglo XV, Valencia, F. Torres, 1976. Sulle innovazioni
poetiche nei primi decenni del Cinquecento, cfr. F. Rico, A fianco di Garcilaso:
poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, in «Studi Petrarcheschi»,
IV (1987), pp. 229-36. Sui rapporti italiani del teatro di Torres Naharro e
Juan del Encina, si veda almeno O. Arróniz, La influencia italiana en el
nacimiento de la comedia española, Madrid, Gredos, 1969. Su Alonso de
Palencia e la concezione umanistica della storiografia, si vedano gli studi di
R.B. Tate: Alonso de Palencia y los preceptos de la historiografı́a, in V. Garcı́a de
la Concha (a cura di), Nebrija y la introducción del Renacimiento en España, Sa-
lamanca, Un. de Salamanca, 1983, pp. 37-51; Las «Décadas» de Alonso de
Palencia: un análisis historiográfico, in Estudios dedicados a James Leslie Brooks,
Barcelona, Puvill, 1984, pp. 223-41. Sulla geografia umanistica, cfr. F. Rico,
El nuevo mundo de Nebrija y Colón. Notas sobre la geografı́a humanı́stica y el
contexto intelectual del descubrimiento de América, in Nebrija y la introducción, cit.,
pp. 157-85. Sull’uso delle fonti petrarchesche nella Celestina, cfr. il già menzio-
nato Deyermond, The Petrarchan Sources of «La Celestina».
Per l’abbondante bibliografia sul petrarchismo spagnolo, cfr. il ricco repertorio di M.
P. Manero Sorolla, Introducción al estudio del petrarquismo en España, Barcelona,
PPU, 1987. Nel testo mi sono esplicitamente riferito a: J.G. Fucilla, Estudios
sobre el petrarquismo en España, Madrid, CSIC, 1960; G. Caravaggi, Alle origini
del petrarchismo in Spagna, in «Miscellanea di studi ispanici», XXIV (1971-73),
pp. 7-101; C. Guillén, Sátira y poética en Garcilaso (1972), in El primer Siglo de
Oro. Estudios sobre géneros y modelos, Barcelona, Crı́tica, 1988, pp. 15-48; E.L.

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

Rivers, L’humanisme linguistique et poétique dans les lettres espagnoles du XVI e


siècle, in A. Redondo (a cura di), L’humanisme dans les lettres espagnoles, Paris,
Vrin, 1979, pp. 169-76; F. Rico, El destierro del verso agudo (con una nota sobre
rimas y razones en la poesı́a del Renacimiento), in Homenaje a José Manuel Blecua,
Madrid, Gredos, 1983, pp. 525-51. La Carta a la duquesa de Soma si cita
nell’ed. delle Obras poéticas di Juan Boscán, a c. di M. de Riquer, A. Comas, J.
Molas, Barcelona, CSIC, 1957. Sulla traduzione del Cortegiano, cfr. lo studio
esemplare di M. Morreale, Castiglione y Boscán: el ideal cortesano en el Renaci-
miento español, 2 voll., Madrid, Real Academia Española, 1959; per il testo, B.
Castiglione, El Cortesano, traducción de J. Boscán, Madrid, CSIC, 1942. Sul
Dórida, cfr. E. Asensio, Damasio de Frı́as y su «Dórida», Diálogo de Amor. El
italianismo en Valladolid, in «Nueva Revista de Filologı́a Hispánica», XXIV,
1975, pp. 219-34. Sulla riflessione linguistica cinquecentesca, è fondamentale
L. Terracini, Lingua come problema nella letteratura spagnola del Cinquecento (con
una frangia cervantina), Torino, Stampatori, 1979. Sull’epica rinascimentale
spagnola fino alla diffusione del Tasso, si vedano: A. Prieto, Origen y transfor-
mación de la épica culta en castellano, in Coherencia y relevancia textual. De Berceo
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a Baroja, Madrid, Alhambra, 1980, pp. 117-78; M. Chevalier, L’Arioste en


Espagne (1530-1650), Bordeaux, Université de Bordeaux, 1966; G. Caravaggi,
Studi sull’epica ispanica del Rinascimento, Pisa, Università di Pisa, 1974. Sulle
traduzioni dell’Arcadia di Sannazaro, cfr. R. Reyes Cano, «La Arcadia» de
Sannazaro en España, Sevilla, Universidad de Sevilla, 1973. Sulla diffusione
del genere epistolare, oltre a F. Rico, Introducción a Lazarillo de Tormes,
Madrid, Cátedra, 1987, si vedano anche D. Ynduráin, Las cartas en prosa e
J.N.H. Lawrance, Nuevos lectores y nuevos géneros: apuntes y observaciones sobre
la epistolografı́a en el primer Renacimiento español, entrambi in V. Garcı́a de la
Concha (a cura di), Literatura en la época del emperador, Salamanca, Universi-
dad de Salamanca, 1988, rispettivamente, pp. 53-79 e 81-99. Sul Baldus, cfr.
A. Blecua, Libros de caballerı́as, latı́n macarrónico y novela picaresca: la adapta-
ción castellana del «Baldus» (Sevilla, 1542), in «Boletı́n de la Real Academia de
Buenas Letras de Barcelona», XXXV (1971-1972), pp. 147-239. Sull’in-
fluenza del teatro italiano, oltre al già cit. Arróniz, La influencia italiana, si veda
anche R. Froldi, Lope de Vega y la formación de la comedia, Salamanca, Anaya,
1973; AA.VV., Teorı́a y realidad en el teatro español del siglo XVII. La influencia
italiana, Roma, Instituto Español de Cultura, 1981; su Lope de Rueda e il
teatro italiano, in particolare, cfr. Lope de Rueda, Los engañados. Medora, a c.
di F. González Ollé, Madrid, Cátedra, 1973 e C. Oliva, Tipologı́a de los «lazzi»
en los pasos de Lope de Rueda, in «Criticón», 42 (1988), pp. 65-76. Sulla
Comedia de Sepulveda, cfr. A. Asenjo, La Comedia de Sepulveda y los intentos de
comedia erudita, in J. Oleza Simó (a cura di), Teatros y prácticas escénicas, I: El
Quinientos valenciano, Valencia, 1984, pp. 301-28. Sulla precettistica letteraria
in generale, possono consultarsi: A. Vilanova, Preceptistas de los siglos XVI y
XVII, in G. Dı́az Plaja (a cura di), Historia general de las literaturas hispánicas,
vol. III, Barcelona, Barna, 1953, pp. 567-692; e A. Porqueras Mayo, La teorı́a
poética en el Renacimiento y Manierismo españoles e La teorı́a poética en el
Manierismo y Barroco españoles, entrambi con ricca antologia dei testi, Barce-
lona, Puvill, 1986 e 1989. Su Cascales, cfr. A. Garcı́a Berrio, Introducción a la
poética clasicista: Cascales, Barcelona, Planeta, 1975; e su Gracián, dello stesso
Garcı́a Berrio, España e Italia ante el conceptismo, Madrid, CSIC, 1968. Su
Tasso, cfr. J. Arce, Tasso y la poesı́a española, Barcelona, Planeta, 1973.

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 PARTE PRIMA

Sull’italianismo di Góngora: D. Alonso, Notas sobre el italianismo de Góngora, in


Obras completas, vol. VI, Madrid, Gredos, 1982, pp. 331-98 (e si veda anche
A. Vilanova, Las fuentes y los temas del «Polifemo» de Góngora, Madrid, CSIC,
1957). Su Marino, cfr. J.M. Rozas, Sobre Marino y España, Madrid, Editora
Nacional, 1978. Sull’italianismo di Lope de Vega: E. Müller-Bochat, Lope de
Vega und die italienische Dichtung, Magonza, Akademie der Wissenschaften und
der Literatur, 1956 (e si veda anche D. Alonso, En torno a Lope, in Obras
completas, vol. III, Madrid, Gredos, 1974, in part. le pp. 741-833, sui rapporti
Lope-Marino). E ancora: R. Lapesa, La «Jerusalén» del Tasso y la de Lope
(1944-46), in De la Edad Media a nuestros dı́as, Madrid, Gredos, 1971, pp.
264-85. Per la traduzione dell’Aminta, si veda J. de Jáuregui, Aminta traducido
de Torquato Tasso, a c. di J. Arce, Madrid, Castalia, 1970. Sulla novella si
troverà la bibliografia più recente in J.M. Laspéras, La nouvelle en Espagne au
Siècle d’Or, Montpellier, Un. de Montpellier, 1987. Sui rapporti tra commedia
e novelle italiane nel teatro di Lope, si veda almeno Arce, Literaturas italiana y
española, cit., pp. 231-58; C. Segre, Da Boccaccio a Lope de Vega: derivazioni e
trasformazioni, in Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979, pp. 97-115; e i
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saggi del già menzionato volume collettaneo Teoria y realidad.


Sulla diffusione della letteratura italiana nel Settecento, si veda il capitolo di carattere
generale di J. Arce, Presencia de la cultura literaria italiana, in La poesı́a del siglo
ilustrado, Madrid, Alhambra, 1981, pp. 70-104. Su Metastasio, cfr. A. Stoude-
mire, Metastasio in Spain, in «Hispanic Review», IX (1941), pp. 184-91; A.
Coester, Influences of the lyric drama of Metastasio on the Spanish romantic
movement, in «Hispanic Review», VI (1938), pp. 10-20; J. G. Fucilla, Poesı́as
lı́ricas de Metastasio en la España del siglo XVIII y la octavilla italiana, in
Relaciones hispano-italianas, cit., pp. 202-14. Sulle fonti della Poética di Luzán,
cfr. R. P. Sebold, Análisis estadı́stico de las ideas poéticas de Luzán: Sus orı́genes y
su naturaleza, in El rapto de la mente, Madrid, Editorial Prensa Española, 1970,
pp. 57-97. Sui riformatori in ambito economico-giuridico, cfr. F. Venturi,
Economisti e riformatori spagnoli e italiani del ’700, in «Rivista storica italiana»,
LXXIV (1962), pp. 532-61; e su Beccaria, in particolare, G. Calabrò, Beccaria
e la Spagna, in Atti del Convegno su Beccaria, Torino, Accademia delle Scienze,
1965, pp. 101-20. Su Goldoni, P.P. Rogers, Goldoni in Spain, Oberlin-Ohio,
1941; e A. Mariutti de Sánchez Rivero, Fortuna di Goldoni in Spagna nel
Settecento, in «Studi goldoniani», Venezia, 1959, pp. 315-38. Su Parini e
Quintana, cfr. J. Arce, Scienza e lirica illuministica. Dall’inoculazione al vaccino
in Italia e Spagna, in Letteratura e scienza nella Storia della cultura italiana. Atti
del IX Congresso A.I.S.L.L. I, Palermo, Manfredi, 1978. Su Alfieri, cfr. E.
Allison Peers, The vogue of Alfieri in Spain, in «Hispanic Review», VII (1939),
pp. 122-40; e A. Parducci, Traduzioni spagnole di tragedie alfieriane, in «Annali
alfieriani», I (1942), pp. 31-152. Sulla letteratura romantica in Spagna, in
generale, cfr. J. Arce, La literatura romántica italiana en la España de la primera
mitad del siglo XIX (1968), in Literaturas italiana y española, cit., pp. 296-307.
Su Manzoni, cfr. O. Macrı̀, Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con una
premessa sul metodo comparatistico), Ravenna, Longo, 1976. Su Leopardi, cfr. J.
Arce, Leopardi en la crı́tica y la poesı́a españolas, in Literaturas italiana y española,
cit., pp. 316-32; e R. Arqués, El «leopardismo» de J.M. Bartrina. ¿Mite o
realitat?, in «Rassegna iberistica», XXV (1986), pp. 19-30. Sulla cultura italiana
di M. de Unamuno, cfr. G. Foresta, Unamuno e la letteratura italiana, Roma,
Dialoghi, 1974; e V. González Martı́n, La cultura italiana en Miguel de Una-

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«LA FORTUNE D’UNE LITTÉRATURE» 

muno, Salamanca, Un. de Salamanca, 1978. Su Carducci, cfr. V.B. Vari,


Carducci y España, Madrid, Gredos, 1963. Su D’Annunzio, cfr. F. Fernández
Murga, Gabriele D’Annunzio e il mondo di lingua spagnola, in Gabriele D’Annun-
zio nel primo centenario della nascita, Roma, Centro di Vita Italiana, 1963, pp.
143-60; e F. Meregalli, D’Annunzio en España, in «Filologı́a Moderna», 15-16
(1964), pp. 265-89.
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MODELLI E STAGIONI
DEL PETRARCHISMO EUROPEO

1. Criteri per una definizione:


variazioni e livelli del codice petrarchista
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Precedendo di un lustro esatto un’analoga iniziativa veneziana, a


Basilea, sullo scorcio del XV secolo, apparvero per la prima volta
raccolte in un unico volume a stampa le opere latine di Francesco
Petrarca. Ma solo molto più tardi, nel 1554, quando cioè l’evento si
riprodusse con una nuova edizione (poi ristampata nel 1581), al
lettore era offerto il privilegio di ritrovare unite, le une accanto alle
altre, le opere latine e le poesie volgari. Non c’è dubbio che, nell’in-
tervallo tra le due edizioni di Basilea, l’ampliamento del volume
all’«opera quae extant omnia» era stato propiziato e reso necessario
da quel fenomeno letterario e sociale che, noto col termine di
‘petrarchismo’, testimoniava della capacità espansiva della cultura
letteraria italiana ben oltre i propri confini linguistici, come col
consueto acume annotava il Dionisotti:

L’inclusione del Petrarca volgare nelle stampe di Basilea del medio e


tardo Cinquecento conferma che durante la prima metà del secolo la
cultura italiana era riuscita a ottenere dall’Europa il riconoscimento
della sua lingua propria, e con essa lingua di una pur propria interpre-
tazione del Petrarca1.

Sulla «pur propria interpretazione del Petrarca» dovremo – com’è


ovvio – tornare in seguito; per il momento, più urgente si pone il pro-
blema di definire cosa s’intenda, o meglio: cosa abbiamo deciso d’in-
tendere nelle pagine seguenti, col termine che presta il titolo all’intero

1
C. Dionisotti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, in «Italia Medievale e Umanistica»,
XVII (1974), pp. 61-113, p. 67.

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 PARTE PRIMA

capitolo. Nelle riflessioni riservate al tema da uno studioso, che al Pe-


trarca ha consacrato l’attività durata tutta la vita, incontriamo in primo
luogo una definizione che si presenta come la più ampia possibile:

Il termine ‘petrarchismo’ può essere usato correttamente, se si desi-


dera l’applicazione più ampia possibile, per designare ‘l’attività produt-
tiva in letteratura, arte o musica sotto l’influenza diretta o indiretta
delle opere di Petrarca, l’espressione di ammirazione per lui, e lo
studio delle sue opere e della loro influenza’2

per imbatterci poi in un suo adattamento entro limiti molto più


circoscritti, a suggerire i quali opera il mutamento introdotto sin dal
termine che, arricchendosi di una specificazione storico-culturale,
diventa ora «Renaissance Petrarchism», descritto a sua volta come
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la composizione di poesia lirica sotto l’influenza diretta o indiretta di


Petrarca in un periodo che comincia quando il poeta era ancora in vita
e finisce intorno al 16003.

E a questa seconda e più ristretta accezione che ci atterremo nel


corso dell’esposizione seguente, con la sola precisazione che al ter-
mine impiegato da Wilkins si preferirà sostituire quello di ‘petrarchi-
smo lirico’, dal momento che ciò che con esso si vuole indicare è
quel fenomeno specificatamente letterario per il quale la lirica vol-
gare del grande aretino, col Canzoniere in posizione privilegiata, fu
assunta a modello della propria produzione da parte di alcune gene-
razioni di poeti che, in Italia e fuori di essa, dal tardo Trecento si
spinsero oltre il primo Seicento. Resteranno, pertanto, fuori dal
nostro discorso capitoli pur essenziali della presenza di Petrarca nella
cultura europea, come quello considerevole riguardante la diffusione
e l’influenza delle sue opere latine; o quello avvincente che concerne
l’azione esercitata dai suoi scritti – latini e volgari – nelle altre arti, e
perfino nei generi letterari diversi dalla lirica; o, ancora, quello assai
significativo, ma totalmente autonomo, della sua fortuna critica. Ma,
senza dubbio alcuno, il maggior rammarico sarà per la decisione di
dover ugualmente escludere il capitolo sugli innumerevoli poeti che
continuarono a trarre ispirazione dalla lirica petrarchesca dal Sei-
cento in avanti, quando cioè il petrarchismo ha smesso di rappresen-

2
E. H. Wilkins, A General Survey of Renaissance Petrarchism, in «Comparative Literature»,
II (1950), pp. 327-42, p. 327.
3
Ivi, p. 328.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

tare il codice poetico che, sia pure con modalità fortemente differen-
ziate, impronta di sé alcune stagioni della lirica europea, senza che
tuttavia la poesia di Petrarca abbia smesso di esercitare un’influenza,
talora rilevante, nella produzione dei singoli e autorevoli poeti. Una
rinuncia oltremodo inaccettabile, per non tentare di compensarla in
minima parte, almeno, con un breve cenno finale, dove – se non
altro, simbolicamente – si renderà giustizia alla presenza del Pe-
trarca, oltre la stagione del petrarchismo.
Ho appena fatto riferimento, seppur incidentalmente, alle moda-
lità fortemente differenziate con cui il codice petrarchista si è di volta
in volta realizzato, nei due secoli larghi della sua esistenza. Con ciò
non alludevo affatto alle modalità a cui individualmente dettero vita i
singoli poeti che lo assunsero a modello, ma a quelle di carattere più
generale, tali da produrre varianti di petrarchismo che contraddistin-
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guono epoche particolari, o determinati ambienti geografico-


culturali, oppure specifiche esigenze di assolvimento. Del resto, per-
ché sorprendersi più di tanto, dinanzi a un cosı̀ ampio ventaglio di
realizzazioni, quando si convenga che «il petrarchismo lirico, nella
sua intera parabola, rappresenta il primo [...] episodio di letteratura
di massa della storia letteraria italiana»4, e fors’anche europea? In-
somma, all’interno della vasta area coperta dal termine, mi accingo a
individuare almeno tre varianti di petrarchismo, a seconda che entri
in gioco il fattore temporale, spaziale, funzionale. Mi spiegherò
meglio con una breve serie di rapidi esempi, che saranno trattati con
maggiore autonomia nei successivi paragrafi.
Per la variante diacronica, basti pensare, all’interno della poesia
italiana, a tipi cosı̀ lontani di petrarchismo, come quelli quattro e
cinquecentesco, per il primo dei quali valga la nota e fondamentale
precisazione della Corti, per cui «nel Quattrocento il Petrarca non è
che una delle componenti del petrarchismo»5; mentre per il secondo,
relativo al Cinquecento, non c’è che da ricordare l’ancora più celebre
definizione di Contini, per il quale il petrarchismo bembesco è il
frutto della «stagione di un Petrarca non tradito»6. Né la diversità

4
M. Santagata, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’: appunti per una storia, in M.
Santagata e S. Carrai (a cura di), La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco
Angeli, 1993, pp. 11-30, p. 13.
5
M. Corti, Introduzione a P. J. De Jennaro, Rime e lettere, Bologna, Commissione per i
testi di lingua, 1956, p. XLVI.
6
G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951), in Varianti e altra linguistica,
Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-92, p. 191.

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 PARTE PRIMA

geografica produsse, nei secoli in questione, minori effetti sulla


maniera di richiamarsi al modello petrarchesco. Nel tardo Quattro-
cento, per esempio, si dettero esperienze poetiche cosı̀ discordanti
come quelle che prendevano forma a Napoli, dove la produzione
lirica di un Sannazaro, o anche di un Cariteo, parzialmente giustifica
l’asserzione per cui l’imitazione petrarchesca messa in pratica da
entrambi i poeti anticipava le tendenze linguistiche e stilistiche del
classicismo cinquecentesco; o, in altra direzione, come le esperienze
che, nello stesso giro di anni, tutti concentrati nell’ultima decade del
secolo, trovavano un naturale spazio di gradimento presso la corte
dei Gonzaga, a Mantova, dove – in effetti – furono accolti poeti
come il ferrarese Antonio Tebaldeo, o l’aquilano Serafino de’ Cimi-
nelli, ossia i più significativi rappresentanti di quella lirica che,
piegandosi alla prassi cortigiana, finiva inevitabilmente per adattare
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le forme e i temi ricavati dal modello all’eterodosso intento dell’in-


trattenimento mondano da consumare in società. Quest’ultima con-
siderazione, in effetti, c’introduce direttamente alla terza variante di
petrarchismo, quella che abbiamo chiamato ‘funzionale’, e che sen-
z’altro mette in gioco una «storia sociale del petrarchismo», intesa
come «una storia attenta ai dati linguistici, formali e sociologici, ma,
soprattutto, capace d’individuare gli intrecci politico-istituzionali,
apparati ideologici e formalizzazioni letterarie»7. Ricorrerò, in questo
caso, a un doppio esempio. La poesia napoletana d’età aragonese,
per la quale contiamo sull’eccellente monografia di Marco Santagata,
tra i poeti della cosiddetta «vecchia guardia», nati cioè tra il 1430 e il
’45, presenta una significativa concomitanza di poeti come De Jen-
naro, Galeota e Perleoni, accanto a lirici della natura di un Aloisio o
di un Caracciolo, autori entrambi di raccolte di rime intitolate –
rispettivamente – Naufragio e Amori. Ebbene, lo studio di Santagata
ha messo in luce con assoluta evidenza come all’«uso socializzato di
Petrarca», che caratterizza i primi, si contrapponga la pratica poetica
dei secondi che, sebbene non possa farsi coincidere con l’«aristocra-
tica e solitaria esperienza petrarchista» del Sannazaro, risulta tuttavia
dettata da un uso meno socializzato dell’attività lirica e dello stesso
modello petrarchesco: due prassi poetiche, insomma, che trovano la
loro ragion d’essere nella diversità della funzione sociale e dei pre-
8
supposti ideologici, con cui ci si richiama allo stesso modello .

7
Santagata, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’, cit., pp. 13-14.
8
M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento,
Padova, Antenore, 1979; le citazioni sono dalla p. 94.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

L’altro esempio ci conduce già fuori dell’Italia quattrocentesca, ri-


portandoci nell’Europa del secolo successivo, quando il petrarchismo
dilagò nelle varie letterature nazionali dei paesi del vecchio conti-
nente. Ebbene, anche in questo caso, è possibile individuare una
determinazione funzionale, la quale però, piuttosto che essere moti-
vata a livello storico-sociale, risulta «tutta interna alla letteratura»,
come ha recentemente precisato Klaus W. Hempfer che, a sua volta
basandosi sul noto libro di Forster9, ha ulteriormente ribadito che il
petrarchismo europeo «attraverso la facile imitabilità dei suoi modelli
ha favorito nelle singole letterature nazionali il distacco dall’antica
norma poetica e la costituzione di una nuova poesia volgare»10.
Il lettore di queste pagine avrà facilmente compreso che solo le
inevitabili esigenze espositive mi hanno spinto a presentare per sepa-
rato i tre tipi di variazione del petrarchismo, i quali – nella loro
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concreta realizzazione storica – non poterono che operare nel più


totale intreccio e nella più inestricabile dipendenza l’uno dall’altro. Il
problema è, piuttosto, un altro, dal momento che, una volta stabilito
che il petrarchismo – dal tardo Trecento agli ultimi decenni del
Cinquecento – variava nel tempo, nello spazio, e per funzione,
varrebbe la pena di chiedersi ora in cosa esso variasse. In altri termini,
non basta aver determinato i fattori in rapporto ai quali la variazione
si verifica, se contemporaneamente non si hanno chiari i criteri, in
base ai quali sia possibile distinguere i vari prodotti della variazione
stessa. Ora, come per tutti i codici, anche per quello petrarchista,
oltre che lecito, è necessario individuare una molteplicità di livelli
d’articolazione, che – nel caso specifico – possono essere sintetizzati
in un numero non inferiore a quattro: linguistico, formale, tematico,
strutturale. Per illustrarli, non ricorrerò neppure ai fugaci esempi di
cui mi sono servito per introdurre i fattori che generano la variazione,
preferendo rimandare l’intero discorso alla trattazione storica conse-
gnata ai successivi paragrafi. Accennerò solo, molto rapidamente,
alle ragioni che inducono a fissare i menzionati quattro livelli, e a
cosa debba intendersi con ognuno di essi. A differenza delle lettera-

9
L. W. Forster, The Icy Fire. Five Studies in European Petrarchism, Cambridge, University
Press, 1969.
10
K. W. Hempfer, Per una definizione del petrarchismo (1987), in Testi e contesti. Saggi
post-ermeneutici sul Cinquecento, Napoli, Liguori, 1998, pp. 146-76, p. 170. Sulla fortuna
europea del Petrarca, vd. i recenti contributi raccolti in AA. VV., Pétrarque en Europe.
XIV e-XX e siècle, «Actes du XXVIe congrès international du CEFI, Turin et Chambéry,
11-15 décembre 1995», Paris, Honoré Champion, 2001.

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 PARTE PRIMA

ture non italiane, per le quali il livello linguistico risulta quasi o del
tutto irrilevante, nella italiana le opere volgari di Petrarca svolsero
l’autorevole ruolo di modello di lingua quanto, o ancor più, che di
modello di poesia11; con l’effetto che al recupero e alla valorizzazione
di Petrarca si è rigorosamente accompagnato il processo di toscaniz-
zazione della lirica, nel corso del quale si attuò parallelamente il
distanziamento dagli usi linguistici tipici della letteratura provinciale.
Quanto agli altri livelli, strettamente pertinenti al Petrarca assunto
come modello di poesia, appare opportuno distinguere, in prima
istanza, un piano microstrutturale da uno macrostrutturale. Nel
primo, vanno fatti rientrare sia il livello formale, che comprende più
di un repertorio: da quello metrico al retorico allo stilistico, sia anche
il livello tematico, ulteriormente scomponibile nei singoli temi e
motivi tutti di stampo petrarchista. Resta, infine, il livello strutturale,
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che qui intendiamo – alquanto arbitrariamente – solo nel senso di


macrostruttura, e col quale ci riferiamo a quell’aspetto essenziale del
Canzoniere, grazie al quale assunse presto – nonostante l’esistenza di
significativi precedenti – un’indiscutibile funzione di archetipo. Mi
riferisco, naturalmente, al suo carattere di ‘libro chiuso’, dotato cioè
di una tale coerenza testuale da imporlo come insieme – appunto –
strutturato, contro la tendenza – che è pure storicamente affiorata –
di considerarlo alla stregua di una mera raccolta di rime, dove
l’autonomia dei frammenti ha la meglio sul complesso che li integra.
Le brevi riflessioni finora svolte, pur nei limiti dell’estrema sintesi
con cui sono state necessariamente presentate, e di conseguenza del
carattere che sarà risultato o troppo astratto, nel caso di talune
indicazioni teoriche, o troppo generico, in occasione dei pochi
esempi concreti riportati; pur nei limiti descritti, dicevo, mi appaiono
imprescindibili come preliminari a un discorso che, dovendo trattare
del petrarchismo europeo in poche pagine, non può comunque
sottrarsi al compito di specificare di volta in volta, perché la categoria
storico-letteraria abbia un senso: quali livelli del codice sono impli-
cati, in quale epoca e in quale ambito geografico-culturale si colloca,
con quale funzione sociale e ideologica è assunto. Non meno impre-
scindibile per la materia che ci si accinge a trattare – sia detto in
chiusura di premessa –, sarebbe da considerare quel capitolo che si

11
Cfr. A. Vallone, Di alcuni aspetti del Petrarchismo napoletano (con inediti di Scipione
Ammirato), in «Studi petrarcheschi», VII (1961), pp. 355-75, p. 364; e Hempfer, Per una
definizione del petrarchismo, cit., p. 153.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

occupa specificatamente della tradizione dei testi petrarcheschi, dal


momento che è fin troppo facile intuire che nulla è – forse – più
indicativo e, perfino, determinante del singolo tipo di petrarchismo
che il tipo di testo petrarchesco di cui quello si alimenta, prenden-
dolo a modello. Un simile capitolo difficilmente avrebbe trovato
posto in un preambolo dettato dalla massima concisione;12 e, tutta-
via, sempre che lo si riterrà opportuno, non ci si asterrà dal fare
riferimento, in relazione ad alcuni episodi salienti, alla storia della
tradizione dei testi volgari petrarcheschi.

2. «Un petrarchismo senza Petrarca»


Fu nell’Italia del Quattrocento, specie della seconda metà del secolo,
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che la poesia lirica s’identificò col petrarchismo. Ma, come suggeri-


sce la formula a prima vista paradossale che dà titolo al paragrafo,
largamente debitrice – peraltro – degli studi della Corti, i rimatori
quattrocenteschi, poco assimilabili ai lirici che nel secolo successivo
aderirono alla soluzione bembesca, improntarono la propria imita-
zione del Petrarca a un radicale sperimentalismo che, promosso dalla
prassi dei singoli poeti e – pertanto – estraneo a un comune pro-
gramma teorico, ebbe tra le sue più dirette conseguenze quella di
‘tradire’ il modello, a livello sia metrico che stilistico e tematico. A
questo tipo di lirica, nella quale finirono per convergere gli opposti
atteggiamenti dell’osservanza e della trasgressione nei confronti di
Petrarca, ci si suole riferire col termine di ‘petrarcheggiante’, volendo
con esso indicare almeno due tratti basilari, che risultano – a ben
vedere – tra di loro complementari. Il primo di essi consiste nel ruolo
assegnato alla lirica petrarchesca, la cui influenza, lungi dal presen-
tarsi come l’unica ad operare nei nostri rimatori, convive con quella
di una variegata tradizione che dai classici latini arriva a includere la
poesia volgare fino a Dante e, persino, ai contemporanei poeti
quattrocenteschi. Al primo si salda il secondo dei due tratti menzio-
nati, dal momento che, una volta assunto come un ingrediente tra i
tanti, il Petrarca imitato nel Quattrocento subisce un processo di
«lessicalizzazione», vale a dire – nelle parole di Santagata – una

12
Lo si legga, in rigorosa sintesi, in C. Bologna, Tradizione testuale e fortuna dei classici
italiani, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana 6. Teatro, musica, tradizione dei
classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 445-928; sul Petrarca, le pp. 612-47.

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 PARTE PRIMA

«riduzione a vocabolario del tessuto espressivo e tematico dei Frag-


menta»13. Poco fedeli al Petrarca per la tendenza ad accogliere tradi-
zioni poetiche diverse sul piano della lingua e dello stile, per la
volontà di saggiare forme metriche nuove, per il ricorso a un venta-
glio troppo ampio e occasionale di temi o motivi rispetto a quello
autorizzato dall’originale, per il disinteresse – infine – che le loro
raccolte rivelano nei confronti del libro strutturato della forma-
canzoniere, i rimatori quattrocenteschi – è bene, comunque, non
dimenticarlo – guardano pur sempre ai Rerum vulgarium fragmenta
come al più vasto e privilegiato repertorio di forme e contenuti a loro
disposizione, dal quale – con la libertà sperimentale di cui si è detto –
ricavano lessico, specifiche unità retorico-stilistiche, immagini pecu-
liari, riconoscibili modulazioni ritmiche, situazioni sentimentali. Né,
in verità, il singolo rimatore si sentiva vincolato all’insieme degli
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aspetti elencati, essendo chiaro – spero – che l’autonomia dei livelli


del codice petrarchista è uno dei fattori che meglio caratterizza il
petrarchismo anteriore alla proposta del Bembo. In tal senso, anzi,
possiamo affermare che un vero e proprio codice petrarchista, nel
Quattrocento, non esiste, se con esso intendiamo un’imitazione tale
che non solo assicuri la fedele riproduzione del modello, ma che
preveda anche l’integrazione di tutti i livelli in cui il codice si articola.
Una situazione particolarmente fluida, dunque, alla cui impronta di
variabilità contribuı̀ non poco il fenomeno delle particolarità regio-
nali che, essendo una caratteristica essenziale del petrarchismo quat-
trocentesco, conferisce all’aspetto strettamente linguistico una spe-
ciale rilevanza. Petrarchismo ed espansionismo del toscano furono,
difatti, eventi che procedettero congiuntamente, ricevendo entrambi
lo stimolo necessario dalla volontà, che animò i rimatori dei singoli
ambiti geografico-culturali, di superare gli usi linguistici tipici della
letteratura provinciale, nella prospettiva di una lingua poetica extra-
regionale, a formare la quale l’apporto principale, accanto al toscano
contemporaneo, fu fornito dalla tradizione poetica che aveva in
Petrarca la personalità maggiormente rappresentativa. Ma ancora più
pertinente del piano linguistico, in questa sede, si rivela quello
ideologico, in rapporto al quale tanto più evidente e necessario
appare il nesso tra la prassi letteraria dei rimatori e la realtà socio-
politica, in cui essi operavano. In tale prospettiva, è utile ricordare
che la compenetrazione di lirica e petrarchismo, fino alla quasi totale

13
Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 90.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

identificazione, fu un processo che si verificò nella seconda metà del


secolo, e che pertanto si svolse in parallelo sia alla formazione e al
consolidamento degli Stati regionali, sia alla nascita delle grandi corti
della penisola. S’intuisce, allora, che la predominante funzione e
destinazione sociale del petrarchismo lirico, con cui finı̀ col coinci-
dere la poesia cortigiana, era rivolta ai signori e al ceto degli uomini
di corte, per i quali la lirica ispirata al Petrarca funzionò da vero e
proprio collante ideologico, nel senso che fornı̀ loro un insieme di
‘valori cortesi’ e di modelli di comportamento da cui trarre motivo di
celebrazione e di legittimazione. Va da sé che si trattava di un «uso
socializzato» della poesia, a cui nulla era più estraneo che la conce-
zione dello stesso Petrarca, donde la motivata affermazione che,
anche sul piano ideologico, i rimatori quattrocenteschi, nella loro
ripresa e rivalorizzazione del Canzoniere, finirono per tradirne le più
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profonde motivazioni, confermando il proprio petrarchismo ‘etero-


dosso’. Trattandosi, come ho appena rammentato, di un fenomeno
tipico della seconda metà del Quattrocento, urge – a questo punto –
introdurre una differenziazione tra la prima parte del secolo e gli
ultimi decenni di esso.
Nella prima metà del Quattrocento, difatti, se si esclude il folto
gruppo di rimatori toscani e quello più esiguo, seppur ragguardevole,
dei veneti, concentrati a Padova, la maggiore manifestazione di
produzione lirica, ispirata alla lezione del Petrarca, si trova concen-
trata nel comprensorio feltresco-romagnolo, dove erano assenti
grandi istituzioni cortigiane, e dove si elaborò una lirica anticipatrice
delle future tendenze, maturate poi nella poesia cortigiana del se-
condo Quattrocento14. Alla corte malatestiana di Rimini, del resto,
soggiornò a lungo, trascorrendovi gli ultimi anni della sua esistenza,
il nobile romano Giusto de’ Conti di Valmontone (1390ca.-1449),
che esercitò un’influenza profonda e duratura sui rimatori di area
feltresco-romagnola. Giusto fu autore di un canzoniere che, cono-
sciuto col titolo arbitrario di La bella mano, suole considerarsi il più
precoce e notevole tentativo di petrarchismo primoquattrocentesco.

14
M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano (1984), in
Santagata e Carrai, La lirica di corte, cit., pp. 43-95. Sul petrarchismo toscano, vd. la
vecchia, ma ancor oggi insuperata, monografia di F. Flamini, La lirica toscana del Rinasci-
mento anteriore ai tempi di Lorenzo il Magnifico, Pisa, Nistri, 1891; su quello veneto, A.
Balduino, Le esperienze della poesia volgare, in G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi (a cura di)
Storia della cultura veneta, III, I: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, Neri
Pozza, 1980, pp. 265-367; Id., Rimatori veneti del Quattrocento, Padova, Clesp, 1980.

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 PARTE PRIMA

Composto di 150 componimenti, che furono assemblati verso il


1440, e che anche nelle scelte metriche rispettavano la tipologia
dell’esempio petrarchesco, se si eccettuano i tre capitoli e l’egloga
polimetra, il canzoniere di Giusto può, difatti, considerarsi il punto
d’avvio di un’intera tradizione, che fonda la propria tenuta stilistica
sulla fedeltà a un modello privilegiato in forma assoluta, a tal punto
da far meritare al suo autore la recente definizione di «Pietro Bembo
del Quattrocento»15.
La svolta si ebbe negli anni sessanta del secolo, quando la poesia
lirica conobbe un’espansione senza precedenti, e allorché i centri di
produzione dalle piccole signorie del comprensorio feltresco-
romagnolo si spostarono presso le grandi corti settentrionali (Fer-
rara, Mantova, Milano) e meridionali (Napoli), che vennero cosı̀ ad
aggiungersi a Firenze e al Veneto, centri già efficacemente attivi nella
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prima metà della centuria. I mutamenti, del resto, non interessarono


solo l’aspetto quantitativo né unicamente quello geografico, dal mo-
mento che coinvolsero il tipo stesso di rapporto col modello, dando
luogo a un petrarchismo – per cosı̀ dire – più rigoroso, come
testimoniano alcune personalità poetiche di rilievo quali Boiardo,
Sannazaro e Lorenzo dei Medici.
Non è facile indicare i tratti che distinguono, rispettivamente, le
produzioni estense, sforzesca e mantovana delle grandi corti del
Nord, accomunate, in cambio, da «un uso socializzato del Petrarca»
che poneva singoli temi e forme tratti dal modello al servizio dell’im-
mediata fruizione all’interno della corte16. Tra Ferrara, Mantova e
Milano, oltre che in numerose altre città della penisola, si mossero
l’aquilano Serafino de’ Ciminelli (1466-1500), meglio noto come
Serafino Aquilano, e il ferrarese Antonio Tebaldi (1463-1537), lati-
namente detto Tebaldeo, due massimi rappresentanti della cosid-
detta lirica cortigiana che in quell’uso socializzato del Petrarca e, più
in generale, della poesia trovava la sua maggiore fonte d’ispirazione.
Entrambi godettero, com’è noto, di un’enorme fortuna presso i
contemporanei: il primo per le sue doti di abile versificatore di metri

15
Santagata, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’, cit., p. 27. Per Giusto, in assenza di
un’edizione critica, si deve ancora ricorrere a Giusto de’ Conti, Il Canzoniere, a c. di L.
Vitetti, 2 voll., Lanciano, Carabba, 1918.
16
In generale, sulla poesia delle corti del Nord nel secondo Quattrocento, vd. A. Tissoni
Benvenuti, Quattrocento settentrionale, Bari, Laterza, 1972, pp. 121-71. Per l’ambito ferra-
rese, vd. ora I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura
poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

brevi, come il sonetto e soprattutto lo strambotto, a cui si univano


quelle di musicista e di cantante; il secondo per la sua maniera
«concettistica», dove cioè prevalevano le antitesi e le iperboli, i motti
finali nei sonetti, i giochi metaforici spesso arditi, se non addirittura
astrusi. Per tali vie, la lezione petrarchesca finiva per sfumare nell’e-
laborazione di prodotti poetici ritagliati sulle esigenze delle vicende
mondane e del vivere sociale17. Ma a Ferrara, tra il ’69 e il ’76, si
consumò anche l’esperienza lirica che portò il conte Matteo Maria
Boiardo (1441ca. -1494) alla stesura degli Amores libri tres, un canzo-
niere a proposito del quale il suo più recente editore ha dimostrato «il
petrarchismo della raccolta, cosı̀ dei singoli testi come del macrote-
sto», sottolineando, peraltro, come in esso si sia realizzata «un’assimi-
lazione sicuramente senza pari nel Quattrocento della lezione di
Petrarca, probabilmente superiore anche a quella operata dallo stesso
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Giusto dei Conti»18, della cui raccolta, del resto, il canzoniere del
conte risulta largamente debitore, a livello sia di trama che di
riutilizzo del repertorio lessicale e di immagini.
Tra i maggiori centri di produzione lirica della seconda metà del
secolo, la Napoli aragonese conobbe, già all’interno della cosiddetta
«vecchia guardia», ossia dei funzionari-poeti della nobiltà cittadina
nati tra il 1430 e il ’45, una significativa differenziazione tra coloro
che, come Francesco Galeota e Pietro Jacopo De Jennaro, furono
interpreti di una poesia cortigiana e, pertanto, di un petrarchismo
compromesso, e poeti più isolati che, allontanandosi consapevol-
mente dalla prassi corrente della lirica cortigiana, si mantennero
maggiormente fedeli alla lezione petrarchesca ed esperirono originali
soluzioni ai livelli macrostrutturali del canzoniere, come accade nel
Naufragio di Giovanni Aloisio e negli Amori di Joan Francesco
Caracciolo19. È, comunque, alla seguente generazione dei poeti na-
poletani che appartengono le due maggiori personalità poetiche, la

17
Di Serafino, oltre a Le Rime di Serafino de’ Ciminelli dell’Aquila, a c. di M. Meneghini, I
(solo vol. uscito), Bologna, Romagnoli-Dall’acqua, 1896 (contiene sonetti, egloghe, epistole
e Rappresentazione allegorica), vd. la recente edizione degli Strambotti, a c. di A. Rossi,
Parma, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, 2002. Su di lui, vd. lo studio dello
stesso A. Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Brescia, Morcelliana, 1980. Del
Tebaldeo, vd. la monumentale edizione delle Rime, a c. di T. Basile e J. J. Marchand, 3
voll., Modena, Panini, 1989-92.
18
M. M. Boiardo, Amorum libri tres, a c. di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1998, pp. IX e
XXX. Fondamentale lo studio di P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze,
Olschki, 1963.
19
Sulla poesia della Napoli aragonese, disponiamo dell’ottimo volume di Santagata, La
lirica aragonese, cit.

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 PARTE PRIMA

cui adesione alla lezione petrarchesca si distacca più risolutamente


dalle forme della poesia cortigiana: il barcellonese Benet Garret
(1450ca.-1514ca.), meglio conosciuto col nome italianizzato di Cari-
teo, che nel canzoniere amoroso intitolato Endimione riuscı̀ a fondere
unitariamente la lettura dei classici e quella di Petrarca, e Jacopo
Sannazaro (1455-1530) che, attraverso i rifacimenti a cui sottopose
tanto le rime amorose quanto le egloghe della fortunatissima Arcadia,
pervenne a un più rigoroso petrarchismo che, in qualche modo, aprı̀
la via al Bembo e alla sua teorizzazione20.
A Firenze, l’ultimo trentennio del secolo fu dominato dalla per-
sonalità di Lorenzo de’ Medici (1449-1492), la cui produzione
giovanile – una settantina di liriche amorose per Lucrezia Donati –
dette luogo, intorno al 1474-75, all’allestimento di un Canzoniere
che, modellato sui Fragmenta, ripercorre l’«amorosa istoria» di Lo-
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renzo e Lucrezia «secondo canoni, moduli e caratteristiche pretta-


mente petrarcheschi». Solo nel successivo ampliamento, che vide più
che raddoppiato il numero dei componimenti, il Canzoniere lauren-
ziano, non solo si aprı̀ ai recuperi sia classici che stilnovistici, «ma lo
stesso petrarchismo a tutto tondo del Magnifico saprà decantarsi per
approdare a vette di suprema rarefazione espressiva, attraverso un
amalgama di influssi culturali e di stimoli stilistici rivissuti su una
personalissima tastiera»21.
Sebbene, come si è appena visto, i risultati raggiunti da lirici
come Boiardo, Sannazaro e lo stesso Lorenzo costituiscano le punte
avanzate del più rigoroso petrarchismo quattrocentesco, è bene ricor-
dare che, come ha di recente scritto Fedi:

prima della codificazione bembesca e della moda culturale del Cinque-


cento, l’incontro di queste personalità con il Petrarca [...] avviene nel
segno di una esperienza non univoca ma intensamente articolata, che

20
Le Rime del Chariteo, a c. di E. Pèrcopo, 2 voll., Napoli, Biblioteca Napoletana di Storia
e Letteratura, 1892; su di lui, vd. il recente volume di B. Barbiellini Amidei, Alla luna.
Saggio sulla poesia del Cariteo, Firenze, La Nuova Italia, 1999. I. Sannazaro, Sonetti e canzoni,
in Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, pp. 135-254. Sul Sannazaro, vd.
almeno gli studi di P. V. Mengaldo, La lirica volgare del Sannazaro e lo sviluppo del linguaggio
poetico rinascimentale, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXV (1962), pp. 436-82;
C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «Giornale storico della letteratura
italiana», CXL (1963), pp. 161-211; M. Corti, Rivoluzione e reazione stilistica nel Sannazaro
(1968), in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 307-23.
21
T. Zanato, Introduzione a Lorenzo de’ Medici, Opere, Torino, Einaudi, 1992, pp. 6 e
10. Più in generale, vd. S. Carrai, La lirica toscana nell’età di Lorenzo, in Santagata e Carrai,
La lirica di corte, cit., pp. 96-144.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

dell’illustre modello assapora ma non ancora subisce il fascino, se-


condo una fruizione disinteressata e personalissima che è ancora
lontana dal fenomeno del bembismo, se pure gli è quasi coeva22.

3. Dal «Petrarca non tradito» al «manierismo petrarchista»


In Italia, un’organica soluzione del petrarchismo lirico andò progres-
sivamente imponendosi solo nel Cinquecento, grazie al coerente
sforzo di teorizzazione compiuto da Pietro Bembo (1470-1547)
lungo l’intero primo decennio del secolo. Le tappe del processo sono
arcinote. Proprio all’inizio del nuovo secolo, nel 1501, a Venezia, il
Bembo pubblicò nei tipi di Aldo Manuzio un’edizione del Canzoniere
petrarchesco, il cui testo, che si offriva nell’inconsueto e manegge-
vole formato in ottavo, era stato scrupolosamente ricostruito sul
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codice vaticano 3197 (solo successivamente lo stesso Bembo ritrovò


e acquistò il manoscritto autografo, Vat. Lat. 3195), e si presentava
rigorosamente privo di ogni commento. Il libro, il cui carattere
innovativo risultò largamente premiato dalle oltre 160 edizioni cono-
sciute prima della fine del secolo, rappresentò il punto iniziale di una
lunga fase di riflessione sulle forme e le funzioni della nuova lettera-
tura, il cui esito finale si conobbe solo cinque lustri più tardi, con la
pubblicazione delle Prose della volgar lingua. Nel frattempo, nel 1505,
con la comparsa degli Asolani, il Bembo poneva le basi per una
rifondazione del linguaggio letterario volgare, e successivamente, nel
1513, con l’epistola polemica De imitatione, esprimendosi in difesa
della stretta ortodossia ciceroniana e contro l’eclettismo di Pico di
non lontana derivazione polizianesca, favoriva quel processo di cri-
stallizzazione dell’uso letterario del latino, che avrebbe costituito un
modello per fissare anche i nuovi criteri dell’uso linguistico relativo al
volgare letterario. È alle Prose (1525), tuttavia, che il Bembo affidò il
proprio programma di rifondazione del linguaggio letterario, ope-
rando una ricostruzione della tradizione in volgare in termini esclusi-
vamente di lingua e di stile, e applicando al volgare toscano una
retorica imitativa basata sui modelli di Petrarca, per la poesia, e di
Boccaccio, per la prosa. Si trattò, dunque, di una «proposta norma-
tiva di ritorno all’ordine petrarchesco», che risultava in netto contra-
sto col carattere sperimentale del petrarchismo quattrocentesco,
come ha ben avvertito, tra gli altri, Mazzacurati:

22
R. Fedi, Invito alla lettura di Petrarca, Milano, Mursia, 2002, pp. 183-84.

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 PARTE PRIMA

Sottraendosi al consumo rapido, capriccioso, dissipante di tanta espe-


rienza quattrocentesca, sia in area «cortigiana» che in area tardo-
municipale, l’ideologia della letteratura che le Prose sanciscono sembra
prevedere e precedere una sorta di stasi quantitativa, di iterazione e
moltiplicazione a partire da un gioco di sistemi chiusi23.

Le conseguenze di ciò sulla produzione lirica cinquecentesca


furono molteplici e profonde. Intanto, c’è da dire che l’esemplifica-
zione del programma teorico esposto nelle Prose arrivò solo cinque
anni più tardi, con la pubblicazione della raccolta delle Rime. Su di
esse, si conosce il giudizio che, con giusta severità, espresse il
Dionisotti, per il quale «troppe volte il recupero critico della tradi-
zione si esauriva in sé stesso, nella ostentazione puramente e facil-
24
mente tecnica della disponibilità di un modello» . D’altronde, nello
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stesso anno delle Rime bembiane, apparvero a stampa anche quelle


del Sannazaro che, pur appartenendo a un tempo diverso, si stacca-
vano dallo sperimentalismo e dal plurilinguismo di stampo corti-
giano, per presentare soluzioni linguistiche e stilistiche analoghe agli
esiti a cui frattanto era pervenuto il Bembo e che, beninteso, in
quest’ultimo si fondavano su una prassi imitativa ben più consape-
vole e, soprattutto, teoricamente attrezzata. La mirabile coincidenza
dettò al Dionisotti la celebre affermazione, per la quale «si può ben
dire che il 1530 sia la data di nascita del petrarchismo lirico cinque-
centesco»25. Sia chiaro, però, che l’imitatio stili della mediazione
bembiana non escluse necessariamente la possibilità di leggere il
testo petrarchesco come documento di vita, ossia di farne oggetto di
un’imitatio vitae. Su tale aspetto ha insistito opportunamente Bal-
dacci, come risulta dal seguente brano:

Cosicché l’interesse critico-retorico che sarà compiutamente espresso


dalle poetiche (in primo piano le Prose del Bembo nella loro non
ancora sufficientemente rivelata intenzione di poetica), è assente quasi
del tutto nei commenti al Canzoniere, ove non si tratta di presentare la
poesia sotto un aspetto paradigmatico sul piano della forma, bensı̀ su

23
G. Mazzacurati, Pietro Bembo e il primato della scrittura, in Id., Il Rinascimento dei
moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna, Il Mulino, 1985,
pp. 103 e 114-15.
24
C. Dionisotti, Introduzione a P. Bembo, Prose e Rime, Torino, Utet, 19662, p. 49 (il
testo dell’Introduzione è ora raccolto in C. Dionisotti, Scritte sul Bembo, a c. di C. Vela,
Torino, Einaudi, 2002, pp. 23-65).
25
Ibid.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

quello della vicenda biografica di un uomo esemplarmente ecceziona-


le26.

Esemplare, in tal senso, è il commento del Vellutello che fu dato


alle stampe nel 1525, lo stesso anno – si badi – delle Prose, e che
ebbe una grande fortuna con la trentina circa di ristampe cinquecen-
tesche. Ebbene, il riordino e il commento del Vellutello avvengono in
chiave biografico-cronologica, tendendo cosı̀ a fare del Canzoniere la
cronaca di una vicenda amorosa intesa come trasposizione del vis-
suto. In ogni caso, fu nella mediazione teorica e pratica del Bembo
che il modello petrarchesco s’impose fino a diventare egemone, con
la conseguenza che alla produzione di testi petrarcheschi finı̀ per
corrispondere l’intera produzione di scrittura lirica. Perché la propo-
sta delle Prose consisteva, in effetti, nell’elaborazione di una gramma-
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tica della lingua letteraria, nella fattispecie lirica, facendola coinci-


dere con un unico testo concreto, il Canzoniere petrarchesco,
appunto. Il risultato fu che, come ha suggerito Quondam, «la propo-
sta del modello-Petrarca si trasformò [...] in codificazione di uno
specifico sistema linguistico rigidamente normativo e selettivo», ovvero
nella resa di un «sistema linguistico ripetibile», all’interno del quale è
27
dato riunire la «serie costante e fitta di testi lirici» cinquecenteschi .
Se ne discostano, anche se solo parzialmente, alcune voci femminili,
che risultarono più immuni dai condizionamenti del bembismo28, e –
naturalmente – colui che è considerato il maggior lirico del secolo,
prima del Tasso, ossia Giovanni della Casa (1503-1556), il cui
«canzoniere bifronte» è stato giudicato «un imprescindibile dato di
partenza per le future schiere di rimatori volgari, quasi un ponte
gettato fra la generazione umanistico-bembiana della prima metà del
secolo e i postumi poeti veneziani dell’età che si era avviata al

26
L. Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova, Liviana, 19742, p. 59.
27
A. Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma «antologia», Roma, Bulzoni,
1974, pp. 211-12.
28
Sul fenomeno delle donne poetesse vd. L. Borsetto, Narciso ed Eco. Figura e scrittura
nella lirica femminile del Cinquecento: esemplificazioni ed appunti, in M. Zancan (a cura di), Nel
cerchio della luna: figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, Venezia, Marsilio, 1983, pp.
171-233; J. Schiesari, The Gendering of Melancholia. Feminism, Psychoanalysis, and the
Symbolics of Loss in Renaissance Literature, Ithaca-London, Cornell University Press, 1992,
pp. 160-90; AA.VV., Les femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance, «Actes
du colloque international Aix-en-Provence, 12-14 novembre 1992», Aix-en-Provence, Uni-
versité de Provence, 1994. In prospettiva europea, S. R. Jones, The Currency of Eros:
Womens Love Lyric in Europe (1540-1620), Bloomington-Indianapolis, Indiana University
Press, 1990.

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 PARTE PRIMA

Manierismo»29. E, tuttavia, proprio l’epoca, nel corso della quale la


prassi imitativa inaugurata dal bembismo fondava un codice petrarchi-
sta, fu anche quella che conobbe il massimo disinteresse per la forma
canzoniere; se ne deduce che il codice petrarchista cinquecentesco
non contemplava, fra i suoi elementi costitutivi, il livello macrostrut-
turale, al più, concepiva il Canzoniere come una vita in rime di
messer Francesco Petrarca. Si tratta di un significativo fattore distin-
tivo rispetto al petrarchismo quattrocentesco, la cui propensione
all’esperimento coinvolgeva il livello macrostrutturale, dando luogo –
pur raramente e in forme diverse – a canzonieri di tipo petrarchista.
È che, come ha spiegato con acume Santagata:

un petrarchismo «forte» non richiede il libro di rime, un petrarchismo


«debole» ne favorisce lo sviluppo. In termini un poco più generali: un
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codice petrarchista formato e fissato espunge il livello macrostruttu-


rale, mentre un codice petrarcheggiante ancora aperto e in via di
formazione empirica può accoglierlo fra i suoi settori sperimentali30.

Del resto, rispetto al petrarchismo quattrocentesco, anche la


dimensione geografica risulta assai meno pertinente, dal momento
che la diffusione decisamente nazionale della proposta bembiana
lasciò poco spazio alle spinte centrifughe, con la sola significativa
eccezione dell’area napoletana31. È comprensibile, allora, che a par-
tire dalla metà del secolo, quando cioè il petrarchismo divenne un
grande fenomeno di comunicazione di massa, «la forma-canzoniere si
va mutando gradatamente nella forma-raccolta o libro di rime»32.
Ebbe cosı̀ inizio, con le Rime diverse, pubblicate nel 1545 presso
l’editore veneziano Giolito de Ferrari, la fortunata stagione delle
antologie poetiche, quei contenitori che facevano convivere poeti
rappresentativi alla stregua di un Bembo, accanto a poeti di fama di
dubbia abilità e, perfino, a poeti del tutto sconosciuti. Ne risultava,

29
R. Fedi, I due canzonieri di Giovanni Della Casa, in Id., La memoria della poesia.
Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990, p. 248. Per
l’edizione, vd. G. Della Casa, Rime, a c. di R. Fedi, 2 voll., Roma, Salerno Editrice, 1978.
30
M. Santagata, Introduzione a Id., Dal sonetto al canzoniere, Padova, Liviana, 19892, p.
15.
31
Vd. E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale (1973), in Id., Rinascimento
inquieto, nuova edizione, Torino, Einaudi, 1994, pp. 264-306; G. Ferroni e A. Quondam,
La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo,
Roma, Bulzoni, 1973.
32
R. Fedi, Canzonieri e lirici nel Cinquecento. I. Dall’imitazione alla citazione, in Id., La
memoria della poesia, cit., p. 49.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

come ha suggerito Gorni, che la disorganicità del «libro di rime»


aveva la meglio sull’organicità della «forma-canzoniere», e con ciò
crestomazia, frammento, esemplarità finivano per prevalere sulla
lettura continua, sulla coesione interna, sulla contestualità33. Ce n’è
abbastanza; e, tuttavia, le conseguenze di tali operazioni editoriali,
lungi dall’arrestarsi all’interno del libro, finiscono col coinvolgere lo
stesso rapporto che il testo intrattiene con la dimensione storica.
Roberto Fedi ha, difatti, giustamente sottolineato come il «libro di
rime», nell’assemblare uno di seguito all’altro sia gli autori che i testi,
ottenesse il doppio effetto – per un lato – di perdita di gerarchia e –
per altro lato – di perdita di profondità storica. Insomma, la silloge
poetica tendeva a disporre gli autori e i testi selezionati sul piano
unidimensionale della massima scambiabilità e della pura contempo-
raneità, consentendo che da un’operazione di imitazione si passasse a
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un processo di citazione34.
D’altronde, una pratica poetica dispersiva e un gusto per il verso
nato da occasioni contingenti, resero inattuale anche presso il più
grande lirico del secolo, Torquato Tasso (1554-1595), l’idea del
libro di poesia fortemente coeso, a favore del frammentismo o della
strutturazione delle rime «a grappolo» (amorose, d’encomio, sacre).
Né è un caso che il menzionato Della Casa fosse poeta amatissimo
dal Tasso, autore di un monumento lirico di vastissime proporzioni
(1708 componimenti raccolti), la cui vicenda compositiva ed edito-
riale risulta assai intricata, e che il più recente editore ha definito
«uno dei più fervidi laboratori sperimentali della lirica tra Rinasci-
mento e Barocco»35. Difatti, pur essendo ancorata agli schemi del
petrarchismo cinquecentesco, la poesia del Tasso pervenne, a un
progressivo svuotamento dei motivi petrarcheschi, e a un graduale
affrancamento dagli stilemi più consueti derivati dal magistero dei
Rerum vulgarium fragmenta. Sulle forme perfette e sorvegliate del
modello prevalse, in effetti, la propensione per il dettato musicale,
per il gusto dolce del suono, che raggiunsero vette di particolare
maestria nel genere del madrigale.
Favorito dalla supremazia culturale italiana nel Cinquecento,
quando per la nostra cultura si creò un nuovo pubblico europeo, e,
soprattutto, promosso dalla proposta bembiana, che col testo del

33
G. Gorni, Il canzoniere (1984), in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino,
1993, p. 114.
34
Fedi, Canzonieri e lirici nel Cinquecento, cit., p. 51.
35
B. Basile, Introduzione a T. Tasso, Le Rime, Roma, Salerno Editrice, 1994, vol. I, p. VII.

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 PARTE PRIMA

Canzoniere faceva coincidere l’elaborazione di una grammatica della


lingua poetica, il modello petrarchista si diffuse nel giro di pochi
decenni per tutta l’Europa, dove l’imitazione del Petrarca e dei suoi
seguaci contribuı̀ decisamente al radicale rinnovamento poetico, mo-
tivando la rottura con la tradizione della poesia nazionale, e favo-
rendo la fondazione del moderno linguaggio lirico.
In Spagna, al tempo della prima edizione del Cancionero general
(1511) di Hernando del Castillo, gli esperimenti con in quali Boscán
e Garcilaso avrebbero rivoluzionato la poesia spagnola avrebbero
tardato ancora tre lustri. E tuttavia, specie negli ultimi anni dell’e-
poca dei Re Cattolici, non mancarono segnali che, in forme diverse,
preannunciavano ciò che si stava lentamente preparando. Per esem-
pio, sia nelle aggiunte dei nuovi poeti e componimenti della rinno-
vata edizione del menzionato Cancionero, che vide la luce a tre anni
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di distanza dalla prima, sia nei componimenti poetici che Bartolomé


de Torres Naharro presentò come «ante pasto» e «post pasto» delle
commedie pubblicate nella Propalladia, stampata a Napoli nel 1517,
non mancavano numerosi e significativi esempi che non solo mostra-
vano la penetrazione della poesia del Petrarca, ma erano anche
indice dell’attenzione rivolta alla contemporanea poesia italiana. Be-
ninteso, si trattava pur sempre di fenomeni nei quali ci si sforzava di
combinare la fedeltà a una tradizione locale, ancora molto forte e
consolidata da decenni, con i timidi tentativi di apertura al nuovo,
ossia alla poesia che proveniva dalla penisola italiana36.
Al 1526, appena un anno dopo la pubblicazione delle Prose
bembiane, risalgono i primi esperimenti nella nuova maniera di
poetare, da parte del barcellonese Juan de Boscán (1487ca.-1542), il
quale fornisce la difesa del rinnovamento formale da lui stesso – e dal
suo amico Garcilaso – avviato e promosso, nella celebre Epistola alla

36
Vd. F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in AA.VV., Doce
consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés, Roma,
Publicaciones del Instituto Español de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30; Id., A fianco
di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, in «Studi Petrarcheschi»,
IV (1987), pp. 229-36; R. Lapesa, Los géneros lı́ricos del Renacimiento: la herencia cancioneres-
ca (1988), ora in Id., De Berceo a Jorge Guillén, Madrid, Gredos, 1997, pp. 122-45. Sul
petarchismo, in generale, un’utile rassegna è il volume di M. del P. Manero Sorolla,
Introducción al estudio del petrarquismo en España, Barcelona, PPU, 1987; alla stessa studiosa
dobbiamo anche il vasto repertorio Imágenes petrarquistas en la lı́rica española del Renaci-
miento, Barcelona, PPU, 1990. Vd. anche i più recenti contributi di M. Morreale, Il
petrarchismo in Spagna: antecedenti e tramonto, in La cultura letteraria italiana e l’identità
europea, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2001, pp. 107-66, e di A. Alonso, La
poesı́a italianista, Madrid, Laberinto, 2002.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

duchessa di Soma, che funge da prologo al secondo libro delle opere,


pubblicate postume, un anno dopo la morte dell’autore. Traduttore
del Cortegiano (1534), Boscán cominciò a tentare «en lengua castel-
lana sonetos y otras artes de trobas usadas por los buenos authores
de Italia»37, su sollecitazione di Andrea Navagero, all’epoca amba-
sciatore di Venezia alla corte dell’imperatore Carlo V. Nelle 10
canzoni e nei 102 sonetti, raccolti nel menzionato libro secondo, il
modello petrarchesco risulta spesso contaminato dai moduli poetici
delle due illustri tradizioni, di cui Boscán era naturale erede: quella
della lirica catalana (Andreu Febrer, Jordi de Sant Jordi, e soprat-
tutto Ausias March) e quella dei cancioneros di corte castigliani. In
particolare, sono gli schemi logici derivati dalla poesia del grande
Ausias March quelli che interagiscono più frequentemente col tes-
suto petrarchesco, dando origine ai prodotti di maggiore interesse
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per la studiata sintesi delle distinte tradizioni poetiche. Il che, tutta-


via, non ha impedito al poeta di ricostruire la storia di un amante che
«nel processo di separazione dalla sua condizione, dovrà elevarsi fino
all’amore platonico e alla redenzione cristiana»38.
È al toledano Garcilaso de la Vega (1501ca.-1536) che spetta,
comunque, il merito di aver portato avanti con maggiore determina-
zione la sperimentazione avviata con leggero anticipo dal suo amico e
sodale barcellonese, e di aver imposto – grazie a risultati sorprenden-
temente maturi – il nuovo modello poetico a coloro che possiamo
considerare con una certa approssimazione i suoi continuatori e
imitatori. Eppure, anche un poeta precocemente e sorprendente-
mente maturo come Garcilaso, conobbe la sua stagione di apprendi-
stato, come risulta evidente da un esiguo numero di sonetti che
risalgono, probabilmente, all’anno della svolta, il 1526, o a un
periodo immediatamente successivo, e nei quali è dato riconoscere
con relativa facilità una commistione tra il modello petrarchesco e gli
ingredienti di cui si avvale – fino ad abusarne – la poesia cosiddetta
cancioneril, un esasperato e tormentato concettismo espresso col
ricorso non meno accentuato a figure di ripetizione e di antitesi.
Molto presto, però, come nella canzone dell’esilio danubiano, «Con
un manso rüido», composta tra i mesi di marzo e luglio del ’32,

37
Obra poética de Juan Boscán, a c. di M. de Riquer, A. Comas e J. Molas, Barcelona,
Facultad de Filosofı́a y Letras, 1957, p. 89; «in lingua castigliana sonetti ed altre forme
metriche usate dai buoni autori italiani».
38
A. Armisén, Estudios sobre la lengua poética de Boscán. La edición de 1543, Zaragoza,
Universidad de Zaragoza-Libros Pórtico, 1982, p. 387.

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 PARTE PRIMA

l’adeguamento al nuovo modello poetico appare, se non definitiva-


mente compiuto, per lo meno spinto a tal punto da consentire di
riconoscere – in alcune strofe – la nascita di una lingua poetica, nella
quale in conseguimento di un petrarchismo perfetto apre il passo al
ricupero delle fonti classiche. Modello petrarchesco e modelli classici
vedranno presto invertire i ruoli; o, per lo meno, assumere un peso
equivalente nella produzione napoletana di Garcilaso, la più conside-
revole dal punto di vista quantitativo, e anche la più matura e
perfetta sotto il profilo qualitativo. L’esilio danubiano non durò che
pochi mesi; esso, difatti, fu presto comminato nell’esilio napoletano,
dove Garcilaso giunse nel settembre del ’32, e dove trascorse – con
alcune interruzioni – il resto della sua breve esistenza, fino alla fatale
campagna in Provenza, nella quale trovò la morte nel corso di una
scaramuccia militare. Al suo arrivo a Napoli, Garcilaso, ben intro-
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dotto in una fitta rete di rapporti intellettuali tra corte vicereale e


Accademia Pontaniana, e attivamente partecipe del dibattito sulla
letteratura che vi si andava svolgendo, impresse una nuova svolta alla
sua produzione poetica, abbandonando in parte gli esiti petrarche-
schi quasi esclusivamente perseguiti fino ad allora, e inseguendo il
tentativo di impiantare – anche nella lingua spagnola – le principali
forme poetiche classiche. In fondo, possiamo sinteticamente affer-
mare che, durante gli anni del soggiorno napoletano, Garcilaso visse
a stretto contatto con un ambiente culturale nel quale, insieme
all’affermazione del petrarchismo bembiano, andavano maturando
gli esperimenti di una nuova poesia che nei generi neoclassici trovava
la sua più compiuta realizzazione. Nascono cosı̀ piccoli capolavori di
poesia rinascimentale, come – per esempio – la prima delle tre
egloghe, «El dulce lamentar de dos pastores», o l’Ode ad florem Gnidi,
«Si de mi baja lira», nelle quali il poeta seppe coniugare con arte
sapiente il classicismo dei generi e dei modelli (Virgilio, Orazio) con
l’intimo petrarchismo che è dato rintracciare in entrambi i testi
menzionati39.
Intorno alla metà del secolo, il processo di assimilazione della
lingua poetica da parte degli spagnoli, iniziatosi circa tre decenni
prima, deve essere ormai considerato un fenomeno totalmente con-
sumato. Alla successiva generazione di poeti spagnoli, quella cioè
pienamente attiva nei decenni posteriori alla metà del secolo, prima

39
Vd. Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona,
Crı́tica, 1995.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

che – tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta – fosse
imposta una nuova e decisiva svolta; a questa generazione di poeti
filippini – dicevo – spettò un compito di rinnovamento, che consi-
stette nello sperimentare nuove vie, senza peraltro travalicare il solco
del petrarchismo; ovvero, detto in altri termini, spettò il compito di
superare il modello fondato sul binomio Petrarca-Garcilaso, pur
nella sostanziale fedeltà ad esso. In questo sforzo di rinnovamento,
un contributo non trascurabile venne ancora una volta dall’Italia:
non più, però, attraverso la voce straordinariamente unica di un solo
poeta (Petrarca), ma mediante una pluralità di toni, tutti veicolati da
quel vasto fenomeno editoriale che caratterizzò il panorama poetico
della seconda metà del Cinquecento. Mi riferisco, naturalmente, a
quelle antologie poetiche che conobbero un’enorme fortuna e una
larga diffusione, dentro e fuori della penisola italiana. Insomma,
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dopo una prima fase in cui Garcilaso aveva forgiato il moderno


linguaggio lirico sul modello di Petrarca e dei classici, alcuni poeti
delle successive generazioni inaugurano una nuova fase, durante la
quale il tentativo di rinnovamento da essi compiuto passa anche
attraverso il confronto con i rimatori petrarchisti italiani, resi fruibili
dai «libri di rime», a partire dalla prima raccolta giolitina di Rime
diverse del ’45 fino a quelle antologie tratte dalle stesse antologie,
conosciute con i titoli di Rime scelte e di Fiori40.
Tra i poeti di questa generazione emerge il sivigliano Fernando
de Herrera (1534-1597) che, dopo aver dato alle stampe un esteso
commento della poesia di Garcilaso (Anotaciones, 1580), pubblicò
due anni dopo una selezione di 91 componimenti della sua poesia,
mentre il resto della sua produzione poetica vide la luce solo molti
anni dopo la sua morte, in un’edizione curata da Francisco Pacheco
(Versos, 1619). Ebbene, nei testi pubblicati in vita e, maggiormente,
in quelli pubblicati postumi, il nuovo linguaggio lirico risulta sotto-
posto a un processo d’intensificazione, col risultato di uno stile
artificioso che è caratteristico del gusto manierista, come del resto lo
stesso Herrera manifestava in un passo delle Anotaciones: «Y es
cları́ssima cosa que toda la ecelencia de la poesı́a consista en el
ornato de la elocuencia»41.

40
Risulta ancora utile lo studio classico di J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en
España, Madrid, CSIC, 1960.
41
F. de Herrera, Anotaciones a la poesı́a de Garcilaso, a c. di I. Pepe e J. M. Reyes, Madrid,
Cátedra, 2001, p. 561; «Ed è chiarissimo che tutta l’eccellenza della poesia consiste
nell’ornato dell’eloquenza». Per la poesia, vd. Obra poética, a c. di J. M. Blecua, 2 voll.,
Madrid, Real Academia Española, 1975.

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 PARTE PRIMA

Anche in Portogallo, all’inizio del secolo, la pubblicazione di una


grossa raccolta di poesia, il Cancioneiro geral (1516) di Garcı́a de
Resende, mostra come tra i testi di tipo tradizionale facciano capo-
lino le nuove tendenze che s’ispirano ai modelli italiani, tra i quali il
Canzoniere petrarchesco.
Fu, però, Francisco Sá de Miranda (1481-1558), di ritorno dal
suo viaggio in Italia (1521-1526), dove a Roma soggiornò presso
Vittoria Colonna, a svolgere un ruolo fondamentale nell’introduzione
in Portogallo del modello petrarchesco e delle nuove forme metriche
ad esso collegate, la medida nova42. Il petrarchismo portoghese si
affermò definitivamente intorno alla metà del secolo, con la seguente
generazione di poeti, nei quali la lezione del Petrarca risulta forte-
mente contaminata con quella dei classici, dei neolatini, dei contem-
poranei petrarchisti italiani e degli stessi poeti della vicina Spagna,
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con particolare interesse per Boscán e Garcilaso. Del resto, una


caratteristica di Sá de Miranda, comune peraltro a tutti gli scrittori
portoghesi del Cinquecento, è il bilinguismo letterario, per cui essi
utilizzavano, pressoché indifferentemente, tanto il portoghese quanto
il castigliano. Con l’eccezione di António de Ferreira (1528-1569),
che è anche autore dell’unico canzoniere petrarchesco concepito
come sequenza di testi narrativamente organizzati; si tratta del libro
di 102 sonetti raccolto nei Poemas lusitanos, i quali – per il resto –
sono strutturati in sezioni in base ai differenti generi poetici (odi,
elegie, egloghe, epistole, epitaffi e, finanche, la tragedia Castro).
Con la lirica di Luı́s Vaz de Camões (1524/25-1580), che pure
deve a Petrarca il suo apprendistato, «i grandi motivi dell’universo
sentimentale di Petrarca sono ricreati alla luce di un disinganno e di
una drammaticità che superano di molto i termini in cui, nel Canzo-
niere, era rappresentato questo sentimento di dissidio»43. La maggiore
inquietudine si riflette, del resto, in una maggiore libertà nei con-
fronti del Petrarca e dei suoi imitatori, che lo condusse al supera-
mento del modello petrarchesco, con esiti di indubbio gusto manieri-
stico, come d’altronde era possibile già riscontrare nella poesia del

42
F. Sá de Miranda, Obras completas, a c. di M. Rodrigues Lapa, 2 voll., Lisboa, 1943.
43
R. Marnoto, Il petrarchismo in Portogallo, in L. Stegagno Picchio (a cura di), Il
Portogallo. Dalle origini al Seicento, Firenze, Passigli, 2001, pp. 380-81. Per la poesia lirica di
Camões, pubblicata postuma nel 1595, vd. Lı́rica completa, a c. di M. de L. Saraiva, Lisboa,
3 voll., 1980-1981. Sul petrarchismo portoghese, in generale, vd. il volume della stessa
Marnoto, O petrarquismo portugués do renascimento e do maneirismo, Coimbra, Universidade
de Coimbra, 1997.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

menzionato Ferreira, appartenente, con lo stesso Camões, alla gene-


razione dello spagnolo Herrera e dei francesi, Du Bellay e Ronsard.
Considerato l’introduttore del Petrarca nella poesia francese del
Cinquecento, Clément Marot (1496-1544), un poeta per molti
aspetti ancora legato alla maniera dei «grands rhétoriqueurs», fu
autore di numerosi epigrammi di contenuto amoroso, in alcuni dei
quali è dato avvertire la presenza del Petrarca accanto a quella, ben
più preponderante, dei famosi strambottisti italiani, Serafino Aqui-
lano e il Tebaldeo. Più direttamente, Marot, che negli anni 1534-36
conobbe l’esperienza dell’esilio in Italia, tra Ferrara e Venezia, del
Petrarca tradusse una canzone, «Standomi un giorno solo a la fene-
stra», e sei sonetti, nei quali introdusse un’importante novità metrica,
dal momento che le due terzine dello schema italiano furono da lui
rese con un distico seguito da una quartina a rime incrociate
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(AABCCB)44.
A Lione, importante crocevia commerciale e culturale tra Francia
e Italia, Maurice Scève (1501-1560) compose e pubblicò Délie object
de plus haulte vertu (1544), una raccolta di 449 «dizains», dedicati alla
poetessa Pernette de Guillet. Il «dizain», nella definizione di Thomas
Sebillet (Art poëtique, 1548), è un epigramma di dieci versi e, per-
tanto, esso si ricollega al genere classico e a quello neolatino dei
poeti contemporanei come Nicolas Bourbon o Jean Visagier, che
Scève frequentava nella città natale. Dal punto di vista metrico-
formale, quindi, non v’è nulla che si accordi col modello petrarche-
sco, col quale la raccolta di Scève aveva, tuttavia, significativi punti
di contatto sia a livello delle numerose reminiscenze presenti nei
singoli componimenti, sebbene non possa escludersi la mediazione
dei petrarchisti italiani quattrocenteschi, sia a livello macrostruttu-
rale, essendo stato Délie considerato il primo «canzoniere» francese,
benché non manchino divergenze rilevanti, a partire dall’assenza di
quel pentimento che i giovanili errori ispirano al modello italiano45.
Di ventiquattro sonetti, invece, oltre che di tre elegie, è formata
l’esile opera poetica che Louise Labé (1524-1566), altra illustre
rappresentante della cosiddetta «scuola di Lione», pubblicò nel 1555.
Come quello del Petrarca, il «canzoniere» della Labé ricostruisce
retrospettivamente una storia amorosa che, pur pretendendo di ser-

44
Sul petrarchismo di Marot, vd. Ch. Dedeyan, La fortune de Petrarque en France, in La
Pléiade e il Rinascimento italiano, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1977, pp. 39-52.
45
M. Scève, Délie, a c. di F. Joukovsky, Paris, Dunod, 1996.

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 PARTE PRIMA

vire da monito alle altre «dames» («et gardez vous destre plus malheu-
reuses!»), tuttavia difetta della dimensione cristiana e, persino, di uno
sviluppo spirituale46.
Ma, sei anni prima che la «belle cordière» di Lione desse alle
stampe la sua breve raccolta, nella primavera del 1549, a Parigi, uno
dei due protagonisti della «Pléiade», Joaquin Du Bellay (1522-1560),
aveva pubblicato due raccolte di versi, l’Olive e i Vers lyriques,
precedute dal trattato sulla Deffence et illustration de la Langue Fran-
çoyse, dove al dovere di rendere illustre la lingua nazionale si raccor-
dava l’idea d’una imitazione creatrice in poesia. Al poeta futuro, vero
interlocutore del discorso sulla difesa della lingua, tocca, in effetti, di
rinnovare, arricchendolo e migliorandolo, l’idioma francese, per
mezzo – non della traduzione – bensı̀ dell’imitazione tanto dei
modelli classici quanto di quelli italiani. Petrarca finiva cosı̀ per
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essere trattato alla stregua degli auctores della classicità, e il sonetto


petrarchesco acquistava pari dignità dell’ode oraziana. In tal modo,
nel trattato come nelle raccolte, il lettore trovava espressa – in
termini sia teorici che pratici – una nuova concezione della poesia
lirica che, nella recente sintesi di François Rigolot, «rifiutava i generi
medievali (ballata, chant royal, rondò), la prosodia complicata della
seconda retorica e le “facilità” della scuola marotica»47. Con i 50
sonetti composti «à la louange de l’Olive» che, nella seconda edizione
del 1550, risultarono più che raddoppiati, Du Bellay, in conformità
dei precetti espressi nella Deffence, impose il genere poetico che in
Francia risultava pressoché nuovo, nonostante i precedenti di poeti
come Saint Gelais, Marot, Scève, Marguerite de Navarre, Peletier, e
sebbene un anno prima – nel 1548 – un poeta di Carpentras,
Vasquin Philieul, avesse presentato in traduzione 196 sonetti di
Petrarca. Il risultato fu raggiunto grazie all’applicazione del principio
d’imitazione che, una volta teorizzato e fortemente difeso nel trat-
tato, nei sonetti risultava concretamente esercitato nei confronti del
Petrarca, ma anche di quei numerosi petrarchisti che con i loro
componimenti avevano riempito le antologie giolitine di Rime diverse,
pubblicate negli anni 1545 e 1547. Né la raccolta risultava priva di
un principio organizzativo interno, dal momento che del Canzoniere
petrarchesco essa accoglieva sia il punto di vista retrospettivo, sia

46
L. Labé, Oeuvres complètes, a c. di E. Giudici, Genève, Droz, 1981; e la posteriore
edizione a c. di F. Rigolot, Paris, Flammarion, 1986.
47
F. Rigolot, Poésie et Renaissance, Paris, du Seuil, 2002, p. 187.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

l’idea di uno sviluppo spirituale, entrambi completati da un’ispira-


zione neoplatonica, che risultava maggiormente evidente nell’edi-
zione ampliata. Piuttosto, bisogna insistere sul fatto che, grazie anche
ai molteplici prestiti dagli autori delle Rime diverse, i sonetti dell’Olive
presentano un ricorso più frequente alla mitologia, cosı̀ come una
propensione all’uso del concetto o della pointe finale, che li rendono
partecipi dell’incipiente gusto manierista48.
Dopo un debutto letterario, nel 1550, consacrato al genere clas-
sico dell’ode, tanto pindarica quanto oraziana (Quatre Premiers Livres
des Odes), e nel segno di un dichiarato disprezzo per i «petits sonnets
pétrarquizés», due anni dopo, l’altro grande protagonista della «Pléia-
de», amico e condiscepolo di Du Bellay presso il collegio di Coque-
ret, Pierre de Ronsard (1525-1585), aderisce alla moda del petrar-
chismo, pubblicando a sua volta una raccolta di sonetti dedicati a
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Cassandre, le Amours, che ebbe presto – l’anno seguente – una nuova


edizione ampliata, e fu accompagnata da un ampio commento curato
da Marc-Antoine Muret. Al celebre umanista, in effetti, era affidato
il compito di decifrare i non pochi luoghi oscuri, i quali risultavano
tali per effetto delle numerose allusioni erudite che Ronsard ricava
dagli autori classici, e che peraltro creavano un significativo feno-
meno di contaminazione della lingua del Petrarca con le remini-
scenze classiche. E, tuttavia, nelle sue imitazioni, Ronsard si mostra
più libero e assai più discreto del suo sodale Du Bellay, rispetto al
quale rivela una netta preferenza per i grandi maestri – Bembo e,
naturalmente, lo stesso Petrarca – piuttosto che per la pletora di
petrarchisti più o meno noti; fa un uso molto più moderato delle
antologie giolitine, che pure conosce e annota; e, infine, qualunque
sia il modello a cui presti l’orecchio, suole carpire da esso uno spunto
piuttosto che ricalcarne il dettato49.
Intanto, nello stesso anno in cui vide la luce l’edizione aumentata
delle Amours, il 1553, Du Bellay, nel ripubblicare il Recueil de Poesie,
vi inseriva l’ode «A une dame» che si proponeva come una vera e
propria satira contro la poesia petrarchista («J’ay oublié l’art de
petrarquizer»), e che, difatti, fu ripresa e rimaneggiata qualche anno
dopo, nei Divers jeux rustiques, col titolo «contre les pétrarquistes»50.

48
J. Du Bellay, L’Olive, in Oeuvres poétiques, a c. di D. Aris e F. Joukovsky, 2 voll., Paris,
Bordas, 1993-1996, vol. I, pp. 1-74.
49
P. De Ronsard, Les Amours, a c. di H. E. C. Weber, Paris, Garnier, 1998.
50
Le due redazioni del componimento possono leggersi in Du Bellay, Oeuvres poétiques,
ed. cit., vol. I pp. 170-77 e vol. II pp. 190-96.

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 PARTE PRIMA

Anch’essa frutto dell’incontro con i modelli italiani: la tradizione


antipetrarchista di un Niccolò Franco o di un Berni, la satira è non
di meno la reazione contro i troppo facili risultati poetici dei petrar-
chisti e, quindi, anche contro l’autore dell’Olive. Essa può essere
assunta, pertanto, come un punto di svolta, rispetto al quale le
grandi raccolte dell’esilio italiano, Antiquitez de Rome e Regrets, pub-
blicate nel 1558, dopo il ritorno dell’autore in patria, rappresentano
gli esiti più maturi e coerenti, nei quali l’allontanamento dal petrar-
chismo non cancellò i debiti contratti nei confronti dei modelli
italiani e classici, sulle cui orme si era andato forgiando il nuovo
linguaggio lirico francese.
Di non minore complessità si configura il rapporto che Ronsard
intrattenne col petrarchismo nelle opere poetiche di argomento amo-
roso che seguirono alla raccolta delle Amours del ’53. Nella Continua-
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tion des Amours (1555) e nella Nouvelle Continuation (1556), dove


Cassandre è abbandonata per Marie, le novità che si presentano al
lettore sono molteplici, spaziando dalle inedite soluzioni metrico-
formali, con l’alessandrino che prende il posto del decasillabo nella
maggior parte dei sonetti, alla più generale e inattesa estetica della
semplicità che ispira entrambe le nuove raccolte, in luogo dei raffi-
nati artifici dell’opera precedente, per finire con i modelli più attiva-
mente operanti, che vedono gli elegiaci latini – Catullo, Properzio,
Tibullo – controbilanciare la raggiunta libertà dalla costrizione pe-
trarchista. Ma i Sonnets pour Hélène (1578) segnano un ritorno al
Petrarca e al petrarchismo che, pur determinando il tono dominante
dell’intera raccolta, sono sottoposti a una forte contaminazione con
gli elegiaci latini e i poeti greci dell’Antologia palatina. Le fonti
petrarchiste, però, sono rappresentate da quei poeti cortigiani del
Quattrocento, che in Francia erano tornati in auge grazie alla poesia
del modesto e fortunato Philippe Desportes (1546-1606), il quale nei
suoi primi libri di rime – Amours de Diane e Amours d’Hipolyte –,
pubblicati entrambi nel 1573, aveva fatto massicciamente ricorso ai
poeti quattrocenteschi come Panfilo Sasso, Tebaldeo, Aquilano, in-
sieme a quelli cinquecenteschi presenti nell’antologia giolitina delle
Rime scelte del 156351.
All’ambiente cortigiano di Enrico VIII è strettamente collegato il
processo di rinnovamento della poesia inglese grazie al ricorso al

51
Sul petrarchismo francese è ancora molto utile il volume complessivo di J. Vianey, Le
pétrarquisme en France au XVI e siècle (1909), Genève, Slatkine Reprints, 1969.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

modello italiano. Il ruolo di introduttore delle nuove forme spettò,


difatti, a Sir Thomas Wyatt (1503-1542), cortigiano e diplomatico al
servizio del re in diversi paesi europei, e autore – almeno fino al 1526
– di ballatelle che altro non sono che la continuazione di una lunga e
fiorente tradizione locale. Solo dopo i viaggi in Italia del biennio
1526-27, Wyatt compose una serie di sonetti che risultano essere
diretta traduzione o imitazione di Petrarca e – in misura minore – di
petrarchisti come Serafino Aquilano. Sui trenta sonetti, in realtà, più
di venti si rifanno ad altrettanti testi del Canzoniere, selezionati
peraltro tra quelli che abbondano in ripetizioni, antitesi e ossimori.
Spesso Wyatt mostra una straordinaria duttilità nell’adottare il testo
originale e prestigioso, di argomento amoroso, alle circostanze con-
crete della vita di corte. Peraltro, come ha scritto Dasenbrock, «la sua
trasformazione di Petrarca in una direzione più realistica, personale
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ed egocentrica è tanto importante per i più tardi e grandi sonettisti


del Rinascimento inglese quanto lo è la sua introduzione della forma
del sonetto»52. Quanto a quest’ultimo, poi, il sonetto introdotto da
Wyatt presentava la particolarità metrica di sostituire le due terzine,
canoniche in quello italiano, con una quartina e un distico, che
costituirà la variante formale tipicamente inglese. In tal modo, Wyatt
sembra che mescolasse la struttura metrica del sonetto con quella
dello strambotto.
Le opere di Wyatt circolarono a lungo manoscritte presso il
ristrettissimo pubblico di corte, finché un quarto di secolo dopo la
sua morte l’editore Richard Tottel non pubblicò l’antologia Songes
and Sonnets, opera oggi più nota come Tottels Miscellany, che costituı̀
il canale attraverso il quale la poesia europea e le sue nuove forme
liriche si diffusero in Inghilterra. Le opere di Wyatt vi comparivano
accanto a quelle di Henry Howard (1517-1547), conte di Surrey, al
cui riadattamento di alcuni sonetti petrarcheschi si deve l’invenzione
della forma definitiva del sonetto inglese, con la quale verrà usata dai
poeti della grande stagione sonettistica, negli ultimi due decenni del
secolo. Difatti, Surrey, da un lato, fa sua la divisione di Wyatt in tre
quartine e un distico, ma, d’altro lato, preferisce e impone uno
schema metrico un po’ differente (abab cdcd efef gg)53.
Bisogna, tuttavia, attendere più di una ventina d’anni, dopo la

52
R. W. Dasenbrock, Imitating the Italians: Wyatt, Spenser, Synge, Pound, Joyce, Balti-
more, John Hopkins University Press, 1991, p. 31.
53
Vd. Th. Wyatt, The Complete Poems, a c. di R. A. Rebholz, Harmondsworth, Penguin,
1978; H. Howard, The poems, a c. di E. Jones, Oxford, Oxford University Press, 1964.

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 PARTE PRIMA

pubblicazione della prima edizione della Miscellany di Tottel, perché


si sviluppi una vera generazione di petrarchisti. Figura internazionale
e cosmopolita, Philip Sidney (1554-1586), entrato nella storia della
letteratura come «English Petrark», fu – in effetti – l’autore della
raccolta che è considerata il primo canzoniere inglese e il capolavoro
della lirica elisabettiana di ispirazione petrarchista. Cominciati nel
1581 e ispirati dalla passione del poeta per Penelope Devereux, i 108
sonetti e le undici canzoni che compongono la raccolta di Astrophil
and Stella, furono però pubblicati postumi nel 1591. Nel canzoniere
si racconta la storia d’amore senza speranza di Astrophil, il cui nome
gioca sul doppio senso di «amante delle stelle» e l’iniziale del nome di
Sidney (Phil), per Stella, in una forma nella quale l’ostinata dichiara-
zione di passione si esprime spesso con quei concetti sottili (conceits),
che erano ormai divenuti parte integrante della più tarda tradizione
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petrarchista. Alludendo al famoso verso, «“Fool”, said my Muse to


me, “look in thy heart and write”», Mario Praz ha scritto che «il
Sidney, pur professando di ascoltare solo la voce del suo cuore, e di
disprezzare la turba petrarcheggiante, di fatto scrive nello stile strava-
gante dei più artificiali dei petrarchisti»54.
La pubblicazione della raccolta di Sidney fu all’origine di una
frenesia sonettistica che, sebbene fosse destinata ad esaurirsi ben
presto, tuttavia caratterizzò la produzione poetica dell’ultimo decen-
nio del secolo. Val la pena solo di ricordare, tra le altre, Delia di
Samuel Daniel e Diana di Henry Constable, entrambe del 1592,
Partenophe and Partenophil (1593) di Barnaby Barnes, Ideas Mirror
(1594) di Michael Drayton.
Una menzione particolare meritano, invece, gli Amoretti di Ed-
mund Spenser (1552-1599), una raccolta di 89 sonetti che risalgono
ai primi anni novanta, ma che furono pubblicati nel 1595. Dedicati a
Elizabeth Bayle, sua seconda moglie, i sonetti raccontano una vera
storia d’amore che sembra sfociare nell’Epithalamion finale, celebra-
zione del matrimonio e della felicità coniugale. Nella serie di sonetti,
dove l’amore terreno arriva a coniugarsi con il volere di Dio («Love is
the lesson which the Lord us taught»), sono numerosi gli echi del
Petrarca, né mancano quelli di altri italiani, come Bembo e Tasso, o
dei francesi, Ronsard e Deportes. In ogni caso, nel giudizio di Praz,

54
M. Praz, Petrarchismo e eufuismo in Inghilterra (1971), in Id., Bellezza e bizzaria. Saggi
scelti, a cura di A. Cane, Milano, Mondadori, 2002, p. 57. Per la poesia di Sidney, vd. Ph.
Sidney, The poems, a c. di W. A. Ringler, Oxford, Oxford University Press, 1962.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

«lo Spenser predilige imitare quei temi che contengono qualche


tratto eufuistico. Il Petrarca che troviamo negli Amoretti di Spenser è
un Petrarca visto nello specchio deformante di Serafino»55. Le capa-
cità tecniche del poeta risultano, peraltro, particolarmente evidenti
nello schema di rime che suole adottare (abba bcbc cdcd ee), dove i
versi delle tre quartine sono accortamente intrecciati nel gioco del
ritmo e delle rime e tenuti distinti dal distico finale56.

4. Il dissolvimento del codice.


Petrarca, oltre il petrarchismo
Rivolgendosi al «generosissimo Cavalliero» Philip Sidney, dedicatario
dell’opera, un indignato Giordano Bruno, in polemica con la grande
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tradizione della poesia petrarchista, cosı̀ scriveva nel paragrafo ini-


ziale dell’«Argomento» preposto a Gli eroici furori (1585):

Che spettacolo (o Dio buono) più vile e ignobile può presentarsi ad un


occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tor-
mentato, triste, maninconioso [...] un che spende il meglior intervallo
di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir
del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi
monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razio-
nali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati
sotto la tirannide d’una indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria?57

Effettivamente, con la stagione del ‘manierismo petrarchista’, si


può asserire che il petrarchismo smette di essere quel codice poetico
sul quale, nel corso dei sei o sette decenni centrali del XVI secolo, si
era andata via via formando e consolidando una lirica europea che
aveva radicalmente rinnovato le singole tradizioni nazionali. Tutta-
via, mentre per il Nolano la polemica antipetrarchesca costituisce la

55
Praz, Petrarchismo e eufuismo, cit., p. 60.
56
E. Spenser, Amoretti and Epithalamion, a c. di K. J. Larsen, Tempe, AZ,
Medieval&Renaissance Texts&Studies, 1997. Sullo sviluppo del sonetto nella letteratura
inglese, vd. F. T. Prince, The Sonnet from Wyatt to Shakespeare, in J. Russell Brown e B.
Harris (a cura di) Elisabethan Poetry, London, Stratford-upon-Avon Studies 2, 1960; M. R.
G. Spiller, The Development of the Sonnet, London, Routledge, 1992. Sul petrarchismo
inglese, vd. gli studi complessivi di T. P. Roche, Petrarch and the English Sonnet Sequences,
New York, 1989; Dasenbrock, cit.; H. Dubrow, Echoes of Desire: English Petrarchism and its
Counterdiscourses, Ithaca, Cornell University Press, 1995.
57
G. Bruno, De gli eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a c. di M. Ciliberto,
Milano, Mondadori, 2000, p. 755.

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 PARTE PRIMA

premessa teorica «per il recupero in positivo della tensione irrisolta


connaturata al linguaggio del Canzoniere, i cui moduli verranno
costantemente richiamati come cifra esplicativa di un’esperienza di
sé fuori dall’ordinario»58, per le future generazioni di poeti europei,
attivi nel periodo tra la fine del Cinquecento e le primissime decadi
del Seicento, i Rerum vulgarium fragmenta continuarono a essere il
grande codice di riferimento specie per la poesia amorosa, ma solo
per essere sottoposto al superamento e alla rottura di tutti i suoi
schemi formali e disegni tematici. Insomma, ciò a cui ci si vuol
riferire è quel processo di dissoluzione del codice petrarchista, da cui
paradossalmente ebbe vita una sezione rilevante della nuova poesia
barocca.
Basta menzionare alcune delle maggiori figure di questa nuova
stagione della lirica europea: Giovan Battista Marino, in Italia, tre
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grandi poeti spagnoli come Lope de Vega, Luis de Góngora, e il più


giovane Francisco de Quevedo, e ancora gli inglesi William Shake-
speare e John Donne, tutti vissuti tra le date estreme del 1561 e del
1645, per rendersi conto del fatto che per la loro formazione fu
fondamentale la lezione del Petrarca e dei petrarchisti cinquecente-
schi. Difatti, nella loro produzione poetica, in qualche caso stermi-
nata, al lettore è dato incontrare numerosi componimenti che par-
tono da immagini assolutamente convenzionali, che appartengono
cioè alla riconosciuta tradizione lirica petrarchista. Ma va anche
detto subito che, al di là delle notevoli differenze che contraddistin-
guono le varie personalità artistiche, l’originaria vena petrarchista
subisce, nella pratica poetica di ognuno di loro, una metamorfosi tale
da mettere in questione i fini e i metodi della convenzione petrarche-
sca, generando cosı̀ un’incrinatura di quel codice che essi smontano
e ricostruiscono con tecniche sempre nuove. Nelle loro raccolte di
rime, peraltro, spesso la casistica amorosa non è tanto quella del
Petrarca quanto piuttosto – per intenderci – quella del Tasso lirico,
con il suo repertorio di temi cortigiani alla moda, teso a fissare
atteggiamenti e movenze esteriori. Le conseguenze, sul piano macro-
strutturale, sono evidenti: le ripartizioni delle raccolte e il fraziona-
mento interno dei componimenti escludono qualsiasi rapporto con la
struttura unitaria del Canzoniere petrarchesco, tranne le parziali ecce-
zioni rappresentate dai sonetti shakespeariani e dal breve canzoniere
quevediano, Canta sola a Lisi. In ogni caso, tutto sembra testimo-

58
Ivi, p. 1349, n. 3.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO 

niare un gusto di poesia fondata sull’invenzione – «la nuova maniera


dell’invenzione», per dirla col Marino –, alla quale, più che all’erudi-
zione o alla qualità dello stile, si affida il pregio della loro scrittura
lirica che, difatti, attinge a una fantasia metaforica inesauribile.
Insomma, è il trionfo del gioco concettoso delle metafore, nel quale
risultano maestri ineguagliati i cinque poeti menzionati, e nel quale
finisce anche per dissolversi quel codice petrarchista, la cui impalca-
tura formale e tematica risulta distrutta – per cosı̀ dire – dal di
dentro.
Col dissolvimento del codice operato dai poeti barocchi, la storia
del petrarchismo può davvero dirsi giunta al capolinea; il che non
vale certo per Petrarca, la cui presenza continuò ad essere vigente
nelle diverse stagioni della lirica europea posteriore al Seicento.
Tuttavia non è azzardato dire che il prestigio di cui egli godette fu
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più nominale che reale. Difatti, pur essendo generalmente conside-


rato – sul piano dei contenuti – come il cantore per eccellenza della
passione amorosa, e – su quello formale – come il perfetto artefice di
versi sublimi, la sua incidenza difficilmente potrebbe considerarsi
determinante, e la sua fortuna – invero – non ha nulla di paragona-
bile a quella di cui godette Dante, tra Otto e Novecento. Natural-
mente, le cose si presentano affatto diverse, se restringiamo il campo
alla sola poesia italiana, dove la lezione petrarchesca non smette di
esercitare la propria essenziale influenza nelle maggiori voci poetiche.
Per rendersene conto, sarebbe sufficiente ricordare il giudizio del
nostro Leopardi, il quale nella poesia del Petrarca ritrovava «una
forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e
quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i
secoli quasi in ogni parte»59. Coerentemente, lo sforzo di creazione di
una lingua poetica moderna, compiuto nei Canti, coincideva in larga
misura col recupero del modello petrarchesco. Anche nel secolo
successivo, del resto, alcune delle più originali esperienze poetiche
risultano profondamente segnate dalla lezione petrarchesca: «qualun-
que operazione – ha scritto Guglielminetti –, che nel Novecento
abbia avuto di mira la restaurazione del linguaggio poetico come
strumento assoluto di approfondimento interiore e di colloquio inter-
soggettivo, è avvenuto all’insegna di un certo petrarchismo»60. Tre

59
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a c. di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991,
vol. I, p. 453.
60
M. Guglielminetti, Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, Alessandria,
Edizioni dell’Orso, 1994, p. 49.

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 PARTE PRIMA

nomi per tutti, a conclusione di una parabola il cui arco sottende sei
secoli circa di poesia, all’insegna di un modello lirico col quale, più
che con ogni altro, può farsi coincidere la modernità: Guido Goz-
zano, che ripropone il Canzoniere come libro di apprendistato poetico
per eccellenza, infittendo di citazioni petrarchesche l’abbondante
materiale di riuso che confluisce in quel «romanzo autobiografico»
che sono I Colloqui; Giuseppe Ungaretti, la cui raccolta Sentimento del
tempo segnò un ritorno a Petrarca e a Leopardi, dopo la stagione
avanguardistica del Porto sepolto e di Allegria di naufragi («Quando mi
posi al lavoro del Sentimento, due poeti erano i miei favoriti: ancora il
Leopardi e Petrarca»)61; Umberto Saba, che menziona il Petrarca tra
i principali modelli della sua poesia giovanile («Ma, nella sua forma-
zione, non entrò solo il Leopardi. Ci entrò anche, più o meno, il
Petrarca»62, ma il cui Canzoniere, tuttavia «malgrado il titolo [...] non
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ha – almeno direttamente – molto a che fare col Canzoniere per


antonomasia [...] quasi nessun rapporto (se non quello che lega
appunto l’archetipo ai suoi derivati) sussiste per ciò che riguarda la
concezione e la strutturazione del ‘libro lirico’ e l’articolazione in-
terna dei contenuti»63.

61
G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie (1969), a c. di L. Piccioni, Milano,
Mondadori, 1992, p. 531.
62
U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), Milano, Mondadori, 1963, p. 41.
63
F. Brugnolo, «Il Canzoniere» di Umberto Saba, in Letteratura italiana. Le Opere, 4 voll.,
Torino, Einaudi, 1992-1996, vol. IV, t. I, p. 537.

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PARTE SECONDA
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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE.
CARVAJAL E LA POESIA A NAPOLI
AL TEMPO DI ALFONSO IL MAGNANIMO

Paragonati con le ricerche degli eruditi di fine secolo passato e


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d’inizio del nostro, gli studi dell’ultimo trentennio mostrano una


spiccata propensione a fortemente circoscrivere, se non addirittura a
negare, l’influenza che i modelli poetici italiani esercitarono sulla
produzione di quei poeti iberici che con più stretti vincoli si congiun-
sero alla corte aragonese di Napoli, dove essi soggiornarono per
periodi più o meno lunghi, a seconda dei casi. Tale propensione,
frutto meritorio di sapienti e approfondite indagini, ha dato origine a
un luogo comune della critica, che riporterò facendo ricorso alla sua
più recente formulazione da me conosciuta. In un breve studio sulle
serranas di Carvajal, che verte principalmente sui rapporti tra «An-
dando perdido, de noche ya era» e il Libro de buen amor, l’autore, E.
Michael Gerli, pone fine al suo scritto col suggerimento di sei
conclusioni generali, nella penultima delle quali è dato riconoscere il
comune luogo critico a cui siamo interessati:

the prevailing literary inspirations and models at court of Alfonso V –


scrive Gerli – remained [...] primarily Castilian, harking back to
1
Iberian roots rather than bending toward Italian models .

1
E. M. Gerli, Carvajal’s Serranas: Reading, Glossing, and Rewriting the Libro de buen amor
in the Cancionero de Estúñiga, in N. Vaquero e A. Deyermond (a cura di), Studies on
Medieval Spanish Literature in Honor of Charles F. Fraker, Madison, Hispanic Seminary of
Medieval Studies, 1995, pp. 159-71 (cito da p. 168). Il trentennio circa di studi, a cui ho
fatto cenno nel testo, e che culmina col citato studio di Gerli, può farsi risalire al noto
lavoro di P. E. Russel, Armas versus Letters: Toward a Definition of Spanish Humanism, in A.
R. Lewis (a cura di), Aspects of Renaissance: A Symposium, Austin-London, 1967, pp. 45-58
(tr. sp. in Id., Temas de «La Celestina» y otros estudios, Barcelona, Ariel, 1978, pp. 207-39;
con riferimenti alla Napoli aragonese nelle pp. 219-21), e alcuni momenti significativi nella
puntuale indagine di R. G. Black, Poetic Taste at the Aragonese Court in Naples, in Florilegium

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 PARTE SECONDA

[l’ispirazione e i modelli letterari prevalenti nella corte di Alfonso V


rimasero [...] fondamentalmente castigliani, ritornando alle radici ibe-
riche piuttosto che rivolgersi ai modelli italiani].

‘Radici iberiche’ contro ‘modelli italiani’, dunque, con l’inatteso


quanto deludente sopravvento delle prime sui secondi. Ora, senza
pretendere di contestare un’opinione resa autorevole dall’indiscusso
rigore degli studiosi che l’hanno professata, la mia premura maggiore è
rivolta a cogliere il reale contesto poetico nel quale i poeti iberici si
trovarono a svolgere la loro attività; e insisto sull’aggettivo reale, perché
mi è difficile evitare la sensazione che la situazione poetica napoletana
al tempi di Alfonso sia stata spesso o scambiata con quella coeva di altri
centri della penisola, o confusa con quella napoletana di altre epoche:
della seconda metà del Quattrocento, di solito, e, sebbene più rara-
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mente, del primo Cinquecento perfino. Mi affretto, pertanto, a


precisare che – in tutto quel che segue – mi riferirò essenzialmente al
quindicennio circa con cui coincise il regno di Alfonso, tenendo cioè
fuori dalla portata della mia riflessione il successivo periodo di
Ferrante, per il quale valgono tutt’altre considerazioni.
Mi chiederò, allora, quali fossero i modelli italiani a cui Carvajal
e i suoi colleghi volsero le spalle, preferendo radicare i propri compo-
nimenti nei già collaudati schemi della maniera cosiddetta cancioneril.
Il maggiore esperto di lirica aragonese della seconda metà del Quat-
trocento, Marco Santagata, concisamente ci avverte che «Sino alla
generazione di De Jennaro, Aloisio, Galeota ecc. quasi nessuna voce
rompe il silenzio calato con la crisi politico-culturale dell’età durazze-
sca: il petrarchismo, cioè, rinasce a Napoli nella seconda metà del
secolo privo di una tradizione che in qualche modo lo radichi
nell’humus culturale indigeno»2.
Una condizione di silenzio – poetico, beninteso – che va fatta
risalire alla prima parte del secolo; all’ultimo, difficile periodo del
regno angioino che prelude al cambio dinastico, come lo stesso
Santagata, tornando sull’argomento in due più recenti contributi,
conferma in termini ancor più concisi e perentori:

Hispanicum. Medieval and Golden Age Studies presented to C. Clotelle Clarke, Madison,
Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1983, pp. 165-78, nonché nel libro di J. C. Rovira,
Humanistas y poetas en la corte napolitana de Alfonso el Magnánimo, Alicante, Instituto de
Cultura «Juan Gil-Albert», 1990.
2
M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento,
Padova, Antenore, 1979, p. 94.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE 

Nella prima metà [...] Napoli e il Regno, in preda alla crisi che porterà
al passaggio dinastico, tacciono.
La Napoli angioina è ridotta al silenzio e solo nei tardi anni ’50
comincerà a farsi sentire il risveglio aragonese3.

La generazione di rimatori a cui fa riferimento Santagata nella


prima citazione da me riportata è quella della cosiddetta ‘vecchia
guardia’: quella, cioè, immediatamente anteriore a Cariteo e Sanna-
zaro, formata dai poeti nati tra il 1430 e il 1445, e attivi nei primi
anni ’60, o – nei casi più precoci – alla fine degli anni ’50. Durante
tutto il regno di Alfonso, e fino all’inizio di quello di suo figlio
Ferrante, non esiste una tradizione poetica a Napoli e, pertanto, non
si danno modelli poetici a cui i verseggiatori spagnoli avrebbero
potuto o dovuto ispirarsi. Il discorso rischia di chiudersi qui, impu-
tando la tanto deprecata mancanza d’interazione di tradizioni e
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modelli all’assenza di uno dei reagenti, piuttosto che alla refrattarietà


ispanica nei confronti di maniere poetiche locali avvertite come
difformi ed estranee.
Si tratta, tuttavia, di un rischio potenziale, dal momento che – a
un’analisi più ravvicinata – la situazione doveva presentarsi alquanto
più articolata di quanto il sintetico quadro finora tracciato lasci
intendere. Per comprenderla meglio, dobbiamo tornare alla prima
metà del secolo, agli ultimi decenni del regno angioino, quando in
ambito poetico si verificò un fatto nuovo, destinato ad avere vaste
conseguenze in epoca aragonese. Mi riferisco al recupero della poesia
popolare e all’estendersi di essa sotto forma scritta; un fenomeno
4
che, essendo stato autorevolmente segnalato da Francesco Sabatini ,
ha poi ricevuto ampie ed approfondite conferme negli studi di
5
Rosario Coluccia . Quest’ultimo, parallelamente ai «maldestri e rozzi

3
I due contributi, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’: appunti per una storia e Fra
Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, possono ora leggersi nella raccolta di
M. Santagata, S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli,
1993, pp. 11-30 e 43-95. Per le citazioni, cfr. le pp. 16 e 90 dell’ed. cit.
4
F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli, Esi, 1975, dove – a proposito del
«passaggio dalla tradizione orale a quella scritta» (p. 195), verificatosi a partire dalla fine del
Trecento – possiamo leggere: «nel nuovo clima culturale dell’ultimo Trecento, e certo di più
nei decenni successivi, anche a Napoli ci si avviava verso un recupero della poesia
popolareggiante. Che in ogni caso vi fioriva allora abbondante, se emerse decisamente, in
ricche sillogi anonime o trasfusa nei canzonieri dei poeti d’arte, nella piena età aragonese»
(p. 196). Un’ampia bibliografia sulla «poesia popolare amorosa del nostro Mezzogiorno» si
trova indicata alle pp. 289-90 n. 162.
5
Di R. Coluccia, oltre a Tradizioni auliche e popolari nella poesia del regno di Napoli in età
angioina, in «Medioevo romanzo», II (1975), pp. 44-153, che cito nel testo, si vedano anche:
Un rimatore politico della Napoli angioina: Landulfo di Lamberto, in «Studi di Filologia

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 PARTE SECONDA

tentativi»6 rappresentati dalle scarse rime di uno sparuto gruppo di


poeti aulici (da Guglielmo Maramauro a Cola Maria Bozzuto),
documenta un’abbondante produzione di poesia ‘popolare’, che «si
rivela dotata di notevole originalità, robustezza tecnica e vitalità e
capace di larga irradiazione (o per tutti questi motivi intrinsecamente
destinata all’«ascesa»)»7. L’ascesa a cui Coluccia allude si realizzerà
nella seconda metà del secolo, fin dai primordi del regno di Ferrante,
quando, con le parole dello studioso citato:

i poeti dell’età aragonese – analogamente alle contemporanee espe-


rienze degli esponenti del cenacolo mediceo, del Giustinian, del
Boiardo – perseguono programmaticamente la commistione di forme,
contenuti, modi espressivi letterari e popolari, cui fa riscontro, dal
punto di vista linguistico, la ricerca di “un ideale cosciente di koiné”8.
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Si tratta, naturalmente, di quella lirica di koiné che in gran parte


ci è pervenuta attraverso tre note e ricche antologie poetiche, la più
vicina delle quali al regno di Alfonso, conservata dal ms. parigino
1035, è conosciuta come Cansonero de Popoli, dal nome del raccogli-
tore, il conte Giovanni Cantelmo, che vi trascrisse e riunı̀ ad uso
personale i componimenti poetici che gli amici gl’inviavano9. Ac-
canto alle numerose poesie anonime, vi si trovano versi – barzellette
e strambotti, soprattutto – usciti dalla penna di riconosciuti poeti
della cosiddetta ‘vecchia guardia’ aragonese, e di altri meno noti o,
addirittura, ignoti; i quali tutti, come ha scritto la Corti nelle impre-
scindibili pagine dedicate all’argomento:

Italiana», XXIX (1971), pp. 191-218, e I sonetti inediti di Cola Maria Bozzuto, gentiluomo
napoletano del sec. XV, in «Zeitschrı́ft für Romanische Philologie», CII (1992), pp. 293-318.
6
R. Coluccia, Tradizioni auliche e popolari, cit., p. 61.
7
Ivi, p. 83.
8
Ivi, p. 84.
9
Il Cansonero del conte di Popoli può consultarsi integralmente nell’edizione, non sempre
affidabile, dei Rimatori napoletani del Quattrocento, con prefazione e note di M. Mandalari,
Caserta, tip. A. Iaselli, 1885 (rist. anast. Bologna, Forni, 1979). Un’esauriente descrizione del
ms. si trova in P. J. De Jennaro, Rime e lettere, a c. di M. Corti, Bologna, Commissione per i
testi di lingua, 1956, pp. CLXXIX-CLXXXVII. Le restanti due sillogı́ sono costituite dal Vat.
Lat. 10656 e dal Riccardiano 2752. Del primo si veda l’edizione in G. B. Bronzini, Serventesi,
barzellette e strambotti del Quattrocento dal Cod. Vat. lat. 10656, in «Lares», XLV (1979), pp.
71-96, 251-62; XLVI (1980), pp. 43-53, 219-37, 357-371; XLVII (1981), pp. 389-400;
XLVIII (1982), pp. 213-47, 389-400, 547-70; XLIX (1983), pp. 413-45, 591-618. Le due
sillogi (ms. parigino 1035 e Vat. Lat. 10656) sono state edite congiuntamente da A. Altamura,
Rimatori napoletani del Quattrocento, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1962. Sul Riccardiano
2752, cfr. G. Parenti, «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms.
Riccardiano 2752, in «Studi di Filologia Italiana», XXXVII (1979), pp. 119-279.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE 

aspirano a una fusione di elementi letterari con altri popolareggianti,


assunti come mezzi espressivi al fine di creare un’atmosfera di vivacità
allusiva, quasi che un pizzico di popolare e di dialettale, autorizzato
dall’analogo comportamento di poeti toscani, e non solo toscani,
contemporanei, fosse nuova linfa per la vecchia pianta, tocco di imme-
diatezza artigianesca e qualche volta di comicità in un arredamento
ormai stantio10.

La commistione tra aulico e popolare che caratterizza, dunque,


almeno uno degli indirizzi in cui si concretizzò il «risveglio [poetico]
aragonese» al tempo di Ferrante, se – per un lato – avviene in
convergenza con analoghe esperienze di altre aree d’Italia, avverten-
done – più o meno sensibilmente – l’influenza, per altro verso,
affonda comunque le sue non lontanissime radici in quel recupero ed
estendersi sotto forma scritta della poesia popolare; un fenomeno,
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quest’ultimo, che, prodottosi nel periodo finale del regno angioino,


dovette certamente godere di una qualche vitalità anche al tempo di
Alfonso11. Anche a rischio di un eccessivo schematismo, provo co-
munque a riassumere la situazione poetica in cui ebbero a imbattersi
i poeti iberici che affluirono a Napoli durante il regno di Alfonso:
essi, dunque, oltre a incontrare un prestigioso circolo umanistico da
cui però – come sappiamo – rimasero per lo più esclusi, si trovarono
in assenza di una vera e propria tradizione locale di poesia aulica,
come ho sottolineato all’inizio, e, al tempo stesso, vennero inevitabil-
mente in contatto con la persistente e vitale tradizione poetica
popolare che, nel volgere di pochi anni, avrebbe dato i frutti di
commistione con la poesia aulica, a cui ho appena accennato12.
Del folto gruppo di poeti iberici, Carvajal è da tempo considerato

10
Corti, Introduzione a P. J. De Jennaro, Rime e lettere, cit., p. XIX.
11
«il fatto nuovo del primo Quattrocento è il recupero e l’estendersi sotto forma scritta
della poesia popolare: si buttano ora le basi per quella fioritura di testi popolari e
popolareggianti che sboccerà nell’età aragonese» (M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p.
94 n. 12), e M. Corti: «i nostri poeti [del Cansonero del conte di Popoli] trovano già robusti
filoni di tradizione popolareggiante costituiti» (Introduzione all’ed. cit., p. XXVI).
12
Ampie e aggiornate ricostruzioni della situazione poetica e culturale a Napoli in età
aragonese possono leggersi nelle recenti storie della letteratura italiana: F. Tateo, L’umane-
simo meridionale, in Letteratura italiana Laterza, 16, Roma-Bari, Laterza, 19762, in part. pp.
110-21; N. De Blasi e A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in A. Asor Rosa (a cura di),
Letteratura italiana. Storia e geografia. L’età moderna, Torino, Einaudi, 1988, II, t. I, pp.
235-325, in part. le pp. 242-44 e 258-68; R. Rinaldi, Dalla bucolica alla crisi della lirica
cortigiana (il laboratorio aragonese), in G. Barberi Squarotti (a cura di), Storia della civiltà
letteraria italiana. Umanesimo e Rinascimento, Torino, UTET, 1990, II, t. I, pp. 624-44; G.
Villani, L’umanesimo napoletano, in E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana. Il
Quattrocento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 709-62, in part. le pp. 739-47.

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 PARTE SECONDA

il caso più rappresentativo, non foss’altro che per un dato meramente


quantitativo: la sua presenza, difatti, è attestata da ben 52 componi-
menti nella tradizione n da cui, come risulta dalla ricostruzione di
Alberto Varvaro13, dipendono i maggiori canzonieri confezionati a
Napoli: quelli d’Estúñiga (MN54), della Casanatense di Roma
(RC1), della Marciana di Venezia (VM1)14. Ma, a fare di Carvajal il
più significativo poeta del gruppo, concorrono altri elementi non
meno importanti; tutti di ordine qualitativo, questa volta. Sorvolo su
fattori di tipo referenziale, come il particolare legame che unı̀ il poeta
al re Alfonso, e che traspare chiaramente da alcune rime, e su quelli
che vincolano molti suoi componimenti a personaggi e situazioni
della corte, o anche a luoghi specifici del regno15. Intendo riferirmi,
piuttosto, a una caratteristica generale della sua produzione, in virtù
della quale tale produzione finisce per inquadrarsi perfettamente in
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un contesto poetico come quello che ho tentato sinteticamente di


tracciare in precedenza. Mi spiego. Delle rime che conserviamo di
Carvajal, la maggior parte – esattamente come tante altre dei poeti
iberici presenti a corte – in poco o nulla diverge per metrica,
contenuti e tecniche retoriche dalla maniera cancioneril. Spero che,
dopo quanto si è detto, un tale esito non ci meravigli più di tanto,
dal momento che, mancando a Napoli – negli anni di Alfonso – una
tradizione di poesia aulica, appare piuttosto scontato che i verseggia-
tori spagnoli che volessero comporre rime di tono elevato finissero
per rivolgersi alla propria tradizione. Ciò che, invece, rende davvero
interessante il caso di Carvajal, ancorandolo definitivamente al con-
testo napoletano, è quella commistione di aulico e popolare che
riscontriamo in non poche delle sue rime, e che abbiamo visto anche

13
A. Varvaro, Premesse ad un’edizione critica delle poesie minori di Juan de Mena, Napoli,
Liguori, 1964, in part. p. 70.
14
Le sigle adottate per i mss. sono quelle fissate da B. Dutton, Catálogo-Indice de la Poesı́a
Cancioneril del siglo XV, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1982, e poi usate
nella magna opera di Id., El Cancionero del Siglo XV, 7 voll., Salamanca, Universidad de
Salamanca, 1990-91. Per un completo e dettagliato conteggio dei componimenti, presenti
in n, di «autori legati stabilmente alla corte napoletana di Alfonso», cfr. L. Vozzo Mendia,
La lirica spagnola alla corte napoletana di Alfonso d’Aragona: note su alcune tradizioni testuali, in
«Revista de Literatura Medieval», VII (1995), pp. 173-86, in part. le pp. 179-80, dove la
studiosa suggerisce l’ipotesi, secondo la quale «in n è confluito in tutto o in parte il
canzoniere individuale di Carvajal o lo stesso poeta è il compilatore della raccolta a cui
attinsero MN24 [errata per MN54] e RC1» (p. 181).
15
Adeguate introduzioni generali della poesia di Carvajal possono leggersi in E. Scoles,
Introduzione a Carvajal, Poesie, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, in part. le pp. 29-39, e N.
Salvador Miguel, La poesia cancioneril. El «Cancionero» de Estúñiga, Madrid, Alhambra,
1977, pp. 55-73 e passim.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE 

caratterizzare uno degli indirizzi, a cui darà luogo l’incipiente risve-


glio della poesia napoletana in età aragonese.
Lo spazio significativo accordato, all’interno della sua produ-
zione, a un genere come la serranilla16; l’inserimento di elementi
tradizionali in un tessuto che per il resto si presenta, linguisticamente
e stilisticamente, colto17; la sperimentazione sia sul versante del
recupero alla poesia aulica di un genere di trasmissione orale come il
romancero18 sia sul versante del sondaggio – nell’ambito di un raffi-
nato gioco cortigiano – delle possibilità letterarie del napoletano, con
esiti che probabilmente anticipano di poco la nascente lirica di
koiné19; tutti questi sono elementi che testimoniano un’attenzione
non episodica da parte di Carvajal nei confronti della poesia popo-
lare o popolareggiante, e c’inducono a condividere, senza riserva
alcuna, l’invito espresso da Margherita Morreale, quando – nel
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recensire l’edizione critica del nostro poeta – sottolineava l’opportu-


nità di «plantear en su conjunto el problema de la confluencia de los
dos veneros, el culto y el tradicional (o popular, según los casos), en
cuanto a motivos temáticos y en cuanto a lengua»20. Io stesso, posto
sul cammino indicato dall’illustre filologa, ho avventurato l’ipotesi
che perfino un componimento come «Sicut passer solitario» di Carva-
jal, se messo in relazione con un piccolo corpus di testi sul motivo
tematico del passero, costituito da uno strambotto popolare con
varianti calabresi, dal sonetto di Petrarca, e da uno strambotto di
Francesco Galeota, può essere letto come un’operazione di «commi-
stione tra la tradizione popolare, dove il motivo è abbondantemente

16
Sulle serranillas di Carvajal, oltre al già citato studio di Gerli (cfr. supra n. 1), si vedano
anche i lavori di N. F. Marino, The Serranillas of the Cancionero de Stúñiga: Carvajales’
Interpretation of this Pastoral Genre, in «Revista de Estudios Hispánicos», 15 (1981), pp.
43-57; Id., La serranilla española: Notas para su historia e interpretación, Potomac, Scripta
Humanistica, 1987, in part. le pp. 108-25; P. Garcı́a Carcedo, Las serranillas de Carvajal, in
J. Paredes (a cura di), Medioevo y Literatura. Actas del V Congreso de la Asociacion Hispanica
de Literatura Medieval (Granada 27 septiembre-1 octubre 1993), Granada, Universidad de
Granada, 1995, II, pp. 345-58.
17
Cfr. M. Morreale, rec. a Carvajal, Poesie, ed. cit. di E. Scoles, in «Revista de Filologı́a
Española», LI (1968), pp. 275-87, in part. p. 276 e n. 1.
18
Cfr. infra.
19
Cfr. L. Vozzo Mendia, La scelta dell’italiano tra gli scrittori iberici alla corte aragonese. I.
Le liriche di Carvajal e di Romeu Llull, in P. Trovato (a cura di), Lingue e culture dell’Italia
Meridionale (1200-1600), Roma, Bonacci, 1993, pp. 102-71; e, con diversa valutazione, M.
Alvar, Las poesı́as de Carvajal en italiano. Cancionero de Estúñiga, números 143-145, in Estudios
sobre el Siglo de Oro. Homenaje al profesor Francisco Ynduráin, Madrid, Editora Nacional,
1984, pp. 13-30.
20
Morreale, rec. citata all’ed. delle Poesie di Carvajal, p. 276.

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 PARTE SECONDA

attestato, e la tradizione poetica colta, in cui tale motivo si risolve


pressoché interamente»21. Eppure, non c’è alcun dubbio che, sul
terreno della commistione tra aulico e popolare, l’esempio più effi-
cace della poesia di Carvajal è costituito da uno dei due o tre
romances che di lui conserviamo, «Terrible duelo fazı́a», essendo
l’altro, il celebre «Retraida estava la reina», quello che ha ricevuto
maggiore attenzione dalla critica, soprattutto per il problema della
datazione22. In «Terrible duelo fazı́a», Carvajal riunisce nello stesso
componimento modi e materiali derivati da tradizioni poetiche varie
ed eterogenee, e li combina cosı̀ abilmente da ottenere un prodotto
originale nel suo genere. Non essendo possibile – per esigenze di
tempo – spingermi in una lettura meno generica del componimento,
mi limiterò a notare che, da un lato, vi convergono le forme metriche
e le tecniche narrative di quei «romançes e cantares de que las gentes
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de baxa e servil condiçión se alegran», secondo la nota e aristocratica


definizione di Santillana23; d’altro lato, però, vi confluiscono motivi
tematici e usi retorici attinti alla maniera altamente codificata della
poesia cancioneril; da un altro, ancora, concorrono a fissarne definiti-
vamente l’assetto singole immagini tratte dalla poesia italiana, nien-
temeno di un Petrarca (o, forse, di un Boccaccio)24.
È sorprendente come questo «poeta con ribetes de vanguardia» –
secondo la recente definizione di Di Stefano25 – non soltanto abbia
anticipato quel romancero trovadoresco che – nella penisola iberica –
sarà in voga solo verso la fine del secolo, ma abbia anche preceduto –
sebbene solo di qualche anno appena – quella lirica di koiné, con la
quale la «vecchia guardia» dei poeti napoletani si cimenterà a sua
volta – a partire dagli anni ’60 – in un analogo tentativo di commi-
stione di tradizione aulica e popolare, su cui ho più volte insistito.
Del resto, non sono stati i «componimenti redatti in italiano» dal

21
A. Gargano, Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: problemi e prospettive di
ricerca, in «Revista de Literatura Medieval», VI (1994), pp. 105-24 (cit. a p. 123). Lo studio
è qui raccolto nelle pp. 89-110.
22
Per l’‘odissea’ della datazione del romance, si veda l’ampio resoconto contenuto in
Scoles, Introduzione a Carvajal, Poesie, ed. cit., pp. 25-29. Quanto al terzo romance di
Carvajal, è nota l’attribuzione di «Mirava de Campoviejo» al nostro poeta da parte di R.
Menéndez Pidal, Romancero hispánico, Madrid, Espasa-Calpe, 1968, II, p. 20.
23
El Prohemio e Carta del Marqués de Santillana y la teorı́a literaria del siglo XV, a c. di A.
Gómez Moreno, Barcelona, PPU, 1990, p. 57.
24
Cfr. F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Doce consideracio-
nes sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés, Roma, Publicacio-
nes del Instituto Español de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30, in part. p. 125 n. 31.
25
G. Di Stefano, Introducción a Romancero, a c. di G. D. S., Madrid, Taurus, 1993, p. 17.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE 

nostro Carvajal a fornire a uno storico della lingua come Nicola De


Blasi l’argomento, in base al quale suggerire che «i poeti castigliani
sono probabilmente i primi a sondare le possibilità letterarie del
napoletano»26? Se, dunque, un problema di cronologia s’impone, è
unicamente in termini di contesto culturale che si può tentare di
risolverlo. Voglio dire che l’attenzione di un poeta come Carvajal per
la poesia popolareggiante, e il conseguente tentativo di fusione di
tradizione colta e popolare, sono il frutto dell’incontro particolar-
mente felice di due diversi fattori, che si dettero alla corte napoletana
di Alfonso: da un lato, il gruppo di poeti spagnoli confluiti a Napoli
con un largo esercizio di una maniera poetica ad alto tasso di
codificazione, qual era quella cancioneril; d’altro lato, un contesto
culturale, in cui anche gli ambienti colti facevano da tempo un
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abbondante consumo di poesia popolare. È da quest’incontro che


nasce la capacità doppiamente precorritrice di un poeta come Carva-
jal, che per il resto è stato non a torto definito «un escritor de
27
segunda y tercera fila» . Concludo, perciò, affermando che, se è
incerto che la corte napoletana di Alfonso debba considerarsi il luogo
ove ebbe origine il primo romancero trovadoresco, tale corte costituı̀
sicuramente il terreno più propizio, affinché una forma di commi-
stione tra tradizione colta e popolare, qual è appunto il romancero
trovadoresco, potesse essere avviata, per poi imporsi attraverso strade
che, via via, andarono allontanandosi sempre di più da Napoli e dalla
sua corte28.

26
De Blasi e Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, cit., p. 243.
27
Morreale, rec. citata a Carvajal, Poesie, ed. cit., p. 275.
28
Cfr. F. Rico, Los orı́genes de «Fontefrida» y el primer romancero trovadoresco, in Texto y
contextos. Estudios sobre la poesia española del siglo XV, Barcelona, Crı́tica, 1990, pp. 1-32,
dove l’autore – a partire da uno splendido e denso studio di Fontefrida – ha formulato una
doppia ipotesi sul luogo d’origine del primo romancero trovadoresco, situandolo o nella
Bologna dei primi decenni del Quattrocento, e negli ambienti universitari spagnoli, o anche
nella Napoli aragonese, e nella cerchia alfonsina, benché – a proposito di quest’ultima – lo
stesso autore precisi che «al pensar en los aldeanos de Alfonso V no tenemos por qué
limitarnos al periodo más esplendoroso de su asentamiento en Nápoles» (p. 29). Sui
rapporti, in generale, tra «la moda popularizante» in poesia e «la corte napolitana de Alfonso
V», cfr. anche R. Menéndez Pidal, Poesı́a juglaresca y orı́genes de las literaturas románicas,
Madrid, Instituto de Estudios Polı́ticos, 19576, p. 324; Id., Romancero hispánico, cit., II, pp.
19-22; M. Frenk Alatorre, ¿Santillana o Suero de Ribera?, in «Nueva Revista de Filologı́a
Hispánica», XVI (1962), pp. 437; e Id., Estudios sobre lı́rica antigua, Madrid, Castalia, 1978,
p. 51; A. Sánchez Romeralo, El villancico (estudios sobre la lı́rica popular en los siglos XV y
XVI), Madrid, Gredos, 1969, p. 50.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA
ALLA CORTE ARAGONESE:
PROBLEMI E PROSPETTIVE DI RICERCA

1. Una cultura poetica quadrilingue


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Nel fare il punto sull’ultimo decennio di studi dedicati alla poesia


spagnola quattrocentesca, l’illustre medievista Alan Deyermond,
dopo aver premesso che «los poetas de la corte aragonesa de Nápo-
les, ası́ como el importante conjunto de cancioneros de allı́ proce-
dentes han despertado últimamente el interés de varios investigado-
res», ha precisato che un «importante aspecto de la corte aragonesa
de Nápoles [...] es que su cultura poética fue cuatrilingüe», senza
poter nascondere la sorpresa per il fatto che un cosı́ importante
aspetto «no haya sido más estudiado»1. Deyermond ha dunque per-
fettamente ragione nel porre al centro della questione l’incontro – in
ambito poetico – di quattro tradizioni linguistiche: italiana, latina,
castigliana e catalana. Mi affretto solo a sottolineare ciò che nelle
sintetiche osservazioni di Deyermond resta implicito, vale a dire che
la poesia che si esprime in ogni singola lingua non è affatto omoge-
nea, o almeno non lo è sempre: basta mettere in fila tre nomi della
«vecchia guardia» napoletana come Cola di Monforte, il De Jennaro
delle Rime e Giovanni Francesco Caracciolo per metterci sull’avviso
che l’indagine sull’interazione tra le varie tradizioni linguistiche non
può mai prescindere da quella – strettamente complementare – tra le
varie tradizioni poetiche all’interno di ogni singola tradizione lingui-
stica2. Né debbono sfuggire quelle ulteriori dimensioni del problema

1
A. Deyermond, Edad Media. Primer suplemento de Historia y Crı́tica de la literatura
española, in F. Rico (a cura di), Historia y Crı́tica de la literatura española, Barcelona, Crı́tica,
1991, pp. 242-43.
2
Per la poesia a Napoli nella seconda metà del Quattrocento sono fondamentali M.
Corti, Introduzione a P. J. De Jennaro, Rime e lettere, Commissione per i testi di lingua,

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 PARTE SECONDA

che sembrano apparentemente estranee all’ambito napoletano. Si


sarebbe portati a credere, per esempio, che le interazioni poetiche
che escludono le componenti italiana e latina abbiano poco a che
vedere con la corte napoletana. Eppure non sempre è cosı̀, dal
momento che in uno tra i più significativi fenomeni letterari che si
verificano nella peninsola iberica tra Quattro e Cinquecento: la
castiglianizzazione dei poeti valenziani, gioca un non trascurabile
ruolo la corte aragonese di Napoli, dove i molti aristocratici valen-
zani che vi si installarono «havien de sentir-se atrets pels modes i per
les modes de la cort», come ha scritto Joan Fuster, che nella stessa
pagina fa esplicito riferimento alla «castellanització cultural de la
noblesa [valenciana] relacionada amb Nàpols»3. Del resto, le cose
non cambiano molto se il discorso si sposta da Valenza a Barcellona4.
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Da questo punto di vista, è estremamente esemplare il caso di


Romeu Llull, un poeta su cui dovremo presto tornare, e a proposito
del quale per ora mi limiterò a notare che finché fu a Napoli, alla
corte di Ferrante, compose poesie in italiano e castigliano, mentre,
una volta che fece ritorno a Barcellona, la sua produzione si limitò al
catalano, con qualche incursione nel castigliano.
Né la considerazione del fattore cronologico interviene a sempli-
ficare le cose; piuttosto il contrario. Non credo, difatti, che nello
studio delle interazioni tra poesia iberica e poesia italiana presso la

Bologna, 1956, in part. le pp. XVI-LXIII; M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla
poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979. Molto utili sono i recenti
panorami di R. Coluccia, La coinè nell’Italia meridionale, in L. Serianni e P. Trifone (a cura
di), Storia della lingua italiana, vol. III, Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994, pp. 373-405 e
N. De Blasi, Il «volgare» durante la dominazione aragonese, in P. Bianchi, N. De Blasi, R.
Librandi, I’ te vurria parla’. Storia della lingua a Napoli e in Campania, Napoli, Tullio Pironti
Editore, 1993, pp. 47-49.
3
J. Fuster, Llengua i societat, in AA.VV., Història del paı́s valencià. De les germanies a la
nova planta, vol. III, Barcelona, Edicions 62, 1975, p. 169. Di Fuster si veda anche Poetes,
moriscos i capellans, ora in Obres completes, I, Barcelona, Edicions 62, 19752, pp. 317-508, in
part. 333-36. Cfr. inoltre Ph. Berger, Contribution à l’étude du déclin du valencien comme
langue littèraire au seizième siècle, «Mélanges de la Casa Velázquez», XII (1976), pp. 173-94;
e Id., Libro y lectura en la Valencia del Renacimiento, Valencia, Edicions Alfons el Magnànim,
1987, vol. I, pp. 329-34.
4
Sulla questione cfr. M. Canher, Llengua i societat en el pas del segle XV al XVI.
Contribució a l’estudi de la penetració del castellà als Paı̈sos catalans, in J. Bruguera e J. Massot i
Muntaner (a cura di), Actes del Cinquè Col.loqui Internacional de Llengua i literatura catalanes,
Montserrat, Publicaciones de l’Abadia de Montserrat, 1980, pp. 183-255; e Id., Introducció
a Epistolari del Renaixement, València, Albatros, 1977, in part. le pp. 20-21. Cfr. anche P.
M. Cátedra, Introducción a Poemas castellanos de cancioneros bilingües y otros manuscritos
barceloneses, Exter, University of Exter, 1983.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

corte aragonese convenga limitarsi al solo periodo alfonsino, come


pure alcune considerazioni – soprattutto di ordine strettamente filo-
logico – consiglierebbero di fare. Un recente e bel saggio di Francis-
co Rico ci induce – direi, perentoriamente – a non attestarci su quel
1442, anno dell’inizio del regno alfonsino, se è vero che un romance
come Fontefrida – e, più in generale, gli esordi del romancero trobado-
resco – risulta «como brotado en un entreverarse de raı́ces castellanas
y cultura italiana, verosı́milmente a través de engarces catalanes», il
che ci rimanda agli «aledaños de Alfonso V, y particularmente en
aquella corte napolitana donde se codean italianos, catalanes y cas-
tellanos de lengua», dove per ‘prossimità’ di Alfonso – e qui è il
punto – «no tenemos por qué limitarnos al periodo más esplendoroso
de su asentamiento en Nápoles: la aventura italiana se abre con la
expedición a Cerdeña y Sicilia en 1420, sin otro paréntesis español
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que el de 1424 a 1432»5. Se dunque, dal nostro punto di vista, il


periodo da prendere in considerazione si allarga verso l’alto di
almeno un ventennio, un diverso ordine di considerazioni ci invita a
compiere una simile operazione verso il basso: è cioè auspicabile
tener presente il quindicennio circa posteriore alla crisi della corte
aragonese, il che ci permette di arrivare al 1511, quando a Valenza si
pubblica il Cancionero general di Hernando del Castillo; o meglio
ancora, al 1514, data della seconda edizione valenzana con significa-
tive aggiunte; e addirittura al 1516, anno in cui vide la luce il
Cancioneiro geral di Resende. Il Cancionero general fu un’opera impo-
nente per la sua epoca: una raccolta poetica senza paragoni in
Spagna – e forse in Europa – con le sue 484 pagine, scritte a tre
colonne e contenenti più di mille componimenti. Hernando del
Castillo, un castigliano che si era stabilito a Valenza al servizio del
Conte di Oliva, aveva raccolto le poesie per un ventennio circa, ossia
fin dal 1490, come egli stesso c’informa nel prologo: «que de veinte
años a esta parte esta natural inclinación me hizo investigar ayer y
recolegir de diversas partes y diversos autores, con la más diligencia
que pude, todas las obras que de Juan de Mena acá se escrivieron»6.
Il Cancionero general nasce e si realizza a Valenza, e di esso (e della
sua seconda edizione) capiremmo molto meno se non tenessimo in

5
F. Rico, Los orı́genes de ‘Fontefrida’ y el primer romancero trovadoresco, in Texto y contextos.
Estudios sobre la poesı́a española del siglo XV, Barcelona, Crı́tica, 1990, pp. 1-32; cito dalle pp.
28-29.
6
Cancionero general recopilado por Hernando del Castillo (Valencia, 1511), ed. facsimile a c.
di A. Rodrı́guez-Moñino, Madrid, Real Academia Española, 1958.

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 PARTE SECONDA

debito conto il consistente circolo dell’italianismo valenzano, a cui


non furono certo estranei quegli autori che con la corte napoletana
ebbero contatti più o meno profondi7. Quanto all’altro importante
canzoniere peninsulare, quello di Resende, mi limiterò a riportare
quanto ha affermato Brian Dutton in un lavoro pubblicato recente-
mente: «Este cancionero tiene otro factor sorprendente: coincidencia
con elementos italianos y napolitanos que demuestran la presencia
en la corte portuguesa de gente desterrada de Nápoles cuando el rey
Federico III fue expulsado a Francia en 1501 por el rey Fernando el
Católico»8.
Non trascurerei, infine, quell’aspetto della questione che riguarda
la direzione dell’influenza; un aspetto per il quale dalle posizioni
risolutamente affermative, se non proprio incaute, di fine secolo
passato e inizio del nostro si è passati a posizioni possibiliste sı́, ma
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molto più prudenti. Com’era da prevedere, si è maggiormente insi-


stito sugli apporti che la poesia iberica avrebbe ricevuto da quella
napoletana. Alla fine del passato secolo, per esempio, Arturo Fari-
nelli poteva affermare risolutamente che «i verseggiatori spagnuoli
[...] sebbene scrivessero nella loro lingua natı́a, imitavano allegra-
mente la poesia volgare italiana, ed innestavano a profusione gli
italianismi nelle loro liriche»9. Con gli anni la prudenza ha preso il
sopravvento. Peter E. Russell, in un saggio famoso dove affronta il
problema dell’umanesimo spagnolo del secolo XV come conflitto tra
le armi e le lettere, notava che «los caballeros [catalanes] que rodea-
ban a Alfonso en Nápoles, como sus iguales castellanos, escribı́an
mucha poesı́a cortesana, pero sorprende lo poco que extendieron en
algún sentido, por su estancia en Italia, sus horizontes literarios»10. Si
tratta di un giudizio che, sotto mentite spoglie, ritroviamo nel recente
libro che José Carlos Rovira ha dedicato a Humanistas y poetas en la
corte napolitana de Alfonso el Magnánimo, dove – sempre a proposito

7
Si veda M. de Riquer, Història de la literatura catalana, III, Barcelona, Ariel, 1964, in
part. le pp. 321-64; Canher, Llengua i societat, cit., in part. le pp. 238-45; e, più in generale,
F. Rico, A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola del primo Cinquecento, «Studi
Petrarcheschi. Nuova Serie», IV (1987), pp. 229-36.
8
B. Dutton, El desarrollo del «Cancionero General» de 1511, in E. Rodrı́guez Cepeda (a
cura di), Actas del Congreso Romancero Cancionero, UCLA (1984), Madrid, José Porrúa
Turanzas, 1990, I, pp. 81-96; cito da p. 83.
9
A. Farinelli, Cenni sul dominio degli aragonesi a Napoli, in Italia e Spagna, Torino, Bocca,
1929, II, p. 76 (le pagine qui raccolte risalgono però al 1894).
10
P. E. Russell, Las armas contra las letras: para una definición del humanismo español del
siglo XV, in Temas de «La Celestina», Barcelona, Ariel, 1978, pp. 209-39, cito dalle pp.
219-20.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

dei poeti iberici – si parla del «desconocimiento que mantienen del


mundo cultural que les rodea, al menos como estı́mulos directos y
detectables»11. La posizione maggiormente perentoria sull’argomento
è stata espressa, comunque, dall’americano Robert G. Black, che a
conclusione di un’accurata indagine sul ms. parigino 226 (PN4, nella
classificazione di Dutton)12 scrive:

The court at Naples did not function as a great melder of different


national traditions, nor was it a place where Hispanic poets apprenti-
ced themselves to an on-going Renaissance lyric tradition, as has been
previously assumed [...] they were neither encouraged nor rewarded
for adopting Italian lyric conventions for their Castilian and Catalan
poetry – quite the contrary. Poetic taste during the period of composi-
tion, copying, and promulgation of Hispanic cancioneros in Naples
demandes stern allegiance to poetry written with Hispanic conven-
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tions, in Hispanic styles, and on Hispanic themes13.

Posso giustificare la lunga citazione, adducendo due ragioni. In


primo luogo, il passo di Black contiene la più esplicita e radicale
contestazione di quello che possiamo definire – senza connotazioni
negative – un luogo comune della critica. Quando alla seconda
ragione, ricorrerò, per formularla, alla forma interrogativa: quando
Black si riferisce alla «tradizione lirica rinascimentale» non pensa a
una tradizione fortemente omogenea che coincide di fatto col petrar-
chismo cinquecentesco, e che riflette poco la situazione poetica del
secondo Quattrocento napoletano? Comunque stiano le cose, mi
affretto a notare che sul versante complementare assistiamo a una
traiettoria simile ma meno nettamente marcata, anche perché il
problema dei rapporti con la lirica iberica occupa un posto periferico
negli studi sulla poesia napoletana in età aragonese. Sono note,
tuttavia, le posizioni espresse all’inizio del secolo dal Savj López, che
collegò gli schemi metrici della barzelletta – cosı̀ diffusa in alcuni
poeti napoletani – con quelli delle canciones spagnole, congetturando

11
Alicante, Instituto de Cultura «Juan Gil-Albert», 1990, p. 97. Cfr. la rec. di A. M.
Compagna Perrone Capano in «Medioevo Romanzo», XVII (1992), pp. 155-58.
12
B. Dutton, Catálogo-Indice de la Poesı́a Cancioneril del siglo XV, Madison, The Hispanic
Seminary of Medieval Studies, 1983, pp. 165-78; cito da p. 174.
13
R. G. Black, Poetic Taste at the Aragonese Court in Naples, in Florilegium Hispanicum.
Medieval and Golden Age Studies presented to D. Clotelle Clarke, Madison, The Hispanic
Seminary of Medieval Studies, 1983, pp. 165-78; cito da p. 174.

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 PARTE SECONDA

addirittura una derivazione da parte napoletana14; le tesi del Savj


López, furono prudentemente riportate dal Croce nel saggio su
Spagnuoli e cose spagnuole alla corte di Ferrante di Napoli, dove, però,
puntuale cade in nota il rinvio alla critica recensione del Percopo15.
In tempi più recenti, Maria Corti ha dedicato al nostro problema
alcune pagine della sua imprescindibile introduzione all’edizione
delle Rime e lettere di De Jennaro. Pur contestando radicalmente –
com’era da attendersi – le tesi del Savj López, la Corti ha assunto
una posizione di maggiore equilibrio, da un lato, affermando con
chiarezza che «con ciò non si vuol negare da un lato un influsso
spagnolo su questi poeti», e non tardando a precisare, dall’altro, che
la sua «sensazione» è che si tratti di «un iberismo a fior di pelle,
prodotto dai costumi di una corte, non da una penetrazione spiri-
tuale del mondo artistico spagnolo»16. In ultimo, in ordine di tempo,
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ricordo che Nicola De Blasi, trattando della presenza iberica alla


corte d’Alfonso e, in particolare, dei «componimenti redatti in vol-
gare napoletano» di Carvajal, ha sottolineato il fatto non irrilevante
che «i poeti castigliani sono probabilmente i primi a sondare le
possibilità letterarie del napoletano»17.
Credo che il campo d’indagine risulti ora più precisamente defi-
nito. In sintesi, si tratta d’indagare sui possibili rapporti di una
produzione poetica quadrilingue, senza trascurare né le tradizioni
poetiche interne a ogni singola lingua, né quelle questioni solo
apparentemente estranee alla corte napoletana, in un periodo che ai
due poli eccede di tre o quattro lustri quello strettamente aragonese
(1442-1501), e con la precisazione finale che in tali rapporti po-
trebbe essere eventualmente implicata una doppia direzione d’in-
fluenza. Mi rendo conto che in tal modo il quadro si fa enormemente
complesso, ma è anche vero che solo per questa via sarà possibile, da
un lato, evitare facili malintesi e, dall’altro, recuperare alla poesia di

14
P. Savj López, Lirica spagnola in Italia nel secolo XVI, in «Giornale storico della
letteratura italiana», XLI (1903), pp. 1-41 (poi raccolto in Trovatori e poeti. Studi di lirica
antica, Palermo, pp. 189 e ss.).
15
Il saggio di Croce fu raccolto in La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza,
Bari, Laterza, 1917, pp. 54-74; per il riferimento allo studio del Savj López, cfr. p. 66 e n.
5, dove si trova anche la menzione della recensione del Percopo pubblicata in «Rassegna
critica della letteratura italiana», VIII (1903), pp. 83-84.
16
Cfr. M. Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., pp. XXXV e XXXVI.
17
Cfr. N. De Blasi e A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in A. Asor Rosa (a cura di),
Letteratura italiana. Storia e geografia. L’età moderna, Torino, Einaudi, 1988, pp. 234-325;
cito da p. 243.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

questo periodo un fascino che difficilmente saremmo disposti a


riconoscerle in virtù dei soli risultati estetici, spesso – in verità –
piuttosto limitati.

2. Canzonieri, poeti e poesie bilingui


Non potendo naturalmente affrontare il problema in tutta la sua
vasta portata, mi avvicinerò ad esso prendendo in considerazione tre
casi particolari, dalla discussione dei quali spero di poter trarre
qualche riflessione generale sui rapporti tra le diverse tradizioni
poetiche che vennero, in qualche modo, in contatto. Quanto ai tre
particolari casi di contatto che saranno presi in considerazione si
tratta dei canzonieri, dei poeti e dei componimenti bilingui.
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2.1. Canzonieri bilingui


Per il primo di essi, si può subito constatare che non si danno veri e
propri canzonieri bilingui, come pure ci si sarebbe potuto attendere
in una situazione culturalmente plurilinguistica, quale era quella
della corte napoletana. A questo proposito, senza uscire dall’ambito
della dinastia aragonese, si potrebbe citare il caso di non pochi
canzonieri bilingui, catalano-castigliani, della vicina Catalogna, dove
nella seconda metà del Quattrocento – come pure si è già accenato
per Valenza – il catalano stava cedendo il passo al castigliano come
lingua poetica di maggior prestigio18. Tornando a Napoli, nei canzo-
nieri spagnoli confezionati sicuramente nella città partenopea non c’è
quasi traccia di poesia in italiano: nei due codici in cui confluiscono
le tradizioni a ed n, ossia i canzonieri di Estúñiga e di Roma, cosı̀
come nei quattro parigini (mss. n. 226, 227, 230, 313) e in quello
appartenuto al Conde de Haro, troviamo solo due poesie in italiano,
attribuite entrambe a Carvajal, che meriteranno un discorso a par-
te19. Leggermente diversa è la situazione dei canzonieri napoletani.

18
Sui canzonieri bilingui catalano-castigliani, cfr. Cátedra, Introducción a Poemas castella-
nos, cit., in part. le pp. IX-XVI, dove si troverà anche la bibliografia sull’argomento.
19
Sui rapporti tra i canzonieri spagnoli di area napoletana è imprescindibile A. Vàrvaro,
Premesse ad un’edizione critica delle poesie minori di Juan de Mena, Napoli, Liguori, 1964, le
cui conclusioni sono state più volte confermate in lavori posteriori, tra i quali si vedano gli
ultimi, in ordine di tempo: Juan de Mena, Poesie minori, a c. di C. de Nigris, Napoli,
Liguori, 1988, e L. de Stuñiga, Poesie, a c. di Lia Vozzo Mendia, Napoli, Liguori, 1989. Il
Cancionero di Estúñiga è stato recentemente riedito in edizione paleografica da Manuel e

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 PARTE SECONDA

Delle grandi sillogi contenenti la cosiddetta poesia di koiné, il Pari-


gino n. 1035, il famoso cansonero raccolto dal conte di Popoli intorno
al 1468, contiene tre componimenti in castigliano20 e il Riccardiano
n. 2752 ne contiene cinque. Si tratta, naturalmente, di infiltrazioni
minime, se si pensa che nel Parigino abbiamo tre poesie su un totale
che oltrepassa il centinaio, e nel Riccardiano, ancora più vistosa-
mente, solo cinque su un totale di centocinquanta poesie circa
(erroneamente l’indice del Parenti ne conta sette, perché in due casi
considera componimenti autonomi quelle che sono le due metà di
una stessa canzone)21. Sugli otto componimenti cosi inventariati, si
possono fare considerazioni di diverso ordine. Mi limiterò a due
osservazioni che riguardano, rispettivamente, la diffusione e il genere
metrico. Quanto alla prima, mentre le cinque poesie del Riccardiano
sono attestate solo in questo codice, due di quelle contenute nel
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Parigino hanno una diffusione leggermente più ampia22. Si tratta


della canzone «Aunque soy apartado» presente anche nel canzoniere
catalano conservato presso l’Ateneo barcellonese, ossia uno di quei
canzonieri catalano-castigliani a cui ho fatto riferimento poco pri-
ma23; e della canzone «Triste que será de mı́» che viene glossata da

Elena Alvar, Zaragoza, Institución «Fernando el Católico», 1981, e in edizione critica da N.


Salvador Miguel, Madrid, Alhambra, 1987. Per il Cancionero de Roma bisogna rifarsi
all’edizione di M. Canal Gómez, Firenze, 1935, 2 voll. Sul ms. parigino n. 226 (PN4
secondo la sigla di Dutton, Catálogo-Indice, cit.), si veda lo studio già menzionato di Black,
Poetic Taste, cit. Per un tentativo di «delimitare con maggiore precisione il corpus poetico che
si può definire a pieno titolo napoletano-aragonese», cfr. Lia Vozzo Mendia, La lirica
spagnola alla corte napoletana di Alfonso: note su alcune tradizioni testuali, «Revista de Litera-
tura Medieval», VII (1995).
20
Del Cansonero del Conte di Popoli esiste l’edizione integrale ma inaffidabile: Rimatori
napoletani del Quattrocento, a c. di M. Mandalari, Caserta, 1885 (ristampa anastatica
Bologna, Forni, 1979). I tre componimenti in spagnolo sono i seguenti: Triste que serra de mi
(p. 88), Mengua la chacta roppera (p. 94), A hun que soy apartado (p. 122). Il testo delle tre
poesie si trova ora anche in B. Dutton, El Cancionero del Siglo XV, Salamanca, Biblioteca
Española del siglo XV, 1991, vol. III, p. 486.
21
Cfr. G. Parenti, ‘Antonio Carazolo desamato’. Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms.
Riccardiano 2752, in «Studi di Filologia Italiana», XXXVII (1979), pp. 119-279. I cinque
componimenti in spagnolo sono i seguenti: Muore mi vida bivie(n)do (49v.), Dura te aglia
esin demerce (121v.), No es mester quos coprais (121v.), Aquesta tal pena mia lo co(n)siento
(122v.), Nagliora la giorando Se despida (122v.).
22
Per tale diffusione, cfr. Dutton, Catálogo-Indice, cit., ai seguenti numeri dell’Indice
Maestro: 2772, 4942, 5094.
23
Si tratta del Cançoner de l’Ateneu, conservato dal ms. 1 della Biblioteca de l’Ateneu
Barcelonés. Fu parzialmente edito da F. Valls Taberner, El cançoner català del XVèn segle de
l’Ateneu Barcelonés, in «Butlletı́ de l’Ateneu Barcelonés», I (1915), nº 1. Sull’edizione più
volte annunciata di R. Aramón i Serra, cfr. M. de Riquer, Història de la literatura, cit., III, p.
13, n. 1. Sulla presenza di poesia italiana nel canzoniere, si veda dello stesso Aramon i

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

João Manuel nel portoghese Cancioneiro de Resende del 1516, ossia


una di quelle coincidenze a cui aveva accennato Dutton nel saggio
che ho anteriormente menzionato24. Quanto alla seconda questione,
mentre la maggior parte delle otto poesie rientra nella tradizione
metrica e poetica castigliana, una sola – «Aquesta tal pena mı́a que io
consiento» – è invece uno strambotto, il genere che – come ha
precisato Santagata – per i poeti della «vecchia guardia» napoletana
«era essenzialmente, per non dire unicamente, il metro tipico di
quella produzione semipopolare di cui la raccolta del conte di Popoli
fornisce l’esemplificazione più estesa»25. Lo strambotto in questione
presenta inoltre una caratteristica ben evidente:

Aquesta tal pena mı́a que io consiento


Laura ermosa c’alegre t’estás,
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C’alegre t’estás de mi gran tormento


Con’l qual tormento muorte me das,
Muorte me das desequal de stento
Que juraste y chisze que nu[n]ca jamás
Jamás disdixeste ni por pensamiento;
Mas tiempo vendrà che tu megliorarás26.

Come si sarà notato, ciascun verso (tranne che 2, 6, 8) riprende


da principio le ultime parole del verso precedente. Nello stesso
Riccardiano, alla c. 136r, si trova uno strambotto, questa volta in
italiano, che presenta la stessa caratteristica: «Questa gran pena mia
per te la sento». Peraltro è da notare che tale tecnica – come già
segnalò il Flamini – venne usata in non pochi strambotti da France-
sco Galeota, lo stesso poeta che aveva rifatto in italiano il componi-
mento «Siete gozos de amor» di Juan Rodrı́guez del Padrón27. Inoltre,

Serra, Dues cançons populars italianes en un manuscrit català quatrecentista, «Estudis Romà-
nics», I (1947-48), pp. 159-88.
24
Oltre alla menzionata canzone spagnola, si consideri che la poesia italiana Amor tu non
mi gabasti, che compare nel Cansonero del Conte di Popoli e in altri manoscritti musicali
italiani, è presente anche nel Cancioneiro de Resende, tradotta al portoghese nel componi-
mento 195 di João Manuel; cfr. Dutton, El desarrollo, cit., p. 83 e n. 5, e A. F. Dias, O
«Cancioneiro Geral’» e a poesia peninsular de Quatrocientos (contactos e sobrevivencia), Coimbra,
Liuraria Almedina, 1978, pp. 25-26.
25
Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 255.
26
Il testo si trova ora trascritto in Dutton, El Cancionero del siglo XV, cit., vol. I, p. 78.
Cfr. anche Savj López, Lirica spagnola, cit., p. 34 e Parenti, ‘Antonio Carazolo desamato’, art.
cit., p. 270.
27
F. Flamini, Francesco Galeota e il suo inedito canzoniere, in «Giornale Storico della
Letteratura Italiana», XX (1892), p. 32 e n. 2, e p. 16.

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 PARTE SECONDA

la già menzionata canzone «Triste que será de mı́» è preceduta, nel


Parigino che la conserva, dalla sigla F che, secondo una congettura,
potrebbe indicare lo stesso Galeota (o, in alternativa, un altro Fran-
cesco: lo Spinello)28. Comunque stiano le cose, non è difficile presu-
mere che i pochi componimenti castigliani che si trovano nelle sillogi
napoletane siano da attribuire a poeti napoletani, funzionari di Fer-
rante, che furono protagonisti della rinascita della poesia napoletana,
e che occasionalmente cedevano al gusto di comporre qualche poesia
nella lingua della dinastia che servivano, e ciò facevano per lo più
adattandosi agli usi poetici – oltre che alla lingua – castigliani, più
raramente invece adattando la tradizione poetica locale alla lingua
foranea. Ma l’assenza di veri e propri canzonieri bilingui ci permette
di riflettere su alcuni punti generali, che è bene precisare. In primo
luogo, i canzonieri spagnoli e le sillogi napoletane erano destinati a
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non incontrarsi, perché riflettono due situazioni poetiche diverse e –


in certa misura – complementari. Voglio dire, che i primi – i canzo-
nieri spagnoli – sono il riflesso del periodo alfonsino, allorquando alla
forte presenza a corte e al prestigio dei poeti iberici (castigliani,
aragonesi e catalani) corrispondeva un momento di vuoto nella
poesia napoletana; le seconde – le sillogi napoletane – sono il riflesso
del posteriore periodo ferrantino, quando la forte spinta alla rinascita
della poesia napoletana corse parallela al decremento – perfino nu-
merico – della presenza a corte di poeti iberici. Insomma, le condi-
zioni che favoriscono un fenomeno come i canzonieri bilingui, ossia
la contemporanea vitalità di tradizioni diverse, non si sono date alla
corte napoletana. In secondo luogo, stando al particolare tipo di
presenza di poesia in castigliano nelle sillogi napoletane, dovremmo
concludere che scambi significativi tra i diversi codici poetici di fatto
non si verificarono, perché tali non possono considerarsi quei casi di
napoletani che occasionalmente si prestarono all’uso del castigliano,
per dar luogo a componimenti che in nulla differiscono dal tipico
prodotto poetico della cosiddetta poesia cancioneril. Diverso è il caso
dello strambotto in castigliano. Qui si è fatto un passo più in là nel-
l’interazione dei codici poetici; eppure, è bene precisare subito che
da tale interazione restano escluse non certo a caso quelle tradizioni
della poesia napoletana che meno immediatamente potrebbero ve-
dersi tradotte in castigliano. Si tratta di una questione che vedremo

28
Croce, La Spagna nella vita italiana, cit., p. 65, e Corti, Introduzione a De Jennaro, ed.
cit., p. xxxvi.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

ulteriormente confermata dalla trattazione del seguente caso, quello


dei poeti bilingui.

2.2 Poeti bilingui


Alle sporadiche occasioni di bilinguismo coltivato dai rimatori napo-
letani ho, in effetti, già accennato a proposito dei canzonieri. Quanto
alle singole individualità, mi pare che il caso di Francesco Galeota
possa meritare in futuro qualche attenzione maggiore. Ricorderei,
inoltre, l’anomala raccolta del conte di Policastro che, pur essendo
costituita pressoché totalmente di sonetti (78 su 80 testi), fa spazio a
una breve poesia in spagnolo dedicata alla contessa di Modica,
consorte di Federico Enrı́quez, almirante di Castiglia. E alla nobil-
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donna è pure dedicato il sonetto «Anna polita, bella e signorile»29. Ma


i casi più interessanti si trovano sull’altro fronte, quello dei poeti
iberici. Conserviamo due poesie in italiano di Carvajal; si tratta delle
due canzoni in ottonari «Tempo sarebbe horamai» e «Non credo che
più grande doglia», tràdite dal Cancionero di Estúñiga e da quello della
Marciana. Poco o nulla si sa di questo poeta che fece parte della
corte di Alfonso, di cui fu una specie di alter ego poetico; alla morte
del suo re, dovette continuare a Napoli, perché tra i poco più di
cinquanta componimenti a lui attribuiti ce n’è uno dedicato alla
morte del valenzano Jaumot Torres, ufficiale del re Ferrante, morto
in battaglia presso Carinola nel 146030.
Ho già fatto riferimento al catalano Romeu Llull, nato tra il 1430
e il 1439, e la cui presenza alla corte napoletana è attestata dal 1466
al 1479. Il famoso canzoniere denominato Jardinet d’orats conserva
tre suoi componimenti in italiano, che risultano essere altrettante
barzellette con strambotto finale. Nell’introduzione all’edizione de
Lo despropriament de amor di Romeu Llull, il suo giovane editore
Jaume Turró ha tracciato un utile profilo biografico e culturale
dell’autore che si chiude con la seguente sintesi:

29
Cfr. E. Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro. Con l’edizione completa e
critica dei sonetti di G. A. de Petruciis, Bari, Laterza, 1926; per il testo della poesia in
spagnolo, v. p. 250, dove la rubrica precisa che si tratta di una «envencione», vale a dire del
mote o letra che, insieme alla devisa, formava la invención o empresa (cfr. F. Rico, Un penacho
de penas. De algunas invenciones y letras de caballeros, in Texto y contextos, cit., pp. 189-227).
30
Cfr. N. Salvador Miguel, La Poesı́a Cancioneril. El «Cancionero de Estúñiga», Madrid,
Alhambra, 1977, pp. 55-73.

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 PARTE SECONDA

Ens trobem, doncs, davant un escriptor format a Nàpols, que n’havia


freqüentat la cort, i que sota el seus estı́muls, havia omplert els seus
ocis de solter desvagat amb rims italians i castellans i amb la còpia i la
lectura d’alguns dels productes humanı́stics que aquella cort posava al
seu abast31.

Orbene, questi cinque componimenti in italiano – le due canzoni


di Carvajal e le tre barzellette con strambotto di Romeu Llull – sono
stati studiati da Lia Vozzo, che è giunta a delle conclusioni di grande
interesse per i problemi che ci stanno occupando. Per quanto stretta-
mente legati, i problemi sono comunque due. Il primo è linguistico, e
la Vozzo, a differenza di Manuel Alvar, che a proposito di Carvajal
aveva parlato di «italiano literario, es decir con cuño toscano»32,
afferma che
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La lingua usata da Carvajal non sembra molto diversa da quella che


caratterizzerà la produzione poetica napoletana dei decenni successivi,
comunemente designata come letteratura di koiné; essa presenta infatti
una analoga oscillazione tra forme locali e forme letterarie, preferendo
in genere quelle in cui l’uso napoletano trova l’appoggio della tradi-
zione letteraria ed evitando i fenomeni troppo decisamente connotati
33
come dialettali .

Conclusioni sostanzialmente analoghe valgono anche per l’ita-


liano dei tre componimenti di Romeu Llull. È sul piano letterario,
però, che i due poeti meritano conclusioni affatto diverse. Difatti, la
studiosa napoletana sostiene che mentre

Carvajal ha redatto in volgare napoletano delle composizioni che


potrebbero appartenere a tutti gli effetti al corpus della poesia cancione-
ril castigliana [...] Romeu Llull, nel comporre queste sue liriche, deve
aver tenuto presente il modello offerto dal gruppo di poeti napoletani
la cui produzione è raccolta nel Cansonero del conte di Popoli. Il suo

31
R. Llull, Lo despropriament de amor, a c. di J. Turró, Barcelona, Stelle dell’Orsa, 1987,
pp. 30-31; per la biografia del poeta, cfr. N. Coll i Julià, Nova identificació de l’escriptor i
poeta Romeu Llull, in Estudios históricos y documentos de los archivos de protocolos, vol. V,
(Miscélanea en honor de Josep Maria Madurell i Marimon), Barcelona, 1977, pp. 245-97.
32
M. Alvar, Las poesı́as de Carvajales en italiano. Cancionero de Estúñiga, números 143-145,
in Estudios sobre el Siglo de Oro. Homenaje al profesor Francisco Ynduráin, Madrid, Editora
Nacional, 1984, pp. 13-30.
33
L. Vozzo Mendia, La scelta dell’italiano tra gli scrittori iberici alla corte aragonese. I. Le
liriche di Carvajal e di Romeu Llull, in P. Trovato (a cura di) Lingue e culture dell’Italia
Meridionale (1200-1600), Roma, Bonacci, 1993, pp. 162-71.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

scrivere in napoletano non è più dunque, come era ancora per Carva-
jal, l’omaggio più o meno estemporaneo fatto a una parte della nobiltà
di corte, ma rappresenta il tentativo cosciente di inserirsi in un deter-
minato filone tradizionale, scartandone altri, ugualmente presenti nel-
l’ambiente letterario dell’epoca, in primo luogo il petrarchismo34.

Si tratta di conclusioni ineccepibili a cui vorrei solo aggiungere


qualche osservazione di carattere generale. Anche a una rapida let-
tura, ci si accorge che i tre componimenti di Romeu Llull sono
estranei non solo all’«aristocratica e solitaria esperienza petrarchista»,
che dalla linea Aloisio-Caracciolo porta al Sannazaro, ma lo sono
anche a quell’«uso socializzato del Petrarca fatto dai poeti ‘cortigia-
ni’»35; e ciò per le ragioni più svariate, che vanno da quelle metriche
fino all’assenza – direi, totale – del pur minimo sintagma che possa
far pensare alla lingua del Petrarca. Interamente risolti nella poesia di
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koiné, si ha inoltre l’impressione che i tre componimenti si collochino


a metà strada tra i due poli rappresentati da un Coletta e il De
Jennaro del Cansonero parigino: del primo, mancandogli quell’«at-
traente e spericolato impudore espressivo», «sicchè par vi sia un
incontro naturale fra la sua poesia e l’elemento popolaresco più
autentico»36, e non condividendo, del secondo, la preoccupazione di
«accogliere motivi e forme avallate dai poeti toscani al suo tempo,
37
evitando un ampio compromesso con la pura tradizione indigena» .
Il petrarchismo, nella doppia versione sopra precisata, era ancora
troppo distante dall’esperienza poetica degli autori iberici, e ciò
valeva anche per un Romeu Llull di cui non solo ci è attestata la
presenza a Napoli, ma conosciamo anche il suo interesse per i
classici38. Se pensiamo che quando Llull era già a Napoli, vi arrivò
anche – tra il ’67 e il ’68 – un altro catalano, Benedetto Gareth,
meglio noto col nome di Cariteo, sembra che i poeti iberici, posti
dinanzi all’esperienza petrarchista, potessero o rimanervi sostanzial-
mente estranei, o aderirvi fino alla definitiva e totale negazione delle
proprie origini, anche linguistiche39. Quanto alle mediazioni tra le

34
Ibid.
35
Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 94.
36
Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., p. XXI.
37
Ivi, p. XXVII.
38
Cfr. Llull, Lo despropriament, cit., pp. 22-27.
39
A quanto detto farebbero eccezione «i quattro ‘sonetos’ concordemente attribuiti [a]
Juan de Villalpando, che rappresentano invece un tentativo precoce di sperimentazione
petrarchesca» (G. Caravaggi, I ‘sonetos’ di Juan de Villalpando, in B. Periñán e F. Guazzelli
(a cura di), Symbolae Pisanae. Studi in onore di Guido Mancini, Pisa, Giardini, 1989, vol. I,
pp. 99-111, in part. p. 102; sui rapporti con la corte alfonsina, v. pp. 103-04 e n. 6.

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 PARTE SECONDA

due poesie, italiana e iberica, quando ci sono, si verificano sempre a


livello di quelle tradizioni poetiche che più facilmente potevano
specchiarsi l’una nell’altra. Ed è ciò che vedremo meglio nell’ultimo
caso che ci resta da considerare, quello delle poesie bilingui.

2.3. Poesie bilingui


Non abbondano le poesie bilingui castigliano-italiane, e meno ancora
quelle catalano-italiane. Carvajal è autore di una di esse: «¿Dónde
sois gentil galana?», dove la risposta della galana di Aversa è per
l’appunto in italiano40. Il discorso su questo componimento ci porte-
rebbe a trattare di alcune caratteristiche della poesia di Carvajal che
preferisco introdurre ricorrendo a un caso diverso di bilinguismo
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poetico. Occupandosi del tema degli scarti rispetto al codice petrar-


chista, Marco Santagata cita sia uno strambotto burchiellesco del De
Jennaro, che termina con un verso in latino del salmo XXXI e che
l’autore esclude dalla raccolta amorosa, sia un capitolo del Perleone, il
cui incipit è «O vos omnes che errando ite per via». Dopo aver
ricordato altri casi di citazioni scritturali in componimenti raccolti
nel Parigino 1035 e nel Vaticano latino 10656, Santagata propone
tre conclusioni: in primo luogo, «quella delle citazioni scritturali» è
«una tecnica che si discosta dalla tradizione strettamente petrarche-
sca, e fa pensare piuttosto a certo ibridismo trecentesco e anche dei
primi del ’400 (valga per tutti il nome del Saviozzo)»; in secondo
luogo, ignorato dai lirici aulicizzanti, «l’uso dei passi scritturali gode
invece di notevole fortuna nel settore della lirica popolareggiante, o
comunque più lontana dalla temperie petrarchista»; e, infine, quanto
alla diffusione di «tali moduli nella produzione di koiné», si chiede
quanto «possa avere influito la fortuna di cui a Napoli godette un
poeta come il Saviozzo, che di quelle tecniche fa largo uso»41. Si
tratta, naturalmente, di un episodio minore, ma ciò non esclude che
possa introdurre a tematiche più vaste. Ricordo che l’incipit scrittu-
rale del già menzionato capitolo di Rustico si ritrova anche in un
capitolo del Galeota («O vos omnes qui trasitis per la via») e in
un’anonima barzelletta del Pangino 1035 («O vos omnes qui transi-

40
Se ne veda il testo in Carvajal, Poesie, edizione critica, introduzione e note a c. di E.
Scoles, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, pp. 186-87.
41
Santagata, La lirica aragonese, cit., pp. 252-53 e n. 6.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

tis»). Ebbene, le stesse parole di Geremia le ritroviamo in una poesia


di Juan de Tapia, un poeta legato al Magnanimo almeno dal 1435,
ben radicato nella corte napoletana, dove peraltro seguitò a vivere al
servizio di Ferrante42. Il verso in questione non si trova al principio
della poesia, e tuttavia occupa una posizione iniziale perché con esso
prende l’avvio il discorso riportato nell’ultima copla della canzone:

Por el mal que me fezistes,


diré con muy grand pesar:
O vos, omnes, que transistes
Por la via de bien amar!43
.....................................

Ma il caso più interessante è un altro, e ce lo offre ancora una


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volta Carvajal. Mo riferisco alla poesia che inizia per l’appunto con la
citazione del Salmo CII: «Sicut passer solitario»44. Dobbiamo forse
concludere che la tecnica invalsa nel «settore della lirica popolareg-
giante» napoletana si è diffusa tra i poeti castigliani? Non credo che le
cose stiano proprio cosı̀; e non solo per le ovvie ragioni cronologiche.
Chiunque abbia un minimo di pratica con la poesia quattrocentesca
spagnola, difficilmente avrà potuto evitare di imbattersi in un parti-
colare genere costituito da componimenti come i «Siete gozos de
amor» e i «Diez mandamientos de amor» di Juan Rodrı́guez del
Padrón, le «Misas de amor» di Suero di Ribera e Juan de Dueñas, e
tutti e tre i poeti furono peraltro presenti nella corte napoletana; e
ancora la «Letanı́a» e i «Salmos penitenciales» di Diego de Valera, il
«Miserere» di Francisco di Villalpando, il «De profundis» di Mosén
Gaçull, il «Sermón de amores» di Diego de San Pedro, le «Liçiones
de Job» di Garci Sánchez de Badajoz, il «Nunc dimittis» di Fernando
de Yanguas, la «Vigilia de la enamorada muerta» di Juan del Encina.
Come alcuni di tali componimenti indicano fin dal titolo, si tratta di
un genere sacro-profano, che è stato definito di «parodia litúrgica»45,
anche se Pierre Le Gentil precisò che «ces paraphrases de textes

42
Su Juan de Tapia, cfr. Salvador Miguel, La poesı́a Cancioneril, cit., pp. 200-06, e
Rovira, Humanistas y poetas, cit., pp. 134-37.
43
Cancionero de Estúñiga, ed. cit., pp. 386-87.
44
Carvajal, Poesie, ed. cit., pp. 112-13.
45
M. R. Lida de Malkiel, Juan Rodrı́guez del Padrón: vida y obras, «Nueva Revista de
Filologı́a Hispánica», VI (1952), pp. 313-51, in part. p. 319 (lo studio è ora raccolto in
Estudios sobre la Literatura Española del Siglo XV, Madrid, José Porrúa, Turanzas, 1977, pp.
21-77).

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 PARTE SECONDA

saints ne sont [...] de véritables parodies»46, perché mancano di


«burlesque spirit», ha aggiunto più recentemente Patrick Gallagher, il
moderno editore di Garci Sánchez47. In conclusione, ci troviamo
dinanzi a un genere poetico molto diffuso tra i poeti della corte di
Giovanni II di Castiglia, costituito da versioni «a lo profano» di testi
biblici e di funzioni liturgiche (le misas, per esempio); inoltre, tali
versioni «a lo profano» risultano spesso farcite di espressioni bibliche
e liturgiche, direttamente in latino. Si ricorderà che lo stesso Galeota
aveva rifatto in italiano uno di questi componimenti, i «Siete gozos
de amor» di Juan Rodrı́guez del Padrón, a cui ho avuto già occasione
di riferirmi. È comunque da questo genere che dipende l’uso della
citazione scritturale, con valore di incipit o meno, in poesie amorose
che con i testi sacri non hanno alcun legame se non quello costituito
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dalla stessa citazione. Cosı̀, per non fare che un paio di esempi,
Pedro de Santa Fe, un poeta che partecipò alla prima spedizione
italiana del Magnanimo, e che si stabilı̀ successivamente alla corte di
48
Navarra , inserisce un verso in latino: «Tristis est anima mea», tratto
da San Matteo e San Luca, nella canzone «Pues mi triste corazón»
che, come indica la rubrica del Cancionero de Palacio, gli è stata
dettata dalla «pasión por la poca piedat de Maymia»49; e Soria
compone una glosa al «mote de una dama»:

Sola soys vos quien podés


hazerme alegre de triste
pues tan penado me ves
señora si possible es
transeat a me calix iste50.

46
P. Le Gentil, La poésie lyrique espagnole et portugaise a la fin du Moyen Age, Rennes,
Plihon, 1949, vol. I, p. 203.
47
P. Gallagher, The Life and Works of Garci Sánchez de Badajoz, London, Tamesis, 1968,
p. 175. Alla bibliografia citata, oltre a F. Lecoy, Recherches sur le «Libro de buen amor», Paris,
1938, pp. 221-25, si aggiungano i seguenti due lavori: F. Márquez Villanueva, Investigacio-
nes sobre Juan Alvarez Gato. Contribución al conocimiento de la literatura castellana del siglo XV,
Madrid, 1960, pp. 234-39, e B. Periñán, Las poesı́as de Suero de Ribera. Estudio y edición
crı́tica anotada de los textos, «Miscellanea di Studi Ispanici», XVI (1968), pp. 24 ss.
48
Cfr. Ch. V. Aubrun, Le Chansonnier espagnol d’Herberay des Essarts. Edition précedéé
d’une étude historique, Bordeaux, Féret et Fils, 1951, pp. LXXIX-LXXXII, e Rovira,
Humanistas y poetas, cit., pp. 132-34.
49
Cancionero de Palacio, a c. di F. Vendrell, Madrid, CSIC, 1945, e Dutton, El Cancionero
del Siglo XV, cit., vol. IV, p. 157.
50
Cancionero general, f. Cxliiijr.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

Tornando a Napoli, voglio subito precisare che non è mia inten-


zione contraporre all’influenza del Saviozzo congetturata dal Santa-
gata quella della poesia castigliana; piuttosto, mi preme di sottoli-
neare ancora una volta una certa convergenza di esiti, anche a livello
di una tecnica minore, tra la tradizione poetica di koiné e la poesia
spagnola di tipo cancioneril. Ma aldilà dell’incipit scritturale, il com-
ponimento «Sicut passer solitario» si rivela di grande interesse perché
ci aiuta a comprendere meglio quale poteva essere la posizione di un
poeta come Carvajal in un contesto che vide presto intrecciarsi varie
tradizioni poetiche. Com’è noto, il motivo biblico del «passero solita-
rio» del Salmo CII.8 («Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in
tecto») è stato di grande fecondità nell’ispirare una lunga serie di testi
poetici51. Qui, naturalmente, mi limiterò a considerare solo quelli che
possono avere un certo interesse per le questioni che ci occupano:
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oltre alla canzone di Carvajal, dunque, terremo presenti la rima


CCXXVI di Petrarca, il sonetto «Passer mio solitario in alcun tetto»,
e lo strambotto di Francesco Galeota «Son passaro solitario tornato»,
conservato nei mss. XVII.1 di Napoli e It. 1168 dell’Estense di
Modena. Ma a rendere la cosa più interessante è che ai testi finora
menzionati bisogna aggiungere uno strambotto popolare di cui si
conoscono varianti calabresi, pugliese, laziale e più d’una marchi-
giana. Giovanni Battista Bronzini, che ha segnalato tutte queste
varianti, assicura «la provenienza meridionale e l’origine antica dello
strambotto popolare»52. Le varianti marchigiane, e quelle laziale e
pugliese, ci presentano un «passero solitario» in quanto tradito dagli
altri uccelli e perseguitato dai cacciatori, ma nei loro testi non c’è
traccia alcuna di discorso amoroso. Di tali varianti va comunque
segnalato il primo verso: «Passero solitario ben tornato!», nella ver-
sione di Macerata, e «Passero solitario io son tornato», in quella di
Fermo53. Sono, invece, le varianti calabresi a fondere il motivo del
passero solitario, tradito e perseguitato, con la situazione amorosa.
Abbiamo, pertanto, un piccolo corpus di testi costituito dallo stram-

51
Alla bibliografia segnalata da Scoles in Carvajal, Poesie, ed. cit., p. 113, si aggiunga
quella riportata in Rico, Los orı́genes de ‘Fontedrida’, in Texto y contextos, cit., p. 13 n. 21 e
p. 17 n. 31.
52
G. B. Bronzini, Il ‘Passero solitario’ e un antico strambotto, in Leopardi e la poesia popolare
dell’Ottocento, Napoli, De Simone, pp. 45-84; la citazione è a p. 53. Dello stesso autore si
veda anche Poesia popolare del periodo aragonese, in «Archivio storico per le provincie
napoletane», 3ª serie, XI, XC (1973), pp. 255-85, in part. le pp. 282-83.
53
Cfr. Bronzini, Il ‘Passero solitario’, art. cit., p. 51.

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 PARTE SECONDA

botto popolare, nelle varianti calabresi, il sonetto di Petrarca, lo


strambotto di Galeota, e la canzone di Carvajal54:

Varianti calabresi:

Pàssaru solitariu su’ chiamatu,


di tutti l’autri acedhi su’ fujutu,
facia lu nidu meu tantu ammucciatu
supra n’arbaru siccu, e non hhiurutu!
D’un cacciaturi fudi secatatu,
d’un amicu di cori tradutu!
È megghiu essari amanti non amatu,
ch’essari amatu amanti e po tradutu.

[Son detto passero solitario, / sono schivato da tutti gli altri uccelli, /
facevo il mio nido cosı̀ nascosto / sopra un albero secco e non fiorito! /
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(Ma) fui perseguitato da un cacciatore, / fui tradito da un amico di


cuore! / È meglio essere amante non riamato, / che essere amante
riamato e poi tradito].

Pàssaru suditàariu su chiamèotu;


’e tutti d’èotri acielli su fuggitu.
Era lu nidu mia tantu cedèotu
Supra n’àrburu siccu e nò fiuritu.
’E d’èotri acielli sugnu addimmannèotu:
duv’è lu nidu tua tantu graditu?
C’era na donna ch’èoju troppu amèotu,
chi m’ha puntu allu kori e m’ha traditu!

[Sono chiamato passero solitario e ho abbandonato tutti gli altri


uccelli. Il mio nido era tanto nascosto (lett.: celato) su un albero
rinsecchito e, perciò, senza fioritura. Gli altri uccelli mi hanno chiesto
(lett.: dagli altri uccelli sono domandato)/ dov’è il nido che preferivi
tanto? C’era una donna che ho troppo amato e chi mi ha ferito (lett.:
punto) al cuore tradendomi!]

Francesco Petrarca, R. V. F. CCXXVI

Passer mai solitario in alcun tetto


non fu quant’io, né fera in alcun bosco,
ch’i’ non veggio ’l bel viso, et non conosco
altro sol, né quest’occhi ànn’altro obiecto.

54
Lo strambotto popolare e quello di Galeota sono citati da Bronzini, Il ‘Passero solitario’,
art. cit., pp. 53-54. Per il sonetto di Petrarca uso l’ed. di G. Contini, Torino, Einaudi,
1974, p. 288; per la canzone di Carvajal la già citata edizione della Scoles.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

Lagrimar sempre è ’l mio sommo diletto,


il rider doglia, il cibo assentio et tòsco,
la notte affanno, e ’l ciel seren m’è fosco,
et duro campo di battaglia il letto.

Il sonno è veramente qual uom dice,


parente de la morte, e ’l cor sottragge
a quel dolce penser che ‘n vita il tene.

Solo al mondo paese almo, felice,


verdi rive fiorite, ombrose piagge,
voi possedete, et io piango, il mio bene.

F. Galeota

Son passaro solitario tornato


che vivo solo et piango sopra un tecto,
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del locho dond’io era descacciato


fugo el piacere e pianto è ’l mio dilecto:
d’amici et da compagni allontanato,
dove mal tempo e la fortuna aspecto,
dapoi che, bene amando, desamato
me trovo da chi amava in puro affecto.

Carvajal

Sicut passer solitario


Soy tornado a padescer,
triste e pobre de plazer.

Quanto más vos me matáis,


tanto más yo vos deseo;
con quanto mal me mostráis,
resucito quando vos veo.
Pues si fuese el contrario
¡mirad, si podrı́a ser
triste e pobre de plazer!

Aunque vos a mı́ matéis,


non seréis ya más loada,
e dirán, si lo fazéis:
a moro muerto grand lançada.
Pues non seis atal salario
a quien vuestro quiere ser,
triste e pobre de plazer.

In entrambe le versioni popolari il discorso amoroso compare nei


due versi finali, ma con una differenza. Nella prima variante, per

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 PARTE SECONDA

quanto il linguaggio di tali versi sia vistosamente di tipo amoroso, il


riferimento è pur sempre al tradimento dell’«amicu di cori», per cui
l’intero strambotto non si discosta dalle altre versioni. Solo nella
seconda versione c’è un esplicito riferimento alla donna che, dopo
aver ferito il cuore, tradisce; il che suggerisce di leggere l’intero
strambotto come un paragone, solo parzialmente esplicito, tra il
passero solitario e l’amante tradito. Si tratta dello stesso paragone sul
quale, a tutt’altro livello naturalmente, si costruisce il sonetto di
Petrarca. Galeota si mantiene, per cosı̀ dire, equidistante rispetto al
testo popolare e a quello di Petrarca; o meglio ancora, egli opera una
commistione tra i due testi, e di conseguenza tra le tradizioni che essi
rappresentano: del testo popolare Galeota conserva, oltre alla forma
metrica, i due versi finali che riprendono quasi alla lettera quelli
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conservatici da una variante calabrese, e qualche elemento contenuti-


stico, come per esempio nel v. 5: «d’amici et da compagni allontana-
to», dove si avverte l’eco del passero tradito dagli amici; del testo
petrarchesco Galeota conserva, invece, la costruzione d’insieme, os-
sia il paragone tra il passero solitario e l’amante che soffre per il
disamore della sua donna, la rima in – etto, e singoli sintagmi, come
quello del v. 4: «pianto è il mio dilecto», che riprende il v. 5 di
Petrarca: «Lagrimar sempre è il mio sommo dilecto». Carvajal, infine,
non compie un’operazione molto diversa da quella di Galeota, nel
senso che, proprio come Galeota, egli, mediante la tecnica dell’incipit
scritturale, opera una commistione tra la tradizione popolare, dove il
motivo è abbondantemente attestato, e la tradizione poetica colta, in
cui tale motivo si risolve pressoché interamente. La differenza tra i
due consiste nel fatto che, mentre per Galeota la tradizione colta è
rappresentata da Petrarca, per Carvajal tale funzione è svolta dalla
poesia cancioneril e dal codice tematico e formale che la definisce. La
sostanziale estraneità di «Sicut passer solitario» rispetto al sonetto
petrarchesco non deve indurre ad escludere automaticamente che ci
possano essre contatti tra la poesia di Carvajal e il Canzoniere, tant’è
vero che Francisco Rico ha segnalato un’«indudable imitación de
Petrarca»55 nei seguenti versi di Carvajal56:

55
Cfr. F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Doce consideracio-
nes sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés, Roma, Publicacio-
nes del Instituto Español de Lengua y Literatura de Roma, 1979, pp. 115-30, cit. a p. 125
n. 31.
56
Carvajal, Poesie, ed. cit., p. 174.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE 

....... por aquı́ se paseava,


aquı́ la vide tal dı́a, aquı́ comigo fablava,
aquı́ llorando e sospirando mis males le recontava;
aquı́ pendava sus cabellos se vestı́a e despojava,
aquı́ la vide muy bella muchas vezes disfraçada;
aquı́ la vide tal fiesta quando mi vida penava
con graciosa fermosura mucho más que arreada;
aquı́ mostrava sus secretos los que yo deseava

che si rifanno alla serie anaforica contenuta nel sonetto CXII, e che
comincia «Qui tutta humile, et qui la vidi altera». I menzionati versi
di Carvajal fanno parte di un Romance, per cui ancora una volta ci
troviamo dinanzi a un caso di commistione di tradizione colta e
tradizione popolare. Com’è noto, di simili casi di «mescidazione del
modello petrarchesco con altre fonti», quelle popolari per esempio,
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sono piene le sillogi napoletane, a partire da quella del conte di


Popoli. A proposito della più generale questione della «commistione
di forme dotte e popolari», il già menzionato Bronzini si chiedeva
«che cosa determinò nell’ètà aragonese quel collegamento tra l’aulico
57
e il popolare [...] collegamento che invece mancò nell’età angioina» .
Ritengo inopportuno entrare nel merito di risposte che non spetta a
me di valutare. Da parte mia, a conclusione di queste note e in
considerazione di quella domanda, vorrei suggerire che a quanto già
affermato dal De Blasi, e cioè che «i poeti castigliani sono probabil-
mente i primi a sondare le possibilità letterarie del napoletano»58,
potremmo aggiungere che nel fare ciò tali poeti – o almeno alcuni di
essi – indicarono anche un percorso che presto si rivelò di grande
ampiezza, quello per l’appunto della contaminazione di modelli poe-
tici colti e popolari. Per cui sarei tentato di dare contenuto letterario
all’algoritmo esclusivamente linguistico proposto dalla Corti, laddove
scrive che «la miscela del linguaggio di koinè (dialetto+Petrarca+
latino) si arricchisce di un nuovo filone, lo spagnolismo»59.

57
G. B. Bronzini, Prospettiva storica dei rapporti tra forme auliche, popolari e dialettali nell’età
sveva, angioina e aragonese, in Atti dell’Accademia Pontaniana, n. s. XIX (1969-70), pp. 6-44,
cit. a p. 35.
58
De Blasi e Vàrvaro, Napoli e L’Italia meriodinale, cit., p. 243.
59
Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., p. XXXVI. Mi corre l’obbligo di precisare
che non è mia intenzione riprendere la vecchia tesi del Savj López, a suo tempo già
giustamente contestata (cfr. supra n. 16). Da un lato, difatti, è un’idée reçue quella per cui «la
moda popularizante es totalmente ajena al espı́ritu de la Castilla de Juan II. Sus comienzos
estaban fuera de la Penı́nsula, en la corte napolitana de Alfonso V» (M. Frenk Alatorre,
¿Santillana o Suero de Ribera?, in «Nueva Revista de Filologı́a Hispánica», XVI (1962), p.
437. Della stessa autrice, cfr. anche Estudios sobre lı́rica antigua, Madrid, Castalia, 1978, p.

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51; e prima di lei, R. Menéndez Pidal, Romancero hispánico (hispano-portugués, americano y


sefardı́). Teorı́a e historia, Madrid, Espasa-Calpe, 1968 (2ª ed.), vol. II, pp. 19-22). D’altro
lato, è da tempo noto ciò che Rinaldi – per ultimo – ha ribadito con le seguenti parole: «la
maggior parte [della lirica di koiné] incarna piuttosto una sorta di emulazione napoletana
della poesia popolareggiante che andava per la maggiore nella Firenze medicea (quindi culta
e letteratissima)» (Umanesimo e Rinascimento, in G. Bárberi Squarotti (diretta da), Storia
della civiltà letteraria italiana, Torino, UTET, 1991, vol. II, t. I, p. 633). Tutto ciò, però,
non toglie che i poeti iberici della corte di Alfonso, risentendo del particolare clima
letterario italiano, abbiano potuto dare un loro contributo alla formazione ed affermazione a
Napoli di quel gusto poetico che si definiva per la fusione di elementi letterari con altri
popolareggianti.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE
NEI CANZONIERI QUATTROCENTESCHI.
NOTE PRELIMINARI

Non è molto che, con la sua consueta sagacia, Juan Alcina annotava
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una verità che col tempo va acquistando sempre più credito. Diceva,
dunque, che:

La poesı́a de cancionero tan fuertemente apegada a sus tradiciones y


modelos, oculta y medievaliza sus fuentes, pero en algunos casos creo
que la cortina se puede levantar un poco para dejarnos entrever
incidencias neolatinas que deberı́an permitir hablar de cierto humanis-
1
mo de cancionero .

Forse, pochi generi si prestano a confermare una tale afferma-


zione, come accade con l’egloga, specie se – messi sulle tracce «de un
cierto humanismo de cancionero» – la nostra ricerca non si limiti alle
sole «incidencias neolatinas», ma includa anche quelle segnate dall’u-
manesimo volgare.
In realtà, i canzonieri quattrocenteschi spagnoli – gli individuali
come i collettivi – non abbondano di egloghe; e, tuttavia, considerato
il poco spazio di cui dispongo, credo conveniente delimitare ulterior-
mente il discorso, circoscrivendolo – da un lato – al sottogenere
allegorico di carattere politico e satirico, e precisandone – d’altro lato
– la natura assolutamente preliminare. A questa categoria appartiene
– com’è noto – un esiguo, ma significativo numero di testi che, dalla
metà degli anni ’60 in poi, arriva a comprendere le cosiddette Coplas

1
J. Alcina, Entre latı́n y romance: modelos neolatinos en la creación poética castellana de los
Siglos de Oro, en J. M. Maestre Maestre e J. Pascual Barea (a cura di), Humanismo y
pervivencia del mundo clásico (Alcañiz 8 al 11 de mayo de 1990), Cádiz, Instituto de Estudios
Turolenses, CSIC e Servicio de Publicaciones de la Universidad de Cádiz, 1993, pp. 3-27.
Cito da p. 7.

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 PARTE SECONDA

de Mingo Revulgo, quelle che iniziano «Abre las orejas», l’adattamento


di Encina delle Bucólicas virgiliane, l’Egloga – «curiosı́sima», secondo
Menéndez Pelayo – di Francisco de Madrid, cosı̀ come l’Egloga sobre
el molino de Vascalón, con la quale con ogni probabilità siamo già
dentro il secolo successivo2. Il filo che congiunge i testi menzionati, e
che li fa risalire al comune modello della bucolica allegorico-politica3,
è un fatto ormai acquisito, almeno da parte degli studiosi maggior-
mente consapevoli delle correnti poetiche che s’intrecciarono nel-
l’Europa unita dalla diffusa aspirazione alla cultura umanistica.
Maggiori difficoltà insorgono quando si tenta di determinare la
posizione che le opere in questione occupano rispetto alla tradizione.
Difatti, sul piano dei rapporti – per cosı̀ dire – esterni, ossia dei
rapporti che i nostri testi intrattengono con la tradizione egloghistica
nel suo insieme, gli studiosi non hanno mancato di riferirsi – con
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maggiore o minore concretezza, a seconda dei casi – alla bucolica


latina medievale e umanistica4, cosı̀ come, al tempo stesso, nei loro

2
Per i testi citati, disponiamo delle eccellenti edizioni che seguono: Las Coplas de Mingo
Revulgo, a c. di M. Ciceri, in «Cultura Neolatina», XXXVII (1977), pp. 75-149 e 187-266
(per le Coplas, si veda anche Las Coplas de Mingo Revulgo, a c. di V. Brodey, Madison, The
Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1986); Una satira anonima del XV secolo: «Abre abre
las orejas», a c. di P. Elia, in «Annali dell’Istituto Orientale di Napoli – Sezione Romanza»,
XIX (1977), pp. 313-42 e Le «Coplas del tabefe», una satira del XV secolo spagnolo, a c. di P.
Elia, in «Studi e Ricerche. Istituto di Lingue e Letteratura Straniere. Facoltà di Magistero,
Università dell’Aquila», II (1983), pp. 137-83; A. Blecua, La Egloga de Francisco de Madrid
en un nuevo manuscrito del siglo XVI, in Serta Philologica F. Lázaro Carreter, Madrid, Cátedra,
1983, vol. II, pp. 39-66; M. A. Pérez Priego, La Egloga sobre el molino de Vascalón: texto y
sentido literario, in Crı́tica textual y anotación filológica en obras del Siglo de Oro, a c. di I.
Arellano e J. Cañedo, Madrid, Castalia, 1991, pp. 402-16. L’adattamento delle Bucoliche
virgiliane di Encina, oltre che nell’ed. facsimile del Cancionero del 1496 (cc. 30-48), può
leggersi in J. del Encina, Obras Completas, a c. di A. M. Rambaldo, Madrid, Espasa-Calpe,
1978, vol. I, pp. 218-341 e in Id., Obra Completa, a c. di M. A. Pérez Priego, Madrid,
Fundación José Antonio de Castro, 1996, pp. 205-98.
3
In questo senso, risulta molto utile il panorama tracciato da H. Cooper, Pastoral.
Medieval into Renaissance, Ipswich-Totowa, D. S. Brewer-Rowman & Littlefield, 1977, dove
tuttavia manca, com’è abituale, ogni riferimento alla situazione spagnola. Parimenti, per
l’egloga neolatina non ispanica, può consultarsi L. Grant, Neo-latin Literature and the
Pastoral, Chapell Hill, The University of North Carolina Press, 1965. Per la penisola
iberica, in cambio, disponiamo ora dell’eccellente repertorio di J. Alcina, Repertorio de la
poesı́a latina del Renacimiento en España, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca,
1995.
4
Si leggano, tra gli altri, queste linee di Blecua: «Estas Coplas [de Mingo Revulgo] – o
mejor, Bucólica, como reza uno de sus manuscritos [Egerton 939 del British Museum ] –
[...] son eco inmediato de las églogas humanistas que, a imitación de Petrarca y Boccaccio,
comenzaban a abundar en Italia y que, a través del velo alegórico pastoril, transparentaban,
para quien conociera la clave, determinadas realidades sociales, religiosas o polı́ticas», in La
Egloga de Francisco de Madrid, cit., pp. 40-41. Imprescindibile per una corretta valutazione
della Translación de Encina il recente studio di J. Lawrance, La tradición pastoril antes de

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE 

scritti non sono assenti menzioni dell’egloga umanistica in volgare


italiano, che però solgono limitarsi per lo più a troppo generiche
allusioni alla rinascita del genere in ambito mediceo, ciò che avvenne
nella decade dei sessanta5. D’altro lato, sul piano dei rapporti interni
ai testi spagnoli considerati, credo che si possa affermare che tra gli
studiosi maggiormente avvertiti c’è un unanime consenso nell’indi-
care le Coplas de Mingo Revulgo come l’archetipo del genere in
Spagna, che gli autori posteriori hanno tenuto comunque presente,
sebbene non sempre sia stato da loro imitato, nel senso stretto del
termine6. Orbene, com’è noto, si suole datare le Coplas alla metà
degli anni sessanta, cosicché l’insieme dei tratti che il testo presenta
(bucolismo, allegoresi di tipo politico, linguaggio rusticano) fareb-
bero di esso un sorprendente esempio – per la sua precocità – di
egloga allegorico-politica in volgare. Il problema è – in qualche modo
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1530: imitación clásica e hibridación romancista en la Translación de las Bucólicas de Virgilio


de Juan del Encina, in J. Guijarro Ceballos (a cura di), Humanismo y literatura en tiempos de
Juan del Encina, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1999, pp. 103-21; per
una diversa tesi, si veda J. Gómez, Sobre la teorı́a de la bucólica en el Siglo de Oro: hacia las
églogas de Garcilaso, in «Dicenda. Cuadernos de Filologı́a Hispánica», X (1991-1992), pp.
111-26. Sugli aspetti teorici, utili riferimenti si troveranno in A. Egido, Sin poética hay
poetas. Sobre la teorı́a de la égloga en el Siglo de Oro, in «Criticón», XXX (1985), pp. 41-77.
5
La precisazione vale soprattutto per la Translación di Encina, a proposito della quale si
vedano le concise osservazioni di J. C. Temprano, Móviles y metas en la poesı́a pastoril de
Juan del Encina, Oviedo, Universidad de Oviedo, 1975, pp. 139-41, raccolte – ma senza
ulteriore sviluppo – da Lawrance: «Sorprende [...] que no se haya profundizado en el
interesante apunte de Temprano, sobre algunos posibles antecedentes italianos en la corte
de los Medici de Florencia, donde la traducción en verso de las Bucólicas en dialecto
toscano de Bernardo Pulci en 1480 inspiró a Bartolomeo Scala, a Girolamo Benivieni, a
Lorenzo de Medici y a otros a componer églogas rusticanas en metro frottolato y dialetto
contadino» (La tradición pastoril, cit., p. 115). Speriamo di poter presto disporre dei definitivi
chiarimenti che ci offrirà la professoressa M. Morreale, che – riferendosi all’argomento della
prima egloga tradotta da Encina – annuncia: «El entronque con la poesı́a en lo que
concierne a la clave rusticana del Quattrocento italiano habrá de hacerse en otro lugar,
ampliando las apuntaciones de Temprano», in Juan del Encina y Luis de León frente a frente
como traductores de la 1ª Bucólica de Virgilio in J. Canavaggio e B. Darbord (a cura di), Edad
Media y Renacimiento. Continuidades y rupturas, Caen, Centre de Publications de l’Université
de Caen, 1991, p. 91; si vedano ora le interessanti e persuasive Apuntaciones para el estudio
de las Églogas Virgilianas de Juan del Encina, in P. Botta, C. Parrilla e I. Pérez Pascual (a
cura di), Canzonieri iberici, A Coruña, Editorial Toxos Outos, Università di Padova e Uni-
versidade da Coruña, 2001, vol. I, pp. 35-57.
6
Molto espliciti, in questo senso, risultano i giudizi di Lawrance, per il quale gli studiosi
di Encina, anche se non ignorano «la existencia de las Coplas de Mingo Revulgo, pero no han
advertido [...] su verdadera importancia en la historia de la pastoral castellana del primer
Renacimiento castellano» (La tradición pastoril, cit., p. 117); e di Blecua, che – a proposito
dell’opera di Francisco de Madrid – ha sostenuto che «son las Coplas de Mingo Revulgo las
que con mayor intensidad influyeron en la génesis alegórica y en la lengua» (La Égloga de
Francisco de Madrid, cit., p. 44).

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 PARTE SECONDA

– al centro di quello che è ancora uno dei migliori lavori dedicati alle
Coplas, se prescindiamo dalla magnifica edizione del testo curata
dalla filologa Marcela Ciceri; mi riferisco, naturalmente, allo studio
di Charlotte Stern, che del resto vide la luce quasi contemporanea-
mente all’edizione menzionata, poco meno di un quarto di secolo fa.
La studiosa americana, difatti, dopo aver opportunamente ricordato
che i contemporanei – o, almeno, alcuni di essi – non ebbero alcun
dubbio nell’annoverare le Coplas nel genere bucolico, aggiunge che
«the poem must be examined within the framework of the pastoral in
the late Middle Ages»; e, in tale prospettiva, si pronuncia a favore
della «influence [sulle Coplas] of a tradition, harking back to Vergil
and revived in the late Middle Ages by the Italian poets»7, a propo-
sito dei quali menziona il Bucolicum Carmen di Petrarca e di Boccac-
cio. Non dubito che la prospettiva adottata sia quella giusta, mi
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chiedo soltanto se all’anonimo poeta spagnolo potesse riuscire l’ope-


razione di plasmare l’egloga allegorico-politica in volgare, nella totale
assenza di precedenti, ossia senza alcuna mediazione vernacolare.
Evidentemente, lo stesso interrogativo dovette porsi anche la Stern
se, in una nota, sentı̀ la necessità di specificare che «there are also
vernacular precedents for the Mingo Revulgo»8 e il lettore s’imbatte di
seguito nei titoli della Pastoralet e delle Pastourelles politiques di Frois-
sart. Ora, se è proprio necessario ricercare dei ‘precedenti vernaco-
lari’ – e credo che valga la pena tentarlo –, a me pare più coerente e
proficuo seguire la pista italiana, di quegli eredi – cioè – del Petrarca
e del Boccaccio, i quali nel corso del Quattrocento effettivamente si
sforzarono coi loro componimenti di dar vita a un codice bucolico in
volgare, a partire dagli esempi dei due grandi trecentisti, e – va senza
dire – in concomitanza con la nuova produzione pastorale umanistica
in latino.
Ho già ricordato come, nel riferirsi ai precedenti italiani, gli
studiosi dell’egloga spagnola siano soliti alludere, ancorché generica-
mente, alla rinascita di cui il genere pastorale godette nella Firenze
medicea, in un lasso di tempo: gli anni sessanta, al centro dei quali si
collocherebbe anche la composizione delle nostre Coplas, sempre che
si accetti – come tutti fanno – l’indicazione di Fernando del Pulgar

7
Ch. Stern, The Coplas de Mingo Revulgo and the Early Spanish Drama, in «Hispanic
Review», XLIV (1976), pp. 311-32; le citazioni sono alle pp. 316 e 317 n. 20.
8
Ivi, p. 326 n. 35.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE 

contenuta nella sua glossa alla strofa xxiii del componimento9. Il


fatto è che gli studi sempre più numerosi e puntuali sull’argomento
hanno finito per restituirci un quadro molto più complesso e artico-
lato dello sviluppo dell’egloga in volgare, tanto che un’avveduta
studiosa del genere, come Paola Vecchi Galli, ha potuto recente-
mente affermare che «a poco a poco i poeti bucolici del Quattrocento
sono cosı̀ divenuti una schiera, ordinati nei testi, nelle diverse scan-
sioni cronologiche e nelle rispettive designazioni geografiche (da
Firenze e Siena a Napoli, Ferrara e Venezia)»10. In conseguenza di
ciò, la riscoperta di alcuni autori cosı̀ come la rilettura critica di
quelli già noti ci obbliga ad abbandonare l’idée reçue secondo la quale
le prime testimonianze della rinascita dell’egloga in volgare risalireb-
bero a quell’«accademia dei boccoici», raccoltasi intorno alla persona
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di Lorenzo nella prima metà degli anni sessanta. Le cose non stanno
esattamente cosı̀; e – sebbene gli anni ’60 del secolo XV restino
cruciali nello sviluppo dell’egloga volgare – per rintracciare i primi
esempi del genere è necessario andare indietro di alcuni anni, e
perfino di qualche decennio, e allontanarsi da Firenze, sebbene non
sia forse indispensabile abbandonare del tutto la Toscana.
È, difatti, al primo trentennio del Quattrocento che dobbiamo
risalire, se vogliamo incontrare i primi esempi di egloga in volgare, il
cui autore, il senese Francesco Arzocchi, è considerato l’«inventore
del genere volgare». E tale fu considerato anche dai suoi contempora-
nei, come ci mostra con assoluta evidenza un episodio, che contribuı̀
notevolmente al rilancio del genere nella seconda metà del secolo;
ossia, l’edizione Miscomini delle Egloghe elegantissime, che videro la

9
La data del 1464, implicitamente suggerita da Fernando del Pulgar nella sua glossa alla
strofa «Del collado aquileño»: «luego otro año que estas coplas se fizieron, ovo la división en
el reyno, de que procedieron muchos daños y males» (ed. cit., 234), fu espressamente
indicata da J. Amador de los Rı́os, Historia crı́tica de la literatura española, Madrid, Joaquı́n
Muñoz, 1865, vol. VII, p. 130. Questa datazione, che in generale è stata accettata dagli
studiosi ed editori dell’opera (si vedano, per esempio, J. Rodrı́guez Puértolas, Sobre el autor
de las Coplas de Mingo Revulgo, in Homenaje a Rodriguez-Moñino, Madrid, Castalia, 1966;
raccolto in Id., De la Edad Media a la edad conflictiva. Estudios de literatura española, Madrid,
Gredos, 1972, pp. 121-36, in part. pp. 123-24; e Ciceri, Las Coplas de Mingo Revulgo,
cit., p. 75), più recentemente è stata contestata, con argomenti degni di considerazione da
Brodey, Las Coplas de Mingo Revulgo, cit., pp. 23-24, che anticipa la composizione
dell’opera ai primi anni del regno di Enrique IV, fissandone, in ogni caso, la data a un anno
non posteriore al 1456.
10
P. Vecchi Galli, «Alcuni rustici, inepti e mal composti versi...»: una bucolica volgare tardo
quattrocentesca alla Biblioteca Estense, in S. Carrai (a cura di), La poesia pastorale del
Rinascimento, Padova, Editrice Antenore, 1998, pp. 151-72; cito da p. 151.

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 PARTE SECONDA

luce a Firenze nel 1482. Dei quattro autori ivi raccolti, le egloghe di
Arzocchi seguivano immediatamente la traduzione delle Bucoliche
virgiliane di Bernardo Pulci, e precedevano la produzione originale di
Benivieni e Boninsegni; l’organizzazione della raccolta, pertanto, in
luogo di basarsi sull’«ordine cronologico di composizione» privile-
giava il «disegno di storicizzazione dello sviluppo del genere pastorale
volgare». I curatori dell’edizione intesero, cosı̀, «stabilire la continuità
11
ideale fra la produzione virgiliana e quella volgare» , assegnando
all’Arzocchi il ruolo di antesignano nella ripresa volgare del genere
classico.
Cronologia e circolazione dei testi arzocchiani risultano perciò
fattori importanti nella costituzione del genere. Orbene, la tendenza
a una ricollocazione cronologica della sua poesia pastorale, a lungo
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considerata della seconda metà del secolo, si è andata affermando


sempre più nel corso delle ultime ricerche sull’autore, fino a giungere
alla recentissima edizione della Fornasiero che, sulla base della testi-
monianza di un manoscritto miscellaneo di fine Trecento o – al
massimo – dei primissimi del Quattrocento, «sposta indietro di un
quarantennio l’attività del poeta»12, e colloca prudenzialmente le sue
quattro egloghe nelle prime decadi del secolo, diciamo entro il 1440.
C’è di più. Poiché prima di questa data – e col precedente dell’Ar-
zocchi – dovettero comporsi anche il Tyrsis dell’Alberti e il capitolo
La notte torna, e l’aria e il ciel s’annera di Giusto de’ Conti13, si può
affermare che, prima della definitiva fioritura del genere negli anni
’60, è dunque nei primi decenni del secolo che ci conviene situare la
nascita della bucolica volgare, col trio degli autori menzionati, e – è
chiaro – soprattutto con Arzocchi, che dà un contributo decisivo alla
formazione del canone bucolico, il quale, col passaggio al volgare, si
apre non solo a «materiali poetici eterogenei», ma anche a «esecuzioni

11
F. Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte, in
«Studi e problemi di critica testuale», XL (1990), pp. 149-85; cito da p. 182.
12
F. Arzocchi, Egloghe, a c. di S. Fornasiero, Bologna, Commissione per i testi di lingua,
1995, p. IX. Il manoscritto in questione è quello che si conserva presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze, ms. Landau Finaly 89, per la descrizione del quale si veda
l’ed. cit. di Fornasiero, pp. LX-LXIII.
13
Per i due componimenti, si veda lo studio di C. Grayson, Alberti and the Vernacular
Eclogue, in «Italian Studies», XI (1956), pp. 16-29, su Alberti, che può completarsi con G.
Tanturli, Note alle rime dell’Alberti, in «Metrica», II (1981), pp. 103-21 e quello di I. Pantani,
Il polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale nel
Rinascimento, cit., pp. 1-55, su Giusto.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE 

stilistiche anche molto vistose»14, per mezzo del ricorso al plurilingui-


smo e l’introduzione del linguaggio rusticano15.
Le egloghe dell’Arzocchi non costituirono un fenomeno isolato
nello spazio né circoscritto nel tempo, come mostrano alcuni episodi
che risalgono a un periodo anteriore agli anni ’60, e a cui accennerò
brevemente. Alla circolazione e diffusione della sua poesia bucolica
non fu estranea la diaspora a cui gli intellettuali senesi si videro a
lungo costretti, a partire dalla fine del Trecento e per tutto il
Quattrocento, come segnalò a suo tempo Carlo Dionisotti in uno dei
suo classici studi16. «Se considerato alla luce della tradizione mano-
scritta delle sue egloghe – ha scritto la massima esperta dell’Arzocchi
– si presenta [...] come un poeta che ebbe nell’ambiente feltresco una
tempestiva diffusione e, in generale, una prima fortuna in area
padana e poco più tardi fiorentina»17. Al Montefeltro, difatti, ci porta
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uno zibaldone, con ogni probabilità anteriore al 1446, nelle cui


pagine il suo raccoglitore, il medico urbinate Battista Felici, tra-
scrisse le prime due egloghe dell’Arzocchi18. A Rimini, del resto,
presso la corte malatestiana finı̀ per trascorrere gli ultimi anni della
sua esistenza quel Giusto de’ Conti che aveva composto il già men-
zionato polimetro pastorale, La notte torna, incluso nel suo canzo-

14
Arzocchi, Egloghe, ed. cit., p. XX.
15
Per una visione globale dello sviluppo della poesia bucolica italiana nel Quattrocento è
ancora molto utile E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, 1909, sebbene – com’è
ovvio – debba aggiornarsi e correggersi con i nuovi e ricchi dati presenti negli studi che nel
frattempo sono stati prodotti sul genere, specialmente negli ultimi anni. Imprescindibili
contributi di carattere generale sono M. Corti, Il codice bucolico e l’«Arcadia» di Jacobo
Sannazaro, in «Strumenti critici», VI (1968); raccolto in Ead., Metodi e fantasmi, Milano,
Feltrinelli, 1977, pp. 281-304, e D. De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddi-
zione, in «Metrica», II (1981), pp. 61-80 (quest’ultimo, in versione più breve, era apparso in
Le genre pastoral en Europe du XV e au XVII e siècle. «Actes du Colloque international tenu à
Saint-Etienne du 28 septembre au 1er octobre 1978», Saint-Etienne, Université de Saint-
Etienne, 1980, insieme al contributo di G. Ponte, Perspectives de la littérature de sujet pastoral
au XV e siècle en Italie, ivi, pp. 15-24). Un utile strumento è rappresentato ora dall’insieme di
studi raccolti in Carrai, La poesia pastorale nel Rinascimento, cit.
16
C. Dionisotti, Jacopo Tolomei tra umanisti e rimatori, in «Italia Medievale e Umanistica»,
VI (1963), pp. 137-76.
17
S. Fornasiero, Presenze (e assenze) della bucolica senese, in Carrai (a cura di), La poesia
pastorale nel Rinascimento, cit., pp. 57-72; cito da p. 65.
18
Si tratta del ms. 393 della «Bibliothèque Inguimbertine» di Carpentras, cc. 47v-49v,
85r-86v; si vedano G. Parenti, «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare
aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di filologia italiana», XXXVII (1979), pp.
119-279, in part. p. 279; M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo
cortigiano, in Id. e S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco
Angeli, 1993, pp. 43-95, in part. p. 89 n. 143; e, più per esteso, Arzocchi, Egloghe, ed. cit.,
pp. LV-LVIII.

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 PARTE SECONDA

niere d’osservanza petrarchista, noto col titolo de La bella mano. Il


suo tema indubbiamente amoroso e la dominante tonalità petrarche-
sca, che segnano l’acquisizione del genere al complessivo programma
di recupero della lezione del Petrarca, non hanno impedito a uno
studioso di proporre recentemente una lettura del testo in chiave
allegorico-politica19; una lettura che è stata condivisa anche da chi,
pur affermando la natura essenzialmente amorosa del testo, non ha
escluso che «un sovrasenso in chiave politica sarebbe [...] ugualmente
recuperabile», precisando che si tratterebbe però di «un sovrasenso ed
apparizione intermittente»20. Di Giusto è stato sottolineato il debito
contratto nei confronti dell’Arzocchi, soprattutto della sua prima
egloga21, della quale si è anche detto che il suo argomento è «politico-
morale»22, come del resto indica la didascalia di uno dei codici che la
contengono23. Analogo discorso a quello fatto per Giusto potrebbe
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farsi per un’altra egloga, «Pastori, o voi che havete in man la verga»,
del rimatore marchigiano Francesco Palmario che del resto, fu amico
di Giusto, col quale coincise a Padova, nel corso degli studi. I due
testi – di Giusto e del Palmario –, oltre ad apparire coevi, mostrano
più di un punto di contatto, cosicché si è proposto che, sotto il
velame amoroso e pastorale, essi «costituiscono un dialogo poetico
ravvicinato d’argomento politico»24. Un ultimo episodio riconduce
ancora una volta alle egloghe dell’Arzocchi. Si tratta, difatti, di una
precoce imitazione e continuazione della sua prima egloga ad opera
del bergamasco Giovan Francesco Suardi, il quale ebbe occasione di
conoscere il testo del senese o al tempo del suo soggiorno a Siena,
come podestà, tra il ’58 e il ’59, ovvero un paio d’anni prima, in
ambiente feltresco25.

19
G. Biancardi, Esperimenti metrici del primo Quattrocento: i polimetri di Giusto de’ Conti e
Francesco Palmario, in «Italianistica», XXI (1992), pp. 651-78, in part. p. 661.
20
Pantani, Il polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, cit., pp. 42 e 41.
21
Arzocchi, Egloghe, ed. cit., pp. XXXIX-XL.
22
Battera, L’edizione Miscomini, cit., p. 179 n. 62.
23
Cosı̀ recita la rubrica del menzionato codice (Cambridge, Massachusetts, Harvard
College, Houghton Library, ms. Typ. 24): «Egloga nella quale Tyrinto e Grisaldo pastori e
man / driali con sue rime isdruzule dimostrano l’età presente / esser gionta in summa inopia
et miseria e piu non si / extimar virtute et come la corte di sancta chiesia / e piena di vicij e
scelleragine» (si veda Arzocchi, Egloghe, ed. cit., p. LVIII).
24
Biancardi, Esperimenti metrici del primo Quattrocento, cit., p. 661.
25
Per tutto ciò, si vedano R. Tissoni, Un ternario inedito attribuibile al Bianco da Siena e la
quarta ecloga di Francesco Arsochi, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVII
(1970), pp. 367-90; F. Brambilla Ageno, La prima ecloga di Francesco Arsochi e un’imitazione
di Giovan Francesco Suardi, in «Giornale storico della letteratura italiana», XCIII (1976), pp.
523-48; cosı̀ come Santagata, Fra Rimini e Urbino, cit., p. 89 n.143.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE 

In entrambi i casi, con l’egloga del Suardi, ci siamo avvicinati a


quegli anni ’60 che si rivelarono cruciali per lo sviluppo della buco-
lica volgare in Toscana, tra Firenze e, di nuovo, Siena. A Firenze, già
nella prima metà del decennio, fu attiva quell’«accademia dei buccoi-
ci», nella quale si distinsero i tre fratelli Pulci, ognuno dei quali
contribuı̀ alla sua maniera allo sviluppo della poesia pastorale: Ber-
nardo col volgarizzamento delle egloghe virgiliane; Luca contami-
nando l’epistola ovidiana col genere bucolico, e con gli inserti buco-
lici nel Driadeo; lo stesso Luigi – il più famoso dei tre – ricopiando di
suo pugno le egloghe dell’Arzocchi, a testimonianza di una sua
presenza mai interrotta, e che prelude al riconoscimento concessogli
dall’edizione Miscomini come ‘inventore del genere’26. A Siena, in-
vece, bisognerà attendere la seconda metà del decennio per imbat-
tersi nelle quattro egloghe del Boninsegni27, con le quali siamo già di
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poco oltre la data fissata per la composizione delle Coplas de Mingo


Revulgo.
Sono consapevole del fatto che, nell’eccessivo schematismo di
queste note, è come se avessi giustapposto i due pannelli di un
dittico, lasciando in ombra le connessioni che giustificano il loro
raccordo. Non è solo che la mancanza di spazio mi impedisca di
illuminarle, ma anche che la stessa esistenza di tali connessioni
potrebbe essere messa in dubbio. All’inizio segnalavo la natura asso-
lutamente preliminare del breve discorso che mi accingevo ad
esporre, e dicevo il vero, nel senso che, dovendo cercare qualcosa, è
necessario sapere pregiudizialmente dove cominciare a cercare. Eb-
bene, non è una novità che, tra coloro che si sono interessati
all’egloga quattrocentesca spagnola, quelli che si sono riferiti alla
tradizione in italiano volgare non sono andati più in là dell’esperienza

26
Sui fratelli Pulci (Luca e Luigi), oltre al libro di S. Carrai, Le muse dei Pulci. Studi su
Luca e Luigi Pulci, Napoli, Guida editore, 1985, si vedano le puntuali osservazioni dello
stesso Carrai, La lirica toscana nell’età di Lorenzo, in Santagata e Carrai (a cura di), La lirica
di corte, cit., pp. 96-144, in part. pp. 104-107, a proposito del rifiorire della bucolica
fiorentina degli anni sessanta e dell’«impulso concordemente datole dai fratelli Pulci» (p.
104), a cui fa riferimento anche la «Introduzione» della Fornasiero in Arzocchi, Egloghe, ed.
cit., pp. XXVIII-XXXIII, dove si troverà la descrizione del ms. 2508 della «Biblioteca
Palatina» di Parma, che contiene la copia delle quattro egloghe di Arzocchi. Al volgarizza-
mento delle Bucoliche virgiliane di Bernardo dedica un ampio studio S. Villari, Una bucolica
«elegantissimamente composta»: il volgarizzamento delle egloghe virgiliane di Bernardo Pulci, in V.
Fera e G. Ferraú (a cura di), Filologia Umanistica. Per Gianvito Resta, Padova, Antenore
Editrice, 1997, vol. III, pp. 1873-1937.
27
Su Boninsegni e le sue egloghe, si veda specialmente Battera, L’edizioni Miscomini, cit.,
pp. 152-56 e 161-82.

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 PARTE SECONDA

fiorentina degli anni sessanta, quando invece la formazione di un


codice bucolico in volgare si era già sostanzialmente incanalata nelle
prime sei decadi del secolo. Nelle mie note, pertanto, non ho preteso
altro che richiamare l’attenzione degli studiosi su questa originaria
produzione, la quale – credo – dovrà essere tenuta in conto quando
si riconsidererà la genesi dell’egloga spagnola, nelle sue relazioni con
la tradizione latina e volgare. Che tutto ciò possa condurre a una
differente e più esatta valutazione del problema, è un verdetto che
dovrà rimettersi agli studi, molto più puntuali e pazienti, di coloro
che considereranno degno d’attenzione l’invito che ho inteso fare in
queste brevi e preliminari note.
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PARTE TERZA
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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR».
NOTE SULLE TRADUZIONI
CINQUECENTESCHE DEI TRIONFI

Tiene de estar advertido el letor que hallará en esta


traducción algunas cosas quitadas y muchas de otra
manera puestas de como están en lo thoscano, y
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puesto que la mayor parte de la culpa desto sea el mal


entendimiento del traduzidor, a que no açertó a darle
mejor traça... Fernando de Hozes, Los Triumphos, BNM
ms. 3687, c.5v.

1. Siamo con ogni probabilità nel 1535, quando Garcilaso indirizza


al poeta ed amico napoletano Giulio Cesare Caracciolo un sonetto,
nel quale la «reiteración conceptista en juegos de palabras» notata da
1
Lapesa nei primi tre versi

Julio, después que me partı́ llorando


de quien jamás mi pensamiento parte
y dexé de mi alma aquella parte2

una volta tanto, non è in contrasto con i pur tersi versi di Petrarca
che furono segnalati dal Brocense come punto di partenza per il
toledano3:

I dolci colli, ov’io lasciai me stesso


Partendo onde partir già mai non posso
(R.V.F., CCIX, 1-2).

1
R. Lapesa, La trayectoria poética de Garcilaso (1948), ora raccolto in Garcilaso: Estudios
completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 50-52.
2
Cito da Garcilaso de la Vega, Obras completas con comentario, a c. di E. L. Rivers,
Madrid, Castalia, 1981, pp. 116-17.
3
Cfr. A. Gallego Morell, Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, Madrid, Gredos, 1972,
2ª ed., p. 268; si veda anche M. Rosso Gallo, La poesı́a de Garcilaso de la Vega. Análisis
filológico y texto crı́tico, Madrid, Real Academia Española, 1990, p. 117.

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 PARTE TERZA

Eppure, non è nei versi iniziali del testo spagnolo dove si avverte
la maggiore presenza di Petrarca, bensı̀ nella sestina:

Y con este temor mi lengua prueva


a razonar con vos, o dulce amigo,
del amarga memoria d’aquel dı́a
en que yo comencé como testigo
a poder dar, del alma vuestra, nueva
y a sabella de vos del alma mı́a.

Non è il caso di addentrarsi nell’esegesi di questi versi, soprat-


tutto quelli dell’ultima terzina, a proposito dei quali mi permetto di
rimandare il lettore a un mio precedente studio4. In questa sede
m’interessa richiamare l’attenzione sul v. 10:
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del amarga memoria d’aquel dı́a

nel quale, stranamente, nessuno tra i commentatori antichi e mo-


derni di Garcilaso ha riconosciuto il verso di Petrarca:

per la dolce memoria di quel giorno

che è poi il secondo verso del Triunphus Cupidinis:

Al tempo che rinova i mie’ sospiri


per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sı́ lunghi martiri5.

Naturalmente, non mi è concesso di indugiare troppo a lungo sul


testo di Garcilaso; tuttavia voglio almeno far notare il grado di
complessità che può raggiungere l’imitatio di Garcilaso, foss’anche in
un caso cosı̀ semplice come quello a cui ci siamo appena riferiti. Si
sarà notato come Garcilaso trasformi il sintagma dolce memoria in
amarga memoria. Ora la iunctura «dolce memoria», pur trovandosi

4
A. Gargano, «Imago mentis»: fantasma e creatura reale nella lirica castigliana del Cinque-
cento, in F. Bruni (a cura di), Capitoli per una storia del cuore. Saggi sulla lirica romanza,
Palermo, Sellerio, 1988, pp. 181-220, in part. le pp. 217-19.
5
F. Petrarca, Triumphi, a c. di M. Ariani, Milano, Mursia, 1988. Ho tenuto presenti
anche le edizioni di C. Calcaterra, Torino, UTET, 1927; di F. Neri, in F. Petrarca, Rime e
Trionfi, 2ª ed. riveduta a c. di E. Bonora, Torino, UTET, 1960; di F. Neri, G. Martellotti,
in F. Petrarca, Rime Trionfi e Poesie latine, a c. di F. Neri, G. Martellotti, E. Bianchi, N.
Sapegno, Milano-Napoli, R. Ricciardi Editore, 1951.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

attestata nel Petrarca latino (De vita, II, 392 e 426; Fam. VI, 3, 66;
VII, 12, 10; Sen III, 9, 863)6 risulta assente nel Canzoniere, con la
parziale eccezione del settenario nella famosa canzone Chiare, fresche
e dolci acque: «dolce ne la memoria» (CXXVI, 41). Del resto, lo stesso
lemma memoria non è tanto frequente nel Canzoniere, quanto forse ci
si potrebbe attendere. Delle 18 occorrenze di memoria, una sola volta
lo troviamo in concomitanza dell’aggettivo dolce (il settenario citato),
mentre è del tutto assente la iunctura: «amara memoria». Se prescin-
diamo dal lemma memoria, e rivolgiamo in cambio l’attenzione alla
coppia aggettivale antitetica: dolce/amaro, ci accorgeremo di un fatto
piuttosto interessante. L’aggettivo dolce è frequentissimo nel Canzo-
niere, dove compare 251 volte; meno frequente è amaro, che comun-
que pur vi è presente 32 volte. Ciò che tuttavia interessa notare è che
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in ben 23 occasioni (su un totale di 32) l’aggettivo amaro è «collocato


a contrasto col termine dolce, nello stesso verso o almeno nello stesso
periodo metrico sintattico»7. Risulta, dunque, chiara la preferenza
stilistica di Petrarca per l’antitesi: dolce/amaro. Ritorniamo ora, breve-
mente, al sonetto di Garcilaso per notare come l’antitesi viene
ricostruita contrapponendo al secondo emistichio del v. 9:

... o dulce amigo

il verso che immediatamente segue:

del amarga memoria d’aquel dı́a.

Riassumendo, a me pare evidente che Garcilaso, nel citare in


castigliano il secondo verso del Trionfo d’Amore, abbia da un lato
operato la modifica aggettivale, trasformando l’originale italiano dolce
in amarga, e tuttavia l’immediato tradimento alla lettera del verso
ridonda in una più profonda fedeltà a una cifra stilistica che percorre
l’intero Canzoniere.
In conclusione, anche in un esempio che ha volutamente privile-
giato le «microstrutture linguistiche e concettuali», viene confermata
la sapienza a cui era pervenuto Garcilaso nella sua arte imitativa, e,

6
Cfr. la nota di Ariani nell’ed. cit., p. 78, n. 2.
7
E. Chirilli, Studio sulle concordanze nel «Canzoniere» di Francesco Petrarca, in «Studi e
problemi di critica testuale», XVI (1978), pp. 137-91, in part. le pp. 173-74.

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 PARTE TERZA

allo stesso tempo, si ha una tangibile prova del rinnovamento a cui


era pervenuta la lingua poetica in Spagna.
Facciamo ora, rispetto al sonetto di Garcilaso che – ripeto – è
con ogni probabilità del 1535, un passo indietro e uno in avanti:
andiamo, cioè, a ripescare il secondo verso del Triunphus Cupidinis
nelle traduzioni di Alvar Gómez e di Antonio de Obregón, entrambe
anteriori al componimento di Garcilaso, e in quella di Fernando de
Hozes, che è invece ad esso posteriore.
Ecco, dunque, la traduzione di Alvar Gómez:

con la memoria del dı́a


que dió fin a mi alegrı́a.

Ad essa fanno eco i tre ottonari con cui Obregón traduce lo


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stesso verso:

por memoria que renueva


el mal que supe por prueva
en el semejante dı́a

fino ad arrivare al terzo endecasillabo di Fernando de Hozes, che


leggiamo nell’edizione di appena qualche anno posteriore alla metà
del secolo:

por la dulce memoria de aquel dı́a.

Nel proporre un confronto cosı̀ ravvicinato tra le diverse tradu-


zioni del v. 2 del Trionfo d’Amore, nulla mi è più estraneo che un
proposito di ironizzazione. Al contrario, non mi costa dire che, da un
punto di vista strettamente poetico, si tratta di risultati che godono
di pari dignità, perché ognuno di essi raggiunge un livello nient’af-
fatto disprezzabile all’interno del codice poetico nel quale è stato
concepito. Se però assumiamo un diverso punto di vista, quello cioè
dello storico della letteratura per il quale si fa, tra l’altro, pertinente
l’evoluzione delle forme poetiche, allora diventa impossibile evitare
di notare quanto attardate risultino le traduzioni di Alvar Gómez e di
Obregón rispetto a quella di Hozes, e come tra le prime due e
quest’ultima ci sia la mediazione del modello poetico garcilasiano
diffusosi dall’edizione barcellonese del ’43 in poi.

2. Prenderò in considerazione le tre traduzioni di Alvar Gómez,

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

Antonio de Obregón e Fernando de Hozes, sulle quali credo che sia


opportuno dare, preliminarmente, qualche informazione di carattere
generale.
Alvar Gómez – La traduzione di Alvar Gómez è parziale: essa,
infatti, si limita al solo Triunphus Cupidinis (e, più esattamente, a tre
dei quattro capitoli di cui si compone il testo petrarchesco). Il testo
spagnolo ci è stato conservato nei codici manoscritti di Ixar e Gal-
lardo, che possono leggersi nelle edizioni di Azáceta8. In forma
ridotta (88 strofe su 142/143), il testo di Alvar Gómez accompagna
alcune edizioni della Diana di Montemayor (per l’esattezza tredici:
da quella di Cuenca del 1561 a quella di Lisbona del 1624)9. La
traduzione non conserva il genere metrico dell’originale: la terzina di
endecasillabi, ma ricorre alla decima di ottonari, i quali sono ordinati
secondo il seguente schema di rime: abaabccddc. I 513 endecasillabi
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italiani (dal cui conteggio è, naturalmente, escluso il secondo capi-


tolo che non è tradotto), diventano 1430 ottonari nella versione
conservataci da Ixar, e 1420 in quella di Gallardo. Dal testo italiano a
quello castigliano assistiamo, pertanto, a una notevole amplifica-
zione.
Antonio de Obregón – La traduzione di Antonio de Obregón è per
contro completa: essa comprende tutti e sei i Trionfi, ed è accompa-
gnata da un esteso commento. Dedicata all’almirante di Castiglia,
Fadrique Enrı́quez de Cabrera, essa fu stampata a Logroño da Arnao
Guillermo de Brocar nel 151210. In seguito, fu ristampata due volte a
Siviglia, nel 1526 e 1532, per i tipi di Juan Valera de Salamanca, e
una volta a Valladolid, nel 1542, per quelli di Juan Villaquirán11.
Come Alvar Gómez, lo stesso Obregón rinuncia alla terzina di
endecasillabi e ricorre alla copla real o doble quintilla di ottonari.
Eppure, per quanto simili nella scelta metrica, le due traduzioni, di

8
Cancionero de Juan Fernández de Ixar, a c. di J. M. Azáceta, Madrid, CSIC, 1956, II, pp.
819-62; El Cancionero de Gallardo, a c. di J. M. Azáceta, Madrid, CSIC, 1962, pp. 98-151.
Il testo contenuto nel Cancionero de Gallardo era stato pubblicato da B. J. Gallardo, Ensayo
de una biblioteca de libros raros y curiosos (1863), ed. facsı́mil, Madrid, Gredos, 1968, I, pp.
618-38.
9
Per l’elenco completo, cfr. J. de Montemayor, Los siete libros de la Diana, Madrid,
Espasa-Calpe, 1954, pp. LXXXVII-CII.
10
Francisco Petrarca con los seys triunfos del toscano sacados en castellano con el comento que
sobrellos se hizo, Logroño, Arnao Guillermo de Brocar, 1512. Per l’esemplare comprato da
Ferdinando Colombo nel 1518, cfr. Gallardo, Ensayo, cit., II, 523, n. 2718.
11
Cfr. A. Palau y Dulcet, Manual del Librero hispano-americano, Barcelona, Libreria anti-
cuaria de A. Palau, 1977, 2ª ed., II, pp. 306-7.

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 PARTE TERZA

Alvar Gómez e di Obregón, presentano – come vedremo – caratteri-


stiche del tutto differenti.
Fernando de Hozes – Problemi molto più complessi presenta la
traduzione di Fernando de Hozes. Innanzitutto, c’è da dire che essa
è completa di tutti e sei Trionfi, accompagnati da un commento, per
il quale Hozes attinge in larga misura a quelli italiani del Vellutello e
dell’Illicino, come lo stesso Hozes dichiara nel Prólogo, diretto al
duca di Medinaceli, Juan de la Cerda: «Y assı́ mismo puse nuevo
comento, no tan breve como el de Alexandro Vellutello, ni tan largo
en muchas cosas, como el de Bernardo Illicino, sino tomando a
pedaços de entrambos, quitando algo de lo que paresçı́a superfluo, y
añadiendo lo que en mi juyzio era muy necessario». La grande novità
rispetto alle precedenti è costituita dal fatto che Hozes traduttore
conserva il genere metrico dell’originale; una scelta, le cui ragioni si
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trovano spiegate ad apertura del menzionato prologo, dove Hozes


rende anche omaggio alla traduzione di Obregón:

Después que Garcilasso dela Vega y Joan Boscán truxeron a nuestra


lengua la medida del verso thoscano, han perdido con muchos tanto
crédito todas las cosas hechas o traduzidas en qualquier género de
verso de los que antes en España se usavan, que ya casi ninguno las
quiere ver, siendo algunas – como es notorio – de mucho precio. Y
como una dellas, y aun a mi parescer de las mejores, fuesse la
traductión de los Triumphos de Petrarca, hecha por Antonio de Obre-
gón, porque algunos amigos mı́os no entendı́an el thoscano, no dexas-
sen por esta causa de ver una casa de tanto valor, como los dichos
Triumphos son, en algunos ratos del verano passado, que para ello tuve
desoccupados, hize otra nueva traductión en la misma medida y
número de versos que el toscano tiene.

Quanto alla complessità a cui accennavo, essa è dovuta al fatto


che di questa traduzione conserviamo due diverse redazioni. La
prima ci è pervenuta in manoscritto unico12, mentre la seconda
redazione è invece a stampa, e fu pubblicata a Medina del Campo da
Guillermo de Millis nel 155413. Di tale edizione esistono delle copie
datate 1555, che conservano però alla fine la data del 1554, e che
presentano una portadilla leggermente diversa, ma sempre di Guil-

12
Il codice manoscritto si trova conservato presso la Biblioteca Nacional de Madrid, ms.
3687.
13
Los triumphos de Francisco Petrarcha, ahora nuevamente traduzidos en lengua Castellana, en
la medida, y numero de versos, que tiene en el Toscano, y con nueva glosa, Medina del Campo,
Guillermo de Millis, 1554.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

lermo de Millis. Di circa un trentennio posteriore, ossia del 1581, è


l’edizione di Juan Perier di Salamanca. Alla traduzione di Hozes, e,
in particolare, alla questione della doppia redazione ha dedicato non
poca attenzione Francisco Rico, in un importante articolo che l’au-
tore ha suggestivamente intitolato: El destierro del verso agudo. Se-
condo i convincenti argomenti dello studioso spagnolo, Hozes do-
vette lavorare alla prima redazione, quella pervenutaci in
manoscritto, nel 1549. L’anno successivo, il 1550, Hozes sottopose il
testo a una revisione, di cui il manoscritto conserva chiare tracce. Ma
né il testo primitivo né quello rivisto furono stampati. Difatti, nell’e-
state del 1552, Hozes lavorò alla seconda redazione la quale, questa
sı̀, vide la luce a Medina del Campo nel 155414.

2.1 Piuttosto che limitarmi allo studio di un particolare aspetto,


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preferisco prendere in considerazione un piccolo campione d’analisi,


che tenga conto però dei vari fattori – o almeno di quelli più
interessanti – che caratterizzano i testi, i quali raggiungono il numero
di quattro, in considerazione della doppia redazione della traduzione
di Hozes.
Quanto alla scelta della porzione di testo da sottoporre ad analisi,
essa è caduta sulle prime terzine del Triunphus Cupidinis che permet-
tono un confronto tra tutti e quattro i testi in questione. Tali sono la
terza e la quarta, dal momento che il manoscritto di Hozes manca
della carta contenente la traduzione delle prime due terzine.
Ecco, dunque, i sei endecasillabi italiani:

Amor, gli sdegni e ’l pianto e la stagione


ricondotto m’aveano al chiuso loco
ov’ogni fascio il cor lasso ripone.
Ivi fra l’erbe, già del pianger fioco,
vinto dal sonno, vidi una gran luce
e dentro assai dolor con breve gioco. (vv. 7-12)

Si ricorderà che nelle due terzine precedenti Petrarca aveva


fornito la determinazione temporale (Al tempo che rinnova...), ossia la
stagione primaverile. Ora, nella terza, Petrarca dà indicazioni sul
luogo: Valchiusa, il «chiuso loco» di v. 8; e, nella quarta, è descritto

14
Cfr. F. Rico, El destierro del verso agudo (con una nota sobre rimas y razones en la poesı́a del
Renacimiento), in Homenaje a José Manuel Blecua, Madrid, Gredos, 1983, pp. 525-51, in
part. le pp. 533-35.

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 PARTE TERZA

l’inizio della visione che fa da cornice ai sei Trionfi. Il caso ha voluto


che su questi versi esista un fine commento di Gianfranco Contini,
che si può leggere nel fondamentale saggio dedicato alle Correzioni al
Petrarca volgare.
Scrive Contini:

È cosı̀ che i Trionfi ci possono apparire come ispirati a un mezzo di


transizione da sostanza a sostanza che sia insieme un passaggio fonico,
una partitura vocalica (nel primo d’Amore, 10-12: Ivi fra l’erbe, già del
pianger fioco, Vinto dal sonno, vidi una gran luce, E dentro assai dolor con
breve gioco; dove il transito è aiutato, anzi promosso, dalla simmetria
degli emistichı̂, dalla simmetria dell’epitetare, dall’allitterazione vinto-
vidi15.

Com’è proprio del suo stile, Contini ci ha sinteticamente mo-


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strato la perfetta corrispondenza tra l’unità di contenuto e la trama


formale che regola i versi di Petrarca. Tocca a noi, ora, vederne gli
esiti castigliani.
Comincerò con Alvar Gómez, per passare ad Obregón e finire
con Hozes. L’ordine ubbidisce solo in parte al dettato cronologico,
dal momento che è difficile stabilire quale delle due traduzioni, di
Alvar Gómez e di Obregón, sia stata composta con anteriorità16.

2.2 Se passiamo ad esaminare il testo di Alvar Gómez:

El Amor el gran desdén,


la bentura y la saçon,
y la falta de aquel bien
que se esta agora con quien
tiene alla mi coraçon;
mis gemidos, mi llorar,
me abian puesto en vn lugar,
do el pensamiento cansado
la carga de su cuidado

15
G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino,
Einaudi, 1970, p. 28.
16
Alvar Gómez de Ciudad Real o de Guadalajara (1488-1538) fu autore di varie opere in
latino. Non è difficile congetturare che il suo Triumpho del Amor dovette essere opera
giovanile, anche in considerazione del fatto che nel 1522 pubblicò il Talichristia, con un
prologo di Antonio de Nebrija: l’opera, con i suoi seimila esametri latini, dovette impe-
gnarlo per non breve tempo (cfr. J. F. Alcina, La poesı́a latina del humanismo español: un
esbozo, in AA.VV., Los humanistas españoles y el humanismo europeo (IV Simposio de Filologı́a
Clásica), Murcia, Universidad de Murcia, 1990, pp. 12-33, in part. p. 16).

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

dexaua por repossar.

Asi estaua yo cautibo


en vna huerta de flores,
do sanara vn onbre vibo
de qualquiera mal asquibo;
si no fuera mal de amores;
que aqueste es vn mal tan fuerte,
de tal fuerça y de tal suerte,
que d’el no puede ser sano,
quien no sana por la mano
que le pudo dar la muerte.

Puseme por me alegrar


entre las yerbas, buscando
algo con que descansar,
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ni olgaua en no llorar,
ni descansaba llorando;
ya mis ojos, que asi abiertos,
fueron a los desconçiertos,
avnque duermen agora,
les bino vn sueno a desora,
que los paro como muertos.

Con el sueno que tenia


passaua mi soledad,
mas poco abia que dormia
quando bi como benia
vna muy gran claridad,
y dentro vn graue dolor,
y vn plazer, que de pequenno
tan presto huye a su dueno
como se seca la flor17

balza subito alla vista il numero spropositato dei 40 ottonari spagnoli


per rendere i sei endecasillabi italiani. In effetti, la prima decima
corrisponde alla prima terzina; la seconda strofa spagnola, sostanzial-
mente, non ha corrispettivo nel testo italiano; e, per finire, ben due
strofe (la terza e la quarta) stanno per l’unica terzina dell’originale.
L’amplificazione, dunque, caratterizza senza alcun dubbio la tra-
duzione di Alvar Gómez. Su quest’aspetto si è soffermato il moderno
editore dei canzonieri di Ixar e Gallardo, l’Azáceta, nella breve
descrizione che ci fornisce della traduzione:

17
Ho riprodotto il testo contenuto nel Cancionero de Gallardo, ed. cit., pp. 98-100, dove
sono riportate in nota le varianti del testo conservatoci da Ixar.

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 PARTE TERZA

Alvar Gómez sigue el pensamiento petrarquista un tanto de lejos, y


aún adoptándolo hay un nuevo proceso de creación al considerar la
libertad con que ejecuta su tarea y el nuevo volumen que le da...18.

Sullo stesso aspetto aveva a lungo insistito il nostro Giuseppe


Carlo Rossi in un breve articolo, in cui il compianto studioso si era
soffermato soprattutto sul primo capitolo19. Con la tendenza all’am-
plificazione siamo, in effetti, all’interno di un prassi secolare del
volgarizzamento e della traduzione. La vera questione, a questo
punto, non consiste tanto nella misurazione dell’amplificazione,
quanto nel determinare le esigenze a cui quella amplificazione ubbi-
disce. In altre parole, si tratta di definire il tipo di cultura poetica che
Alvar Gómez rivela quando modifica, amplificandolo, il testo di
Petrarca.
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Francisco Rico, in uno studio imprescindibile per comprendere


la situazione della poesia castigliana nei primi decenni del Cinque-
cento, ha fornito una convincente spiegazione della tecnica amplifi-
catoria di Alvar Gómez. A proposito degli otto ottonari con cui il
traduttore rende l’endecasillabo:

l’amante ne l’amato si trasforme (III.162)

lo studioso spagnolo nota epigrammaticamente come: «Petrarca


enuncia, Alvar Gómez explica»; descrive, in poche linee, l’uso delle
tecniche della reiterazione e dell’antitesi, cosı̀ come quello del mozdo-
bre esteso dalla rima alla testura fonica, alla sintassi, al lessico e allo
stesso pensiero, per concludere poi che «nuestro autor se ciñe al
estilo que la veta más intelectualizada y formalista de la tradición
trovadoresca habı́a asumido en la España de los Reyes Católicos y
del Emperador: el estilo lı́rico del Cancionero general (1514). Alvar
20
Gómez, pues, ha diluido a Petrarca a la maniera cancioneril» .

18
Azáceta, Petrarca traducido por Alvar Gómez. Nuevos datos para el estudio del influjo del
poeta italiano en nuestra lı́rica renacentista, in Cancionero de Gallardo, ed. cit., p. 45. Il corsivo
è mio. Cfr. anche dello stesso autore, Un traductor del Petrarca: Alvar Gómez, in Cancionero
de Juan Fernández de Ixar, ed. cit., pp. XCVI-XCVII.
19
G. C. Rossi, Una traduzione cinquecentesca spagnola del «Trionfo d’Amore», in «Convi-
vium», fasc. 1º gennaio-febbraio 1959, pp. 40-50, dove, a proposito dei versi qui riportati, si
legge: «La traduzione continua con una parafrasi, ora ampia ora amplissima del testo: alle
due terzine di cui ai versi 7-12 corrispondono ben quattro decime (vv. 11-50), dove l’azione
petrarchesca del poeta, che si riduce in solitudine e lı̀ sogna, si diluisce nel tempo e nei
particolari» (p. 45).
20
F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Actas del Coloquio
Interdisciplinar «Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

Questa ‘diluizione’ è ben evidente nelle strofe che abbiamo preso


in considerazione. I quattro elementi del primo endecasillabo di
Petrarca, per esempio, diventano sette, due dei quali in dittologia
sinonimica: gemidos e llorar per l’it. pianto; cosı̀ come l’aggiunta di un
elemento che non si trova nell’originale, ossia l’assenza dell’oggetto
amato, diventa l’occasione per far ricorso a un topos frequente nella
poesia erotica, vale a dire quello del cuore o dell’anima dell’amante
che si trova «ubi amat quam ubi animat», per ricorrere alla fortunata
formulazione di S. Bonaventura, e, prima di lui, di Bernardo di
Chiaravalle:

y la falta de aquel bien


que se esta agora con quien
tiene alla mi coraçon.
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Al contrario, nel v. 7: me abı́an puesto en un lugar, il traduttore


rinuncia all’aggettivo it. chiuso di chiuso loco, con esso perdendo sia il
riferimento a Valchiusa, sia quello al topos dell’hortus conclusus come
scenario del sogno. Del resto, mentre Petrarca evita gli strumenti
principali del topos, ossia la enumeratio e la descriptio connesse ad ogni
topografia letteraria, e riduce tutto a erbe, il traduttore spagnolo
sviluppa un’intera strofa (la seconda) sulla huerta de flores, che di-
venta lo spunto per dire del mal de amores, e per fornire una
definizione dell’amore tra le più ricorrenti della poesia cancioneril:

que aqueste es un mal tan fuerte,


de tal fuerça y de tal suerte
................................................21

Passando direttamente alla quarta strofa, l’endecasillabo italiano:

e dentro assai dolor con breve gioco

è sviluppato in un’intera quintilla, la seconda, dove non solo si


rinuncia all’architettura delle simmetrie del verso italiano, ma nel-

Juan de Valdés» (Bolonia, abril de 1976), Roma, Publicaciones del Instituto Español de
Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30, in part. le pp. 121-22.
21
Cfr. R. Lapesa, Poesı́a de cancionero y poesı́a italianizante (1962), in De la Edad Media a
nuestros dı́as. Estudios de historia literaria, Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71, in part. p. 151;
Id., La trayectoria, cit., pp. 26-27; e Rico, Variaciones, cit., p. 125.

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 PARTE TERZA

l’amplificatio a mezzo di paragone degli ultimi tre ottonari, lo stesso


motivo classico22 è ricondotto alla maniera cancioneril.

2.3 Ho già notato che, pur nella scelta metrica sostanzialmente


simile, le due traduzioni di Gómez e Obregón presentano caratteri-
stiche affatto distinte. Alvar Gómez sottopone la lingua poetica del
Petrarca a un processo di totale disintegrazione, nel quale un codice
poetico riduce a zero la distanza dall’altro perché lo nega assimilan-
dolo a sé; a differenza di quanto avviene nella traduzione di Obre-
gón, nella quale i due codici si guardano più da vicino e, là dove
possono, pervengono a momenti di osmosi. Fuor di metafora, il testo
di Obregón, pur rimanendo molto al di quà della linea che segna il
rinnovamento della poesia castigliana, si rivela più permeabile, nel
conservare in sé delle tracce dei ricorsi poetici presenti nel testo
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originale:

El amor y desdeñar
con el tiempo y con el llanto
me cerraron en lugar
donde suele descansar
el coraçon de quebranto.
cansado de llorar tanto
entre las yerbas dormido
vi gran luz donde ove espanto
y yo vi dentro entre tanto
breve risa y gran gemido23.

La serie di coplas reales per il capitolo di terzine, oltre che di Alvar


Gómez, sarà la scelta dell’anonimo traduttore del Purgatorio dante-
sco24, sempre nel primo terzo del secolo, e la si troverà nel 1547 nella
traduzione toledana dell’Arcadia di Sannazaro, in nove delle dodici
egloghe25. Sia pur brevemente, credo che valga la pena di accennare
ai criteri in base ai quali avviene il passaggio da un sistema metrico
all’altro. Tali criteri, difatti, ubbidiscono a regole alquanto precise.
Obregón ha lavorato tenendo conto, essenzialmente, di due unità

22
Per i rimandi ai classici, cfr. Ariani, ed. cit., p. 81, n. 12.
23
Francisco Petrarca con los seys triunfos (1512), vj. Ho utilizzato l’esemplare conservato
presso la Biblioteca Nacional de Madrid, R. 8092.
24
Cfr. J. Arce, Petrarca y el terceto «dantesco» en la poesı́a española, in Literaturas Italiana y
Española frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982, pp. 157-68, in part. p. 162.
25
Cfr. R. Reyes Cano, La Arcadia de Sannazaro en España, Sevilla, Publicaciones de la
Universidad de Sevilla, 1973, pp. 90-109.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

metriche: l’emistichio e la terzina. Egli, cioè, ha tenuto fermi, salvo


poche eccezioni, i limiti della terzina per la quintilla, ricavando da
ogni emistichio un ottonario. È chiaro che questa doppia corrispon-
denza (terzina-quintilla; emistichio-ottonario) pone un problema di
asimmetria; Obregón ricorre alla tecnica che consiste nel ricavare
quattro ottonari dagli emistichi di due endecasillabi, e un solo otto-
nario dal restante endecasillabo. Nei versi qui riprodotti, il primo, il
secondo e il sesto sono ottonari ottenuti da altrettanti emistichi;
mentre il terzo verso: me cerraron en lugar è un esempio di ottonario
ricavato da un intero endecasillabo, attraverso una tecnica di abbre-
viatio che, nel verso in questione, è costituita dal passaggio da una
forma verbale composta a una semplice, e dalla contemporanea
soppressione dell’aggettivo chiuso, la cui marca semantica passa al
verbo cerrar, con forte affievolimento, ma non scomparsa, dell’allu-
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sione a Valchiusa, e al topos letterario di cui si è detto.


Naturalmente, non sostengo che il criterio ora esposto sia l’unico
col quale Obregón abbia operato; ma che esso costituisca il meccani-
smo di base, questo sı̀. Per arricchire il quadro, voglio solo accennare
a un ulteriore aspetto. Consideriamo un verso del tipo:

come uom che per terren / dubio cavalca (II.88)

Da esso Obregón ricava sı̀ due ottonari, ma senza che questi ne


rispettino gli emistichi:

como al que va caminando


per terren que es de temer.

Ciò avviene, a mio parere, per un motivo preciso. Nell’endecasil-


labo, la cesura cade tra terren e dubio, con un forte effetto di
spezzatura, che separa l’aggettivo dal sostantivo a cui si riferisce. I
due ottonari spagnoli ricompongono le microunità sintattiche e, ciò
facendo, essi privilegiano l’unità sintattica su quella metrica. Effetti-
vamente, si tratta di due criteri che spesso si fronteggiano, anche se,
avendo spesso gli emistichi dei Trionfi una struttura bimembre, unità
metrica (emistichio) e unità sintattica coincidono. Con ciò non
pretendo affatto di aver esaurito la complessa questione del passag-
gio da un sistema metrico all’altro, ma credo tuttavia di aver fornito i
criteri di fondo che spiegano la traduzione di un gran numero di
versi.
Tornando ai versi del nostro campione d’analisi, la trama formale

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 PARTE TERZA

che Contini ha posto in rilievo per i versi italiani è qui andata


perduta. Non del tutto, comunque.
Nulla rimane della costruzione perfettamente simmetrica di vinto
dal sonno / vidi una gran luce, se non forse la ripetizione del verbo vi
come tentativo di riprodurre l’allitterazione vinto/vidi che è andata
perduta.
In cambio, la costruzione bimembre di: ivi fra l’erbe / già del
pianger fioco è stata, in qualche modo, resa con la costruzione chia-
stica:

cansado de llorar tanto


entre las yerbas dormido.

Ma è soprattutto l’ultimo ottonario: breve risa y gran gemido che


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riproduce la forma dell’endecasillabo italiano. Lo sforzo di conserva-


zione si nota soprattutto nella coppia aggettivale, con breve che è
«aggettivo quantitativo e temporale nello stesso tempo», come annota
il Calcaterra; mentre la coppia sostantivale: gioco/dolor subisce una
concretizzazione con l’uso di risa e gemido. Questa riduzione di
aulicità (penso soprattutto a risa per gioco) si presenta altrove in
questi versi, sia a livello di costruzioni che di lessico. Si veda, per
esempio:

vinta dal sonno = dormido


riporre ogni fascio = descansar de quebranto
del pianger fioco = cansado de llorar.

2.4 Passiamo, infine, alla traduzione di Hozes che fornisco nella


doppia redazione:

7 amor desden mi llanto y la sazon


entonçes al lugar me avian llevado
que suele dar alivio al coraçon

10 Entre la yerva de llorar cansado


yo vi una luz al sueño ya Rendido
y dentro poco bien y gran cuydado
(Redazione manoscritta)

7 Amor, desdenes, llanto, el tiempo, y pena


Me havian puesto en el lugar cerrado,

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

Adonde toda cuyta queda agena.

10 Entre las yervas de llorar cansado


Durmiendo vi una luz resplandenciente
Y dentro plazer breve y gran cuydado26
(Redazione a stampa).

Il cambio più vistoso e significativo dalla prima alla seconda


redazione, Fernando de Hozes lo effettua a proposito della rima
tronca. Come ha già osservato Rico, nello studio anteriormente
menzionato, Hozes non lascia un solo caso di finale ossitona, con
atteggiamento ancora più rigido degli stessi rimatori italiani, i quali,
sia pur sporadicamente, ammettevano questo tipo di rima. Si tratta
di un chiaro indizio del fatto che, dalla redazione manoscritta degli
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anni ’49-’50 alla revisione del ’52, non solo si è lasciato indietro
l’ottonario, ma, nell’adottare l’endecasillabo, aderisce alle più rigo-
rose leggi che ne regolavano l’uso. Tuttavia, nell’estate del ’52,
Hozes non si limitò ad intervenire unicamente sui versi che presenta-
vano una finale tronca, ma sottopose il testo a una revisione sistema-
tica che si estese a molti altri aspetti. Il risultato fu quello di ottenere
una delle migliori traduzioni poetiche di questa metà del Cinquecen-
to27.
Nella prima delle due terzine, non solo scompare la rima tronca
(sazón: coraçón) dei versi estremi, ma lo stesso verso centrale risulta
totalmente modificato. In esso, difatti, viene reintrodotto l’aggettivo
cerrado, con l’importante valore semantico che sappiamo, a discapito
di entonçes, che svolgeva nel verso una funzione puramente riempi-
tiva.
Più in generale, nella redazione a stampa la scansione degli
emistichi e delle unità sintattiche che tali emistichi ritagliano è molto
più vicina al dettato dell’originale, tranne che nel primo verso, dove
l’introduzione di un quinto elemento: pena – per ragioni di rima –
rompe la simmetria tra primo e secondo emistichio.
La struttura bimembre degli endecasillabi caratterizza soprattutto

26
Per il testo della redazione a stampa, ho utilizzato l’edizione di Juan Perier, Salamanca,
1581, secondo l’esemplare conservato presso la Biblioteca Universitaria de Barcelona, R.
47165. L’edizione utilizzata non presenta alcuna variante per i versi delle due terzine che
qui si analizzano.
27
«La refundición de 1552 – no documentada en el códice – elevó extraordinariamente la
calidad del trabajo, hasta convertir a Los Triumphos en una de las mejores traducciones del
italiano pergeñadas en la época», Rico, El destierro del verso agudo, cit., p. 535.

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 PARTE TERZA

la seconda terzina di Petrarca. Nella traduzione di Hozes, essa viene


sapientemente rispettata nei versi estremi; anzi, nel passaggio alla
redazione definitiva, risulta ulteriormente perfezionata. Nel terzo
verso i cambi sono più vistosi: l’antitesi gioco/dolor è effettivamente
resa meglio dalla coppia plazer/cuydado, piuttosto che dall’anteriore
bien/cuydado; e a ciò deve aggiungersi il recupero dell’agg. breve.
Nel primo verso, il passaggio dal singolare al plurale: la yerva <
las yervas risponde, certo, a un maggiore adeguamento all’originale; il
che, tuttavia, non toglie che, cosı̀ facendo, Hozes abbia evitato una
dialefe che sarebbe risultata strana. Cosı̀ come la ristrutturazione del
verso centrale, dovunque vada ricercata la sua causa, evita ancora
una volta una dialefe, questa volta tra sueño e ya. Quanto poi
all’intero verso: durmiendo vi una luz resplandeciente, esso, pur costi-
tuendo un ottimo endecasillabo, segna un allontanamento dalla
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struttura simmetrica dell’originale petrarchesco, con relativa perdita


dell’allitterazione. Le ragioni dei cambi introdotti non sono, però, da
ricercare nell’endecasillabo in sé, ma nella terzina seguente.

3. Pur con la consapevolezza che quanto finora esposto no va molto


più in là di un primissimo approccio al materiale offertoci dalle tre
traduzioni, ritengo che sia doveroso trarre alcune brevi conclusioni.
Sul piano generale, ossia su quello della ricezione della lettera-
tura italiana in Spagna, Alberto Blecua presentò nel Coloquio di
Bologna, tenutosi nel 1976, un denso stato della questione che,
cronologicamente, abbracciava la prima metà del XVI secolo. In
esso, tra l’altro, concludeva: «faltan estudios detallados de las traduc-
ciones, tan interesantes algunas de ellas, a las que se podrı́a aplicar el
mismo método que realiza Margherita Morreale en su análisis del
Cortesano»28. A più di un quindicennio di distanza dall’incontro bolo-
gnese, l’invito implicito contenuto nelle parole di Blecua andrebbe
riproposto, nelle convinzione che queste traduzioni costituiscono una
delle più importanti officine in cui si va elaborando la nuova lingua
letteraria in Spagna.
A livello più specifico della lingua poetica, e tornando a Garcilaso
da cui le presenti note hanno preso l’avvio, questo primo approccio
ai Trionfi castigliani riconferma almeno due dati che gli studi degli
ultimi anni sulla poesia della prima metà del Cinquecento hanno

28
A. Blecua, Gregorio Silvestre y la poesı́a italiana, in Actas del Coloquio interdisciplinar «Doce
consideraciones», cit., pp. 155-73, in part. p. 161.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR» 

reso definitivamente acquisiti. Innanzitutto, si può constatare che la


poesia del toledano, sviluppatasi nell’arco di un solo decennio già
conteneva in sé l’intero processo che la poesia spagnola nel suo
complesso avrebbe compiuto in 40 anni circa, gli stessi anni cioè che
separano la traduzione di Obregón da quella a stampa di Hozes29. In
secondo luogo, risulta sempre più chiaro che tra i due estremi di una
poesia arroccata intorno alla vecchia maniera, da un lato, e lo
splendido modello poetico di Garcilaso, dall’altro, risulta attestata
una lunga e variegata serie di esiti intermedi, la cui ricchezza rende
molto complessa, e perciò tanto più affascinante, la situazione della
poesia spagnola della prima metà del Cinquecento30.
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29
Limitatamente allo sforzo per evitare «el acento en la última», cfr. Lapesa, La trayecto-
ria, cit., p. 183-84, e Rico, El destierro, cit., p. 531.
30
Cfr. soprattutto Rico, Variaciones, cit., R. Lapesa, Los géneros lı́ricos del Renacimiento; la
herencia cancioneresca, in Homenaje a Eugenio Asensio, Madrid, Gredos, 1988, pp. 259-75; e
ancora, F. Rico, A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento,
in «Studi petrarcheschi», nuova serie, IV (1987), pp. 229-36, il cui ultimo paragrafo
sintetizza mirabilmente la situazione poetica dei primi decenni del secolo: «La matassa si
presentava, dunque, più ingarbugliata di quanto a volte pensiamo: coplas castigliane e metri
toscani, volgare e latino, petrarchismo e classicismo si combinano in molti più sensi di quelli
che finirono per trionfare. L’originalità e il merito dell’apporto maturo di Garcilaso e
Boscán non devono impedirci di riconoscere che all’inizio della loro attività anch’essi
conobbero le incertezze di altri poeti più modesti. E che se la superiore qualità non ci fa
dimenticare la prelazione di Garcilaso su Boscán, non è neppure giusto disattendere la
priorità o contemporaneità che in relazione ad entrambi corrisponde ad altri rimatori» (p.
236). Solo al momento della correzione delle bozze [in occasione della pubblicazione
dell’articolo in rivista], mi è stato possibile – grazie al gentile invio dell’autrice che ringrazio
– prendere visione del lavoro di A. J. Cruz, The «Trionfi» in Spain: Petrarchist Poetics,
Translation Theory, and the Castilian Vernacular in the Sixteenth Century, in K. Eisenbichler e
A.A. Iannucci (a cura di), Petrarch’s «Triumphs», Toronto, Dovehouse Editions, 1990, pp.
307-24.

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GARCILASO DE LA VEGA
E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA,
DAL RETAGGIO CANCIONERIL
AI MODELLI CLASSICI
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1. Nell’arco di tre decenni scarsi, dal 1526 al 1554, la poesia


spagnola conobbe una vera e propria rivoluzione, che ebbe l’effetto
non solo di sconvolgere forme e generi poetici di una tradizione
consolidata e – per cosı̀ dire – a alto tasso di codificazione, ma anche
d’instaurare un nuovo ordine poetico, col quale le future generazioni
di poeti sarebbero state costrette a fare i conti comunque, sia per
adeguarvisi che per differenziarsene, sia ancora per restaurarlo, a
seguito dei molti e non univoci tentativi di disfacimento.
Come ogni processo rinnovatore, anche quello di cui stiamo per
occuparci, per quanto celere e radicale, diede luogo a esiti e momenti
che finirebbero per raffigurare una complessa articolazione, se l’oc-
chio dello storico – invece di limitarsi a uno sguardo d’assieme –
reclamasse d’indugiare sui singoli fatti o fenomeni che ne determina-
rono lo sviluppo. Ci si accorgerebbe, per esempio, che la poesia alla
vecchia maniera non ignorò affatto tentativi, sia pure timidi, di
rinnovamento, che – fin dalla seconda decade del Cinquecento,
almeno – segnalano un orientamento che di lı̀ a una decina d’anni si
sarebbe affermato con totale autonomia. D’altronde, già entrati nel
pieno del processo rinnovatore, si sarebbe indotti a dare il massimo
rilievo ai primi esperimenti generosi, e tuttavia carenti della deside-
rata compiutezza, di cui è un caso esemplare Juan Boscán; esperi-
menti che, del resto, corsero paralleli alle prove presto mature con le
quali un geniale Garcilaso de la Vega provvide a dotare il nuovo
modello di quel carattere definitivo e fondante che assunse per le
innumerevoli generazioni successive. E, ancora, perché non soffer-
marsi sul ruolo decisivo che ebbero alcuni poeti più giovani degli
iniziatori, o minori e – addirittura – anonimi, nell’affermazione e

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 PARTE TERZA

nella diffusione di un modello ormai costituito, ma non ancora del


tutto consacrato? In tal senso, un posto non proprio trascurabile
vedrebbero assegnarsi figure non di primo piano come – per esempio
– un Fernando de Hoces che, nel 1552, si sottopose alla non
indifferente fatica di un completo rifacimento della sua traduzione
dei Trionfi petrarcheschi, nello sforzo di adeguarsi meglio alle rigo-
rose leggi che regolavano l’uso del metro d’importazione: l’endecasil-
labo italiano; come non di primo piano, del resto, dovevano certa-
mente risultare quei rimatori – molti dei quali anonimi – che con i
loro componimenti – per lo più sonetti – riempirono il Cancionero
general de obras nuevas, che sin dal titolo si ricollegava all’illustre
precedente del principio del secolo, quello cioè costituito dal Cancio-
nero general, pubblicato da Hernando del Castillo nel 1511, ma che –
a differenza di quest’ultimo – a una prima sezione ancora contenente
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opere composte «por el arte española» aggiungeva significativamente


una seconda parte dedicata alle «obras que van por el arte toscana
compuestas». E si consideri che le ultime due opere menzionate – i
Trionfi di Hoces e il Cancionero general de obras nuevas – portano la
stessa data di pubblicazione, l’anno 1554, con cui ho fatto coincidere
il trentennio circa, nel corso del quale prese forma la nuova poesia in
1
Spagna .
È al toledano Garcilaso de la Vega che spetta, comunque, il
merito di aver portato avanti con maggiore determinazione la speri-
mentazione avviata con leggero anticipo dal suo amico, il barcello-
nese Juan Boscán, e di aver imposto – grazie a risultati sorprendente-

1
Sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi del Petrarca, oltre ai contributi di G.C.
Rossi, Una traduzione cinquecentesca spagnola del Trionfo d’Amore, in «Convivium», XXVII
(1959), pp. 40-50, di A.J. Cruz, The Trionfi in Spain: Petrarchist Poetics, Translation Theory,
and the Castilian Vernacular in the Sixteenth Century, in K. Eisenbichler e A.A. Iannucci (a
cura di), Petrarch’s Triumphs. Allegory and Spectacle, Toronto, Dovehouse, 1990, pp.
307-24, di A. Gargano, «Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei
Trionfi, «Annali dell’Istituto Universitario Orientale, Sezione Romanza», XXXV (1993), pp.
485-98, di C. Alvar, Alvar Gómez de Guadalajara y la traducción dei Triunfo d’Amore, in J.
Paredes (a cura di) Medioevo y literatura. Actas del V Congreso de la Asociación Hispánica de
Literatura Medieval, I, Granada, Universidad de Granada, 1995, pp. 261-67, si vedano gli
studi di R. Recio, Petrarca y Alvar Gómez: la traducción del Triunfo de Amor, New York, Peter
Lang, 1996; Petrarca en la penı́nsula ibérica, Alcalá de Henares-Madrid, Universidad de
Alcalá de Henares, 1996; e la più recente edizione della traduzione di Alvar Gómez de
Ciudad Real, El «Triumpho de Amor» de Petrarca traduzido por Alvar Gómez, Barcelona, PPU,
1998. Il Cancionero general de obras nuevas, modernamente edito da A. Morel-Fatio, in
L’Espagne au XVI et au XVII siècle, Heilbronn, 1878, pp. 489-602, è stato recentemente
riproposto in volume autonomo a cura di C. Claverı́a: [Esteban de Nágera], Cancionero
general de obras nuevas (Zaragoza, 1554), Barcelona, Edicions Delstre’s, 1993.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

mente maturi – il nuovo modello poetico a coloro che possiamo


considerare con una certa approssimazione i suoi continuatori e
imitatori. Non indugerò, pertanto, in ulteriori considerazioni gene-
rali, preferendo richiamarmi direttamente alle opere di colui che, nel
breve arco di una decina d’anni d’attività (dal ’26 al ’36, anno
quest’ultimo della sua morte), compendiò l’intero processo di evolu-
zione da cui fu investita la poesia spagnola. Comincerò ricorrendo a
un testo che ci colloca giusto nel mezzo di quel processo che
pretendo di ricostruire velocemente nel corso delle seguenti note. Si
tratta di un sonetto panegirico, che Garcilaso compose in onore di
una nobildonna napoletana, e che – forse a torto – non ha ricevuto
l’attenzione che merita2: Illustre honor del nombre de Cardona, / décima
moradora de Parnaso, / a Tansillo, a Minturno, al culto Tasso / sujeto
noble de inmortal corona, / si en medio del camino no abandona / la fuerza
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y el espirtu a vuestro Laso, / por vos me llevará mi osado paso / a la


cumbre difı́cil d’Elicona. / Podré llevar entonces sin trabajo, / con dulce son
qu’el curso al agua enfrena, / por un camino hasta agora enjuto, / el patrio,
celebrado y rico Tajo, / que del valor de su luciente arena / a vuestro
nombre pague el gran tributo3.
Senza dubbio alcuno, il sonetto fu composto a Napoli, dove
Garcilaso era giunto direttamente dall’esilio danubiano nell’autunno
del ’32, per unirsi al duca d’Alba, Pedro di Toledo, recentemente
nominato viceré del regno partenopeo. La nobildonna a cui esso va
dedicato è Maria di Cardona, marchesa di Padula, al tempo nota
anche per la sua attività poetica, che Garcilaso celebra – con iperbole
non originale – come decima musa. A lei, del resto, avevano già reso
omaggio, con alcuni componimenti, i tre poeti nominati nel terzo
verso, ossia: Luigi Tansillo, Antonio Sebastiano detto il Minturno, e
Bernardo Tasso. Si tratta, com’è noto, di tre poeti che all’epoca
soggiornavano a Napoli, e con i quali il nostro Garcilaso non tardò a
stringere stretti rapporti culturali. Nella seconda quartina, il poeta
non esita a concedersi l’augurio di conservare la fuerza y el espirtu,
godendo dei quali si dice certo di poter ascendere alla vetta del
Parnaso, grazie soprattutto alla nobiltà del tema scelto, il sujeto noble
di v. 4, su cui si sono già esercitati i poeti prima menzionati. Va
senza dire che tale soggetto coincide con la stessa persona di Maria,

2
Si veda, comunque, D.L. Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance,
Pennsylvania, The Pennsylvania State University Press, 1994, pp. 275-78.
3
Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı́tica,
1995, pp. 45-46.

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 PARTE TERZA

tema nonché dedicataria del sonetto. L’espressione en medio del


camino di v. 5 avrebbe, perciò, il significato di «a metà del sonetto»,
ovvero «lungo il corso della composizione», anche se – alla luce dei
versi che seguono – quell’espressione potrebbe prestarsi ad assumere
un significato più generale e ancor più impegnativo, rispetto alla
mera contingenza del sonetto in via d’esecuzione. Nelle terzine,
difatti, ricompare il termine camino, che però ora risulta riferito al
nuovo e insolito percorso lungo il quale il poeta – novello Orfeo –
intende deviare col dulce son della sua poesia le acque del patrio
Tago, il fiume che notoriamente bagna la sua città natale: Toledo. Se
seguiamo fino in fondo il suggerimento del testo, e assegniamo
pertanto al patrio ... Tajo il valore di lingua – o meglio ancora – di
poesia natı̀a, allora il significato dell’intero sonetto ci si rivela, pur
nelle forme consuete del componimento panegirico, come la dichia-
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razione di un vero e proprio programma di poetica. Perché deviare il


corso del fiume Tago equivale da parte di Garcilaso ad affermare
che, col suo canto, egli intende dirottare la poesia spagnola dal
percorso seguito fino ad allora, per imporle una direzione affatto
nuova. Quale sia, poi, l’inedito camino enjuto che Garcilaso pretende
di bagnare con le acque della nuova poesia, non è difficile determi-
nare, dal momento che, scegliendo il noble sujeto di Maria, egli ha
deciso di seguire le orme dei tre poeti italiani chiamati in causa, e di
meritare cosı̀ – al pari di essi – l’«inmortal corona» di poeta laureato.
Appare, dunque, chiaro che nel sonetto Garcilaso sta, di fatto,
enunciando un programma poetico, il quale in sintesi consiste nella
rottura con l’antica tradizione spagnola, a favore del modello ita-
liano. Sui modi e sulle tappe di un tale programma dobbiamo ora
interrogarci, abbandonando il sonetto alla nobildonna napoletana, e
facendo un passo indietro nel tempo e nello spazio, dal momento che
dal punto centrale del percorso (en medio del camino) ci conviene
retrocedere al suo punto iniziale.

2. Anche un poeta, precocemente e sorprendentemente maturo


come Garcilaso, conobbe la sua stagione di apprendistato, come
risulta evidente dal sonetto composto probabilmente quando l’autore
aveva tra i venticinque e i ventisette anni, era già un cortigiano di
rilievo di Carlo V, e non aveva ancora messo piede nella nostra
penisola, dove si recherà per la prima volta di lı̀ a poco, nel marzo del
1529, al seguito dell’imperatore la cui incoronazione avvenne solo un
anno dopo, a Bologna, nell’aprile del ’30. Ma leggiamo il sonetto, di

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

cui mi limito a riprodurre la quartina iniziale: Siento el dolor men-


guarme poco a poco, / no porque ser le sienta más sencillo, / mas fallece el
sentir para sentillo, / después que de sentillo estoy tan loco4.
Chi abbia un minimo di frequentazione della poesia alla vecchia
maniera, con quella – per esempio – del Cancionero general di Her-
nando del Castillo del 1511, che ho anteriormente menzionato, non
tarderà a riconoscere, sia pure convogliati nello schema metrico di
un sonetto del tutto regolare, gli ingredienti a cui ricorreva – fino ad
abusarne – la poesia cosiddetta cancioneril. Il poeta, difatti, non sa
rinunciare all’esasperato e tormentato concettismo, caratteristico di
tanta poesia cancioneril: il dolore va scemando non perché l’amante
del sonetto lo senta meno intenso, ma piuttosto perché, essendo egli
impazzito per il troppo dolore, è la sua stessa sensibilità che viene
meno. E quest’intricato viluppo di concetti, che inerisce ovviamente
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all’ambito dei contenuti, risulta poi combinato, sul piano formale,


con una figura di ripetizione come il polittoto (sienta-sentir-sentillo),
anch’essa peculiare dello stesso tipo di poesia5.
Pochi anni dopo la composizione del sonetto, caduto in disgrazia
presso l’imperatore per uno sfortunato incidente, ritroviamo Garci-
laso tristemente esiliato in una sperduta isola del Danubio, dove
sicuramente scrisse – tra i mesi di marzo e luglio del ’32 – una
canzone in cui, nel lamento per la propria situazione presso le rive
del fiume, si fondono intricatamente la lagnanza per la perdita del
favore imperiale e la pena per l’amore lontano. Gli anni che separano
la canzone dal sonetto da noi precedentemente citato sono quattro o
cinque al massimo, eppure l’adeguamento al nuovo modello poetico
appare, se non definitivamente conquistato, per lo meno spinto a tal
punto da consentire di riconoscere – in alcune strofe – la nascita di
una lingua poetica, nella quale il conseguimento di un petrarchismo
compiuto apre il passo al ricupero delle fonti classiche. Non che,
nella canzone, manchino del tutto echi della poesia cancioneril, i quali
sopravvivono – per esempio – nel vistoso polittoto che invade i vv.
35-38: aquı́ me ha de hallar, / en el mismo lugar, / que otra cosa más dura
que la muerte / me halla y me ha hallado6, versi che peraltro apparten-
gono a quella stessa terza strofa che presenta anche una rima ossi-

4
Ivi, p. 60.
5
Sulle tracce di poesia cancioneril che sopravvivono nella prima produzione di Garcilaso,
restano fondamentali le pagine di R. Lapesa, La trayectoria poética de Garcilaso (1948), ora
in Id., Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 9-210, in part. le pp. 48-56.
6
Nell’ed. cit., la canzone occupa le pp. 72-75.

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 PARTE TERZA

tona, contro la quale – come ho già ricordato – Hoces combatterà la


propria battaglia a vent’anni di distanza, ma che già Garcilaso, nel
frattempo, avrà provveduto a bandire in modo definitivo nella sua
produzione posteriore all’esilio. Tornando, dunque, alla canzone, e
sempre che si eccettuino gli echi a cui ho accennato, il tono preva-
lente di essa lascia ormai trasparire ben poco della superata maniera
di poetare, come mostra – a titolo d’esempio – la strofa d’esordio,
dove – nei tredici versi che la compongono – si alternano endecasil-
labi e settenari con un ordine e uno schema delle rime che riprodu-
cono esattamente quelli della celeberrima Chiare, fresche et dolci acque
del Petrarca. Ecco il testo spagnolo: Con un manso rüido / d’agua
corriente y clara, / cerca el Danubio, una isla que pudiera / ser lugar
escogido / para que descansara / quien, como estó yo agora, no estuviera; /
do siempre primavera / parece en la verdura / sembrada de las flores, /
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hacen los ruiseñores / renovar el placer o la tristura / con sus blandas


querellas, / que nunca, dı́a ni noche, cesan dellas.
Versi nei quali i calchi o i richiami petrarcheschi sopravanzano
quelli classici, che tuttavia non sono assenti del tutto. Basta, difatti,
ricordare i versi del Petrarca addotti da Lapesa, nel suo classico libro
sul nostro poeta: Se lamentar augelli, o verdi fronde / mover soavemente
a l’aura estiva, / o roco mormorar di lucı́de onde / s’ode d’una fiorita e
fresca riva (279, 1-4), contro la più debole eco di Virgilio: illa [unda]
cadens raucum per levia murmur / saxa ciet ... (Georg., I 109-110)7.

3. Modello petrarchesco e modelli classici vedranno presto invertire i


ruoli; o, per lo meno, assumere un peso equivalente nella produzione
napoletana di Garcilaso, la più considerevole dal punto di vista
quantitativo, e anche la più matura e perfetta sotto il profilo qualita-
tivo. L’esilio danubiano non durò che pochi mesi; esso, difatti, fu
presto comminato nel confino napoletano, dove Garcilaso giunse nel
settembre del ’32, e dove trascorse – con alcune interruzioni – il
resto della sua breve esistenza, fino alla fatale campagna di Provenza,
nella quale trovò la morte nel corso di una scaramuccia militare. Si
consideri che, al momento dell’arrivo a Napoli, Garcilaso non aveva
composto che poche centinaia di versi comprendenti un gruppo di
sonetti e, al massimo, le quattro canzoni che conserviamo. Intendia-

7
Per il riferimento a Lapesa, cfr. La trayectoria poética, cit., p. 81. La quartina petrarche-
sca è citata da F. Petrarca, Canzoniere, ed. commentata di M. Santagata, Milano, Monda-
dori, 1996, p. 1114.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

moci: questi versi sarebbero bastati per assegnare al giovane toledano


un posto d’onore nella poesia spagnola; e, messi ad attribuire meriti,
il suo sarebbe stato un posto né maggiore né minore di quello che ha
poi finito per occuparvi l’amico e sodale barcellonese, Juan Boscán.
Ma, per fortuna di Garcilaso e nostra, sulla strada del giovane
soldato e cortigiano, venne a interferire la città di Napoli, dove lo
seguiremo, tornando al punto in cui l’avevamo lasciato en medio del
camino del suo progetto poetico, al tempo cioè del sonetto a Maria di
Cardona. La città partenopea, difatti, svolse un ruolo non secondario
nella nuova svolta poetica di Garcilaso, la seconda dopo quella del
’26. E sui motivi culturali di tale determinazione ambientale è bene
interrogarsi brevemente, se si vuole comprendere meglio la nuova
direzione lungo la quale la poesia di Garcilaso si sviluppò, con
decisive ricadute sull’intera poesia spagnola degli anni a venire.
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Nell’ode latina diretta ad Antonio Telesio, al disprezzo per l’isola


danubiana, dove dichiara di essere stato ... barbarorum / ferre super-
biam et insolentes / mores coactus ... (3-5)8, Garcilaso fa seguire la lode
della pulchra Partenope, dove peraltro egli ha avuto la ventura di
trovare nuovi e dotti amici che s’incontrano nella honesta domus di
uno di essi, per dar luogo alle riunioni dell’Accademia Pontaniana.
Nell’ultima strofe dell’ode, Garcilaso lo dichiara esplicitamente: la
città delle sirene, la pulchra Partenope, ha ormai preso il posto che nel
suo cuore occupava la città «abbracciata» dal Tago, la natia Toledo,
né sarebbe disposto a scambiare gli amici della prima con i luoghi
della seconda: Num tu fluentem divitiis Tagum, / num prata gyris uvida
roscidis / mutare me insanum putabas / dulcibus immemoremque amicis?
(69-72).
I «dolci amici», a cui Garcilaso allude, sono «Tansillo, Minturno,
il culto Tasso», i poeti menzionati nel sonetto a noi già noto, a cui
bisognerà aggiungere naturalmente la vasta schiera dei molti altri
poeti e intellettuali che al tempo frequentavano sia la corte di don
Pedro, il viceré, sia il centro culturale che godeva ancora del maggior
prestigio nella città: quell’Accademia Pontaniana, le cui riunioni
dopo la morte di Sannazaro continuarono a celebrarsi in casa di
Scipione Capece, la nuova guida del gruppo, e videro tra i suoi
partecipanti lo stesso Garcilaso. Se diamo una rapida occhiata alle
opere composte dal nostro poeta a Napoli, tra il ’32 e il ’36, ci
accorgeremo che, oltre ad alcuni sonetti e alle tre egloghe, egli

8
Per il testo dell’ode latina, cfr. ed. cit., pp. 245-51.

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 PARTE TERZA

andava sperimentando nuove soluzioni, come si evince – per esempio


dall’Epistola a Boscán, o dall’Elegia per la morte di don Bernardino di
Toledo, o ancora dall’Ode ad florem Gnidi; soluzioni che mostrano
con tutta evidenza come egli fosse impegnato nello sforzo di conci-
liare le forme metriche esistenti con i generi poetici neoclassici,
riuscendo spesso ad anticipare esiti poetici a cui i poeti in volgare –
ivi compresi gli italiani – perverranno solo in un secondo momento.
Sia chiaro, comunque, che il medesimo sforzo vedeva impegnati
nello stesso giro di anni anche altri poeti europei, dando luogo a
quella che Claudio Guillén ha definito una «coyuntura europea»,
nella quale una generazione di poeti europei, «unidos todos por un
común amor a la poesı́a italiana», si sforzarono di ricostruire le
principali forme poetiche classiche nelle diverse lingue nazionali: «los
géneros posteriores al petrarquismo – afferma ancora Guillén – las
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“formas” que mejor expresan el nuevo “classicismo” del momento,


se están forjando durante la primera mitad del siglo XVI. Y los
caminos que emprenden los italianos no serán siempre los elegidos
por los poetas – en bastantes casos, superiores a ellos – de España,
Portugal, Francia o Inglaterra»9.
A questo tipo di operazione risultava particolarmente propizio
proprio l’ambiente poetico e culturale napoletano, in quel quarto
decennio del secolo, coincidente in parte col soggiorno di Garcilaso
nella città, dove il rilancio della poesia in volgare e la persistenza di
una forte tradizione classica risultavano fenomeni inestricabilmente
avvinti l’uno all’altro. Cercherò di illustrare, nella forma più breve
possibile, e – di conseguenza – con gli inevitabili schematismi del
caso, la situazione culturale, e poetica in particolare, nella quale
Garcilaso si trovò a vivere e a operare, e dalla quale la sua poesia finı̀
per essere inevitabilmente influenzata. Ricordo, allora, che a Napoli,
nel primo trentennio del secolo, aveva dominato pressoché incontra-
stata la presenza di una vigorosa tradizione di produzione latina, che
con difficoltà si apriva verso l’esperienza in volgare. Nel periodo
indicato, insomma, il conflitto tra le ragioni del latino e quelle del
volgare aveva dato a Napoli esiti che possono considerarsi antitetici
rispetto a quanto accadeva nel resto d’Italia, soprattutto a Firenze e a
Venezia, dove si assisteva all’affermazione della nuova lingua e della
letteratura che in essa si esprimeva. A Napoli, in cambio, risulta

9
C. Guillén, Sátira y poética en Garcilaso (1972), ora raccolto in Id., El primer Siglo de
Oro. Estudios sobre géneros y modelos, Barcelona, Crı́tica, 1988, pp. 15-48; la cit. a p. 25.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

esemplare la scelta operata dal più prestigioso intellettuale della città,


la cui autorità culturale era universalmente riconosciuta; mi riferisco,
naturalmente, a Jacopo Sannazaro che, al ritorno dall’esilio francese
alla fine del 1504, accantonò del tutto la produzione volgare per
attendere esclusivamente a quella latina, fino alla sua stessa morte
nel 1530. Sotto la sua guida, del resto, per circa un quarto di secolo,
si svolse l’attività dell’Accademia, che aveva garantito la sopravvi-
venza della cultura umanistica in latino all’indomani dell’invasione di
Carlo VIII (1494), e i cui membri furono sempre accomunati dal
culto della lezione dei classici, dalla confidenza sistematica con la
poesia latina e i suoi artifici, nel solco dell’esempio dettato dallo
stesso Pontano, che ne era stato la guida prima che gli subentrasse
Sannazaro. In verità, già alla fine degli anni venti, in particolare tra il
’28 e il ’30, l’Accademia aveva elevato a dibattito la questione della
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letteratura in volgare, ma solo a partire dal ’30, dall’anno cioè della


morte di Sannazaro che coincise con la pubblicazione dei suoi Sonetti
e canzoni, nonché con le Rime del Bembo; solo da quell’anno –
dicevo – cominciò a diffondersi e a imporsi in ambito napoletano il
cosiddetto modello lirico bembiano. Nacque cosı̀, lanciata dalla
stessa Accademia, la proposta di una nuova letteratura e di una
nuova poesia, che possiamo riassumere sotto l’etichetta di ‘classici-
smo volgare’, e che si basava sulla confluenza dei due modelli, di
Bembo e di Sannazaro. Del primo si esaltava la soluzione apportata
dalle Rime, a cui comunque non era affatto estranea la stessa tradi-
zione classica; al secondo si riconosceva soprattutto il titolo di poeta
dotto in latino, nel segno della tradizione umanistica, ma che con la
raccolta di Sonetti e canzoni garantiva la validità della soluzione
volgare del Bembo10.
Non desta alcuna meraviglia, dunque, che al suo arrivo a Napoli
Garcilaso, ben introdotto in una fitta rete di rapporti intellettuali tra
corte vicereale e Accademia Pontaniana, e attivamente partecipe del
dibattito sulla letteratura che vi si andava svolgendo, imprimesse una
nuova svolta alla sua produzione poetica, abbandonando in parte gli
esiti petrarcheschi quasi esclusivamente perseguiti fino ad allora, e
inseguendo il tentativo di impiantare – anche nella lingua spagnola –

10
Sulla situazione letteraria, e poetica in particolare, a Napoli nei primi decenni del
Cinquecento, esiste naturalmente una vasta bibliografia, a cui non mi sembra il caso di
accennare neppure per le voci principali; mi limito, pertanto, a menzionare unicamente
l’ottima sintesi di N. De Blasi, La letteratura a Napoli nel primo Cinquecento, in A. Asor Rosa
(a cura di) Letteratura italiana. Storia e geografia, II 1, Torino, Einaudi, 1988, pp. 290-315.

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 PARTE TERZA

le principali forme poetiche classiche. In fondo, possiamo sintetica-


mente affermare che, durante gli anni del soggiorno napoletano,
Garcilaso visse a stretto contatto con un ambiente culturale nel
quale, insieme all’affermazione del petrarchismo bembiano, anda-
vano maturando gli esperimenti di una nuova poesia che nei generi
neoclassici trovava la sua più compiuta realizzazione.

4. Si comprende meglio a cosa si riferisse Garcilaso nel sonetto a


Maria di Cardona, con la metafora del camino enjuto, che le acque del
Tago opportunamente deviate avrebbero dovuto bagnare: i generi
neoclassici, difatti, potevano ben dirsi un cammino non ancora
tentato in lingua spagnola, che la nuova poesia di Garcilaso provve-
derà a esplorare, come si verifica nel caso dell’ode11.
Tra la primavera e l’estate del 1535, Garcilaso fu impegnato in
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una celebre spedizione tunisina, in occasione della quale si era


mobilitata gran parte della nobiltà spagnola e napoletana, al seguito
dello stesso imperatore Carlo V. Tra coloro che vi parteciparono
c’era anche uno dei tre poeti menzionati nel sonetto a Maria di
Cardona, quel Bernardo Tasso che, appena un anno prima, aveva
pubblicato una raccolta poetica col titolo di Amori. «Es sumamente
probable – ha ragionevolmente congetturato uno dei massimi stu-
diosi del poeta spagnolo – que [Garcilaso] llevara entonces consigo
[nel viaggio verso la costa africana] su propio ejemplar del libro»12.
La raccolta risultava estremamente interessante e innovativa per
molte ragioni, una delle quali era rappresentata dalla presenza di un
esperimento pressoché unico nel panorama poetico dell’epoca: tra i
componimenti che vi erano raccolti, difatti, potevano leggersi anche
dodici odi, con le quali il loro autore aveva tentato di dar vita nella
lingua e nella metrica italiane alla cosiddetta ode oraziana13. I pro-
blemi che Bernardo aveva dovuto affrontare non erano stati pochi:

11
Sull’ode nella letteratura spagnola nel Cinque e Seicento, oltre alla più recente
monografia di S. Pérez-Abadı́n Barro, La oda en la poesı́a española del siglo XVI, Santiago de
Compostela, Universidade de Santiago de Compostela, 1995, si veda il volume collettaneo
La oda, a cura di B. López Bueno, Sevilla, Universidad de Sevilla, 1993, dove si troverà
anche il mio contributo La oda entre Italia y España en la primera mitad del siglo XVI, da cui
estraggo e rielaboro alcuni materiali delle pagine seguenti. Lo studio è qui raccolto e
tradotto nelle pp. 157-80.
12
E.L. Rivers, Nota sobre Bernardo Tasso y el manifiesto de Boscán, in Homenaje al profesor
Antonio Vilanova, Barcelona, Universidad de Barcelona, 1989, I, pp. 601-05. Cito da p.
602.
13
Nell’edizione del Libro primo de gli amori, Venezia, Giov. Antonio Fratelli da Sabbio,
1531, la presenza dell’ode oraziana era limitata a tre soli componimenti.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

da quello strettamente metrico e della rima, a quello dei rapporti tra


metrica e sintassi, a quello triplice concernente – con termini dello
stesso Tasso – «l’invenzione, l’ordine e le figure del parlare», vale a
dire tutta una serie di questioni, tra cui assumevano particolare
rilievo la varietà della materia poetica, il riferimento al materiale
mitologico, l’uso di paragoni prolungati, la presenza o meno di un
proemio, il ricorso alle digressioni e la relazione di esse con il tema
principale. Negli esperimenti costituiti dalle dodici odi, Tasso si
sforzò di trovare un’adeguata soluzione a tutti questi problemi,
benché non sempre i risultati a cui pervenne fossero del tutto
convincenti. Una delle maggiori preoccupazioni dell’italiano fu
quella che concerneva la tessitura dell’ode, o – con altri termini – ciò
che potremmo chiamare il suo disegno strutturale. Già nella dedica a
Ginevra Malatesta, che compariva nella prima edizione del libro
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degli Amori, del 1531, Tasso, dopo aver alluso alla libertà dei poeti
classici sulla possibilità di iniziare o meno col «proemio», indugia
alquanto sulla questione più generale delle «digressioni», a proposito
delle quali scrive: «secondo l’ampia licentia poetica, [i poeti classici]
entravano in qualunque materia, et vagando n’uscivano in favole, o
‘n qualunque altra digressione a lor voglia; et ancho spesse volte
senza ritornar in essa, fornivano quello che non hanno havuto ardir
di far i Provenzali, et Toschi, et gli altri, che lor stile seguirono, li
quali a pena toccano pur le favole con una parola, o con un solo
verso»14.
Vent’anni più tardi, ritroviamo la stessa preoccupazione in una
lettera a Girolamo della Rovere; cosı̀ come, in un’altra lettera, di
poco anteriore, dirigendosi a Vincenzo Laurio, al quale aveva inviato
una sua ode, Tasso scrive un interessante passo su ciò che egli stesso
definisce «la natura e l’artificio dell’ode»: «il lirico [classico], – cosı̀
scrive – cominciata la materia principale che s’ha proposto di trat-
tare, e uscendo poi con la digressione, alle volte ritorna alla materia
principiata, alle volte finisce il suo poema nella digressione; il che si
vede in Pindaro, e in Orazio in moltissimi lochi. Questo ho voluto
ricordarvi, perché mostrandola a persone di minore giudicio, che voi
non sete, non si pensino ch’io mi sia dimenticata la strada da tornare
a casa»15.

14
«Alla Signora Ginevra Malatesta», in Libri primo de gli amori, cit., p. 8r.
15
Delle lettere di M. Bernardo Tasso, I-II, Padova, 1733: II, pp. 124-26 (la lettera è datata
6 settembre 1553).

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 PARTE TERZA

In queste dichiarazioni teoriche, Tasso sembra interessato più


che altro a una maggiore «libertà nell’intessitura», attraverso la con-
cessione di maggiore o minore spazio a, e l’integrazione di, quelle
parti che egli stesso chiamava «proemio», «materia principale», «di-
gressione» e, per quanto riguarda quest’ultima, l’interesse maggiore
era riservato alla digressione di natura mitologica. Nella pratica
poetica, ossia nelle dodici odi che comparivano nell’edizione del ’34
del libro degli Amori, si nota chiaramente come il poeta non era
ancora riuscito a sciogliere i nodi che riguardavano l’architettura – il
disegno strutturale – del componimento, probabilmente perché era
ancora troppo impegnato dalla novità della sperimentazione; certo è,
comunque, che – come ha notato con lucidità un suo attento stu-
dioso – Tasso «abusò forse non soltanto con terminare nella similitu-
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dine, ma con prendere spesso di qui le mosse, non concedendo talor


neppur luogo adeguato al soggetto proprio della poesia»16.
Chi, invece, con un sol colpo di genio poetico, dette una felice
soluzione ai molteplici problemi che si erano posti al Tasso fu
Garcilaso, il quale – al ritorno dalla spedizione africana – compose
l’Ode ad florem Gnidi, ad imitazione dell’amico italiano e sull’esempio
delle odi che aveva letto nel libro degli Amori, ma risalendo diretta-
mente al modello oraziano (il poeta latino da lui più letto e ammira-
to), e tenendo conto peraltro della coeva poesia neolatina (per
esempio, di Andrea Navagero). Il risultato ottenuto fu un’ode di
ventidue brevi strofe pentastiche di endecasillabi e settenari: una
soluzione metrica che, in verità, Garcilaso ricavava di sana pianta da
una delle dodici odi tassiane, quella che inizia con l’invocazione 0
pastori felici. Da questo punto di vista, quello strettamente metrico, il
debito nei confronti dell’amico e sodale italiano risultava, dunque,
molto forte. Ciò che, in cambio, davvero sorprende è la perfezione
del disegno compositivo, col quale Garcilaso riusciva ad assemblare i
diversi momenti (proemio, materia principale, digressione mitologi-
ca), la cui coesione tante difficoltà aveva creato all’iniziatore Tasso,
come – sia pur rapidamente – abbiamo avuto modo di vedere. Le
ventidue strofe dell’ode spagnola compongono, difatti, un disegno
perfettamente armonico17:

16
F. Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, in «Annali della Reale Scuola Superiore di
Pisa», XIV (1900), p. 167.
17
Per il testo dell’ode garcilasiana, cfr. la citata ed. di Morros, pp. 84-91.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

— le prime sei strofe costituiscono il proemio, dove – peraltro –


il problema del rapporto tra metrica e sintassi trova una
soluzione adeguatamente originale. Si tratta, difatti, di un
unico periodo ipotetico, che si va snodando in coppie di
strofe: le prime due introducono la protasi, a cui fanno
seguito altre due con un’apodosi negativa, per concludersi
con le ultime due strofe, che contengono l’apodosi positiva,
introdotta dall’avversativa mas. Il valore proemiale di queste
prime sei strofe è garantito dal tema che esse svolgono e che
fa riferimento direttamente alla stessa poesia: se la mia poesia
avesse il magico potere di quella di Orfeo (protasi), non
canterei la guerra (apodosi negativa), ma canterei soltanto la
tua bellezza e crudeltà, per cui soffre colui che ti ama (apo-
dosi positiva);
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— l’ode prosegue, poi, con sette strofe, alle quali il poeta affida
l’esposizione della ‘materia principale’: si tratta, in effetti,
dell’esortazione a una donna ad amare; esortazione, che il
poeta rivolge direttamente alla belle dame sans merci, la cui
identità – coperta da un sottile gioco di parole – coincide con
quella di una nobildonna napoletana, Violante Sanseverino.
La bellezza e crudeltà di lei sono all’origine della misera
condizione, a cui è stato tristemente ridotto un amico del
medesimo poeta, il cavaliere e cortigiano Mario Galeota, la
cui identità è – ancora una volta – coperta e, al tempo stesso,
rivelata da un altro raffinato e colto gioco di parole;
— di nuovo sette strofe, con cui l’ode prosegue, e che conten-
gono la ‘digressione mitologica’, introdotta però con una
funzione ben precisa: il mito negativo di Anassarete e Ifi,
difatti, è addotto con valore suasorio nei confronti della
crudele dama;
— e, in effetti, l’ode si conclude con due strofe finali, nelle quali
il poeta ritorna alla ‘materia principale’ mediante l’invoca-
zione alla nobildonna napoletana, esortandola a non seguire
l’esempio dell’eroina del mito.
La perfezione del disegno compositivo o strutturale è sı̀ indice del
genio poetico di Garcilaso, ma tale genio difficilmente avrebbe po-
tuto trovare espressione in concrete realizzazioni, se esso non si fosse
alimentato di un autentico e profondo rapporto con le fonti di poesia
volgare e neolatina, ma soprattutto con quelle classiche, come risulta

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 PARTE TERZA

evidente dal tracciato che Garcilaso dovette ipoteticamente seguire


nella composizione dell’Ode ad florem Gnidi, a partire dal materiale
poetico, classico e contemporaneo, che gli si offriva.
Tra le dodici odi che Tasso aveva incluso nell’edizione del libro
degli Amori del ’34, Garcilaso potette leggerne due dedicate a Ve-
nere, una delle quali – Che pro mi vien ch’io t’abbia, o bella Diva – era
un’invocazione alla dea affinché vincesse le resistenze della vezzosa
Terilla la quale, avendo armato il cor di mattutino gelo, disprezzava il
dolce fuoco della dea, cosı̀ come il desir ... ardente dell’amante-poeta.
Benché tale schema risulti totalmente oraziano, in questo caso
Tasso, più che alle odi del venusino, si era ispirato a un’ode neola-
tina di Andrea Navagero, nella quale il poeta e umanista veneziano si
dirigeva, a sua volta, Ad Venerem, ut pertinacem Lalagem molliat18. In
cambio, Navagero sı́ che si era ispirato direttamente a Orazio, e più
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concretamente all’ode dove l’infelice amante dell’«arrogante Cloe»,


che in passato era stato fortunato amante e soldato onorato: Vixi
puellis nuper idoneus / et militavi non sine gloria, si dirige ora a Venere
marina perché frusti, almeno una volta, la sdegnosa donna: ... sublimi
flagello / tange Chloen semel arrogantem (III 26). Garcilaso legge l’ode
del Tasso, conosce con ogni probabilità quella del Navagero, e
attraverso questi due testi – dell’amico e del vecchio maestro –
finisce per giungere all’ode di Orazio, col quale non gli manca certo
familiarità. E fu in virtù di tale familiarità che la memoria poetica di
Garcilaso non potette evitare di stabilire certi nessi con altri compo-
nimenti del venusino: l’ode tassiana a Venere, difatti, lo riportò, per
un verso, a quella oraziana diretta a Lidia (I 8), e, per altro verso, a
quella sempre oraziana rivolta a Mercurio (III 11). In effetti, l’ode a
Lidia, con la sua diretta invocazione alla donna, dà luogo alla parte
centrale del componimento di Garcilaso, con l’unica differenza che il
rimprovero alla donna cambia di segno: l’eccesso di amore che ha
ridotto in pessime condizioni Sibari, l’amante di Lidia, si vede
sostituito dall’«aspereza» di Violante, il cui effetto su Mario, tuttavia,
non risulta meno catastrofico. Infine, bisogna considerare l’ode a
Mercurio, in cui – come ha notato Lázaro Carreter – «Horacio
construye el motivo temático de ‘exhorto dirigido a una mujer para

18
Per il testo dell’ode neolatina, ho utilizzato A. Navagero, Opera omnia, Venezia, 1754,
pp. 192-93.
19
F. Lázaro Carreter, La «Ode ad florem Gnidi» de Garcilaso de la Vega, in V. Garcı́a de la
Concha (a cura di), Actas de la IV Academia literaria renacentista. Garcilaso, Salamanca,
Universidad de Salamanca, 1986, pp. 109-26. Cito da p. 114.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA 

que ame’, y lo combina, por vez primera con un persuasivo ejemplo


mitológico»19. Difatti, quest’ode di Orazio si compone di due parti,
dal momento che manca in essa il discorso alla donna: c’è, dunque,
una prima parte costituita dall’invocazione alla divinità affinché con-
ceda al poeta-amante i modos Lyde quibus obstinatas / applicet aures,
mentre la seconda parte è il racconto mitologico delle figlie di
Danao. Nell’ode di Garcilaso, queste due parti si riflettono, rispetti-
vamente, nell’esordio che contiene il riferimento alla «lira» – cioè alla
poesia stessa –, e nel finale che espone il mito di Anassarete, con pari
valore suasorio. Prescindo, naturalmente, da altre fonti, cosı̀ come
dal concreto adattamento di cui esse furono oggetto nel testo di
Garcilaso, perché ciò che m’interessava maggiormente era porre in
rilievo il disegno strutturale in rapporto alle sue fonti. Prendendo a
prestito la terminologia del Tasso, potremmo dire che l’ode di
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Garcilaso acquista la seguente configurazione: un ‘proemio’ con il


riferimento canonico al proprio canto introduce la ‘materia principa-
le’, ossia l’esortazione alla donna, da cui prende origine la ‘digressio-
ne’, che consiste nell’esempio mitologico, per terminare col ritorno
alla ‘materia principale’ delle ultime due strofe. Al rigoroso tessuto
del disegno contribuisce non poco la perfetta geometria di propor-
zioni di ognuna delle parti che lo formano, come abbiamo già avuto
modo di osservare. Il «precioso juguete» – secondo l’indovinata defi-
nizione di Menéndez Pelayo20 – si rivela, tra le altre cose, una
risposta ai problemi di composizione che Tasso, in quegli stessi anni,
era stato il primo a porre e a tentare di risolvere. D’altro lato, seppur
in rapida sintesi, abbiamo avuto modo di costatare come il confluire
di distinti testi – di Tasso, di Navagero e, soprattutto, di Orazio –
nell’ode di Garcilaso si traduca in un preciso disegno strutturale che
– a dire il vero – non appare in nessuna delle fonti oraziane utilizzate
dal poeta spagnolo, e ancor meno nelle odi tassiane che Garcilaso
ebbe modo di conoscere.
In effetti, l’ode di Garcilaso si caratterizza principalmente per il
rigore con cui il suo autore seppe selezionare e integrare in un unico
disegno le varie parti che compongono l’ode alla maniera oraziana;
ma il processo di composizione che siamo venuti brevemente illu-
strando si definisce forse ancora meglio se ci riferiamo all’arte sa-
piente con cui il poeta spagnolo seppe esplorare e assimilare un’in-
tera tradizione letteraria, quella cioè in cui si concertava «la più eletta

20
M. Menéndez Pelayo, Horacio en España, Madrid, 1885, 2ª ed., II, pp. 13-15.

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 PARTE TERZA

poesia latina e romanza»21: dai modelli classici oraziani all’avanguar-


dia poetica dell’epoca, rappresentata dal Tasso, passando per la
poesia neolatina di un Navagero. La responsabilità maggiore di
un’arte cosı̀ sapiente è senza dubbio da addebitare all’assoluta genia-
lità del poeta, ma sarebbe ingiusto non riconoscere il ruolo rilevante
che svolse l’ambiente culturale, in cui quella genialità ebbe modo di
compiersi: la Napoli spagnola di don Pedro, nella quale – come si è
già detto – il rilancio della poesia in volgare e la persistenza di una
forte tradizione umanistica risultavano fenomeni inestricabilmente
avvinti l’uno all’altro.
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21
F. Rico, La tradición y el poema, in Breve biblioteca de autores españoles, Barcelona, Seix
Barral, 1990, p. 285 (tr. it., Biblioteca spagnola. Dal Cantare del Cid al Beffatore di Siviglia,
Torino, Einaudi, 1994, p. 284), dove l’illustre studioso, dopo aver ricostruito – a proposito
dell’Elegı́a primera di Garcilaso – la catena intertestuale costituita dai componimenti elegiaci
di Girolamo Fracastoro, della Consolatio ad Liviam e di Bernardo Tasso, conclude con la
dichiarazione seguente, che vorremmo far nostra, anche in relazione all’Ode ad florem Gnidi:
«l’Elegı́a primera diventa un’indagine sulla sua stessa genealogia, sulla sua posizione nella
serie letteraria; è a un tempo poesia e storia della poesia; e il genio di Garcilaso si sviluppa
nel dipanare la matassa di quella storia, in un doppio impulso di omaggio e sfida ai modelli»
(tr. it., p. 285, che però traduce erroneamente l’originale «modelos» con moderni; cfr. l’orig.
sp., p. 286).

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA
PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO

Tra il Certame coronario del 1441 e le edizioni della poesia di Ga-


briello Chiabrera, nella seconda metà del Cinquecento, si estende
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quasi un secolo e mezzo, nel corso del quale si realizza un complesso


processo poetico che dal precoce tentativo di contaminare forme
poetiche classiche e volgari conduce a una radicale «riforma delle
1
maniere de’ versi toscani» , passando naturalmente per l’egemonia
del codice petrarchista nella sua restaurazione bembiana. Mi trat-
terrò molto brevemente sulle due estremità di questo lungo periodo
in tal modo delimitato, per concentrarmi poi sulla parte centrale, che
coincide più o meno con la prima metà del Cinquecento.
Il certame poetico organizzato da Leon Battista Alberti nel 1441
costituı̀ – come è stato scritto recentemente – «la provocatoria distru-
zione di ogni compartimento e, appunto, di ogni specializzazione»
sulla quale si fondava il sistema umanistico, e ciò per la semplice
ragione che in essa si contaminarono «generi letterari e modi di
intervento classico-umanistico [...] con il volgare e le forme ad esso
tradizionalmente associate»2. Tra i testi di più avanzato sperimentali-
smo metrico presentati nel certame, si trovava, accanto al De amicitia
dello stesso Alberti, la Scena di Leonardo di Piero Dati, la cui terza
parte rappresenta il primo tentativo di imitazione della strofa saffica3
in volgare.

1
G. Carducci, Dello svolgimento dell’ode in Italia, in «Nuova Antologia», 1902; poi in Id.,
Prose, Bologna, Zanichelli, 1905; più tardi in Id., Opere, Edizione Nazionale, XV, Bologna,
Zanichelli, 1944, pp. 3-81, in part. p. 34. Un ampio panorama dell’ode può leggersi nel
libro di C. Maddison, Apollo and the Nine. A History of the Ode, Baltimore, The Johns
Hopkins Press, 1960, che dedica singoli capitoli all’ode greca e latina, umanistica, italiana,
francese e inglese.
2
R. Rinaldi, Umanesimo e Rinascimento, in G. Bàrberi Squarotti (a cura di), Storia della
Civiltà letteraria italiana, Torino, UTET, 1990, vol. II, t. I, p. 202.
3
I testi sono raccolti in G. Carducci (a cura di), La poesia barbara nei secoli XV e XVI,

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 PARTE TERZA

All’estremo opposto, ossia dall’altra parte del lungo processo


poetico a cui accennavo, si colloca la sperimentazione rivoluzionaria
di Gabriello Chiabrera, a proposito della quale Mario Martelli ha
dato questa sintetica definizione:

le disparate sperimentazioni [cinquecentesche, ad eccezione di Ber-


nardo Tasso] non intaccavano certo la sostanza dell’eredità tradizio-
nale: i canzonieri [...] continuavano ad essere costituiti da sonetti, da
canzoni, da ballate. La vera e propria rivoluzione viene consumata
soltanto con Gabriello Chiabrera4.

La riforma – o rivoluzione, se si preferisce – che Chiabrera operò


nei confronti dei generi metrici petrarcheschi ebbe il suo sviluppo
sotto il segno della varietà metrica, e in particolare si realizzò attra-
verso la sperimentazione delle molteplici forme dell’ode, conferendo
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in tal modo un impulso e un vigore nuovi alle forme metriche che


erano già state sperimentate, con diverso risultato, dai poeti italiani,
in relazione all’ode pindarica e a quella oraziana, o dai poeti della
Pléiade e soprattutto da Ronsard, com’è il caso della cosiddetta
«anacreontica»5.
Una volta stabiliti i limiti massimi nei quali si consumò il pro-
cesso che aveva portato all’affermazione dell’ode, concentrerò l’at-
tenzione su alcuni episodi che risalgono alla prima metà del Cinque-
cento, ovvero all’epoca decisiva per la formazione di quella «corriente
general» nella quale si forgiò la «conjunción de petrarquismo y
clasicismo» e che Rafael Lapesa riuscı̀ a descrivere con ammirevole
sintesi in una pagina del suo libro su Garcilaso6. In un saggio
giustamente famoso, Claudio Guillén sottolineò due aspetti di questa
«corriente general»: il suo «carácter dinámico, abierto o inacabado», e
le sue «dimensiones europeas»7, definendo cosı̀ – soprattutto rispetto

Bologna, Zanichelli, 1881, (ristampa anastatica con la presentazione di E. Pasquini,


Bologna, Zanichelli, 1985); si veda anche L. Bertolini, I testi del primo Certame Coronario.
Edizione e saggio di commento, tesi di dottorato, Università di Bologna, 1988-89.
4
M. Martelli, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, in A. Asor Rosa (a
cura di), Letteratura italiana, vol. III Le forme del testo, t. I Teoria e poesia, Torino, Einaudi,
1984, pp. 577-78.
5
Sull’importanza dei modelli di Ronsard e dei poeti della Pléiade in Chiabrera risulta
ancora fondamentale il libro di F. Neri, Il Chiabrera e la Pléiade francese, Torino, Bocca,
1920.
6
R. Lapesa, La trayectoria poética de Garcilaso (1948), ora raccolto in Garcilaso: Estudios
completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 95-96.
7
C. Guillén, Sátira y poética en Garcilaso, in Homenaje a Casalduero, Madrid, Gredos,
1972, pp. 209-33; ora raccolto in Id., El primer Siglo de Oro. Estudios sobre géneros y modelos,
Barcelona, Editorial Crı́tica, 1988, pp. 15-48, in part. p. 25.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

alla quarta decade del secolo – una «coyuntura europea», in cui una
generazione di poeti europei, «unidos todos por un común amor a la
poesı́a italiana»8, si sforzò di ricostituire le principali forme poetiche
classiche nelle diverse lingue nazionali. Tra i molti risultati che il
menzionato saggio raggiunge, ce n’è uno che mi è sempre parso
particolarmente valido, perché corregge finalmente una prospettiva
erronea sulla quale si era basata, in parte, la storia della poesia
europea del Rinascimento. Ciò che l’autore afferma rispetto all’epi-
stola oraziana, ossia che «la epı́stola de Boscán […] no introduce en
España ninguna “forma italiana” por la sencilla razón de que nadie
habı́a resuelto en Italia el problema de la epı́stola oraciana cuando se
publican en 1543 Las obras de Boscán y algunas de Garcilaso de la
Vega»9; quest’affermazione – ripeto – potrebbe estendersi a molti dei
generi non petrarcheschi che andavano sperimentandosi negli anni
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che abbiamo preso in considerazione. Infatti, lo stesso Guillén non


tarda ad affermarlo esplicitamente, poco più avanti nella stessa pa-
gina:

Los géneros posteriores al petrarquismo, las «formas» que mejor expre-


san el nuevo «clasicismo» del momento, se están forjando durante la
primera mitad del siglo XVI. Y los caminos que emprenden los
italianos no serán siempre los elegidos por los poetas – en bastantes
casos, superiores a ellos – de España, Portugal, Francia o Inglaterra.

In questo contesto, dunque, si colloca la questione specifica


dell’ode, che presenta una notevole complessità per almeno due
ordini di problemi. Innanzitutto, col termine ‘ode’ ci riferiamo gene-
ralmente a una gran varietà tanto di forme metriche quanto di generi
poetici. Senza entrare, per il momento, in ulteriori dettagli, è neces-
sario tuttavia distinguere tra i diversi fenomeni che siamo soliti
situare sotto la stessa etichetta metrica. Attenendoci, per semplificare
il discorso, ai modelli classici che ispirano i diversi tipi di ode,
distingueremo l’ode che imita il modello pindarico da quella che
riproduce il modello oraziano, nonché da quella che con nome
fittizio chiamiamo «anacreontica», in riferimento alle odi greche falsa-
mente attribuite ad Anacreonte nell’appendice dell’Antologia di Co-
stantino Cefala e pubblicate da Henri Estiènne nel 1554. Infine, non
possiamo egualmente dimenticare un fenomeno che ho avuto già

8
Ivi, p. 32.
9
Ivi, p. 23.

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 PARTE TERZA

l’occasione di menzionare a proposito del Certame coronario: mi


riferisco all’imitazione, in varie forme realizzata, della strofa saffica.
Inoltre, sussiste un problema che rende ancora più complicata la
questione dell’ode, quello delle relazioni che il genere neoclassico
intrattiene con la canzone petrarchesca. Si tratta di un problema
fondamentale che rimanda inevitabilmente a uno dei nodi centrali
della lirica dei primi decenni del secolo XVI: la relazione tra il
petrarchismo e il classicismo, che non sempre è stata risolta nei
termini di una pacifica integrazione, ma che in più di un’occasione
ha dato luogo a fenomeni in cui tale relazione ha assunto toni più
dialettici.
È appena il caso di ricordare che i primi decenni del secolo XVI,
fino al 1525, si caratterizzarono per un fenomeno di sovrapposizione
di una «onda lunga», cioè di un «approccio a Petrarca non più
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mediato o incompleto, ma direttamente e facilmente verificabile sui


testi», e una serie di «onde brevi» che «di volta in volta costituivano
altrettanti punti di riferimento, non sempre alternativi alla prima»10,
fino a giungere al 1530, anno che – secondo l’arcinota definizione di
Carlo Dionisotti – costituisce «la data di nascita del petrarchismo
lirico cinquecentesco»11. Tornando al carattere, talvolta dialettico,
della relazione tra classicismo e petrarchismo, è stato lo stesso
Dionisotti che, prendendo spunto dai Versi et regole della nuova poesia
toscana, una raccolta promossa dal senese Claudio Tolomei e pubbli-
cata a Roma nel 1539, ci ha offerto una descrizione di detta relazione
nei seguenti termini:

Il tentativo di rinnovare la poesia toscana applicando ad essa la metrica


della poesia classica non ebbe successo allora, ma resta documento di
una crescente insoddisfazione e impazienza dei limiti stretti in cui la
riforma linguistica e letteraria operata dal Bembo aveva ridotto la
poesia, e di una precisa e decisa volontà di rompere quei limiti sul
versante della poesia classica. [...] La disposizione ad allargare ed
arricchire la nuova poesia aveva il suo limite insuperabile nella preoc-
cupazione di mantenere intatta la base linguistica e stilistica petrarche-
sca. Ammissibile era il tentativo di comporre anche elegie, epigrammi,
odi italiane, ma senza che perciò il carattere petrarchesco della lirica

10
F. Erspamer, La lirica, in F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di) Manuale di
letteratura italiana. Storia per generi e problemi, Torino, Bollati-Boringhieri, in corso di
stampa. [il capitolo è stato ora pubblicato nel vol. II Dal Cinquecento alla metà del Settecento,
1994, pp. 183-255, in part. p. 190]
11
C. Dionisotti, Introduzione a P. Bembo, Prose e Rime, Torino, UTET, 1966, 2ª ed., p.
49.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

italiana risultasse alterato. Alla responsabilità di una traduzione poetica


di Catullo, Tibullo, Properzio o delle Odi di Orazio, nessuno voleva né
poteva sobbarcarsi12.

Mi pare che il passo appena citato possa risultare molto utile in


quanto fornisce le coordinate generali all’interno delle quali biso-
gnerà valutare la più circoscritta questione dell’ode: da un lato,
dunque, abbiamo l’«impazienza e insoddisfazione dei limiti stretti»
del petrarchismo bembiano, con la conseguente volontà di rottura,
soprattutto in direzione classica; dall’altro, tuttavia, tale volontà di
rottura si scontra con la fedeltà linguistica e stilistica a Petrarca. Né
mancheranno soluzioni più o meno originali a tale dilemma: l’ode
del Rinascimento, ad esempio, è fra le più significative.
Poiché bisognerà considerare le diverse forme che l’ode rinasci-
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mentale assume rispetto alla canzone petrarchesca, cominciamo dun-


que con l’esaminare quali furono le definizioni di canzone. Negli
anni che ci interessano, anteriori alle innumerevoli teorizzazioni
poetiche della seconda metà del secolo, si poteva contare sull’accu-
rata sistematizzazione di Giangiorgio Trissino il quale, nella Quarta
divisione della sua Poetica, offriva una minuziosa casistica della can-
zone petrarchesca13. La Poetica era stata pubblicata nel 1529 insieme
ad altre opere del Trissino, tra le quali è annoverata la versione del
De vulgari eloquentia, nuovamente portato alla luce, in cui Dante
offriva una complessa descrizione della stanza di piedi e sirma. Nel
discorso metricologico e prosodico di Trissino molte erano le orme
lasciate dal trattato di Dante e da quello di Antonio da Tempo, la
Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis. Quattro anni prima, tutta-
via, nelle Prose della volgar lingua, Pietro Bembo, sebbene fosse tra i
pochi che conoscevano il De vulgari dantesco14, aveva dato una
definizione di canzone molto diversa. Aveva scritto, dunque, Bembo:

E nelle canzoni puossi prendere quale numero e guisa di versi e di


rime a ciascuno è più a grado, e compor di loro la prima stanza; ma,
presi che essi sono, è di mestiero seguirgli nell’altre con quelle leggi

12
C. Dionisotti Tradizione classica e volgarizzamenti, in Id., Geografia e storia della
letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1980, 3ª ed., pp. 174-75.
13
Si veda G. Trissino, Poetica, in B. Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del
Cinquecento, vol. I, Bari, Laterza, 1970.
14
Sulla copia del De vulgari realizzata per il Bembo, che si trova nel ms. Vat. Reg. lat.
1370, cfr. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia. I. Introduzione e testo, a c. di P. V.
Mengaldo, Padova, Antenore, 1968, p. CVI.

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 PARTE TERZA

che il compositor medesimo, licenziosamente componendo, s’ha pre-


se15.

Come si vede, si tratta di una definizione piuttosto ampia: in


essa, Bembo ammetteva qualsiasi schema di versi e di rime; l’unica
regola a cui il poeta doveva attenersi era quella di mantenere lo
stesso schema in tutte le stanze. È appena il caso di aggiungere che
gli unici versi ammessi erano l’endecasillabo e il settenario. Secondo
la definizione di colui che era considerato la massima autorità del
petrarchismo lirico, all’etichetta di ‘canzone’ potevano ricondursi,
oltre alla petrarchesca, anche le nuove formule che avevano origine
nella tendenza rinascimentale a ripercorrere, nelle forme metriche
italiane, le vie della poesia classica. Orbene, nel periodo che ho
deciso di prendere in considerazione, le nuove formule della canzone
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possono essere ricondotte ai due modelli classici dell’ode, vale a dire,


quello pindarico e quello oraziano. Diversamente, non tratterò il
terzo modello classico, l’anacreontico, dal momento che la sperimen-
tazione di questa formula fu opera soprattutto di Gabriello Chiabrera
e, pertanto, rimane fuori dal periodo qui considerato.
All’inizio del secondo decennio del secolo videro la luce due
edizioni di Pindaro: la prima fu l’edizione aldina del 1511, mentre la
seconda fu pubblicata due anni più tardi, nel 1513, per i tipi
dell’editore Caliergi di Roma16. Nello stesso anno, 1513, l’aristocra-
tico vicentino Giangiorgio Trissino era impegnato nella composi-
zione della Sofonisba, l’opera che rappresenta la «prima tragedia
regolare» dell’età moderna17. La soluzione metrica risultò molto im-
portante: Trissino fece ricorso agli endecasillabi sciolti, adottando al
tempo stesso una soluzione distinta per i quattro cori presenti nell’o-
pera. In tre di essi, in effetti, si servı̀ della struttura triadica tipica
dell’ode pindarica, con le due prime parti (strofa e antistrofa) corri-
spondenti tra loro per il tipo di versi e per lo schema delle rime, e
una terza parte (epodo), generalmente più breve delle prime due,
destinata a variare18. La Sofonisba costituı̀ il primo passo di un
programma più ampio, ispirato alla riproduzione dei caratteri pecu-

15
Bembo, Prose della volgar lingua (II, xi), ed. cit., p. 153.
16
Carducci, Dello svolgimento dell’ode, cit., p. 14.
17
Dedicata al papa Leone X nel 1518 e pubblicata a Roma nel 1524, la Sofonisba fu
composta tra il 1513 e il 1515. Trissino attese alla composizione dei cori a partire dal 1513.
18
G. Trissino, Sofonisba, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959. I tre cori con
struttura triadica sono i seguenti: «Almo celeste ragio», «Lassa, ben mi credeva esser
venuto», «Amor, che ne i leggiadri alti pensieri».

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

liari dei testi classici nell’ambito della letteratura volgare; tale pro-
gramma, destinato a svilupparsi sino alla fine degli anni quaranta col
poema epico Italia liberata dai Goti, ebbe il suo momento cruciale nel
1529, anno in cui Trissino dette alle stampe nella sua città natale
una sorta di Opera omnia, «una summa teorica e pratica di testi, [che]
tende a porre il Trissino come polo globale di riferimento nel
dibattito letterario contemporaneo, e, con lui, tende ad affermare
una vocazione protagonistica di un centro veneto di forti tendenze
imperiali»19. Tra le numerose opere pubblicate nel 1529 c’erano
anche le Rime, contenenti dodici canzoni. Tre di esse c’interessano
direttamente, poiché sono, in effetti, altrettante odi pindariche. Le
prime due, «Quella virtù che del bel vostro viso» e «Per quella strada
ove il piacer mi scorge», sono di argomento amoroso, mentre la terza
è una canzone panegirica dedicata al cardinale Ridolfi20. Queste tre
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odi furono composte in epoche molto differenti. Le prime due,


insieme all’intero nucleo ‘amoroso’ delle Rime, «risale [...] agli anni
cortigiani del Trissino, alle sue relazioni con Milano, Mantova,
Ferrara, ai primi anni del Cinquecento insomma», mentre la canzone
in lode del cardinale Ridolfi si colloca «negli anni immediatamente a
ridosso dell’edizione»21. Prima di approfondire ulteriormente la que-
stione, credo sia opportuno menzionare gli altri esperimenti di ode
pindarica che furono prodotti intorno agli stessi anni e che in realtà
furono, numericamente, piuttosto limitati. In effetti, per completare
il quadro, alle tre canzoni già ricordate del Trissino bisogna solo
aggiungere gli otto inni che il poeta Luigi Alamanni dedicò «al
cristianissimo re Francesco Primo», pubblicati nel 153222, e le due
canzoni che Minturno dedicò, nel 1535, «a Carlo V vincitore e
trionfante dell’Africa»23. In totale, si tratta di un piccolo corpus di
tredici testi che ci offre l’indice dello scarso successo di cui godette il
genere nella prima metà del Cinquecento. Ancora: il numero di testi

19
V. De Caprio, Roma, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia,
vol. II, L’età moderna, cit., t. I, p. 446.
20
I testi delle tre odi possono leggersi ora in G. Trissino, Rime (1529) a c. di A.
Quondam, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1981.
21
A. Quondam, Introduzione a Trissino, Rime, ed. cit., p. 20.
22
L. Alamanni, Opere Toscane, Lyon, Gryphius, 1532-33. Per gli Inni, ho utilizzato L.
Alamanni, Versi e prose, ed. a c. di P. Raffaelli, Firenze, Le Monnier, 1859, vol. II, pp.
84-111.
23
Si tratta dei due componimenti «Qual semideo, anzi qual novo Dio» e «Alma et antica
madre», pubblicati in A. Sebastiani, detto Minturno, Rime et prose, Venezia, Francesco
Rampazetto, 1559, pp. 166 e 176.

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 PARTE TERZA

si vede ridotto ulteriormente se consideriamo che uno degli otto inni


di Alamanni è una canzone a tutti gli effetti, costruita, tra l’altro,
secondo l’abusato schema di «Chiare fresche e dolci acque»24. Il fatto
è che, perfino nei restanti dodici componimenti, la discrepanza
rispetto alla canzone petrarchesca è, da un punto di vista stretta-
mente metrico, più teorica che reale. È stato giustamente notato che
nelle menzionate odi pindariche «la struttura della canzone petrar-
chesca non è, in sostanza, intaccata»25. Effettivamente, ognuna delle
strofe che compongono le odi in questione è una stanza di canzone
petrarchesca a tutti gli effetti, costituita di piedi e sirma. Quanto alla
fronte, le dodici odi coincidono, nella prevalenza dei casi, con lo
schema petrarchesco, per cui essa è divisa in due piedi, secondo il
doppio modello: ABC ABC, o ABC BAC. Quanto alla sirma, le odi
rimangono parimenti fedeli allo schema indiviso che Dante aveva
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stabilito e che Petrarca fece suo. D’accordo con un’antica osserva-


zione di Chiabrera contenuta nel dialogo L’Orzalesi ovvero della
tessitura delle canzoni, Pietro Beltrami, in un suo recente trattato di
metrica italiana, ha potuto notare che «a parte il travestimento
pindarico e l’aumento delle dimensioni, la struttura triadica richiama
ancora la tripartizione petrarchesca di piedi e sirma» e che, in defini-
tiva, nelle nostre odi «la stanza petrarchesca è moltiplicata per tre»26.
In conclusione, risulta evidente che l’ode pindarica non svolge una
funzione di vera riforma metrica, anche se forse sarebbe esagerato
sostenere che manchi in essa qualsiasi elemento di novità. Distin-
guendo fra i tre poeti, direi per esempio che non c’è nessun elemento
di novità nelle due odi che Minturno dedica alla spedizione africana
di Carlo V cosı̀ come alla trionfale accoglienza che la città di Napoli
gli riservò. In uno dei rarissimi commenti che hanno meritato le
composizioni del Minturno, le due odi sono state ragionevolmente
giudicate come «un tentativo di risuscitare le strutture della canzone
eroico-pindarica al solo livello delle articolazioni formali», il che,
d’altro canto, conferma

l’inerzia teorica che il patrimonio della tradizione classica trova nel-


l’ambito dell’esperienza intellettuale del Minturno, che ne riesce a

24
V. H. Hauvette, Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son oeuvre, Paris, Hachette,
1903, p. 228 e n.1.
25
G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana,
vol. III Le forme del testo, t. I Teoria e poesia, cit., p. 467.
26
P. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 114 e 300.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

prospettare soltanto utilizzazioni esteriori o puramente strumentali,


come anche appare dai testi poetici, in cui i frequenti richiami mitolo-
gici o storici classici valgono soltanto come elementi di decoro in una
funzionalità subalterna e degradata27.

Passando ora agli otto inni dell’Alamanni, ci rendiamo conto che


le sette odi con struttura pindarica presentano una sola novità, quella
di essere costituita esclusivamente di settenari, contravvenendo cosı̀ a
uno dei precetti fondamentali della canzone – l’alternanza di endeca-
sillabi e settenari –, considerato irrinunciabile perfino nella ampia
definizione formulata da Bembo. Le strofe isometriche di settenari
erano state frequenti nei poeti siciliani e continuarono ad esserlo nel
28
Guinizelli di «Donna, l’amor mi sforza» , ma la supremazia dell’en-
decasillabo nella canzone era stata definitivamente stabilita dal De
vulgari eloquentia, e la combinatio di endecasillabi e settenari si era
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presto convertita nella testura canonica della canzone lirica italiana.


Degna di maggiore attenzione è, invece, la canzone in lode del
cardinale Ridolfi di Trissino, nella quale – si è detto – «emerge con
maggiore evidenza la cura sperimentatrice» del poeta vicentino, a tal
punto che di essa si è potuto affermare che «la sua libertà è radica-
le»29. Il tratto distintivo di questa canzone è la combinazione di due
elementi che Trissino, in altri suoi componimenti, aveva sperimen-
tato separatamente l’uno dall’altro: mi riferisco, da un lato, alla
struttura triadica dell’ode pindarica e, dall’altro, alla forma continua
della strofa, cioè senza rima. Entrambi i fenomeni, d’altronde, risal-
gono a una comune matrice classicista, stando al programma di
rinnovamento letterario che si fondava prevalentemente sui modelli
greci30. Mettendo in discussione la rima, secondo l’esempio della
poesia greca e latina, gli autori cinquecenteschi finivano per mettere
in discussione la stessa forma poetica tradizionale, dal momento che,
come ha precisato Mario Martelli nel già citato saggio:

ciò che il mondo classico aveva affidato al ricorrere costante di versi


differenti o, nel caso di strofi omeometre (come i sistemi asclepiadei

27
G. Ferroni e A. Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a
Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, p. 304.
28
Gorni, Le forme primarie, cit., pp. 453-54.
29
G. Milan, Nota metrica, in Trissino, Rime, ed. cit., pp. 47 e 50.
30
Sull’ellenismo del Trissino, si veda C. Dionisotti, L’Italia del Trissino, in N. Pozza (a
cura di), Convegno di studi su Giangiorgio Trissino (Vicenza, 31 marzo-1 aprile 1979), Vicenza,
Accademia Olimpica, 1980, pp. 11-22, in part. pp. 17-18. Risultano ancora utili le
osservazioni di G. Toffanin, Il Cinquecento, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi,
1941, pp. 448-53.

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 PARTE TERZA

primo e quinto) ai suggerimenti della semantica e della sintassi, il


medioevo romanzo affida anche e soprattutto alla rima, che sottolinea
spesso e conferma il concludersi del pensiero logico, ma talvolta non
esita a prescindere o, addirittura, ad opporglisi31.

Due furono le strade attraverso le quali i poeti cinquecenteschi


cercarono di risolvere il problema della rima: da un lato, semplice-
mente, la sua eliminazione, e, dall’altro, il recupero della sua fun-
zione attraverso ciò che Martelli ha definito la «consapevolezza della
funzione eminentemente strutturale della rima»32. Nell’ode pindarica
dedicata al cardinale Ridolfi, Trissino sperimentò la prima delle due
alternative; peraltro, non va dimenticato che in opere di maggior
impegno, come la Sofonisba e, soprattutto, la Italia liberata dai Goti,
Trissino fece ricorso all’endecasillabo sciolto. Tuttavia, di non mi-
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nore interesse doveva risultare la seconda delle alternative possibili,


quella che ritroveremo a proposito di Bernardo Tasso e delle sue odi
oraziane. Ma prima di rivolgere l’attenzione a queste ultime, mi
sembra opportuno soffermarmi – anche se brevemente – sull’ode
pindarica come genere poetico, dal momento che l’abbiamo conside-
rata, finora, solo dal punto di vista metrico.
Nel trattato L’arte poetica, che in realtà è posteriore al periodo che
abbiamo preso in considerazione, il suo autore, Minturno, inserisce
un’esposizione teorica sull’ode pindarica. Dopo aver fatto ampio
riferimento alla prima delle sue due odi del 1535, scrive che «a questa
maniera di canzoni certo niuna altra materia sta cosı̀ bene, come la
grave et illustre, la quale eroica si chiama»33. In effetti, prescindendo
dalla specificità dei contenuti, una «materia [...] grave et illustre» si
trova in tutto il gruppo delle odi considerate. Si tratta, in sostanza, di
componimenti celebrativi, destinati non solo a «cantare le vittorie»34 di
un imperatore, come nel caso di Minturno, ma anche ad esaltare le
virtù di un re, una regina o un’antico genovese – rispettivamente,
Francesco I, Margherita di Navarra e Megollo Larcaro –, come nel
caso dell’Alamanni, o a tessere le lodi di un cardinale, come nella già
citata canzone del Trissino. Né mancano esempi di poesia amorosa,
rappresentata da due inni dell’Alamanni e da altrettante odi del

31
Martelli, Le forme poetiche italiane, cit., p. 525.
32
Ibid.
33
Minturno, L’arte poetica, Venezia, Valvassori, 1564; il passo citato può leggersi in
Ferroni-Quondam, La «locuzione artificiosa», cit., p. 69.
34
Ibid.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

Trissino, dove l’intenzione celebrativa dà luogo a un tono poetico non


meno elevato. Orbene, a proposito della canzone cinquecentesca,
Guglielmo Gorni ha parlato di «bifrontismo», concetto sul quale
dovremo molto presto tornare in relazione all’ode oraziana; per il
momento, possiamo limitarci a indicare che un polo di tale «bifronti-
smo» è costituito dalla canzone petrarchesca, la quale, nella sua
evoluzione cinquecentesca «accentua – secondo Gorni – la sua gravi-
tas, e asseconda (con l’impiego di strofe lunghe, più volte iterate)
un’istanza narrativa e digressiva, prediligendo la materia morale,
politico-storica, speculativa, funebre e religiosa, la cui più alta affer-
mazione si ritroverà nelle rime di Giovanni Della Casa»35. È una
descrizione che non si allontana molto da quella che potremmo dare
dell’ode pindarica la cui sperimentazione, difatti, avanzò parallela-
mente agli sviluppi della canzone petrarchesca del Cinquecento, tanto
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dal punto di vista metrico quanto strettamente poetico.


Se, come abbiamo appena visto, un polo del «bifrontismo» è
occupato dalla canzone petrarchesca, e da quella che possiamo ormai
considerare una sua variante, l’ode pindarica, al polo opposto si
colloca un tipo di canzone che mira a una maggiore semplificazione,
attraverso la riduzione del numero dei versi in ogni stanza e la
soppressione delle articolazioni interne a ognuna di esse. Questo tipo
di canzone ebbe come modello classico l’ode oraziana, e trovò in
Bernardo Tasso il suo interprete più instancabile. E, tuttavia, non è
escluso che si siano avuti tentativi anteriori al Tasso. In uno studio
che risale alla fine degli anni cinquanta, Carlo Dionisotti suggerı̀ di
anticipare di qualche decennio la sperimentazione dell’ode oraziana
in volgare, basandosi su un’affermazione del Calmeta, il quale, in
una lettera a Isabella d’Este, datata 5 novembre 1504, scriveva di
aver sperimentato non solo «tutte le diversità di rime che in stile
materno ritrovare si possono», ma anche – ed è ciò che più ci
interessa – «molti stili fatti da nuovo ad emulazione di Orazio che a li
lettori, spero, non poca dilettazione porgeranno»:

Sicché – affermava Dionisotti – la ripresa dell’ode oraziana tradizional-


mente attribuita a rimatori del medio Cinquecento deve con tutta
probabilità essere ricercata e giustificata in età d’un buon tratto ante-
riore e affatto diversa36.

35
Gorni, Le forme primarie, cit., p. 466.
36
Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, cit., p. 161. Per l’epistola a Isabella
d’Este, si veda V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1959.

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 PARTE TERZA

In effetti, nello stesso anno della lettera del Calmeta, Pietro


Bembo pubblicò gli Asolani, dove inserı̀ due canzoni del tutto irrego-
lari, «Io vissi pargoletta in festa e ’n gioco» e «Io vissi pargoletta in
doglia e in pianto», che il moderno editore del trattato non esita a
definire ‘odi’, «forma metrica – aggiunge nella nota a piè di pagina –
di cui ancora non è ben chiara la storia o preistoria nell’ambito della
lirica musicale del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento»37.
Entrambe le canzonette-odi del Bembo sono formate da tre quartine
di endecasillabi e presentano, inoltre, un disegno strutturale identico:
alla presentazione del tema nelle quartine iniziali (l’amore infelice,
nella prima canzonetta; quello felice, nella seconda) segue un’esem-
plificazione mitologica che occupa la terza e ultima quartina. Si tratta
dello stesso disegno strutturale che troveremo nell’ode di Garcilaso.
Prima di passare a questi due poeti, tuttavia, bisogna accennare
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brevemente ai tentativi di imitazione dell’ode oraziana che, almeno


da un punto di vista metrico, sembrano essere più vicini al modello
originario: mi riferisco, com’è ovvio, alla sperimentazione in volgare
della strofa saffica. Ad essa si giunse attraverso due diverse strade: da
un lato, mediante la diretta traduzione delle odi di Orazio; dall’altro,
come caso particolare di quel fenomeno più ampio che consistette
nel tentativo di rinnovare la metrica italiana sulla base quantitativa,
mediante l’imitazione dei versi classici. Per quanto attiene alla prima
delle soluzioni, abbiamo già visto come il successo che ebbe la
proposta bembiana, e la conseguente egemonia del modello petrar-
chesco, impedirono di fatto che si realizzassero versioni dalla poesia
latina. Tra i rari esempi di traduzione delle odi oraziane, è possibile
menzionare quella di Trissino, il quale traduce «Donec gratus eram
tibi» (III, 9) ricorrendo alla quartina di tre endecasillabi e un settena-
rio38.
Più facilmente percorribile si rivelò la seconda delle strade a cui
alludevo, grazie soprattutto a un gruppo di poeti appartenenti, in
prevalenza, all’Accademia Romana de la Nuova Poesia. Con totale
autonomia rispetto agli anticipatori esperimenti dell’Alberti e del
Dati, questi poeti si sforzarono di comporre versi che corrispondes-

37
Bembo, Prose e Rime, ed. cit., p. 318 n.2.
38
Per la versione citata, si veda G. Trissino, Opere, vol. I, Verona, Jacopo Vallarsi, 1729,
p. 362. Ricordo anche la versione di Benedetto Varchi dell’ode oraziana III, 13, cosı̀ come
quella di un anonimo autore del secolo XVI dell’ode IV, 13; entrambe possono leggersi in
G. Federzoni, Alcune odi d’Orazio volgarizzate nel Cinquecento, Bologna, Zanichelli, 1880,
pp. 127 e ss.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

sero alle forme metriche della poesia classica: essi «non si accontenta-
rono – scrive Mario Geymonat, nel suo breve studio sulla questione
– di applicare la metrica latina alla lingua italiana ma concepirono un
proposito più complesso: quello di fornire all’idioma toscano una
propria prosodia quantitativa»39. Non credo che sia opportuno en-
trare ora nel dettaglio delle soluzioni tecniche che questi poeti
arrivarono a proporre, in quanto finiremmo per allontanarci dal
problema. Pertanto, mi limiterò a ricordare la raccolta di Claudio
Tolomei, Versi et regole de la Nuova Poesia Toscana (1539), a cui
contribuirono molti degli Accademici romani e dove si trovano, tra
l’altro, le odi saffiche quantitative di Antonio Renieri da Colle,
Pierpaolo Gualterio e Alessandro Bovio, i quali fecero ricorso alla
strofa tetrastica di tre endecasillabi e un quinario, senza rima, con un
sistema di regole molto puntuali che aderiva allo scopo di riprodurre
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i versi italiani secondo le regole quantitative del latino40. Per varie


ragioni, l’esperimento del Tolomei e dei suoi seguaci era destinato al
fallimento. In proposito, è stato giustamente notato che

una rivoluzione impossibile a compiersi, per ragioni culturali prima di


tutto, dato il radicamento nella tradizione italiana dei metri di origine
romanza, e poi per ragioni linguistiche, perché l’operazione d’attri-
buire regole quantitative all’italiano [...] era (e rimase ogni volta che fu
tentata) un’operazione del tutto artificiosa41.

La forma più comune di saffica italiana – sia detto per inciso – fu


quella elaborata da Angelo di Costanzo: si trattava sempre di strofa
tetrastica di tre endecasillabi e un quinario, ma con rima, e senza
42
nessun vincolo col sistema quantitativo latino . Tuttavia, i più profi-
cui tentativi d’ispirarsi all’ode oraziana furono realizzati nell’ambito
della totale accettazione della tradizione metrica italiana. Un passo
decisivo in tale direzione fu mosso da Bernardo Tasso.
Com’è noto, la storia redazionale degli Amori del Tasso si carat-
terizza per il nutrito numero di rielaborazioni a cui il libro fu

39
M. Geymonat, Osservazioni sui primi tentativi di metrica quantitativa italiana, in «Gior-
nale storico della letteratura italiana», CXLIII (1966), pp. 378-89, in part. 383.
40
Si veda W. Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le
Monnier, 1989, pp. 184-85. Le odi saffiche di A. Renieri da Colle, P. P. Gualterio e A.
Bovio sono state raccolte in Carducci, La poesia barbara nei secoli XV e XVI, cit.
41
Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 107.
42
Si veda Elwert, Versificazione, cit., p. 186; e anche R. Spongano, Nozioni ed esempi di
metrica italiana, Bologna, Pàtron, 1986, pp. 232-34, dove si troverà riprodotto il componi-
mento «Tante bellezze il cielo ha in te cosparte» di Angelo di Costanzo.

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 PARTE TERZA

sottoposto nel corso di trent’anni. Lo stesso lavoro di rielaborazione


toccò alla sezione delle odi. Queste, che nell’edizione del 1531 non
erano più di tre, erano destinate ad aumentare a partire dalla succes-
siva edizione del 1534, nella quale arrivarono a dodici; ad esse se ne
aggiunsero altre tre nel 1537, in occasione della pubblicazione del
Libro terzo degli Amori, per poi essere ulteriormente incrementate,
fino a raggiungere il numero di trentatré, nell’edizione del 1555 e,
infine, quello di cinquantacinque nell’ultima edizione del 156043. Qui
mi limiterò unicamente ad alcune osservazioni sull’edizione del
1534, con qualche eccezione per le tre odi del 153744; in questo
modo, non solo sarò stato fedele al limite cronologico che mi ero
imposto all’inizio di queste note, ma avrò anche aperto la strada
verso l’ode di Garcilaso, la cui conoscenza della poesia tassiana – per
ovvie ragioni – non poteva andare molto più in là di quanto conte-
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neva l’edizione del 1534.


Già nella dedica a Ginevra Malatesta del 1531, Tasso distin-
gueva, all’interno della sua produzione poetica, tra le poesie che
aveva «composto ad imitatione de’ moderni provenzali, ed di Messer
Francesco Petrarcha» e le altre – in realtà, in quell’epoca, molto
poche – nelle quali aveva seguito «la via ed l’arte degli antiqui boni
poeti greci et latini»45. Più tardi, Tasso tornò sullo stesso discorso,
ampliandolo, nella dedica al principe di Salerno, con la quale si apre
l’edizione del 1534. Rivolgendosi, dunque, al suo protettore, Tasso
intese rispondere alla critica che maggiormente doveva preoccuparlo,
quella cioè di aver costretto le Muse thoscane «quasi per viva forza [...]
a favellare», «oltre il loro costume, in varie et strane maniere di rime:
Hinni, Ode, Egloghe et Selve»46. Tasso fornı̀ una doppia risposta:

43
Si veda G. Cerboni Baiardi, La lirica di Bernardo Tasso, Urbino, Argalia Editore, 1966,
p. 102 n. 2. Sulle odi del Tasso nel contesto più generale del recupero dei generi poetici
classici, si veda E. Williamson, Form and Content in the Development of the Italian Renaissance
Ode, in «Publications of the Modern Language Association», LXV (1950), pp. 550-67; lo
studio è stato riprodotto dall’autore nel suo libro Bernardo Tasso, Roma, Edizioni di Storia e
letteratura, 1951, in part. le pp. 68-90; si veda anche, infine, Maddison, Apollo and the Nine,
cit., pp. 150-75.
44
Per le odi del Tasso, ho utilizzato: Libro primo de gli amori, Venezia, Giov. Antonio
Fratelli da Sabbio, 1531; Libro primo e secondo degli amori. Himni et ode. Selva. Epithalamio.
Favola di Piramo et de Thisbe. Egloghe sei. Elegie sei, Venezia, Joan. Ant. da Sabbio, 1534. Per
le tre odi aggiunte nell’edizione del ’37, ho utilizzato le Rime di m. Bernardo Tasso. Edizione
la più copiosa finora uscita colla vita nuovamente descritta dal sig. abate Pierantonio Serassi,
Bergamo, Pietro Lancellotti, 1749, 2 voll.
45
«Alla Signora Ginevra Malatesta», in Libro primo de gli amori (1531), cit., p. 7v.
46
«Al Prencipe di Salerno suo signore», in Libro primo e secondo degli amori (1534), cit., p.
2r.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

ostinarsi a imitare i «duo lumi della lingua thoscana, Dante e Petrar-


cha» equivarrebbe, da un lato, a sottomettersi a una «vana [...]
fatica»47, dato il livello ineguagliabile della loro poesia; dall’altro, nel
migliore dei casi, equivarrebbe a condannarsi alla mera ripetizione:
«dire quelle istesse cose con altre parole, o con quelle istesse parole
altri pensieri». Tenendo conto di tutto ciò, e considerando «quanto
ampio et spatioso [sia] il campo della poesia, et segnato da mille
fioriti et be’ sentieri», ogni poeta farebbe bene a «questa anchor
giovene lingua [toscana] per tutti que’ sentieri menare, che i latini e
greci le loro condussero, et la varietà de’ fiori mostrandole de’ quali
l’altre due ornandosi sı̀ vaghe si scopreno a’ riguardanti»48. Negli
argomenti della sua abile difesa, non è difficile riconoscere la doppia
esigenza di rinnovamento che Dionisotti ha evidenziato a proposito
della raccolta di Tolomei: «insoddisfazione o impazienza dei limiti
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stretti in cui la riforma linguistica e letteraria operata dal Bembo


aveva ridotto la poesia» e «precisa e decisa volontà di rompere quei
limiti sul versante della poesia classica». Ma, a differenza di Tolomei
e del suo gruppo, Tasso non pensò mai di adottare la soluzione della
metrica quantitativa. Nella dedica al principe di Salerno, dopo aver
espresso la sua grande ammirazione per l’esametro, in relazione alle
sue poesie afferma: «Non negherò il verso essere endechasillabo e
non exametro»49. E in forma ancora più esplicita, in una lettera a
Girolamo della Rovere del 26 ottobre del 1533, Tasso precisa che
egli ha scritto «odi alla oraziana, non quanto ai numeri del verso,
perché questa nostra lingua non lo sopporta, ma quanto alle altre
parti dell’artificio»50.
In ogni caso, gli esordi della sperimentazione si rivelarono abba-
stanza timidi. Le due odi All’Aurora e A Pan, composte per prime51,

47
Ivi, p. 2v.
48
Ivi, p. 3r. Tasso raccolse lo stesso concetto in una lettera a Girolamo della Rovere,
datata 26 ottobre 1553, dove si legge: «Io cammino, Sig.mio, alcuna volta per questi sentieri
della poesia, dall’orme de’ Greci e da’ Latini scrittori segnati, i quali, al mio giudicio, mi
paiono più belli e più vaghi di quelli per li quali agli antichi Toscani è piaciuto di
camminare; giudicando (se non m’inganno) questa poesia più dilettevole, e più piena di
spirito e di vivacità, che la loro, ancor che dubiti che no debbia piacere a chi delle buone
composizioni greche e latine non avrà perfetta cognizione; per dar a divedere ad alcuni che
hanno opinione che questa nostra lingua non sia capace di tutte quelle vaghezze poetiche
delle quali è capace la greca e la latina», cfr. Delle lettere di M. Bernardo Tasso, Padova,
Giuseppe Comino, 1733 (lettera n. 38, vol. II, pp. 124-26).
49
Libro primo e secondo degli amori (1534), cit., p. 4v.
50
Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., vol. II, p. 125.
51
Sulla data di queste due odi, si veda F. Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, in
«Annali della Reale Scuola Superiore di Pisa», XIV (1900), p. 168 n. 1.

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 PARTE TERZA

presentano una strofa che, con diciannove versi rispettivamente, non


si allontana molto dalla stanza di canzone. Ma, a partire dall’ode A
Diana, dove i versi di ogni strofa sono ridotti a sette, Tasso compie
un ulteriore passo in direzione della strofa che si rivelerà tipica del
genere. In effetti, nelle restanti nove odi dell’edizione del 1534,
Tasso usa la strofa pentastica di endecasillabi e settenari, con un
numero di strofe che oscilla notevolmente, per ogni ode, da un
minimo di sei in «Che pro mi vien, ch’io t’habbia o bella Diva» a un
massimo di ventuno in «O pastori felici».
Per quel che riguarda la rima, ho già avuto occasione di alludere
alla posizione che su di essa assunsero alcuni poeti del Cinquecento,
i quali ne contestarono l’uso proponendo la sua eliminazione (l’ende-
casillabo sciolto), oppure recuperandone la funzione strutturale. A
questa seconda soluzione si avvicinò maggiormente Tasso, il cui
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interesse per la questione non dovette essere debole, giacché su di


essa indugiò non poco nella dedica al principe di Salerno. In questo
testo, a proposito della rima nelle odi, Tasso scrive che le «voci in
picciola stanza rinchiuse, subitamente a guisa d’Echo, una et due
volte vanno iterando il suono proposto»52. È ciò che si verifica, in
particolare, nelle sei odi che presentano lo schema abAbB, con
varianti nel numero e nell’ordine degli endecasillabi e settenari.
Tuttavia, nelle tre odi la soluzione è un’altra e, se vogliamo com-
prendere il senso di questa nuova soluzione, è necessario tornare alla
dedica al principe di Salerno, nella quale Tasso sviluppa un lungo
discorso con il quale si propone di conservare la rima, benché ne
limiti il mero effetto fonico. A un certo punto, Tasso si chiede:

perché non cosı̀ a’ volgari può esser lecito asconder alcuna volta ne’
versi loro la rima, et quella tra le altre parole mischiare, in maniera che
prima ella ci trapassi l’orecchie c’huom s’accorga di doverla incontra-
re53.

Come ha notato giustamente Martelli, Tasso tenta di «escogitare


nuove testure, in cui la rima fosse sı̀ conservata, ma non tanto da
generare, se troppo avvertibile, un qualche insopportabile fastidio
[...] L’intento, insomma [...] era quello di nascondere la rima conser-

52
«Al Prencipe di Salerno suo signore», in Libro primo e secondo degli amori (1534), cit., p.
4r.
53
Ivi, p. 4v.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

vandola»54. Tasso sperimentò la ‘nuova testura’ in tre delle dodici odi


contenute nell’edizione del 153455. In ogni strofa delle odi in que-
stione, un verso resta senza legame, sebbene rimi con il primo e con
il terzo della strofa successiva; inoltre, nell’ultima strofa questo
secondo verso viene fatto rimare col primo (e terzo) verso dell’ode,
assicurando cosı̀ una struttura circolare all’intero componimento.
Ricorro di nuovo allo studio di Martelli per sottolineare che

sia l’incatenamento di una strofe all’altra, sia la redditio che fa tornare


su se stessa l’intera ode, sono fatti che, pur ottenuti attraverso la
disposizione delle rime, non riguardano più l’orecchio, ma solo la
struttura dell’opera56.

Le novità non si limitano alla sola struttura della strofa e della


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rima, ma riguardano anche le relazioni tra metrica e sintassi. A tale


proposito, nella citata lettera a Girolamo della Rovere, Tasso osser-
vava:

io passo talora con la clausola lunga di una stanza nell’altra, talora la


faccio breve come meglio mi pare57.

Queste dichiarazioni sono state verificate da Fortunato Pintor,


che – nel suo studio – osservò come «l’effetto confermasse il propo-
sito, a volte con poco di misura, prolungandosi un sol periodo, non
senza stento, per tre intiere strofe»58. Invece, se considerassimo le
sole odi del ’34, ci renderemmo conto che i legami sintattici tra le
strofe sono del tutto inesistenti nelle tre odi con strofa lunga, come
era facile prevedere, mentre compaiono con una certa frequenza
nelle nove odi con strofa pentastica. Per quanto attiene a queste
ultime, non risulteranno inutili due precisazioni. In primo luogo, i
legami in questione, almeno quelli sintatticamente forti, non sono
molto frequenti, dal momento che non oltrepassano il numero di
uno o due casi per ogni componimento. In secondo luogo, l’esten-
sione di detti legami è a corto raggio: risultano rari i casi in cui il
legame investe più di due strofe. Né cambiano le cose nelle tre odi

54
Martelli, Le forme poetiche italiane, cit., p. 575.
55
Si tratta delle tre odi seguenti: «Cada dal puro cielo», «Non sempre il cielo irato», «Che
pro mi vien, ch’io t’habbia o bella Diva».
56
Martelli, Le forme poetiche italiane, cit., p. 577.
57
Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., vol. II, p. 125.
58
Pintor, Delle liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 171.

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 PARTE TERZA

che Tasso pubblicò nel 1537. Al contrario, l’eccezione più evidente a


quanto è stato osservato si trova nell’edizione del ’34, ed è costituita
dall’ode «O pastori felici», in cui compaiono almeno cinque casi di
legame, tutti sintatticamente forti; due di essi, inoltre, si estendono
su tre strofe. Per quanto riguarda la metrica, possiamo concludere
affermando che, dopo i primi tentativi, abbastanza timidi, Tasso
optò a favore della strofa pentastica di endecasillabi e settenari, la cui
brevità fu compensata – per cosı̀ dire – con i legami sintattici tra le
strofe e, a volte, con il recupero della funzione strutturale della rima.
Tuttavia, la relazione con i classici, e in particolare con Orazio,
deve essere misurata sul piano poetico più che su quello strettamente
metrico. Ce lo testimonia lo stesso Tasso il quale, alla fine di un
trentennale processo di elaborazione, nella nuova dedica al duca di
Savoia, Emanuele Filiberto, precisa che egli ha scritto le odi «ad
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imitazione de’ buoni poeti greci e latini; non quanto al verso, il quale
in questa nostra italiana favella è impossibile d’imitare, ma nell’in-
venzione, nell’ordine, e nelle figure di parlare»59. E su questi tre
aspetti non sono poche, difatti, le indicazioni teoriche che è possibile
ricavare dalle diverse dediche inserite dal Tasso nelle successive
edizioni degli Amori, cosı̀ come da alcune lettere scritte agli amici.
Nelle une come nelle altre troviamo precise prese di posizione circa
le seguenti questioni: il precetto della varietà della materia poetica, il
riferimento alla materia mitologica, l’uso di comparazioni prolun-
gate, la presenza o meno del proemio, il ricorso alle digressioni e alla
relazione di esse con il tema principale. Dall’insieme di queste
riflessioni non è difficile dedurre che una delle maggiori preoccupa-
zioni del poeta fu quella riguardante la testura dell’ode o – per
meglio dire – ciò che possiamo chiamare il suo disegno strutturale,
risalente agli inizi della sperimentazione del nuovo genere. In effetti,
nella dedica a Ginevra Malatesta, dopo aver accennato alla libertà
dei poeti classici circa la possibilità di iniziare o meno il componi-
mento col «proemio», Tasso indugia sull’argomento più generale
delle «digressioni», a proposito delle quali scrive:

secondo l’ampia licentia poetica, [i poeti classici] entravano in qualun-


que materia, et vagando n’uscivano in favole, o ’n qualunque altra
digressione a lor voglia; et ancho spesse volte senza ritornar in essa,
fornivano quel che non hanno havuto ardir di far i Provenzali, et

59
«Al duca di Savoia» (Venezia, 11 gennaio 1560), in Tasso, Rime, ed. Serassi, vol. II, p.
LXVII.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

Toschi, et gli altri, che lor stile seguirono, li quali a pena toccano pur
le favole con una parola, o con un solo verso60.

Vent’anni dopo, ritroviamo la stessa preoccupazione nella lettera


a Girolamo della Rovere; parimenti, in un’altra lettera non di molto
precedente, rivolgendosi a Vincenzo Laurio, al quale aveva inviato
una sua ode, Tasso scrive un interessante passo su ciò che egli stesso
chiama «la natura e l’artificio dell’ode»:

il lirico [classico], – afferma – cominciata la materia principale che s’ha


proposta di trattare, e uscendo poi con la digressione, alle volte ritorna
nella materia principiata, alle volte finisce il suo poema nella digres-
sione, il che si vede in Pindaro, e in Orazio in moltissimi lochi. Questo
ho voluto ricordarvi, perché mostrandola a persone di minore giudicio,
che voi non sete, non si pensino ch’io mi sia dimenticata la strada da
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61
tornare a casa .

Nelle sue dichiarazioni teoriche, Tasso sembra interessato più


che altro a una maggiore «libertà nell’intessitura» – nelle parole di
Pintor62 –, grazie alla concessione di maggiore o minore spazio e
all’integrazione delle parti che egli stesso chiamava «proemio», «mate-
ria principale», «digressione». Nella pratica poetica, cosı̀ come realiz-
zata nelle odi del ’34, Tasso mostra una chiara predilezione per la
presenza del proemio, foss’anche molto convenzionale, purché di
breve estensione: difatti, non oltrepassa mai le due strofe e spesso è
costituito solo dalla prima. Più complesso è, invece, il problema della
relazione tra «materia principale» e «digressione». Tra le odi esclusiva-
mente mitologiche, come quelle dedicate A Diana e A Pan o quelle
che unicamente consistono nella celebrazione di personaggi contem-
poranei (Per li tre abbati Cornelii, Per il marchese del Guasto), c’è un
terzo gruppo di odi che si caratterizza per la presenza di entrambi i
piani, tra loro intrecciati secondo varie modalità. In due odi, per
esempio, la descrizione celebrativa dell’Aurora e di Venere occupa la
maggior parte del componimento, per cui le occasioni che ne sono
all’origine risultano alluse molto brevemente solo nell’ultima strofa.
Ma perfino nei casi in cui l’integrazione dei piani raggiunge un
maggiore equilibrio la disparità risulta evidente; più concretamente,

60
«Alla Signora Ginevra Malatesta», in Libro primo de gli amori (1531), cit., p. 8r.
61
La lettera al Laurio è del 6 settembre 1553, per cui si veda Delle lettere di M. Bernardo
Tasso, cit., vol. II, p. 123.
62
Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 167.

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 PARTE TERZA

nelle odi dedicate A Apollo e Al Sol, la celebrazione delle due divinità


continua a godere di uno spazio maggiore se paragonato a quello
riservato alle brevi allusioni e ai temi che hanno dato origine ai due
componimenti: le malattie del principe di Salerno e del duca di
Mantova, rispettivamente. Riassumendo, nelle odi del Tasso c’è un
problema che investe l’architettura del componimento, al quale il suo
autore non ha ancora trovato una corretta soluzione, forse perché
ancora troppo preso dalle novità della sperimentazione. Ciò che,
tuttavia, non capitò a Garcilaso nell’unica ode da lui composta.
È all’ode spagnola, pertanto, che va ora rivolta la nostra atten-
zione. Per far ciò, nulla obbliga a lasciare Napoli e l’ambiente di
Bernardo Tasso, dal momento che fu nella città partenopea che
Garcilaso compose l’Ode ad florem Gnidi, di ritorno da quella spedi-
zione tunisina alla quale non solo aveva partecipato in compagnia del
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suo amico Tasso, ma «es sumamente probable – come congettura


Rivers – que llevara entonces consigo su propio ejemplar del libro»
degli Amori63, di recente pubblicato dall’italiano. A distanza di poco
più di un lustro, quasi in coincidenza con la fine del periodo che
stiamo considerando, dall’altra parte del Mediterraneo si verificava
un avvenimento di enorme portata per la poesia spagnola: l’editore
barcellonese Amorós pubblicava, in un unico volume, l’opera poetica
di Boscán e di Garcilaso. Lo stesso Rivers ha ragionevolmente
insistito sul fatto che i quattro libri di cui constava l’edizione,
contenevano il nuovo sistema dei generi poetici che si sarebbero
imposti più tardi, dove, accanto alla poesia in metro castigliano,
prendevano posto i nuovi generi petrarcheschi (sonetti e canzoni) e,
soprattutto, i generi poetici neoclassici64. Tra questi ultimi, l’ode era
presente col solo componimento scritto da Garcilaso alcuni anni
prima e con il cui titolo in latino l’autore segnalava, tra le altre cose,
la tradizione poetica che si proponeva di imitare e di emulare. Vorrei
quindi concludere queste note con alcune brevi osservazioni sull’ode
garcilasiana, considerandola esclusivamente sotto il segno che la
generò, vale a dire, la teoria e la pratica poetica che il suo amico
Tasso aveva consegnato all’edizione degli Amori del 1534. In altre

63
E. L. Rivers, Nota sobre Bernardo Tasso y el manifiesto de Boscán, in Homenaje al profesor
Antonio Vilanova, Barcelona, Universidad de Barcelona, 1989, vol. I, pp. 601-05. Cito dalla
p. 602.
64
E. L. Rivers, El problema de los géneros neoclásicos y la poesı́a de Garcilaso, in V. Garcı́a de
la Concha (a cura di), Actas de la IV Academia literaria renacentisca. Garcilaso, Salamanca,
Universidad de Salamanca, 1986, pp. 49-60.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

parole, vorrei poter continuare, nei limiti delle mie possibilità, il


discorso che Dámaso Alonso aveva ammirevolmente cominciato nel
suo breve saggio, Sobre los orı́genes de la lira. In esso, il maestro degli
studi ispanici, facendo riferimento alla relazione di Garcilaso con la
raccolta tassiana del 1534, scriveva:

interesa no sólo, en concreto, la adopción, de la «lira», sino todo el


campo de donde elegı́a esta forma, y todo lo que de preocupaciones
estéticas adivinamos tierra vegetal de este campo65.

Null’altro potrei aggiungere alle conclusioni di Dámaso Alonso


circa la scelta metrica che fece Garcilaso rispetto alle varianti di
strofa pentastica offerte dalle odi del Tasso; scelta che ricadde –
com’è noto – su quella che l’italiano aveva usato una sola volta, più
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precisamente, in «O pastori felici». Tuttavia, le «preocupaciones esté-


ticas», pertinentemente evocate dal maestro, non sempre coincidono
del tutto con quelle metriche; e questo, credo, rende possibile conti-
nuare il discorso.
Si è già avuto modo di vedere come le riflessioni teoriche del
Tasso ponessero una serie di problemi in rapporto a ciò che abbiamo
chiamato il disegno strutturale dell’ode, e come la sua pratica poetica
costituisse una risposta – in realtà, non sempre indovinata – a tali
problemi. Prendendo come punto di partenza il risultato metrico
raggiunto dall’amico poeta, Garcilaso dette la sua personale solu-
zione al problema del disegno strutturale; e lo fece come il suo genio
gli dettava, vale a dire, ricorrendo alla tradizione poetica che si
lasciava intravedere dietro le sperimentazioni neoclassiche del Tasso.
In altre parole, la soluzione del disegno strutturale non può essere
giudicata indipendentemente da quella adottata dalle fonti che ma-
neggiò.
Tra le dodici odi incluse dal Tasso nell’edizione del 1534, Garci-
laso potette leggerne due dedicate a Venere, una delle quali – «Che
pro mi vien ch’io t’habbia, o bella Diva» – era un’invocazione alla
dea affinché vincesse le resistenze della «vezzosa Terilla» la quale,
avendo «armato il cor di mattutino gelo», disprezzava il «dolce fuoco»
della dea, cosı̀ come il «desir [...] ardente» dell’amante-poeta. Benché

65
Il breve studio di D. Alonso, Sobre los orı́genes de la lira, pubblicato come appendice in
Poesı́a española. Ensayo de métodos y lı́mites estilı́sticos, Madrid, Gredos, 1950, è ora raccolto
in Obras completas, vol. IX, «Poesı́a española» y otros estudios, Madrid, Gredos, 1989, pp.
508-13. Cito dalla p. 510.

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 PARTE TERZA

tale schema fosse totalmente oraziano, in questo caso Tasso si era


ispirato, più che alle odi del venosino, a un’ode latina di Andrea
Navagero, nella quale il poeta e umanista veneziano si rivolgeva, a
sua volta, «Ad Venerem, ut pertinacem Lalagem molliat»66. In cam-
bio, Navagero sı̀ che si era ispirato direttamente a Orazio e, più
direttamente, all’ode in cui l’amante infelice dell’«arrogante Cloe»,
che in passato era stato fortunato amante e soldato onorato:

Vixi puellis nuper idoneus


et militavi non sine gloria

si rivolge ora a Venere marina affinché frusti, almeno una volta, la


sdegnosa fanciulla:
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... sublimi flagello


tange Chloen seme arrogantem (III, 26).

Garcilaso legge l’ode del Tasso, conosce con ogni probabilità


quella del Navagero e, attraverso questi due testi – dell’amico e del
vecchio maestro –, finisce per arrivare all’ode di Orazio, col quale,
naturalmente, aveva buona familiarità. E fu in virtù di questa familia-
rità che la memoria poetica di Garcilaso non mancò di stabilire certi
nessi con altri componimenti del venosino: l’ode a Venere lo con-
dusse, da un lato, a quella Lidia (I, 8) indicata come fonte da tutti i
commentaristi, dal Brocense fino a Dunn67; e dall’altro, all’ode a
Mercurio (III, 11), solo di recente segnalata, per abile merito di
Lázaro Carreter, in un saggio che risulta imprescindibile alla lettura
dell’ode di Garcilaso68. La dea d’amore e la fanciulla disamorata,
entità separate nell’ode a Venere, risultano condensate nella figura
unica di Violante, cosı̀ come in Mario percepiamo il riflesso del
protagonista maschile della stessa ode, ossia, di colui che come
amante non si considera più «puellis ... idoneus» e che come soldato
vive un presente «sine gloria». L’ode a Lidia, con la sua diretta
invocazione alla donna, dà luogo alla parte centrale del componi-
mento di Garcilaso, con l’unica differenza che il rimprovero alla

66
A. Navagero, Opera omnia, Venezia, 1754, pp. 192-93.
67
Si veda P. N. Dunn, La oda de Garcilaso «A la flor de Gnido» (1965), ora in E. L. Rivers
(a cura di), La poesı́a de Garcilaso, Barcelona, Ariel, 1981, pp. 127-62.
68
F. Lázaro Carreter, La «Ode ad florem Gnidi» de Garcilaso de la Vega, in Garcı́a de la
Concha (a cura di), Actas de la IV Academia literaria renacentista, cit., pp. 109-26.

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA METÀ DEL CINQUECENTO 

donna cambia di segno: l’eccesso d’amore che ha ridotto in cattive


condizioni Sibari, l’amante di Lidia, si vede sostituito dall’«aspereza»
di Violante, il cui effetto su Mario, tuttavia, non risulta meno
catastrofico. Infine, c’è da considerare l’ode a Mercurio, nella quale
– come ha notato molto bene Lázaro Carreter – «Horacio, construye
el motivo temático de ‘exhorto dirigida a una mujer para que ame’, y
lo combina, por vez primera, con un persuasivo ejemplo mitológi-
co»69. In effetti, quest’ode di Orazio si compone di due parti, dal
momento che manca in essa il discorso rivolto alla donna: c’è,
dunque, una prima parte costituita dall’invocazione alla divinità
affinché conceda al poeta-amante i «modos Lyde quibus obstinatas /
applicet aures», mentre la seconda parte è il racconto mitologico
delle figlie di Danao. Nell’ode di Garcilaso queste due parti si
riflettono, rispettivamente, nell’inizio, contenente il riferimento alla
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«lira», al potere e alla materia di essa, e nel finale che espone il mito
di Anassarate, con eguale valore suasorio. Prescindo, naturalmente,
dalle altre fonti, cosı̀ come dal concreto adattamento di cui furono
oggetto nel testo di Garcilaso, in quanto ciò che m’interessa ora è il
suo disegno strutturale. Prendendo a prestito la terminologia del
Tasso, potremmo dire che l’ode di Garcilaso assume la seguente
configurazione: un «proemio», con il riferimento canonico al canto
stesso, introduce la «materia principale», cioè l’esortazione alla
donna, da cui prende spunto la «digressione» consistente nell’esem-
pio mitologico, per terminare, infine, col ritorno alla «materia princi-
pale» delle ultime strofe. Alla rigorosa orditura del disegno contribui-
sce in buona misura la perfetta geometria di proporzioni di ognuna
delle parti. In effetti, il proemio, che è formato da sei strofe, si divide
al suo interno in tre gruppi di due strofe ognuno, secondo la traccia
data dalle unità sintattiche: protesi, apodosi negativa e avversativa; la
materia principale si estende lungo sette strofe, alle quali corrisponde
un eguale numero di strofe nella digressione; il componimento si
chiude col ritorno al tema principale, che occupa due strofe, come le
unità del proemio. Il «precioso juguete» – secondo l’appropriata
definizione di Menéndez Pelayo –70 si rivela, tra l’altro, una risposta
ai problemi di composizione che il Tasso, negli stessi anni, era stato
il primo a sollevare e a cercare di risolvere. Le brevi osservazioni che
precedono mostrano come la confluenza dei diversi testi oraziani

69
Ivi, p. 114.
70
M. Menéndez Pelayo, Horacio en España, 1885, 2ª ed., vol. II, pp. 13-15.

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 PARTE TERZA

nell’ode di Garcilaso si traduca in un preciso disegno strutturale che,


a dire il vero, non compare in nessuna delle fonti oraziane utilizzate
dal poeta spagnolo, e ancor meno nelle odi del Tasso che Garcilaso
ebbe la possibilità di conoscere. Rispetto ai tentativi quasi contempo-
ranei del Tasso, col suo eccessivo ricorso alla materia mitologica e i
suoi difetti di composizione: «abusò forse» – scrisse Pintor con
perspicacia a proposito dell’artificio della digressione – «non soltanto
con terminare nella similitudine, ma con prendere spesso di qui le
mosse, non concedendo talor neppur luogo adeguato al soggetto
proprio della poesia»71; rispetto ai tentativi non sempre felici del
Tasso – dicevo – l’ode di Garcilaso si caratterizza per il rigore con cui
il suo autore seppe selezionare e integrare, in un disegno unico, le
varie parti che compongono l’ode alla maniera oraziana, e aggiunge-
rei, in ultimo, per la sapienza con cui seppe coniugare il classicismo
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del genere con l’intimo petrarchismo che, nonostante le apparenze,


può essere rintracciato nell’intero testo72. Ma ciò ci porterebbe molto
lontano.

71
Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 167.
72
Un esempio di ciò può vedersi nelle fini osservazioni di F. Rico, Variaciones sobre
Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Actas del Coloquio Interdisciplinar «Doce consideraciones
sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés» (Bolonia, abril de 1976),
Roma, Publicaciones del Instituto Español de Lengua y Literatura de Roma, 1979, pp.
115-30, in part. le pp. 128-29. Per una diversa interpretazione della sesta strofa, si veda E.
M. Wilson, La estrofa sexta de la canción «A la flor de Gnido» (1952), ora in Rivers (a cura di),
La poesı́a de Garcilaso, cit., pp. 121-26, e W. M. Whitby, Transformed into What?: Garcilaso’s
Ode ad Florem Gnidi, in «Revista Canadiense de Estudios Hispánicos», XI (1986), pp.
131-43. Sull’ode di Garcilaso, in generale, oltre agli studi finora citati, si vedano: Lapesa,
La trayectoria poética, cit., pp. 146-47; A. J. Cruz, Imitación y transformación. El petrarquismo
en la poesı́a de Boscán y Garcilaso de la Vega, Amsterdam / Philadelphia, John Benjamins
Publishing, 1988, pp. 67-9; K. Reichenberger, Garcilaso Ode ad florem Gnidi, in Studia
Iberica. Festschrift für Hans Flasche, Bern / München, Francke Verlag, 1973, pp. 511-27; e,
infine, S. Pérez-Abadı́n Barro, La oda en la poesı́a española del siglo XVI, Tesi di dottorato,
Universidade de Santiago de Compostela, 1992, pp. 168-230 [la tesi è stata ora pubblicata
con lo stesso titolo dalla Universidade de Santiago de Compostela, 1995, pp. 65-94].

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L’EGLOGA A NAPOLI
TRA SANNAZARO E GARCILASO

«La égloga II, escrita al año o año y medio de su residencia en


Nápoles...»: con queste parole, in cui gli esordi di un genere ap-
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paiono vincolati al nome di una città, comincia il primo dei nove


paragrafi che il libro classico di Rafael Lapesa dedica all’opera
1
menzionata . L’appaiamento, del genere e della città, non può certo
ritenersi casuale; e ciò non solo per le ovvie ragioni inerenti alle
vicende biografiche del toledano, ma soprattutto per motivi insepara-
bili dalla cultura letteraria che era venuta determinandosi nella capi-
tale aragonese, prima, e vicereale, poi, nei decenni che precedettero
l’arrivo di Garcilaso in essa. Carlo Vecce, uno studioso di letteratura
latina umanistica, e di Sannazaro in particolare, cosı̀ riassume il
prolungato processo, nel corso del quale si era sviluppato il genere
pastorale, e il cui risultato finı̀ per imporsi – nei primi anni del XVI
secolo – da Napoli al resto d’Italia ed Europa:

Il codice bucolico napoletano [...] nelle forme in cui si era storica-


mente determinato, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90, alla
corte degli Aragonesi di Napoli, assumeva [con l’Arcadia di Sanna-
zaro] una posizione dominante in Italia ed Europa, perdendo via via i
connotati residui di cronaca contemporanea in veste pastorale2.

Si tratta di un’affermazione che merita di essere brevemente


illustrata. Torniamo, per un momento, alla citazione di Lapesa, dove
indirettamente ci viene suggerita la data di composizione dell’Egloga

1
R. Lapesa, La trayectoria poética de Garcilaso (1948), ora raccolto in Id., Garcilaso:
Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 96-116. Cito dalla p. 96.
2
C. Vecce, L’egloga Melisaeus di Giano Anisio tra Pontano e Sannazaro, in S. Carrai (a
cura di), La poesia pastorale nel Rinascimento, Padova, Antenore, 1998, pp. 213-34. Cito
dalla p. 213.

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 PARTE TERZA

II. Poiché Garcilaso arriva a Napoli tra l’estate e l’autunno del ’32,
risulta che, nell’ipotesi del maestro spagnolo, l’egloga in questione
dovette essere composta tra la seconda metà del ’33 e i primi mesi
dell’anno seguente. A quell’epoca, l’egloga a Napoli contava già su
una lunga storia, che potremmo far cominciare nell’aprile del 1468,
quando il senese Iacopo Fiorino de’ Boninsegni inviò le sue quattro
egloghe, da poco composte, ad Alfonso, duca di Calabria e primoge-
nito del re Ferrante di Napoli3. Qualche tempo dopo, già nel corso
degli anni settanta, un gruppo di poeti napoletani debuttava nel
genere per essi nuovo, contribuendo cosı̀, con le proprie opere, a
generare quell’«epidemia bucolica», che si protrasse negli ultimi due
o tre decenni del secolo XV, nelle corti settentrionali come nel sud
della penisola. Va senza dire che nelle loro egloghe, risultava ampia-
mente operante la lezione senese e fiorentina, a partire dalla quale,
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nei decenni precedenti, era venuto formandosi il codice bucolico


quattrocentesco4. A Napoli, del resto, più che altrove, non erano

3
Sulle relazioni politiche e culturali tra le città di Siena e di Napoli e, in particolare,
sull’influenza senese come fattore che favorı̀ l’introduzione del genere bucolico tra i letterati
della città partenopea, si vedano: E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, [1909],
pp. 170-80, 187, 202, dove leggiamo: «Pare che ai Senesi spetti il diritto di privativa
nell’introdurre il bucolismo in Napoli»; M. Corti, Le tre redazioni della «Pastorale» di P. J. De
Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’«Arcadia», in «Giornale storico della letteratura
italiana», CXXXI (1954), pp. 305-51, in part. pp. 316, 340, 345; C. Dionisotti, Jacopo
Tolomei fra umanisti e rimatori, in «Italia Medievale e Umanistica», VI (1963), pp. 137-76, in
part. pp. 173-76. Su Siena e la sua produzione bucolica, in particolare, sull’episodio
dell’invio delle quattro egloghe di Boninsegni a Alfonso, si veda S. Fornasiero, Presenze (e
assenze) della bucolica senese, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale, cit., pp. 57-72, in part.
p. 58.
4
Il processo risulta cosı̀ sintetizzato dalla Corti: «In Italia, a parte il filone dell’egloga
allegorica trecentesca e del romanzo allegorico-didattico (Ameto), e qualche sporadico
esempio di egloga della prima metà del Quattrocento (Giusto de’ Conti, L. B. Alberti), in
realtà solo a partire dal decennio 1460-70 [...] l’indirizzo bucolico assume la fisionomia di
una corrente letteraria che da Siena e da Firenze si diffonderà nei centri culturali del Nord e
del Sud, sino a trasformarsi, come testimonia la tradizione manoscritta, in una sorta di
epidemia bucolica», in Il codice bucolico e l’«Arcadia» di Jacobo Sannazaro (1968), raccolto in
Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 283-304; cito dalla p. 287. In effetti, questo
quadro risulta parzialmente modificato dagli studi e ricerche degli ultimi anni, grazie ai
quali la produzione dell’«inventore del genere in volgare», il senese Francesco Arzocchi,
deve anticiparsi alle prime decadi del secolo XV, finendo cosı̀ per coincidere, cronologica-
mente, con le opere bucoliche di Giusto e dell’Alberti; cosı̀ come alcuni episodi che
risalgono a un periodo anteriore agli anni ’60 testimoniano che le quattro egloghe dell’Ar-
zocchi godettero di una relativa circolazione manoscritta e perfino di imitazioni, per cui si
vedano almeno: S. Fornasiero, Introduzione a F. Arzocchi, Egloghe, Bologna, Commissione
per i testi di lingua, 1995, pp. LV-LXXVIII; F. Brambilla Ageno, La prima ecloga di
Francesco Arsochi e un’imitazione di Giovan Francesco Suardi, in «Giornale storico della
letteratura italiana», XCIII (1976), pp. 523-48. Per quanto riguarda Napoli, la moda
bucolica fu introdotta dal patrizio romano, Giuliano Perleoni, che, nel 1474, si rifugiò nella

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

mancate precoci occasioni di contatto con questo tipo di produzione,


grazie soprattutto agli intensi rapporti che la corte aragonese intrat-
tenne con la città di Siena, il che spiega il menzionato invio del
Boninsegni al duca di Calabria; ma grazie anche all’amicizia tra
alcuni letterati, come quella che unı̀ in anni giovanili il senese Filenio
Gallo, autore di un paio di egloghe, a due protagonisti dello sviluppo
del genere a Napoli, De Jennaro e Perleoni5. D’altronde, ben presto,
la pubblicazione di un volume, fresco di stampa nel febbraio del
1482, contribuı̀ in modo decisivo a fissare il canone della nuova
poesia pastorale in volgare, permettendone al contempo l’ampia
circolazione nell’intera penisola. Mi riferisco, naturalmente, alla fio-
rentina edizione Miscomini, dove si trovava raccolta – in sostanza –
l’intera produzione dell’«avanguardia bucolica quattrocentesca».
L’incunabolo, in effetti, si apriva col volgarizzamento delle Bucoliche
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virgiliane ad opera di un accademico «dei buccoici», Bernando Pulci;


proseguiva con le quattro egloghe del senese Francesco Arzocchi,
considerato l’«inventore del genere volgare»; e si completava con la
produzione del fiorentino Benivieni e quella di un altro senese, il
Boninsegni, le cui egloghe – abbiamo visto – circolavano a Napoli
quasi tre lustri prima che vedesse la luce la stampa Miscomini6.

capitale aragonese, dove compose due egloghe di tema politico-encomiastico – si veda E.


Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento di una struttura, in «Modern Language Notes»,
LXXXIV (1969), in part. pp. 91-95, dove si trova il testo dell’egloga per Galeazzo Maria
Visconti; G. Angiolillo, La «Satyra morale e prophetica» di Giuliano Perleoni (Rustico Romano),
in «Misure critiche», V (1972) –; per il nobile napoletano, Francesco Galeota, autore di due
componimenti pastorali, la Strussula in laude del Duca di Calabria e la Cansone in strusciola a
modo d’egrogha – si vedano M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del
secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 360-61; G. Parenti, «Antonio Carazolo
desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di filologia
italiana», XXXVII (1979) p. 178n –; e, soprattutto, per il poeta-funzionario, Pietro Jacopo
De Jennaro – si vedano E. Percopo, La prima imitazione dell’Arcadia, Napoli, Pierro, 1894 e
lo studio citato della Corti, Le tre redazioni della «Pastorale» di P. J. De Jennaro.
5
Sulle relazioni tra i tre letterati, si vedano i lavori della Corti, Le tre redazioni, cit., p.
316, e Per un fantasma di meno, in Metodi e fantasmi, cit., pp. 327-67, in part. pp. 355-57.
Per i testi delle due egloghe di Filenio, Lilia y Safira, si veda Rime di Filenio Gallo, a c. di M.
A. Grignani, Firenze, Olschki, 1973, pp. 69-85 e pp. 192-217, rispettivamente.
6
Sulle Bucoliche elegantissimamente composte (Firenze, Miscomini, 1482), in generale, si
veda F. Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte,
in «Studi e problemi di critica testuale», XL (1990), pp. 149-85. Più in particolare, sulla
traduzione di Pulci, S. Villari, Una bucolica «elegantissimamente composta»: il volgarizzamento
delle egloghe virgiliane di Bernardo Pulci, in V. Fera e G. Ferraú (a cura di), Filologia
Umanistica. Per Gianvito Resta, Padova, Antenore, 1997, vol. III, pp. 1873-937; per
Arzocchi, si veda la citata edizione della Fornasiero (supra, n. 4); sulle egloghe di Boninse-
gni, si veda Fornasiero, Presenze (e assenze), cit., pp. 58-62; su Benivieni, si veda F. Battera,
Le egloghe di Girolamo Benivieni, in «Interpres», X (1990), pp. 133-223.

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 PARTE TERZA

Con quali tratti si presentava, dunque, il canone della nuova


poesia pastorale in volgare, ai lettori della raccolta fiorentina? Metri-
camente, le egloghe lı̀ riunite oscillavano tra la soluzione del polime-
tro, appannaggio della fase più arcaica – quella dell’Arzocchi, per
intenderci –, e l’adozione della terzina spesso sdrucciola e per lo più
frottolata, che prevaleva nettamente nella produzione più recente di
un Benivieni7. I caratteri dello stile erano dettati da un manifesto
plurilinguismo, in virtù del quale coesistevano – gli uni e gli altri –
moduli pseudorustici e aulici, toni drammatici e sentenziosi8. Quanto
ai contenuti, infine, il «velame pastorico» trionfava. Grazie ad esso, il
letterato otteneva il sistematico travestimento di personaggi e avveni-
menti della vita cittadina in situazioni pastorali. Un breve passo, che
estraggo da un noto studio sull’argomento di Maria Corti, illustra
l’artificio con sintetica sapienza e ironica perizia:
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Vi è – scrive la Corti – un fitto conversare per l’Italia, divenuta un gran


club bucolico, di vicende letterarie e politiche, di speranze, delusioni,
vi è un continuo ammiccare dietro i simboli pastorali, a volte segreto e
oscuro a noi, chiaro per i contemporanei9.

Tracciati in estrema sintesi, questi erano i tratti fondamentali con


cui si presentava il modello dell’egloga quattrocentesca; un modello
a cui si mantennero sostanzialmente fedeli i poeti napoletani, al
momento di proseguire nel cammino intrapreso dai loro predecessori

7
«L’idea che gli sdruccioli in rima siano connotatori non equivoci del territorio formale
della poesia bucolica» (Fornasiero, Presenze (e assenze), cit., p. 69), si andrà affermando a
partire dalle inserzioni bucoliche nel Driadeo e nelle Pistole di Luca Pulci (Fornasiero,
Introduzione a Arzocchi, Egloghe, ed. cit., pp. XXVIII-XXXIII); una sintesi sulle relazioni
dei fratelli Pulci con la poesia bucolica si trova in S. Carrai, La lirica toscana nell’età di
Lorenzo, in M. Santagata e S. Carrai (a cura di), La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento,
Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 104-06), e più per esteso, in S. Carrai, Alle origini della
bucolica rinascimentale: Lorenzo e l’umanesimo dei fratelli Pulci, in Id., I precetti di Parnaso.
Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 113-28. Un
precedente della specializzazione degli sdruccioli per l’egloga è costituito dalla «continua-
zione» di Giovan Francesco Suardi (si veda Brambilla Ageno, La prima ecloga, cit.). Per gli
aspetti formali e la metrica, soprattutto, dell’egloga quattrocentesca, è imprescindibile lo
studio di D. De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddizione, in «Metrica», II
(1981), pp. 61-80.
8
Cfr. M. Corti, Rivoluzione e reazione stilistica nel Sannazaro (1968), raccolto in Metodi e
fantasmi, cit., pp. 307-23; cito dalla p. 310. Sulla questione, si veda anche Carrara, La
poesia pastorale, cit., pp. 170 ss.
9
Corti, Il codice bucolico, cit., p. 288. Sulla bucolica allegorico-politica in epoca soprat-
tutto medievale, è utile il panorama di H. Cooper, Pastoral. Medieval into Renaissance,
Ipswich-Totowa, D. S. Brewer-Rowman & Littlefield, 1977.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

toscani. Ma il più giovane di essi, un allievo di Lucio Grasso e di


Giuniano Maio, che presto divenne il maggior discepolo del Pon-
tano: Jacopo Sannazaro, insomma, era destinato a rivoluzionare il
genere pastorale, rinnovandone le forme e i temi, e offrendo cosı̀ –
con l’Arcadia – il nuovo modello bucolico, con cui si sarebbero
misurate diverse generazioni di poeti cinquecenteschi, italiani ed
europei. Eppure, l’Arcadia, lungi dall’essere concepita in maniera
unitaria, fu il risultato di un lento e difficile processo di elaborazione,
che si estese sull’arco di un quindicennio almeno, e conobbe tre
diverse redazioni. Quando ai «principiı́ de la sua adolescenzia», sui
vent’anni o poco più, il giovane Jacopo cedette alla voga della
bucolica10, lo fece seguendo le orme dei letterati napoletani più
anziani di lui11, con la composizione cioè di alcune egloghe sciolte,
dove – però – al lettore attento non sfuggiva come la lezione dei
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bucolici senesi si combinasse con una più accentuata presenza pe-


trarchesca, del Petrarca del Canzoniere. La strada che lı̀ era stata
appena tracciata, fu poco dopo percorsa con maggior risolutezza col

10
L’espressione riprodotta nel testo si legge nella prosa VII, 32, in occasione della
risposta di Carino a Sincero: «E sı́ come insino qui i principı̂ de la tua adolescenzia hai tra
semplici e boscarecci canti di pastori infruttuosamente dispesi...» (J. Sannazaro, Arcadia, a
c. di F. Ersparmer, Milano, Mursia, 1990, p. 124). La ritroviamo nell’epistola dedicatoria
di Pietro Summonte «Al Rev. Ill. Signor Cardinale di Aragona»: «essendo ella [l’opera] stata
composta son già molti anni e ne la prima adolescenzia del poeta» (ed. cit., p. 50).
Sull’espressione si vedano le precisazioni di G. Villani, Arcadia, in Letteratura italiana. Le
opere I. Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 869-87, in part. pp. 870-71.
Essendo nato nel 1457 (cfr. M. Corti, Ma quando è nato Jacobo Sannazaro?, in G.
Aquilecchia, S. N. Cristea, S. Ralphs (a cura di), Collected essays on Italian language &
literature presented to Katleen Speight, Manchester, Univ. Press Barnes & Noble Inc., 1971,
pp. 45-53), Sannazaro dovette comporre le sue prime egloghe sciolte tra la fine degli anni
sessanta e l’inizio della decade seguente; a favore della collocazione cronologica più precoce
sembra inclinarsi G. Velli: «il Sannazaro ha esordito sul terreno bucolico molto presto, sui
vent’anni, e con pezzi poetici isolati» (Sannazaro e le «Partheniae Myricae»: forma e significato
dell’«Arcadia», in Id., Tra lettura e creazione. Sannazaro-Alfieri-Foscolo, Padova, Antenore,
1983, pp. 1-56; cito dalla p. 32). A Sannazaro, oltre alle tre egloghe sciolte poi confluite
nell’Arcadia, Velli attribuisce anche l’egloga Alfanio e Cicaro, trasmessa da alcuni settori
della tradizione insieme all’Arcadia (si veda lo studio menzionato, pp. 20-32).
11
Se si considera che le egloghe sciolte di Sannazaro sono posteriori a quella di Rustico
Romano, Che fai, Thelemo, in questa riva strania, che – al massimo – risale al 1477 (si veda
E. Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento di una struttura, raccolto in Id., Il «soggetto» del
furioso e altri saggi tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Liguori, 1974, pp. 9-64, in part. le pp.
21-24), la questione della relazione cronologica con le più antiche egloghe della Pastorale di
De Jennaro sembra presentarsi ancora problematica, dal momento che l’influenza di
quest’ultimo sulle egloghe più antiche dell’Arcadia (I, II y VI), che pareva doversi conside-
rare un fatto acquisito, grazie ai lavori della Corti (Le tre redazioni, cit.; Rivoluzione e reazione
stilistica, cit., p. 314), è stata messa in dubbio da Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae»,
cit., p. 33.

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 PARTE TERZA

passaggio dalla pratica estravagante all’opzione per il libro struttu-


rato, durante la prima metà degli anni ottanta, quando nacque quel
Libro pastorale nominato Arcadio, che costituı̀ la prima redazione del
prosimetro, composto da dieci unità (prosa più egloga), introdotte da
un prologo12. Scrittore sempre insoddisfatto dei compromessi, e che
perciò amava ritornare sulla pagina scritta per rifiutare o consolidare
alcune scelte, il Sannazaro – tra il ’91 e il ’9613, probabilmente –
rimise di nuovo mano all’opera, sottoponendola a una puntuale e
significativa revisione: le unità, in prosa e in verso, furono ampliate a
dodici; le egloghe subirono «un gioco sottile di rifacimenti e corre-
zioni, maturati all’ombra pacificante del Petrarca»14; le stesse prose
non furono esenti da interventi che incisero soprattutto sul piano
linguistico. Il libro pastorale si era trasformato cosı̀ nell’Arcadia, come
noi la leggiamo – e i lettori del Cinquecento lo fecero –, a partire
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dall’edizione summontina del 150415.


Ripercorrere le diverse fasi della formazione dell’opera sarebbe,
forse, il modo migliore per arrivare a comprendere la natura del
nuovo modello bucolico che, all’alba del secolo, soppiantando defini-
tivamente l’egloga quattrocentesca, si era nutrita della precoce espe-
rienza senese e fiorentina. Temo, tuttavia, che ciò richiederebbe uno

12
La prima redazione del prosimetro dovette essere terminata nel 1484 «o poco più
oltre», secondo la testimonianza di Niccolò Liburnio, sul quale ha richiamato l’attenzione
per primo C. Dionisotti, Niccolò Liburnio e la letteratura cortigiana, in «Lettere italiane», XIV
(1962), pp. 57-58, e che è stata poi ripresa anche da Velli, Sannazaro e le «Partheniae
Myricae», cit., pp. 14-15. Tuttavia, si veda ora il cap. III, Il Libro intitulato Archadio:
un’ipotesi di datazione, di M. Riccucci, Il Neghittoso e il Fier Connubbio: Storia e filologia
nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001, pp. 161-204, dove si legge: «una
serie di indizi induce a credere che il libro Archadio abbia cominciato a prendere forma nel
1482-83 e che sia stato presentato alla Duchessa di Calabria a distanza di pochissimo
tempo, se non addirittura a ridosso della composizione della decima egloga: quando ancora
non era stata firmata la pace tra Innocenzo VIII e Ferrante (11 agosto 1486) e dunque tra il
14 gennaio e l’11 agosto dell’anno 1486» (p. 165).
13
Secondo la Corti, «l’attività correttoria iniziò nel periodo di relativa tranquillità seguito
in Napoli alla restaurazione aragonese, cioè dopo il 1496» (Il codice bucolico, cit., p. 312). La
proposta del periodo 1491-1495 risale a E. Carrara, Sulla composizione dell’«Arcadia», in
«Bullettino della Società filologica romana», VIII (1906), pp. 27-48; e, più recentemente, è
stata ripresa da Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., pp. 33-41.
14
Corti, Rivoluzione e reazione, cit., p. 311.
15
Per i processi redazionali, con ampie illustrazioni relative alla struttura del testo cosı̀
come alla sua lingua e stile, risultano fondamentali i menzionati studi della Corti: Le tre
redazioni, Il codice bucolico, Rivoluzione e reazione; a cui si aggiunga L’impasto linguistico
dell’«Arcadia» alla luce della tradizione manoscritta, in «Studi di Filologia italiana», XXII
(1964), pp. 587-619. Un quadro del processo redazionale globale offre il più recente
volume di G. Villani, Per l’edizione dell’«Arcadia» del Sannazaro, Roma, Salerno, 1989; dello
stesso autore si veda anche l’utile e documentata sintesi in Arcadia, cit., pp. 869-72.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

spazio maggiore di quello a mia disposizione. Rivolgiamoci, pertanto,


direttamente al testo definitivo, che è come, in effetti, l’opera circolò
tra i lettori del nuovo secolo, a partire dalla princeps citata, o – meglio
ancora – in una delle numerosissime edizioni cinquecentesche (nel-
l’ordine di una settantina), che si succedettero a cominciare dalla
prima giuntina o dalla prima aldina, entrambe del 151416.
Orbene, nel passaggio dalle prime egloghe estravaganti alla prov-
visoria redazione del Libro pastorale, sino ad arrivare all’assetto defini-
tivo dell’Arcadia, un dato sembra imporsi con assoluta evidenza. Non
c’è dubbio, difatti, che l’autore, da una fase all’altra, andò progressi-
vamente realizzando un unico e coerente disegno che, pur nella
pluralità dei livelli di esecuzione, ebbe come risultato quello di
ridurre la poesia bucolica nell’orizzonte della lirica, mettendo a segno
parimenti un doppio ritorno, a Virgilio e a Petrarca. Questa è, tra le
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altre, una delle principali conclusioni del bel saggio di Edoardo


Saccone, che – in proposito – afferma:

Il genere pastorale [...] posto [...] da Sannazaro sotto il segno di


Virgilio e Petraca, si è andato in lui con chiarezza e coscienza via via
crescenti, sempre più avvicinandosi, e a tratti risolvendosi nel genere
lirico17

e di seguito segnala l’emblematico riscontro di un tale programma in


una delle prime egloghe dell’Arcadia, la seconda, dove la Zampogna
di Montano e la lira di Uranio risultano «agguagliate», poste cioè
sullo stesso piano:

Egli è Uranio, il qual tanta armonia


Ha ne la lira, et un dir sı́ leggiadro,
che ben s’agguaglia a la sampogna mia (vv. 16-18)

versi nei quali, va senza dire, mentre la zampogna rappresenta la


poesia pastorale, la lira è il simbolo di quella lirica.

Ma cosa significa, esattamente, che con l’Arcadia Sannazaro


ridusse la bucolica nell’orizzonte della lirica? Per prima cosa pos-
siamo dire che egli recuperò l’amore come tema predominante del

16
Ampia informazione sulle edizioni cinquecentesche dell’opera di Sannazaro, il lettore
troverà in Villani, Per l’edizione dell’«Arcadia», cit., e nella «Nota sul testo» di A. Mauro nella
sua edizione di J. Sannazaro, Opere Volgari, Bari, Laterza, 1961, pp. 415-35.
17
Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 38.

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 PARTE TERZA

genere pastorale, lasciandosi alle spalle quella «ridottissima diffra-


zione rispetto al reale»18, ossia quel «continuo ammiccare» alle vi-
cende politiche e letterarie della vita cittadina, che – come abbiamo
visto – caratterizzava l’egloga quattrocentesca. Nell’Arcadia, difatti,
quest’elemento subisce un netto ridimensionamento, sebbene non
scompaia del tutto, come testimoniano – per esempio – le egloghe
sesta e decima, che con maggiore difficoltà si lasciano ricondurre al
tema d’amore, e dove riaffiora la tematica del «guasto del secolo», nel
mondo arcadico (la sesta), cosı̀ come nel regno di Napoli (la deci-
ma). E, tuttavia, se vista nel suo complesso, l’Arcadia non può non
apparirci come una singolare variazione sulla tematica del desiderio.
In tal senso, l’approdo sempre più convinto alla lezione petrarchesca
del Canzoniere risultava ineluttabile, era un elemento – per cosı̀ dire –
prestabilito del disegno che progressivamente si andava identificando
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e, al tempo stesso, realizzando, man mano che l’opera procedeva


verso l’assetto definitivo. Sull’argomento dovrò presto tornare. Ma, e
Virgilio, l’altro modello, sotto la cui guida Sannazaro portò a termine
il rinnovamento del genere? Nell’ampio riferimento alle Bucoliche
virgiliane, contenuto nella Prosa X, il poeta napoletano, per bocca
del «savio sacerdote» Enareto, passa in rassegna – con la sola esclu-
sione della settima e della nona – la maggior parte delle egloghe,
delimitandone la tematica19; ebbene – come nota il già menzionato
Saccone – «l’amore sembra in effetti quasi l’unico tema, certo il
predominante, che il Sannazaro intende sottolineare nelle bucoliche
virgiliane»20. Si tratta, naturalmente, di una lettura tendenziosa di
Virgilio, funzionale alla propria definizione della bucolica, sulla quale
ci converrà tornare, quando si porrà la questione del rapporto tra
Sannazaro e Garcilaso.
Se, dunque, la riduzione della bucolica all’ambito della lirica
costituisce il fattore che meglio e più in generale definisce il rinnova-
mento prodotto dall’Arcadia, le sue conseguenze furono davvero
molteplici, sia sul piano formale che su quello tematico. Limitiamoci
alle sole egloghe, ai componimenti – cioè – propriamente in versi. Sul

18
Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., p. 52 n. 36. Per una lettura «politica», si
veda, invece, M. Santagata, L’alternativa ‘arcadica’ del Sannazaro, in La lirica aragonese, cit.,
pp. 342-74. Nella stessa linea, M. Riccucci, Jacopo Sannazaro e la scelta del genere bucolico, in
G. D’Agostino e G. Buffardi (a cura di), Atti del XVI Congresso Internazionale di Storia della
Corona d’Aragona (Napoli, 1997), Napoli, Paparo Edizioni, 2000, vol. II, pp. 1575-602, e,
con maggiore estensione, il più recente libro di Ead., Il Neghittoso e il Fier Connubio, cit.
19
Sannazaro, Arcadia, pr. X 17-18, p. 169 dell’ed. cit.
20
Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 15.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

piano dei contenuti, difatti, sin dalla prima egloga, interamente


dedicata al canto disperato di Ergasto, fino a quella conclusiva che
contiene il canto di Meliseo «in doglia e lacrime» (v. 62) per la morte
dell’amata Filli, pressoché tutti i componimenti insistono sul tema
amoroso, variandone i modi e i toni, pur rimanendo sostanzialmente
fedeli al motivo dell’amore infelice e del desiderio inappagato. A
questo, in fondo, sembrano adeguarsi, oltre i già citati componimenti
estremi, anche i sospiri di Montano e Uranio dell’egloga seconda, la
canzone intonata da Galicio per Amaranta nella terza, il doppio
canto di Logisto ed Elpino nella quarta, i turbamenti di Sincero e
Clonico nelle egloghe settima e ottava e, naturalmente, le centrali
storie di Carino e Sincero, le cui vicende amorose appaiono parallele
e antitetiche, al tempo stesso. Ciononostante, in un limitato numero
di componimenti il tema amoroso risulta assente, come nel caso del
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doppio canto funebre di Ergasto per Androgeo e Massilia nella


quinta e undicesima egloga; o come nel caso, ancora più evidente e
significativo, dei due componimenti che denunciano il «guasto del
secolo» a favore dell’età dell’oro, e dove perciò sembra rispuntare –
come si è già detto – la più vistosa caratteristica tematica della
superata egloga quattrocentesca. D’altro lato, sarebbe un errore voler
ignorare che l’integrazione di certe egloghe nel libro non sempre
risulta un’operazione perfettamente riuscita, aspetto che introduce il
difficile problema dell’unità dell’opera, a cui dovremo accennare,
non prima – però – di aver fornito qualche breve ragguaglio sull’a-
spetto formale – metrico e stilistico – delle egloghe stesse.
Ho già ricordato che, prima che nascesse il progetto dell’Arcadia,
il giovane Sannazaro si era dedicato alla composizione di alcune
egloghe sciolte, alla stregua di altri letterati napoletani. È anche
certo, grazie agli studi della Corti, che tre di esse vennero recuperate
al progetto del libro, dove occuparono stabilmente la prima, seconda
e sesta posizione. Orbene, la metrica di queste composizioni mostra
come all’epoca su Jacopo operasse decisamente l’influsso della poesia
bucolica quattrocentesca, del modello senese in particolare. Difatti,
se la polimetria della prima egloga rimanda direttamente all’Arzoc-
chi, l’impiego di terzine sdrucciole per lo più frottolate delle altre due
confermava la forma specifica che, in quanto a metrica, l’egloga
aveva assunto nella fase matura del suo sviluppo quattrocentesco.
Con la realizzazione del libro, tuttavia, la spinta rinnovatrice emerge
con forza, tanto è vero che furono promosse a forme metriche
dell’egloga, forme consacrate dalla tradizione lirica petrarchesca: due

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 PARTE TERZA

egloghe, difatti, si presentavano come canzoni, nel metro – niente-


meno – di Chiare, fresche e dolci acque e di Se ’l pensier che mi strugge; e
altre due assumevano la veste metrica della sestina, «consegnata dal
medesimo Petrarca ai fasti della lirica fino ai giorni nostri»21.
Ma, in verità, se astraiamo dal fattore metrico, l’intuizione di uno
sviluppo lirico della bucolica risultava già tangibile nelle stesse eglo-
ghe sciolte, che precedettero l’ideazione del libro. Non c’è alcun
dubbio, difatti, che già in queste prime egloghe, Sannazaro operi, a
livello di linguaggio poetico, su un doppio registro, il primo dei quali
riporta al modello bucolico quattrocentesco, senese e toscano, men-
tre il secondo rinvia alla presenza, maggiormente accentuata, della
lezione petrarchesca, di quella del Canzoniere in particolare. L’oscil-
lare tra i due registri indicati, oltre che indizio dell’irresolutezza in
cui ancora si dibatteva il giovane poeta, lascia però scorgere una
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precisa direttrice lungo la quale probabilmente egli si sarebbe mosso,


qualora avesse deciso – come di fatto fece – di impegnarsi ulterior-
mente nella poesia pastorale. Insomma, in questa primissima fase,
l’accentuata presenza di stilemi petrarcheschi, accanto a tratti de-
sunti dal linguaggio bucolico quattrocentesco, lascia chiaramente
prevedere la formazione di un nuovo modello bucolico che, incam-
minato verso la lirica e nutrito dalla lezione petrarchesca, avrebbe
finito per rinnovare profondamente il genere cosı̀ nei temi e nelle
forme metriche, a cui ho già avuto modo di accennare, come nello
stile; aspetto – quest’ultimo – che cercherò di illustrare concreta-
mente con un solo esempio estrapolato dall’egloga II, ossia da una
delle egloghe precedenti l’Arcadia, che ebbero circolazione estrava-
gante. Se leggiamo rapidamente i versi che pronuncia il pastore
Montano, alla fine dell’egloga, nella prima redazione dell’opera:

Pastor, che sete intorno al cantar nostro,


se algun di voi ricerca fuogho e escha
per riscaldar lo ovile,
non bisogna focile
ma venite al mio cor ch’io ve’l dimostro;
che in fuogho e’n fiamma ognior più se rinvescha
dal dı́ ch’io vidi l’amoroso sguardo,
ove anchor ripensando aghiaccio et ardo (vv. 117-124)

21
De Robertis, L’ecloga volgare, cit., dove il lettore troverà un’esposizione fondamentale
della relazione tre le varie soluzioni metriche delle egloghe dell’Arcadia e la tradizione che le
presuppone, in part. pp. 62-66; la citazione è dalla p. 62.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

Lezione petrarchesca e linguaggio bucolico quattrocentesco convi-


vono l’una accanto all’altro; per intenderci facilmente: l’ossimoro
«aghiaccio et ardo» segue a breve distanza la rima ovile / focile,
prelevata dai bucolici anteriori. Una tale contemperanza stilistica
risulta attenuata, o cancellata addirittura, nella redazione definitiva,
dove i versi centrali possono leggersi nella seguente versione:

per riscaldar la mandra,


vegna a me salamandra,
felice inseme e miserabil mostro,
con cui convien ch’ognor l’incendio cresca

completamente rifatti con un più massiccio richiamo a microunità


stilistiche delle Rime22.
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In conclusione, con l’Arcadia del 1504, l’egloga ne usciva del


tutto rivoluzionata, per tematica, metrica e stile. Ma la novità mag-
giore dell’Arcadia consisteva, senza dubbio alcuno, nell’ideazione di
un libro strutturato, che pertanto supponeva il superamento delle
egloghe sciolte, la cui presenza risultava rifunzionalizzata all’insieme
più organico del prosimetro che le conteneva. Tuttavia, sarebbe
ingiusto considerare univoco il rapporto che lega il radicale rinnova-
mento dell’egloga all’ideazione del libro strutturato. Difatti, se è vero
che la realizzazione del libro spinse l’autore a una maggiore risolu-
tezza nella trasformazione dell’egloga, è altrettanto vero che il doppio
registro già presente nelle egloghe sciolte dovette suggerirgli l’idea di
un loro superamento, a favore di un progetto più ampio e unitario.
Ma davvero l’Arcadia può essere considerata un’opera unitaria? È
noto che, in proposito, non esiste unanimità di giudizio, dal mo-
mento che c’è chi ha reputato l’opera un coacervo incoerente, che
rispecchia le numerose e complesse fasi di elaborazione, e che –
pertanto – non è esente da incongruità e dissolvenze; ma c’è anche
chi, con autorevolezza non minore, ha invece difeso il carattere
unitario e l’organica strutturazione del libro, pur concedendo che il
tormentoso processo che portò alla sua realizzazione ha lasciato
inevitabili tracce nel prodotto definitivo, dove è – difatti – possibile

22
Per la prima redazione dell’Arcadia bisogna ricorrere ancora a «Arcadia» di Jacopo
Sannazaro secondo i manoscritti e le antiche stampe, a c. di M. Scherillo, Torino, Loescher,
1888. Per l’esempio addotto, si veda anche Corti, Rivoluzione e reazione stilistica, cit., pp.
319-20 e Saccone, L’Arcadia, storia e delineamento, cit., p. 29, dove si troveranno i
riferimenti esatti al Canzoniere petrarchesco (CLXV, 8-9, 13; CCVII, 40-44).

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 PARTE TERZA

ravvisare un’armonizzazione non del tutto riuscita e un’integrazione


non perfetta di certe egloghe23. In ogni caso, è evidente che l’idea del
libro strutturato è tutt’uno con la presenza dell’io nel mondo pasto-
rale: una presenza che, nella prima parte dell’opera, compare appena
nella discretissima figura dell’«osservatore insieme partecipe e distac-
cato rispetto al mondo dei pastori»24; emerge, poi, con più precisi
connotati nella prosa sesta, in un passo decisivo: «Finalmente io (al
quale e per la allontananza de la cara patria e per altri giusti accidenti
ogni allegrezza era cagione di infinito dolore)...»25; è protagonista,
infine, del racconto autobiografico della prosa settima, che prosegue
e culmina nel ritorno in patria nell’ultima prosa del testo definitivo.
Pur con le inconfutabili indecisioni e discrepanze, il libro finisce col
delineare il racconto di un viaggio di andata e ritorno, compiuto da
Sincero – Sannazaro: da Napoli alle selve dell’Arcadia, e da questa di
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nuovo a Napoli, o – meglio – alle selve napoletane, perché la storia si


conclude presso le rive del Sebeto, ai piedi del colle, dove il rimpa-
triato ritrova «Barcinio e Summonzio, pastori fra le nostre selve
notissime»26. E, tuttavia, sarebbe un errore accordare un eccesso di
favore alla dimensione narrativa dell’opera; sbaglierebbe, insomma,
chi pretendesse di fare dell’Arcadia il primo romanzo pastorale. Il
significato del libro, allora, più che in un’infondata volontà affabula-
trice, va ricercato piuttosto nel graduale affioramento di una soggetti-
vità, che – nel corso dell’opera – va acquistando, via via, sempre più
forma e consistenza, e che – del resto – fa tutt’uno con quel processo
di liricizzazione, con cui – come abbiamo visto – Sannazaro rinno-

23
A favore di una contraddizione tra la prima e la seconda parte dell’Arcadia si era già
pronunciato Carrara, La poesia pastorale, cit., p. 193. È stata, tuttavia, la Corti che,
nell’apportare il massimo contributo alla conoscenza del processo redazionale dell’Arcadia,
ha sottolineato lo sviluppo narrativo che l’opera riceve nella seconda parte, concludendo il
suo studio su Il codice bucolico, cit., con l’affermazione secondo la quale «nella seconda
Arcadia la crisi del sistema delle fonti coincide con la crisi della struttura dell’opera. [...] Il
solo livello unitario della seconda redazione è in certa misura il linguistico» (p. 304).
All’individuazione di una struttura coerente dell’opera sono tesi gli sforzi di due studiosi,
autori di altrettanti lavori importanti sull’Arcadia, sebbene raggiungano risultati distinti in
relazione soprattutto al valore che l’autore assegna alla poesia bucolica: Saccone, L’Arcadia:
storia e delineamento, cit., e F. Tateo, La crisi culturale di Jacopo Sannazaro, in Id., Tradizione
e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1974, pp. 11-109, in part. pp. 11-70. Alla
struttura globale dell’opera e alla ricostruzione del suo ordinato equilibrio interno sono
dedicate le pagine finali dello studio di Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., pp.
42-56.
24
Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., p. 44.
25
Sannazaro, Arcadia, pr. VI 4; ed. cit., p. 107.
26
Ivi, pr. XII 48; ed. cit., p. 222.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

vava la bucolica. È, dunque, in rapporto a questo nucleo centrale di


significato, ossia: la progressiva emersione di una soggettività rappre-
senta dal personaggio di Sincero, da cui viene come filtrato il mondo
dei pastori osservato e descritto da quell’«esule volontario»; è in
rapporto a tale nucleo – dicevo – che andrebbero commisurate tutte
le altre materie e i singoli temi che, via via, si affacciano ed espan-
dono nel corso dell’opera: dal tema predominante del desiderio
inappagato che pervade l’intero libro, a quello della morte che si
concentra nella parte finale, con i tre lutti femminili di Massilia, di
Filli e della «singulare Fenice»; e ancora: dal connubio di natura,
come ordine perduto, e di arte o artificio, a cui si affida il recupero
della perdita, all’intreccio tra concreta storicità individuale, da un
lato, e realtà arcadica, mitica e atemporale per definizione, dall’altro.
Come tali materiali si coagulino in un insieme coerente di significati,
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è davvero un’impresa troppo ardua per essere tentata nel poco tempo
che rimane, e che vorrei invece impiegare per tornare all’aspetto es-
senziale della definizione e delimitazione della bucolica, come la
concepı̀ e concretamente realizzò Sannazaro; un aspetto che – come
si vedrà – ci farà da ponte verso le egloghe di Garcilaso. Ma, prima di
entrare in quest’ultima impegnativa questione, concediamoci non
più di una rapida occhiata sulle sorti del genere bucolico a Napoli,
nel trentennio circa che separa l’edizione summontina dell’Arcadia
dal primo esperimento bucolico di Garcilaso.
Ebbene, nel periodo che ora c’interessa, nonostante il momento
di massima fortuna del genere e la supremazia di Sannazaro, a
Napoli la bucolica scomparve. È vero che, nel 1508, poco dopo la
morte dell’autore, si pubblicò la Pastorale di Pietro De Jennaro, ma
l’opera era il frutto di una stagione superata della bucolica. Non si
verificò lo stesso fuori di Napoli, dove si produssero alcune significa-
tive novità, come quella metrica: qui, difatti, l’egloga prese la strada
dell’endecasillabo sciolto che, dopo l’esempio dell’Alemanni subito
seguito dal Trissino, finı̀ per imporsi in sostituzione della terza rima.
In cambio, a Napoli, nei primi tre decenni del secolo, l’egloga fu solo
latina: in ciò poeti come Egidio da Viterbo, Pomponio Gaurico,
Girolamo Angeriano e Giano Anisio seguirono, in sostanza, l’esem-
pio dello stesso Sannazaro che, di ritorno dall’esilio francese nella
primavera del 1505, portava a cinque le Eclogae piscatoriae, lasciando
incompiuto un frammento della sesta27. Bisognerà attendere la

27
Cfr. Vecce, L’egloga Melisaeus, cit., pp. 213-16.

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 PARTE TERZA

quarta decade del secolo per assistere a Napoli alla rinascita dell’e-
gloga in volgare. In non più di un lustro, un gruppo di poeti, tutti – o
quasi – amici di Garcilaso, ne promosse il risveglio: all’inizio della
decade dovrebbe, infatti, risalire I due pellegrini di Tansillo; tra il ’31
e il ’34, Tasso compose la sezione delle sette egloghe che provvide a
pubblicare nella seconda edizione degli Amori; nel ’33, Bernardino
Rota componeva ben 13 egloghe piscatorie, che furono stampate
molti anni dopo; al ’35, infine, risalgono le tre egloghe di Antonio
Minturno, con le quali fu introdotta a Napoli la novità metrica del
genere, che ho appena ricordato28.
Alla fine e – direi – al culmine di questo percorso napoletano,
ritroviamo Garcilaso. Non sorprende che giunto a Napoli nel ’32, in
un contesto culturale e poetico che vantava una tradizione egloghi-
stica da più di mezzo secolo – a partire da quell’episodio dell’ormai
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lontano 1468 con cui ho dato inizio a queste note –, e in un clima di


fervido e rinnovato interesse per l’egloga in volgare; non sorprende –
dunque – che Garcilaso decidesse di «llevar [...] el patrio celebrado y
rico Tajo» «por un camino hasta agora enjuto», seguendo in ciò «a
Tansillo, a Minturno, al culto Tasso». Sono parole e versi programma-
tici, che – a mio parere – vanno ben al di là del semplice proposito di
seguire l’esempio dei sodali menzionati nell’elogio della nobildonna
Marı́a de Cardona, e che lasciano intravedere il più ampio e impegna-
tivo intento di fecondare con la sua arte l’arido terreno della poesia
spagnola, allo scopo di far germogliare in esso il frutto dei nuovi generi
poetici, di quelli neoclassici in particolare29. Lo fece, in primo luogo,

28
Sullo sviluppo dell’egloga cinquecentesca risulta ancora utile Carrara, La poesia pasto-
rale, cit., pp. 383 ss. I due pellegrini di Tansillo è accesibile solo nella vecchia edizione
contenuta in L’egloga e i poemetti, a c. di F. Flamini, Napoli, Biblioteca napoletana di storia
e letteratura, 1893, pp. 1-46. Su questo componimento possono leggersi le pagine di F.
Tateo, Giardino principesco e Paradiso biblico, in Chierici e feudatari del Mezzogiorno, Roma-
Bari, Laterza, 1984, pp. 115-43, in part. pp. 120-25. Per le egloghe di Tasso e di Rota, si
vedano ora: B. Tasso, Rime, a c. di D. Chiodo, Torino, Res, 1995, vol. I, pp. 261-87; B.
Rota, Egloghe piscatorie, Torino, Res, 1990. Infine, per quanto riguarda i componimenti
bucolici di Alamanni e Trissino, si può ricorrere a: L. Alamanni, Versi e prose, a c. di P.
Raffaelli, Firenze, Le Monnier, 1859, 2 voll.; G. Trissino, Rime 1529, a c. di A. Quondam,
Vicenza, Neri Pozza, 1981.
29
Per il testo del sonetto Illustre honor del nombre de Cardona, si veda Garcilaso de la Vega,
Obra poética y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı́tica, 1995, pp. 45-46. Su di
esso, si veda anche il breve commento di D. L. Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian
Renaissance, Pennsylvania, The Pennsylvania State University Press, 1994, pp. 275-77, e le
mie fugaci osservazioni in Garcilaso de la Vega e la nuova poesia in Spagna, dal retaggio
cancioneril ai modelli classici, in U. Criscuolo (a cura di), Mnemosynon. Studi di letteratura e di
umanità in memoria di Donato Gagliardi, Napoli, Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

con una lunga egloga – la seconda –, i cui debiti nei confronti


dell’Arcadia sono cosı̀ palesi e molteplici da giustificare l’idea che in
lui operasse la deliberata volontà di misurarsi col Sannazaro sul
terreno della concezione generale della bucolica, spingendo cosı̀ il
rapporto col modello oltre i limiti della pur fondamentale scelta
metrica, o della macroscopica versificazione della prosa VIII, e di altre
più puntuali riprese testuali30. Del resto, è ovvio che per un poeta della
genialità di Garcilaso l’assimilazione di un modello non va mai
separata dalla propensione a intraprendere nuove rotte.
Proprio dalle pagine di Lapesa che ho ricordato all’inizio, sap-
piamo che l’egloga II pone un difficile problema d’unità, che il
maestro ha in parte risolto sul piano formale, riconoscendo il gioco
di simmetrie sotteso all’impiego delle diverse forme metriche; una ri-
cognizione che, tuttavia, non gli ha impedito di ribadire la mancanza
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di «toda la cohesión estética deseable»31. Non credo che i componi-

Classica «Francesco Arnaldi» dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, 2001, pp.
267-82 [ora raccolto in questo volume, pp. 141-56].
30
Considerata da Lapesa «la mina más explotada» da Garcilaso nella sua seconda egloga
(La trayectoria, cit., p. 107), all’Arcadia e alle sue relazioni con il componimento di Garcilaso
sono dedicate molte delle pagine del libro di I. Azar, Discurso retórico y mundo pastoral en la
«Egloga segunda» de Garcilaso, Amsterdam, John Benjamins, 1981, pp. 84-119, cosı̀ come le
puntuali note, a pie di pagina e complementari, di B. Morros nella sua citata edizione di
Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, pp. 141 ss.
31
Lapesa, La trayectoria, cit., p. 115, per la «disposición notablemente simétrica», si
vedano le pp. 98-100. Al carattere eterogeneo dell’egloga, sul quale si era già pronunciato
per primo Herrera (Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, a c. di A. Gallego Morell,
Madrid, Gredos, 1972, p. 501, H-503), e ai vari tentativi di ricomporre la sua unità di
costruzione e di significato è dedicata la maggior parte dei contributi critici sul componi-
mento, tra i quali si vedano almeno: A. Lumsden, Problems connected with the Second Eclogue
of Garcilaso de la Vega, in «Hispanic Review», XV (1947), pp. 251-71; M. Arce de Vázquez,
La Egloga segunda de Garcilaso, in «Asomante», V (1949), n˚ 1, pp. 57-73 e n˚ 2, pp. 60-78;
I. Macdonald, La Egloga II de Garcilaso (1950), raccolto in E. L. Rivers (a cura di), La
poesı́a de Garcilaso, Barcelona, Ariel, 1974, pp. 209-35; R. O. Jones, The Idea of Love in
Garcilaso’s Second Eclogue, in «Modern Language Review», XLVI (1951), pp. 388-95; P. M.
Komanecky, Epic and Pastoral in Garcilaso’s Eclogues, in «Modern Language Notes»,
LXXXVI (1971), pp. 154-66; E. L. Rivers, Nymphs, Shepherd and Heroes: Garcilaso’s Second
Eclogue, in «Philological Quarterly», LI (1972), pp. 123-34; P. Waley, Garcilaso’s Second
Eclogue is a Play, in «Modern Language Review», LXXII (1977), pp. 585-96; I. Azar,
Discurso retórico, cit., in part. il cap. La estructura retórica de la Egloga segunda, pp. 120-39;
D. Fernández–Morera, The Lyre and the Oaten Flute: Garcilaso and the Pastoral, London,
Tamesis, 1982, pp. 54-72; S. Zimic, Las églogas de Garcilaso de la Vega: ensayos de
interpretación, in «Boletı́n de la Biblioteca de Menéndez Pelayo», LXIV (1988), pp. 5-107, in
part. le pp. 35-78; A. Ramajo Caño, Para la filiación literaria de la Egloga II de Garcilaso, in
«Revista de Literatura», LVIII (1996), pp. 27-45; M. A. Wyszynski, Friendship in Garcilaso’s
Second Ecloghe: Thematic Unity and Philosoplical Inquiry, in «Hispanic Review», LXVIII
(2000), pp. 397-414; A. Garcı́a Galiano, Relectura de la Égloga II, in «Revista de Literatura»,
LXII (2000), pp. 19-40.

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 PARTE TERZA

menti menzionati da Fernández Morera: dalle egloghe latine del


Boiardo al Tirsi di Castiglione al pezzo di Pietro Corsi, valgano a
dare conto totale della prima prova pastorale di Garcilaso32, la cui
comprensione si avvantagerebbe – opino – da un raffronto con San-
nazaro, in termini di concezione generale della bucolica. Torniamo,
perciò, brevemente al napoletano.
In più di un’occasione e con varietà di forme, Sannazaro nell’Ar-
cadia si preoccupò di precisare i limiti del genere bucolico, e lo fece
coerentemente con la sua idea di liricizzazione del genere. Ciò si
verifica in almeno quattro occasioni nel corso dell’opera: sia per voce
diretta dell’autore, nel prologo e nell’epilogo «A la sampogna»; sia per
via indiretta, attraverso il personaggio di Carino, nel vaticinio che
questi pronuncia nei confronti di Sincero, molto più estesamente,
attraverso il «savio sacerdote» Enareto, il quale – nella decima prosa –
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traccia a grandi linee una storia della poesia pastorale, dalle mitiche
origini del «selvatico idio» Pan sino al «mantuano Titiro» – Virgilio –,
passando per il «pastore siracusano», ossia Teocrito. Lo spazio mag-
giore di tale storia è dedicato, naturalmente, al poeta latino, a
proposito del quale ho già accennato alla lettura tendenziosa che
Sannazaro compie delle sue egloghe. Ma poiché non tutte le celebri
composizioni del mantovano potevano essere lette in chiave lirico-
amorosa, Sannazaro fu costretto a far dire a Enareto che il manto-
vano

non contentandosi di sı́ umile suono, vi cangiò quella canna che voi
ora vi vedete più grossa e più che le altre nova, per poter meglio
cantare le cose maggiori e fare le selve degne degli altissimi consuli di
Roma33.

32
Fernández-Morera, The Lyre and the Oaten Flute, cit., pp. 63-64. Naturalmente non si
mette in dubbio la diffusione nella letteratura neolatina come in quella in volgare dell’egloga
di tema celebrativo e encomiastico, o di quella che combina, in varie forme e misure, il tema
amoroso con quello encomiastico. Ma, una volta accettata la conclusione dello stesso
Fernández-Morera, secondo la quale «we can accept the “hybridism” of Garcilaso’s work as
intentional, justified by the tradition of the form» (p. 65), credo che gli autori menzionati
dallo studioso non risultano granché utili a comprendere il senso di un componimento
come l’egloga seconda, e neppure a precisare l’elaborazione concettuale relativa alla
bucolica che guida il toledano nel suo primo esperimento del genere. Per un ampio
panorama dell’egloga neolatina, celebrativa e panegirica, si vedano i capp. X e XI di W. L.
Grant, Literature and the Pastoral, Chapel Hill, University of North Carolina Press, pp.
290-330 e 331-70, rispettivamente. Le egloghe latine di M. M. Boiardo possono ora leg-
gersi in Pastoralia, a c. di S. Carrai, Padova, Antenore, 1996; mentre per l’opera bucolica di
Castiglione e Gonzaga, si veda lo studio e l’edizione di C. Vela, Il Tirsi di Baltassar
Castiglione e Cesare Gonzaga, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale, cit., pp. 245-92.
33
Sannazaro, Arcadia, pr. X 19, ed. cit., p. 170.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

Insomma, non contento dello stile umile della poesia pastorale,


Virgilio aggiunse un’ottava canna – «più grossa e più che le altre
nova» – alle sette di cui era già dotata la zampogna ereditata da Pan e
da Teocrito. Grazie ad essa, il poeta latino fu in grado di elevare il
genere pastorale alle «cose maggiori», a una poesia – cioè – più nobile
e dotta, che altra non era che il civile carmen34. Fu cosı̀ che l’umile
bucolica ebbe accesso ai nobili palazzi, e le selve furono degne dei
grandi, con ripresa letterale del celebre verso della quarta bucolica
virgiliana: «si canimus silva, silvae sint consule dignae». Sull’argo-
mento Sannazaro ritorna estesamente nell’epilogo del testo defini-
tivo, quando il «peregrino d’amore», dando per terminata l’esperienza
arcadica, e con lo sguardo rivolto alle «fatiche» passate, si dirigerà
direttamente alla «rustica e boscareccia sampogna», prima di sepa-
rarla per sempre dalle sue labbra. Ebbene, pur ribadendo che «in altri
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tempi sono già stati pastori sı́ audaci che insino a le orecchie de’
romani consuli han sospinto il loro stile»35, rimarcherà senza esitare
che diversa è la destinazione che egli reclama per la sua sampogna,
esortandola a non seguire quell’esempio, perché: «A te – dice – non ti
appartiene andar cercando gli alti palagi de’ prencipi né le superbe
piazze de le populose città»36. Il suo luogo sarà, invece, quello
appartato, lontano dagli aristocratici palazzi e dalla affollata città: «da
37
boschi e da luoghi a te convienti non ti diparte» . Si tratta di un
punto estremamente delicato, in cui si riflette – a mio parere – un
nodo non del tutto risolto della concezione della bucolica di Sanna-
zaro, il quale – nell’Arcadia – approva e nega al tempo stesso il
modello virgiliano. Da un lato, difatti, lo accoglie, fino a darne la
lettura tendenziosa che sappiamo, e – d’altro lato – sembra rifiutarlo,
denunziandone il fuorviamento dai connaturali monti e selve verso i
meno propizi palazzi principeschi delle città38.

34
Per l’espressione di civile carmen, si vedano i versi di Giovanni del Virgilio: «... Si cantat
oves et Tityrus hircos/aut armenta trahit, quianam civile canebas/urbe sedens carmen...»
(Johannes de Virgilio Danti Alagherii Egloga responsiva, vv. 26-28, in Dante Alighieri, Opere
minori, tomo II: De vulgari eloquentia, Monarchia, Epistole, Egloge, Questio de aqua et terre, a c.
di P. V. Mengaldo et alii, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1979, pp. 674-76).
35
Sannazaro, Arcadia, «A la sampogna», ed. cit., p. 241.
36
Ivi, p. 239.
37
Ivi, p. 240.
38
Tateo ha messo in evidenza che «la soluzione del romanzo [l’Arcadia] [...] include
anche un’intenzione di carattere “letterario” nel proposito di mutare “genere”» (La crisi
culturale, cit., p. 58). In effetti, nella disgrazia della morte prematura della giovane amata, lo
studioso ha visto «il simbolo narrativo della morte della poesia bucolica» (p. 37), il cui
superamento risulta evidente nell’aggiunta delle due parti della redazione finale, dove
Sannazaro «si cimentò col tema dei giochi funebri, un tema proveniente dall’Eneide, e con

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 PARTE TERZA

Credo che, nel concepire l’egloga II, Garcilaso non rimase indif-
ferente al nodo rimasto insoluto nell’opera, che senza dubbio dovette
impressionarlo molto per la sua qualità di libro strutturato non meno
che per i concreti risultati delle singole composizioni. Si trattava,
pertanto, di trovare una soluzione che, saldando i fili sciolti della
bucolica classica e volgare, fosse capace di restituire l’integrale le-
zione virgiliana (paulo maiora canamus), e di garantire al tempo stesso
la fedeltà al nuovo modello pastorale offerto dall’Arcadia. In altri
termini, l’operazione difficile e rischiosa che Garcilaso mise in pra-
tica nell’egloga II, consisteva nel tentativo d’integrare in un’unica
composizione, organica – almeno nelle intenzioni –, la dolorosa
materia amorosa, a cui Sannazaro aveva circoscritto il genere buco-
lico, e il canto delle «cose maggiori», a cui aveva dato voce Virgilio in
alcune delle sue egloghe. Orbene, Garcilaso non si limitò ad acco-
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gliere la tematica amorosa dell’Arcadia, nella sua doppia articola-


zione di malattia d’amore e guarigione da essa, che – come tutti
ricordano – si riflette nelle vicende di Albanio e Nemoroso, «tristes
amadores» (v. 1091) entrambi: ma il primo è ancora in preda alla
follia d’amore, a causa della passione non corrisposta per Camila;
mentre il secondo, già tornato «libre y sano» (v. 1097), deve all’«efi-
caz remedio» (v. 1090) praticato da Severo la guarigione dal mal d’a-
more.
Nell’accogliere tale tematica, Garcilaso sviluppa una possibilità
che nell’Arcadia viene fatta balenare, ma che viene poi consapevol-
mente rifiutata dall’autore. Mi riferisco a una passo dell’Arcadia,
dove l’eventualità che la bucolica assuma il canto delle «cose mag-
giori» affiora nel testo, non più nella prospettiva passata di storia del
genere – come avveniva nella prosa decima, a cui ho già accennato –,
ma questa volta nella prospettiva futura, a cui è legata la sorte di
Sincero. Mi spiego. Alla fine della prosa settima, dopo aver ascoltato
il racconto autobiografico di Sincero, Carino augura allo sventurato
che «gli dii ne le braccia lo rechino de la desiata donna» (123), e lo
prega di fargli riascoltare «quelle rime che, non molto tempo è, ti udii
cantare ne la pura notte»39. Se Sincero acconsentirà, Carino saprà
come premiarlo, perché (ecco il passo che c’interessa):

quello del viaggio sotterraneo di Sincero, in cui rivive il mito conclusivo delle Georgiche» (p.
39). Il tema è stato trattato fugacemente da W. J. Kennedy, Jacopo Sannazaro and the Uses
of Pastoral, Hannover-London, University Press of New England, 1983, pp. 104-07 e
147-48. Per una diversa posizione sulla questione, si veda lo studio più volte citato di
Saccone, in part. p. 63.
39
Sannazaro, Arcadia, pr. VII. 30, ed. cit., p. 123.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

in guiderdone ti donerò questa sampogna di sambuco [...]; con la


quale spero che, se da li fati non ti è tolto, con più alto stile canterai gli
amori di fauni e ninfe nel futuro. E sı́ come insino qui i principı̂ de la
tua adolescenzia hai tra semplici e boscarecci canti di pastori infruttuo-
samente dispesi, cosı́ per lo inanzi la felice giovenezza tra sonore
trombe di poeti chiarissimi del tuo secolo, non senza speranza di
eterna fama, trapasserai40.

Un doppio augurio, dunque, nel quale al superamento della


malinconia amorosa va unita di pari passo col pronostico di una
bucolica «di più alto stile», a cui affidare il canto dei felici amori di
fauni e ninfe, fino ad auspicare il riscatto degli anni adolescenziali,
mal consumati in «semplici e boscarecci canti», con una gioventù
dedita a una poesia più alta e dotta, degna – cioè – delle «sonore
trombe» dei più illustri poeti. Un augurio che – come ben sanno i
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lettori dell’Arcadia – risulterà doppiamente inadempiuto, dal mo-


mento che Sincero – Sannazaro, al suo ritorno a Napoli, sarà accolto
non tra le braccia della «desiata donna», bensı̀ dalla tragica notizia
della morte di lei; e, soprattutto, perché nell’epilogo «A la sampogna»
– come abbiamo già visto – l’autore, lungi dal riservare alla bucolica
il futuro «di più alto stile» preconizzato da Carino, si abbandona alla
più profonda afflizione: «Le nostre Muse sono estinte, secchi sono i
41
nostri rami [...] Non si trovano più ninfe o satiri tra i boschi ...» e il
passo continua con l’incalzante enumerazione delle condizioni di
desolazione in cui è precipitata la natura arcadica, e che investe la
maniera e la funzione stesse della poesia bucolica. A essa, o meglio:
allo strumento che la simboleggia, il poeta si rivolge a più riprese, per
vincolare definitivamente il suo canto a una materia dolorosa:

Dunque, sventurata, piagni; piagni, che ne hai ben ragione. [...] Né
restar mai di piagnere e di lagnarte de le tue crudelissime disventure

per circoscrivere, inoltre, il suo stile nei confronti dei generi alti:

il tuo umile suono mal si sentirebbe tra quello de le spaventevoli


buccine e de le reali trombe (239)

40
Ivi. p. 124. Sul passo citato si vedano le osservazioni di Tateo, La crisi culturale, cit., pp.
30-32, dove coerentemente con la sua interpretazione lo studioso sottolinea il «proposito del
poeta di abbandonare l’esperienza bucolica dell’adolescenza per un’esperienza addirittura
epica (le “trombe di poeti chiarissimi”)», p. 30. Per alcune precisazioni sulle relazione tra
«sampogna» e «buccina» o «tromba», si veda Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p.
38 n. 37.
41
Sannazaro, Arcadia, «A la sampogna», ed. cit., p. 240.

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 PARTE TERZA

per assegnarle, infine, il segregato luogo che le è proprio, lontano dai


fasti e dalla mondanità:

tra le selve, sı́ come io ti impongo, secretamente e senza pompe star ti


vorrai42.

Mi si perdonerà se, giunti a questo punto, mi esprimo con


estrema concisione affermando che l’augurio di Carino, rimasto
incompiuto nell’Arcadia, trova la sua piena realizzazione nell’egloga
seconda di Garcilaso, mediante il pastore Nemoroso. In un contesto
naturale armonioso e rappacificato, descritto da Salicio con espres-
sioni che sembrano ricavate ancora una volta da Sannazaro (vv.
43
1146-1153) , il pastore, dalla cui anima Severo ha desarraigado el mal
restituyéndola «a su natura» (vv. 1112 e 1094), può dirigere il suo
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canto verso quelle «cose maggiori», che il Sincero sannazariano volle


precludersi:

Escucha, pues, un rato, y diré cosas


Estrañas y espantosas poco a poco.
Ninfas, a vos invoco; verdes faunos,
sátiros y silvanos, soltá todos
mi lengua en dulces modos y sotiles,
que ni los pastoriles ni el avena
ni la zampoña suena como quiero (vv. 1154-1159).

Alle cose straordinarie che Nemoroso si accinge a cantare non


risultano adeguati né i modos pastoriles, né gli strumenti che li produ-
cono: «avena» e «zampoña»; occorre uno stile più alto, che sia diretta-
mente dettato dalle divinità semidivine dei boschi44. L’Arcadia – è
stato detto – si chiude sotto il segno di un’unica «derelizione che
sembra unire le due terre»45: le selve arcadiche e quelle napoletane. I

42
Ivi. pp. 239 e 241, rispettivamente.
43
Mi riferisco ai vv. 1146-1153, a proposito dei quali E. Mele rimandò al passo di
Arcadia, pr. X. 58-60 (In margine alle poesie di Garcilaso, in «Bulletin Hispanique», XXXII
(1930), p. 225). Per una più ampia trattazione, si veda la ‘nota complementaria’ di Morros,
ed. cit., pp. 500-01.
44
In effetti, come ha notato Ramajo Caño: «Parece como si Garcilaso quisiera tratar, en
un poema bucólico, de asuntos más altos», specificando che «si Virgilio [egl. IV] va a contar
la llegada de una nueva edad de oro ante el nacimiento de un señalado niño, Garcilaso
también parece vaticinarnos una época de gloria gracias al nuevo tiempo histórico marcado
por la hazañas de un nuevo César, el emperador Carlos, eficazmente asistido por el Duque
de Alba» (La filiación literaria, cit., pp. 33-34).
45
È la conclusione di Saccone nel suo studio L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 62.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO 

fausti auguri non si compiono, l’amore si volge in lutto, la natura è


una sola terra desolata; e al canto bucolico, già confinato nel passato:
«a me conviene [...] – scrive Sannazaro – per malvaggio accidente da
le mie labbra disgiungerti», è affidata la sola espressione di un dolore
inconsolabile: «Non ti rimane altro ormai, sampogna mia, se non
dolerti, e notte e giorno con obstinata perseveranza attristarti»46. A
trent’anni esatti dalla sua pubblicazione, la risposta del toledano
difficilmente poteva essere più perentoria: al male c’è rimedio e il
dolore può essere guarito; l’anima umana può essere strappata alla
sofferenza che l’opprime ed essere restituita «a su natura», «de liber-
tad y de reposo» (v. 1109); nei vaticinii propizi c’è fede nel loro
compimento; e il canto bucolico, facendosi portatore di un messag-
gio di «futura ’speranza» (v.1820), gode di una doppia apertura:
predicendo, si schiude al tempo avvenire; aggiungendo una canna
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«più grossa e più che le altre nova», rivela il favore di un’epoca, da


indurci a ardere insieme a Salicio

... con el deseo


por contemplar presente
aquel que, ’stando ausente,
por tu divina relación ya veo (vv. 1836-1839)47.

46
Sannazaro, Arcadia, «A la sampogna», ed. cit., pp. 238 e 240, rispettivamente.
47
Su «la “visión” de una reconciliación ética, intelectural, artı́stica de lo diverso» (p. 137),
a proposito del canto di Nemoroso, conclude la sua monografia Azar, Discurso retórico, cit.,
la quale continua sottolineando la positiva prospettiva avvenire «El futuro significa ahora la
cesación de la desdicha y del conflicto, el desenlace de la historia, la certeza del orden y,
también, el final del poema».

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS
E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI
(GARCILASO, CETINA, ACUÑA)

1. Erano già passati più di dieci anni dalla gloriosa battaglia di Pavia
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(1525) e non più di tre dalla conquista di Tunisi (1535), quando il


segretario del viceregno di Napoli, l’umanista Bernardino Martirano,
decise di rievocare entrambe: la guerra franco-spagnola e la vittoriosa
spedizione africana, in un poemetto in ottave, intitolato Il pianto
d’Aretusa, dove non poteva, certo, mancare il consueto catalogo degli
eroi in partenza per le coste dell’Africa. Impreziosita dai continui ed
iperbolici riferimenti mitologici, la sfilata si apre inevitabilmente con
la menzione dell’imperatore, e prosegue con ben tre ottave intera-
mente dedicate ad Alfonso d’Avalos, nella prima delle quali si con-
centrano nei soli quattro versi iniziali fino a cinque identificazioni
con eroi e miti classici:

Ecco il cristato Achille, il grande Alfonso,


per cui tanto è famoso il vasto Aimone,
che rappresenta in un Marte e lo intonso Apollo,
1
il forte Alcide e ’l bello Adone .

Prima individuato col nome dell’eroe guerriero per antonomasia,


Achille, poi prontamente indicato col nome proprio, il marchese
viene, infine, senz’altro uguagliato a un dio della guerra, che riunisce
in sé la forza di Eracle, la sapienza poetica di Apollo, la bellezza di
Adone.
Con le tre stanze dell’Aretusa, il segretario napoletano sommava

1
B. Martirano, Il pianto d’Aretusa, a c. di T. R. Toscano, Napoli, Loffredo, 1993, p. 87,
ottave 117-9. Sulla data e le vicende di composizione del poemetto, si veda l’esauriente In-
troduzione del curatore, pp. 7-49, in part. le pp. 17-23.

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 PARTE TERZA

la sua voce al vasto coro di letterati italiani che nelle loro opere
celebrarono le virtù del giovane marchese, il quale – com’è noto –
alla fama delle vittorie militari, per cui a soli 26 anni meritò la
nomina a comandante generale delle truppe imperiali, unı̀ la rino-
manza delle prove poetiche: prima a Napoli, sotto l’amorevole e
severa guida di Vittoria Colonna, e poi a Milano, dove la responsabi-
lità del governo cittadino non gli impedı̀ di organizzare un impor-
tante cenacolo culturale né di tessere una fitta rete di relazioni con
numerosi intellettuali e artisti. Valore militare e abilità poetiche: la
«doppia gloria» a cui alluse il milanese Giovanni Vendramini in un
sonetto dedicato al marchese2, ricorrono costantemente nelle apolo-
gie letterarie di Alfonso, nel quale finiva cosı̀ per contemplarsi «l’au-
lico modello del soldato-cortigiano», come ha osservato Gabriele
Morelli nell’intelligente e documentato contributo rivolto a illustrare
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le «esperienze letterarie» del nostro marchese3.


È noto ai più che la già copiosa schiera di letterati da cui il
d’Avalos fu celebrato, in italiano e in latino, si accrebbe con l’ap-
porto di tre importanti poeti spagnoli, il cui destino sia di novatori
delle patrie lettere, sia di uomini d’armi impegnati nelle campagne
imperiali, risulta indissolubilmente unito non solo alle sorti della
nostra penisola, ma persino – in forme e misure distinte – alla stessa
persona del marchese. Mi riferisco, naturalmente, a Garcilaso de la
Vega, Gutierre de Cetina ed Hernando de Acuña, tre soldati-poeti, le
cui vicende militari s’intrecciano non poco con quelle di Alfonso, e
nelle cui opere poetiche rimane traccia significativa della presenza di
lui, dal momento che – come si ricorderà – i primi due (Garcilaso e
Cetina) gli dedicarono altrettanti sonetti, mentre al terzo (Acuña)
appartengono ben sette sonetti, pressoché equamente distribuiti tra
l’encomio in vita e l’elogio funebre4. Viene cosı̀ a costituirsi un

2
Sul sonetto del Vendramini, pubblicato nelle Rime di diversi e illustri signori napoletani, e
d’altri nobiliss. ingegni. Nuovamente raccolto, et con nuova additione ristampate. Libro quinto, in
Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1552 (già uscito come Terzo libro
nello stesso anno, e ristampato come Libro quinto nel 1555, sempre con differenze), cfr. S.
Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento,
Milano, Franco Angeli, 1990, p. 251 n. 132. Sul Vendramini, ivi, pp. 310-21 e passim.
3
G. Morelli, Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos governatore di Milano, in G. Caravaggi
(a cura di), «Cancioneros» spagnoli a Milano, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 233-59,
dove l’autore – in Appendice – pubblica nove liriche inedite del D’Avalos, provenienti dal
Ms. XIII. D.22 della Biblioteca Nazionale di Napoli. Sulla «vasta documentazione agiogra-
fica riunita nel manoscritto napoletano», cfr. p. 236 nota 8. La mia citazione nel testo si
trova a p. 235.
4
Indico, di seguito, la serie dei nove sonetti, relegandone in appendice i testi, di cui il
lettore potrà comodamente avvalersi nel corso dell’analisi contenuta nei successivi paragrafi,

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI 

piccolo corpus di testi che, omogeneo per tema e metrica, copre le


due principali fasi in cui fu scandita l’esistenza del marchese: quella
napoletana, a cui può farsi risalire il sonetto unico di Garcilaso, e
quella milanese, in cui senza dubbio s’iscrive la ben più folta serie dei
sonetti di Cetina e Acuña5. Ma a rendere ancor più interessanti i
nostri testi c’è un ulteriore fattore che consiste in ciò: nel fatto che
tutti e tre gli autori spagnoli, in quanto soldati-poeti, potevano a loro
volta aspirare a quella «doppia gloria» (militare e poetica) per cui
Alfonso fu celebrato in vita e magnificato in morte. Sto, difatto,
suggerendo la possibilità di leggere i nove sonetti come una sorta di
specchio inverso a quello di Narciso: dove, cioè, in luogo della
propria immagine riflessa, percepita come estranea, si ostenta l’im-
magine altrui, poeticamente rappresentata, nella quale all’io poetico
è sottilmente concesso di riflettersi. In altre parole, volendo ripren-
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dere i termini-chiave di un celeberrimo sonetto di Garcilaso, si tratta


di definire come si combinano, nei testi selezionati, le quattro co-
stanti in gioco, ossia: la espada, la pluma, il poeta che celebra e la per-
sonalità celebrata.
Una semplice griglia teorica ci aiuterà a tracciare il percorso
lungo il quale ci muoveremo. Stabiliamo, in primo luogo, che l’og-
getto rappresentato, ossia Alfonso, può essere valorizzato nel testo
nel solo ruolo di soldato, o solo in quello di poeta, o in entrambi i
ruoli. D’altro lato, l’io poetico potrebbe decidere di non figurare
affatto nel sonetto, lasciando che la persona del dedicatario occupi
l’intero spazio testuale; o, al contrario, potrebbe non rinunciare a
una qualche forma di presenza nel testo, decidendo cosı̀ di comparire
– con diverso grado d’ingerenza – nella sola veste di poeta, in quella
di soldato, o persino di entrambe le cose. Un rapidissimo calcolo che
tenga conto di entrambi i fattori introdotti: assenza/presenza dell’io
poetico e valorizzazione come soldato e/o come poeta, porta alla
costituzione di una tipologia con non più di dodici possibili caselle;
delle quali – anticipo – solo quattro risultano realmente riempite da
almeno uno dei nostri nove sonetti. Poiché non c’è da insistere oltre

nei quali i riferimenti testuali saranno limitati allo stretto necessario: Garcilaso de la Vega,
Cları́simo marqués, en quien derrata; Gutierre de Cetina, Aquella luz que de la gloria vuestra;
Hernando de Acuña, Tan hijos naturales de Fortuna; Señor, bien muestra no tener Fortuna;
Señor, en quien nos vive y ha quedado; Sólo aquı́ se mostró cuánto podı́a; Aquella luz que a Italia
esclarecı́a; ¡Cuál doloroso estilo bastarı́a; Si, como de mi mal he mejorado.
5
Mi limito a ricordare che il marchese del Vasto fu nominato governatore di Milano nel
1538; per maggiori dettagli sulla cronologia dei sonetti, si veda la nota seguente.

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 PARTE TERZA

sulla griglia teorica, possiamo passare alla valutazione diretta dei


nove sonetti che, in appendice, ho fornito non secondo la cronologia
di composizione, ma tenendo conto dell’ordine di esposizione6.
Nel presentare i testi, difatti, procederò da un minimo a un
massimo di presenza testuale dell’io poetico; e al tempo stesso, dalla
massima valorizzazione di Alfonso come soldato a quella, ugual-
mente massima, di lui come poeta.
Dico una volta per tutte che il tempo di cui dispongo, inducen-
domi alla massima sintesi, a mala pena mi consentirà un approccio
globale al problema sollevato, per cui fin d’ora mi scuso del carattere
inevitabilmente parziale di cui risentirà l’analisi dei singoli testi.

2. La maggior parte dei nostri sonetti: sei su nove, tutti di Acuña,


rientra sostanzialmente nel tipo – forse – più prevedibile: quello che,
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con un io poetico assente nel testo, tende a esaltare la figura di Alfonso per

6
Prescindendo dalla questione dell’identità del dedicatario (per cui cfr. infra, nota 10), il
sonetto Cları́simo marqués apparterrebbe – secondo Lapesa – «a los años en que Garcilaso
estuvo en Italia (desde septiembre de 1532)»; cfr. La trayectoria poética de Garcilaso (1948),
ora in Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, p. 182. «A los años napolitanos
(1533-1536)», lo assegna anche E. L. Rivers (a c. di), G. de la Vega, Obras completas,
Madrid, Castalia, 1981, p. 120. Lo anticipa di quattro anni, almeno, E. Mele, per il quale
«si fué dedicado a éste [ad Alfonso], indudablemente fué escrito antes de la empresa de
Túnez, cuando se le propuso para el mando de españoles e italianos, todavı́a joven de 26
años, que habı́a hecho concebir grandes esperanzas» (Las poesı́as latinas de Garcilaso de la
Vega y su permanencia en Italia, in «Bulletin Hispanique», XXV (1923), p. 121). Agli anni
quaranta, e più precisamente al biennio 1544-46, può essere datato il sonetto di Cetina,
Aquella luz, composto probabilmente durante un soggiorno milanese del poeta, che seguı̀
alla sua partecipazione alla guerra franco-spagnola degli anni 1543-44; cfr. B. López Bueno,
Gutierre de Cetina, poeta del Renacimiento español, Sevilla, Diputación Provincial, 1978, pp.
64-65, e della stessa studiosa, Introducción a G. de Cetina, Sonetos y madrigales completos,
Madrid, Cátedra, 1981, pp. 26-28. Dei sette sonetti di Acuña, quattro (Señor, en quien nos
vive; Sólo aquı́ se mostró; Aquella luz que a Italia; ¡Cuál doloroso estilo!) furono composti in
occasione della morte del marchese del Vasto, avvenuta il 31 marzo 1546. Dei restanti tre,
due (Tan hijos naturales e – con minore evidenza – Señor, bien muestra) sembrano vagamente
alludere agli sfortunati eventi che segnarono la disgrazia del marchese, causandone l’abban-
dono della vita politica e il ritiro nel castello di Vigevano, e – pertanto – si collocano negli
anni 1544-46; mentre il terzo (Si, como de mi mal), se – come sembra – accenna velatamente
a una ferita ricevuta dal poeta in combattimento, daterebbe al tempo della campagna
militare in Piemonte contro i francesi, nella sua fase più acuta degli anni 1536-37, ovvero –
dopo la pace di Nizza del ’38 – nelle scaramucce che ancora si verificarono nei quattro anni
successivi alla tregua. Sui sonetti in morte di Alfonso, cfr. G. Morelli, Hernando de Acuña.
Un petrarchista dell’epoca imperiale, Parma, Studium Parmense Editrice, 1977, pp. 36-38. Su
quelli in vita, si vedano le corrispondenti note ai testi di L. F. Dı́az Larios, nella sua ed. di
H. de Acuña, Varias poesı́as, Madrid, Cátedra, 1982, pp. 257 e 258, dove è – però – assente
un’ipotesi di datazione a proposito di Señor, bien muestra. Sulle vicende biografiche di
Acuña, risulta ancora utile consultare N. Alonso Cortés, Don Hernando de Acuña. Noticias
biográficas, Valladolid, Tipografia V.a Moreno, 1913.

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI 

le virtù militari. Eppure, rispetto a una tale tipizzazione, non mancano


affatto sia le sfumature, sia – addirittura – le deroghe parziali. Per
cominciare, l’io poetico si riserva un pur modesto spazio testuale in
almeno due occasioni. Sorvolando sul v. 5 del sonetto (3), è soprat-
tutto nell’inizio del sonetto (6) dove incontriamo una ridotta, ma
significativa, eccezione all’assenza dell’io poetico. Difatti, nel denun-
ciare l’inadeguatezza di ogni doloroso estilo atto a esprimere l’univer-
sale e incomparabile accoramento per la morte di Alfonso, il poeta
finisce per mettere in campo se stesso nell’atto di ricercare invano
una cifra stilistica che risulti adeguata alla tragicità dell’evento. È,
peraltro, indicativo che, nello stesso componimento, l’ultima terzina
contenga un rapido cenno alla gloria poetica del defunto marchese,
con l’effetto – implicito, ma inevitabile – di dar luogo a un confronto,
sul terreno stesso della poesia, tra l’io poetico, che stenta a inventare
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il doloroso estilo necessario, e il defunto marchese, il cui nome «por las


cumbres del Parnaso, / celebrándose irá de gente en gente».
La breve allusione ad Alfonso-poeta introduce all’altro genere di
deroga, quello relativo alla celebrazione del d’Avalos come soldato.
Intanto, registriamo che la sola virtù di Alfonso comune all’insieme
di sonetti è – non a caso – la virtù militare per eccellenza: il valor, a
cui – di volta in volta, nei singoli componimenti – possono accompa-
gnarsi altri meriti che, ricadendo sempre nella sfera militare, si
presentano sia come qualità: i casi di fuerza di (2), (4) e (5), e di
esfuerzo di (4) e (5); sia anche come effetti di tali qualità: si tratta,
allora, di hazaña/s di (2), (3), (5), e famosos hechos di (4). Tutto ciò
conferma che per la celebrazione di Alfonso, in vita come in morte,
Acuña si affida soprattutto all’esaltazione delle virtù militari, che gli
erano universalmente riconosciute. Leggermente meno scontato è
che i nemici contro i quali ad Alfonso è dato di esercitare le sue
prerogative marziali sono avversari che non vanno presi alla lettera;
nei due sonetti in vita (1) e (2), difatti, il nemico da battere è la
Fortuna, contro la quale il valor del marchese non viene meno alla
sua fama; mentre in altri due sonetti di elogio funebre, (4) e (6),
l’avversario è nientemeno che la Morte, la cui «fuerza» e il cui «valor»
hanno di necessità la meglio su colui che, finché visse almeno,
dimostrò di essere «el más fuerte» e «el que más valió». Bisogna,
tuttavia, precisare che non tutto, nei sei sonetti finora considerati, si
esaurisce nel decantato corredo delle virtù militari. Difatti, nel so-
netto (1), al v. 9, e nel sonetto (4), di nuovo al v. 9, spuntano due
termini collettivi: virtudes principales e partes sobrenaturales, rispettiva-

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 PARTE TERZA

mente, che contengono un’implicita allusione a quei pregi del mar-


chese che si estendono oltre la sfera militare. Qua e là, nei sonetti,
accanto alle ricorrenti doti di soldato d’eccezione, sono saltuaria-
mente evocate qualità come la constancia, il saber, o la già da me
ricordata abilità poetica, nell’ultimo sonetto del gruppo. Tuttavia, è
il sonetto (5), probabilmente il meno ‘bellico’ della serie, dove quei
termini collettivi trovano, finalmente, il concreto riscontro in una
ben organizzata teoria di virtù che si vanno alternando nei versi
dispari, e che, accanto ai familiari valor (v. 3) e sublime esfuerzo (v. 7),
includono la luz, che il marchese irradiava sull’Italia intera, il saber,
che lo guidò nel contrastare la sorte avversa, e, infine, il gran ser, che
gli dettò sempre le soluzioni giuste, in tempo di guerra come anche
in quello di pace7.
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3. Se, come abbiamo appena visto, ben sei dei nostri nove sonetti
convergono nella formazione dello stesso tipo, i restanti tre danno
luogo – invece – a una maggiore varietà, finendo coll’occupare
altrettante caselle della classificazione iniziale. Li esaminerò prose-
guendo nell’ordine già adottato, e precedentemente esposto.
Seguendo tale criterio, dunque, è del sonetto di Cetina che tocca
ora di occuparci, contrassegnato col numero (7) nella serie dei testi.
Dirò subito che esso rappresenta il tipo che, con un io poetico assente
nel testo, esalta la figura di Alfonso per le virtù militari nonché per l’abilità
poetica. Intanto, notiamo di passaggio che l’inizio del sonetto: Aquella
luz que de la gloria vuestra, e la successiva antitesi: resplandecer (con la
variante esclarecer) vs. escurecer, saranno ripresi da Acuña nell’Epitafio
da lui composto per la sepoltura del marchese – il nostro sonetto (5)
– che è – per ovvie ragioni – posteriore al testo di Cetina8.

7
Il sonetto è menzionato da E. Camacho Guizado come esempio di «elogio deı́ctico»,
dove – cioè – «por medio de un pronombre o adjetivo demostrativo, el personaje encomiado
se coloca enfáticamente en primer plano» (La elegı́a funeral en la poesı́a española, Madrid,
Gredos, 1969, pp. 197-98).
8
Si veda la considerazione generale di Dı́az Larios: «Ciertas concordancias entre algunos
poemas del sevillano [Cetina] con otros de Acuña sugieren un conocimiento mutuo, nacido
quizá cuando ambos lucharon en la cuarta guerra entre Carlos V y Francı́sco I (1542-44), o
bien ahora [1546], al paso de Cetina por Milán» (H. de Acuña, ed. cit., p. 20 nota 16). In
effetti, come ha sostenuto la López Bueno, «desde Vigevano, en 1545, es posible que Cetina
pasara a la corte de Milán [...] De ser cierta su estancia en la corte de Milán, debió de ser muy
corta pues en 1546 [...] realiza Cetina su primer viaje a Méjico» (Gutierre de Cetina, cit., pp.
164-65). Sull’eventuale spostamento di Cetina da Vigevano alla corte milanese, si era già
pronunciato M. Bataillon: «no es hipótesis de desechar sistemáticamente» (Gutierre de Cetina
en Italia, in Studia hispanica in honorem R. Lapesa, Madrid, Gredos, 1972, I, p. 165).

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI 

Ma ciò che a noi più interessa notare è come le due sfere


dell’espada e della pluma, riferite entrambe al marchese, e i cui
termini-chiave sono – questa volta – esplicitamente presenti nel testo
nei vv. 12-13 in funzione di parole-rima; le menzionate sfere – dicevo
– ritagliano lo spazio del sonetto in due metà, lasciando cioè che le
quartine si occupino di esaltare il valor militare dell’invicto Alfonso,
mentre alle terzine si consegna il compito di decantarne le capacità
letterarie. La misurata novità consiste nel fatto che, nelle terzine,
l’invito di Cetina è rivolto ad Alfonso-poeta affinché celebri le im-
prese di cui egli stesso è stato protagonista come soldato. A imitación
de César, e finché alla espada è consentito di riposare, Alfonso affidi,
dunque, il suo genio alla pluma, e, per mezzo di questa, elevi ad
eterna memoria la gloria che ha già conquistato sui campi di battaglia.
Nel fondo, sollecitando Alfonso a seguire l’esempio cesariano, Cetina
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consegna ai lettori del suo sonetto una rappresentazione del mar-


chese che risponde a un modello di circolare perfezione, chiuso e
autosufficiente: la gloria o fama mondana, guadagnata a mezzo del
valor con cui la mano del marchese impugna la spada, si eleva a
memoria eterna, a ciò guidata dalla stessa mano che racchiude ora la
penna9.
Eppure, anche in un sonetto che non sembra concedere spazio
alcuno a presenze diverse da quella di Alfonso, è possibile imbattersi
in un io poetico che per due volte affiora nel testo, anche a costo di
negarsi, in entrambe le occasioni. Mi spiego. Nelle quartine, in
coincidenza con l’esaltazione militare di Alfonso, confuso nel collet-
tivo nos di v. 7, troviamo l’io del poeta, in veste di soldato: uno dei
tanti guerrieri che, sotto la guida del marchese, ottennero a loro volta
la gloria, ma che del proprio valor sono pronti a spossessarsi, mode-
stamente ammettendo che esso fu hechura di chi li comandò, fu cioè
opera del marchese, esattamente come ogni creatura deve la propria
esistenza al Dio creatore. Nelle terzine, poi, in concomitanza con la
celebrazione delle virtù letterarie di Alfonso, come non riconoscere
nell’escritor di v. 11 un riflesso negativo dell’io poetico, disposto
perfino a condannare come ‘usurpatore’ chi, solo scrivendone, fini-

9
Cfr. le brevi osservazioni di López Bueno, Gutierre de Cetina, cit., pp. 167-68, dove si
segnala che il «tópico de armas y letras bajo la forma de exhortación a los distintos
personajes para que ellos sean sus propios cronistas» si trova ulteriormente attestato in due
sonetti di Cetina: quelli dedicati Al duque de Alba (Señor, mientras el valor que en vos
contemplo) e Al conde de Feria (Mientras el franco furor fiero se muestra), per i quali si veda l’ed.
cit., pp. 302 e 303, rispettivamente.

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 PARTE TERZA

rebbe per appropriarsi della gloria, della quale unicamente ad Al-


fonso spetta di rinnovare la memoria nella pagina, posto che lui
esclusivamente la ottenne sul campo? Bell’esempio, insomma, di
devota abnegazione, considerato che l’esaltazione del marchese è
pagata al caro prezzo di un doppio avvilimento dell’io che, come
soldato, annega il proprio valore in quello del suo generale, e, come
poeta, si degrada al ruolo di chi illecitamente si appropria di quanto
appartiene ad altri.

4. Chi non sacrifica affatto le proprie prerogative di poeta è Garcilaso


che, nel sonetto Cları́simo marqués, en quien derrama (l’ottavo della
serie), si rivolge probabilmente al nostro marchese del Vasto, stando
almeno ai più recenti studi che sembrano trascurare l’ipotesi finora
maggiormente accreditata, secondo la quale nell’invocazione iniziale
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bisognerebbe identificare un altro marchese: il signore di Villafranca


e viceré di Napoli, Pedro de Toledo10.
Cominciamo col dire, allora, che nella nostra classificazione il
sonetto di Garcilaso coincide col tipo che, con un io decisamente
presente nel testo in veste di poeta, esalta la figura di Alfonso per le virtù
militari, ma anche – e ancor di più – per l’eccezionale insieme di qualità
che in lui s’incarnano. Al v. 3, immancabile, compare il termine valor,
che sembra rimandare – ancora una volta – alla sfera militare, specie
se nella llama di v. 4 ravvisiamo il simbolo dell’ardimento del sol-
dato, piuttosto che una «metáfora del alma», come è stato general-
mente inteso11. E, tuttavia, bisogna concedere che fin dai vv. 1-2, che
anticipano in sintesi il contenuto delle terzine, ci viene offerta un’im-
magine del marchese che va ben oltre i limiti della milizia, quale

10
Dall’iniziale incertezza manifestata da Herrera tra Pedro de Toledo e Alfonso d’Avalos,
si è passati alla più marcata propensione, a favore del primo, dei moderni editori di
Garcilaso (Keniston, Navarro Tomás, Rivers, Labandeira); mentre la tendenza opposta, che
in ultima istanza risale al commento di Tamayo, è stata espressa da Navarrete e Mele.
Sull’intera vicenda critica, può consultarsi l’esauriente nota di B. Morros, nella sua edizione
di G. de la Vega, Obra poética y textos en prosa, Barcelona, Crı́tica, 1995, p. 397, dove – però
– manca il riferimento a D. L. Heiple, che alla questione ha dedicato alcune pagine del suo
recente libro, risolvendola decisamente a favore dell’identificazione col marchese del Vasto
(Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance, University Park-PA, The Pennysylvania
State University Press, 1994, pp. 267 e ss.). Del resto, lo stesso Morros, parallelamente e
con distinti argomenti, era giunto a un’analoga conclusione; cfr. ed. cit., pp. 39 e 397.
11
A tale interpretazione, pressoché unanime, dei commentatori, Heiple aggiunge un
riferimento a Paolo Giovio che, «in his treatise on devices [Diálogo de las empresas militares y
amorosas] describes several designed for the Marqués del Vasto, one of wich represented the
eternal flame on the temple of Juno as a symbol of the marquis’s costancy in love» (Garcilaso
de la Vega, cit., p. 268).

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI 

ideale ricettacolo in cui si raccolgono, direttamente infuse dal cielo,


tutte le qualità positive al mondo note. In ogni caso, la solida
presenza del marchese nelle quartine, con le sue virtù militari e non,
è controbilanciata da una non meno consistente ingerenza testuale
dell’io poetico, il quale è a più riprese presente negli stessi otto versi
iniziali. Al centro delle quartine, difatti, emerge la pluma del poeta,
raffigurata nel duplice atto: di elevarsi, celebrandole, alle eccelse
qualità che il marchese ha ricevuto, a sua volta, dalle ragioni supe-
riori; e di corrispondere alla voce che emana dal nome di Alfonso,
nome che – esattamente come la persona – riunisce in sé la superio-
rità del cielo e la profondità del mondo12. Alla pluma del poeta,
insomma, incombe lo sforzo di avvicinarsi, innalzandosi, all’oggetto
ideale13; sforzo che, se compiuto, si vedrebbe compensato da
quell’«eternità-immortalità» che finirebbe per accomunare, in un’u-
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nica dimensione atemporale, il personaggio celebrato e il poeta che


lo celebra, con quest’ultimo che, nell’assimilazione risolutiva, da
soggetto poetante passa ad essere designato come soggetto d’amore:
quien tanto os ama di v. 8.
Rispetto ai primi otto versi, le terzine complicano considerevol-
mente la materia, poiché il proposito celebrativo, che in esse si
protrae, si compie grazie a un’«acutezza paradossale» – per dirla con
Gracián14 –, che solleva un problema teorico di non poco conto in
ambito sia filosofico che estetico. Non disponendo del tempo neces-
sario, potrò solo accennare brevissimamente alla questione, con un
riprovevole tono apodittico di cui mi scuso in anticipo. Dirò, per-
tanto, che Garcilaso – nella seconda terzina, in particolare – rovescia
i termini su cui si fonda il nucleo centrale della filosofia neoplato-
nica, la cosiddetta «dottrina delle Idee», fornendo una ‘paradossale’

12
A tale proposito, si veda quanto propone Morros, seguendo un suggerimento di
Alberto Blecua: «en la ponderación del nombre podrı́a leerse el de Alfonso: “alto y
profundo” (v. 6) equivale en catalán a “Alt i fons” (‘Alfons’), según un tipo de anagrama
bastante frecuente a partir del nombre de Laura en Petrarca» (ed. cit., p. 39 e anche p.
397). Il ricorso anagrammatico risulta tanto più significativo, se si tien conto che l’antitesi
tra regioni superiori e inferiori impregna di sé l’intero sonetto, essendo due volte presente
nel testo, come cielo / mundo (v. 2) e cielo / tierra (vv. 9-10).
13
Non può escludersi l’uso metaforico di pluma, proposto da Heiple: «The “pluma” in
line 5 is not only a pen, but a feather, or by metonymy a bird, that will achieve poetic flight»
(Garcilaso de la Vega, cit., p. 274).
14
Baltasar Gracián introduce e commenta il sonetto di Garcilaso nel Discurso XXIII. De
la agudeza paradoja, in E. Correa Calderón (a cura di), Agudeza y arte de ingenio, Madrid,
Castalia, 1969, I, in part. le pp. 229-30 (cfr. anche la tr. it. di G. Poggi, L’Acutezza e l’Arte
dell’ingegno, Palermo, Aesthetica Edizioni, 1986, p. 175).

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 PARTE TERZA

interpretazione del concetto stesso di idea: è partendo nientemeno


dalla cosa terrena che la natura forma l’idea, capovolgendo in ciò
l’ortodossia neoplatonica, secondo la quale – com’è noto – gli oggetti
naturali sono imagines o riflessi delle realtà metafisiche, vale a dire:
delle idee immanenti allo spirito divino. Ciò è quanto sostengono i
vv. 12-13, con l’inevitabile corollario estetico contenuto nell’ultimo
verso del sonetto. Difatti, se Alfonso, nella sua perfezione, è l’idea, e
la poesia – dal canto suo – consiste nello sforzo di elevazione per
raggiungere quell’oggetto perfetto che è Alfonso, ne consegue che
pensamiento e arte finiscono per coincidere in virtù della comune
conformità a una stessa realtà metafisica15.

5. L’ultimo dei nostri nove sonetti ci riporta al poeta con cui


avevamo dato inizio alla rassegna. Ed è curioso che sia proprio
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Acuña, l’autore cioè dei sonetti dal tipo maggiormente prevedibile16,


colui che – con quest’ultimo componimento – ci fornisce l’esempio –
forse – più stravagante dell’intera serie. Si, como de mi mal he mejorado
rappresenta, difatti, nella nostra classificazione, il tipo che, con un io
poetico presente nel testo in veste di soldato, esalta la figura di Alfonso
esclusivamente per le sue abilità di poeta. Sembra quasi che, nell’omag-
gio reso al suo comandante e protettore, il poeta spagnolo abbia
voluto giocare a invertire i ruoli più scontati, presentando se stesso
come un guerriero offeso, nei confronti del quale la poesia di Alfonso
funge da prodigioso strumento di salute.
Ma rivolgiamoci direttamente al testo che non è privo di qualche
difficoltà, la prima delle quali consiste in quel generico vocativo dei vv.

15
Cfr. l’ampio commento di Herrera all’ultima terzina del sonetto, dove il poeta-
commentatore si dilunga sull’interpretazione del concetto platonico di idea (A. Gallego
Morell (a cura di), Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, Madrid, Gredos, 19722, p. 366,
H-128). A proposito della stessa terzı́na, non è fuori luogo la citazione di Morros di
Petrarca, Canzoniere, CLIX, 1-4 (cfr. ed. cit., p. 397); e, del resto, l’intero componimento
era stato definito da J. Alcina «un soneto panegı́rico siguiendo un esquema igual al de los
sonetos de elogio de una dama como obra maestra de Dios o de la naturaleza» (nella sua
edizione di G. de la Vega, Poesia completa, Madrid, Espasa-Calpe, 1989, p. 72). Sugli ultimi
versi del sonetto, si vedano anche le osservazioni di Heiple, Garcilaso de la Vega, cit., pp.
274-75. Sul rapporto tra Idea, natura e arte, che è la questione estetica al centro dell’intero
sonetto, pagine ancora molto stimolanti possono leggersi in E. Panofsky, Idea. Contributo
alla teoria dell’estetica (1924), Firenze, La Nuova Italia, 1975, in part. le pp. 33-52.
16
A proposito di alcuni di essi, lo stesso Morelli ha sottolineato che il gruppo «delle
composizioni in morte dell’illustre personaggio [...] ripete stancamente i moduli stilistici,
ricchi di enfasi e di oratoria letteraria, codificati dalla tradizione del genere elegiaco
generosamente impegnato a celebrare fatti e avvenimenti relativi alla vita e alle imprese dei
potenti additati quali modelli di virtù e di valore» (Hernando de Acuña, cit., p. 37).

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI 

4 e 9: señor, con cui c’è da chiedersi se è possibile o meno identificare il


marchese del Vasto. Il più recente editore di Acuña, nell’unica nota di
commento al testo del sonetto17, propende per tale soluzione, senza
che ciò abbia sollevato – che io sappia, almeno – alcuna obiezione.
Ammettiamo, perciò, che il destinatario del sonetto sia il d’Avalos,
verso il quale – nelle terzine – il poeta professa la propria illimitata
gratitudine, rivelando di rallegrarsi o dolersi più di tutti per la buona o
cattiva sorte di lui. Ciò, del resto, concorda col rapporto di Acuña col
marchese, a cui lo unı̀ una prolungata amicizia e un profondo
sentimento di riconoscenza, che ebbe modo di esprimersi in più
occasioni della sua vita, come – per esempio – la nomina a capitano di
compagnia, il riscatto dalla prigionia presso i francesi, e – ancora – il
governatorato dell’importante piazza militare di Cherasco18.
Ma torniamo al sonetto e, più precisamente, ai versi delle quar-
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tine, dove ritroviamo la tematica più pertinente al nostro argomento.


Con un incipit (vv. 1-2), che riprende il lessico di un noto sonetto
amoroso di Garcilaso19, al quale imprime però una diversa direzione
di sviluppo, l’io poetico si presenta nelle vesti di chi è sul punto di
guarire da un male, che non è dello spirito, come suole accadere agli
amanti, bensı̀ del corpo, come più sovente occorre ai soldati. Il mal
del primo verso, allora, alluderebbe – come pure congettura il men-
zionato editore – alle ferite riportate in battaglia, con probabile
riferimento alla guerra di Piemonte, durante la quale Acuña fu fatto
prigioniero dai francesi. Per fortuna, la sua condizione di salute è
andata migliorando; ma anche se ciò non fosse stato – e, perfino, se il
male si fosse nel frattempo aggravato – il dolore patito sarebbe stato
ugualmente alleviato da quella potente medicina che è la poesia del
suo signore; la quale poesia, posto che lenisce le pene dello spirito,
tanto più sarà in grado di mitigare il dolore corporale. Riprendendo
per l’ultima volta la coppia dei nostri termini-chiave, potremmo
affermare che alle ferite della espada il sonetto replica con la salute
della pluma; nel senso che, questa volta, è la pluma del soldato per
eccellenza, Alfonso, a curare, almeno virtualmente, le ferite inferte
dalla espada nel corpo del soldato Acuña. Eppure – ed è l’osserva-

17
H. de Acuña, ed. cit., p. 257.
18
Di tali episodi conserva traccia il Memorial de D. Hernando de Acuña á Felipe II,
pubblicato in Alonso Cortés, Don Hernando de Acuña, cit., pp. 111-23; e riprodotto in H. de
Acuña, Varias poesı́as, a c. di A. Vilanova, Barcelona, Selecciones Bibliófilas, 1954.
19
Cfr. il sonetto di Garcilaso, Como la tierna madre que’l dolente, in Morros, ed. cit., p. 30,
in part. il v. 8: «y aplaca el llanto y dobla el acidente».

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 PARTE TERZA

zione con cui mi affretto a concludere –, c’è un punto in cui Acuña


indirettamente contrappone la sua poesia a quella dal marchese. Se,
difatti, avviciniamo l’ultimo sonetto al sesto della serie, ci accorge-
remo che al dulce estilo delicado di Alfonso, ritenuto capace di guarire
le ferite dell’anima e del corpo di Acuña, fa da ineguale pendant il
doloroso estilo dello stesso Acuña, considerato inadatto a esprimere e
placare l’immenso dolore per la morte di Alfonso. Ancora una volta
l’implicito raffronto si risolve nel grato omaggio dello spagnolo alla
superiorità dell’amico e protettore italiano; anche se – è bene dirlo –
la differenza di efficacia poetica trova qui più di una giustificazione
nel sostanziale divario di situazione, che – in un caso – pone la poesia
ad affrontare la vulnerabilità fisica, e – nell’altro – la porta a scon-
trarsi con l’irreparabilità della morte.
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Appendice
Hernando de Acuña
[1] [2]

Tan hijos naturales de Fortuna Señor, bien muestra no tener Fortuna


son la desigualdad y el desconcierto, empresa alguna por dificultosa,
que jamás permitió llegase a puerto pues ha osado emprender tan alta cosa
virtud muy rara ni bondad ninguna; como a vuestro valor ser importuna;
y si ésta ha de temer en parte alguna 5 que ni pudo hallar hazaña alguna 5
de mostrar disfavor tan descubierto, que acometer pudiese tan famosa,
que en vos lo temerá tengo por cierto, ni menos a la fuerza poderosa
aunque siempre a lo bueno es importuna. de vuestro corazón igual ninguna.
Las virtudes en vos son principales Ası́ todo su intento ha sido vano,
y, a su despecho, vemos que han sacado 10 y su poder, al mundo tan terrible, 10
de su poder y mando vuestra suerte. ha sido para vos poco y liviano,
Lo menos son los bienes temporales, que con saber, con ánimo increı́ble,
pues la desigualdad de todo estado con gran constancia y valerosa mano
al fin viene a igualarse con la muerte. vencistes la que llaman invencible.

[3] [4]

Señor en quien nos vive y ha quedado Sólo aquı́ se mostró cuánto podı́a
el gran nombre del Vasto y su memoria en daño universal la cruda muerte,
después que désta breve y transitoria do su fuerza valió contra el más fuerte,
a la vida inmortal mudó su estado, y su valor contra el que más valı́a.
donde desprecia nuestro bajo grado 5 Por donde a Italia, cuanto bien tenı́a 5
y goza para siempre inmensa gloria, en eterno dolor se le convierte,
quedando en todo verso, en toda historia, y el gran Marqués ha mejorado suerte,
del mundo eternamente celebrado; aunque acá la más alta poseı́a.
mirad cuán ancha y espaciosa vı́a Sus muchas partes sobrenaturales,
os muestran sus hazafias inmortales 10 un esfuerzo, un saber nunca igualado, 10
de haceros inmortal entre la gente, un ser no concedido a mortal hombre,

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI 

y seguid su valor, que con tal guı́a con mil famosos hechos inmortales,
los más famosos no os serán iguales a la inmortalidad han consagrado
del siglo ya pasado o del presente. este lugar y su tan alto nombre.

[5] [6]

Aquella luz que a Italia eselarecı́a ¡Cuál doloroso estilo bastarı́a,


y ahora con morir la ha escurecido, en el común dolor que nos atierra,
aquel alto valor que siempre ha sido a mostrar parte, o lamentar la guerra
coluna do virtud se sostenı́a, que al mundo hizo muerte en sólo un dı́a,
aquel saber de donde procedı́a 5 cuando dispuso de quien disponı́a 5
el remedio y restauro en lo perdido; del mundo, con valor tal, que se encierra
aquel sublime esfuerzo, tan temido, muerto, mas inmortal, en pocatierra
del fuerte corazón que no temı́a; el que toda el que toda le amaba y le temı́a!
le amaba y le temı́a!
aquel gran ser do junto se hallabam Y como otro dolor no se ha igualado
el consejo y efeto, en paz y en guerra, 10 al deste triste y lamentable caso, 10
para hazañas de inmortal memoria; ası́ debe llorarse eternamente;
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y, en fin, a quien el mundo no bastaba, y el nombre justamente tan nombrado


aquı́ lo cubre muerte en poca tierra, del Vasto, por las cumbres del Parnaso,
y lo que mereció goza en la gloria. celebrándose irá de gente en gente.

Gutierre de Cetina Garcilaso de la Vega


[7] [8]

Aquella luz que de la gloria vuestra, Cları́simo marqués, en quien derrama


invicto Alfonso, tanto resplandece, el cielo cuanto bien conoce el mundo.
mientra de otros errores escurece fundo si al gran valor en qu’el sujeto fundo
a fama, más que el sol clara se muestra. y al claro resplandor de vuestra llama
Animoso valor la mano destra 5 arribare mi pluma y do la llama 5
os rige (antes a ella se engrandece), la voz de vuestro nombre alto y profundo,
y aquello que entre nos valor parece, seréis vos solo eterno y sin segundo,
es hechura de vos, no cosa nuestra. y por vos inmortal quien tanto os ama.
Si ası́, como es razón, escrita en suma Cuanto del largo cielo se desea,
vuestra tanta virtud ver os agrada. 10 cuanto sobre la tierra se procura, 10
y que escritor no usurpe vuestra gloria, todo se halla en vos de parte a parte;
a imitación de César, con la pluma, y, en fin, de solo vos formó natura
mientras que reposar dejáis la espada, una estraña y no vista al mundo idea
y hizo igual al pensamiento el arte. y hizo igual al pensamiento el arte.

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 PARTE TERZA

Hernando de Acuña
[9]

Si, como de mi mal he mejorado,


se me hubiera doblado el acidente,
yo tengo por cierto que al presente
me hallara, señor, muy aliviado;

que, si de sus congojas y cuidado 5


se alivia todo espı́ritu doliente,
aliviaráse un cuerpo mayormente
al son de un dulce estilo delicado.

Yo conozco, señor, doliente o sano,


deberos tanto, que no sé en qué suerte 10
os me pueda mostrar agradecido:
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sólo tendréis de mı́, como en la mano,


que a nadie es vuestro mal tan grave y fuerte,
ni vuestro bien de nadie es tan querido.

Per i testi riprodotti ho utilizzato le seguenti edizioni: H. de


Acuña, Varias poesı́as, a c. di L. F. Dı́az Larios, Madrid, Cátedra,
1982; G. de Cetina, Sonetos y madrigales completos, a c. di B. López
Bueno, Madrid, Cátedra, 1981; G. de la Vega, Obra poética y textos
en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı́tica, 1995.

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PARTE QUARTA
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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II:
MODELLI ITALIANI (CARO, RAINERIO)
E SOLUZIONI ISPANICHE
(RAMIREZ PAGAN, LOMAS CANTORAL,
DE LA TORRE, HERRERA)
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1. La poesia spagnola alla metà del secolo


È a tutti noto che il linguaggio della moderna lirica spagnola – come,
del resto, di quella europea – risulta largamente tributario del lin-
guaggio lirico italiano, e che tale processo di formazione – conside-
rato nella sua massima estensione – abbraccia un sessantennio circa,
dalla metà degli anni venti alla metà degli anni ottanta, del XVI
secolo naturalmente. Prima di quest’intervallo, possono essere rin-
tracciati episodi più o meno significativi di approssimazione ai mo-
delli poetici italiani, a quello petrarchesco in particolare, ma ciò
tuttavia non autorizza a parlare di un nuovo linguaggio lirico rical-
1
cato su quello italiano . Per altro verso, al termine del sessantennio,
tra la fine degli anni ottanta e l’inizio della decade successiva, la

1
Per gli episodi di petrarchismo pregarcilasiano, è ormai un classico F. Rico, Variaciones
sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, nel collettivo Doce consideraciones sobre el mundo
hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valdés, Roma, Publicaciones del Instituto
Español de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30, a cui si aggiunga, dello stesso autore, A
fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, «Studi Petrarche-
schi», nuova serie, IV (1987), pp. 229-36. Più in generale, sono letture d’obbligo gli studi di
J. M. Blecua, Corrientes poéticas en el siglo XVI (1952), in Sobre poesı́a de la Edad de Oro
(ensayos y notas eruditas), Madrid, Gredos, 1970, pp. 11-24; di R. Lapesa, Poesı́a de
cancionero y poesı́a italianizante (1962), in De la Edad Media a nuestros dı́as (estudios de historia
literaria), Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71, e Los géneros lı́ricos del Renacimiento: la herencia
cancioneresca, in Homenaje a Eugenio Asensio, Madrid, Gredos, 1988, pp. 259-75, recente-
mente raccolto in Id., De Berceo a Jorge Guillén. Estudios literarios, Madrid, Gredos, 1997,
pp. 122-45; di G. Caravaggi, Alle origini del petrarchismo in Spagna, «Miscellanea di Studi
Ispanici», XXIV (1971-73), pp. 7-101. Di utile consultazione è il volume di M. P. Manero
Sorolla, Introducción al estudio del petrarquismo en España, Barcelona, PPU, 1987.

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 PARTE QUARTA

poesia spagnola conobbe una nuova e radicale svolta, a partire dalla


quale si svincolò definitivamente dall’originaria impronta italiana,
per intraprendere un cammino di totale autonomia. Non desta mera-
viglia che, in un processo di cosı̀ lunga durata, le modalità con cui
l’assimilazione si andò sviluppando non furono sempre le stesse, ma
variarono, non solo in rapporto ai suoi diversi luoghi e ai distinti
protagonisti, ma anche – ed è quanto ora più interessa – in relazione
alle diverse tappe con cui quel processo di assimilazione si realizzò.
Per esempio, è noto che a partire – grosso modo – dalla metà del
secolo, le forme e gli obiettivi che i poeti spagnoli elessero nei
confronti dei modelli italiani subiscono un cambio sostanziale, ri-
spetto alla precedente generazione di poeti, attiva fondamentalmente
nel secondo quarto del secolo2. Un paio di episodi ci aiuteranno a
fare il punto della situazione; si tratta, in entrambi i casi, di un
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avvenimento editoriale, che vede coincidere perfino la data: entrambi


si collocano, difatti, nel 1554.
In quest’anno, in effetti, Hernando de Hozes pubblica a Medina
del Campo la traduzione de Los Triumphos de Francisco Petrarcha3. La
grande novità, rispetto a precedenti traduzioni, e in particolare ri-
spetto a quella di Antonio de Obregón pubblicata nel 1512, consiste
nel fatto che il più recente traduttore conserva il genere metrico
dell’originale italiano: la terzina di endecasillabi4. Ma il motivo per

2
Vd. L’ottimo panorama tracciato da A. Blecua, El entorno poético de fray Luis, in Fray
Luis de León, a c. di V. Garcı́a de la Concha, Salamanca, Ediciones Universidad de
Salamanca, 1981, pp. 77-99, in part. le pp. 79-86. Dello stesso autore, vd. anche Fernando
de Herrera y la poesı́a de su época, in F. Rico (a cura di), Historia y crı́tica de la literatura
española, vol. II, Siglos de Oro: Renacimiento, a cura di F. López Estrada, Barcelona, Editorial
Crı́tica, 1980, pp. 426-39.
3
Los triumphos de Francisco Petrarcha, ahora nuevamente traduzidos en lengua Castellana, en
la medida y numero de versos, que tiene en el Toscano, y con nueva glosa, Medina del Campo,
Guillermo de Millis, 1554.
4
Sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi del Petrarca, oltre ai contributi di G. C.
Rossi, Una traduzione cinquecentesca spagnola del «Trionfo d’Amore», in «Convivium», XXVII
(1959), pp. 40-50, di A. J. Cruz, The Trionfi in Spain: Petrarchist Poetics, Translation Theory,
and the Castilian Vernacular in the Sixteenth Century, in K. Eisenbichler e A. A. Iannucci (a
cura di), Petrarch’s Triumphs. Allegory and Spectacle, Toronto, Dovehouse, 1990, pp.
307-24, di A. Gargano, «Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei
Trionfi, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», Sezione Romanza, XXXV(1993),
pp. 485-98, di C. Alvar, Alvar Gómez de Guadalajara y la traducción del Triunfo d’Amore, in
J. Paredes (a cura di) Medioevo y literatura. Actas del V Congreso de la Asociación Hispánica de
Literatura Medieval, vol. I, Granada, Universidad de Granada, 1995, pp. 261-67, si vedano
gli studi di R. Recio, Petrarca y Alvar Gómez: la traducción del Triunfo de Amor, New York,
Peter Lang, 1996, Petrarca en la penı́nsula ibérica, Alcalá de Henares-Madrid, Universidad
de Alcalá de Henares, 1996, e la più recente edizione della traduzione di Alvar Gómez de

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

cui ho menzionato la traduzione di Hozes è un altro, e riguarda un


aspetto che Francisco Rico ha messo in luce in un illuminante studio
di qualche anno fa5. Hozes, difatti, lavorò a una prima redazione
della traduzione tra il 1548 e il 1549, testo che sottopose a un’ulte-
riore revisione nel 1550. Eppure, nonostante gli sforzi compiuti, il
testo rimase inedito, e ci è conservato da un manoscritto depositato
presso la Biblioteca Nacional de Madrid6. Nell’estate del 1552,
Hozes ritorna sulla traduzione dei Trionfi, e la sottopone a un
radicale rifacimento, che dà luogo a una seconda redazione, questa sı̀
pubblicata nella menzionata edizione di Medina del Campo del ’547.
Cosa spinse il traduttore a sottoporsi alla non indifferente fatica del
rifacimento? Il cambio più vistoso e significativo dalla prima alla
seconda redazione consiste nell’eliminazione della rima tronca.
Come rigorosamente documenta il citato studio di Rico, Hozes non
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lascia un solo caso di finale ossitona, con atteggiamento ancora più


rigido degli stessi rimatori italiani, i quali – sia pur sporadicamente –
ammettevano questo tipo di rima. Si tratta, pertanto, di un chiaro
indizio del fatto che, dalla redazione manoscritta degli anni ’49-’50
alla revisione del ’52, il traduttore non solo si è lasciato indietro
l’ottonario, ma – nell’adottare l’endecasillabo – aderisce alle più
rigorose leggi che ne regolavano l’uso:

Entre 1550 y 1552, pues, los gustos se habı́an depurados a ojos vistas.
Las vanguardias poéticas, no satisfechas con postergar el octosı́labo,
imponı́an leyes más rigurosas al hendecası́labo. Y eran los suyos unos
imperativos tan apremiantes como para que Hozes se aviniera a acatar
un precepto que se le antojaba excesivo y no bien autorizado: el
destierro del verso agudo8.

Passiamo, ora, brevemente al secondo episodio. Nello stesso


anno 1554, a Zaragoza, vide la luce il Cancionero general de obras
nuevas, una raccolta poetica che sin dal titolo si ricollega all’illustre
precedente del principio del secolo, quello – cioè – costituito dal
Cancionero general, raccolto da Hernando del Castillo e pubblicato a

Ciudad Real, El «Triumpho de Amor» de Petrarca traduzido por Alvar Gómez, Barcelona, PPU,
1998.
5
F. Rico, El destierro del verso agudo (con una nota sobre rimas y razones en la poesı́a del
Renacimiento), in Homenaje a José Manuel Blecua, Madrid, Gredos, 1983, pp. 525-51.
6
Si tratta del ms. 3687 della Biblioteca Nacional de Madrid.
7
Cfr. Rico, El destierro del verso agudo, cit., pp. 533-35.
8
Ivi, pp. 536-37.

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 PARTE QUARTA

Valencia nel 1511. Ma a differenza di quest’ultimo, il Cancionero del


’54, a una prima sezione ancora contenente opere composte «por el
arte española», aggiungeva – molto significativamente – una seconda
parte dedicata alle «obras que van por el arte toscana compuestas».
Vi troviamo un’ottantina circa di componimenti, la metà dei quali
appartengono a due famosi poeti, Juan de Coloma e Diego Hurtado
de Mendoza, mentre l’altra metà è costituita esclusivamente da
sonetti anonimi. Tutti i componimenti sono, naturalmente, in rigo-
roso ‘metro italiano’, e – quanto ai generi metrici e poetici – alla
massiccia presenza di sonetti si unisce una certa varietà degli altri
generi, in particolare: la canzone, la favola mitologica in ottave,
l’egloga, l’elegia, il capitolo in terza rima9.
Ebbene, cosa possiamo desumere dalla coincidenza cronologica
dei due episodi ricordati? Che intorno alla metà del secolo, con
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l’anno 1554 assunto come data fortemente simbolica, il processo di


assimilazione della lingua poetica italiana da parte degli spagnoli,
iniziatosi circa tre decenni prima, deve essere ormai considerato un
fenomeno totalmente consumato10. Alla successiva generazione di
poeti spagnoli, quella – cioè – pienamente attiva nei decenni poste-
riori alla metà del secolo, prima che – tra la fine degli anni ottanta e
l’inizio degli anni novanta – fosse imposta una nuova e decisiva
svolta; a questa generazione di poeti filippini – dicevo – spettò un
compito di rinnovamento, che consistette nello sperimentare nuove
vie, senza peraltro travalicare il solco del petrarchismo; ovvero, detto
in altri termini: spettò il compito di superare il modello fondato sul
binomio Petrarca-Garcilaso, pur nella sostanziale fedeltà ad esso. In
questo sforzo di rinnovamento, un contributo non trascurabile venne
ancora una volta dall’Italia: non più, però, attraverso la voce straor-
dinariamente unica di un solo poeta (Petrarca), ma mediante una
pluralità di toni, tutti veicolati da quel vasto fenomeno editoriale che
caratterizzò il panorama poetico della seconda metà del Cinque-
cento. Mi riferisco, naturalmente, a quelle antologie poetiche che
conobbero un’enorme fortuna e una larga diffusione, dentro e fuori

9
Il Cancionero general de obras nuevas, modernamente edito da A. Morel-Fatio, in
L’Espagne au XVI et au XVII siècle, Heilbronn, 1878, pp. 489-602, è stato recentemente
riproposto in volume autonomo a cura di C. Claverı́a: [Esteban de Nágera], Cancionero
general de obras nuevas (Zaragoza, 1554), Barcelona, Edicions Delstre’s, 1993.
10
Cfr. A. Blecua, Gregorio Silvestre y la poesı́a italiana, in Doce consideraciones, cit., pp.
155-73, dove l’autore, dopo aver apportato un’abbondante serie di dati poetici intorno alla
metà del secolo, conclude che «A la vista de todas estas fechas y publicaciones se infiere que
hacia 1554 la aceptación del endecası́labo es un hecho manifiesto» (p. 162).

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

della penisola italiana, a partire dalla prima raccolta giolitina del ’45,
e poi via via – risalendo i cinquant’anni circa sino alla fine del secolo
– con i restanti otto volumi giolitini e non, con le frequenti riedizioni
di alcuni di essi, e – infine – con antologie tratte dalle stesse
antologie, conosciute con i titoli di Rime scelte e di Fiori. È a
quest’importante fenomeno editoriale, dunque, che dobbiamo ora
rivolgere brevemente la nostra attenzione, se vogliamo comprendere
la nuova modalità con cui certi modelli poetici italiani continuarono
ad esercitare la loro influenza sulle soluzioni ispaniche, nei primi tre
decenni della seconda metà del secolo che precedettero la nuova e
decisiva svolta.

2. Il ‘libro di rime’ italiano


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Nel 1545, presso l’editore veneziano Giolito de’ Ferrari, uscı̀ il primo
volume della fortunata serie antologica: quelle Rime diverse, con le
quali sia il curatore, Lodovico Domenichi, sia lo stesso editore, è
stato detto che «stavano tentando un’impresa editoriale non prelimi-
narmente garantita, e in gran parte inedita»11. Nel presentare il
volume, peraltro dedicato al poeta e diplomatico spagnolo Diego
Hurtado de Mendoza, il curatore «poneva l’accento quasi esclusiva-
mente sulla “diversità dei concetti” e la “varietà degli stili”»; e,
difatti, nelle 370 pagine antologiche, «si allineano 91 autori e 539
componimenti»12. Nasceva cosı́ un nuovo tipo di silloge poetica, a cui

11
R. Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma,
Salerno Editrice, 1990, p. 254. Il volume antologico apparve col titolo completo di Rime
diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolti. Libro primo. Nel 1990 ne è stata
annunziata la ristampa, non ancora avvenuta, a cura di R. Fedi e F. Erspamer. Per i Giolito
e la loro attività tipografica, strumento insostituibile risultano gli Annali di G. Giolito de’
Ferrari di Trino di Monferrato stampatore in Venezia, descritti e illustrati da S. Bongi, 2 voll.,
Roma, Ministero Pubbl. Istruzione, Tip. Bencini, 1890-1895, da integrare con P. Came-
rini, Notizie sugli annali giolitini di S. Bongi, Padova, Panada, 1935, e Id., Aggiunta alla
notizia sugli Annali giolitini di S. Bongi, «Memorie dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti
di Padova», LIII (1936-37), pp. 160-85. Sulle antologie poetiche cinquecentesche, cfr. A.
Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma «antologia», Roma, Bulzoni, 1974
e, dello stesso autore, «Mercanzia d’onore»/«Mercanzia d’utile». Produzione libraria e lavoro
intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in A. Petrucci (a cura di), Libri, editori e pubblico
nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 51-104. Utili anche alcuni saggi
contenuti in M. Santagata e A. Quondam (a cura di), Il libro di poesia dal copista al tipografo,
Modena, Panini, 1989. Presto gli studiosi potranno avvalersi del volume di M. L. Cerrón
Puga, Petrarchismo rimosso. Catalogo ragionato delle antologie cinquecentesche, Firenze, Leo S.
Olschki (in corso di stampa).
12
Fedi, La memoria della poesia, cit., rispettivamente, p. 253 e p. 254.

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 PARTE QUARTA

possiamo riferirci con le denominazioni di «forma-raccolta» o di


«libro di rime», per distinguerla dall’altro tipo, il canzoniere vero e
proprio, il cui modello per antonomasia era costituito – ovviamente –
dal Canzoniere petrarchesco. Difatti, come ha avvertito sintetica-
mente Guglielmo Gorni, questi «volumi miscellanei [...] attuano un
progetto opposto a quello a cui s’ispira un libro organico di poesia;
[...] affermano le ragioni della crestomazia, del frammento, dell’e-
semplarità, contro quelle della lettura continua, della coesione in-
terna, della contestualità»13.
L’intuizione del curatore del primo di tali volumi, ossia il Dome-
nichi, si rivelò giusta. Tra il 1545 e il 1560, videro la luce, sia presso
lo stesso Giolito sia presso altri editori che ne seguirono l’esempio,
ben nove ‘libri di rime’14. Ognuno di essi conobbe a sua volta varie e
– in qualche caso – numerose riedizioni, che comportavano spesso
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anche delle modifiche nella presenza dei poeti antologizzati. Inoltre,


alcuni di quei nove libri si presentavano nella veste di veri e propri
tentativi regionalistici, come accadde con le due raccolte dei poeti
napoletani del ’52 e del ’56, o quella dei poeti bresciani del ’5315.
Successe, allora, che l’affollarsi del panorama poetico contempora-
neo, prodotto dal rapido succedersi delle antologie, ne produsse a
sua volta delle altre, organizzate con diverso criterio selettivo. Difatti,
ben presto l’originario tipo di «rime diverse» dette luogo per parteno-
genesi al nuovo tipo delle «rime scelte di diversi autori», ossia: a
antologie tratte dalle stesse antologie, come accadde – per limitarci ai
casi più fortunati – ai due volumi di Rime scelte, curati entrambi da

13
G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura
italiana, vol. III. Le forme del testo, I. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, ora raccolto in
Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 113-34; la citazione è da p.
114.
14
Dei nove libri, quattro sono giolitini: il primo, 1545; il secondo, 1547; il quinto, 1552;
il settimo, 1556. Uno fu stampato sia dal veneziano Bartolomeo Cesano, nel 1550, sia dal
Giolito, nel 1552. I restanti cinque furono impressi a Bologna da Anselmo Giaccarelli, nel
1551; a Venezia da Michele Bonelli, nel 1553; a Lucca da Vincenzo Busdrago, nel 1556; e,
infine, a Cremona da Vincenzo Conti, nel 1560. Si veda ora il recente contributo di M. L.
Cerrón Puga, Materiales para la construcción del canon petrarquista: las antologı́as de Rimas
(libri I-IX), in «Critica del testo», II (1999), pp. 249-90, dove la studiosa propone di
considerare come libro VIII della serie I fiori delle rime de’ poeti illustri, raccolti e ordinati da
G. Ruscelli, e pubblicati a Venezia dai fratelli Sessa, nel 1558 (cfr., in particolare, le pp.
275-83). Della stessa studiosa, si veda anche il precedente contributo: Las antologı́as de
poesı́a italiana en la Biblioteca Nacional de Madrid (1532-1637), in «Edad de Oro», XII
(1993), pp. 41-60.
15
Si tratta dei due volumi giolitini Rime di diversi illustri signori napoletani, entrambi
raccolti da Lodovico Dolce, e delle Rime di diversi eccellenti autori bresciani, stampati a
Venezia da Plinio Pietrasanta.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

Lodovico Dolce nel ’53 e nel ’63, oppure ai notissimi Fiori di


Girolamo Ruscelli, la cui prima edizione è del ’5816. La più imme-
diata conseguenza di ciò è di ordine quantitativo, confermando –
anche su questo versante – quella «tendenza espansiva e associativa»
che, secondo Dionisotti, caratterizzò la società letteraria italiana in
età controriformistica17. Dalla metà del secolo in avanti, si verificò
che, grazie al successo delle antologie poetiche, la produzione lirica
crebbe su se stessa. Basti pensare che tra il 1551 e il 1660, i ‘libri di
rime’ rappresentarono circa il 24 per cento della produzione libraria
generale18. E impressiona il dato che Marı́a Pilar Manero trae dalla
rassegna delle 42 più importanti antologie poetiche italiane del pe-
riodo, consegnato nelle Appendici che accompagnano la sua tesi di
dottorato; ebbene, da quella rassegna, si desumeva un catalogo di
ben 500 autori diversi e, addirittura, di 25.000 componimenti19. Ma
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le conseguenze di ordine qualitativo sono anche più significative.


Accennerò, brevemente, solo ad alcune di esse, perché mi preme di
arrivare al più presto a un esempio concreto con cui illustrare la
nuova tappa dei rapporti tra lirica italiana e spagnola, al giro di boa
della metà del secolo.
Partiamo da un dato qualitativo, questa volta. Negli anni che
immediatamente circondano la metà del secolo XVI, s’impone la
tendenza che fa «della raccolta la tipologia lirica [...] per eccellenza,
quasi a costituirsi in vero e proprio “genere essa stessa”». Questo
vuol dire che, nel giro d’anni indicato, «la forma-canzoniere si va
mutando gradatamente nella forma-raccolta o libro di rime»20. Al-

16
Rime di diversi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi [...], in Vinegia
appresso Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, MDLIII; Il secondo volume delle rime scelte da
diversi eccellenti autori [...], in Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLXIII; I fiori
delle rime de’ poeti illustri [...], in Venetia per Gio. Battista e Melchior Sessa Fratelli, 1558,
già menzionati nella precedente n. 14.
17
Cfr. C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del concilio di Trento (1965), in
Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1980, pp. 227-54; la citazione è
da p. 237.
18
Per il dato quantitativo, cfr. A. Quondam, La letteratura in tipografia, in A. Asor Rosa (a
cura di), Letteratura italiana, vol. II. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp.
555-686, in part. la p. 678.
19
La imagen poética petrarquista en la lı́rica española del Renacimiento, Tesis doctoral,
Universidad de Barcelona, 1984-85. Una sintesi dei soli tomi II, III e IV è stata pubblicata
dall’autrice col titolo di Imágenes petrarquistas en la lı́rica española del Renacimiento. Repertorio,
Barcelona, PPU, 1990. I dati numerici riportati nel testo sono ricavati da M. P. Manero
Sorolla, Antologı́as poéticas italianas de la segunda mitad del siglo XVI (1545-1590), «Anuario
de Filologı́a», Universidad de Barcelona, IX (1983), pp. 259-99, in part. la p. 259 n. 1.
20
Per le citazioni, cfr. Fedi, La memoria della poesia, cit., pp. 45-46 e p. 49, rispettiva-
mente.

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 PARTE QUARTA

cune conseguenze ci sono già state suggerite da Gorni, nel passo che
ho precedentemente citato21: la disorganicità della seconda ha la
meglio sull’organicità della prima, e con ciò crestomazia, frammento,
esemplarità prevalgono sulla lettura continua, sulla coesione interna,
sulla contestualità. Ce n’è già abbastanza; e, tuttavia, le conseguenze,
lungi dall’arrestarsi all’interno del libro, finiscono col coinvolgere lo
stesso rapporto che il testo intrattiene con la dimensione storica.
Roberto Fedi ha, difatti, giustamente sottolineato come il ‘libro di
rime’, nell’assemblare uno di seguito all’altro sia gli autori che i testi,
ottenga il doppio effetto – per un lato – di perdita di gerarchia, e –
per altro lato – di perdita di profondità storica. Insomma, la nuova
«forma-raccolta» tende a disporre gli autori e i testi che seleziona sul
piano unidimensionale della massima scambiabilità e della pura
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contemporaneità. La conclusione di Fedi è che da un’operazione di


imitazione si è passati a un processo di citazione, ossia – con le stesse
parole dello studioso:

La sommatoria, di autori e testi, induce a ritenere il fenomeno lirico


come la risultante di un processo di addizione e di citazione, più che di
imitazione – che invece appartiene al passato militante della poesia
intesa come ri-creazione e commento testuale realizzato attraverso la
scrittura del testo, e non ancora parallelamente ad esso22.

Tutto ciò si ripercuote anche nell’ambito delle relazioni tra poe-


sia spagnola e italiana, nella seconda metà del secolo. Prepariamoci a
prendere cognizione di un episodio che illustra come, dopo una
prima fase in cui un Garcilaso aveva forgiato il moderno linguaggio
lirico sul modello di Petrarca, alcuni poeti delle successive genera-
zioni – tra i quali emerge Herrera – inaugurino una nuova fase,
durante la quale il tentativo di rinnovamento da essi compiuto passa
anche attraverso il confronto con rimatori italiani, quali Annibal
Caro e Antonfrancesco Rainerio, ossia con poeti minori, se non del
tutto marginali, resi – però – fruibili da quei ‘libri di rime’, che –
come abbiamo brevemente visto – caratterizzarono il panorama della
lirica italiana nei decenni posteriori alla metà del secolo.

21
Cfr. supra, n.13.
22
Fedi, La memoria della poesia, cit., p. 51.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

3. Due sonetti di Annibal Caro e Antonfrancesco Rainerio


Annibal Caro e Antonfrancesco Rainerio, un marchigiano e un
milanese, rispettivamente, ebbero in comune il servizio presso i
Farnese di Parma. Entrambi stretti collaboratori di Pier Luigi Far-
nese, difatti, ebbero – però – un destino affatto distinto, dal mo-
mento che la carriera di cortigiano del Caro, brillante per riuscita
mondana, contrasta nettamente con quella del Rainerio, segnata
dalla sfortuna, e votata allo smacco mondano e al fallimento. Nulla,
peraltro, esprime meglio la diversità dei due destini della fine che
toccò loro in sorte: il Rainerio morı̀, difatti, suicida, laddove il Caro,
ritiratosi a vita privata, passò gli ultimi anni nella sua sontuosa villa
di Frascati, attendendo alla sua celebre traduzione in endecasillabi
dell’Eneide, nonché alla revisione delle Lettere familiari e delle Rime.
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Né le cose cambiano sostanzialmente se passiamo al piano propria-


mente letterario: mentre il Caro riuscı̀ a conquistarsi un posto anche
letterariamente riverito, il Rainerio – in un suo sonetto –, e benché
sia con topica professione di modestia, si abbassa al rango d’«augel
palustre», a paragone di quel «Cigno maggiore», riferendosi proprio al
Caro, a cui il sonetto è dedicato. Quanto, poi, alla specifica attività
di rimatori, le Rime del Caro furono pubblicate postume nel 1569,
mentre sedici anni prima il Rainerio aveva raccolto e pubblicato a
Milano, presso Gio. Antonio Borgia, la sua produzione sonettistica,
col significativo titolo di Cento sonetti, una raccolta che l’anno succes-
sivo fu riproposta dal più autorevole editore veneziano Giolito23.
Ma è alla presenza dei due rimatori nelle antologie poetiche che
conviene ora di rivolgere la nostra attenzione. Entrambi sono pre-
senti, difatti, nelle varie antologie finora menzionate, ma in forme
alquanto diverse. Il Caro lo è pressoché in tutte, benché con scarso

23
Per le notizie biografiche sul Caro, vd. le «voci» di C. Mutini, in Dizionario biografico
degli italiani, vol. XX, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977, pp. 497-508, e di C.
Cremante, in Dizionario critico della letteratura italiana, vol I, Torino, UTET, 1984, 2ª ed.,
pp. 533-37. Di grande utilità risulta il sintetico e recente profilo critico di R. Bragantini,
«Poligrafi» e umanisti volgari, in E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana, vol. IV.
Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 681-754, in part. le pp. 732-36, con
annessa bibliografia aggiornata, per cui vd. p. 754. Sulla vicenda biografica del Rainerio, vd.
B. Croce, Anton Francesco Rainerio, in Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, vol II,
Bari, Laterza, 1958 (2ª ed.), pp. 376-89, e S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in
volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 127-28 e
n. 237. Sui Cento sonetti, vd. lo stesso Albonico, Il ruginoso stile, cit., pp. 255-57, e
soprattutto G. Gorni, Un’ecatombe di Rime. I «Cento sonetti» di Antonfrancesco Rainerio,
«Versants», XV (1989), nuova serie, pp. 135-52.

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 PARTE QUARTA

numero di testi, specialmente nella serie dei nove libri cosiddetti


giolitini. Il Rainerio, invece, risulta molto più raramente presente;
tuttavia, quando lo è, il numero di testi è piuttosto ampio: per
esempio, nel Secondo libro delle rime del ’47, i 45 componimenti del
Rainerio sopravanzano di molto gli appena 4 del Caro. Fornirò un
ultimo dato numerico, relativo a quella che è stata definita «la prima
antologia della poesia contemporanea», e che – secondo la Manero –
«revela ya la disposición antológica por excelencia de cuantas pro-
dujo el petrarquismo quinientista»24. Mi riferisco ai Fiori delle rime de’
poeti illustri, libro allestito dal viterbese Gerolamo Ruscelli nel 1558:
qui il Rainerio risulta rappresentato con 45 testi, occupando – fra i
39 autori antologizzati – la quinta posizione per quantità di componi-
menti, mentre il Caro, con i suoi 23 testi, è comunque tra quelli
maggiormente rappresentati, in undicesima posizione. Questi dati
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non debbono sembrare stravaganti, perché – come ha giustamente


avvertito Quondam – «come tutte le antologie, anche i Fiori delegano
alle proporzioni di quantità il compito di definire e proporre l’esem-
plarità di ciascuno, secondo un equilibrato gioco delle parti che
conviene direttamente recuperare»25.
Nei Fiori troviamo antologizzati i due sonetti sui quali d’ora in
poi concentreremo la nostra attenzione. Leggiamone i testi:

ANNIBAL CARO
Eran Teti e Giunon tranquille, e chiare,
Sol spirava Favonio, e fuggia Clori,
L’alma Ciprigna innanti i primi albori.
Ridendo, empia d’amor la terra, e ’l mare.
La rugiadosa Aurora in ciel più rare
Facea le stelle, e di più bei colori
Sparse le nubi, e de’ monti uscı́a fori
Febo, qual più lucente in Delfo appare.
Quand’altra Aurora in più vezzoso ostello
Apparse, e rise, e girò lieto e puro
Il Sol, che sol m’abbaglia, e mi disface.
Volsimi incontro allora, e vidi oscuro
(Santi lumi del ciel, con vostra pace)
L’oriente, che dianzi era sı̀ bello.

24
Cfr., rispettivamente, A. Quondam, Il libro tra «scriptorium» e tipografia, in Il naso di
Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991, pp.
99-121, la citazione è da p. 108; Manero Sorolla, Antologı́as poéticas italianas, cit., p. 273.
25
Quondam, Il libro di poesia, cit., pp. 108-09.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

ANTONFRANCESCO RAINERIO
Era tranquillo il mar; le selve, e i prati
scoprian le pompe sue, fior, frondi al cielo;
e la notte sen gia squarciando il velo
e spronando i cavai foschi et alati;
scuotea l’aurora da’ capegli aurati
perle d’un vivo trasparente gelo,
e già ruotava il Dio che nacque in Delo
raggi da i liti eoi ricchi odorati;
quand’ecco d’occidente un più bel Sole
spuntogli incontro, serenando il giorno,
e impallidı̀ l’Orientale imago.
Velocissime luci eterne e sole,
con vostra pace, il mio bel viso adorno
parve allor più di voi lucente e vago26.
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Lo spuntare della splendente aurora, delle quartine, è vinta, in


luce e bellezza, dall’apparire della donna amata dal poeta, nelle
terzine: questo, in sostanza, il nucleo tematico di entrambi i sonetti,
che presentano tra di loro legami talmente stretti, sia sul piano
tematico che su quello formale, da rendere praticamente certa la
derivazione diretta di uno dall’altro. Stando ai soli testi, è difficile
stabilire a quale dei due spetti la priorità; si tenga conto, comunque,
che il rimatore milanese considerò se stesso un «oscuro seguace» del
più brillante collega di origini marchigiane, il che indurrebbe ad
assegnare la priorità al sonetto del Caro rispetto a quello del Raine-
rio.
Ora, del sonetto che cronologicamente precede è stato detto di
recente che esso è un chiaro esempio di quella «commistione
classico-petrarchesca», che è poi una nota caratteristica della produ-
zione lirica del Caro, e che fa sı́ che gli esiti della sua poesia siano
«talvolta paragonabili a quelli degli altri rimatori tosco-romani»
(Molza, Tolomei, il Coppetta)27. Del resto, è nota la frequentazione

26
Cito dall’edizione de I fiori del 1558, rispettivamente, pp. 50 e 79, secondo l’esemplare
conservato presso la Biblioteca Nacional de Madrid (3/34507). I due sonetti possono
leggersi anche in A. Caro, Opere, a c. di S. Jacomuzzi, Torino, UTET, 1974, p. 331, che
riproduce il testo della prima edizione delle Rime del Caro, stampata da Aldo Manuzio
(Venezia, 1569), con numerose varianti rispetto al testo qui riprodotto; e, per il Rainerio,
Lirici del Cinquecento, a c. di L. Baldacci, Milano, Longanesi, 1975, pp. 227-28.
27
Cfr. G. Masi, La lirica e i trattati d’amore, in Storia della letteratura italiana, vol. IV. Il
primo Cinquecento, cit., pp. 595-679, la citazione è da p. 627. Già Dionisotti, a proposito
della celebre canzone in lode della Casa di Francia, «Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro»,
aveva parlato di «via prebarocca della contaminazione di elementi classici e petrarcheschi»;
cfr. Annibal Caro e il Rinascimento, «Cultura e Scuola», V (1966), pp. 26-35, la citazione è da
p. 33.

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 PARTE QUARTA

dei classici greci e latini da parte del Caro, il quale si accostò ad essi
fin dagli anni giovanili, grazie anche all’incontro con Pier Vettori,
avvenuto a Firenze, dove il nostro rimatore si era trasferito diciotten-
ne28. Comunque sia, all’origine dei due sonetti si colloca un epi-
gramma latino di Quinto Lutazio Catulo, che ci è stato conservato
dal De natura deorum di Cicerone. Dice l’epigramma:

Consisteram exorientem Auroram forte salutans,


cum subito a laeva Roscius exoritur.
Pace mihi liceat caelestes dicere vestra:
mortalis visus pulchrior esse deo29.
[Mi ero fermato per caso a salutare l’Aurora nascente,
quando improvvisamente spunta Roscio alla mia sinistra.
O celesti, mi sia concesso di dire con vostra pace:
che un mortale è più bello di un dio].
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L’esile schema dell’epigramma latino risulta fondamentale per lo


sviluppo del tema della simultanea apparizione dell’aurora e dell’og-
getto amato, col conseguente raffronto tra la bellezza dell’uno e
dell’altra, e l’assegnazione della palma della vittoria al secondo sulla
prima. Tuttavia, quello schema sarebbe stato ben poca cosa, se su di
esso non si fosse innestata una doppia tradizione, che naturalmente
presenta al suo interno notevoli punti di contatto. Mi riferisco, da un
lato, alla tradizione classica della descrizione dello spuntare del
nuovo giorno, e – dall’altro lato – a quella petrarchesca. Quanto alla
prima, in un saggio ancora oggi fondamentale, l’autrice, Marı́a Rosa
Lida de Malkiel, traccia preliminarmente una rassegna di testi clas-
sici, nella quale il tema poetico viene rintracciato e seguito da Omero
a Claudiano, fino ai poeti latinocristiani dell’Antichità, Prudenzio e
Giovenco30. Quanto alla seconda, è noto che nel Canzoniere Petrarca
usa il termine Aurora come senhal dell’amata, e ricorre in più d’una
occasione al gioco paronomastico Laura-l’Aurora. Tuttavia, un nu-
cleo tematico che risulti formalizzato alla stessa maniera dei nostri
due sonetti è assente nel Canzoniere, dove al più leggeremo le terzine
del componimento 219, che maggiormente si avvicinano al tema, se
non proprio allo schema formale dei sonetti:

28
Cfr. F. Tateo, Poesia epica e didascalica in volgare, in Storia della letteratura italiana, vol.
IV. Il primo Cinquecento, cit., pp. 787-834, in part. la p. 795.
29
De natura deorum, 3.79.
30
M. R. Lida De Malkiel, El amanecer mitólogico en la poesı́a narrativa española, «Revista
de Filologı́a Hispánica», VIII (1946), ora raccolto in Ead., La tradición clásica en España,
Barcelona, Ariel, 1975, pp. 121-64.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

Cosı̀ mi sveglio a salutar l’aurora,


e ’l sol ch’è seco, et più l’altro ond’io fui
ne’ primi anni abagliato, et sono anchora.
I’ gli ò veduti alcun giorno ambedui
levarsi insieme, e ’n un punto e ’n un’hora
quel far le stelle, et questo sparir lui31.

dove il v. 9, con l’espressione salutar l’aurora, sembra una ripresa di


quella dell’epigramma latino: Auroram... salutans; mentre nella se-
conda terzina si concentra il tema del doppio ‘sole’: quello che suole
accompagnare l’aurora, e quello a cui è – per metafora – assimilata
Laura, colti nel sorgere simultaneo (ambedui / levarsi insieme), e nel
sovrastare della luce dell’uno (questo, Laura) a quella dell’altro (lui,
aurora).
Col sostegno dell’epigramma latino e le terzine petrarchesche,
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credo che quella definizione di «commistione classico-petrarchesca»


acquisti una consistenza e un’evidenza maggiori. Del resto, la com-
ponente petrarchesca, oltre che dal contesto formato dalle due ter-
zine citate e dal ricorrente paragone tra Laura e l’aurora, è reso ancor
più evidente dalla ripresa di singole unità tematiche e stilistiche:
dall’immagine solare dell’amata che percorre l’intero Canzoniere a
espressioni isolate come ‘squarciare il velo’, che con diversi significati
compare in 28, 62 e 362, 4, o dallo stesso verbo ‘abbagliare’, che con
identico uso riappare in 107, 8.

4. Peripezie dei sonetti del Caro


e del Rainerio in terre iberiche
Possiamo passare senz’altro a considerare le peripezie spagnole dei
nostri due sonetti, dal momento che essi, veicolati sicuramente dalla
larga diffusione che ebbero in terra iberica i ‘libri di poesia’ che li
raccoglievano, godettero di una singolare fortuna tra i poeti spagnoli
della seconda metà del secolo, come ci accingiamo a vedere. Prelimi-
narmente, preciso soltanto che l’ordine con cui procederemo nella
rassegna è solo in parte cronologico; piuttosto, esso è un ibrido di
sequenzialità cronologica e di resa poetica rispetto ai modelli.

31
F. Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a c. di M. Santagata, Milano, Monda-
dori, 1996, pp. 921-23, dove nella nota al v. 9 è riportato anche l’epigramma latino, da cui
le due terzine petrarchesche prendono lo spunto. Per il paragone tra Laura e l’aurora, si
vedano anche i sonetti 223, 12-14; 255; 291, 1-4.

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 PARTE QUARTA

4.1 Diego Ramı́rez Pagán


Il primo testo in cui c’imbattiamo è quello del murciano Diego
Ramı́rez Pagán, che lo incluse nella sua raccolta Floresta de Varia
Poesı́a, pubblicata a Valencia nel 1562. Nonostante il titolo decisa-
mente religioso: Soneto a Nuestra Señora del Alva, quando leggiamo il
sonetto – almeno fino al v. 11 –, ci accorgiamo di essere sostanzial-
mente di fronte a una traduzione del componimento del Rainerio,
sottoposto quasi esclusivamente agli inevitabili adattamenti che im-
pone il cambio linguistico, insieme allo schema metrico:

Soneto a nuestra Señora del Alva


Sossegado está el mar, selva y prados
la hoja y flor su pompa muestra al cielo,
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la noche vi rompiendo apriessa el velo


sus cavallos herir negros y alados.
Scyntia dexa los campos plateados
de un transparente y christalino yelo,
respandecı́an del señor de Delo
los orientales rayos colorados.
Quando otro sol más puro de occidente
veys donde assoma serenando el dı́a,
la ymagen oriental descolorando32.

Come si vede, il poeta murciano si è limitato a ricalcare il testo


del Rainerio con un risultato di resa poetica ancor più modesto del
sonetto italiano, da cui si allontana – in modo più rilevante – in un
paio di occasioni: quei «campos plateados», che hanno preso il posto
dei «capegli aurati» con cui viene raffigurata l’aurora; e la presenza
del poeta nel testo in veste di osservatore dello spettacolo aurorale,
mediante l’introduzione del verbo «vi», a cui corrisponde la forma
«veys» della prima terzina, con analoga funzione, riferita però ai
destinatari del componimento.
Solo con la seconda terzina arriva la fondamentale novità: l’‘altro
sole’, che spunta ad occidente rivaleggiando con quello che ad
oriente accompagna l’aurora, è nientemeno la Vergine, la quale
comprensibilmente ha facile gioco nell’imporre la sua bellezza tra-
scendentale su quella naturalissima dello spuntar del nuovo giorno:

32
Riproduco il testo di D. Ramı́rez Pagán, Floresta de varia poesı́a, a c. di A. Pérez
Gómez, vol. I, Barcelona, Selecciones Bibliófolas, 1950, p. 216.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

Y dixo: Eterna luz sola y ardiente


suffrid en paz la hermosura mı́a
que más clara que vos se ha mostrado.

Il sonetto del Rainerio, dunque, sebbene non abbia tratto gran


profitto dal rifacimento in spagnolo, si rivela comunque l’inconsape-
vole protagonista di un interessante e – in qualche modo – precoce
adattamento «a lo divino» di un motivo marcatamente classico e
profano, come aveva avvertito Fucilla, che – a proposito del sonetto
di Ramı́rez Pagán – aveva affermato che esso «representa uno de los
primeros ejemplos de un poema a lo divino escrito durante el
33
renacimiento español» .
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4.2 Jerónimo Lomas Cantoral


Torniamo decisamente – e definitivamente – alla dimensione profana
col seguente sonetto che Jerónimo Lomas Cantoral pubblicó nelle
sue Obras, nel 1578. Al cambio di prospettiva, comunque, non
corrisponde un analogo progresso estetico, dal momento che si ha
l’impressione che il sonetto spagnolo resti al di sotto del modello
italiano; anzi, dei modelli italiani: perché la novità e l’interesse del
componimento di Lomas Cantoral consiste nel contaminare en-
trambi i sonetti, del Rainerio e del Caro. Difatti, la seconda quartina
di Lomas Cantoral risulta pressoché interamente ricalcata sulla strofa
corrispettiva del sonetto del Rainerio:

Arrojaba el Aurora de rosados


dedos mil perlas de un luciente yelo,
rodeaba el dios que nació en Delo
de rayos su sagrada faz dorados34

con la brina (perlas de un luciente yelo) che, in luogo dei «capegli

33
Cfr. J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo español, Madrid, Anejos de la «Revista de
Filologı́a Española», 1960, p. 62. Secondo Fucilla, i due poeti italiani si erano a loro volta
rifatti a un terzo sonetto di L. Ariosto, «Chiuso era il sol da un tenebroso velo», che «fué uno
de los más copiados del renacimiento italiano» (p. 63). Quanto al testo di Rámirez Pagán,
esso è uno dei «neuf sonnets spirituels» raccolti nel canzoniere lirico, per cui vd. M.
Darbord, La poésie religieuse espagnole des Rois Catholiques a Philippe II, Paris, Centre de
Recherches de l’Institut d’Edudes Hispaniques, 1965, pp. 427-29.
34
Cito da Las obras de Jerónimo Lomas Cantoral, a c. di L. Rubio González, Valladolid,
Institución Cultural Simancas, 1980, pp. 179-80; e vd. anche Fucilla, Estudios sobre el
petrarquismo, cit., pp. 131-32.

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 PARTE QUARTA

aurati», procede dai «dedos rosados» della dea, in conformità alla


descrizione classica dell’aurora, che – in effetti – la rappresentava con
braccia e mani rosee.
Le due terzine, invece, riprendono sostanzialmente quelle del
sonetto del Caro:

cuando otra bella aurora de Occidente


salió riendo y descubrió más puro
el sol que sólo el sumo sol me adiestra.
Quedó luego a su luz pobre y oscuro,
divinas lumbres, con licencia vuestra,
el claro amanecer de Orı̈ente

dove, al v.11, si percepisce il concentrato gioco paranomastico, che


ripete – con rincaro – quello dello stesso verso del Caro: «il sol che
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sol m’abbaglia e mi disface». In effetti, nell’uso dell’iterazione paro-


nomastica, Lomas Cantoral, attraverso la mediazione di Annibal
Caro, si rifà direttamente al modello petrarchesco. In più di un
componimento del Canzoniere, difatti, Petrarca ricorre all’uso reite-
rato dei termini sol e sole, con i diversi significati: di astro, di amata,
di Dio, oltre che di aggettivo e avverbio. In due casi, la canzone 135
«Qual più diversa e nova» e il sonetto 338 «Lasciato ài, Morte, senza
sole il mondo», la reiterazione è triplice come in Lomas Cantoral,
benché essa non si concentri nello stesso verso, ma ricorra in uno
spazio testuale più ampio35. È, tuttavia, con l’esordio del sonetto 306
del Canzoniere petrarchesco, che il verso spagnolo mostra maggiori
contatti:

Quel sol che mi mostrava il camin destro


di gir al ciel con glorı̈osi passi,
36
tornando al sommo Sole... (vv. 1-3) .

dove ritroviamo non solo l’iterazione sol (=amata) e sommo Sole


(=Dio), ma anche l’aggettivo destro, che – nel testo spagnolo – è
ripreso dal verbo «adiestra», col significato di «guiar a alguno de la

35
Petrarca, Canzoniere, ed. cit., pp. 653-65 e 1303-305. La reiterazione è presente nei vv.
6, 9 e 11 della canzone, e nei vv. 1 e 6 del sonetto.
36
Ivi, p. 1181. Il verbo del testo spagnolo (adiestra) conserva un’eco del motivo, a cui
allude l’aggettivo del sonetto petrarchesco (destro), e sul quale abbondanti riferimenti si
potranno trovare in F. Rico, Vida u obra del Petrarca, vol. I. Lectura del Secretum, Capell Hill,
University of North Carolina, 1974, pp. 304-06. e F. Petrarca, Secretum, a c. di E. Fenzi,
Milano, Mursia, 1992, pp. 369-70.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

diestra, o porque es ciego, o porque camina por lugar obscuro» –


specifica il Diccionario de Autoridades.
Dal gioco delle riprese, abbiamo lasciato fuori la prima quartina
del sonetto di Lomas Cantoral. Essa, difatti, fonde – nella stessa
unità strofica – i due modelli italiani, annunciando cosı̀ quella trama
di accostamenti che le seguenti strofe provvederanno a realizzare e
completare, separatamente:

El mar y el aire estaban sosegados.


Sólo Favonio aspira en vuelo
süave y manso, y de la noche el velo
roto, mostraban su beldad los prados

dove il riferimento a Favonio è ripreso dal sonetto del marchigiano, e


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quello allo ‘squarciarsi del velo notturno’ procede direttamente da


quello del milanese.
In conclusione, l’interesse del componimento di Lomas Cantoral
direi che consiste esclusivamente nella tecnica combinatoria con la
quale fonde i due modelli italiani, e nella realizzazione della quale
trova lo spazio per immettere, con analogo procedimento, il richiamo
al modello per antonomasia – quello direttamente petrarchesco – che
presiede alle tre esecuzioni, le due italiane e la spagnola.

4.3 Francisco de la Torre


Con i sonetti degli ultimi due poeti della nostra rassegna: probabil-
mente già quello del misterioso Francisco de la Torre37, e – senza
alcun dubbio – con il sonetto del divino Herrera, siamo messi di
fronte a un livello di maggiore resa poetica. E ciò benché – o, forse,
proprio perché – la loro distanza dai modelli è nel frattempo aumen-
tata. Dei modelli italiani, difatti, il testo di Francisco de la Torre non
conserva altro che il disegno di fondo: lo spuntare dell’aurora nelle
quartine, l’apparizione dell’amata nelle terzine; ma – anche su questo
piano – c’è da dire che la fondamentale e costante correlazione
temporale tra i due eventi, affidata alla congiunzione quando, all’ini-

37
Sull’identità del poeta, vd. i recenti contributi di J. De Sena, Francisco de la Torre e D.
Joao de Almeida, Paris, Fundaçao Calouste-Gulbenkian, 1972; di A. Blanco Sánchez, De
Quevedo a Fray Luis. En busca de Francisco de la Torre, Salamanca, Atlas, 1982; di M. L.
Cerrón Puga, El poeta perdido: aproximación a Francisco de la Torre, Pisa, Giardini Editore,
1984.

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 PARTE QUARTA

zio del nono endecasillabo, cede il posto a un più neutro – e direi,


anche più debole – correlativo tal. Solo nella seconda terzina, peral-
tro, viene ripreso il motivo della ‘superiorità’ dell’amata sugli astri,
mediante il verbo inclina, tre volte reiterato nello stesso verso. Ma, a
parte il disegno di fondo, che indubbiamente riporta il componi-
mento spagnolo ai due sonetti da cui siamo partiti, per il resto, ossia:
a livello delle singole micro-unità che danno corpo a quel disegno, è
difficile individuare precise e puntuali riprese di un testo rispetto agli
altri due, se escludiamo – come è necessario fare – tutti quegli
elementi che si ritrovano in decine e decine di liriche descrizioni
della nascita del nuovo giorno e dello spuntar dell’aurora; elementi
che – evidentemente – non provano nulla circa l’effettivo rapporto
tra i testi. Ma, forse è il caso di ricorrere direttamente alla lettura del
sonetto di Francisco de la Torre:
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Rompe la niebla de la noche frı́a,


de nieve y ostro y de cristal ornada,
de perlas orientales esmaltada,
rosada Aurora, y aparece el dı́a.
Descubre al campo la beldad que habı́a
convertido en espanto la cerrada
y escurı́sima noche; y de pasada,
enriquece la tierra de alegrı́a.
Tal a mis ojos la beldad divina,
del ı́dolo purı́simo que adoro,
Aurora clara, con tu paz parece.
Inclina el sol, inclina el cielo, inclina
los elementos; y al Pierio Coro,
gloria mayor que la que goza, ofrece38.

Piuttosto c’è da notare il maggiore rilievo che acquista nel com-


ponimento di de la Torre il riferimento al singolo motivo della
‘notte’, che nei precedenti sonetti, sia italiani che spagnoli, pur
comparendo come breve e costante allusione allo ‘squarciarsi del
velo notturno’, tuttavia non prendeva il sopravvento sugli altri aspetti
che contribuivano a descrivere la nascita dell’aurora. Posto ad esor-

38
F. de La Torre, Poesı́a completa, a c. di M. L. Cerrón Puga, Madrid, Cátedra, 1984, p.
75. Vd. S. Pérez-Abadı́n, Los sonetos de Francisco de la Torre, Manchester, University of
Manchester, 1997, pp. 177-78 e n. 26, dove la studiosa osserva che «Ni el poema italiano
[del Rainerio] ni las otras imitaciones [di Lomas Cantoral e di Herrera] recurren a la
estructura comparativa que articula el soneto I–2 de La Torre». Sulla funzione strutturale
che il nostro sonetto svolge nella raccolta, e sulle relazioni di esso con gli altri componi-
menti, si veda lo schema riassuntivo della Pérez-Abadı́n, pp. 119-21.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

dio del componimento: «Rompe la niebla de la noche frı́a», esso


riceve un ulteriore e più ampio sviluppo nella seconda quartina, dove
– a me sembra – che esso riecheggi alcuni celebri versi della prima
egloga di Garcilaso:

Como al partir del sol la sombra crece,


y en cayendo su rayo, se levanta
la negra escuridad que ’l mundo cubre,
de do viene el temor que nos espanta
y la medrosa forma en que s’ofrece
aquella que la noche nos encubre
hasta que el sol descubre
su luz pura y hermosa,
tal es la tenebrosa
noche de tu partir... (vv. 310-19)39.
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A parte la correlativa introdotta da tal, a cui non darei eccessivo


peso, se non fosse che i versi di de la Torre ripropongono, in forma
concentrata, il tema della restituzione alla luminosa bellezza del
giorno di tutto ciò che – qui circoscritto al «campo» – era avvolto
nelle tenebre notturne e – pertanto – incuteva paura; il recupero del
tema è, del resto, confermato dalla ripresa di alcuni elementi lessi-
cali, come escuridad con escurı́sima, la terna verbale: cubre, encubre,
descubre col solo descubre, e – infine – il verbo espanta trasformato nel
sostantivo espanto. Ma i richiami alla poesia di Garcilaso da parte di
de la Torre non si esauriscono col tema della ‘notte’. Ho già fatto
notare come la ‘superiorità’ della bellezza dell’amata su quella del-
l’aurora sia affermata, nell’ultima terzina, mediante il ripetuto ricorso
al verbo inclina: Inclina el Sol, inclina el cielo, inclina / los elementos.
Ebbene, di nuovo in Garcilaso, nella seconda egloga – questa volta –
leggiamo i seguenti tre versi:

39
G. de la Vega, Obra poética y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı́tica,
1995, pp. 135 e 466. Sulla strofa dell’egloga segnalo un importante lavoro inedito di R.
Pinto, Lo ‘extraño’ y la sombra, citato e utilizzato da G. Serés, La transformación de los
amantes. Imagenes el amor de la antigüedad al Siglo de Oro, Barcelona, Crı́tica, 1996, pp.
221-22. Sul motivo notturno nella poesia di F. de la Torre, vd. A. Zamora Vicente, Prólogo
a F. de la Torre, Poesı́as, Madrid, Espasa-Calpe, 1969, pp. XXXVII-XLII; G. Hughes, The
Poetry of Francisco de la Torre, Toronto, University of Toronto Press, 1982, pp. 35-37;
Cerrón Puga, Introducción all’ed. cit., pp. 32-33; Pérez-Abadı́n, Los sonetos, cit., pp. 73-74 e
n. 76, 81, 159.

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 PARTE QUARTA

Denunciaba el aurora ya vecina


la venida del sol resplandeciente,
a quien la tierra, a quien la mar s’enclina (vv. 551-53)40.

In de la Torre, troviamo il motivo – per cosı̀ dire – rovesciato. Se


in Garcilaso, difatti, il ‘mare’ e la ‘terra’ s’inchinano al sole dell’au-
rora, riconoscendone la superiorità; in de la Torre, l’«ı́dolo purı́simo»
piega alla sua superiore bellezza ‘sole’, ‘cielo’ ed ‘elementi’.
Del sonetto di Lomas Cantoral avevamo concluso che il suo
interesse consisteva nell’applicazione di una tecnica combinatoria,
con la quale si fondevano i due modelli italiani, mentre su entrambi
si innestava il richiamo diretto a Petrarca; del sonetto di de la Torre,
si potrebbe concludere che il suo interesse consiste nello sforzo di
prendere le distanze dai due modelli italiani, ai quali – comunque – si
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rifà nel disegno di fondo, mentre esibisce il richiamo altrettanto


diretto a Garcilaso, vale a dire all’altro termine del binomio di
autorità poetiche per questi poeti, tutti attivi nella seconda metà del
secolo.

4.4 Fernando de Herrera


Giunti alla fine della nostra rassegna, troviamo il divino Herrera, con
la doppia versione del sonetto, presente sia nella selezione di Algunas
obras, l’unico libro di poesia pubblicato in vita del poeta nel 1582, sia
nella più cospicua raccolta, pubblicata dall’amico Pacheco nel 1619,
quando Herrera era morto da più di vent’anni (1597). Rispetto al
sonetto di de la Torre, con quello di Herrera torniamo a una
maggiore aderenza ai modelli italiani del Rainerio e del Caro, con
prevalenza – direi – del milanese sul marchigiano. Ma leggiamo,
prima, il componimento nella versione dell’82:

Del fresco seno ya la blanca Aurora


perlas de ielo puras esparzı́a
y con serena frente alegre abrı́a
el esplendor süave, qu’atesora;
El lúcido confin d’Euro i de Flora
con la rosada llama, qu’encendı́a
Delio aun no roxo, al tierno i nuevo dı́a

40
G. de la Vega, ed. cit., p. 168. Sulla triplice iterazione e la spezzatura del v. 12 del
sonetto di de la Torre, vd. Pérez-Abadı́n, Los sonetos, cit., pp. 141, 154, 159.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

esclarece i esmalta, orla i colora;


Cuando sale mi Luz, i en Orı̈ente
desmaya el vivo lustre; ô vos del cielo
vagas lumbres, si tanto se consiente,
Digo con vuestra paz, qu’en mortal velo
parecio mas que vos bella i fulgente
mi Luz, qu’onora el rico, Esperio suelo41.

Come si vede, non solo è conservato il disegno strutturale dei


modelli, con il ripristino della correlazione temporale introdotta dalla
consueta congiunzione cuando, all’inizio delle terzine, ma il poeta
riprende anche, soprattutto dal componimento del Rainerio42 – come
già dicevo –, singole micro-unità. Limitando il confronto alla sola
versione dell’82, notiamo per esempio che:
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— al v. 2, troviamo restaurate le abituali «perlas de ielo» per la


brina aurorale;
— ai vv. 9-10, torna l’immagine dell’offuscamento dell’astro
solare in compresenza dell’amata: «en Orı̈ente / desmaya el
vivo lustre» da confrontare con «impallidı́o l’orientale imago»;
— ai vv. 10-12, l’invocazione dei lucenti astri, affinché consen-
tano il paragone a loro svantaggio: «ô vos d’el cielo / vagas
lumbres, si tanto se consiente, / Digo con vuestra paz» che
riecheggia sia «Velocissime luci eterne e sole, / con vostra
pace» del Rainerio, sia «santi lumi del ciel con vostra pace»,
con maggiore aderenza al primo, da cui è ripreso anche

41
Riproduco il testo di F. de Herrera, Algunas obras, a c. di B. López Bueno, Sevilla,
Diputación de Sevilla, 1998, p. 349. Vd. anche F. de Herrera, Obra poética, a c. di J. M.
Blecua, vol. I, Madrid, Anejos del «Boletı́n de la Real Academia Española», 1975, pp.
416-17, che edita i testi di H (1582) e di P (1619); Id., Poesı́a castellana original completa, a
c. di C. Cuevas, Madrid, Cátedra, 1985, pp. 457-58, per il testo di H (con riproduzione
delle varianti di P, in apparato, p. 837); Id., Poesı́as, a c. di V. Roncero López, Madrid,
Castalia, 1992, pp. 481-82, che edita il solo testo di H.
42
Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., p. 146. All’Aurora è dedicata una delle
numerose note metodologiche delle Anotaciones (cfr. Obras de Garci Lasso de la Vega con
anotaciones de Fernando de Herrera, Sevilla, Alonso de la Barrera, 1580, ed. facsimile e studio
bibliografico di J. Montero, Universidades de Córdoba-Sevilla-Huelva/Grupo P.A.S.O,
1998, p. 554), ripresa in parte da Lilio Gregorio Giraldo, De deis gentium, Basilea, 1548,
come ha recentemente indicato B. Morros, Las polémicas literarias en la España del siglo XVI:
a propósito de Fernando de Herrera y Garcilaso de la Vega, Barcelona, Quaderns Crema, 1998,
pp. 42-43, dove possono anche leggersi le considerazioni circa «los escolios consagrados a
cuestiones lingüı́sticas [que] tienen como punto de partida la Apologia degli Accademici di
Banchi di Roma contra messer Lodovico Castelvetro (Parma, 1558)» di Annibal Caro (pp.
192-94).

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 PARTE QUARTA

l’aggettivo vago del vicino v. 14, con spostamento dal «bel


viso» dell’amata alle «luci» perdenti nel confronto;
— il v. 13, infine: «parecio mas que vos bella y fulgente» sembra
ricalcato sull’ultimo verso del Rainerio: «parve allor più di voi
lucente e vago».
Eppure, nonostante la documentata fedeltà al modello – nel
disegno di fondo come nelle singole riprese –, siamo lontani dal calco
perseguito dai primi due sonetti spagnoli che abbiamo letto, quelli di
Ramı́rez Pagán e Lomas Cantoral. Con eccessiva semplicità, forse, si
potrebbe dire che Herrera, lavorando con gli stessi elementi, è
approdato a un risultato che – se non è proprio inedito – presenta
comunque un sensibile rinnovamento, con un effetto sconosciuto,
almeno rispetto ai modelli di partenza. A me pare, peraltro, che tale
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effetto aumenti nel passaggio dalla versione contenuta nella selezione


del 1582 a quella raccolta da Pacheco:

D’el fresco seno lúcido l’Aurora


de tierno ielo perlas esparzı́a
i con purpurea frente alegre abrı́a
el esplendor suave, qu’atesora;
El sereno confin d’Euro i de Flora
con la rosada llama; qu’encendı́a
Delio aun no roxo bien, al nuevo dı́a
esclarece i esmalta, orla i colora.
Cuando sale mi Luz, i en Orı̈ente
desmaya el puro ardor, ô vos d’el cielo
vagas Lumbres, si tanto se consiente,
Digo con vuestra paz; qu’en mortal velo,
mas que vos bella aparecio i fulgente
mi Luz; qu’onora el rico Esperio suelo43.

Nello spazio di cui dispongo, sarebbe impossibile affrontare pie-


namente i problemi che pongono le due redazioni della poesia di
Herrera, e che hanno dato luogo a numerosi studi, nonché alle
costruttive polemiche tra rinomati studiosi e filologi44. Troppe sareb-

43
Ed. cit. di J. M. Blecua, pp. 416-17.
44
La questione che – com’è noto – ha le sue lontane origini in un’affermazione di
Francisco de Quevedo contenuta nel prologo alla sua edizione di F. de la Torre del 1631,
nonché nelle Apostillas alla copia dei Versos in suo possesso (cfr. l’ed. cit. di Cerrón Puga, p.
70; ma vd. P. M. Komanecky, Quevedo’s notes on Herrera: The involvement of Francisco de la
Torre in the controversy over Góngora, «Bulletin of Hispanic Studies», LII (1975), pp.
122-33), ha visto coinvolti, nel corso del nostro secolo, studiosi e filologi come A. Coster, J.
M. Blecua, S. Battaglia, O. Macrı̀, D. Kossoff; per i puntuali riferimenti bibliografici, rinvio

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

bero, perciò, le premesse che dovrei fare, per entrare nel pieno della
questione. Mi limiterò, pertanto, a qualche isolata osservazione rela-
tiva alla doppia versione del nostro sonetto, ricordando – in via
preliminare – soltanto uno studio piuttosto recente. Qualche anno fa,
Bienvenido Morros, studiando il sonetto di Herrera «Pensé, mas fue
engañoso pensamiento», anch’esso in doppia versione, ne individuò
le fonti precise: due sonetti di Bernardo Tasso e Benedetto Varchi,
entrambi presenti proprio nell’antologia italiana delle Rime scelte del
’63, e notò come la versione del 1582 era molto più vicina alle fonti
di quanto lo fosse quella della raccolta del ’19, che – difatti – mostra-
va una chiara tendenza ad allontanarsi dai modelli. Il caso presentato
da Morros era incontrovertibile, per cui lo studioso potette ragione-
volmente segnare un punto fermo: la versione raccolta nel ’19 è reda-
zionalmente posteriore a quella pubblicata nella selezione del 1582,
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contro l’ipotesi precedentemente formulata da qualche – pur autore-


vole – studioso della materia45.
Le conclusioni di Morros possono applicarsi anche al nostro
sonetto? Pur essendo la situazione di partenza molto simile, il caso
del nostro sonetto non consente soluzioni cosı̀ limpide e sicure come
quello preso in esame da Morros. Ma proviamo a generalizzare il
procedimento da lui utilizzato. Proviamo, cioè, a interpretare le
varianti, invece che come una presa di maggiore distanza dalla
singola fonte, piuttosto come tentativo di rinnovare dall’interno certe
forme del linguaggio lirico petrarchesco, sentite ormai come troppo
rigide e convenzionali. Farò un solo esempio, per un’ipotesi tutta da

alle recenti sintesi di Cuevas, La cuestión textual, in Herrera, ed. cit., pp. 87-99, e di
Roncero, Drama textual, in Herrera, ed. cit., pp. 79-84. Ai lavori citati, bisogna aggiungere i
numerosi e recenti contributi di I. Pepe Sarno, Bianco il ghiaccio, non il velo. Ritocchi e
metamorfosi di un sonetto di Herrera, in Ecdotica e testi ispanici (Atti del Convegno Nazionale
dell’Associazione Ispanisti Italiani. Verona, 18-19-20 giugno 1981), Verona, Università
degli Studi di Verona, 1982, pp. 111-23 (pubblicato anche in «Strumenti Critici», XV
(1981), pp. 458-71); Id., Se non Herrera, chi? Varianti e metamorfosi nei sonetti di Fernando de
Herrera, «Studi Ispanici», 1982, pp. 33-69; 1983, pp. 103-27; 1984, pp. 43-76; e di J.
Montero, Una versión inédita (con algunas variantes) de la canción Al sueño de Fernando de
Herrera, «Cuadernos de Investigación Filológica», XII-XIII (1986-87), pp. 117-32. Per i
lavori di Senabre e di Morros, cfr. la nota seguente.
45
B. Morros, Algunas observaciones sobre la poesia y la prosa de Herrera, «El Crotalón.
Anuario de Filologı́a Española», II (1985), pp. 147-68, in part. le pp. 147-53, dove il
filologo barcellonese discute e contesta l’ipotesi che «remonta P a los borradores de Herrera
cuya lecciones y textos más logrados configurarı́an H»; ipotesi che risale a Coster, difesa
recentemente da R. Senabre, Los textos ‘emendados’ de Herrera, «Edad de Oro», IV (1985),
pp. 179-93, e confermata in margine a un lavoro successivo, Sobre la lı́rica de Herrera: teorı́a
y práctica, in Homenaje al profesor Antonio Vilanova, Barcelona, Universidad de Barcelona,
1989, vol. I, pp. 655-67, in part. p. 658 n. 6.

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 PARTE QUARTA

verificare. Premetto che la maggior parte delle varianti del nostro


sonetto riguarda l’aggettivazione e più precisamente, lo spostamento
di posizione di alcuni aggettivi: è come se il poeta si fosse divertito –
mi si passi il termine – a ridistribuire gli aggettivi46. L’unico esempio
che farò riguarderà proprio il primo verso, che nella versione del
1582 suona: «Del fresco seno ya la blanca Aurora», modificato in
«D’el fresco seno lúcido l’Aurora». Nella personificazione dell’aurora,
i due emistichi che formano il primo verso dell’82 sono costituiti da
altrettanti sintagmi che – sebbene con diversi gradi – risultano
comunque attestati entrambi nella lirica petrarchesca del Cinque-
cento, con la forma «bianca Aurora» che risulta, com’è ovvio, molto
più largamente documentata dell’altra: «fresco seno», che – in ogni
caso – è usata proprio da Bernardo Tasso in un paio di occasioni
almeno47. L’operazione che il poeta compie nella versione raccolta
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nel ’19 consiste nello spostamento dell’aggettivo «lúcido», dal quinto


verso dov’era riferito a «confin», al primo verso, col risultato di isolare
il termine «Aurora», preceduto dal solo articolo, e formare un nuovo
sintagma: «el fresco seno lúcido», che non saprei assicurare se total-
mente inedito, comunque certamente meno frequente degli altri due,
isolatamente considerati. Aggiungo solo che nel solito Bernardo
Tasso, oltre alle due occorrenze di «fresco seno», si trova anche
un’unica occorrenza di «lucido seno»48, mai – però – il nuovo sin-
49
tagma herreriano «fresco seno lúcido» .

46
Per un’analisi completa della doppia redazione del sonetto, vd. Pepe Sarno, Se non
Herrera, chi?, cit., 1984 pp. 71-74. L’analisi, ampliata a quella delle varianti del sonetto
«Cual rocı̈ada Aurora en blanco velo», che pure è costruito sul «sı́mil entre la amada y la
Aurora», è stata ripresa dalla studiosa in La «Luz» de la «Aurora»: variantes en dos sonetos de
Fernando de Herrera, in Actas del VIII Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas
(Brown University, 22-27 agosto 1983), vol. II, Madrid, Ediciones Istmo, 1986, pp. 409-18,
dove – a proposito delle varianti del nostro sonetto – leggiamo: «la materia lingüı́stica queda
casi inalterada, limitándose las modificaciones, en la mayorı́a de los casos, a desplazamien-
tos espaciales del mismo caudal léxico. Parece un juego de combinaciones en el que cada
pieza puede moverse solamente cuando otra haya sido trasladada a otro sitio» (p. 414).
47
B. Tasso, Rime, vol. I. I tre libri degli Amori, a c. di D. Chiodo, Torino, Edizioni RES,
1985: «Lieto deponi nel mio fresco seno» (III, 68, v. 404, p. 403); mentre di semplice
contiguità si tratta in «Non però ha più di me fresco e fiorito / Amarillide il viso, o ’l seno
adorno» (II, 104, vv. 50-51, p. 267).
48
Ivi, «E prendi il don, che nel lucido seno / Ti serba l’onda chiara a maraviglia» (II, 107,
vv. 43-44, p. 277).
49
Un diverso ordine di motivazioni, tutte interne al singolo testo, adduce l’analisi della
Pepe Sarno per spiegare lo spostamento dell’aggettivo lúcido al v. 1, che – nella sua tipologia
– rientra tra le varianti il cui scopo consiste prevalentemente nell’«instaurar relaciones donde
no las habı́a» (La «Luz» de la «Aurora», cit., p. 417). All’origine dello spostamento, difatti,
possono distinguersi ben cinque cause e effetti: 1) creazione del parallelismo tra il v. 1 e il v.
3; 2) incremento dell’effetto di «luminosidad», che presiede all’intera prima quartina; 3)

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

L’allontanamento, il prendere le distanze, il tentativo di rinno-


vare dall’interno – insomma – sembra potersi documentare anche nel
nostro sonetto; non, però, in rapporto alla singola fonte utilizzata,
bensı́ rispetto alle più generali forme, fortemente codificate, da cui
Herrera partiva50.

5. Brevi conclusioni
È tempo di concludere. La rassegna che ho presentato, introducen-
doci nell’officina di alcuni poeti italiani e spagnoli dei primi decenni
della metà del secolo, ci ha consentito di confermare e ulteriormente
precisare due fenomeni già noti:
1) l’importanza che ebbe, anche fuori della penisola italiana, quel
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fenomeno editoriale costituito dalle antologie poetiche, che caratte-


rizzò il petrarchismo della seconda metà del Cinquecento51;
2) lo sforzo di rinnovamento in cui furono impegnate le genera-
zioni di poeti spagnoli successive ai grandi rinnovatori, che avevano
assicurato la sperimentazione, prima, e l’assimilazione, poi, del lin-

coerenza col lessico herreriano, che riserva al ‘cielo’ l’aggettivo lúcido (cfr. Anotaciones, H.
346); 4) anticipazione del nome dell’amata (Luz); 5) esigenza di differenziare l’incipit del
sonetto da quello del parallelo «Cual rocı̈ada Aurora en blanco velo», le cui varianti sono
studiate nello stesso lavoro (ivi, p. 417).
50
Sebbene, nel menzionato studio (Algunas observaciones), Morros ristabilisca il corretto
ordine cronologico di H e di P, contro la tesi sostenuta da Senabre, con quest’ultimo
coincide a proposito della «superioridad estética de H sobre P», discrepando – per quest’a-
spetto – dall’idea difesa nei contributi della Pepe Sarno, e trovando una «apoyatura más
objetiva» di tale giudizio di valore negli «hábitos poéticos que exibı́a nuestro autor» e nelle
«preceptivas de la época que se encargaron de difundirlos» (p. 153 n. 11). Di parere diverso
la Pepe Sarno che – a proposito del nostro sonetto – afferma: «con P estamos en un sistema
que somete a revisión todo el caudal lingüı́stico, fónico, rı́tmico, semántico y figural de H,
para ajustarlo a ese ideal de perfección del soneto que está expresado en las Anotaciones» (La
«Luz» de la «Aurora», cit., pp. 417-18; per il passo delle Anotaciones, cfr. H. 1). Da parte
mia, sulla base della considerazione di una sola variante, sarebbe troppo arrischiato
prendere posizione; nella concezione del presente lavoro, che mira esclusivamente a chiarire
il rapporto con i modelli italiani, mi premeva – foss’anche sulla scorta di un solo esempio –
di indicare una linea d’indagine, che sposta l’analisi dai concreti oggetti poetici con funzione
di ‘fonte’ all’intero codice poetico, all’interno del quale il testo herreriano è concepito, e dal
quale tuttavia – nelle sue trasformazioni – sembra voler prendere le distanze.
51
«Nunca se insistirá lo suficiente en la importancia que tuvieron en la España del siglo
XVI las Fiori y las Rime scelte de los poetas italianos», afferma con ragione Morros (Algunas
observaciones, cit., p. 149 e cfr. anche la n. 3), confermando la validità di una direttrice
d’indagine già tracciata e seguita da Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., da Cerrón
Puga nell’introduzione e nelle ricche note della citata edizione della poesia di Francisco de
la Torre, da Manero Sorolla, Imágenes petrarquista, cit., per limitarmi ad alcuni tra i più
significativi contributi.

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 PARTE QUARTA

guaggio lirico italiano; uno sforzo che – peraltro – non smentı̀ né il
contributo ancora una volta italiano, né la sostanziale fedeltà al
binomio Petrarca-Garcilaso52.
Quanto al primo fenomeno, dirò in conclusione che su entrambi
i poeti italiani da me scelti pesano giudizi di merito poco lusinghieri.
Del primo – Annibal Caro – già Leopardi, nello Zibaldone, aveva
scritto: «Osservate [...] il Caro, le cui rime sono la sola cosa che di lui
non si legga più»53; a proposito del secondo – Antonfrancesco Raine-
rio – un recente giudizio di Gorni risulta non meno perentorio: «il
breve volo del Rainerio, nel cielo aperto e popolatissimo della lirica
cinquecentesca, par proprio di scarsa tenuta e di debole slancio»54.
Ma proprio perché tali giudizi sono difficilmente confutabili, mi è
parso che valesse la pena di sceglierli a campioni di una verifica, nel
corso della quale è risultato confermato che è la formula del ‘libro di
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rime’ che impone i singoli autori che vi sono inclusi, e non viceversa.
Quanto al secondo fenomeno, nel misurarsi coi modesti modelli
italiani, i poeti spagnoli danno luogo a una notevole varietà di
atteggiamenti e di risultati: si va da chi ricalca la fonte, e – nel farlo –
ricodifica «a lo divino» un motivo quanto mai classico e profano; a
chi preferisce l’arte combinatoria di fonti diverse e – tuttavia –
apparentate, senza rinunciare a un riuso – peraltro, con rincaro – del
modello per antonomasia: Petrarca; a chi – ancora – batte la strada
dello scarto dai modelli più immediati, per esibire – d’altronde – una
fedeltà non pedissequa verso l’altro termine del binomio già classico:
Garcilaso; a chi – infine – porta avanti più di ogni altro lo sforzo di
rinnovamento, ma lo fa mediante un gioco di precisione tale da far
scaturire il massimo di novità dal minimo di deviazione.
È il mondo un po’ chiuso – in non pochi casi, perfino stantı́o –
del petrarchismo del secondo Cinquecento; ma è anche il mondo in

52
Riferendosi soprattutto agli anni settanta del XVI secolo, Alberto Blecua ha sottoli-
neato lo sforzo innovativo in cui furono impegnati alcuni poeti spagnoli, i quali «componen
un tipo de poesı́a que tiene, sı́, como modelo principal a Garcilaso [a cui aggiungerei ancora
il nome di Petrarca], pero también a los poetas que figuran en las rimas y flores de poetas
ilustres italianos – Varchi, Tansillo, Tomitano, Rinieri, Molza –, iniciados por la de Giolito
en 1546 [in effetti, 1545], que no por azar va dedicada a Don Diego Hurtado de Mendoza,
y que tan profundas huellas dejarán en la lı́rica española» (El entorno poético, cit., p. 85). Vd.
anche I. Navarrete, Orphans of Petrarch. Poetry and Theory in the Spanish Renaissance,
California, University of California Press, 1994, in part. il cap. IV, Herrera and the Return to
Style, pp. 126-89 (tr. sp. di A. Cortijo Ocaña, Madrid, Gredos, 1997, pp. 166-243).
53
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a c. di G. Pacella, vol. I, Milano, Garzanti, 1991, p.
1365 (p. 2534 dell’autografo leopardiano).
54
Gorni, Un’ecatombe di rime, cit., p. 135.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI 

cui – quasi sotterraneamente – si fanno i preparativi da cui – di lı̀ a


poco – prenderà l’avvio la travolgente rivoluzione formale del lin-
guaggio poetico barocco.
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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

Nella seconda delle tre canzoni sorelle, quella della felicità amorosa,
a Lavinello bastano due soli endecasillabi per imbastire una descri-
zione pressoché completa del bel viso di colei che ama:
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Gigli, calta, viole, acanto e rose


e rubini e zafiri e perle et oro
scopro, s’io miro nel bel vostro volto1.

Possiamo essere certi che né la bella donna, a cui i versi sono in
prima istanza rivolti, né il contemporaneo lettore degli Asolani, dove
la canzone è allogata, ebbero difficoltà alcuna nel discernere nell’a-
sindetica serie floreale un riferimento al colore pallido e purpureo,
insieme, delle guance di lei, e in quella delle pietre preziose, coordi-
nate per polisindeto, l’allusione, parimenti metaforica, al rossore
delle sue labbra in contrasto coi bianchi denti, unitamente al biondo
della chioma e allo splendore degli occhi.
Si sa che, al tempo del dialogo sull’amore, l’uso metaforico per
designare le parti del volto femminile era già un cliché, che il Bembo
aveva provveduto a ristrutturare, integrandolo in un più generale
programma di riforma poetica. Di un uso inflazionistico vero e
proprio ci toccherà, invece, parlare, allorché varie generazioni di
poeti, dentro e fuori della nostra penisola, decisero di ricorrere
all’originario modello petrarchesco, anche in virtù della restaurazione
che ne aveva fornito il Bembo, fra il trattato menzionato e la
pubblicazione delle Rime, in un periodo che – com’è noto – abbrac-
cia i primi tre decenni del secolo. Tant’è che a un secolo esatto di

1
P. Bembo, Gli Asolani, in Id., Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966,
2ª ed., p. 475; i versi citati sono tratti dalla canzone «Se ne la prima voglia mi rinvesca», vv.
61-63.

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 PARTE QUARTA

distanza dalla canzone di Lavinello, il topos poteva essere addirittura


preso ad oggetto di scherno da un certo Tomás Rodaja, meglio
conosciuto con l’epiteto di licenciado Vidriera, perché vittima di una
malattia mentale, «imaginóse el desdichado que era todo hecho de
vidrio»; il pazzo – dicevo – divenne presto celebre per le argute
risposte che dava alle mille domande che gli rivolgevano, come
quando, trasferitosi alla corte di Valladolid:

le preguntaron qué era la causa de que los poetas por la mayor parte
eran pobres. Respondió que porque ellos querı́an, pues estaba en su
mano ser ricos si se sabı́an aprovechar de la ocasión, que por momen-
tos traı́an entre las manos, que eran las de sus damas. Que todas eran
riquı́simas en estremo, pues tenı́an los cabellos de oro, la frente de
plata bruñida, los ojos de verdes esmeraldas, los dientes de marfil, los
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labios de coral, y la garganta de cristal transparente; y lo que lloraban


eran lı́quidas perlas; y más que lo que en sus plantas pisaban, por dura
y estéril tierra que fuese, al momento producı́a jazmines y rosas; y que
su aliento era de puro ámbar, almizcle y algalia; y que todas estas cosas
2
eran señales y muestra de mucha riqueza .

Prendere alla lettera una metafora – come fa Cervantes nella


novella appena citata – è tra le risorse più diffuse della parodia
letteraria, tranne poi ritrovare l’abusato espediente, sempre al servi-
zio del medesimo topos, in un contesto non più comico, ma di elevato
contenuto serio, come, in effetti, avviene in un sonetto quevediano,
dove il poeta invita l’intrepido e avido navigatore, che incrocia i
lontani mari d’Oriente alla ricerca della ricchezza, a fermarsi presso
la bella Lisi, nel cui volto e le sue parti, oltre ai fiori e alle stelle, più
facilmente troverà i beni desiderati: l’oro, le perle e la preziosa
porpora di Tiro:

Tú, que la paz de el mar, ¡oh navegante!


molestas, codicioso y diligente,
por sangrarle las venas al Oriente
de el más rubio metal, rico y flamante,
deténte aquı́: no pases adelante;
hártate de tesoros brevemente

2
M. de Cervantes, El licenciado Vidriera, in Id., Novelas ejemplares, a c. di J. Garcı́a López,
Barcelona, Crı́tica, 2001, pp. 284-85. Sugli «imposibles y quiméricos atributos de belleza
que los poetas dan a sus damas», si veda anche M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha
(I. 13), ed. diretta da F. Rico, Instituto Cervantes, Barcelona, Crı́tica, 1998, pp. 141-42.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE 

en donde Lisi peine de su frente


hebra sutil en ondas fulminante.
Si buscas perlas, más descubre ufana
su risa que Colón en el mar de ellas;
si grana, a Tiro dan sus labios grana.
Si buscas flores, sus mejillas bellas
vencen la primavera y la mañana;
si cielo y luz, sus ojos son estrellas3.

Nei densi versi del Bembo, come nella comica risposta satirica
che Cervantes mette in bocca al suo folle personaggio, e ancora nel
sonetto di Quevedo rivolto al cupido navigatore; in ognuno dei testi
evocati, insomma, riconosciamo senza difficoltà, e pur con alcune
varianti, quel «canone breve», che il compianto padre Pozzi ha
mirabilmente ricostruito in alcuni suoi scritti4, e in base al quale
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«alcune parti del volto della donna vengono associate tramite una
figura di analogia a comparanti presi da un prezioso lapidario e da un
finissimo erbario»5. Ricorderò, allora, assai rapidamente, che il ca-

3
Cito da F. de Quevedo, Un Heráclito cristiano, Canta sola a Lisi y otros poemas, a c. di L.
Schwartz e I. Arellano, Barcelona, Crı́tica, 1998, p. 173. Il sonetto, preceduto dall’epigrafe
«Procura cebar la codicia en tesoros de Lisi», fa parte del breve canzoniere, Canta sola a Lisi
y la amorosa pasión de su amante, pubblicato da J. A. González de Salas nel Parnaso español
con las nueve Musas castellanas (Madrid, 1648). Il sonetto è contrassegnato col no 445 in F.
de Quevedo, Obra poética, a c. di J. M. Blecua, Madrid, Castalia, 1969, vol. I, pp. 641-42.
Per la parodia del topos in Quevedo si veda ora Premáticas del Desengaño contra los poetas
güeros, e Discurso de todos los diablos in F. de Quevedo, Prosa, ed. diretta da A. Rey, Madrid,
Castalia, 2003, vol. I, t. I, p. 13 e n. 13, t. II, p. 534, rispettivamente.
4
G. Pozzi, La rosa in mano al professore, Friburgo, Edizioni Universitarie di Friburgo
Svizzera, 1974; Id., Il ritratto della donna nella poesia d’inizio cinquecento e la pittura di
Giorgione, in R. Pallucchini (a cura di), Giorgione e l’Umanesimo veneziano, Firenze, Olschki,
1981, pp. 309-41, poi raccolto, insieme a una Nota additiva alla descriptio puellae, in Id.,
Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993, pp. 145-71 e 173-84, rispettivamente;
Id., Temi, topoi, stereotipi, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, III, I, Le forme del
testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 391-436, poi raccolto col titolo Sul luogo
comune in Id., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 449-526. Agli studi di padre Pozzi si
aggiunga, almeno, A. Quondam, Il naso di Laura, in A. Gentile (a cura di), Il ritratto e la
memoria. Materiali I, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 9-44, poi raccolto come Congedo in Id., Il
naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Ferrara, Franco Cosimo
Panini Editore, 1991, pp. 291-328.
5
Cosı̀ ha sintetizzato il canone breve A. Bagnolo nel lavoro che ha dedicato allo studio
di esso nella raccolta di novelle cervantine; cfr. La rosa elusa. Il topos della descrizione
femminile nelle Novelas ejemplares, in «Annali di Ca’ Foscari. Rivista della Facoltà di Lingue
e letterature straniere dell’Università di Venezia», XXX, 1-2 (1992), pp. 391-99. Per la
citazione, p. 392. Sui ritratti femminili nell’opera cervantina, si vedano i lavori di M. C.
Ruta, Los retratos femeninos en la Segunda Parte del Quijote, in G. Grilli (a cura di), Actas del
II Congreso Internacional de la Asociación de Cervantistas (Nápoles 4-9 de abril de 1994),
Napoli, Società Editrice Intercontinentale Gallo, 1995, pp. 481-95, e Estereotipos y originali-
dad de lo feo en la escritura cervantina, in M. C. Garcı́a de Enterrı́a e A. Cordón Mesa (a cura

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 PARTE QUARTA

none breve, impostosi nell’ambito del discorso lirico, ha il suo


modello originario nel Canzoniere petrarchesco, dove il canone della
bellezza femminile risulta costituirsi attraverso un catalogo di refe-
renti anatomici selezionati prevalentemente dal volto, di cui, in
particolare, fanno parte capelli, occhi, guance e bocca, con l’esclu-
sione di naso, orecchie e mento, ma a cui si aggiungono collo, seno e
mano, elementi canonici fuori dalla zona del volto, ma regolarmente
ricorrenti nell’uso del canone breve. Ancor più significativo, comun-
que, è che si tratti di membri poeticamente predicati secondo la
doppia motivazione dello splendore e del colore, «che rinvia alla
qualità primaria della luce in cui si credeva concentrarsi il concetto
di bellezza»6. Tutto ciò si realizza, naturalmente, grazie al ricorso
metaforico a un insieme di comparanti o figuranti, che la tradizione
ha scelto, ancora una volta, in numero ristretto dal pur infinito
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numero di entità naturali7.


Un topos letterario come quello a cui ci stiamo riferendo, che
risulta costretto sia a livello del catalogo dei referenti anatomici, sia,
ancor di più, sul piano delle motivazioni, e perfino per quel che
riguarda la selezione dei comparanti, è comprensibile che presenti un
carattere assai conservativo, il che, tuttavia, non comporta necessa-
riamente un’assoluta staticità nell’impiego. Al contrario, come ha
mostrato il suo più attento e profondo indagatore, il topos è dotato di
una vitalità che «è soprattutto consegnata al fatto che certi figuranti
vengano esclusivamente destinati a designare il tale membro e alcuni
sian fatti servire a non importa quale; che certe costellazioni si fissino
e altre non si formino mai; e ciò con preferenze che variano di età in
età»8. Finché, almeno, non si giunge a quell’età che lo stesso padre
Pozzi fa coincidere col Tasso, quando cioè, d’allora in avanti, «un
intero codice coercitivo sarà rovesciato in nome di arditezze fondate
sull’eccezionalità del concetto»9.
Una maniera di rovesciare il codice coercitivo è sicuramente
quella che abbiamo visto realizzarsi nel sonetto dell’avido navigatore
di Quevedo, che ha peraltro un probabile precedente in un sonetto

di), Actas del IV Congreso Internacional AISO, Alcalá de Henares, Servicio de Publicaciones
de la Universidad de Alcalá, 1998, vol. II, pp. 1143-54, ora rifusi e raccolti col titolo Il
brutto delle donne in Ead., Il Chisciotte e i suoi dettagli, Palermo, Flaccovio, 2000, pp. 159-99,
dove il lettore troverà citata nelle note la bibliografia sull’argomento.
6
Pozzi, Alternatim, cit., p. 460.
7
Cfr. quanto scrive Pozzi, Alternatim, cit., p. 478.
8
Pozzi, Sull’orlo, cit., p. 180.
9
Ivi, p. 167.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE 

del segretario del conte di Lemos, e fondatore della napoletana


accademia degli Oziosi, Lupercio Leonardo de Argensola10. Eppure,
nel componimento di quest’ultimo, invano cercheremmo l’arditezza
del concetto che, invece, sovrabbonda nei versi quevediani, come, ad
esempio, nel verso 8:

hebra sutil en ondas fulminante

dove la chioma de Lisi, già identificata per lo splendore col «rubio


metal» orientale, di cui il navigatore è alla ricerca, risulta ora assimi-
lata per la fluidezza alle acque marine dell’oceano solcate dal naviga-
tore medesimo. Oro e acqua, insieme, la bionda e fluente capiglia-
tura di Lisi viene rappresentata, dunque, al tempo stesso, come
l’oggetto della ricerca: i tesori, e il mezzo che bisogna attraversare per
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raggiungerli. Né con ciò la densità metaforica del verso può dirsi
esaustivamente indagata, dal momento che l’aggettivo in rima «fulmi-
nante», da riferire per iperbato alla «hebra sutil», è dettato di nuovo, e
per altra via, dalla motivazione dello splendore, non più del metallo
prezioso, ma dei fulmini che, lanciati sulle onde, finiscono per
richiamare l’immagine del mare agitato dell’incipit del sonetto:

Tú, que la paz de mar, ¡oh navegante!


molestas...

per cui la bella Lisi e il bramoso viaggiatore sono, a loro volta, messi
sullo stesso piano dalle azioni che rispettivamente compiono, perché
l’uno, navigando, agita le acque del mare, mentre l’altra, pettinan-
dosi, solleva le onde della chioma resa pelago procelloso11.
Come non ricordare, allora, la straordinaria prima quartina di un
altro sonetto, che pure forma parte del breve canzoniere di Canta sola
a Lisi:

En crespa tempestad de oro undoso


nada golfos de luz ardiente y pura

10
Si tratta del sonetto «¡Oh, tú, que a los peligros e inconstancia», in L. L. de Argensola,
Rimas, a c. di J. M. Blecua, Madrid, Espasa-Calpe, 1972, p. 57. Cfr. D. G. Walters,
Francisco de Quevedo Love Poet, Washington-Cardiff, The Catholic University of America
Press-University of Wales Press, 1985, pp. 91-92.
11
Sul sonetto, oltre a Walters, Francisco de Quevedo, cit., pp. 91-94, si veda I. Navarrete,
Los huérfanos de Petrarca, Poesı́a y teorı́a en la España renacentista, Madrid, Gredos, 1977, pp.
273-75.

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 PARTE QUARTA

mi corazón sediento de hermosura


si el cabello deslazas generoso12

dove «la idea de que el amor es fuente de peligro para el amante»13 si


concreta nell’immagine del cuore innamorato del poeta, che, bra-
moso non di tesori ma di bellezza, fluttua tra le onde dei biondi
capelli di Lisi, la quale, nell’atto di scioglierli, ne provoca il turbo-
lento disordine. Troppi, e troppo autorevoli, lettori si sono esercitati
su questi versi perché valga la pena d’insistervi da parte mia14; cosı̀,
mi limiterò a segnalare, insieme al loro primo commentatore mo-
derno, come l’abusato topos petrarchesco sia al servizio della nuova
poetica dell’acutezza, la quale guadagna in potenza e complessità
grazie alla densa rete di concetti presenti nei versi citati. In essi,
difatti, la bionda chioma di Lisi, è assimilata, allo stesso tempo, al
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prezioso metallo dell’oro, al mare e alle agitate onde di esso, e –


infine – alla luce del sole e agli ardenti raggi che emana, come appare
evidente nella concentrata espressione del secondo endecasillabo:
«golfos de luz ardiente», dove si condensano i tre campi semantici
dettati dall’oro, dall’acqua e dal sole.
Senza abbandonare il canzoniere dedicato a Lisi, possiamo ren-
derci maggiormente conto dell’esito ingegnoso a cui perviene il
canone breve nelle mani di un poeta come Quevedo, dal momento
che esso vi compare in forma pressoché integrale in due descrizioni
del volto dell’amata collocate in altrettanti sonetti che occupano,

12
Quevedo, Un Heráclito cristiano, ed. cit., p. 180. Compare col n˚ 449 nella citata ed. di
Blecua di Quevedo, Obra poética, vol. I, pp. 644-45.
13
A. Terry, Quevedo and the Metaphysical Conceit, in «Bulletin of Hispanic Studies»,
XXXV (1958), pp. 211-22; tr. sp. in G. Sobejano (a cura di), Francisco de Quevedo, Madrid,
Taurus, 1978, pp. 58-70, da cui si cita, p. 63.
14
Si vedano i lavori di A. A. Parker, La ‘agudeza’ en algunos sonetos de Quevedo, in Estudios
dedicados a Menéndez Pidal, Madrid, CSIC, 1952, vol. III, pp. 345-60, poi raccolto in
Sobejano (a cura di), Francisco de Quevedo, cit., pp. 44-57; A. Terry, Quevedo and the
Metaphysical Conceit, cit.; M. Molho, Sur un sonnet de Quevedo: En crespa tempestad del oro
undoso (Essai d’analyse intertextuelle), in Mélanges offerts à Charles-Vincent Aubrun, Paris,
Editions Hispaniques, 1975, vol. II, pp. 87-124, tr. sp. in Id. Semántica y poética (Góngora,
Quevedo), Barcelona, Crı́tica, 1977, pp. 168-216 e in Sobejano (a cura di), Francisco de
Quevedo, cit., pp. 343-77 (in tr. it. si può leggere in M. Molho, Semantica e poetica. Góngora,
Quevedo, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 187-232); J. M. Pozuelo Yvancos, El lenguaje lirico
de Quevedo, Murcia, Universidad de Murcia, 1979, pp. 147-59; R. Ter Horst, Death and
Resurrection in the Quevedo’s sonnet: ‘En crespa tempestad’, in «Journal of Hispanic Philolo-
gy», V (1980-1981); P. J. Smith, Quevedo on Parnassus. Allusive Context and Literary Theory
in the Love-Lyric, London, The Modern Humanities Research Association, 1987, pp.
778-84. Sul motivo della chioma in alcuni componimenti di Quevedo, si veda M. G.
Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 65-102.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE 

rispettivamente, l’inizio e il centro della raccolta, con le epigrafi che


ostentano la materia dei componimenti: Retrato no vulgar de Lisi, il
primo; Retrato de Lisi que traı́a en una sortija, il secondo, che presenta
un ritratto dell’amata in miniatura, perché incastonato in un anello15.
Non potendo – per ragioni di tempo – prestare attenzione ad
entrambi, ci occuperemo del secondo sonetto, dove leggiamo quella
che – con qualche esagerazione, forse – è stata definita «la descrip-
ción más refulgente de la amada que se conserva en la poesı́a lı́rica
hispánica»16.

En breve cárcel traigo aprisionado,


con toda su familia de oro ardiente,
el cerco de la luz resplandeciente
y grande imperio de el Amor cerrado.
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Traigo el campo que pacen estrellado


las fieras altas de la piel luciente,
y a escondidas de el cielo y de el Oriente,
dı́a de luz y parto mejorado.
Traigo todas las Indias en mi mano,
perlas que, en un diamante, por rubı́es
pronuncian con desdén sonoro hielo
y razonan tal vez fuego tirano,
relámpagos de risas carmesies,
auroras, galas y presunción de el cielo.

Il sonetto, come dichiara la menzionata epigrafe, descrive l’im-


maginario dipinto dalle ridotte dimensioni che, incastonato in un
anello, raffigura il volto di Lisi, riproponendo in tal modo, seppur
con distinta modalità, la questione del rapporto tra ritratto poetico e
ritratto figurativo, su cui Giovanni Pozzi si è espresso in termini
perentori, affermando che «appare con tutta evidenza che la poesia
non soltanto non imita la natura, ma nemmeno la pittura, smen-

15
Sul canzoniere quevediano, Canta sola a Lisi, si veda il volume di S. Fernández
Mosquera, La poesı́a amorosa de Quevedo. Disposición y estilo desde Canta sola a Lisi, Madrid,
Gredos, 1999. I problemi testuali che la raccolta pone sono ampiamente trattati nell’appen-
dice, Los textos de la poesı́a amorosa de Quevedo, pp. 329-67. Sulla metaforica, in generale, di
Canta sola a Lisi, che è al centro delle presenti pagine, si sofferma il capitolo del libro di
Fernández Mosquera, Los tropos y los tópicos. La metáfora, pp. 57-165. Quanto all’ordine dei
componimenti, a cui nel testo alludo, mi attengo alla princeps del Parnaso Español (Madrid,
1648), pubblicata da José Antonio González de Salas, che, del resto, segue anche l’ed. di
Schwartz e Arellano da cui cito (cfr. supra n. 3).
16
J. Olivares, The love poetry of Francisco de Quevedo, Cambridge, Cambridge University
Press, 1983, p. 67; tr. sp. La poesı́a amorosa de Francisco de Quevedo, Madrid, Siglo
Veintiuno, 1995, p. 86, da cui cito.

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 PARTE QUARTA

tendo clamorosamente su un terreno apparentemente dei più prati-


cabili l’effato: “ut pictura poiesis”. In questo senso fra pittura e
poesia non ci sono rapporti»17. E, difatti, come in tanti altri esempi
dello stesso genere, manca nel dettato del sonetto quevediano qual-
siasi accenno ai mezzi rappresentativi della pittura, nel senso che il
testo non contiene alcun riferimento diretto agli aspetti figurativi del
ritratto, se ci eccettua il richiamo all’incastonatura dell’anello dove il
ritratto è contenuto e incorniciato. Per il resto, la descriptio si realizza
col ricorso alla stereotipia del canone poetico delle bellezze femmi-
nili, rivisitato, naturalmente, in termini di poetica dell’acutezza col
risultato di un prodotto poetico assolutamente inedito. Difatti, se
prescindessimo dalla rivisitazione concettosa, il sonetto non avrebbe
altro da offrire che le metafore assai convenzionali con le quali una
tradizione lirica ormai bisecolare presentava il volto dell’amata e la
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sua bionda chioma come il sole e l’oro, come avviene nella prima
quartina del nostro sonetto; gli occhi come stelle, nella seconda; e,
nelle terzine, perle e rubini, in luogo dei denti e delle labbra. Solo
che, ora, queste metafore tradizionali sono solo il punto di partenza
18
su cui opera l’ingegno del poeta . Ed ecco, allora, che nei primi versi
Quevedo ricorre a una perifrasi: «cerchio di luce risplendente», per
designare il sole19 a cui, per metafora, sappiamo essere assimilato il
volto ritratto della donna, la cui chioma è significata per mezzo di
una metafora di secondo grado, dal momento che «famiglia d’oro
ardente» indica i raggi solari, i quali, a loro volta, equivalgono ai
capelli di Lisi, perché dello stesso colore dell’oro, e perché cingono il
viso femminile come i raggi sembrano cerchiare la sfera luminosa del
sole, da cui emanano20. C’è il sospetto, però, che le cose possano

17
Pozzi, Sull’orlo, cit., pp. 162-63.
18
Sul sonetto, oltre ai commenti in Quevedo, Un Heráclito cristiano, ed. cit. di Arellano e
Schwartz, pp. 213-14 (e pp. 802-05, per le note complementari) e J. O. Crosby in F. de
Quevedo, Poesı́a varia, Madrid, Cátedra, 1981, pp. 251-52, si vedano le analisi di Smith,
Quevedo on Parnassus, cit., pp. 84-89, e di Olivares, The love poetry, cit., pp. 67-74,
corrispondenti alle pp. 86-94 della citata tr. sp., a cui si aggiungano le più brevi e puntuali
osservazioni di Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, cit., pp. 79-80, e di A. Terry,
Francisco de Quevedo: the force of eloquence, in Seventeenthcentury Spanish poetry. The power of
artifice, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 170-72. Di tali commenti,
analisi e osservazioni, il mio discorso sul sonetto è, a vario titolo, debitore.
19
Sul termine cerco per designare il globo solare, si vedano le pertinenti osservazioni di A.
Martinengo, La Astrologı́a en la obra de Quevedo, Madrid, Alhambra, 1983, pp. 137 e ss.
20
La metafora «familia de oro ardiente» si riferisce alla sola bionda chioma della donna, e
non all’amata nella sua integrità, come sembrano suggerire, nel commento all’edizione
citata (p. 214), Arellano e Schwartz, i quali, tuttavia, nella corrispondente nota complemen-
taria (p. 803), accolgono l’ipotesi per cui il sintagma in questione «se puede referir también
al cabello rubio de la amada». La voce «familia» con equivalente valore metaforico, in un

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE 

essere ancora più complesse. Perché non supporre, difatti, che il sole,
designato con la menzionata perifrasi, non dia luogo a una metafora,
per cosı̀ dire, dilogica, che cioè alluda non solo al volto dipinto di
Lisi, ma anche alla gemma incastonata nel coperchio che chiude
l’angusto compartimento dove si trova il ritratto? Di conseguenza, la
metafora di v. 2 («la sua famiglia d’oro ardente»), con pari valore
determinato dalla dilogia, si riferirebbe tanto alla bionda chioma
dell’amata, quanto all’incastonatura dell’anello che racchiude la
gemma. Insomma, la lettera del testo, con le sue perifrasi e metafore,
rimanderebbe a una trama articolata in tre campi semantici: il sole
cinto dai suoi raggi, la gemma incastonata nell’oro dell’anello, il
volto di Lisi contornato dai biondi capelli.
Più ardita risulta la serie metaforica con cui è ordita la seconda
quartina, dove il punto di partenza di Quevedo è addirittura la
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metafora gongorina del celeberrimo esordio della prima Soledad: «en


campos de zafiro pace estrellas»21, adottata, nei nostri vv. 5-6, a
significare il firmamento («campo stellato)» a cui, per metafora di
secondo grado, è di nuovo assimilato il volto di Lisi, dal momento
che «le fiere alte dalla pelle lucente» sono, in prima istanza, le
costellazioni dello Zodiaco e, a secondo livello, gli occhi della donna.
Nelle terzine, come ha notato Walters, «after the celestial associa-
tion of the second quatrain, it is as though the poet’s gaze turned
22
downwards» [dopo l’associazione celestiale della seconda quartina,
è come se lo sguardo del poeta si rivolgesse di nuovo verso il basso],
dando luogo a una densità figurale che è financo superiore a quella
già assai elevata della prima metà del sonetto. Indicati, metonimica-
mente, col luogo geografico che ne è ricco per eccellenza, i tesori
orientali elencati nel v. 10 rimandano con le metafore lessicalizzate,
motivate dal colore, ai denti-perle e alle labbra-rubini, ma anche, con
maggiore originalità, alla bocca-diamante; metafora quest’ultima che,
più che per il colore, si giustifica per la durezza o asprezza del
comportamento di colei a cui l’entità anatomica appartiene23. La

contesto di poesia amorosa si ritrova nei sonetti «Non sino fuera yo quien solamente» e, in
Canta sola a Lisi, «También tiene el Amor su astrologı́a» (rispettivamente, i nn. 301 e 482
della citata edizione di Blecua: Quevedo, Obra poética, vol. I, pp. 492 e 663.
21
Pozuelo Yvancos, El lenguaje poético de la lı́rica amorosa de Quevedo, cit., p. 342. Per
l’immagine gongorina, si veda la relativa nota di commento in L. de Góngora, Soledades, ed.
di R. Jammes, Madrid, Castalia, 1994.
22
Walters, Francisco de Quevedo, cit., p. 80.
23
Sulla concentrazione delle metafore minerali, si veda anche Fernández Mosquera, La
poesı́a amorosa, cit., pp. 103-06. Alla bocca, «nel quadro della tipologia amatoria petrarchista
e degli scarti effettuati da Quevedo», M. G. Profeti ha dedicato il capitolo La bocca della

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 PARTE QUARTA

terzina si chiude con una straordinaria sinestesia: «sonoro gelo», per


designare le parole che, pronunciate da Lisi con disdegno, produ-
cono nell’amante di lei una reazione di gelida sensazione24. In tal
modo, perfino la tanto abusata antitesi gelo/fuoco, su cui sono
costruite le terzine, finisce, se non per acquistare un nuovo signifi-
cato, per almeno vivificarsi grazie al più audace contesto figurale in
cui risulta inserita. Cosı̀, mentre le altere parole emesse dai bianchi
denti di Lisi gelano l’amante-poeta, a rinnovarne la tiranna passione
amorosa provvedono le labbra scarlatte, a cui il riso sembra donare
l’improvviso e serpeggiante bagliore del lampo, grazie a una meta-
fora, la cui origine risale almeno al Dante del Purgatorio25.
Tornando, per concludere, al capostipite petrarchesco del ritratto
poetico femminile, in uno dei menzionati lavori sull’argomento,
Giovanni Pozzi assume come paradigmatica del canone breve la
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canzone 127 dei Rerum Vulgarium Fragmenta, dove i pochi referenti


anatomici selezionati sono avvicinati a una più larga varietà di figu-
ranti, dal momento che Francesco, benché «miri mille cose diverse
[…] sol una donna vede». E, difatti, gli capita di scorgere il viso di
Laura nella neve e nel sole, nelle rose bianche e rosse, e nei fiori
bianchi; i capelli, nell’oro e nei fiori gialli; gli occhi, nelle stelle, oltre
che nel sole medesimo; e, infine, il collo, sia nel latte che nel fuoco.
Ma, nell’ultima stanza, si arrende e ammette:

Ad una ad una annoverar le stelle,


e ’n picciol vetro chiuder tutte l’acque,
forse credea, quando in sı̀ poca carta
novo penser di ricontar mi nacque
in quante parti il fior de l’altre belle,
stando in se stessa, à la sua luce sparta.

dama: codice petrarchista o trasgressione barocca, in Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., pp.
103-23.
24
Una sinestesia che presenta dei tratti comuni, sempre nella raccolta Canta sola a Lisi, è
«sonoro clavel», nel sonetto «Rizas en ondas ricas del rey Midas», v. 14. Sull’abusato valore
metaforico di yelo, si possono leggere le osservazioni di Fernández Mosquera, La poesı́a
amorosa de Quevedo, cit., pp. 119-26.
25
Sui numerosi precedenti della metafora quevediana, si vedano: A. Prieto, Sobre
literatura comparada, in «Miscellanea di studi ispanici», 1966-1967, pp. 310-54, in part. le
pp. 340-41; J. Arce, Tasso y la poesı́a española, Barcelona, Planeta, 1973, pp. 78-79; M. del
P. Manero Sorolla, «Relámpagos por risas»: nuevos precedentes en la lı́rica petrarquista italiana
anterior a Quevedo, in «Anuario de Filologı́a», 8 (1982), pp. 297-309, ripreso parzialmente in
Ead., Imágenes petrarquistas en la lı́rica española del Renacimiento. Repertorio, Barcelona, PPU,
1990, pp. 533-38.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE 

Versi che hanno ricevuto la seguente perifrasi nel commento di


Santagata: «raccontare in una canzone tutti gli oggetti sui quali si
diffonde la bellezza di Laura è impresa impossibile, come è impossi-
bile contare […] tutte le stelle o raccogliere in un bicchiere […] o in
una fiala le acque del mare»26.
È arcinoto che la letteratura barocca vede nell’audacia formale il
tratto che più e meglio ne definisce la novità. Non meraviglia,
pertanto, che mentre Petrarca affida l’effetto iperbolico della bellezza
di Laura alla tardiva preterizione dell’ultima stanza della citata can-
zone, Quevedo ottiene un analogo risultato d’enfasi, mettendo mano
a quella «mina de agudezas»27, grazie alla quale il volto di Lisi è
presentato come l’equivalente di un «cosmos miniaturizado», se-
condo la definizione di Martinengo28, che perciò l’amante può por-
tare nel castone dell’anello, e il poeta è riuscito a far entrare nella
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«breve cárcel» o in «sı̀ poca carta» di un sonetto.

26
F. Petrarca, Canzoniere, ed. di M. Santagata, Mondadori, Milano, 2004, da cui si cita
anche il testo della canzone «In quella parte dove Amor mi sprona».
27
L’espressione, riferita al sonetto di cui stiamo trattando, si legge in Olivares, The love
poetry, cit., p. 68; tr. sp., p. 84.
28
Martinengo, La Astrologı́a, cit., p. 138.

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LETTURA DEL SONETTO
«LO QUE ME QUITA EN FUEGO ME
DA EN NIEVE» DI QUEVEDO:
FRA TRADIZIONE E CONTESTI
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1. Testo, tradizione e convenzione


¡Qué hastı́o de contrarios! Hay uno sobre todo que con mayor o
menor reiteración invade una gran parte de la poesı́a de Quevedo. Se
1
trata de la pareja fuego-nieve... .

Proprio uno di quei sonetti di Quevedo che all’abusata antitesi


più si richiama, col biasimo appena rievocato del maestro Alonso,
sono principalmente dedicate le note seguenti, a cui faranno da
guida alcune brevi considerazioni sul rapporto tra convenzione (o
tradizione) letteraria e significato del testo, che prendo a prestito
dalle pagine di due ammirati studiosi.
Con plausibile paradosso, qualche anno fa Francisco Rico affi-
dava a un capitolo finale su «La tradición y el poema» una dichiara-
zione di metodo, stando alla quale «la literatura se escribe menos en
la página que en la tradición y sólo en los márgenes de la tradición
adquiere sentido cabal»2.
Più recentemente, nei preliminari che introducono alle sue otto
sagaci e colte letture di altrettante poesie amorose di Quevedo,
Mercedes Blanco fa posto, tra l’altro, a una considerazione sul
sistema metaforico utilizzato e sull’erronea opinione che esso rischia
di generare nel lector apresurado, al quale quel sistema «suele aparecer

1
D. Alonso, «Poesı́a española» y otros estudios, in Obras completas, Madrid, Gredos, 1989,
vol. IX, p. 422.
2
F. Rico, A falta de epı́logo, in Breve biblioteca de autores españoles, Barcelona, Seix Barral,
1990, pp. 269-300; cito dalla p. 296.

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 PARTE QUARTA

[…] más uniforme y pálidamente convencional de lo que realmente


es». Uno scoglio, quello del convenzionalismo, che, causa frequente
del naufragio di molta poesia uscita dalla penna di «ciertos autores
secundarios», è tutte le volte evitato dai «mayores poetas barrocos»,
nei quali il sistema, pur senza disperdere il suo accentuato carattere
convenzionale, «recobra […], gracias a la práctica de su combinación
polifónica con otros sistemas simbólicos, gran parte de su compleji-
dad originaria». Ma poiché il concetto di convenzione è del tutto
inseparabile da quello di tradizione, non fa meraviglia che, nelle
stesse pagine introduttive, all’anteriore rivendicazione di autenticità
si accompagni la dichiarazione seguente: «rastreando las ı́mplicitas
referencias a otros textos, el denso pensamiento que [los poemas
amorosos de Quevedo] ponen en juego se despliega, en su lógica, en
su riqueza, y también en sus tensiones y ambigüedades». Un propo-
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nimento che, pur senza essere sconfessato, tuttavia non impedisce


all’autrice di denunciare a chiare lettere i rischi di una «concepción
de la literatura» che, almeno quando si limita all’esasperata «bús-
queda de antecedentes y paralelos», finisce per scomporre «el texto
en fragmentos y hace[r] de cada uno de estos fragmentos el eslabón
de una cadena virtualmente infinita», con l’ulteriore effetto finale di
rivelarsi «incompatible con la finalidad del comentario, que se pro-
pone entender el texto como un organismo unificado por la voluntad
de significar algo»3.
È dunque, sulla base di tali osservazioni che ora mi chiedo quale
peso meriti di essere assegnato, rispettivamente, alla «búsqueda de
antecedentes y paralelos» e alla «voluntad de significar» nel com-
mento a un sonetto di Quevedo come «Lo que me quita en fuego me
da en nieve», dove l’esuberante convenzionalismo del dettato poetico
sembra suggerire, a prima vista, che lo spazio da accordare all’inter-
pretazione (il significato del testo) vada ridotto non poco, a vantag-
gio dell’altro reclamato dall’indagine delle fonti (le costanti interte-
stuali). Naturalmente, la risposta non può che essere consegnata alla
verifica stessa del commento, a cui mi accingo facendo affidamento,
più che mai, sul monito che a Rico, nel menzionato capitolo, fu
suggerito dalla breve analisi di un sonetto quevediano, ben altrimenti
celebre e denso di significato: «El sistema interno del texto se nos
4
escapa si no se ve dentro del sistema de la historia literaria» .

3
Tutte le citazioni sono tratte da M. Blanco, Introducción al comentario de la poesı́a
amorosa de Quevedo, Madrid, Arco Libros, 1998, pp. 16-17.
4
Rico, A falta de epı́logo, in Breve biblioteca, cit., p. 280. Il sonetto commentato da Rico,

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LETTURA DEL SONETTO 

2. Il motivo della mano che copre


È nella «serie de sonetos netamente epigramáticos», per i quali «es un
dato curioso que Quevedo recurra al mismo nombre convencional»5
di Aminta, che ritroviamo il nostro poema, il cui testo ricavo dall’edi-
tio maior di José Manuel Blecua:

Lo que me quita en fuego, me da en nieve


la mano que tus ojos me recata;
y no es menos rigor con el que mata,
ni menos llamas su blancura mueve.

La vista frescos los incendios beve,


y, volcán, por las venas los dilata;
con miedo atento a la blancura trata
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el pecho amante, que la siente aleve.

Si de tus ojos el ardor tirano


le pasas por tu mano por templarle,
es gran piedad del corazón humano;

mas no de ti, que puede al ocultarle,


pues es de nieve, derretir tu mano,
si ya tu mano no pretende helarle6.

Gli scarsi commenti che il sonetto ha ricevuto dalla critica, per lo


più limitati – con la sola eccezione di Oliver – a brevi e isolate
annotazioni7, sono soliti circoscrivere il tema al solo «contraste entre

«una de las cumbres de la lı́rica quevedesca», è Cerrar podrá mis ojos. Un concetto analogo si
legge all’inizio del libro di P. J. Smith, Quevedo on Parnassus. Allusive Context and Literary
Theory in the Love-Lyric, London, The Modern Humanities Research Ass., 1987, p. 1: «In
an age when poetry is erudition, to write is to inscribe oneself in a tradition of canonic
texts».
5
Blanco, Introducción al comentario de la poesı́a amorosa, cit., p. 41.
6
F. de Quevedo y Villegas, Obra poética, a c. di J. M. Blecua, Madrid, Castalia, 1969,
vol. I, p. 495. Ho anche tenuto presenti le seguenti edizioni con i rispettivi commenti: Poesı́a
original completa, a c. di J. M. Blecua, Barcelona, Planeta, 1981, pp. 344-45; Poesı́a varia, a
c. di J. O. Crosby, Madrid, Cátedra, 1981, pp. 221-22 e, soprattutto, Un Heráclito cristiano,
Canta sola a Lisi y otros poemas, a c. di I. Arellano e L. Schwartz, Barcelona, Crı́tica, 1998,
p. 137.
7
Si vedano J. M. Oliver, Comentarios a la poesı́a de Quevedo, Madrid, Sena, 1984, pp.
185-207; M. G. Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 23-28; D.
G. Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, Cardiff, University of Wales Press, 1985, pp.
59-60; S. Fernández Mosquera, La poesı́a amorosa de Quevedo. Disposición y estilo desde
«Canta sola a Lisi», Madrid, Gredos, 1999, p. 118, dove la breve nota sul sonetto si colloca
nella più ampia analisi dell’antitesi fuego/agua (pp. 109-26).

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 PARTE QUARTA

el fuego y la nieve» – per dirla col Fucilla8 –, trascurando quasi


completamente la narratio da cui nel genere epigrammatico ha ori-
gine l’argutia9. Nondimeno, è alla scena aneddotica, puntualmente
richiamata dall’epigrafe: «A Aminta que se cubrió los ojos con la
mano», che bisogna far risalire la concentrata tradizione, in cui
s’iscrive appieno il nostro sonetto.
Del motivo della mano (e del velo) che copre, è stato detto che
«sembra trattarsi di invenzione del tutto petrarchesca»10; e, difatti, pur
tralasciando l’altro agente dello schermo, è in almeno tre occasioni
che, lungo tutto il Canzoniere, Francesco si duole del gesto con cui
l’amata interpone la mano a celare il viso e gli occhi, in tal guisa
privandolo del «sommo dilecto». Cosı̀, dopo avervi accennato nei
versi finali di un sonetto indirizzato a Orso dell’Anguillara, e dopo
averlo ripreso brevemente in alcuni versi di una delle tre canzoni,
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dette «degli occhi», Petrarca ritorna più estesamente sul motivo,


dedicandogli un intero sonetto, dove – peraltro – il gesto altrove
protettivo di Laura, oltre che ricevere una diversa giustificazione,
vede tramutare l’effetto prodotto, dal «torto» di una volta all’attuale
«novo dilecto»:

In quel bel viso ch’i’ sospiro et bramo,


fermi eran li occhi desiosi e ’ntensi,
quando Amor porse, quasi a dir «che pensi?»,
quella onorata man che second’amo:

Il cor, preso ivi come pesce a l’amo,


onde a ben far per vivo esempio viensi,
al ver non volse li occupati sensi,
o come novo augello al visco in ramo.

Ma la vista, privata del suo obiecto,


quasi sognando si facea far via,
senza la qual è il suo bene imperfecto.

8
J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid, Revista de Filologı́a
Española-Anejo LXXII, 1960, p. 202.
9
Sulla teoria dell’epigramma, nel contesto della poetica concettista, si veda M. Blanco,
Les Rhétoriques de la Pointe. Baltasar Gracián et le Conceptisme en Europe, Paris, Honoré
Champion, 1992, pp. 157-200; della stessa studiosa, si veda anche l’analisi del sonetto di
Quevedo Bastábale al clavel verse vencido, come sonetto epigrammatico, in Introducción al
comentario de la poesı́a amorosa, cit., pp. 39-48.
10
A. Balduino, La ballata XI, in «Atti e memorie dell’Accademia patavina di Scienze
Lettere ed Arti», CVII (1994-1995), pp. 301-16; cito dalla p. 310.

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LETTURA DEL SONETTO 

L’alma tra l’una e l’altra gloria mia


qual celeste non so novo dilecto
et quel strania dolcezza si sentia11.

Compiuto col proposito di distogliere Francesco dalle sue fanta-


sticherie, interrompendone l’atteggiamento contemplativo, il gesto
della mano, a cui forse non è estranea un’intenzione di rimprovero,
diviene tuttavia l’occasione per l’amante di una doppia e concomi-
tante contemplazione, dove, grazie all’attivazione della facoltà imma-
ginativa, al soggetto contemplante si rendono presenti entrambi gli
oggetti amati, dei quali quello che cela è immediatamente percepibile
dal senso esterno della vista, mentre quello nascosto si manifesta nel
senso interno come immagine. Ed è, dunque, la compiuta possibilità
di contemplare entrambi, «l’una e l’altra gloria», a suscitare nell’a-
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nima di Francesco un piacere giammai provato prima e una sensa-


zione di inusitata dolcezza. Né è un caso che all’aggettivo novo,
riferito al dilecto, si accompagni una seconda qualità: celeste, a signifi-
care il carattere soprannaturale di un piacere presentato come affatto
difforme dalle ordinarie leggi di natura12, stando alle quali «è possi-
bile contemplare il fantasma nell’immaginazione (cogitare) o la forma
dell’oggetto nel senso, ma mai entrambi nello stesso tempo»13. Di
sicuro destinato a risultare meno pregnante, o addirittura incom-
prensibile, se lo si svincola dalla psicofisiologia fantasmatica che ne
costituisce l’indispensabile sostrato teorico, il sonetto di Petrarca
tocca e sovverte il nucleo dottrinale che domina l’intera concezione
medievale dell’amore, dal momento che tra visio e cogitatio, tra la
visione della creatura reale e la contemplazione spirituale dell’imma-
gine, l’episodio brillantemente raccontato nel sonetto istituisce un
rapporto di straordinaria coesistenza e simultaneità, in luogo della
più comune e sofferta discordanza14.
Il motivo della mano che copre non riscosse, a quel che mi

11
F. Petrarca, Canzoniere, a c. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1022-23.
Gli altri due testi che presentano lo stesso motivo, sono il sonetto Orso, e’ non furon mai
fiumi né stagni, pp. 212-14, e la canzone Gentil mia donna, i’ veggio, pp. 370-79.
12
L’aggettivo celeste, che nel Canzoniere presenta 15 occorrenze, sembra riferirsi sempre
all’ambito divino, come tale, o alla natura angelica di Laura, mai al soggetto del poeta, con
l’unica eccezione del nostro sonetto.
13
G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi,
1977, p. 98.
14
Sulla tematica, qui appena sfiorata, oltre al volume citato nella nota precedente, è
imprescindibile – soprattutto per l’ambito spagnolo – il libro di G. Serés, La transformación
de los amantes. Imágenes del amor de la Antigüedad al Siglo de Oro, Barcelona, Crı́tica, 1996.

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 PARTE QUARTA

risulta, un’immediata fortuna presso i poeti che seguirono le orme


del Petrarca, tant’è che lo ritroviamo isolatamente, all’inizio del
Quattrocento, in un sonetto del giurista pistoiese Buonaccorso da
Montemagno il Giovane, dove peraltro occupa un paio di versi, già
destituito di quel contenuto dottrinale di cui aveva saputo dotarlo
l’inventore. Mi limito a riprodurre la quartina, nella quale compare il
motivo di nostro interesse:

Piangeva il partir mio, dolente invano,


da’ be’ vostri occhi e da l’altera iddea,
e’l viso el qual talor tôr mi solea
15
la vostra bella e mia nimica mano .

Sorte migliore, senza alcun dubbio, arrise alla combinazione che,


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lasciando fuori il motivo dello schermo, congiunse il ricorso alle due


parti del corpo femminile: il viso (o occhi) e mano, con una delle più
diffuse antitesi del Canzoniere petrarchesco, quella di fuoco e neve con
tutte le varianti isotopiche di essa; in particolare, con l’immagine del
fuoco amoroso che nasce dal ghiaccio o dalla neve, come nell’esordio
del sonetto petrarchesco: «D’un bel chiaro polito e vivo ghiaccio /
move la fiamma che m’incede e strugge». In pratica, finirono per
concentrarsi in un unico artificio tre figure, dal momento che la
coppia di elementi fisici, per il tramite della doppia metafora da essi
favorita, dette luogo all’antitesi nominata, e questa a sua volta risultò
impiegata al servizio dell’effetto iperbolico a cui mirano i testi che ci
accingiamo a considerare. Nelle rime dedicate a A Safira del senese
Filenio Gallo (nome d’arte di Filippo Galli), che risalgono probabil-
mente agli ultimi decenni del Quattrocento, si legge il sonetto
«Quella distinta man candida e molle», nella cui ironica interroga-
zione finale si enfatizzano gli effetti che il «bel viso» dell’amata
arriverebbe a produrre nel poeta, se solo gli si porgesse come nei
versi precedenti è detto della «man candida», della quale il v. 9
assicura – con la consueta, qui sottintesa, antitesi – che «non è fuoco
minor, benché non fumi». Anche in questo caso, mi limito a citare i
soli versi dove la mano e il viso di lei sono messi a confronto per la
fiamma d’amore che entrambi sono capaci di accendere:

15
B. Montemagno, Le Rime dei due Buonaccorso da Montemagno, a c. di R. Spongano,
Bologna, Patron, 1970, pp. 36-47.

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LETTURA DEL SONETTO 

Tu che comprendi, ormai muta costumi,


ché se tempri con man l’acesa voglia,
che farai se mi porgi il tuo bel viso?16

Di nuovo un interrogativo con analogo effetto iperbolico a van-


taggio del «celeste viso», questa volta apre un madrigale del maggiore
realizzatore cinquecentesco del genere, il fiorentino Giovan Battista
Strozzi il Vecchio, la cui vasta produzione madrigalesca si colloca nel
periodo a cavallo della metà del secolo, tra le date estreme del 1539 e
del 1570:

Hor, se tal m’arde, e ’nfiama


La fresca neve della bianca mano,
Che farà poi la fiamma,
E ’l foco del celeste viso umano?17
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Mentre, in un altro madrigale dello stesso autore, l’iniziale dub-


bio circa la reale natura degli strali d’Amore, è risolto nella seconda
parte con la confessione dell’acquisita consapevolezza della virtù
della «candida mano», che sorprendentemente risulta essere non infe-
riore al «bel viso» nel suscitare un ardore amoroso parimenti inestin-
guibile:

Neve o marmo, ch’io subito cascai,


m’avventò Amore? O folgorante face?
Che l’anima si sface
e arde sı̀ da non si spegner mai.
Ben sapev’io de’ tuoi stellanti rai,
bel viso, almo seren, ma non già della
gentil candida mano:
qual di lontano or tutto ardene anch’ella18.

È, tuttavia, a un epigono della lirica petrarchista di area veneta


che si deve, probabilmente, il recupero del motivo della mano che
copre, e il suo innesto nella trama, insieme, metaforica e antitetica, a
cui aveva dato origine la coppia delle parti femminili. Nelle Rime di

16
F. Gallo, Rime, a c. di M. A. Grignani, Firenze, Olschki, 1973, p. 324.
17
G. B. Strozzi il Vecchio, Madrigali, a c. di L. Sorrento, Strasbourg, Heitz («Bibliotheca
Romanica»), 1909, p. 72, che ristampa l’antica edizione del Sermartelli (Firenze 1593).
18
G. B. Strozzi, Madrigali inediti, a c. di M. Ariani, Urbino, Argalı̀a, 1975, p. 84, dove il
lettore troverà l’ampio studio introduttivo Giovan Battista Strozzi, il Manierismo e il Madri-
gale del ’500: strutture ideologiche e strutture formali, pp. VII-CXLVIII.

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 PARTE QUARTA

Luigi Groto, difatti, più volte ristampate a partire dal 1584, ma con
dedica datata 1577, si trova anche il madrigale che Fucilla segnalò
come il più immediato precedente di Quevedo:

Son i begli occhi tuoi


Di duo soli lucenti sfere calde,
Son le tue man dapoi
D’una neve bianchissima due falde.
E però ti consiglio
Per far muro a’ tuoi occhi
Acciò che io non t’adocchi,
Non oppor più la man dinanzi al ciclio;
Levala e credi a me se non la levi,
Quei soli struggeran coteste nevi19
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dove all’appello dei fattori presenti nei testi finora ricordati, manca il
solo effetto iperbolico, il quale risulta assente, avendo fatto posto
all’argutia finale della mano-neve disciolta dagli ardenti raggi degli
occhi-sole, a cui invero prepara l’intero componimento. Qualcosa di
simile, del resto, suggeriva un madrigale di Gutierre de Cetina, nel
quale però il motivo della mano che copre risulta brillantemente
sviluppato in assenza della consueta antitesi, dal momento che il
poeta preferı̀ avvalersi solo di una delle due potenziali metafore,
quella che assimila gli occhi al sole, del quale peraltro è reso funzio-
nale l’insostenibile resplandor più che l’ardore intenso messo a pro-
fitto dai testi italiani:

Cubrir los bellos ojos,


con la mano que ya me tiene muerto,
cautela fue por cierto,
que ansı́ doblar pensastes mis enojos.
Pero de tal cautela
harto mayor ha sido el bien que el daño,
que el resplandor extraño
del sol se puede ver mientra se cela:
Ası́ que aunque pensastes
cubrir vuestra beldad, única, inmensa,

19
L. Groto, Cieco d’Hadria, Rime, Venezia, Appresso Fabio e Agostino Zoppina, 1584,
p. 82. Cfr. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., pp. 202-3. Interessanti considerazioni
sulla presenza di Groto nella poesia di Quevedo possono leggersi in A. Martinengo, La
astrologı́a en la obra de Quevedo, Madrid, Alhambra, 1983, pp. 130 e ss.

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LETTURA DEL SONETTO 

yo os perdono la ofensa,
pues, cubiertos, mejor verlos dejastes20.

3. Dal «concettino» al concetto


A conclusione della sua breve analisi del sonetto di Quevedo, riferen-
dosi alla segnalazione di Fucilla, Maria Grazia Profeti osservava che

certo in Groto manca il controllo di scrittura di Quevedo, e non solo


perché il gioco ritmico del madrigale spiazza nell’alternativa del verso
lungo/corto i possibili parallelismi, ma perché il concettino – con
momento protasico esposto nei vv. 1-2 vs. 3-4 – si esaurisce nell’unica
battuta fulminante del verso finale21.
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Con l’impiego di un termine peculiare di un’estetica facilmente


riconoscibile, è indubbio che la studiosa intendesse alludere all’eti-
chetta di gusto prebarocco con cui già l’antica critica – col Tirabo-
schi come antesignano – aveva contrassegnato la poesia dell’epigono
tardo cinquecentesco del Petrarca; mentre alla forma del diminutivo
risultava implicitamente affidata l’idea per la quale il madrigale
lasciava solo debolmente intuire quell’estetica del concettismo, che
nel sonetto avrebbe trovato, invece, la sua piena realizzazione. In-
somma, dal modello italiano alla sua imitazione spagnola: dal concet-
tino al concepto, sarebbe dato di misurare la non corta distanza che
separa i prodromi di un’estetica ancora in nuce dai risultati più
maturi di essa.
In effetti, ciò che, già a una prima lettura, emerge dal sonetto di
Quevedo, rispetto al suo più diretto modello – il madrigale di Groto –,
e tanto più a confronto con tutta la ristretta tradizione testuale, qui
provvisoriamente ricostruita, è una più complessa ambiguità, alla
quale congiuntamente contribuiscono sia l’accresciuta intensità con
cui nel sonetto si dispiega l’antitesi originaria, sia la sostanziale
identità a cui i termini di quell’antitesi risultano ricondotti nel corso

20
G. de Cetina, Sonetos y madrigales completos, a c. di B. López Bueno, Madrid, Cátedra,
1981, p. 134. Per una valutazione dei madrigali di Cetina, si veda B. López Bueno, Gutierre
de Cetina, poeta del Renacimiento español, Sevilla, Diputación Provincial de Sevilla, 1978, pp.
240-49. Sulle complesse relazioni del sonetto di Garcilaso, Con ansia estrema de mirar qué
tiene, con quello di Petrarca qui considerato, mi sia concesso di rimandare a A. Gargano,
«Medusa e l’error mio…». La genealogia petrarchesca del sonetto XXII, in Id., Fonti, miti, topoi.
Cinque studi su Garcilaso, Napoli, Liguori, 1988, pp. 27-54.
21
Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., p. 28.

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 PARTE QUARTA

del componimento. Mi spiegherò meglio, ricorrendo alla massima


autorità teorica nel campo.
Nel più celebre trattato spagnolo di quell’estetica del concetto, a
cui mi sono appena richiamato, il suo autore riporta un breve testo
poetico:

Hipócrita Mongibelo,
Nieve ostentas, fuego escondes;
¿Qué harán los humanos pechos,
Pues saben fingir los montes?

Dove l’anonimo «ingenioso moderno» mette a confronto nel famoso


vulcano il magma coperto dalle nevi e la simulazione negli uomini di
atteggiamenti e sentimenti esemplari. Il testo poetico menzionato è
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addotto tra gli esempi che arricchiscono il discurso VIII, a sua volta
dedicato a las ponderaciones de contrariedad, a proposito delle quali, a
principio del capitolo, Gracián dichiara che «unir a fuerza de discurso
dos contradictorios extremos, estremo arguye de sutileza»22.
Nell’esordio del sonetto quevediano, alla consueta antitesi conse-
guente alla doppia metafora: ojos=fuego e mano=nieve, si somma la
nuova coppia dei termini verbali in contrasto: quita e da, la cui azione
però – operando in totale simultaneità – sembra risolversi nell’esito
di un sostanziale pareggio. Ma sono i versi che subito seguono a
trasformare un pareggio finora solo quantitativo in una parificazione
essenzialmente qualitativa, posto che essi contengono la dichiara-
zione dell’identico effetto prodotto nell’amante dai «dos contradicto-
rios extremos». E cosı̀, le due litoti che introducono le rispettive
comparazioni: no… menos, ni menos, piuttosto che attenuare, inten-
dono accentuare iperbolicamente il contrario, suggerendo quindi di
porre un segno d’uguaglianza tra gli elementi, che in principio si
presentano come opposti. Difatti, nel v. 3, il ravvicinamento, che
pure sembra circoscriversi – con maggiore aderenza alla logica dei
contrari – al solo effetto distruttivo (mata), in realtà finisce per
estendersi fino all’identità, se consideriamo la modalità con cui la
morte simbolica dell’amante si determina. Il rigor che la causa va,
senza alcun dubbio, inteso nel senso di ‘aspereza o crueldad’ della
dama, come in tanti altri luoghi della poesia amorosa di Quevedo;
ma, nel contesto della quartina è improbabile che il termine non sia

22
B. Gracián, Agudeza y arte de ingenio, a c. di E. Correa Calderón, Madrid, Castalia,
1969, vol. I, pp. 107 e 105, rispettivamente.

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LETTURA DEL SONETTO 

anche assunto come latinismo, col significato di ‘freddo o ghiaccio’,


accezione a sua volta attestata nella poesia amorosa, per esempio –
proprio in coppia antitetica con llamas – nel primo degli Idilios con
cui si chiude Canta solo a Lisi: «halagaré sus llamas y rigores» (v.
20)23. Ma, in virtù della comparazione in cui è immesso, il rigor, ossia
il ‘crudele gelo’ – con condensazione di entrambe le accezioni –, è
una qualità che il testo finisce per ascrivere agli occhi, non meno che
alla mano, a cui di solito appartiene nel codice petrarchista dell’e-
poca; come, del resto, nel verso seguente, le llamas, tramite l’altra
parallela comparazione, diventano attributo della mano quanto degli
occhi, di cui nello stesso codice sono un costituente ordinario.
Prima di rivolgere l’attenzione alle altre parti del sonetto, provo a
sintetizzare, precisando alcuni aspetti. Ho parlato, all’inizio, di so-
netto epigrammatico. È ora il caso di precisare che l’aneddoto già
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puntualmente rivelato nel titolo, è sviluppato nella prima quartina (e


nella seconda, come vedremo), dove – però – più che nella veste
della pura narrazione, è nella forma del commento ingegnoso che
esso viene presentato. Cosı̀, una volta ripreso il caso esposto nel
titolo, e avendolo nuovamente abbozzato con chiarezza nel v. 2: «la
mano que tus ojos me recata», il resto della quartina s’impegna a
rielaborarlo sutilmente, ricorrendo nel caso specifico a quella forma
particolare di agudeza, che – come ho già indicato – il trattato di
Gracián classifica con la denominazione di ponderación de contrarie-
dad, o anche reparo de contradicción, e di cui fornisce la seguente
definizione: «consiste […] en levantar oposición entre los dos extre-
mos, del concepto, entre el sujeto y sus adyacentes, causas, efectos,
circunstancias, etc., que es rigurosamente dificultar»24. In effetti,
come l’analisi ha mostrato finora, non uno ma ben tre sono i
conceptos che la quartina pone in gioco, dal momento che un primo
«reparo de contradicción» – di natura antitetica – è quello che, per il
tramite della metafora convenzionale, associa due opposti predicati
di Aminta di pari seduzione: il niveo candore della mano e l’ardente
fuoco degli occhi; mentre i due restanti – di tipo ossimorico – si
applicano a ognuno dei termini della precedente antitesi, singolar-
mente considerati, dando cioè luogo a opposizioni, non più tra

23
Quevedo, Obra poética, ed. cit., vol. I, pp. 554-55, dove, tuttavia, il componimento
appare separato dagli altri tre idilli finali di Canta sola a Lisi. Sulla questione, qui marginale,
si veda la nota complementare di Arellano e Schwartz, Un Heráclito cristiano, ed. cit., pp.
857-58, dove si troverà anche la bibliografia pertinente.
24
Gracián, Agudeza y arte de ingenio, ed. cit., vol. I, p. 106.

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 PARTE QUARTA

soggetto e adyacentes o attributi descrittivi, bensı́ tra adyacentes dello


stesso soggetto: uno tra la natura nivea della mano e le llamas che da
essa muovono: l’altro, tra l’indole ardente dello sguardo e il rigor, con
cui esso annienta. In conclusione, a partire dall’abusata antitesi
ostentata in superficie, la quartina iniziale, col suo ordito stilistico e
retorico («a fuerza de discurso», secondo l’espressione di Gracián),
avanza una doppia ed estrema sutileza che, con l’artificio di «unir […]
dos contradictorios extremos», finisce col porre il lettore nella condi-
zione di esitare tra due immagini di Aminta, parimenti paradossali:
quelle dei suoi infiammati occhi di ghiaccio, e della sua nivea mano
di fuoco.
L’esitazione, in realtà, ancor prima di potersi produrre nel let-
tore, compare come reazione nell’amante al gesto di Aminta nell’a-
neddoto narrato dal sonetto, la cui seconda quartina con rovescia-
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mento di prospettiva, «pasa bruscamente – ha avvertito Oliver – de la


proximidad de los rasgos fı́sicos de la joven a la interioridad psı́quica
del poeta en que causan los efectos»25. In effetti, non alla sola
«interioridad psı́quica» fanno riferimento questi versi, ma sia ai sensi
esterni, rappresentati dalla vista, sia a quelli interni, designati – come
di solito – con pecho o cuore, che è «donde el mal se siente», nella
perifrasi garcilasiana. Tra gli uni e gli altri, se non proprio un
conflitto, il gesto di Aminta è causa almeno di una dissonanza, dal
momento che i primi si lasciano docilmente sedurre dall’incanto
della mano, mentre i secondi – timorosi e, perciò, prudenti – ne
sospettano il tradimento. Ma è pur sempre il commento ingegnoso
con cui si manifesta la circostanza aneddotica, ciò che riscatta il testo
dal più trito convenzionalismo, e qui più che altrove nel sonetto.
In tal senso, i vv. 5-6 sono davvero i più pregnanti del componi-
mento, per la concentrazione dei diversi sistemi simbolici che vi è
implicata, e che pertanto li rende meritevoli di un ulteriore approfon-
dimento, consegnato alle brevi considerazioni del paragrafo conclu-
sivo. Per il momento, mi limito a osservare che l’insieme delle
«contrariedades» avanzate nella prima quartina, sfocia nell’espres-
sione ossimorica della seconda: frescos los incendios che, in quanto
riferita all’ardore della neve a cui la mano è assimilata, implica –
sottintendendola – l’idea del passaggio dallo stato solido a quello
liquido, e suggerisce di conseguenza l’immagine della neve disciolta
per effetto del calore. Tale idea, o immagine, a sua volta, è all’origine

25
Oliver, Comentarios a la poesı́a de Quevedo, cit., p. 192.

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LETTURA DEL SONETTO 

della sinestesia con cui la percezione visiva si tramuta in assorbi-


mento orale. Di qui, ancora, l’attivazione di un nuovo e splendido
concetto dove, col contributo della catacresi, gli occhi-bocca dell’a-
mante sono uguagliati al cratere di un vulcano, il quale è inedita-
mente raffigurato nell’atto di impregnarsi della neve che lo ricopre,
per espanderla e trasformarla nel magma delle sue cavità sotterranee;
come l’amante, nelle cui venas l’immagine interiorizzata della mano-
neve genera il fuoco della passione ardente. D’altro canto, nella
successiva coppia di versi, l’atteggiamento difensivo del pecho amante
è fonte di una doppia contrariedad, radicata nell’opposizione tra la
blancura della mano e il sospetto che essa sia aleve. Per un lato,
difatti, la blancura, essendo simbolo di purezza e innocenza, non può
che contrastare con l’attributo di falsità, insito nel sospetto di tradi-
mento; d’altro lato, poi, poiché la blancura rimanda alla nivea natura
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della mano, quel tradimento non può che concretizzarsi che in


un’esplosione del fuoco che la mano occulta, coprendolo. Monte
aleve, del resto, è l’espressione usata come apposizione dell’Etna, in
una delle due uniche occorrenze dell’aggettivo nella poesia amorosa
di Quevedo26; e la perifrasi serve a indicare, senza dubbio, il contra-
sto tra l’ingannevole vetta nevosa e la dirompente presenza del fuoco
al suo interno.
Finora mi sono sforzato di mostrare come, nelle quartine, la
ponderación de contrariedad presieda all’elaborazione ingegnosa della
circostanza aneddotica, in sé piuttosto convenzionale e insignificante,
da cui il sonetto prende lo spunto. Orbene, nel proporre un’organiz-
zazione sistematica dei quaranta e più concetti classificati da Gra-
cián, Mercedes Blanco ha incluso la ponderación de contrariedad tra i
casi particolari del gruppo da lei riunito col titolo di «Pondération. La
pointe comme énigme resolue», il cui comun denominatore sarebbe
costituito dal fatto che, in questo tipo di concetti:

l’agudeza opère en deux étapes. D’abord elle énonce la relation entre x


et l’un des termes associés y (ou bien entre termes associés y1 et y2) et,
en l’énonçant, elle affecte d’un indice énigmatique, d’un point d’inter-
rogation27.

26
Utilizzo l’utile lavoro di S. Fernández Mosquera e A. Azaustre Galiana, Índices de la
poesı́a de Quevedo, Barcelona, Universidad de Santiago de Compostela – PPU, 1993. Il
sintagma «monte aleve» compare nel sonetto Ostentas de prodigios coronado, sul quale si veda
l’ultimo paragrafo di queste note.
27
Blanco, Les Rhétoriques de la Pointe, cit., pp. 258-59.

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 PARTE QUARTA

Se le cose stanno cosı̀, potremmo ipotizzare che la traccia enig-


matica o interrogativa da cui, nel nostro sonetto, sarebbero interes-
sate le agudezas per unione di «contradictorios extremos», trovi un
concreto riscontro interno al testo, nell’atteggiamento esitante dell’a-
mante; un’incertezza a cui di fatto corrisponde la discordanza tra il
sedotto senso della vista e il sentimento del cuore impaurito. In-
somma, è come se, all’elaborazione ingegnosa delle quartine, fossero
associate domande del tipo: cosa significa il gesto di Aminta? Con
quale intenzione ella lo compie? È il caso di arrendersi al desiderio
dei sensi, riacceso dalla presenza di una mano nel suo candore
benevola e, perciò, tanto più seducente; o non piuttosto di ritrarsi,
obbedendo alle ragioni di un cuore già provato dall’ardore della
passione distruttiva?
La definizione di ponderación de contrariedad, che ho riportato
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poco sopra direttamente da Gracián, continua e termina con la


seguente istruzione: «Pondérase la repugnancia, y luego pasa el
discurso a darle una sutil y adecuada solución»28. Una volta, dunque,
«pondera[da] la repugnancia» nelle quartine, sulle quali non è più il
caso d’insistere, le terzine s’incaricano di esibire la «solución», dove la
sutileza del discorso consiste nella formulazione di una doppia ipo-
tesi, su cui si articola l’unico periodo dei sei versi finali, scanditi da
unità sintattiche con valore progressivamente e reciprocamente dene-
gante. Si susseguono, cosı̀: il periodo ipotetico (vv. 9-11), dove il
poeta congettura in Aminta un’intenzione benevola, che assicure-
rebbe al gesto un proponimento pietoso, con la neve della mano che
mitiga, senza spegnerlo, l’ardore dello sguardo, altrimenti soverchia-
tore e distruttivo; l’avversativa (vv. 12-13) che, integrando l’apodosi
precedente (v. 11), valuta il riflesso crudele per chi lo compie, del
gesto caritatevole per chi lo riceve; la correctio ultima (v. 14) con la
quale, denegando l’intera ipotesi anteriore (vv. 9-13), il poeta fa
terminare il sonetto sotto il segno del disdegno di Aminta, materializ-
zato nel suo paralizzante sguardo di ghiaccio.

4. «Las hazañas del fuego y de la nieve»


È sicuramente nelle terzine, che abbiamo appena commentato, dove
appaiono con maggiore evidenza i limiti del nostro sonetto, rispetto

28
Gracián, Agudeza y arte de ingenio, ed. cit., vol. I, p. 106.

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LETTURA DEL SONETTO 

ad altri dello stesso genere di Quevedo. Limiti che – sia ben chiaro –
non sono affatto da addebitare al carattere convenzionale dell’anti-
tesi, da cui parte e di cui si nutre il sonetto, perché – se cosı̀ fosse –
non ci spiegheremmo come da temi o motivi altrettanto convenzio-
nali nascano, nella poesia di Quevedo, autentici gioielli del gusto
barocco29. È che, una volta conclusa la trama ingegnosa nella se-
conda quartina, il resto del componimento, nonostante il sottile
gioco di ipotesi che si escludono mutuamente, è ben lungi dall’esi-
bire quella densità concettosa che eccita la fantasia e l’intelligenza
dei lettori, quando godono dei migliori prodotti della poesia queve-
diana. E, a ben vedere, perfino nelle quartine, dove pure la pondera-
ción de contrariedad è in grado di generare la fitta rete di concetti, che
ci siamo sforzati di ricostruire; questi – i concetti – solo in una
misura moderata danno luogo alla complessa interazione di diversi
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sistemi simbolici, che è all’origine della grande poesia barocca. In-


somma, si vuol dire che, nel nostro sonetto, solo in parte vediamo
realizzato quel principio estetico per il quale, a partire dal sistema
metaforico convenzionale, il poeta procede «a la práctica de su
combinación polifónica con otros sistemas simbólicos», per ripren-
dere l’affermazione della Blanco, a cui sono già ricorso all’inizio di
queste pagine. E, tuttavia, ciò non sempre è vero nel nostro sonetto,
dal momento che vi fanno eccezione i versi della seconda quartina,
specie i primi due, sui quali avevo detto di voler tornare, scegliendo
di metterli in relazione con altri testi, non della tradizione – questa
volta –, bensı̀ della poesia amorosa dello stesso Quevedo, dove
l’autore, in un ristretto ma significativo numero di componimenti,
ricorre alla metafora del vulcano.
Diciamo subito, allora, che nei componimenti implicati la meta-
fora è per lo più assunta in virtù dell’analogia che essa istituisce tra il
fuoco che il vulcano racchiude nelle sue cavità sotterranee, e l’ar-

29
Dei sette sonetti dedicati ad Aminta, con l’unica eccezione del n. 308, R. Moore ha
scritto che essi «are trivial and commonplace» (Toward a Chronology of Quevedo’s Poetry,
Fredericton, York Press, 1977, p. 9). Sulla «desigualdad efectiva» della poesia amorosa di
Quevedo, si vedano le osservazioni, ultime nel tempo, di A. Carriera, Quevedo en fárfara:
calas por la periferia de la poesı́a amorosa, in «Rivista di Filologia e Letterature Ispaniche», III
(2000), pp. 175-95, dove l’analisi di una dozzina di componimenti erotici, tra i meno letti,
permette allo studioso di «sorprender al poeta en plena gestación, lucrando aún con los
tópicos petrarquistas cuya renovación se le resiste» (pp. 181-82). Per una concisa e molto
utile rassegna degli studi più significativi sulla poesia amorosa di Quevedo, si veda ora il
Prólogo di Arellano e Schwartz alla citata antologia della poesia di Quevedo, pp. LXI-
LXVII.

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 PARTE QUARTA

dente passione che l’amante suole occultare e reprimere dentro di sé,


come avviene nell’identificazione finale col Vesuvio, nel sonetto
«Salamandra frondosa y bien poblada»:

… yo en el corazón, y tú en las cuevas


callamos los volcanes florecidos

o anche nell’ottava dell’idilio «¡Oh, vos, troncos, anciana compañı́a»,


dove la triplice invocazione dei vulcani (Vesuvio, Mimante, Etna)
sfocia nell’invito che l’amante rivolge ad essi nel distico finale:

todos con tantas llamas como penas


mirad vuestros volcanes en mis venas30.

In entrambi, nel termine finale volcanes si realizza «l’intégration


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dans une seule figure des prédicats topiques de l’amant»31; mentre,


nel primo testo citato, si raggiunge una più densa ambiguità, grazie
alla connessione tra il sostantivo e il participio con valore aggettivale,
che «recoge la perspectiva doble de superlatividad en el fuego […] y
delicadeza del sentimiento»32, ovvero – con più audace e stimolante
spiegazione – rappresenta «la mise en scène d’une ardeur destructive,
éruptive qui lasse intacte la splendeur immaculée, la fraı̂cheur florale
de l’objet du désir»33.
In ogni caso, è sulla clausura interiore a cui è costretto il violento e
persistente desiderio che insistono i versi dei due componimenti;
laddove quelli, a cui ora mi riferirò, appartenenti a un’altra coppia di
testi, pretendono di giustificare i diversi segni esterni con cui si
manifesta la passione segreta, sempre associata metaforicamente al
vulcano. (Cosı̀, di nuovo in un’ultima terzina, quella con cui si chiude
il sonetto «Arder sin voz de estrépito doliente», l’amante insorge
contro la severa pretesa di Floris che vorrebbe che il suo «corazón
sensible y animado» bruci, dissolvendosi in «muda ceniza», quando
persino i tronchi senza vita degli alberi gemono e si lamentano,
emettendo uno «estrépito doliente» dalle fiamme che le consuma:

30
I testi dei due componimenti in Quevedo, Obra poética, ed. cit., vol. I, pp. 493 e
554-55, rispettivamente.
31
M. Blanco, Mythe et hyperbole dans la poésie amoureuse de Quevedo, in M. L. Ortega (a
cura di), La poésie amoureuse de Quevedo, Paris, ENS Éditions, 1997, pp. 113-29, in part. p.
127.
32
J. M. Pozuelo Yvancos, El lenguaje poético de la lı́rica amorosa de Quevedo, Murcia,
Universidad de Murcia, 1979, p. 171.
33
Blanco, Mythe et hyperbole, cit., p. 128.

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LETTURA DEL SONETTO 

Del volcán que con mis venas se derrama,


diga su ardor el llanto que fulmino34

dove il fuoco racchiuso nelle vene si rivela all’esterno, traboccando


nelle liquide gocce di pianto che, tuttavia, conservano, tramite il
verbo impiegato (fulmino), l’impeto e la violenza dell’elemento da cui
originano. Ancora da una protesta, nei confronti di Lisi questa volta,
e dalla lagnanza contro la meraviglia che in lei suscita la irosa
reazione di gelosia, proviene l’identificazione del poeta-amante col
vulcano. Difatti, nella prima terzina del sonetto, dopo aver ricordato
– riproducendolo in parole – lo spettacolo del cruento combatti-
mento dei tori inferociti «que el amor violenta», le chiede tra il
cruccio e lo stupore:
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Pues si lo ves, ¡oh Lisi!, ¿por qué admiras


que, cuando Amor enjuga mis entrañas
35
y mis venas, volcán, reviente en iras?

dove il fuoco dell’amore geloso, una volta prosciugati gli umori


interni, prorompe con una manifestazione di collera, non meno
furiosa di un’eruzione vulcanica.
Eppure i risultati poetici più interessanti Quevedo li raggiunge
quando, nel ricorrere alla metafora del vulcano, ne sfrutta il peculiare
contrasto tra la vetta nevosa e il fuoco interno, come – del resto –
accade nella quartina del nostro sonetto, ma anche in altri due
componimenti dello stesso genere metrico, dove la metafora si
adatta, in maniera che diremmo complementare: all’amata nel so-
netto dedicato a Flora, «Hermosı́simo invierno de mi vida», e all’a-
mante nel prezioso «Ostentas, de prodigios coronado», che è anche
l’unico della serie a sviluppare la metafora lungo l’intero testo, dal
momento che – come recita l’epigrafe – il poeta «compara con el
Etna las propiedades de su amor». Nel primo, la stessa terzina che
riconosce in Flora il rigore dei perenni freddi della Scitia, propone
anche la sua identificazione col vulcano siciliano:

34
Quevedo, Obra poética, ed. cit., vol. I, p. 504.
35
Ivi, pp. 672-73; si tratta del sonetto ¿Ves con el polvo de la lid sangrienta?.

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 PARTE QUARTA

Eres Scitia de l’alma que te adora,


cuando la vista, que te mira, inflama;
Etna que ardientes nieves atesora36

dove, l’espressione ossimorica dell’ultimo verso, innegabilmente «ser-


ves – come ha notato Gareth Walters – to incapsulate the dominant
and contrasting images thus far in the sonnet (ice, snow) from the
first quatrain and the sun from the second»37, ma, per quello che qui
concerne, essa rimanda, per il tramite della contrastante composi-
zione del vulcano, alla congiunzione del seducente biancore fisico di
Flora – e del suo corrispettivo temperamentale: il freddo disdegno –
con il fuoco stellare che emana dai suoi occhi e l’ardore che suscita
in quelli dell’amante, in quanto «esfera de luz … / que tiene por
estrella al dios de Delo» (vv. 7-8). Col verbo (atesora), che suggerisce
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l’idea di gemme preziose (gli occhi-fuoco) riposte e occultate, come


nel vulcano la neve della vetta dissimula il fuoco delle caverne.
Non c’è dubbio, comunque, che il testo che più compiutamente
sviluppa tale contrasto è il sonetto che riserva la metafora del vul-
cano all’amante. All’identificazione che appare solo nel penultimo
verso («soy Encélado vivo y Etna amante»), preparano le strofe
anteriori con la descrizione dei prodigi che fanno del vulcano un
«hermoso monstruo sin segundo» (v. 11). Di esse, mi limito a ripro-
durre i primi versi, che più ci riguardano, rimandando per il com-
mento del componimento alle pagine che vi dedicano Pozuelo,
Olivares e, soprattutto, la Blanco38;

Ostentas de prodigios coronado,


sepulcro fulminante, monte aleve,
las hazañas del fuego y de la nieve,
y el incendio en los yelos hospedado.

Arde el hibierno en llamas erizado,


y el fuego lluvia y granizo bebe39.

Orbene, oltre alla metafora centrale, che – com’è ovvio – condi-

36
Ivi, vol. I, pp. 507-8.
37
Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, cit., p. 89.
38
Pozuelo Yvancos, El lenguaje poético, cit., pp. 276-77; J. Olivares, La poesı́a amorosa de
Francisco de Quevedo, Madrid, Siglo Veintiuno, 1995, pp. 25-28; Blanco, Introducción al co-
mentario de la poesı́a amorosa, cit., pp. 56-63 e Ead., La poésie amoureuse de Quevedo, cit., pp.
122-28.
39
Quevedo, Obra poética, ed. cit., vol. I, pp. 487-88.

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LETTURA DEL SONETTO 

vide con l’intera serie di componimenti velocemente passati in rasse-


gna, è con i versi appena riportati che la seconda quartina del nostro
sonetto sembra presentare i maggiori punti di contatto. Cosı̀, nell’e-
spressione ossimorica frescos los incendios risulta concentrarsi la più
ampia sequela di associazioni di contrari che occupa ben quattro dei
sei versi citati, e che contribuisce in maggior misura a raffigurare la
natura mostruosa del vulcano, «qui exibe les pouvoirs hyperboliques
du froid, les horreurs de l’hiver, et les pouvoirs hyperboliques du feu,
les puissances infernales de la chaleur»40. Per altro canto, ritroviamo,
con uso figurato analogo – anche se non identico – il verbo beber,
riferito alla bocca di fuoco del vulcano, che assorbe le precipitazioni
atmosferiche (lluvia e granizo), come – nel nostro sonetto – la
vista-bocca dell’amante-vulcano lasciava penetrare l’immagine della
bianca mano, a sua volta convertita in neve disciolta dal calore.
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Infine, ricompare l’aggettivo aleve che, in entrambi i testi, sembra


alludere all’insidia di un candore di superficie, da cui sono pronte a
dirompere le fiamme che incendiano.
Ormai alla fine del percorso, ci resta solo da rimarcare breve-
mente le diverse sfumature con cui la metafora del vulcano risulta di
nuovo impiegata nel sonetto che abbiamo scelto di commentare; un
compito che l’inserimento del sonetto nel contesto dei componi-
menti amorosi quevediani con la stessa immagine, rende estrema-
mente più agevole e rapido. Altrove presentate separatamente: come
simbolo dell’amata, in «Hermosı́simo invierno», e dell’amante, in
«Ostenta», le due possibili applicazioni a cui si presta la metafora del
vulcano innevato, sembrano invece congiungersi nella quartina del
nostro sonetto, dove i primi due versi la ripropongono esplicita-
mente, in rapporto al poeta-amante, mentre negli ultimi due – come
si ricorderà – è l’aggettivo aleve, riferito alla bianchezza della mano
femminile, che ne suggerisce l’adattamento per la stessa Aminta.
Due vulcani, dunque, simmetricamente rappresentati, se si tiene
conto dell’altro scarto, che si produce nella prima coppia di versi.
Qui, difatti, a differenza di quanto avviene negli altri componimenti
della serie, dove il vulcano è accolto in funzione soprattutto della sua
violenta forza eruttiva, tanto più veemente se presentata nell’inconci-
liabile discrepanza col freddo biancore dell’esterno; qui – dicevo – è
il processo inverso che viene evocato, con la neve dell’esterno che
una volta assorbita dal vulcano, si vede tramutata nella materia di

40
Blanco, La poésie amoureuse de Quevedo, cit., p. 125.

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 PARTE QUARTA

fuoco che si espande nelle sue cavità interne. In tutto ciò, non è
difficile riconoscere, tradotto nei termini di un’improbabile succes-
sione di fenomeni vulcanici, il processo amoroso che è alla base di
tanta letteratura dello stesso genere: la visione dell’oggetto amato e la
conseguente formazione dell’immagine interiore che, attivando in-
torno a sé l’immoderata cogitatio del soggetto, è all’origine degli spirti
infiammati dagli stilnovisti in avanti. La tradizione, convertita dall’a-
buso in mera convenzione, prova a rinascere dalle sue stesse ceneri,
grazie al riscatto – non sempre risolutivo, in verità – che le offre
l’elaborazione ingegnosa, la quale – per la sua logica equivoca, e
contro il positivismo scientifico contemporaneo – ripropone

l’ancien cosmos analogique, celui-ci qui fondait logiquement la validité


de l’esprit métaphorique reposant sur les similitudes et les correspon-
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dances entre tous les ordres de la réalité, de la pierre à l’homme et de


l’homme aux astres41.

41
J. Rousset, L’intérieur et l’extérieur. Essais sur la poésie et sur le théâtre au XVIIe siècle,
Paris, José Corti, 1998, p. 67.

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QUEVEDO E LE «POESÍAS RELOJERAS»

Con l’espressione nient’affatto derisoria di «poesı́as relojeras», Euge-


nio Asensio si riferı̀ a un gruppo di componimenti che Quevedo
aveva dedicato alla «material macchinetta misuratrice del tempo»,
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secondo la definizione che Emanuele Tesauro dette dell’ordigno


cronometrico1. Nel suo imprescindibile contributo a questo insieme
di poesie, dove si occupa principalmente della selva in strofe di
cinque ottonari, «Este polvo sin sosiego», Asensio individua con la
sua abituale maestria la fonte umanistica di Quevedo in due epi-
grammi latini dell’Amalteo. In essi, difatti, troviamo fissato il tema
della selva, ossia «la conexión entre dos motivos tan divergentes a
primera vista como el amor infeliz y el reloj de arena»2, il cui
passaggio o salto dalla letteratura epigrammatica neolatina alla poe-
sia italiana documentò lo stesso Asensio in due raccolte di Rime
dell’inizio del XVII secolo, appartenenti rispettivamente a Filippo
Alberti e al più noto Tommaso Stigliani.
Com’è noto, questo gruppo di poesie non si limita alla sola selva
che ebbe la fortuna di richiamare la dotta attenzione del maestro
Asensio, ma si estende a un numero non esorbitante, ma significa-
tivo, di componimenti, di cui fanno parte, oltre alla citata selva in
ottonari, altre tre selve metriche, a cui si aggiungono due sonetti. Un
corpus, dunque, di sei componimenti, il cui «rasgo determinante es el
motivo literario del reloj»3, mentre per il resto la varietà predomina.
Una varietà metrica, innanzitutto, come abbiamo appena visto, ma
anche quella relativa al genere poetico o tematico, dal momento che

1
E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, Venezia, Baglioni, 1669 [1ª ed., 1654], p. 36.
2
E. Asensio, Un Quevedo incógnito. Las «Silvas», in «Edad de Oro», II (1983), pp. 13-48.
Cito da p. 21.
3
M. A. Candelas Colodrón, Las silvas de Quevedo, Vigo, Universidad de Vigo, 1977.
Cito da p. 167.

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 PARTE QUARTA

due selve, «El metal animado» e «Ves, Floro, que, prestando la


Arismética», sono chiaramente morali, mentre altre due, «Este polvo
sin sosiego» e «¿Qué tienes que contar, reloj molesto», insieme al
sonetto «Ostentas, ¡oh felice!, en tus cenizas», «presentan – afferma
Candelas – rasgos nı́tidos de poesı́a amorosa, arropados por motivos
morales»4. Infine, il secondo sonetto della serie, «A mocos de candil
escoge, Fabio», è classificato tra i componimenti satirici5. Di più, e,
forse, ciò che più importa dalla presente prospettiva, anche i modelli
di orologio variano da una poesia all’altra, facendo posto a un
orologio d’arena, a uno da suono e a uno solare, i cui rispettivi
componimenti – secondo Heiple – «treat the three types of clocks
common in his time, and provide a kind of history of the develop-
ment of the clock from the sundial to the mechanical clock»6. Nel
sonetto satirico, infine, la «fragilidad de la vida» è rappresentata –
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come recita la rubrica – «en el mı́sero donarie, y moralidad de un


candil, i relox juntamente», dove si tratta sicuramente di un orologio
meccanico incastonato in un candelabro.
Riferendosi alle quattro selve sull’orologio, Miguel Ángel Cande-

4
Ibid.
5
I sei componimenti menzionati, nella classica edizione di J. M. Blecua: F. de Quevedo,
Obra poética, 4 voll., Madrid, Castalia, 1969-1981, hanno la seguente numerazione: «¿Qué
tienes que contar, reloj molesto», n. 139, vol. I, pp. 270-72; «El metal animado», n. 140, vol.
I, pp. 272-73; «¿Ves Floro, que, prestando la Arismética», n. 141, vol. I, pp. 273-74;
«Ostentas, ¡oh felice!, en tus cenizas», n. 380, vol. I, p. 536; «Este polvo sin sosiego», n. 420,
vol. I, p. 599; «A moco de candil escoge, Fabio», n. 552, vol. II, p. 29. La selva «¿Qué tienes
que contar» è raccolta anche in F. de Quevedo, Poesı́a varia, a c. di J. O. Crosby, Madrid,
Cátedra, 1981, pp. 507-08, con un breve commento finale, mentre il sonetto «A moco de
candil», oltre allo studio di R. M. Price, The lamp and the Clock: Quevedo’s Reaction to a
Commonplace, in «Modern Language Notes», LXXXII (1967), pp. 198-209, ha ricevuto
l’edizione con ricche note esplicative di I. Arellano, Poesı́a satı́rico-burlesca de Quevedo:
estudio y anotación filológica de los sonetos, Pamplona, Ediciones Universidad de Navarra,
1984, pp. 430-31 e di L. Schwartz e I. Arellano, in Quevedo, Un Heráclito cristiano, Canta
sola a Lisi y otros poemas, Barcelona, Crı́tica, 1998, p. 342. Sul sonetto «Ostentas, ¡oh felice!,
en tus cenizas», si vedano le brevi considerazioni di D. G. Walters, Francisco de Quevedo,
Love Poet, Washington-Cardiff, The Catholic University of America Press-University of
Wales Press, 1985, pp. 166-67. Sul genere della selva quevediana, oltre al già menzionato
libro di Candelas Colodrón, si veda Asensio, Un Quevedo incógnito, cit.; P. Jauralde Pou,
Las silvas de Quevedo, in B. López Bueno (a cura di), La silva, Grupo de Investigación
P.A.S.O., Universidad de Sevilla e Universidad de Córdoba, 1991, pp. 157-80. Sull’edi-
zione aldina di Stazio (Sylvarum libri quinque, Thebaidos libri duodecim, Achilleidos duo,
Venecia, 1502), che appartenne alla biblioteca di Quevedo e «which along with Quevedo’s
signature also containes a significant number of annotations in his hand» (p. 132), si veda,
H. e C. Kallendorf, Conversations with the Dead: Quevedo and Statius, Annotation and
Imitation, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LXIII (2000), pp. 131-68.
6
D. L. Heiple, Mechanical Imagery in Spanish Golden Age Poetry, Madrid, José Porrúa
Turanzas («Studia humanitatis»), 1983.

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QUEVEDO E LE «POESÍAS RELOJERAS» 

las ha ricordato che «los orı́genes de tal motivo literario [quello


dell’orologio] se hallan sin demasiada dificultad en la poesı́a epigra-
mática y en la literatura de emblemas, que gusta de compaginar e
integrar ilustración gráfica y palabra»7. In effetti, a proposito di una
tale integrazione di figura e testo nella letteratura emblematica tra
Cinque e Seicento, uno studioso italiano, Vitaniello Bonito, che ha
dedicato una monografia all’«orologio barocco fra scienza, letteratura
ed emblematica», ha scritto che l’orologio «oggetto costruito per
vedere il tempo, […] ben rappresentava la tendenza del “pensiero
visivo” a coagulare in icone ogni esperienza umana»8. Ma l’orologio,
forse proprio in virtù di tali caratteristiche, era anche destinato a
diventare uno dei luoghi privilegiati della poesia barocca, posto che
«emblema meccanico – come si è di nuovo espresso lo studioso
appena menzionato – l’ordigno è un Bild-Gedanke che si fa metafora
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visibile dell’invisibile»9. Ecco il punto: tra tanti oggetti che la poesia


barocca prende a prestito dalla realtà materiale, la macchina crono-
metrica con la sua vasta gamma di modelli è una di quelle immagini
o figure che maggiormente si presta alla produzione di una densa
rete di concetti, grazie ai quali si realizza quella combinazione polifo-
nica di diversi sistemi simbolici, che è alla base del pensiero analo-
gico, il quale costituisce a sua volta l’irrinunciabile e regressiva
premessa di ogni forma di cultura e poesia barocca. Ricorrerò a
un’ultima citazione dal libro di Bonito, laddove sostiene che «l’orolo-
gio viene a rappresentare […] nel XVII secolo, un modo speculativo
particolarmente complesso dal momento che mette in campo virtua-
lità intuitive e razionali tali da dislocare su più plateaux teorici la sua
multiforme figura di macchina machinarum»10.
Il compatto insieme di poesie sull’orologio di Quevedo rappre-
senta un esempio tra i più precoci e significativi di poesia barocca
europea che, intorno all’ordigno cronometrico, ha costruito una fitta
rette metaforica e simbolica, dando luogo in tal modo a un senti-
mento del tempo che si gioca interamente sul rapporto analogico tra
vita umana e icona mobile dell’orologio, ovvero sul denso sistema di

7
Candelas Colodrón, Las silvas de Quevedo, cit., p. 167.
8
V. Bonito, L’occhio del tempo. L’orologio barocco fra scienza, letteratura ed emblematica,
Bologna, CLUEB, 1995, pp. 71-72. Dello stesso autore può vedersi anche l’antologia di
poesie barocche italiane dedicate all’orologio, Le parole e le ore. Gli orologi barocchi: antologia
poetica del Seicento, Palermo, Sellerio, 1996.
9
Bonito, L’occhio del tempo, cit., p. 93. Si veda anche J. Gallego, Visión y sı́mbolos en la
pintura española del Siglo de Oro, Madrid, Cátedra, 1996, pp. 220-23.
10
Bonito, L’occhio del tempo, cit., p. 18.

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 PARTE QUARTA

relazioni tra l’orologio e i molteplici significati cui l’oggetto viene


destinato. Pochi e brevi esempi tratti da alcuni dei componimenti
quevediani saranno sufficienti a illustrare quanto si è finora affermato
in termini più generali.
Nella selva metrica diretta a Floro, la vita umana è percepita
nella sua dimensione temporale grazie all’orologio solare, a cui essa
viene accostata nei ventisei endecasillabi e settenari del componi-
mento. Com’è ovvio, non è l’indubitabile eco della riflessione stoica
che si concretizza nell’idea della vita umana come transito fugace ciò
che rende degna d’attenzione la poesia menzionata11, bensı̀ l’intreccio
dei vari piani a cui dà luogo il rispecchiamento nell’orologio della
vita umana. E cosı̀, fin dai primissimi versi della selva, col loro
richiamo esplicito alle due arti del quadrivium, sono – nientemeno –
le grandi categorie dello spazio e del tempo a essere messe in
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correlazione grazie ai numeri, i quali sono in grado di tradurre la


quantità di spazio percorso dal sole nella quantità di tempo tra-
scorso, un tempo che, almeno in questa fase iniziale del testo, non è
ancora quello della nostra vita umana, bensı̀ quello più oggettivo e
spersonalizzato che contrassegnano le cifre marcate nel quadrante
dell’orologio:

¿Ves, Floro, que, prestando la Arismética


números a la docta Geometrı́a,
los pasos de la luz le cuenta al dı́a?12

Nei versi immediatamente seguenti la correlazione di spazio e

11
Si legga, per esempio il seguente passo che pronuncia il Desengaño all’inizio del Mundo
por de dentro, in F. de Quevedo, Los sueños, a c. di I. Arellano e M. C. Pinillos, Madrid,
Espansa-Calpe, 1998, p. 182: «¿Entiendes de cuánto precio es una hora? ¿Has examinado el
valor del tiempo? Cierto es que no, pues ası́, alegre, le dejas pasar hurtado de la hora que
fugitiva y secreta te lleva preciosı́simo robo. ¿Quién te ha dicho que lo que ya fue volverá
cuando lo hayas menester si le llamares? Dime ¿has visto algunas pisadas de los dı́as? No
por cierto, que ellos solo vuelven la cabeza a reı́rse y burlarse de los que ası́ los dejaron
pasar. Sábete que la muerte y ellos están eslabonados y en una cadena, y que cuando más
caminan los dı́as que van delante de ti, tiran hacia ti y te acercan a la muerte, que quizá la
aguardas y es ya llegada, y según vives, antes será pasada que creı́da». Sulle fonti senechiane
del passo, si vedano le osservazioni di J. O. Crosby, in F. de Quevedo, Sueños y discursos, 2
voll., Madrid, Castalia, 1993, vol. II, p. 1323 e, per un commento stilistico L. Schwartz
Lerner, Metáfora y sátira en la obra de Quevedo, Madrid, Taurus, 1983, pp. 114-16. Sul tema
della morte e del passaggio del tempo nella poesia morale di Quevedo, si vedano le
appropriate osservazioni di A. Rey, Quevedo y la poesı́a moral española, Madrid, Castalia,
1995, pp. 88-90, nelle cui note il lettore troverà ulteriore bibliografia in proposito.
12
Quevedo, Obra poética, ed. cit., n. 141, vv. 1-3.

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QUEVEDO E LE «POESÍAS RELOJERAS» 

tempo torna a presentarsi nell’aggetivo velocı́sima, riferito alla bel-


lezza del sole:

¿Ves por aquella lı́nea, bien fijada


a su meridiano y a su altura,
del sol la velocı́sima hermosura
con certeza espiada?

La lı́nea è quella dello gnomone la cui posizione e dimensione,


essendo determinate una volta per tutte dal meridiano e dall’altezza,
rimangono immutabili e immobili13. Cosı̀, in questa descrizione ap-
parentemente oggettiva del funzionamento dell’orologio, sono al-
meno due i fenomeni che richiamano l’attenzione. In primo luogo, il
contrasto tra la fissità dello gnomone e il dinamismo della luce solare
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si rende responsabile di un effetto paradossale, dal momento che,


spettando all’immobile asticciola di misurare la velocità del sole,
l’apparente fissità del quadrante dell’orologio finisce per raffigurare
esattamente il suo contrario, l’estrema instabilità di spazio e tempo.
In secondo luogo, grazie allo slittamento di un attributo, quello della
‘velocità’, dal soggetto a cui legittimamente appartiene, il sole, a un
altro attributo dello stesso soggetto, la bellezza, si ottiene l’effetto di
introdurre nel testo un senso di provvisorietà e di caducità, poiché il
v. 6: «del sol la velocı́sima hermosura», mentre si riferisce al rapido
movimento dell’astro, o della sua luce, allude anche alla fugacità
della bellezza. E questa è premessa, a sua volta, di quella transitorietà
della vita umana, sulla quale i versi seguenti della selva s’incaricano
di ammaestrare Floro. Solo ora, difatti, la poesia fa finalmente spazio
all’analogia tra l’orologio e la vita umana; un’analogia che, almeno in
un primo momento, viene presentata a Floro in termini assoluta-
mente euforici, grazie a un sistema di triplice equivalenza, in base al
quale la luce è indice delle ore, e queste della vita:

¿Agradeces curioso
el saber cúanto vives,
y la luz y las horas que recibes?

13
Sulla selva si veda il commento di Heiple, Mechanical Imagery, cit., pp. 135-38, e, in
particolare, sui versi citati, si leggano le seguenti osservazioni: «The more likely interpreta-
tion would be that the phrases “a su meridiano” and “a su altura” equivocally refer to both
the “linea”, the shadow on the clock, and to the sun itself which is at full ascent at midday,
suggesting the fullness of life, and a forthcoming descent and decline» (pp. 136-37), che, a
mio parere, forzano abbastanza il significato dei versi in questione.

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 PARTE QUARTA

D’ora in poi – siamo quasi alla metà del testo –, non più
domande con cui indirizzare lo sguardo di Floro sull’orologio e
incoraggiare la sua riflessione sulla ricca e luminosa vita avvenire. A
partire dal v. 11, col minaccioso empero iniziale, si sussegue fino alla
fine del componimento una serie di ammonimenti, nei quali Floro
vede rovesciarsi nel loro contrario tutti gli elementi che finora gli si
erano presentati favorevolmente:

Empero si olvidares, estudioso,


con pensamiento ocioso,
el saber cuánto mueres,
ingrato a tu vivir y morir eres.

In effetti, nel tempo della vita (cuánto vives, v. 9) l’orologio


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misura simultaneamente quello della morte (cuánto mueres, v. 13),


mentre l’atteggiamento di Floro di fronte a questa doppia misura-
zione del tempo è colto nel passaggio dalla grata curiositas per la vita
che ancora lo attende all’ingratitudine aliena da ogni ricordo di
quella che è alle sue spalle. Insomma, nell’orologio di sole, luce e
ombra, tempo futuro e passato, vita e morte sono l’uno lo specchio
dell’altro («en él, recordada, / ves tu muerte en tu vida retratada», vv.
19-20); e la selva che finora non ha avuto parole che per la parte
luminosa del quadrante, sposta finalmente tutta l’attenzione sulla sua
parte oscura, e si chiude con una manciata di versi, dove le ombre
spadroneggiano con l’effetto di decretare un’assimilazione totale di
Floro all’orologio di sole:

cuando tú, que eres sombra,


pues la santa Verdad ansı́ te nombra,
como la sombra suya, peregrino,
desde un número en otro tu cámino
corres, y pasajero,
te aguarda sombra el número postrero.

La vita umana, come peregrinatio, non si differenza dalla corsa


dell’orologio. Del resto, questo concetto si trovava già esplicitamente
espresso, in termini positivi, in due versi precedenti che non ho
ancora citato: «pues tu vida […] / camina al paso que su luz camina»
(vv. 15-16). Orbene, nei versi finali dalla selva, lo stesso concetto si
sviluppa in termini meno propizi, dal momento che la vita materiale
di Floro, come ombra alla quale è assimilata per la similitudine
biblica, risulta agguagliata all’ombra che lo gnomone proietta sul

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QUEVEDO E LE «POESÍAS RELOJERAS» 

quadrante dell’orologio, con l’identico destino che attende entrambi


– Floro e l’orologio –, allo scoccare dell’ultima ora («el número
postrero»): nel buio della notte che copre per intero il quadrante del-
l’orologio è raffigurato il regno delle tenebre, a cui è destinata l’esi-
stenza terrena di Floro. E, tuttavia, attraverso l’assimilazione
dell’orologio alla vita umana, la selva finisce per alludere a un’altra
grande analogia tra macrocosmo e microcosmo umano, questa volta,
dal momento che l’arco temporale dell’esistenza terrena di Floro è
posto in diretto rapporto di conformità con la traiettoria dell’astro
solare, e col ciclo del giorno e della notte. Vorrei, tuttavia, aggiun-
gere qualcosa di più sui versi finali della selva, col loro triplice
riferimento all’«ombra», e, in particolare, vorrei soffermarmi sul ri-
chiamo esplicito al concetto biblico dell’uomo come ombra, che
leggiamo nei vv. 21-22: «cuando tú, que eres sombra, / pues la santa
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Verdad ansı́ te nombra». In effetti, la similitudine che assimila


l’uomo all’ombra, in ragione del carattere estremamente passeggero
e fuggevole di entrambi, si trova con una certa frequenza nelle Sacre
Scritture; dai Salmi, dove c’imbattiamo in essa in più d’una occa-
sione, come – per esempio – nel Salmo 38: «ut umbra tantum
pertransit homo»14, al primo libro delle Cronache con formulazione
analoga: «Dies nostri quasi umbra super terram, et nulla est mora»15,
fino al libro di Giobbe, che per rappresentare la brevità della vita
umana ricorre a un doppio paragone, nel senso che aggiunge alla
fugacità dell’ombra la caducità del fiore:

Homo, natus de muliere, brevi vivens tempore


Repletur multis miseriis.
Qui quasi flos agreditur et conteritur,
Et fugit velut umbra, et nunquam in eodem statu permanet16.

Né, in verità, a questo punto saprei decidermi sulla casualità o


meno del nome scelto da Quevedo per il destinatario della selva:
Floro, appunto, che già nel nome porta inciso il destino di ogni uomo,
quello di veder recidere la propria vita con la rapidità del fiore non
meno che dell’ombra. Tuttavia, al di là dei passi biblici finora citati, e
di qualche altro ancora che tralascio, vorrei segnalare un ultimo passo,
contenuto nel secondo libro dei Re – o quarto, secondo la Vulgata –,

14
Salmo, 38, 7.
15
Paralipomenon, 29, 15.
16
Iob, 14, 1-2.

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 PARTE QUARTA

dove si racconta l’episodio della malattia e guarigione del pio Ezechia,


dove ritroviamo la nostra similitudine, ma in diretta relazione questa
volta col quadrante di una meridiana. Ebbene, al malato re Ezechia
che gli chiede quale sarà il segno che il Signore avrà compiuto la sua
parola di guarirlo, il profeta Isaia risponde:

Hoc erit signum a Domino, quod facturus sit Dominus sermonem,


quem locutus est: Vis ut ascendat umbra decem lineis, an ut revertatur
totidem gradibus? Et ait Ezechias: Facile est umbram crescere decem
lineis: nec hoc volo ut fiat, sed ut revertatur retrorsum decem gradi-
bus. Invocavit itaque Isaias propheta Dominum, et reduxit umbram
per lineas, quibus iam descenderat in horologio Achaz, retrorsum de-
cem gradibus17.

Quello appena citato è l’unico passo della Bibbia, dove l’appros-


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simarsi della morte è ragguagliato ai gradi che l’ombra compie sul


quadrante di una meridiana. Non escludo affatto che Quevedo
avesse presente questo passo biblico che, in ogni caso, costituisce
l’archetipo a cui far risalire senza alcun dubbio il concetto che
ritroviamo nei versi finali della selva quevediana18.
Non potendo consacrare analoga attenzione a ognuno dei re-
stanti componimenti che formano la serie delle «poesı́as relojeras»,
dedicherò, allora, le mie ultime riflessioni a una questione che attra-
versa un po’ tutti questi componimenti, con una presenza più o
meno accentuata. Per indicare la questione con cui intendo conclu-
dere queste note, ricorrerò a una breve citazione di Lucien Febvre, il
quale nel suo gran libro su Rabelais ha fatto riferimento al «grande
duello da lunga data ingaggiato tra il tempo vissuto e il tempo-misu-
ra»19. E quale migliore occasione, dunque, per perpetuare quell’an-
tico duello, se non le poesie barocche sulle macchine cronometriche,
nelle quali il tempo misurato dagli orologi è costantemente messo a
confronto con quello vissuto dagli uomini?
Gli unici due versi della selva a Floro che, nel corso del prece-
dente commento, non ho avuto occasione di menzionare sono i
seguenti:

17
IV Regum, 20, 9-11.
18
Per la tradizione classica, in relazione a umbra, si vedano le note del commento di A.
Rey ai versi 9-11 del sonetto «Ven ya, miedo de fuertes y de sabios», in F. de Quevedo,
Poesia moral (Polimnia), 2ª ed. rivista e ampliata, London, Tamesis, 1999, pp. 214-16.
19
L. Febvre, Le problème de l’incroyance au XVIe siècle. La religion de Rabelais, Paris,
Editions Albin Michel, 1968; tr. it., Torino, Einaudi, 1978, p. 378.

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QUEVEDO E LE «POESÍAS RELOJERAS» 

No cuentes por sus lı́neas solamente


las horas, sino lógralas tu mente (vv. 17-18)

dove l’esortazione si fonda sull’opposizione contar / lograr. Ebbene,


dopo i numerosi fattori di assimilazione che abbiamo visto tra l’oro-
logio e Floro, ecco finalmente qualcosa che li separa radicalmente: il
rapporto che l’orologio intrattiene col tempo, non può che limitarsi
alla sua quantificazione o misurazione, mentre è prerogativa solo
umana quella di ‘lograr el tiempo’, ossia di trarre profitto dalle ore e,
ciò facendo, di infondere un senso vitale a ciò che altrimenti sarebbe
solo una categoria vuota, una serie di numeri senza alcun senso.
Il contrasto tra il mero conteggio delle ore e la loro vitale
utilizzazione ricorre più di una volta nell’altra selva morale, «El metal
animado», dove a proposito delle «disimuladas / advertencias sonoras
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repetidas» (vv. 18-19) emesse dall’orologio da suono, leggiamo: «po-


cas veces creı́das / muchas veces contadas» (vv. 20-21), e alcuni versi
dopo, con ripresa letterale dalla precedente selva: «la [hora] que
cuentas, lógrala bien» (vv. 27-28)20. Tuttavia, il componimento dove
tale opposizione arriva a svolgere un ruolo centrale, fino a costituire
il motivo che struttura l’intera opera, è la selva dedicata all’orologio
di arena, «¿Qué tienes que contar, reloj molesto», che non senza
ragione Asensio giudicò «la más bella de sus poesı́as relojeras»21.
Nella menzionata selva, la misurazione del tempo non è solo in
contrasto col tempo vissuto, ma essa risulta del tutto inidonea a dar
conto dell’esistenza umana. Il conflitto tra l’ordigno cronometrico e
l’uomo difficilmente potrebbe essere presentato come maggiormente
insanabile; e l’assurdo è che l’irriducibilità dell’antagonismo non si
verifica affatto sul terreno della qualità, bensı̀ sul terreno stesso della
quantità, ossia della misurazione. Reso inutile dallo stesso scopo per
cui è stato concepito e costruito, l’orologio sembra uscirne completa-
mente sconfitto; di una sconfitta che, peraltro, finisce per essere
addirittura doppia, dal momento che – come subito vedremo – esso

20
Su questo componimento, si veda il commento di Heiple, Mechanical Imagery, cit., pp.
171-74.
21
E. Asensio, Reloj de arena y amor en una poesı́a de Quevedo (fuentes italianas y derivaciones
españolas), in «Dicenda», VII (1988), (Arcadia. Estudios y textos dedicados a Francisco López
Estrada, a c. di A. Gómez Moreno, J. Huerta Calvo e V. Infantes), pp. 17-32; cito da p. 26.
Alcuni anni prima il maestro aveva già scritto: «El Reloj de arena o clepsidra es para mı́ la
mejor de las cuatro composiciones que dedicó Quevedo a los relojes, tema obsesivo, ligado
en su poesı́a no a la belleza o ingeniosidad del objeto, sino al paso del tiempo y a la
fragilidad del vivir» (Asensio, Un Quevedo incógnito, cit., p. 26).

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 PARTE QUARTA

risulta inefficace due volte, vuoi quando gli tocca di misurare una
durata incommensurabilmente piccola, vuoi quando si tratta di con-
teggiare un numero eccessivamente grande di unità. Nel primo caso,
difatti, la brevità della vita rende, se non impossibile, almeno super-
flua l’attività dell’orologio, come illustrano i versi iniziali della selva:

¿Qué tienes que contar, reloj molesto,


en un soplo de vida desdichada
que se pasa tan presto;
en un camino que es una jornada,
breve y estrecha, de este al otro polo,
siendo jornada que es un paso solo?22 (vv. 1-6)

versi nei quali forse s’insinua l’idea di un’identità, se diamo fede


all’interpretazione di Heiple, quando scrive che «The journey of life
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is “breve y estrecha” like the neck of the glass, it goes from one pole
to the other as the sands pass from one bulb to another, and it is a
single “paso”, just as the sands fall in one continous movement»23.
Nel secondo caso, invece, è l’enormità delle pene d’amore di cui
soffre il poeta a rendere irrealizzabile il compito dell’orologio, se
sono queste e non le ore che esso si sforza di calcolare:

Que, si son mis trabajos y mis penas,


no alcanzarás allá, si capaz vaso
fueses de las arenas
en donde el alto mar detiene el paso (vv. 7-10)

dove l’iperbolica ipotesi di una clessidra che, pur essendo piena della
sabbia dell’oceano, nondimeno sarebbe inferiore al suo compito, è al
servizio dell’amplificazione di una passione amorosa che assume, a
sua volta, i connotati dell’immensità marina24.

22
È noto che di questa selva si conservano due redazioni, quella pubblicata in Las tres
Musas (1670) e quella che Juan Antonio Calderón incluse in un manoscritto datato 1611 e
che ha il titolo di Segunda parte de las Flores de poetas ilustres de España. Per i testi delle due
redazioni, si veda l’edizione di Blecua, in Quevedo, Obra poética, ed. cit., vol. I, pp. 270-72.
Qui si fa riferimento esclusivamente alla redazione del testo a stampa.
23
Heiple, Mechanical Imagery, cit., p. 144.
24
In un lavoro inedito di Mercedes Blanco su «El reloj de arena», la cui lettura debbo alla
cortesia dell’autrice, a proposito dei versi appena commentati, si legge che «El concepto por
correspondencia […] consiste en la doble motivación del término las arenas, sı́mbolo del
número incontable de los trabajos y las penas, y descripción de un referente objetivo, el
reloj de arena». Più in generale, il senso della selva, secondo la menzionata studiosa,
consisterebbe in «una reflexión sobre el tiempo y la condición humana que podrı́amos
compendiar en un oxı́moron: la vida mortal se reduce a casi nada, y, sin embargo, es un

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QUEVEDO E LE «POESÍAS RELOJERAS» 

Se, dunque, nella selva a Floro, si trattava di contrapporre al


mero conteggio un più vitale profitto del tempo, qui è in ballo un
rifiuto ancora più radicale, poiché, nel respingere l’orologio e la sua
funzione giudicata – peraltro – inefficace, è alla dimensione tempo-
rale che ci si tenta di sottrarre:

Deja pasar las horas sin sentirlas,


que no quiero medirlas (vv. 11-12).

Eppure l’orologio d’arena, rifiutato nella sua peculiare funzione


di macchina misuratrice del tempo, riacquista tutto il suo valore
simbolico, in considerazione dei materiali di cui esso è fatto: sabbia e
vetro, ai quali il poeta identifica il destino mortale dell’uomo e
l’estrema fragilità della vita umana, negli splendidi quattro endecasil-
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labi con cui la selva si conclude.

Bien sé que soy aliento fugitivo;


ya sé, ya temo, ya también espero
que he de ser polvo, como tu, si muero,
y que soy vidrio, como tú, si vivo (vv. 33-36).

Sono versi che mi permettono di concludere, tornando in Italia,


perché – com’è noto – essi risuonano quasi identici in italiano, nella
terzina di un sonetto che Ciro di Pers dedicò all’Orologio da polvere:

Io so ben che ’l mio spirto è fuggitivo,


che sarò come tu, polve, s’io moro
e che son come tu, vetro, s’io vivo25.

Versi, a proposito dei quali è stato scritto che «la tecnica gno-
mico-epigrammatica della chiusura del sonetto procede verso la con-
densazione del pensiero, nel giro corto e laconico della stessa terzi-
na»26. Ma, al di là delle diverse soluzioni tecniche dettate da generi

abismo de miserias, vacila entre lo infinitamente pequeño de su duración y lo infinitamente


grande de las penas que causa».
25
Cito dall’edizione di Bonito, Le parole e le ore, ed. cit., p. 81. Si veda anche C. di Pers,
Poesie, a c. di M. Rak, Torino, Einaudi, 1978.
26
Bonito, L’occhio del tempo, cit., p. 138. Sulle relazioni tra Quevedo e Ciro di Pers, si
veda anche M. Pinna, Influenze della lirica di Quevedo nella tematica di Ciro di Pers, in Id.,
Studi di letteratura spagnola. Lope de Vega, Quevedo, Rosalı́a de Castro, A. Machado, Guillén,
Ravenna, Edizioni A. Longo, 1971, pp. 73-87, e lo stesso V. Bonito, Intertestualità barocche:
Quevedo e Ciro di Pers, in «Rivista di letterature moderne e comparate», III (1992), pp.
231-44.

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 PARTE QUARTA

metrici cosı̀ diversi come la selva e il sonetto, una questione nei cui
meandri non è ora il caso di addentrarsi, interessa sottolineare il fatto
che le «poesı́as relojeras» di Quevedo non solo ebbero ampia eco
nella poesia spagnola, come ha ben documentato Asensio nella
seconda parte dello studio da me citato all’inizio di queste note, ma
contribuirono in maniera significativa ad alimentare le trame simboli-
che di cui sono intessuti i sonetti di Ciro di Pers; cosicché il debito
contratto dalla cultura letteraria spagnola nei confronti di quella
italiana, attraverso Quevedo, fu una volta ancora restituito con gli
interessi maturati nella poesia dello stesso Quevedo.
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INDICE DEI NOMI

Abarca de Bolea, Pedro Pablo, conte di Álvarez de Toledo, Fernando, 9


Aranda, 31 Amador de los Rı́os, J., 115n.
Acuña, Hernando de, 17, 203-205 e n., Amalteo, Girolamo, 279
206 e n., 207, 208 e n., 212, 213 e n., Amorós, C., 176
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214 Anacreonte, 159


Agamben, G., 263n. Angeriano, Girolamo, 193
Agostini, Niccolò degli, 20 Anghiera, Pietro Martire d’, 13
Alamanni, Luigi, 163 e n., 164-166, Angiolillo, G., 183n.
194n. Anguillara, Orso dell’, 262
Alberti, Filippo, 279 Aquilecchia, G., 185n.
Alberti, Leon Battista, 116 e n., 157, Aramón i Serra, R., 96n.
168, 182n. Arce, J., 11n., 33, 36n., 38, 39, 41, 42,
Albonico, S., 204n., 227n. 134n., 256n.
Alcalá Galiano, José, 35 Arce de Vázquez, M., 195n.
Alcina, J. F., 111 e n., 112n., 130n., Arellano, I., 112n., 249n., 253n.,
212n. 254n., 261n., 269n., 273n., 280n.,
Alcocer, Hernando de, 20 282n.
Alemán, Mateo, 28 Aretino, Pietro, 21
Alfieri, Vittorio, 32, 33, 42 Argensola, Lupercio Leonardo de, 251
Alfonso II d’Aragona, duca di Calabria, e n.
182 e n., 183 Ariani, M., 124n., 125n., 134n., 265n.
Alfonso V il Magnanimo, re d’Aragona, Aribau, Buenaventura Carlos, 33, 35
80-84 e n., 87 e n., 91, 92, 94, 99, Ariosto, Ludovico, 4, 16, 20, 31, 233n.
103, 104, 109n., 110n. Aris, D., 69n.
Alighieri, Dante, 4, 7, 10, 11, 34, 51, Aristotele, 30
75, 161 e n., 164, 171, 197n., 256 Armisén, A., 63n.
Alighieri, Pietro, 7 Arnaldi, G., 53n.
Allison Peers, E., 42 Arqués, R., 42
Almogávar, Gerónima Palova de, 18 Arriaza, Juan Bautista de, 30
Aloisio, Giovanni, 48, 55, 80, 101 Arróniz, O., 40, 41
Alonso, A., 62n. Arze Sólorzano, 27
Alonso, Agustı́n, 20 Arzocchi, Francesco, 115, 116 e n.-119
Alonso, D., 25 e n., 26, 41, 42, 177 e e n., 182n., 183 e n., 184 e n., 189
n., 178, 259 e n. Asenjo, A., 41
Alonso Cortés, N., 206n., 213n. Asensio, E., 41, 279 e n., 280n., 287 e
Altamura, A., 82n. n., 290
Alvar, C., 142n., 220n. Asor Rosa, A., 51n., 83n., 94n., 149n.,
Alvar, E., 96n. 158n., 163n., 164n., 224n., 225n.,
Alvar, M., 85n., 95n., 100 e n. 249n.

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 INDICE DEI NOMI

Aubrun, Ch. V., 104n. Boccaccio, Giovanni, 8, 11, 12, 29, 39,
Avalos, Alfonso d’, marchese del Vasto, 40, 57, 86, 112n., 114
203-205 e n., 206 e n., 207-210 e Bognolo, A., 249n.
n., 211 e n., 212-215 Boiardo, Matteo Maria, 20, 54, 55 e n.,
Azáceta, J. M., 127 e n., 131, 132n. 56, 82, 196 e n.
Azar, I., 195n., 201n. Bologna, C., 51n.
Azaustre Galiana, A., 271n. Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni
Fidanza), 133
Baeza, Ricardo, 38 Bonelli, Michele, 224n.
Balart, Federico, 36 Boninsegni, Iacopo Fiorino de’, 116,
Balbuena, Bernardo de, 20, 27 119 e n., 182 e n., 183 e n.
Baldacci, L., 58, 59n., 229n. Bonito, V., 281 e n., 289n., 290n.
Balduino, A., 53n., 262n. Bonora, E., 124n.
Bandello, Matteo, 28, 29 Borgia, Giovanni Antonio, 227
Barahona de Soto, Luı́s, 20 Borsetto, L., 59n.
Bàrberi Squarotti, G., 83n., 110n., Boscaini, G., 40
157n. Boscán Almogáver, Juan de, 10, 14-19,
Barbiellini Amidei, B., 56n. 25, 62, 63, 66, 128, 139n., 141, 142,
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Barnes, Barnaby, 72 147, 159, 176


Bartrina, Joaquim Maria, 36 Botta, Carlo, 34
Basile, B., 61n. Botta, P., 113n.
Basile, T., 55n. Bottarga, Stefanello, 22
Bataillon, M., 208n. Bourbon, Nicolas, 67
Battaglia, S., 240n. Bovio, Alessandro, 169 e n.
Battera, F., 116n., 118n., 119n., 183n. Bozzuto, Cola Maria, 82
Bayle, Elisabeth, 72 Bragantini, R., 227n.
Beccaria, Cesare, 31, 42 Brambilla Ageno, F., 118n., 182n.,
Beccuti, Francesco, detto il Coppetta, 184n.
229 Brioschi, F., 160n.
Bellini, Giuseppe, 34 Brocar, Arnao Guillermo de, 127 e n.
Beltrami, P., 164 e n., 169n. Brocense, vd. Sánchez de las Brozas
Bembo, Pietro, 14, 16, 18, 19, 52, 54, Brodey, V., 112n., 115n.
56-60, 69, 72, 149, 160 e n.-162 e n., Bronzini, G. B., 82n., 105 e n., 106n.,
165, 168 e n., 247 e n., 249 109 e n.
Benivieni, Girolamo, 113n., 116, 183 e Broschi, Carlo, detto il Farinello, 30
n., 184 Brugnolo, F., 76n.
Berger, Ph., 90n. Bruguera, J., 90n.
Bernardo di Chiaravalle, 133 Bruni, F., 124n.
Berni, Francesco, 70 Bruni, Leonardo, 12
Bertolini, L., 158n. Bruno, Giordano, 73 e n.
Betussi, Giuseppe, 24 Brusantino, Vincenzo, 20
Biancardi, G., 118n. Buffardi, G., 188n.
Bianchi, E., 124n. Busdrago, Vincenzo, 224n.
Bianchi, P., 90n.
Black, R. G., 79n., 93 e n., 96n. Cadalso, José de, 31, 32
Blanco, M., 259, 260n., 262n., 271 e Cairasco, Bartolomé, 26
n., 273, 274n., 276 e n., 277n., 289n. Calabrò, G., 42
Blanco Sánchez, A., 235n. Calcaterra, C., 124n., 136
Blecua, A., 22 e n., 41, 112n., 113n., Calderón, Juan Antonio, 288n.
138 e n., 211n., 220n., 222n., 244n. Caliergi, editore, 162
Blecua, J. M., 65n., 219n., 239n., Calmeta, vd. Colli
240n., 249n., 251n., 255n., 261 e n., Camacho Guizado, E., 208n.
280n., 288n. Camerini, P., 223n.

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INDICE DEI NOMI 

Camões, Luı́s Vaz de, 66 e n., 67 Cerda, Juan de la, duca di Medinaceli,
Canal Gómez, M., 96n. 128
Canavaggio, J., 113n. Cerrón Puga, M. L., 223n., 224n.,
Candelas Colodrón, M. A., 279n., 280 235n.-237n., 240n.
e n., 281n. Cervantes, Miguel de, 4, 27-29, 248 e
Cane, A., 72n. n., 249
Canher, M., 90n., 92n. Cesano, Bartolomeo, 224n.
Cantelmo, Giovanni, conte di Popoli, Cetina, Gutierre de, 17, 203-205 e n.,
82, 96 e n., 97 e n., 100, 109 206n., 208 e n., 209 e n., 266, 267n.
Cantù, Cesare, 34 Chevalier, M., 41
Cañedo, J., 112n. Chiabrera, Gabriello, 31, 157, 158 e n.,
Capece, Scipione, 147 162, 164
Caracciolo, Giovan Francesco, 48, 55, Chiodo, D., 194n., 242n.
89, 101 Chirilli, E., 125n.
Caracciolo, Giulio Cesare, 123 Ciceri, M., 112n., 114, 115n.
Caravaggi, G., 7n., 16n., 21n., 26n., Cicerone, Marco Tullio, 230
39-41, 101n., 204n., 219n. Cienfuegos, Nicasio Álvarez de, 30
Cardona, Maria di, marchesa di Padula, Ciliberto, M., 73n.
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143, 144, 147, 150, 194 Ciminelli, Serafino de’, detto l’Aquila-
Carducci, Giosuè, 36, 37, 43, 157n., no, 25, 48, 54, 55, 67, 70, 71
162n., 169n. Claudiano, Claudio, 230
Cariteo, vd. Gareth Claverı́a, C., 142n., 222n.
Carlo III, re di Spagna, Napoli e Sicilia, Coester, A., 42
31 Coletta, 101
Carlo V, imperatore, 5, 18, 63, 144, Coll i Julià, N., 100n.
150, 163, 164, 208n. Colletta, Pietro, 34
Carlo VIII, re di Francia, 149 Colli, Vincenzo, detto il Calmeta, 167 e
Caro, Annibal, 219, 226, 227 e n., 228, n., 168
229 e n., 230, 231, 233, 234, 238, Coloma, Juan de, 222
239n., 244 Colombo, Ferdinando, 127n.
Carrai, S., 47n., 53n., 56n., 81n., Colonna, Vittoria, 66, 204
115n.-117n., 119n., 181n., 182n., Coluccia, R., 81 e n., 82 e n., 90n.
184n., 196n. Comas, A., 63n.
Carrara, E., 117n., 182n., 184n., Compagna Perrone Capano, A. M.,
186n., 192n., 194n. 93n.
Carriera, A., 273n. Constable, Henry, 72
Cartagena, Alonso de, 11, 12 Conti, Giambattista, 31
Carvajal, 79, 80, 83, 84 e n., 85 e n., 86 Conti, Giusto de’, 53, 54 e n., 55, 116
e n., 87, 94, 95, 99-102 e n., 103 e e n., 118, 182n.
n., 105 e n., 106 e n., 107, 108 e n., Conti, Vincenzo, 224n.
109 Contini, G., 47 e n., 106n., 130 e n.,
Cascales, Francisco, 24, 26, 41 136
Castelvetro, Lodovico, 24 Cooper, H., 112n., 184n.
Castiglione, Baltassar, 5, 18 e n., 19, Coppetta, vd. Beccuti
41, 196 e n. Cordón Mesa, A., 249n.
Castillo, Hernando del, 14, 62, 91, Correa Calderón, E., 211n., 268n.
142, 145, 221 Corsi, Pietro, 196
Cátedra, P. M., 90n., 95n. Cortada, Joan, 33
Catullo, Gaio Valerio, 70, 161 Corti, M., 47 e n., 51, 56 e n., 82 e n.,
Catulo, Quinto Lutazio, 230 83n., 89n., 94 e n., 98n., 101n. , 109
Cefala, Costantino, 159 e n., 117n., 182n., 183n., 184 e n.,
Cerboni Baiardi, G., 170n. 185n., 186n., 189, 191n., 192n.

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 INDICE DEI NOMI

Cortijo Ocaña, A., 244n. Dolce, Lodovico, 224n., 225


Costa i Llobera, Miguel, 36 Domenichi, Ludovico, 17, 223, 224
Costana, 10 Donati, L., 56
Costanzo, Angelo di, 169 e n. Doni, Anton Francesco, 21
Coster, A., 240n., 241n. Donizetti, Gaetano, 34
Cremante, C., 227n. Donne, John, 74
Criscuolo, U., 194n. Drayton, Michael, 72
Cristea, S. N., 185n. Du Bellay, Joaquin, 67, 68, 69 e n.
Croce, Benedetto, 25, 94 e n., 98n., Dubrow, H., 73n.
227n. Dueñas, Juan de, 103
Crosby, J. O., 254n., 261n., 280n., Dunn, P. N., 178 e n.
282n. Dutton, B., 84n., 92 e n., 93, 96n., 97
Cruz, A. J., 139n., 142n., 180n., 220n. e n., 104n.
Cruz, Ramón de la, 30, 32
Cueva, Juan de la, 27 Egido, A., 113n.
Cuevas, C., 239n., 241n. Eisenbichler, K., 139n., 142n., 220n.
Elia, P., 112n.
D’Agostino, G., 188n. Elwert, W. Th., 169n.
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D’Annunzio, Gabriele, 36-38, 43 Emanuele Filiberto, duca di Savoia,


D’Azeglio, Massimo, 34 174
D’Ors, Eugeni, 38 Encina, Juan del, 14, 23, 40, 103, 112 e
Daniel, Samuel, 72 n., 113n.
Dante, vd. Alighieri Enciso Castrillón, Félix, 35
Darbord, B., 113n., 233n. Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra e
Darı́o, Rubén, 37 Irlanda, 70
Dasenbrock, R.W., 71 e n., 73n. Enrı́quez de Cabrera, Fadrique, almi-
Dati, Leonardo, 157, 168 rante di Castiglia, 99, 127
De Blasi, N., 83n., 86, 87n., 90n., 94 e Ercilla, Alonso de, 21
n., 109 e n., 149n. Ersparmer, F., 160n., 185n., 223n.
De Caprio, V., 163n. Escalante, Amós di, 35
De Jennaro, Pietro Jacopo, 48, 55, 80, Escobar, Baltasar de, 26
82n., 89, 94, 101, 102, 183, 185n., Eslava, Antonio, 28
193 Espinosa, Nicolás, 20
De Robertis, D., 117n., 184n., 190n. Estiènne, Henri, 159
De Sena, J., 235n.
Decembrio, Pier Candido, 6, 12 Farinelli, A., 38, 92 e n.
Dedeyan, Ch., 67n. Farnese, Elisabetta, 29, 30
Della Casa, Giovanni, 59, 61, 167 Farnese, Pier Luigi, 227
Desportes, Philippe, 70, 72 Febrer, Andreu, 63
Devereux, Penelope, 72 Febvre, L., 286 e n.
Deyermond, A., 39, 40, 79n., 89 e n. Federico III d’ Aragona, principe d’Al-
Di Camillo, O., 40 tamura poi re, 92
Di Girolamo, C., 160n. Federzoni, G., 168n.
Di Stefano, G., 86 e n. Fedi, R., 56, 57n., 60n., 61 e n., 223n.,
Dias, A. F., 97n. 225n., 226 e n.
Dı́az Larios, L. F., 206n. Felici, Battista, 117
Dı́az Plaja, G., 41 Fenarolo, Ludovico, 23
Dı́az Rengifo, Juan, 23 Fenzi, E., 234n.
Dionisotti, C., 45 e n., 56n., 58 e n., Fera, V., 119n., 183n.
117 e n., 160 e n., 161n., 165n., 167 Fernández de Moratı́n, Leandro, 31, 32
e n., 171, 182n., 186n., 225 e n., Fernández de Moratı́n, Nicolás, 31
229n., 247n. Fernández Morera, D. 195n., 196 e n.

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INDICE DEI NOMI 

Fernández Mosquera, S., 253n., 255n., Gálvez de Montalvo, Luı́s, 21


256n., 261n., 271n. Garcı́a Berrio, A., 24n., 25, 41
Fernández Murga, F., 40, 42 Garcı́a Calcedo, P., 85n.
Fernández Palazuelo, Antonio, 32 Garcı́a de Enterrı́a, M. C., 249n.
Fernández Shaw, Carlos, 36 Garcı́a de la Concha, V., 40, 41, 154n.,
Fernández, Alonso, 9 176n., 178n., 220n.
Fernando il Cattolico, re di Castiglia e Garcı́a Galiano, A., 195n.
Aragona, 92 Garcı́a López, J., 248n.
Ferrante I d’Aragona, re di Sicilia e Garcı́a Lorca, Federico, 38
Napoli, 80-83, 90, 98, 99, 103, 182, Garcilaso, vd. Vega
186n. Gareth, Benedetto, detto il Cariteo, 48,
Ferrari, Giolito de, 60, 223 e n., 224 e 56, 81, 101
n., 227, 244n. Gargano, A., 86n., 124n., 142n.,
Ferraù, G., 119n., 183n. 194n., 220n., 267n.
Ferreira, Antonio de, 66, 67 Garrido de Villena, Francisco, 20
Ferroni, G. 60n., 165n., 166n. Gaudı́, Antoni, 34
Figueroa, Cristóbal de, 27 Gaurico, Pomponio, 193
Filangieri, Gaetano, 31 Genovesi, Antonio, 31
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Filicaja, Vincenzo, 31 Gentil, Bertomeu, 14


Filippo II, re di Spagna, 219 Gentile, A., 249n.
Flamini, F., 53n., 97 e n., 194n. Geremia, 103
Flores, Juan de, 12 Gerli, E. M., 79 e n., 85n.
Folengo, Teofilo, 22 Geymonat, M., 169 e n.
Foresta, G., 36, 42 Giaccarelli, Anselmo, 224n.
Fornasiero, S., 116 e n., 117n., 119n., Gil y Carrasco, Enrique, 35
182n.-184n. Gil Polo, Gaspar, 21
Forster, L. W., 49 e n. Giobbe, 285
Fracastoro, Girolamo, 24, 156n.
Giovanni del Virgilio, 197 e n.
Francesco I di Valois, re di Francia,
Giovanni II, re di Castiglia, 7, 104,
163, 166, 208
109n.
Franco, Niccolò, 70
Giovenco, Gaio Vezio Aquilino, 230
Frenk Alatorre, M., 87n., 109n.
Froissart, Jean 114 Giovio, Paolo, 210n.
Froldi, R., 41 Giraldi Cinthio, Gianbattista, 28, 29
Frugoni, Carlo Innocenzo, 31 Giudici, E., 68n.
Fucilla, J. G., 25n., 38, 40, 42, 65n., Giustinian, Leonardo, 82
233 e n., 239n., 243n., 262 e n., 266 Goldoni, Carlo, 32, 33, 42
e n., 267 Gómez de Ciudad Real o de Guada-
Fuster, J., 90 e n. lajara, Alvar, 10, 126-128, 130-132,
134, 142n., 220n.
Gaçull, Mosén, 103 Gómez, J., 113n.
Galeota, Francesco, 48, 55, 80, 85, Gómez Moreno, A., 6n., 39, 86n.,
97-99, 102-106 e n., 107, 108, 183n. 287n.
Galeota, Mario, 153, 154, 178, 179 Góngora, Luı́s de, 25, 26, 41, 74, 255n.
Galiani, Ferdinando, 31 Gonzaga, Cesare, 196n.
Gallagher, P., 105 e n. Gonzaga, Federico, duca di Mantova,
Gallardo, B. J., 127n. 176
Gallego, J., 281n. Gonzáles Blanco, Andrés, 38
Gallego, Juan Nicasio, 33, 35 González Martı́n, V., 36, 42
Gallego Morell, A., 123n., 195n., 212n. González Ollé, F., 41
Galli, Fiorenzo, 33, 34 Gorni, G., 61n., 164n., 165n., 167 e n.,
Gallo, Filenio (Filippo Galli), 183 e n., 224 e n., 226, 227n., 244 e n.
264, 265n. Gozzano, Guido, 76

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 INDICE DEI NOMI

Gracián, Baltasar, 24, 25, 41, 211 e n., Isaia, 286


268 e n., 269 e n., 270-272 e n.
Grant, W. L., 112n, 196n. Jacomuzzi, S., 229n.
Grasso, Lucio, 185 Jammes, R., 255n.
Gravina, Gian Vincenzo, 30 Jauralde Pou, P., 280n.
Grayson, C., 116n., 167n. Jáuregui, Juan de, 28, 42
Grignani, M. A., 183n., 265n. Jı́ménez, Juan Ramón, 38
Grilli, G., 249n. Jones, E., 71n.
Grossi, Tommaso, 33, 34 Jones, R.O., 195n.
Groto, Luigi, 266 e n., 267 Jones, S.R., 59n.
Gualterio, Pierpaolo, 169 e n. Joukovsky, F., 67n., 69n.
Guazzelli, F., 101n. Jovellanos, Melchor de, 30-32
Guerrazzi, Francesco Domenico, 34
Guevara, Antonio de, 21 Kallendorf, C., 280n.
Guglielminetti, M., 75 e n. Kallendorf, H., 280n.
Guido Guinizelli, 165 Keniston, H., 210n.
Guijarro Ceballos, J., 113n. Kennedy, W. J., 198n.
Guillén, C., 3 e n., 17n., 38, 40, 148 e Kerkhof, M. P. A. M., 6n., 39
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n., 158 e n., 159 Komanecky, P. M., 195n., 240n.


Guillet, Pernette de, 67 Kossoff, D., 240n.
Guzmán, Nuño de, 7, 12
Labandeira, A., 210n.
Haro, conte di, 95 Labé, Louise, 67 e 68n.
Harris, B., 73n. Lapesa, R., 9 e n., 10n., 39, 42, 62n.,
Hauvette, V. H., 164n. 123 e n., 133n., 139n., 145n., 146 e
Heiple, D. L., 143n., 194n., 210n.- n., 158 e n., 180n., 181 e n., 195 e
212n., 280 e n., 283n., 287n., 288 e n., 206n., 219n.
n. Lapini, Bernardo, detto Illicino, 128
Hempfer, K. W., 49 e n., 50n. Larcaro, Megollo, 166
Henrı́quez-Cabrera, Anna, contessa di Larsen, A. K., 73n.
Modica, 99 Laspéras, J. M., 42
Herrera, Fernando de, 19, 65 e n., 67, Laurenti, L., 39
195n., 210n., 212n., 219, 226, 235, Laurio, Vincenzo, 151, 175 e n.
236n., 238, 239n., 240, 241 e n., 243 Lawrance, J. N. H., 41, 112n., 113n.
Howard, Henry, conte di Surrey, 71 e Lázaro Carreter, F., 154 e n., 178 e n.,
n. 179
Hozes, Fernando de, 17, 123, 126-130, Le Gentil, P., 103, 104n.
136-139, 142, 146, 220, 221 Lecoy, F., 104n.
Huerta Calvo, J., 287n. Lemos, Conte di, 251
Hughes, G., 237n. Leone X, papa
Hurtado de Mendoza, Diego, 17, 222, Leone Ebreo (Yehudah Abrabanel ben
244n. Išhaq), 18
Leopardi, Giacomo, 33, 35, 36, 42, 75
Iannucci, A. A., 139n., 142n., 220n. e n., 76, 244 e n.
Illicino, vd. Lapini Lewis, A. R., 79n.
Imola, Benvenuto da, 7 Librandi, R., 90n.
Imperial, Francisco, 6, 7, 39 Liburnio, Niccolò, 186n.
Infantes, V., 287n. Lida de Malkiel, M. R., 11 e n., 39,
Innocenzo VIII, papa, 186n. 103n., 230 e n.
Iriarte, Tomás de, 31 Llausás, José, 34, 35
Isabella d’Este, 14, 167 e n. Llull, Romeu, 90, 99, 100 e n., 101 e n.
Isabella la Cattolica, regina di Castiglia, Lomas Cantoral, Jerónimo, 219, 233-
14 236n., 238, 240

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INDICE DEI NOMI 

López Bueno, B., 150n., 206n., 208n., Massot i Muntaner, J., 90n.
209n., 239n., 267n., 280n. Mauro, A., 56n., 187n.
López de Aguirre, 26 Mazzacurati, G., 57, 58n.
López de Ayala, Pero, 11 Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico,
López de Mendoza, Íñigo, marchese di 54, 56, 113n., 115
Santillana, 6 e n., 7-9, 12, 15, 39, 86 Medina, Francisco de, 19
López Estrada, F., 220n. Medrano, Francisco de, 25
López Pinciano, Alonso, 23, 24, 27 Mele, E., 200n., 206n., 210n.
López Soler, Ramón 33 Meléndez Valdés, Juan, 30
Lucena, Juan de, 7, 12 Mena, Juan de, 8, 39, 91, 95n.
Lumdsen, A., 195n. Meneghini, M., 55n.
Luzán, Ignacio de, 30, 42 Menéndez Pelayo, M., 18, 22 e n., 35,
112, 155 e n., 179 e n.
Macdonald, I., 195n. Menéndez Pidal, R., 86n., 87n., 110n.
Machado, Antonio, 38 Mengaldo, P. V., 55n., 56n., 161n.,
Machado, Manuel, 37 197n.
Macrı̀, O., 34 e n., 35, 42, 240n. Meregalli, F., 37n., 38, 43
Maddison, C., 157n., 170n.
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Mesa, Cristóbal de, 26, 27


Madrid, Francisco de, 9, 39, 112, Metastasio, Pietro (Pietro Trapassi),
113n. 29, 30, 32, 33, 42
Maestre Maestre, J. M., 111n. Milà y Fontanals, M., 33-35
Maio, Giuniano, 185 Milan, G., 165n.
Máiquez, Isidoro, 33
Millis, Guillermo de, 128 e n.
Malatesta, Ginevra, 151, 170, 174
Minturno, vd. Sebastiano
Malato, E., 83n., 227n.
Mion, B., 40
Mandalari, M., 82n., 96n.
Molas, J., 63n.
Manero Sorolla, M. del P., 40, 62n.,
Molho, M., 252n.
219n., 225 e n., 228 e n., 243n.,
Molza, Francesco Maria, 229, 244n.
256n.
Manetti, Giannozzo, 12 Monforte, Cola di, 89
Manuel, João, 97 e n. Monsignani, Fabbrizio Antonio conte
Manzoni, Alessandro, 34, 35, 42 di, 30
Manuzio, Aldo, 57, 229n. Monteggia, Luigi, 33, 34
Maramauro, Guglielmo, 82 Montemagno, Buonaccorso da, il Gio-
March, Ausias, 16, 63 vane 264 e n.
Marchand, J. J., 55n. Montemayor, Jorge de, 17, 21, 27, 28,
Margherita di Navarra (M. D’Angou- 127n.
lême), 68, 166 Montero, J., 239n., 241n.
Marineo Siculo, Lucio, 13 Moore, R., 273n.
Marino, Giovan Battista, 5, 25, 26, 42, Morales, Ambrosio de, 19
74, 75 Moratı́n, vd. Fernández de Moratı́n
Marino, N. F., 85n. Morel Fatio, A., 142n., 222n.
Mariutti de Sánchez Rivero, A., 42 Morelli, G., 204 e n., 206n., 212n.
Marnoto, R., 66n. Morreale, M., 18, 19n., 41, 62n., 85 e
Marot, Clément, 67 e n., 68 n., 87n., 113n., 138
Márquez Villanueva, F., 104n. Morros, B., 64n., 143, 152, 194n.,
Martelli, M., 158 e n., 165, 166 e n., 195n., 200n., 210n.-213n., 237n.,
172, 173 e n. 239n., 241 e n., 243n.
Martellotti, G., 124n. Müller-Bochat, E., 42
Martinengo, A., 254n., 257 e n., 266n. Muratori, Ludovico Antonio, 30, 31
Martirano, Bernardino, 203 e n. Muret, Marc-Antoine, 69
Masi, G., 229n. Mutini, C., 227n.

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 INDICE DEI NOMI

Nájera, Esteban de, 142n., 222n. Pepe Sarno, I., 65n., 241n.-243n.
Napoli Signorelli, Pietro, 31 Pèrcopo, E., 56n., 94 e n., 183n.
Naselli, Alberto, detto Ganassa, 22 Pérez-Abadı́n Barro, S., 150n., 180n.,
Navagero, Andrea, 63, 152, 154 e n., 236n.-238n.
155, 156, 178 e n. Pérez de Ayala, Ramón, 37, 38
Navarrete, I., 210n., 244n., 251n. Pérez de Oliva, Fernán, 23
Navarro Tomás, T., 210n. Pérez Gómez, A., 232n.
Naylor, E. W., 40 Pérez Pascual, I., 113n.
Nebrija, Antonio de, 4, 13, 130n. Pérez Priego, M. A., 112n.
Nepaulsingh, C. J., 39 Perier Juan, 129, 137n.
Neri, F., 124n., 158n. Periñán, B., 101n., 104n.
Nevares, Marta de, 29 Perito, E., 99n.
Nigris, C. de, 95n. Perleoni, Giuliano, detto Rustico
Romano, 48, 102, 182n., 183, 185n.
Obregón, Antonio de, 126-128, 130, Pers, Ciro di, 289 e n., 290 e n.
134, 139, 220 Petrarca, Francesco, 8-11, 14, 16, 17,
Oleza Simó, J., 41 25, 31, 32, 39, 45-48, 50, 51 e n.,
52-57, 60, 62, 65-76, 85, 86, 101,
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Oliva, C., 41
Oliva, conte di, 91 105, 106 e n., 108, 112n., 114, 118,
Olivares, J., 253n., 254n., 257n., 276n. 123, 124 e n., 125, 128-130,
Oliver, J. M., 261 e n., 270 e n. 132-134, 138,146 e n., 160, 161,
Orazio Flacco, Quinto, 25, 64, 151, 164, 170, 171, 185-187, 190, 211n.,
212n., 220n., 222, 226, 231n., 234 e
154, 155, 161, 167, 168, 174, 175,
n., 238n., 244 e n., 256, 257 e n.,
178, 179
262, 263 e n., 264, 267 e n.
Orsi, Gian Giuseppe Felice, 30
Petrucci, A., 223n.
Ortega, M. L., 274n.
Petrucci, Giovanni Antonio, conte di
Ortega y Gasset, José, 38
Policastro, 99
Philieul, Vasquin, 68
Pacella, G., 244n. Piccioni, L., 76n.
Pacheco, Francisco, 65, 238, 240 Piccus, J., 40
Palau y Dulcet, A., 127n. Pico della Mirandola, Giovanni, 57
Palencia, Alonso de, 15, 40 Picone, M., 7n., 39
Pallucchini, R., 249n. Pietrasanta, Plinio, 224n.
Palmario, Francesco, 118 Pindaro, 151, 162, 175
Panofsky, E., 212n. Pinillos, M. C., 282n.
Pantani, I., 54n., 116n., 118n. Pinna, M., 290n.
Parducci, A., 42 Pinto, R., 237n.
Paredes, J., 85n., 142n., 220n. Pintor, F., 152n., 171n., 173 e n., 175
Parenti, G., 82n., 96 e n., 97n., 117n., e n., 180 e n.
183n. Poggi, G., 211n.
Parini, Giuseppe, 32, 33, 42 Pontano, Giovanni, 149, 185
Parker, A. A., 252n. Ponte, G., 117n.
Parrilla, C., 113n. Porqueras Mayo, A., 41
Pascual Barea, J., 111n. Pozuelo Yvancos, J. M., 252n., 255n.,
Pascual, J. A., 7n., 39, 40 274n., 276 e n.
Pasquini, E., 158n. Pozza, N., 165n.
Pastore Stocchi, M., 52n. Pozzi, G., 249 e n., 250 e n., 253,
Pedro, connestabile di Portogallo, 6, 39 254n., 256
Peletier du Mans, Jacques, 68 Praz, M., 3, 72 e n.
Pellegrini, Matteo, 24, 25 Price, R. M., 280n.
Pellico, Silvio, 34 Prieto, A., 20, 41, 256n.

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INDICE DEI NOMI 

Prince, F. T., 73n. Ridolfi, Nicolò, cardinale, 163, 165,


Profeti, M. G., 252n., 255n., 261 e n., 166
267 e n. Rigolot, François, 68 e n.
Properzio, Sesto, 70, 161 Rinaldi, R., 110n., 157n.
Prudenzio, Aurelio Clemente, 230 Ringler, W. A., 72n.
Pulci, Bernardo, 113n., 116, 119 e n., Riquer, M. de, 15n., 41, 63n., 92n.,
183 e n. 96n.
Pulci, Luca, 119 e n., 184n. Rivers, E. L., 16n., 40, 123n., 150n.,
Pulci, Luigi, 119 e n. 176 e n., 178n., 180n., 195n., 206n.,
Pulgar, Fernando del, 114, 115n. 210n.
Robortello, Francesco, 23, 24
Quadrado, José, 34, 35 Roche, T. P., 73n.
Quevedo, Francisco de, 74, 240n., 247, Rodrigues Lapa, M., 66n.
249 e n., 250, 253 e n., 254 e n., 257, Rodrı́guez Cepeda, E., 92n.
259-261 e n., 266 e n., 267-269 e n., Rodrı́guez del Padrón, Juan, 97, 103,
271, 273 e n., 274n., 275 e n., 276n., 104
279, 280n., 281, 282n., 285, 286 e Rodrı́guez-Moñino, A., 91n.
n., 287n., 290 e n. Rodrı́guez Puértolas, J., 115n.
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Quintana, Manuel José, 32, 33, 42 Rodrı́guez Rubı́, Tomás, 35


Quondam, A., 59 e n., 60n., 163n., Rogers, P. P., 42
165n., 166n., 194n., 223n., 225n., Rojas, Fernando de, 15
228n., 249n. Roncero López, V., 239n., 241n.
Ronsard, Pierre de, 67, 69 e n., 70, 72,
Rabelais, François, 286 158 e n.
Raffaelli, P., 163n., 194n. Rossi, A., 55n.
Raimondi, E., 60n. Rossi, G. C., 132 e n., 142n., 220n.
Rainerio, Antonfrancesco, 219, 226, Rosso Gallo, M., 123n.
227 e n., 228, 229 e n., 231-233, Rota, Bernardino, 194 en.
236n., 238, 239, 244 e n. Rotterdam, Erasmo da, 9
Rak, M., 289n. Rousset, J., 278n.
Ralphs, S., 185n. Rovere, Girolamo della, 151, 171 e n.,
Ramajo Caño, A., 195n., 200n. 173, 175
Rambaldo, A. M., 112n. Rovira, J. C., 79n., 92, 103n., 104n.
Ramı́rez Pagán, Diego, 219, 232 e n., Rozas, J. M., 25, 26 e n., 42
233 e n., 240 Rubio González, L., 233n.
Rebholz, R. A., 71n. Rueda, Lope de, 23, 41
Recio, R., 142n., 220n. Ruscelli, Girolamo, 224n., 225, 228
Redondo, A., 16n. Russell Brown, J., 73n.
Reichenberger, K., 180n. Russell, P. E., 39, 79n., 92 e n.
Renieri da Colle, Antonio, 169 e n. Ruta, M. C., 249n.
Resende, Garcı́a de, 66, 91, 92
Rey, A., 249n., 282n., 286n. Sá de Miranda, Francisco de, 66 e n.
Reyes, J. M., 65n. Saba, Umberto, 76 e n.
Reyes Cano, R., 41, 134n. Sabatini, F., 81 e n.
Ribera, Suero de, 103 Saccone, E., 183n., 185n., 187 e n.,
Riccucci, M., 186n., 188n. 188 e n., 191n., 192n., 198n., 199n.,
Rico, F., 5, 6 e n., 9n., 10 e n., 12n., 13 200n.
e n., 21n., 39-41, 62n., 87n., 91 e n., Saint Gelais, Mellin de, 68
92n., 99n., 105n., 108 e n., 129 e n., Salcedo Coronel, José Garcı́a, 26
132 e n., 133n., 137 e n., 139n., Salvador Miguel, N., 84n., 96n., 99n.,
156n., 180n., 219n., 221 e n., 259 e 103n.
n., 260 e n. Samonà, C., 11n., 40

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 INDICE DEI NOMI

San Luca, 104 Segre, C., 42


San Matteo, 104 Sempere y Guarinos, Juan, 21
San Pedro, Diego de, 103 Senabre, R., 241n., 243n.
Sánchez Barbero, Francisco, 30, 33 Seneca, Lucio Anneo, 9
Sánchez de Badajoz, Garci, 103, 104 Serassi, P., 174n.
Sánchez de las Brozas, Francisco, detto Serdini, Simone, detto il Saviozzo, 102,
El Brocense, 123, 178 105
Sánchez de Lima, Miguel, 23 Serés, G., 237n., 263n.
Sánchez Romeralo, A., 87n. Serianni, L., 90n.
Sannazaro, Jacopo, 16, 21, 27, 28, 48, Sessa, Giovan Battista, 224n., 225n.
54, 56 e n., 58, 81, 101, 134, Sessa, Melchior, 224n., 225n.
147-149, 181, 185 e n., 186, 187 e Sforza, Ippolita Maria, duchessa di
n., 188 e n., 189, 190, 192 e n., 193, Calabria, 186n.
195, 196 e n., 197 e n., 198n., 199 e Shakespeare, William, 74
n., 200, 201 e n. Sidney, Philip, 72 e n., 73
Sanseverino, Ferrante, principe di Silvestre, Gregorio, 17
Salerno, 170-172, 176 Siracusa, J., 39
Sanseverino, Violante, 153, 154, 178, Smith, P. J., 252n., 254n., 261n.
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179 Sobejano, G., 252n.


Sant Jordi, Jordi de, 63 Solá-Solé, J., 39
Santa Fe, Pedro de, 104 Solı́s, Dionisio, 33
Santagata, M., 47n., 48 e n., 51, Soria, 104
52n.-56n., 60 e n., 80 e n., 81, 83n., Sorrento, L., 265n.
90n., 97 e n., 101n., 102 e n., 105, Soto de Rojas, Pedro, 26
117n.-119n., 146n., 183n., 184n., Spenser, Edmund, 72, 73 e n.
188n., 223n., 231n., 257 e n., 263n. Spiller, M. R. G., 73n.
Santiago Lacuesta, R., 39 Spinello, Francesco, 98
Santillana, vd. López de Mendoza Spongano, R., 169n., 264n.
Sapegno, N., 124n. Stazio, Publio Papinio, 280n.
Saraiva, M. de L., 66n. Stegagno Picchio, L., 66n.
Sarmiento de Mendoza, Antonio, 26 Stern, Ch., 114 e n.
Sasso, Panfilo (Sasso de’ Sassi), 70 Stigliani, Tommaso, 279
Saviñón, Antonio, 33 Stoudemire, A., 42
Saviozzo, vd. Serdini Straparola, Giovan Francesco, 28
Savj López, P., 93, 94 e n., 97n., 109n. Strozzi, Giovan Battista, il Vecchio, 265
Scala, Bartolomeo, 113n. e n.
Scaligero, Giulio Cesare, 24 Stuñiga, Lope de, 95n.
Scève, Maurice, 67 e n., 68 Suardi, Giovan Francesco, 118, 184n.
Scherillo, M., 191n. Summonte, Pietro, 185n.
Schiesani, J., 59n. Surrey, vd. Howard,
Schiff, M., 39
Schioppi, Giovanni Aurelio, 23 Talavera, Hernando de, arcivescovo di
Schwartz, L., 249n., 253n., 254n., Granada 8, 9, 39
261n., 269n., 273n., 280n., 282n. Tamariz, Cristóbal de, 28
Scoles, E., 84n.-86n., 102n., 105n., Tamayo de Vargas, Tomás, 210n.
106n. Tamburini, Pietro, 31
Scott, Walter, 34 Tansillo, Luigi, 17, 25, 143, 147, 194 e
Sebastiano, Antonio, detto il Minturno, n., 244n
24, 143, 147, 163 e n., 164, 166 e n. Tanturli, G., 116n.
Sebillet, Thomas, 67 Tapia, Juan de, 103 e n.
Sebold, R. P., 31, 42 Tassis, Juan de, conte di Villamediana,
Sedeño, Juan de, 26 26

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INDICE DEI NOMI 

Tasso, Bernardo, 143, 147, 150-152, Valldaura, Crespı́ de, 14


154-156 e n., 158, 166, 167, 169, Valle Inclán, Ramón del, 38
170 e n., 171 e n., 172-174 e Vallone, A., 50n.
n., 175-180, 194 e n., 241, 242 e n. Valls Taberner, F., 96n.
Tasso, Torquato, 24-26, 28, 31, 32, 41, Vaquero, N., 79n.
42, 59, 61, 72, 74, 250 Varchi, Benedetto, 168n., 241, 244n.
Tateo, F., 83n., 192n., 194n., 197n., Vari, V. B., 36n., 43
199n., 230n. Vàrvaro, A., 83n., 84 e n., 87n., 94n.,
Tebaldeo, vd. Tebaldi, 95n., 109n.
Tebaldi, Antonio, detto il Tebaldeo, Vaz Ferreira, Carlos, 37
14, 25, 48, 54, 55n., 67, 70 Vecce, C., 181 e n., 193n.
Telesio, Antonio, 147 Vecchi Galli, P., 115 e n.
Tempo, Antonio da, 23, 161 Vega, Garcilaso de la, 10, 15-19, 21, 25,
Temprano, J. C., 113n. 62-64 e n., 65, 66, 123 e n., 124-126,
Teocrito, 197 128, 138, 139 e n., 141-143 e n., 144,
Ter Horst, R., 252n. 145 e n., 146-150, 152-155, 156n.,
Terracini, L., 19n., 41 158, 168, 170, 175-180 e n., 182,
Terry, A., 252n., 254n. 188, 193, 194 e n., 195 e n., 196 e n.,
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Tesauro, Emanuele, 279 e n. 198, 200 e n., 203, 204, 205 e n.,
Tibullo, Albio, 70, 161 206n., 210 e n., 213 e n., 222, 226,
Timoneda, Juan de, 22, 23, 28 237 e n., 238 e n., 244 e n.
Tiraboschi, Girolamo, 267 Vega, Lope de, 5, 21, 26-29, 42, 74
Tissoni Benvenuti, A., 54n. Vela, C., 58n.
Tissoni, R., 118n. Velli, G., 185n., 186n., 187n., 192n.
Toffanin, G., 165n. Vellutello, Alessandro, 59, 128
Toledo, Bernardino di, 148 Vendramini, Giovanni, 204 e n.
Toledo, Pedro de, duca d’Alba, viceré
Vendrell, F., 104n.
di Napoli, 143, 147, 156, 210 e n.
Venturi, F., 42
Tolomei, Claudio, 160, 169, 171, 229
Vettori, Pier, 230
Tomitano, Bernardino, 244n.
Vianey, J., 70
Torre, Francisco de la, 25, 219, 235-
Vida, Marco Girolamo, 24
237 e n., 238 e n., 240n., 243n.
Torres Naharro, Bartolomé de, 6, 14, Vilanova, A., 26, 41, 42, 213n.
40, 62 Villaespesa, Francisco, 37
Torres, Jaumot, 99 Villalón, Cristobal de, 18
Toscano, T. R., 203n. Villalpando, Francisco de, 103
Tottel, Richard, 71 Villalpando, Juan de, 101n.
Trifone, P., 90n. Villamediana, vd. Tassis, 26
Trissino, Giangiorgio, 23, 161 e n.-163 Villani, G., 83n., 185n., 186n., 187n.
e n., 165 e n., 166-168n., 193, 194n. Villaquirán, Juan, 127
Trovato, P., 85n., 100n. Villari, S., 119n., 183n.
Tuin, D., 39 Villena, Enrique de, 7, 39
Turró, J., 99, 100n. Virgilio Marone, Publio, 64, 146, 187,
188, 197, 198, 200n.
Unamuno, Miguel de, 36, 37, 42 Visagier, Jean, 67
Ungaretti, Giuseppe, 76 e n. Visconti, Galeazzo Maria, 183n.
Urrea, Gerónimo de, 20 Viterbo, Egidio da, 193
Vitetti, L., 54n.
Valdés, Juan de, 19 Vozmediano, Luı́s Gaytán de, 28
Valera de Salamanca, Juan, 127 Vozzo Mendia, L., 40, 84n., 85n., 95n.,
Valera, Diego de, 103 96n., 100 e n.
Valera, Juan, 35
Valla, Lorenzo, 13 Waley, P., 195n.

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 INDICE DEI NOMI

Walters, D. G., 251n., 254n., 255 e n., Wyszynski, M. A., 195n.


261n., 276 e n., 280n.
Weber, H. E. C., 69n. Yanguas, Fernando de, 103
Weinberg, B., 161n. Ynduráin, D., 41
Whitby, W. M., 180n.
Whitman, Walt, 38 Zamora Vicente, A., 237n.
Wilkins, E. H., 46 e n. Zanato, T., 55n., 56n.
Williamson, E., 170n. Zancan, M., 59n.
Wilson, M., 180n. Zecchi, C., 39
Wyatt, Thomas, 71 e n. Zimic, S., 195n.
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Letterature
Collana diretta da M. Palumbo e A. Saccone,
fondata da G. Mazzacurati

1. B. Anglani, Goldoni. Il mercato, la scena, l’utopia


2. A. Mazzarella, Il piacere e la morte. Sul primo D’Annunzio
3. P. Voza, Coscienza e crisi: il Novecento italiano tra le due guerre
4. A. Gareffi, La Filosofia del Manierismo
5. A.C. Bova, La letteratura dentro di sé
6. N. Merola, La letteratura come artificio e altri saggi di letteratura contemporanea
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7. R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento


italiano
8. A. Gagliardi, La scrittura e i fantasmi. Radici de «La Coscienza di Zeno»
9. V. Masiello, Il Mito e la Storia. Saggi su Foscolo e Verga
10. S. Battaglia, Mitografia del personaggio
11. A. Palermo, Letteratura e Contemporaneità
12. M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano
13. N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani, edizione critica a cura di R.
Brakkee, con un saggio introduttivo di P. Trovato
14. L. Lugnani, L’infanzia felice e altri saggi su Pirandello
15. J. Culler, P. de Man, N. Rand, Allegorie della critica, a cura di M.A. Mancini
e F. Bagatti
16. A. Saccone, L’occhio narrante. Tre studi sul primo Palazzeschi
17. P. Larivaille, Poesia e ideologia. Letture della «Gerusalemme Liberata»
18. E. Saccone, Conclusioni anticipate su alcuni racconti e romanzi del Novecento.
Svevo, Palazzeschi, Tozzi, Gadda, Fenoglio
19. M. Baratto, Da Ruzante a Pirandello. Scritti sul teatro
20. L. Bolzan, L’alchimia del terrore. La Rivoluzione francese e il romanzo
21. M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul primo Verga
22. G. Maffei, Ippolito Nievo e il romanzo di transizione
23. G. Scianatico, L’ultimo Verri. Dall’Antico Regime alla Rivoluzione
24. D.S. Di Simplicio, La nascita di un poeta. Boris Pasternak
25. M. Orcel, Il suono dell’Infinito. Saggi sulla politica del primo Romanticismo italiano
da Alfieri a Leopardi
26. A.C. Bova, Illaudabil maraviglia. La contraddizione della natura in Giacomo
Leopardi
27. S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana
28. R. Scrivano, Il modello e l’esecuzione. Studi rinascimentali e manieristici
29. M. Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo
30. F. Pappalardo (a cura di), Scritture di sé. Autobiografismi e autobiografie
31. A. Palermo, Il vero, il reale e l’ideale. Indagini napoletane fra Otto e Novecento
32. S. Jossa, La fantasia e la memoria. Intertestualità ariostesche
33. A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine
34. F.P. Botti, Gadda o la filologia dell’apocalisse
35. G. Patrizi, Prose contro il romanzo. Antiromanzi e metanarrativa nel Novecento
italiano

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36. K.W. Hempfer, Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento
37. L. Lugnani, Ella giammai m’amò. Invenzione e tradizione di Don Carlos
38. M. Santagata, Il tramonto della luna e altri studi su Foscolo e Leopardi
39. R. Luperini, Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte,
polemiche e bilanci di fine secolo
40. A. Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura
41. A. Saccone, «La trincea avanzata» e «la città dei conquistatori». Futurismo e
modernità
42. C.A. Madrignani, All’origine del romanzo in Italia. Il «celebre Abate Chiari»
43. E. Saccone, Allegoria e sospetto. Come leggere Tozzi
44. R. Bragantini, Vie del racconto. Dal «Decameron» al «Brancaleone»
45. Z.G. Baranski, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighie-
ri
46. G. Guglielmi, L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia
47. M. Schillirò, Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell’opera di Vitaliano
Brancati
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48. M. Riccucci, Il neghittoso e il fier connubbio. Storia e filologia nell’Arcadia di


Jacopo Sannazaro
49. M. Muscariello, Gli inganni della scienza. Percorsi verghiani
50. F. Curi, La poesia italiana d’avanguardia. Modi e tecniche. Con un’appendice di
documenti e di testi editi e inediti
51. P. Boyde, ‘Lo color del core’. Visione, passione e ragione in Dante
52. A. Mauriello, Dalla novella “spicciolata” al “romanzo”. I percorsi della novellistica
fiorentina nel secolo XVI
53. V. Russo, Il Romanzo teologico. Seconda serie
54. A. Di Grado, La lotta con l’Angelo. Gli scrittori e le fedi
55. P.V. Mengaldo, Studi su Salvatore Di Giacomo
56. A. Matucci, Tempo e romanzo nell’Ottocento. Manzoni e Nievo
57. E. Ghidetti, Il poeta, la morte e la fanciulla, e altri capitoli leopardiani
58. E. Zinato, Il vero in maschera: dialogismi galileiani. Idee e forme nelle prose scien-
tifiche del Seicento
59. E. Scarano, La voce dello storico. A proposito di un genere letterario
60. G. Bertoncini, “Una bella invenzione”: Giuseppe Montani e il romanzo storico
61. A.R. Pupino, Notizie del Reame. Accetto, Capuana, Serao, d’Annunzio, Croce,
Pirandello
62. G. Baldi, Eroi intellettuali e classi popolari nella letteratura italiana del Novecen-
to
63. I. Pitti, Istoria fiorentina, a cura di A. Mauriello
64. A. Gargano, Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli
XV-XVII
65. R. Luperini, L’autocoscienza del moderno
66. G. Mazzacurati, Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimenta-
le
67. A. Quondam, Tre inglesi, l’Italia, il Rinascimento. Sondaggi sulla tradizione di
un rapporto culturale e affettivo
68. S. Acocella, Controluce. Effetti dell’illuminazione artificiale in Pirandello
69. P. De Ventura, Dramma e dialogo nella “Commedia di Dante”. Il linguaggio della
mimesi per un resoconto dell’aldilà
70. F. Ferrucci, Dante. Lo stupore e l’ordine
71. M.A. Grignani, Novecento plurale. Scrittori e lingua
72. P.M. Forni, Parole come fatti. La metafora realizzata e altre glosse al Decame-
ron

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73. A. Saccone, «Qui vive/sepolto/un poeta». Pirandello Palazzeschi Ungaretti Marinetti
e altri
74. T. Accetto, Rime, a cura di A. Mauriello e R. D’Agostino
75. P. Guaragnella, Teatri di comportamento. La «regola» e il «difforme» da Torquato
Tasso a Paolo Sarpi
76. F.P. Botti, Alle origini della modernità. Studi su Petrarca e Boccaccio
77. E. Saccone, Ritorni. La seconda lettura
78. A. Carbone, «L’indomabile furore». Sondaggi su Domenico Rea
79. P. Puppa, Racconti del palcoscenico: dal Rinascimento a Gadda
80. A. Gargano (a cura di), “Però convien ch’io canti per disdegno”. La satira in versi
tra Italia e Spagna dal Medioevo al Seicento
81. G. Lo Castro, La verità difficile. Indagini su Verga
82. V. di Martino, Sull’acqua. Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia
italiana del primo Novecento
83. R. Girardi, Raccontare l’Altro. L’Oriente islamico nella novella italiana da Boc-
caccio a Bandello
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84. R. Luperini, Montale e l’allegoria moderna


85. A. Saccone, «Tutto è degno di riso». Declinazioni del tragico nella
letteratura italiana tra Ottocento e Novecento
86. S. Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana
tra Otto e Novecento

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