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Schifanoia

Rivista semestrale · A Semi-annual Journal

Direttore · Editor
Marco Bertozzi

Comitato scientifico · Editorial Board


Angelo Andreotti ∙ Franco Bacchelli ∙ Marco Bertozzi
Francesca Cappelletti ∙ Paolo Fabbri ∙ Manuela Incerti
Andrea Pinotti ∙ Giovanni Sassu ∙ Alessandro Scafi
Paolo Tanganelli ∙ Roberta Ziosi

Redazione editoriale · Editorial Staff


Angela Ghinato
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Schifanoia
a cur a dell ’ istituto di studi rinascimentali
di ferr ar a

48 - 49 · 2015

pisa · roma
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2016
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Marco Bertozzi, Andrea Pinotti, Presentazione 9

la “ melencolia ” di albrecht dürer


cinquecento anni dopo (1514-2014)
Atti del Convegno internazionale
xvii Settimana di Alti Studi Rinascimentali
(Ferrara, 4-6 dicembre 2014)

parte prima
Marco Bertozzi, Metamorfosi di Saturno: la “Melencolia” di Albrecht Dürer 13
Massimo Cacciari, Melencolia I: un simbolo 21
Claudia Wedepohl, Warburg, Saxl, Panofsky and Dürer’s Melencolia I 27
Saverio Campanini, Melencolia II. Gershom Scholem e l’Istituto Warburg. Un’indagine di
storia delle fonti e dei tipi 45
Elena Filippi, Melancholia, stupor, philosophia: Dürer, la sua Melencolia e l’inizio del pen-
siero come arte 63
Giovanni Maria Fara, Melencolia I di Albrecht Dürer nell’arte e nella letteratura italiana
tra xvi e xvii secolo 77
Alice Barale, «Collectione et quasi compressione»: Warburg e Benjamin in dialogo con Panof-
sky e Saxl 87

parte seconda
Stefania Santoni, Melancholia al femminile 97
Laura Antonella Piras, Effigies melancholiae: la poesia di Petrarca 105
Felice Gambin, Riscritture malinconiche in Spagna tra Cinque e Seicento. Da Andrés Velásquez
a Tomás de Murillo y Velarde 115
Stefania Iurilli, La Melencolia di Dürer. Dal quadro prospettico allo spazio tridimensionale 123
Tommaso Ranfagni, «Sublimium daemonum receptaculum». Proposta per un’iconografia
dell’anima nella Melencolia I di Albrecht Dürer 139
Donato Verardi, Il diavolo e Saturno. Due note a margine di Melencolia I di Albrecht Dürer:
Lutero ed Erasmo 149
Giacomo Mercuriali, Figura dell’inoperosità. La Melencolia I di Albrecht Dürer nel pensiero
di Giorgio Agamben 155

Indice dei nomi, a cura di Angela Ghinato 163


EFFI G I E S ME LA N CH OL I A E : LA POE S IA D I PE T RARC A
Lau r a A n ton e lla Pir as
In the volume Problemata xxx, 1 (attributed to Aristotle) melancholy was seen for the first time as a force that could
lead the scholar, the poet and the man of genius to the sublime world of ideas. The black bile – considered previously
as the primary cause of different pathologies – became the dark source of genius that could provide the melancholic
individual with unique intellectual abilities. A real understanding of the Problem nevertheless was not achieved un-
til Humanism, when the theories elaborated in the pseudo-aristotelic work were resumed and further developed. Al-
though it was allegedly related to the intellect, melancholy was confined to an ambiguous position up to the fifteenth
century, when it was still seen as in-between psychological predisposition and illness, in-between sin and damna-
tion. Poetry defined the narrow difference between illness and Stimmung, especially in the works by Petrarch. In-
deed, the fourteenth-century poet depicts all of the contradictions and insecurities of an age of transition, but he
also portrays the birth of a sensibility and ability to interpret and describe the world in novel terms. For the first
time in Italian and European literature, poetry thus becomes a stage for the soul of the author, a stage on which
melancholy is represented in its various appearances. Petrarch was in fact one of the first poets who considered him-
self as a man of genius; he thought that his own poetical inspiration derived from an exaltation bordering on mad-
ness. His poetry is apparently born out of that divine furor that could possess an author, out of a melancholy that
was then interpreted as the source of the highest spiritual exaltation. This essay argues that Petrarchan poetry at-
tempts to be a representation of the author’s melancholy, as is the case of Dürer’s picture.

«Perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica,


artistica o letteraria, hanno un temperamento melanconico – ovvero
atrabiliare – alcuni a tal punto da essere persino affetti dagli stati
patologici che ne derivano?»1
Problemata xxx, 1

el libro Problemata xxx, 1 la melanconia fu descritta, per la prima volta, come una forza
N capace di condurre lo studioso, il poeta, l’uomo di genio fino alle mete sublimi del mondo
delle idee. Questo libro, attribuito ad Aristotele, rivoluzionò profondamente il modo di vedere
e di sentire la melanconia: sostenendo che questa fosse un requisito particolare dell’uomo di
genio, l’autore tentò di affrancarla dalla sua sfera meramente patologica e, in qualche misura,
le conferì una nobiltà che non aveva avuto precedenti nella letteratura filosofica e medico-scien-
tifica del tempo. Con lo pseudo-Aristotele, infatti, la bile nera, vista, nelle epoche precedenti,
come causa primaria di diverse patologie, divenne la fonte oscura del genio, capace di conferire
al “melanconico per natura” una forza d’ingegno che gli altri individui non potevano possedere.
Una vera comprensione del Problema, però, non si ebbe fino all’Umanesimo, periodo durante
il quale, come possiamo leggere dalle pagine di Marsilio Ficino, furono riprese e portate a nuovi
sviluppi le teorie contenute nell’opera pseudo aristotelica. Fino a quel momento, per tutta l’e-
poca latina e medievale, la melanconia, pur mantenendo il suo legame con la sfera intellettuale,
restò ingabbiata in una dimensione di ambiguità: in bilico tra predisposizione psicologica, ma-
lattia, peccato e dannazione divina. Più di qualsiasi altra arte, sarà la poesia a segnare il sottile
discrimine tra malattia e Stimmung e sarà proprio Petrarca a indicare la nuova via.
Figura di snodo tra il Medioevo e il Rinascimento, Petrarca mostra, nelle sue opere, tutte le
contraddizioni e le incertezze di un’epoca di transizione, ma anche la nascita di un modo di sen-

Laura Antonella Piras, laurapiras85@live.it


1 Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, a cura di Carlo Angelino, Enrica Salvaneschi, Genova, Il Melangolo,
1981, p. 11.
106 laura antonella piras
tire e di una maniera di interpretare e descrivere il reale totalmente nuovi. Per la prima volta,
nella storia della letteratura italiana ed europea, la poesia si fa palcoscenico dell’anima del suo
autore e si fa pura rappresentazione della melanconia, nelle sue più svariate declinazioni, tanto
che lo storico Daniello Bartoli, nel 1600, indicò Petrarca quale autentico padre della melanconia
italica.
La poesia di Petrarca, come l’opera di Dürer, tenta di farsi figuratio della melanconia del suo
autore, in uno sforzo di rappresentazione che, in Petrarca, non ha cornice, né spazio, ma è in-
goiata dall’ingombrante presenza dell’Io. Il poeta è stato forse il primo di una categoria di uo-
mini consapevoli del proprio genio ed è stato capace di descrivere i propri trasporti poetici co-
me frutto di un’esaltazione che sfiora il confine della pazzia:
Una certa forza d’animo divina
esiste nei poeti,
lo ammetto, la mente esaltata può uscire di senno;
proiettata al di sopra di sé, canterà nobilmente…
ritenne non esistere
alcun ingegno, se non mescolato alla pazzia.1

La sua poesia appare, a tutti gli effetti, creatura di quel furor divino che invasa i poeti, di quella
melanconia considerata, in senso aristotelico e rinascimentale, come la sorgente della più alta
esaltazione spirituale.
Egli chiamò la propria melanconia col nome medievale di accidia e la descrisse come una ve-
ra e propria malattia che colpisce l’anima e la tormenta, uno stato che lo perseguitò di giorno
e di notte e dal quale egli trasse disperata voluttà. Incapace di placare il proprio tormento, il
poeta riuscì a trovare consolazione e pace attraverso gli studi. Un ruolo molto importante nella
sua vita è rivestito dalla filosofia che il poeta apprende dalle pagine di Cicerone, Seneca, Boezio
e Sant’Agostino. Opere che Francesco lesse non solo per trovare consolazione ai propri tormen-
ti e risposte alle proprie inquietudini, ma anche per crearsi una serie di valori etici e morali ai
quali votare e ispirare la propria esistenza. In queste opere la filosofia viene rappresentata come
cultura animi, medicina, salvezza e le lezioni di questi autori gli permetteranno di mettere a pun-
to una vera e propria terapia per il proprio animo inquieto.
Il Secretum scritto sulla scorta di questi illustri maestri è uno splendido esempio di terapeutica
morale e una vera e propria esortazione alla filosofia volta a liberare l’animo dai suoi tormenti.
Il primo libro si incentra sull’esame di una delle malattie morali che colpiscono il poeta: la sua
noluntas, il suo confondere il non potere con il non volere; il secondo libro è dedicato all’analisi
dei peccati di cui Francesco si è macchiato, svolta sulla base dei sette vizi capitali, soffermandosi
in maniera particolare sull’accidia. Francesco tenta di individuare le cause di questo male per
cui tutto appare aspro, doloroso e orrendo e aperto solo alla disperazione, e le individua nel
sommarsi di diversi fattori: la miseria della condizione umana, la memoria degli affanni passati
e il timore dei venturi. Il suo male non ha nessuna causa oggettiva, appare come una tristitia
sine causa dalla quale l’ammalato sembra del tutto incapace di liberarsi.2 Questa tristezza nasce
dal prevalere di un’istanza annidata nel suo animo: un impulso autodistruttivo che nell’accidio-
so domina sull’istinto di vita. Tra i sintomi dell’accidia c’è infatti il disgusto della vita. Soffer-
marsi sulle minacce che pesano sull’integrità dell’esistenza: malattie, morte, disastri e colpe
porta l’accidioso a dipingere la propria vita utilizzando colori scuri, tinte nere, funeste, morti-
fere.3 L’accidia si configura, in questo modo, come un disordine dell’animo con se stesso, un

1 Francesco Petrarca, Epistola metrica a Zoilo, i, v. 167, cit. in Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz
Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, trad. it., Torino, Einaudi, 2002,
p. 234.
2 Cfr. Patrizia Scanu, Lo specchio della vera conoscenza. Saggio sul Petrarca filosofo morale, Cavallermaggiore (Cuneo),
Gribaudo, 1993, p. 43.
3 Cfr. Giuseppe Roccataglia, L’immagine nera. Riflessioni sulla malinconia, Roma, Borla, 1992, p. 27.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 107
sibi displicere, per dirla con Seneca, che comporta o un blocco della volontà che genera tedio,
prostrazione, letargia o un’oscillazione della volontà che genera ansia e perenne instabilità: «Io
non mi vergogno della mia condizione, ma mi rincresce e mi rammarico dei tanti tormenti che
mi fanno, per usare le parole di Orazio “trepidare e oscillare nelle speranze di un incerto do-
mani”». Se mi togliesse quest’apprensione, quanto posseggo mi basterebbe a sufficienza […] io
invece, sempre ansioso del futuro, sempre con l’animo in sospeso non so godere della dolcezza
dei doni della fortuna».1 È un’istanza bipolare per la quale l’ammalato è in preda a continue
oscillazioni dell’animo, che lo vedono sempre in bilico tra abbattimento ed esaltazione.
Un’altra caratteristica di questo male è la voluttà quasi viscerale e, in qualche modo potrem-
mo dire perversa, che porta con sé un oscuro piacere nell’assistere alla vittoria della pulsione
di morte sulla pulsione di vita: «E – cosa che può ben dirsi il colmo delle miserie – mi pasco
talmente di lacrime e di dolore, e con una voluttà così funesta, che me ne stacco poi a malin-
cuore».2 La voluptas dolendi che caratterizza questo male dell’anima si configura come un pec-
cato di hybris: essa non è altro che il godimento della propria sofferenza, una condizione in cui
la volontà dell’io assume una direzione perversa che lo porta a crogiolarsi nella propria tristezza
e a ripiegarsi in narcisistica auto contemplazione. La tristitia del soggetto rischia in questo mo-
do di diventare superba persuasione che nulla, nemmeno la grazia divina, sia in grado di solle-
varlo dalla miseria in cui si sente sprofondato.3 Così Agostino esorta il discepolo a riflettere sulla
condizione umana e a tenere presenti gli insegnamenti dei filosofi per trarne, oltre che insegna-
mento, giovamento:
Hai sull’argomento un’epistola di Seneca tutt’altro che inutile; sempre di Seneca hai il trattato sulla Tran-
quillità dell’animo, e ancora, sul modo di guarire in tutto da questa malattia dello spirito, hai l’eccellente
libro che Cicerone dedicò a Bruto, desumendolo dal terzo giorno delle Conversazioni tenute nella sua
villa di Tuscolo […] ogni volta che nella lettura ti si presentano massime salutari, dalle quali ti senti frenare
o eccitare l’animo, non fidarti della forza della tua intelligenza, ma nascondile nei recessi della memoria
e fa’ che ti diventino familiari con uno studio continuo, sicché, come abitudine dei medici esperti, ogni
qual volta e in qualunque luogo ti insorga una malattia che non consente dilazione, tu abbia le cure, per
così dire scritte nell’animo.4

Con l’aiuto di Seneca e Cicerone Francesco dovrà vincere la dura battaglia contro l’accidia, e
Agostino gli offre gli strumenti per combatterla: «Con un aiuto siffatto potrai resistere salda-
mente tanto alle altre passioni quanto all’accidia, che soffoca, come un’ombra funestissima, il
seme delle virtù e il frutto dell’intelletto; quell’accidia in cui, come dice con eleganza Cicerone
«è la sorgente e la radice di tutti i mali».5
Il terzo libro è incentrato, invece, sulle due grandi catene mortali che trattengono il poeta:
l’amore per Laura e la sua sete di gloria. Dal dialogo emerge che l’amore per Laura e le opere
storiche che gli avevano fatto conquistare la corona d’alloro e dunque la gloria poetica sono di-
ventate cause di alienazione del soggetto. L’Africa e il De viris illustribus sono fonte soltanto di
stanchezza e frustrazione (Petrarca non riuscì mai a portarle a termine) e poi parlano di altri,
sono scritte per altri. Il poeta storico agisce proprio come l’innamorato: vive per altri e pensa
per altri. Come sostiene Sant’Agostino nel Secretum: Francesco deve tornare in sé, restituire sé
a se stesso. Ed è proprio quello che Francesco promette alla fine del Secretum: «Sarò presente a
me stesso quanto potrò raccoglierò gli sparsi frammenti dell’anima mia e dimorerò in me con
attenzione».6
È, di certo, chiaro ed evidente il riferimento ai fragmenta del Canzoniere. L’atto di tornare in
se stesso si configura come processo di individuazione reintegrazione e riappropriazione del
sé. Esso coinvolge, dunque, sia la sfera privata e intima dell’uomo Francesco, sia quella pubblica

1 Ivi, p. 179. 2 Francesco Petrarca, Secretum, a cura di Ugo Dotti, Milano, Rizzoli, 2000, p. 165.
3 Cfr. Scanu, Lo specchio della vera conoscenza, cit., p. 46. 4 Petrarca, S ecretum, cit., p. 187.
5 Ivi, p. 193. 6 Ivi, p. 319.
108 laura antonella piras
e artistica del poeta Francesco: l’atto creativo si riveste di speciali ed uniche finalità: difendere
l’io dall’alienazione e permettergli di agire come egli si sente davvero di essere. Questo proces-
so di reintegrazione si realizza nell’atto di riscriversi sotto il segno di un nuovo impegno intel-
lettuale ed etico. Un uomo nuovo e più consapevole del passato, dunque, si esibisce nelle opere
che compongono la sua autobiografia ideale: Il Secretum, le Epistole e il Canzoniere. Nelle lettere
Petrarca parla, come nel Secretum e nel Canzoniere, di sé; mettendo al centro delle sue opere il
proprio io, il poeta si presenta, così, come l’interprete dell’individualità. Si tratta di un’indivi-
dualità nuova, contrassegnata dalla complessità, dalla conflittualità interna e da una profonda
inquietudine psicologica e morale.
Come scrive Loredana Chines, uno dei tratti fondamentali dell’inquietudine petrarchesca è
sicuramente la sua incapacità di star fermo. Nel fluire dei libri dell’Epistolario si percepisce l’im-
magine di un esule, uno sradicato che viaggia a lungo, incapace di stare fermo in un luogo e
incapace di trovare quiete:
Vengo a sapere che tu ti meravigli ch’io vada vagando qua e là e in nessun luogo stabilmente mi fermi, e
sembri che non sia riuscito a trovare una dimora definitiva; che dopo aver trascorso appena un anno in
Italia, per altri due vado facendo la spola dalla Francia in Italia e dall’Italia in Francia […] Conosco la verità
di quel detto di Seneca, “primo indizio di una mente sana essere il sapere star fermo e trattenersi con se
medesimo” […] Sarebbe ormai tempo che all’araldo dell’animo mio io decessi quel che al suo disse quel
centurione romano: “araldo, pianta l’insegna; qui staremo ottimamente” […] Ma che fare? Mi creda
chiunque ha fiducia in me: se sotto il cielo mi fosse dato trovare un luogo qualunque non dirò buono, ma
non cattivo, o almeno non pessimo, volentieri e per sempre mi fermerei; ma ora come in un duro giaciglio
io mi volto e mi rivolto, né con tutta la buona volontà riesco a trovare il bramato riposo; e così alla mia
stanchezza, non potendo con la morbidezza del letto, provvedo col continuo mutare; vado vagando e
sembro un eterno viandante.1

Questa continua ansia di cambiare luoghi non nasce tanto dal desiderio di rivedere i posti amati,
mille volte visti, quanto dal tentativo di porre rimedio alle angosce del suo spirito, mutando
luogo. Inquieto viaggiatore alla ricerca di se stesso, egli si sente come Ulisse, ma con la diffe-
renza che Ulisse lasciò la sua patria già vecchio, mentre Francesco una patria vera non l’ebbe
mai: «Si può paragonare l’errare di Ulisse al mio errare, e senza dubbio, se la gloria del nome e
delle imprese fosse la stessa, egli non vagò né più a lungo né più largamente di me. Egli lasciò
la patria già vecchio […] io generato nell’esilio, nell’esilio nacqui».2
A Ulisse, il poeta si sente affine perché, come lui, vaga senza sosta spinto dalla propria
curiositas:3 «poteva vivere in pace Ulisse, se l’insaziabile desiderio di conoscere non l’avesse
spinto per tutti i mari e per tutte le terre».4 Il viaggio assume, così, in Petrarca un significato
molto profondo: Nella Familiare xv 4 il poeta ammette che l’irrequietudine e la curiositas pos-
sano essere sintomi di una malattia dell’animo, ma ne indicano anche l’origine divina, il fuoco
celeste.5 Viaggiare, infatti, significa anche indagare la natura più intima dell’uomo e conoscere
se stessi.6
È proprio ciò che avviene nella celebre Familiare iv 1 a Dionigi da Borgo San Sepolcro, in cui
Petrarca racconta l’ascesa al monte Ventoso compiuta in compagnia del fratello Gherardo. La
scalata, irta di difficoltà, si trasforma in ascesi interiore che apre nuovi orizzonti di riflessione
sull’esistenza, intesa anch’essa come peregrinatio verso vette più alte. Lo spazio e il tempo si tra-
sformano in dimensioni interiori. Quello descritto da Petrarca, in questa lettera, è uno scenario
melanconico. La melanconia che caratterizza la condizione di Petrarca non coinvolge mai, nella

1 Francesco Petrarca, Familiare xv 4, in Idem, Lettere dell’inquietudine, a cura di Loredana Chines, Roma, Carocci,
2004, pp. 143-147. 2 Francesco Petrarca, Familiare ii, in Idem, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 47.
3 Cfr. Loredana Chines, Introduzione a Francesco Petrarca, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 25.
4 Francesco Petrarca, Familiare xiii 4 10, in Idem, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 25.
5 Sulla natura divina dell’anima cfr. Petrarca, Secretum, cit., p. 103.
6 Cfr. Ugo Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 444.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 109
sua visione, il mondo creaturale. Essa diventa una sonda per calarsi nella profondità del proprio
animo, senza consentire mai al soggetto di aderire veramente al mondo circostante.1
Quello che domina la vista è il paesaggio del suo animo, che, una volta raggiunta la cima del
monte, viene guardato dall’alto di una raggiunta consapevolezza. Il tempo durante la salita da
chronos si trasforma in kairos: è il tempo di Dio, il tempo propizio per fare una scelta. Il tempo
della vetta è aion: il tempo dell’eterno, un tempo che si frantuma nell’esperienza del sublime,
e nella scoperta che nulla c’è di tanto alto quanto l’animo umano. Nell’epistola Petrarca sottrae
l’io allo spazio e al tempo per mantenerlo immobile nella vetta dell’eternità; la montagna, di-
mensione tra terra e cielo, tra umano e divino, diventa il palcoscenico migliore per dichiarare
la grandezza del proprio io.
Anche gli spazi fisici descritti nel Canzoniere, quasi come paesaggi onirici, sono pervasi dalla
bellezza dell’insensibile e dell’immateriale. Essi tendono a perdere i loro contorni reali per di-
ventare luoghi letterari deputati ad esprimere gli stati d’animo dell’io lirico. Il paesaggio si tra-
sforma in spazio mentale, luogo delle epifanie di Laura, e quindi simbolico e fantasmatico allo
stesso tempo. Tutta l’opera, inoltre, appare segnata dalla continua riflessione sulla caducità
dell’esistenza umana e scandita dall’oscillazione di dimensioni temporali diverse: passato, pre-
sente e futuro si intrecciano, si alternano e si sovrappongono in maniera inestricabile. Il tempo
del Canzoniere è, con i suoi slittamenti e le sue oscillazioni, ancora una volta, un tempo interio-
re, che supera i confini del tempo reale (chronos) per configurarsi come tempo che segue i ritmi
dell’animo.
La vallata di Valchiusa e le sorgenti del fiume Sorga sono i luoghi prediletti dal poeta. Val-
chiusa si configura come un locus amoenus, un luogo di meraviglie dove il poeta riesce a trovare
quiete e ristoro e in cui ama ritirarsi, in solitudine, per scrivere e dedicarsi agli studi. Petrarca
non smetterà mai di celebrarla:
Nessun luogo al mondo per me più caro della Valchiusa
nessuna contrada più adatta ai miei studi.
In Valchiusa ero stato bambino, e quando vi sono tornato giovane
la valle amena mi ha nutrito nel seno soleggiato.
In Valchiusa ho trascorso, da uomo, dolcemente, gli anni migliori
e il candido stame della mia vita.
In Valchiusa desidero concludere, vecchio, l’estrema stagione
e con la tua guida in Valchiusa morire.2

Valchiusa è anche lo scenario poetico in cui il poeta ambienta le liriche per Laura; lì tutto parla
della donna amata, la donna è sempre irraggiungibile, eppure in quel paesaggio idilliaco il suo
ricordo si carica di immensa dolcezza. Su Valchiusa Petrarca costruisce un vero e proprio mito
e, nelle varie redazioni del Canzoniere, quel luogo tanto amato non perderà mai le sue caratte-
ristiche positive, neppure dopo la morte di Laura. Il fantasma della donna continuerà a mani-
festarsi in quei luoghi e rivivrà nella bellezza della natura:3
ovunque gli occhi volgo
trovo un dolce sereno
pensando: Qui percosse il vago lume.
Qualunque Herba o fior colgo
Credo che nel terreno
Aggia radice ov’ella ebbe in costume
Gir fra le piagge e ’l fiume,

1 Cfr. Carmelo Tramontana, L’ascesa al Monte Ventoso: linee di confine e meditazione, in La letteratura degli italiani: rotte
confini e paesaggi, 2013 (sito web: www. Diraas.it).
2 Francesco Petrarca, Solitudini, in Gabbiani, a cura di Francisco Rico, Milano, Adelphi, 2008, p. 53.
3 Cfr. Marco Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto del Canzoniere di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1992,
p. 170.
110 laura antonella piras
et talor farsi un seggio
fresco, fiorito et verde.1

Nella vita di Petrarca un ruolo molto simile è rivestito da Selvapiana, vicino a Parma. Anche
questo è un locus amoenus dove il poeta ama ritirarsi; nel Canzoniere però questo luogo si riveste
di caratteristiche completamente diverse da quelle assunte da Valchiusa. Selvapiana è il luogo
dell’esilio amoroso, della nostalgia, del dolore provocato dalla lontananza di Laura.2 Nella Can-
zone Di pensier in pensier, di monte in monte il paesaggio si colora di una struggente malinconia.
Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte,
se ’n fra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
et come Amor l’envita,
or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vista experto
diria: Questi arde, et di suo stato è incerto.
Per alti monti et per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira ’l tormento ch’ i’ porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch’ i’ dico: Forse anchor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?3

Il poeta ricerca la solitudine di quei luoghi per dedicarsi alla meditazione, ma non riesce a tro-
vare pace, i verdi boschi e la bellezza della natura non riescono a dargli la consolazione sperata.
La sua mente è in preda ad una incessante fluctuatio, immersa in continui pensieri e tormentata
da dubbi e incertezze. L’interiorità del poeta è caratterizzata da una profonda instabilità psico-
logica: al rasserenamento seguono crisi di angoscia; alle illusioni, abbattimenti profondi. Il pae-
saggio si fa teatro di questi stati d’animo instabili e delle illusorie epifanie della donna amata.
Laura, così lontana nella realtà, ma vicina nella memoria, vive nelle valli e nei boschi di quei
luoghi solitari e il suo fantasma non fa che rendere più insopportabile il desiderio.
Tanti altri sono i luoghi della solitudine e della melanconia petrarchesca: «i deserti campi»
sono «i luoghi aspri e selvaggi dell’innamorato che non trova pace»;4 sono i luoghi della solitu-
dine, i luoghi dove si possono liberamente esprimere i dolori nascosti e dove il poeta può con-
sumarsi nelle lacrime della melanconia amorosa.5

1 Francesco Petrarca, Se ’l pensier che mi strugge (cxxv), 1-27, in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium fragmenta, a cura
di Rosanna Bettarini, Torino, Einaudi, 2005, p. 577. 2 Cfr. Santagata, I frammenti dell’anima, cit., p. 172.
3 Francesco Petrarca, Di pensier in pensier, di monte in monte (cxxix), 1-27, in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium frag-
menta, cit., pp. 623-624. 4 Loredana Chines, Marta Guerra, P etrarca, Milano, Mondadori, 2005, p. 21.
5 Cfr. Roberto Gigliucci, La melanconia, Milano, Rizzoli, 2009, p. 84.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 111

Solo et pensoso i piú deserti campi


vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
Sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’é celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’ Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’ lui.1
L’immagine del poeta che vaga in luoghi solitari ci riporta al mito di Bellerofonte, l’eroe ome-
rico che aveva sfidato gli dei e per questo era stato punito con la condanna a vagare in posti de-
serti e a rodersi il cuore, evitando le vestigia degli uomini. Il poeta, come l’eroe melanconico,
vaga solitario e immerso nei suoi pensieri, evitando i luoghi in cui l’impronta dell’uomo si sia
impressa nel suolo; e lo fa con passi tardi e lenti: la sua andatura non è solo un’immagine poe-
tica, ma è anche un atteggiamento tipico dei melanconici, dei nati sotto Saturno2 e la ricerca
della solitudine per dare sfogo alla propria sofferenza è uno dei tratti caratteristici della melan-
conia. Il sonetto ci immerge, ancora una volta, in una dimensione del tutto interiore, che va al
di là dei confini spazio-temporali reali, e caratterizzata da un paesaggio stilizzato e un tempo
indeterminato. Il fatto narrato si manifesta come «un monologo che prende spunto da un do-
lore imprecisato, una melanconia di cui si sa soltanto che si tratta di una fuga dagli uomini, di
una gioia che si è spenta, di un intimo dolore».3
Come si può notare, la solitudine è vissuta dal poeta in maniera ambivalente: talvolta è su-
bita con dolore, altre cercata per consumarsi furiosamente nella propria voluptas dolendi, altre
ancora è vissuta come condizione necessaria del saggio che si dedica agli studi e alla contem-
plazione. Tutta l’opera di Petrarca, inoltre, è scandita dall’ossessione della fuga del tempo. L’i-
dea stessa della ricomposizione e dell’ordinamento dei fragmenta nasce proprio dal desiderio
di lasciare un’opera capace di vincere l’azione divoratrice del tempo e di sopravvivere al silen-
zio della morte e dell’annullamento. Il tema della fuga temporis costituisce il fulcro narrativo
del sonetto La vita fugge e non s’arresta una hora, uno dei primi componimenti della sessione in
morte di Laura.
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi penser’ fòra.

1 Francesco Petrarca, Solo et pensoso i più deserti campi (xxxv), in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium fragmenta, cit.,
p. 189. 2 Cfr. Roberto Gigliucci, La melanconia, Milano, Rizzoli, 2009, p. 83.
3 Hugo Friedrich, Il rapporto tra soggetto e paesaggio. Solo et pensoso: una lettura di Hugo Friedrich, in Romano Luperi-
ni, Pietro Cataldi, Lidia Marchiani, Franco Marchese, La scrittura e l’interpretazione, i-ii, Firenze, Palumbo, 2003,
p. 309.
112 laura antonella piras

Tornami avanti, s’alcun dolce mai


ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.1

Nel sonetto la vita scivola via, la morte incalza e il tempo è vissuto dal poeta come forza divo-
ratrice che sopprime qualsiasi forma di avvenire. Gli esseri umani sono divorati, proprio come
nel mito, da Chronos che governa il cosmo e contro il quale essi non possono nulla. Il poeta non
trova rifugio in nessuna dimensione temporale reale, il presente, il passato e il futuro sono ine-
stricabilmente intrecciati in una catena d’angoscia che lo strangola giorno per giorno. Ricorda-
re e aspettare: entrambe le azioni sono fonte di tormento per il poeta, fonte di pensieri cupi e
dolorosi: «Se non ch’i’ io ò di me stesso pietate, / i’ sarei già di questi pensier’ fora». L’io si pre-
senta affetto da una crisi talmente profonda e insopportabile che, se non avesse paura della dan-
nazione eterna, sarebbe disposto a mettere fine alla propria vita e liberarsi finalmente da questi
pensieri angosciosi.2 Come fa notare Marco Santagata, tutto questo pessimismo non sembra
provocato da alcuna causa specifica, è una tristezza della quale non è possibile indicare con si-
curezza le cause.3 È accidia, è melanconia. I ricordi sono dolorosi perché riportano alla mente
le dolcezze perdute e le aspettative, perché preannunciano un futuro privo di speranza. Il pre-
sente, il passato e il futuro si mescolano in una visione cupa e sconfortante della vita e il tempo
perde consistenza.
La significazione del tempo e lo stravolgimento della temporalità rappresentano la vera cen-
tralità del vissuto melanconico. Nella melanconia, infatti, i piani temporali si intrecciano per
perdere la loro caratteristica di continuità. Questa frattura colloca l’individuo in una prigionia
nel passato la cui cella non prevede via d’uscita. Intrappolato in questa situazione, il melanco-
nico non trova più lo spazio per progettarsi: il futuro è escluso alla luce di un passato irrime-
diabilmente perduto. Non c’è un dispiegamento del tempo, ma una sua radicale impossibilità
a dispiegarsi. Il presente si annulla, così, in un istante senza fine e il futuro risulta compromesso
e impossibile, in quanto tutto è già accaduto, deciso, compiuto. Il tempo è il più grande nemico
del melanconico poiché consuma la bellezza delle cose terrene e porta con sé il presagio della
morte e dell’annullamento. Il melanconico è, così, costretto all’illusione di un tempo eterno.
Incapace di vivere il presente e stretto nell’alternativa tra la nostalgia e la demoralizzazione,
egli crea una temporalità artificiale, che nega la vera ed effettiva possibilità di una perdita. Que-
sto vale anche per l’amore. Io credo, infatti, che nell’essenza stessa di Laura risieda il sintomo
più specifico della patologia melanconica di Petrarca.
Quello che Petrarca prova per Laura è eros melanconico, qualcosa di diverso dall’amore vero,
da quell’amore che comporterebbe, se si realizzasse, reciprocità e presenza. Laura è il modo
che Francesco adopera per “non amare” e per difendersi da un reale e possibile abbandono. Egli
crea una realtà fittizia dominata da una soddisfazione del desiderio solo allucinatoria, dove non
esistono separazioni reali, dove non esistono perdite reali, perché, come si sa, non si può per-
dere ciò che non si possiede realmente. L’oggetto dell’eros melanconico può esistere soltanto
come illusione e l’amore stesso si configura come «un ambiguo commercio coi fantasmi»4 in
cui il melanconico riesce a far apparire perduto un oggetto inappropriabile.5 È un amore basato

1 Francesco Petrarca, La vita fugge, et non s’arresta una hora (cclxxii), in Idem, Canzoniere. Rerum volgarium frag-
menta, cit., p. 1239.
2 Cfr. Marco Santagata, Accidia, aegritudo, depressione: modernità di un poeta medievale, in santagata.sitonline.it
3 Cfr. Marco Santagata, L’amore in sé, Parma, Guanda, 2006, p. 138.
4 Cfr. Riccardo Dalle Luche, L’amore perverso. Eros melanconico e perversificazione, in Malinconia d’amore. Frammenti
di una psicopatologia della vita amorosa, a cura di Carlo Maggini, Pisa, ets, 2001, pp. 207-247. 5 Cfr. ibidem.
effigies melancholiae : la poesia di petrarca 113
sull’assenza, un’assenza che diventa il principio nutritivo del sentimento e della poesia, un amo-
re eternamente sospeso nella possibilità della concretizzazione, ma che, per vivere, deve restare
irreale ed irrealizzabile. La realizzazione e, quindi, la nascita di una relazione vera e profonda,
probabilmente, avrebbe decretato la fine del sentimento stesso e, probabilmente, avrebbe
impedito la nascita della poesia, una poesia creata per cantare non l’amore, ma l’assenza e la
voluptas dolendi dell’io.
co m p o sto i n c a r att e re da nte m onotype da lla
fa b ri z i o se rr a e d i to re, pisa · ro m a .
sta m pato e ri l e gato nella
t i p o g r a f i a d i ag na n o, ag na no pisa no (pisa ).

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Gennaio 2016
(cz 2 · fg 21)

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