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STUDI CLASSICI

E ORIENTALI

A cura delle sezioni antichistiche


dei Dipartimenti
di Filologia, Letteratura e Linguistica
e di Civiltà e forme del sapere
dell’Università di Pisa

LXV · (2019) · TOMO II

INTERPRETAZIONI
STUDI IN ONORE DI GUIDO PADUANO

a cura di
Alessandro Grilli e Francesco Morosi
DIRETTORE (CHIEF EDITOR):
Cesare Letta (cesare.letta@unipi.it)

VICEDIRETTORI (ASSISTANT EDITORS):


Marisa Bonamici, Giuseppe Del Monte, Saverio Sani, Mauro Tulli

COMITATO SCIENTIFICO (SCIENTIFIC BOARD):


Roberto Ajello, Franco Bellandi, Mario Domenico Benzi,
Marisa Bonamici, Pier Giorgio Borbone, Edda Bresciani, Antonio Carlini,
Giuseppe Del Monte, Franco Fanciullo,
Rolando Ferri, Umberto Laffi, Romano Lazzeroni, Cesare Letta,
Gianfranco Lotito, Claudio Moreschini, Guido Paduano, Saverio Sani,
Mauro Tulli, Biagio Virgilio

COMITATO CONSULTIVO INTERNAZIONALE


(INTERNATIONAL ADVISORY BOARD)
Pascal Arnaud (Lyon), Sebastian P. Brock (Oxford), Michael Erler (Würzburg),
Robert A. Kaster (Princeton), Agnès Rouveret (Paris),
Robartus van der Spek (Amsterdam), Lucas Van Rompay (Duke University NC),
Robert Wallace (Evanston), Nigel Wilson (Oxford), Vincent Zarini (Paris)

REDAZIONE (EDITORIAL STAFF):


Maria Isabella Bertagna, Maria Domitilla Campanile, Margherita Facella,
Maria Letizia Gualandi, Daniele Mascitelli, Giovanni Mazzini, Andrea Raggi

http://www.sco-pisa.it

Interpretazioni : studi in onore di Guido Paduano / a cura di Alessandro Grilli


e Francesco Morosi. - Pisa : Pisa university press, 2019. – Numero speciale di
“Studi classici e orientali” (vol. LXV, tomo II, 2019)

880 (22.)
I. Grilli, Alessandro II. Morosi, Francesco 1. Letteratura classica 2. Filologia
classica
CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

© Copyright 2019 by Pisa University Press srl


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e-mail: press@unipi.it - www.pisauniversitypress.it

ISBN: 978-88-3339-2219

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il protocollo UPI
INDICE

Premessa XIII

Per Guido Paduano

Alessandro Grilli, L’ermeneutica ‘protestante’ di Guido Paduano3

Antonio La Penna, Il cammino della letteratura greca31

Maria Cristina Bolla, Seduttore e maieuta37

Walter Siti, Due carotaggi per un romanzo futuro43

Letteratura e Filologia Greca

Maria Serena Mirto, Due vasi sulla soglia di Zeus?57

Maria Pia Pattoni, Eros gocciante (Euripide, Ippolito 525-526)75

Elena Fabbro, Sull’esorcizzazione della morte nel teatro di Aristofane91

Francesco Morosi, Una tecnica shakespeariana per Aristofane:


determinazioni di luogo nella Pace111

Ugo Fantasia, In cerca delle «cose realmente dette» nei discorsi


della Storia di Tucidide125

Massimo Cacciari, Lettura dell’Edipo a Colono 141

Luca Ruggeri, Osservazioni sul testo dell’epitafio di Platôr figlio di Sakolas


(SEG 42 329)151

Cesare Letta, La carriera politica di Cassio Dione e la genesi


della sua Storia Romana 163
VIII

Franco Maltomini, PGM LII (=P.Lips. Inv. 429): una nuova edizione181

Daniela Manetti, Come ottenere la fiducia dei lettori:


un passo di Galeno Sulla dispnea 195

Anna Minerbi Belgrado, Filopono, Alessandro d’Afrodisia e l’entelechia203

Antonio Carlini, Due testi ‘intrusi’ nella Sylloge Tacticorum


del Laurenziano Plut. 55, 4?213

Letteratura e Filologia Latina

Gianna Petrone, Le ansie di Pseudolo e il trionfo dell’invenzione.


Ironia drammatica in Plauto, Ps. 1052 ss.229

Mario Citroni, L’architetto e il cielo. Interpretazione di Marziale 7, 56, 1


(con un appunto su Ovidio, Tristia, 3, 1, 63)245

Andrea Cucchiarelli, Una integrazione a Stazio,


Silv. III 2, 60 nisi iam <…> carina263

Chiara Valenzano, L’adulterio nella declamazione latina:


un’indagine di alcuni paradigmi tragici269

Sandra Isetta, Hic est cui de manu angeli liber porrigitur.


Modelli agiografici nell’Ystoria sancti Thomae de Aquino 283

Tradizione Classica

Tristan Alonge, Le nozze interrotte di Ifigenia da Racine a Euripide297

Lucia Degiovanni, Iole, Onfale ed Ercole innamorato:


da Ovidio al teatro sei-settecentesco311

Matteo Agnosini, Ercole alla corte del Re Sole:


l’Ercole amante di Francesco Buti e le sue fonti333

Caterina Mordeglia, La Fontaine e Aviano (e altri favolisti latini)371

Elena Rossi Linguanti, La Medea folle di Richard Glover383

Margherita Rubino, Orestea tra Ibsen e Strindberg397


IX

Arianna Gullo, A ‘Garland’ of epitaphs from the American Midwest407

Domitilla Campanile, L’immortale dio Pan:


The Pipes of Pan di Lester Del Rey423

Studi Teatrali e Musicali


Francesco Giuntini, Uno sconosciuto manuale di poetica
e il classicismo ‘stravolto’ di Girolamo Frigimelica Roberti437

Fabrizio Della Seta, Susanna e la Contessa451

Massimo Fusillo, Sulla drammaturgia dell’antagonista.


Verdi e l’empatia negativa471

Michele Girardi, Cavalleria Rusticana 1890-1891. La prima messa


in scena di casa Sonzogno nella genesi e nella ricezione dell’opera487

Letterature Moderne

Antonio V. Nazzaro, Iacopo Sannazaro, la chiesa di Santa Maria del Parto


e il Diavolo di Mergellina517

Damiano Moscatelli, Lo spiraglio aperto sul petto:


una metafora paradigmatica nella Finestrina di Vittorio Alfieri533

Enrico De Angelis, «Dio è morto» da Schiller a Heine547

Mauro Nervi, Kleist, Pentesilea. La volontà delle donne, ancora una volta567

Roberta Cella, «Il giovinetto filologo»587

Vivetta Vivarelli, La notte del Tristano e la mezzanotte di Zarathustra


tra Wagner e Bizet601

Concetta D’Angeli, Quando le parole creano i mondi.


Il linguaggio nelle Avventure di Pinocchio 617

Delia Gambelli, Paesaggi dell’anima. Su alcuni interni


della letteratura francese627

Liana Nissim, Astarte decadente (brevi note su Monsieur de Phocas)641


X

Luca Crescenzi, I mondi simultanei di Ernst Jünger.


Su Avvicinamenti e Heliopolis661

Diego Pellizzari, «La degeneración de la estirpe olímpica».


Lettura di Ragnarök di Jorge Louis Borges675

Teoria

Gian Biagio Conte, La procedura giudiziaria e i procedimenti del filologo:


prove, testimoni689

Roberto Gilodi, Alcune osservazioni su letteratura, storia ed ermeneutica709

Federico Di Santo, Rima e psicanalisi723

Carmen Dell’Aversano, «Half humbug and half true»: la valenza politica


delle emozioni tra spontaneità individuale e regolazione sociale737

Remo Bodei, Testimoni della verità. Per un martirologio filosofico,


religioso e politico757

Appendici

Pubblicazioni di Guido Paduano775

English abstracts797

Nuova Biblioteca di «Studi Classici e Orientali»817

Indicazioni per gli autori819

Instructions for the authors823

L’Editore resta a disposizione degli aventi diritto con i quali non e stato possibile comunicare,
per le eventuali omissioni o richieste di soggetti o enti che possano vantare dimostrati diritti sulle
immagini riprodotte.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun
volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68,
commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
Mauro Nervi

KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE,


ANCORA UNA VOLTA*

Guido Paduano, in uno dei suoi lavori più acuti ed emotivamente


coinvolgenti1, dedica alle Supplici di Eschilo uno studio di grande sen-
sibilità umana e letteraria che mette in evidenza, di questa che è, anche
sul piano puramente testuale, una delle tragedie più difficili del teatro
antico, la devianza quasi sovversiva rispetto alla norma sociale ateniese
e al ruolo di sottomissione e coercizione assegnato alla donna, in parti-
colare per ciò che riguarda la scelta amorosa. È un contributo, questo di
Paduano, che va ben al di là di quelli che si definiscono gender studies;
per l’eccezionale ampiezza dello sguardo sulla realtà umana (derivata,
si direbbe, dalla lunga e ininterrotta frequentazione di Shakespeare),
per la precisione filologica e soprattutto per quella sensibilità specifica
al fenomeno letterario che sono del resto caratteristiche evidenti, in ge-
nerale, dell’opera di Paduano nel suo complesso.
Eppure, ciò che anzitutto colpisce nell’analisi di Paduano del testo
di Eschilo è proprio l’attenzione simpatetica nei confronti della liber-
tà e dell’autonomia femminile; un’attenzione cui non sono ovviamen-
te estranee le circostanze in cui tale analisi – secondo le parole dello
stesso Paduano a inizio saggio – è stata effettuata. Un sentimento di
solidarietà profonda pervade così l’esame di una vicenda già di per sé
anomala nella letteratura greca: dove la ribellione delle Danaidi assume
toni talmente universali da rendere il problema sociale in sé (al di là del
caso specifico, che è tuttavia presente) di immediata evidenza per lo
spettatore. E non solo: ma il dramma crea anche una corrente fortissima
di simpatia autoriale nei confronti delle figlie di Danao, le quali pure
– bisogna sempre ricordarlo – erano state condotte dalla loro scelta di
autonomia a una delle più vaste stragi registrate dalla mitologia antica.
Come avviene per Clitennestra nell’Agamennone, di pochi anni succes-
sivo, il gesto sanguinario di per sé non impedisce, ma anzi amplifica

*
Il testo di Pentesilea è citato secondo l’edizione: Heinrich von Kleist, Sämtliche
Werke und Briefe, herausgegeben von H. Sembdner, DTV Klassik, Carl Hanser Ver-
lag, München 1984, Bd. 1, 321-428. Le traduzioni sono mie salvo dove diversamente
indicato.
1
Eschilo, Supplici; mi riferisco all’introduzione di Guido Paduano, dal titolo «La
volontà delle donne», 7-30.

SCO 62 (2019) TOMO II, 567-586 · DOI 10.12871/978883339221937


568 MAURO NERVI

tragicamente la condivisione emotiva dello spettatore nei confronti di


chi l’ha compiuto e delle ragioni che hanno motivato un comportamen-
to così estremo.
Naturalmente il caso delle Danaidi non è l’unico esempio di grandez-
za e autonomia femminile, anche se la sua arcaicità lo rende speciale
e significativo. A parte Clitennestra (ed Elettra, e Antigone), molti casi
singoli ed esemplari vengono ricordati dalla tradizione, talvolta rove-
sciati nella valutazione di chi narra in direzione di un punto di vista
misogino; e questo avviene proprio per il loro carattere di exemplum,
nel bene e nel male. Un piccolo, onesto riassunto si ritrova verso la fine
dell’antichità in Plutarco, che intitola «Le virtù delle donne» uno dei
suoi moralia. Ma successivamente anche Cordelia, e ancor più in là
Brunilde nella Valchiria wagneriana: un altro soggetto cui Paduano ha
dedicato per molti anni un’amorosa attenzione. E ancora oggi, il tema
cinematografico delle girls with guns – di cui il tarantiniano Kill Bill
è un rappresentante di concitata grandezza – prosegue nel pieno della
modernità quel legame indissolubile di violenza e libertà che attraverso
i secoli accompagna le manifestazioni letterarie dell’autonomia
femminile.
E poi ci sono, ovviamente, le Amazzoni. Nelle descrizioni antiche,
il loro rovesciamento del ruolo di genere è spesso tanto simmetrico da
confermare, in fondo, lo schema tradizionale: un po’ come nel caso
della famiglia Addams, dove l’insieme dei comportamenti, tutti rigoro-
samente capovolti, conferma tuttavia i valori di fondo dell’immutabile
famiglia americana. Ciononostante, molti elementi del mito, special-
mente nei suoi aspetti fondativi, hanno le loro radici in un’arcaica ribel-
lione al dominio maschile, una ribellione che la stilizzazione successiva
non può rimuovere completamente, e che si accompagna, ancora una
volta, all’esercizio della violenza e della sovversione sociale.
In piena età goethiana, Kleist ha rielaborato il mito amazzonico in
modo profondamente originale, tematizzando non solo il ribaltamen-
to del dominio di genere – quale si trovava già nel mito – ma anche
l’autentica libertà di scelta amorosa, che viene a conflitto (un conflitto
insanabile e propriamente tragico) con il concetto stesso di dominio
sessuale, sia esso inteso in modo tradizionale, secondo il punto di vista
di Achille, o ribaltato, come prescrive l’antica legge delle Amazzoni.
Scopo di questo contributo è esaminare brevemente come questo nodo
tragico sia presentato da Kleist nella persona di Pentesilea, che vuole
così raggiungere un’impossibile doppia libertà: dal dominio maschile,
ma anche da una legge arcaica che esclude la libertà di scegliersi chi
amare. Secondo la legge amazzonica, solo la procreazione e il dominio
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 569

contano: l’esercizio del potere su un oggetto sessuale reificato dall’e-


sclusione a priori di un’autentica scelta individuale.

Sempre nelle Supplici, il re Pelasgo considera con perplessità il coro


delle Danaidi, che affermano di essere di stirpe argiva, mentre il loro
stesso corpo sembra contraddirle: hanno pelle scura, indossano lussuosi
vestiti barbari, le loro forme femminili sembrano ciprie o indiane al
civilissimo re greco. Come ultimo esempio, Pelasgo le confronta con il
paradigma stesso della devianza femminile:

Anche le Amazzoni che non hanno uomini e mangiano carde cruda, direi
che vi assomigliano, se portaste l’arco2.

Delle Amazzoni, Pelasgo evoca qui (nel testo greco, letteralmente in


tre parole) le tre caratteristiche più salienti per lo sguardo di un greco:
l’indipendenza dal sesso maschile, la ferocia e la bellicosità. Ora, non
è possibile stabilire con precisione quando e in quali circostanze Kleist
abbia incrociato il tema amazzonico, rimanendone tanto colpito da de-
dicare a esso una delle sue tragedie maggiori. Certamente è curioso che
nel lessico mitologico da lui sicuramente utilizzato3 non vi sia cenno
alle abitudini alimentari delle Amazzoni, benché non vengano taciuti
altri comportamenti di sanguinaria aggressività, in particolare nei con-
fronti del sesso maschile4. Ma lo sbranamento cannibalico di Achille,
che è una delle più clamorose innovazioni kleistiane sul mito, potrebbe
avere come origine, almeno sul piano connotativo, dall’aggettivo usato
da Pelasgo nelle Supplici (κρεοβόρους), che descrive una ferocia ani-
malesca cui manca solo un contesto mitico per farsi narrazione. Certo, è
facile riconoscere nel finale di Pentesilea lo σπαραγμός che concludeva
in modo terribile le Baccanti euripidee; e d’altronde (2569) il parago-
ne inorridito con le Menadi è esplicito, rendendo sicura la relazione
intertestuale. Ma andrebbero anche rilevate le profonde differenze dei
contesti drammatici: da un lato il tema essenziale dell’empietà punita
e il rapporto madre/figlio; dall’altro uno scontro puramente umano per
il dominio, e un rapporto amoroso profondo e apparentemente ricam-

2
Vv. 287-289, traduzione di G. Paduano. Nella poesia ellenistica più leziosa, il
confronto «con l’arco / senza l’arco» diventerà un topos comunissimo dei paragoni con
Cupido.
3
Hederich, Lexicon.
4
Viene ad esempio riportata la notizia di Diodoro Siculo (II, 45) secondo cui le
Amazzoni mutilavano braccia e gambe ai loro neonati maschi in un modo tale che da
un lato non potessero più portare armi, dall’altro fossero ancora in grado di svolgere
piccoli lavori servili.
570 MAURO NERVI

biato, ma che sempre oscilla sul pendolo dei rapporti di potere fra i
sessi5. Ritengo che si possa piuttosto dire che Kleist ha utilizzato la
situazione scenica delle Baccanti per mediare un contenuto dramma-
tico vistosamente diverso, diametralmente opposto se non alla grecità,
certamente all’idea che della grecità aveva il classicismo tedesco di im-
pronta winckelmanniana. E difatti, Pentesilea è stata una delle tragedie
kleistiane meno comprese dalla critica fino al Novecento inoltrato, e di
conseguenza anche una delle meno rappresentate, o rappresentate in
modo più distorto6. Ma soprattutto mi sembra significativo e parados-
sale insieme che la critica abbia a più riprese sottolineato la distanza
della Pentesilea dalla tragedia classica, talvolta come un esitante elo-
gio7, più spesso come una confutazione8. Significativo naturalmente
perché sintomatico di una recezione semplicistica e direi quasi perbe-
nista della grecità; paradossale perché esattamente lo stesso aggettivo
ungriechisch era stato usato pochi anni prima da Schiller per definire
il capolavoro del classicismo weimariano, l’Iphigenie auf Tauris, che
nella sua esaltazione del rispetto reciproco e della conciliazione (quasi)
a ogni costo sembra porsi, rispetto a Pentesilea, all’estremo opposto
dell’esperienza umana9.

5
Anche se, bisogna osservare, l’empietà di Penteo si appoggia pesantemente a
sua volta su un reazionario pregiudizio di genere: il rito dionisiaco viene respinto per-
ché trascina le donne «fuori della loro casa», sui monti, lontano dai doveri domestici e
quindi dall’azione repressiva che il maschio esercita sulla loro vita e sulla loro sessua-
lità; il rito sacro è considerato da Penteo un pretesto per dare sfogo alla ninfomania, da
cui tutte le donne (compresa sua madre, si noti) sono evidentemente affette per natura,
secondo l’intramontabile luogo comune sessista: tanto che la loro pietas è considerata
sarcasticamente rivolta «più ad Afrodite che a Bacco» (Bacch., 225).
6
La prima rappresentazione assoluta è del 25 aprile 1876 a Berlino, tuttavia nella
versione purgata e stravolta di Salomon Mosenthal. Anche il Novecento teatrale ha
faticato – nonostante tutte le avanguardie – ad assimilare il dramma nella sua forma
originale, tanto che nella sua messa in scena del 1981 Hans Neuenfels poteva vantarsi
di avere realizzato una specie di Uraufführung.
7
Come nel caso dell’amico Adam Müller, che in una lettera a Friedrich von Gentz
del 6 febbraio 1808 scrive: «In fondo Kleist sarebbe contento, se Lei dicesse della Pen-
tesilea che non è un dramma antico».
8
Karl Bertuch, recensendo nell’aprile 1808 il frammento appena pubblicato dal
Phöbus: «molte cose in essa mi sembrano non greche (ungriechisch)».
9
Schiller in una lettera a Körner del 21 gennaio 1802: «Sie ist aber so erstaun-
lich modern und ungriechisch, daß man nicht begreift, wie es möglich war, sie jemals
einem griechischen Stück zu vergleichen». Vorrei osservare di passaggio che a que-
sti due capolavori così antitetici è comune tuttavia la strategia testuale che consiste
nell’utilizzo di una situazione scenica per mediare contenuti di altra provenienza: nel
caso della Iphigenie, che ricalca (con importanti variazioni) la vicenda dell’omonima
tragedia euripidea, si applicano tematiche derivanti dal Filottete di Sofocle, come ho
cercato di mostrare in un altro lavoro («La verità, ad ogni costo. Echi tematici e testuali
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 571

Del resto, per quanto riguarda le fonti, non sembra che Kleist si sia
preoccupato di cercare molto altro rispetto alle scarse notizie presenti
nel già citato lessico di Hederich. E anche qui l’innovazione di Kleist è
sorprendente, e quasi noncurante di una tradizione famosissima, per la
quale sostanzialmente non esistono nell’antichità versioni alternative.
Chiunque ricorda la freccia al tallone scagliata da Paride, che uccide
Achille nel suo unico punto vulnerabile: mettere in scena una diversa
morte di Achille non è affatto – come verrebbe da pensare – una varian-
te antica, seppur meno diffusa, della tradizione, ma quasi completamen-
te un’innovazione kleistiana. Tra gli eruditi passi citati da Hederich10,
l’unico che riferisce di una (momentanea) sconfitta di Achille è attribui-
to dallo stesso Hederich a Tolomeo Efestione11, secondo il quale Achille
fu ucciso da Pentesilea, ma, subito resuscitato per intercessione di Teti,
provvede a sconfiggere e uccidere l’Amazzone, prima di avviarsi, come
da tradizione, a morire per mano di Paride. Niente di più, insomma, che
un incidente di percorso.
Anche il versante erotico del confronto fra Achille e Pentesilea è
frammentato, nelle citazioni di Hederich, in allusioni confuse e diver-
genti. Citando per esempio gli scholia ad Licophronem, si dice che
«secondo alcuni, [Achille] riconobbe la sua bellezza e la sua gioventù
quando già l’aveva uccisa». Secondo la stessa fonte antica, prosegue
Hederich, il solito vilain rappresentato da Tersite avrebbe profanato il
cadavere di Pentesilea cavandole gli occhi con la lancia, ma soprattutto
avrebbe accusato il vittorioso Achille di essere stato talmente sedotto
dalla bellezza di Pentesilea cadavere da compiere, su di lei morta, «cose
riprovevoli (ungebührende Dinge)». Achille viene, in breve, accusato
di necrofilia, perversione forse ancor più estrema, per l’epoca, dell’ag-
gressività amorosa sanguinaria e delirante di Pentesilea messa in scena
da Kleist. Tuttavia, mi sembra possibile che un ricordo di questa strana
notizia antica sia rimasta, in connotazione e a parti rovesciate, nella
grande scena di eros funerario che segue al riconoscimento, da parte di
Pentesilea, del cadavere di Achille.

Proprio commentando Pentesilea, György Lukács osserva, quasi di


sfuggita, che lo sviluppo drammatico «propriamente kleistiano (echt
kleistisch)» consiste per lo più in una «catena di grossolani frainten-

del Filottete di Sofocle nella Iphigenie auf Tauris di Goethe». Dioniso, II (nuova serie),
pp. 209-218, 2012).
10
Hederich, Lexicon, s.v. Penthesilea.
11
Si tratta invece di Tolomeo Chenno, come ha osservato per primo Helmut Sem-
bdner.
572 MAURO NERVI

dimenti» (aus einer Kette von groben Mißverständnissen)12. Come in


tante osservazioni lukacsiane (per non dire in quasi tutte), troviamo,
descritta con tono derogatorio, una realtà precisa del testo, qualcosa
anzi che appartiene forse alla natura più specifica del tragico kleistiano,
fondato sul fraintendimento e sulla sospensione della coscienza, temi
correnti non solo nell’opera drammaturgica, ma persino in quella in
prosa13. In Pentesilea, naturalmente, la sospensione della coscienza
nella protagonista è centrale nel determinare la catastrofe tragica, lo
sbranamento della persona amata, definito con patetico understatement
«una svista (ein Versehen)», in altri termini un lapsus. Quanto vada
presa sul serio questa specie di terribile distrazione, per la quale il pas-
saggio dalla metafora («ti mangerei di baci») alla lettera ha il piccolo
effetto collaterale di devastare un intero mondo affettivo, è spiegato più
estesamente dalla stessa Pentesilea nei versi successivi, dove il canni-
balismo viene definito come un gesto d’amore autentico che nasce dal
proseguire coerentemente una esagerazione del linguaggio erotico:

Come quelle che, al collo dell’amico,


dicono di amarlo talmente tanto
che se lo mangerebbero d’amore,
e poi, folli!, messe alla prova
ne sono già sazie alla nausea:
ma io, caro, non ho fatto così.
Guarda: quando ero al tuo collo
ho mantenuto alla lettera la mia parola:
non ero poi così pazza come sembravo. (2991-2999)

La solidarietà fra metafora e letteralità è la garanzia della lucidità


estrema: «non ero poi così pazza»; e al contempo naturalmente, per
chi osserva dall’esterno, è solo la prova di quella mancanza di insight
caratteristica del discorso paranoico.
Ma questo disastroso lapsus finale è preparato da una lunga serie di
assenze di Pentesilea, a partire dal momento chiave in cui la protago-
nista vede Achille per la prima volta, descritto da Odisseo con parole
piene di stupore (57-102) nelle quali Pentesilea viene presentata prima
«vuota di espressione», «meno espressiva del palmo della mia mano»,
e subito dopo tanto sconvolta dalla vista di Achille da non prestare più

12
Lukács, Kleist, 7, 214.
13
Su questo aspetto del tragico kleistiano mi permetto di rinviare al mio lavoro
Parenti di sangue. Intertestualità del tragico in Kleist e Kafka, «Between», 7/14 (2017),
consultabile al link http://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/2775/2735.
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 573

orecchio alle parole che le vengono rivolte (83-86), simile d’un tratto
«a una fanciulla di sedici anni»14. Che si tratti, in questa come in al-
tre occasioni, di una specie di trance guerriera è confermato non solo
dalle parole di Protoe (656-663) ma anche dall’immediata reazione di
Pentesilea, che teme di essersi tradita nell’incoscienza: «Perché? Cos’è
successo? Cosa ho detto? Ho forse… Cosa ho dunque…?» (664-665).
Questo è, mi sembra, un punto illuminante per capire la vera dialet-
tica dei desideri che sta all’origine delle periodiche perdite di coscienza
dell’Amazzone. Essere presenti a se stessi implica sempre in lei la cen-
sura delle pulsioni: ed è appunto la repressione che parla nello splendi-
do e paradossale verso: «Maledetto sia il cuore che non riesce a mode-
rarsi» (720), messo sulle labbra di un’eroina che sarà vista sempre come
la più sovversiva confutazione della moderazione classicista. Il punto
intorno a cui ruota tutta la tragedia (il punto più oscuro, su cui si eser-
cita più forte la repressione dell’io cosciente) è che Pentesilea vuole,
con tutta la violenza del suo animo guerriero; ma questa volontà fem-
minile viene repressa e articolata dalla doppia costrizione amazzonica,
che prescrive da un lato un rapporto di dominio sull’oggetto amoroso
maschile, dall’altro l’assenza di una scelta libera, individuale e duratura
di tale oggetto. Ed è un caso esemplare di negazione freudiana, proprio
nel senso chiarito dai fondamentali lavori di Francesco Orlando15, che
Pentesilea giustifichi con interessi generali la sua determinazione a tor-
nare in campo per affrontare nuovamente Achille: «Forse che penso
solo a me stessa? Sarebbero forse solo i miei desideri a richiamarmi sul
campo di battaglia?» (682-683). La risposta a questa domanda retori-
ca, che dà evidentemente voce al represso, deve essere semplicemente:
sì. Sono proprio i suoi desideri privati il motore dell’azione tragica, la
volontà femminile di appropriarsi del corpo di Achille, e proprio solo
di lui: appropriarsi della sua ipseità, come direbbe Barthes. Ma quando
Pentesilea recupera lo stato cosciente, la repressione torna a far valere
la sua forza, in una contraddizione che l’Amazzone percepisce come
logica ancor prima e più che psicologica: «e la mia anima è tutta un
opporsi, tutta una contraddizione» (680). Una contraddizione profonda
che, come sempre in questi casi, mette in dubbio addirittura i fonda-
menti dell’identità personale: «Cosa sono io, da qualche ora?» (747).

14
Va ricordato che Kleist stesso ha messo in opposizione Pentesilea con l’adole-
scente Caterina di Heilbronn, in un rapporto che Kleist, in una delle sue non infrequenti
incursioni nella matematica, definiva simile «al segno di più e meno dell’algebra» (let-
tera a Collin dell’8 dicembre 1808).
15
Ad esempio nella sua decisiva lettura della Phèdre raciniana (Orlando, Phèdre).
Non mi pare un caso che sia stata possibile una rappresentazione parallela di Pentesilea
e di Phèdre da parte di Alexander Lang nel 1987.
574 MAURO NERVI

Questa Urszene di importanza (è il caso di dirlo) drammatica, in cui


Pentesilea incrocia per la prima volta lo sguardo di Achille e che vie-
ne riferita dalle parole straniate di Odisseo, meriterà una ripetizione
analettica nel ricordo della stessa Pentesilea, quando nella scena cen-
trale del dramma – convinta a torto di avere realizzato il suo sogno
di dominio e possesso amoroso – ne farà partecipe Achille, che crede
suo prigioniero, in un momento di tenera quanto illusoria condivisione
della sua storia emotiva con colui che crede ormai suo compagno in un
vagheggiato lieto fine a Temiscira, patria delle Amazzoni16. Con stra-
ordinaria immagine, Pentesilea dichiara che, prima di vedere Achille,
l’intero mondo era come «una grande rete disegnata (ein Musternetz)»
distesa davanti a lei che aspettava (2189), nella quale l’oggetto amoroso
doveva necessariamente cadere; e ai suoi occhi in attesa compaiono il
duello violento con Ettore e soprattutto l’incontro con Priamo, l’episo-
dio più commovente dell’Iliade e forse di tutta l’epica, nel quale splen-
dono sia l’umanità sia l’inesorabile durezza del carattere di Achille. Ma
l’incontro diretto con l’eroe è descritto in termini di abbagliamento,
dove si mescolano il ricordo di un famoso verso di Saffo e l’episodio
divino alle origini del mito amazzonico:

Ma cosa fu di me,
o amico, quando ti vidi davvero!
Quando mi apparisti nella valle dello Scamandro,
circondato dagli eroi del tuo popolo,
un astro del giorno fra pallide stelle notturne!
Non diverso sarebbe stato se con i suoi bianchi destrieri
fosse sceso fra i tuoni direttamente lui stesso,
Marte, il dio della guerra, a salutare la sua sposa;
stavo là, abbagliata. (2204-2212)

Tanto grande è l’emozione scatenata dal ricordo, che Pentesilea si


lascia sfuggire ciò che le apparve in quel momento come una realtà
incontrovertibile e anche irresistibile: «Mi aveva colpita il dio dell’a-
more» (2219), senza quasi rendersi conto che proprio questa è la sua
trasgressione e la sua anomalia dal punto di vista amazzonico: alle sue
compagne era infatti consentito di piangere quando, dopo la notte d’a-
more con le loro prede, erano costrette a separarsene (2083-2087), a lei

16
Una simile possibilità di scioglimento positivo era del resto inclusa fra le va-
rianti del mito registrate da Hederich, in cui Pentesilea, sposa ad Achille, gli dava un
figlio di nome Caistro (toponimo di un fiume in Asia Minore, citato in diverse occasioni
anche da Hölderlin).
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 575

naturalmente questa possibilità è preclusa in partenza, e il fatto stesso


di avere fatto una scelta amorosa tanto precisa entra in un conflitto in-
sanabile con la legge amazzonica. Un conflitto di cui si rende conto lo
stesso Achille, il quale si chiede logicamente se anche lui verrà allonta-
nato dopo il primo amplesso: e come sempre, quando Pentesilea viene
messa esplicitamente davanti al suo paradosso, le parole vengono meno
e segue una non risposta: «Non chiedermelo» (2091).

Allora la questione di fondo alla base del conflitto tragico è proprio


questa: perché proprio Achille? È interessante che lo stesso eroe gre-
co si ponga esplicitamente questa fondamentale domanda ai vv. 2093-
2094: «Ma perché proprio me hai inseguito con tanto ardore?». Achille
se lo chiede con stupore, e, se è lecito presumerlo, con un qualche omi-
noso presagio di sventura, sia pure temperato dalla coscienza di avere,
al momento, il coltello dalla parte del manico, ciò di cui Pentesilea è
invece del tutto inconsapevole. La risposta che ne riceve è profonda,
illuminante e, al contempo, sottilmente fuorviante, per motivi che ve-
dremo subito. Pentesilea, in un patetico racconto, riferisce la morte di
sua madre Otrere a Temiscira, dove il tempio «svetta dalla foresta di
querce» (2101)17. La madre muore proprio quando Ares, per bocca della
sacerdotessa, ha comunicato alle Amazzoni che la loro prossima preda
saranno i Greci, di cui esse conoscono le principali, gloriose imprese,
che vengono brevemente passate in rassegna (le Amazzoni hanno, evi-
dentemente, letto l’Iliade). Nell’esultanza generale per una preda così
prestigiosa, Otrere sta morendo: non prima però di aver raccomandato
alla figlia di partecipare alla guerra imminente, profetizzando: «tu in-
coronerai il Pelide» (2138), ed esortandola a diventare una madre lieta
e fiera come lei. In modo analogo a tante altre profezie, anche questa si
realizza alla lettera, ma in un contesto molto diverso rispetto a quello
immaginato da chi ascolta: Pentesilea riuscirà infatti a incoronare il
Pelide (ciò che si realizza nella didascalia dopo il v. 1773), ma in un
contesto di finzione e inganno, mentre quella che era una semplice esor-
tazione (quindi, a rigore, già esterna alla profezia) non si avvererà mai.
Segue, ai vv. 2150-2169, la descrizione del lutto disperato di Pente-
silea per la morte della madre, il cui ultimo desiderio è per lei più im-
portante degli stessi ordini del dio Ares (2167-2169), un’affermazione
oggettivamente empia, che mostra quanto l’Amazzone sia, già ora, al
di fuori delle costrizioni istituzionali cui il suo sentimento dovrebbe ub-

17
Questa immagine del tempio che si innalza dalla foresta è tematizzato altre vol-
te nella tragedia con parole molto simili, e in particolare con patetica ripetizione quando
Pentesilea implora Achille di seguirlo a Temiscira (2283, 2287, 2290).
576 MAURO NERVI

bidire. L’elaborazione del lutto, il sollievo dal dolore, si realizza duran-


te il viaggio verso Troia (2177), trasformandosi progressivamente in un
oggetto erotico ricercato con una violenza emotiva che è perfettamente
equivalente alla violenza del dolore luttuoso che l’aveva preceduta. C’è
in Pentesilea, dunque, un vero e proprio spostamento freudiano della
pulsione dalla madre all’amato, il quale viene desiderato con un sen-
timento altrettanto irresistibile e totalitario quanto può esserlo il senti-
mento coinvolto nel rapporto più creaturale di tutti, quello con la madre.
In che senso dunque la profezia di Otrere sul letto di morte può essere
sottilmente fuorviante? Mentre la violenza e l’esclusività del desiderio
di Pentesilea, da qualunque esperienza provengano, appartengono inte-
ramente a lei stessa, sembrerebbe che non sia così per quanto riguarda
l’individuo che sarà, alla fine, l’obiettivo finale del suo amore distrutti-
vo. Se è la madre a indicare il nome all’Amazzone, ciò comporta natu-
ralmente un’importante limitazione della sua libertà di scelta, vincolata
dalla costrizione affettiva, oltre che dalla forza efficace, illocutoria, che
è intrinseca a ogni parola profetica. La volontà di Pentesilea, che è il
principale oggetto del nostro interesse, sarebbe arginata in modo rile-
vante da un’altra volontà – sia pure ad essa per molti versi solidale in
quanto femminile, materna e orientata alla prosecuzione della dinastia.
Tuttavia, mi sembra, non è affatto così. Ciò che subito fa seguito al
racconto della profezia, infatti, è una di quelle caratteristiche sconnes-
sioni logiche del testo kleistiano, che sembra quasi porre in dubbio se
stesso nel momento stesso in cui viene enunciato. (Si rischia sempre
di sottovalutare Kleist, come di fatto è successo per lungo tempo, se
non si ha sensibilità per questa complessità dei piani logici.) Appena
Pentesilea rivela una così precisa indicazione da parte della madre, una
stupefatta Protoe la interrompe chiedendo: «Quindi proprio lei, Otrere,
ti ha detto il nome?» (2141) La risposta dell’Amazzone è il solito ca-
polavoro di ambiguità: «Protoe, me lo disse in confidenza / come con-
viene che lo dica una madre alla figlia» (2142-2143). Davvero, l’arte
della non risposta è una specialità di Pentesilea in tutto il dramma, ed
è al contempo l’espressione testuale del paradosso e la via di fuga da
esso. Cosa significano di preciso questi due versi? Che ha pronunciato
il nome di Achille, ma in modo allusivo, senza un’indicazione esplici-
ta che quella dovesse essere la scelta amorosa giusta, approfittando di
quella «confidenza» materna che, sfiorando l’identificazione, non limita
davvero la libertà di una figlia? Oppure, come io credo, Pentesilea con-
fessa che le parole di Otrere non erano esattamente quelle poco prima
riferite, ma una generica esortazione senza un vincolo esplicito della
scelta amorosa? E allora sarebbe evidente a chi ascolta che Pentesilea,
senza dirlo apertamente, ha proiettato sulle ultime parole della madre il
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 577

suo personale desiderio, la sua scelta liberissima di ambire ad Achille,


la preda più prestigiosa possibile18.
Che quest’ultima sia l’interpretazione più probabile, e forse anche
l’unica logica, mi sembra provato dal fatto che proprio a Pentesilea toc-
ca di enunciare nella forma più chiara e incontrovertibile quella legge
fondante delle Amazzoni che lei stessa ha violato scegliendo Achille.
Quando infatti il Greco si stupisce dello stupore di Protoe, Pentesilea
chiarisce così:

Non conviene (es schickt sich nicht) che una figlia di Marte
vada a cercarsi l’avversario; ma deve scegliere
colui che il dio le pone davanti nella battaglia. (2145-2147)

Es schickt sich nicht: ma è esattamente quello che ha appena fatto lei


partendo verso Troia per cercare Achille, cercando con lo sguardo sul
campo di battaglia soltanto lui, rifiutandosi di abbandonare la lotta fin
quando non avesse sottomesso lui. Ma se Pentesilea è così chiaramente
cosciente del divieto di libera scelta e lo annuncia così solennemente
proprio qui, subito dopo aver riferito una profezia materna che lo con-
traddice in modo tanto plateale, non si sfugge all’idea che qualcosa non
torni nel sognante ricordo di quella notte. Le parole di Otrere, riferite in
tre versi (2137-2139), sono perfettamente ragionevoli e conformi alla
legge nel primo e nel terzo verso, dove la figlia viene esortata da un lato
alla guerra, dall’altro alla riproduzione; mentre il verso che è incuneato
al centro, dove il nome fatale del «Pelide» (equivalente in tutto a un
nome proprio) viene pronunciato, è legalmente e anche logicamente
impossibile sulle labbra di Otrere, e vi è stato collocato, in forma di
falso ricordo, dal divorante desiderio di Pentesilea.

Pentesilea dunque vuole e sceglie Achille, prima di tutto perché è


il più grande eroe guerriero, anzi in un certo senso l’Eroe per antono-
masia19, e quindi l’unico degno di amore da parte della regina delle
Amazzoni; poi perché nell’amore per lui si trasferisce, immutata, la

18
L’amore per Achille, che Pentesilea non ha ancora mai visto, rientra natural-
mente nello schema favolistico dell’innamoramento a distanza, in cui il protagonista
sceglie liberamente la persona amata solo sulla base della sua fama di bellezza o per
la notorietà delle sue azioni belliche. La dialettica di desiderio e narcisismo che tale
schema presuppone a mio parere garantisce, piuttosto che escludere, la possibilità di
un tale amore.
19
Su Achille e gli altri protagonisti epici, in rapporto ai fondamenti dell’agire
moderno occidentale, si può leggere l’illuminante libro di Guido Paduano (Paduano,
Eroe).
578 MAURO NERVI

violenza del sentimento luttuoso; infine per tutti gli altri privatissimi e
sconosciuti motivi che rendono ogni amore unico e irripetibile.
Ma mi interessa ora vedere in che modo questa, che è la decisione
più trasgressiva di Pentesilea, raggiunge la superficie esplicita del testo.
L’Amazzone non può dichiarare coscientemente la propria libertà, per-
ché anche se regina (o proprio per questo)20 accetta il vincolo arcaico
della legge e anzi, come si è visto, è lei stessa a enunciarlo nella sua
forma più chiara: il suo io cosciente e il suo ruolo istituzionale, insieme
con la voce unanime del popolo amazzonico fedele alla tradizione, sono
uniti a formare il coro potente della repressione. Ciononostante, come
al solito, la pulsione non si lascia reprimere senza residui: ma trova la
strada di una formazione di compromesso nelle presunte ultime parole
di Otrere, le quali, trascurando le prerogative del dio, si fanno portavoce
del desiderio di Pentesilea, ma in forma di proibizione della proibi-
zione: a Pentesilea non è più consentito (diversamente da tutte le altre
Amazzoni) affidarsi al dio che provvederà lo strumento casuale della
riproduzione sessuale; ma sarà costretta alla scelta materna, che guarda
caso coincide perfettamente con quella che sarebbe la sua scelta auto-
noma e indipendente. Nella forma di reverenza filiale alla volontà della
madre morente (i cui ordini, dice, le sono più sacri di quelli di Ares) si
manifesta – e solo così può manifestarsi – la voce del desiderio e la vo-
lontà di una scelta che non più il dio, ma lei, proprio lei, la donna Pen-
tesilea, ha deciso liberamente di riservarsi. Attraverso la formazione di
compromesso Pentesilea può illudersi di dare un aspetto accettabile al
suo desiderio: la procedura divina per la selezione di un maschio a fini
riproduttivi viene sì infranta, ma per effetto di una costrizione che per
lei è ancor più forte, e cioè la pietas filiale. Pentesilea si sente innocente
perché le era impossibile ubbidire alla legge divina, e ad impossibilia
nemo tenetur. Come riconosce Protoe,

Se non puoi, non vuoi, così sia! Non piangere.


Resto con te. Ciò che non è possibile,
che non è, che non rientra nel cerchio delle tue forze,
e che tu non puoi fare: mi guardino gli dèi
dal pretenderlo io da te! (1272-1275)

Ma di questo inganno (o autoinganno) non resta certo vittima la sa-


cerdotessa, che rappresenta il buon senso e la legalità, e che pone in

20
Vedi la solenne autodenominazione di Pentesilea regina delle Amazzoni ai vv.
1824-1827. Essere regina implica naturalmente il ruolo di garante delle leggi fondazio-
nali di un popolo.
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 579

chiaro senza esitazioni che proprio la libera scelta è la colpa prima da


cui sono derivate tutte le altre («non solo, trascurando la tradizione, ti
sei scelta l’avversario sul campo di battaglia […]», vv. 2315-2316), pre-
vedendo quindi con lungimiranza che Pentesilea deve soccombere non
a un nemico esterno, ma «al nemico nel suo petto» (1108).
La formazione di compromesso attraverso cui il represso trova la
sua strada per arrivare al testo letterario si realizza a diversi livelli e
secondo diversi gradi di repressione21. Nel caso appena esaminato la
repressione è sociale e viene aggirata con un elemento dell’analessi
drammatica; ma in altri casi la formazione di compromesso si fissa a
livello dei meccanismi del linguaggio, sul piano puramente retorico di
una metafora vagamente dissonante. Ritengo che questo sia uno stile-
ma profondamente kleistiano, al quale fra l’altro è stata riservata poca
attenzione critica: vorrei quindi chiarire meglio ciò che intendo, e vor-
rei farlo con un esempio che mi sembra particolarmente evidente, ben-
ché esterno a Pentesilea. Nel Principe di Homburg, a un certo punto si
diffonde la falsa notizia della morte del Principe Elettore in battaglia;
Homburg, il quale – senza che ciò sia detto esplicitamente – sentiva
l’Elettore come un ostacolo insuperabile alla sua unione con la di lui
nipote Natalie, pur aderendo sinceramente al cordoglio universale trova
finalmente la forza per superare i suoi tentennamenti e propone a Nata-
lie di sposarlo. Poiché il suo amore è ricambiato, si prospetta così, nella
sventura pubblica, una specie di felicità privata, un idillio potenziale
che è stato reso possibile dalla scomparsa violenta del principale fattore
di repressione. Quando poi gli viene comunicato che l’Elettore è ancora
vivo, Homburg non può esimersi dall’unirsi al sollievo generale, ma
chiede dettagli sull’equivoco al conte Sparren esclamando: «Dimmi!
Racconta! La tua parola cade pesante come l’oro (schwer wie Gold)
dentro il mio petto!» (637-638). Schwer wie Gold: il paragone regge,
perché notoriamente l’oro è un metallo pesante: è inoltre il metallo più
prezioso e desiderabile di tutti, quindi ben si presta a rappresentare la
gioia per il ritrovamento della figura dell’Elettore. Gioia, ma certamen-
te non sollievo: ciò che passa, attraverso questa metafora un po’ goffa,
è soprattutto il concetto di “peso nel cuore”, la preoccupazione (più che
giustificata) di Homburg che l’Elettore possa opporsi alla sua unione
con Natalie, e il presagio del finale tragico e ambiguo, con tanto di
sorprendente condanna a morte, che lo aspetta. – Simili espressioni am-
bigue, in cui si convogliano e mirabilmente si fondono correnti emotive
opposte, sono molto frequenti nel teatro di Kleist. In Pentesilea, per

21
Una tassonomia forse completa di questi diversi gradi e livelli, esaminata a
livello teorico, si trova in Orlando, Teoria, oltre che nel già citato lavoro sulla Phèdre.
580 MAURO NERVI

rimanere sul piano della metafora ambigua, Protoe, che continuamen-


te asseconda e contraddice la protagonista pur senza capire il conflit-
to tragico di fondo, viene da lei definita «una gelata di maggio» (ein
Maienfrost, 1713) perché irrigidisce nell’incomprensione i suoi senti-
menti, ma nello stesso tempo è anche l’unica, nella freschezza prima-
verile della sua gioventù, a rimanere con lei quando Pentesilea rifiuta
la fuga (1270-1277) e a riconoscere in lei, pur non comprendendo, una
complessità dei sentimenti degna dell’Elvira mozartiana: «Ogni petto
che prova sentimenti è un enigma» (1286)22. Ed è la stessa Protoe che in
una singola similitudine riesce a esprimere la saldezza cui esorta Pen-
tesilea e, contemporaneamente, il timore inespresso che la personalità
stessa dell’Amazzone possa condurla all’esito rovinoso: «Resta in pie-
di, resta salda come l’arco / che è saldo perché ognuno dei suoi mattoni
vuole crollare» (1349-1350). Protoe, che è sempre la prima a prevedere
l’esito tragico, capisce alla fine che una follia irreversibile sarebbe per
Pentesilea migliore di un ritorno alla coscienza che la metta di fronte
alla realtà (2813)23. E proprio a lei, Protoe, è riservata la sentenza finale
che riassume in una sola immagine (la quercia giovane che è stroncata
dalla tempesta più facilmente di quella secca, priva di una chioma che
resista al vento) la forza e insieme la fragilità della sua regina24.

L’uso drammaturgico delle frasi ambigue, dove le diverse correnti


sotterranee del testo confluiscono in una sola figura retorica che defini-
sce una volta per tutte la posizione del personaggio, assume talvolta in
Pentesilea lo statuto di ironia tragica; descritta quest’ultima da Paduano
come l’effetto di una discrepanza conoscitiva fra il destinatario e il per-
sonaggio che sta parlando sulla scena25. In questo dramma kleistiano,
lo strumento dell’ironia è pressoché sempre utilizzato per amplificare
ciò che da sempre si oppone alla sensibilità e all’intelligenza femminili:
l’arroganza e, soprattutto, la stupidità dei maschi, che è come dire la
loro presunzione autoassertiva, non esente da una certa ripugnante fur-

22
Vedi anche la successiva osservazione di Protoe: «La sua anima non si lascia
calcolare» (1536) e il suo riconoscimento, pur privo di comprensione, del conflitto:
«Gioia e dolore, lo vedo, sono ugualmente una rovina per te, / e ugualmente entrambi ti
trascinano alla pazzia» (1665-1666).
23
Un concetto che discende naturalmente dall’Aiace sofocleo, dove il protagoni-
sta, dopo il ritorno dalla follia a una realtà terribile, prova invidia per l’inconsapevolez-
za infantile del figlio Eurisace: «Non capire è la vita più dolce» (553, trad. G. Paduano).
24
Una sentenziosità riassuntiva che ricorda, sia pure nella diversità del contenuto,
l’explicit del Tasso goethiano.
25
Paduano, Ironia: «il repentino irrompere di una focalizzazione zero a stravolge-
re il senso consapevole, sottolineando in maniera bruciante l’inadeguatezza conoscitiva
dell’individuo» (63).
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 581

bizia, con cui sperano di guadagnare ciò per cui la forza o il valore non
erano evidentemente sufficienti. Mettere bene in luce questi elementi
era per Kleist fondamentale, perché l’enormità della violenza cannibale
messa in atto da Pentesilea sul suo amante rendeva difficile creare nello
spettatore un sentimento di solidarietà e simpatia verso l’Amazzone.
Ma bisogna dire che, a parte le ragioni drammaturgiche, non c’è
niente di veramente esagerato in questa mimesi dei luoghi comuni
sessisti sciorinata da Achille e Odisseo in quasi tutte le scene in cui i
grandi protagonisti dei due poemi omerici parlano sulla scena; seco-
li di misoginia rendono poco sorprendenti i discorsi di due guerrieri
che vogliono ricondurre alla ragione un popolo di donne che deviano
in modo tanto clamoroso dalla norma sociale di sottomissione, sempre
attribuita senz’altro dalla cultura maschile allo stato di natura26. Il fatto
nuovo è che mentre nella tradizione classica, unanimemente, Pentesilea
veniva comunque alla fine sconfitta e uccisa27, in Kleist inopinatamente
è Achille che ha la peggio, anche perché il suo piano – come riconosce
persino Odisseo – risulta essere particolarmente stupido e irrispettoso
della realtà; Achille viene preso di sorpresa da Pentesilea; lui aveva
programmato, secondo le sue ultime parole (2664-2665), una festa del-
le rose – ingannevole, va da sé – e si ritrova all’improvviso sbranato
dall’Amazzone e dalle sue cagne.
Questa speciale stupidità maschile non è un attributo casuale, ma
discende direttamente da una forte assunzione del ruolo di genere da
parte dei protagonisti. Odisseo è turbato dal valore militare di Pentesi-
lea, nonché evidentemente dalla sua bellezza, perché con espressione
sintetica si augura di vedere l’«orma del piede» di Achille stampata
«sulle guance belle e fiorenti» di lei (535-536). Per quanto riguarda
Achille, la sua appartenenza di genere è addirittura proclamata, ed è
forse per questo che proprio lui si designa come l’unico in grado di
combattere la donna Pentesilea – e a soccombere, naturalmente: «Se
voi volete combattere come i castrati, fate pure; / ma io mi sento un
uomo, e a queste donne / starò innanzi, anche fossi il solo dell’esercito»
(587-589). Ciò che segue (590-606) è addirittura una repulsiva vanteria
da libertino mancato, un esempio di quelle chiacchiere da spogliatoio
che qualcuno ancora adesso considera meritevoli di indulgenza a priori,

26
Ci si può legittimamente chiedere perché allora Pentesilea di un simile babbeo
sia tanto innamorata da paragonarlo al sole (1384 e ss.). Ma questa è, almeno in Kleist,
un’evenienza frequente: lo stesso Homburg, che a parte il suo narcisismo non fa mostra
di speciali doti intellettuali, è sinceramente amato da Natalie.
27
Secondo la testimonianza di Ditti Cretese (IV, 3), citata da Hederich, il suo ca-
davere non fu seppellito, ma oltraggiosamente buttato nello Scamandro «perché aveva
fatto più di quanto fosse consono al suo sesso».
582 MAURO NERVI

e forse lo sono davvero, in quanto illusorio conforto dell’impotenza.


Per quanto riguarda Achille, il suo carattere viscido appare evidente
nella lunga e terribile scena XV, dove Pentesilea crede di essere vitto-
riosa e di poter quindi esercitare sul greco il suo dominio e al contempo
la sua clemenza, mentre in realtà è stata sconfitta, e non ha perciò alcun
diritto sulla persona di Achille. Forte della situazione di fatto, laddove
Pentesilea vive in una specie di sogno, il greco mostra una cedevolezza
estremistica a ogni richiesta di lei, e si lancia in dichiarazioni innamo-
rate che sfiorano – senz’altro volutamente – il ridicolo: per esempio
quando paragona se stesso a un giovane destriero e Pentesilea a un’at-
traente e profumata mangiatoia piena di fieno (1841-1842)28. E tuttavia,
cupa e improvvisa risuona la voce dell’ironia tragica persino nella più
convenzionale delle sue esclamazioni: «Il mio cigno canta anche nella
morte: Pentesilea!» (1829). È veramente, per dirla in breve, il ridicolo
canto del cigno di Achille.
Del resto, sembra essere il destino di Achille quello di preconizzare
ironicamente la propria fine nello stesso momento in cui il suo atteg-
giamento sessista verso Pentesilea e le donne in generale diventa più
odiosamente esplicito29. Nella scena XXI, Achille rende noto a Diome-
de e Odisseo il suo progetto di farsi sconfiggere da Pentesilea intenzio-
nalmente, per poterla conquistare così, dato che l’Amazzone sembra
tenerci tanto all’apparenza della superiorità bellica; di fronte ai ragio-
nevoli dubbi di Diomede30, Achille si dichiara certo che Pentesilea «non
mi farà niente, te lo dico io!» (2471), e procede a esporre il suo piano:

28
Le sciocchezze erotiche di Achille non sono tuttavia prive di rimandi interni: qui
il Duft der Krippe fa eco al Duft […] deiner Lippen elogiato pochi versi prima (1780).
29
Il passo qui discusso non è l’unico. Poco più sotto Achille sottovaluta comica-
mente la ferocia degli animali che accompagnano l’Amazzone e di cui finirà vittima:
«Scommetterei che mangiano dalla mano… Seguitemi! Oh, sono mansueti come lo è
lei» (2547-2548): dove il verbo fressen ha risonanza di presagio, mentre l’equiparazio-
ne fra la mitezza delle belve e quella di Pentesilea si rivela paradossalmente giustissi-
ma, ma nel senso opposto a quello immaginato da Achille.
30
E di Odisseo, del quale curiosamente Achille non sopporta «la smorfia delle
labbra» (2451-2452); smorfia che si realizza immancabilmente, suscitando la violen-
ta reazione di Achille, quando Odisseo verrà a conoscenza del progetto (2496-2499).
Odisseo non è esente a sua volta da una grossolana superficialità, che verrà smentita
dai fatti, quando traduce in un aristotelico terzo escluso la sua semplicistica e violenta
visione del mondo: «per quel che ne so, in natura non v’è altro / che la forza e la resi-
stenza ad essa, e niente terzi» (125-126). La stupidità virile consiste, fra le altre cose,
anche in questo tipo di ottusa assertività. Ben più profonda è Pentesilea quando parlan-
do della sua anima esclama invece nel verso già citato sopra che «è tutta un opporsi,
una contraddizione» (680).
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 583

Per una sola luna


io voglio assecondarla in quel che vuole;
per una, al massimo due, e non di più. (2474-2476)

Un passo, questo, che consente di porre a confronto le diverse volon-


tà di dominio dei due protagonisti: quella di Pentesilea è solo pregiu-
diziale, un esito della tradizione, e quindi della storia delle Amazzoni;
ma non appena crede di aver adempiuto questo primo passaggio, gli
restituisce subito solennemente la libertà: «la libertà io ti dono» (1830).
La donna può pensare il rapporto amoroso solo come una relazione
fra pari, dotati di eguale dignità. Per Achille è esattamente il contrario:
pregiudiziale è soltanto la finzione, mentre definitivo sarà il dominio
maritale: sarà lei a seguire lui (2480), sia pure sul trono di Ftia. Secondo
la morale corrente, che Achille considera ovvia e naturale, Pentesilea ha
già vinto la partita: non è più, come era all’inizio, una occasionale preda
sessuale, ma è scelta dal maschio per essere la reginetta della casa di lui.
Non stupisce che di fronte a questa terrificante prospettiva Pentesilea
reagisca con un’esplosione di sanguinaria violenza. Il delirio omicida
del finale è un esito della stupidità di Achille sia sul piano puramente
drammatico (è la conseguenza pratica di una sventata sottovalutazione)
sia soprattutto come risposta, l’unica adeguata, ai suoi ripugnanti piani
di inganno e sottomissione domestica. E, sempre in tema di prolessi
drammatica e rovesciamenti: lo sbranamento finale è curiosamente an-
ticipato dal momento di massima tenerezza in cui Pentesilea incorona di
fiori Achille, passandone amorosamente in rassegna le parti del corpo:

Ecco, solo questo leggero cerchio di rose


intorno al tuo capo, lungo la schiena,
sulle tue braccia, le tue mani, i tuoi piedi –
e di nuovo la tua testa – ecco, è fatta. (1776-1779)

Un passo che deve essere messo in parallelo con il terribile verso


della teicoscopia finale, in cui un’amazzone descrive in diretta l’orrore:
«Ecco, che strappa a pezzi le membra di Achille!» (2597). Il confronto,
inoltre, illumina di senso anche ciò che Pentesilea insanguinata dirà
subito dopo, e cioè che per lei, a differenza di Achille, il possesso della
persona amata è sempre un gesto d’amore, anche se trasferito, per una
«svista», sul piano del cannibalismo.

Ma l’amore di Pentesilea ha come sfondo imprescindibile Temiscira,


sia perché è il luogo dell’affetto materno e della conseguente rammemo-
razione luttuosa, sia soprattutto perché è il nome della sua indipendenza
584 MAURO NERVI

sessuale, della possibilità di un rapporto che sia veramente autonomo e


reciprocamente rispettoso. Questa non è certamente una fisima privata
di Pentesilea, ma affonda le sue radici nella storia del popolo amazzo-
ne: in una lunga digressione (1913-2001), Pentesilea narra ad Achille
(e allo spettatore) come il popolo della Scizia di cui le Amazzoni sono
discendenti fosse sconfitto dal re egizio Vexoris, il quale con il suo eser-
cito non si era limitato allo sfruttamento economico delle regioni sot-
tomesse, ma dopo avere sterminato tutti i maschi di tutte le età aveva
costretto le donne alle nozze e alla sottomissione sessuale. Ma poiché
l’essere umano sopporta solo «dolori moderati», mentre prima o poi
si libera di quelli insoffribili (1934-1936), nella prima notte di nozze,
e «in una sola notte» (1951), le donne pugnalarono a morte tutti i loro
violentatori. Le ovvie somiglianze di questo mito di fondazione con
quello delle Danaidi non sono state, mi sembra, focalizzate a sufficien-
za dalla critica31, laddove a me sembrano evidenti, e rese praticamente
certe dall’origine egiziana, in entrambi i casi, del popolo dominatore.
Come in Turandot, il grido di quello stupro iniziale si ripercuote nei
secoli su tutte le discendenti32, determinando le due leggi di selezione
sessuale delle Amazzoni, leggi che sono però anche garanzia di libertà
e dignità femminile, secondo la splendida descrizione che ne fa Pente-
silea ai vv. 1957-1961:

Sia fondato dunque uno stato, autonomo,


uno stato di donne, che nessun’altra voce
maschile, bramosa di dominio, possa in futuro sopraffare;
che si dia leggi da sé, con dignità,
a se stesso ubbidisca e se stesso difenda.

Ed è in questo che Temiscira si oppone drasticamente a Ftia: un’esem-


plare opposizione simbolica fra libertà e sottomissione che verrà dura-
mente esplicitata da Achille nel momento terribile in cui cade il velo della
finzione: «Ma non sarò io a seguirti a Temiscira, bensì tu seguirai me
nella fiorente Ftia» (2234-2235); e non serve a nulla che Achille prometta

31
Per esempio citate, molto cursoriamente, in Breuer, Handbuch, 53. La fonte di
Kleist (Hederich, s.v. Danaides), descrive dettagliatamente il mito, con parole molto si-
mili a quelle usate da Pentesilea per raccontare la strage operata dalle prime Amazzoni.
32
«In questa reggia, or son mill’anni e mille, / un grido disperato risuonò. / E quel
grido, dal fior della mia stirpe, / qui nell’anima mia si rifugiò!». Questa l’aria di apertu-
ra, che Paduano così commenta: «Turandot […] è una protagonista dominante e isolata
[…]; ma insieme è anche una funzione collettiva, perché, succube di un’assidua scena
primaria, è anche una sua lontana antenata che fu violentata e uccisa (e per suo tramite,
aggiungerei, è anche tutte le donne violate nella storia)» (Eschilo, Supplici, 28).
KLEIST, PENTESILEA. LA VOLONTÀ DELLE DONNE, ANCORA UNA VOLTA 585

a Pentesilea di ricostruire per lei a Ftia il tempio di Diana (2292): perché


in tal caso padrone del tempio sarebbe comunque lui.
Ma il vero paradosso drammatico sottostante l’intera vicenda di Pen-
tesilea (e anche di Turandot e di Ipermestra, del resto) è che le medesi-
me leggi poste a difesa di un’autonomia praticamente impossibile nella
cultura antica33 diventano, proprio per la loro validità erga omnes, una
limitazione – ritualmente fondata – di quella stessa libertà di scelta ses-
suale dalla cui affermazione sono nate. Pentesilea è eccezionale perché
in lei parla una femminilità profonda, doppiamente trasgressiva, sia sul
piano sociale (per la sua appartenenza al popolo delle Amazzoni, di cui
condivide in pieno la collettiva presa di possesso del proprio destino),
sia soprattutto sul piano di una luminosa devianza individuale, che la
porta a perseguire e proclamare una (in tutti i sensi) singolare libertà di
scelta amorosa.
Le donne, da sempre, rendono più complessa e sfumata la superfi-
cialità e semplicità del mondo maschile; lo afferma memorabilmente
Protoe, in una frase che potrebbe essere esemplare anche per la Phèdre:
«Nel petto delle donne si agitano molte cose che non sono fatte per la
luce del giorno» (1507-1508). Perciò, in fin dei conti, le donne vanno
amate non per la loro tenerezza, e tanto meno per la loro debolezza,
ma per la loro complessità. Ed è soprattutto per questo che, come dice
Paduano, le donne sono migliori34.

33
Impossibilità enunciata nel dramma addirittura da una voce divina al momento
dell’incoronazione di Tanaide (1977-1982), e da lei brutalmente contraddetta con il ge-
sto fondazionale (anche dal punto di vista etimologico) con cui si taglia il seno destro.
34
Desidero qui ringraziare Ilaria Meoli, che ha proposto il tema di questo mio
lavoro e ha contribuito con innumerevoli osservazioni ad arricchirne il senso.
586 MAURO NERVI

Opere citate

Breuer, Handbuch = I. Breuer (ed.), Kleist-Handbuch, Stuttgart 2013


Eschilo, Supplici = Eschilo, Le supplici, traduzione e cura di G. Paduano,
Pisa 2016
Hederich, Lexicon = B. Hederich, Gründliches mythologisches Lexicon, Leip-
zig 1770 (prima ed.: 1724)
Lukács, Kleist = G. Lukács, Die Tragödie Heinrich von Kleists, in Werke,
Neuwied/Berlin 1964
Orlando, Phèdre = F. Orlando, Lettura freudiana della «Phèdre», Torino
1971
Orlando, Teoria = F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura,
Torino 1973
Paduano, Ironia = G. Paduano, Sull’ironia tragica, «Dioniso» 54 (1983), 61-
81
Paduano, Eroe = G. Paduano, La nascita dell’eroe, Milano 2008
Finito di stampare nel mese di Agosto 2019
da Tipografia Monteserra Srl - Vicopisano (PI)
per conto di Pisa University Press

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