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marzo 2023

L’uomo è antiquato?
Günther Anders e la scena attuale
a cura di Micaela Latini e Vallori Rasini

GÜNTHER ANDERS E LA SCENA ATTUALE


Premessa 3
Vallori Rasini Uomo e mondo in Günther Anders 5
Micaela Latini Le persone e le cose. Anders
lettore di Rodin 15
Natascia Mattucci Il potere delle parole. Lingua
e politica 26
Rossella Bonito Oliva Il dislivello prometeico
e l’elaborazione estetica del lutto 39
Stefano Velotti Il nucleare tra orrore e seduzione 56
Fabio Polidori Distanze 73
Francesca R. Recchia Luciani Alfabetizzazione
sentimentale e immaginazione empatica:
Günther Anders e Hannah Arendt 82

L’UOMO È ANTIQUATO?
Pier Aldo Rovatti Siamo tutti “umani” 98
Beatrice Bonato In ritardo sul (nostro) futuro 102
Marco Pacini L’uomo è inadeguato 115
Andrea Muni Un lusso tragicomico della Terra 119
Edoardo Greblo L’uomo non è antiquato.
L’esempio dei diritti umani 130

VARIA
Sergio Benvenuto Freud e il godimento
della guerra 140
Silvia Capodivacca Kazantzakis. Un periplo
nietzschiano 159
Francesco Postorino Il “Sì” tra la vita
e il sovrasensibile. Nietzsche e Capitini 177
Luigi Azzariti Fumaroli Michel Tournier.
Fenomenologia dell’Impersonale 191
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Finito di stampare nel marzo 2023
Günther Anders e la scena attuale

P
ensatore originale ed eccentrico, Günther
Anders (1902-1992) – nato Stern, in una
nota famiglia di ebrei tedeschi assimilati
e presto divenuto “diverso” (anders) – è autore di una irriverente
“antropologia filosofica” in cui la locuzione “dislivello prometeico”
indica lo iato al centro del concetto di “uomo antiquato”. L’indagi-
ne sulla condizione dell’uomo nell’era della tecnocrazia – quella
di un essere prono dinanzi alle meravigliose promesse delle sue
stesse produzioni macchinali e al contempo irresponsabilmen-
te labile sul piano dell’autocoscienza – mette a nudo il dramma
di una contemporaneità profondamente segnata al suo interno
dall’asincronia tra evoluzione organica e sviluppo tecnologico. Ne
deriva un singolare e deleterio capovolgimento di ruoli: il Prome-
teo di un tempo non riconosce più sé stesso e l’universo tecnolo-
gico, frutto della sua indefessa produttività, appare ora proietta-
to su un diverso piano, lontano da una soggettività sempre più
marcatamente inadeguata al confronto, asservita e sostanzialmen-
te snaturata.
Alla straordinaria abilità nella creazione di congegni e ordigni
dall’indefinibile potenza non corrisponde più un’appropriata capa-
cità di comprensione e reazione; l’uomo non è in grado di imma-
ginare le future conseguenze delle sue attivazioni tecnologiche e
rimane cieco dinanzi al dramma apocalittico prefigurato dall’in-
gegneria nucleare. Incapace di provare emozioni appropriate, si
rintana nell’ipocrisia e, forte della nuova fede tecno-industriale,

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3
disconosce le proprie molteplici, pesanti responsabilità. La que-
stione del dislivello prometeico è il filo rosso che percorre rif les-
sioni sviluppate nell’arco di alcuni decenni, intrecciando – con
imprevista coerenza – la trama di un’eclettica opera, fatta di testi
perlopiù filosofici, letterari, poetici; sempre “occasionali” e possi-
bilmente “esagerati”. È la questione che si ritrova declinata in sva-
riate accezioni, come autentica chiave di lettura delle perturban-
ti stratificazioni dell’esistenza umana e come nodo attorno al qua-
le si stringono i temi della meccanizzazione del vivere, dell’aliena-
zione sentimentale, dell’inversione del rapporto uomo/mondo; che
sottende i fenomeni sociali e politici maggiormente significativi
del secolo scorso non meno di quelli della più scottante attualità; e
che soprattutto regge il peso dell’assenza di consapevolezza, della
colpevole leggerezza con cui, anziché farsi carico del proprio desti-
no, l’uomo volge lo sguardo altrove. [M.L., V.R.]

4
Uomo e mondo in Günther Anders
VALLORI RASINI

I
ntellettuale antiaccademico e provocato-
rio, Günther Anders ha dato una specia-
le impronta al proprio esercizio filosofico,
denominandolo “occasionalismo”. Si tratta – per sua definizione –
di una singolare elaborazione intellettuale applicata a dati quoti-
diani e a situazioni ordinarie, allo scopo di mettere sotto una luci-
da lente la condizione attuale, sostanzialmente “antiquata”, dell’es-
sere umano. Gli escamotage della “divagazione” e dell’“esagerazio-
ne argomentativa” gli rendono possibile evidenziare fenomeni di
trasformazione della realtà che rimangono perlopiù sfocati, princi-
palmente a causa di una singolare “patologia prometeica” soprav-
venuta in epoca moderna sotto forma di dislivello tra facoltà uma-
ne: capace di produrre macchine straordinarie e sistemi tecnolo-
gici potentissimi, l’uomo si ritrova al contempo drammaticamen-
te arretrato, non più all’altezza dei propri prodotti. La sua anima
arranca, e di ciò egli non può che vergognarsi.

Scambio di soggetti
La ribellione di Anders nei confronti dell’antropologia filosofi-
ca classica1 ha a che fare con un preciso obiettivo: abbandonare
modalità filosofiche prioritariamente speculative, votate al son-

Vallori Rasini insegna Filosofia morale all’Università di Modena e Reggio Emilia.


1. Ci si riferisce alla corrente dell’antropologia filosofica classica tedesca, con la qua-
le Anders ha avuto direttamente a che fare, tra l’altro, come assistente di Scheler a Colo-
nia nel 1926.

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5
daggio ontologico sterile o superfluo di un oggetto fittizio, e acce-
dere invece con i giusti mezzi alla dimensione concreta dell’essere
e dell’agire dell’uomo contemporaneo, un ente effettivamente pre-
sente nel solo mondo che ci è dato osservare. In un breve scritto
del 1979, a proposito della sua opera fondamentale, dice: “Si capi-
sce come di L’uomo è antiquato faccia parte una teoria sull’antiqua-
tezza dell’‘antropologia filosofica’”,2 sottolineando come la svolta
ivi rappresentata porti con sé un articolato complesso di questio-
ni. La domanda sull’essenza o sull’identità dell’essere umano se
da un lato nasconde pregiudizi insani, dall’altro tradisce la voca-
zione pratica della filosofia, un compito di socratica memoria più
che mai vivido e urgente.
D’altronde “essenzialmente” l’essere umano rimane indefini-
bile: lo sostengono alcuni dei filosofi più arguti della contempo-
raneità (come Nietzsche); lo attesta, più in generale, l’intera sto-
ria del pensiero occidentale, continuando a proporre identificazio-
ni antropologiche tra loro contrastanti: animale evoluto o figlio di
Dio; creatore di mondo o ente perso nel mondo; e così via. Negli
anni giovanili, muovendosi nella rete delle rif lessioni del tempo,
in un ambiente intriso di speculazioni ontologiche, Anders impu-
tava la ragione di questa indefinitezza (e indefinibilità) a un carat-
tere intrinseco alla sua natura: la libertà, specifica “patologia”
dell’umano. L’uomo – sosteneva – è l’ente che di volta in volta (sul-
la base di una struttura psicofisica data) decide di essere, e riesce a
essere, questo o quello.3
Detta convinzione è però presto superata, proprio perché l’uo-
mo “può”, può anche oltrepassare sé stesso e provocare uno
“scambio tra i soggetti della libertà e dell’asservimento”.4 L’uomo
odierno non è libero (come pure non è eccellente, non ha nulla di
“superiore”). Può certo credere di esserlo, ma si tratta di sempli-

2. G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. ii: Sulla distruzione della vita nell’era della terza
rivoluzione industriale (1980), trad. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 117.
3. Id., Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione (1937), trad. dalla versione
francese di L.F. Clemente, Orthotes, Napoli-Salerno 2015.
4. Id., L’uomo è antiquato, vol. i: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivo-
luzione industriale (1956), trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 330.

6
Le persone e le cose. Anders lettore
di Rodin
MICAELA LATINI

L’arte dei senzatetto


Se c’è un “legato” che attraversa come un filo sotterraneo la pro-
duzione filosofica, letteraria, musicologica o di critica artistica di
Günther Anders, è da ricercare proprio alle radici del suo pen-
siero, nella riflessione da lui condotta sulla scissione tra uomo
e mondo, sulla discrepanza prometeica. Con questa locuzione,
introdotta nel primo volume della sua opera L’uomo è antiquato
(Die Antiquiertheit des Menschen),1 Anders sottolinea lo scarto tra
la produzione e l’immaginazione, tra ciò che l’essere umano pro-
duce, anche grazie al progresso tecnologico, e la sua capacità di
comprendere la sua “produzione”, di immaginare gli effetti e le
conseguenze del suo agire e quindi anche di farsene carico. L’at-
tenzione per la dimensione visuale e figurativa, coltivata sin dagli
anni di studio universitario ad Amburgo, grazie alle lezioni di sto-
ria dell’arte dettate da Erwin Panofsky, sembra aver lasciato il pas-
so all’estetica della musica, come dimostra la sua tesi di dottora-
to dedicata alla fenomenologia dell’ascolto musicale (e criticata
da Adorno). Riemerge invece durante la sua attività didattica, spe-
sa inizialmente e quasi esclusivamente negli atenei statunitensi
(come la New School of Social Research di New York) e nella fase

Micaela Latini insegna Estetica e Letteratura tedesca all’Università di Ferrara.


1. G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. i: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda
rivoluzione industriale (1956), trad. di L. Dallapiccola, il Saggiatore, Milano 1963, poi Bolla-
ti Boringhieri, Torino 2003; e L’uomo è antiquato, vol. ii: Sulla distruzione della vita nell’e-
poca della terza rivoluzione industriale (1980), trad. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Tori-
no 1992.

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15
precedente all’attivismo antinucleare. A dimostrarlo sono i tanti
scritti apparsi nel volume uscito di recente e che contempla scritti
di Anders su Cézanne, sul surrealismo, su Goya, su Manet.2 Una
vera e propria incursione nei territori delle arti visive? Per alcuni
versi sì, almeno a un primo sguardo. Ma c’è dell’altro. Il fatto è che
alcune letture di opere d’arte figurativa proposte da Anders dialo-
gano perfettamente con gli snodi fondamentali del suo pensiero,
lo sostengono e lo confermano. Anzi, forzando un po’ la mano, si
potrebbe dire che Anders cerca nell’arte un ultimo rifugio, un’ulti-
ma casa, laddove invece la teoria filosofica tradizionale gli appare
imbevuta di ricerca dell’assoluto.
Tra queste “letture d’occasione” – per usare una sua espressio-
ne significativa – un posto di primissimo piano spetta all’opera
plastica di Auguste Rodin. Si tratta del testo Scultura senza casa
(Homeless Sculpture), pubblicato nella rivista “Philosophy and Phe-
nomenological Research” nel 1944,3 come trascrizione rielabora-
ta di un discorso pronunciato da Anders il 13 marzo del 1943 nel-
la sede della galleria Vigovino a Brentwood, in California.4 Sono,
per Anders, anni segnati dall’esilio, prima in Francia, all’ascesa
del nazismo, e poi oltreoceano, dove raggiunge i genitori, il padre
William Stern e la madre Clara (nata Joseephy), entrambi psico-
logi dell’età evolutiva. È in questo difficile periodo di “sradicatez-
za” che Anders mette in gioco la sua ecletticità, il suo essere sem-
pre altro (anders), dividendosi tra il lavoro in fabbrica, dove speri-
menta in prima persona la catena di montaggio, e l’insegnamen-
to universitario precario. Pensatore “multiversico”, scrittore, poeta,
giornalista, attivista, Anders si colloca sempre fuori dagli schemi,
rifiutando ogni incasellamento disciplinare e ogni rigidità acca-
demica. E questo testo ne è un esempio efficace. Come è tipico
del suo movimento di pensiero, incentrato sull’idea di ispirazione

2. Cfr. G. Anders, Schriften zur Kunst und Film, a cura di R. Ellensohn e K. Putz, Beck,
München 2020, pp. 103-330.
3. Id., Homeless Sculpture, “Philosophy and Phenomenological Research”, 2, 1944,
pp. 293-307, tradotto in italiano “Scultura senza casa”, in Saggi dall’esilio americano, trad.
di S. Cavenaghi, Palomar, Bari 2003, pp. 7-28.
4. Per la stesura di questo scritto mi sono avvalsa anche dell’apparato contenuto
nell’edizione critica in lingua tedesca, Schriften zur Kunst und Film, cit., pp. 174-195.

16
Il potere delle parole.
Lingua e politica
NATASCIA MATTUCCI

Le parole del potere: politica e linguaggio


Günther Anders è stato testimone e interprete delle più dram-
matiche lacerazioni del Novecento. La Prima guerra mondiale,
l’hitlerismo, lo sterminio degli ebrei d’Europa, l’impiego ameri-
cano dell’atomica contro la popolazione giapponese a Hiroshima
e Nagasaki, rappresentano eventi che hanno segnato la sua esi-
stenza portandolo a tenere lo sguardo costantemente rivolto alle
minacce che incombono su un’umanità in scadenza.1 La passione
militante nei confronti delle sorti del mondo e dei suoi abitanti –
presenti e futuri – in un’epoca dominata dagli imperativi della tec-
nica ha conferito alla sua scrittura un carattere pedagogico e poli-
tico. Tratto, quest’ultimo, che attraversa le sue opere e si mani-
festa nel tendere negativamente i nessi tra eventi fino alle estre-
me conseguenze, fino a quando le radicalizzazioni non lasciano
sul campo che moniti contro la cupa disperazione o la disincanta-
ta indolenza. Questa estremizzazione a morte, già impiegata nei
confronti degli scritti di Kafka,2 costringe a immaginarsi senza

Natascia Mattucci insegna Filosofia politica all’Università di Macerata.


1. Per sua stessa ammissione, saranno i traumi della prima metà del Novecento a impri-
mere una virata politica alla sua scrittura. In particolare, la notizia della bomba atomica il
6 agosto 1945, “giorno zero di un nuovo computo del tempo: giorno a partire dal quale l’u-
manità era irrevocabilmente in grado di autodistruggersi”. Solo a distanza di qualche anno
Anders riuscirà a mettersi davanti a un foglio “per adempiere al compito di rendere anche
comprensibile quello che noi […] riuscivamo a produrre”. Da questa riflessione prenderan-
no corpo le tesi della cecità dinanzi all’apocalisse e la discrepanza tra capacità, G. Anders,
Opinioni di un eretico (1984), trad. di R. Callori, Theoria, Roma-Napoli 1991, p. 73.
2. Nel sottoporre a processo le tesi di Kafka – da ricordare la domanda Faut-il brûler
Kafka? sollevata provocatoriamente nel 1946 dalla rivista del Partito comunista france-

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mondo per chiamare a una sua attiva conservazione. La profilassi
apocalittica esige un cambiamento dell’atteggiamento dei singoli
nei confronti delle leggi tecnocratiche a partire da un’attenta dia-
gnosi delle patologie del sentire.3
Entrambi i volumi consacrati all’obsolescenza umana presen-
tano un’antropologia filosofica in un’era in cui la questione della
tecnica esce dal dominio del mero “efficientamento lavorativo” e
diventa un problema capitale che concerne la trasformazione o eli-
minazione degli esseri umani per opera dei loro prodotti.4 Rischio
che si fa più concreto man mano che lo sfasamento spazio-tempo-
rale tra animo umano e congegni tecnici (“dislivello prometeico”)
diviene più consistente generando una profonda estraneità rispet-
to al mondo, speculare alla crescente disarmonia interna all’esse-
re umano.5 Quest’ultima si riscontra nello scarto tra fare e imma-
ginare, tra agire e sentire, tra conoscere e prendere coscienza, tra
corpo fabbricato e corpo umano. Alla radice di atti mostruosi è
questa discrepanza che Anders chiama in causa in forma di cre-
scente deficit immaginativo degli esseri umani. Per quanto si pos-
sano prevedere gli effetti di una bomba che si è in grado di realiz-

se “Action” – Anders precisa che le opere dello scrittore praghese non vanno ignorate ma
“comprese a morte”, facendone uno strumento didattico-ammonitore. La comprensione
a morte rappresenta una lettura in negativo di un testo i cui nichilismi vanno spiegati
fino a eliminarne la forza negativa e magnetica. La sua interpretazione appare come una
tensione esercitata sui nodi essenziali dell’opera estremizzandoli a morte. Si tratta di un
esercizio di critica letterario-politica da cui ricavare moniti (negativi) sul mondo che non
vogliamo e sugli atteggiamenti che non possiamo condividere; G. Anders, Kafka. Pro e
contro. I documenti del processo (1951), trad. di P. Gnani e S. Dalena, a cura di B. Maj, Quod-
libet, Macerata 2006, p. 141.
3. Id., “Die Frist” (1960), in Die atomare Drohung. Radikale Überlegungen zum atoma-
ren Zeitalter, Beck, München 2003, p. 179.
4. Id., L’uomo è antiquato, vol. i: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivo-
luzione industriale (1956), trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 16.
5. Ivi, pp. 24-25. La disamina dell’anima all’epoca della seconda rivoluzione industria-
le si condensa emotivamente nella “vergogna prometeica” (prometheische Scham), disa-
gio dell’origine natale umana (natum esse), inevitabilmente antiquata rispetto all’ontolo-
gica superiorità di macchine artificialmente prodotte. Il sentimento di mancanza prova-
to per non essere una macchina ma un corpo ottuso che pesa come un “padre paralitico”
trasforma l’orgoglio di Prometeo in umiliazione. Un turbamento dell’autoidentificazio-
ne che porta l’io a voler sprofondare con la dotazione ontica alla quale è incatenato, cfr.
C. Pavan, L’emotività dell’uomo tecnico tra vergogna e colpa. Uno studio su Günther Anders,
“Iride”, 1, 2016, pp. 57-76.

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Il dislivello prometeico e
l’elaborazione estetica del lutto
ROSSELLA BONITO OLIVA

Indignazione
L’indignazione è un termine ricorrente negli scritti di Günther
Stern/Anders. Un moralista indignato che riconosce nel sacrifi-
cio della morale, consumato, la “circostanza” che genera risenti-
mento, rabbia e collera per l’offesa della dignità umana. Passioni
“tristi” che si rafforzano nel ripetersi e accavallarsi di “circostan-
ze”, dando corpo al bisogno di radicamento etico del suo proget-
to di un’antropologia negativa. Più che un’elaborazione di emozio-
ni re-attive, per Anders si tratta di un adattamento plastico e cri-
tico alla situazione di un tempo in tragica evoluzione. Passaggio
storico in cui le circostanze, sovrapponendosi, diventano urgen-
za e spingono a cercare risposte che traducano le passioni tristi in
indignazione impegnata nella sperimentazione di figure in gra-
do di risvegliare il sentimento della dignità come consapevolezza
della contingenza: un “guardare lontano” e “vedere vicino” come
prassi intelligente, come esercizio di distanziamento dal persona-
le e di generalizzazione.
Questo ricorda Olo – il maestro – a Yegussa – il discepolo –,
entrambi rinchiusi nella “catacomba molussica”, sottosuolo scava-
to nel “mondo rovesciato” del terrore e della tirannide del regno di
Molussia:

Le circostanze [diversamente dalle cause] sono ancora così vici-


ne, che si possono modificare […] ma non si possono più tocca-

Rossella Bonito Oliva insegna Filosofia morale presso l’Università di Napoli Orientale.

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re con mano in un accesso di rabbia. Sono già così lontane che,
per raggiungerle, bisogna saperle generalizzare e reprimere la
rabbia personale. Ma non si può occuparsene con tranquillità
e dedizione come fanno gli astronomi con pianeti e nebulose.
Questo è il posto delle circostanze.1

Sottratti al terrore e alla tirannide, nel tempo quasi immobile e


sospeso della prigione, raccontano e inventano storie, quasi una
nuova Mille e una notte che “intrattiene” trattenendo il tempo e
intesse la trama di una realtà che scompagina l’ordine del regno di
Molussia. Sacrificati ed estromessi dalla comunità imbastiscono
una riflessione dialogante che anima il sottosuolo, decanta la pas-
sione triste della rabbia e del risentimento: la prigionia della cata-
comba crea l’occasione di un’interrogazione da e nel sottosuolo
che si dilata fino a invertire l’ordine definito dal regno di Molus-
sia tra verità e menzogna.2 La circostanza è una congiuntura, ma
anche l’occasione per smascherare i modi di dare e darsi ragione
– le cause, il cielo – della contingenza, non solo della prigionia,
ma della stessa tirannide. Non vi sono storie e spiegazioni per le
circostanze, ma solo occasioni per modificarle in quanto ci avvol-
gono e, a un tempo, ci oltrepassano. Esse mettono in gioco il radi-
camento nel presente del vivente – in-compiuto e im-preparato –
libero o prigioniero, comunque ambivalente: impegnato dalla vita
stessa a tradurre l’esposizione alle interferenze del mondo – oscil-
lazione in-finita – nella capacità di ondulazione del Sé – passivo e
attivo – nella ricerca senza sosta di un centro di gravità.3

1. G. Anders, La catacomba molussica (1992), trad. di A. Mantovani, Lupetti, Milano


2008, p. 133.
2. Cfr. Id., “Wenn ich verzweifelt bin, was geht mich an” (1979), ripreso con il tito-
lo “La distruzione del futuro”, in Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, trad. di L. Piz-
zighella, Mimesis, Milano-Udine 2008. Nelle due interviste raccolte nel volume, Anders
ricostruisce la vicenda complicata di questo testo che costituisce una forma di riflessione
morale sul sistema fascista. Cfr. anche P.P. Portinaro, “La prigione della storia: Günther
Anders e la catacomba molussica”, in aa.vv., George Orwell. Antistalinismo e critica del tota-
litarismo. L’utopia negativa, Olschki, Firenze 2007, pp. 181-198.
3. Alla narrazione di La catacomba fa da sfondo la riflessione teorica elaborata in for-
ma compiuta nei testi “La natura dell’esistenza. Un’interpretazione dell’a posteriori” (1934-

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Il nucleare tra orrore e seduzione
STEFANO VELOTTI

M entre scrivo queste righe (aprile 2022),


infuria la guerra in Ucraina, con il suo
enorme carico di sofferenze e crudel-
tà. E come altre volte in passato – dopo i bombardamenti di Hiro-
shima e Nagasaki, e i “test” che li hanno preceduti e seguiti (“test”
che a loro volta sono esplosioni reali, con tutte le conseguenze che
comportano) – riappare la minaccia del ricorso ad armi nuclea-
ri. Evocata, smentita e rievocata con volti severi da tristi politi-
ci e burocrati, menzionata con agghiacciante leggerezza duran-
te alcuni talk show, inimmaginabile nella sua portata per tutti.
I dati relativi al numero degli ordigni esistenti, alla loro potenza,
ai paesi che si sarebbero impegnati a ridurli e a quelli che nep-
pure fingono di farlo, i double standards usati dalle potenze mon-
diali nei confronti di altri paesi sono tutti rintracciabili in rete, a
cominciare dal sito dell’International atomic energy agency (iaea).
Magari senza fermarsi a questo sito.1 Se infatti si apre la sezione
“Nuclear explained”, si viene accolti, innanzitutto, dalla dichiara-
zione secondo cui “the many peaceful uses of nuclear technology
have a beneficial impact on our everyday lives – from energy pro-
duction and food security to health care and the protection of the
environment”. Il che è almeno un po’ parziale e avrebbe bisogno

Stefano Velotti insegna Estetica all’Università di Roma La Sapienza.


1. Per un sintetico e utile quadro aggiornato, cfr. J. Mengarelli, A 100 secondi dalla
mezzanotte nucleare, “Scienza in rete”, 13 marzo 2022.

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di qualche ulteriore avvertimento, dopo che in questi giorni ci è
stata riportata la notizia che missili russi hanno sorvolato la più
grande centrale al mondo, quella di Zaporižžja, mentre quella di
Chernobyl è tornata a farci tremare a distanza di trentasei anni, e
i soldati che hanno smosso la terra nei suoi dintorni sono destina-
ti ad ammalarsi.2 Mentre queste scale temporali animali, umane,
risultano insignificanti se messe a confronto con quelle del deca-
dimento radioattivo, sono centinaia di migliaia – e c’è chi stima
milioni – le persone che in questo lasso di tempo sono state vit-
time di tali “incidenti” sparsi per il mondo, e molti di più sono i
“superstiti per caso” di incidenti mancati per un soffio.3
La minaccia russa di “conseguenze imprevedibili” in risposta
alle forniture di armamenti pesanti all’Ucraina ha reso noto a tut-
ti che non si sta più parlando di armi “strategiche”, pensate come
deterrenti (secondo l’idea della “mutually assured destruction”,
appropriatamente abbreviata con l’acronimo mad), ma di armi
“tattiche”, da essere usate cioè sul “campo di battaglia” (le città), di
cui, a quanto pare, la Russia possiede 1900 unità. Di fronte a que-
sti scenari, è facile concordare con chi sostiene che

la sopravvivenza, in questa nuova era nucleare, non può esse-


re affidata alla fortuna o ai capricci di leader di stati in posses-
so di arsenali nucleari come Vladimir Putin [ma si potrebbe-
ro aggiungere facilmente altri nomi, tra cui quelli di alcuni ex
presidenti americani]. Può essere assicurata soltanto quando
le armi nucleari saranno abolite e, fino ad allora, se si pren-
dono misure per prevenire il loro uso accidentale, involon-
tario o frivolo. Ciò accadrà soltanto in risposta a un massic-
cio movimento globale, analogo alla mobilitazione contro il
cambiamento climatico. Possiamo vedere fermenti iniziali di
un simile movimento nel lavoro di gruppi come “Beyond the
Bomb” e “Back from the Brink”, ma sarà necessario uno sfor-

2. Per un resoconto più completo, cfr. A.E. Kramer, Russian Blunders in Chernobyl:
“They Came and Did Whatever They Wanted”, “New York Times”, 19 aprile 2022.
3. Cfr. per esempio E. Schlosser, Command and Control: Nuclear Weapons, the Damas-
cus Accident, and the Illusion of Safety, Penguin, New York 2013.

57
Distanze
FABIO POLIDORI

T
ra le svariate e numerosissime sollecita-
zioni che si incontrano nei testi di Gün-
ther Anders non c’è che da scegliere. Per
condividerne le prese di posizione e gli assunti, ma anche per
ritrovarsi seriamente in disaccordo con affermazioni e giudizi
(nonché con gli strumenti che vi abbiano condotto) di cui mol-
ta letteratura critica non ha esitato a indicare il tratto eccessivo,
talora quasi inopportuno se non persino francamente inavvici-
nabile. Un affresco di motivi e reazioni si può trovare nella “Pre-
messa” dietro la quale Pier Paolo Portinaro raccoglie tre suoi stu-
di dedicati a questo autore, invitandoci a “fare seriamente i conti
anche con le sue provocazioni”.1 Nel caso di Anders non ritengo
però che il termine provocazione sia del tutto adeguato a caratte-
rizzare uno dei tratti principali delle sue rif lessioni: la provoca-
zione implica sempre una sorta di distacco, una riserva ironica,
un residuo di consapevolezza della sfida lanciata attraverso l’ar-
gomentazione proposta. Non che tra le sue opere le provocazioni
manchino, anzi, però il raggio d’azione cui il suo pensiero può
sollecitare è più ampio rispetto sia alle convinzioni, sempre chia-
ramente espresse, sia alle sfide che ne derivano. Il che significa,
anche, che la sua “filosofia d’occasione” resta pur sempre anche

Fabio Polidori insegna Filosofia teoretica all’Università di Trieste.


1. P.P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Borin-
ghieri, Torino 2003.

aut aut, 397, 2023, 73-81


73
una filosofia, che come tale al puro e semplice contesto “occasio-
nale” ha anche la capacità di sottrarsi e rispetto al quale ha pure
la forza di rilanciarsi.
Al di là, o al di sotto, delle varie soglie che hanno scandito le
diverse e non incoerenti posizioni di Anders, è possibile indivi-
duare un elemento tematico, una specie di nucleo se vogliamo, la
cui trattazione ed esplicitazione, che pure è riscontrabile in alcu-
ni testi, rischia di ritrovarsi comunque in una collocazione un po’
defilata e marginale, perlopiù confinata a una prima e giovanile
fase. Mi riferisco al tema della distanza, che in certa misura segna
una sorta di esordio filosofico di uno Stern ventisettenne alle pre-
se – di fronte al pubblico della Kantgesellschaft di Francoforte –
con la questione dell’estraneità dell’uomo al mondo, che riecheg-
gia nel titolo della conferenza pronunciata nel 1930 (Die Weltfremd-
heit des Menschen), il cui testo originale era andato perduto ma del
quale, tra il 1934 e il 1936, fu pubblicata la traduzione francese.2
In particolare, il primo dei due testi che trovano origine nella con-
ferenza, Une interprétation de l’a posteriori, punta direttamente a
una messa a fuoco della separazione che intercorre tra l’uomo e
ciò che Anders chiama mondo – un concetto, quest’ultimo, tratta-
to in maniera forse eccessivamente sbrigativa –, dalla quale proven-
gono i tratti antropologici fondamentali, primo fra tutti quello del-
la libertà.
La tesi di avvio, particolarmente suggestiva, parte dalla con-
statazione che sussiste, tra l’esistenza animale e l’esistenza uma-
na, una differenza essenziale, la quale consisterebbe nel fatto che
all’uomo il mondo è dato nell’esperienza, è dato cioè a posterio-
ri, ossia in certa misura all’opposto di come invece è dato agli
animali. Questi ultimi non hanno bisogno di fare alcuna espe-
rienza e si trovano già da sempre in una dimensione nella qua-
le le condizioni del vivere in generale sono fornite immediata-
mente in dotazione, cioè sono date a priori. Viene così indicata
una contrapposizione radicale all’interno del vivente dalla quale

2. G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identif icazione (1937), a cura di
L.F. Clemente e F. Lolli, Orthotes, Napoli-Salerno 2015.

74
Alfabetizzazione sentimentale
e immaginazione empatica:
Günther Anders e Hannah Arendt
FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI

Per una grammatica della fantasia morale

Siamo impari a noi stessi. Le nostre azioni sono troppo gran-


di perché possano essere comprese. Le nostre “facoltà” hanno
una diversa capacità di comprensione, un diverso potenziale.
Discutere di “unità della persona” è parlare a vanvera.
Dovremmo considerare normale il fatto di essere così impari
a noi stessi? Non dovremmo cercare di diventare omogenei?
Avere anche la consapevolezza di ciò che possiamo mettere
in atto? Rendere congruenti gli orizzonti delle nostre facoltà?
Ampliare pertanto il potenziale del nostro sentire? – Il compito
prioritario di oggi è dunque: lo sviluppo della fantasia morale.1

Una delle ossessioni filosofiche di Günther Anders è l’inadegua-


tezza umana ai compiti che la storia assegna, volta per volta, a
coloro che, più spesso indegnamente, se ne sentono protagoni-
sti. Tale insufficienza ontologica dell’umanità dinanzi alla spro-
porzione delle mansioni che viene chiamata a svolgere e al cospet-
to di quanto essa stessa è in grado di produrre è, da una parte,
conseguenza di quel “dislivello prometeico” che il filosofo descri-
ve minuziosamente nei suoi straordinari testi sull’“obsolescenza

Francesca R. Recchia Luciani insegna Storia delle filosofie contemporanee all’Uni-


versità di Bari Aldo Moro.
1. G. Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 (1997), a cura di S. Fabian,
Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 36.

82 aut aut, 397, 2023, 82-96


dell’umano”,2 dall’altra, esito della netta percezione di non dispor-
re di strumenti e facoltà all’altezza del compito ermeneutico. “Sia-
mo impari a noi stessi” è un’asserzione che sembra aprire una
voragine nella fiducia che nutriamo nel genere umano, ma va
d’altronde concepita non solo come atto di realismo filosofico e
di consapevolezza interpretativa, ma anche come interrogazione
radicale su quanto è nelle nostre possibilità migliorare, corregge-
re, ampliare in merito agli strumenti cognitivi e alle capacità criti-
co-analitiche a nostra disposizione.
Un punto qualificante, rispetto alle intenzioni di Anders, per
conseguire quella “omogeneità” tra l’umano e i suoi prodotti (sia
fisico-oggettuali e tecnici – ciò che chiamiamo “cose” – sia etico-
pratici – cioè “azioni”) che dismisura, dislivello e “vergogna pro-
meteica” mettono continuamente a distanza da noi, facendoci
avvertire la nostra inane inadeguatezza, è l’opportunità di coltiva-
re con lo “sviluppo della fantasia morale” – compito, come vedre-
mo, prettamente kantiano – anche una grammatica sentimenta-
le ed emotiva in grado di approssimarci a colmare quel desolan-
te divario che rende obsoleta l’umanità. Il giovane Anders, ancora
chiaramente ispirato da Heidegger, da Sartre, da Scheler, che ter-
rà nel 1929, presso la Kantgesellschaft di Francoforte, una confe-
renza intitolata Die Weltfremdheit des Menschen (uscita poi in due
parti sulla rivista “Recherches Philosophiques”, al tempo del suo
esilio parigino, in ordine inverso rispetto alla loro composizione
e in francese, come Une interprétation de l’a posteriori nel 1934 e
Pathologie de la liberté nel 19363), pone già i quesiti che diverran-
no centrali per l’intensa rif lessione che animerà la propria antro-
pologia filosofica di segno negativo per tutta la durata della sua
lunga militanza teoretica. I temi della frizione dialettica tra “estra-
neità al mondo” e “libertà come patologia”, dello “sradicamento”,

2. Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. i: Considerazioni sull’anima nell’epoca della


seconda rivoluzione industriale (1956), trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino
2007; Id., L’uomo è antiquato, vol. ii: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivolu-
zione industriale (1980), trad. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
3. Id., Patologia della libertà. Saggio sulla non-identif icazione (1937), trad. di L.F. Cle-
mente e F. Lolli, Orthotes, Napoli-Salerno 2015.

83
L’uomo è antiquato?
Siamo tutti “umani”
PIER ALDO ROVATTI

S ulla scia del libro di Günther Anders


(1956!), se dobbiamo ancora cercare di
rispondere alla domanda se l’“uomo è
antiquato” (alla quale reagiamo al tempo stesso con un sì e con un
no), significa che non riusciamo a prenderla sul serio, forse per-
ché può sembrarci troppo vaga. Credo che un modo per non sci-
volare in considerazioni generiche – per quanto “filosoficamente”
attrezzate – sarebbe quello di entrarci dalla porta del linguaggio,
cioè lavorando storicamente e criticamente sul senso da attribui-
re alla parola “uomo”. Ma se il sostantivo resta ovviamente deci-
sivo (che cosa voleva dire in passato, cosa può indicarci nel nostro
presente), potrebbe essere più utile cominciare da quell’aggettivo
“umano” che adoperiamo comunemente.
La parola “uomo” potremmo addirittura scriverla con l’inizia-
le maiuscola e maneggiarla spostandola, come ormai accade nei
discorsi che vogliono essere più “tecnici”, nell’equivalente anthro-
pos (ancor più che nel latino homo) che preleviamo dal greco anti-
co, come avviene per esempio nel caso della parola antropologia.
Così ci sembra di correggere la vaghezza del termine con qualcosa
di più preciso e specifico che ci dà l’illusione di restare nel mondo
dei fenomeni visibili e studiarli senza fughe nella genericità.
L’uso corrente dell’aggettivo “umano” ha solo una debole paren-
tela con la cultura dell’Umanesimo, alla quale torniamo molto
spesso con grande interesse e anche nostalgia, come si verifica
nella caratterizzazione (non solo universitaria) dei cosiddetti studi

98 aut aut, 397, 2023, 98-101


umanistici. Indicare un gesto come umano, inoltre, non significa
neppure chiamare ogni volta in causa l’idea complessiva di umani-
tà. Semmai è quest’ultimo termine che viene abbassato a un com-
portamento gentile opposto specularmente al suo contrario, cioè
alla disumanità di un atto quotidiano.
Propongo allora di indebolire le accezioni alte di Uomo, sia
scientifiche sia di rilevante impatto storico-culturale, tutte centra-
te sull’affermatività di un concetto generale ed eventualmente sul-
la sua perdita di valore, o magari sulle varianti attraverso cui ne
riaffermiamo l’attualità.
Ricordate Fracchia, il personaggio comico creato da Paolo Vil-
laggio, che si rivolge al suo capoufficio dicendogli: “Come è uma-
no lei”? Proviamo a compararlo con le serissime e decisive prati-
che “umanitarie” di cui leggiamo e sentiamo ogni giorno a pro-
posito dei gesti che si contrappongono alle nequizie dello scenario
storico contemporaneo (razzismo e guerre in primis, ma sono tan-
te e spuntano di continuo attorno a ciascuno di noi). Questo uma-
nitarismo ha molta importanza, non possiamo chiudere gli occhi
o girarci dall’altra parte perché ci siamo dentro tutti: considerando
la questione da questa prospettiva, l’uomo è tutt’altro che antiqua-
to, anzi è presso di noi, nessuno escluso, ogni momento.
Talmente poco invecchiato che la soglia di umanità di ogni
gesto resta un indicatore fondamentale del nostro esser-ci (per
dirla con Heidegger). E qui, però, iniziano le differenze e le
distinzioni, qui si collocano anche atteggiamenti ipocriti e varia-
mente furbi per attribuire a sé e agli altri discutibili patenti di
umanità.
Ecco perché mi sono permesso di ricordare la battuta di Vil-
laggio, la quale innesca un problema che forse ci fa capire meglio
quale sia l’elemento che oggi può rendere oscillante l’idea di
uomo, non nell’ipotetica fase del suo tramonto, piuttosto nella
comprovata dinamica delle sue funzioni. Abbiamo più che mai
bisogno di essere umani e umanitari, cioè “buoni” verso gli altri
e quindi premianti verso noi stessi: è una delle molle vitali che
ci tiene in piedi. Ma questa esperienza, da cui nessuno sembra
potersi sottrarre, può essere giocata e manipolata in molti modi.

99
In ritardo sul (nostro) futuro
BEATRICE BONATO

V orrei prendere spunto dal titolo del libro


di Günther Anders per rif lettere sul-
le parole che lo compongono, familiari e
insieme vagamente stranianti, esse stesse “antiquate”. Si vede subi-
to che lo sono in due modi e per motivi ben diversi: la prima per
il sovraccarico di significati da cui risulta gravata, la seconda per il
suo sapore così semplicemente quotidiano, per nulla ricercato. Si
dice antiquato di un comportamento o di un abbigliamento, di un
modo di pensare anche, non tanto nel senso di uno stile filosofico,
piuttosto in quello dell’abitudine a farci guidare da banali schemi
concettuali e valoriali mai sottoposti a esame. “Antiquato” è più o
meno sinonimo di “fuori moda”. Tornerò più avanti su questo stra-
no termine, nel tentativo di modificarne la sfumatura negativa. Ma
prima di farlo non posso evitare lo scoglio costituito da quel sostan-
tivo, l’“uomo”, così pesante e così abusato da non riuscire quasi a
scriverlo se non tra virgolette.
Se confrontiamo questa sorta di imbarazzo con l’impiego del-
la parola “uomo” nel testo di Anders, ci accorgiamo subito di una
differenza sensibile: insistere sull’inadeguatezza della coscien-
za umana, dovuta allo scarto crescente tra i prodotti dell’uomo e
la sua capacità di comprenderli – il “dislivello prometeico” – non
significa per l’autore negare che qualcosa come “l’uomo” esista.1

1. Lungo tutta la sua opera Anders parla dell’uomo senza problematizzare la nozio-
ne, benché a un certo punto prenda atto che l’uomo “in quanto tale” non esiste più

102 aut aut, 397, 2023, 102-114


Lo stesso valeva per Heidegger, al quale premeva mettere in que-
stione la differenza tra uomo-non umano e uomo-umano, pensato
a partire dalla vicinanza all’essere;2 anche in questo caso è in gioco
un dislivello, seppure inteso in un senso diverso da quello ander-
siano, tra ciò a cui l’uomo sarebbe chiamato e lo stadio al quale
invece si arresta. L’uomo come tale non è però mai veramente in
questione.
Ben più radicale è il senso della diagnosi contemporanea, nel-
la quale risuona variamente la sentenza di Foucault sulla “mor-
te dell’uomo” – e, dietro di essa, naturalmente, l’annuncio nietz-
schiano della morte di Dio, di cui sarebbe una conseguenza.3 In
molte tra le correnti più innovative degli ultimi decenni, questa
morte è quasi una premessa, una condizione necessaria per libe-
rarsi di vecchie categorie metafisiche, antropologiche ed etiche e
per aprire la strada a nuove esperienze di pensiero e di azione poli-
tica. L’evoluzione del pensiero femminista lo esemplifica in modo
particolarmente chiaro: volgendo lo sguardo alla differenza ses-
suale, rimossa dall’abitudine millenaria a ricomprendere le donne
nel maschile “uomo”, esso ne ha smascherato l’apparente neutrali-
tà, la riduzione violenta a un falso universale.4 Una critica, questa,
che ha quindi incrociato gli studi postcoloniali, l’elaborazione teo-

(G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. i: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivo-
luzione industriale [1956], trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 255-
256). La tesi generale è che l’uomo non sia definibile, manchi di un’essenza o natura (cfr.
G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. ii: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivo-
luzione industriale [1980], trad. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 18 e 116
sgg.); dove, pur riconoscendo l’antiquatezza della stessa antropologia filosofica, l’autore
afferma di esserne rimasto debitore perché “ho visto nell’uomo l’essere che fondamental-
mente non può essere sano e non vuole essere sano. Insomma l’essere che non può essere
determinato, l’essere indefinito, che sarebbe un paradosso voler definire” (ivi, p. 117). Una
tesi non del tutto diversa da quella esposta da Sartre in L’esistenzialismo è un umanismo
(1946, trad. di G. Mursia Re, Mursia, Milano 1978).
2. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (1947), trad. a cura di F. Volpi, Adelphi,
Milano 1995.
3. Che l’uomo sia “un’invenzione recente” è, com’è noto, quanto afferma Michel Fou-
cault nell’epilogo di Le parole e le cose (1966), trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967,
p. 414.
4. Per questa critica ricordo almeno i lavori di Adriana Cavarero, in particolare Nono-
stante Platone. Figure femminili nella f ilosof ia antica, Editori Riuniti, Roma 1990; ried.
ombre corte, Verona 2009, e “Per una teoria della differenza sessuale”, in aa.vv., Diotima.
Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987.

103
L’uomo è inadeguato
MARCO PACINI

L
a vita di Tod Friendly comincia quando
muore. Circondato da medici pronti a
certificarne il decesso, il protagonista
di La freccia del tempo 1 srotola la sua esistenza all’indietro, fino
all’utero materno, guidato da una coscienza che solo invertendo
la traiettoria della freccia può rivelarne il senso. Il romanzo di
Martin Amis è un’acrobazia letteraria che nell’incrocio tra una vita
(quella di Tod) e la tragedia di un secolo (l’Olocausto), insieme al
tempo inverte il senso morale dei “fatti”, contesta l’ovvietà del loro
svolgersi e delle parole che li raccontano. È solo attraverso questo
duro lavoro di scrittura à rebours – sembra suggerire l’autore – che
possiamo mettere a nudo i significanti e i significati per farne un
“buon uso”.
Se con un esperimento mentale analogo provassimo a
sostituire Tod con Uomo (umanità), indagando il suo rapporto
con il tempo (chiedendoci per esempio se è antiquato), non ci
troveremmo forse a contestare l’ovvietà del sostantivo uomo e
dell’aggettivo antiquato?
Le contestazioni dovrebbero risultare altrettanto ovvie,
beninteso, se solo passiamo brevemente in rassegna le definizioni
di uomo che una parte dell’umanità ha coniato per sé stessa nel
corso della sua storia. O se prendiamo atto che antiquato è una
delle parole più moderne che possiamo pronunciare.

1. M. Amis, La freccia del tempo (1991), trad. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1993.

aut aut, 397, 2023, 115-118


115
Ma queste contestazioni non sono poi così ovvie, la loro “verità”
non è così evidente. È la prima ovvietà che resiste, comanda.
Tanto che possiamo dire “l’uomo è antiquato”, in modo assertivo
o interrogativo, senza sospettare che la locuzione perda di senso
fuori dal nostro recinto temporale e spaziale.
“Quale uomo?” e “antiquato rispetto a cosa?”, sono domande
che rimuoviamo. Eppure, se solo azzardassimo l’esperimento
mentale di invertire la freccia del tempo, percorrendo a ritroso
tappa dopo tappa la storia dell’umanità, il nostro sguardo
“rovesciato” non ci metterebbe molto a cogliere i “fatti” e le
parole che li descrivono sotto una nuova prospettiva. Sarebbe
sufficiente arrivare alla vigilia dell’Età dei Lumi, o al massimo del
Rinascimento, per svuotare il significato di una parola (antiquato)
indissolubilmente legata all’idea di progresso, per immergerci
in una temporalità ciclica all’interno della quale difficilmente
incontreremmo un “uomo antiquato”. Per non parlare delle
temporalità concepite come una caduta dall’età dell’oro, in cui la
connotazione della parola antiquato subirebbe un rovesciamento.
È stato solo fra Sette e Ottocento che la parola progresso “e la
nozione che indicava sarebbero diventate in Occidente autentico
senso comune”, ha notato Aldo Schiavone.2
E cosa ne è della parola uomo nel nostro percorso a ritroso che
dall’“uomo aumentato” ci conduce fino all’ens creatum “a immagine
e somiglianza di Dio” passando per la delusione darwiniana?
Quando diciamo “uomo” e “antiquato” siamo dentro una
visione del mondo sedimentata dall’altro ieri (in termini di storia
della specie e della civiltà) in una parte di mondo. Come è noto
anche a chi abbia visto qualche documentario sui “primitivi”, in
molte lingue indigene la parola “uomo” e il nome proprio della
comunità di appartenenza coincidono (Inuit, Yanomamö...),
con una spoliazione dell’idea di “umanità” e un alleggerimento
di tutto il suo peso. E l’assenza di Dio nelle culture induista e
buddista ha qualcosa da dirci su una diversa idea di “umanità”

2. A. Schiavone, Progresso, il Mulino, Bologna 2020, pp. 16-17.

116
Un lusso tragicomico della Terra
ANDREA MUNI

“L’Uomo, pieno di risorse, marcia indifeso verso l’avvenire.”


Sofocle

“Veder soccombere le nature tragiche, e poterne ridere, questo è sublime.”


F. Nietzsche

L’
Uomo non è né nuovo né vecchio, né vero
né falso. L’Uomo non è che una continua
creazione storica degli uomini e delle don-
ne di differenti culture e latitudini. L’Uomo non esiste, o – come
amava dire Lacan – l’Uomo non è altro che un significante. La sua
scomparsa, o la sua distruzione, riguardano dunque essenzialmen-
te una dimensione culturale e di discorso, ben prima di radicarsi
nel biologico. Non si guadagna nulla nel dire che l’Uomo deve far-
si da parte (ai fini della salvezza del mondo che stiamo lanciando
a perdifiato verso la rovina); non serve a nulla andare in giro a bat-
tersi il petto gridando ai quattro cantoni che bisogna “abbassare”
l’Uomo. Perché l’Uomo non plasma, non trasforma sé stesso sulla
base di regole e strategie razionali. L’Uomo è come gli uomini e le
donne: quando cambia, mentre cambia, non se ne accorge.
L’Uomo è il solo che possa risolvere quella sciagura che sul-
la Terra porta il suo nome, e per farlo non può semplicemente
“abbassarsi”, “farsi da parte”, “rimpicciolirsi”: questo non basterà,
non è sufficiente. Egli deve piuttosto “rigenerarsi”, “superarsi”,
“distruggersi” – come sarebbe piaciuto a Zarathustra. Non biolo-
gicamente, come ha creduto il delirio nazista, bensì a livello cul-
turale e di discorso. Deve osare guardare in faccia i propri segreti,
accettarsi nell’orrore, morire a sé stesso ancora una volta.

La tragedia greca classica mette in scena senza sosta un gioco cru-


dele, la sfida estenuante tra l’esaltazione delle grandi scoperte, del

aut aut, 397, 2023, 119-129


119
grande ingegno, della potenza “progressiva” dell’Uomo e la tre-
menda, irredimibile certezza della vanità di ogni vicenda umana.
All’apice del fulgore dell’Atene periclea – a pochi passi dalla rapi-
dissima e totale implosione di quella fiera “democrazia”1 – Sofo-
cle e il girovago Pindaro cantano il rovescio di quest’Uomo pantò-
poros, del glorioso e “progressivo” Uomo greco. Pindaro e Sofocle
ne esaltano le imprese, ma anche la precarietà, la follia, la hybris.

I mortali si elevano in un attimo


di gioia, e in un attimo precipitano
se scossi dal volere divino.
Effimeri siamo: cos’è qualcuno?
cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra
è l’uomo.2

Diversamente da molti artisti e intellettuali odierni, Pindaro e


Sofocle non tacciono l’orrore, il disgusto, l’odio di sé che cova
all’ombra delle grandi vittorie, delle conquiste, delle ammire-
voli cultura e civiltà forgiate dall’Uomo che incarnano. Sofocle,
in particolare, è il cantore per eccellenza della tragedia che gra-
va sull’ingegno e sulla gloria umani. Gli occhi gettati al suolo da
un Edipo che ha voluto sapere troppo – quegli occhi che lo fissa-
no dal pavimento mentre inveisce contro la propria stirpe e con-
tro gli dèi – sono l’immagine perfetta dalla condanna scagliata
sull’ingegno umano. Uno dei precetti fondamentali della tragedia
classica – in opposizione alla filosofia classica – è infatti “conosci
il giusto”, “non sapere troppo”, a meno che tu non voglia entrare
nell’ate.

1. Che poi, come è noto, era un’ampia aristocrazia che constava, all’apice della sua
potenza, di qualcosa come trentamila persone – maschi, di sangue ateniese – su alme-
no trecentomila persone che abitavano complessivamente nella città. L’Atene periclea era
insomma una vasta aristocrazia finanziario-commerciale a capo di un impero coloniale
(la cosiddetta Lega delio-attica), un po’ come gli Stati Uniti in rapporto alle nostre odierne
pseudo-democrazie europee. È importante non dimenticare che Sofocle fu peraltro, per
un periodo, stratego al fianco di Pericle e che egli fu quindi anche un uomo politico/mili-
tare che conobbe direttamente gli abissi della violenza e del potere del suo tempo.
2. Pindaro, “Ottava pitica” (v secolo a.C.), in I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli,
vol. ii, Zanichelli, Bologna 1927 (adattamento mio).

120
L’uomo non è antiquato. L’esempio
dei diritti umani
EDOARDO GREBLO

1. I tentativi ricorrenti di fondare il concet-


to di diritti umani in una qualche descri-
zione della natura umana sono sempre
stati altamente controversi. Per questo si è generalmente preferi-
to adottare una strategia “minimalista”, poiché si è ritenuto che
una strategia fondazionalista non possa fare a meno di incorpora-
re una qualche concezione religiosa o metafisica, etica o culturale,
del bene umano. Non è detto, però, che questa prospettiva rinun-
ciataria sia necessaria, o anche solo auspicabile. Può darsi inve-
ce che un’antropologia filosofica in grado di individuare le aree
di esperienza che appaiono al fondo di ogni vita umana e defini-
scono le funzioni che consideriamo costitutive della natura degli
esseri umani possa togliere alla nozione di diritti umani quel velo
di opacità, oscurità o indeterminatezza che alimenta tanto il disac-
cordo filosofico circa il loro statuto fondativo quanto le controver-
sie politiche riguardo alla loro concreta praticabilità.
Una risposta ragionevole ai dubbi di chi ritiene che l’idea dei
diritti umani “potrebbe viaggiare meglio separatamente dal suo
bagaglio di giustificazioni sottostanti”, come ha sostenuto Charles
Taylor,1 potrebbe venire dall’approccio delle capacità, proposto da
Sen e sviluppato da Nussbaum, che si basa su una duplice intui-
zione: anzitutto, vi sono alcune funzioni che vanno considera-

1. C. Taylor, “Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights”, in B. Bauer e


D.A. Bell, The East Asian Challenge, Cambridge University Press, New York 1999, p. 126.

130 aut aut, 397, 2023, 130-138


te particolarmente essenziali per la vita umana, nel senso che la
loro presenza o la loro assenza sono indicative dell’assenza o del-
la presenza di una vita specificamente umana; in secondo luogo,
esiste un modo per esercitare queste funzioni che è specificamen-
te umano, non animale.2 Questa prospettiva si basa sulla concezio-
ne aristotelico-marxiana dell’essere umano come essere sociale e
politico “per natura”, che ha modo, cioè, di realizzarsi pienamente
soltanto nelle relazioni politico-sociali. E che, per questo, può rap-
presentare una base teorica in grado di sostenere sia le ragioni del-
la giustificazione sia le ragioni dell’adesione alla dottrina dei dirit-
ti umani senza portarsi appresso il bagaglio di ragioni dettate da
una qualche dottrina religiosa o metafisica.
Nessuno, infatti, si sentirebbe di negare che l’essere umano sia
un essere sociale e politico che si realizza nei rapporti con gli altri.
Si tratta di quel genere di orientamento che Rawls ha reso famo-
so con l’espressione “è politica, non metafisica”.3 L’aggettivo “uma-
no”, a differenza di “animale”, non indica una realtà ontologica
indipendente dai significati e dalle interpretazioni suscettibili di
riportare i diritti qualificabili come “umani” al contesto delle con-
correnti interpretazioni del Sé e del mondo o dei differenti modelli
di “vita buona”. Non suggerisce uno status svincolato dall’orizzon-
te di una determinata forma di vita, guidata da particolari costella-
zioni di valore. “Piuttosto, evita questi problemi metaetici e meta-
fisici non facendo dipendere nulla dal fatto che si decida in un
senso o nell’altro riguardo a essi.4” Si tratta allora di comprendere
perché l’idea di associare i diritti umani a una teoria della natura
umana abbia suscitato tante resistenze, perché queste resistenze
siano oggi diventate controproducenti e perché sarebbe opportuno
riesaminare ancora una volta i termini della questione.

2. M.C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti (2000), trad. di
W. Mafezzoni, il Mulino, Bologna 2001, p. 91.
3. J. Rawls, “Giustizia come equità: è politica, non metafisica”, in Saggi. Dalla giusti-
zia come equità al liberalismo politico (1999), a cura di S. Veca, trad. di P. Palminiello, Edi-
zioni di Comunità, Torino 2001, pp. 170-203.
4. T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani (2008), trad. di D. Botti, Laterza,
Roma-Bari 2010, p. 74.

131
Varia
Freud e il godimento della guerra
SERGIO BENVENUTO

N ella Grecia antica, il giorno dopo che si


era svolta una battaglia importante, si
organizzava un vero e proprio turismo
dell’orrore. Delle comitive si recavano sul campo di battaglia rima-
sto com’era dopo la conclusione dello scontro: sangue ancora fre-
sco, corpi straziati, gli avvoltoi sui cadaveri, lo spettrale silenzio del-
la cessata carneficina. Si andava a contemplare l’evento. Era proprio
lo spettacolo atroce a far godere i voyeur del massacro. E che fareb-
be godere tanti anche oggi, se una certa decenza e rispetto per la
morte non ci vietasse di goderne, appunto.
Una delle ragioni per cui le guerre non cessano mai di esserci,
è che la guerra fa godere. Ancor oggi, la guerra in Ucraina. Le cit-
tà distrutte viste in tv sono atroci, eppure ho sentito qualche voce
dire: “Quanto darei per andarci!”.

1. Nel 1931 l’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale,


espressione della Società delle nazioni, pensò di chiedere all’uomo
considerato all’epoca il più intelligente al mondo, Albert Einstein, di
trovare una risposta alla domanda “Perché la guerra?”, nella speran-
za sottintesa che un genio come lui scoprisse il modo di evitarla per
sempre. Einstein a sua volta propose Freud – che aveva incontrato
una sola volta di persona, a Berlino – per intavolare una discussione

Sergio Benvenuto, psicoanalista, è ricercatore in Psicologia sociale al cnr a Roma e


dirige la rivista “European Journal of Psychoanalysis”.

140 aut aut, 397, 2023, 140-158


con lui su questo tema. La risposta di Freud ad Einstein costituisce
un breve testo Perché la guerra?,1 pubblicato nel 1933.
La posizione di Freud sulla fatalità della guerra (das Verhängnis
des Krieges) appare solo blandamente pessimistica. Oggi, direm-
mo, sulla scia di Gramsci, che in lui il pessimismo della ragione
– “non c’è alcuna ricetta per evitare per sempre la guerra” – non
esclude un certo ottimismo della volontà. Nella classica tradizio-
ne illuminista, Freud conclude dicendo che tutto ciò che favorisce
lo sviluppo culturale (Kulturentwicklung)2 lavora anche contro la
guerra. Ma, in questo caso, l’ottimismo illuminista di Freud appa-
re una concessione alla speranza in una visione, la sua, che nel
fondo non è affatto ottimista. E difatti qualche pagina prima aveva
liquidato come illusorio l’ideale bolscevico di un mondo pacifica-
to da un’universale fraternità socialista. (Poi sarebbe accaduto che
paesi socialisti si sarebbero fatti la guerra: Unione Sovietica ver-
sus Cina, Vietnam versus Cambogia, Cina versus Vietnam… Freud
sapeva anche che il messaggio pacifico del Vangelo non aveva
affatto impedito guerre funeste tra cristiani nel corso dei secoli.)
Freud parte da una visione storica precisa: che all’origine di
ogni diritto (Recht) c’è la violenza (Gewalt). “Il diritto era in ori-
gine violenza bruta.”3 Ovvero, il diritto non nasce come un modo
per imbrigliare e inibire la violenza di certi individui – i più for-
ti, i più potenti, i più aggressivi, i più avidi. Secondo lui il diritto
stesso è violenza, anche se ci appare come una barriera alla violen-
za: esso sorge come risposta dei più alla violenza dei pochi, ma il
diritto “è ancora sempre violenza, pronta a rivolgersi contro chiun-
que le si opponga, operante con gli stessi mezzi, intenta a perse-
guire gli stessi fini”.4 Il diritto è la violenza non di singoli, ma di
una comunità (Gemeinschaft) intera. E nella misura, diremo sul-

1. S. Freud, “Perché la guerra?” (1932), trad. di S. Candreva e E. Sagittario, in Ope-


re (d’ora in poi: osf), Boringhieri, Torino 1979, vol. xi, pp. 287-303; ed. orig. “Warum
Krieg?”, in Gesammelte Werke (d’ora in poi: gw), Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. xvi,
pp. 12-27.
2. Nella traduzione italiana di Boringhieri è “incivilimento”. Ma Freud precisa che si
tratta di Kultur, non di Zivilisation.
3. osf, vol. xi, p. 297; gw, vol. xvi, pp. 19-20.
4. Ivi. p. 294; gw, vol. xvi, p. 15.

141
Kazantzakis. Un periplo nietzschiano
SILVIA CAPODIVACCA

All’“anima più grande,


il corpo più saldo,
il grido più libero
che io abbia mai
conosciuto in vita mia”.

1.
Le ragioni per studiare l’opera letteraria di
Nikos Kazantzakis sono note e già ampia-
mente sondate dalla critica: egli fu un
romanziere di successo, da alcuni suoi libri furono tratte pellico-
le altrettanto fortunate, fu insignito del premio Nobel per la pace
nel 1956 e l’anno immediatamente successivo eluse per pochis-
simo quello per la letteratura a causa di alcune polemiche sor-
te in Grecia attorno al suo nome, che tuttavia dimostravano una
volta di più la sua conclamata celebrità e il peso della sua opera
nel panorama culturale europeo di metà Novecento.1 Nella scon-
certante varietà di attività intellettuali alle quali si è dedicato (dal-
la traduzione alla sceneggiatura, dal teatro alla poesia, dal roman-
zo all’epica) un rilievo non secondario occupano la prosa saggisti-
ca e il pensiero concettuale. Questo aspetto non è stato trascura-
to dalla critica letteraria, che anzi ha molto spesso sottolineato gli
apporti filosofici che, in filigrana, affiorano nell’esuberante narra-
tiva di Kazantzakis e che le conferiscono ulteriori livelli di signifi-
cazioni. Tranne pochissime eccezioni che avremo modo di consi-
derare, è stata invece la filosofia a dimostrarsi finora insufficiente-

Silvia Capodivacca è assegnista di ricerca all’Università di Udine.


1. Per un’ampia ricognizione della vita e dell’opera di Kazantzakis si suggerisce la let-
tura della biografia redatta dalla moglie Eleni, uscita quasi contemporaneamente in fran-
cese e nella traduzione inglese (E. Kazantzaki, Le dissident: biographie de Nikos Kazantzaki,
Plon, Paris 1968; H. Kazantzaki, Nikos Kazantzakis. A Biography, trad. di A. Mims, Simon
and Schuster, New York 1968).

aut aut, 397, 2023, 159-176


159
mente attenta nei confronti della sua produzione. Tale trascuratez-
za ha sortito un duplice effetto negativo: da un lato non sono stati
così riconosciuti i meriti di ricerca effettivamente guadagnati da
Kazantzakis attraverso i suoi studi, dall’altro sono stati consegnati
all’esclusivo vaglio della critica di stampo letterario quegli accosta-
menti che l’autore propone tra il suo pensiero e quello di altri filo-
sofi, primi tra tutti Nietzsche e Bergson.
In questo modo sono perlopiù mancati una validazione e uno
specifico dibattito attorno alle questioni teoretiche ed ermeneutiche
che egli propone, che invece ci auspichiamo possano presto svilup-
parsi attorno alla sua opera. I romanzi di Kazantzakis sono in effet-
ti attraversati da una patente impronta vitalistica, da una “terrestri-
tà” dionisiaca che, trovando poi un riscontro teorico nelle sue mono-
grafie, vale la pena di provare a passare al setaccio. Non potendo
evidentemente coprire l’intero arco della sua ricerca, il contributo si
focalizza sull’area di confluenza tra il pensiero dell’autore greco e
quello di Friedrich Nietzsche.
Prima di addentrarci nell’analisi delle intersezioni di pen-
siero tra i due, bisogna però innanzitutto chiarire a che titolo
Kazantzakis viene accostato all’opera di Nietzsche. Ci proponia-
mo poi di indagare quali sono effettivamente i punti in comune
rintracciabili nelle loro opere e, infine, segnalare alcune per noi
imprescindibili dissonanze che rendono incerta la possibilità di
una piena sovrapposizione tra i due, come al contrario sembrereb-
be plausibile secondo gran parte degli interpreti di Kazantzakis.2

2. Riproduciamo qualche chiosa entusiastica di alcuni tra gli interpreti più accredi-
tati di Kazantzakis: “Nietzsche ha lasciato un’impressione visionaria di proteste ed esal-
tazioni a favore di una vita festosa, lontana dall’ombra religiosa cristiana in accordo
con il momento e con la società in cui ha vissuto. Kazantzakis prosegue quel richiamo
alla libertà e quel desiderio di ubriachezza nella propria vita e non in un altro mondo”
(R. Quiroz Pizarro, Kazantzakis-Nietzsche. Un discipulado vital, “Byzantion Nea Hellás”,
29, 2010, p. 231); “il personaggio centrale sembra essere un’incarnazione della visione
nietzschiana delle forze dionisiache e apollinee che hanno forgiato lo spirito dell’anti-
ca Grecia” (ivi, p. 247); “il colosso Zorba è una sintesi unica nel suo genere tra il pensie-
ro di Nietzsche e quello di Bergson” (M.P. Levitt, The Companions of Kazantzakis. Nietz-
sche, Bergson and Zorba the Greek, “Comparative Literature Studies”, 18, 1977, p. 363); “Zor-
ba il greco diventa così una parabola della conoscenza dionisiaca, la saggezza dionisiaca
resa concreta attraverso l’artificio apollineo, e, come tale, esemplifica in modo moderno
la fusione di forze che si scontrano che sia Nietzsche che Kazantzakis vedono come così

160
Il “Sì” tra la vita e il sovrasensibile.
Nietzsche e Capitini
FRANCESCO POSTORINO

Introduzione
Friedrich Nietzsche e Aldo Capitini hanno elaborato due filosofie
che culminano nel Sì. Il nichilismo attivo del primo e la concezio-
ne personalistica a sfondo religioso del secondo denunciano un
male radicale a cui bisogna opporre un’affermazione, una definiti-
va reazione, un Sì, appunto.
Nietzsche, che Dilthey accosta a Emerson, Carlyle, Ruskin e
Tolstoj, cioè a quei filosofi-scrittori legati alla cosiddetta “filosofia
della vita” inaugurata da Schopenhauer, è il punto di riferimento
di pensatori uniti dalla convinzione che la sconnessione origina-
ria fra il razionale e il reale non potrebbe essere corretta da alcuna
auto-sintesi. Solo per fare qualche esempio: l’evento di Heidegger,
il naufragio jaspersiano e la lezione decostruzionista di Derrida
hanno in comune, fra mille differenze, un’offerta negativa e dal-
le sfumature nietzschiane che osteggia la dialettica storicistica e
il modello razionalistico della filosofia moderna.1 Ma la narrazio-
ne di Nietzsche andrebbe definita in termini sia negativi sia posi-
tivi. Di negativo vi è il tentativo di archiviare la tradizione occiden-
tale: Socrate, Platone, il cristianesimo, il kantismo, l’hegelismo, la
democrazia, il socialismo e la cultura borghese ottocentesca. La
sua critica, d’altra parte, è anche positiva, in quanto non si esauri-
sce in un pigro pessimismo o nel nichilismo passivo; essa cerca di

Francesco Postorino ha condotto attività di ricerca tra Messina e Parigi, attualmente


collabora con l’Istituto universitario Sophia e con il quotidiano “Avvenire”.
1. C. Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano 2013, pp. 25-36.

aut aut, 397, 2023, 177-190


177
illustrare la décadence e al contempo indica una soluzione origina-
le: l’Übermensch, la conciliazione con il senso della terra, il Sì del
“fanciullo innocente”.
Capitini appartiene a un’altra corrente di pensiero. La sua filo-
sofia si insinua tra il neoidealismo italiano e i primi fermen-
ti dell’esistenzialismo. È uno studioso sui generis2 che si riallaccia
in modo peculiare al messaggio rivoluzionario di Cristo e di San
Francesco, all’imperativo categorico formulato da Kant, al repub-
blicanesimo mazziniano e trae ispirazione dall’ahimsa di Gandhi;
ma sul piano teoretico i suoi punti di riferimento sono coloro che,
ispirati da Hegel, spiritualizzano la storia, rifiutando la trascen-
denza antica e medievale.3
Croce e Gentile, in particolare, restituiscono la voce all’Uno, al
Tutto e all’Io in esplicita contrapposizione al pensare dualistico.4
Tuttavia, in entrambi e in Hegel, manca una fervida attenzione
nei confronti dell’uomo. E l’esistenzialismo non è riuscito a colma-
re questa lacuna, chiudendosi nella dimensione finita del Dasein o
nell’“ultimo presente” vissuto con serietà da Carlo Michelstaedter.5
In breve, suggerisce Capitini, occorre un approfondimento spiri-
tuale della personalità umana.
L’obiettivo di questo lavoro è provare a confrontare due modi
alternativi di pronunciare un Sì che si rif lette, da un lato, nel-
la nietzschiana ricerca della “seconda affermazione” di cui parla

2. Guido Calogero definisce il suo grande amico Capitini “un tipo curioso”, il quale
“venuto su dal popolo, era riuscito a prendere la licenza liceale soltanto tardi, e quando
già si guadagnava la vita col suo lavoro. Vinto il concorso per entrare alla Scuola Norma-
le Superiore di Pisa, aveva potuto laurearsi in Lettere in quell’università, e della Normale
era divenuto segretario […]. Ma a un certo punto era stato messo al bivio tra il conservare
il posto iscrivendosi al partito fascista e il rifiutare l’una e l’altra cosa tornando ad affron-
tare la miseria a casa propria: e aveva scelto questa seconda via”, G. Calogero, “Un educa-
tore politico: Aldo Capitini”, in Difesa del liberalsocialismo. Con alcuni scritti inediti, Atlan-
tica, Roma 1945, p. 113.
3. A. Capitini, “Saggio sul soggetto della storia”, in Scritti filosofici e religiosi, a cura di
M. Martini, Fondazione Centro Studi A. Capitini, Perugia 1998, p. 22.
4. Ibidem.
5. Capitini ricorda che, tra il 1933 e il 1942, si avvicina all’opera di Michelstaedter recu-
perando espressioni quali la persuasione e l’antiretorica, cioè “quel tipo di esistenziali-
smo” che, a detta del filosofo della nonviolenza, andrebbe considerato “come la premessa
di una tensione pratica etico-religiosa”; cfr. A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Célèbes,
Trapani 1966, pp. 52-53.

178
Michel Tournier. Fenomenologia
dell’Impersonale
LUIGI AZZARITI-FUMAROLI

Fosforescenze
Michel Tournier pubblicò L’Impersonnalisme in una “rivista mori-
bonda”, la cui edizione, con il trascorrere del tempo, si farà sem-
pre più vaga e incerta fin quasi a perdersi.1 Pervaso da un deci-
so rifiuto dell’umanismo e della fenomenologia di stampo sartria-
no, ritenuti d’ostacolo all’affermazione di un “idealismo oggettivo”
capace di corrispondere a quella verginità delle cose nella quale la
riflessione speculativa dovrebbe immergersi, una volta compreso
che il razionalismo epistemologico si fonda sull’erroneo presup-
posto che sia il soggetto a conferire senso a tutto quanto lo circon-
di, questo suo primo scritto si proponeva di fungere da “model-

Luigi Azzariti-Fumaroli insegna Filosofia teoretica presso l’Università Pegaso di


Napoli.
1. È lo stesso Tournier a menzionare le circostanze che condussero alla pubblicazio-
ne di questo suo primo lavoro, in “Jean-Paul Sartre, romancier cryptométaphysicien”, in
Le vol du vampire. Notes de lecture, Mercure de France, Paris 1981, pp. 310-324, in particola-
re p. 310, salvo, in seguito, durante l’intervista concessa a S. Petit (apparsa, quale cap. viii,
in Id., Michel Tournier’s Metaphysical Fictions, John Benjamins Publishing Co., Amster-
dam-Philadelphia 1991, pp. 173-193, in particolare pp. 180-181), cadere in errore, indican-
do nel 1950, in luogo del 1946, il suo anno di uscita. Peraltro, anche le ricerche condot-
te da N. Guichard (N. Guichard, Michel Tournier: Autrui et la quête du double, Didier Eru-
dition, Paris 1991, p. 9) non avevano condotto a reperire l’esatta sede editoriale che aveva
ospitato il saggio. Soltanto K. Fergusson, in “Le paysage de l’absolu”, in aa.vv., Images et
signes de Michel Tournier, Gallimard, Paris 1991, pp. 135-146, stabilì il giusto riferimen-
to: L’Impersonnalisme, scritto nel 1945, aveva trovato spazio sulle pagine di “Espace”, 1,
1946, pp. 49-66, rivista nata dall’esperienza della Resistenza e stampata inizialmente nel-
la “zona libera”, a Clermond-Ferrand, e la cui nuova serie era stata affidata ad A. Clément,
che vi aveva coinvolto, fra gli altri, G. Deleuze e M. Tournier, accomunati, secondo quan-
to si trae pure dalla Présentation del fascicolo, da un sicuro sguardo critico verso le idee
sartriane.

aut aut, 397, 2023, 191-205


191
lino di un sistema” nel quale potesse trovare espressione quella
“fosforescenza” grazie a cui ogni cosa sarebbe conosciuta senza
che nessuno conosca.
A dispetto della presa di distanza dai contenuti di La trascen-
dance de l’Ego e delle altre opere sartriane di psicologia fenome-
nologica composte nel biennio 1935-1936, il loro idioletto echeggia
qui con persistenza. Proprio alla nozione di “fosforescenza” Sartre
aveva fatto richiamo in particolare in L’imagination, allorché, con-
siderando l’empirismo humiano, aveva notato come in esso l’esi-
stenza della coscienza svanisse “totalmente dietro un mondo di
oggetti opachi che ricevono, non si sa da dove, una specie di fosfo-
rescenza capricciosamente distribuita e priva di qualsiasi funzio-
ne attiva”.2 Ampliandone l’escursione semantica, Tournier osserva
che, contrariamente alla Sinngebung fenomenologica, la quale vuo-
le il soggetto-conoscente paragonabile a una “fonte di luce che pro-
ietta un fascio (la coscienza) su degli oggetti immersi nell’oscuri-
tà”,3 la “fosforescenza” irradiata dagli oggetti, il loro apparire senza
identità né legge, non implicherebbe alcuno schema concettuale
di decidibilità razionale, bensì un’autosufficienza delle cose, una
loro “solitudine totale”.4
Al tempo stesso, però, la scena che Tournier tende a delinea-
re e nella quale la presenza del soggetto si trova a corrispondere a
un modo del conoscere secondario e quasi rif lesso, non parrebbe
immediatamente coincidere con la riconfigurazione di un empiri-
smo nel quale – secondo quanto andrà mostrando, anche sotto l’in-
fluenza delle riflessioni del medesimo Tournier, Deleuze in quegli
stessi anni attendendo allo studio del Treatise of Human Nature di
Hume – il soggetto dovesse essere compreso come ciò che si costi-
tuisce nel dato, essendo esso soltanto un’impressione di riflessione.5
Piuttosto, a essere posto in discussione è – come più manifestamen-

2. J.-P. Sartre, L’imagination, puf, Paris 1936; trad. di A. Bonomi, “L’immaginazione”,


in L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 1962, pp. 9-104.
3. M. Tournier, L’Impersonnalisme, cit., p. 51.
4. Ivi, p. 53
5. Cfr. G. Deleuze, Empirisme et subjectivité. Essai sur la nature humaine selon Hume,
puf, Paris 1953; trad. di A. Vinale, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana
secondo Hume, Cronopio, Napoli 2012, pp. 18 e 103.

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