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Il tempo ritrovato

3
Prima edizione in «Letture di pensiero e d’arte»: novembre 2002
Prima edizione in «Il tempo ritrovato»: aprile 2023
ISBN 978-88-9359-748-7
eISBN 978-88-9359-749-4

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A Federica,
che il suo volo sia saldo
Prologo

Io non parto da una tesi, bensì da una storia.


Friedrich Dürrenmatt, 21 punti su «I fisici»

Vae mundo a scandalis! Necesse est enim ut veniant


scandala. Verumtamen vae homini illi per quem scan-
dalum venit.
Matteo, XVIII, 7

Sempre ci si deve addossare il rischio che un giorno si


faccia cattivo uso del lavoro, in sé buono, di un uomo.
Ma se si sa già che il fine di quel lavoro sarà delittuoso o
cattivo, non si può eludere la responsabilità personale.
Kathleen Lonsdale

Questo piccolo libro ha due inconsapevoli, e dunque innocen-


ti, maieuti: Giorgio Gilibert e Claudio Magris, con cui, in un
tardo pomeriggio del marzo 2001 al San Marco a Trieste, si
venne a chiacchierare di scienza e scienziati oggi. Un tema che
mi affanna sempre più, diviso come sono fra il fascino d’un sa-
pere ‘maraviglioso’ e intrinsecamente laico, e dunque liberato-
rio non solo da sofferenze e malattie, e suoi approdi e le sue li-
nee di sviluppo attuali che ogni giorno ci fanno maggiormente
intravedere orizzonti «oltre l’uomo», al di là quindi, e necessa-
riamente, di un umanesimo ‘classico’ che è stato fino a oggi la
più salda ancora contro ricorrenti, e non sopite, antropologie

7
negatrici di eguali diritti – epperciò di medesimi doveri – di
ognuno e di tutti. L’uomo dell’era della tecnologia avanzata –
propone Giuseppe O. Longo – non è uomo più macchine, sa-
pere tecnico-scientifico cristalizzato, è
un’unità evolutiva profondamente nuova, è un’entità organica, men-
tale, corporea, psicologica, sociale e culturale senza precedenti, che se
partecipa ancora dei miti, dei desideri e delle necessità dell’uomo ‘tra-
dizionale’, crea anche miti, necessità e desideri suoi propri e inediti1.

Spontaneo mi venne allora alla mente il nome, quanto mai


conturbante, di Ettore Majorana. E tutto sarebbe, forse, rima-
sto lì, chiacchiera in un luogo di chiacchiere, se Erasmo Reca-
mi non avesse intanto deciso di ridare alle stampe il suo libro
su Majorana, assai ricco di documenti, e il suo nuovo editore
non avesse, maliziosamente, omesso di ricordare che appun-
to di riedizione si trattava. Forse, se quella notazione ci fosse
stata, non avrei acquistato il volume o forse, chissà?, sì. Fatto
sta che qualche giorno dopo quei conversari al San Marco, me
lo trovai sugli scaffali della Libreria Feltrinelli di Bologna e mi
dissi, nella mia ignoranza: «Vediamo che c’è di nuovo».

Chi volesse qui trovare nuove prove per sciogliere l’enigma Ma-
jorana resterebbe deluso. Farebbe allora meglio a lasciare queste
pagine. Che sono rigorosamente basate su quanto già noto, ed edi-
to. Anche nel solo caso di una verifica su un documento inedi-
to – che debbo alla gentilezza di Michelangelo De Maria e Fran-
cesco Guerra – si tratta appunto di una verifica, vale a dire della
constatazione de visu di cose già note. E allora a che scriverne?
Nella scomparsa di Majorana piuttosto che il come, punto
cruciale è il perché. Cosa su cui del resto, alla fin fine, concor-
da tutta la letteratura sul «caso».

8
Si fosse ‘apertamente’ suicidato, la sua scelta avrebbe potu-
to essere vista, interpretata e proposta – come per lo più è stato
– quale effetto di una causa privata, della sofferenza della vita
in sé. Un doloroso caso umano che produsse una grave perdi-
ta per la scienza, e nulla di più. Se avesse programmato la sua
scomparsa proprio per lasciare posto all’ambiguità che poi ef-
fettivamente ne seguì, il suo volatilizzarsi sarebbe stato – fu ed
è – inquietante. Un messaggio radicale per il suo mondo, quel-
lo della scienza, e per le vie che percorre? Ancora più radicale
se il tragitto da lui effettivamente intrapreso fosse quello ‘ar-
gentino’ e non quello adombrato da Leonardo Sciascia fondato
su un pessimismo totale: unica via l’espiazione e il rifugiarsi
nell’intuizione sapienziale degli antichi testi sacri. Rifiuto sen-
za appello dunque della scienza e della ‘modernità’, si direbbe
oggi. Il loro esito non può che essere catastrofico, come sa il pi-
lota che sganciò la bomba su Hiroshima, la cui fuga dal mon-
do per espiare non a caso è in Sciascia parallela e intrecciantesi
con l’abbandono di Majorana.
La ‘via argentina’ lascia uno spiraglio, ma è in certo senso
più aspra e ingrata per gli uomini di scienza. La scienza e la
tecnica non vi sono rifiutate. In Argentina Majorana sarebbe
‘tornato’ al mestiere inizialmente scelto, e di tradizione fami-
liare: l’ingegnere. Respinto sarebbe allora il cammino su cui le
ha poste la moderna ricerca. Se così fosse Majorana parrebbe
avvertire: ogni atto – per quanto affascinante sia intellettual-
mente – deve essere sottoposto ad analisi critica. Non è in sé
‘buono’ in quanto accresce il sapere scientifico e ‘neutro’ ri-
spetto agli usi che se ne possono fare, questi, e solo questi – so-
stiene il senso comune da lui rifiutato – sì positivi o negativi.
Lo scienziato – direbbe allora il messaggio – ha una precisa re-
sponsabilità a monte. Messa in evidenza da un gesto simbolico

9
e silenzioso. E dunque, viene da domandarsi, ‘semplice’ rispo-
sta a un tormento individuale oppure consapevolezza che se
quell’annuncio fosse stato esplicitato avrebbe aiutato reazioni
antiscientifiche, posizioni oscurantiste che non erano nel suo
orizzonte mentale?
Se fosse più attendibile la seconda ipotesi, allora Majora-
na vuole, disperatamente, rivolgersi agli uomini di scienza e
solo a essi, caricandoli di una enorme responsabilità ma ri-
conoscendo anche loro, in modo implicito, una perspicacia e
una capacità che c’è da chiedersi se poi abbiano dimostrato di
possedere.
Come che sia, Majorana diviene un ‘paradigma’ e la para-
digmaticità del suo caso si esplica nella ‘storiografia’ che ha
prodotto, da cui emerge un diffuso rifiuto da parte degli uo-
mini di scienza di vedere nella sua scomparsa l’espressione di
un ‘allarme’.

Bologna-Trieste-Marina di Ravenna
Aprile 2001-febbraio 2002
r. f.

Mirella mi ha illuminato un punto cruciale relativo a Pirandello, che


spero di avere ben colto. Giuseppe Petronio mi ha fornito preziose in-
dicazioni bibliografiche. Senza l’aiuto amichevole di Daniele Andreoz­
zi, Sergio Brasini, Loredana Panariti la mia pigrizia avrebbe prevalso
sui buoni propositi. Ringraziarli è un piacevole dovere.
A Mirella, Federico Codignola, Giorgio Gilibert, Claudio Magris,
Loredana Panariti, Renato Zangheri ho imposto la fatica della lettura
del manoscritto. Non so se sono sempre stato in grado di cogliere le
loro acute osservazioni.

10
Addenda: Bologna 30 giugno 2002
Nelle more della pubblicazione di questo mio lavoro, per la serie «I
grandi della scienza» della rivista «Le scienze» è uscito nel giugno
2002 il quaderno Majorana, il genio scomparso di Luisa Bonolis, uno
scritto di cui si raccomanda la lettura, brillante e al tempo stesso den-
so. E rigoroso, nella sua ottica. Che, per quanto qui interessa, dal ‘ca-
none’ non si discosta e dunque nulla aggiunge ai temi qui trattati.

r. f.

1
Giuseppe O. Longo, Homo technologicus, Roma 2001, p. 12.

11
1

La storia

Alle undici antimeridiane di sabato 26 marzo 1938 Antonio


Carrelli, direttore dell’Istituto di Fisica della Regia Università
di Napoli, ricevette un telegramma urgente: «non allarmarti,
segue lettera. Majorana»1. Il mittente è Ettore Majorana, da po-
chi mesi titolare della cattedra di Fisica teorica nell’ateneo cam-
pano cui era stato chiamato – recita la lettera di nomina mi-
nisteriale – «in applicazione dell’art. 8 del R. D. L. 20 giugno
1935. XIII n. 1071 (…) indipendentemente dalla normale pro-
cedura del concorso (…) per l’alta fama di singolare perizia a
cui Ella è pervenuta nel campo degli studi riguardanti la detta
disciplina»2. Insomma, come si suole dire, al trentunenne Etto-
re Majorana era stata attribuita la cattedra per «chiara fama»,
servendosi di un meccanismo di legge a suo tempo inventato
per uomini come Guglielmo Marconi e Arturo Gaetano Croc-
co e che poi fu usato non sempre nel modo migliore3.
Carrelli resta interdetto. Il telegramma – racconterà in una
lettera «riservatissima personale» inviata il 30 marzo al rettore –
mi riuscì incomprensibile, mi informai e seppi che la mattina [Majo-
rana] non aveva fatto la sua lezione. Il telegramma veniva da Palermo.
Con la distribuzione postale delle 14 mi è pervenuta una lettera in
data precedente, e da Napoli, nella quale manifestava propositi suici-
di. Compresi allora che il telegramma urgente da Palermo del giorno
successivo doveva appunto servire a rassicurarmi, dandomi la prova
che nulla era accaduto. Ed infatti la domenica mattina mi è giunto un

13
espresso da Palermo in cui mi si diceva che le brutte idee erano scom-
parse e che subito sarebbe ritornato4.

Sennonché Majorana non comparve più. Dalle ricerche in


seguito svoltesi risultò che, recatosi da Napoli a Palermo con il
piroscafo «postale», avrebbe poi intrapreso il viaggio di ritorno
con lo stesso mezzo, ma a Napoli non si mise più in contatto
con nessuno degli amici o dei conoscenti. Aveva attuato i pro-
positi letti da Carrelli nella sua prima missiva? Si era gettato in
mare? Un rapporto di polizia della seconda metà di aprile rias-
sume il risultato delle indagini.
Fatte le ricerche (…) a Napoli e Palermo non si è potuti venire a capo
di nulla. Il prof. Maiorana erasi recato da Napoli a Palermo con pro-
posito di suicidio (come da lettere da lui lasciate) e quindi supponevasi
che fosse rimasto a Palermo. Però tale ipotesi viene ora a scartarsi col
fatto che è stato rinvenuto il biglietto di ritorno alla Direzione della
«Tirrenia» e perché è stato visto alle ore cinque nella cabina del piro-
scafo – durante il viaggio di ritorno – che dormiva ancora. Poi ai pri-
mi di aprile è stato visto – e riconosciuto – a Napoli, tra il Palazzo Rea-
le e la Galleria mentre veniva su da Santa Lucia, da una infermiera che
lo conosceva e che ha anche visto ed indovinato il colore dell’abito5.

Ecco dunque il dubbio – una certezza fino alla morte per la


madre – che Majorana avesse deciso di sparire e non di suicidar-
si, come intendeva lasciar credere, specie alla famiglia6. Quale il
motivo? Il testimone che sostiene d’averlo visto durante il viag-
gio di ritorno da Palermo a Napoli ancora al mattino quando
ormai la nave era in prossimità della città del Vesuvio – Vittorio
Strazzeri, docente di geometria nell’ateneo del capoluogo sici-
liano – in una lettera del 31 maggio a uno dei fratelli di Ettore
suggerisce la possibilità che si sia rifugiato in qualche convento
«come è capitato altra volta con persone molto religiose»7. Pure
questa strada, percorsa in particolare dai familiari, non porterà

14
a nulla. Anche perché dal Vaticano – cui i parenti si erano ri-
volti inviando una supplica al papa – non venne aiuto alcuno8.
A ben vedere un indizio ulteriore a favore della scelta religiosa.
Più volte d’altra parte, negli anni successivi, emergeranno voci
su una presenza di Ettore in qualche monastero9.
Fra le carte di polizia Leonardo Sciascia ha poi rinvenuto
una nota, datata 6 agosto 1938, in cui si legge: «si prospetta in
qualche ambiente» che Majorana «sia vittima di qualche oscu-
ro complotto, per levarlo dalla circolazione», in quanto questo
«uomo di grandissimo valore nel campo fisico e specialmen-
te radio» era «l’unico che poteva seguitare gli studi di Marconi
nell’interesse della difesa nazionale»10. Una voce destinata a ri-
comparire, in varie forme, più volte. Tanto che Edoardo Amal-
di nel 1966 si sente in dovere di respingere come «non solo (…)
destituita di qualsiasi fondamento, ma (…) assurda sia sul piano
storico che su quello umano» l’ipotesi, per lui immaginata «solo
quasi trent’anni dopo [da] qualcuno che non lo aveva mai cono-
sciuto», secondo cui la scomparsa di Majorana fosse da mettere
«in relazione con ipotetici affari di spionaggio atomico»11.
Prima di dileguarsi Majorana aveva chiesto alla famiglia di
mandargli la sua parte del conto che aveva in banca con un fra-
tello e aveva ritirato alcuni mesi di stipendio arretrato. Dispone-
va quindi di una somma di denaro che gli avrebbe anche per-
messo di sostenere le spese di un lungo viaggio. E a un possibile
espatrio pensa infatti la madre che scrivendo – con la presenta-
zione autorevole di Enrico Fermi – a Benito Mussolini si preoc-
cupa di segnalare al «duce» il numero e la data di scadenza del
passaporto di Ettore12. La notazione assume un certo rilievo nel-
la storia molti anni dopo la scomparsa di Majorana, nel 1978.
Il 14 ottobre di quell’anno il corrispondente da New York del
settimanale «Oggi» racconta sul suo foglio, sintetizza Recami,

15
quanto segue: un noto fisico italiano, suo amico, gli ha fatto sapere
fin dall’aprile di un collega cileno, il quale sostiene di avere avuto
notizie in un ristorante argentino circa la presenza di Ettore Majorana
a Buenos Aires13.

Le ricerche poi fatte – forse non con metodo del tutto ap-
propriato – non hanno portato a risultati conclusivi né in un
senso né in quello opposto.

Ettore Majorana era nato a Catania il 5 agosto 1906, quarto dei


cinque figli di Fabio Massimo e Dorina (Salvatrice) Corso. La
sua era una famiglia della borghesia professionale, nella quale si
contavano numerosi docenti universitari alcuni dei quali erano
divenuti anche esponenti politici di rilievo. Nella Sicilia a cavallo
fra secolo XIX e secolo XX, come anche più tardi, ciò comporta-
va spesso l’uso di metodi non ortodossi, e non a caso, dunque, i
Majorana caddero sotto la sferza della critica democratica e mo-
ralizzatrice di Gaetano Salvemini14. Il più noto e di peso fra loro
era Angelo, giurista, professore di diritto costituzionale, fratello
del padre di Ettore, e di lui più vecchio di dieci anni, essendo ve-
nuto alla luce nel 1865 secondo di sette fratelli e sorelle di cui Fa-
bio Massimo sarà il quinto ed ultimo dei maschi. Nel 1897, poco
più che trentenne, era stato eletto deputato e poco dopo era en-
trato a far parte dei governi guidati da Giovanni Giolitti. Come
si legge nelle sue memorie, su di lui «Giovanni bifronte» aveva
puntato molto. Angelo Majorana si era però ben presto amma-
lato, scomparendo nel 1910 poco più che quarantenne. Erasmo
Recami, biografo di Ettore, attribuisce questa morte precoce a
una precisa causa fisica: una grave forma di nefrite15. Altre auto-
revoli fonti, vedremo, offrono versioni del tutto diverse.
Ettore mostra ben presto una spiccata attitudine per il cal-
colo numerico, prodromo di una perizia che manterrà nel

16
tempo e che stupirà sempre gli amici. Come rivela l’aneddoto
che segue ricordato da Amaldi:
una volta Fermi e Majorana fecero una gara: si trattava di calcolare
un’espressione, se ben ricordo un integrale, che Fermi doveva calcolare
facendo uso della lavagna e Majorana a memoria. Mentre tutti noi sta-
vamo a guardare in silenzio, Fermi scriveva passaggi e passaggi a gran
velocità tanto da riempirne una lavagna di dimensioni normali; Majo-
rana stava voltato da un’altra parte con lo sguardo fisso a terra. Quan-
do Fermi giunse al risultato e disse: «Ecco, ho fatto», Ettore rispose:
«Anch’io» e diede il risultato numerico16.

Studia dapprima in casa, poi – ancora frequentante le ele-


mentari – è inviato a Roma all’Istituto Massimo tenuto dai ge-
suiti, continuando poi a studiarvi come esterno nei primi anni
del liceo, dopo che la famiglia nel 1921 si era trasferita nella ca-
pitale. L’ultima classe delle medie superiori la frequentò al Li-
ceo Statale Tasso dove superò la maturità classica nella sessio-
ne estiva del 1923. Si iscrisse quindi a ingegneria, deciso – par-
rebbe – a seguire le orme del padre, che era appunto ingegnere.
Durante gli studi Majorana – collega di corso, fra gli altri,
di Emilio Segrè ed Edoardo Amaldi – «faceva da consulente a
tutti i suoi compagni per la soluzione dei problemi più difficili:
in particolare se si trattava di problemi matematici». E per la
matematica ebbe sempre una grande ammirazione
come risulta per esempio da alcune considerazioni sulla sua immen-
sità che una volta fece con Segrè. Majorana in sostanza notava che se
la fisica poteva essere riassunta in un trattato, come l’Handbuch der
Physik, composto di circa 35 volumi, la matematica avrebbe richiesto
un’opera enormemente più vasta17.

All’inizio del 1928 Ettore abbandona gli studi di ingegne-


ria per quelli di fisica sotto la spinta di Segrè che quel passaggio

17
aveva compiuto l’anno precedente, dopo aver conosciuto e fre-
quentato Enrico Fermi e Franco Rasetti.
Dopo qualche mese (…) – racconta Segrè – rividi Ettore Majorana e gli
raccontai cosa stavo facendo esortandolo a fare altrettanto. Gli dissi che
la Scuola di ingegneria non era per lui, come non era per me, e che la si-
tuazione a fisica presentava un’occasione straordinaria. Ettore mi stette a
sentire e poi venne a vedere di persona. All’Istituto parlò con Fermi che
allora stava calcolando la funzione del metodo statistico di Thomas-Fer-
mi servendosi di una piccola calcolatrice a mano (…). Con essa, in circa
una settimana di lavoro, aveva costruito per approssimazioni successive
la funzione che voleva. Majorana s’informò in dettaglio e poi tornò a ca-
sa senza fare commenti. Trasformò l’equazione non lineare di Fermi in
una del tipo Riccati e la risolse numericamente servendosi del suo cervel-
lo come macchina calcolatrice. Dopo un paio di giorni tornò all’Istituto
e chiese a Fermi di vedere la sua tavola della funzione. La confrontò con
la sua e con meraviglia constatò che Fermi non aveva fatto sbagli. Dopo
questa esperienza passò anche lui a fisica, ma essendo matematicamen-
te molto superiore a tutti noi e forse anche a Fermi, non si faceva vedere
molto alle lezioni private, pur partecipando alle conversazioni e alle di-
scussioni. Non ricordo che abbia mai fatto alcun lavoro sperimentale18.

Commenta Leonardo Sciascia, che alla scomparsa di Ma-


jorana dedicò nel 1975 un «giallo filosofico» e l’aneddoto lesse
nella versione datane da Amaldi nella Nota biografica19:
non era andato dunque per verificare se andava bene la tabella da lui
calcolata nelle ultime ventiquattr’ore (…) ma se andava bene quella
che Fermi aveva calcolato in chi sa quanti giorni (…). Superata Fermi
la prova, Majorana passò a fisica (…). Il suo rapporto con Fermi c’è da
credere sia rimasto sempre per come stabilito il primo giorno: non so-
lo da pari a pari (Segrè dirà che a Roma solo Majorana poteva discu-
tere con Fermi), ma distaccato, critico, scontroso20.

Ne emerge l’immagine di un giovane in cui la timidezza –


probabilmente originata anche da esperienze infantili legate al-

18
la precoce manifestazione delle sue propensioni matematiche21 –
si volgerebbe in tracotanza, sfida incessante a sé e agli altri, che
Ettore vuole di continuo meravigliare. In realtà la lettura dello
scrittore siciliano ha un che di forzato. L’aneddoto pare piutto-
sto raccontare di un giovane che, nello sforzo e con lo sforzo di
dominare la propria natura, perviene a essere consapevole del
proprio valore, un valore che un altro grande conscio di sé come
Fermi sembra immediatamente riconoscergli, donde un rappor-
to particolare fra i due, che ne determina uno altrettanto sui ge-
neris pure fra Majorana e gli altri del gruppo22.
Tale sentimento di sé, e non altro, è, con ogni probabilità,
alla base della reticenza a pubblicare i risultati delle sue ricer-
che e riflessioni da tutti i biografi messa in luce. Se ne trova la
controprova in un episodio famoso.
Majorana intravede prima del fisico tedesco quelle che verran-
no dette le forze di «scambio alla Heisenberg», ma si rifiuta di
pubblicare qualsiasi cosa sulla sua teoria di cui pure aveva parlato
agli amici e addirittura vieta a Fermi, che lo avrebbe voluto, di far-
ne cenno a una conferenza internazionale di fisica svoltasi a Pa-
rigi all’inizio del luglio 1932, un paio di settimane avanti la pub-
blicazione del primo lavoro di Heisenberg. Uscito questo, Fermi e
gli altri amici insistettero ancora una volta con Ettore perché ren-
desse pubblici i suoi risultati, ma questi rispose che «Heisenberg
aveva ormai detto tutto quello che si poteva dire e che, anzi, ave-
va detto probabilmente anche troppo»23. Dunque: valeva la pena
rendere noti solo risultati del tutto originali e del tutto certi.
Passato a fisica, Majorana si laurea il 6 luglio 1929, lo stes-
so giorno in cui anche Amaldi ottiene il titolo dottorale. Entra
così a far parte a pieno titolo dei «ragazzi di via Panisperna»,
il manipolo di giovani fisici che opera con e attorno a Fermi
(anch’egli peraltro giovane essendo nato nel 1901), un gruppo

19
fortemente coeso che si autorappresenta come portatore di un
nuovo verbo scientifico. Lo rivela non solo il lavoro di ricerca
ma anche il modo in cui si definiscono attraverso scherzosi so-
prannomi, dove il motto di spirito s’appalesa una volta di più
straordinario indicatore. Fermi è il «papa», Rasetti il «cardinal
vicario» (ma anche il «venerato maestro»), Majorana, per il suo
acuto senso critico, il «grande inquisitore», Segrè il «prefetto al-
le biblioteche», ma pure – per il suo carattere – il «basilisco»24.
Come Majorana stesso scriverà nelle brevi Notizie sulla car-
riera didattica stilate nel maggio 1932, dopo la laurea frequenta
«liberamente» – e cioè in modo volontario e senza alcuna cari-
ca accademica o impiego scientifico (né, ovviamente, remune-
razione) – «l’Istituto di Fisica di Roma seguendo il movimen-
to scientifico e attendendo a ricerche teoriche di varia indole»25.
Tale lavoro lo porterà a ottenere il 12 novembre 1932, ventiseien-
ne, la libera docenza in fisica teorica. «Presentava solo cinque la-
vori ma la commissione, composta da Enrico Fermi, Antonino
Lo Surdo ed Enrico Persico, fu unanime nel riconoscere nel can-
didato ‘una completa padronanza della fisica teorica’»26.
L’anno successivo, con una borsa del CNR procuratagli da
Fermi, passa alcuni mesi in Germania e in Danimarca. Al ritor-
no ha inizio – secondo tutte le testimonianze – un periodo di
almeno apparente chiusura in sé, su cui s’incardina gran parte
del canone successivamente ritagliato sulla sua persona e sulla
sua vita. Poi partecipa al concorso a cattedra, che gli viene as-
segnata nell’anomalo modo più sopra ricordato. Inizia a inse-
gnare a Napoli e il 26 marzo 1938 scompare. Sulla sua vita fra
il viaggio in Germania e Danimarca e la sua sparizione si avrà
occasione di tornare in modo analitico nei capitoli che seguono.

20
1
Lettera di A. Carrelli al rettore 30.3.38, in Erasmo Recami, Il caso Majora-
na, Roma 2000, pp. 213-214. Il libro di Recami, che costituisce la più preziosa
e ampia fonte d’informazione, nonché la più organica riflessione sul «caso»,
fu edito dapprima presso Mondadori nel 1987 e quindi nel 1991, in versione
riveduta e ampliata, corrispondente a quella del 2000 dell’editore Di Rienzo
di cui ci si servirà nel presente lavoro.
2
Partecipazione di nomina fuori concorso, ibidem, p. 212.
3
Cfr. Sandro Gerbi, Le cattedre nere, «Corriere della Sera», 27 dicembre
1995. Su Crocco cfr. Franco Pastrone, Fisica matematica e meccanica razio-
nale, in Simonetta Di Sieno – Angelo Guerraggio – Pietro Nastasi (a cura di),
La matematica italiana dopo l’Unità. Gli anni tra le due guerre mondiali, Mi-
lano 1998, pp. 438-440.
4
Lettera di cui alla nota 1, Recami, Il caso Majorana, p. 214.
5
Citato in Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana (1975), in Id., Opere
1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Milano 1989, p. 211. Sul valore della te-
stimonianza Sciascia, più avanti nel suo racconto, puntualizza: «E l’infermie-
ra non era una qualsiasi infermiera, una che lo conosceva appena e gratuita-
mente, come accade, si intrufolava nella vicenda: era la sua infermiera, quella
di cui parla in una lettera alla madre e che gli aveva dato buoni indirizzi per la
pensione che cercava» (p. 259). La lettera cui Sciascia accenna è del 22 gennaio
1938 e la si trova in Recami, Il caso Majorana, pp. 201-202.
6
Cfr. Lettera «Alla mia famiglia» 25.3.38 lasciata nella camera d’albergo fino
a quel momento occupata, ibidem, p. 204.
7
Testimonianza di Vittorio Strazzeri 31.3.38, ibidem, p. 206.
8
Recami, Il caso Majorana, pp. 18-19.
9
Cfr. Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 267 sgg.; Recami, Il caso Ma-
jorana, p. 101.
10
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 213.
11
Edoardo Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana (estratto dal vol. La
vita e l’opera di Ettore Majorana), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei,
1966, p. xlix.
12
Recami, Il caso Majorana, p. 21; Lettera della madre a Mussolini 27.7.38,
ibidem, p. 207.
13
Recami, Il caso Majorana, p. 110.
14
Cfr. Gaetano Salvemini, Il ministro della mala vita. Notizie e documenti
sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, a cura di Sergio Bucchi, To-
rino 2000, passim (la prima edizione del volume di Salvemini è del 1910).
15
Recami, Il caso Majorana, p. 46.
16
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xi. Al proposito si veda pu-
re Laura Fermi, Atomi in famiglia, Milano 1954 (dello stesso anno è l’edizione
originale statunitense), p. 58.

21
17
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. viii e p. xiii.
18
Emilio Segrè, Autobiografia di un fisico, Bologna 1995 (l’edizione origi-
nale statunitense è del 1993), pp. 69-70. Una versione un po’ diversa pare Se-
grè desse nelle conversazioni private in cui «ricordava che era stato proprio
[Giovanni] Enriques a convincere Majorana a iscriversi alla Scuola di Fisica»
(Gianni Sofri, Giovanni Enriques: un ricordo, Bologna 1991, p. 20).
19
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, pp. ix-x.
20
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 223.
21
«I familiari e gli amici di famiglia raccontano che Ettore cominciò a dar
prova di attitudine per l’aritmetica e il calcolo numerico già a quattro anni di
età: attitudine che manifestava concretamente facendo come gioco, a memo-
ria e in pochi secondi, moltiplicazioni fra numeri entrambi di tre cifre che gli
venivano detti dai familiari stessi o dai loro visitatori. Quando uno di que-
sti gli chiedeva di fare un calcolo, il piccolo Ettore si infilava sotto un tavolo
quasi cercasse di isolarsi e di lì dava, pochi secondi dopo, la risposta» (Amal-
di, Nota biografica di Ettore Majorana, p. vii). Ha chiosato Sciascia: «sotto il
tavolo per concentrarsi e perché, come tutti i bambini costretti ad esibirsi, si
vergognava». Aggiungendo: «e forse un po’ della vergogna sentita da bambi-
no ancora stingeva nella sua ritrosia e difficoltà a comunicare, da adulto, i ri-
sultati delle sue ricerche» (La scomparsa di Majorana, p. 224 nota 1).
22
Riferendosi al «gruppo di Roma», Emilio Segrè annota: «tutto sommato
era una compagnia di buonissime amicizie, leali, generose ed oneste. C’era
però una differenza nel livello di intimità tra Amaldi, Rasetti e me, e gli al-
tri. Fra i primi tre si poteva parlare di tutto, compreso ragazze. Con Fermi e
Majorana c’era molto più ritegno» (Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 71).
23
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, pp. xxiii-xxiv.
24
Emilio Segrè, Enrico Fermi, fisico. Una biografia scientifica, Bologna 19872,
p. 52 (uso questa edizione e non la prima del 1971 perché più completa per
l’aggiunta di una interessante parte documentaria. L’edizione originale sta-
tunitense è del 1970); Id., Autobiografia di un fisico, p. 71. Il basilisco nella
zoologia mitica greco-romana era un mostro con poteri malefici e terribili,
spesso rappresentato con una cresta a forma di corona (al proposito cfr. in-
fra, cap. 4 nota 29).
25
Recami, Il caso Majorana, p. 142.
26
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xv.

22
2

Il canone

Come molte altre, la storia di Ettore Majorana è imbozzolata in


un canone, costruito sul suo finale – anomalo, non v’ha dubbio
– e affidato alla penna di Laura Capon in Fermi (che sempre
si firma Laura Fermi), Edoardo Amaldi, Emilio Segrè, massi-
mi custodi delle memorie del «gruppo Fermi». Lo ha ben colto
Leonardo Sciascia nel «giallo filosofico» che al giovane scien-
ziato e alla sua scomparsa dedicò ora è ormai più di un quar-
to di secolo: «non uno di coloro che lo conobbero e gli furono
vicini, e poi ne scrissero o ne parlarono, lo ricorda altrimenti
che strano»1.
E fortunatamente, viene da dire, nessuno dei biografi di Et-
tore sembra aver conosciuto il brano delle memorie di Giolitti
in cui il grande uomo politico racconta come e perché andaro-
no deluse le sue speranze sullo zio di Ettore, Angelo Majorana.
Nel ministero che aveva preso avvio il 27 maggio 1906, narra:
al tesoro avevo chiamato Angelo Majorana, deputato di Catania, an-
cora assai giovane, uomo di forte ingegno e che pareva destinato a fare
una grande carriera politica. Ma purtroppo, nel maggio 1907, fu colpi-
to da una malattia di esaurimento nervoso, ribelle ad ogni cura, che si
andò sempre più aggravando e lo condusse precocemente alla tomba2.

Che altro del resto, se non «strano», poteva essere un gio-


vane scienziato di successo, giunto alla cattedra poco più che
trentenne che, di punto in bianco, senza nessuna ragione ap-

23
parente, decide di sparire in quel modo misterioso e anche in-
dubbiamente abbastanza teatrale? Tanto da accorgersene, e
suggerirlo, lui stesso. Quando – su carta intestata Grand Hotel
Sole – il 26 marzo 1938 scrive da Palermo a Carrelli per dir-
gli che «il mare mi ha rifiutato» e quindi rassicurarlo annun-
ciandogli il ritorno a Napoli per l’indomani, sente, non a caso,
il bisogno di aggiungere: «non mi prendere per una ragazza
ibseniana, perché il caso è differente»3.
Costruito, vedremo, sulla base delle testimonianze degli
amici, il canone informa poi di sé la vulgata.
Lo mostra bene la trasmissione televisiva del 18 settembre
2001 su Enrico Fermi curata da Piero Angela. Lo mostra bene
la voce, ampia e ben fatta, a Ettore Majorana dedicata nel Di-
zionario biografico degli scienziati e dei tecnici, uscito nell’anno
2000 a cura di Giorgio Dragoni, Silvio Bergia e Giovanni Got-
tardi per i tipi della Zanichelli, un editore – come è noto – di
grande peso e importanza nella storia della cultura scientifica
in Italia. Vi si ricorda la sua reticenza a pubblicare i risultati cui
giungeva, l’«involuzione depressiva» che sembra averlo colpito
nel 1933 al ritorno dal soggiorno in Germania e Danimarca e
pure, con pudore, la sua «ammirazione (…) per la politica del
governo tedesco del tempo»4, che poi altro non è se non quello
di Adolf Hitler, che avrebbe portato alla grande tragedia del-
la Seconda guerra mondiale e all’inaudita ferocia dello stermi-
nio degli ebrei d’Europa. Temi tutti su cui si avrà occasione di
tornare in maniera ampia che danno in modo chiaro il senso
della direzione verso la quale il canone ha indirizzato l’intera
letteratura sul «caso»: una vicenda il cui significato si colloche-
rebbe tutto e interamente all’interno dell’io, della personalità
(contorta) del protagonista. Che naturalmente fu, e resta, ele-
mento decisivo, imprescindibile. Rimane però – e s’accentua

24
riflettendovi – l’insoddisfazione di un racconto in cui uomi-
ni che hanno largamente contribuito a una visione non deter-
ministica della scienza descrivono un percorso di vita come in
sostanza aprioristicamente determinato. Insomma: un fato da
cui il protagonista non poteva sfuggire, del tutto indipendente
dalla concreta vicenda storica in cui venne a trovarsi immerso.
Quale che fosse il mondo che si fosse trovato dinanzi – sem-
brano dirci i canonisti – Majorana non avrebbe potuto sop-
portare l’ennui de vivre di un’esistenza normale, il peso delle
quotidiane responsabilità. Così la vicenda è isolata dal conte-
sto e la sua ‘inconsueta’ conclusione non può essere che una: il
suicidio. Quando qualcuno troverà tracce di un altro epilogo
– ad esempio: l’essersi Majorana rifugiato nell’America meri-
dionale dandosi al mestiere che aveva scelto prima di farsi fisi-
co – la risposta sarà secca:
circa quelli che hanno visto Majorana in vari luoghi, c’è molta gente
che ha visto il delfino figlio di Luigi XVI, i parenti dello zar Nicola,
ecc. Il fenomeno è tutt’altro che raro5.

Insomma, sulla scomparsa di Majorana «in Italia si sono


scritti infiniti articoli e romanzi. In realtà, non mi sembra che
il triste caso abbia bisogno di spiegazioni romanzesche»: Etto-
re «con ogni probabilità si è buttato in mare dal piroscafo»6.
Come ha scritto Lea Ritter Santini: «la scienza – si sa – è una
irritabile forma del pensiero»7.
A questa impostazione mi pare alla fin fine non sfugga né
chi kanonikòs, conforme alla regola, non vuole essere pro-
grammaticamente come Leonardo Sciascia che alla storia de-
contestualizzata di fatto contrappone un’altra storia deconte-
stualizzata – ché la ‘sicilianità’ (buona) non è certo categoria
contestualizzante in questa vicenda8 – e alla ‘stranezza’ altra

25
‘stranezza’, come quando ipotizza, senza documento alcuno,
un’insofferenza e una sorta di essenziale incomunicabilità di
Majorana verso Fermi e gli altri del gruppo9. Né la evita chi,
come Erasmo Recami, si pone en historien, ma come uno sto-
rico la cui acribia filologica pare fermarsi alla soglia del conte-
sto, dello scavo d’insieme.
Così alla fine il canone continua di fatto a tenere la scena,
rendendo ancora incomprensibile il messaggio che Ettore Ma-
jorana sembra aver disperatamente lanciato a un mondo sordo
alla sua voce flebile ma insistente, poiché la sua statura scien-
tifica invece di sbiadire col tempo, nel tempo sempre più è cre-
sciuta10. E con essa gli interrogativi su quella notte del tardo
marzo 1938.
Per cercare d’intenderlo la sola via che rimane è ripercorre-
re la vicenda tentando di immergerla nel mondo in cui si dipa-
nò, tenendo conto in primis dei non molti, ma decisivi, docu-
menti che l’affetto dei congiunti e la pazienza di qualche ricer-
catore hanno consegnato alla riflessione dello storico.

1
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 227.
2
Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, con uno studio di Olindo Mala-
godi, Milano 1922, I, p. 236.
3
Lettera a Carrelli da Palermo 26.3.38, in Recami, Il caso Majorana, p. 205.
4
Giorgio Dragoni – Silvio Bergia – Giovanni Gottardi, Dizionario biografico
degli scienziati e dei tecnici, Bologna 2000, p. 945.
5
Lettera di Emilio Segrè del gennaio 1980 citata in Recami, Il caso Majora-
na, p. 101.
6
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 165.
7
Lea Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta, appendice a Leonardo
Sciascia, La scomparsa di Majorana, Torino 1991, p. 84. Il saggio di Ritter
Santini comparve originariamente come nota alla traduzione tedesca del li-
bro di Sciascia (Stuttgart 1979).

26
8
«Come tutti i siciliani “buoni”, come tutti i siciliani migliori, Majorana
non era portato a far gruppo» (Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 223).
9
«Qualcosa c’era in Fermi e nel suo gruppo che suscitava in Majorana un
senso di estraneità, se non addirittura di diffidenza, che a volte arrivava ad
accendersi in antagonismo. E per sua parte, Fermi non poteva non sentire un
certo disagio di fronte a Majorana (…). E poi, tra il gruppo dei “ragazzi di
via Panisperna” e lui, c’era una differenza profonda: che Fermi e i “ragazzi”
cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fat-
to di volontà, per lui di natura (…). Un segreto fuori di loro – da colpire, da
aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per Majorana era invece un
segreto dentro di sé, al centro del suo essere; un segreto la cui fuga sarebbe
stata fuga dalla vita, fuga della vita» (ibidem, pp. 223-224).
10
Al proposito cfr., ad esempio, Recami, Il caso Majorana, p. 25.

27
3

Il metodo storico disatteso

Curioso davvero, a riflettervicisi anche un solo istante, che le


più elementari regole del metodo storico siano state per lo più
come dimenticate nell’affrontare i casi di Ettore Majorana. Ogni
ricercatore sa fin dalle sue prime prove che i documenti sono le
pietre essenziali dell’edificio storiografico e che i diretti testimo-
ni rappresentano sì fonti essenziali, ma da maneggiare con cura
tutta particolare. E che gli uni e gli altri vanno collocati nel loro
contesto. Perché, dunque, tale rimozione che non si può, ovvia-
mente, ascrivere a ignoranza?
Un abbozzo di risposta mette in campo almeno tre fattori
che di volta in volta si giustappongono o s’intersecano, assu-
mendo, di caso in caso, importanza e ruolo diversi.
In primo luogo l’autorevolezza delle ‘icone’ costruttrici e
custodi del canone: il continuatore e tutore della tradizione di
via Panisperna; la depositaria, come compagna di vita, delle
memorie del più noto scienziato italiano del secolo XX, creato-
re del gruppo romano di cui pure Majorana era parte; un pre-
mio Nobel fattosi anche autorevole, e noto, storico della fisica.
Secondariamente, il modo in cui in Italia si è sinora fatta, e
spesso ancora si fa, storia della scienza. Volta in via prevalen-
te alla ricostruzione di vicende teoriche più che alla concretez-
za delle strutture di ricerca e dei suoi protagonisti, con i loro
problemi non solo scientifici. Basti pensare al clamoroso ‘buco’
della storiografia scientifica italiana, che solo da qualche tem-

29
po si sta cominciando a colmare1, rappresentato dall’assenza di
uno scavo sull’effetto prodotto nel campo della ricerca non solo
e non tanto dalla cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle univer-
sità, dalle accademie, dai centri studi pubblici e privati, ma dal
mancato rientro di molti di loro nel paese o nelle antiche strut-
ture all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale.
Infine, un ruolo non secondario nel modo di studiare la sto-
ria di Majorana ha avuto la riduzione della sua vicenda a ‘giallo’,
genere letterario quanto mai nobile e affascinante che tuttavia
nel caso specifico pare avere prodotto un effetto preciso: inutile
volgersi a essa se non si è in possesso di nuove prove o almeno di
nuovi indizi atti a sciogliere il mistero della sua scomparsa. Si è
suicidato? Ha scelto il romitaggio di un convento? Può davvero
essere fuggito in Argentina o altrove? Non è stato forse vittima
di un rapimento per i risvolti militari che i suoi studi compor-
tavano? Anche Sciascia, che pure ha il tarlo del perché di quella
scomparsa, non riesce – forse non può – sottrarsi alla dimensio-
ne poliziesca della storia. Verso di essa, del resto, chi scrive que-
ste pagine è stato più volte sospinto, conversando del suo lavo-
ro, proprio da uomini del mondo dell’editoria, immediatamente
delusi dall’ottica qui assunta, che, già lo si è detto, non è quella
dello scoop, che ormai elettrizza non solo l’universo dei media.

1
Cfr., al proposito, Roberto Finzi, Da perseguitati a «usurpatori»: per una
storia della reintegrazione dei docenti ebrei nelle università italiane, in Fon-
dazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Il ritorno alla
vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a
cura di Michele Sarfatti, Firenze 1998, pp. 95-114; Francesca Pelini, Appunti
per una storia della reintegrazione dei professori universitari perseguitati per
motivi razziali, in Ilaria Pavan – Guri Schwartz (a cura di), Gli ebrei in Italia
tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica, Firenze 2001, pp. 113-139.

30
4

In Germania e Danimarca

Concorde è la letteratura sul nostro «caso» nel suggerire che la


permanenza in Germania e in Danimarca costituisce una cesu-
ra nella vita di Majorana. Non a caso lì si manifesta per la pri-
ma volta la malattia che poi lo accompagnerà fino alla scom-
parsa1 e che gli farà denunciare al momento dell’ entrata in ruo-
lo una salute «alquanto cagionevole»2. Segno più evidente di un
mutamento che – sempre stando ai testimoni – produce una
metamorfosi e nel comportamento3 e nel carattere4. Sarebbe di-
venuto cupo e solitario da «allegro» che era, per quanto Scia-
scia abbia a descrivere una realtà per certi versi opposta: «da
silenzioso e scontroso che era, a Lipsia, con Heisenberg chiac-
chiera – e amabilmente. Ma solo con Heisenberg»5.
In Germania e in Danimarca Majorana è stimato e, per
quanto lo permetta la sua riservatezza, circondato da affetto.
Cosa, dunque, determina quella cesura?
Laura Fermi, che scrive sedici anni dopo la scomparsa di
Majorana, connette la trasformazione6 a una causa del tutto
privata e personale, non legata alla permanenza e alle esperien-
ze fatte in Germania. «Un tragico fatto che aveva colpito la fa-
miglia» in cui Ettore si sarebbe assunto – con grande impe-
gno e dispendio di energie specie psichiche – «la responsabilità
di provare l’innocenza» di un parente ingiustamente accusato
d’infanticidio. L’imputato fu assolto «ma lo sforzo, la preoccu-
pazione continua, le emozioni del processo non poterono non

31
lasciare effetti duraturi in una persona sensitiva quale era Etto-
re». Il nostro si sarebbe così chiuso in se stesso uscendone solo
quando, con imprevista decisione, nel 1937 presentò domanda
al concorso per la cattedra di Fisica teorica bandito dall’Uni-
versità di Palermo, scompaginando – divertendosi a scompa-
ginare, suggerisce Sciascia7 – ogni previsione degli «ambienti
fisici»8. Venne quindi nominato professore a Napoli.
E così, dopo un lungo periodo di reclusione, si trovò a un tratto di
fronte agli studenti, in un’aula gremita. Il cambiamento fu troppo bru-
sco o troppo forte; la prova superiore alle sue forze9.

Questa ricostruzione del dramma di Majorana – divenu-


ta anch’essa canonica in certa vulgata10 – è duplicemente de-
bole. Presume intanto fatti non accertati, e anzi contestabili e
contestati, come l’impegno di Majorana nella difesa del paren-
te accusato, e quindi forza la cronologia11. Perché l’ipotetico
stress dovuto all’impegno nel processo avrebbe dovuto espli-
carsi dopo il soggiorno in Germania (e Danimarca) dove – ci
dice Majorana stesso e ci dicono i suoi biografi12 – trovò ampi
riconoscimenti professionali e strinse durature amicizie?
I documenti e le testimonianze che possediamo se pongo-
no in luce l’estrema fragilità della spiegazione avanzata con
grande sicurezza dalla consorte di Fermi, non permettono in
realtà d’individuare nessuna causa determinata e certa della
frattura che, a detta di chi gli era amico, si produsse nella vita
di Majorana con e dopo l’esperienza all’estero.
Ci sono tuttavia indizi fino ad ora lasciati abbastanza in om-
bra che possono avere – hanno – una relazione non insigni-
ficante e con le fasi immediatamente successive della vita di
Majorana e con gli interrogativi sollevati dalla sua misteriosa
scomparsa. Si trovano nelle lettere inviate a familiari e amici

32
durante il soggiorno in Germania e Danimarca. Dunque, in
documenti verificabili, non solo in memorie soggettive che si
alimentano reciprocamente negli anni.
Quanto a prima vista colpisce in questo epistolario è lo spa-
zio che hanno le notazioni politiche, su entrambi i paesi che
visita. Ma non meraviglia: fra i «ragazzi di via Panisperna» la
politica è una dimensione ben presente, parrebbe fin dagli an-
ni in cui sono studenti13. E sarebbe stato strano il contrario,
visto che nel gruppo si trovavano, oltre che rampolli di fami-
glie che non poco avevano avuto a che fare con la politica co-
me Majorana, i figli di alcuni alti esponenti della politica e\o
delle istituzioni culturali dell’epoca come Giovanni Gentile jr.
e Giovanni Enriques.
Entrati a far parte dell’Istituto di Fisica, sotto la guida di
Enrico Fermi divengono rapidamente non solo provetti fisici,
ma anche esperti accademici del tutto immersi nel loro tem-
po. Quando Fermi ironizza sull’interesse di Gian Carlo Wick,
figlio di Barbara Allason, per la politica14, lancia al giovane al-
lievo e amico un duplice segnale. Lo aveva voluto con sé seb-
bene sapesse del suo antifascismo15; lui, il «papa», per quanto
potesse sembrare dalla politica alieno ed estraneo, ad essa era
molto attento sia nel senso di seguire gli eventi sia in quello di
muoversi tenendone conto. Non amava infatti le cause perse;
«Don Chisciotte non era certo il suo eroe»16. Suo maestro – te-
stimonia Emilio Segrè – era stato Orso Mario Corbino, grazie
al quale «Fermi aveva raggiunto un livello di consapevolez-
za politica superiore»17. Sa di certo servirsene per le questio-
ni universitarie. E una delle dimostrazioni si avrà proprio nel
concorso cui partecipa Majorana. La usa, a quanto pare, per
leggere attentamente e con partecipazione ciò che nel mondo
si sta dando. È ancora Segrè a suggerircelo.

33
Quando partimmo per le vacanze estive del 1935 – racconta – eravamo
di umore tutt’altro che allegro. Gli sviluppi politici degli ultimi tempi
e in particolare i preparativi per la guerra di Etiopia e il grave peggio-
ramento della situazione europea ci preoccupavano tanto da interferire
seriamente col nostro lavoro. Ci mancava la tranquillità necessaria per
una concentrazione totale. Io ero ben conscio di tutto ciò e ne parlai a
Fermi che mi rispose che avrei trovato la risposta sul tavolo della biblio-
teca dell’Istituto. Su questo tavolo c’era un atlante geografico e se si pro-
vava ad aprirlo a caso da sé si apriva alla pagina dell’Etiopia; era stata
consultata tante volte che la rilegatura era già leggermente deformata18.

Accadeva infatti da mesi – racconta Laura Fermi, che è con


ogni evidenza ‘fonte’ o controprova dei ricordi di Segrè – che i
membri dell’Istituto di via Panisperna
spesso interrompessero le ricerche per andare in biblioteca a studia-
re l’atlante, cercando invano una scusa, se non una giustificazione, a
una tale guerra coloniale. Ma l’atlante insisteva a far vedere un’Etiopia
senza grandi risorse naturali, senza miniere, senza pozzi di petrolio,
senza obiettivi militari, senza porti19.

L’episodio mostra bene che non è solo il caposcuola ad ave-


re una acuta sensibilità politica. Ricorderà in un’altra occasio-
ne ancora Segrè sempre riferendosi al periodo della aggressio-
ne italiana all’Etiopia:
soprattutto persone informate come eravamo noi, cominciavano a te-
mere che nel mondo sarebbe successo qualcosa di terribile. Avevamo
viaggiato, eravamo a contatto con fisici di diversi paesi, e forse erava-
mo meglio informati dei ministri degli esteri o dei politici20.

Del tutto normale allora riscontrare nella corrispondenza


dalla Germania di Majorana – per di più proveniente, come
già ripetutamente ricordato, da una famiglia con una impor-
tante tradizione politica – forti interessi politici.

34
Secondo Amaldi,
nel periodo trascorso all’estero Majorana fu molto colpito dal livel-
lo economico e organizzativo tedesco tanto da concepire una grande
ammirazione per la Germania, ammirazione che espresse in alcune
occasioni, in particolare in una lettera a Emilio Segrè: questa lette-
ra sfortunatamente andò perduta, insieme ad altri documenti spediti
dall’Italia agli Stati Uniti, nell’affondamento dell’Andrea Doria, avve-
nuto il 25 luglio 195621.

Per parte sua Sciascia – sebbene ne voglia sottolineare l’at-


teggiamento di «osservatore apparentemente impassibile» del-
la realtà che gli sta di fronte in Germania – si sente in dovere
di giustificarne, polemicamente e in modo erroneo, l’apparen-
te benevolenza verso il nascente Reich con l’essere Majorana
«disimpegnato dalla politica al limite di quanto allora si pote-
va essere disimpegnati», in un mondo in cui
in Italia gli antifascisti è possibile incontrarli soltanto in carcere (…)
i cattolici avevano sciolto le loro riserve nei riguardi del fascismo (…)
Pirandello aveva montato la guardia alla mostra del decennale della
«rivoluzione fascista». Marconi presiedeva la Reale Accademia d’Ita-
lia voluta da Mussolini. Fermi, accademico, era Sua Eccellenza Fermi

e via elencando22.
Laura Fermi tace del tutto questo aspetto, ripreso invece da
Segrè, seppure con una maliziosa svista cronologica, nella sua
biografia di Enrico Fermi23. Ed è un silenzio che dà da pensare.
Sapeva la moglie del «papa» del giudizio che circolava fra
i «ragazzi di via Panisperna» sull’atteggiamento di Majorana
nei confronti della Germania nazista? O non ne accenna per-
ché lo ignora?
Nel primo caso il suo silenzio potrebbe trovare una spiega-
zione nel contesto in cui scrive, segnato dai momenti più acuti

35
della Guerra fredda. Il 1954 è bensì l’anno della messa in stato
d’accusa per corruzione di Joseph McCarthy, ma è pure l’an-
no in cui Robert Oppenheimer è privato d’ogni carica. «Il suo
lea­lismo – annota il 6 giugno 1954 Ranuccio Bianchi Bandi-
nelli – è stato riconosciuto in pieno»; la commissione però ha
concluso a maggioranza che «fosse da allontanare dagli inca-
richi di fiducia e di grande responsabilità fin ora coperti» in
quanto «la sua mentalità e il suo carattere non appaiono alieni
dal poter subire influenze e suggestioni»; insomma «Oppen-
heimer è risultato un uomo che poteva esser capace di ragio-
nare: perciò va tolto dal suo lavoro, va isolato»24. L’anno pre-
cedente erano stati giustiziati i Rosenberg e poco prima, nel
1950, c’erano stati i casi di Klaus Fuchs e, soprattutto, di Bru-
no Pontecorvo.
Con ogni evidenza Laura Fermi è impegnata a prendere
distanze ampie, e incontrovertibili, dall’antico allievo del ma-
rito. Il gesto di Pontecorvo, dice, era per lei e per il marito
«assurdo, inconcepibile». E del tutto inimmaginabile. Come
ogni subdolo comunista, Pontecorvo si era infatti premurato
di mimetizzarsi. Tanto che – racconta di sé e del marito Lau-
ra Fermi, smentita molti anni dopo non solo da Pontecorvo
– «venimmo allora all’incredibile conclusione che non aveva-
mo mai parlato di politica con Bruno. Conoscevamo il punto
di vista di tutti gli altri amici (…). Non così di Pontecorvo»25.
Perché allora creare ombre ancora maggiori sul gruppo di
Fermi ricordando che in esso, nonché un comunista, s’annida-
va pure un simpatizzante per il nazismo?
Se invece Laura Fermi ignorava la presunta propensione fi-
lonazista di Majorana, allora si potrebbe ipotizzare che con
ogni probabilità si tratta di una percezione postuma dei suoi
biografi e degli storici del gruppo di via Panisperna. Funzio-

36
nale e 1) a un’immagine della piccola comunità di fisici roma-
ni «preveggente» e fin da diversi anni prima della guerra an-
titotalitari, in perfetta consonanza con le scelte posteriori di
lotta aperta, col loro lavoro, al nazismo e successivamente allo
stalinismo, e 2) a una rappresentazione di Majorana come psi-
cologicamente estraneo al gruppo di cui era invece parte inte-
grante, e di peso, sotto il profilo scientifico26.
Cosa in realtà emerge dai documenti che ancora esistono e
dunque possono essere visti, compulsati e meditati?
Si può – in certo senso: si deve – iniziare dal dato più «scan-
daloso»: le osservazioni sulla persecuzione antiebraica. Majora-
na ne parla in modo diffuso in due lettere del maggio 1933, l’u-
na alla madre e l’altra a Segrè, quest’ultima a lungo, già lo si è
visto, ritenuta scomparsa. I termini in cui affronta la questione
appaio­no oggi, dopo il genocidio nazista degli ebrei, inammissi-
bili. La persecuzione, sia razzista che degli avversari politici, gli
sembra nella lettera alla madre come la risposta «a una necessi-
tà storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere
soffocata dalla stasi economica». Per questo – sostiene con una
frase che riecheggia quanto Ernesto Rossi scriverà alla madre
dal carcere nel 1938 – «la persecuzione ebraica riempie di alle-
grezza la maggioranza ariana. Il numero di coloro che troveran-
no posto nell’amministrazione pubblica e in molte private in se-
guito all’espulsione degli ebrei è rilevantissimo e questo spiega la
popolarità della lotta antisemita»27. Diversa è la prospettiva della
lettera a Segrè, di una settimana successiva. In Germania esiste
«una gravissima questione ebraica in sé e per sé» che va al di là
e del fatto che fra gli avversari della «rivoluzione» erano da «an-
noverare, quasi senza eccezione, gli ebrei», e del fatto che, sebbe-
ne «al lume della menzogna statistica» gli israeliti possano ap-
parire una esigua minoranza, «in realtà essi dominano la finan-

37
za, la stampa, i partiti politici e a Berlino erano in maggioranza
perfino in qualche professione libera». Né «motivi religiosi né il
pregiudizio di razza» sono tuttavia sufficienti «a spiegare da soli
l’impossibilità della convivenza». Il fatto è, continua Majorana,
che la realtà tedesca è del tutto dissimile da quella italiana.
In Italia – scrive – siamo abituati a considerare gli ebrei come una so-
pravvivenza storica a cui non neghiamo tutto il nostro rispetto e non
ce l’abbiamo a male se qualcuno di essi si sente orgoglioso della sua
origine. La nostra politica, non di tolleranza, ma di comprensione, ha
dato i migliori frutti e altri ne darà finché venga il giorno, che non
può essere lontano, in cui la tradizione degli ebrei trafficanti si avvici-
ni senza sforzo a quella delle repubbliche marinare fra le tante di cui
si onora il popolo italiano, uno e indivisibile.

«Affatto diversa» la situazione tedesca dove «esisteva una


questione ebraica che non mostrava alcuna tendenza a risolver-
si spontaneamente». Discutibile e da lasciarsi al giudizio della
storia «se l’intervento chirurgico non potesse essere sostituito
con l’instaurazione di una politica, tanto ferma quanto avve-
duta, che avrebbe dato risultati più lenti ma più desiderabili».
La causa che «ha guadagnato alla lotta antisemita il suf-
fragio quasi unanime degli ariani» non è «la romantica teoria
della razza». Questa «non trova credito esagerato e la tenden-
za moderata che si contenta di aver tolto agli ebrei la direzio-
ne della cosa pubblica è ragionevolmente diffusa». È, invece,
l’esistenza di quella cosa stolta e offensiva che è il nazionalismo ebrai-
co. Gli ebrei tedeschi non erano nella maggioranza europeizzati, cioè,
nel caso specifico, germanizzati. Può dirsi che questo sia dipeso dal
continuo afflusso di elementi fanatici provenienti dai ghetti orienta-
li; almeno questa è la spiegazione che si suole dare. Ma è certo che gli
ebrei affermavano la propria separazione dai tedeschi press’a poco con
la stessa energia di questi ultimi, salvo inefficaci tentativi di concilia-

38
zione dell’ultim’ora all’approssimarsi della tempesta. E non è concepi-
bile che un popolo di 65 milioni si lasciasse guidare da una minoranza
di 600 mila che dichiarava apertamente di voler costituire un popolo
a sé. Qualcuno afferma che la questione ebraica non esisterebbe se gli
ebrei conoscessero l’arte di tenere chiusa la bocca.

Del resto – annota, volgendo al termine – la situazione de-


gli ebrei «non è così grave come potrebbe apparire da lonta-
na». A causa «della nota disposizione a favore dei vecchi im-
piegati ex combattenti», molti ebrei non hanno perso il posto,
«in certe categorie quasi due terzi», e «non bisogna dimentica-
re che sotto l’impero solo gli ebrei battezzati potevano copri-
re uffici pubblici. La grande maggioranza di coloro che erano
dediti ad attività private non hanno avuto a soffrire del muta-
mento salvo casi sporadici». Dunque,
nel complesso è lecito guardare all’avvenire degli ebrei tedeschi con
un certo grado di ottimismo sebbene la fusione con il resto della po-
polazione sarà ritardata dai recenti avvenimenti. Questi potranno tut-
tavia avere indirettamente conseguenze salutari se varranno a porre
freno alla pericolosa immigrazione ebraica dalle comunità primitive
dei paesi slavi, specie dalla Polonia. Fra i nuovi immigrati sono da ri-
cercare i rabbini provocatori che, a quanto si dice, desiderano le per-
secuzioni per rinsaldare l’unità del loro popolo che rischia di sfaldarsi
in seguito alla convivenza fortunata e pacifica con altri popoli. Storia
vecchia che si ripete. Ma qualunque siano gli sviluppi che ci riserva il
prossimo avvenire bisogna attendersi che in Germania, come negli al-
tri paesi in cui ancora esiste una questione ebraica, dopo un cammino
più o meno lungo, la civiltà non fallirà la sua meta28.

Il fatto che oggi sappiamo che quella meta la civiltà ha in real­


tà fallito rende ancora più inquietante un testo già di per sé scon-
certante. Non lo si può certo esorcizzare né appellandosi all’in-
genuità di un giovane politicamente disimpegnato, come fa Scia-

39
scia, né, con Recami, ricorrendo a uno psicologismo che ne fa «una
ragazzata: ma indubbiamente pesante» a spese del «collega ‘basi-
lisco’ che, pur essendogli amico, probabilmente non avrà evitato
a volte di punzecchiare anche Ettore»29.
La spiegazione delle posizioni di Majorana è in realtà assai
meno arzigogolata e ben più complicata.
A un’analisi minimamente attenta Majorana, di salda edu-
cazione cattolica30, appare portatore 1) di una cultura e di un
senso comune assai diffusi che assumono, sviluppano e tra-
smettono alcuni stereotipi antiebraici – fatti propri anche dai
deliri degli antisemiti più radicali – come l’idea di essere gli
ebrei, in via tendenziale se non per natura, nemici dell’ordine e
della patria, sempre e ovunque in combutta tra loro31, nonché
2) del convincimento, in quel tempo maggioritario, per cui la
soluzione più «razionale» e «progressiva» della questione ebrai-
ca fosse l’assimilazione. Quanto del resto di lì a qualche anno
ribadirà un personaggio né clericale né fascista né antisemi-
ta, Benedetto Croce, allorché nel 1938, all’aprirsi della stagione
della persecuzione antisemita in Italia, proporrà sulla sua rivi-
sta quale modello l’epistola di Antonio Galateo in difesa degli
ebrei. E dei neofiti, occorre aggiungere. Che è sì una appassio-
nata perorazione a favore dei «fratelli maggiori», ma pure l’in-
dicazione di una via precisa. Il testo dell’umanista sostiene in-
fatti la liceità del matrimonio fra il figlio di un nobile cristia-
no e una giovane ebrea convertita. Dunque, mentre difende la
grandezza del messaggio biblico e rivendica l’origine ebraica
del Cristo e di sua madre, Galateo traccia per l’ebreo una ben
precisa traiettoria: la conversione e poi l’assimilazione attraver-
so le nozze con un cristiano32. A questa linea – forse non è del
tutto inutile rammentare – Croce si manterrà fedele pure nel
dopoguerra, una volta conosciuto lo sterminio perpetrato dai

40
nazisti, non solo creando polemiche, ma legittimando, lui che
l’antisemitismo aborriva33, pure posizioni politiche e scelte di
governo assai dubbie34. A un tale quadro culturale appartengo-
no anche il disprezzo e la critica verso l’ebraismo orientale e nei
confronti della «esistenza di quella cosa stolta e offensiva che
è il nazionalismo ebraico». Critica e disprezzo diffusi peraltro
pure presso la cultura socialista35 e fra gli stessi ebrei tedeschi36.
Proprio perché questa è la realtà, Majorana non ha remore
a scrivere in quei termini a un amico ebreo, come Segrè, che
con ogni evidenza ritiene «assimilazionista» e altrettanto cri-
tico quanto lui del nazionalismo ebraico e dei suoi portatori
provenienti dall’est europeo37.
D’altronde non è senza significato che Majorana accenni in
modo sempre critico, e anche negativo, alla teoria della razza.
L’aggettivo «romantica» con cui la definisce nella lettera a Se-
grè del 22 maggio 1933 trova la sua esatta interpretazione in
quanto scrive poco dopo, il 7 giugno, a Giovanni Gentile jr.:
la Germania, che non trova nella cultura e nella storia elementi suffi-
cienti per fondare il sentimento unitario dei popoli di lingua tedesca, è
costretta a ricorrere a quella sciocca ideologia della razza che a quanto
pare non ha suscitato in Austria un’eco adeguata38.

Ho accennato a Croce non perché si abbia qualche prova di


una qualche ascendenza crociana delle posizioni di Majorana,
ma sia per dare l’idea dell’ampiezza di determinati convinci-
menti, sia perché Croce è uno tra i pochi che aveva levato la
voce contro la persecuzione degli uomini di cultura ebrei in
Germania in nome della «comune umanità che è ora, in essi e
per essi, offesa in tutti noi»39.
La protesta di Croce è del 1935. Fin dal 1933 però – con la legge
sul funzionariato del 7 aprile – in Germania la persecuzione è

41
pienamente in atto, come aveva ben inteso Albert Einstein che
già dal marzo aveva annunciato che non sarebbe rientrato in
Germania in quanto
finché me ne sarà offerta la possibilità, io risiederò soltanto in quei pae­
si dove regnino la libertà politica, la tolleranza e l’uguaglianza di tutti
i cittadini di fronte alla legge40.

La stragrande maggioranza della comunità scientifica non


lo seguì. Ci fu chi accusò la sua azione di essere dannosa «per
i Suoi fratelli di razza e di religione», che dal suo atteggiamen-
to «saranno oppressi ancora di più» e perciò «non trarranno
alcun alleggerimento della loro situazione»41. I più – come os-
serverà Leó Szilárd – «si ponevano sempre da un punto di vi-
sta utilitaristico». Si chiedevano quale risultato pratico, con-
creto avrebbero ottenuto e se tali risultati avrebbero prodot-
to maggiori benefici della, più che prevedibile, certa perdita
d’influenza che sarebbe seguita a loro eventuali proteste. «Il
punto di vista morale era del tutto assente, o molto debole».
Per questo il fisico ungherese, migrato in Gran Bretagna e poi
negli USA, «attivista» e ispiratore della lettera di Einstein a
Franklin Delano Roosevelt che invitava il presidente statuni-
tense a mobilitare le forze del suo grande paese per costruire
armi atomiche prima di Hitler, dice di essere stato fin dal 1931
convinto della vittoria nazista non per la forza del movimento
«ma piuttosto perché pensavo che non ci sarebbe stata affatto
resistenza»42.
Szilárd è troppo drastico e semplifica la realtà. Ci fu chi si
pose problemi morali giungendo, tuttavia, a conclusioni che
oggi appaiono ingenue o complici. Come Heisenberg per cui,
racconta il suo biografo sulla base di un manoscritto del no-
vembre 1947,

42
i tedeschi non ebrei che si opponevano alle misure naziste erano co-
stretti (…) a scegliere fra due possibilità: un’opposizione passiva e
un’opposizione attiva. Per Heisenberg l’opposizione passiva significa-
va l’emigrazione: in senso letterale: «per assicurarsi la sicurezza dalla
persecuzione in un paese straniero» o l’«emigrazione interna», il ritiro
da «ogni responsabilità». Come suggeriscono le sue parole, l’opposi-
zione passiva equivaleva ai suoi occhi alla diserzione43.

Giustamente Cassidy individua in questa posizione i pre-


vedibili eccessi delle autogiustificazioni postbelliche. E tutta-
via un atteggiamento di tal tipo è alla base della decisione di
restare44, dopo un primo interrogarsi sull’opportunità di mi-
grare45. Alimentato anche da illusioni cui si volle credere ai
primi passi del regime. Come quella nata nella primavera del
1933 dall’incontro richiesto da Max Planck, scettico su qual-
siasi forma di opposizione aperta e organizzata46, a Hitler per
chiedere al Führer garanzie per la comunità scientifica. Quan-
to produce la risposta del dittatore è ben esemplificato da una
lettera di Werner Heisenberg a Max Born del 2 giugno 1933:
Planck ha parlato con il capo del regime e ha ricevuto da lui ampie
assicurazioni che il governo, dopo la recente legge sui dipendenti sta-
tali, non intende fare nient’altro che rischi di danneggiare la nostra
scienza. Poiché, d’altro canto, solo gli ultimi nella scala gerarchica so-
no toccati dalla legge – Lei e Franck certamente no e neppure Richard
Courant – la rivoluzione politica potrebbe non comportare alcun dan-
no per la fisica di Gottinga. Nonostante alcune espulsioni, so che nella
nuova situazione politica, tra coloro che comandano, ci sono persone
per il cui bene vale la pena di resistere. Certo con il passare del tempo
le cose egregie si separeranno da quelle odiose47.

Balza immediatamente all’occhio la parentela fra la nota-


zione di Majorana sulla relatività delle conseguenze della per-
secuzione antiebraica e quanto sostiene Heisenberg, sugge-

43
stionato dalle menzogne di Hitler a Planck e da un certo clima
per cui all’inizio del regime pure uomini come Max von Laue
– che per la loro opposizione saranno poi considerati simbo-
li di coraggio morale – penseranno a una tempesta momenta-
nea48, cosa cui Majorana invece sembra credere meno, nel sen-
so di una transitorietà del potere di Hitler49.
Dopo la guerra e la conoscenza dello stermino degli ebrei
d’Europa è difficile rendersi conto e della diffusione, anche –
forse soprattutto – fra gli strati colti, di stereotipi e riflessi an-
tiebraici e, per questo ma non solo, della sottovalutazione degli
esiti della politica razzista del nazismo. Che non pochi del re-
sto – come era stato all’inizio per il fascismo – consideravano
fenomeno forse transitorio, di certo domabile, destinato a far
posto all’espressione politica delle forze più moderate che in
esso albergavano o che l’avevano appoggiato.
Prevaleva il riflesso d’ordine, la possibilità che la «rivolu-
zione» potesse far uscire dalla crisi economica. Proprio questo
è quanto si può leggere, in modo molto aperto, in Majorana,
nel Majorana che vive la presa del potere «legale» da parte di
Adolf Hitler. In Germania come in Danimarca quanto mag-
giormente lo preoccupa è la crisi economica50 da cui pensa si-
gnificativamente si uscirà con una ripresa che, scrive alla ma-
dre il 29 marzo del 1933,
non consisterà in un ritorno alle condizioni patologiche del 1929, ma nel
graduale affermarsi di nuove iniziative e sarà perciò lenta ma sicura51.

E quel che del nazismo gli sembra più positivo – a costo an-
che di eccessi e ingiustizie – è appunto la potenzialità anticrisi
della sua politica economica.
L’attenzione pubblica – scrive alla madre il 2 giugno 1933 da Lipsia –
è rivolta principalmente ai problemi interni, sopra tutto al gigantesco

44
piano di lavori pubblici che dovrà dare lavoro per due anni a cinque-
cento mila operai e risanare due milioni di ettari di terra ora scarsa-
mente produttivi (…). Notevole per la sua importanza sociale la recen-
te deliberazione governativa per la concessione di prestiti a condizioni
di favore ai nuovi sposi. La situazione economica dà segni di miglio-
ramento in tutti i campi52.

La crisi si colloca in un quadro di tensioni internazionali


che Majorana ben coglie senza, tuttavia, avere la percezione
della pericolosità per la pace del nazismo. A suo parere infat-
ti la Germania non potrà mai essere fattore di guerra per un
dato oggettivo: l’andamento della sua demografia. Lo scrive a
chiare lettere al padre l’8 giugno:
quando la crisi sarà passata e la Germania si sarà sgravata dei debiti
(…) questo sarà il popolo più ricco d’Europa. Non credo tuttavia che
la Germania possa costituire in avvenire un pericolo per la pace. Certo
molti tedeschi sono per la rivincita (…). Ma prima che la carta milita-
re di Europa subisca tali mutamenti da rendere possibili nuove avven-
ture, la fisionomia del popolo tedesco sarà già stata cambiata in con-
seguenza della formidabile crisi di denatalità iniziatasi nel 1915. Fra
trent’anni i tedeschi saranno il popolo più vecchio e in conseguenza il
più tranquillo d’Europa53.

Nella lettura ottimistica del fenomeno nazista e, in partico-


lare, dei suoi effetti internazionali ha un ruolo importante l’in-
terpretazione di quanto era avvenuto e stava per lui avvenen-
do in Italia. Più volte nella corrispondenza di Ettore traspare
un ingenuo orgoglio nazionale – come, ad esempio, nel bra-
no di una lettera alla madre sulla trasvolata oceanica di Italo
Balbo54 o in quello dedicato al successo riscosso in Germania
da una missione di balilla e avanguardisti55 – che fa intende-
re una sua valutazione positiva del regime che ha riportato il
paese all’ordine e a essere rispettato dalla e nella comunità in-

45
ternazionale. Nella quale ora un’Italia rispettata può svolgere
un ruolo di pace.
Il periodo in cui Majorana è all’estero è quello nel quale
Mussolini lancia il progetto del Patto a quattro, firmato il 7 giu-
gno 1933 ma mai divenuto esecutivo. Dell’iniziativa mussoli-
niana e dei suoi contenuti Majorana appare entusiasta56 pur es-
sendo conscio che «non può eliminare di un tratto le difficoltà
che si oppongono alla revisione, specie del confine polacco»57.
La pace è, con il superamento della crisi, la preoccupazione
che maggiormente traspare nel Majorana «viandante» in Eu-
ropa. E se può apparire oggi sorprendente che ne rintracci fra
– o: i – portatori nei regimi totalitari di destra che condurran-
no il nostro continente e il mondo al baratro del secondo con-
flitto mondiale, nondimeno così è e occorre tenerne conto nel
prosieguo della nostra analisi.

1
«Quando nell’autunno del 1933 tornò a Roma, Ettore non stava bene a cau-
sa di una gastrite i cui primi sintomi si erano manifestati in Germania. Quale
fosse l’origine del male non è chiaro, ma i medici di famiglia lo collegarono
con un principio di esaurimento nervoso» (Amaldi, Nota biografica di Ettore
Majorana, p. xxvi). Sulla stessa linea si mantiene Sciascia quando a proposi-
to del male di Majorana cita la frase di Marcel Proust: «le malattie delle per-
sone intelligenti per tre quarti provengono dalla loro intelligenza» (Sciascia,
La scomparsa di Majorana, p. 217).
2
Cfr. Recami, Il caso Majorana, p. 213.
3
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi.
4
«Pochi sanno che, almeno fino al 1933 (anno in cui Ettore trascorse vari
mesi a Lipsia, presso Werner Heisenberg) Ettore era di carattere allegro» (Re-
cami, Il caso Majorana, p. 53). Testimonianze in tal senso anche nella Nota
di Amaldi, all’inizio, dove si mette tra l’altro in rilievo l’atteggiamento con-
testatore di Majorana verso i docenti che non lo soddisfacevano (al proposito
vedasi anche Segrè, Autobiografia di un fisico, pp. 57-58, nonché Recami, Il
caso Majorana, pp. 53-54).

46
5
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 237.
6
«Al ritorno non riprese il suo posto nella vita dell’Istituto; anzi, non volle
più farsi vedere nemmeno dai vecchi compagni» (Fermi, Atomi in famiglia,
p. 124. Ibidem anche la citazione che segue nel testo).
7
Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 249-250.
8
Fermi, Atomi in famiglia, p. 125.
9
Ibidem, p. 126.
10
Cfr., ad esempio, Pierre de Latil, Fermi. La vita, le ricerche, le testimonian-
ze, Milano 1974 (edizione originale francese del medesimo anno), p. 89.
11
Cfr. Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 234-235 e anche 243-244; Re-
cami, Il caso Majorana, pp. 103-104.
12
Cfr. al proposito Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxv, non-
ché Recami, Il caso Majorana, pp. 105, 151, 154.
13
Cfr. Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xi.
14
«“Come fa lei, Wick, a trovare interessante la politica? Io non lo capisco
proprio”» (Miriam Mafai, Il grande freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo
scienziato che scelse l’URSS, Milano 1992, p. 65).
15
Il 6 maggio 1931 Fermi scrive a Enrico Persico per chiedergli di segnalar-
gli qualche nome di giovane da «far venire temporaneamente a Roma», visto
che l’anno successivo alcuni dei suoi «ragazzi» sarebbero andati in Germa-
nia. Fra gli altri, dice, avrebbe in mente Wick, ma «mi preoccupa un po’ (…)
il fatto che ho sentito dire da varie parti che sia antifascista molto accanito.
Naturalmente io non farei in linea di principio una pregiudiziale delle idee
politiche. Tuttavia non gradirei, e credo che il prof. Corbino gradirebbe an-
cora meno, avere qui una persona che facesse o avesse fatto professione di an-
tifascismo» (Segrè, Enrico Fermi, pp. 248-249).
16
Ibidem, pp. 103-104.
17
Ibidem, p. 96.
18
Ibidem, p. 90. Corsivo mio.
19
Fermi, Atomi in famiglia, p. 123.
20
Emilio Segrè, Mezzo secolo fra atomi e nuclei, Milano 1986, p. 23. Corsivi miei.
21
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi.
22
Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 242-243.
23
Segrè, Enrico Fermi, p. 95. Al proposito si veda infra al capitolo 5.
24
Ranuccio Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, Mi-
lano 1962, pp. 291-292.
25
Fermi, Atomi in famiglia, pp. 318 e 322. Pontecorvo sconfessa decisamente
la ricostruzione della consorte di Fermi laddove racconta a Miriam Mafai di
non essere stato chiamato da Fermi a Los Alamos «per ragioni di sicurezza.
Anche allora, anche nel periodo di guerra e quando dunque erano alleati con
l’URSS, gli americani non amavano gli uomini di sinistra (…). Pensa a un

47
uomo come Joliot. Groves certamente non lo avrebbe voluto a Los Alamos.
E, probabilmente, non si fidava di me anche perché avevo lavorato per alcuni
anni nel suo laboratorio» (Mafai, Il grande freddo, p. 124). Una conferma alle
parole di Pontecorvo viene da Franco Modigliani che racconta come a Pari-
gi alla vigilia della guerra «Pontecorvo professasse apertamente le sue con-
vinzioni di estrema sinistra e cercasse di convincerci del loro valore, intrat-
tenendoci continuamente sulle ragioni di quella scelta» (Franco Modigliani,
Avventure di un economista. La mia vita, le mie idee, la nostra epoca, a cura di
Paolo Peluffo, Roma-Bari 1999, p. 19). Sull’atteggiamento di alcuni degli uo-
mini dell’ex gruppo di via Panisperna nei confronti di Pontecorvo cfr. le in-
vettive di Segrè in Autobiografia di un fisico, pp. 309 e 344. Vari decenni do-
po la sua scelta di vivere in URSS, Pontecorvo descrisse le sue idee politiche
– che fra anni Trenta e anni Settanta, scrive, «erano dominate da una catego-
ria che io chiamo adesso ‘religione’» – come «di sinistra», nate dal suo «odio
per il fascismo» e spiegò la sua decisione di migrare in Unione Sovietica nei
termini seguenti: «allora, come adesso, consideravo terribilmente ingiusta e
amorale la profonda ostilità che alla fine della guerra l’Occidente nutriva nei
confronti dell’Unione Sovietica la quale, a costo di sofferenze inaudite, aveva
dato il contributo decisivo alla vittoria antinazista» (Bruno Pontecorvo, Una
nota autobiografica, in Scienza & Tecnica 88-89, Milano 1988, pp. 86 e 83).
26
Anche da questo si manifesta come Sciascia si riveli molto più interno al
‘canone’ di quanto egli stesso non ne abbia coscienza.
27
Lettera alla madre 15.5.33, in Recami, Il caso Majorana, p. 170. Riferendosi
alle università italiane dopo l’emanazione dei provvedimenti antiebraici vo-
luti dal fascismo, il 22 ottobre 1938, Ernesto Rossi ironizzava amaramente dal
carcere: «è un bel numero di cattedre che rimangono contemporaneamente
vacanti: una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi»
(Ernesto Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Bari 1968, p. 444).
28
Lettera a Emilio Segrè 22.5.33, in Recami, Il caso Majorana, pp. 171-173.
Dapprima, come detto, ritenuta perduta la lettera fu poi pubblicata, nel cin-
quantesimo anniversario della scomparsa di Majorana, su «Storia contempo-
ranea», XIX (1988), pp. 107-111, da Emilio Segrè che poi la riprodurrà pure
nella sua autobiografia (pp. 173-175).
29
Recami, Il caso Majorana, p. 86. Segrè stesso così spiega il soprannome af-
fibiatogli nell’Istituto di via Panisperna: «perché dicevano che ero cattivo,
sputavo fuoco e non so cos’altro» (Segrè, Mezzo secolo fra atomi e nuclei, p.
17). Sul soprannome affibiato a Segrè cfr. pure Fermi, Atomi in famiglia, p. 58.
30
Come si è visto aveva studiato dai gesuiti ed è lui stesso a reclamare la pro-
pria formazione cattolica (cfr. Recami, Il caso Majorana, p. 195).
31
Per un esempio di tale pregiudizio nel mondo scientifico si veda Giorgio
Israel – Pietro Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna 1998, p. 167.

48
32
«Si quis ex iudaeo vere christianus effectus, nonne est laude dignior, quam
nos, qui in alieno loco sati, in aliena stirpe tamquam neophyti, hoc est no-
velli surculi insiti sumus? [Se alcuno da giudeo si è fatto veramente cristiano,
forse non è più degno di lode, che noi i quali seminati in terreno altrui siamo
innestati in aliena stirpe, come neofiti, cioè germogli novelli?]» (Un’epistola
del Galateo in difesa degli ebrei riprodotta nel 1938 in «La critica» e ora in Al-
berto Cavaglion – Gian Paolo Romagnani (a cura di), Le interdizioni del du-
ce. A cinquant’anni dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), Torino 1988, pp.
238 e 241 per la traduzione).
33
Cfr., ad esempio, Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari
196717, pp. 97-98; Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 196110, p. 277.
34
Per tutto ciò mi permetto di rinviare ai miei: Croce. Lettera sul «popolo elet-
to», «Corriere della Sera», 29 giugno 1998, p. 25; Che gli israeliti si controlli-
no…!, «Il diario della settimana», III (22-28 luglio 1998), 29, pp. 74-77; Da per-
seguitati a «usurpatori»; Nel LX anniversario delle leggi razziali, «Il ponte», LV
(aprile 1999), 4, pp. 92-99; «Bisogna che gli israeliti che ritornano si controllino»,
prefazione a Enrica Basevi, I beni e la memoria. L’argenteria degli ebrei: picco-
la «scandalosa» storia italiana, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001, pp. 9-23.
35
«Sono gli elementi più tradizionalisti dell’ebraismo che ora affluiscono
dall’oriente verso l’altamente progredito occidente. La prima conseguenza è
che il processo di assimilazione degli ebrei d’occidente s’incaglia. La seconda
è che l’antisemitismo ne trae vantaggio (…). Contemporaneamente si è aperta
(…) una frattura nell’ebraismo: molto spesso gli ebrei benestanti, colti e
pressoché assimilati, d’occidente accolgono con scarso entusiasmo l’afflusso
dei loro poveri e ignoranti fratelli yiddish d’oriente. Essi provano nei loro
confronti, non di rado, sentimenti che si potrebbero definire un antisemitismo
interno all’ebraismo» (Karl Kautsky, Razza e ebraismo [edizione originale
Rasse und Judentum, 1914], in Massimo Massara (a cura di), Il marxismo e la
questione ebraica, Milano 1972, pp. 461-462).
36
Oltre quanto detto da Kautsky alla nota precedente si veda, ad esempio,
la testimonianza di Walter Boehlich nell’intervista rilasciata nel 1988 a Gert
Mattenklott: «nell’impero tedesco, anche gli stessi ebrei hanno sempre nu-
trito pregiudizi nei confronti degli ebrei orientali. Quanto maggiore era l’in-
tegrazione culturale e l’assimilazione tanto più si illudevano di vivere libe-
ramente. Gli ebrei orientali però erano l’esatto opposto» (Gert Mattenklott,
Ebrei in Germania. Storie di vita attraverso le lettere, Milano 1992 [edizione
originale tedesca 1988], pp. 135-136). Al proposito si confronti pure Renée
Neher-Berheim, Histoire Juive. De la Rénaissance à nos jours, Paris 1971-1974,
III, 1, pp. 198-199, e III, 2, p. 527.
37
Sulla scarsa attenzione di Segrè alle tradizioni – possibile spia di un suo
«laicismo» assimilazionista – cfr. Autobiografia di un fisico, p. 81, laddove

49
racconta che durante il periodo della scuola allievi ufficiali a Spoleto (lu-
glio 1928-gennaio 1929) «fui chiamato al comando e mi dettero tre o quattro
giorni di licenza per la solennità ebraica del Kippur. Non sapevo di averne di-
ritto e rimasi meravigliato» (corsivo mio).
38
Lettera a Giovanni Gentile jr. 7.6.33, in Recami, Il caso Majorana, p. 178.
Corsivo mio. Al proposito si veda pure la lettera al padre del giorno seguen-
te (ibidem, p. 179).
39
Benedetto Croce, Pagine sparse, Bari 19602, III, p. 181.
40
Albert Einstein, Manifesto. [10] Marzo 1933, in Id., Idee e opinioni, Mila-
no 1957, p. 193.
41
Così Max Planck in una lettera a Einstein del 19 marzo 1933, citato in John
L. Heilbron, I dilemmi di Max Planck portavoce della scienza tedesca, Torino
1988 (edizione originale statunitense 1986), p. 129.
42
Leó Szilárd, Reminiscences, in The Intellectual Migration: Europe and
America 1930-1960, edited by Donald Fleming – Bernard Baylin, Cambrid-
ge (Mass.) 1969, pp. 95-96. «Attivista» è definito Szilárd da Segrè in Dai rag-
gi X ai quark. Personaggi e scoperte nella fisica contemporanea, Milano 1976,
p. 206.
43
David C. Cassidy, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg,
Torino 1996 (edizione originale statunitense 1992), p. 343.
44
Al proposito si veda quanto ricorda Amaldi di un incontro con Heisenberg
negli USA alla vigilia della guerra in Edoardo Amaldi, Da via Panisperna
all’America, a cura di Giovanni Battimelli – Michelangelo De Maria, Roma
1997, p. 73 («in un discorso di natura generale egli associò la decisione di
emigrare negli Stati Uniti con l’aspirazione a poter lavorare con la tranquil-
lità indispensabile»).
45
Cfr. Alan D. Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler. Politica e comunità dei
fisici nel Terzo Reich, Bologna 1981 (edizione originale inglese 1977), pp.
69-70.
46
Cfr. Heilbron, I dilemmi di Max Planck, p. 125.
47
Ibidem, p. 127. Corsivo mio. Quanto illusoria fosse la posizione di Heisenberg
può essere misurato, ad esempio, dal brano che segue: «lo smantellamento da
parte dei nazisti dell’Istituto di matematica di Gottinga in meno di otto mesi,
fra l’aprile e il novembre 1933, deve attirare l’attenzione a più d’un titolo: a
causa dell’importanza eccezionale dell’Istituto quale centro matematico, ma
anche per la rapidità e radicalità di tale distruzione. Da nessun’altra parte
un istituto di quella taglia fu annientato dai nazisti fin dal 1933» (Norbert
Schappacher, Questions politiques dans la vie des mathématiques en Allemagne
(1918-1935), in La science sous le Troisième Reich, sous la dir. de Josiane Olff-
Nathan, Paris 1993, p. 56; corsivo mio).
48
Cfr. Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler, p. 71.

50
49
Scrive infatti il 12 marzo 1933 a Giovanni Gentile jr.: «In Germania e Da-
nimarca Hitler gode di scarsa simpatia e si profetizza, credo senza fonda-
mento, la sua prossima caduta. I primi atti del suo governo, in particolare la
totale sostituzione delle amministrazioni locali mediante elementi nazionali-
sti, fanno pensare che egli sappia abbastanza il fatto suo. È probabile che l’e-
sempio dei metodi fascisti lo aiuti molto» (Recami, Il caso Majorana, p. 160).
50
Cfr. ibidem, pp. 156, 164, 170, 175, 179.
51
Ibidem, p. 164.
52
Ibidem, p. 175.
53
Ibidem, p. 179.
54
«Si annuncia col più grande rumore la prossima partenza dei 24 apparec-
chi di Balbo per l’America. Si esalta la parte avuta dalla Germania nella pre-
parazione dell’impresa» (Lettera alla madre 23.5.33, ibidem, p. 174).
55
«Sono passati per Lipsia gli avanguardisti italiani che hanno avuto attra-
verso tutta la Germania accoglienze trionfali. Alcune delle più alte autorità
politiche hanno riservato loro dei discorsi in cui si esprime generalmente il
desiderio di portare la Germania al grado di civiltà raggiunto dall’Italia. I
giornali rilevano l’aspetto marziale dei Balilla e degli Avanguardisti, e dei
numerosi ufficiali che li accompagnano, tutti maestri di ginnastica del foro
Mussolini» (Lettera alla madre 3.8.33, ibidem, p. 185).
56
«Ho letto il testo del patto Mussolini, meraviglioso per la parsimonia de-
gli impegni reciproci, ma è la premessa indispensabile per il consolidamento
della pace in quanto prevede una collaborazione non più saltuaria, ma per-
manente fra le 4 potenze» (Lettera al padre 8.6.33, ibidem, pp. 179-180).
57
Lettera alla madre 2.6.33, ibidem, pp. 175-176.

51
5

Involuzione depressiva?

Di ritorno dalla Germania – raccontano i biografi – Majorana


si trasforma in una specie di eremita. Non frequenta più l’Isti-
tuto di via Panisperna. Addirittura non si preoccupa della pro-
pria cura fisica. Così – testimonia Amaldi – gli amici debbo-
no preoccuparsi persino di inviargli un barbiere a domicilio1.
Un’immagine troppo unidimensionale, troppo adatta al «do-
po» per non far sorgere il dubbio che nasca col e dal filtro de-
gli avvenimenti successivi. Non, ovviamente, una ‘falsificazio-
ne’; piuttosto una memoria che si riorganizza, al di là di ogni
volontà razionale, in base al finale della vicenda. Una sorta di
inconscia rilettura dei precedenti sulla scorta di quanto si dà
poi. A sedare, forse, anche qualche senso di colpa, non del tut-
to avvertito probabilmente.
Una volta di più è dunque bene partire dalle carte.
C’è una lettera del luglio 1934 a Giovanni Gentile jr., che offre
un indizio importante. Gentile ha inviato all’amico un libro di
cui è stato il curatore – James Jeans, I nuovi orizzonti della scien-
za (Firenze, Sansoni, 1934) – e Majorana gli scrive per ringra-
ziarlo, commentando anche – sia pur brevemente – il volume:
credo che il maggior merito di questo libro sia quello di anticipare le
reazioni psicologiche che il recente sviluppo della fisica dovrà fatal-
mente produrre quando sarà generalmente compreso che la scienza
ha cessato di essere una giustificazione per il volgare materialismo2.

53
I progressi del sapere fisico implicano dunque, e richiedono,
una non banale riflessione filosofica sui fondamenti del ‘vero’
e non solo sul metodo. Non c’è quindi in Majorana contrad-
dizione fra la sua ricerca scientifica e il volgersi alla riflessio-
ne filosofica che Amaldi attesta contrapponendola invece, per
quanto in modo implicito, al lavoro scientifico, di cui rileva
una stasi3. Non si tratta, come sostiene Amaldi, dell’acuirsi di
una curiosità intellettuale da sempre viva in Majorana; è una
necessità consustanziale allo stesso lavoro di ricerca fisica. Co-
me scriverà Heisenberg oltre vent’anni dopo la lettera di Majo-
rana a Gentile jr.,
in questi campi della fisica atomica va perduta una gran parte dell’an-
tica fisica intuitiva. E qui non si tratta solo dell’applicazione dei con-
cetti e delle leggi di quella fisica, ma di tutta l’idea di realtà che ha co-
stituito la base delle scienze naturali esatte fino all’epoca della fisica
attuale. Con la frase «idea di realtà» alludiamo qui a quella concezio-
ne che ammette l’esistenza di fenomeni obiettivi svolgentisi in modo
determinato nello spazio e nel tempo indipendentemente dal fatto che
siano osservati o no4.

In quest’ottica si comprende l’interesse di Majorana per Scho­


penhauer, attestato da Amaldi, che fra i «vari filosofi» sulle cui
opere Majorana in quel periodo avrebbe meditato «a fondo» fa
solo questo nome5. Non certo maliziosamente, ma con un mes-
saggio preciso, voluto o meno poco importa, se avulso dalle do-
mande filosofiche che la fisica moderna impone6. Schopenhauer
è infatti il filosofo per il quale anche in un manuale scolastico è
necessario spiegare perché non concluda il suo argomentare con
l’apologia del suicidio piuttosto che con l’esaltazione dell’ascesi.
Due degli esiti cui più di frequente si è pensato per spiegare la
scomparsa misteriosa di Majorana. Ma Schopenhauer è anche
un filosofo che si pone il problema se possa esistere una realtà

54
separata dal soggetto che la «rappresenta». Uno dei temi che dif-
ferenzia la nuova fisica da quella classica. Secondo le parole di
Majorana stesso,
gli aspetti caratteristici della meccanica quantistica, in quanto essa si
differenzia dalla meccanica classica sono i seguenti:
a) non esistono in natura leggi che esprimano una successione fatale
di fenomeni; anche le leggi ultime che riguardano i fenomeni ele-
mentari (sistemi atomici) hanno carattere statistico, permettendo
di stabilire soltanto la probabilità che una misura eseguita su un
sistema preparato in un dato modo dia un certo risultato (…);
b) una certa mancanza di oggettività nella descrizione dei fenomeni.
Qualunque esperienza eseguita in un sistema atomico esercita su
di esso una perturbazione finita che non può essere, per ragioni di
principio, eliminata o ridotta7.

Posizione questa convergente con l’impostazione che darà


alla lezione inaugurale del suo corso nel gennaio del 1938 dove
– come risulta dagli appunti rimastici – inizia il suo ragiona-
re mettendo in evidenza l’«enorme interesse speculativo» del-
la moderna fisica e per illustrarlo prende avvio dalla critica dei
«due pilastri» della fisica classica e della «concezione meccani-
cistica della natura» che da essa derivava: «l’esistenza oggettiva
e indipendente della materia, e il determinismo fisico»8. Posi-
zione, a ben vedere, che spiega anche l’interesse per Pirandello,
tuttavia meno forte, parrebbe, di quanto non ci abbiano conse-
gnato i biografi9. Pure in Pirandello ogni esperienza è «pertur-
bata» dall’osservatore né i destini, come invece nel verismo (il
«positivismo» della letteratura), sono espressione di una suc-
cessione fatale di eventi.
L’articolo sulle leggi statistiche – pubblicato postumo da
Giovanni Gentile jr. e appartenente per Amaldi al periodo tar-
do 1933-1936 o 193710 – offre un’altra, e l’unica per mano di

55
Majorana, indicazione sull’indirizzo dei suoi studi filosofici.
Vi cita e vi discute infatti le tesi sulla «natura naturale» e sul-
la «natura artificiale» nonché sull’unità o meno delle scienze11
del Sorel di De l’utilité du pragmatisme, un’opera del 1917 ma
di cui Majorana vede l’edizione parigina del 1921.
Sarebbe, credo, d’interesse assai notevole, ma forse vano vi-
sto lo stato delle fonti, chiedersi perché nello studio del prag-
matismo Majorana si rivolga, piuttosto che agli autori che ave-
vano originalmente elaborato questa corrente di pensiero, a
una sua rielaborazione di seconda mano. Da parte tuttavia di
un personaggio che in quei decenni ha un ruolo di rilievo nel-
la cultura e nel dibattito intellettuale italiani. Autore – scri-
ve Antonio Gramsci in carcere – «tortuoso, saltellante, incoe-
rente, superficiale, sibillino, ecc.», reso ancora più difficile dal-
le «incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli
ammiratori dilettanti e intellettuali», ma che «dà o suggeri-
sce punti di vista originali, trova nessi impensati eppure veri,
obbliga a pensare e ad approfondire»12. Qui, in queste pagine,
è comunque sufficiente notare che nel Sorel di De l’utilitè du
pragmatisme Majorana una volta ancora pare cercare risposta
ai quesiti che la scienza moderna andava ponendo e che secon-
do Sorel – ci dice Eugenio Garin – passava, dopo la stagione
positivistica, tramite la necessità di combattere «l’idoleggia-
mento della scienza», battaglia per cui, pure «il pragmatismo
serviva (…) anche se poi doveva rivelare, nelle sue forme più
diffuse, un semplicismo e una superficialità sconcertanti»13.
Serviva quale arma forgiata «contro i servitori dello scienti-
smo da parte di filosofi dotati di un robusto buon senso, che
avevano meditato la lezione dei migliori maestri della scienza
contemporanea ed erano stati capaci di interpretare seriamen-
te le pratiche del metodo sperimentale»14.

56
Da queste notizie, poche ma certe, deriva l’impressione
netta di essere in presenza di una profonda riflessione sugli
aspetti ‘ultimi’ del sapere scientifico, se non del sapere tout
court, piuttosto che di fronte a una crisi di rigetto del lavoro –
come farebbe intendere, sia pure in modo indiretto, la penna
di Amaldi secondo cui, in quel periodo di romitaggio, «nessu-
no di noi riuscì (…) mai a sapere se facesse ancora della ricerca
in fisica teorica». È ben vero che l’amico e biografo aggiunge
immediatamente dopo: «penso di sì». Subito tuttavia tempera-
to «ma non ne ho le prove». Eppure una prova, certa e ben vi-
sibile, esiste.
Quando Majorana nel 1937 decide di partecipare al con-
corso a cattedra pubblica – su pressione, per Amaldi, degli
amici – un articolo sul «Nuovo Cimento» – Teoria simmetrica
dell’elettrone e del positrone – in cui, scriverà la commissione
di concorso presieduta da Enrico Fermi,
ha escogitato un brillante metodo che permette di trattare in modo sim-
metrico l’elettrone positivo e negativo, eliminando finalmente la neces-
sità di ricorrere all’ipotesi estremamente artificiosa ed insoddisfacente
di una carica elettrica estremamente grande diffusa in tutto lo spazio,
questione che era stata invano affrontata da molti altri studiosi15.

Più avanti nel tempo, con l’esame degli appunti scientifici di


Majorana, si potrà dire che nelle sue «linee essenziali»16 la teo-
ria lì contenuta era già formulata negli anni 1932-1933. Ma era
Majorana personaggio da pubblicare una nuova ipotesi teo­rica
senza riverificare e riverificare e riverificare ancora quelle «li-
nee essenziali»?
Comunque anche la mancanza di pubblicazioni poco vor-
rebbe dire per un personaggio di cui Amaldi sottolinea la co-
stante «avversione a pubblicare o comunque a rendere noti i

57
suoi risultati»17. A conferma del fatto che l’assenza di pubbli-
cazioni non è conclusiva per affermare che Ettore ha interrot-
to il lavoro di ricerca, c’è, ad esempio, una lettera allo zio Qui-
rino del 16 gennaio 1936 in cui, en passant, dice di «occuparsi
da qualche tempo di elettrodinamica quantistica»18. Più avan-
ti, già cattedratico a Napoli, dà a Carrelli «l’impressione che
cercasse di fare qualche cosa di molto impegnativo di cui non
desiderava parlare»19.
Con questo ovviamente non si vuole porre in discussione
il concreto comportamento di Majorana tramandatoci dai te-
stimoni che in quegli anni gli vivono vicino. Semplicemen-
te si vorrebbe mettere in luce come quella scelta di solitudi-
ne adombri innanzitutto un bisogno di riflessione essenziale
sui fondamenti ultimi della scienza. E non solo. Attesta infatti
Amaldi, prima di parlare dei suoi interessi filosofici,
più che di fisica in quel periodo si interessava di economia politica, di
politica, delle flotte dei diversi paesi e dei loro rapporti di forza, di ca-
ratteristiche costruttive delle navi20.

Un altro indizio da non tralasciare.


L’unico evento pubblico noto della vita di Majorana tra il ri-
torno dalla permanenza all’estero e l’anno della sua scompar-
sa, il 1938, è la sua partecipazione al concorso per la cattedra
di fisica teorica bandito dall’Università di Palermo, su pres-
sione di Emilo Segrè che nel frattempo è divenuto membro di
quell’ateneo.
Sulla decisione di Ettore di presentare domanda le testimo-
nianze non collimano. Laura Fermi, come già si è visto, par-
la di risoluzione improvvisa destinata a scompaginare ipotesi
già consolidate. Del medesimo parere è Emilio Segrè che così
racconta la storia:

58
le vicende di quel concorso furono singolari. Inizialmente ci si aspet-
tava una terna composta di Wick, Racah e Giovanni Gentile jr.: ciò
perché nessuno contava più su Majorana che viveva come un recluso.
Del tutto inaspettatamente, almeno per me, Majorana presentò do-
manda di partecipazione al concorso. La conseguenza era chiara: la
terna sarebbe stata: Majorana, Wick, Racah, e Gentile rimaneva fuori.
In un concorso di fisica teorica il giudizio di Fermi e di Persico sareb-
be stato decisivo e tutti e due non avrebbero mai decampato dall’or-
dine di merito21.

La cautela dell’«almeno per me» serve al «basilisco» per ri-


badire la sua tesi senza entrare in contraddizione con Amal-
di, protagonista su tale questione, come su altre, di una dura
polemica con Sciascia all’apparire del «giallo filosofico» dello
scrittore siciliano su Majorana22. Non solo «sottilizzando»23 si
possono infatti trovare diversità fra le versioni di Laura Fer-
mi – e poi di Segrè – e quella di Amaldi nella Nota biografica.
Dove si legge:
c’era naturalmente il problema di far concorrere Ettore, il quale sem-
brava che non ne volesse sapere e che comunque ormai da qualche an-
no non aveva più pubblicato lavori di fisica. Fermi e i vari amici si ado-
perarono in questo senso e Majorana alla fine si convinse a gran fatica
a prendere parte al concorso e mandò alla stampa sul «Nuovo Cimen-
to» il lavoro sulla teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone24.

Se le cose si svolsero come raccontato da Amaldi la realtà


era ben diversa da quella tramandata e da Laura Fermi e da
Segrè: si potrebbe dire che, in sostanza, la terna Wick, Racah,
Gentile, poi datasi, non era se non una seconda ipotesi laddove
Majorana non si fosse presentato, cosa su cui molti forse con-
tavano, ma non Fermi, futuro arbitro del concorso, che anzi
s’adoperò perché Ettore vi partecipasse. Le cose poi andaro-
no in modo del tutto imprevisto: vinsero i tre e divenne cat-

59
tedratico pure Majorana chiamato a Napoli per chiara fama,
su proposta della commissione di concorso che a quel passo e
all’uso di quel particolare marchingegno era stata indirizzata
da Giovanni Gentile senior25 per far sì che suo figlio potesse
entrare in terna come poi avvenne. Nelle more delle prime fasi
concorsuali Gentile jr. sapeva di avere poche chances e pare le
attribuisse a un atteggiamento negativo di Fermi nei suoi con-
fronti, della cui inesistenza Majorana lo rassicura26. Proprio la
missiva con cui tenta di fugare le preoccupazioni dell’amico
offre un indizio di qualche rilievo.
Dal testo si evince che Majorana è ben attento agli sviluppi
della vicenda concorsuale e che con ogni probabilità ne aveva
parlato abbastanza di recente con Fermi, con cui del resto do-
veva aver continuato ad avere rapporti se, secondo la versione
di Amaldi, lo stesso «papa» aveva fatto pressioni su Ettore per-
ché avanzasse domanda al concorso palermitano. Un’altra te-
stimonianza di attenzione alle vicende concorsuali è offerta da
una ulteriore lettera a Giovanni Gentile jr. che gli scrive dopo
la conclusione del concorso. Vi fa innanzitutto delle annota-
zioni sul risultato – «prevedevo una terna leggermente diversa,
ma sapevo che Wick doveva essere primo» – e ironizza poi con
duro sarcasmo sul proprio caso:
mi meraviglio che per quanto mi riguarda tu dubiti del mio buon sto-
maco, in senso metaforico. Pio XI è molto vecchio e io ho ricevuto
un’ottima educazione cristiana; se al prossimo conclave mi fanno pa-
pa per meriti eccezionali, accetto senz’altro27.

Qualche giorno prima aveva scritto allo zio Quirino, fisi-


co sperimentale a Bologna e conoscitore delle spire del mondo
accademico: «ho riso alquanto delle stranezze procedurali del
mio concorso delle quali non avevo nessun sospetto»28.

60
D’altronde, c’è da chiedersi, perché mai Ettore avrebbe do-
vuto né fare domanda di partecipazione al concorso né inte-
ressarsi del suo svolgimento se non per fedeltà al personaggio
che su di lui verrà cucito dopo la sua scomparsa? Ormai sul-
la soglia dei trent’anni, Majorana non aveva infatti nessuna
posizione certa. E che a essa aspirasse era del tutto naturale e
indirettamente mostrato pure dall’aver preso la libera docen-
za. Un fatto, quest’ultimo, registrato dai biografi e poi lasciato
cadere nel nulla. Così come nel nulla i biografi lasciano cade-
re un altro indizio: al ritorno dalla Germania Ettore si iscris-
se al Partito Nazionale Fascista29. Solo atto di adesione poli-
tica reso finalmente possibile dalla riapertura delle iscrizioni
al partito decisa nell’ottobre 1932, fatto che aveva «destato un
certo interesse nelle classi medie»?30 O qualcosa d’altro? For-
se non è qui del tutto inutile, né indebito, rammentare a pro-
posito del passo fatto da Majorana che la «Gazzetta Ufficiale»
del 21 dicembre 1932 nr. 293 aveva pubblicato un decreto del
capo del governo del precedente 17 dicembre in cui si stabili-
va che «per l’ammissione ai concorsi di qualsiasi ruolo, grup-
po e grado» banditi dalle pubbliche amministrazioni centra-
li era «richiesta a seconda dell’età prescritta per l’ammissio-
ne ai concorsi stessi l’iscrizione al PNF o ai fasci giovanili di
combattimento»31.
Ammettere che Ettore pensava alla «carriera», al futuro
avrebbe significato dovere prendere in considerazione l’ipotesi
che la decisione di sparire, che Majorana prenderà pochi me-
si dopo il concorso, non era la conclusione «logica», ancorché
imprevista, di una progressiva involuzione depressiva. Avreb-
be significato ammettere che quel gesto doveva connettersi
anche a un alcunché legato al momento della scomparsa, che
dunque diventava importante.

61
Pure restando ai racconti canonici emerge senz’ombra di
dubbio che la monade Majorana aveva qualche finestra. Quan-
te e quali non è dato di sapere, ma più e diverse – mi sembra
– che non appaia dalla letteratura sul suo «caso». Si legga, ad
esempio, la lettera allo zio Quirino del 1o settembre 1937 in
cui esprime il desiderio, subito temperato da un «ma forse sa-
rò costretto a rinunciarvi per evitare un viaggio troppo lun-
go dalla Sicilia», di assistere a un congresso che lo zio andava
organizzando per cui, scrive, «ho improvvisato un discorso di
apertura secondo quanto mi sembra che tu desideravi»32. Don-
de emergono due indizi non irrilevanti. Innanzitutto la dispo-
nibilità a collaborare a lavori accademici e di ricerca, sia pur
con lo zio – «abile fisico sperimentale con una conoscenza pe-
rò scarsa della teoria» da cui derivava come «conseguenza na-
turale (…) [un] antirelativismo fanatico»33 – col quale ha una
fitta corrispondenza scientifica34. In secondo luogo una certa
qual voglia di riprendere i contatti con la comunità scientifica
fors’anche stimolata dalla partecipazione alla tenzone concor-
suale. O si pensi, ancora, al già citato lavoro, pubblicato postu-
mo, Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze so-
ciali. Nel presentarlo nel 1942 su «Scientia» Giovanni Gentile
jr. – fra i più stretti amici di Majorana, come sappiamo – affer-
ma che l’articolo «fu scritto originariamente per una rivista di
sociologia»35. Quale, a tutt’oggi, non è dato purtroppo di sape-
re. Se la notizia corrisponde a realtà – né c’è motivo di dubi-
tarne – significa che Majorana non tiene rapporti solo con la
famiglia e gli amici di via Panisperna. Ha altri contatti, intera-
gisce con altri ambienti. Avrà fatto una vita da recluso, si sarà
fatto crescere in modo abnorme i capelli, non avrà frequentato
l’Istituto, ma tutto questo forse non è segno solo di quella stra-
nezza che Sciascia denuncia come unica dimensione interpre-

62
tativa del personaggio da parte delle fonti del gruppo degli al-
lievi di Fermi, molto autoreferenziale (e a ragione visti i risul-
tati che raggiunsero) nel racconto delle vicende di quegli anni.
Bisogna ancora volgersi ad Amaldi per trovare una traccia
importante a comprendere il contenuto delle solitudini di Ma-
jorana di quel periodo. Polemizzando con l’idea di Sciascia che
Majorana decida di scomparire perché aveva intuito i possibi-
li esiti militari delle ricerche atomiche, Amaldi scrive nel 1975:
è vero che nel periodo 1935-1936, in cui stava in casa, Ettore si inte-
ressava delle flotte dei vari paesi e faceva i calcoli per vedere quale dei
due gruppi di potenze che entro qualche anno si sarebbero con ogni
probabilità affrontati aveva maggiore possibilità di prevalere36.

Ecco allora un Majorana, dal carattere chiuso e poco socie-


vole, pienamente partecipe del mondo in cui è immerso, occu-
pato a riflettere, se si vuole, a rimuginare, sul significato ulti-
mo della scienza e al tempo stesso sulla realtà che gli si dipana
sotto gli occhi. Una realtà che doveva inquietare, e non poco,
il giovane che aveva ingenuamente creduto la politica razzista
del nazismo un «necessario» male passeggero e che i regimi
totalitari di destra potessero apportare stabilità e pace al con-
tinente. In ciò, del resto, in compagnia e in consonanza crono-
logica con gli altri «ragazzi di via Panisperna».
Sebbene Segrè dica di non avere avuto illusioni su come le
cose sarebbero andate a finire fin dall’ascesa del nazismo in
Germania, se non da prima37, per quanto nell’estate del 1934
Amaldi e Segrè, nel Regno Unito per lavoro, colgano i segni
del deterioramento della situazione europea38, non c’è dubbio
che la ‘svolta’ politica del gruppo di Fermi si situi nel 1935, con
la guerra di Etiopia. Tutte le testimonianze vi convergono. Ol-
tre quelle, già viste, di Emilio Segrè biografo di Fermi e della

63
vedova di quest’ultimo, pure quella di Rasetti nella sua inedi-
ta autobiografia inviata ad Amaldi nel 1958 (con aggiunte nel
1968) nella pessimistica, e infondata, previsione della necessità
di un suo «obituary» da parte dell’amico, custode delle memo-
rie del gruppo, premortogli di molti anni39:
nel 1935 con la preparazione della guerra di Etiopia, Mussolini e il fa-
scismo erano rapidamente mutati da quel fastidio che avevano rappre-
sentato fino a quel momento per persone come me estranee alla politica
a una tirannia che colpiva la vita quotidiana dei loro sfortunati sudditi.
La guerra di Spagna che seguì immediatamente quella di Etiopia e spe-
cialmente il «patto d’acciaio» con Hitler (…) m’indussero a considerare
di lasciare l’Italia a costo di perdere l’eccellente posizione che vi avevo40.

Testimonianza tanto più significativa questa di Rasetti in


quanto, a detta di Segrè, e alla ascesa del fascismo e successi-
vamente per un certo tempo «persino persone di spirito criti-
co come Rasetti erano entusiaste» del regime. Mentre «nei pri-
mi tempi Fermi fu certamente favorevole al fascismo»41. Poi,
mentre indossava la feluca di accademico d’Italia, «che era, in
fondo, un fez da tenuta di gala»42, passa di fatto – fino al matu-
rare della critica al regime gettatosi in una anacronistica guer-
ra coloniale e quindi all’abbandono dell’Italia dopo l’emana-
zione delle leggi antiebraiche che lo colpiscono direttamente
negli affetti familiari – ad appartenere a quella categoria, va-
sta, che Bianchi Bandinelli ha mirabilmente descritto con la
frase: «tutti ‘fanno’ i fascisti, nessuno, quasi, lo è». Con il ri-
sultato, pernicioso per il paese, che il regime è una «scuola di
immoralità e di cinismo data a una società che è già di per sé
immorale e cinica»43.
Cosa impedisce di pensare che anche Majorana segua una
strada simile a quella dei suoi amici e colleghi con cui, pur iso-
landosi in casa, continua ad avere contatti?

64
Una traccia, pur labile, a contrario si trova nella curiosa – e,
già vi si è accennato, non priva di malizia – ricostruzione del
filonazismo di Majorana ad opera di Segrè biografo di Fermi.
Per coglierne il senso occorre partire un po’ da lontano.
Dapprima il «basilisco» racconta l’effetto della crisi etiopi-
ca sul gruppo alla vigilia delle vacanze estive del 1935. Quindi
narra le esperienze fatte da Amaldi e Fermi rimasti soli a Ro-
ma in quanto, nell’autunno 1935, il gruppo si disperse in di-
verse sedi universitarie. Dopo di che annota:
il successo scientifico e personale dovuto agli importanti lavori del
1936 contrastava amaramente con l’evidente peggioramento della si-
tuazione politica europea che prometteva guai a tutti noi (…).
A questa fosca situazione si aggiunse un fierissimo colpo del tut-
to inaspettato. Il 23 gennaio del 1937 il professor Corbino morì di
polmonite.

A soli sessantuno anni d’età.


Sarebbe stato naturale – continua Segrè – nominare suo successore
Fermi, ma in seguito a manovre politiche il professor Lo Surdo emerse
come nuovo direttore dell’Istituto di Fisica. Questo era un segno che le
fortune di Fermi stavano declinando e non prometteva nulla di buono
per la continuazione del lavoro a Roma44.

Come si vede siamo ormai giunti, nella narrazione della vi-


ta del «papa», al 1937. A questo punto Segrè introduce un altro
elemento di sfondo, panoramico e generale. Nel mondo della
fisica stava nel frattempo producendosi una mutazione profon-
da: «il tramonto della Germania». Frutto del «cancro del nazi-
smo» che «stava distruggendo la fisica tedesca e temevamo che
potesse rivolgersi al resto dell’Europa». Per tale motivo i mem-
bri del gruppo volsero la loro attenzione al mondo anglosasso-
ne che stava «togliendo alla Germania il primato della scien-

65
za». Presero allora il «papa», il «basilisco» e gli altri «ragazzi di
via Panisperna» a studiare e perfezionare l’inglese e a pubbli-
care, anziché in tedesco, in questa lingua nella quale – a quanto
risulta dalle fonti – Majorana sapeva districarsi nella sola lettu-
ra45. Il mutamento di rotta «era desiderato e approvato» da tutti
gli allievi e i collaboratori di Fermi. L’unica eccezione era, per
Segrè, Majorana che «andò in Germania nel 1934» e «si lasciò
impressionare dalla propaganda nazista e scrisse lettere favo-
revoli al regime».
Ognuno degli altri aveva infatti ben chiaro cosa stava succe-
dendo in Germania. Cosa che, dice Segrè,
non alterava le relazioni personali con i nostri amici molti dei quali
erano vittime delle persecuzioni e della tirannia hitleriana e l’aborri-
vano non meno di noi (…) fino al 1936 cercammo in tutti i modi di
aiutare, nei limiti delle nostre possibilità, i nostri amici vittime del na-
zismo. Dopo il 1936 ciò non fu più possibile46.

L’incastonamento della notazione sul filonazismo di Majo-


rana nel quadro della progressiva crescita della consapevolezza
«democratica» del gruppo lascia perplessi proprio per la «svista»
cronologica che la caratterizza e che avrebbe benissimo potuto
essere corretta solo che l’autore si fosse premurato di control-
lare le date sulla biografia di Ettore scritta da Amaldi, già edita
da alcuni anni quando esce il libro di Segrè su Fermi. L’errore
cronologico colloca le lettere ‘filonaziste’ non all’albore, ai pri-
mi passi del nazismo, nelle prime settimane e nei primi mesi del
potere hitleriano, ma un anno dopo quando i caratteri della dit-
tatura nazionalsocialista erano ormai ben più chiari. Quasi un
tentativo di allargare il solco fra gli altri e lui, Majorana il diver-
so. E se invece, ripeto, le stesse vicende che avevano così colpi-
to il «gruppo» fossero state parte anche del tormento di Ettore?

66
Il percorso di Majorana potrebbe essere stato anche più
mosso e complicato se si tenta di collocare nel quadro generale
una testimonianza del tutto «eccentrica» e, francamente, abba-
stanza sconcertante, per non dire altro.
Nell’inverno 1932-1933 passa un periodo a Roma presso l’I-
stituto di via Panisperna il tedesco Rudolf Ernst Peierls che, a chi
gli si era rivolto per una testimonianza su Majorana, scrisse nel
luglio 1984: «mi apparve come un fisico straordinariamente do-
tato, un poco timido, e veramente contrario al fascismo»47. Natu-
ralmente la notazione di Peierls può essere – e quasi certamente
è – una distorsione prospettica postbellica. Come si poteva pen-
sare, dopo la guerra, che una mente brillante potesse essere stata
affascinata dal fascismo? Se però corrispondesse a realtà forni-
rebbe l’indizio di un itinerario accidentato, sulla cui realtà Reca-
mi pare oscillare48: da una contrarietà al regime a una speranza
nei suoi confronti, attestata anche da una inscrizione al PNF a far
data dal 31 luglio 1933 giorno in cui scade la sua borsa per la per-
manenza in Germania, a una disillusione ancora più bruciante
proprio perché la speranza era nata dall’abbandono di una prece-
dente avversione. Qualcosa può, se non comprovare, far propen-
dere per la veridicità della testimonianza del fisico tedesco? Nulla
in realtà. Se non l’ipotesi, più che plausibile, del fastidio probabil-
mente mostrato da una intelligenza acuta per gli atteggiamenti
più rozzi del regime e dei suoi gerarchi e/o quella di una certa in-
sofferenza giovanile – di cui peraltro non si hanno prove diret-
te – verso una famiglia per tradizione saldamente governativa,
tanto che – ricorda Sciascia, ricostruendo il famoso processo cui
Laura Fermi attribuisce i turbamenti psicologici del giovane Et-
tore – fra i difensori della famiglia Majorana, «quasi tutti principi
del foro», c’era pure Roberto Farinacci la cui «nullità professiona-
le era ad usura compensata dalla temibilità politica»49.

67
Anche senza ipotizzare questo improbabile percorso com-
plicato, non v’è dubbio che numerose siano le spie di un di-
sagio, fors’anche di un tormento, di Majorana, come dei suoi
amici del «gruppo di Roma», a fronte dell’evoluzione della po-
litica italiana ed europea. Per un momento pare Ettore pensi
alla possibilità che gli eventi possano, forse, essere padroneg-
giati o in qualche modo convogliati da un ausilio delle scien-
ze sociali all’«arte di governo». Lo lascia intravedere la chiusa
dell’articolo pubblicato postumo da Giovanni Gentile jr. Un
brano peraltro oscuro su cui sono state avanzate altre, e con-
trarie, ipotesi interpretative.
La disintegrazione di un atomo radioattivo – scrive terminando Il va-
lore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali – può ob-
bligare un contatore automatico a registrarlo con effetto meccanico,
reso possibile da adatta amplificazione. Bastano quindi comuni ar-
tifici di laboratorio per preparare una catena comunque complessa e
vistosa di fenomeni che sia comandata dalla disintegrazione acciden-
tale di un solo atomo radioattivo. Non vi è nulla dal punto di vista
strettamente scientifico che impedisca di considerare come plausibi-
le che all’origine di avvenimenti umani possa trovarsi un fatto vitale
egualmente semplice, invisibile e imprevedibile. Se è così, come noi
riteniamo, le leggi statistiche delle scienze sociali vedono accresciuto
il loro ufficio che non è soltanto quello di stabilire empiricamente la
risultante di un gran numero di cause sconosciute, ma soprattutto di
dare della realtà una testimonianza immediata e concreta. La cui in-
terpretazione richiede un’arte speciale, non ultimo sussidio dell’arte
di governo50.

Sciascia trova la conclusione del saggio sul valore delle leg-


gi statistiche
profondamente suggestiva (…) nel senso dell’inquietudine, della pau-
ra. Automaticamente, ci siamo trovati a versificarla, a disporre le pa-
role su un foglio in un ritmo di dizione e di visione. Strana operazione

68
e gratuita, si dirà: ma il fatto è che nel condurla abbiamo sentito cre-
scere in noi l’inquietudine, la paura. E provate anche voi, se vi pare: vi
troverete di fronte a un tremendo epigramma51.

Di certo meno intenso e penetrante dell’autore del «gial-


lo filosofico» intravedo piuttosto nella (voluta?) inintelligibilità
della chiusa del saggio sul valore delle leggi statistiche la con-
fusa indicazione, ricerca o speranza, della possibile esistenza
d’uno strumento che aiuti l’arte di governo a correggersi, a in-
tendere la direzione del movimento della realtà, a far sì che
non si dia quel che, giovane, un grande pensatore e uomo po-
litico francese del Settecento aveva osservato: «apprendiamo
sempre gli avvenimenti troppo tardi e la politica ha sempre bi-
sogno di prevedere per così dire il presente»52.
Se l’interpretazione della chiusa e del senso ultimo del sag-
gio sulle leggi statistiche è difficile, e dunque inevitabilmente
arbitraria, non v’è dubbio che questo testo mostri una volta di
più un Majorana profondamente attento alla realtà sociale e
politica che lo circonda. Una realtà che va in direzione opposta
a quella da lui prevista, secondo quanto attestano le sue lettere.
I regimi dittatoriali di destra sempre più mostrano il loro
volto aggressivo. Non possono certo più essere visti – nemme-
no ‘ingenuamente’ – quali fattori di stabilità e di pace. La Ger-
mania si riarma rapidamente e fonda il suo discorso sull’or-
dine europeo sulla necessità per essa di un nuovo, diverso e
più ampio «spazio vitale»; l’Italia s’avventura in una tardiva
guerra coloniale; insieme alimentano l’incendio spagnolo.
La guerra moderna, in particolare con il bombardamento di
Guernica del 26 aprile 1937, si appalesa sempre più in tutta la
sua atrocità tecnologica.
Parimenti clamorosa è la dimostrazione della diversità, ri-
spetto a quella ipotizzata da Ettore, dell’evoluzione interna dei

69
regimi, di quello nazista in particolare. Non le prospettive mo-
derate, ma quelle più estreme hanno il sopravvento. Con le
«leggi di Norimberga» del 15 settembre 1935 prende avvio una
ulteriore, sempre più aspra persecuzione nei confronti degli
ebrei tedeschi oramai non più considerati cittadini del Reich e
impossibilitati a praticare la maggior parte dei mestieri e delle
professioni. Contemporaneamente, e non a caso, riprendono
vigore gli attacchi dei «fisici ariani» contro gli «ebrei bianchi»53
nella scienza, contro cioè coloro che praticavano e sosteneva-
no la fisica moderna. Uno dei loro obiettivi principali era lo
«spirito dello spirito di Einstein»54: Werner Heisenberg. Sarà
un conflitto destinato a durare a lungo tanto che
la pressione ideologica si allentò [solo] quando la guerra di Hitler cam-
biò da «Blitzkrieg» in una lotta prolungata. I nazisti dovevano appog-
giarsi sempre di più su specialisti che potevano affrontare situazioni
particolari in cui non era possibile ubbidire a proclami politici55.

Ad Heisenberg, ricorda Amaldi, Ettore si legò nel periodo


della permanenza a Lipsia, cosa del resto confermata dalle sue
lettere del tempo56. E aggiunge che per il grande fisico tedesco
Majorana «conservò sempre profonda ammirazione e senso
d’amicizia»57. Sciascia va oltre, ben oltre: con Heisenberg Et-
tore a Lipsia ha un rapporto intenso, «del tutto diverso» da
quello che ha con il resto della comunità di fisici che nella cit-
tà tedesca si trova. «E la ragione crediamo di intravederla, re-
trospettivamente, nel fatto che Heisenberg viveva il problema
della fisica, la sua ricerca di fisico, dentro un vasto e dramma-
tico contesto di pensiero»58. Come Ettore, appunto.
Per quanto le carte nulla ci dicano di ulteriori contatti di Ma-
jorana con Heisenberg è ragionevolmente ipotizzabile che da
Roma o da Napoli o dalla Sicilia, dovunque sia, Ettore segua non

70
solo le ricerche, ma le personali vicende di Heisenberg. Del re-
sto, per quanto chiuso in casa, Majorana – già lo si è detto – con-
tinua ad avere contatti con i «ragazzi di via Panisperna» e que-
sti – oltre che tenersi aggiornati sulle riviste scientifiche – viag-
giano, parlano con i colleghi stranieri, mentre lo stesso Istituto
di Fisica di Roma è luogo di arrivi e permanenze di ricercatori
di diversi paesi59. Al proposito è significativa la testimonianza
di Léon Rosenfeld, raccolta da Recami nel 1964. A Copenha-
gen «l’unico, apparentemente, con cui [Majorana] conversava
liberamente era Placzek, presumibilmente perché lo conosceva
già da Roma»60. George Placzek, cecoslovacco con esperienze di
studio e di lavoro cosmopolite, cui forse si deve l’abbandono da
parte di Fermi della perdente via dell’uso dell’acqua pesante nel
controllo della fissione61, era stato infatti a Roma durante l’anno
accademico 1932-1933 stringendovi, con i membri dell’Istituto
di via Panisperna, rapporti scientifici e umani «che lo doveva-
no riportare in questa università, per periodi più o meno lun-
ghi, ogni due o tre anni per tutto il resto della sua vita»62, breve
– purtroppo – essendo scomparso a soli cinquant’anni nel 1955.
Se questa notazione di Amaldi è letteralmente esatta63, e
non solo un modo di dire per sottolineare che dopo quel pri-
mo viaggio il cecoslovacco continuò ad avere rapporti abba-
stanza continuativi con Roma, allora Placzek può essere tor-
nato nell’Urbe quando ancora Majorana non era scomparso. È
azzardato pensare che si siano incontrati, scambiandosi idee e
impressioni? E Placzek non si faceva illusioni sulla realtà euro-
pea come mostra una sua celebre battuta, posteriore – tuttavia
– alla scomparsa di Majorana. Nell’estate del 1938 dopo che
Niels Bohr aveva pubblicamente espresso il timore che se Hit-
ler avesse invaso la sua patria, la Danimarca, le grandi demo-
crazie occidentali non avrebbero mosso un dito, Placzek, allo-

71
ra a Copenhagen, aveva sarcasticamente commentato: «Per-
ché Hitler dovrebbe occupare la Danimarca? Può limitarsi a
telefonare, no?»64. Un modo sarcastico per dire la stessa cosa
di Amaldi quando, a proposito del 1939, scrive: «ricordo che
per descrivere la situazione usavo la frase ‘distruzione pacifica
dell’Europa da parte dei nazisti’, frase nata all’epoca dell’An-
schluss (…) dell’Austria»65.
Almeno per quanto concerne l’Italia, i regimi dittatoriali
di destra avevano riservato a Majorana un’ultima disillusione
relativamente all’economia. Alla metà degli anni Trenta i più
guardano al futuro con ansia. Lo attesta una limpida pagina
di Renzo De Felice:
se si scorrono i rapporti – soprattutto quelli della seconda metà del
1936, del 1937 e del 1938 (…) – dei prefetti, degli informatori della po-
lizia, del partito, dell’OVRA e del SIM emerge chiaro quanto in questi
anni le difficoltà economiche accomunassero, in misura maggiore o
minore, contadini, operai, piccoli e medio borghesi, assorbendone le
energie e condizionandone gli atteggiamenti verso il regime66.

In questa situazione fra i «ragazzi di via Panisperna» si acui­


sce non solo la preoccupazione, ma la tensione che si esplica
nella sempre maggiore frequenza con cui diversi fra loro pen-
sano di emigrare. Cosa che per molti si realizzerà – forzosa-
mente, per chi «ariano» non era – dopo l’emanazione nel tardo
1938 dei provvedimenti antisemiti italiani. L’idea, che impli-
ca pure sacrifici pratici e non solo «sentimentali»67, però circo-
la da ben prima. Rasetti, si è visto, la connette – per quanto lo
concerne – alle aggressioni all’Etiopia e alla Spagna nonché al
rinsaldarsi dell’alleanza con Hitler. Segrè afferma relativamen-
te al periodo precedente la vittoria della cattedra a Palermo
(autunno 1935): «se avessi trovato un posto in America mi sa-

72
rei trasferito senz’altro, ma tali posti erano rari come le mosche
bianche»68. Anche se al passo dell’abbandono dell’Italia si de-
ciderà solo nell’estate del 1938, realizzandolo poi nel dicembre,
Fermi aveva rimuginato sulla cosa già negli anni precedenti69.
Non c’è alcuna notizia al proposito per quanto riguarda
Majorana: né per quel che concerne sue possibili valutazioni
rispetto alle idee degli amici, né relativamente a lui stesso, a
riflessioni sul suo futuro. È un segno del suo disinteresse per
quanto avverrà della sua vita? È un’indiretta controprova del-
la sua adesione al regime? È la spia di una sorta di persisten-
za dell’influenza di Heisenberg su di lui? Oppure Ettore non
pensa di potere trovare una possibile risposta alle sue ansie nei
paesi, e i loro regimi, verso cui andavano le speranze degli altri
del «gruppo di Roma»?
L’analisi delle fonti relative agli anni fra il ritorno dalla
Germania e la presa di possesso a Napoli della cattedra lascia
aperti numerosissimi interrogativi e porta a un’unica certezza:
le crepe enormi che appaiono nell’edificio del canone.

1
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvii.
2
Lettera a Giovanni Gentile jr. 27.7.34, in Recami, Il caso Majorana, p. 188.
3
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, pp. xxvi-xxvii.
4
Werner Heisenberg, La scoperta di Planck e i principi filosofici della fisica
moderna (1958), in Werner Heisenberg – Max Born – Erwin Schrödinger –
Pierre Auger, Discussione sulla fisica moderna, Torino 1959, p. 13.
5
Cfr. Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi.
6
Sulla stessa linea di Amaldi si pone in questo caso Recami quando scrive,
a proposito del momento della scomparsa: «senza forzare la realtà possiamo
immaginare che davvero, su quello stesso comodino ove lascia la lettera al-
la famiglia, Ettore tenga Schopenhauer e Shakespeare; e Pirandello» (Il caso
Majorana, p. 95).

73
7
Ettore Majorana, Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze so-
ciali, «Scientia», XXXVI (1942), 71, pp. 58-66: 65.
8
Ettore Majorana, Appunti per la prolusione ai corsi (13.1.38), in Recami, Il
caso Majorana, p. 197. Questi appunti, ritrovati da Recami nel 1972, furono
pubblicati dapprima sul «Corriere della Sera» del 19 novembre 1982 e poi al-
le pp. 169-172 di Ettore Majorana, Lezioni all’Università di Napoli, con scritti
di Nicola Cabibbo – Erasmo Recami, Napoli 1987.
9
Vedi infra, capitolo 7 al riferimento della nota 25.
10
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi.
11
A proposito della quale Majorana rigetta «la pretesa di condannare l’ideale
dell’unità della scienza che si è rivelata più volte un efficace stimolo al pro-
gresso delle idee» (Majorana, Il valore delle leggi statistiche, p. 60).
12
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana,
Torino 1975, II, p. 1494; I, p. 470.
13
Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 19592, p.
266.
14
Georges Sorel, De l’utilité du pragmatisme, Paris 1921, pp. 1-2.
15
Relazione sulla attività scientifica del prof. Ettore Majorana, in Recami, Il
caso Majorana, p. 211.
16
Recami, Il caso Majorana, p. 68.
17
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxiv.
18
Lettera a Q. Majorana 16.1.36, in Recami, Il caso Majorana, p. 191.
19
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvii.
20
Ibidem, p. xxvi.
21
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 164.
22
Cfr. Edoardo Amaldi, L’ atomica non l’ha scoperta lui, «L’Espresso», XXI
(5 ottobre 1975), 40, pp. 107-111 e 157; Leonardo Sciascia – Edoardo Amal-
di, Duello intorno a una bomba, «L’Espresso», XXI (12 ottobre 1975), 41, pp.
56-61 e 140.
23
Il termine è di Amaldi nel secondo dei testi citati alla nota precedente p. 57.
24
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvii.
25
«Il tutto era, a dir poco, insolito, e credo che la spiegazione sia questa: per
evitare l’insuccesso del figlio, il padre del candidato Gentile, ex ministro del-
la Pubblica Istruzione e tuttora una potenza nella vita politica italiana, ave-
va escogitato un piano ingegnoso e senza precedenti» (Segrè, Autobiografia
di un fisico, p. 164).
26
«Credo ingiustificata la tua volontaria diffidenza verso Fermi che mi ha
parlato di te con la più schietta simpatia» (Lettera a Giovanni Gentile jr.
25.8.37, in Recami, Il caso Majorana, p. 192).
27
Lettera a Giovanni Gentile jr. 21.11.37, ibidem, p. 195. La citazione che pre-
cede nel testo è alla p. 194.

74
28
Lettera a Q. Majorana 16.11.37, ibidem, p. 194.
29
Recami, Il caso Majorana, pp. 57 e 165.
30
Alberto Aquarone, L’ organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965,
p. 185.
31
Ibidem, p. 257.
32
Lettera a Q. Majorana 16.11.37, in Recami, Il caso Majorana, p. 193.
33
Pastrone, Fisica matematica e meccanica razionale, p. 472.
34
Cfr. Recami, Il caso Majorana, p. 63.
35
Majorana, Il valore delle leggi statistiche, p. 58 nota 1.
36
Amaldi, L’ atomica non l’ha scoperta lui, p. 111.
37
Segrè, Autobiografia di un fisico, pp. 112-113.
38
Nell’estate del 1934 Amaldi è, con Segrè, a Cambridge presso Ernest Ruth­erford.
In occasione di una gita a Londra incontrano Leó Szilárd con cui tuttavia, scriverà
Amaldi nel 1984, «parlammo più di politica che di fisica. L’assassinio del cancellie-
re austriaco Dolfuss a Vienna per mano nazista, il 25 luglio 1934, aveva aperto in
quei giorni un periodo di acuta tensione internazionale, che rappresentò uno dei
primi passi verso la Seconda guerra mondiale» (Edoardo Amaldi, Neutron Work
in Rome 1934-1936 and the Discovery of Uranium Fission [1984], in 20th Centu-
ry Physics. Essays and Recollection. A Selection of Historical Writings by Edoardo
Amaldi, edited by Giovanni Battimelli – Giovanni Paoloni, Singapore-New Jersey-
London-Hong Kong 1998, p. 15).
39
Rasetti è scomparso già centenario il 7 dicembre 2001.
40
Franco Rasetti, Biographical Notes and Scientific Work of Franco Rasetti,
Archivio Amaldi, Scatola ES, Dipartimento di Fisica, Università di Roma «La
Sapienza». Debbo la possibilità di citare questo inedito alla gentilezza squi-
sita di Michelangelo De Maria e del direttore del dipartimento Francesco
Guerra. La notizia e brani essenziali di questo documento sono in Giovan-
ni Battimelli – Michelangelo De Maria, Prefazione, in Amaldi, Da via Pani-
sperna. A proposito del quadro delle tappe di avvicinamento al conflitto de-
lineato da Rasetti cfr. «le pietre miliari sulla strada della guerra» enumerate
in Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano 1995 (edizione originale inglese
1994), p. 51.
41
Segrè, Enrico Fermi, p. 96.
42
Renato Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1962, p.
382.
43
Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, p. 69.
44
«Quando vennero le leggi razziali – racconta sempre Segrè ma nella Auto-
biografia (p. 75) – Lo Surdo dimostrò uno zelo antisemitico inusuale e non
necessario. Per esempio proibì l’accesso alla biblioteca dell’Istituto al vene-
rando professor Castelnuovo, suo collega da molti anni e matematico insi-
gne. Si guadagnò però la gratitudine di Amaldi aiutandolo a tornare dalla

75
Libia dove era stato mandato durante la guerra mondiale come ufficiale di
complemento». Su quest’ultimo punto la versione dell’interessato è tuttavia
alquanto diversa. Racconta infatti: «in seguito ad una disposizione generale
per tutti i professori universitari che avevano compiuto 32 anni, e su richie-
sta unanime della Facoltà di Scienze di Roma fui rimandato in Italia [dalla
Libia] il 4 o 5 dicembre [1940]» (Amaldi, Da via Panisperna, p. 87). Lo Surdo
in realtà era intervenuto, ma senza successo, presso il comando della marina
– con cui aveva collaborato durante il primo conflitto mondiale – «facendo
presente che nell’interesse del paese» sarebbe stato meglio utilizzare i giova-
ni fisici dell’Istituto in «qualche servizio tecnico» piuttosto che mobilitarli e
inviarli al fronte (ibidem, p. 90).
45
A questa conclusione si perviene combinando due distinte notizie. Nello
«stato matricolare» pubblicato da Recami (Il caso Majorana, p. 213) alla ru-
brica lingue straniere «che sa parlare o leggere» si trovano indicate, da Majo-
rana stesso, tedesco, inglese, francese. Ma alla domanda relativa alle lingue
«che sa scrivere» la risposta è solo tedesco e francese (relativamente – è speci-
ficato – ad argomenti tecnici). Nella Nota Amaldi racconta poi che poco pri-
ma del viaggio di Ettore in Germania e in Danimarca era arrivato a Roma,
dalla Harvard University, Eugene Feenberg con cui Majorana simpatizzò su-
bito. I due tuttavia «non riuscivano a stabilire rapporti stretti di lavoro dato
che nessuno dei due era in grado di parlare la lingua dell’altro» (pp. xxiv-
xxv). Ettore dunque non era in grado di parlare l’inglese.
46
Segrè, Enrico Fermi, pp. 90-96.
47
Citato in Recami, Il caso Majorana, p. 57 (per il testo tedesco) e p. 58 nota
8 (per la versione italiana).
48
Cfr., al proposito, Erasmo Recami, Ettore Majorana: lo scienziato e l’uomo,
in Majorana, Lezioni, p. 152; Id., Il caso Majorana, p. 56.
49
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 234.
50
Majorana, Il valore delle leggi statistiche, p. 66.
51
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 248.
52
Œuvres de Turgot et documents le concernant. Avec biographie et notes par
Gustav Schelle, Paris 1913-1923, I, p. 331.
53
Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler, p. 170.
54
Ibidem, p. 167.
55
Ibidem, p. 220. Sulla durata di tale polemica una controprova viene dall’I-
talia dove pure «anche dopo il 1938 l’idea dell’esistenza di una ‘scienza giu-
dea’ rimase molto in ombra» (Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo
fascista, Scandicci [Firenze], 1999, p. 318). Eppure ancora nel luglio 1941 sul-
la stampa appaiono attacchi alla fisica nucleare e a quella dei raggi cosmici
come scienze ebraiche provocando la protesta di Amaldi che scrive una let-
tera a Lo Surdo, una protesta adeguata ai tempi – e che a noi oggi può ap-

76
parire equivoca – in cui si legge ad esempio: «voi sapete meglio di chiunque
altro, che il primo scopritore dei raggi cosmici fu l’italiano Pacini a cui se-
guirono i tedeschi Hess, Kholoester eccetera» (Amaldi, Da via Panisperna,
pp. 141-142).
56
Cfr. al proposito Recami, Il caso Majorana, pp. 150 e 154.
57
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxv. Al proposito cfr. an-
che Id., Ettore Majorana a cinquant’anni dalla morte (1988), in 20th Century
Physics, p. 99.
58
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 238.
59
Scrive Majorana dall’estero: «sembra che non vi sia molto da scegliere per
i fisici teorici all’infuori di Lipsia, Zurigo, Copenhagen e Roma» (Lettera a
Giovanni Gentile jr. 18.3.33, in Recami, Il caso Majorana, pp. 160-161). Sulla
capacità attrattiva dell’Istituto romano cfr. anche Francesco Cordella – Al-
berto De Gregorio – Fabio Sebastiani, Enrico Fermi. Gli anni italiani, Roma
2001, p. 181.
60
Recami, Il caso Majorana, p. 165. Lo stesso Majorana, scrivendo al padre
in vista del trasferimento da Lipsia alla Danimarca, dice: «ho a Copenhagen
un vecchio amico, Placzek, che è stato un anno fa a Roma» (Lettera al padre
28.2.33, in Recami, Il caso Majorana, p. 155). Con lui non c’erano difficoltà a
intendersi, almeno stando a quanto Ettore racconta alla madre il 7 marzo in
una lettera da Copenhagen: non è riuscito a vedere Placzek, occupato a scri-
vere un libro, ma «mi ha telefonato più volte parlando ancora in buon tran-
steverino» (ibidem, p. 157).
61
Richard Rhodes, L’ invenzione della bomba atomica, Milano 1990 (edizione
originale statunitense 1986), pp. 322-323.
62
Edoardo Amaldi, George Placzek (1956), in 20th Century Physics, p. 496.
63
Un indizio in tale direzione viene dalla corrispondenza di Majorana che
scrivendo a Giovanni Gentile jr. da Copenhagen il 18 marzo 1933 annuncia
all’amico: «Placzeck si recherà probabilmente a Roma tra la fine di aprile e il
principio di maggio» (Recami, Il caso Majorana, p. 160).
64
Citato in Otto Frisch, What Little I Remember, Cambridge 1979, p. 108.
65
Amaldi, Da via Panisperna, pp. 70-71.
66
Renzo De Felice, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario 1936-1940, To-
rino 19962, p. 165.
67
Solo una doppia distorsione prospettica – quella per cui l’ebreo è per natu-
ra «errante» (cioè non legato ad alcuna patria) e quella postbellica degli USA
pronti ad attrarre ogni e qualunque «cervello» – può fare pensare, come da
molti è stato fatto sia in modo esplicito che, soprattutto, in modo implicito,
alla decisione – volontaria o necessitata che fosse – di emigrare come a una
decisione che implicasse solo problemi psicologici. In realtà trovare una si-
stemazione adeguata era e fu un problema, eccetto che per pochi di grande

77
notorietà come Fermi. Cfr., al proposito, oltre le notazioni di Rasetti e Se-
grè citate nel testo, Rhodes, L’ invenzione della bomba atomica, pp. 207-210,
nonché Laura Fermi, Illustrious Immigrants, Chicago-London 1968, passim.
68
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 133.
69
Cfr. Segrè, Enrico Fermi, p. 99. Sebbene abbiano avuto di certo un peso (su
cui vedasi infra, Epilogo nota 1), non mi pare che, in base alle testimonianze,
le difficoltà di finanziamento trovate nel 1937-1938 da Fermi e dai suoi per la
costruzione di un ciclotrone possano essere considerate la causa che per pri-
ma avrebbe fatto maturare nei «ragazzi di via Panisperna» l’idea di emigrare
solo «sulla base di considerazioni di stretta opportunità scientifica» (Batti-
melli – De Maria, Prefazione, p. 20).

78
6

Testimonianze eccentriche

Nella letteratura su Majorana restano solitamente in ombra,


in posizione marginale, alcune testimonianze ‘eccentriche’ con
cui, a volerlo, si potrebbe tentare di costruire un labile traccia-
to di un Majorana sempre, linearmente contro. Sarebbe una
forzatura, del tutto gratuita.
Tuttavia se, come già visto, non pare plausibile la figura di
un Majorana «veramente contrario al fascismo» già sul finire
del 1932, altre testimonianze, assai inquietanti, non possono
essere marginalizzate come irrilevanti, del tutto secondarie,
quasi curiosità. Hanno in comune l’oggetto, per così dire, e la
provenienza. Che è l’ambito familiare; e con la famiglia – ge-
nitori, fratelli, zii – Ettore, ci dicono tutte le fonti note, parla, si
confida, comunica in modo particolarmente intenso.
Partiamo da quella che può essere collocata con più certez-
za nel tempo.
Nella lettera inviata dalla madre a Benito Mussolini il 27
luglio 1938, Dorina Corso Majorana descrive il figlio come
«sempre savio ed equilibrato» di modo che «il dramma del-
la sua anima o dei suoi nervi sembra dunque un mistero».
Che non trova spiegazione in «precedenti clinici o morali
che potrebbero fare pensare al suicidio; al contrario, la sere-
nità e la severità della sua vita e dei suoi studi permettono
anzi impongono di considerarlo soltanto come una vittima
della scienza»1. Un artifizio retorico, indubbiamente; ma un

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artifizio retorico che converge, e poi collima, con altre due
testimonianze.
La prima è della sorella Maria, secondo la quale Ettore pri-
ma di sparire – ma non si ha alcun preciso riferimento crono-
logico – ripeteva spesso che la fisica, o i fisici, erano su una stra-
da sbagliata.
Sciascia – senza peraltro produrre alcuna prova – non ha
dubbi:
certo non si riferiva forse alla vita o alla morte, voleva forse dire quel
che il fisico tedesco Otto Hahn si dice abbia detto quando, al principio
del 1939, si cominciò a parlare della «liberazione dell’energia atomica»:
Ma Dio non può volerlo! 2

Per Recami invece Ettore «si riferiva a questioni teoriche,


‘speculative’, più che etiche»3. Pure in questo caso, però, l’af-
fermazione non è sorretta da prova alcuna. E cosa vieta allora
– ragionando in via d’ipotesi e senza il riscontro di prove – di
pensare a un Majorana che si rende drammaticamente conto
che «la guerra e la preparazione della guerra rappresentano un
grande volano di accelerazione del progresso tecnico»?4
Un riscontro e una qualche luce viene da un’altra testimo-
nianza di un familiare. Un cugino ha detto di Ettore:
egli restò per tutto il tempo della sua vita prigioniero di una lucida
razionalità e del freddo calcolo… Ma la svalutazione del mondo dei
sentimenti era in lui solo apparente e forzata. Dietro quella convinta
insignificanza del «fare», quel distacco dallo scrivere, dal parlare, dal
lasciare traccia di sé che gli vengono attribuiti, si nascondeva qualcosa
di più profondo ed intimamente drammatico: il sentimento della (pe-
ricolosa) insufficienza e parzialità del logos5.

Il cerchio pare dunque chiudersi: Ettore è alla ricerca di ri-


sposte che permettano a lui – e in generale agli scienziati – di

80
correggere la strada sbagliata su cui la fisica (la scienza) si è
incamminata, sbagliata su di un piano «speculativo». Che per
lui, tuttavia, è qualche cosa di diverso e maggiormente com-
plesso di un nodo teorico in senso, per così dire, stretto; at-
tiene infatti al logos, al principio che regola non solo l’ordine
dell’universo e della natura, ma la vita degli uomini (che, del
resto, parte dell’universo sono). In questo senso, a ben vedere,
lo si può davvero considerare «vittima della scienza».
Questa, e non altra, è l’immagine della personalità di Et-
tore consegnataci dai familiari, una personalità dallo spesso-
re assai più profondo di quella cristallizzata nel canone e nella
vulgata su di esso modellata. Pure qui, tuttavia, resta separata
dallo sfondo, come su di un fondale bianco, uniforme, avulso
dagli altri protagonisti cui pure gli interrogativi sul logos rin-
viavano senza possibilità di dubbi. Eppure le carte – per gran
parte pervenuteci grazie alla famiglia e alla sua pietas per lo
scomparso – ci parlano di un uomo che fa continuamente i
conti con quanto lo circonda, è del tutto immerso nel contesto
del suo tempo. Lo rivela – si vedrà nelle prossime pagine – an-
che la scelta del momento della scomparsa.

1
Recami, Il caso Majorana, p. 207. Corsivo mio.
2
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 248. A Hahn, sempre nel 1939, è at-
tribuita anche la frase: «Voi fisici almeno per ora non costruirete una bomba
all’uranio! Se Hitler avrà un’arma del genere io mi suicido» (Robert Jungk,
Gli apprendisti stregoni. Storia degli scienziati atomici, Torino 19582 [edizione
originale tedesca 1957], p. 91).
3
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 73.
4
Hobsbawm, Il secolo breve, p. 64.
5
Recami, Il caso Majorana, p. 125. Il primo corsivo è mio.

81
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Un interrogativo rimosso

Una domanda che tutta la letteratura sulla vicenda di Majorana


più che non porsi sembra non prevedere è: perché Ettore deci-
de di scomparire in quel determinato momento?
Sottaciuto e rimosso, l’interrogativo ha in realtà, in quelle pa-
gine, una risposta implicita: la crisi esistenziale che investe il pro-
tagonista dal ritorno dalla Germania in avanti accumula tensio-
ni che a un dato punto esplodono di per sé, per motivi del tutto
interni al procedere della sua patologia. Il percorso e lo scavo di
chi viene dopo non possono dunque essere che tutti interni al-
la personalità di Majorana, indipendenti dal contesto. Anche da
quello su cui – per quanto concerne l’ultimo periodo della sua
vita o della sua ‘vita ufficiale’ – poco o nulla si sa e si è indagato.
Laura Fermi in realtà pare, sia pur implicitamente, porsi la
questione e, lo si è visto, trova la risposta attribuendo la cri-
si, che – secondo lei – avrebbe portato Majorana a sopprimer-
si, a una sorta di insostenibile fobia dell’aula. Tesi peraltro ab-
bastanza diversa e contrastante, a ben vedere, con i ricordi di
Carrelli – l’uomo che sembra essergli più vicino negli ultimi
mesi della sua vita o della sua vita nota – secondo cui, riferi-
sce Amaldi, Majorana provò «un eccessivo dispiacere» allor-
ché «dopo qualche mese di insegnamento si rese conto che ben
pochi degli studenti erano in grado di seguire e apprezzare le
sue lezioni sempre oltremodo elevate»1. A sua volta discrepante
con la diretta testimonianza di Majorana che all’inizio di quel

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marzo 1938, e più precisamente il 2, scrive all’amico Giovanni
Gentile jr.: «sono contento degli studenti, alcuni dei quali sem-
brano risoluti a prendere la fisica sul serio»2.
Esempio, tutto questo, una volta di più di un rovesciamento
della memoria a partire dall’esito della vicenda.
L’«eccessivo dispiacere» che Majorana, a detta di Carrelli,
avrebbe provato perché pochi erano gli studenti in grado di
seguirlo è connesso da Amaldi al tormento provocato dalla
sua malattia (di cui implicitamente si suggerisce un aggrava-
mento) «che finiva inevitabilmente con l’avere una influenza
sul suo umore e anche sul suo carattere»3. Malattia «nervo-
sa» per tutti quella di Majorana. Salvo che, sembra, per Pietro
Caldirola, che dopo essersi laureato nel 1937 a Pavia, era an-
dato a Roma a specializzarsi in fisica teorica con Fermi4. Per
lui il mal di stomaco di Ettore nascondeva «una qualche ma-
lattia grave: di ambito fisiologico, non neurologico»5.
Se così fosse stato Majorana avrebbe potuto decidere di
recidere la sua vita perché convinto di morire di lì a poco e
spaventato dalle prevedibili sofferenze cui sarebbe andato
incontro.
Un’altra causa ‘classica’ di volontaria fine di un’esistenza è
adombrata in Recami laddove rammenta come la scomparsa di
Majorana sia da Amaldi ritenuta connessa a «ragioni persona-
li, collegate ad esempio con la difficoltà di incontrare una com-
pagna adatta alla sua vita»6. Tesi in qualche modo confermata
dalla ripresa della testimonianza televisiva, di molti anni po-
steriore alla scomparsa di Majorana, di Gilda Senatore vedova
Cennamo. A lei il giorno prima di svanire Ettore avrebbe affi-
dato degli appunti dicendole: «Tenga queste carte, poi ne par-
leremo». Ormai in procinto di troncare i legami con il mondo
– o almeno: con il suo mondo – Majorana, commenta Recami,

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decise di affidare le proprie carte non alle strade burocratiche, alle
Istituzioni, ma a chi rappresentava semplicemente la vita: quella sua
bella, giovane studentessa, per la quale forse nutriva dei sentimenti7.

A porsi su questo terreno però ci si dovrebbe anche inter-


rogare sul perché nei racconti sulla vita di questo giovane uo-
mo che scompare a trentuno anni non si trovi mai cenno a un
ruolo minimamente significativo di donne che non siano le
più strette parenti. Tanto che Amaldi sente il bisogno – excu-
satio non petita – di sottolineare, a conclusione di vari aneddo-
ti sulla vita di Ettore studente, che essi mostrano «la normalità
dei suoi rapporti con altri giovani di ambo i sessi»8. E ci si tro-
verebbe, in quella società esaltante la virilità maschile e guer-
riera, di fronte a una causa di disagio e d’angoscia di sé ben più
pesante dell’incapacità di trovare un cuore gemello.
In polemica con Sciascia Segrè adombra – sul finire del
1975 – un’altra possibile, pesante, causa di rinuncia all’e-
sistenza da parte di Majorana: la vita sarebbe divenuta per
lui insostenibile in quanto si sarebbe essiccata «la sua facoltà
crea­tiva, un fenomeno comune fra matematici e fisici teorici
per cui la vena si esaurisce presto»9. Fatto dirompente per «lo
spirito critico di Majorana» per cui era «più che probabile che
non si sarebbe accontentato di cose di minor importanza del-
le precedenti»10.
È un’ipotesi assai forte che tuttavia non persuade i biografi
che infatti ne tacciono. Un silenzio che non sarebbe conclusivo:
eroderebbe dalla base non tanto e solo il «mito» di Majorana,
ma il senso stesso della ricerca su di lui che trova la sua giusti-
ficazione in via precipua nella fama di scienziato del tutto fuo-
ri dal comune di cui lo scomparso continua a godere nel tem-
po11. Al di là di questo, tuttavia, la tesi di Segrè lascia dubbiosi
per diversi motivi. Intanto, essendo lui stesso ed Amaldi – co-

85
me si è abbondantemente visto nel corso di queste pagine – le
due fonti di gran lunga maggiori di testimonianze su Majora-
na, perché avanzare quest’ipotesi sulla sua scomparsa solo ol-
tre trent’anni dopo che essa si era data? Si potrebbe supporre
una sorta di pietas nei confronti dell’amico e la custodia della
sua figura di grande studioso cui l’«assalto» di Sciascia induce
a rinunciare. La risposta all’attacco di Sciascia però non spiega
come mai in questo contesto Segrè non metta in dubbio l’as-
serto di Carrelli secondo il quale Majorana gli aveva confidato,
negli ultimi mesi prima della scomparsa, che stava lavorando
a qualcosa di molto importante. Avrebbe addirittura potuto, il
«basilisco», usare la notizia a vantaggio della propria tesi. Ve-
dete: cercava di fare qualcosa di grosso, ma in realtà non ci riu­
sciva. Conclusiva a favore dell’ipotesi di Segrè non è nemme-
no la mancanza di tracce di tale lavoro: proprio lui e Amaldi ci
hanno consegnato l’immagine di un Majorana del tutto alieno
dal lasciare orme delle proprie intuizioni. Infine – ammetten-
do che Segrè colga nel segno – ancora una volta si è in presenza
di un’ipotesi che non offre alcuna indicazione utile a intendere
il perché della scelta di quel determinato momento per scom-
parire, dacché Majorana era da anni che non produceva o pro-
duceva assai poco.
Non aiuta a sciogliere il quesito su cui stiamo affaticando-
ci nemmeno l’apparente rovesciamento del canone da parte di
Sciascia, che fa della scomparsa il risultato di un’angoscia non
puramente «esistenziale», senza tuttavia offrire alcun elemen-
to che aiuti a identificare il perché della scelta (o dell’imposi-
zione) del momento.
Bisogna dunque rinunciare all’interrogativo, a chiedersi
come mai Majorana decise di scomparire proprio allora, né
prima né dopo?

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Le lettere a Carrelli e alla famiglia, in cui – con ogni eviden-
za – vuol fare intendere d’essere deciso a suicidarsi, sono, già lo
sappiamo, del 25 marzo 1938. Tredici giorni prima le truppe na-
ziste avevano invaso l’Austria, accolte dall’entusiasmo dei più.
Una volta ancora Ettore doveva constatare che i convinci-
menti da lui maturati in Germania si rivelavano clamorosa-
mente errati. Nella lettera a Giovanni Gentile jr. del 7 giugno
1933, in cui parla della «sciocca ideologia della razza» cui la
Germania deve ricorrere in quanto «non trova nella cultura e
nella storia elementi sufficienti per fondare il sentimento uni-
tario dei popoli di lingua tedesca», aveva annotato, subito do-
po questo giudizio, che essa «a quanto pare non ha suscitato
in Austria un’eco adeguata»12. Asserto che sembra correggere
e interpretare in via definitiva quanto solo pochi giorni prima,
il 2 giugno, aveva scritto alla madre: «è difficile giudicare se la
maggioranza del popolo austriaco è realmente decisa a man-
tenere la propria indipendenza»13.
Lo spirito di guerra s’andava rafforzando in Europa e nel
mondo e con esso l’intolleranza che colpiva direttamente, an-
cora una volta, il mondo della scienza.
Il gruppo Fermi – ormai sparso in varie sedi universitarie,
ma sempre unito e in contatto – è direttamente e in modo im-
mediato coinvolto, almeno sul terreno emotivo, nella bufera
che travolge l’Austria, pochi giorni prima della scomparsa di
Majorana.
Subito dopo l’Anschluss – racconta Segrè – Fermi ebbe la visita dram-
matica di Schrödinger che, allora professore a Graz, era fuggito a piedi
con un sacco da montagna in spalla come unico bagaglio. Una mat-
tina arrivò improvvisamente all’Istituto di Roma e chiese a Fermi di
accompagnarlo in Vaticano, dove voleva temporaneamente rifugiarsi,
e di fornirgli un minimo di denaro per poter mangiare14.

87
Austriaco di nascita, Erwin Schrödinger, premio Nobel per
la fisica nel 1933 assieme a Paul Adrien Maurice Dirac, era an-
dato a lavorare in Germania e fu tra i «pochi non ebrei» che
«seguirono i loro colleghi in esilio»15, trasferendosi subito do-
po la presa del potere da parte di Hitler in Gran Bretagna, ma
accettando poi, nel 1936, un posto a Graz. «Imprudentemen-
te», annota Beyerchen16, ma – vorrei dire – ben comprensi-
bilmente, e dicendolo mi tornano alla mente le parole di una
lettera di un altro grande austriaco, Sigmund Freud, appena
scampato alla morsa nazista:
il senso di trionfo della liberazione si mescola troppo con il cordoglio,
perché abbiamo pur sempre amato la prigione da cui ci hanno lascia-
to fuggire17.

L’ Anschluss comportò l’applicazione della legislazione an-


tisemita tedesca all’Austria e, sebbene «le leggi di Norimber-
ga furono estese all’Austria solo il 20 maggio del 1938», ta-
le sanzione non intervenne che «a legalizzare due mesi di in-
terventi contro gli ebrei, la fase dell’antisemitismo cosiddetto
‘selvaggio’»18.
A una mente acuta e attenta come quella di Majorana que-
sti fatti dovevano rendere del tutto evidenti senso e futuro
sbocco di quanto, nel frattempo, stava dandosi in Italia. Non
solo il dibattito pubblico – e in sostanza a senso unico – sulla
«questione ebraica» avviato con la pubblicazione del libro di
Paolo Orano nell’aprile 1937, ma soprattutto l’inizio del cen-
simento degli ebrei nella pubblica amministrazione e nell’u-
niversità in particolare. È del 19 gennaio 1938 – cinque giorni
dopo che Ettore ha tenuto la lezione inaugurale del suo corso
napoletano – la richiesta del ministero ai rettori di censire gli
«studenti di nazionalità straniera»; nemmeno un mese dopo,

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il 14 febbraio, viene avanzato il primo invito a rilevare gli ebrei
fra l’intera studentesca e il corpo docente19.
Una volta di più si è, ovviamente, nel campo delle ipotesi.
Non più fondate, si potrebbe obiettare, perché inerenti il terre-
no del civile e del politico piuttosto che quello dell’esistenziale.
E tuttavia – va sottolineato – più coerenti con le testimonianze
e i documenti direttamente provenienti da Majorana nonché
con le modalità della scomparsa.
Al nuovo amico napoletano, Carrelli, Ettore scrive prean-
nunciando la volontà di suicidarsi. La lettera del 25 marzo non
lascia adito ad altra interpretazione, rafforzata peraltro dalla
lettera alla famiglia lasciata nella camera d’albergo dove allog-
giava a Napoli. Il giorno seguente da Palermo il telegramma
di smentita e la nuova lettera a Carrelli in cui, annunciando il
ritorno nella città della sua università, si giustifica afferman-
do: «il mare mi ha rifiutato»20. Infine la misteriosa scomparsa.
L’ipotesi che trovò più credito fra gli amici – scrive Amaldi – fu che
egli si fosse buttato in mare: ma tutti gli esperti delle acque del Golfo
di Napoli sostengono che il mare, prima o poi, ne avrebbe restituito
il cadavere.

Nonostante tutto per l’antico amico Ettore doveva essersi


soppresso. La sua scomparsa, dice, aveva lasciato in tutti
un senso di profondo e ammirato stupore per la sua figura di uomo e
di pensatore che era passata tra noi così rapidamente, come un perso-
naggio di Pirandello carico di problemi che portava con sé, tutto solo:
un uomo che aveva saputo trovare in modo mirabile una risposta ad
alcuni quesiti della natura, ma che aveva cercato invano una giustifi-
cazione alla vita, alla sua vita21.

Come conciliare questo convincimento con l’evidenza op-


posta del non ritrovamento del cadavere?

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Amaldi si trincera dietro Fermi, secondo il quale
con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di
far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe di certo riuscito22.

Con ciò pensando di rimuovere quella evidenza contraria


nel mentre che, come si è visto, fonda il topos del parallelo con
personaggi pirandelliani su cui insisteranno poi a iosa e Scia-
scia e Recami23.
La sua base sta in un’altra evidenza, banale: l’essere Majo-
rana siciliano e, secondo Amaldi, amante di Pirandello, autore
che, a detta dell’amico biografo, prediligeva in modo partico-
lare assieme a Shakespeare24.
Una volta di più i documenti, se attentamente letti, dicono
qualcosa di un po’ diverso.
A Pirandello – l’interesse per il quale può avere un senso su
cui già ci si è soffermati – Majorana accenna in due lettere del
maggio 1930 a Giovanni Gentile jr. allora in Germania. Nella
prima si legge: «uno di questi giorni vedrò il Come tu mi vuoi
di Pirandello, di cui mi hai parlato con tanto favore». E nella se-
conda: «ho veduto Come tu mi vuoi che mi è molto piaciuto»25.
Ettore dunque appare un estimatore di Pirandello, ma non
un suo accanito lettore se è dall’amico, e da un amico allora all’e-
stero, che riceve la sollecitazione ad andarne a vedere una opera.
Anche l’osservazione di Fermi sulla capacità di Majorana di
organizzare la sua scomparsa senza lasciare tracce è tutt’altro che
una conferma della tesi del suicidio. S’attaglierebbe infatti assai
bene pure all’ipotesi di chi, familiare o meno, ritenne che sareb-
be stato più facile trovare il corpo di un morto che di un vivo26.
Come che sia, i fatti inducono tutti a pensare che Majorana,
così schivo e riluttante alle luci della ribalta, voglia fare della
sua scomparsa un caso, e un caso clamoroso. Perché?

90
Abbiamo cercato di mostrare come il momento non fosse
indifferente. Il mondo, sempre più segnato da intolleranze e
persecuzioni, s’avvia verso il baratro di una guerra che si an-
nuncia la più distruttiva di quelle conosciute, anche (forse, so-
prattutto) per il ruolo che vi avranno scienza e tecnica27, pu-
re prima e indipendentemente dalla costruzione dell’arma ato-
mica. Sarebbero bastati a sconvolgere chi vi avesse riflettuto
con un po’ d’attenzione quei calcoli sulle sole armi tradizio-
nali che Majorana, come attestato da Amaldi, andava facen-
do nel suo «romitaggio» successivo al viaggio in Germania. A
questo punto comunque si pone l’interrogativo più inquietan-
te: Majorana immaginava Hiroshima?
La risposta ‘scientifica’ – enfatizzata dal canone – è no. La
soluzione del problema della fissione che avrebbe aperto la
strada alla concreta possibilità di costruire la bomba atomica è
successiva alla scomparsa di Majorana. Ma se in ogni vicenda
storica la cronologia è essenziale è pur vero che essa va ‘letta’,
non posta come un moloch.
La questione infatti non è se a Majorana fossero noti tut-
ti gli elementi scientifici e tecnici per arrivare a costruire un
ordigno atomico. L’interrogativo semmai è se Majorana sape-
va che vi si poteva arrivare in tempi brevi e quali effetti esso
avrebbe prodotto. Ora, non c’è dubbio che Ettore, come tutti
i fisici che si applicavano a quel nuovo campo di studi, sapeva
cosa potevano comportare le ricerche, teoriche e sperimenta-
li, in cui erano immersi. Non a caso, del resto, proprio di tali
potenzialità si facevano forti per ottenere i mezzi necessari al
loro lavoro. Le testimonianze sono numerose e disparate. Ec-
cone alcune, senza pretesa alcuna di esaustività.
Il 21 settembre 1929 – poco meno di nove anni prima del-
la scomparsa di Majorana – Orso Mario Corbino, parlando al

91
congresso della Società Italiana per il Progresso della Scien-
za, poteva sottolineare la «incalcolabile portata» della «tra-
sformazione della materia in energia e viceversa, in ragio-
ne di 25 milioni di kilowattora per ogni grammo di materia
trasformata»28. Qualche anno dopo, nel 1932, Leó Szilárd, do-
po una fantascientifica conversazione con l’amico Otto Mendl
su un ipotetico destino extraterrestre dell’umanità, poteva de-
cidere di dedicarsi alla fisica nucleare «perché solo la libera-
zione dell’energia atomica poteva darci i mezzi con i quali la-
sciare non solo la terra, ma il sistema solare»29. Né erano i soli
fisici accademici a cogliere le possibili implicazioni della ri-
cerca se è vero che, dopo una conferenza tenuta da Segrè ver-
so la metà del 1935 ai «maggiorenti scientifici della Philips» di
Eindhoven, la Philips stessa «aveva deciso di creare una nuova
divisione di ricerca nucleare»30.
È di certo a tutto ciò – oltre a quelle mediche subito intra-
viste da Fermi e dai suoi allievi31 – che Majorana pensa quan-
do nella lezione inaugurale del suo corso a Napoli accenna al-
le «numerose e importanti applicazioni pratiche» della fisica
atomica32.
Quanto all’eventuale curvatura militare di tali applicazio-
ni, la sua possibilità era stata adombrata fin dal 1903 da Pierre
Curie che così aveva chiuso l’allocuzione di prammatica in oc-
casione del conferimento del premio Nobel:
si può pensare ancora che in mani criminali il radio possa divenire
molto pericoloso e qui ci si può chiedere se l’umanità ha vantaggio nel
conoscere i segreti della natura, se è matura per profittarne o se que-
sta conoscenza non le sarà nociva. L’esempio delle scoperte di Nobel è
caratteristico, gli esplosivi potenti hanno permesso agli uomini di fa-
re lavori mirabili. Essi sono anche un mezzo terribile di distruzione
nelle mani di grandi criminali che portano i popoli verso la guerra33.

92
Certo, esistevano ancora molti problemi teorici e tecnici
da risolvere prima di potere ‘usare’, in un senso o in un al-
tro, l’energia atomica. Ma si può in modo assennato afferma-
re che Majorana, dotato – scrive Amaldi – di «una naturale
tendenza a precorrere i tempi, che in qualche caso ha quasi del
profetico»34, non «sapesse», non potesse ragionevolmente ipo-
tizzare quanto poi si sarebbe dato?
Del resto, le cose erano già andate avanti in maniera note-
vole. Il 1932 aveva visto una serie di successi per cui Segrè non
esita a definirlo «l’anno mirabile»35.
C’era poi stato il «caso» di Ida Tacke Noddack. Lasciamo la
parola a Segrè, storico della fisica.
Il fenomeno della scissione, racconta,
era stato suggerito fin dal 1935 da Ida Noddack in una nota in cui cri-
ticava alcune delle esperienze fatte a Roma (…). Questo lavoro era co-
nosciuto da noi, da Hahn, dai Joliot, e presumibilmente da Rutherford
tra gli altri, però non era stato debitamente apprezzato, né la Noddack
si era curata di fare le esperienze, con cui avrebbe potuto suffragare
la sua ipotesi36.

Appunto a questa debolezza sperimentale Amaldi attribui­


sce la sottovalutazione delle osservazioni di Ida Noddack da
parte del «gruppo di Roma»37, che una testimonianza raccol-
ta da Miriam Mafai attribuirebbe pure a un pronunciato ma-
schilismo di Fermi38. Come che sia, per Segrè,
la ragione della nostra cecità, del resto condivisa da Hahn e Meitner, i Jo-
liot e quanti si occupavano allora dell’argomento non è del tutto chiara39.

Seguendo Sciascia40, si è chiesta Miriam Mafai nella sua


biografia su Bruno Pontecorvo: e Majorana? Fu anch’esso cie-
co oppure, per quanto non presente agli esperimenti, dota-
to, come era, «di capacità di analisi assolutamente al di fuori

93
del normale» aveva intuito qualcosa, «sentì lo sgomento per il
meccanismo che a via Panisperna era stato messo in moto?»41.
Nessuno potrà mai rispondere con certezza. Non esistono
prove conclusive né in un senso né nell’altro. Nemmeno quella
– che potrebbe apparire decisiva – dovuta alla stessa Noddack,
ormai vicina alla fine del suo tempo, frutto di una sollecitazio-
ne successiva e chiaramente favorevole al saggio di Sciascia e
che rimanda, non senza malizia, a Segrè adombrando suoi vo-
luti silenzi42. Indizi però ce ne sono, e molti, e tutti nella stessa
direzione: della possibile consapevolezza da parte di Majorana
dell’indirizzo intrapreso dalla ricerca e dei suoi esiti prevedibili.
In modo sensato, ma dimentico di tutto quanto scrive sul
carattere di Ettore, Recami sostiene:
se davvero Majorana avesse temuto la liberazione dell’energia nuclea-
re, avrebbe pure capito di poter essere più utile alla sua causa da vivo
che da morto43.

Avrebbe presupposto questo che Majorana avesse una tem-


pra di lottatore che non aveva, che non gli fosse propria quel-
la «convinta insignificanza del ‘fare’» attribuitagli dal cugino. E
che alle disillusioni, al tormento prodotti in lui dal mondo in cui
aveva creduto, vedesse uno sbocco in altri universi. Ma così non
era. Come avremo occasione di vedere nelle prossime pagine.

1
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvii.
2
Lettera a Giovanni Gentile jr. 2.3.38, in Recami, Il caso Majorana, p. 203.
3
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvii.
4
Cfr. la voce a lui dedicata in Dragoni – Bergia – Gottardi, Dizionario bio-
grafico degli scienziati e dei tecnici, p. 266 e la bibliografia ivi citata.
5
Recami, Il caso Majorana, p. 102.

94
6
Ibidem.
7
Ibidem, pp. 73-74.
8
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. x.
9
Opinione ampiamente diffusa fra gli scienziati e alla quale si deve indub-
biamente il giudizio di Majorana su Bohr che – nato come era nel 1885 – do-
veva apparirgli un «vecchio». Scrive dunque Ettore alla madre da Lipsia il
18 febbraio 1933: «il 1o marzo mi recherò a Copenhagen da Bohr, il maggior
ispiratore della fisica moderna, ora un po’ invecchiato e sensibilmente rim-
bambito» (ibidem, p. 151). Su questa frase Sciascia ha poi ricamato a vantag-
gio delle proprie tesi (La scomparsa di Majorana, p. 240), senza intenderne
il senso proprio.
10
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 172. La citazione è da un articolo ap-
parso originariamente su «Il giornale nuovo» del 17 dicembre 1975 che l’au-
tore poi ha riprodotto nella sua autobiografia (pp. 171-173 nota 16). Da qui
citiamo per comodità.
11
Al proposito vedasi Recami, Il caso Majorana, pp. 23-24.
12
Ibidem, p. 178.
13
Ibidem, p. 176.
14
Segrè, Enrico Fermi, p. 98. Dell’arrivo di Schrödinger – scrivono Cordella,
De Gregorio e Sebastiani – Fermi «rimase profondamente turbato» (Enrico
Fermi. Gli anni italiani, p. 268).
15
Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler, p. 216.
16
Ibidem, p. 50.
17
Lettera a Max Ettingon, Londra 6.6.38, in Sigmund Freud, Lettere 1873-
1939, Torino 1960 (dello stesso anno l’edizione tedesca), p. 410.
18
Enzo Collotti, Antisemitismo e legislazione antiebraica in Austria, in Ca-
mera dei deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Roma
1989, p. 306.
19
Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, perse-
cuzione, Torino 2000, p. 139.
20
Lettera a Carrelli da Palermo 26.3.38, in Recami, Il caso Majorana, p. 205.
21
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlix. Corsivo mio.
22
Ibidem.
23
Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 261-262; Recami, Il caso Majora-
na, pp. 95-96.
24
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xi.
25
Lettere a Giovanni Gentile jr. 15.5.30 e 19.5.30, in Recami, Il caso Majora-
na, pp. 138 e 139. Una curiosità: nella prima lettera a Giovanni Gentile jr. per-
venutaci – del 22 dicembre 1929 – Ettore accenna a Dostoevskij, ma nessuno
dei biografi pare essersene accorto (ibidem, p. 137).
26
Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 218; Recami, Il caso Majorana, p. 18.

95
27
Al proposito cfr., ad esempio, Rhodes, L’ invenzione della bomba atomica,
pp. 95-99.
28
Riportato in Segrè, Dai raggi X ai quark, p. 173.
29
Spencer R. Weast – Gertrud Weiss Szilárd, Leo Szilard: His Version of the
Facts, Cambridge (Mass.) 1978, p. 16.
30
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 130.
31
Cfr. Cordella – De Gregorio – Sebastiani, Enrico Fermi. Gli anni italiani,
p. 262.
32
Majorana, Appunti, p. 197.
33
Citato in Segrè, Dai raggi X ai quark, p. 42.
34
Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvi. Corsivo mio.
35
Segrè, Dai raggi X ai quark, p. 171.
36
Ibidem, pp. 204-205.
37
Amaldi, Neutron Work in Rome, pp. 25-26.
38
«Fermi rifiutò di prendere sul serio le critiche della Noddack anche per-
ché si trattava di una donna, e Fermi da questo punto di vista era piuttosto
conservatore» (Mafai, Il grande freddo, p. 73). Ma, se così fosse stato, perché
avrebbe dovuto prendere per buone esperienze in cui erano coinvolte donne
come Lise Meitner o Irène Joliot-Curie per non dire della celeberrima madre
di Irène, Marie Skłodowska Curie?
39
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 121. Le stesse parole Segrè aveva usato
nella biografia di Fermi (Enrico Fermi, p. 78).
40
La scomparsa di Majorana, p. 265.
41
Mafai, Il grande freddo, p. 73.
42
«Ida Noddack mi scrive: “subito dopo la pubblicazione nel tardo autunno
del 1934 inviai una copia dell’articolo Sull’elemento 93 al professor Fermi, e
sono convinta che Majorana l’abbia letto. Esattamente deve saperlo il profes-
sor Emilio Segrè, con cui ne parlammo anche nel 1938”» (Ritter Santini, Uno
strappo nel cielo di carta, p. 98).
43
Recami, Il caso Majorana, p. 73.

96
8

Sciascia, Majorana e la bomba

La parte più scandalosa, e irritante, del romanzesco «giallo filoso-


fico» dedicato da Sciascia a Majorana è il rovesciamento operato
dallo scrittore siciliano della «storia dell’atomica, della bomba ato-
mica». Chiunque la conosca sia pure in modo sommario, scrive
è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si com-
portarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per con-
dizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono
schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di li-
bertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero.
(…) Precipuamente perché gli schiavi ne ebbero preoccupazione,
paura, angoscia; mentre i liberi senza alcuna remora, e persino con
punte di allegria la proposero, vi lavorarono, la misero a punto e,
senza porre condizioni o chiedere impegni (…) la consegnarono ai
politici e ai militari. E che gli schiavi l’avrebbero consegnata a Hitler,
a un dittatore di fredda e atroce follia, mentre i liberi la consegnarono
a Truman, uomo di «senso comune» che rappresentava il «senso
comune» della democrazia americana, non fa differenza dal momento
che Hitler avrebbe deciso esattamente come Truman decise1.

Nella sua «anarchica» foga polemica – assai diversa dal pes-


simismo di un Dürrenmatt2 – Sciascia, pur mosso da sacro
fuoco morale, pare scadere in fanfaluche «ucroniche» che ram-
mentano, ad esempio, le amenità di Sergio Romano sul preve-
dibile addolcimento che nel tempo il regime hitleriano avreb-
be subito ove, invece di essere spazzato via dalla sconfitta, fos-

97
se risultato vincitore della guerra3, dimenticando che l’intero
universo politico mondiale sarebbe in tal caso completamen-
te mutato con conseguenze del tutto imprevedibili. Non è per
nulla scontato che gli scienziati nazisti abbiano rifiutato di co-
struire la bomba, magari attraverso l’inganno della voluta in-
trapresa di una strada errata; non è vero che le scelte di molti
fra coloro che parteciparono al celebre «progetto Manhattan»
– a cominciare da chi guidò scientificamente l’impresa, Robert
Oppenheimer – non siano state sofferte; non è esatto che, pur
nell’orribile delitto che rappresentò l’inutile bombardamento
di Hiroshima e Nagasaki, le decisioni del presidente statuni-
tense e del Führer possano essere ritenute fungibili.
Qui, tuttavia, poco importa il giudizio storico di Sciascia.
Quanto è interessante è chiedersi se questa pagina possa attri-
buirsi a un «revisionismo» dell’autore, ammiccante con certa
cultura postsessantottina, o invece nasca da qualche solleci-
tazione interna alla vicenda su cui sta lavorando e riflettendo.
A chi legga, anche senza particolare attenzione, il «giallo
filosofico» non può sfuggire che il rovesciamento del giudi-
zio storico corrente è funzionale, in una con la difesa di He-
seinberg – «vero» amico di Majorana perché come lui «viveva
il problema della fisica (…) dentro un vasto e drammatico con-
testo di pensiero» – all’accentuazione del supposto conflitto
Ettore-Fermi. Donde la sdegnata reazione di Segrè:
chi poi vuole servirsi di Majorana per interpretare la storia con «goffa
barbarie», come ebbe a dire Carducci, creando santi e diavoli e falsan-
do intenti e fatti non ha di certo cara la di lui memoria4.

Conflitto, quello fra Majorana e il «papa», immaginario e


immaginato, stando alle fonti. Un solo cenno infatti a un si-
mile contrasto si trova in una testimonianza, successiva tutta-

98
via alla comparsa del libro di Sciascia. Con il corrispondente
di «Oggi» che ‘lancia’ la ‘versione argentina’ della scomparsa di
Ettore e poi in un colloquio con Tullio Regge5 la fonte del gior-
nalista riferitrice a sua volta di cose sentite nel 1950, Carlos Ri-
vera Cruchaga, direttore dell’Istituto di Fisica della Pontificia
Università Cattolica del Cile, sostiene che a quanto gli era dato
di sapere Majorana se ne era «andato dall’Italia perché non gli
piaceva Fermi» e che tale «avversione derivava in parte dal fat-
to che Fermi era un ‘tipo difficile’, e in parte dal fatto che ave-
va avuto un ruolo importante nella costruzione della bomba
atomica»6. A conclusione del quadro delineato Rivera ipotizza
poi che, come l’amico dalla cui madre aveva avuto notizie di
Majorana, Ettore fosse in seguito stato vittima della repressio-
ne peronista essendo entrambi oppositori del regime.
Alla inquietante testimonianza del fisico argentino non si
possono fare spallucce ché – scrive Tullio Regge a Recami do-
po avergli parlato nel 1978 – «Rivera non ha certo l’aspetto di
un mitomane, è un rispettato professore alla Cattolica, educato
a Gottinga, di vasta cultura e non mi pare il tipo da raccontare
frottole»7. Il punto però non è l’attendibilità di Rivera, ma delle
fonti delle sue informazioni. Ed è evidente – al di là del proble-
ma insoluto se davvero la sparizione di Majorana abbia avuto
come esito l’Argentina, meta non solo di una vasta emigrazione
‘popolare’ italiana ma anche, all’indomani delle leggi razziste
del 1938, dell’esilio di alcune importanti figure del mondo cul-
turale e scientifico di origine ebraica – che nelle dichiarazioni
da lui raccolte a proposito del motivo per cui Ettore aveva ab-
bandonato l’Italia c’è un cortocircuito temporale e la impropria
congiunzione di due possibili diverse vicende. Majorana infatti
non avrebbe potuto lasciare l’Italia per il ruolo che Fermi aveva
avuto nella costruzione del primo ordigno atomico per il sem-

99
plice fatto che tale costruzione, come si sa, avvenne diversi anni
dopo la scomparsa di Majorana. E dunque la testimonianza di-
rebbe: Ettore se ne andò dall’Italia per la sua avversione a Fer-
mi, dovuta al carattere di quest’ultimo, antipatia che si sarebbe
trasformata in ostilità dopo la «nascita» della bomba atomica.
A parte la mancanza di qualsiasi altro riscontro sul disagio
di Majorana nei confronti di Fermi, c’è da chiedersi come mai
quell’antipatia diventi tanto cogente da indurre Ettore a lascia-
re l’Italia proprio nel momento in cui, avendo Majorana vinto la
cattedra a Napoli, i suoi rapporti con Fermi potevano in concre-
to rarefarsi, fino, al limite, a sparire. Se la storia di cui Rivera si
fa tramite è vera, c’è da supporre che il racconto introduca una
variante soggettiva del narratore, di chi a Rivera aveva parlato:
Majorana potrebbe avere confidato al suo nuovo amico argen-
tino che la causa del suo volontario abbandono dell’Italia era –
per usare la frase riferita dalla sorella Maria – che la fisica era su
una strada sbagliata, e i fisici romani non se ne avvedevano o
non volevano avvedersene, tanto che poi avranno un ruolo im-
portante nella costruzione dell’ordigno che avvia l’era nucleare.
Ancora una volta emerge la questione se Ettore sapeva o meno.
E se mai avesse saputo quale atteggiamento avrebbe preso.
A questo punto nella mente di chi conosca la storia dei «ra-
gazzi di via Panisperna» s’affaccia insistente l’agire di un altro
protagonista del gruppo.
Se per Majorana abbiamo solo indizi che possono far pensare
a un turbamento grave di fronte alla prospettiva che le ricerche
sul nucleo potevano aprire, c’è stato un altro fra gli uomini di
Fermi che rifiutò seccamente di partecipare alla costruzione
della bomba atomica. Si tratta di Franco Rasetti, il «vicario»
del «papa», per cui in occasione del centesimo genetliaco si
è scritto: ha avuto due vite: «la prima da fisico la seconda da

100
naturalista» separate da «una decisione sofferta e traumatica»,
vale a dire la scelta di non partecipare – benché invitatovi – al
progetto Manhattan8. E a proposito del quale, non a caso, subito
dopo il ‘gran rifiuto’ emerge fra gli amici di via Panisperna la
tentazione di classificarlo ‘strano’9.
A Recami che gli aveva scritto per chiedergli una testimo-
nianza Rasetti rispondeva il 4 gennaio 1979:
purtroppo so pochissimo di Majorana, dato che egli viveva molto iso-
lato (…) e probabilmente io avevo meno relazioni con lui che chiun-
que altro; se parlava con qualcuno, era piuttosto con Amaldi e Segrè,
press’a poco suoi coetanei, e con Fermi con cui poteva discutere di fi-
sica teorica. Se anche avesse cercato di spiegarmi le sue teorie, certa-
mente non le avrei capite10.

D’altra parte, il rifiuto di Rasetti di prendere parte alla costru-


zione della bomba atomica è del 1943. Una volta ancora, dunque,
la cronologia si erge come un muro invalicabile. E ancora una vol-
ta però resta più di un interrogativo.
Rispondendo il 6 aprile 1946 a una lunga lettera di Enrico Per-
sico del 23 gennaio in cui questi descrive le asprezze quotidia-
ne degli anni di guerra, significativamente, proprio per il collega-
mento con il contenuto della missiva di Persico, Rasetti spiega in
modo aperto e ampio la posizione da lui assunta dinanzi alla pro-
posta di partecipare al progetto Manhattan, con argomenti che
richiamano a contrario la condanna di sé del Galileo brechtiano11:
io sono rimasto talmente disgustato dalle ultime applicazioni del-
la fisica (con cui, se Dio vuole, sono riuscito a non avere niente a che
fare) che penso seriamente a non occuparmi più che di geologia e di
biologia. Non solo trovo mostruoso l’uso che si è fatto e si sta facendo
delle applicazioni della fisica, ma per di più la situazione attuale ren-
de impossibile a questa scienza quel carattere libero e internazionale
che aveva una volta e la rende soltanto un mezzo di oppressione poli-

101
tica e militare. Pare quasi impossibile che persone che un tempo con-
sideravo dotate di un senso della dignità umana si prestino a essere lo
strumento di queste mostruose degenerazioni. Eppure è proprio così e
sembra che neppure se ne accorgano. Tra tutti gli spettacoli disgustosi
di questi tempi ce ne sono pochi che eguaglino quello dei fisici che la-
vorano nei laboratori sotto sorveglianza militare per preparare mezzi
di distruzione più violenti per la prossima guerra12.

Nelle sue già citate memorie è, sotto il profilo politico, an-


cora più duro, mentre assai più moderato è nella autobiogra-
fia da lui scritta per un importante dizionario degli scienziati
e dei tecnologi moderni13. Vi esprime infatti una posizione so-
migliante, sotto certi aspetti a quella di Sciascia, che tuttavia
con ogni evidenza non conosceva l’autobiografia di Rasetti, al-
trimenti se ne sarebbe servito per i suoi fini polemici:
nel gennaio del 1943 mi fu offerto un posto nel gruppo di scienziati
inglese che stavano tentando di sviluppare l’energia nucleare per scopi
militari, trasferito dall’Inghilterra a Montreal.
Dopo una riflessione approfondita declinai l’offerta: ci sono poche
decisioni mai prese nel corso della mia vita per cui ho avuto minori
motivi di rimpianto. Ero convinto che nulla di buono avrebbe potuto
scaturire da mezzi di distruzione nuovi e più mostruosi. Per quanto
perverse fossero le posizioni dell’Asse, era evidente che l’altro fronte
stava sprofondando nella condotta della guerra a un livello morale (o
immorale) simile come testimonia il massacro di 200.000 civili giap-
ponesi a Hiroshima e Nagasaki14.

Il testo dell’aprile del 1946 è però assai più conturbante. Vi


sembra infatti mettere in discussione al fondo non solo – secon-
do uno schema divenuto poi assai corrente – «l’uso» della scienza
(fisica) ma la sua stessa «sostanza», le sue stesse basi non essen-
do più realmente tale la ricerca scientifica se privata, come quel-
la fisica, della sua libertà. In tal caso – pare dirci Rasetti – non è

102
più, come deve essere, strumento per l’affermazione e lo svilup-
po della dignità umana. Lo stesso «avvertimento» proporrà, an-
ni dopo, Friedrich Dürrenmatt nel suo «physikerdrama»15.
Il quesito, che qui interessa, è: Rasetti arriva a questa po-
sizione solo nel momento in cui è posto di fronte alla neces-
sità di scegliere o vi perviene attraverso un più lungo proces-
so di maturazione, parallelo e intersecatesi con quello che gli
fa prendere le distanze dal regime e poi lo fa decidere, lui non
ebreo, di andarsene come i suoi colleghi israeliti o a ebrei lega-
ti per motivi familiari come Fermi? Non c’è evidenza alcuna
in direzione di questa seconda ipotesi se non che il mutamento
di posizione di Rasetti come dell’intero gruppo dei fisici stret-
ti attorno a Fermi è con chiarezza connesso al profilarsi dello
spettro della guerra. E ognuno di loro doveva essere ben con-
sapevole che, una volta scoppiato il conflitto, la fisica ne sareb-
be stata coinvolta, come poi avvenne16.
Un indizio non irrilevante è offerto da Amaldi. All’indo-
mani della scoperta della fissione nel 1939, Amaldi stesso e
Mario Ageno fanno alcune esperienze al proposito che por-
tano a risultati assai buoni: «ci accingevamo a pubblicarli, ma
Rasetti ci convinse a non farlo»17.
Se così era – e tutto lascia pensare che lo fosse – è possibile
che i «ragazzi di via Panisperna» non ne parlassero tra loro? E
se ne parlavano è possibile che Amaldi e Segrè, che continua-
vano ad avere rapporti con Majorana, non riportassero a lui
quei dubbi, che dovevano essere anche di Rasetti, «vicario» con
cui – come attesta Segrè – avevano particolare confidenza?18 E
quei dubbi, quei quesiti attenevano solo all’‘uso’ della scienza
o portavano anche a interrogarsi su aspetti più profondi dell’a-
gire scientifico? A queste domande fondamentali Rasetti arri-
va certamente nel 1943, di fronte a una scelta non più rinviabi-

103
le. Perché mai Majorana – che sulle fondamenta della scienza e
dell’agire scientifico andava riflettendo da anni – non avrebbe
potuto immaginare prima quel bivio di fronte al quale fu po-
sto Rasetti, e non sentirsi in grado di affrontarlo e quindi lan-
ciare un disperato ma silente allarme?
Fra le due posizioni c’è tuttavia – mi sembra – una differen-
za essenziale. Né Rasetti né Majorana sono tempre militanti à
la Szilárd o à la Einstein, per restare a figure già incontrate in
queste pagine, sebbene Rasetti non tema di dire né rinunci a
esprimere la sua posizione con gli amici e la mostri al mondo
con le ‘opere’, cambiando linea di ricerca e poi abbandonando,
in modo aperto, la fisica. Rasetti, che matura lentamente – co-
me si è visto – nuovi convincimenti politici emigra, come gli
altri, in un paese a democrazia consolidata – il Canada, allora
più di oggi legato al Regno Unito. Il messaggio, suo come degli
altri, è chiaro. C’è un’alternativa alla barbarie di chi si appre-
sta a scatenare la guerra; sono i paesi democratici, è la demo-
crazia. Che tuttavia non è un’universale panacea, non offre la
soluzione a tutti i problemi, specie etici. Lo mostra il compor-
tamento di Rasetti. Lo esprimerà in modo drammatico Robert
Oppenheimer in una conferenza tenuta al Massachusetts In-
stitute of Technology il 25 novembre 1947:
nonostante la previdenza e la lungimiranza dei nostri capi di stato del
periodo bellico, i fisici provarono un senso molto particolare di respon-
sabilità personale nel suggerire, nell’aiutare e, infine, in larga misura,
nel realizzare concretamente le armi atomiche. Né possiamo dimenti-
care che queste armi, quando furono effettivamente usate, resero dram-
matico, e in maniera così crudele, il male e l’inumanità della guerra mo-
derna. In un senso un poco rozzo, che nessuna volgarità, nessun umori-
smo, nessuna esagerazione possono cancellare, il fisico ha conosciuto il
peccato; e questa è un’esperienza che egli non può dimenticare19.

104
Majorana per parte sua non sembra intravedere alternative
al fallimento delle sue illusioni sui regimi di destra e sul regi-
me in cui è immerso. Non si trova infatti in tutte le testimo-
nianze cenno alcuno a una sua pur vaga idea di migrare, salvo
ovviamente che non si accrediti la «pista argentina» sulla qua-
le Recami, nell’accingersi a esplorarla visitando criticamente le
testimonianze, si sente in dovere di mettere le mani avanti, di
sospendere il giudizio: «giudicherà il lettore»20. Né, nella crisi
della Germania come principale polo scientifico mondiale sus-
seguente la presa del potere da parte dei nazisti, Ettore pare, con
gli altri del gruppo, volgersi a quel mondo di lingua inglese che
è sì, innanzitutto, punto di riferimento scientifico, e di risorse
e di occasioni di lavoro, ma pure rinvio a un sistema politico,
metafora di un altro mondo. D’altra parte Majorana aveva avu-
to occasione di sperimentare sia pur brevemente la vita di una
democrazia, e non sembra ne avesse colto elementi positivi.
Il lettore attento di queste pagine avrà avvertito che al capito-
lo 4 si accenna spesso, e fin dal titolo, alla permanenza di Etto-
re in Danimarca, oltre che in Germania, e che anche su questo
paese nelle sue lettere fa osservazioni politiche, di cui tuttavia si
tace. La scelta è stata in qualche modo obbligata dal ‘canone’, da
quanto la storiografia ci ha poi tramandato dell’atteggiamen-
to politico di Majorana emergente dalle sue lettere; ma è anche
stata frutto di un’opzione di chi scrive, che ha trovato più con-
grue quelle osservazioni ad altri interrogativi su Majorana, che
non semplicemente a rafforzare la sua indubbia adesione, nel
1933, ai regimi dittatoriali europei di destra.
Majorana arriva a Copenhagen il 4 marzo 1933. Vi si re-
ca per lavorare con Bohr e vi si ferma un mese o poco più. Di
quel periodo sono rimaste cinque lettere, quattro alla madre e
una a Gentile jr.

105
Mentre – come mostrano le missive del 7 marzo alla ma-
dre e del 12 dello stesso mese a Gentile – la sua attenzione re-
sta rivolta alla Germania e alla sua situazione politica, in Da-
nimarca Ettore trova conferma delle sue preoccupazioni sulla
crisi economica che sta scuotendo il mondo21 e, sebbene non
lo dica apertis verbis, della convinzione di una grande inci-
sività dei regimi totalitari nell’affrontare i problemi da essa
prodotti. Più grande, pare dirci, di quella delle democrazie.
Ne è riprova la lettera alla madre del 29 marzo.
[In Danimarca] – scrive – la disoccupazione è notevole. Gran numero
di senza lavoro sono autorizzati all’accattonaggio che assume qui pro-
porzioni mai viste altrove (…).
In Germania la disoccupazione continua a diminuire sebbene non
ne sia certo iniziato il riassorbimento da parte delle grandi industrie.

Le battaglie politiche democratiche non lo affascinano, an-


zi stimolano il suo sarcasmo.
Anche in Danimarca – racconta alla madre il 7 marzo – sono prossi-
me le elezioni politiche. Enormi cortei comunisti [?] sfilano per il cen-
tro della città e cantano ostentando cartelli diretti in prevalenza con-
tro Mussolini e Hitler. Provocano più ilarità che sgomento.

D’altronde l’esperienza che andava facendo non poteva non


determinare in lui scetticismo verso la vita democratica.
Ritornato in Germania, il 15 maggio scriverà alla madre
una lettera (la stessa in cui si trovano alcune delle osservazio-
ni già viste sulla questione ebraica) in cui, impassibile, raccon-
ta: «Lipsia, che era in maggioranza socialdemocratica, ha ac-
cettato la rivoluzione senza sforzo».
Dietro i suoi giudizi sta pure un’idea aristocratica dell’ordi-
ne sociale che traspare senza ombra di dubbio alcuno nel ripe-
tuto quadro negativo della Danimarca descritto nelle lettere.

106
Il cinque marzo scrive alla madre: «venendo dalla Ger-
mania si ha l’impressione di uscire dall’Europa per entrare
in una colonia di Esquimesi. Il senso delle distinzioni socia-
li è interamente assente». E il diciotto: «la popolazione di Co-
penhagen presenta stupefacenti caratteri di uniformità, non
soltanto fisici e morali, ma anche economici». E dieci giorni
dopo, il ventinove, nell’ultima missiva dalla Danimarca al-
la madre: «[i danesi] sono gente straordinariamente pacifica,
quasi senza passioni che vive con la stessa serietà di un greg-
ge al pascolo» per cui «non c’è molto da scoprire nell’anima
danese»22.
Poteva una tale realtà affascinare Majorana? Poteva trova-
re qui un’alternativa agli entusiasmi provocatigli dall’orgoglio
nazionale stimolato dal fascismo e dalle misure volte a scon-
figgere la crisi prese dal nazismo?
Dopo quella breve esperienza Majorana non ha più diretti
contatti con mondi retti da regimi democratici, come invece
gli altri membri del gruppo romano che viaggiano in Francia,
in Gran Bretagna, negli Stati Uniti. Né, forse, ha stimoli a una
particolare attenzione a quei paesi derivanti da esperienze di
lavoro. Lui, teorico puro, non sembra avere interesse ai mezzi e
all’organizzazione che cominciavano a palesarsi specie nell’u-
niverso scientifico d’oltreoceano.
Amaldi – lo si è visto – sostiene che fra gli altri interes-
si che Ettore coltiva nel suo romitaggio successivo il ritorno
dall’estero ci sono la politica e l’economia politica. Allo sta-
to attuale delle conoscenze non è dato di sapere che proble-
mi lo affascinano, quali autori legga e mediti. Dalle notazioni
che emergono dalla corrispondenza da Copenhagen Majorana
pare credere in una visione aristocratica, elitaria della società,
contraria alla tendenziale eguaglianza, pure negli stili di vita,

107
stimolata dalla democrazia, in particolare negli USA. Resta un
suo convincimento? Rimane un suo criterio di giudizio?
Una volta di più interrogativi insoluti. E tuttavia indizi di
una diversità e, in questo caso, incomunicabilità, fra Ettore e
gli amici del gruppo di Roma. Se anche loro, come credo, co-
minciavano ad avere tormenti, erano però in grado di intra-
vedere una prospettiva, pratica ma non solo. A Ettore restava
solo la disperazione. Per renderla eloquente, capace di indurre
dubbi e interrogativi, gli era necessario creare in qualche mo-
do un ‘caso’. Così fece, ma – se la nostra ricostruzione non è
infondata e non lo è – non riuscì a raggiungere i fini che pare
si fosse ripromesso.

1
Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 238-239. Sciascia fa qui sue in so-
stanza le tesi espresse, sulla scorta delle ricostruzioni autoassolutorie di Hei-
senberg (cfr. Cassidy, Un’estrema solitudine, pp. 470-471), nel libro di Jungk,
Gli apprendisti stregoni (pp. 109-111). Heisenberg tra l’altro si sarebbe recato
nel 1941 a Copenhagen a trovare Bohr per confidargli, meglio, fargli trape-
lare, il «‘segreto negativo’ che i tedeschi non avevano intenzione di costruire
una bomba atomica» nell’intento di far sì che pure il fronte avverso facesse
altrettanto. Bohr però intese i discorsi di Heisenberg in modo opposto e riba-
dì la sua interpretazione in una lettera – mai peraltro inviata al destinatario,
Heisenberg appunto – all’apparire nel 1957 dell’edizione danese del lavoro di
Jungk (la versione dei fatti di Heisenberg si trova in Jungk, Gli apprendisti
stregoni, pp. 112-113 nota 1; quella ribadita da Bohr nel 1957 in «il Manifesto»
del 16 febbraio 2002, p. 12, tratta dalla versione inglese messa in rete dall’Ar-
chivio Niels Bohr di Copenhagen nel sito www.nba.nbi.dk/).
2
A Möbius, il personaggio chiave di Die Physiker (1962), l’autore fa dire
rivolto ai colleghi spie che vogliono attrarlo nei rispettivi paesi (con ogni
evidenza le due superpotenze dell’epoca): «È strano. Ognuno di voi mi loda
una teoria [politica] differente, ma la pratica che mi proponete è identica»
(Friedrich Dürrenmatt, I fisici, a cura di Aloisio Rendi, Torino 2000, p. 69).
3
Cfr. Sergio Romano, Prefazione a Se la storia fosse andata diversamente, a
cura di John Collings Squire, Milano 1999 (trad. condotta sulla edizione ri-

108
vista del 1972 dell’originale del 1931), p. xiii. «Ucronia», da cui «ucronico»,
è voce costruita, all’inizio del secolo XX in Francia, sul modello di «utopia»,
a significare – traggo la definizione dallo Zingarelli – «ricostruzione logica
della storia di un periodo o di un evento sulla base di dati ipotetici o fittizi».
4
Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 173. La citazione è dall’articolo di cui
supra al cap. 7 nota 10.
5
Vedi Recami, Il caso Majorana, p. 113.
6
Ibidem, pp. 110-111.
7
Ibidem, p. 113.
8
Fabio Pagan, Una vita spezzata in due dalla Bomba, «Il piccolo», 10 ago-
sto 2001.
9
Dopo la guerra Rasetti ‘scompare’, vale a dire taglia per un certo periodo
i ponti con i suoi antichi compagni. Che peraltro sanno benissimo il perché
del suo silenzio e dove, se necessario, trovarlo. Infatti, quando Amaldi, il 5
luglio 1945, si rivolge a Fermi per pregarlo d’intervenire presso Rasetti per-
ché questi dia le dimissioni formali dalla sua cattedra romana – per far posto
a Gilberto Bernardini – il «papa» gli risponde, in modo relativamente rapido,
il 4 agosto (due giorni prima di Hiroshima), di avere «immediatamente scrit-
to a Franco» (Amaldi, Da via Pasnisperna, p. 157). C’è allora da chiedersi se
sia lui a ‘scomparire’ o se la sua ‘scomparsa’ non sia frutto anche di un più o
meno conscio ‘cordone sanitario’ steso intorno a lui e alle sue fastidiose veri-
tà. Ce ne sono controprove evidentissime. Nello scrivere a Fermi a proposito
delle mancate dimissioni di Rasetti, Amaldi lamenta il fatto che Rasetti stes-
so non avrebbe risposto a precedenti missive sue e di Wick aggiungendo: «la
cosa mi dispiace più per lui [Rasetti] che per me dato che penso che si debba
interpretare come dovuto ad un particolare processo d’isolamento psichico del
nostro amico» (ibidem, p. 153; corsivo mio). Le ragioni del rifiuto di Raset-
ti non sono prese minimamente in considerazione, sono ridotte a ‘malattia’
dell’anima. Fermi rispondendo se la cava con l’ironia, venata, a ben vedere,
di un certo sprezzo: «sono parecchi mesi che non mi ha scritto, ma credo che
stia sempre pubblicando voluminose memorie sopra i trilobiti e simili fossi-
li» (ibidem, p. 157). Successivamente, il 28 agosto 1945, scrivendo ancora ad
Amaldi, il «papa» di via Panisperna dice d’aver ricevuto risposta da Raset-
ti che «a quanto mi scrive pare che per il momento non abbia intenzione di
ritornare a lavorare in fisica ma voglia dedicarsi sempre più profondamen-
te alla geologia e alla biologia» (ibidem, p. 159). Dove un qualche veleno è in
quel «per il momento» che evoca una decisione che sarebbe stata presa sotto
la pressione di spinte emotive piuttosto che una scelta meditata.
10
Lettera di F. Rasetti 4.1.79, in Recami, Il caso Majorana, p. 223.
11
«Misi la mia esperienza a disposizione dei potenti, perché la usassero, o
non la usassero, o ne abusassero a seconda dei loro fini. Ho tradito la mia

109
professione» (Bertold Brecht, Vita di Galileo, quadro XIII, trad. di Emilio Ca-
stellani condotta sulla versione americana del 1945-1946, in Id., Teatro, a cu-
ra di Emilio Castellani – Renata Mertens, Torino 1951-1954, vol. II).
12
In Amaldi, Da via Panisperna, pp. 172-173.
13
«Ma poiché le ricerche sui neutroni, in questo periodo, stavano passando
in gran parte ai laboratori segreti diretti alle applicazioni belliche, Rasetti
giudicò più produttivo dedicarsi a un nuovo campo, quello dei raggi cosmi-
ci» (Franco Rasetti, Rasetti Franco, in Scienziati e tecnologi contemporanei,
Milano 1974 [edizione originale inglese 1968], I, p. 403).
14
Rasetti, Biographical Notes.
15
«MÖbius: E questi fisici, come sono? Liberi?
Newton: Caro il mio Möbius, questi fisici si sono dichiarati pronti a ri-
solvere problemi scientifici che hanno un’importanza decisiva per la di-
fesa nazionale (…).
MÖbius: Dunque non sono liberi» (Dürrenmatt, I fisici, p. 68).
16
Non vedo contrasto tra tale ipotesi e lo scambio di lettere fra Rasetti, ormai
in Canada, e Amaldi a proposito della successione a Fermi nella cattedra di
fisica teorica a Roma. Le lettere di Rasetti – la prima delle quali è curiosamen-
te datata «Québec, 7 nov. 39-XVIII» – pubblicate dai curatori del volume in
Amaldi, Da via Panisperna, pp. 122-123 e 127 mostrano il «vicario» interessa-
to alle vicende dell’Istituto romano e persino al fatto se procedeva il progetto
di costruzione del ciclotrone previsto nell’ambito delle iniziative per l’E42. Va
però osservato che: 1. l’Istituto di Fisica di Roma era vissuto da tutto il gruppo
cresciuto attorno a Fermi come una loro creatura, da loro fatta crescere e pro-
sperare; 2. doppiamente vale quindi al suo proposito il senso di nostalgia che,
abbiamo visto, persino Freud, drammaticamente scampato all’occupazione
nazista dell’Austria, sente e rivendica; 3. le lettere sono anteriori all’entrata in
guerra dell’Italia, di quel periodo di non belligeranza che aveva fatto sperare
a troppi in una resipiscenza di Mussolini rispetto alle sue velleità belliche e a
un riavvicinamento dell’Italia alle grandi democrazie europee.
17
Ibidem, p. 68.
18
Cfr. cap. 1 nota 22.
19
Robert Oppenheimer, Energia atomica problema d’oggi, Torino 1961, p. 78.
Al proposito, quanto ai fisici italiani, cfr. Bruno Rossi, Momenti di vita di uno
scienziato, Bologna 1987, pp. 80-81.
20
Recami, Il caso Majorana, p. 109.
21
Cfr., ad esempio, Lettera alla madre 5.3.1933, ibidem, p. 156.
22
Recami, Il caso Majorana, pp. 164, 157-158, 169, 156, 162, 163 (corsivo
mio).

110
9

Il filo d’Arianna

Ogni tessuto è frutto di una trama i cui fili, a loro volta, so-
no risultato di un intreccio di fibre. Non diversamente l’ordito
d’ogni esistenza umana. E dunque, sebbene un filo tirato possa
dissolvere il drappo, a dipanarla, a intenderla non è per lo più
sufficiente un solo bandolo. Rarissime volte compare Arian-
na: il labirinto della vita, delle storie e della storia, resta così
dinanzi a noi con tutta la sua angosciosa difficoltà. Se ne po-
trà forse uscire con faticose, sfibranti prove successive. È que-
sto il peso del lavoro storico, che parte all’assalto di un inter-
rogativo sapendo che quasi di certo la risposta sarà parziale e
provvisoria.
L’immersione di Majorana nel suo contesto non è il filo
d’Arianna per risolvere il suo enigma. Di certo, però, non si
può procedere sulla via della soluzione dell’enigma senza en-
trare, e a fondo, in quel contesto. Farlo ha permesso una serie
almeno di abbozzi di risposte, la posizione d’interrogativi di-
menticati, la completa restituzione di Ettore al «gruppo di Ro-
ma», di cui è parte non solo scientifica, ma pure umana nel
senso più pieno. Ed è proprio per questo che la sua scompar-
sa ha continuato a essere per i suoi membri un tormento, mai
esorcizzato completamente dalle semplificazioni canonistiche
di cui pure sono stati gli autori.
Con i «ragazzi di via Panisperna», si può arguire con certez-
za dai documenti, Majorana non condivide solo il fuoco, la pas-

111
sione della ricerca. Condivide i tormenti del mondo. Che non
significa, è ovvio, giungere alle medesime conclusioni, adottare
gli stessi comportamenti. Qui giocano le peculiarità di ognuno.
Frutto di stimoli «esterni»: la famiglia, le scuole, gli incontri, gli
amori. E di misteriose reazioni ‘interne’ per cui ogni singola
personalità elabora in modo diverso non solo le differenti espe-
rienze, ma pure quelle condivise con chi ti sta vicino.
È a questo punto che Ettore sembra separarsi in modo vi-
sibile dalla storia del «gruppo Fermi», i cui membri paiono
identificarsi in una autorappresentazione comune e condivisa.
Sia nel senso di riconoscersi tutti partecipi di essa sia in quel-
lo di sentirsi parte di una vicenda generale, collettiva propria
dell’intero corpo scientifico.
Forse nella «solitudine» di Majorana gioca anche quel suo
essere teorico puro, che mai ha provato la fatica e il piacere
dell’esperimento, mentre il gruppo, chi più chi meno, cerca di
unire i due piani. Come forse nella disperazione che lo induce
a sparire, a dissolversi nel nulla sta anche l’esaurirsi della vena
di intuizione e di fantasia teorica che lo aveva portato a essere
uno scienziato così straordinario. Di un’eccezionalità da tutti
riconosciuta. Certo vi è un rapporto faticoso con la vita e una
difficoltà di comunicazione con gli altri.
Tutto questo può spiegare quel comportamento ‘strano’
che, per i biografi, era il suo connotato tipico. Ma non ne de-
cifra le cause, i perché, la scelta dei momenti. Le non molte
tracce certe che lui stesso ci ha lasciate orientano – con indi-
zi concomitanti sebbene non con prove conclusive – a pensa-
re che le sue reazioni, intrise – parrebbe – di un pessimismo
radicale verso la parola e il comunicare, siano del tutto inter-
ne e concomitanti alle preoccupazioni, agli interrogativi, alle
ansie dell’intero gruppo dei «ragazzi di via Panisperna». Con

112
una differenza essenziale: sulla valutazione dei nodi etici che
il progredire della ricerca proponeva a ognuno e a tutti. Per gli
altri – Rasetti eccettuato – la loro soluzione non poteva che es-
sere pragmatica (l’uso ‘buono’ della scienza). Per Ettore, inve-
ce, la risposta doveva essere assoluta. La convinzione dell’inu-
tilità del fare e quindi di comunicare non gli lascerà altra al-
ternativa dal gridare in modo silente la sua angoscia. Sperava
d’essere inteso.
Il suo però era un urlo inaudito e inattuale. Perché propo-
neva in filigrana una critica radicale della scienza, sebbene
continuasse a sperare nel suo essere cammino verso la veri-
tà1, e anche per questo il suo silenzioso messaggio pare rivol-
to a chi sa, agli uomini di scienza: siano loro – pare dirci – e
non altri a interrogarsi, a trovare quel bandolo che a lui sfug-
ge. Perché si produsse in tempi terribili, in cui non sembrava ci
fosse più posto per i dubbi: scegliere era inevitabile. A lui però
– aristocratico e scettico – non era dato di farlo. Se l’avevano
disilluso i ‘condottieri’ cui aveva creduto, non vedeva negli ‘al-
tri’ una alternativa.
Cambierà idea? Se le testimonianze della ‘pista argentina’
trovassero conferma certa, può darsi di sì. Se così fosse ci sa-
rebbe da pensare che ancora una volta occorra rivolgersi al
contesto per trovarne la spiegazione: la guerra con le sue car-
neficine, l’abisso dello sterminio degli ebrei d’Europa, il terri-
ficante lampo di Hiroshima e Nagasaki.

1
Su tale ambiguità sono illuminanti le parole di Longo, Homo technologicus,
p. 12.

113
Epilogo

L’incomprensione di Majorana da parte di coloro cui si rivolge


è ben precedente la sua scomparsa e la successiva (ir)riflessio-
ne sui suoi casi. Risale, a ben vedere, a quel suo eloquente iso-
larsi dopo l’esperienza internazionale. Lui si piegava sugli in-
terrogativi ultimi di quel che andavano facendo; gli altri erano
del tutto immersi, assorbiti dai quesiti grandi che ogni esperi-
mento, ogni riflessione teorica poneva loro sull’oggetto speci-
fico del lavoro che andavano facendo. Fors’anche per questo le
comuni preoccupazioni sulle tempeste che si stavano adden-
sando sul mondo portarono a conclusioni così lontane.
Ettore intravedeva scenari che lo inducevano a visioni sem-
pre più cupe, alimentate pure – mi sembra – da un sopravve-
niente pessimismo totale sulle forme della politica. Gli altri era-
no, con ogni probabilità, aiutati a vedere una via di scampo,
una prospettiva proprio da quel loro porre al centro della loro
vita l’oggetto del loro lavoro1. Se la ricerca è indagine che porta
a scoprire via via il vero, allora laddove la ricerca può dipanarsi
liberamente deve esserci un mondo aperto al vero, a una con-
vivenza tra gli uomini basata sulla ricerca della verità, che non
può avere come fondamento che la libertà. Non a caso è quando
quest’equazione pare spezzarsi o si spezza, con la subordinazio-
ne della scienza al potere politico e militare, che Rasetti reagi-
sce e rifiuta quella subordinazione che snatura la scienza stessa.
A posteriori si può azzardare, timidamente, di dire che o-
gnuno aveva la sua parte di ragione.

115
Fermi, Segrè e gli altri avevano colto – sotto certi profili: era-
no stati obbligati a cogliere – il pericolo che la barbarie hitleria-
na comportava. In buona fede – loro, come un pacifista della
statura di Einstein – pensarono, furono certi di dare un contri-
buto a scongiurarlo. Non potendo che sottovalutare – sotto va-
ri aspetti – la portata sconvolgente sul piano civile dei risultati,
cui aspiravano anche per sete di conoscenza scientifica.
Secondo non pochi indizi concomitanti, Majorana può
avere avuto la visione dell’Apocalisse a venire. Che ha ango-
sciato, angoscia le menti di chi ha vissuto dopo quel 6 agosto
1945, tremendo non solo per gli effetti sconvolgenti che ebbe
lo scoppio della prima atomica, ma perché esso si dette quan-
do Hitler ormai non viveva più, la Germania si era arresa, il
Giappone era allo stremo e in procinto di chiedere l’armisti-
zio. Angoscia, anche di molti di quelli che furono partecipi
della costruzione degli ordigni prima atomici e poi nucleari.
Forse proprio per questo bisognava cucire su Ettore un canone
imperniato sulla sua ‘stranezza’, sinonimo gentile per dire: fol-
lia. Senza rammarico, peraltro: «chi ha una solida formazione
scientifica finisce per sentirsi a posto, anche fra gli oggetti che
mutano e perdono di continuo la propria identità»2.
La storia di Ettore però pare sotto molti profili divenire
ogni giorno più ‘normale’ nel sempre più straordinario e con-
turbante mondo della scienza. Per questo si ripresenta pun-
tualmente, inquietante, a chi rifletta sul presente.

1
In questo senso possono avere contribuito alla scelta di migrare le difficoltà
presentatesi in Italia per trovare finanziamenti adeguati per le loro ricerche
(cfr. supra, cap. 5 nota 69).
2
Claudio Magris, Danubio, Milano 19999, p. 21.

116
Indice

Prologo 7
Note 11
1. La storia 13
Note 21
2. Il canone 23
Note 26
3. Il metodo storico disatteso 29
Note 30
4. In Germania e Danimarca 31
Note 46
5. Involuzione depressiva? 53
Note 73
6. Testimonianze eccentriche 79
Note 81
7. Un interrogativo rimosso 83
Note 94
8. Sciascia, Majorana e la bomba 97
Note 108
9. Il filo d’Arianna 111
Note 113
Epilogo 115
Note 116

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