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EPISTEME

Physis e Sophia nel III millennio

An International Journal
of Science, History and Philosophy

N. 1 - 21 giugno 2000
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EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio

An International Journal of Science, History and Philosophy

N. 1 - 21 giugno 2000

Presentazione del volume, 6


1 - Rocco Vittorio Macrì: Relativismo e pensiero debole: la perdita del
fondamento, 9
2 - Bruno d’Ausser Berrau: Janua Inferni - Breve indagine su qualche
aspetto relativo agli inizi della modernità, 75
3 - Nieves H. De Madariaga Mathews: Francis Bacon, Slave-Driver or
Servant of Nature?, 91
4 - Emilio Spedicato: Numerics and Geography of Gilgamesh Travels,
106
5 - Roberto Germano: Moderne storie d’inquisizione e d’alchimia - Lo
sconcertante caso della “fusione fredda” (con una Prefazione di Giuliano
Preparata), 158
6 - Umberto Bartocci: Della natura “ambigua” della luce - Sutra di storia
del pensiero scientifico, 183
7 - Paul Marmet & Christine Couture: Relativistic Deflection of Light
Near the Sun Using Radio Signals and Visible Light, 195
8 - Piergiorgio Odifreddi: John Von Neumann, l’apprendista stregone,
224
Reprints:
Leonhard Euler: De Causa Gravitatis (presentazione di Alessandro
Moretti), 237
Emanuela Kretzulesco: E’ Leon Battista Alberti il misterioso autore
della Hypnerotomachia Poliphili?, 248
Recensioni:
Fabio Cardone e Roberto Mignani, L’alba del “nucleare” - Enrico
Fermi e i secchi della Sora Cesarina, 263
Presentazione del prossimo numero, 265
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INFORMAZIONI EDITORIALI

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I vortici di Cartesio, elaborazione di Rocco Vittorio Macrì


6

PRESENTAZIONE DEL VOLUME

Questo primo numero si apre con il filosofo Rocco Vittorio Macrì, che
si occupa dell’attuale crisi, epistemologica oltre che morale, della nostra
civiltà. La sua indagine, centrata su analoghe riflessioni del grande
pensatore francese Jacques Maritain, lo porta a stabilire connessioni con
il relativismo e le sue origini “scientifiche”.

Bruno d’Ausser Berrau inizia, con “Janua Inferni”, una discussione


sulla nascita della modernità, che pure altri lavori, sia in questo numero
della rivista, che nei successivi, faranno oggetto di attenzione. Nel
saggio si affronta la questione dell’influenza del pensiero di Averroè,
secondo l’interpretazione che ne filtrò in Occidente attraverso la
comunità ebraica. L’autore evidenzia come, “all’origine della rottura
della regolarità dottrinale”, ci sia stato “l’insorgere d’una
incomprensione”.

Nieves H. De Madariaga Mathews, figlia del celebre storico e uomo


politico spagnolo, si fa portavoce di un’appassionata difesa di Francis
Bacon, da alcuni considerato uno dei maggiori responsabili della
“rottura” di cui si diceva poc’anzi. Di questo personaggio, di indubbia
grande rilevanza storica, torneremo ad occuparci nel prossimo numero
di Episteme.

Emilio Spedicato ci riconduce, grazie a una documentatissima e


“avventurosa” ricostruzione, ai tempi della “mitica” epopea di
Gilgamesh, proponendone un’interpretazione del tutto originale che non
mancherà di suscitare vivaci discussioni, e capace di notevoli
conseguenze in ordine alla comprensione della storia del nostro non poi
così remoto passato. In effetti, Episteme dedicherà generalmente molto
spazio anche ai tentativi di stabilire qualche “verità” nel campo della
cosiddetta proto-storia.

Con Roberto Germano passiamo a una questione di grande attualità, e


che ancora maggiore rischia di averne in futuro. Il caso “fusione fredda”
è uno dei più sconcertanti degli ultimi anni, ed è indubitabile conferma
di quanto la comunità scientifica internazionale, sospinta da enormi
7

interessi economici e “naturali” inerzie dogmatiche, si sia allontanata dai


canoni di correttezza etica e metodologica, come sottolineato anche
nella Prefazione di Giuliano Preparata a un recente libro del medesimo
autore sullo stesso argomento. Episteme ha l’onore di presentarla ai suoi
lettori in prima assoluta, in attesa dell’imminente uscita del volume.

Umberto Bartocci propone un’estrema sintesi di storia del pensiero


scientifico, esaminando uno degli argomenti fondamentali della
“filosofia naturale”, ovvero il problema della natura della luce. Si mostra
come questo sia collegato alle due opzioni fondamentali (vere e proprie
antinomie della ragione pura) sulle possibili concezioni dello spazio
fisico: vuoto, o pieno.

Paul Marmet (con Christine Couture) avanza una critica serrata di una
delle prove sperimentali più reclamizzate in favore delle teorie
relativistiche, la deflessione dei raggi luminosi in un campo
gravitazionale, a ulteriore conferma di quanto sia rischioso per l’uomo
contemporaneo fondare le sue riflessioni filosofiche su concezioni
scientifiche ancora assai incerte.

Piergiorgio Odifreddi compone un’affascinante originale biografia del


grande matematico e fisico John Von Neumann, uno dei personaggi di
maggiore spicco nella storia della scienza del XX secolo, del quale non
vengono ignorati gli aspetti “oscuri”, che l’apologetica scientifica oggi
in voga tende viceversa a tenere occultati.

*****

Nella rubrica fissa Reprints, Episteme intende proporre regolarmente ai


suoi lettori la riscoperta di opere significative ma pressoché introvabili.
Si comincia in questo numero con un ignorato articolo di uno dei più
importanti matematici del Settecento, Leonhard Euler, rimasto
nell’ombra forse proprio perché così lontano dalla linea vincente decisa
dallo “spirito dei tempi”.
Completa la rubrica Emanuela Kretzulesco, che si occupa in uno
studio magistrale di alcuni aspetti poco noti di un periodo fondamentale
per la comprensione delle più autentiche radici ideologiche della scienza
moderna.
8

*****

Episteme presenta infine, nella sua seconda rubrica fissa Recensioni, un


lavoro appena edito dei fisici Fabio Cardone e Roberto Mignani, i
quali analizzano un curioso episodio “minore” alle origini del nucleare,
un altro dei momenti cruciali della nostra recente storia, non soltanto
della scienza, ma anche di tutta la società nel suo complesso, per le sue
ovvie inevitabili ricadute.

(UB)

Ringraziamenti - Episteme è profondamente grata a Roberto Lanfaloni


e Francesca Salvati per la loro decisiva e disinteressata collaborazione
nella fase di preparazione della copia stampata di questo fascicolo.

Jacques Maritain
9

RELATIVISMO E PENSIERO DEBOLE:


LA PERDITA DEL FONDAMENTO

(Rocco Vittorio Macrì)

«La Verità con la V maiuscola che mai vuol dire? Quid est Veritas, dobbiamo
riconoscere che quel procuratore vedeva giusto e che era anzi all’avanguardia.
Bisogna mettere solo minuscole ovunque. “Tutto è relativo, ecco il solo principio
assoluto”, diceva già il nostro Padre Auguste Comte. Poiché l’abbiamo fatta finita
con il positivismo classico, è vero, ma il fatto è che noi viviamo nel mondo di
Auguste Comte: la Scienza (lato della ragione) completata dal mito (lato del
sentimento).»

Jacques Maritain, Il contadino della Garonna

Ci troviamo al culmine della diffusione di un fenomeno che appare


ormai irrefrenabile: ogni campo del sapere sembra intaccato e affetto da
un’epidemia che lascia poche speranze per il nuovo millennio. Si tratta
del relativismo, struttura portante del cosiddetto “pensiero debole”, che
la “modernità” ha inflitto alla nostra civiltà diffondendolo a dimensione
planetaria sotto morfologie solo apparentemente cangianti, come
indifferentismo, nichilismo, mobilismo, pirronismo, soggettivismo,
individualismo, ecc., in campo ontologico, gnoseologico, culturale,
etico, terminologico, ...
E l’indebolimento del logos, nella nostra epoca, sta portando i suoi
frutti: si assiste - e spettatori passivi e inermi ci sentiamo tutti - ad un
consequenziale e inesorabile indebolimento del piano valoriale e
semantico, fonte di una metafisica distorta che - per dirla con le parole
di Giovanni Paolo II - consuma il mondo dei valori come «semplici
prodotti dell’emotività e la nozione di essere è accantonata per fare
spazio alla pura e semplice fattualità»1.
Effettivamente, siamo figli del pensiero debole, sfondo e respiro di un
mondo frantumato, senza più unità semantica. «La filosofia moderna -
scrive Giovanni Paolo II nella sua lettera enciclica Fides et ratio - ,
dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la
propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla
10

capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i


limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di
agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a
smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi,
hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino
quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunto. La legittima
pluralità di posizioni ha ceduto il posto a un indifferenziato pluralismo,
fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno
dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel
contesto contemporaneo»2.
Parole che riecheggiano - con infinite armoniche - il pensiero di quello
che potremmo definire “il difensore della verità e paladino dell’assoluto
del XX secolo”: Jacques Maritain, al quale il presente lavoro si ispira.
Egli, come Wojtyla, definisce «l’uomo come colui che cerca la verità»3.
Nonostante «il modernismo sfrenato d’oggi»4, «l’annuncio nietzschiano
che “Dio è morto”»5, Maritain ha la forza di gridare: «La ragione è fatta
per la verità, per conoscere l’essere»!6 «Non c’è niente al di sopra della
verità»!7 E tanto più si indebolisce la verità, la «nostalgia
dell’assoluto»8, tanto più si avanza nello spirito di terrestrità, in quella
«specie di inginocchiamento davanti al mondo che si manifesta in mille
modi»9.
Nelle pagine che seguono si tenterà di dare un volto e un percorso al
relativismo sottostante le espressioni di una modernità che, affetta da
una «cronolatria epistemologica», - per usare le parole di Maritain -
porta alla «logofobia», al prassismo e all’efficientismo contemporanei,
alla perdita del fondamento. Ed è lo stesso spirito maritainiano - nelle
parole del Papa - che, se ci mette in guardia da un lato dalle insidie di
un’epoca nella quale «ci si accontenta di verità parziali e provvisorie»10,
forzatamente «costretti a costatare la frammentarietà di proposte che
elevano l’effimero al rango di valore»11, dall’altro ci esorta a «non
perdere la passione per la verità ultima e l’ansia per la ricerca, unite
all’audacia di scoprire nuovi percorsi. È la fede che provoca la ragione
a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è
bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente
della ragione»12.

1. La più antica reazione al relativismo


11

1.1 Il relativismo ha radici millenarie, che arrivano a toccare l’humus


speculativo della Sofistica del V secolo a.C., quella sorta di
“Illuminismo greco”, che aveva come sua insegna l’uso libero e
spregiudicato della ragione in tutti i campi. Il primo e più importante
Sofista, esponente di un relativismo conoscitivo e morale, fu Protagora,
famoso per il suo principio: «L’uomo è misura di tutte le cose» 13.
Commenta Platone, riferendosi ad esso, nel suo Teeteto: «Quali le
singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali
sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io»14. Tramite la
frantumazione della realtà in una miriade di interpretazioni soggettive, il
relativismo protagoreo minava alla base il concetto stesso di “verità” e
di “ricerca”. Il relativismo dei valori era poi il nucleo fondamentale di
tale dottrina. Infatti il riconoscimento della disparità dei valori che
presiedono alle diverse civiltà umane portava inesorabilmente a quello
che oggi viene chiamato relativismo culturale: «se qualcuno ordinasse a
tutti gli uomini di radunare in un sol luogo tutte le leggi che si credono
brutte e di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle, neppure una ne
resterebbe, ma tutti si ripartirebbero tutto»15. Tutto ciò conduceva ad
“un’equivalenza di principio” delle opinioni; con le parole di Protagora,
al «tutto è vero». Tuttavia egli, nel vuoto di verità “forti”, ammetteva un
“principio debole” come criterio di scelta e di legittimazione: quello
dell’utilità.
Se Protagora può essere visto come il precursore dell’“ontologia
debole”, un suo contemporaneo - Gorgia di Lentini - potrebbe essere
collocato come precursore del nichilismo filosofico più radicale. Le sue
tre tesi, infatti, portano ad un agnosticismo impenetrabile: «[1] - Nulla
c’è; [2] - Se anche qualcosa c’è, non è conoscibile dall’uomo; [3] - Se
anche è conoscibile, è incomunicabile agli altri». Con Gorgia troviamo
la prima, esasperata messa in discussione occidentale della metafisica.
Scollegati dalla “verità”, il pensiero e il linguaggio perdono ogni valore.
Se per Protagora abbiamo ancora un debole criterio di verità, il
giovevole all’uomo, l’utile, in Gorgia quel «tutto è vero» si rovescia in
«tutto è falso», uno scetticismo metafisico senza finestre.
Un secolo e mezzo dopo, in piena età ellenistica, Pirrone di Elide,
considerato il fondatore della scuola scettica, avrebbe fatto suo un simile
scetticismo. Secondo Pirrone, al di fuori delle credenze e convenzioni
umane, sempre mutevoli, risulta per principio impossibile alcuna
valutazione o giudizio che resista al relativismo gnoseologico. Dunque,
l’unico atteggiamento legittimo, come diranno più tardi altri esponenti
12

dello Scetticismo, rimane l’epoché, la sospensione cioè di ogni giudizio.


Ciò porta, secondo Pirrone, all’imperturbabile serenità della mente:
l’atarassia. Aggiungerà il suo allievo Timone di Fliunte che
atteggiamento veramente degno dello scettico è quello di non
pronunciarsi su niente (afasia). L’Accademia scettica di Arcesilao e la
nuova Accademia di Carneade seguiranno la stessa strada, cercando di
“umanizzarla” tramite la legittimazione all’uso del buon senso (eulogia)
e della verosimiglianza. Gli Scettici posteriori però, a partire da
Enesidemo, sosterranno un ritorno al pirronismo.
Possiamo riassumere i caratteri del primo relativismo universale della
storia occidentale con le parole di Maritain: «L’apparizione della
sofistica nel V secolo a.C., nel periodo di crisi filosofica e di scetticismo
seguito allo sforzo dei grandi “fisici” presocratici, e il predominio da
essa allora conseguito sull’educazione generale, segnavano l’avvento di
un razionalismo libero e ardito, ma che faceva della ragione un uso
soprattutto negativo e la cui prospettiva rimaneva ingenuamente
empiristica. Chi se ne meraviglierebbe? Quando la ragione non è
ricondotta alle proprie profondità dall’intuizione dell’essere o
dall’esperienza del mondo interiore, essa si trastulla nei sensi e tra i
fantasmi, senza nemmeno rendersi conto che ne è prigioniera»16.

1.2 La reazione al caos verbale e concettuale degli eristi, alla mancanza


di un punto d’appoggio fermo e incrollabile propagandata dai Sofisti, al
relativismo linguistico, conoscitivo e morale - “frammentatorio”
dell’ordine, del kósmos, in una molteplicità dissonante di opinioni -
accomuna gli sforzi di Socrate, Platone e Aristotele. La situazione a
quell’epoca doveva essere in qualche modo vicina al pensiero debole del
nostro tempo, al “vuoto ontologico” che Maritain si impegnò a
combattere con tutte le forze. «Nulla mantiene l’ordine delle cose se
non la verità. L’opera di spogliazione critica intrapresa dai Sofisti era
fatta in nome di un relativismo universale. Ma il relativismo, con il suo
apparato negativo e distruttore è, a dire il vero, assai prossimo a
convertirsi in servile sottomissione a regole in cui lo spirito non
crede»17.
«Da una concezione della vita dominata da un relativismo generale e
da una universale messa in dubbio di ciò che può riferire la condotta
umana a fini e valori superiori al vantaggio dell’individuo»18, Socrate,
per primo, prende le distanze e individua le contromisure. I Sofisti
avevano raggiunto l’apice di un modo di ragionare ingannevole,
13

capzioso, avente l’effetto di indurre in errore attraverso l’inevitabile


polisemia del linguaggio ordinario. «Molti di loro erano uomini di
intelligenza superiore, ma inebriati delle apparenze e delle
verosimiglianze nelle quali si spiega la ragione quando discute delle
nozioni comuni e non è ancora addestrata alle discipline della
concettualizzazione scientifica»19.
Se Protagora proclama che «L’uomo è misura di tutte le cose» e che
«tutto è vero», Socrate risponde che «se tutto è vero niente è vero»20, e
Maritain acutamente osserva che “l’ignoranza di Socrate”, quell’«io so
di non sapere» rinvia ad una verità, ad una scienza: «L’ignoranza
socratica è una finzione da cui non bisogna lasciarsi prendere»: «con il
suo attaccamento all’assolutezza della verità, Socrate difendeva la
tradizione in un modo ben più profondamente rivoluzionario di quello
con cui l’attaccavano i Sofisti. Emergeva così chiaramente la nozione di
una conoscenza autenticamente intellettuale stabilita a livello dei propri
lumi e delle esigenze proprie dell’intelletto - in una parola la nozione di
scienza. Per questo Socrate tiene tanto a renderci coscienti della nostra
ignoranza. Quest’ignoranza, almeno, io la conosco. Ma, se non avessi
l’idea di scienza, potrei forse avere quella della mia ignoranza?»21.
Da Socrate, che ha manifestato il bisogno di andare oltre il
pragmatismo protagoreo, parte lo sforzo intellettuale di Platone per
cogliere un sapere assoluto, capace di battere in breccia il relativismo
dilagante, responsabile del caos morale e civile. L’opposizione a tale
relativismo costituisce il cuore della sua dottrina delle idee, nucleo
fondante della filosofia platonica: «La dottrina delle idee nasce e
acquista il suo significato nella polemica contro il relativismo sofistico e
contro il mobilismo eracliteo»22. Sottolinea con maggior precisione
Giovanni Reale: «Platone era andato via via maturando e fissando la sua
teoria delle Idee in opposizione a due forme di relativismo: a) quello
sofistico-protagoreo, che riduceva ogni realtà e azione a qualcosa di
puramente soggettivo e faceva del soggetto medesimo la “misura” o
“criterio di verità” delle cose (si ricordi la proposizione protagorea
“l’uomo è misura di tutte le cose”); e b) quello di origine eraclitea, che,
proclamando il perenne flusso e la radicale mobilità di tutto, giungeva di
fatto e di diritto a disperdere ogni cosa in una molteplicità irriducibile di
stati, e quindi giungeva a renderla inafferrabile, inconoscibile e
inintelligibile»23.
Il relativismo sofistico e il mobilismo eracliteo si dovevano arrestare,
dunque, di fronte alle Idee dell’Iperuranio platonico «che sono in sé e
14

per sé, sono l’essere puro, si trovano sempre e costantemente nella


medesima condizione e non subiscono mai alcuna sorta di mutazione»24.
«La natura delle cose non è relativa al soggetto, non è manipolabile a
nostro capriccio. L’essenza o natura o Idea delle cose è stabile, è
assoluta. Se così non fosse, non avrebbe senso alcun nostro giudizio né
alcuna nostra valutazione, di alcun genere. Platone è qui soprattutto
preoccupato dei giudizi e delle valutazioni morali [...] La dottrina delle
Idee, pertanto, segna il superamento del soggettivismo: la “misura” delle
cose non è l’uomo, il soggetto conoscente, bensì la “natura”,
l’“essenza”, l’“Idea” o “Forma” delle cose stesse»25.
In particolare, come lo stesso Maritain sottolinea, l’antirelativismo
platonico scolpisce un concetto di “valore” la cui assolutezza, verticalità
e dignità assesteranno un percorso che sarà battuto fino in fondo dallo
stoicismo: «L’etica di Platone enuclea e sottolinea, mette in rilievo la
nozione di valore con una forza eccezionale, e la fa passare al primo
posto, particolarmente per quanto riguarda il modo con cui viene
misurata o determinata la moralità degli atti umani»26.
L’“ago magnetico” che Platone utilizzò e dal quale si fece guidare
doveva essere sensibile al “mondo perfetto della matematica”: «Nella
formulazione della dottrina delle Idee giocò un ruolo determinante
l’influsso delle scienze matematiche. Fu la riflessione matematica che
aiutò Platone, in misura considerevole, a scoprire la fondamentale
distinzione fra sensibile e intelligibile e la sua portata»27. Quello del suo
discepolo Aristotele sarebbe stato più sensibile alla logica (oltre alle
«invarianti intelligibili» - per usare le parole di Maritain - che sono a
fondamento della “filosofia della natura”28), a quei princìpi primi
irremovibili e supremi, come quello di non-contraddizione. Aristotele
ritiene che quest’ultimo non sia dimostrabile ma che possa venir
polemicamente difeso contro i suoi negatori - fra i quali include proprio i
Sofisti e gli Eraclitei - mostrando che, se questi ultimi dovessero
confutare la validità del suddetto principio, dovrebbero avvalersi a tal
scopo proprio dello stesso, riaffermandolo: «Il celebre “procedimento
elenchico” consiste, dunque, nella mostrazione della contraddittorietà in
cui cade chi nega il principio stesso. Infatti, chi nega il principio di non-
contraddizione si contraddice, perché proprio nel momento in cui lo
nega, ne fa uso. Dal punto di vista del “metodo” metafisico è questa,
probabilmente, la più cospicua scoperta aristotelica (peraltro largamente
preparata dagli Eleati e da Platone): le supreme verità irrinunciabili sono
quelle che, nel momento stesso in cui uno le nega, è costretto a farne
15

surrettizio uso, proprio per negarle, e, dunque, le riafferma negandole. È


questo l’“agguato” che tendono le verità metafisiche cui l’uomo non può
sfuggire: esse si riaffermano con prepotenza, nel momento stesso in cui
si cerca di calpestarle»29.
Per Aristotele, dunque, esiste “la verità”, nucleo distruttore per ogni
forma di relativismo. Il libro II della sua Metafisica comincia proprio
con «La filosofia è conoscenza della verità»... Come dire che il
relativismo è tenebra, non-conoscenza.

2. Il relativismo moderno

2.1 La rivoluzione copernicana segna una nuova era, un nuovo modo di


vedere le cose, una nuova immagine del mondo. Un nuovo capitolo del
relativismo, questa volta con i tratti di una presunta sapienza che
scavalca i limiti dell’umano, molto meno ingenuo del primo e quindi
molto meno vulnerabile, si innesta e prende forma rimodellandosi sulla
struttura concettuale della neo-nata scienza moderna. La sostituzione
della «millenaria concezione dell’universo elaborata da Aristotele, e
scientificamente precisata alcuni secoli più tardi da Tolomeo»30, avrebbe
insidiato la conquista di quell’“Assoluto” di Platone e Aristotele,
vanificando gli sforzi dei più grandi pensatori del mondo antico.
In un articolo del 1916 e apparso in lingua tedesca nel ’17, Freud
“scattava un’istantanea” di quell’immagine del mondo che si era creata
con la nascita della scienza moderna, sottolineando le “umiliazioni”
inferte da questa al narcisismo umano31:

«Vorrei mostrare come al narcisismo universale, all’amor proprio


dell’umanità, siano state fino ad ora inferte tre gravi umiliazioni da
parte dell’indagine scientifica. a) Dapprima, all’inizio delle sue
indagini, l’uomo riteneva che la sua sede, la terra, se ne stesse
immobile al centro dell’universo, mentre il sole, la luna e i pianeti si
muovevano attorno ad essa con traiettorie circolari. [...] La posizione
centrale della terra era comunque una garanzia per il ruolo dominante
che egli esercitava nell’universo, e gli appariva ben concordare con la
sua propensione a sentirsi il signore del mondo. La distruzione di
questa illusione narcisistica si collega per noi al nome e all’opera di
Niccolò Copernico nel sedicesimo secolo. [...] Quando tuttavia essa fu
universalmente riconosciuta, l’amor proprio umano subì la sua prima
16

umiliazione, quella cosmologica. b) L’uomo, nel corso della sua


evoluzione civile, si eresse a signore delle altre creature del mondo
animale. Non contento di tale predominio, cominciò a porre un abisso
fra il loro e il proprio essere. Disconobbe ad esse la ragione e si
attribuì un’anima immortale, appellandosi a un’alta origine divina che
gli consentiva di spezzare i suoi legami col mondo animale. [...]
Sappiamo che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e
predecessori hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa
presunzione dell’uomo. L’uomo nulla più è, e nulla di meglio,
dell’animale; proviene egli stesso dalla serie animale ed è imparentato
a qualche specie animale di più e a qualche altra di meno. Le sue
successive acquisizioni non consentono di cancellare le testimonianze di
una parità che è data tanto nella sua struttura corporea, quanto nella
sua disposizione psichica. E questa è la seconda umiliazione inferta al
narcisismo umano, quella biologica. c) La terza umiliazione, di natura
psicologica, colpisce probabilmente nel punto più sensibile. L’uomo,
anche se degradato al di fuori, si sente sovrano nella propria psiche.
[...] Tu ti comporti come un sovrano assoluto che si accontenta delle
informazioni del suo primo ministro senza scendere fra il popolo per
ascoltarne la voce. Rientra in te, nel tuo profondo, se prima impari a
conoscerti, capirai perché ti accade di doverti ammalare; e forse
riuscirai a evitare di ammalarti. Così la psicoanalisi voleva istruire l’Io.
Ma le due spiegazioni - che la vita pulsionale della sessualità non si può
domare completamente in noi, e che i processi psichici sono per sé
stessi inconsci e soltanto attraverso una percezione incompleta e
inattendibile divengono accessibili all’Io e gli si sottomettono -
equivalgono all’asserzione che l’Io non è padrone in casa propria. Esse
costituiscono insieme la terza umiliazione inferta all’amor proprio
umano, quella che chiamerei psicologica»32.

Non è difficile individuare - puntando lo sguardo da una certa


prospettiva - il percorso di queste “orme ancora fresche”, il filo
d’Arianna che le collega, lo schema mascherato, il disegno sottostante,
la filosofia “anti-tomista” che porta la firma del nuovo e implacabile
relativismo, l’indebolimento generato dalla perdita del rapporto
privilegiato con l’assoluto:

«Il copernicanesimo significò prima di tutto il rifiuto di ogni


organizzazione intrinseca dell’Universo. Il fatto che il centro del
17

mondo fosse spostato dalla Terra al Sole fu un aspetto minore della


rivoluzione. Ciò che contò è che non esistesse più un corpo
privilegiato. Nel tempo di poche generazioni, l’Universo non avrebbe
avuto più alcun centro e sarebbe diventata legge il “Principio
Cosmologico”, secondo cui ogni punto dell’Universo vale l’altro. I
corpi astrali furono affidati ad una “meccanica celeste” che sapesse
solo di masse e di distanze, e rifiutasse il compito di dar conto di
qualunque tipo di costellazione o di configurazione, e in genere di
qualunque situazione iniziale.
La conversione della biologia in teoria probabilistica meccanica fu
realizzata dalla teoria darwiniana e soprattutto dalle sue riletture
genetiche. Lo stesso L. Boltzmann (1844-1906) asserì che la “teoria
cinetica dei gas” gli era stata ispirata dal darwinismo. I viventi di
Darwin sono corpi senza “natura” e senza “tendenze”, vaganti nel
vuoto a misurare sugli “urti” la loro forza e il loro diritto all’esistenza.
Del darwinismo è stato detto (Freud) che esso ha spostato l’uomo dal
centro della natura vivente, compiendo una sorta di rivoluzione
copernicana»33.

In particolare, la nuova scienza, sembra operare un taglio netto con le


cause finali e formali aristoteliche34: lo «schema aristotelico della
spiegazione fisica (cioè la sua statica del luogo naturale e la sua
dinamica delle cause efficienti guidate dalle cause finali, in quanto nulla
avviene in natura senza uno scopo o una spiegazione) [viene] criticato e
modificato»35. La ricerca delle “cause finali” verrà rimpiazzata da
quella «delle cause materiali (corpuscoli, elementi chimici, cellule
protoplasmatiche), delle cause efficienti (forze elastiche, attrazione
gravitazionale, leggi della dinamica) e delle cause formali (funzioni
matematiche di forza, di energia ecc.)»36. La scienza moderna - e qui
con questo termine si intende la linea “morfo-epistemologica”
caratteriale (e contingente) adottata dalla nascita fino ai nostri giorni 37 -
è stata sempre caratterizzata da una weltanschauung materialista (o, se
vogliamo, anti-spiritualista), non solo nel metodo seguito fin da Galileo,
e cioè quello di confinare l’esistenza alle sole realtà oggettive (e
conseguentemente negare le entità spirituali in quanto non osservabili),
ma anche nella speranza di fondo: spiegare tutte le cose, uomo
compreso, a partire dai mattoni primari che chiamiamo particelle
elementari.
Scrive Richard Dawkins nella prefazione al suo Orologiaio cieco:
18

«Questo libro è stato scritto nella convinzione che la nostra esistenza


fosse un tempo il massimo di tutti i misteri, ma che oggi non sia più tale
perché l’enigma è stato risolto. Il merito di questa impresa va
riconosciuto a Darwin e a Wallace»38. Sottolinea giustamente Sermonti:

«All’evoluzionismo anti-aristotelico accadde in pochi decenni ciò che


ad Aristotele accadde nei secoli: di ricevere una accettazione così
universale da identificarsi con la Scienza. Il testo darwiniano divenne
l’“ipse dixit” che sostituì l’“ipse dixit” aristotelico. Aristotele aveva
risposto a tutte le domanda e i neo-darwinisti (Dawkins) esclamarono:
l’enigma è stato risolto. L’evoluzionismo ha lentamente assunto il
carattere di dottrina ufficiale e ha iniziato una operazione tendente ad
escludere come “non scientifico” tutto ciò che fosse in contrasto con la
teoria»39.

Lo stesso pensiero filosofico, a questo punto, attinge da questa nuova


immagine del mondo40. Esclama Maritain in Antimoderno: «Innalzando
se stessa a giudice supremo della verità, la filosofia moderna non può
che aborrire profondamente il soprannaturale e tutto ciò che porta il
segno di una verità e di un’autorità superiori alla ragione»41.

2.2 «Col positivismo la scienza si proclamava unica forma di sapere


scientifico, respingendo nel mondo del probabile e dell’immaginabile
tutto quanto non potesse essere positivamente constatato» 42. In questo
modo diventava manifesto ed evidente «il rapporto stretto di ateismo e
modernizzazione»43. Comte riassume in modo esemplare le
caratteristiche del positivismo e, avendo il pregio di uscire allo scoperto
senza più veli riguardo alla “nuova religione” dello scientismo44, viene
esaminato e analizzato sotto “la luce dei riflettori” di Maritain 45. La
“vecchia” religione «appartiene al passato, che oggi non ha più nulla da
dire e le sue funzioni vengono ora esercitate dalla scienza sociale e dai
suoi sacerdoti... La scienza è una enorme spugna, che cancella dalla
lavagna della storia tutte le immagini mitiche, perché l’umanità possa,
per mezzo della tecnologia, scrivere le sue vittorie “magnifiche e
progressive”»46.
In Comte abbiamo un abbattimento in blocco di tutta la metafisica
elaborata durante i secoli precedenti, e il volto pieno senza
nascondimenti della nuova filosofia emergente dalla neo-nata scienza 47.
Si parlava precedentemente del principio di finalità; ecco come viene
19

bruciato da Comte, nelle parole di Maritain: «Il principio di finalità:


ogni agente agisce per un fine, è una verità conosciuta di per sé. No!,
mi dice Auguste Comte. Il principio di finalità è un vestigio dello stato
metafisico, bisogna sostituirgli il principio positivo delle condizioni di
esistenza. L’uccello vola perché ha le ali, non ha le ali per volare; se
non fosse realizzata la condizione di avere le ali, non ci sarebbe uccello
che vola: tutta la spiegazione è questa»48.
Qual è dunque, una volta tolto il velo, il vero volto della nuova
immagine del mondo? Con le parole di Comte: «Tutto è relativo, ecco il
solo principio assoluto»!49 Ecco la nuova metafisica della scienza.
«Relativismo che concerne non solo l’espressione della verità,
inevitabilmente condizionata dall’epoca e dall’ambiente, ma la verità
stessa e i valori»50. Comte si appresta ad usarla subito a tutto campo:
«Non si tratta più di dissertare a perdita d’occhio per sapere quale sia il
miglior governo; non vi è nulla di buono, non vi è nulla di cattivo
assolutamente parlando; tutto è relativo, ecco la sola cosa assoluta» 51.
Commenta Maritain: «Tutte le cose, e in primo luogo tutti i nostri valori,
sono inghiottiti dal tempo, sottomessi al tempo e misurati dal tempo...
Quanto più Comte avanzerà in età, tanto più insisterà sul carattere
fondamentale del suo principio e più ne estenderà la portata. Esso si
applica a tutti gli ordini. Lo spirito positivo ci domanda di “sostituire
dappertutto il relativo all’assoluto”»52.
Viene così tolta la maschera a quella metafisica nascosta tra
l’intelaiatura di quella che Maritain definisce «la scienza dei fenomeni».
Ci ritornano in mente gli antichi sofisti, il «tutto è vero» di Protagora e il
vano affanno di Socrate, Platone e Aristotele. La “verità”, così tanto
desiderata nel mondo antico e medievale, viene schiacciata dal
relativismo, dalla nuova immagine del mondo:

«È la verità d’oggi che sarà falsa domani. In breve, non bisogna dire
che vi sono delle asserzioni puramente e semplicemente vere
(assolutamente vere), e delle asserzioni vere sotto un certo rapporto
(relativamente vere), e che le asserzioni esplicative della scienza dei
fenomeni non sono vere che in rapporto all’insieme dei fatti conosciuti,
bisogna dire che non vi è alcuna asserzione assolutamente vera. La
verità come tale è relativa; la verità non è immutabile; la verità
cambia»53.
20

3. Le nuove umiliazioni inferte dalla scienza

3.1 «All’inizio del XVI secolo si è prodotto il profondo rivolgimento


del mondo moderno. Tutto quest’ordine intellettuale si è infranto. Il
mondo moderno, e intendo con questa espressione il mondo che sta
finendo il suo corso sotto i nostri occhi, non è stato il mondo
dell’armonia della saggezza, ma quello del conflitto della saggezza e
delle scienze e della vittoria della scienza sulla saggezza»54.
Così Maritain denuncia - in Scienza e saggezza - la tragedia
intellettuale che si è innescata con l’avvio della scienza moderna. E
aggiunge: «Al di sotto del piano della metafisica, nel mondo del primo
ordine di astrazione è scoppiato un dramma oscuro tra Conoscenza
fisico-matematica e Conoscenza filosofica della natura sensibile, le cui
conseguenze sono state capitali per la metafisica stessa e per il regime
intellettuale dell’umanità»55. In particolare: «Il tempo di August
Comte… ha domandato la saggezza alla scienza. Ma questa illusione si
è rapidamente dissipata. Nella struttura della scienza la matematica ha
divorato tutto quanto poteva ancora restare della filosofia. La
matematica e l’empiriologia hanno distrutto l’ontologia» . Ora, tutto
56

ciò, si traduce nel nostro tempo in una filosofia, in una immagine del
mondo tanto disumana quanto moderna, con inevitabili riflessi in campo
sociale, religioso e spirituale, come ben sintetizza Piero Viotto:

«L’aver ridotto la fede alla ragione, come accade nel deismo


moralistico di Kant, la grazia alla coscienza soggettiva, come si
manifesta nel naturalismo psicologistico di Rousseau, e la Chiesa alla
società umana, come si afferma nel socialismo utopistico di Comte,
significa aver neutralizzato il Cristianesimo, lanciando nella storia semi
di verità impazzite, perché non più alimentate dalla sorgente
soprannaturale. Di qui l’equivoco di certi miti contemporanei, come
egualitarismo illuministico e il messianesimo comunistico. […] Si è
giunti così al predominio della scienza sulla saggezza, della tecnica
sulla cultura, dell’azione sulla contemplazione, della quantità sulla
qualità»57.

E in verità, questi «semi di verità impazzite» cominciano a portare il


loro frutto. Le umiliazioni inferte dalla scienza al genere umano sono
appena cominciate. Si parla già dell’umiliazione inferta all’uomo
dall’Intelligenza Artificiale (IA): l’uomo sarebbe nulla di più che una
21

macchina. Il pensiero, le emozioni, i sentimenti, le sensazioni,


l’intelligenza: roba da computer! Ciò che per Aristotele era prerogativa
esclusivamente umana, viene data in pasto a degli ingranaggi, ingoiata
dai transistor: dalla materia neuronale - è ormai l’ultima sfida lanciata
dalla scienza - si approda ai circuiti di silicio. Oramai la classe degli
scienziati e dei pensatori si sente finalmente svincolata da quelle che
loro stessi definiscono arcaiche e infantili weltanschauung spiritualiste;
togliendo ogni residuo “platonico-cartesiano” di res cogitans si
domandano candidamente insieme a Rucker: «Sarebbe giustificato
asserire che questi robot altamente evoluti sono dotati di coscienza nello
stesso senso in cui ne sono dotati gli esseri umani?» In fondo si
tratterebbe di esseri pensanti evolutisi «da un substrato di metallo e di
chips al silicio, come noi siamo esseri pensanti evoluti da un substrato di
aminoacidi e altre sostanze a base di carbonio»58. «Il segreto
dell’intelligenza è che non ha segreti. Il mistero e la magia non abitano
qui»59, ci assicura Marvin Minsky, il padre dell’IA.
Maritain aveva già previsto: «Ecco dunque che grazie al darwinismo i
fenomeni della vita perderanno il loro aspetto irriducibile e misterioso, e
si collocheranno nei quadri ordinari della causalità efficiente!»60. Le
entità spirituali appaiono agli occhi dello scienziato moderno come
simboli romantici del passato, lasciati magari come “foto ricordo” della
vecchia filosofia di S. Tommaso. Si chiede il famoso scienziato Paul
Davies: «Tuttora non è ancora immaginabile una mente senza cervello.
Se Dio è una mente, avrà dunque un cervello? Un cervello
corporeo?» . Fanno eco scienziati come Changeux e Connes: «Nessuno
61

dirà, salvo certi credenti, che il Verbo esiste prima della Materia!»62.
Tale è il livello di materialismo nel quale stiamo per affondare.
Giustamente osserva il biblista Sergio Quinzio: «Evoluzionismo e
progressismo […] sono il basso luogo comune della modernità» 63.
Quanto risultano vere e attuali le parole di Maritain: «E si vedrà che i
pensatori moderni preferiscono di buon grado a priori, e senza
esitazione alcuna, dieci errori provenienti dall’uomo ad una verità
proveniente da Dio»64.
Ecco una sintesi del “credo” dell’uomo di scienza contemporaneo:

«Un’idea centrale, ad esempio, è che il mondo non è statico ed eterno,


ma si evolve nel tempo. Nel XIX secolo questa verità riguardava solo il
mondo biologico, mentre nel secolo successivo l’ipotesi evoluzionista è
diventata valida per l’universo nel suo complesso. Questa idea ha
22

impiegato molto tempo ad affermarsi, così come è dovuto passare un


secolo perché le ipotesi di Copernico fossero confermate. Si può dire
che solo in questi anni ci stiamo rendendo conto di cosa significhi un
realtà in evoluzione perenne. Inoltre, questa nuova filosofia naturale
considera inutile, anzi ridicola, l’ipotesi di una intelligenza superiore
responsabile della bellezza e della complessità del mondo. Si può
sostenere, invece, che in un contesto biologico la materia vivente si è
creata e organizzata da sé a partire da principi semplici, come la
selezione naturale. Credo che lo stesso si possa affermare per le leggi
della fisica e la struttura del cosmo. […] La nozione di proprietà
assolute, come ad esempio quella di specie biologica, è diventata
altrettanto obsoleta dello spazio e tempo assoluti di Newton»65.

Evidente il contenuto relativistico di questo tipo di credo e di


immagine del mondo. «Darwin ha scoperto che l’evoluzione è un
processo algoritmico, cieco ma eccezionalmente efficace, per produrre
gradualmente tutte le meraviglie della natura. E’ un punto di vista
riduzionista solo nel senso che elimina i miracoli, i ganci che scendono
dal cielo: tutto quello che ha prodotto l’evoluzione attraverso le ere è
stato fatto con semplici gru terrestri»66. Più apertamente:

«Se si potesse dare l’oscar alla migliore idea mai avuta, lo darei a
Darwin, più che a Newton o a Einstein. La sua è più che una
meravigliosa idea scientifica. E’ un’idea pericolosa. Rovescia, o
almeno sconvolge, alcune delle convinzioni più profonde e radicate
della psiche umana. Ogni volta che si parla in pubblico di darwinismo,
la temperatura sale e la gente cerca di distogliere l’attenzione dalla
questione reale, bisticciando diligentemente su controversie marginali.
Chiunque si sente in dovere di prendere posizione ogni qual volta sente
avvicinarsi l’uragano dell’evoluzione. L’idea di Darwin è pericolosa
perché sfila il tappeto da sotto il migliore ragionamento filosofico mai
concepito per dimostrare l’esistenza di Dio: l’argomento del progetto.
Come altro potrebbe spiegarsi il formidabile progetto che sta alla base
dell’ordine naturale, se non con la creazione di un Dio infinitamente
sapiente e potente? Come la maggior parte delle argomentazioni che si
fondono su una domanda retorica, anche questa non risulta del tutto
convincente. Tuttavia essa ha persuaso miliardi di persone, almeno fino
a quando Darwin non ha proposto una risposta alternativa: la selezione
naturale. Da allora la religione non è più stata la stessa. Almeno agli
23

occhi degli accademici, la scienza ha avuto la meglio sulla religione.


L’idea di Darwin ha relegato il libro della Genesi nel limbo della
mitologia pittoresca»67.

Come d’altra parte asserisce Monod: «Il caso puro, il solo caso, libertà
assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio
dell’evoluzione […] L’universo non stava per partorire la vita, né la
biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette»68. E ancora:
«L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo
nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il
suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo»69.
Commenta Sermonti: «Vagando senza fini e senza idee la natura perde
qualunque valore e qualunque significato. L’accadere ha bisogno di una
trama su cui svolgersi, di un apparato di significati cui riferirsi. Se tutto
ciò è negato, allora si può ben affermare che nel mondo dell’evoluzione
tutto si è svolto senza che accadesse mai niente, tutto è diventato senza
che mai si verificasse alcunché di notevole. E allora come c’è il
mondo? E’ semplice: il mondo è niente, c’è per puro caso, potrebbe
benissimo non esserci»70. La risultante di tutto ciò ce la dà il nostro
Maritain:

«Tutto si evolve, tutto cambia, tutto muta, le verità, i dogmi,


l’intelligenza, le leggi metafisiche, il bene, il male; l’energia diventa
pensiero, la magia diventa religione, le rappresentazioni sociali del clan
primitivo diventano la coscienza morale di Durkheim e dei suoi
discepoli, il totem diventa il loro dio, e lo slancio vitale, con il
superuomo vago ed evanescente che cerca di realizzarsi, produce
ciascuno di noi, mentre i suoi rifiuti lasciati per strada si perdono
nell’animalità e nel mondo vegetale. Insomma l’evoluzionismo
s’affaccenda per far uscire qualcosa dal nulla, e per estrarre
geneticamente, soltanto con la forza del tempo, il superiore
dall’inferiore, il determinato dall’indeterminato. E così, se è in grado
di sfuggire al dominio esclusivo della quantità matematica, assoggetta,
più che mai, l’intelligenza alla materia»71.

3.2 Gli influssi nel campo etico come conseguenza della nuova
immagine del mondo sono, a dir poco, catastrofici. Un esempio ce lo
offre James Rachels, con molta crudezza e senza alcuna maschera:
24

«Dopo Darwin, non possiamo più ritenere di occupare un posto


speciale nella creazione - al contrario, dobbiamo renderci conto di
essere un prodotto delle stesse forze evolutive cieche e prive di finalità
che hanno modellato il resto del regno animale. E ciò, si afferma
comunemente, ha una profonda rilevanza filosofica.
Le implicazioni religiose del darwinismo sono state molto dibattute. Fin
dall’inizio, gli uomini di chiesa hanno sospettato e temuto che
l’evoluzione fosse incompatibile con la religione. Se le loro
preoccupazioni siano giustificate è ancora oggetto di discussione, e
avrò molto da dire a questo proposito. Ma il darwinismo pone problemi
anche alla moralità tradizionale. Non meno della religione, la moralità
tradizionale presuppone che l’uomo sia “una grande opera”. Essa
attribuisce agli umani uno status morale superiore a quello di ogni altra
creatura sulla terra, e considera la vita umana, e solo la vita umana,
sacra, vedendo nell’amore per il genere umano la prima e più nobile
virtù. Che ne è di tutto ciò, se l’uomo non è che una scimmia
modificata?»72
«[…] Può effettivamente essere vero che il darwinismo, che ribalta tutte
le nostre precedenti idee circa l’uomo e la natura, non abbia
conseguenze destabilizzanti? La moralità tradizionale è in parte fondata
sull’assunto che la vita umana abbia un valore e una dignità speciali.
Se dobbiamo rinunciare alla nostra concezione di noi stessi, e alla
presuntuosa idea che il mondo sia stato creato soltanto come dimora
per gli umani, non dovremo rinunciare allo stesso tempo agli elementi
della nostra moralità che da tale visione dipendono? Un’impressione
che la scoperta di Darwin mini la religione tradizionale, così come
alcuni aspetti della moralità tramandata, non se ne andrà, a dispetto
delle sottili disquisizioni logiche su cosa possa derivare da cosa, e a
dispetto del fatto che possiamo non volerci trovare fianco a fianco con
gli avversari dell’evoluzione. Credo che tale impressione sia
giustificata. Esiste una relazione tra la teoria di Darwin e queste più
ampie questioni, anche se si tratta di qualcosa di più complesso di una
semplice implicazione logica. Io argomenterò che la teoria di Darwin
mina in effetti i valori tradizionali. In particolare, essa mina l’idea che
la vita umana abbia un valore speciale e unico.»73
«[…] Il darwinismo, tuttavia, mina la dottrina tradizionale, in un senso
che spiegherò, privandola dei suoi sostegni. Esso mina tanto l’idea che
l’uomo sia fatto a immagine di Dio quanto l’idea che l’uomo sia l’unico
essere razionale. Inoltre, se il darwinismo è corretto, è improbabile che
25

si trovi un qualsiasi ulteriore sostegno per la dottrina della dignità


umana. Tale dottrina risulta pertanto essere l’emanazione morale di
una metafìsica screditata»74.

Tale è il baratro che si è spalancato con la modernità. L’uomo si trova


a maneggiare «semi di verità impazzite» con la stessa disinvoltura di un
bambino che per curiosità smonti un ordigno atomico capitatogli fra le
mani. Il relativismo che governa filosoficamente le “orme” appena
accennate, rimane da sfondo, da base strutturale e strutturante:

«Il particolare processo che abbiamo considerato consta di quattro


stadi. Nel primo stadio la moralità tradizionale viene accettata senza
difficoltà perché sostenuta da una visione del mondo che a tutti (o a una
maggioranza tale da rendere equivalente il risultato) appare degna di
fiducia. La prospettiva morale è ingannevolmente semplice. Gli esseri
umani possiedono, in termini kantiani, “un valore intrinseco, cioè
dignità” che li rende “superiori a ogni prezzo”; mentre gli altri animali
“... non sono che dei mezzi rispetto a un fine. Tale fine è l’uomo”. La
visione del mondo che sosteneva questa dottrina etica presentava
parecchi elementi familiari: si riteneva che l’universo, con al centro la
Terra, fosse stato creato da Dio soprattutto per fornire una dimora agli
umani, fatti a sua immagine, e che gli altri animali fossero stati creati a
uso di questi ultimi. Gli umani, pertanto, erano separati dagli altri
animali, e avevano una natura radicalmente diversa. Ciò giustificava il
loro speciale status morale.
Nel secondo stadio tale visione del mondo comincia a sgretolarsi. Ciò
aveva avuto inizio, naturalmente, molto tempo prima di Darwin - si
sapeva già che la Terra non era il centro del cosmo, e invero che, come
corpo celeste, non risultava nulla di eccezionale. Ma Darwin completò
l’opera, mostrando che gli umani, lungi dall’essere distinti dagli altri
animali, non solo sono parte dello stesso ordine naturale, ma sono di
fatto con essi imparentati. Dopo Darwin, la vecchia visione del mondo
era virtualmente demolita.
[…] Noi ci troviamo ora al terzo stadio, che sopraggiunge quando ci si
rende conto che la vecchia concezione morale, avendo perso i suoi
fondamenti, deve essere riesaminata. […] «La graduale illuminazione
della mente degli uomini» deve portare a una nuova etica, in cui
l’appartenenza di specie sia considerata virtualmente priva di
importanza. La tesi più difendibile sembra essere una qualche forma di
26

individualismo morale, secondo cui ciò che conta sono le caratteristiche


individuali degli organismi, e non le classi cui essi vengono assegnati.
[…] Comunque sia, i problemi posti dalla disintegrazione della vecchia
visione del mondo non possono più essere evitati. Il quarto e ultimo
stadio del processo storico sarà raggiunto se e quando tali problemi
saranno risolti e si troverà un nuovo equilibrio in cui la nostra moralità
possa ancora una volta coesistere senza difficoltà con la nostra
comprensione del mondo e del posto che in esso occupiamo»75.

Vittorio Possenti, nell’introduzione a Riflessioni sull’intelligenza e la


sua vita propria di Maritain, mette l’accento proprio sulle conseguenze
etiche e sociali che queste «detronizzazioni» hanno innescato, e il
rischio di un’umanità in balìa di un nichilismo “gorgiano” - una delle
facce più temibili del relativismo:

«Certo le rivoluzioni culturali degli ultimi secoli hanno costituito delle


sfide esigenti per il soggetto, sottoposto a tre distinte detronizzazioni: a)
la detronizzazione cosmologica, in quanto la terra e l’uomo non sono
più il centro del cosmo; b) la detronizzazione biologica, innescata dal
darwinismo secondo cui l’uomo non è superiore agli animali; c) la
detronizzazione psicologica, iniziata dalla psicanalisi, che identifica
nell’inconscio, non nell’io conscio, il livello basale e primario del
dinamismo psichico.
Queste specifiche detronizzazioni possono essere superate con un
rinnovato impegno a più livelli, di cui è momento essenziale la
salvaguardia del realismo. La sua negazione comporta quella della
conoscenza reale e il giudizio che la coscienza è naturalmente disposta
all’errore e all’autoinganno invece che alla verità: i maestri del
sospetto non hanno seminato invano.
Da qui al nichilismo il passo è breve. Per nichilismo intendiamo un
complesso filosofico-culturale denotato da alcuni almeno dei seguenti
caratteri: 1) dissoluzione di ogni fondamento (l’annuncio nictzschiano
che « Dio è morto », tradotto in chiaro esprime appunto la caduta del
fondamento); 2) la negazione di ogni finalità dell’uomo e del cosmo; 3)
la riduzione del soggetto a mera funzione; 4) la pari validità di tutti i
giudizi di valore (asserzione che si può convertire nella seguente:
invalidità di ogni giudizio di valore; o anche: il valore non ha più alcun
nesso con l’essere, ma emerge dal fondo più oscuro dell’assoluta libertà
del soggetto). Il complesso metafisico-etico del nichilismo finisce per
27

approdare al tramonto della tensione conoscitiva e al declino del


domandare»76.

Dunque Maritain, paladino dell’Assoluto, aveva ben individuato nel


relativismo la radice avvelenata della nuova immagine del mondo che si
sarebbe venuta a creare: «Tutte queste confusioni non provengono del
resto da una causa estranea, accidentale e imprevista, sopraggiunta un
certo giorno e paragonabile ad una malattia che avrebbe intaccato la
limpida purezza di una scienza innocente. No, erano presenti fin
dall’origine stessa della “scienza moderna”, ne circondavano la culla,
l’hanno accompagnata lungo il suo sviluppo»77. «L’asservimento al
relativo è così… uno dei caratteri più salienti della filosofia moderna in
opposizione alla filosofia scolastica, che vive dell’assoluto»78. In
particolare, in Antimoderno, egli fotografa la realtà attuale da una
prospettiva verticale: «Alla sola idea dell’assoluto questa ragione
depravata cade in deliquio; all’idea del soprannaturale, si esaspera. Ai
suoi occhi il bene e il male sono pregiudizi da ottentotti, il bello e il
laido nozioni talmente “relative” che, senza l’aiuto della selezione
sessuale, si volatizzerebbero. La distinzione tra superiore e inferiore,
quando non si tratti di una differenza di temperatura o del livello
dell’acqua, le sembra mitologica o, in ogni caso, singolarmente
ereditaria. Ama l’uguaglianza dal basso, e per essa tutto s’equivale e
può intercambiarsi indefinitamente»79.
La conclusione di Maritain, a questo punto, è una riflessione che non
riesce più a sorprenderci, tanta è la coerenza e la linearità della sua
analisi:

«Ciò che a loro [ai pensatori del mondo moderno] interessa non è la
verità, ma il modo con cui ci giunge; e poiché essi non cercano la
verità, ma se stessi, non accettano allora altra verità che non sia quella
che passi attraverso di loro. Si leggano ad esempio le speculazioni dei
biologi sull’origine della vita, si vedrà con quale dolce sicurezza
scartano l’idea di una creazione, perché è “teologica”, e vi
sostituiscono le ipotesi più assurde… Ciò che chiedono, reclamando la
libertà della scienza, o della ricerca, o del pensiero, non è la libertà di
pervenire al vero: chi mai penserebbe di negargliela e come una verità
della scienza potrebbe mai contraddire una verità della fede, tutt’e due
essendo parti della stessa verità e della stessa opera divina? Ciò che in
realtà essi chiedono non è la libertà della ragione, la libertà di essere
28

ragionevoli, ma la libertà del ragionamento, la libertà di ragionare


senza regola e misura, la libertà d’ingannarsi come vogliono, quanto
vogliono, dovunque vogliono, senz’altro controllo che loro stessi»80.

4. La perdita del fondamento

4.1 «La fisica di Newton con il suo rigido determinismo che vedeva
l’Universo come una grossa macchina animata da un moto perenne
regolato da leggi eterne ed immutabili, aveva trasfuso negli uomini dei
secoli XVIII e XIX un senso di certezza del domani favorevole allo
spirito imprenditoriale (siamo nel periodo della rivoluzione industriale)
e alla conservazione di certi valori umani tradizionali. Ed anche oggi
noi troviamo un impressionante parallelismo fra il pensiero scientifico
moderno, probabilistico, statistico, adogmatico, e l’incertezza spirituale
della grande maggioranza degli uomini e la tendenza all’annullamento
dell’individuo nella massa e l’abbandono di tanti valori tradizionali che
per millenni avevano rappresentato i geni spirituali della razza umana.
Questo stato ha creato un inconscio malessere negli uomini e negli
ultimi decenni si è parlato sempre più frequentemente di responsabilità
della scienza»81.
Parole che trovano eco nei vari campi del sapere. La geometria
euclidea, prodotto dello spirito squisitamente teoretico dei Greci,
colonna portante di quell’assoluto platonico che doveva resistere alle
mutevolezze del mondo sensibile, alla doxa protagorea e al panta rei
eracliteo, - ancora nella seconda metà dell’800 ritenuta privilegiata in
quanto capace di imporre le proprie leggi al mondo oggettivo, almeno,
kantianamente, come scienza sintetica a priori - veniva minata alle
fondamenta: la detronizzazione euclidea veniva attuata da Riemann
tramite il suo concetto di curvatura alle varietà pluriestese, concetto che
seguiva la teoria delle superfici curve di Gauss e che “decentrava”
copernicanamente la geometria euclidea come una tra le tante geometrie
metriche possibili. Dopo due millenni di “glorioso legame all’assoluto”
la geometria euclidea subiva la stessa sorte che aveva visto la Terra
esiliata in periferia e l’uomo schiacciato verso l’ameba: la perdita della
certezza, il processo di relativizzazione del fondamento, il decadimento
da substantia ad accidens. Cedeva così quella barriera iperuranica che
Platone aveva mirabilmente posto contro gli attacchi dei relativisti. In
particolare, lo stesso fondamento intuitivo della geometria subirà,
29

all’inizio del ’900, un primo attacco dal matematico tedesco David


Hilbert, il quale, introducendo una rigorosa prospettiva assiomatica che
prescinde da ogni riferimento all’intuizione, arriverà all’abbattimento in
blocco delle verità intuitivamente evidenti a favore di un formalismo
estremo. Altri attacchi arriveranno, oltre allo sviluppo delle geometrie
non-euclidee, dallo sviluppo dell’algebra astratta manipolante enti
matematici con procedimenti puramente formali, evitando ogni
interpretazione sulla natura di essi. L’abbattimento totale però avverrà
con l’avvento della seconda rivoluzione scientifica, a partire dalla teoria
della relatività di Einstein, che sigillerà in modo irreversibile la perdita
dell’intuizione e del senso comune, lasciando il posto al puro
operazionismo: «Pertanto, non solo la dottrina generale dell’intuizione
intesa come fonte infallibile di conoscenza è un mito, ma la nostra
intuizione del tempo, [...] come lo è [...] la nostra intuizione dello
spazio»82.

4.2 La crisi della geometria euclidea mette in discussione il fondamento


di tutto l’edificio delle matematiche, le quali, fino allora, rimandavano in
un modo o nell’altro alla geometria l’onere di dimostrare la razionalità
dei metodi83. Viene a proporsi così il problema dei fondamenti nelle
scienze matematiche, le quali sentono scricchiolare le basi e i punti
d’appoggio84. La sacra tetraktys pitagorica viene “desacralizzata”,
rompendo l’”unità” in numerosi frammenti: Logicismo (Frege, Russell),
Intuizionismo (Brouwer, Weyl), Formalismo (Hilbert, von Neumann),
Insiemismo (Zermelo, Fraenkel): al congresso di Königsberg del 1930 il
confronto fra le diverse correnti diede «il senso e la profondità dei
dissensi che dividevano i matematici sulle questioni più importanti della
loro scienza»85. Morris Kline, nel suo saggio Matematica: la perdita
della certezza, racconta con rara chiarezza e lucidità il percorso e le
difficoltà del pensiero matematico degli ultimi cento anni:

«Gli sviluppi succedutisi nei fondamenti della matematica a partire dal


1900 sono sorprendenti; attualmente la matematica è in uno stato
anomalo e giace in una condizione deplorevole. La luce della verità
non illumina più la strada che deve essere seguita. Invece di un unico
corpo matematico universalmente accettato… troviamo ora diversi
punti di vista in conflitto fra loro… Oggi il disaccordo si estende fino a
raggiungere i metodi di ragionamento: la legge del terzo escluso non è
più un principio logico indiscutibile… In breve, oggi nessuna scuola
30

può affermare con diritto di rappresentare la matematica e


sfortunatamente, come osservò nel 1960 Arend Heyting, dal 1930 in
avanti il clima di cooperazione amichevole è stato sostituito da uno
spirito di implacabile contesa»86.

La detronizzazione apportata dal celeberrimo teorema di Gödel non è


solamente applicabile al programma hilbertiano, ma è diventata
contrassegno della torre di babele che si è venuta a creare all’interno di
quel «paradiso da cui nessuno potrà scacciarci» - come si espresse
Hilbert riguardo l’edificio della matematica:

«Molti matematici si rifugiano in un angolo della matematica dal quale


non cercano affatto di uscire, e non solo ignorano quasi completamente
tutto ciò che non riguarda il loro argomento, ma non sono neppure in
grado di comprendere il linguaggio e la terminologia impiegata dai loro
colleghi che si definiscono specialisti di una disciplina lontana dalla
loro. Non c’è nessuno, neppure fra coloro che possiedono la cultura
più vasta, che non si senta spaesato in alcune regioni dell’immenso
mondo matematico»87.

A tutto ciò deve essere aggiunta una troppo disinvolta trattazione


dell’infinito, che da Cantor in poi alimenta l’epidemia di operazionismo
scoppiata all’inizio del XX secolo. Avvisa candidamente Paul Davies
che «le proprietà degli insiemi (o collezioni) infiniti contraddicono
sovente la nostra intuizione e che d’altra parte il senso comune può
generare dei nonsense»88. Tuttavia, visto che l’uso e il funzionamento
“operativo” di tali proprietà è coerente ed efficace, la paura di questo
mostro è stata esorcizzata, e i matematici possono «far uso dell’infinito
senza paura, sempre che si attengano fedelmente alle regole, per strane
che possano apparire»89. Delle insidie di una “metafisica operazionista”
che, traboccando dall’atanor del pensiero scientifico moderno in cui è
annidata, possa contagiare l’intero pensiero filosofico parleremo più
avanti. Adesso ci preme sintetizzare, con le efficaci parole di Selleri,
quanto appena esposto riguardo a quello che potremmo definire come
“debolismo matematico moderno”:

«Vi sono tre momenti nella matematica moderna che segnano altrettanti
aspetti della perdita di quelle certezze che il matematico aveva
tradizionalmente ritenuto di possedere:
31

1. La scoperta che nessuna contraddizione logica nasce dalla


negazione dell’assioma delle parallele (quinto postulato di Euclide) e la
nascita delle geometrie non euclidea mostrarono che esistono infinite
geometrie possibili, tutte perfettamente razionali. E siccome il mondo
reale è uno solo, moriva così la “certezza” di una corrispondenza
biunivoca fra matematica e realtà.
2. La scoperta delle “antinomie” all’interno della teoria degli
insiemi mostrò che si potevano dedurre in modo assolutamente rigoroso
delle vere e proprie contraddizioni a partire da affermazioni o da
principi la cui evidenza sembrava incontestabile (si pensi all’antinomia
di Russell). Spariva così la “certezza” che l’evidenza empirica potesse
suggerire affermazioni o principi di assoluta validità.
3. La scoperta del celeberrimo teorema di Gödel: data una teoria
formale sufficientemente potente da esprimere almeno l’aritmetica dei
numeri interi, questa teoria non può essere al tempo stesso coerente e
completa. Cioè, se si vuole che essa sia coerente si deve
necessariamente rinunciare alla sua completezza… Spariva così anche
la “certezza” nella potenza logica della matematica. […] I risultati di
Gödel ebbero chiaramente conseguenze esplosive: l’ultima certezza che
restava alla matematica del nostro secolo, quella della validità assoluta
dei suoi risultati, non poteva più essere sostenuta… Diventava cioè
lecito dubitare di tutto»90.

4.3 La perdita del concetto di etere, subita ad opera di Einstein in


seguito alla crisi vettorializzata dall’esperimento di Michelson e Morley,
deve ritenersi fondante di una buona parte della mentalità scientifica e
filosofica del XX secolo. Il contributo dato dagli scienziati moderni
quali Einstein, Bohr e Heisenberg va considerato proprio sotto il profilo
di un abbandono definitivo di quella adaequatio rei et intellectus che
aveva caratterizzato i secoli precedenti. Con “la morte dell’etere” viene
estinto il logos, l’acqua di Talete, l’aria di Anassimene, l’apeiron di
Anassimandro, il vortice di Anassagora, la chora di Platone, l’hyle di
Aristotele. … Il kósmos ritorna caos.
Gli stessi principi primi aristotelici vengono messi in discussione:
«Mediante la meccanica quantistica viene stabilita definitivamente la
non validità del principio di causalità»91, sentenzia Heisenberg.
«Scompare così, nella fisica moderna, anche il principio di causalità,
vecchio di due millenni»92 e ciò non può non avere ripercussioni nella
nuova immagine del mondo che si viene a creare. Anche il principio del
32

“terzo escluso” viene sostituito: «Nella teoria dei quanta questa legge
del “tertium non datur” deve essere modificata»93. La stessa logica
classica «sarebbe contenuta come un tipo di caso limite all’interno della
logica quantica, mentre quest’ultima costituirebbe il modello logico più
generale»94. Così, se con la “detronizzazione euclidea” crollava
l’assoluto platonico, con la nuova fisica cede l’assoluto aristotelico.
Persino il supremo dei principi aristotelici, quello di non-contraddizione,
comincia a vacillare95.
Da qui l’invito di scienziati e premi Nobel come Feynman di
«accettare la Natura come è: assurda»96. Di contraddittorietà si ciba
ormai l’intero quadro metafisico della scienza: «La teoria ha due
argomenti molto efficaci a suo favore e solo uno, di scarso rilievo, a
sfavore. Innanzitutto, la teoria è sorprendentemente esatta rispetto a tutti
i risultati sperimentali fino ad oggi ottenuti. In secondo luogo [...] si
tratta di una teoria di straordinaria e profonda bellezza dal punto di vista
matematico. L’unica cosa, che può essere detta contro di essa, è che,
presa in assoluto, non ha alcun senso!»97. Ci consola Heisenberg: «È
vero che ci apparirà subito chiaro che questi concetti non sono ben
definiti nel senso scientifico e che la loro applicazione può condurre a
varie contraddizioni; ma noi sappiamo tuttavia che essi toccano la realtà.
Può essere utile a questo proposito ricordare che perfino nella parte più
precisa della scienza, nella matematica, noi non possiamo fare a meno di
servirci di concetti che implicano contraddizioni. È ben noto, ad
esempio, che il concetto d’infinito conduce a contraddizioni che sono
state analizzate; eppure sarebbe praticamente impossibile costruire senza
questo concetto le più importanti parti della matematica»98.
Con la fisica quantistica viene definitivamente abbattuto anche uno dei
più antichi baluardi del senso comune, il principio dell’invarianza di
scala, quello cioè della “Tavola di Smeraldo”: «Ciò che si trova in basso
è simile a ciò che si trova in alto, e ciò che si trova in alto è simile a ciò
che è in basso», la corrispondenza micro-macro cosmo, specchio di quel
“procedimento analogico” che abbraccerà l’intero arco di vita del
pensiero filosofico occidentale. Rompere tale principio significa operare
un taglio profondo con la tradizione, con le stesse categorie mentali
umane, con quell’adaequatio rei et intellectus che è ad un tempo
speranza e possibilità di ricerca, fondamento della scienza e della
sapienza, della fisica e della metafisica: physis e sophia. Frantumare lo
schema mentale è diventato vanto della fisica moderna. Famosa la
risposta di Niels Bohr a quanti gli esponevano nuove idee sulla
33

risoluzione dei tanti enigmi della teoria dei quanti: «La sua teoria, caro
signore, è folle, ma non lo è abbastanza per essere vera»99.
Non appare più strano, allora, che questa «miscela di pessimismo,
positivismo e pragmatismo»100 abbia portato nella nostra epoca alla
«nascita di una epistemologia della rassegnazione verso i limiti, reali o
supposti, della conoscenza scientifica»101; e, nello stesso tempo, la
ricerca sia stata vettorializzata verso un “fanta-mondo” aleatorio e
alienante che simboleggia la rottura in blocco col passato: nascono così
spazi curvi a 950 dimensioni102, universi paralleli103, “closed timelike
curves” e viaggi nel tempo!104 La semantica - oramai sbiadita, scolorita,
ossidata, avvilita, degradata - viene rimossa come “virtus” peripatetica
obsoleta. I fisici moderni si danno licenza di parlare addirittura di
“spremitura del vuoto” o di “energia negativa” con la massima
disinvoltura e senza alcun timore di sorta:

«Può una regione di spazio contenere meno di nulla? Il senso comune


suggerirebbe di no: il massimo che si può fare è rimuovere tutta la
materia e la radiazione e lasciare il vuoto. Ma la fisica quantistica ha
una collaudata abilità nello smentire l’intuizione, e questo caso lo
conferma. Risulta infatti che una regione di spazio possa contenere
meno di nulla: la sua energia per unità di volume, o densità di energia,
può valere meno di zero. Le conseguenze, inutile dirlo, sono
stravaganti»105.

Il motto della nuova scienza è a questo punto quello stesso di Jean Le


Rond d’Alembert: «Allez en avant, la foi vous viendra»106. Alla guida
vengono lasciate «le formule matematiche», che assurgono a
«promotrici di visioni del mondo radicalmente nuove»107.
L’operazionismo della pura funzionalità matematica ha ormai sostituito
la realtà fisica, imponendo una tale portata ontologica nelle formule da
dissolvere gli atomi in un sistema di equazioni.

4.4 In realtà l’operazionismo è andato oltre, scavalcando i confini della


dimensione tecnico-scientifica per affondare in quella morale. L’epoché
della scienza108 che esso presuppone ha proiettato il suo campo d’azione
fino a inglobare tutto il piano gnoseologico umano. Così, ci dimostra
Bridgman, «se una questione specifica ha senso, deve essere possibile
trovare operazioni mediante cui ad essa si può dare una risposta. In
molti casi si vedrà che tali operazioni non possono esistere e che quindi
34

la questione non ha senso»109. In altri termini: “nessuna operazione?...


nessun senso!” Ma dove ci porta tutto questo? «Credo che molte delle
questioni poste intorno a soggetti sociali e filosofici risulteranno prive di
significato, una volta esaminate dal punto di vista delle operazioni.
Senza dubbio si giungerebbe ad una grande chiarezza di pensiero, se il
modo operativo di pensare venisse adottato in tutti i campi della ricerca
oltre quello fisico».110
Ed ecco che anche il concetto di “verità” traballa. Scrive Heisenberg:
«Non ogni concetto o parola che si siano formati in passato attraverso
l’azione reciproca fra il mondo e noi sono in realtà esattamente definiti
rispetto al loro significato; vale a dire, noi non sappiamo fino a qual
punto essi potranno aiutarci a farci trovare la nostra strada nel mondo.
Spesso sappiamo che essi possono venire applicati ad un ampio settore
dell’esperienza interna od esterna, ma non conosciamo praticamente i
limiti della loro applicabilità. Questo è vero anche nel caso di concetti
più semplici e più generali come esistenza e spazio e tempo. Perciò non
sarà mai possibile con la pura ragione pervenire a una qualche verità
assoluta»111. Arriviamo così alla «fine della metafisica»112, vanto e
conquista del “maestro di color che sanno” 113, con evidente
danneggiamento all’”interfaccia” col mondo della Rivelazione114.
Eppure, dinanzi a questo quadro che per molti versi rivela quella che
Maritain definisce la «presente agonia del mondo»115, alcuni pensatori e
scienziati avanzano l’idea che tutto ciò sia vantaggioso per la fede; in
particolare, le “teorie relativistiche e quantistiche” indirizzerebbero -
dicono - verso la fine del meccanicismo e all’apertura dello
spiritualismo, alla Chiesa. In realtà ogni “detronizzazione”, come
acutamente osserva Maritain, non favorisce il credo della Chiesa, ma un
“decentramento” della fede verso le sponde di un indifferenziato
orientalismo. Lo stesso Heisenberg ammette l’«esistenza d’una certa
relazione fra le idee filosofiche dell’Estremo Oriente e la sostanza
filosofica della teoria dei quanta»116. Ci troviamo cioè dentro un circuito
relativistico chiamato “debolismo”, dove «può essere che la parola
“credere” non significhi per la maggioranza di quella gente “percepire la
verità di qualche cosa”, ma viene piuttosto presa nel senso di “assumere
questo a base della vita”»117.
Inoltre, il cosiddetto “meccanicismo” (o “determinismo”), considerato
dai più come sfondo epistemico per assumere «lo spirito e il libero
arbitrio come uno scandalo per la scienza»118, è stato
epistemologicamente distorto e sovrapposto al tracciato materialista
35

holbachiano, quando invece - come osserva Maritain - «era falsissimo


che la meccanica e la fisica classica per se stesse implicassero
necessariamente la negazione del libero arbitrio»119. In effetti, è
possibile (e preferibile) capovolgere la linea interpretativa: la nuova
meccanica, oltre a porre «un senso di disagio e confusione» 120,
vettorializza su un certo irrazionalismo e magicismo (commenta Selleri
a questo riguardo: «Non è un caso che tutti quelli che guardano con
simpatia al mondo magico dei fenomeni “paranormali” accettano senza
difficoltà la violazione della disuguaglianza di Bell!»121), mentre la
vecchia (particolarmente quella cartesiana) è più solare, è “a misura
dell’intelletto umano”, è - parafrasando Leibniz nel suo carteggio con
Clarke - «esplicabile, intelligibile e intuitiva» 122, a patto che non venga
negata «la possibilità di eventi contingenti liberi, dipendenti dalla
volontà di agenti intelligenti sottratti al dominio delle scienze della
materia, in proporzione alla loro spiritualità»123. Mai come in questo
contesto, dunque, appare densa di significato e profondità l’antica
affermazione del pitagorico Filolao: «La natura del numero e
dell’armonia non ammettono alcun inganno perché l’inganno non è loro
proprio. La natura dell’indeterminato e dell’impensabile e
dell’irrazionale porta l’inganno e l’invidia»124.
Invece, oggi, gli “orbitali nebulosi del debolismo” dissolvono come
acqua regia quella che Possenti definisce «solarità della forma»125 o, in
altre parole, «intelligibilità dell’essere», - non solo nel campo della
fisica, ma ben oltre, nella “meta-fisica” - fantasma del passato per coloro
che «non ammettono ormai più alcuna verità assoluta»126. «La
distruzione della forma coincide con la morte della metafisica» 127: «La
caduta degli immutabili o delle verità eterne va considerata l’elemento
basale più significativo di molte espressioni della filosofia
contemporanea. Il loro tratto comune è la fede nell’inesistenza di verità
assolute: per questo esse possono essere caratterizzate come “pensiero
debole”»128.
Tutto ciò ha naturalmente riflessi in ogni campo dell’umano esistere.
Dalle avanguardie artistiche (si pensi, ad esempio, al futurismo129) alla
«completa eliminazione delle consonanze» e «smarrimento della
tonalità» nel discorso musicale contemporaneo130. Dalla ilozoistica
concezione dei “fotoni coscienti”131 al dissolvimento della parte
spirituale dell’uomo132. Lo stesso concetto di vita viene indebolito,
pronto ad assumere i contorni dell’artificiale133.
Ecco le macerie lasciate da quella che Maritain definisce la «Grande
36

Sofistica»134: «si conosce l’essere a condizione di metterlo tra parentesi


o di fare astrazione da esso»135. Ma, avverte il pensatore francese, il
prezzo che paghiamo per avere «il potere della materia, un sogno
inebriante di perfetto dominio sulle cose visibili (magari anche
invisibili)»136, è «l’abdicazione dello spirito che rinuncia alla Verità per
la Verifica, alla Realtà per il Sogno»137.

5. Logofobia

5.1 Quanto appena visto porta - secondo Maritain - al dissolvimento del


«valore della prefilosofia spontanea che si esprime attraverso il
linguaggio del senso comune»138. Il pensatore francese denuncia quel
degrado che si sta verificando sul piano del Logos, quel «potente
disgusto della Ragione»139 che prende il volto di «logofobia che
lussureggia sotto i nostri occhi»140. Scrive Gianni Vattimo: «È legittimo
sospettare che il bisogno di “idee chiare e distinte” sia ancora un residuo
metafisico e oggettivistico della nostra mentalità»141.
La logofobia consiste appunto nella perdita di «fiducia non solo nel
sapere filosofico, ma nella prefilosofia spontanea che è per l’uomo come
un dono di natura incluso nell’equipaggiamento di prima necessità che si
chiama senso comune, e velato quanto manifestato dal linguaggio
comune»142. Sotto l’etichetta di «categorie del linguaggio»143 ci si trova
oggi a mascherare e a denigrare, o meglio, «a farsi beffa di quelle cose,
oscuramente percepite dall’istinto dello spirito, che sono il bene e il
male, l’obbligo morale, la giustizia, il diritto, o ancora l’essere extra-
mentale, la verità, la distinzione tra sostanza e accidente, il principio
d’identità»144. «La febbre neo-modernista»145 che affligge il nostro
tempo non poteva portare frutti peggiori: se queste cose succedono
«vuol dire che tutti cominciano a perdere la testa. Si invochi pure finché
si vuole lo slogan delle categorie del linguaggio. Non è il linguaggio a
fare i concetti, sono i concetti a fare il linguaggio»146.
In effetti, l’esortazione di Misone, uno dei Sette Sapienti ricordato da
Platone: «Indaga le parole a partire dalle cose, e non le cose a partire
dalle parole», è oggi fortemente osteggiata. Le conseguenze vengono
messe in evidenza dallo stesso Maritain: «Questa prefilosofia cade in
polvere e per ciò che riguarda le condizioni primordiali poste dalla sua
natura all’esercizio della ragione, l’uomo diventa simile ad un animale
che avesse perduto il proprio istinto, a un’ape che non avesse più
37

l’istinto di fare il miele, a pinguini o ad albatri che non avessero più


l’istinto di costruire il nido»147. «Primo dovere dei filosofi», dunque -
secondo il “teorico dell’assoluto” - sarebbe quello «di ripulire
accuratamente tutte queste nozioni per scoprire la purezza del loro senso
autentico - diamante nascosto sotto la sporcizia; - senso che è funzione
dell’essere e non della pratica umana»148.
D’altra parte «la facoltà del linguaggio è stata talmente disonorata, il
senso delle parole talmente falsato, tante verità presentate in ogni
occasione dalla stampa e dalla radio sono, in ogni istante e in ogni modo
perfetto, mescolate a tanti errori parimenti annunciati a suon di tromba
dalla pubblicità, che gli uomini sono tratti a perdere il senso della verità.
Si è talmente mentito agli uomini, ch’essi hanno bisogno, come di un
tonico, di dosi quotidiane di menzogne; essi mostrano di credervi, ma
cominciano a praticare una specie di vita mentale clandestina, nella
quale essi, non credendo nulla di ciò che è loro detto, finiscono per
affidarsi solamente all’esperienza selvaggia e agli istinti elementari»149.
Maritain denuncia, senza mezzi termini, il pericolo di un cedimento
totale del Logos e di una sua riduzione ad un «simbolismo
convenzionale»150:

«Non si crede più al diavolo, né agli angeli cattivi; né ai buoni,


naturalmente. Essi non sono che sopravvissuti eterei di un museo di
immagini babilonese. A dire il vero, il contenuto oggettivo al quale la
fede dei nostri avi si appoggiava, è tutto un mito ormai, come il peccato
originale, per esempio (non è forse nostra grande preoccupazione oggi
spazzar via il complesso di colpevolezza?) e come il Vangelo
dell’Infanzia e la resurrezione dei corpi e la creazione. E come il
Cristo storico naturalmente. Il metodo fenomenologico e la scuola delle
forme hanno cambiato tutto. La distinzione tra natura e grazia è
un’invenzione scolastica, come la transustanziazione. L’inferno, perché
darsi da fare a negarlo? È più semplice dimenticarlo, ed è
probabilmente quanto si può far di meglio con l’Incarnazione e la
Trinità. Ad essere sinceri, la massa dei nostri cristiani pensa forse mai
a tali cose o all’anima immortale e alla vita futura? La Croce e la
Redenzione, sublimazione estrema degli antichi miti e riti immolatori,
sono da guardarsi come i grandi e commoventi simboli, per sempre
impressi nella nostra immaginazione, dello sforzo e dei sacrifici
collettivi necessari per portare la natura e l’umanità al grado
d’unificazione e di spiritualizzazione, - e di potere sulla materia - in cui
38

esse saranno infine liberate da tutte le antiche servitù ed entreranno in


una specie di gloria.
[…] La nostra fede, avendo così debitamente evacuato ogni oggetto
specifico, può diventare finalmente ciò che realmente era, una semplice
aspirazione sublimizzante; […] Tutta questa gente ha semplicemente
finito di credere alla Verità e crede soltanto a verosimiglianze
appuntate con uno spillo su alcune verità (cioè a verificazioni o
constatazioni del particolare osservabile) che del resto invecchiano in
fretta»151.

E in effetti, in quest’epoca «del fallibilismo e del tramonto degli


assoluti»152, il concetto stesso di peccato, così come Maritain aveva
presagito, si riveste di relativismo. Si domanda Vattimo, esponente del
pensiero debole:

«Non accadrà di quello che noi chiamiamo peccato quello che si è


verificato a proposito delle tante prescrizioni rituali che erano
contenute nel Vecchio Testamento, e che Gesù ha messo fuori gioco
come provvisorie e non più necessarie? Non solo il sabato (“Non
l’uomo per il sabato, ma il sabato è per l’uomo”), ma la stessa
circoncisione, che non è più una condizione indispensabile per
appartenere al popolo di Dio. Che cosa impedisce di pensare che
anche gli altri peccati, che noi ancora crediamo tali, siano destinati un
giorno a svelarsi nella stessa luce?»153

Si arriva così al nichilismo che ha invaso il pensiero occidentale, che -


se misto a «quel senso di potenza che l’odierno progresso tecnico
immette nell’uomo»154 - si preferisce etichettare come debolismo, quella
sorta di «teoria dell’indebolimento come carattere costitutivo dell’essere
nell’epoca della fine della metafisica»155.

«Quale filosofia del nulla, esso riesce a esercitare un suo fascino sui
nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a
se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta
della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo
un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il
primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo
cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è
fugace e provvisorio.»156
39

È intuibile allora, in questa prospettiva, l’odierna «tendenza a dare


all’efficacia il primato sulla verità»157. Ora, per Maritain, secondo cui «i
relativisti dimenticano la verità in nome dell’amore»158, ciò si presenta
erroneo e alquanto grave, in special modo all’interno della fede:
«Veniteci a parlare d’efficacia! Il risultato sarebbe infine la defezione
d’una grande moltitudine. Il giorno in cui l’efficacia prevalesse sulla
verità non verrà mai per la Chiesa, poiché quel giorno le porte
dell’inferno avrebbero prevalso su di essa»159. Egli ribadisce con forza
l’umana vocazione originaria della «ricerca del vero»160: «non è
possibile per un cristiano essere relativista»161, «l’uomo è fatto per la
verità»162… e «il Buon Pastore è proprio la Verità stessa»163.

5.2 Niente può essere messo davanti alla verità. Né la ragione può
venire secolarizzata o indebolita, come vorrebbe un Vattimo quando
afferma che persino «la ragione va secolarizzata, in fondo, in nome della
carità»164: «Come infatti quei poveri imbecilli che siamo potrebbero, per
fede, conoscere con piena certezza la Verità soprannaturalmente
rivelata, alla quale lo spirito dell’uomo non è proporzionato, se non
potessimo conoscere con piena certezza le verità d’ordine razionale, alle
quali esso è invece proporzionato?»165. «È illusorio pensare che la fede,
dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al
contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o
superstizione»166, con la conseguenza di un «offuscamento della vera
dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il
vero e di ricercare l’assoluto»167.
È vero che, «parlando dei tempi moderni, si può dire che la loro
caratteristica è un indebolimento e un generale decadimento della
ragione»168: «Il mondo moderno produce e consuma una straordinaria
quantità di derrate intellettuali. Non ci sono mai stati tanti autori, tanti
professori, tanti ricercatori, tanti laboratori e strumenti, tanto talento,
tanta carta. Ma se vogliamo stimare le cose dalla qualità, e non dal
peso, si vedrà ciò che esso in realtà è, e si rimarrà spaventati dalla
diminuzione dell’intelligenza. L’Intelligenza in senso comune, l’agilità
nell’agitar parole, è ben presente, e regna; ma l’intelligenza vera è
soltanto una mendicante scacciata da ogni luogo» 169. E aggiunge:
«Sembra che in questi tempi la verità sia troppo forte per le anime e
ch’esse possano nutrirsi soltanto di verità sminuite»170:
40

«Il piccolo meccanismo del ragionamento procede senza sosta,


sminuzzando, sbriciolando, criticando, discutendo, svilendo ogni
pensiero, e trasformando tutto ciò che gli vien presentato, errore o
verità poco importa, in una sorta di pasta amorfa che si può tagliar
come si vuole, che si presta a tutte le manipolazioni e s’adatta a tutti i
gusti, e che gl’istitutori ed i giornali hanno il compito di distribuire alle
anime. Ma la realtà, che ha una forma e che resiste, e che vuole che si
dica sì o no, spaventa la ragione fiacca. Non si sa più scegliere; non si
sa più tirar la conclusione di un sillogismo, e si pensa che il fatto che
ogni uomo è mortale, e che Paolo è uomo, può forse provare soltanto, a
rigore, ma senza certezza, e con molta buona volontà, che Paolo è
mortale.»171

D’altra parte è pur vero che «l’uomo, per natura, ricerca la verità» 172, e
tale ricerca «non può trovare esito se non nell’assoluto» 173. E, se si
«vuole evitare che le verità “impazziscano” nel radicalismo
nichilista»174, bisogna seguire una sapienza capace di riconoscere che
«l’uomo vale più per quello che “è” che per quello che “ha”» 175 e
cercare ad ogni costo di «riconciliare il mondo con la verità»176. In
un’epoca che si è fermata alle soglie della quantità, in una conditio
humana mutata, nella quale l’homo faber per un verso si è trasformato
in homo creator, dove l’avere ha visto l’affermazione sull’essere, e
dove si assiste ad «una così rapida e crescente dispersione delle scienze
particolari», c’è un urgente bisogno di armonizzare e «mantenere
nell’uomo le facoltà della contemplazione e dell’ammirazione che
conducono alla sapienza»177: «L’epoca nostra, più ancora che i secoli
passati, ha bisogno di questa sapienza, perché diventino più umane tutte
le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a
meno che non vengano suscitati uomini più saggi»178.

6. Cronolatria epistemologica

6.1 Già Platone, nel suo Cratilo, aveva messo in discussione quel
particolare tipo di relativismo fondato sul panta rei, il mobilismo
eracliteo: «Ma neppure è lecito dire che esiste conoscenza, o Cratilo, se
tutte le cose mutano e nessuna sta ferma…»179. Ora, in «questo nostro
strano tempo»180, il mobilismo assume una veste nuova, intelaiandosi
nella dimensione temporale in modo tale da vanificare con «l’adorazione
41

dell’effimero»181 qualunque accenno alla verità: «Preoccupandosi della


verità e affermandola, lo spirito trascende il tempo. Far passare le cose
dello spirito sotto la legge dell’effimero, che è quella della materia e del
puramente biologico, far come se lo spirito fosse sottomesso al dio delle
mosche, ecco il primo segno, il primo sintomo grave della malattia
denunciata da san Paolo»182. Così Maritain evidenzia quel «deplorevole
desiderio di novità»183, quel «prurito alle orecchie»184 che nel nostro
tempo «ha l’aria di battere brillantemente ogni record»185: la cronolatria
epistemologica.
La «malattia annunciata da s. Paolo per un tempo da venire (erit enim
tempus…)»186 sembra aver trovato, dopo due millenni, il vero focolaio:
«E il prurito alle orecchie diventerà così generale che non si potrà più
ascoltare la verità e ci si volgerà verso le favole» 187. E di «favole» si
nutre il nostro “vuoto semantico-ontologico e valoriale” creato dalle
«correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità», dove «il
tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato, [e dove] l’uomo
dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di
senso, all’insegna del provvisorio e del fuggevole»188. Si pensi al
“vortice new age”, dove l’inebriante, l’insolito, l’assurdo, il
fantascientifico vengono attinti dallo stesso pensiero scientifico
contemporaneo:

«“Alcuni esperimenti hanno rivelato che quando si frantuma questa


energia in minuscole parti (quelle che chiamiamo particelle elementari)
e cerchiamo di osservare come agiscono, l’atto stesso di osservare
altera i risultati - come se il loro comportamento venisse influenzato
dalle aspettative di chi compie l’esperimento. Ciò accade anche quando
le particelle appaiono in luoghi in cui, secondo le leggi dell’universo
così come le conosciamo, non sarebbe possibile: in due posti diversi
nello stesso momento, avanti o indietro nel tempo, tanto per capirci.”
Si fermò di nuovo. “In altre parole, la materia basilare dell’universo, il
suo stesso centro, si presenta come una specie di energia pura che si
piega alle intenzioni e aspettative umane in un modo che sfida l’antico
modello meccanicistico del cosmo - come se le nostre speranze
proiettassero nel mondo la nostra energia, influenzando altri sistemi
energetici. Il che, naturalmente, è esattamente ciò che la Terza
Illuminazione ci porterà a credere.”»189

E chissà a quante “Illuminazioni” ci porterà, di questo passo, la «sacra


42

voracità del divenire»190. L’”assoluto”, lo “spirituale”, il “trascendente”


vengono posti in oblio alla maniera dei concetti antiquati di calorico,
flogisto e spiriti vitali. Se con Comte lo spirito positivista dichiarava
che «tutto è relativo, ecco la sola cosa assoluta», oggi lo “spirito
cronoloiatrico” del post-positivismo può rivelare che «la verità d’oggi…
sarà falsa domani»191. Precisa Maritain: «Tutto ciò che era considerato
per l’addietro come superiore al tempo e partecipe di una qualche qualità
trascendente - valore ideale o realtà spirituale - è ormai assorbito nel
movimento dell’esistenza temporale o nell’oceano onnipotente del
divenire e della storia. Verità, giustizia, bene, male, fedeltà, tutte le
norme della coscienza, ormai rese perfettamente relative, non sono più
che delle forme mutevoli del processo della storia… La verità quindi
cambia secondo il mutare del tempo. Una certa azione da me compiuta,
oggi è atto meritorio, domani sarà delitto… Non vi è niente di eterno
nell’uomo, egli morrà tutto intiero, non vi è niente da salvare in lui. Ma
egli può darsi, e darsi interamente al tutto di cui egli è una parte, al
flusso senza limite che è l’unica realtà e che regge il destino
dell’umanità… Non solo egli è soddisfatto di perire in esso, come un
filo d’erba nel limo della terra per renderlo più fertile, dissolvendosi in
esso, ma consente pure che il suo proprio essere totale, con tutti i suoi
valori, i suoi limiti e le sue credenze, sia ceduto a questo grande
Minotauro che è la storia»192.
Lucida è la sintesi che pavimenta Vittorio Possenti nell’introduzione a
Riflessioni sull’intelligenza…:

«La continua produzione/distruzione di valori, il cambiamento elevato a


unica regola trascendentale della realtà e dell’agire umano, ossia in
altri termini la paradossale “tradizione del nuovo” (o anche la
“tradizione di ciò che non c’è più”) costituiscono il profilo del
modernismo culturale, che possiede una valenza assai più ampia del
semplice (e derivato) modernismo religioso. Non è senza importanza
osservare che il modernismo è interno alla dialettica dell’idea di
progresso, che implica il continuo superamento dell’esistente in una
nuova fase anch’essa presto destinata all’oltrepassamento. La
coscienza della caducità e mortalità di ogni cosa è il lato d’ombra (ma
intrinseco) dell’ideologia del progresso veicolata dalla modernità.»193

Grazie all’«adorazione dell’effimero», al «fissarsi ossessivo sul tempo


che passa»194, ogni verità è provvisoria e mai definitiva, “temporale”,
43

sempre moderna195: «nulla infatti invecchia con la rapidità della moda e


delle teorie che fanno della verità o delle formulazioni concettuali una
funzione del tempo»196. «Il neomodernista non si preoccupa di vedere
invecchiare le sue credenze, perché lui è un uomo di questo mondo,
perché vuole sempre essere aggiornato, sempre rinnovarsi, ed ha finito
per rendere assoluto il divenire e ciò che è relativo e provvisorio»197.

6.2 Il rischio è che, a causa di una ingenua ed eccessiva fede di buona


parte dei credenti in quella che potrebbe essere «una scienza di falso
conio»198 , «amando le novità più del dovuto e timorosi di essere ritenuti
ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest’epoca di
progresso»199, tale mobilismo si trasmetta anche nel campo della fede,
indebolendo lo stesso dogma: «Al termine “moderno” viene attribuito un
significato emotivo-normativo, quasi soteriologico: è la fede nella
superiorità del moderno sul “vecchio” e sul “superato” in quanto, delle
tre dimensioni temporali, il passato (che in ogni civiltà tradizionale è
carico di valore) perde ogni significato, insieme con il presente, il quale
vale solo come “rampa di lancio” verso il futuro utopico. La
dimensione temporale della modernità è il futuro, o meglio, l’avvenire,
che è il futuro privato del suo significato escatologico. È il trionfo di
Utopia, il Dio-in-avanti che sempre si attende e si attenderà, perché
sempre deve e dovrà venire»200.
Lo stesso magistero ecclesiale aveva ravvisato - già con Pio IX 201
(1864) prima e con Pio X tramite la Pascendi del 1907 dopo - il rischio
di una “verità relativa” soggetta alle “intemperie” della scienza della
propria epoca: «Per detto dunque e per fatto dei modernisti nulla,
venerabili fratelli, vi deve essere di stabile, nulla di immutabile nella
chiesa»202. Per bocca di Pio XII poi, aveva messo in guardia contro il
«fluttuante» che «rende lo stesso dogma simile ad una canna agitata dal
vento»:

«E perciò taluni, più audaci… affermano, non possono mai esprimersi


con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e
sempre mutevoli, con i quali la verità viene in un certo qual modo
manifestata, ma necessariamente anche deformata. Perciò ritengono
non assurdo, ma del tutto necessario che la teologia, in conformità dei
vari sistemi filosofici, di cui essa nel corso dei tempi si serve come
strumenti, sostituisca nuovi concetti agli antichi; cosicché in modi
diversi, e sotto certi aspetti anche opposti, ma - come essi dicono -
44

equivalenti, esponga al mondo umano le medesime verità divine.


Aggiungono poi che la storia dei dogmi consiste nell’esporre le varie
forme di cui si è rivestita successivamente la verità rivelata, secondo le
diverse dottrine e le diverse opinioni che sono sorte nel corso dei secoli.
Da quanto abbiamo detto è chiaro che queste tendenze non solo
conducono al relativismo dogmatico, ma di fatto già lo contengono;
questo relativismo è poi fin troppo favorito dal disprezzo verso la
dottrina tradizionale e verso i termini con cui essa si esprime.
[…] Per tali ragioni, è della massima imprudenza il trascurare o
respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da
persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro
magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono
state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere
sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni
ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le
quali, a somiglianza dell’erba dei campi, oggi vi sono e domani
seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile ad una canna
agitata dal vento.»203

Maritain, dunque, ci assicura che «Essere in disaccordo col ritmo


intellettuale del proprio tempo è un guaio minore per il filosofo che per
l’artista»204. Con tutto ciò, per Maritain è più che lecito amare il nuovo,
«ma a condizione che questo nuovo continui veramente l’antico, e si
aggiunga, senza distruggerla, alla sostanza acquisita»205; in perfetta
armonia col magistero della chiesa:

«Qualsiasi verità la mente umana con sincera ricerca ha potuto


scoprire, non può essere in contrasto con la verità già acquisita; perché
Dio, somma Verità, ha creato e regge l’intelletto umano non affinché
alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga altre
nuove; ma affinché, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero
insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la
medesima organicità con cui vediamo costituita la natura stessa delle
cose da cui la verità si attinge. Per tale ragione il cristiano, sia egli
filosofo o teologo, non abbraccia con precipitazione e leggerezza tutte
le novità che ogni giorno vengono escogitate, ma le deve esaminare con
la massima diligenza e le deve porre su una giusta bilancia per non
perdere la verità già conquistata o corromperla, certamente con
pericolo e danno della fede stessa.»206
45

7. Conclusione

Abbiamo visto come le svolte fondamentali del pensiero scientifico,


“le umiliazioni inferte dalla scienza”, seguano un filo di Arianna che
approda al relativismo, ossia ad un nitido indebolimento dell’assoluto, al
decentramento dei fondamenti, alla perdita delle certezze. Bisogna di
ciò prenderne atto in relazione al pensiero debole della nostra epoca:
questo è espressione di quell’indebolimento della dimensione
ontologico-semantica verificatosi prima nel piano della scienza, poi in
quello del pensiero filosofico (ormai contagiato dal primo), e infine in
quello etico e religioso. È questa una delle analisi fondamentali e
preziose che Maritain ci lascia in eredità.
Lo scienziato, quindi, si ritrova come background un “reticolo
epistemologico-subliminale” invisibile ma presente, sfondo stellato della
ricerca scientifica e relativa ermeneutica da Galileo fino ai nostri giorni,
che “per interpolazione” giustifica e legittima la moderna immagine
relativista e debolista. Ci preme, a questo punto, rilevare che “i punti
d’interpolazione” utilizzati, cioè i vari decentramenti e detronizzazioni,
non sono a loro volta «Beyond a Shadow of a Doubt», per citare un
commento del noto fisico Clifford Will riguardo la relatività di Einstein:
ossia, la “cornice relativizzante” non è essa stessa assoluta e
irreversibile; l’ideologia scientista cade qui in un grossolano sofisma
quando fa assurgere il contingente a dogmatica certezza.
«Gli innegabili successi della ricerca scientifica e della tecnologia
contemporanea hanno contribuito a diffondere la mentalità scientista,
che sembra non avere più confini, visto che è penetrata nelle diverse
culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato. […] Accantonata,
in questa prospettiva, la critica proveniente dalla valutazione etica, la
mentalità scientista è riuscita a fare accettare da molti l’idea secondo cui
ciò che è tecnicamente fattibile diventa per ciò stesso anche moralmente
ammissibile»207.
Maritain non si lascia abbindolare da un tale quadro semantico e la sua
prima reazione, quella contro il positivismo, va inquadrata all’interno
della cornice antirelativista, al «bisogno di assoluto»208. Dopodiché,
tramite il concetto di cronolatria epistemologica, egli ha puntellato un
altro aspetto dell’assoluto: quello, cioè, di resistere «alle fluttuazioni del
tempo»209. Infine, col concetto di logofobia, smaschera il tessuto
46

epistemologico sottostante il cosiddetto pensiero debole, che,


“minuscolizzando” la V maiuscola del Quid est Veritas di Pilato,
deliberatamente rifiuta «quel desiderio della Verità senza il quale non si
è uomini»210.
In sintesi, la nostra epoca si caratterizza all’insegna «della cultura
dell’effimero, che nasce dall’adorazione del tempo (cronolatria) e dal
disprezzo della verità (logofobia) e si traduce nel prassismo e
nell’efficientismo (dell’epoca contemporanea)»211. Ciò si traduce in
«una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti»212, in una
«crisi del senso»213, «all’affermarsi del fenomeno della frammentarietà
del sapere»214, in uno «stato di scetticismo e di indifferenza o nelle
diverse espressioni del nichilismo»215, nonché in una acclamata «fine
della metafisica»216, tutto ciò fomentato da un mai spento e anti-
tomistico scientismo che aleggia in ogni angolo della nostra cultura
contemporanea.
Il mondo moderno sembra aver intrapreso una direzione per certi versi
opposta a quella suggerita dal «testo sacro»: in questo, infatti, «ciò che
emerge, comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di
materialismo, di panteismo»217. Tutto ciò porta, inevitabilmente, «a una
più generale concezione, che sembra costituire l’orizzonte comune a
molte filosofie che hanno preso il congedo dal senso dell’essere»218, ad
un nichilismo occulto quanto operante, commisto ad una “fabulatria
polifemica”, grazie alla quale «le varie potenze d’illusione si diffondono
sul mondo intero disorientando tutte le bussole»219.
Ed è lo stesso gusto dell’effimero, del transitorio, che veste di risibile
oggi pensatori come Maritain che hanno scavato, con profitto, nella
tradizione. Eppure «il richiamo alla tradizione… non è un mero ricordo
del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un patrimonio
culturale che appartiene a tutta l’umanità. Si potrebbe, anzi, dire che
siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa
come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò
che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo
e progettuale per il futuro»220.
L’incontro fra il pensiero del pensatore francese e quello
contemporaneo è più che produttivo, poiché fa scaturire «la scoperta
della possibilità, per l’uomo del nostro tempo, di un umanesimo
integrale, autenticamente eroico, proteso alla ricerca dell’Essere, della
Verità, della Bellezza, del Bene oggettivi e capace di superare,
nell’orizzonte della conoscenza, tanto il fenomenismo quanto
47

l’idealismo, e, in quello dell’etica, il soggettivismo e il relativismo» 221.


Lo sforzo di Maritain è stato quello di restituire dignità alla verità,
addirittura urgenza: perdere il contatto con il logos - con la verità -
infatti, significa perdere la struttura semantica e la tavola dei valori, il
senso e l’orientamento dell’umano esistere, il supremo bene della
libertà: «Una volta che si è tolta la verità all’uomo, è pura illusione
pretendere di renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano
insieme o insieme miseramente periscono»222. Urge quindi il bisogno di
ritornare ad «una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace
cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della
verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante» 223. Ci esorta
Giovanni Paolo II: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo
millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario
quanto urgente, dal fenomeno al fondamento».

NOTE

1 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 88.

2 Ibidem, 5.

3 Ib., 28.

4 J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 20.

5 V. Possenti, in J. Maritain Riflessioni sull’intelligenza e la sua vita propria, p. 21.

6 J. Maritain, Antimoderno, p. 27.

7 J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 111.

8 J. Maritain, Per un umanesimo cristiano, p. 47.

9 J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 86.

10 Giovanni Paolo II, op. cit., 5.

11 Ibidem, 6.

12 Ib., 56.
48

13 Diels, 80, B1.

14 Teeteto, 152 a.

15 Diels, 90, 2 [18].

16 J. Maritain, La filosofia morale, p. 16.

17 Ibidem, p. 18.

18 Ibidem, p. 17.

19 Ib., p. 16.
20
Platone, Teeteto, III, 1.

21 J. Maritain, op. cit., p. 18.

22 G. Reale, Saggio introduttivo per una lettura storico-critica del «Fedone», p. 40.

23 Ibidem.

24 Ib., p. 45.

25 Ib., pp. 39-40.

26 Ib., p. 41.

27 G. Reale, op. cit., p. 43. Come sottolinea anche Maritain: «Con lui lo sguardo
dell'intelligenza si rivolge ad un mondo di essenze separate dalle cose, e giunge così
ad una metafisica dell'extra reale, concepita secondo l'immagine della matematica.»
(J. Maritain, Scienza e saggezza, p. 85).

28 Spiega Maritain: «In seguito alle speculazioni dei filosofi della Jonia che
cercavano solamente di designare il principio materiale delle cose, Eraclito si
domanda: è possibile un sapere del mondo sensibile? Risponde negativamente.
Anche per Platone non esiste una filosofia della natura. Per conquistare la scienza,
bisogna, volgendosi verso le idee, distogliersi dal mondo sensibile che, tuttavia, non
esiste se non attraverso le idee. Platone scopre la metafisica, ma per lui non esiste
una scienza propriamente detta della natura. È con Aristotele che la filosofia della
natura viene infine fondata. Un sapere del mondo sensibile è possibile, non tanto in
quanto sensibile, ma in quanto implica nella sua struttura delle invarianti intelligibili
che dipendono dalle forme specificatrici.» (J. Maritain, Sulla nozione di filosofia
della natura, p. 182). «Una scienza, un sapere della natura sensibile è possibile,
indubbiamente non certo in quanto sensibile, ma in quanto elementi e leggi
49

intellegibili sono investiti in essa» (Ibidem, p. 15). La scienza, quindi, nasce da


«l'atto di coraggio intellettuale di Aristotele, che supera la tentazione di
scoraggiamento e la delusione provocata all'intelligenza dallo spettacolo dello
scorrere del divenire e dalle contraddizioni dei primi cercatori.» (J. Maritain,
Scienza e saggezza, p. 86).

29 G. Reale, Introduzione alla Metafisica di Aristotele, p. XXXIII.


30
U. Bartocci, Alle origini della costruzione dell’immagine scientifica del mondo:
un problema storiografico, p. 57.
31
S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, pp. 660-663.
32
Lo stesso Maritain, in Umanesimo integrale, mette in luce, con maggiore
profondità e con medesimo contrasto, il “sinistro” sentiero al quale queste “orme”
della nuova scienza sembrano voler indicare: «L'uomo, secondo questo punto di
vista [darwinismo], non appare soltanto come derivante da una lunga evoluzione di
specie animali (il che è, dopo tutto, questione secondaria, puramente storica) ma
bensì come derivante da questa evoluzione biologica senza discontinuità metafisica,
senza che, a un dato momento, con l'essere umano, qualcosa di assolutamente nuovo
s'inizi nella serie: una sussistenza spirituale implicante che a ogni generazione di un
essere umano, un'anima individuale è creata dall'autore di tutte le cose e gettata
nell'esistenza per un destino eterno. L'idea cristiana dell'uomo o della persona
umana, poggiata sul dogma rivelato, non è stata scossa dal darwinismo. Ma l'idea
razionalistica della persona umana ne ha ricevuto un colpo mortale. Il secondo
colpo, il colpo di grazia, se così posso dire, doveva portarlo Freud nel campo della
psicologia... Il centro di gravità dell'essere umano è disceso così in basso che,
parlando propriamente, non c'è più personalità per noi ma solo il movimento fatale
di larve polimorfe del mondo sotterraneo dell'istinto e del desiderio - Acheronta
movebo, afferma Freud stesso - e che ogni ben regolata dignità della nostra
coscienza personale appare come una maschera mentitrice. In definitiva, l'uomo
non è che il luogo d'incrocio e di conflitti d'una libidine anzitutto sessuale e d'un
istinto di morte... L'uomo... è devastato, diventa un mostro, un mostro caro a se
stesso.» (J. Maritain, Umanesimo integrale, pp. 82-83).
33
G. Sermonti, La concezione della vita: da Aristotele a Darwin a oggi, pp. 222-
223.
34
«C'è qualcosa che rende insopportabile Aristotele ai "moderni". È l'aver egli
annoverato, tra le cause che concorrono alla composizione e al moto dei corpi
viventi, la causa formale, o "entelechia", una forza interna corrispondente a quello
che oggi chiamiamo "principio di organizzazione"» (Ibidem, p. 222).
35
P.P. Wiener - A. Noland, Le radici del pensiero scientifico, p.5.
50

36
Ibidem, p.6.

37 La via seguita è quella che potremmo definire “galileiano-newtoniana”, dove


sotto l’«hypoteses non fingo» si nasconde in germe una linea empirio-operazionista
che finirà per approdare al “meta-programma” bohr-heisenberghiano della nostra
epoca, eco fedele di quell’animalisation della materia che «cessa di essere bruta per
divenire sensibile animalizzandosi (en s’animalisant)» [Paul-Henry Thiry
d’Holbach, Sistema della natura, p. 12]. Con «Bohr, Pauli e Heisenberg» -
commenta Popper - «[…] La fisica era diventata un bastione della filosofia
soggettivistica, ed è rimasta tale da allora in poi.» (K. Popper, Unended Quest. An
Intellectual Autobiography, p. 153. Si veda F. Selleri, Quantum Paradoxes and
Physical Reality, cap. 3, per un’attenta analisi sulla componente “metafisica” della
fisica moderna). Esisterebbe un’altra via, quella “cartesiano-todeschiniana” (si
rimanda a La teoria delle apparenze - 1949 - e Psicobiofisica - 1978 - dello
scienziato bergamasco Marco Todeschini per una visione globale) che,
contemplando anche un mondo spirituale e “disanimalizzando” quello fisico, è stata
bistrattata e “deviata” in un angolo del popperiano mondo 3, quello delle
“congetture sepolte” dall’establishment.
38
Citato in Sermonti, op. cit., p. 236.
39
Ibidem. E con lodevole chiarezza Pio XII nell'enciclica Humani generis: «Però
alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già
dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia
organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti
basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della divina rivelazione non vi
fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela.» (EE
19/736).
40
«La filosofia classica e quella scolastica potevano pertanto far scaturire la
riflessione antropologica e morale dalla fondazione dell'orizzonte metafisico e
gnoseologico. Quella moderna e contemporanea, al contrario, segnata da un
radicale antropocentrismo, ha preso avvio proprio dalla riflessione sull'uomo per
scardinare la prospettiva metafisica, pervenendo, infine, all'affermazione del
soggettivismo e del relativismo gnoseologico e morale.» (M.L. Buscemi - R.P.
Rizzuto, in AA.VV. Jacques Maritain e il pensiero contemporaneo, p. 6).
41
J. Maritain, Antimoderno, p. 80.
42
P. Viotto, in J. Maritain Scienza e saggezza, p. 11. «Ogni sapere filosofico delle
cose distinto dalla conoscenza che le scienze ne procurano era ormai tolto di
mezzo.» (J. Maritain, La filosofia morale, p. 327).
43
G. Morra, Ateismo e non-credenza nelle società occidentali, p. 91.
51

44
Ci ricorda Maritain che, al contrario di quanto viene comunemente creduto, il
“totale abbandono nella scienza” non è stato affatto superato nella nostra epoca: «
noi viviamo nel mondo di Auguste Comte» (Il contadino della Garonna, p. 18).
Ciò viene in effetti confermato anche da Giovanni Paolo II: «La critica
epistemologica ha screditato questa posizione [positivista], ed ecco che essa rinasce
sotto le nuove vesti dello scientismo» (Fides et ratio, 88).
45
D'altra parte, come ci ricorda Olivier Lacombe, lo stesso Maritain era passato
durante la giovinezza sotto la disperazione del relativismo: «Il relativismo
dell'insegnamento ufficiale aveva condotto Jacques Maritain ad un agnosticismo
accompagnato da una disperazione che non era semplicemente disincantamento
romantico, ma ferita mortale inflitta ad un'anima e a un cuore fatti per la verità e
l'amore assoluti.» (O. Lacombe, L'itinerario spirituale di Jacques Maritain, p. 26).
46
Ibidem.
47
Come sottolinea Cassisa, l'asse stesso dei valori è condizionato dalla moderna
immagine del mondo: «Chi ignora gli influssi esercitati dall'illuminismo, dal
soggettivismo, dall'idealismo, dal positivismo, dal marxismo, dalle teorie di
Nietzsche sulla crisi dei valori che travaglia il mondo moderno?» (S. Cassisa, Il
filosofo e l'impegno per la verità, p. 20). E aggiunge: «La rivoluzione copernicana
fa sentire qui i suoi effetti. Non potendo fondarsi sull'essere, l'etica si fonderà sul
soggetto, cioè sulla coscienza morale o, più esattamente, sulla ragione pratica, del
soggetto: su una ragione, intendiamoci, disgiunta dall'ordine ontologico, dai fini
oggettivi, dal bonum honestum» (Ibidem, p. 26).
48
J. Maritain, Antimoderno, p. 166.
49
J. Maritain, La filosofia morale, pp. 331 e sg.
50
S. Cassisa, op. cit., p. 32.
51
Cit. in J. Maritain, op. cit., p. 332.
52
Ibidem, p. 333. Maritain - aggiunge Cassisa - rimprovera a Comte anche «la
cosiddetta "legge dei tre stati" (teologico, metafisico e positivo), storicamente non
verificata e del resto contraddicente il relativismo, dal momento che lo stato positivo
viene presentato come assolutamente superiore agli altri... Gli rimprovera la
subordinazione della scienza stessa all'utilità, alla tecnica. Gli rimprovera un
ateismo peggiore di quello di Marx: 1) perché Comte non si preoccupa neppure di
negare Dio: per lui la questione di Dio non si pone più o non ha senso, come dirà il
neo-positivismo di Ayer; 2) perché, mentre il Dio che Marx rigetta è il dio
hegeliano, l'Imperatore del mondo, il Dio che Comte ha rigettato - a tredici anni! - è
il vero Dio del catechismo. Infine - last not least - Maritain rimprovera a Comte la
52

negazione del valore in sé della persona umana, la cui "dignità" (degno, dignità:
parole care a Comte) le viene tutta dalla società umana, dall'umanità, vero soggetto
della "sintesi soggettiva", alla quale, secondo l'ultima filosofia di Comte, spetta di
unificare il sapere, non unificabile sul piano oggettivo.» (S. Cassisa, op. cit., p. 32).
53
J. Maritain, op. cit., p. 334.

54 J. Maritain, Scienza e saggezza, p. 75.

55 Ibidem, p. 89.

56 Ib., p. 78.

57 P. Viotto, op. cit., pp. 10-11.

58 R. Rucker, La mente e l'infinito. Scienza e filosofia dell'infinito, p. 218.

59 Marvin Minsky, Macchine intelligenti, p. 148.

60 J. Maritain, Il neovitalismo in Germania e il darwinismo, p. 232.

61 Cit. in P. Emanuele, Nel meraviglioso mondo della filosofia, pp. 109-110.

62 J.P. Changeux e A. Connes, Pensiero e materia, p. 261.

63 Cit. in Sermonti, op. cit., p. 237.

64 J. Maritain, Antimoderno, p. 38.

65 L. Smolin, La nascita della terza cultura, p. 21.

66 D.C. Dennett, Le pompe dell’intuizione, p. 60.

67 Ibidem, p. 169.

68 J. Monod, cit. in Sermonti, op. cit., p. 240.

69 J. Monod, Il caso e la necessità, p. 143.

70 G. Sermonti, op. cit., p. 240.

71 J. Maritain, Antimoderno, p. 75.


53

72 J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, p. 3.

73 Ibidem, p. 6.

74 Ib., p. 7. Si noti che tale “metafisica”, posta in risalto da Rachels, è in perfetta


coerenza con la “intelaiatura relativistica” messa in moto dal pensiero scientifico
moderno. Scrive Monod: «È vero che la scienza attenta ai valori. […] Ma allora chi
definisce il crimine? Chi il bene e il male? Tutti i sistemi tradizionali ponevano
l’etica e i valori fuori della portata dell’uomo. I valori non gli appartenevano: essi
gli si imponevano e lo possedevano. Ora invece egli sa di essere il solo a possederli,
sa che finalmente li può padroneggiare e gli sembra allora che essi si dissolvano nel
vuoto indifferente dell’universo. È a questo punto che l’uomo moderno si rivolge
alla Scienza o piuttosto contro la Scienza di cui può valutare il terribile potere di
distruzione non solo del corpo ma anche dell’anima.» (J. Monod, Il caso e la
necessità, p. 138).

75 Ib., pp. 259-261.

76 V. Possenti, in J. Maritain, Riflessioni sull’intelligenza e la sua vita propria, pp.


20-21.

77 J. Maritain, Antimoderno, p. 56.

78 Ibidem, p. 76.

79 Ib., pp. 52-55.

80 Ib., pp. 37-38.

81 P. Silvestroni, Fondamenti di chimica, p. 31.

82 K. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, p. 185. Ci


penserà poi Heisenberg a far tabula rasa di ogni minimo residuo rimasto: «Il
cammino percorso finora dalla teoria quantistica indica che la comprensione di quei
tratti ancora non chiariti della fisica atomica si può raggiungere solo con una
rinuncia all’intuitività» (W. Heisenberg, Lo sviluppo della meccanica quantistica,
p.200).

83 «Logicismo, formalismo, crisi dei fondamenti, etc., sono tutti riconducibili


nell'illustrato contesto ad esiti naturali del tentativo di espungere la geometria
euclidea dai fondamenti della matematica, ritenendola come un modello debole ed
incerto del processo di fondazione.» (U. Bartocci, Riflessione sui fondamenti della
matematica ed oltre, p. 24).
54

84 «La scienza, si dice, si distingue dalla filosofia proprio per il fatto di essere
astratta e di poter rivendicare una validità generale, il che significa che i suoi
risultati sono vincolanti per tutti, mentre nella filosofia, che si occupa anch'essa
della conoscenza, si contrappongono in modo conflittuale diversi tentativi di
spiegazione del mondo. Adesso sembra invece che in alcune delle sue branche più
importanti la matematica non sia rigorosamente esatta e non possa gettare delle
fondamenta logico-ontologiche tali da avere validità generale e da risultare
pienamente soddisfacenti.» (K. von Fritz, Le origini della scienza in Grecia, p. 16).
Polanyi parla addirittura di «paradosso» di una matematica basata su un sistema di
assiomi che non vengono considerati evidenti, nel momento che se anche
logicamente coerenti a livello interno «non si può sapere se escludono qualsiasi
contraddizione fra loro. Può sembrare completamente assurdo che si applichi una
grandissima ingegnosità e un grandissimo impegno per provare i teoremi della
logica o della matematica, mentre le premesse di queste inferenze vengono
allegramente accettate, senza che ci siano ragioni sufficienti per farlo, in quanto
sono "formule asserite e non provate".» (M. Polanyi, La conoscenza personale.
Verso una filosofia post-critica, p. 328). Si aggiunga anche che «la trasmissione
della matematica oggi è stata resa più precaria anche dal fatto che nessun singolo
matematico è in grado di capire pienamente più di una piccola parte della
matematica.» (Ibidem, p. 330).

85 F. Selleri, Fisica senza dogma, p. 64.

86 M. Kline, Matematica: la perdita della certezza, pp. 302-303.

87 Nicolas Bourbaki, cit. da M. Kline, op. cit., p. 311.

88 P. Davies, Sull’orlo dell’infinito. Singolarità nude e distribuzione dello spazio-


tempo, p. 65.

89 Ibidem.

90 F. Selleri, op. cit., pp. 61-63.

91 W. Heisenberg, Il contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica nella


teoria quantistica, p 181.

92 P. Silvestroni, op. cit., p. 31. «Si era sempre ammesso nel passato, che i
fenomeni del mondo fisico fossero governati dal principio di causalità. [...] La
nuova teoria dei quanti, invece, ha portato un cambiamento profondo...» (G.
Castelfranchi, Fisica moderna atomica e nucleare, p. 447). «La formulazione di
Copenhagen della meccanica quantistica rinunciava programmaticamente ad ogni
spiegazione causale nello spazio e nel tempo, dichiarandola impossibile, ed usava la
matematica come forza razionalizzatrice diretta.» (F. Selleri, Fondamenti della
55

fisica moderna, p. 62). «La conseguente rinuncia alle "categorie ordinarie" del
pensiero, fino ad allora intoccate, quali quelle di spazio, tempo e causalità, in favore
di una enunciazione matematica sempre più "astratta", e l'abitudine crescente a
questa, aprirono poi la strada al successo di teorie sempre meno “credibili”» (U.
Bartocci, Fondamenti della teoria dei numeri reali, p. 177).

93 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, p. 212.

94 Ibidem, p. 213.
95
Barcolla finanche il concetto di “esistenza”: «Finché rimaniamo nell'ambito della
fisica classica, tutto risulta semplice e chiaro, ed il concetto di esistenza coincide
con quello comunemente ammesso da tutti. Le cose si complicano notevolmente,
non appena passiamo alla relatività perché allora [...] la nozione di contemporaneità
diventa relativa, e viene quindi a perdere il suo carattere "obiettivo". Accade quindi
che ciò che esiste non viene più a coincidere con il presente dell'osservatore, ma
comprende anche il suo passato ed il suo futuro.» (G. Arcidiacono, Relatività ed
Esistenza, pp. 113-115). «Con la teoria di relatività, assieme alla nozione obiettiva
di contemporaneità, verrebbe necessariamente a cadere anche la nozione obiettiva di
esistenza, almeno come si intende abitualmente, poiché uno stesso evento potrebbe
essere insieme esistente per un osservatore e non esistente per un altro, anche
coincidente a un certo istante col primo, ma in moto rispetto a questo!» (L.
Fantappié, Relatività e concetto di esistenza, p. 177). «Consideriamo un fiore. Se
decido di metterlo fuori dalla portata della mia vista, per esempio in un'altra stanza,
non cessa per questo di esistere. O almeno, questo è ciò che l'esperienza quotidiana
mi consente di supporre. Ora, la teoria quantistica ci dice ben altro; sostiene che, se
osserviamo questo fiore in modo sufficientemente fine, cioè a livello atomico, la sua
realtà profonda e la sua esistenza sono intimamente legate al modo in cui
l'osserviamo.» (J. Guitton - G. e I. Bogdanov, Dio e la scienza, p. 88). «In quel
momento tutti gli altri stati cessano di essere reali da tutti i punti di vista. Diventano,
se vuoi, solo sogni o fantasie, e lo stato osservato è l'unico reale. Questo è quello
che si chiama riduzione degli stati quantistici.» (R. Gilmore, Alice nel paese dei
quanti, p. 78).

96 Ci assicura Northrop: «Gli esperimenti sulla radiazione dei corpi neri esigono la
conclusione che “Dio gioca ai dadi”.» (F.S.C. Northrop, in W. Heisenberg, Fisica e
filosofia, p. 18).

97 R. Penrose, cit. da A. Zeilinger, Problemi di interpretazione e ricerca di


paradigmi in meccanica quantistica, p. 123.

98 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, p. 233.

99 «Sotto questo profilo, il vero successo della teoria dei quanti consiste nell’essere
stata costruita fuori, anzi, per lo più contro la ragione ordinaria. È per questo che
56

c’è qualcosa di “folle” in tale teoria, qualcosa che va oltre la scienza stessa.» (J.
Guitton - G. e I. Bogdanov, op. cit., p. 88).
100
F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, p. 12.
101
F. Selleri, La causalità impossibile. L'interpretazione realistica della fisica dei
quanti, p. 13.

102 Cfr. F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, pp. 66-67.

103 «Nella fantascienza è cosa comune ritenere che esistano infiniti universi
paralleli e che ogni possibile universo esista davvero in qualche luogo. Una variante
di quest’ultima idea è stata in effetti inserita nella moderna meccanica quantistica»
(R. Rucker, La quarta dimensione, p. 159).
104
Si veda, a titolo di esempio, La fisica quantistica del viaggio nel tempo, di D.
Deutsch e M. Lockwood; o il libro di John Gribbin Costruire la macchina del
tempo. Viaggio attraverso i buchi neri e i cunicoli spazio-temporali. E non
sembrino tali concetti pure invenzioni senza credenza alcuna, la scienza moderna fa
perno sullo stato febbrile di un istintivo bisogno dell'immaginazione umana:
«Perché dev’essere così difficile viaggiare nel tempo? E' facile immaginare il
veicolo perfetto: una specie di automobile con alcuni tasti speciali sul cruscotto. Si
entra, si digita il codice numerico corrispondente al luogo e al tempo in cui si
desidera trovarsi, si gira la chiave di accensione e - oplà - ecco che siamo nella
Parigi degli anni Venti, nelle Grandi Pianure prima dei pionieri, sulla Luna o
addirittura in un'altra galassia. E' da epoche remote che gli uomini sognano una
siffatta libertà dalle pastoie dello spazio e del tempo. [...] Potranno mai diventare
realtà i viaggi nel tempo e i viaggi FTL [faster than light]? Riusciremo mai a
conquistare definitivamente il tempo e lo spazio? [...] Non se ne sa molto davvero,
ma c'è qualche possibilità che maneggiando sistemi dotati di enorme massa - come i
buchi neri - si riesca forse a distorcere lo spazio e il tempo in modo tale da
consentire quei balzi nello spazio-tempo che sono richiesti dai viaggi nel tempo e
dai viaggi FTL. Un'altra via per compiere viaggi di questo genere passa forse
attraverso la meccanica quantistica, secondo la quale, al livello di realtà più
profondo, il tempo e lo spazio non esistono affatto.» (R. Rucker, op. cit., pag. 203).
La copertina della prestigiosa rivista scientifica „Le Scienze“ - e siamo nell’anno
2000, solo qualche mese fa’ - riportava in grande come titolo: «C’è una porta nello
spazio-tempo?», riferendosi all’articolo interno di due valenti scienziati che aveva
come sottotitolo: «La costruzione di varchi spazio-temporali e di motori di curvatura
richiederebbe una forma di energia molto insolita: purtroppo le stesse leggi fisiche
che permettono l’esistenza di questa “energia negativa” sembrano porre limiti al suo
comportamento». Lo stesso articolo riportava che: «Alla fine degli anni ottanta
molti ricercatori, tra cui Michael S. Morris e Kip S. Thorne del California Istitute of
Technology e Matt Visser della Washington University, trovarono un altro risultato:
alcuni varchi potrebbero essere grandi abbastanza per una persona o un veicolo
57

spaziale. Basterebbe entrare in un varco sulla Terra e percorrere al suo interno una
breve distanza per trovarsi, per esempio, nella Galassia di Andromeda. Il trucco è
che i cunicoli percorribili richiedono energia negativa; e poiché questa produce
repulsione gravitazionale, impedisce al varco di collassare.» (L.H. Ford e T.A.
Roman, Energia negativa: la sfida della fisica, p. 41). «Se cercassimo di seguire
esattamente una linea di tempo chiusa (detta CTC, closed timelike curve) per tutta la
lunghezza, andremmo a urtare contro noi stessi nel passato e a causa di quest'urto
verremmo estromessi dal nostro stesso passato; seguendo invece solo parte di una
CTC torneremmo nel passato e potremmo partecipare agli eventi che vi si svolgono:
potremmo stringere la mano a una versione più giovane di noi stessi o, se il cappio
fosse abbastanza grande, far visita ai nostri antenati.» (D. Deutsch - M. Lockwood,
op. cit., p. 62). Sull’ermeneutica della sperimentazione, poi, esiste un tale
l’”analfabetismo filosofico” che affermazioni “antiscientifiche o categoriche”
vengono quotidianamente spacciate per vere dalla grande massa dei ricercatori. Un
esempio: «Il nostro esperimento ha verificato senza alcun dubbio il teletrasporto…»
(A. Zeilinger, Il teletrasporto quantistico, p. 40).

105 L.H. Ford e T.A. Roman, op. cit., p. 38.


106
Cit. in R. Rucker, La mente e l'infinito. Scienza e filosofia dell'infinito, p. 99.
Suggerisce R. Gilmore: «La risposta pratica a questo problema è “chiudi gli occhi e
calcola”. La meccanica quantistica potrà anche essere difficile da interpretare, ma
non si può negare che funzioni molto bene.» (R. Gilmore, op. cit., p.93).
107
O. Costa de Beauregard, Al di là del paesaggio consueto, p. 48.
108
A proposito della quale Maritain così si esprime: «Non c'è altra nozione [quella
di neutralità] che sottolinei meglio di questa la stupefacente depressione della
ragione nei tempi moderni; è dunque possibile esser neutrali nei confronti di Dio?
Oppure le parole di Gesù Cristo: Chi non è con me è contro di me, non sono
applicabili alla razza degli scienziati? Essere neutrali consiste nel non dire che Dio
esiste e nel non dire che Dio non esiste. Bisogna dunque fare come se Dio esistesse
e fare come se Dio non esistesse: atteggiamento che ha un significato se Dio è
inesistente o se non chiede assolutamente nulla, perché allora, siccome in entrambi i
casi non gli si deve nulla, agendo come se Dio non esistesse, si agirebbe nel
contempo come se Dio esistesse; ma questo è il prototipo stesso dell'assurdità se Dio
esiste e se chiede qualcosa, perché allora agendo come se Dio non esistesse, si
agirebbe necessariamente al contrario di quel che bisognerebbe fare se Dio esiste.
Quando dunque si dichiara che la scienza è neutrale, in realtà si nega radicalmente la
fede cattolica, si nega che esiste una verità, una vita, un ordine superiore alla natura.
Perciò, tra i rappresentanti titolari della filosofia moderna, ci sono molti uomini che,
secondo l'espressione di mons. d'Hulst a proposito di Cartesio, sono cristiani e sono
filosofi, ma ve ne sono pochi che siano filosofi cristiani. Ricordando ai nostri
filosofi che il battesimo obbliga in filosofia come altrove, provochereste in loro, con
la vostra mancanza di tatto, sincero stupore, li affliggereste, manchereste di rispetto
58

alla negazione fondamentale di cui vivono. Questa negazione non è costitutiva della
scienza, ma della vergognosa metafisica che si nasconde dietro la scienza. Questa
negazione è però accuratamente nascosta con l'equivoco della parola neutralità, e si
fa credere agli ignoranti che le conclusioni contrarie al dogma nelle quali sfocia
sono il risultato della scienza "imparziale"; mentre vi erano presenti, fin dal
principio, come il frutto di una metafisica, spesso appena cosciente, che è soltanto il
più semplice rivestimento intellettuale della vanagloria. Se infine a tutto ciò si
aggiunge che l'unico punto d'appoggio riconosciuto di questa metafisica siano questi
sedicenti risultati, si avrà un'idea dell'incomparabile circolo vizioso in cui ruota
continuamente il pensiero moderno. Papa Leone XIII l'ha detto in una celebre
enciclica: la scienza del fisico e quella del teologo non possono contraddirsi, perché
tutt'e due emanano dalla verità. È tuttavia ovvio che questa proposizione deve
essere così intesa: la scienza non può contraddire la fede se la scienza è in buona
fede. Ora la "scienza" che si dichiara neutrale, cioè che si mette, fin dal principio, e
cercando di nasconderlo, al servizio di una metafisica che nega e contraddice la
fede, e che dà come suoi propri risultati le ipotesi di questa metafisica, questa
sedicente scienza non è in buona fede. Non solo infedele, ma perfida, essa inganna
le anime, e le perverte completamente.» (J. Maritain, Antimoderno, pp. 61-63).
109
P.W. Bridgman, La logica della fisica moderna, p. 55.
110
Ibidem, p. 56.

111 Cit. in P. Silvestroni, op. cit., p. 31. Si noti l’attacco inflitto a quel «patrimonio
ereditario», cuore della tradizione cattolica, la quale ha sempre sostenuto la
“antinichilistica” potenzialità della ragione umana, e di come questa può essere
«debitamente coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filosofia che è come
un patrimonio ereditario dalle precedenti età cristiane e che possiede una più alta
autorità, perché lo stesso magistero della chiesa ha messo al confronto con la verità
rivelata i suoi principi e le sue principali asserzioni, messe in luce e fissate
lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno. Questa stessa filosofia,
confermata e comunemente ammessa dalla chiesa, difende il genuino valore della
cognizione umana, gli incrollabili principi della metafisica - cioè di ragion
sufficiente, di causalità e di finalità - e infine sostiene che si può raggiungere la
verità certa e immutabile.» (Pio XII, Humani generis, EE 19/729).
112
Giovanni Paolo II, op. cit., 55.
113
Risuonano vere, dunque, le parole del Vescovo di Roma: «Nell’ambito della
ricerca scientifica si è venuti imponendo una mentalità positivista che non soltanto si
è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e
soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale»
(Giovanni Paolo II, op. cit., 46).
114
«Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe
59

radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione


della Rivelazione» (Ibidem, 83). Maritain, respingendo le detronizzazioni
relativistiche della scienza moderna, assicura che la metafisica è «più sicura delle
certezze matematiche» (J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, p. 23)
e, ponendo «l’uomo [come] un animale metafisico… un animale che si nutre di
trascendentali» (J. Maritain, Strutture politiche e libertà, p. 17), slega con decisione
la metafisica dalle catene del prassismo ed efficientismo del mondo contemporaneo,
dai «tre secoli di empirio-matematismo [che] l’hanno piegata ad interessarsi solo
alla scoperta di strumenti per cogliere i fenomeni, reticoli di concetti che forniscono
allo spirito un certo dominio pratico» (J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del
sapere, p. 21): «La vera metafisica, salvi restando i modi e le proporzioni, può ben
dire: il mio regno non è di questo mondo. I suoi assiomi, essa se li conquista,
nonostante questo mondo che si sforza di mascherarglieli: cosa dicono i fenomeni,
l’onda menzognera della brutta empiria, se non che ciò che è non è, che v’è di più
nell’effetto che nella causa? […] La metafisica esige una certa purificazione
dell’intelligenza ed anche una certa purificazione del volere, e presuppone che si
abbia la forza di attaccarsi a ciò che non serve, alla Verità inutile. Nulla, tuttavia, è
più necessario all’uomo di questa inutilità. Ciò di cui noi abbiamo bisogno non è di
un insieme di verità che servono, ma piuttosto di una verità da servire. Questa,
infatti, è il nutrimento dello spirito, e noi, nella parte migliore di noi stessi, siamo
spirito.» (Ibidem, p. 22).

115 J. Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, p. 5.

116 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, p. 235. Idem per quanto riguarda la teoria
della relatività di Einstein, anche se alcuni scienziati suggerirebbero di chiamarla
“teoria dell’assoluto” a causa dell’invarianza di c (velocità della luce) nei diversi
sistemi di riferimento. In realtà quest’ultimi dimenticano che nella suddetta teoria
l’invarianza di c è stata pagata a caro prezzo: l’abbattimento di un intero gruppo di
assoluti newtoniani, nonché la predisposizione all’avvio della teoria dei quanti con
il conseguente abbattimento in blocco della logica classica. In più il presunto
“antimeccanicismo” della relatività corrompe alla base il plurimillenario
affidamento all’intuito e al buon senso, nonché alla desiderabile cartesiana
semplicità: «Sia la meccanica quantistica che la relatività sono molto difficili da
capirsi; ci vogliono solo pochi minuti a memorizzare i fatti spiegati dalla relatività,
ma anni di studio possono non bastare a padroneggiare questa teoria per vedere i
fatti stessi nel debito contesto.» (M. Polanyi, op. cit., p. 92). «Una lezione filosofica
importante da trarre dalla teoria della relatività speciale è che non tutte le
spiegazioni scientifiche, per essere accettabili, devono essere in grado di esibire un
meccanismo causale.» (G. Boniolo - M. Dorato, Dalla relatività galileiana alla
relatività generale, p. 78). Per di più la teoria della relatività a aperto la strada al
«mastery, instead of the servitude, of mathematics» (H. Dingle, Science at the
Crossroads, p. 130), a quella che Pyenson definisce una «Physics in the shadow of
Mathematics» (L. Pyenson, The young Einstein - The advent of relativity, p. 101),
all’”adorazione della Formula”, al pericolo, cioè, di una matematica “cabalistica”
60

che - usando i termini di Bacone - «generi» e «procrei» la scienza stessa (si cfr.
Asimmetrie antirelativistiche del campo del presente autore; e Il linguaggio della
matematica di U. Bartocci e R.V. Macrì; e anche H. Dingle, op. cit.). Inoltre
l’invarianza di c non vettorializza affatto all’anti-relativismo, non protegge
minimamente contro il pensiero debole; anzi - al di là del relativo processo
ermeneutico della teoria in questione e della genesi e strumentalizzazione del suo
nome (cfr. L.S. Feuer, Einstein e la sua generazione; R. Maiocchi, Einstein in
Italia. La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività; M.
Mamone Capria, La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e di tempo: la teoria
della relatività) - non appare del tutto aleatorio quanto ha rilevato il direttore della
rivista "Time", Walter Isaacson: «L'impatto della teoria di Einstein ha travalicato
l'ambito della scienza. La teoria della relatività ha aperto la strada a un nuovo
relativismo nella morale, nell'arte, nella politica. Con lei si e' incrinata totalmente la
fede nei concetti assoluti» (dal “Time” del 31.12.1999).

117 Ibidem, p. 237.

118 J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, p. 228.

119 Ibidem. Precisa Maritain: «Mette qui conto di segnalare un equivoco di cui
spesso i profani (e talvolta anche gli scienziati) sono vittime, e che costituisce un
grossolano sofisma. Per lo scienziato il principio filosofico natura determinatur ad
unum, … si traduce sul piano empiriologico con la formula: “lo stato iniziale di un
sistema (materiale) sottratto ad ogni azione esteriore determina interamente i suoi
stati ulteriori”, … che è la stessa formula del determinismo scientifico. Ma
enunciando questa formula si presuppone, implicitamente o esplicitamente, di
trovarsi in presenza di sistemi puramente materiali, di agenti e fenomeni puramente
materiali (nel senso filosofico del termine, cioè tali che il loro comportamento
dipenda interamente dalle nature in interazione) per i quali la legge di causalità
prende esattamente questa forma. Il determinismo scientifico è, così, un
determinismo condizionale (“supponendo che vi siano solo agenti puramente
materiali”), e non è affatto il determinismo assoluto, il determinismo come dottrina
filosofica, quello che nega la possibilità del libero arbitrio. È un puro e semplice
gioco di prestigio prendere spunto da questa formula in favore del determinismo
filosofico, per concludere che non possono esservi agenti spirituali e liberi» (J.
Maritain, op. cit., pp. 185-186).
120
J.R. Pierce, Elettronica quantica, p. 27.

121 F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, pp. 33-34.

122 In particolare è possibile utilizzarla per rimuovere i pericolosissimi errori insiti


in buona parte del programma « metafisico » dell’Intelligenza Artificiale. Per un
esempio calzante si veda La fisica unifenomenica cartesiana e il punto debole
dell’IA forte, del presente autore.
61

123 J. Maritain, op. cit., p. 228. Esempio perfetto di tale tipo di fisica è la
psicobiofisica todeschiniana, già citata.

124 Diels-Kranz, 44 B 11.

125 V. Possenti, op. cit., p. 18.

126 Gaudium et Spes, 19.

127 V. Possenti, op. cit., p. 18. E continua: «Da qui proliferano il frammento, la
pulsione, la notte della mancanza di senso, lo scontro mortale dell’assolutamente
molteplice e del totalmente eterogeneo. Da qui il torbido fascino per il pensare
infondato e per la dissoluzione del discorso logico, la rottura con il regime solare del
logos e l’inabissamento nella falsa mistica dell’Abgrund: la distruzione della forma
sfocia nell’antiragione. La tendenziale dimissione della forma costituisce l’essenza
del cosiddetto “pensiero debole”.» (Ibidem).

128 Ibidem, p. 6. E ciò in antitesi coi pilastri dell’insegnamento della Chiesa:


«Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà
immutabili» (Gaudium et Spes, 10).
129
È interessante, a tale scopo, leggere il Manifesto dei pittori futuristi del 1910, in
cui veniva emessa la condanna senza riserve di ogni forma di tradizione, di culto del
passato (antipassatismo) e propugnato il radicale rinnovamento dell’arte e della vita
all’insegna del progresso. Vi si affermava, tra l’altro: «Noi vogliamo combattere
accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata
dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie
tele, delle vecchie statue... Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle
scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso
fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del
futuro... »

130 A. Frova, Le basi dell’armonia nella musica, p. 68 e p. 75. L’”emancipazione


della dissonanza” proclamata da Arnold Schönberg come punta estrema di forme
organizzate di atonalità, porta alla perdita di peso semantico del concetto di
consonanza. Aggiunge Frova: «Oggi, ogni vincolo alla libertà d’espressione tramite
il suono sembra caduto. Riecheggiano le parole di Schönberg: non esistono
limitazioni alle possibilità di rottura con i criteri dell’armonia classica.» (Ibidem, p.
75).

131 Si veda ad esempio J. Guitton - G. e I. Bogdanov, op. cit.; o anche J.M. Jauch,
Sulla realtà dei quanti. Un dialogo galileiano.

132 Negli ultimi anni, è entrato in scena, in forma massiccia, un approccio


62

quantistico ai circuiti neuronali, dilatato in modo estremo dalla «Kopenhagener


Geist der Quantentheorie» - per usare un'espressione di Heisenberg - nel tentativo di
far rientrare i processi biologici come sottoinsieme dei fenomeni quantici. C'è pure
chi cerca di trovare soluzioni definitive al problema della coscienza e del libero
arbitrio nello spazio generato dalla fusione della teoria dei quanti con quella della
relatività (cfr. Penrose e Tipler). Si arriva così a definire l'anima, concetto
plurimillenario, come una proprietà emergente della materia. Se così è allora non
possiamo respingere la conclusione di Rucker: «"Io" sono non tanto i miei atomi
quanto la configurazione secondo la quale i miei atomi sono disposti». Tutto diventa
forma, geometria, virtualmente riproducibile. Persino il sé diventa emergente e
virtuale (cfr. Varela). Degna di nota è la riproducibilità teorica che tale visione
implicherebbe; si potrebbe dire, parafrasando la famosa frase di Laplace, che
un'intelligenza che in un dato momento avesse posto ogni particella nella giusta
geometria, avrebbe realizzato non solo un particolare cervello, ma addirittura una
persona umana completa di ricordi, esperienze, "Io", "Sé" e relativo inconscio.
Nulla sarebbe fuori dalla geometria e dal mondo dei quanti: «Se un individuo ha
una gamba, o un fegato o un cuore artificiale, è sempre la stessa persona. Io
sostengo che è anche possibile immaginare un tempo in cui si potrà avere un
cervello artificiale. Ciò si potrebbe ottenere, per esempio, registrando
olograficamente la struttura fisica, elettrica e biochimica del cervello, e quindi
trasferendola isomorficamente su un grande chip al silicio o su qualche tipo di
tessuto ottenuto in coltura. Presumibilmente si sperimenterebbe questo tipo di
trasferimento come un breve periodo di incoscienza, dopo il quale si ricomincerebbe
a pensare più o meno come prima. L'intero processo sarebbe paragonabile
all'introduzione di un programma in un calcolatore nuovo.» (R. Rucker, La mente e
l’infinito, p. 218).

133 Se la "versione forte" dell'intelligenza artificiale sostiene che l'intelligenza


dipende solo dall'organizzazione di un sistema e dal suo operato come manipolatore
di simboli e non dalla natura fisica degli elementi che costituiscono il sistema
intelligente, allora - seguendo il funzionalismo passo passo - anche «la vita dipende
solo dall'organizzazione degli elementi nel tempo e nello spazio e dall'interazione di
relazioni e processi di cui quegli elementi fanno parte» (C. Emmeche, Il giardino
nella macchina. La nuova scienza della vita artificiale, p. 10) e non invece dalla
natura fisica degli elementi che costituiscono il "sistema vivente". Ecco la vita
artificiale! Per quest'ultima anche i virus, «i programmi virulenti [che] si
riproducono e si diffondono in tutti i calcolatori [...] sono, in questo senso, forme di
vita» (Ibidem, p. 16).

134 J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 20.

135 Ibidem.

136 Ib., pp. 37-38.


63

137 Ib., p. 38.

138 Ib., p. 30.

139 Ibidem, p. 38.

140 Ibidem.

141 G. Vattimo, Credere di credere, p. 39.

142 Ib., p. 28.

143 Ibidem.

144 Ib., pp. 28-29.

145 Ib., p. 16. E sembra che tale “febbre” aumenti esponenzialmente, stando al
“termometro” di Maritain. All’epoca di Antimoderne, infatti, scriveva: «Qualcuno
vuol sapere quali siano i principi spirituali del mondo moderno? Lo rimando al
Syllabus e all’enciclica Pascendi che, insieme, in un impressionante compendio, ce
ne mostrano i supremi risultati.» (J. Maritain, Antimoderno, p. 19). A quasi mezzo
secolo di distanza, all’epoca di Le paysan de la Garonne, scrive: «Il modernismo dei
tempi di Pio X non appare al confronto [del neo-modernismo di oggi] che un
modesto raffreddore da fieno» (J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 16).

146 J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 29. Conferma Giovanni Paolo II:
«La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di
esprimere in modo universale - anche se in termini analogici, ma non per questo
meno significativi - la realtà divina e trascendente. Se non fosse così, la parola di
Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di
esprimere nulla su Dio. L’interpretazione di questa parola non può rimandarci
soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere
un’affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio,
ma soltanto l’espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che
presumibilmente Egli pensa di noi.» (Fides et ratio, 84).

147 J. Maritain, op. cit., p. 30.

148 Ibidem, p. 29.

149 J. Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, p. 44.

150 «Il mondo contemporaneo, nel suo fenomenismo, rifiuta proprio il buon senso
comune e diventa prigioniero di un simbolismo convenzionale che contrabbanda per
filosofia del linguaggio, obbligando i cristiani a rifugiarsi, per poter credere, in un
64

fideismo soggettivistico, che costituisce l’aspetto religioso del fenomenismo.» (P.


Viotto, Attualità di «Umanesimo integrale», p. 45.

151 J. Maritain, op. cit., pp. 17-18.

152 L. Valdrè, Filosofia e storia della scienza, p. 104.

153 G. Vattimo, op. cit., p. 91.

154 Gaudium et Spes, 20.

155 G. Vattimo, op. cit., pp. 25-26.

156 Giovanni Paolo II, op. cit., 46.

157 J. Maritain, op. cit., p. 142.

158 P. Viotto, Il realismo tra fenomenismo e idealismo, p. 86.

159 J. Maritain, op. cit., pp. 143-144.

160 Ibidem, 6.

161 J. Maritain, op. cit., op. cit., p. 136.

162 Ibidem, p. 146.

163 Ib., p. 143.

164 G. Vattimo, op. cit., p. 97.

165 J. Maritain, op. cit., p. 144.

166 Giovanni Paolo II, op. cit., op. cit., 48.

167 Ibidem, 47.

168 J. Maritain, Antimoderno, p. 50.

169 Ibidem.

170 Ibidem.

171 Ib., p. 51.


65

172 Giovanni Paolo II, op. cit., 33.

173 Ibidem.

174 G. Galeazzi, in J. Maritain Per un umanesimo cristiano, pp. 26-27.

175 Gaudium et Spes, 35.

176 J. Maritain, Contemplazione e spiritualità, Ave, Roma 1977, cit. da G.


Galeazzi, op. cit., p. 33.

177 Gaudium et Spes, 56.

178 Ibidem, 15. E aggiunge, in risonanza, Giovanni Paolo II: «Questa dimensione
sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l’immensa crescita del potere
tecnico dell’umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi. Se
questi mezzi tecnici dovessero mancare dell’ordinamento a un fine non meramente
utilitaristico, potrebbero presto rivelarsi disumani, e anzi trasformarsi in potenziali
distruttori del genere umano.» (Fides et ratio, 81).

179 Cratilo, 440 a.

180 J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., p. 25.

181 Ibidem, p. 27.

182 Ib., p. 28.

183 Pio XII, Humani generis, EE 19/713.

184 J. Maritain, Antimoderno, op. cit., p. 63.

185 J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., p. 25.

186 Ibidem.

187 Ibidem, p. 26. E aggiunge: «Eppure, per quanto disorientati si sia, bisogna pur
pensare. E allora in fretta e a qualunque costo ci si aggrappa a qualsiasi cosa per
supplire allo sforzo di cui non si è più capaci. Presto, le favole. E’ questo il
secondo sintomo grave che desidero segnalare: è la forma certo maligna di prurito
alle orecchie che affligge particolarmente il nostro tempo.» (Ibidem, p. 31).

188 Giovanni Paolo II, op. cit., 91.

189 J. Redfield, La profezia di Celestino, p. 50.


66

190 J. Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, p. 20.

191 J. Maritain, La filosofia morale, pp. 334.

192 J. Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, pp. 18-20.

193 V. Possenti, op. cit., p. 22.

194 J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., p. 26.

195 «Questa cronolatria porta con sé ampi sacrifici umani, ossia comporta una
componente masochista. Vien la vertigine a pensare all’ammirevole abnegazione
(non per modestia certo, ma per volontà di scomparire) di ciò che si chiama oggi un
esegeta. Si ammazza di lavoro, dà tutto il sangue delle sue vene per trovarsi
superato tra due anni. E sarà così per tutta la sua vita. E quando morirà sarà
definitivamente superato. Il suo lavoro servirà ad altri a superare e a farsi superare a
loro volta. Ma del suo pensiero, di quello no, non resterà assolutamente nulla. […]
Il punto dove la parabola è arrivata prima di me è la sola base dalla quale io possa
partire, e quello è tabù. Sotto una forma o sotto un’altra, è sempre l’adorazione
dell’effimero, sia per essere divorati da esso, sia per accettare ad occhi chiusi ciò
che esso ha prodotto (nella mia stirpe) finché io stesso entri a mia volta in lizza.»
(Ibidem, pp. 26-28).

196 Ib., p. 16.

197 P. Viotto, in J. Maritain Umanesimo integrale, op. cit., p. 46.

198 Pio XII, Humani generis, EE 19/728

199 Ibidem, EE 19/710.

200 G. Morra, op. cit., pp. 89-90.

201 Tramite l'enciclica Quanta cura e l'allegato Sillabo.

202 Pio X, Pascendi dominici gregis, EE 10/217.

203 Pio XII, Humani generis, EE 19/715-717.

204 J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia
1981, p. 21. E altrove aggiunge: «In questo senso il vecchio Chesterton aveva
ragione di scrivere: “La Chiesa cattolica è la sola che risparmi all’uomo la schiavitù
degradante di essere un figlio del suo tempo». E con un’autorità incomparabilmente
più grande fu detto anche: Nolite conformari huic saeculo. Quanto al “secolo” di
67

cui parlava san Paolo, abbiamo sempre visto dal modo col quale manovra, che la sua
suprema norma è l’efficacia, cioè il successo, mentre la norma suprema della Chiesa
è la Verità.» (J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 140).

205 J. Maritain, Antimoderno, p. 16.

206 Pio XII, Humani generis, EE 19/730.

207 Giovanni Paolo II, op. cit., 88.

208 «Il positivismo… si dimostrava incapace di rispondere alle pressanti domande di


chi non trovava appagamento in una visione materialistica della vita e della realtà e
anelava ad una verità più totale, più aperta alle esigenze dello spirito, al bisogno di
assoluto.» (A. Trifogli, Il pensiero di Maritain nella cultura contemporanea, p. 23).

209 J. Maritain, Per un umanesimo cristiano, p. 44.

210 J. Maritain, Il contadino della Garonna, p. 19.

211 G. Galeazzi, op. cit., p. 17.

212 Giovanni Paolo II, op. cit., 56.

213 Ibidem, 81.

214 Ibidem.

215 Ibidem.

216 Ib., 55.

217 Ib., 80.

218 Ib., 90.

219 J. Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, p. 44.

220 Giovanni Paolo II, op. cit., 85.

221 M.L. Buscemi - R.P. Rizzuto, in AA.VV. Jacques Maritain e il pensiero


contemporaneo, p. 13.

222 Giovanni Paolo II, op. cit., 90.

223 Ibidem, 83.


68

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Rocco Vittorio Macrì, uno dei fondatori della presente rivista, ha


studiato Chimica all’Università di Torino, Fisica e Filosofia
all’Università di Perugia. E’ stato tra gli organizzatori del Convegno
internazionale “Cartesio e la Scienza”, tenutosi presso l’Università di
Perugia nel settembre 1996, per celebrare la ricorrenza del IV
centenario della nascita del grande filosofo francese teorizzatore del
dubbio sistematico. Il campo di ricerca spazia dai fondamenti filosofici
della fisica e della matematica a quelli dell’Intelligenza Artificiale e
dell’Etica contemporanea.
73

San Tommaso trionfa su Averroè


(Particolare della sala di Francesco Traini, Chiesa di S. Caterina, Pisa)
74

JANUA INFERNI

Breve indagine su qualche aspetto relativo agli inizi della modernità

(Bruno d’Ausser Berrau)

La nascita del mondo moderno, per convenzione, viene fatta


coincidere con il fatidico 1492. Data, in tal senso, ancor più ricca di
significato se, alla scoperta del Nuovo Mondo, non si dimentica
d’aggiungere la coincidente cacciata e/o conversione forzata degli ebrei
allora stanziati, numerosissimi, nella penisola iberica. L’episodio, il cui
impatto immediato fu la creazione di quelle mostruosità antropologiche
denominate <<nuovi cristiani>> e conseguenti <<marrani>>, si rivelerà,
negli anni avvenire, gravido d’impensabili contraccolpi rivoluzionari,
stravolgenti l’assetto tradizionale dell’intera Europa. Pur tutto questo,
risulta di notevole pregnanza l’accademica ed invalsa prassi
cronologica, indicante proprio in quella precisa data l’initium di un’era
assolutamente nuova: il suo procedere incalzante ed omnipervasivo ci
conferma come, in effetti, fosse avvenuta una rottura maggiore sin nelle
più profonde attitudini e modalità di pensiero, che, sino a pochi secoli
fa, furono immutato retaggio dell’uomo da tempi immemorabili.

Indubbiamente, la falla, che ha consentito l’irruzione di forze


assolutamente innovative rispetto al modo di essere tradizionale, è
rappresentata dalla scomparsa della metafisica quale riferimento
fondamentale d’ogni scienza e dottrina. A sua volta, questo venir meno,
questa perdita d’un equilibrio da sempre mantenutosi, è stato reso
possibile dall’alterazione del ruolo, mai sufficientemente messo in
evidenza, d’un elemento intermediario, presente nella disposizione
complessiva dei livelli di realtà così come rappresentati nelle concezioni
premoderne. Per esse, la costituzione dell’essere umano è da intendersi
tripartita e gerarchicamente disposta in corpo, anima ed intelletto
(intellectus et spiritus idem significant).

La presenza di quest’ultimo, si manifesta in quella capacità


d’intuizione1 diretta che - e prendo qui a modello la geometria - ci
75

consente di comprendere immediatamente la v e r i t à dei postulati di


Euclide e, ad un livello metafisico, la differenza tra manifestato e non
manifestato. Differenza, per la quale, è immediatamente percepibile
come v e r a l’affermazione che - al secondo - appartengano, ad
esempio, il silenzio, il buio ed il vuoto. Tali condizioni, nella loro intima
realtà e per la loro stessa natura non potranno mai essere manifeste e ben
si capisce come ciò che, nel mondo sensibile, ce le rappresenta, altro
non abbia oltre ad un rapporto d’analogia con l’archetipo. La ragione,
con la sue possibilità ordinatorie e proprio per le peculiarità distintive ed
analitiche di esse, sta in condizione subalterna all’intelletto (appartiene
al dominio psichico o animico che dir si voglia): in questo, infatti, i
concetti sono presenti sinteticamente ovvero in simultaneità, attraverso
di essa, invece, si dispongono in successione secondo procedure che
sono quelle della logica; la dialettica ne è la parte più propriamente
didattico discorsiva. È quindi dalla congiunzione dell’anima con
l’intellectus che si attiva quel dator formarum pel quale le verità
intuitive divengono suscettibili d’elaborazione e d’esposizione,
attualizzando così tutti i loro possibili, indefiniti sviluppi fino alle più
contingenti conseguenze.

Questa specifica capacità è patrimonio individuale, da intendersi sia


nell’accezione dell’ <<equazione personale>> d’ogni singolo individuo,
sia in quella ch’essa è parte del complesso intermediario (inter spiritum
ac corporem est) o animico che dir si voglia. Esemplificando: se i
postulati euclidei non fossero, da qualcuno, davvero compresi, non ci
sarebbe per lui alcuna geometria possibile; nemmeno quelle astrazioni
quali sono gran parte delle cosiddette geometrie non euclidee, che, sulla
falsariga dell’opera di Euclide, vengono poi sempre costruite. In
definitiva, l’anima è un “luogo tramite” al quale giungono segnali dalle
altre due facoltà; è lì, in quel punto d’equilibrio, ch’essi vengono
elaborati dopo esser passati dal filtro dell’individualità, è lì che tutto
quanto un individuo esprime riceve quel particolare “colore” ch’è il suo
segno distintivo m’anche il limite conoscitivo determinato dagli sviluppi
inerenti la già citata “equazione”2.

Una definizione, della corrispondenza macrocosmica dell’anima, che


giudico piuttosto appropriata, è quella di <<mondo sottile>> ed il
riferimento è - con evidenza - alla materia subtilis di San Tommaso. È
questo un mondo, appunto intermediario - il barzakh dell’Islam - ed
76

appartiene al dominio del manifestato “dove” s’estendono le valenze


sottili della Terra3, che giungono, nei termini della cosmologia dantesca,
a sfiorare il cielo della Luna4, simbolo dell’incipit della manifestazione
informale o sopraindividuale e dominio degli Angeli ( o animæ)
cælestes5.
Da ciò derivano importanti conseguenze su quello che si deve intendere
per realtà: la prima e più importante è che quanto concepiamo - ed il
concepire, la capacità di concettualizzare è funzione fondamentale
dell’intelletto - non è astratto ma reale; anzi, appartiene al dominio più
alto degli infiniti livelli del reale che, in questa prospettiva, vediamo
disporsi secondo un preciso ordine gerarchico. Mere astrazioni - e
quindi dotate d’un grado minimo di realtà - sono invece le costruzioni
esclusivamente formali della fisica contemporanea dove l’idea di cosmo,
sottesa alla sofisticata elaborazione matematica che la formula, risulta
del tutto antintuitiva e paradossale.

Le cosmologie tradizionali, a differenza di queste ultime, traggono


ogni loro sviluppo da quei fondamenti, che ho prima citato e, proprio per
l’oggettiva natura di essi, non possono appartenere al novero delle
fantasie6 essendo tali (a volte anche dotte e complesse) affabulazioni
nient’altro che l’elaborazione individuale, nel crogiolo animico, di
semplici dati sensibili.

Il momento del cambiamento, quello che ha modificato il punto


d’equilibrio, alterando il ruolo d’intermediazione della componente
cosmica e microcosmica centrale, è coinciso con l’affermarsi del
pensiero cartesiano e la nascita del razionalismo. Razionalismo, che
nella speciale e nuovissima idea d’intelligenza, propria a questo filosofo
trova il suo presupposto: dalla tripartizione si passa ad un dualismo
anima/corpo che, per la lacerazione, l’invalicabile trincea da ciò
determinata, è meglio definire dicotomia. L’intelletto non più coincide
con lo spirito - del quale restano solo flebili ed astratte tracce nelle
<<idee innate7>> - ma con la ragione, la cui sede, per altro appropriata,
è appunto l’anima che, curiosamente collocata nella ghiandola pineale,
diventa perciò semplice epifenomeno della fisiologia8.

Per comprendere quanto avvenne, è importante avere ben chiaro in


qual modo, parlando di anima e portandola a coincidere con l’intelletto -
ed esso, come si è visto, fu identificato alla ragione - Cartesio non
77

intendesse affatto rinsaldare quella che era la sua normale funzione


mediatrice ma - così speculando - semplicemente ne determinasse
l’eliminazione proprio avendola fatta assurgere a riferimento più alto del
sistema (promoveatur ut amoveatur!). A tutto questo deve aggiungersi la
di lui inclinazione matematica, che, unita ad indubbie capacità logiche
ed organizzative del pensiero, fece sì che lo studio della natura
assumesse - probabilmente superando i suoi intendimenti ma con
impatto fondante per le ideologie che sarebbero venute - il carattere
d’una spiegazione puramente meccanica ovvero materialistica della
realtà.

È per avere, nel corso di questi ultimi secoli, lentamente introiettato la


lezione cartesiana che, la Chiesa, oggi, non padroneggia più il mondo
intermediario mentre ora è da lì9 - e non certo dai pressoché, nel
frattempo, esauriti positivismo e materialismo - che si deve attendere
l’attacco finale. Le forze che lo preparano - le quali, da epoche remote,
molto lontane dalla nascita dello stesso mondo moderno, penultimo,
oscuro avatar della loro strategia - non si rifanno certo al più alto dei tre
componenti ma nel mondo sottile sanno muoversi benissimo e, da
quell’immenso ricettacolo psichico, stanno traendo gli ingredienti per
dare forma a quella spiritualità à rebours oramai presente ed evidente
sui molti scenari in cui va rappresentandosi la società contemporanea.

II

Senza voler risalire fino alla scaturigine di quelle forze, che stanno
preparando questa contraffazione della spiritualità, si possono cercare di
ravvisare, nei secoli precedenti lo start point del 1492, alcuni dei fattori
- spesso di per sé del tutto incolpevoli - sui quali esse poterono poi
giocare per innestarvi il processo eversivo sopra accennato. In questo
senso è indubbiamente importante la figura di Averroè (ibn Rushd,
1126/1198).

La famiglia del filosofo aveva un ruolo sociale ragguardevole:


apparteneva all’élite araba di Spagna ed il padre m’anche il bisnonno
erano stati giudici supremi (qadi-al-qodat). Il suo pensiero non fu però
gradito alla dinastia regnante degli Almohadi mentre furono i rabbini
della Spagna settentrionale cristiana nonché della Provenza, che fecero
78

copie dei testi con il modesto artifizio criptico della sola traslitterazione
in alfabeto ebraico10. In questa forma e per questo canale, essi
pervennero - Federico II regnante - a Palermo e lì, l’astrologo di corte
Michele Scoto, le tradusse in latino. Si trattava, in prevalenza, dei
commenti a Aristotele: <<Averrois che ‘l gran commento feo>>11.

Da questo stato di cose derivò che, in Occidente, Averroè venne


ritenuto il filosofo arabo per eccellenza mentre, nell’Islam, è pressoché
ignorato avendo un posto assolutamente preponderante Avicenna 12 (ibn
Sina, 980/1037): nella cosmologia, che ho sommariamente delineato nei
passi precedenti, è prevalentemente espresso il suo punto di vista e
quello dell’avicennismo latino13, sul quale pesò sempre un qualche
sospetto di gnosi14, a sua volta ossessione e nemico perenne
dell’immaginario cattolico sino ai nostri giorni. Queste riserve e latenti
ostilità costituirono l’humus adatto ad accogliere le dottrine di Averroè,
dando luogo a quell’averroismo latino che - estremizzandole - ebbe
miglior fortuna del suo arabo predecessore così preparando le condizioni
per un vulnus devastante al corpo della Christianitas.

Averroè contesta alla cosmo-angelologia avicenniana il suo schema


triadico, non ammettendone proprio la componente intermedia, in un
rivolgimento della processione discendente, il quale - curiosamente -
richiama quella che sarà poi l’opinione cartesiana in ordine alle idee
innate come potenzialità della facultas cogitandi (cfr. supra n.7): non
più ogni Intelligenza (gli Angeli intellectuales, cfr. supra n.5), per auto-
intellezione, produce l’Intelligenza che la segue (gli Angeli cælestes) ma
è quest’ultima che causa l’altra perché è da essa conosciuta. Il superiore
pertanto non è più creatore ma, per l’atto dell’inferiore, diventa causa
finale o meglio, proprio perché è causa finale, acquista lo status di causa
agente.

Questa alterazione, cui è sfuggito l’Islam ma per la quale esistevano


alcune predisposizioni nel Cristianesimo medievale, comportò un
profondo cambiamento nel modo di sentire m’anche di giustificare la
condizione dell’anima individuale: il rapporto delle Intelligenze empiree
con quelle celesti è infatti un rapporto di congiunzione ( . È, in
altri termini, un rapporto di coppia, dal quale risulta - nell’inferiore - una
tendenza a superare lo ïato che s’interpone con chi lo precede. La stessa
relazione, s’intende sussista tra le anime umane e quelle celesti15,
79

conseguendone che vita cælo comparanda est e, in tale imitatio, l’anima


dell’uomo, una volta presa coscienza di star vivendo questa diade,
dovrebbe, in una rigeneratrice, intraprendere il cammino al
fine di sottrarsi all’esilio per ricongiungersi con chi l’ha generata16.

Il tema dell’esilio e del riscatto dal terreno stato di tribolazione,


ottenuto con il raggiungimento della patria celeste è argomento d’un
ciclo avicenniano la cui corrispondenze (ai due estremi temporali) più
note in ambito cristiano sono l’“Inno dell’Anima” degli Atti di
Tommaso (apocrifi) e la “Divina Commedia”. Dopo Dante questo
soggetto cessa d’appartenere all’ortodossia confinandosi o in settori
decisamente eretici o, in ogni caso, sospetti e marginali. L’ultimo
epigono deve essere considerato Angelus Silesius (s.p.n. Johann
Scheffler, 1624/1677), il quale, con il “Cherubinischer Wandermann”,
ripercorre strade ormai impervie nonostante la sua conversione dal
luteranesimo al cattolicesimo, vissuta fino all’ordinazione sacerdotale:
non si deve dimenticare che la sua filiazione spirituale, pel tramite di
von Franckenberg, lo lega a Jacob Bœme.

Con l’affermarsi della modernità, si passerà dai racconti simbolici al


romanzo, alla letteratura intesa quale trionfo della fantasia individuale
ed alla sistematizzazione crociana dell’arte per l’arte, intesa in
un’accezione meramente estetica, fino a quando, perduto ogni centro di
riferimento, abbandonato anche quest’ultimo appiglio, si giunge al
caotico ed all’insignificante; all’astratto appunto. Ovvero a quel livello
soltanto formale d’esistenza che, come abbiamo già visto, corrisponde -
in ogni campo - ad un grado minimo di realtà. Si arriva insomma ad una
fase che potrebbe essere definita del <<silenzio della natura>> 17, in
quanto questa cessa di parlare all’uomo, di collocarlo correttamente nel
creato e di metterlo in contatto con tutti i livelli del reale: un mondo di
morte come quello che - non a caso - ci rimandano le immagini dei
nostri strumenti spaziali, lanciati in un’indefinitesima parte d’una
indefinitesima porzione del cosmo. Spinti all’impresa dalla convinzione
di saper ora, veramente, com’esso è fatto e che quello che
investighiamo, in tutte le accessibili frequenze elettromagnetiche,
riconducibili - artificiosa via - alla lettura dei nostri sensi, sia l’universo:
ossia che, in termini metafisici, desueti in quest’alieno contesto, in esso
consista tutto il manifestato. Per avere ben chiare le ragioni
dell’influenza di Averroè, bisogna però approfondire il discorso ebraico.
80

III

Complicato è capire perché ci sia stato questo interesse rabbinico per


l’opera di Averroè, cosa insomma sia avvenuto nella sua trasmissione ai
gentili ed il perché di essa: a mio parere, i suoi scopi erano, in
prevalenza, motivati da ragioni interne alle comunità ed il transfert ai
cristiani restava un fatto secondario. Era però vero che, proprio
attraverso la vasta rete delle comunità e, in particolare, grazie ai circoli
cabalistici, gli scambi, a livello dottrinale18 con il mondo cristiano, non
furono, in quel lontano passato anche se in forme non sempre palesi,
mai venuti meno. Le notizie, quindi, filtravano o erano espressamente
comunicate.

Per apprezzare la necessità di questo non facile rapporto, non si deve


dimenticare che, il Cristianesimo manca d’una lingua sacra 19: è noto
come la rivelazione - il testo evangelico - non ci sia pervenuta in
originale ma in traduzione. Per questo l’ebraico e pertanto i rabbini o gli
ebrei convertiti sono sempre stati20, fino alla fioritura rinascimentale
dell’ebraistica cristiana21, un riferimento imprescindibile, con la già
accennata differenza che, per i circa mille anni, intercorrenti tra la tarda
antichità ed il Rinascimento, queste relazioni non ebbero pubblica
evidenza. È inoltre sempre attraverso questo canale che venivano curati i
contatti con l’intellettualità (i.e. esoterica) islamica.

Ritornando agli scopi interni ebraici, ritengo che, in quella tradizione,


l’interesse sia derivato di un filum remoto, il cui atteggiamento, verso la
Scrittura, potrebbe definirsi - lato sensu - protestante. A voler essere del
tutto conseguenti, il Protestantesimo stesso è stato poi possibile perché,
a quello stesso filum, apparteneva - ab origo - pure il “Novus Israel”22.
Specifico: esistono “due” Thorà, la scritta e l’orale ma l’accezione, nella
quale deve essere interpretata questa classifica, trascende il senso
corrente degli aggettivi. La “scritta” (miqra) deriva da una radice qara il
cui principale significato è leggere. Da questo accade che, scrittura e
lettura m’anche comprensione, si trovino ad essere strettamente
connesse. Il testo sacro ha pertanto una trasparenza, che è compito del
lettore percepire e ciò è a misura delle sue capacità: in un contesto non
81

più cosmologico ma esegetico, si tratta, ancora una volta,


dell’eliminazione di un medium23.

L’Ebraismo assolutamente maggioritario24, quello normalmente


conosciuto come tale, appartiene però al filum orale (pèh)25 ed è quello
che un medium, regolarmente istituzionalizzato, lo possiede:
l’interpretazione rabbinica. È soltanto col Rabbi spagnolo Maimonide
(1135/1204: quindi conterraneo ed immediatamente successivo a
Averroè) e nel suo pensiero che, le due Thorà sembrano ricongiungersi.
La questione è molto sottile e difficile da affrontare ma cercando una
sintesi, si può, senza falsarla, ridurre l’esposizione col ricondurre tutto al
problema degli attributi negativi di Dio (via negationis). Attributi, che
sono quelli più adatti a significare la natura ultima del Principio 26 in
quanto sciolgono da un vincolo, da un limite e permettono, sia pur
imperfettamente, di dare una qualche espressione all’ineffabile e di
pronunciarsi intorno a ciò che non ha alcun confine. Di converso,
all’aggettivazione positiva (via affermationis) appartiene la descrizione
di quell’aspetto del reale che include tutto quanto è pertinente
l’ontologia27.

Maimonide, nella sua totale adesione a tale verità intuitiva28, ma non


facile da cogliere per i più, giunge ad affermare: <<colui che presta a
Dio gli attributi affermativi, elimina dalla sua fede l’esistenza stessa di
Dio>>29. In quest’asserto e nelle sue premesse, si può forse trovare la
scaturigine dell’abbaglio, che, in certi ambienti dell’integralismo
cattolico, ha potuto svilupparsi fino al punto d’arrivare ad una
conclusione, per la quale la classe rabbinica sarebbe, nascostamente e da
secoli, atea; ingannando così i propri fedeli al solo scopo di trascinarli
contro il Cristianesimo ultimo baluardo d’una fede nel trascendente. La
motivazione del fraintendimento è intrinseca alla cultura cattolica, da
secoli sempre più solamente exoterica, quindi esclusivamente teologico-
affermativa e pertanto in grandi difficoltà con un argomentare d’ordine
metafisico30. Comunque, sebbene Maimonide sia la figura di riferimento
in ordine a questo tema, già prima di lui, in ambito ebraico, lo fece
oggetto d’attenti studi la scuola di Saadia Gaon (882/942).

Questo tipo d’approccio a tali problemi non creava difficoltà di


comprensione soltanto al di fuori delle comunità, in esse infatti, da
alcuni, il superiore piano metafisico dell’opera di Maimonide non fu
82

compreso e presolo per scetticismo, si vennero a creare le basi per una


separazione del mondo da Dio. Perché lo scetticismo? Ma in quanto per
Maimonide la lettera della Scrittura è un’allegoria ed il senso vero è un
altro mentre per Averroè, nel Corano, c’è un’unica verità, suscettibile di
piani interpretativi diversi a seconda dei livelli di comprensione dei
singoli. Concettualmente la differenza non è rilevante ma è nel momento
interpretativo che la prima formulazione può, maggiormente, prestarsi al
fraintendimento: è da qui infatti che deriva tutto il tema della doppia
verità.

Non è quindi Averroè ad aver tolto cogenza erga omnes alla Legge ma
piuttosto Maimonide, o meglio, coloro che lo fraintesero e, per loro,
l’errore trovò modo di passare nel campo cristiano proprio attraverso
quei rapporti, che avevano permesso la costituzione dell’averroismo
filosofico e politico latino. Questi germi premoderni non erano però
ancora il male: l’elemento dirompente, che nascondevano, esplose dopo
la catastrofe spagnola con la quale ho iniziato questo lavoro: il marrano
è un cattolico catechizzato ma senza fede, ebreo per volontà ma senza
vera cultura ebraica. Questo dramma, maturato su un humus intriso della
vulgata lectio del pensiero di Maimonide ha, appunto, generato lo
scetticismo: quando il marrano riesce a lasciare la Spagna e va in
Olanda o dovunque possa, senza pericolo, ritornare alla fede tenuta sino
ad allora nascosta, passa, da un vissuto ebraico solo immaginario e
quindi tutto mentale, alla realtà concreta dell’osservanza. A quel punto,
sorge in lui l’impressione di star recitando, la stessa impressione provata
prima, all’epoca della costrizione: vive allora l’Ebraismo con la stessa
distaccata estraneità con la quale aveva vissuto il Cristianesimo,
traendone così la convinzione che la verità sia sempre altrove, ben
lontana quindi dalla forma storica d’ogni religione31.

La Thorà, che può ora praticare, gli appare soltanto come l’immagine
sostitutiva d’un qualcosa più alto e nascosto. È in questa impossibilità
del Vero a calarsi nel nostro mondo, in questa incommensurabile
lontananza, del tutto analoga all’invalicabile trincea tra divino ed umano
provocata dal dualismo cartesiano, che poté inserirsi il messianismo
antinomistico ed apostatico di Sabbatai Zevi (1626/1676)32 ed in seguito,
sul terreno da lui preparato, quello militante e nazionalista ante litteram
di Jacob Frank (1726/1791)33, il quale, ponendo per primo la necessità
d’un territorio, impostò le premesse pel sionismo d’un secolo dopo. Fu
83

solo quest’ultimo, laico e socialista, erede dell’illuminismo ebraico


(l’Askala), che, condotto all’estreme conseguenze il lascito risultante da
tanti rivi ed in analogia con l’invenzione dei nazionalismi europei 34, con
un atto teurgico inverso, fece della nazione il proprio dio.

Nelle argomentazioni precedenti, si trova che, la costante, all’origine


della rottura della regolarità dottrinale, è indicata nell’insorgere d’una
incomprensione. Questa, spesso, si verifica al momento della diffusione
d’una qualche formulazione sapienziale, la quale, uscita da ambiti
intellettualmente elitari e socialmente ristretti ma pervenuta, ormai
deformata e malintesa, ai più, scatena, sotto una veste ampiamente
eterodossa, una serie di reazioni incontrollabili ed eversive. Che tutto ciò
avvenga spontaneamente è, a mio parere, caso raro e limitatissimo,
dovendosi, in prevalenza, attribuire i maggiori effetti, all’azione di
quelle forze profondamente innovative, cui faccio cenno all’inizio.
Forze, sulla natura delle quali sarebbe necessario uno studio specifico
ma che - come si vede, dal poco detto - si mostrano perfettamente in
grado di trarre profitto da ogni fessura ed appiglio, offerto dalla struttura
tradizionale. Capacità, che loro derivano da condividerne tutta
l’impostazione cosmologica, dalla quale, traggono una perfetta
padronanza sia del mondo grossolano, sia di quello intermediario,
stando la loro incomprensione sul piano della metafisica 35. Da questa
fondamentale ignoranza, sviluppano una competitività totale anche se
forzosamente perdente rispetto a ciò che si prefiggono (cfr. supra I, in
fine): è però importante capire quanto, esse stesse siano ben coscienti
dell’artificiosità del moderno, la cui imposizione è, per loro, solo un
momento preparatorio.

Ora, questa fase è stata praticamente portata a termine; la scienza


sacra è irrisa e ignorata, la società non è emendabile e tutti i tentativi
pratici, privi d’un supporto conoscitivo adeguato, si rivelano, il più delle
volte, peggiori del male che vogliono combattere: unica strada è la
ricerca d’una chiarezza intellettuale in grado di discernere il senso
profondo dei moti in atto ed ancor più di quelli avvenire, ben sapendo -
come afferma l’Induismo - che, nei tempi ultimi, in attesa del
raddrizzamento finale, tutto il sapere della Tradizione Primordiale sarà
così ridotto da star tutto in una conca.
84

NOTE
1
Niente a che vedere con l’intuizione comunemente intesa e d’ordine
esclusivamente infra-razionale ma pure lontanissima dell’intuizionismo filosofico
d’un Bergson.
2
È per questa ragione che, la sistematizzazione filosofica tipica dei filosofi moderni,
intenti alla creazione di personali linguaggi e prospettive, altro non possa esprimere
se non le caratteristiche ed i limiti della Weltanschauung di un singolo piuttosto che
un’obiettiva e pertanto v e r a rappresentazione del reale. Nel mondo della
tradizione, di personale, il saggio non metteva che la forma.
3
Per ben capire quanto dirò in seguito è opportuno precisare che queste
appartengono alla manifestazione formale o ‘alam al-mithal (mundus imaginalis,
sede delle animæ humanæ ) ovvero barzakh inferiore.
4
Qui, la Luna e tutti gli altri corpi celesti, che appartengono al cielo visibile, sono
da intendere non in un’ingenua rappresentazione della natura ma quali paredri di
stati superiori e loro proiezioni sul piano del sensibile, avendo sempre ben presente
che, usando i nomi di queste ultime, sono i primi che s’intendono.
5
Barzakh superiore, che attiene alla manifestazione informale, è definito ‘alam al-
ghayb (mundus arcanus). Al di fuori della manifestazione o del cosmo c’è
l’Empireo sede divina e degli Angeli intellectuales o Arcangeli.
6
La veste mitica ed il peculiare linguaggio religioso, non più trasparente ai
contemporanei, inducono spesso a dare loro questa indebita classificazione.
7
Esse, dice, sono potenzialità della facultas cogitandi; in effetti, è tale facultas, che,
in potenza, risiede in esse e pertanto ne deriva che, il suo famoso cogito ergo sum
dovrebbe volgersi in un più metafisicamente corretto sum ergo cogito.
8
È invero singolare anche quanto riesca ad immaginare pel funzionamento e
l’interazione del sistema: è tutto un - poco fisiologicamente e razionalmente
riscontrabile - aprirsi e chiudersi, secondo necessità, di pori e canali.
9
S’intendono naturalmente i livelli più bassi del mundus imaginalis e non certo il
barzakh superiore.
10
Artifizio assai relativo perché questa, in quelle comunità, sembra essere stata
quasi pratica corrente essendo l’arabo lingua d’uso comune.
11
Inf. IV.144.
85

12
Anche la forte deformazione riscontrabile nella latinizzazione del nome dei due
filosofi passa per il filtro ebraico: l’arabo ibn, figlio, suonava, in Spagna - in quel
dialetto arabo - aben mentr’era aven per la pronuncia degli ebrei conterranei;
essendoci i testi pervenuti per il tramite di quest’ultimi, è facile spiegarsi l’avvenuta
mutazione.
13
Il suo essere ai limiti dell’ortodossia exoterica ufficiale non esclude di ritrovarlo,
in tutte le epoche della nostra storia ed in forme di diversa evidenza, come custode
più fedele del deposito tradizionale pervenutoci, ab immemorabili, quale
Philosophia perennis.
14
Senz’altro questo allarme fu provocato dallo sviluppo, in esso, dell’angelologia:
se il rapporto con Dio avviene pel tramite della funzione angelica, la persona
individuale, la quale, di questa funzione, fruisce in modo privilegiato, viene a
godere d’una autonomia che può insidiare l’esclusivismo magistrale della Chiesa. È
perciò, ch’ogni esoterismo è stato combattuto m’anche per lo stesso motivo,
privatasi la Chiesa delle necessarie difese, comunque sino ad una certa data (1307:
distruzione dell’Ordine del Tempio) presenti nella Cristianità, sono state aperte le
porte a forze non più controllabili.
15
Con questa differenza; la diade angelica è separata dalla cesura cosmica:
manifestato/non manifestato mentre la coppia inferiore, all’interno del cosmo, è nel
rapporto manifestazione formale/manifestazione informale. Ciò determina una
particolarità interessante; la manifestazione informale è sopra-individuale, pertanto,
ad ogni Intelligenza celeste (ma il legame, per le già dette relazioni, è anche con le
entità arcangeliche del non manifestato) competerà, secondo una legge d’affinità,
una moltitudine di anime (individuali) umane, riassumendosi in ognuna di esse un
archetipo tipologico (Rabb al-Nû’, signore della specie). Al sommo della scala
gerarchica, nel pleroma divino, c’è l’Angelo dell’Umanità, il o
della cristologia d’Origene, che ci mostra un Salvatore quale Uomo tra gli uomini
ed Angelo tra gli angeli.
16
In questa funzione soteriologica e necessaria dell’Angelo trova origine il culto
dell’Angelo Custode oramai incompreso e gettato tra le puerilità di un passato da
dimenticare e del quale scusarsi.
17
L’espressione - usata in una prospettiva diversa da quella di chi scrive - è
dell’amico Prof. Umberto Bartocci dell’Università di Perugia e del resto, il presente
lavoro è frutto della successiva elaborazione di una corrispondenza con lui.
18
In specialissimo modo, esoterico.
19
È motivo di questo, il suo sorgere quale Giudeo-Cristianesimo, della successiva,
profonda rottura antinomistica e pro-gentili di Paolo nonché del naturaliter ruolo
86

egemone del greco in quella   tardo-ellenistica ch’era tutto il Medio Oriente
d’allora, comprese molte comunità ebraiche nelle quali l’uso anche liturgico della
lingua nativa era pressoché scomparso.
20
Fu grazie al rapporto con un rabbino che S. Gerolamo (347/420), durante il suo
soggiorno in Oriente, poté realizzare la prima fedele traduzione in latino dell’Antico
Testamento, nota col nome di “Vulgata” aggiungendo così alla græca fides (i
Vangeli) quella che chiamò l’hebraica veritas.
21
Iniziata da Johannes Reuchlin (1455/1522) col “De arte cabalistica” nel 1517
mentre al suo compimento, si giunge soltanto nel XIX sec. con la nascita
dell’accademica Judentum Wißennschaft.
22
Cfr. supra n.19.
23
Interessante sarebbe approfondire ma esula dai limiti di questo studio, come,
anche a livello sociale, l’irrompere della modernità abbia potuto avvalersi d’un
“vizio” borghese ossia peculiare di quella classe medium tra le due superiori ed il
popolo: la cupidigia pel denaro. Il più illustre contagiato fu Filippo il Bello (Purg.
20.93) che, da quell’appetito, fu indotto ad aggredire il Tempio. Risaputo è infine i l
ruolo determinante svolto dall’emergere del successivo capitalismo.
24
Con qualche semplificazione, gli altri ebraismi sono: i Samaritani, che
preferiscono essere considerati Israeliti in conformità alla loro discendenza dalle
dieci tribù settentrionali. Gli Esseni non più esistenti, dai quali però i Caraiti (dalla 
qara), vogliono derivare. Stessa affinità per il Giudeo-Cristianesimo (cfr. supra
n.19) come ci appare da quanto riscontriamo d’affine con Qumrân.
25
La Thorà “orale”, a sua volta, si suddivide in “con e senza il testo a fronte”. È la
seconda forma, sviluppatasi con Esdra, che ha generato l’enorme commentario
rappresentato dei due Talmud e, data origine all’istituto sinagogale ed al rabbinato
(Fariseismo), ha permesso la sopravvivenza dell’Ebraismo dopo la distruzione del
Tempio. L’altra, in vario modo, in essa confluisce ma le sue tradizioni -
l’insegnamento parabolistico del Midrash - sono fondamentali nella predicazione
del Cristo.
26
Il Non-Essere o Deus Absconditus il cui vultus conoscibile è, per il cristiano, su
tutti i piani dell’essere, il Vultus Christi. Cfr. anche il ruolo che gli attributi negativi
hanno nell’Advaita Vedanta dell’Induismo.
27
Il mondo sensibile, i due barzakh e l’Empireo.
28
Cfr. supra n. 1.
87

29
Maïmonide, La guide des égarés, Verdier, Paris: I.60, p. 144.
30
Etichetta sotto la quale, nella cultura contemporanea, si possono classificare
concetti eterogenei, di norma lontani dal senso proprio del termine.
31
Devo queste illuminanti considerazioni a Shmuel Trigano, La demeure oubliée,
Gallimard, Paris, 1994.
32
Cfr. Gershom Scholem, Sabbataï Zevi, le Messie Mystique, Verdier, 1983.
33
Cfr. Arthur Mandel, Le Messie Militant, Archè, 1989.
34
Sarebbe interessante vedere quanto di costruito ci sia stato, dopo la rivoluzione
francese, nel sorgere dei vari stati-nazione, tutti in corsa verso gli stessi traguardi:
lingue (morte o pressoché tali, fatte risorgere come nel caso stesso dell’ebraico
d’Israele o comunque lingue letterarie, estranee al popolo, imposte d’autorità) volute
per meglio omologare e livellare chiunque vivesse entro i confini diventati sacri.
Bandiere, inni, poemi ancestrali (anche questi, in gran parte, invenzioni di filologi
spacciate per portentosi ritrovamenti), abiti nazionali non più indossati e spesso
proibiti da secoli (quello scozzese ad es.) riesumati a miglior immagine e precisa
distinzione dello stato-nazione. Tutta una terminologia religiosa applicata a istituti
nuovissimi: sacri doveri, sacri confini, resurrezioni…..e a personaggi d’ogni tipo:
martiri, apostoli…….Con tutto il portato di differenze diventate incolmabili e poi
lingue e costumi (invece autentici e praticati) negati, irrisi mentre altri - estranei -
imposti. Insofferenze, odï, stragi, persecuzioni, deportazioni …….
35
Per meglio comprendere sia la differenza tra intelletto e ragione nonché la
coincidenza del primo collo spirito, sia l’attuale abuso della qualifica di intellettuale
- sempre così ambigua - basti ricordare la nota osservazione (impostata su Inf. 3.18)
che, nei cerchi danteschi, i dannati <<.. hanno perduto il ben dello intelletto>> ma
ragionano benissimo.

-----
88

Bruno d’Ausser Berrau di famiglia alsaziana vive da anni in Toscana.


Già ufficiale di carriera con una formazione di ingegnere è oggi uno
studioso indipendente di storia delle religioni e temi di carattere
tradizionale. In ordine a questi argomenti, ha pubblicato il saggio “La
Scandinavia e l’Africa” presso le edizioni del “Centro studi LA RUNA”.

Sir Francis Bacon, dal frontespizio di Sylva Sylvarum, 1626


89

FRANCIS BACON, SLAVE-DRIVER


OR SERVANT OF NATURE?

Is Bacon to blame for the evils of our polluted age?

(Nieves H. De Madariaga Mathews)

When considering at what point we took a wrong turning, destructive


to the earth and all that dwell upon it, those who are working for a new
concept of science often invoke, as the villain of our disastrous piece,
Francis Bacon, the ‘father of experimental science’, whose prophetic
New Atlantis was published soon after his death in 1626. Bacon is
reproached (along with Descartes) for spearheading a scientific
revolution which promoted a mechanistic view of nature, and abdicated
all responsibility for the results of its discoveries. Some have seen in a
‘Messianic’ Bacon the very model of the biotechnology at work today in
the global markets - a ‘cult camouflaged as science’, ‘a mindset that
views science as a way of bringing man closer to God’, and claims to
improve our lives while actually degrading them. In the film Mindwalk,
based on the ideas of Fritjof Capra in The Turning Point (1982), Liv
Ullman, as ‘the physicist’, indignantly decries our modern science, of
which Francis Bacon is made the epitome. According to Bacon, the
physicist declares, ‘nature had to be hounded and made a slave to the
new mechanicized devices; science had to torture nature’s secrets out of
her’. And ‘hasn’t modern science’, she concludes, ‘done exactly what
Francis Bacon preached - hasn’t it tortured our planet?’

Did Bacon really preach these things? Many have believed he did,
since, half-way through our century, two illustrious thinkers at the
opposite extremes of the political scale concurred in laying at his door
not only our polluted air, sea and soil, but the polluted lives of our
alienated consumer society. In 1942 Herbert Marcuse, the patron saint of
a generation of leftist extremists, described Bacon as the ‘evil animus’
of modern science, while Martin Heidegger, who was still celebrating in
90

1953 what he called ‘the inner truth and greatness of Nazism’,


denounced in Bacon the symbol of a nefarious identification of science
with technology. During those same decades Bacon’s reputation as a
scientist was also at its lowest ebb. At the hands of Karl Popper and
others, the ‘Great Secretary of Nature’ had been demoted to sham
thinker - a mere fact-collecting inductionist - and altogether excluded
from the present scientific scene. Struck by the paradox, an eminent
Baconian scholar, Paolo Rossi, pointed out that those who exalted
science allowed Bacon no part in it, while those who looked on it as
thoroughly evil, saw him as ‘its very essence’.

When we turn to what Bacon actually said, however, these various


dismissals prove groundless. Absorbed in their respective ideologies,
their authors had failed to read Bacon in the original - and to read him in
context - thus making a gross travesty of his model of science, and
reducing his philosophy to a handful of slogans. This was the conclusion
of various Baconian scholars who, in the 1980s, closely studied the
meaning of his texts, reconstructing the situation in which he worked.
Bacon’s induction, based on the generation of laws from observation
and experiment, by means of an intuitive ‘analogical leap’ from the
observed to the unobservable, was shown to be a highly original
contribution to philosophical thought, and he was rehabilitated as a
founder of the new science, alongside Galileo and Descartes. His
apparently one-sided exaltation of technology was similarly shown to
have sprung from a misinterpretation - where not an actual misreading -
of his words, in particular from the neglect of his basic tenet, that ‘works
are of greater value as pledges of truth than as contributing to the
comforts or life’. We owe these misunderstandings in part to the
tendency of some commentators to project the experience of a later time
onto past ages (thus making Bacon, among others, a nineteenth century
utilitarian, a positivist and even a Marxist). But we have also to
understand why Bacon alone among English Renaissance thinkers, has
been singled out in our time for consistent vilification. This anomaly has
a good deal to do with the distorted image or his life which most of us
have been brought up on, ever since, in 1837, the historian Macaulay
published his brilliant but thoroughly untrustworthy essay, depicting a
contemptible Bacon, soon to be loaded by subsequent biographers with
every conceivable vice. This negative image of the man, which could
not but influence that of the thinker, is still present in many people’s
91

minds, and it has made them only too ready to see him as a scapegoat
for the harmful effects of the science he had heralded with so much
acclaim. Bearing these points in mind we can now look at the principal
complaints made of Bacon by the friends of Gaia.

Bacon’s scientific revolution launched a mechanistic view of nature, in


which living organisms are seen - and treated - as machines. The
partition of the universe into live human mind and passive, mechanical
nature was Descartes’s gift to modern science, not that of Bacon, who
stopped well short of ‘the pitfall of classical mechanization’, as it has
been called. Already in the eighteenth century the Italian philosopher,
Vico, had congratulated his predecessor on having wisely avoided ‘the
rocks of mechanistic thought’, while a contemporary recalled that, as a
youth, he was given the works of Bacon to read so that he could be on
his guard against ‘the aberrations of Descartes’. For Coleridge ‘the
impulse towards a true natural philosophy, based on legitimate
experience’, had been betrayed by Descartes’s science of mechanics.
Like Shelley, Coleridge regarded Bacon as the man ‘by whom Science
was married to Poetry’, while early in our century Alfred North
Whitehead appreciated Bacon above all as a Renaissance vitalist.

And so we will find him. In his own Theory of Heaven he categorically


denied the void he had earlier envisaged, and conjured up instead a
starry heaven of ‘fluctuating waves and reciprocations’, an earth on
which ‘all objects emit rays’. He conceived the dynamic processes of
nature - organic and inorganic - as a constant flow and ebb of ‘vital
spirits’, struggling against the ‘spirits’ of inanimate matter to preserve
youth and beauty, and to develop higher organic forms. It was by the
synthesis of this universe in perpetual fluctuation with the quantitative
aspects of his new science - a unique feat, as has been noted - that he
sought to interpret all natural phenomena, ‘from planet to planet, from
spirit to star’. Indeed, with his vital spirits, ‘impressed by God upon the
primary particles of matter’, it looks as if Bacon had by-passed
Newton’s clockwork universe to rejoin the quantum scientist,
Heisenberg, just as he had by-passed Aristotle to rejoin the pre-Socratic
Heraclitus - that ‘tracker-down of truth’, as Bacon called him - whose
complementary opposites he liked to recall, and with whose fire, ‘both
matter and moving force’, Heisenberg identified his own ‘particles of
energy’. Anyone inclined to attribute a cold, mechanistic view of nature
92

to Bacon should read his notes for a History of Generations and


Pretergenerations, with its cascades or ‘perturbations’, ‘vivifications’
and ‘gestations’, its limitless ‘potentialities’, all leading to an order
based on the ‘generative and vivifying power in things’ - a power which
bears within it, ‘like a second chaos’, that air ‘in which the seeds of so
many things act, wander, endeavour and experiment’.

Bacon advocated ‘the torture or nature’. ‘The art of enquiry into nature
itself, and or putting it on the rack’, was never Bacon’s, and these
words, so often quoted against him, will not be found in any of his
works. As recalled by Peter Pesic (from whose thorough studies of this
subject, in Isis 1999 and elsewhere, I have taken most of the material for
this section), they were written in 1696, by his great admirer, Leibniz, in
praise or ‘the art of experimentation which Lord Bacon began so ably’.
Influenced, perhaps, by the fact that torture was still used in his day as a
touchstone of certainty, Leibniz failed to distinguish, as Bacon
emphatically did, between the concept or racking, or torture - terms
which Bacon invariably connected with a brutal abuse - and that of ‘the
trials and vexation of art’, indicating the agitation or provocation of
nature in the course of an experiment aimed at verifying the evidence of
the senses. Bacon depicted this ‘vexing’ or ‘crossing’ of nature with
vivid images related to discovery or pursuit - never to torture. Many of
them - such as ‘espials’, examination, trial, interrogation, deciphering -
are taken from legal practice. Others are grouped around his concept of
‘the Hunt or Pan, or Learned Experience’ - a hunt ‘in the woods or
experience’ for nature’s laws - all of nature being ‘nothing else than a
hunt’, while man himself ‘hunts after his works’. If you ‘follow and as it
were, hound nature in her wanderings, you can drive her afterwards to
the same place again’: this is Bacon’s description of controlled
experiments aimed at making results replicable.

Turning to mythology, he described experimentation as a wrestling-


match with that indestructible ‘thrice-great prophet, Proteus, or Matter’ -
a matter permeated with spirit - who has to be gently but firmly held in
place with the ‘handcuffs’ of mechanical aids, as he wriggles from one
shape to another - or disappears for a time, as a gas; until, having rung
all his changes, he finally discloses some of nature’s secrets, thus
assisting her to ‘achieve her ends’. The experimenter is also tested in
this process (being much in need of purification, since the mind of man
93

is ever prone ‘to distort the nature of things by mingling his own nature
with it’). In the end, however, his part is a small one, for, Bacon
insisted, ‘all that man can do is to put together and put asunder natural
bodies. The rest is done by nature within.’ On the role played by man in
vexing nature, within these limits, Bacon is quite clear. He gives
examples from the age-old crafts - baking, brewing, pruning - by which
nature is ‘forced out of her natural state, and squeezed and moulded’,
and he cites experiments such as confining the spirits of wine in a sealed
vessel, or making a rainbow in a spray of water.

We are far from the ‘racking of nature’ imagined by Leibniz. None the
less, a few others were to follow him in confusing Bacon’s charged
images, and more recently various feminist writers - including Carolyn
Merchant (1980), from whom, alas, Capra took his notion of Bacon’s
views - have contributed their own brand of confusion. Bacon is now
denounced for launching ‘a science infused with sexual and
misogynistic metaphors’ - in particular with images of rape and torture -
aimed at encouraging middle-class male entrepreneurs ‘to exploit nature,
as a female to be tortured through mechanical inventions’. As Alan
Soble has demonstrated (Oxford, 1998), none of the passages adduced
by these writers remotely supports their claims. By omitting key words
and sentences, and introducing metaphors of rape and of ‘the torture
chamber’ where there are none, they completely transform his meaning.
Thus Bacon’s remark that ‘a useful light’ might be gained by the
scientist from an inquiry into the arts of witchcraft, to Merchant
‘strongly suggests the interrogations of the witch trials and the
rnechanical devices used to torture witches’ - and in Mindwalk he will
be made out presiding over the witch trials of King James, though these
were held in Scotland, many years before Bacon became Attorney
General. Merchant saw caverns like that of the Sybil as ‘sexual holes’,
and, she complained, Bacon ‘frequently described matter in female
imagery, as a “a common harlot”’. In fact he referred (twice) to an
‘untenable opinion’ of Plato’s ‘that matter is like a common harlot,
always seeking after new forms’.

Nature cannot literally be tortured, but some of her creatures can, and
often are today, in our service. At a time when vagabonds were regularly
flogged, thieves hanged alive in chains, and felons gradually crushed to
death under rocks, people were not much preoccupied with the suffering
94

of animals. Descartes defended vivisection, and compared animals to


creaking machines. Even Spinoza, half a century later, declamed in his
Ethica that we could treat them ‘in any way which best suits us’. Bacon
was in two minds. He believed that vivisection had rightly been
condemned, but, in exceptional cases ‘of great usefulness’, it could have
been a mistake to ‘relinquish it altogether’. We may doubt that he ever
came across such a case, for this ‘tender-hearted’ judge, as he was
known to his contemporaries, who looked on offenders ‘with the eye of
compassion’ - and who searched for ways of mitigating pain -
repudiated torture, not only for its cruelty, but because he believed it
was more liable to evoke ‘strange fallacies’ than to discover the truth.
When ‘vexing’ even inorganic matter (which to him was alive) Bacon
compared the care to be taken in regulating and varying the heat used in
experiments to the gentle action of the womb. As for living tissue, eggs
might be studied, but cutting out the foetus from the womb (as
advocated by his contemporary William Harvey, who discovered the
circulation of the blood) ‘would be too inhuman’.

The womb is very present in Bacon’s writings. He saw his own thought
‘rooted in the lap and womb’ of a nature more subtle ‘many times over’
than the mind of man, while the Scholastics ‘touched nature only with
the tips of their fingers, without mingling themselves into her being’.
Had they ‘remained attached to the womb of nature and continued to
draw nourishment from her’, he said, there would be no need for a new
science. Far from preaching the rape of nature, the closer union Bacon
sought with her was as the bride in ‘a chaste and lawful marriage’, from
which ‘many helps to man’ might spring. (And should anyone object to
the patriarchal view or her as a ‘fruitful spouse’, let us recall that nature
appears as the dominant partner in another patriarchal image, with the
arts subject to her ‘as the wife is subject to the husband’). Bacon
obviously preferred a ‘happy match’ to a grappling, however gentle. It is
only men ‘too intent upon their ends’, he said, who ‘rather struggle with
Nature than woo her embraces with due observance and attention’.

Bacon offered mankind the boundless expansion of human power


which has given science its daemonic and Faustian character. The power
Bacon offered was never boundless. ‘All knowledge is to be limited by
religion’, he said, ‘and referred to use and action’. And keen as he was
for man to ‘open and dilate the powers of his understanding’ and reach
95

out to the spacious new worlds of discovery that lay beyond the pillars
of Hercules, he never once lost sight of those essential restraints. The
arrogant claim of unlimited power for man is precisely what he most
strongly deprecated in the magicians of his day - those self-seeking and
vainglorious ‘braggarts’, as he called them, who looked on themselves
as gods, and in their ‘blind greed’ attempted ‘to domineer over nature’,
merely to boost their own personal influence. It was not long since
Marlowe’s Dr Faustus, ‘lord and commander or the elements’, had
boasted on the stage that his dominion ‘stretched as far as doth the mind
of man’. Bacon too, in The Advancement or Learning (1623), sought ‘to
extend the bounds of human empire’ - but read on: ‘as far as God
Almighty in his goodness may permit.’ (This limiting condition does not
appear in the New Atlantis, where the sentence ends ‘to the effecting of
all things possible’. But the words are spoken there in the same religious
context, ‘for the love of God and man’.)

What exactly do these religious limits to knowledge imply? While in


sympathy with ‘the heathen’ (the fathers of whose church, he said, were
the poets), Bacon lived his spirituality within the newly reformed
Church of his time, as a practising Christian - witness his inspired
religious writings, and his evident interest in ‘the true temper of a man
who has religion deeply seated in his heart’. He conceived his New
Instauration as the fulfilment of a Biblical prophecy and a rediscovery of
‘the seal of God on things’. Which did not mean that he could ever see
in the practice of a technology ‘a first step to becoming one with God’ -
as proclaimed of child-cloning by one of its famous promoters. On the
contrary, Bacon repeatedly warned his readers against the
‘unwholesome’ mixture of things human and divine, and admonished
them never to ‘presume by the contemplation of nature to attain to the
mysteries of God’. The meaning of that crucial condition, ‘as far as the
Almighty may permit’, is simple. Bacon solemnly disavowed both
‘power and knowledge such as is not dedicated to goodness or love’.
The words are used with precision. ‘Goodness’ means the search of truth
for its own sake - since ‘the very beholding of light is itself a more
excellent thing than all the uses of it’. ‘Love’, or ‘goodness applied’,
means doing everything possible to relieve ‘the immeasurable
helplessness of the human race’.
96

This aim was the leitmotiv of Bacon’s life, and his whole new concept
of science was geared to it. He had seen the effects of hunger at first
hand as a young legal counsel, when examining a band of rebel yeomen.
Shocked by what he found, he had set out to study their condition, and
had defended, in Parliament after Parliament - with a heat that surprised
fellow Members - a Statute for the Relief of the Poor that was to last for
centuries, and his two bills against the enclosure of common lands -
which, he rightly insisted, ‘destroyed the bread of the poor’. Bacon
believed that poverty could best be eliminated by achieving abundance
for all, and it was to remedy ‘the pinched and narrow state of human
fortunes’ that he wanted to multiply the discoveries of science, made so
far by accident, like that of silk, glass or the magnet. This claim, now
used by some multinationals to justify their depredations, was a new one
at that time, although he had inherited his strong sense of the service
owed to mankind from an ancient Platonic and Christian tradition known
as the vita activa, of which his friend, Sir Philip Sidney, was the living
example. Bacon was however the first scientific thinker to have
appropriated the vita activa to science, and made ‘the weal of man’ his
goal.

It is in this light, and recalling his precept that ‘the true ends of
knowledge’ are neither profit, fame nor power, that we should interpret
his concept of dominion over nature - a dominion evoking the
benevolent authority of the first King of Atlantis, with his ‘large heart,
inscrutable for good’. For Bacon, power meant ‘the power to do good’.
There is no place in the New Atlantis for a world dominion, which he
described as ‘the evil dream of a prosperous brigand’. In the heyday of
colonization he stressed that ‘people are not to be planted’ so as to
displace others, and he lamented the miserable fate of ‘the poor Indies,
brought from freedom to be slaves’. Neither did he look on nature as
man’s slave. The only case in which he appears to couple slavery with
nature - when offering an imaginary pupil ‘to bind nature to your service
and make her your slave’ - has been found to be a mistranslation of the
Latin original for ‘slave’, ‘mancipaturus’, which actually means ‘to be
assigned to an office’. It implies a bond - in Bacon’s case a mutual one -
but without the indignity of slavery. Himself, as he believed, ‘born for
the service of mankind’, Bacon took every opportunity to emphasize that
man is but the servant of that nature which he was now joyfully placing
at the service of his ‘dear, dear son’; that beyond following and
97

observing her order, he ‘knows nothing and can do nothing’; and above
all that ‘the least part of knowledge’ is passed to him ‘by a Charter from
God’, and ‘must be subject to that use for which God hath granted it’.
Failing which ‘all manner of knowledge becometh malign and
serpentine.’

In the New Atlantis Bacon set up a model for the manipulation of


nature which, carried to extremes, has led to the widespread genetic
modification of plants by our multinational corporations. Bacon
extended his inexhaustible capacity for wonder to ‘the border regions of
knowledge’, as he put it. There was nothing he did not propose to study,
from the transmutation of metals, and ‘those minute particles that do so
great effect’, to a drink he had heard of ‘called coffa, as black as soot
and of a sharp scent, which comforteth the brain and heart’. He wished
an inquiry to be carried out ‘with all sobriety and severity’, into ‘the
transmission of spirits at a distance’, precognition, hypnosis and
telepathic dreams. And he was interested in every aspect of plant life,
from their ‘enlarging and dwarfing’, and ‘transplanting one species into
another’, to the effects of ‘the force of imagination’ on ‘their sudden
fading or lively coming up’, their closing and opening, their ‘bending
one way or another’.

But, whatever our opinion of his programme, we cannot reproach


Bacon for holding the man-centred - and in his case still earth-centred -
view of the universe, which has been an essential part of our Western
tradition since Genesis. Or for advocating a manipulation of nature that
has been with us ever since Cain ploughed the first field and a Persian
gardener bred the first rose. That our species should thrive at the
expense of the rest of creation, appears to us now increasingly ‘malign
and serpentine’. Many of us are more in sympathy - at least as a counsel
of perfection - with Eastern attitudes that deprecate stepping on an
insect, or those of native Americans, when they ask a plant’s permission
to harvest it. But where exactly does each of us stand? Do we accept the
human kidney transplant but not the heart of a pig? Can we take as a gift
from Bacon’s prescience hearing aids and spectacles, microscopes and
air-conditioners - submarines even, but not those dangerously polluting
aeroplanes? Do we accept ‘the multiplication of light at a distance’, and
Bacon’s binary scale, on which our computers are based, but not the
medical panaceas - or at least not the cosmetics - we owe to the
98

suffering of mice and dogs? Some of us now think we should not


destroy life ‘without sufficient reason’. But how much is sufficient?
Ought we to eat miserable factory-farmed animals, when a less sentient
vegetable could feed us? Bacon’s position was clear. He would ‘try all
things and hold that which is good.’ We are trying all things, but we no
longer know what is good. And we stop at nothing. In each case it is
possible to identifiy the point at which we disregarded the limits Bacon
laid down, and, failing to obey nature, brought - and are still bringing -
upon ourselves every kind of disaster. (’Force maketh Nature more
violent in the return.’)

We will find Bacon in radical disagreement with the promoters of


present day biotechnology on at least four fundamental counts. The first
relates to their respective priorities. For Bacon, profit was excluded.
Research was a matter of public funds - a task, he said, ‘for Kings and
Popes’, and he stringently admonished scientists who ‘turn aside after
profit or commodity’: they do so, he warned, ‘to the infinite loss of
mankind’. There can be no comparison between a philosopher whose
‘only earthly wish’, from youth to old age, was to promote inventions
that could relieve the poverty of man, and a corporation professing to
‘do the right thing (namely, to feed mankind) while doing business’, and
publicizing this worthy aim out of the huge profits they had made with
ventures such as Agent Orange and the defoliation of Vietnam; or
planning the sinister Terminator Seed ‘to protect their investments’. The
second difference is one of scale. The ever moderate, middle-of-the-way
Bacon, who noted that ‘the personal fruition of man cannot attain to feel
great riches’, knew that more is not better. (’It is the empty things that
are vast, things solid are most contracted, and lie in little room.’) Bacon
could not have conceived the escalating size, the global greed of
corporations coolly planning to take over a large portion of the earth’s
water resources or feverishly decoding some three billion DNA
sequences, in a bid to patent the entire human genome. The third radical
difference between corporation practice and the thinker who would not
reap the green corn, and who reminded us that it is not the tempest but
‘the soaking rain that relieves the ground’, is one of timeliness. Bacon
would have deplored, as the worst ‘levity and rashness in new
experiments’, the immoderate haste with which giant multinationals are
now combing the virgin forests for plants that have yielded their healing
properties over the millennia, in a headlong rush to extract, code,
99

genetically modify and patent substances which would require


generations of testing before they can be fed to adults - rnuch less to
babies. The fourth, and perhaps most striking difference, is the contrast
between the corporations’ stealthy moves to impose their untested wares
on us, as a part of their silent progress towards world supremacy - with
Bacon’s declared goals of open communication and exchange of
knowledge, placed at the service of mankind.

Bacon promoted a science in which the experimenter abdicates all


responsibility for the results of his discoveries. In fact Bacon was the
only thinker of his day to unite scientific knowledge with ethical ideals,
as he was the first to evolve a concept of fraternity in ‘learning and
illumination’ among scientists of all countries, ‘joining forces for the
common good’. Bacon presents his new scientist - neither ‘Schoolman’
nor magus, but a ‘pioner’ (or digger) in the mine of truth - with ‘tears of
tenderness’ for his fellow beings in his eyes. And it is because he
envisaged a succession of such scientists, handing down the torch of a
continuous tradition, at his symbolic ‘Promethean Games’, that Loren
Eiseley described Bacon as ‘the first great statesman of science’. But as
a statesman Bacon was also aware of the dangers of scientific
knowledge, and, on setting forth his plan of work for the Great
Instauration, he confessed to ‘inward hesitations and scruples’. The new
learning, he feared, ‘might open a fountain’, and who could tell where
its waters would fall? Alone among the forerunners of modern science
Bacon foresaw the possibility of that ‘rape of Minerva (wise nature), by
Vulcan (the mechanical arts)’, which we have since perpetrated. His
myth of ‘Daedalus, or the Mechanic’ - famous for his ‘pernicious
genius’, ‘unlawful inventions’ and ‘depraved applications’ - sounds a
dire warning against the ‘imperfect births and lame works’ which
‘chemical productions and mechanical subtleties’ could lead to, if
mechanical art should attempt ‘to force Nature to its will. And well we
know how far in cruelty and destructiveness they exceed the Minotaur
himself.’

Bacon hoped, as many have after him, that the mechanical arts might
‘serve as well for the cure as for the hurt’. And since people are not to
be trusted with dangerous discoveries, the brotherhood of Salomon took
an oath of secrecy for ‘the concealing of all inventions they thought fit
to keep secret’, even, if necessary, from the state - a solution not open to
100

our democracies, although some scientists have resorted to it, and one
great poet has appealed for it to be practised in our time. (In any case the
salutary independence of scientists from Bacon’s Utopian state
compares favourably with the tacit understanding between powerful
corporations and some of our governments.) The only reliable safeguard,
however, in Bacon’s view, was the age-old remedy of prayer, and in
New Atlantis daily services were held ‘of laud and thanks to God for his
marvellous works’, and of prayers (similar to those Bacon affixed to his
own works) ‘imploring God’s aid and blessing for the illuminatiori of
our labours, and the turning of them to good and holy uses’. For Bacon
the efficacy of prayer was not in doubt. He saw the orations of the
monastic orders as ‘true works that cast their beams upon society for the
benefit of man’. In our less believing age we may look on the prayers
offered daily at Salomon’s House as a declaration of intent, and a
decision to maintain that intent by concentrating the mind upon it.

It is for the firmness of his own purpose and the stress he laid on
turning our labours to good uses that I think ecologists can look on
Bacon as an ally in the struggle ahead. The needs of humanity are
changing, but never has it been more imperative for us to ‘join forces for
the common good’ - that of our whole planet, this time. Bacon’s was a
cyclical view of history, in which ‘the sciences have their ebbs and
flows’. Four centuries ago he proclaimed a science that was to go on
‘fructifying and begetting’, as long as there was room for its wastes. But
now that the tide has begun to turn, might not the forward-looking
Bacon, had he lived today, be urging us to redirect our inborn thirst for
knowledge away from the dead-ends of uncontrolled genetic engineering
and the nuclear nightmare? Towards - new variants of earth-healing
culture, perhaps? Undiscovered forms of renewable energy, a
‘revivifying’ concept of growth, or some other form of resurgence we
haven’t yet thought of?

Be that as it may, he appears to be in unison with the ecological vision


in one respect. Ther’e is a remarkable affinity between Bacon’s dynamic
concept of the origins of life, and the cosmologies now emerging in
centres like Schumacher College at Dartington, and the Santa Fe
Institute of New Mexico - an affinity perceptible even in the vocabulary
of these seekers. The ‘fluctuating patterns’ now found ‘running deep in
nature’ (as cited by Brian Goodwin, in How the Leopard Changed his
101

Spots, 1994), bring to mind those ‘fluctuating reciprocations’ noticed


above in Bacon, the ‘resemblances and conjugations’ which, he
believed, ‘reveal the unity of nature’ and ‘the fabric of the universe’.
And when we read today of ‘the dynamic fluidity’ with which elements
‘move from chaos to order and back again’, interacting rather than
competing, in ‘a creative play of forms’, or ‘a sacred dance’, we are very
close to that world which, in Bacon, ‘enjoys itself and in itself all things
that are’, while ‘the souls of the living leap about and dance with infinite
variety’; a world in which ‘Pan, or Nature’ is ever inclined to ‘fall back
into ancient chaos’ - but that Cupid foils him in the contest; in which
God himself ‘delights in hiding his works’, so as to give man the
pleasure of finding them.

We must not forget that if Bacon took the dominion of Adam over his
fellow-creatures for granted, he himself extended his ‘feeling of
communion with men also to beasts’, had thoughts of ‘nourishing and
comforting the trees’, and dearly loved birds. He believed that nature
was ‘corrupted by too much cultivation’ - after all the first scientists
were ‘the brute beasts, quadrupeds, fishes and serpents’. And when it
rained, we are told, he would go out in his open coach ‘to receive the
Nitre in the air and the Universal Spirit of the World’. Let us hear him in
his History of the Winds, a late work, urging us to ‘make a stay with
nature’ and ‘meditate upon her’:

’Wherefore if there be any humility towards the Creator; if there be any


praise and reverence towards his works; if there be any charity towards
men and zeal to lessen human want and sufferings; if there be any love
of truth in natural things ... men are to be entreated again and again ...
that they should humbly and with reverence draw near to the book of
Creation, /and becoming/ again as little children, deign to take its
alphabet into their hands.’

___________________________________

For further information and references for most of the above, see chapter
33 of Francis Bacon, The History of a Character Assassination, by
Nieves Mathews (Yale U.P. 1996), and for Bacon’s attitude towards
judicial torture, chapter 24.
102

On the ‘torture of nature’ see Carolyn Merchant, The Death of Nature


(1980); Alan Soble in A House Built on Sand, ed. Noretta Koertge
(Oxford, OUP, 1998); Peter Pesic, “Nature on the Rack, Leibniz’s
Attitude towards Judicial Torture and the ‘Torture’ of Nature”, Studia
Leibnitiana, Band XXXIX/2, (1997), and “Wrestling with Proteus,
Francis Bacon and the ‘Torture’ of Nature”, Isis (1999).
On the rehabilitation of Bacon’s science after the criticism of Karl
Popper, Alexandre Koyré, Peter Medawar and others, see Thomas Kuhn
(1977) Peter Urbach (1987), Antonio Perez Ramos (1988), Brian
Vickers, “Bacon’s so-called ‘Utilitarianism’”, and Paolo Rossi “Ants,
Spiders and Epistemologists”, both in Francis Bacon, Seminario
Internazionale, ed. Marta Fattori, Rome, 1984. Also Rossi, “Bacon’s
Idea of Science”, in The Cambridge Companion to Bacon, ed. Markku
Peltonen (CUP 1996); On Bacon’s cosmology, Graham Rees, (1984).

-----
103

Nieves H. (Hayat) De Madariaga Mathews è nata nel 1917. Ha avuto


una vita intensa, che l’ha portata in diversi paesi, dalla Spagna della
guerra civile all’Inghilterra, alla Svizzera, alla Francia, al Messico. Ha
lavorato circa 20 anni per la F.A.O., a Roma, e si è infine ritirata in una
bella casa di campagna vicino a Cortona. Una delle massime esperte
internazionali di Francesco Bacone, ha dedicato alla “difesa” di questo
controverso grande personaggio uno studio monumentale: Francis
Bacon - The History of a Character Assassination, Yale University
Press, 1996, e sta continuando ad occuparsi di lui, e della storia di quel
periodo, in un nuovo progetto di libro.

Bassorilievo assiro, Parigi, Museo del Louvre


104

NUMERICS AND GEOGRAPHY OF GILGAMESH


TRAVELS

(Emilio Spedicato)

Abstract. We consider Gilgamesh travels, as described in the surviving Gilgamesh


epic. Assuming that the epic in based on actual travels, we propose different
itineraries than usually assumed. We claim that Gilgamesh aimed to the heart of
Asia, possibly the original land of the Sumerians, via two different routes: one
taking him through the Karakorum, the other via the Balkash lake and most
probably the Zungarian gates. Final aim was a mountain range still now sacred to
the local Ngolok tribe.

This work is dedicated:

to the late Leonard Clark,


whose adventures in Amazonian Peru fascinated my young years,
whose report of his military duty in Northern Tibet
opened a new light on the dawn of civilization,
in the year of my first flight over Amazonian Peru,
land of secrets to be unveiled

to the Ngolok
fierce tribe of North Tibet
preservers of the ancient sacred Anu Mashu mountain,
let them for ever own the land of their fathers
and keep faithful to their traditions

to Khubaba
and to the Yetis
peaceful creatures in the high mountains,
our genetic brothers,
hunted down by Homo Sapiens Sapiens,
by homo homini lupus.
105

Sunt nomina lumina

Oh, Geography Cinderella of sciences!

S.H. beautiful daughter of the Hunza people learn Burushaski language of


your ancestors language of a special people of a very special place...

1. Introduction

The Gilgamesh epic deals with the adventures of Gilgamesh, king of the
Sumerian city of Uruk (biblical Erech), son of the semigod Lugalbanda
and of the goddess Rimat Ninsun, hence himself two thirds “god”, one
third man, but mortal as all men. The text of the epic is not known in its
entirety. The first tablets were found in the excavations of the library of
Assurbanipal (668-627 BC) in Ninive by Layard in the 1840s. The first
communication that these tablets contained a Chaldaic story of the
Universal Flood was made on December 3, 1872, in London, by the
assyriologist Smith. It is now known, see Pettinato (1992), that the epic
in the version of the Assurbanipal library (where apparently four copies
were kept) consisted of 12 large tablets, each one having about 300
lines, for an estimated total of 3059 lines. Currently about 2000 lines are
known. More may be discovered in future excavations or more simply in
the deposits of the world museums. It is interesting to note that the first
four lines of the epic were found in September 1998 by Theodore
Kwasmann while searching among the collections of the British
Museum (see the article of R.J. Head in Odyssey, July-August 1999).
The four lines, published in Nouvelles Assyriologiques Brèves et
Utilitaires, are given here in the original Assyrian text and in their
published translation:

(sha nagbu iimuru i) shdi maati


(xxx-ti iid) uu kalaama hhassu
(Gilgamesh sha n)agbu iimuru ishdi maati
(xxx-t)i iidu kallama hhassu

He who saw the nagbu (the country’s foundation)


who knew.... was wise in all matters!
Gilgamesh (who saw the nagbu), (the country’s foundation)
106

who knew.... was wise in all matters!

In the above translation the correct meaning of nagbu was a point of


discussion. In the Chicago Assyrian Dictionary the word is translated as
“totality” or “spring, fountain, source”. We will see at the end of this
essay an intriguing relation with “spring”, in both a geographical and an
ethnographical sense. In addition to the Assyrian version of the epic
found in Ninive, fragments in different languages, including non semitic
Hurrian, Sumerian and Hittite, have been found in several locations in
the Middle East, most of them predating Assurbanipal time. At least ten
documents are dated to the paleobabylonian period (i.e. Hammurabi’s
time, circa 1800 BC), while half a dozen documents in Sumerian are
dated to the second half of the third millennium BC. There is the
intriguing possibility that the epic was originally composed by an
advisor of Gilgamesh (no more a semigod apkallu, but a human
ummanu), named Sileqiunnini, see Pettinato (1992). About the
historicity of Gilgamesh opinions are divided. Gilgamesh is listed in
ancient tablets as the fifth king of the first dynasty of Uruk, often dated
at the period 3500-3100 BC. Now the dendrochronological record, see
Baillie (1999), suggests that in the year 3195 BC a dramatic climatic
event occurred, possibly associated with a substantial world flooding
episode of extraterrestrial origin (i.e. a cometary or asteroidal impact or
the close passage of a large body). If the suggested flood event is the
one described as the Utnapishtim/Ziusudra flood in the Gilgamesh epic
(and as the Noah flood in Genesis, the Pygmalion flood in Greek
traditions, etc.), then the dating of the first Uruk dynasty should be
lowered by a few centuries. This would be in agreement with the
chronological revision proposed in the last fifty years by several authors,
starting from Velikovsky (1953), see in particular Rohl (1998), who
dates Gilgamesh at circa 2500 BC. The following Tables provide some
of Rohl’s dating.

Table 1: Rohl’s dating of First Uruk dynasty

3000 BC Heskiagkasher (biblical Cush)


2900 BC Enmerkar (biblical Nimrod)
2800 BC Lugalbanda
2588 BC Dumuzi
107

2487 BC Gilgamesh
2348 BC Urlugal

Table 2: Roh’ls dating of first four Egyptian dynasties

2789-2669 BC Menes and First dynasty


2669-2514 BC Second dynasty
2514-2459 BC Third dynasty
2459-2350 BC Fourth dynasty

Rohl dates the Flood to about 3100 BC, but has a discrepancy in his
chronology. Indeed he notices (p. 425 of his monograph) that a different
counting of dynasties lengths based upon the Turin Royal Canon would
provide 2898 BC for Year 1 of Menes. If we take the suggested
dendrochronological dating (at 3195 BC) of the Flood and we notice that
according to Manetho there was in Egypt a period of 350 years of
confusion and crisis before Menes, a period that can be naturally
explained as the aftermath of a huge destructive flood, then we would
have a date of 2845 BC for Year 1 of Menes, about half way between
the date provided by the Turin Canon and the date in Table 2. In view of
likely unavoidable errors that may affect both the dendrochronological
record (despite the high accuracy claimed by its proponents) and the
surviving lists (where coregencies have always been a question difficult
to extricate), it seems safe to conclude that the Flood should be dated in
the period between 3100 and 3200 BC. An additional support for dating
in this century a catastrophic climatic event is provided by the analysis
of ice cores at Camp Century, Greenland, where a large acid layer has
been identified and dated at 3150 plus or minus 50 BC. It is interesting
to note that another acid layer at Camp Century, dated at 1390 plus or
minus 50, comes close to the dating of the Exodus at exactly 1447 BC,
proposed first by Velikovsky (1953) and again claimed by Rohl (1995).
Both Velikovsky and Rohl have identified the pharaon of the Exodus
with the last pharaon of the 13th dynasty, the obscure Dudimose, whose
name appears in the Turin canon, and whose tragic kingdomship is
certainly more characterized by a great natural catastrophe and by the
onslaught brought by the Hyksos than by the departure of a few hundred
thousand Hebrews. In this paper we will not discuss the historicity of
Gilgamesh and its dating. We will not propose explanations of the
108

extraordinary semigod qualities that he shows in the epic (see for


instance Sitchin (1980) for the nonstandard interpretation of Gilgamesh
mother “goddess”, as a female belonging to a group of extraterrestrial
“gods” that according to him visited the Earth in ancient times,
“created” man by genetic engineering and were able to copulate with
their creatures, as also Genesis states with regard to the Nephilim).
Under the assumption that the epic is based upon an actual traveller’s
experience, we will try to identify the routes in the two trips of
Gilgamesh, the first one to the “Forest of Cedars”, the second one to the
mountain called “Mashu”. Our proposed routes and final destinations
are wholly different, as far as we know, from those usually considered,
these being not too far from Sumer. We claim that Gilgamesh final
destination was the heart of Asia, the land where quite possibly the
Sumerians came from, the land which in the case of a catastrophical
flood of extraterrestrial origin is the best protected in the whole world
from the effects of a global tsunami and of long lasting torrential rains.
According to our thesis Gilgamesh tried to reach this land via the two
most natural routes from Sumer. The first one, shorter but of much more
difficult terrain and of great altitude, took him to the Karakorum passes
(e.g. Kilik, 4755m, Mintaka, 4709m, or Khunjerab, originally 4934m
now after the construction of the Karakorum highway reduced to
4602m), quite probably via Iran, Afghanistan, Kashmir (Barda, Buner,
Hazara, Kohistan, Dardistan, Punjal, Hunza), from which he could have
descended into the heart of Asia via eastern Pamir and the Tarim basin
region. This approach failed, probably for the extreme difficulty of the
Karakorum trails, often closed by landslides and snowslides, possibly
also for the failure of Gilgamesh to acclimitize to the high altitude of the
Karakorum passes. The two heroes consoled themselves by killing poor
Khubaba (we will suggest who Khubaba might have been) and by
cutting a large cedar tree that they brought back to Uruk. The second
route is longer, by some 3000 km, and went most probably through very
little populated land. It allowed however access to the heart of Asia by
the much easier Zungarian Gates pass, less than 500 meters. Mount
Mashu, we claim, is the great sacred mountain range surrounded on
three sides by the Yellow River, still locally called Maqu (pronounce
“Machu”), whose sources are not far from it. The mountain is sacred to
the local north Tibetan Ngolok tribes and till the fifties was closed to
foreigners. Its name still bears obvious reference to Mashu and to the
highest god of the Sumerian pantheon.
109

2. The trip to the Forest of Cedars. Numerics and geographical


information in surviving tablets

The first trip takes Gilgamesh and Enkidu to the Forest of Cedars, in a
land called “Lebanon”, which is reached overland. Here they kill the
monster Khubaba (in Assyrian; Huwawa in the Hittite text) and cut a
very big cedar to be taken to the temple of Enlil in Nippur. They return
to Uruk via water, navigating a river called “Euphrates”. It is commonly
assumed that the Forest of Cedars is present Lebanon. The trip is
described in Tablets II 184 to V 266 in the Assurbanipal text, affected
by several lacunes, only partially remedied by use of the other texts. For
the following discussion of the route, here we report the passages
containing numerical and geographical information. These passages are
translated from the italian version of the whole corpus of surviving
material given by Pettinato (1992). We first give the passages from the
Assyrian texts in Assurbanipal library.

1. II, 184-193: Khubaba whose cry is stormy.....who can hear at 60


leagues through the forest trees..... to protect the Forest of Cedars he
has been commanded by Enlil and a bodily fatigue takes possession of
anyone who tries to enter this forest....

2. II,221-224: I have made my mind. I will leave to the far away land
where Khubaba lives. I want to face a defy even if of uncertain outcome,
I want to explore an unknown way

3. III, 6-7: Let Enkidu preceed you, he knows the way to the Forest of
Cedars

4. III, 48-51: He (Gilgamesh) intends to take the long travel to the place
of Khubaba. He will engage a fight of uncertain outcome, he will walk
over unknown trails till the day when, after a long way, he shall reach
the Forest of Cedars.

5. IV, 1-6: After 20 leagues they took a meal, after 30 leagues they
stopped for sleep, 50 leagues they had made in their daily march, a
distance of one month and a half they made in 3 days, reaching the
“mountains of Lebanon”.
110

6. IV, 78: Gilgamesh ascended the mountain

7. IV, 84: ... spit blood...

8. IV, 87: was overwhelmed by sleep

9. IV, 100: let us go back to the steppes

10. IV, 91: why am I so nervous?

11. IV, 93: why do I feel so week?

12. IV, 207-208: ... a difficult trail, that a single person cannot easily
take, better to be in two...

13. V, 2: ...they were astounded at the height of the cedars...

14. V, 5-8: there were nicely cut trails, they looked at the mountain of
cedars, the place where the gods dwell, the sanctuary of Irnini, the
cedar was tall and majestic...

15. V, 5 (Uruk version): when you (Enkidu) were young, I saw you...

16. V, 255: Gilgamesh cut the trees...

17 V, 258-265: My friend, the wonderful cedar has been cut, it no more


reaches the sky. I want to use it to build a gate, of height 6 times 12
spans, one span of width, the lower and the upper hinges one span. Let
it be carried to Nippur by the Euphrates.... they put the trunk in the
river, Enkidu guided it, Gilgamesh was carrying the head of Khubaba.

Information from other sources:

18. Yale tablet, 165: They made axes of 3 talents each

19 Yale tablet, 170: Gilgamesh and Enkidu each one were carrying ten
talents of weapons
111

20 Yale tablet, 193: The forest extended 60 leagues in each direction

21 Yale tablet, 247-250: Let Enkidu lead you, let him check the way, he
knows the access to the forest and every trick of Khubaba

22 Yale tablet, 255: May he (Shamash) open to you the close trails

23 Yale tablet, 262-269: ...in the river of Khubaba, as you wish, put
your feet

24 Baghdad tablet 1-2: Climb the mountains crevasses, the gods have
taken away my sleep...

25 Hittite version: When they arrived to the shores of Euphrates they


made a sacrifice.... from there after 16 days they were in the middle of
the mountains.... then they looked at the cedars.... Gilgamesh and
Enkidu cut the cedars... when Huwawa heard the noise he got angry and
said: who has cut the cedars I have grown?....

26 Huwawa said: I will lift you, I will carry you up hill, I will hit your
head, I will put you in the black earth!

27 Gilgamesh and Khubaba, 53: Young men like him, in number of 50,
went with him...

28 Gilgamesh and Khubaba, 82: The sons of your city who accompanied
you should not wait long for you at the foot of the Mountain.

Remark. The “span” is about 60 cm. The “league”, Assyrian beru, is


the distance walked in two hours, commonly estimated at 10 km but
possibly more, 15 km or more.

3. Identifying the location of the Forest of Cedars

From the above given texts, features of the Land of Cedars are the
following:
 It is very far away
 Enkidu knows the way
112

 The taken overland route was previously “unknown”, required a


“long wandering” and in the final stage goes through a difficult terrain
“which a simple person cannot easily take”, where “it is better to be in
two”
 The forest is large, extending in each direction 60 leagues: it is
located in the “mountain of Lebanon”
 A river crosses the forest; by putting the cedar in the waters of the
river one can finally reach Uruk
 The trip can be divided in two stages. The first one, equivalent to 45
days of normal travel, takes the two friends to the “Euphrates river”. The
second stage in 16 days takes them to the middle of the mountains.
 From the secondary text Gilgamesh and Khubaba we know that 50
friends of Gilgamesh waited for him at the foot of the mountain. Since
they do not appear to have accompanied him along the new overland
way, this suggests that they reached the waiting point by a different,
presumibly easier and well known way.
 Khubaba could hear “60 leagues” away; his way of dealing with his
opponents was quite peculiar: a hit on the head, lifting them, carrying
them uphill, putting them in the black earth.
It is usually assumed that the destination of Gilgamesh first trip was
some point in the mountains of present Lebanon, where cedars are
known to have existed since ancient times (only half a dozen of them
still live in the wild, well fenced in a national park). The identification of
the land with Lebanon seems supported in the text by references to
Lebanon and Euphrates, despite Lebanon is mainly a modern name for a
country in ancient times known as Phoenicia or with other names. It is
our opinion that this standard identification must be rejected on the
following grounds:
 it is in unresolvable conflict with a number of statements in the text
 it leads to a feat which is almost certainly physically impossible
 it is based upon a hasty identification of the names translated, albeit
not incorrectly, as “Lebanon” and “Euphrates”, with the present state
and river in the Middle East
 it does not correspond to a route defined in the text, especially for the
terminal phase, as new, very difficult and providing unusual bodily
effects.
Our proposal is that the Forest of Cedars was located in Kashmir, i.e. in
the mountainous region cut by the river Indus and its several affluents.
113

We will more precisely argue that the meeting with Khubaba took place
in the northern reaches of Kashmir, probably just north of the Hunza
valley, on the way to one of the passes (Khunjerab or more probably
Mintaka, for reasons that will be discussed in a forthcoming paper), that
lead via eastern Pamir to the Tarim basin (now mainly a desert, the
Takla-Makan, but still borderd by chains of oasis) and hence to China
via the Yellow River valley. The Hunza valley, about 100 km long,
elevation between 1700 and 2500 meters, is a very special place, with
nice climate and where many fruits are grown. Its natural access from
Gilgit, about 120 km as the crow flies, was in the past, before the
opening of the Karakorum highway, extremely difficult, taking over two
weeks, see Bircher (1980). The approaches to the passes at the end of
the valley are also extremely steep and difficult. We will argue that the
word translated as “Euphrates” should more correctly and meaningfully
be translated as the “River of the cows” and should be identified with
the Hunza/Indus river, while “Lebanon” should be translated as “Land
of milk”, this referring to the general high Kashmir region. We propose
that Gilgamesh and Enkidu reached the Indus via Iran and most
probably via southern Afghanistan, hence via the Khyber pass, reaching
their friends at the foot of the Kashmir mountains somewhere between
present Peshawar and Rawalpindi, not far from ancient Taxila, possibly
at the meeting point of the Kabul and Indus river (near present cities of
Attock and Nowshera). The 16 days of ascent to the “middle of the
mountains” were most probably first along the Indus (locally “Sind”)
river, then, after the Indus turns in an easterly direction towards Ladakh
via Baltistan, by following the affluents Gilgit and Hunza. We identify,
as said before, the “Middle of the mountains” with the special Hunza
valley, gently elevating from 1700 to 2500 meters, surrounded by steep
montains, the river Hunza having a rather deep bed crossing which is
not so easy (different tribes live on each side of of the river). The valley
has about 200 villages, population about 10.000 people at the time of
Second World War, now over 35.000. Every cultivable piece of land is
used to produce cereals, vegetables and fruits (some 20 varieties of
superb tasting apricots, dried for the winter). Till the construction of the
Karakorum highway (opened in 1978 for special, mainly military use, in
1986 to general passage, first European to cross it Danziger, 11 October
1984, who filled the visa form n. 1 declaring himself to be Donald Duck,
see Danziger (1993)) which crosses the ridge at 4602 meters, the most
used pass was the Mintaka pass (4709m), the one where probably
114

Gilgamesh was directed. The pass was used to import some products
from China, silk and a few objects of daily use. By this way, we
surmise, Gilgamesh intended to cross into the heart of Asia towards the
sacred mount Mashu that he reached by a longer easier way in his
second trip. Our proposals above are based upon the following
considerations:
 The Forest of Cedars. The so called cedar of Lebanon, scientific
name Cedrus Libanotica, presently grows wildly in extremely limited
numbers in Lebanon, Siria and southern Anatolia, but its greatest natural
habitat, in the variety Cedrus Deodara, is Kashmir, see Appendix 3. In
view of the thesis strongly argued for by Kamal Salibi (1988, 1996,
1998) that the Hebrews previous to their deportation first to Assyria by
Sargon II (722 BC), then to Babylon by Nebuchadnezzar (587 BC),
were living on the mountains of south-western Arabia (present
Asir/Yemen region) and that the Phoenicians too originally lived along
the arabian coasts of the Red Sea, it may even be argued that Kashmir,
and not Lebanon, was the main source of cedar wood in ancient biblical
times. See again Appendix 3 for the fact that Cedrus Deodara is the
standard timber used even now in Asia for religious works. The timber
had to be brought to the Red Sea by Phoenicians via the Indus river and
the Indian Ocean. Trade of timber is well documented to Sumer from the
Indus valley, not necessarily by Phoenicians. A further argument that the
Forest of Cedars was not in Lebanon is the huge size given in the text.
The forest is said to have an extension of “60 leagues”, i.e. at least 600
km., in each direction. Such size is incompatible with the small
dimensions of Lebanon. Jebel Liban is about 120 km long and no more
than 40 km wide, Jebel el Sharqui (the Antilebanon) is even smaller. If
the Kashmir region is defined by the mountain area whose waters feed
the Indus, then this region is roughly a rectangle of over 700 by 500 km,
in excellent agreement with the epic statement. It should be noted that
Kashmir, now partially deforested, was in ancient times almost fully
covered by forests (of course only partly consisting of cedar trees!),
thanks to the rains brought by the monsoons. The tree line now
approaches 4000 meters and barley can be grown up to 4400 meters on
the slopes of the Hunza valley. At Gilgamesh time, around the middle of
the third millennium BC according to Rohl’s revised chronology, which
we deem to be basically correct, the world was experiencing a climatic
optimum, with a megalitic civilization thriving in northern Europe, grape
115

growing in Sweeden, wetter conditions in many regions now very arid,


including central Asia, hence the tree line might have been even higher.
 The terms Lebanon and Euphrates. What is usually translated as
“Lebanon” is a semitic word that in say the original, purely consonantal
(vocalization was introduced only between the 5th and 8th century AD
by the Masoretes, when ancient Hebraic was no more spoken since
almost one thousand years) biblical text reads as LBN. We think it is
correct to look at the most natural basic meaning of a consonantally
spelled word. We believe that the natural vocalization for LBN is leben,
that in Hebraic and in Arabic is a word for “milk” or “dairy products”.
Thus we are led to propose as a feasible translation for the term LBN in
a geographical context the expression land of milk. Similarly the word
usually translated as “Euphrates” appears in the biblical consonantical
text as NHR PRT, where NHR is vocalized as nahar, meaning “river”,
while PRT is vocalized as farat, following the present way of calling the
river Euphrates in Mesopotamia (nahar farat/furat). However PRT may
more meaningfully and without violating linguistic rules be vocalized as
PAROT, plural genitive of PARA, Hebraic word for “cows “, hence
leading to NHR PRT as river of the cows, a term perfectly correlated
with our proposed land of milk. Now cows, while certainly present in
Middle East at Gilgamesh time, were not the most common cattle, since
the relatively arid land favoured, in Mesopotamia as well as in Lebanon,
Palestine and much of Arabia, sheep and goat. Cows and milk are
plentiful in India, where climatic conditions are better and where cheese
and yogurt are basic staples for the population. Moreover there is a
curious special feature in the animal life in the Hunza valley, namely the
presence of a unique type of small cow, about as big as a St Bernard
dog, that produces some 4 liters of milk a day, is very useful for
transport and can graze on extremely steep slopes. Not far from the
Hunza valley, in fact just beyond its north-eastern ridge, there is the
Vakhan corridor of Pamir, the “finger” that Afghanistan points between
Pakistan and Tagikistan. This name also is a sanscrit term for a type of
cow, related to the latin term “vacca “.... All above elements suggest a
new translation for the terms LBN and NHR PRT, tied to a natural
feature of the land of extreme importance for living. It may be even
wondered if the sacrality of cows in Hindu religion may predate the
Arian invasion of circa 1600 BC, being a surviving element of previous
religions.
116

 The difficulty of the travel. The epic states that the travel was long,
difficult and by a previously unknown route. Now reaching Lebanon (or
Palestine) from Uruk via the shortest way, i.e. by a straight line through
the Sirian desert, would in fact be a great, almost impossible feat, since
the mainly stony reddish desert lying between lower Mesopotamia and
the Mediterranean coast (Al Widyan and Badet esh Sham, namely the
Arabia Deserta in Ptolemaic maps) is extremely poor in water and was
always avoided in classical times. Even now the area, as shown e.g. by
the satellite night picture found in the Times Millennium Edition, 1999,
is totally dark in the night, a sign of absence of humans, while Saudi
Arabia, except for the Rub-al-Khali desert, is dotted by many white
spots, most of them unrelated to methane flaring in the oil fields, but
indicative of villages and towns. We may here note that prof. Salibi in
his last quoted monograph states that western Arabia was easily reached
from Mesopotamia via a range of wadis from Kuwait to Al Madinah
going through the extensive Kassim oasis (the power region of King Ibn
Saud, possibly the original place of the Kassites?), a way that became
the standard route taken by the pilgrims from the East to the Meccah
(notice that the whole of present Saudi Arabia is called Arabia Felix in
Ptolemaic maps!). However there is a natural and easy way from
Mesopotamia to Lebanon, that was taken by most travellers, and that
adds less than 15% extra mileage, namely by following the Euphrates
(on foot or by boat, the current being not strong), up to latitude about
36°, close to ancient Thapsacus, then crossing the mildly ondulated
stretch of land (about 150 km) to the Orontes, hence following the
Orontes to the mountains of Lebanon via Homs, Baalbek and the Bekah.
One must also notice that the mountains of Lebanon, maximum
elevation 3086m, are of rather easy access, with rotund usually smooth
slopes. Total distance from Uruk to the Bekah via the described route is
just about 1500 km. Such a distance can certainly be made on foot by a
fast athletic walker in two or three weeks, against the six weeks that the
epic states were normally needed to reach the foot of the mountain.
Notice also the absurd geographical statement, in the usually assumed
scenario, that the river Euphrates was reached at the end of the first
stage of the trip! It is moreover almost certain that the way to Lebanon
over land (the only possibility by sea would imply to circumnavigation
of Africa....) was known well before Gilgamesh times, since already in
Ubaidic times contacts existed between the Mediterranean and the Gulf
117

area. Thus accepting Lebanon as the final destination would wholly


remove the aspects of difficulty and novelty.
Our proposal is that Gilgamesh tried a new approach via land towards
the Indus region. We feel however that his final aim was entering the
heart of Asia. He failed attaining this goal in his first trip due to the
difficulties on the Karakorum trails. At his time the Indus valley
civilization (Harappa, Mohenjo Daro; the name of the region in
Sumerian was probably Meluhha; any relation with the Moluccas?) was
in full blossom and contacts via water (by the Indus river and then by
coasting the Baluchistan/Iran coast), implying commercial trade, were
well developed, as proved for instance by the excavations of Bibby
(1970) in Bahrein, a stopover for merchant boats in view of the rich
wells of sweet water. So we think it was merit of Gilgamesh to try a new
road (and we will discuss later how Enkidu could be a guide). The text
does not provide any clue to precisely which route was taken by
Gilgamesh. A reason for this may be that he went for most part by
unpopulated lands, certainly full of wild animals, no check for
Gilgamesh and Enkidu. We suspect however that in the missing lines
some clues were probably available, since there was at least one
important developed area they crossed. Now we give an educated guess
about the possible route.
 To the central Zagros mountains via lower Mesopotamia, Elam and
the Persian Gates. Notice that according to Bibby the line of the
southern coast of Irak surprisingly has not changed much from Sumerian
times. So Gilgamesh may have initially just moved east, skirting the
north side of the Shatt-el-Arab marshes, crossing the Tigris and the
Karun river near present Ahwaz and entering the mountains near present
Behbehan
 Crossing central Zagros via present Shiraz (near Persepolis) and
Saidabad (previously Sirjan) towards Kerman, the capital of Khorasan,
ancient Carmania. The road is via mountains never over 3000m, well
watered, inhabited since millennia before Gilgamesh by tribes
specialized in carpetry and among the first makers of pottery
 Towards Sistan by skirting the southern side of the Dasht-e-Lut
desert via Bam and other oasis. At Gilgamesh time Sistan (ancient
Drangiana/Paratacene), an extremely fertile region of about 30.000
square kilometers, was one of the few areas in the world where walled
cities of substantial size had been built. One of the main activity in this
area was mining, in particular of precious hard stones (turquoise, agate,
118

possibly, as later discussed, even copper), certainly to be exported also


to foreign lands. Among the cities we recall Shar-i-Sokhta, about 60 km
south of Zabol, on the borderline between present Iran and Afghanistan,
with an estimated population of about 10.000 people (notice that the
population of Uruk is estimated at 50.000 people). We recall that Sistan
cities were destroyed catastrophically in the period 1600-1800 BC,
possibly in relation with the Arian invasion and/or the catastrophe that
left a strongly defined sign in the dendrochronological record in the year
1629 BC. The name Sistan is relatively modern, having been given after
the region was invaded by the Saci, a Scythian tribe, around 130 AD
(SAKASTAN = SIGISTAN = SISTAN...). Sistan is the place of the
adventures of Rustem, the hero of the Book of King of Ferdowsi (any
relation with Gilgamesh?....).
 From Sistan there are two natural ways to the Indus valley. The
southern one goes via Zahedan, then follows the southern side of the
Chagai hills, rather well watered, north of the Baluchistan desert of
Kharan. It enters the Indus valley after Quetta via the Balan pass, about
1000m high. It reaches the river near the historical city of Sukkur, about
60 km north-east of Mohenjo Daro. The second route follows the river
Helmand towards Kandahar, then skirts the southern side of the
Afghanistan mountain range and reaches Kabul via a number of valleys
and easy passes. From Kabul it follows the river presently named Kabul,
but till the first half of the 19th century named Peshawar, in an easterly
direction. It enters Pakistan via the Khyber pass, 1067m, crosses
Peshawar and reaches the Indus near Nowshera, close to the meeting of
the Kabul and Indus. We would guess that the way between Sistan and
Mohenjo Daro was used by caravans in view of the likely contacts
between these areas; thus it would be more corresponding to an
exploratory attitude that Gilgamesh choose the route via the Khyber
pass.
It is natural to assume that the starting point for the ascent to the
mountains of the Forest of Cedars was near the meeting of the Kabul
and the Indus. This is also a likely place where the 50 friends referred to
in the Gilgamesh and Khubaba text waited for the return from the
mountain expedition. The 50 friends most probably arrived via the
normal route, i.e. by sea and river, whose feasibility with reed boats was
proved by Heyerdahl (1980), see also Severin (1982). Because
navigation along the Indian Ocean must take into account the effects of
the monsoons, this means that Gilgamesh started his trip most likely
119

around May-June, when his friends could start the water voyage to the
meeting point on the Indus. The monsoon (whose name comes from the
arabic word MAWSIM = season) from October to April blows from NE
to SW, i.e. from the Tibetan mountains towards the southern coast of the
Arabian peninsula (such a monsoon is mainly dry, except in the terminal
part; even nowadays a branch of the monsoon brings rather heavy rains
and mist to the Dhofar mountain region of Oman, (inhabited by tribes
possessing four non semitic languages having at least nine nonsemitic
sounds), from June to August it blows in the reverse direction, being
associated with heavy rains. Monsoons are active only below 4000
meters. >From the hypothesised point the Indus enters the Hindukush-
Karakorum ranges, characterized by deep and very steep canyon-like
valleys and peaks reaching over 7000 m (e.g. the K2, 8611m, first
climbed by the Italian expedition directed by geologist Ardito Desio in
1954, the Nanga Parbat, 8126m, the Distagil Sar, 7885 m). In 1986, on
my first flight to China, I flew a Swiss Air airplane that after a night
stopover in Sharja crossed over the Karakorum in the early morning. I
still vividly remember the fantastic view of the most rugged mountain
area I have ever contemplated from an airplane. I was particularly
impressed by the very deep canyons zigzagging through forested
mountains. The pyramid like magnificent K2 jutted to the sky just a
couple of thousand meters under the airplane. Beyond the K2 the blue
sky changed to a greyish-yellowish colour that lasted for almost three
hours, the effect of winds lifting the fine dust of the Takla-Makan and
the Gobi deserts. By following the Indus river and its affluents one can
reach the heart of Asia via several passes. A natural possibility is by
following the Indus (through Dardanistan), then the Gilgit, then the
Hunza rivers. From here following the Khunjerabi one arrives at the
Khunjerab pass, originally 4934m, now 4602 after the completion of the
Karakorum highway. To the left of this pass there is the Mintaka or
Minteke pass, 4709 m, wherefrom the river presently called by the
Chinese as Ming-t’ieh-kai-ho is born, flowing ultimately into the Tarim,
that was mostly used before the construction of the Karakorum highway
(and that most likely, also for further reasons to be discussed in a
forthcoming paper, was the pass where Gilgamesh was directed). We
can give the following justification for the proposed mountain route:
 some information about the route had to be generally known by
people in the Indus valley, since quite probably contacts and trade
existed already between the Indus valley and present Xinjang
120

(exchanges of silk and tea). Notice that the proposed route may also
have been one of the routes taken, some 800 years after Gilgamesh, by
the invading Arians from the North, since pockets of indoeuropean
language speaking peoples are documented in the Takla-Makan region.
These are the Tocarians, who even had a script (based on the Brahmi
alphabet with additional 12 characters for nonsancrit sounds), several
rolls in Tocarian, over 1500 years old, having been found at the
beginning of the 20th century in a monastery in Dunhuang, the town of
the One Thousand Buddhas (other manuscripts have been found in
Turfan and in Kucha; some Tocarians, apparently quoted in Strabo XI, 8
as Asioi, moved to Bactriana circa 180 AD, most probably under
pressure from the Mongols/Huns). It is however likely that most of the
Arians came via a more westernly affluent of the Indus, namely the
present Chitral/Kabul river, called till last century the Peshawar, that
winds in dramatic gorges on the eastern side of the Hindukush (whose
traditional meaning is “the killer of Hindus”, with reference to the
difficult and dangerous paths along the river).
 the road is the most direct one to the heart of Asia from the Indus
valley. We have the suspicion that the real goal of Gilgamesh already in
his first trip was to reach the place of Utanapishtim by the shortest way.
We will claim in a next section that the place of Utanapishtim is a
sacred mountain near the sources of the Yellow River. Failure to cross
into the Tarim basin, most probably for acclimitization difficulties and
the impassibility of the trails, even nowadays, like the Karakorum
highway, often closed due to landslides, led Gilgamesh to substitute the
original aim with the killing of Khubaba and the cutting of a great cedar.
It should also be noticed that the trail to the Mintaka pass is cut in parts
along almost vertical walls, as shown in a picture in Danziger’s book.
 a number of names in the Hunza region share intriguingly the first
syllabe in Khubaba, indicating a possible common origin and meaning
(that presently I am unable to specify). Such are: - the names of the pass
and river, KHU-njerab, KHU-njerabi - the name of the river HU-nza;
this is also the name of the valley and is the ancient name of the main
town, now called Baltit - the name of other small town: KHU-dabad,
Mor-KHUn....;an inspection of the names of the about 200 villages in
the valley might enrich this list - KHU-rukuts, the name of one of the
four clans of local population. We should note that the fact that KHU is
often followed by N in the above names suggests, if our correlation is
correct, that perhaps the correct prononciation of the Sumerian syllabe
121

KHU might be more close to KHUN. Some information on the local


population is interesting, even if unrelated to Gilgamesh travels, since
probably he crossed unpopulated mountains. The local people are the
Burusho and speak a language, Burushaski, apparently unrelated to any
other world language, extremely rich in words defining different states
of objects, persons, animals....The Burusho are very strong physically,
walk fast over steep trails, have almost zero child mortality, live usually
over 100 years, father children at very high age, keep perfect eyesight
and hearing till their last days; before the opening of the Karakorum
highway, their diet had very little fats, being based on a lot of fruits.
 the epic contains also a geographical reference to Saria, as a country
not far from the Forest of Cedars, usually assumed to mean Siria. We
can notice that SR can correspond to ZR, which appears in the name of a
Hunza valley village, ZARA-bad, and moreover in the first mountain
region crossed by the Indus, which is Ha-ZARA.
We suspect that the Hunza valley, elevation between 1700 and 2500
meters, gently sloping (but with very difficult access, hence the need of
“being in two”), now well cultivated, was the place where Gilgamesh
found the great cedar forest, intersected by trails and “taken care of” by
Khubaba. Here we suspect the great cedar was cut, to be transported to
the foot of the mountains by flotation over the river. The meeting with
Khubaba appears to have occurred further on, at higher elevations, since
the symptoms indicated in the epic, i.e. weakness, fatigue, strange
dreams, loss of blood, sleeplessness, are clear symptoms of mountain
sickness. The fact that they affected Gilgamesh and not Enkidu is
intriguing and a possible explanation will be offered in a next section.
Gilgamesh was a man of low plains and a fast walker. From Hunza
valley the trail goes up very steeply, so he may have been unable to
acclimitize when he reached elevations over 4000 meters. The failure of
crossing into the Tarim basin may be explained, in addition to the
physical problems of mountain sickness, by the impassibility of the
Mintaka pass, due to landslides or snowslides. Since snowslides are
often produced just by human high voices, one wonders if the great cries
of Khubaba may have resulted in closing the pass by starting a
snowslide.

4. Numerics of the first trip


122

It is stated that the route from Uruk to the river Eupfrates, by us


identified with the Indus river, was equivalent to a month and a half (i.e.
to about 45 days) of normal travel, but was accomplished in 3 days,
corresponding to a total distance of 150 “leagues”, or, in Assyrian,
“beru”. Leaving aside the question of how this distance could have been
made in three days (we think there is a symbolic meaning behind), we
note that 150 beru imply a distance of at least 1500 km but possibly
even of over 2700 km. Indeed one beru being equivalent to the distance
walked in two hours, presumibly in the easy flat region of Sumer, it
would depend on the speed of the walker. Nowadays a person used to
walk easily walks 12 km in two hours; persons well trained in walking,
which was the normal way of moving in Sumerian times, could certainly
make more than 12 km in two hours, possibly even 18 km (notice that
techniques for fast walking were developed on the plateaus of Tibet, as
noticed for instance by Alexandra David Néel). Now the distance “as
the crow flies” between Uruk and the Indus/Kabul joining point is about
2400 km. If the 150 leagues should be considered as the shortest
distance between the two points, this would give a value for the beru of
16 km, certainly an acceptable value. The actual overland route is not
along a geodetic and has unavoidable detours. A reasonable estimate of
it would be around 4000 km. Such a distance can certainly be covered in
45 days by trained people who know the way. Gilgamesh and Enkidu,
and most of their contemporaries, were certainly well trained in walking
over long distances and Enkidu is claimed to have known the way (we
will suggest in a next section why). Now 4000 km divided by 45 makes
an average walk of about 90 km a day. That this is not an impossible
feat is shown by the following examples:
 Fyona Campbell, see her book On foot through Africa, Orion, 1994,
in her twenties crossed by foot North America, Australia and Africa
(this continent from Cape Town to Tanger, over 17.000 km). In Africa
she usually made daily stages of 50 km, in less interesting Australia she
often made 80 km a day. She is not a tall woman. She walked about 10
hours a day and spent lot of time in reading, washing, hearing radio
news (two people with a jeep were waiting for her), talking and even
flirting with her escorts.
 Geronimo, the well known chieftain of the Apaches, used to raid the
Mexicans (he hated them since they had killed his wife and children) in
the rugged Sierra Madre region, which has the deepest canyons in the
123

world. He was a very short man. In his biography, see Barrett (1906), he
estimates that he usually walked 65-70 km a day during these raids.
 As stated in Polybius III, 41 (I read this passage 40 years ago, when I
was 15; I was impressed and recalled it well; I have checked that
memory did not fail me!), the Romans expected Hannibal to invade
from Sicily, hence the main body of the army led by Tiberius
Sempronius was stationed near Lilibeum, present Trapani, in Sicily, on
the coast facing Carthago. When news came that Hannibal was going to
cross the Alps, the army was relocated to Rimini (easiest access to
Rome at that time was via Picenum) in just 40 days (Polybius III, 68),
implying an average walk of about 50 km a day. Notice that Roman men
were usually stocky but short. Moreover Roman soldiers were carrying
heavy weapons (the weight of the Roman pylum was no less than 30
kilos) and food for 40 days (salted pig, vinaigre and cereals in grain), for
a total weight certainly greater than their body weight. Notice also that a
whole army cannot move as fast as a few persons. The Roman soldiers
were tired when they arrived in Rimini and were granted a good rest,
possibly on the sandy beaches at those times cleaner than now, most
probably in the cheap local brothels....
 John Chardin in his Travels in Persia, 1673-1677, second volume,
chapter XII, Dover Press, 1988, describes a walking competition
occurring in Ispahan every year where the winner walked from 4 in the
morning to 6 in the evening, covering a fixed length corresponding to 36
French leagues, i.e. about 160 km (the French common league was
4.445 meters, the postal leugue 3.980; the UK league was 4.828 meters,
the Spanish 5.572), at an average speed hence of about 13 km per hour;
he says that people complained the winner was not so good, since in the
reign of Sha Sefy the winner made the walk in 12 hours, averaging 15
km per hour. Chardin tried to follow the man when in the hot middle of
the day he was slowing his pace, but he could not keep his pace at the
walking mode; first prize was 500 tomans, equivalent to 22.500 french
Livres.
 Julius Caesar was able to led his army on several occasions through
daily walks of about 100 km, and this in a territory full of forests,
marshes and often covered by over one meter of snow.
In view of the above examples, and the fact that Gilgamesh and Enkidu
were unusually tall, strong and trained persons, reaching the Indus river
in 45 days by foot is in our opinion a perfectly possible feat. The ascent
to the Middle of the mountains where the Forest of Cedars was located
124

took 16 days. The description of the Forest (with good trails, taken care
by Khubaba) does not seem to relate to a wild pristine forest on the
slopes of steep mountains, but more to a forest somehow managed in an
area somewhat flat. We guess that the location of the Cedar Forest was
the Hunza valley, over 100 km long, about 10 km wide, gently sloping,
now cultivated as much as possible, especially in fruits (over 20 types of
the best apricots in the world). The Hunza valley can presently be
reached over the Karakorum highway from the Kabul/Indus meeting
point in about 600 km (via an older road by the Malakand and Shangla
passes in about 530 km). Along ancient trails distance would have been
certainly different, but it is difficult to estimate if it was longer or shorter
(some ancient trails cut directly through very steep slopes, where
modern roads must wind up their way). Assuming a distance of 600 km
this would correspond to about 40 km a day, thus a distance per day
about half that made in the easier way from Uruk to the Indus; 40 km a
day over mountains is certainly a possible feat (when I was 14 staying in
the summer house of the Collegio Rotondi in Campestrin, in the Italian
Dolomiti, our frequent excursions were usually of 14 hours, up and
down for over 3000 meters altitude difference and for about 40 km; we
were dead tired at evening!). The trail from Chilas, near Gilgit, to the
beginning of the Hunza valley (the villages of Chilt and Pissan) is very
difficult, with up and downs, since the river bed cannot generally be
followed due to the narrowness of the canyon like valley. Still is does
not go over elevations higher than those met in the crossing of the
Zagros mountains or on the way from Sistan to the Indus. Hence the
mountain sickness symptoms of Gilgamesh described in the epic should
not have occurred before arrival to the Hunza valley. Therefore it is
likely that the final event, the meeting with Khubaba, occurred at much
higher elevations, on the way to the Karakorum passes, probably over
4000 meters. Let us recall that the tree line is now close to 4000 meters
and that at Gilgamesh times, a period of climatic optimum, it was
possibly higher. A further reason why the meeting with Khubaba must
have taken place in the 4000/5000 meters region is given in the next
section. We do not believe that the real aim of the first trip was to kill
Khubaba or to cut cedars. We think that the trip had to be terminated on
the way to the Karakorum passes for the following reasons:
 the battle with Khubaba was difficult and he was not alone, other
similar beings were in the region
125

 due to mountain sickness and the need to still go several hundred


meters higher Gilgamesh felt unable to continue
 most likely, the trail was made impassable by landslides or
snowslides.
After the killing of Khubaba a great cedar was cut, Gilgamesh intending
to bring it home to build a gate for the great temple of Enlil in Nippur. It
is natural to assume that the gate would be constructed using single
planks. Since the given height of the gate is 72 spans, corresponding to
about 43 meters, the cut cedar had to be at least 45 meters long, with a
likely average diameter of over 2 meters. Cedar trees in pristine forests
could certainly reach this height (just recall that according to Strabo yew
trees, which presently are not known in giant sizes, on the mountains of
Liguria could reach a diameter of over 4 meters!). Thus the cut cedar
volume would have exceeded 150 cubic meter and its weight would
have been at least 100 tons. It was certainly possible to cut such a giant
using the huge axes in dotation to Gilgamesh and Enkidu (recall that
Miro of Croton cut giant trees and used his hands as wedges; till a too
big tree clinched his hands so hard that he could not districate himself
and was then devoured by wild animals....). It would also not have been
impossible to roll such a tree into the Hunza river and float it down till
the meeting point with the 50 friends, wherefrom it could have reached
Uruk along the well known watery way used in trade between Meluhha
and Sumer. It appears however to this author that it would have been
impossible to accomplish this feat if the cedar was cut in the mountains
of Lebanon. Indeed, even assuming that the Orontes had enough water
and gradient to float it to the closest most convenient point to reach the
Euphrates, say to the region of Hama, from there the huge tree should
have been hand carried, pushed or pulled for over 100 km of country not
precisely flat. This would have meant a weight of at least 2 tons for each
man, a probably impossile feat, which could have resulted also in
substantial damage to the trunk. Moreover we feel that such a sweaty
slavish job would not have been considered appropriate for a person
being two thirds divine and for his friends, certainly chosen among the
highest ranking families in Uruk. We think that this statement in the test
strongly contributes to rejecting present Lebanon as the place where the
cedar was cut.

5. Who were Khubaba and Enkidu?


126

Here we will offer a suggestion on the nature of Khubaba, and possibly


of Enkidu. We let aside the possibility that the two characters are
fictional or mainly loaded of symbolic elements. We try to identify
which real creatures they could have been. According to our scenario the
meeting with Khubaba took place in the heart of the high mountains
between the Indus, the Tarim and the Amu Darya basins, a region where
the three great ranges of Karakorum, Pamir and Hindukush join. That
this is a very special place in history of mankind will be claimed in a
forthcoming paper. We also observed that the meeting took place most
probably on the way to the Mintaka pass and at an elevation well over
4000 meters, in view of the symptoms of mountain sickness shown by
Gilgamesh. It is important to note that Enkidu did not show such
symptoms. Now it is a fact known since very ancient times that people
in the Himalaya, Karakorum, Pamir regions, and till last century at least
also in Caucasus, have strong belief in the existence in their mountains
of great bipedal walking creatures with the following features:
 they are tall, often over 2.5 meters, very hairy, with rather short legs
but arms reaching the kneels; they are endowed with extraordinary good
hearing
 they live in caves above the three line, in the 5000 meters region
 they keep hidden during the day, hunt in the night, especially in
misty nights, but are occasionally seen at dusk
 they do not usually attack man nor do they eat human flesh. They eat
roots and animal meat. They like yak meat. In the night they approach
the fenced places where yaks are kept, jump inside, kill the animal
hitting their head with their powerful fist, jump out with the yak under
their arms, run overhill and hid their prey under earth or sand to keep it
for the next days away of reach of vultures
 occasionally they are known to carry off women or men with whom
they have sexual intercourse, leading, it is claimed, see below, to
offsprings.
These creatures are known with different names, the common name in
the west, “yeti”, being just a local name in Nepal meaning “the man in
the rocks”. Among other names we recall tshemo, dremo, tschemong,
meti, sciukpa, migo, kangmi, baman, jangal. Most people think that the
stories about the yeti (here we will use this well known name) are fruit
of imagination. This was also the opinion of the great mountain climber
127

Rheinhold Messner, till the day, 19th July 1986, when, while trekking
the high reaches of the Mekong in south-east Tibet, on the way from
Chamdo to Nagqu, near the hamlet of Alando, at dusk he saw not far in
front of him a great creature, well over two meters high, moving fast and
silently. He was utterly surprised and could not believe his eyes. He
moved to the place where the creature had been and there a great deep
print was visible in the soft humid soil, which he photographed. Some
minutes later he saw again the creature, moving fast, stopping
sometimes, emitting hissing sounds. It had stocky legs and long arms. It
disappeared uphill, apparently running with both legs and arms. A
strong phetid smell was left, a mixture of rancid butter, garlic and
excrements. The footprint was about 20 by 30 cm. Sightings of yeti have
been made by several reliable western persons, e.g.: in 1921 by colonel
Howard-Bury, who led the first expedition that tried to reach the summit
of mount Everest; by the Polish officer Rawicz, on his escape to India
from a soviet lager (he saw a yeti near the Bajkal, height about 2.4
meters, huge chest, arms reaching the kneels, looking like a hybrid of a
human and an ape). At the end of the 19th century a female yeti, named
Zana, was caught and kept captive in a semi-domesticated state in the
Caucasus village of Tkhina, as documented in official reports based
upon local testimonies by academicians Porsnev and Maskontsev. She
had a huge hairy body, used stones as weapons, could run faster than a
horse, was unable to speak but emitted sounds, had extremely good
hearing, her face was terrifying with reddish eyes. She learnt to do
simple jobs, as collecting wood. She copulated with village males
producing babies! As soon as a baby was born, she washed him in the
freezing waters of the local river, which resulted usually in the death of
the child. Four babies however survived, were taken away from her and
developed as normal persons. Tha last of her children, named Khvit,
died in 1954. In another story a woman, living in the village named
Hushe in Baltistan, not far from Hunza, was taken by a yeti and had
children from him. When villagers found her they killed her children,
despite her protests. She was returned to the village, where the yeti
again tried to retake her. This story was told to Messner in 1997. The
above information is mainly taken from Messner (1999). It is clear from
the above that Khubaba shares with the “yeti” several elements: big
hairy body, extreme good hearing (he hears sounds from at least 600
km; recall that elephants hear at several hundred km distance, whales at
over 1000, birds migrating from Arctic to Antarctica probably hear
128

sounds from over 10.000 km; such hearing is in the low frequency
range, related to large atmospheric waves produced by
macrogeographical structures acting on the atmosphere), and, very
intriguingly, the special way of dealing with big preys: a hit on the head,
lifting the dead body under the arm, bringing it uphill, hidding it in the
soil. It is therefore natural to hypothesize that Khubaba was a huge yeti,
one exemplar of a population of human-like creatures acclimitized to
high elevations. Messner currently seems to believe that the yeti is an
unkown variety of bear. However the persistent stories of yeti-human
copulations with production of offsprings, if true, necessarily imply a
strong genetic similarity; moreover the story that the children of Zama
grew as normal persons implies the essential equivalence of the genetic
material, differences thus being behavioral and probably related to the
very special ecological niche utilized by the yeti. Here we certainly have
one of the most fascinating questions on the origin and the evolution of
homo sapiens. The above facts moreover suggest that Enkidu, whom
Khubaba claims to have met when he was young, might have been the
offspring of a yeti, who was able to overcome the cultural gap between
“wild man” and man not really because of his love making with the
sacred prostitute, but because he had been taken very young by the
hunter (who may have killed his parents or found him orphaned).
Perhaps and more interestingly the hunter had a yeti “wife”, about
whom he was loath to speak, so that the real story of Enkidu’s first years
was not what the epic says. Our last hypothesis, moreover, would also
explain how Enkidu could communicate with Khubaba and how he
could speak Sumerian, two feats that are left unexplained in the text and
that could have no other explanation if not a miracolous one, or the fact
that Enkidu is a totally fictitious being. The epic states that Enkidu knew
the way. Not much is said about the hunter who informed Gilgamesh
about Enkidu. Maybe this man was he too a great traveller, moving on
the vast steppes east of the Tigris, and on the mountains and plateaus of
Iran and beyond. He might already have visited the Karakorum reaches
where Gilgamesh went. His feat had clearly to be censored, not to
detract from the glory of the king. That primitive hunters had no
problem in walking thousand of kilometers during their hunt for game is
a fact. Coronado described the plain Indians following the million rich
packs of buffalos from the Gulf of Mexico up the Mississippi inside
present Canada. Van der Post wrote that once a Bushman (a San, using
their name) followed a wildbeast he had only wounded with his arrow
129

for an estimated 800 km till the beast collapsed; moreover, he was


always able to identify the footprints of the wounded animal among the
hundreds of footprints of the animals in the pack.

6. The second trip. Numerics and geographical information

The second trip has as destination mount Mashu, where Utanapishtim


(in Assyrian; Ziusudra in Sumerian), a man who survived the Flood, was
dwelling, having being granted immortality by the gods. Gilgamesh too
hoped to get immortality, having gone through a period of depression at
the thought of human mortality, especially after the death of his friend
Enkidu. In the following we give the surviving information from the
corpus of Gilgamesh texts offered by Pettinato (1992). Tablets from
Assurbanipal library.

1. IX, 5-9: I wander by the steppes. I am going to the place of


Utanapishtim, the son of Ubartutu. I am moving fast towards this place.
In the night I have reached a mountain pass. I have seen lions, I was
scared

2. IX, 36: The name of the mountain is Mashu

3. IX, 55-59: Who are you who came by far away roads, who wandered
till you got to my presence, crossing with difficulty ever fast flowing
watercourses?

4. IX, 132-134: You, Gilgamesh, do not be afraid! I open for you mount
Mashu, cross without fear the mountains and the hills!

5. X, 1: Siduri, the hostess who lives far away at the shore of the sea..

6. X, 43-47: Why do you look like someone who has travelled over long
distances? Why does your face show the signs of a hot and of a cold
wheather? Why do you wander only covered with a lion skin?

7. X, 76-91: Gilgamesh insisted: Please, hostess, which is the direction


to Utanapishtim? Give me accurate information. If necessary I will
cross the sea, otherwise I will take the way by the steppe. Gilgamesh,
130

there has never been a boat for the crossing, no one in memory has ever
crossed this sea. Only Shamash can cross it... The crossing is difficult,
full of dangers, in the middle there are lethal waters that make
navigation impossible. How, Gilgamesh, can you cross this sea? Once
you get to the mortal waters, what will you do? There is however,
Gilgamesh, the boatman of Utanapishtim, his name is Urshanabi. You
can find him cutting trees in the woods, near the stone “stela”

8. X, 156-160: Gilgamesh, take an axe, go to the wood, cut planks of 30


meters length, work them smooth, bring them to me

9. X, 166-170: Gilgamesh and Urshanabi entered the boat and began


the voyage. A route of one month and a half towards the land of..... they
made in three days. Then Urshanabi arrived at the waters of death

10. X, 259-261: I have killed bears, hyenas, lions, leopards, tigers,


deer...

11. XI, 194-195: Now let Utanapishtim and his wife be like gods. Let
Utanapishtim dwell far away, at the mouth of the rivers

12. XI, 257-258: Gilgamesh and Urshanabi enter the boat. They free the
boat and begin the [return] voyage

Berlin/London tablet

13. 100-104: So Gilgamesh spoke to Surshanabu: Gilgamesh is my


name. I have come from Uruk, from the Eanni, I have wandered by the
mountains. I have made a long way towards the rising Sun

14. 115-119: The stones “stela”, Gilgamesh, are my guide, so that I


avoid the waters of death. In your fury you have broken them. I keep
them with me, so that they can guide me

Hittite version

The god of the Moon (Sin) said: bring these two lions you killed to the
city, bring them to the temple of Sin
131

Hittite version by J. Friedrich (in Die hethitischen Bruchstuekes des


Gilgamesh-Epos, quoted by Sitchin (1980), without date)

After crossing the death waters with Urshanabi, they were in Tilmun,
aiming to the Mashu mountain in a straight way, in the direction of the
far away great sea. On the way there was the town Itla, sacred to the
god Ullu-Yah

7. Identifying the route of the second trip

According to the proposal defended here, Gilgamesh trip took him to the
heart of Asia, to mount Mashu, that we will identify, close to the sources
of the Yellow River, with a huge mountain range still sacred to the local
population, the Ngolok tribe. Then he returned to Uruk by water, first
following the Yellow River (for about 4000 km), then coasting the
eastern-southern side of Asia, for at least 15.000 km. Thus Gilgamesh
truly succeeded in completing a voyage of epic dimensions, perhaps,
after him, surpassed, in terms of mileage and difficulties, only by Ibn
Battuta, who crossed the Sahara, the Central Asia deserts and visited
China, India, the Meccah nine times.... Gilgamesh reached mount
Mashu by a route about which vague information had to be available.
The distance travelled in the second trip was about 3000 km longer than
by the route he had attempted in the first trip, but now it did not take
him through the almost impassable high ranges of the Karakorum. It
took him through wild and almost unpopulated steppes, fraught of
difficulties in term of quick sands, salt flats and lack of sweet water. We
think that without the guiding help of Urshanabi he would have been
lost after the about 5000 kilometers that had taken him to the “sea”
where he met Siduri, the custodian of the temple of Sin. It is perhaps
interesting at this point, before unveiling the final destination, to
introduce a digression on how the routes proposed here came to the
mind of this author. Gilgamesh epic was first read by me, in the popular
Penguin edition, in 1971, when I was visiting the University of Essex in
UK for research on Quasi-Newton methods with professor C. Broyden.
During my visit a theatrical stage of the epic was performed, where two
stark naked actor and actress represented the erotic meeting of Enkidu
and the sacred prostitute Shamkhat (the following day a colleague at the
CS Department asked me: did you like the performance of my wife? She
132

had acted Shamkhat). Already at that time I had doubts about the real
destination of Gilgamesh trips. Several years ago, having reread the epic
in the 1992 book of Pettinato, I looked in the Enciclopedia Treccani, the
great italian encyclopedia (almost twice the size of the Britannica),
about cedars of Lebanon. To my delight I found out that they grow in
the variaty Cedrus Deodara in Kashmir. Since the Indus basin and
Mesopotamia at Gilgamesh time were in well documented contacts via
water, it made sense to hypothesize that not only Kashmir had to be a
well known source of cedar timber, but that reaching and exploring that
region might have been an interesting goal - personal and even political,
in view of incipient trends towards forms of “imperialism” - to a strong
willed, intelligent and physically powerful person as king Gilgamesh.
Perhaps it is worth here to remember that Alexander too aimed to that
region (but perhaps only visited Swat, in the lower reaches of Kashmir),
and that before him, apart from the Persian emperors, also Sesostris I the
Great had accomplished this feat, at least according to the classical
sources (Diodorus, Herodotus) that modern historians have yet to
accept. Sesostris I lived some 700 years after Gilgamesh (in a
forthcoming paper we will claim that Abraham was his contemporary,
worked for him, got a wife from his family and a new land “of honey
and milk” in Asir, better than his previous land somewhere located in
eastern Anatolia/Azerbaijian/Armenia, not in Sumer). The identification
of mount Mashu came suddenly to my mind on a day of May 1999,
while I was reading Sitchin’s “The stairway to heaven” (in its Italian
translation as “Le astronavi del Sinai”, Piemme, 1988). At the point
where Sitchin, whose source is mainly the Hittite text in Friedrich’s
translation, describes how Gilgamesh, after crossing a mountain pass,
saw a water extent, near which there was a city with a temple dedicated
to Sin, I closed the eyes and tried to visualize the map of central Asia
(since a child I have been fascinated by maps; I possess a remarkable
collection of maps and of atlases, several of them of the 18th and 17th
century; I sadly miss not having bought a beautiful 1613 edition of the
Mercator Atlas, but is was priced 45.000 pounds....). It dawned to me
that the water expanse, certainly not a sea but a large lake, had to be the
Balkash lake, which, as will be discussed soon, fully satisfies the
features in the text. Then I thought what mount Mashu might be in this
geographical context, and the answer flashed back immediately, the
product of a geographical and anthropological information I had
memorized a couple of years before from a book by Leonard Clark, to
133

whose memory this paper is dedicated. Of Leonard Clark, possibly with


Heyerdahl the greatest explorer of this century, I had read and reread in
my teens the fascinating book The rivers descended to Orient,
describing his exploration of the Tambo, Perenè, Ucayali and Maranon
rivers. If I had not read his other book The Marching Wind (Funk and
Wagnalls, New York; italian translation as Alle porte della Mongolia,
Garzanti, 1960), mount Mashu would still remain unidentified. I was
lent the book by my cousin Sergio Risso, after it was recommended to
me by my aunt Amelia Risso, who at over 80 still reads several books a
month. It is quite remarkable that the sacred mountain of the Ngolok has
remained unnoticed in the community of people who investigate world
places that have ancient religion connections or esoteric significance. As
far as I can recall, it is never quoted in the works of the great
Tibetanologist Alexandra David Néel. It not cited in the recent book
listing sacred mountains by Roux (1999). It is quoted in passim by
Messner without any special notice. Almost nothing about it was known
by the people I met March 3, 2000, in the Tibetan Foundation in
London. Let us now discuss the route that we propose to mount Mashu.
Of course the precise itinerary is beyond any possible identification,
since the text does not provide sufficient elements. Perhaps if more of
the missing lines are found our proposal will have more elements for
support or for rejection. Ours is an educated guess, as we did in relation
the the route to the river “Euphrates” at the foot of the mountains of the
Forest of Cedars. Our guess comes very naturally once the “sea” with
the temple of Sin and mount Mashu are identified. Further elements in
favour will be presented in a forthcoming paper, Spedicato (2000). Let
us first discuss the “sea” with the temple of Sin. The text calls it a “sea”,
and the Kirgisi actually call it a “sea” (their word for sea being just
“Balkash”), but we identify it actually with a large lake. Notice that
what we call “Caspian sea” is actually a large lake, the remnant of a
previous very large lake, hence in a sense a “sea”, that included at least
also the Aral lake, as it still appears in the Atlas of Ptolemy, see the
edition by Pagani (1990). Notice also that the Caspian is called by
Persians “Darya-ye-Khazar”, i.e. the “sea” or “water” of the Khazars
(whose empire flourished along its northern and eastern sides for seven
centuries before the arrival of the Mongols in the 13th century). Now
“Darya” is a Turkish word that means generally “water expanse” and is
used in the whole of central Asia for both rivers, lakes and sea. Thus we
claim that Gilgamesh reached this “sea” after a very long way, in a main
134

easterly direction, along which he met wild attacking animals, had to


cross large rivers always full of water (the crossing of easily fordable
rivers would not merit any mention). The “sea” appears just after the
crossing of a mountain pass, appears difficult to cross directly, the
steppes around it also appear difficult, making Gilgamesh feel
depressed. Near the “sea” there is a city with a temple to Sin, the god,
inter alia, associated with the Moon. We identify the above “sea” with
the Balkash lake on the following grounds:
 It is certainly far away from Sumer, about 4000 km as the crow flies,
probably well over 5000 km by the route taken by Gilgamesh, where
many detours and false starts had to occur.
 It lies in a rather flat basin, elevation around 350-400 meters, which
is surrounded on the north and west side by a chain of hills (the
Khaisaghin Daban hills in the north reach 1559 meters, the Chu-Ili hills
on the west reach 1053 meters). On the south-east, beyond the mainly
flat gently sloping delta of the Ili, there are quite high mountains,
namely the Zailiski Alatau and the Zungarian Alatau, reaching
respectively 4951 and 4463 meters.
 The lake is fed mainly by a river coming from a valley among high
mountains, where the city of Alma-Ata is located. The river has the
intriguing name Ili, easily associated with the semitic EL, one of the
main gods.
 The waters are salty, undrinkable by man, actually so salty that only
small fish lives in the lake. It has a tormented coastline, it is surrounded
by marshes, quick sands and deposits of salt, over which it is extremely
difficult to move by foot, either for man and for camel, see Hedin (1943)
for the claim that these areas, called scior in eastern central Asia, are
avoided by everyone. Around the shores there is a lot of woods. The
lake has sources of sweet water on his bottom, that apparently have
contributed in significantly reducing the high salinity noted in the 19th
century to a more moderate salinity in the 20th century, especially in the
southern part (industrial pollution is now poisoning the lake).
 From a description of the lake at the end of the 19th century by
Grégoire (1876) we have the following information (to be probably
updated in the sense of a decreasing size of the lake, the phenomenon of
drying up of inner lakes being common worldwide and being probably
related to the fact that such lakes were filled over their normal capacity
during some catastrophical flooding event, the Noah-Utanapishtim flood
135

being one such likely events):


- the lake is long 530 km, large at most 85 km, area 22.000 square
kilometers; the lake around 1950 was very shallow, max depth only
about 11 meters;
- present elevation (Times Atlas, Comprehensive Edition, 1974) is 339
meters over sea level. Just east of it two smaller lakes are found aligned
in an easterly direction: lake Sasykul, elevation 334m, and Alakul,
340m. In case the water level in the Balkash would increase by about
ten meters, these two lakes would join with the Balkash, as appears it
was the case from maps in atlases of the 18th century, then giving rise to
a lake over 800 km long but no more than 100 km wide;
- the form of the lake is arcued, rather half-Moon like;
- if the level of the lake would increase to the isoipse 500 meters, quite a
possibility in the event of a great flood, it would give rise still to a water
expanse with no outlet to the ocean, with a size of circa 150.000 square
kilometers, about the area of the Caspian Sea. We do not know how was
the elevation of the Balkash at Gilgamesh time. We guess, in view of
the drying up tendency, that it was significantly higher than now; the
lake could have had the characteristic half Moon shape before the Flood,
making it sacred to the god Sin; an increase of the water level to ther
isoipse 500m, for instance, about 160 meters higher than now, would
completely change its shape.
 The name of the lake is indicative, in the linguistic analysis that we
will propose, of a relation with the god Sin, to whom perhaps the lake
was sacred in view of its peculiar half-Moon shape (as said above, if not
at Gilgamesh time, before the Flood).
Let us now discuss our proposal about the meaning of the name
BALKASH. We have been unable of getting literature information on
the ethymology of that name, even by asking an educated Khazack met
on a flight to Oman, and by contacting the greatest expert in Italy on
Turkish and Islamic civilization, professor Jibril Mandel, author of close
to 200 books, proficient in several central Asia languages, descendent of
a noble Afghan family, owner of an 8th century Koran and of some
objects that belonged to Gengis Khan (professor Mandel is muslim, the
head of the Milan Sufis, his three children are one catholic, one muslim,
one jewish...). Our proposal is that the name BALKASH is the
contracted form of a more ancient name BALKASHIN. It was to my
delight that after having got this idea, I found that atlases and
geographic dictionaries up to half the 19th century call the lake
136

BALKASHI, one step closer to the proposed BALKASHIN. Now there


are no linguistical problems in the equivalence BALKASHIN =
BALKASIN, that we see as a word composed by three each one
meaningful one syllabe words, namely BAL - KA - SIN, for which we
claim the validity of the following translation: Sin, Lord of the people.
The reference to Sin and the term Lord is obvious. The main point is the
validity of the identification KA = PEOPLE, that is addressed in
Appendix 2. Having on the above grounds identified the “sea” with the
temple of Sin with the Balkash lake, we can now make our educated
guess on the first stage of Gilgamesh trip, from Uruk to the Balkash
lake.
From the Hittite text in Friedrich translation, but not from the corpus in
Pettinato, the trip appears to have started when Enkidu was still alive,
and by sea, on board of a boat named MA-GAN. The boat sank near the
coast of MA-GAN, with Enkidu dying in the accident. Then Gilgamesh
continues the trip alone overland. Sitchin identifies Magan with Egypt,
while most scholars identify Magan with the easternmost coast of the
Arabian peninsula, i.e. mainly Oman and part of the Emirates, in view of
the fact that copper was among the exports of Magan and that bronze
age mines of copper have been found in the mountains of Oman. If the
Hittite version used by Sitchin is correct, then we may think that
Gilgamesh again intended to reach the heart of Asia by the Karakorum
passes tried before, reaching however the foot of the Kashmir mountains
not along the overland route explored in the first trip but by the more
usual way via the Indian Ocean and the Indus river. Moreover we claim
that MAGAN, also read as MAKAN, is neither Egypt nor Oman, but the
southern coast of the Iranian plateau, the ancient Gedrosia, a vast
expanse of low mountains extremely poor in wells, that Alexander
insisted to cross on the return from India, for reasons that are not clear in
the surviving reports of his adventures (Arrianus, Curtius Rufus,
Plutarch), perhaps not unrelated to a memory of the feat that we are now
proposing Gilgamesh accomplished. This region, while difficult and
even now very sparsely populated, is not a complete desert. Now mainly
inhabited by Baluchi people, divided between Iran and Pakistan, in
classical times, as reported in that superb navigational reference book
that is the Periplus of the Erithraean Sea, had a number of ports and a
coastal population, the Icthiophagy, that took water and food from sea
life. The present local name of this region, attested as I have checked at
least in atlases of the 18th century, is MAKRAN (sometimes also
137

spelled as MEKRAN, MUKRAN). The name MAKRAN has obvious


similarity with MAGAN/MAKAN, a fact reinforced by the observation
that the sound KR does not belong to the Sumerian phonema.
Incidentally, let us note that Vinci (1998), in his seminal monograph
Omero nel Baltico, (where mainly on geographical grounds he sets the
Homeric world and sagas in the Baltic/North Sea region at a time before
the circa 1600 BC migration of several indoeuropen people from
Northern Europe/western Siberia to central/southern Europe, Anatolia,
Iran and India) notices that Homeric TROIA must be located with the
southern Finnish town of TOIA, the sound TR not existing in Finnish....
Whether or not the second trip of Gilgamesh began by boat, the “sea”
with the temple of Sin was reached overland. The likely route is the
following.
 First from Uruk to Sistan. This could have been done via sea and
then crossing the Makran region, along one of the valleys (e.g. the Dasht
or the Rakshan valleys) that certainly allowed the precious hard stones
mined in Sistan to reach the Indian Ocean for trade to the east and to the
west. Notice also that there are important copper mines in Birjand, just
about 150 km north-west of central Sistan, that possibly were already
exploited in bronze age time, therefore voiding the claim that Oman was
Magan, because of the presence of copper in Oman. Notice that on
Makran coast a well protected bay is the Gwatar bay, on whose probable
ancient coastline, near a river, was located the town of Kalataki, now in
ruins; many ancient tombs are found also on the south-eastern
promontory that closes the bay, near the village of Jiwani. Or it could
have been done via overland, possibly even by same route taken in the
first trip. >From Sistan the natural way to Balkash, not less than 3000
km, skirts on the west the mountains of Afghanistan and Pamir, in a
basic direction north-east. On this way he had to cross a few really large
rivers, certainly not fordable and rich of water the whole year around,
including the Amu Darya (classical Oxus, see Spedicato (2000) for more
exciting information on this river), the Syr Darya (classical
Jaxartes/Araxes, the northermost river reached by Alexander, who built
on his shores Alexandria Ultima; previously reached also by Cyrus and
Semiramis, convincingly identified by Pettinato (1985) as Sammurat,
circa 800 BC; possibly also reached by Sesostris I the Great), and,
finally, the Chu river. The epic states that Gilgamesh was attacked by
dangerous animals along the way. Leopards and hyenas are still found in
the area; the famous Aral tiger, a variety of royal tiger well adapt to
138

swimming and living among river reeds, became extinct around 1950 (a
similar variety along the Tarim river disappeared around 1900); lion
became extinct several centuries ago (it was the favourite game of
Achaemenid and Sassanid rulers), but we should quote unconfirmed
reports, see the Lonely Planet Guide for Iran, that it has been sighted by
peasants in Mazandaran, along the southern coast of the Caspian Sea.
 Let us now discuss the second stage of the trip, from lake Balkash to
Mount Mashu. As remarked before, at Gilgamesh time lake Balkash was
almost certainly much larger, with a length close to 1000 km, a width
possibly over 100 km on average. We do not know where the temple of
Sin was, certainly close to the ancient higher shore, so at some distance
of the present shore, but a look at a map, e.g. that in the Times Atlas of
the World, Comprehensive Edition, 1974, suggests that Gilgamesh, who
presumibly had coasted the western side of the Tien Shan (Mountain of
the Sky), likely crossed the Chu-Ili hills in the pass where both a road
and a railway cross now, near the small towns of Khantau and
Burubaytal (are the Burushaski speaking Hunza anyhow related with the
place named Burubaytal?), hence approaching the lake at its southern
shore. At his time the lake probably filled much of the Zhusandala
steppe, that extends east of the present southern side of the lake. As is
the case for many flat bottomed lakes in central Asia, navigation is often
extremely dangerous due to the low level of the waters. Once a boat gets
stuck in the muddy bottom, putting it again in motion may be an almost
impossible task, because the soft bottom is extremely dangerous for
anyone who would jump in the waters trying to push the boat. For a
graphic description of what can happen in so called quick sands or quick
muds, recall the death of the friend of Carrière, the author of Papillon,
who slowly disappeared in a muddy mangrove shore. This navigational
problem was remarked by Sven Hedin, see Hedin (1943), and was his
main problem during the exploration of the new Lop Nor, the flat
bottomed lake where the Tarim ends, which at the beginning of the 20th
century, after an unusually rainy season, changed its location by about
200 km, reoccupying an area that had been the ancient location till about
2000 years ago (at that time the change of location led to the
abandonement of the important city of Lou-Lan, where many perfectly
conserved mummies have been found). This navigational problem
suggests that the “stone stelae” that looked so important to Urshanabi
and that Gilgamesh had broken might have been magnetite, and could
have been used as a compass (recall that compass comes from China,
139

and that actually many elements of Chinese culture and science have
their original source in the heart of Asia). This would also explain why
Urshanabi was still able to navigate using apparently fragments of the
broken stelae, since they of course would still maintain their dipole
characteristics. There is however an even more interesting possibility. If
the water level of lake Balkash at Gilgamesh time was about 150 meters
higher than now, the lake would extend into Zungaria flooding the pass
of the Zungarian gates and would come close to the present city of
Urumchi. Now near Urumchi, precisely on the northern side of the
Bokhda-Ula mountain range, there is a huge solfatara, with a perimeter
of some 25 km at the beginning of the 19th century, see Marmocchi
(1856), where large amounts of poisonous gases are emitted, killing
every being, birds included, that would attempt to cross the area. The
gases would escape from the waters and kill anyone on a boat. We are
presently unable to ascertain the actual coastline of the Balkash at
Gilgamesh time, but the phenomenon here described would provide a
perfect explanation of the “waters of death” described in the epic.
If our localisation of the crossing point is correct, then it is likely that
Urshanabu took the boat beyond the Ili river. From here there are two
ways towards the heart of Asia. One follows the Ili towards Kuldjia
(now named Ining). The Ili valley is cut among very high mountains,
reaching 7345 meters in the soviet named Peak of Victory, ancient name
Khan Tengri, but entrance into Zungaria is possible via a pass elevation
about 2000 meters. The second way skirts for about 350 kilometers the
Zungarian Alatau range and meets the other way near the Ebinur/Aipi
lake. From this point the distance to our proposed Mount Mashu is about
2000 km, along a series of oasis and high plateaus steppes, with plenty
of game and of water.

8. Mount Mashu and the return to Uruk

According to a recent proposal by Temple (see Hera Magazine, n. 1,


2000), Mashu means “the place where the sun rises in the orient”. This
interpretation fits perfectly with our identification and the considerations
that we will put forward in a forthcoming paper about on the original
land of the Sumerians. Now, to introduce our identification of Mount
Mashu, let us recall some bellic events of the 20th century. At the
beginning of 1949 the armies of Mao Tsedong were already in control of
140

the whole eastern part of continental China. On the western part Tibet in
the south was still dreaming it could keep its former practically complete
autonomy, while in the north, along the corridor Xining-Lanzhou, a
rather large and combative muslim army led by general Ma Pufang was
waiting to check the advance of a Chinese army led by the great general
Lin Biao, the man who, with He Long, Peng Dehuai and Chu Teh,
implemented in military terms the strategy devised by Mao Tsedong.
The muslim army was soon wiped out and Ma Pufang escaped for a
golden exile as a guest of his friend King Faruk of Egypt, taking with
him 600.000 ounces of gold (perhaps some of it from the graves of Lou
Lan) and a rather large number of young girls, presumibly attractive and
not particularly expert in military techniques. Xinjang, where attempts
had been made several times in the course of last century to gain
independence, returned under the firm control of Beijing and was later
subject to a policy of Han immigration, that is going to reduce the local
Turkish population to a minority, as will also probably happen to Tibet.
The way was then opened for the Chinese army to enter Tibet, via the
eastern, warriors inhabited, Kham and Amdo regions.
During the few months when Ma Pufang army still hoped to stop Lin
Biao, Leonard Clark, acting as a secret officer of the US army, operated
behind the lines of the muslim army with the aim to ascertain whether it
would be possible to continue resistence against the communists from
the northern Tibetan territory. This meant in particular evaluating the
food reserves available locally, quite poor in fact, since in practice that
would have meant stealing the animals (horses, sheep, yaks) bred by the
local tribes. Clark made a quite extensive recognition of northern
Quinghai, particulalry of the Tsaidam Basin (Quaidam Pendi), rich of
rivers and lakes, including two lakes, Gyaring Hu and Ngorin Hu,
formed by the Yellow River at about 100 km from its multiple sources.
This region was inhabited by a local Tibetan tribe called the Ngolok
(also spelled as Gu-Lok, Go-Log, Mgo-Log). Among the interesting
features of these people:
 they still practiced the ancient Tibetan pre Buddhist religion, named
Bon-Po. Clark once visited the tent of a chieftains and noticed that 108
lamps were burning in front of a divinity statue; see Patten and
Spedicato (2000) for a proposed explanation of the “sacrality” of 108,
and of 54, 27, 216..., in ancient religions throughout the world
 they were excellent horsemen and superb fighters; neighbours
considered them as bandits
141

 they were very diffident, in view also of continued incursions into


their territory by both Mongol and Turkish tribes.
The territory of the Ngolok included a huge mountain range that had
never been explored before by westerners and that some geographers
had claimed might include the highest mountain in the world. The height
of this mountain range is not given in the quoted 1974 Times Atlas, but
is given at 6282 meters in the 1992 Revised 6th Edition of the National
Geographic Atlas, this figure most probably having been taken from the
1989 Atlas of the People’s Republic of China (APRC), Foreign
Languages Press, Beijing. The whole mountain range was sacred to the
Ngolok and entrance to it was strictly prohibited to foreigners. The
range is over 300 km long and, except for the northern part, is
surrounded by the Yellow River that defines its border for over 800 km.
As noted before, this huge sacred mountain has escaped attention of
apparently all people who have studied sacred mountains. The name of
the mountain is so given in the following atlases:
 ANYE MAQEN SHAN, in the quoted APRC Atlas and in the quoted
1992 National Geographic Atlas
 AMNE MACHIN Range and ANI MACHING Shan, in the quoted
1974 Times Atlas
 AMNIE MACHIN, in the Grande Atlante Geografico, M. Beretta
and L. Visintin editors, Istituto Geografico De Agostini, 1927
 AMNIA MACHER, in the book Dach der Erde, Berlin, 1938, quoted
by Messner (1999).
 in Richardson (1998) the mountain is spelled as A-MYES RMA-
CHEN and the local name of the Yellow River is spelled as RMACHU
The Yellow rivers, which embraces most of the range, has also a special
local name, written as follows:
 MACHU, in The Times Atlas, 1895 (notice that no local name is
given in the otherwise rich in information 1974 edition)
 MAQU (read as above), in the APRC Atlas.
From the APRC Atlas we also notice a small river named MEQU
entering MAQU in a marshy area, and that the administrative capital
town of the district is named MAQEN (previously DAWU). Now one
can linguistically accept the equivalence between MAQU=MACHU
with the Gilgamesh epic word MASHU, especially since these wordings
do not completely characterize the exact local prononciations, which
moreover certainly has local variations and changes in time. The term
142

ANI, ANYE (ANY-E ?, E turkish-like genitive suffix?) is intriguingly


suggestive of the Sumerian name of the god ANU, the head of the
Sumerian pantheon. Changes from I to U are indeed linguistically well
documented, e.g. in the well known iotization underwent by modern
versus classical Greek and in some transitions from Arabic to Farsi in
personal names (e.g. ADHUB becomes ADHIB, HAMUD becomes
HAMID....Adhib and Hamid are two of my iranian collaborators, Adhub
and Hamud were friends of Laurence of Arabia...). Hence on linguistical
grounds the sacred mountain of the Ngolok can be equated with the
sacred Sumerian Mashu, and this relation is reinforced by the additional
reference to ANI=ANU. Thus we conclude that the sacred mountain of
the Ngolok fits the basic requirements for an identification of Mashu (a
sacred place; a place in the east; a place named Mashu) and we propose,
using also Temple’s claim, the following translation of the name/names
of the sacred mountain

ANYE MAQUEN = ANU MASHU


= the place of god Anu, where the Sun rises.

Having thus identified the final destination of Gilgamesh second trip, let
us make an educated guess on his route from the Zungarian Gates.

(a) In a general east-east-south direction, for about 3000 km, pointing to


the “great sea” in the Hittite text translation by Friedrichs, that we can
now identify with a real great sea, namely the Pacific Ocean

(b) Skirting the northern side of the Tien Shan for about 500 km. This
part of Zungaria has several oasis and rivers and at Gilgamesh time was
probably even more rich in water than now. The recently completed
railway of Xinjang passes here allowing a shorter way between Moscow
and Beijing. Notice that the name Zungaria comes from the Mongolian
JA’UN-GHAR and corresponds to the Chinese PE-LU, which is
Northern Road. Zungaria produces rice, many fruits and till the
beginning of last century even tigers were living there.

(c) Crossing into the Turfan depression by way of an easy pass where
the city of Urumchi is now located. The Chinese name of Urumchi is
TIWA or TI-HOUAS (see Atlas Classique de Géographie, Monin, Paris,
1839-1840). Allowing by metathesis the change TI in IT and noting that
143

W = HOUA is a liquid vowel, essentially a consonant, we can claim the


virtual identity of TIWA with ITLA, thereby retrieving the information
in the Hittite text according to Friedrichs. Notice moreover that the
present name Urumchi may be considered equivalent via the allowed
transition fron R to L to ULUMCHI, the ULUM being intriguingly
similar to the name of the god ULLUM to which the place was sacred,
according to the Hittite text.

(d) Reaching Tun Huang, about 1000 km to the south-east, by way of


the great oasis of Hami (also called Kumul or Khamil), which produces
the best melons in the world, and by way of Anxi (An Hsi). Notice that
Dun Huang (Tun Huang) is an historically very important town, famed
for the One Thousand Buddhas, but more importantly for the invaluable
cache of some 60.000 scrolls by chance found hidden behind a wall in a
monastery around 1920, many of them about 2000 years old, some of
them written in Tocarian. It has been fortunate that most of these scrolls
were taken out of China to western collections. Thus they probably
avoided the fate of ending in flames that affected the great libraries of
the Tibetan monasteries, 99% of which were utterly destroyed during the
Great Cultural Revolution (Tucci estimated that at least 200.000
different manuscripts of very great antiquity were contained in the
Tibetan libraries. Notice that less than 1000 books have come to us from
the Greek-Roman world, less than 1% of the important books! The
destruction of the Tibetan libraries will certainly be considered by far
the greatest crime committed during the Great Cultural Revolution, the
loss of perhaps 20 million people in mainland China having been more
than overcame in demographic terms by a population increase of two
hundred millions, due to the collapse of the one child policy in that
period).

(e) From Dun Huang there are several ways into the Tsaidam Basin and
then to Any-e-Machen, a distance of about 1000 km. It is a region of
elevation between 2000 and 3000 meters, rich of marshes, lakes, rivers,
game and minerals. Lakes should be noted (or so were at the time Clark
saw them) for the incredible transparency of their waters, allowing to
see their bottom at great depths, and for the beauty of big richly
coloured fish, never taken or eaten by the local population (Clark could
easily catch them with his hands; curiously the same full respect of fish
life, not a feature of the Chinese who came after Lin Biao, was practiced
144

by several tribes on the Atlantic seaboard of Canada when Europeans


first arrived there; possibly these American tribes, who migrated not
several millennia before from northern Asia, had ancient ties with
northern Tibetan tribes). This region, as is true for most of Tibet, is also
full of aromatic medicinal plants, the so called Chinese herbal medicine
having originated in the plateau of Tibet (the Tibetan School of
Medicine was one of the very few Tibetan institutions to escape whole
destruction during the Great Cultural Revolution). The area is also rich
in rare minerals, including uranium ore. Perhaps these special features
may explain certain “esoteric” details characterizing the region where
Gilgamesh met Utanapishtim.

From Any-e-Machen the return to Uruk can be accomplished over


water. First by following the Yellow River, which is a rather peaceful
river, without the dangerous gorges and currents found for instance in
the Yang Tze-Kiang (the Blue River also called now the Chang Jang).
Then by coasting China, Indochina, India and Makran to Uruk via a
short stretch of the Euphrates. Certainly a rather long trip, some 15.000
km, but without any real great difficulties, the main danger after
Gilgamesh years for this trip coming from piratery, a profession
certainly not yet developed at Gilgamesh times. We end this section
with a remark on Pettinato’s translation in XI, 195, reading, in Italian,
“alla foce dei fiumi”, i.e. at the “exit of rivers into the sea”. In Sitchin
and other authors this passage reads as “the mouth of rivers”, leaving
untranslated the original word “mouth”. From our identification the
meeting with Utanapishtim took place in a mountain very far away from
any sea or ocean. In fact we will discuss in a future paper that
Utanapishtim story is unrelated to the Noah story, except for the fact
that both men were survivors of the same Great Flood. Notice that
Talmudic and Midrashic sources quoted by Velikovsky (1999) state that
there were several “Noahs” and that many boats were built to survive
the Flood, most of which were recked in the violence of the event. As
already it was suggested in Spedicato (1984) Noah’s flood should be
located, as also Rohl does, in the region between lake Van and lake
Urmiah, i.e. in eastern Anatolia-Azerbaijian, while the original
Sumerian Ziusudra’s story (perhaps Ziusudra original name was
changed to Utanapishtim by semitic scribes who knew Noah’s story and
believed the two persons were the same) must be located much more to
the east. In a future paper we will be able to pinpoint the exact place
145

where Ziusudra boat stopped. This localisation suggests also that a


reason for the survival was the fact of being right in the heart of Asia,
where a huge tsunamic wave washing south from the Arctic Ocean had
already spent much of its fury.
From the above observations, we suggest that the term “mouth” should
be read as “source”, i.e. the place where the river “drinks, gets” its
waters. Moreover an inspection of the Qinghai map in APRC shows that
the Yellow River, locally now and possibly already at Gilgamesh times
called MAQU/MASHU, has several sources, none of which can really
be pinpointed as the longest one, no less than 9 of them being located
west of the village of Horgorgoinba. This interesting geographical
feature may explain the plural “rivers”. Additionally we may also note
that, in a stretch of land no more than 500 km long south-west of the
Yellow River in the Any-e-Machen region, several huge rivers are
found, that wash almost half of Asia, namely the Yang Tze Kiang, the
Mekong and the Brahmaputra. This region was historically eastern
Tibet, but in the course of the last 150 years most of it has been added to
the Chinese provinces of Yunnan, Szichuan and Quinghai. Present Tibet
now covers less than half of what it was when the Mongols, as Chinese
Yuan emperors, for the first time added it to the Chinese (more precisely
then the Mongolian) empire. We will claim in a next paper that Tibet
was originally even larger, arguing for the identity TIBET=TILMUN.

9. Final remarks

The above paper is based upon a quite limited amount of documentation.


We believe that more research and use of documents from Central Asia
will shed more light and, we believe, will give further confirmation of
the thesis defended here. In the course of this research it suddenly
dawned to this author that the proposed itinerary of Gilgamesh is
associated with an apparently never before proposed identification of
Eden, that appears to be a perfect fit with the biblical data, while several
discrepancies are easily noticed in both the Salibi (1988) and Rohl
(1998) proposals. Moreover our Eden identification leads naturally to
identifying the route taken by Adam when he left Eden, Cain land of
Nod and what is the special sign left to his descendents, Aratta, Dilmun
and the original place of the Sumerians (it will be clear that they arrived
in Middle East only after the Flood). Salibi and Rohl’s identifications
146

are however valuable because they relate to two different places where
the ancestors of the Hebrews moved in the course of their long
peregrinations, when, reaching a new land, they renamed places
according more or less to the geographical configuration in their
previous territory, exactly as the Danai/Achaioi did when they came to
the Mediterranean from their original Baltic lands, as Vinci (1998) has
so convincingly claimed. These new identifications will be presented in
a forthcoming paper, Spedicato (2000).

Acknowledgements - This paper would never have been written


without the following contributions:
 the corpus of all Gilgamesh texts provided by Pettinato and several
comments by him
 important comments by Pettinato’s collaborator D’ Agostino
 the Hittite text version of Friedrichs used by Sitchin (our itineraries
are quite different from those proposed by Sitchin)
 the relation of LBN with “milk, dairy products” and the rendering of
PRT as PAROT is due to dr. Lia Mangolini
 the information on the Hunza valley has come via dr. A. Agriesti,
who, having studied some 150 languages, also helped much in the
analysis of ethymology of some words
 the information on Any-e-Machen would never have been found
without the suggestion of my aunt A. Risso and without my late uncle
Umberto Risso unquenchable thirst for buying and reading books (till a
stroke destroyed his brain area controlling reading)
 the information on the solfatara near Urumchi comes from Mariuccia
Risso’s inspection of the Marmocchi’s four volumes, bought years ago
by my uncle Umberto Risso.
To all the above persons my warm thanks are given.

Appendix 1: on some numbers in the epic

Numbers are given in the text in term of “talents”. The Sumerian talent
had a huge value, corresponding to 1800 kilos. This would make the
weight of Gilgamesh and Enkidu’s axes 5.4 tons, which is an unrealistic
value. We think that the talent referred to in the Yale paleobabylonian
147

tablet, circa 1800-1600 BC according to standard chronology, but circa


1670-1370 BC according to Rohl (1997), must already be taken as the
value corresponding to the Homeric and classical talent value, about 27
kilos. We base this claim on the fact that first it leads to load that, while
still huge, will be shown to be acceptable in the context of unusually
strong men; secondly because the recent revolutionary work of Vinci
(1998), by dating the Homeric world to the full of the bronze age before
1600 BC (and locating it around the Baltic and the North Sea), implies
the antiquity of the talent, that may have substituted at the beginning of
the second millennium BC the talent in Mesopotamia, after
Indoeuropeans arrived to Iran and the Caucasus (at least one
indoeuropean tribe reached even southern Arabia, the Shihu, who live
on the mountains of Sharjia, see Bibby (1970)). Let us start be recalling
that Gilgamesh and Enkidu were tall and strong men, Enkidu perhaps
the strongest, since he had beaten Gilgamesh in the fight that made the
walls of the Uruk houses shake. While the figures for Gilgamesh given
in the Hittite version (”he was taller than 11 “arus”, his chest was 9
spans wide, his phallus was 3 ? “) seem to be exaggerated (but perhaps
again here the unit of measure was no more the ancient original
Sumerian measure) and would have led to some practical problems in
his implementing of the “primae noctis ius”, it does not appear
impossible that his stature would have been well over two meters, such
sizes being not a feature only of our age. This would correspond to a
body weight of possibly over 150 kilos. The equipment of Gilgamesh
and Enkidu included 3 axes (about 80 kilos assuming our late value for
the talent) and more than 10 talents (over 250 kilos) of weapons. This
would give a total load of over 300 kilos, about twice the estimated
weight of their body. Now that man can make long hours of walk or of
work under loads that are over his body weight is quite a common fact,
as we show again by a few examples.
 My father in law, Antonio Campanile, in his prime was a short man
about 150 cm tall and 45 kilos weight. He worked as a specialist mason.
He used to carry on his shoulder blocks of “tufo” stone weighting 90
kilos over ladders reaching the top of church towers, this feat several
times a day.
 At the end of the 19th century the carriers in the port of Gallipoli,
Puglia, were famous for their strength, carrying normally 150 kilos,
many of them even 200 kilos. They were men generally of low stature
148

and worked over 10 hours a day. See Le cento cittá d’ Italia.


Supplemento mensile illustrato del SECOLO, 28-2-1901.
 In his book “Se questo è un uomo” (Einaudi, 1958) Primo Levi, a
Jew who spent over one year in one of the Auschwitz lagers, writes that
one of his jobs was carrying, with the help of a companion, a sack of
cement, weight not specified (usually cement sacks are now of 30 kilos).
They found the work very hard, being also underfed. In their team there
was a very short man, a real dwarf, with a stout body full of bulging
muscles (well visible when they took the common cold shower...)
named Elias Lindzin, lager number 141565. He usually carried four
sacks at a time, with no sign of fatigue, jumping the sacks from one
hand to the other, a load almost certainly over twice his body weight.
 As stated above from Polybius, Roman soldiers could carry a load
well over their body weight for 50 km a day.

Appendix 2: on the meaning of KA

It is now believed by many language specialists, in the aftermath of the


seminal work done by professor Joseph Greenberg of Stanford
University, that all human languages descend from a single original
language, paralleling the recent discovery, by sophisticated genetic
analysis (of mithocondrial DNA and of the Y gene), that all present
humans descend from a single woman and a single father, who lived an
estimated circa 200.000 years ago. The work of Greenberg and
coworkers has led to group the existing and the known extinct languages
in different levels of families and superfamilies, one of which, called the
Afroasiatic family, includes camitic, semitic, indoeuropeans, turkish and
other previously defined families. Here we claim that the syllabe KA
should be related to an afroasiatic word vowel - K - vowel with the
general meaning of people, clan on the basis of the following instances:
 the great anthropologist Luca Cavalli Sforza, of Stanford University,
spent many years researching a tribe of Pigmees living in Cameron; as
many other “primitive” people, these pigmees called themselves AKA, a
word meaning simply “people”
 there are four main tribes in Ghana who speak a common language,
whose name, AKAN, means “of the people”
149

 a very interesting “primitive” tribe of hunters, living on a sacred


mountain at the border of Uganda, Sudan and Kenya, which was led to
extinction when the British prohibited their ancestral way of life based
on hunting, called themselves IK, presumibly meaning “people”, albeit
the meaning of this name is not given in Turnbull (1972), the
anthropologist who studied them. This tribe had anthropometric features
unrelated to those of the surrounding Bantu tribes and a language
apparently close to ancient Egyptian
 the work IK means “clan” in several dialects of the Berbers and in
Guanche
 the Khazars had two leaders, one, the Bek, involved in administrative
matters, another, the Kagan, involved in religious matters. Now the
acceptable equivalences KA-GAN = KA-HAN (a Hebrew name) = CO-
HEN (a high priest in Levi’s tribe)= KA-HN (the king of Mongols) =
CAC- ANUS (the latin name used by Paulus Diaconus with reference to
the chiefs of the Avars, by him related to the Huns) seem all to have the
same original meaning, that we interpret as AN = divine light, KA = of
the people, in perfect correspondence with the actual role associated
with these names
 as above, perhaps the original meaining of the term Inca is IN-
CA=AN-CA, = “divine light of people”
 the Afghani are divided into differently named tribes, but share, or at
least shared till about half of last century, the common name Aklai =
AK-LAI, where the exact meaning of LAI is not clear to me (perhaps by
metathesis it is related to AK-EL, i.e. “divine people”, “people of the
gods”); in a future paper we will argue that the land where Sargon II
relocated most of the 10 tribes deported from Samaria was
Afghanistan/Kashmir, hence explaining the proposed origin of the word
Aklai and the presence of many clearly hebraic words in local
topography and in the pashtun language
 one of the tribes living in Swat (a mountain province of Pakistan,
whose name derives from sanscrit Suvasto, country of the beautiful
buildings) is called locally Assaka, the Assakenoi of the Greeks, see
Tucci (1978). Now ASSA (prascrit) = ASVA (sanscrit) = ASPA (old
Persian) means “horse”, implying, with our interpretation of the word
KA, the expressive meaning people of the horses. It is known that the
Chinese called the invading Mongols of Gengis Khan the People of the
Horses. In Spedicato (1997) it has been argued that the real meaning of
150

the word Hyksos, the fierce warriors that invaded Egypt at the end of the
13th dynasty, is also people of the horses, from HYK = AK and SOS =
SUS (hebrew) = HORSE.

Appendix 3: on the cedars in the world

Cedars grow naturally on the vast expanse of land from the mountains of
Morocco up to the Himalayas, an arc of over 10.000 km. Cedars are
denominated as belonging to different species, but in fact are now
considered to be all a same species, which has developed varieties. Here
are some information on cedars, taken from Emciclopedia Treccani,
1953 edition.
 Cedrus Atlantica (Manetti, 1842): grows in Morocco and Algeria,
between 1000 and 2000 meters
 Cedrus Brevifoglia (Hook, 1880): is found in Cyprus between the
villages of Kykko and Irka, elevation about 1300 meters
 Cedrus Libanotica (Linneus, 1831): grows in southern Anatolia and
Siria, including Lebanon. Maximum height about 40 meters, but
branches can spread to 100 meters, making it cumbersome for timber
production. The first Libanotica was brought to England and planted in
Chelsea in 1683, was first planted in Italy at the Botanical Garden of
Pisa in 1787
 Cedrus Deodara (Roxb, 1832; Laws, 1838, who called it Pinus
Deodara): grows in the Hindukush, in Afghanistan and in Beluchistan,
between 1100 and 4000 meters, optimal growth occurring between 2000
and 3000 meters. It has leaves longer than in the Libanotica, a straighter
trunk and less massive branches (I had one such tree in my garden: it
suffered due to the climate of the north Milano region and died after
some 20 years of unhealthy life). Deodara’s timber is locally called the
wood of gods. It is used in Asia to build temples and to produce
religious statues, one reason for this privilege being certainly the fact
that such a wood is extremely resistent to weathering (the zapote tree,
whose wood is heavier than water and which also does not rotten in
humid climates, was similarly used in Central America, but is not found
in Asia). Notice that Tucci (1978) quotes the existence of supporting
wooden beams (type of wood not specified, I would guess cedar) 30
meters long in the Mosque of Calam in the Swat, a Kashmir region. I am
151

not aware of what is the maximum lengths of beams in Asian temples,


in particular if there are any corresponding to the length of the cedar cut
by Gilgamesh.

Appendix 4: Yetis in Africa?

In Chioffi (2000) a translation is given of the integral text of a voyage


by Hanno, a Carthaginian general, who followed the coasts of Africa at
least up to the region of the great Cameroon volcano, which was in full
eruption. The voyage description is preserved in a 10th century
manuscript and contains intriguing description of some creatures whose
behaviour is strongly reminiscent of the yetis. Here are the relevant
passages:
 VII:...Further away from the shore there are unhospitable
Aethiopians who live in a region full of wild animals and closed by
great mountains. They say that the river Lixos is born there and that in
the mountains live troglodytes of strange aspect who, according to the
Lixiti, can run faster than horses
 IX:...there began very high mountains full of wild creatures covered
with skins of wild animals, who threw stones at us, making landing
impossible
 XVIII:...there was an island full of wild creatures. Most were females
with hairy bodies; our interpreters called them “gorillas” (?). We hunted
for them, but we were unable to catch any male, since they were skillful
in climbing over crevices and defended themselves by throwing stones.
But we caught three females, who bited and hit those who were carrying
them. So we killed them and brought their skins to Carthago.
Do gorillas throw stones? At least Gilgamesh did not skin Khubaba.
Killing yetis with guns and skinning them seems to be, nowadays, a
passatempo of the Chinese soldiers in Tibet, see Messner (1999). Homo
homini lupus.

References

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S.M. Barrett, Geronimo’s story of his life, Duffield, New York, 1906
152

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153

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www.velikovsky.collision (J. Sammer editor, Ruth and Shulamit
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C. Turnbull, The Mountain People, Simon Schuster, 1972
F. Vinci, Omero nel Baltico, Palombi, 1998

-----
154

Emilio Spedicato è nato a Milano nel 1945. Laureato in fisica e PhD in


matematica computazionale alla Dalian University of Technology, Cina,
è attualmente ordinario di ricerca operativa presso l’Università di
Bergamo. Ha lavorato anche sette anni per il CISE e 5 anni per il CNR.
Ha soggiornato per alcuni anni in USA (Stanford University),
Inghilterra e Germania. Oltre a lavori relativi all’ottimizzazione
nonlineare ed all’algebra lineare (fondatore con Abaffy e Broyden dei
metodi ABS ora documentati in circa 400 lavori, nel cui ambito è stata
data recentemente la migliore soluzione del decimo problema di
Hilbert), ha interessi per la storia antica, l’astronomia e l’origine delle
mitologie e delle religioni.

Il forno alchemico…
(per gentile concessione di Roberto Germano)
155

MODERNE STORIE D’INQUISIZIONE E D’ALCHIMIA

Lo sconcertante caso della “fusione fredda”


(con una Prefazione di Giuliano Preparata)

(Roberto Germano)

(Testo della conferenza-dibattito su nuove prospettive della scienza tenuta


nell’ambito delle attivita’ dell’Associazione Altanur il 16 Marzo 2000, presso
“Lontano da dove”, Caffe’ dei libri, e della musica, e del teatro, via Bellini 3,
Napoli)

Che voglio dire con questo titolo?!


Cominciamo con dei riferimenti al passato. Poi passerò a
condividere con voi quella che è stata la mia esperienza sconvolgente in
merito... Perché c’è una certa differenza tra leggere certe cose sui libri e
viverle in prima persona.

Sui libri si può trovare l’aforisma di Max Planck (uno dei padri
della Meccanica Quantistica): “Una nuova verità scientifica non trionfa
perché i suoi oppositori si convincono e vedono finalmente la luce,
quanto piuttosto perché alla fine muoiono e nasce una nuova
generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari”. E va bene,
questo è vero. Molti di noi avranno letto “La struttura delle rivoluzioni
scientifiche” di Thomas Kuhn, in cui l’autore tratteggia il modo di
evolversi del pensiero scientifico. Ci sono, nel corso dell’evoluzione
scientifica, dei modelli, delle teorie, cioè delle visioni del mondo
(”teoria” deriva dal greco -  - e significa proprio “vedere”,
“osservare”) che hanno un certo peso in alcuni periodi ed intorno alle
quali si costruisce tutta la scienza sperimentale. Dopodiché accade che
iniziano pian piano a presentarsi delle “anomalie” sperimentali,
anomalie rispetto a quella che è la visione generalmente accettata fino a
quel momento. Tali anomalie non si inseriscono più nella teoria e quindi
le si inizia a classificare, un po’ come degli insetti particolari... Ad un
certo punto c’è qualcuno che grazie a queste anomalie ha una nuova
“visione” e dice: “OK: queste anomalie si possono correlare tutte
156

insieme in un nuovo modello, in una nuova teoria”. E questo è quello


che è sempre successo.
Niente di nuovo. Però....

Potremmo citare la considerazione di Benedetto Croce secondo


cui: “La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato
il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare
comodamente tutto il resto della vita; da ogni minimo accenno di
dubbio...diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di
dover ripensare il già pensato e doversi mettere al lavoro”. Questa è
effettivamente una delle problematiche psicologiche che sta alla base
della difficoltà di accettare nuove visioni scientifiche. Non è l’unica,
come vedremo. Ma sicuramente la pigrizia intellettuale e l’attaccamento
al potere accademico sono dei fattori importanti. Attualmente è divenuto
in realtà fondamentale anche il potere economico.
Può essere interessante ricordare alcuni aneddoti del passato che
fanno luce sul presente.
Quando Alexander Graham Bell, negli Stati Uniti d’America,
decise di proporre l’idea del telefono, avendone capita l’utilità, per noi
oggi ovvia - dopo essere stato rifiutato dal U.S. Post office e dalla
Western Union - andò al British Post Office, il cui ingegnere capo era
Sir William Preece, uno dei più importanti scienziati inglesi dell’epoca.
Preece era membro della prestigiosissima Royal Society ed aveva
studiato col grande Michael Faraday. Ebbene, cosa disse questo
eminente scienziato quando Bell gli spiegò il funzionamento e l’uso del
telefono?! Disse: “L’Inghilterra è piena di ragazzini che possono
portare messaggi”. Questo è ciò che disse. Poi si distinse anche in
seguito per un’altra affermazione relativa alla lampadina: “Un’idea
completamente idiota”.
Questi sono esempi abbastanza interessanti che riguardano
apparecchi, invenzioni, non di chissà quali nuove idee sulla visione del
mondo...
Lo stesso famoso Michael Faraday fu accusato di ciarlataneria
quando annunciò di poter generare una corrente elettrica semplicemente
muovendo un magnete in un avvolgimento... cosa oggi ovvia, che si usa
ad esempio nella dinamo della luce della bicicletta....
Un altro esempio è la presentazione del fonografo all’Accademia
delle Scienze di Parigi: “Non appena la macchina ha emesso qualche
parola il Signor Segretario Perpetuo si precipita sull’impostore e gli
157

serra la gola con mano di ferro.” Quindi, credeva che fosse il trucco di
un ventriloquo... “Vedete bene - Dice ai suoi colleghi. Con
sbalordimento di tutti, la macchina continua ad emettere suoni.”
Ebbene sì, è successo anche questo.

Possiamo prendere degli spunti interessanti anche dal recente libro


di Luc Burgin “Errori della scienza”.
Ad esempio, quando Antoine Laurent Lavoisier, il padre della
chimica moderna, scoprì che esisteva l’ossigeno e che era fondamentale
nella combustione e che il “flogisto” invece non esisteva, tutti spararono
a zero contro Lavoisier, sulle più importanti riviste...
Certo, Lavoisier era senz’altro un rivoluzionario, anche dal punto
di vista politico, partecipò attivamente alla Rivoluzione Francese e
definì la chimica “scienza rivoluzionaria”.
Però su Lavoisier possiamo anche dire un’altra cosa. Fu chiamato
a pronunciarsi sull’origine delle meteore, infatti c’erano allora varie
teorie sull’origine delle meteore, una delle quali (quella giusta) era
quella secondo cui si trattava di pietre che cadevano dal cielo, come
oggi sappiamo bene. Lavoisier disse che le meteore non potevano certo
essere pietre che cadevano dal cielo per il semplice motivo che nel cielo
le pietre non ci sono... Effettivamente c’era poco da discutere!!
Un altro esempio riguarda Jean Baptiste Joseph Fourier. Chi ha
studiato matematica, ingegneria... saprà che la cosiddetta analisi di
Fourier è una cosa fondamentale; permette di scomporre una funzione
matematica come somma di seni e coseni. Quando Fourier propose
questa sua idea, grossi scienziati come Laplace, Lagrange, Poisson ed
Eulero, la considerarono semplicemente una sciocchezza...
Un altro esempio...
Quando si parla di falsa scienza spesso si citano i raggi N.
All’inizio del ‘900 c’era un francese che non era proprio l’ultimo degli
scienziati, si trattava di un eminente professore di Fisica all’Università
di Nancy: René Blondlot. Erano stati scoperti da poco i raggi X da
Rontgen, e lui pensò di aver trovato degli altri raggi che chiamò N, in
onore della città di Nancy. Questi raggi avevano una serie di
caratteristiche che lui stava studiando ed altri scienziati pareva avessero
anche riprodotto i suoi risultati in altri laboratori. Oggigiorno questo si
cita come un caso di illusione dello sperimentatore, infatti, per il
desiderio di trovare qualcosa di nuovo, Blondlot si era illuso. Infatti si
scoprì poco dopo che i raggi N non esistevano: togliendo un prisma
158

metallico, a sua insaputa, dall’apparecchio di misura, lui continuava a


vederli.... Evidentemente questo episodio è citato come esempio di falsa
scienza. Però, non si dice praticamente mai che, poco prima, i famosi
raggi X scoperti da Wilhelm Conrad Rontgen, ed ora considerati una
realtà ovvia, furono definiti addirittura da uno dei più eminenti fisici
dell’epoca, il grande Lord Kelvin, “un abile trucco”. Poi si capì che
esistevano realmente, però si disse: “Vabbè, ma a che servono? “....
Questo è il tipo di situazione di cui dobbiamo essere consapevoli,
visto che nei libri didattici queste cose non si dicono... Lo studente già
normalmente impiega molto tempo a capire le cose, se poi uno gli mette
anche dei dubbi, è finita! Naturalmente sono sarcastico... Comunque sia,
questo approccio finisce col far credere allo studente che la scienza sia
una sorta di teologia... senza capire che si tratta di modelli di realtà,
profondi quanto si vuole, ma pur sempre modelli, con i loro limiti... E
normalmente uno cerca di andare oltre... Una teoria è giusta in certi
ambiti ben precisi. E’ sempre importante quando si fa un modello
scientifico, capire in quali ambiti il modello è valido. Con quali
approssimazioni?
Possiamo ancora citare un esempio, tratto dall’ambito medico: la
storia di Ignaz Semmelweiss. Nel 1847 questo medico svizzero intuì una
cosa che per noi è banale. Perché le puerpere morivano in così gran
numero? Perché c’erano infezioni visto che i medici non si lavavano le
mani e gli strumenti! Spesso dopo aver dissezionato i cadaveri andavano
a far partorire le donne!! Ebbene gli altri medici lo trattarono come un
folle, per diversi anni... Pubblicò finalmente un libro: ancora peggio!
Infine, fu rinchiuso in manicomio e lì morì a seguito di una ferita
conseguente ad una colluttazione con un infermiere e successiva
setticemia... L’ironia della sorte.
Tutte queste cose ci fanno capire come dei fatti che per noi oggi
sono semplicemente banali - anche per un bambino sono banali - nel
passato sono stati duramente avversati dal mondo accademico... Tra
l’altro si tratta di un passato anche abbastanza recente: la storia così
incredibile di Semmelweiss è accaduta ai tempi dei nostri bisnonni... e
non all’epoca di Nerone!!
Un altro esempio abbastanza interessante è quello di Alfred
Wegener, il padre della teoria della deriva dei continenti, oggi
normalmente accettata. Wegener ne parlò fin dal 1912; e ancora 40 anni
dopo, fino agli anni ‘50, i commenti degli scienziati di fama erano di
questo tipo:
159

 un parto della fantasia;


 vaneggiamenti di un malato grave della malattia della rotazione della
crosta e dell’epidemia dello spostamento dei poli;
 ricerca del tutto fallita;
 come possa muoversi un continente, formato da uno spessore di ben
35 chilometri di solida roccia, non è mai stato spiegato veramente; (...)
non dovremo prendere sul serio la deriva dei continenti;
 si tratta del sogno di un grande poeta;
Quest’ultimo è stato il più buono...

Ancora... Non parliamo dei primi sostenitori del volo spaziale che
erano davvero considerati folli e basta... ma accenniamo invece ai
fratelli Wright e ai primi voli di questi due meccanici di biciclette
dell’Ohio. Per ben 5 anni, dal Dicembre 1903 al Settembre 1908, Wilbur
ed Orwille Wright avevano più volte affermato di aver fatto volare un
oggetto più pesante dell’aria. Però, malgrado numerose dimostrazioni
pubbliche, dichiarazioni di pubblici ufficiali e fotografie, si continuava a
deridere la faccenda e a parlare di frode.... su Scientific American, sul
New York Heraldry, da parte dei militari e di eminenti scienziati. Finché
nel 1908 il presidente Theodore Roosvelt non comandò di effettuare una
pubblica dimostrazione a Fort Myers, ed allora si dovette ammettere la
realtà! Dopo 5 anni!! L’ironia della sorte vuole che proprio qualche
settimana precedente al primo volo dei fratelli Wright a Kittyhawk, nel
Nord Carolina, il professore di matematica ed astronomia alla Johns
Hopkins University, Simon Newcomb, aveva pubblicato un articolo sul
The Independent che “dimostrava” scientificamente l’assoluta
impossibilità del volo umano a motore, che avrebbe richiesto, a suo dire,
la scoperta di qualche nuova forza della natura!! Ecco quali erano i
commenti che apparivano sul numero del 13 gennaio 1906 di Scientific
American: “Pare che questi presunti esperimenti si sarebbero tenuti nei
dintorni di Dayton, nell’Ohio (...) e che i giornali americani, per quanto
attenti, si siano lasciati sfuggire tali prestazioni sensazionali. (...) Noi
abbiamo il diritto di esigere altre informazioni prima di poter prestare
fede alle relazioni provenienti dalla Francia. Purtroppo i fratelli Wright
non sono disposti a pubblicare dati più esatti o a fare esperimenti
pubblici, per ragioni che nessuno può conoscere meglio di loro. Se
esperimenti così sensazionali e di tale estrema importanza venissero
effettivamente compiuti in una regione non troppo remota del nostro
160

paese (...), si può credere che gli intraprendenti cronisti americani (...)
non avrebbero già da molto tempo accertato tutto ciò che si può sapere,
per farlo conoscere all’opinione pubblica?”.
E tutto questo solo ai tempi dei nostri nonni. Oggi volano
quotidianamente migliaia di persone da una parte all’altra del globo....

Queste premesse servono a contestualizzare in un orizzonte più


ampio quella che è stata la mia esperienza personale e che voglio
condividere con voi.

Alcuni anni fa, qualche giorno prima di laurearmi in Fisica, andai


a sentire un seminario al Dipartimento di Fisica; era il Giugno 1995.
Avrebbe parlato un professore proveniente da Milano, Emilio Del
Giudice, che io non conoscevo, e che avrebbe parlato su “Varietà
vetrose nei liquidi”, un argomento che mi incuriosì malgrado non ne
sapessi niente o forse proprio per questo... Disse delle cose molto
interessanti e fu molto brillante, così dopo lo contattai per chiedergli
l’articolo che lui avrebbe scritto sull’argomento. Fu molto gentile, e
disse che me l’avrebbe mandato subito. Passarono sei mesi e non mi
mandò niente. Lo richiamai e gli dissi che io ero molto interessato...
forse s’era distratto... Non s’era distratto, me l’avrebbe mandato al più
presto. Dopo un po’ che non avevo avuto ancora niente lo richiamai e lui
disse: Scusa ma non ho avuto più tempo, perché ho lavorato a rendere
riproducibile la fusione fredda....
Ora, la fusione fredda, non so se qualcuno di voi ricorda, è una
cosa di cui si parlò 11 anni fa, nel Marzo 1989 quando due chimici,
Martin Fleischmann e Stanley Pons dissero che in una semplice cella
elettrolitica si poteva ottenere la fusione nucleare. Sul momento tutti
quanti dissero: Ah, è una cosa eccezionale!! Ma, dopo pochissimo i due
chimici furono estromessi dal novero della gente seria... malgrado
Fleischmann fosse stato addirittura presidente della Società
Elettrochimica Internazionale e membro della prestigiosa Royal Society,
insomma si trattava di gente più che seria... Ci sono diversi motivi per
cui questo è successo e ne parleremo in una prossima occasione; ora
intendo fare solo il quadro generale.
Quindi, io, come tutti gli altri, mi ero fatto l’idea che la fusione
fredda non era che una stupidaggine... Ci si era illusi che si poteva
ottenere la fusione nucleare facilmente invece che in queste macchine
161

enormi in cui è necessario raggiungere temperature elevatissime,


pressioni straordinarie, un po’ come nel Sole, ma non era vero.
Qui apro una piccola parentesi: sono decenni che si fanno
esperimenti costosissimi in queste macchine ciclopiche e
complessissime e non si riesce mai a raggiungere le condizioni per far
sostenere la reazione di fusione termonucleare dell’Idrogeno e ricavare
energia, come invece succede nelle centrali a fissione nucleare con
l’Uranio. Si fanno solo costosissimi esperimenti e un bel po’ di
radioattività. E’ bene che si sappia che solo in Europa ci lavorano 3000
persone e si spendono 1000 miliardi di lire all’anno. Questo è
ovviamente uno dei vincoli facilmente ipotizzabili alla libera diffusione
della ricerca sulla fusione fredda, che avviene in una piccola cella
elettrolitica senza scorie radioattive, di 10 cm di diametro, alta 30 cm,
che costa 500 000 lire (il costo di 1 grammo di Palladio e un litro di
acqua pesante) e che può fornire 10 kW per 500 anni, e che è
assemblabile in casa... con gli opportuni ingredienti e con la giusta
metodologia.
Tornando a noi, era passata la notizia che si trattava di una pia
illusione, all’inizio, quindi, io rimasi perplesso, e pensai: Coma mai?
Non era una stupidaggine questa fusione fredda? Però la persona in
questione, il prof. Emilio Del Giudice, mi era parsa così geniale e aveva
fino ad allora fatto studi così notevoli che pareva un po’ strano che
stesse occupandosi di una stupidaggine... Allora, cominciai ad
informarmi sulle riviste scientifiche specialistiche e scoprii che c’erano
effettivamente degli studi ancora in corso e molto interessanti. In
particolare, uno dei primi articolo trovati fu un lavoro di review, cioè un
articolo scientifico che esamina criticamente decine di studi precedenti
su un certo argomento. L’autore, Edmund Storms, fisico del laboratorio
Nazionale di Los Alamos (dove fu costruita la prima bomba atomica),
esaminava ben 359 articoli! Scritti dal 1989 al 1991, solo 3 anni! E
all’inizio di questo lavoro di ben 45 pagine, dice:
Il numero e la varietà di attente misurazioni sperimentali relative
alla generazione di calore, trizio, neutroni, ed elio supportano
fortemente il fatto che avvengano reazioni nucleari in un reticolo
metallico vicino alla temperatura ambiente come proposto da Pons e
Fleischmann e indipendentemente da Jones.
(...) quando si trova che molte misure, usando una varietà di
tecniche, danno risultati simili e cominciano a rivelare dei modelli di
comportamento, le osservazioni non si possono più continuare ad
162

ignorare. E’ più semplice e più razionale dare inizio al processo di


comprensione della fusione fredda come fenomeno reale piuttosto che
cercare modi per bandirlo.

Quindi mi incuriosii enormemente e da allora ho approfondito


sempre più sia ciò che riguarda la questione fusione fredda sia il tipo di
meccanismo che tende a far sì che una nuova visione scientifica o
addirittura un nuovo fatto sperimentale (come è nel caso della fusione
fredda) abbia difficoltà così grandi ad essere accettato.

Apro una parentesi su cosa è un “fatto sperimentale”. “Fatto” vuol


dire “che è stato fatto”. Banalmente. Ma questo è fondamentale perché
in laboratorio, quando uno decide di fare un esperimento deve mettere
una serie di vincoli enormi a quello che sta facendo. Deve dire: OK Io
ora vado a cercare una cosa ben precisa a questa temperatura, con
questa corrente elettrica, faccio prima questo e poi quest’altro, in
queste ben precise condizioni sperimentali... Quindi, in realtà, io sto
cercando una ben precisa cosa.
Dico: Ma non è che per caso se io faccio così succede quest’altra
cosa? Ma ciò che ti fa cercare una cosa è la teoria, che ti dice: Se fai un
certo esperimento probabilmente otterrai un certo risultato; forse ne
otterrai un altro o un altro ancora. In genere la teoria ti fa prevedere
che tu possa ottenere due o tre cose, non di più. Bene! Allora facciamo
questo esperimento, e vediamo quale delle due o tre cose ottengo, cioè
qual è la risposta ad una mia domanda. Ma la risposta dipende dalla
domanda che ho fatto....
Come dice anche Albert Einstein, che non è mai male citare:
Osservare o meno una cosa dipende dalla teoria che usi. E’ la teoria
che decide cosa può essere osservato. Dopodiché, come dico anche in
questo mio libro, in attesa di editore, sulla fusione fredda, in genere uno
in laboratorio non decide di fare l’elettrolisi di un cappuccino alla
temperatura di 98 gradi, con abbondante cacao, ad una intensità di
corrente di 0.7 ampere, alla pressione di un bar, in un’atmosfera di pura
grappa trevigiana vaporizzata ecc... e dopodiché va a vedere se per caso,
in seguito a questa elettrolisi, non è cambiato qualcosa nelle
caratteristiche di una pelliccia di una foca monaca albina che sta in uno
zoo del Madagascar meridionale... Chiaramente non è così!! Questo
significa semplicemente che se uno non fa la domanda “giusta” non può
aspettarsi di avere una risposta interessante.
163

Allora cos’è che capita tipicamente? Uno ha una teoria cui si fa


riferimento, ogni tanto vengono fuori delle anomalie sperimentali, che si
accumulano sempre più numerose, finché uno decide: Forse c’è
qualcosa che non va! Bisogna fare una teoria migliore...
Però spesso che succede? Succede che le anomalie si tende a non
vederle, perché se tu una cosa non te l’aspetti, la vedi tanto strana da
pensare che sia un semplice errore sperimentale. E anche se ti viene il
dubbio che la cosa sia reale, siccome tu non stai capendo bene il
fenomeno, cioè in che contesto, in che cornice, si inserisce, tu hai
difficoltà a riprodurre l’esperimento.
Ma la riproducibilità è fondamentale nella scienza! E questo è uno
dei motivi principali per cui Fleischmann e Pons furono messi da parte,
perché loro pur avendo fatto molti esperimenti, non dissero che avevano
problemi di riproducibilità. Avrebbero fatto meglio a dirlo, perché è
normale che quando una cosa è nuova ci sono problemi nel replicarla;
perché uno vede delle cose, però non sa esattamente come inserirle nel
modello, nella teoria. Quindi non sa bene in che direzione andare. Una
volta tu per caso hai raggiunto delle condizioni ottimali però non sai
bene perché. Un’altra volta pensi di stare nelle stesse condizioni
sperimentali, ma non è vero, e quindi non ti riesce... Con l’elettrolisi poi
questo è un fatto ben noto a chi ci ha lavorato, come me... E’ divertente
citare ciò che dice Brenner, l’autore di un testo che è una specie di
Bibbia per ciò che riguarda l’elettrodeposizione delle leghe metalliche;
nel volume II a pag. 460, dice: L’aggiunta di saccarina, circa 5 grammi
al litro, alla soluzione numero 1, era benefica nel ridurre lo stress della
lega di Nichel. Cioè, sembra quasi una ricetta di cucina.... Però spesso è
così, specie quando, come è il caso dei fenomeni elettrochimici, non ci
sono degli ottimi modelli che descrivono il fenomeno.

A seguito di quella comunicazione di Fleischmann e Pons sulla


fusione fredda, ci furono una serie di critiche; si disse: No, non è
possibile. Infatti, essendo un fatto nuovo non rientrava nel paradigma
corrente della fisica nucleare. In questa sede non mi dilungherò sui
motivi tecnici.... Comunque, la cosa non rientrava nella teoria, e quindi
venne messa da parte come una stupidaggine.
Cosa successe - cose indegne della scienza - poco dopo questa
“sentenza di condanna”? Ovviamente ci furono dei tentativi di
riproduzione del fenomeno in altri laboratori. Ma, non trovando subito
gli stessi risultati, si parlò addirittura di “possibile frode”. In particolare
164

al M.I.T. (il prestigioso Massachussets Institute of Technology) furono


tra i primi a tentare questa replica dell’esperimento, senza risultati. Lì,
tra l’altro, c’è un grosso gruppo che si occupa di fusione calda... Un
ingegnere, laureato al M.I.T., allora caporedattore scientifico dell’ufficio
stampa dell’Istituto, Eugene Mallove, scettico sulla fusione fredda,
analizzò i risultati del M.I.T. e ne rimase folgorato! Si era reso conto che
era stata spostata l’origine dell’asse delle temperature per nascondere
del calore che si era sviluppato nell’esperimento... Un vero e proprio
“trucco”!
Chi ha esperienza di laboratori, purtroppo sente spesso di queste
cose... Non parliamo della medicina... ma anche nel campo di quella che
si chiama la “scienza dura”, cioè la fisica, in cui veramente c’è poco da
inventarsi le cose, in realtà non è esattamente così! Perché spesso,
siccome ti aspetti una certa cosa, vai talvolta a cambiare quel punto
sperimentale... Io ovviamente non l’ho mai fatto e non lo farei mai, ma
c’è chi lo fa... E’ tipico degli studenti ai primi anni, nelle loro esperienze
di laboratorio didattiche, perché hanno paura del voto cattivo....
E su questo vi racconto un fatto divertente che è avvenuto
all’Università di Roma.
Nel corso di laurea in Fisica, ci sono gli esami di laboratorio in
cui, distribuiti su vari tavoli, gruppi di studenti svolgono degli
esperimenti standard, sanno cosa ci si aspetta, però devono condurre
l’esperimento, elaborare i dati con le opportune tecniche matematiche, e
scrivere la relazione. Una volta, a Roma, un gruppo di studenti non si
trovava con gli altri con dei dati riguardanti l’emissione radioattiva di
fondo. Non gli credevano... Sono anni e anni che i risultati sono questi!
Ma il gruppo quella volta fu insistente. E si scoprì che nell’angolo
vicino a quel tavolo c’era effettivamente una vernice particolare che era
debolmente radioattiva e che spiegava quei risultati! Che era successo?!
Negli anni precedenti, tutti i gruppi di studenti che capitavano su quel
tavolo, avevano un risultato anomalo e dicevano: Vabbè, abbiamo
sbagliato... Andavano dagli amici e chiedevano: Che vi siete trovati? E
facevano la relazione come gli altri.
E questo è un esempio interessante... perché, talvolta, questo
stesso tipo di processo sostanzialmente infantile si manifesta anche negli
adulti. Agli adulti accade apparentemente per altri motivi, perché magari
vogliono pubblicare, perché sono diventati specialisti in un certo ramo e
quindi credono di sapere il risultato che devono ottenere. Quindi...
165

Vabbè, anche se aggiusto un punto...tutto sommato...quello così è... Se


ne tolgo uno.... Vabbè, ma, insomma....
Allora che succede? Questo impedisce di trovare quelle anomalie
che poi alla fine farebbero capire che qualcosa non va. Normalmente la
riproducibilità nella scienza è fondamentale. Però, ci sono alcuni casi in
cui non è vero nella prassi.
Un caso è quello in cui l’esperimento è abbastanza standard. Cioè
se arriva uno che fa una cosa che tutto sommato ci si aspetta, un’altra
persona non andrà a rifare esattamente lo stesso esperimento, perché
pensa: Io perdo tempo; devo pubblicare un articolo originale, e non
vado a riprodurre esattamente quello stesso esperimento. Magari faccio
una cosa simile alla sua, però un po’ diversa.... Quindi la tanto
decantata riproducibilità spesso non esiste affatto proprio in quella che
Thomas Kuhn chiama la “scienza normale”, cioè la scienza che si fa
negli anni in cui si vanno ad approfondire via via gli aspetti sperimentali
connessi alla teoria che in quel periodo è “vincente”.
Un altro caso è quello in cui l’esperimento è troppo complicato,
troppo grande, incredibilmente costoso.... Questo avviene tipicamente
negli esperimenti odierni di fisica nucleare, in cui si utilizzano questi
acceleratori di particelle chilometrici, costosissimi, in cui un solo
esperimento coinvolge centinaia di persone! Realmente! E se vedi gli
articoli sono firmati da un elenco di persone impressionante.... Alla fine
che succede?! Succede che si ottengono dei risultati sperimentali....ma,
riprodurre esattamente quel risultato da parte di un gruppo che sta da
un’altra parte del mondo è difficilissimo: dovrebbe avere lo stesso
apparato enorme, investire un sacco di energia in termini umani ed
economici, per riprodurre poi esattamente lo stesso risultato per poi....
non pubblicare, perché non è nuovo! E questa è sicuramente un’altra
situazione da denunciare per ciò che riguarda l’approccio odierno nella
fisica nucleare....
Un altro caso in cui la riproducibilità è difficile è quello che
abbiamo detto, cioè quando si ha un risultato sperimentale inatteso e
totalmente nuovo, che non rientra nel modello, dopodiché questo
significa che tu non sai esattamente quello che sta succedendo, e quindi
la riproducibilità è intrinsecamente difficile. E questa è un’esperienza
quotidiana, anche al di fuori dell’esperienza di laboratorio, come ad
esempio per un bambino che ha inventato un nuovo gioco con un
oggetto, o una nuova cantilena, ma dopo un po’ non gli riesce più, e
dice: Come facevo? Non lo so più fare! O quando uno impara una nuova
166

arte, impara a strimpellare la chitarra.... ecc... Anche nella scienza è la


stessa cosa di fronte ad un fenomeno nuovo; tu non conosci bene tutti i
parametri essenziali perché quel fenomeno si realizzi, non li hai ancora
capiti... e non c’è ancora la teoria giusta a guidarti....
Dopo questa bella digressione, torniamo a ciò che stava
succedendo al M.I.T.....
Questo ingegnere del M.I.T., poi divenuto caporedattore
scientifico dell’ufficio stampa dell’Istituto, Eugene Mallove, si era
accorto di quel “trucco”, lo denunciò pubblicamente, il portavoce
ufficiale del M.I.T. negò recisamente, allora lui addirittura si licenziò
per protesta e chiese l’apertura di un’inchiesta. Al M.I.T. se la cavarono
modificando lo scopo dichiarato dell’esperimento, dopo che era già stato
presentato al Congresso degli Stati Uniti d’America!! Cioè, venne
aggiunta un’appendice all’articolo in cui si diceva che non si cercava
nessuna quantità di calore anomala, ma degli improvvisi fiotti di
energia....che, naturalmente, non erano stati visti. Quindi si cambiò
quello che era lo scopo dell’esperimento e dell’articolo. Dopodiché
Mallove fondò una rivista specializzata sulla fusione fredda, perché
pensò che era fondamentale poter divulgare risultati che si stavano
cominciando ad insabbiare....

Nell’ambito della “saga” della fusione fredda, un altro episodio


sconcertante coinvolse lo studioso di elettrochimica John Bockris. Uno
dei suoi dottorandi, Nigel Packam, all’Università A&M del Texas, in
una replica dell’esperimento di fusione fredda di Fleischmann e Pons,
aveva trovato una piccola quantità di Trizio, che è un prodotto di fusione
nucleare! E’ idrogeno con due neutroni, oltre al protone: la sua presenza
confermava l’ipotesi che si trattasse di un fenomeno nucleare...
Arrivò nel laboratorio di Bockris uno scrittore divulgativo che si
interessava di frodi nella scienza, Gary Taubes. Quindi già si partiva
dall’idea che si trattava di una frode... Dice il prof. Bockris:
Inizialmente pensavamo che Taubes fosse in buona fede. Gli
mostrammo i quaderni di laboratorio, e gli spiegammo i risultati. Ma
poi lui disse a Packam, il mio dottorando, “Ho spento il registratore,
ora puoi dirmi - è una frode, non è vero? Se me lo confessi ora, non
sarò duro con te, potrai seguire la carriera”.
Che successe? Allontanarono il loro dottorando da questo tipo di
studio. Ma in seguito altre persone hanno ottenuto risultati analoghi....
Comunque, la cosa interessante è che questo giornalista-scrittore, sul
167

numero di Giugno del 1990 della rivista “Science” suggerisce


chiaramente che questo dottorando possa aver aggiunto a mano del
Trizio nella cella elettrochimica, cioè avendo truccato i risultati! Inoltre
Packam riuscì infine ad ottenere il dottorato di ricerca ma solo a
condizione che nella sua tesi non citasse la fusione fredda. Oggi lavora
alla NASA e si sta forse ancora chiedendo che gli successe esattamente
in quegli anni...
Il povero professor Bockris che aveva avuto la ventura di seguire
quel pericoloso dottorando, fu momentaneamente esonerato e posto
sotto inchiesta dall’Università. Nessuno fu però in grado di trovare
alcuna traccia nè di incompetenza nè di frode. Però finì nuovamente
sotto inchiesta nel ‘92, e fu nuovamente esonerato. Anche stavolta non
si trovò niente di cui accusarlo. Dice Bockris: La gente del dipartimento
di chimica creò il proprio comitato ad hoc per investigare il prof.
Bockris. Per 11 mesi fui da loro indagato, senza sapere mai in che
consistesse l’indagine. Alla fine fece appello all’Associazione
Americana dei professori universitari perché queste inchieste vessatorie
e inquisitorie finalmente potessero terminare. In realtà le vessazioni su
questo poveraccio non finirono lì; infatti, nel ‘97 è stato insignito del
premio IgNobel, che è un gioco di parole di fusione tra le parole Nobel
ed ignoble (ignobile) che un gruppo di scettici estremisti si diverte a
dare a delle persone che, secondo loro, dicono delle sciocchezze nel
campo delle scienze. Questi professori buontemponi, sicuri del fatto
loro, su non si sa quali basi, lo hanno insignito di questo premio con la
seguente motivazione: per le sue rilevanti acquisizioni nella fusione
fredda, nella trasmutazione degli elementi in oro, e nell’incenerimento
elettrochimico dei rifiuti domestici. Insomma continuano a prenderlo in
giro... arma tipica per smontare le affermazioni di una persona che dice
delle cose nuove che tu non riesci a capire. Come abbiamo visto è già
successo tante volte.
E questo è quello che è successo all’inizio della storia della fusione
fredda.

Mi sono incuriosito moltissimo della faccenda, e ho trovato


moltissimi articoli scientifici al riguardo, pubblicati malgrado le
inquisizioni varie... Ho conosciuto personalmente, a Milano, Giuliano
Preparata che insieme ad Emilio Del Giudice ha reso riproducibile la
fusione fredda, pur essendo fisici teorici..... Avendo, infatti, capito il
168

meccanismo teorico, hanno poi lavorato in laboratorio raggiungendo i


risultati previsti.
Recentemente si stanno moltiplicando in giro per il mondo una
serie di esperimenti in cui le trasmutazioni nucleari che avvengono nella
cella elettrochimica sono sempre più evidenti. Tant’è vero che si
riscontra la presenza di elementi inizialmente assenti nell’apparato
sperimentale, per esempio Ferro, in distribuzione isotopica non standard.
In natura si hanno vari isotopi del Ferro (nuclei con neutroni in numero
differente si chiamano isotopi, è sempre Ferro ma è più “pesante”...);
sulla Terra c’è una certa distribuzione isotopica di ogni elemento, invece
in queste celle elettrolitiche si trovano isotopi di elementi in
distribuzione non naturale, ed è quindi abbastanza evidente che sono
stati ottenuti per fusione nucleare nell’ambito dell’esperimento!
Negli Stati Uniti è sorta addirittura un’azienda, fondata
dall’anziano inventore James Patterson, che si chiama CETI Inc. (Clean
Energy Technology Incorporated) che sta portando avanti il lavoro sulla
fusione fredda; ma la cosa interessante è che, dopo una fase iniziale in
cui usavano l’espressione “fusione fredda”, ora non usano più questo
termine! Hanno capito che si tratta di una parola ormai tabù! Anche io
sto avendo problemi a pubblicare il mio libro sull’argomento per motivi
analoghi.....
In realtà ora negli USA sono una decina, almeno, le aziende che si
occupano di fusione fredda....
Da queste ricerche, tra l’altro, sta sorgendo la concreta possibilità
di deattivare le scorie nucleari in tempi brevi con tecniche elettrolitiche!
Sono cose impressionanti!! Ci sarebbe da parlare per ore....
In Italia sta per sorgere all’Enea di Frascati un laboratorio
nazionale sulla fusione fredda che riunirà tutti gli studiosi italiani
dell’argomento, per volontà di Carlo Rubbia che inizialmente era molto
scettico! Aveva detto: Dio sarebbe stato veramente molto buono con noi
se la fusione fredda funzionasse.

Comunque, come diceva Sigmund Freud: La teoria non impedisce


ai fatti di verificarsi. Ed infatti ci sono moltissimi studi sperimentali e
brevetti sulla fusione fredda.

Analogamente alla fusione fredda, sta succedendo qualcosa di


simile, sempre per motivi analoghi, cioè si hanno dei risultati
169

sperimentali che non rientrano nel paradigma corrente, riguardo a certe


proprietà dell’acqua. Parto anche qui da un’esperienza personale.
Al dipartimento di chimica dell’Università Federico II di Napoli
insegna il prof. Vittorio Elia; mi ha raccontato che quando era giovane
aveva delle idee sperimentali un po’ “strane”: Vuoi vedere che forse
l’acqua “omeopatica” ha delle proprietà chimico-fisiche diverse
dall’acqua “normale”?
Cos’è l’acqua omeopatica? L’omeopatia è stata fondata da
Hahnemann, alla fine del ‘700, che si era ispirato, tra l’altro, a visioni
alchimistiche, secondo cui, purificando una sostanza, se ne poteva
estrarre la “quintessenza”, che aveva proprietà opposte alla sostanza
stessa. Hahnemann iniziò a fare esperimenti in cui faceva infusioni di
sostanze in acqua e poi diluiva sempre più queste soluzioni. Nella
scienza è spesso fondamentale l’idea “fantastica”, “magica”, “mitica”,
“religiosa” per condurre a teorie valide. Su questo punto vi consiglio il
bellissimo libro di Feyerabend “Contro il metodo”.
Tra l’altro Hahnemann sperimentò la corteccia di china per curare
la febbre malarica. Perché? Perché aveva lo stesso effetto della febbre
malarica... Se mangi della corteccia di china ti viene la febbre. Così
nell’ottica del “simile cura il simile”, da cui il termine “omeopatia”,
pensò: Vuoi vedere che se dai della corteccia di china a un malato di
malaria, forse gli passa la febbre? E funzionava....
L’acqua “omeopatica” viene fatta così: si diluisce una sostanza
“attiva” in acqua e si scuote ripetutamente il recipiente (”succussione”);
poi si diluisce ancora e si scuote ancora e così via, molte volte... Alla
fine si arriva a un’acqua praticamente pura!! Perché il numero di
diluizioni successive è tale da far sì che neanche più una molecola della
sostanza “attiva” sia presente nella boccettina finale! Ma allora come
può essere che quest’acqua possa avere una struttura chimico-fisico
diversa dall’acqua pura?
Nel paradigma corrente, l’acqua liquida è semplicemente un
insieme di palline molecolari di H2O, che stanno lì, più o meno vicine, e
interagiscono in base a un certo potenziale; cioè è un modello che è
qualcosa di simile a una polvere che per qualche motivo è liquida....
Inoltre non è chiaro come dal gas si passi per condensazione al liquido.
C’è in verità un recente modello di acqua che da calcoli di meccanica
quantistica deduce la transizione gas-liquido per l’acqua ed è stato
sviluppato da Giuliano Preparata ed Emilio Del Giudice. Ebbene sì: gli
stessi della fusione fredda! Nell’ambito di una teoria fisica ormai
170

standard, l’elettrodinamica quantistica, hanno trovato certi risultati, in


base ai quali hanno capito perché avviene la fusione fredda e hanno
trovato anche che l’acqua ha una struttura diversa da quella
normalmente immaginata.
L’acqua, cioè, è costituita da domini “di coerenza”, delle piccole
zone molto ordinate un po’ come i domini ferromagnetici in un magnete,
inserite in una matrice disordinata. Questo modello dell’acqua non è
quello attualmente accettato. Ma, a me personalmente è successo di
poter verificare che, invece, i biofisici, essendosi “dimenticati” del fatto
che, come fisici, devono avere un modello teorico ben preciso
dell’acqua, assumono un modello empirico dell’acqua che è molto
simile a questo! Lo assumono perché è quello che funziona in biofisica!
Se lo vai a dire a un fisico che si occupa di meccanica statistica dirà:
Questa è una follia! Siccome non c’è dialogo tra i due àmbiti della
fisica, si ignorano tranquillamente, e ognuno va per i fatti suoi senza
troppi problemi... Invece una persona che per caso vede ambedue le
cose, si incuriosisce e dice: Forse c’è qualcosa sotto....
Tornando al professor Elia.... la sua idea giovanile di fare
esperimenti sull’acqua omeopatica venne paternamente inibita dal suo
maestro che gli disse qualcosa del tipo: Guarda, se vuoi continuare ad
essere il brillante ricercatore che sei, dimentica questa tua idea. Lascia
perdere. Non è possibile fare esperimenti di questo genere. E così è
stato. E’ diventato professore. Una carriera normalissima e brillante.
Dopodiché qualche anno fa ha detto: OK Ora sono io che decido e
l’esperimento lo faccio. Quindi si è aspettato una quindicina d’anni per
motivi puramente inquisitori; non c’era un motivo realmente scientifico,
tranne che, secondo la teoria, non ci si aspettava risultati interessanti.
Cosa ha trovato il prof. Elia? Voi sapete che quando si mescola
una sostanza nell’acqua si produce una reazione esotermica o
endotermica, l’acqua si raffredda o si riscalda; in genere si nota poco,
ma avviene anche quando sciogliamo il sale nell’acqua. Ad ogni
sostanza corrisponde un ben preciso calore di mescolamento. Il prof.
Elia è un esperto proprio di questo tipo di misure calorimetriche. Ed è
per questo che ha deciso di fare delle prove in questo senso.... Ha
trovato che effettivamente il calore di mescolamento dell’acqua
“omeopatica” è sempre maggiore di quello dell’acqua pura e semplice!!
Ha già fatto diversi seminari sull’argomento, al dipartimento di fisica a
Napoli, ed in giro... Ha mandato un articolo a “Nature”, dopo aver fatto
molti esperimenti di verifica che non stesse prendendo lucciole per
171

lanterne. Ma “Nature” nel 1986 aveva avuto un’esperienza scottante


con Jacques Benveniste, direttore di ricerca di un laboratorio del CNR
francese, in odore di Nobel, tra l’altro, il quale aveva trovato che un
farmaco enormemente diluito aveva comunque degli effetti biologici; si
parlò allora con gran rumore della “memoria dell’acqua”, appunto come
se l’acqua conservasse memoria della sostanza ospitata in precedenza.
Una commissione, andando a replicare l’esperimento nel suo
laboratorio, con atteggiamento inquisitorio - c’era anche un famoso
prestigiatore - non trovò gli stessi risultati e senza por tempo in mezzo
Benveniste fu estromesso dall’Istituto e dal novero delle persone serie.
Per fortuna ha però continuato a ricercare.
Avrebbe forse fatto meglio a sottolineare la difficoltà
dell’esperimento, come abbiamo visto che sempre accade con i risultati
nuovi e difficili da inserire in uno schema teorico.
Così “Nature” ha rifiutato l’articolo al prof. Elia chiedendogli di
approfondire con misure di altro genere. Sono quindi state effettuate
misure di conducibiltà elettrica, potenziale agli elettrodi, ecc... Tutte
misure molto sensibili, e tutte indicano chiaramente che l’acqua
omeopatica si comporta sempre in maniera diversa! Questi dati
sperimentali fanno quindi pensare che il modello attuale dell’acqua è
troppo ingenuo. Ed è probabile che il modello teorico di Giuliano
Preparata ed Emilio Del Giudice possa invece spiegare le cose, perché
tiene conto del campo elettromagnetico. Altri stanno osservando, poi,
questi domini previsti teoricamente, e già empiricamente assunti come
esistenti dai biofisici... Insomma molte cose stanno collimando nella
stessa direzione.

Malgrado ciò il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle


Affermazioni sul Paranormale e le Pseudoscienze) non vuole sentire di
dati sperimentali ed è agguerritissimo anche contro l’omeopatia oltre che
contro la fusione fredda.... Il presidente del CICAP Campania, che è un
medico, mi ha detto: Se l’omeopatia funzionasse io straccio la mia
laurea. Va bene...

Dimenticavo di raccontarvi di un episodio inquisitorio che ho


personalmente vissuto all’inizio della mia curiosità su queste questioni,
che forse a qualche altro sarebbe bastato per sospendere la ricerca.... Mi
ero appena laureato e stavo nello studio del professore con cui
collaboravo, e mi ero procurato quell’articolo di cui vi ho parlato. Avevo
172

appoggiato le fotocopie sulla scrivania. Entra un professore di fisica che


insegna alla facoltà d’Ingegneria - si dice il peccato ma non il peccatore
- vede quest’articolo, perché si tratta di una persona curiosa, come tutti
gli scienziati. Legge “Cold Fusion” e dice esattamente “Questa è una
cazzata! Chi è che si interessa di questa cosa?”. Cosa che imbarazzò un
po’ il professore con cui collaboravo che dovette scusarsi: “Sai, Roberto
è una persona che si interessa a tutto....”. Ma, la cosa più strana è che
questa persona non toccò l’articolo per leggerne almeno l’abstract, cioè
il riassunto iniziale; semplicemente emise la sua decisa sentenza in base
a cose sentite dire anni addietro... Non ebbe la benché minima spinta a
leggere qualcosa.....
E questo è il tipo di situazione che poi conduce a ciò di cui
parliamo. In realtà, non solo, in ambedue le tematiche, fusione fredda ed
omeopatia, ci sono dietro anche enormi interessi economici. Così a parte
il problema accademico, la superficialità o la pigrizia intellettuale, il
timore di perdere potere accademico che rende difficile accettare le
nuove cose, ci sono anche grossi poteri economici. Nel caso della
fusione fredda l’abbiamo detto, nel caso dell’omeopatia, poi, vi rendete
conto che se per caso ci fosse un metodo scientifico basato su buoni
fondamenti teorici, e non solo sull’aspetto empirico, che possa condurre
a dei farmaci fatti in pratica di acqua pura..... sarebbe rivoluzionario non
solo per il campo della medicina ma anche per il regno delle case
farmaceutiche!!....

Infine vi voglio solo citare un altro recentissimo (la cosa è


avvenuta nel 1999) esempio di moderna inquisizione della scienza, in
cui è incorso Arpad Pusztai, scienziato di un istituto medico governativo
britannico che sta in Scozia, l’Istituto Rowett. Nell’ambito delle sue
normali ricerche doveva studiare l’effetto di certe patate transgeniche,
cioè modificate geneticamente allo scopo di renderle resistenti a
particolari agenti patogeni. Fatti gli esperimenti per capire se queste
patate date in cibo ai topolini avevano qualche effetto, si era accorto che
deprimevano l’apparato immunitario dei topi da laboratorio. Lo ha detto
pubblicamente, addirittura in televisione. Ha detto: Sto continuando gli
esperimenti, ma ora come ora queste patate non le mangerei. E’
successo il finimondo! E’ stato costretto a dimettersi dall’Istituto. In
seguito 20 scienziati hanno firmato un documento di protesta in sua
difesa.
173

Questo è un altro ambito abbastanza minato perché manca un


paradigma ben affermato, d’altronde ci sono anche fortissimi interessi
economici, e questi due ingredienti conducono all’inquisizione. E’ vero,
infatti, che secondo il paradigma corrente non ci si aspetta che i cibi
modificati geneticamente possano far male. Questa è la verità. Questo
fatto, tende a far sì che se uno dice tranquillamente ed allegramente: I
cibi transgenici non fanno male, non viene radiato dall’Istituto. Mentre
se uno fa una serie di esperimenti seri, arriva a dei ben precisi dati
sperimentali e dice: Secondo i dati, bisogna approfondire, ma sembrano
esserci effetti negativi, per cui non le mangerei, viene radiato
dall’Istituto. Questa è il tipo di situazione.
Sia ben chiaro che in biologia il paradigma corrente non rende
conto di tutto! Basti dire che se fate questa domanda apparentemente
infantile a qualsiasi biologo non vi saprà rispondere (allo stato attuale
delle conoscenze): Perché il DNA del bruco è uguale a quello della
farfalla, eppure questi due organismi sono così diversi? Non vi saprà
rispondere nessuno, in base al paradigma ortodosso della biologia
molecolare.

Ciò dovrebbe indurre come minimo alla prudenza, e comunque


non certo a radiare dei ricercatori perché trovano risultati non piacevoli
all’accademia o al potere economico.

-----

Roberto Germano è nato a Portici (Napoli) nel 1969. Si e’ laureato in


Fisica della Materia nel 1995. Ha successivamente lavorato presso
l’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia, e il Dipartimento di
Scienze Fisiche dell’Università “Federico II” di Napoli, come
collaboratore del Progetto Europeo BRITE-EURAM III: MADAVIC
(Magnetoelastic Actuators for Damage Analysis and Vibration Control),
nell’ambito del Gruppo di Magnetismo nella Materia. Socio fondatore
dell’Associazione Culturale Multidisciplinare ALTANUR - Le
connessioni inattese (www.promete.it/altanur), e della PROMETE S.r.l.,
società di consulenza per l’innovazione ed il trasferimento tecnologico -
Spin-off INFM (www.promete.it). Autore di diverse pubblicazioni
specialistiche, si e’ occupato anche del caso “fusione fredda”, al quale
ha dedicato il saggio Fusione Fredda - Moderna storia d’inquisizione e
174

d’alchimia, di prossima pubblicazione presso le edizioni Bibliopolis,


Napoli.

Episteme ha il piacere di presentare ai suoi lettori in prima assoluta lo


schema di quest’opera, assieme alla Prefazione appositamente concepita
dal Prof. Giuliano Preparata, in commosso ricordo del grande fisico
prematuramente scomparso proprio quest’anno.

INDICE

Prefazione (Giuliano Preparata).


Premessa. La teoria e l’esperimento.
 Il Sole che sorge o la Terra che gira?
 Il Teatro, la Teoria, la Mela e la Luna.
 Il misterioso fenomeno del trenino scomparso.
 No, non è Francesca.
 La foca monaca e il cappuccino.
 Eccezioni che confermano la regola.
 La parola a Feynman.
 Bibliografia.
Introduzione.
 L’antefatto.
 Il fatto.
 Bibliografia.
Cap. I Nascita e infanzia della Fusione Fredda.
 Marzo 1989: il Sole sul tavolo?
 Un nuovo tipo di fusione fredda: la “fusione asciutta” all’italiana.
 Acqua sul fuoco di Prometeo.
 L’Inquisizione.
 Invidia fra colleghi e l’enigma dei neutroni mancanti.
 Assoluta impossibilità della fusione fredda.
 Dopo la condanna.
 Bibliografia.
Cap. II Uno “zoo” di esperimenti.
 Metodo elettrolitico convenzionale in acqua pesante.
a) Calibrazione errata
b) Errati calcoli relativi all’energia che le celle elettrolitiche aperte
perdono in forma di gas D2 e O2
175

c) Errori nel tener conto delle varie reazioni chimiche che avvengono
nella cella elettrolitica.
d) Rilascio di energia accumulata
e) Errato calcolo dei processi di trasformazione di energia relativi alla
corrente elettrica applicata
 Ricetta per la fusione fredda in acqua pesante.
 Metodo elettrolitico in acqua normale (H2O).
 Elettrolisi in KCl-LiD fusi.
 Passaggio di corrente attraverso Sr(CeYNb)O3 + D2.
 Reazione diretta con Deuterio gassoso.
 Scarica elettrica da elettrodi di Palladio in Idrogeno gassoso.
 Scarica elettrica da elettrodi di Palladio in Deuterio gassoso.
 Reazione di Idrogeno gassoso con Nichel in condizioni speciali.
 Amplificazione delle reazioni tra Deuterio e vari metalli utilizzando
un campo acustico.
 Amplificazione delle reazioni in acqua normale sfruttando la
formazione di microbolle (20 - 100 °C).
 Reazione tra finissima polvere di Palladio con Deuterio gassoso
pressurizzato.
 Bibliografia.
Cap. III Molti corpi del reato e possibili moventi.
Parte I : Molti corpi del reato
 Produzione “anomala” d’energia.
 ”Scorie” nucleari.
Parte II: Possibili moventi
 Frattofusione.
 Fusione catalizzata da muoni.
 Fusione Fredda nella materia condensata.
 Modello di superficie.
 Superradianza (Elettrodinamica Quantistica Coerente).
 Bibliografia.
Cap. IV Trasmutazioni nucleari a debole energia. Alchimia del 2000?
 La gallina nucleare.
 La cella nucleare.
 1996: la 2a Conferenza Internazionale sulle Reazioni Nucleari a
Debole Energia (ILENR2).
 Trasmutazioni a 50 Hz con la rete elettrica italiana.
176

 1998: la 7a Conferenza Internazionale sulla Fusione Fredda (ICCF-7).


 Bibliografia.
Cap. V CETI Inc. (USA): la Fusione Fredda commerciale.
 James Patterson.
 La Cella di Patterson.
 I prodotti e brevetti CETI.
 CETI in TV.
 Bibliografia.
Cap. VI La Q.E.D. Coerente: l’Italia all’avanguardia teorica.
 Giuliano Preparata.
 Miracolo a Milano.
 Come si regge il pavimento di casa?
 Il pavimento oscillante e il campo elettromagnetico.
 L’addio alla Libertà Asintotica.
 La Fusione Fredda è Coerente!
 Laboratorio nazionale sulla Fusione Fredda!
 Bibliografia.
Cap. VII Futuri possibili.
 Il vetro o l’oro?
 ”Fusione raffreddata” o timore del ridicolo?
 Fusione fredda “bollente”.
 Futuri possibili.
 Storiella Zen.
 Bibliografia.
Appendice A: L’elettrolisi.
Appendice B: La Fusione Calda.
 Il re è nudo! Energia prodotta: zero.
 Reazioni di fusione nucleare.
 Energia di fusione.
 Tecniche di riscaldamento del plasma.
 Tipico reattore.
 Le dimensioni di un reattore a fusione calda.
 Si “accenderà” mai la fusione calda?
 Bibliografia.
Appendice C: Brevetti.
 Un certo numero di brevetti legati alla Fusione Fredda.
Bibliografia ulteriore.
177

Prefazione

Sono passati esattamente dieci anni da quella giornata di primavera (il


23 marzo 1989) in cui due elettrochimici, allora all’Università dello
Utah, M. Fleischmann e S. Pons annunciarono all’umanità che l’alba di
un nuovo mondo si era appena dischiusa. Come Roberto Germano
racconta con passione, precisione e ricchezza di particolari in questo bel
libro, il formidabile apparato scientifico-tecnologico dei nostri tempi
doveva dare a questo annuncio pieno di speranza una ben triste risposta:
lo scherno, la derisione, l’emarginazione di chiunque abbia cercato di
seguire i due scienziati nello sviluppo di un programma di ricerca
totalmente nuovo, che mette in discussione una buona parte delle
certezze e dei punti fermi della organizzazione scientifica planetaria.
Chi abbia una qualche conoscenza della storia della Scienza si affretterà
certamente ad obiettare che tutto ciò è assolutamente naturale: di che
meravigliarsi? Non è forse stato così per Copernico, Bruno e Galilei alla
nascita della scienza moderna? Certamente, ma gli scienziati (una
moltitudine impressionante) e le istituzioni scientifiche che hanno reso e
rendono la vita impossibile allo sparuto drappello di coloro che hanno
preso sul serio il messaggio di Fleischmann e Pons, sono gli stessi che ci
ricordano ad ogni pie’ sospinto il grande debito che l’umanità ha nei
confronti di quei coraggiosi e di chi, sfidando inquisizione, comunità
accademica e varie istituzioni politico-economiche del tempo, li volle
seguire. E questo la dice lunga, come ci ricorda Germano, sulla grande
somiglianza che esiste tra la “comunità” scientifica odierna e quella
degli Aristotelici che tanto filo da torcere dettero agli innovatori, figli
del nostro Rinascimento.
Tuttavia, la comparsa di libri come questo e di una serie di iniziative che
vedono, come viene qui ricordato, il nostro Paese finalmente coinvolto a
livello delle sue principali istituzioni scientifiche nel campo dell’energia
(l’ENEA e l’INFN) in un rinnovato interesse per le problematiche della
fusione fredda, è forse il segnale che nel nuovo millennio, il cui inizio è
alle porte, le cose saranno diverse, e che la scienza nuova, annunciata
dai fenomeni sorprendenti della Fusione Fredda, aprirà alla nostra
comprensione domini di realtà fin qui inesplorati e ci fornirà gli
strumenti, non solo energetici, per rendere migliore l’esistenza di tutti
gli esseri viventi di questa nostra Terra.
178

Come ha sottolineato con acutezza l’autore, è forse quest’ultimo


l’aspetto della vicenda, potremmo ben dire della “saga”, della Fusione
Fredda che più ci apre alla speranza. E come i lettori percepiranno dalla
lettura del Cap. VI, è proprio questo l’aspetto che da quel giorno del
marzo del 1989 ormai lontano mi ha convinto ad imbarcarmi in
un’avventura intellettuale ed umana che, sapevo, mi avrebbe procurato
non poche amarezze e delusioni, allontanandomi e alienandomi da quel
mondo, quello accademico voglio dire, che fin dagli anni verdi avevo
considerato come il mio, e che mi aveva riservato non poche
soddisfazioni e riconoscimenti. Ma ciò è stata pur sempre ben poca cosa
di fronte alle gioie che il dipanarsi di questa nuova realtà, che insieme a
pochi amici e colleghi contemplavo per la prima volta, mi arrecava e
continua ad arrecarmi. Infatti sono proprio quegli straordinari eventi che,
ad esempio, avvengono in una matrice metallica di Palladio, percorsa
dall’isotopo dell’idrogeno, il deuterio, che fanno gridare allo scandalo la
maggioranza degli uomini di scienza, che ci stanno convincendo che i
meccanismi dinamici che governano la materia condensata, animata ed
inanimata, sono ben più sottili e potenti di quelli che sono stati fin qui
ipotizzati e studiati. Non solo, ma una serie di deduzioni, basate
sull’elettrodinamica quantistica, che mi avevano convinto ben prima del
1989 che le idee correnti sulla materia erano gravemente carenti, trovano
nella scoperta di Fleischmann e Pons una drammatica indicazione della
loro sostanziale correttezza e rilevanza. Ai miei occhi, la Fusione Fredda
è venuta così ad apparire come la punta di un iceberg che non solo
avrebbe fatto affondare la nave degli scienziati sciocchi di fine secolo,
ma avrebbe fatto emergere una nuova realtà ben più ricca e sottile di
quell’immane meccano di palline atomico-molecolari la cui
inadeguatezza e povertà concettuale, ahimè, domina oggi fisica, chimica
e biologia.
E’ quindi per me grande il merito di Germano di aver saputo cogliere
appieno questo aspetto della “moderna storia d’inquisizione e
d’alchimia”, che ha qui raccontato con tanta sagacia e documentazione.

Giuliano Preparata, Milano, Marzo 1999


179

Schema di un esperimento ENEA di fusione fredda


(da La fusione fredda, Quaderni di Filosofia Naturale, Andromeda, Bologna, 1991)
180

DELLA NATURA “AMBIGUA” DELLA LUCE


Sutra di storia del pensiero scientifico

(Umberto Bartocci)

1 - Si può fissare l’origine della scienza moderna, e la fine di quel


periodo che chiamiamo Medioevo, nel progetto di Enrico il Navigatore
(collegato ai resti dell’Ordine Templare, dopo la persecuzione che lo
estinse quasi completamente all’inizio del XIV secolo), di chiamare
intorno a sé a Sagres (1416) i massimi esperti del tempo di matematica,
geografia, astronomia, etc., per la maggior parte arabi o ebrei. Lo scopo
è quello di utilizzare le conoscenze scientifiche dell’antichità per
l’esplorazione del globo, e la conquista di nuove terre. Si sa bene quali
furono le conseguenze dell’iniziativa del principe Enrico, meno bene si
comprende che essa fu anche la causa scatenante della cosiddetta
rivoluzione astronomica (Copernico, De Revolutionibus Orbium
Coelestium, 1543).

2 - La scienza moderna nasce quindi applicativa, e non teorica,


esattamente nella successione inversa che comunemente si crede (cfr.
Martin Heidegger, “La questione della tecnica”, 1953), anche se gli esiti
delle sue prime “applicazioni” divennero presto eminentemente
speculativi, e in grave rotta di collisione con la concezione generale del
mondo allora dominante nell’Europa cristiana. É solo relativamente tardi
che il pensiero scientifico comincia ad elaborare teorie sistematiche di
tipo moderno (ovvero, “non-sacro”), e dopo gli eventi che vedono
protagonisti Galileo e Keplero all’inizio del XVII secolo, il primo
tentativo degno di nota in questo senso è quello di Cartesio. Egli
riprende l’opinione secondo la quale lo spazio vuoto è una “assurdità
fisica” - che fu già professata in tempi antichi prima da Anassagora e poi
da Aristotele - nel suo grande trattato di fisica teorica Principia
Philosophiae (1644). Lo spazio di Cartesio (res extensa) è tutto pieno di
una materia sottile onnipervadente (etere), il cui movimento rotatorio
intorno al Sole è per esempio la causa dei moti dei pianeti (teoria dei
vortici). Questa concezione suggerisce a Christiaan Huyghens
(Tractatus de Lumine, 1690) quella che oggi chiamiamo la teoria
ondulatoria della luce, laddove scrive: “Non c’è dubbio che la luce
181

arrivi da un corpo luminoso a noi come moto impresso alla materia


interposta”. Del resto, la concezione fluido-dinamica dell’universo,
ovvero la teoria dello “spazio pieno”, mal si concilia evidentemente, a
livello di “analogia” (essenziale nel pensiero cartesiano per ogni
tentativo di “spiegazione”), con una descrizione corpuscolare della
luce.

3 - La teoria cartesiana suscita subito grandi entusiasmi, ma anche


grandi ostilità. É indubbio comunque che il suo “dualismo” tra materia e
“spirito” (res cogitans) è il primo - ed ultimo?! - ampio tentativo di
sintesi tra il nuovo e l’antico. Alla fine del 600 compare sulla scena il
gigante Isaac Newton, la cui opera è tutta anti-cartesiana (è ovvio sin dal
titolo dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, 1687, il
rimando “critico” all’opera di Cartesio: l’aggiunta dei due aggettivi
Naturalis e Mathematica allude a due specificazioni entrambe di grande
significato filosofico), e lo spazio diventa all’improvviso completamente
vuoto, sede di non meglio identificate “forze”. Nella concezione
cartesiana, invece, una forza è soltanto una vis a tergo, e l’attore è lo
spazio fisico stesso. Questa (prima) scomparsa dell’etere dona
naturalmente vigore alla teoria corpuscolare della luce. In verità
Newton, come pensatore di passaggio, è ancora intriso di dubbi, e di
ripensamenti, ma i “newtoniani” sono più decisi del maestro, come
capita sovente (ne vedremo un altro esempio più avanti, in relazione ad
Albert Einstein, e alla “seconda” scomparsa dell’etere): “Non ci sarà
assolutamente luogo per i movimenti delle comete, se quella materia
immaginaria non viene completamente rimossa dai cieli” (Roger Cotes,
Prefazione alla seconda edizione dei Principia, 1713).

4 - Nonostante isolati illustri tentativi (Leibniz per esempio cerca di


precisare matematicamente quella che si può definire la teoria cartesiana
della gravitazione, a partire dal suo Tentamen de motuum coelestium
causis, 1689), la stella di Cartesio si eclissa di fronte all’affermazione
della matematica newtoniana. Che al definitivo successo dei partigiani
dell’inglese contribuiscano anche (soprattutto?!) motivi ideologici (cfr.
Margaret C. Jacob, The Newtonians and the English Revolution 1689-
1720, Gordon & Breach, N.Y., 1976), appare chiaro dalla descrizione
che dà Voltaire (il quale non può dirsi proprio noto per i suoi talenti
fisico-matematici) dei due punti di vista in contrapposizione (Lettere
inglesi, 1734): “Un francese che arriva a Londra trova le cose veramente
182

cambiate ... Ha lasciato il mondo pieno; lo trova vuoto. A Parigi,


l’universo lo si vede composto di vortici di materia sottile; a Londra non
si vede niente di tutto ciò ... La generale opinione sui due filosofi in
Inghilterra è che il primo era un sognatore, l’altro un saggio. Sono molto
poche le persone che leggono Descartes, le cui opere in realtà sono
divenute inutili ... Non nego che tutte le opere di Descartes brulichino di
errori ... la sua filosofia divenne solo un romanzo ingegnoso, e tutt’al più
verosimile per gli ignoranti ... Non credo che si osi, in verità,
minimamente paragonare la sua filosofia a quella di Newton: la prima è
un tentativo, la seconda è un capolavoro”. Vedremo purtroppo che,
nonostante un breve momento nel XIX secolo, i giudizi espressi da
Voltaire sono rimasti sostanzialmente immutati! Eppure, “La
cosmogonia di Cartesio, prima di essere ripudiata, ebbe un momento di
vero trionfo. E fu questo l’istante in cui l’uomo, per pura intuizione andò
più vicino alla realtà dell’architettura dell’Universo!” (Marco
Todeschini, Teoria delle Apparenze, Bergamo, 1949, p. 29).

5 - Il XVIII secolo vede ovunque il trionfo dell’Illuminismo: la luce


della ragione libera finalmente l’uomo dall’oscurità delle religioni e
delle superstizioni; l’antichità, secondo il “modernista” Francis Bacon
(1561-1626), è soltanto l’infanzia dell’umanità. La matematica viene
ritenuta unico criterio di verità per ogni forma di investigazione nel
campo della conoscenza, tra le quali viene così privilegiata quella
“scientifica”. Si avvera così il detto di un altro proto-illuminista, Nicola
Cusano (1401-1464): “Nihil certi habemus in nostra scientia nisi
nostram mathematicam”. Regina della fisica diventa la teoria
newtoniana dei moti, vale a dire la meccanica, di cui quella cosiddetta
“celeste” costituisce l’indiscussa gemma. Anche in questo caso, sparute
autorevoli eccezioni (Leonhard Euler, “Mémoire dans lequel [sic] on
examine Si les Planetes se meuvent dans un milieu dont la résistance
produise quelque effet sensible sur leur mouvement?”, 1762 - cfr. anche
“De Causa Gravitatis”, in questo stesso numero di Episteme) non
modificano il quadro generale. Per quanto riguarda la luce, “la fiducia
nei metodi newtoniani, portata all’esagerazione, aveva reso quasi tutti
credenti nell’ipotesi dei corpuscoli luminosi emessi quali proiettili e
regolati dalle leggi meccaniche” (Giovanni Giorgi, L’etere e la luce, Ed.
Cremonese, Roma, 1938, p. 23). Quando il newtoniano James Bradley
scopre il fenomeno dell’aberrazione astronomica (1728; il moto annuale
del nostro pianeta intorno al Sole si riflette in un analogo moto
183

apparente annuale di ogni corpo celeste visto dalla Terra), è proprio


rifacendosi alla teoria corpuscolare della luce che egli spiega quanto da
lui osservato.

6 - La situazione cambia alquanto agli inizi dell’800, con il progredire


degli studi fisici in altri campi, quali l’ottica e l’elettromagnetismo,
come diciamo oggi (in realtà, la comprensione dei rapporti tra elettricità
e magnetismo fu una graduale e grande conquista delle ricerche di
questo periodo). Thomas Young (1801) e Augustin J. Fresnel (1815)
illustrano il fenomeno dell’interferenza luminosa, il quale riporta in auge
la teoria ondulatoria della luce e il fantomatico etere (o etere luminifero -
la “nuova” concezione della luce si rivela capace anche di spiegare il
fenomeno dell’aberrazione astronomica: T. Young, 1804). La realtà
fisica dell’esistenza di questo “mezzo” elusivo riceve nuove conferme
anche dalle ricerche di Michael Faraday, che “vede” i vortici d’etere
(etere elettromagnetico) attraverso la disposizione della limatura di ferro
intorno ai poli di un magnete (linee di forza del “campo”). Tutto questo
movimento d’opinione vede il suo culmine nell’opera di James Clerk
Maxwell, il quale teorizza la luce come fenomeno elettromagnetico,
unificando quindi così “diversi” tipi di etere: “Riempire tutto lo spazio
con un nuovo mezzo ogni volta che si debba spiegare un nuovo
fenomeno non è certo cosa degna di una seria filosofia, ma se lo studio
di due diverse branche della scienza ha suggerito in modo indipendente
l’idea di un mezzo, e se le proprietà che si devono attribuire al mezzo
per spiegare i fenomeni elettromagnetici sono identiche a quelle che si
attribuiscono al mezzo per spiegare i fenomeni luminosi, si rafforzerà
notevolmente il complesso di prove a favore dell’esistenza fisica del
mezzo”. Maxwell sostiene infine, in conclusione del suo celebre
Treatise on Electricity and Magnetism, 1873, che: “All these theories
lead to the conception of a medium in which the propagation takes
place, and if we admit this medium as an hypothesis, I think it ought to
occupy a prominent place in our investigations”. Lo stesso concetto si
ritrova nel suo “Etere e campo”, 1890: “Per quante difficoltà possiamo
incontrare nella formulazione di una valida teoria della struttura
dell’etere, non vi può essere dubbio che gli spazi interplanetari e
interstellari non sono vuoti, ma sono occupati da una sostanza o corpo
materiale, che è certamente il corpo più esteso e probabilmente il più
uniforme che si conosca”.
184

7 - Alla fine del XIX secolo troviamo dunque la fisica in una situazione
assai curiosa, e imbarazzante. Da un canto lo spazio è tutto vuoto per la
meccanica, pilastro basilare della fisica (e “mito fondatore”, con le ben
note vicende relative all’opposizione della Chiesa alla teoria
copernicana, dell’immagine di questa scienza presso il pubblico), ed è
invece tutto pieno per i teorici dell’ottica e dell’elettromagnetismo, che
vedono nelle proprietà fisiche dell’etere la migliore spiegazione
possibile per i fenomeni di loro competenza. Una situazione altamente
contraddittoria quindi, anche se relativa a due campi di indagine
differenti, per una fisica ancora incapace di escogitare gli artifici
dialettici post-relativistici e post-darwinisti, quando a un intelletto ormai
ridotto a quello di un “povero mammifero primate” (la “rivoluzione
evoluzionista” data dal 1859), manifestamente insufficiente per intuire i
profondi misteri della struttura dell’universo, poté parlarsi del dualismo
onda-corpuscolo; vale a dire, elaborare una teoria secondo la quale la
luce si manifesta per noi talvolta come un’onda, tal’altra come una
particella, ma che in realtà non è nessuna delle due (principio di
complementarità di Niels Bohr: “Esiste un’esclusione mutua tra
particella ed onda, le quali devono essere considerate descrizioni
complementari dei sistemi atomici” - Franco Selleri, La causalità
impossibile - L’interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed.
Jaca Book, Milano, 1987, p. 84). Siamo soltanto noi esseri umani ad
essere incapaci di concepire cosa essa realmente sia (se questa
asserzione ha qualche senso), per la limitatezza dei nostri concetti
mentali basati su una assolutamente scarsa esperienza. Riuscire a
prevedere di tanto in tanto con le nostre formule matematiche gli effetti
quantitativi di certi fenomeni ci deve bastare, come ammonisce l’illustre
fisico Richard P. Feynman, premio Nobel per questa disciplina nel 1965:
“What I am going to tell you about is what we teach our physics
students ... and you think I’m going to explain it to you so you can
understand it? No, you are not going to be able to understand it. ... It is
my task to convince you not to turn away because you don’t understand
it. You see, my physics students don’t understand it either. That is
because I don’t understand it. Nobody does. ... It’s a problem that
physicists have learned to deal with: They’ve larned to realized that
whether they like a theory or they don’t like a theory is not the essential
question. Rather, it is whether or not the theory gives predictions that
agree with experiment. ... The theory of quantum Electrodynamics
describes Nature as absurd from the point of view of common sense.
185

And it agrees full with experiment. So I hope you can accept Nature as
She is - absurd” (QED - The strange theory of light and matter ,
Princeton University Press, 1985, pp. 9-10).

8 - Ma procediamo con ordine. Le cose stavano al punto in cui le


abbiamo lasciate alla fine dell’800, quando arriva il “newtoniano”
Albert Einstein, il quale sostiene con la sua teoria della relatività (1905)
che l’etere non esiste, o meglio che non ce n’è alcun bisogno, che si
tratta di un ente la cui introduzione è “superflua” (ma, come accadde nel
caso di Newton, la mera inesistenza dell’etere è la lezione che tutti
hanno successivamente tratto dai suoi insegnamenti; a proposito invece
dei reali rapporti conflittuali di Einstein con tale concetto, cfr. Ludwik
Kostro, Einstein and the Ether, di prossima pubblicazione - e
presentazione su Episteme). É da notare che il tentativo einsteiniano (per
certi versi riuscito) di salvare capra e cavoli si inserisce proprio in un
momento in cui così si esprimevano gli eteristi: “L’unica nube nel cielo
limpido della teoria dell’etere è il risultato dell’esperimento di
Michelson-Morley”, Lord Kelvin, 1900; “La probabilità dell’ipotesi
dell’etere sfiora la certezza”, J. Chwolson, 1902. Einstein, con abilità
retorica senz’altro apprezzabile, riuscì a convincere tutti, o quasi,
utilizzando per i meccanici il sacrosanto principio di relatività (i moti
uniformi non hanno effetti fisici - uno dei principi fondatori della
meccanica newtoniana, perfettamente compatibile con l’ipotesi dello
spazio vuoto), per gli “eteristi” l’altrettanto sacrosanto principio
dell’invarianza della velocità di propagazione di una perturbazione dalla
velocità della sorgente perturbatrice (relativamente al mezzo in cui la
perturbazione si propaga). Ecco spiegata la ragione del fenomeno per cui
TUTTI trovano accettabile e intuitivo almeno un principio della
relatività, ma di solito non l’altro! In effetti, le due “concezioni” da cui
detti principi provengono sono tra loro assolutamente antitetiche, e
l’opzione di Einstein, attraverso possibili tentativi di riconduzione del
secondo principio al primo, è tutta a favore dell’ipotesi dello spazio
vuoto, omogeneo e isotropo, comune ai padri fondatori della meccanica,
ma non a quelli dell’elettromagnetismo. É indubbio che la
riconciliazione tra i due punti di vista avviene soltanto sul piano
formale, puramente logico-matematico (felici per questo ruolo fondante
della matematica sono soprattutto i cultori di questa disciplina, che non
aspettavano altro che vedere anche le loro generalizzazioni astratte
indispensabili per la costruzione di qualsiasi modello fisico), e costa,
186

privilegiando un modo irrimediabilmente contro-intuitivo di fare fisica,


la rinuncia definitiva alla categorie ordinarie di spazio e di tempo, oltre
che un primo scrollone al principio di causalità (disfatta della
RAZIONALITÀ ORDINARIA). Il fisico Fabio Cardone (vedi prossimo
numero di Episteme) contrappone un proprio “Ordo et connectio
idearum idem NON est ac ordo et connectio rerum” allo spinoziano
“Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio rerum”, che lo
scrivente invece cerca di rinverdire nell’ambiente dei fisici (e dei
matematici) da oltre 20 anni, anche se, deve ammettere, con scarso
successo.

9 - Con l’affermazione della relatività riprende nuovo vigore la teoria


corpuscolare della luce, e il concetto di fotone (quanto di luce), che
Einstein utilizza con successo per spiegare l’effetto fotoelettrico. Questa,
e non l’ancora da alcuni aborrita teoria della relatività, sarà la
motivazione per il suo Nobel del 1921-1922, due date per una storia
nella storia alquanto interessante. Dell’effetto in questione Einstein
stesso dice: “Questo risultato sperimentale non poteva prevedersi in base
alla teoria ondulatoria. Ancora una volta una nuova teoria sorge dal
conflitto tra teoria in voga ed esperimento” (L’evoluzione della fisica,
1938, con Leopold Infeld; ed. it. Boringhieri, 1965, p. 269). Si può
sottolineare come tale pubblica sottomissione di Einstein
all’esperimento appaia piuttosto frutto di un atteggiamento politically
correct, poiché si sa infatti assai bene come quegli privilegiasse
piuttosto la sistematicità e la coerenza delle teorie, sostanzialmente
condividendo quanto brillantemente osservato dal fisico dissenziente
Tom Phipps: “Ergo, as usual, experimental evidence is ambiguous or
indecisive”. Quasi tutti oggi ritengono che le cose stiano nei termini
detti da Einstein, ma non per esempio un altro fisico “eretico”, Theo
Theocharis, il quale scrive sull’American Journal of Physics (54, 11,
1986, p. 969), che: “It is not well known, but it is well established that
the alleged particle behavior of light, photoelectric and Compton effects,
is explainable purely in terms of waves” (vengono citati i lavori di R.H.
Stuewer, 1970, e J.N. Dodd, 1983).

10 - Le vicende della fisica contemporanea non si fermano qui, perché


nasce ormai con la teoria della relatività una fisica che dovrà rinunciare
d’ora in poi e per sempre a ogni tentativo di spiegazione per analogie, e
quindi a una fisica qualitativa che si accompagni a una fisica
187

quantitativa. Infatti, con il crescente progresso delle indagini sul mondo


microfisico (particelle), si continuano ad incontrare fenomeni di tipo
ondulatorio ASSIEME a fenomeni di tipo corpuscolare, e per gli
STESSI enti. Come la luce, che più spesso ci appare nel suo aspetto di
“onda”, a volte si comporta come costituita da tante “particelle”, così un
elettrone, per esempio, a volte si comporta nettamente come una
particella, a volte sembra invece possedere strane proprietà di
interferenza, che ne rivelerebbero una natura ANCHE ondulatoria.
Vediamo come il già citato Feynman descrive questo fenomeno
all’inizio delle sue celebrate lezioni di Meccanica Quantistica, 1965:
“We choose to examine a phenomen which is impossible, absolutely
impossible, to explain in any classical way, and which has in it the heart
of quantum mechanics. In reality, it contains the only mystery”.

11 - In effetti, tolto di mezzo l’etere, viene meno anche ogni possibilità


di cercare di spiegare certa bizzarra fenomenologia delle particelle
“quantistiche” attraverso l’interazione di queste con il “mezzo” (la quale
si avverte meno per i corpi “più grandi” della meccanica classica, ma
che comunque ci deve essere sempre). Così si esprimono ancora ai
nostri giorni altri due fisici, Bernard H. Lavenda ed Enrico Santamato,
che cercano di dare della meccanica quantistica un’interpretazione che
non impropriamente si potrebbe definire “razionale” nel senso che qui
stiamo illustrando: “Quantum indeterminism is explainable in terms of
the random interactions between quantum particles and the underlying
medium in which they supposedly move”; “It might perhaps be possible
to develop a completely classical formulation of quantum mechanics
based upon the irregular motion of a single Brownian particle immersed
in a suspension of lighter particles” (Foundations of Physics, 11, 9/10,
1981; International Journal of Theoretical Physics, 23, 7, 1984). Dopo
il successo della relatività, però, questa strada viene detta non più
percorribile, e si propongono invece delle “irrazionalità”, quali i già
enunciati dualismo onda-corpuscolo e principio di complementarità, per
non dire del principio di indeterminazione di Werner Heisenberg (non si
possono stabilire con assoluta certezza e allo stesso tempo posizione e
velocità di una particella, per cui ogni descrizione della fenomenologia
quantistica non può essere che di natura statistica e probabilistica). Tutte
asserzioni relative a una fenomenologia che si afferma essere
inspiegabile razionalmente, di cui invece una semplice analogia su base
eterista riuscirebbe a dare decente ragione, almeno da un punto di vista
188

qualitativo. Bisognerebbe aggiungere, per la verità, che Einstein a


questo punto si sveglia, e protesta: non gli piace la visione del mondo
acausale e indeterministica che è venuta fuori dalla sua stessa fisica.
“Dio non gioca a dadi”, proclama, tentando di costruire alternative, ma
ormai è troppo tardi, e muore sostanzialmente ignorato da tutti coloro
che contano nel Gotha della fisica.

12 - Oggi siamo di fronte a una situazione che il fisico teorico Franco


Selleri chiama, con definizione molto pertinente: “epistemologia della
rassegnazione”. Nessuno ha la minima idea di come possano essere
convenientemente interpretati quasi tutti i fenomeni naturali (luce,
gravitazione, elettricità, magnetismo, ... - ricevo da un altro fisico
eretico, George Galeczki, l’informazione che: “Einstein himself told
Pauli, decades after 1905, that he till had no idea how light is
propagating, although light plays a central role in STR. This was
characteristic of him”). Esistono soltanto dei modelli matematici più o
meno complicati, di cui si riconosce il maggiore o minore valore a
seconda del grado di predittività quantitativa, e di applicabilità
tecnologica. Senza peraltro analizzare a cosa sia dovuto il fenomeno che
lamenta, il fisico Carlo Bernardini ammette che la fisica si sia per lo più
trasformata nella sola capacità di saper fare uso di una sorta di
prontuario “per tecnici praticoni, per ingegneri, che hanno bisogno di
regole piuttosto che di idee” (L’Espresso, 1984). Si rinvia al libro
contro-corrente di Selleri già citato per particolareggiate informazioni
storiche sul periodo che vede l’affermazione dell’interpretazione attuale
della meccanica quantistica (la cosiddetta interpretazione di
Copenhagen), specialmente a proposito della vicenda intellettuale di
Erwin Schrödinger, di cui fu accettata la famosa equazione, ma non la
relativa interpretazione strettamente ondulatoria e causale (è ben nota la
“delusione” di questo scienziato nei confronti di “un’interpretazione di
tipo trascendentale, quasi psichica, del fenomeno ondulatorio ... ben
presto salutata dalla maggioranza dei teorici più importanti come la sola
conciliabile con gli esperimenti, e che ora è diventata il credo ortodosso,
accettata da quasi tutti, con alcune notevoli eccezioni”; loc. cit., p. 33).

13 - Una nota di ottimismo, all’autore di solito estranea. La situazione


sta forse lentamente cambiando, tanto che un altro fisico eretico di oggi,
Dennis McCarthy, è costretto a dire più o meno quello che diceva
Maxwell cento anni fa: “Some people think it’s silly to argue that it’s
189

just a big conspiracy of coincidences that electromagnetism should


exhibit so many properties that are unique to media - including
interference, Doppler, Lorentzian retardations, Sagnac effect, aberration,
refraction, diffraction, amplitude, frequency, etc. If you don’t believe
electromagnetism is a media process, then it must seem as if this
allegedly intangible force of the universe was deliberately endowed with
a plethora of media characteristics just to fool people like Maxwell,
Huygens, Lorentz, Young, Fizeau, and Sagnac... ”.

14 - I fisici contemporanei, relativistici e quantistici (potremmo dire con


una sola parola: “modernisti”) continuano naturalmente ad andare avanti
per la loro strada, sostenendo senza apparente imbarazzo opinioni del
tipo: “Special relativity: Beyond a Shadow of a Doubt” (Clifford Will,
Was Einstein right?, Oxford University Press, 1988), o: “La possibilità
che un dubbio sulla teoria della relatività possa essere accolto è la stessa
che avrebbe un dubbio sul sistema copernicano” (Tullio Regge,
Cronache dell’Universo, Ed. Boringhieri, Torino, 1981), e a portare
avanti, a favore delle loro pure speculazioni (tra le quali la celebre teoria
cosmologica del Big-Bang), esperimenti tanto reclamizzati come quello
di J.C. Hafele e R. Keating, relativo al cambiamento del ritmo di orologi
in volo su un aereo. Così facendo, mostrano di ignorare quanto risulta da
un rapporto interno della Marina degli Stati Uniti (USNO, Hafele,
1971), finalmente disponibile al pubblico, riportante un parere dello
stesso Hafele: “Most people (including myself) would be reluctant to
agree that the time gained by any one of these clocks is indicative of
anything ... The difference between theory and measurement is
disturbing” (informazione da un altro fisico eretico: Al G. Kelly, “A
New Theory on the Behavior of Light”, The Institution of Engineers of
Ireland, Monograph N. 2, 1996, p. 8).

15 - Chiudiamo ricordando le recenti parole del direttore della rivista


Time, Walter Isaacson (31.12.1999, numero speciale dedicato al
personaggio del secolo, Albert Einstein): “L’impatto della teoria di
Einstein ha travalicato l’ambito della scienza … Indirettamente, la teoria
della relatività ha aperto la strada a un nuovo relativismo nella morale,
nell’arte, nella politica. Con lei si è incrinata totalmente la fede nei
concetti assoluti, non solo a proposito dello spazio e del tempo, ma
anche della verità e della morale … Così come il darwinismo è
diventato, un secolo fa, non soltanto una teoria biologica ma anche una
190

teoria sociale, allo stesso modo la relatività ha dato forma alla teologia
sociale del XX secolo”. A queste aggiungiamo quelle di un noto
collaboratore di Einstein a Princeton, e suo esecutore testamentario,
Gerald Holton, attualmente professore ad Harvard: “La sua visione
unitaria della fisica si sposava con il suo profondo istinto democratico.
Le leggi della fisica dovevano rimanere identiche, per qualunque
osservatore, ovunque nel cosmo. Questa è stata la sua intuizione
fondamentale in fisica. E le leggi morali dovevano vincolare allo stesso
modo qualsiasi essere umano, ovunque nel mondo. Il legame profondo
tra questi due assunti era chiarissimo per lui”. Tutto ciò può far
comprendere quanto sia difficile scardinare oggi l’intrico ideologico-
politico-scientifico che si è venuto determinando nel corso degli ultimi
decenni: altro che Galileo, con quei quattro gatti di poveri preti suoi
contraddittori, che cercavano di difendere un mondo in via di estinzione,
ma non erano abbastanza in gamba per poterci riuscire...

Bibliografia essenziale:

E.T. Whittaker, A History of the Theories of Aether and Electricity,


Dublino, 1910; Vasco Ronchi, Storia della Luce, Ed. Laterza, 1953;
Umberto Bartocci, http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci (in questo sito
si possono trovare maggiori informazioni, anche bibliografiche, sugli
argomenti trattati nell’articolo).

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Umberto Bartocci è nato a Roma (1944), dove ha conseguito la laurea


in Matematica, ed è divenuto assistente del Prof. Beniamino Segre,
cattedra di Istituzioni di Geometria Superiore. Borsista CNR a
Cambridge (UK), è attualmente professore ordinario di Geometria
presso l’Università di Perugia, dove insegna anche Storia delle
Matematiche. Si occupa di storia del pensiero scientifico e dei
fondamenti della fisica e della matematica. Ha promosso quattro
congressi dedicati al mondo dell’eresia scientifica: 1989, Perugia;
1991, Ischia; 1996, Perugia; 1999, Bologna. Opere più significative:
America: una rotta templare - Un’ipotesi sul ruolo delle società segrete
nelle origini della scienza moderna, dalla scoperta dell’America alla
Rivoluzione copernicana, Della Lisca, Milano, 1995; Albert Einstein e
Olinto De Pretto: la vera storia della formula più famosa del mondo,
191

Andromeda, Bologna, 1999; La scomparsa di Ettore Majorana: un affare


di stato?, Andromeda, Bologna, 1999.

Frontespizio dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica,


edizione del 1723
192

RELATIVISTIC DEFLECTION OF LIGHT NEAR THE


SUN USING RADIO SIGNALS AND VISIBLE LIGHT

(Paul Marmet, Christine Couture)

Abstract. This paper reports a detailed analysis of one of general relativity’s


predictions, which claims that light should be deflected by solar gravity. The
experimental data related to that prediction are analyzed. The substitution of the
direct experimental test for the deflection of visible light during solar eclipses by the
indirect measurement of the delay of radio signals traveling between a space probe
or from extra galactic sources and the Earth is examined. Three different causes of
the delay in the transmission of light near the Sun are examined. They are the
relativistic delay, the delay caused by the plasma surrounding the Sun or for a
geometric reason. The delay predicted by general relativity is equivalent to a
reduced velocity of light in vacuum, in the Sun’s gravitational potential. Since the
value of c is defined on Earth, inside the solar gravitational potential, this leads to a
double value for the velocity of light on Earth. Furthermore, Einstein’s general
relativity predicts that photons slow down when approaching the Sun, so that their
velocity must be reduced to zero when reaching the surface of a black hole. This
paper shows how all the experiments claiming the deflection of light by the Sun are
subjected to very large systematic errors, which render the results highly unreliable.
Furthermore, the internal incoherence of general relativity, which leads to a double
velocity of light on Earth, adds to the weakness of these tests. Following those
difficulties, and since it has also been demonstrated that the deflection of light by a
gravitational potential is not compatible with the principle of mass-energy
conservation, we show that no one can seriously claim that light is really deflected
by the Sun.

1 - Introduction.

According to general relativity(1) (page 179), light emitted from a source


far away from the Sun and passing near the Sun should be deflected by
an angle :
(1)
where G is the gravitational constant, M S is the solar mass, c is the
velocity of light, and b is the minimum distance between the trajectory
and the center of the Sun. If the radius of the Sun is RS, we have:
. (2)
193

Another cause of deflection is due to the corona surrounding the Sun.


This plasma produces a deflection but this has nothing to do with
relativity. The deflection due to this plasma is calculated in appendix I.
In order to verify the deflection due to general relativity, several
astronomical expeditions were organized. Experimenters measured the
deflection of the images of stars located at a small angular distance from
the Sun, during solar eclipses. However, the deflection is so small that,
due to the atmospheric turbulence during daytime when a solar eclipse
must occur, no observation could ever successfully show that the
deflection exists (see appendix II). More than eighty years have passed
since Einstein’s predictions and no direct measurement of the
gravitational deflection of light by the Sun has confirmed the theory in
any convincing way. The direct measurement of the deflection of visible
light seems almost abandoned. In the sixties, physicists suggested a new
experiment, which measured the delay of a radio signal traveling near
the Sun. Let us study this new test.

2 - The Viking Relativity Experiment.

The deflection of electromagnetic radiation by the solar gravity is now


claimed to be real because of an experiment using radar signals called
the Viking Relativity Experiment(2). (Other less accurate experiments
were also done involving Venus and Mercury(3)). In those experiments,
physicists did not measure the deflection of light (or of a radio signal) by
the Sun. All they measured was the time taken by a radio signal to travel
between the Earth and another planet when grazing the Sun’s surface.
This observed time was then compared with the time taken by light
moving in a straight line at velocity c to travel the same distance in the
absence of the gravitational potential. A delay was reported between
those two times.
It is recognized that when radio signals travel through the plasma around
the Sun, a delay is produced. This contribution to the reduced velocity of
light was taken into account and subtracted accordingly (see appendix
I). In the case of the Viking Relativity Experiment, this contribution was
measurable because two different frequencies were used and the delay in
the plasma is frequency dependent.
General relativity predicts that the solar gravitational potential must also
produce a delay in the transmission of the radio signal. The same
194

relativistic phenomenon which produces the predicted deflection of


1.75” is also responsible for the slowing down (compared with the
absolute velocity of light c) of the radiation between Mars and the Earth.
However, no direct deflection is measured in the Viking Relativity
Experiment.
Let us consider the delay t predicted by general relativity in the case of
a round trip between the Earth and Mars, respectively at distances r 1 and
r2 from the Sun. Using Einstein’s theory, using Schwarzschild’s metric,
the delay(1) for a radio signal making a return trip from Earth to Mars is:
(3)
where r1, r2 ” RS and
. (4)
Using equation 3, Straumann(1) gives a predicted delay of:
t  250 s or 72 km. (5)
Note that t here is a distance, which is converted to time via c.
Equations 3 and 5 predict that a radio signal emitted from the Earth,
grazing the Sun and immediately retransmitted toward us when reaching
planet Mars will, according to general relativity, travel during a time
which is 250 s longer than the time calculated using the velocity of
light c (in zero gravitational potential).

3 - Physical Causes for the Delay.

Let us study three causes that could be responsible for the delay in the
transmission of radiation between the Earth and Mars:
a) an increase of the geometrical distance between the
extremities of a bent trajectory;
b) general relativity;
c) the interaction with the plasma around the Sun.

3 - a) Delay Due to the Geometrical Bending of Light.

We have seen above that general relativity predicts that light passing
near the solar limb is deflected by an angle of 1.75”. The same theory
195

predicts that due to the same gravitational potential, the radiation takes a
longer time to travel the distance between the Earth and Mars. Figure 1
illustrates how light is deflected when grazing the Sun.

Figure 1
Geometrical Time Delay.

One can see on figure 1 that if the trajectory of light is not a straight line
(dotted line), it takes a longer time to travel between Mars and the Earth.
The increase of time tb due only to the geometrical bending of light by
 = 1.75” is given by the relationship:

. (6)

We find that tb = 0.010 s or 3.2 meters. The increase of time tb (with
respect to a straight line) taken by light to travel from the Earth to Mars
due to the geometrical bending of light is extremely small and negligible
with respect to the delay (125 s or 36 km) predicted by relativity as
given in equation 5. Consequently, the angle made by light grazing the
Sun is totally insufficient to explain the increase of distance (or delay)
compatible with the prediction of general relativity as given in equations
3 and 5. This geometrical delay caused by the bending is not the main
cause of the delay predicted by general relativity. It is several thousand
times too small.

3 - b) Physical Meaning of the Relativistic Equation.


196

In order to get a better understanding of the physics implied by equation


3, let us simplify the problem and apply the equation to the case of a
single passage of the radiation from Mars to the Earth when grazing the
Sun. The time delay tE-M(1) is then half of equation 3:
. (7)
When we examine the parameters in equation 7, we find that, for any
realistic values of r1, r2 and RS, light is always delayed. During the
transmission of light between Mars and the Earth, when grazing the Sun,
equation 7 shows that there is a delay of 36 km. Let us calculate the
delay observed from a source located far behind Mars. If that source of
radiation is, for example, star Sirius, located 31013 km away behind the
Sun, and if the star’s light grazes the Sun, equation 7 shows that the
delay is 71 km. This is much longer than the delay for light traveling
between Mars and the Earth. One must conclude that light does not
travel at the speed of light in the space between Sirius and Mars since
there is an extra delay of 71-36 = 35 km. Mathematics shows that,
according to general relativity(1), the time delay with respect to the speed
of light becomes infinite if the source of light is infinitely distant.
Consequently, equation 7 shows that, everywhere in space, light is
transmitted at a velocity slower than the accepted definition of the
velocity of light known on Earth. This is not compatible with the
definition of the velocity of light in vacuum accepted by the
International Astronomical Union(4) which gives an absolute velocity of
light, independently of any parameter. However, Shapiro(5) states that:
“According to general relativity, the speed of a light wave depends on
the strength of the gravitational potential along its path.” According to
equation 7, the velocity of light in vacuum is not equal to c on planet
Earth, since it is submerged in the solar gravitational potential that
changes the velocity by a factor as large as 1.97108. If the velocity of
light is not constant, it is absolutely necessary to correct the definition
and add, at which location the velocity of light is equal to c. According
to Bowler(6), this happens at infinity. One must conclude that in
Einstein’s general relativity, the observed velocity of light is always
slower than c since no observer can be infinitely away from all the
gravitational masses in the universe. This problem will be studied in
further details in sections 4 and 5.
197

3 - c) Delay Due to the Plasma around the Sun.

It is well known that the Sun is surrounded by a plasma and that the
velocity of electromagnetic radiation is reduced when moving through
such a medium. Radio signals have been observed while going through
the solar corona and a corresponding delay has been measured (2).
Furthermore, it is well known that the velocity of transmission of a radio
signal is also slowed down when traveling through neutral gases, even if
that contribution is frequently neglected. The fact that many spectral
lines are observed in the solar corona proves that the plasma is not fully
ionized. Since the delay produced and observed due to the plasma in the
solar corona is not due to general relativity, it must have a different
origin. An analysis of that phenomenon is presented in appendix I of this
article.

4 - Relativistic Delay on Earth and Double Value of the Velocity of


Light.

Equation 7 gives the Einstein’s delay of transmission of radiation


between any two locations r1 and r2 (see figure 1). When light grazes the
Sun during its transmission from Mars to the Earth, equation 7 shows
that it must also be delayed during each extra kilometer, after it has
reached the Earth. This extra delay is given by the derivative of equation
7 as a function of the distance r1:
. (8)
This equation shows that at a distance of r1 from the Sun (in the Earth
neighborhood), general relativity predicts that the velocity of light in
vacuum is slower than the value of c. This slower velocity of light is
represented on figure 2 by (t) as a function of the distance r 1 from the
Sun. Since equation 8 is not a function of R S , the increment to the delay
predicted at the final location (r1) is totally independent of b, the
minimum distance between the trajectory and the Sun. Consequently,
the value of RS is irrelevant here and can always be assumed small in
order to satisfy the condition that r1 and r2 be large with respect to RS.
198

We show on figure 2 the slower velocity of light (relative delay (t)


per kilometer) at different distances from the Sun, as predicted by
general relativity (equation 8).

Figure 2
Fraction of Reduction of Velocity of Light versus Distance from the
Sun.

The shaded area on figure 2 shows, according to general relativity, how


much the velocity of light is reduced with respect to c. This delay is
more important in the solar neighborhood (c is reduced by 4.24106)
but light is still noticeably delayed in the Earth neighborhood (c is
reduced by 1.97108) and the phenomenon is not negligible even very
far beyond the Earth orbit. For example, according to equation 3, light
traveling between Jupiter and the Earth is still notably delayed, even
when Jupiter is in opposition with the Sun so that light does not pass in
the Sun’s neighborhood. Considering that the velocity of light is defined
as c on Earth, the new reduced value (i.e. (1 1.97108) c) means that
there is a double value of velocity of light on Earth.

5 - Importance of the Delay in the Earth Neighborhood.

We have seen above that general relativity predicts that light does not
move at the speed of light c when traveling in a gravitational potential.
Therefore, since the Earth is located inside the solar gravitational
potential, the velocity of light predicted on Earth is not the same as c.
199

According to relativity, that velocity of light should be corrected due to


the solar gravitational potential at Earth’s distance from the Sun.
Bowler(6) (page 57) states that in general relativity “the local velocity of
light must depend on the local gravitational potential”. Since equation 3
predicts that the velocity of light is reduced on Earth by as much as
1.9710-8, using Earth parameters, one must conclude that general
relativity leads to an incoherence on the value of the velocity of light
on Earth. The fundamental definition requires an absolute velocity c
while general relativity requires the use of a velocity reduced by a
factor of 1.9710-8 on Earth. Furthermore, since we know that a
standard meter on Earth is defined as the number of wavelengths of a
spectral line of light moving at the exact velocity of light c, we see that
there is also an incoherence to the length of the standard meter. We have
now two values for the velocity of light on Earth: the definition of c, and
the one predicted with the delayed value. How can light know which
velocity to choose?
This incoherence also appears clearly in Bowler’s book(6). On page 58,
he calculates (equation 5.1.5) the velocity of light predicted on Earth as
a function of the distance r from the Sun using the “index of refraction”
of the gravitational field. Bowler states: “As r   we want the velocity
of light to be c.” This result is compatible with a new definition of c at
infinity and not with the international definition of the velocity of light c
on Earth. Consequently, Bowler’s equation 5.1.5 does not give the
correct value of c at the Earth distance from the Sun at it should. A
variation of 1.9710-8 in the velocity of light is a very large error since
atomic clocks are considered to be accurate within about 10-12 to 10-14.
One must conclude that general relativity leads to a disastrous
incoherence about the velocity of light and the length of the standard
meter on Earth.
Finally, we have seen that the delay predicted by general relativity is
equivalent to a reduced velocity of light in vacuum, in the Sun’s
gravitational potential. Consequently, photons are slowing down when
approaching the Sun. In fact, the velocity of the photons can be reduced
to zero when they reach the surface of an extremely massive body. This
is surprising, since this prediction is contrary to what happens to
particles which are speeding up when falling in a gravitational potential.
One can see that these predictions of general relativity lead to serious
difficulties when we consider momentum and energy conservation.
200

6 - Consequences of the Viking Relativity Experiment.

As seen in section 2, Shapiro et al. (2) report an experiment in which they


measured the round trip time of flight of radio signals transmitted
between the Earth and the Viking spacecraft in order to test Einstein’s
general theory of relativity. Theoretically, using Fermat’s principle, one
can see that the time delay (reduced velocity of light) is related to the
deflection of light by the Sun. The differential slowing down of the
speed of light as a function of the distance from the Sun tilts the wave
front and changes its direction by  = 1.75”. This differential velocity
predicted by general relativity produces a deflection of light just as the
differential velocity in a plasma produces a bending as explained in
appendix I (and figure 1A). According to general relativity, the radio
signal grazing the solar surface is delayed by up to 72 km corresponding
to 250 s. Shapiro et al.(2) claim an agreement with general relativity to
within 0.5%. This means that the delay must be measured with an
accuracy of 0.36 km.
The Viking Relativity Experiment(2) involves corrections that take into
account the delay due to the plasma composed of an erratic electron
density surrounding the Sun. Since the claimed accuracy of 0.36 km in
the round trip distance is extremely small compared with  760 millions
km traveled by light during that same round trip (ratio equal to
4.71010), it is necessary to know, with a comparable accuracy, all of
the other contributions of error in the delay. The errors originate
primarily from two sources: (1) the orbits of the planets and of the
spacecraft around Mars and the positions of the tracking stations on
Earth and (2) the solar corona which increases the delay significantly for
signal paths that pass near the Sun. We have seen that the increase of
path length due to the geometrical bending is negligible (section 3a).
It is certainly not clear in Shapiro’s team’s paper(2) how the elements of
orbit of Mars and the Earth can be reliably obtained with the claimed
accuracy of 4.71010. When calculating the data, one has to decide
whether those elements of orbit have been corrected for general
relativity. At the Earth distance from the Sun, general relativity predicts
that time and lengths are changed by about 10-8 due to the orbital
velocity of the planets and the solar gravitational potential. Have the
201

data taken by radar to determine the orbital elements been all corrected
for the reduced velocity of light? One can expect that general relativity
has been taken into account since extremely accurate elements of orbit
of Mars and of the Earth are required. This indispensable information is
missing in Shapiro’s team’s paper(2).
Calculations show that the expected relativistic correction that are
needed to be applied to Newton’s elements of the orbit is much larger (
2108) than the relative error claimed in the distances of the planets
(0.36  760 millions  51010). Consequently, the delay claimed by
Shapiro’s team(2) is necessarily dominantly dependent on the relativistic
correction previously introduced in his calculation. They cannot find that
the relativistic correction exists if they have already introduced that
correction in the elements of orbit leading to the distance between Mars
and the Earth. When a relativistic correction in introduced in a
calculation, we cannot be surprised to find in the final calculation, a
difference a delay caused by that same relativistic correction.
Consequently, due to the above uncertainties in the elements of orbit of
the planets, the delay reported is meaningless and does not prove any
fundamental agreement with general relativity. Anyhow, the method
used by Shapiro et al.(2) is not coherent and uses non-coherent (double)
values for the velocity of light in vacuum. Therefore, it is erroneous to
believe that Shapiro’s team’s experiment proves that the velocity of light
is reduced in the solar neighborhood since this is not compatible with
the corrected velocity of light measured on Earth.

7 - Measurement of Gravitational Deflection Using Very Long


Baseline Interferometry.

Another kind of experiment(3,7) using radio signals has been claimed to


measure the deflection of radio signals near the Sun. Since no angle is
measured and only time delays are studied, those are indirect
measurements. One of those measurements(7) uses VLBI observations of
the extragalactic radio sources 3C273B and 3C279 passing near the Sun
every year. The article starts with: “There is a wide recognition of the
importance of testing theories of gravitation”. This is a clear
manifestation that these theories have not yet been properly tested. In
that experiment, the radiation issued from a galactic radio source is
detected simultaneously at two different receiving stations located in
202

California and in Massachusetts and recorded on magnetic tapes with


the signal generated by local atomic clocks.
Let us consider a deflection of the extragalactic signal due to the solar
gravity. Since the radio signal originates from extremely far behind the
Sun, after a deflection in the solar neighborhood the radio signal
reaching California will remain nearly parallel to the deflected ray
reaching Massachusetts. Nearly only the direction (of both rays) has
changed near the Sun by an angle , with respect to the initial direction,
as seen on figure 3. However, geometrical considerations show that, for
a pair of distant stations located in the plane perpendicular to the initial
incoming direction of the radio signal, the ray which passes further away
from the Sun will arrive slightly before the other one.

Figure 3
Differential Delay after Deflection of Light by the Sun.

In order to establish a cross-correlation between the two radio signals


received, recognizable fluctuations on the amplitude of the incoming
signal are looked for. It is hoped that the pattern of a fluctuation existing
in the original intergalactic radio signal, (that must exist in both parallel
rays near the Sun), can be recognizable at both receiving stations in
California and Massachusetts. Then, a delay  could then be measured
between the two receiving stations located in the plane perpendicular to
the initial source direction (see figure 3).
However, since that extragalactic radiation grazes the Sun, it also passes
through the solar corona, which is a plasma surrounding the Sun. In
203

order to correct for the change of velocity of the radiation due to the
solar plasma, the radio signal received at each station is passed through
narrow band filters selecting three different frequencies. In the case of a
plasma (here the solar plasma) , the velocity of transmission of radiation
is different at different frequencies. These pairs of signals are recorded
as a function of the time given by a local atomic clock.
Technically, it is reported that the correlation between the same pattern
of a radio fluctuation recorded at each station, is detected using a “filter
estimator” combined with a “parameterized theoretical model of the
delays” developed for that experiment. The aim of Lebach’s et al.(7)
paper is to determine the parameter , defined in the parameterized post-
Newtonian (PPN) formalism(7) (equation #2). This parameter gives a
relationship between the deflection predicted by Einstein and the delay
of the same pattern between each antenna. For a perfect agreement with
Einstein’s general relativity, the parameter  must equal unity. In order
to get the picosecond accuracy claimed in the article, the two local
clocks, located in California and in Massachusetts, must be
synchronized at the picosecond (or 0.3 millimeter) accuracy claimed in
the paper. It is not clear how such a limit can be achieved.

8 - Origin of the Fluctuations of the Radio Source.

General relativity predicts that the velocity of light is reduced in the


solar gravitational potential. Furthermore, the solar plasma adds a
supplementary delay to the transmission of radiation, but more
importantly, it adds important fluctuations to the original extragalactic
signal. Unfortunately, the density of that plasma as well as its short time
fluctuations are totally unpredictable. Signal fluctuations have been
observed lasting a few minutes. They were measured(7) to vary by as
much as 500%. Since random variations of the intensity of that plasma
are taking place very rapidly and are totally unpredictable, a
parameterized correction cannot give an accurate prediction. The
fluctuations in the plasma density even vary within one period of
accumulation of data. Consequently, even if three different frequency
components are measured, the theoretical inverse quadratic correction
(as a function of frequency) introduced to determine the density of the
plasma cannot provide the picosecond accuracy stated in the paper. One
must recall that the change of distance corresponding to one picosecond
204

is equal to only a difference of 0.3 millimeter (at light velocity) between


the receiving antennas on Earth.
Lebach’s et al.(7) experiment is based on the condition that the
fluctuations of intensity of the radio signal (from the radio sources
3C273B and 3C279), used for synchronization in California and
Massachusetts, originate at a cosmological distance, well before
radiation approaches the solar neighborhood. When any extra fluctuation
is added to the rays crossing the solar corona, the receivers located in
California and in Massachusetts can no longer synchronize correctly the
phase relationship (identified by a specific pattern of fluctuation)
required for the experiment. Any interference by the plasma is a
seriously obstacle to the experiment, since there is no way to recognize
the strong random noise generated by the solar corona from the original
fluctuations necessary to synchronize the radio signals. Furthermore,
when the noise from the corona (added to the signal), is later filtered by
a narrow band filter (used in Lebach’s et al. experiment), the addition of
that filter changes the phase of the signal.
It is well known theoretically and previously observed, that when a radio
signal is transmitted through a plasma, (here the plasma of the solar
corona), very important fluctuations are added. Even Lebach et al. (7)
report that in some data: “. . . large, rapid plasma-density fluctuations in
the solar corona would make the coherence time of the signals from
3C279 at 2 GHz too short to allow detection ”. Therefore, Lebach et al.
(7)
made an arbitrary selection to what appeared to be acceptable data.
The noise generated by the solar plasma gets so intense that it can block
completely the cosmic signal. For example, when the radio signal of
Pioneer VI(8-13) passed through the solar corona, it was observed that the
fluctuations due to the interaction with the plasma became so important
that the initial signal became undetectable well before reaching the solar
limb vicinity. Signal distortion due to the increase in the frequency
bandwidth is quite evident(8-13). In his abstract, Goldstein(8) states: “The
spectral bandwidths increased slowly at first, then very rapidly at 1
degree from the Sun”. It is well known theoretically how a plasma
generates fluctuations while increasing the bandwidth. A computer
program cannot identify small statistical fluctuations in the extra galactic
radio source from the intense wide band noise fluctuations generated by
the plasma surrounding our sun. Radiation emitted by the extra galactic
radio source fluctuates after passing through the solar corona just as
starlight twinkles after passing through the Earth atmosphere. Genuine
205

starlight fluctuations (in the radio range) cannot be identified through the
intense twinkling caused by the intense million-degree furnace of the
sun’s corona.

9 - From Amateur Size Telescopes to Multi-Billion Dollar Space


Technology.

One must conclude that the theoretical model used and leading to the
reported delay, is no longer acceptable when there is such an unstable
plasma, because much larger noisy fluctuations are added by the plasma
in the Sun’s neighborhood. The delays measured by Lebach et al. (7)
cannot prove the deflection of light by the Sun, because of the
impossibility of demonstrating a reliable synchronization. It is well
known statistically, that with a gigantic amount of data automatically
recorded in that experiment, combined with the astronomical number of
fits tested by the computer, coupled with a large amount of noise
reaching sometimes the level of saturation as reported in their paper,
some data can always be found to fit the expected theoretical model.
This is specially true when it is felt that nobody might challenge the
result obtained with a multi-billion equipment used to find an agreement
with an extremely popular theory. Unfortunately, the observation of the
deflection of visible light by the sun seems to have been abandoned
some years ago because the phenomenon appeared impossible to detect
in visible light.
There is a desperate situation among scientists for not being able to
show, with the most sophisticated technology, what is considered to be
the basic principle of general relativity on which rely most of modern
science, while this was claimed to be demonstrated by Eddington in
1919 using a simple four inch amateur size telescope. Of course, a
trillion or quadrillion dollar equipment will never reveal clearly the
deflection of light if such a deflection does not exist. It is hard to predict
for how many more decades this race will last and how much money has
to be wasted before scientists, at last, admit that there is no deflection.
Let us recall that Einstein’s predictions of light deflection is based on an
unverified variable velocity of light and on the double value of the
velocity of light in the Earth neighborhood, as explained above. This
incoherence of general relativity must be added to the fact that general
relativity is not compatible with the principle of mass-energy
206

conservation as demonstrated previously(14). The internal contradiction


about having two different values of the velocity of light at the same
location does not exist when we use a rational description, agreeing with
the principle of mass-energy conservation(14). In that case, the advance of
the perihelion of Mercury given by Newton’s physics is explained
independently and is also perfectly identical to the equation predicted by
general relativity. Furthermore, length contraction and the change of
clock rate can now logically be explained(14). No reliable observation has
ever been able to prove such a deflection of light by the sun after 80
years. Therefore, it is much more logical to believe that such a
deflection does not exist at all, and be compatible with the principle of
mass-energy conservation.

10 - Acknowledgments.

The authors wish to acknowledge the personal encouragement and


financial contribution of Mr. Bruce Richardson, which helped to pursue
this research work. We are also grateful to Dr. I. McCausland,
University of Toronto, for bringing his attention to some interesting
historical information.
207

Appendix I

The Deflection and Delay of Radio Signals in the Solar Plasma.

Shapiro(5) has observed that, due to the density of the plasma in the
medium surrounding the Sun, the velocity of transmission of the
radiation is reduced with respect to the speed of light c. Then, a delay
tm appears (with respect to the speed of light) between the emission of
a pulse of a radio signal from Earth, and the reception of its echo
through the interplanetary medium. This delay(5) is:
(A-1)
where N( ) is the electron density expressed in electrons/cm3, f is the
frequency of the radiation in hertz, c is the velocity of light in cm/sec,
is the path length in cm and e and p respectively refer to the Earth and
the other planet (i.e. Mars).
Using compiled results on the solar corona(15), during the quiet Sun
period between the radial distances r = 4RS and r = 20RS, the electron
density in the solar corona is well represented by:
. (A-2)
During the maximum solar activity, N can reach up to a factor 5 higher
than the one given by equation A-2 in the radial range. Substituting
equation A-2 into A-1 gives the time delay during the passage of
radiation through the plasma (round trip):
(A-3)
where d, xe, and xp are expressed in cm. xe is the distance along the line
of flight from the Earth-based antenna to the point of closest approach to
the Sun, xp represents the distance along the path from this point to the
planet and d is the minimum distance between the Sun and the
trajectory.
When radio waves pass closer to the Sun, equation A-3 shows that the
delay tm becomes larger. This means that at a closer distance to the
Sun, the velocity of light in the plasma is slower, as expected in
classical physics.
Equation A-3 implies only the electron density in the photon path
passing near the Sun and ignores all relativistic effects. This
208

relationship, also given by Straumann(1) (page 181, equation 3.4.8), gives


the electron density of the electron plasma at different distances r from
the Sun. This same relationship is also used by Shapiro(2,5). In the
Viking Relativity Experiment, two different frequencies are used in the
S ( 2.2 GHz) and X bands ( 8.8 GHz). This allows us to recognize the
contribution to the time delay produced by the passage of radiation
through the plasma from the one assumed to be caused by relativity.
Only the delay predicted by general relativity is frequency independent.
The delay produced by the plasma is frequency dependent. It was
observed by Shapiro et al.(2) (page 4329) that: “The increase of group
delay from this cause (plasma), can reach about 100 s for signals
passing close to the Sun. ” This must be compared with a predicted
relativistic delay of 250 s or 72 km(1).

Deflection of Radiation Due to the Plasma.

Figure A1 illustrates the propagation of radio waves emitted from Mars


in which relativity is momentarily ignored but for which we take into
account the solar plasma distributed around the Sun. Each radio wave
emitted travels in space forming a spherical front expanding around the
emitter. The wave front expands and the light rays move in the radial
direction away from the source. Some of the rays pass near the Sun so
that the velocity of propagation of the radio signal is reduced by an
amount that depends on the electron density of the plasma. Just near and
above the Sun, two rays  and  are drawn on figure 1A.
209

Figure 1A
Delay Due to the Solar Plasma.

When ray  passes close to the Sun, it travels at a slower velocity


because of the higher electron density at that location. Ray  above does
not have its velocity as much reduced because the electron density is
smaller further away from the Sun. Consequently, the wave front moves
more slowly near the Sun in the path of ray  than in the path of ray .
By definition, since the wave front corresponds to a constant phase, the
path traveled by ray  must be shorter than the path traveled by ray  by
 in a given time interval. Consequently, the upper part of the wave
front travels faster and the wave front becomes tilted due to the
difference of velocity in the plasma. Once the wave has passed the
plasma region, this wave front maintains its tilted direction until
reaching the Earth without any other perturbation. This is the reason for
which the radio beam is deflected by the solar plasma.
210

Let us calculate the angle of deflection of radiation for a normal solar


plasma as a function of the radio frequency of the emitter. This can be
calculated by the derivative of the delay function A-3 as a function of
the minimum distance d of the radio signal from the Sun. The derivative
of A-3 (times c) with respect to d is:
(A-4)
with:
. (A-5)
Using the Earth and Mars distances and for rays passing at a distance
equal to the Sun’s radius, if the electron density is that of a quiet Sun,
equation A-4 gives a deflection (in seconds of arc) equal to:
(A-6)
For a frequency of 1 GHz, the deflection is -25 arcsec. For a frequency
of 3 GHz, the deflection is -2.8 arcsec and -1.03 arcsec at a frequency of
5 GHz. This quantity increases by a factor of about five during solar
maximum. The deflection caused by the solar plasma is negligible for
visible light because of the much higher frequency of visible light. One
must conclude that the plasma around the Sun produces a deflection of
radiation which is of the order of the predictions of relativity when the
frequency is around a few GHz. One can show that the plasma
surrounding the Sun also produces, at a frequency around a few GHz, a
delay in the transmission of radio waves which is comparable with the
delay predicted by general relativity.
211

Appendix II

The Gravitational Deflection of Light by the Sun


during Solar Eclipses.

A - Introduction.

According to Einstein’s general theory of relativity published in 1916,


light coming from a star far away from the Earth and passing near the
Sun will be deflected by the Sun’s gravitational field by an amount that
is inversely proportional to the star’s radial distance from the Sun
(1.745’’ at the Sun’s limb). This amount (dubbed the full deflection) is
twice the one predicted by Einstein in 1908(16) and in 1911(17) using
Newton’s gravitational law (half deflection). In 1911, Einstein wrote: A
ray of light going past the Sun would accordingly undergo deflexion to
an amount of 4 10-6 = 0.83 seconds of arc. Let us note that Einstein did
not clearly explain which fundamental principle of physics used in the
1911 paper and giving the erroneous deflection of 0.83 seconds of arc
was wrong, so that he had to change his mind and predict a deflection
twice as large in 1916.
In order to test which theory is right (if any), an expedition led by
Eddington was sent to Sobral and Principe for the eclipse of May 29,
1919(18). The purpose was to determine whether or not there is a
deflection of light by the Sun’s gravitational field and if there is, which
of the two theories mentioned above it follows. The expedition was
claimed to be successful in proving Einstein’s full deflection(18,19). This
test was crucial to the general approval that Einstein’s general theory of
relativity enjoys nowadays.
However, this experimental result is not in accordance with mass-energy
conservation(14). This was not a real problem in those years, as we will
show that the deflection was certainly not measurable. We will see that
the effect of the atmospheric turbulence was much larger than the full
deflection, just like the Airy disk. We will also see how the instruments
could not possibly give such a precise measurement and how the stars
distribution was not good enough for such a measurement to be
convincing or even measurable. Finally, we will discuss how
Eddington’s influence worked for Einstein’s full displacement and
against any other possible result.
212

B - Observational Data.

There is a long list(20) of papers reporting observations of stars in the


neighborhood of the Sun during solar eclipses. A general survey of the
eclipse results, with some discussions, has been published (20).
Consequently, it is not possible to discuss them all in detail. However, it
is the observations of the 1919 eclipse which first convinced the
scientific community that the relativistic deflection really exists and that
established the belief in Einstein’s theory. Therefore, we will examine
these data in more detail though some information will also be given
about observations of other eclipses. These observations were not
successful, but they were considered as such until they were substituted
by experiments using space probes. The 1919 paper gives an idea of the
kind of measurement that convinced the world to the most spectacular
theory accepted by modern science: the theory of general relativity. The
problem of observing the deflection of light by the Sun is submitted to
numerous experimental difficulties. Let us study those difficulties.
Atmospheric turbulence is a phenomenon due to the atmosphere which
causes images of stars as seen by an observer on Earth to jump, quiver,
wobble or simply be fuzzy. This is a well-known phenomenon to any
astronomer, amateur or professional. In fact(21) (page 40), “Rare is the
night (at most sites) when any telescope, no matter how large its
aperture or perfect its optics, can resolve details finer than 1 arc
second. More typical at ordinary locations is 2- or 3-arc-second seeing,
or worse.”
The problem becomes even worse during afternoons due to the heat of
the ground. Tentative solutions to this seeing problem have only recently
been experimented(22). For anyone unacquainted with atmospheric
turbulence, an easy way to observe a similar phenomenon is by looking
over a hot barbecue. In this case, the distortion of the images (of the
order of several minutes of arc) is due to the heat coming from the
barbecue.
Eddington, an astronomer, was certainly aware of this problem. If it was
difficult in 1995(21) to see details finer that 1’’ at a professional site at
night, how much more difficult was it with an amateur size telescope in
the jungle in 1919? The supposed effect (full and half deflection)
decreases with the distance of the star from the Sun. During the 1919
eclipse, the stars closest to the Sun’s limb were drowned in the corona
213

and could not be observed(18). Of the stars that were not drowned in the
corona, Einstein’s theory predicts that 2 Tauri should have the largest
displacement, with 0.88’’. In Sobral, the displacement for that star was
reported to be 1.00’’(19). How could Eddington and Dyson claim to
observe that if at best, their precision due to atmospheric turbulence in
daytime heat was several arc seconds? And they were not at best, near
noon at Sobral and 2 p.m. at Principe, when the seeing is the worst, with
small amateur-size telescopes that were less than ideal. The instability
caused by the atmospheric turbulence is large enough to refute any
measurement of the so-called Einstein effect. However, there are other
reasons.
Two object glasses were used during the expedition at Sobral, a 4-inch
object glass and an astrographic object glass. Assuming a perfect optical
shape, which includes perfect chromaticity, for the 4-inch telescope, the
size of the central spot (which is surrounded by the ring system of the
diffraction pattern) can never be smaller than 1.25’’. This central spot is
called the Airy disk. Since some of the results were presented with a
claimed accuracy of the order of 0.01’’(19) (page 391), that relatively big
diffraction ring pattern (125 times the claimed accuracy) should have
been easily seen. Since no mention is made of it, we must understand
that it was not observable because various aberrations (chromatic of
spheric) were larger than 1.25’’ and/or because, as expected, the
atmospheric turbulence was larger than 1.25’’, which is the theoretical
limit of resolution of that telescope when there is no aberration and no
turbulence.
The elements of a telescope are very sensitive to temperature. For
example, it is reported that(18) (page 153): “when the [astrographic]
object glass is mounted in a steel tube, the change of scale over a range
of temperature of 10° F. should be insignificant, and the definition
should be very good”. However, during the team’s stay at Sobral, the
temperature ranged from 75°F during the night to 97°F in the afternoon.
This change in temperature must have affected the 4-inch telescope.
Let us calculate the change of scale on the plate of the 4-inch telescope
due to the thermal expansion of the steel tube. The expansion coefficient
of steel is 1.3  10-5 per degree Celsius. Even if the optical definition is
not much changed by the change of temperature, the change of scale on
the photographic plate is proportional to the change of length of the
tube. For 10 degrees Celsius the scale changes by 1.3  10-4. Since the
214

size of the plate is 8 per 10 inches (20  25 cm), this gives a change in
its angular size of 1.2 arc-sec. It does not seem that this change of scale
has ever been taken into account. This introduces a very serious error in
the data. How can they claim an accuracy of the order of 0.01’’ (19) (page
391) when they admit that the focus of the telescopes were determined
and fixed many days before the eclipse(18) (page 141)?
The photographs of the eclipse taken with the astrograph were very
disappointing(18) (page 153). It appears that the focus had changed from
the night of May 27 to the moment of the eclipse. After the eclipse, the
team left Sobral and came back in July to take comparison plates. They
discovered that the astrograph had returned to focus! They blamed this
change of focus on the effect of the Sun’s heat on the mirror, but they
could not say whether this effect caused a change of scale or if it only
blurred the images. The Sun’s heat could have affected its scale without
blurring the images. We know that there is a zone along the focal length
where the image looks as if it was in focus but for which the scale is
changed. To the best of our knowledge, nothing has ever been said
about that possible error.
If we plot the value of Einstein’s deflection against the angular distance
of the star from the Sun (as done in(20) page 50), we see that the part of
the hyperbola where the slope changes the most lies under a distance of
two solar radii from the Sun’s center. That part is thus crucial to a good
interpretation of the results. Looking at page 60 of the same article, we
see that only two of the stars used by the teams at Principe and Sobral
are in this area. It is thus very difficult to fit a hyperbola when only two
of the stars are in that zone. Only a straight line can be logically fitted
through two points. These observations (and most of the others studied
in von Klüber’s(20) article, which reviews all observations done before
1960) could easily be fitted by a straight line instead of Einstein’s
deflection equation. Therefore, these data cannot prove any of Einstein’s
deflections (full or half).
In one of the meetings of the Royal Astronomical Society (23) (page 41),
Ludwik Silberstein pointed out that the displacements found were not
radial, as Einstein’s theory states, but sometimes deflected from the
radial direction by as much as 35°! Nothing was said about that in
Dyson’s article(18). According to Silberstein: “If we had not the prejudice
of Einstein’s theory we should not say that the figures strongly indicated
a radial law of displacement.”
215

This brings us to our next point, which is to what degree social


circumstances influenced the acceptation of Einstein’s theory.

C - About Eddington’s Influence.

The results from the 1919 expedition were quickly accepted by the
scientific community. When preliminary results were announced, Joseph
Thomson (from the Chair) said(19) (page 394): “It is difficult for the
audience to weigh fully the meaning of the figures that have been put
before us, but the Astronomer Royal [Dyson] and Prof. Eddington have
studied the material carefully, and they regard the evidence as
decisively in favor of the larger value for the displacement.”
Thomson makes it look like only Eddington and Dyson are able to
understand the results. It seems that they have such a reputation that the
general and the scientific public should blindly believe them. It is Dyson
who presented the results of the Sobral expedition at a meeting of the
Royal Astronomical Society(19) (page 391). Some of the displacements
presented were very small, sometimes of the order of 0.01’’. In another
meeting(23) (page 40), Oliver Lodge asked if it were possible to measure
a deflection of 1/60’’ (approximately 0.02’’) to which Dyson responded:
“I do not think that it would be possible to measure so small a quantity.”
We clearly see that Dyson contradicted himself. Furthermore,
Eddington said himself he was in favor of the full deflection before
doing the experiment. Writing about the results of the expedition, he
said(24) (page 116):”Although the material was very meager compared
with what had been hoped for, the writer (who it must be admitted was
not altogether unbiased) believed it convincing.” Moreover, according
to Chandrasekhar(25) (page 25): “had he been left to himself, he would
not have planned the expeditions since he was fully convinced of the
truth of the general theory of relativity!”
Eddington was a Quaker and like other Quakers, he did not want to go
to war (WWI). In England, Quakers were sent to camps during the war,
but because of Dyson’s intervention(25) (page 25), “Eddington was
deferred with the express stipulation that if the war should end by May
1919, then Eddington should undertake to lead an expedition for the
purpose of verifying Einstein’s predictions!”. The circumstances of the
war forced Eddington to do an experiment that he would have never
done had he had a choice because he was so convinced of its outcome.
Why was the theory so quickly, widely and easily accepted? After all, it
216

was radically changing the common view of the universe, curving space
and dilating time. Furthermore, the British were accepting a theory from
a German man, right after a bitter war with Germany.
It seems that the theory was widely accepted only after the eclipse
expedition(26) (page 50). According to Earman and Glymour, Dyson and
Eddington played a great influential role in the acceptation of the
general theory of relativity by the British. In fact, it is Eddington who,
convinced of the truth of the theory, convinced Dyson. In the few years
before 1919, they made the measurement of the “Einstein effect” a
challenge and after the expeditions of May 1919, they helped give the
impression that the data had confirmed Einstein’s theory.
Aside from the fact that Eddington was convinced that the theory was
right, another reason pushed him to advocate it(26) (page 85). He hoped
that a British verification of a German theory might reopen the lines of
communication and collaboration between the scientists of both
countries, lines that had been closed during World War One. Finally,
before 1919, no one had claimed to have observed displacements of the
size required by Einstein’s theory. Probably because the theory was
thought to be proved by the 1919 eclipse observations, a lot of scientists,
maybe throwing out some of their data, reported finding the right
displacement(26) (page 85). After 1919, other expeditions were
undertaken to measure the deflection of light by the Sun. Most of them
obtained results a bit higher than Einstein’s prediction, but it did not
matter anymore since the reputation of the theory had already been
established.
In “Weird but True” Jamal Munshi(27) reports: “Dr. F. Schmeidler of the
Munich University Observatory has published a paper [49] titled “The
Einstein Shift An Unsettled Problem,” and a plot of shifts for 92 stars
for the 1922 eclipse shows shifts going in all directions, many of them
going the wrong way by as large a deflection as those shifted in the
predicted direction! Further examination of the 1919 and 1922 data
originally interpreted as confirming relativity, tended to favor a larger
shift, the results depended very strongly on the manner for reducing the
measurements and the effect of omitting individual stars.
So now we find that the legend of Albert Einstein as the world’s greatest
scientist was based on the Mathematical Magic of Trimming and
Cooking of the eclipse data to present the illusion that Einstein’s
general relativity theory was correct in order to prevent Cambridge
University from being disgraced because one of its distinguished
217

members [Eddington] was close to being declared a “conscientious


objector”.

D - Conclusion.

Much of the popularity of Einstein’s general theory of relativity relies on


the observations done at Sobral and Principe. We see now that these
results were overemphasized and did certainly not consecrate Einstein’s
theory. It is interesting to think of what would have happened if the
results had been deemed not good enough or if they had clearly showed
that there is no deflection of light by the Sun. Einstein’s theory might
not have enjoyed the popularity it now does and a new more realistic
theory might have been found years ago.

References.

1. N. Straumann, General Relativity and Relativistic Astrophysics,


Springer-Verlag, Berlin, pages, 459, 1991.
2. I. I. Shapiro, R. D. Reasenberg, P. E. MacNeil, R. B.Goldstein, J. P.
Brenkle, D. L. Cain, T. Komarek, A. I. Zygielbaum, W. F. Cuddihy and
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3. I. I. Shapiro, New Method for the Detection of Light Deflection by
Solar Gravity, Science, 157, p. 806, 1967.
4. K. R Lang,. Astrophysical Data: Planets and Stars, Springer-Verlag,
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Baseline Interferometry, in Physical Review Letters, 75, 8, p.1439-1442,
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218

10. G. S. Levy, T. Sato, B. L. Seidel, C. T. Stelzried, Pioneer 6:


Measurement of Transient Faraday Rotation Phenomena Observed
during Solar Occultation, Science 166, No: 3905, P. 596-598, 1969.
11. S. Depaquit, J. P. Vigier, J. C. Pecker, Comparaison de deux
observations de déplacement anormaux vers le rouge observés au
voisinage du disque solaire. C. R. Acad., Sc. Paris, Série B, p. 113-114,
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12. A. A. Chastel, J. F. Heyvearts, Broadening and Anomalous Shift of
Pioneer VI Telemetry Line An Effect of Coronal Inhomogeneities
Useful for Diagnostics, Astron. & Astrophys. 51, 171-183, 1976.
13. L. Accardi, A. Laio, Y. G. Lu, G. Rizzi, A Third Hypothesis on the
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Mechanics, Newton Physics Books, 200 pages, 1997, 2401 Ogilvie Rd,
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15. W. C. Erickson, Astrophysical Journal, 139, p. 1290, 1964.
16. A. Einstein, Jahrbuch der Radioaktiviät und Elektronik, 4, 411,
1908.
17. A. Einstein, Über den Einfluss der Schwerkraft auf die Ausbreitung
des Lichtes, in Annalen der Physik, 35, 898, 1911. Translated in English
in H. A. Lorentz, A. Einstein, H. Minkowski, and H. Weyl The
Principle of Relativity, Dover, 1952.
18. F. W. Dyson, A. S. Eddington, and C. Davidson, A Determination of
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Observations Made at the Total Eclipse of May 29, 1919, in
Philosophical Transactions of the Royal Society of London, series A,
220, p. 291-333, 1920. (See also: Annual Report of the Board of Regents
of the Smithsonian Institution Showing the Operations, Expenditures,
and Conditions of the Institution for the Year Ending June 30 1919,
Government Printing Office, Washington, p. 133-176, 1921.)
19. Joint Eclipse Meeting of the Royal Society and the Royal
Astronomical Society, 1919, November 6, The Observatory, 42, 545, p.
389-398, 1919.
20. H. von Klüber, The Determination of Einstein’s Light-Deflection in
the Gravitational Field of the Sun, in Vistas in Astronomy, Pergamon
Press, London, 3, 1960.
21. A. M. MacRobert, Beating the Seeing, in Sky & Telescope, 89, 4, p.
40-43, 1995.
219

22. D. Fischer, Optical Interferometry: Breaking the Barriers, in Sky &


Telescope, 92, 5, p. 36-41, 1996.
23. Meeting of the Royal Astronomical Society, Friday, 1919,
December 12, The Observatory, 43, 548, p. 33-45, Jan. 1920.
24. A. Eddington, Space, Time and Gravitation: An Outline of the
General Relativity Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 218
pages, 1959.
25. S. Chandrasekhar, Eddington: The Most Distinguished
Astrophysicist of His Time, Cambridge University Press, Cambridge, 64
pages, 1983.
26. J. Earman and C. Glymour, Relativity and Eclipses: The British
Eclipse Expeditions of 1919 and Their Predecessors, in Historical
Studies in the Physical Sciences, 11, p. 49-85, 1980.
27. J. Munshi Weird but True on the internet:
http://munshi.sonoma.edu/jamal/physicsmath.html:

-----

Paul Marmet, Ph. D. in Physics in 1960, in the field of Electron


Spectroscopy, has published more than 100 papers in this subject.
Officer of the Order of Canada (the highest honor given by the
Canadian Government), Fellow of the Royal Society of Canada,
National President of the Canadian Association of Physicists (1981-
1982). He has been teaching and doing research in Physics at Laval
University (1961-1984), and later at the University of Ottawa. He has
spent seven years doing research at the Herzberg Institute for
Astrophysics of the National Research Council of Canada (1984-1991).
He is the author of: A New Non-Doppler Redshift, Physics Department,
Laval University, Québec, 1980; Absurdities in Modern Physics: A
Solution, Les Editions du Nordir, Ottawa, 1993; Einstein's Theory of
Relativity versus Classical Mechanics, Newton Physics Books,
Gloucester, 1997.
Web page: http://www.newtonphysics.on.ca/

Christine Couture, a bright Physics student, is also an excellent


pianist, and gives piano concerts.
220

Sir Arthur Stanley Eddington


221

JOHN VON NEUMANN


L’APPRENDISTA STREGONE

(Piergiorgio Odifreddi)

Fatti e misfatti

L’apprendista nacque ebreo ed ungherese a Budapest il 28 dicembre 1903


come János Neumann, e lo stregone morì cattolico e statunitense a
Washington l’8 febbraio 1957 come John von Neumann (l’ereditario ‘von’
venne assegnato nel 1913 a suo padre per meriti economici
dall’imperatore Francesco Giuseppe). La sua conversione al cattolicesimo
avvenne in occasione del (primo) matrimonio nel 1930, con la figlia di una
bigotta. Di fronte al Senato statunitense descrisse la sua ideologia come
“violentemente anticomunista, e molto più militarista della norma’’. La
sua morte precoce fu l’effetto di un contrappasso, dovuto ad un cancro alle
ossa contratto per l’esposizione alle radiazioni dei test atomici di Bikini
nel 1946, la cui sicurezza per gli osservatori egli aveva tenacemente
difeso.

Von Neumann fu un bambino prodigio: a sei anni conversava con il padre


in greco antico; a otto conosceva l’analisi; a dieci aveva letto un’intera
enciclopedia storica; quando vedeva la madre assorta le chiedeva che cosa
stesse calcolando; in bagno si portava due libri, per paura di finire di
leggerne uno prima di aver terminato. Da studente, frequentò
contemporaneamente le università di Budapest e Berlino, e l’ETH di
Zurigo: a ventitré anni era laureato in ingegneria chimica, ed aveva un
dottorato in matematica.

La sua velocità di pensiero e la sua memoria divennero in seguito tanto


leggendarie che Hans Bethe (premio Nobel per la fisica nel 1967) si chiese
se esse non fossero la prova di appartenenza ad una specie superiore, che
sapeva però imitare bene gli umani. In realtà, il sospetto di un’origine
marziana era esteso non solo a von Neumann, ma a tutto il resto della
banda dei figli della mezzanotte, i coetanei scienziati ebrei ungheresi
222

emigrati che contribuirono a costruire la bomba atomica: Leo Szilard,


Edward Teller e Eugene Wigner (premio Nobel per la fisica nel 1963).

Benché si vestisse sempre con giacca e cravatta (anche in occasioni


improbabili quali le gite a cavallo nel Gran Canyon, o le passeggiate in
montagna), gli piaceva dare feste sfavillanti, guidare pericolosamente
(spesso leggendo, e a volte schiantandosi contro gli alberi o venendo
arrestato), bere e mangiare forte (si diceva di lui che sapesse contare tutto,
meno le calorie), dire storielle o battute sporche (tipo ‘’una violenza
carnale è un dispiacere fatto con l’intenzione di fare un piacere’’), e fissare
insistentemente le gambe delle ragazze (tanto che le segretarie di Los
Alamos furono costrette a schermare le loro scrivanie con del cartone).
Quando si dichiarò alla donna che poi sposò, non seppe andare oltre un
romantico: ‘’Io e te potremmo divertirci insieme, visto che ad entrambi
piace bere’’. Nella vita familiare la sua collaborazione era ovviamente
nulla, a parte saper aggiustare istantaneamente le cerniere rotte: una volta
dovette portare dell’acqua alla moglie, e fu costretto a domandarle dove si
tenevano i bicchieri (nella casa in cui abitavano da diciassette anni).

Delirava di interventi ambientali per il controllo climatico, ottenuti ad


esempio spargendo coloranti sulle calotte polari per inibire la radiazione
solare e far alzare la temperatura globale, anche a fini bellici. Quanto alle
armi che invece già esistevano, era favorevole ad un attacco nucleare
preventivo contro l’Unione Sovietica, prima che anch’essa ottenesse la
bomba.1

Logica

L’assiomatizzazione delle matematiche, sul modello degli Elementi di


Euclide, aveva raggiunto nuovi livelli di rigore e ampiezza alla fine del
secolo XIX, in particolare in aritmetica (grazie a Richard Dedekind e
Giuseppe Peano) e geometria (grazie a David Hilbert). Agli inizi del
secolo XX all’appello mancava però la teoria degli insiemi, la nuova
branca della matematica inventata da Georg Cantor, e messa in crisi da
Bertrand Russell con la scoperta del suo paradosso (sull’insieme degli
insiemi che non appartengono a se stessi2).

Il problema di una adeguata assiomatizzazione della teoria degli insiemi fu


risolto implicitamente nel giro di vent’anni (grazie a Ernst Zermelo e
223

Abraham Fraenkel) mediante una serie di princìpi che permettevano di


costruire tutti gli insiemi usati nella pratica matematica, ma che non
escludevano esplicitamente la possibilità che esistessero insiemi che
appartengono a se stessi. Nella sua tesi di dottorato del 1925 von
Neumann mostrò come fosse possibile escludere tale possibilità in due
modi complementari: l’assioma di fondazione, e la nozione di classe.

Con il contributo di von Neumann il sistema assiomatico della teoria degli


insiemi divenne pienamente soddisfacente, e la domanda successiva fu se
esso fosse anche definitivo, e non ulteriormente migliorabile. Una risposta
fortemente negativa venne nel settembre del 1930 dallo storico congresso
di Königsberg, in cui Kurt Gödel annunciò il suo famoso primo teorema:
gli usuali sistemi assiomatici sono incompleti, nel senso che non possono
dimostrare tutte le verità esprimibili nel loro linguaggio.3 Il risultato era
sufficientemente innovativo da confondere allora la maggior parte degli
addetti ai lavori, e tuttora la maggior parte dei curiosi. Ma von Neumann,
che aveva partecipato al congresso, confermò la sua fama di pensatore
istantaneo, ed in meno di un mese era in grado di comunicare a Gödel
stesso un’interessante conseguenza del suo teorema: gli usuali sistemi
assiomatici non possono dimostrare la propria consistenza. E’ proprio
questa conseguenza che ha più attirato l’attenzione, anche se Gödel la
considerò originariamente soltanto una curiosità, e l’aveva comunque
notata indipendentemente (per questo motivo il risultato si chiama oggi
secondo teorema di Gödel, senza menzioni al nome di von Neumann).

Meccanica quantistica

Al Congresso Internazionale dei Matematici del 1900 David Hilbert


presentò una famosa lista di 23 problemi, considerati centrali per lo
sviluppo della matematica del nuovo secolo: il sesto fra essi era
l’assiomatizzazione delle teorie fisiche.

Fra le nuove teorie fisiche del secolo l’unica che non avesse ancora
ricevuto un tale trattamento alla fine degli anni ‘20 era la meccanica
quantistica. Essa si trovava anzi in una condizione di crisi dei fondamenti
simile a quella della teoria degli insiemi nei primi anni del ‘900, con
problemi di natura sia filosofica che tecnica: da un lato il suo non
determinismo non era ancora stato ridotto, come proponeva Albert
Einstein sul modello della termodinamica nel secolo XIX, ad una
224

spiegazione determinista; dall’altro ne esistevano due formulazioni


euristiche equivalenti, dovute ad Werner Heisenberg e Ernst Schrödinger,
ma non una formulazione teoretica soddisfacente.

Dopo aver completato l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi von


Neumann affrontò dunque quella della meccanica quantistica. Egli si
accorse immediatamente, nel 1926, che un sistema quantistico si poteva
considerare come un punto di un cosiddetto spazio di Hilbert, analogo a
quello euclideo ma con infinite dimensioni (corrispondenti ai possibili
infiniti stati del sistema) invece delle tre usuali: le grandezze fisiche del
sistema (ad esempio, posizione e momento) potevano dunque essere
rappresentate come particolari operatori agenti su questi spazi. La fisica
della meccanica quantistica veniva così ridotta alla matematica degli
operatori (lineari hermitiani) su spazi di Hilbert:4 essa comprendeva come
casi speciali le formulazioni di Heisenberg e Schrödinger, e culminò nel
1932 nel classico I fondamenti matematici della meccanica quantistica.

A dire il vero all’approccio di von Neumann, estremamente soddisfacente


per i matematici, i fisici finirono per preferire quello introdotto nel 1930 da
Paul Dirac ne I principi della meccanica quantistica, benché esso fosse
basato su uno strano tipo di funzione (la cosiddetta delta di Dirac5),
aspramente criticata da von Neumann.

La sua trattazione astratta gli permise comunque di affrontare anche il


problema del determinismo, e nel libro egli dimostrò un teorema secondo
il quale la meccanica quantistica non può essere ricavata per
approssimazione statistica da una teoria deterministica del tipo di quelle
usate nella meccanica classica. Il risultato di von Neumann inaugurò una
linea di ricerca che, passata attraverso il teorema di John Bell del 1964 e
gli esperimenti di Alain Aspect del 1982, ha mostrato come la fisica
quantistica richieda una nozione di realtà sostanzialmente diversa da
quella della fisica classica.

In un complementare lavoro del 1936 von Neumann provò (insieme a


Garrett Birkhoff) che la meccanica quantistica richiede anche una logica
sostanzialmente diversa da quella della fisica classica,6 mostrando così
matematicamente che la rottura col senso comune richiesto dalla fisica dei
quanti è sia radicale che irrimediabile.
225

Economia

Fino agli anni ‘30 l’economia sembrava aver usato molta matematica, ma
a sproposito: per dare formulazioni e soluzioni inutilmente precise a
problemi che invece erano intrinsecamente vaghi. Essa si trovava nello
stato della fisica del XVII secolo, in attesa del linguaggio appropriato per
poter esprimere e risolvere i suoi problemi: mentre la fisica lo aveva
trovato nel calcolo infinitesimale, von Neumann propose per l’economia
la teoria dei giochi e la teoria dell’equilibrio generale.

Il suo primo contributo fu il teorema minimax del 1928: esso stabilisce che
in certi giochi a somma zero (in cui cioè la vincita di un giocatore è uguale
e contraria alla perdita dell’altro giocatore) e ad informazione perfetta (in
cui cioè ogni giocatore conosce esattamente sia le strategie dell’altro
giocatore, che le loro conseguenze), esiste una strategia che permette ad
entrambi i giocatori di minimizzare le loro massime perdite (da cui il
nome minimax).7 Il teorema minimax venne migliorato ed esteso a più
riprese da von Neumann, ad esempio a giochi ad informazione imperfetta
o con più di due giocatori, ed il suo lavoro culminò nel 1944 nel classico
testo La teoria dei giochi e il comportamento economico (scritto con
Oscar Morgenstern). L’interesse duraturo suscitato dalla teoria dei giochi
nell’economia è sottolineato dall’assegnazione del premio Nobel nel 1994
a John Harsanyi, John Nash e Reinhard Selten.

Il secondo contributo di von Neumann fu la soluzione nel 1937 di un


problema risalente a Léon Walras nel 1874: l’esistenza di situazioni di
equilibrio nei modelli matematici dello sviluppo del mercato, basati sulla
domanda e sull’offerta (attraverso prezzi e costi). Egli vide anzitutto che
un modello andava espresso mediante disequazioni (come si fa oggi) e
non equazioni (come si era fatto fino ad allora), e trovò poi una soluzione
applicando un teorema del punto fisso (di Luitzen Brouwer). L’interesse
duraturo suscitato dalla teoria dell’equilibrio generale e dalla metodologia
dei punti fissi nell’economia è sottolineato dall’assegnazione del premio
Nobel nel 1972 a Kenneth Arrow, e nel 1983 a Gerard Debreu.

Armamenti

Nel 1937 von Neumann, appena ricevuta la cittadinanza statunitense,


iniziò ad interessarsi di problemi matematici ‘applicati’. Egli divenne
226

rapidamente uno dei maggiori esperti di esplosivi, e si impegnò in un gran


numero di consulenze militari, soprattutto per la marina (sembra che egli
preferisse incontrarsi con gli ammiragli piuttosto che coi generali perché
in mensa i primi bevevano liquori ed i secondi acqua).

Il suo risultato più famoso nel (o sul) campo fu la scoperta che le bombe di
grandi dimensioni sono più devastanti se scoppiano prima di toccare il
suolo, a causa dell’effetto addizionale delle onde di detonazione (i media
sostennero più semplicemente che von Neumann aveva scoperto che è
meglio mancare il bersaglio che colpirlo). L’applicazione più infame del
risultato si ebbe il 6 e 9 agosto del 1945, quando le più potenti bombe
della storia detonarono sopra il suolo di Hiroshima e Nagasaki, all’altezza
calcolata da von Neumann affinché esse producessero il maggior danno
aggiuntivo.

Questo non fu comunque l’unico contributo di von Neumann alla guerra


atomica. Dal punto di vista tecnico, ancora più sostanziale fu il suo lavoro
sulla cosiddetta lente di implosione, la stratificazione di esplosivi attorno
alla massa di plutonio che permette di comprimerla fino ad innescare la
reazione a catena. Dal punto di vista politico, egli fece parte del comitato
che decise gli obiettivi (la sua prima scelta, la città santa di Kyoto, fu
fortunatamente bocciata dal Ministro della Guerra in persona).

Secondo il suo stesso direttore Robert Oppenheimer, l’impresa atomica


aveva mutato gli scienziati in ‘’distruttori di mondi’’: il cinico commento
di von Neumann fu che ‘’a volte qualcuno confessa una colpa per
prendersene il merito’’. Egli proseguì poi imperterrito e divenne, assieme
a Teller, il convinto padrino del successivo progetto di costruzione della
bomba all’idrogeno (che fu approvato da Truman nonostante la
raccomandazione contraria dell’apposito comitato presieduto da
Oppenheimer, il quale pensava che gli scienziati avessero già fatto
abbastanza male all’umanità).

Informatica

La complessità dei calcoli balistici richiesti per le tavole di tiro di


armamenti sempre più sofisticati aveva portato, nel 1943, al progetto del
calcolatore elettronico ENIAC di Filadelfia. Non appena ne venne a
conoscenza, nell’agosto 1944, von Neumann vi si buttò a capofitto: nel
227

giro di quindici giorni dalla sua entrata in scena, il progetto del calcolatore
veniva modificato in modo da permettere la memorizzazione interna del
programma. La programmazione, che fino ad allora richiedeva una
manipolazione diretta ed esterna dei collegamenti, era così ridotta ad
un’operazione dello stesso tipo dell’inserimento dei dati, e l’ENIAC
diveniva la prima realizzazione della macchina universale inventata da
Alan Turing nel 1936: in altre parole, un computer programmabile nel
senso moderno del termine.

Nel frattempo un nuovo modello di computer, l’EDVAC, era in cantiere, e


von Neumann ne assunse la direzione. Nel 1945 egli scrisse un famoso
rapporto teorico, che divenne un classico dell’informatica: in esso la
struttura della macchina era descritta negli odierni termini di memoria,
controllo, input e output. L’effettiva costruzione della macchina andò però
a rilento: le maniere di von Neumann, ed in particolare il fatto che egli
contrabbandasse sotto il suo nome molte delle innovazioni che erano
frutto di lavoro comune, non erano piaciute al resto del gruppo di lavoro
dell’EDVAC, che si sfaldò subito dopo la guerra.

Anche von Neumann se ne andò dal miglior offerente, e cioè all’Istituto di


Princeton. Qui egli si dedicò alla progettazione di un nuovo calcolatore,
producendo una serie di lavori che portarono alla definizione di quella che
oggi è nota come architettura von Neumann: in particolare, la distinzione
tra memoria primaria (ROM) e secondaria (RAM), e lo stile di
programmazione mediante diagrammi di flusso. Anche questa macchina
non fu fortunata: essa fu inaugurata solo nel 1952, con una serie di calcoli
per la bomba all’idrogeno, e fu smantellata nel 1957 a causa
dell’opposizione dei membri dell’Istituto, che decisero da allora di bandire
ogni laboratorio sperimentale.8

Oltre che per varie applicazioni tecnologiche (dalla matematica alla


metereologia), il computer servì a von Neumann anche come spunto per lo
studio di una serie di problemi ispirati dall’analogia fra macchina e uomo:
la logica del cervello, il rapporto fra l’inaffidabilità dei collegamenti e la
loro ridondanza, e il meccanismo della riproduzione. Egli inventò in
particolare un modello di macchina (automa cellulare) in grado di
autoriprodursi, secondo un meccanismo che risultò poi essere lo stesso di
quello biologico in seguito scoperto da James Watson e Francis Crick
(premi Nobel per la medicina nel 1962).9
228

Politica e affari

Von Neumann aveva avuto una carriera accademica fulminea come il suo
intelletto, ottenendo a ventinove anni una delle prime cinque cattedre del
neonato Institute for Advanced Studies di Princeton (un’altra era andata ad
Einstein). Egli dovette quindi cercare altri campi per soddisfare le sue
ambizioni, e li trovò nella collaborazione (o meglio, nel
collaborazionismo) con il complesso militare, politico e industriale:
attraverso una frenetica attività di rapporti di consulenza fugaci e proficui
(con l’esercito e la CIA da una parte, la Standard Oil, l’IBM e la RAND
Corporation dall’altra), egli divenne una vera e propria prostituta della
scienza.

Come presidente del cosiddetto Comitato von Neumann per i missili


dapprima, e membro della ristretta Commissione per l’Energia Atomica
poi, a partire dal 1953 e fino alla sua morte nel 1957 egli fu lo scienziato
con il maggiore potere politico negli Stati Uniti. Attraverso il suo comitato
sceneggiò la proliferazione nucleare, lo sviluppo dei missili
intercontinentali e sottomarini a testata atomica, e l’equilibrio strategico
del terrore (quest’ultimo come applicazione della strategia minimax): in
una parola, l’aspetto ‘scientifico’ della politica di guerra fredda che
condizionò il mondo occidentale per quarant’anni.

Ai suoi avventurismi politici, così come alle sue avventure intellettuali,


mise bruscamente fine il cancro alle ossa che lo distrusse nel giro di pochi
mesi, costringendolo dapprima a partecipare alle riunioni strategiche sulla
sedia a rotelle (scena che ispirò il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick,
nel 1963), e poi ad essere guardato a vista da infermieri militari per la
paura che potesse rivelare segreti nei suoi deliri. Nel tramonto della vita si
riavvicinò a dio, la cui esistenza riteneva probabile ‘’perché essa rende
molte cose più facili da spiegare’’: non sappiamo se gli passò mai per la
mente, velocemente come ogni altro pensiero, che forse la sua stessa
precoce morte potesse essere facilmente spiegata come una misericordiosa
azione divina verso l’umanità.

NOTE
229

1
Per quanto strano questo possa sembrare, dal 1945 al 1948 anche Bertrand Russell
espresse ripetutamente lo stesso parere.
2
Se tale insieme appartiene a se stesso, allora deve stare nell’insieme degli insiemi che
non appartengono a se stessi, e quindi non può appartenere a se stesso; e se tale
insieme non appartiene a se stesso, allora deve stare nell’insieme degli insiemi che non
appartengono a se stessi, e quindi deve appartenere a se stesso.
3
Vedi Piergiorgio Odifreddi, ‘’Gödel e l’Intelligenza Artificiale’’, La Rivista dei Libri,
Giugno 1992, pp. 37-39.
4
Ad esempio, il famoso principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo cui la
determinazione della posizione di una particella impedisce la determinazione del
momento e viceversa, si traduce nella non commutatività dei due operatori
corrispondenti.
5
La delta ha sempre valore nullo eccetto in un punto, in cui ha valore infinito; ciò
nonostante l’area da essa determinata è finita.
6
Ad esempio, la luce non passa attraverso due filtri successivi che siano polarizzati
uno orizzontalmente e l’altro verticalmente, e quindi a maggior ragione non passa se ai
due filtri se ne aggiunge un terzo polarizzato diagonalmente, prima o dopo i due
precedenti; ma la luce passa se il terzo filtro si inserisce fra i primi due! Questo fatto
sperimentale si traduce nella non commutatività della congiunzione.
7
Per ogni sua possibile strategia, un giocatore considera tutte le possibili strategie
dell’avversario, e la massima perdita che potrebbe derivargli; egli gioca poi la strategia
per cui tale perdita è minima. Tale strategia, che minimizza la massima perdita, è
ottimale per entrambi i giocatori se essi hanno minimax uguali (in valore assoluto) e
contrari (in segno): nel caso che tale valore comune sia zero, allora è inutile giocare.
8
Le loro reazioni erano state esplicite già al momento della decisione di costruire il
computer: il matematico Siegel dichiarò che egli evitava persino di usare le tavole dei
logaritmi (preferendo calcolarli a mano quando gli servivano), ed Einstein disse che un
computer non l’avrebbe certo aiutato a trovare l’unificazione delle teorie dei campi.
9
Alcune delle riflessioni di von Neumann sull’argomento si trovano ne La logica degli
automi e la loro riproduzione, del 1948, e Il calcolatore e il cervello, del 1958 (in
Vittorio Somenzi e Roberto Cordeschi, La filosofia degli automi, 1994, pp. 151-166 e
108-150).

Bibliografia

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Michael Heims, John von Neumann and Norbert Wiener, from


mathematics to the technologies of life and death, 1980.

Norman Macrae, John von Neumann, 1992.

Giorgio Israel e Ana Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico:


John von Neumann, scienziato del novecento, 1995.

Altre si concentrano su alcuni aspetti:

William Aspray, John von Neumann and the origins of modern


computing, 1990.

William Poundstone, Prisoner’s dilemma: John von Neumann, game


theory, and the puzzle of the bomb, 1992.

Un’analisi del contributo tecnico di von Neumann si trova nelle due


seguenti raccolte di articoli:

Bulletin of the American Mathematical Society, 1958, vol. 64.

Proceedings of the American Mathematical Society Symposia in Pure


Mathematics, 1990, vol. 50.

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Piergiorgio Odifreddi ha insegnato logica matematica negli Stati Uniti


ed in Unione Sovietica, ed attualmente è professore presso l’Università di
Torino. E’ autore di Classical Recursion Theory (North Holland, 1989),
curatore di Logic and Computer Science (Academic Press, 1990), e sta
preparando un volume di saggi sui legami fra matematica, letteratura e
filosofia.
231

John von Neumann ritratto dinanzi al computer ENIAC


232

REPRINTS
233
234

DE CAUSA GRAVITATIS

(Leonhard Euler)

Presentazione (Alessandro Moretti):

E’ quasi unanimemente ritenuto che la filosofia naturale abbia subito


una evoluzione lineare nel corso del tempo con la progressiva
sostituzione di teorie considerate inadeguate a favore di altre teorie,
percorrendo un iter che parte dai primi timidi tentativi di spiegazione dei
fenomeni fino alle odierne teorie fisiche, raffinate e complesse. Questo
però, se si esaminano con un pò più di attenzione i fatti, si rivela essere
un effetto dovuto al nostro retaggio culturale derivante tanto dalla nostra
concezione lineare del tempo quanto dall’influsso onnipervasivo
dell’idea darwiniana di evoluzione. Nella realtà lo svolgersi dei fatti è
stato molto più complesso di ciò che appare.
Uno dei periodi più turbolenti sotto questo punto di vista è stato il XVII
secolo. In quel periodo videro la luce due delle teorie più importanti
dell’intera storia della filosofia naturale: mi riferisco ovviamente alla
teoria cartesiana dei vortici e alla teoria newtoniana dell’attrazione. La
storiografia ufficiale insegna che la prima teoria, frutto delle
speculazioni meramente filosofiche del genio di Cartesio, non era molto
efficace sul piano descrittivo seppure estremamente suggestiva ed
efficace sul piano esplicativo mentre la seconda, anche se meno
fascinosa, era estremamente precisa proprio dal punto di vista dei calcoli
e delle previsioni quantitative. E’ naturale che la seconda teoria finisse
per prendere il sopravvento anche per l’apporto e il sostegno accordatole
da figure eminenti della cultura dell’epoca.
A questo punto sarebbe naturale aspettarsi, in base ai fatti enunciati
sopra, che in seguito alla definitiva affermazione della teoria newtoniana
nessuno studioso,dal più marginale al più importante, si sia avvalso dei
principi della teoria cartesiana, considerata “falsa”. Questo invece non
corrisponde al vero.
Leonhard Euler (1707-1783) è stato senza dubbio una delle figure più
rappresentative del XVIII secolo, e senza esagerare anche dell’intera
storia della scienza. Nacque a Basilea e fu edotto da un maestro
235

d’eccezione come Jacques Bernoulli. Il suo talento matematico era fuori


dal comune e la sua capacità di scrivere non aveva eguali; ben presto il
suo valore venne riconosciuto dai suoi contemporanei. Nel 1741
Federico il Grande lo volle all’Accademia delle Scienze di Berlino. Qui
coltivò quelli che sono stati i suoi interessi di sempre: non si limitava
infatti all’analisi matematica, ma si dedicava anche a studi in fisica
matematica, meccanica e cosmologia, scienze che avevano ricevuto
notevole impulso dalla rivoluzione newtoniana. In quegli anni scrisse il
breve saggio che qui presentiamo, dove tentava per la prima volta di
rendere ragione delle cause dei fenomeni celesti, come molti suoi illustri
predecessori ma differentemente dalla quasi totalità dei suoi
contemporanei. Il saggio venne pubblicato anonimo nel 7 volume della
“Miscellanea Berolinensia”, gli Atti dell’Accademia di Berlino.
L’attribuzione dello scritto ad Euler è pressochè certa grazie ad una
lettera di uno studioso francese. George-Louis Lesage era uno studioso
che soleva corrispondere con molti degli accademici del tempo. In una
lettera che indirizzò ad Euler stesso, datata 9 Agosto 1765, egli criticava
la teoria esposta in un breve saggio apparso anonimo sul settimo volume
delle “Melanges de Berlin”. La reazione immediata e ferma non lascia
adito a dubbi sulla paternità dello scritto. A questo saggio fecero seguito
negli anni altri scritti sullo stesso argomento, ma questi rimangono
sostanzialmente poco conosciuti alla gran parte degli studiosi.
In questo saggio in particolare, dopo una discussione su quali
dovrebbero essere i principi da seguire nell’indagine fisica, reintrodusse
quel fluido pervadente l’intero universo che la teoria dell’attrazione
aveva reso superfluo. Tale fluido era concepito sottoposto a grande
pressione. Proprio a questa pressione era da imputare l’insorgere del
fenomeno della gravitazione. In seguito, sulla base di questa, dedusse la
legge dell’inverso del quadrato della distanza dal centro di gravitazione.
Ma non vogliamo togliere troppo al piacere della scoperta lasciando il
lettore al testo euleriano.

-----

Leonhard Euler, b. Apr. 15, 1707, d. Sept. 18, 1783, was the most
prolific mathematician in history. His 866 books and articles represent
about one third of the entire body of research on mathematics,
theoretical physics, and engineering mechanics published between 1726
and 1800. In pure mathematics, he integrated Leibniz’s
236

DIFFERENTIAL CALCULUS and Newton’s method of fluxions into


mathematical analysis; refined the notion of a FUNCTION; made
common many mathematical notations, including e, i, the pi symbol, and
the sigma symbol; and laid the foundation for the theory of special
functions, introducing the beta and gamma TRANSCENDENTAL
FUNCTIONS. He also worked on the origins of the CALCULUS OF
VARIATIONS, but withheld his work in deference to J. L.
LAGRANGE. He was a pioneer in the field of TOPOLOGY and made
NUMBER THEORY into a science, stating the prime number theorem
and the law of biquadratic reciprocity. In physics he articulated
Newtonian dynamics and laid the foundation of analytical mechanics,
especially in his Theory of the Motions of Rigid Bodies (1765). Like his
teacher Johann Bernoulli (see BERNOULLI, JACQUES), he elaborated
continuum mechanics, but he also set forth the kinetic theory of gases
with the molecular model. With Alexis CLAIRAUT he studied lunar
theory. He also did fundamental research on elasticity, acoustics, the
wave theory of light, and the hydromechanics of ships.
Euler was born in Basel, Switzerland. His father, a pastor, wanted his
son to follow in his footsteps and sent him to the University of Basel to
prepare for the ministry, but geometry soon became his favorite subject.
Through the intercession of Bernoulli, Euler obtained his father’s
consent to change his major to mathematics. After failing to obtain a
physics position at Basel in 1726, he joined the St. Petersburg Academy
of Science in 1727. When funds were withheld from the academy, he
served as a medical lieutenant in the Russian navy from 1727 to 1730.
In St. Petersburg he boarded at the home of Bernoulli’s son Daniel. He
became professor of physics at the academy in 1730 and professor of
mathematics in 1733, when he married and left Bernoulli’s house. His
reputation grew after the publication of many articles and his book
Mechanica (1736-37), which extensively presented Newtonian dynamics
in the form of mathematical analysis for the first time.
In 1741, Euler joined the Berlin Academy of Science, where he
remained for 25 years. In 1744 he became director of the academy’s
mathematics section. During his stay in Berlin, he wrote over 200
articles, three books on mathematical analysis, and a scientific
popularization, Letters to a Princess of Germany (3 vols., 1768-72). In
1755 he was elected a foreign member of the Paris Academy of Science;
during his career he received 12 of its prestigious biennial prizes.
237

In 1766, Euler returned to Russia, after Catherine the Great had made
him a generous offer. At the time, Euler had been having differences
with Frederick the Great over academic freedom and other matters.
Frederick was greatly angered at his departure and invited Lagrange to
replace him. In Russia, Euler became almost entirely blind after a
cataract operation, but was able to continue with his research and
writing. He had a prodigious memory and was able to dictate treatises
on optics, algebra, and lunar motion. At his death in 1783, he left a vast
backlog of articles. The St. Petersburg Academy continued to publish
them for nearly 50 more years.

R. Calinger

Bibliography: Bell, Eric T., Men of Mathematics (1937; repr. 1986);


Boyer, Carl, A History of Mathematics (1968); Spiess, Otto, Leonhard
Euler (1929); Truesdell, C., “Leonhard Euler, Supreme Geometer (1707-
1783),” in Irrationalism in the Eighteenth Century, ed. by Harold E.
Pagliaro (1972).

(The Software Toolworks Multimedia Encyclopedia, 1992 Edition)

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238

Commentatio ab indice ENESTROEMIANI abest


Miscellanea Berolinensia 7, 1743, p. 360-370

Gravitatio corporum in se mutua tam latissime patet, ut plurimi


philosophi non dubitaverint eam ad primas materiae proprietates,
cuiusmodi sunt extensio et inertia, referre, mutuamque corporum sese
attrahentium actionem a viribus insitis deducere. Cum enim corporibus
extensio et inertia ideo tribuantur, quod omnibus constanter et perpetuo
inesse deprehendantur, similis fere ratio gravitatis videbatur, propterea
quod vix ullum adhuc sit observatum corpus, quod gravitatione penitus
careret. Non solum enim omnia corpora circa terram posita deorsum
nituntur, sed etiam terram ipsam cum reliquis planetis solem versus
urgeri, observationes astronomicae ad leges Mechanicae examinatae
luculenter docuerunt; quin in minimis etiam corporibus, quae quidem
experimentis subiici possunt, similis quaedam vis sive magnetica sive
electrica quotidie magis magisque evincitur. Sane in Astronomia
attractionis hypothesis utiliter adhibetur in explicandis gravitatis
phaenomenis. Planetae enim et Cometae perinde moveri observantur,
acsi cum a sole tum a se mutuo attraherentur, iisdemque legibus
progrediuntur, quas eis ex hac hypothesi Vir summus NEWTONUS
praescripsit. Mathematico ad determinandam quantitatem effectuum et
virium minime opus est, ut qualitates et causas earum rerum perspectas
habeat, adeoque omni iure utitur termino attractionis ad indigitandam
causam, etsi hanc prorsus ignoret. Cumque in natura effectus unus sit
causa alterius effectus, Physicus rationem effectus ab alio, cuius causa
ipsum fugit, redditurus, hunc eius causam allegare, adeoque ex
attractione tanquam ex indubitabili Phaenomeno aliorum
Phaenomenorum rationem reddere tenetur. Imo etiamsi vel maxime vera
attractionis causa detecta fuerit, non tamen in explicandis singulis eius
effectibus ab ista causa remota ratio petenda esset, quae ab effectu eius
observabili tanquam a proxima merito derivatur. Ast battologiam a
CARTESIO feliciter profligatam in Philosophiam iure quasi postliminii
reducunt, sibique et aliis viam ad solidiorem rerum naturalium
cognitionem praecludunt, quotquot de investiganda gravitatis causa
desperantes nodum gordium secare conantur, dum attractionem vim
primitivam corporibus inhaerentem esse, acriter contendunt. Nimirum ex
239

notione effectuum seu Phaenomenorum attractionis, quae sola


observatione innotescunt, per praecipantiam fingunt eandem causae
notionem, idemque per idem explicantes committunt circulum maxime
vitiosum. Attractionem enim concipiunt per vim, qua corpora ad se
invicem urgentur, et gravitas ipsis est vis, qua corpus fertur versus
centrum terrae; rationem autem reddituri cur id fiat, affirmant, id fieri
propter attractionem seu gravitatem, quod idem est, ac si affirmarent,
corpora ad se accedere mutuo, quia mutuo ad se accedunt, corpora
tendere ad centrum terrae quia ad centrum terrae tendunt. An luculentius
circuli vitiosi afferri possit exemplum, merito dubitandum. Ex primis
Philosophiae principiis, seu ex notionibus communibus, quibus axiomata
omnia constant, demonstratum est, in causae notione contineri notionem
principii, quod nec admitti nec fingi debet, nisi ex eius
determinationibus, per quas concipitur, effectus inde dependens sit
explicabilis; alias Philosopho quidlibet pro lubitu fingere liceret. Causa
itaque et principium differunt ab effectu et principiato, uti determinans a
determinato. Admodum diversae sunt istae notiones, resque per illas
repraesentatae; trianguli latera, quibus anguli determinantur, non sunt
ipsi anguli. Ergo nec attractio et gravitas seu phaenomena, quae hoc
nomine compellantur, sunt eorum causa. Non solum vero admissa
attractione seu gravitate instar vis corporibus insitae mirum in modum
confunduntur notiones causae et effectus, sed et praeterea pullulant
innumerae difficultates inextricabiles. In hac enim hypothesi attractio
producit omnes suos effectus absque omni contractu et impulsu et sine
ullo concursu sive materiae propriae ex corporibus emanantis, sive
alterius materiae intermediae: Stabilitur itaque eo ipso realitas adeoque
multo magis possibilitas actionis in distans, quae fieri concipitur absque
ullo contactu. Non ergo repugnat Sonum ad aures meas deferri sine aeris
interventu; conspici a me objecta, quae ob infinitam locorum
intercapedinem organa mea sensoria tangere nequeunt; herbas in planeta
Saturno crescentes vi attractrice in se incomprehensibili in corpore meo
vomitus aliosque vehementes intestinorum motus excitare, etiamsi
neque nares neque os quicquam inde hauserint. Admissa enim corporum
actione in distans sine impulsu, ex maiori vel minori eorum distantia
ratio diversitatis effectuum reddi nequit. Concedunt attractionis patroni,
corpora eo quod sint entia composita extensa et mobilia, in conflictu
adeoque per contactum iuxta regulas motus infinitis mutationibus
obnoxia esse, eamque ob causam ea tanquam machinas considerari
posse ac debere. Nec minori evidentia demonstratum est, nullam in
240

composito adeoque corpore accidere posse mutationem, nisi quoad


figuram, magnitudinem partium, et locum totius, omnesque inde
proficiscentes modificationes ex motu originem trahere. Sane scientia
Physices ex eo demum tempore incrementa cepit, quo, explosis
qualitatibus occultis, Philosophia Mechanica invaluit, quippe quae,
facem praeferente Geometria, modificationes corporum ad causas suas
revocans in eo versatur, ut ex eorum structuris texturis et mixtionibus, id
est, ex modo compositionis mutationes inde pendentes secundum leges
motus intelligibili modo explicet. Harum legum prima est, quod corpus
unumquodque perseveret in statu suo quiescendi vel movendi
uniformiter in directum, nisi quatenus illud a viribus impressis cogitur
statum suum mutare. Quoniam veritas istius propositionis per exempla
patet, sumunt eam Mathematici instar axiomatis, illique tanquam
firmissimae basi arduam motus Scientiam superstruunt. Negari tamen
nequit, evidentiam huius axiomatis pendere ab alio antiquiore, quod ex
nihilo nihil fiat, seu ex principio rationis sufficientis; hoc enim sublato
nihil amplius obstat, quo minus mobile ipsummet suam mutet
celeritatem atque directionem. Evanescit itidem evidentia utriusque
axiomatis in conceptu attractionis instar vis primitivae, corpori insitae,
quippe per supra notata attractio seu gravitatio Phaenomenon tantum
nihilque praeterea denotat, causam vero mentitur termino inani, cui nulla
notio, id est nihilum respondet, nisi fingendi licentiam tibi arrogans in
gratiam attractionis corporibus animam quandam inque ea appetitum, si
non rationalem, saltem sensitivum, amorem vel instinctum,
consequenter in corpore duplicem Mechanismum concipere velis,
quorum unus ex mechanicis explicabilis legibus contiguitatem et
contactum necessario requirit, alter vero absque contactu motum
adeoque mechanismum immaterialem generat: In hac igitur hypothesi
gravitatio aeque ac extensio omnibus corporibus tam sunt propriae, ut
etiamsi corpus quodcunque per se a reliquis corporibus remotum
spectetur, gravitate tamen tanquam essentiali attributo carere nequeat,
unde et praeterea prono alveo fluit, gravitationem pariter ac motum
concipi per se in uno corpore absque ulla relatione ad alia corpora, hoc
est extra omnem nexum et Systema mundi materialis. Etsi autem ex hoc
labyrintho exitus nullus pateat, attractionis tamen quidam defensores in
eo ultimum praesidium quaerunt, quod nemo adhuc causam physicam
gravitationis, quae omnibus phaenomenis satisfaciat, detegere potuerit.
Fatentur nihilominus iniquissimam atque Philosopho indignam
sententiam esse, cuius effectus causam assignare nequeunt, eiusdem
241

omnino causam dari negare. Videamus igitur an gravitatis causa


mechanica indicari possit? Quid tentasse nocet?
In Mechanica ex prima motus lege demonstratur, a corpore A non posse
moveri corpus B nisi ipsum A in motu sit constitutum, consequenter in
nullo corpore status mutationem concipiendam nisi per conflictum, quo
fit ut unius status conservari nequeat salvo alterius impingentis statu.
Inde ostendi posset, in omnibus, quibus mundus materialis componitur,
partibus, statu quidem discrepantibus, inter se tamen arctissimo nexu
cohaerentibus, continuam mutationem consequi, ita ut nullum corpus vel
puncto temporis in statu suo conservetur. Dum igitur corpus, quod etsi
circa terrae superficiem quiescit, tamen deorsum nititur, a vi quadam
externa deorsum urgeatur, sanciunt leges motus. Haec pressio, cum a
nulla materia visibili efficiatur, ab invisibili ortum trahat necesse est,
quae in corpus vel directe impingendo vel ob vim centrifugam premendo
totum nisum producat: Tertium causae mechanicae modum dari non
suspicantur attractionis Patroni. Verum gravitatem ab allisione materiae
subtilis deorsum incurrentis oriri recte negant, neque fere minori iure
explicationes a vorticibus petitas, in quibus corpora per vim centrifugam
deorsum pellantur, reprehendunt, quoniam hac ratione vel phaenomenis
non fit satis, vel ipsi vortices tam complicati excogitari debent, ut
simplicitati, quam natura constanter affectat, nimium adversentur. Hinc
igitur, cum praeter binos hos explicandi modos tertium non dari
autument, merito sibi concludere videntur, gravitatis causam
mechanicam seu explicabilem omnino non dari. Quamvis autem ista,
quam faciunt, causarum enumeratio perfecta videatur, tamen in eo
peccat iudicium, quod gravitas immediate ex uno vortice oriri
assumatur, cum esse queat effectus mediate ex pluribus vorticibus
oriundus. Ex minimis autem vorticulis primum elasticitatem provenire
posse dubitare vix licet, atque hinc summa aetheris elasticitas ortum
habere merito videtur. Sub aetheris nomine intelligo fluidum
subtilissimum universum mundi spatium ita implens, ut vix dentur pori
ab eo vacui: cuius fluidi existentiam praeter alias rationes radiorum lucis
sive emissio sive propagatio evidentissme [sic] comprobant. Simul vero
ex his phaenomenis perspicitur, universum aetherem in statu
maximopere compresso versari, cuius compressionis causa, si cui minus
recte vorticulis tribui videatur, is saltem aetherem tanquam aquam
undique maxima vi comprimi concedet; quicquid autem sit, nihil contra
leges philosophandi saniores mihi quidem assumere videor, si aetherem
esse fluidum undique circumfusum ac summopere compressum statuam;
242

haec enim hypothesis tum experimentis et observationibus maxime est


consentanea, tum a suspicione qualitatum occultarum, qualis est
attractio, alienissima. Cum igitur aether vehementer sit compressus,
omnia corpora, quae in eo versantur, undique ingenti vi comprimantur
necesse est, a quo effectu duritiem et cohaesionem corporum oriri
verisimillimum videtur; corpus autem sic undique compressum ad
motum non ciebitur, nisi pressiones, quas quaquaversus sentit, fuerint
inaequales. Quamobrem si aether ubique aequali vi esset compressus, in
corporibus nullus prorsus motus generaretur; sin autem compressiones
aetheris fuerint inaequales, tum utique corpora sollicitari deberent eam
regionem versus, ubi compressio aetheris fuerit minor. Quodsi ergo
causa investigari posset; ob quam compressio aetheris minor esset futura
prope terram, quam alibi, causa gravitatis eo ipso foret assignata. Cum
autem aether sit fluidum subtilissimum compressiones per eum ita
aequaliter distribui debere videntur, ut eiusmodi inaequalitas, qualis ad
gravitatem producendam requiritur, locum habere nequeat; statim enim
ac compressio uno in loco fuerit minor quam in adiacentibus, in his
compressio relaxatur, atque quasi puncto temporis in aequilibrium
reducetur. Verumtamen ex hoc ipso fonte explicari poterit,
quemadmodum inaequalitas in aetheris compressione locum habere
queat; cum enim si eiusmodi inaequalitas affuerit, motus in aethere
subsequi debeat, ita vicissim, si motus in aethere adsit, ibidem
compressio minor sit necesse est. Quoniam namque motus generari non
potest sine dispendio virium, si aetheri motus prope terram tribuatur, iste
motus neque produci neque conservari poterit, nisi compressio aetheris
his in locis diminuatur. Quod etiamsi ex natura motus fluidorum ostendi
posset, tamen facilius per observationes in aere et aqua agnoscitur, ubi
compressiones, quamprimum motus accesserit, fiunt inaequales. Cum
igitur valde sit probabile, aetherem circa terram in continuo motu esse
positum, quod cum plurima alia phaenomena suadent, tum vero maxime
virtus terrae magnetica evincit, nihil, quod legibus motus non sit
conforme, assumere mihi equidem videor, si aetheris compressionem
prope terram minorem statuam, quam in regionibus a terra remotis, ubi
iste aetheris motus minus viget. Hac autem inaequalitate compressionis
in aethere admissa, omnia corpora, quae circa terram sunt posita, maiori
vi deorsum prementur, quam sursum, propterea quod supra corpora
aetheris compressio maior est quam infra ea, et hanc ob rem ad
descensum sollicitabuntur. Simili modo si aether prope solem in motu
continuo fuerit constitutus, gravitatio planetarum versus solem hinc
243

modo satis plano explicabitur. Effectus autem magnetici perpetuum


aetheris motum vorticosum circa tellurem declarant, cuius generationem
et conservationem alia occasione ex legibus motus explanabo, unde
manifestum est, quae causa virtutem magneticam producat, eandem
gravitatis principium in se continere; quae cum ob simplicitatem et
conformitatem naturae maxime conveniant, ob hoc ipsum nullum
dubium relinquunt, quin causa gravitatis in diminutione vis, qua aether
prope terram comprimitur, collocari debeat. Quo autem gravitas ad
terram appropinquando crescat in ratione duplicata viciniae a centro,
quam legem phaenomena indicant, necesse est, ut diminutiones
compressionis aetheris in ratione distantiarum simplici decrescant, quae
ratio cum sit omnium simplicissima, simul veritatem huius explicationis
non mediocriter confirmat. Sit compressio aetheris absoluta seu non
diminuta = c, erit ea in distantia a centro terrae x aequalis c minus
quantitate ipsi x reciproce proportionali; ponatur ergo compressio
aetheris in distantia x a centro terrae C = c - cg/x . Hinc si corpus AABB
circa terram versetur, eius superficies superior AA deorsum premetur vi
= c - cg/CA , inferior autem superficies BB sursum premetur vi = c -
cg/CB , quae vis cum minor sit quam prior, corpus deorsum premetur

vi = cg( 1/CA - 1/CB ) = (cg*AB)/(AC*BC) .

Cum igitur magnitudo corporis AB sit incomparabiliter minor quam


distantia CB, erit AC = BC , hinc eiusdem corporis gravitas in distantia
a centro quacunque erit ut 1/AC2 hoc est reciproce ut quadratum
distantiae a centro. Similis ergo erit ratio diminutionis compressionis
aetheris circa solem atque planetas, propterea quod vis, qua corpora eo
urgentur, pariter reciproce est proportionalis quadratis distantiarum.
Aetheris vero constitutionem prope quaevis corpora alterari, inflexio
radiorum quae observatur, dum radii praetereunt, non obscure indicat.
Cum enim radii in motu aetheris undulatorio constent, iste autem motus
a compressione aetheris pendeat, evidens est, ubi radiorum inflexio
eveniat, ibi quoque compressionem aetheris diversam esse oportere. Ex
hoc vero fonte vis electrica corporum pariter atque adhaesio aquae ad
vitrum in tubulis capillaribus, aliaque similia phaenomena explicationem
facilem nanciscuntur; quae omnia attentius perpendenti sponte fient
clariora.
244

Eulero e la sua celebre equazione che lega il numero delle facce, degli spigoli, e dei
vertici di un poliedro
245

E’ LEON BATTISTA ALBERTI IL MISTERIOSO


AUTORE DELLA HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI?

(Emanuela Kretzulesco Quaranta)

Chi fu l’enigmatico autore del romanzo di “Polifilo”, il “Poliaephilos”,


(ovvero l’amante di Polia)? Chi scrisse il libro volle presentarsi così, con
quello pseudonimo. L’anonimato doveva essere rigorosamente
rispettato. Tant’è vero che l’ultimo dei presentatori dell’edizione aldina,
Andreas Maro Brixiensis, in un dialogo “con la Musa” si sente
rispondere da questa che né lei, (né le sorelle), vogliono che il “vero
nome di Polifilo sia conosciuto”: “nolumus agnosci”.
Da quasi cinque secoli i bibliofili e vari scrittori di storia e di filosofia
s’interrogano circa l’identità dell’Anonimo “amante di Polia”.
Nell’ultimo anno del secolo, il Quattrocento appunto, un secolo che
potrebbe venir ricordato come quello dell’Umanesimo in pieno fulgore,
fu stampato da Aldo Manuzio, grazie al finanziamento offerto da
Leonardo Grasso, “il più bel libro a stampa del Rinascimento”:
l’Hypnerotomachia Poliphili, oggetto del presente studio. Veneziano il
libro, ma fiorentino il protagonista messo in scena dall’Anonimo autore.
Da Venezia si perviene all’ambito dell’Accademia Fiorentina; e da li a
quella Romana per via degli scambi e degli interessi incrociati.
Il significato allegorico del romanzo - presentato come ricordo di un
sogno fatto all’alba del 1° maggio 1467 dal misterioso “Polifilo” - fu
chiaro, esplicito, per chi s’interessava di dottrine care ad insigni filosofi,
quali il cardinale Niccolò Cusano, il Bessarione, gli Accademici romani
e fiorentini. Lo scopo delle ricerche era quello di evidenziare la
convergenza fra tradizioni religiose non appartenenti all’area giudeo-
cristiana con quelle bibliche relative all’origine della creazione.
Interessava la conferma obiettiva dell’esistenza di una Rivelazione, o
“prisca enarratio theologica” della quale l’intera specie umana aveva
conservato il ricordo. Si constatava che, nel corso dei millenni, le tracce
di quella “prisca theologia” si potevano riscontrare in tradizioni ormai
ridotte a “superstizioni” nascoste sotto apparenze mitologiche. Ma cosa
sono le “superstizioni” se non “quod super est”, ciò che rimane d’un
246

sapere diluito, ma ancora presente nell’intero globo terracqueo? In


Oriente si scoprirono varie fonti, quali per esempio gli scritti detti di
Ermete Trismegisto, nel 1419, in un’isola greca. L’origine del creato era
ivi narrata in modo somigliante al racconto della Genesi.
Ma se veramente vi è convergenza fra le varie e più antiche tradizioni
religiose, non è questa la prova d’una avvenuta Rivelazione, di origine
non umana, al principio dell’avventura umana sul nostro Pianeta? Non
era questa la prova più valida della validità, appunto, del giudeo-
cristianesimo? Purtroppo il senso misterico, teologico, della
“Hypnerotomachia” non fu percepito se non nel 1962.

Sino ad allora i bibliografi attribuivano la paternità sia ad un frate


“Francesco Colonna”, veneziano, secondo la tesi del professore
Giovanni Pozzi; sia al “principe Francesco Colonna”, signore di
Palestrina, secondo il professore Maurizio Calvesi. L’una e l’altra tesi si
basavano su di una frase risultante da un acrostico ricavato dall’unione
delle maiuscole iniziali dei 38 capitoli nei quali è suddiviso il testo:
“Poliam frater Franciscus Columna peramavit”.
Fin dal Cinquecento, nella seconda edizione in versione francese, si
era dato Francesco Colonna come autore del Polifilo. E tale attribuizione
rimase indiscussa fino ai giorni nostri. Ci volle il professore Lamberto
Donati, conservatore dei libri a figure della Biblioteca Apostolica
Vaticana, per dare una scrollata all’edificio. Nel 1962 pubblicò uno
studio nella rivista “La Bibliofilia”: Donati avanzò un’obiezione logica.
Scrisse che se l’Autore voleva assolutamente rimanere nascosto sotto lo
pseudonimo, perché mai avrebbe citato il proprio nome nell’acrostico?
Anzi, a Donati l’acrostico sembrava posto come un sotterfugio per
sviare l’opinione. Così mi disse a voce proprio in Biblioteca. Il testo
poteva non essere stato originariamente suddiviso in capitoli; la cosa
sembrava piuttosto essere stata elaborata durante l’allestimento
editoriale, tanto più che quei capitoli erano preceduti, nell’edizione
princeps aldina - quella di cui stiamo occupandoci - da un breve
riassunto scritto in terza persona - “Polifilo ha detto, ha fatto”... mentre
tutta la narrazione è scritta in prima persona.
A questo punto il mio consorte, Nicola Kretzulesco, mi suggerì di
concentrare l’indagine non sulle prevalenti opinioni degli esperti, ma
piuttosto sul senso dell’Opera e di cercare quindi di scoprire chi fosse
Polia e perché l’Autore se ne definisse l’Amante.
Polia, infatti, è il nome più antico di Atena, la Divina Sapienza: Atena
247

Polias. L’Autore è innamorato della Sapienza divina; è un filosofo,


Poliae-Philos; ed anche un teologo, giacché si tratta di “Divina
Sapienza”. Il romanzo è la narrazione d’un itinerario spirituale fra le
rovine del passato. Il libro poi sembra essere una specie di criptografico
manifesto. Si è voluto indicare un principe come “amante della Divina
Sapienza”, come lo erano i più insigni umanisti del Quattrocento; e così
coprire la vera identità dell’Autore.
Il libro offrì, negli anni seguenti, tre “chiavi” per la comprensione del
testo:
1) - Stampato nel dicembre del 1499, il libro era “orfano” (“parente
orbatus”), secondo l’autore della prefazione, Leonardo Grasso,
finanziatore dell’edizione, un umanista. Con il suo prestigio, Grasso
ottenne il privilegio di stampa dal Senato Veneto. A detta di questo
autorevole personaggio, l’“autore era morto” quando venne alla luce il
“Combattimento in sogno per amore della Sapienza Divina”. Ed era
morto da tanti anni poiché il testo era rimasto per molto tempo “nelle
tenebre”, rischiando di perdersi; sempre secondo Grasso.
Questo dato certo permetteva di escludere entrambi i Francesco
Colonna come possibili autori; infatti sia il monaco veneziano residente
nel convento dei Santi Giovanni e Paolo, sia il principe di Palestrina
erano vivi, vivissimi, nel 1499!
Questo fatto, risultando dallo stesso responsabile dell’edizione, era
inconfutabile. Un Francesco Colonna aveva appassionatamente amato il
“divino sapere”; ma la sua parte nella storia del libro non era quella di
Autore. Conoscendo la personalità del principe Francesco Colonna,
signore di Palestrina e patrizio veneto, si può ipotizzare la sua parte
nella storia del libro: sarebbe stato lui a portarlo da Roma a Venezia.
Perché da Roma? Perché i ruderi antichi descritti nel sogno
appartengono all’area del Lazio, secondo i rilievi pubblicati sia da
Donati, sia da Calvesi, rispettivamente nel 1968 e nel 1965. E Roma,
dopo il processo agli umanisti appartenenti all’Accademia Romana
(1466-68) - un processo inscenato dalla Curia e portato avanti con
interrogatori e torture - non era più un posto sicuro per un testo redatto
come manifesto di ricerca della “prisca theologia”, fuori dall’ambito
giudeo-cristiano. Una ricerca non gradita, specie dal Vice-Cancelliere di
Santa Romana Chiesa, Rodrigo Borgia, allora cardinale, poi Papa
Alessandro VI. A costui importava - occultamente - avocare alla Curia i
tre poteri(1); spirituale, temporale e culturale. Ma avocare alla Curia
significava avocare a sé, amico del Papa Paolo Il, proprio quei tre poteri.
248

La ricerca filosofica fuori dall’area della Curia non era, per lui, Borgia,
opportuna...
2) - La seconda chiave offerta dal libro risultava da una data, quella
del colophon: 1° maggio 1467. L’Autore “Polifilo” assicurava che il
sogno si era svolto all’alba di quel giorno. Sicché quanto descritto nel
libro era il risultato di un itinerario spirituale ed archeologico compiuto
nel Lazio prima del 1467. Ma quella data s’inseriva - come una chiave -
fra quelle del processo agli umanisti dell’Accademia Romana, accusati
di attentato all’autorità pontificia e ritorno al paganesimo: 1466-68.
Notiamo poi che nel 1467 il principe Francesco aveva circa quattordici
anni; era... troppo giovane per essere “Polifilo”.
3) - La terza chiave era offerta appunto dalle varie descrizioni ed
illustrazioni del libro; chi le aveva offerte al Lettore intendeva - prima
del 1467 - indicare un dato di estrema importanza teologica: un credo
universale, espresso fuori dall’area cristiana, in tre dogmi:

I - Resurrezione futura dei corpi;


II - Unità e Trinità di Dio;
III - Origine divina della vita, dovuta all’Amore Divino.

Notiamo che i passi nei quali l’azione di quell’Amore datore di Vita è


esplicitamente enunciata, sono sottolineati nell’esemplare appartenuto al
Papa Alessandro VII Chigi, (1655-1667), il quale era un appassionato
umanista. Ci voleva un gruppo di teologi dottissimi per scoprire quei tre
dogmi nelle varie etnie. in conclusione l’Autore attivo prima del 1467
era stato un archeologo, conoscitore dell’architettura antica come lo
dimostrano molti passi del libro, ed un filosofo profondo, teologo dedito
al riscontro delle credenze teologiche universali, avvicinandosi così,
spiritualmente sia ai cardinali Cusano e Bessarione, sia ai Papi umanisti
Niccolò V e Pio II; nonché a pensatori quali Lorenzo Valla, scopritore
della falsità della cosiddetta “Donazione di Costantino”, base fino allora
del Potere temporale, e fautore di un’etica basata sul “libero arbitrio”. Di
quest’ultima posizione vi è una testimonianza di “Polifilo”: quella delle
scene che si svolgono nel palazzo della regina “Eleuterillide” o “Libero
Arbitrio”.

Passiamo ora ad un altro problema: quello della strana lingua


“polifilesca”: un misto di volgare, di latino, di greco, infarcito di termini
vernacolari ed anche ebraici. L’idioma, consigliato da “Polia, altissima
249

imperatrice” - dice l’Autore - risulta da una riscrittura del libro, redatto


evidentemente in latino, nella prima stesura. Questa seconda, (la prima
non è mai stata trovata) è il tentativo di arricchire il volgare con termini
presi nelle lingue classiche, onde favorire lo schiudersi della
“Rinascenza” in tutte le discipline volte ad una nuova civiltà degna di
emulare quelle del passato. L’Alberti riscrisse in volgare opere da lui
scritte in latino. Come Polifilo...
Notiamo anche un altro fatto: il Pellegrino, esploratore di ruderi
antichi, per capirne il senso, incontra Polia, pronta a spiegarglieli, sotto
una pergola di gelsomino. Così sappiamo che un certo sapere misterico
proveniva dalla Persia e dalla setta dei “Fedeli d’Amore”, il cui
emblema era appunto il gelsomino; ed il cui credo era basato sulla
conoscenza dell’Amore Divino organizzatore e legame delle forze che,
nell’universo, comandano l’evolversi degli astri, secondo leggi
matematiche; quindi intelligenti e quindi non soggette al Caso. Il tralcio
profumato era simbolo del legame fra amore umano e divino (Rûzbehan,
Le jasmin des Fidèles d’Amour, trad. di H. Corbin, ed. Verdier, 1991).
Queste cose erano familiari ai “Fedeli d’Amore” toscani. Tant’è vero
che Dante chiude la sua “Commedia” con il celebre verso:

“Amor che muove il sole e l’altre stelle”.

A questo punto chiediamo ancora al libro un Segno che possa


istradarci verso la conoscenza dell’Autore come persona. La sua identità
non doveva essere conosciuta, in modo assoluto, secondo il presentatore
Andreas Marone da Brescia al quale la Musa dice: “Nolumus agnosci”.
Noi però sappiamo - da quel che si è capito del suo itinerario spirituale -
che fu uomo dottissimo nelle più svariate discipline: archeologia,
architettura, filosofia, scienza della Natura, teologia... E sappiamo che fu
attivo, come scrittore del sogno, prima del 1467. Le lingue classiche gli
erano familiari; il titolo dell’Opera è contrazione di parole greche:
“hypno” = in sogno; “eroto” = per amore; “machia” = combattimento;
dell’amante di Polia = “Poliae philos”, in sogno.
La proibizione di divulgare il nome d’uno scrittore morto da tempo fa
pensare che la sua dottrina potesse coinvolgere gli amici superstiti. Ma
sappiamo che alla base di quelle dottrine vi era la ricerca della “prisca
theologia”; una ricerca che portava l’indagine fuori dall’ambito
strettamente giudeo-cristiano.
Immediatamente si pensa alle “fratrie” accademiche. Prima del 1467,
250

queste erano state attivissime; in seguito ne fece parte anche il principe


Francesco Colonna, “archeologo, restauratore del tempio della Fortuna
Primigenia, scrittore in versi e prosa latina”. A Roma, quella che ho
chiamato in un mio libro(2) “l’Eglise des Lumières”, erano attivi i
dottissimi papi Niccolò V e Pio II, i cardinali Prospero Colonna, Niccolò
Cusano, Giovanni Bessarione con i laici dell’Accademia Romana e con
Lorenzo Valla che aveva denunziato l’illegittimità del potere temporale
basato su di una falsa “Donazione di Costantino”. I suddetti prelati
erano contrari al potere temporale della Chiesa.
Morirono di “podagra” Pio II, Niccolò Cusano e Prospero Colonna.
Nel 1464 fu eletto Paolo II amico di Rodrigo Borgia, creato Vice-
Cancelliere di Santa Romana Chiesa dallo zio Callisto III Borgia che
regnò fra Niccolò V e Pio II. A chi giovò l’ecatombe dei fautori d’una
Chiesa svincolata dal potere temporale? Come mai morirono in tempo
utile al Borgia? Da dove proviene la leggenda del “veleno Borgia”? Si
sa che esiste un veleno che sgretola le ossa e che può sembrare
podagra. Appena insediato Paolo II, vi fu il processo all’Accademia
Romana con l’accusa di ritorno al paganesimo ed attentato all’autorità
pontificia. Gli Accademici furono interrogati e torturati. E che dire poi
della sparizione dell’Accademia Fiorentina, in tempo utile per l’elezione
dello stesso Borgia, con il nome di Alessandro VI (agosto 1492)?
Di podagra era morto a 43 anni Lorenzo il Magnifico nell’aprile di
quell’anno. A Roma era morta sua moglie Clarice Orsini, suo sostegno
nel mondo romano; ed era morta la bambina loro di otto anni. Morirono
il Poliziano con il suo domestico e Pico della Mirandola nel 1494:
Borgia era papa da due anni. Nel 1493 era morto Ermolao Barbaro,
patriarca d’Aquileia, studioso di Aristotele; fu per una “brutta febbre” a
39 anni. Da poco era morto Bertoldo di Giovanni, custode delle
“antichità” del giardino dei Medici; conosceva il senso dell’iconologia
di Orapollo; sapeva decriptare rebus ed allegorie. Sparì l’Accademia
Fiorentina. Doveva rinascere il movimento accademico, con la “Neo-
Academia Philellenica” in casa di Aldo Manuzio; fra gli assidui c’era in
prima fila Erasmo da Rotterdam. Venezia fu il rifugio del movimento
accademico.
Fra tutti gli uomini che sfuggirono alle persecuzioni durante il
processo agli Accademici Romani (1466-68), ve ne fu uno notevole:
Leon Battista Alberti. Nel 1466, esautorato dalla carica di abbreviatore
apostolico, fuggì a Firenze e fu accolto dai Medici.
Ed ecco che un piccolo segno di riconoscimento appare nella
251

Hypnerotomachia Poliphili: la sigla “b”.


Come non vedere una coincidenza fra il contesto storico di cui sopra e
l’iniziale “B” di Battista? Il “Leone” era da lui stato aggiunto quasi
come proclamazione relativa alla propria “forza”, al “coraggio”
necessario all’“Amante della Sapienza” perseguitata. Per gli amici, però,
e nei Dialoghi egli fu sempre “Battista”. Quell’amore per il sapere lo
avvicina, fra gli altri umanisti, al Cusano, il cui testamento spirituale si
trova nell’ultimo suo scritto: “De Venatione Sapientiae” (della Caccia
alla Sapienza). Anche il Cusano proclamò la sua azione di “Combattente
per amore della Sapienza”. Come “Polifilo”.
Le stupefacenti convergenze fra la mentalità, l’etica, la malinconia, il
sapere, gli interessi culturali dell’Alberti, quelli degli Umanisti
caposcuola della prima “Rinascenza”, quale il “Cacciatore di Sapienza”
da una parte; e quanto appare nella personalità del sognatore “Polifilo”
dall’altra, rendono necessaria la consultazione del bel libro del
professore Giovanni Ponte: “Leon Battista Alberti Umanista e
Scrittore”. Nonché la possibilità di consultare la Hypnerotomachia, se
non altro in edizione anastatica.
La sigla “b” appare in due silografie: nella prima, in principio
dell’itinerario onirico-allegorico, si assiste alla rinascita del Pellegrino
stremato dalla battaglia contro le “forze ostili”. Egli rinasce quando
riesce ad inumidire le labbra con qualche goccia di rugiada: la rugiada di
Atena, simbolo dell’incontaminata dottrina celeste.
La seconda sigla “b” si trova in fondo ad un rebus, già decifrato nel
testo, dal quale appare un vero manifesto dell’Umanesimo:

“Ex labore deo naturae sacrifica liberaliter, paulatim reduces animum


deo subiectum, firmam custodiam vitae tuae misericorditer gubernando
tenebìt, incolumenque servabit”. (Sacrifica liberalmente del tuo lavoro al
Dio di Natura, poco a poco ridurrai il tuo spirito sottomettendolo a Dio.
Il quale misericordiosamente custodirà la tua vita fermamente e,
governandola, la conserverà sana e salva).

Si tratta di un vero manifesto, una liberazione dalla dottrina scolastica


incline, con un aristotelismo deviato, a vedere il male nella Natura. Il
risveglio rinascimentale ha per sorgente l’illuminato credo relativo alla
necessità di conoscere la Natura, opera divina del Creatore. A pagina 82
del libro del professore Ponte leggiamo una frase dell’Alberti:
252

“Certa consiste ferma e costante sempre in ogni suo ordine e progresso


la natura, nulla suol variare, nulla uscire da sua imposta e scritta legge”
(dal Dialogo “Theogenius”).

Il genio dell’Alberti intento a proclamare - come “Polifilo” - che la


Natura offre la via migliore per pervenire alla conoscenza di Dio ed
ottenere il “bene e beato vivere”, si trova in una pagina del II “Libro
della Famiglia”; una pagina citata da Giovanni Ponte(3): “Ma sopra tutte
lodo quella verissima e probatissima sentenza di coloro i quali dicono
l’uomo essere creato per piacere a Dio, per riconoscere un primo e vero
principio delle cose, ove si vegga tanta verità, tanta dissimilitudine,
bellezza e multitudine d’animali, di loro forme, stature, vestimenti e
colori; per insieme lodare Iddio insieme con tutta l’universa natura,
vedendo tante e sì differenziate e sì consonante armonie di voci, versi e
canti di ciascuno animante concinni e soavi; per ancora ringraziare Iddio
ricevendo e sentendo tanta utilità nelle cose produtte a’ bisogni umani
contro le infermità... per ancora temere e onorare Iddio udendo,
vedendo, conoscendo il sole, le stelle, il corso dei cieli, e tuoni e saette,
le quali tutte cose non può non confessar l’uomo esser ordinate,fatte e
dateci da esso Iddio”.
Giovanni Ponte conclude: “In questa celebrazione umanistica l’uomo
è invitato ad unirsi alla natura tutta per lodare Dio”. Ricordando Dante,
Ponte aggiunge una citazione dall’undecimo Canto dell’Inferno: “natura
suo corso prende - da divino intelletto e da sua arte” (Inf. 99-100).
Infine il “De Re Aedificatoria” dell’Alberti(4) trova nel Polifilo uno
sviluppo per quanto riguarda la struttura perfetta dell’arco romano.
A questo punto, nonostante la difficoltà della materia mi pare di poter
tirare certe somme: la perfetta sintonia fra il manifesto firmato “b” nel
Polifilo e le opere dell’Alberti brevemente citate, appare come una vera
firma.
Il sognatore si sveglia all’alba del 1° maggio 1467 al canto
dell’usignolo. Ricordiamo che il mito dell’usignolo è quello che ricorda
colei che ebbe la lingua mozzata perché non le fosse possibile rivelare il
peccato d’incesto di Tereo. Anche gli Umanisti, sia laici che
ecclesiastici, ebbero simbolicamente la lingua mozzata! E non è detto
che anche oggi non sia sgradita ai manipolatori d’idee la ricerca d’una
prova storica dell’avvenuta rivelazione divina atta a far comprendere ad
Adamo il senso del proprio destino fisico e metafisico. In quanto alla
questione del potere temporale - ormai bancario - chi può dire che non
253

scotti più? Chi ricorda ancora che la Chiesa di Cristo è quella che “dà a
Cesare quel che è di Cesare”? E che Borgia ebbe le casse piene d’oro? Il
“misellus Poliphilus” è triste nella realtà del risveglio: “Polia Sapienza
Divina” è stata scacciata dalle persecuzioni...
A questo punto viene da fare un’altra riflessione: perché mai Aldo
Manuzio avrebbe pubblicato il “De Rerum Natura” di Lucrezio, lui così
cristianamente filosofo, tanto da inserire nelle pagine liminari delle
Grammatiche destinate agli studenti sia il principio del Vangelo di San
Giovanni, sia il “Pater Noster”?
Ancora una volta il contesto storico ci può aiutare a comprendere
perché Lucrezio si trovi fra i titoli delle pubblicazioni aldine. Infatti
l’“inno allo splendore della Natura” con il quale Lucrezio inizia
l’invocazione a Venere, simbolo dell’apparire della Vita sul pianeta
Terra, rientra nella impostazione filosofica voluta dagli Umanisti nella
prima metà del ’400; un’impostazione sviluppata nell’Accademia
Romana, in quella Fiorentina, nelle Novecento Tesi di Pico della
Mirandola, e della quale abbiamo trovato una “chiave” sia nel rebus di
Polifilo, con la sigla “b”, sia nella bella pagina dell’Alberti citata da
Ponte.
Ma come la mettiamo con l’irreligiosità di Lucrezio che depreca la
“violenza” dei religiosi citando, con orrore, il sacrificio di lfigenia per
rendere propizia un’azione violenta, quale la guerra che gli Achei si
accingevano a muovere contro Troia?
Aldo in una sua prefazione aveva deprecato la barbarie e la violenza
che avevano investito il mondo; questo mentre egli commemorava Pico
della Mirandola, “fenice degli ingegni”!
La storia della violenza perpetrata contro i più eccelsi genii dell’epoca
- una violenza che proveniva dalle mene segrete mosse dalla Curia - ci
aiuta a comprendere il senso della pubblicazione del “De Rerum Natura”
da parte di Aldo Manuzio.
Ora ci sembra di udire il lamento degli Accademici torturati,
avvelenati! Coloro che avevano fatto parte della “Chiesa illuminata” dai
primi versetti di San Giovanni: “In principio era la Luce”*... Versetti
che Aldo non mancava di stampare in principio delle sue Grammatiche.
In quanto all’Alberti, mori a Roma nel 1472 a sessant’otto anni,
lasciando le sue carte al nipote Bernardo Alberti. Che le carte siano
passate per la scuola di Domizio Calderini e Gaspare da Verona non è
impossibile; e da lì al dotto principe Francesco Colonna; un grande
umanista, il cui padre aveva protetto l’Alberti, come pure il Cardinale
254

Prospero Colonna nella vicina villa di Zagarolo (antica Caesariolum).


Fra la morte dell’Alberti, nel 1472, e la pubblicazione della
“Hypnerotomachia Poliphili” intercorsero ben 27 anni! Era quindi esatta
la dichiarazione di Grasso nella Prefazione: il testo di Polifilo,
comprensibile anche grazie alle immagini, era orfano quando vide la
luce a Venezia; ed era stato nascosto, rischiando di perdersi, per lunghi
anni. Nella seconda tiratura, con le carte preliminari, il libro venne
dedicato a Guidobaldo da Montefeltro. Si noti che i Montefeltro erano
imparentati con i Colonna.
A Roma non mancavano le “fratrie” accademiche; oltre quella
presieduta da Pomponio Leto, vi era l’Accademia Bessaroniana nella
quale fiorivano gli studi greci. Quindi non c’è da meravigliarsi se a
Venezia venne inserito l’acrostico “sviante”:
“Poliam frater Franciscus Columna peramavit”.
Il principe di Palestrina amò davvero la Sapienza Divina; era tanto
esperto di teologia che seppe difendersi anche dinanzi al tribunale
dell’Inquisizione, ed il nome dell’Alberti rimase noto soltanto agli amici
silenziosi che avevano frequentato “Battista”. Un nome che avrebbe
potuto, se noto, sollevare altri polveroni in seno alla Curia...
Sarà così risolto l’enigma della sigla “b”? Nonché quelli relativi alla
travagliata storia dell’Umanesimo? Sarà ora più facile capire il
messaggio di quegli Uomini contenuto nel “più bel libro del
Rinascimento”? Un libro che, fra l’altro, ispirò le composizioni
allegoriche di molti splendidi giardini d’una Europa umanista?
Questi divennero - con i loro allegorici messaggi - gli araldi d’un
pensiero “paradisiaco”; quello degli Umanisti in cerca della “prisca
enarratio theologica”, dono divino all’Uomo nel “paradiso terrestre”.

“Ai posteri l’ardua sentenza!”

Filosoficamente parlando, con la prova data dalle concordanti


tradizioni religiose fin dall’origine della specie umana, appare evidente
l’origine “non umana” d’una rivelazione contenuta, simultaneamente,
nelle più svariate contrade ed i continenti più lontani. Una rivelazione
relativa al senso metafisico del destino umano.
Ma tornando al Polifilo, la cui identità doveva rimanere nascosta nel
momento storico della persecuzione di chi aveva sostenuto, proprio in
seno alla Chiesa, la “prisca enarratio theologica”, fermiamoci all’ipotesi
della “sigla b” quale iniziale dell’Autore; un Autore il cui nome fosse
255

Battista; e che quel Battista fosse l’Alberti. Sia le date fornite dal testo,
sia il pensiero dell’Autore, la sua cultura ci conducono proprio a lui. La
maggiore contestazione di questa teoria la troviamo fra alcuni specialisti
della lingua di quel Battista. Quegli specialisti giudicano l’idioma del
Polifilo troppo lontano dal chiaro modo di esprimersi albertiano. Eppure,
proprio nel genio dell’Alberti, nella sua preoccupazione di ottenere, per
il volgare, chiarezza e ricchezza atti ad essere strumento di progresso in
tutti i campi, anche in quello scientifico, troviamo l’avvio verso gli
apporti di latinismi e grecismi che tanto appesantiscono il testo in
oggetto, ma tanto ci servono anche oggi!
Ed ecco che, se quanto sopra ci porta verso l’ipotesi d’un Battista
Alberti nascosto soto lo pseudonimo di “ Polifilo”, novello
“Philodoxeos” - un Alberti profondo conoscitore sia delle rovine laziali
e campane, sia del sapere accademico e teologico dei massimi prelati
della Chiesa “illuminata” (ma precocemente eliminata dalla velenosa
“podagra” propinata da chi propendeva per una Curia manipolata decisa
ad ottenere l’assoluto potere culturale, temporale, spirituale) - allora
possiamo anche capire il misterioso prestigio goduto dal celeberrimo
incunabolo: “Hypnerotomachia Poliphili”, nonché il pericolo nel quale
potevano incorrere gli amici di “Battista”, anche dopo la sua morte.
Risalendo all’autore presunto il cui nome incomincia con “b”,
(Battista Alberti), possiamo anche intravedere le ragioni che fecero del
“Polifilo” l’ispiratore dello spettacolo misterico offerto in tanto giardini
italiani, poi francesi, indi europei a partire da quello di Castello
(Firenze).
Fu questo il primo giardino detto “all’italiana”; le allegorie
s’apparentano alle idee di chi, come Cosimo de’ Medici, poteva
conoscere quel testo e chi, come Stefano figlio di Francesco Colonna,
signore di Palestrina, poteva aver suggerito, per la “ Grotta degli
Animali”, il tema prenestino del mosaico “degli Animali del Nilo”.
L’intero enigma dei “giardini misterici” europei viene così risolto.
Perfino quello di Versailles - con Mazzarino lettore di “Polifilo” e
precettore di Luigi XIV - offre uno spettacolo iniziatico a chi saprà
seguire il Re vestito, per l’occasione, da imperatore romano in omaggio
alla propria ammirazione per Augusto.
Ormai Philomela ha la sua rivincita: possiamo - grazie a “Battista” -
ascoltare il divino concerto degli spiriti risorti con “Polia”, “Divina
Sapienza”.
256

Note

(1) Cfr. Politica Romana, n.2/1995, pp.105-107.

(2) Cfr. Les Jardins du Songe. Poliphile et la mystique de la


Renaissance, Parigi 1986.

(3) Cfr. G. Ponte, Leon Battista Alberti Umanista e Scrittore, Genova


1981, p. 82.

(4) L.B. Alberti, Opere Volgari, vol. III, Bari 1973.

* Nota del curatore del presente reprint: Le parole indicate in realtà non
sono nel Vangelo di Giovanni, che inizia con: “In principio erat
verbum...”.

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L’originalissimo articolo che abbiamo appena riproposto ai lettori di


Episteme è stato scritto dalla Principessa Emanuela Kretzulesco
Quaranta, nota studiosa del Rinascimento, autrice di: Les Jardins du
Songe - Poliphile et la mystique de la Renaissance, Paris, 1976, Premio
Montyon dell’Académie Francaise, 1977; Les Belles Lettres, Paris,
1986, II ed.ne riveduta. Inoltre, di: Giardini misterici - Simboli, Enigmi
dall’Antichità al Novecento, Ed. Silva, Parma, 1994; Le Jardin de
l’Absolu - Itinéraires à la recherche du Savoir perdu - Au fil du Songe
de Poliphile, in corso di pubblicazione, Ed. Silva, Parma.
L'articolo è stato pubblicato per la prima volta nell’estremamente
interessante rivista: Politica Romana, Quaderni dell’Associazione di
Studi Tradizionali “Senatus”, Roma, N. 3, 1996, pp. 178-187, curata dal
Dott. Piero Fenili, che qui sentitamente, insieme all’autrice, ringraziamo.
257

Illustrazione tratta dall'editio princeps


dell'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, 1499
258

RECENSIONI
259
260

L’ALBA DEL “NUCLEARE”...


”ENRICO FERMI E I SECCHI DELLA SORA
CESARINA”

di Fabio Cardone e Roberto Mignani


Ed. Di Renzo, Roma, Giugno 2000

E’ il 26 ottobre del 1935 quando viene depositato il celebre brevetto,


riguardante “il processo per la produzione di sostanze radioattive, in
particolare mediante il bombardamento con neutroni e anche l’aumento
dell’efficienza del processo mediante il rallentamento dei neutroni grazie
a urti multipli”, che è all’origine, nel bene e nel male, dello sfruttamento
dell’energia nucleare. Esso portava la firma di Enrico Fermi, Edoardo
Amaldi, Bruno Pontecorvo, Franco Rasetti ed Emilio Segrè, mentre gli
eventuali proventi materiali sarebbero stati divisi anche con Oscar
D’Agostino (il chimico del gruppo), e Giulio Cesare Trabacchi, la
“Divina Provvidenza”, che aveva concesso in prestito ai “ragazzi di via
Panisperna” un prezioso ed indispensabile grammo di radio. Solo pochi
anni più tardi, il 2 dicembre 1942, Fermi riusciva ad ottenere, nei
sotterranei di uno stadio per il baseball a Chicago, la prima reazione
nucleare controllata; è il 16 luglio 1945 quando l’improvvisa luce della
prima esplosione atomica si accende nel deserto di Alamogordo.
Questo racconta, in estrema sintesi, la storia dei tentativi di applicazione
pratica della famosa equazione di Einstein, contemplante la completa
equivalenza tra massa ed energia, ma ci furono retroscena di questa
vicenda tanto significativi quanto poco conosciuti? In che modo Fermi
& C. furono condotti alla constatazione sperimentale che cambiò il loro
destino, e quello del mondo intero?
In questo libro godibilissimo, scritto da due fisici, noti tra l’altro per le
loro ricerche sui fondamenti e le possibili estensioni della teoria della
relatività, si ricostruisce l’ambiente umano che fece da sfondo a quei
lontani avvenimenti, mostrando che gran parte del “merito”
dell’importante scoperta va attribuito … alla “sora Cesarina” (la donna
delle pulizie del Regio Istituto Fisico di via Panisperna!), e ai secchi
d’acqua che essa nascondeva sotto il bancone su cui Pontecorvo, il
“Cucciolo” del gruppo, effettuava le sue misurazioni dagli “strani”
risultati. Come dire che, una volta di più, nella storia della scienza, gioca
un ruolo importante anche il “caso”. Certo, esso si deve coniugare al
261

“talento” di chi sia in grado di coglierne gli involontari suggerimenti, ma


senza le sue funzioni di concreto catalizzatore delle idee, talune attività
di ricerca sperimentale non sarebbero coronate da successo...
Non sembra opportuno dire di più, per non togliere il piacere della
sorpresa, e chiudiamo quindi queste righe con un invito alla lettura del
libro, breve ma intenso, di cui diamo qui di seguito l’indice dei capitoli:

1 - Pensieri autunnali di un fisico a fine millennio


I fisici e il metodo scientifico
2 - La ricerca della verità
L’esperimento come interrogazione della natura
3 - Un incontro casuale
4 - Il racconto del cavalier Berardo
La ripetibilità: l’anima del metodo scientifico
5 - I secchi della sora Cesarina
La scoperta e lo scopritore
6 - La scoperta incompresa
Fermi e la scelta di Lorentz
7 - Epilogo

(UB)

Enrico Fermi
262

Il prossimo numero di Episteme:

N. 2 - 21 dicembre 2000

Presentazione del volume


1 - Felice Vinci: Omero nel Baltico
2 - Flavio Barbiero: Relazione fra il calendario perpetuo basato sul ciclo
di 128 anni e i calendari centroamericani
3 - Bruno d’Ausser Berrau: Mysteria Latomorum - Uno studio sullo
scisma massonico del 1717 e su alcuni aspetti generali di
quell’Istituzione
4 - Emilio Spedicato: Numerics of Hebrews Worldwide Distribution
around 1170 AD according to Binyamin of Tudela
5 - Ludwik Kostro: The Evolution of the Notion of Creation in the
Judeo-Christian Religion
6 - Alberto Bolognesi: Dalla parte del torto: Tully & Fisher vs Hubble -
Uno studio critico sul successo della cosmologia del Big-Bang
7 - Fabio Cardone: I fondamenti assiomatici delle teorie fisiche
8 - Giuseppe Cannata: Etere e relatività
Reprints:
Stevan Dedijer: The Rainbow Scheme - British Secret Service and Pax
Britannica
Quirino Majorana: Le teorie di Alberto Einstein
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