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PAIDEUTIKA

Quaderni di formazione e cultura

28 Nuova Serie
Anno XIV – 2018
PAIDEUTIKA. Quaderni di formazione e cultura
28 – Nuova Serie – Anno XIV – 2018
semestrale

Rivista fondata da Antonio Erbetta


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PAIDEUTIKA
Quaderni di formazione e cultura

Editoriale 5

SAGGI 9
Gianmarco Pinciroli, Diritto, violenza, mezzi puri. Note su Per la
critica della violenza di Walter Benjamin 13
Pierangelo Barone, L’irrazionalità della violenza in adolescenza: un
effetto indesiderato della rimozione del conflitto 33
Gianluca Giachery, “Tu devi”. Patologie dell’educazione: potere e coercizione 53

ARCHIVIO DELLA MEMORIA 81


Geoges Sorel, La décadence bourgeoise et la violence / La decadenza
borghese e la violenza. Testo a fronte 84

OGGI UN FILOSOFO 91
Rubrica di Fulvio Papi

Studi ed esperienze 93
Germana Berlantini, «…mais je veux effacer la trace de mes pas…».
Éthique de la connaissance et violence du langage dans Georges Bataille 95
Marta Ilardo, La scuola dei diritti universali. Hannah Arendt e il caso
“Little Rock” 113
4

Francesco Bossio, Ontologia e formazione. La vecchiaia come kairos e


riappropriazione 133

SGUARDI SUL MONDO 151


Josep Lluis Oliver, Carmen Orte, Luis Ballester, Martí Xavier March,
Los programas de Competencia Familiar en los servicios de protección de
menores en la Comunidad Autónoma de las Islas Baleares 153

RECENSIONI 169
Giorgio van Straten, Storie di libri perduti (di Giuliano Gozzelino) 169
Sergio Luzzatto, I bambini di Moshe (di Cristina Gatti) 171
Simone Chicchi, La società della prestazione (di Silvano Gregorino) 174
Augusto Romano, L’inconscio a Torino (di Gianluca Giachery) 177
Yves Bonnefoy, Luoghi e destini dell’immagine (di Gianmarco Pinciroli) 180
Suze Rotolo, Sulla strada di Bob Dylan (di Gianmarco Pinciroli) 183
Giovanni Maria Bertin, Educazione alla ragione. Lezioni di pedagogia
generale (di Gianluca Ammannati) 185
Mino Conte (a cura di), La forma impossibile (di Irene Papa) 189
Walahfrid von Reichenau, Hortulus. Coltura e cultura del giardino, a
cura di M. Gennari (di Giusi Ruotolo) 192

LIBRI RICEVUTI 197

Abstract 199
L’irrazionalità della violenza in adolescenza:
un effetto indesiderato della rimozione del conflitto
Pierangelo Barone

Nella violenza espressa da taluni adolescenti, di cui proprio in questo


periodo hanno ricominciato a parlare con grande enfasi le cronache televi-
sive, c’è qualcosa che colpisce l’immaginario collettivo al di là del clamore
degli atti. Le sensazioni di assurdità e di insensatezza che accompagnano
la percezione soggettiva nei confronti di azioni efferate cui difficilmente si
riesce ad attribuire una qualche plausibile spiegazione, si traducono spesso
in rappresentazioni – che si sono consolidate nel tempo – rinvianti ad una
presunta inclinazione naturale dei giovani verso l’uso della violenza come
forma di espressione generazionale. In effetti il richiamo storico alle gesta
sconsiderate che in Europa hanno caratterizzato le modalità turbolente e
antisociali con cui i giovani hanno “interpretato” il loro ruolo nella scena
sociale1 – di cui vi sono significativi esempi risalenti al periodo tra il XV
e il XVIII secolo – è indubbiamente potente; tuttavia, ritengo che l’inter-
pretazione naturalistica che attribuisce alla fase evolutiva specifica dell’a-
dolescenza un ruolo decisivo nella comparsa di atteggiamenti violenti e
brutali, ancora oggi di gran lunga la più diffusa, costituisca un riduzioni-
smo improprio e inefficace per comprendere il ruolo che oggi assumono
le condotte antisociali di alcuni adolescenti; reputo che si debba leggere

1
Cfr. M. Mitterauer, I giovani in Europa dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1991;
G. Levi, J.C. Schmitt, Storia dei giovani. Dall’antichità all’età moderna – Vol. I, Roma-Bari,
Laterza, 1994; O. Niccoli, Il seme della violenza. Putti, fanciulli e mammoli nell’Italia tra Cinque
e Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1995.
34

con lenti diverse la fenomenologia della violenza adolescenziale a cui as-


sistiamo in questa epoca, una violenza che, se ne ricerchiamo le possibili
condizioni di esistenza, va caratterizzandosi per alcune qualità specifiche
che la differenziano, sia per modalità che per effetti prodotti, dalle forme
della violenza giovanile nell’Europa medievale e moderna descritte e in-
terpretate dagli storici.
L’ipotesi pedagogica, che qui si vuole proporre, muove da un’interpre-
tazione atipica rispetto alle teorizzazioni prevalenti: si ritiene infatti che vi
sia una profonda frattura tra il significato che ha assunto la violenza giova-
nile nelle epoche passate (e la lettura che è possibile darne), e l’irrazionalità
della violenza con cui alcuni adolescenti rispondono al diffuso disagio so-
ciale e esistenziale nell’epoca attuale. La tesi è che se fino allo scorso secolo
l’espressione della violenza giovanile era riconducibile al codice sociale
dello scontro tra le generazioni, in una fisiologica “lotta per il potere”, oggi
ci troviamo di fronte, a partire dalle trasformazioni avvenute nel tessuto
economico-sociale e culturale delle società neo-liberiste – e il conseguente
rimodellamento dei soggetti – ad una violenza di cui sorprende il tratto
della “irrazionalità” e della “gratuità”. Un’irrazionalità che rivela certamen-
te un vuoto – erroneamente interpretato come atteggiamento nichilista
da imputare per lo più alle “mancanze” delle nuove generazioni – ma un
vuoto di tipo simbolico, che rimanda all’assenza di significazione e di rico-
noscimento, derivante dalla rimozione del conflitto come necessario “mo-
tore” del cambiamento e del passaggio del testimone tra le generazioni. Ma
procediamo con ordine.

I limiti dell’interpretazione della violenza in senso naturalistico

Sappiamo dagli studi compiuti nel campo dell’etologia e della biologia


che l’aggressività – la quale può sfociare in fenomeni di violenza incontrol-
lata – costituisce un elemento profondamente radicato nel mondo animale
e, pertanto, rappresenta una dimensione che da sempre accompagna la
storia naturale dell’uomo. Ciò ha contribuito, nel senso comune, a consi-
derare la violenza come l’espressione di quel tratto di animalità che cor-
risponde ad un residuo primitivo presente in modo originario nell’essere
umano. In qualche modo l’interpretazione di una base naturale su cui si
appoggiano le manifestazioni della violenza umana rende comprensibile e
35

spiegabile, in un’ottica psico-bio-etologica, il perdurare di fenomeni com-


portamentali che si oppongono al dato culturale per cui l’uomo sarebbe
in grado di autocomprendersi come soggetto capace di emanciparsi dalle
costrizioni dettate dal determinismo biologico: dunque i comportamenti
violenti appartengono a residualità, tracce, resti attraverso cui riemergono
istinti da belva. Nell’interpretazione dei fenomeni di violenza i cui prin-
cipali attori sono ritenuti gli adolescenti, ci troviamo quindi di fronte ad
un consolidamento del principio di attribuzione naturale: in questa chiave
si afferma la condizione di minorità del giovane2, in quanto soggetto in-
capace, per il protrarsi di una natura istintuale e selvatica, di esercitare la
razionalità e la padronanza di sé. Tuttavia questo modello interpretativo
mostra un limite significativo quando prova a risolvere in senso naturali-
stico il concetto di violenza.
Diversi studi in ambito sociologico e antropologico tematizzano, in-
fatti, la dimensione della violenza come un prodotto storico e culturale3,
che nel corso dei secoli ha conosciuto un lento ma significativo sposta-
mento riguardante le attribuzioni di significato che a livello sociale e cul-
turale delineano l’accettazione, e conseguentemente la legittimazione, di
comportamenti riferibili alla manifestazione della violenza. L’approccio
socio-culturale e costruttivista utilizzato da questi studi consente di demi-
stificare la lettura scientifico-naturalistica che attribuisce al significato del
comportamento violento degli umani uno sfondo etologico e biologico,
interpretazione persino utilizzata con intenti apologetici da parte di coloro
che fanno uso della violenza (con affermazioni quali ad es.: la violenza è
una componente naturale e insopprimibile della natura umana); una demistifi-
cazione necessaria, che consente di comprendere come la violenza si ap-
prende essenzialmente attraverso i processi educativi e di socializzazione
e dunque rappresenti una forma di espressione in cui si riproducono i
meccanismi di funzionamento del potere e di regolazione della vita asso-

2
Cfr. P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza. Modelli teorici, questione mi-
norile e criteri di consulenza e intervento, Milano, Guerini, 2011.
3
Cfr. F. Heritier (a cura di), Sulla violenza, Roma, Meltemi, 1997; N. Elias, La civiltà
delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1988; P. Clastres, Archeologia della violenza, Roma,
Meltemi, 1998.
36

ciata: meccanismi che vanno costantemente ridefinendosi in rapporto alle


diverse epoche storiche e ai diversi contesti culturali.
Se quindi conveniamo sull’idea che la violenza è interpretabile come
un prodotto strettamente legato allo scenario sociale e culturale di una
determinata epoca, alla costruzione del quale concorrono tanto i modelli
ideologici e valoriali quanto i dispositivi educativi in essa dominanti, pos-
siamo tentare di offrire una lettura pedagogica comparata della violenza
come forma di espressione giovanile in relazione a diversi momenti della
storia d’Occidente.

Il mos juvenum

Arretriamo quindi la nostra analisi di diversi secoli per ricostruire lo


scenario entro il quale, per la prima volta in modo generalizzato, incon-
triamo una preoccupazione sociale da cui emerge una sollecitudine peda-
gogica strettamente inerente i comportamenti licenziosi e violenti dei gio-
vani. Nell’Europa medievale e rinascimentale, infatti, in un arco temporale
compreso tra il XIV e il XVI secolo, la questione della sregolatezza delle
condotte di vita dei fanciulli e dei giovani, a cui – si sostiene – è lasciata
un’eccessiva libertà, diviene oggetto di una preoccupazione nuova: la licen-
za morale, la turbolenza, i disordini e le violenze di cui sono protagonisti i
giovani, acuiscono progressivamente nella percezione degli adulti l’allarme
sociale verso un mos juvenum con cui se ne identifica la pericolosità.

Dunque, a partire dalla preoccupazione relativa al mos juvenum e dalla


sua condanna, morale e sociale insieme, viene definendosi una nuova e
differente necessità generale che dal quadro di una sostanziale tolleranza
verso gli eccessi giovanili, impone una progressiva regolamentazione delle
condotte che si giustifica sull’asse pedagogico dell’educazione dei minori e
che si traduce in pratiche oggettive di organizzazione e sistematizzazione
dei luoghi deputati ad accogliere nel tempo un numero sempre maggiore
di soggetti ‘immaturi’, dove gli adulti sono ‘convocati’ a svolgere responsa-
bilmente il loro ruolo di formazione del carattere dei bambini, degli ado-
lescenti e dei giovani4.

4
Cfr. P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza, Milano, Guerini, 2009, p. 63.
37

A giustificazione della necessità di realizzare modalità nuove di regola-


zione e disciplinamento dei comportamenti sfrenati e turbolenti dei giova-
ni, si pone dunque il concetto di mos juvenum: attraverso il quale si rinnova
l’idea di una inclinazione naturale alla violenza, già presente nell’imma-
gine del giovane risalente alle epoche greche e romane. L’attitudine alla
violenza è, in questa prospettiva, connaturata alle età giovanili in conside-
razione della condizione selvatica in cui si esprime l’immaturità della pue-
ritia; per i religiosi, gli educatori, i predicatori, i letterati, i magistrati e più
in generale l’Autorità Pubblica dell’Europa medievale, tale attitudine era
divenuta consuetudine, abitudine, costume quotidiano del modo d’essere
dei giovani, al punto da richiedere un rigore morale basato sull’intensifica-
zione della sorveglianza, sul riconoscimento della pericolosità sociale e su
una condanna generalizzata dei comportamenti giovanili:

Tralasciando, a questo stadio dell’analisi, il significato di quelle pra-


tiche giovanili devianti o criminali, bisogna insistere sui caratteri della
condanna che, nel XV secolo, li colpisce con maggiore severità […]. A
dispetto di tutti gli altri criteri, biologici o socio-economici, solo criteri
morali, o piuttosto la loro assenza, appaiono dunque sufficienti, nei testi
del XV secolo, per cogliere e circoscrivere il gruppo dei giovani. ‘Ribaldi’,
‘sfrenati’… Fonti letterarie e atti pubblici rimandano la stessa immagine.
La giovinezza è il tempo delle turbolenze e delle violenze5.

Se, dunque, attraverso il concetto di mos juvenum, possiamo compren-


dere il processo storico e culturale all’interno del quale viene ricompresa la
ridefinizione sociale della violenza giovanile come questione pedagogica e
morale, ai fini del mio discorso è altrettanto importante provare a interpre-
tare il significato socio-antropologico delle ‘ribalderie’ dei giovani. Sotto
questo aspetto, infatti, mi sembra rilevante riprendere alcune letture so-
ciologiche e storiche che, nel tentativo di offrire un’interpretazione attenta
alla dimensione ideologica e politica dei fenomeni studiati, hanno eviden-
ziato il carattere conflittuale assunto dalle pratiche violente dei giovani in

5
Cfr. E. Crouzet Pavan, Un fiore del male: i giovani nelle società urbane italiane (secoli
XIV-XV), in G. Levi, J.C. Schmitt, Storia dei giovani. Dall’antichità all’età moderna (Vol. I),
cit., p. 231.
38

relazione alla profonda ridefinizione dell’assetto economico e sociale che


si determina nel passaggio tra il Medioevo e la Modernità.

La violenza come storia di un conflitto generazionale: le “bande” giovanili

Diversi studiosi concordano nell’affermare che le turbolenze adole-


scenziali che spesso sfociavano in atti di violenza, nel corso dei secoli dal
XIV al XVI, fossero caratterizzate da una sostanziale ambivalenza: se da
un lato, infatti – come detto poc’anzi – stava emergendo una nuova sen-
sibilità pedagogica e morale che imponeva un rigore nell’educazione dei
giovani, strettamente legata alla preoccupazione per la loro pericolosità e la
necessità di un più efficace controllo sociale; dall’altro lato, le violenze agite
dai fanciulli, non ancora entrati nella pubertà, e dagli adolescenti maschi,
erano frequentemente canalizzate contro gli individui identificati dalla co-
munità come “nemici” – tra essi, ad esempio: i “congiurati”, i “traditori” e
gli “usurai” – e in tal senso le loro violenze non solo venivano tollerate, ma
addirittura incoraggiate come forme di giustizia eccedenti la giurisdizione6.
Un doppio registro attraverso cui, per un verso, si condannavano le gesta
sconsiderate e degenerate dei ragazzini di strada – che costituivano nelle
parole dei sostenitori della Controriforma una chiara esemplificazione della
deriva sociale dell’epoca – mentre per un altro verso, nella realtà dei luo-
ghi urbani, tali gesta venivano frequentemente utilizzate come modalità di
azione punitiva extragiudiziaria7. Questo doppio registro, apparentemente
contraddittorio, costituisce un tratto saliente del passaggio d’epoca che se-
gna la metà dello scorso millennio, e sarà in particolare il processo di Con-
troriforma a piegare in modo risoluto la questione sociale delle turbolenze
e delle violenze giovanili nel quadro dei problemi di ordine pubblico.
Come sostiene Marchi:

Il mutamento di contesto in cui si svolgono le turbolenze della pueritia


– e che le trasformano da atto tollerato e a tratti incoraggiato ad atto proi-

6
Su questo si vedano O. Niccoli, Op. cit., e V. Marchi, Teppa. Storie del conflitto giovanile
dal Rinascimento ai giorni nostri, Roma, Red Star Press, 2014.
7
Cfr. V. Marchi, Op. cit., pp. 47-49.
39

bito e sanzionabile – mette non a caso sotto accusa due istituti-cardine dei
giovani popolani (non soltanto cinquecenteschi): la vita in strada e l’aggre-
gazione in ‘bande’. Sulla vita di strada si appunteranno interessi economi-
ci, ed essa sarà progressivamente tollerata soltanto nelle zone ancora non
urbanisticamente appetibili8.

In effetti una caratteristica che è rintracciabile diffusamente nelle aree


urbane dell’Europa medievale e moderna, è proprio quella dell’organizza-
zione dei giovani in bande di natura per lo più territoriale, nelle quali ven-
gono a riprodursi sostanzialmente i meccanismi e le regole delle attività
belliche del mondo adulto. L’esistenza di bande di quartiere che, attraverso
scontri cruenti e vere e proprie battaglie, si contendono la supremazia ter-
ritoriale in una città, costituisce un fatto documentato molte volte dalle
cronache e dagli atti giudiziari del tempo. Città come Firenze, Parigi, Lio-
ne, Douai nei pressi di Lille, sono significativamente attraversate dai fe-
nomeni delle violenze tra bande giovanili9. D’altro canto è innegabile che
una certa forma di cultura giovanile trovasse effettivamente espressione in
confraternite o in compagnie che assumevano funzioni di organizzazione
persino gerarchiche, con un alto grado di adesione e identificazione da par-
te dei loro membri; un fenomeno che non riguardava solamente le grandi
città europee, in cui più facilmente si costituivano le confraternite artigia-
ne o studentesche, ma anche i villaggi rurali “di buona parte dell’Europa
nord-occidentale”10, presso i quali nascevano una varietà di “Compagnie”
e di “Abbazie” dai nomi più vari (Valeterie, Societé de la Jeunesse, Confrérie des
Garçons, Compagnia del Mat, Abbadia, Kmabneschaft, Abbaye du Misrule11);
la realtà delle bande territoriali divenne quindi uno dei principali oggetti
su cui si appuntarono le politiche di controllo sociale, di disciplinamento
e di repressione che caratterizzarono la questione giovanile a partire dal
XVI secolo, intravedendo in esse il rischio di una “istintiva conflittualità”
che poteva assumere nella banda il pericolo di una sovversione in forma
organizzata.

8
Ivi, pp. 50-51.
9
Si veda M. Mitterauer, Op. cit.
10
Cfr. V. Marchi, Op. cit., p. 56.
11
Ibidem.
40

In effetti, il timore di un disordine sociale che possa essere alimentato


dalle torme di giovani che giungono nelle città dalla campagna in cerca di
un’occupazione, unitamente ad un vasto numero di adulti inoperosi che
vagabondano nelle strade urbane, costituisce uno dei principali argomenti
a giustificazione degli interventi repressivi e punitivi che segnano il XVII
secolo. Il 1600, pressoché nella sua interezza, è agitato dalla necessità delle
Istituzioni di contrastare tutte le forme di vagabondaggio, di mendicità,
di prostituzione di strada, di inoperosità che costituiscono una minaccia
per l’ordine costituito: la strada diviene in tal senso luogo potenziale della
sedizione, della ribellione e del crimine, e necessariamente dev’essere pre-
sidiata e svuotata dalle presenze nocive di coloro che possono rappresentare
un pericolo per la comunità. Ma è in particolare a partire dalla seconda
metà del XVII secolo che i provvedimenti legislativi assumono forme più
radicali di intervento da parte delle Istituzioni. Se da un lato, in particolare
nei confronti degli adulti marginali, emerge l’esigenza di internare coloro
i quali – sono i soggetti della s-ragione, i cosiddetti folli12 – hanno scelto
di condurre la propria esistenza in modo insensato, rinchiudendoli negli
Ospedali del Grande Internamento13; dall’altro lato si incomincia a deportare
oltreoceano i giovani maschi accusati di vagabondaggio, estendendo un
provvedimento inizialmente riservato solo a coloro che erano stati con-
dannati per aver commesso dei crimini14. È nel passaggio all’era Moderna,
dunque, che l’inclinazione naturale degli adolescenti e dei giovani alla tur-
bolenza e la loro propensione ad assumere condotte violente, in qualche
modo tollerata, assecondata e strumentalizzata nelle epoche precedenti, si
trasforma in un vero e proprio allarme sociale che fomenta negli adulti il
timore verso una conflittualità giovanile che ha come bersaglio le proprie
Istituzioni. Si tratta di una frattura storica che ci permette di cogliere l’in-

12
La popolazione variopinta degli insensati è costituita da numerose categorie di
emarginati e inoperosi: si tratta di “indigenti, di vagabondi e di mendicanti”, di “donne
caduche”, di “vecchie rimbambite o inferme”, di “innocenti gobbe e deformi”, di folli dallo
“spirito debole o pazzi furiosi”, di “ragazze incorreggibili”, di “grandi e piccoli paralitici”,
di “furfanti e libertini”, di “infermi e criminali”. Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età
classica, Milano, BUR, 1992, p. 86.
13
Ci riferiamo ancora a M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit.
14
Su questo V. Marchi, Op. cit., p. 67.
41

crinatura pedagogica con cui viene inaugurata, nella prassi reale, la peda-
gogia moderna. Il principio che è sotteso all’idea di minorità del minore – è
un’aetas infirma, i fanciulli non possono, senza rischio, esser lasciati ad una
libertà priva di costrizione gerarchica15 – è quello di una loro connatura-
ta insufficienza e dell’inevitabilità che l’adulto eserciti nei loro confronti
la propria responsabilità educativa, fatta di imposizione di regole rigide e
di disciplina del corpo e della mente. La minorità del minore si esprime
attraverso una colpevolizzazione del fanciullo rispetto alla sua incapacità
di gestire l’insieme disordinato e irrazionale di istinti, desideri, pulsioni:
“si determina”, in tal senso, “una contiguità tra istinto e pericolosità che si
riversa nell’immaginario culturale, così come nei discorsi e nelle pratiche
pedagogiche, chiamate a svolgere un’azione di controllo e gestione del cor-
po e della mente del ragazzo”16; compito educativo dell’adulto è dunque
principalmente quello di regolarne il comportamento per annullarne o,
quanto meno, limitarne, la pericolosità intrinseca.
A questa frattura storica, seguirà una lunga stagione - che si spingerà
fino all’Età Contemporanea – in cui l’adolescente, pensato e descritto a
partire dal suo status di minorità, sarà sottoposto a stretta vigilanza educa-
tiva e disciplinare, attraverso pratiche di assoggettamento che non rispar-
mieranno l’utilizzo di mezzi coercitivi e violenti per ottenere l’obbedienza
del giovane a cospetto del potere dell’adulto; oltre tre secoli di pedagogia
nera contribuiranno significativamente a rimarcare la funzione di ribellio-
ne e di emancipazione che viene ad assumere la violenza giovanile come
forma di conflitto contro l’Autorità degli adulti.

L’ultima rappresentazione sociale del conflitto intergenerazionale

Quest’anno ricorrono i cinquant’anni ormai trascorsi dalla contestazio-


ne studentesca e dalle lotte dei giovani del Sessantotto, che infiammarono
le piazze di molti paesi occidentali. Una stagione importante che abbinò
alle battaglie nelle strade e nei luoghi di studio e di lavoro una radicale tra-

15
Cfr. P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza, 1968.
16
Cfr. P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza, cit.
42

sformazione culturale, capace di mettere in discussione numerosi dogmi e


rinnovare profondamente il sapere scientifico in molti campi disciplinari.
Una stagione, soprattutto, che portò alla ribalta i giovani come interpreti
della scena politica, rendendo chiaro che in quegli anni non era implicato
solamente un desiderio di protagonismo, ma veniva a maturare una volon-
tà di emancipazione e di liberazione dalle schematizzazioni sociali, dalle
costrizioni morali, dalle coercizioni disciplinari che continuavano a essere
riprodotte nei luoghi di vita e di formazione delle giovani generazioni.
Il Sessantotto e, in particolare in Italia, gli anni a seguire, rappresentaro-
no in modo evidente la necessità di un conflitto intergenerazionale come
motore del cambiamento sociale e culturale: la contestazione giovanile di
quell’intensa stagione metteva a nudo l’inconciliabilità di due visioni del
mondo, di cui una, quella realizzata dagli adulti, cominciava ad apparire in
tutto il suo anacronismo rispetto alle trasformazioni economiche e sociali
seguite al secondo dopoguerra. Non solo simbolicamente, si può afferma-
re che con il Sessantotto abbiamo l’ultima rappresentazione di un conflitto
esplicito tra le generazioni, nel quale la violenza dei giovani – al di là delle
implicazioni ideologiche e di una valutazione etica – ha assunto valore te-
leologico, ovvero conteneva in sé tanto un significato quanto una finalità ri-
conoscibili e riconosciuti. L’ultima. Non solo perché, evidentemente, non
abbiamo visto un altro Sessantotto, ma perché le trasformazioni sociali e
culturali intervenute nell’arco degli ultimi trent’anni ci chiedono di rive-
dere completamente la questione del conflitto intergenerazionale e della
violenza giovanile.

Il rimodellamento del soggetto adolescente entro la crisi sociale contemporanea

Le trasformazioni sociali, economiche e culturali in atto richiedono alle


scienze umane una particolare attenzione alle dimensioni strutturali che
definiscono i contesti esistenziali e dell’esperienza contemporanei. Appare
imprescindibile collocare i nuovi fenomeni di disagio psichico emergenti
nelle relazioni quotidiane nel solco di mutamenti radicali e profondi che
riguardano tutti i principali aspetti che presiedono lo sviluppo e la cresci-
ta di un ragazzo nel mondo attuale. La portata e il significato della crisi
drammatica che oggi scuote profondamente le strutture della società Occi-
dentale intensifica e supera, persino, l’immaginario minaccioso che già da
43

diversi anni è stato individuato e commentato dalle ricerche e dagli studi


di molti importanti intellettuali del nostro tempo; siamo di fronte ad una
crisi di significato e di senso che non si limita ad aggredire le possibilità di
«benessere» del mondo Occidentale, restringendo le disponibilità econo-
miche e, di conseguenza, costringendo ad una nuova e forse più opportu-
na sobrietà consumistica. Siamo di fronte ad una crisi che mette a tema in
profondità la possibilità stessa di «essere».
La crisi sociale contemporanea è in primo luogo una “crisi di senso” che
invade il quotidiano e aggredisce l’esistenza stessa; l’esperienza individua-
le appare oggi segnata profondamente dallo smarrimento e dal disorienta-
mento conseguente al tramonto delle “grandi narrazioni” del Novecento.
Ma non si tratta solamente dell’effetto della crisi delle ideologie che hanno
attraversato e caratterizzato l’epoca moderna. La crisi che sta distinguendo
questo passaggio di millennio ha una portata enorme e una forza d’urto
straordinaria: coinvolge la singola esistenza di ciascuno – sia esso giova-
ne, adulto o anziano –, perché dal sentimento di illusione onnipotente
dell’ideologia positivista che annunciava l’avvento di un’era in cui l’Uomo
avrebbe potuto, grazie ai progressi della Scienza, dominare ogni avversità
e prosperare felicemente, si è passati al sentimento di impotente disillusio-
ne di fronte all’irriducibile complessità del mondo, in cui l’Uomo sembra
destinato a soccombere all’irrazionalità e all’imprevedibilità17.
Il nichilismo, espressione specifica dell’epoca attuale, secondo la vi-
sione di numerosi studiosi contemporanei, costituisce uno dei tratti più
indicativi della crisi. Ad esso si legano i vissuti problematici di una società
sempre più segnata dalla dimensione del distacco emotivo, dell’indifferen-
za, dell’aridità affettiva cui corrispondono fenomeni di esasperato indivi-
dualismo, di rarefazione dei processi di solidarietà, di perdita progressiva
dei legami, dei sentimenti di appartenenza e di partecipazione alla vita
comunitaria. Soprattutto, la forma nichilista del disagio contemporaneo
assume i tratti della sottrazione, della “mancanza”, e risulta essere l’effetto
dello svincolarsi del “desiderio” dalla “Legge”18. Così se, per la psicoanalisi
del Novecento la nevrosi era la forma caratteristica di un disagio struttu-

17
Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004.
18
Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Milano, Cortina, 2010.
44

rato sulla rimozione inconscia del desiderio, oggi il disagio sarebbe strut-
turato sull’angoscia del non avere più niente da desiderare: sull’impossi-
bilità del desiderare come cifra del “godimento coatto”19. Al principio del
godimento acritico verso cui spinge quell’assunto feticistico della merce,
di cui Marx ha indicato gli effetti alienanti sull’essere umano, è sotteso
un modello pedagogico non intenzionale che risponde agli effetti specifici
dell’organizzazione economica e sociale del capitalismo globale: si tratta
di un modello formativo strutturato sulle istanze di una performatività
assoluta, in cui diviene indispensabile, ai fini della sopravvivenza sociale,
mostrare enormi capacità prestazionali – determinazione, potenza, aggres-
sività – ai limiti della sopraffazione, disconoscendo qualsiasi forma di alte-
rità per affermare la supremazia egotistica.
Ma la coazione a godere che appartiene al “discorso del capitalista”20 non
rivela solo il volto della mercificazione consumistica, in cui il soggetto è
libero, senza vincoli e senza limiti, nella ricerca del godimento, bensì an-
che quello della disperazione di chi si scopre a precipitare nell’angoscia
impotente quando evapora l’illusione di onnipotenza che la vertigine con-
sumistica produce. Il senso di vuoto, la percezione di una propria inutilità,
la convinzione dell’impossibilità di rispondere alle richieste sociali, di non
essere mai all’altezza di un modello esistenziale da «lupo performante»21,
sono i correlati di questo «nichilismo passivo»22 che sembra colpire soprat-
tutto le generazioni più giovani. Il «disagio sommerso»23 degli adolescenti
prende la forma del malessere interiore, della fatica relazionale, dell’in-
terferenza comunicativa; esso si gioca su un nuovo genere di estensione
rispetto al passato, che riguarda lo spazio interiore.
Il disagio degli adolescenti sembra delineare una incapacità a rendere
presente e strutturare la dimensione del «desiderio», e non tanto, o non
più semplicemente, una mancata soddisfazione del «bisogno»24. Da tale

19
Cfr. J. Orsenigo, Disagio ed esistenza, in C. Palmieri (a cura di), Crisi sociale e disagio
educativo, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 65.
20
Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre?, Milano, Cortina, 2011, p. 43.
21
Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, Op. cit., p. 104.
22
Cfr. C. Palmieri, Op. cit., p. 87.
23
Cfr. P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza, cit., pp. 113-126.
24
Ivi, p. 122.
45

sofferenza discende il rischio di un drammatico doppio esito: per cui il vis-


suto di frustrazione impotente che attanaglia l’adolescente può, da un lato,
generare una rabbia incontrollabile che sfocia nell’atto distruttivo di una
violenza estrema, inattesa e irrazionale o, all’opposto, può trasformarsi nel
dolore impronunciabile che scuote in profondità l’esistenza alimentando
l’idea che essa sia inutile e non possa interessare ad alcuno, generando
l’idea di un necessario “ritiro” dal mondo che, sempre più di frequente, si
spinge tragicamente fino al gesto del suicidio:

Perché vivere significa rispondere a una pressante richiesta di presta-


zioni, utili per godere, a ogni costo: questo pone in una situazione para-
dossale, difficile da comprendere e da sopportare […] è un dolore senza
parole, che esplode in gesti forse perché non è stato possibile trovare o
costruire gli strumenti che possono consentire di sentirlo, di pensarlo, di
condividerlo25.

Il nuovo soggetto adolescente appare segnato così da una violenza


strutturale che appartiene alla sua formazione, insita nel suo divenire parte
di un meccanismo sociale che chiede al soggetto di disarticolarsi per costi-
tuirsi come individuo modulare, ovvero come “risorsa umana” massima-
mente utile per i processi produttivi della macroeconomia del capitalismo
avanzato26.

La rimozione del conflitto

Un recente romanzo di Michele Serra27, dedicato all’analisi dei rappor-


ti intergenerazionali nella società attuale, ritrae l’adolescente attraverso
un’immagine provocatoria ma al contempo efficace sul piano comunicativo,
in quanto, seppure in modo superficiale, essa coglie un sentimento diffuso
nel mondo degli adulti. È la rappresentazione di un’adolescenza ripiega-
ta su se stessa, disinteressata e disimpegnata, estranea al dibattito politico,

25
Cfr. C. Palmieri, Op. cit., p. 85.
26
Cfr. M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2016.
27
Cfr. M. Serra, Gli sdraiati, Milano, Feltrinelli, 2013.
46

lontana da ideali di cambiamento e di trasformazione del mondo, apatica e


egoista, qualche volta persino cinica; ma sono soprattutto il narcisismo e il
nichilismo28 a costituire le categorie con cui oggi viene spiegata la crisi che
contraddistingue il nuovo adolescente. Questa raffigurazione di adolescente
ha perso qualsiasi riferimento connotativo che rinvii alla dimensione della
ribellione, della contestazione, dello scontro, come istanze generazionali:

Dobbiamo riconoscere l’uscita di scena della figura dell’adolescente


identificata nell’essere contro, nel mettere in discussione il sistema di valo-
ri e l’ordine simbolico delle generazioni precedenti, assumendo i connota-
ti del ribelle. […] La politicità adolescenziale appare come definitivamente
disinnescata, facendo tramontare una serie di dimensioni che ne avevano
connotato l’emersione e l’affermazione lungo tutta la modernità: il conflit-
to, la differenza, la trasgressione, l’idea stessa che il passaggio adolescenziale
implicasse l’attraversamento di uno spazio di cambiamento29.

Ma è proprio la questione del passaggio, oggi, a delineare uno scena-


rio educativo più complesso, che concerne un rischio di inattuabilità del
compito di avvicendamento generazionale: ci si può chiedere, infatti, qua-
le ruolo assuma l’adulto nel facilitare la realizzazione di tale compito. Se
l’attenzione nei dibattiti che seguono alle preoccupanti notizie di cronaca
riguardanti delitti o reati violenti che hanno come protagonisti i mino-
ri, è rivolta soprattutto a comprendere le nuove caratteristiche dell’ado-
lescenza contemporanea, non meno rilevante è la posizione che riveste
l’adulto sulla scena, a partire da una sempre maggiore, quanto evidente,
sua rarefazione in qualità di soggetto attivo nell’esercizio della responsa-
bilità educativa. L’evaporazione del padre30 costituisce un aspetto centrale
nelle riflessioni che, soprattutto nella prospettiva psicanalitica, mettono
l’accento sulle trasformazioni interne alla famiglia: tali mutamenti toccano

28
Ci riferiamo in particolare alle acute analisi di: G. Pietropolli Charmet, Fragile e
spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008; U. Galimberti, L’ospite
inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2008.
29
Cfr. A. Marchesi, Stati di eccezione in adolescenza, in P. Barone (a cura di), Vite di flusso.
Fare esperienza di adolescenza oggi, Milano, Franco Angeli, 2018, pp. 57-58.
30
Tra altri: M. Recalcati, Cosa resta del padre?, cit.
47

l’esercizio dei ruoli, le dinamiche affettive ed emotive, le gerarchie e gli


assetti del sistema familiare, determinando una sostanziale indifferenzia-
zione generazionale al suo interno. In pratica, oggi, gli stili di vita e di
consumo, le modalità comunicative e relazionali, le forme simboliche e le
attribuzioni di significato circolanti nei nuclei familiari si caratterizzano
per una sostanziale indistinzione e commistione tra gli adulti e i ragazzi31.
Di fronte all’evanescenza dell’adulto, sembrerebbe venir meno l’urgenza
del confronto dialettico, del conflitto, come motore psico-sociale del cam-
biamento, necessario a quel movimento di separazione e di individuazio-
ne in cui si riassume il principale compito di sviluppo dell’adolescente.
Per il filosofo e psicanalista franco-argentino, Miguel Benasayag, la post-
modernità ci pone di fronte alla “formattazione del conflitto”, ovvero alla
rimozione di quella molteplicità conflittuale che costituisce una condizio-
ne esistenziale peculiare della soggettività in funzione dell’identificazione
dell’individuo con “una serie di ruoli normalizzati”32. La rimozione del con-
flitto non solo nega una condizione che è strutturale nell’esistenza umana,
ma sottrae all’adolescente il terreno di esercizio sul quale sperimentare l’al-
terità dell’adulto come necessario polo dialettico del proprio divenire. Non
vi è nulla più da rivendicare, nulla più da disputare, nulla più da desiderare,
perché non vi è possibilità di sperimentare il conflitto, perché non vi è più
nessuno contro cui lottare: alla formattazione del conflitto corrisponde, in
ultima analisi, la formattazione del soggetto “come uomo senza qualità”33. Ac-
cade così che la violenza diviene afinalistica, irrazionale, incomprensibile,
decontestualizzata: da proattiva, cioè orientata allo scopo, per il soddisfaci-
mento e la realizzazione di un desiderio, essa diviene esclusivamente reattiva,
in risposta alla frustrazione: si fa impulsiva, affettiva, difensiva o rabbiosa.

Il ritorno del rimosso

Il nuovo adolescente, nell’immaginario contemporaneo, è il prototipo


del consumatore avido e acritico, incapace di ingaggiarsi e di assumere l’i-

31
Cfr. M. Ammaniti, La famiglia adolescente, Roma-Bari, Laterza, 2015.
32
Cfr. M. Benasayag M., A. Del Rey, Elogio del conflitto, Milano, Feltrinelli, 2008.
33
Ibidem.
48

niziativa se non all’interno di nicchie iper-protette. Su di esso, solo appa-


rentemente è venuta meno la presa coercitiva del dispositivo disciplinare:
si può affermare che quella presa, oggi ancora più pervasiva, ha cambiato
di segno e opera ad un altro livello del dispositivo che, utilizzando ancora
le categorie foucaultiane, possiamo definire “semiotecnico”34: agisce cioè a
livello dei segni e dei simboli, riguarda la produzione dei linguaggi e dei
significati, produce effetti sull’immaginario e ne manipola le rappresen-
tazioni cognitive. Un dispositivo enormemente potenziato dall’avvento
delle nuove tecnologie di comunicazione e dei social media, che inevi-
tabilmente finiscono per favorire la circolazione e l’implementazione di
modelli di soggettività per il consumo verso cui viene piegata l’identificazione
adolescenziale. Ci troviamo così di fronte ad un effetto paradossale: per-
ché se da un lato la preoccupazione lamentosa dell’adulto colpevolizza gli
sdraiati per la loro passività e superficialità, dall’altro lato chi non si adatta
a questo modello, appare inevitabilmente destinato a far parte di una sem-
pre più ampia nosografia psicopatologica: è così che ogni forma di ribel-
lismo, oppositivismo, aggressività o irregolarità, viene passata al setaccio
delle valutazioni psicodiagnostiche per determinarne il possibile disturbo
correlato; l’irrequietezza, l’indocilità, l’indisciplina, la trasgressione, in un
contesto sociale che non contempla più la possibilità del conflitto come
espressione di un’istanza soggettiva, sono relegate a sintomi di un proba-
bile disagio psichico e relazionale.
È come se gli adolescenti oggi, scrive Marchesi, fossero “allevati in uno
stato d’assedio” e vivessero “sotto assedio”35; curati, ma al contempo sor-
vegliati e controllati, riparati e distanti e perciò immunizzati e protetti dal
rischio a cui li esporrebbe un mondo altamente insicuro. Questa socie-
tà non chiede più di portare via i ragazzi dalla strada, giacché abbiamo
conquistato il bene del ritiro nel privato, della sicurezza affettiva che ci è
garantita da una socialità ristretta o addirittura da una socialità a distanza
che consente di evitare persino il contatto fisico. Vi è però un’altra faccia
della medaglia del vivere sotto assedio:

34
Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976, p.
112 e p. 143.
35
Cfr. A. Marchesi, Op. cit., p. 59.
49

Un altro effetto collaterale della situazione percepita come stato d’asse-


dio chiama in causa un vero e proprio ‘ritorno del rimosso’: quando i ra-
gazzi escono dalle zone di sicurezza, dal circuito protetto, scuola, famiglia,
agenzie del tempo libero strutturato, quando si trovano fuori, nell’am-
biente esterno, privi di riparo e controllo, sembrano riscoprire la violenza.
I ‘bravi ragazzi’, ovvero quelli che sono maggiormente esposti alla prote-
zione e alla sorveglianza degli adulti preoccupati dal clima crescente di in-
sicurezza, quando incontrano l’esigenza di agire, di sentirsi protagonisti, di
vivere un’esperienza autonoma, lo fanno con esiti che sono inevitabilmen-
te violenti e (auto)distruttivi. Una volta oltrepassata la soglia che separa dal
mondo rappresentato come inabitabile e pericoloso, i ragazzi, in gruppo,
se incontrano qualcuno che appare come il rappresentante di quell’anoni-
ma alterità, fonte di tutti i pericoli sociali, così come se incontrano qual-
cosa che ricorda loro il senso del limite e della regola di convivenza civile,
reagiscono in modo aggressivo e violento36.

Ecco, allora, che la violenza adolescenziale fa capolino sulla scena con-


temporanea in forme qualitativamente differenti – anche se non dissimili,
per crudeltà e gravità – a quelle dei loro omologhi medievali. Se nelle
violenze dei giovani del Cinquecento si rintracciavano per lo più i segni
dei valori culturali risonanti negli adulti della propria epoca, in molte delle
violenze adolescenziali che segnano questo nostro tempo è evidente nel
mondo adulto il sentimento di smarrimento e di estraniazione che accom-
pagna ogni sforzo di comprenderne il senso, tanto che i tentativi di offrire
una spiegazione razionale dei fatti accaduti risultano per lo più insoddisfa-
centi (poiché, onestamente, non possiamo accontentarci di interpretazioni
semplicistiche che riconducono tali fatti alla noia o al nichilismo). I tratti
dell’irrazionalità, della stupidità e della gratuità che distinguono certe azio-
ni distruttive rinviano quindi ad una differente semantica della violenza
adolescenziale: parlano del vuoto simbolico che rimanda all’assenza di si-
gnificazione e di riconoscimento, derivante dalla rimozione del conflitto
come necessario “motore” del cambiamento e del passaggio del testimone
tra le generazioni. Siamo quindi di fronte ad un vero e proprio ritorno del
rimosso che ha nella formattazione del conflitto e nella virtualizzazione del

36
Ibidem.
50

nemico (nella sua sostanziale dissolvenza), le proprie ragioni sociali e psi-


cologiche. Ma poiché il dinamismo conflittuale, a meno di un annichili-
mento totale della soggettività, non può essere completamente sottaciuto,
ecco che la violenza riappare sulla scena nella sua forma più odiosa, come
risposta cieca e quasi ancestrale, diretta verso un nemico casuale, anonimo,
reificato; un oggetto tra altri oggetti, da colpire con lo scopo di dare un
senso al bisogno di sentirsi esistere per il mondo.
La violenza terroristica mi sembra una tragica metafora della semantica
della violenza contemporanea; la violenza irrazionale di alcuni adolescenti
vive una drammatica prossimità con la violenza del terrorismo contempo-
raneo, così indifferente al destinatario della violenza. Una violenza inaudi-
ta, individuale, che colpisce alla cieca e in modo casuale un nemico virtua-
le incarnato dalla moltitudine indistinta (indipendentemente dalla classe
sociale, dal genere, dal ruolo, dall’etnia e persino, come accaduto in alcuni
eventi recenti, dalla credenza religiosa). Se però nella violenza terroristica
è esplicito il richiamo a un’ideologia che fa da supporto e genera la moti-
vazione all’azione; nell’irrazionalità della violenza adolescenziale si perde
ogni referenzialità ad un contenitore culturale o ideale. Ciò che resta alla
fine, una volta esaurita la scarica adrenalinica, è per lo più un vuoto ancora
più grande di quello che si voleva combattere.
Io credo, in conclusione, che se vogliamo prendere sul serio, dal pun-
to di vista pedagogico, la questione della violenza adolescenziale, è della
drammaticità di questo vuoto che dobbiamo poter discutere, poiché mi
pare che nell’irrazionalità e nell’insensatezza delle forme con cui tale vio-
lenza si esplicita si possa realmente scorgere un effetto indesiderato della
rimozione del conflitto. In un’epoca che ci pone di fronte all’appiattimen-
to delle differenze generazionali, nella gelatina di un’illusoria democrazia
relazionale, stiamo assistendo all’evaporazione dell’adulto come polo della
dialettica esistenziale dell’adolescente. Si tratta allora di provare a ripartire
proprio da questa assenza sia di significazione che di riconoscimento.
51

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