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INTRODUZIONE

Il contrasto alla violenza di genere non è soltanto una grande questione di civiltà e di

rispetto dei diritti umani ma è oggi anche una vera e propria “questione sociale”, dal

momento che riguarda trasversalmente classi, famiglie, generazioni, gruppi etnici di

riferimento. Come sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità è inoltre un grave

problema di salute pubblica, che incide direttamente sul benessere fisico e psichico delle

donne e indirettamente sul benessere sociale e culturale di tutta la popolazione. Una

questione epocale, per dimensione e sviluppo nel tempo, troppo spesso colpevolmente

sottovalutata. Ma, allo stesso tempo, la violenza di genere è anche un fenomeno assai

difficile da contrastare, perché si annida negli interstizi della società, spesso sfuggenti e

insospettabili, manifestandosi per lo più silenziosamente nella vita quotidiana e

riuscendo a rappresentarsi come un evento accidentale persino nella percezione delle

stesse vittime. Le violenze di genere determinano, dunque, un costo sociale che frena lo

sviluppo economico delle società, a cominciare dal mancato guadagno economico

da parte delle vittime – che dopo avere subito una violenza hanno grandi difficoltà a

condurre una vita lavorativa equilibrata - fino ad arrivare ai costi finanziari che il

sistema deve sostenere per arginare gli effetti negativi dei maltrattamenti contro le

donne. Le violenze generano spese pubbliche più elevate per i servizi medici, per il

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sistema giudiziario, per la sicurezza e, soprattutto, per il prezzo pagato dalle future

generazioni in termini di disagio e sviluppo.

La violenza di genere si caratterizza come un fenomeno del nostro tempo, che racchiude

in sé elementi di complessità, disordine e confusione. Un fenomeno sfuggente del quale

riusciamo ad intravedere una remota superficie indistinta e di cui, talvolta, percepiamo

solo un’immagine sfocata. Come altre manifestazioni, quali la tratta di esseri umani o

gli homeless, la violenza contro le donne spesso assume il carattere dell’invisibilità:

invisibile perché si consuma all’interno del privato dei rapporti familiari e affettivi,

perché non sempre se ne riconoscono i contorni e i contenuti, invisibile anche perché la

comunicazione e l’informazione mediatica generano spesso ambiguità, pregiudizi,

stereotipi che danno luogo a percezioni distorte e a sovrapposizioni di significato.

Il femminicidio, quale estrema -ma non unica- manifestazione della violenza di

genere, ad esempio è un fatto sociale: la donna viene uccisa in quanto donna, o perché

non è la donna che l’uomo o la società vorrebbero che fosse.

Questo, nonostante la cronaca veda crescere incessantemente e a dismisura il numero di

donne vittime di violenza, è difficile da concepire, da ammettere, da razionalizzare, da

accettare, in una società democratica, “civilizzata” e culturalmente avanzata come la

nostra, dove le “questioni affettive, familiari e di coppia” vengono relegate a una

dimensione privata: tuttavia è una realtà innegabile che oggi molte donne subiscano

violenza solo perché donne.

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La violenza di genere, perlopiù in ambito familiare, è dunque una realtà statisticamente

in aumento, ma non salta immediatamente agli occhi come tale. Si parla spesso infatti di

stupri, violenza sessuale, molestie, maternità forzata, incesto, ma non si coglie l’essenza

comune di tutti questi reati: da qui la necessità trattare la violenza contro le donne come

fenomeno a sé, al fine di infrangere un tabù ed affrontare seriamente il problema.

Il singolo episodio di omicidio di una donna in sé non costituisce e non può essere

rappresentato dai media solo come un “caso eccezionale”, magari conseguenza di un

raptus improvviso, così come sarebbe fuorviante affermare che degli stupri siano

perlopiù autori gli extra-comunitari: le statistiche, come detto, smentiscono questi input

inviati dai media, affermando che nella maggior parte dei casi la violenza sulle donne è

perpetrata in famiglia, da mariti, ex o conoscenti.

Chiaro è quindi che la violenza di genere non è imputabile a un “mostro”, alla

strada, ma ha radici più profonde di quanto i media vogliano far credere: è un fenomeno

trasversale, interessa tutte le classi perché sta “dentro” il nucleo base della comunità, la

famiglia.

La violenza di genere costituisce una tipologia di reato in costante espansione e di

continuo interesse da parte della società ma soprattutto da parte di coloro che ne

vengono a contatto per lavoro. Il fenomeno nella sua globalità è complesso da

analizzare in quanto gli autori di reato commettono gli episodi perlopiù entro le mura

domestiche e ciò comporta, dato il legame spesso di natura intrafamiliare tra autore e

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vittima, il silenzio di quest’ultima che concorre ad accrescere il cosiddetto “numero

oscuro”. Da ciò derivano i limiti dell’analisi di un fenomeno per sua natura sommerso,

del quale non è facile tracciare i contorni.

Una conoscenza approfondita del fenomeno nel suo insieme, tuttavia, è essenziale per lo

sviluppo delle politiche e dei servizi, a partire dalle campagne di sensibilizzazione per

arrivare alle contromisure legislative finalizzate a prevenire e/o contenere la violenza.

La presente tesi sulla violenza di genere è stata elaborata partendo dall’analisi del

fenomeno a livello culturale, sociale e normativo per poi analizzare i dati raccolti a

livello nazionale. Nel secondo capitolo sono state esaminate le politiche di welfare a

contrasto della violenza, l'attuale approccio europeo e le azioni messe in campo dalla

regione Emilia Romagna.

Nel capitolo terzo, dopo aver esaminato le risposte della regione Emilia Romagna e

l'esperienza della rete dei servizi, viene trattato nello specifico il caso della Provincia di

Parma; tale realtà è stata approfondita ed analizzata attraverso la partecipazione al corso

di formazione interistituzionale: “la violenza sulle donne e i loro figli” tenutasi nel

periodo aprile-ottobre 2012. L’intento della formazione è stato quello di favorire

l’elaborazione e la condivisione di conoscenze circa il fenomeno della violenza sulle

donne nel contesto familiare e, più in generale sociale, per riprogettare reti di servizio

più efficaci.

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Il percorso di formazione ha avuto come scopo quello di riflettere sulla violenza nei

confronti delle donne proprio tenendo fermo il presupposto di questo approccio centrato

sull’empowerment in 3 livelli: della persona, dell'operatore e della comunità.

La violenza domestica infatti espone gli operatori a un problema familiare complesso,

l’approccio al quale varia a seconda del membro della famiglia o della cultura

istituzionale (pensiamo a FF.OO., a operatori sanitari, operatori sociali, terzo settore,

comunità ecc.), e questo caratterizza in parte le difficoltà di costruire reti

interistituzionali. E d’altra parte la violenza stessa come esperienza, soprattutto se

prolungata, mette la donna in un ruolo sociale caratterizzato dall’impotenza,

dall’immobilismo, dalla situazione di stallo ecc., proprio ciò che codifica, nei fatti, un

evidente bisogno di percorsi empowering di risposta ai problemi.

Infine, è evidente che viviamo un clima sociale culturalmente schizofrenico rispetto

alla violenza maschile: essa viene in qualche modo ritualizzata e promossa in pratiche

quotidiane di educazione maschile, anche in contesti come il mondo scolastico, sportivo

ecc., eppure il nuovo ruolo sociale delle donne rende molto più complessa l’accettazione

di modelli maschili di questo tipo. Certo la violenza maschile è una forma appresa, o

conseguenza di problemi psichici, ma anche una dimensione quotidiana che ha radici

nel processo culturale carsico e resistente sulle dinamiche di potere ‘uomo-donna’ e in

processi educativi diffusi (cosa è il femminile, cosa è il maschile): in questa rimozione

collettiva si devono vedere le radici e la persistenza.

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Potremmo dire insomma che l’identità maschile vive trasformazioni ambivalenti e

diversamente strutturate nei ceti sociali e nei gruppi culturali, creando davvero una

grande potenzialità di conflitto familiare.

Ecco perché la formazione è stata pensata e condotta in modo da stimolare l’operatore

‘dal basso’ a formulare la propria visione sul problema e a condividerla con altri

operatori di servizi diversi.

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CAPITOLO 1

LA VIOLENZA DI GENERE: ANALISI DEL FENOMENO

1. Le radici della violenza contro la donna: una problematica culturale

e sociale

In Italia vi è stata una sorta di negazione del problema sia da un punto di vista

istituzionale che sociale; la violenza contro le donne (per lo più consumata all'interno

delle mura domestiche) per molto tempo è stata percepita come un affare privato e non

come un reato contro la persona, per cui sono ancora poche le ricerche e le

pubblicazioni realizzate in lingua italiana che si occupano di questa problematica.

Le percezioni e le rappresentazioni sociali relative a questa tipologia di violenza stanno

tuttavia cominciando a cambiare.

Per lungo tempo è stato considerato , come osservato, un fenomeno privato, da relegare

nel segreto del focolare domestico . Si è ritenuto anche che gli uomini violenti fossero

degli individui di ceto sociale basso, degli individui poveri, sfruttati, frustati, alcolizzati

che si vendicavano sulla donna del proprio decadimento sociale e delle umiliazioni

subite, mentre attualmente, in base a dati statistici, si sa che il fenomeno è più ampio e

tocca tutti i ceti sociali e tutte le culture.

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Parlare di violenza contro le donne significa, dunque, affrontare una tematica assai

complessa che non può essere definita esclusivamente a partire da concetti di tipo

clinico e giuridico. Per comprendere e contrastare il fenomeno è necessario, infatti,

tenere in considerazione i diversi ambiti di riferimento della donna: socio-culturale,

relazionale e individuale.

Le modalità con le quali una società interviene sulla violenza nei confronti delle donne

- la gravità attribuita ad essa ed il tipo di reazione messa in atto a livello sociale e

istituzionale - possono quindi essere molto diverse in base al periodo storico e al

contesto geografico nel quale la violenza stessa viene perpetrata.

Questa osservazione comporta la necessità di approfondire i fattori culturali, sociali

ed economici che determinano le condizioni di soggezione e di dipendenza nelle quali

versano molte donne in varie parti del mondo e che spesso rendono non solo

possibili, ma addirittura tollerabili, le diverse forme di maltrattamento alle quali esse

vengono sottoposte.

A tutt’oggi persistono radicate convinzioni (modelli socio-educativi e relazionali

trasmessi tra generazioni) che vedono la donna subordinata all’uomo e come soggetto

dipendente nel rapporto affettivo. Convinzioni che affidano alla donna la funzione di

cura nelle relazioni, a discapito della reciprocità e della possibilità di fare richieste

basate sui propri desideri e bisogni. I comportamenti aggressivi, anche quelli sessuali,

vengono giustificati perché connaturati alla natura dell’uomo; la gestione delle finanze

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spetta al “capofamiglia”; una brava moglie e madre non lavora fuori casa, ecc. sono

stereotipi tutt'altro che superati. Tollerare una relazione tra i sessi in cui esista uno

squilibrio di potere rende difficile il riconoscimento della violenza.

Un primo fondamentale elemento di prevenzione e protezione è dunque

rappresentato da un cambiamento a livello sociale e culturale che porti a fare

emergere sempre più il problema e riconosca e valorizzi la differenza, la

reciprocità dei ruoli tra uomo e donna nonché le risorse di ognuno.

Anche la dimensione individuale è indispensabile per comprendere l’insorgenza,

lo sviluppo e il mantenimento di una situazione di violenza. Questa dimensione è,

infatti, correlata con lo sviluppo del sé che si definisce e si struttura a partire da

esperienze primarie significative, nel corso degli anni. Sperimentare le proprie

risorse in contesti relazionali positivi permette di crescere con un buon livello di auto-

stima, una immagine positiva di sé e la percezione di meritare amore e rispetto. Là dove

questo non è possibile, per esperienze precoci di violenza o per la presenza di contesti

familiari caratterizzati da carenza affettiva ed emotiva, il senso di sé può risultare

“indebolito” o fortemente danneggiato.

Diversi studi hanno rilevato che l’abuso infantile, la violenza adolescenziale e

l’aver avuto una madre vittima di violenza, diventano in età adulta fattori di

rischio per una relazione coniugale violenta e maltrattante. Aumentando infatti la

soglia di tolleranza si creano le condizioni per una assuefazione a maltrattamento:

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le donne tendono a considerare “normale” la violenza in famiglia e non mettono in

atto le naturali capacità di reazione e opposizione.

Riconoscere la violenza subita presuppone il percepirsi come persona degna e

positiva. Le donne che hanno subito violenza invece provano vergogna, si sentono in

colpa, si considerano inadeguate e incapaci di reagire. La violenza è, infatti, un attacco

all’integrità fisica e psichica della donna che produce pesanti effetti e conseguenze:

un potente fattore di rischio per la salute mentale della donna.

Le reazioni del contesto familiare e sociale, spesso giudicante e ostile, la carenza di

risorse materiali, il momento della vita in cui la violenza insorge, la gravità

dell’aggressione, insieme alla presenza di violenze pregresse, rappresentano elementi

che possono andare ad appesantire l’entità del danno.

All’opposto il tempestivo riconoscimento della violenza subita, la possibilità di svelare

l’accaduto e uscire dalla situazione, insieme a risposte di sostegno del contesto familiare

e sociale, a risorse materiali e azioni di protezione, costituiscono fattori altamente

protettivi per ricostruire il senso di sé fisico e psichico nell’ambito di un percorso di

elaborazione e riparazione del trauma.

Le radici dei nostri comportamenti sono in relazione con la tradizione culturale

di appartenenza, con la struttura sociale, con il sesso della persona - il quale determina

le diverse sottoculture femminile e maschile - e con il processo concreto che ha vissuto

la persona attraverso i distinti agenti di socializzazione, quali sono il nucleo familiare, la

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scuola, i mezzi di comunicazione, i gruppi di pari ecc. Tutto ciò agisce nel mondo

particolare che la persona si crea, diventando un insieme di sensazioni, emozioni,

pensieri, modi di comportarsi e relazionarsi, che genera la struttura della personalità.

Questa struttura della personalità non è permanente, anzi attraversa dei momenti di crisi

e cambiamenti continui.

Le persone hanno un corpo biologico e anche delle determinanti socioculturali

che incidono sulla propria maniera di sentire, pensare e agire. Alcune riguardano quasi

ugualmente ambedue i sessi, altre in maniera diversa la donna e l'uomo.

Per quanto riguarda invece la società, la nostra proviene da una struttura patriarcale, che

si è manifestata in una gerarchia di potere economico e sociale, base di un sistema di

dominazione e sottomissione. Per tanto tempo fino all'azione del movimento delle

donne la società è stata rappresentata dall'uomo, valorizzandone tutto quello che

corrisponde allo stereotipo maschile. Socialmente il dominio è stato attribuito all'uomo

e la sottomissione alla donna. Questo ha creato stili di relazione di potere in cui la donna

ha subito un ruolo di vittima di fronte all'uomo che assumeva quello di dominatore, ed

ha impostato così una relazione non paritaria e disuguale, che tuttora ha delle

conseguenze.

La persona che si sente oppressa tende a cambiare il suo ruolo appena trova

un’opportunità. Così succede che la donna, volendo cambiare la situazione svantaggiata,

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finisce a volte con l’identificarsi con i ruoli maschili giocando a sua volta la parte di

dominatrice.

Ovviamente i cambiamenti dei valori sociali e delle strutture relazionali non sono

automatici per il fatto di cambiare il sistema socioeconomico o per assumere

un'ideologia diversa. Un cambiamento realmente effettivo di valori non si può dare

senza un' attuazione parallela nelle aree sociale, relazionale e personale.

Le differenze sessuali nella nostra società occidentale non sono solamente delle

differenze biologiche, bensì due conformazioni, due modi di percepire e vivere il

mondo: la sottocultura femminile e la sottocultura maschile. Nella struttura patriarcale

la sottocultura maschile è quella dominante, incidendo sia nella vita quotidiana che

nell'elaborazione delle teorie del sapere scientifico. La possibilità che potesse esserci

una percezione del mondo al femminile non è stato per molto tempo nemmeno presa in

considerazione. Si è ignorato il mondo della donna - creato proprio dalla

differenziazione sessuale - anche da parte delle stesse donne, che sovente finivano,

come già osservato, per cercare la propria identità imitando quella dell'uomo.

Queste sottoculture non sono il prodotto della natura biologica; insieme ad essa

c'è la struttura dei ruoli della nostra società imparati attraverso gli agenti di

socializzazione durante un processo educativo diverso per gli uomini e per le donne.

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Il concetto di maschile/femminile è una costruzione socioculturale formata dai valori e

dai ruoli, dalle forme di percezione di sé, e infine, da tutta una configurazione del

mondo che avrebbe un altro senso in altre società.

Secondo quello che viene considerato - in base ai ai cliché tradizionali - maschile o

femminile si educano le persone, ad esempio incitando e coinvolgendo i maschi in

giochi competitivi ed aggressivi in cui misurano la propria forza, offrendoci un indice di

quanto sia ancora importante nella nostra società che gli uomini appaiano forti,

combattivi e competitivi. Si insegna ai bambini a negare le emozioni, incoraggiando il

non piangere, il resistere e stimolando a difendersi con il corpo più che con le parole. La

tristezza e la tenerezza vengono considerate deboli per i maschi ma accettabili per le

femmine. Per contro le bambine vengono spesso educate a svolgere ruoli di cura, e

imparano ad essere tenere e materne attraverso giochi materni e bambole di cui

prendersi cura. Sono scoraggiate a manifestare la rabbia e le condotte aggressive,

mentre si accettano i loro lamenti e i pianti come valvole di sfogo nelle situazioni di

frustrazione.

Attraverso l'assunzione di determinati ruoli si costruisce l'identità dell'uomo e

della donna, che a volte può viversi come una dura corazza che impedisce una fluida

comunicazione personale e relazionale. Tutt’oggi le donne che si comportano in accordo

alle aspettative sociali riguardo al ruolo di donna occupano il secondo posto nella

considerazione sociale, mentre se adoperano valori più maschili (forza, competitività…)

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ai fini di essere riconosciute socialmente vengono frequentemente disprezzate come

donne.

Oggi, nella nostra società occidentale, sono sempre più evidenti gli sforzi che le donne

e, sempre più uomini fanno per sradicare gli stereotipi legati ai ruoli sessuali. Appare

chiaro che tutti e tutte abbiamo bisogno di esprimerci nei momenti della nostra vita in

diversi modi, a volte più femminili talvolta più maschili, senza perciò attribuire ad essi

delle connotazioni positive o negative.

Gli studi psicologici sulle differenze di genere sono arrivati - al pari di alcune

tradizioni millenarie - alla conclusione che sia uomini che donne abbiamo dentro di noi

una parte maschile ed un'altra femminile, e naturalmente, la salute si trova

nell’equilibrio tra queste due parti.

I cambiamenti, però, sono lenti se si osservano su grande scala. Resta difficile non

conformarsi in base a dei ruoli che risultano cristallizzati.

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2. La portata del fenomeno

Ricerche e studi condotti a diversi livelli e contesti confermano che la violenza contro le

donne è un problema che interessa ogni Paese del mondo. Non vi sono statistiche

complessive sul maltrattamento, ma il “Rapporto Mondiale sulla Violenza e la Sanità” 1

stima che una donna su cinque ha subito nella sua vita una qualche forma di violenza.

All'interno dell'UE, in base ai dati sui reati negli stati membri, la violenza rappresenta la

prima causa di morte delle donne nella fascia di età tra i 16 e i 50 anni. In Italia ogni tre

morti violente, una riguarda donne uccise da un marito, un convivente o un fidanzato.

Purtroppo questa è solo la punta dell’iceberg, non potendosi stimare tutti quegli episodi

di maltrattamento che avvengono tra le mura domestiche e che non vengono denunciati.

Si stima che le denunce relative alla violenza non superano il 5% da qui l’importanza di

progettare misure pubbliche ed intervento che facciano in qualche modo luce sulle

dinamiche della violenza, soprattutto nel contesto familiare e sociale dove avvengono, e

che facciano emergere le molteplici situazioni sommerse e che diano risposte articolate

ed efficaci al problema.

I dati statistici circa il fenomeno e l’estensione della violenza nei confronti delle donne

in ambito domestico sono estremamente preoccupanti perché testimoniano quanto la

1 Pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 sotto il titolo “World Report on Violence and
Health”. World Health Organization 2002

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violazione dei diritti delle donne sia diffusa in tutto il mondo tanto da essere definita

dall’UNICEF come una “piaga sociale”.

La condanna che arriva dalle istituzioni e dal senso comune non arresta però il problema

e la reiterazione di tali azioni. Un fenomeno così esteso in tutte le latitudini e longitudini

del globo non può essere ricondotto a processi individuali; è riduttivo spiegare il

fenomeno ricorrendo a categorie quali il carattere, la personalità e la psicopatologia dei

soggetti coinvolti.

Nonostante gli sforzi compiuti dal Movimento Femminista negli anni Settanta, ancora

oggi essere donna vuol dire appartenere a uno stereotipo socialmente costruito da un

punto di vista prettamente maschile. In quest’ottica sociale l’“anormalità” della donna

che esce dagli schemi e va contro i preconcetti maschili dei ruoli uomo-donna, spesso è

la causa secondo cui la vittima stessa è ritenuta responsabile della violenza subita o

considerata poco credibile agli occhi della legge e dell’opinione pubblica.

I passi compiuti verso l’autodeterminazione hanno destabilizzato quindi tutta la struttura

sociale tradizionale spingendo l’autoconservazione delle forme patriarcali nella sfera

pubblica e in quella privata. Al nuovo ruolo sociale della donna autonoma corrisponde

oggi un crescente rancore che sale dal mondo maschile e che è dovuto al fatto che le

donne sono diventate sempre più estranee al ruolo sociale loro assegnato, intaccando il

senso e il valore del ruolo opposto. Essere donna diventa un pericolo, e la supremazia

del ruolo maschile su quello femminile si afferma sempre più spesso con la forza che,

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approfittando della debolezza fisica, è usata per minacciare, spaventare, violentare, o

contrariamente a proteggere, in ogni caso per dominare.

Nonostante la legislatura internazionale e nazionale abbia mosso passi da gigante verso

il riconoscimento della violenza contro le donne come problematica sociale, il

raggiungimento di un’ottica globale di condivisione delle differenze di genere deve

compiere un percorso ancora lungo. Gli eventi hanno dimostrato come talvolta le

interpretazioni errate delle leggi abbiano doppiamente colpevolizzato le vittime di abusi

che in alcuni casi si sono ritrovate ad essere additate come istigatrici della violenza

stessa. Inoltre, numerosi sono stati gli sforzi delle Nazioni Unite per promuovere i diritti

umani delle donne e l'uguaglianza tra i generi. E’ innegabile che a livello internazionale

siano state emanate utili direttive per gli stati membri sulla via delle pari opportunità,

ma il raggiungimento di una vera e propria prospettiva di genere, dal punto di vista

femminile, è lontano dalla realtà. Servono quindi altri strumenti che agiscano più

concretamente e da una posizione più vicina e circoscritta alla violenza contro le donne.

È necessario che le istituzioni si occupino di informare, educare e sensibilizzare

preventivamente la società alla cultura della non violenza attraverso lo sviluppo di

politiche atte a affinare l’opinione pubblica per la valorizzazione e il miglioramento dei

rapporti tra i sessi e contro la sopraffazione maschile su quella femminile.

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3. Violenza sulle donne: impatto sulla salute e benessere

Sia l’UNICEF che l’OMS ritengono che non si possa parlare di un problema “privato”,

ma di una reale questione di salute pubblica data la forte incidenza sulle malattie e le

ferite riportate dalle donne; dati di molte ricerche indicano una elevata incidenza della

violenza contro le donne in tutti i paesi del mondo. In particolare la violenza domestica

è la forma più comune di abuso commesso contro le donne. Per questi motivi l’OMS ha

lanciato l’allarme sulla violenza come fattore eziologico e di rischio per una serie di

patologie di forte rilevanza per la popolazione femminile.

La definizione utilizzata dall’OMS -“L’uso intenzionale di forza fisica o di

potere ,minacciato o agito, contro se stesso, un’altra persona, o contro un gruppo o comunità,

che ha come conseguenza o ha un’alta probabilità di avere come conseguenza il danno fisico,

la morte, il danno psicologico, l’alterazione dello sviluppo, la deprivazione”- associa

l’intenzionalità con l’atto stesso, a prescindere dal risultato che si determina.

L’inserimento del termine “potere”, oltre alla frase “utilizzo della forza fisica”, amplia i

confini della natura di un atto violento ed espande la nozione convenzionale di violenza

fino a comprendere quegli atti che rappresentano il risultato di una relazione di potere,

ossia anche le minacce e l’intimidazione. L' “uso di potere” permette inoltre di

includere l’incuria o gli atti di omissione, oltre ai più scontati atti violenti di

perpetrazione. In questo modo la definizione “l'uso di forza fisica o di potere”

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comprende l’incuria e tutti i tipi di abuso fisico, sessuale e psicologico, così come il

suicidio e gli altri atti di abuso verso se stessi.

Questa definizione racchiude un’ampia gamma di conseguenze tra cui il danno

psicologico, la privazione e il cattivo sviluppo. Ciò riflette la convinzione sempre più

frequente tra ricercatori e professionisti in base alla quale è necessario considerare

anche la violenza che non determina necessariamente una lesione o la morte, ma che

provoca comunque conseguenze importanti su individui, famiglie, comunità e sistemi

sanitari in tutto mondo. Diverse forme di violenza contro le donne, i bambini e gli

anziani, ad esempio, possono determinare problemi fisici, psicologici e sociali che non

necessariamente provocano lesioni, disabilità o morte. Queste conseguenze possono

essere immediate o latenti e possono perdurare per anni dopo l’abuso iniziale. Definire i

risultati esclusivamente in termini di lesioni o morte limita pertanto la comprensione

dell’impatto globale della violenza sugli individui, le comunità e la società nel suo

insieme.

Le conseguenze dell’abuso sono profonde e vanno oltre la salute e la felicità dei singoli

individui, condizionando il benessere di intere comunità. Vivere in una situazione

caratterizzata da violenza limita il senso di autostima di una donna e la sua abilità a

partecipare alla vita sociale. Diversi studi hanno dimostrato che le donne vittime di

abuso sono quotidianamente ostacolate nella loro possibilità di accedere alle

informazioni e ai servizi, di prendere parte alla vita pubblica e di ricevere sostegno

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attivo da amici e parenti. Non sorprende inoltre che le donne in queste condizioni siano

spesso incapaci di occuparsi in modo adeguato di se stesse e dei propri figli o di ottenere

un lavoro e di avere una vita professionale.

La violenza di genere può incidere essenzialmente su tre aspetti della vita della

donna che ne è vittima : salute, sviluppo professionale/economico, benessere della

prole.

• Impatto sulla salute

Un corpus di prove scientifiche ogni giorno più ampio dimostra con maggiore

fondatezza che condividere la propria vita con un partner violento può avere un impatto

profondo sulla salute della donna. La violenza è stata collegata a una quantità di

problemi di salute, sia immediati sia a lungo termine.

Oltre al fatto che la violenza presenta conseguenze sanitarie dirette, le lesioni, essere

vittima di violenza aumenta anche per la donna il rischio di una cattiva salute in futuro.

Alcuni studi mostrano come le donne vittime di abusi fisici o sessuali nell’infanzia o

nell’età adulta sperimentino situazioni di malattia più frequentemente delle altre donne

in particolare funzione fisica, benessere psicologico e adozione di comportamenti

ulteriormente rischiosi, tra cui fumo, sedentarietà, abuso di alcool e di droghe.

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Le principali conseguenze sulla salute possono essere così schematizzate:

Fisiche
➢ Lesioni addominali
➢ Lividi e frustate
➢ Sindromi da dolore cronico
➢ Disabilità Fibromialgie Fratture
➢ Disturbi gastrointestinali. Sindrome dell’intestino irritabile. Lacerazioni e
abrasioni
➢ Danni oculari
➢ Funzione fisica ridotta

Sessuali e riproduttive
➢ Disturbi ginecologici Sterilità
➢ Malattia infiammatoria pelvica
➢ Complicazioni della gravidanza/aborto spontaneo
➢ Disfunzioni sessuali
➢ Malattie a trasmissione sessuale, compreso HIV/AIDS
➢ Aborto in condizioni di rischio
➢ Gravidanze indesiderate

Psicologiche e comportamentali
• Abuso di alcool e droghe Depressione e ansia
• Disturbi dell’alimentazione e del sonno
• Sensi di vergogna e di colpa Fobie e attacchi di panico Inattività fisica
• Scarsa autostima
• Disturbo da stress post-traumatico
• Disturbi psicosomatici
• Fumo
• Comportamento suicida e autolesionista
• Comportamenti sessuali a rischio

Conseguenze mortali
➢ Mortalità legata all’AIDS
➢ Mortalità materna
➢ Omicidio
➢ Suicidio

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• Salute riproduttiva

Le donne che vivono con un partner violento hanno difficoltà a proteggere se stesse da

gravidanze indesiderate o da malattie. La violenza può condurre direttamente a una

gravidanza indesiderata o a infezioni a trasmissione sessuale, tra cui l’HIV, attraverso

atti sessuali imposti, oppure indirettamente ostacolando la capacità della donna di

utilizzare metodi contraccettivi, compresi i preservativi. Gli studi mostrano in modo

fondato come la violenza domestica sia più frequente nelle famiglie con molti bambini.

I ricercatori hanno pertanto ritenuto per lungo tempo che lo stress per la presenza di

molti figli aumenti il rischio di violenza. La violenza si può presentare anche durante la

gravidanza, con conseguenze non solo per la donna ma anche per il feto : aborto

spontaneo, ritardo nell’assistenza prenatale, nascita di un feto morto, travaglio e parto

prematuro, lesioni fetali, basso peso alla nascita.

• Impatto della violenza a livello economico

Oltre ai costi umani, la violenza carica le società di un peso economico enorme in

termini di produttività persa e di maggiore utilizzo dei servizi sociali.

Anche se la violenza da parte del partner non condiziona necessariamente la probabilità

globale di una donna di ottenere un lavoro, sembra comunque condizionarne il

guadagno e la capacità di mantenere il posto di lavoro. É stato provato da ricerche che

le donne con una storia di violenza da parte del partner avessero vissuto periodi di

disoccupazione, un notevole turn-over di lavori, e avessero patito un numero superiore

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di problemi di salute fisica e mentale in grado di condizionare la performance

professionale. Presentavano inoltre redditi personali più contenuti ed era

significativamente più probabile che si rivolgessero all’assistenza sociale rispetto alle

donne che non presentavano una storia di violenza da parte del partner.

• Impatto sui figli

Spesso i figli assistono ai litigi domestici. I bambini che assistono alla violenza tra

genitori presentano un rischio più elevato per una moltitudine di problemi affettivi e

comportamentali, tra cui ansia, depressione, scarsi risultati scolastici, basso livello di

autostima, disobbedienza, incubi e disturbi fisici.

La violenza da parte del partner rappresenta un importante problema di salute pubblica.

Per risolverlo è necessario coinvolgere diversi settori che collaborino a livello

comunitario, nazionale e internazionale. A ogni livello, le risposte devono prevedere

maggiore potere alle donne e alle giovani, azioni che raggiungano gli uomini, attenzione

ai bisogni delle vittime e pene più severe per i responsabili di violenza. È fondamentale

coinvolgere i bambini e i giovani e impegnarsi per modificare le norme sociali e della

comunità. Il progresso ottenuto in ciascuna di queste aree rappresenterà la chiave per

ottenere una riduzione globale della violenza da parte del partner.

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4. Il quadro normativo a livello nazionale

Con il termine “violenza” si intende comunemente “l’essere violento, ossia ricorrere alla

forza per imporre la propria volontà a danno di altri”, o anche “un’azione aggressiva,

sopraffattrice, esercitata con mezzi fisici o psicologici”.

Tuttavia, come più volte ricordato, in passato questa concezione è stata soggetta a

numerose eccezioni, soprattutto per quanto riguardava gli abusi commessi all’interno

della famiglia nei confronti delle donne: infatti, molte delle azioni che oggi possiamo

definire “violente” non erano considerate tali alcuni decenni fa nel nostro Paese, e

ancora oggi in altri Paesi.

Il Codice Rocco, elaborato e promulgato nel 1930 durante il regime fascista, è tuttora

(sia pure attraverso importanti modifiche ) il testo normativo di base per la legislazione

penale italiana. La parte che i giuristi hanno modificato con maggiori difficoltà, proprio

perché maggiormente condizionata dalla tradizione, era quella relativa ai diritti

individuali. Tra questi un particolare interesse veniva rivolto al mantenimento del

sistema familiare patriarcale in cui la donna era “sposa e madre esemplare”, creatura

soggetta ed obbediente al suo destino biologico ossia, alla funzione riproduttiva esaltata

come missione per il bene della Patria.

24
In virtù di tale concezione della donna all’interno della famiglia, il Codice Penale Rocco

nella versione originaria non contemplava il reato di violenza sessuale qualora ne fosse

vittima la moglie. Dagli anni trenta agli anni settanta, infatti, vi è stato un indirizzo

dottrinale/giurisprudenziale che riconosceva nel matrimonio la fonte di obblighi di

mutua assistenza fisica e morale, fra questi includendovi quelli relativi alla reciproca

dedizione sessuale. Di conseguenza, l’unione carnale in tale situazione era considerata

un diritto, mentre il reato di violenza carnale veniva relegato ai soli casi di costrizione

del coniuge ad atti sessuali estranei ai fini procreativi del matrimonio come quelli

“contro natura”. Tale dottrina/giurisprudenza affermava che, tra soggetti legati da

vincolo coniugale, per quanto riguarda i rapporti “normali”, non vi poteva mai essere un

delitto contro la libertà sessuale, poiché la tutela di quest’ultima non trovava

giustificazione in una situazione in cui il contatto carnale costituisce il sostrato della

relazione matrimoniale. Inoltre per il Codice Penale del 1930 i reati di violenza sessuale

e incesto erano rispettivamente parte “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon

costume” (divisi in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all’onore

sessuale”) e “Dei delitti contro la morale familiare”. Così mentre si affermava che la

violenza sessuale non offendeva principalmente la persona, coartandola nella sua

libertà, ma ledeva una generica moralità pubblica, si dimostrava che il bene che si

voleva proteggere e tutelare non era tanto la persona quanto il buon costume sociale

secondo il quale la donna non era libera di disporre di alcuna libertà nel campo

25
sessuale .Altro reato contro la morale era il “Ratto a fine di matrimonio” e il “Ratto a

fine di libidine” (entrambi gli articoli del codice penale abrogati definitivamente con la

legge sullo stupro del 1996). Il codice distingueva il ratto a seconda del fine che il

rapitore si proponeva e puniva meno gravemente chi rapiva a scopo di matrimonio

(Matrimonio riparatore: norma abrogata nel 1981, cioè pochissimi anni fa 2) e più

gravemente chi rapiva a fine di libidine, ritenendo evidentemente che privare della

libertà una donna e coartarne la volontà allo scopo di sposarla fosse meno grave. Va

notato che nel ratto a fine di libidine era prevista una aggravante se il reato era

commesso nei confronti di donna legalmente sposata: la tendenza era quella di tutelare

l’“oggetto” moglie, di “proprietà” del marito. Risulta evidente come nel codice era

rappresentata la concezione dell’inferiorità della donna .

Gran parte dei cambiamenti nelle legislazioni (italiana e straniera) sui reati relativi alla

violenza sessuale sono dovuti al movimento femminista. A partire dagli anni settanta ci

furono molti processi per stupro; in diversi Stati il movimento di liberazione delle donne

creò i primi centri per vittime di violenza sessuale; questo movimento fu guidato

dell’Organizzazione Nazionale per le Donne (NOW) . In Italia è alla fine degli anni ’80

che numerose associazioni di donne avviano esperienze dapprima di conoscenza e

2 L’assurdità del matrimonio riparatore fu rivelata per la prima volta nel 1965 dal coraggioso gesto di una ragazza,
Franca Viola. Rapita ad Alcamo, in provincia di Trapani, Franca, 18 anni, rifiutò le nozze riparatrici e denunciò il suo
rapitore, Filippo Melodia, e i suoi complici. Il caso sconvolse l’opinione pubblica e in particolare quella siciliana: non
si era mai vista una “disonorata” sottrarsi al “matrimonio riparatore” violando una consuetudine che dava per scontata
la sottomissione delle donne a questo tipo di violenza. Malgrado le intimidazioni e le difficoltà opposte dall’ambiente
sociale, Franca Viola non tornò indietro: il processo contro Filippo Melodia e i suoi dodici complici si concluse nel
dicembre 1966 con una condanna ad undici anni per lui, cinque assoluzioni e pene minori per gli altri (Nozzoli,
Paletti, 1966).

26
accoglienza delle domande di aiuto di donne vittime di violenza e successivamente

aprono servizi che si specializzano nell’aiuto di donne in difficoltà ed ai minori; ma fino

alla metà degli anni ’90 le istituzioni italiane non applicavano nessun tipo di politica

contro la violenza di genere.

Nel diritto penale italiano attuale il reato di violenza sessuale viene disciplinato

dall’art. 609 bis c.p. (introdotto dalla L. 15 febbraio 1996 n°66): “Chiunque, con

violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire

atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.

Tra le novità introdotte dalla legge n. 66 del 1996, vi è il passaggio dai reati contro la

morale ed il buoncostume ai reati contro la persona (“Dei delitti contro la libertà

personale”), accentrando in tal modo la punibilità del gesto come offesa alla persona

anziché alla morale pubblica. La fattispecie incriminatrice è inserita, infatti, tra i delitti

contro la libertà personale. In sostanza, il concetto di libertà sessuale non può essere

considerato come interesse collettivo alla continenza sessuale, bensì come aspetto

particolarmente significativo dell’autonomia personale. Si assiste così all’introduzione

di un concetto di rapporto sessuale adeguato al costume ed alla cultura sociale e morale

del ventunesimo secolo, che restituisce alla vittima di simili delitti la piena dignità,

garantendole la piena tutela della volontà di disporre del proprio corpo a fini sessuali.

27
Diverse pronunce della Corte di Cassazione 3 hanno infine stabilito - in assenza di una

esplicita previsione legislativa - che la fattispecie delittuosa di cui l' art 609 bis può

essere integrata anche in presenza vincolo coniugale. Tuttavia la punibilità del reato di

violenza sessuale tra coniugi non è ancora un dato scontato, espressione di una civiltà

moderna. In molti Paesi permane infatti la convinzione, resistente ad ogni cambiamento,

che tale reato non possa realizzarsi all’interno di una coppia sposata, o, qualora si

realizzi, non sia punibile, data l’esistenza di una oggettiva causa di non punibilità.

Questa situazione è tutt’oggi riscontrabile in alcune giurisdizioni degli Stati Uniti

d’America (Alaska, Illinois, Kansas, Oklahoma, South Dakota, Texas, Vermont, West

Virginia), che conservano l’exemption e la ritengono operante fino a quando i coniugi

non abbiano ottenuto una sentenza di divorzio

Per quanto riguarda la violenza al di fuori della sfera sessuale,in passato per il Codice

Rocco la violenza fisica intrafamiliare era punibile (e lo è tuttora) come “abuso di

correzione o di disciplina” (art. 571 c.p.) e “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”

(art. 572 c.p.). La questione dell’abuso di correzione dipendeva dal fatto che nel codice

civile, parte del diritto di famiglia, fino al 1975 il capofamiglia era uno solo (l’uomo) e

aveva potere di picchiare - per fini correttivi e di disciplina - chiunque si trovasse ad

abitare presso il suo domicilio . Lo stesso codice civile fu in effetti, anch’esso, elaborato

3 Sentenza 20-10-2006 n°35242 , Sentenza 18-03-2009 n°26345

28
e promulgato in epoca fascista ed era in aperto contrasto con la costituzione che invece

sancisce la parità giuridica e morale dei coniugi.

Un primo passo avanti venne compiuto proprio nel 1975 con la riforma del

diritto di famiglia (Legge 19 maggio 1975 n. 151), che affermava il principio della

parità quale regola dei rapporti tra coniugi: sanciva infatti che “con il matrimonio i

coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”, soprattutto in

riferimento alla gestione della residenza e del patrimonio familiare, nonché alle

decisioni che riguardano i figli. Ciononostante la scarsa chiarezza degli articoli del

codice penale di fatto continuava a consentire moralmente l’uso di violenza domestica

consumata sulle donne a difesa dei valori della famiglia. L’esempio più estremo

riguardava gli abusi sulle compagne “infedeli”, sulle quali era “comprensibile” (quando

non legittimo) esercitare violenza anche grave; basti ricordare il famigerato “delitto

d’onore”, abrogato solo nel 1981 , per il quale erano ridotte notevolmente le pene nel

caso in cui l’uxoricidio fosse avvenuto nella “circostanza” di una relazione illegittima

della partner.

Oggi si parla di maltrattamento ogniqualvolta vi siano “atti lesivi dell’integrità

fisica o psichica o della libertà o del decoro della vittima, nei confronti della quale viene

posta in atto una condotta di sopraffazione sistematica o programmatica” (art. 572 c. p.).

Con il termine “violenza fisica”, quindi, si intende non solo un’aggressione fisica grave,

ma ogni contatto fisico che mira a spaventare e controllare. Dunque, picchiare con o

29
senza l’uso di oggetti, ma anche spintonare, tirare i capelli, dare schiaffi, pugni, calci,

strangolare, ustionare, ferire con un coltello, torturare, urlare, etc. Attualmente, anche la

violenza assistita è considerata una forma di violenza fisica diretta .

Da ricordare, inoltre, che la L.154/2001 (Misure contro la violenza nelle

relazioni familiari) stabilisce un'ulteriore forma di tutela con l'esplicita previsione

dell'allontanamento da casa del parente dal quale si temono gravi violenze fisiche (in

precedenza la donna picchiata era obbligata a restare nello stesso posto in cui vive il

marito esponendosi a ogni forma di ritorsione).

Altre forme di violenza, meno riconosciute ma non per questo motivo meno diffuse,

sono la violenza psicologica, la violenza economica e lo stalking.

Una persona compie violenza psicologica verso un’altra quando la minaccia, insulta

verbalmente, ricatta; può consistere nell’infliggere umiliazioni pubbliche o private,

controllare le scelte individuali e le relazioni sociali fino al completo isolamento,

ridicolizzare e svalutare continuamente, fare violenza contro animali domestici o oggetti

personali di valore affettivo per la vittima, mettere il/la partner in cattiva luce. Anche la

deprivazione affettiva può essere una forma di violenza psicologica; le conseguenze che

comporta sono infatti simili. È la tipologia più difficile da riconoscere, soprattutto da

parte della vittima. Possono far riferimento a questo tipo di violenza i reati d’ingiuria

(ex art. 594 c. p.), di violenza privata (ex art. 610 c. p.), di minaccia (ex art. 612 c. p.), di

lesioni, quando cagionano una malattia del corpo o della mente (ex artt. 582 e 583 c. p.),

30
di abuso di mezzi di correzione e disciplina (ex art. 571 c.p.) di maltrattamenti in

famiglia (ex art. 572 c.p.) e di sequestro di persona (ex art. 605 c.p.).

Un'altra forma di violenza e controllo (nell’ambito delle relazioni di coppia)

consiste nel sottrarre o limitare ogni tipo di risorse della donna che potrebbero

permetterle di svincolarsi dalla relazione, tra cui la gestione del suo denaro. Per violenza

economica si intende “l’insieme delle strategie che privano la donna della possibilità di

decidere o agire autonomamente e liberamente rispetto ai propri desideri e scelte di

vita”; di solito chi la attua priva la donna del suo stipendio, impone le decisioni circa

l’uso del patrimonio familiare, la obbliga a lasciare il lavoro, a firmare documenti,

contrarre debiti, o prendere parte a truffe contro la sua volontà . Spesso tale violenza

non viene riconosciuta perché scambiata per una normale gestione (maschile)

dell’economia familiare ; anche in questo caso, l’origine di tale misconoscimento deriva

dallo squilibrio nella relazione tra i generi, inclusa la responsabilità nella gestione del

patrimonio familiare. Attualmente, nella categoria di violenza economica possono

rientrare i reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare (nella forma di

malversazione dei beni familiari, ex art. 570 c.p. comma 2, n.1), maltrattamenti in

famiglia (ex art. 572 c.p.) e quello di violenza privata (ex art. 610 c.p.).

Lo Stalking (persecuzione) sebbene abbia sempre fatto parte del comportamento

umano, solo recentemente è stato riconosciuto come reato in Italia dal DL 23 febbraio

2009 n°11 (convertito in legge con modifiche dalla L.23 aprile 2009 n°38) che ha

31
introdotto l'art. 612 bis (all'interno della sezione “dei delitti contro la libertà morale”)

.L'art. 612 bis, rubricato “Atti persecutori”, statuisce “Salvo che il fatto costituisca più

grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con

condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e

grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità

propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione

affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o

divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona

offesa...”.

Il ritardo, rispetto ad altri Paesi, è evidente: psicologi e sociologi hanno

cominciato ad occuparsi di stalking a partire dagli anni ‘80, quando vittime delle

molestie furono personaggi di spicco dello Star System hollywoodiano e dello sport: tra

i casi più famosi, quelli delle attrici Theresa Saldana, pugnalata dal suo stalker a Los

Angeles nel 1982, e Rebbecca Shaffer, assassinata dal suo persecutore nell’89, episodi

che hanno ispirato la prima legge anti-stalking in California, datata 1992. Negli States,

entro la fine del ‘94 tutti gli Stati hanno approvato una legge anti-stalking; in Canada è

considerato delitto di molestia criminale infastidire “intenzionalmente o

imprudentemente un’altra persona”; nel Regno Unito è di nove anni fa il “Protection

from Harassment Act”.

32
Gli “atti persecutori”, o stalking, tendono a manifestarsi frequentemente dopo la

separazione della coppia. Un fenomeno diffusissimo negli esiti delle relazioni con

maltrattamento, in quanto il partner violento non vuole rinunciare alla sua preda. Può

assumere aspetti diversi: telefonate continue, anche mute, a ogni ora del giorno e della

notte; tempeste di messaggi al cellulare ora minacciosi ora amorosi, ora contenenti

particolari ingiunzioni; pedinamenti; presenza costante sotto casa, davanti al luogo di

lavoro o in qualsiasi altro posto dove abitualmente la vittima si reca; irruzioni sul luogo

di lavoro; aggressioni fisiche; uso di altre persone come tramite di messaggi offensivi;

richiesta continua e ossessiva ad amici e parenti sui movimenti del/della partner; non

corresponsione degli alimenti stabiliti dal giudice; etc.. Si può prolungare per mesi, o

anche anni, molti “persecutori” minacciano le loro vittime e nel 30% circa dei casi

hanno realmente esercitato violenza su di esse; si tratta dunque ancora una volta di una

forma di violenza che si accompagna ad altre tipologie e che può avere delle

conseguenze rilevanti su chi la subisce.

Per quanto attiene agli sviluppi normativi in materia di violenza contro le donne,

si segnalano la proposta di legge d' iniziativa dei deputati Bongiorno, Carfagna (DDL

5579) recante Modifiche agli articoli 576 e 577 del codice penale, in materia di

circostanze aggravanti del reato di omicidio, e introduzione dell’articolo 612-ter,

concernente l’induzione al matrimonio mediante coercizione presentata il 15 novembre

2012, e il DDL 3390 recante norme per la promozione della soggettività femminile e

33
per il contrasto al femminicidio, prima firmataria Annamaria Serafini, attualmente al

vaglio delle Camere.

5. La normativa internazionale

Come si è già avuto modo di constatare la violenza di genere è un problema di

livello mondiale. Ogni Paese, ciascuno con la propria cultura e stile di vita, affronta

questo fenomeno in maniera diversa e cambia anche il modo di viverlo da parte delle

donne. Negli ultimi anni con i vari flussi migratori che si verificano a livello nazionale e

internazionale, abbiamo assistito a un “mescolarsi di culture”, spesso in conflitto tra

loro, che ci hanno fatto sentire la necessità di guardare il panorama mondiale con occhi

diversi, ossia più attenti alle differenze culturali, al fine di rispettarle ma anche di

conciliarle per favorire un’integrazione che spesso fatica a realizzarsi. Anche il modo di

essere donna e vivere la propria femminilità è differente in base alla propria cultura e

religione, per questo spesso si creano delle incomprensioni etiche-culturali tra donne

migranti e donne autoctone di diversi paesi nei quali, anche il livello di parità tra i sessi

è differente.

La violenza di genere - ricordiamo- si fonda sulla discriminazione nei confronti

della donna a livello politico, culturale, economico e sociale; è per questo motivo che

34
qualsiasi considerazione sul fenomeno in esame deve essere sempre preceduta da attente

riflessione riguardanti in generale il tema dei diritti umani fondamentali.

A livello internazionale, il primo documento volto a combattere questa

discriminazione è stata “La convezione sull’eliminazione di ogni forma di

discriminazione nei confronti della donna”, approvata il 18 dicembre 1979 dall’ONU.

Questo documento costituisce la principale garanzia che il diritto internazionale offre al

rispetto dei diritti delle donne. L’art 1 del trattato recita: “Ai fini della presente

Convenzione, l'espressione «discriminazione nei confronti della donna» concerne ogni

distinzione esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o

come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o

l'esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti

umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e

civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l'uomo e la donna”.

Questa convenzione impegna gli stati firmatari ad astenersi da azioni discriminatorie in

base al sesso e ad adottare provvedimenti per raggiungere l’uguaglianza in tutti i settori,

inoltre viene istituito un Comitato che ne sorveglia l’applicazione negli Stati firmatari, i

quali si impegnano a fornire regolarmente un rapporto sui provvedimenti adottati. Il

protocollo facoltativo del 6 ottobre 1999 sulla Convenzione che garantisce alle donne la

possibilità di presentare un ricorso individuale presso il Comitato è stato firmato

dall’Italia il 10 Dicembre del 1999 e ratificato il 22 settembre del 2000.

35
Il tema della violenza di genere, nonostante sia un problema sempre esistito,

riceve attenzione da parte degli organismi internazionali soltanto a partire dalla metà

degli anni ottanta e a dare i suoi frutti concretamente negli anni novanta. Il 20 dicembre

del 1993 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità la

“Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne”, nella quale si afferma

che la violenza contro le donne costituisce una violazione dei diritti umani e delle

libertà fondamentali; l’art. 1 definisce “violenza contro le donne ogni atto di violenza

fondata sul genere che abbia come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale

o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione

arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

Questa Dichiarazione ha costituito un input per altre organizzazioni internazionali che si

sono occupate del tema successivamente.

Nel 1995 in occasione della quarta conferenza mondiale sulle donne, svoltasi a

Pechino, viene emanato un programma di azione per attribuire più potere alle donne,

inoltre nella conferenza si introduce un concetto molto importante: “la valorizzazione

delle differenze”. Si arriva alla consapevolezza che per raggiungere l’uguaglianza di

diritti e di condizione è necessario riconoscere e valorizzare la differenza del genere

maschile e femminile, quindi dare rilievo all’esperienza, alla cultura e ai valori di cui le

donne sono portatrici poiché costituiscono una ricchezza per tutta l’umanità. Il

36
programma di azione rappresenta il principale testo giuridicamente vincolante sui diritti

delle donne.

Come si è detto nelle pagine precedenti la violenza di genere è considerata a livello

internazionale oggi anche un problema di sanità pubblica che compromette gravemente

la salute della donna, ed è per questo, che deve essere prevenuta e monitorata. A

conferma di ciò la risoluzione dell’Assemblea mondiale della Sanità- “Prevenzione

della violenza: una priorità della sanità pubblica”- del 1996 dichiara che la violenza è un

problema primario di sanità pubblica a livello mondiale, raccomanda agli Stati membri

di valutare il problema della violenza nel proprio territorio e di trasmettere all’OMS le

loro informazioni su questo problema e sul loro approccio ad esso, invita il Direttore

Generale ad attivare interventi di pubblica sanità indirizzati al problema della violenza

che descriveranno i diversi tipi di violenza, la loro dimensione, le cause e conseguenze

di questa utilizzando anche una “prospettiva di genere” nell’analisi.

La risoluzione dell’Assemblea mondiale della Sanità inoltre individua un altro punto

fondamentale: la valutazione dell’efficacia delle misure e dei programmi di prevenzione

del fenomeno, con particolare attenzione alle iniziative territoriali di base. Tale

risoluzione promuove, inoltre, azioni per combattere questo problema a livello

internazionale e locale, prevede misure per fare progressi nel riconoscimento, nella

presentazione dei media e nella gestione delle conseguenze della violenza; promuove la

partecipazione intersettoriale nella prevenzione, incoraggia la ricerca su questo

37
fenomeno considerandola un priorità per la sanità pubblica, invita a preparare e

divulgare raccomandazioni sui programmi di prevenzione delle condotte violente in

nazioni, Stati e comunità in tutto il mondo.

Anche per quanto riguarda la giustizia penale vengono presi provvedimenti a

livello mondiale per garantire alle donne un trattamento equo da parte del sistema

giudiziario penale e politiche volte a contrastare la violenza di genere. L’Assemblea

generale dell’ONU nel 1998 ha emanato la risoluzione:” Prevenzione del crimine e

misure di giustizia penale per eliminare la violenza contro le donne “ e allegate “Le

strategie modello e le misure pratiche sulla eliminazione della violenza contro le donne

“. Questa risoluzione raccomanda agli Stati membri di rivedere e rivalutare le proprie

leggi, le proprie politiche riguardanti la violenza di genere e le proprie misure pratiche

riguardo le questioni penali ,per stabilire se -conformemente al proprio sistema legale-

abbiano un impatto negativo sulle donne ed eventualmente modificarli in modo da

assicurare alle donne un trattamento equo da parte del sistema giudiziario penale.

L’Assemblea generale raccomanda inoltre agli Stati Membri di promuovere la sicurezza

delle donne in casa e nella società in genere, di attuare strategie di prevenzione del

crimine che riflettano le reali condizioni di vita delle donne, di cercare di soddisfare le

esigenze in diverse aree come lo sviluppo sociale, i programmi di educazione alla

prevenzione e di progettazione ambientale.

38
Il 31 luglio 2001 viene firmato da 72 Paesi, la Sintesi del Protocollo facoltativo

relativo alla “Convezione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro

le donne” (1999 ONU). Esso riafferma la determinazione degli Stati interessati che

adottano il Protocollo di assicurare il pieno ed uguale godimento da parte delle donne di

tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali e di intraprendere azioni efficaci per

prevenire la violazione di tali diritti e libertà.

La risoluzione dell’ONU n.54/134 del 17 dicembre del 1999 proclama il 25 novembre

la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, giorno che

ricorda l’eccidio delle sorelle dominicane Mirabal da parte della polizia del dittatore

Truijllo avvenuto nel 19604.

Più di recente il Consiglio d’Europa nella raccomandazione del 2002 del

Consiglio dei Ministri agli Stati Membri, condanna “qualsiasi azione fondata

sull’appartenenza sessuale che comporta o potrebbe comportare per le donne che ne

sono bersaglio danni o sofferenze di natura fisica, sessuale o psicologica, ivi compresa

la minaccia di mettere in atto simili azioni, la costrizione, la privazione arbitraria della

libertà, sia nella vita pubblica che in quella privata”.

L’11 maggio 2011 a Istanbul è stata siglata la “Convenzione del Consiglio

d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza

4 L’assemblea generale dell’ONU ha ufficializzato una data che fu scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi
nell’incontro femminista latinoamericano e dei Caraibi, tenutosi a Bogotà (Colombia) nel 1981. Questa data fu scelta
in ricordo del brutale assassinio avvenuto il 25 novembre del 1960 delle tre sorelle Mirabal considerate esempio di
donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leonidas Trujillo, il dittatore
che tenne la Repubblica Dominicana nell’arretratezza e nel caos dal 1930 al 1961.

39
domestica”(v par. 4 cap. 2). Tra i primi Paesi firmatari della Convenzione troviamo

nazioni con un livello di servizi e politiche di contrasto alla violenza e a tutela delle

donne molto avanzato, mentre in altri abbiamo servizi, leggi e iniziative non coordinati

tra di loro e poco efficaci a livello politico. La Convenzione ha ricevuto, con quella

italiana, 24 firme non seguite da ratifica e 3 ratifiche/adesioni, da parte della Turchia,

Albania e Portogallo. Perché entri in vigore occorrerà attendere 10 ratifiche inclusi 8

stati membri.

Da questo quadro normativo possiamo vedere come a livello mondiale, seppur

tardivamente, siano state prese misure di contrasto alla violenza di genere e quindi il

riconoscimento del problema da parte di vari paesi del mondo con culture diverse;

tuttavia, tali misure ad oggi possono costituire solo il presupposto non già la soluzione

definitiva per l' eliminazione il fenomeno.

6. I dati nel contesto italiano

La violenza di genere -è bene ribadirlo- è forse uno dei fenomeni sociali più

sommersi e meno conosciuti, non solo in Italia ma anche in altri paesi.

Al fine di fare maggiore chiarezza su questo fenomeno sono state adottate ormai da

diversi Stati le cosiddette indagini di vittimizzazione sulla violenza contro le donne.

40
Come è noto, in Italia la prima inchiesta sulla violenza alle donne è stata

effettuata dall’Istat nel 2006, anche se bisogna ricordare che le indagini di

vittimizzazione nel nostro paese vengono condotte dalla seconda metà degli anni

Novanta (Istat, 1999 e Istat, 2002). Nel 2006 sono state coinvolte esclusivamente

persone di sesso femminile in tutta la penisola con l’obiettivo di avere conoscenze

approfondite riguardo al fenomeno della violenza di genere, in particolare sulle cause,

gli autori e le vittime. Un obiettivo questo che ci sembra ancora più importante e

condivisibile alla luce dei risultati emersi da questa indagine, i quali ci consegnano un

quadro molto poco rassicurante e su cui bisognerebbe riflettere, cominciando a

sviluppare politiche di largo respiro che incidano sulle cause di questo fenomeno.

Questi risultati possono essere così sintetizzati:

– Nel nostro paese, circa una donna su tre ha subito una violenza fisica, sessuale o

entrambe, in una o in più occasioni nel corso della vita. Le vittime di violenze gravi o

gravissime sono solo una quota minoritaria della popolazione. Ciò che tuttavia è

importante rimarcare è che un numero così alto di vittime di vessazioni maschili

( indipendentemente dalla gravità di queste vessazioni ) dimostra inequivocabilmente la

posizione di debolezza che le donne si ritrovano a vivere anche nella società moderna.

– Gli autori di violenza sono soprattutto familiari o conoscenti (principalmente i

partner) mentre gli estranei sono solo una parte minoritaria e peraltro commettono le

violenze più lievi.

41
– Uno degli aspetti più interessanti che emerge dai risultati di questa indagine è che il

fenomeno della violenza, a differenza di quanto ci suggerisce il senso comune, è

generalmente più diffuso nelle regioni del Centro-Nord e meno nelle regioni del

Mezzogiorno, confermando in questo modo il dato delle violenze sessuali denunciato

alle forze dell’ordine.

– Le violenze, da quelle più lievi a quelle più gravi, in genere sono poco denunciate; per

esempio, l’indagine di vittimizzazione dell’Istat del 2002 (nella quale era compreso

anche un gruppo di domande volte a rilevare le violenze sessuali) ha mostrato che solo

sette vittime di stupro su cento hanno denunciato l’autore (quando a commetterlo è stato

un familiare il 3-4%!) e addirittura quasi nessuna ha denunciato i ricatti sessuali subiti

nei luoghi di lavoro. I risultati delle indagini internazionali di vittimizzazione

dimostrano che le violenze sono poco denunciate anche negli altri paesi e non solo in

Italia. In Europa, denunciano in media poco più del 10% delle donne che subiscono

violenza, con punte significativamente più elevate in Francia e in Scozia, ma comunque

un numero assai ridotto in confronto alla gravità di questi episodi.

I motivi per cui le violenze non vengono denunciate sono diversi e qui forse vale la pena

ricordarne alcuni: molto spesso le violenze avvengono in famiglia e, quindi, denunciarle

significherebbe accusare il partner o un parente; non vengono denunciate in quanto

spesso si prova timore o vergogna; perché non si ha fiducia nel sistema della giustizia e

per altri motivi ancora che verranno di seguito approfonditi. Studiare la violenza

42
affidandosi solo alle statistiche giudiziarie quindi non consente di capire qual'è la vera

portata di questo fenomeno, poiché le denunce seguono una propria dinamica che non

dipende necessariamente dal numero effettivo dei reati. Questa è una delle ragioni per le

quali è difficile stabilire se, come sostengono in molti, la violenza di genere nel nostro

paese sia veramente aumentata. Senz’altro oggi le donne denunciano di più di trenta o

quarant’anni fa, ma non è ancora sufficientemente.

7. L'ultima ricerca ISTAT 2006 : principali risultati

L’Istat presenta i risultati di una nuova indagine per la prima volta interamente dedicata

al fenomeno delle violenza fisica e sessuale contro le donne. Il campione comprende 25

mila donne tra i 16 e i 70 anni, intervistate su tutto il territorio nazionale dal gennaio

all’ottobre 2006 con tecnica telefonica.

L’indagine è frutto di una convenzione tra l’Istat che l’ha condotta e il Ministero per i

Diritti e le Pari Opportunità che l’ha finanziata con i fondi del Programma Operativo

Nazionale “Sicurezza” e “Azioni di sistema” del Fondo Sociale Europeo.

L’indagine Multiscopo sulla sicurezza delle donne misura tre diversi tipi di violenza

contro le donne: fisica, sessuale e psicologica, dentro la famiglia (da partner o ex

43
partner) e fuori dalla famiglia (da sconosciuto, conoscente, amico, collega, amico di

famiglia, parente ecc.). La violenza fisica è graduata dalle forme più lievi a quelle più

gravi: la minaccia di essere colpita fisicamente, l’essere spinta, afferrata o strattonata,

l’essere colpita con un oggetto, schiaffeggiata, presa a calci, a pugni o a morsi, il

tentativo di strangolamento, di soffocamento, ustione e la minaccia con armi. Per

violenza sessuale vengono considerate le situazioni in cui la donna è costretta a fare o a

subire contro la propria volontà atti sessuali di diverso tipo: stupro, tentato stupro,

molestia fisica sessuale, rapporti sessuali con terzi, rapporti sessuali non desiderati

subiti per paura delle conseguenze, attività sessuali degradanti e umilianti. Non

vengono rilevate le molestie verbali, il pedinamento, gli atti di esibizionismo e le

telefonate oscene. Le forme di violenza psicologica rilevano le denigrazioni, il controllo

dei comportamenti, le strategie di isolamento, le intimidazioni, le forti limitazioni

economiche subite da parte del partner.

Sono stimate in 6 milioni 743 mila le donne da 16 a 70 anni vittime di violenza fisica o

sessuale nel corso della vita sessuale nel corso della vita (il 31,9% della classe di età

considerata). 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali (23,7%), 3 milioni

961 mila violenze fisiche (18,8%). Circa 1 milione di donne ha subito stupri o tentati

stupri (4,8%). Il 14,3% delle donne con un rapporto di coppia attuale o precedente ha

subito almeno una violenza fisica o sessuale dal partner, se si considerano solo le donne

con un ex partner la percentuale arriva al 17,3%. Il 24,7% delle donne ha subito

44
violenze da un altro uomo. Mentre la violenza fisica è più di frequente opera dei partner

(12% contro 9,8%), l’inverso accade per la violenza sessuale (6,1% contro 20,4%)

soprattutto per il peso delle molestie sessuali. La differenza, infatti, è quasi nulla per

gli stupri e i tentati stupri.

Negli ultimi 12 mesi (precedenti all'indagine in esame) il numero delle donne vittime di

violenza ammonta a 1 milione e 150 mila (5,4%). Sono le giovani dai 16 ai 24 anni

(16,3%) e dai 24 ai 25 anni (7,9%) a presentare i tassi più alti. Il 3,5% delle donne ha

subito violenza sessuale, il 2,7% fisica. Lo 0,3%, pari a 74 mila donne, ha subito stupri

o tentati stupri. La violenza domestica ha colpito il 2,4% delle donne, quella al di fuori

delle mura domestiche il 3,4%.

Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è

elevatissimo e raggiunge circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di

quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%).

È consistente la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9%

per quelle subite dal partner e 24% per quelle da non partner).

Le donne subiscono più forme di violenza. Un terzo delle vittime subisce atti di

violenza sia fisica che sessuale. La maggioranza delle vittime ha subito più episodi di

violenza. La violenza ripetuta avviene più frequentemente da parte del partner che dal

non partner (67,1% contro 52,9%). Tra tutte le violenze fisiche rilevate, è più frequente

l’essere spinta, strattonata, afferrata, l’avere avuto storto un braccio o i capelli tirati

45
(56,7%), l’essere minacciata di essere colpita (52,0%), schiaffeggiata, presa a calci,

pugni o morsi (36,1%). Segue l’uso o la minaccia di usare pistola o coltelli (8,1%) o il

tentativo di strangolamento o soffocamento e ustione (5,3%). Tra tutte le forme di

violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, ovvero l’essere stata toccata

sessualmente contro la propria volontà (79,5%), l’aver avuto rapporti sessuali non

desiderati vissuti come violenza (19,0%), il tentato stupro (14,0%), lo stupro (9,6%) e i

rapporti sessuali degradanti ed umilianti (6,1%).

Il 21% delle vittime ha subito la violenza sia in famiglia che fuori, il 22,6% solo dal

partner, il 56,4% solo da altri uomini non partner. I partner sono responsabili della quota

più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate. I partner sono responsabili in

misura maggiore anche di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro nonché i

rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 69,7% degli

stupri, infatti, è opera di partner, il 17,4% di un conoscente. Solo il 6,2% è stato opera di

estranei. Il rischio di subire uno stupro piuttosto che un tentativo di stupro è tanto più

elevato quanto più è stretta la relazione tra autore e vittima. Gli sconosciuti

commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, seguiti da conoscenti, colleghi ed

amici. Gli sconosciuti commettono stupri solo nello 0,9% dei casi e tentati stupri nel

3,6% contro, rispettivamente l’11,4% e il 9,1% dei partner.

Sono più colpite da violenza domestica le donne il cui partner è violento anche

all’esterno della famiglia. Hanno tassi più alti di violenza le donne che hanno un partner

46
attuale violento fisicamente (35,6% contro 6,5%) o verbalmente (25,7% contro

5,3%) al di fuori della famiglia; che ha atteggiamenti di svalutazione della propria

compagna o di non sua considerazione nel quotidiano (il tasso di violenza è del 35,9%

contro il 5,7%); che beve al punto di ubriacarsi (18,7% contro il 6,4%) e in particolare

che si ubriaca tutti i giorni o quasi (38,6%) e una o più volte a settimana (38,3%); che

aveva un padre che picchiava la propria madre (30% contro 6%) o che a sua volta è

stato maltrattato dai genitori. La quota di violenti con la propria partner è pari al 30%

fra coloro che hanno assistito a violenze nella propria famiglia di origine, al 34,8% fra

coloro che l’hanno subita dal padre, al 42,4% tra chi l’ha subita dalla madre e al 6% tra

coloro che non hanno subito o assistito a violenze nella famiglia d’origine.

Le violenze domestiche sono in maggioranza gravi. Il 34,5% delle donne ha dichiarato

che la violenza subita è stata molto grave e il 29,7% abbastanza grave. Il 21,3% delle

donne ha avuto la sensazione che la sua vita fosse in pericolo in occasione della

violenza subita. Ma solo il 18,2% delle donne considera la violenza subita in famiglia

un reato, per il 44% è stato qualcosa di sbagliato e per il 36% solo qualcosa che è

accaduto. Anche nel caso di stupro o tentato stupro, solo il 26,5% delle donne lo ha

considerato un reato. Il 27,2% delle donne ha subito ferite a seguito della violenza.

Ferite, che nel 24,1% dei casi sono state gravi al punto da richiedere il ricorso a cure

mediche. Le donne che hanno subito più violenze dai partner, in quasi la metà dei casi

hanno sofferto, a seguito dei fatti subiti, di perdita di fiducia e autostima, di sensazione

47
di impotenza (44,9%), disturbi del sonno (41,5%), ansia (37,4%), depressione (35,1%),

difficoltà di concentrazione (24,3%), dolori ricorrenti in diverse parti (18,5%), difficoltà

a gestire i figli (14,3%), idee di suicidio e autolesionismo (12,3%). La violenza dal non

partner è percepita come meno grave di quella da partner.

2 milioni e 77 mila donne hanno subito comportamenti persecutori (stalking), che

le hanno particolarmente spaventate, dai partner al momento della separazione o dopo

che si erano lasciate, il 18,8% del totale. Tra le donne che hanno subito stalking, in

particolare il 68,5% dei partner ha cercato insistentemente di parlare con la donna

contro la sua volontà, il 61,8% ha chiesto ripetutamente appuntamenti per incontrarla, il

57% l’ha aspettata fuori casa o a scuola o al lavoro, il 55,4% le ha inviato messaggi,

telefonate, e-mail, lettere o regali indesiderati, il 40,8% l’ha seguita o spiata e l’11% ha

adottato altre strategie. Quasi il 50% delle donne vittime di violenza fisica o sessuale da

un partner precedente ha subito anche lo stalking, 937 mila donne. 1 milione e139 mila

donne hanno subito, invece, solo lo stalking, ma non violenze fisiche o sessuali.

7 milioni 134 mila donne hanno subito o subiscono violenza psicologica: le forme più

diffuse sono l’isolamento o il tentativo di isolamento (46,7%), il controllo (40,7%), la

violenza economica (30,7%) e la svalorizzazione (23,8%), seguono le intimidazioni nel

7,8% dei casi.

Il 43,2% delle donne ha subito violenza psicologica dal partner attuale. Di queste, 3

milioni 477 mila l’hanno subita sempre o spesso (il 21,1%). 6 milioni 92 mila donne

48
hanno subito solo violenza psicologica dal partner attuale (il 36,9% delle donne che

attualmente vivono in coppia). 1 milione 42 mila donne hanno subito oltre alla violenza

psicologica, anche violenza fisica o sessuale, il 90,5% delle vittime di violenza fisica o

sessuale;1 milione 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il

6,6% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Gli autori delle violenze sono vari e in

maggioranza conosciuti. Solo nel 24,8% la violenza è stata ad opera di uno

sconosciuto. Un quarto delle donne ha segnalato un conoscente (24,7%), un altro quarto

un parente (23,8%), il 9,7% un amico di famiglia, il 5,3% un amico della donna. Tra i

parenti gli autori più frequenti sono stati gli zii. Il silenzio è stato la risposta

maggioritaria. Il 53% delle donne ha dichiarato di non aver parlato con nessuno

dell’accaduto.

690 mila donne hanno subito violenze ripetute da partner e avevano figli al momento

della violenza. Il 62,4% ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più episodi di

violenza. Nel 19,6% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,2% a volte, nel

22,6% spesso.

49
CAPITOLO 2

POLITICHE DI WELFARE A CONTRASTO DELLA VIOLENZA

1. L' attuale approccio nelle politiche nazionali in Europa

Come già accennato la violenza nei confronti delle donne ha assunto importanza

all’interno delle agende politiche nazionali soltanto a partire dagli anni ’90, soprattutto

grazie alla pressione esercitata dalle ONG e dalle organizzazioni internazionali attive in

materia, che hanno aumentato la consapevolezza del problema all’interno dell’opinione

pubblica.

Tra i Paesi membri dell’Unione Europea esistono tutt’oggi notevoli differenze nel modo

in cui la violenza di genere è affrontata dal punto di vista politico e normativo. Tali

differenze riflettono l’atteggiamento culturale prevalente nei confronti di questo tema

all’interno di ogni Stato, il livello di coscienza del problema da parte della società e il

tipo di welfare esistente. In particolare, gli atteggiamenti socio-culturali che portano a

considerare la violenza una questione inerente la vita privata e, in quanto tale, tollerata,

restano la causa principale della persistenza del fenomeno in molti Paesi europei.

Generalizzando, si è riscontrato che gli Stati dell’Europa settentrionale ed occidentale

presentano una lunga tradizione di interventi legislativi contro la violenza di genere,

50
nonché di servizi specializzati di sostegno per le vittime di tali reati. Essi, inoltre, si

stanno sempre più concentrando sulle forme di violenza basate sulla tradizione e sui

gruppi più vulnerabili (immigrate, donne appartenenti a minoranze etniche, disabili e

omosessuali). I Paesi dell’Europa meridionale e orientale, invece, hanno cominciato ad

affrontare il fenomeno come problema di rilevanza pubblica solo più di recente, grazie

alle raccomandazioni e risoluzioni dell’UE e alla pressione di ONG e movimenti

femministi nazionali. In ogni caso, gli approcci nazionali sembrano aver tutti seguito un

percorso comune, inizialmente focalizzato sulle riforme giuridiche, la formazione

delle forze dell’ordine e l’istituzione di servizi specializzati di sostegno per le vittime;

mentre, in un secondo momento, esso si è rivolto anche all’adozione di misure di

sensibilizzazione e prevenzione, nonché al potenziamento delle azioni di sostegno e di

integrazione sociale delle vittime.

La violenza sessuale e quella domestica sono punite in tutti gli Stati membri dell’UE,

anche se in alcuni di essi il grado di protezione delle vittime presenta qualche lacuna

(quando, ad esempio, per procedere è necessaria la richiesta della vittima). Inoltre, nella

maggior parte dei Paesi il numero di processi e condanne per violenza domestica e

stupro sono piuttosto bassi.

Negli ultimi anni quasi tutti i governi europei hanno adottato delle strategie politiche per

combattere la violenza sulle donne, in alcuni casi attraverso l’adozione di appositi piani

nazionali d’azione di carattere pluriennale, in altri inserendo misure mirate in altri piani

51
strategici, come ad esempio quello per la parità di genere. Le forme di violenza più

sanzionate sono quella domestica ed il traffico di esseri umani, con rispettivamente 23 e

27 piani d’azione specifici. Pochi, invece, sono i piani d’azione rivolti a combattere le

forme di violenza basate sulla tradizione, le molestie sessuali sul luogo di lavoro, lo

stalking e la violenza all’interno di ambienti istituzionalizzati. Inoltre, è stato riscontrato

che queste strategie spesso non specificano chiaramente quali siano le agenzie od organi

nazionali responsabili in materia, né il ruolo delle organizzazioni coinvolte, le azioni da

attuare concretamente, il bilancio stanziato, gli obiettivi da raggiungere né il tempo

previsto. Infine, sono pochi i governi che eseguono il monitoraggio e la valutazione

delle azioni realizzate, cosicché gli effetti ed i risultati prodotti da questi interventi

restano per lo più sconosciuti.

Per quanto concerne la prevenzione della violenza di genere, le principali misure

adottate dagli Stati europei sono:

• programmi di sensibilizzazione,

• formazione per i professionisti che possono entrate in contatto con le vittime,

• programmi di cura per gli aggressori.

Le strutture di sostegno per le vittime, pur essendo aumentate in tutti gli Stati membri,

continuano ad essere insufficienti (sono soltanto il 37,5% del fabbisogno); esse, inoltre,

sono concentrate nelle aree urbane, rendendone difficile l’accesso per le donne che

vivono in zone rurali o periferiche, e risentono della mancanza di finanziamenti stabili,

52
nonché di linee-guida nazionali sugli standard di qualità dei servizi. Infine, le misure di

reinserimento sociale delle vittime continuano ad essere forniti dalle autorità locali o

regionali e da organizzazioni non governative: anch’esse risentono della mancanza di

fondi e sono ancora insufficienti rispetto ai bisogni esistenti.

Una nota molto positiva, infine, è data dai progressi raggiunti nell’adozione di

un approccio multidisciplinare, basato sulla collaborazione tra tutti gli attori coinvolti, a

livello locale, nazionale ed internazionale, e che ha portato persino alla nascita di

partnership tra gli Stati membri, grazie anche ai finanziamenti stanziati nell’ambito del

Programma europeo Daphne5.

5 Il programma Daphne è stato creato nel 1997 per prevenire e combattere la violenza contro i bambini, i giovani
e le donne al fine di contribuire ad un elevato livello di protezione dalla violenza nonchè ad una maggiore tutela
della salute fisica e mentale.

53
2. Il ruolo dell’Unione europea nella lotta alla violenza di genere

L’UE attribuisce agli Stati membri la responsabilità primaria per combattere la

violenza sulle donne, incoraggiando la ratifica di convenzioni e protocolli già esistenti

in materia. L’eliminazione della violenza di genere resta comunque una priorità dell’UE,

fondamentale per raggiungere una piena ed effettiva parità fra i sessi, come si legge

nella Carta delle donne, adottata dalla Commissione Europea nel marzo 2010, e nella

sua Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini per il periodo 2010-2015.

Anche se le istituzioni europee hanno emanato diversi strumenti normativi in materia-

ad esempio, contro le discriminazioni basate sul sesso, le molestie sessuali, il traffico di

esseri umani e lo sfruttamento sessuale; sulla promozione dell’uguaglianza di genere e il

divieto di discriminazione in ambito lavorativo e nell’accesso e fornitura di beni e

servizi- non è stato ancora adottato un atto legislativo di carattere generale che disciplini

il tema della violenza sulle donne nella sua interezza. La Commissione europea ha

preferito sostenere finanziariamente attività di ricerca, prevenzione, cura ed

integrazione sociale delle vittime di violenza, nonché campagne di

sensibilizzazione, realizzate a livello nazionale o locale dagli Stati membri; lo ha fatto

attraverso il già citato Programma Daphne, lanciato nel 1997 e giunto al suo terzo ciclo

di programmazione.

54
Un’importante novità è arrivata però il 13 dicembre 2011, con l’approvazione da parte

del Parlamento europeo della direttiva sull’Ordine di protezione europeo (Ope).

L'Ordine di protezione europeo ha lo scopo di proteggere le vittime di, ad esempio,

violenza di genere, molestie, rapimento, stalking o tentato omicidio, e riconosce uguale

tutela alle vittime di reati in tutta l’UE. L’Ope è uno strumento basato sul principio del

reciproco riconoscimento nell’ambito della cooperazione giudiziaria penale tra gli Stati

membri, rivolto, in particolare, a garantire protezione alle donne vittime di violenza,

molestie, rapimento, stalking, tentato omicidio. Gli Stati membri hanno tre anni di

tempo per trasporre la norma all’interno dei propri ordinamenti nazionali ed essa

permetterà a chiunque goda di protezione in uno Stato UE di ottenere la medesima

protezione anche se si muove in un altro Paese membro.

55
3. Il Consiglio d’Europa e la Convenzione sulla violenza contro le

donne

Quale organizzazione internazionale impegnata nella tutela dei diritti umani

fondamentali, sanciti e garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), il Consiglio d’Europa ha da

sempre intrapreso numerose iniziative per promuovere l’uguaglianza di genere. La

sua azione è volta a combattere gli ostacoli tutt’ora esistenti alla libertà e alla

dignità delle donne, eliminare le discriminazioni basate sul sesso, promuovere una

partecipazione bilanciata tra donne ed uomini nella vita pubblica ed incoraggiare una

prospettiva di genere in tutte le politiche.

Per quanto riguarda la violenza sulle donne, l’organizzazione ha cominciato ad essere

più attiva soltanto a partire dagli anni ’90, come del resto è avvenuto anche nei Paesi

membri e a livello di Unione europea. Le azioni intraprese hanno portato, nel 2002,

all’adozione di una specifica raccomandazione agli Stati membri sulla protezione delle

donne dalla violenza (v. par. 5 cap.1) e al lancio di una campagna di sensibilizzazione,

che si è tenuta tra il 2006 ed il 2008, per combattere la violenza di genere, con

un’attenzione particolare rivolta alla violenza domestica. L’Assemblea Parlamentare del

Consiglio d’Europa ha inoltre approvato numerose risoluzioni e raccomandazioni in

materia, invocando l’introduzione di standard giuridicamente vincolanti nell’ambito

56
della prevenzione, protezione e persecuzione delle più gravi e diffuse forme di violenza

contro le donne.

Dopo due anni di lavoro da parte di un gruppo di esperti, che ha cercato di rispondere a

questa necessità di armonizzare gli standard nazionali al fine di garantire lo stesso

livello di protezione a tutte le donne europee, il 7 aprile 2011 il Consiglio d’Europa ha

infine adottato la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne

e alla violenza domestica, la quale è stata poi aperta alla firma in occasione della

sessione del Comitato dei ministri che si è tenuta ad Istanbul il 10-11 maggio 2011.

Questo trattato rappresenta un’importante novità a livello internazionale, dal momento

che si tratta del primo strumento al mondo giuridicamente vincolante, in grado di creare

un quadro normativo completo per prevenire la violenza contro le donne, proteggere le

vittime e contrastare l’impunità dei colpevoli. Esso, inoltre, definisce e dichiara illegali

diverse forme di violenza nei confronti delle donne, inclusi i matrimoni forzati, la

mutilazione genitale femminile, gli aborti e la sterilizzazione forzata, lo stalking, la

violenza fisica, psicologica e sessuale.

La Convenzione affronta, dunque, numerosi aspetti ritenuti fondamentali per combattere

la violenza di genere. Innanzitutto, la prevenzione della violenza stessa, finalizzata a

raggiungere una piena uguaglianza di genere, attraverso l’eliminazione delle

discriminazioni nei confronti delle donne, degli stereotipi esistenti e delle pratiche

tradizionali dannose usate nei loro confronti. In secondo luogo, la protezione delle

57
vittime, che comprende un efficace e tempestivo intervento delle forze dell’ordine, un

facile accesso alle informazioni sui propri diritti e la creazione di strutture e servizi

specializzati di sostegno. Per quanto riguarda la persecuzione dei colpevoli, il trattato

stabilisce che tutte le forme di violenza elencate al suo interno, qualora non siano già

previste, debbano essere introdotte dagli Stati parte tra i reati perseguibili nei

propri ordinamenti interni. Inoltre, essi dovranno assicurare che la cultura, la

tradizione o il cosiddetto “onore” non siano considerati una giustificazione di tali

crimini. Infine, la convenzione riconosce ed afferma l’importanza di un’azione

concertata da parte dei governi, delle ONG, delle organizzazioni internazionali e di tutte

le autorità a livello nazionale, regionale e locale, nell’implementare delle politiche

globali e coordinate per combattere la violenza di genere in qualsiasi ambito e settore

della vita pubblica e privata.

Un ultimo ed interessante aspetto innovativo del trattato riguarda l’istituzione di

un meccanismo di monitoraggio che attraverso un apposito gruppo di esperti

indipendenti ne assicurerà l’effettiva implementazione.

Come già accennato, la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza

contro le donne è già stata aperta alla firma non solo degli Stati membri del Consiglio

d’Europa, ma anche dell’UE6 e degli Stati non membri che hanno partecipato alla sua

elaborazione. Purtroppo, nonostante lo slancio che ha portato all’adozione di questo

6 È opportuno ricordare che attraverso la nuova formulazione dell’art. 6, par. 2, del TUE l’ Unione aderisce alla
“Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”

58
avanzato strumento di tutela internazionale, finora soltanto 24 Stati membri l’hanno

firmato, rinviando così la realizzazione di un quadro giuridico comune a livello europeo

in materia.

In sostanza, nonostante i numerosi progressi che si sono registrati negli ultimi

vent’anni dal punto di vista politico, normativo e di sensibilizzazione culturale, l’Europa

appare ancora molto lontana dal divenire una “zona a tolleranza zero” in materia di

violenza sulle donne.

Per quanto riguarda le azioni intraprese a livello nazionale, esse continuano a

risentire della mancanza di una strategia di lungo termine, capace di contrastare la

frammentazione degli interventi e la dispersione delle risorse disponibili. Inoltre, se

molto è stato fatto per contrastare alcune forme di violenza, prime fra tutte quella

domestica e sessuale, ancora scarsa è l’attenzione rivolta verso altre forme di violenza,

in particolare quella basata sulla tradizione, la violenza sul luogo di lavoro e la violenza

psicologica. Analogamente, poca considerazione è stata finora data ai gruppi più

vulnerabili, che avrebbero invece bisogno di servizi specifici e adatti alle loro esigenze.

Come è già stato evidenziato, in materia mancano inoltre dati confrontabili tra i Paesi

europei, così come indicatori internazionali. Infine, maggior importanza dovrebbe

essere data alle attività di monitoraggio e valutazione degli interventi realizzati, in modo

tale da conoscere i risultati ottenuti e permettere lo scambio di buone pratiche.

59
4. Il livello dei servizi di contrasto alla violenza alla luce della nuova

Convenzione del Consiglio d’Europa: il rapporto di WAVE

Il principale organismo che si occupa della violenza a livello europeo è WAVE 7:

Woman Against violence europe che ha sede a Vienna e che vede la partecipazione dei

27 paesi dell'Unione europea, includendo la Croazia e la Turchia e molti altri paesi dei

Balcani per arrivare a un numero complessivo di 45 paesi che fanno riferimento

all'organizzazione. Il database curato da dall'organizzazione comprende 4.000 indirizzi

di centri antiviolenza in tutta Europa e per l'Italia l'associazione “D.i.Re” 8 è diventato

“punto di riferimento”, avendo così una funzione di coordinamento diretto con Vienna.

Sin dalla nascita di WAVE nel 1995 la Casa delle donne di Bologna aveva attivamente

partecipato all'organizzazione essendo punto di riferimento per l'Italia. Conoscendo

bene la situazione degli altri paesi europei la Casa delle donne insieme ad altri Centri

italiani si è fortemente attivata, affinché la Rete dei centri antiviolenza italiana, già

esistente a livello politico informale dagli anni '90, fosse rappresentato a livello europeo

da un'associazione formale. Infatti sin dagli anni '90 molti paesi (Gran Bretagna,

7 http://conventions.coe.int/Treaty/EN/Treaties/HTML/DomesticViolence.htm
8 L'associazione D.i.Re raccoglie in un unico progetto 60 associazione di donne che affrontano il tema della violenza
maschile sulle donne secondo l’ottica della differenza di genere. L’associazione D.i.Re è nata allo scopo di costruire
una azione politica nazionale e promuova azioni volte ad innescare un cambiamento culturale di trasformazione della
società italiana nei riguardi del fenomeno della violenza maschile sulle donne.

60
Francia, Svezia, Olanda, Austria etc.) avevano già federazioni nazionali solide ed

efficaci che rappresentavano i centri antiviolenza a livello di governo centrali e

all'estero.

Ora che l’associazione nazionale italiana esiste dal 2008 il gruppo internazionale al suo

interno è impegnato attivamente nel Comitato di coordinamento di WAVE (Co.co:

Coordination Committee) e alla importante ricerca “Country report 2010” 9 curata da

WAVE sulla situazione dei servizi di supporto in contrasto alla violenza nei paesi

europei che riporta la situazione di 44 paesi europei relativa a centri e servizi di

supporto, legislazione e politica relativa alla violenza di genere.

Purtroppo pochi paesi hanno standard elevati e legislazioni adeguate e il rapporto

dimostra come la violenza alle donne viene combattuta in maniera disomogenea nei

diversi paesi europei, facendo un attenta analisi comprata sia del numero di abitanti che

dei posti letto messi a disposizione per ospitare donne e bambini in pericolo.

Il rapporto di WAVE fornisce schede dettagliate e un’analisi approfondita sulla

situazione dei paesi europei, fonte sicuramente utile per una comprensione della

qualità dei servizi e delle legislazioni.

Se guardiamo ad esempio a Finlandia, Islanda o Svezia, i casi di femicidio registrati

ogni anno sono un numero basso ancorché rilevante se posto in relazione con la

densità della popolazione. In questi Paesi il livello dei servizi cui le donne che

9 “Country report 2010: reality check on european services for women and children. Survivors of violence. A Right
for Protection and Support?” Il testo si può scaricare dalla pagina di WAVE: www.wave-network.org;

61
subiscono violenza possono accedere è molto alto: sono attive linee di assistenza

telefonica nazionali, finanziate con fondi statali, con un servizio attivo su tutto

l’arco della giornata; contemporaneamente sono presenti helplines (linee di assistenza)

gestite dalle regioni o da associazioni di donne a livello locale. In questi Paesi i

governi investono sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere, attraverso

Piani di azione nazionali che destinano fondi e progetti atti a prevenire, indagare e

debellare il fenomeno della violenza sulle donne. Questi sono considerati i paesi

europei in cui le donne vittime di violenza godono della migliore qualità dei servizi,

con assistenza psicologica, legale, medica ed economica garantita attraverso l’impegno

delle ONG e delle associazioni di donne presenti, ma anche grazie a ingenti

finanziamenti statali.

Pure in un quadro così avanzato, resta da notare che il numero di case rifugio presenti

su questi territori scarseggia: in Finlandia sono 21, un numero insufficiente se si

prendono in considerazione le raccomandazioni del Parlamento europeo, che

prevedono una casa rifugio ogni 10.000 abitanti. In Islanda è presente una sola casa

protetta, con 22 posti al suo interno, e le raccomandazioni del Parlamento Europeo

parlano di sei rifugi mancanti; mentre in Svezia sono presenti 180 rifugi per donne

maltrattate, con 620 posti disponibili, e secondo le direttive europee il paese necessita

di 78 ulteriori posti. Non è da sottovalutare il dato concernente la densità della

popolazione, che nei paesi di cui abbiamo parlato è molto basso. Se si considerano

62
paesi europei con un livello di popolazione molto più alto, come ad esempio

Germania e Francia, i livelli di qualità dei servizi offerti alle donne vittime di

violenza si abbassano. Per quanto riguarda la Germania non sono disponibili dati

riguardanti il numero di casi di femicidi avvenuti negli ultimi anni, non è presente una

linea di assistenza telefonica nazionale, la cui attivazione è prevista entro il 2013, ma

sono presenti tre linee di assistenza negli stati federali e settantaquattro linee regionali,

finanziate con fondi statali; sono presenti 346 case rifugio, con 6.968 posti al loro

interno; secondo le raccomandazioni del Parlamento europeo, la Germania richiede altri

1.281 posti letto per donne maltrattate. Molte case a indirizzo segreto negli ultimi anni

sono state costrette a chiudere per mancanza di fondi, per questo motivo le

associazioni di donne e le ONG chiedono un maggiore impegno e maggiori

stanziamenti da parte dello Stato, e degli Stati federali.

In Francia invece la situazione è leggermente diversa: qui è presente una linea di

assistenza telefonica nazionale, attiva dal 1992 e gestita dalla Federazione nazionale

dei Centri antiviolenza. I dati sul femicidio parlano di una donna uccisa ogni 2 – 3

giorni. Sono presenti 41 case rifugio, di cui molte statali, con 1.110 posti al loro

interno, ma secondo le direttive europee ne mancano ancora 5.040. Secondo le

numerose associazioni di donne presenti sul territorio nazionale il paese necessita di

nuove risorse e strutture per permettere la realizzazione di servizi di raccolta dati

relativi alle donne sopravvissute alla violenza.

63
Austria e Spagna sono invece da considerare paesi particolari, con una legislazione

avanzata in materia di violenza di genere, la prima per avere sviluppato un modello di

assistenza istituzionale chiamato “Centri di intervento”, finanziati direttamente dallo

Stato e in collegamento diretto con la Polizia; il secondo per una legge ad hoc, olistica,

che riguarda e coordina tutti gli ambiti di intervento della violenza di genere.

Il rapporto WAVE riporta la situazione dettagliata, anche da un punto di vista

legislativo, relativa agli altri paesi firmatari della Convenzione come Grecia,

Montenegro, Portogallo, Slovacchia, Turchia e Macedonia che sicuramente rispetto ai

paesi sopracitati dimostrano carenze, sia nell’organizzazione dei servizi di assistenza,

che nelle politiche coordinate di contrasto alla violenza. Possiamo però notare che i

firmatari della Convezione spesso hanno deliberato il piano d’azione contro la

violenza e attivato iniziative nazionali, avanzate e coordinate tra loro, in contrasto alla

violenza.

Il rapporto WAVE indica come in Italia sia attiva dal 2006 una helpline (linea di

assistenza) nazionale - il 1522 - finanziata completamente dallo Stato, cui si affiancano

113 linee di assistenza/centri antiviolenza, che godono per il circa il 70% di

finanziamenti statali; di queste, novanta sono gestite da associazioni di donne e le

restanti dai Comuni o altri enti privati. La prima casa rifugio è nata in Italia nel

1989, da allora sono cinquantaquattro i rifugi presenti in Italia, gestiti da ONG di

64
donne e basati su un background politico e culturale di stampo femminista. Quanto ai

casi di femicidio, dal rapporto emerge che l’Italia vanta 127 donne uccise solo nel 2010.

Secondo le raccomandazioni del Parlamento Europeo, ai 500 posti presenti nelle case

rifugio italiane, ne andrebbero aggiunti altri 5.211; le associazioni di donne attive

sul territorio nazionale non godono di finanziamenti statali e sopravvivono grazie alla

buona volontà dei politici locali o di donatori. Questa mancanza di fondi peggiora la

qualità dei servizi disponibili e fa si che i rifugi presenti siano solo parzialmente

conformi agli standard di qualità europei.

La già preoccupante situazione italiana è aggravata dalle decisioni politiche prese

negli ultimi anni. Dal 2010 dovrebbe essere attivo un Piano di azione nazionale

contro la violenza sulle donne, ma il ministero delle Pari Opportunità, a causa degli

scarsi investimenti del governo in questo settore, non riesce a finanziare i progetti da

esso previsti. Questa situazione è stata denunciata dall’associazione D.i.RE: Donne in

rete contro la violenza, che ha sottolineato come, nonostante le direttive del

Parlamento europeo che chiedono l’impegno degli stati membri sul tema della

violenza di genere e il sostegno di questi ultimi alle associazioni di donne attive in

questo campo, lo Stato italiano non supporti e finanzi i centri antiviolenza presenti

sul territorio. Tutto questo malgrado siano già stati stanziati, attraverso il Piano

nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, 18 milioni di euro che dovrebbero

essere redistribuiti in tutta Italia tramite il Ministero delle Pari opportunità.

65
Quest’assenza totale di finanziamenti, unita ai tagli e alla mancanza di sostegno da

parte delle istituzioni sta portando lentamente alla chiusura di numerosi centri

antiviolenza sparsi su tutto il territorio nazionale, strutture che da anni sostengono

donne e minori vittime di ogni tipo di violenze.

La Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla

violenza contro le donne e la violenza domestica, si riferisce alle raccomandazioni

europee contro la violenza promosse in questi anni, ma soprattutto alla Convenzione

CEDAW, che rappresenta il principale riferimento politico.

Gli 81 articoli della Convenzione europea promuovono l’armonizzazione nei

27 paesi delle leggi e delle politiche di contrasto alla violenza e offrono, alle donne

vittime, standard e servizi non troppo dissimili, come invece accade ora. Si tratta

infatti del primo strumento giuridicamente vincolante in Europa, che determina una

normativa precisa per combattere la violenza contro le donne tramite la prevenzione, la

protezione, il supporto alle vittime e l’azione giudiziaria contro gli autori dei reati (tra

cui sono compresi stalking, violenza sessuale, fisica, psicologica o economica,

matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili e “delitto d’onore”).

Inoltre l’applicazione della Convenzione prevederà, da parte dei singoli Stati,

l’istituzione di linee telefoniche apposite per la segnalazione degli abusi, luoghi di

rifugio e protezione, servizi medici, legali e di consulenza, potenziando le carenze dei

diversi sistemi legali e sociali interni; nonché lo sviluppo e il potenziamento dei servizi

66
di assistenza psicologica ed economica, delle case rifugio per le donne vittime di

violenza esistenti, di formazione per il personale che si trova a dare sostegno medico

e psicologico alle vittime di violenza domestica e sessuale.

La Convenzione porta un contributo importante alla prevenzione e alla lotta contro la

violenza di genere, prevedendo, ad esempio, misure di protezione adatte alle migranti o

promuovendo programmi di intervento a livello nazionale sui violenti (art. 16) che

contrastino la così detta “cultura dell’onore”, quella cultura che accusa la donna vittima

di violenza di aver trasgredito norme culturali e costumi religiosi, sociali o

tradizionali sul comportamento adeguato e che spesso è chiamata in causa per

giustificare atti di violenza.

È fondamentale segnalare come un intero articolo (Art. 11, Capitolo II - Politiche

integrate e raccolta dei dati) sia stato dedicato alla “raccolta dati e ricerca” sulla

violenza di genere: gli Stati firmatari si impegnano a raccogliere dati statistici, a

intervalli regolari, sulle questioni concernenti tutte le forme di violenza alle donne, a

sostenere la ricerca nelle aree relative di applicazione della Convenzione e dovranno

rendere pubbliche le informazioni raccolte, per favorire la cooperazione internazionale

e per permettere un confronto tra i diversi Paesi. Fondamentale risulta essere la

creazione a livello europeo di un gruppo internazionale di esperte e esperti chiamato

GREVIO (Articolo 66 – Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti

delle donne e la violenza domestica), istituito per tenere monitorata la situazione e

67
l’effettiva applicazione della Convenzione in ogni singolo stato firmatario. Tale

meccanismo di monitoraggio dovrebbe fungere da garanzia affinché ogni governo

lavori in modo efficace e coordinato in materia di iniziative contro la violenza di

genere.

È auspicabile pertanto che la recente approvazione della Convenzione da parte

di tutti paesi porti ad un miglioramento della situazione delle politiche di contrasto

alla violenza in generale, dei servizi per le donne che la subiscono, e a un incremento

delle ricerche sulle dimensioni reali della violenza e dei femicidi in Europa.

5. Politiche regionali sulla violenza alle donne: l' azione della regione

Emilia Romagna

La violenza contro le donne così come appare anche dalle ricerche effettuate in

Emilia Romagna si delinea dunque come un evento a forte impatto sociale, anche in

considerazione del fatto che presenta un’altissima incidenza di “sommerso” e che i dati

raccolti rappresentano solo una parte delle violenze che si verificano.

Un elemento allarmante è rappresentato dal netto prevalere della violenza intrafamiliare

su altri tipi di violenza e questo fa temere che oltre alle donne ci sia un numero

considerevole di minori esposti ad un disagio che non coinvolge solo la donna ma si

estende anche ai figli che rischiano di crescere in un ambiente familiare connotato da

68
tale forma di devianza sociale. La Regione Emilia Romagna è da tempo impegnata nel

contrasto alle forme di violenza alle donne attraverso azioni volte a rafforzare l'aiuto

alle vittime e ai minori coinvolti, non trascurando lo studio del fenomeno e gli interventi

volti alla sua prevenzione.

Tale impegno assunto dalle politiche regionali punta a produrre cambiamenti nel

contesto sociale e culturale facendo emergere dal sommerso il fenomeno della violenza,

comprenderlo in tute le sue manifestazioni e porre in essere azioni di prevenzione. Nel

sistema integrato di interventi e servizi sociali a supporto delle donne che subiscono

violenza si trovano i servizi e gli interventi quali: le Case e i Centri Antiviolenza,

finalizzati a fornire consulenza, ascolto, sostegno ed accoglienza a donne, anche con

figli, minacciate o vittime di violenza fisica, sessuale, psicologica e di costrizione

economica. In questi luoghi le donne che subiscono violenza e i loro figli, possono

trovare risposte al loro bisogno di protezione, sicurezza ed aiuti concreti per uscire dalla

situazione di violenza.

In Emilia Romagna esistono numerosi Centri frutto dell’impegno dei Comuni e

delle Associazioni che gestiscono le Case e i Centri presenti sul territorio regionale e di

una continua e costante collaborazione reciproca, uno dei risultati di questa

collaborazione è stato nel 2000 la firma di un Protocollo d’Intesa tra la Regione,

l’Associazione dei Comuni (ANCI), l’unione delle Province e le Associazioni operanti

sul territorio regionale sulla tematica della violenza contro le donne.

69
Il quadro legislativo di riferimento dal quale prendono avvio e si integrano

diverse azioni regionali è il seguente:

a livello nazionale :

• LEGGE n° 328 del 8 novembre 2000 "Legge quadro per la realizzazione del

sistema integrato di interventi e servizi sociali"

- pone la programmazione e l'organizzazione del sistema integrato di interventi e

servizi sociali quale competenza in capo agli enti locali, alle regioni ed allo stato;

- promuove la partecipazione attiva dei cittadini, il contributo delle organizzazioni

sindacali, delle associazioni sociali e di tutela degli utenti per il raggiungimento dei fini

istituzionali;

- delinea la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali

attraverso politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale;

- Le misure di sostegno alle donne in difficoltà rientrano nei livelli essenziali delle

prestazioni sociali, secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione

nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le

politiche sociali.

• LEGGE n° 154 del 15 aprile 2001 “Misure contro la violenza nelle relazioni

familiari”

70
a livello regionale:

• Legge Regionale n° 27 del 14 agosto 1989: "Norme concernenti la

realizzazione di politiche di sostegno alle scelte di procreazione e agli

impegni di cura verso i figli"

- Realizza azioni di sostegno, consulenza ed informazioni alle vittime di violenza

sessuale e di assistenza in favore di minori che abbiano subito maltrattamenti. (ART. 3)

• Legge Regionale n° 2 del 12 marzo 2003: "Norme per la promozione della

cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi

e servizi sociali"

- definisce gli interventi ed i servizi del sistema integrato di interventi e servizi

sociali volti a garantire pari opportunità e diritti di cittadinanza sociale, a prevenire,

rimuovere o ridurre le condizioni di bisogno e di disagio individuale e familiare

derivanti da limitazioni personali e sociali, da condizioni di non autosufficienza, da

difficoltà economiche validi sul territorio regionale.

- i Comuni promuovono e garantiscono la realizzazione del sistema locale dei

servizi sociali a rete, al fine di dare risposta ai bisogni sociali della popolazione”.

71
- Il sistema locale si compone di un insieme di servizi ed interventi progettati e

realizzati in maniera integrata e coordinata nei diversi settori che riguardano la vita

sociale, dai diversi soggetti pubblici e privati di cui alla presente legge.

- I servizi e gli interventi del sistema locale comprendono i servizi ed interventi,

quali case e centri antiviolenza, finalizzati a fornire consulenza, ascolto, sostegno ed

accoglienza a donne, anche con figli, minacciate o vittime di violenza fisica, sessuale,

psicologica e di costrizione economica, tali servizi costituiscono livelli essenziali delle

prestazioni sociali.

- Il Piano di zona , di ambito distrettuale ha durata triennale e sancisce il sistema

locale dei servizi sociali a rete che garantiscono i livelli essenziali delle prestazioni

sociali.

- La valorizzazione delle reti territoriali di servizi e di modelli di intervento

caratterizzati da un lavoro di equipe nella presa in carico.

Quindi i Comuni facenti parte dello stesso distretto socio-sanitario garantiscono

(fra i livelli essenziali delle prestazioni sociali) all’interno della loro rete dei servizi la

consulenza, l’ascolto, sostegno ed accoglienza a donne, anche con figli, minacciate o

vittime di violenza fisica, sessuale, psicologica e di costrizione economica.

Da queste premesse ne discende che le azioni di contrasto alla violenza contro le donne

si riconducono su tre livelli:

72
• nazionale:

- promuovere ed approvare leggi e programmi dedicate alle pari opportunità

- promuovere ed approvare norme specifiche a protezione delle vittime di violenza

- inserire le tematiche relative alla violenza negli atti di programma e indirizzo

degli interventi sanitari

- sviluppare campagne nazionale di contrasto alla violenza

- attivare e coordinare ricerche di rilevazione del fenomeno a carattere nazionale.

• regionale:

- promuovere ed approvare leggi e programmi dedicate alle pari opportunità e

realizzare accordi di programma intersettoriali in ambito regionale

- inserire le tematiche relative alla violenza negli atti di programma e indirizzo

degli interventi sanitari a carattere regionale;

- sviluppare campagne regionali di contrasto alla violenza;

- attivare e coordinare ricerche di rilevazione del fenomeno a carattere nazionale.

• Provinciale, Comunale e distrettuale:

- garantire sul proprio territorio comunale e distrettuale: consulenza, ascolto,

sostegno ed accoglienza a donne, anche con figli, minacciate o vittime di violenza

fisica, sessuale, psicologica e di costrizione economica;

73
- sviluppare programmi ed interventi di promozione e supporto alle vittime e di

sensibilizzazione rispetto alle tematiche legate ai comportamenti violenti ;

- inserire questi interventi nel sistema locale dei servizi sociali.

In particolare le azioni della Regione Emilia Romagna sono riassunte nelle

seguenti tappe:

• nel 2000 si è avuta la firma di un Protocollo d’Intesa tra la Regione,

l’Associazione dei Comuni, l’unione delle Province e le Associazioni

operanti sul territorio regionale sulla tematica della violenza contro le donne.

• Negli anni successivi avvio di corsi di formazione per operatori sociali e

sanitari che operano con donne che hanno subito violenza.

La Regione Emilia Romagna finanzia corsi di formazione rivolti ad operatori sanitari e

sociali (medici di pronto soccorso, ginecologi, ostetriche, volontari assistenti sociali..)

che impattano donne che hanno subito violenza e che si rivolgono ai presidi sanitari e

sociali, attivati dalle Aziende USL dei distretti territoriali. Tale formazione permette agli

operatori in oggetto di acquisire conoscenze e competenze adeguate per:

- rilevare i segnali indiretti di una violenza;

- fare connessioni sulla relazione tra lo stato di salute psico fisico della donna e la

violenza subita;

74
- attivare raccordi interistituzionali e tra le diverse figure professionali che entrano

contatto con il problema;

Volendo tracciare un quadro di insieme, le politiche contro la violenza di genere che la

Regione Emilia-Romagna ha perseguito nell’ultimo decennio:

• Politiche che afferiscono al servizio politiche familiari, infanzia e a adolescenza:

interventi che riguardano la rete regionale di Case e Centri antiviolenza, il tavolo

di monitoraggio dell’accordo regionale sul contrasto alla violenza e il

monitoraggio dell’attività di accoglienza, i corsi di formazione degli/delle

operatrici; inoltre il progetto per un centro sperimentale per uomini ;

• Politiche che riguardano la prevenzione della violenza: l’attività di formazione

attuata dalla Scuola regionale di polizia locale, i progetti sperimentali di

formazione e sensibilizzazione rivolti ai giovani delle scuole e ad altri soggetti,

di indagine nel mondo scolastico, di preparazione di un vademecum con

informazioni utili per le donne che subiscono violenza e di formazione (accordo

con la Provincia di Parma), l’attività di ricerca sulla legislazione regionale e

internazionale;

A completamento degli interventi precedenti vanno poi considerati anche: gli interventi

di formazione professionale e inserimento nel lavoro delle donne in condizione di

svantaggio, in particolare a supporto dell’inclusione lavorativa di donne che hanno

75
subito violenza (FSE, Asse dell’inclusione sociale) attuati nelle diverse province della

regione;

Si tratta dunque di un ventaglio di azioni ormai consolidate da una pratica almeno

decennale che recentemente ha trovato un momento di ricomposizione nel Piano

interno integrato delle azioni regionali in materia di pari opportunità di genere,

Obiettivo generale 8 “Garantire la sicurezza contrastando ogni forma di abuso e

violenza”, il quale potrebbe costituire la base per uno specifico Piano regionale di

azione pluriennale in tema di contrasto alla violenza contro le donne.

76
CAPITOLO 3

LA RETE DEI SERVIZI: L'ESPERIENZA DELLA REGIONE

EMILIA ROMAGNA

Parte 1. Analisi delle reti istituzionali

La violenza contro le donne è un fenomeno multidimensionale e necessita, per

un’adeguata presa in carico, di una formazione specializzata, che implica l’assunzione

di un approccio di genere ma, soprattutto, una modalità organizzativa che metta in

primo piano il lavoro di rete e la sua specifica modalità di intervento. In tanti anni,

attraverso l’esperienza sul campo e il confronto con altre realtà, sia nazionali sia

internazionali, e le ricerche finora condotte ciò che emerge con estrema chiarezza è la

necessità di lavorare in un’ottica di rete, se si vuole contrastare efficacemente la

violenza di genere contro le donne. Tutte le raccomandazioni europee, ma anche quelle

internazionali, indicano come approccio adeguato alla lotta contro la violenza di genere,

quello della condivisione dei percorsi di fuori uscita dalla violenza: il lavoro di rete.

Per raggiungere un vero approccio di rete, occorre avere chiaro e portare avanti un

obiettivo preciso: la costruzione di un linguaggio comune tra chi, a vario titolo,

interviene nel percorso di fuori uscita dalla violenza. Parlare o scrivere è un’azione vera

77
e propria e l’uso di un termine piuttosto che un altro comporta una modificazione nel

pensiero dell’emittente, quindi di chi parla o di chi scrive, e, di conseguenza, di chi

ascolta o di chi legge. L’uso della lingua è dato troppo spesso per scontato ma in realtà,

se essa non viene usata con consapevolezza, genera delle vere e proprie discriminazioni

di genere. Un ulteriore punto fermo è la necessità di sviluppare, da parte delle istituzioni

e delle organizzazioni di terzo settore coinvolte nel percorso di fuori uscita dalla

violenza, un processo più adeguato di tutela delle donne vittime di violenza, creando un

raccordo interistituzionale tra istituzioni pubbliche e private, tra associazioni e

professionisti, per la definizione di percorsi integrati e la messa in pratica di un

protocollo operativo della rete antiviolenza.

Tutto questo con il presupposto di favorire il miglioramento di aspetti critici per la

tenuta della rete dei servizi, già in profonda crisi anche a causa del restringersi delle

risorse umane e finanziarie destinate ai servizi sociali sanitari e di sicurezza.

Mettendo in atto prassi di questo tipo, si può dimostrare di aver recepito e di voler

portare avanti la filosofia che ispira le politiche europee di sostegno: conoscere i bisogni

e la realtà locale, mobilitare le risorse disponibili nel contesto territoriale, mettere in

comunicazione gli attori pubblici e privati, responsabilizzarli nella progettazione e

attuazione di interventi che vanno monitorati e verificati costantemente.

Il nodo problematico della messa in campo di un vero approccio di rete, è la

grande sfida che chiama in causa i soggetti istituzionali; è quasi una sfida , bisogna

78
riuscire ad inserire e sviluppare, all’interno delle organizzazioni, delle istituzioni una

modalità operativa che consente l’accesso ad azioni operative diversificate, e in questo

caso, ad azioni di coordinamento al contrasto alla violenza di genere, si può ottenere

l’eliminazione della violenza contro le donne e, finalmente, avvicinarsi agli obiettivi

proposti nelle innumerevoli raccomandazioni internazionali ed europee:

• rafforzare la formazione specializzata agli operatori e alle operatrici dei servizi

territoriali, rendendola obbligatoria e non facoltativa;

• implementare le procedure che istituzionalizzano la specializzazione

nell’attività di contrasto alla violenza contro le donne, sganciandola dalle

persone;

• dare maggiore continuità e istituzionalizzazione all’attività organizzativa e alle

procedure condivise nei tavoli per la costruzione della rete antiviolenza, la cui

reale attivazione e efficacia è lungi dall’essere pienamente realizzata;

• prendere in considerazione i costi degli interventi in materia di violenza

domestica come strumenti di risparmi futuri (sulle spese sanitarie, assistenziali

e per la sicurezza);

• valorizzare le risorse umane mobilitabili in termini di intelligenza, capacità di

fare, relazionalità, solidarietà sociale;

79
• porre attenzione alla famiglia e alle relazioni di intimità, che vengono definite

il cemento della società: un cemento economico e culturale. Occorre

supportarle, salvaguardarle, difenderle dal degrado.

Sminuire la portata della violenza, ritenendo “fisiologica” l’episodica aggressione nella

sfera del privato di coppia, o definire genericamente “conflittualità di coppia” l’agire

violento del partner maschile, o ancora ricercare nella vittima, nel suo comportamento

e/o nella sua psicologia, le cause della violenza, dà luogo a quel processo, che negli

ultimi anni è stata definito di vittimizzazione secondaria, e che consiste proprio nel

cercare la causa della violenza in tratti di personalità, in particolari comportamenti delle

donne o in caratteristiche morali di queste ultime.

Strettamente connessa a ciò è, infine, la drammatica questione del silenzio delle

vittime che, per la mancanza di una rete di sostegno (sostegno culturale, solidarietà,

risposte empatiche, ma anche aiuti materiali, sostegni economici e scenari di protezione

efficaci nel garantire la sicurezza) che favorisca lo svelamento della violenza subita,

rimangono in maniera silente dentro il maltrattamento. Un supporto concreto, un

ascolto profondo e attento della richiesta di aiuto possono invece produrre un terreno

fertile che dia parola e visibilità al fenomeno.

Si verifica spesso, purtroppo, una non riconoscibilità sociale della violenza, proprio in

quei contesti deputati a ricevere richieste di aiuto. Tale sistema in atto non prevede la

violenza come elemento da cui partire per impostare un percorso di aiuto. Non prevede

80
che chi lavora nelle diverse agenzie debba essere preparato ad accogliere ed a “trattare”

situazioni di violenza e non riconosce i danni che questa provoca.

Il punto di svolta nell’approccio al problema della violenza contro le donne, è la

sperimentazione di una pratica che ribalta l’ottica dell’intervento da una posizione che

considera la donna come “vittima”, soggetto passivo e debole (vittimizzazione ritenuta

senza via d’uscita perché connessa al “destino” femminile), ad una considerazione della

donna come soggetto credibile, forte e capace di fronteggiare la situazione per

proteggere se stessa e i propri figli

La questione del contrasto alla violenza di genere chiama in causa il problema della

concezione e dei confini del Welfare, anche attraverso il riconoscimento di una sempre

maggiore rilevanza del principio costituzionale di sussidiarietà, in senso orizzontale e

verticale.

La direzione segnata dalle tendenze in atto, e dalle politiche europee, appare sempre più

quella di cooperazione tra Stato, privati e organismi senza fine di lucro nell’offerta di

servizi alla persona, in modo che questi possano essere sufficientemente competitivi

anche nei costi e il cittadino possa godere di una piena libertà di scelta, in una situazione

di reale parità di condizioni.

Le esperienze di molte realtà locali e la letteratura degli ultimi anni hanno messo in luce

come una funzione essenziale dei servizi socio-assistenziali – e in particolar modo dei

servizi specializzati sulla violenza di genere – debba essere la promozione di una “rete”

81
di soggetti e risorse, che possono interagire con i problemi del territorio e con le persone

in difficoltà. Questo è il terreno di azione in cui deve sapersi esprimere il lavoro

professionale degli operatori e delle operatrici del territorio, nel momento in cui ci si

prende carico di una situazione di violenza contro le donne ed i minori.

Offrire alla società una nuova lettura del fenomeno è un compito arduo affidato, spesso,

alle operatrici dei centri antiviolenza che, mediante il lavoro di rete, pongono in essere

nuove tipologie di azioni finalizzate alla presa di coscienza sociale della violenza come

ad esempio campagne di sensibilizzazione nelle scuole, che non è assimilabile ai

fenomeni di devianza e povertà, ma è il frutto estremo di uno squilibrio tra i sessi.

Questo approccio dovrebbe essere esteso a tutte le istituzioni territoriali, ognuno con la

sua specifica competenza e mission, al fine di produrre una reale diminuzione del

fenomeno della violenza di genere.

1. La rete locale dei servizi sociali

Le problematiche legate alle questioni sociali che investono i cittadini, e le donne in

particolare, sono molteplici e intercorrono per tutto l’arco della vita. Le proposte di

“risposta al bisogno” sono altrettanto frammentate e diversificate, in relazione alle

diverse esigenze emerse, sia in termini di forma che di soggetto che eroga la

prestazione. Il nostro tessuto sociale si presenta quindi ricco di offerte e proposte di

82
risposta al disagio nelle sue varie forme; ne deriva una molteplicità di soggetti coinvolti

e una forte differenziazione dell’offerta.

La pluralità dei soggetti e la differenziazione degli interventi ha portato alla definizione

dei servizi sociali quali una “rete”. Molto spesso di parla di “rete dei servizi territoriale”,

o “rete dei servizi sociali”, per lo più intendendo con questo termine l’insieme degli

interventi e delle prestazioni messe in atto da qualunque soggetto in un territorio di

riferimento, orientati alla risposta ad un bisogno sociale o ad un disagio. Si parla della

rete come dell’insieme di quanto c’è, come se fosse un unico soggetto interlocutore. In

realtà a fronte di una rete di servizi, ci sono bisogni ed esigenze ai quali ogni soggetto

della rete può solo dare una risposta parziale. In questo senso allora per indicare una

sinergia di soggetti ed azioni orientate alla soddisfazione del bisogno non è esaustivo

parlare di rete o networking sociale, ma piuttosto di integrazione degli interventi e

relazione tra soggetti.

È soprattutto a livello locale che si pone l’accento sulla necessità della relazione e dello

sviluppo di legami tra i diversi soggetti che operano in ogni settore, per la realizzazione

di un servizio integrato ed un approccio orientato alla persona ed al suo bisogno,

attribuendo proprio all’incremento di tali legami lo stesso sviluppo del sistema a livello

locale.

II volontariato, l'associazionismo e la cooperazione sociale hanno dimostrato in questi

ultimi anni di essere in grado di rispondere in maniera qualificata alla domanda di

83
partecipazione e di relazionalità che rappresenta la nuova dimensione dei bisogni

sociali.

Questo aspetto si riscontra anche nei riguardi dei servizi offerti alle donne vittime di

violenza; una molteplicità di soggetti istituzionali e soprattutto del terzo settore offrono

servizi ed interventi per la prevenzione e il supporto alle donne ed ai loro figli. La azioni

di risposta al bisogno allora dovranno tenere conto di questa dimensione “sociale”

territoriale in cui gli attori pubblici, privati e del terzo settore concorrono, con le proprie

specificità di ruoli e di funzioni, alla costruzione di un sistema di risposte integrate ai

bisogni secondo progettualità individualizzate orientate alla persona (welfare di

comunità). Con specifico riguardo agli interventi di sostegno e prevenzione della

violenza la normativa, (Sistema integrato di interventi e servizi a tutela della

cittadinanza sociale) appare calzante rispetto alla situazione esistente di pluralismo di

soggetti e interventi; prende inoltre in considerazione alcune criticità del sistema,

derivanti proprio dalla stessa pluralità che crea la differenziazione dell’offerta.

Nella consapevolezza che ogni soggetto ed istituzione risponde solo ad alcuni aspetti

delle esigenze dalla vittima, si individua nel lavoro di rete un possibile strumento

organizzazione di risposte adeguate per le donne: Tali necessità devono essere favorite

dalle istituzioni tutte, ciascuna per le proprie competenze. Di conseguenza la

costituzione di una RETE permanente, attiva e di reale confronto tra gli uffici che si

occupano di tali problematiche, appare cosa prioritaria per migliorare l’attuale risposta.

84
2. I protocolli interistituzionali

Il protocollo è un' espressione che può scaturire da un gruppo di lavoro, quale possibile

soluzione a problemi del territorio, in particolare per rispondere ai bisogni delle donne;

il fatto che esistano sul territorio azioni non coordinate fra loro, fa aumentare il rischio

che gli interventi risultino occasionali, isolati, senza efficacia, in particolare all'interno

dei contesti già sconvolti dalla violenza che si alimentano di forme di abbandono e

solitudine.

Lo sviluppo di un rapporto di fiducia, o di rete, fra associazioni di terzo settore e

organismi istituzionali consente l'attuazione di progetti di vita e sinergici verso obiettivi

condivisi e mirati, affronta e riduce gli alti costi che la diffidenza, l'insicurezza e la

mancanza di aspettative comportano. Creare ed attuare un lavoro di rete nasce

dall'esigenza di mettere in relazione le diverse competenze e le rispettive modalità di

intervento all'interno delle diversità, ciste come valore condiviso, e di una cultura che

rispetti i diritti della persona e non rinforzi le esclusioni.

La progettazione di rete può dunque avviarsi a partire da un protocollo d'intesa. La rete

può essere costruita, rafforzata, ampliata ed aggiornata anche grazie a :

– formazione e convegni;

– tavoli di concertazione;

– incontri programmati per progetti di collaborazione dei “casi” da seguire;

85
Sempre più palese è divenuto che l’efficacia stessa degli interventi, sia quelli di

emergenza come i successivi rivolti alle donne in condizioni di necessità, non dipende

solo dalle professionalità e dalla generosità delle operatrici dei Centri e delle Case, ma

in buona misura anche dai collegamenti e dalle relazioni stabilite con tutti gli altri attori

operanti in quel determinato contesto: l’Ausl e in particolare il pronto soccorso, il

consultorio, la polizia, i carabinieri e la polizia municipale, i servizi sociali e gli altri

servizi comunali per la casa o l’occupazione, la magistratura, le associazioni femminili

di giuriste e le consigliere di parità. Essendo ciascun ente responsabile solamente di

un “pezzo” del percorso che le donne intraprendono è di fondamentale importanza

lavorare in un'ottica di rete.

Promuovere la rete territoriale dei soggetti e dei servizi è divenuto obiettivo e

parola d’ordine, perché motivato dalla necessità di mettere in piedi forme di

collaborazione, fra le associazioni delle donne e le istituzioni, meno informali, meno

personali e meno provvisorie di come stava avvenendo localmente; in modo che più

condivise e integrate divengano le procedure utilizzate, pena l’inefficacia stessa

degli interventi o la loro limitatezza che finisce per non risolvere appieno i problemi

delle donne a cui sono diretti. Pena anche la rinuncia ad affrontare, attraverso azioni di

sensibilizzazione e prevenzione di più lungo periodo e in ambiti sociali allargati, la

questione della violenza di genere nelle sue profonde radici culturali per poterla prima

di tutto riconoscere per poi combatterla.

86
Si tratta senza dubbio di un processo maturato “dal basso”, frutto dello sviluppo

stesso dell’agire locale: una necessità che a livello nazionale è stata posta dalle azioni

della “rete antiviolenza Urban”10 la quale nelle città pilota ha promosso, negli stessi

anni, un modello di lavoro “a rete” e, nel 2006, dal progetto “Arianna- Attivazione

Rete nazIonAle aNtivioleNzA”11 , che ha reso operativo il servizio 1522, numero

di pubblica utilità a sostegno delle donne vittime di violenza intra ed extra familiare e

dal 2009 di stalking.

La rete nazionale e le reti locali, infatti, in alcune città della regione si collegano,

rafforzando le azioni di coordinamento fra le diverse istituzioni e i Centri antiviolenza.

Ma anche quando non sono stati stipulati protocolli con il Dipartimento Pari

Opportunità per essere inserite nelle città pilota (come hanno fatto diverse realtà

10 Il progetto pilota Rete antiviolenza tra le città Urban Italia, ideato e coordinato a livello nazionale dal
Dipartimento per le Pari Opportunità, è nato nel 1998 nell'ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria Urban
Italia 1994 – 1999, ed è stato finanziato con il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) a titolarità del Ministero
delle Infrastrutture. Al progetto hanno aderito le seguenti otto città: Catania, Foggia, Lecce, Napoli, Palermo, Reggio
Calabria, Roma e Venezia quale amministrazione capofila. Il progetto Rete antiviolenza tra le città Urban Italia ha lo
scopo di indagare il contesto sociale, culturale ed istituzionale nel quale sorge e si sviluppa il fenomeno della violenza
contro le donne e la percezione che di esso ha l’ambiente contiguo.Inoltre, la ricostruzione del quadro strutturale e
culturale nel quale si colloca il fenomeno e l'analisi degli strumenti adottati dalle istituzioni, sono propedeutici
all’individuazione ed alla progettazione di politiche di intervento efficaci. Grazie alla metodologia innovativa
utilizzata dal Progetto, è stato possibile fare emergere quale siano la percezione della violenza e gli stereotipi che
ancora la giustificano nelle diverse realtà territoriali. Sono stati inoltre elaborati dei metodi innovativi per affrontare
in modo comune ed efficace la violenza contro le donne confrontando conoscenze, strumenti e percorsi di aiuto.

11Il Dipartimento per le Pari Opportunità ha promosso un progetto pilota che prevede l’attivazione di una “Rete
Nazionale Antiviolenza” - Progetto Arianna - nonché l’organizzazione e gestione di un servizio di call center
mediante un numero unico di pubblica utilità “1522” a sostegno delle donne vittime di violenza intra ed extra
familiare.Il Progetto “ARIANNA” nasce perciò dalla necessità di incrementare l’attenzione sociale ed istituzionale
sul problema della violenza intra ed extra familiare contro le donne, nonché dall’esigenza di definire in tale ambito
modelli di intervento omogenei e diffusi, sperimentabili sull’intero territorio nazionale.

87
territoriali della regione), il quadro nazionale non può non intersecarsi con l’attività

condotta nei territori.

Tornando alle ragioni intrinseche che sono alla base del lavoro di rete e dei protocolli

fra le istituzioni, le quotidiane pratiche di lavoro stavano innanzitutto mostrando come

mancasse, fra le diverse culture istituzionali degli enti coinvolti nel trattamento dei casi

di violenza, prima ancora che un linguaggio comune almeno una comune accezione di

cosa si intenda per “violenza di genere”, dei modi nei quali si manifesta e come la si

riconosce. Mancavano inoltre conoscenze adeguate sulle possibilità operative di un

servizio - chi fa cosa e come lo fa - né erano stabilite procedure che facilitassero il

passaggio da uno a un altro ente, da uno ad altro servizio; mancavano o erano

insufficienti momenti di formazione comune allargata a diversi soggetti così come

insufficienti e disomogenei (o del tutto assenti) i sistemi di raccolta dati per conoscere

l’entità del fenomeno e il suo evolversi all’interno delle province. Ciascun ente operava

in modo pressoché autonomo, per lo più scollegato dagli altri e quindi frammentato era

necessario strutturare rapporti continui e percorsi certi fra enti distanti per cultura e

pratiche organizzative. Al fine di creare sinergie indispensabili e strategie di lavoro

condivise e integrate.

La necessità di un lavoro coordinato fra le istituzioni che viene sancita da protocolli di

intesa territoriali, diviene nel corso del suo sviluppo una questione di governance sul

territorio, perché quel coordinarsi non sia di facciata ma davvero efficace.

88
È dunque soprattutto nella seconda metà di questo decennio 2000-2010, con

qualche anticipazione negli anni precedenti, che tali esigenze portano alcuni Enti Locali

della Regione, in accordo con la Prefettura, a firmare i primi protocolli di intesa per

contrastare la violenza alle donne. Sono documenti di impegno politico e di indirizzo

condivisi fra le diverse istituzioni pubbliche decentrate dello Stato, gli enti territoriali

Province e Comuni, le associazioni e i Centri antiviolenza e le organizzazioni

professionali femminili. Essi tracciano obiettivi comuni per contrastare, attraverso la

costruzione della rete dei servizi, la violenza di genere tutelando le vittime,

combattendola nelle sue radici culturali di discriminazione fra i generi, e istituendo a tali

fini (in genere ma non sempre) tavoli di lavoro interistituzionali a cui partecipano i

rappresentanti degli enti firmatari.

In alcune realtà vi possono essere protocolli di natura più politica che individuano

appunto indirizzi e obiettivi generali, declinati successivamente in protocolli di

carattere eminentemente operativo – come quello adottato dalla realtà di Modena - che

stabiliscono in maggiore dettaglio quali compiti associazioni e istituzione debbano

svolgere per i risultati che si vogliono perseguire, con l’eventuale estensione anche ad

altri territori che si collegano al capoluogo per rendere la rete provinciale.

Non è azzardato sostenere che ciò significa un salto di qualità, a due livelli

necessariamente interconnessi. Il primo è dato dalla compresenza in un unico

organismo - il tavolo - della Prefettura, delle Forze dell’Ordine Questura, Corpo dei

89
Carabinieri e Polizia municipale, delle istituzioni giudiziarie del Tribunale e Procura

della Repubblica, dell’Azienda sanitaria locale, delle istituzioni educative, delle

associazioni di avvocate e dei Centri contro la violenza: inaugura una modalità di lavoro

a più voci riunendo attori che fino a quel momento avevano agito separatamente, o

eventualmente con rapporti bilaterali e/o informali ed è un’occasione per un

riconoscimento nei fatti del ruolo focale dei Centri.

Il secondo punto di novità vede gli enti locali - Comune e Provincia - assumere un

ruolo decisamente più centrale rispetto agli anni precedenti, passando dal sostegno dato

ai Centri a un ruolo di coordinamento fra le diverse istituzioni, in accordo con la

Prefettura, affinché la rete divenga progressivamente una realtà operante: un ruolo

istituzionale e territoriale che i Centri antiviolenza non erano (quasi mai) in grado di

svolgere, pur cogliendone appieno la necessità per soste- nere le donne nel loro lungo

percorso di conquista dell’autonomia, soprattutto nel campo economico e abitativo.

Un’ulteriore novità cui si assiste in particolare dal 2009, è l’iniziativa, in alcune

realtà, della Prefettura che prendendo spunto dalla Legge 38 del 2009 “recante misure

urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in

tema di atti persecutori” si fa promotrice del protocollo fra i diversi enti che lo

sottoscrivono.

In sostanza la firma dei protocolli interistituzionali costituisce l’aspetto formale e

istituzionale - ma proprio per questo vincolante - di un lavoro comune che si sta

90
costruendo concretamente, nella pratica, sul terreno. Rendere solida la rete e predisporre

pratiche di lavoro sinergiche è attualmente in corso d’opera, naturalmente tra problemi

aperti e criticità, come è dei processi complessi e fra più partner.

Tale sottoscrizione rende esplicito l’assunto che la responsabilità di contrastare la

violenza di genere è una responsabilità della intera collettività e perciò delle istituzioni

che la rappresentano nei diversi compiti e livelli, mettendo in campo nuove energie per

formulare strumenti conoscitivi e coordinare quelli operativi, in collaborazione con

quelle associazioni che dagli anni novanta hanno operato quasi sempre da sole per

affermare l’esistenza di oltraggi - spesso nascosti - alla inviolabilità del corpo

femminile. Costruire e implementare la rete dei soggetti e dei servizi è dunque un

“cambio di passo” nel discorso pubblico sulla violenza: sulla base della condivisione di

diritti universali declinati nella dimensione di genere, l’impegno è ad agire con tutti i

mezzi a disposizione - ciascuno per le proprie competenze e in modo coordinato - nella

realtà territoriale dove i fatti avvengono, là dove le donne subiscono maltrattamenti e

violenze, là dove le donne decidono di intraprendere “cammini di libertà”.

Se si considera lo scenario della Regione Emilia-Romagna, il processo prima descritto

non avviene, come si è detto, in modo omogeneo in tutti i territori/città: tempi e

modalità si diversificano in relazione alla “maturità” del tessuto cresciuto negli anni

precedenti, in particolare fra Centri, associazioni femminili e Comune o Provincia,

talvolta la Questura e il Pronto soccorso ospedaliero; e in relazione anche alle priorità

91
date al lavoro locale che può avere privilegiato, ad esempio, azioni dirette ad aumentare

la capienza e l’operatività delle Case rifugio a protezione delle donne, continuando a

utilizzare relazioni informali con le istituzioni.

3. Modena: il Protocollo d'intesa per contrastare ogni forma di

violenza contro le donne

A Modena, la Prefettura insieme alla Provincia già nel settembre 2006 convoca

un tavolo istituzionale sul tema “Violenza contro le donne” al fine di fare confluire in

esso le esperienze consolidate, costruire modalità lavorative comuni e rendere efficace

la comunicazione su tutto il territorio provinciale. Il passaggio successivo ad opera di un

gruppo di lavoro ad hoc vede - il 6 marzo 2007 - la deliberazione di un protocollo

d’Intesa per la promozione di strategie condivise finalizzate alla prevenzione e al

contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne tra Prefettura di

Modena, Provincia, i Comuni di Modena, Carpi, Mirandola, Pavullo, Sassuolo, Vignola,

Questura, Comando Provinciale dei Carabinieri, Comando Provinciale della Guardia di

Finanza, Polizia Municipale del Comune, Azienda Unità Sanitaria Locale, Azienda

Ospedaliero-Universitaria, l’Ufficio Scolastico Provinciale, la Commissione Pari

Opportunità, la Conferenza delle Elette, le Consigliere di Parità, e le associazioni

Gruppo Donne e Giustizia, Casa delle Donne - Donne contro la violenza. impegna la

92
Giunta a costruire un gruppo di lavoro per elaborare un documento comune e

predisporre un Piano strategico per contrastare la violenza contro le donne nella

Provincia di Modena.

L’accordo “ha come obiettivi l’analisi e il monitoraggio del fenomeno, lo

sviluppo di azioni finalizzate alla sua prevenzione e contrasto, attraverso mirati percorsi

educativi e informativi, alla formazione degli operatori, alla emersione del fenomeno, in

cui si iscrivono anche le iniziative volte a facilitare la raccolta delle denunce,

all’assistenza e al sostegno alle vittime di violenza in tutte le fasi susseguenti al

verificarsi di un episodio”. Tutti i soggetti si impegnano a svolgere i compiti per

ciascuno elencati e “a formulare, attraverso un tavolo tecnico, ulteriori approfondimenti,

regolamenti, accordi, atti a rispondere più efficacemente alle problematiche esposte

nelle premesse”.

In specifico la Prefettura di Modena, “nel ruolo di rappresentanza generale del Governo

nella provincia si farà carico del coordinamento delle iniziative indicate nel presente

protocollo riferendo periodicamente ai competenti Organismi di livello nazionale e

promuovendo periodici momenti di verifica e di analisi congiunta sia sull’andamento

del fenomeno, in base alle indagini statistiche compiute con il contributo dei soggetti

firmatari, sia sulle ricadute delle azioni scaturite dagli impegni assunti, sia sul

funzionamento dei dispositivi operativi predisposti. La Prefettura curerà altresì, d’intesa

con i componenti del tavolo tecnico, la realizzazione di occasioni di confronto allargato

93
sul tema, di divulgazione delle azioni condotte e dei risultati conseguiti nonché la

messa a disposizione dei dati e del patrimonio di esperienza acquisiti dalla applicazione

degli impegni contenuti nel presente atto”.

In sostanza mentre la Prefettura si riserva il ruolo di coordinamento e verifica delle

iniziative delle istituzioni in rete, un forte accento è posto sul tavolo tecnico che opera a

livello provinciale nell’integrazione di analoghi tavoli operativi che agiscono nei

singoli distretti.

Un protocollo fra le istituzioni, questo del 2007, che per essere stato il primo

“ufficiale” è divenuto un modello da proporre, essendo stato allegato a una Direttiva del

Ministero degli Interni ai Prefetti nel marzo 2009 perché promuovessero altre iniziative

simili nelle Province.

Dopo qualche mese, a seguito di un percorso formativo interistituzionale e

interdisciplinare del Distretto di Modena, gli auspicati approfondimenti ulteriori

trovano un’articolata e dettagliata messa a punto nel protocollo Operativo per lo

sviluppo della rete distrettuale di Modena finalizzata all’accoglienza e

accompagnamento delle donne che subiscono violenza. Il protocollo operativo è un

documento che entra nel dettaglio delle possibili situazioni di violenza e dei

comportamenti che debbono tenere i soggetti coinvolti per accogliere correttamente le

donne in stato di bisogno e per costruire una buona relazione che sviluppi la loro

94
fiducia, nonché dei diversi servizi offerti dalle associazioni: in pratica sono linee guida

per chi opera nei diversi enti.

C’è ancora da segnalare, per completare il quadro istituzionale,

che l’Amministrazione provinciale, dando seguito al percorso intrapreso, ha

successivamente approvato (7 maggio 2008) il Piano strategico contro la violenza alle

donne, “pensato come contenitore di azioni, politiche e servizi ispiratesi, a livello

metodologico, al modello dello sviluppo umano studiato nel Bilancio di genere della

Provincia di Modena” e in specifico nell’Asse di sviluppo “Controllo sul proprio corpo,

sulla propria integrità e controllo sulla propria mobilità che riguarda il sentirsi sicure e

vivere in spazi adeguati in famiglia, al lavoro, nella città”: un asse che sollecita con

azioni trasversali politiche sociali e sanitarie, culturali, del lavoro, della formazione

nonché economiche e abitative.

Tale Piano strategico si è sviluppato in incontri con gli amministratori pubblici, sindaci

e assessori dei comuni della provincia, per portare avanti la realizzazione delle reti fra i

soggetti e i servizi nei diversi distretti come stava avvenendo nella città capoluogo:

azioni che vedono la Provincia sostenere la formazione di base e specialistica attraverso

seminari sullo stalking e sulla violenza in collaborazione con l’Università di Modena e

Reggio Emilia e progetti di reinserimento lavorativo sul versante delle donne- vittime.

E ancora viene dichiarata la necessità di coinvolgere tutti i comuni della Provincia

mediante referenti da loro indicati.

95
Considerando in particolare il lavoro condotto dal tavolo tecnico della rete distrettuale

di Modena, i soggetti che ne fanno parte hanno lavorato a realizzare dépliant

informativi sui diversi punti della rete per le donne, azioni formative rivolte alle scuole

superiori con uno specifico progetto “Insieme contro la violenza- Ricostruiamo la

fiducia”, una scheda tecnica di definizione degli “eventi sentinella” per riconoscere la

violenza sommersa, la definizione di un protocollo operativo per l’emergenza/urgenza e

di percorsi legati alla violenza sessuale specie rispetto alla refertazione (sul piano

provinciale), percorsi formativi all’interno delle singole organizzazioni e la

costruzione di una mappa di rete che garantisca a tutti i nodi le medesime informazioni

aggiornate.

Alcune azioni sono già state realizzate come i dépliant informativi, altre più complesse

sono in via di completamento, in particolare: la mappa della rete perché vi sia un

approccio pluridisciplinare in tutti i punti, il protocollo emergenza-urgenza e i percorsi

di accoglienza legati alla violenza sessuale e alla refertazione, la definizione degli

“eventi sentinella” che individuano la violenza sommersa. La formazione, progettata da

un gruppo ristretto, si è già rivolta all’interno delle diverse organizzazioni e si estenderà

a nuove figure professionali quali quelli di medicina generale e i pediatri, ad altre sedi

dal Policlinico all’ospedale civile ai Consultori.

In particolare appaiono importanti alcune riflessioni generali sugli elementi

nuovi che solo il lavoro di rete fra soggetti diversi sta producendo: innanzitutto come il

96
sistema riconosca ora in modo omogeneo la violenza; inoltre come, ai singoli

operatori/operatrici che l’affrontano “faccia a faccia”, dia aiuto per gestire le forti

emozioni che essa suscita e allo stesso tempo faccia sì che uomini e donne riconoscano

appieno la responsabilità delle loro azioni, vuoi che si tratti dei medici del pronto

soccorso, vuoi che si tratti dei carabinieri o della polizia.

In sintesi, il lavoro di tenere insieme le diverse realtà istituzionali a Modena ha

ricevuto un impulso notevole dal protocollo e dalle successive articolazioni operative.

La gestione del tavolo è opera di un gruppo che lavora con continuità e ha stabilito

buone connessioni con figure chiave delle singole organizzazioni, “figure capaci di

veicolare messaggi che diventano propri dell’organizzazione”.

4. Parma: il Protocollo d'intesa per la prevenzione e il contrasto delle

Violenze nei confronti delle donne

A Parma è l’Amministrazione della Provincia che il 29 marzo 2007, su

proposta delle Assessore componenti la Giunta e delle Consigliere di Parità cui viene

affidata la realizzazione, adotta il Progetto Provinciale Azioni di Prevenzione e

Contrasto della Violenza sulle Donne. Innanzitutto, ed è un fatto rimarchevole, il

Progetto impegna dall’inizio tutti i Comuni della provincia sollecitando la loro iniziativa

97
e responsabilità in azioni di sensibilizzazione, prevenzione e sostegno alle donne come

parte delle strategie locali volte alla realizzazione del benessere delle cittadine e dei

cittadini.

Il Progetto provinciale istituisce quindi due organismi, un “tavolo politico” avente il

compito di valutare l’andamento del progetto e un “tavolo tecnico-operativo” per

predisporre adeguate modalità di realizzazione degli interventi.

Le azioni del Piano di azione provinciale, facente perno sulle competenze della

Provincia hanno riguardato:

a. la formazione congiunta Violenza contro le donne: un lavoro in rete. Cosa fare

quando una donna che ha subito violenza chiede aiuto , rivolta a operatori e operatrici

dell’Azienda USL, dell’Azienda Opedaliera universitaria, dei Servizi sociali dei

comuni, del Centro antiviolenza, delle Polizie municipali, della Polizia e dei

Carabinieri, del terzo settore si è conclusa con la pubblicazione di una Guida.

b. il vademecum “Quando una donna che ha subito violenza chiede aiuto”, rivolto alle

donne, realizzato anche in francese, inglese, arabo, russo;

c. la ricerca intervento “Rappresentazioni di genere e violenza privata” in

collaborazione con l’Università di Parma/Dipartimento di psicologia e con lo Spazio

Giovani dell’Ausl; lo studio ha coinvolto 900 ragazzi e ragazze dai 16 ai 20 anni delle

classi seconde e quarte di scuole superiori e di enti di formazione professionale i cui

risultati sono stati esposti in un seminario di studio finale;

98
d. il premio “Colasanti Lopez” rivolto a progetti elaborati dalle scuole superiori in

diverse forme, dai disegni alla fotografia, da spot a rappresentazioni teatrali, per

sensibilizzare al tema della violenza;

e. l’Osservatorio provinciale sulla violenza contro le donne, a cura delle consigliere

di parità per monitorare il fenomeno della violenza e produrre una mappatura dei servizi

e dei soggetti che operano nel campo della violenza al fine di metterli in relazione e

contrastarne la separatezza e l’isolamento;

f. il Codice di condotta per la lotta contro le molestie sessuali e la tutela della dignità

sul lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori adottato nei 18 comuni della provincia.

Dal gruppo di lavoro del tavolo tecnico operativo e dalla formazione congiunta è

scaturita da un lato una proposta di protocollo di intesa operativo tra gli enti e le

istituzioni partecipanti; dall’altro la necessità di disporre di un Servizio di reperibilità

sociale e di un Servizio di pronta accoglienza residenziale in emergenza valido per i

diversi distretti di Fidenza, Sud Est, Comunità Montana Valli Taro e del Ceno (oggi ASP

Cav. Marco Rossi Sidoli), Parma. Approvato dalla Giunta Provinciale e col sostegno

finanziario anche dei 42 comuni, inizia ad operare nel marzo 2010: in tal modo è

assicurata l’accoglienza a donne in stato di bisogno durante la chiusura degli uffici la

sera e la notte dei giorni feriali (dalle 18 alle 8 e dalle 14 il venerdì) e 24 ore il sabato e i

giorni festivi.

99
Molte le attività avviate, dunque, con l’investimento e il coordinamento della

Provincia che proseguono con una nuova campagna di comunicazione sociale e un

progetto biennale nell’ambito di Daphne III nel 2010.

Il fatto nuovo è dato dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con legge 23 aprile

2009, n. 38, recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla

violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, che induce la Prefettura di Parma

a predisporre un protocollo di Intesa per la Prevenzione e il Contrasto delle Violenze nei

confronti delle Donne che l’8 luglio 2009 viene firmato da Prefettura, Presidenza del

Tribunale, Procura della Repubblica, Provincia, Comune di Parma, Questura, Comando

Provinciale dei Carabinieri, Comando Provinciale della Guardia di Finanza, Polizia

Municipale del Comune, Azienda Unità Sanitaria Locale, Azienda Ospedaliero-

Universitaria, l’Ufficio Scolastico Provinciale, l’Ordine degli Avvocati, le Consigliere

di Parità, il Centro Antiviolenza di Parma.

Si tratta per buona parte degli stessi enti partecipi al gruppo di lavoro provinciale

insieme ad altri là non ancora presenti come il Tribunale e la Procura della Repubblica,

che ora non possono sottrarsi a una formalizzazione degli obiettivi e delle procedure

voluta dalla Prefettura. Il testo del protocollo, infatti, che nella Premessa si richiama

espressamente al Decreto e alla successiva legge 38/2009 che apporta modifiche ai

Codici Penale e di Procedura Penale, recita che “per il conseguimento degli obiettivi di

razionalizzazione del percorso investigativo - giudiziario e di coordinamento dei vari

100
interventi di sostegno alle vittime può rappresentare utile strumento di raccordo

interistituzionale la redazione di un protocollo d’intesa fra i di versi enti competenti,

che, in linea con le previsioni e la ratio del sistema normativo, impegni gli operatori sul

territorio al rispetto di regole condivise”. Anche questo protocollo , nei diversi articoli,

fissa i compiti di ciascuna istituzione e associazione a cominciare dalle iniziative nel

settore processuale e penale.

A Parma, dunque, su un terreno di relazioni e iniziative fruttuose predisposte

dall’azione della Provincia -il cui Progetto provinciale viene espressamente

riconfermato- si innesca l’iniziativa della Prefettura che formalizza ruoli e compiti di

tutte le istituzioni, enti e associazioni, facendo preciso riferimento alla recente

legislazione nazionale su sicurezza, violenza sessuale e stalking. Ed è la Prefettura di

Parma, “nel ruolo di rappresentanza generale del Governo nella provincia”, che

assume il coordinamento delle iniziative indicate nel protocollo della durata

sperimentale di un anno, con l’impegno di promuovere momenti comuni di analisi

del funzionamento dei dispositivi operativi e di riferirne periodicamente agli organismi

nazionali.

101
5. L'esperienza e la rete dei servizi del centro uomini maltrattanti
“Liberiamoci Dalla Violenza” di Modena

È riconosciuto che la violenza in famiglia rappresenti un grave problema di salute

pubblica e violazione dei diritti umani, come tale meritevole della massima

attenzione e dell’attivazione di tutte le risorse potenziali di Enti e Istituzioni.

Liberiamoci Dalla Violenza è il primo Centro in Italia interamente pubblico, attivo nel

Sistema Sanitario Regionale, di trattamento psicologico per uomini che agiscono

violenza in ambito domestico. Il Centro si caratterizza come uno spazio a libero

accesso, situato in locali del Consultorio Familiare del Distretto Sanitario della città di

Modena, in un tempo dedicato, per il momento un pomeriggio alla settimana, nato con

l’intento di affrontare un problema difficile e complesso come quello della violenza

esercitata dall’uomo sulla propria partner e indirettamente sui figli.

Il comportamento violento agito dall’uomo in ambito familiare ha origine in prevalenza

da “disagio o disturbo della relazione”, generalmente non si riscontrano cause

psicopatologiche (per esempio disturbi di personalità narcisistico o paranoide) bensì

cause psicologiche normali come le frustrazioni o lo stress cronico che influiscono

sull’approccio al conflitto di coppia alterandone lo svolgimento fino alla comparsa di

forme di comportamento di violenza psicologica e, al limite, anche fisica. Il soggetto a

102
cui lo psicologo clinico rivolge l’intervento è l’uomo con le sue modalità

comportamentali, i suoi vissuti, le dinamiche intrapsichiche ed interpersonali, i sistemi

di relazione, le motivazioni e gli scopi. Non tutti questi aspetti possono essere affrontati

per intero nel corso del trattamento, che parte e si focalizza soprattutto su due aspetti:

la gestione della rabbia e la messa in atto di comportamenti diversi dalla violenza, in

una cornice in cui l’uomo riconosce la propria responsabilità negli atti compiuti e si

impegna fin dall’inizio per il cambiamento.

A volte l’uomo, come padre, riconosce anche il fatto che l’incapacità di fronteggiare

le problematiche all’interno delle relazioni familiari e l’inadeguatezza degli adulti

ricadono pesantemente sui figli. Sicuramente a livello sociale e scientifico è ormai

ampiamente riconosciuto che una buona fetta dei problemi della nostra società (dalla

criminalità alle tossicodipendenze a buona parte di malattie quali ansia, depressione,

cefalea etc.), ha origine proprio dai comportamenti violenti che i bambini subiscono

nell’infanzia, direttamente o da spettatori. È naturale quindi che siano nati e si siano

sviluppati nel mondo scientifico filoni di studio che cercano di comprendere meglio e

ridurre o eliminare i danni in età evolutiva derivanti dall’esposizione ai comportamenti

violenti dei genitori. All’interno di questa logica e di questi obiettivi si inserisce il

Centro LDV assumendo una finalità di tutela delle parti più deboli della nostra società,

il minore e la donna, sia immediata, facendo cessare i comportamenti violenti, sia

preventiva, riducendo fortemente il rischio di reiterazione. Per realizzare queste

103
complesse e impegnative intenzioni occorre certo lo sforzo di una equipe qualificata e

coesa, ma anche il contributo dei tanti soggetti ed enti che vengono coinvolti a vario

titolo nella tematica della violenza.

Dal momento che sono previsti sia l’accesso diretto che l’invio, il Centro

rappresenta a volte il primo punto di contatto con la rete dei servizi, altre volte

costituisce una fase di intervento in una sequenza di altri percorsi della rete già attivati.

La conoscenza del Centro per i potenziali fruitori ed invianti è stata facilitata

attraverso l’attivazione di un n.° di cellulare dedicato attivo 5 giorni alla settimana e di

un indirizzo e-mail; si è proceduto inoltre alla distribuzione capillare del depliant nei

possibili punti di passaggio dell’utenza, cosi, ad esempio, la persona può trovare e

leggere l’opuscolo del Centro al punto di accesso del Pronto Soccorso o nella sala

d’attesa del Medico di Medicina Generale. In questo modo, la stessa informazione

dell’esistenza del Centro è stata divulgata il più possibile all’interno della rete

costituita dalle ampie collaborazioni inter-professionali organizzative sanitarie,

sociosanitarie e sociali presenti nel territorio. Per poter realizzare e promuovere nel

tempo il mantenimento e consolidamento di una rete efficace l’apertura del Centro è

stata preceduta da una lunga e accurata fase di divulgazione e condivisione delle

funzioni e ruolo del Centro con gli attori–servizi, altri potenziali nodi per la rete sulla

violenza.

104
Gli operatori del Centro hanno quindi creato occasioni di incontro con le

equipe/operatori dei servizi sanitari e sociali: del Consultorio Familiare in prima istanza

e con i servizi del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche, del Pronto

Soccorso dell’Ospedale e con le equipe psico sociali di Tutela Minori dei sette distretti

della provincia. Nel Dipartimento Salute Mentale si sono effettuati incontri con i Centri

di Salute Mentale Adulti, Dipendenze Patologiche, Neuropsichiatria Infantile,

Psicologia Clinica. Nell’Ausl di Modena gli psicologi, che appartengono al Settore di

Psicologia del Dipartimento Salute Mentale, operano in integrazione multiprofessionale

nei servizi territoriali ed ospedalieri e in integrazione con i servizi sociali minori e

hanno la gestione di centri di psicologia clinica su adolescenti, adulti e famiglia

costitutivi di percorsi di diagnosi e cura nella rete dei servizi sanitari e sociosanitari

territoriali. Gli incontri hanno permesso di creare e condividere conoscenza, nei

servizi,sul tema della violenza e di cominciare a costruire interfacce tra il Centro e gli

altri nodi della rete. L’obiettivo è quello dell’integrazione stabilendo chi fa che cosa e

con chi al fine di costruire procedure e percorsi consolidati che agevolino il buon

funzionamento dell’attività. Come si intuisce, questo aspetto è essenziale soprattutto

nelle situazioni in cui il bisogno dell’uomo che chiede di essere accompagnato verso

una nuova modalità comportamentale e di esistenza ha origine e conseguenze

riguardanti non solo l’ambito psicologico, ma relazionale, sociale, giuridico o

psichiatrico. In ogni caso, il cambiamento personale dell’uomo comporterà di sicuro

105
variazioni significative nella sua vita personale, ma anche nelle relazioni familiari ed

affettive. La rete dei servizi è chiamata non solo a facilitare l’accesso degli uomini al

Centro LDV, ma anche a riceverne gli esiti dagli operatori, dall’uomo stesso e dai suoi

familiari per modulare al meglio i successivi interventi.

Quindi, ad esempio, inizialmente il Servizio di salute mentale o lo psicologo della

Tutela Minori favoriscono e motivano l’uomo–padre a richiedere aiuto per il proprio

comportamento violento al Centro, successivamente il Centro lo accoglie e valuta

concordando con l’uomo il trattamento, infine l’andamento e gli esiti del percorso

vengono restituiti agli invianti. Il percorso presso LDV e gli esiti del trattamento

individuale e/o gruppale costituiscono una parte rilevante del progetto integrato

sociosanitario. Il Centro e le sue modalità di lavoro e di invio dei pazienti sono stati

presentati al Dipartimento di cure primarie (MMG e PdLS) che sono una grande risorsa

nella rete dei servizi per la loro capillarità e per l’elevato numero di contatti con i

cittadini.

Un ruolo particolare all’interno della rete viene ricoperto dall’Associazione Casa

delle donne, presente da oltre un ventennio nel nostro territorio, a riprova del fatto

che fino ad ora sono state le donne vittime della violenza a chiedere aiuto e cercare di

modificare comportamenti e cultura. Le case contro la violenza alle donne hanno svolto

in questi anni un ruolo importante e significativo a favore delle parti deboli, oggi nel

nostro contesto cittadino e provinciale l’Associazione casa delle donne è un partner di

106
elezione del Centro LDV. L’associazione nasce nel 1990 dal desiderio di un gruppo di

donne di darsi una forma stabile di organizzazione per una duplice finalità: sostenere

altre donne che, avendo subito violenze decidono di non accettare più il silenzio e, nel

contempo, rendere visibile - nelle sue dimensioni, nella sua gravità - il fenomeno della

violenza alle donne. L’associazione si avvale di operatrici retribuite e volontarie che

hanno sviluppato specifiche competenze nella relazione di aiuto tra donne e sostiene che

è tra donne che si progetta un percorso di cambiamento che prevede maggiori possibilità

di scelte autonome. Le operatrici del Centro già in rete con i servizi dei Consultori e con

i servizi del CSM, Psicologia Clinica e Sert hanno effettuato congiuntamente con gli

operatori della Sanità e del Sociale la formazione svolta a Modena dal Centro ATV.

Dopo l’apertura del Centro LDV la connessione tra i due Centri è periodica e si

mantiene un’integrazione sulle singole situazioni, ma in futuro si ipotizza di individuare

e costruire nuove forme strategiche di intervento.

Infine, ma non perché residuo si è attivata la connessione per invii e forme di

consulenza reciproca tra sanità e magistratura. Dall’apertura del Centro, il Tribunale

Ordinario è stato coinvolto presentando il progetto LDV e le possibili integrazioni tra i

due enti ad esempio sulle modalità d’invio e sulla tipologia di persone che potrebbero

farne parte. C’è inoltre l’intenzione di avviare percorsi di collaborazione con la

magistratura Minorile nella parte di lavoro riferita alla genitorialità paterna.

107
Gli istituti penitenziari sono un altro punto della rete, anche grazie alle relazioni

instaurate nella prima fase di ricerca del progetto che ha coinvolto direttamente gli

istituti penitenziari di Modena e Reggio Emilia. Il Centro LDV non interviene

ovviamente all’interno del carcere ma è disponibile a concordare, con i professionisti

che lavorano all’interno, percorsi di presa in carico al momento dell’uscita dal carcere;

si tratta in tutti i casi di percorsi non di tipo coercitivo.

Sono inoltre stati avviati contatti con i Centri per le famiglie della Provincia di Modena

per riflettere a proposito di tale problematica e di possibili invii

108
Parte 2. Caso di studio: percorso di formazione interistituzionale “La

violenza sulle donne e i loro figli”

✔ NOTA METODOLOGICA

La delibera della Giunta Regionale Emilia Romagna n. 2096 del 27/12/2010 ha

assegnato risorse economiche alle Ausl per l’organizzazione e gestione di corsi di

formazione per la tutela e il sostegno delle donne vittima di violenza con particolare

attenzione alla violenza familiare e ai minori coinvolti.

CONTESTO: la proposta formativa: “LA VIOLENZA SULLE DONNE E I LORO

FIGLI”, elaborata nell’ambito della collaborazione tra Azienda Usl di Parma e

Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università di Parma, con l’intento di dare

attuazione agli obiettivi regionali ed è rivolta a specifici operatori del settore (operatori

dei servizi sanitari e sociali, dei reparti di ginecologia/ostetricia, dei pronto soccorso,

delle Associazioni di volontariato, delle Forze dell’Ordine.

Inoltre è stata dedicata una giornata formativa dove si è approfondito il progetto

dell’AUSL di Modena “Liberiamoci Dalla Violenza”, il primo servizio di aiuto per gli

uomini maltrattanti finanziato da ente pubblico.

109
OBIETTIVI DEL CORSO: favorire l’elaborazione di conoscenze già acquisite circa il

fenomeno della violenza sulle donne e della violenza intrafamiliare, conoscenze

cumulate dagli operatori del settore durante il loro lavoro e/o percorsi di formazione

inter-istituzionali realizzati dal coordinamento provinciale.

Lo scopo è quello di capire quali rappresentazioni sociali si sono sedimentate nell’agire

professionale e come esse guidano l’operato quotidiano; prendere consapevolezza di

come la nuova formazione sia stata acquisita e come essa abbia incontrato le diverse

culture/visioni sulla violenza.

L’obiettivo principale è quindi quello di insistere su una formazione particolarmente

interattiva che liberi e legittimi la condivisione di idee e, soprattutto, di azioni nell’ottica

della tutela della salute e di un lavoro di rete maggiormente efficace.

La formazione è stata impostata sull'idea di Empowerment dell'operatore, dell'utente e

della comunità. Due elementi sono stati messi al centro del lavoro:

✔ Forme di ascolto precoce e maggiore coinvolgimento della Comunità nel

problema ‘violenza sulle donne’;

✔ Cura delle reti di collaborazione:

✔ Definire e rielaborare le linee guida già esistenti alla luce di quanto condiviso

e aggiornate rispetto ai contatti: la messa a punto di un sistema interno

all’Azienda USL e interistituzionali a partire da un aggiornamento dei referenti e

110
da una rivisitazione partecipata e concorde delle linee guida elaborate negli anni

precedenti dalla Provincia.

FORMATORI E CONDUTTORI DEL FOCUS GROUP:

• dott. ssa Vincenza Pellegrino - Docente di Metodologia della ricerca sociale al

Master in comunicazione e sociologia della scienza nel polo di eccellenza della

Scuola Internazionale di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, è stata dottore di

ricerca in Antropologia demografica presso l’Université de la Méditerranée di

Marsiglia.

• Dott. Marco Deriu - Ricercatore e docente in Sociologia dei processi culturali e

comunicativi presso l’Università di Parma, parte della redazione del

quadrimestrale “La società degli individui”, è membro dell’Associazione per la

Decrescita e dell’Associazione “Maschile plurale”.

METODI:

BRAINSTORMING letteralmente tempesta cerebrale, semanticamente tempesta di

idee, è una tecnica di creatività di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di

un problema. Sinteticamente consiste, dato un problema, nel proporre ciascuno

liberamente soluzioni di ogni tipo (anche strampalate o con poco senso apparente) senza

che nessuna di esse venga minimamente censurata. La critica ed eventuale selezione

interverrà solo in un secondo tempo, terminata la seduta di brainstorming.

111
Il risultato principale di una sessione di brainstorming, che apparentemente sembra un

metodo sciocco e quasi infantile, è invece in genere molto produttivo: può consistere in

una nuova e completa soluzione del problema, in una lista di idee per un approccio ad

una soluzione successiva, o in una lista di idee che si trasformeranno nella stesura di un

programma di lavoro per trovare in seguito una soluzione.

(Il brainstorming. Pratica e teoria; Bezzi Claudio; Baldini Ilaria)

FOCUS GROUPS è uno strumento di rilevazione delle opinioni e delle dinamiche

processuali attraverso cui le opinioni prendono forma.

Il focus Groups è una sorta di intervista di gruppo dove si vogliono evidenziare le

modalità di argomentazione presenti nel gruppo rispetto ad un tema, gli elementi di

convergenza/divergenza rispetto a punti comuni.

La tecnica del focus group è stata ritenuta particolarmente adatta per le finalità cognitive

del lavoro: pur nelle differenti pratiche di utilizzo nella ricerca sociale, il tratto

caratteristico di questa tecnica è quello di far «parlare tra loro» un gruppo di persone,

modalità che «permette il recupero dell’interazione nella rilevazione delle opinioni»

Nello specifico utilizzo qui descritto il focus group è stato anche l’occasione di un

confronto interno alla rete locale tra i vari soggetti che la compongono e che, sotto lo

stimolo delle domande che componevano la traccia di discussione, si sono trovati a

riflettere sulle loro modalità di relazione e sulle prospettive future della rete. La

possibilità che tale tecnica offre di «formarsi un’opinione anche nel corso della

112
discussione o di modificare quella presa inizialmente» si è rivelata uno strumento utile

per gli stessi soggetti della rete: ha consentito di rilevare positività e criticità così come

espresse dai vari soggetti, che contemporaneamente hanno fatto della traccia di

discussione uno strumento di auto-diagnosi e di autovalutazione.

(Il focus group, S. Corrao, 2000).

TEATRO DELL'OPPRESSO Il Teatro dell'Oppresso è un metodo teatrale che

valorizza l'aspetto conoscitivo e trasformativo del teatro. Si colloca quindi nel teatro

politico, inteso come teatro che vuole sollecitare la partecipazione attiva dei cittadini

alla polis, alla cosa pubblica. L'obiettivo del TdO è quello di accrescere l'empowerment

individuale, di gruppo e sociale in svariati modi, potenziando la capacità di analizzare e

trasformare le situazioni problematiche.

A livello individuale il TdO agisce fondamentalmente accrescendo la consapevolezza

delle proprie oppressioni, ovvero delle situazioni di monologo in cui ci troviamo

immersi nella società. Il Monologo, in senso boaliano, è una situazione in cui una parte

prevarica sull'altra, non la lascia esprimere. Il TdO vuole rafforzare la capacità della

parte debole di dire la propria “parola sul mondo” (Freire), in connessione con gli altri

che vivono situazioni simili, in solidarietà, per cercare il dialogo. Il Dialogo, in senso

boaliano e freiriano è una relazione paritaria dove i due interlocutori esprimono le

proprie esigenze fondamentali, senza prevaricare. A livello di gruppo il TdO agisce

similmente, rafforzando la capacità di percepire il “noi oppressi” ovvero le situazioni

113
simili di disagio, di conflitto, di ingiustizia, a cui far fronte collettivamente in modo più

coordinato (in termini di letture) e concreto (in termini di dinamiche reali e non

astrazioni).

A livello istituzionale il TdO si muove per cercare di cambiare i rituali

istituzionali e rafforzare le parti deboli (cittadini come utenti, ma anche operatori in un

sistema che cambia) in relazione alla struttura organizzativa che può perseguire obiettivi

e finalità lontane dal benessere o dagli scopi ufficiali dell'istituzione.

Nel corso si è utilizzato in modo particolare il Teatro-Forum, la tecnica più

diffusa e conosciuta, quella più ricca e che meglio rappresenta l'essenza del TdO; qui a

differenza della drammaturgia simultanea, lo spettatore non suggerisce ma agisce in

scena, diventa spett-attore: da “spectare” e “actuare” (adempie alle due funzioni di

osservare ed agire che sono le due facce del teatro come capacità di vedersi in azione).

Il Teatro-Forum è basato su una storia che rappresenta una situazione negativa,

oppressiva; il Modello è presentato una prima volta, quindi il pubblico è chiamato a

intervenire e cercare alternative e soluzioni, sostituendosi inizialmente al solo

Protagonista. Il conduttore del Forum, chiamato Jolly, non giudica i diversi interventi,

ma interpella il pubblico sulla realtà ed efficacia delle soluzioni proposte,

problematizzandole. Quindi è uno spettacolo che pone una domanda al pubblico, non

porta una verità già preconfezionata. In questo modo suscita la partecipazione della

114
popolazione creando una responsabilizzazione per la comunità ed ha come conseguenza

possibile quella di accrescere l’empowerment.

ANALISI DEI RISULTATI:

L’opportunità di confrontare aspetti “tecnici” e pragmatici quale il funzionamento della

rete ha permesso di raccontare tali realtà confrontando e valutando l'esigenza di un

percorso condiviso:

• Quali le modalità di lavoro della rete?

• Come progettare il funzionamento?

• Con quali strumenti?

• Quale l’organizzazione effettiva che essa si dà sul territorio?

• Come favorire l'accesso delle donne vittime di violenza?

• Come moltiplicare i corridoi d'accesso nei servizi ?

• Come favorire l'ascolto anche di tipo non istituzionale?

Tali interrogativi sono diventati la traccia dei Focus Groups discussi e condivisi

all'interno del gruppo interistituzionale.

ALTRO:

Alla formazione ne è seguita un'altra specifica per il sostegno dei progetti pilota di

formazione degli operatori sanitari sulla prima assistenza alle vittime di violenza di

genere e stalking: ”L’accoglienza ospedaliera alle donne vittime di violenza”.

115
Il progetto è articolato in due fasi: l’attività di formazione del personale del Pronto

soccorso e dell’unità operativa di Ostetricia e ginecologia, per elevare negli operatori la

capacità di relazionarsi con le vittime di violenza, e la creazione di una procedura

interna per migliorare e standardizzare l’accoglienza della vittima. perché l’assistenza

alle donne vittime di violenza richiede, oltre ad interventi in emergenza di diagnosi e

terapia, la capacità da parte degli operatori di creare un setting idoneo all’ascolto per far

emergere la sofferenza legata alla violenza e facilitare la formulazione di una richiesta

di aiuto. Il seguito, qualora sia condiviso dalla donna, è l’attivazione di una rete di aiuto

e di sostegno in stretta interconnessione con il territorio e con il volontariato sociale.

1. DEFINIZIONI DI EMPOWERMENT11:

- Per empowerment dell’operatore possiamo intendere quei processi in cui l’operatore

trova il modo di ‘aderire nuovamente’ alla mission istituzionale della quale è

depositario, trova il modo cioè di incidere nella declinazione quotidiana dei compiti, in

modo tale da condividere con l’istituzione (o la rete di istituzioni in questo caso) un più

comune obbiettivo;

11 L’empowerment dei servizi sociali e sanitari. Tra istanze individuali e necessità collettive A. M. Nicoli, V.
Pellegrino, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2011

116
Vale a dire, perché dire “oggi a volte ci vuole una formazione dal basso – che non

insegni nulla ma ascolti il sapere già esistente – se vogliamo digerire i conflitti

istituzionali nei quali abitiamo”?

Si moltiplicano oggi i contesti in cui un problema sociale è marcatamente

interistituzionale – cioè è affidato a istituzioni diverse, nei suoi diversi momenti o

aspetti – ma tali istituzioni stanno assumendo paradigmi evolutivi diversi. Vi sono cioè

tensioni tra:

✔ avanzata e regressione dei linguaggi giuridici: si moltiplicano i “tribunali dei

malati” o le cause fatte ai servizi, ma si mostra anche l’inefficacia dello

strumento giuridico davanti a problemi che hanno natura sociale e affettiva

come, ad esempio, la violenza. In che modo impostare le azioni istituzionali?;

✔ avanzata e regressione dei linguaggi tecnici: le persone contestano gli esperti

pensando di poter paragonare diversi esperti tra loro e rendendosi esperti con

una auto-formazione, ma d’altro canto delegano sempre di più la risoluzione dei

problemi sociali alla professionalità tecnica e alle istituzioni. Come dirimere

questa ambivalenza? Accettare o meno l’ampliarsi delle richieste in un clima che

delegittima le competenze, o respingerle?

A queste e altre domande, i diversi servizi rispondono diversamente. Ad esempio nel

caso delle donne che subiscono violenza, i servizi che si occupano di adulti sentono la

limitatezza degli strumenti giuridici – gli operatori arrivano troppo ‘post’ ovvero quando

117
la situazione è già esplosa e non sono stati invece efficaci a ridurre l’aggressività

maschile come si vorrebbe – e tornano ad un forte desiderio di lavoro sociale

istituzionale (i servizi che scendano nella comunità e si occupino di prevenire e guidare

i processi), mentre i servizi per minori sentono che le istituzioni devono regolare più

fortemente il diritto, renderlo precetto efficace per difendere chi in realtà non può

attivare efficacemente strumenti o processi collettivi poiché è troppo piccolo.

Tutto ciò è apparso nei dibattiti del corso, che hanno confermato queste trasformazioni

in atto.

Sui nodi tematici -genitorialità violente e diversi sguardi sull’argomento- ci si è

interrogati se “è utente la donna o è utente la società”, (centri antiviolenza per donne e

centri di cura e riabilitazione degli uomini violenti), ma è chiaro di come siano ambiti

in cui le posizioni individuali e istituzionali non sono lineari o semplicemente

riconducibili ad un accordo, anche poiché appunto siamo immersi in culture

differenziate rispetto alla violenza all’interno delle istituzioni.

Abbiamo inoltre visto come il problema della violenza familiare riguardi ormai

le masse ‘allontanatesi’ dai servizi, in una sorta di esodo dalla cittadinanza condivisa,

poiché pensano all’autonomia individuale come ad un valore (il processo di

emancipazione e di individualizzazione porta questo indotto) e difficilmente si

identificano con chi chiede aiuto, ecc.

118
In questi specifici contesti, l’operatore è ‘tirato’ tra le diverse interpretazioni ma

soprattutto è tirato tra diverse prassi consolidate e in parte inconsapevolmente poggiate

su letture diverse rispetto all’angolatura del problema: la presa di distanza dalla violenza

maschile come violenza collettiva, la difficile assunzione dei processi collettivi, lo stress

di fare cose ‘giuste’ per alcuni servizi, ma criticate da un altro pezzo dei servizi e non

desiderate dall’utenza, ecc..

Vi è incertezza e soprattutto ‘scollamento’ dalla propria istituzione, stanchezza,

‘oscillazione’. L’operatore quindi si trova ad essere una ‘MEMBRANA’ tra:

culture istituzionali diverse; livelli istituzionali diversi; membrana tra utenti e

istituzioni. ‘L’operatore membrana’ – come emerso nelle discussioni – oscilla:

empatizza con utente, bastona le istituzioni, allo stesso tempo esegue, critica e quindi

delegittima. Per uscire da questi conflitti bisogna vederli, digerirli, giocarli.

Certo su questo gli operatori sono disponibili, ma ancora una volta ambi-valenti: quando

va tutto bene il lavoro di gruppo produce nuove immagini efficaci e tutti sono orgogliosi

di aver discusso le questioni ‘dal basso’; quando si rallenta o si confligge, la

responsabilità è di chi facilita e si torna a chiedere ricette. Ma tutto questo è normale

per la formazione ‘dal basso’.

- Per empowerment dell’utente si intende solitamente un percorso di servizio o

accompagnamento nel disagio che renda la persona consapevole delle proprie risorse e

capace di riformulare insieme a chi lo aiuta un’idea di ‘meglio-stare’, insomma che lo

119
renda capace di incidere sul proprio problema e scegliere l’iter giusto per uscirne, tra i

tanti;

- Per empowerment della comunità possiamo intendere quei processi che permettono

alla comunità di riflettere sui propri problemi e di riappropriarsi di risposte collettive,

senza più rimandare solo al livello individuale di chi strettamente coinvolto, o senza più

pensare alla delega totale ai servizi e al loro approccio professionale. L’attivazione dei

cittadini in relazione alle strutture socio-politiche e allo sviluppo delle loro capacità di

incidere sulle trasformazioni sociali. A questo livello si considera il processo di

acquisizione di potere di gruppi di individui, siano essi parte della medesima

organizzazione, abitanti di un medesimo quartiere, cittadini accomunati dal desiderio di

agire per il bene della propria comunità (ad esempio iniziative in cui i cittadini e i

professionisti sono parte attiva nei percorsi di valutazione dei servizi, di miglioramento

degli stessi e sono attivi nella loro gestione, come nella mediazione dei conflitti; forme

integrate di collaborazione: associazione di volontari e professionisti);

Ma cosa si intende per empowerment dell'utente rispetto alla violenza maschile

familiare?

Ovvero, perché occuparci di un maggiore ascolto della donna e un maggiore

coinvolgimento delle reti sociali nel problema?

Il dibattito avvenuto nelle giornate di formazione mette in evidenza la distanza – anche

materiale, come momento concreto - tra Ascolto (raccolgo una storia, una condizione,

120
una richiesta di uscita dalla condizione) e Presa in carico (indico il modo di uscire dalla

condizione di violenza). Vedere la distanza tra questi due momenti dell’agire

professionale è concepire uno spazio materiale (luogo e tempo) per la concertazione di

processi di autonomia con la donna, che spesso non sa come immaginare l’iter e spesso

deve poter riformulare la sua visione di ‘uscita’ dal problema.

I percorsi di ‘raccolta di domande inascoltate’, e poi di ‘riformulazione della condizione

vissuta’, vale a dire aiutando la donna a passare da una generica richiesta di aiuto alla

formulazione del proprio problema, sono spazi del lavoro istituzionale già presenti, ma

che spesso risultano compressi verso la presa in carico già codificata. Oppure

avvengono come forme colloquiali che per alcuni servizi non hanno ancora codifica né

valutazione (si pensi alla richiesta dei medici di pronto soccorso di essere orientati a

raccogliere le storie in maniera appropriata e a identificare il rischio – senza allargarsi a

competenze che non si hanno e restando al contesto specifico sanitario, ma in modo

meno cangevole o legato ai singoli operatori, ecc.). Oppure si immaginano

prevalentemente come forme colloquiali e non come sperimentazioni attive di

cambiamenti (iter di autonomizzazione spinta su elementi professionali della donna o di

socializzazione, ecc.)

E’ emerso quindi dalla formazione che particolare attenzione va messa alla

valutazione e alla ideazione di strategie dell’ascolto e della riformulazione degli spazi di

121
autonomia della donna, quando le condizioni oggettive (il livello della violenza ad

esempio) lo consentano (forme dell’ascolto come strumenti di lettura della storia).

Si è parlato di una riflessione propria a ciascun servizio e diversa secondo il tipo

di servizio, sulla possibilità di raccogliere elementi di lettura del passato e della storia di

violenza; ma anche come valorizzazione maggiore dei percorsi di autonomizzazione, di

valorizzazione di strumenti come ‘piste favorite di collocazione nel lavoro’, ‘sostegno

educativo temporaneo’, non sempre visibili dai servizi, non immediatamente pertinenti e

sottosfruttati, ecc.

Un altro punto importantissimo emerso è quello della distanza tra Intercettazione e

Ascolto nei servizi (empowerment di comunità): è troppo lungo il vuoto tra violenza e

richiesta di aiuto e la comunità è troppo assente, delegante, disinteressata. Abbiamo

perciò parlato di ‘brokeraggio sociale’, cioè di ricerca attiva di persone e di attori che

possano intercettare la prima violenza e aiutare alla sue emersione, aiutare a formulare

‘domande ancora senza forma’.

2. LE PAROLE DELLA DISTANZA TRA GLI OPERATORI

Nel corso del primo incontro tenutosi, nel gruppo di operatori presente si è

aperto un confronto su alcuni nodi concettuali che riguardano il tema della violenza

sulle donne e i loro figli che molto spesso si presentano come conflittuali.

122
Le parole della distanza tra gli operatori sono: vittima, denuncia, genitorialità e

violenza, riconciliazione, il sesso nei servizi, riabilitazione, denuncia. Il Dibattito sulle

parole chiave sviscerate nei gruppi di discussione fa affiorare culture differenziate

rispetto al tema della violenza all'interno delle istituzioni.

È emerso che esistono culture di servizi molto diverse tra di loro; esistono

elementi di resistenza tra operatori che rendono difficile la collaborazione tra i servizi:

diverse culture e tradizioni di servizio, diversa formazione ed egemonia di strumenti

concettuale di analisi ( giuridici, sociali, sanitari), diversa composizione di genere

(maschile, femminile) ma anche procedure differenti rispetto alla presa in carico (donne,

donne con figli minori…), mancanza di conoscenza reciproca ed autoreferenzialità.

Si aprono “faglie culturali” , difficili composizioni di “punti di vista” sulla violenza

familiare che si collocano nello sguardo del minore ora della donna, ora (ma ancora

poco in Italia) dell’uomo violento per renderlo consapevole e possibilmente non

recidivo ora sui contesti generativi della violenza maschile.

Questi nodi, si riflettono sulla capacità di fare rete e sul modo degli operatori di “tessere

la rete” e di “attribuirsi” pezzi di quel percorso condiviso.

123
Alcuni dei nodi emersi cioè quegli elementi che segnano la distanza tra

operatori/servizi:

VITTIMA:

✔ Quale accordo per una forma di ascolto destrutturata e meno stigmatizzante, e


come renderla possibile con strumenti diversi dato che non tutti i servizi sono
uguali per competenze e formazioni?
✔ Quale idea abbiamo della fase di ascolto e quale la sua differenza rispetto alla
presa in carico ?
✔ Diversità di aspettative tra vittima violenza e operatore del servizio
✔ Quali sono i tempi per arrivare a prendere decisione es. di denunciare, di lasciare
il contesto dove si verifica la violenza?
✔ Quali spazi per l’accoglienza? Quali strumenti per la valutazione?
✔ La donna non farà una e unica narrazione, è importante ascoltare, raccogliere la
storia, la denuncia...quali strumenti condivisi la rete può adottare (es. la
“chiavetta USB”)

GENITORIALITA’:

✔ Quali forme di attesa e di negoziazioni della genitorialità in caso di violenza


assistita?
✔ A volte è proprio la paura a rivolgersi ai Servizi, in particolare alle assistenti
sociali, che non permette alla donna di denunciare la situazione di violenza:
✔ Inutile negarlo: esiste esiste il pregiudizio che le assistenti sociali allontanano i
minori;
✔ Non tutti gli uomini violenti esercita, se ne deve occupare il “Comune”

124
IL SESSO NEI SERVIZI:

✔ Perché si parla di violenza di genere?


✔ L'operatore è sessuato?
✔ Un operatore uomo si può occupare di donna vittima di violenza e un'operatrice
donna di uomini autori di violenza?
✔ Ma l'utente ci vede operatore sessuato?

RIABILITAZIONE:

✔ Si può fare qualcosa per questi uomini?


✔ È possibile curare senza pregiudizio?
✔ È necessaria la prevenzione, una sorta di “educazione sentimentale” rivolta alla
società maschile...
✔ Hanno avuto problemi durante l'infanzia, magari sono stati vittime di violenza
anche loro?
✔ Di certo sono una sfida per i servizi...
✔ In Italia abbiamo un ritardo culturale da recuperare e per di più con scarse
risorse,bisognerebbe inventarsi opportunità nuove

DENUNCIA:

✔ Quale uso degli strumenti giuridici ad esempio la denuncia e quale supporto agli
operatori che si sentono o non si sentono di utilizzarli?
✔ Può essere uno strumento per capire e decifrare la storia della donna ?
✔ Quali sono gli elementi organizzativi in un piccolo centro e in città? Come
avviene una denuncia?

125
✔ É un punto di arrivo o di partenza?
✔ Donne e operatori hanno paura e ansia per l’incertezza del percorso futuro;
✔ Solitudine dell'operatore nella denuncia d’ufficio: pensare che non si tratta di un
atto del singolo ma è la denuncia dell’ente/servizio;
✔ Molto spesso “se non è alla frutta” la donna non denuncia e continua a subire in
silenzio, cosa si può fare per far aiutare la donna?
✔ Per il Centro Antiviolenza non è necessaria la denuncia per essere accolte, per il
Comune è “fondamentale”;

3. Mappare le reti

Da un punto di vista operativo, i diversi testimoni istituzionali hanno sottolineato il

permanere di alcune difficoltà legate al coinvolgimento di tutti gli enti interessati al

contrasto e al trattamento della violenza di genere, ossia i Centri Antiviolenza, i servizi

sanitari, sociali, le FF.OO.

Anzitutto si è rilevata un’asimmetria nelle situazioni di partenza dei vari servizi per

quanto riguarda il livello di riflessione e lo stato di avanzamento delle procedure rivolte

al contrasto e al sostegno delle vittime. Se in tutte le realtà si è partiti da un

coordinamento già attivo tra AUSL, Pronto Soccorso e Centri antiviolenza, tuttavia gli

stessi accordi o protocolli, man mano che procede il lavoro di confronto fra i soggetti,

necessitano di essere rivisti, aggiornati e migliorati.

126
ALCUNI FOCUS EMERSI:

“Per le donne vittima di violenza l’accoglienza al momento della denuncia è la stessa

per tutte le altre vittime di reato, le forze dell’ordine non hanno una formazione

psicologica tale da “accogliere” e “accompagnare” la donna, soprattutto nell'Arma

dei Carabinieri sono pochissime le colleghe donna”

“L'ufficiale di Polizia Giudiziaria, che sia Brigadiere o Maresciallo, raccoglie tutti gli

elementi per effettuare la denuncia, molto importante sono i referti rilasciati dai medici

poi non si sa cosa fare; dopo la fase di “ascolto” , dove è possibile farlo vengono

intterpellati i Sevizi o si invita la donna a prendere contatti con l'assistente sociale, il

Centro Antiviolenza,, la rete familiare e/o amicale dopodiché si informa il

compagno/marito che la donna si è allontanata da casa”;

“In molte situazioni si fa un uso strumentale della denuncia; ad esempio nei casi

separazione conflittuale,”

Maresciallo Arma dei Carabinieri, Comune di Collecchio

“Per una donna che vuole denunciare è complicato andare negli uffici della Polizia

Municipale visto che nei piccoli centri,dove si conoscono tutti, l'ufficio è dislocato ad

esempio davanti all'ufficio anagrafe del Comune.”

Polizia Municipale, Comune di Noceto (PR)

127
”Capita molto spesso che le donne si presentano al servizio sociale per chiedere aiuto a

causa delle violenze subite: l'operatore si attiva per valutare la situazione ed elaborare

un progetto di intervento a sostegno della donna. Si accompagna la donna in tutto il

percorso: consulenza legale presso il CAV, si procede con la denuncia,la segnalazione

all'Autorità minorile e la collocazione e succede che la donna dopo torna con il

marito”

Assistente sociale del Comune di Parma area minori e famiglia

“Dal 2006 il Pronto Soccorso si è dotato di piccole procedure interne, è stato fatto un

lavoro di sensibilizzazione degli operatori: quando la donna arriva viene fatta

accomodare (triage), non viene lasciata sola nella sala d’attesa ma spostata in una sala

con più privacy; il medico fa valutazione, spesso viene trattenuta in osservazione, se la

signora se la sente rimane in Pronto Soccorso e se è tarda sera bisogna garantire

anche il letto e protezione ai minori”

“Molto spesso si fa fatica a capire cosa è successo inoltre per le donne straniere è

necessario l'attivazione del mediatore culturale; Per noi rilevare i segni è molto

difficile se non sei formata: chiedere senza avere gli strumenti giusti è peggio di non

chiedere niente”

“La formazione diviene indispensabile poiché le differenze delle culture di

appartenenza “complicano” la comunicazione da parte delle donne straniere e la

128
comprensione dei segnali, anche fisici, da parte delle/degli interlocutori delle

istituzioni.”

“Per la 'dimissione protetta' vengono contatti i Servizi Sociali e il Centro

Antiviolenza”

“C'è differenza tra capoluogo e periferia: mancanza di formazione comune e continua

tra operatori dello stesso servizio, l'accoglienza e l'ascolto della donna non può essere

affidata solo alla sensibilità del singolo operatore”

“Esiste il problema della continuità dei dati sanitari: è importante capire se la stessa

donna si è rivolta ad un altro servizio sanitario o ad un altro Pronto Soccorso...”

Medico e infermiera di Pronto Soccorso Ausl Fidenza

“Nodo della denuncia: la donna può iniziare un percorso con il centro antiviolenza ma

per essere accolte nella Casa Rifugio è necessario che vi sia una denuncia e l'ok da

parte dei Servizi Sociali”

“Problema dell'abbandono del percorso, nelle recidive non c'è più collocazione ma il

supporto viene comunque offerto”

“Per le donne è molto importante trovare una occupazione lavorativa per accelerare

percorso di autonomia professionale ed economica, esiste uno sportello-lavoro

finanziato dalla Regione Emilia Romagna gli aiuti economici dei Servizi Sociali non

sono sufficienti e per la donna significa ri-prendere in mano la propria vita”

129
“E' fondamentale registrare la storia di violenza, in passato per rendere il passaggio di

informazioni sulle vittime da un’istituzione all’altra meno traumatico, era stata

predisposta una scheda elettronica salvata su chiavetta con le informazioni già raccolte

e necessarie; la persona avrebbe potuto portare con sé per evitare di ripetere fatti

dolorosi ma non ha avuto seguito”

Operatrice Centro Antiviolenza Parma

I principali nodi emersi dai focus groups sono:

– circolazione di aspetti meno visibili sulle possibilità di presa in carico: perché

tutti sappiano le possibilità della rete da qualsiasi punto della rete, il che non è

scontato ( chi fa cosa, quali sono gli strumenti....); non sempre i diversi servizi

sono a conoscenza dell'operato e delle strategie (programmi, progetti...) e le

regole che governano l'attività di altre istituzioni, spesso capita che i diversi

servizi “stanno lavorando sullo stesso caso sociale ma ognuno fa il suo

pezzettino” ;

– i modi e gli spazi dell'ascolto: differenza modalità tra piccoli e grandi centri o tra

sedi centrali e periferiche dello stesso ente;

– circolazione delle informazioni, emerge soprattutto nei servizi dove c'è turn-over

degli operatori sia nel senso di cambiamento dei ruoli sia nel senso di

dispersività nelle grandi organizzazioni (es. in Pronto Soccorso, con i turni la

130
possibilità di strutturare indicazioni reciproche quali il passaggio di consegne e

di informazioni o ad esempio perdita di contatto tra Centro antiviolenza e

Pronto Soccorso)

– mancanza di supervisione ed equipe specialistiche nei piccoli centri;

– le barriere culturali che possono ostacolare il percorso di denuncia e presa in

carico;

A partire da questo scambio di idee esemplari, emerge come la rete vada appunto

aggiornata, curata e ripensata nel tempo, anche grazie ai percorsi di formazione, ai

tavoli interistituzionali o protocolli operativi.

• come mantenere la supervisione dei cambiamenti in ciascuna istituzione?

• chi incaricare di questo?

• e infine perché possono essere integrati con le parti più specificamente

riguardanti innovazioni che si vogliono produrre (ascolto precoce di comunità,

dei percorsi per le ‘sentinelle’ dell’ascolto precoce ecc.).

131
4. L' ASCOLTO PRECOCE DI COMUNITA'

Una delle questioni emerse più volte e dibattute nel corso viene riportare al fatto che la

gran parte del fenomeno della violenza sulle donne è sommerso e resta sommerso per un

lungo periodo. Il gruppo si interroga:

• Le istituzioni sono in grado di attivare progetti tali da aumentare la capacità

collettiva di vedere, riconoscere, affrontare, orientare le persone che subiscono

violenza prima che questa diventi problema sanitario o rischio di morte ecc.?

• Come favorire processi di lettura precoce e condivisione del problema?

• Quali sentinelle sono presenti nella società (insegnanti, medici di medicina

generale, pediatri, associazioni di quartiere, vicini di casa…) e come costituire

forme di collaborazione e sensibilizzazione perché nascano spazi di accoglienza,

di ascolto non stigmatizzato o istituzionalizzato, di uscita precoce dalla

solitudine della ‘prima violenza’ solitamente subita dalla maggior parte di

persone in silenzio o solitudine per vergogna, per stupore, per paura ecc.?

Questo approccio sfida particolarmente le istituzioni poiché esse devono immaginarsi

‘all’esterno degli uffici’ e rispetto a problemi che la stessa utenza non vuole affrontare in

senso istituzionale (donne che sentono il disagio fortissimo ma non voglio entrare nel

ruolo sociale previsto da chi chiede aiuto denunciando, ecc.). Pensiamo quindi a una

donna che subisce violenza ma non ha ancora maturato l’idea di come affrontarla e non

132
pensa di rivolgersi al servizio sociale per come essa lo conosce. Oppure si pensi a un

uomo che sente la propria rabbia come impropria ma non si vede né si presenterebbe

mai come “uomo violento da trattare specialisticamente”.

Si tratta quindi di pensare a ‘sentinelle’, ad attori sociali che vedono spesso casi

di violenza intesa come rabbia, violenza psicologica, tensione forte, violenza fisica

evidente se pur non necessariamente evidente o grave in senso fisico ecc. già

socialmente sollecitati dal problema ma che solitamente non hanno strumenti per

rispondere o per farsi carico emotivamente del problema ma che potrebbero diventare

nodi di una diffusa attività culturale e sociale di rete.

Si tratta di pensare a luoghi in cui il dolore potrebbe essere accompagnato

maggiormente, orientato e non solo rimosso.

Per approfondire la questione dell’ascolto precoce della violenza, del contatto

con chi la vive nelle prime fasi e dell’aggancio con chi, pur vivendola da più tempo, non

si rivolge ai servizi, luoghi appunto connotati dall’idea di ‘richiesta di aiuto in

condizioni estreme’, si è pensato di puntare ad una modalità formativa interattiva, che

ha permesso agli operatori di condividere analisi dei contesti sociali e di ideare

liberamente risposte possibili -metodi della progettualità partecipata- vale a dire il

Teatro dell’Oppresso.

L’obiettivo del Teatro dell’Oppresso (che ha a sua disposizione diversi strumenti:

Teatro Forum, Teatro Immagine ecc.) è quello far discutere e riflettere sul tema della

133
rabbia, come nasce, cosa la scatena, come gestirla, chi può aiutare a individuare

malesseri e rabbia, ed esplorare strategie di aiuto per evitare che degeneri in violenza.

Insieme alla Cooperativa Giolli di Reggio Emilia, il cui responsabile di progetto è

Roberto Mazzini, sono state selezionate alcune sequenze che caratterizzano i contesti

familiari rabbiosi e violenti, il tema dell'ascolto precoce o il silenzio dei soggetti

‘circostanti’.

LE SCENE PROPOSTE: FASI PRECOCI DELLA VIOLENZA E

ATTEGGIAMENTI COLLETTIVI.

1. LUOGO: A SCUOLA; ATTORI SENTINELLA: INSEGNANTE;


NEUROPSICHIATRA INFANTILE; GENITORI DEI COMPAGNI DI CLASSE
I genitori, invitati per discutere circa le diverse forme di disturbi dell’apprendimento,
iniziano a mostrare conflitti familiari molto forti. Un padre urla e si allontana. Il
contesto di violenza appare ma le neuropsichiatre infantili non hanno mandato di
occuparsene, la madre si allontana, l’insegnante non pensa che la segnalazione ai servizi
sociali sia opportuna e quindi rimane sospesa; le altre madri giudicano o tacciono. La
scuola appare un luogo formale, ingessato; la donna che subisce violenza si sente
spiazzata dalle altre, si vergogna, fugge.

2. LUOGO: SUL PULMINO; ATTORI SENTINELLA: PRESIDE, ASSISTENTE


SOCIALE, VIGILE URBANO, BAMBINI COMPAGNI DI CLASSE
Un bambino è manesco sul pulmino che lo conduce a scuola. Il vigile urbano viene
interpellato, sale sul pulmino e lo sgrida. Vengono convocati i genitori dai vigili, il

134
padre urla e nega l’aggressività del figlio (figuriamoci la sua). La madre è mortificata
ma tace. Al bambino viene tolto il servizio e resta a casa da scuola per varie settimane
Il bambino (esempio emblematico di trattamento del maltrattante) viene ‘rimosso’,
vengono protetti altri bambini attraverso tale rimozione, senza lavorare sull’idea di
diversa socializzazione o di lavoro con giochi sul pulmino ecc.

3. LUOGO: AL PRONTO SOCCORSO; ATTORI SENTINELLA: MEDICI,


UTENTI PRESENTI
Una donna ha segni di violenza non gravi, le si chiede se ha bisogno di aiuto. Nega e
dichiara che non ha quel problema (non denuncerebbe mai, non pensa di averne
bisogno). I medici e gli operatori tacciono. Anche gli altri utenti.

4. LUOGO: AL PIANO DI SOPRA; ATTORI SENTINELLA: VICINI DI CASA,


AMMINISTRATORI DI CONDOMINIO, CARABINIERI
I vicini di casa assistono a continui sfoghi violenti e grida. Chiamano l’amministratore,
lui si rivolge sempre alle forze dell’ordine. Quella volta anche il vicino, assistente
sociale di mestiere, si rivolge ai carabinieri. Vengono e lo interrogano, e lui si sente a
disagio. Non succede nulla di fatto. Altri vicini di casa dicono di aver lasciato nella
cassetta della posta il biglietto del centro antiviolenza;

5. LUOGO: LA PARRUCCHIERA; ATTORI SENTINELLA: LA


PARRUCCHIERA, L’ESTETISTA, LE UTENTI
La donna parla dello stress familiare e dei soprusi che vive ma ne parla come fossero
piccole cose. La parrucchiera tenta di farla aprire (come fa sempre professionalmente,
questo ’ legame facile ‘ emerge dalle conversazioni) ma non sa come orientarla e a cosa.
Le altre donne presenti seguono diverse strategie (colpevolizzare, incoraggiare).

135
6. LUOGO: IL DOMICILIO DI UNA PERSONA MALATA; ATTORI
SENTINELLA: L’INFERMIERE TERRITORIALE
La malattia ha reso una donna allettata depressa e violenta verbalmente con il marito
probabilmente per la rabbia scaturita dalla malattia. L’infermiera domiciliare che assiste
agli episodi non sa come affrontare la cosa e come orientare il marito a chiedere aiuto.
Lui non vuole, preferisce sopportare per non ingrandire ulteriormente la sua ferita e la
sua necessità di supporto esterno.

7. LUOGO: IL SERVIZIO SOCIALE; ATTORE SENTINELLA: L’ASSISTENTE


SOCIALE
La richiesta fatta dalle donne non riguarda la violenza familiare, la richiesta è di tipo
economico: il nucleo familiare è indietro con 5 mensilità d'affitto; ma l’assistente
sociale si rende conto che invece i “conti non tornano” non solo a livello economico e
c’è anche un problema di violenza in famiglia che tuttavia, appena nominato in termini
seri e pesanti, provoca fuga e allontanamento.

8. LUOGO: LA STRADA; ATTORE SENTINELLA: L’OPERATORE DI


STRADA, I PASSANTI, I PARENTI DEL TOSSICODIPENDENTE
L’operatore di strada viene a contatto con il caso di un tossicodipendente di lungo corso
che è violento sulla propria compagna. Può accompagnarlo – è un servizio centrato sulla
informalità – anche se lui non si ‘cura’ ma non sa come e se affrontare il problema (con
lui? Con la moglie? Come?). L’infermiera cita il medico o lo psicologo, ma il marito
sembra essere esausto di questa dipendenza da specialisti anche se tentato (potrei pagare
di più lei?...).
Nella esercitazione ed elaborazione delle storie intese come interazioni reali, come

monologhi (cosa pensano i personaggi?come si sentono gli operatori/cittadini davanti a

136
queste situazioni? ) e dialoghi (come rispondono alle strategie di ascolto e aggancio

degli altri?) – emergono alcuni elementi molto interessanti:

Esistono attori sociali che per lavoro o relazioni incrociano spesso la violenza sulle

donne, qualche esempio:

- taluni servizi o attività commerciali che hanno a che fare con il corpo della donna

e che comunque comportano una elevata confidenza, come parrucchieri, estetiste ecc;

- professionalità oggetto di affidamento, come amministratori di condominio,

insegnanti, medici di medicina generale, pediatri, servizi sanitari (SERT, CSM, NPIA,

…);

- rapporti sociali, più o meno continuativi, instaurati con persone per

frequentazione di luoghi dove le relazioni domestiche si fanno visibili (scuola intesa non

soltanto come insegnanti ma anche e soprattutto come genitori di bambini che studiano

insieme; condomini ecc.); persone, magari, che già cercano di affrontare i problemi di

violenza che incrociano pur di fretta o stancamente.

Per sintetizzare, l'ascolto precoce viene inteso come processo di progettazione

partecipata, intercettazione prematura del problema, occorre trovare nuove modalità di

aggancio/ascolto nella comunità che vengono definite “sentinelle” del disagio ovvero

quei soggetti capaci di intercettare il problema, in questo caso le vittime di violenza

prima che sia troppo tardi ovvero prima che arrivino nel circuito dei servizi istituzionali.

137
• Attivare le varie reti per aiutare la vittima: ci sono momenti e persone dove il

solo nominare la parola “istituzione” ad es. “CENTROANTIVIOLENZA” non è

efficace

• a seconda della storia della persona la rete richiede un'attivazione diversa (più

istituzionale o meno formale)

• attivazione dell'esperienza ad es. lavorare sulle estetiste, sulle parrucchiere, sugli

amministratori di condominio.... considerati questi soggetti che svolgono già

ruoli e funzioni ma “connessi” potrebbero fare meglio ad es. mettere le donne in

contatto con altre possibilità (fase dell'aggancio e accompagnamento).

Dalle scene proposte emerge chiaramente che il parlare e l'affrontare il tema della

violenza, sia per chi lo subisce che per chi lo affronta per lavoro sia più facile farlo al di

fuori di un contesto istituzionale e non “connotato” ed etichettato come ad esempio

“CENTRO ANTIVIOLENZA”, “SERVIZI SOCIALI”.

Ma se non posso consigliare il servizio sociale pubblico o le forme di privato sociale

che già si occupano del problema poiché questa persona rifugge quella etichettatura,

cosa altro posso consigliare, a cosa possiamo indirizzarla perché maturi le sue strategie

di difesa?

Sarebbe necessario mappare e formare tutti questi soggetti (parrucchiere, estetiste,

amministratori di condominio, trainer sportivi) significa attivare mille punti sensibili

nella comunità.

138
Ciò che questi soggetti potrebbero fare, oltre a dare l’informazione circa la rete del

servizio pubblico e della espertise tecnica (di tipo legale, psicologico, ecc.), potrebbe

proprio essere un orientamento sociale – poco stigmatizzante e molto generativo – a

tutto ciò che riguarda l’identità di genere o il supporto a che essa prenda forma e

consapevolezza (realtà associative e mutuo aiuto, forme di orientamento al lavoro,

forme di socializzazione informali per uscire dagli isolamenti ecc.).

Coinvolgimento di questi soggetti-sentinelle e riflessione sul loro ruolo di orientamento

non solo verso il servizio ma alle occasioni di nuova e diversa socializzazione di sé ,

questo è parsa un’idea stimolante al gruppo.

In conclusione del corso di formazione il gruppo di lavoro arriva a definire diversi

livello di lavoro istituzionale nei confronti della violenza sulle donne:

1. un primo livello di presa in carico, quello della conduzione del conflitto fuori

dalle mura domestiche con il sostegno materiale al progetto individuale della donna nei

termini di rottura ecc. ;

2. un secondo livello di accesso facile, di soglia bassa, di visibilità di un luogo dove

collocare una richiesta di aiuto (il discorso sulle porte di accesso, o meglio sui ‘corridoi’

di accesso in ogni istituzione;

3. e infine un livello di lavoro di comunità, con un coinvolgimento attivo di attori

che sanno ascoltare e potrebbero orientare le donne sia verso il servizio sia verso altre

forme di socializzazione che possano far maturare la sua domanda di aiuto (associazioni

139
ecc.). A questo livello, il lavoro potrebbe essere direttamente strutturato anche sugli

uomini violenti e le modalità di orientarli alla socializzazione del problema.

Questi 3 livelli (presa in carico, moltiplicazione dei punti di accesso, lavoro di comunità

sulle sentinelle) sono da vedere e da considerare come parti – tutti e tre – della sfida

rispetto al problema della violenza sulle donne.

140
CAPITOLO 4

STRUMENTI PER IL RICONOSCIMENTO DELLA VIOLENZA

Per il contrasto alla violenza e la tutela delle donne vittime di violenze, le norme

attualmente in vigore permettono un contrasto mirato e una risposta efficace, pur con le

tante lentezze giudiziarie, non del tutto sufficientemente specializzate nel settore.

Le leggi e la loro applicazione non sono sufficienti per il contrasto della violenza ma

soprattutto per conoscere le caratteristiche di coloro che sono coinvolti nei diversi reati

in famiglia, in particolare il maltrattamento e gli atti persecutori.

Gli strumenti a disposizione dei professionisti per intervenire nei casi di violenza contro

le donne e soprattutto nei casi di maltrattamento e di stalking (atti persecutori) sono

delle linee guida, delle check-list che l’operatore sia del settore giuridico, che sanitario e

sociale può utilizzare, nel suo ambito di competenza per meglio comprendere il caso da

trattare e fare una corretta ‘diagnosi’ e prognosi, per un’efficace valutazione del rischio.

Si tratta di strumenti, in alcuni casi anche validati scientificamente, attraverso un’attenta

raccolta dei dati, che coadiuvano le attività di un professionista che si trova a che fare

con caso di violenza.

Alcuni di questo strumenti sono stati introdotti e utilizzati da tempo, altri sono di più

recente istituzione.

141
1. La valutazione del rischio di recidiva: Il metodo SARA.

Il SARA (Spousal Assault Risk Assessment) è un metodo per la valutazione del rischio

di recidiva della violenza all’interno della coppia. Si tratta cioè di uno strumento, linee

guida o ‘check list’ che ogni operatore o professionista che si trova a dover gestire un

caso di violenza dovrebbe utilizzare per meglio comprendere il caso, quello che è

successo, ma anche prevedere quello che potrebbe accadere per far sì che vengano

prese, a seconda degli ambiti, le decisioni più appropriate per prevenire tale rischio. Un

operatore delle forze dell’ordine, ad esempio, nel trasmettere la notizia di reato

all’autorità giudiziaria, anche se la decisione non spetta a lui, può e dovrebbe

sottolineare il livello di pericolosità o di rischio che gli deriva dalla disamina di

quanto raccolto sia dalle dichiarazioni dirette della presunta vittima, ma anche da

eventuali accertamenti o SIT(…..) acquisite anche a prescindere da successive deleghe

dell’Autorità Giudiziaria. Non solo. E’ lo stesso pubblico ministero che finite le indagini

preliminari, nell’eventualità di richiesta al GIP di applicazione di misura cautelare deve

far riferimento a quanto esplicitamente recita l’art. 274 c.p.p., prendere cioè in

considerazione oltre all’eventuale rischio di inquinamento delle prove, o di fuga del reo,

anche il rischio di reiterazione della stessa specie di reato. Quello che si prefigge di fare

il metodo SARA. La valutazione del rischio di recidiva potrebbe essere utilizzata nella

decisione di applicazione della sospensione condizionale della pena (artt. 163-168 c.p.)

142
per cui una della condizioni è che vi sia previsione di quanto recitato dall’art 133. C.p.

che cioè vi sia previsione che il reo si astenga dal commettere reati della stessa natura

per cui si proced. I criteri con cui spesso vengono fatte queste valutazioni sono aleatori,

si basano su elementi certi quali precedenti penali, ma a volte anche su elementi

soggettivi e troppo legati alla discrezionalità individuale. Il metodo SARA cerca di far

fronte a tale scarsa chiarezza attraverso una valutazione scientifica più uniforme e

basata su fattori oggettivi, riducendo il rischio di valutazioni prognostiche che

potrebbero sottovalutare o sopravvalutare il rischio, o semplicemente valutarlo in

maniera errata.

Il concetto di valutazione del rischio attraverso il metodo SARA è molto semplice. In

base a quelli che, sia nella letteratura che nella prassi, sono i fattori di rischio minimi

evidenziati, si analizza se nel caso specifico sono o meno presenti e si cerca di capire

quali sono i fattori di rischio critici e il peso specifico che hanno per le condotte

aggressive messe in atto dal reo. Si tratta di capire, nel momento in cui il reo ha usato la

violenza, quali sono stati i fattori, gli elementi che hanno inciso sulla scelta della

specifica condotta (atteggiamenti stereotipici, abuso di sostanze, indole violenta,

precedenti episodi di violenza). Occorre inoltre capire quanto questi fattori di rischio

siano statici o dinamici, se cioè rimangono tali o possono modificarsi e quanto questo

possa incidere sul rischio di reiterazione. Oltre ai fattori di rischio del reo, vi sono i

fattori di vulnerabilità, quelle caratteristiche cioè della vittima o delle sue condizioni

143
sociali, culturali, o psicologiche che la potrebbero mettere più a rischio di subire

ulteriore violenza.

Il metodo SARA è utile anche agli operatori socio-sanitari per comprendere meglio

quello che è accaduto, le condizioni in cui versa la donna e quali possono essere i suoi

bisogni, limiti, paure, al fine di sostenerla nell’intraprendere il percorso più efficace di

uscita dalla violenza.

Il metodo SARA nasce in Canada nel 1996, basato su 20 fattori di rischio, questa

versione viene modificata in una versione ridotta a 10 fattori, concepita per le forze

dell’ordine ma utile e utilizzabile anche dai servizi socio-sanitari . Attualmente viene

utilizzata la versione cui sono stati aggiunti anche i 5 fattori di vulnerabilità della

vittima, per un totale di 15 fattori di rischio, analizzati sia rispetto al presente sia rispetto

al passato. Bisogna anche stabilire se ci sono fattori di rischio così detti ‘critici’ la cui

presenza da sola è altamente collegata alla violenza subita e al rischio che si presenti

nuovamente.

Alla fine della raccolta delle informazioni, il valutatore deve stabilire se esiste un livello

di rischio ‘basso’, ‘medio’, o ‘alto’ di recidiva, nel breve, medio e lungo termine, o

addirittura un rischio di violenza letale. Non esiste un modo per stabilire in anticipo chi

è a rischio di subire nuovamente violenza, non si procede con una somma algebrica per

cui il rischio è maggiore nel caso in cui il numero dei fattori sia più elevato. La

valutazione è complessiva e di insieme.

144
a valutazione del rischio fatta con la procedura SARA ha varie utilità e ambiti di

possibile applicazione. Quando poter farne uso?

Prima del processo, in fase di indagini. Quando qualcuno viene arrestato per un reato

legato ai casi di maltrattamento, la natura del presunto reato nonché la storia personale

del presunto autore pone il problema di quale tipo di misura cautelare applicare. E’

importante capire cioè se il presunto autore del reato può costituire un pericolo per la

presunta vittima o autore o per eventuali figli e quindi prevedere qualche forma

restrittiva, oppure se può essere lasciato in libertà magari con un ordine di divieto di

dimora o con un ordine di allontanamento.

Durante un procedimento. La valutazione del rischio può essere a volte richiesta

quando un caso viene rinviato a giudizio. Se l’imputato non è ancora stato condannato,

la valutazione del rischio può risultare utile per i giudici che devono valutare se

applicare forme alternative come la libertà vigilata, gli arresti domiciliari, l’obbligo di

firma o forme alternative al procedimento penale nei paesi ove è previsto.

Se l’imputato è già stato condannato, i risultati emergenti dalla valutazione del rischio

effettuata con il SARA potrebbero aiutare i giudici a decidere fra varie forme di

sentenze (per esempio l’affidamento in prova piuttosto che la custodia cautelare),

oppure per disporre eventuali raccomandazioni nei casi di disposizioni restrittive (per

esempio il divieto di avvicinamento in determinati luoghi).

Periodo detentivo. Dopo la condanna, la valutazione del rischio può essere utile per

145
coloro che si occupano del detenuto e del suo eventuale progetto di recupero (educatori,

psicologi, assistenti sociali). Tale valutazione può essere utilizzata per la messa a punto

di programmi di trattamento, nonchè per valutare l’opportunità di eventuali visite

familiari ed eventualmente la modalità della loro realizzazione.

Rilascio - Per gli autori di reato che sono stati sottoposti a un regime carcerario, la

valutazione del rischio può essere di aiuto per il tribunale di sorveglianza o quello di

libertà se siamo ancora in regime di misure cautelari, in attesa di giudizio, per mettere a

punto una strategia programmatica che risponda alle esigenze del caso specifico. Per un

autore di reato in regime di libertà, che sta per concludere il suo periodo di supervisione

da parte dei servizi sociali della giustizia, una valutazione del rischio può servire per

indicare se disporre ordini restrittivi prima di chiudere definitivamente il caso.

La messa a punto di un sistema di valutazione come il SARA è scaturita a seguito

dell’esigenza di mettere a punto un sistema di valutazione del rischio fruibile dal

sistema della giustizia penale; il suo utilizzo, tuttavia, può essere esteso anche ad altri

contesti:

Ambito civile - C’è stato un aumentato riconoscimento dei casi di violenza domestica

nell’ambito della giustizia civile. La valutazione del rischio nei casi di violenza

domestica può essere utile anche nei casi di separazione e divorzio nonché nei casi di

affidamento dei minori e per stabilire le modalità di visita ed eventualmente anche

valutazioni circa la necessità di sospensioni o decadenze della potestà genitoriale.

146
Queste considerazioni assumono un significato particolare in virtù del fatto che molte

separazioni costituiscono una condizione di rischio dell’escalation della violenza, basti

pensare all’incremento di casi di persecuzione da parte degli ex-partners on alcuni casi

sfociati addirittura in tragedia. Sulla base della legge 154/2001 sull’ordine di

allontanamento dalla casa coniugale del partner violento, il giudice civile, ove si

accertasse dell’urgenza e della gravità del caso, dispone un ordine di protezione a

beneficio della vittima, da emanare entro 15 giorni dalla richiesta, fino a un massimo di

6 mesi estendibile per altri sei.

147
Denominazione SARA – S (Spousal Assault Risk Assessment,screening version)

strumento
Ambito di utilizzo Giustizia penale, civile, sociale, sanitario

Obiettivo Valutare il rischio di recidiva della violenza interpersonale; screening


delle situazioni di violenza. Uniformità di valutazione, linguaggio
condiviso sul caso.

Struttura dello 15 item riferiti a 4 differenti aree:


Violenze nei confronti del partner (o ex-partner), 5 item
strumento
In questa sezione sono inclusi tutti i fattori relativi alla storia di violenza
nei confronti di tutti i partner o ex-partner (cioè coniugati, conviventi,
fidanzati)
Adattamento psicosociale, 5 item In questa sezione vengono riferiti i
problemi di natura sociale e individuale, come ad esempio problemi di
alcol, di disoccupazione, precedenti penali.
Fattori di vulnerabilità della vittima: Caratteristiche legate alle
condizioni della vittima che rendono la sua situazione più a rischio di
pressioni, di 5 item.

Come si utilizza Si raccolgono dati attraverso il colloquio con la vittima, altre fonti di

informazioni (relazioni dei servizi, denunce-querele) e si indica per

ognuno dei fattori se sono o meno presenti.

A conclusione, il valutatore deve fare una valutazione sul rischio di

recidiva, di escalation e di violenza letale in ‘basso, medio e alto’, e

indicare il livello di priorità di intervento.

148
2.Il metodo ISA

Il metodo ISA (Increasing Self Awareness) è uno strumento che deriva dal SARA, nel

senso che la sua funzione è quella di aiutare la donna a fare una corretta autovalutazione

del rischio di essere nuovamente oggetto di violenze.

Si tratta di uno strumento messo a punto grazie a un progetto internazionale che,

commissionato in parte dall’Unione Europea all’interno dei Progetti Daphne, ha visto

anche il coinvolgimento di altri paesi come Portogallo, Regno Unito (Scozia) e Paesi

Bassi.

Si tratta di uno strumento con una serie di domande che riguardano sia la storia

personale della donna con il reo, sia la sua condizione psicologica. In base al

numero e al tipo di risposte affermative fornite, viene calcolato un punteggio cui

corrisponde una percentuale di rischio di recidiva confrontato con l’autovalutazione

fornita dalla stessa donna. Questo strumento ci permette di valutare l’eventuale tendenza

della donna a sottostimare la gravità di quanto le accade e le è accaduto. L’ISA andrebbe

somministrato presso i centri di tutela delle donne vittime di violenza, i centri

antiviolenza, i servizi sociali, gli ospedali. In realtà potrebbe essere utile la sua

somministrazione on-line per aiutare la presunta vittima a capire se si trova o

meno in una condizione di rischio quindi invitarla a rivolgersi presso una struttura

dove ricevere una consulenza o un sostegno adeguato.

149
Denominazione strumento ISA (Increasing Self Awareness)

Ambito di utilizzo Centro antiviolenza, servizi sociali, popolazione in generale

Obiettivo Autovalutazione del rischio di recidiva della

violenza interpersonale; auto-screening delle situazioni di violenza.

Struttura dello strumento 17 item riferiti alla violenza subita, alle condizioni di vita, alle

caratteristiche del reo e della vittima. Percezione di sicurezza, condizione

psicologica, auto percezione del rischio

Come si utilizza Si procede alla consegna dello strumento alla donna che procede con la

auto compilazione e la autovalutazione del rischio in base al punteggio

ottenuto.

Il punteggio ottenuto deve aiutare la donna a procedere nell’intraprendere

azioni volte alla sua tutela

A chi è rivolto Donne vittime di violenza, dichiarate o che sottostimano la loro situazione

di rischio.

Criticità Inadeguato per le straniere che non conoscono bene la lingua (esiste

tuttavia anche una versione inglese). Sono necessarie alcune istruzioni e un

livello di educazione sufficiente

150
CONCLUSIONI

La violenza contro le donne è un fenomeno multidimensionale e necessita, per

un’adeguata presa in carico, di una formazione specializzata, che implica l’assunzione

di un approccio di genere ma, soprattutto, una modalità organizzativa che metta in

primo piano il lavoro di rete e la sua specifica modalità di intervento.

In tutti questi anni, attraverso l’esperienza sul campo e il confronto con altre realtà, sia

nazionali sia internazionali, e le ricerche finora condotte ciò che emerge con estrema

chiarezza è la necessità di lavorare in un’ottica di rete, se si vuole contrastare

efficacemente la violenza di genere contro le donne.

Per raggiungere un vero approccio di rete, dal punto di vista e dalla esperienza degli

operatori emerge che occorre avere chiaro e portare avanti un obiettivo preciso:

soprattutto parlare un linguaggio comune tra chi, a vario titolo, interviene nel percorso

di fuori uscita dalla violenza, utilizzare gli stessi strumenti di lavoro e partecipare

attivamente ai tavoli di lavoro per la costituzione e il consolidamento della rete dei

servizi per la prevenzione ed il contrasto della violenza di genere.

151
In particolare per affrontare il tema della violenza di genere si necessità di :

– Mappatura dei servizi esistenti: analizzare e raccogliere informazioni sulle

attività e sulle strutture esistenti nel territorio anche al fine di realizzare depliant

informativi;

– Networking: per integrare politiche, saperi, competenze, metodologie di lavoro,

e buone prassi e mettere a punto strategie di intervento comuni e condivise

(protocolli operativi);

– Formazione continua finalizzata alla costruzione di conoscenze, competenze e

linguaggi comuni ed omogenei in modo da rendere ottimale la sinergia degli

interventi da parte dei vari attori in campo;

– Potenziamento dei centri antiviolenza e di progetti finalizzati al reinserimento

lavorativo e sociale della donna vittima di violenza;

– Campagne e progetti di sensibilizzazione sul territorio e nelle scuole con

l'obiettivo di diffondere la cultura della non-violenza;

– Campagne di comunicazione e promozione finalizzate ad informare i cittadini

sui servizi esistenti, sulle modalità di accesso e diffondere nelle vittime di

violenza quel senso di fiducia e sicurezza legato anche alla conoscenza del

sistema e alla presenza di punti di riferimento stabili sul territorio.

152
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