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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO PRIMO LA GENESI E LO SVILUPPO DELLA


MAFIA

1.1 Le origini e la diffusione del fenomeno mafioso

1.2 Il codice mafioso: il ruolo e l’importanza della famiglia

1.3 Il movimento contro la mafia

CAPITOLO SECONDO LE DONNE E LA MAFIA

2.1 Le donne del Sud

2.2 La donna nelle organizzazioni mafiose

2.2.1 Le donne di Cosa Nostra

2.2.2 Le donne calabresi

2.2.3 Le donne napoletane

2.3 L’ideale di donna onorata

CAPITOLO TERZO LE DONNE NELLA MAFIA

3.1 Il ruolo discreto e fedele della donna

3.1.1 Alcuni casi esemplari di mogli di……

1
3.2 Le donne mafiose e il fenomeno del pentitismo

CAPITOLO QUARTO LE DONNE CONTRO LA MAFIA

4.1 Il coraggio esemplare di contrastare la mafia

4.2 Le donne degli uomini di mafia

4.3 La forza di Rita Atria e di Rosetta Cerminara

4.4 Una storia attuale: il caso di Giusy Vitale

Bibliografia

2
INTRODUZIONE

L'argomento che ho analizzato “Le donne e la mafia” è stato


molto interessante in quanto mi ha permesso di analizzare a fondo le
dinamiche con cui il fenomeno della mafia si è insinuato nella società
e nelle coscienze di coloro che si trovavano a contatto con essa,
permettendomi di comprendere quanto il ruolo della donna sia stato
fondamentale, sebbene quasi sempre in secondo piano.

Già dal XIX secolo si hanno le prime manifestazioni di questo


fenomeno nell'Italia meridionale ottocentesca, che si trova in una
situazione di forte arretramento sociale e culturale e che viene
trasformata in seguito ai cambiamenti sociali del sistema feudale
vigente ed alla nascita dell'associazione mafiosa.

La mafia si inserisce nel substrato sociale, si avvale della figura


del gabbellotto, che si appropria dei diritti dei latifondisti e che si fa
garante della sicurezza, agendo però in modo criminoso e soprattutto
violento, si sviluppa una sub-cultura-criminale mirante a non favorire
l'attuazione delle leggi dell'ordinamento statale e concentrandosi a se
tutto il potere.

Pian piano la mafia si insinua nel contesto sociale,


regolarizzando le dinamiche famigliari; la famiglia diviene il nucleo
fondamentale e centrale, i cui interessi devono essere sempre tutelati:«
La parentela, la famiglia non valgono niente di fronte alla fedeltà a

3
Cosa Nostra. Se è in gioco l’interesse della famiglia, tutti questi
sentimenti scompaiono, passano in secondo piano»1.

La mafia (come la famiglia) è considerata un'organizzazione


maschile, alla quale possono far parte solamente gli uomini mentre le
donne non hanno alcun ruolo e potere all'interno di essa e devono
occuparsi della gestione della casa e della crescita dei figli.

In questa organizzazione patriarcale, le donne e i bambini sono


in effetti esclusi; le donne sono educate fin da bambine ad occuparsi
solamente della famiglia, a non fare domande e ad essere, in futuro,
delle madri.

Esse diventano, così, inevitabilmente delle complici mute della


mafia anche se non partecipano attivamente ai suoi disegni criminosi
ma sono destinate a rafforzarne i legami mediante sodalizi
matrimoniali, ai quali non possono ribellarsi.

Tuttavia, bisogna evidenziare che il femminile è fortemente


presente in questo contesto basti pensare alla forte rilevanza della
figura materna e della sua funzione all'interno della società
meridionale, dove è sempre stato molto sentito il ruolo materno delle
donne.

Da qualche anno, però, le giovani donne tendono


all'emancipazione e alla partecipazione più attiva all'interno della
società in modo più legale e lontano dagli schemi violenti della mafia.
In questo senso è possibile distinguere tre diverse tipologie di donne,

1
Arlacchi P., Gli uomini del disonore. La mafia nella vita del grande pentito Antonio Calderone,
Mondadori, Milano 1992, p.157

4
ovvero quelle che si godono il lusso e la brutalità, quelle che lottano
contro la mafia e quelle che però ne sono vittima per tutta la vita.

In questo senso, si inserisce anche il cambiamento delle


dinamiche del potere all'interno della mafia, dove le donne ricoprono
il ruolo di comando generalmente affidato al capofamiglia. Esse sono
più discrete degli uomini ma non meno brutali e criminali; un esempio
è la storia di Concetta Fausciana, mafiosa siciliana e moglie del boss
Aurelio Cavallo, di cui ne prende il posto quando lui viene arrestato.
Concetta organizza estorsioni ai commercianti (il cosiddetto pizzu),
recluta per pochi soldi dei baby killer per i suoi traffici estorsivi e per
farli combattere nella guerra contro la famiglia Madonia.

Le donne non esitano a farsi portatrici dei messaggi che i loro


uomini comunicano dall'interno delle carceri, escono quindi dal ruolo
subalterno e silenzioso in cui la tradizione mafiosa le aveva relegate.
Aiutano i loro uomini e le loro famiglie a proseguire nelle attività
criminose ma, nel contempo, vi sono delle donne che tentano di
uscirne e combattono apertamente.

È questo il caso di Rita Atria, che ha colpito molto e al quale


dedicherò un paragrafo, che ben dimostra la volontà delle giovani
donne di distaccarsi da questo sistema di violenza rispetto a quelle più
anziane. La sua decisione di collaborare con la giustizia è da subito
osteggiata dalla madre che la minaccia in più occasioni di morte per la
sua collaborazione.

Rita era figlia di un mafioso, amava moltissimo il padre, come


del resto i suoi fratelli, i quali, in seguito alla sua uccisione, giurano di

5
vendicarlo. Subito dopo viene ucciso anche il fratello e lei decide di
collaborare con la giustizia, trasgredendo così la legge dell'omertà,
tipica dell'associazione mafiosa.
Tuttavia dopo la sua deposizione, che permette l'arresto di molti
mafiosi di Partanna, viene lasciata sola dalle istituzioni e piomba in
uno stato depressivo (nel suo diario annota infatti di sentirsi e di essere
molto sola) che la condurrà al suicidio, esattamente una settimana
dopo la strage in cui perse l vita il giudice Borsellino.
La tesi intende dimostrare come il processo sociale che investe
le donne nel contesto analizzato, le renda più forti e consapevoli della
realtà e della violenza che le circonda e di come, invece, si possa
vivere in modo legale e soprattutto legittimo. La vicenda di Giusy
Vitale, anch'essa boss mafioso, ben evidenzia questo processo
soprattutto quando lei stessa si pente perchè consapevole della
violenza che la circonda. È forte il desiderio in lei di non far crescere i
suoi figli in questo contesto che decide di pentirsi, nonostante il
pericolo che una tale decisione comporta soprattutto per la sua
famiglia.
Ciò che colpisce è il coraggio che queste donne hanno avuto
nello svincolarsi da una situazione di aperta violenza non hanno
esitato ad abbandonare ruoli di comando e di potere ed un'agiatezza
economica rilevante.

6
CAPITOLO PRIMO

LA GENESI E LO SVILUPPO DELLA MAFIA

1.1 Le origini e la diffusione del fenomeno mafioso

Le prime manifestazioni della mafia si riscontrano nel XIX


secolo nell’Italia meridionale, caratterizzata da una profonda
arretratezza e da un’inadempienza verso le nuove leggi promulgate
per abolire il regime esistente, avente ancora le caratteristiche feudali
con la permanenza del latifondo come base fondamentale
dell’agricoltura2. Tale situazione si verifica soprattutto in Sicilia ove le
normative promulgate nel a legge nel 1806 e nel 1812 non producono
sostanziali cambiamenti almeno fino alla prima metà del secolo3.

La realtà di questo periodo si caratterizza come un sistema in


cui il gabellotto, dopo aver corrisposto il pagamento del canone
d’affitto in denaro al grande proprietario terriero, divide il latifondo in
molti piccoli lotti che sub-affitta ai contadini attraverso il pagamento
di un canone in natura. La predominanza di questo tipo di società
agraria impedisce verosimilmente la formazione di una società
all’interno della quale si possano affermare le modalità tipiche di
scambio del mercato capitalistico.

Nel momento in cui, per effetto della legge, viene abolito il


feudalesimo, la terra viene liberalizzata e resa un bene soggetto ai

2
Blok A., La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960, Einaudi, Torino 1986
3
Catanzaro R., Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Liviana Editrice, Padova 1988

7
diritti di proprietà individuale, causando l’inizio di – inevitabili –
conflitti e di lotte a livello sociale che si protrarranno per parecchio
tempo, fino al secondo dopoguerra. Le trasformazioni sociali sono
inevitabili; si delinea un nuovo quadro sociale caratterizzato
dall’indebolimento dei proprietari terrieri, dal forte impoverimento dei
contadini e dei pastori, i quali, per sopravvivere si organizzano in
movimenti collettivi di rivendicazione o si danno il banditismo, e dalla
crescita dei ceti medi che si uniscono tra loro per le acquisizioni
terrieri e tra i quali vi sono i primi mafiosi4.

Conseguentemente si formano anche delle relazioni sociali


caratterizzate dall’uso sempre più diffuso della violenza5 ed i mafiosi
si mescolano tra le fila dei briganti, dediti alle rapine, all’abigeato e al
sequestro di persona, essi si presentano come intermediari con i
proprietari e i contadini, ai quali offrono appoggio e protezione,
diventando così dei protettori in cambio di vantaggi e favori.

Questo nuovo ceto è composto in prevalenza da massari,


campieri, gabellotti e fattori prende di fatto il posto dei grandi
proprietari terrieri di origine nobiliare in quanto viene chiamato a
svolgere funzioni di controllo, di gestione ed intermediazione della
proprietà e della produzione6. L’ascesa dei gabellotti consente alla
mafia di trasformarsi da organizzazione di armati al servizio
dell’aristocrazia terriera a strumento di potere7.

4
Petrusewicz M., Latifondo. Economia morale e vita materiale in una periferia dell’Ottocento,
Venezia 1989
5
Cfr. Sereni E., Il capitalismo nelle campagne, Torino 1968
6
Lupo S., Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1993
7
Cfr. Brancato F., La mafia nell’opinione pubblica e nelle inchieste dall’Unità al fascismo, in Atti
della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione
storica, Camera dei Deputati, V legislatura, Roma 1972

8
La mafia si organizza nei comuni siciliani subito dopo l’Unità,
in una vasta rete di “organizzazioni per delinquere” dislocate
nell’isola e dotate di strutture verticali, che sono talvolta in rapporti
d’affari ma anche in conflitto e che sono strutturate secondo uno
schema ben definito in più livelli. L’organizzazione punta ad
accumulare patrimoni illeciti esercitando il controllo direttamente
sulle comunità locali, sulle amministrazioni pubbliche e sui collegi
elettorali nazionali. Essa intende assumere un ruolo di mediazione tra
il centro e la periferia del sistema politico, colludendo con i
componenti dello Stato8.

Questo forte insediamento è dovuto anche all'incostanza ed


all'inefficienza dello Stato che producono un grande senso di sfiducia
nella popolazione, che si rivolge ai protettori che acquisiscono sempre
più potere. Per questi motivi le istituzioni hanno fin da subito molte
difficoltà nel reprimere il fenomeno mafioso che si radica fortemente
nel territorio e che influenza ormai gli scambi economici, gli
atteggiamenti e le norme di comportamento generali di una vasta zona
della regione. L’insuccesso degli interventi dello Stato postunitario in
Sicilia, nonostante la messa in atto di numerose politiche progressiste,
è dovuto in parte alla sua debolezza, e in parte alla resistenza
dimostrata dalla popolazione indigena verso qualsiasi cambiamento.
Ed anche le vaste operazioni di polizia che si succedono tra il gennaio
e l’agosto del 1877 non hanno successo e contribuiscono ad accelerare
il declino delle comitive di briganti.

8
Chiara L., Sulle origini storiche del fenomeno mafioso: amministrazioni e bande armate nel
circondario di Cefalù (1870-1885), in Incontri Meridionali, n.2, 1990, p.143

9
L’organizzazione mafiosa intesse delle relazioni molto forti con
il banditismo e con le bande armate al punto che dopo l’Unità questi
legami si ridefiniscono ancora più nettamente9. In questo contesto la
mafia anche se aveva «il suo punto di partenza nella collusione di
pubbliche autorità con la criminalità comune»10, si inserisce nei
processi di ascesa del nuovo ceto emergente passando da una fase
iniziale in cui usa essenzialmente la violenza in modo difensivo contro
tutti coloro che ne contrastano il controllo del territorio, ad una fase in
cui l’azione corruttiva con le istituzioni dipende da queste ultime,
creando così la possibilità di utilizzare e di servirsi dei poteri illegali.

Nella seconda metà del XIX secolo la mafia si delinea già come
un’associazione che ha tra i suoi componenti varie categorie sociali,
dal ceto medio, alla grande e piccola borghesia ai ceti popolari. Fin dal
primo momento essa si diffonde nella parte occidentale dell’isola,
escludendo la parte orientale perché in questo territorio la classe
dirigente è più unita e non ha problemi nel controllare il territorio a
differenza di altri luoghi dove – come abbiamo già sottolineato -
uomini violenti prendono il sopravvento11.

La mafia intreccia forti relazioni con le classi dirigenti locali,


con le istituzioni dello Stato, i cui rappresentanti diventano sempre più
tolleranti nei confronti della criminalità mafiosa in quanto la
considerano uno strumento atto al mantenimento dell’ordine e della
sicurezza pubblici.

9
Ibidem, p.145
10
. Recupero A, La Sicilia all’opposizione 81848-1874), in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a
oggi, La Sicilia, a cura di M. Aymard – G. Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, p.76
11
Gambetta D., La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1993

10
In questo momento la mafia, forte di un monopolio effettivo
della violenza, condiziona i rapporti tra le istituzioni e i cittadini e nel
contempo anche la competizione amministrativa e talvolta, sebbene
sporadicamente, estende le sue aderenze anche alle deputazioni
nazionali. I funzionari di pubblica sicurezza, i questori e i prefetti sono
comunque a conoscenza dell’azione esercitata dalle bande armate12 e
del complesso intreccio di interessi che alimenta lo scontro fra le
fazioni e i partiti amministrativi sorretti dai mafiosi, i quali con
l’azione violenta della bande armate si contendono il controllo del
potere pubblico.

Tuttavia, l’azione governativa si concentra quasi esclusivamente


sulla repressione delle bande armate che pian piano vengono
abbandonate dai mafiosi in quanto, ora, intendono svolgere la loro
azione nel “partito d’ordine”13 atto alla conservazione della vita e della
proprietà altrui. In questo modo creano nei comuni dei “centri di mafia
potente”14 che promuovono delle nuove forme di aggregazione sociali
e di integrazione nelle attività illecite di ceti meno abbienti, puntando
ai grandi affari e alla politica nazionale.

I mafiosi manovrano i pacchetti di voti da offrire ai politici, i


quali, a loro volta, assicurano loro alcuni vantaggi come ad esempio
l’impunità ma le organizzazioni mafiose riescono a mantenere la loro
autonomia15 che si rafforza maggiormente anche in seguito allo
12
Si vedano: Fiume G., Le bande armate in Sicilia (1819-1849). Violenza e organizzazione del
potere, Palermo 1984 e Mangiameli R., Banditi e mafiosi dopo l’Unità, in Meridiana, nn.7-8,
1989, pp.73-113
13
Chiara L.-Crescenti E.-Moschella G., Mafia e legislazione antimafia. Storia, diritto, istituzioni,
Piero Lacaita Editore, Mandura-Bari-Roma 2009, p.51
14
Chiara, op. cit., p.159
15
Pezzino P., Mafia, Stato e società contemporanea, in S. Costantino - G. Fiandaca (a cura di), La
mafia, le mafie: tra vecchi e nuovi paradigmi, Laterza, Roma 1994

11
sviluppo di una vivace rete di commerci nella zona costiera
palermitana della Conca d’Oro, in seguito alla quale molti protettori
estendono il loro potere su nuove zone, ampliando la loro rete di
contatti16. In quest’area i traffici illeciti tra Palermo e l’interno,
rappresentano un punto di incontro tra l’area dei latifondi e questa
zona, con un forte incremento del numero dei clienti che vanno a
distribuirsi in vari settori.

Alla fine del XIX secolo la Sicilia è sempre attraversata da forti


tensioni sociali che portano all’esplosione dei Fasci dei lavoratori
(1892-1893) e al commissariato civile dell’isola nel 1894, mentre il
Paese è attraversato da una profonda crisi dei rapporti tra la politica, la
società e le istituzioni17. I Fasci testimoniano la nascita di un
movimento contadino di protesta più organizzato e soprattutto la
nascita di una coscienza di classe verso coloro che li sfruttano ma la
loro protesta è soppressa con estrema facilità grazie al legame sempre
più stretto tra la mafia e potere locale.

La protesta e le agitazioni di massa che si traducono nell’azione


dei Fasci presuppongono la richiesta di una maggiore partecipazione
politica dei cittadini e contribuiscono ad aprire la strada ad una nuova
fase storica che si consolida nel governo giolittiano che stava avviano
una nuova stagione di riforme, di partecipazione politica dei cittadini,
di sviluppo economico e di ricomposizione dei conflitti di classe18.
Nonostante le premesse, questa fase storica si caratterizza per le molte
contraddizioni che ne derivano soprattutto in alcune aree del paese e
16
Lupo, op. cit.
17
Cfr. Renda F., I fasci dei lavoratori e la crisi italiana di fine secolo, 1892-1893, Torino 1977
18
Mola A.A.- Ricci G.A. (a cura di), I governi Giolitti (1892-1921), Foggia 2007

12
nella gestione delle amministrazioni locali, e per tale motivo la mafia
riesce a rinforzare il proprio potere. La maggiore apertura dello Stato e
delle istituzioni verso delle forme di legittimazione dei ceti dirigenti
con una maggiore partecipazione al voto, finisce paradossalmente per
consolidare i legami tra le cosche e una parte della rappresentanza
politica che necessita dei mafiosi per il controllo della società locale.

Fino allo scoppio della grande guerra, anche un altro fattore si


rivela decisivo per l’affermazione della mafia nel contesto sociale e
politico, ovvero l’emigrazione che si determina in Italia nella forma di
un esodo di massa di milioni di persone19 e che permette ai mafiosi di
estendere una rete di relazioni e di affari nei paesi lontani. In questo
periodo si impianta infatti negli U.S.A. con delle proprie attività
criminali preposto al controllo della manodopera siciliana, soprattutto
nei porti ed alla 'imposizione della sua protezione' sugli esercizi
commerciali gestiti dagli italiani per monopolizzare i flussi
commerciali con la Sicilia.

Nel periodo in cui si sviluppa il fascismo, la mafia viene di fatto


sostituita da esso ed anche se viene meno la necessità di mantenere in
vita gli intrecci clientelari con i mafiosi in funzione della ricerca del
consenso elettorale, il governo intraprende una dura repressione
contro di essa con l’azione del “prefetto di ferro” Cesare Mori inviato
in Sicilia nel 1926, al quale vengono conferiti poteri straordinari per la
repressione della mafia e del banditismo e che ordina l’arresto di
massa di tutti i sospettati20.
19
Si vedano: Bevilacqua P.-De Clementi A.-Franzina E. (a cura di), Storia dell’emigrazione
italiana. Partenze, Roma 2001 e Renda F., L’emigrazione in Sicilia 1625-1961, Caltanissetta-
Roma 1989
20
Cfr. Petacco A., Il prefetto di ferro, Milano 1976

13
L’azione del regime fascista deve inquadrarsi nell’esigenza
politica di recuperare in Sicilia il consenso delle masse ma nonostante
l’azione ferrea del prefetto non riesce ad incidere i rapporti tra la
mafia e le clientele politiche. Rimane pressoché intatta la continuità
dei gruppi mafiosi in alcune zone della Sicilia in quanto essa salva
gran parte della grande proprietà terriera a discapito di professionisti,
sindaci, grossi gabellotti mafiosi21. Ciò nonostante la sua azione
inferte un duro colpo all’incidenza della mafia nella mediazione tre le
classi sociali, tra lo Stato e le società locali soprattutto a seguito dei
molti arresti effettuati dal Mori, il quale intende sviluppare l’azione
repressiva di polizia (voluta dal fascismo) contro le organizzazioni per
delinquere e combattereo le aggregazioni di potere nelle periferie non
più funzionali alle pretese del fascismo sulla società locale22.

Con la caduta di Mussolini riprendono vita in Sicilia le antiche


ispirazioni di indipendenza ma contemporaneamente riprende vigore
anche la mafia che intreccia le sue vicende con quelle del Mis23, che si
alimenta nell’operato della banda di Salvatore Giuliano che attua una
vera e propria strategia del terrore, compiendo omicidi efferati di
uomini politici, sindacalisti e dirigenti della lega contadina.

Subito dopo lo sbarco degli alleati nel 1943,infatti, nell’isola,


con la fuga dei fascisti, si crea un vuoto di potere e per arginarlo essi
si affidano a influenti personaggi locali, rileggitimando di nuovo il
potere dei gruppi mafiosi che si pongono, peraltro, come il punto di

21
Lupo S., L’utopia totalitaria del fascismo (1918-1942), in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità
a oggi, La Sicilia,op. cit., pp.402-410
22
Ibidem
23
Il Movimento indipendentista siciliano

14
incontro fra le diverse parti in causa, quali gli agrari, lo Stato, le
società locali.

Nel periodo postbellico si realizza un’imponente trasformazione


che annulla di fatto l’intero ordine economico e sociale e ciò è dovuto
dall’emigrazione e dall’intervento pubblico che determinano una crisi
molto profonda nelle forme del potere e del comportamento mafioso.
Con il varo della riforma agraria e l’avvio di una nuova fase nello
sviluppo del paese, centrata sulla creazione delle infrastrutture e di un
sistema industriale moderno, si determina in Sicilia la perdita di
egemonia dei grandi proprietari terrieri sulla società locale e
l’emigrazione di una parte consistente dei contadini verso il Nord e
l’estero24.

L’emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta ha un effetto


travolgente sulla struttura dei gruppi mafiosi, poiché ne assottiglia le
componenti umane e ne interrompe il ricambio generazionale in
quanto molti uomini d’onore di medio e basso rango emigrano verso
l’Italia settentrionale. Inoltre, per la prima volta, si pone il problema
del reclutamento in considerazione delle molteplici possibilità di
lavoro e di occupazione nel settore secondario e terziario che
richiedono molta manodopera e l’espansione degli impieghi pubblici
nel Mezzogiorno urbano che aprono dei vuoti nelle fila dei giovani
uomini d’onore e diminuiscono la competizione per il controllo delle
risorse locali. Il mantenimento della supremazia impone adesso la
disponibilità di ricchezze e consumi crescenti; la competizione si

24
Barone G., Stato e Mezzogiorno (1943-1960), in Storia dell’Italia Repubblicana, Vol. I, La
costruzione della democrazia, Milano 1999, pp.293-409

15
sposta, quindi, dal piano della conquista dell’onore individuale e
familiare al piano del possesso e dell’ostentazione dei nuovi simboli
del consumo.

Negli anni tra il 1950 e il 1960 la mafia continua a svolgere le


sue funzioni di intermediazione tra i proprietari terrieri e i contadini e
nel contempo guarda alle nuove opportunità all’orizzonte della
speculazione edilizia, alle costruzioni, al trasporto e alla fornitura dei
materiali edilizi e al controllo del mercato ortofrutticolo ed ittico. In
questo momento, infatti, la precarietà della nuova collocazione degli
uomini d’onore si risolve grazie all’integrazione dei mafiosi nelle
catene clientelari impiantate dai nuovi uomini politici, che avviene
con l’appoggio attivo dell’apparato repressivo dello Stato.

Molti mafiosi, infatti, vengono posti di fronte alla scelta di


confluire nel sistema di potere democristiano o di porsi in cattiva luce
agli occhi delle autorità giudiziarie e di polizia25. I gruppi mafiosi si
inseriscono di fatto nella nuova realtà, contrassegnata dalla centralità
della spesa pubblica e dall’espansione della forma urbana, con delle
attività imprenditoriali, in prima persona o in rapporto con altri
imprenditori. Il controllo degli enti locali consente alle famiglie
mafiose di muoversi liberamente ignorando le leggi per ottenere le
concessioni edilizie e le autorizzazioni necessarie per avviare attività
imprenditoriali e vincere gare di appalto. In questo momento,
l’imprenditore ha a disposizione il denaro pubblico, che gli viene
erogato tramite gli appalti di opere pubbliche e i finanziamenti erogati

25
Arlacchi P., La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino,
Bologna 1983

16
da istituti di credito. La mafia detiene il controllo e la gestione delle
attività imprenditoriali soprattutto nel settore edilizio, nei mercati
alimentari, nelle assunzioni negli enti locali e nel credito.

L’accumulazione illegale e il potere acquisito permettono alla


mafia di sviluppare traffici internazionali e di diffondersi a livello
nazionale, fenomeno questo che si avvale anche dell'aiuto indiretto
che proviene dall'emanazione delle leggi del 1956 e del 1965 che
rafforzano le misure limitative della libertà personale con il soggiorno
obbligato per i criminali e i sospettati di appartenenza ad associazioni
mafiose26, costringendo così molti mafiosi ad allontanarsi dalla Sicilia,
permettendogli di infiltrarsi nell’economia di altre regioni e stabilire
rapporti d’affari con la criminalità locale.

La grande trasformazione sociale può dirsi conclusa all’inizio


degli anni Settanta quando si affievolisce il flusso migratorio verso il
Settentrione e prende piede un forte malcontento intriso di
rivendicazioni settoriali e località causa degli effetti disgreganti che
l’intervento statale produce sull’economia e sulla società meridionale.
In questo contesto, caratterizzato dalla disgregazione economica e
sociale e dalla crisi dello Stato, si sviluppa pienamente il fenomeno
della mafia imprenditrice che realizza la sua superiorità economica
con i mezzi repressivi, favorendo lo scoraggiamento della
concorrenza, la compressione salariale e la disponibilità di risorse
finanziarie.

26
Si tratta della legge n.1423 del 1956, modificata con la n.327 del 1988, che rivede la disciplina
delle misure preventive e della legge n.575 del 1965 che estende le misure di prevenzione anche ai
sospettati di appartenenza alla mafia.

17
Il fenomeno mafioso diviene parte integrante delle strutture
portanti dell’universo socioeconomico di aree sempre più vaste del
Mezzogiorno e favorisce la nascita di una forte compagine di
imprenditori mafiosi, i quali dispongono di molta liquidità e della
possibilità di usare la violenza e che permettono, nel frattempo, il
costituirsi di un mercato della droga che a partire dagli anni Settanta
produce una forte esplosione di accumulazione illegale di denaro che
permette ai mafiosi una propria autonomia di azione, al punto di non
avere più bisogno del denaro pubblico27.

1.2 Il codice mafioso: il ruolo e l’importanza della famiglia

Quando si pensa alla mafia, la correlazione immediata che


scatta è mafia/famiglia; la mafia si sviluppa infatti secondo gli schemi
strutturali di una famiglia. Gli studiosi hanno elaborato diverse
interpretazioni della famiglia mafiosa ma tutti ritengono che essa sia il
luogo e il modello in cui si favorisce l’insorgenza della mafia e il
riprodursi dell’individuo mafioso. Une delle interpretazioni propone
l’identificazione totale ed assoluta tra il mafioso e il suo gruppo
parentale, per cui il mafioso è il padre e il clan è la famiglia. Il
mafioso manifesta un attaccamento morboso alla sua famiglia che lo
spinge a modulare su di essa il proprio sistema di valori, i

27
Arlacchi, op. cit., p.151

18
comportamenti e le sue attività28. In questa prospettiva la famiglia
risolve le deficienze delle istituzioni e: «Nel pensare mafioso il ‘dato’
istituzionale è saturato dall’istituzione famiglia, nelle sue estreme
espressioni coincide totalmente con essa. […] La famiglia, nelle sue
vaste ramificazioni ha la funzione di proteggere, di privilegiare i suoi
membri rispetto ai doveri che lo stato impone a tutti. È la prima radice
della mafia»29.

La mafia si risolve nell’organizzazione della propria famiglia


ma nel senso di un sistema allargato ove la diversità dei ruoli interni e
la complessità dei compiti non possono essere assegnati seguendo
esclusivamente il vincolo parentale (o naturalistico). Basti pensare ai
frequenti episodi di morte violenta inferti dalla mano di un congiunto
per cui: «Il vincolo parentale viene usato per facilitare l’eliminazione
di mafiosi che la dinamica della guerra di mafia schiera sul fronte
avversario ma che ritengono di poter contare, per salvare la loro vita,
sul rapporto di parentela, soprattutto se molto stretto, consegnandosi
così nelle mani degli assassini. Un meccanismo micidiale che
ristruttura le organizzazioni mafiose su basi di interesse usando la
parentela come trappola»30.

La cosca tende sempre a prendere la forma di un nucleo


familiare e «la relazione interna di base è costituita dalla parentela
biologica di primo grado»31 ma in questo contesto emergono delle

28
Armao F., Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri,
Torino 2000, p.37
29
Fiore, La famiglia nel ‘pensare mafioso’, in G. Lo Verso (a cura di), La mafia dentro,
psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano 1998, pp.51-52
30
Chinnici G.-Santino U., La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli
anni ’60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1991, pp.291-292
31
Arlacchi, op. cit., p.157

19
contraddizioni in quanto la parentela viene considerata, a seconda
delle circostanze, fattore di mobilità interna o di stabilizzazione. Nel
primo caso, quando si ritiene che le capacità di comando, non possono
essere riprodotte per via biologica, il capo viene scelto sulla base delle
reali capacità, mentre nel secondo caso quando si adotta la strategia
della massimizzazione della discendenza, si tenta di produrre dei figli
maschi per occupare con mogli e discendenza, il maggior numero di
posizioni di potere dentro la cosca32.

La consanguineità non è garanzia di coesione del gruppo e gli


atteggiamenti aggressivi sono presenti anche fra fratelli e gli interessi
di cosca e di famiglia possono entrare in conflitto, privilegiando i
primi. Degli esempi in tal senso sono i numerosi omicidi tra congiunti
ed anche le innumerevoli testimonianze dei collaboratori di giustizia,
secondo i quali: «La famiglia mafiosa diveniva, al momento
dell’affiliazione, il nucleo supremo cui fare riferimento, molto al di
sopra nella scala valoriale della stessa famiglia d’origine o dei nuclei
di nuova costruzione»33. Per il forte bisogno di segretezza, la famiglia
è il luogo privilegiato per il reclutamento dei propri membri e la
volontà di celarsi implica il bisogno di avere continuamente sotto
controllo i potenziali affiliati, per poterne giudicare l’idoneità e in
questa ottica i figli e i nipoti sono gli elementi più facilmente
osservabili.

È necessario sottolineare che l’elemento imprescindibile in base


al quale un individuo entra in un’organizzazione di questo tipo, non è
32
Ibidem, p.137
33
Di Maria F.-Lavanco G.-Lo Piccolo C., Senso e significato dell’organizzazione mafiosa, in F.
Di Maria (a cura di), Il segreto e il dogma percorsi per capire la comunità mafiosa, Franco Angeli,
Milano 1998, p.118

20
esclusivamente il fattore parentale ma la credenza nella validità dei
principi e delle regole della mafia e la compartecipazione ai suoi
affari.

Un’altra schiera di studiosi ritiene che i rapporti fra mafia e


famiglia si risolvono nel rispetto che il mafioso ha verso il padre e in
quello della mafia verso la famiglia ma in questo caso la relazione
logica si inverte in quanto la mafia non è più il fattore predominante
ma è la famiglia. I due fattori sono però inscindibili fra loro e la mafia
si sviluppa in base a delle condizioni preesistenti ovvero alla famiglia
arcaica, prodotto, a sua volta, dell’arretratezza34.

Al di là delle diverse interpretazioni sociologiche, per


comprendere le condizioni famigliari che favoriscono il riprodursi di
individui mafiosi è necessario tracciare il confine tra il sistema
familiare mafioso inteso come un’entità autonoma e quello della mafia
inteso come organizzazione criminale. I due sistemi intessono delle
relazioni di reciproca funzionalità che, soprattutto all’interno della
famiglia, tendono a rafforzare le leggi del clan, evitando tutte le
manifestazioni non precipue a ciò. Contestualmente, il clan impone ai
suoi uomini un rispetto formale dei valori della famiglia.

Questo schema è necessario alla mafia in quanto è l’unico che le


permette di reclutare manodopera fidata e le offre anche un apparato
ideologico consolidato in grado di stimolare negli affiliati il senso di
appartenenza, che è garanzia di coesione. Nel contempo la famiglia
trova nella mafia un ottimo alleato per difendere le proprie tradizioni

34
Cfr. Gribaudi G., Mafia, culture e gruppi sociali, in Meridiana, 7-8, 1990, pp.347-348

21
dall’aggressione di altre culture antagoniste perché innovative o
straniere35.

La famiglia mafiosa si presenta su due piani, che sono quello


dei singoli ruoli maschili e femminili e quello delle transazioni tra i
ruoli; essa non ha una sfera privata, non vi è una dimensione di
intimità del marito e della moglie che viene a mancare in seguito alla
necessità di controllare i comportamenti e le attività dei membri. Essa
si distingue per l’eccesso di autoritarismo e per l’assenza di emotività;
l’uomo detiene il ruolo principale e di indiscusso potere che difende
con l’ausilio di un codice comportamentale consolidato che percepisce
l’altro sotto forma di proprietà36. L’uomo non manifesta i propri
sentimenti, viene educato a ritenere che la loro negazione sia
dimostrazione di forza.

Il ruolo della donna è molto più complesso; essa svolge


all’interno della famiglia mafiosa la funzione economica che
garantisce la sopravvivenza del proprio lignaggio generando i figli ed
occupandosi della gestione domestica. Per molto tempo la figura della
donna è stata vista come subordinata e passiva in quanto poco
propensa alla ribellione e alla trasgressione ma in realtà ha una grande
capacità di rielaborare i modelli che le vengono imposti, garantendosi
in tal modo una partecipazione consapevole alla vita della famiglia.

La donna non esprime mai i suoi sentimenti, ne è quasi incapace


ma in realtà questa passività si sviluppa consequenzialmente alla
coercizione e alla repressione che vive in questo sistema,

35
Armao, op. cit., p.43
36
Arlacchi, op. cit., p.24

22
omologandosi e conformandosi con questo per evitare rischi. In questo
contesto, il matrimonio non è un’unione fondata sulla scelta personale
ma è un modo per legare due gruppi per ottenere vantaggi economici
ed assicurarsi alleanze politiche.

Il ruolo marginale della donna rientra nei canoni tradizionali di


sviluppo della famiglia mafiosa alla quale possono accedere
esclusivamente gli uomini e che prevede il divieto formale di
affiliazione alle donne. A livello formale la mafia si presenta infatti
come un’organizzazione maschile ma nella realtà non mancano
episodi in cui una donna ha assunto posizioni di comando e sebbene
essa sia ritenuta un mondo di soli uomini, al suo interno il femminile
costituisce il modello organizzativo di gestione del potere. Secondo
Lo Coco, infatti, la protezione che la famiglia offre è un’esasperazione
della funzione protettiva materna37.

Le valenze ascritte ai singoli ruoli, maschile e femminile,


assumono molta importanza nel campo mafioso e anche se le donne
sono escluse dalle decisioni, sono molto coinvolte nella sfera della
quotidianità. Un esempio è la testimonianza di una giovane
collaboratrice di giustizia, vedova di un mafioso ucciso, la quale
racconta che: «Le mogli, che siano mafiose, siciliane oppure no,
sentono tutto, si fanno carico di tutto. Io ero una spugna. Se ai mariti
mafiosi si fanno le domande non ti rispondono, ma se te ne stai buona
e zitta quelli, che sono fessi come tutti gli uomini, si confidano, perché
così si sentono importanti»38.
37
Lo Coco G., Lo psichismo mafioso. Una bibliografia ragionata, in G. Lo Verso (a cura di) La
mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano 1998
38
Siebert R., Mafia e quotidianità, Il Saggiatore, Milano 1996, p.74

23
Tuttavia sebbene la funzione delle donne può apparire
insignificante in alcuni casi in altri diventa indispensabile, in
considerazione del fatto che la funzione di procreare la rende, spesso,
il trait d’union tra le famiglie in lotta e viene utilizzata come merce di
scambio per mettere fine ad antiche guerre ed inutili spargimenti di
sangue. La donna serve anche – e soprattutto- per tenere alta la
reputazione della famiglia: un protettore ha il compito di proteggere,
in primo luogo, la moralità della propria moglie. Le donne sono le
detentrici della memoria familiare: esortano la vendetta, ricordando
sempre i loro cari e trasmettono ai propri figli l’educazione mafiosa39.
Per un discorso più ampio sul ruolo della donna nel sistema mafioso si
rimanda però al capitolo seguente.

Infine, anche nei rapporti con i figli prevalgono il distacco,


l’atteggiamento anaffettivo del padre e le attenzioni soffocanti e
controllate delle madri ed è in questo senso la famiglia mafiosa:
«Riflette una concezione totalmente cinica della condizione umana e
dei rapporti sociali, compresi quelli con le mogli, la parentela e gli
amici»40.

1.3 Il movimento contro la mafia

39
Di Maria F. –Lavanco G., e il dogma. Percorsi per capire la comunità mafiosa, Franco Angeli,
Milano 1998
40
Goode W.J., Worl Revolution and Family Patterns, The Free Press, New York 1963, trad. It.
Famiglia e trasformazioni sociali. Un’analisi comparata, Zanichelli, Bologna 1982, p.319

24
Le prime forme visibili che si formano per contrastare la mafia
risalgono ai primi movimenti contadino che sfociano nei Fasci
siciliani che si connotano per la fronte impronta politica. Le prime
inchieste in tal senso risalgono al 1875, anno in cui viene svolta in
merito all’ordine pubblico dalla Commissione Parlamentare, che
evidenziano delle rare e deboli manifestazioni di resistenza
antimafiosa. Tali sporadici episodi dimostrano l’incapacità dei diversi
governi di interpretare il fenomeno mafioso come distinto dalla
criminalità comune ed anche l’operazione antimafia del 1877 non ha
effetti sulla mafia ma solamente sul banditismo.

Nel 1893, la mafia viene però alla ribalta nell’opinione pubblica


in seguito all’omicidio dell’ex presidente del Banco di Sicilia e già
sindaco di Palermo, Emanuele Notarbartolo, in seguito al quale essa
diventa il portavoce diretto della richiesta di giustizia a carico degli
esecutori e dei mandanti del delitto41. A seguito di ciò, le forze
politiche socialiste e liberali denunciano fortemente, scendendo in
piazza, la lentezza della giustizia e della magistratura.

Il processo si celebra in fasi alterne e fuori dalla Sicilia ma


nonostante possa essere considerato il più grande processo di mafia
del secolo, lo Stato non ne esce vincente in quanto il tribunale di
Bologna condanna i presunti assassini, Fontana e Palizzolo, ma la
Corte di Cassazione annulla per un vizio di forma e il successivo
processo, che si tiene a Firenze, li assolve per insufficienza di prove.

Come abbiamo visto, dopo la guerra, in Sicilia prende


nuovamente piede il movimento contadino e con l’avvento del
41
Chiara-Crescenti-Moschella, op. cit., p.53

25
fascismo si attua una forte e sommaria repressione poliziesca, affidata
al prefetto Mori, caratterizzata da un enorme numero di denunce,
arresti, processi e condanne. Ed anche se in questo periodo la mafia è
collocata ai margini della società, la coscienza antimafiosa non sembra
progredire. Nonostante l’azione repressiva di Mori e le modifiche al
sistema delle misure di prevenzione, con l’introduzione del confino di
polizia per le persone designate pericolose alla sicurezza pubblica, la
mafia riprende gradualmente la sua espansione.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta il movimento contadino si


avvia al declino che inizia con la fine del ciclo cominciato con i Fasci
siciliani e durato dal 1893 al 1955, il cui momento culminante è
rappresentato dall’occupazione delle terre. In questo contesto le donne
hanno un ruolo attivo ed alcune di loro detengono ruoli dirigenziali,
basti pensare che durante le manifestazioni, esse fanno da cuscinetto
protettivo tra le forze dell’ordine e i manifestanti, interloquiscono con
le forze dell’ordine e a volte reagiscono così duramente al punto di
essere arrestate e condannate42. La ragione per cui il movimento non
riesce a sopravvivere sta nel fatto che esso si compone
sostanzialmente da contadini che lottano per la terra, ovvero i
rappresentati dei ceti più deboli.

Nel decennio successivo, la mafia espande i propri interessi alle


città. E’ un periodo di forte sviluppo urbano, ed è proprio in questo
frangente che viene costituita la Commissione Parlamentare di
inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia. La Commissione viene
richiesta nel 1948 ma viene istituita solamente nel 1963, la sua attività
42
Santino, 2000

26
si protrae fino al 1976 e si conclude con la pubblicazione di numerose
relazioni e di documenti anche se non consegue alcun risultato
concreto sul piano legislativo, politico e sociale. Tuttavia, si delinea,
per la prima volta, una mappa del fenomeno mafioso, nella quale
viene affermata con certezza la sua esistenza come fenomeno
criminale e ne viene data la seguente definizione “fenomeno
delinquenziale e organizzato, capace di coinvolgere individui e gruppi
della classe dirigente, sempre alla ricerca di un legame influente con la
politica e di un rapporto inquinante con le pubbliche istituzioni locali,
regionali e nazionali”.

Viene inoltre chiarito il collegamento costante tra la mafia ed una


parte delle pubbliche istituzioni, della politica, e parte della società
civile, con cui vi è un reciproco scambio di favori e di aiuti43.

Un ulteriore punto di svolta dell’offensiva contro la mafia è


rappresentato dall’omicidio del Generale Dalla Chiesa, che era stato
inviato in Sicilia dopo l’uccisione del segretario regionale del Pci, Pio
La Torre, e che viene assassinato assieme alla giovane moglie e
all’autista, il 2 settembre 198244. I palermitani protestano contro
l’attentato e per la prima volta, scendono in piazza ed organizzano dei
cortei.

Dopo questo brutale episodio, il governo mette a punto degli


strumenti più efficaci e il 13 settembre vara la legge n.646, cosiddetta
legge Rognoni-La Torre, che introduce per la prima volta nel codice
penale il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso,

43
Renda, 1994
44
Dalla Chiesa N., Delitto imperfetto, Milano 1984

27
autorizzando il sequestro e la confisca dei beni riconducibili agli
indiziati della nuova fattispecie penale.

Nel corso degli anni successivi si sviluppa a Palermo un forte e


sempre più crescente movimento antimafia, promosso da associazioni
e gruppi, tra i quali entrano delle forze sociali nuove quali la scuola,
l’università, la letteratura, l’arte, il cinema, il teatro, la radio, la
televisione e la grande stampa nazionale. Oramai è forte la presa di
coscienza e si organizzano assemblee e manifestazioni pubbliche.

Tra le nuove forze si inseriscono anche molti rappresentati dello


Stato - magistrati, poliziotti e carabinieri – della Chiesa, che condanna
la mafia sul piano teologico e pastorale, del mondo politico, che
favoriscono la rottura dei rapporti tra la classe dirigente e il potere
mafioso.

Tutto ciò porta però ad un inasprimento della lotta tra la mafia e


la sua controparte che sfocia in una feroce ondata di violenza
terroristica che colpisce magistrati, poliziotti, giornalisti, politici e
semplici professionisti colpevoli di compiere il proprio dovere. Per
rispondere a tali tragedie così efferate, si apre una stagione di
straordinari risultati ottenuti dal pool antimafia composto dai
magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e
Paolo Guarnotta che indagano sui reati di mafia45.

In seguito alle diverse operazioni, condotte personalmente da


Falcone, inizia la stagione dei grandi pentiti di mafia, con la raccolta
delle confessioni di Buscetta, di Mannoia e Calderone e

45
Caponnetto A., I miei giorni a Palermo, Milano 1992

28
l’incriminazione di settecentosette presunti affiliati a Cosa Nostra che
vengono inclusi nelle liste del maxiprocesso del 1986 che vede la
presenza di 456 imputati, tra cui boss del calibro di Luciano Leggio e
Michele Greco46.. Saranno condannate 344 persone e si emetteranno
19 sentenze di ergastolo.

Cosa Nostra reagisce con stragi sempre più frequenti: nel 1985
a seguito dello scoppio di un’ autobomba destinata al giudice Carlo
Palermo, che rimane illeso, rimangono uccisi una donna e i suoi due
figli, nello stesso anno vengono giustiziati il commissario di pubblica
sicurezza Giuseppe Montana, il vicecapo della Squadra mobile
Antonino Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Nel 1992 vengono
uccisi il deputato democristiano Salvo Lima, il giudice Giovanni
Falcone, la moglie e gli agenti della scorta, il giudice Paolo Borsellino
e cinque agenti della scorta. L’anno seguente, il 14 maggio
un’autobomba esplode a Roma, il 27 dello stesso mese un’altra
autobomba esplode a Firenze, il 27 luglio ne esplode un’altra a Milano
e, tre quarti d’ora dopo, due ordigni esplodono a Roma. Gli attentati
causano numerosi morti e feriti.

In seguito agli omicidi di Falcone e Borsellino, il movimento


antimafia si rafforza al punto tale da coinvolgere direttamente le stesse
istituzioni nazionali e sebbene la reazione degli apparati dello Stato,
che si ispira alla logica “emergenziale”, produce rapidamente degli
importanti risultati. Nell’agosto del 1992 il Parlamento approva un
pacchetto di misure antimafia ed introduce il regime penitenziario
differenziato per i capi delle associazioni mafiose, a seguito del quale
46
Lodato S., Quindici anni di mafia, Milano 1995, p.199

29
aumenta il numero dei soggetti che chiedono di collaborare con la
giustizia.

Si avviano degli importanti procedimenti penali contro i capi e i


componenti di gruppi mafiosi ed anche delle inchieste che
evidenziano l’intreccio fra la mafia e gli uomini dello Stato di tutti i
livelli, e sia a livello nazionale e locale, evidenziando la forte
influenza delle cosche mafiose.

Lo Stato avvia una campagna sempre più forte per combattere


la delinquenza di tipo organizzato ed anche se le istituzioni rivelano
delle forti carenze, riesce a debilitare e delegittimare il sistema di Cosa
Nostra.

30
CAPITOLO SECONDO

LE DONNE E LA MAFIA

L’onore, quello di cui vanno


fieri e si pavoneggiano gli
uomini, assunto come
compito e come sfida morale
dalle donne stesse, diventa la
pietra tombale di ogni libertà
femminile.

Renate Siebert

31
2.4 Le donne del Sud

La condizione e l’identità delle donne meridionali presentano


un carattere comune che pervade il Mezzogiorno a partire dal lungo
processo storico che inizia nei secoli precedenti il XX secolo e che
ben caratterizza quest’ultimo. Tale caratteristica è la riproduttività
tipica della società meridionale47 che risulta essere una forte
peculiarità del modello di sviluppo italiano della seconda metà del
‘900, legato alla struttura delle campagne meridionali ed alla scarsa
penetrazione del mercato e dell’industrializzazione. Inoltre essa si
ricollega anche al rapporto tra la produzione e la riproduzione che si
risolve in favore della seconda, così come la produzione agricola
famigliare che ha segnato nei secoli la storia della famiglia come la
storia dell’urbanizzazione meridionale.

La tendenza della famiglia occidentale è rivolta


all’affermazione della famiglia riproduttiva, separata dalle funzioni
riproduttive e dal mercato del lavoro48; in questo contesto si evidenzia
la centralità della gestione femminile delle attività riproduttive e
l’assenza del maschio nella concreta gestione quotidiana di esse. La
riproduzione, oltre ad essere un’attività, è soprattutto un universo
simbolico dove si sono depositati nel corso della storia i valori
storicamente femminili che possiamo definire come quel carattere
sociale femminile che si fonda sui bisogni49 od anche come funzione
47
Ginatempo N., Materno ma non troppo. Questioni per una sociologia delle donne meridionali,
in Ginatempo N., a cura di, Donne del Sud: il prisma femminile sulla questione meridionale,
Gelka, Palermo 1993, p. 181
48
Cfr. Héritier F., voce Famiglia in Enciclopedia Einaudi, Torino 1981
49
Cfr Prokop U., Realtà e desiderio: l’ambivalenza femminile, Feltrinelli, Milano 1978

32
materna che ci descrive come costruzione sociale del genere
femminile50.

Quando si parla di riproduzione come sfera di attività sociale, la


ritroviamo nella famiglia ed anche nelle istituzioni che producono
servizi sociali o forme di assistenza ed è in questo senso che si
sviluppa nel Meridione in maniera totalizzante. In questa società
emergono la forte assenza di una propria struttura produttiva, la
dipendenza dal flusso di denaro pubblico esterno e la presenza di una
rete clientelare di distribuzione di ogni tipo di risorsa.

La società riproduttiva si caratterizza socialmente per una bassa


qualità della vita a causa della carenza qualitativa e quantitativa del
sistema pubblico di infrastrutture e servizi. E sono proprio gli aspetti
socio-culturali e politici che influiscono fortemente sulla condizione e
sull’identità femminile ed infatti la società riproduttiva è caratterizzata
dall’estrema povertà e dall’assenza sostanziale della sfera pubblica51,
in cui si sviluppa la formazione storica dell’etica del lavoro. La logica
dominante in questo tipo di società non è ispirata dai rapporti di
mercato e dallo Stato come sfera istituzionale e simbolica basata sulla
certezza del diritto e sulla parità dei cittadini. I processi di mutamento
dell’identità femminile sono appunto la sfera pubblica e
l’industrializzazione; la prima è molto debole e parziale nel Sud e
risulta confinata in tre ambiti principali che sono: la scuola, il mercato
dei consumi ed i mass media. La sfera industriale, che in altre aree ha
50
Cfr Chodorow N., La funzione materna, La Tartaruga, Milano 1990
51
In questo senso si intende come sfera pubblica lo spazio in cui si praticano realmente i diritti di
cittadinanza e come spazio simbolico in grado di produrre etiche, atteggiamenti ed identificazioni
ed, infine, come luogo dove prendere coscienza di sé come soggetto autonomo di diritti. Cfr.
Siebert R., Il Sud delle donne: potenzialità, interessi, desideri, in Quaderni del laboratorio di
Storia, Castrovillari, n.2, 1989, p.21

33
formato storicamente un’etica e una cultura ed anche l’accesso di
massa al lavoro salariato femminile, è sostituita dalla rete delle
clientele.

La condizione femminile è pertanto unificata dalla comune


appartenenza a questo tipo di società (riproduttiva) in cui si
ripropongono dei particolari tipi di sfera pubblica e di sistema dei
servizi sociali, di mercato del lavoro, di cultura politica e del lavoro,
determinando una struttura di risorse materiali e simboliche che
unificano una condizione di vita in cui lo scarso accesso al mercato
del lavoro e la scarsa qualità della vita sociale generano una
condizione che ripropone la famiglia e il ruolo della donna come
compensativi delle carenze dell’organizzazione sociale52.

Nella società meridionale si verificano dei processi involutivi


che peggiorano la situazione della sfera pubblica ed influiscono
pesantemente sulla condizione femminile in generale in quanto creano
dei nuovi vincoli. La generale debolezza del Welfare State unifica poi
tutte le donne del Sud in una condizione che crea il bisogno di un
lavoro riproduttivo aggiuntivo per soddisfare i bisogni quotidiani della
famiglia (rafforzando maggiormente la divisione sessuale del lavoro).
Il cattivo funzionamento delle istituzioni colpisce la donna in vari
modi: come utente dei servizi qualitativamente indecenti; come
disoccupata e potenziale lavoratrice nei servizi che vengono attivati in
numero ridotto e solo per determinate clientele e come cittadina che
non può fare esperienza di sé e degli altri nella sfera pubblica.

52
Ginatempo, op. cit., p. 183

34
Per le donne meridionali, il modello di identità è molto legato
alla tradizione, che le vuole mogli e madri, ma da qualche tempo si
assiste al tentativo di aderire a nuovi processi di mutamento per
evadere dal mondo famigliare e dai ruoli prescritti alla ricerca di
cammino fondato su più autonomia e più socialità. Le donne non
vogliono più essere solamente delle madri53 ed è per questo che
affrontano anche dei nuovi percorsi di istruzione.

Il cambiamento femminile nel Mezzogiorno si caratterizza


infatti in tre dimensioni macrosociologiche, ovvero: la contrazione
delle nascite, la trasformazione delle donne in donne occupate, o in
cerca di occupazione, o disoccupate e la crescita dell’istruzione
superiore, secondaria e universitaria54. La prima dimensione si scontra
con la caratteristica fondamentale della cultura femminile meridionale
che è rimasta immutata soprattutto in considerazione della forte azione
esercitata dal fattore “materno”55 che rimane la forma specifica di
potere legata all’identità femminile. La maternità è sempre molto forte
al punto da sovrastare i comportamenti innovativi; tuttavia si intravede
l’azione delle nuove generazioni, in particolare quelle più istruite, che
non sono più succubi della maternità ma scelgono quando cercarla
perché ricercano un precipuo spazio per sé56.

La seconda dimensione, l’occupazione femminile, è un campo


che presenta delle forti contraddizioni nonostante la crescita della
presenza di donne sul mercato del lavoro a partire dagli anni Settanta e
53
Cfr. Berger K., La pluralizzazione dei mondi della vita, in L. Sciolla (a cura di), Identità,
Rosenberg & Sellier, Torino 1988
54
Ginatempo, op. cit., p.5
55
IDEM, Donne al confine, Franco Angeli, Milano 1994
56
Piccone Stella S., Introduzione, in Ginatempo N. (a cura di), Donne del Sud, op. cit., p.11

35
la crescente tendenza femminile a restarvi dopo il matrimonio e la
nascita dei figli. Bisogna però evidenziare che in Italia l’occupazione
femminile è segregata da una cultura clientelare che l’ha indirizzata
essenzialmente in ambiti poco innovativi, come ad esempio
l’insegnamento e l’impiego pubblico57. Per quanto riguarda
l’insegnamento è opinione diffusa che sia il lavoro più consono ad una
donna in quanto le permette di conciliare i due ruoli che occupa nella
famiglia e nel mondo del lavoro58.

Le donne si inseriscono in un mercato del lavoro che può essere


definito “dualistico” in quanto si è formato dalla compresenza di
un’occupazione qualificata circoscritta, che privilegia la forza lavoro
istruita, insieme a forme di occupazione precaria, dequalificata, o il
lavoro nero della manodopera con basso titolo di studio. In questo
contesto, le donne che si inseriscono nel livello intermedio,
generalmente diplomate, incontrano i problemi maggiori poiché sono
interessate dalla disoccupazione e sono costantemente alla ricerca di
un’occupazione anno dopo anno, e sono anche quelle con il più alto
livello di frustrazione e di insoddisfazione.

La mancanza di lavoro colpisce però anche le donne con titolo


di studio della scuola dell’obbligo in quanto vi è una forte carenza di
domanda di lavoro manuale qualificato stabile ma anche per quello
specificatamente qualificato destinato alle laureate59.

57
Piselli F., Donne e mercato del lavoro: il caso della Calabria e del Portogallo, in Ginatempo N.
(a cura di), Donne del Sud, op. cit., p.59
58
Cfr. Gugino C. - Lo Cascio G., La famiglia, in AA. VV. Essere donna in Sicilia, Editori Riuniti,
Roma 1986
59
Leccardi C., Giovani donne, immagini del lavoro e mutamento sociale in Calabria, in
Ginatempo N. (a cura di), Donne del Sud, op. cit., p.72

36
A differenza di altre aree d’Italia, in Sicilia, il lavoro
extradomestico delle donne è subordinato alle priorità familiari ma si
stanno verificando dei cambiamenti nelle giovani donne che sentono il
desiderio di realizzarsi e di lavorare per guadagnare60.

Per quanto concerne la terza dimensione relativa alla crescita


della scolarizzazione femminile, essa inizia ad affermarsi a partire
dalla seconda metà degli anni Settanta grazie all’aumento dei redditi,
all’influenza della penetrazione di atteggiamenti cosmopoliti, veicolati
dai media ed anche alla speranza di un possibile sbocco occupazionale
ad un livello più elevato61.

Non bisogna dimenticare poi che il cambiamento delle giovani


donne del Sud è frenato in larga parte dai vincoli legati allo sviluppo
economico del Mezzogiorno, dalle distorsioni che caratterizzano le
relazioni nella sfera pubblica e dalle proporzioni ridotte della sua
società civile.

2.5 La donna nelle organizzazioni mafiose

A differenza di quanto si riteneva in passato, le donne di mafia


sono sempre state a conoscenza di ciò che facevano i loro uomini
anche se ufficialmente non parlavano e non sapevano. Tale scenario
però si è pian piano dissolto a partire dalla fine degli anni Ottanta

60
Ivi
61
Oppo A., Ruoli femminili in Sardegna: rotture e continuità, in Ginatempo N. (a cura di), Donne
del Sud, op. cit., p.65

37
quando dei nuovi studi sul fenomeno mafioso hanno scoperto l’attività
e l’importanza dei ruoli femminili rispetto agli stereotipi dominanti62.

Negli ultimi trent’anni si è assistito alla trasformazione dei ruoli


svolti dalle donne in Cosa Nostra e nella ‘Ndrangheta e di recente
alcune donne di mafia63 hanno assunto potere sociale in prima
persona. Un potere che si sviluppa all’interno della famiglia perché se
l’uomo di mafia ha l’onore, la donna di mafia è l’onore 64.

Il coinvolgimento della donna nella sfera criminale è iniziato


nella seconda metà degli anni Settanta in corrispondenza della crescita
dell’inserimento mafioso nel traffico internazionale di stupefacenti e si
è consolidato nei periodi più critici. Tale mutamento è stato favorito
anche dalla nuova generazione di donne, più istruite e più libere di
muoversi rispetto al passato;è fondamentale infatti il mutamento della
condizione della donna nella società relativo alle nuove aspettative
sociali, al mercato del lavoro ed ai costumi sociali.

Le mansioni femminili in ambito criminale si sono sviluppate in


parallelo al ruolo tradizionale della sfera privata; storicamente alla
donna era affidato il compito di trasmettere il codice culturale
mafioso, di incitare gli uomini a compiere vendetta, di fare da garante
della reputazione maschile e da merce di scambio nelle politiche
matrimoniali. Non doveva essere istruita ma le era imposto un

62
Una rassegna di questi nuovi studi si ritrova in Santino U., Dalla mafia alle mafie. Scienze
sociali e crimine organizzato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp.209-229
63
Nella Camorra napoletana lo hanno sempre fatto
64
Di Maria F. – Lo Verso G., La donna nelle organizzazioni mafiose, in AA.VV., Donne e mafie.
Il ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali, Dipartimento di Scienze penalistiche,
Università degli studi di Palermo, Palermo 2003, p.91

38
modello criminale direttamente nella propria casa e ciò è accaduto a
Rosa N. che afferma infatti di essere:

«Nata e cresciuta in una famiglia molto ristretta, io non


potevo uscire, non mi hanno fatto studiare, arrivata alla
seconda elementare mi hanno detto che non valeva la pena
andare avanti perché giustamente non serviva a niente
continuare perché l’importante è che io stavo in casa,
lavoravo in casa quindi non mi serviva a niente la scuola;
però se non mi serviva la scuola non mi serviva neanche
andare a fare il contrabbando di sigarette …. invece l’ho
dovuto fare»65.

La donna doveva comportarsi rettamente e se teneva un


comportamento immorale gli uomini della famiglia dovevano punirla
con la morte o altrimenti sarebbero divenuti inaffidabili e
potenzialmente morti.

Non si deve però considerare la donna solamente una vittima in


quanto essa è venerata come una regina, è rispettata e ossequiata da
tutti66, è molto ricca, ha potere totale nell’educazione dei figli ed è
garante dell’equilibrio affettivo di tutta la famiglia.

Le donne di mafia sono abbastanza religiose a differenza degli


uomini che praticano una religione di apparenza, con un posto in
prima fila durante le processioni67.

65
Ingrascì O., La mafia e le donne: nuove ipotesi di ricerca, tesi di laurea, Università degli studi di
Milano, Milano 1998-1999, p.334
66
Ivi. Una giovane diciassettenne affermò , durante una seduta di psicoterapia, che se fosse andata
in giro nuda, nessuno avrebbe osato sfiorarla.
67
Cfr. Scarpinato R., Il dio dei mafiosi, in Micromega, n.19, 2000 e Principato T.-Dino A., Mafia
donna. Le vestali del sacro e dell’onore, Flaccovio, Palermo 1997

39
In apparenza la figura della donna è messa nelle retrovie
dell’organizzazione di Cosa Nostra anche se è sempre stata nei miti e
nella vita quotidiana dei mafiosi; si potrebbe affermare che questa
emarginazione è l’elemento fondamentale per la coesione di gruppi.

Per definizione la mafia è una società segreta che esclude le


donne dal ruolo pubblico anche se a tempo dovuto possono diventare
utili, ad esempio come merce di scambio per consolidare nuove
alleanze tramite i matrimoni. Il rapporto con le donne è unidirezionale,
nel senso che esse sono sfruttate, dominate, soggiogate e tenute
all’oscuro dei segreti dell’organizzazione. Esse hanno il compito di
«fare figli e accudire la casa»68.

La donna sopporta il peso della responsabilità di conservare la


reputazione che serve a tenere alto il nome della famiglia ma il suo
ruolo è meramente strumentale e secondario in quanto serve solo
come proliferatrice di figli e non deve avere altro ruolo. La maternità
le dà la garanzia di essere onorata e nel contempo le consente, nel
momento in cui dà alla luce un figlio maschio, di essere partecipe
dell’universo maschile. E ciò avviene in quanto la donna è apprezzata
dall’uomo come generatrice di figli maschi che rappresentano per la
donna-madre motivo di orgoglio nella comunità visto che il maschio
dà il nome. Nei ricordi di Rosa un episodio ben illustra l’importanza
conferita alla linea genealogica maschile:

68
Intervista al pentito Antonio N., Modena, 5 maggio 2004 in Ingrascì O., Donne d’onore. Storie
di mafia al femminile, Mondadori, Milano 2007, p. XVII

40
«La famiglia era costituita dai nipoti maschi; i nipoti
provenienti dai figli maschi erano sempre seduti in
prima fila, mentre i miei fratelli, figli di una figlia,
erano dall’altra parte […] una volta mio nonno ci ha
cacciati dal tavolo dicendoci che non eravamo dello
stesso cognome suo»69.

La donna è investita del compito di trasmettere il codice


culturale mafioso, un esempio pregnante lo riscontriamo
nell’educazione che Ninetta Bagarella impartisce ai suoi figli. Lei è
donna di “lignaggio mafioso” in quanto è sorella di Leoluca Bagarella
e moglie di Totò Riina, con cui condivide la latitanza mentre si occupa
dell’educazione dei figli; i figli maschi Giovanni e Giuseppe sono stati
accusati di associazione di tipo mafioso e il maggiore Giovanni, a soli
venticinque anni, è stato condannato all’ergastolo per omicidio70.

L’influenza della madre è molto forte ed influisce sulle scelte


del proprio figlio e tale potere diviene ancor più rilevante quando il
padre è detenuto o latitante, di cui si preoccupa di trasmettere
un’immagine fortemente positiva tanto che i figli arrivano a
mitizzarla. Questo processo di mitizzazione viene infatti rilevato dal
magistrato Alessandra Camassa che, sulla base di testimonianze di
donne di mafia della Valle del Belice, osserva appunto che:«La madre,
pur nel ruolo casalingo, svolgeva una funzione primaria in quanto
appoggiava il modello trasmesso dal padre. E infatti le figlie
69
Ingrascì, La mafia e le donne d’onore, op. cit., p.333
70
Giovanni è stato condannato all’ergastolo mentre Giuseppe è stato assolto dal Tribunale dei
minori di Palermo

41
raccontavano spesso di padri sempre assenti ma sempre presenti nei
racconti mitizzanti della madre: donna-madre che si costruisce un
uomo-eroe che in realtà non esiste»71.

Nel modello educativo, gli elementi fondamentali sono l’onore,


la vendetta e l’omertà, che, secondo Rosa N.:

«Noi siamo cresciuti nella mentalità balorda: mai


venire a dire “quello ha rubato una cosa”, mai
venirlo a dire, devi stare zitta, guai, ma io non ero
capace, tant’è vero che a volte vedevo mio fratello
rubare mille lire e subito lo dicevo a mia mamma,
erano tante di quelle botte che prendevo, “perché me
l’hai detto? Devi stare zitta»72.

I figli, sia maschi che femmine, imparano subito a rispettare i


genitori: il padre come rappresentante della mascolinità e della virilità
e la madre nella sua capacità riproduttiva ed educativa in quanto il
ruolo biologico le consente di avere importanza all’interno del sistema
maschile mafioso.

La sua posizione è, però, piuttosto ambivalente in quanto oscilla


tra i livelli di estraneità e di complicità ed anche se è ben consapevole
del ruolo subordinato al quale è confinata, sa che la sua presenza è
indispensabile per il funzionamento dell’organizzazione.
71
Camassa A., Lo psichismo mafioso femminile. Una testimonianza, in G. Lo Verso (a cura di), La
mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano 1998,
p.121
72
Ingrascì Ingrascì O., Donne d’onore, op. cit., p.338

42
Nonostante la donna è da sempre destinata ad essere
sottomessa, conquista pian piano un ruolo di centralità, che possiamo
definire sommersa in quanto le conferisce un ruolo attivo nelle
strategie organizzative della mafia. Tali cambiamenti hanno permesso
di indagare sui meccanismi e sulla dinamica femminile
dell’organizzazione; da ciò è emersa la figura di una donna che è
fedele al proprio uomo e custodisce e trasmette dei valori contrastanti
in quanto da un lato ci sono quelli pseudo-religiosi relativi al
rafforzamento della sacralità e dell’unione della famiglia e dall’altro
quelli inerenti alla trasmissione dei codici mafiosi.

Pertanto la donna «è un fulcro fondativo della struttura


psicologica dell’associazione mafiosa»73.

2.2.1 Le donne di Cosa Nostra

Nel mondo di Cosa Nostra la donna-madre è innalzata a


importanza ‘divina’74; essa è incontaminata, priva di sessualità ed è
per tali considerazioni che spesso i siciliani la evidenziano come
vittimizzata, soggiogata e subordinata. Le sue relazioni sono limitate
alla sfera famigliare e quindi è emarginata nel suo ambiente, così
come i suoi figli che sono prigionieri del codice materno che
garantisce loro la protezione mentre quello paterno gli incute timore in
73
Cfr. Di Maria F., Il segreto e il dogma: percorsi per capire la comunità mafiosa, Franco Angeli,
Milano 1997
74
Di Maria – Lo Verso G., La donna nelle organizzazioni mafiose, op. cit, p.97

43
quanto il potere è nelle mani del padre che controlla e infligge
punizioni75.

Il mondo del sentire mafioso si compone di regole e simboli: la


mafia protegge, i mafiosi detengono il potere di morte e di distruzione,
la casa è il regno della famiglia e la moglie la corona di tale regno76.

Come abbiamo detto, la figura della donna assume dei contorni


ambivalenti in quanto è socialmente soggiogata dal potere del
“maschio” mentre all’interno dell’organizzazione mafiosa, rappresenta
il potere, da cui deriva la sua totale esclusività di decidere del futuro
dei figli77. Lei può spingere i figli maschi verso qualsiasi azione
violenta e le figlie femmine verso il futuro di donna-madre garante
dell’integrità familiare.

La ricerca – ed in particolare quella sullo psichismo mafioso -


ha evidenziato il ruolo primario delle donna che, in quanto oggetto-
istituzione78, incarna i valori e i codici mafiosi della famiglia. Le
madri hanno la prerogativa della trasmissione dei valori, della cultura,
dei modelli relazionali e simbolici ed affettivi e ciò rafforza il loro
ruolo centrale nell’organizzazione mafiosa. Ma i valori su cui si fonda
questa modalità di pensiero, alimentano il profondo divario tra il
potere maschile e la dinamica femminile. Da ciò ne consegue
l’assegnazione di ruoli standard conferiti all’uomo e alla donna che,

75
Cfr. Lo Verso G.-Lo Coco G., La psiche mafiosa: storie di casi clinici e collaboratori di
giustizia, Franco Angeli Milano 2003
76
Di Maria – Lo Verso G., La donna nelle organizzazioni mafiose, op. cit, p.97
77
Cfr. Arlacchi P., Gli uomini del disonore. La mafia nella vita del grande pentito Antonio
Calderone, Mondadori, Milano 1992
78
Cfr. Fiore I., le radici inconsce dello psichismo mafioso, Franco Angeli, Milano 1997

44
nella cultura siciliana (ma anche da altre), hanno assegnato, al primo,
il potere e il dominio mentre alla donna il ruolo di “grande madre”.

In queste realtà il legame fra uomo e donna si sviluppa nella


forma simbiotica madre-bambino che genera delle relazioni di
attaccamento o, talvolta, delle manifestazioni depressive79.

In questa sistema mafioso, essere donna equivale ad essere


portatrice di un sistema di valori che deve essere conservato intatto,
mantenendo la sacralità della famiglia ed è per questo che non si può
fare a meno di essa.

La donna che nasce e cresce in Cosa Nostra, è costantemente


controllata e fin da piccola è modellata ed educata in vista di un futuro
che la vedrà andare in sposa ad un uomo d’onore ed ha un ruolo
determinante e funzionale all’espansione del potere dei propri
uomini80.

Con il trascorrere del tempo, l’universo femminile di Cosa


Nostra ha assunto ampia prospettiva con un forte processo di
soggettivazione femminile riguardante le mogli, le compagnie, le
figlie e le sorelle dei mafiosi. Si evidenzia una scissione del ruolo
della donna: da un lato vi è la donna che non si sente solo “matri di
famigghia” ed istiga l’uomo ad allontanarsi da questo mondo, mentre
dall’altro, vi è la donna che, alla luce della tradizione, è depositaria di

79
La prospettiva analitica è volta ad analizzare le ripercussioni che il pensare mafioso ha dal punto
di vista psichico, mentale, emozionale; l’enfasi è posta sui meccanismi che spingono tale
organizzazione a reagire o rimanere vittime del sistema. A tal proposito di veda: Lo Verso G. (a
cura di), La mafia dentro: psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli,
Milano 1998
80
Principato - Dino, op. cit.

45
un potere di morte che le assicura un posizione di rispetto e di
riguardo, al punto da rifiutare il suo uomo quando si pente.

Nel primo caso le donne si trovano a fare parte, contro la loro


volontà, di una condizione di subordinazione e costrizione, diventando
così delle complici silenti di Cosa Nostra, perché l’uomo mafioso la
ritiene una fonte di guai ed è questa ragione che non deve
emanciparsi. Il corpo femminile ha un ruolo centrale nella strategia
del potere territoriale, come se, secondo il giudice Ignazio De
Francisci, fosse una sorta di ius copulandi81e fosse così la
suggellazione di un patto che assoggetta le femmine al maschio
padrone.

Con il passare del tempio e con l’evolversi delle indagini e dei


processi, l’immagine della donna è passata da vittima sottomessa a
donna complice e custode di segreti. Sembrerebbe infatti che le donne
siano complici dell’attività mafiosa e quindi capaci di intendere.

La donna (intesa come madre, moglie, compagna, sorella e


figlia) occupa una posizione di potere all’interno dell’organizzazione
mafiosa, che le conferisce uno status di rilievo inattaccabile. Quando
l’uomo d’onore si pente, priva di fatto questo status e suscita
sentimento di disprezzo nei suoi confronti.

Concludendo, come abbiamo visto il ruolo della donna


all’interno di Cosa Nostra è fondamentale anche se essa:«spesso viene
considerata un soggetto di serie b, quando in realtà il suo contributo
nella delineazione della realtà femminile all’interno dell’attività e del

81
Siebert, Le donne e la mafia, op. cit., p.29

46
sentire mafioso potrebbe risultare più pregnante rispetto a quello
offerto dall’uomo»82.

2.2.2 Le donne calabresi

Le donne della ‘Ndrangheta e della Camorra non presentano le


stesse caratteristiche di quelle di Cosa Nostra anche se in parte la
‘Ndrangheta si basa su una struttura gerarchicamente verticale e
sull’affiliazione su base etnico-famigliare. Per comprendere il ruolo
della donna all’interno di questa organizzazione, si pone l’attenzione
sulla sua tipicità anche perché la ‘ndrangheta, a differenza della mafia
siciliana, ha cercato quasi sempre di evitare lo scontro frontale con lo
Stato; adusa alla sottile pratica della collusione e della corruzione, si è
sovrapposta e si è intrecciata, inestricabilmente, con segmenti delle
istituzioni83.

La ‘Ndrangheta si è sviluppata maggiormente a partire dagli


anni Settanta e Ottanta quando da mafia rurale legata ai proventi di
estorsione, sequestri e contrabbandi, è passata ad essere una mafia di
stampo imprenditrice e finanziaria con vaste ramificazione al Nord
d’Italia ed in alcuni paesi esteri, come ad esempio la Germania, i paesi
dell’Est, l’Australia e il Canada. Essa è presente nel territorio
calabrese soggiogando al proprio potere il controllo territoriale di
diversi comuni mentre in altri è del tutto assente.

82
Ingrascì O., in AA.VV., Donne e mafie, op. cit., p.100
83
Malafarina L., La ’ndrangheta. Il codice segreto, la storia, i miti, i riti ed i personaggi,Gangemi,
Roma, 1989, p. 60

47
La ‘Ndragheta si struttura sulle relazioni parentali: famiglia di
sangue e famiglia criminale tendono a coincidere in quanto la
famiglia, intesa appunto come cellula primaria dell’organizzazione
mafiosa, è una realtà in grado di rigenerarsi e consolidarsi, in modo
omogeneo e costante, che si espande mediante unioni matrimoniali e
comparati con esponenti di altre famiglie onorate. Tuttavia a
differenza della mafia «la ‘Ndrangheta continua a essere divise in
‘ndrine autonome senza una struttura unica di comando; le ‘ndrine, a
loro volta, sono sempre più costituite su basi familiari e parentali
molto ampie. Queste continuano a rappresentare la spina dorsale della
struttura ‘ndranghetista»84.

Dalla relazione della Commissione parlamentare sulle


organizzazioni mafiose del 2000 si legge:« Al contrario di quanto
molti per lungo tempo hanno creduto, la famiglia di sangue come
fondamento della famiglia mafiosa, la struttura familiare comne
fondamento dell’organizzazione mafiosa, si sono rivelate – nella realtà
della Calabria e in quella di territori anche molto lontani e diversi –
uno straordinario strumento di salvaguardi e di espansione della
‘Ndrangheta. È proprio questa struttura “primitiva” che ha consentito
alla ‘Ndrangheta di evitare la tempesta che si è abbattuta su Cosa
Nostra, sulla Camorra e sulla Sacra Corona Unita»85.

Nella famiglia ‘ndranghetista vi è l’introduzione di comari e


compari, che sanciscono ulteriori rapporti, legittimati dai vari riti
religiosi (battesimo, cresima, matrimonio) che uniscono gli attori ad
84
Ciconte E., ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi, Laterza, Roma 1992, p.361
85
Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni
criminali similari, Relazione sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Calabria, XIII
legislatura, Roma 2000, pp.101-102

48
una parentela spirituale, molto sentita in Calabria. Queste relazioni si
sovrappongono nella vita quotidiana, formando quella rete di
conoscenze sociali senza la quale non ci sarebbe socialità tra gli
uomini.

Nella ‘Ndrangheta, il vincolo familiare funziona da scudo a


protezione in primis dei segreti e della sicurezza dell’organizzazione
mentre, verso l’esterno, sottoforma di ideologia, si presenta come
difensore della famiglia e dei suoi valori, mentre al suo interno i
singoli uomini d’onore sono consapevoli dell’uso cinico che di questi
valori si è tenuti a fare: “la società di familisti amorali non ha dubbi
sulla sua disonestà”86. Infatti, «la manipolazione delle reti parentali e
amicali e l’uso strumentale degli stessi, fino al gesto estremo di
sacrificio della loro vita, sono impegni che l’aspirante mafioso
s’incarica di rispettare al momento dell’iniziazione»87.

Scelgono anche i simboli che li rappresentano in modo da


richiamare idealmente la famiglia, pur se con la consapevolezza di
creare un duplicato fittizio. Si pensi, ad esempio al simbolo scelto
dalle ‘ndrine, per rappresentare il ruolo dei singoli appartenenti, in
scala gerarchica, raffigurata dall’albero della scienza. « “Lo statuto è
diviso in 6 parti: il fusto rappresenta il capo della società; il rifusto, il
contabile e il mastro di giornata; i rami i camorristi di sangue e di
agrario; i ramoscelli i picciotti o i puntaioli; i fiori rappresentano i
giovani d’onore; le foglie le carogne e i traditori che finiscono per

86
Banfield C. E., Una comunità del Mezzogiorno, ed. orig. The moral basis of a backward society,
New York, Il Mulino, Bologna, 1961,p. 73
87
Siebert R., Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 65

49
marcire ai piedi dell’albero»88. Il rispetto si fa maggiore dalla base
verso il vertice ed è proporzionale al tempo trascorso in seno alla
famiglia. La norma che regola i rapporti intra-familiari non è qui la
solidarietà o l’appartenenza, ma è la subordinazione, cioè l’insieme di
obblighi e di valori che mettono in risalto le posizioni di potere
vigente sia nella gerarchia domestica di stampo patriarcale, che in
quella ndranghetista.

In questo contesto l’autorità della donna viene annullata in virtù


del principio secondo cui l’autorità del padre prevale a causa della
“supremazia del sesso”; nella famiglia l’uomo è il padre, è il padrone,
che si serve della soggezione assoluta di moglie e figli. Questi uomini,
vivendo sottomessi da secoli, tendevano a esercitare

quel minimo di potere che era loro concesso di diritto, imprigionando


la propria famiglia a obblighi e doveri, dettati da un capofamiglia-
padrone, in nome di una dignità, che altro non era, che un’immagine
da spendere all’esterno.

Alla donna spettava unicamente il compito di rispetto e


deferenza ma col passare del tempo essa sta mutando soprattutto in
relazione al fatto che nel contesto tradizionale e rurale rivestiva un
ruolo lontano dalle attività criminali anche se emergeva nelle faide,
nelle vendette e nell’incitamento alla vendetta89. Queste faide erano
legate, apparentemente, a delle questioni di offesa e di onore tra le
famiglie ma nella realtà, esse erano lotte per il controllo criminale del
territorio. Nella mafia ‘rurale’ le donne sanno ma non parlano e non
88
Ciconte, op. cit., p.102
89
Siebert R., Donne di mafia: affermazione di uno pseudo-soggetto femminile. Il caso della
‘Ndrangheta, in AA.VV., Donne e mafie, op. cit., p.30

50
assurgono mai a ruoli di primaria importanza mentre in alcune
organizzazioni mafiose imprenditoriali la donna è molto più attenta.
Vi sono, infatti, “mogli di soggetti che sono detenuti per fatti
gravissimi, fatti di sangue, fatti di mafia e le mogli sono impiegate
statali, hanno anche compiti di un certo rilievo all’interno di alcune
amministrazioni pubbliche”90.

Da ciò si evince che in un contesto rurale le donne di una certa


età e le madri hanno un ruolo attivo, legato alle questioni di vendetta a
differenza delle giovani, che sono oggetto di strategie matrimoniali
per rinsaldare le alleanze famigliari. Il pentito Antonio Zagari
sottolinea, infatti, l’importanza criminale delle donne nelle famiglie
legate alla ‘Ndrangheta:«Le regole della ‘Ndrangheta calabrese non
contemplano la possibilità di affiliare elementi femmina, tuttavia se
una donna viene riconosciuta particolarmente meritevole può essere
associata con il titolo di ‘sorella di omertà’; senza però prestare
giuramento di fedeltà all’organizzazione come è obbligatoriamente
previsto per gli uomini; ma difficilmente si riconosce il titolo a chi
non è già moglie, figlia, sorella, fidanzata, o comunque imparentata
con uomini d’onore»91.

Il ruolo della donna non è passivo ma attivo in quanto fomenta e


partecipa in prima persona alle faide famigliari ed anche quando
queste si trasformano in guerra di mafia. La testimonianza di Rita di
Giovine, collaboratrice di giustizia e componente del clan Serraino-Di

90
Ivi, Intervista con Eugenio Facciolla, Catanzaro 19 novembre 2001
91
Zagari A., Ammazzare stanca. Autobiografia di uno ‘ndranghetista pentito, Edizioni Periferia,
Cosenza 1992, p.12

51
Giovine92 ben chiarisce la situazione. Lei assiste alla guerra di mafia
da lontano in quanto vive a Milano ma quando rientra in Calabria per
trascorrere le vacanze viene coinvolta. Racconta infatti che:

«Mia zia, mia cugina fanno tutto. Anch’io quando


ero giù in Calabria, non le armi ma portavo mio zio,
lo accompagnavo in macchina ds qualche parte
oppure andavo a prendere i bigliettini da portare a
mio zio, lui le chiamava “ambasciate”; […] quelle
che hanno fatto i lavori giù nella guerra di mafia
sono state le donne. Quando arrivavano le armi era
mia zia che faceva da staffetta, mia zia che le
consegnava, oppure mia cugina andava a prendere,
non so, la pistola, il fucile, quello che serviva e lo
portava a suo padre. E quando uscivano di casa
uscivano sempre scortati dalle donne oppure con le
parrucche […] gli uomini erano sempre latitanti o
erano agli arresti domiciliari forzati perché si
arrestavano da soli, cioè stavano chiusi in casa e chi
lavorava erano tutte donne[…] cioè tutte le cose che
si svolgevano erano sempre tramite noi donne»93.

92
L’intervista viene realizzata da Ombretta Ingrascì per la sua tesi di laurea, op. cit., si veda nota
65
93
Ivi

52
Le donne sono molto attive e soprattutto consce del ruolo che
ricoprono anche se rimangono sempre un mero strumento nelle mani
del maschio quando vengono utilizzate per le strategie famigliari
tramite i matrimoni di comodo. Nel caso in cui non concordano,
possono anche essere uccise ed hanno il medesimo trattamento se si
innamorano dell’uomo sbagliato.

Tuttavia, i processi di modernizzazione della ‘Ndrangheta


hanno influito fortemente sul ruolo delle donne nei contesti di vita e di
attività criminale delle famiglie mafiose. Esse sono maggiormente
sfruttate dai mafiosi che tendono a non coinvolgere i figli e quindi a
sfruttare maggiormente la situazione della donna anche perché sanno
che essa è meno controllata dalle forze dell’Ordine.

Anche i processi di emancipazione femminile in generale e


l’alto tasso di scolarizzazione secondaria delle donne hanno
influenzato la loro posizione all’interno del mondo della ‘Ndrangheta.
Basti pensare che molte mogli o conviventi di criminali mafiosi,
gestiscono i loro conti correnti, fanno una vita lussuosa e controllano
le operazioni finanziarie, creano delle imprese in quanto sono meno
controllabili nei movimenti94.

In generale, si nota la tendenza da parte delle donne ad


occuparsi degli interessi criminali della famiglia e soprattutto delle
strategie comunicative contro la magistratura, contro la collaborazione
e si impegnano attivamente nella gestione economica della ricchezza e
nell’attività criminale violenta, come ad esempio l’estorsione, l’usura,
il traffico di droga e di armi. Sfruttano abilmente il loro ruolo di
94
Intervista con Eugenio Facciolla, Catanzaro 19 novembre 2001

53
casalinghe che le aiuta a nascondere messaggi, armi, droga ed altro e
che le rende pertanto meno controllabili degli uomini

2.2.3 Le donne napoletane

La Camorra napoletana è sempre stata molto diversa da Cosa


Nostra in termini di struttura interna di organizzazione, di attività e di
ruolo nella società civile e nella politica. Tali differenze sono state
oggetto di scherno da parte dei mafiosi siciliani che hanno deriso
spesso i camorristi, definendoli dei “buffoni”95; in un’intervista il
pentito Salvatore Migliorino ha spiegato che i camorristi si vantavano
troppo e che agivano troppo apertamente senza discrezione96.

Le differenze tra queste due organizzazioni sono innanzitutto


territoriali e ciò riguarda anche il ruolo delle donne che nel corso dei
decenni si evolve in base ai legami con le diverse aree geografiche. Le
donne non sono più ai margini della malavita napoletana ma
acquistano una rilevanza centrale all’interno dell’organizzazione. Esse
non vivono più all’ombra dei padri, dei fratelli, dei cugini, dei mariti,
dei figli o degli amanti ma si sono trasformate in protagoniste attive e
partecipano attivamente con dei ruoli formali, come prestanomi per
un’azienda o assumendo la leadership e prendendo decisioni
95
Allum F., Donne nella Camorra napoletana 1950-200, in AA.VV., Donne e mafie, op. cit., p.14
96
Salvatore Migliorino, ex membro del clan Gionta di Torre Annunziata, 22.08.1997, Procura di
Napoli, p.29

54
strategiche per l’attività del clan. Un esempio lo si riscontra nel paese
di Lauro, in provincia di Avellino, dove le donne del clan Graziano
nel maggio del 2002 si sono scontrate in una sparatoria con quelle del
clan Cava, durante il quale tre di loro sono morte e sei gravemente
ferite97.

Queste donne sono sempre state coinvolte e consapevoli delle


attività dei loro uomini e non sono mai state delle spettatrici passive in
quanto hanno costituito la spina dorsale dell’organizzazione criminale,
diventandone sempre più coinvolte.

Gli storici ritengono che nella trasformazione delle donne


camorristiche, a partire dal periodo post bellico, si possano
riconoscere tre fattori quali:

1) i cambiamenti della società;

2) la guerra della Camorra che si è sviluppata negli anni


Ottanta fra due diversi modelli criminali;

3) la struttura interna flessibile della Camorra e la mancanza


di gerarchia nell’organizzazione che dà alle donne
l’opportunità di assumere un ruolo attivo98.

Nel tempo la Camorra si è evoluta passando da un modello


criminale tradizionale ad una macchina moderna ed efficiente che
produce denaro con una struttura flessibile. Conseguentemente è
mutato anche il comportamento delle donne che si sono allontanate
dal modello tradizione per assumere ruoli attivi e decisionali. Tutto

97
Donne Killer, in Ultimissime, 29 maggio 2002, p.1
98
Cfr. Allum F., op. cit., p.15

55
ciò è, però, in parte anche dovuto all’emancipazione delle donne nella
società napoletana che le avvicina sempre più al mondo del lavoro e
che le spinge a non concentrarsi più totalmente verso la famiglia
facendola diventare il centro della loro vita. Le donne napoletane
giocano un ruolo pieno e attivo nella società, “ forse più di qualunque
altra donna di qualunque regione d’Italia, e la malavita criminale non
fa eccezione”99.

Possiamo distinguere tre fasi dello sviluppo della figura della


donna, quali:

- dal 1950 al 1976 in cui le donne sono considerate come


sistema di sostegno;

- dal 1976 al 1990 in cui le donne difendono i loro uomini;

- dal 1990 al 2003 in cui le donne agiscono come criminali in


prima persona.

Nella prima fase le donne sono il sostegno dell’organizzazione,


così come accade nell’organizzazione mafiosa siciliana, ma già da
questo momento esse tendono ad allontanarsi da questa forma
tradizionale di comportamento per arrivare all’indipendenza.

Nella seconda fase le donne difendono i loro uomini e ciò è


dovuto ai conflitti che avvengono in questo periodo tra i modelli
criminali che vogliono imporsi come La Nuova Camorra Organizzata
(NCO) che vuole imporre il modello culturale della Campania e la

99
Longrigg C., L’altra metà della mafia: l’anima femminile di cosa nostra, ndrangheta e
Camorra, ed. orig. Mafia Women, Ponte delle grazie, Milano 1997, p.35

56
Nuova Famiglia (NF) che rilancia quello siciliano più tradizionali.
Questa situazione porta ad un reale coinvolgimento delle donne nelle
attività della Camorra.

Nella terza fase hanno ormai assunto un ruolo principale perché


in mancanza di uomini adatti a prendere in mano la leadership,
ritengono di avere le stesse capacità criminali degli uomini.

Il momento cruciale dell’evoluzione della figura della donna si


colloca tra la seconda e la terza fase quando le donne diventano
effettivamente delle protagoniste dell’attività criminale ed il fatto che
esistevano molti modelli criminali, faceva mancare un codice d’onore
tradizionale da perseguire ed in questo momento piuttosto caotico le
donne si sentono di dovere ricoprire un ruolo attivo. Tale periodo
coincide anche con l’inizio del fenomeno del pentitismo che permette
alle donne di prendere in mano la situazione.

Nel periodo post bellico, il ruolo delle donne è stato


fondamentale anche se all’inizio era invisibile, diventando sempre più
chiaro negli ultimi vent’anni. Tra gli anni Cinquanta ed Ottanta hanno
fatto parte di un sistema di sostegno per i camorristi a livello formale
ed informale ovvero coordinando le reti della Camorra ai livelli più
bassi e producendo le condizioni che hanno incoraggiato i loro figli a
diventare dei camorristi100. Si sono occupate anche della vendita di
sigarette americane di contrabbando, di droga e di merce illecita, agli
angoli delle strade ma hanno anche ricoperto un ruolo essenziale per
l’organizzazione perché non erano altro che la presenza costante della

100
Gribaudi G., Donne. Uomini e Famiglie. Napoli nel Novecento, Ancora, Napoli 1999, p.19

57
Camorra nella comunità locale101. Possedevano armi rubate, merce
illegale e ospitavano i boss latitanti mentre a livello formale
diventavano presidenti di compagnie fantasma e ricevevano dei
contratti pubblici come nel caso di Maria Orlando, madre di Lorenzo
Nuvoletta del clan dei Nuvoletta102. Esse diventarono anche dei leali
difensori dei loro uomini, seguendone i processi e parlando con i loro
avvocati ed intervenendo anche a livello pubblico per sostenerli.

In questa fase, in cui i modelli emergenti si combattono tra loro,


le donne si espongono in prima persona per difendere i loro uomini
ma nel clan dei Casalesi di Casal di Principe, che segue il codice
d’onore di stampo tradizionale, ciò non avviene e le donne rimangono
in disparte. Per tale motivo diventerà il clan più pericoloso ed
economicamente più forte della regione e le donne non sono loquaci
ed indipendenti come le altre della Camorra.

Nei clan che non sono influenzati dai siciliani, tre donne
riescono ad arrivare ai vertici e sono: Rosetta Cutolo, sorella del capo
della NCO, Raffaele, Anna Mazza, moglie del capo Gennaro Moccia e
madre dei fratelli Moccia e Pupetta Maresca, partner del barone della
droga Umberto Ammaturo e sorella di Ciro Maresca.

Negli ultimi anni le donne dei clan cittadini sono divenute più
attive e sono coinvolte totalmente nella vita del clan, basti pensare a
Teresa De Luca Bossi che è stata condannata o Carmela, Marianna ed
Erminia Giuliano, rispettivamente moglie, figlia e sorella di Luigi

101
Degli esempi significativi sono “Donna Germana”, moglie del contrabbandiere di Forcella, Pio
Vittorio e madre del futuro boss Luigi Giuliano e Fortuna, moglie di Vincenzo l’Americano
102
De Gregorio S., I Nemici di Cutolo, Tullio Pironti, Napoli 1989, p.89

58
Giuliano103. Con l’arresto di molti boss, si crea un vuoto che viene
colmato dalle donne più intelligenti che non si limitano più, quindi,a
difendere solamente i propri uomini.

Questa evoluzione delle donne camorristiche sembrerebbe


rompere il modello delle donne del sud che le vede subordinate agli
uomini ma in realtà, il loro comportamento difende l’organizzazione
tradizionale che cerca di controllare la società civile, l’economia e la
politica per arrestare la modernizzazione del Sud.

Infine, rispetto alle donne mafiose e a quelle ‘ndranghetiste, le


donne della Camorra si differenziano perché sono più visibili e
chiassose, si ergono a personaggi pubblici, assumono dei ruoli di
comando ed usano un linguaggio maschile. Hanno anche un apposito
look per ogni occasione ovvero da “femme fatale” in vestito da sera e
gioielli vistosi per i debutti in società, vedova a lutto con viso tirato e
velo nero nelle aule dei tribunali, casalinga disperata in vestaglia
sgualcita per le strade, di fronte alle divise.

2.6 L’ideale di donna onorata

Quando si parla di donna onorata è necessario tenere presente il


concetto di ‘onore della famiglia’ del mafioso. Il ruolo “pubblico” del
mafioso presuppone un dominio totale sulla sua sfera privata; le pareti
domestiche del mafioso devono essere un santuario di moralità e il
controllo indiscusso sulla propria famiglia e il potere di manipolare
103
Allum F., op. cit., p.20

59
autoritariamente le relazioni parentali appare come prerequisito per
essere riconosciuto e apprezzato come “uomo d’onore”.

La reputazione del mafioso è prima di tutto derivata da uno


stato personale o meglio dalla santità morale dell’istituzione familiare
che ha costruito e si riferisce sostanzialmente alla purezza delle sue
componenti femminili: moglie, figlia, sorella, madre, amante104.

Lo stereotipo del mafioso come uomo d’onore, costituisce uno


dei pilastri fondamentali, assieme a quello della famiglia, nella
costruzione sociale dell’immagine degli uomini di mafia. Da una
prospettiva femminile si evidenzia la falsità insita in questi principi,
manipolati abilmente per dare enfasi a quell’immagine di rettitudine
morale, “annebbiata da un’apparenza della quale la mafia si è
vestita”105.

Il concetto d’onore, serve innanzitutto al mafioso in quanto va a


singolarizzarlo come modello di condotta “concreto” all’interno della
società, divulgando quell’immagine di sanità morale spendibile
all’esterno, come una sorta di insegnamento della capacità di controllo
sociale di carattere morale, attraverso la propaganda di un modello di
vita familiare senza macchia106.

Più che controllo sociale risulta essere una vera e propria


privazione della libertà (sessuale) di queste donne, che rimangono,

104
Presso le culture mediterranee, la conservazione dell’onore corrispondeva principalmente alla
conservazione della verginità delle donne, ovvero il mantenimento di una monogamia esclusiva.
Quando l’onore viene “macchiato”, è in primis la reputazione del nome di un uomo che viene
guastata.
105
Longrigg, op. cit., p.17
106
Pezzino P., Per una critica dell’onore mafioso, in Fiume G., Onore e storia nelle società
mediterranee, La Luna, Palermo 1989

60
forse anche per tutta la vita, inconsapevoli di essere state private della
possibilità di scegliere, di conoscere una vita diversa, libera, fatta di
opinioni e volontà personali. Se accade che se ne rendano conto,
probabilmente è sempre tardi.

Nella maggior parte dei casi, succede però, che queste donne
diventano una specie di angeli custodi, “muti e sordi” al servizio di
diavoli che sanno cosa succede quando l’onore viene per qualsiasi
motivo compromesso. Sanno intimamente qual’è il sentimento che
assale la psiche di quell’uomo, che non è un uomo comune che si
affida al diritto, ma è un mafioso, con delle proprie leggi che lo
indirizzano verso la giustizia privata, la vendetta appunto.

Sono mossi da un sentimento che per principio è inaccettabile,


la vergogna, ma non è la vergogna che si sperimenta, ad esempio
facendo una gaffe, piuttosto è un qualcosa che viene vissuto in modo
viscerale, oltre che sproporzionalmente sentito rispetto al comune
agire. È un pensiero che lo condiziona e lo subordina moralmente a un
delirio di persecuzione collettiva che gli divora l’anima, e lo spinge a
diventare altro rispetto ai principi di difesa e protezione che
generalmente caldeggia in favore della famiglia, alla quale tutto deve
essere subordinato: anche la vita di un componente “stretto” può
essere cancellata se l’onore della famiglia viene offeso.

Aristotele, nella Retorica, aveva incluso la vergogna fra le


quattordici passioni che muovono l’uomo, sottolineando in particolar
modo il carattere di reazione morale della stessa, e definendola come
passione-risposta all’immagine che gli altri, presumibilmente, si

61
creano di noi107. È una logica irrazionale, che estremizza un comune
sentimento, dandole un ruolo che va al di la di ogni ragionevolezza: è
una potente forma di controllo morale che l’individuo esercita su se
stesso, fa parte di quei processi di socializzazione che ha interiorizzato
sin dall’infanzia e si concretizza nella consapevolezza di un
mutamento dell’immagine sociale conosciuta fino a quel momento,
caratterizzato da un’involuzione dovuta al venir meno della pregnanza
di quelle regole morali e comportamentali ritenute componenti
essenziali nella vita privata di un mafioso.

Nel suo modo di pensare non ci può essere niente di più


vergognoso del “libertinaggio” sessuale delle proprie donne: l’onore è
quindi intrinsecamente legato al sesso femminile. Coinvolge le donne,
investendole del compito di tenere alta la reputazione della famiglia e
dell’uomo d’onore e questo genere di vergogna, è un sentimento che
la famiglia di un mafioso non deve conoscere, perché se così fosse,
scatterebbero una serie di “situazioni riparatorie” che tratteremo in
seguito.

È chiaro la conseguenza che ne deriva da quel “valore”


attribuito all’onorabilità della vita privata del mafioso, non fa altro
che, incatenare subdolamente le donne rendendole intimamente
complici della perpetuazione di rapporti di sopraffazione e di dominio.

L’onore, secondo Renate Siebert, assunto come compito e sfida


morale dalle donne stesse, di cui si pavoneggiano gli uomini, diventa
la pietra tombale di ogni libertà femminile108.

107
Aristotele, Retorica, in
108
Siebert, Le donne, la mafia, op. cit.

62
Quello che viene meno nella relazione di coppia è la
soggettività della donna, annullata dal marito che diventa l’unico, che
si arroga il “diritto” di rappresentarla: il risultato è che diventano
soltanto ombre, disposte all’abnegazione.

Ma, cosa ne pensa la donna dell’onore mafioso, di cui è


oltretutto rappresentante?

Queste donne, in realtà, non fanno altro che rispecchiare


quell’immagine classica delle donne della mafia: angeli vendicatori in
veli neri, che invocano vendetta per l’assassinio dei loro cari. Secondo
lo storico Ciconte, in Calabria “il sentimento cristiano del perdono è
del tutto sconosciuto allo ndranghetista di ieri e di oggi”109.

E le donne calabresi, siciliane o napoletane, mogli, figlie,


sorelle, madri di criminali mafiosi sapranno mai perdonare? Forse, in
un futuro, magari ma oggi ciò che si può desumere è che nonostante la
patologica religiosità, il compito di queste donne è quello di
alimentare il fuoco della vendetta, che interesserà diverse generazioni,
con teatrali ostentazioni di dolore, lamenti funebri accanto al corpo
senza vita e giuramenti di vendetta sopra le ferite aperte.

La donna del mafioso quindi inneggia spesso la vendetta, per


l’offesa subita nei confronti della sua famiglia, attentata nell’intimo,
nell’onore appunto e:« La venerazione in cui è tenuta la maternità
rende gli italiani poco propensi a pensare che esse siano capaci di
comportamenti distruttivi o pericolosi, e questo ha portato a un

109
Ciconte, op. cit., p.57

63
numero di assoluzioni e di conseguenza di impunità al quanto
discutibili”110.

Donne guerriere e madri sanguinarie, che continuano a partorire


altri mafiosi, li educano a quella cultura, a certe regole, che esse stesse
hanno appreso a suo tempo.

Le donne sono il fulcro delle famiglie criminali: fungono da


copertura (quando l’uomo ha bisogno di alibi), da vice (quando il boss
è in prigione), da prestanome (quando si tratta di riciclare denaro), da
insospettabili corrieri di armi e di droga. In Calabria esse sono fautrici
d’onore e fanatiche di vendetta, perfettamente inserite in
quell’ingranaggio familiare, in cui figurano come sante madri,
modello di autorevolezza.

Gli uomini preservando la regola dell’onore sembrano, non


tanto difendere se stessi, ma l’appartenenza alla “famiglia”: le regole
di immagine, di un modello di comportamento da spendere nella vita
quotidiana, diventano comandamenti, in mancanza dei quali non ci
può essere l’appartenenza.

La famiglia va onorata e difesa sopra ogni cosa, per tal motivo


non si esita ad eliminare i componenti scomodi, che mancano di
rispetto, d’onore o meglio di subordinazione. Ma nella famiglia come
istituzione domestica non avviene questo, se c’è uno sbandamento da
parte di uno dei membri si cerca, compattatamente e di recuperarlo,
non con strumenti persecutori, ma facendo leva su un sentimento,
tanto semplice, quanto efficace: l’affetto.

110
Longricc, op. cit., p. 13

64
I principi traviati e riformulati, di aspetti comportamentali
naturali della famiglia come istituzione domestica, negli uomini di
mafia, prendono il sopravvento e vengono riprodotti nel proprio
nucleo familiare in maniera imperativa e coercitiva.

La tragicità di questa trasposizione sta nella fisionomia che


prende la famiglia nucleare del mafioso: rigidamente stabilita, attenta
all’immagine, intrappolata nei divieti di un dover essere… di
un’apparenza. Al centro vi è un padre mafioso, oltre che padrone, in
preda a un delirio di onnipotenza, unica condizione possibile per
sostenere una vita così.

La moglie è soprattutto madre di figli maschi, materiale umano


per la famiglia ed in questo senso, quando si parla di donna onorata si
ha come parametro principale la verginità che risulta essere un
prerequisito che cela un’ossessione: per il possesso e per il sangue.

Queste donne sono state private, in modo fallace e arbitrario di


qualsiasi possibilità di reagire ed analizzando a fondo il problema, si
scorge una prima certezza: tutto ruota intorno al sesso ed infatti un
mafioso, non può considerarsi un uomo d’onore se ha “parenti stretti”
dai facili costumi. La donna, funge spessissimo da merce di scambio,
consolidando alleanze tra famiglie, che vengono suggellate dalla
parentela di sangue e per tal motivo deve essere necessariamente
mantenuta “inviolata”.

La donna ideale di un mafioso deve innanzitutto possedere la


verginità, in quanto essa accresce il sentimento di possesso, che

65
diventa motivo di vanto, nonché di soddisfazione, derivata dalla
certezza che la sua donna abbia conosciuto sessualmente solo lui.

L’esigenza che una ragazza non vada al matrimonio con


“memorie” di relazioni sessuali con un altro uomo, è la continuazione
logica del diritto di possesso esclusivo di una donna. In effetti, l’uomo
che la vergine accetterà come partner per una relazione duratura, sarà
quello che per primo soddisferà il suo desiderio d’amore tenuto a
lungo a freno, e che nel farlo supererà le resistenze costruite in lei
dalle influenze dell’ambiente e dell’educazione. Nell’uomo però “si
crea l’idea che questa esperienza dia origine nella donna a uno stato di
schiavitù che garantirà il possesso continuo e ininterrotto e la metterà
fatalmente nelle condizioni di resistere alle tentazioni provenienti
dall’esterno)”111. In realtà, il sentimento di possesso nei confronti della
donna accomuna gli uomini, siano di cultura contadina, borghese o
mafiosa.

Il prerequisito della verginità è dunque elemento centrale per il


mafioso, ma oggi fortunatamente la società gli attribuisce un
significato diverso, certamente non prioritario. Una lettura, in chiave
psico-antropologica sottolineerebbe la correlazione esistente, tra
verginità e mafia, a seguito della presenza di un elemento comune: il
sangue. Sinteticamente, un esempio ci è dato dai popoli primitivi112, in
cui la deflorazione della vergine, in genere veniva compiuta da una
persona diversa dal marito, e si svolgeva solitamente in due atti:
perforazione e rapporto. La spiegazione è dovuta all’orrore del
111
Freud S., Psicologia della vita amorosa, Armando Curcio Editore, Roma 1988, p. 44
112

Aborigeni australiani; i Masai dell’Africa equatoriale; i Sakai della Malanesia; i Batta di Sumatra

66
sangue provato da questi popoli, che lo consideravano come la sede
della vita, nonché collegato al divieto di uccidere, di contenere quella
primitiva sete di sangue presente nell’uomo.

Il sangue è stato da sempre un elemento importante della


simbologia mafiosa secondo un’ottica, rispetto ai primitivi,
completamente rovesciata in quanto questi ultimi consideravano il
sangue come sede della vita, nei mafiosi si configura come elemento
di morte, nonché momento centrale, di affiliazione all’associazione. È
presente nei rituali iniziatici, simbolicamente viene versato nel corso
delle cerimonie di ingresso nella associazione o di passaggio da un
grado all’altro; scorre sangue quando si uccide o ancora, quando si
ferisce con uno sfregio. Il mafioso è paranoicamente ossessionato dal
sangue, al quale attribuisce un valore fra i più significativi. Quando
una vergine viene deflorata in genere perde sangue; se tra i primitivi
questo evento generava orrore, per i mafiosi non può che essere
motivo di esaltazione.

In famiglia vengono riprodotte le stesse necessità,


l’appartenenza e il dominio della donna all’uomo, viene ulteriormente
rafforzato e sigillato dalla sua integrità fisica. Il sangue versato segna
inimicizie e rivalità, ininterrotte sicché sangue chiama sangue. A volte
queste faide familiari vengono interrotte dal matrimonio di una donna
appartenente a una delle famiglie in guerra con un uomo della
famiglia avversaria.

Ma cosa succede quando il mafioso prova il sentimento della


vergogna, dovuto ad un avvenimento che ha offeso prima il suo

67
d’onore, e poi l’onorabilità delle sue donne? Quali sono le “soluzioni
riparatorie” a cui ricorrono questi uomini d’onore? Come accennato
anticipatamente, non è possibile diventare uomini d’onore se non si
rispettano certi principi o si trasgrediscono le regole ed insidiare le
mogli degli affiliati, specie se detenuti, è considerato un errore
imperdonabile e comportava una pena esemplare. Nel caso in cui
l’uomo d’onore può farsi giustizia da solo, non chiederà aiuto a
nessuno, tanto meno agli affiliati, che si aspetteranno un
comportamento “consono”, da uomo d’onore in cui l’ideale virile
dell’autogiustizia viene fuori come unica soluzione atta a riparare al
disonorevole stato di “cornuto” sopraggiunto.

Non la giustizia dei tribunali, dunque, ma un’altra giustizia che


si amministra da sola, quella dei codici d’onore, che stabilisce
addirittura pene graduate in rapporto all’entità della colpa, ovviamente
nell’arbitrio più assoluto. E così ci si arroga il diritto di interrompere
la vita di chi scopre che vorrebbe vivere in altro modo, mogli, figlie,
sorelle, o di chi non dà l’effettiva importanza alle prigione simbolica
presente nel destino di queste donne: la regola vuole che non siano
assolutamente “toccate”.

In questo contesto appare lecito chiedersi se la vita sessuale del


mafioso è altrettanto monogamica, fedele al sacro vincolo
matrimoniale, come dev’essere quella della donna. In teoria, il codice
d’onore della mafia stabilisce che un suo membro non può essere
divorziato, né omosessuale, né imparentato con un membro della
polizia ma nella pratica si svolge in altro modo.

68
La moglie di un mafioso gode del prestigio di essere la moglie;
in privato spesso è costretta a subire in silenzio l’umiliazione dei suoi
tradimenti. L’amante è senz’altro simbolo di virilità e potere per il
mafioso, ma comportando un’inquietudine sentimentale, non idonea
all’uomo d’onore, tutto d’un pezzo, viene variamente giudicata dagli
affiliati. Tommaso Buscetta, ad esempio, nonostante la grande
importanza all’interno di Cosa Nostra, “è stato “posato”(sospeso
dall’organizzazione) perché aveva una vita sentimentale agitata”113.

La propria donna va rispettata non perché è una donna da


rispettare, ma perché madre dei propri figli. Tutte le altre sono
“puttane”.

CAPITOLO TERZO

LE DONNE NELLA MAFIA

113
Falcone G. – Padovani M., Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano 1991

69
Questa terra è come una delle
tante sue bambine bellissime
nei vicoli dei suoi paesi,
bellissime spesso sotto le
croste, i capelli scarmigliati,
nei cenci sbrindellati: e già si
intravede come, crescendo lei
bene, tra anni quel volto
potrebbe essere intelligente,
nobilmente vivo; ma pure si
intravede come in altre
condizioni potrebbe
rinchiudersi patito e quasi
incattivito.

Danilo Dolci114

3.1 Il ruolo discreto e fedele della donna

114
Dolci D., Spreco

70
Le donne sono escluse dalla “onorata società” anche se
assumono sempre più di frequente il ruolo criminale accanto a quello
tradizionale, che le ha coinvolge maggiormente nell’organizzazione
criminale. Tale coinvolgimento avviene in seguito a due processi di
mutamenti, uno esterno che riguarda i profondi cambiamenti che
hanno investito la condizione delle donne negli ultimi trent’anni ed un
altro interno riguardante i cambiamenti della struttura organizzativa
dei consorzi mafiosi che a partire dagli anni Settanta, con
l’allargamento delle attività criminali in termini qualitativi,
quantitativi e geografici, li ha costretti a ricercare più personale per
gestire i propri traffici. È stata soprattutto la crescita del narcotraffico
e la necessità di riciclarne i profitti che ha richiesto l’impiego di
individui che non possedevano i requisiti anche se erano inseriti nel
contesto dell’organizzazioni, come ad esempio le donne. A tal
proposito lo storico Salvatore Lupo, riprendendo la distinzione tra
power syndicate ed enterprise syndicate del criminologo Alan
Block115 ritiene che:

«Possiamo chiamare power syndicate la struttura territoriale


delle famiglie, con le rigide affiliazioni, la formidabile
stabilità nel tempo, la forza militare e dunque la capacità di
svolgere, partendo dal meccanismo della guardiana, una
funzione vicaria della sicurezza pubblica lungo il circuito
estorsione-protezione; l’enterprise syndicate rappresenta
invece la molto più nobile rete degli affari che già
nell’Ottocento si interessava per l’abigeato e il contrabbando,
115
Block A., East Side-West Side: Organizing Crime in New York 1930-1950, University College
Cardiff Press, Cardiff 1980

71
che ora gestisce il commercio dei tabacchi e degli
stupefacenti »116.

In questo senso la donna può prendere parte alla dimensione


economico-finanziaria anche se non le è concessa l’ammissione al
power syndicate117 e nelle situazioni di crisi non esita a prendervi
parte.

La partecipazione delle donne alle attività criminali varia in


base alla provenienza familiare, alle condizioni ambientali ed
all’indole personale ma la loro maggiore presenza si è riscontrata nel
traffico di droga, nei reati economico-finanziari e nella gestione del
potere.

3.1.1 Alcuni casi esemplari di mogli di……

Un primo esempio di donna esemplare è la vicenda di Angela


Russo, detta “nonna eroina” che fu arrestata nel 1982 a 74 anni
insieme ai figli e alle nuore118. Inizialmente la si ritenne un corriere
della droga ma poi si chiarì che invece reggeva le fila dell’intero
traffico. Ha sempre negato il suoi coinvolgimento, rifiutando però,
116
Lupo, op. cit., p.223
117
Siebert, le donne, la mafia, op. cit., p.183
118
Per la ricostruzione della vicenda si veda: Pino M., Le signore della droga, La Luna, Palermo
1988, capp. VI-VII

72
anche, il ruolo subalterno di corriere e nell’intervista a Marina Pino
dice:

«Mi hanno detto che facevo il corriere della droga. E questa


accusa è proprio una questione che non mi cala. Qua mi è
rimasta […]. Quindi, secondo loro, io me ne andavo su e giù
per l’Italia a portare pacchi e pacchetti per conto d’altri,
facendo viaggi di trasporto […]

Dunque io che in vita mia ho sempre comandato gli altri,


averi fatto questo servizio di trasporto per comando e conto
d’altri? Cose che solo questi giudici che non capiscono
niente di legge e di vita possono sostenere »119.

La vicenda viene poi svelata interamente dal figlio Savino che


divenuto collaboratore di giustizia, testimonia contro tutta la sua
famiglia (la madre, le sorelle, i fratelli e i cognati) e gli associati
coinvolti nello stesso traffico. Ritratterà poi la versione in seguito ad
una vendetta trasversale che colpirà l’unico suo fratello non coinvolto
nei traffici illeciti della madre.

La figura di Angela è molto interessante in quanto essendo nata


nel primo decennio del Novecento, non corrisponde alla
rappresentazione tradizionale delle donne di mafia della sua
generazione, che si limitavano a stare nell’ombra dei loro uomini. Il
suo caso è un’eccezione rispetto alla situazione vissuta delle donne a
quel tempo; anche lei percepisce questa rilevanza come un’esperienza
unica nel suo genere ed infatti racconta alla giornalista di essere stata

119
Ibidem, p.79

73
cresciuta dal padre come un uomo e che le caratteristiche maschili che
aveva assunto, suscitavano stupore120.

Angela ha un carattere forte e determinato, assume gli stessi


comportamenti tipici di un boss mafioso come ad esempio quando si
dichiara innocente proponendo la stessa irriverenza esibita dai boss
mafiosi quando negano l’esistenza della mafia121 o quando con
nostalgia ricorda i gloriosi tempi della “vecchia mafia” che è fatta di
“veri uomini”, come suo padre, di legge severe che colpiscono sempre
chi “sbaglia” mentre risparmia i “figli di mamma”, mentre adesso:

« E vanno a dire mafioso a questo, mafioso a quello.


Ma che scherzano? Siamo arrivati a un punto che un
pinco pallino qualsiasi che ruba subito è “mafioso”?
io in quel processo di mafiosi non ne ho visti. Ma dove
è più questa mafia, chi parla di mafia, cosa sanno loro
di mafia? Certo, sissignora, io ne so parlare perché
c’era a tempi antichi a Palermo e c’era la legge. E
questa legge non faceva ammazzare i figli di mamma
innocenti. La mafia non ammazzava uno se prima non
era sicurissima del fatto, sicurissima che così si doveva
fare, sicurissima della giusta legge. Certo, chi peccava
“avia a chianciri”, chi sbaglia paga, ma prima c’era
la regola dell’avvertimento. Almeno tre volte veniva
fatto avvertire:”Stai attento che sgarrasti”, poi se
quello insisteva, continuava nello sgarro e non si
raddrizzava, certo doveva sparire lo facevano sparire.
E se succedeva un torto, mettiamo che uno rubava a un
120
Ingrascì, Donne d’onore, op. cit., p.58
121
Pino, op. cit., p.79

74
altro e non era giusto, la mafia si metteva in mezzo e
sistemava la questione con buona pace di tutti.

Allora a Palermo c’era questa legge e questa mafia.


C’erano veri uomini. Mio padre, don Peppino, era un
vero uomo e davanti a lui tremava di rispetto tutta
Torrelunga e Brancaccio e fino a Bagheria»122.

Il caso di Ninetta Bagarella123, moglie di Totò Riina che sposa


nel 1974 in piena latitanza, saldando così una forte unione fra le due
famiglie corleonesi124, rientra nel ruolo di messaggera che le donne
ricoprono da sempre in tutte le organizzazioni segrete, dove svolgono,
solitamente, ruoli di vivandiere, accompagnatrici e messaggere.

Dal ruolo di messaggera scaturiscono le condizioni per


raggiungere la sfera del comando in quanto le donne trasportano, per
conto dei membri del clan, le cosiddette ambasciate (messaggi scritti
o orali) dal carcere all’esterno o da un luogo di latitanza all’altro. Gli
viene dato questo ruolo in quanto sono insospettabili e soprattutto
possono essere considerate delle persone fidate.

La vicenda della Bagarella non è stata provata ma fu sospettata


di essere uno dei mezzi attraverso cui Riina riceveva gli ordini dal suo
capo, Luciano Leggio e per questo fu richiesta nei primi anni Settanta
la misura del confino. Lei si dichiarò sempre estranea:

122
Ivi, p. 80
123
In realtà si chiama Antonietta ed era una maestra a Corleone
124
Bolzoni A.-D’Avanzo G., Il capo dei capi. Vita e carriera criminale di Totò Riina, Mondadori,
Milano 1993, pp.30-31

75
«Io mafiosa? Sono una donna innamorata. “L’amore
non guarda a certe cose… Io ho scelto di amare Totò
Riina” […[ Mi sposerò in chiesa: non voglio fare come
la Lucia di Alessandro Manzoni»125.

Si fa accompagnare in aula dalla madre Lucia Mondello e dalla


sorella Giovanna, respinge tutte le accuse, contesta tutti gli episodi
contenuti nel rapporto della Questura e dei Carabinieri. Viene
condannata a due anni e mezzo alla sorveglianza speciale condizionata
con il divieto assoluto di incontrarsi col padre, col fratello Calogero e
col fidanzato Salvatore Riina. Nonostante la sua condizione si sposa
segretamente il 16 aprile con Riina126, ma la sua posizione non si
aggrava per opera dei suoi due avvocati difensori e trascorre
indisturbata la sua luna di miele in Germania, come dichiarato dalla
madre.

Un’altra donna messaggera è Cinzia Lipari che faceva parte


della schiera dei ‘messi’ che consentirono all’ex capo di Cosa Nostra,
Bernardo Provenzano di tenere saldi i rapporti con i suoi affiliati.
Angelo Siino confessò di aver avuto dal carcere, rapporti con Cosa
Nostra, grazie alla Lipari, che, come si legge dai documenti della
Procura, si occupava soprattutto di fare “da tramite tra il proprio
congiunto Lipari Giuseppe (quale principale soggetto amministratore
del patrimonio dei corleonesi) e il latitante Provenza Bernardo e gli
altri affiliati e componenti dell’organizzazione in stato di libertà, così
125
Francese M., in Giornale di Sicilia, 27 luglio 1971
126
Il rapporto delle forze dell’Ordine riferisce cha a sposarli è stato padre Agostino Coppola

76
consentendo le comunicazioni e lo scambio di notizie afferenti la
gestione di attività illecite da parte del sodalizi mafioso”127.

Il ruolo della Lipari, però, non si limita a quello di mera


portalettere ma la possiamo definire una “messaggera moderna” in
quanto svolge con professionalità il ruolo che le è stato assegnato
grazie anche agli strumenti acquisiti per svolgere la sua professione di
avvocato. Suggerisce, infatti, prudenza durante i colloqui in carcere in
quanto sa che questi possono essere intercettati ed approfitta del suo
mandato professionale per occultare “nel fascicolo processuale, che
portava con sé durante i colloqui, quanto richiestogli dal genitore,
eludendo in tal modo i controlli carcerari”128. Inoltre, si occupa di
gestire tutte le attività paterne sia in ambito finanziario che economico
che gestisce con estrema disinvoltura e competenza. I giudici, nella
sentenza, riportano infatti che “i colloqui difensivi erano altresì il
momento in cui Lipari Giuseppe esercitava la sua attività di
amministratore di Cosa Nostra grazie alla disponibilità della figlia”.

Ciononostante lei ha autonomia decisionale, non assume una


chiara funzione di potere anche se fornisce un apporto indispensabile
alle attività paterne. A tal proposito i giudici evidenziano:

«La donna […] a differenza del fratello [Arturo],


addetto per lo più a compiti di manovalanza
approfittando del suo bagaglio di esperienze e
cognizioni giuridiche maturate nell’ambito della sua

127
Procura della Repubblica di Palermo, D.D.A., Richiesta di misure di custodia cautelare in
carcere a carico di Lipari Cinzia + 29, Procedimento penale n.3157/98, 24 gennaio 2002
128
Ivi

77
attività forense, nonché del suo ruolo di difensore del
genitore detenuto, ha finito per offrire un contributo
impareggiabile all’attività illecita del padre»129.

Alcune donne, in seguito all’inasprimento dell’azione dello


Stato con l’adozione del pacchetto antimafia, successivo alle stragi del
1992 in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino e che
permette l’arresto di molti uomini mafiosi, riescono a raggiungere dei
livelli dirigenziali all’interno dell’organizzazione di Cosa Nostra.
Diminuendo gli affiliati, molte famiglie di mafia sono costrette a
ricercare della manodopera fidata e per superare la crisi di quegli anni,
si rivolsero alle donne.

Inoltre, con l’introduzione del cosiddetto “carcere duro”


previsto dall’art. 41 bis, le donne passano dal ruolo di messaggere a
quelle di capo-clan in quanto solamente loro, in quanto congiunti più
prossimi, potranno far visita ai detenuti130. In questo modo, le donne
diventano l’unico mezzo per comunicare con l’esterno e siccome il
numero di visite è molto ridotto, gli uomini sono obbligati a lasciare
loro maggiore autonomia gestionale.

In questo senso si evidenzia la posizione di Maria Filippa


Messina, moglie di Mario Cintorino capo della cosca di Calatabiano,
paese nel catanese, e che in seguito alla morte del cugino della moglie,
Salvatore Messina, ha il controllo su tutto il territorio, esercitando
attività estorsive ed usuraie e gestendo il traffico di stupefacenti e di

129
In Ingrascì, Donne d’onore, op. cit., p.77
130
Ivi, pp.79-80

78
armi. Cintorino viene arrestato nel 1993 insieme a molti suoi affiliati e
la moglie entra subito in gioco, fungendo dapprima da messaggera tra
il carcere e il mondo esterno e poi sostituendosi al marito nelle
funzioni dirigenziali della cosca.

Questa situazione durò per molto tempo, fin quando gli


inquirenti insospettiti dai continui traffici dell’associazione, decisero
di mettere sotto controllo il telefono della Messina e degli ambienti
che frequentava. Le registrazioni evidenziarono, secondo quanto
scritto nella sentenza, che lei:” Era il vero nuovo polmone
dell’organizzazione” e come un boss “teneva a raccolta gli uomini di
maggior prestigio del gruppo e organizzava con loro le sorti
dell’organizzazione criminale di cui la stessa in quel momento si
poneva a capo”131.

La Messina si rivela una donna di pugno e di forte spessore


criminale in quanto subentra al marito mentre è in atto una lotta di
potere con il gruppo dei Carrapipani ed incita i membri del sodalizio
ad eliminare brutalmente i nemici affermando:”Li spacchiamo questi
quattro di merda, li tagliamo, li spacchiamo”.

Nonostante ciò, fatica a mantenere il comando come dimostra


un episodio in cui discute con un associato della cosiddetta “carta”,
ovvero il registro in cui si annotano “i nominativi degli usurati, con
specificazione dell’ammontare del debito e della varie scadenze”, che
in quel momento è in mano ad un latro affiliato.

131
Corte di Assise di Catania, sentenza nei confronti di Cintorino + altri, 13 luglio 1997

79
Maria:« Ma neanche lo sanno dove lo devono trovare
[…], perciò tu lo sai cosa dovresti fare, ci dici si
mettono in contatto con Saro… Tu dici perché tua
commare vuole la carta così, perché tu sai che a fine
mese ci sono un sacco di soldi da raccogliere e così li
raccogli, perché Nino [il marito], come già tu
sicuramente saprai, ci è arrivato un altro mandato di
cattura, perciò deve andare a prendere altri due
avvocati e tutte cose e i soldi ci servono, questo e uno,
e ci domandi a lui che intenzione ha di fare e in più
voglio mandate le pistole se ce li ha. Poi ci dici per il
fatto della carta, ci dici ha detto Maria Pina, tua
commare, la carta se la prende e ce la mandi a le, così
recuperiamo i soldi a fine mese, perché i sodi ci
servono».

Intelisano:« Tu Maria devi fare una cosa, tu devi


parlare con tuo marito, quando tuo marito ti dice
quello che devi fare tu, tu fai, agirai di conseguenza,
ma se prima non parli con tuo marito il responsabile è
sempre Saro […]»132.

La funzione di comando a Maria è infatti da intendersi come un


potere delegato133 e la sentenza dei giudici conferma questa
peculiarità:

«Altra caratteristica dell’organizzazione è data dalla


struttura fortemente gerarchizzata della stessa, con
132
Ivi
133
Principato – Dino, op. cit., p.69

80
riconoscimento alla Messina in luogo del marito
detenuto, del ruolo di capo (“siamo alle dirette
dipendenze di lei, perciò dobbiamo fare quello che dice
lei» e con investitura di Intelisano Gaetano del ruolo di
responsabile in luogo di Lizzio Rosario, tratto in
arresto (“il responsabile lo fa Gaetano, giustamente
quello che mi manda a dire mio marito si fa … mi ha
detto non voglio che succedano discussioni, come lo so
che succedono discussioni sono cazzi vostri»134.

Il ruolo di messaggera è svolto maggiormente dalle sorelle


anche perché nel caso in cui la famiglia mafiosa e quella di sangue
corrispondono, la condizione di sorella permette una maggiore fiducia
verso di loro. In questo senso Giusy Vitale, di cui si parlerà anche nel
prossimo capitolo, assume un ruolo importante all’interno del
mandamento di Partinico, in provincia di Palermo, perché è sorella dei
boss Vito e Leonardo Vitale. Diviene l’anello di congiunzione tra i
due fratelli, uno in carcere e l’altro in latitanza, dimostra di avere
iniziative personali, come ad esempio quando ordina l’omicidio di un
uomo che aveva fornito informazioni ai carabinieri sul luogo in cui si
nascondeva Vito. Il suo passaggio al ruolo di domando viene così
descritto nella sentenza:

«L’esame diretto delle conversazioni evidenzia, infatti,


come l’attività e il contributo fornito dalla stessa alle
attività criminali coordinate dai suoi fratelli si evolva

134
Corte di Assise di Catania, sentenza nei confronti di Cintorino + altri, 13 luglio 1997

81
da una iniziale attività costituita dall’invio e scambio
di importanti messaggi (in relazione ai quali la donna
appare comunque ben consapevole sia del ruolo
rivestito dai suoi famigliari all’interno del contesto
mafioso, ma anche del significato che tali messaggi
avevano per la detta organizzazione), a un momento
successivo in cui, anche per l’arresto del fratello Vito
[…] [la donna prevedeva] anche iniziative personali
nella decisione e organizzazione di gravi fatti di
sangue, non andati in porto solo per eventi esterni alla
volontà degli imputati»135.

Il potere delle donne nella mafia risulta pertanto delegato e


temporale in quanto esse vengono promosse al ruolo gestionale
durante i periodi di crisi che gli viene poi tolto nel momento in cui gli
uomini concludono la loro detenzione carceraria. Tale situazione
permette agli uomini di mantenere la loro egemonia amministrativa136
anche perché alle donne non è concesso l’accesso ufficiale ai vertici
delle famiglie mafiose.

Una volta chiamate ‘al potere’ le donne mostrano notevoli


capacità di gestione che hanno acquisito e maturato nell’ambiente in
cui sono nate, caratterizzato da un sapere sedimentato che tutti
acquisiscono.

Come accade parallelamente nella società legale non sono


ritenute adeguate a svolgere dei ruoli manageriali137, ove inizialmente
135
Tribunale di Palermo, II sez. penale, sentenza n.2370/01 del 14 giugno 2001
136
AA.VV., Donne e mafie, op. cit., p.58
137
Cfr. Marshall J., Women Managers. Travellers in a Male World, John Wiley & Sons, New York
1984, pp.13-88

82
le prime donne manager nascondono i propri tratti femminili ed
imitano il comportamento maschile138. Ciò accade anche nella realtà
mafiosa, basti pensare a Giusy Vitale che nel momento in cui si
sostituisce ai fratelli, tende a negare la propria femminilità assumendo
dei tratti tipicamente maschili, che invece recupererà quando sarà
arrestata. Da questo momento si interessa al proprio aspetto estetico, si
prende cura di se stessa per riappropriarsi del carattere femminile che
aveva dovuto precludere per appropriarsi del comando139. In questo
senso, si colloca anche la sua decisione di collaborare, oltre che per
motivi sentimentali, nel suo percorso verso la ricostruzione della sua
identità femminile.

3.2 Le donne mafiose e il fenomeno del pentitismo

Le reazioni delle donne verso il fenomeno del pentitismo, con la


rinnegazione del pentito, si possono spiegare come una presa di
distanza in modo plateale per paura della ritorsione; come scaturite
dalla paura, considerandole quindi delle vittime di una cultura
opprimente e totalizzante tipica della mafia; come una recita di un
vecchio copione anche se si trovano in una Sicilia cambiata e in
mutazione. Tuttavia è impossibile ricondurre il loro comportamento

138
Schein V.E., The relationship between sex role stereotypes and requisite management
characteristics, in Applied Psychology, 57, 1973
139
Intervista alla dottoressa Annamaria Picozzi della Procura della Repubblica di Palermo, 5 luglio
2001

83
ad una sola chiave di lettura in quanto vi sono molte diversità di
comportamento delle donne nei confronti del pentitismo140.

Vi sono infatti dei casi in cui le donne hanno spinto i loro congiunti
a collaborare con la giustizia come la moglie di Antonio Calderone o
hanno accettato tranquillamente la loro decisione di collaborare non
allontanandosi come le mogli di Gaspare Mutolo e Leonardo Messina.
Vi sono state però anche delle donne che hanno tentato con tutti i
mezzi di dissuadere i loro famigliari, altre che sono state uccise perché
parenti di un pentito e donne che hanno preso platealmente le distanze
dai pentiti ed hanno accusato i magistrati e le forze dell’ordine di
averli indotti “al tradimento” e li hanno rinnegati. Esse fanno sempre
parte di famiglie mafiose, come ad esempio Ninetta Bagarella.

Non si deve però dimenticare che ci sono state delle donne che
sono state testimoni o vittime di attività mafiose delle loro famiglie,
che hanno collaborato con la giustizia come ad esempio Serafina
Battaglia, Giacoma Filippello e Patrizia Beltrame141.

Un caso di rinnegamento del famigliare pentito è quello di Serafina


Buscetta, sorella di Tommaso, la quale dopo l’uccisione del marito,
Pietro Busetta avvenuta il 7 dicembre 1984, scrive una lettera e
rilascia un’intervista in cui dichiara di non aver alcun rapporto col
fratello da molto tempo. E scrive:

140
Puglisi A. – Santino U., Donne e pentitismo, in Puglisi A., Donne, Mafia e Antimafia, editore
DG, Trapani 2005, p.49
141
Ivi, pp.40-50

84
«Scrivo affinchè possa cancellate qualsiasi ombra di colpa
dalla memoria del mio povero marito e inoltre possa
definitivamente rendere nota l’estraneità, in tutti i sensi,
della mia famiglia da colui che tutti i giornali hanno definito
“il boss dei due mondi”. Intendo dire per quanto mi
riguarda, così come era stato annullato da moltissimo tempo
ogni rapporto di qualsiasi natura, consono che “l’olocausto
di mio marito”, così come lui stesso lo ha definito, è stata
una vendetta che andava fatta esclusivamente contro di lui,
che si è mal comportato e continua forse a mal comportarsi
[…] Abbiamo cominciato a vivere nella paura già quando
questo signore si è messo a parlare. Da quando hanno
ammazzato mio marito nelle nostre case non si vive più […]
Io non mi voglio più chiamare Buscetta»142.

Tuttavia è necessario evidenziare che Serafina Buscetta non ha


mai avuto da ridire sul comportamento del fratello mafioso ma è
soprattutto dopo l’omicidio del marito, avvenuto come vendetta
trasversale, lo rinnega come fratello. Il suo atteggiamento è però molto
contraddittorio in quanto lei è sempre stata estranea al mondo mafioso
ma si scaglia con veemenza contro il fratello quando questi inizia a
collaborare con la giustizia e nel luglio del 1993, dopo molto anni,
telefona a «Italia radio» per parlate con il Presidente della
Commissione antimafia, Luciano Violante per chiedere «un impegno
diverso dello Stato» per la famiglia in quanto, afferma:

142
Da Giornale di Sicilia, 3 gennaio 1985 anche in Cascio A.-Puglisi A. (a cura di), Con e contro.
Le donne nell’organizzazione mafiosa e nella lotta contro la mafia, dossier del Centro Impastato,
Palermo 1986, p.57

85
«Noi non abbiamo mai avuto niente, mia figlia Liliana
e Giuseppina non hanno mai avuto niente. Hanno tutti
problemi di lavoro i miei figli. Alla televisione abbiamo
sentito che ai familiari delle vittime di mafia gli danno
lavoro e protezione ma a noi non hanno dato
niente»143.

E quando l’intervistatore gli chiede com’è il rapporto col fratello, lei


risponde:

«Non lo posso sentire nemmeno nominare, perché mi


ha levato la pace della mia famiglia. In 35 anni io non
l’ho mai visto e sentito. E non lo riconosco più e lui
non mi ha cercata. E non mi interessa»144.

Un altro esempio è quello di Angela Russo, nota come Nonna


eroina, che si è sempre proclamata innocente ma di fronte la
pentimento del figlio Salvatore Coniglio, ha avuto una reazione tipica
dell’essere mafioso ovvero ha dichiarato in aula che:

«Mio figlio è completamente pazzo; a quattro anni


soffriva di meningite e il medico mi aveva avvertita che

143
Puglisi – Santino, op. cit., p.51
144
In Giornale di Sicilia, 9 luglio 1993

86
in seguito avrebbe dato segni di squilibrio. Mi ha
buttata in galera, pur essendo innocente»145.

Nel novembre del 1984, in due giorni vengono uccisi il figlio


della Russo, Mario Coniglio e Salvatore Anselmo, ed a seguito della
cosiddetta lupara bianca scompare anche il fratello di Anselmo,
Vittorio, anch’egli coimputato. Ma nonostante tutte queste vicende
Nonna eroina non si scompone e continua sempre con estrema lucidità
a predire il futuro del figlio collaboratore di giustizia e a negare ogni
suo coinvolgimento e il ruolo attribuitole:

«Salvatore io l’ho perdonato, ma non so se Dio potrà


mai perdonarlo […] Dicono che fra una anno esce.
Lui lo sa che è condannato, lo sa che esce e lo
ammazzano. Quelli non perdonano. […] Lui prima
spera di vendicare suo fratello Mario, morto
ammazzato per causa sua. Ma che pensa di poter fare?
Prima ci doveva pensare a Mario. Ora non gli daranno
tempo. Ora, Salvino, quando esce muore. […] Mi
hanno chiamato Nonna eroina. Nonna mi sta bene
perché io sono 25 volte nonna e 23 volte bisnonna. Ma
dell’eroina, di questa droga addosso a me o in casa
mia niente hanno trovato. […] Quindi secondo loro io
me ne andavo su e giù per l’Italia a portare pacchi e
pacchetti per conto d’altri […] Dunque io che in vita
mia ho sempre comandato gli altri, avrei fatto questo
servizio di trasporto per comando e conto d’altri? Cose

145
In L’Ora, 14 novembre 1984 e in Cascio -Puglisi, Con e contro, op. cit., p.110

87
che solo questi giudici che non capiscono niente di
legge e di vita possono sostenere»146.

Un altro caso esemplare in questo senso è quello delle donne di


casa Buffa, che si rendono protagoniste il 17 marzo del 1987 di una
clamorosa manifestazione nell’aula del maxiprocesso di Palermo. Esse
sono Caterina La Mantia, Maria, Rosa, Carmela, Silvana ed Elvira
Buffa; la prima è la figlia di Gaspare La Mantia e sorella di Matteo, e
moglie di Vincenzo Buffa, costruttore e imputato come gli altri
insieme al fratello Francesco nel maxiprocesso. Maria Buffa è la
sorella di Vincenzo e Francesco, e moglie di Stefano Pace, sempre
imputato. Rosa è la moglie del capomafia latitante Carmelo Zanca;
Carmela è moglie di Giovanni Lombardo (imputato) mentre mancava
alla manifestazione l’ultima sorella Aurora, moglie di Ignazio Pullarà
(anch’egli imputato) che a causa della gravidanza in corso non era
potuta intervenire ma faceva sapere di essere in completo accordo con
loro.

Questa manifestazione viene provocata in seguito alla notizia


del pentimento di Vincenzo Buffa, che fa delle dichiarazioni al
giudice istruttore Falcone, rivelando decine di nomi mafiosi. In
seguito alla voci del suo pentimento, Buffa viene trasferito
dall’Ucciardone al carcere di Termini Imerese e quando, durante il
processo, in cui per motivi di sicurezza non è presente, il suo avvocato
difensore ne chiede notizie, Falcone risponde di non aver nulla da
146
Pino, op. cit., p.89

88
dire, esplodono le donne urlando che:«Non è un pentito. Riportatelo
nella sua cella all’Ucciardone. Nessuno lo ammazzerà, non gli
torceranno un capello». Le donne vengono allontanate dall’aula e
dichiarano ai giornalisti che «c’è un commercio degli innocenti» e la
moglie Caterina afferma che il marito le ha confidato « che gli hanno
fatto firmare certe carte senza sapere cosa stesse firmando. Mi
vogliono fare partire, ma io non voglio, mi ha confidato in un
orecchio».

E ripete poi ciò che aveva scritto nella lettera il giorno


precedente: «Alla caserma Carini non abbiamo subito riconosciuto il
nostro uomo. Anche i figli hanno stentato. Uno si è rifiutato di
abbracciarlo, quello non è mio padre. Enzo non ha riconosciuto
neppure la figlia prediletta, Patrizia, che ha nove anni»147. La figlia
diciottenne Daniela, sposata al parrucchiere Antonino Di Gregoli,
aggiunge:« Ci hanno promesso di tutto, di darci tutto quello che
volevamo, perfino il bollo della macchina, la benzina. E 50 milioni per
andarcene dall’Italia. Qui siete in pericolo, dicevano. Vi facciamo
aprire una parrucche ria a Parigi. Hanno promesso a mio marito di non
fargli fare il servizio militare». E Rosa Buffa interviene dicendo
che:«Noi non abbiamo paura. Confidiamo in Dio» e tutte le donne in
coro, rivolte ai giornalisti:«Scrivetelo, noi ci rimettiamo alla giustizia
divina perché a quella degli uomini non crediamo più»148.

La situazione si ripete in un’udienza successiva, quella del 28


aprile dello stesso anno, quando il presidente non concede a Vincenzo

147
In Giornale di Sicilia, 18 marzo 1987
148
Puglisi – Santino, op. cit., p.54

89
Buffa di essere rimesso in gabbia con gli altri imputati e di tornare
all’Ucciardone in quanto non intendeva più collaborare e la moglie
Caterina urla, rivolta la giudice:«Lei ce l’ha con me. Mio marito non è
un pentito, ma io non riesco ad ottenere un colloquio con lui». Viene
allontanata dall’aula ma i familiari continuano a tenere la scena in
quanto Giovanni Lombardo, cognato di Vincenzo Buffa (marito di
Carmela), si fa accompagnare in aula in barella a causa dello sciopero
della fame che ha iniziato da giorni e fa interrompere il dibattimento
perché afferma di sentirsi male. Ma un fonogramma dei medici del
carcere informa però delle sue buone condizioni fisiche e il
dibattimento riprende. Vincenzo Buffa sarà condannato a 15 anni di
reclusione, confermati poi in appello; il fratello Francesco a 6 anni che
saranno ridotti in appello a 2 anni e 8 mesi; Gaspare e Matteo La
Mantia e Giovanni Lombardo saranno assolti e Carmelo Zanca a 18
anni che saranno ridotti a 13 in appello.

In questa situazione le donne di mafia hanno vinto in quanto


Vincenzo è rimasto un mafioso e le voci sulla sua collaborazione
vengono dimenticate anche se il 7 febbraio del 1992 viene ucciso il
marito di Rosa Buffa, Vincenzo Pace, forse per una ritorsione per il
pentimento abortito di Vincenzo che fatto i nomi di alcune persone
appartenenti alle cosche vincenti149.

La vicenda del pentimento di Buffa e della sua interruzione è


stata poi analizzata da Giovanni Falcone:

149
In Giornale di Sicilia, 8 febbraio 1992

90
« Alcune donne, purtroppo non rare, non si sono
ancora schierate con la cultura della vita. Penso alla
moglie di Vincenzo Buffa, che aveva cominciato a
collaborare con me. Ho commesso l’errore di
permettergli di parlare con lei, come egli chiedeva
insistentemente. E lei l’ha convinto a ritrattare, a
rimangiarsi le sue dichiarazioni. Ha perfino
organizzato una specie di rivolta delle mogli nell’aula
bunker del maxiprocesso a Palermo: piangevano,
urlavano, protestavano a gran voce non contro quel
Buffa che voleva infrangere l’omertà, ma contro i
giudici che lo avevano “costretto” a comportarsi a
quel modo»150.

La spiegazione più diffusa riguardo l’atteggiamento di


rinnegamento degli uomini pentiti da parte delle donne, ritiene che
esse agiscono per paura e per evitare la ritorsione mafioso. È una sorta
di calcolo razionale che risulta plausibile in una società mafiosa in cui
è molto difficile da parte dello Stato assicurare una protezione sicura
alle famiglie151. In effetti vi sono molti casi in cui è scattata la
ritorsione della mafia nei confronti dei famigliari dei pentiti però non
si può spiegare tale fenomeno esclusivamente con la paura. La paura
infatti rischia di essere una spiegazione rassicurante ma spesso essa
intesa «come logica spiegazione che rende tutto sicuramente più
umano, non basta più, e si prende tristemente atto che per queste
donne la vergogna non è quella di avere parenti assassini, ma di sapere

150
Falcone – Padovani, op. cit., p. 85
151
Gambetta D., in L’Unità, 9 luglio 1995

91
che si sono pentiti». Non bisogna dimenticare, infatti, che la mafia è
un’organizzazione militare ed è, pertanto, «una cultura con radici
profonde e con i suoi codici di comportamenti rispettati e
condivisi»152.

Alcuni studiosi ritengono che le donne degli uomini dei mafiosi


nel rinnegare i loro mariti pentiti, stiano recitando un copione che
prosegue nell’indossare il lutto e nell’indurire i discorsi e i volti. Tale
copione non è altro che

«Una fuga teatrale nell’unica geografia che hanno


vissuto, nell’unica gerarchia che hanno conosciuto:
quella della mafia. Recitano il mito duna sicilianità
senza redenzione. […] Le fiere donne dei pentiti vanno
mandate avanti come carne da cannone per i cronisti a
caccia d’emozioni, un silenzioso drappello di
professionisti amministra i denari dei loro mariti. […]
Recitano le donne dei mafiosi. Perché è ciò che i
mafiosi vogliono da loro: un utile palcoscenico, un
canovaccio a tinte forti, la percezione di un’autorità
che non ammette disobbedienze; e intanto, dietro le
quinte, si consumano le sinergie, s’irrobustiscono le
ricchezze, s’immaginano nuove leggi da suggerire ai
nuovi amici della politica»153.

152
Dalla Chiesa S., Non è solo paura, in L’Unità, 30 giugno 1995
153
Fava C., Quegli insulti sono solo la recita di una sicilianità senza redenzione, in L’Unità, 28
giugno 1995

92
Tuttavia, non è chiaro se le donne recitino e siano manovrate,
come sempre, dai loro uomini, ma ciò che risulta lampante, secondo
altri, è che esse sono vittime di una cultura separata in cui non sono
libere. In realtà nessuna persona è libera all’interno della mafia e
parlare non è sicuro, può far correre dei grossi rischi a chi lo fa154.

Anche in questo caso, però, non si può generalizzare nel


ritenere che le donne sia esclusivamente vittime ma esse sono anche
complici e compartecipanti alle attività mafiose delle loro famiglie. In
questo senso, le manifestazioni plateali rientrano in un comportamento
cosciente e razionale di intervento per contenere un fenomeno da cui
esse si sentono minacciate.

Non bisogna dimenticare, infatti, che la mafia è un sistema


dittatoriale e totalizzante, che richiede agli affiliati una completa
dedizione ma nello stesso contesto sociale c’è anche chi sceglie la via
del pentimento, chi di aderire completamente ai suoi codici e chi di far
parte del movimento antimafia, come ad esempio Bernardino Verro o
Placido Rizzotto.

In questo contesto, il mondo delle donne non può essere


ricondotto ad un unico schema in quanto devono considerarsi le
reazioni differenti che le donne hanno avuto in queste determinate
occasioni. A tal proposito Liliana Madeo afferma infatti che “le
protagoniste dei gesti clamorosi di questi giorni abbiamo voluto
proteggere i figli e di loro cari da vendette trasversali o, al contrario,
che la loro assuefazione alla cultura mafiosa sia tale da rendere

154
Magli I., in Giornale di Sicilia, 30 giugno 1995

93
impensabile la possibilità di abbandonarla, di abbandonare tutto ciò
che la vita mafiosa garantisce loro”155.

La chiave di lettura di questi comportamenti è sostanzialmente


molto complessa in quanto si riscontra la presenza di vari elementi
quali la paura e la volontà di prevenire la ritorsione, la volontà di
persistenza nel ruolo attivo, legato ai vantaggi dell’universo mafioso.
Le donne avvertono il possibile crollo del loro mondo in cui si
riconoscono, soprattutto dal momento in cui il pentitismo è diventato
un fenomeno molto diffuso.

Si ha quindi una maggiore adesione alla cultura mafiosa, per cui


il pentimento è considerato alto tradimento nei confronti
dell’associazione mafiosa, che deve rimanere segreta. Agli occhi di
aderisce ai suoi canoni, gli omicidi, le stragi, le violenze , le estorsioni
ecc. non sono considerati come degli atti delittuosi ma sono degli atti
“normali” che si conformano alle regole del codice mafioso. Il
collaboratore viene marchiato come “infame” in quanto rivela i
segreti, “tragediatore” e “rovina-famiglie” perché accusa e inguaia
degli “innocenti”.

Le donne vivono in questo contesto criminale in cui vige una


concezione tragica dell’esistenza ed esse aggiungono maggiori effetti
alle situazioni per una forma di protagonismo. Le donne che
difendono il mondo mafioso appartengono a tutte le generazioni, vi è
una continuità che sfida ogni mutamento all’interno della mafia e
quelle che si dissociano platealmente, manifestano una chiara fedeltà e
un’appartenenza che però non viene punita dal nostro sistema
155
Madeo L., in Giornale di Sicilia, 30 giugno 1995

94
giudiziario. questa impunità rimanda alla non punibilità del
favoreggiamento dei famigliari ai sensi dell’art.384 del Codice penale
che dispone nei casi di favoreggiamento “che non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare
sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile
nocumento nella libertà o nell’onore”.

In base a ciò, le donne che si rendono partecipi della latitanza


del marito, come ad esempio Ninetta Bagarella che aveva favorito
quella del marito Totò Riina, poiché ha agito per salvarlo “da un grave
e inevitabile nocumento nella libertà” e quelle che urlano la loro
fedeltà alla mafia non sono punibili perché si ergono a difesa della
libertà e dell’onore dei congiunti mafiosi, violati dai familiari pentiti.

CAPITOLO QUARTO
LE DONNE CONTRO LA MAFIA

4.1 Il coraggio esemplare di contrastare la mafia

95
Le donne che si schierano contro la mafia sono molto diverse
fra loro, hanno dei particolari vissuti personali che le rendono uniche
in quanto presentano delle diverse estrazioni ed istruzioni e non tutte
vengono da situazioni di particolare degrado e povertà.
Le origini della loro presenza nella lotta contro la mafia
risalgono al grande movimento antimafia con protagonista i Fasci
Siciliani del 1892 - 1894 fino alle lotte degli anni Quaranta e
Cinquanta dove le donne hanno assunto una posizione di rilievo.
Le donne si mostrano al mondo esterno anche grazie al
fenomeno del pentitismo che ha permesso di loro di mostrare che la
mafia può essere combattuta; di fronte ai congiunti pentiti le donne si
sono divise in quelle che condividevano la vita blindata dei loro cari
ed in quelle che, come abbiamo già detto, ne hanno preso
dichiaratamente le distanze. Per quanto riguarda, invece, le donne
collaboratrici di giustizia, esse non sono state guidate sempre da un
vero e proprio pentimento ma sono state spinte in seguito ad
accadimenti drammatici come la morte violenta di un congiunto. Ci
sono, state però anche delle donne che con coraggio hanno deciso di
rompere con la famiglia mafiosa perchè non ne condividevano più (o
non avevano mai condivido) lo stile di vita156. A tal proposito Puglisi
afferma infatti che:

«Soltanto alcune di loro si possono chiamare “pentite”,


secondo l'accezione impropria usata per i mafiosi maschi,

156
Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, Appunti sulla ricerca “Donne e
mafia”, Relazione di A. Puglisi e U. Santino, Palermo 1996

96
nel senso che la loro collaborazione riguarda anche le
loro attività illecite. La maggior parte delle donne
collaboratrici di giustizia sono vedove, orfane, madri a
cui hanno ucciso i figli, che solo dopo un avvenimento
traumatico con la morte violenta di un loro congiunto,
passano dal lutto privato alla testimonianza pubblica;
donne, quindi, per le quali il lutto è stato il passaggio
necessario che le ha portate a ribellarsi, almeno
parzialmente, alla mafia di cui prima avevano accettato
regole, potere e ricchezza.
Ma ce ne sono alcune che hanno trovato il coraggio di
rompere con i loro parenti mafiosi non necessariamente
in conseguenza di un lutto o di un provvedimento
giudiziario»157.

Per le donne che decidono di denunciare le loro famiglie


significa, spesso, essere isolate, essere disprezzate dai membri del
proprio ambiente, essere a rischio di vendetta, perdere l'identità e tutte
le garanzie che si hanno quando si appartiene ad un clan. Non sempre,
anzi quasi sempre, le loro scelte sono state riconosciute soprattutto in
considerazione del loro coraggio, dell'impegno civile e del dolore
anche se non sono mancate parole pubbliche di ammirazione nei loro
confronti come ad esempio quelle del giudice Falcone:

«Ne ho dedotto che le donne, che in passato hanno


raramente avuto una parte decisiva nella vita dei mafiosi
– i quali si accontentavano di una famiglia di tipo

157
Puglisi A.-Santino U., relazione al seminario «Donne, cittadinanza e criminalità», Università
degli studi di Pisa, Dipartimento di Scienze sociali, 10 dicembre 1996

97
matriarcale dove la sposa, senza mai venire informata di
alcunché, sapeva tutto, ma stava zitta – le donne, dicevo,
hanno assunto un ruolo determinante: decise e sicure di
sé, sono diventate il simbolo di quanto c’è di vitale,
gioioso e piacevole nell’esistenza; sono entrate in rotta di
collisione con il mondo chiuso, oscuro, tragico, ripiegato
su se stesso e sempre sul chi vive di Cosa Nostra. Alcune
donne purtroppo non rare, non si sono ancora schierate
con la cultura della vita»158.

L’esperienza soggettiva della perdita, del lutto e del dolore è


diventata lo stimolo per una forte rivendicazione etica e politica e nel
momento in cui si decide di parlare, rompendo l'obbligo del silenzio
imposto dalla mafia, si rischia moltissimo in quanto si mette a
repentaglio la propria vita e quella dei propri cari. Ma la memoria dei
loro cari, le ha rese sempre più forti e decise nel perseguire le loro
scelte anche se a volte, sono state abbandonate dallo Stato e dalla
società civile.
Tutte le donne che collaborano sono pervase dal forte desiderio
di non dimenticare, di tenere sempre vivo il ricordo ma la loro forza
consiste nella speranza che hanno acquisito per il futuro che
alimentano anche tramite la commemorazione e in speranza. La
domanda di giustizia e l’imperativo a non dimenticare, gridati a gran
voce dai familiari delle vittime della violenza mafiosa contro le
istituzioni dello Stato sono anche degli atti riparativi per riconquistare
un equilibrio nella propria esistenza. L'elaborazione del lutto in forma
collettiva è utile per dare significato e riparazione al dolore ma è uno
158
Falcone-Padovani, op. cit., p.85

98
strumento molto forte per combattere il movimento mafioso e la sua
ideologia di morte che cerca di imporre e che pretende di controllare il
passato, il presente e la memoria.
La lotta comune di donne contro la mafia permesso la
trasformazione del lutto privato in testimonianza pubblica ed esse
hanno elaborato delle forme di resistenza civile e di denuncia,
contestualmente al desiderio di dare un diverso significato alle loro
vite159.

4.2 Le donne degli uomini di mafia

Le donne collaborano per motivazioni diverse e talvolta non


vogliono reagire ad un pericolo anche se innescano dei pericolosi
consapevolmente, e nonostante le ritorsioni. Sono tutte però
accomunate dall'esperienza del dolore e della perdita anche se si
differenziano per la vicinanza o lontananza rispetto all’ambiente
mafioso che si evince dall'appartenenza al clan e dal tenore dei
rapporti. Vi sono donne infatti che vengono a contatto con la realtà
mafiosa durante il loro percorso di vita come ad esempio Felicia
Bartolotta Impastato, mamma di Peppino Impastato, che proveniva da
un ambiente diverso. Scopre la realtà della mafia dopo il matrimonio
che l'aveva condotta nella famiglia mafiosa di Cinisi e in un'intervista
afferma infatti che:”E poi non lo capivo proprio che cosa significava
questa mafia, questa delinquenza”160. Ed anche se non sopporta, fin da
159
Siebert, Le donne e la mafia, op. cit., p.76
160
Bartolotta Impastato F., La mafia in casa mia, La Luna, Palermo 1986, p.22

99
subito, le amicizie del marito non ha la forza di lasciarlo:”Avrei
dovuto lasciarlo, prendere i miei figli e andare via. Ma chi mi aiutava
a quei tempi. Ora, che la mentalità è cambiata, forse avrei avuto
coraggio di farlo”161.
A suo modo tenta di trovare un “compromesso domestico” tra
l'autorità del marito a cui non riesce a sottrarsi e che considera come
protezione per la vita del figlio, e l'amore proprio per il figlio. Ma
questo compromesso salta con la morte del figlio Peppino il 9 maggio
1978, giorno in cui decide di rompere con la famiglia mafiosa che la
invita a tacere ed aspettare la vendetta ed a schierarsi dalla parte del
figlio, denunciandone gli assassini.
Un altro esempio è la storia di Margerita Petralia, moglie di un
mafioso di Paceco, che si sposa molto giovane e che da subito detesta
il marito che si mostra violento. Si rende anche conto che lui è un
assassino e pur non avendo il coraggio di lasciarlo pe timore di essere
uccisa, scrive pagine di diario in cui denuncia tutti i suoi sospetti sul
marito e i suoi amici. Questo diario sarà utilizzato durante il processo,
quindici anni dopo, contro la mafia della zona e dove era imputato il
marito che nel frattempo aveva lasciato. Nel diario scrive:

«Sono la moglie di Sugamiele Gaspare, cioè Margherita


Petralia. Sono la moglie solo davanti alla gente, perché in
realtà sono la cameriera, la cosa da prendere a pugni e a
calci al momento che è nervoso e se oso parlare ancora
pugni e calci....[...] Sono tutti delinquenti, assassini feroci.
Ed è per questo che io so e sto zitta. Perché sarebbero

161
Ibidem, p.36

100
capaci di ammazzarmi. Ma se mi dovesse succedere
qualcosa, o mi facessero scomparire, do il mio consenso a
leggere queste pagine perché vadano in mano ad un
giudice che non si faccia corrompere»162.

Vi sono anche dei casi in cui le donne sono state spinte a


collaborare per spirito di vendetta come nei casi di Serafina Battaglia
e Giacoma Filippello. La Battaglia è stata per vent'anni la convivente
di Stefano Leale, un mafioso palermitano che venne ucciso il 9 aprile
del 1960 per vendetta per un suo presunto tradimento nei riguardi dei
Rimi. Lei decide di collaborare in seguito all'omicidio del figlio ma
era
«Una donna malandrina, di quelle che istigano, che covano la
vendetta. Dopo l'omicidio del marito non faceva altro che dire ogni
mattina al figlio:”Alzati che hanno ammazzato tuo padre! Alzati e
valli ad ammazzare!”. Tutte le mattine, quello, il figlio, non si voleva
alzare. Ma quella lo istigava, lo ist8gava, non gli dava pace fino a che
lui non assoldò un sicario per uccidere i Rimi. I quali lo vennero a
sapere ed eliminarono tutti e due, mandante ed esecutore. Dal
momento dell'uccisione del figlio, la Battaglia si trasformò da
malandrina in confidente, sbirra. E ha raccontato tutto alla
giustizia»163.

Così anche la Filippello che ricordando l'uccisione di L'Ala


avvenuta il 7 maggio del 1990 afferma:

162
Da Giornale di Sicilia, 31 ottobre 1989
163
Arlacchi, Gli uomini del disonore, op. cit., pp.170-171

101
«Ed io aspettai che lo vendicassero. Ma non accadde
nulla. Anzi uno di loro osò fermarmi per la strada. Voleva
farmi le condoglianze, figurarsi... e nell'occasione mi
fa:”'Za Giacomina siete stata fortunata perché a voi vi
hanno lasciata in vita”. Io persi la testa. Gli urlai:”La
mia fortuna sarà la loro sfortuna. Diteglielo. Perchè
finchè avrò un filo di vita e coraggio, io farò di tutto per
spaccare il petto e per manigare il cuore degli assassini di
Natale. Volevo vendetta. Chiesi soddisfazione a chi
potevo»164.

La vendetta da parte degli ex amici della cosca non arriva e lei


decide di parlare con il giudice Paolo Borsellino; ribadirà sempre di
non considerarsi una pentita ma una donna che vuole vendicare coi i
propri mezzi l'uccisione del “compagno della sua vita. Anche Rita
Patria, che inizia a collaborare dopo la cognata, sembra sia stata spinta
dal desiderio di vendicare i suoi cari. E come dice Alessandra
Camassa, che come sostituto procuratore a Marsala ha raccolto le sue
testimonianze:
«Ciò che spinge Rita Atria a diventare una collaboratrice di giustizia è
il desiderio di trovare un'altra strada rispetto a quella del fratello
Nicola. La stessa rabbia cieca che, dopo l'uccisione di Vito Atria,
aveva spinto il figlio maschio ad infiltrarsi tra le cosche per farsi
giustizia da solo, vendicando l’assassinio del padre e riabilitando
l'onore della famiglia165.

164
Mazzocchi S., Quelle iene non mi fanno paura, in Il Venerd' di Repubblica, 23 aprile 1993
165
Rizza S., Una ragazza contro la mafia. Rita Atria, morte per solitudine, La Luna, Palermo
1993, p.76

102
Vi sono poi anche casi di donne che non si sono veramente
pentite ma che hanno deciso di collaborare per paura di perdere la
vita, come ad esempio Tiziana Augello, appartenente alla borghesia di
Caltanissetta che entrò nella cosca di Leonardo Messina166. Sostiene di
aver intrapreso l'attività criminosa perché orfana di madre e di avere
subito in famiglia incomprensione e solitudine ed afferma infatti
che:”Tutto questo poteva non succedere se avessi avuto una
madre...Una sola spiegazione ai miei fallimenti, una mamma”167.
Subito dopo la sua iscrizione all'Università di Messina contro il volere
del padre che non la finanzierà, inizia ad avere problemi con la
giustizia in quanto diventa dipendente dalla cocaina e viene coinvolta
in una rapina a mano armata. In carcere tenta il suicidio, atto che
ripeterà altre due volte, la terza da pentita a causa della solitudine e
della paura del futuro.
Ottenuta la libertà vigilata torva lavoro come intrattenitrice in
un giro di serate a Caltanissetta e solo dopo tre giorni di lavoro,
conosce Leonardo Messina, mafioso di San Cataldo, di cui diviene
l'amante. Entra nel giro della sua organizzazione e diventa anche una
corriera della droga ed è proprio il mondo dell’eroina che sta alla base
del suo pentimento in quanto lei vuol chiudere con questo mondo e
ritornare alla vita di prima. Alla base però vi è anche la paura di essere
uccisa ed in un'intervista afferma:

«È vero, volevano uccidermi. Sono stati i carabinieri a


raccontarmi tutto questo. Dopo una ventina di giorni
166
Puglisi, Donne, mafia e antimafia, op. cit., p.119
167
Transirico C., Braccata. Dal rifugio segreto una pentita racconta , Sigma edizioni, Palermo
1994, p.39

103
hanno cominciato a verbalizzare le mie confessioni […]
Ho svelato come si svolgeva il traffico di droga e go dato
ai carabinieri un numero di telefono segreto usato da
Leonardo Messina. Proprio grazie a questo numero di
telefono i carabinieri hanno potuto sventare un omicidio e
scoprire chi in realtà era Messina»168.

4.3 La forza di Rita Atria e di Rosetta Cerminara

Rita Atria ha solo undici anni quando il padre che adora, un


boss mafioso, viene assassinato e solo sedici quando viene assassinato
a colpi d’arma da fuoco anche il fratello Nicola. Decide di collaborare
con la giustizia perché sente che ha il compito di “vendicare mio padre
e mio fratello”, come afferma il 5 novembre del 1991 alla Procura di
Sciacca. Le sue parole sono talmente forti da far sobbalzare i giudici
in quanto afferma che affinchè:

«La vendetta sia compiuta, io devo collaborare con la


giustizia. Non ho paura delle conseguenze. Nessuno mi ha
costretta a venire qui. Nessuno della mia famiglia mi
perdonerà. So che corro dei rischi. So che mi
minacceranno e forse dovrete portarmi via da casa. Ma
niente di questo ha importanza»169.

168
In Giornale di Sicilia, 8 gennaio 1993
169
Madeo, op. cit., p.218

104
Lei vive a Partanna, un centro collinare della valle del Belice, che in
seguito al terremoto del 1968 è teatro di una sfrenata speculazione
edilizia di cui beneficiano i clan mafiosi. Ne consegue una cruenta
guerra tra le famiglie rivali che causa decine di morti e quasi ogni
famiglia piange la perdita di un suo componente, ma non ci sono mai
testimoni.
La sua breve vita ruota attorno alle figure del padre e del
fratello maggiore che adora e con i quali, sia da vivi che da morti, ha
un forte legame, sostenuto dall’orgoglio di essere una Atria e dal
desiderio di vendicare la loro morte. La cognata Piera ricorda che nei
giorni successivi all’omicidio del suocero, Rita, che aveva solamente
undici anni, e il fratello si presero per mano e davanti alla tomba del
padre “silenziosamente giurarono vendetta”170. Sei anni dopo, in
seguito all’uccisione del fratello, per mantenere la promessa decise di
recarsi dai carabinieri per denunciarne i colpevoli.

Le sue relazioni con le donne sono soprattutto quelle con la


madre e la giovane cognata, poi vedova, Piera Aiello, anche lei
testimone d’accusa che decide di pentirsi in seguito all’omicidio del
marito avvenuto nel 1991, anche se, in verità, in precedenza aveva
manifestato il desidero di farlo, cercando di convincere il marito171. Il
lutto è stato per Piera non la causa della collaborazione ma il pretesto
per realizzare una vecchia aspirazione. A tal proposito la dottoressa
Camassa, che fu tra i primi magistrati a parlarle, afferma:

170
Amenta M., Diario di una ragazza ribelle, Eurofilm e Mediterranea Film, Italia 1997
171
Cfr. Ministero dell’Interno, Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata per l’anno
1995, Tipografia del senato, Roma 1996

105
«Non aveva le caratteristiche di una donna di mafia
tradizionale, nel senso che lei voleva sapere, voleva
capire. Ci fornì una quantità di informazioni dettagliate
sulla mafia di Partanna. Non parlò per vendetta, non è il
tipo […] Aveva voglia di uscire; concepiva questa
collaborazione come una rinascita »172.

La sua storia è stata ricostruita dalla giornalista Sandra Rizza


sulla base del suo diario, in cui annotava tutte le sensazioni che le
suscitavano le difficili situazioni che era costretta ad affrontare
quotidianamente, iniziando dai primi contatti coi carabinieri, alla vita
protetta con la cognata fino all’omicidio brutale del giudice
Borsellino.
Emerge il forte ed insanabile conflitto che viene a crearsi dal
momento in cui decide di collaborare, con la madre Giovanna
Cannova, appartenente dalla nascita ad una famiglia mafiosa, e che
ritiene il comportamento della figlia un tradimento al punto da
rinnegarla e di minacciarla di morte.
Anche il fidanzato si comporta come la madre, lasciandola in
uno stato di rabbia, disperazione e solitudine; ma la svolta arriva
quando incontra il giudice Borsellino e le donne magistrato che le
fanno conoscere una nuova dimensione del mondo al punto da farle
mettere in discussione le sue certezze. Borsellino le insegna che i
concetti di amore, giustizia e verità non sono qualcosa di astratto,

172
Longrigg, op. cit., p.273

106
bensì gesti, comportamenti e progetti concreti ed è per questo che la
sete di vendetta iniziale si ridimensiona, ma l’incontro con se stessa è
ancora lontano.
Rita si trasferisce a Roma con la cognata Piera, i rapporti con la
madre non sembrano migliorare e lei soffre per l’isolamento e la
nostalgia di casa. Ciò che non sopporta è la solitudine e soprattutto la
lenta presa di coscienza del fatto che suo fratello era solo un vile
spacciatore di eroina e il padre un delinquente. Nelle pagine del suo
diario si denota chiaramente questo forte senso di frustrazione:

Roma, 12 gennaio 1992 – Sono quasi le nove di sera, sono triste e demoralizzata
forse perché non riesco più a sognare, nei mie occhi vedo tanto buio e tanta
oscurità. Non mi preoccupa il fatto che dovrò morire ma che non riuscirà mai a
essere amata da nessuno. Non riuscirò mai a essere felice e a realizzare i miei
sogni. Vorrei tanto poter avere Nicola vicino a me, poter avere le sue carezze, ne
ho tanto bisogno, ma l’unica cosa che riesco a fare è piangere. Nessuno potrà
mai capire il vuoto che c’è dentro di me, quel vuoto incolmabile che tutti a poco a
poco hanno aumentato. Non ho più niente, non possiedo altro che briciole. Non
riesco a distinguere il bene dal male, tanto orami tutto è così cupo e squallido.
Credevo che il tempo potesse guarire tutte le ferite, invece no, il tempo le apre
sempre di più, fino a ucciderti lentamente. Quando finirà quest’incubo?173.

Fortunatamente gode del forte appoggio di Borsellino che si


preoccupa molto per la giovane collaboratrice174 e che lei sente come
un padre ma quando egli, il 19 luglio 1992, perde la vita in un
attentato mafioso a Palermo, lei si sente sempre più sola e la sera
stessa scrive:
173
Rizza, op. cit., p.137
174
Longrigg, op. cit., p.87

107
Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia
vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa che ho paura è che lo Stato mafioso
vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno
uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un autoesame di coscienza e poi,
dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel
giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Borsellino sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta175.

Una settimana più tardi, alla stessa ora dell’attentato al giudice,


si getta dalla finestra perché la morte del giudice aveva reciso il
legame tra mondo di prima e mondo del dopo: lui rappresentava la
garanzia che il passaggio da un mondo all’altro sarebbe stato possibile
La madre non partecipa al funerale e il 2 novembre rompe a
martellate la fotografia della figlia sulla tomba degli Aiello dove era
stata sepolta e porta il corpo di Rita nella tomba di famiglia. A chi l’ha
denunciata per aver profanato la tomba, lei risponde:
«Non è vero che ho profanato la tomba di mia figlia.
Volevo solo far sparire dalla sua tomba quella fotografia.
La figlia era mia e alla foto devo pensarci io non quella
lì»176.

E dopo l’incriminazione per vilipendio di tomba, chiede il


patteggiamento della pena e presenta una memoria in cui ribadisce:

«È vero, ho danneggiato la foto di mia figlia non per


dissacrare il suo ricordo, ma perché quella foto era stata

175
Rizza, op. cit., p.128
176
In Giornale di Sicilia, 23 novembre 1992. Si riferisce alla nuora Piera Aiello

108
apposta senza mia autorizzazione dai genitori di Piera
Aiello. Io volevo soltanto sostituire quella foto. Non
c’entra nulla il fatto che Rita abbia collaborato con la
giustizia»177.

Ma ciò che scrive è in netto contrasto con quanto aveva


dichiarato e fatto in precedenza ma viene condannata a due mesi e
venti giorni di reclusione, con pena sospesa. Riesce ad ottenere il
corpo della figlia e a spostarlo nella tomba di famiglia anche se Rita
voleva essere seppellita nella tomba degli Aiello, accanto al fratello
ma la madre decide di riportarla nella famiglia d’origine, visto che non
può sottrarsi alla volontà materna.
Un’altra storia esemplare è quella di Rosetta Cerminara, una ragazza
calabrese ventenne che studia, lavora e conduce una vita normale e
che diventa testimone involontaria dell’uccisione del sovrintendente di
polizia Salvatore Aversa e di sua moglie, avvenuta il 4 gennaio del
1992. L’agguato avviene in una via affollata, piena di negozi e lei
riconosce i due giovani assassini anche perché uno dei due, in passato,
è stato il suo fidanzato e la decisione di parlare, probabilmente, è
coltivata dal fatto che conosce le vittime ed i carnefici178.
Lei non è una donna di mafia “pentita” che dopo aver subito un
lutto, denunzia i colpevoli per vendetta ma è una semplice testimone e
la sua forza risale proprio nel suo essere una libera cittadina che non
ha vincoli di parentela con le vittime, e con gli assassini. L’importanza
del suo gesto consiste soprattutto nel fatto che lo riporta alla
dimensione di quotidianità e di normalità che, invece, fino a quel
177
In Giornale di Sicilia, 23 ottobre 1993
178
Siebert, Le donne e la mafia, op. cit., p.99

109
momento, sembrava essere solamente di coloro che, da dentro la
mafia, trovano il coraggio di separarsi.
In seguito alla sua testimonianza deve abbandonare la Calabria
insieme alla sua famiglia per andare a vivere sotto protezione in un
posto segreto dell’Italia settentrionale, costringendo i genitori ad
abbandonare la loro attività e lei a perdere il suo lavoro. Il primo
processo, dopo mesi di dibattimento è stato annullato per vizio di
forma ma nella sessione di prima istanza, ha riconosciuto gli imputati
colpevoli anche se in seconda istanza vengono assolti.
Subito dopo la sentenza di primo grado, il Presidente della Repubblica
Oscar Luigi Scalfaro le ha conferito una medaglia al valore civile per
il suo coraggio.
Già nel primo processo la difesa tenta di screditarla, insinuando
che la sua decisione di testimoniare è mossa dalla vendetta di un
amore tradito e viene così trasformata, purtroppo, da accusatrice in
accusata. Tale visione rientra nel fenomeno del disconoscimento della
dimensione civile della donna che, anche se ha visto uccidere due
persone, non appare credibile la sua testimonianza.
Non solo, anche la comunità reagisce ostinatamente verso di lei,
con silenzio e imbarazzo e ad un certo punto anche le istituzioni
sembrano abbandonarla ma col passare del tempo la situazione
migliora ed il silenzio iniziale si allenta e gli assassini sono
nuovamente condannati.
Rispetto a Rita, Rosetta resiste anche se vive isolata, blindata, lontana
dalla sua città, dalla famiglia, dagli amici e dal lavoro ma la sua è stata

110
una scelta consapevole e conosceva le regole del gioco quando decide
di testimoniare.
Tuttavia, la giustizia le riserva un nuovo e duro colpo in quanto
in coincidenza con il decimo anniversario dell'assassinio del
sovrintendente e della moglie, i presunti assassini sono assolti e lei
viene accusata di falsa testimonianza.

4.4 Una storia attuale: il caso di Giusy Vitale

Giusi Vitale è considerata il primo pentito donna ma è anche la


prima donna ad assumere il comando di una famiglia mafiosa.
Nasce in una famiglia molto numerosa di contadini siciliani, lei
era la picciridda di casa perché aveva tre fratelli e una sorella più
grandi e viene cresciuta dai suoi fratelli come un maschio ed è da loro
trattata con cura soprattutto da Leonardo, che lei amerà
particolarmente. E sono proprio i tre fratelli ad iniziare l’attività
criminosa e a frequentare le patrie galere stabilmente diventando il
braccio armato dei Corleonesi.
La violenza invade pian piano la famiglia e Giusy viene
coinvolta nei loro affari criminosi fino a diventare così brava da
assumere le vesti di capo. È la prima donna a prendere quelle
decisioni che spettavano esclusivamente agli uomini ed infatti quando
i suoi fratelli vengono arrestati, assume il comando del clan.
Viene considerata come una donna d’onore.

111
La sua attività criminosa la conduce in carcere la prima volta il
24 giugno del 1998 con l'accusa di associazione mafiosa e viene
scarcerata il 25 dicembre del 2002. Nel marzo successivo rientra
nuovamente in carcere con l’accusa di essere il mandante
dell’omicidio dell’imprenditori Salvatore Riina ucciso il 20 giugno
1998, perché sospettato di essere un informatore di Bernardo
Provenzano.
Giusi cresce in un ambiente mafioso e viene allevata secondo i
canoni degli affiliati a Cosa nostra; si dedica completamente alla
“famiglia”: copre la latitanza del fratello maggiore Vito, detto
«fardazza» e dei suoi picciotti, gira paesi e città per recapitare
«bigliettini» con i messaggi da affidare ai boss, e porta nei covi dove
si nascondeva il fratello l'amante per rendere più lieve la sua latitanza.
Le indagini degli investigatori hanno rivelato che aveva due
amanti, dei quali uno viene arrestato ma la sua storia giudiziaria inizia
quando dei pentiti ne svelano il ruolo, e tra i suoi accusatori vi è
proprio una donna: Maria Fedele, moglie di Antonino Guarino,
picciotto della cosca di Partinico.
In seguito a queste rivelazioni decide di collaborare anche
perché non vuole far crescere i suoi figli in un ambiente intriso di
violenza ed infatti in più di un’occasione afferma di aver preso questa
decisione proprio per loro due179.
Subito dopo il primo arresto e la detenzione per quattro anni e
mezzo decide di pentirsi e nel suo libro scrive appunto che:

179
Vitale G., Ero cosa loro. L’amore di una madre può sconfiggere la mafia, Mondadori, Milano
2009, p.18

112
«Mentre ero detenuta mi portarono mio figlio in carcere.
Aveva quasi sei anni; mi chiese perché ero finita lì dentro
e poi:”Mamma che cosa è l'associazione mafiosa?”. Non
seppi rispondere. Lo presi in braccio, lo misi a sedere e
cercai di dire qualcosa…..che la mafia è una cosa
brutta….. e che quando fosse diventato grande glielo
avrei spiegato. Ma quella domanda mi fece riflettere
davvero sulla mia vita, sulle mie scelte che scelte non
erano mai state, e su cosa volevo per i miei figli. Per loro,
Francesco e Rita, ho rotto ogni legame col passato»180.

Nel suo racconto Giusy ben evidenza quanto fosse succube dei
suoi fratelli e in particolare di Leonardo, che oggi l’ha rinnegata e la
definita un “insetto velenoso”- e come l’ambiente della sua famiglia
fosse molto restrittivo. Afferma infatti che:« Per me la vita era quella
con i miei fratelli, per me era impossibile persino fare un confronto
con le mie coetanee, non sapevo assolutamente come si potesse vivere
in un altro modo».
Tutto ciò la costringe a vivere una vita diversa anche perché i
fratelli le impediscono perfino di frequentare le scuole superiori in
quanto doveva fare da collegamento con i parenti in carcere e doveva
eseguire i loro ordini.
Non era libera di muoversi e di decidere per la sua vita, afferma
infatti di aver imparato a essere libera solamente durante il periodo
della detenzione perché «[…] i miei pensieri erano miei, il mio tempo
era mio, io ero mia. E volevo solo vivere per me, ma soprattutto per i
miei figli. Non sarebbe stato facile, ma ero ancora giovane, avevo
180
Ivi, pp.18-19

113
trentatré anni e potevo ricominciare da capo. Sapevo anche che gli
altri, tutti gli altri, non l’avrebbero presa bene, dai miei famigliari al
mio presunto amante. E infatti così è stato»181.
Il fratello Leonardo la rinnega platealmente al punto che come
scrivono i giornali:

«[…] L’anatema di Leonardo Vitale contro la sorella è


stato lanciato attraverso il collegamento in
videoconferenza con la Corte d’Assise di Palermo dalla
Casa Circondariale di Palermo dove si trova detenuto,
durante il processo per l’omicidio di un commerciante,
Salvatore Riina (soltanto l’omonimo del capomafia
corleonese).
“Ho saputo che una mia ex consanguinea – ha detto il
boss – sta collaborando. Noi la rinneghiamo sia da viva
che da morta e speriamo che lo sia presto»182.

Attualmente Giusy continua nel suo percorso e coltiva sempre


la speranza che i suoi fratelli prendano il suo stesso cammino e si
pentano e nel frattempo cerca i valori giusti, per crescere Francesco e
Rita, per non ripetere con loro gli errori che i miei famigliari hanno
fatto con me183.

181
Ivi, p.166
182
Ivi, p.167
183
Ibidem

114
BIBLIOGRAFIA

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