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dal ruolo ricoperto (da mobber, da mobbizzato o da semplice spettatore). I settori più colpiti sono
l'industria e la Pubblica Amministrazione, seguiti comunque a ruota da scuola, sanità e settore bancario.
Per quanto riguarda invece le caratteristiche della tipica vittima di Mobbing, le cose non sono affatto
semplici. Fin dall'inizio dei suoi studi Leymann affermò categoricamente che, in base ai risultati, non ci
sono tipi di personalità inclini ad essere mobbizzati, che cioè il Mobbing può accadere a chiunque. Gli
anni hanno sostanzialmente confermato questa idea. Per quanto le ricerche abbiamo tentato di individuare
un gruppo di lavoratori maggiormente a rischio di Mobbing, i risultati sono ancora troppo pochi e troppo
discordi per giungere ad una conclusione generale.
Dunque non è possibile delineare il profilo della "vittima designata" o le caratteristiche di un gruppo di
rischio; quello che possiamo fare al momento è formulare delle indicazioni di regolarità, dedotte
unicamente dall'esperienza di sei anni di lavoro sul campo e oltre tremila colloqui con vittime o presunte
vittime di Mobbing. Ecco alcuni dati indicativi della situazione in Italia:
• In Italia il Mobbing sembra essere una piaga tipica dei colletti bianchi: la categoria degli impiegati
d'ufficio sembra infatti essere più colpita.
• In linea di massima sembra più colpito il settore pubblico di quello privato, in particolare nei
settori della scuola, della sanità e dell'amministrazione pubblica;
• Il tipo di Mobbing esercitato nei due settori tende ad essere peculiare: nel pubblico tende ad essere
perpetrato da parte di colleghi e superiori allo scopo di punire o indurre a desistere dalla sua
azione qualcuno che si è posto in contrasto con l'ideologia di maggioranza dell'ufficio; nel privato
molto diffuso è invece il Bossing.
• Tra le fasce più colpite, secondo la mia ultima indagine statistica del 2001, risultano gli uomini tra
i 30 e i 40 anni e le donne tra i 40 e i 50 anni.
I danni per la vittima
Il Mobbing ha effetti devastanti sulla persona colpita: essa viene danneggiata psicologicamente e
fisicamente, menomata della sua capacità lavorativa e della fiducia in se stessa. I soggetti mobbizzati
mostrano alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico,
anestesia emozionale), alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico (cefalea, vertigini, disturbi
gastrointestinali, disturbi del sonno e della sessualità) e disturbi a livello comportamentale (modificazioni
del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività).
La clinica psichiatrica ci dice che la vittima del Mobbing si colloca abbondantemente nell’area del
cosiddetto Disturbo Post-Traumatico da Stress, disturbo che nei casi estremi provoca una profonda
alterazione della personalità e che obbliga la vittima ad un isolamento sociale progressivo di tipo
difensivo al fine di evitare il ripetersi degli episodi di vittimizzazione. In sostanza le vittime del Mobbing
vanno incontro ad una crisi che è innanzitutto esistenziale, nel senso che la perdita del ruolo di lavoratore,
epilogo che si presenta frequentemente, mina le fondamenta dell’identità personale e la propria autostima.
Il Doppio-Mobbing: le ripercussioni sulla famiglia
C'è però un altro campo in cui il Mobbing ha ripercussioni gravissime: la vita privata e famigliare della
vittima di Mobbing. Si tratta di quel fenomeno che ho denominato Doppio Mobbing, una situazione che
ho riscontrato frequentemente in Italia, ma di cui non si trova traccia nella ricerca europea sul Mobbing: è
infatti legato al ruolo particolare che la famiglia ricopre nella società italiana.
In Italia, il legame tra individuo e famiglia è molto forte; la famiglia partecipa attivamente alla definizione
sociale e personale dei suoi membri, si interessa del loro lavoro, della loro vita privata, della loro
realizzazione e dei loro problemi: virtualmente non scompare mai dall´esistenza dei suoi componenti: si
fa da parte, forse, ma è sempre presente a fornire consigli, aiuti, protezione. Conseguentemente, possiamo
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ipotizzare che, in linea generale, la vittima di una situazione di Mobbing tenda a cercare aiuto e consiglio
a casa. Qui sfogherà la rabbia, l´insoddisfazione o la depressione che ha accumulato durante una giornata
lavorativa passata sotto i colpi del mobber. E la famiglia assorbirà tutta questa negatività, cercando di
dispensare al suo componente in crisi quanto più ha bisogno in termini di aiuto, protezione,
comprensione, rifugio ai propri problemi. La crisi porterà necessariamente ad uno squilibrio dei rapporti,
ma la famiglia ha molte più risorse e capacità di ripresa di un singolo, e riuscirà a tamponare la falla.
Il Mobbing, però, non è un normale conflitto, un periodo di crisi che si concluderà presto. Il Mobbing è
un lento stillicidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni che perdura inesorabilmente nel tempo, e
proprio nella lunga durata ha la sua forza devastante. La vittima soffre e trasmette la propria sofferenza al
coniuge, ai figli, ai genitori per molto tempo, il più delle volte anni. Il logorìo attacca la famiglia, che
resisterà e compenserà le perdite, almeno per un certo tempo, ma quando le risorse saranno esaurite,
entrerà anch´essa in crisi. Come un barattolo, che ha un suo limite di capienza , così una famiglia può
assorbire fino ad un certo limite i lamenti di uno dei suoi membri.
Infatti, nello stesso momento in cui la vittima si sfoga, è come se delegasse i suoi famigliari a gestire la
rabbia, la depressione, l´aggressività, il malumore accumulati. E giorno dopo giorno, per mesi e anni, il
barattolo si riempe, avvicinandosi sempre di più alla saturazione. Se questo avviene, la situazione della
vittima di Mobbing crolla. La famiglia protettrice e generosa improvvisamente cambia atteggiamento,
cessando di sostenere la vittima e cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del
Mobbing. Ciò significa che la famiglia si richiude in se stessa, per istinto di sopravvivenza, e passa sulla
difensiva. La vittima infatti è diventata una minaccia per l´integrità e la salute del nucleo famigliare, che
ora pensa a proteggersi prima, ed a contrattaccare poi. Si tratta naturalmente di un processo inconscio:
nessun componente sarà mai consapevole di aver cessato di aiutare e sostenere il proprio caro.
Il Doppio Mobbing indica la situazione in cui la vittima si viene a trovare in questo caso: sempre
bersagliata sul posto di lavoro e per di più privata della comprensione e dell´aiuto della famiglia. Il
Mobbing a cui è sottoposto è raddoppiato: ora non è solo presente in ufficio, ma continua, a con altre
modalità, anche dopo, a casa.
Le conseguenze per l'azienda e per la società
Il Mobbing provoca un sensibile calo di produttività all'interno dell'azienda in cui si verifica. Innanzitutto
la vittima non lavora più con gli stessi ritmi e la stessa efficienza: la sua produttività si riduce
notevolmente, tanto che si possono raggiungere cali di prestazione dell'80%. L'azienda subisce poi
direttamente i costi di questo fenomeno: essa infatti continua a sostenere economicamente il 100% della
paga del mobbizzato e del mobber. Vanno poi considerate le lunghe e continuate assenze per malattia del
mobbizzato, nonché la sua sostituzione che l'azienda deve sobbarcarsi per portare a termine comunque il
suo lavoro.
C'è poi un altro tipo di conseguenza indiretta del Mobbing che un'azienda subisce: il mobber stesso
provoca gravi danni, compiendo spesso sabotaggi, che danneggiano l'azienda prima ancora della vittima,
o inducendo la vittima a compiere degli errori, anche questi costosi per la ditta; infine dedicando tra il 5%
ed il 10% del suo tempo lavorativo alla progettazione ed esecuzione delle azioni mobbizzanti.
Infine, se il Mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la
vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare
nuovo personale e predisporre nuova formazione. Nel caso in cui il lavoratore mobbizzato abbia subito un
danno quantificato da apposite perizie, egli può citare in giudizio l'azienda stessa, che in caso di perdita
della causa può essere costretta a risarcirlo con somme di denaro anche ingenti.
I costi del Mobbing si ripercuotono poi sull'intera società: una vittima di Mobbing è di solito pre-
pensionata o invalidata dal lavoro, e secondo stime statistiche, un lavoratore costretto alla pensione a soli
40 anni costa già 620.000 Euro in più rispetto ad uno pensionato all'età prevista.
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Le soluzioni al Mobbing: i percorsi formativi
Formazione a tutti i livelli è la parola chiave per risolvere o limitare i problema del Mobbing: essa
vuol dire innazitutto corretta informazione, quindi prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari
livelli: a livello aziendale, con specifiche modalità formative di gestione del conflitto e del Mobbing; a
livello professionale, rivolgendosi a quei professionisti (medici, psicologi, avvocati, etc) e a quegli
operatori del sociale che sono i primi punti di riferimento a cui si rivolge una persona con problemi sul
lavoro e che quindi devono essere in possesso delle conoscenze e delle capacità per ascoltare, consigliare,
indirizzare; infine c'è la formazione individuale, ossia rivolta alle singole persone, mobbizzate o meno, e
mirata a rinsaldare i principi dell'autostima e ad impartire le tecniche cosiddette dell'Autodifesa Verbale.
Presso strutture qualificate come PRIMA Associazione Italiana contro Mobbing e Stress
Psicosociale sono possibili percorsi esclusivi di "allenamento al conflitto" che comprendono corsi ed
esperienze assolutamente originali e coinvolgenti, quali l'M-group, i corsi di Autodifesa Verbale, di
Egoismo Sano e di Pigrizia Positiva.
L'M-Group è un'esperienza unica e insostituibile per conoscere le proprie reazioni al conflitto, imparare a
gestire meglio le proprie risorse e allenarsi a mettere in pratica strategie e metodi efficaci di difesa e
contrattacco. Dura tre giorni e si svolge in un luogo isolato, in cui partecipanti e formatori si trovano a
contatto esclusivo e costante senza alcuna influenza esterna, Con simulazioni di conflitto non guidate ogni
partecipante impara a conoscere le reazioni emotive più nascoste, sue e degli altri, che si manifestano
tipicamente nei momenti di maggior crisi.
Il corso di Autodifesa Verbale ha lo scopo di insegnare praticamente e con simulazioni apposite le
regole e le strategie fondamentali per difendersi dagli attacchi verbali (insulti, offese, risposte brusche,
battute e scherzi di dubbio gusto, rimproveri e critiche infondate) che possono (o no) fare parte del
Mobbing, in modo da controbattere in maniera adeguata senza scatenare un fatale inasprimento del
conflitto.
L'Egoismo Sano invece propone una nuova filosofia di vita, che si basa sul concetto secondo cui
essere egoisti non vuol dire necessariamente recar danno agli altri, mentre non essere egoisti il più delle
volte significa fare davvero del male a noi stessi e che incoraggia quindi a riconquistare se stessi e la
padronanza dei propri pensieri e atteggiamenti, svincolandosi dalle limitazioni e dalle influenze dell
´ambiente circostante.
Il corso di Pigrizia Positiva, insegna, in modo costruttivamente provocatorio, a diventare "pigroni
ad hoc", ad essere cioè deliberatamente e metodicamente pigri per difenderci dallo stress e goderci la vita:
risparmiare la nostra energia vitale nelle piccole e grandi cose di ogni giorno e riconoscere gli sprechi e le
trappole della vita moderna sono ottime strategie per prolungare non solo la nostra vita ma anche la nostra
salute.
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Queste ripercussioni di tipo esistenziale investono sia la sfera personale sia quella sociale e sono
per esempio la diminuzione di interesse nella vita privata e nel tempo libero, il calo o la scomparsa del
desiderio sessuale, il minor tempo dedicato ai figli, la perdita della fiducia in se stessi e nelle proprie
capacità, l'azzeramento delle aspettative e della progettualità per il futuro, fino alle crisi coniugali e ad
altre fratture dolorose.
È fuori di dubbio tuttavia che il danno da Mobbing è anche strettamente connesso all’ambito
occupazionale. Basti pensare solo ad alcune delle azioni di Mobbing più comuni, come le decurtazioni
dello stipendio o nel caso peggiore la perdita del lavoro, le lesioni all'immagine personale e professionale,
le mancate promozioni, i trasferimenti illegittimi, le multe e le sanzioni disciplinari, il blocco di
informazioni o i sabotaggi che ostacolano o impediscono il corretto svolgimento del lavoro, fanno perdere
tempo e influiscono quindi sul rendimento della vittima, oltre alle conseguenze della perdita delle
capacità psicofisiche, come le difficoltà di memoria e di concentrazione, la paralisi della creatività,
l'annullamento dello spirito di iniziativa, l'azzeramento della professionalità, la perdita di ogni chances,
l'annullamento dell'esperienza e della posizione acquisita: si tratta di situazioni negative che si
ripercuotono direttamente sulla capacità lavorativa residua di reinserimento nel mercato del lavoro.
Nel marzo 2006, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 6572/06 ha dissolto
ogni dubbio riconoscendo il danno esistenziale come un’autonoma e legittima categoria dogmatica
giuridica in seno all’art. 2059 c.c.. Tale è “Ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed
interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e
realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. Esso quindi prescinde dalla accertabilità in sede
medico-legale, in quanto è una modificazione peggiorativa della personalità dell'individuo e non soggiace
al limite di cui all’art. 185 c.p. in quanto riguarda lesioni di interessi costituzionali che ricadono nella
previsione dei “casi previsti dalla legge”.
Con quest'ultima pronuncia i Giudici della Suprema Corte, tuttavia, hanno rivoluzionato quelli che
erano il pensiero e il metodo di lavoro comunemente accettati in ambito di danno esistenziale, stabilendo
che esso che non consegue più in senso "automatico" dalla prova dell'evento dannoso, bensí che deve
essere obiettivizzato socialmente, ovvero che occorre valutare il riflesso negativo che l’evento traumatico
ha provocato all’interno delle relazioni interpersonali (interne o esterne all’ambiente di lavoro) del
soggetto danneggiato.
In accordo con la più affermata dottrina giuridica (si veda ad esempio La valutazione del danno
esistenziale di P. Ziviz, in "Trattato breve dei nuovi danni", Cedam Padova, 2001), le attività realizzatrici
della persona possono suddividersi in quattro gruppi d’ipotesi: 1. attività di carattere biologico e
sussistenziale; 2. relazioni affettive e familiari; 3. relazioni sociali e attività di carattere culturale e
scientifico, associativo e religioso; 4. attività sportive, di svago e di divertimento.
Per la valutazione del profilo esistenziale di un soggetto occorrerà quindi indagarne gli ambiti
relativi alla salute, agli affetti famigliari, alle sue abitudini e modalità di vita, alla reputazione, al lavoro,
con particolare attenzione alle modificazioni peggiorative intercorse a seguito dell'evento traumatico che
ha vissuto. Gi strumenti di tale indagine, evidentemente, non possono che essere di stampo prettamente
psicologico e lo psicologo sarà ancora una volta il professionista referente più adeguato a svolgere tale
compito.
In realtà, molti ritengono che non si possa quantificare matematicamente un danno per sua natura
sfuggevole e soggettivo come appunto è il danno da Mobbing e che quindi la sua valutazione debba
avvenire a discrezione del Giudice secondo equità. Una tale valutazione, tuttavia, è per forza di cose
crucialmente soggetta a fattori soggettivi del Giudicante, quali le sue opinioni e la sua sensibilità, e per
questo ha portato spesso a decisioni incongrue e disparità di trattamento delle vittime. Tali rischi possono
essere sostanzialmente ridotti richiamandosi ad un procedimento di valutazione matematico e oggettivo.
Come è noto, un procedimento di questo tipo esiste ed è già stato riconosciuto ed applicato da vari
Tribunali del Lavoro italiani (per es. il Trib. di Agrigento, sent. del 01.02.2005; il Trib. di La Spezia, sent.
del 04.07.2005; il Trib. di Sondrio, sent. del 31.03.2006). Si tratta del "Metodo Ege 2002" per la
valutazione e quantificazione del danno da Mobbing, da me ideato e pubblicato in H. Ege, La valutazione
peritale del Danno da Mobbing, Giuffré Milano 2002. Esso consente non solo l'accertamento del
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Mobbing, bensí anche valutazione del danno esistenziale conseguente e la sua finale monetizzazione ai
fini giuridici risarcitori.
Tenendo conto della natura extrareddituale del danno dal Mobbing, ma anche del suo
peculiarissimo legame con il mondo del lavoro, tale Metodo comprende sia elementi prettamente
esistenziali come l'Autostima e il Doppio-Mobbing, sia altri fattori che a prima vista possono sembrare di
tipo patrimoniale, quali il reddito del danneggiato e l’influenza del sesso sulla capacità di reintegrazione
nel mercato del lavoro, ma che tuttavia sono inscindibilmente legati alla sfera esistenziale e personale del
soggetto in questione.
Il "Metodo Ege 2002" comprende tre passaggi fondamentali: il primo riguarda il riconoscimento
del Mobbing in una vicenda lavorativa in base all'individuazione di sette parametri tassativi; si procede
quindi alla valutazione della percentuale di Danno da Mobbing e quindi alla sua valutazione monetaria in
base a specifiche tabelle, in modo del tutto simile a quanto si fa usualmente per il Danno biologico. È mia
opinione che tale Metodo, fornendo al al Giudice una base di calcolo rigorosa e scientifica, fondata su
parametri che sono sí in parte patrimoniali, ma che proprio per questo gli potranno consentire di
distinguere “equamente” le differenti posizioni soggettive, costituisca anche alla luce dei nuovi sviluppi
giuridici un valido ed adeguato strumento propositivo per una quantificazione obiettiva del danno
esistenziale da Mobbing.
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per la necessità di ricondurre la singola vicenda all’archetipo teorico elaborato nell’ambito della
Psicologia del Lavoro.
E’ evidente che, in quest’analisi, i problemi di maggior rilievo che si presentano sono, da un lato, la
complessità dell’indagine storica, che è propria dell’interpretazione dell’anamnesi lavorativa del soggetto
denunciante (anche in ragione dello sforzo che esige il reperire tutte le condizioni di accertamento della
verità); dall’altro, l’ambiguità della situazione in cui normalmente si opera, ovverosia uno scenario in cui
esistono sempre, sul piano inconscio e psicologico, "due" verità, quelle di ciascuna delle parti in causa.
Dinanzi a tali ostacoli, il rigore metodologico si pone come un’imprescindibile esigenza di deontologia
professionale e tale rigore sarà tanto maggiore quanto più è matura la consapevolezza empirica
dell’operatore legale e di chi inevitabilmente lo affianca in quest'operazione.
L’esame del mobbing, pone, infatti, problemi complessi e, sotto questo profilo, non può essere disgiunto
da un confronto interdisciplinare che è oggetto stesso del concetto di verità.
L'assistenza di un consulente esperto in tema di mobbing e, in alcuni casi, di un medico-legale neurologo
o psichiatra divengono indispensabili per un approccio corretto ed efficace al buon esito della
controversia instaurata o instauranda, aumentandone i margini di successo.
Non bisogna infatti dimenticare che il nostro ordinamento prevede che "Chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento" (art. 2697 c.c.).
La legge stabilisce che spetta a chi agisce in giudizio fornire la prova dei fatti costitutivi del medesimo,
mentre l'altra parte deve provare gli eventuali fatti estintivi, impeditivi o modificativi da essa allegati.
In conformità a tale principio dispositivo, le prove diventano quindi quegli strumenti processuali per
mezzo dei quali il giudice forma il suo convincimento circa la verità o la non verità dei fatti affermati
dall'una o dall'altra parte.
Il magistrato, infatti, opererà fondamentalmente come uno storico, ricostruendo la verità dei fatti e, se da
un lato egli è totalmente libero nel giudizio di diritto - per il principio “Jura novit curia” -, dall'altro è
comunque soggetto al vincolo della conoscenza soltanto dei fatti affermati dalle parti (“Judex secundum
alligata judicare debet”).
L’importanza delle prove che si riesce a fornire è fondamentale, poichè il giudice alla fine del processo
non può emettere una pronuncia di "non liquet", lasciando in pregiudicata la controversia, ma dovrà
obbligatoriamente decidere, accogliendo o respingendo la domanda, con la conseguenza che
inevitabilmente soccomberà quella parte che avrebbe dovuto offrire la prova e non vi è riuscita.
Dall’altro canto, occorre tuttavia ricordare che questi principi trovano larghe deroghe nel rito del lavoro,
dove al giudice spettano ex lege ampi poteri di iniziativa d'ufficio, soprattutto in materia probatoria, e
dove addirittura, per una sorta di favor concesso al lavoratore, l'onere di dover provare la responsabilità di
chi ha provocato il danno è invertito.
Difatti, mentre ai sensi dell’art. 2043 c.c., al fine di dimostrare la sussistenza di una responsabilità
aquiliana in capo al datore di lavoro, è necessario provare che l'altrui attività pregiudizievole abbia
comportato un'effettiva lesione della salute del soggetto e che questa lesione sia il frutto del
comportamento anche omissivo, e quindi doloso o colposo, del datore di lavoro; ai sensi dell’art. 2087
c.c., il lavoratore è in buona sostanza esonerato dall'onere di dimostrare la presenza della colpa o del dolo
del datore di lavoro, e sarà unicamente tenuto a dimostrare l'esistenza del danno lamentato - inteso come
lesione all'integrità psicofisica -, vale a dire la sussistenza del nesso eziologico tra il comportamento
tenuto dal datore e la lesione subita.
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Se tuttavia è vero che così facendo il legislatore ha voluto in primis favorire il lavoratore costretto ad
agire per tutelare i suoi diritti, è anche vero che in circostanze di mobbing la responsabilità contrattuale
prevista dalla norma citata non è a volte da sola sufficiente ad offrire una piena e soddisfacente giustizia.
In virtù di quanto ci è dato di leggere nella motivazione della sentenza della Suprema Corte n. 5491,
datata 2 marzo 2000 (3): "(...) sul datore di lavoro e gravano sia il generale obbligo del neminem ledere,
espresso dall'art. 2043 c.c., la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale, sia il più specifico
obbligo di protezione dell'integrità psicofisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c. ad integrazione ex
lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità
contrattuale; sicchè il danno biologico, inteso come danno alla integrità psicofisica della persona in se
considerato, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione, può in
astratto conseguire sia l'una che all'altra responsabilità".
E’ lapalissiano, infatti, come in circostanze particolari, come generalmente sono quelle in cui versa il
lavoratore mobbizzato, sia alquanto problematico rifarsi esclusivamente ad una fattispecie contrattuale di
responsabilità per il solo fatto che sia implicata la persona del lavoratore nell'ambito di un rapporto di
lavoro subordinato.
Sono, infatti, molti di più i casi in cui è evidente un concorso o cumulo di responsabilità,
indipendentemente dal fatto che gli elementi generatori della responsabilità si siano compiuti proprio sul
luogo di lavoro.
Il lavoratore si trova quindi a dover ricorre alternativamente ad una delle due azioni di responsabilità
quando l'altra incontra una preclusione o un limite nell'ordinamento e, sul piano applicativo, ad incontrare
non pochi problemi che inevitabilmente sorgono dalla distinzione teorica dei due tipi di responsabilità.
E’ evidente, che nel caso in cui l’onere probatorio verterà, ex art. 2043 c.c., sulla dimostrazione del dolo o
della colpa del suo avversario, in rischio più alto sarà quello di incorrere nella probatio diabolica di dover
attestare il c.d. “intento persecutorio” dell’aggressore, con non poche difficoltà (4).
Per “intento persecutorio” si intende “lo scopo politico, l’obiettivo conflittuale e la carica emotiva
soggettiva” messo in atto dal mobber nel compiere le proprie azioni: questa è almeno la definizione che
ne da per primo il Dr. H. Ege nel suo libro “Mobbing: conoscerlo per vincerlo” della Franco Angeli Ed.,
2001.
Invero, esso pur rappresentando il disegno vessatorio che informa e sottende tutte le azioni ostili e quindi
da coerenza e finalità alla strategia mobbizzante, tuttavia non deve confondersi con il diverso concetto, di
natura prettamente giuridica, di “dolo specifico”, ossia con la volontà e coscienza del danno arrecato, nè
tanto meno deve portare ad escludere a priori la responsabilità colposa, ossia la possibilità che le azioni
compiute siano unicamente il frutto di una negligenza, un’imperizia o di un’imprudenza dell’esecutore.
All’ideatore, questo concetto è semplicemente servito per significare che non si deve confondere il
mobbing con la pura maleducazione, nonchè per delineare il confine fra questa e la mancanza di rispetto
vera e propria, che è sempre consapevole ed in re ipsa lesiva della dignità altrui (5). Di guisa, lo “intento
persecutorio”, segnando il limite fra il lecito e l’illecito, deve essere come tale considerato, ma senza però
che la volgarità, la sgarbatezza e la grossolanità la di chi agisce possano, sic et simpliciter, configurasi al
pari di una esimente della responsabilità da mobbing (6).
Alle già menzionate difficoltà probatorie, deve aggiungersi che il mobbizzato si troverà di fronte alla
necessità di dimostrare, da un lato, l'esistenza di un danno esistenziale a dir poco impalpabile, dall'altro
l'accertamento del nesso di causalità che necessariamente deve sussistere fra la condotta del datore di
lavoro, o di chi per lui, e il disagio subito e subendo.
Vale la pena in proposito di ricordare che, oltretutto, "l'art. 2087 c.c. non configura un caso di
responsabilità oggettiva in quanto la responsabilità del datore di lavoro va comunque collegata alla
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violazione degli obblighi di comportamento imposti dalle norme di legge o suggeriti dalle conoscenze
sperimentali e tecniche del momento (...)" (7), con la conseguenza che non ci si potrà affidarsi al mero
riscontro del danno quale evento legato con nesso di causalità all'espletamento della prestazione
lavorativa.
Il danno non si pone, dunque, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante
nella sopraindicata categoria, per cui sarebbe sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della
condotta datoriale. Non essendo nel caso del mobbing possibile fondare la responsabilità del datore di
lavoro su di un criterio puramente oggettivo di imputazione dell'evento lesivo collegato al rischio inerente
all'attività svolta per il suo interesse, resta anche in ragione di ciò particolarmente gravosa la difficoltà
probatoria del lavoratore.
In sintesi e per concludere, prima di iniziare una controversia vertente sul mobbing, bisogna sapere di
poter superare positivamente una serie ostacoli che, nel caso specifico, sono fondamentalmente legati: alla
estensione temporale dei fatti narrati; alla molteplicità e complessità di eventi occorsi; alla attendibilità,
consistenza, validità, ed efficacia probatoria dei documenti che si intende produrre; all'eventuale presenza
di accordi transattivi inoppugnabili o inimpugnabili; all'eventuale decorso di termini di prescrizione e/o
decadenza; all'ammissibilità, all'attendibilità e, soprattutto, all'affidabilità delle potenziali testimonianze
favorevoli; ed infine, ma non perchè meno importante, alla verifica della consistenza del danno subito e
della sua riconducibilità eziologica agli eventi narrati, in particolare con riguardo all'assenza di patologie
neuropsichiatriche pregresse o natali e al peso di eventuali concause o altre cause determinanti.
Nei casi più problematici, possono oltretutto entrare in ballo anche altri fattori che vanno ulteriormente ad
amplificare lo scrupolo con cui deve agire la difesa del mobbizzato.
E’ esemplificativo il caso in cui lo stesso sia stato assunto tramite collocamento obbligatorio perchè
invalido civile, o sia già stato trasferito per incompatibilità ambientale, o versi sotto procedimento
disciplinare o - ancor peggio - questi si trovi in una situazione di eccessiva morbilità, con il rischio del
licenziamento in forza del superamento del periodo di comporto.
Va da sè come, in tali circostanze, il già gravoso onere probatorio sia ancora più difficile da sostenere e
come sempre più alti diventino i rischi di non ottenere un buon esito finale.
In ragione di ciò, diventa allora importantissimo sfruttare tutti gli elementi introdotti dal legislatore nel
processo del lavoro sulla base del principio cardine della tendenziale ricerca della “verità materiale”.
E’ opportuno in primo luogo rifarsi a prove documentali precise ovvero, in subordinata ipotesi, a prove
raccolte a mezzo di registrazioni meccanografiche e fotografiche. Queste ultime, ai sensi dell’art. 2712
c.c., farebbero piena prova, fino a querela di falso, dell'autenticità del loro contenuto (ossia dei fatti e
delle cose rappresentate) al pari di una scrittura privata, “se colui contro il quale sono prodotte non ne
disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
Tali prove, tuttavia, secondo la giurisprudenza maggioritaria, avendo il valore di atti ricognitivi, vanno
incontro alla difficoltà che, in caso di disconoscimento, le stesse non potrebbero essere sottoposte ad
alcun accertamento tecnico, nemmeno ai fini della querela di falso (8).
Altrettanto indispensabile per esordire un maggiore convincimento nel giudice è il ricorso alle prove
testimoniali e, laddove sia opportuno, è importante richiedere al giudice la testimonianza o l'interrogatorio
libero dell’eventuale coniuge o dei figli, in particolare qualora volesse dimostrarsi l'esistenza di un danno
alla vita di relazione e/o familiare in senso ampio.
In proposito, è opportuno anche ricordare che con riferimento al limite di ammissibilità previsto dall’art.
247 c.p.c. in relazione alla presumibile parzialità del coniuge, dei figli, dei parenti e degli affini, la Corte
Costituzionale - con la sentenza del 23 luglio 1974 n. 248 - ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di
tale norma, fermo restante comunque il principio che non può essere chiamato a testimoniare chi ha un
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interesse che potrebbe legittimarlo alla partecipazione al giudizio. Nonostante, infatti, la pronuncia di
incostituzionalità, bisogna tener conto che, in linea di massima, permangono diversi problemi di
affievolimento dell’attendibilità dei testi legati al ricorrente da rapporti di famiglia.
Se per un verso, l’attuale insussistenza del divieto a testimoniare sancito per i parenti e gli altri soggetti
indicati all’art. 247 c.p.c., rende impossibile ogni aprioristica valutazione di non credibilità delle
deposizioni rese da queste persone, dall’altro, non è escluso “che il vincolo di parentela possa in concorso
con ogni altro utile elemento, essere considerato ai fini della verifica della maggiore o minore attendibilità
delle deposizioni stesse” (9).
Diversamente, appare essenziale in alcuni casi produrre in giudizio, sin dall’inizio, anche una perizia ad
hoc, a supporto della dimostrazione del nesso di causalità, e di guisa richiedere, contestualmente, la
nomina del CTU per la valutazione del quantum del pregiudizio sofferto.
L’apporto del consulente tecnico di mobbing è in alcuni casi indispensabile per accertare e valutare la
natura delle lesioni, l’entità della conseguente menomazione, la loro durata (temporanea o permanente) e
la loro valenza nella vita quotidiana del soggetto danneggiato, in modo da poter consentire al giudice di
adattare equitativamente il risultato finale alla fattispecie de quo.
In realtà, la consulenza tecnica, se da un lato non deve sostituirsi all’organo giudicante, dall’altro lato non
deve neanche essere considerata come un vero e proprio mezzo di prova, poichè la sua funzione non
consiste, almeno direttamente, nel determinare il convincimento del giudice circa la verità o la non verità
di determinati fatti, ma consiste nell’offrire all’attività del giudice, in tutti i suoi aspetti (compresi gli
apprezzamenti di altre prove, nonchè le argomentazioni presuntive), l’ausilio di cognizioni tecniche che il
giudice di solito non possiede.
Il consulente tecnico, in qualità di ausiliare del giudice, semplicemente collabora con quest’ultimo, sia ai
fini del completamento dell’istruzione della causa, sia ai fini della decisione della stessa, poichè è in
grado di offrire elementi utili per valutare le risultanze di determinate prove o addirittura elementi utili di
giudizio.
Il suo ausilio può avere la più varia estensione ed intensità, e proprio in ragione di ciò, nelle controversie
di mobbing il suo intervento è indispensabile e prioritario rispetto ad ogni altro accertamento legato alla
fondatezza della causa.
Come già chiarito, il mobbing può conoscersi solo attraverso un’analisi interdisciplinare dei fatti concreti
che lo determinano ed è in primis condizionato ad un riconoscimento scientifico, di natura non
strettamente legale, ma fondamentalmente psicologico e sociologico.
Non dimentichiamo che ai fini della valutazione dell’esistenza del mobbing, rileva ormai, per i Giudici la
necessità di rifarsi a modelli o schemi stereotipati e astratti di mobbing cui rapportare la fattispecie
concreta (10). In particolare, il mobbing è stato più volte rappresentato come una fattispecie complessa a
formazione progressiva, composta da una molteplicità di fatti logicamente e cronologicamente legati fra
loro, tanto che l’effetto-danno finale (isolamento professionale e sue eventuali conseguenze sulla
esistenza e sulla salute psicofisica del soggetto, nella subspecie di danno biologico) viene subordinato
all’accadimento di tutti i fatti previsti dalla fattispecie astratta. In tal senso, è stato detto che i singoli fatti
che compongono la fattispecie complessa, seppur producono loro stessi degli effetti (come ad es. accade
nel caso della dequalificazione), ai fini della dimostrazione del mobbing si possono definire solo come
preliminari.
Con riferimento a ciò, appare opportuno ricordare che il prototipo attualmente utilizzato dai giudici è
quello previsto nel “MODELLO ITALIANO EGE” (11), il quale prevede sei fasi progressive di
evoluzione del mobbing strettamente studiate sulla base delle caratteristiche-tipo della realtà del lavoro in
Italia e della personalità dell’italiano medio.
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L’autore, ha adoperato, infatti, le sei fasi del mobbing da lui congegnate in relazione ad alcuni fenomeni
tipici che si realizzano nel corso del rapporto di lavoro interessato da tale avvenimento; ne ha studiato le
reazioni sull’individuo a seconda del carattere e della personalità; e ne ha dimostrato infine la
verosimiglianza a casi concreti.
E’ evidente che si tratta di un’operazione di induzione logica di non poco conto che richiede una grande
esperienza pratica nel settore, oltre che una conoscenza tecnica specialistica del problema.
La caratteristica principale dei casi di mobbing è, infatti, proprio quella di sembrare a primo acchito tutti
simili e stereotipati, mentre in realtà essi sono tutti singolarmente e profondamente diversi, ora per la
particolarità del soggetto che ne è vittima, ora per la complessità dell’ambiente in cui si generano ed ora
per la paradossalità delle vicende che li connotano.
Per un maggiore approfondimento di quanto sin qui sintetizzato su queste ultime argomentazioni, si rinvia
al recentissimo studio “La valutazione peritale del danno da mobbing” (di H. Ege, 2002), edito nella
Collana a cura di P. Cendon “Il Diritto privato oggi” dalla Giuffrè ed., nel quale ha apprestato il proprio
contributo anche chi ora scrive e in cui è contenuto un innovativo e attendibile metodo di determinazione
e quantificazione del danno da mobbing, elaborato proprio alla luce di tutte le più recenti evoluzioni
giurisprudenziali e normative sul punto.
______________________________________________
(1) Edita in Riv. Crit. Lav. 2001, II, 411;
(2) Edita in www.mobbingonline.it/cartella/tribunale1.asp
(3) Edita in Not. Giur. Lav., 1999, 184;
(4) In proposito vedasi la sentenza del Tribunale di Torino (16/11/1999), per cui “L’elemento psicologico
consiste nell’”animus nocendi”, che mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad espellerlo da una
comunità”, nonchè la diversa sentenza del Tribunale di Milano (16/11/2000), in cui, il Giudice,
richiamando gli oneri probatori su cui si regge il processo del lavoro, ha escluso la sussistenza del
mobbing “qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed
i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale
condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva” e, ancora, il Tribunale di Milano
(20/05/2000) che ha affermato che “non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il
datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie
lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora l’assenza di sistematicità, la scarsità di episodi,
il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una organizzazione produttiva, che è
anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati
possano essere considerati dolosi”.
(5) V. H. EGE, “La valutazione peritale del mobbing”, Giuffrè ed., Milano 2002, p. 66 e ss.
(6) Per maggior scrupolo, appare opportuno sottolineare che l’interpretazione ult. cit., fin’ora solo
dottrinaria, del parametro EGE dello “intento persecutorio” è stato rielaborato in senso parzialmente
differente dalla recentissima sentenza del Tribunale di Forlì del 30/01/2003 cit., in cui si legge: “(…)
questo non è mobbing perchè la scarsa sensibilità è un limite delle persone, magari anche un difetto, ma
non può collocarsi tra gli indici rivelatori di una volontà mobbizzante. Non dimentichiamo che la miglior
dottrina risalente alla psicologia del lavoro in tema di mobbing descrivendo le caratteristiche
imprescindibili del mobbing parla del cosiddetto “intento persecutorio” che indica come il disegno
vessatorio coerente e mirato che muove il comportamento lesivo del mobber (…)”.
(7) V. Cassazione 03-04-1999 n. 3234 edita in Mass. Giur. Lav., 1999, 270;
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(8) Secondo il MANDRIOLI, “Corso di Diritto Processuale Civile”, ed. Giappichelli – Torino, 2000,
parte II, p. 157, è dubbio, anche nella giurisprudenza della Cassazione, se a questo disconoscimento si
applichi il termine preclusivo di cui all’art. 215 c.p.c.;
(9) V. Cass. Civ., sez. III, 14 febbraio 200, n. 1623;
(10) In proposito v. Tribunale di Forlì del 15/01/2001 cit. e l’ultimissima sentenza del Tribunale di Torino
del 18/12/2002. In entrambe si condividono appieno i risultati che derivano dagli studi degli specialisti
psicologi, ovverosia: il tratto della ripetitività e della sistematicità delle condotte, seppur non tipizzate; il
carattere della durata del mobbing; la necessità dell’esistenza dell’identità dello scopo; e in particolare,
per l’accertamento in concreto del mobbing, si adotta in toto il “modello italiano” elaborato da Ege, che
arriva a individuare sei fasi diverse in cui si realizza la sua escalation (a fronte delle quattro individuate
da Leymann), per cui: “Dopo la cd. condizione zero di conflitto fisiologico normale ed accettato, si passa
alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità
generale ... La seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing nel quale la vittima prova un senso di
disagio e di fastidio ... La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi
sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute... La quarta fase del mobbing è quella
caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale che, insospettita dalle assenze del
soggetto mobbizzato, erra nella valutazione negativa del caso non riuscendo, per carenza di informazione
sull’origine della situazione, a capire le ragioni del disagio del dipendente... La quinta fase del mobbing è
quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena
depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione... Resta la sesta fase, per altro
indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più
gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in
licenziamenti.”.
(11) Lo si trova nel testo H. EGE, “Mobbing: conoscerlo per vincerlo”, ed. Franco Angeli 2001, p. 18 e
ss.;
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OLTRE IL MOBBING, LO STRAINING
LA NUOVA FRONTIERA DELLA CONFLITTUALITA' SUL
POSTO DI LAVORO
a cura di Harald Ege
Psicologo
Specializzato in Psicologia del Lavoro e dell'Organizzazione
CTU del Tribunale
Esperto di Mobbing
Presidente Associazione PRIMA
A una decina d'anni di distanza dall'introduzione della tematica del Mobbing in Italia, sembra assodato
che si sia diffusa una conoscenza di massima del fenomeno e delle sue gravi conseguenze. Di pari passo
con il Mobbing è cresciuta una generale sensibilità verso le problematiche legate alla sicurezza sui luoghi
di lavoro, intesa sia a livello strutturale, sia appunto a livello relazionale. Anche se vi è ancora molta
strada da percorrere, non si può che essere soddisfatti dei passi comunque mossi in questa direzione.
Questo risultato positivo, tuttavia, è purtroppo controbilanciato dalla serie negativa che il Mobbing ha
segnato sul fronte delle azioni giudiziarie. Fanno grande notizia alcune sentenze clamorose pronunciate in
merito, tuttavia non altrettanta pubblicità viene riservata alle tante, tantissime cause di Mobbing, di lavoro
soprattutto ma anche penali, che finiscono in nulla, respinte al primo esame, cadute a suon di prove fallite,
smarrite nei tempi allucinanti della Giustizia, dirottate e spesso purtroppo stravolte in affrettate ed incerte
trattative extragiudiziarie. La verità nuda e cruda è che la stragrande maggioranza delle azioni giudiziarie
di Mobbing fallisce, e che, a parte qualche caso particolare, fallisce perché effettivamente di Mobbing
non si trattava.
La diffusione della conoscenza del Mobbing ha infatti permesso alla maggioranza degli operatori
chiamati a trattare il problema, siano questi psicologi, medici, avvocati o giudici, di riconoscere alcuni
tratti fondamentali connotanti il Mobbing e di discriminare di conseguenza. Uno di questi tratti è la
sistematicità, frequenza e regolarità delle azioni ostili perpetrate ai danni della vittima: laddove insomma
non emerge una situazione di conflitto permanente, con attacchi costanti e ripetuti contro il presunto
mobbizzato, sempre più giudici rigettano, a ragione, le domande di Mobbing.
Dunque dobbiamo credere a chi è sicuro che il Mobbing non esista e che tutti i presunti mobbizzati siano
dei mistificatori in cerca di facili e ingiusti guadagni? Certamente no. Se così stessero le cose, tutti i
ricercatori, i professori e gli studiosi europei di Mobbing sarebbero vittime di un'allucinazione collettiva.
D'altra parte, è un dato di fatto che la maggior parte di chi si ritiene vittima di Mobbing in realtà non lo è
affatto. Secondo le ricerche condotte da PRIMA su oltre tremila vicende lavorative analizzate in dieci
anni di lavoro, è che solo un caso su cinque si riveli all'analisi come effettivamente riconducibile a
Mobbing. E il resto? Vi sono senz'altro persone che ritengono di aver finalmente trovato un nome ad un
disagio che invece purtroppo è insito nella loro mente; vi è allo stesso modo anche un certo numero di
personaggi in cerca di cuccagne, ma non sono certo la maggioranza.
Noi stimiamo che circa il 60% di chi si ritiene mobbizzato abbia effettivamente subito sul lavoro un
trattamento ingiusto, discriminante e lesivo, anche se non definibile come Mobbing. La maggior parte di
queste persone sono state vittime di poche azioni ostili distanziate nel tempo, oppure di un'unica, isolata
azione ostile, per esempio un grave demansionamento o un trasferimento gravoso ed illegittimo.
L'esempio tipico è quello di un lavoratore relegato a mansioni inferiori e umilianti e là tristemente
"dimenticato", che da tale situazione riporta pesanti conseguenze, non solo a livello professionale, ma
anche di salute, di autostima, di serenità famigliare, di socialità, di qualità della vita in senso lato.
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Siamo partiti dunque da questa realtà che si manifestava chiaramente davanti a noi per ipotizzare che vi
fosse qualcosa oltre il Mobbing e per giungere quindi a teorizzare l'esistenza di un fenomeno lavorativo e
sociale simile, ma diverso, capace per altro di causare gli stessi devastanti effetti sulla vittima,
sull'azienda, sulla Società.
Questo nuovo fenomeno è stato denominato Straining, è già stato presentato in alcuni congressi
internazionali di psicologia del lavoro e all'interno di una pubblicazione italiana (Oltre il Mobbing.
Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, di Harald Ege, ed. Franco Angeli,
Milano, 2005) ed è stato già ufficialmente riconosciuto in una pionieristica sentenza (n. 286 del 21.04.05
Trib. del Lavoro di Bergamo).
Lo Straining è definito come una situazione di Stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce
almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che
oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente
inferiorità rispetto alla persona che attua lo Straining (strainer). Lo Straining viene attuato appositamente
contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante.
Tecnicamente parlando lo Straining si colloca a metà strada tra il Mobbing e lo stress occupazionale. Non
è Mobbing in quanto, come abbiamo visto, manca la sistematicità e la frequenza delle azioni ostili; d'altra
parte è qualcosa di più del semplice stress occupazionale, ossia allo stress dovuto al tipo o alle condizioni
di lavoro. Le vittime di Straining infatti sono oggetto di uno Stress che è forzato, cioè superiore a quello
normalmente richiesto dalle loro mansioni lavorative e diretto nei loro confronti in maniera intenzionale e
discriminante: in sostanza, solo a loro – siano essi una sola persona o un gruppo – viene riservato quel
tipo di trattamento illecito e dannoso.
In una situazione di Straining, infatti, l'aggressore (strainer) sottomette la vittima facendola cadere in una
condizione particolare di stress con effetti a lungo termine. Tale stress può derivare dall''isolamento fisico
o relazionale o dalla passività generale nei confronti della vittima, dalla privazione, dalla riduzione o
dall'eccesso del carico lavorativo. In sostanza, possiamo essere relegati in una stanza in fondo al corridoio
dove nessuno passa o trasferiti nella classica filiale remota dove nessuno vorrebbe mai andare; possiamo
essere sottoposti ad un eccessivo carico di lavoro o a mansioni superiori per cui non abbiamo
preparazione adeguata, oppure possiamo essere deprivati nelle nostre mansioni, costretti a incarichi
minori o addirittura all'inoperosità.
Tale nostra situazione sarebbe identificabile come stress occupazionale, se non fosse per il particolare,
cruciale, che tale trattamente è riservato solo a noi. La discriminazione e l'intenzionalità del
comportamento ostile di cui siamo vittime ci fanno percepire la nostra condizione come Mobbing, e da
qui nasce l'equivoco.
Per accertare una situazione di Straining deve essere presente e attestata almeno una azione ostile, che
abbia una conseguenza duratura e costante a livello lavorativo e un carattere intenzionale e
discriminatorio. Con ovvio parallelismo con il Mobbing – tuttavia con le dovute differenze - anche per lo
Straining è stato elaborato un metodo specifico di rilevazione basato sulla verifica empirica della presenza
di sette parametri tassativi di riconoscimento.
A livello risarcitorio, i danni configurabili a seguito di una condizione di Straining sono del tutto
paragonabili a quelli già riconosciuti come correlati al Mobbing, ossia un danno esistenziale specifico,
legato al decadimento della qualità di vita della vittima, a cui possono - ma non necessariamente devono -
aggiungersi altri tipi di danno come quello biologico, qualora dalla situazione di Straining ne sia risultata
causalmente compromessa la salute psicofisica della vittima, o quello professionale, nel caso in cui la
deprofessionalizzazione subita abbia avuto effetti deleteri in questo senso.
Come nel Mobbing, anche nello Straining dunque i vari professionisti lavorano in equipe per garantire la
migliore tutela alla vittima: l'avvocato calibrerà le richieste secondo l'effettivo stato delle cose, il medico
quantificherà gli eventuali danni biologici correlati, lo psicologo definirà lo Straining e il danno
esistenziale. Quest'ultimo professionista, esperto in conflitti organizzativi, ha comunque il ruolo cruciale
di distinguere e chiarire, in modo da indirizzare la persona nella giusta direzione di azione, al riparo da
sproporzionate illusioni e conseguenti, profonde delusioni.
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