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Giovanna Campani

Antropologia di genere

presentazione di Franco Cambi


progetto grafico della copertina: Tiziana Di Molfetta

immagine in copertina: Le donne che scoprirono il genere. Margaret Mead, Ruth


Benedict, Alice Fletcher e Matilda Stevenson, di Elias Palidda

© 2016 Rosenberg & Sellier

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nei termini della licenza Creative Commons
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

www.rosenbergesellier.it

Rosenberg & Sellier è un marchio registrato utilizzato


per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione italiana, marzo 2016

isbn 978-88-7885-419-2

LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl


via Carlo Alberto 55
I-10123 Torino
rosenberg&sellier@lexis.srl
PRESENTAZIONE

Con questo volume Giovanna Campani intende, come nota nella sua
introduzione, fornire un manuale per l’insegnamento di una delle
frontiere più attuali della stessa antropologia culturale, disciplina che
nelle nostre società multiculturali e aperte al “relativismo” ha trovato
una cittadinanza, sia teorica sia sociopolitica, sempre più centrale. Sì,
perché all’antropologia dobbiamo la capacità critica di ripensare
credenze, concetti e categorie dentro quelle “forme di vita” che le
esprimono e le codificano, vincolandosi ad esse, assumendo spesso
un’immagine für ewig che è affatto impropria, poiché falsa. Ogni
credenza, ogni forma ideale, ogni uso categoriale sta sempre dentro un
habitat socioculturale, fatto di riti, di norme, ma anche di poteri e di
tradizioni che lo rendono sì specifico ma anche relativo al lì-e-allora e
o al qui-e-ora. Tale disciplina critica, e critica delle civiltà (e di tutte),
costituisce oggi il principio metodico per abitare le nostre società
ipercomplesse e multiculturali: un principio da rendere attivo e
consapevole nelle stesse giovani generazioni che dovranno vivere
questo orizzonte storico-sociale, e dovranno viverlo in condizioni di
ulteriore complessità. Pertanto devono acquisire una forma mentis di
tipo antropologico-culturale e saperla applicare a miti, riti, credenze,
pratiche sociali e ideologie diffuse: come quelle del genere,
interpretato come “natura” mentre è sempre e solo “cultura”, poiché la
base naturale è stata e sarà sempre trascritta dal simbolico. Re-
interpretata e “normata” partendo proprio dall’habitat sociale che la
vive e la interpreta.
Giovanni Campani si comporta, in questo suo manuale, da esperta
docente: presenta i fondamenti storici e teorici dell’antropologia, i
dibattiti che l’hanno attraversata, la sua crescita teorica e applicativa
nel corso del XX secolo, gli approdi attuali attraverso il femminismo e i
contributi dati a tale fronte dell’“antropologia di genere” tra America
ed Europa, su su fino alle ultime teorizzazioni del “genere come scelta”
e la costruzione di molte identità di genere. Il quadro che la studiosa
sviluppa nel corso dei capitoli, precisi e acuti nei giudizi, è un quadro
storico che punta a inquadrare l’antropologia di genere come uno dei
settori più avanzati dell’antropologia attuale (che è comunque in forte
espansione e proprio per le frizioni, spesso anche drammatiche, tra le
culture e per il loro sovrapporsi, che le lega in modo costante a una
condizione di “acculturazione”) e che sempre più direttamente ci
riguarda, e come soggetti e come cittadini del tempo attuale.
Giovanni Campani si è formata a Parigi con un dottorato legato a una
specializzazione sociologica e antropologica, formazione che poi ha
sviluppato a Firenze in una serie di studi orientati all’intercultura e
resi via via sempre più articolati e complessi. Tutti rivolti a illuminare
la condizione multiculturale delle società attuali, chiamate a gestire in
modo organico e democratico la presenza di migranti: condizione
sempre più stabile e strutturale nelle società maggiormente avanzate.
Che reclama governo, e un governo che si radichi prima di tutto in un
cambiamento di mentalità e sviluppi un identikit dei soggetti capaci di
interfacciarsi con l’“altro”, di valorizzarne la differenza, di tener viva
l’accoglienza anche e soprattutto come incontro e dialogo. E in tale
dialogo ogni soggetto e ogni cultura si arricchisce, oltrepassa i propri
limiti, si apre all’avventura dell’incrocio con la diversità. Di tutti questi
problemi Giovanna Campani ha trattato in vari e significativi studi, tra
i quali si ricordano Migranti, rifugiati e nomadi (del 1998), Crescere
errando (su minori migranti non accompagnati, del 2004) e nel 2000
Genere etnia classe, rivolto alle migrazioni al femminile.
Nel testo attuale l’impegno di analisi cultural-formativa si è fatto
ancora più ampio e proprio in vista della professionalità che oggi è
richiesta a chi si dedica ai processi educativi in una società complessa
e multiculturale. Qui l’analisi, come ricordato, si fa assai articolata:
tocca la stessa nascita delle scienze umane in Francia già nel
Settecento e la loro evoluzione (o meglio involuzione) alla luce del
razzismo quale effetto del colonialismo, poi la crescita tra Darwin,
Morgan, Tylor e Frazer nell’epoca tra Otto e Novecento, crescita ricca e
esemplare, e ancora la maturazione più significativa tra Boas, Benedict
e Mead, figure che aprono al relativismo delle culture e allo stesso
paradigma del genere, con studi rimasti fondamentali. Poi l’autrice,
giustamente, torna in Francia con Lévi-Strauss e altri studiosi,
arrivando al pieno sviluppo della prospettiva di genere, che tra gli anni
Settanta e Ottanta su su fino a oggi riceverà una sempre più netta
centralità in questo ambito di ricerca. Oggi, anzi, si parla sempre di più
di un genere-al-plurale riconoscendo il ruolo dei transgender e
dell’identità aperta del genere, sottraendola a ogni determinismo tutto
biologico e delineandone invece la netta culturalità e quindi la
variabilità rispetto al patrimonio biologico.
Al capolinea della sua ricca ricostruzione storica dell’antropologia
culturale, condotta con precisione e finezza, Giovanna Campani può
indicare come oltrepassato il concetto naturalistico del genere (che è
stato fin qui un “velo” culturale, va ricordato) e come sia oggi centrale
il diritto al genere e alla sua libera scelta: diritto che deve essere
nettamente tutelato. Sia dalle leggi sia dalle pratiche formative, che a
loro volta hanno bisogno di una corretta teoria del genere. Posizione
netta che deve essere assunta con forza dalla stessa pedagogia. Per poi
dipanarsi in pratiche educative, rese attive già a partire dall’infanzia, a
casa e a scuola, ma anche nella società in generale, in modo da favorire
l’appartenenza di genere come una scelta. Legittima. Senza pericolo di
derisioni e persecuzioni. Senza discriminazioni. Tutto ciò reclama un
fascio di operazioni educative che in questo testo, così esplicitamente
scientifico e orientato in senso manualistico, restano un po’ fuori
scena, ma che risultano comunque ben presenti come destinazioni
operative della stessa riflessione teorica.

FRANCO CAMBI
a Corinne
INTRODUZIONE

Never doubt that a small group of thoughtful committed citizens can


change the world.
MARGARET MEAD

Da alcuni anni insegno Antropologia di genere nel corso di laurea


triennale in Scienze Umanistiche della Comunicazione dell’Università
di Firenze – una disciplina raramente presente nel panorama
accademico italiano. Interrogando le pagine web delle università
nazionali, possiamo rilevare come l’insegnamento “antropologia di
genere” sia previsto nelle Università di Pisa (corso di Scienze per la
Pace) e di Milano Bicocca (corso di laurea magistrale in Scienze
Antropologiche ed Etnologiche), mentre nel Dipartimento di Lingue e
Letterature straniere dell’Università di Torino è in programma un
“Laboratorio di Antropologia e studi di genere”1.
A differenza di quello che avviene nelle università italiane,
l’antropologia di genere è un insegnamento consolidato nelle aree
accademiche anglofone (vedi Syllabi for Women & Gender-Related
Courses in Anthropology)2 – il che non sorprende sia per la maturità
del dibattito su donne e antropologia, iniziato negli anni Settanta, sia
per l’origine anglosassone del concetto di genere; è ampiamente
diffuso nell’area francofona occidentale (Francia, Québec) – dove la
ricerca femminista si avvale di una lunga tradizione che ha prodotto
significative elaborazioni teoriche –, ma anche, dato forse più
sorprendente, nell’area ispanofona, nella quale (in seguito alla
prolungata presenza di regimi dittatoriali in Spagna fino agli anni
Settanta e in molti paesi dell’America Latina fino agli anni Ottanta) gli
studi di genere e femministi sono relativamente recenti.
L’antropologia di genere è presente sia nelle università spagnole – da
Granada a Madrid, da Siviglia a Bilbao, che nelle università
latinoamericane – argentine, cilene e brasiliane. In molte università
nordeuropee, statunitensi, canadesi e sudamericane (Salvador,
Colombia, Brasile…) si trova traccia – come disciplina riconosciuta
nella sua specificità – dell’“antropologia femminista” che è
completamente assente dalle università italiane.
L’assenza dell’antropologia di genere3 tra le discipline insegnate
nell’università italiana non ha incoraggiato la produzione scientifica
sulla tematica nel corso degli ultimi anni. Le pubblicazioni in materia
sono ormai datate. I primi scritti dell’antropologia femminista
americana furono pubblicati in Italia da Savelli nell’ormai lontano
1979, in un volume curato da Rosaria Micela, Oppressione della donna
e ricerca antropologica; nello stesso periodo, l’antropologa italiana
Ida Magli affrontava la questione del matriarcato, in sintonia con la
discussione che avveniva all’epoca nel mondo anglosassone; nel 1994,
Gioia Di Cristofaro Longo pubblicava un importante saggio su
antropologia, donne e concetto di genere, Identità di genere, nel
volume collettivo Gli argonauti: l’antropologia e la società italiana.
In assenza di una produzione italiana recente nell’ambito
dell’antropologia di genere, ho maturato l’idea di predisporre un
manuale che guidi gli studenti delle lauree triennali in un percorso di
avvicinamento tanto all’antropologia come agli studi di genere, nonché
all’incontro tra questi due ambiti del sapere. Ho in parte seguito come
modello alcuni lavori prodotti in Spagna, Antropología del género di
Aurelia Martín Casares (2006), Antropologia feminista di Lourdes
Méndez (2008), Antropología del género di Beatriz Moncó (2011).
Per rispondere alle domande e sollecitazioni che, nel corso degli anni
d’insegnamento, mi erano state rivolte dagli studenti, ho privilegiato la
dimensione storica e ho cercato di ricostruire il percorso lungo il quale
la nascita e definizione scientifica dell’antropologia, in particolare
dell’antropologia culturale e sociale4, come disciplina autonoma, sono
state accompagnate da una crescente attenzione alle donne, ai ruoli
femminili e maschili e alle relazioni tra i sessi (come si diceva prima
che la categoria di genere fosse definita), per opera sia di singoli
studiosi che di scuole antropologiche in diversi contesti sociali, politici
e culturali.
La scelta di un approccio “storico” all’antropologia di genere ha
risposto all’esigenza fortemente sentita dagli studenti di
contestualizzare i quadri concettuali e metodologici intorno ai quali gli
antropologi hanno – nel tempo – cercato di costruire quella che uno
dei padri dell’antropologia, Edward Tylor, definì «the general science
of man» – la scienza generale dell’uomo nella doppia dimensione
naturale e culturale: il rapporto tra scienze della natura e umane; il
metodo etnografico; la distinzione tra l’etnografia delle culture
“prossime” e di quelle “lontane”; la teoria evoluzionista; il rapporto tra
cultura e personalità; la teoria funzionalista; lo strutturalismo. Le
modalità secondo le quali fu prodotto questo sapere scientifico
specifico – pervaso dalla costante interrogazione sul rapporto tra la
natura e la cultura – sono il risultato di un insieme di fattori, molti dei
quali esterni al mondo scientifico, ma a cui gli scienziati, uomini e
donne del loro tempo, parteciparono: tra questi fattori vanno ricordate
le battaglie per l’emancipazione – intesa nel senso ampio del termine.
Il filone antropologico che seguiamo nel volume (e che conduce alla
teoria del genere) è fortemente influenzato dalla questione
dell’emancipazione: battaglie contro la schiavitù, per i diritti delle
donne, per i diritti delle popolazioni non europee colonizzate. Un altro
filone dell’antropologia – che non è oggetto di questo volume – ha
avuto un altro percorso: cominciando dalla misurazione dei crani ha
giustificato le teorie della razza, fino al nazismo e al genocidio. Questo
filone, per il quale la biologia è destino immutabile, è agli antipodi
della teoria del genere, secondo cui la biologia, appunto, non è destino,
come gli antropologi culturali, da Alice Fletcher a Franz Boas, da Elsie
Parsons a Margaret Mead hanno proclamato – attraverso il loro
impegno sociale oltre che con la loro produzione scientifica.
Collocando l’antropologia culturale e sociale nell’ambito della storia
delle scienze umane, ho cercato di utilizzare un approccio critico, di
delineare una storia contestuale, tenendo conto delle costrizioni
economiche, sociali e politiche che l’hanno inquadrata5.
Il volume, che esordisce con l’apparizione di una scienza dell’uomo,
fondata su una narrazione separata dal racconto biblico, alla fine del
Settecento, si concentra poi sul XIX e sul XX secolo, evidenziando in
seguito quali tendenze nell’antropologia di genere e femminista sono
emerse nel nuovo millennio. Va premesso che se il testo si concentra
sulle manifestazioni dell’antropologia sorte nel mondo occidentale,
non significa che essa sia una scienza europea. Al contrario, è
importante chiarire che l’antropologia, ossia lo studio dell’uomo (dal
greco anthrópos – uomo senza distinzione di razza, lingua o sesso, in
opposizione all’animale o al divino – e lógos – discorso scientifico, in
opposizione al mito, mýthos, e all’opinione, dóxa) non è in sé una
scienza europea: come interrogazione sulla diversità delle culture
umane e descrizione etnografica precede di secoli il tempo
dell’“egemonia europea” – tanto nel mondo antico con Erodoto quanto
nel mondo arabo con Ibn Khaldūn. La costruzione della disciplina
antropologica come sapere legittimato in ambito accademico s’iscrive
invece nella storia delle scienze umane europee e nordamericane, e
risale alla fine del Settecento.
La storia dell’antropologia di genere non può prescindere dal ruolo
delle donne nella costruzione dei saperi antropologici. A sua volta,
l’importante presenza di donne antropologhe agli albori della
disciplina non può prescindere dall’emergere del movimento
femminista, principalmente di quello statunitense, che, a partire dalla
fine del XVIII secolo, ha svolto un ruolo cruciale per l’elaborazione di
nuovi quadri concettuali per leggere la società. Una figura come quella
di Margaret Mead risente profondamente di un ambiente culturale che
considera l’emancipazione femminile un valore: questo era l’ambiente
in cui l’antropologa statunitense era cresciuta (non a caso pensò alla
nonna come lettrice d’elezione della sua prima opera L’adolescenza in
Samoa). Il suo testo Sesso e temperamento incontra idealmente il
messaggio che dopo la Seconda guerra mondiale la francese Simone de
Beauvoir trasmette in Il secondo sesso: «Donne non si nasce, ma si
diventa».
Partendo da queste premesse il volume è organizzato in nove capitoli.

Il primo capitolo ripercorre la nascita e i primi sviluppi


dell’antropologia, intesa come scienza dell’uomo unificata e separata
dalla storia teologica dell’uomo offerta dalla Bibbia, in un’epoca – il
Settecento –, profondamente segnata da rivoluzioni al tempo stesso
politiche e scientifiche. Figlia del sapere illuminista e dell’ambizione di
costruire una histoire naturelle, l’antropologia si situa all’incrocio tra
la filosofia, le scienze della natura e quelle della società (Weber 2015).
Il capitolo esamina come la valorizzazione del folklore popolare
europeo nel pensiero romantico e nella formazione dei nazionalismi
abbia prodotto la separazione tra le scienze che trattano le culture
popolari europee e quelle che si occupano di mondi lontani.

Il secondo capitolo illustra l’impatto della teoria dell’evoluzione della


specie formulata da Charles Darwin sulle linee di divisione tra
l’evoluzione biologica e quella sociale nell’emergente antropologia
culturale. Riprende l’opera dello statunitense Lewis Morgan e del
britannico Edward Tylor, padri della disciplina e dell’evoluzionismo
culturale, secondo i quali tutte le società umane passano attraverso tre
stadi simili di sviluppo – selvaggio, barbarie e civiltà – e diverse fasi
intermedie. Di conseguenza, le società “primitive” (secondo il giudizio
di valore di quelle che si stimano “civilizzate”), permettono di
osservare le tappe anteriori, oggi superate dalla società occidentale. I
padri dell’antropologia culturale inaugurano il metodo
dell’osservazione partecipante presso le società oggetto del loro studio.
La famiglia, primo nucleo dell’organizzazione sociale, s’impone come
terreno di analisi privilegiato, accanto alle tecniche e alla religione.
Morgan ritiene che il sistema della parentela sia l’istituzione che
identifica i primi stadi dell’organizzazione sociale. La sua importanza
diminuisce nelle società moderne, dove predominano la territorialità,
il contratto sociale, lo Stato – con la politica e l’economia. Considerata
come l’epicentro dell’organizzazione delle società “primitive”, la
parentela è uno degli aspetti della vita sociale al quale gli antropologi
prestano maggiore attenzione. Come scrive Fox (1967: 10): «La
parentela è all’antropologia quello che la logica è alla filosofia e il nudo
all’arte».
Dato che la base della parentela è l’attribuzione di significato sociale
al fatto riproduttivo6, le donne, rese invisibili dalla storia e dalla
filosofia, non possono essere ignorate dall’antropologia sociale e
culturale. In un mondo accademico profondamente androcentrico, lo
stesso Edward Tylor deve riconoscere che un antropologo maschio può
ottenere migliori risultati lavorando in coppia con la moglie, che ha la
possibilità di conoscere, attraverso le donne delle popolazioni studiate,
una serie di pratiche che mai sarebbero rivelate agli uomini. Matilda
Coxe Evans Stevenson, che svolse il lavoro di campo nel Nuovo
Messico presso gli Zuni insieme al marito, fornisce il modello ideale
della compagna dell’antropologo7.

Il terzo capitolo è consacrato alle prime donne antropologhe


statunitensi, la già citata Matilda Coxe Evans8 e Alice Cunningham
Fletcher, attive nell’Ovest degli Stati Uniti, presso gli Zuni e gli Omaha
per conto del Bureau of American Ethnology (o BAE). Il capitolo
ricorda la fondazione, nel 1885, della Women’s Anthropological
Society of America (WASA) il cui obiettivo è aprire alle donne nuovi
campi di ricerca. La partecipazione delle donne americane alla
nascente disciplina antropologica è fiorente nella seconda metà
dell’Ottocento e non ha eguali in Europa9. Diversi fattori sono
all’origine della specificità americana. In primo luogo, grazie alla
battaglia dei movimenti femministi, i cui obiettivi furono annunciati
nella Seneca Falls Convention del 1848, le donne americane hanno
conseguito un livello di autonomia – professionale, economica e
intellettuale – impensabile in altre parti del mondo, inclusa la Gran
Bretagna10. In secondo luogo, il Bureau of American Ethnology
fondato nel 1879, per trasferire archivi e materiali relativi alle
popolazioni native americane dal Department of the Interior allo
Smithsonian Institution11, incoraggia gli studi sulle popolazioni. Dato
che sono le sole in grado di ottenere informazioni etnografiche dalle
donne delle tribù, il Bureau favorisce l’incorporazione di antropologhe
nella ricerca.
Il capitolo mostra poi come, alla fine dell’Ottocento, l’antropologia
nordamericana – mentre definisce standard sempre più rigidi per la
raccolta dei dati – metta in discussione l’idea dell’evoluzione culturale
teorizzata da Morgan e Tylor.

Il quarto capitolo si occupa dell’“età d’oro” dell’antropologia culturale


statunitense che può vantare uno straordinario sviluppo tra la fine
dell’Ottocento e la metà del Novecento. Al centro del capitolo è la
figura di Franz Boas, titolare della cattedra di Antropologia alla
Columbia University dal 1899, teorico del particolarismo storico e del
relativismo culturale. Per Boas tutte le culture hanno propri valori e
modi di comprendere il mondo e ogni gruppo sociale deve essere
compreso nella sua particolarità. Al grande schema interpretativo di
stampo evoluzionista Boas oppone l’idea di uno sviluppo storico
particolare a ogni cultura e pone in dubbio l’idea che la diversità
culturale sia il prodotto di uno stesso sviluppo cumulativo. Postulando
l’autonomia qualitativa di ogni cultura, egli introduce la nozione,
innovativa per l’epoca, di pluralismo culturale. Il capitolo prende poi
in considerazione la figura di Elsie Parsons, antropologa e femminista.
Infine esamina la scuola britannica funzionalista a cui appartengono
Alfred Reginald Radcliffe-Brown e Bronisław Malinowski, che
condivide con Boas il rigetto dell’antropologia evoluzionista.

Il quinto capitolo è consacrato a due grandi figure femminili


dell’antropologia, Ruth Benedict e Margaret Mead, entrambe allieve di
Franz Boas.
La prima approfondisce la teoria del relativismo culturale, e mette in
luce come la “normalità” sia culturalmente definita e possa variare da
una cultura all’altra. Sulla base dei dati empirici raccolti sul campo,
Ruth Benedict individua alcune aree dove la normalità e l’anormalità
sono diversamente definite, come l’omosessualità e la disposizione a
cadere in trance o in catalessi.
Margaret Mead è una figura di straordinaria importanza per
l’antropologia di genere. Sebbene non utilizzi esplicitamente il
concetto di “genere”, la Mead ha enormemente contribuito alla sua
gestazione, separando nettamente le qualità umane biologiche dei
maschi e delle femmine da quelle culturali e dimostrando, con il lavoro
sul campo, che non vi sono dei “temperamenti” maschili e femminili.
La portata delle sue conclusioni rispetto alla costruzione sociale dei
temperamenti maschili e femminili, come la negazione del
determinismo biologico e l’enfasi posta nell’idea dei ruoli sessuali
elaborati socialmente, rappresentarono un avanzamento indiscutibile
nelle teorie antropologiche, che gettarono le basi del concetto di
genere.

Il sesto capitolo riprende il percorso dell’antropologia europea,


imbrigliata per tutto l’Ottocento tra le scienze naturali e quelle umane.
Esamina la figura dell’antropologo Marcel Mauss e la scuola etnologica
francese tra le due guerre. Illustra l’impatto sull’antropologia del
nazismo in Germania e nell’Europa occupata, soffermandosi
sull’antropologa Germaine Tillion, deportata a Ravensbrück. La
rifondazione dell’antropologia europea, almeno nell’Europa
continentale (il caso della Gran Bretagna – paese risparmiato
dall’occupazione nazista – è a parte), passa per una netta condanna del
pensiero razzista e del concetto di razza, di cui si fa promotore
l’UNESCO, al cui gruppo di lavoro partecipa anche il francese Claude
Lévi-Strauss, uno degli studiosi che era riuscito a espatriare negli Stati
Uniti.

Il settimo capitolo prende spunto dall’analisi dell’opera classica di


Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1949)
che separa la parentela dal fatto biologico della riproduzione per
collocarla nello scambio delle donne come conseguenza del tabù
dell’incesto. Negli studi sulla parentela, Lévi-Strauss evidenza
l’universalità della proibizione dell’incesto, indipendentemente dalle
regole matrimoniali esistenti. Il fatto che tale proibizione non esista
nel mondo animale indica che non ha un’origine biologica o istintiva,
pur essendo una complessa struttura incosciente, come il linguaggio.
Ad essa si deve il carattere irreduttibile della parentela, dato che un
uomo non può ottenere una donna se non da un altro uomo che gli
affida la figlia o la sorella. La proibizione dell’incesto permette quindi
la circolazione delle donne, stabilendo la comunicazione tra gli
uomini.
Il capitolo analizza quindi l’opera Il secondo sesso di Simone de
Beauvoir (1949), prima femminista che elabora una teoria filosofica e
storica per combattere l’essenzialismo che pretende che le donne siano
nate donne, mentre al contrario esse sono costruite tali
dall’indottrinamento sociale. La celebre frase di Beauvoir – «On ne
naît pas femme, on le devient» («Donne non si nasce, ma si diventa»)
– viene dimostrata attraverso il percorso educativo della donna
dall’infanzia all’adolescenza fino alle relazioni sessuali. Studiando i
ruoli di moglie, madre e prostituta, Simone de Beauvoir mostra come
le donne siano ridotte a ruoli passivi, lasciando all’uomo l’attività. Per
questo devono recuperare il proprio destino, non come donne (il
“secondo sesso”), ma come esseri umani.
Il capitolo si conclude con una sezione dedicata al lavoro
dell’antropologa angloaustraliana Phyllis Mary Kaberry e al suo
originale contributo sui ruoli maschili e femminili nelle società
aborigene.
L’ottavo capitolo ripercorre l’affermazione del concetto di genere nel
corso degli anni Sessanta e Settanta, in concomitanza con la seconda
ondata del femminismo. Con il lavoro di Margaret Mead e quello di
Simone de Beauvoir, l’identità sessuata – il modo di vivere il proprio
corpo e di assumere i ruoli maschili e femminili – non è più
considerata come determinata dal sesso biologico. La teoria del genere
è già in nuce, ma sarà pienamente dispiegata soltanto con il secondo
femminismo, di cui The Feminine Mystique di Betty Friedan è un
primo manifesto. Il capitolo ripercorre l’elaborazione del concetto di
genere da parte delle studiose femministe, in particolare Ann Oakley,
Sherry Beth Ortner, Carol MacCormack, Marilyn Strathern, Eleanor
Leacock, Gayle Rubin.
Tra le questioni che la nascente antropologia femminista deve
affrontare vengono evidenziate la relazione tra natura e cultura
rispetto al maschile e al femminile – con l’associazione tra donne e
natura, e tra uomini e cultura (Ortner 1974) – e quella della gerarchia
delle categorie del sesso, che, nella maggior parte delle società umane,
si traduce nella dominazione maschile.

Il capitolo nono, infine, documenta come la seconda ondata del


femminismo, rivendicando un nuovo spazio per le donne non solo
nella sfera pubblica e politica ma anche nella produzione di pensiero,
abbia contributo a far nascere e crescere un’antropologia femminista,
che ha a sua volta fornito nuovi strumenti teorici che permettono una
più puntuale analisi delle relazioni sociali. Il concetto di genere fa
parte di questi strumenti, avendo da tempo superato i confini del
pensiero femminista per affermarsi come un concetto analitico chiave
delle scienze sociali e una linea orientativa delle politiche delle Nazioni
Unite, l’organizzazione internazionale che con la Dichiarazione
universale dei diritti umani ha proclamato, assieme alla condanna del
razzismo, il principio dell’uguaglianza tra gli uomini e le donne. Ma
proprio nel momento in cui il concetto di genere diventa uno
strumento non solo teorico ma anche politico, il suo stesso significato
si scompone nella diversità delle interpretazioni teoriche e delle
indicazioni pratiche – dietro la pressione del femminismo nero, degli
studi postcoloniali e della teoria queer.

1 Nella presentazione dei corsi di antropologia ed etnologia (sia per lauree


triennali che magistrali) di varie università italiane è talvolta menzionata
l’antropologia dei rapporti di genere come un ramo della disciplina (vedi per
esempio il programma della laurea magistrale in Antropologia e Storia del mondo
contemporaneo dell’Università degli Studi di Modena e Reggio).
2 http://afa.americananthro.org/syllabi/ (ultima consultazione 8.3.2016).
3 Il discorso potrebbe essere proficuamente allargato agli studi di genere.
4 Non è questo il luogo per descrivere il lungo dibattito tra britannici e americani
che ha visto la contrapposizione tra il termine antropologia culturale e antropologia
sociale: l’antropologia deve essere culturale o sociale? L’antropologia sociale è
antropologia o sociologia (Dianteill 2012)? In realtà non c’è una rigida distinzione
tra l’antropologia culturale e sociale, anche se vi sono alcune differenze in
particolare sull’enfasi rispetto ai temi studiati. Il termine “antropologia culturale” è
usato piuttosto in riferimento all’approccio sviluppato negli Stati Uniti da Franz
Boas e Ruth Benedict – che sottolinea la particolarità di ogni cultura e la necessità
di comprenderla a partire dai criteri propri. L’antropologia sociale si è invece
sviluppata principalmente in Gran Bretagna a partire dai primi anni del Novecento,
influenzata dalle tradizioni intellettuali provenienti dall’Europa continentale, in
particolare dalla Francia, e tende a focalizzare i suoi interessi sulle istituzioni
sociali e le loro interrelazioni. Nel volume uso il termine antropologia culturale con
riferimento a entrambe le tendenze.
5 Weber 2015: 308. Ricordiamo il contributo del pensiero di Michel Foucault alla
storia critica e contestuale delle scienze umane: la presa in conto dei meccanismi di
potere presenti all’interno dei discorsi scientifici che definiscono le regole di
produzione di un enunciato vero (Foucault 1977).
6 Scrive Scheffler: «La fondazione di ogni sistema di parentela consiste in una
teoria folklorica culturale designata a rendere conto del fatto che le donne mettono
al mondo i bambini, ovvero una teoria della riproduzione umana» (1973: 749).
7 Lurie 1966: 34; Lorini 2003: 1.
8 L’attività di Matilda Coxe Evans (1849-1915) a fianco del marito James

Stevenson (1840-1888), la differenzia dal ruolo svolto dalla collega Alice


Cunningham Fletcher. Gli Stevenson formarono la prima coppia di antropologi –
presa a modello da Tylor che li visitò nel 1884. Nonostante le sue idee sulla
“complementarietà” delle donne antropologhe rispetto al marito, Tylor rimase
alquanto impressionato dal lavoro di Matilda, che apre un nuovo campo nello
studio dell’infanzia presso le società “primitive”.
9 Clémence Royer è la prima donna francese iscritta alla Société d’Anthropologie
de Paris (SAP), fondata dal medico Paul Broca; tradusse L’origine delle specie di
Charles Darwin.
10 Anche l’Europa conobbe diversi movimenti femministi, per esempio quello
suffragista britannico. Ricordiamo anche come la riflessione di filosofi come John
Stuart Mill, il cui testo The Subjection of Women (1869) apre la porta allo sviluppo
del femminismo liberale.
11 La Smithsonian Institution fu fondata nel 1846 «per la crescita e la diffusione
della conoscenza» e si compone di un gruppo di musei e centri di ricerca alle
dipendenze del governo statunitense, in origine organizzati con il titolo di United
States National Museum, appellativo che cessò di esistere nel 1967.
1. LA NASCITA DELLE SCIENZE DELL’UOMO

L’antropologia nel secolo dei Lumi: la nascita della histoire naturelle


Il termine “antropologia” è introdotto nelle diverse lingue europee
durante il XVIII secolo per designare una scienza che, distinta dalla
narrazione teologica della Bibbia, si consacra allo studio dell’uomo in
maniera olistica – prendendo in considerazione la dimensione fisica,
sociale e culturale della specie – e utilizza approcci mutuati tanto dalle
scienze naturali che da quelle umane.
La prima definizione di antropologia compare in un trattato di
anatomia pubblicato, nel 1694, da un medico francese, Pierre Dionis,
seguace del pensiero di René Descartes:
La Scienza che ci conduce alla conoscenza dell’uomo si chiama Antropologia.
Questa scienza racchiude due parti: la prima tratta dell’anima, e si chiama
Psicologia […] e la seconda fa conoscere il corpo e tutto ciò che ne dipende, ciò
che si chiama Anatomia1.

Egualmente trattati di anatomia umana sono le due prime opere il


cui titolo contiene il termine antropologia: la Anthropologia Nova
(1707)2 dell’inglese James Drake e gli Elementa anthropologiae sive
theoria corporis humanis (1718) del tedesco Hermann Fr. Teichmeyer.
Anche questi autori sono medici, come Pierre Dionis.
Per comprendere il nesso tra antropologia e anatomia ricordiamo
che, tra il XVII e il XVIII secolo, l’interesse per l’anatomia va oltre la
medicina, e s’iscrive, particolarmente in Francia, fulcro del pensiero
illuminista, in un progetto scientifico-culturale più ampio, la
produzione di una histoire naturelle, “storia naturale” dell’Uomo.
Fondata su basi scientifiche e non più ostacolata dal racconto biblico
sulle origini dell’umanità, la “storia naturale” ha per oggetto l’Uomo
universale, di ogni tempo e di ogni luogo.
Con l’avanzare del secolo e l’affermarsi egemonico del pensiero
illuminista, l’interesse per la “storia naturale” travalica il mondo degli
studiosi e diventa una vera e propria moda culturale. Tra le pratiche
introdotte dalla nuova moda vi è l’abitudine di collezionare oggetti vari
– minerali, fossili, animali impagliati, piante esotiche, artigianato di
paesi lontani, da esibire in teche. Le collezioni – possedute tanto da
personaggi istituzionali, ministri, sovrani, come da semplici privati –
sono chiamate “gabinetto di curiosità” (laddove per curiosità s’intende
oggetto degno d’interesse). I gabinetti avevano una natura che si
collocava tra il collezionismo e la ricerca scientifica ed erano la
manifestazione concreta di una diffusa aspirazione al raggiungimento
di una conoscenza universale che troverà il suo compimento
nell’Encyclopédie coordinata da Diderot e D’Alembert. All’origine dei
musei di scienze naturali o dell’Uomo vi furono infatti i gabinetti di
curiosità. I criteri di raccolta e catalogazione degli oggetti collezionati
nei gabinetti sono la concreta rappresentazione dello stretto legame
che esisteva all’epoca tra le scienze e le arti. La “storia naturale”,
infatti, ignora ancora la distinzione – per noi abituale – tra scienze
della natura e scienze umane. La misconosce Georges-Louis Leclerc,
conte di Buffon (1707-1788), autore della Histoire naturelle, générale
et particulière3.

Buffon: monogenismo contro poligenismo


Ritenuto uno dei padri dell’antropologia, Buffon fu al tempo stesso
matematico, studioso di botanica e di zoologia, intendente del
Gabinetto di Storia Naturale del Re (appunto un gabinetto di curiosità)
e poi direttore del Giardino Botanico di Parigi, il noto Jardin des
Plantes, nel quale, a tutt’oggi, troneggia una sua imponente statua in
bronzo4. Oltre ai molteplici interessi per varie scienze della natura,
Buffon fu un attento lettore di racconti di viaggi in continenti lontani,
– l’etnografia dell’epoca –, che il suo amico e collaboratore Charles de
Brosses5 gli trasmetteva. Per Buffon, scienze della natura e scienze
umane sono strettamente intrecciate, sia perché i materiali su cui si
basano i due ambiti sono comuni (i viaggiatori e gli esploratori
raccoglievano dati e oggetti sia sulla flora e la fauna che sulle
popolazioni), sia perché lo stesso metodo scientifico si applica tanto
alla natura che all’uomo, dato che l’uomo è un essere naturale.
Buffon consacra due volumi della Histoire naturelle al “discorso sulla
natura dell’uomo”, stabilendo i due principi basici che la definiscono:
la differenza “metafisica” rispetto agli altri animali e l’esistenza di
un’unica specie umana6. Il secondo principio – l’appartenenza di tutti
gli individui a un’unica specie – si oppone radicalmente al
poligenismo, l’affermazione dell’esistenza di diverse specie umane,
sostenuto all’epoca da vari studiosi7. La novità consiste nel fatto che
Buffon giustifica “scientificamente” il monogenismo, senza ricorrere
alla narrazione biblica, per la quale esisteva una sola coppia originaria,
Adamo ed Eva.
Non v’è dubbio che il poligenismo sia precursore del razzismo, ma va
ricordato che, nel Seicento e nel Settecento, esso nasce come tentativo
di risposta all’enigma della diversità umana, testimoniata dai resoconti
di viaggio, e si sviluppa in ambienti ben diversi da quelli, reazionari,
ostili all’universalismo illuminista, che saranno il brodo di coltura
delle teorie razziste nell’Europa nazionalista e colonialista del XIX
secolo. Il poligenismo emerge in ambienti libertini, ostili alla dottrina
cristiana antropocentrica, che pone l’uomo al centro del creato, e
all’imposizione della narrativa biblica per spiegare le origini
dell’uomo.
Un caso esemplare di poligenista è Benoît de Maillet (1656-1738), i
cui scritti si prefiggono un obiettivo di rottura con la narrazione biblica
che assicura all’uomo una posizione privilegiata nel cosmo. Secondo
Maillet, se si autorizzasse la classificazione di tutte le specie viventi
senza remore teologiche, l’uomo troverebbe il suo posto nel mondo
animale e sarebbe sottoposto alle stesse leggi. Se vi sono diverse specie
di scimmie, buoi, capre in ogni parte del mondo conosciuto e se queste
specie discendono da diversi ceppi, perché il caso dell’uomo dovrebbe
essere diverso? Per Benoît de Maillet le prove dell’esistenza di diverse
specie nel genere umano sono molteplici, ma la “membrana delicata”
che rende color ebano la pelle dei neri è senz’altro la più evidente8. La
dimensione antireligiosa del poligenismo spiega peraltro il fatto che
esso fu difeso o almeno ritenuto plausibile dallo stesso Voltaire nel suo
Traité de métaphysique (1734)9.
La risposta di Buffon al poligenismo è particolarmente interessante
per i futuri sviluppi dell’antropologia culturale. Attento lettore di
resoconti etnografici di viaggiatori, esploratori, marinai, missionari,
Buffon non mette in discussione le diversità umane, ma ne cerca le
cause al di fuori della biologia. Ritiene che quelle che egli chiama le
“diverse variazioni” della specie umana siano una prova dell’unità del
genere umano, giacché derivano da mescolanze tra individui della
stessa specie (gli ibridi sono fecondi, se si trattasse di specie diverse,
sarebbero sterili). Le cause delle variazioni vanno individuate in fattori
naturali o storici, come il clima, il cibo, i costumi, le malattie
epidemiche, il meticciato, la schiavitù. L’importanza dei climi sui
costumi delle popolazioni era già stata suggerita da Montesquieu.
Nella Histoire naturelle, Buffon descrive gli aspetti fisici, utilizzando
l’anatomia comparata, e culturali di diverse popolazioni: Eschimesi,
Lapponi, Cinesi, Giapponesi, Giavanesi, Indiani, Persiani, Egiziani,
Turchi, Svedesi, Russi, Etiopi, Senegalesi, Congolesi, Ottentotti,
Americani del Nord e del Sud. Le descrizioni, basate su materiali di
seconda mano, sono spesso imprecise, ma servono allo studioso per
individuare le cause possibili delle variazioni della specie umana. Per
Buffon la ricerca del rapporto causa-effetto è ben più importante della
ricerca di criteri classificatori o dell’individuazione di gerarchie, ma,
da uomo del suo tempo e della sua cultura, è prigioniero di una visione
fondamentalmente eurocentrica, che considera la civiltà europea
superiore alle altre. Pur non fissando un’esplicita gerarchia, Buffon
finisce per prendere come metro di paragone la “civiltà” europea e
collegare le variazioni a processi “degenerativi”, risultanti
dall’allontanamento dai climi temperati o dagli spostamenti forzati
(per esempio la schiavitù, che separa gli individui dai loro climi e dalle
loro abitudini). Il suo De la Dégénération des animaux (1766) illustra
questa teoria. Se il monogenismo aveva cacciato dalla porta principale
la spiegazione biologica poligenista della diversità tra le popolazioni, la
teoria della degenerazione fa rientrare dalla finestra la biologia come
causa delle differenze, e influenza profondamente l’idea di una “natura
umana”, che, pur essendo unica, è soggetta alla possibilità di
perfezionarsi o corrompersi in modo irrimediabile.
Il riconoscimento di una “comune natura” umana spinge i
monogenisti – come Buffon – a ricercare le norme e i costumi che
meglio le corrispondono, per definire una sorta di “cultura naturale”, e
relegare nel “caos”, nella stranezza o nella “depravazione” tutto ciò che
se ne distanzia. Pratiche culturali come la circoncisione, la castrazione
e i sacrifici umani sono ritenute lontane dalla profonda natura umana.
Le prime tassonomie di quelle che sono considerate pratiche naturali
rispetto alle pratiche “bizzarre”, conducono inevitabilmente alla
costruzione di gerarchie tra le culture e i popoli, che mettono a dura
prova il principio dell’uguaglianza tra le “variazioni delle specie”, pur
postulato da Buffon.
Nell’edizione del 1758 della sua opera di classificazione delle specie,
Carl von Linné (1707-1778), naturalista e medico svedese, classificò le
stirpi umane dividendo i quattro continenti geografici, America,
Europa, Asia e Africa, e descrivendo i quattro tipi umani che li abitano
sulla base del loro colore e del loro temperamento. L’Americano è
“rosso” e “collerico”, l’Europeo “bianco” e “sanguigno”, l’Asiatico
“giallo” e “melanconico”, l’Africano è “nero” e “flemmatico”. Si tratta di
stereotipi che entrano da allora nel senso comune europeo e
forniscono argomenti a un pensiero razzista che comincia a profilarsi
come elemento strutturale della relazione tra l’Europa e gli altri
continenti.

La tensione tra natura e cultura – continuità o rottura? Le origini


delle diseguaglianze secondo Jean-Jacques Rousseau
Due anni dopo la pubblicazione della Histoire naturelle di Buffon,
Denis Diderot, nella voce dell’Encyclopédie consacrata all’anatomia,
denomina “anthropologie” la nuova scienza naturale dell’uomo, ma
con quel termine designa essenzialmente lo studio del corpo umano.
La dimensione culturale dell’antropologia, accanto a quella biologica, è
invece evocata alcuni anni dopo da Jean-Baptiste Robinet, autore della
definizione di antropologia in un articolo del Dictionnaire universel
des sciences morales, pubblicato nel 1778. Per Robinet, le due
dimensioni sono entrambe indispensabili alla comprensione della vera
natura dell’uomo.
Affermando senza mezzi termini che si tratta della «più importante
delle scienze, la più degna a cui l’uomo si consacri», Robinet propone
la seguente definizione di antropologia:
[Essa] è propriamente questa importante branca della Scienza Filosofica che ci fa
conoscere l’uomo sotto le sue diverse relazioni fisiche e morali. Essa ci insegna a
conoscere l’origine dell’uomo, i vari stati attraverso cui passa, qualità o
condizioni, facoltà o azioni, per dedurne la conoscenza della sua natura, le sue
relazioni, il suo destino, e le norme che esso deve rispettare al fine di rispondervi
in modo appropriato. L’Antropologia è dunque connessa a tutte le scienze10.

A dispetto della sua importanza, questa scienza, dice Robinet, «è


ancora da fare…»: i materiali sono sparsi nelle varie discipline, tra cui
Robinet identifica la storia naturale, la psicologia e la metafisica,
citando le opere di Buffon e alcuni altri (Condillac, Gorini Corio e
Helvétius) come bozze imperfette, che potrebbero tutt’al più ispirare
alcuni dei capitoli della nuova scienza. Robinet ha piena coscienza
dell’importanza della ricerca empirica nello studio antropologico; è
proprio l’assenza di dati empirici consistenti, che non permette di
rispondere alle interrogazioni che la nuova disciplina introduce: qual è
l’essenza della natura umana? Qual è la posizione dell’uomo nella
grande catena degli esseri? Qual è l’origine delle diversità tra le
popolazioni? E tra i costumi? Tra lo stato “selvaggio” e quello
“civilizzato”? Come si è passati dallo stato di natura a quello di società?
Mentre l’antropologia prosegue a tentoni, in mancanza di dati
adeguati, un’altra disciplina, ben più antica e consolidata, la filosofia,
cerca di dare risposte a queste domande. Nel 1755, con il Discours sur
l’origine et le fondement de l’inégalité entre les hommes, Jean-
Jacques Rousseau ripercorre l’affascinante avventura dell’umanità,
descrivendone la condizione nello stato di natura e il passaggio dallo
stato di natura a quello di civiltà, che, per lui, rappresenta una
condizione di decadenza. Rousseau riconosce esplicitamente che le
conoscenze sulla natura umana e sulla sua preistoria sono
insufficienti, tanto più che il progresso ha fatto perdere la conoscenza
degli stadi anteriori. Nella prefazione del Discours, Rousseau chiarisce
che la sua prospettiva è rigorosamente filosofica, che lo stato di natura
è una finzione teorica, risultato dell’introspezione, e non è basato su
dati empirici.
Pur facendo dello stato di natura un’idea filosofica, Rousseau
descrive la “preistoria” empiricamente, ne elenca le fasi, individua
l’impatto dell’introduzione dell’agricoltura e dei metalli sulla struttura
sociale. La spiegazione delle origini della diseguaglianza nel passaggio
da una condizione “selvaggia/naturale” a una organizzazione sociale
successiva ha suscitato – ancora duecento anni dopo – l’ammirazione
dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, che, su Rousseau,
scrive:
Senza timore di essere smentiti, possiamo affermare che questa etnologia che non
esisteva ancora, egli [Rousseau] l’aveva, un secolo prima che apparisse, concepita,
voluta e annunciata, mettendola immediatamente al suo posto tra le scienze
naturali e umane già costituite; […] Rousseau non si è limitato a prevedere
l’antropologia, l’ha fondata. Prima di tutto in modo pratico, scrivendo questo
Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, che
pone il problema del rapporto tra la natura e la cultura, e dove possiamo vedere il
primo trattato di etnologia generale; e poi, sul piano teorico, distinguendo, con
ammirevole chiarezza e concisione l’oggetto proprio dell’antropologo da quella
del moralista e dello storico: «Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna
guardarsi intorno in sé, ma per studiare l’uomo, si deve imparare a portare lo
sguardo lontano, si devono in primo luogo osservare le differenze per scoprirne le
proprietà»11.

L’antropologia nasce dunque all’incrocio tra diverse discipline e


prospettive: da un lato la “storia naturale”, dove scienze naturali e
umane non sono ancora separate, mentre la raccolta ancora
embrionale di dati e materiali empirici – dallo studio anatomico ai
racconti di viaggi – non ha ancora definito il proprio metodo; dall’altro
la filosofia, che rielabora le prime suggestioni della storia naturale,
producendo nuove narrative sulla vicenda umana, che, come il
Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité di Jean-Jacques
Rousseau, indicano i presupposti per trasformare la società del
presente e fondare un nuovo tipo di contratto sociale.
Se l’Uomo della storia naturale e l’Uomo dello stato di natura di
Jean-Jacques Rousseau sono concepiti in termini universalisti,
l’esistenza empiricamente evidente delle differenze tra popolazioni –
ma anche tra sessi – costituisce una sfida e richiede risposte. Perché
gli “altri”, soprattutto quando appartengono a mondi lontani
incuriosiscono e inquietano.

Differenze naturali e diseguaglianze: gli schiavi e le donne


Per tutto il Settecento, la rappresentazione delle popolazioni “altre” –
indigeni delle Americhe, Etiopi e Ottentotti, abitanti del continente
australe e delle isole del Pacifico, esplorati dal capitano Cook – oscilla
tra l’ideale filosofico del “Buon Selvaggio” e il rigetto nei confronti di
creature degenerate e infide (abbiamo visto come anche Buffon
proponesse l’idea di degenerazione); nella trasposizione letteraria, tra
il buon Venerdì di Robinson Crusoe e il Calibano della Tempesta di
William Shakespeare. I resoconti dei viaggiatori, tra cui in particolare
quelli del capitano Cook, che fecero scoprire una libertà sessuale del
tutto insospettata e, al tempo stesso, diedero atto dell’esistenza
dell’antropofagia, nutrirono l’immaginario degli europei,
indirizzandolo verso l’una o l’altra rappresentazione, con tutte le
implicazioni pratiche del caso. Giacché il “buon selvaggio” o il “crudele
antropofago” non sono soltanto figure dotate d’implicazioni filosofiche
o letterarie, ma argomenti per giustificare o condannare pratiche e
politiche in un secolo dove la tratta e la schiavitù dei neri sono oggetto
di un acceso dibattito pubblico.
Nell’aprile del 1794, poco prima di essere condannato alla
ghigliottina, Georges-Jacques Danton (1759-1794) ricordava
l’abolizione della schiavitù dei neri come una delle glorie della
Rivoluzione francese:
Abbiamo dichiarato che il più umile uomo di questo paese è uguale ai più grandi.
Questa libertà che abbiamo guadagnato per noi stessi l’abbiamo data agli schiavi e
affidiamo al mondo la missione di costruire il futuro sulla speranza che abbiamo
fatto nascere12.

Questa frase resta scolpita nella memoria storica come una piccola
luce nella pagina vergognosa della storia europea, che ha visto la
deportazione forzata di milioni di africani dal loro continente alle
Americhe. Otto anni dopo la morte di Danton, nel maggio 1802,
Napoleone reintroduceva la schiavitù nelle colonie francesi delle
Antille, scatenando una repressione sanguinosa contro la popolazione
nera. Il secolo XIX – quello del colonialismo europeo trionfante – si
apre con i massacri di uomini e donne che – come Toussaint
L’Ouverture – avevano creduto all’ideale di un uomo universale,
indipendentemente dal colore della sua pelle, e alle promesse di libertà
della Rivoluzione francese.
Tra gli intellettuali che lottarono per l’abolizione della schiavitù, vi fu
Olympe de Gouges (1748-1793), ghigliottinata alcuni mesi prima di
Danton. Il suo nome è ricordato soprattutto per la Déclaration des
droits de la femme et de la citoyenne (Dichiarazione dei diritti della
donna e della cittadina), che propone di includere le donne nei diritti
universali del 1789. Oltre all’impegno per i diritti delle donne, che fa di
lei una protofemminista, Olympe de Gouges lottò per i diritti dei neri
ridotti in schiavitù. Autrice di un’opera teatrale, Zamore e Mirza, o la
schiavitù dei neri, pubblicata nel 1785, Olympe de Gouges fa dire a
uno dei protagonisti:
Questa differenza è ben poca cosa, non esiste che nel colore, ma i vantaggi che
hanno su di noi sono immensi […]. Si servono di noi in questi climi come si
servono degli animali nei loro13.

In un altro pamphlet, Réflexions sur les hommes nègres (Riflessioni


sugli uomini negri), pubblicato nel 1788, Olympe de Gouges, evoca la
visione universalista della Histoire naturelle, e denuncia la tratta come
una pratica contro natura: «Un commercio di uomini! Gran Dio! E la
natura non rabbrividisce? Se sono degli animali, non lo siamo noi
quanto loro?»14.
La frase «cette différence est si peu de choses, mais les avantages
qu’ils ont sur nous sont immenses…» vale, per Olympe de Gouges,
tanto per le differenze di sesso che di “razza”… Eppure, proprio nel
secolo che proclama l’universalismo tra tutti gli esseri umani,
l’attenzione alle differenze tra i sessi cresce – non in nome della
Bibbia, ma della ricerca scientifica. Una volta abbandonata la narrativa
biblica sul peccato originale di Eva, la Histoire naturelle, dando spazio
alla dimensione medica e anatomica, apre, di fatto, la via a una
“naturalizzazione” della differenza sessuale. Pur non ottenendo
l’unanimità su questa visione15, vari studi medici teorizzano le
specificità biologiche femminili e ne minimizzano le capacità
intellettuali.
Jean-Jacques Rousseau non ipotizza la differenza tra i sessi come
una disuguaglianza naturale, che egli limita alla «differenza d’età, di
salute, delle forze del corpo e delle qualità dello spirito o dell’anima»16,
ma individua un principio esplicito dell’ordine sociale nella
separazione tra i sessi e nella polarizzazione del maschile e del
femminile, acquisita attraverso l’educazione, come nel caso di Émile e
di Sophie. In Julie ou La Nouvelle Héloïse, Rousseau sostiene
l’uguaglianza “potenziale” della donna, ma ritiene la sfera domestica
una garanzia dell’ordine. La preminenza maschile passa per la
soggezione delle donne – obbligate alla fedeltà per non creare
disequilibri – al di là della loro natura biologica. La diseguaglianza tra
uomini e donne è dunque più un prodotto della cultura che della
natura, ma essa corrisponde a una sorta di “cultura naturale”.

La strana passione per lo studio dei crani. Antropologia e razzismo


L’antropologia nasce nel Settecento come storia naturale dell’uomo e
si colloca alla frontiera tra scienze naturali e umane; pervasa da
interrogazioni sul rapporto tra natura e cultura e sul passaggio dallo
stato di natura a quello di civiltà; inquieta di fronte alla questione delle
differenze esistenti tra i popoli, tra le culture e anche tra i sessi.
Al fine di spiegare le origini delle differenze comparvero tra la fine
del Settecento e l’inizio dell’Ottocento alcune teorie che, ponendosi in
continuità con la predominanza della scienza medica nella histoire
naturelle, rappresentarono il brodo di coltura del razzismo. Abbiamo
già visto come, per Buffon e Linné, la difesa dell’unità della specie
umana non escludesse la proposta di categorie e gerarchie tra le
popolazioni. Vediamo ora come il tentativo di spiegare
scientificamente le differenze, sulla base di dati quantitativi, aprì la
strada al razzismo “scientifico”.
Fin dall’antichità esistevano teorie che stabilivano una correlazione
tra la forma del viso e il carattere: per esempio, lo studio dell’angolo
facciale (le proporzioni del cranio anteriore e della faccia) fu utilizzato
da Aristotele per determinare l’intelligenza di una persona e
classificare gli uomini dall’inferiore al superiore17. Queste teorie
ritornarono in auge nel Settecento, con lo sviluppo degli studi
naturalisti. La misurazione dell’angolo facciale fu allora rilanciata da
Petrus Camper (1722-1789), medico, naturalista e biologo olandese.
Nel 1786 Camper propose un nuovo metodo per determinare le
proporzioni del cranio anteriore e della faccia, a partire
dall’osservazione che la faccia si presenta tanto più sporgente in avanti
quanto minore è il volume del cranio18. Camper si dedicò alla
comparazione dei crani e constatò che le statue greche avevano un
angolo facciale di 85-100 gradi; gli Europei erano vicini a questo
standard con un angolo facciale di 80°, mentre i Calmucchi e gli
Angolani avevano un angolo facciale di 70° e l’orangutan di 58°. Il
sistema di misurazione (o scala quantitativa) di Camper, approvato dai
principali anatomisti dell’epoca, è ripreso dal francese Georges Cuvier
(1769-1832), naturalista e zoologo19. Facendo l’esame comparativo dei
crani, Cuvier stabilisce una divisione tra i gruppi umani in funzione
della “bellezza” o “bruttezza” misurata in riferimento all’angolo
facciale di Camper, emendato in alcuni punti (con Cuvier l’angolo
facciale di un Europeo passa a 85°, quello dell’orangutan giovane di
67°). Per la definizione dei gruppi umani – che cominciano a essere
chiamati “razze” – Cuvier utilizza le categorie proposte dal naturalista
tedesco Johann Friedrich Blumenbach (“razza” caucasica, etiope e
mongola)20. La divisione tra le “razze” non risponde solo a criteri
estetici: ipotizzando un rapporto tra le tipologie di crani (“belle” o
“brutte”) e la qualità della civiltà, Cuvier introduce un nesso tra la
biologia e la cultura, che rappresenta la base delle teorie razziste, e
inaugura un processo di “naturalizzazione del sociale” destinata a
diventare una costante nel pensiero europeo. Ricordiamo, tra l’altro,
che Georges Cuvier esaminò Saartjie Baartman, nota con il nome di
“Venere Ottentotta”, schiava sudafricana di un boero, portata in
Europa ed esibita come un animale in Inghilterra e in Francia. Pur
cosciente che Saartjie era una donna intelligente, che parlava più
lingue, che era in grado di muoversi all’interno della cultura degli
europei (negli ultimi anni della sua vita lavorò come prostituta),
Cuvier non esitò a utilizzarne il corpo, per sperimentare le sue teorie,
ne fece un calco, lo sezionò e ne conservò lo scheletro, i genitali e il
cervello, che furono esposti al Musée de l’Homme di Parigi fino a
quando non furono rimpatriati in Sudafrica, su richiesta del governo
di Nelson Mandela, nel 2002. L’attrazione per i corpi delle donne nere
da parte degli uomini bianchi, che Saartjie aveva ben conosciuto prima
nel porto di Cape Town e poi nelle metropoli europee, non veniva
contemplata dalle classificazioni dei naturalisti, come Cuvier,
preoccupati dal criterio di bellezza dell’angolo facciale e dall’armonia
dei crani. A questa gerarchia, al tempo stesso “estetica” e culturale,
contribuì anche il già citato Blumenbach.
Nel 1775, il naturalista tedesco Blumenbach si laurea all’Università di
Göttingen con una tesi dal titolo De generis humani varietate nativa.
Come molti studiosi della sua epoca, Blumenbach s’interessa a varie
discipline: anatomia comparata, storia naturale, medicina e
“craniologia” – ovvero studio dei crani. Pur sostenendo l’unità della
specie umana e rifiutando il poligenismo, Blumenbach individua delle
“gradazioni” tra gli esseri umani, in relazione a quattro regioni
geografiche (Europa, Asia, Africa e Nord America), poi diventate
cinque (viene aggiunta l’Oceania). Il criterio classificatorio della
divisione geografica lascia presto il posto a una divisione basata
sull’apparenza fisica. Blumenbach chiama gli europei “razza caucasica”
(è il primo a utilizzare il termine), gli altri gruppi – “mongoli”, “etiopi”
(Africani neri), “americani” e “malesi”. Egli attribuisce le differenze tra
i tipi umani – statura e colore – essenzialmente al clima, ricusando
peraltro che il colore sia l’indicatore più importante per distinguere i
gruppi. Blumenbach ricerca le differenze studiando con passione i
crani, che cataloga, attribuendone la forma a fattori ambientali e anche
culturali, e stabilisce che la forma dei crani dei caucasici è la più bella,
estasiandosi di fronte al cranio di una donna della Georgia, comparato
con quello di una donna etiope della Guinea e di un uomo Tungus
(mongolo).
Alcuni anni dopo, a un medico anatomista tedesco, François-Joseph
Gall (1758-1828) sorge l’idea di stabilire una correlazione tra la forma
del cervello e il carattere individuale. Convinto che le funzioni mentali
siano localizzate in specifiche zone del cervello e che il comportamento
umano dipenda da queste funzioni, Gall assume che la superficie del
cranio rifletta fedelmente il relativo sviluppo delle varie regioni del
cervello, fondando la “frenologia”, ovvero il tentativo di individuare le
capacità intellettuali e la personalità di un individuo dalla forma del
cranio.
L’interesse per l’angolo facciale e i crani da parte degli studiosi
dell’epoca ci può apparire curiosa, dato che noi diamo ormai per
scontato che le differenze tra individui siano il prodotto della genetica
e che la differenza intragruppo è altrettanto importante che quella tra
gruppi. Non dobbiamo però dimenticare che nel Settecento la
disciplina che permetteva di comprendere le differenze era l’anatomia,
ovvero lo studio materiale dei corpi. Lo studio dei crani rispondeva
dunque a un tentativo di rendere “scientifica” la histoire naturelle
utilizzando dei dati quantitativi considerati precisi. La scala
quantitativa di Camper permetteva infatti di classificare la separazione
tra l’uomo e l’animale, e tra gli uomini, sulla base di schemi geometrici
costanti e verificabili. Alla misurazione anatomica si aggiunse però
una concezione – in gran parte ideologica – di superiorità di alcuni
popoli (nel caso gli europei) su altri. Lungi dall’essere neutre, le
classificazioni basate su dati quantitativi anatomici coincisero con la
definizione di una gerarchia – che mise in cima la “razza caucasica” e
in basso gli “etiopi” – in una posizione non troppo lontana
dall’orangutan.
Il passaggio dalla classificazione alla gerarchia (preludio del
razzismo) avviene in un’epoca in cui l’Europa – che secoli prima aveva
colonizzato i territori americani mettendo in atto un vero genocidio –
avviava una nuova fase di colonizzazione verso l’Asia e l’Africa, e
cominciava a percepirsi come il centro del mondo in nome di una
superiorità non più religiosa, ma culturale e tecnica. In questo
contesto, la nascente antropologia non riuscì a resistere alla tentazione
di fare uso delle classificazioni somatiche e delle gerarchie delle razze
repertoriate. In Francia il fondatore nel 1859 della Société
d’Anthropologie de Paris, Paul Broca (1824-1888), medico, autore
d’importanti studi sul cervello e la parola, continuò a confinare
l’antropologia nella misurazione dei crani e delle ossa, abbracciò l’idea
delle differenze razziali e l’applicò anche alle differenze nazionali e di
classe. Avendo avuto a disposizione 125 scheletri ritrovati nello scavo
di un antico cimitero di Parigi, appartenenti probabilmente
all’aristocrazia del XII secolo, li comparò con 259 scheletri ritrovati in
una fossa per poveri e ne concluse che l’aristocrazia era superiore (De
Waal Malefijt 1974). Il razzismo di classe apriva la strada
all’eugenismo, come avremo modo di vedere nei prossimi capitoli.
Inoltre, l’idea gerarchica di superiorità della razza caucasica provocò
la separazione tra lo studio di popolazioni e culture “vicine” (europee e
occidentali) e quello di popolazioni e culture “lontane”.

L’antropologia culturale e le spedizioni scientifiche. I fratelli


Humboldt
Abbiamo visto che, durante il Settecento, l’antropologia nasce come
studio “olistico” dell’uomo, che comprende sia la dimensione
anatomica (antropologia umana) sia le differenze tra i gruppi e le
culture (antropologia culturale). Agli albori della disciplina, i tentativi
di definirne i metodi in maniera scientifica riguardano piuttosto la
dimensione fisica dell’uomo, mentre la conoscenza delle varie culture
si basa su resoconti di viaggiatori, non sempre precisi e sistematici. Si
comincia intanto a profilare una distinzione tra due rami della
disciplina operanti in ambiti e con metodi diversi: l’antropologia
umana e l’antropologia culturale.
Dobbiamo ad Alexandre César Chavannes (1731-1800), teologo e
linguista di Losanna, una prima distinzione tra l’antropologia umana e
quella culturale, per la quale egli introduce il termine “etnologia” (si
tratta della prima attestazione in lingua francese). Partendo dalla
teologia, Chavannes, che è un sostenitore dell’unità della specie
umana, vede nella Torre di Babele la causa della dispersione
dell’umanità sulla superficie del pianeta. L’episodio raccontato dalla
Bibbia avrebbe portato alla formazione di nazioni o popoli, segnati da
grandi differenze dovute all’ambiente naturale, e quindi accidentali.
Per Chavannes l’etnologia è la scienza dell’uomo – che rende conto
delle varietà esistenti nella specie, «divisa in diversi corpi di società o
nazioni occupate a rispondere ai loro bisogni e ai loro gusti e più o
meno civilizzate»21.
Una precedente definizione di etnologia era comparsa nell’opera
Historiae iurisque publici Regni Ungariae amoenitates di Adam
František Kollár (1718-1783), pubblicata a Vienna nel 1783:
La scienza delle nazioni e popoli o l’investigazione delle origini, lingue, usi e
istituzioni delle varie nazioni, e infine della patria e gli antichi costumi per
giudicare meglio i popoli e le nazioni nei loro tempi.

Tale scienza è sostenuta dalle società di studiosi (sociétés savantes) e


dai resoconti delle spedizioni, spesso organizzate dalle stesse società.
La Société des Observateurs de l’Homme, attiva in Francia dal 1799 al
1805, organizzò nel 1800 la spedizione Baudin verso l’Australia. In
preparazione della spedizione, un suo membro, Joseph-Marie de
Gérando pubblicò un manuale, Considération sur les diverses
méthodes à suivre dans l’observation des peuples sauvages,
esplicitamente rivolto ai viaggiatori che visitavano tutte le nazioni che,
per forme morali e politiche, differivano dai popoli dell’Europa,
elaborando un embrione di metodo dell’osservazione in antropologia.
Le società di studiosi non erano una specificità francese, ma erano
diffuse in tutt’Europa, impregnata di una comune cultura illuminista.
De Gérando aveva a lungo viaggiato in Germania, familiarizzando con
i metodi dell’etnografia tedesca, che si era sviluppata ben al di là della
Germania stessa. L’etnografo prussiano Georg Forster aveva svolto un
ruolo importante durante i viaggi del capitano Cook (è questa la
ragione per cui gli oggetti delle spedizioni di Cook sono oggi conservati
all’Ethnologisches Museum di Berlino). Nel 1768, il naturalista tedesco
Peter Simons Pallas, professore di storia naturale all’Accademia delle
Scienze di San Pietroburgo, aveva esplorato la Siberia, riportando
interessanti osservazioni etnografiche. Pallas è anche autore di un
dizionario linguistico comparativo.
Particolarmente interessante è il caso dei fratelli Humboldt,
intellettuali cosmopoliti appassionati negli studi tanto delle culture
europee quanto di quelle lontane. Il più giovane, Alexander, era un
naturalista, Wilhelm, maggiore di due anni, un linguista specializzato
in lingue europee. Con l’obiettivo di elaborare una physique du
monde, Alexander fece un lungo viaggio di studio nell’America
tropicale: partì nel giugno 1799 assieme al francese Aimé Bonpland.
Approdato a Cumaná in Venezuela, ne fece la base per viaggi in
Colombia, Ecuador e Perù, nel corso dei quali navigò sull’Orinoco e
scalò, fin quasi alla vetta, il Chimborazo. Poi si spostò in Messico e a
Cuba. Gli Stati Uniti furono l’ultima tappa del grande itinerario, che si
concluse con il ritorno a Parigi nell’agosto 1804. Fino al 1827
Alexander von Humboldt risiedette a Parigi, dove attese alla
pubblicazione dei risultati delle ricerche fatte in America22.
Wilhelm, fondatore dell’Università di Berlino nel 1810, si occupò
soprattutto di linguistica. Tra l’altro studiò il basco e s’interessò alla
cultura indiana, pubblicando un saggio sulla Bhagavadgītā. Il saggio
Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren
Einfluss auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts
(1836)23, fa di Humboldt uno dei maestri della filosofia del linguaggio.
Per lo studioso, la funzione del linguaggio non è quella di
rappresentare o comunicare idee o concetti preesistenti: in quanto
«organo formativo del pensiero» la lingua è strumento per produrre
nuovi concetti. La diversità delle lingue non è pertanto riducibile a una
differenza di «suoni e segni» (Schällen und Zeichen), ma è una
diversità di «visioni del mondo» (Weltansichten).

Culture “popolari” e culture lontane. L’etnologia europea. Il razzismo


come teoria
All’inizio del XIX secolo, l’antropologia può contare su due volani: la
scienza delle classificazioni delle razze, che studia l’uomo fossile e le
differenze anatomiche attuali, e la scienza che studia le varie culture e i
costumi (anche del proprio popolo), ai quali contribuivano studiosi e
viaggiatori appartenenti allo stesso ambiente intellettuale europeo. I
fratelli Humboldt sono un esempio di questa cultura europea tendente
al cosmopolitismo. Ma proprio in ambito culturale, all’inizio
dell’Ottocento si opera una profonda cesura tra lo studio delle società
dette “primitive” – che si pensa possano portare informazioni
sull’uomo prima dell’affermazione della civiltà – e quello delle culture
popolari europee, supporto spesso alla formazione di rivendicazioni
nazionali e/o nazionaliste.
Alla fine del Settecento il nascente movimento romantico introduce
una nuova idea di “popolo/nazione” basata sull’unità linguistica e
l’unità culturale, destinata a pesare a lungo, tanto sul pensiero
filosofico che sui movimenti politici. Il Romanticismo ha senz’altro il
pregio di aver valorizzato le culture popolari, insistendo sulla loro
diversità e dignità, ma ha anche fornito le basi per un pensiero
nazionalista. Se le idee illuministe avevano trovato un terreno
specialmente fertile in Francia, le idee romantiche sono influenti
soprattutto in Germania. Nel 1791 Johann Gottfried Herder pubblica
le Ideen zur Philosophie der Geschichte des Menschheit, dove attacca
le teorie universaliste dell’Illuminismo e sostiene che ogni popolo
(Volk) condivide un’esperienza olistica, fisica, basata sulla storia
comune, sulla comune dipendenza, sull’ambiente naturale e un
carattere (Volksgeist) che si esprime attraverso la lingua, il folklore e i
miti24. Secondo Herder, certe caratteristiche erano immutabili:
La forma del negro è trasmessa in successione ereditaria e può essere cambiata
soltanto per ibridazione con un europeo. L’ambiente plasma le forme umane
attraverso un processo molto lento25.

Lo stesso Herder è uno studioso delle tradizioni folkloriche e della


poesia lettone. Gli studi folklorici, tipica passione romantica,
contribuiscono alle ideologie di cui sono portatori i movimenti
nazionalisti che investono i paesi di lingua tedesca, la Scandinavia e
l’Italia. Gli studiosi tedeschi raccolgono dati sulla vita contadina,
racconti, leggende, canti, artigianato: queste collezioni sono all’origine
della nascita dei musei etnografici, come quello di Vienna (1806),
Monaco (1859), Berlino (1868). Tra gli studi sul folklore letterario
ricordiamo i lavori dei fratelli Grimm (Jacob e Wilhelm), che, oltre alla
celebre raccolta di favole pubblicarono le poesie dei Minnesänger che
poi ispirarono Richard Wagner (I maestri cantori di Norimberga).
Per quanto riguarda la strutturazione della disciplina antropologica,
la scoperta del “popolo/nazione” e del suo folkore ha effetti diversi a
seconda dei paesi. In Germania è sancita la netta differenza tra
Volkskunde (“scienza del popolo”) che si occupa della cultura della
popolazione locale, e Völkerkunde (“scienza dei popoli”) che si dedica
ai popoli lontani. Nel contesto tedesco la Volkskunde ci costituisce
come un importante ramo accademico e finisce per costituire una delle
basi ideologiche prima del nazionalismo e poi del nazionalsocialismo.
Come scrive Florence Weber:
La Volkskunde nasce agli inizi del XIX secolo. Figlia del movimento nazionalista
tedesco (e più in generale europeo), riprende una ideologia i cui punti principali
dovevano diventare, un secolo più tardi, in forma razzista e bellicista, i pilastri
della dottrina nazionalsocialista. Quando i nazisti conquistarono il potere nel
1933, la Volkskunde non prova pertanto alcuna difficoltà nel convertirsi al nuovo
sistema26.

Questa deriva degli studi sul folkore nazionale è particolarmente


accentuata in Germania e nei paesi germanofoni, dove riscuotono un
grande successo anche i fondatori del pensiero razzista, Joseph Arthur
de Gobineau (1816-1882), francese d’origine ma germanofilo, autore
dell’Essai sur l’inégalité des races humaines; il compositore Richard
Wagner (1813-1883) che, dopo aver conosciuto Gobineau e il suo
lavoro, lo interpretò come un’esaltazione della razza tedesca e scrisse
saggi ferocemente antisemiti; e infine Houston Stewart Chamberlain
(1855-1927), “inglese rinnegato”, autore di una sua versione della
teoria razziale in The Foundations of the Nineteenth Century (1899).
Chamberlain divenne così popolare presso l’aristocrazia tedesca che
era conosciuto come “l’antropologo del Kaiser”.
Sebbene nel resto dell’Europa la separazione tra l’etnologia delle
culture popolari “nazionali” e quelle lontane abbia seguito un percorso
meno nefasto che in Germania (in Italia si manifestò soprattutto con
lo studio delle tradizioni popolari nel Meridione), la reticenza a
mettere sullo stesso piano gli studi delle culture popolari europee e
delle culture extraeuropee, e l’affermazione di una specificità
europea/occidentale rispetto a tutte le altre culture, in termini di
superiorità, se non razziale, almeno storica, si manifestò più o meno in
tutt’Europa.
La convinzione di una superiorità culturale europea ha prodotto un
approccio profondamente eurocentrico nell’insegnamento accademico
e fornito una giustificazione al colonialismo, fenomeno che ha
caratterizzato la relazione tra l’Europa e il resto del mondo
nell’Ottocento e Novecento.
La divisione tra la cultura europea e le culture altre ha prodotto
un’altra divisione, quella tra l’antropologia e la nascente sociologia.
L’interesse per lo studio della società attraverso metodi scientifici o la
teoria scientifica dei fenomeni sociali – con l’obiettivo pratico e
politico di curarne i mali –, proposta da Saint-Simon (1760-1825) e da
Auguste Comte (1798-1857), ha come oggetto esclusivo il mondo
occidentale. I popoli non occidentali non hanno, agli occhi dei primi
sociologi, alcuna importanza perché studiarli non insegna nulla sulle
società complesse, ma, eventualmente, qualcosa sul passato – nella
prospettiva evoluzionista che sarà appunto sviluppata
dall’antropologia culturale.

Conclusioni
Nata nel Settecento come parte della “storia naturale” dell’uomo,
l’antropologia entra nel nuovo secolo collocata sull’incerta frontiera tra
l’antropologia fisica e quella culturale/sociale. All’inizio dell’Ottocento,
l’imporsi di un’altra frontiera – tra l’Europa e il resto del mondo, tra la
cultura europea e le culture “altre” – definisce chiaramente l’ambito e
l’oggetto della ricerca etnologica: l’etnologia europea s’indirizza verso
il folklore – le tradizioni popolari degli europei – ovvero delle
popolazioni “civilizzate”, l’antropologia si occupa delle culture
“primitive”.
Bisognerà attendere l’inizio del Novecento perché in Francia la
sociologia e l’antropologia si ricongiungano attraverso l’opera di
Marcel Mauss, nipote del sociologo Émile Durkheim e fondatore
dell’antropologia culturale francese (chiamata in Francia ethnologie).
E bisognerà attendere la seconda metà del Novecento, e il discredito di
cui furono oggetto gli studi folklorici compromessi con i regimi
nazionalisti, perché tutta l’etnologia europea sia ricongiunta
all’antropologia. In Italia va ricordato in questo senso soprattutto il
lavoro di Ernesto De Martino, che s’ispira al pensiero di Gramsci e
studia il folklore meridionale. La Germania è il paese europeo dove lo
studio della tradizione popolare tedesca (conosciuto come
Volkskunde) è stato maggiormente asservito al progetto nazionalista
pangermanico e poi al nazismo.
Da questo punto di vista, l’Europa è diversa dagli Stati Uniti, dove gli
studi folklorici sono ricongiunti all’antropologia già dalla prima metà
del secolo scorso grazie ad alcune allieve di Franz Boas, come Elsie
Clews Parsons e Martha Beckwith. Sempre negli Stati Uniti, già dagli
anni Trenta e Quaranta, l’antropologia comincia a occuparsi delle
società complesse – che siano occidentali o no –, cercando di
individuarne i “caratteri nazionali” (si veda più avanti la figura di Ruth
Benedict).
Separata dall’etnologia europea e dalla sociologia, l’antropologia
diventa, nel corso dell’Ottocento, una scienza delle culture “primitive”.
Lo studio delle culture “primitive” implica la comprensione del
passaggio dalla natura alla cultura e s’interroga costantemente
sull’impatto della prima sulla seconda. In quest’ambito lo studio dei
crani, la loro misurazione, l’interesse per la catalogazione sulla base
del fenotipo presuppone la ricerca di spiegazioni biologiche ai fatti
culturali che affascina studiosi come Paul Broca, al tempo stesso
medici e antropologi, segnando per lungo tempo l’antropologia
europea. È indubbio che questo filone di studi, alla ricerca di un nesso
tra l’osservazione dei crani e le teorie della cultura, è la culla del
pensiero razzista, che, pur mantenendo uno statuto scientifico
ambiguo, fiorisce nel corso del secolo.
Non è questo, per fortuna, il percorso principale dell’antropologia:
nel tempo della rivoluzione industriale e della fiducia nel progresso,
del movimento operaio e del primo femminismo, si aprono nuovi
mondi che determinano il divenire della disciplina. La teoria
dell’evoluzione delle specie viventi formulata da Charles Darwin,
fornendo una base scientifica all’evoluzionismo, è alla base anche di
una teoria globale per l’evoluzione delle culture. Il nascente pensiero
socialista combina la fiducia nel progresso con la rimessa in
discussione delle diseguaglianze. Negli Stati Uniti, l’antropologia nasce
con la nazione, mentre il Bureau for American Ethnology ridefinisce i
rapporti tra europei e Nativi americani, sui quali ci soffermeremo più
avanti. Le attività del Bureau sono all’origine di incontri che, pur in un
contesto di discriminazioni e conflitti, permettono scambi reciproci e
producono il metodo dell’osservazione partecipante.
Intanto, la battaglia delle donne per il raggiungimento
dell’eguaglianza politica, sociale, economica e giuridica con il sesso
maschile condotta dai movimenti femministi, il più attivo dei quali è
senza dubbio quello statunitense, apre le porte dell’antropologia a una
generazione di americane che portano uno sguardo nuovo, diverso da
quello maschile, sulle società studiate. Nata nella Francia
dell’Illuminismo, l’antropologia trova le condizioni per il suo sviluppo
nel mondo anglosassone, in Gran Bretagna e, soprattutto, negli Stati
Uniti d’America, dove si profilano i primi embrioni di un’antropologia
femminista.

1 P. Dionis, Anatomie de l’homme suivant la circulation du sang et les dernières


découvertes, 2ème ed., Paris, L. D’Houry, 1694, pp. 125-126, cit. da
L’encyclopedisme au XVIII siècle di Françoise Tilkin (trad. dell’autrice)
2 James Drake (1667-1707) fu un medico e politologo inglese, membro della
corrente giacobita (favorevole alla monarchia Stuart) e autore del trattato medico
Anthropologia Nova, or a New System of Anatomy.
3 La Histoire naturelle è un’opera monumentale composta da quindici volumi (e
sette di supplementi) che furono via via pubblicati dal 1749 al 1767. L’opera
completa fu poi pubblicata postuma nel 1804.
4 Opera di Jean Carlus del 1908.
5 Charles de Brosses (1709-1777), membro di diverse accademie, fu uno studioso
curioso, rappresentante dell’eclettismo disciplinare caratteristico del secolo. Alcuni
dei suoi lavori furono utilizzati dagli enciclopedisti. La Histoire des navigations
aux terres australes, contenant ce que l’on sait des moeurs et des productions des
contrées découvertes jusqu’à ce jour (1756) è una completa raccolta di tutti i
resoconti di viaggio nel continente australe (che fu molto utile allo stesso capitano
James Cook); in Du culte des dieux fétiches ou Parallèle de l’ancienne religion de
l’Egypte avec la religion actuelle de Nigritie (1760), uno dei primi lavori esistenti
di etno-antropologia, viene formulata una teoria materialista delle origini delle
religioni. Gli è anche attribuito il concetto di feticismo poi utilizzato da Karl Marx.
Importante è anche il Traité de la formation mécanique des langues et des
principes physiques de l’étymologie (1765), che diffonde una teoria materialista
delle origini e dell’evoluzione del linguaggio, dove il significato delle parole è
considerato un’immagine dell’articolazione fisiologica del suono.
6 «Tutto contribuisce quindi a dimostrare che l’umanità non è composta
principalmente di specie diverse tra di loro; al contrario, non vi è stata in origine
che una sola specie di uomini, che si è moltiplicata e diffusa su tutta la superficie
della Terra, ha subito vari cambiamenti sotto l’influenza del clima, per la differenza
dei cibi, per quella dei modi di vivere, a causa delle malattie epidemiche, e anche
per la mescolanza, variata all’infinito, di individui più o meno somiglianti…» (1749,
Histoire naturelle, vol. II: Variétés dans l’espèce humaine; trad. dell’autrice).
7 Non possiamo qui riprendere la storia, peraltro molto interessante, del
poligenismo. Citiamo tra i vari studiosi che lo sostennero, oltre a Benoît de Maillet,
su cui il testo si sofferma a lungo, il medico di marina inglese John Atkins (1685-
1757), che ipotizzava una discendenza di bianchi e neri da coppie originarie di
pigmentazione diversa.
8 Tombal 1993: 850-874, qui 853.
9 «Mi sembra di avere abbastanza ragioni per credere che sia per gli uomini come
per gli alberi; peri, abeti, querce e albicocche, non provengono dallo stesso albero; i
bianchi barbuti, negri dai capelli lanosi, i gialli dalle lunghe criniere, e uomini
glabri, non provengono dallo stesso uomo» (trad. dell’autrice).
10 Trad. dell’autrice.
11 Lévi-Strauss 1962: vol. II, cap. VIII, p. 47 (trad. dell’autrice).
12 Trad. dell’autrice.
13 Olympe de Gouges, Zamore et Mirza ou l’esclavage des noirs, acte premier,
scène 1 (Paris, Flammarion, 2007, p. 5; trad. dell’autrice).
14 Cit. da Simone Bernard-Griffiths e Jean Sgard, Mélodrames et romans noirs:
1750-1890, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2000, p. 76 (trad.
dell’autrice).
15 Tra chi contestava questo tipo di studi, vi furono le prime femministe, come
l’inglese Mary Wollstonecraft, per la quale la donna, in quanto essere dotato di
ragione, deve gioire di tutti i diritti degli uomini, al di là delle differenze biologiche.
Mary Wollstonecraft, che si era a lungo guadagnata da vivere come insegnante,
sosteneva anche la necessità di un’educazione egualitaria tra uomini e donne.
16 Trad. dell’autrice. Rousseau contrappone queste differenze naturali a quelle del
privilegio.
17 «Il tema dell’angolo facciale ha occupato l’attenzione dei filosofi dall’antichità».

Aristotele lo usava come supporto per determinare l’intelligenza di una persona e


catalogare gli uomini dall’inferiore al superiore» (cfr. Spencer 1977: 373).
18 Tale metodo consiste nella misurazione dell’angolo facciale, determinato da
due piani, uno quasi orizzontale che passa per il foro acustico esterno e per la spina
nasale, e l’altro tangente alla glabella (arcata sopraccigliare) e agli incisivi che
incontra il primo in corrispondenza della spina nasale stessa. La sporgenza della
faccia è tanto maggiore quanto questo angolo è più acuto; e, a causa dell’inverso
rapporto esistente fra la sporgenza della faccia e lo sviluppo del cranio, l’angolo
facciale è tanto più aperto quanto più il cranio è sviluppato anteriormente. Da
questa considerazione discese che in stretto rapporto con l’angolo facciale fosse lo
sviluppo delle facoltà intellettive, locate nei lobi frontali del cervello.
19 Diede un contributo fondamentale alla paleontologia con i suoi studi sui fossili.
20 Cuvier categorizzava queste divisioni che lui identificava come “razze” secondo
la sua percezione della bellezze o della bruttezza dei crani e la qualità della loro
civilità. Situava i Caucasici in cima e gli Etiopi in fondo.
21 Anthropologie ou science générale de l’homme, 1788, cit. in Berthoud 1992:
263 (trad.dell’autrice).
22 Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent, 36 voll., 1805-34.
23 Trad. it. La diversità delle lingue, a cura di D. Di Cesare, Bari, Laterza, 2004.
24 Trad. it. Idee per una filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli,
1971. Per Herder il cosmopolitismo e la mescolanza culturale minacciavano
l’integrità morale di una nazione.
25 Cit. in Wade 2002: 43 (trad. dell’autrice).
26 Weber 2015, p. 145 (trad. dell’autrice).
2. L’AFFERMAZIONE DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE: LA
TEORIA EVOLUZIONISTA DELLE CIVILTÀ E LA SCOPERTA
DELLA PARENTELA

Darwin e l’evoluzione della specie. Morgan, Tylor e la teoria


evoluzionista delle culture
Nella seconda metà dell’Ottocento, la storia dell’antropologia è
segnata dalla rivoluzione epistemologica rappresentata dalla teoria
dell’evoluzione che Charles Darwin (1809-1882) formula nel libro On
the Origin of Species (1859). Se idee evoluzioniste erano già state
espresse in precedenza (per esempio da Buffon), Darwin fu il primo in
grado di provare scientificamente i processi evolutivi: nessun altro
aveva raccolto tante prove materiali sulla prospettiva storica dell’età
della terra, della vita, dell’uomo e nessun altro aveva messo a fuoco il
meccanismo della selezione naturale:
La sua teoria può semplicemente essere riassunta nell’idea che gli organismi
viventi si differenziano attraverso un universale processo di cambiamento che
favorisce la perpetuazione di quegli organismi che sono, più di altri, adatti alla
sopravvivenza1.

La rivoluzione darwiniana riguarda al tempo stesso le metodologie


scientifiche e la visione globale del mondo, squarciando
definitivamente il velo che, anche nella histoire naturelle, ricopriva le
incerte origini dell’uomo (abbiamo visto come la narrazione biblica
facesse ancora parte delle spiegazioni suggerite da alcuni studiosi
naturalisti del XVIII secolo). La teoria dell’evoluzione della specie
rappresenta il passaggio dall’osservazione dei fatti – dati biologici e
fossili, per analizzare i quali si comincia a disporre degli strumenti – a
una teoria globale, in grado di spiegare le origini e la realtà della vita
sulla Terra attraverso il motore fondamentale della selezione naturale.
Darwin offre la risposta globale e scientifica alle interrogazioni che la
histoire naturelle aveva cominciato a formulare.
La teoria dell’evoluzione ha un impatto ambiguo sulla ricerca delle
cause delle differenze tra gruppi umani: essa mette in discussione
l’esistenza di un poligenismo statico all’origine delle differenze razziali,
ma introduce d’altro canto le idee della competizione e della
sopravvivenza del più adatto, che vengono recuperate da una vulgata
evoluzionista sostenitrice della superiorità degli Europei nel processo
selettivo.
Charles Darwin non è un antropologo; è un biologo. Se inaugura la
scienza moderna nella sua disciplina, non ha alcuna pretesa che la sua
teoria sia valida per le scienze umane. All’epoca era però inevitabile
che uno strumento interpretativo potente come la teoria
dell’evoluzione influenzasse discipline come l’antropologia, ancora alla
frontiera tra le scienze naturali e le scienze umane.
Tracciando un parallelismo con la teoria dell’evoluzione delle specie
in biologia, i due padri dell’antropologia culturale, l’americano Lewis
Morgan (1818-1881) e il britannico Edward Tylor (1832-1917)
elaborano una teoria dell’evoluzione delle culture – o civiltà –,
secondo la quale esse evolvono in maniera progressiva e uniforme. Il
concetto di cultura, o civiltà, che gli antropologi propongono si
distanzia dalla definizione classica di cultura che previlegiava l’idea di
un sapere “elevato” (erudizione, arti, letteratura), fondamentalmente
elitario. Tylor propone per primo una definizione scientifica che
estende la cultura/civiltà a tutta l’umanità:
Cultura o civiltà è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze,
l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine
acquisita dall’uomo in quanto membro di una società2.

La teoria evoluzionista della cultura è accolta da diversi autori


dell’epoca – tra cui Karl Marx e Friedrich Engels, che la inseriscono
nella loro idea di progresso verso il socialismo.
Abbiamo visto che già nel Settecento un’embrionale idea
evoluzionista cercava di spiegare le variazioni culturali e di civiltà. Non
si trattava però di un’idea di evoluzione unilineare: Buffon faceva
l’ipotesi della “degenerazione”, altri ricorrevano a spiegazioni
biologiche (la misurazione dei crani), che rendevano statiche le
differenze tra le popolazioni, anziché considerarle una conseguenza di
processi di cambiamento. In campo storico-politico, Montesquieu
(1689-1755) aveva avanzato un’ipotesi sullo sviluppo delle civiltà,
distinguendo – nel libro XVIII di De l’esprit des lois – tra popoli
selvaggi e popoli barbari in base ad alcune caratteristiche: i selvaggi
venivano descritti come popoli di cacciatori e i barbari come popoli di
pastori, capaci di riunirsi anche se privi di una residenza stabile.
Sebbene non lo enunciasse esplicitamente, Montesquieu, influenzato
dalle teorie fisiocratiche – per le quali la terra era la principale
ricchezza –, faceva coincidere civiltà e agricoltura: nel suo pensiero, il
superamento della barbarie richiedeva il legame con la terra e, come
momento successivo, la costruzione della città.
Le rappresentazioni dello stato selvaggio, della barbarie e della civiltà
– e dei suoi passaggi (inclusa la degenerazione) – elaborate nel
Settecento rimasero ipotesi frammentarie, prive di una base
scientifica; mancava una spiegazione generale delle cause delle
differenze tra le culture. È questo che la teoria dell’evoluzione delle
specie e della selezione naturale di Darwin sembra offrire
all’antropologia: come le specie evolvono verso una crescente
complessità, allo stesso modo le culture progrediscono da uno stato
semplice a uno sempre più complesso. Il fatto che, nello stesso anno, il
1871, vengano pubblicati The Descent of Man di Charles Darwin,
Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family di Lewis
Morgan e Primitive Culture di Edward Tylor è fortemente simbolico di
quest’incontro tra teoria dell’evoluzione della specie ed evoluzionismo
culturale.
La teoria evoluzionista della cultura ipotizza che le società passino –
inevitabilmente – attraverso i medesimi stadi, definiti in base alla
divisione settecentesca tra stato selvaggio, barbarie, civiltà – e
giungano quindi a un ultimo stadio comune. Tylor rigetta
completamente l’idea di un’eventuale degenerazione culturale,
suggerita da Buffon. Per lui tutti i popoli sono ugualmente capaci di
svilupparsi e progredire attraverso i diversi stadi, dallo stato selvaggio
alla barbarie fino alla civiltà. Per rendere conto delle variazioni
culturali esistenti Tylor postula che le diverse società coesistenti
contemporaneamente sul pianeta si trovino a diversi stadi
dell’evoluzione: le popolazioni “primitive” non hanno ancora
raggiunto gli stadi più elevati della civiltà e assomigliano alle nostre
società antiche. Del resto nelle società più avanzate si possono
osservare quelle che Tylor chiama survivals: tracce di tradizioni e
antiche abitudini che sopravvivono nelle presenti culture. Di
conseguenza, lo studio delle società “primitive” tuttora esistenti
permette di osservare gli stadi anteriori, ormai superati, delle società
occidentali.
Morgan esprime lo stesso punto di vista in Ancient Society (1877),
affermando l’esistenza di un’evoluzione unileare lungo la quale si
muovono tutte le culture:
Come è innegabile che porzioni della famiglia umana siano esistite in uno stato
selvaggio, altre di barbarie, e altre in uno stato di civiltà, sembra ugualmente che
queste tre condizioni distinte siano collegate tra loro in una sequenza naturale e
necessaria di progresso3.

Da qui l’importanza dello studio dei Nativi americani per la


conoscenza della storia dell’umanità4.
In sintonia con filosofie della storia fondate sul principio di un
progresso dell’umanità culminante nello stadio superiore della civiltà
europea occidentale (è caso del marxismo), la teoria evoluzionista
delle culture difende l’unità profonda del genere umano e la sua
possibilità di miglioramento. Partendo da questi presupposti, la teoria
evoluzionista in antropologia culturale ha il grande merito di stabilire
una netta rottura tra cultura e biologia, ricusando l’idea che la causa
delle differenze culturali sia di origine biologica.
Condividendo l’idea dell’universalità delle emozioni e
dell’intelligenza umane suggerita da Darwin, Tylor sostiene l’esistenza
di un’unità psichica dell’umanità che spiega le sequenze evolutive
parallele in diverse tradizioni culturali. Società molto diverse spesso
trovano le stesse soluzioni agli stessi problemi in maniera
indipendente, per via delle somiglianze fondamentali nello schema
mentale di tutti i popoli.
Il programma dell’antropologia evoluzionista può essere sintetizzato
in questa frase di Tylor, tratta dal suo saggio Primitive Culture:
La condizione della cultura tra le varie società del genere umano […] è un
argomento adatto per lo studio delle leggi del pensiero e dell’azione umana. Da un
lato, l’uniformità che pervade così largamente la civiltà è attribuibile, in larga
misura, all’azione uniforme di cause uniformi; mentre dall’altro lato i suoi vari
gradi possono essere considerati come stadi di sviluppo o evoluzione, ciascuno
come il risultato della storia precedente, e in procinto di fare la sua parte nel
modellare la storia del futuro5.

L’esistenza di queste leggi comuni non escludeva, secondo Tylor, che


i tratti culturali si potessero diffondere da una cultura all’altra.
Abbiamo aperto il capitolo sottolineando l’importanza della teoria di
Darwin per la definizione di un’antropologia evoluzionista. È però
importante ricordare che né Tylor né Morgan fecero mai uso del
concetto di selezione naturale, che era invece al centro delle
spiegazioni di Darwin. Certo i darwinisti sociali, oggi fortemente
rappresentati nel pensiero neoliberale dominante, derivarono le loro
teorie – dette appunto “darwinismo sociale” – dalla teoria della
selezione naturale, ma il loro movimento si è costituito e si è
posizionato al di fuori dell’antropologia culturale ed è anzi stato
fortemente criticato dagli antropologi.

Entra in scena la parentela (e il matriarcato)


All’interno del medesimo paradigma di evoluzionismo culturale,
Tylor e Morgan insistono su diverse dimensioni. Tylor attribuisce
importanza alla dimensione culturale della storia evolutiva delle
società umane. Morgan privilegia invece l’evoluzione delle forme di
organizzazione sociale.
Sia Tylor che Morgan si occupano di identificare le caratteristiche dei
tre stadi: stato selvaggio, barbarie, civiltà. Morgan li suddivide in
sottostadi. Lo stato selvaggio è diviso in “selvaggio inferiore” e
“selvaggio superiore”: nel primo la sopravvivenza si basa su raccolta e
caccia, le relazioni sessuali sono segnate dalla promiscuità e l’unità
basica è l’orda nomade. Durante quello successivo si introduce il tabù
del matrimonio tra fratello e sorella, si inventano l’arco e le frecce, la
filiazione è matrilineare e la proprietà comune. Lo stato di “barbarie
inferiore” è caratterizzato dall’inizio dell’uso della terracotta e
dall’introduzione dell’agricoltura. Il tabù dell’incesto si estende a tutti i
discendenti della linea femminile. L’unità basica diventa il clan. Lo
stato “barbaro superiore” è caratterizzato dall’introduzione della
metallurgia, dal passaggio dalla matrilinearità alla patrilinearità,
dall’instaurazione di relazioni poligamiche e dall’apparizione della
proprietà privata. In quanto alla “civiltà”, le sue caratteristiche sono la
scoperta della scrittura, l’apparizione della famiglia monogamica e del
governo civile. Tylor riprende questi elementi, ma insiste anche
sull’aspetto simbolico, in particolare sulla religiosità, e propone tre
livelli di evoluzione delle forme religiose: stato selvaggio/animismo;
barbarie/politeismo e civiltà/monoteismo.
Nel tentativo di definire le caratteristiche dei diversi stadi evolutivi
delle culture, Morgan e Tylor introducono un ambito di analisi che
diventa specifico dell’antropologia: l’attenzione alla dimensione
familiare, al ruolo delle donne nelle relazioni di parentela, al controllo
della sessualità (con particolare attenzione al tabù dell’incesto) e
all’organizzazione dei processi riproduttivi
(matrilinearità/patrilinearità).
L’interesse dell’antropologia per la parentela – e per le relazioni tra
uomini e donne (all’epoca il concetto di genere non esisteva) viste
come elemento fondante dell’organizzazione sociale – è in gran parte
risultato dell’introduzione di un nuovo metodo d’indagine,
l’“osservazione partecipante”6. Il nuovo metodo fu inizialmente
applicato da Morgan non in quanto antropologo, ma in quanto
attivista politico.
Avvocato di Rochester, nello stato di New York, Morgan era deputato
di un partito progressista impegnato nella difesa dei Neri e degli
Indiani. Nella doppia veste di avvocato e di attivista, Morgan difese i
Seneca – una tribù appartenente alla Confederazione Irochese – in
una causa che riguardava la loro riserva, conquistandone la fiducia.
Visse a lungo con loro, ne apprese la lingua, fu iniziato alle loro società
segrete, conobbe dall’interno la loro organizzazione sociale, strinse
una profonda amicizia con un Irochese di nome Ely Parker (1828-
1895), che divenne il suo informatore principale. In seguito Parker si
arruolò nell’esercito nordista durante la guerra di Secessione, fu
segretario del generale Ulysses Grant e commissario al Bureau of
Indian Affairs, organismo che poi confluì nel BAE (Bureau for
American Ethnology), che – come vedremo nei prossimi capitoli –
ebbe un ruolo importante nella promozione dell’antropologia culturale
statunitense. D’altronde l’interesse per i Nativi americani era
condiviso da diversi studiosi, giornalisti, artisti e politici fin dalla fine
del Settecento. Il primo ad aver classificato le loro lingue era stato
Albert Gallatin (1761-1849), segretario di stato nell’amministrazione
Jefferson e fondatore dell’American Ethnological Society nel 1842, il
primo gruppo di antropologi professionisti negli Stati Uniti. Egli aveva
identificato l’esistenza di trentadue lingue diverse.
Morgan pubblicò il resoconto della sua esperienza presso gli Irochesi
nel 1851. The League of the Ho-de-no-sau-nee or Iroquois rappresenta
uno dei primi lavori etnografici rispondente a rigorosi criteri di
osservazione. La descrizione che fa Morgan della società irochese tiene
conto degli aspetti cerimoniali, religiosi e politici, e dedica una
particolare attenzione allo studio della parentela e del matrimonio,
individuati come elementi chiave dell’organizzazione sociale. Grazie
alla sua conoscenza della lingua e della società, Morgan scoprì che la
terminologia per indicare i parenti è molto diversa da quella
euroamericana (per esempio tutti i parenti dal lato paterno vengono
indicati con lo stesso nome, come pure tutti i parenti dal lato
materno), e che il sistema di parentela irochese è matrilineare e non
patrilineare – ovvero la discendenza riguarda la madre e non il padre
– con diverse attribuzioni di ruoli allo zio materno e al padre.
Dalla scoperta della matrilinearità, Morgan ipotizza l’esistenza di una
fase matriarcale (ovvero di potere femminile/materno), universale
nelle prime tappe della storia dell’umanità. La matrilinearità sarebbe
dunque una “sopravvivenza” – concetto elaborato da Tylor – di questa
fase precedente. La teoria del matriarcato primitivo influenza varie
linee d’investigazione antropologica nel corso del XIX secolo, ma essa
avrà anche, come vedremo nei prossimi capitoli, una grande influenza
nel dibattito femminista negli anni Settanta del Novecento.

Il metodo scientifico in antropologia


Lo studio della parentela è perfettamente in linea con il pensiero
evoluzionista di Morgan. Per l’antropologo la parentela è
un’istituzione sociale che caratterizza i primi tempi dell’organizzazione
societale: è quindi l’epicentro dell’organizzazione delle cosiddette
“società primitive”, mentre è meno centrale nelle società moderne,
dominate dal contratto sociale, dal rapporto con lo stato, dalla politica,
dall’economia (in sociologia questa riflessione si tradurrà nella
divisione tra Gemeinschaft e Gesellshaft proposta dal sociologo
tedesco Ferdinand Tönnies)7.
Avendo compreso che il modo europeo di organizzare la parentela
non è universale e che probabilmente esistono sistemi di parentela
matrilineari presso altre tribù americane o asiatiche, Morgan
individua l’importanza della comparazione, e cerca di definire criteri
da utilizzare perché la comparazione sia scientifica. Basandosi sui
risultati del suo lavoro sulla terminologia della parentela irochese – il
primo nel suo genere –, Morgan definisce un metodo che avrebbe per
molti decenni caratterizzato gli studi antropologici sulla parentela:
l’attenzione alla terminologia e la divisione della parentela in un
numero di “blocchi” costitutivi – discendenza, matrimonio, residenza
postmaritale, eredità…
Il frutto del lavoro comparato di Morgan è raccolto nella successiva
opera, già citata, Systems of Consanguinity and Affinity of the Human
Family, una pietra miliare nella storia dell’antropologia sociale e
culturale, sia per quello che riguarda l’individuazione dell’oggetto – la
parentela come prima forma di organizzazione sociale – che i metodi:
studio della terminologia (e dunque importanza della conoscenza
linguistica) e comparazione8.
Anche Tylor attribuisce grande importanza ai sistemi di parentela
che rappresentano il fondamento delle società “primitive” e propone
un metodo per analizzarli scientificamente attraverso la statistica9,
ricercando le associazioni delle caratteristiche culturali in
combinazioni casuali o combinazioni organiche.

Evoluzionismo e matriarcato
Il contributo di Morgan e Tylor allo sviluppo dell’antropologia
culturale deve molto al rigore del loro metodo d’investigazione:
osservazione partecipante, comparazione, uso della statistica. Nello
stesso periodo, altri autori applicano invece la teoria evoluzionista allo
studio delle culture basandosi su dati di seconda mano. Le grandi
visioni suggerite da questi autori potrebbero essere definite “etnologia
filosofica”.
Tra gli autori che hanno prodotto importanti opere di “etnologia
filosofica” nel corso del XIX secolo ricordiamo Johann Jakob Bachofen
(1815-1887), Friedrich Engels (1820-1895) e, una generazione più
tardi, James Frazer (1854-1941): i primi due sono particolarmente
significativi per lo sviluppo dell’antropologia di genere, avendo
entrambi consacrato parte del loro lavoro alla teoria del matriarcato e
alle conseguenze del passaggio dal matriarcato al patriarcato sulle
relazioni tra uomini e donne.
Bachofen, giurista svizzero e studioso della cultura classica elabora
una teoria dell’evoluzione della parentela basandosi su fonti poetiche e
storiche (Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Ovidio, Virgilio,
Strabone…), ma anche giuridiche. La figura di Bachofen è
particolarmente importante per l’antropologia di genere per la sua
teoria del matriarcato, proposta nel volume Das Mutterrecht,
pubblicato nel 1861.
Fondando la sua ricerca sui miti dell’antichità, Bachofen sostiene che
nelle prime società le donne esercitavano un grande potere e che la
lotta dei sessi è stato uno dei motori del cambiamento evolutivo. Di
questa lotta dei sessi si trova traccia nella mitologia, attraverso le
associazioni del femminile e del maschile (notte/giorno, luna/sole…),
e in tragedie come l’Orestiade eschilea, nella quale si confrontano il
diritto materno e il diritto paterno. Per Bachofen il matriarcato non
appartiene a nessuna società in particolare, ma a uno stadio culturale,
e ha pertanto caratterizzato tutta l’umanità, come conseguenza del
carattere normativo della “natura umana”. Condivide l’idea di Tylor
dell’unità psichica della specie umana e, assumendo che il destino
naturale dell’uomo culmina nella nascita della vita all’interno del sesso
femminile, suggerisce che l’umanità abbia attraversato tre stadi
culturali: “eterismo” o promiscuità primitiva, matriarcato e
patriarcato.
Bachofen si pone l’obiettivo di comprendere il passaggio
dall’eterismo al matriarcato e poi dal diritto materno a quello paterno,
ovvero al sistema patriarcale. Per Bachofen l’amore materno è
intrinseco alla natura delle donne: è stato proprio l’amore materno che
ha spinto le donne a superare la promiscuità primitiva, nella quale le
donne (e i loro figli) erano sottoposte alla tirannia fisica e sessuale
degli uomini. Le donne hanno svolto un ruolo cruciale nella
civilizzazione dell’umanità. Esse lottarono contro gli uomini come
amazzoni per difendere il loro bene principale – la maternità. Sebbene
meno forti fisicamente, vinsero, anche grazie a poteri più profondi di
cui sono depositarie – come la tendenza dello spirito femminile al
soprannaturale e al divino che esercitò una grande influenza sul sesso
maschile. Iniziò così la “ginecocrazia”, lo stadio culturale della “poesia
della storia” retto dal diritto materno, durante il quale, grazie alla loro
maggior religiosità, le donne imposero agli uomini il matrimonio, la
famiglia e l’ordine religioso dominato dalle divinità femminili:
La ginecocrazia si è formata e consolidata grazie all’opposizione della donna
all’eterismo che la sviliva. Abbandonata senza protezione agli abusi dell’uomo […]
stancata dal suo desiderio, prova l’anelito verso una condizione ordinaria e una
civiltà più pura, alla cui oppressione l’uomo non si sottomette di buon grado,
ostinato nella coscienza della sua superiore forza fisica10.

La famiglia e il matrimonio sono pertanto due istituzioni create dalle


donne nelle quali vengono incanalati gli istinti sessuali degli uomini,
che vengono sottoposti al potere delle madri. Segno di questo grande
potere materno a cui gli uomini vogliono sottrarsi è la sopravvivenza
di alcune pratiche, come per esempio quella della “covata” (couvade),
diffusa presso molte popolazioni “primitive” (e anche in culture
popolari europee) – rito di natura magica per cui, mentre la donna
partorisce, il marito mima a sua volta il parto, imitando le doglie con
pianti e grida, e ricevendo per questo tutte le attenzioni normalmente
riservate alla partoriente. La “covata” fu studiata anche da Tylor, che
ne vide una sopravvivenza del matriarcato primitivo. Presso i
Maragatos, un popolo presente nel nord della Spagna, forse di origine
berbera, la “covada” veniva praticata fino a poco tempo fa. Dopo ogni
nascita, viene praticato uno scambio di ruoli tra i neogenitori, con il
neopapà che si prende cura del figlio, ricevendo le congratulazioni dei
parenti, e con la neomamma che si occupa dei lavori di casa,
dell’allevamento.
Nella guerra dei sessi, gli uomini finirono per avere la meglio e la
paternità si impose progressivamente come un principio superiore a
quello della maternità.
Una concezione totalmente nuova avanza. La relazione madre-figlio si basa su un
legame materiale, è la verità della natura, riconoscibile ed eterna, della percezione
fisica. Al contrario la paternità ha un carattere opposto […] rappresenta
l’abbandono dello spirito dei fenomeni naturali e l’elevarsi dell’esistenza umana
sopra la legge della vita materiale11.

Friedrich Engels, che riteneva Bachofen il primo vero storico della


famiglia, sintetizza così il suo pensiero:
La storia della famiglia risale al 1861, con la pubblicazione del Mutterrecht di
Bachofen. Qui l’autore fa le asserzioni seguenti:
1) che gli uomini all’inizio erano vissuti in un commercio sessuale promiscuo, che
egli, con espressione inesatta, qualifica come eterismo;
2) che tale commercio esclude ogni certezza di paternità, che perciò la
discendenza poteva essere calcolata solo in linea femminile, secondo il diritto
matriarcale, e che ciò originariamente avvenne in tutti i popoli dell’antichità;
3) che in conseguenza di ciò, le donne, in quanto madri, cioè in quanto genitrici
sicuramente note della giovane generazione, godevano di così grande autorità e
rispetto che, secondo l’idea di Bachofen, si giunse fino al completo dominio della
donna (ginecocrazia);
4) che il passaggio alla monogamia, in cui la donna apparteneva esclusivamente a
un uomo, rappresentò la violazione di un antichissimo comandamento religioso
(cioè, in realtà, una violazione dell’antico tradizionale diritto alla stessa donna da
parte degli altri uomini), violazione che doveva essere espiata o la cui tolleranza
doveva essere acquistata mediante un temporaneo concedersi della donna12.

Patriarcato e progresso
Il passaggio dal matriarcato al patriarcato rappresenta, per Bachofen,
una tappa positiva dell’evoluzione dell’umanità: la sostituzione della
“verità naturale” della maternità con la “verità culturale” della
paternità. La vittoria – materiale e simbolica – del principio paterno
su quello materno corrisponde alla vittoria della cultura sulla natura e
della civiltà sullo stadio selvaggio. In conclusione, Bachofen, pur
riconoscendo l’enorme ruolo delle donne nella formazione della civiltà
e l’esistenza di una fase matriarcale, riteneva che l’affermazione del
patriarcato aveva rappresentato un livello di civiltà superiore – un
esempio sarebbe il mondo greco-romano rispetto a popolazioni come i
Lici, descritti da Erodoto e Strabone.
Le tesi sul matriarcato di Bachofen furono ricusate da un altro storico
del diritto, Henry Sumner Maine (1822-1888), docente in
giurisprudenza a Oxford e Cambridge, da alcuni ritenuto il fondatore
dell’antropologia giuridica. Maine sosteneva che il gruppo di parentela
arcaico era patrilineare e autocratico e che all’origine della parentela
c’era il patriarcato, la cui espressione giuridica fu la patria potestas.
Per Maine, la parentela iniziava esattamente nel momento in cui
iniziava la potestà paterna.
Studioso delle società matrilineari, Morgan sostiene invece
l’esistenza di un matriarcato originario e, in una prospettiva
evoluzionista, condivide anche la teoria di Bachofen a proposito del
passaggio dalla matrilinearità/matriarcato alla
patrilinearità/patriarcato13, per cui il patriarcato corrisponde a uno
stadio di civiltà superiore a quello nel quale è presente il matriarcato.
Morgan non può però fare a meno di notare che il patriarcato è stato
pregiudiziale per la posizione e i diritti della madre e della sposa,
contribuendo ad abbassare la sua posizione e a ritardare il suo
progresso nella scala sociale. Per questo egli ipotizza il passaggio dalla
famiglia patriarcale estesa alla monogamia moderna, basata sulla
coabitazione esclusiva di una coppia. È la famiglia monogamica quella
con la quale l’umanità inaugura il suo passaggio alla civiltà. Inoltre,
per Morgan, la famiglia monogamica deve essere fondata sul principio
dell’uguaglianza tra moglie e marito: «La moglie deve necessariamente
occupare la stessa posizione del marito in quanto a dignità, diritti
personali e posizione sociale»14.
Con queste posizioni, Morgan si situa dal lato degli intellettuali
progressisti – come John Stuart Mill – che vedevano favorevolmente
le rivendicazioni delle femministe nordamericane e britanniche. Negli
stessi anni Mill aveva pubblicato il saggio The Subjection of Women
(1869), nel quale sosteneva che la sottomissione delle donne agli
uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano e che
dovrebbe esserci la perfetta uguaglianza, senza potere o privilegio da
parte di un sesso sull’altro.
Attento studioso del lavoro di Bachofen, Friedrich Engels rigetta la
visione positiva ed evoluzionista del passaggio dal matriarcato al
patriarcato:
Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale
del sesso femminile. L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna
fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per
produrre figli…15.

La fine del matriarcato significa l’inizio di processi di oppressione


che dalla famiglia patriarcale si estenderanno alla famiglia
monogamica, anche nella sua forma moderna:
La moderna famiglia [monogamica] contiene in germe, non solo la schiavitù, ma
anche la servitù della gleba, poiché questa, fin dall’inizio, è in rapporto coi servizi
agricoli. Essa contiene in sé, in miniatura, tutti gli antagonismi che si
svilupperanno più tardi largamente nella società [divisa in classi] e nel suo Stato.
[…] Per assicurare la fedeltà della donna, e perciò la paternità dei figli, la donna
viene sottoposta incondizionatamente al potere dell’uomo; uccidendola egli non
fa che esercitare il suo diritto16.

Engels (e con lui Karl Marx) non condividono l’interpretazione di


Tylor che vede nella famiglia monogamica un elemento della civiltà e
una forma di riconciliazione di uomo e donna. Al contrario, per
Engels, la famiglia monogamica prefigura la prima oppressione di
classe:
La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la procreazione di
figli… Il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo
sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la
prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di
quello maschile. La monogamia fu un grande progresso storico, ma
contemporaneamente essa, accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, schiuse
quell’epoca che ancora oggi dura, nella quale ogni progresso è, a un tempo, un
relativo regresso, e in cui il bene e lo sviluppo degli uni si compie mediante il
danno e la repressione di altri. Essa fu la forma cellulare della società civile, e in
essa possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che
nella civiltà si dispiegano con pienezza17.
Le posizioni estremamente critiche sulla famiglia sostenute da Marx
e Engels ispirarono all’epoca una componente del femminismo (quella
più vicina al socialismo) ma rappresentarono, nel corso degli anni, un
punto di riferimento per tutto il femminismo.

Frazer e Il ramo d’oro


Un altro esempio importante di “etnografia filosofica” è
rappresentato da James George Frazer, studioso scozzese dalla cultura
enciclopedica, titolare di una cattedra di antropologia sociale dal 1908.
Frazer è noto soprattutto per Il ramo d’oro, un esteso studio su magia
e la religione. Il termine golden bough (“ramo d’oro”) si riferisce a un
episodio dell’Eneide, nel quale si narra che Enea, dietro suggerimento
della Sibilla, prima di entrare nel regno dell’Ade, colse appunto un
ramo d’oro. Un’antica leggenda voleva “re del bosco” chi fosse stato in
grado di uccidere il sacerdote del santuario di Diana a Nemi e di
strappare un ramo dall’albero che si trovava nel recinto. La scena era
stata rappresentata dal pittore Turner, quadro che Frazer ammirava. Il
ramo d’oro si apre con queste parole:
Chi non conosce il famoso quadro di Turner Il ramo d’oro? La scena, soffusa da
quell’aurea, sognante luminosità con cui il genio divino di Turner impregnava,
trasfigurandolo, anche il più splendido paesaggio della natura, ci offre una visione
onirica del minuscolo lago di Nemi, in mezzo ai boschi – Specchio di Diana, lo
chiamavano gli antichi18.

Partendo dallo studio degli antichi miti e delle pratiche di popoli


“primitivi”, e guidato dai concetti di evoluzione, unità del genere
umano e progresso, Frazer sostiene che la magia è stata la prima
forma d’interpretazione del mondo sviluppatasi nella mente
dell’uomo, seguita da religione e scienza. La sua idea di evoluzione si
concentra principalmente sul progresso mentale del genere umano:
l’uomo primitivo non sa nulla della scienza e possiede dunque un’idea
completamente erronea delle cause naturali, vivendo in base a due
idee errate su cui è basato il pensiero magico, la “legge della
somiglianza” e la “legge del contatto”. La prima legge presuppone che
il simile produce il simile, cosicché gli sciamani e i maghi sono
convinti di poter controllare la natura imitandola. Se si vuole la
pioggia, si versa dell’acqua; se si vuole danneggiare un nemico, si
infilano aghi in una bambola a sua immagine. La seconda legge
stabilisce che le connessioni rimangono vive anche dopo una
separazione: una ciocca di capelli o un indumento mantengono un
legame col proprietario; danneggiando questi oggetti, si danneggia il
possessore.
Col progresso della mente umana, gli uomini si resero conto che
queste leggi non funzionavano e che non bastavano a controllare la
natura. Sorse allora la convinzione che forze più alte, non umane
dominavano l’universo. Da qui nacque la religione. Gli sciamani, i
maghi, divennero dei sacerdoti, specialisti della religione, investiti
della responsabilità di contattare e persuadere gli spiriti
soprannaturali ad agire nel senso desiderato. Questo diede ai sacerdoti
l’autorità sul popolo. Gradualmente i sacerdoti diventarono sacerdoti-
re, come i faraoni, re divinizzati, le cui anime furono venerate dopo la
loro morte. Lo sviluppo più alto del pensiero umano è la scienza,
storicamente legata alla magia, perché l’uomo è tornato a manipolare
la natura con la propria abilità (cosa non consentita dalla religione),
sia pure con gli strumenti derivate da leggi adeguate.
Frazer fu alieno al metodo del lavoro di campo che si era definito con
Morgan e Tylor e che poi si preciserà con Boas. Ed era del tutto alieno
alla trasformazione “boasiana” della disciplina che vedremo infra nel
capitolo quarto, quando si verificò il superamento dell’antropologia
evoluzionista. Il ramo d’oro fu infatti considerato da alcuni
antropologi come un esempio, sostanzialmente negativo, di
“antropologia da tavolino” e di evoluzionismo. Eppure, come ha scritto
Marino Niola, «senza Il ramo d’oro di James G. Frazer la cultura del
Novecento non sarebbe la stessa». Il ramo d’oro fu infatti un grande
successo non presso gli antropologi, ma presso un vasto pubblico di
lettori, più colti e meno colti, che vi trovarono
uno sterminato catalogo dell’immaginario umano. Un fantastico viaggio che parte
dal lago di Nemi e dall’uccisione rituale del sacerdote di Diana per mano di un
uomo più giovane e forte che vuole prenderne il posto. E attraversa la mitologia
degli antichi, i riti dei primitivi e le credenze dei moderni ricerca il filo che unisce
il passato e il futuro dell’uomo19.
Niola giustamente ricorda l’influenza decisiva sulla psicanalisi, sulla
poesia, sulla letteratura e perfino sul cinema. Sigmund Freud
ammetteva di dovere all’opera di Frazer l’idea dell’uccisione del padre,
centrale in Totem e tabù. Joseph Conrad scrisse Cuore di tenebra
pensando alla pagina frazeriana sull’assassinio rituale del re congolese
Chitombé. Infine, nel film Apocalypse Now Coppola dedica un
memorabile primo piano al libro di Frazer che sta sul tavolo di Marlon
Brando, prima che venga ucciso proprio come un antico sacerdote di
Nemi.

Conclusioni
Nel corso del XIX secolo, l’antropologia culturale si costituisce – in
Gran Bretagna e negli Stati Uniti – come una disciplina autonoma,
separata dall’antropologia umana; elabora una propria teoria della
civiltà e rigetta le spiegazioni biologiche dei fatti culturali, in nome
dell’unità piscologica della specie umana.
L’antropologia culturale si distingue dunque da un’antropologia
ancora legata alle scienze naturali che finisce per convalidare le tesi del
razzismo scientifico, basandosi su teorie elaborate principalmente da
naturalisti e medici, come Paul Broca in Francia. Lo statuto scientifico
delle teorie razziste, secondo le quali gli uomini si suddividevano in
pochi distinti tipi razziali dalle caratteristiche immutabili, è
costantemente messo in discussione dalla maggior parte degli
antropologi, ma anche da studiosi di scienze naturali. Il successo di
queste teorie è in gran parte dovuto al fatto che esse giustificavano una
gerarchia coloniale nella quale gli europei erano al primo posto20.
In Gran Bretagna21, ma soprattutto negli Stati Uniti, l’antropologia
culturale dominante si oppose con forza alla tesi di una divisione
dell’umanità in razze e all’attribuzione di caratteri morali, sociali e di
capacità intellettuali alla razza (all’apparenza fisica). Lasciamo dunque
di lato quella parte dell’antropologia che si compromette con il
pensiero razzista per seguire il percorso dell’antropologia culturale e
sociale che mette in questione l’esistenza di una realtà biologica della
razza. È questo il filone della disciplina che costituisce la matrice
dell’antropologia di genere.
Le definizioni di antropologia culturale si preciseranno nel corso dei
decenni successivi, con sfumature diverse rispetto agli oggetti di studio
(fatti sociali, istituzioni, dimensione simbolica) tra la Gran Bretagna –
dove viene chiamata social anthropology (antropologia sociale) – e gli
Stati Uniti22. La maggior parte degli antropologi ritiene oggi che i due
rami dell’antropologia – culturale e sociale – abbiano come oggetto
d’osservazione gli stessi fenomeni scientifici, e che la differenza
consista nel punto di vista adottato.
La prima antropologia culturale è evoluzionista: essa ipotizza per le
culture un percorso evolutivo unilineare, proprio perché questa
evoluzione ha sullo sfondo l’unità della specie umana. Partendo
dall’ipotesi che le popolazioni “primitive” costituiscono una fonte di
conoscenza sul passato delle civiltà, gli antropologi cercano di
comprenderne il modello organizzativo e la dimensione religioso-
simbolica.
Sulla base della sua esperienza di campo presso i Seneca, Morgan
sostiene che le cosiddette società “primitive” sono società basate sui
legami di sangue – ovvero sulla parentela. Lo studio della parentela
prevede l’analisi della maniera in cui gli uomini hanno organizzato un
aspetto del reale che non potevano controllare: l’esistenza di due sessi
nel mondo del viventi, il fatto che le donne mettono al mondo dei
bambini del loro sesso, ma anche del sesso contrario, il fatto che sono
necessari dei rapporti sessuali perché vi sia una nascita… di colpo
l’antropologia si trova ad affrontare una serie di dimensioni che, da
tempi più remoti, erano entrate nei tentativi di dare senso al mondo
(pensiamo appunto ai miti, o alla narrazione biblica), ma che erano
state occultate dalla storia, dalla filosofia, dalla teologia. E così le
donne – rese invisibili nella storia, ignorate dalla filosofia –,
diventano, nella loro relazione con gli uomini per comporre la rete
della parentela, un oggetto imprescindibile per l’antropologia
culturale.
Ma vi è dell’altro: considerate oggetto inderogabile della ricerca
antropologica, le donne diventano indispensabili anche nel ruolo di
studiose – di antropologhe. Il metodo dell’osservazione partecipante,
che implica una relazione di fiducia con l’informatore, rende infatti
essenziali le donne nella ricerca sul campo – anche se, inizialmente,
sono pensate soprattutto come le “mogli” degli antropologi (il modello
ideale teorizzato da Tylor per una buona ricerca sul campo). Intanto,
però, il movimento femminista, soprattutto negli Stati Uniti, stava
aprendo alle donne le porte delle università. L’antropologia è una
grande occasione, anche per donne che non hanno nessuna intenzione
di limitarsi al ruolo di fedeli mogli degli antropologi. La grande
partecipazione femminile alla ricerca antropologica negli Stati Uniti è
quindi indicativa al tempo stesso di una specificità della disciplina e
dell’alto livello di rivendicazione femminista presente in quella società
nella seconda metà del XIX secolo.
Intanto la riflessione sul matriarcato (anche se considerato come una
tappa verso il modello patriarcale, ritenuto più adatto allo sviluppo
della civiltà), ha messo in discussione la “naturale” subordinazione
femminile, dipendenza che le donne attive nei movimenti femministi
rifiutano radicalmente, sfilando lungo le strade di Londra e di New
York per reclamare i loro diritti.

1 De Waal Malefijt 1974: 122 (trad. dell’autrice).


2 Tylor 1871: 1 (trad. dell’autrice).
3 Morgan 1877: 3 (trad. dell’autrice).
4 «La storia e l’esperienza delle tribù indiane d’America offre un’immagine più o
meno fedele della storia e delle esperienze dei nostri antenati in condizioni
corrispondenti. Facendo parte della storia dell’umanità, le loro tecniche, le loro
invenzioni, e la loro esperienza pratica rappresentano un valore molto grande e
molto particolare che supera di gran lunga quello della stessa razza indiana» (dalla
prefazione di Morgan 1877; trad. dell’autrice).
5 Tylor 1871: 71 (trad. dell’autrice).
6 L’osservazione partecipante è una strategia di indagine nella quale il ricercatore
si inserisce in maniera diretta e per un periodo di tempo relativamente lungo in un
determinato gruppo sociale colto nel suo ambiente naturale, instaurando un
rapporto di interazione personale con i suoi membri allo scopo di descriverne le
azioni e di comprenderne, mediante un processo di immedesimazione, le
motivazioni (cfr. Corbetta 1999: 368).
7 Ferdinand Tönnies (1855-1936) sociologo tedesco, primo presidente della
Deutsche Gesellschaft für Soziologie (fondata nel 1909), autore di Gemeinschaft
und Gesellschaft (1887), dove individua due forme diverse di organizzazione
sociale, appunto la comunità (Gemeinschaft) e la società (Gesellschaft). Mentre la
forma comunitaria, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione
spontanea predomina in epoca preindustriale, la forma societaria, basata sulla
razionalità e sullo scambio, domina nella moderna società industriale; Tönnies
vede questi due tipi (Normaltypen) di organizzazione sociale come contrapposti.
8 Cfr. http://science.jrank.org/pages/7808/Kinship.html (ultima consultazione
8.3.2016).
9 On a Method of Investigating the Development of Institutions; Applied to the
Laws of Marriage and Descent, presentato presso l’Anthropological Institute nel
novembre 1888, e pubblicato nel vol. 28 (1889) del suo «Journal».
10 Cit. da Méndez 2007: 44 (trad. dell’autrice).
11 Ibidem.
12 F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato,
prefazione alla quarta edizione del 1891 (trad. a cura del CCDP:
http://www.resistenze.org/sito/ma/di/ce/mdce5n29.htm; ultima consultazione
8.3.2016).
13 Cfr. Seymour-Smith 1986: 21.
14 Morgan 1877: 473 (trad. dell’autrice).
15 Engels 2005: 84.
16 Ivi, p. 85.
17 Ivi, p. 93. Cfr. anche http://donneriv.blogspot.mx/2014/05/friedrich-engels-
lorigine-della.html (ultima consultazione 8.3.2016).
18 Frazer 1973: 31.
19 Niola 2010.
20 Cfr. Harrison F. 1995; Harrison C.K. 1998.
21 In Gran Bretagna, accanto alle posizioni di Edward Tylor, che ricusava un
fondamento all’idea di razza, operavano pensatori razzisti come Robert Knox, che
in The Races of Men, pubblicato nel 1850, sosteneva che la razza è tutto e che la
civiltà dipende da essa (cit. da Mayr 1982: 113).
22 Ne abbiamo fatto cenno supra nell’introduzione.
3. LE PIONIERE. DONNE ANTROPOLOGHE NELL’OVEST
AMERICANO

L’emancipazione: battaglie per i diritti delle donne e dei neri negli


Stati Uniti. Il voto delle donne all’Ovest
Le battaglie per i diritti delle donne condotte dalle prime femministe
– il raggiungimento di eguaglianza politica, sociale, economica e
giuridica con il sesso maschile – rappresentano, con la rivoluzione
industriale e all’emergere del movimento operaio, uno dei grandi
fattori di cambiamento che segnarono il mondo occidentale durante il
secolo XIX. Sebbene le radici delle idee femministe fossero già presenti
nel Settecento (la francese Olympe de Gouges e l’inglese Mary
Wollstonecraft sono spesso definite “proto-femministe”), è soltanto
nell’Ottocento che le idee di uguaglianza tra uomini e donne si
diffusero al di là di circoli e ambienti ristretti, diventando tematiche di
dibattito pubblico. La misura della diffusione e l’impatto di queste idee
sulle dinamiche politiche e le pratiche sociali variano a seconda dei
paesi, con marcate differenze tra mondo anglosassone (Gran Bretagna
e Stati Uniti) e resto d’Europa.
In Gran Bretagna e, soprattutto, negli Stati Uniti d’America già
intorno alla metà del secolo i movimenti femministi conquistarono
visibilità vincendo importati battaglie – come la riforma educativa,
l’apertura delle università alle donne, l’accesso alla professione medica
(la prima donna medico americana, Elizabeth Blackwell, si diplomò
nel 1849). In entrambi i paesi la rivendicazione dei diritti delle donne
si intrecciò strettamente con la generale problematica
dell’emancipazione, includendo anche la popolazione nera schiavizzata
e i Nativi americani oppressi. Femminismo e abolizionismo della
schiavitù dei neri procedettero parallelamente, rinforzandosi a
vicenda.
Nel resto del continente europeo – dalla Francia alla Germania,
dall’Italia alla Polonia – le femministe, tra cui alcune figure
significative come la franco-peruviana Flora Tristan, furono
un’avanguardia numericamente scarsa, spesso rappresentata da
intellettuali e scrittrici o da aderenti alle idee socialiste, che
rinunciavano a una rivendicazione specifica. Nella maggior parte dei
paesi la battaglia per i diritti delle donne finì per entrare a far parte
delle lotte condotte in nome dell’ideologia socialista o di quella
anarchica, acquisendo autonomia soltanto nel tardo Ottocento. Anche
nei paesi scandinavi, pur caratterizzati da un’antica tradizione di
partecipazione femminile alla vita politica e sociale, le associazioni
femministe si svilupparono soltanto dopo il 1870 (Danimarca 1871,
Svezia 1893, Norvegia e Finlandia 1884)1, ben vent’anni dopo la
Seneca Falls Convention, momento fondante del femminismo
statunitense.
La convenzione di Seneca Falls, una località nelle vicinanze di New
York, alla quale parteciparono circa trecento donne, si tenne il 19 e 20
luglio 1848. Fu organizzata da Lucretia Mott ed Elizabeth Cady
Stanton, entrambe attiviste della battaglia abolizionista. Le due donne
si erano incontrate per la prima volta alla World Anti-Slavery
Convention tenutasi a Londra nel 1840. In quell’occasione, a Mott e
Stanton non era stato concesso di prendere la parola in pubblico,
perché donne. L’indignazione suscitata in entrambe da questo
spiacevole episodio le aveva spinte a fondare il movimento per i diritti
delle donne negli Stati Uniti2.
Il 14 luglio la convenzione fu annunciata in questi termini dal
«Seneca County Courier»:
Una convenzione per discutere la condizione sociale, civile e religiosa e dei diritti
delle donne si terrà nella Cappella Wesleyan, a Seneca Falls, NY, mercoledì 19 e
giovedì 20 del corrente mese di luglio, con inizio alle ore 10:00. Il primo giorno
l’incontro sarà esclusivamente riservato alle donne, caldamente invitate a
partecipare. Ogni pubblico è invitato a essere presente il secondo giorno, quando
Lucretia Mott, di Philadelphia, e altre donne e uomini, parleranno alla
convenzione.

Nel primo giorno, il 19 luglio, fu letta la Declaration of Sentiments


(conosciuta anche come Declaration of Rights and Sentiments),
preparata in anticipo e redatta sul modello della Dichiarazione
d’indipendenza americana (per come è formulata, essa ricorda la
Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, formulata da
Olympe De Gouges):
La storia dell’umanità è una storia di ripetuti torti e arbitri da parte dell’uomo nei
confronti della donna, che hanno avuto l’obiettivo diretto di imporre un’assoluta
tirannia su di lei.

Una volta elencate le ingiustizie perpetrate ai danni delle donne, la


Dichiarazione afferma con forza l’uguaglianza tra i sessi:
Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini e le
donne sono stati creati uguali; che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni
diritti inalienabili.

Di conseguenza,
in considerazione del fatto che la metà del popolo di questa nazione è privata dei
diritti politici ed è socialmente degradata – nonché in considerazione delle
ingiuste leggi prima menzionate e dal momento che le donne si sentono offese,
oppresse e fraudolentemente spogliate dei loro diritti più sacri, noi insistiamo che
esse siano immediatamente ammesse a godere di tutti i diritti e privilegi che loro
appartengono in quanto cittadine degli Stati Uniti3.

Nel secondo giorno la Dichiarazione fu adottata dall’assemblea e


firmata dalle partecipanti. Alla Dichiarazione furono annesse 12
risoluzioni che rivendicavano specifici diritti, tra cui il diritto di voto
(nona risoluzione).
Altre convenzioni e conferenze sulla questione dei diritti delle donne
furono organizzate nel corso del decennio successivo: per esempio la
Women’s Right Convention di Akron in Ohio, tenutasi il 28 maggio
1851. Nell’annoso dibattito se il predominio dell’uomo sulla donna
avesse origini naturali, una delle oratrici, la scrittrice e poetessa
Frances Dana Barker Gage, prese una chiara posizione:
Non ho bisogno di produrre argomenti complicati per provare che la donna non
occupa nella società la posizione che le sue capacità le conferirebbero. I diritti
dell’uomo emanano dai loro bisogni naturali e dalle loro emozioni. Non sono i
bisogni naturali e le emozioni dell’umanità comuni, e condivisi equamente tra i
due sessi? Soffre forse l’uomo la fame e la sete, il freddo e il caldo più di una
donna? Ama e odia, spera e teme, prova gioia e dolore più di una donna? […] Da
dove ha tratto l’uomo l’autorità che ora rivendica su oltre la metà dell’umanità?
Da quale potere ha acquisito il diritto di porre la donna sua compagna, sua
consorte in vita in una posizione di inferiorità? È venuto dalla natura? La natura
ha fatto la donna sua superiore quando l’ha fatta sua madre; sua pari, quando l’ha
fatta adatta a tenere la posizione sacra della moglie4.

Con l’inizio della guerra di Secessione (1860), il movimento


femminista mise da parte le sue rivendicazioni specifiche per
concentrarsi sull’abolizione della schiavitù. L’impegno abolizionista
delle femministe non fu però premiato con la concessione di maggiori
diritti alle donne, prima di tutto quello di voto: anzi, dopo la fine della
guerra, il 14° emendamento, ratificato nel 1868, estese la protezione
della Costituzione a tutti i cittadini, e definì i”cittadini” come “maschi”;
il 15° emendamento, ratificato nel 1870, stabilì che il diritto di voto
non può essere negato per via della razza, ma non del sesso,
garantendo, di fatto il diritto di voto agli uomini neri, ma non alle
donne. Come risposta, nel 1866 Elizabeth Cady Stanton, Susan
Anthony e Lucy Stone fondarono la American Equal Rights
Association (AERA), un’organizzazione il cui obiettivo era
l’emancipazione al tempo stesso degli afroamericani e delle donne, e
che conduceva la battaglia non solo a livello federale, ma anche a
livello dei singoli stati, dove peraltro le politiche locali cominciarono a
differenziarsi in modo significativo. Nel 1869, uno stato dell’Ovest, il
Wyoming, concesse il diritto di voto alle donne, seguito nel 1870 dallo
Utah.
Il caso dello Utah è particolarmente interessante: fondato dal gruppo
religioso dei mormoni, ebbe, per diciassette anni, dal 1870 al 1887,
una legislazione che prevedeva sia il voto alle donne sia la poligamia,
che faceva parte delle dottrine religiose mormone. Nel 1887, la
legislazione federale decise di intervenire proibendo, al tempo stesso,
la poligamia e il diritto di voto alle donne nello Utah. I tentativi di
interdire le urne alle donne anche nel Wyoming si scontrarono contro
la volontà dello stato di mantenere la propria specificità. Il Wyoming
minacciò di rimanere un “territorio” piuttosto che rinunciare al voto
alle donne; il Congresso si piegò e gli stati occidentali divennero
l’avanguardia per la concessione del voto alle donne. Lo Utah lo
reintrodusse nel 1895, seguito dal Montana. All’inizio del XX secolo,
circa quattro milioni di donne godevano del diritto di voto nell’Ovest
americano, una ventina d’anni prima che il 19° emendamento lo
introducesse in tutti gli Stati Uniti.
Nella seconda metà del XIX secolo, l’importante presenza femminile
nella ricerca antropologica americana agli albori della sua
consacrazione accademica (una delle prima cattedre di antropologia fu
inaugurata nel 1886 alla University of Vermont) non può essere
compresa prescindendo dal contesto di lotte, presa di coscienza e
affermazione dei diritti delle donne che abbiamo appena ricordato.
È possibile affermare che il movimento femminista americano ha
funzionato da incubatore per lo sviluppo di un’antropologia delle
donne – quella che oggi chiamiamo antropologia di genere. Le prime
antropologhe, Matilda Coxe Stevenson, Alice Cunningham Fletcher ed
Elsie Clews Parsons furono anche delle femministe, che cercarono di
trasferire le loro idee progressiste nella loro ricerca. Il fervido
ambiente del femminismo americano influenzò più di una
generazione. Per storia familiare si iscrive in quest’ambiente anche
Margaret Mead, l’antropologa che più di ogni altra ha contribuito con i
suoi lavori a decostruire la “naturalità” dei comportamenti maschili e
femminili, e, di conseguenza, a fornire un apporto cruciale alla
riflessione teorica sulla costruzione sociale delle identità di genere.

La fondazione della Women’s Anthropological Society of America


(WASA). L’antropologia delle donne e dei bambini di Matilda Coxe
Stevenson
L’otto giugno 1885, dieci donne (tra cui Matilda Coxe Stevenson,
Alice Cunningham Fletcher, Sara Yorke Stevenson, Zelia Nuttall, Lucy
Langdon Wilson, Anita McGee)5 si incontrarono a Washington per
fondare la Women’s Anthropological Society of America (WASA; cfr.
Lurie 1966). Le dieci studiose, provenienti da diverse discipline e
attive, oltre che nella ricerca antropologica, in vari ambiti politico-
sociali – dai movimenti femministi alle organizzazioni di difesa dei
diritti dei Nativi americani – erano coscienti del fatto che l’idea di
creare una società antropologica femminile fosse «novel and
hazardous» in un ambiente accademico dominato dai maschi, ma
Matilda Coxe Stevenson, Alice Cunningham Fletcher e le altre
sentivano anche – nell’effervescenza di un nuovo protagonismo
femminile e negli esaltanti sviluppi della ricerca, con l’apertura del
Bureau of American Ethnology (BAE) dello Smithsonian Institution –
che i tempi erano maturi per aprire alle donne questo nuovo campo
del sapere, promuovendo «la loro cooperazione nello sviluppo della
scienza dell’antropologia».
Nel ruolo di presidentessa dell’associazione fu eletta Matilda Coxe
Stevenson (1849-1915), attiva da anni nel lavoro di campo presso
diverse popolazioni native dell’Ovest, principalmente del Nuovo
Messico. Appartenente alla borghesia della costa Est, Matilda Coxe
Stevenson aveva ricevuto una buona educazione, era una donna
impegnata per i diritti delle donne, ma era fondamentalmente
autodidatta e non disponeva di nessun diploma universitario formale.
Il suo interesse per l’antropologia era una conseguenza del suo
trasferimento nell’Ovest americano insieme al marito, James
Stevenson (1840-1888), un geologo della US Geological Survey, che
era stato incaricato di uno studio presso una tribù Pueblo, gli Zuñi
(Nuovo Messico)6, per conto del BAE.
Apriamo una parentesi su questa istituzione che si rivelò
fondamentale per la nascita dell’antropologia americana. Creato nel
1879 con un atto del Congresso, come luogo dove trasferire archivi,
relazioni e materiali riguardanti i Nativi del Nordamerica,
precedentemente conservati dal Department of the Interior, il BAE si
pose fin dai suoi inizi l’obiettivo di organizzare la ricerca antropologica
in America, anche grazie all’impegno del suo primo direttore, John
Wesley Powell (1834-1902). Il BAE organizzò e finanziò progetti
pluriennali nel campo della ricerca etnografica, linguistica e
archeologica. Avviò una serie di pubblicazioni (gli «Annual Reports» e
i «Bulletins»), preparò mostre e raccolse oggetti per lo Smithsonian
United States National Museum. I primi antropologi americani, tra cui
alcune delle dieci donne che, in quei giorni di giugno del 1885,
fondarono la WASA, lavorarono per il BAE e pubblicarono nei suoi
«Reports» e «Bulletins».
Sulla base delle loro prime esperienze di lavoro di campo, le studiose
– come Matilda Coxe Stevenson o Alice Fletcher – erano coscienti del
ruolo essenziale ricoperto dalle donne per la raccolta d’informazione
presso la componente femminile delle popolazioni “primitive” o
“tribali” oggetto dello studio etnografico. Coerentemente, le fondatrici
della WASA supportarono la loro iniziativa con l’argomento che
soltanto le donne antropologhe avrebbero potuto ottenere
informazioni dettagliate sulla vita privata di altre donne. Accanto al
marito, Matilda Coxe Stevenson aveva raccolto informazioni preziose
sulla vita degli Zuñi, una società matrilineare nella quale le donne
erano le proprietarie della casa e del giardino, godendo di una
posizione privilegiata rispetto a quella delle donne di altri gruppi
nativi (per esempio quelli del Nordovest).
Si trattava, peraltro, di un argomento che poteva contare su un
difensore di peso (e maschio): l’antropologo britannico Edward Tylor.
Per quanto impregnato della cultura accademica dell’epoca – quella
vittoriana –, che presupponeva una rigida divisione dei ruoli maschili
e femminili, considerati corrispondenti a differenze più o meno
naturali, Tylor sosteneva fermamente la necessità di aprire alle donne
l’antropologia. Egli aveva maturato questa convinzione per l’appunto
in seguito a una visita alla coppia James Stevenson e Matilda Coxe
Stevenson nel Nuovo Messico, nel 1884. Matilda aveva appena
pubblicato il suo primo lavoro, Religious Life of the Zuñi Child, nel
rapporto annuale del Bureau of American Ethnology, frutto di anni di
osservazione della vita domestica degli Zuñi e in particolare di ruoli,
doveri e rituali delle donne e dei bambini. Se vi è un’opera che segna
l’inizio dell’antropologia di genere, questa è lo studio di Matilda Coxe
Stevenson sulla vita religiosa dei bambini Zuñi.
Edward Tylor si rese conto che Matilda stava aprendo un ambito
innovatore degli studi antropologici grazie alla percezione femminile
sul mondo delle donne e dei bambini. Come scriverà più di cento anni
dopo Parezo, essa fu la prima etnologa americana a considerare i
bambini e le donne «worthy of notice» (Parezo 1989: 41).
Pur evitando di riconoscere alle donne antropologhe una loro
autonomia, Tylor si convinse che un antropologo maschio avrebbe
potuto ottenere i migliori risultati lavorando in coppia con una moglie
sufficientemente intelligente e collaborativa:
in effetti metà della ricerca sembra competere a lei, tanto vi è da imparare
attraverso le donne della tribù, che agli uomini non sarà svelata facilmente7.

In altri termini, l’antropologia aveva bisogno delle donne, ma il loro


sostegno era visto da Tylor come subalterno. Tylor e gli altri
antropologi maschi pensavano (in conformità con le idee dell’era
vittoriana) che l’approccio maschile era quello “oggettivo”, “razionale”,
capace di produrre grandi teorie e sintesi, mentre le donne, con la loro
natura “emotiva” e “irrazionale”, nonché “soggettiva”, sarebbero state
preziose nella raccolta di osservazioni, dati e materiali, ma non
avrebbero potuto produrre studi di alto livello. In altri termini,
avrebbero avuto un ruolo di assistenti e segretarie.
Non era questo, invece, il punto di vista delle fondatrici della WASA,
che avevano voluto l’associazione anche come strumento di
riconoscimento del loro lavoro di fronte ai colleghi maschi. Come già
sottolineato, queste studiose, a partire da Matilda Coxe Stevenson,
erano anche femministe, e rivendicavano l’uguaglianza tra uomini e
donne. Non a caso, espressero nello statuto dell’associazione il loro
rifiuto dello stereotipo relativo all’emozionalità femminile: per statuto
l’associazione aveva lo scopo di offrire un luogo per tutte le donne,
«clear in thought, logical in mental processes, exact in expressions and
earnest in the search for truth», che avrebbero contribuito
all’antropologia ed elevato lo statuto femminile nella scienza8.
Per prima Matilda Coxe Stevenson si riconosceva in questa figura di
studiosa dal pensiero chiaro, logica nei processi mentali, esatta nelle
espressioni e onesta nella ricerca della verità. Se aveva fornito a Tylor
il modello della moglie intelligente e collaborativa dell’antropologo,
essa non subordinava certo la sua ricerca a quella del marito. Dopo il
primo studio sulla vita religiosa dei bambini, Matilda pubblicò un
secondo importante articolo sulle religioni degli Zuñi sulla rivista
«Science» nel marzo 1888. Nel luglio dello stesso anno, in seguito alla
morte del marito, Matilda divenne la prima donna a essere assunta tra
il personale del BAE, posizione che occuperà fino alla fine della vita.
Ricordiamo, en passant, che essa fu sempre pagata meno dei suoi
colleghi maschi!
Nel 1889 Matilda iniziò una serie di studi su un’altra tribù Pueblo del
Nuovo Messico, gli Zia Pueblo, ma gli Zuñi rimasero il suo interesse
principale. Negli anni di lavoro di campo aveva sviluppato un’ottima
relazione con loro, che consentì una conoscenza approfondita dei loro
usi e costumi. I risultati delle sue ricerche furono raccolti nella
monografia The Zuñi Indians: Their Mythology, Esoteric Fraternities,
and Ceremonies, pubblicati nel 23° rapporto annuale del BEA, nel
1901-02. Nel 30° rapporto del BEA (1908-09), pubblicò poi
Ethnobotany of the Zuñi Indians. Scrisse anche articoli per «American
Anthropologist» e altre riviste, sempre sugli Zuñi nonché sulle tribù
Taos e Tewa (anch’essi Pueblo). Il suo lavoro fu infine ampiamente
riconosciuto anche dal mondo accademico maschile: nel 1891 fu eletta
membro della Anthropological Society of Washington, e
successivamente dell’American Association for the Advancement of
Science, della National Society of Fine Arts e della National Academy
of Sciences.

Alice Cunningham Fletcher


Pioniera nello sviluppo della disciplina antropologica negli Stati Uniti
fu anche Alice Cunningham Fletcher (1838-1923). Se Matilda Coxe
Stevenson iniziò il suo lavoro antropologico accanto al marito, secondo
il “modello” auspicato da Tylor, Alice Fletcher condusse tutta la sua
carriera da single woman – e non contrasse mai matrimonio. Oltre ad
aver partecipato ai movimenti femministi in gioventù, Fletcher
s’impegnò nella difesa delle popolazioni native nordamericane,
cercando di favorirne l’integrazione nella società con una serie di
politiche (tra cui l’accesso alla proprietà della terra). Fletcher
rappresenta un caso quasi unico di antropologa che cercò di tradurre
le sue idee nella pratica politica, accettando di gestire un programma
governativo di assegnazione delle terre alla popolazione Omaha e ai
Nasi Forati9.
Nata a Cuba nel 1838 da genitori originari del New England, Fletcher
crebbe a New York. Studiò nella prestigiosa Brooklyn Female
Academy, un’istituzione che si prefiggeva il compito di fornire
un’educazione di primo livello alle figlie delle famiglie dell’élite. Non si
sa molto della sua giovinezza, se non che intorno al 1870 Alice era
un’attivista nei movimenti femministi e suffragisti della città di New
York.
Il suo interesse per l’archeologia e l’etnologia si manifestò verso la
fine degli anni Settanta, quando iniziò a studiare archeologia con
Frederic Ward Putnam, direttore del Peabody Museum of Archaeology
and Ethnology dell’Università di Harvard. Nel 1886 faceva parte del
personale del museo, ma, probabilmente discriminata in quanto
donna, non riuscì a ottenere un posto stabile. Il suo interesse per
l’archeologia – assieme all’incontro casuale con Suzette “Bright Eyes”
La Flesche10, figlia di un capo tribù Omaha e divenuta insegnante in
seguito all’istruzione impartitale alla missione della riserva – la spinse
a interessarsi alle popolazioni native. Alice e Suzette si conobbero nel
1879, mentre quest’ultima viaggiava nell’Est degli Stati Uniti, tenendo
conferenze per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti degli
Omaha, in particolare riguardo al possesso della terra.
Alice Fletcher iniziò il suo lavoro di campo all’Ovest, partecipando a
una missione presso le tribù delle grandi pianure (Nebraska e South
Dakota) nel 1881. La sua ricerca si concentrò sugli Omaha del
Nebraska, tribù alla quale appartenevano Suzette La Flesche e il suo
fratellastro Francis La Flesche, che poi divenne traduttore,
informatore e infine figlio adottivo di Alice. Fu particolarmente
affascinata dalla musica e dalle danze, specializzandosi in
etnomusicologia. Celeberrime le pagine nelle quali descrive i rituali
dedicati alle pipe e i movimenti di danza che li accompagnano
(Cummins Miller 2007: 151-154).
Con gli Omaha, che rimasero il suo principale interesse, Alice visse a
lungo; nel corso degli anni studiò anche altre popolazioni delle grandi
pianure ed ebbe contatti con i Nasi Forati in quanto rappresentante
del governo per il programma di assegnazione delle terre. La sua opera
più importante è The Omaha Tribe (1911), scritta con la collaborazione
di Francis La Flesche, divenuto anch’egli antropologo11.
Dal punto di vista antropologico, l’importanza del lavoro di Alice
Fletcher risiede nell’applicazione del rigore scientifico dell’archeologia
all’ambito etnologico. Le sue osservazioni sulla vita delle tribù tendono
ad andare oltre il livello puramente descrittivo e impressionistico,
nello sforzo di categorizzare gli aspetti specifici delle culture native e
delle loro pratiche economiche. Come la maggior parte degli
antropologi del suo tempo, Alice Fletcher condivideva la teoria
evoluzionista, e riteneva quindi che tutte le culture seguissero un
percorso unilineare dallo stato selvaggio alla civiltà e che, di
conseguenza, i Nativi sarebbero diventati tanto più “civili” quanto più
avessero imitato o seguito il modello della cultura dei “bianchi”. Sulla
base di queste teorie, Alice propugnava una politica che garantisse ai
Nativi la proprietà privata dividendo la terra in piccole fattorie – sul
modello dell’organizzazione della proprietà presso i “bianchi”, e
sostenne con forza lo Omaha Allotment Act del 1882 e il General
Allotment Act del 1887 promossi dal governo federale (torneremo
sull’argomento nel prossimo paragrafo).
Assunta dal governo per rendere operativa questa riforma presso gli
Omaha e poi imporla ai Nasi Forati, per alcuni anni Alice ebbe poco
tempo da dedicare allo studio e alle pubblicazioni. Nel 1890, grazie al
finanziamento di un privato, ottenne una cattedra al Peabody Museum
of Archaeology and Ethnology. Poté così dedicarsi a tempo pieno alla
ricerca antropologica, pubblicando un numero impressionante di
articoli e libri (alcuni in collaborazione con Francis La Flesche) che le
valsero importanti riconoscimenti accademici. Al momento della sua
morte nel 1923, Alice era stata vicepresidente dell’American
Association for the Advancement of Science, membro fondatore
dell’American Anthropological Association, e presidente dell’American
Association of Folklore.

Antropologia e impegno sociale: la contraddittoria vicenda


dell’assegnazione delle terre
Soffermiamoci ora sull’impegno di Fletcher per l’integrazione dei
Nativi nella società mainstream americana, sulla base delle teorie
antropologiche evoluzioniste dominanti all’epoca. Per Fletcher l’unico
modo per gli Omaha o per i Nasi Forati di uscire dalla condizione di
miseria in cui versavano era l’assimilazione ai modelli dei “bianchi” –
la proprietà della terra e la fattoria a gestione familiare ne erano lo
strumento.
Fletcher divenne dunque un’influente sostenitrice della divisione
delle proprietà terriere tribali in singoli appezzamenti individuali. Nel
1882, il Bureau of Indian Affairs la assunse per realizzare un
censimento di tutte le terre indiane per verificarne l’idoneità delle
assegnazioni. Nel corso dello stesso anno fu assunta per gestire
l’aggiudicazione delle terre degli Omaha. Dopo il passaggio General
Allotment Act (conosciuto anche come Dawes Act) nel 1887, che
prevedeva l’eventuale scioglimento di tutte le riserve indiane, Fletcher
gestì la distribuzione di alcune terre rimanenti ai Nasi Forati12.
Per Fletcher, come per gli altri sostenitori di questa politica, la
concessione delle terre sarebbe stata la panacea contro la miseria dei
Nativi. Secondo loro, le terre tribali ostacolavano i progressi economici
che i contadini bianchi ottenevano, perché mancavano incentivi
individuali per lavorare e mantenere le terre fertili. Inoltre, Fletcher e
gli altri riformatori ritenevano che, finché le terre indiane fossero
rimaste proprietà comuni, i vicini bianchi non ne avrebbero mai
rispettato i confini. La triste storia di espropriazione che aveva avuto
inizio nelle colonie dell’Est per spingersi fino alla frontiera avrebbe
continuato a ripetersi e sarebbe terminata solo con l’estinzione degli
stessi Nativi. Il diritto di proprietà individuale per le singole famiglie
avrebbe impedito questo esito.
Le idee dei riformatori si scontrarono però con l’ostilità dei Nativi,
che in maggioranza giudicarono l’assegnazione come un’imposizione
forzata dell’ennesima pratica culturale aliena e un altro modo di
derubarli della loro terra. Essi avevano peraltro capito molto meglio
dei loro presunti filantropi che molte delle loro terre erano
semplicemente troppo aride per sopportare la pratica dell’agricoltura
tradizionale. Rappresentanti dei Nativi manifestarono la loro
opposizione con pressioni e petizioni al Congresso, rifiutarono di
partecipare alle riunioni in cui si procedeva con le assegnazioni, e
ripiegarono piuttosto sulle terre adiacenti per ricostituire le loro
proprietà comuni (anche se su scala più piccola). Un gruppo di
riformatori, soprattutto membri della National Indian Defense
Association (NIDA), si rese conto degli errori del progetto e, alla fine,
sostenne i Nativi nella loro lotta – perlatro infruttuosa – contro il
Dawes Act. La leadership della NIDA riteneva infatti che le enormi
concentrazioni di ricchezza derivanti dall’industrializzazione stessero
minando l’uguaglianza politica negli Stati Uniti, e che
l’individualizzazione della piccola proprietà avrebbe ulteriormente
impoverito i Nativi.
Purtroppo, le fosche previsioni degli oppositori alle assegnazioni si
avverarono pienamente. A dispetto delle dichiarazioni pubbliche e
delle migliori intenzioni di riformatori come Alice Fletcher, la riforma
si rivelò un disastro. Tra l’approvazione del Dawes Act nel 1887 e la
sua abrogazione nel quadro del New Deal nel 1934, l’assegnazione
privò sistematicamente i Nativi di molti dei territori loro concessi. La
cessione a titolo definitivo di terre in “eccesso” – parti di riserve
ancora disponibili dopo le assegnazioni – e la successiva vendita delle
terre assegnate dai Nativi stessi (perché troppo povere per permettere
la sussistenza delle famiglie) ridusse la proprietà complessiva di terre
da parte delle popolazioni native da circa 150 milioni di ettari prima
del Dawes Act a 104 milioni di acri nel 1890, poi a 77 milioni entro il
1900, e a 48 milioni dal 1934. A quel punto i due terzi della
popolazione nativa era o completamente priva di terra di proprietà o
non ne possedeva abbastanza per trarne sussistenza.
Per ironia della sorte, le misure che Alice Fletcher aveva creduto
benefiche complicarono ulteriormente la situazione dei Nativi,
ostacolandoli nel loro sforzo teso ad adeguare le proprie risorse
territoriali alle opportunità offerte da una società sempre più
industrializzata mantenendo un’impostazione collettiva, piuttosto che
frazionandola in singole imprese.

Conclusioni
In un’epoca in cui in molte professioni prevaleva la riluttanza ad
accettare le donne, nel settore dell’antropologia esponenti di rilievo
come Tylor erano invece convinti che le donne fossero necessarie per
ottenere dati completi e accurati. Questa convinzione ebbe come
conseguenza la partecipazione allo sviluppo dell’antropologia culturale
da parte delle donne, che spesso manifestavano anche una chiara
adesione alle idee femministe.
Coscienti dell’importanza delle donne nell’antropologia, ma anche
delle difficoltà a essere considerate alla pari con i colleghi maschi, le
prime antropologhe si riunirono in associazione fondando la WASA. La
loro battaglia per il riconoscimento ebbe successo solo in parte: le
iscritte dell’associazione, che arriverà a contare una cinquantina di
membri, furono infine invitate a far parte dell’American
Anthropological Association nel 1898.
Il destino delle prime studiose non è peraltro omogeneo: se Matilda e
Alice otterranno notevoli riconoscimenti, altre donne saranno
dimenticate e non riusciranno a penetrare nel mondo accademico,
come raccontato da Nancy Parezo nel volume Hidden Scholars:
Women anthropologists and the Native American Southwest (Parezo
1993a). Ma la strada era aperta, per una nuova generazione di donne
pronta a prendere parte direttamente a una nuova fase della storia
della disciplina.
Possiamo concordare con Nancy Parezo che l’antropologia
femminista nacque nell’Ovest americano con il lavoro di Matilda Coxe
Stevenson e di Alice Cunningham Fletcher. Le antropologhe di questa
prima generazione portarono nell’antropologia caratteristiche
specifiche: mostravano uno sguardo più attento alle donne e ai
bambini e avevano un atteggiamento particolarmente empatico nei
confronti delle popolazioni native, con le quali svilupparono forti
legami di affinità. Pur tuttavia, il caso delle assegnazioni di terre ai
Nativi, riforma per la quale Alice Fletcher s’impegnò a fondo
personalmente, mostra quanto fosse difficile, anche per
un’antropologa femminista, sottrarsi alla visione dominante – in
questo caso evoluzionista e incentrata sulla superiorità della civiltà
“bianca” occidentale.

1 Cfr. http://www.historytoday.com/martin-pugh/womens-movement (ultima


consultazione 8.3.2016).
2 Per approfondimenti relativi alla Seneca Falls Convention cfr.
http://www.historynet.com/seneca-falls-convention (ultima consultazione
8.3.2016).
3 http://ecssba.rutgers.edu/docs/seneca.html (ultima consultazione 8.3.2016;

trad. dell’autrice).
4 Cummins Miller 2007: 35 (trad. dell’autrice).
5 Tra queste donne, soltanto Matilda Coxe Stevenson e Alice Fletcher fecero
lavoro di campo come antropologhe culturali nell’Ovest americano. Sara Yorke
Stevenson (1847-1921), attivista per i diritti delle donne, fu principalmente
archeologa e non fece mai lavoro di campo. Zelia Maria Magdalena Nuttall (1857-
1933), nata a San Francisco ma di origine messicana, fu principalmente archeologa,
specializzata nei manoscritti precolombiani delle culture preatzeche. È considerata
la prima antropologa messicana con Isabel Ramírez Castañeda (1881-1943). Lucy
Wilson (1864-1937), insegnante con un dottorato in Geografia, studiò i metodi
educativi in Europa e in Sud America. Anita McGee (1853-1937), geologa e
paleoantropologa, condusse diverse spedizioni nello Iowa.
6 Gli indiani Pueblo del Sudovest sono una delle culture native più antiche del
Nordamerica (risalente, secondo gli archeologi, a 7000 anni fa). Il loro nome è
spagnolo e sta per “villaggio in muratura”. Per migliaia di anni, i Pueblo hanno
vissuto secondo uno stile di vita basato su caccia e agricoltura e costruendo
strutture abitative in adobe – una combinazione di terra mista a paglia e acqua
versata in forme o trasformata in mattoni seccati al sole. La stragrande
maggioranza delle tribù Pueblo era organizzato in clan, e in molte di esse, tra cui
Hopi, Zuñi, Keres e Jemez, la discendenza è matrilineare.
7 Lurie 1966: 34 (trad. dell’autrice).
8 Cfr. Parezo 1993a: 4.
9 I Nasi Forati, anche noti col nome francese di Nez Percé, sono una tribù di
Nativi che abitava nella zona centrale dell’odierno stato dello Idaho e in una parte
degli stati di Washington e Oregon.
10 Il nome omaha di Suzette La Flesche Tibbles era Inshata Theumba, ovvero
“Occhi Lucenti”.
11 Francis aveva vent’anni meno di Alice, che lo adottò come figlio. Secondo
Cummins Miller la relazione tra Alice Fletcher e Francis La Fleche fu, comunque,
complessa: «Francis La Fleche, di vent’anni più giovane, divenne l’interprete, il
coautore, il compagno di Fletcher. Lavorarono insieme, pubblicarono insieme, e
vissero insieme a Washington. La loro fu una relazione completa – più che tra
madre e figlio –, eppure non fu mai un matrimonio. Per mantenere il decoro,
furono costretti a vivere e a viaggiare sempre con una dama di compagnia»
(Cummins Miller 2007: 149; trad. dell’autrice).
12 Il programma di assegnazione condusse Fletcher dai Nasi Forati a Lapwai, in
Idaho, nel 1889. Fletcher incontrò una notevole resistenza a Lapwai, dove il celebre
capo Chief Joseph rifiutò qualsiasi ruolo nei suoi piani di assegnazione. Tuttavia,
Alice Fletcher perseverò, tornando ogni primavera per parecchi anni a completare
la sua indagine e la divisione delle terre tribali.
4. LA CRITICA ALL’EVOLUZIONISMO: BOASIANI NEGLI STATI
UNITI E FUNZIONALISTI IN GRAN BRETAGNA

Franz Boas: dall’evoluzionismo al particolarismo e al relativismo


culturale
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’antropologia attraversa una
profonda revisione teorica e metodologica. L’evoluzionismo fino ad
allora predominante1 è messo in discussione, negli Stati Uniti, da
Franz Boas e dalla corrente di pensiero che a lui farà capo; in Gran
Bretagna, da Alfred Reginald Radcliffe-Brown e Bronisław Malinowski
(di origine polacca, ma operante essenzialmente in Gran Bretagna),
rappresentanti del “funzionalismo”. Nella “nuova antropologia”, del
lavoro di Morgan e Tylor viene acquisita soltanto la parte empirica,
non i presupporti teorici.
Tra le principali personalità all’origine di questa trasformazione
figura appunto Franz Boas (1858-1942), che rappresenta anche, con la
sua allieva Margaret Mead, la figura più significativa dell’antropologia
americana del XX secolo. Tedesco di origine ebraica, studiò a
Heidelberg, Bonn e Kiel, laureandosi in fisica e matematica, per
passare poi alla geografia. Boas, pertanto, non ebbe una formazione
iniziale in antropologia, materia che nella Germania dell’epoca era
intrisa d’idee razziste e tesa a giustificare il colonialismo europeo
(McGowan 2011)2.
In quanto geografo Boas si unì nel 1883 a una spedizione nella Terra
di Baffin, nell’Artico canadese3. Nel corso del viaggio, gli capitò di
notare che gli Eschimesi utilizzavano una diversa scala dei colori, che
influenzava la loro percezione del colore dell’acqua. Affascinato dalla
scoperta, abbandonò la geografia per l’etnografia. Melville Herskovits,
allievo di Boas (1953: 9-10) ritenne quest’episodio leggendario, ma
ammise che Boas non fece mai nulla per smentirlo. Quello che è certo
è che Boas fu affascinato dalla vita degli Eschimesi, come racconta lui
stesso nel suo primo rapporto di viaggio (1884) e, successivamente
nella monografia The Central Eskimo (1888)4:
Così ho iniziato seriamente a fare i miei studi etnografici […] passavo ogni notte
con i nativi che mi spiegavano la configurazione del terreno […] mi raccontavano
storie lontane trasmesse loro dagli antenati, cantavano vecchie canzoni su antiche
melodie monotone, e li ho visti giocare ai vecchi giochi, con i quali accorciano le
lunghe notti d’inverno al buio5.

Nel 1886, Boas iniziò una ricerca di campo presso una popolazione di
Nativi della Columbia Britannica, i Kwakiutl. Nel 1889 ottenne la
prima cattedra negli Stati Uniti alla Clark University; dopo alcuni anni
passò alla Columbia University, dove nel 1899 diventò il primo
professore di antropologia, posizione che tenne per 37 anni. Franz
Boas ha esercitato un’enorme influenza nella definizione del quadro
epistemologico dell’antropologia americana e mondiale. A lui si deve,
per esempio, la suddivisione dell’antropologia in quattro sottocampi –
linguistica, antropologia biologica, antropologia archeologica e
antropologia culturale –, divisione che sussiste a tutt’oggi in molte
università nordamericane. A lui si devono alcune delle idee che sono
alla base della ricerca antropologica, come il principio metodologico
del relativismo culturale.
Le critiche sollevate da Boas, e dai numerosi antropologi che
seguirono i suoi insegnamenti, nei confronti delle teorie di Morgan e
Tylor prendono spunto dal presupposto che “le culture” (Boas sposta
l’attenzione dall’idea generale di cultura alle culture particolari a ogni
società) sono troppo complesse per essere valutate in base a comuni
“leggi” evolutive. Le società e le culture vanno comprese attraverso le
loro storie particolari. Da qui l’idea del “particolarismo storico” – ogni
cultura ha una sua particolare e unica storia che non è governata da
leggi universali –, idea centrale nell’approccio boasiano allo studio
delle culture, in aperto contrasto con l’idea evolutiva. Nella ricerca
antropologica, i tratti culturali non possono essere spiegati attraverso
riferimenti a tendenze evolutive generali, ma in termini di contesti
culturali specifici. Ogni cultura ha vissuto una storia diversa e unica,
anche nei casi in cui sono stati elaborati aspetti culturali simili.
Al particolarismo storico va associato il concetto di “diffusionismo”
rapportato a quello di “creazione indipendente”. Le somiglianze tra le
culture possono essere la conseguenza della diffusione di un’idea da
una cultura all’altra. L’invenzione indipendente si verifica invece
quando la cultura produce una nuova idea, senza aver conosciuto
alcuna influenza da un’altra cultura. Per esempio, l’agricoltura si è
sviluppata in diversi continenti (America e Asia) allo stesso tempo;
dato che non esistevano comunicazioni transoceaniche all’epoca, si
può dire che si è sviluppata nelle due aree indipendentemente l’una
dall’altra.
D’altro canto, molte abitudini e/o rituali possono essere trasmessi
per diffusione culturale, il che si verifica quando tribù o popoli diversi
si incontrano o quando una cultura sottomette l’altra, evento che di
solito si traduce nell’obbligo, per i dominati, di conformarsi alle
credenze e tradizioni culturali dei dominatori. Boas sostenne che è
comunque necessario avere delle prove empiriche di contatti storici tra
culture prima di poter far prevalere la teoria della diffusione su quella
dell’invenzione indipendente.
Particolarismo storico e diffusionismo vanno di pari passo: tratti
simili tra diverse culture possono essersi diffusi attraverso
l’interazione tra loro, ma, anche se alcuni tratti sono simili, ogni
cultura si è poi sviluppata attraverso una storia unica.
Un altro principio introdotto da Boas nell’antropologia è il
“relativismo culturale”: l’idea che le attività o le credenze di una
persona o di un gruppo debbano essere intese nei termini e valori della
propria cultura, non di quelli di qualcun altro. Va precisato che il
relativismo culturale introdotto da Boas non va confuso con il
relativismo etico, ovvero l’idea che non esistono norme morali o etiche
oggettive e assolute.
Il relativismo culturale introdotto da Boas è semplicemente un
metodo d’indagine antropologica secondo il quale il modo migliore per
capire i motivi per cui una cultura è come è (o perché i membri di una
società fanno le cose in un certo modo) è quello di utilizzare un
approccio emic6 (o manifestare la comprensione di un insider –
qualcuno che sia interno al gruppo). Il relativismo culturale come
metodo di conoscenza di altre società è il contrario dell’etnocentrismo.
Accanto all’approccio emic vi è quello etic, che rappresenta il punto di
vista scientifico dell’antropologo:
L’approccio etico (in senso scientifico) sposta l’attenzione dalle osservazioni,
categorie, spiegazioni e interpretazioni dei locali a quelle dell’antropologo.
L’approccio etico si rende conto che i membri di una cultura spesso sono troppo
coinvolti in quello che stanno facendo per interpretare le loro culture in modo
imparziale. Quando si utilizza l’approccio etico, l’etnografo sottolinea quello che
lui o lei considera importante7.

L’approccio etico non si riferisce tanto al processo di raccolta dei


dati, ma all’analisi dei dati e alla scrittura dell’etnografia.
Boas condusse un vastissimo lavoro di campo presso diverse
popolazioni. Egli non inventò il metodo dell’osservazione partecipante
in etnografia, già praticato da Morgan, Tylor, Coxe Stevenson e
Fletcher, ma tentò di raggiungere un alto livello scientifico, insistendo
sul fatto che la teoria deve sempre essere basata su dati empirici
oggettivi. Sostenne che il lavoro di campo deve essere parte di ogni
formazione antropologica e che gli studenti devono passare almeno un
anno con le popolazioni che studiano, vivendo tra di loro nella
massima vicinanza ed apprendendo a comunicare nella loro lingua.
Questo fu appunto il modello seguito da Margaret Mead nelle isole
Samoa.
Le ricerche di Boas avevano come oggetto la parentela, l’arte e il
mito. Quest’ultimo era legato al suo interesse per le lingue (Boas
studiò le lingue dei Nativi americani), giacché egli considerava che i
migliori dati linguistici potevano essere raccolti attraverso la
letteratura orale delle popolazioni. Pur essendo principalmente un
antropologo culturale, Boas contribuì anche all’antropologia fisica e fu
un pioniere nell’applicazione di metodi statistici agli studi biometrici.

Franz Boas, campione dei diritti umani e dell’antirazzismo


Ritornando sulla differenza tra il relativismo culturale e il relativismo
etico ricordiamo che per Boas il tentativo di avvicinarsi ad altri sistemi
culturali con oggettività spassionata (il relativismo culturale) non
implicava il disimpegno morale (relativismo etico), ma costituiva il
tentativo di applicare un’oggettività scientifica allo studio delle culture
umane. Boas, che sostenne il primo, dimostrò, con la sua vita, di
essere agli antipodi del secondo.
Ritenendo che gli scienziati abbiano un obbligo nei confronti della
verità e il dovere di esprimersi sui problemi politici e sociali, Boas fu
un attivista per la democrazia e i diritti umani, incompatibili con le
teorie razziste che, all’epoca, predominavano in Europa ed erano assai
diffuse negli Stati Uniti. Con la sua strenua lotta al razzismo, Boas ha
enormemente contribuito al dibattito sul tema negli Stati Uniti nei
primi anni del XX secolo.
Nel 1911 Boas pubblicò The Mind of Primitive Man, che raccoglie una
serie di conferenze sulla cultura e la razza: le riflessioni di Boas sul
relativismo culturale sfatano le idee allora correnti che suggerivano la
superiorità della civiltà occidentale sulle società meno sviluppate in
base a criteri razziali. Negli anni Venti il libro di Boas divenne il punto
di riferimento per coloro che negli Stati Uniti si opponevano a nuove
restrizioni in materia di immigrazione, sulla base di presunte
differenze razziali. All’estremo opposto, nel 1930, The Mind of
Primitive Man fu bruciato dai nazisti nei roghi dei libri. L’università
tedesca di Kiel annullò il dottorato di ricerca di Boas.
Nel 1937, Boas ampliò e aggiornò The Mind of Primitive Man e nel
1940 pubblicò Race, Language and Culture. Dopo aver lasciato
l’insegnamento universitario per motivi d’età, nel 1936 – a quasi
ottant’anni – e fino alla fine della sua vita, Boas continuò a scrivere e a
tenere conferenze per contribuire alla lotta contro la minaccia
rappresentata dal nazismo in Germania e dalle idee di Hitler su una
“razza padrona”. Le sue convinzioni sul razzismo furono espresse in
diversi articoli pubblicati su note riviste scientifiche, alcuni dei quali
sono stati raccolti dopo la sua morte in Race and Democratic Society
(1945).
Boas combatté con passione contro i pregiudizi che consideravano i
popoli di colore (e in particolare gli afroamericani) come “primitivi” e,
biologicamente e culturalmente, inferiori ai bianchi. Alla sua scuola si
formarono alcuni antropologi afroamericani, tra cui Zora Neale
Hurston (1891-1960), che divenne una nota studiosa del folklore
afroamericano, caraibico e latinoamericano, nonché scrittrice e
attivista per i diritti civili8.
Col suo rifiuto di ogni determinismo biologico, Boas non poteva che
schierarsi a favore dell’uguaglianza tra uomini e donne. Ebbe molte
allieve donne, che continuarono le sue ricerche e le sue battaglie: le più
note, il cui percorso scientifico e umano è oggetto di questo volume,
furono Elsie Worthington Clews Parsons, Ruth Benedict e Margaret
Mead, ma accanto a loro operarono antropologhe meno note, come la
già menzionata Zora Neale Hurston, o Martha Warren Beckwith, che
rivoluzionò completamente l’idea di “folklore”, o Ella Cara Deloria, di
origine sioux, che lavorò con Boas alla Columbia University dal 19299.
Oltre alle antropologhe menzionate, Boas ha ispirato e insegnato ad
antropologi famosi come Alfred Kroeber, Edward Sapir10, Melville
Jean Herskovits, Ashley Montagu.

Elsie Clews Parsons: femminista e antropologa


Elsie Worthington Clews Parsons (1875-1941), prima allieva donna di
Franz Boas, fu figura importantissima per l’antropologia femminista
(Rosenberg 1982: 166). Nata da una ricca famiglia di New York e
moglie di un noto avvocato (Herbert Parsons), prima di consacrarsi
agli studi antropologici Elsie fu un’attivista femminista, di formazione
sociologica11, autrice di vari articoli e saggi critici sulla famiglia e sui
ruoli maschili e femminili. Alcuni biografi affermano che l’opera di
Parsons può essere divisa in due parti: un periodo iniziale come
sociologa e sostenitrice delle idee femministe, un secondo periodo
come antropologa. In realtà, i due periodi non sono separati dal punto
di vista della sua ricerca intellettuale: la precoce adesione alle idee
femministe la spinse a interessarsi ai ruoli di genere (all’epoca definiti
come “sessuali”, oppure “maschili e femminili”) all’interno della
famiglia, e a criticarli con argomenti spesso riferiti a un approccio
“transculturale”, prendendo come esempio società non occidentali.
Come si possono considerare “naturali” o “universali” i nostri ruoli
maschili e femminili, quando nelle società “primitive” essi sono
diversi? (Chambers 1973). Da questo interrogativo – attraversato da
un certo relativismo culturale, che Franz Boas stava elaborando dal
punto di vista metodologico – sorse l’interesse per l’antropologia.
Frutto dei suoi studi e del suo insegnamento nel campo dei ruoli
familiari e sessuali alla Columbia University fu la monografia The
Family (1906). Parsons sosteneva che le rigide aspettative rispetto ai
ruoli di genere nella società hanno un effetto negativo sulla
realizzazione degli individui. Le donne – costrette a vivere in un
mondo patriarcale – ne sono le principali vittime, avendo poche
possibilità di diventare qualcosa di diverso da madri, mogli e, al
massimo, insegnanti, ma anche gli uomini ne soffrono.
Parsons non considerava pertanto l’oppressione rappresentata dai
ruoli di genere come un problema esclusivamente femminile. L’effetto
soffocante che le aspettative fondate su questi stereotipi provocano
colpisce anche gli uomini. La battaglia femminista può perciò essere
utile anche ai maschi.
Le idee espresse da Elsie Parsons erano decisamente all’avanguardia
per i tempi, e furono percepite come troppo radicali. Le proposte del
suo libro – il matrimonio “di prova”, il divorzio consensuale, l’accesso
a una contraccezione affidabile – furono attaccate dal clero e dalla
stampa conservatrice. Nonostante le critiche, Elsie non rinunciò alle
sue idee femministe e le ripropose in Religious Chastity (1913)
pubblicato sotto uno pseudonimo12, The Old-Fashioned Woman
(1913), Fear and Conventionality (1914), Social Freedom (1915) e
Social Rule (1916). Nel Journal of a Feminist, pubblicato dopo la sua
morte, si leggono le sue convinte asserzioni in favore della liberazione
delle donne, dell’uguaglianza di genere e della libera espressione delle
individualità nella società. Il lavoro di Elsie Parsons contribuì
notevolmente alla liberalizzazione della società americana e
all’apertura di nuove opportunità per le donne13.
Elsie Parsons iniziò una corrispondenza con Boas nel 1907: il tema
dello scambio tra i due studiosi riguardò inzialmente l’effetto delle
convenzioni sociali sulla libera espressione dell’individualità. Elsie si
era avvicinata all’antropologia a partire dalla convinzione che i dati
psicologici e filosofici non fossero sufficienti per spiegare le relazioni
tra la cultura e la personalità e che fossero necessari approfonditi studi
empirici che includessero fatti storici ed etnografici. Nel 1915 sondò il
terreno come antropologa, nel Sudovest americano, territorio che le
era ben noto (aveva lungamente viaggiato in Arizona e Nuovo Messico
con il marito nel 1910). Una delle questioni che la intrigavano
maggiormente era il fatto che le culture Pueblo richiedessero ai
membri un livello di conformità più elevato rispetto all’individualista
cultura americana. Boas la raggiunse nel 1919 e insieme svolsero
lavoro di campo presso i Laguna, una delle tribù Pueblo. Boas studiò le
lingue native, in particolare la lingua keresan, parlata nel Nuovo
Messico. Nel 1928, Boas pubblicò i Keresan Texts, dedicandoli proprio
a Elsie Parsons.
Applicando la rigorosa metodologia di Franz Boas all’osservazione
delle tribù Pueblo, Parsons ne registrò nei minimi dettagli
l’organizzazione sociale, le pratiche religiose, e il folklore, da lei
ritenuto una chiave per comprendere la cultura. Le sue numerose
pubblicazioni – The Social Organization of the Tewa of New Mexico
(1929), Hopi and Zuñi Ceremonialism (1933), Pueblo Indian Religion
(1939) – furono considerate da Boas come l’opera più esaustiva su
questa popolazione14.
Elsie Parsons s’occupò successivamente dell’influenza della cultura
spagnola sulle culture dei Nativi americani. Le sue ultime etnografie –
Mitla: Town of the Souls (1936), Mitla: Città delle Anime (1936) e
Peguche (1945) – riguardano ricerche svolte in Messico e in Ecuador.
Spinta dal suo interesse per il folklore, Parsons condusse anche
ricerche sui racconti popolari afroamericani15 e caraibici. Viaggiò nelle
Isole Caroline, a Capo Verde e nei Caraibi, spesso finanziando lei
stessa studenti di antropologia che la aiutavano nella raccolta di
racconti e dati. Tra le sue pubblicazioni sul folklore ricordiamo
Folklore from the Cape Verde Islands (1923), Folklore of the Sea
Islands (1924), e Folklore of the Antilles (3 voll., 1933-43)16.
Sebbene criticata per le idee femministe espresse nei suoi lavori
iniziali e poi difese per tutta la vita17, Elsie Clews Parsons percorse una
brillante carriera accademica, ed ebbe tra le sue allieve Ruth Benedict.
Ricoprì la carica di presidente della American Folklore Society (1918-
20), della American Ethnological Society (1923-25), e della American
Anthropological Association (1940-41). Fu inoltre editrice del
«Journal of American Folklore» dal 1918 fino alla sua morte.
Elsie Parsons è stata senz’altro una pioniera dell’antropologia
femminista: ha utilizzato la comparazione tra le culture per
documentare le diverse forme di costrizioni che i ruoli di genere
impongono (Lamphere 1989), individuando alcuni elementi universali
nella posizione inferiore delle donne; ha enfatizzato l’importanza della
libertà di scelta individuale rispetto ai ruoli imposti, distinguendo tra
relazioni sessuali libere e doveri parentali (da qui la sua idea di
“matrimonio di prova”; Deacon 1992).
La figura di Elsie Parsons si situa all’incrocio tra due generazioni di
antropologhe: le pioniere, come Stevenson e Fletcher, che avevano
aperto nuove vie alla ricerca in merito a ciò che facevano e pensavano
le donne “primitive”, constatando empiricamente la variabilità
culturale dei ruoli sessuali e le diverse posizioni di potere delle donne.
Elsie Parsons utilizzò questi primi risultati per muovere la sua critica
ai ruoli maschili e femminili nella società americana e denunciarne
l’oppressività. Elsie Parsons non è ancora in grado di fare il passo
successivo, ovvero teorizzare il carattere culturalmente costruito dei
ruoli maschili e femminili, decostruendo la naturalità biologica.
Questo sarà il compito di una nuova generazione di antropologhe
nate alla fine del XIX secolo o al principio del XX: Margaret Mead, Ruth
Landes, Cora DuBois, Phyllis Mary Kaberry, che produrranno
monografie che descrivono le relazioni tra i sessi in diversi contesti
etnografici.
Tra di loro, la più conosciuta, Margaret Mead, anticiperà di
quarant’anni la distinzione analitica del sesso dal genere.

I funzionalisti: la parentela al centro


Franz Boas e i suoi allievi non furono i soli a criticare l’antropologia
evoluzionista teorizzata da Morgan e Tylor. I “padri dell’antropologia
culturale” furono al centro di un’altra sfida teorica e metodologica,
proveniente stavolta dalla Gran Bretagna, e portata avanti dalla
corrente funzionalista (detta anche struttural-funzionalista), i cui
principali rappresentanti furono Reginald Radcliffe-Brown (1881-
1955) e Bronisław Malinowski (1884-1942). Il termine “funzionalista”
deriva da “funzione”, nozione riferita a ogni pratica sociale considerata
nel suo rapporto con il mantenimento della “struttura” – ovvero un
sistema le cui parti “funzionano” per mantenere il tutto. I funzionalisti
pongono dunque al centro dei loro interessi e della loro ricerca la
struttura sociale – più che la cultura – ; abbandonato il paradigma
evoluzionista e la prospettiva storica, la struttura sociale va studiata e
compresa nel presente.
Corrente antropologica principalmente europea, il funzionalismo fu
influenzato dalla sociologia, in particolare dai lavori del sociologo
francese Émile Durkheim (1858-1917), che introdusse il concetto di
funzione come metodo per spiegare i fenomeni sociali, e di suo nipote
Marcel Mauss (1872-1950). Su Mauss – sociologo e storico delle
religioni che assorbì la nozione durkheimiana di funzione come
fenomeno sociale, considerato tra i fondatori dell’antropologia
culturale francese – e sulla sua importanza nella storia
dell’antropologia europea ritorneremo nel capitolo 6.
Fissando un nuovo quadro epistemologico per l’antropologia
culturale, anzi “sociale” (il nome che, come abbiamo ricordato
nell’introduzione, viene dato all’antropologia culturale nel Regno
Unito), i funzionalisti non si limitano a criticare l’evoluzionismo; essi
si distanziano anche con chiarezza dal diffusionismo e dal
particolarismo storico di Franz Boas18.
Radcliffe-Brown, il “padre” del funzionalismo, critica l’approccio
storico degli evoluzionisti e dei boasiani, affermando che
l’antropologia sociale non potrà mai ambire a ricostruire la storia dei
popoli senza scrittura. L’antropologia sociale non può dunque essere
che una scienza “sincronica” e deve rinunciare a ogni
pretesa“diacronica”. E poiché le ricostruzioni storiche, per quanto
importanti, sono frutto di congettura, gli antropologi, se vogliono
operare scientificamente, devono concentrarsi sui fenomeni sociali
attuali, considerandoli alla stregua di fatti naturali; devono studiare il
ruolo che determinate pratiche svolgono oggi nella vita delle società,
cercando di scoprire i principi strutturali alla base della struttura
sociale, mediante attività di ricerca, comparazione e verifica empirica.
Nel caso delle società non occidentali premoderne – cioè il principale
oggetto dell’antropologia sociale –, poiché la vita economica, politica e
religiosa è organizzata intorno alla parentela, i loro principi strutturali
andranno indagati attraverso lo studio dell’organizzazione della
parentela. In coerenza con la teoria funzionalista, Radcliffe-Brown ha
legato il suo nome allo studio dei sistemi di parentela.
Nel loro metodo di studio, i funzionalisti riprendono gli elementi
strutturali di ogni sistema di parentela, già individuati da Morgan:
discendenza, residenza e matrimonio. I sistemi di discendenza si
dividono in strutture unilineari, come la patrilinearità e la
matrilinearità, e sistemi bilaterali, nei quali i parenti dal lato paterno e
materno sono ugualmente importanti per i legami emozionali o il
trasferimento della proprietà o della ricchezza19. La residenza può
essere “uxorilocale”, o “matrilocale” (ci si stabilisce nel luogo di
residenza della moglie); “virilocale”, ovvero “patrilocale” (la famiglia
vive nella residenza della famiglia dello sposo); oppure “neolocale” (la
famiglia va a vivere in una nuova casa). Il matrimonio può essere
monogamico o poligamico.
L’importanza metodologica accordata alla comparazione per
individuare i principi strutturali ha stimolato i funzionalisti a studiare
un gran numero di popolazioni “primitive” diverse e a farlo senza i
preconcetti dell’approccio evoluzionista. Le loro ricerche etnografiche
hanno documentato nel dettaglio la vita e le strutture della parentela
di popoli un tempo del tutto sconosciuti – Trobriandesi, Nuer,
Azande… – e hanno evidenziato in modo inequivocabile che le idee
occidentali su famiglia e società non sono affatto universalmente
condivise.
Documentando la varietà delle forme di famiglia che si incontrano
nelle diverse società, e rifiutando la portata esplicativa di
considerazioni di natura psicologica nello studio della parentela,
poiché le istituzioni connesse con la parentela hanno la funzione di
assicurare la continuità della struttura sociale, i funzionalisti si
scontrarono con una teoria che all’inizio del XX secolo aveva fatto
irruzione nel pensiero occidentale, introducendo la nozione di
inconscio, il complesso d’Edipo, una nuova visione sulla natura della
sessualità, e proponendo una lettura del comportamento e
dell’evoluzione dell’uomo basata su principi universali: la psicoanalisi.

Boasiani e funzionalisti davanti alla psicoanalisi


Il potente edificio teorico costituito dalla psicoanalisi attraverso
l’opera del suo fondatore, Sigmund Freud, non poteva certo lasciare
indifferenti gli antropologi. La psicoanalisi affrontava, a modo suo, la
questione del passaggio dalla natura alla cultura, proponendo un
paradigma evoluzionista e riprendendo temi sviluppati
dall’antropologia come il tabù dell’incesto. Fu infatti principalmente il
testo del 1913 Totem e tabù. Somiglianze tra vita mentale dei selvaggi
e dei nevrotici, ampiamente ispirato dal già citato Il ramo d’oro di
Frazer, che attirò l’attenzione degli antropologi, non foss’altro per quel
sottotitolo che sembrava fatto apposta per irritare i boasiani, alfieri del
relativismo culturale, e i funzionalisti, convinti sostenitori
dell’esistenza di un pensiero “razionale”, finalizzato a conservare la
struttura sociale, anche presso i “primitivi”.
La tesi di Freud sulle origini del totemismo, del tabù dell’incesto e del
complesso di Edipo sono ampiamente note. Egli ipotizzava l’esistenza
di un’orda primitiva, il cui leader era il maschio più anziano, che
assunse per sé solo i diritti sessuali sulle donne del gruppo. Frustrati, i
figli uccisero il padre, lo mangiarono, ma sopraffatti dal senso di colpa
scelsero di rispettare i suoi ordini e di astenersi dalle relazioni sessuali
con le madri e le sorelle. Si scelsero quindi un totem in forma di
animale come padre simbolico sostitutivo e stabilirono che doveva
essere protetto durante il corso dell’anno e consumato solo nelle
occasioni rituali. Questo rituale totemico rinnovava il loro atto
originario e rinforzava la proibizione dell’incesto. Freud arrivò a
sostenere che tutte le culture avevano nella loro origine questo atto
fondativo.
Le tesi di Totem e tabù furono conosciute negli Stati Uniti dopo la
Prima guerra mondiale, quando Boas aveva già ampiamente
sottoposto a critica altre teorie che cercavano un’unica origine al
totemismo. Di fronte al lavoro di Freud, Boas reagì sostenendo che il
suo metodo era troppo unilaterale e non era di alcun aiuto per far
avanzare la comprensione dello sviluppo delle culture (Boas 1940:
288-289). L’approccio evoluzionista di Freud, lungo la linea del
passaggio dall’infanzia all’età adulta, era del tutto inaccettabile per il
particolarismo boasiano, come pure l’assimilazione dei “selvaggi” ai
nevrotici20.
Va però detto che, mentre rigettavano la psicoanalisi, Franz Boas e il
movimento dei suoi allievi21 manifestavano un crescente interesse per
la psicologia, interrogandosi sul rapporto tra le culture e gli individui
nella formazione delle personalità. L’interesse dei boasiani per la
psicologia si espresse peraltro, come vedremo nel prossimo capitolo
che si occupa precipuamente del movimento Cultura e personalità,
nella focalizzazione del ruolo della cultura nella formazione delle
personalità, con l’intento di rigettare l’idea di universali assoluti. Franz
Boas evidenzia l’importanza del rapporto tra la psicologia e
l’antropologia nella prefazione allo studio pioneristico di Margaret
Mead sull’adolescenza in Samoa (1928):

Nella nostra civiltà, l’individuo è circondato da difficoltà che potrebbero essere


attribuite a comuni caratteristiche umane. Di fronte alle difficoltà dell’infanzia e
dell’adolescenza, pensiamo a un inevitabile periodo di adattamento attraverso il
quale ognuno deve passare. L’intero approccio psicoanalitico è in gran parte
basato su questo presupposto.
L’antropologo mette in dubbio la correttezza di questo punto di vista, ma fino a
ora nessuno aveva fatto lo sforzo di identificarsi con una popolazione primitiva in
misura tale da avere una visione interna di questi problemi. Siamo, quindi, grati a
Miss Mead per essere riuscita a identificarsi completamente con i giovani
samoani, dandoci un quadro lucido e chiaro delle gioie e delle difficoltà incontrate
da individui che vivono in una cultura completamente diversa dalla nostra22.

A partire dallo studio di Margaret Mead, l’uso di dati raccolti in


terreni “transculturali” per mettere in discussione le affermazioni della
psicoanalisi sugli universali psichici umani caratterizzerà la ricerca
antropologica del XX secolo. Così si espresse anni dopo la stessa Mead,
sostenendo che l’importanza dello studio sull’adolescenza in Samoa
consisteva soprattutto nel fatto che essa offriva la documentazione del
fatto che la natura umana non è rigida e inflessibile.
La psicoanalisi suscitò reazioni critiche anche tra i funzionalisti. La
visione evoluzionista presente in Totem e Tabù, ispirata da Frazer,
secondo cui il pensiero primitivo sarebbe fondamentalmente magico,
si scontrava con la teoria funzionalista secondo la quale la risposta ai
bisogni è essenzialmente razionale. Uno dei principali rappresentanti
del funzionalismo, Bronisław Malinowski, pur riconoscendo la grande
influenza che la psicoanalisi aveva avuto su di lui, ne criticò i
presupposti – in particolare il complesso di Edipo – in Sex and
Repression in Savage Society, pubblicato nel 1927.
Non sono mai stato in nessun senso un seguace della pratica psicoanalitica, o un
aderente della teoria psicoanalitica; e ora, pur insofferente di fronte alle
esorbitanti pretese della psicoanalisi, ai suoi argomenti caotici e alla sua
terminologia intricata, devo tuttavia riconoscere di sentire un profondo debito nei
suoi confronti per gli stimoli ricevuti come pure per il prezioso insegnamento di
alcuni aspetti della psicologia umana23.

Il complesso di Edipo – di cui la psicoanalisi ipotizza l’universalità –


presuppone l’idea che il figlio odi il padre per l’autorità che esercita,
sia geloso delle sue prerogative sessuali verso la madre eppure lo ami e
lo ammiri per la sua forza protettiva. Ora, Bronisław Malinowski aveva
svolto il lavoro di campo presso una popolazione matrilineare delle
isole Trobriand, dove il ruolo del padre e le relazioni interpersonali
erano strutturati in maniera molto diversa rispetto alle famiglie
occidentali e alla società europea.
Tra i Trobriandesi, il padre non è una figura autoritaria, ma piuttosto
un amico benevolo, mentre il fratello della madre, da cui il figlio
erediterà, esercita un ruolo disciplinatore. Inoltre gli abitanti delle
Trobriand, secondo Malinowski, ignoravano il ruolo riproduttivo del
padre, e i giovani avevano prolungati contatti intimi con la madre,
spesso dormendo con lei ed essendone coccolati fino all’età in cui lo
desiderassero. Di conseguenza, i giovani delle società matrilineari
indirizzavano la loro ostilità verso i fratelli della madre, piuttosto che
verso il padre, in relazione alla competizione per l’autorità politica
piuttosto che al desiderio sessuale. I sentimenti ambivalenti di
odio/amore erano diretti verso gli zii materni, mentre i desideri
incestuosi si concentravano sulle sorelle e non sulla madre.
Malinowski non ricusava del tutto la teoria psicologica freudiana, ma
sosteneva la necessità di adattarla ai contesti familiari: il complesso di
Edipo in senso stretto, a suo avviso, non era affatto universale.
Tra gli antropologi che appoggiarono le tesi di Malinowski va
ricordata l’americana Dorothy Way Eggan (1901-1965), seguace della
scuola funzionalista di Radcliffe-Brown e specialista della cultura Hopi
del Nuovo Messico. Secondo la Eggan, il complesso di Edipo era
assente dalla personalità degli Hopi.
Al di là dei contrasti tra l’approccio antropologico e quello
psicoanalitico, l’interazione tra l’antropologia e la psicologia si affermò
come una tendenza nuova che risulterà determinante per i futuri
sviluppi di entrambe le discipline. Come vedremo nel prossimo
capitolo, il movimento Cultura e personalità – le cui principali
rappresentanti furono Ruth Benedict e Margaret Mead –, stabilirà
l’idea oggi assodata secondo cui la personalità umana è interrelata con
fattori culturali.

Conclusioni
La rimessa in discussione del paradigma evoluzionista dominante
nell’antropologia culturale fino alla seconda metà del XIX secolo ebbe
un impatto essenziale nel ridefinire il rapporto tra universale e
particolare, nonché sulla questione – sempre presente – del passaggio
natura-cultura. Il relativismo culturale di Boas aprì la via a un
ripensamento della nozione di centralità/superiorità della cultura
occidentale (vista come stadio evolutivo necessario). I modelli
familiari – e le relazioni tra uomini e donne – apparvero così come
profondamente determinati dai contesti culturali, anziché universali-
normativi. Le prime femministe, come Elsie Parsons, utilizzarono la
scoperta di queste diversità (e della posizione di maggior potere delle
donne in alcune società “primitive”) per mettere in questione famiglia,
matrimonio e ruoli maschili e femminili nella società occidentale.
Anche gli struttural-funzionalisti furono impegnati a documentare la
diversità delle forme di famiglia che si incontrano nelle diverse società.
Ma essi ricercarono anche un “substrato” naturale che Radcliffe-
Brown chiamò “famiglia elementare”, una comune forma familiare di
base, nascosta all’interno delle forme familiari poligamiche e
poliandriche, di lignaggio e di clan, di bande e di tribù. In altri termini,
i funzionalisti partivano dal presupposto di fondo che le strutture di
parentela e quelle della cultura siano costruite su un fondamento
naturale: il legame biologico della riproduzione fisiologica che collega
la madre e il bambino.
Come affermò Malinowski, nell’ambito della parentela la fisiologia
crea istituzioni puramente culturali. La rimessa in discussione della
“naturalità” dei ruoli maschili e femminili necessitava però di uno
sguardo non androcentrico… quello che una giovane donna di
ventiquattro anni, Margaret Mead, saprà portare sui ragazzi e le
ragazze dell isole Samoa, nella metà degli anni Venti del Novecento.
E sarà poi l’antropologia femminista degli anni Settanta a
radicalizzare la critica alla visione naturalista delle relazioni della
parentela che portano a una rigida divisione dei ruoli dei due sessi per
via della centralità della riproduzione.

1 Abbiamo visto fino a che punto l’evoluzionismo influenzasse le pratiche


politiche, come nel caso delle assegnazioni delle terre ai Nativi americani,
fortemente volute dall’antropologa evoluzionista Alice Fletcher.
2 http://jewishcurrents.org/franz-boas-and-the-progressive-spirit-2953 (ultima
consultazione 8.3.2016).
3 Secondo alcuni biografi le ragioni che spinsero Franz Boas a lasciare la
Germania e poi a stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti si possono ricondurre
al crescente clima antisemita che si respirava in Germania.
4 In generale, gli Eschimesi non organizzano le loro società in unità, come clan o
tribù. L’identificazione di appartenenza a un gruppo è stata tradizionalmente legata
al luogo di residenza, con il suffisso -miut (“persone di”) applicato a una serie di
residenze, alla casa di una famiglia o a una vasta regione con molti residenti. I
Baffinland Eskimo erano spesso inclusi nel novero dei Central Eskimo, un gruppo
che comprende anche i Caribou Eskimo delle lande a ovest della Baia di Hudson
nonché Iglulik, Netsilik, Copper e Mackenzie Eskimo (cfr. Kuiper 2011: 23).
5 Boas 1884: 253 (trad. dell’autrice).
6 La definizione di emic (in italiano “emico”) è la seguente: «relativo a, o che
coinvolge l’analisi dei fenomeni culturali dal punto di vista di chi partecipa alla
cultura studiata – da comparare con etico» (cfr. http://www.merriam-
webster.com/dictionary/emic; ultima consultazione 8.3.2016; trad. dell’autrice).
L’origine è nel termine phonemic, “fonemico” e ha una duplice valenza, linguistica
(«che ha valore funzionale e distintivo nel sistema linguistico di cui fa parte: una
trascrizione fonematica è una resa emica del discorso)» e antropologica («di un
fatto che assume valore funzionale nel mondo culturale di cui fa parte»): cfr.
http://dizionario.internazionale.it/parola/emico (ultima consultazione 8.3.2016.)
7 Kottak 2006: 47 (trad. dell’autrice).
8 Zora Neale Hurston (1891-1960) fu la prima afroamericana a studiare il folklore
del suo gruppo e la religione vudù. Unica persona di colore tra gli iscritti, studiò
antropologia al Barnard College dal 1920 sotto la direzione di Franz Boas, che
incoraggiò i suoi interessi per il folklore afroamericano, ottenendo la laurea nel
1928. Le sue opere antropologiche (fu anche scrittrice) sono Mules and Men (1935)
e Tell My Horse (1938). Il contributo di Neale Hurston all’antropologia non si
limitò solo alla sua capacità di fornire vivide immagini della cultura nera; essa
tentò anche di analizzare i processi caratterizzanti la diaspora africana (McClaurin
2001b).
9 Per l’interessante biografia di Ella Cara Deloria, cfr.
http://zia.aisri.indiana.edu/deloria_archive/ (ultima consultazione 8.3.2016).
10 Edward Sapir (1884-1939) fu un antropologo e linguista americano,
considerato una delle maggiori figure agli albori della linguistica. Studiò
soprattutto il modo in cui la lingua e la cultura si influenzano reciprocamente.
11 Parsons condusse studi brillanti (ottenne un dottorato in sociologia alla
Columbia a 22 anni) e si impegnò presto nella battaglia femminista.
12 Per non danneggiare la carriera politica del marito che era intanto stato eletto
al Congresso, utilizzò infatti lo pseudonimo di John Main.
13 Elsie Parsons fu anche una fervente pacifista durante la Prima guerra mondiale
e un membro attivo del Woman’s Peace Party.
14 Cfr. http://www.newworldencyclopedia.org/entry/Elsie_Clews_Parsons
(ultima consultazione 8.3.2016).
15 Melville Herskovits scrisse a questo proposito: «I contributi di Elsie Clews

Parsons allo studio del folklore nero sono così vasti da comprendere, in se stessi, la
maggior parte dei materiali disponibili in questo settore; sono così importanti che
nessun lavoro significativo può essere fatto in futuro senza usarli come base»
(1943: 28; trad. dell’autrice).
16 Un’altra studiosa di folklore fu Martha Beckwith (1871-1959), che, nel 1920, fu
la prima persona a occupare una cattedra di folklore in una università americana, il
Vassar College, dove fu anche istituita la Folklore Foundation, grazie alla
donazione della paleontologa e naturalista Annie Montague Alexander (1867-
1950), altra interessante figura di studiosa e viaggiatrice all’origine anche del
Museum of Paleontology presso la University of California a Berkeley; cfr.
http://www.ucmp.berkeley.edu/history/alexander.html (ultima consultazione
8.3.2016). L’idea di raccogliere, valutare e confrontare il folklore era del tutto
nuova agli inizi del XX secolo. Per Beckwith con “folklore” si intendevano idiomi
popolari, credenze, slang, canzoni o storie che circolavano in varie versioni,
attraverso le comunità. La sua definizione era in parte differente da quella di altri
studiosi. Mentre molti dei primi folkloristi ritenevano che il termine “folk” si
riferisse solo alla cultura orale dei popoli “primitivi”, Beckwith sosteneva che tutte
le culture hanno avuto delle tradizioni popolari che giustificano la ricerca, e
rifiutava la divisione tra “popolare” e altre forme di espressione artistica
“superiori”, attribuendo a entrambe dignità letteraria. Durante un anno sabbatico,
nel 1926-27, studiò la letteratura popolare in Italia, Grecia, Palestina, Siria e India.
Le sue principali richerche riguardarono però le Hawaii, la Giamaica, e le tribù
Sioux e Mandan-Hidatsa delle riserve del North e South Dakota.
17 Parsons scrisse anche il saggio What is Feminism. Fu una delle prime autrici
che usò il termine “femminismo”.
18 Una scuola antropologica influenzata dal diffusionismo fu quella austriaca dei
Kulturkreise (cerchi culturali), una scuola alquanto eccentrica nel panorama
antropologico europeo, in parte di stampo evoluzionista e influenzata da idee
razziste di superiorità occidentale. Tra i suoi esponenti si ricordano Fritz Graebner
e Wilhelm Schmidt. La nozione fondamentale era quella dell’esistenza, nella storia
di ogni cultura, di un numero limitato di Kulturkreise in grado di spiegarne i
fenomeni, con forti analogie tra diverse culture anche molto distanti tra loro. Le
forzature comparatistiche e interpretative screditarono presto la Kulturkreislehre
di fronte alla comunità scientifica (cfr.
http://www.britannica.com/science/Kulturkreis; ultima consultazione 8.3.2016).
19 Sui bilateral kinship systems cfr. quanto scritto da Brian Schwimmer
(https://umanitoba.ca/faculties/arts/anthropology/tutor/descent/cognatic/bilateral.html
ultima consultazione 8.3.2016): «L’organizzazione bilaterale della parentela
presenta un problema di classificazione, dato che tutte le società riconoscono e
interagiscono regolarmente con una varietà di parentele materne e paterne. Di
fatto, i membri delle società unilineari, in certe situazioni formali, riconoscono
esclusivamente i parenti su base agnatica o uterina, ma mantengono anche
rapporti sia strutturati che informali con altri parenti e costituiscono parentele
bilaterali per una varietà di scopi. Il verificarsi universale di parentele bilaterali,
spesso in combinazione con istituzioni unilineari, ha portato a una varietà di
controversie sul fatto che esistono strutture bilaterali come forma generale o se una
società specifica è unilineare o bilaterale. Tali dibattiti hanno riguardato, per
esempio, la parentela nella Roma antica, e moderni sistemi degli Yoruba. Tuttavia,
la principale prova a sostegno dell’esistenza di istituzioni bilaterali strutturali
all’interno di diverse tradizioni, in particolare quelle europee, sono le varie regole
che definiscono gli standard della parentela cognatica e le assegnano diritti e
doveri. Formalmente, i sistemi di parentela bilaterali coinvolgono due forme
distinte: gruppi di discendenza bilaterale, un’istituzione relativamente rara,
organizzata sulla base di una discendenza bilaterale dagli antenati riconosciuti e
tribù, ovvero reti che si estendono attraverso entrambi i genitori di un individuo e
la parentela bilaterale» (trad. dell’autrice).
20 L’assimilazione del pensiero primitivo al nevrotico, completamente rigettata da
Franz Boas ma anche dai funzionalisti, sollevava grande interesse in Europa. Lo
studioso francese Lévy-Bruhl elaborò un sistema di differenziazione fra il pensiero
dei primitivi e quello degli esseri umani civilizzati. L’autore sosteneva che il
primitivo fosse dotato di prelogismo, una sorta di rappresentazione mistica della
realtà, in cui non esisterebbe differenza fra soggetto e oggetto, fra l’io e il mondo.
L’uomo primitivo vivrebbe quindi in una sorta di partecipazione mistica con la
natura che lo circonda.
21 Il termine “movimento” è più adeguato di “scuola”, in quanto i suoi
rappresentanti – tra cui Ruth Benedict e Margaret Mead – non si costituirono mai
in una vera e propria “scuola”.
22 Boas 1928: XXII (trad. dell’autrice).
23 Malinowski 2000: 6-7.
5. RUTH BENEDICT E MARGARET MEAD: CULTURE,
PERSONALITÀ, SESSO E TEMPERAMENTO

Il movimento Cultura e personalità


Nel periodo tra le due guerre, all’interno dell’antropologia americana
dominata dalle teorie di Franz Boas, si afferma il movimento Cultura e
personalità, che si dedica all’indagine dell’interazione tra la cultura e la
psicologia degli individui, partendo dalla comprensione delle radici dei
tratti comuni ai membri di una data società.
Troppo divisa in varie anime per essere considerata una vera e
propria scuola, in mancanza di un punto di vista ortodosso, di un
leader riconosciuto e di un coerente programma didattico (cfr. LeVine
e Shimizu 2001), il movimento è generalmente identificato con alcune
figure chiave: Ruth Benedict (1887-1948), Margaret Mead (1901-
1978), Ralph Linton (1893-1953) e, in misura minore, lo psicoanalista
Abram Kardiner (1891-1981). In queste pagine ci limiteremo a
considerare la prime due, perché maggiormente significative per
l’antropologia di genere.
Le idee di base del movimento Cultura e personalità possono essere
così sintetizzate: la chiave della sistematicità degli elementi comuni in
una cultura si trova nella comune esperienza di apprendimento
infantile – dunque il comportamento degli adulti è “culturalmente
modellato”, le esperienze della socializzazione infantile influenzano la
personalità dell’individuo adulto; a loro volta, le caratteristiche delle
personalità degli adulti influenzano le istituzioni culturali di ogni
società, producendo i caratteri comuni della cultura.
È dunque il comune processo di socializzazione e apprendimento che
crea modelli di personalità, formando emozioni, pensieri,
comportamenti, valori e norme culturali degli individui e permettendo
loro di adattarsi e funzionare come soggetti produttivi della specifica
società di cui sono membri. La ricerca etnografica nelle diverse culture
mostra come diverse pratiche di socializzazione ed educazione
costruiscano diversi tipi di personalità. Le personalità individuali
tendono ad adattarsi alla personalità dominante di una specifica
cultura e, in ogni cultura, alcuni individui si pongono in maniera
divergente o deviante.
Intenzione del movimento Cultura e personalità non era l’apertura di
un dibattito sull’origine – o le cause – delle personalità individuali, per
stabilire se esse siano determinate da elementi universali (come,
secondo la psicoanalisi, il complesso d’Edipo) o da aspetti
dell’educazione nella prima infanzia, ma la comprensione, come
scrisse Margaret Mead, dell’interazione tra doti e stile culturale
(«interplay between endowment and cultural style»). L’eredità
biologica era riconosciuta come un fattore esistente, ma la dinamica
della crescita – il nurture – era vista come il fattore dominante nel
modellare il comportamento umano. L’interesse per la psicologia, in
particolare per la psicologia dello sviluppo, fu condiviso da tutti i
rappresentanti del movimento.
Tra i testi più significativi che vi contribuirono si possono citare
Coming of Age in Samoa pubblicato nel 1928 e Sex and Temperament
in Three Primitive Societies del 1935 (entrambi di Margaret Mead) e
Patterns of Culture di Ruth Benedict, pubblicato nel 1934.
Benedict, in Patterns of Culture, mostrò come la cultura modelli le
personalità degli individui, agendo essa stessa come una personalità su
scala più ampia – comune a tutti gli individui facenti parte di quella
determinata etnia. In altri termini, è la cultura che produce gli
individui e non viceversa, anche se poi gli individui, con la loro
personalità, al tempo stesso individuale e collettiva, agiscono a loro
volta sulle istituzioni. Mead, con un ampio e approfondito lavoro di
campo di osservazione partecipante, documentò l’importanza dei
determinanti culturali nella formazione delle personalità.
Con questi lavori, le due studiose contribuirono in modo decisivo a
infrangere i pregiudizi basati sull’idea secondo cui i comportamenti
differenziati tra uomini e donne sono “naturali”, aprendo così la strada
alla teorizzazione del concetto di genere.

Ruth Benedict: cultura, individuo, personalità


Ruth Benedict si avvicinò all’antropologia durante gli studi di
filosofia dell’educazione svolti alla New School for Social Research di
New York, nel corso dedicato a “Sex in Ethnology” la cui docente era
Elsie Clews Parsons. Laureata in letteratura inglese, Benedict aveva
ripreso gli studi in un momento difficile della sua vita, segnato da un
matrimonio insoddisfacente e dalla scoperta di non poter aver figli.
L’interesse per l’antropologia determinò le sue scelte successive: dalla
New School for Social Research passò alla Columbia University, dove
studiò con Franz Boas, ottenendo il dottorato nel 1923 con una tesi
intitolata The Concept of the Guardian Spirit in North America1.
Il rapporto con Franz Boas si rivelò fondamentale per la sua futura
carriera e produzione scientifica. Benedict fu dapprima sua assistente,
poi divenne docente alla Columbia University. Quando nel 1937 Boas
si ritirò, la maggior parte degli studenti la consideravano la studiosa
più indicata a prendere il suo posto come direttrice del Department of
Anthropology, ma l’amministrazione della Columbia preferì nominare
Ralph Linton, anch’egli allievo di Boas, nonché veterano della Prima
guerra mondiale2. Nonostante questa palese discriminazione dovuta al
sessismo dell’ambiente accademico, Ruth Benedict fu per tutta la sua
vita una delle figure più influenti nell’antropologia americana, sia in
continuità con le idee di Boas (il relativismo culturale, il
particolarismo) sia elaborando nuovi approcci teorici – che trovarono
espressione nel movimento Cultura e personalità. Ruth Benedict difese
strenuamente l’idea boasiana del relativismo culturale. Per lei, tutte le
culture esprimono modelli di vita egualmente validi, che l’umanità ha
creato dai crudi materiali dell’esistenza. Ogni cultura è autonoma e
separata, ma uguale. Ognuna ha un senso nel suo contesto, e ciò che
l’antropologo deve fare è indagare il contesto per capire le azioni dei
gruppi e il loro perché.
Durante l’elaborazione della tesi e negli anni successivi, sotto la
direzione di Boas e la supervisione di Alfred Kroeber (1876-1960)3,
Ruth Benedict fece esperienza di studio nel Sudovest degli Stati Uniti,
tra i Serrano della California del Sud e gli Zuñi (nel 1935 pubblicò il
libro Zuñi Mythology), i Cochiti, gli Apache, e i Pima del Sudovest,
come pure tra le tribù dei Piedi Neri delle praterie. Seguendo
fedelmente la metodologia etnografica di Boas svolse un lavoro di
catalogazione delle diverse culture studiate, ma dall’esperienza sul
terreno passò presto alle questioni teoriche, interessandosi delle
problematiche psicologiche oltre che di quelle antropologiche.
Documentando le culture delle varie tribù, Ruth Benedict mise in
luce le grandi differenze, le vere e proprie polarizzazioni nei valori e
nell’approccio alla vita, che influenzavano i temperamenti degli
individui. A partire dall’intuizione che le culture stanno alla società
come i temperamenti agli individui, cercò di definire dei temperamenti
culturali propri a ciascun gruppo. Da qui la ricerca di Ruth Benedict si
spostò quindi sulle dinamiche tra individui e società, sui modi in cui la
cultura plasma le vite degli individui, sul rapporto tra ciò che noi
siamo come individui unici e ciò che la nostra cultura ci dice che
dovremmo essere, e sul tipo di scelte che conseguentemente operiamo.
I risultati del lavoro sul campo e della riflessione teorica sono
contenuti nel già citato Patterns of Culture (che sarà tradotto in
italiano nel 1960 con il titolo Modelli di cultura): attraverso la
definizione di “modello culturale”, Ruth Benedict delinea la sua teoria
della cultura e della personalità, mentre analizza la caratteristiche
culturali degli Zuñi, una tribù Pueblo del Nuovo Messico, dei Dobu
della Nuova Guinea, e dei Kwakiutl, stanziati sulla costa
nordoccidentale degli Stati Uniti.

Modelli di cultura
Prima di presentare le tre ricerche etnografiche, Benedict introduce il
quadro teorico in due capitoli dove definisce il termine “modello”
(pattern) nell’ambito della cultura, su cui così si esprime: «What really
binds men together is their culture – the ideas and the standards they
have in common»4. A ogni cultura, come a ogni individuo, corrisponde
un modello, più o meno consistente, di pensiero e azione. Ogni cultura
ha un sistema di credenza – idee, criteri, motivazioni, emozioni e
valori standardizzati – che le garantiscono una coerenza interna. Gli
individui sono legati alla forma culturale generale di cui sono
partecipi. Una cultura può essere compresa come una personalità
individuale e ogni persona all’interno di quella cultura può essere
compresa attraverso il modello, ovvero i tratti o tipi che caratterizzano
quella particolare cultura, mentre la natura di ogni tratto culturale
sarà diversa nelle differenti aree, a seconda degli elementi con cui è
stato combinato. Di conseguenza, se siamo interessati ai processi
culturali il solo modo in cui possiamo conoscere il significato dei vari
dettagli del comportamento è guardando ai motivi, ai valori e alle
culture che appaiono istituzionalizzati in quella cultura5.
Ruth Benedict applica, rispetto alle culture, il principio boasiano del
relativismo culturale: non dà nessun giudizio sulle culture o sui
temperamenti culturali che descrive. La novità della sua ricerca
consiste nel collegamento tra l’antropologia e la psicologia
nell’indagine del rapporto tra individuo e cultura.
A suo modo di vedere, la storia di vita di ogni individuo è un processo
di adattamento a modelli e regole in vigore nella sua comunità. Fin dai
primi istanti di vita, i costumi del mondo in cui è nato modellano le
sue esperienze e il suo comportamento futuro. Si può dunque parlare
di determinazione sociale della psiche, sebbene nessuna cultura sia
mai stata capace di annullare completamente i temperamenti dei
diversi membri che la compongono; esisteranno sempre alcuni
individui che, per i loro riflessi “naturali”, saranno incapaci di
adattarsi ai comportamenti che le culture richiedono. Questi esseri
umani “disorientati” esistono in tutte le culture e illustrano il dilemma
dell’individuo le cui propensioni naturali non sono previste dalle
istituzioni della sua cultura (torneremo su quest’aspetto nel prossimo
paragrafo affrontando il tema dell’omosessualità).
Benedict non enfatizza in Patterns of Culture le variazioni individuali
rispetto alla socializzazione e all’inculturazione, né la varietà dei
temperamenti dei singoli, quanto l’esistenza, in ogni cultura, di un
temperamento dominante, risultato dell’interiorizzazione delle norme
prescritte. Nella presentazione delle tre culture considerate – gli Zuñi
“moderati e cerimoniosi”, i Dobu “tetri e vendicativi” e i Kwakiutl “folli
di ambizione e di mania di grandezza”, Ruth Benedict delinea dei
“temperamenti culturali”, utilizzando le categorie di “apollineo” o
“dionisiaco” elaborate da Nietzsche6. Queste categorie permettono
peraltro di evitare il rischio che alcuni comportamenti siano ricondotti
senz’altro a forme psicopatologiche.

L’antropologia e le culture complesse


Per analizzare l’ampio ventaglio delle culture esistenti, Ruth Benedict
difende il metodo comparativo come il più indicato, in quanto
permette di valutarle in relazione l’una con l’altra, e di osservarne le
differenze. Il metodo comparativo consente inoltre di comprendere
adeguatamente «our own cultural processes»7. Il raffronto con la
cultura americana spinse Benedict a portare lo sguardo antropologico
oltre le società “primitive” e ad applicarlo alle società “moderne”.
Sempre in Patterns of Cultures sostiene che i “modelli” possono essere
meglio individuati nelle culture primitive, a causa della loro
semplicità, mentre la società americana (e in generale la cultura
“occidentale”) è troppo complicata e disordinata per poter essere colta
nella sua totalità dall’analisi etnografica:
Le civiltà occidentali, con le loro diversità storiche, la loro stratificazione in
professioni e classi, la loro incomparabile ricchezza di dettagli, non sono ancora
state abbastanza comprese per essere sintetizzate in un paio di slogan8.

Nonostante questi dubbi metodologici, alcuni anni dopo, allo scoppio


della Seconda guerra mondiale, Ruth Benedict si impegnò nello studio
dei caratteri nazionali tedeschi e giapponesi attraverso la fondazione
dell’Institute for Intercultural Studies (1941)9, il cui obiettivo era
occuparsi di culture che non potevano che essere studiate “a distanza”,
poiché la guerra rendeva impossibile il lavoro diretto sul terreno.
In questa attività, Benedict fu sollecitata dal governo americano, il
cui obiettivo era, una volta vinta la guerra contro i paesi dell’Asse,
aiutare il personale militare e diplomatico a capire come interagire con
i membri di queste società al fine di realizzare gli obiettivi desiderati
(pacificazione e trasformazione in società democratiche).
Gran parte del materiale che Benedict utilizzò e produsse fu
classificato come segreto, ma i principali risultati della sua ricerca
furono comunque pubblicati nel 1946 in The Chrysanthemum and the
Sword, un saggio sulla cultura giapponese che ottenne un enorme
successo anche presso il grande pubblico. Va tra l’altro evidenziato che
la decisione americana di non condannare a morte l’imperatore del
Giappone fu influenzata proprio dai lavori del gruppo di ricerca sulle
culture a distanza costituito intorno a Ruth Benedict, in particolare da
un rapporto di Geoffrey Gorer del 194210.
Negli anni successivi, l’approccio di Ruth Benedict fu assai criticato,
in quanto avrebbe utilizzato rappresentazioni stereotipate e non
avrebbe insistito a sufficienza sulle differenze di classe. D’altra parte,
all’epoca, era ancora convinzione comune che le società fossero
caratterizzate dalla presenza di ampi gruppi che condividevano
comportamenti omogenei. I lavori di Benedict sulle società complesse
furono criticati anche perché non basati su ricerche approfondite: nel
caso dello studio sulla cultura giapponese, per esempio, Benedict non
conosceva il Giappone e non ne parlava la lingua11, e molte delle sue
intuizioni sul concetto di onore in quella cultura si basavano su un
approccio comparativo. Nonostante questi limiti, l’applicazione
dell’antropologia a società complesse come quella giapponese e quelle
occidentali (come la società tedesca) fu un’esperienza pionieristica che
contribuì alla ridefinizione del campo dell’antropologia culturale e
all’apertura di nuovi ambiti d’indagine.
L’importanza dell’approccio antropologico nello studio delle società
complesse fu sostenuta anche da Margaret Mead nel progetto
Research in Contemporary Cultures (RCC) della Columbia University,
che fu portato avanti dal 1947 al 1952, di cui parleremo nei prossimi
paragrafi. Anche Clyde Kluckhohn (1905-1960) sostenne che
l’antropologia forniva una base scientifica in grado di analizzare i
problemi dell’età contemporanea, a partire dalle crudeltà commesse
durante la guerra. Pur riconoscendo le difficoltà che si incontrano nel
comprendere questi comportamenti, Kluckhohn sosteneva che la
grande lezione della cultura è che gli obiettivi verso i quali gli uomini
tendono non sono “dati” biologicamente. Se gli abitanti di Germania e
Giappone si fossero comportati in un certo modo a causa della loro
eredità biologica, non vi sarebbe alcuna speranza di fare di quei due
paesi delle nazioni pacifiche. Il concetto di cultura contiene dunque in
sé una speranza: la giusta comprensione del suo significato può essere
di aiuto nella lotta contro l’antisemitismo e il razzismo12. Se i leader
politici del mondo fossero convinti di questo semplice fatto e si
rendessero conto che anche la guerra è un comportamento appreso e
non innato o naturale, le tensioni internazionali potrebbero essere
risolte più facilmente e le possibilità di sopravvivenza dell’umanità
aumenterebbero. Le considerazioni di Kluckhohn sono ancora oggi di
grande attualità.

Relativismo culturale e morale sessuale: i berdache


A partire dal principio del relativismo culturale, Ruth Benedict mise
in luce come la “normalità” sia un dato culturalmente definito e possa
variare da una cultura all’altra. Sulla base dei dati empirici raccolti
dalle varie etnografie individuò alcune aree nelle quali la normalità e
l’anormalità risultano diversamente definite: la trance, la catalessi e
l’omosessualità.
In India, per esempio, le manifestazioni psichiche estreme di trance e
di catalessi sono entrambe considerate non solo normali, ma
espressioni di santità, mentre in molte culture moderne sono viste
come una deviazione dalla norma e non valorizzate.
L’omosessualità costituisce un altro esempio significativo di come i
paradigmi di normalità e anormalità varino a seconda delle culture.
Condannata come immorale nelle società cristiane, l’omosessualità era
invece considerata un fattore di stabilità nell’Atene di Platone. Anche
nelle società contemporanee esistono differenze importanti: rigettata
in quella americana, essa non è stigmatizzata presso varie tribù di
Nativi, dove gli uomini che hanno assunto le caratteristiche e il
comportamento del genere femminile sono considerati positivamente
sul piano etico. L’istituzione del berdache (il nome è di origine
francese e fu diffuso dagli esploratori francesi dell’America del Nord)13
fa sì che gli uomini possano ricoprire con prestigio vari ruoli di rilievo,
per esempio come guide nelle occupazioni femminili, guaritori e
organizzatori negli affari sociali.
È probabile che Ruth Benedict fosse indotta a riflettere
sull’omosessualità anche per la propria esperienza di vita. Sebbene
non si trovino in merito, nei suoi scritti, riferimenti espliciti, era
bisessuale ed ebbe una relazione con Margaret Mead. Entrambe
scelsero di non parlare esplicitamente della loro relazione: soltanto
dopo la morte di Mead furono rese pubbliche alcune lettere da cui
trapelavano la profondità e l’intimità della loro relazione14.
Margaret Mead rappresentò per Ruth Benedict molto di più di
un’amante o di una confidente: fu una fonte di incoraggiamento, una
donna ribelle in un mondo accademico maschile e maschilista, uno
spirito libero che indagava quello che le altre culture hanno da dire sui
ruoli che la società impone ed esplorava le infinite altre possibili scelte
individuali a disposizione delle donne. In un’epoca in cui il mondo
accademico era ancora prevalentemente maschile, Ruth Benedict ebbe
la forza di trasmettere agli studenti il pensiero critico e divergente,
mettendo in discussione gli stessi ruoli di genere, come ricorda
l’antropologa femminista Ruth Landes15.

Margaret Mead: l’impegno scientifico e sociale


È difficile riassumere in poche pagine l’enorme contributo che
Margaret Mead diede all’antropologia, alla scienza in generale e alla
società, con la sua opera di studiosa, di educatrice, di donna e di essere
umano. Nella prefazione all’edizione del 2001 di Coming to Age in
Samoa, Mary Pipher, che studiò antropologia a Berkeley negli anni
Sessanta, ricorda così l’influenza di Mead su quella generazione che
cambiò il volto dell’America:

Come studentessa di antropologia culturale a Berkeley, ho letto Mead. Tutti,


all’università, leggevamo Mead negli anni Sessanta. I suoi scritti e il suo
insegnamento avevano suscitato un’esplosione d’interesse per l’antropologia. Il
suo idealismo e il suo interesse per i problemi sociali parlavano alle nostre
sensibilità rivoluzionarie. La sua passione per il significato del cambiamento
aveva una grande rilevanza nell’era in cui Bob Dylan cantava The Times They Are
a-Changing.
Mead era l’autentica figlia dei fiori, interessata alla pace, alla giustizia, alla libertà
sessuale e all’avventura. Lavorava lei stessa senza sosta per il cambiamento
sociale e insegnava ovunque che noi potremmo e dovremmo costruire culture
migliori, che producano persone più felici, meno aggressive ed emozionalmente
più solide. La sua definizione di una cultura ideale era una cultura che trovasse un
posto per tutti i doni umani. Nessuna migliore definizione di una cultura ideale è
stata finora formulata16.

Nata a Philadelphia nel 1901, Margaret Mead frequentò il Barnard


College a New York City nel 1920, ottenendo il master in psicologia nel
1924, e, dopo aver frequentato dei corsi in antropologia con Franz
Boas e Ruth Benedict, si iscrisse al dottorato presso la Columbia
University. Ispirata dall’esempio di Ruth Benedict si concentrò sui
problemi dell’educazione, della personalità e della cultura. Nel 1925,
come previsto dal corso di studi antropologici, partì per un lavoro sul
campo nelle Samoa americane, isole polinesiane del Pacifico
meridionale. Andò a vivere in un villaggio di seicento persone sull’isola
di Tau, e, utilizzando il metodo dell’osservazione partecipante,
conobbe, osservò, interrogò, intervistò adolescenti e giovani,
condividendone le esperienze quotidiane.
Margaret Mead segnò, come antropologa, il percorso della disciplina,
influenzandone il futuro sviluppo tanto nel metodo quanto nei
contenuti. Fu curatrice dell’American Museum of Natural History di
New York, docente alla Columbia, alla Fordham e alla University of
Rhode Island, presidente dell’American Anthropological Association e
membro della National Academy of Sciences. Ma fu anche una donna
“impegnata” che cercò di applicare i principi dell’antropologia alla
soluzione di alcuni problemi sociali, come l’educazione dei bambini (la
Mead ebbe una grande influenza sugli educatori) o la salute mentale
(fu presidentessa della World Federation of Mental Health dal 1956 al
1957)17, nonché la diseguaglianza di genere. Il suo impegno sociale
aveva profonde radici nella sua storia familiare18, poiché era cresciuta
in una casa di intellettuali e liberi pensatori. La madre era una
sociologa che professava idee femministe. La nonna, psicologa
dell’infanzia e appassionata educatrice, è la lettrice per la quale
Margaret Mead pensò il suo primo libro, Coming of Age in Samoa, e a
lei inviava lettere perché potesse sperimentare qualcosa della gioia
della vita samoana19. Ebbe su di lei una grande influenza; anche per i
numerosi spostamenti della famiglia, Margaret fu a lungo educata in
casa dalla nonna anziché a scuola.
La sua influenza si spinse ben oltre il mondo accademico o scolastico:
le sue oltre trenta opere, a partire dal già citato e celebre Coming of
Age in Samoa, e i suoi articoli raggiunsero anche il grande pubblico.
Dal 1960 tenne una rubrica mensile sul “Redbook Magazine”20 che si
occupava della famiglia e dell’educazione dei figli. Attenta ai
cambiamenti nella società americana, utilizzò le lettere dei lettori
come uno strumento per conoscere meglio le preoccupazioni delle
donne americane. Fu soprannominata “grandmother to the world” e
dopo la morte fu insignita della Presidential Medal of Freedom. Il
servizio postale statunitense emise un Mead Commemorative Stamp
nel 1998.

La natura umana è malleabile: adolescenti in Samoa; uomini e


donne in Nuova Guinea
Comparando la vita delle adolescenti samoane con quelle delle coe-
tanee americane, Margaret Mead cercava di rispondere alle questioni
sulla cultura e la personalità sollevate dal lavoro di Boas e soprattutto
di Benedict:
Ho cercato di rispondere alla domanda che mi condusse a Samoa: i disturbi che
affliggono i nostri adolescenti sono causati della natura dell’adolescenza o dalla
civiltà? In condizioni diverse l’adolescenza presenta un quadro diverso?21

Attraverso il suo lavoro di osservazione, Mead constatò che il


passaggio dell’adolescenza in Samoa non era segnato dai turbamenti
emozionali o psicologici, dall’ansietà e dalla confusione che segnavano
le giovani americane. Questo dato metteva dunque in discussione
l’universalità della crisi adolescenziale che si verifica nelle società
occidentali: essa risultava sconosciuta in una società come quella
samoana, dove la preparazione all’età adulta è un processo continuo
che inizia nelle prime fasi della vita, piuttosto che una serie di tappe
che delineano un processo di transizione ben più stressante.
All’importanza scientifica della scoperta – che affermava la priorità
della cultura e della socializzazione rispetto ai dati biologici –
Margaret Mead aggiunse quella educativa:
Ho scritto questo libro come un contributo alla nostra conoscenza di quanto il
carattere e il benessere umano dei giovani dipendano da ciò che imparano e dalle
modalità sociali della società in cui sono nati e allevati. Questo è ancora qualcosa
che abbiamo bisogno di sapere se vogliamo cambiare le nostre istituzioni sociali,
al fine di evitare il disastro. Nel 1928, il disastro che avevamo davanti era una
guerra incombente; nel 1949, il disastro era una possibile guerra nucleare. Oggi è
anche la crisi ambientale, tecnologica e demografica a minacciare la nostra
esistenza22.

Mead allargò inoltre la problematica educativa alla questione della


sessualità. Partendo dall’osservazione che le donne samoane
coltivavano relazioni sessuali casuali prima di impegnarsi nel
matrimonio e nella famiglia, senza che ciò implicasse alcuna
conseguenza sul loro futuro, e che ciò sembrava anzi ridurre stress e
nevrosi, Margaret Mead prese di fatto posizione a favore della tesi
secondo cui gli adolescenti crescono psicologicamente più sani se
hanno delle attività sessuali con partner multipli prima del
matrimonio.
Al suo ritorno negli Stati Uniti, Margaret Mead ricevette il dottorato e
pubblicò Coming of Age in Samoa con la prefazione di Franz Boas, che
aveva compreso l’importanza del lavoro della sua allieva
Cortesia, modestia, buone maniere, conformità a norme etiche sono definite
universali, ma ciò che costituisce cortesia, modestia, buone maniere, e norme
etiche definite non è universale. È istruttivo sapere che le norme differiscono nei
modi più inaspettati23.

Il libro includeva un’illuminante introduzione, un capitolo di


apertura dedicato a raccontare “un giorno a Samoa” e due capitoli
conclusivi su come trarre insegnamenti dalla cultura samoana per
migliorare l’esperienza degli adolescenti negli Stati Uniti. Rappresentò
quindi molto più di un saggio antropologico e appassionò il grande
pubblico. Come previsto da Boas e Mead, di forte impatto furono
soprattutto le argomentazioni sviluppate intorno alla sessualità.
Risultò particolarmente sconvolgente, per l’epoca, l’osservazione
secondo cui le giovani donne samoane tendono a procrastinare il
momento del matrimonio per molti anni, pur praticando
occasionalmente attività sessuale, e una volta sposate si stabilizzano e
allevano con successo i propri figli.
Una volta provato tramite un lavoro di campo focalizzato
sull’adolescenza che la società determina la personalità più della
biologia e che l’educazione può influire sulla formazione della
personalità24, Margaret Mead poteva confrontarsi con la tematica del
sesso e del temperamento.
Nel corso degli anni Venti e Trenta, Mead svolse un ampio lavoro di
campo in diverse parti del mondo25. Dopo il suo primo soggiorno
solitario a Samoa, fu sempre affiancata da un collaboratore: tra questi,
il suo secondo marito, lo psicologo neozelandese Reo Fortune, e il suo
terzo marito, l’antropologo britannico Gregory Bateson, che sposò nel
193526. Insieme, Mead e Bateson condussero due anni di lavoro di
campo intensivo a Bali, perseguendo i propri diversi interessi di
ricerca. Insieme aprirono la strada al ricorso al film come risorsa per la
ricerca antropologica.
Oltre ai Balinesi, tra i gruppi studiati da Mead vanno ricordati i
Manus delle isole dell’Ammiragliato, e gli Arapesh, i Mundugumor, i
Tchambuli e gli Iatmul della Nuova Guinea. Fu proprio lo studio di tre
popolazioni della Nuova Guinea (Arapesh, Mundugumor e
Tchambuli), che permise a Mead di mostrare che i ruoli sessuali
(all’epoca il termine “genere” non era ancora in uso) differiscono nelle
diverse società, e sono culturalmente determinati piuttosto che innati,
tant’è vero che un comportamento considerato maschile in una cultura
può essere considerato femminile in un’altra.
Il lavoro sul campo in Nuova Guinea evidenziò che le donne erano
dominanti tra i Tchambuli, senza che questo causasse problemi sociali.
Tra gli Arapesh, invece, uomini e donne vivevano in una società
cooperativa, condividendo gli orti, con una particolare attenzione
egualitaria nella crescita dei figli, in un sistema di relazioni
prevalentemente pacifiche tra i membri della famiglia. Tra i
Mundugumor, invece, era vero il contrario: gli uomini e le donne
erano di temperamento bellicoso. Mead ne concluse che le culture – e
non l’anatomia – plasmano il comportamento maschile e femminile. I
risultati della ricerca furono pubblicati in Sex and Temperament in
Three Primitive Societies (1935), che amplia ed elabora le idee
espresse in Coming of Age in Samoa, separando il biologico dal
culturale e infrangendo i pregiudizi basati sulla nozione di “naturale”
nella formazione delle personalità.
Sex and Temperament è uno dei primi lavori che suggerisce che la
mascolinità e la femminilità riflettono dei condizionamenti culturali e
che le differenze tra i sessi non sono interamente determinate dalla
biologia: per questa sua anticipazione del concetto di genere, il testo
diventerà una pietra miliare per la riflessione portata avanti dal
movimento femminista americano, che nella sua seconda fase (1920-
80), una volta conquistato il diritto di voto, si orientò verso i temi della
sessualità e dei ruoli nella vita familiare, oltre che politica e sociale.
Sebbene non le piacesse essere definita femminista, Margaret Mead è
considerata una pioniera del movimento. Le sue opinioni sui ruoli
maschili e femminili erano senz’altro radicali per il tempo in cui viveva
e contribuirono ad abbattere molti tabù che esistevano nella società
americana alla metà del XX secolo. Con il suo elevato profilo
accademico e scientifico e la sua esposizione mediatica e politica,
grazie alla diffusione delle sue pubblicazioni e alla sua attenzione ai
temi della struttura della famiglia, al sesso e all’istruzione, Margaret
Mead ha contribuito con forza alla trasformazione delle norme morali
legate alla sessualità.
Senza voler indicare un modello di famiglia e di società adeguate alla
popolazione multiculturale degli Stati Uniti, Mead ha lottato per il
cambiamento delle convenzioni sociali legate ai ruoli di genere e alla
morale sessuale. La sua convinzione che il comportamento umano non
è biologicamente determinato, ma si adatta alla cultura dominante, ha
nutrito la speranza di molti per un cambiamento positivo della società
in un momento in cui i segnali dell’avvento di un mondo pacifico e
armonioso erano rari.

Conclusioni
Abbiamo spiegato che si deve di fatto a Margaret Mead l’elaborazione
del concetto di genere, nella sua opera Sex and Temperament. Un
altro ambito in cui al suo lavoro va riconosciuta una valenza
pionieristica è il passaggio del focus dell’antropologia dallo studio
delle società “primitive” alle società occidentali. Il testo più
significativo di questo passaggio è The Study of Culture at a Distance,
pubblicato nel 1953 con Rhoda Métraux. Nel testo, la cultura viene
definita come
il comportamento totale condiviso, appreso, di una società o di un sottogruppo.
Così possiamo parlare di una “cultura”, usando il termine per il tutto, o per un
elemento di comportamento “culturale”, riferito al tutto. La situazione esemplare
su cui si basa il concetto antropologico di cultura è quella di una società
funzionalmente autonoma che ha mantenuto la sua esistenza attraverso un
numero sufficiente di generazioni perché ogni stadio della vita dell’individuo sia
incluso nel sistema27.

Questa definizione vale tanto per le società che venivano dette


“primitive” tanto per le società occidentali, che presentano un
“carattere nazionale” e una suddivisione interna in piccole comunità o
sottogruppi. Per questo Margaret Mead insiste sulla necessità di
distinguere il livello nazionale – per esempio della cultura degli Stati
Uniti –, da quello della tradizione afroamericana o di un gruppo di
mezzadri di colore nel Sudest americano. La celebre antropologa
individua una serie di strumenti metodologici per lo studio
antropologico delle culture occidentali, che comprendono l’analisi
della letteratura, delle culture popolari e del cinema. Va ricordato che
lo studio delle culture popolari si stava affermando in Gran Bretagna
nell’ambito dei cultural studies (Leavis, Hoggart e Williams): la ricerca
di Mead, attenta principalmente alle differenze tra le culture,
s’intersecava con un approccio attento alla diversità infraculturale, tra
la cultura dominante e quella dei dominati (le classi subalterne). Gli
studi di genere si sarebbero introdotti nello spazio interdisciplinare
che si apriva intorno alle molteplici dimensioni della differenza.

1 Lo “spirito guardiano”, elemento culturale presente tra i Nativi del Nord


America, assiste un individuo durante la caccia o la lotta, comparendogli in sogno o
in visione.
2 Il presidente della Columbia University, Nicholas Murray Butler, colse anzi
l’occasione per marcare una rottura con le idee di Boas, ritenute troppo
progressiste sul tema dell’uguaglianza tra uomini e donne.
3 Allievo di Franz Boas, con cui sostenne il dottorato. Tra le sue opere principali,
Cultural and Natural Areas of Native North America (1939) e, con Clyde
Kluckhohn, The Nature of Culture (1952).
4 Benedict 1934: 16.
5 Cfr. ibidem: 46, 37 e 49.
6 I modelli di personalità descritti sono effettivamente quattro: “apollineo”

(controllo delle emozioni attraverso cerimonie), “dionisiaco” (estremizzazione dei


sentimenti e delle passioni), “paranoico” (sospetto e invidia) e “megalomane”
(delirio di potenza e aspirazione al prestigio sociale).
7 Benedict 1934: 56.
8 Ibidem: 54 (trad. dell’autrice).
9 Anche Margaret Mead collaborò alla fondazione dell’Institute for Intercultural
Studies.
10 L’antropologo inglese Geoffrey Gorer (1905-1985) è noto soprattutto per

l’applicazione delle tecniche psicoanalitiche all’antropologia. Dal 1930 visse e


lavorò negli Stati Uniti, dove pubblicò, nel 1943, Themes in Japanese Culture, per
poi tornare nel 1957 in Inghilterra. Il suo testo più conosciuto è Death, Grief, and
Mourning in Contemporary Britain (1965).
11 Ruth Benedict non poté recarsi di persona nel paese del Sol Levante: le sue
fonti furono giapponesi che vivevano in America (Nissei) o prigionieri di guerra.
12 Kluckhohn 1949: 40.
13 Questa la definizione dell’Enciclopedia Treccani
(http://www.treccani.it/enciclopedia/berdache/): «giovane uomo che per ragioni
diverse (fisiologiche, psicologiche, culturali) sceglie di vestirsi da donna
assumendone ruolo e status» (ultima consultazione 8.3.2016).
14 Cfr. Banner 2003. Nonostante i matrimoni e il lavoro sul campo in diverse
parti del mondo, Mead e Benedict rimasero vicine per 25 anni fino alla morte di
Benedict (cfr. Lapsley 2001). Sia Ruth sia Margaret erano favorevoli alle dottrine
dell’amore libero, ma credevano anche nel matrimonio e temevano di
compromettere la loro carriera rivelando la loro relazione (Banner 2003).
15 Ruth Schlossberg Landes (1908-1991), antropologa culturale nota per i suoi

studi sul candomblé brasiliano (pubblicati nel 1947 in The City of Women), è
conosciuta anche per il suo lavoro pionieristico nei campi dell’antropologia di
genere e dell’antropologia dell’educazione. Le donne rappresentarono una delle
principali aree di ricerca da lei frequentate. Cfr.
http://jwa.org/encyclopedia/article/landes-ruth-schlossberg (ultima consultazione
8.3.2016).
16 Pipher 2001: XVI e XVII (trad dell’autrice).
17 Margaret Mead mise in questione l’idea di “salute mentale” basata su una
visione etnocentrica. In un testo del 1949, The Mountain Arapesh (pubblicato in
“Anthropological Papers of the American Museum of Natural History”, vol. 41,
part. 3), sostenne che i test di Rorschach, applicati a popoli indigeni, non
insegnano all’etnologo nulla che egli non conosca già attraverso i metodi propri
dell’etnologia.
18 Cfr. http://www.notablebiographies.com/Ma-Mo/Mead-
Margaret.html#ixzz3itvEbRj7 (ultima consultazione 8.3.2016).
19 Mead 1973: XXIII.
20 Rivista americana rivolta al grande pubblico femminile, fondata nel 1903.
21 Mead 1928: 6-7 (trad. dell’autrice). Per dovere di cronaca va ricordato che nel
1999 un capo samoano pubblicò Coming of Age in American Anthropology:
Margaret Mead and Paradise (Malopa’upo 1999). Il libro contiene una dura critica
del lavoro di Mead, basato, secondo l’autore, su un programma di ricerca che rivela
la profonda arroganza caratteristica di gran parte dell’antropologia, che ha dipinto
immagini di società “primitive”, assumendo che i “primitivi” non debbano
nemmeno essere consultati in merito alla validità del quadro. In ambito
accademico il libro è stato sostanzialmente ignorato, ma va riconosciuto che
prende in esame il lavoro di Mead da un valido punto di vista alternativo e
focalizzando questioni importanti.
22 Mead 1973: XXV (trad. dell’autrice).
23 Boas 1928b: XXII (trad. dell’autrice).
24 Citiamo qui il lavoro sui Manus della Nuova Guinea, Growing Up in New
Guinea (1930), nel quale Mead confuta l’idea che i “primitivi” siano come dei
bambini, ovvero si trovino in una fase iniziale dello sviluppo psicologico. Sulla base
dei suoi risultati, Mead sostenne che lo sviluppo umano dipende dall’ambiente
sociale.
25 Nel corso della sua vita Margaret Mead studiò sette diverse culture del Pacifico
e, negli Stati Uniti, gli Omaha.
26 Oltre ai suoi tre matrimoni, come già ricordato Mead coltivò una stretta
relazione (anche sessuale) con Ruth Benedict, che non fu peraltro il solo rapporto
intimo di Mead con una donna. Per 17 anni (1961-78), infatti, convisse con Rhoda
Métraux (Banner 2003).
27 Mead, Métraux 2000: 22 (trad. dell’autrice).
6. L’ANTROPOLOGIA IN FRANCIA TRA LE DUE GUERRE
MONDIALI: MARCEL MAUSS E GERMAINE TILLION

Paul Broca e la Société d’Anthropologie de Paris


Dopo aver consacrato quattro capitoli all’antropologia culturale
americana, nel cui ambito, tra la fine del XIX secolo e la metà del XX,
nacquero le idee che ispirarono l’antropologia femminista e il concetto
di genere, ritorniamo in Europa, e in particolare in Francia, alla
ricerca del percorso – peraltro tortuoso – che fece di questo paese uno
dei centri di elaborazione della teoria antropologica e del pensiero
femminista. È in Francia infatti che, nei primi anni dopo la fine della
Seconda guerra mondiale, vennero pubblicate due opere fondamentali
per l’antropologia di genere: Le strutture elementari della parentela
di Claude Lévi-Strauss, del 1948, e Il secondo sesso di Simone de
Beauvoir, del 1949.
Abbiamo lasciato la Francia alla metà dell’Ottocento, quando
l’antropologia faticava a staccarsi dalle scienze naturali. Anche nella
seconda metà del secolo l’antropologia francese non giunse a
distinguere tra la storia naturale e la storia sociale dell’uomo. Non a
caso si deve a un medico, Paul Broca (1824-1880), la fondazione, nel
1859, della Société d’Anthropologie de Paris (SAP).
Figura complessa, quella di Paul Broca: scienziato di riconosciuta
autorità, fu autore di importanti ricerche sul funzionamento del
cervello e i meccanismi dell’afasia (è considerato uno dei fondatori
delle neuroscienze). Fu profondamente anticlericale e politicamente
progressista di fronte alle questioni sociali, ma al tempo stesso
difensore del concetto “scientifico” di razza, che cercò di dimostrare
tramite la pratica tradizionale della misurazione dei crani. Con
l’obiettivo di “riformare” l’antropologia, fissò regole più “scientifiche”
per la cranioscopia, sulla base delle quali tentò di stabilire una “scala
di eccellenze” al cui vertice si trovavano i Bianchi e al fondo gli
Ottentotti o i “selvaggi australiani”, al confine dell’universo
indifferenziato degli animali. Giunse perfino a paragonare i “negri”
alle grandi scimmie antropomorfe1.
Tra le motivazioni che spinsero Paul Broca a fondare la Société
d’Anthropologie va annoverato l’isolamento delle sue posizioni
poligeniste all’interno della Société de biologie, presieduta da Pierre
Rayer (1793-1867), nella quale, da Buffon in poi, risultavano
dominanti le tesi monogeniste (Rayer stesso ne era un convinto
assertore)2. Inizialmente, dunque, la Société d’Anthropologie de Paris
si presentava come uno spazio dove il poligenista Paul Broca era
impegnato a provare scientificamente la gerarchia delle razze!
A onore di Broca va almeno ricordato il suo rifiuto dell’idea
dell’esistenza di una “razza ariana”, sostenuta in Francia da un certo
Honoré Chavée, autore di Les langues et les races, poligenista come
Broca. Chavée puntava a dimostrare le teorie poligeniste tramite la
definizione della linguistica come scienza naturale, e ipotizzava
l’esistenza di due razze sulla base della differenza tra lingue
indoeuropee e semitiche.
Le differenti motivazioni che, negli stessi anni, spinsero Paul Broca
in Francia e Lewis H. Morgan negli Stati Uniti a interessarsi
all’antropologia, illustrano forse meglio di qualsiasi altro dato il solco
esistente all’epoca tra l’antropologia europea e quella americana,
nonché le ragioni per cui il pensiero razzista si radicò così
profondamente nell’antropologia europea, che non distingueva ancora
tra storia naturale e storia sociale dell’uomo. Morgan si interrogava
sulle possibilità di incorporare i Nativi americani nella nuova nazione
che si stava costruendo: il suo avvicinamento ai Seneca era
determinato da preoccupazioni culturali e, in gran parte, politiche.
Broca, invece, che accettava pienamente il concetto di divisione tra le
razze, non aveva nessun interesse culturale o “politico” per le
popolazioni non-europee, in maggioranza colonizzate e sottomesse alle
potenze europee: le sue preoccupazioni – nello studiare gli Ottentotti o
gli aborigeni – erano esclusivamente “scientifiche”, finalizzate alla
comprensione della storia naturale dell’uomo. Il suo rifiuto dell’idea di
una differenza razziale tra popolazioni parlanti lingue indoeuropee e
semitiche non aveva motivazioni etiche e universaliste, ma
esclusivamente scientifiche: come medico, Broca aveva chiaro che
l’organo della parola è assolutamente identico per i due gruppi di
parlanti. La linguistica non poteva quindi in alcun modo essere
considerata una scienza naturale ed essere evocata per definire delle
differenze razziali.
Data la vicinanza dell’antropologia alle scienze naturali, il termine
usato in Francia per designare l’antropologia culturale e sociale fu, per
tutto il XIX e la prima metà del XX secolo, “etnologia”. L’uso del termine
“antropologia” si diffuse soltanto negli anni Cinquanta del XX secolo,
quando gli etnologi francesi, inseriti ormai in un ambiente accademico
internazionale, vollero in questo modo facilitare la comunicazione con
i colleghi anglosassoni (Li-Chuan Thau 2012a).

L’Institut d’Ethnologie de l’Université de Paris: una costruzione


coloniale approdata alla Resistenza
Per tutto il XIX secolo, mentre l’antropologia era considerata una
branca delle scienze naturali, all’etnologia – confinata all’attività
museale – mancava ancora lo statuto di disciplina universitaria3. Solo
a partire dal 1925, con la fondazione dell’Institut d’Ethnologie de
l’Université de Paris da parte del Ministère des Colonies (il ministro
competente era, all’epoca, il radical-socialista Édouard Daladier),
l’etnologia acquisì uno statuto accademico e conobbe un rapido
sviluppo, grazie a figure come Marcel Mauss, Lucien Lévy-Bruhl e Paul
Rivet.
La matrice coloniale dell’Institut d’Ethnologie appare quindi
evidente: fondato dal Ministère des Colonies, ne dipendeva per le
sovvenzioni, che variavano in funzione dell’interesse che le
amministrazioni coloniali nutrivano per le sue attività, e della
relazione con l’École coloniale, la scuola per i funzionari delle colonie
fondata nel 1888 (uno dei compiti dell’istituto era appunto quello di
formare i funzionari coloniali con nozioni di etnografia, antropologia e
linguistica: cfr. Li-Chuan 2012a).
Le finalità dell’istituto testimoniano l’intreccio tra dimensione
coloniale e accademica: coordinare, organizzare e sviluppare gli studi
etnologici, in particolare quelli che si riferiscono alle colonie francesi;
formare degli etnologi professionisti «e dare a tutti quelli che, viventi o
destinati a vivere nelle colonie, hanno il gusto degli studi etnologici,
l’istruzione necessaria per perseguirli utilmente»; pubblicare i loro
lavori.
Al tempo stesso, con l’ancoraggio universitario, i tre fondatori –
Lucien Lévy-Bruhl, il primo direttore dell’istituto, professore di
filosofia alla Sorbona, e i due segretari generali, Marcel Mauss,
professore di sociologia all’École Pratique des Hautes Études (passerà
poi al Collège de France) e Paul Rivet, che avrà la cattedra di
antropologia all’Institut d’Ethnologie dal 1928 e trasformerà il MET nel
Musée de l’Homme nel 1937 – si prefiggevano lo scopo di valorizzare
gli studi etnologici e di svilupparli su solide basi scientifiche. Va anche
notato che l’istituto intendeva promuovere tutti gli studi etnografici,
indipendentemente dal loro oggetto, sia rivolti alle culture popolari
europee sia alle “altre”, con un’equiparazione che per l’epoca costituiva
una visione progressista.
Fino al secondo dopoguerra, l’Institut d’Ethnologie rappresentò
l’unica istituzione incaricata di insegnare l’antropologia in Francia e
abilitata a conferire diplomi universitari nella materia – o un diploma
di fine studi, o un certificato di studi superiori d’etnologia, rilasciato
dalla facoltà di Lettere o dalla facoltà di Scienze, a seconda
dall’orientamento del candidato.
Nell’istituto, principalmente sotto la direzione di Marcel Mauss, e nel
Musée de l’Homme, sotto la direzione di Paul Rivet, si formò la prima
generazione di antropologi e di antropologhe francesi (le donne, come
vedremo, furono numerose). Il loro lavoro sul campo si svolse
principalmente in Africa, in territori coloniali francesi: Marcel Griaule,
Germaine Dieterlen4 e Solange de Ganay vissero presso i Dogon
nell’area di Bandagiara del Mali; Denise Paulme5, Deborah Lifchitz6 e
André Schaeffner presso i Dogon di Sangha (sempre nel Mali);
Germaine Tillion e Thérèse Rivière nell’Aurès, nelle montagne dell’Est
algerino. Alcuni di loro parteciparono alla missione etnografica Dakar-
Djibouti condotta dal 1931 al 1933 sotto la direzione di Marcel Griaule.
Nel 1940, questa generazione si trovò travolta dalla tragedia della
Seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista, e nel mezzo del
drammatico scontro tra concezioni radicalmente opposte dell’uomo:
quella universalista dell’unità del genere umano e quella razzista,
gerarchica e genocidaria dei nazisti.
I giovani antropologi furono tra i primi a organizzare la Resistenza in
quello che fu chiamato il “réseau du Musée de l’Homme”, e per questo
pagarono un prezzo altissimo – fucilazioni e deportazioni segnarono il
loro destino.
Non tutti gli etnologi francesi si schierarono dalla stessa parte:
alcuni, specialmente quelli vicini al MNATP (il Musée National des Arts
et des Traditions Populaires), si lasciarono sedurre dalla “rivoluzione
nazionale” del maresciallo Pétain, a capo del governo collaborazionista
con i nazisti7. Florence Weber, nella sua breve storia dell’antropologia,
parla a questo proposito di “zona grigia”: se alcuni membri della
direzione del museo parteciparono alla Resistenza, il gruppo dirigente
fu piuttosto sedotto dal rilancio del folklore voluto dal governo Pétain.
Il vicedirettore André Varagnac fu attivo nell’organizzazione delle feste
del folklore promosse dal regime. Una delle conseguenze delle
prossimità tra tradizioni popolari e regime di Vichy fu la scomparsa
del folklore (il termine assunse anzi un carattere dispregiativo) dalla
ricerca scientifica negli anni del dopoguerra.

Marcel Mauss e il concetto di “fatto sociale totale”


Marcel Mauss (1872-1950) è considerato il padre
dell’etnologia/antropologia culturale francese. Si formò inizialmente
come filosofo e, profondamente influenzato dallo zio Émile Durkheim,
si specializzò in sociologia delle religioni, disciplina che insegnò per
lunghi anni. Nello studio delle religioni, entrò in contatto con i lavori
antropologici di Tylor e Frazer. Come Frazer, Mauss non fu un
antropologo sul campo; egli utilizzava materiale di seconda mano e
spesso tradotto. Fece perciò parte di quelli che gli antropologi
anglosassoni sul campo chiamavano “armchair anthropologists”, ma
questo epiteto sprezzante risulta fuori luogo di fronte al contributo
scientifico che Mauss seppe apportare alla disciplina.
Per Mauss, l’etnologia va intesa sia come riflessione globale su
determinati fatti sociali, sia come inchiesta concreta e diretta, volta
all’indagine di reali situazioni sociali. Egli incoraggiò i suoi allievi a
fare ricerca sul campo, fornendo loro gli strumenti metodologici. Gli
insegnamenti del suo corso “Petites Instructions d’ethnographie
descriptive”, tenuto dal 1926 al 1939, furono raccolti nel Manuel
d’ethnographie, pubblicato nel 1947 dalla sua allieva Denise Paulme
Schaeffner, che recuperò le stenotipie da vari corsisti8.
Mauss propone un nuovo approccio al fatto sociale, definito come
“totale” quando implica dimensioni al tempo stesso economiche,
giuridiche, religiose, estetiche, simboliche. In altri termini, un fatto
sociale totale coinvolge gran parte delle dinamiche della comunità. Per
fatto sociale totale si intende «un tipo di fenomeno che sia al tempo
stesso espressione e sintesi dell’insieme della vita sociale di una data
società. Lo studio di certe configurazioni privilegiate e strategiche
permetterà di comprendere il senso reale delle relazioni sociali»9. Il
fatto sociale totale esprime l’idea che un numero rilevante di fenomeni
sociali non attengono a un solo livello, «che mettono in movimento la
totalità della società e delle sue istituzioni»10.
Per Mauss il fatto sociale totale appartiene alla realtà empirica,
perché la vita sociale è un “tutto”, i cui vari aspetti sono strettamente
interconnessi: scopo dell’antropologia è la ricostruzione di questa
complessità11.
Mauss elabora il concetto di fatto sociale totale nel celebre Essai sur
le don (Saggio sul dono), apparso nel 1923 sulla rivista “L’Année
sociologique”. Non avendo mai svolto lavoro di campo, Mauss fa
riferimento a fenomeni descritti negli studi etnografici di Franz Boas,
Bronisław Malinowski o del francese Charles G. Seligman, riguardanti
le società del Pacifico della Polinesia (Samoa) o della Melanesia
(Nuova Caledonia, Trobriand, Nuova Guinea) e le tribù native della
costa nordoccidentale dell’America.
Mauss analizza il fenomeno della kula delle isole Trobriand, un vasto
sistema di scambio cerimoniale di doni e controdoni che attenua
l’ostilità reciproca e afferma il prestigio, descritto per la prima volta da
Malinowski in Argonauts of the Western Pacific (1922). Egli considera
poi il potlatch delle tribù del Nordovest americano dove la logica
dell’onore è spinta al parossismo: capi e nobili rivaleggiano nella
prodigalità in un consumo sfrenato che porta alla distruzione delle
ricchezze12.
Vi è in questi sistemi, spiega Mauss, un triplice obbligo: dare, ricevere e
scambiarsi i doni. Il dono è di fatto interessato (socialità, prestigio, dominio,
seduzione, rivalità), ma è assolutamente irriducibile a interessi puramente
commerciali: Mauss annulla così l’utilitarismo classico proprio dell’economia
politica. Perché il dono ricevuto è necessariamente ricambiato? Perché la natura
del dono implica – infine – un obbligo. Non ricambiare, significa perdere faccia e
prestigio. C’è un spirito della cosa donata, una forza intrinseca e una parte di sé
nell’oggetto. Questi sistemi di scambio di doni sono dei “fatti sociali totali”, ossia
mettono in moto tutta la società e le sue istituzioni13.

Oltre che alla carriera accademica, Marcel Mauss si dedicò alla


politica. Aderendo da giovane al partito socialista, militò tra i
dreyfusardi (sostenitori del colonnello Dreyfus, ingiustamente
condannato per tradimento e vittima dell’antisemitismo), frequentò
Jean Jaurès, segretario del partito socialista, partecipò nel 1904 alla
fondazione del giornale “L’Humanité”. Si consacrò all’esperienza delle
università popolari e dei movimenti cooperativi. La sua adesione a un
socialismo pluralista e liberale traspare nelle conclusioni dell’Essai sur
le don, dove il dono è considerato la forma arcaica dello scambio, e in
cui viene ricordato tutto ciò che si è perduto nella qualità dei rapporti
umani nel momento in cui lo scambio è diventato puramente
economico.

Una generazione di antropologi nella tormenta della Seconda guerra


mondiale: Germaine Tillion
Nel 1940, a seguito dell’occupazione nazista della Francia, Marcel
Mauss (di origine ebraica) fu obbligato a ritirarsi dall’Institut
d’Ethnologie. Egli non si riprenderà mai dagli orrori dell’occupazione
nazista, e specialmente dalla fucilazione di due dei suoi allievi più cari,
Boris Vildé e Anatole Lewitsky, membri della Resistenza, di cui il
Musée de l’Homme fu un centro nevralgico.
Le donne antropologhe pagarono anch’esse un prezzo altissimo alla
guerra. Deborah Lifchitz è il caso più drammatico: nata in Russia, a
Karkhiv, nel 1907, ne fuggì con la famiglia nel 1919 in seguito alla
Rivoluzione d’ottobre, studiò lingue orientali e diventò esperta delle
lingue semitiche dell’Etiopia (in particolare il falasha). Partecipò alla
missione Dakar-Djibouti nel 1932-33 e fece ricerche presso i Dogon
con Denise Paulme14. Scrisse un libro e diversi articoli ancora oggi
fondamentali per la ricerca sulle lingue etiopi. Arrestata e poi
deportata dai nazisti perché ebrea, morì ad Auschwitz nel 1942.
Yvonne Oddon, bibliotecaria al Musée de l’Homme, fu deportata nel
campo di concentramento di Ravensbrück, come pure Germaine
Tillion. Vale la pena di soffermarsi su quest’ultima, la cui figura è
particolarmente importante per l’antropologia di genere.
Originaria dell’Alta Loira, Germaine Tillion15 ha sei anni meno di
Margaret Mead e, come lei si appassiona di antropologia; come lei,
decide dopo il diploma all’Institut d’Ethnologie nel 1932 di stilare una
tesi basata sul lavoro di campo, sotto la direzione del suo maestro
Marcel Mauss. Come Mead, Germaine viaggia per svolgere le sue
ricerche16 (a ventisette anni vive per anni con la tribù seminomade
degli Ah-Abderrahman, nell’Aurès, massiccio montagnoso algerino)17.
Come Mead, sostiene brillantemente la tesi (Morphologie d’une
république berbère: les Ah-Abder-rahman, transhumants de l’Aurès
méridional), comincia a pubblicare i suoi primi studi etnologici ed è
assunta al CNRS. Tra il 1934 e il 1940, Germaine Tillion compie in
totale quattro missioni nel Sud dell’Algeria.
Nel 1940, le vite finora quasi parallele delle due antropologhe si
biforcano verso percorsi che più nulla hanno in comune. Nel
settembre del 1939 la Germania scatena la guerra in Europa; nel 1940
la Francia è invasa e Germaine partecipa alla Resistenza con il gruppo
del Musée de l’Homme: Yvonne Oddon, Paul Rivet, Anatole Lewitsky,
Boris Vildé. Nel 1941 cominciano gli arresti, prima Lewitsky e Oddon,
poi Vildé. Tillion è arrestata insieme alla madre Émilie nel 1942 e,
dopo diversi mesi nelle prigioni francesi, deportata a Ravensbrück.
Così descrive Germaine Tillion le sue prime impressioni, quello che
poi definirà come l’haleine du camp (“l’alito fetido del campo”):
Tutti gli uomini e le donne che hanno avuto la sfortuna di conoscere un campo di
concentramento hanno in seguito espresso la percezione immediata e brutale che
precedeva la conoscenza dettagliata di ciò che li attendeva: qualcosa che ti colpiva
in piena faccia, altrettanto evidente come la percezione della morte fa urlare le
bestie inviate al macello18.

Anche la madre Émilie Tillion è deportata a Ravensbrück, dove viene


uccisa nel febbraio 1945. Germaine è invece evacuata dalla Croce
Rossa svedese – con trecento altre detenute –, il 23 aprile 1945, pochi
giorni prima della liberazione da parte delle truppe americane. Inviata
a Göteborg, in Svezia, per un periodo di convalescenza, comincia a
effettuare ricerche sui sopravvissuti dalle deportazioni, raccogliendo le
storie di vita delle sue compagne. Ritorna in Francia alla fine di luglio
del 1945 ed è reintegrata nel CNRS.
La terribile esperienza di Ravensbrück spinge Germaine Tillion a
ridefinire il campo della sua ricerca antropologica, e ad affrontare, per
anni, i temi della deportazione e dell’universo concentrazionario.
Scrutando gli archivi e interrogando i testimoni, si consacra al
tentativo di comprendere quel mondo che non poteva essere
paragonato a nient’altro, nel quale i mostri sono degli uomini, spesso
perfino uomini comuni. Nel 1947 pubblica un primo studio sui campi
di concentramento in un’opera collettiva, Ravensbrück. Lo stesso
anno, all’interno del CNRS, passa dalla sezione “Sociologie africaine”
alla sezione “Histoire moderne”, diventando responsabile della ricerca
su donne e bambini deportati dalla Francia. Pubblica la ricerca sulle
trecento sopravvissute di Ravensbrück con le quali ha condiviso il
periodo di convalescenza a Göteborg nel 1946. Due nuove edizioni
usciranno nel 1972 e nel 1988.
L’esperienza dei campi spinse Germaine Tillion verso un impegno
totalizzante nella ricerca della giustizia, e nel dopoguerra le vite
parallele di Margaret Mead e di Germaine Tillion si ricongiunsero
nell’impegno per un mondo migliore. Attiva nella ricerca di una giusta
soluzione per la guerra d’Algeria, per esempio, Tillion moltiplicò gli
appelli contro la tortura e partecipò a una commissione d’inchiesta
internazionale sulle prigioni francesi in Algeria nel 195719.
Germaine Tillion o “l’impegno per il genere umano” la definì il
quotidiano “l’Humanité” nel 2008, nel necrologio in suo onore, alla
conclusione di una lunghissima vita (visse infatti oltre cent’anni).
Le harem et les cousins: antropologia della condizione femminile nel
Mediterraneo
Un’altra battaglia condotta da Germaine Tillion che non può essere
dimenticata in un manuale d’antropologia di genere è quella sulla
condizione femminile. Il suo lavoro di campo in Algeria l’aveva indotta
a interrogarsi sulla condizione della donna nel bacino mediterraneo: i
risultati delle sue ricerche – condotte in diverse aree del Maghreb e del
Medio Oriente – e delle sue riflessioni furono pubblicati nel 1966 in un
libro che per le sue idee originali suscitò un ampio dibattito: Le harem
et les cousins20.
Per Tillion, la condizione di subordinazione delle donne nella regione
del Mediterraneo non può essere spiegata né con il clima né con la
gelosia maschile, né, men che meno, con la religione. L’antropologa
sottolinea in particolare come l’Islam non possa essere considerato
responsabile di un’oppressione che esisteva già prima che la nuova
religione arrivasse sulle coste del Mediterraneo. Le origini di questo
fenomeno risalgono piuttosto, a suo avviso, all’inizio della civiltà,
quando comparvero l’agricoltura e l’allevamento e sorsero le prime
città. In questa fase si delinearono due possibili forme di
organizzazione: da un lato la “repubblica dei cognati”, dove il tabù
dell’incesto obbliga all’esogamia e, di conseguenza, a stabilire relazioni
con i clan vicini; dall’altro la “repubblica dei cugini”, nella quale si
preferisce “vivere tra i propri” in un quadro tribale e familiare che opta
per l’endogamia. Per Tillion, all’inizio del Neolitico, nel Medio Oriente
e nel bacino del Mediterraneo, sia per ragioni economiche sia per una
logica d’onore il cui obiettivo è preservare la purezza del lignaggio,
prevalsero la “repubblica dei cugini” e il matrimonio endogamico. Il
prevalere di questo tipo di organizzazione portò a un degrado della
condizione femminile, sul piano giuridico, sociale e vestimentario.
Nel corso dei secoli si è poi delineato un conflitto tra la società tribale
(di nomadi o di contadini), endogamica, e la società degli abitanti delle
città, dove la promiscuità ha finito per diventare inevitabile. Se il
secondo tipo di società è diventato oggi predominante, ciò non è
avvenuto senza resistenze. Nei paesi del Mediterraneo, per ragioni
geografiche e storiche, e in particolare nei paesi islamici, la barriera tra
la famiglia e lo stato, tra gli uomini e le donne della comunità, è stata
mantenuta attraverso la clausura o semiclausura delle donne, il
matrimonio tra cugini, il velo, la punizione delle mogli adultere,
specialmente quando il “crimine” viene commesso con un “estraneo”.
Qualunque sia la loro influenza di fatto nella famiglia, le donne sono
state escluse dalla vita pubblica. Con il pretesto di non intaccare le
strutture tribali, a volte è stato perfino loro negato il diritto all’eredità,
per quanto si tratti di un diritto riconosciuto dal Corano. Secondo
Germaine Tillion, atteso che l’evoluzione verso la società dei cittadini è
ormai inevitabile, per le donne il periodo di transizione verso
l’emancipazione rischia di essere lungo e difficile.
Al confine della preistoria e della storia, dell’etnologia e della
sociologia, Le harem et les cousins rappresenta il primo tentativo di
costruire una teoria esplicativa sulla condizione della donna nel
Mediterraneo.

Claude Lévi-Strauss e lo Statement on Race dell’UNESCO


Durante la Seconda guerra mondiale, alcuni antropologi scelsero
l’esilio negli Stati Uniti21. Tra di essi Claude Lévi-Strauss, che
racconterà la sua fuga dall’Europa in Tristi tropici, pubblicato nel
1955, o in America Latina, come Paul Rivet, che fondò l’Instituto
Etnológico Nacional in Colombia.
Il loro rientro non fu facile: le tracce della tragedia europea erano
ovunque, nelle città distrutte, negli animi delle persone e nelle idee. Le
teorie di presunte superiorità razziali, che avevano alimentato
ideologie omicide e pratiche aberranti, non erano rimaste confinate
nei deliri di dittatori e nelle organizzazioni partitiche, ma erano state
avallate e promosse anche da una parte del mondo accademico. Le
misurazioni dei crani, praticate dagli antropologi del secolo XIX,
avevano per esempio trovato grotteschi seguaci tra i medici nazisti.
Il continente andava ricostruito, non solo materialmente, ma anche
spiritualmente. Era dunque indispensabile fare i conti con un pensiero
razzista che aveva trovato, in una parte dell’antropologia europea, una
sponda teorica.
Al momento di affrontare la ricostruzione del continente, gran parte
del mondo politico, accademico e intellettuale angloamericano e i
rappresentanti delle Resistenze europee concordarono che il ripristino
della pace tra i popoli doveva passare per la condanna ferma – non
solo morale, ma anche scientifica – del razzismo biologico e della
nozione biologica di “razza”, che era stata fino ad allora diffusamente
accettata ed era ormai parte del senso comune europeo (anche tra gli
oppositori delle ideologie fascista e nazista). Claude Lévi-Strauss fu tra
gli intellettuali europei più attivi in questa operazione culturale
guidata dall’UNESCO.
La condanna morale e scientifica del razzismo è, infatti, strettamente
collegata alla fondazione delle Nazioni Unite, progetto le cui basi erano
state gettate nell’agosto del 1941, durante un incontro tra il presidente
degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt22 e il primo ministro britannico
Winston Churchill nel mezzo dell’Atlantico che aveva come obiettivo
quello di disegnare i contorni del mondo del dopoguerra. In
quell’occasione i due capi di stato avevano sottoscritto la Carta
Atlantica, un documento nel quale l’idea dell’uguaglianza dei diritti
compare tra i principi che – una volta distrutta la tirannia nazista –
avrebbero dovuto ispirare la collaborazione internazionale al fine del
mantenimento della pace23. La Carta afferma, infatti, che tutti gli
uomini, in tutti i paesi, devono poter vivere liberi dalla paura e dal
bisogno. I principi della Carta saranno alla base della nascita
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, sancita il 24 ottobre 1945 con
l’entrata in vigore del suo statuto, nel cui preambolo i paesi firmatari si
impegnano a riaffermare «la loro fede nei diritti umani fondamentali,
nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei
diritti dell’uomo e della donna». Per la prima volta si afferma, in un
documento internazionale, l’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna.
Nel 1946, il presidente americano Harry Truman, salito alla Casa
Bianca dopo la morte di Roosevelt nel 1945, nominò la vedova di
quest’ultimo, Eleanor, da sempre impegnata in battaglie per la
giustizia sociale, delegato presso le Nazioni Unite in qualità di capo
della Commissione per i Diritti Umani. Eleanor Roosevelt svolse un
ruolo molto importante nella formulazione della Dichiarazione
universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle
Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Nella Dichiarazione universale dei diritti umani, si afferma il
principio dell’uguaglianza dei diritti e si rigetta qualsiasi forma di
discriminazione in base alla razza. L’articolo 1 afferma:
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati
di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di
fratellanza.

Il secondo rigetta le distinzioni di sesso e razza:


A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente
Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di
lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o
sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

Nell’ambito delle Nazioni Unite fu creato, nel novembre del 1945,


l’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la
scienza e la cultura), il cui atto costitutivo entrò in vigore nel
novembre dell’anno successivo. Nel preambolo dell’atto costitutivo si
legge:
La grande e terribile guerra appena terminata è stata resa possibile dal
rinnegamento dell’ideale democratico di dignità, di uguaglianza e di rispetto della
persona umana e della volontà di sostituirlo utilizzando l’ignoranza e il
pregiudizio, dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini24.

Uno dei primi obiettivi dell’organizzazione è dunque promuovere la


presa di coscienza dei pericoli dell’intolleranza e del razzismo.
Nel 1949 l’UNESCO lanciò un programma per combattere il razzismo,
di cui fu inizialmente responsabile il direttore del Dipartimento di
Scienze sociali, Arthur Ramos (1903-1949)25, medico, psichiatra ed
etnologo brasiliano, che convocò una serie di studiosi per dibattere il
tema, tra cui gli antropologi Ashley Montagu (1905-1999), allievo di
Boas26, l’ispano-messicano Juan Comas Camps (1900-1979) e Claude
Lévi-Strauss.
La morte prematura di Ramos non fermò i lavori del gruppo, il cui
segretario era Montagu, fermo oppositore di ogni determinismo
biologico, anche come fattore esplicativo delle differenze tra il
maschile e il femminile. Nel gruppo di lavoro, però, biologi e
antropologi umani hanno posizioni meno radicali di Montagu o Comas
e si rende necessario un compromesso: la dichiarazione finale insisterà
sull’unità del genere umano e sulla condanna del razzismo, ma non
delegittimerà completamente l’uso del termine “razza”.
Lo Statement on Race (Dichiarazione sulla razza) – il primo
documento dell’UNESCO sul tema, approvato nel 1950 – è comunque
importante perché nega qualsiasi correlazione tra la differenza
fenotipica nelle “razze” umane e la varietà delle caratteristiche
psicologiche, intellettive e comportamentali. Riportiamo qui la
dichiarazione nella sua integralità:

Una razza, dal punto di vista biologico, può essere definita come uno dei gruppi di
popolazioni che costituiscono la specie homo sapiens. Questi gruppi sono in
grado di ibridarsi l’uno con l’altro, ma, in virtù delle barriere isolanti che in
passato li tenevano più o meno separati, manifestano alcune differenze fisiche a
causa delle loro diverse storie biologiche.
In breve, il termine “razza” indica un gruppo umano caratterizzato da alcune
concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni)
o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del
tempo a causa dell’isolamento geografico.
In materia di razze, le uniche caratteristiche che gli antropologi possono
efficacemente utilizzare come base per le classificazioni sono quelle fisiche e
fisiologiche.
In base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità
differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al
comportamento27.

Dopo la dichiarazione, nel 1952, l’UNESCO pubblicò una serie di testi


dedicati al problema del razzismo. Per l’occasione Claude Lévi-Strauss
scrisse Race et histoire (1952), su cui così si esprime Ugo Fabietti nella
prefazione all’ultima edizione italiana:
A distanza di anni rimane un manifesto antirazzista attuale, importante, inoltre,
per lo spirito divulgativo con cui l’autore tocca aspetti cruciali della ricerca
antropologica. Lévi-Strauss precisa nozioni come “civiltà”, “cultura”, “società” e
considera in modo critico quelle di “differenza razziale“, “etnocentrismo”,
“progresso”28.

Con la Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO si afferma, nel


documento ufficiale di un organismo internazionale, che la biologia
non è destino. La critica al determinismo biologico, ormai accettata
per ciò che riguarda la razza, comincia a interessare anche la nozione
di “natura” maschile e femminile. Nel 1953 Montagu pubblicò un testo
per l’epoca provocatore, The Natural Superiority of Women, nel quale
attaccava il determinismo biologico riferito alla natura femminile,
mostrando come le qualità emotive e sociali tipicamente attribuite alle
donne, e per questo svalorizzate, siano la chiave per una vita e un
sistema di relazioni basati sulla giustizia sociale.

Conclusioni
Abbiamo visto come i percorsi dell’antropologia americana e
dell’antropologia francese siano rimasti divisi per tutto il XIX secolo. La
fondazione della scuola di etnologia da parte di Mauss, Rivet e Lévy-
Bruhl rappresentò una svolta importante che favorì i contatti e la
prossimità scientifica nel periodo tra le due guerre. Tuttavia,
l’etnologia francese e l’antropologia culturale americana operarono in
contesti politici molto diversi, una direttamente in contatto con la
politica colonialista, l’altra no.
La Seconda guerra mondiale provocò una fase di distacco imposto,
ma anche di avvicinamento, dato che alcuni antropologi esiliati negli
Stati Uniti, come Claude Lévi-Strauss, riportarono in Europa la netta
distinz