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Antropologia di genere
www.rosenbergesellier.it
isbn 978-88-7885-419-2
Con questo volume Giovanna Campani intende, come nota nella sua
introduzione, fornire un manuale per l’insegnamento di una delle
frontiere più attuali della stessa antropologia culturale, disciplina che
nelle nostre società multiculturali e aperte al “relativismo” ha trovato
una cittadinanza, sia teorica sia sociopolitica, sempre più centrale. Sì,
perché all’antropologia dobbiamo la capacità critica di ripensare
credenze, concetti e categorie dentro quelle “forme di vita” che le
esprimono e le codificano, vincolandosi ad esse, assumendo spesso
un’immagine für ewig che è affatto impropria, poiché falsa. Ogni
credenza, ogni forma ideale, ogni uso categoriale sta sempre dentro un
habitat socioculturale, fatto di riti, di norme, ma anche di poteri e di
tradizioni che lo rendono sì specifico ma anche relativo al lì-e-allora e
o al qui-e-ora. Tale disciplina critica, e critica delle civiltà (e di tutte),
costituisce oggi il principio metodico per abitare le nostre società
ipercomplesse e multiculturali: un principio da rendere attivo e
consapevole nelle stesse giovani generazioni che dovranno vivere
questo orizzonte storico-sociale, e dovranno viverlo in condizioni di
ulteriore complessità. Pertanto devono acquisire una forma mentis di
tipo antropologico-culturale e saperla applicare a miti, riti, credenze,
pratiche sociali e ideologie diffuse: come quelle del genere,
interpretato come “natura” mentre è sempre e solo “cultura”, poiché la
base naturale è stata e sarà sempre trascritta dal simbolico. Re-
interpretata e “normata” partendo proprio dall’habitat sociale che la
vive e la interpreta.
Giovanni Campani si comporta, in questo suo manuale, da esperta
docente: presenta i fondamenti storici e teorici dell’antropologia, i
dibattiti che l’hanno attraversata, la sua crescita teorica e applicativa
nel corso del XX secolo, gli approdi attuali attraverso il femminismo e i
contributi dati a tale fronte dell’“antropologia di genere” tra America
ed Europa, su su fino alle ultime teorizzazioni del “genere come scelta”
e la costruzione di molte identità di genere. Il quadro che la studiosa
sviluppa nel corso dei capitoli, precisi e acuti nei giudizi, è un quadro
storico che punta a inquadrare l’antropologia di genere come uno dei
settori più avanzati dell’antropologia attuale (che è comunque in forte
espansione e proprio per le frizioni, spesso anche drammatiche, tra le
culture e per il loro sovrapporsi, che le lega in modo costante a una
condizione di “acculturazione”) e che sempre più direttamente ci
riguarda, e come soggetti e come cittadini del tempo attuale.
Giovanni Campani si è formata a Parigi con un dottorato legato a una
specializzazione sociologica e antropologica, formazione che poi ha
sviluppato a Firenze in una serie di studi orientati all’intercultura e
resi via via sempre più articolati e complessi. Tutti rivolti a illuminare
la condizione multiculturale delle società attuali, chiamate a gestire in
modo organico e democratico la presenza di migranti: condizione
sempre più stabile e strutturale nelle società maggiormente avanzate.
Che reclama governo, e un governo che si radichi prima di tutto in un
cambiamento di mentalità e sviluppi un identikit dei soggetti capaci di
interfacciarsi con l’“altro”, di valorizzarne la differenza, di tener viva
l’accoglienza anche e soprattutto come incontro e dialogo. E in tale
dialogo ogni soggetto e ogni cultura si arricchisce, oltrepassa i propri
limiti, si apre all’avventura dell’incrocio con la diversità. Di tutti questi
problemi Giovanna Campani ha trattato in vari e significativi studi, tra
i quali si ricordano Migranti, rifugiati e nomadi (del 1998), Crescere
errando (su minori migranti non accompagnati, del 2004) e nel 2000
Genere etnia classe, rivolto alle migrazioni al femminile.
Nel testo attuale l’impegno di analisi cultural-formativa si è fatto
ancora più ampio e proprio in vista della professionalità che oggi è
richiesta a chi si dedica ai processi educativi in una società complessa
e multiculturale. Qui l’analisi, come ricordato, si fa assai articolata:
tocca la stessa nascita delle scienze umane in Francia già nel
Settecento e la loro evoluzione (o meglio involuzione) alla luce del
razzismo quale effetto del colonialismo, poi la crescita tra Darwin,
Morgan, Tylor e Frazer nell’epoca tra Otto e Novecento, crescita ricca e
esemplare, e ancora la maturazione più significativa tra Boas, Benedict
e Mead, figure che aprono al relativismo delle culture e allo stesso
paradigma del genere, con studi rimasti fondamentali. Poi l’autrice,
giustamente, torna in Francia con Lévi-Strauss e altri studiosi,
arrivando al pieno sviluppo della prospettiva di genere, che tra gli anni
Settanta e Ottanta su su fino a oggi riceverà una sempre più netta
centralità in questo ambito di ricerca. Oggi, anzi, si parla sempre di più
di un genere-al-plurale riconoscendo il ruolo dei transgender e
dell’identità aperta del genere, sottraendola a ogni determinismo tutto
biologico e delineandone invece la netta culturalità e quindi la
variabilità rispetto al patrimonio biologico.
Al capolinea della sua ricca ricostruzione storica dell’antropologia
culturale, condotta con precisione e finezza, Giovanna Campani può
indicare come oltrepassato il concetto naturalistico del genere (che è
stato fin qui un “velo” culturale, va ricordato) e come sia oggi centrale
il diritto al genere e alla sua libera scelta: diritto che deve essere
nettamente tutelato. Sia dalle leggi sia dalle pratiche formative, che a
loro volta hanno bisogno di una corretta teoria del genere. Posizione
netta che deve essere assunta con forza dalla stessa pedagogia. Per poi
dipanarsi in pratiche educative, rese attive già a partire dall’infanzia, a
casa e a scuola, ma anche nella società in generale, in modo da favorire
l’appartenenza di genere come una scelta. Legittima. Senza pericolo di
derisioni e persecuzioni. Senza discriminazioni. Tutto ciò reclama un
fascio di operazioni educative che in questo testo, così esplicitamente
scientifico e orientato in senso manualistico, restano un po’ fuori
scena, ma che risultano comunque ben presenti come destinazioni
operative della stessa riflessione teorica.
FRANCO CAMBI
a Corinne
INTRODUZIONE
Questa frase resta scolpita nella memoria storica come una piccola
luce nella pagina vergognosa della storia europea, che ha visto la
deportazione forzata di milioni di africani dal loro continente alle
Americhe. Otto anni dopo la morte di Danton, nel maggio 1802,
Napoleone reintroduceva la schiavitù nelle colonie francesi delle
Antille, scatenando una repressione sanguinosa contro la popolazione
nera. Il secolo XIX – quello del colonialismo europeo trionfante – si
apre con i massacri di uomini e donne che – come Toussaint
L’Ouverture – avevano creduto all’ideale di un uomo universale,
indipendentemente dal colore della sua pelle, e alle promesse di libertà
della Rivoluzione francese.
Tra gli intellettuali che lottarono per l’abolizione della schiavitù, vi fu
Olympe de Gouges (1748-1793), ghigliottinata alcuni mesi prima di
Danton. Il suo nome è ricordato soprattutto per la Déclaration des
droits de la femme et de la citoyenne (Dichiarazione dei diritti della
donna e della cittadina), che propone di includere le donne nei diritti
universali del 1789. Oltre all’impegno per i diritti delle donne, che fa di
lei una protofemminista, Olympe de Gouges lottò per i diritti dei neri
ridotti in schiavitù. Autrice di un’opera teatrale, Zamore e Mirza, o la
schiavitù dei neri, pubblicata nel 1785, Olympe de Gouges fa dire a
uno dei protagonisti:
Questa differenza è ben poca cosa, non esiste che nel colore, ma i vantaggi che
hanno su di noi sono immensi […]. Si servono di noi in questi climi come si
servono degli animali nei loro13.
Conclusioni
Nata nel Settecento come parte della “storia naturale” dell’uomo,
l’antropologia entra nel nuovo secolo collocata sull’incerta frontiera tra
l’antropologia fisica e quella culturale/sociale. All’inizio dell’Ottocento,
l’imporsi di un’altra frontiera – tra l’Europa e il resto del mondo, tra la
cultura europea e le culture “altre” – definisce chiaramente l’ambito e
l’oggetto della ricerca etnologica: l’etnologia europea s’indirizza verso
il folklore – le tradizioni popolari degli europei – ovvero delle
popolazioni “civilizzate”, l’antropologia si occupa delle culture
“primitive”.
Bisognerà attendere l’inizio del Novecento perché in Francia la
sociologia e l’antropologia si ricongiungano attraverso l’opera di
Marcel Mauss, nipote del sociologo Émile Durkheim e fondatore
dell’antropologia culturale francese (chiamata in Francia ethnologie).
E bisognerà attendere la seconda metà del Novecento, e il discredito di
cui furono oggetto gli studi folklorici compromessi con i regimi
nazionalisti, perché tutta l’etnologia europea sia ricongiunta
all’antropologia. In Italia va ricordato in questo senso soprattutto il
lavoro di Ernesto De Martino, che s’ispira al pensiero di Gramsci e
studia il folklore meridionale. La Germania è il paese europeo dove lo
studio della tradizione popolare tedesca (conosciuto come
Volkskunde) è stato maggiormente asservito al progetto nazionalista
pangermanico e poi al nazismo.
Da questo punto di vista, l’Europa è diversa dagli Stati Uniti, dove gli
studi folklorici sono ricongiunti all’antropologia già dalla prima metà
del secolo scorso grazie ad alcune allieve di Franz Boas, come Elsie
Clews Parsons e Martha Beckwith. Sempre negli Stati Uniti, già dagli
anni Trenta e Quaranta, l’antropologia comincia a occuparsi delle
società complesse – che siano occidentali o no –, cercando di
individuarne i “caratteri nazionali” (si veda più avanti la figura di Ruth
Benedict).
Separata dall’etnologia europea e dalla sociologia, l’antropologia
diventa, nel corso dell’Ottocento, una scienza delle culture “primitive”.
Lo studio delle culture “primitive” implica la comprensione del
passaggio dalla natura alla cultura e s’interroga costantemente
sull’impatto della prima sulla seconda. In quest’ambito lo studio dei
crani, la loro misurazione, l’interesse per la catalogazione sulla base
del fenotipo presuppone la ricerca di spiegazioni biologiche ai fatti
culturali che affascina studiosi come Paul Broca, al tempo stesso
medici e antropologi, segnando per lungo tempo l’antropologia
europea. È indubbio che questo filone di studi, alla ricerca di un nesso
tra l’osservazione dei crani e le teorie della cultura, è la culla del
pensiero razzista, che, pur mantenendo uno statuto scientifico
ambiguo, fiorisce nel corso del secolo.
Non è questo, per fortuna, il percorso principale dell’antropologia:
nel tempo della rivoluzione industriale e della fiducia nel progresso,
del movimento operaio e del primo femminismo, si aprono nuovi
mondi che determinano il divenire della disciplina. La teoria
dell’evoluzione delle specie viventi formulata da Charles Darwin,
fornendo una base scientifica all’evoluzionismo, è alla base anche di
una teoria globale per l’evoluzione delle culture. Il nascente pensiero
socialista combina la fiducia nel progresso con la rimessa in
discussione delle diseguaglianze. Negli Stati Uniti, l’antropologia nasce
con la nazione, mentre il Bureau for American Ethnology ridefinisce i
rapporti tra europei e Nativi americani, sui quali ci soffermeremo più
avanti. Le attività del Bureau sono all’origine di incontri che, pur in un
contesto di discriminazioni e conflitti, permettono scambi reciproci e
producono il metodo dell’osservazione partecipante.
Intanto, la battaglia delle donne per il raggiungimento
dell’eguaglianza politica, sociale, economica e giuridica con il sesso
maschile condotta dai movimenti femministi, il più attivo dei quali è
senza dubbio quello statunitense, apre le porte dell’antropologia a una
generazione di americane che portano uno sguardo nuovo, diverso da
quello maschile, sulle società studiate. Nata nella Francia
dell’Illuminismo, l’antropologia trova le condizioni per il suo sviluppo
nel mondo anglosassone, in Gran Bretagna e, soprattutto, negli Stati
Uniti d’America, dove si profilano i primi embrioni di un’antropologia
femminista.
Evoluzionismo e matriarcato
Il contributo di Morgan e Tylor allo sviluppo dell’antropologia
culturale deve molto al rigore del loro metodo d’investigazione:
osservazione partecipante, comparazione, uso della statistica. Nello
stesso periodo, altri autori applicano invece la teoria evoluzionista allo
studio delle culture basandosi su dati di seconda mano. Le grandi
visioni suggerite da questi autori potrebbero essere definite “etnologia
filosofica”.
Tra gli autori che hanno prodotto importanti opere di “etnologia
filosofica” nel corso del XIX secolo ricordiamo Johann Jakob Bachofen
(1815-1887), Friedrich Engels (1820-1895) e, una generazione più
tardi, James Frazer (1854-1941): i primi due sono particolarmente
significativi per lo sviluppo dell’antropologia di genere, avendo
entrambi consacrato parte del loro lavoro alla teoria del matriarcato e
alle conseguenze del passaggio dal matriarcato al patriarcato sulle
relazioni tra uomini e donne.
Bachofen, giurista svizzero e studioso della cultura classica elabora
una teoria dell’evoluzione della parentela basandosi su fonti poetiche e
storiche (Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Ovidio, Virgilio,
Strabone…), ma anche giuridiche. La figura di Bachofen è
particolarmente importante per l’antropologia di genere per la sua
teoria del matriarcato, proposta nel volume Das Mutterrecht,
pubblicato nel 1861.
Fondando la sua ricerca sui miti dell’antichità, Bachofen sostiene che
nelle prime società le donne esercitavano un grande potere e che la
lotta dei sessi è stato uno dei motori del cambiamento evolutivo. Di
questa lotta dei sessi si trova traccia nella mitologia, attraverso le
associazioni del femminile e del maschile (notte/giorno, luna/sole…),
e in tragedie come l’Orestiade eschilea, nella quale si confrontano il
diritto materno e il diritto paterno. Per Bachofen il matriarcato non
appartiene a nessuna società in particolare, ma a uno stadio culturale,
e ha pertanto caratterizzato tutta l’umanità, come conseguenza del
carattere normativo della “natura umana”. Condivide l’idea di Tylor
dell’unità psichica della specie umana e, assumendo che il destino
naturale dell’uomo culmina nella nascita della vita all’interno del sesso
femminile, suggerisce che l’umanità abbia attraversato tre stadi
culturali: “eterismo” o promiscuità primitiva, matriarcato e
patriarcato.
Bachofen si pone l’obiettivo di comprendere il passaggio
dall’eterismo al matriarcato e poi dal diritto materno a quello paterno,
ovvero al sistema patriarcale. Per Bachofen l’amore materno è
intrinseco alla natura delle donne: è stato proprio l’amore materno che
ha spinto le donne a superare la promiscuità primitiva, nella quale le
donne (e i loro figli) erano sottoposte alla tirannia fisica e sessuale
degli uomini. Le donne hanno svolto un ruolo cruciale nella
civilizzazione dell’umanità. Esse lottarono contro gli uomini come
amazzoni per difendere il loro bene principale – la maternità. Sebbene
meno forti fisicamente, vinsero, anche grazie a poteri più profondi di
cui sono depositarie – come la tendenza dello spirito femminile al
soprannaturale e al divino che esercitò una grande influenza sul sesso
maschile. Iniziò così la “ginecocrazia”, lo stadio culturale della “poesia
della storia” retto dal diritto materno, durante il quale, grazie alla loro
maggior religiosità, le donne imposero agli uomini il matrimonio, la
famiglia e l’ordine religioso dominato dalle divinità femminili:
La ginecocrazia si è formata e consolidata grazie all’opposizione della donna
all’eterismo che la sviliva. Abbandonata senza protezione agli abusi dell’uomo […]
stancata dal suo desiderio, prova l’anelito verso una condizione ordinaria e una
civiltà più pura, alla cui oppressione l’uomo non si sottomette di buon grado,
ostinato nella coscienza della sua superiore forza fisica10.
Patriarcato e progresso
Il passaggio dal matriarcato al patriarcato rappresenta, per Bachofen,
una tappa positiva dell’evoluzione dell’umanità: la sostituzione della
“verità naturale” della maternità con la “verità culturale” della
paternità. La vittoria – materiale e simbolica – del principio paterno
su quello materno corrisponde alla vittoria della cultura sulla natura e
della civiltà sullo stadio selvaggio. In conclusione, Bachofen, pur
riconoscendo l’enorme ruolo delle donne nella formazione della civiltà
e l’esistenza di una fase matriarcale, riteneva che l’affermazione del
patriarcato aveva rappresentato un livello di civiltà superiore – un
esempio sarebbe il mondo greco-romano rispetto a popolazioni come i
Lici, descritti da Erodoto e Strabone.
Le tesi sul matriarcato di Bachofen furono ricusate da un altro storico
del diritto, Henry Sumner Maine (1822-1888), docente in
giurisprudenza a Oxford e Cambridge, da alcuni ritenuto il fondatore
dell’antropologia giuridica. Maine sosteneva che il gruppo di parentela
arcaico era patrilineare e autocratico e che all’origine della parentela
c’era il patriarcato, la cui espressione giuridica fu la patria potestas.
Per Maine, la parentela iniziava esattamente nel momento in cui
iniziava la potestà paterna.
Studioso delle società matrilineari, Morgan sostiene invece
l’esistenza di un matriarcato originario e, in una prospettiva
evoluzionista, condivide anche la teoria di Bachofen a proposito del
passaggio dalla matrilinearità/matriarcato alla
patrilinearità/patriarcato13, per cui il patriarcato corrisponde a uno
stadio di civiltà superiore a quello nel quale è presente il matriarcato.
Morgan non può però fare a meno di notare che il patriarcato è stato
pregiudiziale per la posizione e i diritti della madre e della sposa,
contribuendo ad abbassare la sua posizione e a ritardare il suo
progresso nella scala sociale. Per questo egli ipotizza il passaggio dalla
famiglia patriarcale estesa alla monogamia moderna, basata sulla
coabitazione esclusiva di una coppia. È la famiglia monogamica quella
con la quale l’umanità inaugura il suo passaggio alla civiltà. Inoltre,
per Morgan, la famiglia monogamica deve essere fondata sul principio
dell’uguaglianza tra moglie e marito: «La moglie deve necessariamente
occupare la stessa posizione del marito in quanto a dignità, diritti
personali e posizione sociale»14.
Con queste posizioni, Morgan si situa dal lato degli intellettuali
progressisti – come John Stuart Mill – che vedevano favorevolmente
le rivendicazioni delle femministe nordamericane e britanniche. Negli
stessi anni Mill aveva pubblicato il saggio The Subjection of Women
(1869), nel quale sosteneva che la sottomissione delle donne agli
uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano e che
dovrebbe esserci la perfetta uguaglianza, senza potere o privilegio da
parte di un sesso sull’altro.
Attento studioso del lavoro di Bachofen, Friedrich Engels rigetta la
visione positiva ed evoluzionista del passaggio dal matriarcato al
patriarcato:
Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale
del sesso femminile. L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna
fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per
produrre figli…15.
Conclusioni
Nel corso del XIX secolo, l’antropologia culturale si costituisce – in
Gran Bretagna e negli Stati Uniti – come una disciplina autonoma,
separata dall’antropologia umana; elabora una propria teoria della
civiltà e rigetta le spiegazioni biologiche dei fatti culturali, in nome
dell’unità piscologica della specie umana.
L’antropologia culturale si distingue dunque da un’antropologia
ancora legata alle scienze naturali che finisce per convalidare le tesi del
razzismo scientifico, basandosi su teorie elaborate principalmente da
naturalisti e medici, come Paul Broca in Francia. Lo statuto scientifico
delle teorie razziste, secondo le quali gli uomini si suddividevano in
pochi distinti tipi razziali dalle caratteristiche immutabili, è
costantemente messo in discussione dalla maggior parte degli
antropologi, ma anche da studiosi di scienze naturali. Il successo di
queste teorie è in gran parte dovuto al fatto che esse giustificavano una
gerarchia coloniale nella quale gli europei erano al primo posto20.
In Gran Bretagna21, ma soprattutto negli Stati Uniti, l’antropologia
culturale dominante si oppose con forza alla tesi di una divisione
dell’umanità in razze e all’attribuzione di caratteri morali, sociali e di
capacità intellettuali alla razza (all’apparenza fisica). Lasciamo dunque
di lato quella parte dell’antropologia che si compromette con il
pensiero razzista per seguire il percorso dell’antropologia culturale e
sociale che mette in questione l’esistenza di una realtà biologica della
razza. È questo il filone della disciplina che costituisce la matrice
dell’antropologia di genere.
Le definizioni di antropologia culturale si preciseranno nel corso dei
decenni successivi, con sfumature diverse rispetto agli oggetti di studio
(fatti sociali, istituzioni, dimensione simbolica) tra la Gran Bretagna –
dove viene chiamata social anthropology (antropologia sociale) – e gli
Stati Uniti22. La maggior parte degli antropologi ritiene oggi che i due
rami dell’antropologia – culturale e sociale – abbiano come oggetto
d’osservazione gli stessi fenomeni scientifici, e che la differenza
consista nel punto di vista adottato.
La prima antropologia culturale è evoluzionista: essa ipotizza per le
culture un percorso evolutivo unilineare, proprio perché questa
evoluzione ha sullo sfondo l’unità della specie umana. Partendo
dall’ipotesi che le popolazioni “primitive” costituiscono una fonte di
conoscenza sul passato delle civiltà, gli antropologi cercano di
comprenderne il modello organizzativo e la dimensione religioso-
simbolica.
Sulla base della sua esperienza di campo presso i Seneca, Morgan
sostiene che le cosiddette società “primitive” sono società basate sui
legami di sangue – ovvero sulla parentela. Lo studio della parentela
prevede l’analisi della maniera in cui gli uomini hanno organizzato un
aspetto del reale che non potevano controllare: l’esistenza di due sessi
nel mondo del viventi, il fatto che le donne mettono al mondo dei
bambini del loro sesso, ma anche del sesso contrario, il fatto che sono
necessari dei rapporti sessuali perché vi sia una nascita… di colpo
l’antropologia si trova ad affrontare una serie di dimensioni che, da
tempi più remoti, erano entrate nei tentativi di dare senso al mondo
(pensiamo appunto ai miti, o alla narrazione biblica), ma che erano
state occultate dalla storia, dalla filosofia, dalla teologia. E così le
donne – rese invisibili nella storia, ignorate dalla filosofia –,
diventano, nella loro relazione con gli uomini per comporre la rete
della parentela, un oggetto imprescindibile per l’antropologia
culturale.
Ma vi è dell’altro: considerate oggetto inderogabile della ricerca
antropologica, le donne diventano indispensabili anche nel ruolo di
studiose – di antropologhe. Il metodo dell’osservazione partecipante,
che implica una relazione di fiducia con l’informatore, rende infatti
essenziali le donne nella ricerca sul campo – anche se, inizialmente,
sono pensate soprattutto come le “mogli” degli antropologi (il modello
ideale teorizzato da Tylor per una buona ricerca sul campo). Intanto,
però, il movimento femminista, soprattutto negli Stati Uniti, stava
aprendo alle donne le porte delle università. L’antropologia è una
grande occasione, anche per donne che non hanno nessuna intenzione
di limitarsi al ruolo di fedeli mogli degli antropologi. La grande
partecipazione femminile alla ricerca antropologica negli Stati Uniti è
quindi indicativa al tempo stesso di una specificità della disciplina e
dell’alto livello di rivendicazione femminista presente in quella società
nella seconda metà del XIX secolo.
Intanto la riflessione sul matriarcato (anche se considerato come una
tappa verso il modello patriarcale, ritenuto più adatto allo sviluppo
della civiltà), ha messo in discussione la “naturale” subordinazione
femminile, dipendenza che le donne attive nei movimenti femministi
rifiutano radicalmente, sfilando lungo le strade di Londra e di New
York per reclamare i loro diritti.
Di conseguenza,
in considerazione del fatto che la metà del popolo di questa nazione è privata dei
diritti politici ed è socialmente degradata – nonché in considerazione delle
ingiuste leggi prima menzionate e dal momento che le donne si sentono offese,
oppresse e fraudolentemente spogliate dei loro diritti più sacri, noi insistiamo che
esse siano immediatamente ammesse a godere di tutti i diritti e privilegi che loro
appartengono in quanto cittadine degli Stati Uniti3.
Conclusioni
In un’epoca in cui in molte professioni prevaleva la riluttanza ad
accettare le donne, nel settore dell’antropologia esponenti di rilievo
come Tylor erano invece convinti che le donne fossero necessarie per
ottenere dati completi e accurati. Questa convinzione ebbe come
conseguenza la partecipazione allo sviluppo dell’antropologia culturale
da parte delle donne, che spesso manifestavano anche una chiara
adesione alle idee femministe.
Coscienti dell’importanza delle donne nell’antropologia, ma anche
delle difficoltà a essere considerate alla pari con i colleghi maschi, le
prime antropologhe si riunirono in associazione fondando la WASA. La
loro battaglia per il riconoscimento ebbe successo solo in parte: le
iscritte dell’associazione, che arriverà a contare una cinquantina di
membri, furono infine invitate a far parte dell’American
Anthropological Association nel 1898.
Il destino delle prime studiose non è peraltro omogeneo: se Matilda e
Alice otterranno notevoli riconoscimenti, altre donne saranno
dimenticate e non riusciranno a penetrare nel mondo accademico,
come raccontato da Nancy Parezo nel volume Hidden Scholars:
Women anthropologists and the Native American Southwest (Parezo
1993a). Ma la strada era aperta, per una nuova generazione di donne
pronta a prendere parte direttamente a una nuova fase della storia
della disciplina.
Possiamo concordare con Nancy Parezo che l’antropologia
femminista nacque nell’Ovest americano con il lavoro di Matilda Coxe
Stevenson e di Alice Cunningham Fletcher. Le antropologhe di questa
prima generazione portarono nell’antropologia caratteristiche
specifiche: mostravano uno sguardo più attento alle donne e ai
bambini e avevano un atteggiamento particolarmente empatico nei
confronti delle popolazioni native, con le quali svilupparono forti
legami di affinità. Pur tuttavia, il caso delle assegnazioni di terre ai
Nativi, riforma per la quale Alice Fletcher s’impegnò a fondo
personalmente, mostra quanto fosse difficile, anche per
un’antropologa femminista, sottrarsi alla visione dominante – in
questo caso evoluzionista e incentrata sulla superiorità della civiltà
“bianca” occidentale.
trad. dell’autrice).
4 Cummins Miller 2007: 35 (trad. dell’autrice).
5 Tra queste donne, soltanto Matilda Coxe Stevenson e Alice Fletcher fecero
lavoro di campo come antropologhe culturali nell’Ovest americano. Sara Yorke
Stevenson (1847-1921), attivista per i diritti delle donne, fu principalmente
archeologa e non fece mai lavoro di campo. Zelia Maria Magdalena Nuttall (1857-
1933), nata a San Francisco ma di origine messicana, fu principalmente archeologa,
specializzata nei manoscritti precolombiani delle culture preatzeche. È considerata
la prima antropologa messicana con Isabel Ramírez Castañeda (1881-1943). Lucy
Wilson (1864-1937), insegnante con un dottorato in Geografia, studiò i metodi
educativi in Europa e in Sud America. Anita McGee (1853-1937), geologa e
paleoantropologa, condusse diverse spedizioni nello Iowa.
6 Gli indiani Pueblo del Sudovest sono una delle culture native più antiche del
Nordamerica (risalente, secondo gli archeologi, a 7000 anni fa). Il loro nome è
spagnolo e sta per “villaggio in muratura”. Per migliaia di anni, i Pueblo hanno
vissuto secondo uno stile di vita basato su caccia e agricoltura e costruendo
strutture abitative in adobe – una combinazione di terra mista a paglia e acqua
versata in forme o trasformata in mattoni seccati al sole. La stragrande
maggioranza delle tribù Pueblo era organizzato in clan, e in molte di esse, tra cui
Hopi, Zuñi, Keres e Jemez, la discendenza è matrilineare.
7 Lurie 1966: 34 (trad. dell’autrice).
8 Cfr. Parezo 1993a: 4.
9 I Nasi Forati, anche noti col nome francese di Nez Percé, sono una tribù di
Nativi che abitava nella zona centrale dell’odierno stato dello Idaho e in una parte
degli stati di Washington e Oregon.
10 Il nome omaha di Suzette La Flesche Tibbles era Inshata Theumba, ovvero
“Occhi Lucenti”.
11 Francis aveva vent’anni meno di Alice, che lo adottò come figlio. Secondo
Cummins Miller la relazione tra Alice Fletcher e Francis La Fleche fu, comunque,
complessa: «Francis La Fleche, di vent’anni più giovane, divenne l’interprete, il
coautore, il compagno di Fletcher. Lavorarono insieme, pubblicarono insieme, e
vissero insieme a Washington. La loro fu una relazione completa – più che tra
madre e figlio –, eppure non fu mai un matrimonio. Per mantenere il decoro,
furono costretti a vivere e a viaggiare sempre con una dama di compagnia»
(Cummins Miller 2007: 149; trad. dell’autrice).
12 Il programma di assegnazione condusse Fletcher dai Nasi Forati a Lapwai, in
Idaho, nel 1889. Fletcher incontrò una notevole resistenza a Lapwai, dove il celebre
capo Chief Joseph rifiutò qualsiasi ruolo nei suoi piani di assegnazione. Tuttavia,
Alice Fletcher perseverò, tornando ogni primavera per parecchi anni a completare
la sua indagine e la divisione delle terre tribali.
4. LA CRITICA ALL’EVOLUZIONISMO: BOASIANI NEGLI STATI
UNITI E FUNZIONALISTI IN GRAN BRETAGNA
Nel 1886, Boas iniziò una ricerca di campo presso una popolazione di
Nativi della Columbia Britannica, i Kwakiutl. Nel 1889 ottenne la
prima cattedra negli Stati Uniti alla Clark University; dopo alcuni anni
passò alla Columbia University, dove nel 1899 diventò il primo
professore di antropologia, posizione che tenne per 37 anni. Franz
Boas ha esercitato un’enorme influenza nella definizione del quadro
epistemologico dell’antropologia americana e mondiale. A lui si deve,
per esempio, la suddivisione dell’antropologia in quattro sottocampi –
linguistica, antropologia biologica, antropologia archeologica e
antropologia culturale –, divisione che sussiste a tutt’oggi in molte
università nordamericane. A lui si devono alcune delle idee che sono
alla base della ricerca antropologica, come il principio metodologico
del relativismo culturale.
Le critiche sollevate da Boas, e dai numerosi antropologi che
seguirono i suoi insegnamenti, nei confronti delle teorie di Morgan e
Tylor prendono spunto dal presupposto che “le culture” (Boas sposta
l’attenzione dall’idea generale di cultura alle culture particolari a ogni
società) sono troppo complesse per essere valutate in base a comuni
“leggi” evolutive. Le società e le culture vanno comprese attraverso le
loro storie particolari. Da qui l’idea del “particolarismo storico” – ogni
cultura ha una sua particolare e unica storia che non è governata da
leggi universali –, idea centrale nell’approccio boasiano allo studio
delle culture, in aperto contrasto con l’idea evolutiva. Nella ricerca
antropologica, i tratti culturali non possono essere spiegati attraverso
riferimenti a tendenze evolutive generali, ma in termini di contesti
culturali specifici. Ogni cultura ha vissuto una storia diversa e unica,
anche nei casi in cui sono stati elaborati aspetti culturali simili.
Al particolarismo storico va associato il concetto di “diffusionismo”
rapportato a quello di “creazione indipendente”. Le somiglianze tra le
culture possono essere la conseguenza della diffusione di un’idea da
una cultura all’altra. L’invenzione indipendente si verifica invece
quando la cultura produce una nuova idea, senza aver conosciuto
alcuna influenza da un’altra cultura. Per esempio, l’agricoltura si è
sviluppata in diversi continenti (America e Asia) allo stesso tempo;
dato che non esistevano comunicazioni transoceaniche all’epoca, si
può dire che si è sviluppata nelle due aree indipendentemente l’una
dall’altra.
D’altro canto, molte abitudini e/o rituali possono essere trasmessi
per diffusione culturale, il che si verifica quando tribù o popoli diversi
si incontrano o quando una cultura sottomette l’altra, evento che di
solito si traduce nell’obbligo, per i dominati, di conformarsi alle
credenze e tradizioni culturali dei dominatori. Boas sostenne che è
comunque necessario avere delle prove empiriche di contatti storici tra
culture prima di poter far prevalere la teoria della diffusione su quella
dell’invenzione indipendente.
Particolarismo storico e diffusionismo vanno di pari passo: tratti
simili tra diverse culture possono essersi diffusi attraverso
l’interazione tra loro, ma, anche se alcuni tratti sono simili, ogni
cultura si è poi sviluppata attraverso una storia unica.
Un altro principio introdotto da Boas nell’antropologia è il
“relativismo culturale”: l’idea che le attività o le credenze di una
persona o di un gruppo debbano essere intese nei termini e valori della
propria cultura, non di quelli di qualcun altro. Va precisato che il
relativismo culturale introdotto da Boas non va confuso con il
relativismo etico, ovvero l’idea che non esistono norme morali o etiche
oggettive e assolute.
Il relativismo culturale introdotto da Boas è semplicemente un
metodo d’indagine antropologica secondo il quale il modo migliore per
capire i motivi per cui una cultura è come è (o perché i membri di una
società fanno le cose in un certo modo) è quello di utilizzare un
approccio emic6 (o manifestare la comprensione di un insider –
qualcuno che sia interno al gruppo). Il relativismo culturale come
metodo di conoscenza di altre società è il contrario dell’etnocentrismo.
Accanto all’approccio emic vi è quello etic, che rappresenta il punto di
vista scientifico dell’antropologo:
L’approccio etico (in senso scientifico) sposta l’attenzione dalle osservazioni,
categorie, spiegazioni e interpretazioni dei locali a quelle dell’antropologo.
L’approccio etico si rende conto che i membri di una cultura spesso sono troppo
coinvolti in quello che stanno facendo per interpretare le loro culture in modo
imparziale. Quando si utilizza l’approccio etico, l’etnografo sottolinea quello che
lui o lei considera importante7.
Conclusioni
La rimessa in discussione del paradigma evoluzionista dominante
nell’antropologia culturale fino alla seconda metà del XIX secolo ebbe
un impatto essenziale nel ridefinire il rapporto tra universale e
particolare, nonché sulla questione – sempre presente – del passaggio
natura-cultura. Il relativismo culturale di Boas aprì la via a un
ripensamento della nozione di centralità/superiorità della cultura
occidentale (vista come stadio evolutivo necessario). I modelli
familiari – e le relazioni tra uomini e donne – apparvero così come
profondamente determinati dai contesti culturali, anziché universali-
normativi. Le prime femministe, come Elsie Parsons, utilizzarono la
scoperta di queste diversità (e della posizione di maggior potere delle
donne in alcune società “primitive”) per mettere in questione famiglia,
matrimonio e ruoli maschili e femminili nella società occidentale.
Anche gli struttural-funzionalisti furono impegnati a documentare la
diversità delle forme di famiglia che si incontrano nelle diverse società.
Ma essi ricercarono anche un “substrato” naturale che Radcliffe-
Brown chiamò “famiglia elementare”, una comune forma familiare di
base, nascosta all’interno delle forme familiari poligamiche e
poliandriche, di lignaggio e di clan, di bande e di tribù. In altri termini,
i funzionalisti partivano dal presupposto di fondo che le strutture di
parentela e quelle della cultura siano costruite su un fondamento
naturale: il legame biologico della riproduzione fisiologica che collega
la madre e il bambino.
Come affermò Malinowski, nell’ambito della parentela la fisiologia
crea istituzioni puramente culturali. La rimessa in discussione della
“naturalità” dei ruoli maschili e femminili necessitava però di uno
sguardo non androcentrico… quello che una giovane donna di
ventiquattro anni, Margaret Mead, saprà portare sui ragazzi e le
ragazze dell isole Samoa, nella metà degli anni Venti del Novecento.
E sarà poi l’antropologia femminista degli anni Settanta a
radicalizzare la critica alla visione naturalista delle relazioni della
parentela che portano a una rigida divisione dei ruoli dei due sessi per
via della centralità della riproduzione.
Parsons allo studio del folklore nero sono così vasti da comprendere, in se stessi, la
maggior parte dei materiali disponibili in questo settore; sono così importanti che
nessun lavoro significativo può essere fatto in futuro senza usarli come base»
(1943: 28; trad. dell’autrice).
16 Un’altra studiosa di folklore fu Martha Beckwith (1871-1959), che, nel 1920, fu
la prima persona a occupare una cattedra di folklore in una università americana, il
Vassar College, dove fu anche istituita la Folklore Foundation, grazie alla
donazione della paleontologa e naturalista Annie Montague Alexander (1867-
1950), altra interessante figura di studiosa e viaggiatrice all’origine anche del
Museum of Paleontology presso la University of California a Berkeley; cfr.
http://www.ucmp.berkeley.edu/history/alexander.html (ultima consultazione
8.3.2016). L’idea di raccogliere, valutare e confrontare il folklore era del tutto
nuova agli inizi del XX secolo. Per Beckwith con “folklore” si intendevano idiomi
popolari, credenze, slang, canzoni o storie che circolavano in varie versioni,
attraverso le comunità. La sua definizione era in parte differente da quella di altri
studiosi. Mentre molti dei primi folkloristi ritenevano che il termine “folk” si
riferisse solo alla cultura orale dei popoli “primitivi”, Beckwith sosteneva che tutte
le culture hanno avuto delle tradizioni popolari che giustificano la ricerca, e
rifiutava la divisione tra “popolare” e altre forme di espressione artistica
“superiori”, attribuendo a entrambe dignità letteraria. Durante un anno sabbatico,
nel 1926-27, studiò la letteratura popolare in Italia, Grecia, Palestina, Siria e India.
Le sue principali richerche riguardarono però le Hawaii, la Giamaica, e le tribù
Sioux e Mandan-Hidatsa delle riserve del North e South Dakota.
17 Parsons scrisse anche il saggio What is Feminism. Fu una delle prime autrici
che usò il termine “femminismo”.
18 Una scuola antropologica influenzata dal diffusionismo fu quella austriaca dei
Kulturkreise (cerchi culturali), una scuola alquanto eccentrica nel panorama
antropologico europeo, in parte di stampo evoluzionista e influenzata da idee
razziste di superiorità occidentale. Tra i suoi esponenti si ricordano Fritz Graebner
e Wilhelm Schmidt. La nozione fondamentale era quella dell’esistenza, nella storia
di ogni cultura, di un numero limitato di Kulturkreise in grado di spiegarne i
fenomeni, con forti analogie tra diverse culture anche molto distanti tra loro. Le
forzature comparatistiche e interpretative screditarono presto la Kulturkreislehre
di fronte alla comunità scientifica (cfr.
http://www.britannica.com/science/Kulturkreis; ultima consultazione 8.3.2016).
19 Sui bilateral kinship systems cfr. quanto scritto da Brian Schwimmer
(https://umanitoba.ca/faculties/arts/anthropology/tutor/descent/cognatic/bilateral.html
ultima consultazione 8.3.2016): «L’organizzazione bilaterale della parentela
presenta un problema di classificazione, dato che tutte le società riconoscono e
interagiscono regolarmente con una varietà di parentele materne e paterne. Di
fatto, i membri delle società unilineari, in certe situazioni formali, riconoscono
esclusivamente i parenti su base agnatica o uterina, ma mantengono anche
rapporti sia strutturati che informali con altri parenti e costituiscono parentele
bilaterali per una varietà di scopi. Il verificarsi universale di parentele bilaterali,
spesso in combinazione con istituzioni unilineari, ha portato a una varietà di
controversie sul fatto che esistono strutture bilaterali come forma generale o se una
società specifica è unilineare o bilaterale. Tali dibattiti hanno riguardato, per
esempio, la parentela nella Roma antica, e moderni sistemi degli Yoruba. Tuttavia,
la principale prova a sostegno dell’esistenza di istituzioni bilaterali strutturali
all’interno di diverse tradizioni, in particolare quelle europee, sono le varie regole
che definiscono gli standard della parentela cognatica e le assegnano diritti e
doveri. Formalmente, i sistemi di parentela bilaterali coinvolgono due forme
distinte: gruppi di discendenza bilaterale, un’istituzione relativamente rara,
organizzata sulla base di una discendenza bilaterale dagli antenati riconosciuti e
tribù, ovvero reti che si estendono attraverso entrambi i genitori di un individuo e
la parentela bilaterale» (trad. dell’autrice).
20 L’assimilazione del pensiero primitivo al nevrotico, completamente rigettata da
Franz Boas ma anche dai funzionalisti, sollevava grande interesse in Europa. Lo
studioso francese Lévy-Bruhl elaborò un sistema di differenziazione fra il pensiero
dei primitivi e quello degli esseri umani civilizzati. L’autore sosteneva che il
primitivo fosse dotato di prelogismo, una sorta di rappresentazione mistica della
realtà, in cui non esisterebbe differenza fra soggetto e oggetto, fra l’io e il mondo.
L’uomo primitivo vivrebbe quindi in una sorta di partecipazione mistica con la
natura che lo circonda.
21 Il termine “movimento” è più adeguato di “scuola”, in quanto i suoi
rappresentanti – tra cui Ruth Benedict e Margaret Mead – non si costituirono mai
in una vera e propria “scuola”.
22 Boas 1928: XXII (trad. dell’autrice).
23 Malinowski 2000: 6-7.
5. RUTH BENEDICT E MARGARET MEAD: CULTURE,
PERSONALITÀ, SESSO E TEMPERAMENTO
Modelli di cultura
Prima di presentare le tre ricerche etnografiche, Benedict introduce il
quadro teorico in due capitoli dove definisce il termine “modello”
(pattern) nell’ambito della cultura, su cui così si esprime: «What really
binds men together is their culture – the ideas and the standards they
have in common»4. A ogni cultura, come a ogni individuo, corrisponde
un modello, più o meno consistente, di pensiero e azione. Ogni cultura
ha un sistema di credenza – idee, criteri, motivazioni, emozioni e
valori standardizzati – che le garantiscono una coerenza interna. Gli
individui sono legati alla forma culturale generale di cui sono
partecipi. Una cultura può essere compresa come una personalità
individuale e ogni persona all’interno di quella cultura può essere
compresa attraverso il modello, ovvero i tratti o tipi che caratterizzano
quella particolare cultura, mentre la natura di ogni tratto culturale
sarà diversa nelle differenti aree, a seconda degli elementi con cui è
stato combinato. Di conseguenza, se siamo interessati ai processi
culturali il solo modo in cui possiamo conoscere il significato dei vari
dettagli del comportamento è guardando ai motivi, ai valori e alle
culture che appaiono istituzionalizzati in quella cultura5.
Ruth Benedict applica, rispetto alle culture, il principio boasiano del
relativismo culturale: non dà nessun giudizio sulle culture o sui
temperamenti culturali che descrive. La novità della sua ricerca
consiste nel collegamento tra l’antropologia e la psicologia
nell’indagine del rapporto tra individuo e cultura.
A suo modo di vedere, la storia di vita di ogni individuo è un processo
di adattamento a modelli e regole in vigore nella sua comunità. Fin dai
primi istanti di vita, i costumi del mondo in cui è nato modellano le
sue esperienze e il suo comportamento futuro. Si può dunque parlare
di determinazione sociale della psiche, sebbene nessuna cultura sia
mai stata capace di annullare completamente i temperamenti dei
diversi membri che la compongono; esisteranno sempre alcuni
individui che, per i loro riflessi “naturali”, saranno incapaci di
adattarsi ai comportamenti che le culture richiedono. Questi esseri
umani “disorientati” esistono in tutte le culture e illustrano il dilemma
dell’individuo le cui propensioni naturali non sono previste dalle
istituzioni della sua cultura (torneremo su quest’aspetto nel prossimo
paragrafo affrontando il tema dell’omosessualità).
Benedict non enfatizza in Patterns of Culture le variazioni individuali
rispetto alla socializzazione e all’inculturazione, né la varietà dei
temperamenti dei singoli, quanto l’esistenza, in ogni cultura, di un
temperamento dominante, risultato dell’interiorizzazione delle norme
prescritte. Nella presentazione delle tre culture considerate – gli Zuñi
“moderati e cerimoniosi”, i Dobu “tetri e vendicativi” e i Kwakiutl “folli
di ambizione e di mania di grandezza”, Ruth Benedict delinea dei
“temperamenti culturali”, utilizzando le categorie di “apollineo” o
“dionisiaco” elaborate da Nietzsche6. Queste categorie permettono
peraltro di evitare il rischio che alcuni comportamenti siano ricondotti
senz’altro a forme psicopatologiche.
Conclusioni
Abbiamo spiegato che si deve di fatto a Margaret Mead l’elaborazione
del concetto di genere, nella sua opera Sex and Temperament. Un
altro ambito in cui al suo lavoro va riconosciuta una valenza
pionieristica è il passaggio del focus dell’antropologia dallo studio
delle società “primitive” alle società occidentali. Il testo più
significativo di questo passaggio è The Study of Culture at a Distance,
pubblicato nel 1953 con Rhoda Métraux. Nel testo, la cultura viene
definita come
il comportamento totale condiviso, appreso, di una società o di un sottogruppo.
Così possiamo parlare di una “cultura”, usando il termine per il tutto, o per un
elemento di comportamento “culturale”, riferito al tutto. La situazione esemplare
su cui si basa il concetto antropologico di cultura è quella di una società
funzionalmente autonoma che ha mantenuto la sua esistenza attraverso un
numero sufficiente di generazioni perché ogni stadio della vita dell’individuo sia
incluso nel sistema27.
studi sul candomblé brasiliano (pubblicati nel 1947 in The City of Women), è
conosciuta anche per il suo lavoro pionieristico nei campi dell’antropologia di
genere e dell’antropologia dell’educazione. Le donne rappresentarono una delle
principali aree di ricerca da lei frequentate. Cfr.
http://jwa.org/encyclopedia/article/landes-ruth-schlossberg (ultima consultazione
8.3.2016).
16 Pipher 2001: XVI e XVII (trad dell’autrice).
17 Margaret Mead mise in questione l’idea di “salute mentale” basata su una
visione etnocentrica. In un testo del 1949, The Mountain Arapesh (pubblicato in
“Anthropological Papers of the American Museum of Natural History”, vol. 41,
part. 3), sostenne che i test di Rorschach, applicati a popoli indigeni, non
insegnano all’etnologo nulla che egli non conosca già attraverso i metodi propri
dell’etnologia.
18 Cfr. http://www.notablebiographies.com/Ma-Mo/Mead-
Margaret.html#ixzz3itvEbRj7 (ultima consultazione 8.3.2016).
19 Mead 1973: XXIII.
20 Rivista americana rivolta al grande pubblico femminile, fondata nel 1903.
21 Mead 1928: 6-7 (trad. dell’autrice). Per dovere di cronaca va ricordato che nel
1999 un capo samoano pubblicò Coming of Age in American Anthropology:
Margaret Mead and Paradise (Malopa’upo 1999). Il libro contiene una dura critica
del lavoro di Mead, basato, secondo l’autore, su un programma di ricerca che rivela
la profonda arroganza caratteristica di gran parte dell’antropologia, che ha dipinto
immagini di società “primitive”, assumendo che i “primitivi” non debbano
nemmeno essere consultati in merito alla validità del quadro. In ambito
accademico il libro è stato sostanzialmente ignorato, ma va riconosciuto che
prende in esame il lavoro di Mead da un valido punto di vista alternativo e
focalizzando questioni importanti.
22 Mead 1973: XXV (trad. dell’autrice).
23 Boas 1928b: XXII (trad. dell’autrice).
24 Citiamo qui il lavoro sui Manus della Nuova Guinea, Growing Up in New
Guinea (1930), nel quale Mead confuta l’idea che i “primitivi” siano come dei
bambini, ovvero si trovino in una fase iniziale dello sviluppo psicologico. Sulla base
dei suoi risultati, Mead sostenne che lo sviluppo umano dipende dall’ambiente
sociale.
25 Nel corso della sua vita Margaret Mead studiò sette diverse culture del Pacifico
e, negli Stati Uniti, gli Omaha.
26 Oltre ai suoi tre matrimoni, come già ricordato Mead coltivò una stretta
relazione (anche sessuale) con Ruth Benedict, che non fu peraltro il solo rapporto
intimo di Mead con una donna. Per 17 anni (1961-78), infatti, convisse con Rhoda
Métraux (Banner 2003).
27 Mead, Métraux 2000: 22 (trad. dell’autrice).
6. L’ANTROPOLOGIA IN FRANCIA TRA LE DUE GUERRE
MONDIALI: MARCEL MAUSS E GERMAINE TILLION
Una razza, dal punto di vista biologico, può essere definita come uno dei gruppi di
popolazioni che costituiscono la specie homo sapiens. Questi gruppi sono in
grado di ibridarsi l’uno con l’altro, ma, in virtù delle barriere isolanti che in
passato li tenevano più o meno separati, manifestano alcune differenze fisiche a
causa delle loro diverse storie biologiche.
In breve, il termine “razza” indica un gruppo umano caratterizzato da alcune
concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni)
o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del
tempo a causa dell’isolamento geografico.
In materia di razze, le uniche caratteristiche che gli antropologi possono
efficacemente utilizzare come base per le classificazioni sono quelle fisiche e
fisiologiche.
In base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità
differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al
comportamento27.
Conclusioni
Abbiamo visto come i percorsi dell’antropologia americana e
dell’antropologia francese siano rimasti divisi per tutto il XIX secolo. La
fondazione della scuola di etnologia da parte di Mauss, Rivet e Lévy-
Bruhl rappresentò una svolta importante che favorì i contatti e la
prossimità scientifica nel periodo tra le due guerre. Tuttavia,
l’etnologia francese e l’antropologia culturale americana operarono in
contesti politici molto diversi, una direttamente in contatto con la
politica colonialista, l’altra no.
La Seconda guerra mondiale provocò una fase di distacco imposto,
ma anche di avvicinamento, dato che alcuni antropologi esiliati negli
Stati Uniti, come Claude Lévi-Strauss, riportarono in Europa la netta
distinzione boasiana tra lo studio della cultura e l’antropologia umana
ancora intrappolata nel concetto di “razza”.
Scriveva Lévi-Strauss in Race et histoire:
Il peccato originale dell’antropologia consiste nella confusione tra la nozione
puramente biologica della razza (ammesso, peraltro, che anche su questo terreno
limitato, questo concetto possa pretendere una qualche obiettività negata dalla
genetica moderna) e le produzioni sociologiche e psicologiche delle culture
umane. A Gobineau è stato sufficiente commetterlo per essere intrappolato nel
circolo infernale che conduce da un errore intellettuale – non necessariamente in
malafede – alla legittimazione involontaria di tutti i tentativi di discriminazione e
di sfruttamento29.
testo Il était une fois l’ethnographie: «L’etnografia non era ancora una carriera
affollata, come diventerà più tardi; si entrava in etnografia come si entra in
religione, con grandi principi, raccoglimento e il gusto del sacrificio» (Tillion 2000:
130; trad. dell’autrice). La studiosa racconta le varie tappe dell’esperienza di un
giovane etnologo: la visita ai capi tribù, poi alle famiglie, l’apprendimento della
lingua e delle abitudini sociali, l’arte della conversazione e dell’inchiesta, la raccolta
delle storie e dei racconti, tutte fasi per le quali è necessaria l’accettazione
dell’intruso nella vita della comunità.
18 Tillion 1946: 22.
19 Aa. Vv. 2000: 91.
20 Alcune idee sul tema erano già state espresse in Les femmes et le voile dans la
civilisation méditerranéenne (1964).
21 Era stato anche messo in atto un vero e proprio programma per salvare gli
scienziati dell’Europa occupata, con il sostegno della Rockefeller Foundation e
della New School for Social Research di New York.
22 Gli Stati Uniti al momento non erano ancora entrati nel conflitto (lo faranno
solo nel mese di dicembre del 1941, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour).
23 L’articolo 6 della Carta Atlantica afferma precisamente: «Dopo la definitiva
distruzione della tirannia nazista, essi sperano di veder ristabilita una pace che dia
a tutte le nazioni i mezzi per vivere sicure entro i loro confini, e assicuri che tutti gli
uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno».
24 http://www.clubunescogenova.it/025.htm (ultima consultazione 8.3.2016).
25 Noto soprattutto come autore del saggio antropologico O negro brasileiro
(1934).
26 Nato a Londra da una famiglia di origine ebraica, Ashley Montagu si era poi
trasferito negli Stati Uniti. Nel suo saggio Man’s Most Dangerous Myth: The
Fallacy of Race (1942) sostenne che la razza è soltanto un mito e una costruzione
sociale, e che l’uso del termine va eliminato dalla ricerca scientifica. Anche Comas
Camps sosteneva che il concetto di razza non ha alcun fondamento scientifico.
27 Versioni rivedute della dichiarazione furono pubblicate nel 1951, 1967 e 1978.
Cfr. amche
https://en.unesco.org/70years/leading_fight_against_racism#sthash.xEsfZkoV.dpuf
(ultima consultazione 8.3.2016).
28 Fabietti 2012: 343.
29 Lévi-Strauss 1952: 10 (trad. dell’autrice).
7. CLAUDE LÉVI-STRAUSS E LO STRUTTURALISMO
Incesto e scambio
Alla fine degli anni Quaranta, l’antropologo Claude Lévi-Strauss concepirà la
natura e la cultura come due realtà che si articolano attraverso un’istituzione
universale: la proibizione dell’incesto. Proibizione che sintetizza il passaggio dalla
natura alla cultura e regolamenta la vita sessuale e le relazioni tra i sessi e dalla
quale discende, in forma diretta e naturale, lo scambio delle donne tra gruppi di
uomini. Da parte sua, la filosofa esistenzialista Simone de Beauvoir, con il suo
celebre «non si nasce donna», apre in quegli stessi anni una via di riflessione
fondamentale che teoriche e militanti femministe riprenderanno negli anni
Settanta1.
Conclusioni
Non si è voluto qui analizzare compiutamente l’importanza dell’opera
di Claude Lévi-Strauss per l’antropologia nel suo complesso. Rispetto
allo specifico dell’antropologia femminista, lo strutturalismo fornisce
una chiave di lettura del passaggio dalla natura alla cultura che non è
basata sulla biologia, ma sul codice ultimo della mente umana – la
capacità umana di percepire gli opposti e i contrari, di effettuare
distinzioni binarie, come tra noi e l’altro. La sessualità è naturale, ma
diventa culturale con la proibizione dell’incesto e le regole del
matrimonio esogamico. Dalla regola di concedere parti di “noi” (le
sorelle) e di ricevere gli “altri” (le mogli) discendono tutti gli scambi in
beni, servizi e informazioni. Le donne si sono così trovate a essere
oggetto dello scambio (oltre a essere soggetti portatori di valori).
Dicotomia tra maschile e femminile, alterità: la concreta
organizzazione della società ha prodotto anche una gerarchia:
In maniera costante, le società umane, dalle più “primitive” (secondo il giudizio di
valore di coloro che si ritengono “civilizzati”) alle più sviluppate, presentano lo
stesso tratto organizzatore: una gerarchia delle categorie di sesso
(maschile/femminile) tale che il sesso maschile e i caratteri, le funzioni e
prerogative che gli sono attribuiti collettivamente sono considerati superiori al
sesso femminile e ai caratteri, funzioni e campi che gli sono riservati. Gerarchia
che si traduce in quello che si chiama “dominazione maschile”27.
Sulla base della sua ricerca, Betty Friedan elaborò la tesi secondo cui
le donne – in quanto gruppo o classe – soffrono di una varietà di
discriminazioni più o meno sottili e sono vittime di un sistema
pervasivo di falsi valori, secondo i quali dovrebbero trovare la loro
realizzazione personale e perfino la loro identità attraverso il marito e i
figli, ai quali con gioia avranno consacrato le loro vite. Questo ruolo
ben delimitato di moglie e madre conduce inevitabilmente a un senso
di irrealtà o di generale malessere spirituale in assenza di un lavoro
genuino, creativo, voluto.
The Feminine Mystique rese Betty Friedan famosa e ne fece un punto
di riferimento per la seconda ondata del femminismo8. Nel 1966
contribuì a fondare la National Organization for Women, un gruppo
per i diritti civili il cui primo obiettivo era ottenere l’eguaglianza di
opportunità per le donne, e di cui fu la prima presidentessa; nel 1969
la National Association for the Repeal of Abortion Laws (oggi NARAL
Pro-Choice America); e nel 1971, con altre femministe, la National
Women’s Political Caucus, per favorire l’impegno delle donne nella
politica.
Conclusioni
La seconda ondata del femminismo, rivendicando un nuovo spazio
per le donne non solo nella sfera pubblica e politica, ma anche nella
produzione di pensiero, ha contributo a far nascere e crescere
un’antropologia femminista, che ha a sua volta fornito gli strumenti
teorici per supportare nuove battaglie. Il concetto di “genere” fa parte
di questi strumenti che aprono uno spazio di rivendicazione contro i
ruoli tradizionali, una volta separato il sesso (biologico) dalle
costruzioni sociali che fissano modelli culturali arbitrari. Dagli anni
Settanta in avanti il concetto di genere ha viaggiato ben al di là degli
scritti delle studiose femministe, siano esse sociologhe o antropologhe.
Ha penetrato il vocabolario della stampa e dei media, e, da lì, il senso
comune. Ha anche incontrato sul suo cammino le Nazioni Unite,
l’organizzazione concepita nel mezzo della Seconda guerra mondiale
che aveva per prima proclamato, insieme alla condanna del razzismo,
la necessità dell’uguaglianza tra uomini e donne, sancita in quella
Dichiarazione dei diritti umani a cui proprio una donna, Eleanor
Roosevelt, aveva tanto contribuito. Le Nazioni Unite hanno
incorporato la questione del genere nei loro programmi, ma proprio al
momento in cui il concetto di genere è diventato uno strumento non
solo teorico, ma anche politico, il suo stesso significato si è scomposto
nella diversità delle interpretazioni teoriche e delle indicazioni
pratiche.
volta da viaggiatori europei negli anni Trenta, ed era rimasta isolata per tutta la
Seconda guerra mondiale. Marylin Strathern fu una delle prime antropologhe a
svolgere lavoro di campo nella zona.
25 Weiner 1976: 13 (trad. dell’autrice).
26 MacCormack e Strathern 1980: 219 (trad. dell’autrice).
27 Strathern 1988: 128 (trad. dell’autrice).
28 Strathern 1989: 55
29 Ibidem: 56.
30 Cfr. in proposito la voce “Feminist Perspectives on Sex and Gender” della
Stanford Encyclopedia of Philosophy:
http://plato.stanford.edu/entries/feminism-gender/ (ultima consultazione
8.3.2016).
31 Rubin 1975: 165, 179 e 204 (trad. dell’autrice).
32 Ibidem: 180 (trad. dell’autrice).
9. ANTROPOLOGIA FEMMINISTA, ANTROPOLOGIA DI GENERE,
ANTROPOLOGIA QUEER. IL DIBATTO CONTEMPORANEO E LE
CONTROVERSIE SOCIOPOLITICHE
L’antropologia queer
La teoria queer costituisce uno dei più recenti sviluppi nell’ambito
dell’antropologia, collocandosi nell’alveo dell’antropologia
postmoderna di cui si è fatto cenno. Come indica lo stesso termine
queer16, questa teoria si oppone al concetto di “normalità”, sfidando la
normatività dell’eterosessualità e mettendo in luce gli effetti della
socializzazione sull’identità sessuale17. David Halperin, autore di How
to Be Gay (2012), sostiene che queer è per definizione tutto ciò che è
in contrasto con il normale, il legittimo, il dominante, ma non si
riferisce a niente di particolare; è una identità senza un’essenza18.
Queer non si riferisce dunque soltanto alla sessualità, o al sesso, ma
suggerisce che i confini di ogni identità possono potenzialmente essere
reinventati da chiunque.
In sintesi la teoria queer, che sta alla base dell’antropologia
omonima, critica le categorie binarie del genere (uomo/donna,
maschile/femminile) e della sessualità (eterosessuale/omosessuale),
in quanto sostiene che le identità non sono fisse, non determinano chi
siamo, per privilegiare invece concetti come “ambiguità” e “fluidità”
per analizzare i corpi sessuati19.
Per la teoria queer non ha senso parlare in generale di “donne” o di
qualsiasi altro gruppo, dato che le identità sono costituite da tanti
elementi – per cui supporre che le persone possano essere viste
collettivamente sulla base di una caratteristica comune è sbagliato. Per
questo suggerisce di sfidare deliberatamente tutte le nozioni che fanno
riferimento a un’identità fissa, in modi vari e non prevedibili.
L’identità è vista come fluttuante, non collegata a una “essenza”
quanto a una “performance”, un concetto che è al centro stesso della
teoria queer: la nostra identità, di genere e non, non esprime un
nucleo rigido interno, ma è l’effetto (piuttosto che la causa) delle
nostre performance.
La teoria queer è stata fortemente influenzata dal pensatore francese
Michel Foucault (1926-1984) con i suoi lavori sulla produzione del
discorso scientifico sulla sessualità, e tra i suoi principali riferimenti va
ricordato il lavoro della filosofa statunitense Judith Butler (in
particolare il suo testo Gender Trouble, del 1990), che critica l’idea
reificata delle “donne” come gruppo con caratteristiche e interessi
comuni, sostenuta dal femminismo, idea che ha rafforzato una visione
binaria delle relazioni di genere secondo cui gli esseri umani si
dividono in due gruppi, donne e uomini. In pratica il femminismo,
anziché aprire nuove possibilità di costruire la propria identità
individuale, avrebbe chiuso le opzioni, obbligando a una scelta
dicotomica – maschio o femmina.
Secondo Butler le femministe hanno sì respinto l’idea che la biologia
sia il destino, ma hanno dato per scontato che il maschile e femminile
siano costruiti dalla cultura su corpi “maschili” e su corpi “femminili”,
rendendo lo stesso destino altrettanto inevitabile e non lasciando
spazio per la scelta, la differenza o la resistenza. Butler preferisce
invece posizioni storiche e antropologiche che intendono il genere
come una relazione tra soggetti socialmente costituiti in contesti
specifici. In altre parole, piuttosto che attributo fisso di una persona, il
genere dovrebbe essere considerato come una variabile fluida che si
sposta e cambia in contesti diversi e in tempi diversi. Butler ricusa
quindi il nesso che pone il sesso (maschio, femmina) come causa del
genere (maschile, femminile) che, a sua volta, provoca il desiderio
(verso l’altro genere) e, ispirandosi a Foucault, rompe questo
“continuum”, ipotizzando il genere e il desiderio come flessibili, fluidi
e non “provocati” da altri fattori stabili: «Non c’è identità di genere
dietro le espressioni di genere […]. L’identità è costituita in maniera
performativa dalle stesse “espressioni” che si dice siano i suoi
risultati»20. In altre parole, il genere è una “performance”, uno
spettacolo; è ciò che si fa in momenti particolari, piuttosto che un
universale “ciò che tu sei”.
Butler sostiene che alcune configurazioni culturali di genere si sono
imposte come egemoniche, apparendo come naturali, e che
quest’ordine deve necessariamente cambiare. Però, piuttosto che
proporre una visione utopica, senza un’idea di come si potrebbe
arrivare a uno stato diverso delle relazioni tra i generi, suggerisce
un’azione sovversiva costante nel presente, appunto “scambi di
genere” – la mobilitazione, la confusione sovversiva, la proliferazione
– e quindi di identità.
Negli Stati Uniti, l’antropologia queer è stata istituzionalizzata nel
1988 con la fondazione dell’Association for Queer Anthropology (AQA)
come sezione dell’American Anthropological Association21. Il volume
Out in the Field: Reflections of Lesbian and Gay Anthropologists
experiences curato nel 1996 da Ellen Lewin e William Leap è stato uno
dei primi lavori dedicati agli antropologi e alle antropologhe gay e
lesbiche, e alle loro esperienze nel lavoro sul campo.
Scegliere il genere?
Dall’anno accademico 2015-16, i vari campus universitari dell’Università della
California (UC) consentiranno ai loro studenti di scegliere tra sei identità di
genere al momento dell’iscrizione, se lo desiderano. Nel modulo sarà possibile
selezionare la casella uomo, donna, transgender uomo, transgender donna, queer
o diversa identità27.
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