Sei sulla pagina 1di 205

Giovanna Campani

Antropologia di genere

presentazione di Franco Cambi


progetto grafico della copertina: Tiziana Di Molfetta

immagine in copertina: Le donne che scoprirono il genere. Margaret Mead, Ruth


Benedict, Alice Fletcher e Matilda Stevenson, di Elias Palidda

© 2016 Rosenberg & Sellier

Pubblicazione resa disponibile


nei termini della licenza Creative Commons
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

www.rosenbergesellier.it

Rosenberg & Sellier è un marchio registrato utilizzato


per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione italiana, marzo 2016

isbn 978-88-7885-419-2

LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl


via Carlo Alberto 55
I-10123 Torino
rosenberg&sellier@lexis.srl
PRESENTAZIONE

Con questo volume Giovanna Campani intende, come nota nella sua
introduzione, fornire un manuale per l’insegnamento di una delle
frontiere più attuali della stessa antropologia culturale, disciplina che
nelle nostre società multiculturali e aperte al “relativismo” ha trovato
una cittadinanza, sia teorica sia sociopolitica, sempre più centrale. Sì,
perché all’antropologia dobbiamo la capacità critica di ripensare
credenze, concetti e categorie dentro quelle “forme di vita” che le
esprimono e le codificano, vincolandosi ad esse, assumendo spesso
un’immagine für ewig che è affatto impropria, poiché falsa. Ogni
credenza, ogni forma ideale, ogni uso categoriale sta sempre dentro un
habitat socioculturale, fatto di riti, di norme, ma anche di poteri e di
tradizioni che lo rendono sì specifico ma anche relativo al lì-e-allora e
o al qui-e-ora. Tale disciplina critica, e critica delle civiltà (e di tutte),
costituisce oggi il principio metodico per abitare le nostre società
ipercomplesse e multiculturali: un principio da rendere attivo e
consapevole nelle stesse giovani generazioni che dovranno vivere
questo orizzonte storico-sociale, e dovranno viverlo in condizioni di
ulteriore complessità. Pertanto devono acquisire una forma mentis di
tipo antropologico-culturale e saperla applicare a miti, riti, credenze,
pratiche sociali e ideologie diffuse: come quelle del genere,
interpretato come “natura” mentre è sempre e solo “cultura”, poiché la
base naturale è stata e sarà sempre trascritta dal simbolico. Re-
interpretata e “normata” partendo proprio dall’habitat sociale che la
vive e la interpreta.
Giovanni Campani si comporta, in questo suo manuale, da esperta
docente: presenta i fondamenti storici e teorici dell’antropologia, i
dibattiti che l’hanno attraversata, la sua crescita teorica e applicativa
nel corso del XX secolo, gli approdi attuali attraverso il femminismo e i
contributi dati a tale fronte dell’“antropologia di genere” tra America
ed Europa, su su fino alle ultime teorizzazioni del “genere come scelta”
e la costruzione di molte identità di genere. Il quadro che la studiosa
sviluppa nel corso dei capitoli, precisi e acuti nei giudizi, è un quadro
storico che punta a inquadrare l’antropologia di genere come uno dei
settori più avanzati dell’antropologia attuale (che è comunque in forte
espansione e proprio per le frizioni, spesso anche drammatiche, tra le
culture e per il loro sovrapporsi, che le lega in modo costante a una
condizione di “acculturazione”) e che sempre più direttamente ci
riguarda, e come soggetti e come cittadini del tempo attuale.
Giovanni Campani si è formata a Parigi con un dottorato legato a una
specializzazione sociologica e antropologica, formazione che poi ha
sviluppato a Firenze in una serie di studi orientati all’intercultura e
resi via via sempre più articolati e complessi. Tutti rivolti a illuminare
la condizione multiculturale delle società attuali, chiamate a gestire in
modo organico e democratico la presenza di migranti: condizione
sempre più stabile e strutturale nelle società maggiormente avanzate.
Che reclama governo, e un governo che si radichi prima di tutto in un
cambiamento di mentalità e sviluppi un identikit dei soggetti capaci di
interfacciarsi con l’“altro”, di valorizzarne la differenza, di tener viva
l’accoglienza anche e soprattutto come incontro e dialogo. E in tale
dialogo ogni soggetto e ogni cultura si arricchisce, oltrepassa i propri
limiti, si apre all’avventura dell’incrocio con la diversità. Di tutti questi
problemi Giovanna Campani ha trattato in vari e significativi studi, tra
i quali si ricordano Migranti, rifugiati e nomadi (del 1998), Crescere
errando (su minori migranti non accompagnati, del 2004) e nel 2000
Genere etnia classe, rivolto alle migrazioni al femminile.
Nel testo attuale l’impegno di analisi cultural-formativa si è fatto
ancora più ampio e proprio in vista della professionalità che oggi è
richiesta a chi si dedica ai processi educativi in una società complessa
e multiculturale. Qui l’analisi, come ricordato, si fa assai articolata:
tocca la stessa nascita delle scienze umane in Francia già nel
Settecento e la loro evoluzione (o meglio involuzione) alla luce del
razzismo quale effetto del colonialismo, poi la crescita tra Darwin,
Morgan, Tylor e Frazer nell’epoca tra Otto e Novecento, crescita ricca e
esemplare, e ancora la maturazione più significativa tra Boas, Benedict
e Mead, figure che aprono al relativismo delle culture e allo stesso
paradigma del genere, con studi rimasti fondamentali. Poi l’autrice,
giustamente, torna in Francia con Lévi-Strauss e altri studiosi,
arrivando al pieno sviluppo della prospettiva di genere, che tra gli anni
Settanta e Ottanta su su fino a oggi riceverà una sempre più netta
centralità in questo ambito di ricerca. Oggi, anzi, si parla sempre di più
di un genere-al-plurale riconoscendo il ruolo dei transgender e
dell’identità aperta del genere, sottraendola a ogni determinismo tutto
biologico e delineandone invece la netta culturalità e quindi la
variabilità rispetto al patrimonio biologico.
Al capolinea della sua ricca ricostruzione storica dell’antropologia
culturale, condotta con precisione e finezza, Giovanna Campani può
indicare come oltrepassato il concetto naturalistico del genere (che è
stato fin qui un “velo” culturale, va ricordato) e come sia oggi centrale
il diritto al genere e alla sua libera scelta: diritto che deve essere
nettamente tutelato. Sia dalle leggi sia dalle pratiche formative, che a
loro volta hanno bisogno di una corretta teoria del genere. Posizione
netta che deve essere assunta con forza dalla stessa pedagogia. Per poi
dipanarsi in pratiche educative, rese attive già a partire dall’infanzia, a
casa e a scuola, ma anche nella società in generale, in modo da favorire
l’appartenenza di genere come una scelta. Legittima. Senza pericolo di
derisioni e persecuzioni. Senza discriminazioni. Tutto ciò reclama un
fascio di operazioni educative che in questo testo, così esplicitamente
scientifico e orientato in senso manualistico, restano un po’ fuori
scena, ma che risultano comunque ben presenti come destinazioni
operative della stessa riflessione teorica.

FRANCO CAMBI
a Corinne
INTRODUZIONE

Never doubt that a small group of thoughtful committed citizens can


change the world.
MARGARET MEAD

Da alcuni anni insegno Antropologia di genere nel corso di laurea


triennale in Scienze Umanistiche della Comunicazione dell’Università
di Firenze – una disciplina raramente presente nel panorama
accademico italiano. Interrogando le pagine web delle università
nazionali, possiamo rilevare come l’insegnamento “antropologia di
genere” sia previsto nelle Università di Pisa (corso di Scienze per la
Pace) e di Milano Bicocca (corso di laurea magistrale in Scienze
Antropologiche ed Etnologiche), mentre nel Dipartimento di Lingue e
Letterature straniere dell’Università di Torino è in programma un
“Laboratorio di Antropologia e studi di genere”1.
A differenza di quello che avviene nelle università italiane,
l’antropologia di genere è un insegnamento consolidato nelle aree
accademiche anglofone (vedi Syllabi for Women & Gender-Related
Courses in Anthropology)2 – il che non sorprende sia per la maturità
del dibattito su donne e antropologia, iniziato negli anni Settanta, sia
per l’origine anglosassone del concetto di genere; è ampiamente
diffuso nell’area francofona occidentale (Francia, Québec) – dove la
ricerca femminista si avvale di una lunga tradizione che ha prodotto
significative elaborazioni teoriche –, ma anche, dato forse più
sorprendente, nell’area ispanofona, nella quale (in seguito alla
prolungata presenza di regimi dittatoriali in Spagna fino agli anni
Settanta e in molti paesi dell’America Latina fino agli anni Ottanta) gli
studi di genere e femministi sono relativamente recenti.
L’antropologia di genere è presente sia nelle università spagnole – da
Granada a Madrid, da Siviglia a Bilbao, che nelle università
latinoamericane – argentine, cilene e brasiliane. In molte università
nordeuropee, statunitensi, canadesi e sudamericane (Salvador,
Colombia, Brasile…) si trova traccia – come disciplina riconosciuta
nella sua specificità – dell’“antropologia femminista” che è
completamente assente dalle università italiane.
L’assenza dell’antropologia di genere3 tra le discipline insegnate
nell’università italiana non ha incoraggiato la produzione scientifica
sulla tematica nel corso degli ultimi anni. Le pubblicazioni in materia
sono ormai datate. I primi scritti dell’antropologia femminista
americana furono pubblicati in Italia da Savelli nell’ormai lontano
1979, in un volume curato da Rosaria Micela, Oppressione della donna
e ricerca antropologica; nello stesso periodo, l’antropologa italiana
Ida Magli affrontava la questione del matriarcato, in sintonia con la
discussione che avveniva all’epoca nel mondo anglosassone; nel 1994,
Gioia Di Cristofaro Longo pubblicava un importante saggio su
antropologia, donne e concetto di genere, Identità di genere, nel
volume collettivo Gli argonauti: l’antropologia e la società italiana.
In assenza di una produzione italiana recente nell’ambito
dell’antropologia di genere, ho maturato l’idea di predisporre un
manuale che guidi gli studenti delle lauree triennali in un percorso di
avvicinamento tanto all’antropologia come agli studi di genere, nonché
all’incontro tra questi due ambiti del sapere. Ho in parte seguito come
modello alcuni lavori prodotti in Spagna, Antropología del género di
Aurelia Martín Casares (2006), Antropologia feminista di Lourdes
Méndez (2008), Antropología del género di Beatriz Moncó (2011).
Per rispondere alle domande e sollecitazioni che, nel corso degli anni
d’insegnamento, mi erano state rivolte dagli studenti, ho privilegiato la
dimensione storica e ho cercato di ricostruire il percorso lungo il quale
la nascita e definizione scientifica dell’antropologia, in particolare
dell’antropologia culturale e sociale4, come disciplina autonoma, sono
state accompagnate da una crescente attenzione alle donne, ai ruoli
femminili e maschili e alle relazioni tra i sessi (come si diceva prima
che la categoria di genere fosse definita), per opera sia di singoli
studiosi che di scuole antropologiche in diversi contesti sociali, politici
e culturali.
La scelta di un approccio “storico” all’antropologia di genere ha
risposto all’esigenza fortemente sentita dagli studenti di
contestualizzare i quadri concettuali e metodologici intorno ai quali gli
antropologi hanno – nel tempo – cercato di costruire quella che uno
dei padri dell’antropologia, Edward Tylor, definì «the general science
of man» – la scienza generale dell’uomo nella doppia dimensione
naturale e culturale: il rapporto tra scienze della natura e umane; il
metodo etnografico; la distinzione tra l’etnografia delle culture
“prossime” e di quelle “lontane”; la teoria evoluzionista; il rapporto tra
cultura e personalità; la teoria funzionalista; lo strutturalismo. Le
modalità secondo le quali fu prodotto questo sapere scientifico
specifico – pervaso dalla costante interrogazione sul rapporto tra la
natura e la cultura – sono il risultato di un insieme di fattori, molti dei
quali esterni al mondo scientifico, ma a cui gli scienziati, uomini e
donne del loro tempo, parteciparono: tra questi fattori vanno ricordate
le battaglie per l’emancipazione – intesa nel senso ampio del termine.
Il filone antropologico che seguiamo nel volume (e che conduce alla
teoria del genere) è fortemente influenzato dalla questione
dell’emancipazione: battaglie contro la schiavitù, per i diritti delle
donne, per i diritti delle popolazioni non europee colonizzate. Un altro
filone dell’antropologia – che non è oggetto di questo volume – ha
avuto un altro percorso: cominciando dalla misurazione dei crani ha
giustificato le teorie della razza, fino al nazismo e al genocidio. Questo
filone, per il quale la biologia è destino immutabile, è agli antipodi
della teoria del genere, secondo cui la biologia, appunto, non è destino,
come gli antropologi culturali, da Alice Fletcher a Franz Boas, da Elsie
Parsons a Margaret Mead hanno proclamato – attraverso il loro
impegno sociale oltre che con la loro produzione scientifica.
Collocando l’antropologia culturale e sociale nell’ambito della storia
delle scienze umane, ho cercato di utilizzare un approccio critico, di
delineare una storia contestuale, tenendo conto delle costrizioni
economiche, sociali e politiche che l’hanno inquadrata5.
Il volume, che esordisce con l’apparizione di una scienza dell’uomo,
fondata su una narrazione separata dal racconto biblico, alla fine del
Settecento, si concentra poi sul XIX e sul XX secolo, evidenziando in
seguito quali tendenze nell’antropologia di genere e femminista sono
emerse nel nuovo millennio. Va premesso che se il testo si concentra
sulle manifestazioni dell’antropologia sorte nel mondo occidentale,
non significa che essa sia una scienza europea. Al contrario, è
importante chiarire che l’antropologia, ossia lo studio dell’uomo (dal
greco anthrópos – uomo senza distinzione di razza, lingua o sesso, in
opposizione all’animale o al divino – e lógos – discorso scientifico, in
opposizione al mito, mýthos, e all’opinione, dóxa) non è in sé una
scienza europea: come interrogazione sulla diversità delle culture
umane e descrizione etnografica precede di secoli il tempo
dell’“egemonia europea” – tanto nel mondo antico con Erodoto quanto
nel mondo arabo con Ibn Khaldūn. La costruzione della disciplina
antropologica come sapere legittimato in ambito accademico s’iscrive
invece nella storia delle scienze umane europee e nordamericane, e
risale alla fine del Settecento.
La storia dell’antropologia di genere non può prescindere dal ruolo
delle donne nella costruzione dei saperi antropologici. A sua volta,
l’importante presenza di donne antropologhe agli albori della
disciplina non può prescindere dall’emergere del movimento
femminista, principalmente di quello statunitense, che, a partire dalla
fine del XVIII secolo, ha svolto un ruolo cruciale per l’elaborazione di
nuovi quadri concettuali per leggere la società. Una figura come quella
di Margaret Mead risente profondamente di un ambiente culturale che
considera l’emancipazione femminile un valore: questo era l’ambiente
in cui l’antropologa statunitense era cresciuta (non a caso pensò alla
nonna come lettrice d’elezione della sua prima opera L’adolescenza in
Samoa). Il suo testo Sesso e temperamento incontra idealmente il
messaggio che dopo la Seconda guerra mondiale la francese Simone de
Beauvoir trasmette in Il secondo sesso: «Donne non si nasce, ma si
diventa».
Partendo da queste premesse il volume è organizzato in nove capitoli.

Il primo capitolo ripercorre la nascita e i primi sviluppi


dell’antropologia, intesa come scienza dell’uomo unificata e separata
dalla storia teologica dell’uomo offerta dalla Bibbia, in un’epoca – il
Settecento –, profondamente segnata da rivoluzioni al tempo stesso
politiche e scientifiche. Figlia del sapere illuminista e dell’ambizione di
costruire una histoire naturelle, l’antropologia si situa all’incrocio tra
la filosofia, le scienze della natura e quelle della società (Weber 2015).
Il capitolo esamina come la valorizzazione del folklore popolare
europeo nel pensiero romantico e nella formazione dei nazionalismi
abbia prodotto la separazione tra le scienze che trattano le culture
popolari europee e quelle che si occupano di mondi lontani.

Il secondo capitolo illustra l’impatto della teoria dell’evoluzione della


specie formulata da Charles Darwin sulle linee di divisione tra
l’evoluzione biologica e quella sociale nell’emergente antropologia
culturale. Riprende l’opera dello statunitense Lewis Morgan e del
britannico Edward Tylor, padri della disciplina e dell’evoluzionismo
culturale, secondo i quali tutte le società umane passano attraverso tre
stadi simili di sviluppo – selvaggio, barbarie e civiltà – e diverse fasi
intermedie. Di conseguenza, le società “primitive” (secondo il giudizio
di valore di quelle che si stimano “civilizzate”), permettono di
osservare le tappe anteriori, oggi superate dalla società occidentale. I
padri dell’antropologia culturale inaugurano il metodo
dell’osservazione partecipante presso le società oggetto del loro studio.
La famiglia, primo nucleo dell’organizzazione sociale, s’impone come
terreno di analisi privilegiato, accanto alle tecniche e alla religione.
Morgan ritiene che il sistema della parentela sia l’istituzione che
identifica i primi stadi dell’organizzazione sociale. La sua importanza
diminuisce nelle società moderne, dove predominano la territorialità,
il contratto sociale, lo Stato – con la politica e l’economia. Considerata
come l’epicentro dell’organizzazione delle società “primitive”, la
parentela è uno degli aspetti della vita sociale al quale gli antropologi
prestano maggiore attenzione. Come scrive Fox (1967: 10): «La
parentela è all’antropologia quello che la logica è alla filosofia e il nudo
all’arte».
Dato che la base della parentela è l’attribuzione di significato sociale
al fatto riproduttivo6, le donne, rese invisibili dalla storia e dalla
filosofia, non possono essere ignorate dall’antropologia sociale e
culturale. In un mondo accademico profondamente androcentrico, lo
stesso Edward Tylor deve riconoscere che un antropologo maschio può
ottenere migliori risultati lavorando in coppia con la moglie, che ha la
possibilità di conoscere, attraverso le donne delle popolazioni studiate,
una serie di pratiche che mai sarebbero rivelate agli uomini. Matilda
Coxe Evans Stevenson, che svolse il lavoro di campo nel Nuovo
Messico presso gli Zuni insieme al marito, fornisce il modello ideale
della compagna dell’antropologo7.

Il terzo capitolo è consacrato alle prime donne antropologhe


statunitensi, la già citata Matilda Coxe Evans8 e Alice Cunningham
Fletcher, attive nell’Ovest degli Stati Uniti, presso gli Zuni e gli Omaha
per conto del Bureau of American Ethnology (o BAE). Il capitolo
ricorda la fondazione, nel 1885, della Women’s Anthropological
Society of America (WASA) il cui obiettivo è aprire alle donne nuovi
campi di ricerca. La partecipazione delle donne americane alla
nascente disciplina antropologica è fiorente nella seconda metà
dell’Ottocento e non ha eguali in Europa9. Diversi fattori sono
all’origine della specificità americana. In primo luogo, grazie alla
battaglia dei movimenti femministi, i cui obiettivi furono annunciati
nella Seneca Falls Convention del 1848, le donne americane hanno
conseguito un livello di autonomia – professionale, economica e
intellettuale – impensabile in altre parti del mondo, inclusa la Gran
Bretagna10. In secondo luogo, il Bureau of American Ethnology
fondato nel 1879, per trasferire archivi e materiali relativi alle
popolazioni native americane dal Department of the Interior allo
Smithsonian Institution11, incoraggia gli studi sulle popolazioni. Dato
che sono le sole in grado di ottenere informazioni etnografiche dalle
donne delle tribù, il Bureau favorisce l’incorporazione di antropologhe
nella ricerca.
Il capitolo mostra poi come, alla fine dell’Ottocento, l’antropologia
nordamericana – mentre definisce standard sempre più rigidi per la
raccolta dei dati – metta in discussione l’idea dell’evoluzione culturale
teorizzata da Morgan e Tylor.

Il quarto capitolo si occupa dell’“età d’oro” dell’antropologia culturale


statunitense che può vantare uno straordinario sviluppo tra la fine
dell’Ottocento e la metà del Novecento. Al centro del capitolo è la
figura di Franz Boas, titolare della cattedra di Antropologia alla
Columbia University dal 1899, teorico del particolarismo storico e del
relativismo culturale. Per Boas tutte le culture hanno propri valori e
modi di comprendere il mondo e ogni gruppo sociale deve essere
compreso nella sua particolarità. Al grande schema interpretativo di
stampo evoluzionista Boas oppone l’idea di uno sviluppo storico
particolare a ogni cultura e pone in dubbio l’idea che la diversità
culturale sia il prodotto di uno stesso sviluppo cumulativo. Postulando
l’autonomia qualitativa di ogni cultura, egli introduce la nozione,
innovativa per l’epoca, di pluralismo culturale. Il capitolo prende poi
in considerazione la figura di Elsie Parsons, antropologa e femminista.
Infine esamina la scuola britannica funzionalista a cui appartengono
Alfred Reginald Radcliffe-Brown e Bronisław Malinowski, che
condivide con Boas il rigetto dell’antropologia evoluzionista.

Il quinto capitolo è consacrato a due grandi figure femminili


dell’antropologia, Ruth Benedict e Margaret Mead, entrambe allieve di
Franz Boas.
La prima approfondisce la teoria del relativismo culturale, e mette in
luce come la “normalità” sia culturalmente definita e possa variare da
una cultura all’altra. Sulla base dei dati empirici raccolti sul campo,
Ruth Benedict individua alcune aree dove la normalità e l’anormalità
sono diversamente definite, come l’omosessualità e la disposizione a
cadere in trance o in catalessi.
Margaret Mead è una figura di straordinaria importanza per
l’antropologia di genere. Sebbene non utilizzi esplicitamente il
concetto di “genere”, la Mead ha enormemente contribuito alla sua
gestazione, separando nettamente le qualità umane biologiche dei
maschi e delle femmine da quelle culturali e dimostrando, con il lavoro
sul campo, che non vi sono dei “temperamenti” maschili e femminili.
La portata delle sue conclusioni rispetto alla costruzione sociale dei
temperamenti maschili e femminili, come la negazione del
determinismo biologico e l’enfasi posta nell’idea dei ruoli sessuali
elaborati socialmente, rappresentarono un avanzamento indiscutibile
nelle teorie antropologiche, che gettarono le basi del concetto di
genere.

Il sesto capitolo riprende il percorso dell’antropologia europea,


imbrigliata per tutto l’Ottocento tra le scienze naturali e quelle umane.
Esamina la figura dell’antropologo Marcel Mauss e la scuola etnologica
francese tra le due guerre. Illustra l’impatto sull’antropologia del
nazismo in Germania e nell’Europa occupata, soffermandosi
sull’antropologa Germaine Tillion, deportata a Ravensbrück. La
rifondazione dell’antropologia europea, almeno nell’Europa
continentale (il caso della Gran Bretagna – paese risparmiato
dall’occupazione nazista – è a parte), passa per una netta condanna del
pensiero razzista e del concetto di razza, di cui si fa promotore
l’UNESCO, al cui gruppo di lavoro partecipa anche il francese Claude
Lévi-Strauss, uno degli studiosi che era riuscito a espatriare negli Stati
Uniti.

Il settimo capitolo prende spunto dall’analisi dell’opera classica di


Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1949)
che separa la parentela dal fatto biologico della riproduzione per
collocarla nello scambio delle donne come conseguenza del tabù
dell’incesto. Negli studi sulla parentela, Lévi-Strauss evidenza
l’universalità della proibizione dell’incesto, indipendentemente dalle
regole matrimoniali esistenti. Il fatto che tale proibizione non esista
nel mondo animale indica che non ha un’origine biologica o istintiva,
pur essendo una complessa struttura incosciente, come il linguaggio.
Ad essa si deve il carattere irreduttibile della parentela, dato che un
uomo non può ottenere una donna se non da un altro uomo che gli
affida la figlia o la sorella. La proibizione dell’incesto permette quindi
la circolazione delle donne, stabilendo la comunicazione tra gli
uomini.
Il capitolo analizza quindi l’opera Il secondo sesso di Simone de
Beauvoir (1949), prima femminista che elabora una teoria filosofica e
storica per combattere l’essenzialismo che pretende che le donne siano
nate donne, mentre al contrario esse sono costruite tali
dall’indottrinamento sociale. La celebre frase di Beauvoir – «On ne
naît pas femme, on le devient» («Donne non si nasce, ma si diventa»)
– viene dimostrata attraverso il percorso educativo della donna
dall’infanzia all’adolescenza fino alle relazioni sessuali. Studiando i
ruoli di moglie, madre e prostituta, Simone de Beauvoir mostra come
le donne siano ridotte a ruoli passivi, lasciando all’uomo l’attività. Per
questo devono recuperare il proprio destino, non come donne (il
“secondo sesso”), ma come esseri umani.
Il capitolo si conclude con una sezione dedicata al lavoro
dell’antropologa angloaustraliana Phyllis Mary Kaberry e al suo
originale contributo sui ruoli maschili e femminili nelle società
aborigene.
L’ottavo capitolo ripercorre l’affermazione del concetto di genere nel
corso degli anni Sessanta e Settanta, in concomitanza con la seconda
ondata del femminismo. Con il lavoro di Margaret Mead e quello di
Simone de Beauvoir, l’identità sessuata – il modo di vivere il proprio
corpo e di assumere i ruoli maschili e femminili – non è più
considerata come determinata dal sesso biologico. La teoria del genere
è già in nuce, ma sarà pienamente dispiegata soltanto con il secondo
femminismo, di cui The Feminine Mystique di Betty Friedan è un
primo manifesto. Il capitolo ripercorre l’elaborazione del concetto di
genere da parte delle studiose femministe, in particolare Ann Oakley,
Sherry Beth Ortner, Carol MacCormack, Marilyn Strathern, Eleanor
Leacock, Gayle Rubin.
Tra le questioni che la nascente antropologia femminista deve
affrontare vengono evidenziate la relazione tra natura e cultura
rispetto al maschile e al femminile – con l’associazione tra donne e
natura, e tra uomini e cultura (Ortner 1974) – e quella della gerarchia
delle categorie del sesso, che, nella maggior parte delle società umane,
si traduce nella dominazione maschile.

Il capitolo nono, infine, documenta come la seconda ondata del


femminismo, rivendicando un nuovo spazio per le donne non solo
nella sfera pubblica e politica ma anche nella produzione di pensiero,
abbia contributo a far nascere e crescere un’antropologia femminista,
che ha a sua volta fornito nuovi strumenti teorici che permettono una
più puntuale analisi delle relazioni sociali. Il concetto di genere fa
parte di questi strumenti, avendo da tempo superato i confini del
pensiero femminista per affermarsi come un concetto analitico chiave
delle scienze sociali e una linea orientativa delle politiche delle Nazioni
Unite, l’organizzazione internazionale che con la Dichiarazione
universale dei diritti umani ha proclamato, assieme alla condanna del
razzismo, il principio dell’uguaglianza tra gli uomini e le donne. Ma
proprio nel momento in cui il concetto di genere diventa uno
strumento non solo teorico ma anche politico, il suo stesso significato
si scompone nella diversità delle interpretazioni teoriche e delle
indicazioni pratiche – dietro la pressione del femminismo nero, degli
studi postcoloniali e della teoria queer.

1 Nella presentazione dei corsi di antropologia ed etnologia (sia per lauree


triennali che magistrali) di varie università italiane è talvolta menzionata
l’antropologia dei rapporti di genere come un ramo della disciplina (vedi per
esempio il programma della laurea magistrale in Antropologia e Storia del mondo
contemporaneo dell’Università degli Studi di Modena e Reggio).
2 http://afa.americananthro.org/syllabi/ (ultima consultazione 8.3.2016).
3 Il discorso potrebbe essere proficuamente allargato agli studi di genere.
4 Non è questo il luogo per descrivere il lungo dibattito tra britannici e americani
che ha visto la contrapposizione tra il termine antropologia culturale e antropologia
sociale: l’antropologia deve essere culturale o sociale? L’antropologia sociale è
antropologia o sociologia (Dianteill 2012)? In realtà non c’è una rigida distinzione
tra l’antropologia culturale e sociale, anche se vi sono alcune differenze in
particolare sull’enfasi rispetto ai temi studiati. Il termine “antropologia culturale” è
usato piuttosto in riferimento all’approccio sviluppato negli Stati Uniti da Franz
Boas e Ruth Benedict – che sottolinea la particolarità di ogni cultura e la necessità
di comprenderla a partire dai criteri propri. L’antropologia sociale si è invece
sviluppata principalmente in Gran Bretagna a partire dai primi anni del Novecento,
influenzata dalle tradizioni intellettuali provenienti dall’Europa continentale, in
particolare dalla Francia, e tende a focalizzare i suoi interessi sulle istituzioni
sociali e le loro interrelazioni. Nel volume uso il termine antropologia culturale con
riferimento a entrambe le tendenze.
5 Weber 2015: 308. Ricordiamo il contributo del pensiero di Michel Foucault alla
storia critica e contestuale delle scienze umane: la presa in conto dei meccanismi di
potere presenti all’interno dei discorsi scientifici che definiscono le regole di
produzione di un enunciato vero (Foucault 1977).
6 Scrive Scheffler: «La fondazione di ogni sistema di parentela consiste in una
teoria folklorica culturale designata a rendere conto del fatto che le donne mettono
al mondo i bambini, ovvero una teoria della riproduzione umana» (1973: 749).
7 Lurie 1966: 34; Lorini 2003: 1.
8 L’attività di Matilda Coxe Evans (1849-1915) a fianco del marito James

Stevenson (1840-1888), la differenzia dal ruolo svolto dalla collega Alice


Cunningham Fletcher. Gli Stevenson formarono la prima coppia di antropologi –
presa a modello da Tylor che li visitò nel 1884. Nonostante le sue idee sulla
“complementarietà” delle donne antropologhe rispetto al marito, Tylor rimase
alquanto impressionato dal lavoro di Matilda, che apre un nuovo campo nello
studio dell’infanzia presso le società “primitive”.
9 Clémence Royer è la prima donna francese iscritta alla Société d’Anthropologie
de Paris (SAP), fondata dal medico Paul Broca; tradusse L’origine delle specie di
Charles Darwin.
10 Anche l’Europa conobbe diversi movimenti femministi, per esempio quello
suffragista britannico. Ricordiamo anche come la riflessione di filosofi come John
Stuart Mill, il cui testo The Subjection of Women (1869) apre la porta allo sviluppo
del femminismo liberale.
11 La Smithsonian Institution fu fondata nel 1846 «per la crescita e la diffusione
della conoscenza» e si compone di un gruppo di musei e centri di ricerca alle
dipendenze del governo statunitense, in origine organizzati con il titolo di United
States National Museum, appellativo che cessò di esistere nel 1967.
1. LA NASCITA DELLE SCIENZE DELL’UOMO

L’antropologia nel secolo dei Lumi: la nascita della histoire naturelle


Il termine “antropologia” è introdotto nelle diverse lingue europee
durante il XVIII secolo per designare una scienza che, distinta dalla
narrazione teologica della Bibbia, si consacra allo studio dell’uomo in
maniera olistica – prendendo in considerazione la dimensione fisica,
sociale e culturale della specie – e utilizza approcci mutuati tanto dalle
scienze naturali che da quelle umane.
La prima definizione di antropologia compare in un trattato di
anatomia pubblicato, nel 1694, da un medico francese, Pierre Dionis,
seguace del pensiero di René Descartes:
La Scienza che ci conduce alla conoscenza dell’uomo si chiama Antropologia.
Questa scienza racchiude due parti: la prima tratta dell’anima, e si chiama
Psicologia […] e la seconda fa conoscere il corpo e tutto ciò che ne dipende, ciò
che si chiama Anatomia1.

Egualmente trattati di anatomia umana sono le due prime opere il


cui titolo contiene il termine antropologia: la Anthropologia Nova
(1707)2 dell’inglese James Drake e gli Elementa anthropologiae sive
theoria corporis humanis (1718) del tedesco Hermann Fr. Teichmeyer.
Anche questi autori sono medici, come Pierre Dionis.
Per comprendere il nesso tra antropologia e anatomia ricordiamo
che, tra il XVII e il XVIII secolo, l’interesse per l’anatomia va oltre la
medicina, e s’iscrive, particolarmente in Francia, fulcro del pensiero
illuminista, in un progetto scientifico-culturale più ampio, la
produzione di una histoire naturelle, “storia naturale” dell’Uomo.
Fondata su basi scientifiche e non più ostacolata dal racconto biblico
sulle origini dell’umanità, la “storia naturale” ha per oggetto l’Uomo
universale, di ogni tempo e di ogni luogo.
Con l’avanzare del secolo e l’affermarsi egemonico del pensiero
illuminista, l’interesse per la “storia naturale” travalica il mondo degli
studiosi e diventa una vera e propria moda culturale. Tra le pratiche
introdotte dalla nuova moda vi è l’abitudine di collezionare oggetti vari
– minerali, fossili, animali impagliati, piante esotiche, artigianato di
paesi lontani, da esibire in teche. Le collezioni – possedute tanto da
personaggi istituzionali, ministri, sovrani, come da semplici privati –
sono chiamate “gabinetto di curiosità” (laddove per curiosità s’intende
oggetto degno d’interesse). I gabinetti avevano una natura che si
collocava tra il collezionismo e la ricerca scientifica ed erano la
manifestazione concreta di una diffusa aspirazione al raggiungimento
di una conoscenza universale che troverà il suo compimento
nell’Encyclopédie coordinata da Diderot e D’Alembert. All’origine dei
musei di scienze naturali o dell’Uomo vi furono infatti i gabinetti di
curiosità. I criteri di raccolta e catalogazione degli oggetti collezionati
nei gabinetti sono la concreta rappresentazione dello stretto legame
che esisteva all’epoca tra le scienze e le arti. La “storia naturale”,
infatti, ignora ancora la distinzione – per noi abituale – tra scienze
della natura e scienze umane. La misconosce Georges-Louis Leclerc,
conte di Buffon (1707-1788), autore della Histoire naturelle, générale
et particulière3.

Buffon: monogenismo contro poligenismo


Ritenuto uno dei padri dell’antropologia, Buffon fu al tempo stesso
matematico, studioso di botanica e di zoologia, intendente del
Gabinetto di Storia Naturale del Re (appunto un gabinetto di curiosità)
e poi direttore del Giardino Botanico di Parigi, il noto Jardin des
Plantes, nel quale, a tutt’oggi, troneggia una sua imponente statua in
bronzo4. Oltre ai molteplici interessi per varie scienze della natura,
Buffon fu un attento lettore di racconti di viaggi in continenti lontani,
– l’etnografia dell’epoca –, che il suo amico e collaboratore Charles de
Brosses5 gli trasmetteva. Per Buffon, scienze della natura e scienze
umane sono strettamente intrecciate, sia perché i materiali su cui si
basano i due ambiti sono comuni (i viaggiatori e gli esploratori
raccoglievano dati e oggetti sia sulla flora e la fauna che sulle
popolazioni), sia perché lo stesso metodo scientifico si applica tanto
alla natura che all’uomo, dato che l’uomo è un essere naturale.
Buffon consacra due volumi della Histoire naturelle al “discorso sulla
natura dell’uomo”, stabilendo i due principi basici che la definiscono:
la differenza “metafisica” rispetto agli altri animali e l’esistenza di
un’unica specie umana6. Il secondo principio – l’appartenenza di tutti
gli individui a un’unica specie – si oppone radicalmente al
poligenismo, l’affermazione dell’esistenza di diverse specie umane,
sostenuto all’epoca da vari studiosi7. La novità consiste nel fatto che
Buffon giustifica “scientificamente” il monogenismo, senza ricorrere
alla narrazione biblica, per la quale esisteva una sola coppia originaria,
Adamo ed Eva.
Non v’è dubbio che il poligenismo sia precursore del razzismo, ma va
ricordato che, nel Seicento e nel Settecento, esso nasce come tentativo
di risposta all’enigma della diversità umana, testimoniata dai resoconti
di viaggio, e si sviluppa in ambienti ben diversi da quelli, reazionari,
ostili all’universalismo illuminista, che saranno il brodo di coltura
delle teorie razziste nell’Europa nazionalista e colonialista del XIX
secolo. Il poligenismo emerge in ambienti libertini, ostili alla dottrina
cristiana antropocentrica, che pone l’uomo al centro del creato, e
all’imposizione della narrativa biblica per spiegare le origini
dell’uomo.
Un caso esemplare di poligenista è Benoît de Maillet (1656-1738), i
cui scritti si prefiggono un obiettivo di rottura con la narrazione biblica
che assicura all’uomo una posizione privilegiata nel cosmo. Secondo
Maillet, se si autorizzasse la classificazione di tutte le specie viventi
senza remore teologiche, l’uomo troverebbe il suo posto nel mondo
animale e sarebbe sottoposto alle stesse leggi. Se vi sono diverse specie
di scimmie, buoi, capre in ogni parte del mondo conosciuto e se queste
specie discendono da diversi ceppi, perché il caso dell’uomo dovrebbe
essere diverso? Per Benoît de Maillet le prove dell’esistenza di diverse
specie nel genere umano sono molteplici, ma la “membrana delicata”
che rende color ebano la pelle dei neri è senz’altro la più evidente8. La
dimensione antireligiosa del poligenismo spiega peraltro il fatto che
esso fu difeso o almeno ritenuto plausibile dallo stesso Voltaire nel suo
Traité de métaphysique (1734)9.
La risposta di Buffon al poligenismo è particolarmente interessante
per i futuri sviluppi dell’antropologia culturale. Attento lettore di
resoconti etnografici di viaggiatori, esploratori, marinai, missionari,
Buffon non mette in discussione le diversità umane, ma ne cerca le
cause al di fuori della biologia. Ritiene che quelle che egli chiama le
“diverse variazioni” della specie umana siano una prova dell’unità del
genere umano, giacché derivano da mescolanze tra individui della
stessa specie (gli ibridi sono fecondi, se si trattasse di specie diverse,
sarebbero sterili). Le cause delle variazioni vanno individuate in fattori
naturali o storici, come il clima, il cibo, i costumi, le malattie
epidemiche, il meticciato, la schiavitù. L’importanza dei climi sui
costumi delle popolazioni era già stata suggerita da Montesquieu.
Nella Histoire naturelle, Buffon descrive gli aspetti fisici, utilizzando
l’anatomia comparata, e culturali di diverse popolazioni: Eschimesi,
Lapponi, Cinesi, Giapponesi, Giavanesi, Indiani, Persiani, Egiziani,
Turchi, Svedesi, Russi, Etiopi, Senegalesi, Congolesi, Ottentotti,
Americani del Nord e del Sud. Le descrizioni, basate su materiali di
seconda mano, sono spesso imprecise, ma servono allo studioso per
individuare le cause possibili delle variazioni della specie umana. Per
Buffon la ricerca del rapporto causa-effetto è ben più importante della
ricerca di criteri classificatori o dell’individuazione di gerarchie, ma,
da uomo del suo tempo e della sua cultura, è prigioniero di una visione
fondamentalmente eurocentrica, che considera la civiltà europea
superiore alle altre. Pur non fissando un’esplicita gerarchia, Buffon
finisce per prendere come metro di paragone la “civiltà” europea e
collegare le variazioni a processi “degenerativi”, risultanti
dall’allontanamento dai climi temperati o dagli spostamenti forzati
(per esempio la schiavitù, che separa gli individui dai loro climi e dalle
loro abitudini). Il suo De la Dégénération des animaux (1766) illustra
questa teoria. Se il monogenismo aveva cacciato dalla porta principale
la spiegazione biologica poligenista della diversità tra le popolazioni, la
teoria della degenerazione fa rientrare dalla finestra la biologia come
causa delle differenze, e influenza profondamente l’idea di una “natura
umana”, che, pur essendo unica, è soggetta alla possibilità di
perfezionarsi o corrompersi in modo irrimediabile.
Il riconoscimento di una “comune natura” umana spinge i
monogenisti – come Buffon – a ricercare le norme e i costumi che
meglio le corrispondono, per definire una sorta di “cultura naturale”, e
relegare nel “caos”, nella stranezza o nella “depravazione” tutto ciò che
se ne distanzia. Pratiche culturali come la circoncisione, la castrazione
e i sacrifici umani sono ritenute lontane dalla profonda natura umana.
Le prime tassonomie di quelle che sono considerate pratiche naturali
rispetto alle pratiche “bizzarre”, conducono inevitabilmente alla
costruzione di gerarchie tra le culture e i popoli, che mettono a dura
prova il principio dell’uguaglianza tra le “variazioni delle specie”, pur
postulato da Buffon.
Nell’edizione del 1758 della sua opera di classificazione delle specie,
Carl von Linné (1707-1778), naturalista e medico svedese, classificò le
stirpi umane dividendo i quattro continenti geografici, America,
Europa, Asia e Africa, e descrivendo i quattro tipi umani che li abitano
sulla base del loro colore e del loro temperamento. L’Americano è
“rosso” e “collerico”, l’Europeo “bianco” e “sanguigno”, l’Asiatico
“giallo” e “melanconico”, l’Africano è “nero” e “flemmatico”. Si tratta di
stereotipi che entrano da allora nel senso comune europeo e
forniscono argomenti a un pensiero razzista che comincia a profilarsi
come elemento strutturale della relazione tra l’Europa e gli altri
continenti.

La tensione tra natura e cultura – continuità o rottura? Le origini


delle diseguaglianze secondo Jean-Jacques Rousseau
Due anni dopo la pubblicazione della Histoire naturelle di Buffon,
Denis Diderot, nella voce dell’Encyclopédie consacrata all’anatomia,
denomina “anthropologie” la nuova scienza naturale dell’uomo, ma
con quel termine designa essenzialmente lo studio del corpo umano.
La dimensione culturale dell’antropologia, accanto a quella biologica, è
invece evocata alcuni anni dopo da Jean-Baptiste Robinet, autore della
definizione di antropologia in un articolo del Dictionnaire universel
des sciences morales, pubblicato nel 1778. Per Robinet, le due
dimensioni sono entrambe indispensabili alla comprensione della vera
natura dell’uomo.
Affermando senza mezzi termini che si tratta della «più importante
delle scienze, la più degna a cui l’uomo si consacri», Robinet propone
la seguente definizione di antropologia:
[Essa] è propriamente questa importante branca della Scienza Filosofica che ci fa
conoscere l’uomo sotto le sue diverse relazioni fisiche e morali. Essa ci insegna a
conoscere l’origine dell’uomo, i vari stati attraverso cui passa, qualità o
condizioni, facoltà o azioni, per dedurne la conoscenza della sua natura, le sue
relazioni, il suo destino, e le norme che esso deve rispettare al fine di rispondervi
in modo appropriato. L’Antropologia è dunque connessa a tutte le scienze10.

A dispetto della sua importanza, questa scienza, dice Robinet, «è


ancora da fare…»: i materiali sono sparsi nelle varie discipline, tra cui
Robinet identifica la storia naturale, la psicologia e la metafisica,
citando le opere di Buffon e alcuni altri (Condillac, Gorini Corio e
Helvétius) come bozze imperfette, che potrebbero tutt’al più ispirare
alcuni dei capitoli della nuova scienza. Robinet ha piena coscienza
dell’importanza della ricerca empirica nello studio antropologico; è
proprio l’assenza di dati empirici consistenti, che non permette di
rispondere alle interrogazioni che la nuova disciplina introduce: qual è
l’essenza della natura umana? Qual è la posizione dell’uomo nella
grande catena degli esseri? Qual è l’origine delle diversità tra le
popolazioni? E tra i costumi? Tra lo stato “selvaggio” e quello
“civilizzato”? Come si è passati dallo stato di natura a quello di società?
Mentre l’antropologia prosegue a tentoni, in mancanza di dati
adeguati, un’altra disciplina, ben più antica e consolidata, la filosofia,
cerca di dare risposte a queste domande. Nel 1755, con il Discours sur
l’origine et le fondement de l’inégalité entre les hommes, Jean-
Jacques Rousseau ripercorre l’affascinante avventura dell’umanità,
descrivendone la condizione nello stato di natura e il passaggio dallo
stato di natura a quello di civiltà, che, per lui, rappresenta una
condizione di decadenza. Rousseau riconosce esplicitamente che le
conoscenze sulla natura umana e sulla sua preistoria sono
insufficienti, tanto più che il progresso ha fatto perdere la conoscenza
degli stadi anteriori. Nella prefazione del Discours, Rousseau chiarisce
che la sua prospettiva è rigorosamente filosofica, che lo stato di natura
è una finzione teorica, risultato dell’introspezione, e non è basato su
dati empirici.
Pur facendo dello stato di natura un’idea filosofica, Rousseau
descrive la “preistoria” empiricamente, ne elenca le fasi, individua
l’impatto dell’introduzione dell’agricoltura e dei metalli sulla struttura
sociale. La spiegazione delle origini della diseguaglianza nel passaggio
da una condizione “selvaggia/naturale” a una organizzazione sociale
successiva ha suscitato – ancora duecento anni dopo – l’ammirazione
dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, che, su Rousseau,
scrive:
Senza timore di essere smentiti, possiamo affermare che questa etnologia che non
esisteva ancora, egli [Rousseau] l’aveva, un secolo prima che apparisse, concepita,
voluta e annunciata, mettendola immediatamente al suo posto tra le scienze
naturali e umane già costituite; […] Rousseau non si è limitato a prevedere
l’antropologia, l’ha fondata. Prima di tutto in modo pratico, scrivendo questo
Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, che
pone il problema del rapporto tra la natura e la cultura, e dove possiamo vedere il
primo trattato di etnologia generale; e poi, sul piano teorico, distinguendo, con
ammirevole chiarezza e concisione l’oggetto proprio dell’antropologo da quella
del moralista e dello storico: «Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna
guardarsi intorno in sé, ma per studiare l’uomo, si deve imparare a portare lo
sguardo lontano, si devono in primo luogo osservare le differenze per scoprirne le
proprietà»11.

L’antropologia nasce dunque all’incrocio tra diverse discipline e


prospettive: da un lato la “storia naturale”, dove scienze naturali e
umane non sono ancora separate, mentre la raccolta ancora
embrionale di dati e materiali empirici – dallo studio anatomico ai
racconti di viaggi – non ha ancora definito il proprio metodo; dall’altro
la filosofia, che rielabora le prime suggestioni della storia naturale,
producendo nuove narrative sulla vicenda umana, che, come il
Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité di Jean-Jacques
Rousseau, indicano i presupposti per trasformare la società del
presente e fondare un nuovo tipo di contratto sociale.
Se l’Uomo della storia naturale e l’Uomo dello stato di natura di
Jean-Jacques Rousseau sono concepiti in termini universalisti,
l’esistenza empiricamente evidente delle differenze tra popolazioni –
ma anche tra sessi – costituisce una sfida e richiede risposte. Perché
gli “altri”, soprattutto quando appartengono a mondi lontani
incuriosiscono e inquietano.

Differenze naturali e diseguaglianze: gli schiavi e le donne


Per tutto il Settecento, la rappresentazione delle popolazioni “altre” –
indigeni delle Americhe, Etiopi e Ottentotti, abitanti del continente
australe e delle isole del Pacifico, esplorati dal capitano Cook – oscilla
tra l’ideale filosofico del “Buon Selvaggio” e il rigetto nei confronti di
creature degenerate e infide (abbiamo visto come anche Buffon
proponesse l’idea di degenerazione); nella trasposizione letteraria, tra
il buon Venerdì di Robinson Crusoe e il Calibano della Tempesta di
William Shakespeare. I resoconti dei viaggiatori, tra cui in particolare
quelli del capitano Cook, che fecero scoprire una libertà sessuale del
tutto insospettata e, al tempo stesso, diedero atto dell’esistenza
dell’antropofagia, nutrirono l’immaginario degli europei,
indirizzandolo verso l’una o l’altra rappresentazione, con tutte le
implicazioni pratiche del caso. Giacché il “buon selvaggio” o il “crudele
antropofago” non sono soltanto figure dotate d’implicazioni filosofiche
o letterarie, ma argomenti per giustificare o condannare pratiche e
politiche in un secolo dove la tratta e la schiavitù dei neri sono oggetto
di un acceso dibattito pubblico.
Nell’aprile del 1794, poco prima di essere condannato alla
ghigliottina, Georges-Jacques Danton (1759-1794) ricordava
l’abolizione della schiavitù dei neri come una delle glorie della
Rivoluzione francese:
Abbiamo dichiarato che il più umile uomo di questo paese è uguale ai più grandi.
Questa libertà che abbiamo guadagnato per noi stessi l’abbiamo data agli schiavi e
affidiamo al mondo la missione di costruire il futuro sulla speranza che abbiamo
fatto nascere12.

Questa frase resta scolpita nella memoria storica come una piccola
luce nella pagina vergognosa della storia europea, che ha visto la
deportazione forzata di milioni di africani dal loro continente alle
Americhe. Otto anni dopo la morte di Danton, nel maggio 1802,
Napoleone reintroduceva la schiavitù nelle colonie francesi delle
Antille, scatenando una repressione sanguinosa contro la popolazione
nera. Il secolo XIX – quello del colonialismo europeo trionfante – si
apre con i massacri di uomini e donne che – come Toussaint
L’Ouverture – avevano creduto all’ideale di un uomo universale,
indipendentemente dal colore della sua pelle, e alle promesse di libertà
della Rivoluzione francese.
Tra gli intellettuali che lottarono per l’abolizione della schiavitù, vi fu
Olympe de Gouges (1748-1793), ghigliottinata alcuni mesi prima di
Danton. Il suo nome è ricordato soprattutto per la Déclaration des
droits de la femme et de la citoyenne (Dichiarazione dei diritti della
donna e della cittadina), che propone di includere le donne nei diritti
universali del 1789. Oltre all’impegno per i diritti delle donne, che fa di
lei una protofemminista, Olympe de Gouges lottò per i diritti dei neri
ridotti in schiavitù. Autrice di un’opera teatrale, Zamore e Mirza, o la
schiavitù dei neri, pubblicata nel 1785, Olympe de Gouges fa dire a
uno dei protagonisti:
Questa differenza è ben poca cosa, non esiste che nel colore, ma i vantaggi che
hanno su di noi sono immensi […]. Si servono di noi in questi climi come si
servono degli animali nei loro13.

In un altro pamphlet, Réflexions sur les hommes nègres (Riflessioni


sugli uomini negri), pubblicato nel 1788, Olympe de Gouges, evoca la
visione universalista della Histoire naturelle, e denuncia la tratta come
una pratica contro natura: «Un commercio di uomini! Gran Dio! E la
natura non rabbrividisce? Se sono degli animali, non lo siamo noi
quanto loro?»14.
La frase «cette différence est si peu de choses, mais les avantages
qu’ils ont sur nous sont immenses…» vale, per Olympe de Gouges,
tanto per le differenze di sesso che di “razza”… Eppure, proprio nel
secolo che proclama l’universalismo tra tutti gli esseri umani,
l’attenzione alle differenze tra i sessi cresce – non in nome della
Bibbia, ma della ricerca scientifica. Una volta abbandonata la narrativa
biblica sul peccato originale di Eva, la Histoire naturelle, dando spazio
alla dimensione medica e anatomica, apre, di fatto, la via a una
“naturalizzazione” della differenza sessuale. Pur non ottenendo
l’unanimità su questa visione15, vari studi medici teorizzano le
specificità biologiche femminili e ne minimizzano le capacità
intellettuali.
Jean-Jacques Rousseau non ipotizza la differenza tra i sessi come
una disuguaglianza naturale, che egli limita alla «differenza d’età, di
salute, delle forze del corpo e delle qualità dello spirito o dell’anima»16,
ma individua un principio esplicito dell’ordine sociale nella
separazione tra i sessi e nella polarizzazione del maschile e del
femminile, acquisita attraverso l’educazione, come nel caso di Émile e
di Sophie. In Julie ou La Nouvelle Héloïse, Rousseau sostiene
l’uguaglianza “potenziale” della donna, ma ritiene la sfera domestica
una garanzia dell’ordine. La preminenza maschile passa per la
soggezione delle donne – obbligate alla fedeltà per non creare
disequilibri – al di là della loro natura biologica. La diseguaglianza tra
uomini e donne è dunque più un prodotto della cultura che della
natura, ma essa corrisponde a una sorta di “cultura naturale”.

La strana passione per lo studio dei crani. Antropologia e razzismo


L’antropologia nasce nel Settecento come storia naturale dell’uomo e
si colloca alla frontiera tra scienze naturali e umane; pervasa da
interrogazioni sul rapporto tra natura e cultura e sul passaggio dallo
stato di natura a quello di civiltà; inquieta di fronte alla questione delle
differenze esistenti tra i popoli, tra le culture e anche tra i sessi.
Al fine di spiegare le origini delle differenze comparvero tra la fine
del Settecento e l’inizio dell’Ottocento alcune teorie che, ponendosi in
continuità con la predominanza della scienza medica nella histoire
naturelle, rappresentarono il brodo di coltura del razzismo. Abbiamo
già visto come, per Buffon e Linné, la difesa dell’unità della specie
umana non escludesse la proposta di categorie e gerarchie tra le
popolazioni. Vediamo ora come il tentativo di spiegare
scientificamente le differenze, sulla base di dati quantitativi, aprì la
strada al razzismo “scientifico”.
Fin dall’antichità esistevano teorie che stabilivano una correlazione
tra la forma del viso e il carattere: per esempio, lo studio dell’angolo
facciale (le proporzioni del cranio anteriore e della faccia) fu utilizzato
da Aristotele per determinare l’intelligenza di una persona e
classificare gli uomini dall’inferiore al superiore17. Queste teorie
ritornarono in auge nel Settecento, con lo sviluppo degli studi
naturalisti. La misurazione dell’angolo facciale fu allora rilanciata da
Petrus Camper (1722-1789), medico, naturalista e biologo olandese.
Nel 1786 Camper propose un nuovo metodo per determinare le
proporzioni del cranio anteriore e della faccia, a partire
dall’osservazione che la faccia si presenta tanto più sporgente in avanti
quanto minore è il volume del cranio18. Camper si dedicò alla
comparazione dei crani e constatò che le statue greche avevano un
angolo facciale di 85-100 gradi; gli Europei erano vicini a questo
standard con un angolo facciale di 80°, mentre i Calmucchi e gli
Angolani avevano un angolo facciale di 70° e l’orangutan di 58°. Il
sistema di misurazione (o scala quantitativa) di Camper, approvato dai
principali anatomisti dell’epoca, è ripreso dal francese Georges Cuvier
(1769-1832), naturalista e zoologo19. Facendo l’esame comparativo dei
crani, Cuvier stabilisce una divisione tra i gruppi umani in funzione
della “bellezza” o “bruttezza” misurata in riferimento all’angolo
facciale di Camper, emendato in alcuni punti (con Cuvier l’angolo
facciale di un Europeo passa a 85°, quello dell’orangutan giovane di
67°). Per la definizione dei gruppi umani – che cominciano a essere
chiamati “razze” – Cuvier utilizza le categorie proposte dal naturalista
tedesco Johann Friedrich Blumenbach (“razza” caucasica, etiope e
mongola)20. La divisione tra le “razze” non risponde solo a criteri
estetici: ipotizzando un rapporto tra le tipologie di crani (“belle” o
“brutte”) e la qualità della civiltà, Cuvier introduce un nesso tra la
biologia e la cultura, che rappresenta la base delle teorie razziste, e
inaugura un processo di “naturalizzazione del sociale” destinata a
diventare una costante nel pensiero europeo. Ricordiamo, tra l’altro,
che Georges Cuvier esaminò Saartjie Baartman, nota con il nome di
“Venere Ottentotta”, schiava sudafricana di un boero, portata in
Europa ed esibita come un animale in Inghilterra e in Francia. Pur
cosciente che Saartjie era una donna intelligente, che parlava più
lingue, che era in grado di muoversi all’interno della cultura degli
europei (negli ultimi anni della sua vita lavorò come prostituta),
Cuvier non esitò a utilizzarne il corpo, per sperimentare le sue teorie,
ne fece un calco, lo sezionò e ne conservò lo scheletro, i genitali e il
cervello, che furono esposti al Musée de l’Homme di Parigi fino a
quando non furono rimpatriati in Sudafrica, su richiesta del governo
di Nelson Mandela, nel 2002. L’attrazione per i corpi delle donne nere
da parte degli uomini bianchi, che Saartjie aveva ben conosciuto prima
nel porto di Cape Town e poi nelle metropoli europee, non veniva
contemplata dalle classificazioni dei naturalisti, come Cuvier,
preoccupati dal criterio di bellezza dell’angolo facciale e dall’armonia
dei crani. A questa gerarchia, al tempo stesso “estetica” e culturale,
contribuì anche il già citato Blumenbach.
Nel 1775, il naturalista tedesco Blumenbach si laurea all’Università di
Göttingen con una tesi dal titolo De generis humani varietate nativa.
Come molti studiosi della sua epoca, Blumenbach s’interessa a varie
discipline: anatomia comparata, storia naturale, medicina e
“craniologia” – ovvero studio dei crani. Pur sostenendo l’unità della
specie umana e rifiutando il poligenismo, Blumenbach individua delle
“gradazioni” tra gli esseri umani, in relazione a quattro regioni
geografiche (Europa, Asia, Africa e Nord America), poi diventate
cinque (viene aggiunta l’Oceania). Il criterio classificatorio della
divisione geografica lascia presto il posto a una divisione basata
sull’apparenza fisica. Blumenbach chiama gli europei “razza caucasica”
(è il primo a utilizzare il termine), gli altri gruppi – “mongoli”, “etiopi”
(Africani neri), “americani” e “malesi”. Egli attribuisce le differenze tra
i tipi umani – statura e colore – essenzialmente al clima, ricusando
peraltro che il colore sia l’indicatore più importante per distinguere i
gruppi. Blumenbach ricerca le differenze studiando con passione i
crani, che cataloga, attribuendone la forma a fattori ambientali e anche
culturali, e stabilisce che la forma dei crani dei caucasici è la più bella,
estasiandosi di fronte al cranio di una donna della Georgia, comparato
con quello di una donna etiope della Guinea e di un uomo Tungus
(mongolo).
Alcuni anni dopo, a un medico anatomista tedesco, François-Joseph
Gall (1758-1828) sorge l’idea di stabilire una correlazione tra la forma
del cervello e il carattere individuale. Convinto che le funzioni mentali
siano localizzate in specifiche zone del cervello e che il comportamento
umano dipenda da queste funzioni, Gall assume che la superficie del
cranio rifletta fedelmente il relativo sviluppo delle varie regioni del
cervello, fondando la “frenologia”, ovvero il tentativo di individuare le
capacità intellettuali e la personalità di un individuo dalla forma del
cranio.
L’interesse per l’angolo facciale e i crani da parte degli studiosi
dell’epoca ci può apparire curiosa, dato che noi diamo ormai per
scontato che le differenze tra individui siano il prodotto della genetica
e che la differenza intragruppo è altrettanto importante che quella tra
gruppi. Non dobbiamo però dimenticare che nel Settecento la
disciplina che permetteva di comprendere le differenze era l’anatomia,
ovvero lo studio materiale dei corpi. Lo studio dei crani rispondeva
dunque a un tentativo di rendere “scientifica” la histoire naturelle
utilizzando dei dati quantitativi considerati precisi. La scala
quantitativa di Camper permetteva infatti di classificare la separazione
tra l’uomo e l’animale, e tra gli uomini, sulla base di schemi geometrici
costanti e verificabili. Alla misurazione anatomica si aggiunse però
una concezione – in gran parte ideologica – di superiorità di alcuni
popoli (nel caso gli europei) su altri. Lungi dall’essere neutre, le
classificazioni basate su dati quantitativi anatomici coincisero con la
definizione di una gerarchia – che mise in cima la “razza caucasica” e
in basso gli “etiopi” – in una posizione non troppo lontana
dall’orangutan.
Il passaggio dalla classificazione alla gerarchia (preludio del
razzismo) avviene in un’epoca in cui l’Europa – che secoli prima aveva
colonizzato i territori americani mettendo in atto un vero genocidio –
avviava una nuova fase di colonizzazione verso l’Asia e l’Africa, e
cominciava a percepirsi come il centro del mondo in nome di una
superiorità non più religiosa, ma culturale e tecnica. In questo
contesto, la nascente antropologia non riuscì a resistere alla tentazione
di fare uso delle classificazioni somatiche e delle gerarchie delle razze
repertoriate. In Francia il fondatore nel 1859 della Société
d’Anthropologie de Paris, Paul Broca (1824-1888), medico, autore
d’importanti studi sul cervello e la parola, continuò a confinare
l’antropologia nella misurazione dei crani e delle ossa, abbracciò l’idea
delle differenze razziali e l’applicò anche alle differenze nazionali e di
classe. Avendo avuto a disposizione 125 scheletri ritrovati nello scavo
di un antico cimitero di Parigi, appartenenti probabilmente
all’aristocrazia del XII secolo, li comparò con 259 scheletri ritrovati in
una fossa per poveri e ne concluse che l’aristocrazia era superiore (De
Waal Malefijt 1974). Il razzismo di classe apriva la strada
all’eugenismo, come avremo modo di vedere nei prossimi capitoli.
Inoltre, l’idea gerarchica di superiorità della razza caucasica provocò
la separazione tra lo studio di popolazioni e culture “vicine” (europee e
occidentali) e quello di popolazioni e culture “lontane”.

L’antropologia culturale e le spedizioni scientifiche. I fratelli


Humboldt
Abbiamo visto che, durante il Settecento, l’antropologia nasce come
studio “olistico” dell’uomo, che comprende sia la dimensione
anatomica (antropologia umana) sia le differenze tra i gruppi e le
culture (antropologia culturale). Agli albori della disciplina, i tentativi
di definirne i metodi in maniera scientifica riguardano piuttosto la
dimensione fisica dell’uomo, mentre la conoscenza delle varie culture
si basa su resoconti di viaggiatori, non sempre precisi e sistematici. Si
comincia intanto a profilare una distinzione tra due rami della
disciplina operanti in ambiti e con metodi diversi: l’antropologia
umana e l’antropologia culturale.
Dobbiamo ad Alexandre César Chavannes (1731-1800), teologo e
linguista di Losanna, una prima distinzione tra l’antropologia umana e
quella culturale, per la quale egli introduce il termine “etnologia” (si
tratta della prima attestazione in lingua francese). Partendo dalla
teologia, Chavannes, che è un sostenitore dell’unità della specie
umana, vede nella Torre di Babele la causa della dispersione
dell’umanità sulla superficie del pianeta. L’episodio raccontato dalla
Bibbia avrebbe portato alla formazione di nazioni o popoli, segnati da
grandi differenze dovute all’ambiente naturale, e quindi accidentali.
Per Chavannes l’etnologia è la scienza dell’uomo – che rende conto
delle varietà esistenti nella specie, «divisa in diversi corpi di società o
nazioni occupate a rispondere ai loro bisogni e ai loro gusti e più o
meno civilizzate»21.
Una precedente definizione di etnologia era comparsa nell’opera
Historiae iurisque publici Regni Ungariae amoenitates di Adam
František Kollár (1718-1783), pubblicata a Vienna nel 1783:
La scienza delle nazioni e popoli o l’investigazione delle origini, lingue, usi e
istituzioni delle varie nazioni, e infine della patria e gli antichi costumi per
giudicare meglio i popoli e le nazioni nei loro tempi.

Tale scienza è sostenuta dalle società di studiosi (sociétés savantes) e


dai resoconti delle spedizioni, spesso organizzate dalle stesse società.
La Société des Observateurs de l’Homme, attiva in Francia dal 1799 al
1805, organizzò nel 1800 la spedizione Baudin verso l’Australia. In
preparazione della spedizione, un suo membro, Joseph-Marie de
Gérando pubblicò un manuale, Considération sur les diverses
méthodes à suivre dans l’observation des peuples sauvages,
esplicitamente rivolto ai viaggiatori che visitavano tutte le nazioni che,
per forme morali e politiche, differivano dai popoli dell’Europa,
elaborando un embrione di metodo dell’osservazione in antropologia.
Le società di studiosi non erano una specificità francese, ma erano
diffuse in tutt’Europa, impregnata di una comune cultura illuminista.
De Gérando aveva a lungo viaggiato in Germania, familiarizzando con
i metodi dell’etnografia tedesca, che si era sviluppata ben al di là della
Germania stessa. L’etnografo prussiano Georg Forster aveva svolto un
ruolo importante durante i viaggi del capitano Cook (è questa la
ragione per cui gli oggetti delle spedizioni di Cook sono oggi conservati
all’Ethnologisches Museum di Berlino). Nel 1768, il naturalista tedesco
Peter Simons Pallas, professore di storia naturale all’Accademia delle
Scienze di San Pietroburgo, aveva esplorato la Siberia, riportando
interessanti osservazioni etnografiche. Pallas è anche autore di un
dizionario linguistico comparativo.
Particolarmente interessante è il caso dei fratelli Humboldt,
intellettuali cosmopoliti appassionati negli studi tanto delle culture
europee quanto di quelle lontane. Il più giovane, Alexander, era un
naturalista, Wilhelm, maggiore di due anni, un linguista specializzato
in lingue europee. Con l’obiettivo di elaborare una physique du
monde, Alexander fece un lungo viaggio di studio nell’America
tropicale: partì nel giugno 1799 assieme al francese Aimé Bonpland.
Approdato a Cumaná in Venezuela, ne fece la base per viaggi in
Colombia, Ecuador e Perù, nel corso dei quali navigò sull’Orinoco e
scalò, fin quasi alla vetta, il Chimborazo. Poi si spostò in Messico e a
Cuba. Gli Stati Uniti furono l’ultima tappa del grande itinerario, che si
concluse con il ritorno a Parigi nell’agosto 1804. Fino al 1827
Alexander von Humboldt risiedette a Parigi, dove attese alla
pubblicazione dei risultati delle ricerche fatte in America22.
Wilhelm, fondatore dell’Università di Berlino nel 1810, si occupò
soprattutto di linguistica. Tra l’altro studiò il basco e s’interessò alla
cultura indiana, pubblicando un saggio sulla Bhagavadgītā. Il saggio
Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren
Einfluss auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts
(1836)23, fa di Humboldt uno dei maestri della filosofia del linguaggio.
Per lo studioso, la funzione del linguaggio non è quella di
rappresentare o comunicare idee o concetti preesistenti: in quanto
«organo formativo del pensiero» la lingua è strumento per produrre
nuovi concetti. La diversità delle lingue non è pertanto riducibile a una
differenza di «suoni e segni» (Schällen und Zeichen), ma è una
diversità di «visioni del mondo» (Weltansichten).

Culture “popolari” e culture lontane. L’etnologia europea. Il razzismo


come teoria
All’inizio del XIX secolo, l’antropologia può contare su due volani: la
scienza delle classificazioni delle razze, che studia l’uomo fossile e le
differenze anatomiche attuali, e la scienza che studia le varie culture e i
costumi (anche del proprio popolo), ai quali contribuivano studiosi e
viaggiatori appartenenti allo stesso ambiente intellettuale europeo. I
fratelli Humboldt sono un esempio di questa cultura europea tendente
al cosmopolitismo. Ma proprio in ambito culturale, all’inizio
dell’Ottocento si opera una profonda cesura tra lo studio delle società
dette “primitive” – che si pensa possano portare informazioni
sull’uomo prima dell’affermazione della civiltà – e quello delle culture
popolari europee, supporto spesso alla formazione di rivendicazioni
nazionali e/o nazionaliste.
Alla fine del Settecento il nascente movimento romantico introduce
una nuova idea di “popolo/nazione” basata sull’unità linguistica e
l’unità culturale, destinata a pesare a lungo, tanto sul pensiero
filosofico che sui movimenti politici. Il Romanticismo ha senz’altro il
pregio di aver valorizzato le culture popolari, insistendo sulla loro
diversità e dignità, ma ha anche fornito le basi per un pensiero
nazionalista. Se le idee illuministe avevano trovato un terreno
specialmente fertile in Francia, le idee romantiche sono influenti
soprattutto in Germania. Nel 1791 Johann Gottfried Herder pubblica
le Ideen zur Philosophie der Geschichte des Menschheit, dove attacca
le teorie universaliste dell’Illuminismo e sostiene che ogni popolo
(Volk) condivide un’esperienza olistica, fisica, basata sulla storia
comune, sulla comune dipendenza, sull’ambiente naturale e un
carattere (Volksgeist) che si esprime attraverso la lingua, il folklore e i
miti24. Secondo Herder, certe caratteristiche erano immutabili:
La forma del negro è trasmessa in successione ereditaria e può essere cambiata
soltanto per ibridazione con un europeo. L’ambiente plasma le forme umane
attraverso un processo molto lento25.

Lo stesso Herder è uno studioso delle tradizioni folkloriche e della


poesia lettone. Gli studi folklorici, tipica passione romantica,
contribuiscono alle ideologie di cui sono portatori i movimenti
nazionalisti che investono i paesi di lingua tedesca, la Scandinavia e
l’Italia. Gli studiosi tedeschi raccolgono dati sulla vita contadina,
racconti, leggende, canti, artigianato: queste collezioni sono all’origine
della nascita dei musei etnografici, come quello di Vienna (1806),
Monaco (1859), Berlino (1868). Tra gli studi sul folklore letterario
ricordiamo i lavori dei fratelli Grimm (Jacob e Wilhelm), che, oltre alla
celebre raccolta di favole pubblicarono le poesie dei Minnesänger che
poi ispirarono Richard Wagner (I maestri cantori di Norimberga).
Per quanto riguarda la strutturazione della disciplina antropologica,
la scoperta del “popolo/nazione” e del suo folkore ha effetti diversi a
seconda dei paesi. In Germania è sancita la netta differenza tra
Volkskunde (“scienza del popolo”) che si occupa della cultura della
popolazione locale, e Völkerkunde (“scienza dei popoli”) che si dedica
ai popoli lontani. Nel contesto tedesco la Volkskunde ci costituisce
come un importante ramo accademico e finisce per costituire una delle
basi ideologiche prima del nazionalismo e poi del nazionalsocialismo.
Come scrive Florence Weber:
La Volkskunde nasce agli inizi del XIX secolo. Figlia del movimento nazionalista
tedesco (e più in generale europeo), riprende una ideologia i cui punti principali
dovevano diventare, un secolo più tardi, in forma razzista e bellicista, i pilastri
della dottrina nazionalsocialista. Quando i nazisti conquistarono il potere nel
1933, la Volkskunde non prova pertanto alcuna difficoltà nel convertirsi al nuovo
sistema26.

Questa deriva degli studi sul folkore nazionale è particolarmente


accentuata in Germania e nei paesi germanofoni, dove riscuotono un
grande successo anche i fondatori del pensiero razzista, Joseph Arthur
de Gobineau (1816-1882), francese d’origine ma germanofilo, autore
dell’Essai sur l’inégalité des races humaines; il compositore Richard
Wagner (1813-1883) che, dopo aver conosciuto Gobineau e il suo
lavoro, lo interpretò come un’esaltazione della razza tedesca e scrisse
saggi ferocemente antisemiti; e infine Houston Stewart Chamberlain
(1855-1927), “inglese rinnegato”, autore di una sua versione della
teoria razziale in The Foundations of the Nineteenth Century (1899).
Chamberlain divenne così popolare presso l’aristocrazia tedesca che
era conosciuto come “l’antropologo del Kaiser”.
Sebbene nel resto dell’Europa la separazione tra l’etnologia delle
culture popolari “nazionali” e quelle lontane abbia seguito un percorso
meno nefasto che in Germania (in Italia si manifestò soprattutto con
lo studio delle tradizioni popolari nel Meridione), la reticenza a
mettere sullo stesso piano gli studi delle culture popolari europee e
delle culture extraeuropee, e l’affermazione di una specificità
europea/occidentale rispetto a tutte le altre culture, in termini di
superiorità, se non razziale, almeno storica, si manifestò più o meno in
tutt’Europa.
La convinzione di una superiorità culturale europea ha prodotto un
approccio profondamente eurocentrico nell’insegnamento accademico
e fornito una giustificazione al colonialismo, fenomeno che ha
caratterizzato la relazione tra l’Europa e il resto del mondo
nell’Ottocento e Novecento.
La divisione tra la cultura europea e le culture altre ha prodotto
un’altra divisione, quella tra l’antropologia e la nascente sociologia.
L’interesse per lo studio della società attraverso metodi scientifici o la
teoria scientifica dei fenomeni sociali – con l’obiettivo pratico e
politico di curarne i mali –, proposta da Saint-Simon (1760-1825) e da
Auguste Comte (1798-1857), ha come oggetto esclusivo il mondo
occidentale. I popoli non occidentali non hanno, agli occhi dei primi
sociologi, alcuna importanza perché studiarli non insegna nulla sulle
società complesse, ma, eventualmente, qualcosa sul passato – nella
prospettiva evoluzionista che sarà appunto sviluppata
dall’antropologia culturale.

Conclusioni
Nata nel Settecento come parte della “storia naturale” dell’uomo,
l’antropologia entra nel nuovo secolo collocata sull’incerta frontiera tra
l’antropologia fisica e quella culturale/sociale. All’inizio dell’Ottocento,
l’imporsi di un’altra frontiera – tra l’Europa e il resto del mondo, tra la
cultura europea e le culture “altre” – definisce chiaramente l’ambito e
l’oggetto della ricerca etnologica: l’etnologia europea s’indirizza verso
il folklore – le tradizioni popolari degli europei – ovvero delle
popolazioni “civilizzate”, l’antropologia si occupa delle culture
“primitive”.
Bisognerà attendere l’inizio del Novecento perché in Francia la
sociologia e l’antropologia si ricongiungano attraverso l’opera di
Marcel Mauss, nipote del sociologo Émile Durkheim e fondatore
dell’antropologia culturale francese (chiamata in Francia ethnologie).
E bisognerà attendere la seconda metà del Novecento, e il discredito di
cui furono oggetto gli studi folklorici compromessi con i regimi
nazionalisti, perché tutta l’etnologia europea sia ricongiunta
all’antropologia. In Italia va ricordato in questo senso soprattutto il
lavoro di Ernesto De Martino, che s’ispira al pensiero di Gramsci e
studia il folklore meridionale. La Germania è il paese europeo dove lo
studio della tradizione popolare tedesca (conosciuto come
Volkskunde) è stato maggiormente asservito al progetto nazionalista
pangermanico e poi al nazismo.
Da questo punto di vista, l’Europa è diversa dagli Stati Uniti, dove gli
studi folklorici sono ricongiunti all’antropologia già dalla prima metà
del secolo scorso grazie ad alcune allieve di Franz Boas, come Elsie
Clews Parsons e Martha Beckwith. Sempre negli Stati Uniti, già dagli
anni Trenta e Quaranta, l’antropologia comincia a occuparsi delle
società complesse – che siano occidentali o no –, cercando di
individuarne i “caratteri nazionali” (si veda più avanti la figura di Ruth
Benedict).
Separata dall’etnologia europea e dalla sociologia, l’antropologia
diventa, nel corso dell’Ottocento, una scienza delle culture “primitive”.
Lo studio delle culture “primitive” implica la comprensione del
passaggio dalla natura alla cultura e s’interroga costantemente
sull’impatto della prima sulla seconda. In quest’ambito lo studio dei
crani, la loro misurazione, l’interesse per la catalogazione sulla base
del fenotipo presuppone la ricerca di spiegazioni biologiche ai fatti
culturali che affascina studiosi come Paul Broca, al tempo stesso
medici e antropologi, segnando per lungo tempo l’antropologia
europea. È indubbio che questo filone di studi, alla ricerca di un nesso
tra l’osservazione dei crani e le teorie della cultura, è la culla del
pensiero razzista, che, pur mantenendo uno statuto scientifico
ambiguo, fiorisce nel corso del secolo.
Non è questo, per fortuna, il percorso principale dell’antropologia:
nel tempo della rivoluzione industriale e della fiducia nel progresso,
del movimento operaio e del primo femminismo, si aprono nuovi
mondi che determinano il divenire della disciplina. La teoria
dell’evoluzione delle specie viventi formulata da Charles Darwin,
fornendo una base scientifica all’evoluzionismo, è alla base anche di
una teoria globale per l’evoluzione delle culture. Il nascente pensiero
socialista combina la fiducia nel progresso con la rimessa in
discussione delle diseguaglianze. Negli Stati Uniti, l’antropologia nasce
con la nazione, mentre il Bureau for American Ethnology ridefinisce i
rapporti tra europei e Nativi americani, sui quali ci soffermeremo più
avanti. Le attività del Bureau sono all’origine di incontri che, pur in un
contesto di discriminazioni e conflitti, permettono scambi reciproci e
producono il metodo dell’osservazione partecipante.
Intanto, la battaglia delle donne per il raggiungimento
dell’eguaglianza politica, sociale, economica e giuridica con il sesso
maschile condotta dai movimenti femministi, il più attivo dei quali è
senza dubbio quello statunitense, apre le porte dell’antropologia a una
generazione di americane che portano uno sguardo nuovo, diverso da
quello maschile, sulle società studiate. Nata nella Francia
dell’Illuminismo, l’antropologia trova le condizioni per il suo sviluppo
nel mondo anglosassone, in Gran Bretagna e, soprattutto, negli Stati
Uniti d’America, dove si profilano i primi embrioni di un’antropologia
femminista.

1 P. Dionis, Anatomie de l’homme suivant la circulation du sang et les dernières


découvertes, 2ème ed., Paris, L. D’Houry, 1694, pp. 125-126, cit. da
L’encyclopedisme au XVIII siècle di Françoise Tilkin (trad. dell’autrice)
2 James Drake (1667-1707) fu un medico e politologo inglese, membro della
corrente giacobita (favorevole alla monarchia Stuart) e autore del trattato medico
Anthropologia Nova, or a New System of Anatomy.
3 La Histoire naturelle è un’opera monumentale composta da quindici volumi (e
sette di supplementi) che furono via via pubblicati dal 1749 al 1767. L’opera
completa fu poi pubblicata postuma nel 1804.
4 Opera di Jean Carlus del 1908.
5 Charles de Brosses (1709-1777), membro di diverse accademie, fu uno studioso
curioso, rappresentante dell’eclettismo disciplinare caratteristico del secolo. Alcuni
dei suoi lavori furono utilizzati dagli enciclopedisti. La Histoire des navigations
aux terres australes, contenant ce que l’on sait des moeurs et des productions des
contrées découvertes jusqu’à ce jour (1756) è una completa raccolta di tutti i
resoconti di viaggio nel continente australe (che fu molto utile allo stesso capitano
James Cook); in Du culte des dieux fétiches ou Parallèle de l’ancienne religion de
l’Egypte avec la religion actuelle de Nigritie (1760), uno dei primi lavori esistenti
di etno-antropologia, viene formulata una teoria materialista delle origini delle
religioni. Gli è anche attribuito il concetto di feticismo poi utilizzato da Karl Marx.
Importante è anche il Traité de la formation mécanique des langues et des
principes physiques de l’étymologie (1765), che diffonde una teoria materialista
delle origini e dell’evoluzione del linguaggio, dove il significato delle parole è
considerato un’immagine dell’articolazione fisiologica del suono.
6 «Tutto contribuisce quindi a dimostrare che l’umanità non è composta
principalmente di specie diverse tra di loro; al contrario, non vi è stata in origine
che una sola specie di uomini, che si è moltiplicata e diffusa su tutta la superficie
della Terra, ha subito vari cambiamenti sotto l’influenza del clima, per la differenza
dei cibi, per quella dei modi di vivere, a causa delle malattie epidemiche, e anche
per la mescolanza, variata all’infinito, di individui più o meno somiglianti…» (1749,
Histoire naturelle, vol. II: Variétés dans l’espèce humaine; trad. dell’autrice).
7 Non possiamo qui riprendere la storia, peraltro molto interessante, del
poligenismo. Citiamo tra i vari studiosi che lo sostennero, oltre a Benoît de Maillet,
su cui il testo si sofferma a lungo, il medico di marina inglese John Atkins (1685-
1757), che ipotizzava una discendenza di bianchi e neri da coppie originarie di
pigmentazione diversa.
8 Tombal 1993: 850-874, qui 853.
9 «Mi sembra di avere abbastanza ragioni per credere che sia per gli uomini come
per gli alberi; peri, abeti, querce e albicocche, non provengono dallo stesso albero; i
bianchi barbuti, negri dai capelli lanosi, i gialli dalle lunghe criniere, e uomini
glabri, non provengono dallo stesso uomo» (trad. dell’autrice).
10 Trad. dell’autrice.
11 Lévi-Strauss 1962: vol. II, cap. VIII, p. 47 (trad. dell’autrice).
12 Trad. dell’autrice.
13 Olympe de Gouges, Zamore et Mirza ou l’esclavage des noirs, acte premier,
scène 1 (Paris, Flammarion, 2007, p. 5; trad. dell’autrice).
14 Cit. da Simone Bernard-Griffiths e Jean Sgard, Mélodrames et romans noirs:
1750-1890, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2000, p. 76 (trad.
dell’autrice).
15 Tra chi contestava questo tipo di studi, vi furono le prime femministe, come
l’inglese Mary Wollstonecraft, per la quale la donna, in quanto essere dotato di
ragione, deve gioire di tutti i diritti degli uomini, al di là delle differenze biologiche.
Mary Wollstonecraft, che si era a lungo guadagnata da vivere come insegnante,
sosteneva anche la necessità di un’educazione egualitaria tra uomini e donne.
16 Trad. dell’autrice. Rousseau contrappone queste differenze naturali a quelle del
privilegio.
17 «Il tema dell’angolo facciale ha occupato l’attenzione dei filosofi dall’antichità».

Aristotele lo usava come supporto per determinare l’intelligenza di una persona e


catalogare gli uomini dall’inferiore al superiore» (cfr. Spencer 1977: 373).
18 Tale metodo consiste nella misurazione dell’angolo facciale, determinato da
due piani, uno quasi orizzontale che passa per il foro acustico esterno e per la spina
nasale, e l’altro tangente alla glabella (arcata sopraccigliare) e agli incisivi che
incontra il primo in corrispondenza della spina nasale stessa. La sporgenza della
faccia è tanto maggiore quanto questo angolo è più acuto; e, a causa dell’inverso
rapporto esistente fra la sporgenza della faccia e lo sviluppo del cranio, l’angolo
facciale è tanto più aperto quanto più il cranio è sviluppato anteriormente. Da
questa considerazione discese che in stretto rapporto con l’angolo facciale fosse lo
sviluppo delle facoltà intellettive, locate nei lobi frontali del cervello.
19 Diede un contributo fondamentale alla paleontologia con i suoi studi sui fossili.
20 Cuvier categorizzava queste divisioni che lui identificava come “razze” secondo
la sua percezione della bellezze o della bruttezza dei crani e la qualità della loro
civilità. Situava i Caucasici in cima e gli Etiopi in fondo.
21 Anthropologie ou science générale de l’homme, 1788, cit. in Berthoud 1992:
263 (trad.dell’autrice).
22 Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent, 36 voll., 1805-34.
23 Trad. it. La diversità delle lingue, a cura di D. Di Cesare, Bari, Laterza, 2004.
24 Trad. it. Idee per una filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli,
1971. Per Herder il cosmopolitismo e la mescolanza culturale minacciavano
l’integrità morale di una nazione.
25 Cit. in Wade 2002: 43 (trad. dell’autrice).
26 Weber 2015, p. 145 (trad. dell’autrice).
2. L’AFFERMAZIONE DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE: LA
TEORIA EVOLUZIONISTA DELLE CIVILTÀ E LA SCOPERTA
DELLA PARENTELA

Darwin e l’evoluzione della specie. Morgan, Tylor e la teoria


evoluzionista delle culture
Nella seconda metà dell’Ottocento, la storia dell’antropologia è
segnata dalla rivoluzione epistemologica rappresentata dalla teoria
dell’evoluzione che Charles Darwin (1809-1882) formula nel libro On
the Origin of Species (1859). Se idee evoluzioniste erano già state
espresse in precedenza (per esempio da Buffon), Darwin fu il primo in
grado di provare scientificamente i processi evolutivi: nessun altro
aveva raccolto tante prove materiali sulla prospettiva storica dell’età
della terra, della vita, dell’uomo e nessun altro aveva messo a fuoco il
meccanismo della selezione naturale:
La sua teoria può semplicemente essere riassunta nell’idea che gli organismi
viventi si differenziano attraverso un universale processo di cambiamento che
favorisce la perpetuazione di quegli organismi che sono, più di altri, adatti alla
sopravvivenza1.

La rivoluzione darwiniana riguarda al tempo stesso le metodologie


scientifiche e la visione globale del mondo, squarciando
definitivamente il velo che, anche nella histoire naturelle, ricopriva le
incerte origini dell’uomo (abbiamo visto come la narrazione biblica
facesse ancora parte delle spiegazioni suggerite da alcuni studiosi
naturalisti del XVIII secolo). La teoria dell’evoluzione della specie
rappresenta il passaggio dall’osservazione dei fatti – dati biologici e
fossili, per analizzare i quali si comincia a disporre degli strumenti – a
una teoria globale, in grado di spiegare le origini e la realtà della vita
sulla Terra attraverso il motore fondamentale della selezione naturale.
Darwin offre la risposta globale e scientifica alle interrogazioni che la
histoire naturelle aveva cominciato a formulare.
La teoria dell’evoluzione ha un impatto ambiguo sulla ricerca delle
cause delle differenze tra gruppi umani: essa mette in discussione
l’esistenza di un poligenismo statico all’origine delle differenze razziali,
ma introduce d’altro canto le idee della competizione e della
sopravvivenza del più adatto, che vengono recuperate da una vulgata
evoluzionista sostenitrice della superiorità degli Europei nel processo
selettivo.
Charles Darwin non è un antropologo; è un biologo. Se inaugura la
scienza moderna nella sua disciplina, non ha alcuna pretesa che la sua
teoria sia valida per le scienze umane. All’epoca era però inevitabile
che uno strumento interpretativo potente come la teoria
dell’evoluzione influenzasse discipline come l’antropologia, ancora alla
frontiera tra le scienze naturali e le scienze umane.
Tracciando un parallelismo con la teoria dell’evoluzione delle specie
in biologia, i due padri dell’antropologia culturale, l’americano Lewis
Morgan (1818-1881) e il britannico Edward Tylor (1832-1917)
elaborano una teoria dell’evoluzione delle culture – o civiltà –,
secondo la quale esse evolvono in maniera progressiva e uniforme. Il
concetto di cultura, o civiltà, che gli antropologi propongono si
distanzia dalla definizione classica di cultura che previlegiava l’idea di
un sapere “elevato” (erudizione, arti, letteratura), fondamentalmente
elitario. Tylor propone per primo una definizione scientifica che
estende la cultura/civiltà a tutta l’umanità:
Cultura o civiltà è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze,
l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine
acquisita dall’uomo in quanto membro di una società2.

La teoria evoluzionista della cultura è accolta da diversi autori


dell’epoca – tra cui Karl Marx e Friedrich Engels, che la inseriscono
nella loro idea di progresso verso il socialismo.
Abbiamo visto che già nel Settecento un’embrionale idea
evoluzionista cercava di spiegare le variazioni culturali e di civiltà. Non
si trattava però di un’idea di evoluzione unilineare: Buffon faceva
l’ipotesi della “degenerazione”, altri ricorrevano a spiegazioni
biologiche (la misurazione dei crani), che rendevano statiche le
differenze tra le popolazioni, anziché considerarle una conseguenza di
processi di cambiamento. In campo storico-politico, Montesquieu
(1689-1755) aveva avanzato un’ipotesi sullo sviluppo delle civiltà,
distinguendo – nel libro XVIII di De l’esprit des lois – tra popoli
selvaggi e popoli barbari in base ad alcune caratteristiche: i selvaggi
venivano descritti come popoli di cacciatori e i barbari come popoli di
pastori, capaci di riunirsi anche se privi di una residenza stabile.
Sebbene non lo enunciasse esplicitamente, Montesquieu, influenzato
dalle teorie fisiocratiche – per le quali la terra era la principale
ricchezza –, faceva coincidere civiltà e agricoltura: nel suo pensiero, il
superamento della barbarie richiedeva il legame con la terra e, come
momento successivo, la costruzione della città.
Le rappresentazioni dello stato selvaggio, della barbarie e della civiltà
– e dei suoi passaggi (inclusa la degenerazione) – elaborate nel
Settecento rimasero ipotesi frammentarie, prive di una base
scientifica; mancava una spiegazione generale delle cause delle
differenze tra le culture. È questo che la teoria dell’evoluzione delle
specie e della selezione naturale di Darwin sembra offrire
all’antropologia: come le specie evolvono verso una crescente
complessità, allo stesso modo le culture progrediscono da uno stato
semplice a uno sempre più complesso. Il fatto che, nello stesso anno, il
1871, vengano pubblicati The Descent of Man di Charles Darwin,
Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family di Lewis
Morgan e Primitive Culture di Edward Tylor è fortemente simbolico di
quest’incontro tra teoria dell’evoluzione della specie ed evoluzionismo
culturale.
La teoria evoluzionista della cultura ipotizza che le società passino –
inevitabilmente – attraverso i medesimi stadi, definiti in base alla
divisione settecentesca tra stato selvaggio, barbarie, civiltà – e
giungano quindi a un ultimo stadio comune. Tylor rigetta
completamente l’idea di un’eventuale degenerazione culturale,
suggerita da Buffon. Per lui tutti i popoli sono ugualmente capaci di
svilupparsi e progredire attraverso i diversi stadi, dallo stato selvaggio
alla barbarie fino alla civiltà. Per rendere conto delle variazioni
culturali esistenti Tylor postula che le diverse società coesistenti
contemporaneamente sul pianeta si trovino a diversi stadi
dell’evoluzione: le popolazioni “primitive” non hanno ancora
raggiunto gli stadi più elevati della civiltà e assomigliano alle nostre
società antiche. Del resto nelle società più avanzate si possono
osservare quelle che Tylor chiama survivals: tracce di tradizioni e
antiche abitudini che sopravvivono nelle presenti culture. Di
conseguenza, lo studio delle società “primitive” tuttora esistenti
permette di osservare gli stadi anteriori, ormai superati, delle società
occidentali.
Morgan esprime lo stesso punto di vista in Ancient Society (1877),
affermando l’esistenza di un’evoluzione unileare lungo la quale si
muovono tutte le culture:
Come è innegabile che porzioni della famiglia umana siano esistite in uno stato
selvaggio, altre di barbarie, e altre in uno stato di civiltà, sembra ugualmente che
queste tre condizioni distinte siano collegate tra loro in una sequenza naturale e
necessaria di progresso3.

Da qui l’importanza dello studio dei Nativi americani per la


conoscenza della storia dell’umanità4.
In sintonia con filosofie della storia fondate sul principio di un
progresso dell’umanità culminante nello stadio superiore della civiltà
europea occidentale (è caso del marxismo), la teoria evoluzionista
delle culture difende l’unità profonda del genere umano e la sua
possibilità di miglioramento. Partendo da questi presupposti, la teoria
evoluzionista in antropologia culturale ha il grande merito di stabilire
una netta rottura tra cultura e biologia, ricusando l’idea che la causa
delle differenze culturali sia di origine biologica.
Condividendo l’idea dell’universalità delle emozioni e
dell’intelligenza umane suggerita da Darwin, Tylor sostiene l’esistenza
di un’unità psichica dell’umanità che spiega le sequenze evolutive
parallele in diverse tradizioni culturali. Società molto diverse spesso
trovano le stesse soluzioni agli stessi problemi in maniera
indipendente, per via delle somiglianze fondamentali nello schema
mentale di tutti i popoli.
Il programma dell’antropologia evoluzionista può essere sintetizzato
in questa frase di Tylor, tratta dal suo saggio Primitive Culture:
La condizione della cultura tra le varie società del genere umano […] è un
argomento adatto per lo studio delle leggi del pensiero e dell’azione umana. Da un
lato, l’uniformità che pervade così largamente la civiltà è attribuibile, in larga
misura, all’azione uniforme di cause uniformi; mentre dall’altro lato i suoi vari
gradi possono essere considerati come stadi di sviluppo o evoluzione, ciascuno
come il risultato della storia precedente, e in procinto di fare la sua parte nel
modellare la storia del futuro5.

L’esistenza di queste leggi comuni non escludeva, secondo Tylor, che


i tratti culturali si potessero diffondere da una cultura all’altra.
Abbiamo aperto il capitolo sottolineando l’importanza della teoria di
Darwin per la definizione di un’antropologia evoluzionista. È però
importante ricordare che né Tylor né Morgan fecero mai uso del
concetto di selezione naturale, che era invece al centro delle
spiegazioni di Darwin. Certo i darwinisti sociali, oggi fortemente
rappresentati nel pensiero neoliberale dominante, derivarono le loro
teorie – dette appunto “darwinismo sociale” – dalla teoria della
selezione naturale, ma il loro movimento si è costituito e si è
posizionato al di fuori dell’antropologia culturale ed è anzi stato
fortemente criticato dagli antropologi.

Entra in scena la parentela (e il matriarcato)


All’interno del medesimo paradigma di evoluzionismo culturale,
Tylor e Morgan insistono su diverse dimensioni. Tylor attribuisce
importanza alla dimensione culturale della storia evolutiva delle
società umane. Morgan privilegia invece l’evoluzione delle forme di
organizzazione sociale.
Sia Tylor che Morgan si occupano di identificare le caratteristiche dei
tre stadi: stato selvaggio, barbarie, civiltà. Morgan li suddivide in
sottostadi. Lo stato selvaggio è diviso in “selvaggio inferiore” e
“selvaggio superiore”: nel primo la sopravvivenza si basa su raccolta e
caccia, le relazioni sessuali sono segnate dalla promiscuità e l’unità
basica è l’orda nomade. Durante quello successivo si introduce il tabù
del matrimonio tra fratello e sorella, si inventano l’arco e le frecce, la
filiazione è matrilineare e la proprietà comune. Lo stato di “barbarie
inferiore” è caratterizzato dall’inizio dell’uso della terracotta e
dall’introduzione dell’agricoltura. Il tabù dell’incesto si estende a tutti i
discendenti della linea femminile. L’unità basica diventa il clan. Lo
stato “barbaro superiore” è caratterizzato dall’introduzione della
metallurgia, dal passaggio dalla matrilinearità alla patrilinearità,
dall’instaurazione di relazioni poligamiche e dall’apparizione della
proprietà privata. In quanto alla “civiltà”, le sue caratteristiche sono la
scoperta della scrittura, l’apparizione della famiglia monogamica e del
governo civile. Tylor riprende questi elementi, ma insiste anche
sull’aspetto simbolico, in particolare sulla religiosità, e propone tre
livelli di evoluzione delle forme religiose: stato selvaggio/animismo;
barbarie/politeismo e civiltà/monoteismo.
Nel tentativo di definire le caratteristiche dei diversi stadi evolutivi
delle culture, Morgan e Tylor introducono un ambito di analisi che
diventa specifico dell’antropologia: l’attenzione alla dimensione
familiare, al ruolo delle donne nelle relazioni di parentela, al controllo
della sessualità (con particolare attenzione al tabù dell’incesto) e
all’organizzazione dei processi riproduttivi
(matrilinearità/patrilinearità).
L’interesse dell’antropologia per la parentela – e per le relazioni tra
uomini e donne (all’epoca il concetto di genere non esisteva) viste
come elemento fondante dell’organizzazione sociale – è in gran parte
risultato dell’introduzione di un nuovo metodo d’indagine,
l’“osservazione partecipante”6. Il nuovo metodo fu inizialmente
applicato da Morgan non in quanto antropologo, ma in quanto
attivista politico.
Avvocato di Rochester, nello stato di New York, Morgan era deputato
di un partito progressista impegnato nella difesa dei Neri e degli
Indiani. Nella doppia veste di avvocato e di attivista, Morgan difese i
Seneca – una tribù appartenente alla Confederazione Irochese – in
una causa che riguardava la loro riserva, conquistandone la fiducia.
Visse a lungo con loro, ne apprese la lingua, fu iniziato alle loro società
segrete, conobbe dall’interno la loro organizzazione sociale, strinse
una profonda amicizia con un Irochese di nome Ely Parker (1828-
1895), che divenne il suo informatore principale. In seguito Parker si
arruolò nell’esercito nordista durante la guerra di Secessione, fu
segretario del generale Ulysses Grant e commissario al Bureau of
Indian Affairs, organismo che poi confluì nel BAE (Bureau for
American Ethnology), che – come vedremo nei prossimi capitoli –
ebbe un ruolo importante nella promozione dell’antropologia culturale
statunitense. D’altronde l’interesse per i Nativi americani era
condiviso da diversi studiosi, giornalisti, artisti e politici fin dalla fine
del Settecento. Il primo ad aver classificato le loro lingue era stato
Albert Gallatin (1761-1849), segretario di stato nell’amministrazione
Jefferson e fondatore dell’American Ethnological Society nel 1842, il
primo gruppo di antropologi professionisti negli Stati Uniti. Egli aveva
identificato l’esistenza di trentadue lingue diverse.
Morgan pubblicò il resoconto della sua esperienza presso gli Irochesi
nel 1851. The League of the Ho-de-no-sau-nee or Iroquois rappresenta
uno dei primi lavori etnografici rispondente a rigorosi criteri di
osservazione. La descrizione che fa Morgan della società irochese tiene
conto degli aspetti cerimoniali, religiosi e politici, e dedica una
particolare attenzione allo studio della parentela e del matrimonio,
individuati come elementi chiave dell’organizzazione sociale. Grazie
alla sua conoscenza della lingua e della società, Morgan scoprì che la
terminologia per indicare i parenti è molto diversa da quella
euroamericana (per esempio tutti i parenti dal lato paterno vengono
indicati con lo stesso nome, come pure tutti i parenti dal lato
materno), e che il sistema di parentela irochese è matrilineare e non
patrilineare – ovvero la discendenza riguarda la madre e non il padre
– con diverse attribuzioni di ruoli allo zio materno e al padre.
Dalla scoperta della matrilinearità, Morgan ipotizza l’esistenza di una
fase matriarcale (ovvero di potere femminile/materno), universale
nelle prime tappe della storia dell’umanità. La matrilinearità sarebbe
dunque una “sopravvivenza” – concetto elaborato da Tylor – di questa
fase precedente. La teoria del matriarcato primitivo influenza varie
linee d’investigazione antropologica nel corso del XIX secolo, ma essa
avrà anche, come vedremo nei prossimi capitoli, una grande influenza
nel dibattito femminista negli anni Settanta del Novecento.

Il metodo scientifico in antropologia


Lo studio della parentela è perfettamente in linea con il pensiero
evoluzionista di Morgan. Per l’antropologo la parentela è
un’istituzione sociale che caratterizza i primi tempi dell’organizzazione
societale: è quindi l’epicentro dell’organizzazione delle cosiddette
“società primitive”, mentre è meno centrale nelle società moderne,
dominate dal contratto sociale, dal rapporto con lo stato, dalla politica,
dall’economia (in sociologia questa riflessione si tradurrà nella
divisione tra Gemeinschaft e Gesellshaft proposta dal sociologo
tedesco Ferdinand Tönnies)7.
Avendo compreso che il modo europeo di organizzare la parentela
non è universale e che probabilmente esistono sistemi di parentela
matrilineari presso altre tribù americane o asiatiche, Morgan
individua l’importanza della comparazione, e cerca di definire criteri
da utilizzare perché la comparazione sia scientifica. Basandosi sui
risultati del suo lavoro sulla terminologia della parentela irochese – il
primo nel suo genere –, Morgan definisce un metodo che avrebbe per
molti decenni caratterizzato gli studi antropologici sulla parentela:
l’attenzione alla terminologia e la divisione della parentela in un
numero di “blocchi” costitutivi – discendenza, matrimonio, residenza
postmaritale, eredità…
Il frutto del lavoro comparato di Morgan è raccolto nella successiva
opera, già citata, Systems of Consanguinity and Affinity of the Human
Family, una pietra miliare nella storia dell’antropologia sociale e
culturale, sia per quello che riguarda l’individuazione dell’oggetto – la
parentela come prima forma di organizzazione sociale – che i metodi:
studio della terminologia (e dunque importanza della conoscenza
linguistica) e comparazione8.
Anche Tylor attribuisce grande importanza ai sistemi di parentela
che rappresentano il fondamento delle società “primitive” e propone
un metodo per analizzarli scientificamente attraverso la statistica9,
ricercando le associazioni delle caratteristiche culturali in
combinazioni casuali o combinazioni organiche.

Evoluzionismo e matriarcato
Il contributo di Morgan e Tylor allo sviluppo dell’antropologia
culturale deve molto al rigore del loro metodo d’investigazione:
osservazione partecipante, comparazione, uso della statistica. Nello
stesso periodo, altri autori applicano invece la teoria evoluzionista allo
studio delle culture basandosi su dati di seconda mano. Le grandi
visioni suggerite da questi autori potrebbero essere definite “etnologia
filosofica”.
Tra gli autori che hanno prodotto importanti opere di “etnologia
filosofica” nel corso del XIX secolo ricordiamo Johann Jakob Bachofen
(1815-1887), Friedrich Engels (1820-1895) e, una generazione più
tardi, James Frazer (1854-1941): i primi due sono particolarmente
significativi per lo sviluppo dell’antropologia di genere, avendo
entrambi consacrato parte del loro lavoro alla teoria del matriarcato e
alle conseguenze del passaggio dal matriarcato al patriarcato sulle
relazioni tra uomini e donne.
Bachofen, giurista svizzero e studioso della cultura classica elabora
una teoria dell’evoluzione della parentela basandosi su fonti poetiche e
storiche (Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Ovidio, Virgilio,
Strabone…), ma anche giuridiche. La figura di Bachofen è
particolarmente importante per l’antropologia di genere per la sua
teoria del matriarcato, proposta nel volume Das Mutterrecht,
pubblicato nel 1861.
Fondando la sua ricerca sui miti dell’antichità, Bachofen sostiene che
nelle prime società le donne esercitavano un grande potere e che la
lotta dei sessi è stato uno dei motori del cambiamento evolutivo. Di
questa lotta dei sessi si trova traccia nella mitologia, attraverso le
associazioni del femminile e del maschile (notte/giorno, luna/sole…),
e in tragedie come l’Orestiade eschilea, nella quale si confrontano il
diritto materno e il diritto paterno. Per Bachofen il matriarcato non
appartiene a nessuna società in particolare, ma a uno stadio culturale,
e ha pertanto caratterizzato tutta l’umanità, come conseguenza del
carattere normativo della “natura umana”. Condivide l’idea di Tylor
dell’unità psichica della specie umana e, assumendo che il destino
naturale dell’uomo culmina nella nascita della vita all’interno del sesso
femminile, suggerisce che l’umanità abbia attraversato tre stadi
culturali: “eterismo” o promiscuità primitiva, matriarcato e
patriarcato.
Bachofen si pone l’obiettivo di comprendere il passaggio
dall’eterismo al matriarcato e poi dal diritto materno a quello paterno,
ovvero al sistema patriarcale. Per Bachofen l’amore materno è
intrinseco alla natura delle donne: è stato proprio l’amore materno che
ha spinto le donne a superare la promiscuità primitiva, nella quale le
donne (e i loro figli) erano sottoposte alla tirannia fisica e sessuale
degli uomini. Le donne hanno svolto un ruolo cruciale nella
civilizzazione dell’umanità. Esse lottarono contro gli uomini come
amazzoni per difendere il loro bene principale – la maternità. Sebbene
meno forti fisicamente, vinsero, anche grazie a poteri più profondi di
cui sono depositarie – come la tendenza dello spirito femminile al
soprannaturale e al divino che esercitò una grande influenza sul sesso
maschile. Iniziò così la “ginecocrazia”, lo stadio culturale della “poesia
della storia” retto dal diritto materno, durante il quale, grazie alla loro
maggior religiosità, le donne imposero agli uomini il matrimonio, la
famiglia e l’ordine religioso dominato dalle divinità femminili:
La ginecocrazia si è formata e consolidata grazie all’opposizione della donna
all’eterismo che la sviliva. Abbandonata senza protezione agli abusi dell’uomo […]
stancata dal suo desiderio, prova l’anelito verso una condizione ordinaria e una
civiltà più pura, alla cui oppressione l’uomo non si sottomette di buon grado,
ostinato nella coscienza della sua superiore forza fisica10.

La famiglia e il matrimonio sono pertanto due istituzioni create dalle


donne nelle quali vengono incanalati gli istinti sessuali degli uomini,
che vengono sottoposti al potere delle madri. Segno di questo grande
potere materno a cui gli uomini vogliono sottrarsi è la sopravvivenza
di alcune pratiche, come per esempio quella della “covata” (couvade),
diffusa presso molte popolazioni “primitive” (e anche in culture
popolari europee) – rito di natura magica per cui, mentre la donna
partorisce, il marito mima a sua volta il parto, imitando le doglie con
pianti e grida, e ricevendo per questo tutte le attenzioni normalmente
riservate alla partoriente. La “covata” fu studiata anche da Tylor, che
ne vide una sopravvivenza del matriarcato primitivo. Presso i
Maragatos, un popolo presente nel nord della Spagna, forse di origine
berbera, la “covada” veniva praticata fino a poco tempo fa. Dopo ogni
nascita, viene praticato uno scambio di ruoli tra i neogenitori, con il
neopapà che si prende cura del figlio, ricevendo le congratulazioni dei
parenti, e con la neomamma che si occupa dei lavori di casa,
dell’allevamento.
Nella guerra dei sessi, gli uomini finirono per avere la meglio e la
paternità si impose progressivamente come un principio superiore a
quello della maternità.
Una concezione totalmente nuova avanza. La relazione madre-figlio si basa su un
legame materiale, è la verità della natura, riconoscibile ed eterna, della percezione
fisica. Al contrario la paternità ha un carattere opposto […] rappresenta
l’abbandono dello spirito dei fenomeni naturali e l’elevarsi dell’esistenza umana
sopra la legge della vita materiale11.

Friedrich Engels, che riteneva Bachofen il primo vero storico della


famiglia, sintetizza così il suo pensiero:
La storia della famiglia risale al 1861, con la pubblicazione del Mutterrecht di
Bachofen. Qui l’autore fa le asserzioni seguenti:
1) che gli uomini all’inizio erano vissuti in un commercio sessuale promiscuo, che
egli, con espressione inesatta, qualifica come eterismo;
2) che tale commercio esclude ogni certezza di paternità, che perciò la
discendenza poteva essere calcolata solo in linea femminile, secondo il diritto
matriarcale, e che ciò originariamente avvenne in tutti i popoli dell’antichità;
3) che in conseguenza di ciò, le donne, in quanto madri, cioè in quanto genitrici
sicuramente note della giovane generazione, godevano di così grande autorità e
rispetto che, secondo l’idea di Bachofen, si giunse fino al completo dominio della
donna (ginecocrazia);
4) che il passaggio alla monogamia, in cui la donna apparteneva esclusivamente a
un uomo, rappresentò la violazione di un antichissimo comandamento religioso
(cioè, in realtà, una violazione dell’antico tradizionale diritto alla stessa donna da
parte degli altri uomini), violazione che doveva essere espiata o la cui tolleranza
doveva essere acquistata mediante un temporaneo concedersi della donna12.

Patriarcato e progresso
Il passaggio dal matriarcato al patriarcato rappresenta, per Bachofen,
una tappa positiva dell’evoluzione dell’umanità: la sostituzione della
“verità naturale” della maternità con la “verità culturale” della
paternità. La vittoria – materiale e simbolica – del principio paterno
su quello materno corrisponde alla vittoria della cultura sulla natura e
della civiltà sullo stadio selvaggio. In conclusione, Bachofen, pur
riconoscendo l’enorme ruolo delle donne nella formazione della civiltà
e l’esistenza di una fase matriarcale, riteneva che l’affermazione del
patriarcato aveva rappresentato un livello di civiltà superiore – un
esempio sarebbe il mondo greco-romano rispetto a popolazioni come i
Lici, descritti da Erodoto e Strabone.
Le tesi sul matriarcato di Bachofen furono ricusate da un altro storico
del diritto, Henry Sumner Maine (1822-1888), docente in
giurisprudenza a Oxford e Cambridge, da alcuni ritenuto il fondatore
dell’antropologia giuridica. Maine sosteneva che il gruppo di parentela
arcaico era patrilineare e autocratico e che all’origine della parentela
c’era il patriarcato, la cui espressione giuridica fu la patria potestas.
Per Maine, la parentela iniziava esattamente nel momento in cui
iniziava la potestà paterna.
Studioso delle società matrilineari, Morgan sostiene invece
l’esistenza di un matriarcato originario e, in una prospettiva
evoluzionista, condivide anche la teoria di Bachofen a proposito del
passaggio dalla matrilinearità/matriarcato alla
patrilinearità/patriarcato13, per cui il patriarcato corrisponde a uno
stadio di civiltà superiore a quello nel quale è presente il matriarcato.
Morgan non può però fare a meno di notare che il patriarcato è stato
pregiudiziale per la posizione e i diritti della madre e della sposa,
contribuendo ad abbassare la sua posizione e a ritardare il suo
progresso nella scala sociale. Per questo egli ipotizza il passaggio dalla
famiglia patriarcale estesa alla monogamia moderna, basata sulla
coabitazione esclusiva di una coppia. È la famiglia monogamica quella
con la quale l’umanità inaugura il suo passaggio alla civiltà. Inoltre,
per Morgan, la famiglia monogamica deve essere fondata sul principio
dell’uguaglianza tra moglie e marito: «La moglie deve necessariamente
occupare la stessa posizione del marito in quanto a dignità, diritti
personali e posizione sociale»14.
Con queste posizioni, Morgan si situa dal lato degli intellettuali
progressisti – come John Stuart Mill – che vedevano favorevolmente
le rivendicazioni delle femministe nordamericane e britanniche. Negli
stessi anni Mill aveva pubblicato il saggio The Subjection of Women
(1869), nel quale sosteneva che la sottomissione delle donne agli
uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano e che
dovrebbe esserci la perfetta uguaglianza, senza potere o privilegio da
parte di un sesso sull’altro.
Attento studioso del lavoro di Bachofen, Friedrich Engels rigetta la
visione positiva ed evoluzionista del passaggio dal matriarcato al
patriarcato:
Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale
del sesso femminile. L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna
fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per
produrre figli…15.

La fine del matriarcato significa l’inizio di processi di oppressione


che dalla famiglia patriarcale si estenderanno alla famiglia
monogamica, anche nella sua forma moderna:
La moderna famiglia [monogamica] contiene in germe, non solo la schiavitù, ma
anche la servitù della gleba, poiché questa, fin dall’inizio, è in rapporto coi servizi
agricoli. Essa contiene in sé, in miniatura, tutti gli antagonismi che si
svilupperanno più tardi largamente nella società [divisa in classi] e nel suo Stato.
[…] Per assicurare la fedeltà della donna, e perciò la paternità dei figli, la donna
viene sottoposta incondizionatamente al potere dell’uomo; uccidendola egli non
fa che esercitare il suo diritto16.

Engels (e con lui Karl Marx) non condividono l’interpretazione di


Tylor che vede nella famiglia monogamica un elemento della civiltà e
una forma di riconciliazione di uomo e donna. Al contrario, per
Engels, la famiglia monogamica prefigura la prima oppressione di
classe:
La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la procreazione di
figli… Il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo
sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la
prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di
quello maschile. La monogamia fu un grande progresso storico, ma
contemporaneamente essa, accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, schiuse
quell’epoca che ancora oggi dura, nella quale ogni progresso è, a un tempo, un
relativo regresso, e in cui il bene e lo sviluppo degli uni si compie mediante il
danno e la repressione di altri. Essa fu la forma cellulare della società civile, e in
essa possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che
nella civiltà si dispiegano con pienezza17.
Le posizioni estremamente critiche sulla famiglia sostenute da Marx
e Engels ispirarono all’epoca una componente del femminismo (quella
più vicina al socialismo) ma rappresentarono, nel corso degli anni, un
punto di riferimento per tutto il femminismo.

Frazer e Il ramo d’oro


Un altro esempio importante di “etnografia filosofica” è
rappresentato da James George Frazer, studioso scozzese dalla cultura
enciclopedica, titolare di una cattedra di antropologia sociale dal 1908.
Frazer è noto soprattutto per Il ramo d’oro, un esteso studio su magia
e la religione. Il termine golden bough (“ramo d’oro”) si riferisce a un
episodio dell’Eneide, nel quale si narra che Enea, dietro suggerimento
della Sibilla, prima di entrare nel regno dell’Ade, colse appunto un
ramo d’oro. Un’antica leggenda voleva “re del bosco” chi fosse stato in
grado di uccidere il sacerdote del santuario di Diana a Nemi e di
strappare un ramo dall’albero che si trovava nel recinto. La scena era
stata rappresentata dal pittore Turner, quadro che Frazer ammirava. Il
ramo d’oro si apre con queste parole:
Chi non conosce il famoso quadro di Turner Il ramo d’oro? La scena, soffusa da
quell’aurea, sognante luminosità con cui il genio divino di Turner impregnava,
trasfigurandolo, anche il più splendido paesaggio della natura, ci offre una visione
onirica del minuscolo lago di Nemi, in mezzo ai boschi – Specchio di Diana, lo
chiamavano gli antichi18.

Partendo dallo studio degli antichi miti e delle pratiche di popoli


“primitivi”, e guidato dai concetti di evoluzione, unità del genere
umano e progresso, Frazer sostiene che la magia è stata la prima
forma d’interpretazione del mondo sviluppatasi nella mente
dell’uomo, seguita da religione e scienza. La sua idea di evoluzione si
concentra principalmente sul progresso mentale del genere umano:
l’uomo primitivo non sa nulla della scienza e possiede dunque un’idea
completamente erronea delle cause naturali, vivendo in base a due
idee errate su cui è basato il pensiero magico, la “legge della
somiglianza” e la “legge del contatto”. La prima legge presuppone che
il simile produce il simile, cosicché gli sciamani e i maghi sono
convinti di poter controllare la natura imitandola. Se si vuole la
pioggia, si versa dell’acqua; se si vuole danneggiare un nemico, si
infilano aghi in una bambola a sua immagine. La seconda legge
stabilisce che le connessioni rimangono vive anche dopo una
separazione: una ciocca di capelli o un indumento mantengono un
legame col proprietario; danneggiando questi oggetti, si danneggia il
possessore.
Col progresso della mente umana, gli uomini si resero conto che
queste leggi non funzionavano e che non bastavano a controllare la
natura. Sorse allora la convinzione che forze più alte, non umane
dominavano l’universo. Da qui nacque la religione. Gli sciamani, i
maghi, divennero dei sacerdoti, specialisti della religione, investiti
della responsabilità di contattare e persuadere gli spiriti
soprannaturali ad agire nel senso desiderato. Questo diede ai sacerdoti
l’autorità sul popolo. Gradualmente i sacerdoti diventarono sacerdoti-
re, come i faraoni, re divinizzati, le cui anime furono venerate dopo la
loro morte. Lo sviluppo più alto del pensiero umano è la scienza,
storicamente legata alla magia, perché l’uomo è tornato a manipolare
la natura con la propria abilità (cosa non consentita dalla religione),
sia pure con gli strumenti derivate da leggi adeguate.
Frazer fu alieno al metodo del lavoro di campo che si era definito con
Morgan e Tylor e che poi si preciserà con Boas. Ed era del tutto alieno
alla trasformazione “boasiana” della disciplina che vedremo infra nel
capitolo quarto, quando si verificò il superamento dell’antropologia
evoluzionista. Il ramo d’oro fu infatti considerato da alcuni
antropologi come un esempio, sostanzialmente negativo, di
“antropologia da tavolino” e di evoluzionismo. Eppure, come ha scritto
Marino Niola, «senza Il ramo d’oro di James G. Frazer la cultura del
Novecento non sarebbe la stessa». Il ramo d’oro fu infatti un grande
successo non presso gli antropologi, ma presso un vasto pubblico di
lettori, più colti e meno colti, che vi trovarono
uno sterminato catalogo dell’immaginario umano. Un fantastico viaggio che parte
dal lago di Nemi e dall’uccisione rituale del sacerdote di Diana per mano di un
uomo più giovane e forte che vuole prenderne il posto. E attraversa la mitologia
degli antichi, i riti dei primitivi e le credenze dei moderni ricerca il filo che unisce
il passato e il futuro dell’uomo19.
Niola giustamente ricorda l’influenza decisiva sulla psicanalisi, sulla
poesia, sulla letteratura e perfino sul cinema. Sigmund Freud
ammetteva di dovere all’opera di Frazer l’idea dell’uccisione del padre,
centrale in Totem e tabù. Joseph Conrad scrisse Cuore di tenebra
pensando alla pagina frazeriana sull’assassinio rituale del re congolese
Chitombé. Infine, nel film Apocalypse Now Coppola dedica un
memorabile primo piano al libro di Frazer che sta sul tavolo di Marlon
Brando, prima che venga ucciso proprio come un antico sacerdote di
Nemi.

Conclusioni
Nel corso del XIX secolo, l’antropologia culturale si costituisce – in
Gran Bretagna e negli Stati Uniti – come una disciplina autonoma,
separata dall’antropologia umana; elabora una propria teoria della
civiltà e rigetta le spiegazioni biologiche dei fatti culturali, in nome
dell’unità piscologica della specie umana.
L’antropologia culturale si distingue dunque da un’antropologia
ancora legata alle scienze naturali che finisce per convalidare le tesi del
razzismo scientifico, basandosi su teorie elaborate principalmente da
naturalisti e medici, come Paul Broca in Francia. Lo statuto scientifico
delle teorie razziste, secondo le quali gli uomini si suddividevano in
pochi distinti tipi razziali dalle caratteristiche immutabili, è
costantemente messo in discussione dalla maggior parte degli
antropologi, ma anche da studiosi di scienze naturali. Il successo di
queste teorie è in gran parte dovuto al fatto che esse giustificavano una
gerarchia coloniale nella quale gli europei erano al primo posto20.
In Gran Bretagna21, ma soprattutto negli Stati Uniti, l’antropologia
culturale dominante si oppose con forza alla tesi di una divisione
dell’umanità in razze e all’attribuzione di caratteri morali, sociali e di
capacità intellettuali alla razza (all’apparenza fisica). Lasciamo dunque
di lato quella parte dell’antropologia che si compromette con il
pensiero razzista per seguire il percorso dell’antropologia culturale e
sociale che mette in questione l’esistenza di una realtà biologica della
razza. È questo il filone della disciplina che costituisce la matrice
dell’antropologia di genere.
Le definizioni di antropologia culturale si preciseranno nel corso dei
decenni successivi, con sfumature diverse rispetto agli oggetti di studio
(fatti sociali, istituzioni, dimensione simbolica) tra la Gran Bretagna –
dove viene chiamata social anthropology (antropologia sociale) – e gli
Stati Uniti22. La maggior parte degli antropologi ritiene oggi che i due
rami dell’antropologia – culturale e sociale – abbiano come oggetto
d’osservazione gli stessi fenomeni scientifici, e che la differenza
consista nel punto di vista adottato.
La prima antropologia culturale è evoluzionista: essa ipotizza per le
culture un percorso evolutivo unilineare, proprio perché questa
evoluzione ha sullo sfondo l’unità della specie umana. Partendo
dall’ipotesi che le popolazioni “primitive” costituiscono una fonte di
conoscenza sul passato delle civiltà, gli antropologi cercano di
comprenderne il modello organizzativo e la dimensione religioso-
simbolica.
Sulla base della sua esperienza di campo presso i Seneca, Morgan
sostiene che le cosiddette società “primitive” sono società basate sui
legami di sangue – ovvero sulla parentela. Lo studio della parentela
prevede l’analisi della maniera in cui gli uomini hanno organizzato un
aspetto del reale che non potevano controllare: l’esistenza di due sessi
nel mondo del viventi, il fatto che le donne mettono al mondo dei
bambini del loro sesso, ma anche del sesso contrario, il fatto che sono
necessari dei rapporti sessuali perché vi sia una nascita… di colpo
l’antropologia si trova ad affrontare una serie di dimensioni che, da
tempi più remoti, erano entrate nei tentativi di dare senso al mondo
(pensiamo appunto ai miti, o alla narrazione biblica), ma che erano
state occultate dalla storia, dalla filosofia, dalla teologia. E così le
donne – rese invisibili nella storia, ignorate dalla filosofia –,
diventano, nella loro relazione con gli uomini per comporre la rete
della parentela, un oggetto imprescindibile per l’antropologia
culturale.
Ma vi è dell’altro: considerate oggetto inderogabile della ricerca
antropologica, le donne diventano indispensabili anche nel ruolo di
studiose – di antropologhe. Il metodo dell’osservazione partecipante,
che implica una relazione di fiducia con l’informatore, rende infatti
essenziali le donne nella ricerca sul campo – anche se, inizialmente,
sono pensate soprattutto come le “mogli” degli antropologi (il modello
ideale teorizzato da Tylor per una buona ricerca sul campo). Intanto,
però, il movimento femminista, soprattutto negli Stati Uniti, stava
aprendo alle donne le porte delle università. L’antropologia è una
grande occasione, anche per donne che non hanno nessuna intenzione
di limitarsi al ruolo di fedeli mogli degli antropologi. La grande
partecipazione femminile alla ricerca antropologica negli Stati Uniti è
quindi indicativa al tempo stesso di una specificità della disciplina e
dell’alto livello di rivendicazione femminista presente in quella società
nella seconda metà del XIX secolo.
Intanto la riflessione sul matriarcato (anche se considerato come una
tappa verso il modello patriarcale, ritenuto più adatto allo sviluppo
della civiltà), ha messo in discussione la “naturale” subordinazione
femminile, dipendenza che le donne attive nei movimenti femministi
rifiutano radicalmente, sfilando lungo le strade di Londra e di New
York per reclamare i loro diritti.

1 De Waal Malefijt 1974: 122 (trad. dell’autrice).


2 Tylor 1871: 1 (trad. dell’autrice).
3 Morgan 1877: 3 (trad. dell’autrice).
4 «La storia e l’esperienza delle tribù indiane d’America offre un’immagine più o
meno fedele della storia e delle esperienze dei nostri antenati in condizioni
corrispondenti. Facendo parte della storia dell’umanità, le loro tecniche, le loro
invenzioni, e la loro esperienza pratica rappresentano un valore molto grande e
molto particolare che supera di gran lunga quello della stessa razza indiana» (dalla
prefazione di Morgan 1877; trad. dell’autrice).
5 Tylor 1871: 71 (trad. dell’autrice).
6 L’osservazione partecipante è una strategia di indagine nella quale il ricercatore
si inserisce in maniera diretta e per un periodo di tempo relativamente lungo in un
determinato gruppo sociale colto nel suo ambiente naturale, instaurando un
rapporto di interazione personale con i suoi membri allo scopo di descriverne le
azioni e di comprenderne, mediante un processo di immedesimazione, le
motivazioni (cfr. Corbetta 1999: 368).
7 Ferdinand Tönnies (1855-1936) sociologo tedesco, primo presidente della
Deutsche Gesellschaft für Soziologie (fondata nel 1909), autore di Gemeinschaft
und Gesellschaft (1887), dove individua due forme diverse di organizzazione
sociale, appunto la comunità (Gemeinschaft) e la società (Gesellschaft). Mentre la
forma comunitaria, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione
spontanea predomina in epoca preindustriale, la forma societaria, basata sulla
razionalità e sullo scambio, domina nella moderna società industriale; Tönnies
vede questi due tipi (Normaltypen) di organizzazione sociale come contrapposti.
8 Cfr. http://science.jrank.org/pages/7808/Kinship.html (ultima consultazione
8.3.2016).
9 On a Method of Investigating the Development of Institutions; Applied to the
Laws of Marriage and Descent, presentato presso l’Anthropological Institute nel
novembre 1888, e pubblicato nel vol. 28 (1889) del suo «Journal».
10 Cit. da Méndez 2007: 44 (trad. dell’autrice).
11 Ibidem.
12 F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato,
prefazione alla quarta edizione del 1891 (trad. a cura del CCDP:
http://www.resistenze.org/sito/ma/di/ce/mdce5n29.htm; ultima consultazione
8.3.2016).
13 Cfr. Seymour-Smith 1986: 21.
14 Morgan 1877: 473 (trad. dell’autrice).
15 Engels 2005: 84.
16 Ivi, p. 85.
17 Ivi, p. 93. Cfr. anche http://donneriv.blogspot.mx/2014/05/friedrich-engels-
lorigine-della.html (ultima consultazione 8.3.2016).
18 Frazer 1973: 31.
19 Niola 2010.
20 Cfr. Harrison F. 1995; Harrison C.K. 1998.
21 In Gran Bretagna, accanto alle posizioni di Edward Tylor, che ricusava un
fondamento all’idea di razza, operavano pensatori razzisti come Robert Knox, che
in The Races of Men, pubblicato nel 1850, sosteneva che la razza è tutto e che la
civiltà dipende da essa (cit. da Mayr 1982: 113).
22 Ne abbiamo fatto cenno supra nell’introduzione.
3. LE PIONIERE. DONNE ANTROPOLOGHE NELL’OVEST
AMERICANO

L’emancipazione: battaglie per i diritti delle donne e dei neri negli


Stati Uniti. Il voto delle donne all’Ovest
Le battaglie per i diritti delle donne condotte dalle prime femministe
– il raggiungimento di eguaglianza politica, sociale, economica e
giuridica con il sesso maschile – rappresentano, con la rivoluzione
industriale e all’emergere del movimento operaio, uno dei grandi
fattori di cambiamento che segnarono il mondo occidentale durante il
secolo XIX. Sebbene le radici delle idee femministe fossero già presenti
nel Settecento (la francese Olympe de Gouges e l’inglese Mary
Wollstonecraft sono spesso definite “proto-femministe”), è soltanto
nell’Ottocento che le idee di uguaglianza tra uomini e donne si
diffusero al di là di circoli e ambienti ristretti, diventando tematiche di
dibattito pubblico. La misura della diffusione e l’impatto di queste idee
sulle dinamiche politiche e le pratiche sociali variano a seconda dei
paesi, con marcate differenze tra mondo anglosassone (Gran Bretagna
e Stati Uniti) e resto d’Europa.
In Gran Bretagna e, soprattutto, negli Stati Uniti d’America già
intorno alla metà del secolo i movimenti femministi conquistarono
visibilità vincendo importati battaglie – come la riforma educativa,
l’apertura delle università alle donne, l’accesso alla professione medica
(la prima donna medico americana, Elizabeth Blackwell, si diplomò
nel 1849). In entrambi i paesi la rivendicazione dei diritti delle donne
si intrecciò strettamente con la generale problematica
dell’emancipazione, includendo anche la popolazione nera schiavizzata
e i Nativi americani oppressi. Femminismo e abolizionismo della
schiavitù dei neri procedettero parallelamente, rinforzandosi a
vicenda.
Nel resto del continente europeo – dalla Francia alla Germania,
dall’Italia alla Polonia – le femministe, tra cui alcune figure
significative come la franco-peruviana Flora Tristan, furono
un’avanguardia numericamente scarsa, spesso rappresentata da
intellettuali e scrittrici o da aderenti alle idee socialiste, che
rinunciavano a una rivendicazione specifica. Nella maggior parte dei
paesi la battaglia per i diritti delle donne finì per entrare a far parte
delle lotte condotte in nome dell’ideologia socialista o di quella
anarchica, acquisendo autonomia soltanto nel tardo Ottocento. Anche
nei paesi scandinavi, pur caratterizzati da un’antica tradizione di
partecipazione femminile alla vita politica e sociale, le associazioni
femministe si svilupparono soltanto dopo il 1870 (Danimarca 1871,
Svezia 1893, Norvegia e Finlandia 1884)1, ben vent’anni dopo la
Seneca Falls Convention, momento fondante del femminismo
statunitense.
La convenzione di Seneca Falls, una località nelle vicinanze di New
York, alla quale parteciparono circa trecento donne, si tenne il 19 e 20
luglio 1848. Fu organizzata da Lucretia Mott ed Elizabeth Cady
Stanton, entrambe attiviste della battaglia abolizionista. Le due donne
si erano incontrate per la prima volta alla World Anti-Slavery
Convention tenutasi a Londra nel 1840. In quell’occasione, a Mott e
Stanton non era stato concesso di prendere la parola in pubblico,
perché donne. L’indignazione suscitata in entrambe da questo
spiacevole episodio le aveva spinte a fondare il movimento per i diritti
delle donne negli Stati Uniti2.
Il 14 luglio la convenzione fu annunciata in questi termini dal
«Seneca County Courier»:
Una convenzione per discutere la condizione sociale, civile e religiosa e dei diritti
delle donne si terrà nella Cappella Wesleyan, a Seneca Falls, NY, mercoledì 19 e
giovedì 20 del corrente mese di luglio, con inizio alle ore 10:00. Il primo giorno
l’incontro sarà esclusivamente riservato alle donne, caldamente invitate a
partecipare. Ogni pubblico è invitato a essere presente il secondo giorno, quando
Lucretia Mott, di Philadelphia, e altre donne e uomini, parleranno alla
convenzione.

Nel primo giorno, il 19 luglio, fu letta la Declaration of Sentiments


(conosciuta anche come Declaration of Rights and Sentiments),
preparata in anticipo e redatta sul modello della Dichiarazione
d’indipendenza americana (per come è formulata, essa ricorda la
Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, formulata da
Olympe De Gouges):
La storia dell’umanità è una storia di ripetuti torti e arbitri da parte dell’uomo nei
confronti della donna, che hanno avuto l’obiettivo diretto di imporre un’assoluta
tirannia su di lei.

Una volta elencate le ingiustizie perpetrate ai danni delle donne, la


Dichiarazione afferma con forza l’uguaglianza tra i sessi:
Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini e le
donne sono stati creati uguali; che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni
diritti inalienabili.

Di conseguenza,
in considerazione del fatto che la metà del popolo di questa nazione è privata dei
diritti politici ed è socialmente degradata – nonché in considerazione delle
ingiuste leggi prima menzionate e dal momento che le donne si sentono offese,
oppresse e fraudolentemente spogliate dei loro diritti più sacri, noi insistiamo che
esse siano immediatamente ammesse a godere di tutti i diritti e privilegi che loro
appartengono in quanto cittadine degli Stati Uniti3.

Nel secondo giorno la Dichiarazione fu adottata dall’assemblea e


firmata dalle partecipanti. Alla Dichiarazione furono annesse 12
risoluzioni che rivendicavano specifici diritti, tra cui il diritto di voto
(nona risoluzione).
Altre convenzioni e conferenze sulla questione dei diritti delle donne
furono organizzate nel corso del decennio successivo: per esempio la
Women’s Right Convention di Akron in Ohio, tenutasi il 28 maggio
1851. Nell’annoso dibattito se il predominio dell’uomo sulla donna
avesse origini naturali, una delle oratrici, la scrittrice e poetessa
Frances Dana Barker Gage, prese una chiara posizione:
Non ho bisogno di produrre argomenti complicati per provare che la donna non
occupa nella società la posizione che le sue capacità le conferirebbero. I diritti
dell’uomo emanano dai loro bisogni naturali e dalle loro emozioni. Non sono i
bisogni naturali e le emozioni dell’umanità comuni, e condivisi equamente tra i
due sessi? Soffre forse l’uomo la fame e la sete, il freddo e il caldo più di una
donna? Ama e odia, spera e teme, prova gioia e dolore più di una donna? […] Da
dove ha tratto l’uomo l’autorità che ora rivendica su oltre la metà dell’umanità?
Da quale potere ha acquisito il diritto di porre la donna sua compagna, sua
consorte in vita in una posizione di inferiorità? È venuto dalla natura? La natura
ha fatto la donna sua superiore quando l’ha fatta sua madre; sua pari, quando l’ha
fatta adatta a tenere la posizione sacra della moglie4.

Con l’inizio della guerra di Secessione (1860), il movimento


femminista mise da parte le sue rivendicazioni specifiche per
concentrarsi sull’abolizione della schiavitù. L’impegno abolizionista
delle femministe non fu però premiato con la concessione di maggiori
diritti alle donne, prima di tutto quello di voto: anzi, dopo la fine della
guerra, il 14° emendamento, ratificato nel 1868, estese la protezione
della Costituzione a tutti i cittadini, e definì i”cittadini” come “maschi”;
il 15° emendamento, ratificato nel 1870, stabilì che il diritto di voto
non può essere negato per via della razza, ma non del sesso,
garantendo, di fatto il diritto di voto agli uomini neri, ma non alle
donne. Come risposta, nel 1866 Elizabeth Cady Stanton, Susan
Anthony e Lucy Stone fondarono la American Equal Rights
Association (AERA), un’organizzazione il cui obiettivo era
l’emancipazione al tempo stesso degli afroamericani e delle donne, e
che conduceva la battaglia non solo a livello federale, ma anche a
livello dei singoli stati, dove peraltro le politiche locali cominciarono a
differenziarsi in modo significativo. Nel 1869, uno stato dell’Ovest, il
Wyoming, concesse il diritto di voto alle donne, seguito nel 1870 dallo
Utah.
Il caso dello Utah è particolarmente interessante: fondato dal gruppo
religioso dei mormoni, ebbe, per diciassette anni, dal 1870 al 1887,
una legislazione che prevedeva sia il voto alle donne sia la poligamia,
che faceva parte delle dottrine religiose mormone. Nel 1887, la
legislazione federale decise di intervenire proibendo, al tempo stesso,
la poligamia e il diritto di voto alle donne nello Utah. I tentativi di
interdire le urne alle donne anche nel Wyoming si scontrarono contro
la volontà dello stato di mantenere la propria specificità. Il Wyoming
minacciò di rimanere un “territorio” piuttosto che rinunciare al voto
alle donne; il Congresso si piegò e gli stati occidentali divennero
l’avanguardia per la concessione del voto alle donne. Lo Utah lo
reintrodusse nel 1895, seguito dal Montana. All’inizio del XX secolo,
circa quattro milioni di donne godevano del diritto di voto nell’Ovest
americano, una ventina d’anni prima che il 19° emendamento lo
introducesse in tutti gli Stati Uniti.
Nella seconda metà del XIX secolo, l’importante presenza femminile
nella ricerca antropologica americana agli albori della sua
consacrazione accademica (una delle prima cattedre di antropologia fu
inaugurata nel 1886 alla University of Vermont) non può essere
compresa prescindendo dal contesto di lotte, presa di coscienza e
affermazione dei diritti delle donne che abbiamo appena ricordato.
È possibile affermare che il movimento femminista americano ha
funzionato da incubatore per lo sviluppo di un’antropologia delle
donne – quella che oggi chiamiamo antropologia di genere. Le prime
antropologhe, Matilda Coxe Stevenson, Alice Cunningham Fletcher ed
Elsie Clews Parsons furono anche delle femministe, che cercarono di
trasferire le loro idee progressiste nella loro ricerca. Il fervido
ambiente del femminismo americano influenzò più di una
generazione. Per storia familiare si iscrive in quest’ambiente anche
Margaret Mead, l’antropologa che più di ogni altra ha contribuito con i
suoi lavori a decostruire la “naturalità” dei comportamenti maschili e
femminili, e, di conseguenza, a fornire un apporto cruciale alla
riflessione teorica sulla costruzione sociale delle identità di genere.

La fondazione della Women’s Anthropological Society of America


(WASA). L’antropologia delle donne e dei bambini di Matilda Coxe
Stevenson
L’otto giugno 1885, dieci donne (tra cui Matilda Coxe Stevenson,
Alice Cunningham Fletcher, Sara Yorke Stevenson, Zelia Nuttall, Lucy
Langdon Wilson, Anita McGee)5 si incontrarono a Washington per
fondare la Women’s Anthropological Society of America (WASA; cfr.
Lurie 1966). Le dieci studiose, provenienti da diverse discipline e
attive, oltre che nella ricerca antropologica, in vari ambiti politico-
sociali – dai movimenti femministi alle organizzazioni di difesa dei
diritti dei Nativi americani – erano coscienti del fatto che l’idea di
creare una società antropologica femminile fosse «novel and
hazardous» in un ambiente accademico dominato dai maschi, ma
Matilda Coxe Stevenson, Alice Cunningham Fletcher e le altre
sentivano anche – nell’effervescenza di un nuovo protagonismo
femminile e negli esaltanti sviluppi della ricerca, con l’apertura del
Bureau of American Ethnology (BAE) dello Smithsonian Institution –
che i tempi erano maturi per aprire alle donne questo nuovo campo
del sapere, promuovendo «la loro cooperazione nello sviluppo della
scienza dell’antropologia».
Nel ruolo di presidentessa dell’associazione fu eletta Matilda Coxe
Stevenson (1849-1915), attiva da anni nel lavoro di campo presso
diverse popolazioni native dell’Ovest, principalmente del Nuovo
Messico. Appartenente alla borghesia della costa Est, Matilda Coxe
Stevenson aveva ricevuto una buona educazione, era una donna
impegnata per i diritti delle donne, ma era fondamentalmente
autodidatta e non disponeva di nessun diploma universitario formale.
Il suo interesse per l’antropologia era una conseguenza del suo
trasferimento nell’Ovest americano insieme al marito, James
Stevenson (1840-1888), un geologo della US Geological Survey, che
era stato incaricato di uno studio presso una tribù Pueblo, gli Zuñi
(Nuovo Messico)6, per conto del BAE.
Apriamo una parentesi su questa istituzione che si rivelò
fondamentale per la nascita dell’antropologia americana. Creato nel
1879 con un atto del Congresso, come luogo dove trasferire archivi,
relazioni e materiali riguardanti i Nativi del Nordamerica,
precedentemente conservati dal Department of the Interior, il BAE si
pose fin dai suoi inizi l’obiettivo di organizzare la ricerca antropologica
in America, anche grazie all’impegno del suo primo direttore, John
Wesley Powell (1834-1902). Il BAE organizzò e finanziò progetti
pluriennali nel campo della ricerca etnografica, linguistica e
archeologica. Avviò una serie di pubblicazioni (gli «Annual Reports» e
i «Bulletins»), preparò mostre e raccolse oggetti per lo Smithsonian
United States National Museum. I primi antropologi americani, tra cui
alcune delle dieci donne che, in quei giorni di giugno del 1885,
fondarono la WASA, lavorarono per il BAE e pubblicarono nei suoi
«Reports» e «Bulletins».
Sulla base delle loro prime esperienze di lavoro di campo, le studiose
– come Matilda Coxe Stevenson o Alice Fletcher – erano coscienti del
ruolo essenziale ricoperto dalle donne per la raccolta d’informazione
presso la componente femminile delle popolazioni “primitive” o
“tribali” oggetto dello studio etnografico. Coerentemente, le fondatrici
della WASA supportarono la loro iniziativa con l’argomento che
soltanto le donne antropologhe avrebbero potuto ottenere
informazioni dettagliate sulla vita privata di altre donne. Accanto al
marito, Matilda Coxe Stevenson aveva raccolto informazioni preziose
sulla vita degli Zuñi, una società matrilineare nella quale le donne
erano le proprietarie della casa e del giardino, godendo di una
posizione privilegiata rispetto a quella delle donne di altri gruppi
nativi (per esempio quelli del Nordovest).
Si trattava, peraltro, di un argomento che poteva contare su un
difensore di peso (e maschio): l’antropologo britannico Edward Tylor.
Per quanto impregnato della cultura accademica dell’epoca – quella
vittoriana –, che presupponeva una rigida divisione dei ruoli maschili
e femminili, considerati corrispondenti a differenze più o meno
naturali, Tylor sosteneva fermamente la necessità di aprire alle donne
l’antropologia. Egli aveva maturato questa convinzione per l’appunto
in seguito a una visita alla coppia James Stevenson e Matilda Coxe
Stevenson nel Nuovo Messico, nel 1884. Matilda aveva appena
pubblicato il suo primo lavoro, Religious Life of the Zuñi Child, nel
rapporto annuale del Bureau of American Ethnology, frutto di anni di
osservazione della vita domestica degli Zuñi e in particolare di ruoli,
doveri e rituali delle donne e dei bambini. Se vi è un’opera che segna
l’inizio dell’antropologia di genere, questa è lo studio di Matilda Coxe
Stevenson sulla vita religiosa dei bambini Zuñi.
Edward Tylor si rese conto che Matilda stava aprendo un ambito
innovatore degli studi antropologici grazie alla percezione femminile
sul mondo delle donne e dei bambini. Come scriverà più di cento anni
dopo Parezo, essa fu la prima etnologa americana a considerare i
bambini e le donne «worthy of notice» (Parezo 1989: 41).
Pur evitando di riconoscere alle donne antropologhe una loro
autonomia, Tylor si convinse che un antropologo maschio avrebbe
potuto ottenere i migliori risultati lavorando in coppia con una moglie
sufficientemente intelligente e collaborativa:
in effetti metà della ricerca sembra competere a lei, tanto vi è da imparare
attraverso le donne della tribù, che agli uomini non sarà svelata facilmente7.

In altri termini, l’antropologia aveva bisogno delle donne, ma il loro


sostegno era visto da Tylor come subalterno. Tylor e gli altri
antropologi maschi pensavano (in conformità con le idee dell’era
vittoriana) che l’approccio maschile era quello “oggettivo”, “razionale”,
capace di produrre grandi teorie e sintesi, mentre le donne, con la loro
natura “emotiva” e “irrazionale”, nonché “soggettiva”, sarebbero state
preziose nella raccolta di osservazioni, dati e materiali, ma non
avrebbero potuto produrre studi di alto livello. In altri termini,
avrebbero avuto un ruolo di assistenti e segretarie.
Non era questo, invece, il punto di vista delle fondatrici della WASA,
che avevano voluto l’associazione anche come strumento di
riconoscimento del loro lavoro di fronte ai colleghi maschi. Come già
sottolineato, queste studiose, a partire da Matilda Coxe Stevenson,
erano anche femministe, e rivendicavano l’uguaglianza tra uomini e
donne. Non a caso, espressero nello statuto dell’associazione il loro
rifiuto dello stereotipo relativo all’emozionalità femminile: per statuto
l’associazione aveva lo scopo di offrire un luogo per tutte le donne,
«clear in thought, logical in mental processes, exact in expressions and
earnest in the search for truth», che avrebbero contribuito
all’antropologia ed elevato lo statuto femminile nella scienza8.
Per prima Matilda Coxe Stevenson si riconosceva in questa figura di
studiosa dal pensiero chiaro, logica nei processi mentali, esatta nelle
espressioni e onesta nella ricerca della verità. Se aveva fornito a Tylor
il modello della moglie intelligente e collaborativa dell’antropologo,
essa non subordinava certo la sua ricerca a quella del marito. Dopo il
primo studio sulla vita religiosa dei bambini, Matilda pubblicò un
secondo importante articolo sulle religioni degli Zuñi sulla rivista
«Science» nel marzo 1888. Nel luglio dello stesso anno, in seguito alla
morte del marito, Matilda divenne la prima donna a essere assunta tra
il personale del BAE, posizione che occuperà fino alla fine della vita.
Ricordiamo, en passant, che essa fu sempre pagata meno dei suoi
colleghi maschi!
Nel 1889 Matilda iniziò una serie di studi su un’altra tribù Pueblo del
Nuovo Messico, gli Zia Pueblo, ma gli Zuñi rimasero il suo interesse
principale. Negli anni di lavoro di campo aveva sviluppato un’ottima
relazione con loro, che consentì una conoscenza approfondita dei loro
usi e costumi. I risultati delle sue ricerche furono raccolti nella
monografia The Zuñi Indians: Their Mythology, Esoteric Fraternities,
and Ceremonies, pubblicati nel 23° rapporto annuale del BEA, nel
1901-02. Nel 30° rapporto del BEA (1908-09), pubblicò poi
Ethnobotany of the Zuñi Indians. Scrisse anche articoli per «American
Anthropologist» e altre riviste, sempre sugli Zuñi nonché sulle tribù
Taos e Tewa (anch’essi Pueblo). Il suo lavoro fu infine ampiamente
riconosciuto anche dal mondo accademico maschile: nel 1891 fu eletta
membro della Anthropological Society of Washington, e
successivamente dell’American Association for the Advancement of
Science, della National Society of Fine Arts e della National Academy
of Sciences.

Alice Cunningham Fletcher


Pioniera nello sviluppo della disciplina antropologica negli Stati Uniti
fu anche Alice Cunningham Fletcher (1838-1923). Se Matilda Coxe
Stevenson iniziò il suo lavoro antropologico accanto al marito, secondo
il “modello” auspicato da Tylor, Alice Fletcher condusse tutta la sua
carriera da single woman – e non contrasse mai matrimonio. Oltre ad
aver partecipato ai movimenti femministi in gioventù, Fletcher
s’impegnò nella difesa delle popolazioni native nordamericane,
cercando di favorirne l’integrazione nella società con una serie di
politiche (tra cui l’accesso alla proprietà della terra). Fletcher
rappresenta un caso quasi unico di antropologa che cercò di tradurre
le sue idee nella pratica politica, accettando di gestire un programma
governativo di assegnazione delle terre alla popolazione Omaha e ai
Nasi Forati9.
Nata a Cuba nel 1838 da genitori originari del New England, Fletcher
crebbe a New York. Studiò nella prestigiosa Brooklyn Female
Academy, un’istituzione che si prefiggeva il compito di fornire
un’educazione di primo livello alle figlie delle famiglie dell’élite. Non si
sa molto della sua giovinezza, se non che intorno al 1870 Alice era
un’attivista nei movimenti femministi e suffragisti della città di New
York.
Il suo interesse per l’archeologia e l’etnologia si manifestò verso la
fine degli anni Settanta, quando iniziò a studiare archeologia con
Frederic Ward Putnam, direttore del Peabody Museum of Archaeology
and Ethnology dell’Università di Harvard. Nel 1886 faceva parte del
personale del museo, ma, probabilmente discriminata in quanto
donna, non riuscì a ottenere un posto stabile. Il suo interesse per
l’archeologia – assieme all’incontro casuale con Suzette “Bright Eyes”
La Flesche10, figlia di un capo tribù Omaha e divenuta insegnante in
seguito all’istruzione impartitale alla missione della riserva – la spinse
a interessarsi alle popolazioni native. Alice e Suzette si conobbero nel
1879, mentre quest’ultima viaggiava nell’Est degli Stati Uniti, tenendo
conferenze per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti degli
Omaha, in particolare riguardo al possesso della terra.
Alice Fletcher iniziò il suo lavoro di campo all’Ovest, partecipando a
una missione presso le tribù delle grandi pianure (Nebraska e South
Dakota) nel 1881. La sua ricerca si concentrò sugli Omaha del
Nebraska, tribù alla quale appartenevano Suzette La Flesche e il suo
fratellastro Francis La Flesche, che poi divenne traduttore,
informatore e infine figlio adottivo di Alice. Fu particolarmente
affascinata dalla musica e dalle danze, specializzandosi in
etnomusicologia. Celeberrime le pagine nelle quali descrive i rituali
dedicati alle pipe e i movimenti di danza che li accompagnano
(Cummins Miller 2007: 151-154).
Con gli Omaha, che rimasero il suo principale interesse, Alice visse a
lungo; nel corso degli anni studiò anche altre popolazioni delle grandi
pianure ed ebbe contatti con i Nasi Forati in quanto rappresentante
del governo per il programma di assegnazione delle terre. La sua opera
più importante è The Omaha Tribe (1911), scritta con la collaborazione
di Francis La Flesche, divenuto anch’egli antropologo11.
Dal punto di vista antropologico, l’importanza del lavoro di Alice
Fletcher risiede nell’applicazione del rigore scientifico dell’archeologia
all’ambito etnologico. Le sue osservazioni sulla vita delle tribù tendono
ad andare oltre il livello puramente descrittivo e impressionistico,
nello sforzo di categorizzare gli aspetti specifici delle culture native e
delle loro pratiche economiche. Come la maggior parte degli
antropologi del suo tempo, Alice Fletcher condivideva la teoria
evoluzionista, e riteneva quindi che tutte le culture seguissero un
percorso unilineare dallo stato selvaggio alla civiltà e che, di
conseguenza, i Nativi sarebbero diventati tanto più “civili” quanto più
avessero imitato o seguito il modello della cultura dei “bianchi”. Sulla
base di queste teorie, Alice propugnava una politica che garantisse ai
Nativi la proprietà privata dividendo la terra in piccole fattorie – sul
modello dell’organizzazione della proprietà presso i “bianchi”, e
sostenne con forza lo Omaha Allotment Act del 1882 e il General
Allotment Act del 1887 promossi dal governo federale (torneremo
sull’argomento nel prossimo paragrafo).
Assunta dal governo per rendere operativa questa riforma presso gli
Omaha e poi imporla ai Nasi Forati, per alcuni anni Alice ebbe poco
tempo da dedicare allo studio e alle pubblicazioni. Nel 1890, grazie al
finanziamento di un privato, ottenne una cattedra al Peabody Museum
of Archaeology and Ethnology. Poté così dedicarsi a tempo pieno alla
ricerca antropologica, pubblicando un numero impressionante di
articoli e libri (alcuni in collaborazione con Francis La Flesche) che le
valsero importanti riconoscimenti accademici. Al momento della sua
morte nel 1923, Alice era stata vicepresidente dell’American
Association for the Advancement of Science, membro fondatore
dell’American Anthropological Association, e presidente dell’American
Association of Folklore.

Antropologia e impegno sociale: la contraddittoria vicenda


dell’assegnazione delle terre
Soffermiamoci ora sull’impegno di Fletcher per l’integrazione dei
Nativi nella società mainstream americana, sulla base delle teorie
antropologiche evoluzioniste dominanti all’epoca. Per Fletcher l’unico
modo per gli Omaha o per i Nasi Forati di uscire dalla condizione di
miseria in cui versavano era l’assimilazione ai modelli dei “bianchi” –
la proprietà della terra e la fattoria a gestione familiare ne erano lo
strumento.
Fletcher divenne dunque un’influente sostenitrice della divisione
delle proprietà terriere tribali in singoli appezzamenti individuali. Nel
1882, il Bureau of Indian Affairs la assunse per realizzare un
censimento di tutte le terre indiane per verificarne l’idoneità delle
assegnazioni. Nel corso dello stesso anno fu assunta per gestire
l’aggiudicazione delle terre degli Omaha. Dopo il passaggio General
Allotment Act (conosciuto anche come Dawes Act) nel 1887, che
prevedeva l’eventuale scioglimento di tutte le riserve indiane, Fletcher
gestì la distribuzione di alcune terre rimanenti ai Nasi Forati12.
Per Fletcher, come per gli altri sostenitori di questa politica, la
concessione delle terre sarebbe stata la panacea contro la miseria dei
Nativi. Secondo loro, le terre tribali ostacolavano i progressi economici
che i contadini bianchi ottenevano, perché mancavano incentivi
individuali per lavorare e mantenere le terre fertili. Inoltre, Fletcher e
gli altri riformatori ritenevano che, finché le terre indiane fossero
rimaste proprietà comuni, i vicini bianchi non ne avrebbero mai
rispettato i confini. La triste storia di espropriazione che aveva avuto
inizio nelle colonie dell’Est per spingersi fino alla frontiera avrebbe
continuato a ripetersi e sarebbe terminata solo con l’estinzione degli
stessi Nativi. Il diritto di proprietà individuale per le singole famiglie
avrebbe impedito questo esito.
Le idee dei riformatori si scontrarono però con l’ostilità dei Nativi,
che in maggioranza giudicarono l’assegnazione come un’imposizione
forzata dell’ennesima pratica culturale aliena e un altro modo di
derubarli della loro terra. Essi avevano peraltro capito molto meglio
dei loro presunti filantropi che molte delle loro terre erano
semplicemente troppo aride per sopportare la pratica dell’agricoltura
tradizionale. Rappresentanti dei Nativi manifestarono la loro
opposizione con pressioni e petizioni al Congresso, rifiutarono di
partecipare alle riunioni in cui si procedeva con le assegnazioni, e
ripiegarono piuttosto sulle terre adiacenti per ricostituire le loro
proprietà comuni (anche se su scala più piccola). Un gruppo di
riformatori, soprattutto membri della National Indian Defense
Association (NIDA), si rese conto degli errori del progetto e, alla fine,
sostenne i Nativi nella loro lotta – perlatro infruttuosa – contro il
Dawes Act. La leadership della NIDA riteneva infatti che le enormi
concentrazioni di ricchezza derivanti dall’industrializzazione stessero
minando l’uguaglianza politica negli Stati Uniti, e che
l’individualizzazione della piccola proprietà avrebbe ulteriormente
impoverito i Nativi.
Purtroppo, le fosche previsioni degli oppositori alle assegnazioni si
avverarono pienamente. A dispetto delle dichiarazioni pubbliche e
delle migliori intenzioni di riformatori come Alice Fletcher, la riforma
si rivelò un disastro. Tra l’approvazione del Dawes Act nel 1887 e la
sua abrogazione nel quadro del New Deal nel 1934, l’assegnazione
privò sistematicamente i Nativi di molti dei territori loro concessi. La
cessione a titolo definitivo di terre in “eccesso” – parti di riserve
ancora disponibili dopo le assegnazioni – e la successiva vendita delle
terre assegnate dai Nativi stessi (perché troppo povere per permettere
la sussistenza delle famiglie) ridusse la proprietà complessiva di terre
da parte delle popolazioni native da circa 150 milioni di ettari prima
del Dawes Act a 104 milioni di acri nel 1890, poi a 77 milioni entro il
1900, e a 48 milioni dal 1934. A quel punto i due terzi della
popolazione nativa era o completamente priva di terra di proprietà o
non ne possedeva abbastanza per trarne sussistenza.
Per ironia della sorte, le misure che Alice Fletcher aveva creduto
benefiche complicarono ulteriormente la situazione dei Nativi,
ostacolandoli nel loro sforzo teso ad adeguare le proprie risorse
territoriali alle opportunità offerte da una società sempre più
industrializzata mantenendo un’impostazione collettiva, piuttosto che
frazionandola in singole imprese.

Conclusioni
In un’epoca in cui in molte professioni prevaleva la riluttanza ad
accettare le donne, nel settore dell’antropologia esponenti di rilievo
come Tylor erano invece convinti che le donne fossero necessarie per
ottenere dati completi e accurati. Questa convinzione ebbe come
conseguenza la partecipazione allo sviluppo dell’antropologia culturale
da parte delle donne, che spesso manifestavano anche una chiara
adesione alle idee femministe.
Coscienti dell’importanza delle donne nell’antropologia, ma anche
delle difficoltà a essere considerate alla pari con i colleghi maschi, le
prime antropologhe si riunirono in associazione fondando la WASA. La
loro battaglia per il riconoscimento ebbe successo solo in parte: le
iscritte dell’associazione, che arriverà a contare una cinquantina di
membri, furono infine invitate a far parte dell’American
Anthropological Association nel 1898.
Il destino delle prime studiose non è peraltro omogeneo: se Matilda e
Alice otterranno notevoli riconoscimenti, altre donne saranno
dimenticate e non riusciranno a penetrare nel mondo accademico,
come raccontato da Nancy Parezo nel volume Hidden Scholars:
Women anthropologists and the Native American Southwest (Parezo
1993a). Ma la strada era aperta, per una nuova generazione di donne
pronta a prendere parte direttamente a una nuova fase della storia
della disciplina.
Possiamo concordare con Nancy Parezo che l’antropologia
femminista nacque nell’Ovest americano con il lavoro di Matilda Coxe
Stevenson e di Alice Cunningham Fletcher. Le antropologhe di questa
prima generazione portarono nell’antropologia caratteristiche
specifiche: mostravano uno sguardo più attento alle donne e ai
bambini e avevano un atteggiamento particolarmente empatico nei
confronti delle popolazioni native, con le quali svilupparono forti
legami di affinità. Pur tuttavia, il caso delle assegnazioni di terre ai
Nativi, riforma per la quale Alice Fletcher s’impegnò a fondo
personalmente, mostra quanto fosse difficile, anche per
un’antropologa femminista, sottrarsi alla visione dominante – in
questo caso evoluzionista e incentrata sulla superiorità della civiltà
“bianca” occidentale.

1 Cfr. http://www.historytoday.com/martin-pugh/womens-movement (ultima


consultazione 8.3.2016).
2 Per approfondimenti relativi alla Seneca Falls Convention cfr.
http://www.historynet.com/seneca-falls-convention (ultima consultazione
8.3.2016).
3 http://ecssba.rutgers.edu/docs/seneca.html (ultima consultazione 8.3.2016;

trad. dell’autrice).
4 Cummins Miller 2007: 35 (trad. dell’autrice).
5 Tra queste donne, soltanto Matilda Coxe Stevenson e Alice Fletcher fecero
lavoro di campo come antropologhe culturali nell’Ovest americano. Sara Yorke
Stevenson (1847-1921), attivista per i diritti delle donne, fu principalmente
archeologa e non fece mai lavoro di campo. Zelia Maria Magdalena Nuttall (1857-
1933), nata a San Francisco ma di origine messicana, fu principalmente archeologa,
specializzata nei manoscritti precolombiani delle culture preatzeche. È considerata
la prima antropologa messicana con Isabel Ramírez Castañeda (1881-1943). Lucy
Wilson (1864-1937), insegnante con un dottorato in Geografia, studiò i metodi
educativi in Europa e in Sud America. Anita McGee (1853-1937), geologa e
paleoantropologa, condusse diverse spedizioni nello Iowa.
6 Gli indiani Pueblo del Sudovest sono una delle culture native più antiche del
Nordamerica (risalente, secondo gli archeologi, a 7000 anni fa). Il loro nome è
spagnolo e sta per “villaggio in muratura”. Per migliaia di anni, i Pueblo hanno
vissuto secondo uno stile di vita basato su caccia e agricoltura e costruendo
strutture abitative in adobe – una combinazione di terra mista a paglia e acqua
versata in forme o trasformata in mattoni seccati al sole. La stragrande
maggioranza delle tribù Pueblo era organizzato in clan, e in molte di esse, tra cui
Hopi, Zuñi, Keres e Jemez, la discendenza è matrilineare.
7 Lurie 1966: 34 (trad. dell’autrice).
8 Cfr. Parezo 1993a: 4.
9 I Nasi Forati, anche noti col nome francese di Nez Percé, sono una tribù di
Nativi che abitava nella zona centrale dell’odierno stato dello Idaho e in una parte
degli stati di Washington e Oregon.
10 Il nome omaha di Suzette La Flesche Tibbles era Inshata Theumba, ovvero
“Occhi Lucenti”.
11 Francis aveva vent’anni meno di Alice, che lo adottò come figlio. Secondo
Cummins Miller la relazione tra Alice Fletcher e Francis La Fleche fu, comunque,
complessa: «Francis La Fleche, di vent’anni più giovane, divenne l’interprete, il
coautore, il compagno di Fletcher. Lavorarono insieme, pubblicarono insieme, e
vissero insieme a Washington. La loro fu una relazione completa – più che tra
madre e figlio –, eppure non fu mai un matrimonio. Per mantenere il decoro,
furono costretti a vivere e a viaggiare sempre con una dama di compagnia»
(Cummins Miller 2007: 149; trad. dell’autrice).
12 Il programma di assegnazione condusse Fletcher dai Nasi Forati a Lapwai, in
Idaho, nel 1889. Fletcher incontrò una notevole resistenza a Lapwai, dove il celebre
capo Chief Joseph rifiutò qualsiasi ruolo nei suoi piani di assegnazione. Tuttavia,
Alice Fletcher perseverò, tornando ogni primavera per parecchi anni a completare
la sua indagine e la divisione delle terre tribali.
4. LA CRITICA ALL’EVOLUZIONISMO: BOASIANI NEGLI STATI
UNITI E FUNZIONALISTI IN GRAN BRETAGNA

Franz Boas: dall’evoluzionismo al particolarismo e al relativismo


culturale
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’antropologia attraversa una
profonda revisione teorica e metodologica. L’evoluzionismo fino ad
allora predominante1 è messo in discussione, negli Stati Uniti, da
Franz Boas e dalla corrente di pensiero che a lui farà capo; in Gran
Bretagna, da Alfred Reginald Radcliffe-Brown e Bronisław Malinowski
(di origine polacca, ma operante essenzialmente in Gran Bretagna),
rappresentanti del “funzionalismo”. Nella “nuova antropologia”, del
lavoro di Morgan e Tylor viene acquisita soltanto la parte empirica,
non i presupporti teorici.
Tra le principali personalità all’origine di questa trasformazione
figura appunto Franz Boas (1858-1942), che rappresenta anche, con la
sua allieva Margaret Mead, la figura più significativa dell’antropologia
americana del XX secolo. Tedesco di origine ebraica, studiò a
Heidelberg, Bonn e Kiel, laureandosi in fisica e matematica, per
passare poi alla geografia. Boas, pertanto, non ebbe una formazione
iniziale in antropologia, materia che nella Germania dell’epoca era
intrisa d’idee razziste e tesa a giustificare il colonialismo europeo
(McGowan 2011)2.
In quanto geografo Boas si unì nel 1883 a una spedizione nella Terra
di Baffin, nell’Artico canadese3. Nel corso del viaggio, gli capitò di
notare che gli Eschimesi utilizzavano una diversa scala dei colori, che
influenzava la loro percezione del colore dell’acqua. Affascinato dalla
scoperta, abbandonò la geografia per l’etnografia. Melville Herskovits,
allievo di Boas (1953: 9-10) ritenne quest’episodio leggendario, ma
ammise che Boas non fece mai nulla per smentirlo. Quello che è certo
è che Boas fu affascinato dalla vita degli Eschimesi, come racconta lui
stesso nel suo primo rapporto di viaggio (1884) e, successivamente
nella monografia The Central Eskimo (1888)4:
Così ho iniziato seriamente a fare i miei studi etnografici […] passavo ogni notte
con i nativi che mi spiegavano la configurazione del terreno […] mi raccontavano
storie lontane trasmesse loro dagli antenati, cantavano vecchie canzoni su antiche
melodie monotone, e li ho visti giocare ai vecchi giochi, con i quali accorciano le
lunghe notti d’inverno al buio5.

Nel 1886, Boas iniziò una ricerca di campo presso una popolazione di
Nativi della Columbia Britannica, i Kwakiutl. Nel 1889 ottenne la
prima cattedra negli Stati Uniti alla Clark University; dopo alcuni anni
passò alla Columbia University, dove nel 1899 diventò il primo
professore di antropologia, posizione che tenne per 37 anni. Franz
Boas ha esercitato un’enorme influenza nella definizione del quadro
epistemologico dell’antropologia americana e mondiale. A lui si deve,
per esempio, la suddivisione dell’antropologia in quattro sottocampi –
linguistica, antropologia biologica, antropologia archeologica e
antropologia culturale –, divisione che sussiste a tutt’oggi in molte
università nordamericane. A lui si devono alcune delle idee che sono
alla base della ricerca antropologica, come il principio metodologico
del relativismo culturale.
Le critiche sollevate da Boas, e dai numerosi antropologi che
seguirono i suoi insegnamenti, nei confronti delle teorie di Morgan e
Tylor prendono spunto dal presupposto che “le culture” (Boas sposta
l’attenzione dall’idea generale di cultura alle culture particolari a ogni
società) sono troppo complesse per essere valutate in base a comuni
“leggi” evolutive. Le società e le culture vanno comprese attraverso le
loro storie particolari. Da qui l’idea del “particolarismo storico” – ogni
cultura ha una sua particolare e unica storia che non è governata da
leggi universali –, idea centrale nell’approccio boasiano allo studio
delle culture, in aperto contrasto con l’idea evolutiva. Nella ricerca
antropologica, i tratti culturali non possono essere spiegati attraverso
riferimenti a tendenze evolutive generali, ma in termini di contesti
culturali specifici. Ogni cultura ha vissuto una storia diversa e unica,
anche nei casi in cui sono stati elaborati aspetti culturali simili.
Al particolarismo storico va associato il concetto di “diffusionismo”
rapportato a quello di “creazione indipendente”. Le somiglianze tra le
culture possono essere la conseguenza della diffusione di un’idea da
una cultura all’altra. L’invenzione indipendente si verifica invece
quando la cultura produce una nuova idea, senza aver conosciuto
alcuna influenza da un’altra cultura. Per esempio, l’agricoltura si è
sviluppata in diversi continenti (America e Asia) allo stesso tempo;
dato che non esistevano comunicazioni transoceaniche all’epoca, si
può dire che si è sviluppata nelle due aree indipendentemente l’una
dall’altra.
D’altro canto, molte abitudini e/o rituali possono essere trasmessi
per diffusione culturale, il che si verifica quando tribù o popoli diversi
si incontrano o quando una cultura sottomette l’altra, evento che di
solito si traduce nell’obbligo, per i dominati, di conformarsi alle
credenze e tradizioni culturali dei dominatori. Boas sostenne che è
comunque necessario avere delle prove empiriche di contatti storici tra
culture prima di poter far prevalere la teoria della diffusione su quella
dell’invenzione indipendente.
Particolarismo storico e diffusionismo vanno di pari passo: tratti
simili tra diverse culture possono essersi diffusi attraverso
l’interazione tra loro, ma, anche se alcuni tratti sono simili, ogni
cultura si è poi sviluppata attraverso una storia unica.
Un altro principio introdotto da Boas nell’antropologia è il
“relativismo culturale”: l’idea che le attività o le credenze di una
persona o di un gruppo debbano essere intese nei termini e valori della
propria cultura, non di quelli di qualcun altro. Va precisato che il
relativismo culturale introdotto da Boas non va confuso con il
relativismo etico, ovvero l’idea che non esistono norme morali o etiche
oggettive e assolute.
Il relativismo culturale introdotto da Boas è semplicemente un
metodo d’indagine antropologica secondo il quale il modo migliore per
capire i motivi per cui una cultura è come è (o perché i membri di una
società fanno le cose in un certo modo) è quello di utilizzare un
approccio emic6 (o manifestare la comprensione di un insider –
qualcuno che sia interno al gruppo). Il relativismo culturale come
metodo di conoscenza di altre società è il contrario dell’etnocentrismo.
Accanto all’approccio emic vi è quello etic, che rappresenta il punto di
vista scientifico dell’antropologo:
L’approccio etico (in senso scientifico) sposta l’attenzione dalle osservazioni,
categorie, spiegazioni e interpretazioni dei locali a quelle dell’antropologo.
L’approccio etico si rende conto che i membri di una cultura spesso sono troppo
coinvolti in quello che stanno facendo per interpretare le loro culture in modo
imparziale. Quando si utilizza l’approccio etico, l’etnografo sottolinea quello che
lui o lei considera importante7.

L’approccio etico non si riferisce tanto al processo di raccolta dei


dati, ma all’analisi dei dati e alla scrittura dell’etnografia.
Boas condusse un vastissimo lavoro di campo presso diverse
popolazioni. Egli non inventò il metodo dell’osservazione partecipante
in etnografia, già praticato da Morgan, Tylor, Coxe Stevenson e
Fletcher, ma tentò di raggiungere un alto livello scientifico, insistendo
sul fatto che la teoria deve sempre essere basata su dati empirici
oggettivi. Sostenne che il lavoro di campo deve essere parte di ogni
formazione antropologica e che gli studenti devono passare almeno un
anno con le popolazioni che studiano, vivendo tra di loro nella
massima vicinanza ed apprendendo a comunicare nella loro lingua.
Questo fu appunto il modello seguito da Margaret Mead nelle isole
Samoa.
Le ricerche di Boas avevano come oggetto la parentela, l’arte e il
mito. Quest’ultimo era legato al suo interesse per le lingue (Boas
studiò le lingue dei Nativi americani), giacché egli considerava che i
migliori dati linguistici potevano essere raccolti attraverso la
letteratura orale delle popolazioni. Pur essendo principalmente un
antropologo culturale, Boas contribuì anche all’antropologia fisica e fu
un pioniere nell’applicazione di metodi statistici agli studi biometrici.

Franz Boas, campione dei diritti umani e dell’antirazzismo


Ritornando sulla differenza tra il relativismo culturale e il relativismo
etico ricordiamo che per Boas il tentativo di avvicinarsi ad altri sistemi
culturali con oggettività spassionata (il relativismo culturale) non
implicava il disimpegno morale (relativismo etico), ma costituiva il
tentativo di applicare un’oggettività scientifica allo studio delle culture
umane. Boas, che sostenne il primo, dimostrò, con la sua vita, di
essere agli antipodi del secondo.
Ritenendo che gli scienziati abbiano un obbligo nei confronti della
verità e il dovere di esprimersi sui problemi politici e sociali, Boas fu
un attivista per la democrazia e i diritti umani, incompatibili con le
teorie razziste che, all’epoca, predominavano in Europa ed erano assai
diffuse negli Stati Uniti. Con la sua strenua lotta al razzismo, Boas ha
enormemente contribuito al dibattito sul tema negli Stati Uniti nei
primi anni del XX secolo.
Nel 1911 Boas pubblicò The Mind of Primitive Man, che raccoglie una
serie di conferenze sulla cultura e la razza: le riflessioni di Boas sul
relativismo culturale sfatano le idee allora correnti che suggerivano la
superiorità della civiltà occidentale sulle società meno sviluppate in
base a criteri razziali. Negli anni Venti il libro di Boas divenne il punto
di riferimento per coloro che negli Stati Uniti si opponevano a nuove
restrizioni in materia di immigrazione, sulla base di presunte
differenze razziali. All’estremo opposto, nel 1930, The Mind of
Primitive Man fu bruciato dai nazisti nei roghi dei libri. L’università
tedesca di Kiel annullò il dottorato di ricerca di Boas.
Nel 1937, Boas ampliò e aggiornò The Mind of Primitive Man e nel
1940 pubblicò Race, Language and Culture. Dopo aver lasciato
l’insegnamento universitario per motivi d’età, nel 1936 – a quasi
ottant’anni – e fino alla fine della sua vita, Boas continuò a scrivere e a
tenere conferenze per contribuire alla lotta contro la minaccia
rappresentata dal nazismo in Germania e dalle idee di Hitler su una
“razza padrona”. Le sue convinzioni sul razzismo furono espresse in
diversi articoli pubblicati su note riviste scientifiche, alcuni dei quali
sono stati raccolti dopo la sua morte in Race and Democratic Society
(1945).
Boas combatté con passione contro i pregiudizi che consideravano i
popoli di colore (e in particolare gli afroamericani) come “primitivi” e,
biologicamente e culturalmente, inferiori ai bianchi. Alla sua scuola si
formarono alcuni antropologi afroamericani, tra cui Zora Neale
Hurston (1891-1960), che divenne una nota studiosa del folklore
afroamericano, caraibico e latinoamericano, nonché scrittrice e
attivista per i diritti civili8.
Col suo rifiuto di ogni determinismo biologico, Boas non poteva che
schierarsi a favore dell’uguaglianza tra uomini e donne. Ebbe molte
allieve donne, che continuarono le sue ricerche e le sue battaglie: le più
note, il cui percorso scientifico e umano è oggetto di questo volume,
furono Elsie Worthington Clews Parsons, Ruth Benedict e Margaret
Mead, ma accanto a loro operarono antropologhe meno note, come la
già menzionata Zora Neale Hurston, o Martha Warren Beckwith, che
rivoluzionò completamente l’idea di “folklore”, o Ella Cara Deloria, di
origine sioux, che lavorò con Boas alla Columbia University dal 19299.
Oltre alle antropologhe menzionate, Boas ha ispirato e insegnato ad
antropologi famosi come Alfred Kroeber, Edward Sapir10, Melville
Jean Herskovits, Ashley Montagu.

Elsie Clews Parsons: femminista e antropologa


Elsie Worthington Clews Parsons (1875-1941), prima allieva donna di
Franz Boas, fu figura importantissima per l’antropologia femminista
(Rosenberg 1982: 166). Nata da una ricca famiglia di New York e
moglie di un noto avvocato (Herbert Parsons), prima di consacrarsi
agli studi antropologici Elsie fu un’attivista femminista, di formazione
sociologica11, autrice di vari articoli e saggi critici sulla famiglia e sui
ruoli maschili e femminili. Alcuni biografi affermano che l’opera di
Parsons può essere divisa in due parti: un periodo iniziale come
sociologa e sostenitrice delle idee femministe, un secondo periodo
come antropologa. In realtà, i due periodi non sono separati dal punto
di vista della sua ricerca intellettuale: la precoce adesione alle idee
femministe la spinse a interessarsi ai ruoli di genere (all’epoca definiti
come “sessuali”, oppure “maschili e femminili”) all’interno della
famiglia, e a criticarli con argomenti spesso riferiti a un approccio
“transculturale”, prendendo come esempio società non occidentali.
Come si possono considerare “naturali” o “universali” i nostri ruoli
maschili e femminili, quando nelle società “primitive” essi sono
diversi? (Chambers 1973). Da questo interrogativo – attraversato da
un certo relativismo culturale, che Franz Boas stava elaborando dal
punto di vista metodologico – sorse l’interesse per l’antropologia.
Frutto dei suoi studi e del suo insegnamento nel campo dei ruoli
familiari e sessuali alla Columbia University fu la monografia The
Family (1906). Parsons sosteneva che le rigide aspettative rispetto ai
ruoli di genere nella società hanno un effetto negativo sulla
realizzazione degli individui. Le donne – costrette a vivere in un
mondo patriarcale – ne sono le principali vittime, avendo poche
possibilità di diventare qualcosa di diverso da madri, mogli e, al
massimo, insegnanti, ma anche gli uomini ne soffrono.
Parsons non considerava pertanto l’oppressione rappresentata dai
ruoli di genere come un problema esclusivamente femminile. L’effetto
soffocante che le aspettative fondate su questi stereotipi provocano
colpisce anche gli uomini. La battaglia femminista può perciò essere
utile anche ai maschi.
Le idee espresse da Elsie Parsons erano decisamente all’avanguardia
per i tempi, e furono percepite come troppo radicali. Le proposte del
suo libro – il matrimonio “di prova”, il divorzio consensuale, l’accesso
a una contraccezione affidabile – furono attaccate dal clero e dalla
stampa conservatrice. Nonostante le critiche, Elsie non rinunciò alle
sue idee femministe e le ripropose in Religious Chastity (1913)
pubblicato sotto uno pseudonimo12, The Old-Fashioned Woman
(1913), Fear and Conventionality (1914), Social Freedom (1915) e
Social Rule (1916). Nel Journal of a Feminist, pubblicato dopo la sua
morte, si leggono le sue convinte asserzioni in favore della liberazione
delle donne, dell’uguaglianza di genere e della libera espressione delle
individualità nella società. Il lavoro di Elsie Parsons contribuì
notevolmente alla liberalizzazione della società americana e
all’apertura di nuove opportunità per le donne13.
Elsie Parsons iniziò una corrispondenza con Boas nel 1907: il tema
dello scambio tra i due studiosi riguardò inzialmente l’effetto delle
convenzioni sociali sulla libera espressione dell’individualità. Elsie si
era avvicinata all’antropologia a partire dalla convinzione che i dati
psicologici e filosofici non fossero sufficienti per spiegare le relazioni
tra la cultura e la personalità e che fossero necessari approfonditi studi
empirici che includessero fatti storici ed etnografici. Nel 1915 sondò il
terreno come antropologa, nel Sudovest americano, territorio che le
era ben noto (aveva lungamente viaggiato in Arizona e Nuovo Messico
con il marito nel 1910). Una delle questioni che la intrigavano
maggiormente era il fatto che le culture Pueblo richiedessero ai
membri un livello di conformità più elevato rispetto all’individualista
cultura americana. Boas la raggiunse nel 1919 e insieme svolsero
lavoro di campo presso i Laguna, una delle tribù Pueblo. Boas studiò le
lingue native, in particolare la lingua keresan, parlata nel Nuovo
Messico. Nel 1928, Boas pubblicò i Keresan Texts, dedicandoli proprio
a Elsie Parsons.
Applicando la rigorosa metodologia di Franz Boas all’osservazione
delle tribù Pueblo, Parsons ne registrò nei minimi dettagli
l’organizzazione sociale, le pratiche religiose, e il folklore, da lei
ritenuto una chiave per comprendere la cultura. Le sue numerose
pubblicazioni – The Social Organization of the Tewa of New Mexico
(1929), Hopi and Zuñi Ceremonialism (1933), Pueblo Indian Religion
(1939) – furono considerate da Boas come l’opera più esaustiva su
questa popolazione14.
Elsie Parsons s’occupò successivamente dell’influenza della cultura
spagnola sulle culture dei Nativi americani. Le sue ultime etnografie –
Mitla: Town of the Souls (1936), Mitla: Città delle Anime (1936) e
Peguche (1945) – riguardano ricerche svolte in Messico e in Ecuador.
Spinta dal suo interesse per il folklore, Parsons condusse anche
ricerche sui racconti popolari afroamericani15 e caraibici. Viaggiò nelle
Isole Caroline, a Capo Verde e nei Caraibi, spesso finanziando lei
stessa studenti di antropologia che la aiutavano nella raccolta di
racconti e dati. Tra le sue pubblicazioni sul folklore ricordiamo
Folklore from the Cape Verde Islands (1923), Folklore of the Sea
Islands (1924), e Folklore of the Antilles (3 voll., 1933-43)16.
Sebbene criticata per le idee femministe espresse nei suoi lavori
iniziali e poi difese per tutta la vita17, Elsie Clews Parsons percorse una
brillante carriera accademica, ed ebbe tra le sue allieve Ruth Benedict.
Ricoprì la carica di presidente della American Folklore Society (1918-
20), della American Ethnological Society (1923-25), e della American
Anthropological Association (1940-41). Fu inoltre editrice del
«Journal of American Folklore» dal 1918 fino alla sua morte.
Elsie Parsons è stata senz’altro una pioniera dell’antropologia
femminista: ha utilizzato la comparazione tra le culture per
documentare le diverse forme di costrizioni che i ruoli di genere
impongono (Lamphere 1989), individuando alcuni elementi universali
nella posizione inferiore delle donne; ha enfatizzato l’importanza della
libertà di scelta individuale rispetto ai ruoli imposti, distinguendo tra
relazioni sessuali libere e doveri parentali (da qui la sua idea di
“matrimonio di prova”; Deacon 1992).
La figura di Elsie Parsons si situa all’incrocio tra due generazioni di
antropologhe: le pioniere, come Stevenson e Fletcher, che avevano
aperto nuove vie alla ricerca in merito a ciò che facevano e pensavano
le donne “primitive”, constatando empiricamente la variabilità
culturale dei ruoli sessuali e le diverse posizioni di potere delle donne.
Elsie Parsons utilizzò questi primi risultati per muovere la sua critica
ai ruoli maschili e femminili nella società americana e denunciarne
l’oppressività. Elsie Parsons non è ancora in grado di fare il passo
successivo, ovvero teorizzare il carattere culturalmente costruito dei
ruoli maschili e femminili, decostruendo la naturalità biologica.
Questo sarà il compito di una nuova generazione di antropologhe
nate alla fine del XIX secolo o al principio del XX: Margaret Mead, Ruth
Landes, Cora DuBois, Phyllis Mary Kaberry, che produrranno
monografie che descrivono le relazioni tra i sessi in diversi contesti
etnografici.
Tra di loro, la più conosciuta, Margaret Mead, anticiperà di
quarant’anni la distinzione analitica del sesso dal genere.

I funzionalisti: la parentela al centro


Franz Boas e i suoi allievi non furono i soli a criticare l’antropologia
evoluzionista teorizzata da Morgan e Tylor. I “padri dell’antropologia
culturale” furono al centro di un’altra sfida teorica e metodologica,
proveniente stavolta dalla Gran Bretagna, e portata avanti dalla
corrente funzionalista (detta anche struttural-funzionalista), i cui
principali rappresentanti furono Reginald Radcliffe-Brown (1881-
1955) e Bronisław Malinowski (1884-1942). Il termine “funzionalista”
deriva da “funzione”, nozione riferita a ogni pratica sociale considerata
nel suo rapporto con il mantenimento della “struttura” – ovvero un
sistema le cui parti “funzionano” per mantenere il tutto. I funzionalisti
pongono dunque al centro dei loro interessi e della loro ricerca la
struttura sociale – più che la cultura – ; abbandonato il paradigma
evoluzionista e la prospettiva storica, la struttura sociale va studiata e
compresa nel presente.
Corrente antropologica principalmente europea, il funzionalismo fu
influenzato dalla sociologia, in particolare dai lavori del sociologo
francese Émile Durkheim (1858-1917), che introdusse il concetto di
funzione come metodo per spiegare i fenomeni sociali, e di suo nipote
Marcel Mauss (1872-1950). Su Mauss – sociologo e storico delle
religioni che assorbì la nozione durkheimiana di funzione come
fenomeno sociale, considerato tra i fondatori dell’antropologia
culturale francese – e sulla sua importanza nella storia
dell’antropologia europea ritorneremo nel capitolo 6.
Fissando un nuovo quadro epistemologico per l’antropologia
culturale, anzi “sociale” (il nome che, come abbiamo ricordato
nell’introduzione, viene dato all’antropologia culturale nel Regno
Unito), i funzionalisti non si limitano a criticare l’evoluzionismo; essi
si distanziano anche con chiarezza dal diffusionismo e dal
particolarismo storico di Franz Boas18.
Radcliffe-Brown, il “padre” del funzionalismo, critica l’approccio
storico degli evoluzionisti e dei boasiani, affermando che
l’antropologia sociale non potrà mai ambire a ricostruire la storia dei
popoli senza scrittura. L’antropologia sociale non può dunque essere
che una scienza “sincronica” e deve rinunciare a ogni
pretesa“diacronica”. E poiché le ricostruzioni storiche, per quanto
importanti, sono frutto di congettura, gli antropologi, se vogliono
operare scientificamente, devono concentrarsi sui fenomeni sociali
attuali, considerandoli alla stregua di fatti naturali; devono studiare il
ruolo che determinate pratiche svolgono oggi nella vita delle società,
cercando di scoprire i principi strutturali alla base della struttura
sociale, mediante attività di ricerca, comparazione e verifica empirica.
Nel caso delle società non occidentali premoderne – cioè il principale
oggetto dell’antropologia sociale –, poiché la vita economica, politica e
religiosa è organizzata intorno alla parentela, i loro principi strutturali
andranno indagati attraverso lo studio dell’organizzazione della
parentela. In coerenza con la teoria funzionalista, Radcliffe-Brown ha
legato il suo nome allo studio dei sistemi di parentela.
Nel loro metodo di studio, i funzionalisti riprendono gli elementi
strutturali di ogni sistema di parentela, già individuati da Morgan:
discendenza, residenza e matrimonio. I sistemi di discendenza si
dividono in strutture unilineari, come la patrilinearità e la
matrilinearità, e sistemi bilaterali, nei quali i parenti dal lato paterno e
materno sono ugualmente importanti per i legami emozionali o il
trasferimento della proprietà o della ricchezza19. La residenza può
essere “uxorilocale”, o “matrilocale” (ci si stabilisce nel luogo di
residenza della moglie); “virilocale”, ovvero “patrilocale” (la famiglia
vive nella residenza della famiglia dello sposo); oppure “neolocale” (la
famiglia va a vivere in una nuova casa). Il matrimonio può essere
monogamico o poligamico.
L’importanza metodologica accordata alla comparazione per
individuare i principi strutturali ha stimolato i funzionalisti a studiare
un gran numero di popolazioni “primitive” diverse e a farlo senza i
preconcetti dell’approccio evoluzionista. Le loro ricerche etnografiche
hanno documentato nel dettaglio la vita e le strutture della parentela
di popoli un tempo del tutto sconosciuti – Trobriandesi, Nuer,
Azande… – e hanno evidenziato in modo inequivocabile che le idee
occidentali su famiglia e società non sono affatto universalmente
condivise.
Documentando la varietà delle forme di famiglia che si incontrano
nelle diverse società, e rifiutando la portata esplicativa di
considerazioni di natura psicologica nello studio della parentela,
poiché le istituzioni connesse con la parentela hanno la funzione di
assicurare la continuità della struttura sociale, i funzionalisti si
scontrarono con una teoria che all’inizio del XX secolo aveva fatto
irruzione nel pensiero occidentale, introducendo la nozione di
inconscio, il complesso d’Edipo, una nuova visione sulla natura della
sessualità, e proponendo una lettura del comportamento e
dell’evoluzione dell’uomo basata su principi universali: la psicoanalisi.

Boasiani e funzionalisti davanti alla psicoanalisi


Il potente edificio teorico costituito dalla psicoanalisi attraverso
l’opera del suo fondatore, Sigmund Freud, non poteva certo lasciare
indifferenti gli antropologi. La psicoanalisi affrontava, a modo suo, la
questione del passaggio dalla natura alla cultura, proponendo un
paradigma evoluzionista e riprendendo temi sviluppati
dall’antropologia come il tabù dell’incesto. Fu infatti principalmente il
testo del 1913 Totem e tabù. Somiglianze tra vita mentale dei selvaggi
e dei nevrotici, ampiamente ispirato dal già citato Il ramo d’oro di
Frazer, che attirò l’attenzione degli antropologi, non foss’altro per quel
sottotitolo che sembrava fatto apposta per irritare i boasiani, alfieri del
relativismo culturale, e i funzionalisti, convinti sostenitori
dell’esistenza di un pensiero “razionale”, finalizzato a conservare la
struttura sociale, anche presso i “primitivi”.
La tesi di Freud sulle origini del totemismo, del tabù dell’incesto e del
complesso di Edipo sono ampiamente note. Egli ipotizzava l’esistenza
di un’orda primitiva, il cui leader era il maschio più anziano, che
assunse per sé solo i diritti sessuali sulle donne del gruppo. Frustrati, i
figli uccisero il padre, lo mangiarono, ma sopraffatti dal senso di colpa
scelsero di rispettare i suoi ordini e di astenersi dalle relazioni sessuali
con le madri e le sorelle. Si scelsero quindi un totem in forma di
animale come padre simbolico sostitutivo e stabilirono che doveva
essere protetto durante il corso dell’anno e consumato solo nelle
occasioni rituali. Questo rituale totemico rinnovava il loro atto
originario e rinforzava la proibizione dell’incesto. Freud arrivò a
sostenere che tutte le culture avevano nella loro origine questo atto
fondativo.
Le tesi di Totem e tabù furono conosciute negli Stati Uniti dopo la
Prima guerra mondiale, quando Boas aveva già ampiamente
sottoposto a critica altre teorie che cercavano un’unica origine al
totemismo. Di fronte al lavoro di Freud, Boas reagì sostenendo che il
suo metodo era troppo unilaterale e non era di alcun aiuto per far
avanzare la comprensione dello sviluppo delle culture (Boas 1940:
288-289). L’approccio evoluzionista di Freud, lungo la linea del
passaggio dall’infanzia all’età adulta, era del tutto inaccettabile per il
particolarismo boasiano, come pure l’assimilazione dei “selvaggi” ai
nevrotici20.
Va però detto che, mentre rigettavano la psicoanalisi, Franz Boas e il
movimento dei suoi allievi21 manifestavano un crescente interesse per
la psicologia, interrogandosi sul rapporto tra le culture e gli individui
nella formazione delle personalità. L’interesse dei boasiani per la
psicologia si espresse peraltro, come vedremo nel prossimo capitolo
che si occupa precipuamente del movimento Cultura e personalità,
nella focalizzazione del ruolo della cultura nella formazione delle
personalità, con l’intento di rigettare l’idea di universali assoluti. Franz
Boas evidenzia l’importanza del rapporto tra la psicologia e
l’antropologia nella prefazione allo studio pioneristico di Margaret
Mead sull’adolescenza in Samoa (1928):

Nella nostra civiltà, l’individuo è circondato da difficoltà che potrebbero essere


attribuite a comuni caratteristiche umane. Di fronte alle difficoltà dell’infanzia e
dell’adolescenza, pensiamo a un inevitabile periodo di adattamento attraverso il
quale ognuno deve passare. L’intero approccio psicoanalitico è in gran parte
basato su questo presupposto.
L’antropologo mette in dubbio la correttezza di questo punto di vista, ma fino a
ora nessuno aveva fatto lo sforzo di identificarsi con una popolazione primitiva in
misura tale da avere una visione interna di questi problemi. Siamo, quindi, grati a
Miss Mead per essere riuscita a identificarsi completamente con i giovani
samoani, dandoci un quadro lucido e chiaro delle gioie e delle difficoltà incontrate
da individui che vivono in una cultura completamente diversa dalla nostra22.

A partire dallo studio di Margaret Mead, l’uso di dati raccolti in


terreni “transculturali” per mettere in discussione le affermazioni della
psicoanalisi sugli universali psichici umani caratterizzerà la ricerca
antropologica del XX secolo. Così si espresse anni dopo la stessa Mead,
sostenendo che l’importanza dello studio sull’adolescenza in Samoa
consisteva soprattutto nel fatto che essa offriva la documentazione del
fatto che la natura umana non è rigida e inflessibile.
La psicoanalisi suscitò reazioni critiche anche tra i funzionalisti. La
visione evoluzionista presente in Totem e Tabù, ispirata da Frazer,
secondo cui il pensiero primitivo sarebbe fondamentalmente magico,
si scontrava con la teoria funzionalista secondo la quale la risposta ai
bisogni è essenzialmente razionale. Uno dei principali rappresentanti
del funzionalismo, Bronisław Malinowski, pur riconoscendo la grande
influenza che la psicoanalisi aveva avuto su di lui, ne criticò i
presupposti – in particolare il complesso di Edipo – in Sex and
Repression in Savage Society, pubblicato nel 1927.
Non sono mai stato in nessun senso un seguace della pratica psicoanalitica, o un
aderente della teoria psicoanalitica; e ora, pur insofferente di fronte alle
esorbitanti pretese della psicoanalisi, ai suoi argomenti caotici e alla sua
terminologia intricata, devo tuttavia riconoscere di sentire un profondo debito nei
suoi confronti per gli stimoli ricevuti come pure per il prezioso insegnamento di
alcuni aspetti della psicologia umana23.

Il complesso di Edipo – di cui la psicoanalisi ipotizza l’universalità –


presuppone l’idea che il figlio odi il padre per l’autorità che esercita,
sia geloso delle sue prerogative sessuali verso la madre eppure lo ami e
lo ammiri per la sua forza protettiva. Ora, Bronisław Malinowski aveva
svolto il lavoro di campo presso una popolazione matrilineare delle
isole Trobriand, dove il ruolo del padre e le relazioni interpersonali
erano strutturati in maniera molto diversa rispetto alle famiglie
occidentali e alla società europea.
Tra i Trobriandesi, il padre non è una figura autoritaria, ma piuttosto
un amico benevolo, mentre il fratello della madre, da cui il figlio
erediterà, esercita un ruolo disciplinatore. Inoltre gli abitanti delle
Trobriand, secondo Malinowski, ignoravano il ruolo riproduttivo del
padre, e i giovani avevano prolungati contatti intimi con la madre,
spesso dormendo con lei ed essendone coccolati fino all’età in cui lo
desiderassero. Di conseguenza, i giovani delle società matrilineari
indirizzavano la loro ostilità verso i fratelli della madre, piuttosto che
verso il padre, in relazione alla competizione per l’autorità politica
piuttosto che al desiderio sessuale. I sentimenti ambivalenti di
odio/amore erano diretti verso gli zii materni, mentre i desideri
incestuosi si concentravano sulle sorelle e non sulla madre.
Malinowski non ricusava del tutto la teoria psicologica freudiana, ma
sosteneva la necessità di adattarla ai contesti familiari: il complesso di
Edipo in senso stretto, a suo avviso, non era affatto universale.
Tra gli antropologi che appoggiarono le tesi di Malinowski va
ricordata l’americana Dorothy Way Eggan (1901-1965), seguace della
scuola funzionalista di Radcliffe-Brown e specialista della cultura Hopi
del Nuovo Messico. Secondo la Eggan, il complesso di Edipo era
assente dalla personalità degli Hopi.
Al di là dei contrasti tra l’approccio antropologico e quello
psicoanalitico, l’interazione tra l’antropologia e la psicologia si affermò
come una tendenza nuova che risulterà determinante per i futuri
sviluppi di entrambe le discipline. Come vedremo nel prossimo
capitolo, il movimento Cultura e personalità – le cui principali
rappresentanti furono Ruth Benedict e Margaret Mead –, stabilirà
l’idea oggi assodata secondo cui la personalità umana è interrelata con
fattori culturali.

Conclusioni
La rimessa in discussione del paradigma evoluzionista dominante
nell’antropologia culturale fino alla seconda metà del XIX secolo ebbe
un impatto essenziale nel ridefinire il rapporto tra universale e
particolare, nonché sulla questione – sempre presente – del passaggio
natura-cultura. Il relativismo culturale di Boas aprì la via a un
ripensamento della nozione di centralità/superiorità della cultura
occidentale (vista come stadio evolutivo necessario). I modelli
familiari – e le relazioni tra uomini e donne – apparvero così come
profondamente determinati dai contesti culturali, anziché universali-
normativi. Le prime femministe, come Elsie Parsons, utilizzarono la
scoperta di queste diversità (e della posizione di maggior potere delle
donne in alcune società “primitive”) per mettere in questione famiglia,
matrimonio e ruoli maschili e femminili nella società occidentale.
Anche gli struttural-funzionalisti furono impegnati a documentare la
diversità delle forme di famiglia che si incontrano nelle diverse società.
Ma essi ricercarono anche un “substrato” naturale che Radcliffe-
Brown chiamò “famiglia elementare”, una comune forma familiare di
base, nascosta all’interno delle forme familiari poligamiche e
poliandriche, di lignaggio e di clan, di bande e di tribù. In altri termini,
i funzionalisti partivano dal presupposto di fondo che le strutture di
parentela e quelle della cultura siano costruite su un fondamento
naturale: il legame biologico della riproduzione fisiologica che collega
la madre e il bambino.
Come affermò Malinowski, nell’ambito della parentela la fisiologia
crea istituzioni puramente culturali. La rimessa in discussione della
“naturalità” dei ruoli maschili e femminili necessitava però di uno
sguardo non androcentrico… quello che una giovane donna di
ventiquattro anni, Margaret Mead, saprà portare sui ragazzi e le
ragazze dell isole Samoa, nella metà degli anni Venti del Novecento.
E sarà poi l’antropologia femminista degli anni Settanta a
radicalizzare la critica alla visione naturalista delle relazioni della
parentela che portano a una rigida divisione dei ruoli dei due sessi per
via della centralità della riproduzione.

1 Abbiamo visto fino a che punto l’evoluzionismo influenzasse le pratiche


politiche, come nel caso delle assegnazioni delle terre ai Nativi americani,
fortemente volute dall’antropologa evoluzionista Alice Fletcher.
2 http://jewishcurrents.org/franz-boas-and-the-progressive-spirit-2953 (ultima
consultazione 8.3.2016).
3 Secondo alcuni biografi le ragioni che spinsero Franz Boas a lasciare la
Germania e poi a stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti si possono ricondurre
al crescente clima antisemita che si respirava in Germania.
4 In generale, gli Eschimesi non organizzano le loro società in unità, come clan o
tribù. L’identificazione di appartenenza a un gruppo è stata tradizionalmente legata
al luogo di residenza, con il suffisso -miut (“persone di”) applicato a una serie di
residenze, alla casa di una famiglia o a una vasta regione con molti residenti. I
Baffinland Eskimo erano spesso inclusi nel novero dei Central Eskimo, un gruppo
che comprende anche i Caribou Eskimo delle lande a ovest della Baia di Hudson
nonché Iglulik, Netsilik, Copper e Mackenzie Eskimo (cfr. Kuiper 2011: 23).
5 Boas 1884: 253 (trad. dell’autrice).
6 La definizione di emic (in italiano “emico”) è la seguente: «relativo a, o che
coinvolge l’analisi dei fenomeni culturali dal punto di vista di chi partecipa alla
cultura studiata – da comparare con etico» (cfr. http://www.merriam-
webster.com/dictionary/emic; ultima consultazione 8.3.2016; trad. dell’autrice).
L’origine è nel termine phonemic, “fonemico” e ha una duplice valenza, linguistica
(«che ha valore funzionale e distintivo nel sistema linguistico di cui fa parte: una
trascrizione fonematica è una resa emica del discorso)» e antropologica («di un
fatto che assume valore funzionale nel mondo culturale di cui fa parte»): cfr.
http://dizionario.internazionale.it/parola/emico (ultima consultazione 8.3.2016.)
7 Kottak 2006: 47 (trad. dell’autrice).
8 Zora Neale Hurston (1891-1960) fu la prima afroamericana a studiare il folklore
del suo gruppo e la religione vudù. Unica persona di colore tra gli iscritti, studiò
antropologia al Barnard College dal 1920 sotto la direzione di Franz Boas, che
incoraggiò i suoi interessi per il folklore afroamericano, ottenendo la laurea nel
1928. Le sue opere antropologiche (fu anche scrittrice) sono Mules and Men (1935)
e Tell My Horse (1938). Il contributo di Neale Hurston all’antropologia non si
limitò solo alla sua capacità di fornire vivide immagini della cultura nera; essa
tentò anche di analizzare i processi caratterizzanti la diaspora africana (McClaurin
2001b).
9 Per l’interessante biografia di Ella Cara Deloria, cfr.
http://zia.aisri.indiana.edu/deloria_archive/ (ultima consultazione 8.3.2016).
10 Edward Sapir (1884-1939) fu un antropologo e linguista americano,
considerato una delle maggiori figure agli albori della linguistica. Studiò
soprattutto il modo in cui la lingua e la cultura si influenzano reciprocamente.
11 Parsons condusse studi brillanti (ottenne un dottorato in sociologia alla
Columbia a 22 anni) e si impegnò presto nella battaglia femminista.
12 Per non danneggiare la carriera politica del marito che era intanto stato eletto
al Congresso, utilizzò infatti lo pseudonimo di John Main.
13 Elsie Parsons fu anche una fervente pacifista durante la Prima guerra mondiale
e un membro attivo del Woman’s Peace Party.
14 Cfr. http://www.newworldencyclopedia.org/entry/Elsie_Clews_Parsons
(ultima consultazione 8.3.2016).
15 Melville Herskovits scrisse a questo proposito: «I contributi di Elsie Clews

Parsons allo studio del folklore nero sono così vasti da comprendere, in se stessi, la
maggior parte dei materiali disponibili in questo settore; sono così importanti che
nessun lavoro significativo può essere fatto in futuro senza usarli come base»
(1943: 28; trad. dell’autrice).
16 Un’altra studiosa di folklore fu Martha Beckwith (1871-1959), che, nel 1920, fu
la prima persona a occupare una cattedra di folklore in una università americana, il
Vassar College, dove fu anche istituita la Folklore Foundation, grazie alla
donazione della paleontologa e naturalista Annie Montague Alexander (1867-
1950), altra interessante figura di studiosa e viaggiatrice all’origine anche del
Museum of Paleontology presso la University of California a Berkeley; cfr.
http://www.ucmp.berkeley.edu/history/alexander.html (ultima consultazione
8.3.2016). L’idea di raccogliere, valutare e confrontare il folklore era del tutto
nuova agli inizi del XX secolo. Per Beckwith con “folklore” si intendevano idiomi
popolari, credenze, slang, canzoni o storie che circolavano in varie versioni,
attraverso le comunità. La sua definizione era in parte differente da quella di altri
studiosi. Mentre molti dei primi folkloristi ritenevano che il termine “folk” si
riferisse solo alla cultura orale dei popoli “primitivi”, Beckwith sosteneva che tutte
le culture hanno avuto delle tradizioni popolari che giustificano la ricerca, e
rifiutava la divisione tra “popolare” e altre forme di espressione artistica
“superiori”, attribuendo a entrambe dignità letteraria. Durante un anno sabbatico,
nel 1926-27, studiò la letteratura popolare in Italia, Grecia, Palestina, Siria e India.
Le sue principali richerche riguardarono però le Hawaii, la Giamaica, e le tribù
Sioux e Mandan-Hidatsa delle riserve del North e South Dakota.
17 Parsons scrisse anche il saggio What is Feminism. Fu una delle prime autrici
che usò il termine “femminismo”.
18 Una scuola antropologica influenzata dal diffusionismo fu quella austriaca dei
Kulturkreise (cerchi culturali), una scuola alquanto eccentrica nel panorama
antropologico europeo, in parte di stampo evoluzionista e influenzata da idee
razziste di superiorità occidentale. Tra i suoi esponenti si ricordano Fritz Graebner
e Wilhelm Schmidt. La nozione fondamentale era quella dell’esistenza, nella storia
di ogni cultura, di un numero limitato di Kulturkreise in grado di spiegarne i
fenomeni, con forti analogie tra diverse culture anche molto distanti tra loro. Le
forzature comparatistiche e interpretative screditarono presto la Kulturkreislehre
di fronte alla comunità scientifica (cfr.
http://www.britannica.com/science/Kulturkreis; ultima consultazione 8.3.2016).
19 Sui bilateral kinship systems cfr. quanto scritto da Brian Schwimmer
(https://umanitoba.ca/faculties/arts/anthropology/tutor/descent/cognatic/bilateral.html
ultima consultazione 8.3.2016): «L’organizzazione bilaterale della parentela
presenta un problema di classificazione, dato che tutte le società riconoscono e
interagiscono regolarmente con una varietà di parentele materne e paterne. Di
fatto, i membri delle società unilineari, in certe situazioni formali, riconoscono
esclusivamente i parenti su base agnatica o uterina, ma mantengono anche
rapporti sia strutturati che informali con altri parenti e costituiscono parentele
bilaterali per una varietà di scopi. Il verificarsi universale di parentele bilaterali,
spesso in combinazione con istituzioni unilineari, ha portato a una varietà di
controversie sul fatto che esistono strutture bilaterali come forma generale o se una
società specifica è unilineare o bilaterale. Tali dibattiti hanno riguardato, per
esempio, la parentela nella Roma antica, e moderni sistemi degli Yoruba. Tuttavia,
la principale prova a sostegno dell’esistenza di istituzioni bilaterali strutturali
all’interno di diverse tradizioni, in particolare quelle europee, sono le varie regole
che definiscono gli standard della parentela cognatica e le assegnano diritti e
doveri. Formalmente, i sistemi di parentela bilaterali coinvolgono due forme
distinte: gruppi di discendenza bilaterale, un’istituzione relativamente rara,
organizzata sulla base di una discendenza bilaterale dagli antenati riconosciuti e
tribù, ovvero reti che si estendono attraverso entrambi i genitori di un individuo e
la parentela bilaterale» (trad. dell’autrice).
20 L’assimilazione del pensiero primitivo al nevrotico, completamente rigettata da
Franz Boas ma anche dai funzionalisti, sollevava grande interesse in Europa. Lo
studioso francese Lévy-Bruhl elaborò un sistema di differenziazione fra il pensiero
dei primitivi e quello degli esseri umani civilizzati. L’autore sosteneva che il
primitivo fosse dotato di prelogismo, una sorta di rappresentazione mistica della
realtà, in cui non esisterebbe differenza fra soggetto e oggetto, fra l’io e il mondo.
L’uomo primitivo vivrebbe quindi in una sorta di partecipazione mistica con la
natura che lo circonda.
21 Il termine “movimento” è più adeguato di “scuola”, in quanto i suoi
rappresentanti – tra cui Ruth Benedict e Margaret Mead – non si costituirono mai
in una vera e propria “scuola”.
22 Boas 1928: XXII (trad. dell’autrice).
23 Malinowski 2000: 6-7.
5. RUTH BENEDICT E MARGARET MEAD: CULTURE,
PERSONALITÀ, SESSO E TEMPERAMENTO

Il movimento Cultura e personalità


Nel periodo tra le due guerre, all’interno dell’antropologia americana
dominata dalle teorie di Franz Boas, si afferma il movimento Cultura e
personalità, che si dedica all’indagine dell’interazione tra la cultura e la
psicologia degli individui, partendo dalla comprensione delle radici dei
tratti comuni ai membri di una data società.
Troppo divisa in varie anime per essere considerata una vera e
propria scuola, in mancanza di un punto di vista ortodosso, di un
leader riconosciuto e di un coerente programma didattico (cfr. LeVine
e Shimizu 2001), il movimento è generalmente identificato con alcune
figure chiave: Ruth Benedict (1887-1948), Margaret Mead (1901-
1978), Ralph Linton (1893-1953) e, in misura minore, lo psicoanalista
Abram Kardiner (1891-1981). In queste pagine ci limiteremo a
considerare la prime due, perché maggiormente significative per
l’antropologia di genere.
Le idee di base del movimento Cultura e personalità possono essere
così sintetizzate: la chiave della sistematicità degli elementi comuni in
una cultura si trova nella comune esperienza di apprendimento
infantile – dunque il comportamento degli adulti è “culturalmente
modellato”, le esperienze della socializzazione infantile influenzano la
personalità dell’individuo adulto; a loro volta, le caratteristiche delle
personalità degli adulti influenzano le istituzioni culturali di ogni
società, producendo i caratteri comuni della cultura.
È dunque il comune processo di socializzazione e apprendimento che
crea modelli di personalità, formando emozioni, pensieri,
comportamenti, valori e norme culturali degli individui e permettendo
loro di adattarsi e funzionare come soggetti produttivi della specifica
società di cui sono membri. La ricerca etnografica nelle diverse culture
mostra come diverse pratiche di socializzazione ed educazione
costruiscano diversi tipi di personalità. Le personalità individuali
tendono ad adattarsi alla personalità dominante di una specifica
cultura e, in ogni cultura, alcuni individui si pongono in maniera
divergente o deviante.
Intenzione del movimento Cultura e personalità non era l’apertura di
un dibattito sull’origine – o le cause – delle personalità individuali, per
stabilire se esse siano determinate da elementi universali (come,
secondo la psicoanalisi, il complesso d’Edipo) o da aspetti
dell’educazione nella prima infanzia, ma la comprensione, come
scrisse Margaret Mead, dell’interazione tra doti e stile culturale
(«interplay between endowment and cultural style»). L’eredità
biologica era riconosciuta come un fattore esistente, ma la dinamica
della crescita – il nurture – era vista come il fattore dominante nel
modellare il comportamento umano. L’interesse per la psicologia, in
particolare per la psicologia dello sviluppo, fu condiviso da tutti i
rappresentanti del movimento.
Tra i testi più significativi che vi contribuirono si possono citare
Coming of Age in Samoa pubblicato nel 1928 e Sex and Temperament
in Three Primitive Societies del 1935 (entrambi di Margaret Mead) e
Patterns of Culture di Ruth Benedict, pubblicato nel 1934.
Benedict, in Patterns of Culture, mostrò come la cultura modelli le
personalità degli individui, agendo essa stessa come una personalità su
scala più ampia – comune a tutti gli individui facenti parte di quella
determinata etnia. In altri termini, è la cultura che produce gli
individui e non viceversa, anche se poi gli individui, con la loro
personalità, al tempo stesso individuale e collettiva, agiscono a loro
volta sulle istituzioni. Mead, con un ampio e approfondito lavoro di
campo di osservazione partecipante, documentò l’importanza dei
determinanti culturali nella formazione delle personalità.
Con questi lavori, le due studiose contribuirono in modo decisivo a
infrangere i pregiudizi basati sull’idea secondo cui i comportamenti
differenziati tra uomini e donne sono “naturali”, aprendo così la strada
alla teorizzazione del concetto di genere.

Ruth Benedict: cultura, individuo, personalità


Ruth Benedict si avvicinò all’antropologia durante gli studi di
filosofia dell’educazione svolti alla New School for Social Research di
New York, nel corso dedicato a “Sex in Ethnology” la cui docente era
Elsie Clews Parsons. Laureata in letteratura inglese, Benedict aveva
ripreso gli studi in un momento difficile della sua vita, segnato da un
matrimonio insoddisfacente e dalla scoperta di non poter aver figli.
L’interesse per l’antropologia determinò le sue scelte successive: dalla
New School for Social Research passò alla Columbia University, dove
studiò con Franz Boas, ottenendo il dottorato nel 1923 con una tesi
intitolata The Concept of the Guardian Spirit in North America1.
Il rapporto con Franz Boas si rivelò fondamentale per la sua futura
carriera e produzione scientifica. Benedict fu dapprima sua assistente,
poi divenne docente alla Columbia University. Quando nel 1937 Boas
si ritirò, la maggior parte degli studenti la consideravano la studiosa
più indicata a prendere il suo posto come direttrice del Department of
Anthropology, ma l’amministrazione della Columbia preferì nominare
Ralph Linton, anch’egli allievo di Boas, nonché veterano della Prima
guerra mondiale2. Nonostante questa palese discriminazione dovuta al
sessismo dell’ambiente accademico, Ruth Benedict fu per tutta la sua
vita una delle figure più influenti nell’antropologia americana, sia in
continuità con le idee di Boas (il relativismo culturale, il
particolarismo) sia elaborando nuovi approcci teorici – che trovarono
espressione nel movimento Cultura e personalità. Ruth Benedict difese
strenuamente l’idea boasiana del relativismo culturale. Per lei, tutte le
culture esprimono modelli di vita egualmente validi, che l’umanità ha
creato dai crudi materiali dell’esistenza. Ogni cultura è autonoma e
separata, ma uguale. Ognuna ha un senso nel suo contesto, e ciò che
l’antropologo deve fare è indagare il contesto per capire le azioni dei
gruppi e il loro perché.
Durante l’elaborazione della tesi e negli anni successivi, sotto la
direzione di Boas e la supervisione di Alfred Kroeber (1876-1960)3,
Ruth Benedict fece esperienza di studio nel Sudovest degli Stati Uniti,
tra i Serrano della California del Sud e gli Zuñi (nel 1935 pubblicò il
libro Zuñi Mythology), i Cochiti, gli Apache, e i Pima del Sudovest,
come pure tra le tribù dei Piedi Neri delle praterie. Seguendo
fedelmente la metodologia etnografica di Boas svolse un lavoro di
catalogazione delle diverse culture studiate, ma dall’esperienza sul
terreno passò presto alle questioni teoriche, interessandosi delle
problematiche psicologiche oltre che di quelle antropologiche.
Documentando le culture delle varie tribù, Ruth Benedict mise in
luce le grandi differenze, le vere e proprie polarizzazioni nei valori e
nell’approccio alla vita, che influenzavano i temperamenti degli
individui. A partire dall’intuizione che le culture stanno alla società
come i temperamenti agli individui, cercò di definire dei temperamenti
culturali propri a ciascun gruppo. Da qui la ricerca di Ruth Benedict si
spostò quindi sulle dinamiche tra individui e società, sui modi in cui la
cultura plasma le vite degli individui, sul rapporto tra ciò che noi
siamo come individui unici e ciò che la nostra cultura ci dice che
dovremmo essere, e sul tipo di scelte che conseguentemente operiamo.
I risultati del lavoro sul campo e della riflessione teorica sono
contenuti nel già citato Patterns of Culture (che sarà tradotto in
italiano nel 1960 con il titolo Modelli di cultura): attraverso la
definizione di “modello culturale”, Ruth Benedict delinea la sua teoria
della cultura e della personalità, mentre analizza la caratteristiche
culturali degli Zuñi, una tribù Pueblo del Nuovo Messico, dei Dobu
della Nuova Guinea, e dei Kwakiutl, stanziati sulla costa
nordoccidentale degli Stati Uniti.

Modelli di cultura
Prima di presentare le tre ricerche etnografiche, Benedict introduce il
quadro teorico in due capitoli dove definisce il termine “modello”
(pattern) nell’ambito della cultura, su cui così si esprime: «What really
binds men together is their culture – the ideas and the standards they
have in common»4. A ogni cultura, come a ogni individuo, corrisponde
un modello, più o meno consistente, di pensiero e azione. Ogni cultura
ha un sistema di credenza – idee, criteri, motivazioni, emozioni e
valori standardizzati – che le garantiscono una coerenza interna. Gli
individui sono legati alla forma culturale generale di cui sono
partecipi. Una cultura può essere compresa come una personalità
individuale e ogni persona all’interno di quella cultura può essere
compresa attraverso il modello, ovvero i tratti o tipi che caratterizzano
quella particolare cultura, mentre la natura di ogni tratto culturale
sarà diversa nelle differenti aree, a seconda degli elementi con cui è
stato combinato. Di conseguenza, se siamo interessati ai processi
culturali il solo modo in cui possiamo conoscere il significato dei vari
dettagli del comportamento è guardando ai motivi, ai valori e alle
culture che appaiono istituzionalizzati in quella cultura5.
Ruth Benedict applica, rispetto alle culture, il principio boasiano del
relativismo culturale: non dà nessun giudizio sulle culture o sui
temperamenti culturali che descrive. La novità della sua ricerca
consiste nel collegamento tra l’antropologia e la psicologia
nell’indagine del rapporto tra individuo e cultura.
A suo modo di vedere, la storia di vita di ogni individuo è un processo
di adattamento a modelli e regole in vigore nella sua comunità. Fin dai
primi istanti di vita, i costumi del mondo in cui è nato modellano le
sue esperienze e il suo comportamento futuro. Si può dunque parlare
di determinazione sociale della psiche, sebbene nessuna cultura sia
mai stata capace di annullare completamente i temperamenti dei
diversi membri che la compongono; esisteranno sempre alcuni
individui che, per i loro riflessi “naturali”, saranno incapaci di
adattarsi ai comportamenti che le culture richiedono. Questi esseri
umani “disorientati” esistono in tutte le culture e illustrano il dilemma
dell’individuo le cui propensioni naturali non sono previste dalle
istituzioni della sua cultura (torneremo su quest’aspetto nel prossimo
paragrafo affrontando il tema dell’omosessualità).
Benedict non enfatizza in Patterns of Culture le variazioni individuali
rispetto alla socializzazione e all’inculturazione, né la varietà dei
temperamenti dei singoli, quanto l’esistenza, in ogni cultura, di un
temperamento dominante, risultato dell’interiorizzazione delle norme
prescritte. Nella presentazione delle tre culture considerate – gli Zuñi
“moderati e cerimoniosi”, i Dobu “tetri e vendicativi” e i Kwakiutl “folli
di ambizione e di mania di grandezza”, Ruth Benedict delinea dei
“temperamenti culturali”, utilizzando le categorie di “apollineo” o
“dionisiaco” elaborate da Nietzsche6. Queste categorie permettono
peraltro di evitare il rischio che alcuni comportamenti siano ricondotti
senz’altro a forme psicopatologiche.

L’antropologia e le culture complesse


Per analizzare l’ampio ventaglio delle culture esistenti, Ruth Benedict
difende il metodo comparativo come il più indicato, in quanto
permette di valutarle in relazione l’una con l’altra, e di osservarne le
differenze. Il metodo comparativo consente inoltre di comprendere
adeguatamente «our own cultural processes»7. Il raffronto con la
cultura americana spinse Benedict a portare lo sguardo antropologico
oltre le società “primitive” e ad applicarlo alle società “moderne”.
Sempre in Patterns of Cultures sostiene che i “modelli” possono essere
meglio individuati nelle culture primitive, a causa della loro
semplicità, mentre la società americana (e in generale la cultura
“occidentale”) è troppo complicata e disordinata per poter essere colta
nella sua totalità dall’analisi etnografica:
Le civiltà occidentali, con le loro diversità storiche, la loro stratificazione in
professioni e classi, la loro incomparabile ricchezza di dettagli, non sono ancora
state abbastanza comprese per essere sintetizzate in un paio di slogan8.

Nonostante questi dubbi metodologici, alcuni anni dopo, allo scoppio


della Seconda guerra mondiale, Ruth Benedict si impegnò nello studio
dei caratteri nazionali tedeschi e giapponesi attraverso la fondazione
dell’Institute for Intercultural Studies (1941)9, il cui obiettivo era
occuparsi di culture che non potevano che essere studiate “a distanza”,
poiché la guerra rendeva impossibile il lavoro diretto sul terreno.
In questa attività, Benedict fu sollecitata dal governo americano, il
cui obiettivo era, una volta vinta la guerra contro i paesi dell’Asse,
aiutare il personale militare e diplomatico a capire come interagire con
i membri di queste società al fine di realizzare gli obiettivi desiderati
(pacificazione e trasformazione in società democratiche).
Gran parte del materiale che Benedict utilizzò e produsse fu
classificato come segreto, ma i principali risultati della sua ricerca
furono comunque pubblicati nel 1946 in The Chrysanthemum and the
Sword, un saggio sulla cultura giapponese che ottenne un enorme
successo anche presso il grande pubblico. Va tra l’altro evidenziato che
la decisione americana di non condannare a morte l’imperatore del
Giappone fu influenzata proprio dai lavori del gruppo di ricerca sulle
culture a distanza costituito intorno a Ruth Benedict, in particolare da
un rapporto di Geoffrey Gorer del 194210.
Negli anni successivi, l’approccio di Ruth Benedict fu assai criticato,
in quanto avrebbe utilizzato rappresentazioni stereotipate e non
avrebbe insistito a sufficienza sulle differenze di classe. D’altra parte,
all’epoca, era ancora convinzione comune che le società fossero
caratterizzate dalla presenza di ampi gruppi che condividevano
comportamenti omogenei. I lavori di Benedict sulle società complesse
furono criticati anche perché non basati su ricerche approfondite: nel
caso dello studio sulla cultura giapponese, per esempio, Benedict non
conosceva il Giappone e non ne parlava la lingua11, e molte delle sue
intuizioni sul concetto di onore in quella cultura si basavano su un
approccio comparativo. Nonostante questi limiti, l’applicazione
dell’antropologia a società complesse come quella giapponese e quelle
occidentali (come la società tedesca) fu un’esperienza pionieristica che
contribuì alla ridefinizione del campo dell’antropologia culturale e
all’apertura di nuovi ambiti d’indagine.
L’importanza dell’approccio antropologico nello studio delle società
complesse fu sostenuta anche da Margaret Mead nel progetto
Research in Contemporary Cultures (RCC) della Columbia University,
che fu portato avanti dal 1947 al 1952, di cui parleremo nei prossimi
paragrafi. Anche Clyde Kluckhohn (1905-1960) sostenne che
l’antropologia forniva una base scientifica in grado di analizzare i
problemi dell’età contemporanea, a partire dalle crudeltà commesse
durante la guerra. Pur riconoscendo le difficoltà che si incontrano nel
comprendere questi comportamenti, Kluckhohn sosteneva che la
grande lezione della cultura è che gli obiettivi verso i quali gli uomini
tendono non sono “dati” biologicamente. Se gli abitanti di Germania e
Giappone si fossero comportati in un certo modo a causa della loro
eredità biologica, non vi sarebbe alcuna speranza di fare di quei due
paesi delle nazioni pacifiche. Il concetto di cultura contiene dunque in
sé una speranza: la giusta comprensione del suo significato può essere
di aiuto nella lotta contro l’antisemitismo e il razzismo12. Se i leader
politici del mondo fossero convinti di questo semplice fatto e si
rendessero conto che anche la guerra è un comportamento appreso e
non innato o naturale, le tensioni internazionali potrebbero essere
risolte più facilmente e le possibilità di sopravvivenza dell’umanità
aumenterebbero. Le considerazioni di Kluckhohn sono ancora oggi di
grande attualità.

Relativismo culturale e morale sessuale: i berdache


A partire dal principio del relativismo culturale, Ruth Benedict mise
in luce come la “normalità” sia un dato culturalmente definito e possa
variare da una cultura all’altra. Sulla base dei dati empirici raccolti
dalle varie etnografie individuò alcune aree nelle quali la normalità e
l’anormalità risultano diversamente definite: la trance, la catalessi e
l’omosessualità.
In India, per esempio, le manifestazioni psichiche estreme di trance e
di catalessi sono entrambe considerate non solo normali, ma
espressioni di santità, mentre in molte culture moderne sono viste
come una deviazione dalla norma e non valorizzate.
L’omosessualità costituisce un altro esempio significativo di come i
paradigmi di normalità e anormalità varino a seconda delle culture.
Condannata come immorale nelle società cristiane, l’omosessualità era
invece considerata un fattore di stabilità nell’Atene di Platone. Anche
nelle società contemporanee esistono differenze importanti: rigettata
in quella americana, essa non è stigmatizzata presso varie tribù di
Nativi, dove gli uomini che hanno assunto le caratteristiche e il
comportamento del genere femminile sono considerati positivamente
sul piano etico. L’istituzione del berdache (il nome è di origine
francese e fu diffuso dagli esploratori francesi dell’America del Nord)13
fa sì che gli uomini possano ricoprire con prestigio vari ruoli di rilievo,
per esempio come guide nelle occupazioni femminili, guaritori e
organizzatori negli affari sociali.
È probabile che Ruth Benedict fosse indotta a riflettere
sull’omosessualità anche per la propria esperienza di vita. Sebbene
non si trovino in merito, nei suoi scritti, riferimenti espliciti, era
bisessuale ed ebbe una relazione con Margaret Mead. Entrambe
scelsero di non parlare esplicitamente della loro relazione: soltanto
dopo la morte di Mead furono rese pubbliche alcune lettere da cui
trapelavano la profondità e l’intimità della loro relazione14.
Margaret Mead rappresentò per Ruth Benedict molto di più di
un’amante o di una confidente: fu una fonte di incoraggiamento, una
donna ribelle in un mondo accademico maschile e maschilista, uno
spirito libero che indagava quello che le altre culture hanno da dire sui
ruoli che la società impone ed esplorava le infinite altre possibili scelte
individuali a disposizione delle donne. In un’epoca in cui il mondo
accademico era ancora prevalentemente maschile, Ruth Benedict ebbe
la forza di trasmettere agli studenti il pensiero critico e divergente,
mettendo in discussione gli stessi ruoli di genere, come ricorda
l’antropologa femminista Ruth Landes15.

Margaret Mead: l’impegno scientifico e sociale


È difficile riassumere in poche pagine l’enorme contributo che
Margaret Mead diede all’antropologia, alla scienza in generale e alla
società, con la sua opera di studiosa, di educatrice, di donna e di essere
umano. Nella prefazione all’edizione del 2001 di Coming to Age in
Samoa, Mary Pipher, che studiò antropologia a Berkeley negli anni
Sessanta, ricorda così l’influenza di Mead su quella generazione che
cambiò il volto dell’America:

Come studentessa di antropologia culturale a Berkeley, ho letto Mead. Tutti,


all’università, leggevamo Mead negli anni Sessanta. I suoi scritti e il suo
insegnamento avevano suscitato un’esplosione d’interesse per l’antropologia. Il
suo idealismo e il suo interesse per i problemi sociali parlavano alle nostre
sensibilità rivoluzionarie. La sua passione per il significato del cambiamento
aveva una grande rilevanza nell’era in cui Bob Dylan cantava The Times They Are
a-Changing.
Mead era l’autentica figlia dei fiori, interessata alla pace, alla giustizia, alla libertà
sessuale e all’avventura. Lavorava lei stessa senza sosta per il cambiamento
sociale e insegnava ovunque che noi potremmo e dovremmo costruire culture
migliori, che producano persone più felici, meno aggressive ed emozionalmente
più solide. La sua definizione di una cultura ideale era una cultura che trovasse un
posto per tutti i doni umani. Nessuna migliore definizione di una cultura ideale è
stata finora formulata16.

Nata a Philadelphia nel 1901, Margaret Mead frequentò il Barnard


College a New York City nel 1920, ottenendo il master in psicologia nel
1924, e, dopo aver frequentato dei corsi in antropologia con Franz
Boas e Ruth Benedict, si iscrisse al dottorato presso la Columbia
University. Ispirata dall’esempio di Ruth Benedict si concentrò sui
problemi dell’educazione, della personalità e della cultura. Nel 1925,
come previsto dal corso di studi antropologici, partì per un lavoro sul
campo nelle Samoa americane, isole polinesiane del Pacifico
meridionale. Andò a vivere in un villaggio di seicento persone sull’isola
di Tau, e, utilizzando il metodo dell’osservazione partecipante,
conobbe, osservò, interrogò, intervistò adolescenti e giovani,
condividendone le esperienze quotidiane.
Margaret Mead segnò, come antropologa, il percorso della disciplina,
influenzandone il futuro sviluppo tanto nel metodo quanto nei
contenuti. Fu curatrice dell’American Museum of Natural History di
New York, docente alla Columbia, alla Fordham e alla University of
Rhode Island, presidente dell’American Anthropological Association e
membro della National Academy of Sciences. Ma fu anche una donna
“impegnata” che cercò di applicare i principi dell’antropologia alla
soluzione di alcuni problemi sociali, come l’educazione dei bambini (la
Mead ebbe una grande influenza sugli educatori) o la salute mentale
(fu presidentessa della World Federation of Mental Health dal 1956 al
1957)17, nonché la diseguaglianza di genere. Il suo impegno sociale
aveva profonde radici nella sua storia familiare18, poiché era cresciuta
in una casa di intellettuali e liberi pensatori. La madre era una
sociologa che professava idee femministe. La nonna, psicologa
dell’infanzia e appassionata educatrice, è la lettrice per la quale
Margaret Mead pensò il suo primo libro, Coming of Age in Samoa, e a
lei inviava lettere perché potesse sperimentare qualcosa della gioia
della vita samoana19. Ebbe su di lei una grande influenza; anche per i
numerosi spostamenti della famiglia, Margaret fu a lungo educata in
casa dalla nonna anziché a scuola.
La sua influenza si spinse ben oltre il mondo accademico o scolastico:
le sue oltre trenta opere, a partire dal già citato e celebre Coming of
Age in Samoa, e i suoi articoli raggiunsero anche il grande pubblico.
Dal 1960 tenne una rubrica mensile sul “Redbook Magazine”20 che si
occupava della famiglia e dell’educazione dei figli. Attenta ai
cambiamenti nella società americana, utilizzò le lettere dei lettori
come uno strumento per conoscere meglio le preoccupazioni delle
donne americane. Fu soprannominata “grandmother to the world” e
dopo la morte fu insignita della Presidential Medal of Freedom. Il
servizio postale statunitense emise un Mead Commemorative Stamp
nel 1998.

La natura umana è malleabile: adolescenti in Samoa; uomini e


donne in Nuova Guinea
Comparando la vita delle adolescenti samoane con quelle delle coe-
tanee americane, Margaret Mead cercava di rispondere alle questioni
sulla cultura e la personalità sollevate dal lavoro di Boas e soprattutto
di Benedict:
Ho cercato di rispondere alla domanda che mi condusse a Samoa: i disturbi che
affliggono i nostri adolescenti sono causati della natura dell’adolescenza o dalla
civiltà? In condizioni diverse l’adolescenza presenta un quadro diverso?21

Attraverso il suo lavoro di osservazione, Mead constatò che il


passaggio dell’adolescenza in Samoa non era segnato dai turbamenti
emozionali o psicologici, dall’ansietà e dalla confusione che segnavano
le giovani americane. Questo dato metteva dunque in discussione
l’universalità della crisi adolescenziale che si verifica nelle società
occidentali: essa risultava sconosciuta in una società come quella
samoana, dove la preparazione all’età adulta è un processo continuo
che inizia nelle prime fasi della vita, piuttosto che una serie di tappe
che delineano un processo di transizione ben più stressante.
All’importanza scientifica della scoperta – che affermava la priorità
della cultura e della socializzazione rispetto ai dati biologici –
Margaret Mead aggiunse quella educativa:
Ho scritto questo libro come un contributo alla nostra conoscenza di quanto il
carattere e il benessere umano dei giovani dipendano da ciò che imparano e dalle
modalità sociali della società in cui sono nati e allevati. Questo è ancora qualcosa
che abbiamo bisogno di sapere se vogliamo cambiare le nostre istituzioni sociali,
al fine di evitare il disastro. Nel 1928, il disastro che avevamo davanti era una
guerra incombente; nel 1949, il disastro era una possibile guerra nucleare. Oggi è
anche la crisi ambientale, tecnologica e demografica a minacciare la nostra
esistenza22.

Mead allargò inoltre la problematica educativa alla questione della


sessualità. Partendo dall’osservazione che le donne samoane
coltivavano relazioni sessuali casuali prima di impegnarsi nel
matrimonio e nella famiglia, senza che ciò implicasse alcuna
conseguenza sul loro futuro, e che ciò sembrava anzi ridurre stress e
nevrosi, Margaret Mead prese di fatto posizione a favore della tesi
secondo cui gli adolescenti crescono psicologicamente più sani se
hanno delle attività sessuali con partner multipli prima del
matrimonio.
Al suo ritorno negli Stati Uniti, Margaret Mead ricevette il dottorato e
pubblicò Coming of Age in Samoa con la prefazione di Franz Boas, che
aveva compreso l’importanza del lavoro della sua allieva
Cortesia, modestia, buone maniere, conformità a norme etiche sono definite
universali, ma ciò che costituisce cortesia, modestia, buone maniere, e norme
etiche definite non è universale. È istruttivo sapere che le norme differiscono nei
modi più inaspettati23.

Il libro includeva un’illuminante introduzione, un capitolo di


apertura dedicato a raccontare “un giorno a Samoa” e due capitoli
conclusivi su come trarre insegnamenti dalla cultura samoana per
migliorare l’esperienza degli adolescenti negli Stati Uniti. Rappresentò
quindi molto più di un saggio antropologico e appassionò il grande
pubblico. Come previsto da Boas e Mead, di forte impatto furono
soprattutto le argomentazioni sviluppate intorno alla sessualità.
Risultò particolarmente sconvolgente, per l’epoca, l’osservazione
secondo cui le giovani donne samoane tendono a procrastinare il
momento del matrimonio per molti anni, pur praticando
occasionalmente attività sessuale, e una volta sposate si stabilizzano e
allevano con successo i propri figli.
Una volta provato tramite un lavoro di campo focalizzato
sull’adolescenza che la società determina la personalità più della
biologia e che l’educazione può influire sulla formazione della
personalità24, Margaret Mead poteva confrontarsi con la tematica del
sesso e del temperamento.
Nel corso degli anni Venti e Trenta, Mead svolse un ampio lavoro di
campo in diverse parti del mondo25. Dopo il suo primo soggiorno
solitario a Samoa, fu sempre affiancata da un collaboratore: tra questi,
il suo secondo marito, lo psicologo neozelandese Reo Fortune, e il suo
terzo marito, l’antropologo britannico Gregory Bateson, che sposò nel
193526. Insieme, Mead e Bateson condussero due anni di lavoro di
campo intensivo a Bali, perseguendo i propri diversi interessi di
ricerca. Insieme aprirono la strada al ricorso al film come risorsa per la
ricerca antropologica.
Oltre ai Balinesi, tra i gruppi studiati da Mead vanno ricordati i
Manus delle isole dell’Ammiragliato, e gli Arapesh, i Mundugumor, i
Tchambuli e gli Iatmul della Nuova Guinea. Fu proprio lo studio di tre
popolazioni della Nuova Guinea (Arapesh, Mundugumor e
Tchambuli), che permise a Mead di mostrare che i ruoli sessuali
(all’epoca il termine “genere” non era ancora in uso) differiscono nelle
diverse società, e sono culturalmente determinati piuttosto che innati,
tant’è vero che un comportamento considerato maschile in una cultura
può essere considerato femminile in un’altra.
Il lavoro sul campo in Nuova Guinea evidenziò che le donne erano
dominanti tra i Tchambuli, senza che questo causasse problemi sociali.
Tra gli Arapesh, invece, uomini e donne vivevano in una società
cooperativa, condividendo gli orti, con una particolare attenzione
egualitaria nella crescita dei figli, in un sistema di relazioni
prevalentemente pacifiche tra i membri della famiglia. Tra i
Mundugumor, invece, era vero il contrario: gli uomini e le donne
erano di temperamento bellicoso. Mead ne concluse che le culture – e
non l’anatomia – plasmano il comportamento maschile e femminile. I
risultati della ricerca furono pubblicati in Sex and Temperament in
Three Primitive Societies (1935), che amplia ed elabora le idee
espresse in Coming of Age in Samoa, separando il biologico dal
culturale e infrangendo i pregiudizi basati sulla nozione di “naturale”
nella formazione delle personalità.
Sex and Temperament è uno dei primi lavori che suggerisce che la
mascolinità e la femminilità riflettono dei condizionamenti culturali e
che le differenze tra i sessi non sono interamente determinate dalla
biologia: per questa sua anticipazione del concetto di genere, il testo
diventerà una pietra miliare per la riflessione portata avanti dal
movimento femminista americano, che nella sua seconda fase (1920-
80), una volta conquistato il diritto di voto, si orientò verso i temi della
sessualità e dei ruoli nella vita familiare, oltre che politica e sociale.
Sebbene non le piacesse essere definita femminista, Margaret Mead è
considerata una pioniera del movimento. Le sue opinioni sui ruoli
maschili e femminili erano senz’altro radicali per il tempo in cui viveva
e contribuirono ad abbattere molti tabù che esistevano nella società
americana alla metà del XX secolo. Con il suo elevato profilo
accademico e scientifico e la sua esposizione mediatica e politica,
grazie alla diffusione delle sue pubblicazioni e alla sua attenzione ai
temi della struttura della famiglia, al sesso e all’istruzione, Margaret
Mead ha contribuito con forza alla trasformazione delle norme morali
legate alla sessualità.
Senza voler indicare un modello di famiglia e di società adeguate alla
popolazione multiculturale degli Stati Uniti, Mead ha lottato per il
cambiamento delle convenzioni sociali legate ai ruoli di genere e alla
morale sessuale. La sua convinzione che il comportamento umano non
è biologicamente determinato, ma si adatta alla cultura dominante, ha
nutrito la speranza di molti per un cambiamento positivo della società
in un momento in cui i segnali dell’avvento di un mondo pacifico e
armonioso erano rari.

Conclusioni
Abbiamo spiegato che si deve di fatto a Margaret Mead l’elaborazione
del concetto di genere, nella sua opera Sex and Temperament. Un
altro ambito in cui al suo lavoro va riconosciuta una valenza
pionieristica è il passaggio del focus dell’antropologia dallo studio
delle società “primitive” alle società occidentali. Il testo più
significativo di questo passaggio è The Study of Culture at a Distance,
pubblicato nel 1953 con Rhoda Métraux. Nel testo, la cultura viene
definita come
il comportamento totale condiviso, appreso, di una società o di un sottogruppo.
Così possiamo parlare di una “cultura”, usando il termine per il tutto, o per un
elemento di comportamento “culturale”, riferito al tutto. La situazione esemplare
su cui si basa il concetto antropologico di cultura è quella di una società
funzionalmente autonoma che ha mantenuto la sua esistenza attraverso un
numero sufficiente di generazioni perché ogni stadio della vita dell’individuo sia
incluso nel sistema27.

Questa definizione vale tanto per le società che venivano dette


“primitive” tanto per le società occidentali, che presentano un
“carattere nazionale” e una suddivisione interna in piccole comunità o
sottogruppi. Per questo Margaret Mead insiste sulla necessità di
distinguere il livello nazionale – per esempio della cultura degli Stati
Uniti –, da quello della tradizione afroamericana o di un gruppo di
mezzadri di colore nel Sudest americano. La celebre antropologa
individua una serie di strumenti metodologici per lo studio
antropologico delle culture occidentali, che comprendono l’analisi
della letteratura, delle culture popolari e del cinema. Va ricordato che
lo studio delle culture popolari si stava affermando in Gran Bretagna
nell’ambito dei cultural studies (Leavis, Hoggart e Williams): la ricerca
di Mead, attenta principalmente alle differenze tra le culture,
s’intersecava con un approccio attento alla diversità infraculturale, tra
la cultura dominante e quella dei dominati (le classi subalterne). Gli
studi di genere si sarebbero introdotti nello spazio interdisciplinare
che si apriva intorno alle molteplici dimensioni della differenza.

1 Lo “spirito guardiano”, elemento culturale presente tra i Nativi del Nord


America, assiste un individuo durante la caccia o la lotta, comparendogli in sogno o
in visione.
2 Il presidente della Columbia University, Nicholas Murray Butler, colse anzi
l’occasione per marcare una rottura con le idee di Boas, ritenute troppo
progressiste sul tema dell’uguaglianza tra uomini e donne.
3 Allievo di Franz Boas, con cui sostenne il dottorato. Tra le sue opere principali,
Cultural and Natural Areas of Native North America (1939) e, con Clyde
Kluckhohn, The Nature of Culture (1952).
4 Benedict 1934: 16.
5 Cfr. ibidem: 46, 37 e 49.
6 I modelli di personalità descritti sono effettivamente quattro: “apollineo”

(controllo delle emozioni attraverso cerimonie), “dionisiaco” (estremizzazione dei


sentimenti e delle passioni), “paranoico” (sospetto e invidia) e “megalomane”
(delirio di potenza e aspirazione al prestigio sociale).
7 Benedict 1934: 56.
8 Ibidem: 54 (trad. dell’autrice).
9 Anche Margaret Mead collaborò alla fondazione dell’Institute for Intercultural
Studies.
10 L’antropologo inglese Geoffrey Gorer (1905-1985) è noto soprattutto per

l’applicazione delle tecniche psicoanalitiche all’antropologia. Dal 1930 visse e


lavorò negli Stati Uniti, dove pubblicò, nel 1943, Themes in Japanese Culture, per
poi tornare nel 1957 in Inghilterra. Il suo testo più conosciuto è Death, Grief, and
Mourning in Contemporary Britain (1965).
11 Ruth Benedict non poté recarsi di persona nel paese del Sol Levante: le sue
fonti furono giapponesi che vivevano in America (Nissei) o prigionieri di guerra.
12 Kluckhohn 1949: 40.
13 Questa la definizione dell’Enciclopedia Treccani
(http://www.treccani.it/enciclopedia/berdache/): «giovane uomo che per ragioni
diverse (fisiologiche, psicologiche, culturali) sceglie di vestirsi da donna
assumendone ruolo e status» (ultima consultazione 8.3.2016).
14 Cfr. Banner 2003. Nonostante i matrimoni e il lavoro sul campo in diverse
parti del mondo, Mead e Benedict rimasero vicine per 25 anni fino alla morte di
Benedict (cfr. Lapsley 2001). Sia Ruth sia Margaret erano favorevoli alle dottrine
dell’amore libero, ma credevano anche nel matrimonio e temevano di
compromettere la loro carriera rivelando la loro relazione (Banner 2003).
15 Ruth Schlossberg Landes (1908-1991), antropologa culturale nota per i suoi

studi sul candomblé brasiliano (pubblicati nel 1947 in The City of Women), è
conosciuta anche per il suo lavoro pionieristico nei campi dell’antropologia di
genere e dell’antropologia dell’educazione. Le donne rappresentarono una delle
principali aree di ricerca da lei frequentate. Cfr.
http://jwa.org/encyclopedia/article/landes-ruth-schlossberg (ultima consultazione
8.3.2016).
16 Pipher 2001: XVI e XVII (trad dell’autrice).
17 Margaret Mead mise in questione l’idea di “salute mentale” basata su una
visione etnocentrica. In un testo del 1949, The Mountain Arapesh (pubblicato in
“Anthropological Papers of the American Museum of Natural History”, vol. 41,
part. 3), sostenne che i test di Rorschach, applicati a popoli indigeni, non
insegnano all’etnologo nulla che egli non conosca già attraverso i metodi propri
dell’etnologia.
18 Cfr. http://www.notablebiographies.com/Ma-Mo/Mead-
Margaret.html#ixzz3itvEbRj7 (ultima consultazione 8.3.2016).
19 Mead 1973: XXIII.
20 Rivista americana rivolta al grande pubblico femminile, fondata nel 1903.
21 Mead 1928: 6-7 (trad. dell’autrice). Per dovere di cronaca va ricordato che nel
1999 un capo samoano pubblicò Coming of Age in American Anthropology:
Margaret Mead and Paradise (Malopa’upo 1999). Il libro contiene una dura critica
del lavoro di Mead, basato, secondo l’autore, su un programma di ricerca che rivela
la profonda arroganza caratteristica di gran parte dell’antropologia, che ha dipinto
immagini di società “primitive”, assumendo che i “primitivi” non debbano
nemmeno essere consultati in merito alla validità del quadro. In ambito
accademico il libro è stato sostanzialmente ignorato, ma va riconosciuto che
prende in esame il lavoro di Mead da un valido punto di vista alternativo e
focalizzando questioni importanti.
22 Mead 1973: XXV (trad. dell’autrice).
23 Boas 1928b: XXII (trad. dell’autrice).
24 Citiamo qui il lavoro sui Manus della Nuova Guinea, Growing Up in New
Guinea (1930), nel quale Mead confuta l’idea che i “primitivi” siano come dei
bambini, ovvero si trovino in una fase iniziale dello sviluppo psicologico. Sulla base
dei suoi risultati, Mead sostenne che lo sviluppo umano dipende dall’ambiente
sociale.
25 Nel corso della sua vita Margaret Mead studiò sette diverse culture del Pacifico
e, negli Stati Uniti, gli Omaha.
26 Oltre ai suoi tre matrimoni, come già ricordato Mead coltivò una stretta
relazione (anche sessuale) con Ruth Benedict, che non fu peraltro il solo rapporto
intimo di Mead con una donna. Per 17 anni (1961-78), infatti, convisse con Rhoda
Métraux (Banner 2003).
27 Mead, Métraux 2000: 22 (trad. dell’autrice).
6. L’ANTROPOLOGIA IN FRANCIA TRA LE DUE GUERRE
MONDIALI: MARCEL MAUSS E GERMAINE TILLION

Paul Broca e la Société d’Anthropologie de Paris


Dopo aver consacrato quattro capitoli all’antropologia culturale
americana, nel cui ambito, tra la fine del XIX secolo e la metà del XX,
nacquero le idee che ispirarono l’antropologia femminista e il concetto
di genere, ritorniamo in Europa, e in particolare in Francia, alla
ricerca del percorso – peraltro tortuoso – che fece di questo paese uno
dei centri di elaborazione della teoria antropologica e del pensiero
femminista. È in Francia infatti che, nei primi anni dopo la fine della
Seconda guerra mondiale, vennero pubblicate due opere fondamentali
per l’antropologia di genere: Le strutture elementari della parentela
di Claude Lévi-Strauss, del 1948, e Il secondo sesso di Simone de
Beauvoir, del 1949.
Abbiamo lasciato la Francia alla metà dell’Ottocento, quando
l’antropologia faticava a staccarsi dalle scienze naturali. Anche nella
seconda metà del secolo l’antropologia francese non giunse a
distinguere tra la storia naturale e la storia sociale dell’uomo. Non a
caso si deve a un medico, Paul Broca (1824-1880), la fondazione, nel
1859, della Société d’Anthropologie de Paris (SAP).
Figura complessa, quella di Paul Broca: scienziato di riconosciuta
autorità, fu autore di importanti ricerche sul funzionamento del
cervello e i meccanismi dell’afasia (è considerato uno dei fondatori
delle neuroscienze). Fu profondamente anticlericale e politicamente
progressista di fronte alle questioni sociali, ma al tempo stesso
difensore del concetto “scientifico” di razza, che cercò di dimostrare
tramite la pratica tradizionale della misurazione dei crani. Con
l’obiettivo di “riformare” l’antropologia, fissò regole più “scientifiche”
per la cranioscopia, sulla base delle quali tentò di stabilire una “scala
di eccellenze” al cui vertice si trovavano i Bianchi e al fondo gli
Ottentotti o i “selvaggi australiani”, al confine dell’universo
indifferenziato degli animali. Giunse perfino a paragonare i “negri”
alle grandi scimmie antropomorfe1.
Tra le motivazioni che spinsero Paul Broca a fondare la Société
d’Anthropologie va annoverato l’isolamento delle sue posizioni
poligeniste all’interno della Société de biologie, presieduta da Pierre
Rayer (1793-1867), nella quale, da Buffon in poi, risultavano
dominanti le tesi monogeniste (Rayer stesso ne era un convinto
assertore)2. Inizialmente, dunque, la Société d’Anthropologie de Paris
si presentava come uno spazio dove il poligenista Paul Broca era
impegnato a provare scientificamente la gerarchia delle razze!
A onore di Broca va almeno ricordato il suo rifiuto dell’idea
dell’esistenza di una “razza ariana”, sostenuta in Francia da un certo
Honoré Chavée, autore di Les langues et les races, poligenista come
Broca. Chavée puntava a dimostrare le teorie poligeniste tramite la
definizione della linguistica come scienza naturale, e ipotizzava
l’esistenza di due razze sulla base della differenza tra lingue
indoeuropee e semitiche.
Le differenti motivazioni che, negli stessi anni, spinsero Paul Broca
in Francia e Lewis H. Morgan negli Stati Uniti a interessarsi
all’antropologia, illustrano forse meglio di qualsiasi altro dato il solco
esistente all’epoca tra l’antropologia europea e quella americana,
nonché le ragioni per cui il pensiero razzista si radicò così
profondamente nell’antropologia europea, che non distingueva ancora
tra storia naturale e storia sociale dell’uomo. Morgan si interrogava
sulle possibilità di incorporare i Nativi americani nella nuova nazione
che si stava costruendo: il suo avvicinamento ai Seneca era
determinato da preoccupazioni culturali e, in gran parte, politiche.
Broca, invece, che accettava pienamente il concetto di divisione tra le
razze, non aveva nessun interesse culturale o “politico” per le
popolazioni non-europee, in maggioranza colonizzate e sottomesse alle
potenze europee: le sue preoccupazioni – nello studiare gli Ottentotti o
gli aborigeni – erano esclusivamente “scientifiche”, finalizzate alla
comprensione della storia naturale dell’uomo. Il suo rifiuto dell’idea di
una differenza razziale tra popolazioni parlanti lingue indoeuropee e
semitiche non aveva motivazioni etiche e universaliste, ma
esclusivamente scientifiche: come medico, Broca aveva chiaro che
l’organo della parola è assolutamente identico per i due gruppi di
parlanti. La linguistica non poteva quindi in alcun modo essere
considerata una scienza naturale ed essere evocata per definire delle
differenze razziali.
Data la vicinanza dell’antropologia alle scienze naturali, il termine
usato in Francia per designare l’antropologia culturale e sociale fu, per
tutto il XIX e la prima metà del XX secolo, “etnologia”. L’uso del termine
“antropologia” si diffuse soltanto negli anni Cinquanta del XX secolo,
quando gli etnologi francesi, inseriti ormai in un ambiente accademico
internazionale, vollero in questo modo facilitare la comunicazione con
i colleghi anglosassoni (Li-Chuan Thau 2012a).

L’Institut d’Ethnologie de l’Université de Paris: una costruzione


coloniale approdata alla Resistenza
Per tutto il XIX secolo, mentre l’antropologia era considerata una
branca delle scienze naturali, all’etnologia – confinata all’attività
museale – mancava ancora lo statuto di disciplina universitaria3. Solo
a partire dal 1925, con la fondazione dell’Institut d’Ethnologie de
l’Université de Paris da parte del Ministère des Colonies (il ministro
competente era, all’epoca, il radical-socialista Édouard Daladier),
l’etnologia acquisì uno statuto accademico e conobbe un rapido
sviluppo, grazie a figure come Marcel Mauss, Lucien Lévy-Bruhl e Paul
Rivet.
La matrice coloniale dell’Institut d’Ethnologie appare quindi
evidente: fondato dal Ministère des Colonies, ne dipendeva per le
sovvenzioni, che variavano in funzione dell’interesse che le
amministrazioni coloniali nutrivano per le sue attività, e della
relazione con l’École coloniale, la scuola per i funzionari delle colonie
fondata nel 1888 (uno dei compiti dell’istituto era appunto quello di
formare i funzionari coloniali con nozioni di etnografia, antropologia e
linguistica: cfr. Li-Chuan 2012a).
Le finalità dell’istituto testimoniano l’intreccio tra dimensione
coloniale e accademica: coordinare, organizzare e sviluppare gli studi
etnologici, in particolare quelli che si riferiscono alle colonie francesi;
formare degli etnologi professionisti «e dare a tutti quelli che, viventi o
destinati a vivere nelle colonie, hanno il gusto degli studi etnologici,
l’istruzione necessaria per perseguirli utilmente»; pubblicare i loro
lavori.
Al tempo stesso, con l’ancoraggio universitario, i tre fondatori –
Lucien Lévy-Bruhl, il primo direttore dell’istituto, professore di
filosofia alla Sorbona, e i due segretari generali, Marcel Mauss,
professore di sociologia all’École Pratique des Hautes Études (passerà
poi al Collège de France) e Paul Rivet, che avrà la cattedra di
antropologia all’Institut d’Ethnologie dal 1928 e trasformerà il MET nel
Musée de l’Homme nel 1937 – si prefiggevano lo scopo di valorizzare
gli studi etnologici e di svilupparli su solide basi scientifiche. Va anche
notato che l’istituto intendeva promuovere tutti gli studi etnografici,
indipendentemente dal loro oggetto, sia rivolti alle culture popolari
europee sia alle “altre”, con un’equiparazione che per l’epoca costituiva
una visione progressista.
Fino al secondo dopoguerra, l’Institut d’Ethnologie rappresentò
l’unica istituzione incaricata di insegnare l’antropologia in Francia e
abilitata a conferire diplomi universitari nella materia – o un diploma
di fine studi, o un certificato di studi superiori d’etnologia, rilasciato
dalla facoltà di Lettere o dalla facoltà di Scienze, a seconda
dall’orientamento del candidato.
Nell’istituto, principalmente sotto la direzione di Marcel Mauss, e nel
Musée de l’Homme, sotto la direzione di Paul Rivet, si formò la prima
generazione di antropologi e di antropologhe francesi (le donne, come
vedremo, furono numerose). Il loro lavoro sul campo si svolse
principalmente in Africa, in territori coloniali francesi: Marcel Griaule,
Germaine Dieterlen4 e Solange de Ganay vissero presso i Dogon
nell’area di Bandagiara del Mali; Denise Paulme5, Deborah Lifchitz6 e
André Schaeffner presso i Dogon di Sangha (sempre nel Mali);
Germaine Tillion e Thérèse Rivière nell’Aurès, nelle montagne dell’Est
algerino. Alcuni di loro parteciparono alla missione etnografica Dakar-
Djibouti condotta dal 1931 al 1933 sotto la direzione di Marcel Griaule.
Nel 1940, questa generazione si trovò travolta dalla tragedia della
Seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista, e nel mezzo del
drammatico scontro tra concezioni radicalmente opposte dell’uomo:
quella universalista dell’unità del genere umano e quella razzista,
gerarchica e genocidaria dei nazisti.
I giovani antropologi furono tra i primi a organizzare la Resistenza in
quello che fu chiamato il “réseau du Musée de l’Homme”, e per questo
pagarono un prezzo altissimo – fucilazioni e deportazioni segnarono il
loro destino.
Non tutti gli etnologi francesi si schierarono dalla stessa parte:
alcuni, specialmente quelli vicini al MNATP (il Musée National des Arts
et des Traditions Populaires), si lasciarono sedurre dalla “rivoluzione
nazionale” del maresciallo Pétain, a capo del governo collaborazionista
con i nazisti7. Florence Weber, nella sua breve storia dell’antropologia,
parla a questo proposito di “zona grigia”: se alcuni membri della
direzione del museo parteciparono alla Resistenza, il gruppo dirigente
fu piuttosto sedotto dal rilancio del folklore voluto dal governo Pétain.
Il vicedirettore André Varagnac fu attivo nell’organizzazione delle feste
del folklore promosse dal regime. Una delle conseguenze delle
prossimità tra tradizioni popolari e regime di Vichy fu la scomparsa
del folklore (il termine assunse anzi un carattere dispregiativo) dalla
ricerca scientifica negli anni del dopoguerra.

Marcel Mauss e il concetto di “fatto sociale totale”


Marcel Mauss (1872-1950) è considerato il padre
dell’etnologia/antropologia culturale francese. Si formò inizialmente
come filosofo e, profondamente influenzato dallo zio Émile Durkheim,
si specializzò in sociologia delle religioni, disciplina che insegnò per
lunghi anni. Nello studio delle religioni, entrò in contatto con i lavori
antropologici di Tylor e Frazer. Come Frazer, Mauss non fu un
antropologo sul campo; egli utilizzava materiale di seconda mano e
spesso tradotto. Fece perciò parte di quelli che gli antropologi
anglosassoni sul campo chiamavano “armchair anthropologists”, ma
questo epiteto sprezzante risulta fuori luogo di fronte al contributo
scientifico che Mauss seppe apportare alla disciplina.
Per Mauss, l’etnologia va intesa sia come riflessione globale su
determinati fatti sociali, sia come inchiesta concreta e diretta, volta
all’indagine di reali situazioni sociali. Egli incoraggiò i suoi allievi a
fare ricerca sul campo, fornendo loro gli strumenti metodologici. Gli
insegnamenti del suo corso “Petites Instructions d’ethnographie
descriptive”, tenuto dal 1926 al 1939, furono raccolti nel Manuel
d’ethnographie, pubblicato nel 1947 dalla sua allieva Denise Paulme
Schaeffner, che recuperò le stenotipie da vari corsisti8.
Mauss propone un nuovo approccio al fatto sociale, definito come
“totale” quando implica dimensioni al tempo stesso economiche,
giuridiche, religiose, estetiche, simboliche. In altri termini, un fatto
sociale totale coinvolge gran parte delle dinamiche della comunità. Per
fatto sociale totale si intende «un tipo di fenomeno che sia al tempo
stesso espressione e sintesi dell’insieme della vita sociale di una data
società. Lo studio di certe configurazioni privilegiate e strategiche
permetterà di comprendere il senso reale delle relazioni sociali»9. Il
fatto sociale totale esprime l’idea che un numero rilevante di fenomeni
sociali non attengono a un solo livello, «che mettono in movimento la
totalità della società e delle sue istituzioni»10.
Per Mauss il fatto sociale totale appartiene alla realtà empirica,
perché la vita sociale è un “tutto”, i cui vari aspetti sono strettamente
interconnessi: scopo dell’antropologia è la ricostruzione di questa
complessità11.
Mauss elabora il concetto di fatto sociale totale nel celebre Essai sur
le don (Saggio sul dono), apparso nel 1923 sulla rivista “L’Année
sociologique”. Non avendo mai svolto lavoro di campo, Mauss fa
riferimento a fenomeni descritti negli studi etnografici di Franz Boas,
Bronisław Malinowski o del francese Charles G. Seligman, riguardanti
le società del Pacifico della Polinesia (Samoa) o della Melanesia
(Nuova Caledonia, Trobriand, Nuova Guinea) e le tribù native della
costa nordoccidentale dell’America.
Mauss analizza il fenomeno della kula delle isole Trobriand, un vasto
sistema di scambio cerimoniale di doni e controdoni che attenua
l’ostilità reciproca e afferma il prestigio, descritto per la prima volta da
Malinowski in Argonauts of the Western Pacific (1922). Egli considera
poi il potlatch delle tribù del Nordovest americano dove la logica
dell’onore è spinta al parossismo: capi e nobili rivaleggiano nella
prodigalità in un consumo sfrenato che porta alla distruzione delle
ricchezze12.
Vi è in questi sistemi, spiega Mauss, un triplice obbligo: dare, ricevere e
scambiarsi i doni. Il dono è di fatto interessato (socialità, prestigio, dominio,
seduzione, rivalità), ma è assolutamente irriducibile a interessi puramente
commerciali: Mauss annulla così l’utilitarismo classico proprio dell’economia
politica. Perché il dono ricevuto è necessariamente ricambiato? Perché la natura
del dono implica – infine – un obbligo. Non ricambiare, significa perdere faccia e
prestigio. C’è un spirito della cosa donata, una forza intrinseca e una parte di sé
nell’oggetto. Questi sistemi di scambio di doni sono dei “fatti sociali totali”, ossia
mettono in moto tutta la società e le sue istituzioni13.

Oltre che alla carriera accademica, Marcel Mauss si dedicò alla


politica. Aderendo da giovane al partito socialista, militò tra i
dreyfusardi (sostenitori del colonnello Dreyfus, ingiustamente
condannato per tradimento e vittima dell’antisemitismo), frequentò
Jean Jaurès, segretario del partito socialista, partecipò nel 1904 alla
fondazione del giornale “L’Humanité”. Si consacrò all’esperienza delle
università popolari e dei movimenti cooperativi. La sua adesione a un
socialismo pluralista e liberale traspare nelle conclusioni dell’Essai sur
le don, dove il dono è considerato la forma arcaica dello scambio, e in
cui viene ricordato tutto ciò che si è perduto nella qualità dei rapporti
umani nel momento in cui lo scambio è diventato puramente
economico.

Una generazione di antropologi nella tormenta della Seconda guerra


mondiale: Germaine Tillion
Nel 1940, a seguito dell’occupazione nazista della Francia, Marcel
Mauss (di origine ebraica) fu obbligato a ritirarsi dall’Institut
d’Ethnologie. Egli non si riprenderà mai dagli orrori dell’occupazione
nazista, e specialmente dalla fucilazione di due dei suoi allievi più cari,
Boris Vildé e Anatole Lewitsky, membri della Resistenza, di cui il
Musée de l’Homme fu un centro nevralgico.
Le donne antropologhe pagarono anch’esse un prezzo altissimo alla
guerra. Deborah Lifchitz è il caso più drammatico: nata in Russia, a
Karkhiv, nel 1907, ne fuggì con la famiglia nel 1919 in seguito alla
Rivoluzione d’ottobre, studiò lingue orientali e diventò esperta delle
lingue semitiche dell’Etiopia (in particolare il falasha). Partecipò alla
missione Dakar-Djibouti nel 1932-33 e fece ricerche presso i Dogon
con Denise Paulme14. Scrisse un libro e diversi articoli ancora oggi
fondamentali per la ricerca sulle lingue etiopi. Arrestata e poi
deportata dai nazisti perché ebrea, morì ad Auschwitz nel 1942.
Yvonne Oddon, bibliotecaria al Musée de l’Homme, fu deportata nel
campo di concentramento di Ravensbrück, come pure Germaine
Tillion. Vale la pena di soffermarsi su quest’ultima, la cui figura è
particolarmente importante per l’antropologia di genere.
Originaria dell’Alta Loira, Germaine Tillion15 ha sei anni meno di
Margaret Mead e, come lei si appassiona di antropologia; come lei,
decide dopo il diploma all’Institut d’Ethnologie nel 1932 di stilare una
tesi basata sul lavoro di campo, sotto la direzione del suo maestro
Marcel Mauss. Come Mead, Germaine viaggia per svolgere le sue
ricerche16 (a ventisette anni vive per anni con la tribù seminomade
degli Ah-Abderrahman, nell’Aurès, massiccio montagnoso algerino)17.
Come Mead, sostiene brillantemente la tesi (Morphologie d’une
république berbère: les Ah-Abder-rahman, transhumants de l’Aurès
méridional), comincia a pubblicare i suoi primi studi etnologici ed è
assunta al CNRS. Tra il 1934 e il 1940, Germaine Tillion compie in
totale quattro missioni nel Sud dell’Algeria.
Nel 1940, le vite finora quasi parallele delle due antropologhe si
biforcano verso percorsi che più nulla hanno in comune. Nel
settembre del 1939 la Germania scatena la guerra in Europa; nel 1940
la Francia è invasa e Germaine partecipa alla Resistenza con il gruppo
del Musée de l’Homme: Yvonne Oddon, Paul Rivet, Anatole Lewitsky,
Boris Vildé. Nel 1941 cominciano gli arresti, prima Lewitsky e Oddon,
poi Vildé. Tillion è arrestata insieme alla madre Émilie nel 1942 e,
dopo diversi mesi nelle prigioni francesi, deportata a Ravensbrück.
Così descrive Germaine Tillion le sue prime impressioni, quello che
poi definirà come l’haleine du camp (“l’alito fetido del campo”):
Tutti gli uomini e le donne che hanno avuto la sfortuna di conoscere un campo di
concentramento hanno in seguito espresso la percezione immediata e brutale che
precedeva la conoscenza dettagliata di ciò che li attendeva: qualcosa che ti colpiva
in piena faccia, altrettanto evidente come la percezione della morte fa urlare le
bestie inviate al macello18.

Anche la madre Émilie Tillion è deportata a Ravensbrück, dove viene


uccisa nel febbraio 1945. Germaine è invece evacuata dalla Croce
Rossa svedese – con trecento altre detenute –, il 23 aprile 1945, pochi
giorni prima della liberazione da parte delle truppe americane. Inviata
a Göteborg, in Svezia, per un periodo di convalescenza, comincia a
effettuare ricerche sui sopravvissuti dalle deportazioni, raccogliendo le
storie di vita delle sue compagne. Ritorna in Francia alla fine di luglio
del 1945 ed è reintegrata nel CNRS.
La terribile esperienza di Ravensbrück spinge Germaine Tillion a
ridefinire il campo della sua ricerca antropologica, e ad affrontare, per
anni, i temi della deportazione e dell’universo concentrazionario.
Scrutando gli archivi e interrogando i testimoni, si consacra al
tentativo di comprendere quel mondo che non poteva essere
paragonato a nient’altro, nel quale i mostri sono degli uomini, spesso
perfino uomini comuni. Nel 1947 pubblica un primo studio sui campi
di concentramento in un’opera collettiva, Ravensbrück. Lo stesso
anno, all’interno del CNRS, passa dalla sezione “Sociologie africaine”
alla sezione “Histoire moderne”, diventando responsabile della ricerca
su donne e bambini deportati dalla Francia. Pubblica la ricerca sulle
trecento sopravvissute di Ravensbrück con le quali ha condiviso il
periodo di convalescenza a Göteborg nel 1946. Due nuove edizioni
usciranno nel 1972 e nel 1988.
L’esperienza dei campi spinse Germaine Tillion verso un impegno
totalizzante nella ricerca della giustizia, e nel dopoguerra le vite
parallele di Margaret Mead e di Germaine Tillion si ricongiunsero
nell’impegno per un mondo migliore. Attiva nella ricerca di una giusta
soluzione per la guerra d’Algeria, per esempio, Tillion moltiplicò gli
appelli contro la tortura e partecipò a una commissione d’inchiesta
internazionale sulle prigioni francesi in Algeria nel 195719.
Germaine Tillion o “l’impegno per il genere umano” la definì il
quotidiano “l’Humanité” nel 2008, nel necrologio in suo onore, alla
conclusione di una lunghissima vita (visse infatti oltre cent’anni).
Le harem et les cousins: antropologia della condizione femminile nel
Mediterraneo
Un’altra battaglia condotta da Germaine Tillion che non può essere
dimenticata in un manuale d’antropologia di genere è quella sulla
condizione femminile. Il suo lavoro di campo in Algeria l’aveva indotta
a interrogarsi sulla condizione della donna nel bacino mediterraneo: i
risultati delle sue ricerche – condotte in diverse aree del Maghreb e del
Medio Oriente – e delle sue riflessioni furono pubblicati nel 1966 in un
libro che per le sue idee originali suscitò un ampio dibattito: Le harem
et les cousins20.
Per Tillion, la condizione di subordinazione delle donne nella regione
del Mediterraneo non può essere spiegata né con il clima né con la
gelosia maschile, né, men che meno, con la religione. L’antropologa
sottolinea in particolare come l’Islam non possa essere considerato
responsabile di un’oppressione che esisteva già prima che la nuova
religione arrivasse sulle coste del Mediterraneo. Le origini di questo
fenomeno risalgono piuttosto, a suo avviso, all’inizio della civiltà,
quando comparvero l’agricoltura e l’allevamento e sorsero le prime
città. In questa fase si delinearono due possibili forme di
organizzazione: da un lato la “repubblica dei cognati”, dove il tabù
dell’incesto obbliga all’esogamia e, di conseguenza, a stabilire relazioni
con i clan vicini; dall’altro la “repubblica dei cugini”, nella quale si
preferisce “vivere tra i propri” in un quadro tribale e familiare che opta
per l’endogamia. Per Tillion, all’inizio del Neolitico, nel Medio Oriente
e nel bacino del Mediterraneo, sia per ragioni economiche sia per una
logica d’onore il cui obiettivo è preservare la purezza del lignaggio,
prevalsero la “repubblica dei cugini” e il matrimonio endogamico. Il
prevalere di questo tipo di organizzazione portò a un degrado della
condizione femminile, sul piano giuridico, sociale e vestimentario.
Nel corso dei secoli si è poi delineato un conflitto tra la società tribale
(di nomadi o di contadini), endogamica, e la società degli abitanti delle
città, dove la promiscuità ha finito per diventare inevitabile. Se il
secondo tipo di società è diventato oggi predominante, ciò non è
avvenuto senza resistenze. Nei paesi del Mediterraneo, per ragioni
geografiche e storiche, e in particolare nei paesi islamici, la barriera tra
la famiglia e lo stato, tra gli uomini e le donne della comunità, è stata
mantenuta attraverso la clausura o semiclausura delle donne, il
matrimonio tra cugini, il velo, la punizione delle mogli adultere,
specialmente quando il “crimine” viene commesso con un “estraneo”.
Qualunque sia la loro influenza di fatto nella famiglia, le donne sono
state escluse dalla vita pubblica. Con il pretesto di non intaccare le
strutture tribali, a volte è stato perfino loro negato il diritto all’eredità,
per quanto si tratti di un diritto riconosciuto dal Corano. Secondo
Germaine Tillion, atteso che l’evoluzione verso la società dei cittadini è
ormai inevitabile, per le donne il periodo di transizione verso
l’emancipazione rischia di essere lungo e difficile.
Al confine della preistoria e della storia, dell’etnologia e della
sociologia, Le harem et les cousins rappresenta il primo tentativo di
costruire una teoria esplicativa sulla condizione della donna nel
Mediterraneo.

Claude Lévi-Strauss e lo Statement on Race dell’UNESCO


Durante la Seconda guerra mondiale, alcuni antropologi scelsero
l’esilio negli Stati Uniti21. Tra di essi Claude Lévi-Strauss, che
racconterà la sua fuga dall’Europa in Tristi tropici, pubblicato nel
1955, o in America Latina, come Paul Rivet, che fondò l’Instituto
Etnológico Nacional in Colombia.
Il loro rientro non fu facile: le tracce della tragedia europea erano
ovunque, nelle città distrutte, negli animi delle persone e nelle idee. Le
teorie di presunte superiorità razziali, che avevano alimentato
ideologie omicide e pratiche aberranti, non erano rimaste confinate
nei deliri di dittatori e nelle organizzazioni partitiche, ma erano state
avallate e promosse anche da una parte del mondo accademico. Le
misurazioni dei crani, praticate dagli antropologi del secolo XIX,
avevano per esempio trovato grotteschi seguaci tra i medici nazisti.
Il continente andava ricostruito, non solo materialmente, ma anche
spiritualmente. Era dunque indispensabile fare i conti con un pensiero
razzista che aveva trovato, in una parte dell’antropologia europea, una
sponda teorica.
Al momento di affrontare la ricostruzione del continente, gran parte
del mondo politico, accademico e intellettuale angloamericano e i
rappresentanti delle Resistenze europee concordarono che il ripristino
della pace tra i popoli doveva passare per la condanna ferma – non
solo morale, ma anche scientifica – del razzismo biologico e della
nozione biologica di “razza”, che era stata fino ad allora diffusamente
accettata ed era ormai parte del senso comune europeo (anche tra gli
oppositori delle ideologie fascista e nazista). Claude Lévi-Strauss fu tra
gli intellettuali europei più attivi in questa operazione culturale
guidata dall’UNESCO.
La condanna morale e scientifica del razzismo è, infatti, strettamente
collegata alla fondazione delle Nazioni Unite, progetto le cui basi erano
state gettate nell’agosto del 1941, durante un incontro tra il presidente
degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt22 e il primo ministro britannico
Winston Churchill nel mezzo dell’Atlantico che aveva come obiettivo
quello di disegnare i contorni del mondo del dopoguerra. In
quell’occasione i due capi di stato avevano sottoscritto la Carta
Atlantica, un documento nel quale l’idea dell’uguaglianza dei diritti
compare tra i principi che – una volta distrutta la tirannia nazista –
avrebbero dovuto ispirare la collaborazione internazionale al fine del
mantenimento della pace23. La Carta afferma, infatti, che tutti gli
uomini, in tutti i paesi, devono poter vivere liberi dalla paura e dal
bisogno. I principi della Carta saranno alla base della nascita
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, sancita il 24 ottobre 1945 con
l’entrata in vigore del suo statuto, nel cui preambolo i paesi firmatari si
impegnano a riaffermare «la loro fede nei diritti umani fondamentali,
nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei
diritti dell’uomo e della donna». Per la prima volta si afferma, in un
documento internazionale, l’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna.
Nel 1946, il presidente americano Harry Truman, salito alla Casa
Bianca dopo la morte di Roosevelt nel 1945, nominò la vedova di
quest’ultimo, Eleanor, da sempre impegnata in battaglie per la
giustizia sociale, delegato presso le Nazioni Unite in qualità di capo
della Commissione per i Diritti Umani. Eleanor Roosevelt svolse un
ruolo molto importante nella formulazione della Dichiarazione
universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle
Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Nella Dichiarazione universale dei diritti umani, si afferma il
principio dell’uguaglianza dei diritti e si rigetta qualsiasi forma di
discriminazione in base alla razza. L’articolo 1 afferma:
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati
di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di
fratellanza.

Il secondo rigetta le distinzioni di sesso e razza:


A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente
Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di
lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o
sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

Nell’ambito delle Nazioni Unite fu creato, nel novembre del 1945,


l’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la
scienza e la cultura), il cui atto costitutivo entrò in vigore nel
novembre dell’anno successivo. Nel preambolo dell’atto costitutivo si
legge:
La grande e terribile guerra appena terminata è stata resa possibile dal
rinnegamento dell’ideale democratico di dignità, di uguaglianza e di rispetto della
persona umana e della volontà di sostituirlo utilizzando l’ignoranza e il
pregiudizio, dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini24.

Uno dei primi obiettivi dell’organizzazione è dunque promuovere la


presa di coscienza dei pericoli dell’intolleranza e del razzismo.
Nel 1949 l’UNESCO lanciò un programma per combattere il razzismo,
di cui fu inizialmente responsabile il direttore del Dipartimento di
Scienze sociali, Arthur Ramos (1903-1949)25, medico, psichiatra ed
etnologo brasiliano, che convocò una serie di studiosi per dibattere il
tema, tra cui gli antropologi Ashley Montagu (1905-1999), allievo di
Boas26, l’ispano-messicano Juan Comas Camps (1900-1979) e Claude
Lévi-Strauss.
La morte prematura di Ramos non fermò i lavori del gruppo, il cui
segretario era Montagu, fermo oppositore di ogni determinismo
biologico, anche come fattore esplicativo delle differenze tra il
maschile e il femminile. Nel gruppo di lavoro, però, biologi e
antropologi umani hanno posizioni meno radicali di Montagu o Comas
e si rende necessario un compromesso: la dichiarazione finale insisterà
sull’unità del genere umano e sulla condanna del razzismo, ma non
delegittimerà completamente l’uso del termine “razza”.
Lo Statement on Race (Dichiarazione sulla razza) – il primo
documento dell’UNESCO sul tema, approvato nel 1950 – è comunque
importante perché nega qualsiasi correlazione tra la differenza
fenotipica nelle “razze” umane e la varietà delle caratteristiche
psicologiche, intellettive e comportamentali. Riportiamo qui la
dichiarazione nella sua integralità:

Una razza, dal punto di vista biologico, può essere definita come uno dei gruppi di
popolazioni che costituiscono la specie homo sapiens. Questi gruppi sono in
grado di ibridarsi l’uno con l’altro, ma, in virtù delle barriere isolanti che in
passato li tenevano più o meno separati, manifestano alcune differenze fisiche a
causa delle loro diverse storie biologiche.
In breve, il termine “razza” indica un gruppo umano caratterizzato da alcune
concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni)
o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del
tempo a causa dell’isolamento geografico.
In materia di razze, le uniche caratteristiche che gli antropologi possono
efficacemente utilizzare come base per le classificazioni sono quelle fisiche e
fisiologiche.
In base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità
differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al
comportamento27.

Dopo la dichiarazione, nel 1952, l’UNESCO pubblicò una serie di testi


dedicati al problema del razzismo. Per l’occasione Claude Lévi-Strauss
scrisse Race et histoire (1952), su cui così si esprime Ugo Fabietti nella
prefazione all’ultima edizione italiana:
A distanza di anni rimane un manifesto antirazzista attuale, importante, inoltre,
per lo spirito divulgativo con cui l’autore tocca aspetti cruciali della ricerca
antropologica. Lévi-Strauss precisa nozioni come “civiltà”, “cultura”, “società” e
considera in modo critico quelle di “differenza razziale“, “etnocentrismo”,
“progresso”28.

Con la Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO si afferma, nel


documento ufficiale di un organismo internazionale, che la biologia
non è destino. La critica al determinismo biologico, ormai accettata
per ciò che riguarda la razza, comincia a interessare anche la nozione
di “natura” maschile e femminile. Nel 1953 Montagu pubblicò un testo
per l’epoca provocatore, The Natural Superiority of Women, nel quale
attaccava il determinismo biologico riferito alla natura femminile,
mostrando come le qualità emotive e sociali tipicamente attribuite alle
donne, e per questo svalorizzate, siano la chiave per una vita e un
sistema di relazioni basati sulla giustizia sociale.

Conclusioni
Abbiamo visto come i percorsi dell’antropologia americana e
dell’antropologia francese siano rimasti divisi per tutto il XIX secolo. La
fondazione della scuola di etnologia da parte di Mauss, Rivet e Lévy-
Bruhl rappresentò una svolta importante che favorì i contatti e la
prossimità scientifica nel periodo tra le due guerre. Tuttavia,
l’etnologia francese e l’antropologia culturale americana operarono in
contesti politici molto diversi, una direttamente in contatto con la
politica colonialista, l’altra no.
La Seconda guerra mondiale provocò una fase di distacco imposto,
ma anche di avvicinamento, dato che alcuni antropologi esiliati negli
Stati Uniti, come Claude Lévi-Strauss, riportarono in Europa la netta
distinzione boasiana tra lo studio della cultura e l’antropologia umana
ancora intrappolata nel concetto di “razza”.
Scriveva Lévi-Strauss in Race et histoire:
Il peccato originale dell’antropologia consiste nella confusione tra la nozione
puramente biologica della razza (ammesso, peraltro, che anche su questo terreno
limitato, questo concetto possa pretendere una qualche obiettività negata dalla
genetica moderna) e le produzioni sociologiche e psicologiche delle culture
umane. A Gobineau è stato sufficiente commetterlo per essere intrappolato nel
circolo infernale che conduce da un errore intellettuale – non necessariamente in
malafede – alla legittimazione involontaria di tutti i tentativi di discriminazione e
di sfruttamento29.

L’antropologia europea andava ora rifondata su nuove basi.


1 Blanckaert 1997.
2 Sulla nascita della Société d’Anthropologie cfr. il seguente testo di Jean-Louis
Fischer, ricercatore al CNRS e membro dell’Académie internationale des sciences;
http://www.archivesdefrance.culture.gouv.fr/action-culturelle/celebrations-
nationales/2009/sciences-et-techniques/paul-broca-fonde-la-societe-d-
anthropologie/ (ultima consultazione 8.3.2016).
3 Il primo museo etnografico di Francia fu il MET, Musée d’Ethnographie du
Trocadero, creato nel 1880 su indicazione di Jules Ferry, con oggetti provenienti da
vari altri musei.
4 Germaine Dieterlen (1903-1999) allieva di Marcel Mauss, sopravvisse al periodo
bellico vivendo nel Mali, dove studiò sul campo i Dogon e i Bambara a Bandagiara
assieme a un altro allievo di Boas, Marcel Griaule (1898-1956).
5 Denise Paulme (1909-1998), anch’essa allieva di Mauss, svolse le sue prime
ricerche sul campo nel 1935, presso i Dogon a Sangha in compagnia di Deborah
Lifchitz. In seguito, con il marito, l’etnomusicologo André Schaeffner, anch’egli
allievo di Marcel Mauss, soggiornò presso i risicultori Kissi dell’Alta Guinea, i
Bagas della Guinea e i Bétés della Costa d’Avorio. Fu responsabile del Département
d’Afrique noire del Musée de l’Homme fino al 1961.
6 Sulla biografia di Deborah Lifchitz ci soffermeremo più a lungo infra.
7 Christophe, Boëll e Meyran 2009.
8 Mauss, traumatizzato dalle vicende della guerra, non fu in grado di continuare
l’attività scientifica negli anni che precedettero la sua morte nel 1950. Il Manuale
di etnografia, ripubblicato in diverse edizioni, fu tradotto in italiano nel 1969.
9 Copans 1974: 40.
10 Mauss 1950: 274.
11 Mauss 1950: 237; Kilani 1992: 55.
12 Per una definizione della kula e del potlatch cfr.
http://www.treccani.it/enciclopedia/kula/ e
http://www.treccani.it/enciclopedia/potlatch/ (ultima consultazione 8.3.2016).
13 Souty 2003: 8 (trad. dell’autrice).
14 Dal Mali riportò due opere di arte dogon attualmente esposte al Louvre e al
Musée du Quai Branly.
15 A Germaine Tillion è anche dedicato un sito: http://www.germaine-tillion.org
(ultima consultazione 8.3.2016).
16 Fu Marcel Mauss ad aiutare Tillion a ottenere una borsa di studio
dall’International Institute of African Languages and Civilizations, con base a
Londra, per la missione di ricerca nell’Aurès. Nel dicembre del 1934 l’antropologa
partì con Thérèse Rivière, sorella del vicedirettore del MET, reclutata anch’essa per
questa missione col compito principale di raccogliere oggetti, mentre a Tillion
spettava il compito dell’indagine etnografica.
17 Ecco come Germaine Tillion ricorda le sue prime esperienze di antropologa nel

testo Il était une fois l’ethnographie: «L’etnografia non era ancora una carriera
affollata, come diventerà più tardi; si entrava in etnografia come si entra in
religione, con grandi principi, raccoglimento e il gusto del sacrificio» (Tillion 2000:
130; trad. dell’autrice). La studiosa racconta le varie tappe dell’esperienza di un
giovane etnologo: la visita ai capi tribù, poi alle famiglie, l’apprendimento della
lingua e delle abitudini sociali, l’arte della conversazione e dell’inchiesta, la raccolta
delle storie e dei racconti, tutte fasi per le quali è necessaria l’accettazione
dell’intruso nella vita della comunità.
18 Tillion 1946: 22.
19 Aa. Vv. 2000: 91.
20 Alcune idee sul tema erano già state espresse in Les femmes et le voile dans la
civilisation méditerranéenne (1964).
21 Era stato anche messo in atto un vero e proprio programma per salvare gli
scienziati dell’Europa occupata, con il sostegno della Rockefeller Foundation e
della New School for Social Research di New York.
22 Gli Stati Uniti al momento non erano ancora entrati nel conflitto (lo faranno
solo nel mese di dicembre del 1941, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour).
23 L’articolo 6 della Carta Atlantica afferma precisamente: «Dopo la definitiva
distruzione della tirannia nazista, essi sperano di veder ristabilita una pace che dia
a tutte le nazioni i mezzi per vivere sicure entro i loro confini, e assicuri che tutti gli
uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno».
24 http://www.clubunescogenova.it/025.htm (ultima consultazione 8.3.2016).
25 Noto soprattutto come autore del saggio antropologico O negro brasileiro
(1934).
26 Nato a Londra da una famiglia di origine ebraica, Ashley Montagu si era poi

trasferito negli Stati Uniti. Nel suo saggio Man’s Most Dangerous Myth: The
Fallacy of Race (1942) sostenne che la razza è soltanto un mito e una costruzione
sociale, e che l’uso del termine va eliminato dalla ricerca scientifica. Anche Comas
Camps sosteneva che il concetto di razza non ha alcun fondamento scientifico.
27 Versioni rivedute della dichiarazione furono pubblicate nel 1951, 1967 e 1978.
Cfr. amche
https://en.unesco.org/70years/leading_fight_against_racism#sthash.xEsfZkoV.dpuf
(ultima consultazione 8.3.2016).
28 Fabietti 2012: 343.
29 Lévi-Strauss 1952: 10 (trad. dell’autrice).
7. CLAUDE LÉVI-STRAUSS E LO STRUTTURALISMO

Incesto e scambio
Alla fine degli anni Quaranta, l’antropologo Claude Lévi-Strauss concepirà la
natura e la cultura come due realtà che si articolano attraverso un’istituzione
universale: la proibizione dell’incesto. Proibizione che sintetizza il passaggio dalla
natura alla cultura e regolamenta la vita sessuale e le relazioni tra i sessi e dalla
quale discende, in forma diretta e naturale, lo scambio delle donne tra gruppi di
uomini. Da parte sua, la filosofa esistenzialista Simone de Beauvoir, con il suo
celebre «non si nasce donna», apre in quegli stessi anni una via di riflessione
fondamentale che teoriche e militanti femministe riprenderanno negli anni
Settanta1.

Le opere a cui si fa riferimento sono Les structures élémentaires de


la parenté di Claude Lévi-Strauss (1948) e Le deuxième sexe di
Simone de Beauvoir (1949), pubblicati negli stessi anni in cui le donne
francesi votarono per la prima volta (1947) e la Dichiarazione dei
diritti umani delle Nazioni Unite proclamava l’uguaglianza tra i sessi
(1948).
Claude Lévi-Strauss scrisse Le strutture elementari della parentela
durante l’esilio negli Stati Uniti. Nell’opera si ritrova l’influenza degli
antropologi americani, ma anche, e soprattutto, quella di Marcel
Mauss, in particolare per quello che riguarda i riferimenti al Saggio
sul dono e il concetto di “fatto sociale totale”. Lévi-Strauss affronta qui
diversi temi che erano al centro degli interessi dell’antropologia fin dai
suoi inizi (il ruolo della famiglia, la proibizione dell’incesto e gli scambi
tra i gruppi) e – ponendo al centro della riflessione la genesi del
legame sociale – estrae il concetto di parentela dal campo della
biologia (il fatto riproduttivo, ritenuto centrale dai funzionalisti) e lo
iscrive in quello della cultura, ridefinendo l’opposizione tra natura e
cultura. E il tabù dell’incesto si trova appunto all’intersezione tra
natura e cultura.
Se la natura è definita dall’universalità e la cultura è specifica per
ogni gruppo sociale, è stato però empiricamente stabilito che la
proibizione dell’incesto ha un carattere universale, perché forme di
tabù dell’incesto appaiono in ogni società conosciuta, anche se le
regole specifiche variano da una società all’altra. La proibizione
dell’incesto è dunque un fenomeno universale e costituisce
il passo fondamentale grazie al quale, per il quale, e soprattutto nel quale, si
compie il passaggio dalla natura alla cultura. In un certo senso essa appartiene
alla natura, giacché costituisce una condizione generale della cultura: di
conseguenza non bisogna meravigliarsi che essa ritenga dalla natura il suo
carattere formale, ossia l’universalità. Ma in un certo altro senso essa è già la
cultura che agisce e impone la propria regola in seno a fenomeni che inizialmente
non dipendono da lei2.

Lévi-Strauss solleva dubbi sulle principali tesi che tentano di


spiegare le origini della proibizione dell’incesto. Egli ricusa l’ipotesi
che l’incesto sia proibito perché l’esperienza ha dimostrato che esso ha
comportato conseguenze negative per i posteri. Critica anche la
spiegazione (suggerita da Havelock Ellis e da Westermarck) che fa
riferimento alla riluttanza a scegliere come partner sessuali persone
con le quali abbiamo vissuto a lungo (o per l’impatto sull’eccitabilità
erotica o per ragioni psicologiche)3.
La sua tesi, tema centrale di tutto il libro, è che la proibizione
dell’incesto appare come una particolare specie di intervento che
regolamenta lo scambio4. In qualsiasi momento, una società può
mettere a disposizione degli individui che la compongono un numero
limitato di risorse. Se si tratta di una società minacciata dalla scarsità
delle risorse – e questo è il caso di tutti i popoli cosiddetti “primitivi” –
un intervento degli organi di governo (anche se molto differenti nelle
diverse culture), per mezzo di singoli decreti o regole generali, è
necessario per regolare lo scambio.
Riprendendo gli studi di Marcel Mauss, Lévi-Strauss evidenzia poi
due osservazioni:

lo scambio, che nelle società arcaiche è fondamentalmente un


dono (donazione e contro-donazione), non è solo economico, ma
definisce la reciprocità: il valore di trasferimento concordato da
un individuo all’altro li rende partner e aggiunge una nuova
qualità al valore trasferito;
lo scambio appare come un sistema di “prestazioni totali”, e le
donne, quindi, possono essere oggetto di scambio. La
proibizione dell’incesto implica lo scambio delle donne e ha
pertanto una contropartita positiva.

Le strutture della parentela sono perciò correlate alle forme di


scambio e il divieto dell’incesto non può essere pienamente colto se
non si considera la sua positiva contropartita: la reciprocità introduce
in ciascun gruppo che è parte dello scambio uno squilibrio dinamico.
Se gli uomini di un clan, un gruppo, non hanno la possibilità di
accoppiarsi con le donne appartenenti allo stesso gruppo, queste
ultime verranno allora scambiate, come fossero dei beni di commercio,
con altri gruppi.
Il divieto dell’uso sessuale della figlia o della sorella costringe a darla in moglie a
un altro uomo e, allo stesso tempo, crea un interesse per la figlia o la sorella di
quell’altro. Così, tutte le disposizioni negative del divieto hanno una controparte
positiva. La difesa equivale a un obbligo e la rinuncia apre la strada a una
rivendicazione5.

In ogni gruppo si delinea la contrapposizione tra due tipi di donne, o


meglio tra due tipi di relazioni con le donne – la sorella o la figlia
(proibite sessualmente e che possono essere cedute a un altro
uomo/alleato) da una parte, e dall’altra la moglie, vale a dire la donna
che si può acquisire. La donna parente e la donna alleata.
Grazie all’esogamia la famiglia è in grado di stabilire relazioni esterne
che rafforzano la solidarietà sociale:
Considerata come una interdizione, la proibizione dell’incesto si limita ad
affermare, in un settore essenziale per la sopravvivenza del gruppo, la
preminenza del sociale sul naturale, del collettivo sull’individuale,
dell’organizzazione sull’arbitrio. Ma già a questo punto dell’analisi la regola, in
apparenza negativa, ha generato il suo converso: infatti ogni interdizione è,
contemporaneamente e sotto un altro rapporto, una prescrizione6.

Il rapporto fra un uomo e una donna riassume in sé quello fra altri


uomini e altre donne:
La proibizione dell’incesto non è tanto una regola che vieta di sposare la madre, la
sorella o la figlia, quanto invece una regola che obbliga a dare ad altri la madre, la
sorella o la figlia. Le regole della parentela e del matrimonio ci sono apparse come
tali da esaurire, nella varietà delle loro modalità storiche e geografiche, tutti i
possibili modi di assicurare l’integrazione delle famiglie biologiche nel seno del
gruppo sociale. Abbiamo così constatato che numerose regole, in apparenza assai
complicate e arbitrarie, possono ridursi a pochissime […] Al limite, tutto
l’imponente apparato delle prescrizioni e delle proibizioni potrebbe essere
ricostruito a priori in funzione di una e una sola domanda: qual è, nella società in
causa, il rapporto tra la regola di residenza e la regola di filiazione?7

L’autore fonda le sue tesi su una serie di esempi tratti in diverse


culture – australiane, cinesi e indiane.
Lo scambio e la reciprocità sono il fenomeno che Lévi-Strauss
considera come l’istituzione fondamentale di ogni società, il cui
significato è all’origine stessa del legame sociale. L’influenza della
teoria del dono di Mauss su quella dello scambio di Lévi-Strauss è
stata, come lo stesso Lévi-Strauss riconosce, fondamentale per la sua
elaborazione teorica.
Due anni dopo l’uscita di Le strutture elementari della parentela
Lévi-Strauss pubblica un breve testo, Sociologie et anthropologie,
come introduzione agli studi di Mauss, nel quale evidenzia il valore
rivoluzionario del Saggio sul dono:
Per la prima volta, il sociale cessa di essere riferito all’ambito della qualità pura:
aneddoto, curiosità, materia per descrizioni moraleggianti o comparazioni erudite
e diventa un sistema, tra le cui parti si possono scoprire collegamenti, equivalenze
e solidarietà8.

E così si esprime sull’importanza del concetto di “fatto sociale totale”:


«il sociale non è reale se non integrato al sistema»; «la sua costruzione
presuppone un’esperienza individuale (osservare il comportamento di
esseri totali); esso implica un sistema di interpretazione che renda
conto simultaneamente degli aspetti fisici, fisiologici, psichici e
sociologici di tutti i comportamenti». In altre parole, il fatto sociale
totale non è «l’accumulazione arbitraria di dettagli» ma l’espressione
di una esperienza9.
L’influenza di Mauss ha fornito a Lévi-Strauss le basi teoriche per
superare il funzionalismo e fondare lo strutturalismo.
Lo strutturalismo: pensiero simbolico e scambio delle donne
Il metodo di Lévi-Strauss è chiamato strutturalista, ma il suo
concetto di struttura è molto diverso da quello di Radcliffe-Brown, per
il quale la realtà è configurata come una “struttura” nel senso di una
rete di relazioni sociali e personali in cui ogni tratto esercita una sua
specifica “funzione” in relazione al tutto. Per Radcliffe-Brown le
funzioni hanno una qualche forma di utilità, non foss’altro che per
mantenere la coerenza dell’entità sociale. Al contrario, Lévi-Strauss
non è interessato alla struttura dal punto di vista utilitaristico, ma
vuole scoprire la struttura dei processi mentali umani ovvero le
invarianze transculturali del funzionamento del pensiero umano. «Il
principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si
riferisca alla realtà empirica, ma ai modelli costruiti in base a essa»10.
Pur trattando le invarianze del pensiero umano, lo strutturalismo
non è riducibile alla psicologia. Diversamente dalla psicoanalisi, lo
strutturalismo non ipotizza che le strutture psichiche del pensiero
determinino la cultura, ma che esse operino all’interno di contesti
culturali. Le forme culturali esprimono le caratteristiche della mente,
ma non come un semplice riflesso, tant’è vero che è necessario un
profondo lavoro etnografico per capire come esse operano. Quando si
incontra un sistema culturale nuovo, si ha inizialmente
un’impressione d’incoerenza, ma l’analisi strutturale mostra che esso
possiede una sua logica interna, i cui principi possono essere chiariti
solo nei termini dell’inerente struttura della mente umana.
Nel suo progetto di analisi delle strutture, Lévi-Strauss non si limita
allo studio settoriale dei sistemi di parentela, dei miti e di altri sistemi
simbolici, ma intende inserire l’antropologia in una teoria generale
della comunicazione, in una semiologia (scienza dei segni) generale,
quale era stata definita da Ferdinand de Saussure nel Cours de
linguistique générale del 191511. Il concetto di struttura di Lévi-Strauss
fa riferimento alla struttura della lingua, che non può essere compresa
da un semplice inventario dei suoni, in quanto è la relazione tra i suoni
che ne provvede il significato:
In primo luogo, la fonologia passa dallo studio dei fenomeni linguistici coscienti a
quello della loro infrastruttura inconscia; rifiuta di considerare i termini come
entità indipendenti, prendendo invece come base dell’analisi le relazioni tra i
termini; introduce la nozione di sistema; infine, mira alla scoperta di leggi
generali, sia trovate per induzione, sia dedotte logicamente, il che conferisce loro
un carattere assoluto12.

Lévi-Strauss utilizza molti strumenti della linguistica, come il metodo


fonologico – basato sui fonemi13 – nello studio dell’organizzazione
della parentela e delle regole matrimoniali, per esaminare le relazioni
strutturali tra i diversi elementi piuttosto che considerarli isolati. Fino
ad allora gli antropologi, da Morgan a Tylor, da Radcliffe-Brown a
Malinowski, avevano separato le unità della parentela, collegandole
poi in termini di relazioni interpersonali o attraverso il loro significato
sociale o la loro funzione. Applicando alla parentela i metodi
fonologici, Lévi-Strauss passa dalla causalità meccanica (relazione o
funzione) alla logica (sistema):
Come i fonemi, i termini di parentela sono elementi di significato; anch’essi
acquistano tale significato solo a condizione di integrarsi in sistemi; i sistemi di
parentela, come i sistemi fonologici, sono elaborati dall’intelletto allo stadio del
pensiero inconscio; infine la ricorrenza, in regioni del mondo tra loro lontane e in
società profondamente differenti, di forme di parentela, regole di matrimonio,
atteggiamenti ugualmente prescritti tra certi tipi di parenti, ecc., induce a credere
che, in entrambi i casi, i fenomeni osservabili risultino dal giuoco di leggi generali
ma nascoste14.

L’applicazione dei principi della fonologia alle regole della parentela


induce Lévi-Strauss a suggerire che le relazioni tra i sessi (e dunque lo
scambio delle donne) possano essere concepite come una delle
modalità di una grande funzione di comunicazione. Le regole della
parentela e del matrimonio rimodellano le relazioni biologiche e i
sentimenti naturali in uno stato di società, posizionandosi all’interno
di strutture: in questo stato di società sorge il linguaggio, un pensiero
simbolico15. È il pensiero simbolico che assegna alle donne una
posizione specifica rispetto all’uomo: le donne, come le parole, sono
“cose” che possono essere scambiate.
In Le strutture elementari della parentela Lévi-Strauss sostiene che
le donne sono scambiate perché costituiscono il bene per eccellenza, in
quanto esse sono, prima ancora che un segno di valore sociale, “uno
stimolante naturale” dell’istinto sessuale maschile, e che questo
scambio può essere considerato come il primo atto culturale della
specie umana. L’aver posto al centro dell’azione di scambio i maschi –
relegando le donne in una posizione di valori scambiati, anche se
producono segni, in quanto parlano, e ignorando il loro desiderio
sessuale –, sarà all’origine di numerose critiche rivolte a Lévi-Strauss
da parte dell’antropologia femminista (e non solo), come vedremo nei
prossimi capitoli. Una delle sue allieve, Françoise Héritier, introdurrà
nella riflessione strutturalista la questione del valore differenziato dei
sessi e del dominio maschile sul femminile16, che sarà anche al centro
di tanta antropologia femminista.
Anni dopo la pubblicazione di Le strutture elementari della
parentela, il 24 ottobre 1986, Lévi-Strauss, in un’intervista alla rivista
francese “L’Express”, affermò:
Se le femministe preferiscono sostenere che sono le donne che scambiano gli
uomini, questo non altera la teoria; basta rimpiazzare i segni positivi con quelli
negativi e tutto funziona allo stesso modo17.

Questa affermazione non tiene però conto del fatto di aver


considerato le donne come “stimolante naturale” dell’istinto sessuale
degli uomini – una tesi che, pur limitata alla sfera della sessualità, si
basa su un’idea di differenza “naturale” tra gli uomini e le donne…
Eppure, proprio la differenza “naturale” tra l’uno e l’altro sesso era
stata rimessa in discussione della ricerca antropologica di Margaret
Mead, che aveva aperto la strada all’affermazione posta da Simone de
Beauvoir all’inizio del secondo volume di Le deuxième sexe: «On ne
naît pas femme, on le devient» («Donne non si nasce, ma si diventa»).
Anche per quanto riguarda la sessualità.

Lévi-Strauss e Simone de Beauvoir. Le deuxième sexe


Come documenta Lourdes Méndez18, il cammino di Claude Lévi-
Strauss e quello di Simone de Beauvoir si incrociarono solo in poche
occasioni. Lévi-Strauss fece leggere alla filosofa esistenzialista il
manoscritto di Le strutture elementari della parentela. Nel novembre
del 1949 Beauvoir ne pubblicò una recensione elogiativa su “Les temps
modernes”, la rivista da lei fondata con Jean-Paul Sartre e altri, e
l’articolo promosse Lévi-Strauss tra gli intellettuali parigini. La lettura
del manoscritto aiutò Beauvoir a formulare le basi antropologiche del
libro che stava scrivendo, Le deuxième sexe. L’idea dello scambio delle
donne supporta infatti la sua tesi centrale, e cioè che la donna è stata
tenuta in una lunghissima relazione di oppressione rispetto all’uomo,
di cui essa ha rappresentato “l’altro”. Focalizzando il concetto di
“alterità”, Beauvoir riprende l’idea di Lévi-Strauss secondo cui
l’attività mentale dell’uomo tende a organizzarsi intorno a una
struttura binaria e che il passaggio dallo stato di natura allo stato di
cultura si definisce con la sua attitudine a pensare le relazioni
biologiche sotto forma di sistemi d’opposizione. L’attitudine a pensare
la dualità riguarda, per Lévi-Strauss, l’opposizione tra uomini e donne:
Il passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura si definisce con l’attitudine,
da parte dell’uomo, a pensare le relazioni biologiche sotto forma di sistemi di
opposizioni – opposizioni tra gli uomini proprietari e le donne, oggetto di
appropriazione; opposizione, nel campo di queste ultime, tra le spose, donne
acquistate, e le sorelle e figlie, donne cedute…19

Le deuxième sexe è, però, prima di tutto un’opera filosofica: la


categoria dell’alterità deriva dall’idea hegeliana, ripresa da Sartre,
della costituzione del sé come sé di fronte all’altro – il movimento
della comprensione di sé attraverso l’alterità. Quello che Beauvoir
individua nella relazione tra il maschile e il femminile è che la donna è
l’altro rispetto all’uomo, che assume il ruolo di sé; è l’uomo il soggetto,
l’assoluto, lei è l’altro.
L’opera è divisa in due volumi: nel primo vengono analizzati fatti e
miti sulle donne da molteplici prospettive: biologico-scientifica, psico-
analitica, materialista, storica, letteraria e antropologica. Beauvoir
sostiene che nessuna di queste prospettive è sufficiente a spiegare la
definizione della donna come “altro” e la sua oppressione, ma ognuna
di loro contribuisce a definire come tale la condizione generale del
sesso femminile. Per esempio, nella sua discussione sulla biologia e la
storia Beauvoir nota che le donne vivono esperienze come la
gravidanza, l’allattamento e le mestruazioni che non appartengono
all’esperienza dell’uomo. Non sono però queste differenze fisiologiche
che causano la subordinazione femminile, perché né la biologia né la
storia sono “fatti” oggettivi, ma sono sempre incorporati in e
interpretati da una data situazione. Beauvoir riconosce che la
psicoanalisi e il materialismo storico hanno contribuito enormemente
alla comprensione della vita sessuale, familiare e materiale delle
donne, ma sostiene che non sono stati in grado di fornire un quadro
completo: la prima negando qualsiasi possibilità di scelta, il secondo
riducendo tutto alle condizioni materiali, con la negazione
dell’importanza esistenziale dei fenomeni.
Nel primo volume di Le deuxième sexe Beauvoir analizza inoltre
come la biologia, la storia e la psicoanalisi contribuiscano alla
formazione del mito dell’“eterno femminile”, che incorpora molteplici
miti – quello della madre, della vergine, di madre natura –,
imbrigliando la donna in un impossibile, nonché contraddittorio,
ideale, che nega l’individualità delle singole donne. Per esempio, la
storia mostra che, accanto alle rappresentazioni della madre come
rispettata guardiana della vita, ve ne sono di estremamente negative,
come quella della madre come portatrice di morte. La contraddizione
che l’uomo vive – nascere per poi dover morire – è trasferita sulla
madre, al tempo stesso amata e odiata. Questa contraddizione ricorre
in tutti i miti femminili.
Il secondo volume inizia con la già citata, famosa frase «Donne non si
nasce, ma si diventa», con la quale Simone de Beauvoir vuole
distruggere l’essenzialismo secondo il quale le donne sono nate
“femminili” (con diversi modelli di femminilità a seconda delle
culture), per provare invece che esse si “costruiscono” come donne
attraverso la socializzazione. La prima sezione del volume ripercorre
l’educazione della donna dall’infanzia all’adolescenza fino
all’iniziazione sessuale. A ogni tappa, de Beauvoir illustra come le
donne siano obbligate a rinunciare alla loro autentica soggettività per
accettare un ruolo passivo e alienato di fronte al ruolo attivo maschile.
L’autrice esplora poi la passività e l’alienazione della donna
studiando i ruoli di moglie, madre e prostituta per dimostrare come le
donne, anziché realizzarsi attraverso il lavoro e la creatività, sono
costrette a esistenze monotone: occuparsi dei figli, gestire la casa ed
essere ricettacoli sessuali della libido maschile.
Sulla base della convinzione esistenzialista della libertà ontologica
assoluta di ogni essere esistente, indipendentemente dal sesso,
Beauvoir ritiene però che la donna possieda una libertà trascendente
nonostante la sua oggettivazione, alienazione e oppressione. Anche se
non è possibile affermare che le donne siano responsabili
dell’oppressione di cui sono vittime, non si può nemmeno sostenere
che non vi contribuiscano: molte donne che vivono in una cultura
patriarcale sono in qualche modo complici della loro sottomissione,
accettando di godere dei benefici apparenti che essa può portare e
della liberazione da ogni responsabilità che essa promette. Beauvoir
discute in particolare tre tipi di personalità di donne che rinunciano
alla loro libertà: la “narcisista”, la “innamorata” e la “mistica”. In tutti
e tre i casi le donne negano la spinta iniziale della loro libertà
immergendosi nell’oggetto; nel primo caso l’oggetto è se stessa, nel
secondo l’amato e nel terzo l’assoluto, o Dio.
Nelle conclusioni, Beauvoir propone azioni concrete per
l’emancipazione della donna e lo sviluppo della sua individualità. Al
fine di garantire la parità tra uomo e donna, l’autrice si fa promotrice
di radicali riforme sociali: assistenza universale all’infanzia,
coeducazione, contraccezione, aborto legalizzato e, base indispensabile
per l’indipendenza, autonomia economica grazie al lavoro produttivo.
Beauvoir considera il lavoro una grande risorsa per le donne, mentre il
matrimonio e la famiglia nucleare sono visti come un danno per
entrambi i partner, ma in particolare le donne. Il matrimonio, come
qualsiasi altra scelta autentica, deve essere scelto in modo attivo e in
ogni momento, altrimenti si trasforma in un imprigionamento in una
situazione statica.
L’enfasi di Simone de Beauvoir sulla parità d’accesso alle professioni
e, in generale, sull’uguaglianza giuridica ed educativa riprende le
rivendicazioni del primo e del secondo femminismo angloamericano.
Tuttavia, l’insistenza esistenzialista sulla soggettività individuale e
sull’assunzione della responsabilità individuale che si ottiene con la
libertà apre la via alle problematiche del terzo femminismo, di cui
tratteremo nei prossimi capitoli.

Pensiero binario, maschile/femminile, natura e cultura. Phyllis Mary


Kaberry: un’antropologa tra Australia e Gran Bretagna
Sia Claude Lévi-Strauss sia Simone de Beauvoir fondano le loro
teorie sull’idea che la struttura ultima della mente umana, sottostante
la struttura della società, è l’abilità nel compiere distinzioni binarie, la
capacità di distinguere tra il noi e l’altro20. Per Beauvoir l’altro
dell’uomo/maschio è, appunto, la donna. Gli strutturalisti individuano
nel pensiero binario, alla base del funzionamento mentale e del
comportamento umano, la formazione delle diseguaglianze tra uomini
e donne. Scrive Françoise Héritier:
Piuttosto che una teoria, espongo qui uno scenario possibile della maniera,
intellettuale e sociale, con la quale si è messa in moto la diseguaglianza tra gli
uomini e le donne. Gli uomini e le donne sono diversi, di una diversità che è
apparsa irriducibile dall’alba dell’umanità pensante – che nomina e classifica – e
che era direttamente percepita dai sensi, che sia anatomica, gli uni hanno un
pene, le altre una vulva; o fisiologica, la produzione di umori corporali
visibilmente diversi. Queste differenze irriducibili semplici ci servono a pensare la
“medesimezza” [mêmeté] cioè identificazione, uguaglianza con se stesso e con
altri, e la differenza, dato che, per l’Homo sapiens, che riflette su questa
situazione, esse sono all’origine di un sistema di classificazione altrettanto
primordiale e irriducibile, in quanto oppone radicalmente lo stesso al diverso. Le
nostre categorie binarie che oppongono delle nozioni, quantità, valori, anch’esse
apparentemente assolute dato che quello che è caldo non è freddo e che l’unico
non può essere multiplo, derivano da questa esperienza fondamentale. Nel
mondo intero, i sistemi concettuali e i sistemi del linguaggio sono fondati su
queste opposizioni binarie, che oppongono dei caratteri concreti o astratti e che
sono segnati sempre dal sigillo del maschile o del femminile21.

La dicotomia maschile-femminile rinvia a quelle tra natura e cultura:


per Simone de Beauvoir, la donna è l’oggetto privilegiato attraverso cui
l’uomo sottomette la natura – oggetto di fronte alla soggettività
maschile, altro rispetto al sé. La dicotomia maschile/femminile si
intreccia con quella natura/cultura e con la dominazione – maschile –
del culturale sul naturale – femminile.
Come vedremo nei prossimi capitoli, l’approccio dicotomico,
l’irriducibilità del maschile e del femminile, il modello che attribuisce
il simbolismo maschile/femminile al rapporto natura/cultura è ripreso
da numerosi studiosi, come l’antropologa femminista Sherry Ortner.
Altre antropologhe femministe hanno invece criticato sia lo schema
dicotomico tra maschile e femminile, tra natura e cultura, sia
l’attribuzione alla natura di caratteri femminili e alla cultura di
caratteri maschili, in quanto derivati da una concezione propriamente
occidentale della natura.
Tra i primi autori che, con il loro lavoro, si sono posti al di fuori di
un’idea dicotomica del maschile e del femminile, ricordiamo una
coetanea di Claude Lévi-Strauss, Phyllis Mary Kaberry (1910-1977). Di
origine inglese, nata a San Francisco ma cresciuta in Australia (si
definiva «mere English of Australian variety»), Kaberry fu la prima
australiana a ottenere il master in Antropologia culturale alla
University of Sydney, con un lavoro di campo durato due anni (1934-
35) presso gli aborigeni di Kimberley, nel Nord dell’Australia22.
Stabilitasi a Londra, si iscrisse alla London School of Economics
diretta da Bronisław Malinowski. La sua tesi fu pubblicata nel 1939
con il titolo Aboriginal Women: Sacred and Profane e dedicata allo
stesso Malinowski.
Kaberry fu la prima antropologa che studiò la religione e la cultura
degli aborigeni dal punto di vista femminile, superando la visione
riduttiva che aveva relegato le donne nei ruoli di produttrici di cibo e
di madri:
Fino a poco tempo fa, le donne aborigene hanno occupato un posto piuttosto
oscuro nell’antropologia australiana; e, nell’immaginazione popolare, sono state
occultate sotto gli oneri imposti dai compaesani maschi […] è stato con l’obiettivo
di condurre una ricerca più precisa sulle donne in una comunità aborigena che ho
svolto ricerca nell’Australia nordoccidentale nel 1934 e nel 1935-3623.

Kaberry volle considerare le donne aborigene «come personalità


sociali attive, come esseri umani con tutte le aspirazioni, desideri e
bisogni che la carne impone»24 e per questo si interessò alle loro
conoscenze e pratiche religiose, ne esplorò i rituali, accedendo anche
alle cerimonie riservate alle iniziate (e quindi proibite agli uomini, alle
più giovani e alle stesse donne non iniziate).
I dati raccolti mostrarono la centralità dei ruoli femminili non solo
nella sfera produttiva, ma anche in quella spirituale: il prestigio e le
responsabilità del Ngarrangkarni erano infatti altrettanto importanti
per gli uomini e per le donne (il Ngarrangkarni abbraccia l’insieme
della religione e delle leggi aborigene: attraverso i miti, i rituali, l’arte e
la tradizione orale, rivive nel presente l’epoca della creazione del
mondo – quando i poteri degli antenati del tempo del sogno
formarono il mondo umano e fisico, indicando anche il cammino che
l’umanità avrebbe dovuto seguire)25. Mostrando che nel
Ngarrangkarni le donne aborigene erano importanti quanto gli
uomini, Kaberry dissentiva da quanto sostenuto, sulla base del loro
lavoro di campo, negli scritti dei suoi contemporanei Géza Róheim
(1933) e W. Lloyd Warner (1937), secondo i quali la religione
aborigena era dominata dagli uomini e le donne erano escluse
dall’attività religiosa.
Aboriginal Woman: Sacred and Profane di Kaberry è un testo
particolarmente significativo nella storia dell’antropologia di genere,
perché, prendendo in esame le complesse interconnessioni tra genere
e cultura in tutte le dimensioni e assumendo il punto di vista delle
donne, pur senza escludere gli uomini, Kaberry giunge a conclusioni
che contestano un’idea dicotomica del maschile e del femminile.
Kaberry insiste sulla complementarità e sulla cooperazione tra i
generi, mostrando come le responsabilità e il potere femminili siano
equivalenti alle responsabilità e al potere maschile. Mostra inoltre
come i racconti mitologici, dove si racconta come antenati mitici
hanno creato il paesaggio e tutto quello che è in esso contenuto –
acqua, piante, uccelli, insetti e vita animale, rocce… –, lungi dal
riflettere una simbologia basata sulla differenza tra il maschile e il
femminile, non sono legati ad alcun genere.
Kaberry fu dunque una delle prime antropologhe che, presentando
dati che richiedevano un ripensamento dell’opposizione binaria tra il
maschile e il femminile, contribuì a “engender” (cioè a sottrarla alla
visione dicotomica) la metodologia antropologica26.

Conclusioni
Non si è voluto qui analizzare compiutamente l’importanza dell’opera
di Claude Lévi-Strauss per l’antropologia nel suo complesso. Rispetto
allo specifico dell’antropologia femminista, lo strutturalismo fornisce
una chiave di lettura del passaggio dalla natura alla cultura che non è
basata sulla biologia, ma sul codice ultimo della mente umana – la
capacità umana di percepire gli opposti e i contrari, di effettuare
distinzioni binarie, come tra noi e l’altro. La sessualità è naturale, ma
diventa culturale con la proibizione dell’incesto e le regole del
matrimonio esogamico. Dalla regola di concedere parti di “noi” (le
sorelle) e di ricevere gli “altri” (le mogli) discendono tutti gli scambi in
beni, servizi e informazioni. Le donne si sono così trovate a essere
oggetto dello scambio (oltre a essere soggetti portatori di valori).
Dicotomia tra maschile e femminile, alterità: la concreta
organizzazione della società ha prodotto anche una gerarchia:
In maniera costante, le società umane, dalle più “primitive” (secondo il giudizio di
valore di coloro che si ritengono “civilizzati”) alle più sviluppate, presentano lo
stesso tratto organizzatore: una gerarchia delle categorie di sesso
(maschile/femminile) tale che il sesso maschile e i caratteri, le funzioni e
prerogative che gli sono attribuiti collettivamente sono considerati superiori al
sesso femminile e ai caratteri, funzioni e campi che gli sono riservati. Gerarchia
che si traduce in quello che si chiama “dominazione maschile”27.

La dominazione maschile e la subordinazione femminile denunciate


da Simone de Beauvoir, che ne illustra le forme in Le deuxième sexe, si
manifestano come un ordine sottile che pervade la struttura sociale, e
che non può essere modificato soltanto attraverso la conquista dei
diritti formali rivendicati dal movimento femminista del XIX secolo. La
nuova ondata del femminismo che inizierà negli anni Sessanta del
Novecento ne sarà ben cosciente.

1 Méndez 2007: 82 (trad. dell’autrice).


2 Lévi-Strauss 2003: 67.
3 Ibidem: 57.
4 La proibizione dell’incesto rappresenta il passaggio dalla natura alla cultura in
quanto la cultura consiste nella presenza di regole, mentre l’ordine della natura è
caratterizzato dall’assenza di regole comportamentali e dall’universalità dei
fenomeni (umani) che si sottraggono al costume, alla regola, alla cultura del
gruppo umano.
5 Lévi-Strauss 1967: 60.
6 Lévi-Strauss 2003: 91.
7 Lévi-Strauss 2003: 613-617.
8 Lévi-Strauss 1950: 29 (trad. dell’autrice).
9 Cfr. Lévi-Strauss 1950: 25-26 (trad. dell’autrice); Kilani 1992: 256.
10 Lévi-Strauss 2009: 311-312.
11 Cfr. in proposito Kilani 1992: 256.
12 Lévi-Strauss 2009: 47.
13 Per una definizione di fonema cfr.
http://www.treccani.it/enciclopedia/fonema/ (ultima consultazione 8.3.2016).
14 Lévi-Strauss 2009: 47.
15 Méndez 2007: 87 (trad. dell’autrice).
16 Héritier 1981.
17 Cit. in Méndez 2007: 82 (trad. dell’autrice).
18 Ibidem: 88.
19 Lévi-Strauss 2003: 204.
20 Lévi-Strauss 2009.
21 Héritier 2005: 35-36 (trad. dell’autrice).
22 Le popolazioni studiate dalla Kaberry furono i Kija o Kidja, conosciuti anche
come Laguna.
23 Kaberry 1939: IX (trad. dell’autrice).
24 Ibidem: 9 (trad. dell’autrice).
25 La grafia utilizzata da Kaberry era Narungani, e il concetto da lei tradotto
come “the time long past”. Oggi vi si fa riferimento soprattutto con il termine
Dreamtime, ovvero “tempo/era del sogno”.
26 Cfr. Toussaint 2003 (prefazione all’edizione del 2004).
27 Héritier 2005: 9-10 (trad. dell’autrice)
8. L’EMERGERE DEL CONCETTO DI GENERE, LA SECONDA
ONDATA DEL FEMMINISMO E L’ANTROPOLOGIA NEGLI ANNI
SETTANTA E OTTANTA

Biologia e destino tra antropologia e psicologia: John Money e il caso


di John/Joan (David Reimer)
Nel corso degli anni Cinquanta, l’idea che l’assunzione dei ruoli
maschili e femminili non sia determinata dal sesso biologico si impone
– da un lato all’altro dell’Atlantico – sia nell’ambito dell’antropologia
che della psicologia e della sociologia, ma ci vorranno ancora vent’anni
prima che il termine “genere” (gender in inglese, genre in francese)
entri a pieno titolo nella letteratura scientifica, diventando poi
patrimonio dell’analisi politica e, finalmente, del senso comune.
Nei capitoli precedenti abbiamo sottolineato il ruolo cruciale svolto
da Margaret Mead nell’evidenziare «il poco peso che rappresenta
l’evidenza anatomica del proprio sesso di fronte ai condizionamenti
sociali»1. Abbiamo visto come la critica al pensiero razzista, condotta
nell’ambito dell’UNESCO dal gruppo di ricerca guidato da Ashley
Montagu, a cui partecipò anche Claude Lévi-Strauss, ricusasse il
determinismo biologico, e come la Dichiarazione sulla razza
dell’UNESCO delegittimasse in maniera definitiva i tentativi di spiegare i
comportamenti umani in termini puramente biologici. In Le deuxième
sexe Simone de Beauvoir aveva poi affermato con forza che il sesso
anatomico non governa l’esistenza e il destino delle donne, ma è un
dato socialmente costruito dalla cultura.
Pur avendone posto le basi teoriche, Margaret Mead, Ashley
Montagu o Simone de Beauvoir non utilizzarono il termine “genere”
nei loro scritti. Fu lo psicologo e sessuologo John Money (1921-2006)
a utilizzare per primo il neologismo gender nel 1955, nell’ambito dei
suoi studi su ermafroditismo, transessualismo e parafilia (condizione
caratterizzata da desideri sessuali anormali che comportano pratiche
estreme o pericolose). Money usò il termine per designare il fatto
psicologico per cui un soggetto si sente uomo o donna e si comporta
come tale. Approfondendo la questione, egli arrivò a distinguere tra
gender identity (identità di genere) per descrivere l’esperienza interna
della sessualità e gender role (ruolo di genere) per riferirsi
all’aspettativa sociale sul comportamento maschile e femminile.
Nato in Nuova Zelanda ma attivo negli Stati Uniti, John Money fu
pioniere negli studi di sessuologia, in particolare per quello che
riguarda le ambiguità sessuali come l’ermafroditismo. Rigettando
l’idea, diffusa all’epoca, che si tratti di aberrazioni rispetto all’ordine di
una sessualità determinata biologicamente, egli cercò di definire in
ambito sessuologico un quadro di ricerca rigorosamente scientifico per
provare le sue teorie2. Va in questa direzione il tentativo di produrre
un linguaggio nuovo per descrivere la dimensione psicologica
dell’identità sessuale umana, anche introducendo una nuova
terminologia – come nel caso del termine gender, con il quale si vuole
esprimere la teoria per cui, nello sviluppo dell’identità sessuale, le
pressioni sociali e ambientali interagiscono con i geni e gli ormoni del
bambino, plasmandone l’identificazione col maschile o con il
femminile.
Money fu tra i primi a studiare l’esperienza psicologica provocata
dalla confusione sessuale e a individuare i modi possibili per
rispondere alla sofferenza dei soggetti, proponendo una risposta
chirurgica di “riassegnazione” del sesso a uomini e donne convinti che
il loro sesso biologico non corrispondesse alla loro identità sessuale.
Nel 1969 curò con Richard Green Transsexualism and Sex
Reassignment, uno studio che contribuì a far accettare nell’ambiente
scientifico e nell’opinione comune la chirurgia per il cambio del sesso.
Money si interessò in particolare ai bambini nati con genitali ambigui
o i cui genitali erano stati danneggiati e fu frequentemente consultato
dai loro genitori. Il tragico esito del caso di David Bruce Reimer – un
bambino il cui pene era stato distrutto a causa di una circoncisione
mal riuscita, e che i genitori, dopo aver consultato Money, decisero di
crescere come una bambina, applicando la teoria della “riassegnazione
del sesso” – ha fatto di John Money un bersaglio ideale per quanti si
oppongono alla “teoria del genere”, considerandola nient’altro che una
pericolosa ideologia3.
La vicenda di David Bruce Reimer è senz’altro tragica e illustra i
rischi dell’applicazione dogmatica di qualsiasi teoria: una volta che i
genitori scelsero di allevare il figlio come una bambina e di farlo
seguire da John Money, David Bruce, chiamato da allora Brenda, subì
un’operazione per la costruzione di una vagina e ricevette un
trattamento ormonale, oltre ovviamente a un’educazione fatta di
vestiti femminili e bambole. Money ne seguiva gli sviluppi con
interesse – si trattava della prima esperienza di “riassegnazione del
sesso” in un bambino con genitali non ambigui alla nascita.
Considerando l’esperienza come un successo, la riportò nei suoi scritti
come il caso John/Joan. In realtà David/Brenda soffriva
profondamente, non socializzava con le altre bambine, dalle quali era
marginalizzato, incontrava difficoltà scolastiche. Le sue sofferenze
psicologiche si riverberavano su tutta la famiglia, e in particolare sul
fratello gemello. La situazione peggiorò con l’adolescenza, nonostante
i continui trattamenti ormonali. Su consiglio dello psichiatra locale, i
genitori decisero allora di comunicare al figlio/figlia la verità. All’età di
quattordici anni, Brenda/David decise di ritornare al suo sesso
originario e si sottopose a una serie di operazioni, ma il ritorno
all’identità sessuale maschile – dopo anni di trattamenti – non risolse
la sua sofferenza psicologica, fino a spingerlo a due tentativi di suicidio
tra i venti e i venticinque anni. A trent’anni incontrò Milton Diamond,
uno psicologo rivale di Money, che lo prese in terapia. Il fallimento
della riassegnazione fu descritto da Diamond in un’articolo del 1997 su
“The Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine”.
Entrato in contatto con il giornalista John Colapinto, David permise
che la sua storia fosse raccontata al grande pubblico. Colapinto
pubblicò dapprima un articolo sulla rivista “Rolling Stones” poi, nel
2000, un libro. Nel 2002, il fratello Brian morì per overdose di
antidepressivi. Nel 2004, infine, David Reimer si suicidò. I genitori
attribuirono il suicidio alla riassegnazione del sesso a cui era stato
sottoposto da bambino.
Il caso di David Reimer ha causato pesanti critiche a Money, che fu
profondamente addolorato per la vicenda. I critici della “teoria del
genere” vedono in lui un mostro che, per fedeltà alla propria ideologia,
distrusse la vita di una famiglia; tuttavia, a detta di numerosi
sessuologi e psicologi, Money fece una scelta del tutto compatibile con
le conoscenze disponibili alla fine degli anni Sessanta: all’epoca la
ricostruzione chirurgica dei genitali maschili non era ancora praticata
e la “riassegnazione del sesso” pareva la scelta migliore per garantire la
felicità futura del piccolo David, completamente privo di pene. Da
allora, la riassegnazione sessuale non è più praticata nei casi in cui,
anche se i genitali sono danneggiati, il sesso genetico è chiaro.

La seconda ondata del femminismo: Betty Friedan


Il concetto di genere si afferma nella sociologia e nell’antropologia
all’inizio degli anni Settanta, quando una nuova ondata del movimento
femminista si manifesta sia nell’azione sociopolitica, con l’emergere di
molteplici rivendicazioni in tutti gli ambiti della realtà sociale (lavoro,
famiglia, salute), sia nella produzione teorica, dove vengono elaborati
nuovi strumenti analitici che mettono in questione gli approcci
utilizzati fino ad allora nelle scienze umane.
La nuova ondata parte dagli Stati Uniti e da lì si diffonde
rapidamente in Europa e nel resto del mondo. Apparentemente si
ripete uno scenario già visto: anche le avanguardie del femminismo
nel corso del XIX e nella prima metà del XX secolo erano state
particolarmente attive negli Stati Uniti. Ma il contesto è in realtà ben
diverso: le rivendicazioni femministe rappresentano infatti in questo
caso prima di tutto una reazione al clima conservatore del secondo
dopoguerra che aveva rappresentato un “regresso” per le donne
americane, confinandole in ruoli tradizionali all’interno della famiglia
e ostacolandone l’affermazione sul piano professionale.
Le ragioni per cui gli anni Cinquanta furono, negli Stati Uniti,
un’epoca segnata da un’atmosfera conservatrice sono variegate: la
guerra fredda e la battaglia contro il comunismo come sistema e
ideologia, combattuta anche col recupero dei valori della famiglia
tradizionale (è l’epoca del maccartismo); la dinamica postbellica
rispetto a matrimoni e nascite, entrambi fortemente aumentati a causa
del rientro dal fronte dei combattenti ansiosi di farsi una famiglia (è il
famoso “baby boom”, durato dal 1946 al 1964)4; la prosperità
economica, che garantiva al capofamiglia salari relativamente elevati
anche nella classe operaia, rendendo superflua l’integrazione con il
salario della moglie, che era invece stata indispensabile nel periodo tra
le due guerre.
Cambiava intanto il panorama urbano dell’America: le nuove
famiglie si trasferivano dai condomini a più piani delle città nelle
villette individuali delle zone suburbane, trasformate in aree
residenziali. La vita delle nuove famiglie nei suburbs appariva come la
realizzazione ideale del sogno americano: uomini con un lavoro ben
pagato, villette monofamiliari, automobile, elettrodomestici,
televisione, mogli felici a casa, con tutto il tempo necessario per
occuparsi di figli, cucina e giardino. Mogli felici? Nel 1963, l’immagine
idilliaca della vita delle donne nei suburbs andò in pezzi di fronte agli
scenari descritti in un libro che segnò simbolicamente l’inizio della
seconda ondata del femminismo: The Feminine Mystique di Betty
Friedan.
Brillante studentessa allo Smith College, dove si laurea in psicologia
nel 1942, e poi a Berkeley, dove è seguita, tra gli altri, dal noto
psicologo Erik Erikson, Betty Goldstein rinuncia, dopo il matrimonio
con Carl Friedan nel 1947 (da cui divorzierà nel 1969), a esercitare una
professione a tempo pieno, limitando la sua attività ad alcune
collaborazioni saltuarie con diversi giornali e riviste. Betty Friedan
diventa quindi, come milioni di americane, una casalinga a tempo
pieno. Il centro della sua vita sono il marito, tre bambini e la casa, in
un sobborgo alla periferia di New York. Dovendo scrivere un articolo
sulla compatibilità tra un alto livello educativo e il ruolo di moglie e
madre (ritenuti incompatibili da una certa stampa), Betty Friedan
distribuisce un questionario alle sue ex compagne d’università in
occasione della quindicesima riunione delle laureate allo Smith
College. Questa inchiesta improvvisata è all’origine di The Feminine
Mystique.
Dalle risposte delle ex compagne d’università emerse un’oscura
insoddisfazione rispetto alle loro vite – a nameless, aching
dissatisfaction che Betty Friedan evitò di definire, limitandosi a
chiamarla the problem that has no name, “il problema che non ha
nome”. Per approfondire la questione, intraprese nuove inchieste:
inviò un questionario più dettagliato alle laureate di altre università,
condusse interviste in profondità, discusse i risultati raccolti con vari
psicologi. Dopo cinque anni di lavoro, pubblicò The Feminine
Mystique.
«Gradualmente, senza vederlo chiaramente per un certo tempo, mi
resi conto che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in
cui le donne americane cercavano di vivere oggi», scrive all’inizio della
prefazione.
Lo percepii inizialmente come un punto interrogativo nella mia vita, come moglie
e madre di tre bambini piccoli, pervasa da sensi di colpa, e perciò combattuta,
quando usavo le mie capacità e la mia educazione per un lavoro che mi portava
lontano da casa5.

Ciò che era profondamente sbagliato nella vita delle donne


americane era il modello familiare egemonico del dopoguerra. Il mito
rappresentava la costruzione di una vera e propria mistica femminile –
la feminine mystique appunto – di cui Friedan delinea i contenuti
ricorrendo alla storia, alla psicologia, alla sociologia e all’economia.
Come tutti i miti, la feminine mystique ebbe un forte impatto sulla
realtà: trasformò le americane emancipate degli anni Venti e Trenta –
le cosiddette new women6 – nelle vuote casalinghe in grembiule degli
anni del dopoguerra.
Il ritratto della casalinga degli anni Cinquanta che emerge dal libro di
Betty Friedan è devastante. Anche se è laureata, la sua vita si
concentra quasi esclusivamente sulle faccende domestiche e sui figli.
Cucina, prepara le torte, cambia i pannolini, fa d’autista ai figli, lava,
cuce, fa la spesa. Porta il completo di flanella grigio del marito alla
lavanderia a secco e gli tiene in caldo la cena quando rientra esausto
dalla città. Secondo educatori, psicologi, media, è una vita che realizza
le aspirazioni femminili. Eppure la “tipica” donna è stanca, nervosa,
impaziente con i bambini, desiderosa di altro, qualcosa che né il sesso
con il marito né le relazioni extraconiugali possono soddisfare. Ha
istinti suicidi, consulta medici e psichiatri, che le prescrivono
volontariato, bowling e bridge. Se questo non basta, per farle
sopportare le giornate, ci sono sempre i tranquillanti.
Una casalinga del Nebraska, con un dottorato in antropologia,
descrive così la sua vita:
Il film di una tipica mattina a casa mia assomiglia a una vecchia commedia dei
fratelli Marx. Lavo i piatti, mando i bambini più grandi a scuola, vado in giardino
a coltivare i crisantemi, faccio una telefonata per il comitato di beneficenza, aiuto
il bambino più piccolo a costruire con il Lego, passo quindici minuti a sfogliare il
giornale, così sono ben informata, poi vado a fare la lavatrice (nelle mie tre
lavatrici settimanali ci sono abbastanza vestiti per rifornire un villaggio primitivo
per un anno). A mezzogiorno sono pronta per la cella imbottita. Poco di quello
che ho fatto è veramente importante o necessario. Le pressioni esterne mi
incalzano tutto il giorno. Eppure mi considero una delle casalinghe più rilassate
del vicinato7.

Sulla base della sua ricerca, Betty Friedan elaborò la tesi secondo cui
le donne – in quanto gruppo o classe – soffrono di una varietà di
discriminazioni più o meno sottili e sono vittime di un sistema
pervasivo di falsi valori, secondo i quali dovrebbero trovare la loro
realizzazione personale e perfino la loro identità attraverso il marito e i
figli, ai quali con gioia avranno consacrato le loro vite. Questo ruolo
ben delimitato di moglie e madre conduce inevitabilmente a un senso
di irrealtà o di generale malessere spirituale in assenza di un lavoro
genuino, creativo, voluto.
The Feminine Mystique rese Betty Friedan famosa e ne fece un punto
di riferimento per la seconda ondata del femminismo8. Nel 1966
contribuì a fondare la National Organization for Women, un gruppo
per i diritti civili il cui primo obiettivo era ottenere l’eguaglianza di
opportunità per le donne, e di cui fu la prima presidentessa; nel 1969
la National Association for the Repeal of Abortion Laws (oggi NARAL
Pro-Choice America); e nel 1971, con altre femministe, la National
Women’s Political Caucus, per favorire l’impegno delle donne nella
politica.

Ann Oakley e la sociologia del lavoro domestico: la vuota e infelice


esistenza della casalinga
L’insoddisfazione, la monotonia, la solitudine delle donne confinate
tra le mura domestiche nel ruolo di “casalinghe” sono state oggetto di
studio anche in Europa da parte della sociologa inglese Ann Oakley,
autrice di The Sociology of Housework and the Housewife, pubblicato
nel 1974.
Autodefinitasi scrittrice femminista (è anche autrice romanzi e
racconti per bambini), ricercatrice, sociologa e madre, Oakley riveste
un ruolo particolarmente importante per l’antropologia di genere,
perché ha trasferito il termine gender dalla psicologia alla sociologia.
Nel saggio Sex, Gender and Society, pubblicato nel 1972, definì così la
differenza tra sesso e genere:
Sesso è il termine che si riferisce alle differenze biologiche tra maschio e
femmina: la differenza visibile nei genitali, la relativa differenza nella funzione
riproduttiva. Genere, invece, è una questione di cultura, si riferisce alla
classificazione sociale del maschile e del femminile9.

Per Oakley le differenze psicologiche tra i sessi sono dovute al


condizionamento sociale, e non esiste alcun determinismo biologico,
come mostrano le grandi differenze dei temperamenti maschili e
femminili tra le varie culture, già evidenziate da Margaret Mead in Sex
and Temperament. Alla costanza del sesso corrisponde la variabilità
del genere:
Finché la nostra società sarà organizzata intorno alle differenze piuttosto che
intorno alle somiglianze tra i sessi, questi due estremi della mascolinità e della
femminilità continueranno, confermando apparentemente la credenza che essi
abbiano una causa biologica, che, in realtà, sia essa influente o irrilevante, diventa
sempre più una razionalizzazione di quello che è, in realtà, un pregiudizio10.

Ann Oakley utilizza il concetto di genere per inglobare tutte le


differenze tra uomini e donne – tanto le particolarità individuali e
oggetto di studio da parte degli psicologi quanto i ruoli sociali e le
rappresentazioni culturali – oggetto di studio da parte dei sociologi e
degli antropologi.
Oakley è stata pioniera nella critica alla sociologia e all’antropologia
mainstream per ciò che concerne la definizione della posizione della
donna. È stata in particolare tra le prime sociologhe a evidenziare
come il contributo delle donne alla produzione complessiva sia stato
trascurato e occultato nella società patriarcale capitalista e a studiare
l’esperienza femminile del lavoro domestico non soltanto dal punto di
vista dell’organizzazione della famiglia, come aveva fatto Betty
Friedan, ma anche dal punto di vista della sociologia del lavoro. Sex
Gender and Society, pubblicato nel 1972, e, soprattutto, The Sociology
of Housework and the Housewife, del 1974, sono state opere
pionieristiche nel settore della sociologia del lavoro domestico: esse
offrivano un quadro devastante della condizione della donna di casa,
ruolo nel quale molte donne britanniche erano state confinate dal
modello produttivo dell’immediato dopoguerra, con il marito nel ruolo
di breadwinner (letteralmente “chi porta il pane a casa”) e la moglie a
casa a occuparsi della famiglia (il suo salario era pensato piuttosto
come complementare)11.
Oakley sostiene che la sua indagine sullo housework, il lavoro
domestico, intendeva rimediare all’orientamento “androcentrico” della
sociologia e analizzare in profondità la situazione delle donne in una
fase storica in cui la questione stava tornando di attualità. Dopo un
periodo in cui il femminismo si era fatto silenzioso, durante la Seconda
guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra era iniziata (anche in
Gran Bretagna) una nuova ondata femminista, che come già ricordato
aveva preso avvio negli Stati Uniti:
L’assegnazione alle donne delle attività domestiche, sia all’interno che all’esterno
della propria casa, e l’apparente predilezione delle donne per la domesticità, sono
tratti strutturali della loro generale situazione nelle attuali società
industrializzate. Perciò ogni ricerca che esamini i sentimenti delle donne e i loro
atteggiamenti di fronte al lavoro domestico ha qualcosa da dire sull’oppressione e
la liberazione delle donne12.

La ricerca di Oakley sul lavoro domestico era originale, perché


assumeva il punto di vista del lavoro e della soddisfazione rispetto al
lavoro, non quello della “condizione femminile”.
Il principale obiettivo dello studio era concettualizzare il lavoro domestico come
lavoro, piuttosto che come un aspetto del ruolo femminile nel matrimonio. In
questo senso, lo studio è diverso dalle precedenti indagini della vita familiare o
della situazione domestica delle donne. Il concetto di “soddisfazione con il lavoro
domestico”, analogo alla nozione di soddisfazione nella sfera occupazionale,
intende il lavoro domestico come prospettiva lavorativa13.
I risultati dell’indagine di Ann Oakley portarono alla luce la
frustrazione che le casalinghe sperimentano di fronte alla loro attività,
e possono essere sintetizzati intorno a tre parole chiave:
insoddisfazione, monotonia, solitudine. Il 70 per cento delle donne
intervistate provava un sentimento di insoddisfazione, il che
contraddiceva l’idea – diffusa anche in Europa – che la maggior parte
delle casalinghe fosse contenta del proprio ruolo. L’esperienza comune
delle donne erano la monotonia, evocata dall’80 per cento delle
intervistate, e la solitudine, dato che il lavoro domestico implicava uno
scarso livello di interazioni con gli altri. Se l’autonomia era vista come
uno degli aspetti più positivi del ruolo di casalinga, il concreto lavoro
domestico – considerato sgradevole – non rappresentava una
compensazione sufficiente. Oakley evidenziava che l’autonomia, la
libertà personale delle casalinghe era peraltro più teorica che reale.
Essere il “capo di se stesso” imponeva comunque l’obbligo di
assicurarsi che il lavoro fosse fatto, e si trattava di un lavoro che
richiedeva un alto numero di ore – dalle 48 alle 105 ore, con una
media di 77. In generale le intervistate avevano sperimentato una
soddisfazione molto maggiore lavorando al di fuori di casa. Tutte le
donne che avevano lavorato in occupazioni di buon livello (estetiste,
modelle, informatiche) mostravano insoddisfazione per il lavoro
domestico, e tendevano a ritenere lo stato di casalinga inferiore
rispetto a quello di lavoratrice qualificata.
Dopo aver trattato il lavoro domestico, Oakley si è interessata a un
altro momento cruciale della vita familiare delle donne: la maternità.
Nel saggio Transition to Motherhood, pubblicato nel 1979, Oakley
denunciava al tempo stesso il fenomeno dell’eccessiva
medicalizzazione e la dimensione prescrittiva del ruolo materno, che
provocano, nella giovane madre, la perdita della gioia per la nuova
nascita.

Sesso e genere nell’antropologia femminista degli anni Settanta


Sebbene il concetto di genere sia stato utilizzato prima in ambito
sociologico che antropologico, la stessa Oakley insiste su come proprio
l’antropologia – dimostrando che esistono profonde differenze nelle
forme con cui le culture definiscono il maschile e il femminile – abbia
permesso di separare il sesso (differenza biologica essenzialmente
individuabile dagli organi genitali) dal genere (differenze culturali).
Come abbiamo già osservato in precedenza, l’antropologia aveva fin
dalle origini consacrato molta attenzione alla componente femminile
delle società primitive o tradizionali di cui si occupava. A differenza di
ciò che avveniva in altre discipline delle scienze umane, le donne non
erano state “invisibilizzate”. Il problema dell’antropologia non
risiedeva quidi nel fatto che avesse ignorato le donne, ma nel modo in
cui le donne erano stata considerate in quanto oggetto di studio:
essenzialmente complementari agli uomini. In altri termini il
problema non era di assenza, ma di rappresentazione. Inoltre, il fatto
che gli antropologi si fossero occupati delle donne non implicava che
l’avessero fatto senza pregiudizi “androcentrici” (basati sul punto di
vista maschile), oltre che “eurocentrici” o “occidentalocentrici”. È
questa l’accusa che le donne antropologhe che facevano riferimento al
femminismo lanciarono nei confronti della loro disciplina all’inizio
degli anni Settanta.
Abbiamo visto, per esempio, come Géza Róheim o lo stesso
Malinowski avessero ignorato completamente il ruolo delle donne
aborigene nei rituali del Dreamtime, messo invece in rilievo da Phyllis
Kaberry. L’esperienza di Kaberry servì da esempio alle antropologhe
degli anni Settanta per denunciare l’androcentrismo degli antropologi
maschi14.
Il pregiudizio androcentrico riguardava peraltro tutta la
paleoantropologia: agli inizio degli anni Settanta Sally Slocum
sostenne che il ruolo delle donne nell’evoluzione umana era stato
ignorato perché gli studiosi mettono il fuoco della ricerca sulla caccia
(maschile) anziché sulla raccolta (femminile). Secondo Slocum, al
contrario, la principale strategia economica dell’umanità fu proprio la
raccolta, e non la caccia. L’insistenza sulla caccia è una prova
dell’approccio androcentrico alla paleoantropologia.
La seconda ondata del femminismo ha avuto come conseguenza il
moltiplicarsi di studi che intendevano porre al centro della ricerca
antropologica le donne per meglio conoscere e comprendere il loro
statuto nelle diverse società, e si è trattato di studi condotti
principalmente da antropologhe. È stato questo l’inizio della
costruzione di un’antropologia femminista, che ha raccolto un corpus
di conoscenze empiriche e ha sviluppato uno sforzo di elaborazione
teorica, superando l’androcentrismo della disciplina. Uno dei suoi
campi di ricerca principali è quello della subordinazione femminile (e
di riflesso, lo studio delle cause della dominazione maschile e delle
strutture del patriarcato). Le antropologhe si chiedono se la
subordinazione femminile sia un dato universale oppure no, e
rispondono alla questione in modo variegato: per una parte di loro lo
è, mentre altre ritengono di poter provare il contrario, sostenendo che
le società tradizionali presentano un quadro più complesso delle
relazioni tra uomini e donne.
Alla ricerca di categorie che permettano al tempo stesso di criticare le
teorie antropologiche esistenti e di rileggere i dati empirici, le
antropologhe si concentrano in gran parte sul rapporto tra sesso e
genere:
Al di là delle divergenze tutte le antropologhe femministe cercano di sviluppare
dei modelli di analisi che spieghino la subordinazione delle donne agli uomini. E
tutte lo fanno partendo dal presupposto che questa subordinazione non
corrisponde a delle cause naturali, ma al modo nel quale ogni cultura ha
concepito le forme normative dell’essere uomo o donna, organizzando, a partire
da esse, le relazioni sociali tra i sessi15.

L’elaborazione del concetto di genere nel suo rapporto con il sesso –


ovvero come e fino a che punto il sesso biologico e la funzione
riproduttiva contino, nel genere – è influenzata da almeno due fattori:
le diverse filiazioni teoriche dell’antropologia (tanto negli Stati Uniti
quanto in Europa) – culturalista (nel solco del movimento Cultura e
personalità), funzionalista, strutturalista e marxista (spesso intrecciate
l’una con l’altra) – e le diverse correnti politiche che coesistono nel
movimento femminista (che si differenzia ulteriormente con
l’affermazione della componente gay-lesbica). Nel corso degli anni
Settanta era ancora forte l’influenza del marxismo: una parte delle
antropologhe definì infatti le caratteristiche della dominazione
maschile sulle donne in analogia con il modello marxista della
relazione di classe. Altre antropologhe sono invece influenzate
principalmente dallo strutturalismo e dall’idea dell’esistenza di un
pensiero dicotomico che oppone femminile/maschile e natura/cultura.
Nel 1972 due giovani antropologhe statunitensi, Michelle Rosaldo
(1944-1981) e Louise Lamphere organizzarono un seminario su donne,
cultura e società presso l’American Anthropological Association, con
l’obiettivo di porre l’analisi e le preoccupazioni femministe al centro
della disciplina antropologica: gli interventi presentati al seminario
furono pubblicati due anni dopo in un volume (Woman, Culture and
Society)16, che è oggi considerato un classico dell’antropologia
femminista. I vari saggi concordano nel sostenere la tesi
dell’universalità della subordinazione della donna. Rosaldo la
attribuisce alla divisione del lavoro e alla distribuzione dell’autorità
attraverso la rigida separazione tra pubblico e privato. Chodorow
mette in causa l’esclusione dalla sfera pubblica per via della funzione
materna. Ortner rivisita la dicotomia natura/cultura proposta da Lévi-
Strauss.

Femminile/maschile e natura/cultura: Sherry Ortner


Tra i saggi pubblicati in Woman, Culture and Society, fu proprio Is
female to male as nature is to culture? di Sherry Ortner a esercitare la
maggiore influenza nel dibattito intorno all’antropologia femminista
negli anni Settanta. L’autrice intendeva spiegare quello che chiamava
«il problema della svalorizzazione universale delle donne»:
La donna ci pone uno dei problemi più intriganti. Lo status subordinato della
donna all’interno della società costituisce un fatto universale nell’ambito del
quale le simbologie e le concezioni culturali concrete sono straordinariamente
diverse e perfino contraddittorie l’una con l’altra. […] Entrambi gli aspetti, il fatto
universale e le variazioni culturali, costituiscono un problema che deve essere
spiegato17.

Influenzata da Claude Lévi-Strauss e da Simone de Beauvoir, Ortner


sviluppa un’argomentazione teorica originale per spiegare
l’universalità della subordinazione femminile attraverso l’idea della
dicotomia tra natura e cultura. Rigettando il determinismo biologico,
ma senza negare la rilevanza del fatto biologico, Ortner sostiene che le
differenze (biologiche, di sesso) assumono il significato di inferiore e
superiore solamente all’interno di sistemi di valori più ampi. La
subordinazione delle donne va dunque interpretata alla luce di altri
universali, incorporati alla “struttura” generale nella quale vivono gli
esseri umani, indipendentemente dalla cultura. Uno di questi
universali è appunto la dicotomia tra natura e cultura. Ogni cultura,
infatti,
riconosce e afferma implicitamente una differenza tra il funzionamento della
natura e il funzionamento della cultura (la coscienza umana e i suoi prodotti) […]
e, a un certo livello di coscienza, si afferma non solo come distinta dalla natura,
ma come superiore, e questo sentimento di differenziazione si basa per l’appunto
sulla capacità di trasformare, “socializzare” e “culturalizzare” la natura18.

Partendo da questo presupposto, un primo modo per spiegare


l’universalità della subordinazione femminile consiste nell’affermare
che le donne sono state identificate con e simbolicamente associate
alla natura, in opposizione agli uomini che si identificano con la
cultura. L’associazione delle donne con la riproduzione, la cura dei
bambini e il mondo domestico le colloca infatti in una posizione più
vicina alla natura, in affinità più diretta con essa, mentre gli uomini
rappresentano la cultura nella sua rappresentazione più alta. La
cultura riconosce che le donne svolgono una parte attiva in particolari
processi, ma al tempo stesse le considera radicate nella natura.
Facendo riferimento a Simone de Beauvoir e poi a Lévi-Strauss,
Ortner spiega questo dato a partire dal corpo e dalla naturale funzione
procreatrice delle donne, ma sostiene che ciò non significa che le
donne debbano essere del tutto relegate sul piano della natura, perché
si trovano piuttosto in una posizione d’intermediazione tra natura e
cultura. Proprio perché attivano processi di estrema importanza tra
queste due sfere, alle donne viene imposta una subordinazione che è
anche strumento di controllo.
Il saggio suscitò un vasto dibattito, e anche numerose critiche, che
analizzeremo nelle prossime pagine. Va detto che nel corso degli anni
successivi la stessa Ortner rimetterà in questione i presupposti
dell’articolo: sia l’universalità della subordinazione femminile sia il
fatto che l’associazione maschile/cultura e femminile/natura provochi
– quasi naturalmente – la dominazione maschile. I suoi interventi
successivi, come Rank and gender e The problem of “women” as an
analytical category rappresentano uno sforzo di comprendere più a
fondo le complesse connessioni tra genere, potere, prestigio e
sessualità. Un esempio di questa complessità si ritrova nel secondo dei
due saggi citati, in cui Ortner esplora le differenti narrazioni che
caratterizzano la fondazione di un monastero maschile e di un
monastero femminile presso la popolazione nepalese degli Sherpa. Lo
studio rivela come il genere sia una costruzione che non si limita a
enfatizzare le differenze tra uomini e donne, ma ha anche la funzione
di nascondere le differenze tra gli uomini appartenenti o no all’élite –
in un’intersezione tra genere, etnia e classe che, nel corso degli anni
Ottanta, diventerà la formula trinitaria per spiegare i processi sociali
di discriminazione dei quali il genere è un fattore. Infine, nel saggio
Gender hegemonies Ortner critica esplicitamente la dicotomia
femminile/maschile, natura/cultura, utilizzando il concetto di
egemonia culturale per individuare le contraddizioni interne nel
sistema di genere19.

Natura, cultura e genere: Carol MacCormack e Marilyn Strathern.


L’approccio marxista di Eleanor Leacock
La teoria di Ortner, che individua un’affinità tra femminile/maschile
e natura/cultura fu ampiamente criticata in una raccolta di saggi, che,
come è successo a quella curata nel 1974 da Rosaldo e Lamphere,
rappresenta ormai un classico dell’antropologia di genere: Nature,
Culture and Gender, curata nel 1980 da due antropologhe britanniche,
Carol MacCormack (1933-1997) e Marilyn Strathern (n. 1941).
Piuttosto che porre al centro della riflessione le preoccupazioni del
femminismo, questa raccolta esprimeva l’esigenza di rimettere in
discussione alcuni presupposti dell’antropologia occidentale,
considerata troppo vicina, per lungo tempo, all’esperienza del
colonialismo. In questo senso la categoria di genere era vista
essenzialmente come uno strumento analitico decostruzionista. Si
avvertiva qui l’eco della posizione di Marilyn Strathern che, pur
favorevole alle battaglie del femminismo, ha sempre sostenuto che non
può esistere un’antropologia femminista che rinunci al rigore
scientifico.
I vari saggi mettevano in discussione la dicotomia natura/cultura
come categoria di analisi universale, attribuita dagli antropologi anche
a popolazioni non occidentali, nonché l’associazione della donna con
la natura (che perciò deve essere dominata) e del maschio con la
cultura (e dunque superiore). Entrambi questi presupposti erano
considerati un prodotto del pensiero occidentale, una proiezione delle
idee degli antropologi di tradizione occidentale sui sistemi di altri
popoli.
Nel saggio iniziale MacCormack criticava la teoria strutturalista
secondo la quale esiste una struttura binaria basica che presiede tutto
il funzionamento mentale e il comportamento umano. Recuperando il
particolarismo boasiano, scriveva:
Non vogliamo negare che i contrasti binari siano vitali al pensiero umano; vi sono
senz’altro dei significati universali attribuiti a certe categorie. Dato che il metodo
strutturalista cerca di ridurre i dati alla loro struttura simbolica, i simboli sono
più reali del fenomeno; il significante è più importante del significato […]. Ma i
significati attribuiti a simboli come natura o femminile sono culturalmente
relativi […]. L’analisi strutturalista dovrebbe spiegare, con riferimento a ogni
particolare mito, come i suoi significati sono prodotti; la spiegazione, quindi,
richiede una comprensione delle origini del mito20.

Attraverso l’analisi storica, MacCormack mostra come la dicotomia


natura/cultura e la sua associazione con il femminile e il maschile
siano radicate nella tradizione occidentale giudaico-cristiana e
industrial-capitalista (dal mito della Genesi al protestantesimo, dallo
stato di natura di Hobbes a quello di Jean-Jacques Rousseau). Fu
appunto Rousseau a fissare una dialettica tra l’idea della natura come
guida e maestra per una società riformata e una natura associata alle
emozioni e alla vita domestica femminili. Le idee di riforma sociale e
politica del XVIII secolo, d’altronde, non coinvolgevano le donne.
Sebbene più “naturali” degli uomini, esse erano definite come
socialmente passive, dipendenti e politicamente inferiori agli uomini.
Gli antropologi devono dunque guardarsi dall’utilizzare il discorso
dominante della cultura europea per universalizzare le proprie
categorie, trascurando l’esistenza di modi alternativi di strutturare il
mondo.
Un altro saggio di MacCormack (Proto-social to adult: a Sherbro
transformation)21 criticava l’opposizione domestico/politico che
Rosaldo aveva associato con natura, cultura e genere:
La percezione e le pratiche degli Sherbro negano la validità di questo quadro
metaforico. Sia gli uomini sia le donne lavorano nell’ambito domestico, dove le
donne, per esempio, filano il cotone, tingono le pareti delle case di fango ed
educano i bambini. In maniera complementare, gli uomini tessono, intrecciano i
tetti delle case ed educano i bambini. Al di fuori dello spazio domestico sia gli
uomini sia le donne coltivano, producono per il mercato, scambiano beni e servizi
per costruire reti, e maturano per diventare anziani rispettati, supervisori della
terra comune e dei compiti politici […]. Sia gli uomini sia le donne diventano
antenati rispettati di discendenza cognatica […]. Esiste una gerarchia sociale, ma
non un’asse maschile/femminile22.

Sulla stessa linea di pensiero di MacCormack è Marilyn Strathern,


figura particolarmente importante per l’antropologia di genere: a lei si
deve una prima elaborazione del concetto di genere che va al di là della
semplice opposizione definita da Ann Oakley tra sex
(maschile/femminile in relazione alla natura) e gender
(maschile/femminile, in relazione alla cultura). Strathern considera la
costruzione di genere come un meccanismo simbolico, utilizzato non
solo per esprimere le relazioni reali tra uomini e donne, ma come una
specie di linguaggio, impiegato per parlare di altre cose: «Questo uso
del genere conduce alla differenza di sesso come fonte di
simbolismo»23.
Strathern inserisce così la divisione sessuale nell’analisi
antropologica della produzione simbolica, facendo riferimento al
lavoro dell’antropologa Mary Douglas sui simboli naturali. Con questo
approccio, Strathern analizza come, nelle diverse culture, le relazioni
tra il maschile e il femminile diano vita a potenti simboli che
esprimono le opposizioni e i contrasti, ma che al tempo stesso
includono la possibilità della complementarietà e dell’unione.
Strathern applicò la sua teoria del genere allo studio sul popolo
Hagen delle terre alte della Nuova Guinea24, presso i quali svolse
lavoro sul campo per la sua tesi di dottorato, dall’eloquente titolo
Women in between: Female roles in a men’s world. Nel suo studio,
Strathern evidenziava come la nozione di ciò che è maschile e ciò che è
femminile non è stabile, ma dipende dal contesto e dalle relazioni
sociali: gli individui sono definiti come maschio o femmina in funzione
non di attributi fissi, ma piuttosto di modi d’azione, nel caso specifico
la produzione di beni di scambio per le donne e la transazione per gli
uomini, in una società dove l’attività collettiva principale è costituita
dagli scambi cerimoniali competitivi tra i gruppi.
L’etnografia sulla vita sociale degli Hagen fu pubblicata nel 1972 con
lo stesso titolo della tesi e valse a Marilyn Strathern diverse critiche da
parte di altre studiose femministe, come Annette B. Weiner, che la
accusò di essere caduta nella «tradizionale trappola maschile»25. Altre
antropologhe femministe le rimproverarono di aver messo in secondo
piano la relazione tra antropologia e femminismo, concentrandosi
innanzitutto sul rigore dell’analisi. In realtà, lo sguardo critico sulla
relazione tra antropologia e femminismo era per Strathern parte di
una questione più generale: il rischio di proiettare i paradigmi e le
preoccupazioni occidentali sulle società studiate, nel caso specifico
quelle melanesiane. La questione non riguardava soltanto il
femminismo, ma anche lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss.
In Nature, Culture and Gender Strathern pubblicò il saggio No
nature, no culture: the Hagen case, in cui ribadiva l’approccio
sostenuto nel volume tratto dalla tesi di dottorato:
Non c’è cultura, nel senso di lavoro cumulativo dell’uomo e non c’è alcuna natura
da domare perché diventi produttiva. E idee come queste non possono nutrire
l’immaginario di genere. Il popolo Hagen non usa termini di genere per parlare
del sociale, opposto agli interessi personali, o di ciò che è coltivato, rispetto al
selvatico. Questi due ambiti non sono messi in una relazione sistematica; la
metafora del dominio della cultura sulla natura non c’è. Al contrario, mentre il
genere è utilizzato in un modo differenziato e dialettico, la distinzione tra
maschile e femminile crea costantemente la nozione di umanità, come “sfondo di
somiglianze comuni” […]. Le rappresentazioni di dominio e influenza tra i sessi si
riferiscono precisamente a modalità d’interazione umana, e non a un progetto
umano relazionato con un mondo meno umano26.

La critica nei confronti sia dell’approccio antropologico classico sia di


quello femminista è stata approfondita da Strathern in un’opera
successiva, The Gender of the Gift (1988), che ha per sottotitolo
Problems with women and problems with society in Melanesia. Le
categorie binarie natura/cultura, maschile/femminile,
soggetto/oggetto, domestico/pubblico fissano una prospettiva
esclusivista rispetto all’essere maschi o femmine, e rendono l’identità
sessuale statica. I Melanesiani vedono l’identità di genere in modo
diverso: «Quello che differenzia gli uomini e le donne […] non è la
mascolinità o la femminilità dei loro organi sessuali, ma quello che
essi fanno con loro»27 e sia gli uomini sia le donne diventano più o
meno maschi o più o meno femmine a seconda delle circostanze.
In un successivo articolo, Strathern sostiene inoltre che i concetti di
società e di cultura non sono pertinenti nel caso degli Hagen («Essi
non operano con i concetti di società e cultura»)28 e che bisogna
trovare un’alternativa concettuale per rendere conto del modo in cui
queste popolazioni si pensano insieme. La parola chiave per leggere la
realtà melanesiana è “relazione”, perché le attività collettive
consistono nel disfare le relazioni, rivelandone i significanti nascosti
attraverso una serie di procedure simboliche ritualizzate che hanno
l’obiettivo di «rendere evidente la capacità sociale (culturale) delle
persone, o la socialità»29.
Nel dibattito sull’universalità della dominazione maschile e della
subordinazione femminile, alcune antropologhe hanno preso come
riferimento il pensiero marxista, e in particolare l’opera di Friedrich
Engels, The Origin of the Family, Private Property, and the State.
Eleanor Leacock (1922-1987) ne scrisse una lunga ed elogiativa
introduzione per una nuova edizione del 1972 che fu pubblicata da
International House Publishers, la casa editrice del Communist Party
degli Stati Uniti.
Per Leacock, come per altre antropologhe marxiste, non tutte le
società sono dominate dagli uomini, anzi, l’egualitarismo prevale in
quelle dove la proprietà privata e in particolare la riduzione delle
donne a proprietà privata è assente. Il dominio maschile è dunque una
funzione della storia ed è emerso in epoca relativamente recente.
Secondo Leacock molte società tradizionali, prima di entrare in
contatto con l’Occidente, erano egualitarie. Nel saggio Women in
egalitarian societies, pubblicato come primo capitolo di Becoming
Visible (1987), un libro di testo utilizzato nei corsi di Storia delle
donne, Leacock porta l’esempio dei nativi americani Montagnais-
Naskapi della penisola del Labrador in Canada, presso cui aveva svolto
lavoro sul campo. I Montagnais-Naskapi di oggi sono chiaramente
patriarcali, ma dalle cronache dei missionari gesuiti del XVII secolo si
deduce che l’uguaglianza di genere che esisteva in passato fu
trasformata dal contatto con i colonizzatori occidentali.

Il sistema sesso/genere di Gayle Rubin


Nel corso degli anni Settanta l’antropologia di genere si arricchì di
una lunga serie di pubblicazioni. Nel volume Toward an
Anthropology of Women a cura di Rayna Rapp (1975) apparve
l’articolo di una dottoranda in antropologia, Gayle Rubin, The traffic
in women: Notes on the “political economy” of sex, destinato a
diventare una delle pietre miliari nel dibattito sul concetto di genere30.
Indagando le cause dell’oppressione femminile – principale
preoccupazione dell’antropologia di quegli anni –, Rubin introduce la
categoria di sex/gender system: il sesso è il sesso, ma quello che conta
come sesso è culturalmente determinato. Il termine “sistema
sesso/genere” rimanda a «una serie di modalità con cui la materia
prima biologica del sesso e della procreazione umana è modellata
dall’intervento umano e sociale e soddisfatta in modo convenzionale,
non importa quanto bizzarre siano queste convenzioni». Se le
differenze biologiche sono fisse, quelle di genere sono invece il
risultato di interventi sociali che determinano come le donne e gli
uomini dovrebbero comportarsi, producendo oppressione. Le donne
sono oppresse come le donne e per il fatto «di dover essere donna».
Per Rubin il genere è dunque la «divisione socialmente imposta dei
sessi»31.
Utilizzando riferimenti a Marx e Engels, a Lévi-Strauss, nonché agli
psicoanalisti Sigmund Freud e Jacques Lacan, Rubin individua
l’oppressione strutturale delle donne nei sistemi di parentela che
creano la divisione di genere e l’eterosessualità obbligata.
Decostruendo Le strutture elementari della parentela di Lévi-
Strauss, Rubin osserva che il tabù dell’incesto non proibisce soltanto
l’incesto, ma anche l’omosessualità, orchestrando il desiderio in
termini di differenza sessuale. Rubin offre come controesempi contesti
dove le relazioni omosessuali sono necessarie per produrre lo status di
adulto (come in alcune zone della Nuova Guinea), dove il matrimonio
dello stesso sesso è permesso (come tra gli Azande o i Dahomey), o
dove è praticato un travestivismo istituzionalizzato (come in India).
Questi dati dimostrano che il tabù non è universale, ma rappresenta
soltanto un’ideologia particolare, di cui Freud e Lévi-Strauss offrono
una descrizione.
Il tabù sull’omosessualità esclude le donne dal potere fallico e obbliga
all’alleanza eterosessuale – il “traffic of women”, appunto. Di
conseguenza è proprio l’obbligo dell’eterosessualità che conduce
all’asimmetria dei generi, rinforzando le differenze dicotomiche tra i
due sessi. Rubin considera dunque le donne e gli omosessuali come
vittime dello stesso sistema di oppressione:
La soppressione della componente omosessuale della sessualità umana, e per
corollario, l’oppressione degli omosessuali è […] un prodotto dello stesso sistema
le cui regole e relazioni opprimono le donne32.

Gli argomenti di Gayle Rubin furono alla base del femminismo


lesbico e aprirono la via alla possibilità di una collaborazione tra
antropologia femminista e gay/lesbian studies, fino allo sviluppo
dell’antropologia queer di cui parleremo nel prossimo capitolo.

Conclusioni
La seconda ondata del femminismo, rivendicando un nuovo spazio
per le donne non solo nella sfera pubblica e politica, ma anche nella
produzione di pensiero, ha contributo a far nascere e crescere
un’antropologia femminista, che ha a sua volta fornito gli strumenti
teorici per supportare nuove battaglie. Il concetto di “genere” fa parte
di questi strumenti che aprono uno spazio di rivendicazione contro i
ruoli tradizionali, una volta separato il sesso (biologico) dalle
costruzioni sociali che fissano modelli culturali arbitrari. Dagli anni
Settanta in avanti il concetto di genere ha viaggiato ben al di là degli
scritti delle studiose femministe, siano esse sociologhe o antropologhe.
Ha penetrato il vocabolario della stampa e dei media, e, da lì, il senso
comune. Ha anche incontrato sul suo cammino le Nazioni Unite,
l’organizzazione concepita nel mezzo della Seconda guerra mondiale
che aveva per prima proclamato, insieme alla condanna del razzismo,
la necessità dell’uguaglianza tra uomini e donne, sancita in quella
Dichiarazione dei diritti umani a cui proprio una donna, Eleanor
Roosevelt, aveva tanto contribuito. Le Nazioni Unite hanno
incorporato la questione del genere nei loro programmi, ma proprio al
momento in cui il concetto di genere è diventato uno strumento non
solo teorico, ma anche politico, il suo stesso significato si è scomposto
nella diversità delle interpretazioni teoriche e delle indicazioni
pratiche.

1 Mead 1967: 322.


2 Cfr. Carey 2006.
3 Cfr. per esempio http://www.ilfoglio.it/articoli/2014/04/12/il-bambino-
cavia___1-v-90975-rubriche_c311.htm (ultima consultazione 8.3.2016). Si tornerà
sul tema nel capitolo 9.
4 Le persone nate in quel periodo sono infatti comunemente chiamate baby
boomers.
5 Friedan 1963: 15 e 19 (trad. dell’autrice).
6 La new woman era la donna americana dei “ruggenti” anni Venti – i Roaring
Twenties – che aveva acquisito peso in politica grazie al diritto di voto, scelto di
combinare famiglia e carriera, e di sfidare i modelli tradizionali. La
rappresentazione della donna in quel periodo – gonne corte, capelli tagliati corti,
trucco forte, che beveva, fumava e ballava – riflette questi cambiamenti.
7 Friedan 1963: 21-22 (trad. dell’autrice).
8 Considerato uno dei libri che più hanno influenzato l’opinione pubblica nel
corso del XX secolo, fu pubblicato da W.W. Norton & C., vendette più di tre milioni
di copie negli Stati Uniti e fu tradotto in molte lingue.
9 Oakley 1985: 16 (trad. dell’autrice).
10 Oakley 1972: 210 (trad. dell’autrice).
11 Un primo studio su questo tema – The Captive Wife di Hannah Gavron – era
apparso nel 1966.
12 Oakley 1985: 233 (trad. dell’autrice).
13 Ibidem: 236 (trad. dell’autrice).
14 Méndez 2007: 110 (trad. dell’autrice).
15 Ibidem: 100 (trad. dell’autrice).
16 Rosaldo e Lamphere 1974.
17 Ortner 1974: 109 (trad. dell’autrice).
18 Ibidem: 115 (trad. dell’autrice).
19 Tutti i saggi citati si trovano raccolti in Ortner 1996.
20 MacCormack e Strathern 1980: 5-6 (trad. dell’autrice).
21 Gli Sherbro sono una popolazione della Sierra Leone.
22 MacCormack e Strathern 1980: 96 (trad. dell’autrice).
23 Strathern 1972: 133 (trad. dell’autrice).
24 La regione delle terre alte della Nuova Guinea era stata visitata per la prima

volta da viaggiatori europei negli anni Trenta, ed era rimasta isolata per tutta la
Seconda guerra mondiale. Marylin Strathern fu una delle prime antropologhe a
svolgere lavoro di campo nella zona.
25 Weiner 1976: 13 (trad. dell’autrice).
26 MacCormack e Strathern 1980: 219 (trad. dell’autrice).
27 Strathern 1988: 128 (trad. dell’autrice).
28 Strathern 1989: 55
29 Ibidem: 56.
30 Cfr. in proposito la voce “Feminist Perspectives on Sex and Gender” della
Stanford Encyclopedia of Philosophy:
http://plato.stanford.edu/entries/feminism-gender/ (ultima consultazione
8.3.2016).
31 Rubin 1975: 165, 179 e 204 (trad. dell’autrice).
32 Ibidem: 180 (trad. dell’autrice).
9. ANTROPOLOGIA FEMMINISTA, ANTROPOLOGIA DI GENERE,
ANTROPOLOGIA QUEER. IL DIBATTO CONTEMPORANEO E LE
CONTROVERSIE SOCIOPOLITICHE

Il riconoscimento dell’antropologia femminista e del genere come


categoria analitica e operativa
Ci stiamo avvicinando alla fine del percorso che ha visto l’incontro tra
lo sviluppo dell’antropologia, la presa di parola da parte delle donne
nello spazio pubblico grazie al movimento femminista e la loro
accresciuta partecipazione alla ricerca accademica.
Abbiamo documentato come, nella seconda metà dell’Ottocento, la
nascente antropologia culturale, pur segnata da una prevalenza del
maschile, abbia colto l’importanza delle donne nel ruolo di
informatrici sulle società “primitive” studiate. Influenzate dalle idee
femministe dell’epoca suffragista, un primo gruppo di antropologhe,
come Alice Fletcher o Elsie Clews Parsons, aprirono nuove prospettive,
sia dando voce alle donne delle società tradizionali, sia mettendo in
discussione i ruoli maschili e femminili nelle società occidentali. Molte
delle prime antropologhe – quasi tutte nordamericane – erano anche
femministe.
Nella prima metà del Novecento, la scoperta della varietà di ruoli e
temperamenti femminili presenti nelle diverse società – grazie
soprattutto al lavoro di Ruth Benedict e di Margaret Mead –, mise in
discussione l’idea che i comportamenti sociali siano prodotti dal sesso
biologico e condusse alla separazione concettuale tra sesso e genere, il
primo determinato dalla biologia, il secondo culturalmente definito.
La seconda ondata del femminismo promosse nuove battaglie
rivendicative, elaborò teorie e concetti originali e formò una corrente
di pensiero per la lettura della realtà di cui il concetto di genere
costituisce un cardine. L’idea del “sistema sesso/genere” – secondo cui
le società organizzano particolari regimi di genere nei quali le
differenze sessuali si articolano con il rango e il prestigio – ha aperto
nuove prospettive nella ricerca sociologica, antropologica e storica.
Negli Stati Uniti il movimento femminista – nelle sue diverse fasi – è
stato un fattore importante per lo sviluppo dell’antropologia culturale.
L’adesione delle prime antropologhe alle idee femministe influenzò il
loro approccio scientifico, anche quando nei loro scritti non appaiono
riferimenti espliciti al femminismo. Il secondo femminismo è stato
una fucina di produzione teorica originale.
Dagli anni Ottanta, l’antropologia femminista è riconosciuta a tutti
gli effetti come un’ambito della ricerca antropologica. L’Association for
Feminist Anthropology (AFA)1 è stata fondata nel 1988 come una
sezione dell’American Anthropological Association, con lo scopo di
creare una rete di studiosi e studiose interessate alla ricerca in tema di
genere. Gli obiettivi dell’associazione sono: (a) promuovere lo sviluppo
di prospettive analitiche femministe in tutte le dimensioni
dell’antropologia; (b) facilitare la comunicazione tra le antropologhe
femministe e con le femministe attive in altri campi disciplinari; (c)
fornire informazioni sui temi collegati alle differenze di genere e alle
discriminazioni basate sul genere tanto agli antropologi quanto al
grande pubblico; (d) incoraggiare l’integrazione della ricerca
femminista nei diversi sottocampi dell’antropologia e portare le
preoccupazioni centrali dell’antropologia femminista nello sviluppo
delle subdiscipline.
L’antropologia femminista è oggi un metodo di analisi, al pari
dell’antropologia evoluzionista, marxista, funzionalista,
configurazionista o strutturalista, che fa riferimento esplicito alle
teorie prodotte nell’ambito del movimento femminista2. Dagli Stati
Uniti si è diffusa in Canada, in Europa e in America Latina. In Italia va
ricordato il volume pubblicato nel 1979 a cura di Rosaria Micela,
Oppressione della donna e ricerca antropologica. Immaginario e
realtà nella subordinazione femminile, in cui figurano testi di diverse
autrici nordamericane, a partire da Rosaldo.
Negli ultimi decenni, mentre le teorie prodotte dal pensiero
femminista si affermavano nella ricerca scientifica, il femminismo
appariva come una realtà sempre meno omogenea. Dagli anni Ottanta
il black feminism (“femminismo nero”) e il femminismo postcoloniale
hanno messo in discussione il ruolo egemonico occupato nel
movimento dalle donne bianche di classe media. Gay, lesbiche e
transgender (LGBT) hanno introdotto nuove problematiche. Al tempo
stesso, le rivendicazioni di un’uguaglianza formale tra uomo e donna
erano state assunte da istanze internazionali – dalle Nazioni Unite
all’Unione Europea – e da diversi governi occidentali, svuotandone il
contenuto di rottura critica nei confronti dei meccanismi del potere, di
cui il femminismo era stato tradizionalmente portatore. In questo
passaggio dalla dimensione “rivoluzionaria” a quella istituzionale, il
genere, da categoria analitica critica, si è trasformato in un approccio
operativo che orienta politiche concrete.
A partire dal 1980, le Nazioni Unite, per le quali l’uguaglianza tra
uomini e donne è un cardine della Dichiarazione dei diritti umani,
incorporano il concetto di genere nella definizione delle loro politiche
di sviluppo, individuando nella discriminazione in base al sesso un
ostacolo alla prosperità e allo sviluppo delle società umane. La
piattaforma di Pechino del 1996 ha sintetizzato l’elaborazione politica
delle Nazioni Unite in tema dell’uguaglianza di genere. Altre
organizzazioni internazionali, come l’Unione Europea, aderiscono alla
piattaforma di Pechino. La traduzione del concetto di genere in
politiche concrete – uguaglianza effettiva tra uomini e donne,
educazione al genere nelle scuole, riconoscimento dei diritti degli
omosessuali, compreso il matrimonio… –, si scontra con una variegata
opposizione negli Stati Uniti, in Europa e nel resto del mondo, e viene
considerata come una minaccia nei confronti delle strutture familiari
tradizionali. Si tratta di forze conservatrici di varia ispirazione
(cristiani integralisti, neofascisti, nazionalisti…), che trovano inedite
alleanze con il tradizionalismo religioso islamico ed ebraico. Non è
questo il luogo per addentrarsi nei temi di questa controversia che ha
assunto scala mondiale. Nel volume abbiamo cercato di mostrare
come la teoria del genere si basi su dati empirici e non possa in alcun
modo essere considerata un’ideologia: i ruoli maschili e femminili
sono talmente diversi nelle diverse società che non è possibile stabilire
norme rigide in merito a ciò che gli uomini o le donne debbano fare.
Abbiamo per esempio ricordato che già Ruth Benedict aveva
documentato come l’atteggiamento nei confronti dell’omosessualità
fosse più tollerante in varie società dei Nativi americani rispetto alla
società occidentale.
Intanto l’annacquamento della problematica del genere in una
dimensione istituzionale che promuove l’uguaglianza tra uomini e
donne o la cessazione di odiose discriminazioni nei confronti degli
omosessuali, senza però intaccare i più profondi meccanismi di
dominazione, sta suscitando numerose critiche anche nel femminismo
più radicale e nei movimenti LGBT. Lo stesso concetto di genere viene
rimesso in discussione, in quanto non sufficientemente esplicito
rispetto all’imposizione dell’eterosessualità come modello dominante:
il genere è forse solo un altro sistema di divisione tra dominanti e
dominati, con riferimento al sesso?

Il genere come categoria della ricerca antropologica. L’antropologia


di genere
Da ipotesi antropologica o provocazione femminista, la nozione di
genere – ovvero l’idea che la differenza sessuale è costruita
culturalmente e non è originata dalle differenze biologiche – è
diventato una categoria analitica utilizzata nelle scienze sociali e un
approccio per l’orientamento delle politiche.
L’antropologia nel senso più generale – indipendentemente dalle
scuole di pensiero – ha incorporato progressivamente la categoria
analitica del genere e ne ha fatto una chiave di lettura centrale
nell’interrogazione sul rapporto tra natura e cultura al momento di
determinare il comportamento umano. Come scrive Gioia di Cristofaro
Longo, autrice di un importante saggio, Identità di genere (1994), che
ben sintetizza il percorso del concetto in antropologia:
Le “artificiali differenze” hanno costruito l’oppressione del sesso femminile nella
storia della cultura di cui l’antropologia, seppur con difficoltà, proprio per il
condizionamento dei modelli androcentrici propri dei ricercatori per la
maggioranza uomini, è venuta prendendo coscienza3.

Nel volume Mirror for Humanity (2006), Conrad Kottak pone il


genere tra le categorie analitiche dell’antropologia, esattamente come
la famiglia, la parentela e la filiazione o l’etnicità. Kottak non nega la
differenza biologica: gli uomini e le donne sono geneticamente
differenti, le donne hanno due cromosomi X e gli uomini uno X e uno
Y. E la diversità cromosomica si manifesta in contrasti ormonali e
fisiologici.
Gli uomini sono sessualmente dimorfici, più che alcuni primati come i gibboni
(piccole scimmie arboricole dell’Asia) e meno che altri, come i gorilla o gli
orangutan. Il dimorfismo sessuale riguarda diversità significative tra la biologia
maschile e femminile al di là delle differenze nel petto e nei genitali4.

Date queste differenze genetiche, la questione che l’antropologia


solleva è la seguente: che effetto hanno nel modo in cui agiscono e
sono trattati gli uomini e le donne nelle differenti culture? Di fronte al
fatto che gli antropologi hanno scoperto variazioni sostanziali tra i
ruoli degli uomini e delle donne nelle diverse società, Kottak, citando
Friedl (1975: 6), riassume così la posizione dell’antropologia in merito:
«La natura biologica degli uomini e delle donne dovrebbe essere vista non come
uno stretto recinto che limita l’organismo umano, ma come un’ampia base sulla
quale si può costruire tutta una varietà di strutture». Sebbene nella maggioranza
delle culture gli uomini tendano a essere in certa misura più aggressivi delle
donne, molte delle differenze nelle attitudini e nelle condotte tra i sessi emergono
dalla cultura e non dalla biologia. Le differenze di sesso sono biologiche, ma il
genere comprende tutti i tratti che una cultura attribuisce e inculca agli uomini e
alle donne. In altre parole, il “genere” si riferisce alla costruzione culturale delle
caratteristiche maschili e femminili5.

Uno degli ambiti dell’antropologia odierna è dunque la ricerca delle


ricche e variate costruzioni di genere nell’ambito della diversità
culturale, la raccolta sistematica di dati sul genere nei vari contesti, e
l’individuazione di temi e pratiche ricorrenti in relazione con la
differenza di genere in ambiti come l’economia, il lavoro, l’attività
domestica, lo spazio pubblico e politico, i sistemi di parentela.
Per questo tipo di ricerca l’antropologia utilizza alcune sottocategorie
che sono state messe a punto negli ultimi trent’anni: i ruoli di genere,
gli stereotipi di genere, le stratificazioni di genere. I ruoli di genere
sono i compiti e le attività che una cultura assegna ai sessi. Gli
stereotipi di genere sono idee molto semplificate, ma anche
fortemente interiorizzate, in merito alle caratteristiche dei ragazzi e
delle ragazze, degli uomini e delle donne. La stratificazione di genere
descrive una distribuzione diseguale delle risorse socialmente
valorizzate, del potere, del prestigio e della libertà personale tra gli
uomini e le donne, riflettendo posizioni diverse nella gerarchia sociale.
L’antropologia di genere è diventata quindi un ramo importante della
disciplina nel suo complesso, concentrata sullo studio transculturale
del genere, alla ricerca di elementi universali e di particolarità
culturali. Le variazioni transculturali del genere sono messe in
relazione con i sistemi di parentela (tradizionale ambito centrale degli
studi antropologici) e con le regole della filiazione e della residenza
postmatrimoniale. Per esempio, come abbiamo visto nel capitolo 4,
variazioni nello statuto di genere corrispondono alla filiazione
matrilineare-matrilocale (la residenza dopo il matrimonio con la
famiglia della sposa) o patrilineare-patrilocale (residenza con la
famiglia dello sposo). Matrilinearità e patrilinearità nella filiazione
determinano frequentemente l’organizzazione politica di una società.
Come l’antropologia femminista, quella di genere si interessa anche
al patriarcato come sistema patrilineare e patrilocale, nel quale il
potere politico è retto dagli uomini e le donne sono confinate in uno
statuto inferiore. Se il patriarcato risulta indiscutibilmente presente in
molte società del pianeta, l’antropologia di genere continua piuttosto a
interrogarsi sull’esistenza di un vero e proprio matriarcato, ovvero di
un sistema politico nel quale le donne svolgono un ruolo molto più
importante che gli uomini, dato che la matrilinearità di per sé non è
sufficiente a delineare un matriarcato.
Per concludere, l’antropologia di genere è il ramo dell’antropologia
che presta particolare attenzione ai temi delle relazioni di genere,
come l’antropologia urbana si interessa allo spazio e quella medica alla
salute. Dato l’ambito specifico di ricerca, l’antropologia di genere
finisce per porsi una serie di questioni che riguardano anche
l’antropologia femminista, con la quale spesso si incontra. E
nell’ambito di questo tipo di ricerche è spesso l’antropologia
femminista, nutrita di riflessioni che provengono dalle teorie del
femminismo sociopolitico, a offrire le interpretazioni più originali.

Questioni dell’antropologia di genere e dell’antropologia femminista:


esiste il matriarcato? Peggy Sanday e i Minangkabau
Il concetto di matriarcato affascina gli antropologi fin dall’Ottocento:
la maggioranza degli studiosi sostiene che non esiste un autentico
matriarcato (e che forse, nonostante le ipotesi di Bachofen di cui
abbiamo parlato nel capitolo 2, non è mai esistito). Per l’antropologia
italiana Ida Magli (1925-2016), per esempio6, il matriarcato sarebbe
una costruzione mitica che rivela, attraverso l’analisi dei testi di coloro
che l’hanno teorizzata, ciò che rappresenta la femminilità
nell’inconscio maschile, un’immagine al tempo stesso debole e
potente, portatrice di vita e di morte.
L’antropologa femminista Peggy Reeves Sanday, dopo anni di studio
della popolazione dei Minangkabau dell’isola di Sumatra (Indonesia)7,
la più numerosa popolazione matrilineare del mondo (circa sei milioni
di persone), ha suggerito un’ipotesi completamente diversa. Secondo
Sanday, il vero problema consiste nella rappresentazione del
matriarcato che gli occidentali hanno costruito, che è fondata su una
certa idea del potere. Questa idea non corrisponde al funzionamento
di altre società, come per l’appunto quella dei Minangkabau, che,
sebbene abbiano adottato dai coloni olandesi il termine matriarcato
per descrivere il funzionamento della propria società, si riferiscono a
pratiche rituali di tutt’altro tipo. Presso i Minangkabau, uomini e
donne lavorano insieme per il bene comune, su una base di
uguaglianza, invece di porsi come competitori per inseguire i propri
interessi. Il prestigio sociale è attribuito a chi promuove buone
relazioni seguendo i principi della tradizione e della religione, ovvero
dell’adat, una filosofia basata sulla natura che nemmeno la loro
conversione all’Islam ha eliminato. L’idea centrale dell’adat è la
visione del mondo naturale come modello di comportamento: bisogna
“coltivare” perché uomini, animali e piante crescano, solo questo
costruisce la società.
L’enfasi sulla crescita, sul nutrire, sull’allevare, implica una
valorizzazione della dimensione materna, che è centro, origine e
fondamento, non solo della vita, ma dell’ordine sociale. È l’adat ibu, la
legge tradizionale femminile, che pone le donne anziane al centro
sociale, emotivo, estetico, politico ed economico della vita quotidiana
accanto ai loro fratelli. Quando le donne anziane praticano le funzioni
cerimoniali vengono chiamate bundo kanduang (“la nostra madre
comune”), in riferimento alla mitica antenata di ogni clan (oltre che
alla madre biologica), una regina che sarebbe vissuta nel XV secolo e
che insieme ai suoi figli avrebbe dato appunto forma all’adat. Mentre
l’Occidente esalta la dominazione maschile e la concorrenza, i
Minangkabau glorificano una mitica regina madre, optando per la
matrilinearità nella legge divina e la cooperazione.
Il potere delle donne Minangkabau si estende all’economia:
controllano l’eredità e la terra, ed è il marito a spostarsi nella casa
della moglie. Durante la cerimonia del matrimonio la moglie va a
prendere il marito a casa sua e, accompagnata dai parenti di sesso
femminile, lo porta alla casa della sua famiglia. In caso di divorzio il
marito raccoglie i suoi vestiti e se ne va.
Queste pratiche che accordano alle donne una posizione speciale non
significano però dominazione femminile. Sanday è molto esplicita su
questo punto: tutti i processi decisionali devono essere consensuali,
perché i maschi e le femmine si completano a vicenda. I Minangkabau
hanno un proverbio per descrivere il rapporto di cooperazione tra i
sessi: «Come pelle e unghia del dito».
Nel ripensare il matriarcato, Sanday suggerisce dunque che per le
società in cui la struttura è forgiata da principi materni, l’attenzione va
spostata dal potere esercitato con la forza alla forza persuasiva della
tradizione. In queste società uomini e donne detengono la leadership
in quanto sostengono la tradizione.
Altre studiose di società matrilineari sono giunte a conclusioni
analoghe. È il caso, per esempio, di Barbara Alice Mann per quanto
riguarda gli Irochesi che, come i Minangkabau, attribuiscono un
particolare ruolo alle donne anziane.
Il matriarcato non è dunque un sistema di governance della famiglia
o della società associata con la dominazione femminile, ma piuttosto
un sistema sociale equilibrato in cui i due sessi giocano un ruolo
chiave sulla base di principi sociali di tipo materno. In quanto ideatori
simbolici, le donne, nel loro ruolo di madri e donne anziane, sono gli
esecutori di pratiche che rigenerano o, per usare un termine più vicino
al linguaggio dell’etnografia, “coltivano” l’ordine sociale. Secondo
questa definizione, il contesto etnografico di un matriarcato ridefinito
non riflette il potere femminile inteso come strumento per soggiogare
dei soggetti, ma la responsabilità del sesso femminile (madri, donne
anziane) per tessere e rigenerare i legami sociali qui e ora,
trasmettendo la tradizione.
La tradizione determina le regole per l’esercizio di una leadership
appropriata e tesse i legami sociali attraverso l’economia del dono. Il
potere concepito in questo modo si presenta equilibrato, nel senso che
è diffuso tra coloro che collaborano per mantenere le regole e le
pratiche sociali.
L’interesse per le società rette dai principi materni, egualitari, basati
sulla condivisione e sul dono, su una spiritualità che considera sacri
tutti gli esseri viventi e in cui la violenza è rara, sono al centro
dell’attenzione di gran parte dell’antropologia di genere e
dell’antropologia femminista. Tra le studiose impegnate in tal senso
citiamo Francesca Rosati Freeman, che si occupa dei Moso,
popolazione che vive nella Cina orientale, al confine con il Tibet8.
Questa nuova concezione del matriarcato si ricongiunge con una
corrente del pensiero femminista che rifiuta l’omologazione delle
donne ai modelli maschili e intende valorizzare le specificità femminili
– una sorta di “essenza femminile” – tra cui in particolare la capacità
di coltivare e curare qualsiasi forma di vita9.

Genere, etnia e classe: la fine della categoria “donna”. Il sesso: una


categoria sociale?
A partire dagli anni Ottanta, il movimento femminista si è
profondamente diviso, a seguito dell’emergere di posizioni critiche
interne al movimento stesso da parte di correnti come black feminism,
femminismo postcoloniale, pensiero LGBT. La frammentazione in
diverse correnti è avvenuta sullo sfondo di una profonda mutazione
antropologica delle strutture familiari: diminuzione dei matrimoni e
svalorizzazione dell’istituzione matrimoniale come fondazione della
famiglia; aumento delle separazioni e dei divorzi; crescita delle
famiglie monoparentali e ricomposte; introduzione, di fronte alla
pressione sociale, del matrimonio fra persone dello stesso sesso10;
formazione di famiglie con genitori omosessuali, che reclamano il
diritto all’adozione.
Le critiche interne al movimento femminista hanno innanzi tutto
messo in questione la reificazione della donna come categoria
universale: classe, razza, etnia, status socioeconomico, religione sono
state riconosciute come caratteristiche che diversificano
significativamente la categoria “donna”. In altre parole, viene
riconosciuto che non tutte le donne hanno gli stessi bisogni e vivono le
stesse esperienze universali. Alcune antropologhe femministe, come
Nancy Scheper-Hughes, che ha raccolto le storie di vita di donne
brasiliane, e Anna Tsing, che ha scritto sulla marginalità in Indonesia,
sostengono che non può esservi una definizione universale per “uomo”
o “donna”. Possiamo anche citare Lila Abu-Lughod, che, dopo aver
studiato la vita delle donne beduine, sostiene che esse apprezzino i
vantaggi in una società divisa per generi, e mette in evidenza la
difficoltà che hanno molte femministe occidentali a comprendere
l’Islam e l’induismo.
Quanto alle studiose che si riconoscono nel femminismo
postcoloniale, esse hanno evidenziato come i concetti di oppressione,
dominio e sfruttamento elaborati in Occidente non risultino sempre
appropriati in altri contesti11.
Va notato che questa messa in discussione si è inserita in una critica
più ampia al “discorso” delle scienze sociali occidentali. L’antropologia
“postmoderna”12, che considera il prodotto antropologico non come
riflesso di una realtà oggettiva, bensì come terreno mutevole e
continuamente ridefinito, basato sull’analisi di discorsi,
rappresentazioni e autorappresentazioni, ha a sua volta messo in
discussione l’oggettività dello sguardo antropologico e la neutralità
dell’interpretazione e della traduzione: il rapporto antropologico non à
più inteso come la descrizione scientifica della cultura e della società
studiate, ma come il risultato di una “negoziazione di significati” che si
svolge nelle mutevoli contingenze del lavoro sul campo, tra la
personalità, il bagaglio culturale e i ruoli assunti dall’antropologo e le
diverse personalità e bagagli e ruoli degli interlocutori con cui egli
entra in relazione. Questo approccio riflette una doppia crisi:
dell’oggetto d’indagine, con la rimessa in discussione del lavoro di
campo e della sua oggettività scientifica di fronte alla soggettività
dell’antropologo; ed epistemologica (in relazione con la teoria della
postmodernità), con la rimessa in questione dei paradigmi di una
ragione universale. Il testo antropologico appare allora come un testo
“letterario” e non più scientifico.
L’abbandono della reificazione della categoria “donna” ha contribuito
a fare spazio al concetto di genere, e a un’antropologia che includa
anche l’uomo come oggetto di studio all’interno del sistema di genere.
Ma anche questa prospettiva è diventata presto oggetto di critica.
Abbiamo visto come la distinzione tra sesso e genere non mette in
questione il fatto che il sesso biologico, basato sulle differenze
fisiologiche, sia una causa dell’attribuzione dei ruoli maschili e
femminili. Simone de Beauvoir, dal canto suo, riteneva che proprio la
funzione riproduttiva delle donne fosse all’origine della loro
subordinazione, e la narrativa strutturalista13 riprende
sostanzialmente l’idea di una dominazione maschile provocata dalla
“incomprensibile capacità femminile” di riprodurre se stesse ma anche
i maschi, il che avrebbe prodotto un rovesciamento concettuale in
grado di attribuire agli uomini un ruolo decisivo nella procreazione14.
Contro questo tipo di analisi emergono posizioni critiche che
sostengono come sia fuorviante la stessa separazione tra sesso e
genere: il sesso è esso stesso una categoria sociale, dato che esistono
aspettative sociali fondate sul corpo fisico. Il sesso biologico non
sarebbe dunque la base su cui si costruisce il genere; anzi è il genere a
precedere il sesso – in quanto quest’ultimo marca semplicemente una
divisione sociale – in quanto serve a dare riconoscimento sociale e
identificazione distinguendo tra dominanti e dominati15.

L’antropologia queer
La teoria queer costituisce uno dei più recenti sviluppi nell’ambito
dell’antropologia, collocandosi nell’alveo dell’antropologia
postmoderna di cui si è fatto cenno. Come indica lo stesso termine
queer16, questa teoria si oppone al concetto di “normalità”, sfidando la
normatività dell’eterosessualità e mettendo in luce gli effetti della
socializzazione sull’identità sessuale17. David Halperin, autore di How
to Be Gay (2012), sostiene che queer è per definizione tutto ciò che è
in contrasto con il normale, il legittimo, il dominante, ma non si
riferisce a niente di particolare; è una identità senza un’essenza18.
Queer non si riferisce dunque soltanto alla sessualità, o al sesso, ma
suggerisce che i confini di ogni identità possono potenzialmente essere
reinventati da chiunque.
In sintesi la teoria queer, che sta alla base dell’antropologia
omonima, critica le categorie binarie del genere (uomo/donna,
maschile/femminile) e della sessualità (eterosessuale/omosessuale),
in quanto sostiene che le identità non sono fisse, non determinano chi
siamo, per privilegiare invece concetti come “ambiguità” e “fluidità”
per analizzare i corpi sessuati19.
Per la teoria queer non ha senso parlare in generale di “donne” o di
qualsiasi altro gruppo, dato che le identità sono costituite da tanti
elementi – per cui supporre che le persone possano essere viste
collettivamente sulla base di una caratteristica comune è sbagliato. Per
questo suggerisce di sfidare deliberatamente tutte le nozioni che fanno
riferimento a un’identità fissa, in modi vari e non prevedibili.
L’identità è vista come fluttuante, non collegata a una “essenza”
quanto a una “performance”, un concetto che è al centro stesso della
teoria queer: la nostra identità, di genere e non, non esprime un
nucleo rigido interno, ma è l’effetto (piuttosto che la causa) delle
nostre performance.
La teoria queer è stata fortemente influenzata dal pensatore francese
Michel Foucault (1926-1984) con i suoi lavori sulla produzione del
discorso scientifico sulla sessualità, e tra i suoi principali riferimenti va
ricordato il lavoro della filosofa statunitense Judith Butler (in
particolare il suo testo Gender Trouble, del 1990), che critica l’idea
reificata delle “donne” come gruppo con caratteristiche e interessi
comuni, sostenuta dal femminismo, idea che ha rafforzato una visione
binaria delle relazioni di genere secondo cui gli esseri umani si
dividono in due gruppi, donne e uomini. In pratica il femminismo,
anziché aprire nuove possibilità di costruire la propria identità
individuale, avrebbe chiuso le opzioni, obbligando a una scelta
dicotomica – maschio o femmina.
Secondo Butler le femministe hanno sì respinto l’idea che la biologia
sia il destino, ma hanno dato per scontato che il maschile e femminile
siano costruiti dalla cultura su corpi “maschili” e su corpi “femminili”,
rendendo lo stesso destino altrettanto inevitabile e non lasciando
spazio per la scelta, la differenza o la resistenza. Butler preferisce
invece posizioni storiche e antropologiche che intendono il genere
come una relazione tra soggetti socialmente costituiti in contesti
specifici. In altre parole, piuttosto che attributo fisso di una persona, il
genere dovrebbe essere considerato come una variabile fluida che si
sposta e cambia in contesti diversi e in tempi diversi. Butler ricusa
quindi il nesso che pone il sesso (maschio, femmina) come causa del
genere (maschile, femminile) che, a sua volta, provoca il desiderio
(verso l’altro genere) e, ispirandosi a Foucault, rompe questo
“continuum”, ipotizzando il genere e il desiderio come flessibili, fluidi
e non “provocati” da altri fattori stabili: «Non c’è identità di genere
dietro le espressioni di genere […]. L’identità è costituita in maniera
performativa dalle stesse “espressioni” che si dice siano i suoi
risultati»20. In altre parole, il genere è una “performance”, uno
spettacolo; è ciò che si fa in momenti particolari, piuttosto che un
universale “ciò che tu sei”.
Butler sostiene che alcune configurazioni culturali di genere si sono
imposte come egemoniche, apparendo come naturali, e che
quest’ordine deve necessariamente cambiare. Però, piuttosto che
proporre una visione utopica, senza un’idea di come si potrebbe
arrivare a uno stato diverso delle relazioni tra i generi, suggerisce
un’azione sovversiva costante nel presente, appunto “scambi di
genere” – la mobilitazione, la confusione sovversiva, la proliferazione
– e quindi di identità.
Negli Stati Uniti, l’antropologia queer è stata istituzionalizzata nel
1988 con la fondazione dell’Association for Queer Anthropology (AQA)
come sezione dell’American Anthropological Association21. Il volume
Out in the Field: Reflections of Lesbian and Gay Anthropologists
experiences curato nel 1996 da Ellen Lewin e William Leap è stato uno
dei primi lavori dedicati agli antropologi e alle antropologhe gay e
lesbiche, e alle loro esperienze nel lavoro sul campo.

Genere, differenza sessuale e organizzazione sociale


Dedichiamo ancora alcune pagine alle trasformazioni del concetto di
genere che si sono susseguite nell’ultima parte del Novecento,
richiamando in buona parte il testo Soggetti eccentrici pubblicato nel
1999 da Teresa de Lauretis, studiosa italiana che si è stabilita da anni
negli Stati Uniti.
De Lauretis ricorda che, nella prima elaborazione teorica del concetto
da parte del pensiero femminista
il genere era il marchio della donna, il segno della sua differenza: una differenza
sessuale che sottendeva un insieme di tratti caratteriali derivanti dal sesso
anatomico e dal destino biologico, e comportava la subordinazione all’uomo. Il
genere era la somma di quei tratti, sia che li si pensasse innati, forniti dalla
natura, o imposti dalla cultura e frutto di condizionamento sociale22.

La visione originaria del genere come marchio della differenza


maschile/femminile e della subordinazione femminile continua
tuttora a essere ampiamente utilizzato, specialmente nel linguaggio
comune e in quello della politica. Utilizzare il concetto di genere
implica però semplicemente lo spostamento dell’attenzione dal
“soggetto donna” al rapporto (asimmetrico) tra uomini e donne, dato
che mascolinità e femminilità sono concepite come categorie
socialmente costruite, e non rende evidente che la questione
dell’asimmetria come produttrice delle diseguaglianze va affrontata
nelle sue diverse dimensioni. Il superamento degli stereotipi di genere
si limita infatti spesso all’idea che esistono mentalità arretrate, che
vanno superate per risolvere il problema, e per “politiche di genere” si
intende un banale equilibrio quantitativo tra componente maschile e
femminile. Anche le indicazioni delle Nazioni Unite su gender
mainstreaming e gender empowerment si limitano a prendere in
conto la componente femminile o il ruolo delle donne nelle realtà
economiche, politiche e sociali, senza interrogarsi sulle cause profonde
delle diseguaglianze.
Come si è visto, il concetto di genere contiene invece un grande
potenziale euristico per analizzare non solo i comportamenti umani,
pure in relazione alla sessualità, ma anche i sistemi di potere che
hanno determinato diseguaglianze di vario tipo nel corso dei millenni.
L’approfondimento della ricerca femminista, come l’idea del sistema
sesso-genere o l’immersione della teoria del genere nell’analisi storica
ha evidenziato come il genere non sia semplicemente un derivato del
sesso anatomico o biologico, quanto piuttosto
una costruzione simbolica, una rappresentazione o, meglio, l’effetto combinato di
innumerevoli rappresentazioni visive e discorsive che provengono dai diversi
apparati istituzionali dello stato, quali la famiglia, la scuola, la giurisprudenza, la
medicina ecc. […] ma anche delle forme stesse della cultura (il linguaggio, le arti,
la letteratura, la religione, la filosofia, il cinema, i media)23.

Il fatto che il genere sia una costruzione sociale – e simbolica – non


significa che esso non abbia effetti concreti sulla vita materiale,
sociale, psichica degli individui.
Al contrario, la realtà del genere sta proprio negli effetti di realtà prodotti dalla
sua rappresentazione: il genere si realizza […] quando la rappresentazione diviene
autorappresentazione […]. Per questo ho proposto il neologismo en-gender, che
rendo in italiano con ingenerarsi: il soggetto […] si produce in quanto soggetto
nell’assumere, nel fare proprie o nell’identificarsi con gli effetti di senso e le
posizioni specificate dal sistema sessuale in una data società24.

In questo modo la distinzione tra sesso e genere diventa molto più


fluida. Sesso e genere appaiono entrambi come costruzioni discorsive
e funzioni di performance, come sostiene la teoria queer, immersi
nell’indistinzione o nell’interscambiabilità, a fronte di
un’eterosessualità imposta come sistema di dominio.
La profondità dei meccanismi del dominio degli uomini sulle donne
nelle diverse società, attraverso la divisione sessuale del lavoro e il
ruolo che essa svolge nell’accesso differenziato delle donne all’uso
delle tecnologie presenti nelle diverse società, è al centro del volume
Le dita tagliate (2014) dell’antropologa Paola Tabet25.
Tabet ci ricorda come la riproduzione negli esseri umani non è un evento esterno
alle relazioni sociali, ma al contrario determinato da esse, a partire
dall’eterosessualità vista come sistema sociale imposto. La messa a lavoro delle
donne in quanto riproduttrici non è dunque semplicemente riferita al lavoro che
le donne compiono nel riprodurre la vita sociale (lavoro domestico e di cura), ma
è precedente, poiché si realizza attraverso l’addomesticazione della sessualità
delle donne incanalata verso una modalità esclusivamente riproduttiva, a fronte
di una sessualità umana di per sé polimorfa. L’interesse per l’organizzazione
sociale della sessualità, ovvero la sessualità vista dentro i rapporti sociali tra i
sessi, è il ponte che tiene insieme l’analisi della riproduzione come lavoro e della
sessualità come lavoro26.

Nell’intervista che conclude il libro, curata da Mathieu Trachman,


Tabet si chiede se le attuali trasformazioni sociali nel rapporto tra i
sessi rimettono in causa la dominazione maschile o configurano in
modo nuovo questa dominazione. La questione da lei posta – quali
possibilità esistono per una sessualità egualitaria, esente cioè da ogni
condizione di oppressione, senza costrizioni, una sessualità libera di
esprimersi, di sperimentare, non legata alla divisione tra i sessi e alle
relazioni di potere –, non ha per ora risposte definitive.

Scegliere il genere?
Dall’anno accademico 2015-16, i vari campus universitari dell’Università della
California (UC) consentiranno ai loro studenti di scegliere tra sei identità di
genere al momento dell’iscrizione, se lo desiderano. Nel modulo sarà possibile
selezionare la casella uomo, donna, transgender uomo, transgender donna, queer
o diversa identità27.

La University of California non costituisce un caso unico: la richiesta


di permettere agli individui di scegliersi il proprio genere ha investito
non solo le università, ma anche i parlamenti nazionali.
Nel maggio del 2012, il Senato argentino ha approvato all’unanimità
una riforma del codice civile che garantisce a tutte le persone il diritto
di essere trattate «secondo la loro identità di genere e, in particolare,
di essere identificate in questo modo nei documenti che rivelano la
loro identità per quanto riguarda i nomi, le immagini e il sesso con il
quale vengono registrate». Il progetto definisce l’identità di genere,
«l’esperienza interiore e individuale di genere, come ogni persona si
sente, che può o non può corrispondere con il sesso assegnato al
momento della nascita, incluso il modo personale di vivere il proprio
corpo»28. Questa legge è in linea con l’approccio complessivo del
governo argentino alle questioni di genere, testimoniato
dall’approvazione nel 2010 del matrimonio omosessuale.
Effetti perversi della teoria del genere, come sostengono, per
esempio, i partecipanti alle Manif pour tous, che dal 2012 hanno più
volte sfilato per le strade francesi per opporsi alla nuova legislazione
sul matrimonio per tutti e alla odiosa “ideologia del genere” o “del
gender”, che corromperebbe i bambini delle scuole della République e,
a lungo termine, distruggerebbe la perfetta famiglia “naturale”
tradizionale?
Certamente negli ultimi anni il solco tra coloro che sostengono
l’esistenza di multiple variazioni culturali del maschile e del femminile
e i difensori della “natura” che costituirebbe il fondamento intangibile
e immutabile delle relazioni tra uomo e donna e della famiglia si è
progressivamente ampliato.
Ma in un quartiere di Londra, Tom, cinque anni, vuole essere
Batman, ama il calcio e ha i genitali femminili. Julia, otto, vuole
vestirsi di rosa come una principessa, ha il pene ed è stata registrata
all’anagrafe come Julian. In un articolo del settembre 2015 il
quotidiano britannico “The Guardian”29 scriveva di un aumento del
numero dei bambini transgender, utilizzando il dato delle
consultazioni mediche richieste dai genitori. Il fenomeno della gender
disphoria30 è sempre esistito, ma i genitori non osavano parlare e
reprimevano i comportamenti dei loro bambini. Oggi possono
esprimersi in maniera aperta. La disforia di genere è anch’essa
natura… oppure no?
In “natura” esistono anche i casi di “ambiguità sessuale”, che hanno
indotto il governo francese31, quello australiano e quello nepalese a
riconoscere anagraficamente un sesso “neutro” o un terzo sesso. Si
tratta di una situazione molto diversa dal transessualismo, nel quale
l’identificazione con un sesso o l’altro non corrisponde ad anomalie
negli organi genitali.
Il fatto che le società tradizionali riconoscessero figure diverse dal
maschile e dal femminile – come i berdache, descritti da Ruth
Benedict e che abbiamo ricordato nel capitolo 5 –, è un chiaro
indicatore del fatto che fenomeni di gender disphoria sono presenti da
sempre. Qui non si tratta di “ideologia del gender”, ma di concrete vite
vissute.
Il genere non è un’ideologia: credo di aver ampiamente dimostrato in
queste pagine che si tratta invece di un concetto analitico, fondato su
una solida ricerca scientifica, che si è sviluppato all’interno di una
disciplina – l’antropologia – nata per comprendere l’uomo nella sua
totalità e complessità; il risultato dell’applicazione del metodo
scientifico all’osservazione dei fatti sociali.
L’antropologia di genere è peraltro ancora un cantiere in fieri,
sollecitata ogni anno da nuove riflessioni, suggestioni e scoperte.
Ricordiamo d’altronde che tutte le scienze sociali sono ancora nella
prima infanzia, se misuriamo i tempi della storia umana:
l’antropologia culturale, che ha posato un nuovo sguardo sulla
diversità, ha mosso i primi passi solo duecento anni fa; e appena
centocinquanta anni fa la sessualità, alla fine dell’Ottocento, ha fatto il
suo ingresso tra i temi delle scienze sociali col dottor Sigmund Freud.
Quanto alle battaglie per i diritti delle donne e oggi per la cessazione
della discriminazione nei confronti degli omosessuali, si tratta di
azioni sociali, portate avanti da attori sociali, che si esprimono nello
spazio pubblico, per contrastare dei processi di dominazione.
Sappiamo che da millenni le diseguaglianze – che sono iscritte non
solo nell’ordine economico, ma anche nei regimi di genere – sono state
ammantate dai gruppi dominanti dal velo della naturalità. Esse sono
invece, come lo studio antropologico e storico hanno mostrato,
prodotto di relazioni sociali.
La storia racconta che, nell’antica Roma, i plebei, in rivolta contro i
patrizi, furono apparentemente tranquillizzati dalla metafora
naturalista che voleva la società simile a un corpo umano. Per tornare
in città e al duro lavoro, pretesero però di avere come rappresentanti i
tribuni della plebe.

1 Cfr. http://afa.americananthro.org (ultima consultazione 8.3.2016).


2 Cfr. Méndez 2007.
3 Di Cristofaro Longo 1994: 133.
4 Kottak 2006: 167 (trad. dell’autrice).
5 Kottak 2006: 185 (trad. dell’autrice).
6 Cfr. soprattutto Magli 1978.
7 Su questa esperienza cfr. http://www.sas.upenn.edu/~psanday/eggi2.html

(ultima consultazione 3.8.2016).


8 Cfr. http://www.francescarosatifreeman.com/ita/home.html (ultima
consultazione 8.3.2016).
9 Altre femministe hanno però sostenuto che la pretesa natura femminile portata
alla cura è il risultato di situazioni di oppressione: «la rivalutazione culturale della
cura da parte del femminismo interpreta la passività della donna come tranquillità,
il sentimentalismo come la propensione a curare, la sua soggettività come avanzata
consapevolezza di sé» (Alcoff e Kittay 2006: 405).
10 L’espressione corretta è appunto “matrimonio tra persone dello stesso sesso”
oppure “matrimonio omosessuale”. Impropriamente si parla di “matrimonio gay”,
che si riferisce alla sola omosessualità maschile.
11 Cfr. Hale 1989; Fruzzetti 1989.
12 Il concetto di postmodernità entra nel dibattito filosofico e culturale alla fine
degli anni Settanta. Non più legata ai grandi progetti, l’età postmoderna si
caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici, che pretendono
soltanto una validità strumentale e contingente. In tale prospettiva si situano le
riflessioni dello statunitense Richard Rorty (1931-2007), che, in una conciliazione
di temi della filosofia analitica e del pragmatismo, ha sottolineato il superamento
del mito del discorso vero inteso come conformità a una realtà data e ha
ridimensionato i progetti fondazionali delle filosofie del passato, contrapponendo a
essi un atteggiamento che mira a dare risposte pragmatiche ai problemi dell’uomo.
13 Così come rielaborata da Héritier 2005, di cui abbiamo già parlato nel capitolo
7.
14 Cfr. ibidem: 38-39. Come abbiamo visto nel capitolo 8, Ortner sostiene che il
genere è determinato dal fatto che le donne sono viste come creatrici di natura (i
figli), mentre gli uomini come creatori di cultura, e che la sottomissione delle
donne è stata considerata necessaria per contenere la pericolosità del loro potere.
15 Cfr. Morris 1995: 567-592.
16 Nel mondo anglosassone queer, che etimologicamente significa “strano,
bizzarro”, e quindi anormale, è stato per molto tempo un termine dispregiativo
utilizzato per designare gli appartenenti al mondo LGBT. Con un’operazione di
rivalutazione semantica i soggetti e le comunità omosessuali lo hanno però
adottato per rimarcare l’idea di un’identità sessuale radicalmente connotata come
differente. Per la comunità LGBT è così diventato un termine inclusivo, che può
riferirsi indistintamente a gay, lesbiche e a ogni altro soggetto sessuale percepito
dalla cultura di appartenenza come perverso, deviato, anormale.
17 De Lauretis 1999.
18 Cfr. la recensione al volume da parte del critico letterario Dwight Garner:
http://www.nytimes.com/2012/08/08/books/how-to-be-gay-by-david-m-
halperin.html?_r=0 (ultima consultazione 8.3.2016).
19 Cfr. Butler 1990; Preciado 2002.
20 Butler 1990: 25.
21 Sugli intenti dell’AQA cfr. http://queeranthro.org/ (ultima consultazione
8.3.2016). L’associazione, già conosciuta come Society of Lesbian and Gay
Anthropologists (SOLGA), mette in palio ogni anno un premio consacrato a Ruth
Benedict (che, come abbiamo ricordato, ebbe varie relazioni lesbiche, di cui una
con Margaret Mead).
22 De Lauretis 1999: 97.
23 Ibidem: 98.
24 Ibidem: 99.
25 Così ne scrive Valeria Ribeiro Corossacz in una recensione pubblicata su
“Micromega” nel 2014: «Pur trattandosi di una studiosa italiana che ha insegnato
nell’università italiana, il suo lavoro sulle relazioni sociali tra i sessi ha trovato poco
spazio di circolazione sia all’interno dell’antropologia sia nei dibattiti femministi
italiani negli anni in cui è stato pubblicato. Diversi gli elementi che hanno
contribuito a questa invisibilità, tra cui le resistenze androcentriche interne
all’antropologia e il radicamento di altre prospettive femministe».
26 Ribeiro Corossacz 2014.
27 http://www.lemonde.fr/campus/article/2015/08/14/l-universite-de-
californie-autorise-ses-etudiants-a-choisir-entre-six-identites-de-
genre_4725279_4401467.html (ultima consultazione 8.3.2016).
28 http://www.latercera.com/noticia/mundo/2012/05/678-459844-9-senado-
argentino-aprueba-ley-que-reconoce-eleccion-de-identidad-de-genero.shtml
(ultima consultazione 8.3.2016).
29 http://www.theguardian.com/society/2015/sep/12/transgender-children-
have-to-respect-who-he-is (ultima consultazione 8.3.2016). L’articolo è del
giornalista Jenny Kleeman.
30 Un’esaustiva definizione del disturbo dell’identità di genere, detto anche
disforia di genere, si può leggere on line a questo indirizzo:
http://www.webmd.com/mental
-health/gender-dysphoria (ultima consultazione 8.3.2016).
31 Cfr. l’articolo di Julia Pascual, pubblicato su “Le Monde” il 14 ottobre 2015, Le
sexe «neutre» reconnu pour la première fois en France
(http://www.lemonde.fr/societe/article/2015/10/14/le-sexe-neutre-reconnu-
pour-la-premiere-fois-en-france_4789226_3224.html#YfKW6vJjkzyhO1Rc.99;
ultima consultazione 8.3.2016): «È nato con un’ambiguità sessuale. Il suo corpo
presenta al tempo stesso gli attributi femminili e maschili. Non produce ormoni
sessuali, non ha né ovaie né testicoli, ma una vagina rudimentalee un “micropene”.
Il certificato medico fornito al Tribunale parla di “intresessualità”» (trad.
dell’autrice).
BIBLIOGRAFIA

AA. VV.
– 1994, Gli argonauti: l’antropologia e la società italiana, Roma, Armando.
AA. VV.
– 2000, Les vies de Germaine Tillion, “Esprit”, febbraio.
ABU-LUGHOD L.
– 1993, Writing Women’s Worlds, Los Angeles, University of California Press.
ALCOFF L.
– 1988, Cultural feminism versus post-structuralism: The identity crisis in
Feminist Theory, in Dirks N., Eley G., Ortner S. (a cura di),
Culture/Power/History: A Reader in Contemporary Social Theory, Princeton,
Princeton University Press, pp. 96-122.
ALCOFF L., KITTAY E.F.
– 2006, Blackwell Guide to Feminist Philosophy, Malden, Blackwell.
BABCOCK B.
– 1995, Not in the first person singular, in Behar R., Gordon D.A. (a cura di),
Women Writing Culture, Berkeley, University of California Press.
BACHOFEN J.J.
– 1861, Das Mutterrecht, Basel, Benno Schwabe [trad. it. Il matriarcato, Torino,
Einaudi, 2016].
BAKER L.D.
– 1998, From Savage to Negro. Anthropology and the Construction of Race, 1896-
1954, Berkeley, University of California Press.
BANNER L.W.
– 2003, Intertwined Lives: Margaret Mead, Ruth Benedict, and Their Circle, New
York, Alfred Knopf.
BARRY P.
– 2002, Lesbian/gay criticism, in Id. (a cura di), Beginning Theory: An
Introduction to Literary and Cultural Theory, Manchester, Manchester
University Press, pp. 139-155.
BENEDICT R.
– 1934, Patterns of Culture, Boston - New York, Houghton Mifflin & Co [trad. it.
Modelli di cultura, Roma-Bari, Laterza, 2010].
– 1935, Zuñi Mythology, New York, Columbia University Press.
– 1946, The Chrysanthemum and the Sword, Patterns of Japanese Behaviour,
Boston, Houghton Mifflin Co & Co [trad. it. Il crisantemo e la spada. Modelli di
cultura giapponese, Roma-Bari, Laterza, 2009].
BERTHOUD G.
– 1992, Vers une anthropologie générale. Modernité et alterité, Génève, Librairie
Droz.
BLANCKAERT C.
– 1997, Quand on pensait le monde en termes de race. Paul Broca: des chiffres et
des cranes, in Le racisme, “Les dossiers de l’Histoire”, octobre, n. 214, pp. 80-
109.
BOAS F.
– 1884, A Journey in Cumberland Sound and on the West Shore of Davis Strait in
1883 and 1884, “Journal of the American Geographical Society”, n. 16, pp. 242-
272.
– 1885, Baffin-Land: Geographische Ergebnisse einer in den Jahren 1883 und
1884 ausgeführten Forschungreise, “Petermanns Mitteilungen”, supplemento al
n. 80, pp. 1-100.
– 1888, The Central Eskimo, Sixth Annual Report of the Bureau of Ethnology
1884-1885, Washington, Smithsonian Institution, pp. 399-669.
– 1901, The Eskimo of Baffin Land and Hudson Bay. From Notes Collected by
Capt. George Comer, Capt. James S. Mutch, and Rev. E.J. Peck, “Bulletin of the
American Museum of Natural History”, vol. 15, n. 1, pp. 1-370.
– 1907, Second Report on the Eskimo of Baffin Land and Hudson Bay. From
Notes Collected by Capt. George Comer, Capt. James S. Mutch, and Rev. E.J.
Peck, “Bulletin of the American Museum of Natural History”, vol. 15, n. 2, pp.
371-570.
– 1911, The Mind of Primitive Man, New York, MacMillan [trad. it. L’uomo
primitivo, Roma-Bari, Laterza, 1995].
– 1928a, Keresan Texts, New York, The American Ethnological Society - G.E.
Stechert & C.
– 1928b, Forward, in Mead M., Coming of Age in Samoa, New York, W. Morrow &
C., pp. XXI-XXII.
– 1940, Race, Language and Culture, New York, MacMillan.
– 1945, Race and Democratic Society, New York, Augustin.
– 1970 [1896], I limiti del metodo comparativo in antropologia, in Bonin L.,
Marazzi A. (a cura di), Antropologia culturale. Testi e documenti, Milano,
Hoepli.
BOURDIEU P.
– 1998, La domination masculine, Paris, Seuil [trad. it. Il dominio maschile,
Milano, Feltrinelli, 1998].
BRETTEL C., SARGENT C. (A CURA DI)
– 1997, Gender in Cross-Cultural Perspective, New Jersey, Prentice Hall
Humanities/Social Science.
BUSONI M.
– 2000, Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Roma, Carocci.
BUTLER J.
– 1990, Gender Trouble, Feminism and the Subversion of Identity, New York -
London, Routledge [trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione
dell’identità, Roma-Bari, Laterza, 2013].
– 1996 [1993], Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Milano, Feltrinelli.
CALLARI GALLI, M.
– 1979, Il tempo delle donne, Bologna, Cappelli.
CALLARI GALLI M., COLLIVA C., PAZZAGLI I.G.
– 1993, Il rumore silenzioso, Firenze, La Nuova Italia.
CAPLAN P.
– 1987, Cultural Construction of Sexuality, London, Routledge.
CAREY B.
– 2006, John William Money, 84, sexual identity researcher, dies, “The New York
Times”, 11 luglio.
CHAMBERS K.S.
– 1973, The indefatigable Elsie Clews Parsons, “Folklorist. Western Folklore”, vol.
32, n. 3, pp. 180-198.
CHAVÉE, H.
– 1862, Les langues et les races, Paris, Chamerot.
CHRISTOPHE J., BOËLL D.-M., MEYRAN R.
– 1978, Du folklore à l’ethnologie, Paris, Editions de la Maison des Sciences de
l’Homme.
CLIFFORD J., MARCUS G.
– 1997 [1986], Scrivere le culture, Roma, Meltemi.
COLETTE G.
– 1978, Pratique de pouvoir et idée de Nature (1), L’appropriation des femmes,
“Questions Feministes”, n. 2, pp. 5-30.
– 1995, Racism, Sexism, Power and Ideology, London, Routledge.
COLLIER J.F., YANAGISAKO S. (A CURA DI)
– 1987, Gender and Kinship: Essays Toward a Unified Analysis, Stanford,
Stanford University Press.
– 1989, Theory in Anthropology Since Feminist Practice, “Critique of
Anthropology”, n. 9, pp. 27-37.
CONKEY M., SPECTOR J.
– 1984, Archaeology and the Study of Gender. Advances, “Archaeological Method
and Theory”, n. 7, pp. 1-38.
CONKEY M.W., WILLIAMS S.H.
– 1991, Original narratives: The political economy of gender in archaeology, in
Di Leonardo M. (a cura di), Gender at the Crossroads of Knowledge: Feminist
Anthropology in the Postmodern Era, Los Angeles, University of California
Press, pp. 102-139.
CONRAD J.
– 1902, Heart of Darkness, Edinburgh - London, Blackwood & Sons [trad. it.
Cuore di tenebra, Torino, Einaudi, 2016].
COPANS J.
– 1974, Critiques et politiques de l’anthropologie, Paris, Maspero.
– 1976, Anthropologie et impérialisme, Paris, Maspero.
CORBETTA P.
– 1999, Metodologie e tecniche della ricerca sociale, Bologna, il Mulino.
COXE EVANS STEVENSON M.
– 1881, The Zuni and the Zunians, Washington DC.
– 1886, The sandpaintings of the Navaho, paper presentato alla Women’s
Anthropological Society of America.
– 1915, Ethnobotany of the Zuni Indians, in Thirtieth Annual Report of the Bureau
of American Ethnology for 1908-1908, Washington DC, US GPO, pp. 3-102.
– 2009 [1903], Zuni games, “American Anthropologist”, vol. 5, n. 3, pp. 468-497.
CUMMINS MILLER, S.
– 2007, A Sweet, Separate Intimacy: Women Writers of the American Frontier,
1800-1922, Lubbock, Texas Tech University Press.
CURTIS M., HINSLEY JR.
– 1981, Savages and Scientists: The Smithsonian Institution and the Development
of American Anthropology, 1846-1910, Washington DC, Smithsonian Institution
Press.
DARNELL R.
– 1998, And Along Came Boas. Continuity and Revolution in Americanist
Anthropology, Philadelphia, Benjamin.
DARWIN CH.
– 1859, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the
Preservation of Favoured Races in the STruggle for Life, London, Murray [trad.
it. L’origine delle specie, Torino, Bollati Boringhieri, 2011].
– 1871, The Descent of Man and Selection in Relation to Sex, London, Murray
[trad. it. L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Roma, Newton Compton,
2010].
DEACON D.
– 1989, Politicizing gender, “Genders”, n. 6, pp. 1-19.
– 1992, The Republic of the Spirit: Fieldwork in Elsie Clews Parson’s turn to
anthropology , “Frontiers. A Journal of Women Studies”, n. 12, pp. 13-19.
– 1997, Elsie Clews Parsons, Chicago, University of Chicago Press.
DE BEAUVOIR S.
– 1949, Le deuxième sexe, Paris, Gallimard [trad. it. Il secondo sesso, Milano, il
Saggiatore, 2016].
DI CRISTOFARO LONGO, G.
– 1994, Identità di genere, in Aa. Vv., Gli argonauti: l’antropologia e la società
italiana, Roma, Armando, pp. 129-159.
DE LAURETIS, T.
– 1987, Technologies of Gender. Essays on Theory, Film, and Fiction,
Bloomington, Indiana University Press.
– 1999, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli.
DE WAAL MALEFIJT A.
– 1974, Images of Man. A History of Anthropological Thought, New York, Alfred
A. Knopf.
DIANTEILL, E.
– 2012, Anthropologie culturelle ou anthropologie sociale? Une dispute
transatlantique, “L’Année Sociologique”, vol. 62, n. 1, pp. 93-122.
DI LEONARDO M.
– 1991, Introduction, in Gender at the Crossroads of Knowledge: Feminist
Anthropology in the Postmodern Era, Los Angeles, University of California
Press, pp. 1-48.
DIRKS N., ELEY G., ORTNER S. (A CURA DI)
– 1994, Culture/Power/History: A Reader in Contemporary Social Theory,
Princeton, Princeton University Press
DOUGLAS M.
– 1979 [1970], I simboli naturali, Torino, Einaudi.
– 1985 [1975], Antropologia e simbolismo, Bologna, il Mulino.
DU BOIS C.
– 1944, The People of Alor. A Social Psychological Study of an East Indian Island,
Minneapolis, University of Minnesota Press.
EHRENREICH B., HOCHSCHILD A.R. (A CURA DI)
– 2004 [2004], Donne globali. Tate, colf e badanti, Milano, Feltrinelli.
ENGELS F.
– 1972 [1884], The Origin of the Family, Private Property, and the State, New
York, International House [trad. it. Le origini della famiglia, della proprietà
privata e dello stato, Roma, Editori Riuniti, 2005].
EVANS-PRITCHARD E.E.
– 1964, Social Anthropology and Other Essays, Glencoe, The Free Press.
FABIETTI U.
– 2012, Antropologia, Torino, Einaudi.
FLETCHER A.
– 1892, Experiences in Allotting Land, Tenth Annual Lake Mohonk Conference of
the Friends of the Indian.
– 1894, The religion of the North American Indians, in Hanson J.W. (a cura di),
The World’s Congress of Religions, Chicago, Conkey.
– 1896, Sacred Pole of the Omaha tribe, “Proceedings of the American Association
for the Advancement of Science”, n. 44, pp. 270-280.
– 1899, The Indian woman and her problem, “Southern Workman”, n. 28, pp. 172-
176.
– 1909, Standing bear, “Southern Workman”, n. 38, pp. 75-78.
FLETCHER A., LA FLESCHE F.
– 1992 [1911], The Omaha Tribe, Lincoln, University of Nebraska Press.
FOUCAULT M.
– 1977, Microfisica del potere: interventi politici, Torino Einaudi.
FOX R.
– 1967, Kinship and Marriage: An Anthropological Perspective, Cambridge,
Cambrige University Press.
FRAZER J.
– 1890, The Golden Bough, New York, Criterion Book [trad. it. Il ramo d’oro,
Torino, Bollati Boringhieri, 2012].
FREUD S.
– 2011 [1911], Totem e tabù, Torino, Bollati Boringhieri.
FRIEDAN B.
– 1963, The Feminine Mystique, New York, Norton [trad. it. La mistica della
femminilità, Roma, Castelvecchi, 2014].
FRIEDL E.
– 1975, Women and Men: An Anthropologist’s View, New York, Holt Reinhard and
Wilson.
FRIEDLANDER J.
– 1989, Elsie Clews Parsons, in Gacs U., Khan A., McIntyre J., Weinberg R. (a cura
di), Woman Anthropologists: Selected Biographies, Chicago, University of
Illinois Press.
FRUZZETTI L.M.
– 1989, Women in Hindu society, in Morgen S. (a cura di), Gender and
Anthropology: Critical Reviews for Research and Teaching, Washington DC,
American Anthropological Association, pp. 268-293.
GACS U., KHAN A., MCINTYRE J., WEINBERG R.
– 1989, Women Anthropologists: Selected Biographies, Westport, Greenwood
Press.
GAVRON H.
– 1966, The Captive Wife, London, Routledge.
GAY E.J.
– 1987, With the Nez Perces. Alice Fletcher in the Field, 1889-92, Lincoln,
Frederick E. Hoxie Editor e University of Nebraska Press
GEERTZ C.
– 1987 [1973], Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino.
GELLNER P., STOCKETT M.
– 2006, Feminist Anthropology: Past Present and Future, Philadelphia,
University of Pennsylvania Press.
GOBINEAU A. DE
– 1855, Essai sur l’inegalité des races humaines, Paris, Hubert Juin [trad. it.
Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, Padova, Edizioni di Ar, 1964].
GODELIER M.
– 2004, Les métamorphoses de la parenté, Paris, Fayard.
GORER G.
– 1942, Japanese Character Structure and Propaganda: A Preliminary Survey,
New York, Institute for Intercultural Studies.
– 1943, Themes in Japanese culture, “Transactions of the New York Academy of
Science”, 2a serie, vol. 5, n. 5, pp. 106-124.
– 1965, Death, Grief, and Mourning in Contemporary Britain, New York,
Doubleday Bantam Books.
GREEN R., MONEY J. (A CURA DI)
– 1969, Transsexualism and Sex Reassignment, Baltimore, The Johns Hopkins
Press.
HALE S.
– 1989, The politics of gender in the Middle East, in Morgen S. (a cura di), Gender
and Anthropology: Critical Reviews for Research and Teaching, Washington
DC, American Anthropological Association, pp. 246-267.
HALPERIN D.
– 2012, How to Be Gay, Cambridge, The Belknap Press of Harvard University.
HAGEN C.
– 1994, Bush Toys, Aborigenal Children at Play, Canberra, Aborigenal Studies
Press.
HARE P.
– 1985, A Woman’s Quest for Science: Portrait of Anthropologist Elsie Clews
Parsons, New York, Prometheus Books.
HARRISON C.K.
– 1998, Themes that threat through society: Racism and the athletic
manifestations in the African American community, “Quest”, n. 47, pp. 7-18.
HARRISON F.
– 1995, The persistent power of “race” in the cultural and political economy of
racism, “Annual Review of Anthropology”, n. 24, pp. 47-74.
HELM J. (A CURA DI)
– 1966, Pioneers of American Anthropology: The Uses of Biography, Seattle,
University of Washington Press.
HERSKOVITS M.J.
– 1943, Some next steps in the study of negro folklore, “Journal of American
Folklore”, vol. 56, n. 28, pp. 1-7.
– 1953, Franz Boas: The Science of Man in the Making, New York, Charles
Scribner’s Sons.
HÉRITIER F.
– 1981, L’exercise de la parenté, Paris, Gallimard.
– 1996, Masculin/féminin. La pensée de la différence, Paris, Odile Jacob [trad. it.
Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari, 2006].
– 2002, Masculin/féminin, dissoudre la ierarchie, Paris, Odile Jacob [trad. it.
Dissolvere la gerarchia. Maschile/femminile II, Raffaello Cortina, Milano,
2004].
– 2005, Hommes, femmes, la construction de la différence, Paris, Le Pommier.
KABERRY P.M.
– 1939, Aboriginal Woman: Sacred and Profane, London, Routledge.
KILANI M.
– 1992 [1989], Antropologia: una introduzione, Bari, Dedalo.
KLUCKHON C.
– 1949, Mirror for Man: The Relation of Anthropology to Modern Life, Phoenix,
University of Arizona Press.
KNOX R.
– 1850, The Races of Men, Philadelphia, Lea and Blanchard.
KOTTAK C.
– 2006, Mirror for Humanity, New York, McGraw-Hill.
KROEBER A.L.
– 1939, Cultural and Natural Areas of Native North America, Los Angeles,
University of California Press.
– 1952, The Nature of Culture, Chicago, University of Chicago Press.
KUIPER K. (A CURA DI)
– 2011, Native American Culture, New York, Britannica Educational Publishing.
LA CECLA F.
– 2000, Modi bruschi. Antropologia del maschio, Milano, Bruno Mondadori.
LANDES R.
– 1947, The City of Women, Albuquerque, University of New Mexico Press.
LAMPHERE L.
– 1989, Feminist anthropology: The legacy of Elsie Clews Parsons, “American
Ethnologist”, n. 16, pp. 518-534.
– 1996, Gender, in Levinson D., Ember M. (a cura di), Encyclopedia of Cultural
Anthropology, New York, Henry Holt & C., vol. 2., pp. 488-493.
LAMPHERE L., RAGONE H., ZAVELLA P.
– 1997, Situated Lives: Gender and Culture in Everyday Life, New York,
Routledge.
LAPSLEY H.
– 2001, Margaret Mead and Ruth Benedict. The Kinship of Women, Boston,
University of Massachussets Press.
LEACOCK E.
– 1987, Women in egalitarian societies, in Bridenthal R., Koonz C., Becoming
Visible. Women in European History, 2a ed., Boston, Mifflin Company.
– 1988, Anthropologists in search of a culture: Margaret Mead, Derek Freeman
and all the rest of us, “Central Issues in Anthropology”, vol. 8, n. 1, pp. 3-20.
LECKIE S.A., PAREZO N.J
– 2008, Their Own Frontier: Women Intellectuals Re-visioning the American
West, Lincoln, University of Nebraska Press.
LEIBOWITZ L.
– 1975, Perspectives on the Evolution of Sex Differences, in Reiter R.R. (a cura di),
Toward an Anthropology of Women, New York, Monthly Review Press, pp. 21-
35.
LÉVI-STRAUSS C.
– 1950, Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss, in Mauss 1950.
– 1960 [1955], Tristi tropici, Milano, il Saggiatore.
– 1967 [1952], Razza e storia, Torino, Einaudi.
– 2003 [1948], Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli.
– 2009 [1958], Antropologia strutturale, Milano, il Saggiatore.
LEVINE N.E.
– 2008, Alternative kinship, marriage, and reproduction, “Annual Review of
Anthropology”, vol. 37, pp. 375-389.
LEVINE R.A., SHIMIZU H. (A CURA DI)
– 2001, Japanese Frames of Mind: Cultural Perspectives on Human
Development, New York, Cambridge University Press.
LEWIN E. (A CURA DI)
– 2006, Feminist Anthropology: A Reader, New York, John Wiley and Sons.
LEWIN E., LEAP W.
– 1996, Out in the Field, Reflections of Lesbian and Gay Anthropologists, Urbana
and Chicago, University of Illinois Press.
– 2002, Out in Theory: The Emergence of Gay and Lesbian Anthropology,
Urbana and Chicago, University of Illinois Press.
LI-CHUAN T.
– 2011, L’anthropologie française entre sciences coloniales et décolonisation
(1880-1960), Paris, Outre-mers.
– 2012a, L’institutionalisation de l’anthropologie universitaire et la France
d’outre mer, in Bonnichon P. e Gény P. , Présences françaises outre-mer XVII-XXI
siècle, Paris, Karthala.
– 2012b, L’Histoire des colonies dans le monde de l’érudition: le cas d’Henri
Cordier, “Outre-Mers: Revue d’histoire”, nn. 376/377, pp. 553-568.
LLOYD WARNER W.
– 1937, A Black Civilization, a Social Study of an Australian Tribe, New York,
Harper & Row.
LORBER J.
– 1995, L’invenzione dei sessi. Sex and Gender, Milano, il Saggiatore.
LORINI A.
– 2000, Portrait of a Lady: Elsie Clews Parsons e l’antropologia femminista della
scuola di Franz Boas, “Contemporanea”, n. 4, pp. 619-650.
– 2003, Andrew Fletcher and the search for women’s public recognition in
professionalizing American anthropology, “Cromohs”, n. 8, pp. 1-25.
LURIE N.O.
– 1966, Women in Early American Anthropology, in Helm J. (a cura di), Pioneers
of American Anthropology: The Uses of Biography, Seattle, University of
Washington Press, pp. 29-82.
MACCORMACK C., STRATHERN M.
– 1980, Nature, Culture and Gender, Cambridge, Cambridge University Press.
MALINOWSKI B.
– 1922, The Argonauts of the Western Pacific, London, Routledge & Sons [trad. it.
Argonauti del Pacifico occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 2011].
– 2000 [1927], Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, Torino, Bollati
Boringhieri.
MALOPA’UPO I.
– 1999, Coming of Age in American Anthropology: Margaret Mead and Paradis,
New York, Universal Publishers.
MAGLI I.
– 1978, Matriarcato e potere delle donne, Milano, Feltrinelli.
MARK J.
– 1988, A Stranger in Her Native Land: Alice Fletcher and the American Indians,
Lincoln, University of Nebraska Press.
MARTÍN CASARES A.
– 2006, Antropología del género. Culturas, mitos y estereotipos sexuales, Madrid,
Cátedra.
MAUSS M.
– 1924, Essai sur le don: forme et raison de l’échange dans les sociétés archaiques,
“L’Année sociologique”; ristampato in Id., Sociologie et anthropologie, Paris, PUF,
1950 [trad. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società
arcaiche, Torino, Einaudi, 2002].
– 1950, Sociologie et anthropologie, Paris, PUF.
– 1967 [1947], Manuel d’ethnographie, Paris, Éditions Sociales.
– 1972, Le tecniche del corpo, in Id., Teoria della magia e altri saggi, Torino,
Einaudi.
MAYR E.
– 1982, The Growth of Biological Thought: Diversity, Evolution, and Inheritance,
Cambridge, Harvard University Press [trad. it. Storia del pensiero biologico.
Diversità, evoluzione, eredità, Torino, Bollati Boringhieri, 2011].
MCCLAURIN I.
– 2001a, From the editor, “Transforming Anthropology”, vol. 10, n. 1, p. 1.
– 2001b, Black Feminist Anthropology, New Brunswick, Rutgers University Press.
MCGEE R.J., WARMS R.L.
– 1996, Anthropological Theory: An Introductory History, London, Mayfield
Publishing Company.
MCGOWAN A.
– 2010, Franz Boas and the Progressive Spirit, “Jewish Currents”, pp. 26-32.
MEAD M.
– 1928, Coming of Age in Samoa, New York, Morrow [trad. it. L’adolescenza in
Samoa, Firenze, Giunti, 2007].
– 1932, The Changing Culture of an Indian Tribe, New York, Columbia University
Press.
– 1949a, Male and Female: A Study of the Sexes in a Changing World, New York,
Morrow [trad. it. Maschio e femmina, Milano, il Saggiatore, 2016].
– 1949b, The Mountain Arapesh, “American Museum of Natural History,
Anthropological Papers”, vol. 41, p. 388.
– 1959, People and Places, New York, Bantam Pathfinder Editions.
– 1967 [1935], Sesso e temperamento in tre società primitive, Milano, il
Saggiatore.
– 1973, Introduction, in Id., Coming to Age in Samoa, New York, Morrow.
– 1974a, A Way of Seeing, New York, Morrow.
– 1974b [1970], Culture and Commitment. A Study of the Generation Gap, New
York, Doubleday.
– 1985 [1953], Cultural Patterns and Technical Change, New York, Greenwood
Press.
– 1999 [1964], Continuities in Cultural Evolution, introduzione di S.R. Toulmin,
New Brunswick, Transaction.
– 2001a [1930], Growing Up in New Guinea: A Comparative Study of Primitive
Education, New York, Harper Perennial Modern Classics.
– 2001b [1956], New Lives for Old: Cultural Transformation in Manus, 1928-
1953, New York, Harper Perennial.
MEAD M., CALAS N. (A CURA DI)
– 1953, Primitive Heritage: An Anthropological Anthology, New York, Random
House
MEAD M., MÉTRAUX R. (A CURA DI)
– 2000 [1953], The Study of Culture at a Distance, New York, Berghahn Books.
MÉNDEZ L.
– 2007, Antropología feminista, Madrid, Síntesis.
MICELA R. (A CURA DI)
– 1979, Oppressione della donna e ricerca antropologica. Immaginario e realtà
nella subordinazione femminile, Roma, Savelli.
MINH-HA, TRINH T.
– 1989, Woman, Native, Other: Writing Postcoloniality and Feminism,
Bloomington, Indiana University Press.
MONCÓ B.
– 2011, Antropología del género, Madrid, Síntesis.
MONEY J.
– 1957, The Psychologic Study of Man, Springfield, Thomas.
– 1980, Love and Love Sickness: the Science of Sex, Gender Difference, and Pair-
Bonding, Baltimore: Johns Hopkins University Press
– 1988, Gay, Straight, and In-Between: The Sexology of Erotic Orientation, New
York, Oxford University Press.
MONTAGU A.
– 1942, Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race, New York, Columbia
University Press.
MOORE H.
– 1994, A Passion for Difference: Essays in Anthropology and Gender,
Cambridge, Polity Press.
– 1988, Feminism and Anthropology, Cambridge, Polity Press.
MORGAN L.H.
– 1851, The League of the Ho-de-no-sau-nee or Iroquois, Rochester, Sage and
Brothers.
– 1870, Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family, Washington
DC, Smithsonian Institution.
– 1877, Ancient Society, New York, Henry Holt and C.
MORGEN S.
– 1989, Gender and anthropology: Introductory essay, in Id. (a cura di), Gender
and Anthropology – Critical Reviews for Research and Teaching, Washington
DC, American Anthropological Association, pp. 1-20.
MORRIS R.
– 1995, All made up: Performance theory and the new anthropology of sex and
gender, “Annual Review of Anthropology”, n. 24, pp. 567-592.
NEALE HURSTON Z.
– 1990 [1935], Mules and Men, New York, Harrison Perennial.
NEWCOMB MCGEE A.
– 1889, The woman’s anthropological society of America, “Science”, n. 13, pp.
240-247.
NEWMAN L.
– 1999, White Women’s Rights. The Racial Origins of Feminism in the United
States, New York, Oxford University Press.
NICHOLSON L.
– 1996, Per un’interpretazione di “genere”, in Piccone Stella S., Saraceno C. (a cura
di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, il
Mulino.
NIOLA M.
– 2010, Da Freud a Eliot, le influenze di un rito, “la Repubblica”, 17 febbraio.
OAKLEY A.
– 1985 [1972], Sex, Gender and Society, London, Temple Smith.
– 1985 [1974], The Sociology of Housework, New York, Basil Blackwell.
– 1980, Becoming a Mother, New York, Schocken Books.
OAKLEY A., MITCHELL J.
– 1986, What is Feminism?, Oxford, Basil Blackwell.
ORTNER S.
– 1974, Is female to male as nature is to culture?, in Rosaldo M.Z., Lamphere L. (a
cura di), Woman, Culture and Society, Stanford, Stanford University Press, pp.
67-87.
– 1984, Theory of anthropology since the Sixties, “Comparative Studies in Society
and History”, n. 126, pp. 126-166.
– 1996, Making Gender: The Politics and Erotics of Culture, Boston, Beacon Press
Books.
– 2006, Anthropology and Social Theory Culture Power and the Acting Subject,
Durham, Duke University Press.
ORTNER S., WHITEHEAD H. (A CURA DI)
– 1981, Sexual Meanings: The Cultural Construction of Gender and Sexuality,
Cambridge, Cambridge University Press [trad. it. Sesso e genere. L’identità
maschile e femminile, Palermo, Sellerio, 2000].
PAPA, C.
– 1987, Problemi e prospettive di una antropologia dei sessi in Italia, in Marcuzzo
M.C., Rossi D., La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, Torino,
Rosenberg & Sellier.
PAREZO N.J.
– 1989, Matilda Coxe Evans Stevenson, in Gacs U., Khan A., McIntyre J.,
Weinberg R. (a cura di), Women Anthropologists: Selected Bibliographies,
Chicago, Urbana University of Illinois Press, pp. 337-343.
– 1993a, Hidden scholars: women anthropologists and the Native American
Southwest, Albuquerque, University of New Mexico Press.
– 1999b, Matilda Coxe Stevenson: pioneer ethnologist, in Id., Hidden Scholars:
Women Anthropologists and the Native American Southwest, Albuquerque,
University of New Mexico Press, pp. 38-62.
PARSONS CLEWS WORTHINGTON E.
– 1894, The Scalp Ceremonial of Zuñi, in Kavanaugh Oldham Eagle M., The
Congress Of Women at World’s Columbian Exposition, Chicago, Usa, 1893 with
portraits, biographies and addresses, Chicago, Monarch Book, pp. 484-487.
– 1906, The Family, New York, G.P. Putnam’s Sons.
– 1915, Social Freedom: A Study of the Conflicts between Social Classifications
and Personality, New York - London, G.P. Putnam’s Sons.
– 1916, Social Rule, New York - London, G.P. Putnam’s Sons.
– 1933, Hopi and Zuñi Ceremonialism, Menasha, American Anthropological
Association.
– 1936, Mitla: Town of the Souls, Chicago, University of Chicago Press.
– 1969 [1923], Folklore of the Sea Islands, South Carolina, New York, Kraus.
– 1972a [1913], The Old-Fashioned Woman: Primitive Fancies about the Sex, New
York, Arno Press.
– 1972b [1923], Folklore from the Cape Verde Islands, San Mateo, Corinthian
Press.
– 1974 [1929], Social Organization of the Tewa of New Mexico, New York, Kraus.
– 1975 [1913], Religious Chastity, AMSP Press.
– 1976 [1918], Folk-tales of Andros Island, Bahamas, Lancaster - New York,
American Folklore Society.
– 1994, Journal of a Feminist, Bristol, Thoemmes Press.
– 1996 [1939], Pueblo Indian Religion, Lincoln, University of Nebraska Press.
– 1997 [1914], Fear and Conventionality, Chicago, University Of Chicago Press.
PARSONS CLEWS WORTHINGTON E., LA FARGE C.
– 1976 [1922], American Indian Life, Lincoln, University of Nebraska Press.
PHIPHER M.
– 2001, Introduction, in Mead M., Coming of Age in Samoa, New York, Perennial
Classics.
PINE F.
– 1996, Gender, in Barnard A., Spencer J. (a cura di), Encyclopedia of Social and
Cultural Anthropology, New York, Routledge, pp. 253-262.
PRECIADO P.B.
– 2002, Manifiesto contra-sexual, Madrid, Opera Prima.
REITER R. (A CURA DI)
– 1975, Toward an Anthropology of Women, New York, Monthly Review Press.
RAPP R.
– 1993, Gender and class: An archeology of knowledge concerning the origin of
the State, in Bretell C.B., Sargent C.F., Gender in Crosscultural Perspective, New
Jersey, Prentice Hall, pp. 250-257.
– 1997, Sex and society: A research note from social history and anthropology, in
Lancaster R., Di Leonardo M., The Gender Sexuality Reader, New York - London,
Routledge.
RAMOS A.
– 1940, O negro brasileiro, São Paulo, Companhia Editora Nacional.
RIBEIRO COROSSACZ V.
– 2014, Sessualità e organizzazione sociale. Il femminismo materialista di Paola
Tabet, “Micromega”, 23 settembre.
RÓHEIM G.
– 1933, Women in their life in Central Australia, “Journal of the Royal
Anthropological Institute of Great Britain and Ireland”, vol. 63, pp. 207-265.
ROSALDO ZIMBALIST M., LAMPHERE L. (A CURA DI)
– 1974, Woman, Culture, Society, Stanford, Stanford University Press.
ROSATI FREEMAN F.
– 2010, Benvenuti nel paese delle donne, Roma, XL Edizioni.
ROSENBERG R.
– 1982, Beyond Separate Spheres: Intellectual Roots of Modern Feminism, New
Haven, Yale University Press.
RUBIN G.
– 1975, The traffic in women: Notes on the “political economy” of sex, in Reiter R.
(a cura di), Toward an Anthropology of Women, New York, Monthly Review
Press, pp. 157-210.
– 1984, Thinking sex: Notes for a radical theory of the politics of sexuality, in
Vance C. (a cura di), Pleasure and Danger, London, Routledge.
– 1997, The traffic in women: Notes on the “political economy” of sex, in
Nicholson L. (a cura di), The Second Wave: A Reader in Feminist Theory, New
York - London, Routledge, pp. 27-62.
SANDAY REEVES P.
– 2003, Women at the Center: Life in a Modern Matriarchy, New York, Cornell
University Press.
SANDAY REEVES P., GOODENOUGH R.G.
– 1990, Beyond The Second Sex: New Directions in the Anthropology of Gender,
Philadelphia, University of Pennsylvania Press.
SAUSSURE F. DE
– 1915, Cours de linguistique générale, Paris, Payot [trad. it. Corso di linguistica
generale, Roma-Bari, Laterza, 2009].
SCHEFFLER H.W.
– 1973, Kinship, descent and alliance, in Honigmann J.J. (a cura di), Handbook of
Social and Cultural Anthropology, Chicago, Rand MacNelly College Publishing
Company, pp. 747-793.
SCHEPER-HUGHES N.
– 1992, Death Without Weeping: Violence of Everyday Life in Brazil, Berkeley Los
Angeles, University of California Press.
SEYMOUR-SMITH CH. (A CURA DI)
– 1986, MacMillan Dictionary of Anthropology, New York, MacMillan Reference
Books.
SLOCUM S.
– 1975, Woman the gatherer: Male bias in anthropology, in Reiter R. (a cura di),
Toward an Anthropology of Women, New York, Monthly Review Press.
SOUTY J.
– 2003, Essai sur le don, “Sciences Humaines”, fuori serie, set.-ott.-nov., pp. 8-10.
SPENCER F. (A CURA DI)
– 1997, History of Physical Anthropology: An Encyclopedia, New York, Garland.
STRATHERN M.
– 1972, Women in between: Female Roles in a Male World, London, Seminar
Press.
– 1987, An akward relationship: The case of feminism and anthropology, “Signs”,
vol. 12, n. 2, pp. 276-292.
– 1988, The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems with Society
in Melanesia, Berkeley, University of California Press.
– 1989, Between a Melanesianist and a Deconstructive Feminist, “Australian
Feminist Studies”, vol. 4, n. 10.
STUART MILL J.
– 1869, The Subjection of Women, London, Longmans, Green, Reader & Dyer.
[trad. it. La servitù delle donne, Lanciano, Carabba, 2011].
TABET P.
– 1998, Fertilité naturelle, reproduction forcée, in La construction sociale de
l’inegalité de sexes. Des outils et des corps, Paris, L’Harmattan.
– 2002, La beffa, in Aa. Vv., Culture e mutamento sociale. Per Carla Bianco, studi
e testimonianze, Montepulciano, Editrice Le Balze.
– 2004, La grande beffa. Sessualità delle donne e scambio sesso-economico,
Soveria Mannelli, Rubettino.
– 2014, Le dita tagliate, Roma, Ediesse.
TILKIN F. (A CURA DI)
– 2008, L’Encyclopedisme au XVIIIe siècle, Liège, Droz / Bibliothèque de la Faculté
de Philosophie et Lettres de l’Université de Liège.
TILLION G.
– 1946, Ravensbrück, Neuchatel, Éditions de la Baconnière.
– 1964, Les femmes et le voile dans la civilisation méditerranéenne, in Aa. Vv.,
Mélanges Charles-André Julien. Études maghrébines, Paris, PUF, pp. 25-38.
– 1966, Le harem et les cousins, Paris, Seuil [trad. it. L’harem e la famiglia,
Milano, Medusa, 2007].
– 2000, Il était une fois l’ethnographie, Paris, Seuil.
TOMBAL D.
– 1993, Le polygénisme aux XVIIe et XVIIIe siècles: de la critique biblique à
l’idéologie raciste, “Revue Belge de Philosophie de l’Histoire”, vol. 71, n. 4, pp.
850-874.
TÖNNIES F.
– 1887, Gemeinschaft e Gesellshaft, Leipzig, Fues’s Verlag [trad. it. Comunità e
società, a cura di M. Ricciardi, Roma-Bari, Laterza, 2001].
TOUSSAINT S.
– 2003, Prefazione, in Kaberry P.M., Aborigenal Woman, Sacred and Profane,
London - New York, Routledge, 2004 [1970].
TSING A.
– 1993, In the Realm of the Diamond Queen: Marginality in an Out-of-the Way
Place, Princeton, Princeton University Press.
TYLOR E.B.
– 1871, Primitive Culture, Researches into the Development of Mythology,
Philosophy, Religion, Art and Customs, London, John Murray.
– 1888, On a Method of Investigating the Development of Institutions; Applied to
the Laws of Marriage and Descent, paper presentato all’Anthropological
Institute, pubblicato sul “Journal”, vol. 28, 1889.
WADE P.
– 2002, Race, Nature and Culture: An Anthropological Approach, London, Pluto
Press.
WOMEN’S ANTHROPOLOGICAL SOCIETY OF AMERICA (WASA)
– 1889, Sketches of the Women’s Anthropological Society of America, Washington
DC, WASA.
WARNER M. (A CURA DI)
– 1993, Fear of a Queer Planet, Minneapolis, University of Minnesota Press.
WEBER F.
– 2015, Brève histoire de l’anthropologie, Paris, Flammarion.
WEINER A.
– 1976, Women of Value, Men of Renown, New Perspectives in Trobriand
Exchange, Austin, The University of Texas Press.
YANAGISAKO S., DELANEY C. (A CURA DI)
– 1994, Naturalising Power: Essays in Feminist Cultural Analysis, London,
Routledge

Potrebbero piacerti anche