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Arthur Koestler, un intellettuale che ha
legato il suo nome allè maggiori e dram­
matiche Vicende· della storia europea
tra le due guerre, autore di romanzi
brucianti e di iucidi saggi, mette a nudo
in questa sua opera le difficoltà irrisolte
che molti scienziati dimenticano, o ad­
dirittura tacciono, nello studio dell'uomo:
un'occasione unica per impegnare le sue
risorse di ·scrittore brillante e spregiu­
dicato, ma anche di osservatore acuto
che non si lascia suggestionare da ciò
che tutti ripetono. Koestler denuncia
la struttura ambivalente dell'uomo che,
se da un lato gli ha consentito di edifi­
care una grandiosa civiltà, dall'altro lo
spinge verso l'autodistruzione. Senza
indulgere ad una tesi apocalittica, l'au­
tore nori nasconde i pericoli che incom­
bono sull'umanità e possono trascinarla
verso la catastrofe. Un libro di « ecolo­
gia umana-• per scongiurare la catastrofe.

ARTHUR KOESTLER nacque a Budapest


nel 1905. Rifugiatosi a Vienna, per sfug­
gire alle persecuzioni antiebraiche del
regime dell'ammiraglio Horty, si iscrisse
al Polite.cnico, ma ·Il-cl 19Z6 abbandonò
gli studi e s'imbarcò per la Palestina
dove prese parte alla fondazione dei
primi kibbutz. "Dedicatosi al giornalismo
partecipò come inviato speciale alla .
spedi2ione artica dello Zeppellin. Nel
1931 aderì al partito comunista tedescò
e si recò in Russia, successivamente
fu in Francià e poi in Spagna durante
la guerra. civile. Condannato _a morte dai
franchisti, fu liberato per l'intervento
del governo inglese. Nel 1938, ritornato
a Parigi, ruppe "clamorosamente col. par­
tito comunista denunciando le purghe
staliniste. Quando i tedeschi invasero�
la Francia sfuggì alla deportazione e si
arruolò nellà. Legione Straniera e in se­
guito nel British Pionier Corps. Attual­
mentevive a Londra e a Alpach in Austria.

OPERE PRINCIPAU:

Dialogo con la morte, l gladiatori, Buio a


mezzÒgiorno, Schiuma della terra, Arrit�o !!.
partenza, Lo Yogi e il commissario, Ladri
nella notte; Gli angeli caduti, The Lotus
and .the Robot e The act of Creation.
IL PÈRIPLO
Collana diretta
da Vittorio Mathieu

Titolo originale
The Ghost in the Machine
Ed. Hutchinson & Co. Ltd. · London 1967
© Arthur Koestler 1967
Traduzione a cura di VALENTINO Musso. 1970
ARTHUR KOESTI-�ER

Il fantasma
dentro la macchina

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE


Proprietà riservata alla
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE
Officine Grafiche SEI • Torino
Novembre 1971 • M. E. 39871
Ai colleglù e al personale (19 64- 65}
del Centro di Studi superiori
sulle Scienze del Comportamento
Prefazione

In un precedente volume, The Act of Creation, ho


discusso l'arte e la scoperta, glorie dell'uomo. Il presente
libro termina con una discussione della nemesi dell'uomo,
completando così il ciclo. La creatività e la patologia
della mente umana sono, in fondo, due facce della me­
desima medaglia coniata nella zecca dell'evoluzione. La
prima risponde dello splendore delle nostre cattedrali,
la seconda delle chimere che le decorano, per ricordarci
che il mondo è pieno di mostri, di diavoli e di sùccubi.
Esse riflettono la vena di demenza che serpeggia attra­
verso la storia della nostra specie indicando che, in qual­
che punto della sua linea di ascesa verso il fastigio, qual­
cosa è andato per storto. L'evoluzione è stata paragonata
a un labirinto di vicoli ciechi, e non ci sarebbe mùla di
strano o di molto improbabile nell'assunto che l'attrez­
zatura originaria dell'uomo, sebbene superiore a quella
di qualsiasi altra specie vivente, contenga nondimeno
qualche ìnsito errore, qualche deficienza incorporata,
che la predispone all'autodistruzione.
La ricerca delle cause di tale deficienza comincia nel
libro della Genesi e da allora non ha mai avuto soste.
Ogni epoca ha la sua diagnosi da offrire: dalla dottrina
della Caduta all'ipotesi dell'Istinto di Morte. Benché le

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risposte non siano mai state conclusive, queste domande
valeva sempre la pena di porsele. Furono di volta in volta
formulate nella terminologia specifica di ciascun'epoca e
di ciascuna cultura, ed è quindi inevitabile che nel no­
stro tempo si formulino nel linguaggio della scienza.
Ma, per paradossale che possa suonare, nel corso dell'ul­
timo secolo la scienza si è talmente inebriata dei suoi
successi, che ha dimenticato di porre i quesiti perti­
nenti, ossia ha rifiutato di porli, col pretesto che sono
privi di significato e che comunque non riguardano la
scienza.
Naturalmente questa generalizzazione non si riferisce
a scienziati singoli, ma alla corrente dominante ed orto­
dossa delle scienze biologiche contemporanee, dalla ge­
netica evolutiva alla psicologia sperimentale. Non si può
sp�rare di arrivare a una diagnosi della nemesi dell'uomo
fin tanto che l'immagine che ci si fa dell'uomo è quella
di un automa a riflessi condizionati, prodotto da mutazioni
fortuite; su un distributore a gettoni non si può infatti
usare lo stetoscopio. Un biologo eminente, sir Alister
Hardy, scrisse di recente: << Sono arrivato a credere, e
spero di convincervi, che le vedute odierne sull'evolu­
zione sono inadeguate )} (1). Un altro eminente zoologo,
W. H. Thorpe, parla di una << corrente sotterranea di
pensiero, individuabile nella mentalità di decine, forse
centinaia di biologi, che da venticinque anni a questa
parte )} guardano con scetticismo alla dottrina ortodossa
più diffusa (2) . Queste tendenze eretiche sono egualmente
evidenti nelle altre scienze della vita, dalla genetica agli
studi sul sistema nervoso, e così via fino agli studi sulla
percezione, il linguaggio e il pensiero. Tuttavia questi
diversi movimenti non conformisti, armato ognuno di una
scure propria per sfrondare nel suo campo specifico,
non hanno fino ad oggi contribuito a formare una nuova
<< filosofia )) coerente.

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Nelle pagine che seguono ho tentato di raccogliere
questi fili dispersi, i bandoli di idee che serpeggiano tra
le frange dell'ortodossia, e di tesserli insieme su un telaio
unitario così da formare un disegno comprensivo. Ciò
equivale a guidare il lettore per un cammino lungo e
non di rado tortuoso prima di giungere a destinazione,
cioè al problema della nemesi, della maledizione del­
l'uomo. Il viaggio si svolge attraverso la Parte I, che
riguarda soprattutto la psicologia, e la Parte II, che
concerne l'evoluzione; e sebbene tale viaggio comporti
forzatamente escursioni in campi remoti, in apparenza,
dall'argomento centrale, spero che anch'esse presentino
di per sé qualche interesse. Qualche lettore forse, ferma­
mente acquartierato sul fronte umanistico della guerra,
fredda fra le Due Culture, si sgomenterà di questa appa...:
rente diserzione in campo avverso. È imbarazzante dover
ripetere di continuo che due mezze verità non fanno
una verità, e che due mezze culture non fanno una cul­
tura. La scienza non può fornire le risposte ultime, ma
può fornire domande pertinenti, e io non credo che si
possano formulare neppure le più semplici domande, e
tanto meno giungere a una diagnosi, senza l'aiuto delle
scienze della vita. Ma deve trattarsi allora di una vera
scienza della vita, non dell'antiquato modello della (( mac­
china a gettoni 1>, basato sulla visione che del mondo ha
avuto l'Ottocento, ingenuamente meccanicistica. Non
saremo in grado di porre le domande giuste finché non
avremo sostituito a quell'idolo arrugginito una nuova e
più vasta concezione dell'organismo vivente.
Mi ha molto confortato la scoperta che altri scrittori,
i quali cercano il dialogo sopra la frontiera fra le due
culture, si trovano nel medesimo imbarazzo. Nel primo
paragrafo del suo libro su L'aggressione (3) , Konrad Lo­
renz cita la lettera di un amico che egli aveva pregato
di leggergli criticamente il manoscritto. <( Questo 1>, scrive

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l'amico, << è il secondo capitolo, che ho letto con acuto
interesse ma con senso crescente d'incertezza. Perché ?
Perché non riesco a vedere la sua connessione esatta
con l'insieme del libro. Dovresti cercare di rendermelo
più facile >>. Se il cortese lettore di queste pagine qua o là
dovesse provare una reazione analoga, tutto quanto
posso dirgli è che ho fatto del mio meglio per facilitarlo.
Non credo che in questo libro siano molti i passaggi tali
da riuscirgli troppo tecnici: ma dovunque si desse il caso,
potrà saltarli senza danno e riprendere il filo un po' più
avanti.
Scrivendo il libro, mi ha molto incoraggiato ed aiu­
tato il fatto di aver ricevuto un incarico (fellowship)
presso il Centro di Studi superiori sulle Scienze del Com­
portamento di Stanford (California) . Questa istituzione,
piuttosto unica nel suo genere, e meglio conosciuta sotto
il nomignolo di Think-Tank, raduna ogni anno cinquanta
Fellows provenienti da diverse discipline accademiche, e
li fornisce, nel suo campus in cima a una collina, di tutti
i mezzi utili allo svolgimento - per la durata di un anno
intero - di una discussione e indagine interdisciplinare,
!asciandoli completamente liberi da ogni dovere ammini­
strativo o didattico. Fu un'occasione estremamente van­
taggiosa per chiarire e collaudare idee, in laboratori e
seminari cui partecipavano specialisti di svariati settori,
dalla neurologia alla linguistica. Non posso se non spe­
rare che non sia andato sprecato lo stimolo - e l'attrito­
che essi generosamente fornirono nel corso delle nostre
discussioni, talvolta tempestose.
Alcuni degli argomenti dibattuti in questo volume
sono svolti in modo più particolareggiato in The Act of
Creation e nei miei libri precedenti. Ho dovuto piut­
tosto spesso ricavare citazioni da tali opere: vi si rife­
risce ogni citazione che appaia nel testo senza menzione
dell'autore.

lO
Sono molto grato al prof. sir Alister Hardy (Oxford) .
al prof. James Jenkins (Univ. del Minnesota), al prof.
Alvin Liberman (Laboratori Haskins, New York) e al
dr. Paul MacLean (NIMH, Bethesda). per la lettura cri­
tica a cui hanno sottoposto parti del manoscritto e al
prof. Ludwig von Bertalanffy (Univ. di Alberta) , al prof.
Holger Hydén (Univ. di Goeteborg) . al prof. Karl Pri­
bram (Univ. di Stanford) . al prof. Paul Weiss (Istituto
Rockefeller) e a L. L. Whyte (CAS, Wesleyan Univ.),
per le molte e stimolanti discussioni sull'argomento del
presente libro.
A. K.

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PARTE PRIMA

L'ORDINE
I l Povertà della psicologia

Aveva lavorato per otto anni a un progetto


per l'estrazione dai cocomeri dei raggi solari,
al fine di metterli in fiale ermeticamente si­
gillate, da aprirsi per riscaldare l'aria nelle
estati fredde e inclementi.
SWIFT, Viaggio a Laputa

I QUATTRO PILASTRI DELLA STOL'l'EZZA

Il Libro dei Proverbi, IX, l, dice che la Casa della Sag­


gezza riposa su sette pilastri, ma sfortunatamente non ne
dice il nome. La cittadella dell'ortodossia, costruita nella
prima metà del nostro secolo dalle scienze della vita,
poggia su un certo numero di pilastri dall'aspetto impres­
sionante, alcuni dei quali però cominciano ad accusare
crepe e a rivelarsi per monumentali superstizioni. I quat­
tro pilastri principali, per ricapitolare semplificando, sono
costituiti dalle dottrine seguenti:
a) l'evoluzione biologica risulta da mutazioni casuali,
poi fissate dalla selezione naturale;
b) l'evoluzione psichica è il risultato di tentativi ca­
suali, poi fissati da <( rinforzi )) (rimunerazioni) ;
c) tutti gli organismi, uomo incluso, sono essenzial­
mente automi passivi controllati dall'ambiente, il cui
solo scopo nella vita è la riduzione di tensioni mediante
risposte di adattamento;
d) il solo metodo scientifico degno di questo nome
è la misurazione quantitativa; e, di conseguenza, i fe­
nomeni complessi vanno ridotti ad elementi semplici su-

15
scettibili di tale trattamento, senza inutili preoccupazioni
per il fatto che nel processo possono andar perduti carat­
teri specifici di un fenomeno complesso (per esempio:
l'uomo) .
Questi quattro pilastri della stoltezza incomberanno
spesso sui capitoli che seguono, perché sono lo sfondo
del panorama contemporaneo, sul quale deve proiettarsi
ogni tentativo di disegnare un'immagine nuova dell'uomo.
Non si può lavorare nel vuoto: solo partendo dal quadro
di riferimento esistente, si possono impostare con chia­
rezza i contorni del nuovo disegno, per confronto e per
contrasto. Questo è un punto di qualche importanza,
e devo inserire qui un'osservazione personale per preve­
nire una serie di critiche che l'esperienza passata mi ha
insegnato a prevedere.
Se si attacca la scuola dominante in psicologia - come
ho fatto nel mio ultimo libro e rifarò in questo capitolo -,
si entra in conflitto con due tipi opposti di critica. Il
primo nasce dalla naturale reazione dei paladini dell'or­
todossia, i quali credono di aver ragione e che gli altri
abbiano torto, il che è appena nelle regole del gioco,
e perfettamente scontato. La seconda categoria di critici
si recluta nel campo opposto: essi argomentano che, visto
che le colonne della cittadella sono già lese e si stanno
rivelando vuote, tanto vale ignorarla e fare a meno di
polemiche. Ossia, per dirla in parole povere, non è bello
frustare un cavallo morto.1
Questo tipo di critica è adottato spesso da psicologi
che credono di essere cresciuti oltre le frontiere delle
dottrine ortodosse. Ma tale fiducia si basa spesso su un
equivoco, perché il crudo modello {( macchina a gettoni )),
nelle sue versioni modernizzate e più sofisticate, ha avuto
su di loro - e sulla intera nostra cultura - un'influenza

l. Vedi Appendice II: (< Del non frustare i cavalli morti».

16
più profonda di quanto non pensino. Ha permeato i
nostri atteggiamenti verso la filosofia, le scienze sociali,
la pedagogia, la psichiatria. Persino l'ortodossia oggi ri­
conosce le limitazioni e le carenze degli esperimenti di
Pavlov; ma nell'immaginazione delle masse il cane le­
gato sulla tavola del laboratorio che produce saliva, con­
formemente alle previsioni, al suono di un campanello,
è diventato un paradigma dell'esistenza, una specie di
mito anti-Prometeo; e la parola << condizionamento >>, con
le sue rigide connotazioni deterministiche, è diventata
una formula-chiave per spiegare perché siamo quel che
siamo, e per espellere la responsabilità morale. Non c'è
mai stato un cavallo morto con calci così viziosi.

NASCITA DEL BEHAVIOURISMO

Guardando indietro agli ultimi cinquant'anni col te­


lescopio rovesciato dello storico, si potrebbe vedere tutti
i rami della scienza, tranne uno, espandersi a ritmo senza
precedenti. Quest'eccezione unica è la psicologia, che
sembra giacere immersa in una moderna versione dei
<< tempi bui >>. Per psicologia intendo, nel contesto pre­
sente, la psicologia accademica o << sperimentale >>, quale
viene insegnata nella grande maggioranza delle univer­
sità contemporanee e in quanto distinta dalla psichiatria
clinica, dalla psicoterapia o dalla medicina psicosomatica.
Freud, e in minor grado Jung, hanno naturalmente un'in­
fluenza enorme, che però viene ancor più sentita in << uma­
nità >>, cioè in letteratura, nell'arte e nella filosofia, che
non nella rocca della scienza ufficiale. La scuola di gran
lunga più potente della psicologia accademica, che al
tempo stesso ha determinato il clima di tutte le altre scienze
biologiche, fu, ed è ancora, una pseudoscienza denominata
behaviourismo. Le sue dottrine hanno invaso la psi­
cologia come un virus che dapprima causi convulsioni

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e poi piano piano paralizzi la vittima. Vediamo come è
venuta a crearsi questa situazione così improbabile.
Cominciò un po' prima dello scoppio della prima guerra
mondiale, quando un professore della John Hopkins Uni­
versity di Baltimora, chiamato John Broadus Watson,
pubblicò una memoria in cui proclamava: << È giunto il
momento in cui la psicologia deve scartare ogni riferi­
mento alla coscienza . . . Il suo unico compito è la predi­
zione e il controllo del comportamento (behaviour); del
suo metodo l'introspezione non può far parte 1> (1} . Con
<< comportamento 1> Watson indicava le attività osserva­
bili, ciò che i fisici chiamano << eventi pubblici 1>, quali
i movimenti della lancetta sui quadranti di una mac­
china. Siccome tutti gli eventi mentali sono eventi pri­
vati, che non possono essere osservati da altri, e possono
diventare pubblici soltanto attraverso affermazioni ba­
sate sulla introspezione, essi andavano esclusi dal campo
della scienza. In forza di tale dottrina i behaviouristi
provvidero a purgare la psicologia di tutti gli << intangi­
bili 1> e << inavvicinabili 1> (2) . I termini << coscienza 1>,
<< mente 1>, << immaginazione 1>, << intenzione l> e una doz­
zina d'altri vennero dichiarati antiscientifici, trattati come
parole oscene e radiati dal vocabolario. Per usare l' espres­
sione di Watson, il behaviourista deve escludere << dal
suo vocabolario scientifico tutti i termini soggettivi quali
sensazione, percezione, immagine, desiderio, proposito, e
persino pensiero ed emozione, in quanto definiti sogget­
tivamente 1> (3) .
Nel campo della scienza fu l a prima purga ideologica
di tipo così radicale. Essa precorreva le purghe ideolo­
giche della politica totalitaria, ed era ispirata alla stessa
unilateralità mentale che è propria dei veri fanatici. Fu
condensata da sir Cyril Burt in un classico giudizio: << Quasi
mezzo secolo è trascorso da quando Watson proclamò
il suo manifesto. Oggi, prescindendo da poche riserve

18
di minor conto, la vasta maggioranza degli psicologi,
sia inglesi che americani, segue ancora la sua guida. Il
risultato, come potrebbe esser tentato di dire un osser­
vatore cinico, è che la psicologia, avendo dapprima ven­
duto l'anima, e quindi persa la testa (mind), sembra adesso
posta di fronte a una fine prematura, aver smarrito ogni
coscienza )) (4).
Il behaviourismo watsoniano diventò la scuola domi­
nante, dapprima nella psicologia accademica americana ,
e poi in Europa. La psicologia era di solito definita nei
dizionari come scienza della mente o psiche; il behaviou­
rismo fece fuori il concetto di mente e mise al suo posto
la catena di riflessi condizionati. Le conseguenze furono
disastrose non soltanto per la psicologia sperimentale in
sé, ma si fecero sentire anche in psichiatria clinica, nelle
scienze sociali, in filosofia, nell'etica e nella visione del
mondo che ha l'uomo di studio in genere. Benché il suo
nome fosse meno familiare al pubblico, il Watson diventò,
assieme a Freud e al russo Pavlov, una delle figure più
influenti del XX secolo. Perché purtroppo il behaviou­
rismo watsoniano non è una curiosità storica, ma il fon­
damento su cui furono costruiti i sistemi neo-behaviou­
risti più sofisticati e sempre influentissimi, quali quelli
di Clark Hull e di B. F. Skinner. Le assurdità più spia­
cevoli dei libri di Watson sono dimenticate o conve­
nientemente velate, ma la filosofia, il programma e la
strategia del behaviourismo sono rimasti essenzialmente
i medesimi. Le prossime pagine hanno lo scopo di di­
mostrarlo, senza riguardo per quello che potranno dire
i membri della Società per la Prevenzione contro la Cru­
deltà verso i Cavalli Morti.
Il libro di Watson (Behaviourism) , in cui questi re­
spinse i concetti di coscienza e di mente, fu pubblicato
nel 1913; mezzo secolo dopo, il prof. Skinner della Uni­
versità di Harvard, che è probabilmente il più influente

19
psicologo accademico contemporaneo, proclama le stesse
teorie in forma ancora più estremista. Nella sua opera
fondamentale, La scienza e il comportamento umano, lo
speranzoso studente di psicologia si sente dire con fer­
mezza, proprio dall'inizio, che << mente )) e « idee )) sono
entità inesistenti, << inventate al solo scopo di fornire
spiegazioni spurie. . . Poiché viene asserito che gli eventi
mentali o psichici mancano delle dimensioni della scienza
fisica, abbiamo una ragione supplementare per riget­
tarli )) (5). Con la stessa logica il fisico, naturalmente,
potrebbe respingere l'esistenza delle onde radio perché
si propagano attraverso un cosiddetto{< campo )) che manca
delle proprietà dei mezzi fisici ordinari. In effetti, poche
fra le teorie e i concetti della fisica moderna sopravvi­
verebbero a una purga ideologica fondata sui princìpi
behaviouristici, per la semplice ragione che la conce­
zione scientifica del behaviourismo è modellata sulla
fisica meccanicistica del XIX secolo.
L'osservatore cinico potrebbe allora domandare: se
gli eventi mentali debbono essere esclusi dalla psicologia,
che cosa resta da studiare allo psicologo ? La risposta in
breve è: i topi. Da cinquant'anni la preoccupazione prin­
cipale della scuola behaviourista è lo studio di certi aspetti
misurabili del comportamento dei topi, e il grosso della
bibliografia behaviourista è dedicato a tale studio. Questo
sviluppo, per strano che possa sembrare, fu in realtà
una conseguenza inevitabile della definizione behaviou­
ristica del metodo scientifico (il << quarto pilastro )) sopra
menzionato). In armonia con le proprie autoimposte li­
mitazioni, il behaviourista ha diritto unicamente di stu­
diare gli aspetti oggettivi, misurabili, del comportamento.
Vi sono, però, pochi aspetti rilevanti del comportamento
umano che in condizioni di laboratorio si prestino a mi­
surazioni quantitative e tali che lo sperimentatore possa
investigarle senza fondarsi su constatazioni introspet-

20
tive circa privati avvenimenti, propri della esperienza
del soggetto. Così, volendo restar fedele ai suoi princìpi,
il behaviourista doveva scegliere per oggetto del suo
studio gli animali a preferenza degli esseri umani, e fra
gli animali i topi e i piccioni, preferendoli alle scimmie
o agli scimpanzé, perché il comportamento dei primati
è ancora troppo complesso.
I topi e i piccioni, d'altra parte, possono, in condi­
zioni sperimentali appositamente predisposte, vemr co­
stretti a comportarsi come se fossero davvero automi a
riflessi condizionati, o quasi. Nel mondo occidentale non
c'è quasi Facoltà di psicologia che si rispetti senza qualche
topo albino che trascorra il suo tempo nelle cosiddette
scatole di Skinner, inventate dall'eminente autorità di
Harvard che porta tale nome. La scatola è attrezzata
con un vassoio per il cibo, una lampadina elettrica e una
sbarra che può essere abbassata come la leva di un di­
stributore a gettoni, e al cui movimento cade nel vas­
soio una particella di cibo. Quando un topo viene posto
dentro alla scatola, prima o poi premerà la leva con la
zampa e sarà automaticamente ricompensato da un boc­
concino; e presto imparerà che per avere del cibo deve
premere la sbarra. Questa procedura sperimentale viene
denominata << condizionamento operante 1>, perché il topo
<< opera l) sull'ambiente, in quanto distinto col condizio­
namento pavloviano << classico 1> ovvero << rispondente 1>,
in cui il soggetto non agisce sull'ambiente. Il premere
la sbarra è denominato << emettere una risposta operante 1>,
la particella di cibo viene chiamata << stimolo rafforzante l>
o << rinforzo 1>; il negare la particella è un << rinforzo nega­
tivo 1>, l'alternarsi delle due procedure è il << rinforzo in­
termittente 1>. Il << tasso di risposta 1> del topo - cioè il
numero di volte che esso preme la sbarra in un dato
periodo di tempo - è automaticamente registrato, tra­
sferito su diagrammi e riguardato come misura di << forza

21
operante )).1 Scopo della scatola è mettere il behaviou­
rista in grado di realizzare la sua ambizione tanto va­
gheggiata: la misurazione del comportamento con metodi
quantitativi e il controllo del comportamento mediante
la manipolazione di stimoli.
La scatola di Skinner produsse effettivamente qualche
risultato tecnicamente interessante. Il più interessante
fu che il << rinforzo intermittente )) - cioè quando il pre­
mere la sbarra veniva retribuito da una particella di
cibo solo qualche volta - poteva essere altrettanto, e
persino più, efficace che non quando la ricompensa c'era
sempre: il topo allenato a non aspettarsi puntualmente
una ricompensa ad ogni tentativo si scoraggia di meno
e continua a tentare molto più a lungo dopo l'arresto del
rifornimento di cibo, che non il topo che in primo tempo
veniva compensato ad ogni tentativo. (Le parole « aspet­
tarsi )) e << scoraggiarsi )) che ho usato io sarebbero natural­
mente proibite dai behaviouristi in quanto implicano
eventi mentali) . Questa, che è la più superba conquista
di una trentina d'anni d'esperimenti basati sulla pressione
di una sbarra, è la misura della loro rilevanza come con­
tributo alla psicologia. Come scriveva già nel 1953 un
eminente critico, lo Harlow: << Può costituire un capo d'ac­
cusa grave l'asserzione che l'importanza dei problemi psi­
cologici studiati negli ultimi quindici anni è venuta de­
crescendo come una funzione negativamente accelerata,
prossima a un asintoto di completa indifferenza )) (6) . Ri­
percorrendo gli altri quindici anni trascorsi dopo che fu
scritto il passo citato, si arriverebbe esattamente alla
medesima conclusione. Il tentativo di ridurre le com­
plesse attività dell'uomo agli ipotetici << atomi di com-

l . La forza operante è solitamente misurata, per ragioni tecniche,


dal << tasso d'estinzione ,), vale a dire dalla durata del tempo in cui
il ratto continua a premere la leva dopo che è stato interrotto il ri­
fornimento di particelle di cibo.

22
portamento )) accertati nei mammiferi inferiori non pro­
dusse pressoché niente di rilevante, esattamente come
l'analisi chimica dei mattoni e della calce non ci dice
quasi nulla dell'architettura di un edificio. Eppure, per
tutta l'età oscura della psicologia, il grosso del lavoro
compiuto nei laboratori consisté nell'analisi dei mattoni
e della calce, nella speranza che il paziente sforzo un
giorno o l'altro ci dicesse in qualche modo com'è fatta
una cattedrale.

'
LA DEUMANIZZAZIONE DELL UOMO

Tuttavia, se la futilità di questi esperimenti fosse l'unica


ragione di critica, allora sarebbe veramente come frustare
con indignazione un cavallo morto. Ma per quanto incre­
dibile possa sembrare, gli skinneriani proclamano che gli
esperimenti premi-sbarra con i topi, nonché l'addestra­
mento dei piccioni (del che diremo fra breve) , forniscono
tutti gli elementi necessari a descrivere, predire e controllare
il comportamento umano, inclusi il linguaggio (<< compor­
tamento verbale )>) , la scienza e l'arte. I due libri più noti
di Skinner sono intitolati Il comportamento degli orga­
nismi e Scienza e comportamento umano. Nulla indica
nei loro titoli sonanti che i dati contenuti derivano quasi
esclusivamente da esperienze di condizionamento con­
dotte sui topi e sui piccioni, poi tradotti, mediante
rozze analogie, in balde asserzioni sui problemi politici,
religiosi ed etici dell'uomo.
La spinta motivazionale del ratto viene misurata con
il numero delle ore durante le quali è stato privato di cibo
prima di esser posto nella scatola; il comportamento
umano, secondo lo Skinner, può venire descritto negli
stessi termini:

23
<< Il comportamento che è stato rinsaldato da un rin­
forzo condizionato varia con la privazione appropriata
al rinforzo primario. Il comportamento 'andare al risto­
rante' si compone di una sequenza di risposte, i cui primi
membri (per esempio il camminare per una certa via)
vengono rafforzati dall'apparizione di stimoli discrimi­
nativi che controllano le risposte successive (l'appari­
zione del ristorante nel quale poi entriamo) .
l/intera sequenza viene infine rinforzata dal cibo,
e la probabilità varia con la privazione di cibo. Si au­
mentano le probabilità che qualcuno vada al ristorante,
o anche solo che percorra una determinata via, renden­
dolo affamato •>.

Subito dopo Skinner di Harvard, nella formazione


della psicologia accademica, viene lo scomparso Cla1k
Hull di Vale, i cui allievi occupano ancora postzwni­
chiave nel mondo accademico. Il suo sistema differiva da
quello di Skinner su punti di carattere tecnico, ma il suo
atteggiamento fondamentale era il medesimo: anch'egli
postulava espressamente le differenze fra il processo del­
l'apprendimento nell'uomo e nel ratto come di ordine
puramente quantitativo e non qualitativo:

<<La teoria del comportamento intesa come ramo delle


scienze naturali, sviluppata dal presente autore e dai
suoi collaboratori, parte dal presupposto che tutti i com­
portamenti degli individui di una specie data, e quello
di tutte le specie di mammiferi, uomo incluso, si mani­
festano secondo lo stesso insieme di leggi primarie •> (8).

Gli attributi esclusivi dell'uomo, la comunicazione


verbale e i documenti scritti, la scienza, l'arte e così
via, sono considerati qualcosa di differente solo nel grado,
non nel tipo, rispetto ai risultati di apprendimento degli
animali inferiori, ancora una volta compendiati, per
Htùl come per Skinner, nell'attività premisbarra del ratto.

24
Pavlov conbva il numero di gocce di saliva dei suoi
cani prodotte attraverso le fistole artificiali, e le distil­
lava in una filosofia dell'uomo; i professori Skinner, Hull
e seguaci presero una scorciatoia altrettanto eroica, sal­
tando dal topo in gabbia alla condizione umana.
Il più impressionante esperimento di Skinner in fatto
di << predizione e controllo del comportamento >> è quello
di addestrare i piccioni, mediante condizionamento ope­
rante, a incedere con la testa tenuta su in modo innatu­
rale. Accende una luce; il cibo appare in un punto che i
piccioni possono raggiungere soltanto allungando il collo;
dopo un po', ogni volta che la luce si accende, il piccione
allunga il collo, aspettando il cibo. Come si fa a estrapolare
da questo esperimento la predizione e il controllo del
comportamento umano ? Skinner lo spiega (i corsivi sono
suoi) :

<< Descriviamo la contingenza dicendo che uno sti­


molo (la luce) è l'occasione in cui una risposta (allungare
il collo) viene seguita dal rinforzo (mediante cibo) . Dob­
biamo specificare tutti e tre i termini. L'effetto sul piccione
è che alla fine la risposta ha luogo con maggiore proba­
bilità quando la luce è accesa. Il processo mediante il
quale questo avviene viene chiamato discriminazione.
La sua importanza, in un'analisi teorica come pure nel
controllo pratico del comportamento, è ovvia. . . Per
esempio in un orto in cui le mele rosse sono dolci e tutte
le altre acide, il comportamento del raccogliere e del man­
giare viene ad essere controllato dalla rossezza dello sti­
molo . . . L'ambiente sociale contiene un vasto numero
di contingenze simili. Un sorriso è l'occasione in cui un
approccio sociale incontrerà approvazione. Il corrugare
la fronte è un'occasione in cui lo stesso approccio non
incontrerà approvazione. Nella misura in cui questo
è generalmente vero, l'approccio viene a dipendere, fino
a un certo punto, dall'espressione facciale della persona
avvicinata. Noi usiamo questo fatto quando mediante

25
il sorriso o il cipiglio controlliamo, entro certi limiti, il
comportamento di quelli che ci avvicinano. . . Lo stimolo
verbale 'vieni a pranzo' è un'occasione nella quale l'an­
dare a tavola e sedersi è usualmente rafforzato dal cibo.
Lo stimolo viene ad essere efficace accrescendo la proba­
bilità di tale comportamento ed è prodotto da chi parla
proprio perché lo fa )) {9).

COME MANIPOLARE LE TAUTOLOGIE

Lo Skinner non intendeva scrivere una parodia.1 Dice


sul serio. Meno ovvio però della monumentale trivialità
delle sue proposizioni è il fatto che il gergo pedantesco
del behaviourismo è basato su concetti verbali mal de­
finiti che volutamente si prestano ad argomenti circolari
o petizioni di principio e ad affermazioni tautologiche.
Una <<risposta )), il profano immaginerebbe, è una rea­
zione ad uno stimolo; ma le << risposte operanti )) vengono
<< emesse )) per produrre uno stimolo che ha luogo dopo la
risposta; la risposta << agisce sull'ambiente in modo da
produrre uno stimolo rafforzante )) (lO). In altre parole,
la risposta risponde ad uno stimolo che è ancora futuro,
il che, preso letteralmente, è assurdo. Una << risposta
operante )) non è di fatto una risposta, bensì un atto
iniziato dall'animale; ma siccome si suppone che gli or­
ganismi vengano controllati dall'ambiente, il termine
passivo << risposta )) è obbligatorio in tutta la bibliografia.

l . In un saggio memorabile, Pavlov e il suo cagnaccio (cc Encoun­


ter 1), Londra, settembre 1964), attaccando il ramo inglese del beha­
viourismo, Kathleen Nott sottolineò tre caratteristiche principali di
questo tipo di gergo: l) Grandioso-in/fazionato o cc Ranabue » (cc Bull­
frog l) o B.f.); 2) Occultamento tramite l'ovvietà o cc Poe » (E.A.P.) (l'au­
trice si riferisce evidentemente al suo racconto poliziesco La lettera
rubata, dove un documento importantissimo viene messo � al sicuro l)
nel posto più in vista; n.d.t.); e 3) Riferimento peggiorativo a concetti
inaccettabili o ad altre teorie psicologiche ovvero Insultare il cagnaccio
(cc Giving a Name a Bad Dog » o B.D.).

26
Il behaviourismo è basato sulla teoria 5-R (teoria stimolo­
risposta), come definita dal Watson per primo: << la re­
gola o metro, che il behaviourista si tiene sempre da­
vanti è: posso descrivere questo pezzetto di comporta­
mento a cui io assisto in termini di 'stimolo e rispo­
sta' ? l> (11) . Questi pezzetti S-R vengono considerati << ele­
menti l> o << atomi l> della catena del comportamento; se
l'R che sta per << risposta l) fosse eliminata dalla termino­
logia, la catena cadrebbe in pezzi e l'intera teoria an­
drebbe a rotoli.
Un altro termine onnipresente nel gergo della psi­
cologia contemporanea - che si è persino fatto strada
nel gergo politico - è la brutta parola << rinforzo l). Che cosa
significa esattamente ? Secondo la << legge di condiziona­
mento l) di Skinner: << se l'accadere di un operante è se­
guito dalla presentazione di uno stimolo rafforzante, la
forza (di tale operante) viene accresciuta l> (12). E come
viene definito uno << stimolo rafforzante l>? << Uno stimolo
rafforzante viene definito come tale dalla sua capacità
di produrre il cambio (di forza) risultante l> (13) . Tra­
ducendo in linguaggio umano, arriviamo alla tautologia:
la probabilità di ripetere un'azione è accresciuta dal rin­
forzo, dove << rinforzo l> significa qualche cosa che au­
menta tale probabilità. 1 Come scrisse uno dei critici di
Skinner: << Esaminando gli esempi di quello che Skinner
chiama rinforzo, troviamo che non è neppure presa sul
serio l'esigenza che il rafforzatore sia uno stimolo identi­
ficabile l) (Chomsky) (15). Secondo Skinner, << un uomo
parla fra sé . . . a causa del rinforzo che riceve l) (16) ; il
pensare è << un comportarsi che automaticamente influisce
sul comportamento ed è rafforzante perché vi influisce l> (17);

l . L a « forza > l d i u n operante è misurata dalla sua probabilità


di ripetersi in condizioni similari ( 1 4). La natura tautologica della co­
siddetta legge di condizionamento è stata già ripetutamente denunziata.

27
i( esattamente come il musicista esegue o compone ciò da
cui è rafforzato attraverso l'udito, o come l'artista di­
pinge ciò che lo rafforza visualmente, così il parlante,
impegnato in una fantasia verbale, dice quello a cui è
rafforzato dall'udire, o scrive quello a cui è rafforzato
dal leggere ,> (18) ; e l'artista creativo è <dnteramente con­
trollato dalle contingenze del rinforzo l> (18a) . Fortunata­
mente nel vernacolo skinneriano la parola i( controllo l>
è altrettanto vuota che i( rinforzo l>. Originariamente, nel
parlare di piccioni e ratti, i( predizione e controllo del
comportamento l> avevano un significato concreto: dando
e rifiutando le ricompense, il comportamento dell'ani­
male poteva essere drasticamente plasmato dallo sperimen­
tatore. Ma nel caso dello scrittore che è controllato dalle
i( contingenze di rinforzo l>, la parola i( controllo l> si rife­

risce al fatto che il suo i( comportamento verbale può


superare i secoli o raggiungere migliaia di ascoltatori o
lettori contemporaneamente. Lo scrittore può non es­
sere rafforzato spesso o immediatamente, ma il suo rin­
forzo netto può essere grande,> (19) (il che dà conto della
grande <( forza l> del suo comportamento, qualunque cosa
ciò significhi) . Così l'ambiente, che i( controlla intera­
mente l> il comportamento verbale dello scrittore, include
stimoli anticipati di secoli; ed è determinante perché si
metta alla macchina da scrivere per battere una tra­
gedia a preferenza di una filastrocca.

Questo ci porta all'atteggiamento del behaviourista


nei riguardi della creatività umana. Come può essere
spiegata o descritta la scoperta scientifica e l'originalità
artistica senza riferimento alla mente o psiche, e all'im­
maginazione ? Le due citazioni che seguono daranno la
risposta. La prima è di nuovo tratta da Behaviourism
del Watson, pubblicato nel 1925; il secondo da Scienza e
comportamento umano, di Skinner, pubblicato trent'anni

28
dopo; così essi ci permettono di giudicare se vi sia una
differenza sostanziale tra gli atteggiamenti dei paleobeha­
viouristi e dei neobeaviouristi. (Alcuni lettori noteranno
forse che ho già usato lo stesso passaggio di Watson in
The A ct of Creation, perché si dà il caso che sia l'unico
passaggio del suo libro fondamentale in cui vengano
discusse le attività creative) :

<< Una domanda naturale che viene posta sovente è


come mai otteniamo nuove creazioni verbali come un
poema o un brillante saggio ? La risposta è che noi le
otteniamo manipolando parole, muovendole in qua e in
là, fin quando salta fuori un nuovo disegno . . . Come sup­
ponete che Patou crei un nuovo capo di abbigliamento ?
Ha forse qualche 'immagine in mente' di quello che verrà
ad assomigliare il vestito quando sarà finito ? Non ce
l'ha . . Egli chiama la mannequin, prende un pezzo di seta
.

nuova, glielo getta intorno, tira su di qua, tira in fuori


di là . . . Manipola il materiale finché non assume l'aspetto
di un vestito. . . Finché la nuova creazione non susciti
l'ammirazione e l'approvazione sia di lui stesso che de­
gli altri, la manipolazione non è terminata - l'equiva­
lente del trovar cibo da parte del ratto. . . Il pittore fa
il suo mestiere nello stesso modo, né può il poeta van­
tarsi di un metodo diverso)) (19a).

Nell'articolo <l Behaviourism)) dell'edizione 1955 della


Encyclopaedia Britannica, troverete cinque colonne di
elogio a Watson. I suoi libri, ci si dice, <l dimostrano la
possibilità di scrivere un rendiconto adeguato e compren­
sivo del comportamento umano ed animale senza l'uso
del concetto filosofico di mente o di coscienza )). C'è da
domandarsi se l'autore della voce dell'Encyclopaedia Bri­
tannica (il prof. Hunter del Brown College) considererebbe
davvero la citazione sopra riportata come un « resoconto

29
adeguato e comprensivo >> del modo con cui sono nati
A mleto o la Cappella Sistina.
Trent'anni dopo il Watson, lo Skinner ricapitolò le
vedute del behaviourista sul modo con cui avvengono
le scoperte originali in Scienza e comportamento umano:
<< Il risultato di risolvere un problema è l'apparizione di
una soluzione in forma di risposta . . . La relazione fra il
comportamento preliminare e l'apparizione della soluzione
è semplicemente la relazione fra la manipolazione di va­
riabili e l'emissione di una risposta . . . L'apparizione della
risposta nel comportamento dell'individuo non è più
sorprendente dell'apparizione di qualsiasi risposta nel
comportamento di qualsivoglia organismo. La questione
dell'originalità può essere liquidata . . . >> (20) .
Inutile dirlo, gli << organismi >> a cui si fa allusione
sono ancora una volta i suoi topi e i suoi piccioni. Confron­
tato con quello di Watson, il linguaggio degli skinneriani
è diventato più deidratato ed esoterico. Watson parla
di manipolare parole finché << salta fuori >> un disegno
nuovo, e Skinner di manipolare << variabili >> finché << viene
emessa una risposta ». Entrambi sono impegnati nella
costruzione di petizioni di principio su scala eroica, spinti
apparentemente da un bisogno quasi fanatico di negare
ad ogni costo l'esistenza di proprietà che rendano conto
dell'umanità dell'uomo e della topità del topo.

LA FILOSOFIA DEL RATTOMORFISMO

Il behaviourismo partì come una specie di rivolta pu­


ritana contro l'uso eccessivo dei metodi introspettivi di
alcune scuole anteriori di psicologia, che sostenevano
- secondo la definizione di James - che il lavoro dello
psicologo era << la descrizione e spiegazione degli stati di
coscienza >>; coscienza, obiettava Watson, è << un concetto
né definibile né utilizzabile, è semplicemente un'altra

30
parola per l"anima' di tempi più antichi . . . Nessuno ha
mai toccato un'anima o l'ha vista in una provetta. La
coscienza è esattamente non provabile, non avvicinabile,
come l'antico concetto di anima . . . I behaviouristi rag­
giunsero la conclusione di non potersi più contentare di
lavorare con gli intangibili e gli inavvicinabili. Decisero
o di rinunziare alla psicologia o di farne una scienza
naturale . . . 1> (21).
Questo <c programma pulito e fresco 1>, come Watson
stesso lo chiamò, era basato sulla ingenua idea che la psi­
cologia potesse essere studiata con i metodi e i concetti
della fisica classica. Watson e i suoi successori furono
del tutto espliciti su questo punto; i loro sforzi per svol­
gere il loro programma diventarono un vero lavoro di
Procuste. Ma mentre il leggendario malfattore semplice­
mente stirava o tagliava le gambe della vittima per
farla coincidere col suo letto, il behaviourista dapprima
le tagliò la testa, poi la sminuzzò in <c pezzi di compor­
tamento, in termini di stimolo e risposta 1>. La teoria è
basata sui concetti atomistici del secolo scorso, che sono
stati abbandonati in tutti gli altri rami della scienza
contemporanea. I suoi assunti di base - che cioè tutte
le attività dell'uomo, compresi linguaggio e pensiero,
possono essere risolti in unità S-R elementari - erano
fondati originariamente sul concetto fisiologico dell'arco
di riflessi. L'organismo neonato veniva al mondo attrez­
zato con un certo numero di semplici riflessi <c non con­
dizionati 1>, e ciò che egli faceva e compiva durante la
sua vita veniva acquisito mediante condizionamento pav­
loviano. Ma questo schema semplicistico presto passò
di moda fra i fisiologi: il maggiore di loro a quel tempo,
sir Charles Sherrington, scriveva già nel 1906: <c Il sem­
plice riflesso è probabilmente una concezione puramente
astratta perché tutte le parti del sistema nervoso sono
connesse fra di loro e nessuna sua parte sarà probabil-

31
mente capace di reazione senza influire e subire l'in­
fluenza di varie altre parti . . . Il riflesso semplice è una
finzione conveniente se non probabile l) (22) .
Più di recente un neurologo in vista, Judson Herrick,
così riassunse la situazione:

<l Durante l'ultimo mezzo secolo è stato elaborato


un ambizioso programma di riflessologia, specialmente da
Pavlov e dalla scuola americana del behaviourismo. L'o­
biettivo confessato era di ridurre tutto il comportamento
animale e umano a sistemi di riflessi interconnessi di
vari gradi di complessità. Il condizionamento di tali ri­
flessi da parte dell'esperienza personale era invocato come
il meccanismo dell'apprendimento. Il riflesso semplice era
considerato l'unità di comportamento e tutte le altre
specie di comportamento erano concepite come prodotte
dal collegamento di tali unità in disegni sempre più com­
plicati.
La semplicità di questo schema è attraente ma il­
lusoria. In primo luogo il riflesso semplice è una pura
astrazione. Non esiste una cosa simile in qualsiasi corpo
vivente. Un difetto più serio sta nel fatto che tutta l'in­
formazione che abbiamo sulla embriologia e lo sviluppo
filogenetico del comportamento mostra chiaramente che
i riflessi locali non sono le unità primarie di comporta­
mento: sono acquisizioni secondarie l) (23) .

Col declino del riflesso i fondamenti fisiologici su cui


era costruita la psicologia S-R avevano cessato di esi­
stere. Ma questo non preoccupò eccessivamente i beha­
viouristi. Essi fecero scivolare la terminologia da riflessi
condizionati a risposte condizionate, e continuarono a
manipolare i loro ambigui termini nel modo che abbiamo
visto, finché le risposte diventarono qualcosa di control­
lato da stimoli ancora in grembo al futuro, il rinforzo
si trasformò in una specie di flogisto, e gli atomi di com­
portamento svaporarono tra le mani dello psicologo pro-

32
prio come, parecchio tempo prima, erano svaporati i
piccoli, duri pezzi di materia del fisico.
Storicamente il behaviourismo nacque come reazione
contro gli eccessi delle tecniche introspettive come erano
state praticate particolarmente dagli psicologi tedeschi
della cosiddetta scuola di Wiirzburg. Dapprima sua in­
tenzione era semplicemente escludere la coscienza, le im­
magini e altri fenomeni non pubblici, come oggetti di
studio, dal campo della psicologia; ma più tardi questo
venne a implicare che i fenomeni esclusi non esistevano. Un
programma di metodologia, che aveva i suoi punti discu­
tibili, si trasformò in una filosofia completamente cam­
pata in aria. Allo stesso modo uno può dire ad una squadra
di geometri che per lo scopo di costruire la mappa di
una zona limitata devono trattare la terra come se fosse
piana, e poi sottilmente istillare il dogma che l'intera
terra è effettivamente piana.
Il behaviourismo è davvero una specie di << vista piatta l>
della mente, ovvero, per cambiare di metafora: ha sosti­
tuito la fallacia antropomorfica - che attribuiva agli
animali facoltà e sentimenti umani - con la fallacia
opposta: negare all'uomo facoltà che non si trovano negli
animali inferiori; ha sostituito, alla visione antropomor­
fica del ratto che usava un tempo, una visione rattomor­
fica dell'uomo. Ha persino ribattezzato la psicologia perché
il termine conteneva la parola greca che significa anima,
e la chiamò << scienza del comportamento l). Fu un atto
significativo di autocastrazione semantica, in linea con i
riferimenti di Skinner all'educazione come {< lavoro di
ingegneria behaviouristica l) o comportamentale. Il suo
scopo dichiarato, {< predire e controllare l'attività umana
come gli scienziati fisici controllano e manipolano altri
fenomeni naturali l> (24}, suona altrettanto detestabile
che ingenua. Werner Heisenberg, uno dei maggiori fisici
viventi, ha dichiarato laconicamente: << la natura è im-

2 KOESTLER 33
prevedibile 1>. Sembra abbastanza assurdo negare all'or­
ganismo vivente anche il grado di imprevedibilità che la
fisica quantistica accorda alla natura inanimata.
Il behaviourismo ha dominato la scena per tutta
l'età buia della psicologia ed è tuttora, negli anni Sessanta,
dominante nelle nostre università; ma non ha mai avuto
per sé tutta la scena. In primo luogo ci sono sempre
state delle <<voci clamanti nel deserto 1>, che appartenevano
specialmente alla generazione più anziana, giunta a ma­
turità prima della Grande Purga. In secondo luogo c'era
la Gestalt-psicologia, che ad un certo punto sembrò un
rivale pericoloso per il behaviourismo. Ma le grandi at­
tese che la scuola gestaltica suscitava vennero adempiute
solo in parte, e le sue limitazioni diventarono presto evi­
denti. I behaviouristi cercarono di incorporare alcuni
risultati sperimentali dei loro concorrenti nelle proprie
teorie e continuarono a tenere il campo. Il lettore che vi
abbia interesse può trovare il profilo di questa contro­
versia in The act of Creation, e non è il caso qui di en­
tare nei particolari.� Ma il risultato netto fu una specie
di Rinascimento abortivo seguito da una Controriforma.
Ultimamente, per completare il quadro, c'è una genera­
zione più giovane di neurofisiologi e di teorici delle co­
municazioni, che riguardano la psicologia S-R ortodossa
come qualcosa di senile ma sono spesso obbligati a ren­
derle omaggio a fior di labbra se vogliono procedere nella
carriera accademica e farsi pubblicare i propri saggi nel
tipo giusto di riviste tecniche - e che in vari gradi fini­
scono col prendere l'infezione delle dottrine della psico­
logia <<della terra piatta 1>.

l. Particolarmente nel libro II, cap. XII, <• I trabocchetti della


teoria dell'apprendimento"· e cap. XIII, «l trabocchetti della Gestalh.

34
È impossibile arrivare ad una diagnosi sulla nemesi
dell'uomo - e implicitamente alla terapia - partendo
da una psicologia che nega l'esistenza dello spirito, e vive
su analogie speciose derivate dalle attività premi-sbarra
dei ratti. Gli archivi di cinquant'anni di psicologia ratto­
morfica, nella loro sterile pedanteria, sono comparabili a
quelli della Scolastica nel suo periodo di declino, quando
era scaduta a contare gli angeli sulla punta di uno spillo,
benché questo sembri un passatempo più divertente
che non contare il numero delle pressioni sulla sbarra
della gabbietta.

35
II La catena di parole
e l'albero del linguaggio

In un'occasione come questa esprimere il pro­


prio pensiero diventa qualcosa di più di un
dovere morale. Diventa un piacere.
0SCAR WILDE

L'emergere del linguaggio simbolico, dapprima par­


lato, poi scritto, rappresenta la rottura più cruda fra
l'animale e l'uomo. Molti animali sociali hanno qualche
sistema di comunicazione per mezzo di segni e di segnali,
ma il linguaggio è uno specitìco della specie, proprietà
esclusiva dell'uomo. Anche i mongoloidi, incapaci di ba­
dare a sé anche nelle cose più elementari, sono capaci di
acquistare i rudimenti del linguaggio simbolico, i del­
lini e gli scimpanzé no, per quanto intelligenti siano sotto
altri aspetti. E neanche i ratti e i piccioni.
Il linguaggio dunque, ci si aspetterebbe, è un fenomeno
il cui studio più di qualunque altro dovrebbe dimostrare
l'assurdità del metodo di studio rattomor:fìco. Non solo
non è così; esso fornisce anzi la migliore occasione per
introdurre, per via di contrasto, alcuni dei concetti base
della nuova sintesi in corso di composizione. Questo con­
trasto fra il metodo ortodosso e quello nuovo può ricapi­
tolarsi in due parole-chiave: la catena contro l'albero.

I,A CATENA

Il lungo estratto che segue è tipico del modo beha­


viourista di avvicinarsi al linguaggio. È tratto da un
lihro di testo per studenti universitari a cui hanno con-

37
tribuito vari professori di distinte università americane (1) .
L'autore dell'estratto è presidente egli stesso di un diparti­
mento di psicologia. Fu pubblicato nel 1961; il dialogo deli­
neato nell'estratto è adattato da un testo precedente. Cito
questi particolari per mostrare che il testo dato in pasto a
migliaia di studenti è nella più rispettabile tradizione ac­
cademica. Il titolo del capitolo è <<Attività complesse ))
ed è il solo passaggio dedicato, in tutto il manuale, alle
glorie del linguaggio umano: 1

<<Abbiamo detto che l'apprendimento può essere o


del tipo di condizionamento rispondente [pavloviano clas­
sico] od operante [Skinner, Hull]. I dati sperimentali
. .

che abbiamo presentato in relazione ai nostri studi sul


condizionamento sono stati però limitati a risposte piut­
tosto semplici come la salivazione [nei cani] e la pres­
sione della sbarra [nei topi]. Nella vita d'ogni giorno
raramente dedichiamo tempo a considerare simili ri­
sposte isolate, pensando usualmente ad attività più grosse,
come imparare una poesia a memoria, condurre una con­
versazione, risolvere un puzzle meccanico, imparare ad
orientarci in una città nuova, per nominarne solo qual­
cuna. Mentre lo psicologo potrebbe studiare queste atti­
vità più complicate, cosa che si fa fino ad un certo punto,
l'impostazione di studio generale della psicologia è quella
di portare in laboratorio per studiarle le risposte più
semplici. Una volta che lo psicologo scopre i principi
dell'apprendimento per i fenomeni più semplici nelle con­
dizioni di laboratorio più ideali, è probabile che possa
applicare questi principi alle attività più complesse come
esse si presentano nella vita d 'ogni giorno. I fenomeni
più complessi sono, dopo tutto, nient'altro che una serie
di risposte più semplici [sic]. Parlare con un amico ne è
un ottimo esempio. Supponiamo di avere una conversa­
zione come la seguente:

l . Un estratto di questo testo è apparso anche in The Act of Crea­


tion, p. 603.

38
Luz Che ora è?
Lei Le dodici.
Lui Grazie.
Lei Prego.
Lui E se mangiassimo insieme?
Lei Benissimo.
Ora questa conversazione può venire analizzata in
unità S-R separate. 'Lui' fa la prima risposta che viene
emessa probabilmente sotto lo stimolo della vista di
'Lei'. Quando 'Lui' emette l'operante ' Che ora è?', l'at­
tività muscolare naturalmente produce un suono che
serve anche di stimolo per 'Lei'. Al ricevere questo sti­
molo 'Lei' emette un operante essa pure: 'Le dodici'
che a sua volta porduce uno stimolo a 'Lui'. E cosi via.
L'intera conversazione può essere rappresentata dal se­
guente grafico:

In un'attività cosi complessa, quindi, possiamo vedere


che quello che noi abbiamo realmente è una serie di
collegamenti S-R. Il fenomeno consistente nel connet­
tere una serie di simili unità S-R è conosciuto come
concatenazione (chaining), procedimento che dovrebbe
manifestarsi in qualsiasi attività complessa. Potremmo
notare che c'è un certo numero di fonti di rinforzo per
tutto lo svolgersi del processo di concatenazione, e in
questo esempio il più ovvio è il rinforzo di 'Lei' derivante
dal ricevere un invito a pranzo e di 'Lui' dal vedere ac­
cettato l'invito. In aggiunta, come sottolineano Keller
e Schoenfeld, vi sono altre fonti di rinforzo, come il fatto
che l'uditore 'incoraggia' il parlante a continuare, l'uso
che gli interlocutori fanno della informazione ricevuta
(Lui scopre che ora è, ecc.) .

39
Questo esempio d'analisi di una attività complessa
non è che uno fra quelli delle numerose attività di cui
potremmo discutere. Il lettore dovrebbe continuare a
pensarne altri per conto suo e cercare di tracciare il dia­
gramma del loro processo di concatenazione. Per esem­
pio come si presenterebbe il diagramma per la finale di
una partita di calcio in cui viene segnato un goal, o per
un pianista che suona, o per una ragazza che fa un golf
a maglia ? )) (2).

E questa è la fine di quello che lo studente impara


sulle << attività umane complesse l). Il resto del capitolo
intitolato << Apprendimento, ritenzione e motivazione ))
riguarda, per usare le parole dell'autore, << salivazione
e pressione della sbarra )).
Leggendo questo dialogo si ha la visione di due mac­
chine a gettone automatiche molto ben fatte, che si guar­
dano l'un l'altra sul campus del college, e introducono
mutualmente monete di stimolo e sputano risposte ver­
bali preconfezionate. Eppure questo insipido scambio
di frasi fra Lui e Lei non è una improvvisazione casuale
dell'autore, che l'ha trascritta con riverenza da un altro
manuale, Princìpi di psicologia di Keller e Schonefeld,
e altri scrittori hanno fatto lo stesso come se fosse un
esempio classico di conversazione umana.
Il grafico rappresenta l'applicazione al linguaggio del
credo behaviouristico: che cioè tutte le attività umane
possono ridursi ad una catena lineare di unità S-R. A
prima vista il grafico potrebbe fare impressione come una
schematizzazione semplificata ma plausibile - finché
uno lo guarda più da vicino. È basato sul libro di Skin­
ner, Comportamento verbale, il primo tentativo su larga
scala di impadronirsi del linguaggio umano in termini
di teoria behaviouristica. Secondo Skinner, i suoni del
linguaggio vengono emessi come qualsiasi altro << pezzetto
di comportamento l), e il processo di condizionamento

40
che determina il comportamento verbale (pensiero in­
cluso) è essenzialmente il medesimo che nel condiziona­
mento dei ratti e dei piccioni; i metodi di questi esperi­
menti, proclama Skinner, <c possono estendersi al compor­
tamento umano senza serie modi:ficazioni » (3). Cosi,
quando il nostro autore parla della preferenza dello psi­
cologo per lo studio delle <c risposte più semplici )), si ri­
ferisce alle risposte della salivazione e della pressione
della sbarra, come mostra il contesto. Ma che diamine
hanno in comune i simboli S-R del diagramma con la
pressione della sbarra ? Che giustificazione c'è nel chia­
mare <c Prego - E se mangiassimo insieme ? )) una <c unità
di risposta condizionata )) ? Una risposta condizionata è
una risposta comandata dallo stimolo; e una <c unità ))
nella scienza sperimentale deve avere proprietà defi­
nibili. Dobbiamo credere che Lui era condizionato a
rispondere ad ogni <c prego )) con un invito a pranzo ? E
in che senso possibile dobbiamo chiamare <c Prego - E
se mangiassimo insieme ? )) una zmità di comportamento ?
Forse ho l'aria di rivangare punti che sono ovvi al
non-psicologo, ma lo scopo apparirà presto evidente.
Ovviamente dunque la frase <c Prego )) potrebbe anche
produrre la risposta <c Bene, ciao )) oppure <c Hai le calze
ricamate )) o altri alternativi <c pezzetti di comportamento
verbale )), a seconda che Lei abbia pronunciato la frase
indugiando con un sorriso sexy, oppure un po' ruvidamente,
oppure a mezza strada fra i due; e inoltre a seconda che
Lui la trovi o no graziosa, Lui sia libero per pranzo e se
Lui abbia o no i soldi per pagarlo. L'unità S-R semplice
non è né semplice né un'unità. Per il profano è difficile
credere che l'autore del testo non sia consapevole dei
processi mentali complessi che si svolgono a molti livelli
nella testa delle due persone durante, e tra, l'una e l'altra
emissione di suoni. Sicuramente questi <c processi privati ))
devono essere implicati, dati per concessi, in quello che

41
l'autore sta dicendo ? Forse lo sono; ma negando che gli
avvenimenti privati abbiano posto in psicologia, ha ne­
gato a se stesso la possibilità e persino il vocabolario per
discuterli. Il modo con cui il behaviourista gira intorno
a questa difficoltà consiste nell'ammassare in un sol blocco
questi processi privati non menzionabili sotto il termine
indefinito di << variabili intervenienti )) (oppure « mecca­
nismi ipotetici l>) che << médiano fra stimolo e risposta )). 1
Questi termini vengono cioè usati come una specie di
pattumiera, per eliminare tutte le questioni imbarazzanti
relative alle intenzioni, ai desideri, ai pensieri e ai sogni
degli organismi chiamati Lui e Lei. Un riferimento oc­
casionale alle << variabili intervenienti )) serve come espe­
diente salvafaccia; siccome tutto quanto accade nel cer­
vello di una persona viene coperto da tale etichetta,
non richiede di venir discusso. Tuttavia, in assenza di
qualsiasi discussione circa gli eventi mentali che stanno
dietro al dialogo, i commenti dell'autore del nostro te­
sto si riducono all'emissione di trivialità, e il bellissimo
grafico è vuoto di significato. Un grafico serve a rappre­
sentare visivamente gli aspetti essenziali di un processo;
in questo caso sia testo che grafico pretendono di farlo,
ma in effetti non danno indicazioni su quello che sta
accadendo realmente. Lo stesso dialogo potrebbe aver
avuto luogo fra conoscenze occasionali oppure fra due
innamorati timidi, o potrebbe anche registrare il recluta­
mento di una prostituta. La pseudoscientifica verbige­
razione: << quando Lui emette l'operante 'che ora è', l'at­
tività muscolare produce un suono che serve anche come
stimolo l>, e via dicendo, è totalmente irrilevante per
l'episodio che pretende di descrivere e spiegare. E questo
si applica in generale a qualsiasi tentativo di descrivere
il linguaggio dell'uomo in termini di teoria S-R.

l. Vedi Appendice Il.

42
'
L ALBERO

Il progresso strategico ricavato lavorando l'ovvia as­


surdità di una teoria è che rende quasi evidente di per sé
l'alternativa proposta. L'alternativa esposta nelle pagine
che seguono, propone di sostituire il concetto della ca­
tena lineare S-R col concetto di sistemi a molti livelli
gerarchicamente ordinati, che possono essere convenien�
temente rappresentati sotto forma di un albero rove­
sciato che si dirami all'ingiù:

Fig. l

Troviamo simili grafici arborescenti dell'organizzazione


gerarchica applicati ai più disparati campi: tavole genea­
logiche, classificazione di animali e di piante, <<l'albero
della vita )) dell'evoluzionista; grafici indicanti le strut�
ture articolate dei ministeri o delle imprese industriali;
schemi fisiologici del sistema nervoso e della circolazione
del sangue. La parola << gerarchia )) è d'origine ecclesiastica
ed è spesso usata erroneamente per riferirsi soltanto al­
l'ordine o rango: i gradini di una scala, per così dire;·
Io la userò per riferirmi non ad una scala, ma alla struV
tura arborescente di un sistema che si articola in due'
sottosistemi e così via, come indicato dal grafico. Il concetto

43
di ordine gerarchico ha una parte centrale in questo libro
e il modo più conveniente per introdurlo è mediante l'or­
ganizzazione gerarchica del linguaggio.
Quella giovane scienza che è la psicolinguistica ha mo­
strato che l'analisi del linguaggio presenta problemi
di cui il parlante è, benedetto lui, inconsapevole. Uno
dei problemi principali sorge dal fatto illusoriamente
semplice che noi scriviamo da sinistra a destra, produ­
cendo una singola sfilza di lettere, e che parliamo emet­
tendo un suono dopo l'altro, dunque in una s:filza unica
lungo l'asse del tempo. Questo è ciò che rende superfi­
cialmente plausibile il concetto behaviouristico di una
catena lineare. L'occhio riceve una immagine completa
a tre dimensioni che abbraccia molte forme e colori si­
multaneamente, ma l'orecchio riceve soltanto degli im­
pulsi lineari, uno per volta, serialmente, e questo po­
trebbe condurre alla fallace conclusione che pure rispon­
diamo a ogni suono del linguaggio, pezzo per pezzo, uno
alla volta. Questa è l'esca che ha inghiottito il teorico
S-R e che da allora gli è rimasta sullo stomaco.
I suoni elementari del linguaggio sono chiamati fo­
nemi; corrispondono all'ingrosso all'alfabeto scritto. In
inglese sono 45, in italiano 29. Se ascoltare il linguaggio
consistesse nella concatenazione dei fonemi separata­
mente percepiti dall'ascoltatore, letteralmente questi non
capirebbe una parola di quello che gli vien detto. La­
sciatemi spiegare il paradosso. Se dovessimo tradurre
il processo di ascolto del linguaggio da termini acustici
in ottici, sarebbe come proiettare a lampi su uno schermo
davanti all'occhio del soggetto delle lettere stampate
una alla volta al ritmo di 20 lettere al secondo. Il risultato
sarebbe un esaurimento nervoso. L'orecchio dell'ascol­
tante deve accogliere circa 20 fonemi al secondo. Se esso
cercasse di analizzare ogni fonema come un {< pezzetto >>
separato - o atomo o segmento di linguaggio - tutto

44·
quanto riuscirebbe a percepire sarebbe un persistente
ronzio. Devo questa illustrazione ad Alvin Liberman
dei laboratori Haskins, un pioniere nel campo della
percezione linguistica, anch'egli intervenuto al semi­
nario Think-Tank menzionato nella prefazione. Ha
anche aggiunto, malvagiamente, che se continuiamo a
rivangare il problema con i metodi del teorico S-R (< ri­
schiamo di arrivare alla convinzione che il linguaggio
umano è un'impossibilità )),
La soluzione del paradosso diventa evidente quando
ritorniamo dal linguaggio parlato a quello scritto. Quando
leggiamo non percepiamo la forma di ogni singola lettera
una per volta (come nel citato esperimento stùlo schermo)
ma i lineamenti di una o di diverse parole ogni volta;
le lettere staccate vengono percepite come integrate in
unità più grandi. Allo stesso modo quando ascoltiamo
non percepiamo fonemi separati in ordine seriale, la per­
cezione li combina in unità di grado più elevato, della
dimensione approssimativa di una sillaba. I suoni del
linguaggio si uniscono in lineamenti come i suoni musi­
cali si uniscono in melodie. Ma a differenza dei lineamenti
tridimensionali percepiti dall'occhio, il linguaggio e la
musica formano disegni nella sola dimensione del tempo,
il che sembra misterioso e assomiglia a una presa in giro.
Vedremo però che il riconoscimento dei disegni nel tempo
non è più, e non è meno una presa in giro del ricono­
scimento dei disegni nello spazio, perché il cervello tra­
sforma costantemente le sequenze temporali in disegni
spaziali e viceversa (p. 118). Se guardate un disco di gram­
mofono con una lente di ingrandimento, vedete soltanto
un'unica spirale ondulata, che tuttavia contiene in forma
codificata i disegni infinitamente complessi prodotti da
un'orchestra di 50 strumenti che esegue una sinfonia.
Le vibrazioni dell'aria che esso mette in moto formano,
come la curva del solco, una sequenza con una funzione

45
variabile unica - la variazione della pressione sul tim­
pano dell'orecchio. Ma una variabile unica nel tempo è
sufficiente a trasmettere i messaggi più complessi - la
Nona Sinfonia o il Poema del vecchio marinaio - purché
vi sia un cervello umano per decodificarli, e rintracciare
i disegni nascosti nelle sequenze lineari delle onde di
pressione. Questo è attuato con una serie di operazioni
della cui natura per ora non capiamo gran ché, ma che
può venir rappresentata da una gerarchia di processi
a molti livelli. Ha tre grandi suddivisioni: la fonologica,
la sintattica, la semantica.

<< CHE COSA HAI DETTO ? ))

Possiamo considerare come primo passo nella decodi­


ficazione del messaggio parlato - il primo scalino verso
l'alto dell'albero gerarchico - l'integrazione, da parte
dell'ascoltatore, dei fonemi in morfemi. I fonemi non sono
che suoni; i morfemi sono le più semplici unità significa­
tive del linguaggio (parole brevi, prefissi, suffissi, ecc.);
esse formano il livello immediatamente superiore della
gerarchia. I fonemi non si qualificano come unità elemen­
tari del linguaggio, primo, perché arrivano troppo in
fretta per essere discriminati e riconosciuti individual­
mente, ma anche per una seconda ragione importante:
sono ambigui. La stessa consonante suona diversamente
a seconda della vocale che la segue, e, viceversa, con­
sonanti diverse talora suonano nello stesso modo di fronte
alla stessa vocale. Che uno capisca << big )) o << pig )) << map ))
,

o << nap )), 1 dipende, come dimostrano gli esperimenti (4}

l . Big « grosso >), pig << maiale »; map « mappa », nap << nappa ».
Sia qui che avanti, non abbiamo cercato di rendere con equivalenti
italiani gli esempi del testo, perché riferiti a precisi, delicati esperi­
menti, e perché anche nelle parole isolate il fonema è condizionato dal
o dai suoni successivi. In sostanza gli strumenti acustici spesso non

46
di laboratorio di Haskins, sostanzialmente dal contesto.
Così la teoria della catena S-R si spezza anche al livello
più basso del linguaggio, perché gli stimoli fonologici
variano col contesto e possono venire identificati solo
nel contesto. Ma come ascendiamo a livelli più elevati
della gerarchia, incontriamo di nuovo lo stesso fenomeno:
<( la risposta 1> a una sillaba (la sua interpretazione) di­
pende dalla parola in cni viene situata; e le parole singole
occupano la stessa posizione subordinata rispetto alla
frase, come i fonemi rispetto alle parole. La loro inter­
pretazione dipende dal contesto e deve essere definita
come il livello immediatamente superiore della gerarchia.
Il compianto K. S. Lashley - un behaviourista rinne­
gato - ha dato di ciò una illustrazione divertente:

<( Le parole stanno alla frase come le lettere alla pa­


rola; le parole stesse non hanno alcWla 'valenza' tem­
porale intrinseca. La parola inglese right, per esempio,
è nome, aggettivo, avverbio e verbo, e ha, per un'unica
pronuncia, rait, quattro ortografie (wright, right, rite,
write) e almeno dieci significati (wright lavoratore; right
destra, giusto, vero, diritto; rite rito; write scrivere). In
Wla frase come The mill-wright on my right thinks it
right that some conventional rite should symbolise the right
of every man to write as he pleases (Il mugnaio alla mia
destra pensa che è giusto che qualche rito convenzionale
simbolizzi il diritto di ogni uomo a scrivere come gli
piace), la disposizione delle parole non è ovviamente do­
vuta a dirette associazioni della parola right con altre
parole, ma ai significati che vengono determinati da al­
CWle relazioni più larghe . . . Ogni teoria della forma gram­
maticale che l'ascrive a una connessione associativa di­
retta delle parole della frase, trascura la struttura essen-
ziale del linguaggio 1> (5).

distinguono le sorde dalle sonore, le occlusive di diversa articolazione


(una labiale da una dentale), ecc. (n.d.t.).

47
Questo naturalmente è un esempio estremo di ambi­
guità artificiosamente fabbricata, ma segna un punto
nella vendetta contro il teorico S-R che sostiene che i
suoni del linguaggio sono come gli altri << pezzi di compor­
tamento 1>, e che il linguaggio non invoca alcun principio
di spiegazione diverso da quelli impiegati nel condizio­
namento operante degli animali inferiori.
La situazione ideale, dal punto di vista del teorico
S-R, è quella di una dattilografa - chiamiamola signo­
rina Risposta - che scrive sotto dettatura del suo capuf­
ficio che è il dott. Stimolo. Qui, si penserebbe, abbiamo
un esempio perfetto di catena lineare di stimoli sonori
che comandano una striscia di risposte costituite dalla
battuta dei tasti (la signorina Risposta viene rafforzata
da Stimolo con la prospettiva di uno stipendio) . Siccome
il comportamento complesso si suppone sia il risultato
di una concatenazione di semplici collegamenti S-R, dob­
biamo dedurre che ogni suono emesso da Stimolo farà
sì che la signorina Risposta batta la lettera corrispon­
dente (purché egli detti alla stessa velocità a cui lei scrive
a macchina, il che è supposto per definizione) . Ma noi
sappiamo naturalmente che accade qualche cosa di com­
pletamente differente. La signorina Risposta resta in at­
tesa senza far niente finché non sia completata almeno
metà della frase, poi, come un velocista al colpo di pi­
stola dello starter scatta in avanti finché non ha rag­
giunto Stimolo, poi si ferma in attesa, con un'espressione
ammirativa in faccia. Il fenomeno è noto agli psicologi
sperimentali come inseguimento ritardato (lagging behind) ;
si verifica anche nella telegrafia Morse ed è stato studiato
in modo molto particolareggiato. 1

l . Per una trattazione più particolareggiata vedi The A e t of Creation,


capitolo << Abilità motorie ''• pp. 544-46.

48
La signorina Risposta stava indugiando perché era
mentalmente impegnata nella scalata dell'albero del lin­
guaggio: prima all'insù, dal livello suono al livello parola,
al livello frase, poi di nuovo all'ingiù. La discesa, nel
caso di una dattilografa molto abile, porta dall'<< abito­
frase )), attraverso l'<< abito-parola )), all'<< abito-lettera )).
L'abito-lettera (il battere il tasto giusto) fa parte dell'a­
bito-parola (una preordinata sequenza di movimenti aventi
un determinato disegno che viene a scattare come una
unità singola) il quale è parte a sua volta dell'abito-frase
(giri di frase familiari che attivano << raffiche )) di movi­
menti come insiemi integrati) . Sebbene la prestazione
sia in larga misura altrettanto << automatica )) o << mecca­
nica )) come desidererebbe qualsiasi behaviourista, è non
di meno impossibile rappresentarla come una catena li­
neare di risposte condizionate, perché è un'operazione
pluridimensionale che oscilla costantemente fra vari li­
velli, dal fonologico al semantico. Nessuna dattilografa
può venir condizionata a scrivere sotto dettatura in una
lingua che non conosce. È questa conoscenza estremamente
complessa e non la concatenazione di semplici legami
S-R che fa danzare le dita della signorina Risposta sulla
tastiera alla voce rafforzante del dott. Stimolo. E, oh
meraviglia, ella riesce anche a battere una lettera senza
dettatura, per esempio al suo fidanzato a Birmingham.
In questo caso il suo comportamento è presumibilmente
controllato da collegamenti S-R che, come la gravità,
sono capaci di azione a distanza.

IL POSTINO E IL CANE

Fin qui ho toccato solo alcune fra le difficoltà di spie­


gazione sul come noi convertiamo delle variazioni di pres­
sione sul timpano in idee. Ancora più formidabile è il
problema di come convertiamo idee in onde di pressione

49
dell'aria. Si prenda .un esempio semplice: il bambino del
fattore, di tre anni circa, sporgendosi dalla finestra vede
il cane che cerca di mordere il postino e il postino che
lo ripaga con un calcio a tradimento. Tutto questo ac­
cade in un lampo, così in fretta che le sue corde vocali
non hanno neppure avuto il tempo di innervarsi; tut­
tavia sa con perfetta chiarezza che cosa è accaduto e
sente il bisogno urgente di comunicarlo come un evento,
immagine, idea, pensiero o quel che volete, non ancora
verbalizzato, alla nonnina. Così si precipita in cucina e
urla ansimando: << Il postino ha dato un calcio al cane )).
Ora il primo fatto notevole è che non dice: << il cane ha
dato un calcio al postino )) sebbene, in teoria, possa
benissimo dire <<canino è stato picchiato dal postino )),
e di nuovo non dirà <<è stato il cane picchiato dal po­
stino ? )), e meno che mai: <<cane il dal stato picchiato è
postino )).
Questo è stato un esempio di frase semplicissima
consistente di otto parole soltanto (quattro in inglese:
The postman kicked the dog) ; tuttavia un cambio d'ordine
fra due parole darebbe un significato totalmente differente;
un cambiamento più radicale, con l'aggiunta di due pa­
role in più, lascerebbe invece inalterato il significato; e
la maggioranza delle 95 permutazioni possibili delle pa­
role inglesi originarie non darebbero significato alcuno.
Il problema è come faccia un bambino a imparare le mi­
gliaia e migliaia di regole e corollari astratti necessari
a generare e a comprendere frasi significative, regole
che i suoi genitori sarebbero incapaci di denominare e
di definire; e che voi ed io siamo egualmente incapaci di
definire; e che ciò non pertanto guidano infallibilmente
il nostro linguaggio. Le poche regole di grammatica che
il bambino impara a scuola - molto tempo dopo che ha
imparato a parlare correttamente - e che egli dimen­
tica prontamente, sono affermazioni descrittive sul lin-

50
guaggio, non ricette per generare il linguaggio. Queste
ricette o formule il bambino le scopre in qualche modo
con processo intuitivo, probabilmente in modo non di­
verso dalle inferenze inconscie che sfociano nella scoperta
scientifica, all'epoca in cui ha raggiunto l'età di quat­
tro anni. A quel momento << egli padroneggerà pressoché
l'intera struttura complessa e astratta della nostra lin­
gua. In poco più di due anni perciò [partendo dall'età
di circa due anni] i bambini acquisiscono una conoscenza
piena del sistema grammaticale della loro lingua nativa.
Questa sensazionale performance intellettuale viene cor­
rentemente compiuta da ogni bambino in età presco­
lare l) (Mc Neill) (6) . Un altro behaviourista rinnegato,
il professor James Jenkins, ha osservato, nel nostro
seminario di Stanford: << Il fatto che noi sappiamo
produrre liberamente frasi che non abbiamo mai sentito
prima è stupefacente. Il fatto che noi possiamo capirle
quando vengono prodotte è poi pressoché miracoloso . . .
Nessun bambino ha mai dato neanche un'occhiata al
meccanismo che produce le frasi della nostra lingua.
Non sarebbe mai in grado di farlo e neppure gli è stato
detto qualcosa su questo meccanismo, dal momento che
la maggior parte dei parlanti ne sono completamente
inconsapevoli l>.
I fatti devono sembrare effettivamente miracolosi
finché persistiamo nel confondere la serie di parole che
è il linguaggio, con la silenziosa macchina che genera il
linguaggio. La difficoltà è che la macchina è invisibile,
e il suo funzionamento per lo più inconscio, oltre la por­
tata dell'ispezione e anche dell'introspezione. Ma almeno
la psicolinguistica ha mostrato che l'unico modello conce­
pibilè per rappresentare la generazione di una frase non
funziona << da sinistra a destra l> ma ramificandosi gerar­
chicamente dalla cima all'ingiù.

51
Il grafico che segue è una versione leggermente modifi­
cata della cosiddetta << struttura-frase che genera la gram­
matica >> di Noam Chomsky.l
Questo è all 'incirca lo schema più semplice del modo
di generarsi di una frase.

��

T
i\ /)� N V T N

t
the
t t t t
postman kicked the dog
Fig. 2
The postman kicked the dog (modificato da Chomsky). J: idea - NP
frase nominale - VP: frase verbale - T: articolo - N: nome - V: verbo.
(<• Il postino ha dato un calcio al cane •>) .

Alla cima dell'albero rovesciato c'è [I] - potrebbe es­


sere un'Idea, un'Immagine visiva, la Intenzione di dir
qualcosa - che non è ancora articolato verbalmente. Chia­
miamolo lo stadio [l]. 2 Poi ecco germogliare i due rami
principali dell'albero: l'agente e la sua azione, che allo

l. Chomsky non pretendeva di spiegare per suo mezzo come venga


effettivamente prodotta una frase, ma l'osservazione e relativa analisi
del modo in cui i bambini imparano a parlare [condotte da Roger
Brown (7), l\kNeill (8) ed altri] hanno confermato che questo modello
rappresenta i princìpi basilari in questione.
2. Chomsky designa l'apice con la lettera [S], che sta per la frase
o sentence completa, il che fa apparire il modello come un modello di
analisi della frase, più che di generazione della frase.

52
stadio [I] erano ancora sentiti come un'unità indivisibile
e ehe ora si spaccano nelle diverse categorie del linguaggio:
frase nominale e frase verbale.1 Questa separazione deve
rappresentare nel bambino una formidabile impresa di
astrazione - come si fa a separare il gatto dal sogghigno 2
o il calcio dal postino ? -. Ma è una proprietà uni­
versale di tutti i linguaggi conosciuti; ed è precisamente
eon questa impresa di (l pensare astrattamente 1> che il
bambino comincia le sue avventure nel linguaggio ad
un'età precocissima, in lingue diverse fra loro come il
)!;iapponese e l'inglese (9) .
La frase verbale a sua volta si spacca immediatamente
nell'azione e nel suo oggetto. Alla fine il nome e l'articolo,
che preventivamente era qualcosa di implicito nel nome,
vengono pronunciati separatamente. Decidere a che punto
del rapidissimo, prevalentemente inconscio lavoro della
macchina, vengano a galla le parole vere e proprie e va­
dano a cadere al loro posto sopra il tappeto trasportatore
del linguaggio - lungo la linea inferiore del grafico - è
un problema delicato da lasciare allo specialista di intro­
spezione. A noi tutti è familiare la frustrante esperienza
- condivisa allo stesso modo dai semianalfabeti e dagli
scrittori di professione - di sapere quello che vogliamo
dire, ma di non sapere come esprimerlo, di cercare le
parole giuste che si adatteranno esattamente nei posti
vuoti del tappeto trasportatore. Il fenomeno opposto ha
luogo quando il messaggio da trasmettere è molto sem­
plice e può essere posto nei termini di un giro di frase
bell'e fatta, quale (l come va ? 1> oppure (l non c'è di che 1>.
l/albero vivente del linguaggio si curva sotto il grosso

l . La suddivisione NP-VP (frase nominale-frase verbale) è più


espressiva e più facile da maneggiare che non le correlative categorie
di soggetto e predicato.
2. Citazione da A lice nel Paese delle Meraviglie (famoso episodio
del l< Gatto del Cheshire &) (n.d.t.) .

53
peso di questi cliché, sospesi ai suoi rami come caschi di
banane che si possono cogliere a mazzi anziché una per
una. I cliché sono la delizia del behaviourista. In un di­
scorso famoso da cui ho tratto già una citazione or ora,
Lashley diceva: {< Un collega behaviourista mi fece una
volta l'osservazione che aveva raggiunto uno stadio in
cui poteva alzarsi di fronte ad un uditorio, dare il
via alla lingua e andarsene a dormire. Egli credeva
nella teoria della catena. Questo - concludeva ironi­
camente Lashley - dimostra chiaramente la superiorità
della psicologia behaviourista sopra la psicologia intro­
spettiva )).
Ma l'introspezionismo classico non se la cavava poi
molto meglio. Lashley continuava a citare Titchener (il
gran vecchio della psicologia introspettiva sullo scorcio
del secolo) , che descrivendo il ruolo dell'immaginazione
(che può essere visiva o verbale) aveva scritto: << Quando
esiste una difficoltà qualsiasi nell'esposizione di un punto
con i suoi pro e i suoi contro, io odo le mie stesse parole
che mi precedono )) (10) . Questa può essere una pacchia
per il conferenziere timido, ma dal punto di vista teo­
rico non è di grande aiuto - perché la questione di come
sorgano le parole nella coscienza è semplicemente respinta
di un gradino e diventa così la questione di come sorgano
nella coscienza le immagini del mondo.
Entrambe le risposte, quella del behaviourista e quella
dell'introspezionista, evitano l'articolazione fondamentale
di come il pensiero sia impacchettato sotto forma di lin­
guaggio, di come le rocce informi delle idee vengano scheg­
giate e tagliate destramente in frammenti cristallini di
forma distintiva, e posti sul nastro trasportatore per muo­
versi da sinistra a destra lungo l'unica dimensione del
tempo. L'operazione inversa viene compiuta dall'ascolta­
tore che prende la serie come sua linea di base per la ri­
costruzione dell'albero, convertendo i suoni in disegni,

54
le parole in frasi e così via. Quando uno ascolta un altro
che parla, la serie di sillabe non raggiunge quasi mai,
neppure questa, la coscienza; le parole della frase prece­
dente, pure, si cancellano rapidamente e rimane soltanto
il loro significato; anche le effettive frasi subiscono lo
stesso destino e il giorno dopo i rami e i rametti dell'al­
bero sono appassiti in modo da lasciar vivere soltanto
il tronco, un ombreggiato schema generale. Possiamo
rappresentare entrambi i processi mediante un grafico
indicando come (direbbe Shakespeare) <( l'immaginazione
dia corpo alle forme di cose ignote l> e come la penna <( le
trasformi in forme e dia ad aerei nulla un'abitazione
locale e un nome l>; e noi possiamo percorrere l'intera
operazione a marcia indietro per mostrare come le tracce
lasciate dalla penna perdano la forma e ritornino ad aerei
nulla. Ma mentre questi diagrammi offrono formule e
regole abbastanza salde, procurano soltanto un tipo su­
perficiale di comprensione circa il modo con cui un bam­
bino raggiunge la padronanza del linguaggio e gli adulti
trasformano pensieri in vibrazioni dell'aria e viceversa.
Una completa comprensione di questi fenomeni ci sfuggirà
probabilmente sempre, perché le operazioni che generano
il linguaggio includono processi non esprimibili mediante
il linguaggio; il tentativo di analizzare il linguaggio ci
lascia muti. Per citare Wittgenstein: <( La cosa che esprime
se stessa in linguaggio, noi non la possiamo rappresentare
mediante il linguaggio l>. l Questo paradosso è uno dei
molti aspetti del problema corpo-mente, a cui ritorneremo;
per il momento mi sia concesso semplicemente sottoli­
neare che in èontrasto con il concetto rigido della catena
che trascina l'organismo lungo la sua pista predetermi­
nata, il concetto dinamico dell'albero che cresce implica

l. (< Was sich in der Sprache ausdriickt, konnen wir nicht durch
sie ausdriicken •l.

55
una gerarchia aperta. Il significato di << apertura )) in que­
sto contesto diverrà evidente a mano a mano che an­
dremo avanti.

<< COSA VUOI DIRE CON QUESTO ? ))

Ritonerò per un momento sull'ambiguità del linguaggio


che fornirà un primo esempio di << apertura '> all'estremità.
Vi sono diversi tipi di ambiguità a diversi livelli della
gerarchia. Al livello inferiore, come si è visto, c'è la pu­
ramente acustica ambiguità dei fonemi, rivelata dai loro
spettrogrammi sonori (suoni trasformati in disegni visi­
bili come sulla pista sonora di un film) . Essi mostrano
che la transizione fra bay, day e gay è continua, come i
colori di un arcobaleno, e che udire day o gay dipende
principalmente dal contesto.
Al livello successivo, troviamo in più della ambiguità
di suono, le indeterminatezze più sottili del significato
delle parole, del che sono dati parecchi tipi nell'esempio
di Lashley sul mill-wright. Essi possono venire usati a
bello studio negli sciolilingua, nei giochi di parole, nel­
l'assonanza e nella rima.
Il livello successivo di ambiguità è meno comune,
ma ha grande importanza teorica per i linguisti, perchè
mostra molto bene la fallacia del concetto di catena.
<< Young boys and girls are jond oj sweets '> (I bambini e
le bambine vanno pazzi per i dolci) suona abbastanza
semplice e privo di ambiguità. Ma cosa accade se questo
è seguito immediatamente da << Young boys and girls have
no hair on their chests )) (I bambini e le bambine non hanno
peluria sul petto) ? Se seguiamo lo schema S-R, molto
probabilmente giungeremo alla conclusione che le ragazze
più grandi hanno peluria sul petto. La ragione è che nella
prima propos1z10ne noi abbiamo impacchettato così i
nostri << stimoli verbali '> : [ ( Young) (boys and girls) ]. Così

56
tendiamo a fare lo stesso nella seconda proposizione.
Solo più tardi ci rendiamo conto che, nella seconda,
dobbiamo raggruppare gli stimoli in pacchetti diversi:
l( Young boys) (and) (girls)]. Ma se gli stimoli possono
essere discriminati solo dopo il completamento della
catena, che si vorrebbe basata sugli stimoli discriminati,
allora abbiamo fatto un circolo vizioso e il modello S-R
va in pezzi.1
Tradotto in termini neurofisiologici, la concezione ge­
rarchica vede sia nel parlare, sia nell'ascoltare, due pro­
cessi a molti livelli, che comportano costanti interazioni
e feedback (retroazioni o controreazioni) fra i livelli su­
periori ed inferiori del sistema nervoso (quali gli organi
ricevente e producente, le aree di proiezione del cervello,
altre aree collegate alla memoria e all'associazione, ecc) .
Anche i behaviouristi devono capire che l'uomo ha un
cervello più complesso del ratto, benché non amino che
glielo si ricordi. Solo per mezzo di questa attività a più
livelli del sistema nervoso la mente è in grado di trasfor­
mare sequenze lineari che si svolgono lungo la singola
dimensione del tempo in complessi disegni di significato,
e viceversa.
Le ambiguità discusse fino ad ora si riferiscono ai
settori della fonologia e della sintassi. Si risolvono in
modo relativamente semplice riferendosi al contesto sul
livello immediatamente superiore della gerarchia. Ma
questa analisi assicura unicamente l'intelligibilità in senso
letterale; non è niente altro che il primo passo all'insù
nelle vaste gerarchie a molti strati del settore semantico.
Una frase presa isolatamente non trasmette informa­
zioni circa il fatto se la si debba interpretare alla lettera

l . In termini di logica simbolica dovremmo dire che la risposta


R alla i ntera frase implica le risposte r ai suoi singoli elementi, i quali
a loro volta implicano la risposta R all'intera frase: R < r < R < r <
< R ... ecc.: una variante del paradosso del bugiardo cretese.

57
oppure metaforicamente o ironicamente, cwe con un si­
gnificato opposto a quello che sembra voler dire, o invece
contenga un messaggio velato, come il << s'immagini �> o il
<<Prego )) (don't mention it) del nostro dialogo. Tali ambiguità
di una frase isolata possono, ancora una volta, essere risolte
soltanto con un riferimento al contesto, cioè al livello
immediatamente superiore della gerarchia: come ad esem­
pio quando chiediamo, alla :fine di una frase perfetta­
mente intelligibile: << Cosa vuoi dire con questo ? )). Così le
frasi stanno, verso il contesto a cui appartengono, nello
stesso rapporto con cui le parole stanno alla frase e i
fonemi alle parole. Con ogni passo all'insù nella gerarchia,
la cima sembra retrocedere. In discorsi su argomenti re­
lativamente comuni, la gerarchia comprende solo pochi
livelli e lo scalatore può riposare presto. Ma abbiamo
visto che anche il dialogo più corrente fra Lui e Lei si
configura come un'intera piramide: messaggi patenti, si­
gnificati impliciti, la motivazione che gli sta dietro, e
la motivazione dietro la motivazione. Alcuni psicoanalisti
usano il termine << metalinguaggio )) per questi livelli più
alti di comunicazione, quando il significato reale del
messaggio può essere toccato soltanto attraverso un'in­
tera serie di operazioni di decodificazione.
Ma la serie può anche portare a un regresso all'infinito.
Vi sono molti esempi di ciò negli studi più tecnici sia di
Freud che di Jung, che definiscono i particolari dei
singoli << casi )) individuali, dove il significato ultimo dei
messaggi del paziente - spesso trasmesso nel linguaggio
dei sogni - retrocede sempre più nel regno elusivo dei
simboli archetipi o dell'eterna lotta fra Eros e Thanatos.
La gerarchia è << ad estremità aperte )), il suo culmine
retrocede a ogni passo che si compie verso di esso :finché
si dissolve nelle nubi della mitologia.
La psicologia del profondo fornisce qui un esempio
di serie recessiva infinita, che parte dall'ambiguità delle

58
t·omtmicazioni verbali del paziente e retrocede verso l'am­
biguità ultima dell'enigma esistenziale. Ma ogni passo
i 1 1 su nella gerarchia ha un effetto chiarificante e catar­
tico fornendo risposte limitate a problemi limitati o ri­
formulando in modo più significativo le domande a cui
1 1 011 si può rispondere.

Altri esempi di gerarchie aperte sono dati da vari


11 universi di discorso >>, come certi rami della matematica,

la teoria della conoscenza e tutti i rami della scienza na­


turale che debbono manipolare infinite grandezze in ter­
mini di spazio o tempo. Quando i fisici parlano di un
11 approccio asintotico >> alla verità, ammettono implicita­

mente che la scienza si muove lungo una serie infinita­


mente regressiva.
E così fa pure il filosofo che si occupa del significato
e del significato del significato; della conoscenza e della

credenza, e della analisi della struttura della conoscenza


e della credenza. È già, come abbiamo visto, un risultato

notevole riuscire a produrre - e capire- frasi grammati­


calmente corrette, sebbene non possiamo definire le re­
gole che ci mettono in grado di farlo. Ma proprio come
una frase grammaticalmente corretta non trasmette in­
formazioni sul come debba essere presa, se al valore « fac­
ciale >> oppure in qualche altro modo tortuoso, così pure
non trasmette informazioni sulla sua veridicità. In tal
modo, quando il messaggio è stato ricevuto, sorge
il problema se sia vero o falso. Qui, di nuovo, finché par­
liamo di argomenti triviali, la questione può essere si­
stemata con relativa facilità; ma in universi di discorso
più complessi la questione successiva dev'essere inevita­
bilmente: che cosa intendiamo con vero e falso ?,· e di
nuovo ecco che stiamo risalendo la scala a spirale verso
la rarefatta atmosfera che è il dominio dell'epistemologo,
per trovare poi che l'ascensione è senza fine. Per citare
sir Karl Popper (il corsivo è suo) :

59
<< L'antico ideale scientifico di episteme - di un sapere
assolutamente certo e dimostrabile - si è rivelato un
idolo. L'esigenza dell'oggettività scientifica rende inevita­
bile che ogni affermazione scientifica rimanga provvisoria
per sempre. Può essere bensi corroborato, ma ogni cor­
roboramento è relativo ad altre affermazioni che di
nuovo sono provvisorie . . . )) ( 1 1).

REGOLE, S1'RA1'EGIE E << FEEDBACK ))

Questo capitolo non vuol essere una introduzione alla


linguistica, ma un'introduzione al concetto della orga­
nizzazione gerarchica come è esemplificato nella strut­
tura del linguaggio. Ho conseguentemente lasciato da
parte diversi fattori che sono importanti per la teoria
linguistica ma non hanno rilevanza diretta per il
nostro proposito. La più importante di queste omissioni
è la classe delle regole di trasformazione (Chomsky) che
deve essere aggiunta alle << regole della generazione di
strutture )) per dar conto della capacità del parlante di
manipolare i rami dell'albero in modo tale da produrre
una varietà di significati collegati (per esempio << il po­
stino ha dato un calcio al cane )), << il cane ha ricevuto un
calcio dal postino )), << il postino ha forse dato un calcio
al cane ? )) << il cane non ha preso un calcio dal postino ? )>) .
Tutto questo sembra tanto semplice, ma considerate
per un momento come facciano i bambini ad acquisire
tutte le regole e i corollari indispensabili a realizzare
anche queste semplici trasformazioni in modo gramma­
ticalmente corretto.
Ho menzionato le regole di trasformazione di Chomsky
semplicemente per amore di completezza. Tuttavia vi
sono altri aspetti di << comportamento verbale )) diretta­
mente pertinenti al nostro argomento che non ho men­
zionato fin qui; la cosa più semplice sarà indicarle per
mezzo di esempi concreti.

60
Ritorniamo per un attimo alle due opposte ricette
sul modo di tenere una conferenza, citate da Lashley.
Forse il politico che sta facendo un giro di comizi per
riacquistare la popolarità compromessa, può veramente
<• ùare il via alla lingua e poi andarsene a dormire >>. An­
che un pianista da caffè può lasciare andare le dita e
[are lo stesso. Ma queste sono delle routine automatizza­
tesi con la pratica e quasi prive di rilevanza rispetto alla
<iUestione di come si fa comporre una conferenza che
cerca di dire qualcosa di nuovo. E neanche possiamo
basarci sulla ricetta opposta e ascoltare la voce interna
perché ci guidi, come un medium impegnato nella scrit­
tura automatica. Come fa allora il nostro conferenziere,
i n realtà, per produrre il suo intervento ?
Supponiamo un accademico inglese specialista di sto­
ria invitato per una conferenza in una università ameri­
cana. Supponendo pure che sia libero di scegliere l'ar­
gomento che preferisce, egli sceglierà appunto il soggetto
che preferisce; fermiamoci qui per evitare un altro re­
gresso all'infinito nella motivazione, nella personalità
e nelle influenze che formarono la sua personalità. Egli
dunque sceglie come soggetto << problemi insoluti dei pa­
piri del Mar Morto >> perché è convinto di essere il solo
ad avere la chiave della soluzione. Ma come farà a con­
vincere il suo uditorio? Anzitutto deve decidere se pre­
sentare la sua teoria prediletta in modo diretto, non po­
lemico, oppure mostrare perché e dove tutte le altre
teorie sbagliarono. Questo è un problema di strategia:
scegliere una fra parecchie alternative sul modo di piaz­
zare lo stesso messaggio, e ad ogni passo dovrà affron­
tare altre scelte strategiche.
Decide, mettiamo, per il metodo diretto non pole­
mico perché conosce il tipo di uditorio con cui avrà che
fare e non desidera prenderlo di punta. In altre parole
la sua strategia è guidata dal feedback, dall'eco delle sue

61
parole proveniente dall'uditorio, anche se per il momento
è soltanto un'eco anticipata di un uditorio immaginario.
Notiamo che tutto questo ondeggiare e questo deci­
dere non hanno bisogno, a questo stadio, di formulazioni
verbali; può aver preso la forma di vaghe immagini vi­
sive. Per esempio il metodo polemico può essere rappre­
sentato, nella sua immaginazione, da una forma bianca
colpita da un riflettore su uno sfondo nero (il paradigma
figura-sfondo dei teorici gestaltici) , e il metodo diretto
da un grigio uniforme. Questionari compilati da scien­
ziati hanno rivelato che negli stadi decisivi del loro pen­
siero creativo l'immaginazione visiva e persino muscolare
predomina sopra il pensiero verbale.1
Viene poi il vessato problema della << organizzazione
del materiale l>; vessato perché i differenti aspetti del
problema, il pullulare delle prove e delle interpretazioni
sono tutti interconnessi come i fili di un tappeto persiano.
Il nostro conferenziere è acutamente consapevole del di­
segno in cui si dispongono ma come può comunicare quel
disegno se non può estrarne i fili per esporli uno alla
volta ? Qui comincia a insinuarsi il problema dell'ordine
temporale sebbene la sua mente stia ancora lavorando
nelle regioni parzialmente o interamente non verbali delle
immagini e delle vaghe velleità intuitive.
Alla fine arriva a una sistemazione provvisoria del
materiale, in una serie di capitoli e sottocapitoli, che di­
spone all'ingiro come se fossero dei blocchi di costruzione
compatti. Ognuno è probabilmente rappresentato da una
semplice parola messa giù come appunto. Questo, di nuovo,
sembra abbastanza semplice, ma quanto più ci pensate
tanto più appare controvertibile la natura di questi blocchi
di fabbricato. William James espresse questo stato di
perplessità in una pagina memorabile (i corsivi sono suoi) :

l . Vedi sotto, cap. XIII.

62
<< E il lettore non si è mai chiesto che tipo di fatto
mentale sia costituito dalla sua intenzione di dire una
cosa prima di averla detta ? È una intenzione interamente
definita, distinta da tutte le altre intenzioni e perciò uno
stato di coscienza assolutamente distinto; e tuttavia,
quanto di essa consta di immagini sensorie definite, op­
pure di parole o di cose ? Quasi niente!... Eppure che
cosa possiamo dire su di essa senza usare parole che
appartengono ai fatti mentali successivi che vengono a
sostituirla ? L'intenzione di dire così e così è il solo nome
che le si possa dare. Si può ammettere che un buon terzo
della nostra vita psichica consiste in rapide premonitorie
visioni in prospettiva di schemi di pensiero non ancora
articolato •> ( 1 2).

Ma è venuto il momento in cui questi semi intenzionali


comincino a crescere in germogli, che si diramano in se­
zioni, sottosezioni e così via: la scelta della prova da ci­
tare, delle illustrazioni, dei commenti e aneddoti, ognuno
dei quali necessita di ulteriori scelte strategiche. Ad ogni
nodo - punto di diramazione - dell'albero che sta cre­
scendo, vengono ad aggiungersi altri particolari, finché
si raggiunge il livello sintattico, entra in azione la mac­
china genera-frasi, le singole parole vengono allineandosi,
alcune senza sforzo, altre dopo una ricerca faticosa, e
si trasformano finalmente in schemi di contrazioni di
muscoli delle dita che guidano una penna. Il logos si è
incarnato.
Ma naturalmente il processo non è mai così netto e
ordinato; gli alberi non crescono in questo modo rigida­
mente simmetrico. Nel nostro rendiconto schematizzato,
la scelta delle parole effettive si verifica soltanto a stadi
avanzati del processo, dopo che è stata presa una deci­
sione sul piano generale, e sull'ordinamento del mate­
riale e quando le gemme dell'albero sono pronte a scop­
piare nel loro esatto ordine da sinistra a destra. In realtà

63
però un solo ramo, in qualche parte verso la metà, può
fiorire in parole, mentre gli altri hanno appena cominciato
a crescere. E mentre è vero che l'idea o << intenzione di
dire una cosa >> precede il processo effettivo di verbalizza­
zione, è anche vero che le idee sono spesso << aerei nulla >> 1
finché non si cristallizzano in concetti verbali e acquistano
forma tangibile. Qui naturalmente sta l'incomparabile su­
periorità del linguaggio sopra altre forme più primitive
di attività mentale; ma questo non giustifica la fallacia
di identificare il linguaggio col pensiero e di negare im­
portanza alle immagini e ai simboli non verbali, special­
mente nel pensiero creativo degli artisti e degli scien­
ziati (cap. XIII) . Così il nostro conferenziere qualche
volta sa quel che vuol dire, ma non riesce a formularlo;
mentre altre volte può trovare quello che esattamente
egli intende solo per mezzo di esplicite e precise formula­
zioni verbali. Quando Alice nel Paese delle Meraviglie
viene esortata a pensare con cura prima di parlare, essa
spiega: << Come posso sapere quello che penso finché non
ho veduto quello che dico? >>. Spesso qualche promettente
intuizione viene bruciata in boccio esponendola prematu­
ramente al bagno acido delle definizioni verbali; altre in­
vece non si sviluppano mai senza questa esposizione ver­
bale.
Così abbiamo da emendare il nostro schema troppo
semplificato: invece dell'albero che cresce simmetrica­
mente con rami che progrediscono costantemente in giù,
abbiamo una crescita irregolare e costanti oscillazioni
fra livello e livello. Trasformare il pensiero in linguaggio
non è un processo a una sola via; la linfa fluisce in en­
trambe le direzioni, in su e in giù, lungo i rami dell'al­
bero. L'operazione è ulteriormente complicata e talora

l . Allusione a SHAKESPEARE, Sogno di una notte di mezz'estate,


V, r già citato a pag. 55 (n.d.t. ) .

64
portata al limite di rottura dalla deplorevole tendenza
del nostro conferenziere a correggere, cancellare, tagliare
interi rami fioriti, e nel farli ricrescere da capo. Il beha­
viourista questo lo chiama un comportamento prova-ed­
errore o per tentativi, e lo confronta al comportamento
<lei ratti che corrono a caso nei vicoli ciechi di un labi­
rinto; ma la ricerca del mot juste è naturalmente qualunque
cosa, tranne l'andare a caso.
Le cose si farebbero ancora più complicate se il nostro
soggetto fosse un poeta invece di essere uno storico. Se
fosse un poeta dovrebbe servire due padroni: operare
al tempo stesso in due gerarchie che si intrecciano: l'una
governata dal significato e la seconda governata dal
ritmo, dal metro, dall'eufonia. Ma anche se il conferen­
ziere scrive in prosa la sua scelta di parole e frasi è in­
fluenzata dalle esigenze dello stile. Le attività complesse
sono spesso subordinate a più di un ordine gerarchico:
alberi con rami che si intrecciano tra loro, ognuno con­
trollato dalle regole sue proprie e dai suoi criteri di valore:
significato ed eufonia, forma e funzione, melodia e orche­
strazione, e via dicendo.

Ho detto abbastanza per indicare alcuni dei problemi


presentati dal discorso umano. Ora i behaviouristi hanno
anche loro l'abitudine di preparare saggi e persino di
scriver libri, cosicché senza dubbio devono rendersi conto
anch'essi delle difficoltà e complessità del processo. Ma
quando discutono il comportamento verbale, si sforzano
di dimenticarle o di reprimerle. Confinano la discussione
a trivialità imbarazzanti quali: << lo stimolo verbale 'vieni

a pranzo' è usualmente rinforzato dal cibo 1> . Essi dimo­

strano come lo sperimentatore può controllare il compor­


tamento verbale del soggetto << ponendo una matita grande
e di forma non usuale in un posto non usuale chiara­
mente in vista: in tali circostanze è altamente proba-

3 KOESTLER 65
bile che il nostro soggetto dica matita 1> (13) (entrambi
gli esempi vengono da Comportamento verbale di Skinner,
che è una vera miniera di profondità di questo genere) .
Con questi metodi essi possono, come abbiamo visto,
continuare a parlare di atomi S-R che formano catene
che si stendono nel vuoto, senza aver da preoccuparsi
di definire di che consistano gli S e gli R.

SOMMARIO

Ma dove li cercheremo questi atomi di linguaggio:


nel fonema [e] ? nel digramma [en]? nel moderna [men]?
nella parola [mention] ? oppure nella frase [Don't mention
it?] ? Ognuna di queste entità ha due aspetti. È un in­
tero in relazione ai propri costituenti e al tempo stesso
una parte del più grande intero sul livello prossimo della
gerarchia. È al tempo stesso una parte e un intero, un
sub-intero. È una caratteristica di tutti i sistemi gerar­
chici, come vedremo, che essi non siano aggregati di
<< bit 1> elementari ma siano composti di sotto-interi che si
articolano in sotto-sottointeri e così via. Questo è il primo
punto di validità generale da ritenere dalla discussione
che precede. Debbo ora menzionare qualche altra carat­
teristica del linguaggio che ha la stessa validità universale
per i sistemi gerarchici di tutti i tipi.
Il << linguaggio attivo 1> (in confronto al << linguaggio
passivo 1> cioè all'ascolto) consiste nella graduale elabora­
zione, articolazione, concretizzazione di intenzioni gene­
riche originariamente non articolate. Il diramarsi del­
l'albero simbolizza questo processo gerarchico, compiuto
passo dopo passo, di compitare l'idea implicita in termini
espliciti, di convertire le potenzialità di un'idea negli
effettivi disegni di movimento delle corde vocali. Il pro­
cesso è stato comparato allo sviluppo dell'embrione: l'uovo
fecondato contiene tutte le potenzialità dell'individuo fu-

66
luro; queste vengono << compitate >> in successivi stadi di
d ifferenziazione. Potrebbe anche venire assimilato al modo
<·on cui viene eseguito un comando militare: l'ordine ge­
nerale << l'ottava armata avanzerà in direzione di To­
h ru k >>, emanato dal vertice della gerarchia, si concreta,
con sempre più particolari, a ognuno dei livelli inferiori.
I noltre vedremo che l'esercizio di qualsiasi azione spe­
cializzata, sia essa istintiva come la costruzione del nido
da parte degli uccelli, o acquisita come lo è la maggior
parte delle abilità umane, segue lo stesso disegno di pro­
mmciare e compitare un ordine abbozzato in grosso me­
<liante una sequenza gerarchica di passi.
Il punto da notare ora è che ogni passo del procedi­
l nento seguito dal nostro immaginario conferenziere era
governato da regole fisse, che tuttavia lasciano adito a
strategie flessibili guidate da Jeedbacks. Al livello più alto
operano le regole piuttosto esoteriche del discorso acca­
demico; al livello immediatamente inferiore le regole che
presiedono alla produzione di frasi e periodi grammati­
calmente corretti; da ultimo le regole che governano
l 'attività delle corde vocali. Ma ad ogni livello c'è una
varietà di scelte strategiche: dalla scelta e dall'ordinamento
<lel materiale, attraverso alla scelta delle metafore e degli
aggettivi, giù giù fino alla varietà delle possibili intonazioni
delle singole vocali. l

L Una volta di più è interessante notare l'intensa riluttanza de­


gli psicologi accademici - anche di quelli che hanno superato le forme
più crude di teoria S-R - a venire alle prese con la realtà. Così il
prof. G. Miller scrive in un articolo sulla psicolinguistica: <• Via via
che gli psicologi hanno imparato ad apprezzare le complessità del lin­
guaggio, la prospettiva di ridurlo alle leggi del comportamento così
accuratamente studiate negli animali inferiori è diventata sempre
pit't remota. Siamo stati sempre più incalzati verso una posizione che
probabilmente i non psicologi prendono per scontata, cioè che il lin­
guaggio è un comportamento governato da regole, caratterizzato da
enorme flessibilità e libertà di scelta. Per quanto ovvia possa sembrare
q11esta conclusione, essa contiene importanti implicazioni per ogni

67
Quando parliamo di regole fisse e di strategie flessibili
è importante fare un'ulteriore distinzione fra questi due
fattori. Le regole ad ogni livello funzionano più o meno
automaticamente, cioè inconsciamente, o almeno precon­
sciamente, nelle crepuscolari zone della consapevolezza;
laddove le scelte strategiche sono per lo più aiutate dal
vivido raggio della consapevolezza focalizzata. Il mecca­
nismo che canalizza il pensiero inarticolato in canali
grammaticalmente corretti opera occulto alla vista; così
pure il meccanismo che assicura la corretta innervazione
degli organi vocali, nonché il meccanismo che controlla la
logica del ragionamento di senso comune, e i nostri abiti
di pensiero. Quasi non ci preoccupiamo di dare uno sguardo
a questi silenziosi meccanismi, e anche quando cerchiamo
di farlo non siamo in grado di descrivere il loro modo di
lavorare, né di definire le regole incorporate in essi; e
tuttavia queste sono le regole del linguaggio e del pen­
siero a cui obbediamo ciecamente. Se contengono assiomi
nascosti e pregiudizi incorporati, tanto peggio per noi,
ma almeno sappiamo che queste regole che al tempo
stesso disciplinano e distorcono il pensiero sono vinco­
lanti soltanto per l'individuo che le ha acquisite, e sono
soggette a mutazione storica. Ciò non di meno, per quel
che riguarda l'individuo, il suo linguaggio e il suo pen­
siero sono governati da regole, e in tale misura determi­
nati da automatismi sottratti al controllo cosciente. Ma
solo in tale misura. Le regole che governano un gioco
come gli scacchi o il bridge non esauriscono le sue pos­
sibilità ma lasciano al giocatore, praticamente a ogni

teoria scientifica del linguaggio. Se le regole comportano il concetto


di giusto ed errato, esse introducono un aspetto normativo che è sem­
pre stato evitato nelle scienze naturali. . . Ammettere che il linguaggio
segue delle regole sembra escluderlo dal novero dei fenollleni accessi­
bili all'indagine scientifica >) (14). Che strana nozione degli scopi e dei
metodi dell'<< indagine scientifica &!

68
m.ossa, un certo numero di scelte strategiche. Queste
scelte naturalmente sono anche determinate da con­
siderazioni di ordine superiore, ma l'accento va su
<< ordine superiore )). Ogni scelta è << libera )), nel senso che
non è determinata dalle regole del gioco stesso, ma da
un ordine differente di « precetti strategici )) su un livello
più alto della gerarchia; e questi precetti hanno un mar­
gine anche più grande di indeterminazione. Ci troviamo
ancora una volta davanti a un regresso all'infinito, com­
parabile agli innumerevoli tipi di ambiguità del linguaggio,
ciascuna delle quali può venir risolta solo in riferimento
al livello immediatamente superiore della gerarchia aperta.
Questa linea d'argomenti evidentemente conduce al pro­
blema della libertà di scelta che sarà discussa nel capi­
tolo XIV.
Per concludere, mi sia concesso ritornare ancora una
volta al conferenziere behaviourista che dà il via alla
lingua e poi va a dormire. L'ho confrontato con un pia­
nista da bar che suona un motivo popolare. In entrambi
i casi un unico comando, proveniente da un livello più
alto della gerarchia, fa scattare una esecuzione predisposta,
più o meno automatizzata. Il processo può essere assomi­
gliato alla pressione di un bottone del juke-box. Il pia­
nista deve soltanto dire a se medesimo La cucaracha
oppure O sole mio, e lasciare che le sue dita pensino al
resto. Ma anche in questa routint;, non è che stia semplice­
mente srotolando una catena S-R, dove il premere un
tasto del piano agisca come uno stimolo a premere il suc­
cessivo. Perché da esperto pianista di bar è perfettamente
capace, di nuovo, a un semplice comando a grilletto, di
trasportare l'intero pezzo da do maggiore a si bemolle
maggiore, dove i tasti e gli intervalli formano una catena
totalmente differente. La << regola del gioco )) fissa, in questo
caso, è rappresentata dal disegno melodico; la tonalità,

69
il ritmo, il fraseggio, il sincopato, ecc., sono, di nuovo,
oggetto di strategie flessibili.
Il << compitare )) o articolare un comando implicito in
termini espliciti comporta spesso simili operazioni di
pressione del << grilletto l), dove un comando relativamente
semplice, che giunge dal quartier generale, mette in moto
complessi disegni d'azione predisposti. Questi però non
sono rigidi automatismi ma disegni flessibili che offrono
una varietà di scelte alternative. Stringere una mano,
accendere una sigaretta, raccogliere una matita, sono
routine che vengono spesso eseguite in modo perfettamente
inconscio e meccanico, ma anche capaci di variazioni
infinite. Io non avrei che da premere un unico bottone
mentale per continuare a scrivere questa pagina in fran­
cese, o in ungherese, ma questo non significa necessaria­
mente che io debba essere considerato un juke-box.

70
III L'« Olòmero »

Invito il lettore a ricordare che la cosa più


ovvia può essere la più degna d'analisi. Visioni
feconde possono aprirsi quando i fatti comuni
vengono esaminati da un punto di vista nuòvo.
L. L. WHYTE

Il concetto dell'ordine gerarchico occupa un posto


centrale in questo libro, e perché il lettore non abbia a
credere che si tratti di un mio hobby privato desidero
rassicurarlo che questo concetto ha una genealogia lunga
e rispettabile. Al punto che i difensori dell'ortodossia
sono inclini a liquidarlo come << un cappello vecchio 1> e
spesso a negarne la validità. Spero però di dimostrare,
a mano a mano che procediamo, che questo cappello
vecchio, trattato con un po' d'affetto, può produrre dei
conigli vivi.1

LA PARABOLA DEI DUE OROLOGIAI

Lasciatemi cominciare con una parabola. La debbo


al professore H. A. Simon, progettista di computers lo­
gici e di macchine pe1 giocare a scacchi, ma mi son preso
la libertà di portarvi qualche ritocco (2) .

l . Più di trent'anni fa, Needham scriveva: << Quale che possa essere
la natura delle relazioni organizzanti, esse formano il problema cen­
trale della biologia, e la biologia in futuro darà frutti solo se ciò verrà
riconosciuto. La gerarchia delle relazioni, dalla struttura molecolare
dei composti del carbonio fino all'equilibrio delle specie e degli insiemi
ecologici, sarà forse l'idea guida del futuro & (1). Ciò nonostante la
parola « gerarchia & non appare neppure nell'indice della maggior parte
dei testi moderni di psicologia e di biologia.

7l
C'erano una volta due orologiai svizzeri chiamati
Bios e Mekhos che facevano degli orologi molto belli e
costosi. I loro nomi possono suonare un po' strani ma i
loro padri avevano una infarinatura di greco e ama­
vano molto gli indovinelli. Benché i loro orologi fossero
,egualmente richiesti, Bios prosperava mentre Mekhos
ce la faceva appena; alla fine dovette chiudere bot­
tega e farsi assumere da Bios come meccanico. La gente
della città discusse a lungo sulle ragioni di questo e
ognuno aveva una teoria differente, finché emerse la
vera spiegazione che risultò al tempo stesso semplice e
sorprendente.
Gli orologi che essi fabbricavano consistevano ognuno
di circa mille pezzi ma i due rivali avevano usato metodi
diversi per montarli. Mekhos aveva montato i suoi oro­
logi pezz� per pezzo - come si fa un pavimento di mo­
saico con pietruzze colorate. Così ogni volta che era di­
sturbato nel lavoro, e doveva posare un orologio parzial­
mente montato, esso andava in pezzi ed egli doveva ri­
cominciare da capo.
Bios invece aveva ideato un metodo per fabbricare
orologi, costruendo all'inizio dei sub-interi di circa dieci
componenti, ognuno dei quali teneva insieme come un'u­
nità indipendente. Dieci di questi sotto-assiemi potevano
poi essere montati fra loro, formando un sotto-sistema
di ordine superiore; e dieci di questi sotto-sistemi costitui­
vano l'orologio finito. Questo metodo aveva dimostrato
di avere dalla sua due immensi vantaggi.
In primo luogo ogni volta che c'era un'interruzione o
un disturbo, e Bios doveva smettere o anche lasciar ca­
dere l'orologio a cui lavorava, questo non si decompo­
ù.eva nei suoi pezzetti elementari; invece di dover rico­
minciare tutto da capo aveva soltanto da rimontare
quel particolare sotto-assieme cui stava lavorando in
quel momento; cosicché alla peggio (se il disturbo arri-

72
vava quando aveva quasi finito un determinato sotto­
insieme) aveva da ripetere nove operazioni di montaggio
e nel migliore dei casi non ne ripeteva nessuna. Ora,
è facile dimostrare matematicamente che se un orologio
consiste di mille pezzi, e che se interviene qualche di­
sturbo con una media di una su ogni cento operazioni
di montaggio, allora Mekhos ci metterà quattromila
volte più tempo che non Bios per montare un orologio;
invece di un giorno solo questo gli richiederà undici anni
e se per pezzi meccanici noi prendiamo gli aminoacidi,
le molecole proteiche, gli orgànuli cellulari, e così via,
il rapporto fra le scale di tempo diventa astronomico;
alcuni calcoli (3) indicano che l'intera durata del pia�
neta Terra sarebbe insufficiente a produrre anche solo
un'ameba, a meno che si converta al metodo di Bios e
proceda gerarchicamente da semplici sotto-insiemi ad altri
più complessi. Simon conclude: << I sistemi complessi evol­
veranno da sistemi semplici molto più rapidamente se
ci sono forme intermedie stabili, che se non ce ne sono .
Le forme complesse risultanti nel primo caso saranno ge�
rarchiche. Dobbiamo soltanto rovesciare l'argomento per
spiegare la predominanza di gerarchie osservata fra i
complessi sistemi che la natura ci presenta. Fra le possi­
bili forme complesse le gerarchie sono quelle che hanno
il tempo di evolvere )) (4) . Un secondo vantaggio del
metodo Bios è naturalmente che il prodotto finito sarà
incomparabilmente più resistente ai danni, e di manuten::
zione molto più facile, e più agevole da regolare e riparare;
che non l'instabile mosaico di Mekhos fatto di frammenti
atomici. Non sappiamo quali forme di vita siano venute
evolvendo su altri pianeti dell'universo, ma possiamo si..,
curamente presumere che dovunque è vita deve essere ge­
rarchicamente organizzata.

73
GIANO ENTRA IN SCENA

Se consideriamo una forma qualsiasi di organizzazione


sociale che abbia qualche grado di coerenza e di stabilità,
dallo stato degli insetti fino al Pentagono, troveremo che
è ordinato gerarchicamente; lo stesso è vero nel caso
delle strutture degli organismi viventi e del loro modo
di funzionare, dal comportamento istintivo fino a capa­
cità sofisticate come suonare il piano e conversare.
Ed è egualmente vero dei processi del divenire - la
filogenesi, la ontogenesi e l'acquisto della conoscenza.
Tuttavia se con l'albero diramantesi vogliamo rappre­
sentare qualcosa di più di una analogia superficiale, de­
vono esserci certi princìpi o leggi che si applichino a tutti
i . livelli di una gerarchia data e a tutti gli svariati tipi
di gerarchia menzionati or ora, in altre parole che defi­
niscano il significato di << ordine gerarchico •>. Nelle pa­
g ine che seguono delineerò alcuni di questi princìpi.
A prima vista possono apparire un po' astratti; tut­
tavia, presi insieme, gettano nuova luce su alcuni vecchi
problemi.
La prima caratteristica universale delle gerarchie è
la relatività e, senz'altro, l'ambiguità, dei termini << parte •>
e << tutto •>, quando si applicano a qualcuno dei sotto­
insieme.
· E di nuovo è la stessa ovvietà di questa caratteristica
che ci induce a trascurare le sue implicazioni.
Una << parte •>, come usiamo generalmente intenderla,
significa qualcosa di frammentario e di incompleto, che
da sé non avrebbe esistenza legittima. D'altra parte un
<< intero •>, una << totalità •>, è considerato come qualcosa di
completo in se medesimo e che non abbia bisogno di ul­
teriore spiegazione.
Ma le << totalità •> e le << parti •>. in questo senso assoluto,
semplicemente non esistono in alcun luogo, sia nel campo

74
degli organismi viventi che in quello delle organizzazioni
sociali.
Ciò che troviamo sono strutture intermedie, su una
serie di livelli in ordine ascendente di complessità: sotto­
interi che mostrano, secondo il modo con cui li si guarda,
alcune delle caratteristiche comunemente attribuite ai
(c tutti 1> e alcune delle caratteristiche comunemente at­
tribuite alle (c parti 1>. Abbiamo visto l'impossibilità del
compito di suddividere il linguaggio in atomi od unità
elementari, sia a livello fonetico che sintattico. I fonemi,
le parole, le frasi sono degli interi de proprio iure ma anche
parti di una unità più grande: cosi pure avviene per le
cellule, i tessuti, gli organi; le famiglie, i clan, le tribù,
I membri di una gerarchia, come il dio romano Giano,
hanno due facce che guardano in direzione opposta: la
faccia rivolta verso i livelli subordinati è quella di un
tutto autosufficiente; la faccia rivolta all'insù, verso la
cima, è quella di una parte dipendente. Una è la faccia
del padrone, l'altra è la faccia del servo. Questo <c effetto
Giano l> è una caratteristica fondamentale dei sotto-in­
teri in tutti i tipi di gerarchie.
Non c'è una parola soddisfacente per riferirsi a queste
entità bifronti come Giano: parlare di sotto-interi (o sot­
to-insiemi, sotto-strutture, sub-facoltà, sub-sistemi) è goffo
e tedioso.
Sembra preferibile coniare una parola nuova per de­
signare questi nodi dell'albero gerarchico che si com­
portano in parte come interi o interamente come parti, a
seconda del modo con cui li si guarda. Il termine che vor­
rei proporre è olòmero dal greco holos, intero, meros, parte.1

l . Koestler propone i l termine holon, unendo al tema d i holos


il suffisso -on, che, come in prolone e neulrone, suggerisce l'idea di par­
ticella o parte. Dato che in italiano -one è anche un suffisso accresci­
tivo, per evitare equivoci nella traduzione si è ricorso a olòmero, co­
struito come è detto nel testo (n.d.t.).

75
<< Un uomo - scrisse Ben Johnson - non conia una
parola nuova senza rischio; perché se capita che venga
accolta, la lode non è che moderata; se rifiutata, è assi­
curato lo scorno >> . Pure io penso che per l'olòmero vale
la pena di rischiare perché satura una necessità genuina.
Esso simboleggia pure il legame mancante - o piuttosto
le serie di legami - fra l'approccio atomistico del beha­
viourista e l'approccio olistico, integralista, dello psicologo
gestaltico.
La scuola della Gestalt ha arricchito considerevol­
mente la nostra conoscenza della percezione visiva ed è
riuscita, sino ad un certo punto, ad ammorbidire il ri­
gido atteggiamento dei suoi avversari. Ma a dispetto
dei suoi meriti duraturi, lo << olismo >> come atteggiamento
generale nei riguardi della psicologia risultò unilaterale
quanto l'atomismo, perché l'uno e l'altro trattavano
l'<< intero >> e la << parte >> come degli assoluti, ed entrambi
mancavano di tener conto della impalcatura gerarchica
delle strutture intermedie dei sotto-interi. Se sostituiamo
per un momento l'immagine dell'albero rovesciato con
quella di una piramide, potremmo dire che il behaviourista
non sale mai più in alto dello strato di pietre che si trova
alla base, e l'oli sta non scende mai giù dalla cima. In
effetti, il concetto di << tutto >> si dimostrò altrettanto elu­
sivo di quello di parte elementare, e quando discute il
linguaggio, il gestaltista si ritrova nello stesso imbarazzo
del behaviourista. Per citare James Jenkins ancora una
volta: << V'è un'infinita serie di frasi, in inglese, la cui
produzione e comprensione è parte del quotidiano com­
mercio col linguaggio, ed è chiaro che né l'approccio S-R
né quello gestaltico è capace di venire a capo dei pro­
bl.emi posti dalla generazione e dalla comprensione di
tali frasi . . . Non possiamo considerare una frase un'unità
olistica non analizzabile, come sostengono i gestaltisti.
Uno non può supporre che la frase venga considerata

76
come una unità di percezione i cui elementi essa ha fuso
assieme in un qualche schema unitario, come è usuale
nell'analisi gestaltica dei fenomeni percettivi >> (5) .
E neppure troviamo degli interi su livelli inferiori alla
proposizione: frasi, parole, sillabe e fonemi non sono
parti e neanche interi ma olòmeri!
Il paradigma binario parte-tutto è profondamente ra­
dicato nei nostri abiti inconsci di pensiero. Sarà ben
diverso per la nostra comprensione mentale quando sa­
remo riusciti a romperla con questo paradigma.

GLI OLÒ MERI SOCIALI

Nel capitolo II ho discusso la struttura gerarchica


del linguaggio; consideriamo ora brevemente un tipo di­
versissimo di gerarchia: l'organizzazione sociale.
L'individuo, in quanto organismo biologico, costituisce
una gerarchia brillantemente integrata di molecole, cel­
lule, organi e sistemi. Guardando entro lo spazio rac­
chiuso nei confini della sua pelle, può giustamente affer­
mare di essere qualche cosa di completo e di unico, un
tutto. Ma rivolgendosi fuori è costantemente - talvolta
in modo piacevole, talvolta doloroso - ammonito di es­
sere una parte, un'unità elementare in una o diverse ge­
rarchie sociali. La ragione per cui una società relativa­
mente stabile - sia essa di animali o di uomini - deve
essere strutturata gerarchicamente, può essere di nuovo
illustrata dalla parabola degli orologiai: senza sotto-in­
siemi stabili - i raggruppamenti e i sotto-raggruppamenti
sociali - l'intero non starebbe, semplicemente, insieme.
In una gerarchia militare gli olòmeri sono compagnie,
battaglioni, reggimenti, ecc. e i rami dell'albero stanno
per le linee di comunicazione e di comando. Il numero di
livelli che comprende una gerarchia (in questo caso dal
generale in capo al singolo soldato) determina se sia

77
<< rada >> o << densa >>; e il numero degli olòmeri a ogni li­
vello dato lo chlameremo (con Simon) il suo span.
Un'orda primitiva è una gerarchia molto rada, con
forse due o tre livelli (capotribù e vice-capotribù) e un
grande span in ognuno. Al contrario alcuni eserciti latino­
americani del passato si dice che abbiano contato un
generale per ogni soldato semplice - il che sarebbe il
caso limite di una gerarchia che si trasforma in una
scala (p. 43). L'efficace funzionamento di una gerarchia
complessa deve ovviamente dipendere, fra l'altro, dal­
l'adatto rapporto numerico della densità con lo span,
qualcosa di analogo alla sezione aurea dello scultore greco,
o piuttosto alla teoria gerarchica del << modulor >> di Le
Corbusier.
Una società senza strutturazioni gerarchiche sarebbe
caotica, non meno dei moti fortuiti delle molecole di un
gas che fuggono, che collidono e rimbalzano in tutte le
direzioni. Ma la strutturazione è oscurata dal fatto che
nessuna società umana evoluta - neppure lo Stato to­
talitario - è una struttura monolitica il cui disegno
esprima un'unica gerarchia.
Questo può essere il caso di alcune società tribali
<< non guastate >>, dove le esigenze della gerarchia fami­
glia-parentado-clan-tribù controlla completamente l'esi­
stenza dell'individuo. La Chiesa medioevale e le nazioni
totalitarie moderne hanno cercato di stabilire gerarchie
monolitiche egualmente efficienti, però con successo li­
mitato. Le società complesse sono strutturate da diversi
tipi di gerarchie intrecciate tra loro, e il controllo da parte
delle autorità superiori è solo di una di esse.
Chiamerò queste gerarchle che delegano autorità << ge­
rarchie di controllo >>. Esempi ovvi sono le amministra­
zioni governative, le gerarchie militari-ecclesiastiche-ac­
cademiche-professionali e industriali. Il controllo può es­
sere rivestito da individui o da istituzioni, << alti papa-

78
veri l) o anonimi ministeri delle Finanze; può essere ri­
gido od elastico; può essere guidato in misura maggiore
o minore dal feedback o controreazione da parte degli
scaglioni inferiori (l'elettorato, il personale, il corpo degli
studenti) ; ma ogni gerarchia deve, nondimeno, possedere
una struttura ad albero ben articolata, senza di che sor­
gerebbe l'anarchia, come avviene quando qualche moto
sociale vibra l'ascia sul tronco dell'albero.
Accoppiate a queste gerarchie di controllo ce ne sono
altre basate sulla coesione sociale, la distribuzione geo­
grafica, ecc. Ci sono le gerarclùe famiglia-clan-subcasta­
casta e le loro versioni moderne. Intrecciate ad esse vi
sono le gerarchie basate sul vicinato geografico. Vecchie
città come Parigi, Vienna o Londra, hanno i loro quar­
tieri, ognuno relativamente autosufficiente con le sue
botteghe locali, i caffè familiari, i pub, lattai e spazzini.
Ognuna è una specie di villaggio locale, un olòmero so­
ciale che, di nuovo, è parte di una divisione più ampia:
Riva Sinistra e Riva Destra, City e West-end, centro dei
divertimenti e centro storico, parchi, sobborghi. Le vecchie
città, nonostante la loro diversità architettonica, sembra
siano cresciute come organismi e possiedono una loro vita
personale. Le città invece sorte come funghi, troppo in
fretta, hanno un carattere deprimentemente amorfo, per­
ché mancano della struttura gerarchica dello sviluppo
organico; sembrano costruite non da Bios ma da Mekhos.
Così il complesso tessuto della vita sociale può essere
anatomizzato in una varietà di impalcature gerarchiche,
come gli anatomisti fanno la dissezione dei muscoli, dei
nervi e delle altre strutture correlate, evidenziandole
nel polposo pasticcio. Senza questo attributo di anato­
mizzabt'lità 1 il concetto di gerarchia avrebbe un certo

l . Il Simon (op. cit.) parla di gerarchie <• decomponibili •l, ma sembra


preferibile « dissezionabilità •l o « anatomizzabilità •l.

79
grado di arbitrarietà. Siamo giustificati parlando di al­
beri solo se siamo in grado di identificarne nodi e rami.
Nel caso di un ministero o di un'impresa industriale, la
dissezione è facile: l'organigramma gerarchico a for ma
d'albero può essere effettivamente appeso alla parete
dell'ufficio. Il diagramma più semplice (senza connessioni
trasversali) avrà più o meno un'aria del genere:

Fig. 3

Se questo rappresenta un dicastero governativo come


il Ministero degli Interni, ogni olòmero - ogni casella
della seconda fila - rappresenterà un suo ramo: immi­
grazione-Scotland Yard-commissione penitenziaria, ecc. , e
ogni casella della terza fila un sottodipartimento, ecc.
Ora, quali sono i criteri che giustificano la dissezione del
Ministero degli Interni in questo modo e non in un altro ?
Oppure, per dirla diversamente: come ha fatto, chi ha
disegnato la carta, a definire i suoi olòmeri ? Può darsi
che gli abbiano mostrato una pianta della città con se­
gnati gli edifici del Ministero degli Interni e planimetrie

80
ài ogni edificio; ma questo non basterebbe, e talora lo
fuorvierebbe, perché alcuni dipartimenti possono essere
alloggiati in diversi edifici in parti differenti della città,
e invece altri dipartimenti possono dividere lo stesso fab­
bricato. Quel che definisce ogni casella come un'entità
è la funzione o compito che gli viene assegnato, la na­
tura del lavoro svolto dalla gente di ogni dipartimento.
C'è naturalmente, in ogni gerarchia efficiente, una ten­
denza a mettere la gente che lavora allo stesso compito
nella stessa stanza o edificio, e fin qui la distribuzione
spaziale rientra nel quadro, ma solo in questa misura. I
fattorini e i telefoni colmano le distanze tra scrivanie
funzionalmente collegate, come i nervi e gli ormoni fanno
nelle gerarchie di controllo dell'organismo vivente.
Non è soltanto la coesione all'interno di ogni olòmero
ma anche la separazione fra diversi olòmeri a dare pre­
cisione al grafico. Le persone che lavorano all'interno di
un dato dipartimento hanno rapporti fra di loro molto
più numerosi che con la gente di altri dipartimenti. Inoltre
quando un dipartimento chiede informazione o azione
a un altro dipartimento, questo viene fatto di regola
non già con un contatto diretto da persona a persona,
ma attraverso canali ufficiali che coinvolgono i capi di
ogni dipartimento. In altre parole, le linee di controllo
corrono lungo i rami dell'albero in su e in gm; non ci
sono scorciatoie orizzontali in una gerarchia di controllo
ideale.
In altri tipi di gerarchie gli olòmeri non possono es­
sere altrettanto facilmente definiti dalla loro funzione o
compito. Non possiamo definire la << funzione )) di una
famiglia, di un clan o di una tribù. Ciononostante, come
nell'esempio che precede, i membri d'ognuno di questi
olòmeri funzionano insieme, aderiscono, interagiscono molto
di più fra loro che con i membri di altri olòmeri. E se

81
un dato affare va trattato fra due clan o tribù, ciò avviene,
di nuovo, per mezzo dei capi o degli anziani. l Questi le­
gami di coesione e questi confini di separazione sono en­
trambi il risultato di tradizioni condivise, come le leggi
matrimoniali e i risultanti codici di comportamento. Nel
loro insieme formano un disegno di comportamento regolato.
Questo disegno è ciò che dà al gruppo stabilità e coe­
sione e lo definisce come un olòmero sociale con un'in­
dividualità sua propria.
Dobbiamo distinguere tuttavia fra le regole che go­
vernano la condotta individuale e quelle che guidano le
attività del gruppo preso nel suo insieme. L'individuo
può anche essere inconsapevole del fatto che la sua con­
dotta è governata da regole, e non essere in grado di ci­
tare le regole che guidano la sua condotta più di quanto
non sia in grado di nominare quelle che guidano il suo
linguaggio. Le attività dell'olòmero sociale, d'altra parte,
dipendono non solo dalle complesse interaziontl, tra le
sue parti, ma anche dalla sua interazione con altri olòmeri,
sopra il suo più alto livello gerarchico; e queste non pos­
sono essere inferite dal livello inferiore, più di quanto
la funzione del sistema nervoso possa essere inferita dal
livello delle singole cellule nervose, oppure le regole della
sintassi possano essere inferite dalle regole della fonologia.
Possiamo anatomizzare un << intero •> complesso nei suoi
compositi olòmeri di secondo e terzo ordine, e così via,

l . Una volta che questi legami di coesione cominciano a indebo­


lirsi e i confini di separazione a confondersi, la gerarchia tribale va
in decadenza. Le province indiane di frontiera sono una triste illu­
strazione delle conseguenze di una politica precipitosa di << de-tribaliz­
zazione � senza corrispettiva offerta di una struttura di valori sostitu­
tiva. Mutatis mutandis, l'instabilità emozionale della società occiden­
tale e particolarmente dei suoi giovani, è manifestamente conseguenza
del crollo delle strutture gerarchiche tradizionali senza ancora un'alter­
nativa in vista. Ma la discussione della patologia sociale va rinviata
alla parte III del presente libro.

82
ma non possiamo << ridurlo l) a una somma delle sue parti,
né predire le sue proprietà dalle proprietà delle sue parti.
Il concetto gerarchico dei << livelli d'organizzazione l) in
sé implica un rifiuto della opinione del riduzionista, se­
condo cui tutti i fenomeni della vita (coscienza inclusa)
p::lssono essere ridotti a leggi fisiochimiche e da esse spie­
gati.
Così un olòmero sociale stabile ha un'individualità
o << profilo l), sia che si tratti di una tribù papuasica
o di un Ministero delle Finanze. Ogni corpo sociale
compatto che condivide un territorio comune efo un co­
dice di leggi esplicite ed implicite, di costumi e di cre­
denze, tende a preservare e asserire il suo proprio disegno,
oppure non potrebbe qualificarsi come un olòmero sta­
bile. In una società primitiva la tribù potrebbe essere
l'unità più alta della gerarchia rada, un tutto più o meno
autocontenuto. Ma in una società complessa con le sue
gerarchie a molti livelli è egualmente essenziale che ogni
olòmero - dipartimento amministrativo, governo locale
o corpo di pompieri - operi come un'unità autonoma
autocontenuta; senza divisione del lavoro e delega di
potere, in armonia con lo schema gerarchico, nessuna
società può funzionare in modo efficace.
Ritorniamo per un momento al nostro esempio del Mi­
nistero degli Interni e prendiamo la casella del diparti­
mento dell'Immigrazione. Al fine di operare come unità
poggiante su se medesima, il dipartimento deve essere
attrezzato con una serie di istruzioni e regolamenti che
lo mettano in grado di assorbire nel suo seno le contingenze
usuali senza dover consultare l'autorità superiore in ogni
singolo caso. In altre parole, ciò che mette in grado il
dipartimento di funzionare in questo modo efficace come
olòmero autonomo, è ancora una volta una serie di regole
fisse, il suo canone. Ma anche qui ci saranno casi in cui
le regole possono venire interpretate in diversi modi, e

83
così lasciare adito a più di una decisione. Qualunque
sia la natura di una organizzazione gerarchica, i suoi
olòmeri costitutivi vengono definiti da regole fisse e da
strategie flessibili.
Nel presente esempio, inoltre, è ovvio che i codici
individuali che guidano la condotta della gente che la­
vora nel dipartimento non coincidono né si identificano con
le regole che determinano le azioni del dipartimento stesso.
Il signor Smith può aver voglia di concedere un visto
ad un richiedente per ragioni di compassione ma il regola­
mento dice altrimenti. E troviamo un parallelo ulteriore
a esempi precedenti (p. 68) . Quando le regole permettono
più di una linea d'azione, l'argomento deve essere sotto­
posto al capo-dipartimento, il quale potrebbe considerare
opportuno fare appello ad una decisione da parte di
un livello superiore della gerarchia. E qui, di nuovo,
considerazioni strategiche d'ordine più alto possono sor­
gere, come la disponibilità d'appartamenti, il problema
negro, la situazione sindacale. Può esserci persino conflitto
tra la politica del Ministero degli Interni e quella del Mini­
stero dell'Economia. Ancora una volta stiamo movendo
su una serie regressiva (benché in questo caso, natural­
mente, non si tratti di regresso all'infinito) .
Per ripetere: è essenziale per la stabilità e l'efficace
funzionamento del corpo sociale che ognuno delle sue
suddivisioni operi come un'unità autonoma poggiante su
se medesima benché soggetta al controllo dall'alto, che
abbia un certo grado di indipendenza e amministri i
casi correnti senza chiedere istruzioni all'autorità supe­
riore. Altrimenti i canali di comunicazione diverrebbero
sovraccarichi, l'intero sistema resterebbe imbottigliato,
gli scaglioni più alti sarebbero sommersi da minuti
particolari e impediti di concentrarsi su fattori più
importanti.

84
LA POLARIT.\ FONDAMENTALE

Tuttavia le regole o codici che regolano un olòmero


sociale agiscono non soltanto come costrizioni negative
imposte alla sua azione, ma anche come precetti positivi,
massime di condotta o imperativi morali. Di éonseguenza
ogni olòmero tenderà a persistere e confermare il suo
particolare disegno d'attività. Questa tendenza autoasser­
tiva è una caratteristica fondamentale e universale degli
olòmeri, che si manifesta ad ogni livello della gerarchia
sociale (e come vedremo in ogni altro tipo di gerarchia) .
Al livello dell'individuo un certo ammontare di auto­
affermazione - ambizione iniziativa emulazione - è
indispensabile in una società dinamica. Al tempo stesso
naturalmente egli dipende da, e deve integrarsi nella,
sua tribù o gruppo sociale. Se è una persona ben adat­
tata la tendenza autossertiva e il suo opposto, la tendenza
integrativa, sono più o meno in equilibrio; egli vive, finché
le cose sono normali, in una specie di equilibrio dinamico
con il suo ambiente sociale. In condizioni di pressione,
tuttavia, l'equilibrio viene sconvolto portando a un com­
portamento emozionalmente disordinato.
L'uomo non è un'isola, è un olòmero. Una entità
bifronte come Giano, che guardando all'interno si vede
come un unico << intero )) autocontenuto, e guardando
in fuori come una << parte )) subordinata. La sua tendenza
autoassertiva è la manifestazione dinamica della sua unica
interezza, della sua autonomia e indipendenza come olò­
mero. Il suo egualmente universale antagonista, la tendenza
integrativa, esprime la sua dipendenza dall'intero più
grande a cui appartiene, la sua partità. La polarità di
queste due tendenze o potenziali è uno dei leit-motiv della
presente teoria. Empiricamente può essere rintracciata
in ogni fenomeno della vita; teoricamente è derivata
dalla dicotomia parte-intero inerente al concetto della

85
gerarchia a molti strati; le sue implicazioni filosofiche
saranno discusse nei capitoli seguenti. Per il momento
mi sia concesso ripetere che la tendenza autoassertiva è
l'espressione dinamica della interezza dell' olòmero, la ten­
denza integrativa l'espressione dinamica della sua <l par­
tità )). 1
Le manifestazioni delle due tendenze a diversi livelli
vanno sotto nomi differenti, ma sono espressioni della
stessa polarità che corre attraverso l'intera serie. Le
tendenze auto-assertive dell'individuo sono note come
<l rude individualismo )), spirito di competizione, ecc.; quan­
do veniamo agli olòmeri più grandi parliamo di mentalita
di clan, di spirito di cricca, di coscienza di classe, di spi­
rito di corpo, di campanilismo, nazionalismo, ecc. Le
tendenze integrative, d'altra parte, si manifestano nella
cooperatività, nella condotta disciplinata, nella lealtà,
nell'abnegazione, nell'annullamento di sé per la causa,
nella devozione al dovere, nell'internazionalismo, e
così via.
Si noti tuttavia che la maggior parte dei termini che
si riferiscono ai livelli superiori della gerarchia sono am­
bigui. La lealtà degli individui verso il proprio clan ri­
flette le loro tendenze integrative; ma permette al clan,
inteso come un tutto, di comportarsi in modo aggressivo,
autoassertivo. L'obbedienza e devozione al dovere dei
membri delle SS naziste mantenne in funzione le camere
a gas. Il patriottismo è la virtù di subordinare gli interessi
privati ai più alti interessi della nazione; nazionalismo
è un sinonimo per l'espressione militante di questi supe­
riori interessi. L'infernale dialettica di questo processo
si riflette nell'intera storia dell'umanità. Ciò non è ac­
cidentale: la disposizione verso simili aberrazioni è ine-

l . ·In The Acl of Creation ho parlato di tendenze auto-assertive e


l< partecipati ve >>; ma (< integrative >> appare termine più appropriato.

86
rente alla polarizzazione parte-tutto delle gerarchie so­
ciali. Può essere questa la ragione inconscia per cui i
Romani diedero al dio Giano un posto così preminente
nel loro Pantheon, in quanto custode delle porte, che
guarda sia verso dentro che verso fuori, tanto da dare
il suo nome al primo mese dell' anno. Ma sarebbe prema­
turo entrare adesso in un argomento, che formerà una
delle nostre preoccupazioni principali nella parte III di
questo volume.
Per il momento dobbiamo solo esaminare il funzio­
namento normale e ordinato della gerarchia, dove ogni
olòmero opera in accordo con i suoi codici di regole, senza
tentare di imporlo ad altri né di perdere la propria indi­
vidualità attraverso una subordinazione eccessiva. È solo
in tempi di emergenza che un olòmero può tendere a
sottrarsi al controllo e la sua normale autoassertività si
cambia in aggressività, sia che l'olòmero sia un indi­
viduo, una classe sociale o un'intera nazione. Il processo
inverso ha luogo quando la dipendenza di un olòmero
dai suoi controlli superiori è tanto forte da fargli per­
dere l'identità.
I lettori versati in psicologia contemporanea avranno
afferrato, anche da questo incompleto schizzo preliminare,
che nella teoria qui proposta non c'è posto per una cosa
come l'istinto distruttivo; e che essa non ammette neppure
la reificazione dell'istinto sessuale come l'unica forza
integrativa della società umana o animale. L'Eros e il
Thanatos di Freud sono arrivati abbastanza tardi sulla
scena dell'evoluzione: miriadi di creature che si molti­
plicano per fissione (o gemmazione) ignorano e l'uno e
l'altro.1 A nostro modo di vedere, Eros è un rampollo
dell'integrativo, distruttivo Thanatos della tendenza au-

l. Per una discussione della metapsicologia freudiana, vedi Insight


and Outlook, capp. XV e XVI.

87
toassertiva, e Giano il pnmtgenio antenato d'ambedue,
il simbolo della dicotomia fra partità e interità che è
inseparabile dalle gerarchie aperte della vita.

SOMMARIO

Gli organismi e le società sono gerarchie a molti li­


velli di sub-totalità semiautonome che si diramano in
sub-totalità di livello inferiore e così via. Il termine olò­
mero è stato introdotto per riferirsi a queste entità in­
termedie che, in relazione ai loro subordinati in gerarchia,
funzionano come totalità autocontenute; in relazione ai
loro super-ordinati come parti dipendenti. Questa dico­
tomia di <c interità l> e <c partità l>, di autonomia e dipen­
denza, è inerente al conce! to di ordine gerarchico e viene
chiamata qui <c principio Giano l). La sua espressione di­
namica è la polarità delle tendenze autoassertiva e inte­
grativa.
Le gerarchie sono anatomizzabili e scindibili nei loro
rami su cui gli olòmeri formano i nodi. Il numero di li­
velli che una gerarchia comprende è chiamato la sua
densità, e il numero di olòmeri su ogni livello dato, il suo
span.
Gli olòmeri sono governati da regole prefissate e spie­
gano strategie più o meno flessibili. Le regole di con­
dotta di un olòmero sociale non sono riducibili alle re­
gole di condotta dei suoi membri.
Il lettore può trovare utile consultare di tempo in
tempo l'appendice I che ricapitola le caratteristiche ge­
nerali dei sistemi gerarchici quali sono proposte in questo
e nei seguenti capitoli.

88
IV Individui e dividui

Devo ancora vederlo, un problema per quanto


complicato, che, quando lo guardi dalla parte
giusta, non diventi ancora più complicato.
POUL ANDERSON

NOTA SUI GRAFICI

Prima di passare dalla organizzazione sociale agli


organismi biologici, devo fare qualche breve osservazione
sui vari tipi di gerarchie e sulla loro rappresentazione
grafica.
Ci sono stati diversi tentativi di classificare le gerarchie
in categorie, e nessuno ha avuto completo successo, perché
inevitabilmente le categorie si sovrappongono le une alle
altre. Cosl. uno può all'ingrosso distinguere fra gerarchie
<l strutturali l), che sottolineano l'aspetto spaziale (ana­
tomia, topologia) di un sistema, e gerarchie <l funzionali l),
che sottolineano il procedere nel tempo. Evidentemente
struttura e funzione non possono venire separate, e rap­
presentano aspetti complementari di un processo spazio­
temporale indivisibile; ma è spesso conveniente concen­
trare l'attenzione su l'uno o sull'altro aspetto. Tutte le
gerarchie hanno un carattere di <l parte dentro una parte l),
ma questo è più facile riconoscerlo nelle gerarchie strut­
turali che in quelle funzionali, quali le abilità del linguaggio
e della musica, che intessono disegni dentro a disegni
nel tempo.
Nel tipo di gerarchia amministrativa che abbiamo
discusso testé, il grafico ad albero simbolizza sia la strut­
tura che la funzione: i rami sono linee di comunicazione
e di controllo, i nodi o caselle rappresentano ognuno

89
un gruppo di persone fisiche (il capo-servizio, i suoi assi­
stenti e segretarie) . Ma se noi facciamo un tracciato si­
mile per un corpo militare, l'albero rappresenterà sol­
tanto l'aspetto funzionale, perché in senso stretto le ca­
selle di ciascun livello - sia che portino l'etichetta << bat-
taglione >> oppure << compagnia >> - conterranno soltanto

Fig. 4

ufficiali effettivi e di complemento; il posto degli altri


gradi che formano il grosso del battaglione o della com­
pagnia è nella fila bassa del grafico. Ai nostri fini questo
non ha molta importanza, in quanto ciò che ci interessa
è il modo con cui funziona il meccanismo, e l'albero mo-

90
stra esattamente proprio questo, cioè che sono gli uffi­
ciali a determinare le azioni dell'olòmero, in quanto de­
positari delle sue regole prefissate e autori della strategia.
Ma la gente, incline a pensare per immagini concrete
piuttosto che su schemi astratti, trova spesso che tutto
questo è piuttosto confuso. Se però volevamo sottoli­
neare l'aspetto strutturale di un esercito, avremmo po­
tuto disegnare un grafico come quello della fig. 4, che mo­
stra come i plotoni sono incapsulati in compagnie, le
compagnie in battaglioni, ecc. Ma simili grafici struttu­
rali sono piuttosto goffi e contengono meno informazioni
che non l'albero diramato.
Alcuni autori pongono le gerarchie simboliche (linguag­
gio, musica, matematica) in una categoria separata; ma esse
pntrebbero egualmente essere classificate << gerarchie fun­
zionali )), dato che sono il prodotto di operazioni umane.
Un libro consiste di capitoli, consistenti di paragrafi,
consistenti a loro volta di periodi, ecc., e una sinfonia
può essere egualmente anatomizzata in parti incluse in
parti. La struttura gerarchica del prodotto riflette la na­
tura gerarchica delle abilità e d elle sub-abilità che l'hanno
posta in essere.
In modo simile tutte le gerarchie classificatorie, a meno
che non siano puramente descrittive, riflettono i processi
con cui sono venute a sussistere. Così la classificazione
specie-genere-famiglia-ordine-classe-phylum del regno ani­
male ha l'intento di riflettere le relazioni nella discen­
denza evolutiva, e qui il grafico a forma d'albero rappre­
senta l'archetipo << albero della vita )). Similmente l'in­
dice per argomenti, suddiviso gerarchicamente, dei cata­
loghi delle biblioteche riflette l'ordinamento gerarchico
del sapere.
Da ultimo, filogenesi e ontogenesi sono gerarchie di
sviluppo, in cui l'albero si dirama lungo l'asse del tempo:
differenti livelli rappresentano diversi stadi di sviluppo

91
e gli olòmeri - come vedremo - riflettono le strutture
intermedie a tali stadi.
Può essere utile ripetere a questo punto che la ri­
cerca di proprietà o leggi che hanno in comune tutte
queste svariate specie di gerarchie, è qualcosa di più di
un gioco su analogie superficiali. Potrebbe essere chiamato
piuttosto un esercizio di {< teoria generale dei sistemi )),
un ramo relativamente recente della scienza, il cui scopo
è costruire modelli teoretici e << leggi logicamente omo­
loghe )) (von Bertalanffy) che siano universalmente appli­
cabili ai sistemi inorganici, biologici e sociali di qualsiasi
tipo.

SISTEMI INORGANICI

Quando scendiamo nella gerarchia che costituisce l'orga­


nismo vivente, dagli organi ai tessuti alle cellule agli
orgànuli alle macromolecole e così via, non arriviamo
mai a toccare la roccia di base, non troviamo mai in
nessun posto quei costituenti ultimi che l'antica conce­
zione meccanicistica 1 della vita ci porterebbe ad aspettarci.
La gerarchia è aperta alle estremità, sia nel senso della di­
scesa che in quello della salita. L'atomo stesso, benché il
suo nome derivi dalla voce greca per << indivisibile )), è
diventato un olòmero molto complesso, bifronte come
Giano. Verso l'esterno esso si associa ad altri atomi come
se fosse un unico insieme unitario; e la regolarità dei
pesi atomici degli elementi, che si avvicinano molto a nu­
meri interi, sembravano confermare la fede in questa
indivisibilità. Ma da quando abbiamo imparato a guar­
dare nel suo interno, abbiamo potuto osservare le intera­
zioni, governate da regole, che esistono fra il nucleo e

l . Per tutto questo libro, il termine � meccanicistico » viene usato


in senso generale, e non nel senso tecnico di alternativa alle teorie
<• vitalistiche ,, in biologia.

92
il guscio esterno di elettroni e di una quantità di parti­
celle all'interno del nucleo. Le regole possono venire
espresse in serie di equazioni matematiche che definiscono
ogni particolare tipo di atomo come un olòmero; ma anche
qui le regole che governano le interazioni delle particelle
subnucleari della gerarchia non sono le stesse regole che
governano le interazioni chimiche fra gli atomi intesi
come totalità. Il soggetto è troppo tecnico per poter
essere svolto qui: il lettore interessato troverà un buon
sommario nella memoria di H. Simon che ho citato
prima (1) .
Quando c i rivolgiamo dall'universo i n miniatura al­
l'universo macroscopico, troviamo di nuovo un ordine
gerarchico. Le lune girano intorno ai pianeti, i pianeti
intorno alle stelle, le stelle intorno ai centri delle rispet­
tive galassie, le galassie formano raggruppamenti di ga­
lassie. Dovunque in natura troviamo sistemi ordinati e
stabili, e troviamo che sono strutturati gerarchicamente,
per la semplice ragione che senza tale strutturazione
di sistemi complessi in sottoinsiemi, non potrebbe esserci
ordine e stabilità, tranne l'ordine di un universo morto
pieno di gas uniformemente distribuito. E anche allora
ogni separata molecola di gas sarebbe una microscopica
gerarchia. Se questo per il momento suona tautologia,
tanto meglio.1
Sarebbe, s'intende, grossolanamente antropomorfico
parlare di tendenze << autoassertive e integrative )) nella
natura inanimata, o di << strategie flessibili )). Nondimeno
è vero che, in ogni sistema stabile e dinamico, la stabilità
è mantenuta dall'equilibrarsi di opposte forze, una delle

l . Spesso però manchiamo di riconoscere una struttura gerar­


chica, ad esempio in un cristallo, perché ha una gerarchia molto rada,
consistente di tre soli livelli (al punto in cui sono le nostre conoscenze) :
tnolecole, atomi, particelle sub-atomiche; e anche perché il livello mole­
colare ha u.n enorme span di olòmeri quasi identici.

93
quali può essere centrifuga o separativa o inerziale, rap­
presentando le proprietà quasi indipendenti, olistiche della
parte, e l'altra una forza centripeta o attrattiva o coesiva,
che mantiene la parte al suo posto nel più grande insieme,
e la stringe in se stessa. Su differenti livelli delle gerar­
chie organiche e inorganiche, la polarizzazione delle forze
particolaristiche e olistiche prende forme differenti, ma
è osservabile ad ogni livello. Questo non è il riflesso di
un qualsiasi dualismo metafisico, ma piuttosto della
terza legge del movimento di Newton (<< ad ogni azione
corrisponde una reazione uguale ed opposta )>) applicata
ai sistemi gerarchici.
V'è anche una analogia significativa, in fisica, alla
distinzione fra regole fisse e strategie flessibili. La strut­
tura geometrica di un cristallo è rappresentata da re­
gole fisse, ma i cristalli che crescono in una soluzione
satura raggiungeranno la stessa forma finale per vie di­
verse, cioè pur variando nei particolari il loro procedi­
mento di crescita; e anche se danneggiato artificialmente
durante il processo, il cristallo che cresce può correggere
l'avaria. In questo, e in molti altri ben noti fenomeni,
troviamo pre:fì.gurate su un livello elementare le pro­
prietà autoregolatrici degli olòmeri biologici.

'
L ORGANISMO E I SUOI PEZZI DI RICAMBIO

Come ascendiamo alle gerarchie della materia vivente,


troviamo anche sul livello più basso, osservabile attra­
verso il microscopio elettronico, delle strutture subcel­
lulari - gli orgànuli - di sconvolgente complessità. E
il fatto che più impressiona è che queste minuscole parti
della cellula funzionano come degli interi autogovernan­
tisi de iure proprio, seguendo cioè ognuno il proprio sta­
tuto di regole. Gli orgànuli di un certo tipo sovraintendono,
come agenti quasi indipendenti, alla crescita della cel-

94
lula; altri al suo rifornimento di energia, alla riproduzione,
alle comunicazioni e via dicendo: i ribosomi, per esempio,
che fabbricano le proteine, rivaleggiano in complessità
con qualsiasi stabilimento chimico. I mitocondri sono
centrali d'energia, che la estraggono dal cibo per mezzo
di una complicata catena di reazioni chimiche comportanti
qualcosa come cinquanta diversi passaggi; una unica
cellula può avere fino a 5000 centrali energetiche di questo
tipo. Poi vi sono i centrosomi, col loro apparato di rota­
zione che organizza l'incredibile coreografia della cellula
che si sta dividendo in due; e le spirali d'eredità del DNA
attorte su se stesse nell'intimo santuario dei cromosomt,
intente alla loro ancora più potente magia.
Non voglio abbandonarmi al lirismo su argomenti
che si possono ritrovare in qualsiasi manuale di divul­
gazione scientifica; sto cercando di mettere in evidenza
un punto che essi non sottolineano abbastanza, o tendono
a trascurare affatto, e cioè a dire che l'organismo non è
un mosaico, un aggregato di processi fisiochimici elemen­
tari, ma una gerarchia in cui ciascun membro, a partire
dal livello subcellulare in su, è una struttura strettamente
integrata, attrezzata con meccanismi autoregolatori, e
che gode di una progredita forma di autogoverno. L'atti­
vità di un orgànulo quale il mitocondrio può accendersi
e spegnersi; ma una volta che è scattata in azione seguirà
il suo corso implacabilmente. Nessuno scaglione superiore
della gerarchia può interferire con l'ordine delle sue ope­
razioni, disposte secondo propri canoni di regole. L'or­
gànulo è legge a se medesimo, un olòmero autonomo
con i suoi caratteristici schemi di struttura e di funzio­
namento, che esso tende ad asserire anche se la cellula
attorno ad esso sta morendo.
Le stesse osservazioni si applicano alle unità più grandi
dell'organismo. Le cellule, i tessuti, i nervi, i muscoli,
gli organi, tutti hanno il loro intrinseco ritmo e << di-

95
segno l), spesso manifestato spontaneamente senza sti­
molo esterno. Quando il fisiologo guarda ad un organo
qualsiasi dal << di sopra l>, dall'apice della gerarchia, lo
vede come una parte dipendente. Quando lo guarda dal
<< di sotto l>, dal livello dei suoi costituenti, vede un in­
tero, di notevole autosufficienza. Il cuore ha i suoi propri
pacemakers, in effetti tre segnapasso, capaci di darsi
il cambio l'un l'altro quando ne sorge la necessità.
Altri organi superiori hanno differenti tipi di centri coor­
dinatori e dispositivi di autoregolazione. Il loro carattere
di olòmeri autonomi è dimostrato nel modo più convincente
da esperimenti di cultura e dalla chirurgia dei pezzi di ri­
cambio. Da quando il Carrell dimostrò in un famoso espe­
rimento che una striscia di tessuto tratto dal cuore di
un embrione di pollo continua a battere indefinitamente
in vitro, abbiamo imparato che interi organi - reni cuori
persino cervelli - sono capaci di funzionamento conti­
nuato come interi quasi indipendenti se isolati dall'orga­
nismo e riforniti del nutrimento adatto o se trapiantati
in un altro organismo. Nel momento in cui scrivevo, gli
sperimentatori russi ed americani erano riusciti a tenere
in vita cervelli di cani e di scimmie (come risulta dagli
elettroencefalogrammi) in apparati esterni all'animale,
e nel trapianto del cervello di un cane nei tessuti di un
altro animale vivo. Sull'orrore alla Frankenstein di questi
esperimenti non occorre insistere, e non sono che un inizio.
Tuttavia la chirurgia delle parti di ricambio ha natu­
ralmente i suoi usi benèfici, e da un punto di vista teorico
è un'impressionante conferma della concezione gerarchica.
Essa dimostra in modo piuttosto letterale la << anatomiz­
zabilità l) dell'organismo - visto nel suo aspetto corporeo ­
in sotto-insiemi autonomi, che funzionano come interi de
proprio ùtre. Essa getta anche una luce supplementare
sul processo dell'evoluzione e sui principi che guidavano
Bios nel montare insieme i sub-complessi dei suoi orologi.

96
I POTERI INTEGRATIVI DELLA VITA

Ritorniamo per un momento agli orgànuli che operano


all'interno della cellula. I mitocondri trasformano il cibo
- glucosio, grassi, proteine - nella sostanza chimica
chiamata adrenosintrifosfato (ATP) che tutte le cellule
animali usano come combustibile. È l'unico tipo di combu­
stibile usato in tutto il regno animale per procurare l'e­
nergia necessaria alle cellule muscolari, alle cellule ner­
vose e via dicendo; e v'è questo solo tipo di orgànulo in
tutto il regno animale che lo produca. I mitocondri sono
stati chiamati << le centrali d'energia di ogni vita terrestre l>;
inoltre ogni mitocondrio possiede non soltanto il suo
insieme di istruzioni su come fabbricare l'ATP, ma anche
il suo proprio progetto di costruzione ereditario, che lo
mette in grado di riprodursi indipendentemente dalla
riproduzione della cellula intesa come un tutto.
Fino a pochi anni fa si pensava che gli unici porta­
tori di eredità fossero i cromosomi che si trovano nel
nucleo della cellula. Oggi sappiamo che i mitocondri, e
anche alcuni altri orgànuli situati nel citoplasma (il fluido
che circonda il nucleo) , sono equipaggiati di apparati ge­
netici propri, che li mettono in grado di riprodursi indi­
pendentemente. In vista di ciò si è pensato che questi
orgànuli si siano venuti evolvendo in modo indipendente
l'un dall'altro all'alba della vita su questo pianeta, ma a
uno stadio ulteriore sono entrati in una specie di simbiosi.
Questa plausibile ipotesi può servire come un'altra
illustrazione della parabola degli orologiai; possiamo con­
siderare la costruzione, a passo a passo, delle gerarchie
complesse traendole da più semplici olòmeri, come una
manifestazione basilare della tendenza integrativa della
materia vivente. Sembra invero molto probabile che la
singola cellula, considerata un tempo l'atomo della vita,
si sia originata con il riunirsi di strutture molecolari che

4 KOESTLER 97
erano i precursori primitivi degli orgànuli e che erano
venute all'esistenza in modo indipendente, dotata ognuna
di una caratteristica proprietà della vita, come l'auto­
duplicazione, il metabolismo, la mobilità. Quando entra­
rono in associazione simbiotica, l'intero risultante, forse
qualche ancestrale forma di ameba, risultò un'entità in­
comparabilmente più stabile, versatile ed adattabile, di
quanto non implicherebbe una mera somma delle parti.
Per citare Ruth Sager:
<< La vita cominciò, si potrebbe affermare, con l'emer­
gere di un sistema tripartito stabilizzato: gli acidi nucleici
per la duplicazione, un sistema fotosintetico o chemiosin­
tetico per la conversione di energia, ed enzimi proteici per
catalizzare i due processi. Un simile sistema tripartito
avrebbe potuto essere l'antenato dei cloroplasti e dei
mitocondri, e forse della cellula medesima. Nel corso del
l'evoluzione questi primitivi sistemi potrebbero essersi
coalizzati nella più vasta intelaiatura della cellula . . . l) (2).
L'ipotesi è coerente con tutto quanto conosciamo
intorno a quella onnipresente manifestazione della ten­
denza integrativa che è la simbiosi, sotto il cui nome
vanno tutte le svariate forme di associazione fra orga­
nismi. Essa va dalla associazione mutuamente indispensa­
bile delle alghe e dei funghi in licheni, alla meno intima
ma non meno vitale interdipendenza degli animali, delle
piante e dei batteri in comunità ecologiche (biocenosi) .
Quando sono coinvolte specie differenti, l'associazione
può prendere la forma di << commensalismo l) - i crostacei
che viaggiano sui fianchi della balena, - o di << mutua­
lismo l), quale si ha tra una pianta in fiore e gli in­
setti impollinatori, o fra le formiche e gli afidi - una
specie di insetti << gregge l) che le formiche proteggono
e << mungono l) delle loro secrezioni. Egualmente sva­
riate sono le forme di cooperazione all'interno della
stessa specie, dagli animali coloniali in su. La medusa

98
fisàlia, detta anche << galera portoghese )), è una colonia
di polipi, ognuno specializzato in una funzione differente,
ma decidere se i suoi tentacoli, i suoi galleggianti, e le
sue unità riproduttive, siano animali singoli oppure sem­
plicemente organi, è un problema di semantica; ogni
polipo è un olòmero che combina le caratteristiche degli
interi indipendenti e delle parti dipendenti.
Siamo di fronte allo stesso dilemma, su un giro più
alto della spirale, nelle società di insetti come le for­
miche, le api, le termiti. Gli insetti sociali sono entità
fisicamente separate ma nessuno di essi può sopravvivere
se separato dal gruppo; la loro esistenza è completamente
controllata dagli interessi del gruppo inteso come un tutto;
tutti i membri del gruppo sono discendenti della stessa cop­
pia di genitori, intercambiabili e indistinguibili non solo
all'occhio umano, ma anche probabilmente agli insetti me­
desimi, che si suppone riconoscano i membri del loro grup­
po dall'odore ma non fanno discriminazione fra individui.
Inoltre molti insetti sociali si scambiano le loro secrezioni
che formano una specie di legame chimico fra di essi.
Un individuo viene usualmente definito un'unità in­
divisibile autocontenuta con esistenza separata e indipen­
dente, in proprio. Ma gli individui in questo senso assoluto
non si trovano in natura da nessuna parte, e neanche nella
società, proprio come non esistono da nessuna parte degli
interi assoluti. Invece di separatezza e di indipendenza c'è
cooperazione e interdipendenza attraverso l'intera gamma,
dalla simbiosi fisica fino ai legami di coesione che si tro­
vano nel branco, sciame, alveare, armento, gregge, fa­
miglia, società. Il quadro diventa ancora più confuso se
consideriamo il criterio di << indivisibilità )). La parola
<< individuo )) significa originariamente proprio questo, deri­
vando dal latino individuus, come atomo è derivato dal
greco a-tomos. Ma ad ogni livello, l'indivisibilità diventa
una questione relativa. I protozoi, le spugne, le idre e i

99
platelminti o vermi piatti possono moltiplicarsi per mezzo
di semplice fissione o gemmazione: cioè dallo spezzarsi
di un individuo in due o più e così via all'infinito. Come
scrisse von Bertalanffy: << Come possiamo chiamare in­
dividui creature simili, quando in realtà sono dei 'di­
vidui', e la loro moltiplicazione sorge precisamente dalla
divisione ? . . . Possiamo insistere a chiamare individuo
un'idra o un verme turbeleriano, quando questi animali
possono tagliarsi in quanti pezzi vogliamo, capace ognuno
di riformare un organismo completo ? . . . La nozione di
individuo, biologicamente parlando, va definita semplice­
mente come un concetto di limitazione )) (3).
Un platelminto, un verme piatto, tagliato in sei pezzi,
effettivamente rigenererà un individuo completo da ogni
pezzo nel giro di qualche settimana. Se la ruota delle ri­
nascite mi trasforma in un verme piatto con un simile
destino, devo concludere che la mia anima immortale si
è spaccata in sei animelle immortali ? I teologi cristiani
troveranno un modo facile per uscire dal dilemma, ne­
gando che gli animali abbiano anime, ma gli indù e i
buddisti hanno vedute diverse. E i filosofi dalla menta­
lità secolare che non parlano dell'anima, ma affermano
l'esistenza di un io cosciente, rifiutano essi pure di trac­
ciare una linea di confine tra creature con e senza co­
scienza. Ma se ammettiamo che esista una scala continua
di gradazioni, dalla sensibilità delle creature primitive,
attraverso vari gradi di coscienza, fino alla piena auto­
coscienza, allora gli attacchi del biologo sperimentale al
concetto di individualità pongono un dilemma genuino.
L'unica soluzione sembra (vedi cap. XIV) l'abbandono
del concetto di individuo come struttura monolitica e
la sua sostituzione col concetto dell'individuo come ge­
rarchia aperta, il cui apice regredisce interminabilmente
tendendo verso uno stato di completa integrazione che
non viene mai raggiunto.

100
La rigenerazione di un individuo completo a partire
da un piccolo frammento d'animale primitivo è una ma­
nifestazione impressionante dei poteri integrativi della
materia vivente. Ma ci sono esempi che colpiscono ancora
di più. Quasi una generazione fa Wilson e Child dimo­
strarono che se i tessuti di una spugna viva o di un'idra
vengono sminuzzati fino a ridurli in poltiglia, passati
attraverso un filtro fine, e poi la polpa viene gettata in
acqua, le cellule dissociate presto ricominceranno ad as..:
sociarsi, ad aggregarsi, prima in fogli piatti, poi ad avvol­
gersi a sfera, a differenziarsi progressivamente, e termi­
nare come individui adulti, con la caratteristica bocca,
i tentacoli e così via )) (Dunbar) (4) . Più di recente P. Weiss
e i suoi collaboratori hanno dimostrato che gli organi
in via di sviluppo degli embrioni animali sono capaci,
anch'essi, esattamente come le spugne, di riformarsi dopo
essere stati ridotti in poltiglia. Weiss e James tagliarono
frammenti di tessuto da embrioni di pollo di età fra otto
e quattordici giorni, li sminuzzarono e filtrarono i tes­
suti attraverso fogli di nylon, li riportarono a compat­
tezza mediante centrifugazione, e li trapiantarono nella
membrana di un altro embrione in crescita. Dopo nove
giorni le cellule di fegato maciullate avevano cominciato
a formare un fegato, le cellule di rene un rene, le cellule
di epidermide a formare delle piume. Ma c'è di più: gli
sperimentatori furono anche in grado di produrre normali
reni embrionali sminuzzando, mettendo insieme e rime­
scolando tessuti di rene di parecchi embrioni diversi. Le
proprietà olistiche di questi tessuti sopravvivevano, non
solo alla disintegrazione, ma anche alla fusione (5) .
La fusione può essere indotta persino fra specie dif­
ferenti. Così Spemann combinò due mezzi embrioni di
tritone nel precoce stadio di gastrula: uno era quello di
una salamandra a strisce, l'altro di una salamandra ere-

101
stata. Il risultato fu un animale ben formato, a strisce
da un lato e dall'altra crestato. Anche più allucinanti
sono gli esperimenti recenti del prof. Harris a Ox­
fqrd, che sviluppò una tecnica per fondere cellule umane
con cellule di topo. Durante la mitosi i nuclei della cel­
lula dell'uomo e del topo si fusero, << e le due serie di cro­
mosomi risultarono crescere e moltiplicarsi in modo per­
fettamente felice all'interno della stessa membrana nu­
cleare . . . Tali fenomeni l), scrisse un commentatore, << in­
fluiranno senz'altro sul nostro concetto di organismo,
almeno in certa misura. . . Vi sono ovviamente possibilità
sufficienti su questa linea per incoraggiare o atterrire
chiunque in un tempo non lontano )) (Pollock) (6) .
Alla luce di questi dati sperimentali il casalingo con­
cetto di individuo sfuma nella nebbia; se la spugna smi­
nuzzata e riformata possiede un'individualità, cosi la pos­
siede pure il rene embrionale. Dagli orgànuli agli organi,
dagli organismi che vivono in simbiosi alle società con
forme più complesse di interdipendenza, non troviamo
mai degli interi completamente contenuti in se stessi,
ma solo olòmeri, entità a due facce con le caratteristiche
sia di unità indipendenti e di parti interdipendenti.

Nelle pagine precedenti ho insistito sui fenomeni del­


l'interdipendenza e della partnership (rapporto fra asso­
Ciati), sul potenziale integrativo degli olòmeri nel com­
portarsi come parti di un tutto più complesso. L'altro
aspetto della storia rivela, invece della cooperazione, la
concorrenza fra le parti di un tutto, che riflette la ten­
denza autoassertiva degli olòmeri ad ogni livello. Anche
le piante, che sono per lo più verdi, e non << rosse di zanne
e di artigli l), lottano fra loro in concorrenza per la luce,
l'acqua e la terra. Le specie animali lottano fra loro per
nicchie ecologiche; predatore e preda competono per la
sopravvivenza; e all'interno di ogni specie v'è competi-

102
zione per il territorio, il cibo, la compagna e il dominio.
C'è anche una concorrenza meno ovvia fra gli olò­
meri all'interno dell'organismo in tempi di stress e di
crisi, quando le parti esposte o traumatizzate tendono ad
asserire se medesime a detrimento del tutto. La patolo­
gia del disordine gerarchico sarà discussa nella parte III.
In condizioni normali, tuttavia, quando l'organismo
o il corpo sociale funzionano in modo regolare, le ten­
denze integrativa e auto-assertiva sono in stato di equi­
librio dinamico - simbolizzate da Giano Patulcio, l'(< A­
pritore 1>, che tiene una chiave nella sinistra, e da Giano
Clusio il (< Chiuditore 1>, guardiano geloso della porta con
un bastone nella destra.
Per riassumere, i sistemi inorganici stabili, dagli atomi
alle galassie, spiegano un ordine gerarchico; l'atomo stesso,
che prima era considerato un'unità indivisibile, è un olò­
mero e le regole che governano le interazioni delle par­
ticelle subnucleari non sono le medesime che governano
le interazioni fra gli atomi come interi.
L'organismo vivente non è un aggregato a forma di
mosaico di processi fisiochimici elementari, ma una ge­
rarchia di parti dentro parti, in cui ogni olòmero, dagli
orgànuli subcellulari in su, è una struttura strettamente in­
tegrata, attrezzata di dispositivi di autoregolazione e gode
di un certo grado di autogoverno. La chirurgia dei tra­
pianti e l'embriologia sperimentale offrono impressionanti
illustrazioni dell'autonomia degli olòmeri degli organismi.
I poteri integrativi della vita sono manifestati nei feno­
meni di simbiosi fra orgànuli, nelle varie forme di partner­
ship all'interno della stessa specie, o fra differenti specie;
nei fenomeni della rigenerazione nelle specie inferiori
di individui completi a partire dai loro frammenti; nella
riformazione degli organi embrionali sminuzzati, ecc. La
tendenza autoassertiva ha una uguale ubiquità nella con­
correnza e lotta per la vita.

103
V l Grilletti e filtri

Per tutto il tempo la Guardia era stata a guar­


darla, dapprima con un telescopio, poi con
un microscopio, e poi con un binocolo da
teatro. Alla fine disse: « Tu stai viaggiando
dalla parte sbagliata .. >).
.

A lice attraverso lo specchio

GRILLETTI

Tu giri l'interruttore o premi il bottone di una mac­


china e questo gesto semplice e senza sforzo scatena l'a­
zione coordinata di centinaia di ruote, pistoni, leve, val­
vole termoioniche e chi più ne ha più ne metta. Questi
meccanismi a grilletto, dove un comando o un segnale
relativamente semplice scatena schemi d'azione predi,.
sposti estremamente complessi sono un'apparecchiatura
favorita nella organizzazione biologica e sociale. In questo
modo l'organismo (o il corpo sociale) è in grado di mietere
tutti i benefici del carattere autonomo, autoregolatore
delle sue sottodivisioni, i suoi olòmeri dei livelli inferiori.
Quando il Gabinetto decide di aumentare il tasso di
sconto dal 6% al 7 % , o di mandar truppe in un punto
caldo in Oriente, la decisione viene stilata in termini
brevi e laconici che implicano meramente, ma non spe­
cificano, l'intricata sequenza di azioni che seguiranno.
La decisione mette in azione, come un grilletto, vari
capi dipartimento ed esperti; questi entreranno in atti­
vità provvedendo alla prima serie di istruzioni più speci­
fiche, e così via, giù giù per la diramata gerarchia, fino

105
ad arrivare alle unità terminali, gli impiegati di banca
o i parà. Ad ogni passo di questo viaggio all'ingiù, il
segnale scatena degli schemi d'azione preordinati, che
trasformano il messaggio implicito in termini espliciti,
dal generale al particolare. Abbiamo visto in atto analoghi
processi nel caso della produzione del linguaggio artico­
lato: l'intento non verbale e inarticolato di trasmettere
un messaggio scatena come un grilletto i meccanismi
di strutturazione della frase, che a loro volta mettono
in gioco le regole della sintassi e così via, fino alla pro­
nuncia dei singoli fonemi.
Nella attuazione delle capacità manuali seguiamo la
stessa procedura: il mio io cosciente all'apice della gerarchia
emette il laconico ordine: <c accendere sigaretta 1>, e lascia
agli scaglioni inferiori del mio sistema nervoso di comple­
tare i dettagli mandando fuori uno schema di impulsi
che attivano dei subcentri, che controllano le contrazioni
dei singoli muscoli. Questo processo di compitazione o
articolazione o sillabazione, dall'intenzione all'esecuzione,
è piuttosto simile alla manovra di una serie di serrature
a combinazione, che si trovino a diversi livelli, in or­
dine discendente. Ogni olòmero nella gerarchia motrice
ha - come un dicastero governativo - i suoi schemi,
retti da regole, per il coordinamento del movimento delle
membra, delle giunture, dei muscoli secondo il livello
che occupa nella gerarchia; così il comando <c accendere
sigaretta 1> non deve specificare che cosa deve fare ogni
singolo muscolo del mio dito per accendere un fiammi­
fero. Ha semplicemente da premere il grilletto dei centri
adatti mettendoli in azione, ed essi compiteranno il co­
mando, implicitamente <c codificato 1>, in termini espliciti,
attivando le loro proprie sottounità nell'ordine strategico
appropriato guidato da locali Jeed-backs o retroazioni.
Generalmente parlando, un olòmero al livello [n] della ge-

106
rarchia è rappresentato al livello [n + l] come un'unità e
risponde alla pressione del grilletto come un' unità.1
Come tutte le nostre precedenti generalizzazioni,
anche questa è destinata ad applicarsi a tutti i tipi di ge­
rarchie, inclusa, per esempio, la sequenza gerarchica
dello sviluppo embrionale. Quest'ultimo parte con un
tipo piuttosto notevole di azione-grilletto: pungere l'uovo
non fecondato di una rana vergine con un fine ago di
platino è sufficiente a iniziare la crescita di questo uovo
fino a che diventi una normale rana adulta. Si è dimo­
strato che persino nei mammiferi superiori, come il coniglio
e la pecora, semplici stimoli meccanici o chimici possono
produrre lo stesso effetto. La riproduzione sessuale è in�
dispensabile per la creazione di varietà; per la semplice
propagazione è sufficiente il via di un �( grilletto >>.
Il grilletto, si sa, di solito è uno spermatozoo. Il
codice genetico dell'uovo fecondato si dice che contenga
il progetto (blueprint) dell'adulto, ma sarebbe più corretto
dire che incorpora una serie di regole o istruzioni per
fabbricarlo. Le regole sono stese in un codice chimico che
comprende quattro lettere: A, G, C e T (le iniziali stanno
per sostanze chimiche i cui lunghi nomi sono irrilevanti
al nostro proposito) . Le �( parole >> formate da queste let­
tere sulle lunghe spirali di cromosomi del nucleo della
cellula contengono le istruzioni che la cellula deve seguire.
Uno dei compiti principali di una cellula embrionale è la
fabbricazione delle proteine necessarie all'accrescimento.
Ci sono migliaia di proteine diverse, ma tutte fatte degli
stessi blocchi costruttivi: venti diverse specie di amino­
acidi, combinati diversamente; ed ogni aminoacido cor­
risponde ad una <( parola >> di tre lettere in codice gene-

l. Ossia, per dirla in altro modo: l'olòmero è un sistema di re­


lazioni che è rappresentato sul livello superiore più vicino come un'u­
nità, cioè come un relato.

1 07
tico. Così le istruzioni dell'implicito alfabeto a quattro
lettere vengono esplicitate e << compitate 1> nell'alfabeto a
venti lettere degli aminoacidi, che fornisce tutte le com­
binazioni necessarie per le migliaia di proteine che for­
mano un organismo.
La differenziazione di strutture e il loro prender forma
nell'embrione in crescita è un processo a molte tappe,
che è stato paragonato al modo con cui uno scultore
estrae una statua da un pezzo di legno, ma anche all'ac­
quisizione, da parte del bambino, del linguaggio articolato
e coerente. Ad ogni passo successivo, dall'uovo fecon­
dato al prodotto finito, le istruzioni d'insieme contenute
nell'alfabeto a quattro lettere del codice genetico vengono
prima abbozzate, poi schizzate e finalmente sillabate nei
più elaborati particolari: ed ogni passo è iniziato da gril­
letti biochimici (enzimi, induttori, ormoni e altri cataliz­
zatori).

COME S I COSTRUISCE U N NIDO

Avrò da dire dell'altro sull'ordine gerarchico dello svi­


luppo embrionale nel capitolo IX, ma per il momento
consideriamo le attività istintive dell'animale adulto.1
L'organismo in accrescimento è governato dal suo co­
dice genetico: nell'organismo adulto gli dà il cambio un
diverso tipo di codice, riposto nel sistema nervoso. Esso
incorpora le << regole del gioco 1> stabilite, che controllano
gli stereotipati rituali del corteggiamento, dell'accoppia­
mento, del duello e le molto più flessibili capacità di co­
struire nidi, favi o ragnatele. Ognuna di queste capacità
può di nuovo essere gerarchicamente << sezionata 1> in
sotto-abilità, cioè olòmeri funzionali, giù giù fino al li-

. . l . La maggior parte delle attività che chiamiamo << istintive • è


di fatto in parte acquisita, o modificata, da un apprendimento precoce.

108
vello degli �< schemi d'azione fissi >>, per usare il termine
di Konrad Lorenz. In tutte queste attività il principio
del grilletto gioca una parte dominante e assai cospicua.
I grilletti sono certi schemi di stimolo dell'ambiente
circostante: viste, odori, suoni, che gli etologi chiamano
releasers o sign-releasers. Così per esempio i colori nu­
ziali dello stickleback (un pesce d'acqua dolce simile al
nostro pesce gatto) sono gli occhi blu e la pancia rossa;
e qualsiasi oggetto, qualunque sia la sua forma, che è
rosso di sotto, se portato vicino al territorio di uno stickle­
back maschio agirà come un releaser per l'attacco. Lo
stickleback ha cinque diversi metodi di minaccia e di at­
tacco e ognuno scatta sotto l'azione di un releaser leg­
germente differente. In modo analogo le specie animali
che si impegnano in tornei rituali - nei quali l'avversario
che riconosce la disfatta viene risparmiato - hanno
ognuno un repertorio limitato di mosse di combattimento
come gli affondi e le parate degli schermitori.
W. H. Thorpe ha compiuto un'analisi particolareg­
giata degli olòmeri funzionali che entrano in gioco nel­
l'attività relativa alla costruzione di nidi nella cingallegra
a coda lunga. Enumerò quattordici diversi schemi di
azione (come la �< ricerca >> e la �< raccolta >> dei materiali
da costruzione; la << tessitura >>, la<<pressatura >>, il �< calpe­
stamento >>, la �< spalmatura >>, ecc.) ognuno dei quali con­
siste di schemi più semplici e viene fatto scattare da al­
meno diciotto diversi releasers. Anziché guardare senza
fine dei topi che senza fine premono la sbarra nella sca­
tola di Skinner, gli studiosi di psicologia farebbero assai
bene a studiare la descrizione di Thorpe, di cui quanto
segue è una versione molto abbreviata.
La cingallegra usa quattro diversi materiali da costru­
zione: muschio, seta di ragno, licheni e piume, ognuno
dei quali ha una funzione differente e richiede un diverso
tipo di manipolazione specializzata. L'attività commc1a

109
con la ricerca di un posto conveniente, un ramo che si
biforca nel modo giusto. Quando il posto è trovato viene
raccolto muschio e sistemato sulla biforcazione. La mag­
gior parte del muschio cade, ma l'uccello persiste finché
alcuni pezzi non siano rimasti attaccati. Quando è rag­
giunto questo stadio, l'uccello passa dalla raccolta di mu­
schio alla raccolta di tele di ragno, che vengono soffre­
gate al muschio finché non vi si appiccicano, poi vengono
stirate e usate per legare. Queste attività continuano
finché non ha cominciato a prendere consistenza una
piattaforma. Adesso l'uccello ritorna al muschio, e co­
mincia a costruire intorno ad esso una coppa, dapprima
mediante la << tessitura laterale )), poi con la << tessitura
verticale )) in posizione seduta, rotando di continuo il
corpo finché non comincia a prendere forma l'orlo curvo
della coppa. A questo stadio fanno apparizione nuovi
schemi d'azione: la << pressione del petto )) e il << pestamento ))
con le zampe. Quando la coppa è completa per circa un
terzo l'uccello comincia a raccogliere il terzo materiale
da costruzione, i licheni. Questi vengono usati per coprire
soltanto l'esterno del nido << sporgendosi in fuori sopra
l'orlo dall'interno del nido, e appendendosi all'esterno
in atteggiamenti vari più o meno acrobatici )) . Quando la
coppa è completa per quasi due terzi, il modo operatorio
viene cambiato in modo tale da lasciare un foro di en­
trata nettissimo nel punto più conveniente. La parete
intorno al foro viene rafforzata, completata la cupola
del nido, e ora può cominciare l'arredamento, con l'uso
del quarto materiale da costruzione, le piume. Thorpe
commenta:

<< Come semplicità non c'è male! Ma forse il punto


più significativo della faccenda è che essa prova che
l'uccello deve avere qualche 'concezione' di come ha da
presentarsi il nido finito, e qualche specie di 'concezione'

110
circa il fatto che l'aggiunta qua e là di un pezzo di mu­
schio o di lichene sarà un passo verso il disegno 'ideale',
e che altri pezzi qua e là lo allontanerebbero . . . Le sue
azioni sono direzionali e 'sa dove fermarsi' . )) ( I ) .
. .

Confrontando questa descrizione con la descrizione


di Watson su come Patou confeziona un capo di abbi­
gliamento (<< ha in mente un'immagine ? non ce l'ha ))) . o
con il metodo che ha Skinner di condizionare i piccioni,
si ha un'idea del contrasto fra la veduta piatta del be­
haviourismo e la realtà vivente. Dov'è per esempio l'in­
dispensabile << rinforzo )), il bastone e la carota che se­
condo il behaviourista sarebbero necessari a ogni passo
perché l'uccello persista nelle attività che includono tre­
dici diversi tipi di tecniche costruttive ? E tuttavia la
cingallegra persiste, senza alcuna ricompensa, finché non
ha terminato il nido. E come si potrebbe sostenere che la
cingallegra è << controllata dalle contingenze dell'ambiente ))
quando ha da perquisire l'ambiente ora cercando mu­
schio, ora seta di ragno, ora lichene e piume; tuttavia,
per quanto variate le << contingenze dell'ambiente )), riesce
a costruire lo stesso tipo di nido ? O, per fare un altro
esempio, il ragno comune, che sospenderà la tela con
tre o quattro o più punti d'attacco, secondo la giacitura
del terreno, ma arriverà sempre allo stesso familiare di­
segno simmetrico dove i fili radiali tagliano i laterali ad
angoli eguali, in accordo con il canone di regole fisse
che controllano le sue attività. Come applicare queste re­
gole ad un ambiente particolare - facendo una tela penta­
gonale o esagonale - è questione di strategia flessibile.
Tutte le attività istintive consistono di gerarchie di
sotto-abilità - nel caso del ragno saper valutare gli
angoli e tessere il filo -, controllate da regole fisse e gui­
date da strategie adattabili. È questa caratteristica duale
che ci giustifica nel chiamare una sotto-abilità un << olò-

I ll
mero funzionale >>. Come tale esso ha le varie altre ca­
ratteristiche degli olòmeri discusse prima. Una abilità
può essere esercitata a servizio di qualche attività più
vasta e come sua parte; ma virtualmente ogni abilità può
anche diventare un abito che non tollera interferenze
e può essere perseguita per se stessa. Nel primo caso
l'olòmero funzionale serve la integrazione della condotta,
-
nel secondo caso può indicare pronunciatissime tendenze
autoassertive, la proverbiale << ostinatezza delle abitu­
dini >>. Per quante << strategie >> intelligenti voi usiate al
fine di contraffare la vostra scrittura, non potete ingan­
nare l'esperto e cavarvela in tribunale. Lo stesso av­
viene per la vostra andatura, il vostro accento, l'uso di
giri di frase favoriti. Le abitudini sono olòmeri compor­
tamentali, governati da regole, che per lo più operano
inconsciamente. Presi insieme costituiscono quello che
noi chiamiamo personalità o stile. Ma ogni olòmero ha
anche un margine di scelte strategiche, e questo mar­
gine di scelta aumenta in ordine ascendente con l'au­
mentare della complessità dei livelli superiori. E se ci
domandiamo che cosa determini le scelte coscienti al­
l'apice, di nuovo ci troviamo in una serie che regredisce
all'infinito.

I FILTRI

Fin qui ci siamo occupati dell' output o uscita: il


compitarsi dell'intenzione che si traduce in azione, inclusa
l'<< intenzione >> dell'uovo fecondato di crescere e diven­
tare adulto, e di un'idea fertile di crescere in linguaggio
articolato. Prima di rivolgerei al lato input (entrata,
ingresso) - sensazioni e percezioni - potrebbe essere
utile tornare per un momento all'analogia di un'operazione
militare nella classica tecnica di guerra vecchio stile.

1 12
Il generale comandante emette un ordine, che contiene
il piano d'azione a grandi linee; questo viene trasmesso
dal quartier generale di divisione, al quartier generale di
brigata, al quartier generale di battaglione, e così via;
ad ogni scaglione successivo della gerarchia il piano di­
venta più elaborato finché non vi si inserisce l'ultimo
particolare. Il processo inverso ha luogo nella raccolta
di informazione circa i movimenti del nemico e la natura
del terreno. I dati vengono raccolti ai livelli più bassi,
locali, da pattuglie che scendono a riconoscere il ter­
reno. Vengono poi sfrondate dei particolari irrilevanti,
condensati, filtrati e combinati con dati provenienti da
altre fonti ad ogni scaglione superiore, mentre la cor­
rente di informazione fluisce all'insù lungo le convergenti
diramazioni della gerarchia. Qui abbiamo un modello
molto semplificato del funzionamento del sistema nervoso
sensomotorio.
Dal lato motorio avevamo una serie di << grilletti l>.
Dal lato percettivo abbiamo invece una serie di << filtri l>
o di scanners (analizzatori, o esploratori, come in tele­
visione) attraverso i quali il vitale traffico di entrata
deve passare nella sua ascesa dagli organi di senso verso
la corteccia cerebrale. La loro funzione è analizzare, de­
codificare, classificare e astrarre l'informazione che viene
trascinata dalla corrente, finché la caotica moltitudine
di sensazioni che costantemente bombarda i sensi non
viene trasformata in messaggi significativi.
Della maggioranza di queste attività di trattamento
dell'ingresso (input) noi siamo felicemente inconsapevoli.
Vengono attuate da una intera gerarchia di agenzie di
trattamento, incorporate negli apparati di percezione.
Al livello più basso vi è filtraggio, attraverso uno schermo,
delle sensazioni irrilevanti all'attività in questione o
all'<< atmosfera del momento l>. Non si è normalmente co­
scienti della pressione della sedia contro la schiena né del

113
contatto tra pelle ed abiti. L'occhio e l'orecchio sono
pure equipaggiati con simili dispositivi di filtraggio se­
lettivo (<< inibizione laterale )), << abituazione )), ecc.) .
Lo stadio seguente del trattamento è qualcosa di im­
pressionante non appena uno si mette a pensarci. Se te­
nete il dito indice della destra a 25 centimetri, e il dito
indice della mano sinistra o 50 centimetri di fronte ai
vostri occhi voi li vedete come se fossero di dimensioni
uguali sebbene l'immagine sulla retina dell'uno sia grande
il doppio dell'altra. Persone che si aggirino in una stanza
non sembrano contrarsi o crescere di dimensione - come
dovrebbero - perché sappiamo che la loro dimensione
rimane costante, e questa conoscenza interferisce qual­
che volta con i dati visivi di entrata a qualche livello
del sistema nervoso e li falsifica per la nobile causa di
renderli conformi alla realtà. La lente fotografica non ha
un simile meccanismo incorporato; mostrerà onestamente
l'indice della mano sinistra grande il doppio del destro
e il piede di una ragazza che prende il sole allungato
verso l'obiettivo vi diventa un caso di elefantiasi. << Per­
sino le nostre percezioni elementari )) scrisse il Bartlett
<< sono costrutti inferenziali )) (2) ; ma il processo inferen­
ziale funziona a livelli inconsci della gerarchia.
La tendenza a vedere un oggetto familiare come se
fosse delle sue misure effettive senza tener conto della
distanza viene chiamato dagli psicologi il << fenomeno della
costanza dimensionale )) . Non soltanto la dimensione ma
il colore e la forma dell'immagine retinica di un oggetto
in movimento è per tutto il tempo in continuo cambia­
mento, in relazione alla sua distanza, all'illuminazione e
all'angolo visuale; e tuttavia per lo più noi siamo incon­
sapevoli di tali cambiamenti. Di conseguenza al feno­
meno della costanza dimensionale dobbiamo aggiungere
quelli della costanza di colore e forma.

1 14
Le costanze sono soltanto una parte del nostro re­
pertorio di abilità percezionali, che formano la gramma­
tica della visione e forniscono le << regole del gioco l> che
ci permettono di cavare un senso dal mosaico perenne­
mente cangiante delle nostre sensazioni. Sebbene operino
automaticamente e inconsciamente, possono venir modi­
ficate con l'apprendimento. Quando un soggetto in un
laboratorio psicologico mette delle lenti rovescianti che
capovolgono il mondo, compreso il corpo del soggetto
medesimo, dapprima si sente completamente sperduto,
incapace di camminare e può anche sentirsi la nausea.
Dopo alcuni giorni in cui ha portato costantemente queste
lenti, egli si riadatta a vivere in un mondo visualmente
capovolto. L'adattamento richiede dapprima un grande
sforzo cosciente, ma alla fine il soggetto sembra quasi
inconsapevole che il mondo è capovolto. L'immagine reti­
nica rimane invertita e così naturalmente avviene della
sua proiezione nel cervello, ma l'immagine mentale - non
c'è altra parola per questo - è ora diritta nel modo giusto;
e quando a questo stadio le lenti vengono tolte gli è
necessario qualche tempo per riadattarsi alla normalità.1
Le nostre abitudini percettive sono altrettanto osti­
nate che le nostre abitudini motorie. È altrettanto diffi­
cile alterare il nostro modo di vedere il mondo quanto
alterare la nostra firma o il nostro accento parlando;
ogni abitudine è governata da propri canoni di regole.
I meccanismi che determinano la nostra visione e il no­
stro udito sono parte della nostra attrezzatura percezio­
nale, ma operano come degli olòmeri funzionali quasi
indipendenti, ordinati gerarchicamente lungo gli alberi
intrecciati del nostro sistema nervoso.

l. Questo è un rendiconto semplificato di un argomento alquanto


controverso. Per particolari, vedi ad esempio Gregory (3) e Kotten­
hoff (4).

115
Il passo seguente all'insù lungo la gerarchia porta
agli sfuggenti fenomeni del riconoscimento di schemi - o
per dirla diversamente, alla questione su come astraiamo
e riconosciamo gli universali. Quando si ascolta un disco
fonografico di un'opera con, mettiamo, cinquanta stru­
menti d'orchestra e quattro voci che cantano, e poi si
guarda il disco con una lente di ingrandimento, l'intera
magia si riduce all'unica spirale curva e ondulata del
solco. Ciò pone un problema simile a quello del modo con
cui interpretiamo il linguaggio (dr. cap. II) . Le onde
sonore, anch'esse, che portano l'opera all'orecchio, hanno
soltanto una variabile: le variazioni della pressione nel
tempo. Gli strumenti singoli e le voci sono tutte sovrap­
poste l'una all'altra: violino flauto soprano e quel che
volete sono stati rimescolati insieme in una specie di
marmellata acustica, e questa mescola filata in una specie
di lungo spaghetto, un singolo impulso modulato che
fa vibrare il timpano dell'orecchio più veloce e più lento
con intensità variante. Queste vibrazioni vengono spez­
zate nell'orecchio interno in una sequenza di toni puri
e questa sequenza è tutto ciò che viene trasmesso al
cervello. Qualsiasi informazione che riguardi gli stru­
menti singoli, la cui produzione è finita nella marmellata,
sembra irrimediabilmente perduta. E nondimeno mentre
ascoltiamo noi non sentiamo una successione di toni
puri; udiamo un insieme di strumenti e di voci, ognuna
con il suo timbro caratteristico. Come questo lavoro di
smontaggio e rimontaggio venga eseguito, fino ad oggi
noi non lo capiamo se non molto imperfettamente,1 e
non c'è alcun manuale di psicologia che sembri conside­
rare l'argomento degno di discussione. Ma noi sappiamo
per lo meno che il timbro di uno strumento è determinato
da una serie di armonici che accompagnano la nota fon-

l . Vedi The Acl of Creation, pp. 5 1 6 e segg.

116
ciamentale e dalla diversa distribuzione di energia fra i
medesimi; nel loro insieme essi forniscono lo spettro to­
nale caratteristico dello strumento in questione. Identi­
fichiamo il suono di un violino o di un flauto ricostruendo
questo spettro - cioè scegliendo e legando insieme gli
armonici che erano annegati fra migliaia di altri armo­
nici nel composito impulso d'aria. In altre parole astra­
iamo uno schema stabile dal flusso acustico - peschiamo
in esso il timbro del flauto - e naturalmente i timbri di
un certo numero d'altri strumenti. Questi sono gli olòmeri
uditivi stabili dell'ascoltatore. Essi a loro volta si com­
binano sui livelli superiori della gerarchia in disegni di
melodia, armonia, contrappunto, secondo regole del gioco
più complesse. ( La melodia, per esempio, è uno schema
del tutto diverso dal timbro, estratto però dallo stesso
guazzabuglio di suoni, seguendo la traccia di variabili
differenti: il ritmo e l'altezza) .
La melodia, il timbro e il contrappunto sono disegni
nel tempo - come i fonemi, le parole e le frasi sono di­
segni nel tempo. Nessuno di per sé dà un senso com­
piuto - senso musicale, linguistico, semantico - se con­
siderato come una catena lineare di unità elementari.
I messaggi degli impulsi di pressione dell'aria possono
venir decodificati solo smontando gl'ingranaggi dell'ordi­
gno, identificando i disegni semplici integrati in disegni
più complessi, come arabeschi in un tappeto orientale.
Il processo, come già accennato, è reso più misterioso
dal fatto che il tempo ha una sola dimensione. Ma una
singola variabile è sufficiente a mettere in codice tutta
la musica che finora è stata scritta, purché vi sia un si­
stema nervoso umano a decodificarlo. Senza di esso le
vibrazioni causate dall'ago del grammofono sono sem­
plicemente un po' d'aria che si muove.
Tuttavia il riconoscimento dei disegni nello spazio
presenta un problema non minore. Come si fa a rico-

117
noscere una faccia, un paesaggio, una parola stampata,
al primo colpo d'occhio ? Persino l'identificazione di una
singola lettera scritta da mani diverse in misure diverse,
e che appare in varie posizioni sulla retina, e di qui sulla
corteccia ottica, presenta un problema quasi intrattabile
per il fisiologo. Al fine di identificare l'ingresso, il cervello
deve mettere in attività qualche traccia di memoria;
però non possiamo avere tracce mnemoniche che si ac­
cordino con tutte e con ogni variazione concepibile nel
modo di scrivere la lettera f - per non menzionare le
diverse migliaia di ideogrammi, se per caso uno è cinese.
Deve essere in gioco qualche processo di analisi visiva
assai complesso, che dapprima identifica nella totalità
le caratteristiche tipiche più semplici (olòmeri visuali,
come svolazzi, triangoli, ecc.) ; poi astrae le relazioni fra
queste caratteristiche; e poi le relazioni fra le relazioni.
I nostri occhi in effetti sono costantemente impegnati
in una gran varietà di differenti tipi di movimenti d'ana­
lisi, di cui siamo inconsapevoli; e gli esperimenti mostrano
che quando le attività d'analisi vengono impedite, il
campo visivo si disintegra. Analizzare il campo visivo
significa tradurre ciò che è dato simultaneamente nello
spazio in una successione di impulsi in ordine di tempo,
come la telecamera trascrive il suo campo visivo in una
successione nel tempo di impulsi che vengono poi ritra­
dotti dal televisore nell'immagine che si disegna sullo
schermo. E viceversa quando ascoltiamo un discorso o
della musica, il sistema nervoso estrae disegni nel tempo,
legando insieme il presente con i riverberi del passato
immediato e con memorie del passato remoto, facendone
un processo complesso che ha luogo nello specioso pre­
sente del cervello tridimensionale. Esso traspone costan­
temente disegni temporali in spaziali, ed eventi spaziali
in sequenze temporali. È classico il detto di Lashley:

118
(( Gli ordini spaziale e temporale appaiono quasi comple­
tamente intercambiabili nell'azione cerebrale )) (5) .
Così nella serie di stazioni attraverso cui deve passare
la corrente d'ingresso, essa è soggetta a processi di fil­
traggio e di analisi che la sfrondano delle cose irrilevanti,
estraggono configurazioni stabili dal flusso di sensazioni,
analizzano e identificano schemi di eventi in termini di
spazio e tempo. Uno stadio decisivo è quello della transi­
zione dal livello percezionale a quello conoscitivo della
gerarchia, dalla vista e dal suono al significato. I suoni
delle sillabe [fiu) e [laìi] non significano niente. Sono sil­
labe senza senso se non vengono riferite l'una all'altra.
Ma emerge istantaneamente una relazione quando ap­
prendiamo che [fiu) significa (( ragazzo )) in ungherese e
[laìi) significa <( ragazza )). Una volta che abbiamo inve­
stito di significato il suono di una sillaba, essa non ne può
più essere staccato.
Il significato che attribuiamo a questi disegni sonori è
accolto dalle convenzioni del linguaggio. Ma l'uomo ha
una tendenza irreprimibile a leggere un significato nella
ronzante confusione di visioni e di suoni che urgono sui
suoi sensi; e dove non è reperibile un significato accettato,
lo fornirà traendolo dalla sua immaginazione. Vede un
cammello in una nuvola, una faccia nascosta nel fogliame
di un albero, una farfalla o un particolare anatomico
nelle macchie d'inchiostro nel test di Rohrschach; sente
messaggi portati dal rimbombo delle campane o dal fra­
stuono delle ruote di un carro. Il sensorio estrae signifi­
cato dal caotico ambiente circostante, come il sistema
digerente estrae energia dal cibo. Se guardiamo un pa­
vimento bizantino di mosaico non lo percepiamo come
un insieme di singoli frammenti di pietra; combiniamo au­
tomaticamente i frammenti in sottoinsiemi: orecchie
nasi panneggi; e questi sottoinsiemi in figure singole; e
queste ultime in un tutto composito. E quando l'artista

1 19
disegna un volto umano, segue il procedimento inverso:
dapprima delinea il tutto a grandi tratti, poi schizza
occhi bocca orecchie come sottostrutture quasi indipen­
denti, olòmeri percezionali che possono venir schematiz­
zati secondo certi trucchetti e formule.
Il principio gerarchico è inerente ai nostri modi di
percezione; ma può essere raffinato dall'apprendimento e
dalla pratica. Quando uno studente di belle arti acquista
una conoscenza elementare dell'anatomia, migliora non
l'abilità delle sue dita, ma l'abilità del suo occhio. Con­
stable fece uno studio dei vari tipi di formazione di nubi,
e le classificò in categorie: sviluppò un (< vocabolario delle
nuvole >> visivo, che lo mise in grado di vedere e dipin­
gere cieli come nessun altro aveva fatto prima. L'occhio
esercitato del batteriologo o dello specialista di raggi X
li pone in grado di identificare gli oggetti che stanno cer­
cando, là dove il profano vede soltanto macchie e ombre.
Se la Natura aborre dal vuoto, la mente aborre dall'in­
significante. Mostrate a una persona una macchia di
inchiostro, e questa partirà immediatamente, organiz­
zandola in una gerarchia di forme, tentacoli, ruote, ma­
schere, una danza di figure. Quando i Babilonesi comin­
ciarono per primi a catalogare le stelle, le raggrupparono
in costellazioni di leoni, vergini, arcieri e scorpioni; le
conformarono in sotto-insiemi, olòmeri celesti. I primi
fabbricanti di calendari tesserono il filo lineare del tempo
nel disegno gerarchico dei giorni solari, dei mesi lunari,
degli anni stellari, dei cicli olimpici. In modo simile gli
astronomi greci spezzarono lo spazio omogeneo nella
gerarchia delle otto sfere celesti, munita ognuna della
sua orologeria di epicicli.
Non possiamo fare a meno di interpretare la natura
come un'organizzazione di parti-dentro-parti, perché tutta
la materia vivente, e tutti i sistemi inorganici stabili,
hanno un'architettura fatta di parti-dentro-parti, che con-

120
ferisce loro articolazione, coerenza e stabilità e dove
la struttura non è inerente o discernibile, la nostra mente
la fornisce proiettando farfalle nella macchia di inchiostro e
cammelli nelle nuvole.1

Per riassumere: nelle gerarchie motorie un'intenzione


implicita o un comando generalizzato viene particolariz­
zato, sillabato a passo a passo nella sua discesa verso la
periferia. Nella gerarchia percezionale abbiamo il pro­
cesso opposto: l'ingresso negli organi recettori alla peri­
feria dell'organismo viene sempre più << departicolariz­
zato 1>, sfrondato delle cose irrilevanti durante la sua
ascesa al centro. La gerarchia di uscita concretizza, la
gerarchia di entrata astrae. La prima opera per mezzo
di dispositivi a grilletto, questa per mezzo di congegni
di filtraggio o di esplorazione. Quando intendo scrivere la
lettera R, un grilletto mette in azione un olòmero funzio­
nale, un disegno automatizzato di contrazioni muscolari,
che produce la lettera R nella mia personale calligrafia.
Quando leggo, un congegno esplorativo della mia corteccia
cerebrale visiva identifica la lettera R senza tener conto
della particolare mano che la vergò. I grilletti fanno scat­
tare complesse uscite (outputs) per mezzo di un semplice
segnale codificato. I congegni di esplorazione funzionano
nel modo opposto: convertono complessi ingressi (inp�tts)
m un segnale codificato semplice.

l . Allusione ad Amleto, III, 2 (n.d.t.).

121
VI l Una memoria per dimenticare

Mais otì sont !es neiges d'antan ?


FRANçOIS VILLON

<< Ho una memoria grandiosa per dimenticare, David 1>,


nota Alan Breck in Kidnapped. Parla per conto di tutti
noi. Le nostre memorie profonde sono la goccia rimasta
in fondo al bicchiere, i deidratati sedimenti di percezioni
il cui profumo se ne è andato. Mi affretto ad aggiungere,
naturalmente, che vi sono eccezioni : memorie, dalla
vividezza quasi allucinante, di scene o episodi contenenti
qualche significato emozionale. Chiamerò questo << il fram­
mento vivido 1> o tipo di memoria << a fumetto >> - in
quanto distinta dalla memoria << astrattiva >> - e vi ri­
tornerò più tardi in questo capitolo.

MEMORIA ASTRATTIVA

Il grosso di quanto riusciamo a ricordare della storia


della nostra vita e della conoscenza che abbiamo acqui­
stato nel suo corso è di tipo << astrattivo >>. Si prenda un
semplice esempio: uno guarda una commedia alla tele­
visione. Le parole precise di ogni attore vengono dimen­
ticate al momento in cui pronuncia la frase successiva e
ne rimane solo il significato; la mattina dopo vi ricordate
soltanto la sequenza di scene che costituivano la storia;
dopo un anno vi ricordate solo che era un pasticcio fra
due uomini e una donna su un'isola deserta. L'ingresso,
input, originale è stato sfrondato, ridotto allo sche-

123
letro. Lo stesso per i libri che uno ha letto e gli episodi
che uno ha vissuto. Col passare del tempo, la memoria
si riduce sempre più a una linea di profilo, a un astratto
condensato della esperienza originale. La commedia che
avete visto un mese fa è stata astratta in una serie di
passi successivi dei quali ognuno condensa i particolari
in schemi più generalizzati; è stata ridotta a formula.
L'immaginazione del commediografo ha fatto sì che una
idea si diramasse in una struttura divisa in tre atti, di­
viso ognuno in scene, ognuna delle quali consistente di
divisioni minori: battute, frasi, parole. La formazione
della memoria rovescia il processo, fa rientrare gradual­
mente l'albero nelle radici, come in un film proiettato
all'indietro per trucco.
La parola �( astratto )) ha nell'uso comune inglese due
connotazioni principali: è l'opposto di (( concreto )) nel
senso che si riferisce ad un concetto generale piuttosto
che a un caso particolare; e in secondo luogo un (( astratto ))
o estratto è un sommario o condensato dell'essenza di
un documento più lungo, come i funzionari statali ne
preparano per i loro superiori. La memoria è astrattiva
in entrambi i sensi.
Questa però come ho già detto non è la storia completa.
Se lo fosse, saremmo dei computers e non gente. Ma con­
sideriamo ancora per un momento questo meccanismo
astrattivo. La formazione della memoria è un processo
continuo per la percezione. Si è detto che se un visitatore
voleva vedere Stalin, doveva passare attraverso dicias­
sette porte, dal cancello esterno del Cremlino fino alla
porta del sancta sanctorum, e ad ogni porta successiva
era sottoposto a un vaglio sempre più radicale. Abbiamo
visto che il dato (intake) sensoriale è soggetto a un simile
scrutinio prima di venire ammesso alla coscienza. Ad
ogni porta della gerarchia percettiva è analizzato, classi­
ficato, sfrondato di ogni dettaglio irrilevante al propo-

124
sito. Riconosciamo la lettera R scritta con uno scara­
bocchio quasi illeggibile come « la stessa cosa >> che
un'enorme R stampata del titolo di un giornale, per
mezzo di un processo di esplorazione che trascura
tutti i dettagli in quanto irrilevanti e ritiene unicamente
il disegno geometrico di base della R, la << R-ità >> ossia
l'R come degna di venir segnalata al quartier generale.
Il segnale può allora essere messo in codice in una specie
di semplice Morse. Contiene tutta l'informazione che
importa - << è un'R >>
- in forma condensata, resa sche­
letro, ma naturalmente la ricchezza dei particolari è andata
perduta. Il processo di esplorazione è davvero l'inverso
esatto del processo del << grilletto >>.
Anche quei pochi, fra la moltitudine di stimoli che
costantemente premono sui nostri sensi, che hanno superato
con successo tutti i vagli e hanno così raggiunto lo stato
di evento coscientemente percepito, devono usualmente
sottoporsi ad un ulteriore rigoroso sfrondamento prima
di esser stimati degni di venire ammessi nel magazzino
della memoria permanente; e col passare del tempo, per­
sino questo astratto tradotto in scheletro è soggetto a
ulteriore decadimento. Chiunque cerca di scrivere una
cronaca dettagliata di quello che ha fatto durante la
penultima settimana deve essere penosamente sorpreso
del tasso di decadenza e della quantità di particolari
irrimediabilmente perduti.
Questo impoverimento dell'esperienza vissuta è ine­
vitabile. In parte è una questione di parsimonia - benché
la capacità di magazzinaggio del cervello è probabil­
mente più grande di quella di cui la maggior parte della
gente non faccia uso per tutta la durata della vita; ma il
fattore decisivo è che i processi di generalizzazione e di
astrazione implicano per definizione il sacrificio dei parti­
colari. E se invece di astrarre degli universali come << R >>
o << albero >> o << cane >>, la memoria fosse una collezione

125
di tutte le nostre esperienze particolari di R e di alberi
e di cani - un magazzino di diapositive di lanterna ma­
gica e di registrazioni su nastri - sarebbe completamente
inutilizzabile: dato che nessun << ingresso )) sensoriale può
essere sotto tutti gli aspetti identico a una qualsiasi dia­
positiva o registrazione già immagazzinata, noi non sa­
remmo mai in grado di identificare un'R, o riconoscere
un cane o capire una frase pronunciata. Non potremmo
nemmeno raccapezzarci, in mezzo a quell'immenso ma­
gazzino di articoli così particolarizzati. La memoria astrat­
tiva, d'altra parte, implica un sistema di conoscenza
accumulata e immagazzinata, ordinata gerarchicamente
con titoli, sottotitoli e riferimenti e rinvii incrociati, come
le voci di un Thesaurus o il catalogo a soggetto di una
biblioteca. Qualche volume può esser finito nello scaffale
sbagliato, qualche copertina dai colori sgargianti può ri­
saltare in modo da attirare di più l'occhio, ma in com­
plesso l'ordine c'è e resiste.

'
UN IPOTESI SPECULATIVA

Fortunatamente ci sono compensi all'inevitabile im­


poverimento dell'esperienza vissuta che si registra nel
processo astrattivo.
In primo luogo il processo di esplorazione (scanning)
può acquistare, attraverso la cultura e l'esperienza, un
grado più spinto di sofisticazione. Per il novizio tutti i
vini rossi hanno lo stesso gusto, e tutti i giapponesi maschi
si somigliano. Ma egli può allenarsi a sovrapporre sui
congegni esplorativi << grossi )) degli altri più delicati, così
come Constable si allenò a discriminare fra i diversi tipi
di nuvole, e le classificò in sub-categorie. Così possiamo
imparare ad astrarre sfumature via via più fini, a far
sì che la gerarchia percettiva emetta, per così dire, nuovi
germogli e ramoscelli.

126
In secondo luogo, la memoria non si basa su una sola
gerarchia astrattiva, ma su una varietà di gerarchie in­
trecciate fra loro - come quelle della visione, del gusto
e dell'udito. È come una foresta d'alberi separati ma
con rami che s'intersecano, o come il nostro catalogo
di biblioteca con rinvii incrociati che collegano soggetti
differenti. Così il riconoscimento di un sapore dipende
spesso da << appigli l> forniti dall'odorato, anche se talora
non ce ne rendiamo conto. Ma vi sono connessioni tra­
sversali più sottili. Possiamo riconoscere un'aria suonata
da un violino anche se prima l'abbiamo soltanto sentita
eseguire al pianoforte; per l'altro verso, possiamo ricono­
scere il suono di un violino, anche se l'ultima volta sul
violino è stata eseguita un'aria affatto diversa. Dobbiamo
perciò presumere che melodia e timbro sono stati astratti
e immagazzinati indipendentemente, da gerarchie ben di­
stinte esistenti all'interno della stessa modalità di senso,
ma con diversi criteri di rilevanza. I)una astrae la me­
lodia e filtra tutto il resto }asciandolo fuori come irrile­
vante, l'altra astrae il timbro dello strumento e tratta
la melodia come irrilevante. Così non tutti i dettagli
scartati nel processo di sfrondamento dell'<< ingresso l> vanno
irrimediabilmente perduti, perché i d ettagli sfrondati
come irrilevanti secondo i criteri di una gerarchia pos­
sono essere stati conservati e immagazzinati da un'altra
gerarchia con criteri di rilevanza differenti.
La rievocazione dell'esperienza sarebbe perciò resa
possibile dalla collaborazione di diverse gerarchie intercon­
nesse, che possono includere differenti m odalità di senso,
per esempio vista e suono, o rami diversi in seno alla
stessa modalità. Ognuno di per sé fornirebbe un aspetto
solo dell'esperienza originale, impoverimento molto
drastico. Così potete ricordare soltanto le parole della
romanza << Che gelida manina l>, ma aver perso la melodia.
O potete ricordare la melodia soltanto, avendo dimenti-

127
cato le parole. Infine potete riconoscere la voce di Ca­
ruso in disco, senza ricordare che cosa gli avete sentito
cantare l'ultima volta. Ma se due di questi fattori o tutti
e tre sono rappresentati nel magazzino della memoria,
la ricostruzione dell'esperienza in corso di rievocazione
sarà naturalmente più completa.
Il procedimento potrebbe essere paragonato alla stampa
a più colori eseguita mediante sovrapposizione di diversi
cliché corrispondenti alle varie tinte. La pittura da ri­
produrre - l'esperienza originaria - viene fotografata,
mediante diversi filtri cromatici, sulle lastre del blu, del
rosso e del giallo, ognuna delle quali trattiene soltanto
quelle parti che sono per essa <c rilevanti >>: cioè che ap­
paiono del colore di quella determinata lastra, e ignora
tutte le altre parti; in seguito si ricombinano in una ri­
costruzione più o meno fedele dell'originale. Ciascuna
gerarchia avrebbe perciò in proprio un diverso <c colore >>,
il colore simboleggiando i suoi criteri di rilevanza. Quali
gerarchie addette alla formazione di memoria siano in
funzione a ogni dato momento dipenderà naturalmente
dagli interessi generali del soggetto e dallo stato d'animo
del momento stesso.
La memoria non può essere un magazzino di diaposi­
tive da lanterna magica e di registrazioni su nastro, e
neppure di blocchi da costruzione S-R; questo è evi­
dente. Ma l'ipotesi alternativa che ho proposto - che
cioè la memoria sia scomponibile in gerarchie con diffe­
renti criteri di rilevanza - è, francamente, una pura
speculazione. Tuttavia, qualche modesta prova di fatto
la si può trovare in una serie d'esperimenti attuati da
J ames J enkins e da me nel laboratorio di psicologia
della Stanford University.1

l. I risultati furono pubblicati in una memoria di carattere tec­


nico; il sugo dell'esperimento consisteva nel mostrare a ogni soggetto

128
DUE TIPI DI MEMORIA: << IL FUMETTO >>

L'ipotesi della <c stampa in quadricromia >> rappresenta


in qualche modo un passo verso la spiegazione degl'im­
barazzanti fenomeni del richiamo alla memoria, della
rievocazione, ma è basato soltanto sul tipo di memoria
detto astrattivo, che da solo non può render conto del­
l'estrema vividezza dei <c frammenti vividi >> o << strisce a
fumetto >> menzionati all'inizio del capitolo. Dopo qual­
cosa come quarant'anni << mi par di udire ancora >> la voce
del grande attore austriaco Alessandro Moissi che sus­
surra le ultime parole di un morente: << Dammi il sole >>.
Ho dimenticato l'argomento del dramma e persino l'au­
tore - poteva essere Strindberg, Ibsen o Tolstoi 1 - ma
non l'allucinante chiarezza di quel singolo frammento,
avulso dal suo contesto. Tali frammenti, che sono so­
pravvissuti alla decadenza dell'insieme a cui una volta
erano appartenuti - come il singolo ricciolo della capi­
gliatura nella mummia di una principessa egiziana - hanno
un potere evocativo che sfiora il sortilegio. Possono es­
sere uditivi: un verso di una poesia per il resto dimenti­
cata, o la casuale osservazione di un estraneo colta a
volo sull'autobus; oppure visivi: il gesto d'un bambino,
il neo sulla faccia di un professore; o possono anche ri­
ferirsi al gusto e all'olfatto, come la celebre madeleine

solo per una frazione di secondo (mediante un apparecchio chiamato


tachistoscopio) un numero di otto o nove cifre, e poi fargli ripetere
la sequenza. I risultati di diverse centinaia di esperimenti mostrano
che un numero di errori altamente significativo (approssimativamente
il cinquanta per cento) consisteva nel fatto che il soggetto identificava
correttamente tutte le cifre della sequenza, ma invertiva l'ordine di
due o tre cifre vicine. Ciò sembra confermare che !"identificazione delle
singole cifre, e la determinazione del loro ordine sequenziale, sono eseguite
da rami separati della gerarchia percettiva.
l. Si tratta naturalmente della celeberrima battuta finale degli
Spettri ibseniani. Vautore, come al solito spiritoso e icastico, finge di
averlo dimenticato per maggiore evidenza del fenomeno (n.d.t.) .

5 KOESrLER 129
di Proust (che è un pasticcino francese, non una ragazza) .
<< Esiste un metodo di ritenzione che sembra l'opposto di
quello della formazione della memoria nelle gerarchie
astrattive. È caratterizzato dalla conservazione dei det­
tagli vividi, che, da un punto di vista puramente logico,
sono spesso irrilevanti; eppure questi quasi cinematogra­
fici dettagli, serie di fotogrammi, e primi piani, che pa­
iono contraddire alle esigenze della parsimonia, sono al
tempo stesso durevoli e di una tagliente nitidezza, e ag­
giungono sostanza, grana e aroma alla memoria 1> (2) .
Ma se questi frammenti sono così irrilevanti, perché
sono stati conservati ? La risposta ovvia è che mentre
sono irrilevanti dal punto di vista della logica, devono
avere qualche speciale significato emotivo, che può es­
sere cosciente o no. In realtà, questi frammenti visivi
vengono solitamente descritti come << suggestivi 1>, << nostal­
gici 1>, << terrificanti 1> o << commoventi 1>; in altre parole
sono sempre emozionalmente colorati. Così fra i criteri di
rilevanza che decidono se un'esperienza è degna di es­
sere conservata, abbiamo anche da includere la rilevanza
emozionale. La ragione per cui un'esperienza particolare
debba avere questo tipo di rilevanza può essere scono­
sciuta al soggetto stesso; può essere simbolica od obliqua.
Nessuno, neppure un teorico di computers, pensa con­
tinuamente in termini di gerarchie astrattive; l'emozione
colora tutte le nostre percezioni, e vi sono prove ab­
bondanti per dimostrare che le reazioni emozionali an­
ch'esse comportano una gerarchia di livelli, incluse al­
cune arcaiche strutture cerebrali che sono filogenetica­
mente molto più antiche delle strutture moderne che si
occupano della concettualizzazione astratta (vedi capi­
tolo XVI) . Si potrebbe inferire che nella formazione delle
memorie a << striscia illustrata 1>, questi livelli più antichi,
primitivi, della gerarchia, svolgono una parte preponde­
rante. Ci sono ulteriori considerazioni a favore di quest'ipo-

130
tesi. La memoria astrattiva generalizza e schematizza,
mentre la striscia illustrata particolarizza e concretizza,
il che è un metodo molto più primitivo di immagazzi­
nare informazione. 1
La memoria astrattiva può venir confrontata con l'ap­
prendimento critico, la striscia illustrata col condiziona­
mento. Può essere anche messa in relazione con le im­
magini eidetiche. È stato sperimentalmente stabilito (3)
che una percentuale considerevole di bambini possiede
questa facoltà. Si dice al bambino di fissare gli occhi
su un'immagine per circa quindici secondi, ed è poi in
grado di vederla << proiettata >> su uno schermo vuoto,
di additare la posizione esatta di ogni particolare, il suo
colore, ecc. Le immagini eidetiche occupano una posi­
zione intermedia fra le immagini retiniche e quelle che
chiamiamo comunemente << immagini mnemoniche >>; Klue­
ver parla di questi tre tipi o livelli di memoria visiva
e sembra sottintendere che sono gerarchicamente ordinate.
Diversamente dalle retroimmagini, le immagini eidetiche
possono essere prodotte a volontà, e dopo lunghi inter­
valli (anche di anni) . Sono come le allucinazioni, tranne
il fatto che il bambino sa che l'immagine che vede
non è << vera >>.
Ma benché comunissima nei bambini, la memoria
eidetica svanisce coll'avvento della pubertà ed è raris­
sima negli adulti. I bambini vivono in un mondo di vi­
vide immagini: il modo eidetico che hanno i bambini
per << stamparsi >> immagini nella mente può rappresentare

l . Il termine <l informazione l) nella moderna teoria delle comuni­


cazioni è usato in senso più generale che non nella conversazione di
ogni giorno. Significa ogni ingresso (input) che informa l'organismo,
cioè ne riduce l'incertezza. Così l'informazione include qualunque cosa,
che vada dal colore e dal gusto di una mela fino alla Nona Sinfonia
di Beeethoven. Gli ingressi irrilevanti - cioè quelli che non riducono
l'incertezza - sono chiamati <l rumore l) (noise) - per analogia con
una linea telefonica disturbata da scariche.

131
una forma filogeneticamente ed ontogeneticamente più
primitiva di formazione della memoria, che si perde
quando diventa dominante il pensiero astrattivo e con­
cettuale.

IMMAGINI E SCHEMI

Lasciando in disparte le immagini eidetiche e le strisce


illustrate, quando gli adulti normali parlano delle loro im­
magini mnemoniche e asseriscono di poter letteralmente
<c vedere >> con l'occhio della memoria una scena o una
faccia ricordata, sono usualmente vittime di una sottile
forma di auto-inganno. Un modo per dimostrarlo si ha
col test di Binet-Muller. Il soggetto è invitato a concen­
trarsi su un quadrato di lettere, per esempio, di cinque
file, di cinque lettere ciascuna, finché non ritenga di
essersi formato un'immagine visiva del quadrato, in modo
da riuscire a <c vederlo >> con l'occhio della mente. Quando
si porta via il quadrato, in effetti egli è in grado di <c leg­
gere >> correntemente le lettere, o almeno così crede. Ma
quando lo si invita a <c leggere >> il quadrato a ritroso
o diagonalmente, ci metterà dieci volte più tempo. Egli
crede onestamente di essersi formato un'immagine visiva,
mentre in fatto ha imparato la sequenza a mente; se fosse
realmente in grado di <c vedere >> il quadrato, saprebbe
leggerlo in tutti i sensi con eguale velocità e facilità.
Da molto tempo l'errore è noto. Uno dei primi stu­
diosi dell'argomento, Richard Semon (che coniò la parola
mneme per <c memoria >>) , scrisse un mezzo secolo fa che il
ricordo visivo <c rende soltanto le luci ed ombre più forti >>.
In effetti anche le ombre sono usualmente assenti dai
ricordi visivi, e tutte le sfumature di colore, salvo le più
crude. L'immagine è definita <c un'esperienza dei sensi
rivissuta in assenza di stimolo sensorio >> (4) ; ma dal mo­
mento che la maggior parte dei dettagli dell'esperienza

132
si è perduta nel processo di filtraggio con cui si forma
la memoria, le nostre immagini visive sono molto più
vaghe e schematiche di quanto non siamo soliti credere.
Sono generalizzazioni visive ridotte allo scheletro - pro­
fili, disegni, schemi - astratti dall'<< uscita >> originaria
per mezzo di diverse gerarchie visive intrecciate, in modo
molto simile a quello con cui la melodia, il timbro . di
voce e le parole vengono estratte dall'aria di Caruso.
Usiamo varie e spesso ambigue parole per questi
schemi ottici, ambigue perché le configurazioni visive no�
si possono tradurre facilmente in termini verbali. Tut­
tavia il caricaturista sa evocare il volto di Hitler o di Mao
con un numero sorprendentemente limitato di tratti, che
schematizzano quel che chiamiamo un' <c impressione ge.­
nerale >>; aggiungendo talora un << particolare vivido >> col­
l'infilare un sigaro in bocca a Churchill. Quando cerchiamo
di descrivere la faccia di una persona, usiamo espres�
sioni come << emaciata >>, << spiritosa >>, << brutale >>, << triste >>.
Verbalmente, ognuno di questi attributi è estremamente
difficile da definire; visualmente, sono generalizzazioni
sfrondate di particolari, ma ognuna definibile con pochi
tratti di matita: sono olòmeri percezionali.
Riconoscere una persona non significa far combinar�
la sua immagine retinica con una diapositiva del magaz­
zino della memoria, contenente i suoi connotati fotogra­
fici; significa sottoporre l'ingresso a una gerarchia di ap­
parati di lettura che ne estraggono certe configurazioni
fondamentali: la R-ità, per così dire. Diverse gerarchie
percettive possono collaborare al compito: una faccia .o
un paesaggio possono avere una << melodia >>, un <c timbro >>.,
un <c messaggio >>, e diversi altri attributi.
Il mio atteggiamento verso la persona o il paesaggio
determinerà quali aspetti sono da considerarsi rilevanti,
tali da meritare di venire astratti e immagazzinati, e quali
esclusi per filtraggio. Agli scopi del riconoscimento la << me-

133
!odia )) da sola può bastare, ma il ricordare la faccia in sua
assenza sarà tanto più completo quanto più numerosi
sono i rami della gerarchia percezionale che hanno parte­
cipato al lavoro di ritenerla. Quanto più ricca è la rete
che le connette, tanto più efficacemente compenserà l'im­
poverimento subìto dall'esperienza nel processo di im­
magazzinarla. La memoria eccezionale che si dice ab­
biano posseduto alcuni grandi uomini, può esser dovuta
a questo modo multidimensionale di analizzare e imma­
gazzinare le esperienze. 1
Ma per l a gran maggioranza delle persone, i l ricordare
ha natura molto meno pittorica di quanto non creda­
no: si veda l'esperimento del quadrato di lettere. Noi
sovraestimiamo la precisione del nostro repertorio d'im­
magini, così come sopravalutiamo la precisione del no­
stro pensiero verbale; spessissimo riteniamo di sapere esat­
tamente quel che vogliamo dire, ma, ahi, quando si tratta
di metterlo giù sulla carta! Non ci rendiamo conto delle
sfocature e degli iati del nostro pensiero verbale, come non
ci rendiamo conto del particolare mancante, degli spazi
vuoti fra l'uno e l'altro schema visivo.

'
r, IMPARARE A MEMORIA .

La specie più opaca e noiosa di memoria, che finora


non ho menzionato, consiste nelle sequenze di parole
imparate a memoria. Ma anche qui troviamo un ordine

l. Nel linguaggio del teorico dell'informazione: <• Quando l'infor­


Hlazione è posta in forma schelllatica, è facile includere informazione
sulle relazioni fra le parti maggiori e informazione sulle relazioni
fra le parti di ognuno dei sub-schemi . Informazione interna particola­
reggiata sulle relazioni delle sub-parti appartenenti a parti differenti
non ha posto nello schema e ha probabilità di andar perduta. La
perdita di tale informazione e la conservazione principalmente della
informazione sull'ordine gerarchico è una caratteristica saliente che
distingue i disegni di un bambino o di un inesperto dal disegno di
un artista addestrato * (Simon 5).

1 34
gerarchico. Gli elementi memorizzati non sono dei bit
isolati e semplicissimi, ma olòmeri più grandi che ten­
dono a formare disegni. Una poesia imparata a memoria
riceve coesione da schemi di rima, ritmo, sintassi e signi­
ficato, sovrapposti l'uno all'altro in base al principio della
stampa a colori. Il lavoro di memorizzazione viene cosi
a ridursi a un adattamento reciproco degli schemi e al
riempimento dei vuoti rimasti. Lo stesso si applica al­
l'apprendimento di una sonata per pianoforte, dove la
struttura degli olòmeri musicali - l'architettura dei mo­
vimenti, dei temi e variazioni, dello sviluppo e della
riesposizione, del ritmo ed armonia - è egualmente ovvia.
Dove i dati da immagazzinare non offrono coesione ap­
parente, come nel caso della memorizzazione di date e
di regnanti, o una sfilza di sillabe senza senso, s'inventerà
ogni sorta di artifizi o trucchi mnemonici per disporre di
qualche schema strutturale.
Così anche l'imparare a memoria non è mai puramente
meccanico. Un certo quantitativo di (c battere e ribat­
tere 1> per ripetizione è spesso indispensabile per ottenere
coesione. Quanto (c battere e ribattere 1> sia necessario
dipende dalla significatività del compito e dalla capa­
cità del soggetto di comprenderlo. A un estremo c'è il
cane del laboratorio pavloviano che ha bisogno di giorni
o settimane di esperienze monotonamente ripetute per
capire finalmente che la figura di un'ellisse su un car­
tello segnala il cibo, ma un cerchio no. Non c'è da stu­
pirsi - perché fuori del laboratorio il cibo non è segna,­
lato da ellissi su cartelli, e le gerarchie percezionali del
cane non sono sintonizzate per trattarli come eventi
rilevanti. Considerazioni analoghe si applicano ai gatti
di Thorndike dentro alle scatole rompicapo, e ai pic­
cioni di Skinner. Gli si dà compiti da imparare per i quali
mancano dell'equipaggiamento naturale, e che essi pos­
sono apprendere solamente (c battendo e ribattendo 1>.

135
Proclamare che questo procedimento è il paradigma del­
l'apprendimento umano è stata una delle aberrazioni
grottesche della psicologia <t della terra piatta l>. 1
I teorici della Gestalt, dall'altro lato, sono inclini a
vedute egualmente estremiste di tipo opposto. Essi so­
lèvano sostenere che il vero apprendimento intelligente
esclude ogni procedimento per tentativi ed è basato su
una comprensione totale della <t situazione totale l) . Per
la presente teoria, la comprensione intima viene consi­
derata una questione di gradi, e non, come sostiene la
scuola gestaltica, una questione di <t tutto o niente l>. La
comprensione intima dipende dall'analisi multidimensio­
nale dell'ingresso nei suoi vari aspetti, dall'estrazione
di messaggi rilevanti dal rumore irrilevante, dall'iden­
tificazione di schemi attraverso il mosaico, :finché il mo­
saico si satura, per così dire, di significato.

Per riassumere: dobbiamo presupporre l'esistenza di


gerarchie della percezione, multiple, interconnesse, che
forniscono la multi-dimensionalità o policromia dell'e­
sp�rienza. Nel procedimento di messa a magazzino delle
memorie, ogni gerarchia spoglia il dato in entrata ridu­
cendolo alle cose veramente essenziali secondo il proprio
criterio di significatività.
Il rievocare l'esperienza richiede un'opera di rivesti­
mento a nuovo. Ciò è reso possibile, fino a un certo punto,
dalla collaborazione delle gerarchie coinvolte, ognuna
delle quali contribuisce con l'apporto di quei fattori che
ha ritenuto fosse il caso di conservare. Il procedimento
è comparabile alla sovrapposizione delle lastre dei vari
colori in tipografia o delle diverse maschere del fabbricante
di carta da parati a mano. A questo si aggiungono tocchi

l . Per una discussione più particolareggiata, vedi Tlte Acl of Crea­


tion, libro II, cap. XII.

136
di << dettaglio vivido )), forse anche frammenti di imma­
gini eidetiche, che recano una forte carica emotiva: il
risultato è una sorta di collage, con occhi di vetro e
una ciocca di capelli veri appiccicati su una figura nebu­
losa e schematizzata.
Può anche avvenire che frammenti di origine diversa
vengano a incorporarsi per errore nel collage, - a in­
eludersi nella rievocazione di esperienze di cui non fanno
parte. Giacché la memoria è un vasto archivio di estratti
e di curiosità, che l'archivista continuamente risistema e
rivaluta; il passato viene costantemente rifatto dal pre­
sente. Ma la maggior parte di questo fare e rifare non
viene avvertito coscientemente. I cànoni della perce­
zione e della memoria operano istantaneamente e incon­
sciamente; noi giochiamo di continuo a giochi delle cui
regole non abbiamo consapevolezza ..

137
VII l Il nocchiero

L'essere umano è il più alto sistema autore­


golantesi.
IVAN PETROVI è PAVLOV

Ho usato i termini di gerarchie << interconnesse 1> o


<< inter-collegate 1> .
Naturalmente le gerarchie non lavo­
rano nel vuoto. Il fegato è un organo dell'apparato di�
gerente, il cuore di quello circolatorio; ma il cuore di­
pende dal glucosio fornito dal fegato e il fegato dipende
dal corretto funzionamento del cuore. Questa verità la­
palissiana della interdipendenza dei vari processi che si
svolgono nell'organismo è probabilmente la causa prin­
cipale della confusione che ha oscurato la visione della
sua struttura gerarchica. È come se la vista del fogliame
dei rami intrecciati in una fitta foresta ci facesse dimen­
ticare che i rami spuntano da alberi ben distinti fra loro.
Gli alberi sono le strutture verticali. I punti d'incontro
fra i rami che si dipartono da alberi vicini formano tralicci
orizzontali a vari livelli. Senza alberi non potrebbe esserci
né intreccio né tralicci. Senza tralicci ogni albero rimar­
rebbe isolato e non si darebbe integrazione di funzionL
Arborizzazione e reticolazione appaiono come princìpi
complementari nell'architettura degli organismi.
Per sgombrare la strada da un possibile malinteso,
dovrei qui inserire un'osservazione abbastanza ovvia.
Una foresta consiste di una moltitudine di alberi. L'or'­
ganismo vivente è un tutto integrato, un albero a sé
stante. E tuttavia ho parlato di gerarchie percezionali e

139
motorie come di entità separate. Nel fatto, beninteso,
esse sono soltanto rami principali dello stesso albero,
ossia << sub-gerarchie )). Ma denominarle così sarebbe pe­
danteria superflua, in quanto ogni ramo di una gerarchia
data è a sua volta gerarchicamente strutturato. Così è
spesso conveniente considerare il Foreign Office e il Mi­
nistero della Guerra come gerarchie separate, oltre che
come ramt governativi che si congiungono a livello del
Gabinetto.

ROUTINES SENSO-MOTORIE

L'esempio più ovvio di gerarchie interconnesse è il


sistema sensoriale-motorio. La gerarchia sensoria tratta
l'informazione e la trasmette in un flusso stabile all'Io
cosciente che si trova all'apice; l'Io prende decisioni che
vengono compitate dalla corrente discendente d'impulsi
della gerarchia motoria. Ma l'apice non è il solo punto
di contatto fra i due sistemi; questi sono collegati da
tralicci connessi fra loro a vari livelli.
Il traliccio del livello più basso consiste nei cosiddetti
riflessi locali. Sono scorciatoie fra la corrente ascendente
e quella discendente, come gli svincoli o incroci a qua­
drifoglio che collegano le opposte correnti di traffico di
ùn'autostrada: reazioni di routine a stimoli egualmente
di routine, quali il riflesso rotuleo, che non richiede l'in­
tervento di processi mentali superiori. Il livello a cui va
deferita la presa di decisione dipende dalla complessità
della situazione. Il riflesso della rotula del ginocchio, o
il riflesso delle palpebre, si sono generalmente già com­
piuti prima che lo stimolo abbia raggiunto la coscienza.
Uno degli errori fondamentali del behaviourismo rozzo,
di marca watsoniana, fu costituito dal presupposto che
le attività complesse risultino dal sommarsi di isolati
riflessi locali. Sappiamo adesso che è vero il contrario,

140
e che i riflessi locali sono gli ultimi a fare la loro appa­
rizione nello sviluppo del sistema nervoso dell'embrione:
(( Il comportamento si sviluppa nell'uomo... mediante
l'espansione di un disegno totale che si integra come un
tutto fin dal principio, e dall'individuazione di disegni
parziali (riflessi) all'interno del tutto unitario 1> (Coghill) (1) .
Inoltre i riflessi subiscono l'influenza dei livelli più ele­
vati della gerarchia: persino il riflesso rotuleo si confonde
se il paziente sa che cosa sta per fargli il medico. Il com­
portamento umano non è una successione di riflessi rotulei
e di battiti di palpebra, e ogni tentativo di ridurlo a que­
sti termini ci riporta alla psicologia <( della terra piatta 1>.
Sul livello immediatamente superiore ci sono i tra­
licci delle abilità e delle abitudini sensoriali e motorie
- quali la dattilografia senza guardare la tastiera o la
guida della vettura, che si compiono più o meno mecca­
nicamente, e non richiedono l'attenzione dei centri più
alti - a meno che qualche disturbo grave non li faccia
andare in panne. Portare la macchina è una routine che
include, fra le (( regole del gioco 1>, premere il pedale del
freno quando si ha un ostacolo davanti. Ma su una strada
ghiacciata frenare può essere un affare rischioso, il vo­
lante lo si sente diversamente, e l'intera strategia della
guida va modificata, trasposta in chiave diversa, per
così dire. Dopo un po' di tempo anche questo diventa
una routine semi-automatica; ma basta che un cagnolino
stia trottando stùla strada ghiacciata davanti al guida­
tore e questi dovrà prendere una (( decisione ad alto li­
vello 1>, se schiacciare di colpo il freno, rischiando la sicu­
rezza dei passeggeri, oppure investire il cane. E se in­
vece del cane chi attraversa la strada è un bambino,
egli probabilmente farà funzionare il freno, succeda quel
che deve succedere. È a questo livello, quando i pro e
i contro si bilanciano esattamente, che sorge l'esperienza
soggettiva della libertà e della responsabilità morale.

141
RETROAZIONI E OMEOSTASI

Ma le routines ordinarie dell'esistenza non richiedono


decisioni morali di questo genere, e neppure molta atten­
zione cosciente. I processi fisiologici - respirazione, di­
gestione, ecc. - badano a se stessi da soli; sono autore­
golantisi. E così dicasi della maggior parte delle attività
di routine: camminare, andare in bicicletta, guidar l'auto.
Il principio dell'auto-regolazione è, infatti, fondamentale
per il concetto di gerarchia. Se un olòmero deve funzio­
nare come un sub-intero semi-autonomo, deve essere
attrezzato con congegni di auto-regolazione. In altre pa­
role, le sue operazioni devono essere guidate, da una parte,
dai propri cànoni di regole ben fissati, e dall'altra parte,
da punti di riferimento offerti da un ambiente variabile.
Così dev'esserci un flusso costante d'informazioni in rap­
porto al procedere dell'operazione che risale indietro fino
al centro che la controlla; e il centro controllante deve
costantemente registrare, aggiustare il corso dell'opera­
zione secondo l'informazione che gliene ritorna. Questo
è il principio del controllo controreattivo o feedback.1 Il
principio è vecchio: James Watt se n'era già servito nella
sua macchina a vapore per conservare costante la velo­
cità di questa in condizioni di carico variabili. Ma le
sue applicazioni moderne, che vanno sotto il nome di
cibernetica, hanno riportato successi ragguardevoli nei
più disparati campi, dalla fisiologia agli elaboratori:
altro caso di estrazione di conigli vivi da un vecchio
cappello a cilindro.
Il più semplice esempio di controllo a controreazione
è il riscaldamento centrale regolato con termostato. Im­
postate il termostato del soggiorno alla temperatura de­
siderata. Se la temperatura scende sotto quel valore,

l. Feedback o controreazione è generalmente definito come l'ac­


coppiamento dell'uscita con l'ingresso (output e input) .

142
il termostato chiude un circuito elettrico che a sua volta
aumenta il tasso di combustione della caldaia. Se nella
stanza comincia a far troppo caldo, si svolge il processo
opposto. L'impianto che è in cantina comanda la tem­
peratura della stanza; ma l'informazione che gli è ri­
spedita dal termostato situato nella stanza corregge il
funzionamento dell'impianto e lo mantiene stabile. Un
altro esempio ovvio è il servom;�tccanismo che mantiene
la nave su una rotta prefissata, reagendo automatica­
mente ad ogni deviazione della stessa. Di qui il termine
cibernetica, dal greco cybernetes, <c pilota, nocchiero )).
L'organismo vivente è regolato anch'esso da un di­
spositivo termostatico, che ne mantiene la temperatura
a livello stabile - con variazioni che di rado superano il
centigrado in più o in meno. La sede del termostato si
trova nell'ipotalamo, struttura vitale del bulbo cerebrale.
Una delle sue funzioni è di garantire I'omeostasi, cioè
la stabilità della temperatura corporea, della frequenza
del polso, e l'equilibrio chimico dei fluidi fisiologici. Il
microscopico termostato del cervello si è dimostrato che
reagisce a variazioni della temperatura ambiente di un
centesimo di centigrado. Quando la temperatura nelle
sue vicinanze immediate - nel timpano dell'orecchio -
supera un livello critico, si manifesta un'improvvisa tra­
spirazione. Inversamente, quando la temperatura scende,
automaticamente i muscoli cominciano a rabbrividire, tra­
sformando energia in calore. Altri <c omeòstati )) (termine
coniato in analogia a termostato) controllano altre fun­
zioni fisiologiche e mantengono l'ambiente interno dell'or­
ganismo a livello stabile.
Abbiamo così la prova esatta di meccanismi autorego­
latori che operano ai livelli base della gerarchia. La pa­
rola <c omeòstasi )) fu coniata da Walter B. Cannon, il gran­
de fisiologo di Harvard, che aveva una chiara intuizione
delle sue implicazioni gerarchiche. Egli scrisse che l' omeò-

14:l
stasi libera l'organismo << dalla necessità di dedicare at­
tenzione di routine alla gestione dei particolari della sem­
plice esistenza. Senza dispositivi omeostatici, saremmo
di continuo sull'orlo del disastro, a meno di stare sempre
all'erta per correggere volontariamente quello che di norma
si corregge automaticamente. Con i dispositivi omeosta­
tici, invece, che mantengono stabili i processi somatici
essenziali, come individui andiamo esenti da una simile
schiavitù, liberi di . . . esplorare e capire le meraviglie del
mondo intorno a noi, di sviluppare nuove idee e in­
teressi, e di lavorare e giocare, sciolti dall'ansia di dover
badare ai nostri affari corporei )) (2) .
I dispositivi d i autoregolazione non s i trovano sol­
tanto a livello viscerale; operano a ogni livello di tutte
le funzioni di un organismo. Il ragazzo che va in bicicletta,
l'acrobata che cammina sulla corda bilanciandosi con la
sua pertica di bambù, sono esempi perfetti di omeòstasi
cinetica. Ma entrambi dipendono da una costante contro­
reazione cinestesica, da sensazioni che riferiscono sui
movimenti, le tensioni, le positure del proprio corpo.
Quando la controreazione si arresta, l'omeòstasi va a
rotoli. La citazione che segue è di Norbert Wiener, che
coniò il termine di cibernetica, e identificò il concetto
di feedback:

<< Giunge un paziente in una clinica neurologica. Non è


paralizzato, e può muovere le gambe quando ne riceve
l'ordine. Ciononostante soffre di una grave menomazione.
Cammina con un'andatura particolare, incerta, con gli
occhi fissi in giù, sul suolo e i propri piedi. Inizia ogni
passo con un calcio, gettando avanti una gamba per
volta. Se gli si benda gli occhi non sa stare dritto e si
affloscia al suolo. Che cosa gli succede ?
. . . Soffre di tabe dorsale. La parte del midollo spinale
che è normalmente destinata a ricevere le sensazioni è
stata danneggiata o distrutta dalle conseguenze tardive

144
della lue. I messaggi in arrivo sono attutiti, quando non
sono totalmente scomparsi. I ricevitori delle giunture,
dei tendini e dei muscoli e delle piante dei piedi, che or­
dinariamente gli trasmettono la posizione e lo stato di
movimento delle gambe, non gli mandano più messaggi
che il sistema nervoso centrale possa raccogliere e inol­
trare, e per l'informazione circa la propria posizione è
obbligato ad affidarsi agli occhi e agli organi dell'equi­
librio posti nell'orecchio interno. Nel gergo del fisiologo
ha perduto una parte importante del suo senso proprio­
cettivo o cinestesico )) (3).

In altre parole, la gerarchia sensoria del paziente, che


fornisce la controreazione o feedback al centro di con­
trollo, è stata menomata. Tutte le abilità sensorio-motorie,
dall'andare in bicicletta, allo scrivere a macchina senza
guardare la tastiera, al suonare il piano, operano attra­
verso controreazioni a scorciatoia, a svincolo tipo auto­
strada; controreazioni assicurate dai complessi tralicci a
rete che connettono i due rami della gerarchia.
Ma guardiamoci dall'usare il principio del controllo a
controreazione come una formula magica che spiega tutto,
come tendono talvolta a fare i teorici dei computers. Il
concetto di feedback, senza il concetto di ordine gerar­
chico, è come il sogghigno senza il gatto. Abbiamo visto
che la prestazione di una data abilità segue un disegno
predisposto, secondo certe regole del gioco. Queste sono
fisse, ma sufficientemente elastiche per permettere co­
stanti adattamenti in relazione al variare delle condi­
zioni ambientali. Il feedback può funzionare soltanto
entro i limiti di quelle regole fisse: il (< cànone )) del­
l'abilità. La parte svolta dal feedback consiste nel rife­
rire, a ogni passo dell'operazione in corso, se questa su­
peri il bersaglio oppure se abbia fatto un tiro corto, come
mantenerla a un certo ritmo, quando occorra intensifi­
care il passo e quando fermarsi. Ma non può alterare,

145
di quella abilità, il disegno intrinseco. La cinciallegra
che si costruisce il nido ha una concezione della forma
che esso deve prendere rappresentata in qualche modo
nel suo sistema nervoso, altrimenti i nidi di tutte le cin­
ciallegre non sarebbero eguali; il costante feedback che
le giunge attraverso l'occhio e il tatto le dice unicamente
quando bisogna fermarsi con la << tessitura l> e cominciare
la << pestatura l> e quando questa deve cedere il passo
alla << intonacatura l>. Una delle differenze vitali fra la
concezione S-R e la presente teoria è che, secondo la
prima, l'ambiente determina il comportamento; mentre
per la seconda il feedback in arrivo dall'ambiente si li­
mita a guidare, correggere o stabilizzare un preesistente
schema di comportamento.
La primitività e autonomia di tali schemi di compor­
tamento istintivo sono stati messi in forte risalto negli
ultimi anni da etologi come il Lorenz, il Tinbergen, il
Thorpe, ecc., e da biologi come von Bertalanffy e Paul
Weiss. 1 Le nostre abilità acquisite spiegano la stessa au­
tonomia. Mentre scrivo queste righe, sto ricevendo un
costante feedback dalla pressione della penna contro la
carta attravetso le dita, e dal procedere dello scritto
attraverso gli occhi. Ma questi non alterano il disegno
della mia grafia, unicamente la mantengono sulla rotta
normale, perché anche ad occhi chiusi la mia scrittura
si limiterà a diventare incerta e oscillante, ma i suoi
schemi caratteristici rimarranno inconfondibilmente i me­
desimi.

l. Per esempio P. Weiss: << La struttura dell'ingresso non produce


la struttura dell'uscita, ma semplicemente modifica delle attività ner­
vose intrinseche che hanno una organizzazione strutturale propria & (4).
Oppure, von Bertalanffy: << Lo stimolo (cioè un'alterazione delle condi­
zioni esterne) non causa un processo in un sistema internamente inat­
tivo, ma piuttosto modifica il processo in un sistema internamente
attivo& (5).

146
SCORCIATOIE NELLE SCORCIATOIE

Fin qui ho parlato dei feedback sensori che guidano


le attività motorie. Ma il traffico trasversale dei tralicci
orizzontali funziona in entrambe le direzioni, e la perce­
zione viene guidata dall'intervento delle attività motorie.
Il vedere è inestricabilmente mescolato con il movimento
- dai grandi moti della testa e dei globi oculari, fino
ai minutissimi movimenti involontari dell'occhio - quella
oscillazione, vibrazione o tremore senza cui non riusci­
remmo a vedere affatto. Lo stesso dell'udito: cercando di
ricordare un'aria, di ricostruire la sua immagine auditiva,
che cosa si fa ? La si canterella. Le gerarchie percettive
e motorie sono così intimamente collegate a ogni livello
che tracciare una distinzione netta fra << stimolo l> e << ri­
sposta l> diventa arbitrario e privo di significato. L'uno e
l'altra sono stati inghiottiti dalle scorciatoie retroattive,
lungo le quali gl'impulsi corrono in cerchi come gattini
che si rincorrono la coda. 1
Vorrei illustrare questo punto con u n esperimento
celebre. Il nervo uditivo di un gatto è stato collegato a
un'apparecchiatura elettrica così che gl'impulsi nervosi
trasmessi dall'orecchio al cervello possano venir rivelati
da un'altoparlante. Era stato sistemato nella stanza un
metronomo, e i suoi clic, a mano a mano che li trasmetteva
il nervo uditivo del gatto, venivano amplificati dall'ap­
parecchio ed erano chiaramente udibili. Ma quando fu
portato nella stanza un topo chiuso in un barattolo, il
gatto non solo perse interesse per il metronomo, come
ci si poteva aspettare, ma gl'impulsi lungo il suo nervo

l. <• Poiché stimolo e risposta sono correlativi e contemporanei,


i processi di stimolo vanno pensati non come se precedessero la ri­
sposta, ma piuttosto come qualcosa che la guida a una conclusione sod­
disfacente. Ciò è a dire, stimolo e risposta devono essere considerati
come aspetti di un circuito di retroazione * (Miller e altri, 6) .

1 47
uditivo si fecero più deboli o cessarono addirittura. È
questo un drammatico esempio di come l'ammissione
degli stimoli in un organo ricettore periferico - la porta
più esterna del Cremlino - possa venire controllata
dal centro.
La lezione di questo e simili esperimenti può riassu­
mersi nel modo più efficace in un aneddoto. Nei bei giorni
che precedettero la fine dell'Ottocento, Vienna aveva un
borgomastro di nome Lueger, che professava una blanda
forma di antisemitismo. Però frequentava un certo nu­
mero di amici ebrei. Richiamato all'ordine da un compagno
di scuola, il Lueger diede la risposta classica: << Il borgo­
mastro sono io, e io decido chi è ebreo e chi no )). Mutatis
mutandis, il gatto che guarda il topo e fa orecchio da
mercante al metronomo avrebbe potuto dire esattamente
anche lui: << Sono io a decidere che cos'è uno stimolo e
che cosa non lo è )).

'
UN OLOMERARCHIA DI OLÒ MERI

Facciamo ancora un passo avanti con questa inda­


gine sul significato della: terminologia corrente, e doman­
diamoci che cosa voglia dire esattamente la parola << am­
biente )) (environment) .
Quando guido per una strada di campagna, l'ambiente
a contatto col mio piede destro è il pedale dell'accelera­
tore e l'ambiente a contatto col mio piede sinistro è il
pedale della frizione. La resistenza elastica dell'accelera­
tore alla pressione fornisce una controreazione (feedback)
tattile, che aiuta a mantenere stabile la velocità dell'auto,
mentre la frizione controlla un altro invisibile ambiente,
la scatola del cambio. La sensazione del volante fra le
mie mani funziona come un servo-meccanismo per con­
servare una direzione rettilinea. Ma i miei occhi abbrac­
ciano un ambiente molto più ampio che non i miei

148
piedi e le mie mani; ed è questo a determinare la stra­
tegia generale della guida. Così quella creatura gerar­
chicamente organizzata che sono io, di fatto funziona in
una gerarchia di ambienti guidata da una gerarchia di
retroazioni.
Uno dei vantaggi di questa interpretazione sta nel fatto
che la gerarchia di ambienti può venire estesa indefinita­
mente. Quando un giocatore di scacchi fissa la scacchiera
davanti a sé, l'ambiente in cui operano i suoi pensieri
è determinato dalla distribuzione dei pezzi sulla scacchiera.
Supponiamo che la situazione consenta la possibilità di
venti mosse consentite dalle regole del gioco, e che cinque
di queste sembrino promettenti. Egli le considererà a
turno una per una. Un buon giocatore è capace di pensare
a una distanza di tre mosse - nel qual tempo il gioco
si sarà diramato in una grande varietà di situazioni pos­
sibili, ognuna delle quali il giocatore deve visualizzare
per decidere la mossa iniziale. In altre parole, è guidato
da controreazioni derivanti da una scacchiera immagi­
nata, in un ambiente immaginato. La maggior parte del
nostro pensare, programmare e creare si svolge in am­
bienti immaginari.
Abbiamo visto tuttavia che tutte le nostre percezioni
si colorano d'immaginazione. Cosi la differenza fra am­
bienti (c reali )) e (c immaginari )) diventa una questione di
gradi, o piuttosto di livelli, andando dai fenomeni
inconsci della proiezione di figure nella macchia d'inchio­
stro del Rohrschach, fino agli allucinanti poteri d'inven­
zione del futuro propri dei grandi scacchisti. Il che è
appunto un altro modo per ripetere che la gerarchia è
aperta in cima.

Per riassumere in una formula il capitolo, potremmo


dire che l'organismo nei suoi aspetti strutturali e funzio-

149
nali è una gerarchia di olòmeri autoregolantisi che fun­
zionano: a) come insiemi autonomi super-ordinati alle
loro parti; b) come parti dipendenti in sott'ordine a con­
trolli di livelli superiori; c) in coordinamento al loro am­
biente locale.
Tale gerarchia di olòmeri dovrebbe chiamarsi, per la
precisione, olomerarchia, ma, ricordando l'ammonimento
di Ben J onson, farò grazia al lettore di questo nuovo
neologismo.

150
VIII l Abitudine e improvvisazione

Tutte le cose buone che esistono sono frutto


di un'improvvisazione.
jOHN STUART MILL

Il carattere alquanto tecnico dei capitoli che prece­


dono e il frequente uso di termini d'ingegneria come
<< ingresso )) (input) . << uscita •> (output) , << grilletti •> o << de­
tonatori •>, << scandagli •> e gli altri, possono aver destato
nel lettore l'imbarazzante sospetto che l'autore stia ten­
tando di sostituire un modello meccanicistico con un
altro modello meccanicistico, la concezione dell'uomo
come automa condizionato con quella dell'uomo come
automa gerarchico. Di fatto però stiamo a poco a poco
avviandoci - anche se forse un po' a fatica - verso la
via d'uscita dalla trappola del determinismo meccanici­
stico. La porta di sicurezza, per così dire, è quell'<< estre­
mità aperta •> che si trova in cima alla gerarchia, e a cui
ho ripetutamente alluso, sebbene il significato di questa
metafora possa emergere solo a grado a grado.
Diventerà forse un po' più chiara se si esamina l'ap­
parire di forme di comportamento più complesse, più
flessibili e meno predicibili sui livelli successivamente
più elevati di una gerarchia. Di rincontro, ad ogni passo
in giù verso i livelli inferiori, troviamo schemi di com­
portamento via via più meccanizzati, stereotipati e preve-

151
dibili. Quando uno scrive a un amico una lettera di chiac­
chiere, è difficile predire cosa gli salterà in mente un mo­
mento dopo; la scelta fra le alternative è larghissima.
Una volta che avete deciso che cosa dire dopo, il nu­
mero dei modi possibili per dirlo è ancora grande, ma
è, ciononostante, più ristretto, dalle regole della gram­
matica, dai limiti del vocabolario personale, ecc. Final­
mente, le contrazioni muscolari che premono i tasti
delta macchina sono stereotipate e potrebbero benissimo
venire eseguite da un robot. Nel linguaggio del fisico,
si direbbe che una sub-abilità, o olòmero, che si trovi al
livello n della gerarchia ha un numero maggiore di << gradi
di libertà >> (una varietà più grande di scelte alterna­
tive permesse dalle regole) che non un olòmero del livello
(n-
l).

Mi sia concesso ricapitolare brevemente alcuni punti


dei capitoli precedenti: ogni abilità (o abito del compor­
tamento) ha un aspetto fisso e uno variabile. Il primo
è determinato dal suo cànone, le << regole del gioco >>,
che le prestano il suo schema caratteristico - sia che il
gioco consista nel tessere una ragnatela, nel costruire
un nido, nel pattinare o nel giocare a scacchi. Ma le re­
gole permettono una certa varietà attraverso le scelte
alternative: la ragnatela può esser sospesa a tre o quat­
tro punti d'attacco, il nido può essere adattato all'angolo
formato dalla biforcazione dei rami, lo scacchista ha
un'ampia scelta fra le mosse consentite. Queste scelte,
lasciate aperte dalle regole, dipendono dalla giacitura
del terreno,1 dall'ambiente locale in cui opera l'olòmero:

l. Lie of the land è un'espressione (e un concetto) cara agli archi­


tetti inglesi del Settecento, e indica il <• carattere "• oltre alla configu­
razione fisica, del luogo prescelto per costruire: in sostanza è un ter­
mine di urbanistica più che di architettura (n.d.t.).

152
sono materia di strategia, guidata delle controreazioni.
Per metterla in altro modo, il codice fisso di regole deter­
mina le mosse consentite, la strategia flessibile determina
la scelta delle mosse effettive fra quelle permesse. Quanto
più alto il numero di scelte in alternativa, tanto più com­
plessa e flessibile è l'abilità. Viceversa, se non vi è scelta
affatto, raggiungiamo il caso limite del riflesso specializ­
zato. Così rigidezza e flessibilità sono gli estremi opposti
di una scala che si applica a ogni tipo di gerarchia; e in
ogni caso troveremo che la flessibilità aumenta e la rigi­
dezza diminuisce a mano a mano che moviamo all'insù
verso livelli superiori.

'
LE ORIGINI DELL ORIGINALIT A

Nel comportamento istintivo degli animali, troviamo


ai piedi della scala gli schemi monotonamente ripetuti
del corteggiamento e della minaccia, dell'accoppiamen­
to e del combattimento: rigidi, coatti rituali. Talora,
quando l'animale è frustrato, questi rituali sono ese­
guiti in modo insensato nell'occasione sbagliata. I gatti
compiranno puntualmente tutti i movimenti per sotter­
rare i loro rifiuti nelle piastrelle della cucina. I giovani
scoiattoli, allevati in cattività, quando avranno delle
noci, compiranno i movimenti per sotterrarle nel fondo
della gabbia di fil di ferro, << e poi se ne vanno con­
tenti, anche se le noci restano esposte in piena vista l)
(Thorpe) (1) .
All'estremo opposto della scala troveremo abilità molto
complesse e flessibili spiegate da mammiferi come gli
scimpanzé e i delfini, ma anche da insetti e pesci. Gli
etologi hanno prodotto prove impressionanti per mo­
strare che in circostanze favorevoli anche gli insetti sono

153
capaci di comportarsi in modi che non potrebbero essere
predetti partendo dal repertorio di abilità che è cono­
sciuto alla creatura, e che meritano appieno di essere
chiamati << ingegnosi )) od << originali )). Il prof. Baerends,
per esempio, 1 ha passato anni interi su uno studio esau­
riente intorno alle attività della vespa scavatrice (la) .
La femmina di questa specie depone le uova in buche
che essa scava nel terreno. Approvvigiona le buche dap­
prima con bruchi e poi, quando le uova sono dischiuse,
con larve di tignola; poi con altri bruchi, finché da ultimo
chiude la buca. Ora il punto è che ogni femmina deve
badare a diverse buche nello stesso periodo di tempo,
e che gli abitatori di queste sono in diverse fasi di svi­
luppo, e quindi necessitano di diete differenti. Essa non
solo provvede a ciascuno secondo i suoi bisogni, ma quando
una buca è depredata delle provviste ad opera dello spe­
rimentatore, prontamente la riempie daccapo. Un'altra
vespa costruisce gruppi di cellette di argilla, depone un
uovo in ciascuna, le fornisce di provviste per il futuro,
poi sigilla la cella, esattamente come facevano gli Egizi
con le camere sepolcrali del Faraone. Se ora lo sperimen­
tatore pratica un foro nella cella - evento del tutto
privo di precedenti nel mondo della vespa - per prima
cosa essa raccoglierà i bruchi che sono caduti fuori, e li
stiverà di nuovo attraverso il foro, poi si darà d'attorno
per riparare la celletta con pezzetti di argilla: un la­
voro di restauro che non ha mai fatto prima. Ma non
finisce così. Lo Hingston ha descritto le imprese di un altro
tipo di vespa in un momento di crisi. Praticò un foro in
una celletta in modo diabolico, così da non potersi ripa­
rare dall'esterno. La vespa lottò con questo compito per

l . Un partecipante al Seminario Stanford.

154
due ore, finché non venne la notte ed essa dovette ri­
nunziare. La mattina seguente volò dritto alla cella dan­
neggiata, e si rimise a ripararla con un metodo nuovo:
<< lo esamina da entrambi i lati e poi, fatta la scelta, de­
cide di eseguire la riparazione di dentro )) (2) .
Ho scelto deliberatamente questi esempi d'improvvisa­
zione ad opera di insetti perché le abilità flessibili dei
mammiferi superiori sono più familiari. Persino i pesci,
secondo Thorpe, possono cambiare di abitudini. << Se il
loro normale schema di comportamento subisce di con­
tinuo interferenze, possono aver luogo modifiche impor­
tantissime del normale orientamento istintivo )) (3). Quanto
agli uccelli, in alcune specie il maschio, che normalmente
non nutre mai i piccoli, comincia a farlo in assenza della
femmina. Per ultimo devo menzionare rapidamente lo
studio di Lindauer sull'ape da miele. Tutti sappiamo
della scoperta di von Frisch circa il linguaggio danzato
dell'ape, ma questo è qualcosa di diverso. In condizioni
normali, nell'alveare c'è una rigida divisione del lavoro,
cosicché ogni operaia è occupata in diversi lavori nei
vari periodi della sua vita. Nei suoi primi tre giorni pu­
lisce le celle. Nei tre giorni che seguono nutre le larve
più vecchie di miele e di polline. Dopo di che nutre le
larve più giovani (che richiedono una dieta supplemen­
tare) . Dall'età di dieci giorni è impegnata nella costru­
zione di celle; a venti giorni assume compiti di vigilanza
all'entrata dell'alveare; finalmente diventa foraggiatrice,
e tale rimane per il resto della vita.
Cioè: se tutto va bene. Però, se lo sperimentatore
asporta dalla colonia uno qualsiasi dei gruppi di età,
altri gruppi di età si accollano i compiti di quello, e così
salvano il superorganismo. Quando, per esempio, sono
prelevate tutte le foraggiatrici - usualmente le api di
venti giorni o più - le giovani api di appena sei giorni,
che normalmente nutrirebbero le larve, prendono il volo

155
e diventano foraggiatrici. Se tutte le operaie addette alla
costruzione spariscono, le loro mansioni sono assunte
dalle api più vecchie che sono già state costruttrici, ma
che sono state poi promosse a foraggiatrici. A tale fine
non solo cambiano di comportamento, ma rigenerano le
ghiandole della cera. I meccanismi di questi aggiustamenti
non sono conosciuti )) (4) .
Così a un capo della scala troviamo degli schemi
d'azione fissi e rigidi rituali coatti; all'altro capo sorpren­
denti improvvisazioni, e l'esecuzione di imprese che sem­
brano andare ben oltre il repertorio di abilità abituali
dell'animale.

LA MECCANIZZAZIONE DELLE ABITUDINI

Nell'uomo, gl'istinti innati sono il semplice fondamento


su cui l'apprendimento costruisce. Nell'imparare un'abilità
dobbiamo concentrarci su ogni particolare di quanto stiamo
facendo. Impariamo laboriosamente a riconoscere e a
nominare le lettere dell'alfabeto stampate, ad andare
in bicicletta, a battere il tasto voluto, sulla macchina per
scrivere, o sul piano. Poi l'apprendimento comincia a
condensarsi in un abito: col crescere della padronanza
leggiamo, scriviamo, battiamo a macchina << automatica­
mente )), il che significa che le regole che controllano la
prestazione vengono ora applicate in modo inconscio.
Come gli invisibili congegni che trasformano pensieri
inarticolati in frasi grammaticalmente corrette, così i ca­
noni delle nostre abilità manipolative e raziocinanti ope­
rano al di sotto del livello della consapevolezza, o nelle
zone crepuscolari della consapevolezza. Obbediamo alle
regole senza esser capaci di definirle. Per quanto concerne
le nostre abilità di ragionamento, questa situazione ha
i suoi ovvi pericoli: gli assiomi e i pregiudizi incorporati
nel cànone agiscono come << persuasori occulti )).

156
In questa tendenza alla progressiva meccanizzazione
delle abilità ci sono due aspetti. L'uno, positivo, si con­
forma al principio di parsimonia o del << minimo sforzo >>.
Manipolando meccanicamente il volante dell'auto posso
dedicare tutta l'attenzione al traffico circostante: e se
le regole di grammatica non funzionassero automatica­
mente, come un computer programmato, non potremmo
badare al significato.
La meccanizzazione, come il rigar martis, attacca per
prime le estremità: i rami subordinati della gerarchia,
i più bassi. Ma ha pure la tendenza a diffondersi verso
l'alto. È utilissimo saper toccare il tasto giusto della mac­
china da scrivere << per puro riflesso >>, e una rigida osser­
vanza delle regole grammaticali è pure cosa buona; ma
uno stile rigido, composto di clichés e di giri di frasi pre­
fabbricati, anche se consente ai funzionari dello Stato
di sbrigare una mole maggiore di corrispondenza, è cer­
tamente una fortuna ambigua. E se la meccanizzazione
si diffonde fino all'apice della gerarchia, ecco saltar fuori
il rigido pedante, schiavo dell'abitudine, l'homme-au­
tomate di Bergson. Dapprima l'apprendimento e la cul­
tura si sono condensate in abito, come il vapore si con­
densa in goccioline; poi le gocce si sono congelate in ghiac­
cioli. Come scrisse von Bertalanffy: << Gli organismi non
sono macchine, ma entro certi limiti possono diventare
macchine, congelarsi in macchine. Mai completamente,
tuttavia, perché un organismo meccanizzato per intero
sarebbe incapace di reagire alle condizioni incessantemente
cangianti del mondo esterno >> (5) .

UN PASSO ALLA VOLTA

Così la meccanizzazione degli abiti non può mai tra­


sformare in automa neppure l'<< uomo dell'organizza­
zione >>; ma, per converso, l'io cosciente può interferire

1 57
solo fino a un certo punto nel funzionamento automatico
delle unità subordinate del suo corpo e della sua mente.
Il guidatore al volante può controllare la velocità del
mezzo, ma non ha possibilità d'interferire nell'ordine in
cui entrano in accensione i cilindri e si chiudono ed aprono
le valvole; e l'io cosciente si trova in una situazione si­
mile. Non ha controllo di sorta sulle funzioni che si svol­
gono a livello sub-cellulare o cellulare. Non ha controllo
diretto sulla muscolatura liscia, sui visceri e sulle ghian­
dole. Persino il coordinamento fra i muscoli scheletrici
<< volontari )) è sotto controllo cosciente solo entro certi
limiti: non si può alterare a piacere la propria andatura
caratteristica, il gestire, la calligrafia.
Abbiamo visto che quando un intento cosciente si
formula all'apice della gerarchia, come << aprire quella
porta )) o << firmare questa lettera )), l'intento non attiva
le contrazioni di singoli muscoli, ma scatena, come un
detonatore o un pulsante o un grilletto, schemi d'impulsi
nervosi che attivano sottoschemi, e così via, giù giù fino
alle unità motorie. Ma questo può attuarsi solo procedendo
a un passo per volta. I centri superiori della gerarchia
non hanno normalmente rapporti con quelli inferiori, e
viceversa. I generali di brigata non concentrano la loro
attenzione sui singoli soldati, e neppure impartiscono loro
ordini diretti; se così facessero, l'intero piano di opera­
zioni finirebbe nel caos. I comandi vanno trasmessi
tramite quelli che l'esercito chiama << vie gerarchiche )),
cioè appunto, gradino per gradino lungo i vari livelli della
gerarchia. I tentativi di cortocircuitare i livelli intermedi
- di rivolgere il raggio focale della consapevolezza sulle
oscure e anonime routines degli olòmeri infimi - sfociano
di solito nel paradosso del millepiedi. Quando al mille­
piedi domandarono in che ordine preciso movesse le sue
mille zampe, egli rimase paralizzato e morì di fame,
perché non ci aveva mai riflettuto prima, e aveva sempre

158
lasciato che le zampe ci pensassero da sé. Simile destino
ci toccherebbe se ci venisse domandato di spiegare come
facciamo ad andare in bicicletta.
Il paradosso del millepiedi deriva da un'infrazione
alla regola che potremmo chiamare << la regola del passo
per passo l). Vista di fronte sembra triviale; ma conduce
ad alcune conseguenze insospettate, se cerchiamo di op­
porci ad essa. Così le pseudo-spiegazioni del fenomeno
del linguaggio, come manipolazione delle corde vocali o
concatenazione di operanti, lasciano uno iato fondamen­
tale fra pensare e compitare, fra l'apice dell'albero e i
suoi rami terminali. La regola ha anche alcune applica­
zioni in psicopatologia - dal maldestro atteggiamento
detto in inglese self-consciousness, parola che maliziosa­
mente significa tanto << consapevolezza di sé l) , quanto
<< presunzione l), << saccenteria l), << mancanza di naturalezza l),
<< imbarazzo l) - fino ai disordini psicosomatici. Quando
uno diventa maldestro per eccessiva o indebita consape­
volezza di sé come oggetto di attenzione (in ciò rientra
quindi anche il pànico della ribalta), ciò avviene perché
l'attenzione cosciente interferisce con le routines che in
condizioni normali si svolgono in modo inconscio ed au­
tomatico. Disordini più seri possono risultare dal con­
centrarsi dell'attenzione sui processi fisiologici che fun­
zionano ai livelli anche più primitivi della gerarchia,
come la digestione e il sesso, e che bisogna lasciare
che << badino a se stessi l) se si vuole che tutto vada
liscio. L'impotenza psicologica e la frigidità, nonché i
colon spastici, sono disperate variazioni del paradosso
del millepiedi.
La perdita del controllo diretto sui processi dei livelli
inferiori della gerarchia corporea è parte del prezzo da
pagare alla differenziazione e alla specializzazione. Il prezzo
naturalmente vale la pena di pagarlo fintanto che il sin-

159
golo vive in condizioni più o meno normali, e può fare
ragionevole assegnamento sulle sue routines più o meno
automatizzate. Ma possono intervenire condizioni in cui
ciò non è più possibile, e diventa imperativo romperla
con la ro�ttine.

'
LA SFIDA DELL AMBIENTE

Questo ci conduce a un punto d'importanza vitale


che non ho finora menzionato: l'influenza dell'ambiente
sulla flessibilità o la rigidezza del comportamento.
Se un'abilità viene praticata nelle stesse condizioni
invariabili, seguendo lo stesso corso senza variazioni,
tende a degenerare in routine stereotipata, e i suoi gradi
di libertà si congelano. La monotonia accelera la caduta
nella schiavitù dell'abitudine, e dilata il rigar martis della
meccanizzazione verso l'alto della gerarchia.
Viceversa, un ambiente mutevole, variabile, esige com­
portamento flessibile e rovescia la tendenza alla mecca­
nizzazione. Il guidatore provetto su una strada che gli
è familiare nell'andare da casa in ufficio passa la mano
al pilota automatico del proprio sistema nervoso, mentre
i suoi pensieri se ne vanno da qualche altra parte; ma se
entra in una situazione di traffico un po' intricata, si
concentrerà subito su quel che sta facendo: l'uomo
riprende il sopravvento sul computer. La sfida dell'am­
biente può però andar oltre un limite critico, ove non
può più essere affrontata mediante la routine dell'abilità,
per quanto flessibile, perché le usuali << regole del gioco ))
non sono ormai adeguate a combinarsi con la situazione.
Sorge allora una crisi. Le uscite sono due. O un collasso
del comportamento: << sei nel rischio ? sei nel dubbio ?
Corri in cerchio e strilla il cruccio )). La gerarchia si è
disintegrata. Oppure c'è l'altra alternativa: l'esplosione

160
di nuove forme di comportamento, di soluzioni originali
che, come vedremo, svolgono una parte vitale sia nell'evo­
luzione biologica, sia nel progresso intellettuale.
La prima possibilità è esemplificata dal gatto che,
impedito di osservare le rigorose regole dei suoi cànoni
d'igiene, compie tutte le inutili operazioni atte a seppel­
lire le sue malefatte sotto le dure piastrelle della cucina.
Gli esseri umani in crisi sono capaci di un comportamento
egualmente insensato, ripetendo per cavarsene fuori gli
stessi tentativi senza speranza.
La possibilità che esiste in alternativa è rappresentata
dalle inattese improvvisazioni della vespa scavatrice,
dalla riorganizzazione del lavoro nell'arnia mutilata, o
dallo scimpanzé che rompe un ramo dall'albero per ra­
strellare una banana fuori portata del suo braccio. Gli
<< adattamenti originali ,> di questo tipo, volti a raccogliere
sfide di natura eccezionale, indicano l'esistenza nell'or­
ganismo vivente di potenziali insospettati, che rimangono
allo stato latente nelle routines normali della vita. Esse
adombrano e prefigurano i fenomeni della creatività
umana, che si discuteranno nel cap. XIII.

SOMMARIO

Sui livelli successivamente più alti della gerarchia troviamo


schemi di attività sempre più complessi, flessibili e impre­
vedibili, mentre sui livelli via via più bassi troviamo
schemi sempre più meccanizzati, stereotipati e prevedi­
bili. Nel linguaggio della fisica, l'olòmero di un livello
superiore della gerarchia ha più gradi di libertà di un
olòmero di un livello inferiore.
Tutte le abilità, sia derivate dall'istinto o dall'appren­
dimento, tendono col crescere della pratica a diventare
routines automatizzate. Gli ambienti monotoni facilitano

6 KOESTLER 161
la schiavitù all'abitudine; mentre le contingenze inattese
rovesciano questa tendenza, e possono risolversi in in­
gegnose improvvisazioni. Le sfide critiche possono condurre
a un collasso del comportamento, oppure alla creazione
di forme di comportamento nuove.
I gradi più alti di una gerarchia normalmente non
comunicano in modo diretto con quelli inferiori, ma at­
traverso le << vie gerarchiche l>, appunto, procedendo a
un passo per volta. Cortocircuitare, saltandoli, i livelli
intermedi, può causare disordini di vario tipo.

162
PARTE SECONDA

IL DIVENIRE
IX l La strategia degli embrioni

A una signora che lo interrogava sull'utilità


dei suoi lavori intorno all'elettricità, Beniamino
Franklin rispose: '' Signora, un neonato a cosa
serve ? &.

La risposta darwiniana classica alla domanda su


come sia stato creato l'uomo partendo da un pugno di
fango è esattamente la stessa che dava il Watson al que­
sito su come faccia Patou a creare una toeletta traendola
da un pezzo di seta: << La tira in dentro da questa parte;
la tira in fuori da quest'altra, la tende o l'allenta sul
petto . . . Manipola il materiale finché non prende l'aspetto
d'un vestito . . . )). Il processo evolutivo si suppone che
operi tramite simili casuali manipolazioni della sua ma­
teria prima - tirare in dentro qui, spingere in fuori là,
qui mettere una coda, piazzare là un'antenna - finché
<< s'imbrocca uno schema )) , adatto a sopravvivere.
La scienza basata sulla << terra piatta )) spiega l'evolu­
zione mentale con tentativi fatti a caso, conservati dal
rinforzo selettivo (il bastone e la carota), e l'evoluzione
biologica con mutazioni avvenute per caso (la scimmia
davanti alla macchina per scrivere) conservate dalla se­
lezione naturale. Le mutazioni sono definite modifiche
spontanee della struttura molecolar� del gene, e si dice
che siano casuali o fortuite nel senso che non hanno rela­
zione di sorta con le necessità di adattamento dell' orga­
nismo. Di conseguenza la grande maggioranza delle mu-

165
tazioni deve avere effetti nocivi, ma i pochi colpi fortu­
nati si conservano perché accade che offrano all'individuo
qualche piccolo vantaggio; e a condizione di !asciargli
tempo abbastanza, <( qualcosa salterà fuori )), <( La de­
crepita obiezione -- scrisse sir Julian Huxley - della im­
probabilità di un occhio o di una mano o di un cervello
evoluti per 'caso cieco' , ha perso forza l>, perché <( la na­
turale selezione operante sulle distese del tempo geolo­
gico )) (1) spiega ogni cosa.
Di fatto tuttavia, la decrepita obiezione è di nuovo
venuta riprendendo forza durante i decenni a cavallo
della metà del secolo - al punto che non esiste quasi
un evoluzionista eminente ancora in vita che non abbia
espresso qualche veduta eretica su qualche aspetto par­
ticolare della dottrina ortodossa, pur respingendo fer­
mamente le eresie degli altri. Benché queste critiche e
questi dubbi abbiano prodotto numerose brecce nelle sue
mura, la cittadella dell'ortodossia neo-darwiniana è an­
cora in piedi, principalmente, si suppone, perché nessuno
ha avuto da offrire un'alternativa soddisfacente. La sto­
ria della scienza insegna che una teoria ben stabilita
può subire una quantità di strapazzi e invischiarsi in un
groviglio di assurdità e contraddizioni, e tuttavia conti­
nuare ad essere sostenuta dall'establishment finché non
venga offerta un'alternativa globale accettabile.1 Ma sto­
ricamente la sola seria sfida al neo-darwinismo viene dal
lamarckismo; e il lamarckismo ha molti validi, decisivi
motivi di critica, ma non ha da offrire un'alternativa
costruttiva.
In verità per quasi cent'anni i teorici dell'evoluzione
hanno combattuto un'amara guerra civile fra le Teste
tonde lamarckiane contro i Cavalieri darwinisti. La di-

l . Vedi la tesi di Thomas Kuhn sul (< Cambio di paradigma >l ( 1 8)


e il capitolo sulla (< Evoluzione delle idee >l in The A et of Creation.

166
sputa effettiva era di complesso carattere tecnico; ma
aveva una carica fortissima di implicazioni metafisiche,
emotive, e persino politiche. Nell'Unione Sovietica, sotto
Stalin, i Cavalieri darwiniani vennero sommariamente in­
viati nei campi di lavoro, e i sopravvissuti riabilitati
sommariamente sotto Khruscev: episodio conosciuto come
<< affare Lysenko )), Il risultato principale - super sem­
plificato e messo in nuce - è questo: Lamarck credeva
che le modificazioni adattative del fisico e dei modi di
vita che un animale acquisisce per armonizzare più effica­
cemente con il suo ambiente vengano trasmesse per ere­
dità alla discendenza (<< eredità delle caratteristiche ac­
quisite )>) . Così se un pugilatore sviluppa con l'allena­
mento robusti muscoli, allora suo figlio, secondo Lamarck,
dovrebbe nascere con muscoli robusti. Ciò offrirebbe una
visione dell'evoluzione ragionevole e rassicurante, in quan­
to significa considerarla un risultato cumulativo dell'ap­
prendimento attraverso l'esperienza e l'allenamento ai
fini di una vita migliore; ma sfortunatamente, come ac­
cade tanto spesso, questa visione piena di buon senso
risultò inadeguata. Fino ad oggi, nonostante i grandi
sforzi, il lamarckismo non ha saputo produrre prove con­
cludenti per dimostrare che i caratteri acquisiti si tra­
smettono ai discendenti; e sembra abbastanza certo che,
mentre l'esperienza incide sull'eredità, non lo fa in modo
così semplice e diretto.
Ma il fallimento del lamarckismo nella sua forma pri­
mitiva non significa che l'unica alternativa rimasta sia
la scimmia alla tastiera. Le mutazioni casuali conservate
dalla selezione naturale hanno certamente una parte
nel processo evolutivo, proprio come le fortunate coin­
cidenze hanno una parte nell'evoluzione della scienza.
La questione è se questa sia tutta la verità, o anche solo
la porzione più importante della verità.

167
Gli evoluzionisti, nel giro di un certo numero di anni,
hanno proposto un certo numero di correzioni e di emen­
damenti alla teoria neo-darwiniana; e se le si mettesse
insieme rimarrebbe poca cosa della teoria originale, come
gli emendamenti a una legge in Parlamento possono
rovesciarne l'accento e gl'intenti. Ma, come già detto,
ogni critico aveva la sua particolare ascia demolitrice,
col risultato che
Tutto è in frantumi, e coesione sfuma,
come lamentava John Donne negli anni in cui la cosmo­
logia medioevale era appena entrata in una crisi simile.
In questo capitolo e nei tre successivi raccoglierò alcuni
di questi cocci e frammenti, cercando di rimetterli in­
sieme.

DOCILIT À E DETERMINAZIONE

Ci vogliono cinquantasei generazioni di cellule per pro­


durre un essere umano a partire da una sola cellula-uovo
fecondata. Questo avviene tramite una serie di passi,
ognuno dei quali comporta: a) la moltiplicazione delle
cellule per divisione, e la susseguente crescita delle cel­
lule figlie; b) la specializzazione strutturale e funzionale
delle cellule (differenziazione) ; c) il conformarsi dell'or­
ganismo (morfogenesi). Inutile dirlo, tutti e tre sono
aspetti complementari di un processo unitario.
La morfogenesi procede in modo inconfondibilmente
gerarchico. Lo sviluppo dell'embrione da corpuscolo in­
forme fino a una forma sbozzata, e attraverso successivi
stadi di crescente articolazione, segue lo schema fami­
liare, già descritto in precedenti capitoli; ho menzionato
le analogie con lo scultore, che intaglia una figura rica­
vandola da un blocco di legno, e con il compitamento

168
di un'idea amorfa in fonemi articolati. La differenzia­
zione a passo a passo dei gruppi di cellule fino alla loro
ultima specializzazione presenta lo stesso disegno gerar­
chicamente arborescente:

Fig. 5
(Secondo Clayton 2). Grafico di alcune vie di sviluppo aperte all'ec­
toderma primario nell'embrione di anfibio. Tre sole fra le molte rela­
zioni induttive sono indicate dalle frecce.

Il grafico schematizza alcune delle possibilità di svi­


luppo dell'ectoderma dell'embrione di anfibio. (L'ecto­
derma è il più esterno dei tre strati di popolazioni di
cellule in cui si differenzia l'embrione nel primo stadio;
gli altri due sono il mesoderma e l'endoderma) . Le frecce
a sinistra del grafico indicano l'azione di certi tessuti

169
adiacenti (<< induttori >>) che, entrati in contatto con l'ec­
toderma, agiscono su di esso come grilletti chimici. Le re­
gioni dell'ectoderma a contatto diretto con il tessuto in­
duttore si differenziano attraverso vari stadi, dando luogo
al sistema nervoso dell'animale, incluso cervello e coppe
oculari. Altre regioni dell'ectoderma, per via della di­
versità dei dintorni, si specializzano in altri modi. Se
una popolazione di cellule si sviluppa in << pelle >>, può
ulteriormente specializzarsi in ghiandole sudorifere, strati
cornei, e così via. A ogni passo, grilletti e retroazioni bio­
chimiche determinano quale, delle vie di sviluppo in al­
ternativa fra parecchie possibili, seguirà effettivamente
un gruppo di cellule.
Così, quando le coppe oculari (la futura retina), che
crescono fuori dal cervello in cima a due steli (i futuri
nervi ottici) , entrano in contatto fisico con la superficie,
la pelle che si trova nell'area di contatto si ripiega a
formare le coppe concave e si differenzia in lenti traspa­
renti (vedi le frecce a destra del diagramma) . La coppa
oculare induce la pelle a formare una lente, e la lente a
sua volta induce i tessuti adiacenti a formare una mem­
brana trasparente più robusta, la cornea. Anzi, se una
coppa oculare viene trapiantata sotto la pelle dell'embrione
di una rana, la pelle soprastante si differenzierà obbliga­
toriamente e obbligantemente 1 in una lente. Possiamo
considerare questa << obbligata gentilezza >>, questa << doci­
lità » del tessuto embrionale, la sua prontezza a differen­
ziarsi nel tipo d'organo meglio adatto alla posizione del
tessuto nell'organismo che cresce, come una manifesta­
zione della tendenza integrativa, della subordinazione della
parte agli interessi del tutto.

l. Il testo ha obligingly e obligingness: è un acuto gioco di parole,


basato sul doppio senso di obliging: '' obbligante, che costringe �. e
'' obbligante, che obbliga, gentile & (n.d. t.).

170
Ma la �( docilità » è, di nuovo, uno soltanto degli aspetti
del quadro; l'altro è la �( determinazione 1>. Entrambi
sono termini tecnici. �( Docilità 1> significa la multipoten­
ziale capacità del tessuto embrionale di seguire questo
o quello dei rami della gerarchia dello sviluppo a se­
conda delle circostanze. Ma lungo ogni ramo c'è un punto
di non-ritorno, dove il prossimo stadio di sviluppo del
tessuto è <( determinato 1> in modo irreversibile. Se nel
primissimo, cosiddetto �( stadio di scissione 1> dello svi­
luppo, l'embrione di rana viene tagliato in due, ogni
metà si sviluppa in rana completa, non, come avverrebbe
normalmente, in mezza rana. A questo stadio ogni cel­
lula, pur essendo una parte dell'embrione, ha conservato
il potenziale genetico di crescere, se necessario, fino a
diventare una rana intera - è un vero olòmero, bifronte
come Giano. Ma ad ogni passo dello sviluppo lungo l'al­
bero ramificantesi, le successive generazioni di cellule di­
vengono più specializzate, e le �( scelte 1> di sviluppo che
rimangono a un dato tessuto cellulare - il suo poten­
ziale genetico - diventano sempre più ristrette. Così un
frammento dell'ectoderma può avere ancora la potenzia­
lità di svilupparsi in cornea oppure in ghiandola epider­
mica, ma non in un fegato o in un polmone. La specializ­
zazione, qui come in altri campi, conduce a un decremento
di flessibilità. Si potrebbe paragonare il processo con la
serie di scelte che lo studente ha di fronte quando deve
decidere il suo corso di studi: si va dalla prima larga
alternativa fra il ramo scientifico e quello umanistico,
fino alla �( determinazione 1> finale che fa di lui uno zoo­
logo della fauna marina che si specializza in echinodermi.
A ogni punto di decisione, dove i sentieri divergono,
qualche caso o incidente di poco conto può agire come
un grilletto che lo �( induce 1> a compiere questa o quella
scelta alternativa. Dopo un certo tempo ogni decisione

171
diventa in larga misura irreversibile. Una volta che è
diventato zoologo, ci sono ancora numerosi sentieri di
specializzazione che gli restano aperti; ma difficilmente
può ritornare sui suoi passi e diventare avvocato o fi­
sico teorico. Anche qui si applica la regola del << passo
passo l) (one-step rule) .
Una volta che è deciso il futuro dello sviluppo di un
tessuto, questo può comportarsi in modo incredibilmente
<< determinato l). Allo stadio di gàstrula, quando l'embrione
somiglia ancora a un sacco parzialmente ripiegato su
se stesso, è, non di meno, possibile predire già quali or­
gani produrrà ogni regione. Se a questo stadio precoce
un pezzo di tessuto prelevato su un embrione di anfibio,
che normalmente dovrebbe dare origine ad un occhio,
viene trapiantato sull'estremità della coda di un altro
embrione più vecchio, diventerà, non un occhio, ma un
dotto renale o qualche altro organo caratteristico di quella
regione. Ma ad uno stadio più tardivo della crescita del­
l' embrione, questa docilità della presunta regione del­
l'occhio va perduta e non importa in che zona venga
trapiantata: si svilupperà fino a formare un occhio, per­
sino sulla coscia o sul ventre dell'ospite. Quando un gruppo
di cellule ha raggiunto questo stadio, viene chiamato
campo morfogenetico, primordio d'organo, o germoglio,
secondo il caso. Non solo il futuro occhio, ma anche un
germoglio d'arto, trapiantato in posizione differente (sullo
stesso embrione o su di un altro) formerà un organo
completo; persino un cuore può formarsi nel fianco del­
l'ospite. Questa << spietata l) determinazione dei campi mor­
fogenetici ad asserire la propria individualità, riflette,
nella nostra terminologia, il principio auto-assertivo dello
sviluppo.
Ogni campo morfogenetico o primordio d'organo spiega
il carattere olomerico di un'unità autonoma, di un olò­
mero auto-regolantesi.

172
Se si asporta la metà del tessuto del campo, il residuo
formerà non mezzo organo ma un organo completo. Se
ad un certo stadio dello sviluppo la coppa oculare viene
divisa in più parti isolate, ogni frammento formerà un
occhio più piccolo ma normale, e persino le cellule di
un tessuto artificialmente triturate e filtrate si riforme­
ranno di nuovo come abbiamo visto (p. 101) .
Queste proprietà autonome, auto-regolantisi degli olò­
meri dell'embrione in crescita sono una salvaguardia vi­
tale; esse garantiscono che, qualunque casualità acci­
dentale abbia a sorgere durante lo sviluppo, il prodotto
finale sarà conforme alla norma. Di fronte ai milioni e
milioni di cellule che si dividono, si differenziano e si
muovono nell'ambiente continuamente cangiante di fluidi
e di tessuti attigui - Waddington lo chiamava << il pae­
saggio epigenetico l) - bisogna supporre che non ci sono
due embrioni, neppure gemelli, identici, formati esatta­
mente nello stesso modo. I meccanismi di autoregolazione
che correggono le deviazioni dalla norma e garantiscono,
per così dire, il risultato finale, sono stati confrontati
ai dispositivi di controreazione omeostatica dell'organismo
adulto, e quindi i biologi parlano di << omeostasi dello svi­
luppo l). L'individuo futuro è potenzialmente predetermi­
nato nei cromosomi dell'uovo fecondato; ma per tra­
durre questo progetto, questo << disegno complessivo l> (e
non << costruttivo l>) in prodotto finito, bisogna fabbricare
miliardi di cellule specializzate e fonderle in una strut­
tura integrata. La nostra mente recalcitra all'idea che i
geni di quel dato uovo fecondato debbano contenere
incorporate clausole in previsione d'ogni contingenza
particolare che ogni singola generazione di cinquantasei
generazioni di cellule figlie può incontrare nel corso del
processo. Tuttavia, il problema diventa un po' meno
sconvolgente se sostituiamo il concetto di << progetto ge­
netico l), che implica un disegno da copiare rigidamente,

173
con il concetto di un genetico canone di regole, che sono
fisse ma lasciano spazio per scelte in alternativa, cioè
strategie flessibili guidate da controreazioni (jeedbacks)
e punti di riferimento da parte dell'ambiente. Ma questa
formula come può applicarsi allo sviluppo dell'embrione ?

LA TASTIERA GENETICA

Le cellule di un embrione, tutte di ongme identica,


si differenziano in prodotti diversissimi: cellule muscolari,
parecchie varietà di cellule sanguigne, una gran varietà
di cellule nervose, e così via, a dispetto del fatto che
ognuna d'esse reca nei suoi cromosomi lo stesso insieme
di istruzioni ereditarie. Le attività della cellula, sia del­
l'embrione che dell'adulto, sono controllate dai geni si­
tuati nei cromosomi.1 Ma dal momento che tutte le cel­
lule del corpo, qualunque sia la loro funzione, conten­
gono il medesimo gioco completo di cromosomi, come
possono una cellula nervosa, e una cellula di rene, svolgere
mansioni così differenti, se sono governate dallo stesso
insieme di leggi ?
Una generazione fa, la risposta a questa domanda
sembrava semplice. La esporrò con una analogia alquanto
frivola. Siano rappresentati i cromosomi dalla tastiera
di un grande pianoforte - un pianoforte enorme con
migliaia di tasti - dove ogni tasto sarà un gene. Ogni
cellula del corpo porta nel nucleo una tastiera microscopica
ma completa. Ma ogni cellula specializzata ha diritto
soltanto di suonare un accordo, secondo la sua specialità;
il resto della sua tastiera genetica è stato messo fuori
uso mediante nastro adesivo. L'uovo fecondato e le prime

l . Per complicare le cose, ci sono pure dei portatori di eredità


citoplasmatici, però per il nostro scopo presente si può non tenerne
conto.

174
generazioni (pochissime) di cellule figlie avevano a dispo­
sizione la tastiera completa. Ma le successive generazioni
trovano, ad ogni << punto di non ritorno l), zone sempre
più vaste della tastiera bloccate dal nastro adesivo. Alla
fine una cellula muscolare può fare una cosa sola: con­
trarsi, cioè suonare un unico accordo. Il nastro adesivo
è conosciuto nel linguaggio della genetica come << re­
pressore )). L'agente che batte l'accordo e attiva il gene
è un << induttore )). Un gene mutato è un tasto che si è
scordato. Quando moltissimi tasti si sono fortemente
scordati, il risultato - ci pregavano di credere - era
una melodia nuova molto migliorata, anzi meravigliosa:
un rettile trasformato in uccello, o una scimmia trasfor­
mata in uomo. È chiaro che in qualche punto la teoria
deve aver compiuto un passo falso.
Questo punto sta nella concezione atomistica del gene.
All'epoca in cui la genetica cominciò il decollo, l'atomismo
era in pieno fiore: i riflessi erano atomi di comportamento
e i geni unità atomiche di eredità. Un gene era responsa­
bile del colore degli occhi, un secondo dei capelli lisci o
crespi, un terzo dell'emofilia; e l'organismo era conside­
rato come una collezione di questi caratteri - unità,
mutuamente indipendenti - un mosaico di bit elementari,
messi assieme al modo degli orologi di Mekhos. Ma verso
la metà del nostro secolo, i concetti rigidamente atomi­
stici della genetica mendeliana si erano considerevolmente
ammorbiditi. Ci si era resi conto che un singolo gene
può influenzare una vasta gamma di caratteristiche dif­
ferenti (pleiotropia) ; e viceversa, che un grande numero
di geni può interagire per produrre una singola caratteri­
stica (poligenia) . Alcuni caratteri banali - come il co­
lore degli occhi - possono dipendere da un singolo gene,
ma la poligenia è la regola, e i tratti base dell'organismo
dipendono dalla totalità dei geni - il complesso-gene o
genecomplesso o << genoma )) - inteso come un tutto.

175
Nei giorni in cui la genetica era agli albori, un gene
poteva essere << dominante )) o << recessivo )), e questo era
tutto o pressappoco; ma gradualmente bisognò aggiungere
al vocabolario nuove parole, una dopo l'altra: repressori,
aporepressori, corepressori, induttori, geni modificatori,
geni interruttori, geni operatori che attivano altri geni,
e persino geni che regolano il tasso di mutazione dei geni.
Così l'azione del gene-complesso fu originariamente con­
cepita come lo spiegarsi di una semplice sequenza lineare,
simile a quella di un nastro magnetico o della catena
di riflessi condizionati del behaviourista; laddove sta ora
diventando gradualmente manifesto che i controlli gene­
tici operano come una micro-gerarchia autoregolantesi, mu­
nita di dispositivi di controreazione che ne guidano le
flessibili strategie. 1 Ciò non solo protegge l'embrione in
crescita dai casi dell' ontogenesi; lo proteggerebbe anche
dai casi evolutivi della filogenesi, o dalle mutazioni ca­
suali dei propri materiali ereditari: la ottusa filastrocca
della scimmia alla macchina per scrivere.
Al momento in cui scrivo, questa specie di proposta
incontra ancora lo scetticismo dei << duri )) della genetica
ortodossa, soprattutto perché, forse, la sua accettazione
può condurre a un decisivo spostamento di accento
nella nostra concezione del processo evolutivo, come ve­
dremo nel prossimo capitolo. Ma l'atomismo, almeno,
sta uscendo di scena; è incoraggiante leggere, per esempio,
un passo come il seguente, citato da un recente libro di
testo per scuole superiori:

<< Tutti i geni del totale messaggio ereditato tendono


ad agire insieme come un tutto integrato nel controllo
dello sviluppo [embrionale] . . . È facile cadere nell'abito

l . Significativamente, Waddington intitola il suo importante libro


di biologia teorica The Strategy of the Genes ( 1 957).

176
mentale di pensare un organismo come qualcosa di do­
tato di un numero fisso di caratteristiche con un solo
gene che controlla ciascuna caratteristica. Ciò è del tutto
scorretto. Le prove sperimentali indicano chiaramente
che i geni non lavorano mai in modo del tutto separato.
Gli organismi non sono intarsi con un solo gene che con­
trolla ognuno degli elementi dell'intarsio. Sono interi
integrati, il cui sviluppo è controllato dall'intero gioco
di geni che agiscono in cooperazione l> (3).

Dato che la differenziazione e la morfogenesi proce­


dono a passi gerarchici, quell'attività in collaborazione
del gene-complesso deve procedere essa pure in ordine
gerarchico. Il gene-complesso è racchiuso nel nucleo della
cellula. Il nucleo è circondato dal corpo della cellula. Il
corpo della cellula è racchiuso in una membrana, che è
circondata dai fluidi del corpo e da altre cellule, for­
manti un tessuto; questo a sua volta è a contatto con
altri tessuti. In altre parole, il gene-complesso opera in
una gerarchia di ambienti (p. 149) .
Diversi tipi di cellule (cellule cerebrali, cellule musco­
lari, ecc.) differiscono fra loro per la struttura e il chi­
mismo dei loro corpi cellulari. Le differenze sono dovute
all'interazione fra gene-complesso, corpo della cellula e
ambiente della cellula. In ogni tessuto in corso di accre­
scimento e differenziazione è attiva una porzione diffe­
rente del gene-complesso totale, solo quel ramo della
gene-gerarchia competente per le funzioni assegnate al
tessuto in questione; tutti i restanti geni sono in posizione
di << spento )>. E se indaghiamo sulla natura del mecca­
nismo che accende e spegne l'interruttore dei geni, tro­
viamo ancora una volta i familiari dispositivi: grilletti e
controreazioni. I grilletti sono gli << induttori l>, << organiz­
zatori )), << operatori l>, << repressori )) chimici già menzio­
nati. Inutile dire che il modo in cui lavorano lo si com-

177
prende solo molto imperfettamente, e la proliferazione
di nuovi termini è talora proprio solo un metodo di co­
modo per mascherare la nostra ignoranza dei particolari.
Ma conosciamo almeno i princìpi generali in gioco. È
un processo che cammina in circoli, circoli che si re­
stringono via via, come i giri di una spirale, a mano a
mano che la cellula diventa sempre più specializzata. I
geni controllano le attività della cellula con relativamente
semplici istruzioni codificate, che vengono compitate nelle
complesse operazioni del corpo della cellula. Ma le attività
dei geni sono guidate a loro volta da controreazioni pro­
venienti dal corpo della cellula, che è esposta alla gerarchia
di ambienti. Questa contiene, oltre ai grilletti chimici,
un certo numero di altri fattori presenti nel << paesaggio
epigenetico l>, i quali sono rilevanti per il futuro della
cellula, e intorno ai quali i geni devono essere informati.
Per usare un termine proposto da James Bonner (4) ,
la cellula dev'essere in grado di << saggiare )) i suoi vicini
<< in fatto di estraneità o similarità, e in molti altri modi l).
Inviando mediante una controreazione informazioni sulla
<< giacitura del terreno )) al gene-complesso, il citoplasma
contribuisce così a determinare, condetermina, quali geni
debbono essere in attività e quali devono essere tempo­
raneamente o permanentemente spenti.
Così in ultima analisi il destino di una cellula dipende
dalla sua posizione nell'embrione crescente - la sua
esatta collocazione nel panorama epigenetico. Le cellule
che sono membri dello stesso campo morfogenetico (per
esempio, un futuro braccio) devono avere la stessa orche­
strazione genetica e comportarsi come parti di un'unità
coerente; e la loro ulteriore specializzazione in << solisti ))
(le singole dita) dipenderà di nuovo dalla loro posizione
all'interno del campo. Ogni germoglio d'organo è un olò­
mero bifronte al modo di Giano: in rapporto ai suoi pre­
cedenti stadi di sviluppo il suo destino come insieme è

178
irrevocabilmente determinato; ma in rapporto al futuro,
le sue parti sono ancora << docili )) e si differenzieranno
lungo la pista di sviluppo meglio rispondente ai loro
ambienti locali. << Determinazione )) e << docilità l), poten­
ziale auto-assertivo e integrativo, sono le due facce di
un'unica medaglia (come lo sono, nella terminologia di
una ormai decrepita controversia fra i biologi, sviluppo
<< regolativo )) e sviluppo << a mosaico l>) .
Nei tipi di gerarchia sopra discussi, il fattore tempo
aveva una parte relativamente subordinata. Nella gerarchia
dello sviluppo, l'apice è l'uovo fecondato, l'asse dell'al­
bero che si dirama è il procedere del tempo, e i livelli
della gerarchia sono successivi stadi di sviluppo. La strut­
tura dell'embrione in crescita a ogni momento dato è
un'intersezione ad angolo retto con l'asse del tempo, e
le due facce di Giano sono rivolte al passato ed al futuro.

SOMMARIO

Scopo di questo capitolo non era dare una descrizione


dello sviluppo embrionale, ma sottolineare i princìpi
fondamentali che questo sviluppo ha in comune con altre
forme di processi gerarchici discusse in precedenti capitoli.
]. Needham coniò una volta una frase sullo << sforzo della
blàstula di crescere a pulcino )), Si potrebbe chiamare
l'insieme di dispositivi che fanno sì che questo accada,
<< abilità prenatali dell'organismo )). Per citare di nuovo
James Bonner: << Sappiamo che la natura, come l'uomo,
compie opere complesse spezzandole in molte semplici
sub-opere )) (5) . Sviluppo, maturazione, apprendimento e
azione sono processi continui, e dobbiamo quindi presu­
mere che le abilità prenatali e post-natali siano governate
dai medesimi princìpi generali.

179
Alcuni di questi princìpi, 1 che abbiamo trovato riflessi
nello sviluppo embrionale, erano: l'ordine gerarchica­
mente diramantesi della differenziazione e della modo­
genesi; la << scomponibilità )) di tale ordine in olòmeri
auto-regolantisi a vari livelli (stadi) ; il loro carattere
bifronte tipo Giano (autonomia contro dipendenza, de­
terminazione contro docilità) ; i loro fissi canoni genetici
e le loro adattabili strategie guidate da controreazioni
in provenienza dalla gerarchia di ambienti; l'azione dei
grilletti (induttori, ecc.), che scatenano meccanismi pre­
disposti, e di scandagli (test) che trattano l'informa­
zione; il decremento di flessibilità col crescendo di diffe­
renziazione e specializzazione. Da ultimo, avevamo tro­
vato già che il canone di regole fisse che governa un'abi­
lità è un << persuasore occulto )) , il quale opera automati­
camente o istintivamente. Mutatis mutandis, possiamo
dire che una relazione analoga vige fra il codice gene­
tico di antica origine e le << abilità prenatali )) dell'em­
brione in crescita.

l . Vorrei ricordare al lettore che un sommario di questi princìpi


è reperibile nell'Appendice I.

180
x l L'evoluzione: tema e variazioni

Mi rifiuto di credere che Dio giochi a dadi


con il mondo.
. AI,BERT EINSTEIN

Nell'ultimo capitolo ci occupammo dell'ontogenesi: lo


sviluppo dell'individuo. Possiamo ora passare alla filo­
genesi, e al cruciale problema del progresso evolutivo.
La teoria ortodossa (<< neo-darwiniana )) o << sintetica )>)
tenta di spiegare tutte le modificazioni evolutive mediante
mutazioni casuali (e ricombinazioni) di geni; la maggior
parte delle mutazioni sono dannose, ma una proporzione
piccolissima accade che riesca utile e viene conservata
dalla selezione naturale. Come già accennato, << casualità ))
significa, in questo contesto, che i cambiamenti eredi­
tari operati dalla mutazione sono del tutto senza rapporto
con le necessità adattative dell'animale, che possono
alterare il suo fisico e il suo comportamento << in ogni e
qualsiasi direzione )). In questo orizzonte di pensiero,
l'evoluzione appare simile al gioco della mosca-cieca.
Oppure, con le parole del prof. Waddington, un membro
quasi trotzkista dell'establishment, che in questo capitolo
avrò occasione di citare ripetutamente: << Supporre che
l'evoluzione dei meccanismi biologici così meravigliosa­
mente adattati sia dipesa soltanto da una selezione ope­
ratasi su un insieme di variazioni fortuite, prodotta ognuna
dal cieco caso, è come avanzare l'idea che se continuas­
simo a gettare insieme dei mattoni facendone dei mucchi,

181
alla fine dovremmo essere in grado di sceglierei da no1
la casa più desiderabile )) (1) .
Per illustrare il punto, ecco un semplice esempio. Il
panda gigante - mascotte del << Fondo mondiale per la
tutela della vita naturale l>, il World Wildlije Fund -
ha negli arti anteriori un sesto dito supplementare, che
viene molto a taglio per la manipolazione dei germogli
di bambù, suo alimento principale. Ma questo dito sup­
plementare sarebbe un'inutile appendice senza i muscoli
e i nervi appropriati. Le probabilità che, fra tutte le mu­
tazioni possibili, quelle che produssero le ossa, i muscoli
e i nervi supplementari siano occorse indipendentemente
nella stessa popolazione sono, è chiaro, infinitesimamente
piccole. E tuttavia in questo caso sono in gioco tre fat­
tori variabili soltanto. Se abbiamo, metti, venti fattori
(che è ancora una stima modesta per l'evoluzione di un
organo complesso) , le probabilità negative esistenti contro
la loro simultanea mutazione unicamente fortuita diven­
terebbero assurde, e invece che di spiegazioni scienti­
fiche, dovremmo farci spacciatori di miracoli.
Vediamo ora un esempio meno rudimentale. La con­
quista della terraferma ad opera dei vertebrati ebbe
inizio con l'evoluzione dei rettili a partire da qualche pri­
mitiva forma anfibia. Gli anfibi si riproducevano nell'ac­
qua, e i loro piccoli erano acquatici. La novità decisiva
dei rettili era che, a differenza degli anfibi, deponevano
le uova sulla terra asciutta; non dipendevano più dall'ac­
qua ed erano liberi di vagabondare attraverso i continenti.
Ma il rettile non nato, dentro all'uovo, necessitava an­
cora di un ambiente acquatico: o aveva l'acqua, o altri­
menti si sarebbe disseccato molto prima di essere nato.
Gli occorreva anche una quantità di cibo: gli anfibi schiu­
dono come larve che badano a se stesse, mentre i rettili
schiudono interamente sviluppati. Così l'uovo del ret­
tile doveva essere provvisto di una grande massa di

182
tuorlo per il sostentamento, ed anche di albume - il
bianco d'uovo - per garantire l'acqua. Né il tuorlo di
per sé, né il bianco di per sé, avrebbero avuto valore
selettivo. Inoltre l'albume richiedeva un recipiente per
contenerlo, altrimenti la sua umidità sarebbe evaporata.
Così ci dovette essere un guscio fatto di materiale mem­
branaceo o calcareo, come parte dell'imballaggio evolu­
tivo. Ma la storia non finisce qui. L'embrione di rettile,
a causa di questo guscio, non poteva disfarsi dei propri
prodotti di rifiuto. L'embrione d'anfibio nel suo guscio
morbido aveva per gabinetto tutto lo stagno; l'embrione
del rettile andava provvisto di una specie di vescica. È
denominata allantoide, ed è sotto alcuni aspetti il pre­
cursore della placenta dei mammiferi. Ma risolto questo
problema, l'embrione sarebbe ancora rimasto intrappo­
lato dentro il suo guscio durissimo; gli occorreva un uten­
sile per uscirne fuori. Gli embrioni di alcuni pesci e an­
fibi, le cui uova sono circondate da una membrana gela­
tinosa, hanno sul muso delle ghiandole: quando il tempo
è maturo, esse secernono una sostanza chimica che scio­
glie la membrana. Ma gli embrioni circondati da un gu­
scio duro necessitano di un utensile meccanico: così i
serpenti e le lucertole hanno un dente trasformato in
una specie di apriscatole, mentre gli uccelli hanno una
caruncola (un'escrescenza dura vicino alla punta del becco
che serve allo stesso scopo) . In alcuni uccelli - gl'in­
dicatori o guidamiele - che depongono le uova come
i cuculi nei nidi altrui, la caruncola serve però a un altro
scopo: si trasforma in un uncino affilato con cui i piccoli
invasori appena schiusi uccidono i << fratelli di latte >>,
dopo di che, gentilmente, l'uncino cade.
Tutto ciò si riferisce a un solo aspetto dell'evoluzione
dei rettili: inutile dire che innumeri altre trasformazioni
essenziali, di struttura e di comportamento, furono ne­
cessarie per rendere vitale la nuova creatura. Le modi-

183
fiche potevano essere graduali - ma a ogni passo, anche
piccolo, dovettero collaborare armoniosamente tutti i
fattori coinvolti nella storia. La riserva liquida che c'è
dentro all'uovo non avrebbe senso senza il guscio. Il gu­
scio sarebbe inutile, anzi micidiale, senza l'allantoide e
l'apriscatole. Ogni modifica, presa isolatamente, sarebbe
dannosa, e lavorerebbe contro la sopravvivenza. Non si
può avere una mutazione A che abbia luogo da sola, pre­
servarla per selezione naturale, e poi aspettare qualche
migliaio o milione d'anni che venga a raggiungerla la
mutazione B, e così via, la C, la D. Ogni mutazione che
emerga da sola sarebbe spazzata via prima che possa
combinarsi con le altre. Sono tutte interdipendenti. La
dottrina per cui il loro confluire è dovuto a una serie di
cieche coincidenze è un affronto non solo al buon senso,
ma ai princìpi fondamentali della spiegazione scientifica.
Gli araldi della teoria ortodossa probabilmente erano
consapevoli, non senza disagio, che mancava qualche
cosa di essenziale, e occasionalmente rendevano omag­
gio a fior di labbra ai << problemi insoluti •>, poi in tutta
fretta li scopavano sotto il tappeto. Per citare una sola
autorità, sir Peter Medawar (non eccessivamente incline
per parte sua alla tolleranza verso le opinioni altrui):
<< Venti anni fa tutto sembrava facile: con la mutazione
come fonte di diversità, con la selezione che estrae e sce­
glie . . . Il nostro precedente compiacimento può riportarsi,
credo, a una comprensibile debolezza di temperamento:
gli scienziati tendono a non porsi domande finché non
intravvedono mentalmente un abbozzo di risposta. Le
questioni imbarazzanti tendono a restare informulate o,
se formulate, a sentirsi rispondere in modo rozzo . . . •> (la) . l

l . S i confronti questo passo con i l pronunciamento ex cathedra


di sir Julian Huxley: << Nel campo dell'evoluzione, la genetica ha dato
la sua risposta basilare, e i biologi dell'evoluzione sono liberi di perse­
guire altri problemh (2) .

184
Un modo comodo per evadere a queste domande im­
barazzanti era quello di concentrare l'attenzione sul trat­
tamento statistico delle mutazioni in grandi popolazioni
della mosca dei frutti, la Drosophila melanogaster, l'ani­
maletto beniamino dei genetisti perché si propaga molto
in fretta e ha solo quattro paia di cromosomi. Il metodo
si basa sulla misurazione delle variazioni di alcune iso­
late, e per lo più triviali, caratteristiche, quali il colore
degli occhi o la distribuzione delle setole sul corpo del­
l'insetto. Legati com'erano alla tradizione atomistica, i
sostenitori della teoria erano evidentemente incapaci di
accorgersi che quelle mutazioni di un fattore singolo
- virtualmente deleterie tutte quante - erano perfetta­
mente irrilevanti per il problema centrale dell'ascesa evo­
lutiva, la quale richiede modificazioni simultanee in tutti
i fattori che incidono sulla struttura e la funzione di un
organo complesso. L'ossessione dei genetisti per le setole
della mosca dei frutti, e l'ossessione dei behaviouristi per
il ratto che preme la leva, presentano una analogia che
non è solo superficiale. Derivano entrambe da una filo­
sofia meccanicistica che riguarda la creatura vivente come
una collezione di elementari bit di comportamento (le
unità S-R) e di elementari bit di ereditarietà (i geni men­
deliani).

SELEZIONE INTERNA

L'alternativa che qui viene proposta è il concetto di


gerarchia aperta. Vediamo se si possa applicare al pro­
cesso evolutivo. Comincerò citando la risposta di Wad­
dington ai problemi del tipo posto dal dito del panda
gigante:

<< C'è ancora fra noi qualcuno a cui le spiegazioni


ortodosse moderne non sembrano molto soddisfacenti.

185
Un problema ben noto è questo: molti organi sono cose
estremamente complesse, e al fine di attuare nel loro
funzionamento una miglioria qualsiasi sarebbe necessario
apportare alterazioni simultanee in parecchi caratteri
differenti: e questo, può sembrare, è qualcosa che non
ci si aspetterebbe che accada sotto l'influenza unicamente
del caso.
Ci sono sempre stati, e ci sono ancora, biologi repu­
tati i quali pensano che tali considerazioni destino dubbi
sulla possibilità di assumere la modificazione fortuita
ereditaria come base sufficiente per l'evoluzione. Ma io
credo che la difficoltà scompaia in gran parte se si ri­
corda che un organo come l'occhio non è semplicemente
una collezione di elementi quali la retina, il cristallino,
l'iride e cosi via, che siano messi insieme e che casual­
mente si adattino fra loro. È qualcosa che si forma gra­
dualmente mentre l'animale adulto si sta sviluppando
dall'uovo, e mentre l'occhio si sta formando le varie parti
si influenzano l'una con l'altra. Molti hanno mostrato
che se, con qualche accorgimento sperimentale, la retina
e il globo oculare vengono resi più grandi del normale,
questo di per sé farà apparire un cristallino più grande,
o almeno della dimensione approssimatamente adatta
alla visione. Non c'è ragione quindi perché una muta­
zione casuale non debba influenzare l'intero organo in
modo armonioso; ed esiste una possibilità ragionevole
che possa anzi rnigliorarlo . . . Un cambiamento fortuito
che si verifichi in un fattore ereditario, di fatto non
suole avere per risultato l'alterazione di un elemento
solo dell'animale adulto; darà luogo a uno slittamento
dell'intero sistema di sviluppo e può dunque alterare
un organo complesso inteso come un tutto )) (3). (Il cor­
sivo è mio).

Ricordiamo dal capitolo precedente che la gemma ocu­


lare in crescita dell'embrione è un olomero autonomo
che, se viene asportata una parte del suo tessuto, nondi­
meno, grazie alle sue proprietà di autoregolazione, si svi-

186
lupperà fino a formare un occhio normale. Non è in alcun
modo sorprendente che debba spiegare le stesse capacità
di autoregolazione, o << strategie fL�ssibili )) di crescita,
se il turbamento è causato non da un agente umano ma
da un gene mutato, come propone Waddington. La mu­
tazione casuale è un semplice grilletto che scatena il pro­
cesso; le « abilità prenatali )) dell'embrione faranno il resto,
ad ogni successiva generazione. L'occhio ingrandito è di­
ventato una novità evolutiva.1
Ma lo sviluppo embrionale è un processo gerarchico
plurilivellato; e questo induce a presumere che controlli
selettivi e regolativi operino su diversi livelli per eliminare
le mutazioni dannose e coordinare gli effetti di quelle ac­
cettabili. Vari autori 2 hanno avanzato l'idea che questo
processo di vaglio possa avere inizio proprio alla base
della gerarchia, al livello della chimica molecolare del
gene-complesso. Le mutazioni sono cambiamenti chimici
causati presumibilmente dall'impatto delle radiazioni co­
smiche e di altri fattori sulle cellule germinali. I cambia­
menti consistono in alterazioni della sequenza delle unità
chimiche dei cromosomi, le quattro lettere dell'alfabeto
genetico. Per lo più sono equivalenti di errori di stampa.
Ma sembra esserci, di nuovo, una gerarchia di correttori
e di lettori di bozze che lavorano per eliminarli: << La
lotta per la sopravvivenza delle mutazioni comincia al mo­
mento in cui ha luogo la mutazione - scrive L. L. Whyte.
- È ovvio che variazioni interamente arbitrarie non sa­
ranno fisicamente, chimicamente, o funzionalmente sta-

l. Bisognerebbe aggiungere che l'esempio dell'occhio mutante in­


grandito è tipico di quel genere di cose che fa un gene mutante. I
geni regolano i tassi di reazione chimica, incluso il tasso di accresci­
mento; e uno degli effetti più frequenti delle mutazioni del gene è quello
di alterare la velocità di crescita d'una parte rispetto ad altre, modi­
ficando quindi le proporzioni dell'organo.
2. Von Bertalanffy, Darlington, Spurway, Lima da Paria, L. L.
Whyte. Vedi nota a p. 207.

187
bili . . . Solo quei cambiamenti che hanno per risultato un
sistema mutato che soddisfi a certe rigorose condizioni
fisiche, chimiche e funzionali saranno capaci di soprav­
vivere . . . >> (4) . Tutti gli altri saranno eliminati o dalla
morte della cellula mutata e delle sue discendenti ancora
a uno stadio precoce, oppure, come vedremo tra breve,
dalle notevoli proprietà di autoriparazione del gene-com­
plesso inteso come un tutto.
Nella teoria ortodossa, la selezione naturale è dovuta
interamente alle pressioni dell'ambiente, il quale uccide
e sgombera gli inadatti e benedice gli adatti con abbon­
dante progenitura. Alla luce delle precedenti considerazioni,
tuttavia, prima che una nuova mutazione abbia proba­
bilità di essere sottoposta ai collaudi di sopravvivenza
darwiniani nell'ambiente esterno, deve aver superato i
collaudi della selezione interna in ordine alla sua attitudine
fisica, chimica e biologica.
Il concetto di selezione interna, di una gerarchia di
controlli che elimina le conseguenze di mutazioni di gene
nocive e coordina gli effetti delle mutazioni utili, è l'anello
mancante nella teoria ortodossa fra gli << atomi >> di eredità
e la viva corrente dell'evoluzione. Senza questo anello
né gli uni né l'altra hanno senso. Non ci può esser dubbio
sul fatto che le mutazioni casuali avvengano. Le si può
osservare in laboratorio.
Non vi può essere dubbio sul fatto che la selezione
darwiniana sia una forza potentissima. Ma nell'intervallo
fra questi due eventi, fra i cambiamenti chimici che av­
vengono in un gene e l'apparire del prodotto finito come
nuovo venuto sulla scena dell'evoluzione, c'è all'opera
un'intera gerarchia di processi interni, che impongono
rigide limitazioni alla gamma di mutazioni possibili, e
riducono quindi in modo considerevole l'importanza del
fattore caso.

188
Potremmo dire che la scimmia lavora ad una mac­
china per scrivere che il fabbricante ha programmata
perché stampi soltanto sillabe esistenti nella nostra lingua,
e mai sillabe prive di senso. Se capita una sillaba non­
senso, la macchina la cancellerà automaticamente. 1
Per proseguire nella metafora, avremmo d a popolare
i livelli superiori della gerarchia di lettori di bozze, e poi
di revisori dello stile, le cui mansioni non sono più l'eli­
minazione, ma la correzione, l'autoriparazione, e il coor­
dinamento, come nell'esempio dell'occhio che ha subìto
una mutazione.
Questo era un esempio di armonizzazione delle conse­
guenze di una mutazione potenzialmente favorevole. Vorrei
citare adesso un altro esempio di autoriparazione evolu­
tiva dopo una mutazione potenzialmente nociva.

IL CASO DELLA MOSCA SENZA OCCHI

Il moscerino della frutta ha un gene mutante che è


recessivo, cioè che quando è accoppiato a un gene normale
non produce effetti discernibili (si ricorderà che i geni
lavorano appaiati, ciascuno del paio derivando da un
genitore) . Ma se due di questi geni mutanti vengono ad
abbinarsi nell'uovo fecondato, il discendente sarà una
mosca senza occhi. Ora, se un ceppo puro di mosche
senza occhi viene costretto a riprodursi in seno a se me­
desimo, l'intero ceppo avrà soltanto il gene mutante
(< senza occhi >>, perché nessun gene normale può entrare
nel ceppo per portar luce alle sue tenebre. Cionondimeno,
dopo alcune generazioni, nel ceppo (< senza occhi >> che si
è continuato a riprodurre senza incroci con altri ceppi, ap­
paiono mosche con occhi perfettamente normali. La spiega-

l . Questa metafora è applicabile quasi alla lettera agli errori com­


messi nella fabbricazione di proteine dei microrganismi dovuti a <• sil­
labe senza senso & che appaiono nel codice RNA (5).

1 89
zione tradizionale di questo notevolissimo fenomeno è
che gli altri membri del complesso gene sono stati (( rime­
scolati e ricombinati, in modo tale da assumere una de­
lega per il normale gene formatore di occhi che man­
cava l> (6) .
Orbene, rimescolare, come sa ogni giocatore di poker,
è un processo basato sul caso. Nessun biologo vorrebbe
essere così perverso da insinuare che il nuovo occhio del­
l'insetto si è evoluto per puro caso, ripetendo così in poche
generazioni un processo evolutivo che richiese centinaia
di milioni d'anni. E non si può neppure dire che il con­
cetto di selezione naturale fornisca in questo caso un
aiuto benché minimo. Il ricombinarsi dei geni, al fine di
assumere la delega del gene che manca, deve esser stato
coordinato in armonia con qualche piano generale, che
include le regole della autoriparazione genetica dopo certi
tipi di avaria dovuta a mutazioni deleterie. Ma questi
controlli coordinativi possono operare soltanto su livelli
superiori a quelli del singolo gene. Ancora una volta siamo
spinti alla conclusione che il codice genetico non è un
disegno di architetto; che il gene-complesso e il suo am­
biente interno formano una microgerarchia autoregolan­
tesi, rimarchevolmente stabile e strettamente intrecciata;
e che i geni mutati di qualsiasi dei suoi olòmeri sono su­
scettibili di causare reazioni corrispondenti in altri, coor­
dinati da livelli superiori. Questa microgerarchia controlla
le abilità prenatali dell'embrione, che lo mettono in grado
di raggiungere la mèta indipendentemente dagli incidenti
che può incontrare durante lo sviluppo. Ma la filogenesi
è una sequenza di tante ontogenesi, e così siamo di fronte
alla profonda questione: il meccanismo della filogenesi è
dunque munito di qualche tipo di <( libretto di istruzioni ))
evolutive ? Vi è una strategia del processo evolutivo com­
parabile alla (( strategia dei geni l>, alla (( direttività l)
dell'ontogenesi ? (come l'ha chiamata E. S. Russell) .

190
Lasciatemi ricapitolare. Gli occhi della normale mosca
della frutta e gli occhl che appaiono improvvisamente
nel << ceppo senza occhi >> sono organi omologhi, identici in
apparenza, e tuttavia prodotti da una combinazione di­
versa di geni; e questo non è che uno di molti fenomeni
similari. L'atomismo genetico è morto. La stabilità ere­
ditaria e i cambi ereditari sono basati entrambi non su
un mosaico di geni, ma sull'azione del gene-complesso
<< preso come un tutto >>. Ma questa espressione destinata
a salvare la faccia - ora di uso via via crescente - è
vuota, come tante altre formulazioni olistiche, a meno che
interpoliamo, fra il complesso-gene come un tutto, e il
gene singolo, una gerarchia di sottoinsiemi genetici - olò­
meri di eredità autoregolantisi, che controllano lo svi­
luppo degli organi e anche controllano le loro possibili
modificazioni evolutive canalizzando gli effetti delle muta­
zioni casuali. Una gerarchia, con le sue salvaguardie
autoregolatrici incorporate, è un qualche cosa di stabile.
Non può essere tirata in qua e in là come fa Patou quando
elabora il suo modello. È capace di variazione e cambia­
mento, ma solo in modi coordinati e soltanto in direzioni
limitate. Possiamo dire qualche cosa sui princìpi generali
che determinano questa direzione ?

' '
L ENIGMA DELL OMOLOGIA

Il principio più fondamentale della strategia evolutiva,


riferendoci alla parabola degli orologiai, è la standardiz­
zazione dei sottoinsiemi. Ma siccome per lo più non ab­
biamo una idea molto chlara del meccanismo dei nostri
cronometri, potremmo invece dare uno sguardo sotto il
cofano dell'auto. Qui è facile nominare i sottoinsiemi:
autotelaio, motore, batteria, sterzo, freni, differenziale e
via dicendo, fino alla distribuzione e al sistema di riscal­
damento. Ognuna di queste parti componenti è un'unità

191
più o meno autocontenuta, un olòmero meccanico << di
diritto proprio )). Un motore a VS o una batteria standard
possono essere estratti dall'autovettura e fatti funzionare
da soli come un organo in vitro. Possono essere trasferiti
su un'automobile di altro tipo, e persino su una specie
di macchina diversa, come un motoscafo. Ma come fanno
a evolvere le automobili ?
I fabbricanti sanno che non è il caso di progettare
un modello nuovo partendo da zero, a livello dei com­
ponenti elementari; essi si servono di componenti già
esistenti, componenti standard - cluissis, freni, ecc. -
ognuno dei quali si è sviluppato da una lunga esperienza
precedente; e poi procedono con miglioramenti o modi­
fiche relativamente limitate di alcuni di questi compo­
nenti, per esempio, ridisegnando la carrozzeria, o perfe­
zionando il sistema di raffreddamento, o introducendo
sedili anatomici.
Simili restrizioni si può dimostrare che operano nel­
l'evoluzione biologica. Confrontiamo le ruote anteriori
dell'ultimo modello con quello di un'auto d'anteguerra,
anzi di un'automobile d'antiquariato: esse sono basate
sugli stessi princìpi. Confrontiamo la struttura dell'arto
anteriore dell'uomo, del cane, dell'uccello e della balena,
e troviamo che l'evoluzione ha conservato lo stesso di­
segno di base.
Il braccio umano e l'ala dell'uccello sono chiamati
organi omologhi perché mostrano lo stesso disegno strut­
turale - di ossa, muscoli, vasi sanguigni e nervi - e
sono discesi dallo stesso organo ancestrale. Le funzioni
del braccio e dell'ala sono così diverse che sarebbe logico
supporre in esse un disegno diversissimo. In effetti l'evo­
luzione ha proceduto esattamente come fanno i fabbri­
canti d'automobili, per mezzo cioè di semplici modifiche
di un componente già esistente (l'arto anteriore del ret­
tile antenato da cui si diramarono gli uccelli e i mammiferi

192
più di 200 milioni di anni fa), invece di partire da zero.
Una volta che la Natura ha preso il brevetto per la fab­
bricazione di un organo componente, ci si attacca tena­
cemente: l'organo o il dispositivo è diventato un olòmero
evolutivo stabile.

uomo cane uccello balena

>
'
Fig. 6
2

Arti anteriori di vertebrati (da G. G. SIMPSON e altri, Life and intro­


duction to biology)

Il principio vale su tutta la linea: dal livello sub-cel­


lulare fino ai << diagrammi di cablaggio » del cervello del
primate. La stessa << marca >> di orgànuli funziona nelle
cellule dei topi e degli uomini; la stessa << marca >> di pro­
teina contrattile serve ai movimenti dell'ameba e delle
dita del pianista; le stesse quattro unità chimiche costi­
tuiscono l'alfabeto dell'eredità attraverso l'intero regno
animale e vegetale, solo che le parole sono diverse per
ogni creatura. La proverbiale prodigalità della Natura è
compensata dal suo meno ovvio conservatorismo e dalla
parsimonia - la si potrebbe quasi chiamare spilorceria -
in fatto di disegni omologhi di base, dagli orgànuli fino
alle strutture cerebrali. << Questo concetto di omologia -
scrisse sir Alister Hardy - è assolutamente fondamentale
rispetto a ciò di cui stiamo parlando quando ci occupiamo

7 KOESTLER 193
di evoluzione. Eppure, in verità - aggiungeva penso­
samente, - non possiamo spiegarlo affatto nei termini
della teoria biologica del giorno d'oggi )) (7) .
La ragione di questo fallimento è, come abbiamo visto,
che la teoria ortodossa riteneva che le strutture omologhe
di specie differenti fossero dovute agli stessi geni << ato­
mici )) ereditati da un antenato comune (sebbene modifi­
cati dalla mutazione nel corso della loro lunga discen­
denza) ; laddove abbiamo ora prove larghissime che le
strutture omologhe possono venir prodotte dall'azione
di geni del tutto differenti. L'unico modo per uscire da
questo vicolo cieco sembra essere quello di sostituire al­
l'atomismo genetico, così drasticamente fatto a pezzi, il
concetto della microgerarchia genetica, con proprie re­
gole incorporate, che permettono un gran numero di
variazioni ma soltanto in direzioni limitate su un numero
limitato di temi. Questo in realtà equivale alla rinascita
di una vecchia idea che risale a Goethe, e persino più
su, a Platone. Il punto merita una piccola digressione
storica, che può chiarire perché il concetto di omologia
abbia tanta importanza non solo per il biologo ma anche
per il filosofo.

GLI ARCHETIPI IN BIOLOGIA

Molto prima di Darwin i naturalisti si dividevano in


evoluzionisti (Buffon, Lamarck, Saint-Hilaire, ecc.), e
antievoluzionisti, che credevano che il Creatore avesse
messo giù sulla terra la prima giraffa, la prima zanzara
e il primo tricheco simultaneamente, come prodotti belli
e fatti; ma sia i proevoluzionisti che gli antievoluzionisti
erano egualmente colpiti dalla similarità di organi e di
disegni in specie altrimenti diversissime. Il termine << or­
gano omologo )) fu effettivamente coniato da Geoffroy
Saint-Hilaire. La sua Philosophie anatomique pubblicata

194
nel 1818 comincia con la domanda: << . . Non è general­
.

mente riconosciuto che i vertebrati sono costruiti su un


solo progetto uniforme; per esempio l'arto anteriore può
modificarsi per la corsa, l'arrampicata, il nuoto o il volo,
e tuttavia la disposizione delle ossa rimane la mede­
sima ? )) (8) .
Goethe era diventato evoluzionista molto prima, at­
traverso i suoi studi sulla morfologia (parola da lui co­
niata) di vegetali ed animali. Nella sua Metamorfosi
delle piante, pubblicata nel 1790, egli fissò il postulato
che tutte le piante esistenti derivassero da un antenato
comune, la Urpflanz o archeopianta; e che tutti gli
organi delle piante fossero modificazioni omologhe 1 di
una struttura singola, espressa nella sua forma più sem­
plice dalla foglia. Sebbene Goethe fosse già famoso, la
Metamorfosi ebbe un'accoglienza ostile (per incredibile
che possa sembrare, il suo editore di Lipsia la rifiutò,
e Goethe dovette rivolgersi al Cotta a Gotha) ; ma l'opera
ebbe un'influenza considerevole sui Naturphilosophen te­
deschi, che combinavano l'anatomia comparata con il
misticismo trascendentale. Costoro non erano evoluzio­
nisti, ma erano affascinati dal ricorrere universale degli
stessi disegni di base nelle strutture degli animali e
delle piante; li chiamavano << archetipi )) e ritenevano che
fossero la chiave per penetrare nel disegno divino del
creato.
L'idea che tutti i fiori, gli alberi, i vegetali esistenti
e così via fossero derivati da una singola pianta ance­
strale sembra sia balenata a Goethe durante il suo sog­
giorno in Sicilia, dove aveva passato la maggior parte del
tempo erborizzando. Dopo il ritorno, nel 1787, confidò
a Herder:

l. Anche se non usa la parola.

195
<< Ho visto il punto principale, il cuore del problema,
con chiarezza e al di là di ogni dubbio: tutto il resto
riesco già a vederlo nell'insieme e solo alcuni particolari
richiedono un'ulteriore elaborazione. La 'pianta ance­
strale' risulterà la più meravigliosa creazione del mondo,
per cui la Natura stessa mi invidierà. Con l'aiuto di questo
modt>llo, e con la chiave per dischiuderlo, si potranno
allora inventare altre piante ad infinitum; invenzioni
però ben concrete; cioè a dire, piante che se non esistono
potrebbero però esistere; che, lungi dall'essere ombre o
glosse della fantasia del poeta o del pittore, debbono
possedere una intrinseca giustezza e necessità. La stessa
legge si applica a tutti gli altri regni viventi l) (9).

Le condizioni di <l intrinseca giustezza e necessità l) a


cui devono conformarsi tutte le forme di vita esistenti
e possibili, Goethe naturalmente non era in grado di de­
finirle; ma l'intuito gli diceva che non potevano inclu­
dere disegni di fantasia, arbitrari, creati dalla sbrigliata
immaginazione dei pittori - e degli scrittori di fanta­
scienza. Devono conformarsi a certi disegni archetipi,
limitati nella loro gamma dalla struttura e dalla chimica
di base della materia organica. L'evoluzione non può es­
sere un processo caotico che mette e toglie a casaccio.
Deve conformarsi a qualche disegno ordinato, come le
<l severe, eterne leggi che guidano i pianeti erranti lungo
le orbite l>. 1
I seguaci tedeschi di Goethe, i Naturphilosophen, rac­
colsero il suo concetto degli archetipi ma non la sua fede
nell'evoluzione. Essi consideravano gli archetipi non, come
faceva lui, forme ancestrali da cui si erano evoluti gli
organi omologhi, ma come disegni di un progetto divino,
dei leit-motiv che insieme con tutte le loro variazioni

l . Faust, Prologo.

196
possibili sono coesistiti fin dal giorno della creazione.
Press'a poco la stessa credenza era condivisa da qualche
grande anatomista europeo del tempo, tra cui Richard
Owen. Fu questi a definire gli << organi omologhi l> come
<< lo stesso organo in diversi animali con qualsiasi varietà
di forma e di funzione l>. Mentre instancabilmente conti­
nuava a dimostrare la moltitudine di tali organi nel Regno
animale, li attribuiva alla persimonia del divino Proget­
tista, così come Keplero aveva attribuito le sue leggi
planetarie alla ingegnosità del divino Matematico.
Ma quali che fossero le credenze di questi uomini,
il concetto di omologia rimase e divenne una pietra mi­
liare della teoria evolutiva moderna. Gli animali e le
piante sono costituiti da orgànuli omologhi, come i mito­
condri; organi omologhi, come branchie e polmoni; arti
omologhi, come braccia e ali. Sono gli olòmeri stabili
nel flusso evolutivo. I fenomeni dell'omologia implicavano
in effetti il principio gerarchico sia in filogenesi che in on­
togenesi. Ma il punto non venne mai asserito in modo espli­
cito e i princìpi dell'ordine gerarchico ricevevano a mala­
pena un'occhiata di sfuggita. Questa può essere la ra­
gione per cui le contraddizioni inerenti alla teoria orto­
dossa poterono passare così a lungo inosservate.

LA LEGGE n ' EQUILIBRIO

Vi sono manifestazioni su livelli ancora più elevati,


di quanto ho chiamato la stabilità degli olòmeri evolu­
tivi. Tali sono le relazioni geometriche, scoperte da D' Arcy
Thompson, che dimostrano che una specie può trasformarsi
in un'altra e tuttavia conservare il suo disegno di base.
Le illustrazioni qui riportate rappresentano un pesce
porcospino (Diodon) e il pesce sole (Orthogoriscus) dal-

197
l'aspetto diversissimo, quali appaiono nel classico di
Thompson On growth and Jorm pubblicato nel 1917:

0
Uta1 2 3 4 5 6

(Pesce-sole e pesce porcospino, secondo D' ARCY TnmiPSON)

Ho confrontato l'evoluzione degli organi omologhi


alla procedura adottata dai fabbricanti di automobili
quando elaborano un nuovo modello, che differisce dal
precedente solo per qualche modifica di questo e quel
componente, mentre le altre parti standardizzate riman­
gono inalterate. Nel caso del pesce non è un organo par­
ticolare che è stato modificato, ma lo chassis e la carroz­
zeria intese come un tutto. Però non è stato ridisegnato
arbitrariamente: lo schema è rimasto lo stesso. È stato
soltanto distorto pari pari, secondo una semplice equa­
zione matematica. Immaginiamo il disegno del pesce
porcospino e la sua rete di coordinate cartesiane stam­
pate su un foglio di gomma. Il foglio è più spesso dalla
parte della testa e perciò più resistente che non dalla

198
parte della coda. Ora prendete gli orli superiore ed infe­
riore del foglio di gomma e stiratelo. Il risultato sarà
il pesce luna. I punti corrispondenti dell'anatomia dei
due pesci avranno le stesse coordinate (l'occhio per esem­
pio avrà la << longitudine 1> 0,5 e la << latitudine l) c) .
Thompson trovò che questo fenomeno aveva una
validità generale. Ponendo la sagoma esterna di un ani­
male su un reticolo di coordinate e poi disegnando un
altro animale appartenente allo stesso gruppo zoologico,
trovò che poteva trasformare una forma nell'altra con un
semplice giochetto di << geometria da foglio di gomma 1>,
che può essere espresso da una formula matematica.
L'illustrazione che segue (fig. 8) mostra la trasforma-

Fig. 8
(Crani di babbuino, scimpanzé e uomo, secondo D'ARCY THOMPSON)

zione, per mezzo di un reticolo di coordinate cartesiane


armoniosamente deformato, del cranio di un babbuino
in quello di uno scimpanzé e di un uomo.
Questi non sono oziosi giochetti matematici. Essi ci
consentono uno sguardo realistico sull'interno dell' offi­
cina evolutiva. Ecco i commenti di D' Arcy Thompson:

<< Sappiamo anticipatamente che la principale diffe­


renza fra i tipi umano e simiano dipende dall'allarga­
mento o espansione, nell'uomo, del cervello e della sca­
tola cranica, e dalla relativa diminuzione o indeboli­
mento della mascella. Insieme a questi cambiamenti,

199
nell'uomo l'angolo facciale aumenta da un angolo acuto
fin quasi a un angolo retto, e la configurazione di ogni
osso che compone la faccia e il cranio sottostà ad un'al­
terazione. Per cominciare non sappiamo - né possiamo
arrivarci con gli ordinari metodi di comparazione - fino
a che punto questi vari cambiamenti formino parte di
una sola armoniosa e congruente trasformazione, oppure
se dobbiamo considerare, ad esempio, i cambiamenti
subiti dalle regioni frontale, occipitale, mascellare e man­
dibolare, come una congerie di modifiche separate o di
variabili indipendenti. Ma non appena abbiamo contras­
segnato un certo numero di punti sul cranio del gorilla
o dello scimpanzé in corrispondenza ai punti che la nostra
rete di coordinate intersecava nel cranio umano, tro­
viamo che questi punti corrispondenti possono essere
inunediatamente collegati da linee curve intersecantisi,
che formano un nuovo sistema di coordinate e costitui­
scono una semplice 'proiezione' 1 del nostro cranio umano . . .
e insomma diventa di colpo manifesto che le modifiche
delle mascelle, della scatola cranica e delle regioni inter­
medie sono tutte quante porzioni di un solo processo
continuo e integrale 11 (10).

Sicuramente questo processo è l'opposto esatto del­


l'evoluzione che avverrebbe mediante cambiamenti fatti
a caso << in tutte e ciascuna direzione 1>. Se fosse questo il
caso, avremmo quello che Thompson chiama una << con­
gerie di modifiche separate o di variabili indipendenti 1>.
Infatti le variazioni sono inter-dipendenti, e devono es­
sere controllate dall'apice della gerarchia che coordina
gli schemi ddl'insieme, armonizzando i tassi relativi d'ac­
crescimento delle diverse parti.
Così la rapida espansione del cervello dell'antropoide
fu accompagnata da appropriati cambiamenti delle altre
parti del cranio, effettuate mediante una semplice ed

l . Nel senso della geometria proiettiva.

200
elegante trasformazione geometrica. Nel XVIII secolo
era familiare questo tipo di fenomeno, che il XX ci mise
gran tempo a riscoprire. Goethe lo chiamava << legge d'eco­
nomia della Natura )}. Geoffrey Saint-Hilaire lo chiamava
loi du balancement, principio dell'equilibrio fra gli or­
gani. Dal concetto di omeostasi dello sviluppo c'è un solo
passo logico per giungere al concetto di omeostasi evolu­
tiva, la loi du balencement applicata ai cambiamenti
filogenetici. Per attenerci a Goethe si potrebbe chiamarlo
la conservazione di certi progetti archetipi di base attra­
verso tutti i cambiamenti, combinata con l'anelito verso
la loro realizzazione ottimale in risposta alle pressioni
adattative.

I DOPPELANGER

L'ultimo fenomeno da menzionare in questo contesto


è un indovinello avviluppato in un enigma. L'indovinello
riguarda i marsupiali, la classe di animali con borsa
ventrale che vivono in Australia. L'enigma è che gli
evoluzionisti si rifiutino di vedere l'indovinello.
Quasi tutti i mammiferi sono o marsupiali o placen­
tali (il << quasi )} si riferisce ai monotremi, quasi estinti,
quali il platipo a becco d'anitra, una specie di fossile
vivente che depone uova come fanno i rettili ma che
allatta i piccoli) . I marsupiali potrebbero essere chia­
mati i parenti poveri di noi << normali )}, cioè placentali;
essi si sono evoluti lungo un ramo parallelo dell'albero
evolutivo. L'embrione del marsupiale, quando è ancora
nel grembo materno, quasi non riceve nutrimento dalla
madre. Viene dato alla luce a uno stadio di sviluppo
molto immaturo, ed è allevato in una horsa elastica, o
tasca di pelle, disposta sul ventre della madre. Un can­
guro neonato è proprio un << semilavorato )>, lungo un due
centimetri e mezzo, nudo, cieco, con zampe posteriori

201
che non sono niente più che gemme embrionali. Si po­
trebbe discutere se l'infante umano, più sviluppato ma
ancora più inetto al momento della nascita, si troverebbe
meglio in una borsa materna che in una culla, e anche
se questo non finirebbe con l'aumentare le sue inclina­
zioni edipiche. Ma quale che sia il metodo di riproduzione
migliore, quello del marsupiale o quello del placentale,
rimane il fatto che sono fondamentalmente differenti.
Le due linee si separano proprio all'inizio dell'evolu­
zione dei mammiferi, nell'età dei rettili, e si sono venute
evolvendo separatamente avendo per comune antenato
una qualche piccola creatura simile ad un topo, e questo
durante un centocinquanta milioni di anni. L'indovinello
è questo: perché tante specie, prodotte dalla linea evo­
lutiva indipendente dei marsupiali, sono simili ai pla­
centali in modo così sorprendente ? È quasi come se due
artisti, che non si fossero mai conosciuti, non avessero
mai sentito parlare l'uno dell'altro, e non avessero mai
avuto lo stesso modello, avessero dipinto una serie paral­
lela di ritratti pressoché identici. La fig. 9 mostra, a si­
nistra, una serie di mammiferi placentali, e, a destra,
i numeri loro opposti fra i marsupiali.
Lasciate che mi ripeta: sappiamo che, contrariamente
a tutte le apparenze, le due serie di animali si sono evo­
lute indipendentemente l'una dall'altra. L'Australia è
stata tagliata dal continente asiatico a una certa epoca
del tardo Cretaceo, quando gli unici mammiferi esistenti
erano creaturine dall'aspetto poco promettente che si af­
facciavano precariamente all'esistenza. I marsupiali sem­
bra che si siano evoluti più presto che non i placentali,
a partire da un antenato comune oviparo, con caratteri
parte di rettile, parte di mammifero; ad ogni modo i
marsupiali andarono in Australia prima che fosse tagliata
v1a e i placentali no. Questi immigranti erano, come ac-

202
A.

� ' --

B.

Fig. 9

A . Gerboa marsupiale e gerboa placentale B. Falangista volante mar­


-

supiale e scoiattolo volante placentale (secondo Hardy) - C. Cranio


di lupo tasmaniano marsupiale confrontato col cranio di un lupo pla­
centale (secondo Hardy)

203
cennato, creature simili a topi, probabilmente non di­
versi dal topo col marsupio dai piedi gialli che ancora
sopravvive, ma molto più primitivi. E tuttavia questi
topi confinati nel loro continente isolato si diramarono
e diedero origine a versioni con marsupio di talpe, di
formicai, di scoiattoli volanti, di gatti e di lupi, ognuna
come una copia alquanto maldestra dei placentali corri­
spondenti.! Perché, se l'evoluzione fosse una possibilità
libera per tutti, limitata soltanto dalla selezione del più
adatto, perché l'Australia non produsse qualcuno dei
mostri con gli occhi articolati della fantascienza ? L'unica
creazione appena un po' eterodossa di quell'isola, iso­
lata per 100 milioni di anni, sono i canguri e i wallaby;
il resto della sua fauna consiste in repliche piuttosto
povere dei tipi placentali, più efficienti, variazioni su un
numero limitato di temi archètipi. 2
Come si può risolvere l'indovinello ? La spiegazione
offerta dalla teoria ortodossa è riassunta nel passo se­
guente, tratto da un manuale per altri versi eccellente,
che io ho ripetutamente citato: << I lupi tasmaniani [cioè
marsupiali] e i lupi veri sono entrambi predatori .cor­
renti, che cacciano altri animali che hanno all'incirca le
stesse dimensioni ed abitudini. La similarità adattativa
[cioè l'adattamento ad ambienti simili] comporta pure
una similarità di struttura e di funzioni. Il meccanismo
di tale evoluzione è la selezione naturale )) (11). E G. G.
Simpson, primaria autorità di Harvard, discutendo lo
stesso problema, conclude che la spiegazione sta nella
<< selezione di mutazioni casuali )) (12).
Ancora una volta il deus ex machina. Dobbiamo ve­
ramente credere che la condizione descritta dai vaghi

l. I marsupiali hanno avuto un'evoluzione, di nuovo indipendente­


mente, nell'America meridionale.
2. Le ragioni dell'inferiorità dei marsupiali in confronto ai pla­
centali saranno discusse nel cap. XVI.

204
termini << che cacciano animali approssimativamente delle
stesse dimensioni ed abitudini )) - il che potrebbe appli­
carsi a centinaia di specie differenti - spieghi sufficiente­
mente l'emergere, per ben due volte indipendenti l'una
dall'altra, dei due crani quasi identici della fig. 9 ? Si
potrebbe dire, allo stesso modo, con la saggezza delle
profezie a posteriori, che c'è un solo modo per fare un
lupo: farlo come un lupo.

I TRENTASEI INTRECCI DI GASPARE GOZZI


Nel capitolo VI ho comparato la serie dei meccanismi
di esplorazione e filtraggio - attraverso i quali deve
passare ciò che arriva ai nostri organi di senso, prima
di essere ammesso alla coscienza e di essere giudicato
degno di conservazione nella memoria - alle diciassette
porte del Cremlino. I ricettori sensoriali dell'occhio,
dell'orecchio e della pelle sono esposti (per usare una
famosa frase di Williams James) a un continuo bombar­
damento da parte della << lussureggiante, ronzante con­
fusione )) del mondo esterno; senza un attento scrutinio
ad opera delle sentinelle che guardano le porte, noi sa­
remmo alla mercé di tutti gli intrusi e vagabondi, e la
nostra mente e la nostra memoria non sarebbero che
un'enorme confusione, incapace di cavare un senso dalle
nostre caotiche sensazioni.
Possiamo ora applicare la stessa metafora ai guardiani
sempre all'erta per proteggere le porte dell'eredità, contro
il caos che si formerebbe se vi avessero libero accesso le
mutazioni casuali << in ogni e qualsiasi direzione )). Dob­
biamo presumere che le mutazioni - cioè << cambiamenti )),
nel senso originario della parola - a livello del quantum
elementare hanno luogo costantemente, sotto l'impatto
delle radiazioni e di altri fattori che incidono sul gene­
complesso. Le molecole giganti delle catene di cromo-

205
somi consistono di milioni di atomi e devono quindi
essere circondate dalla << lussureggiante, ronzante con­
fusione >> del loro proprio universo submicroscopico. Per
la maggior parte questi cambiamenti non sarebbero che
transitori, rettificati rapidamente dai dispositivi autore­
golatori del gene-complesso o senza effetto notevole sul
suo funzionamento. Le mutazioni, relativamente poco
numerose, potenzialmente capaci di incidere sull'eredità,
sarebbero sottoposte ad un setacciamento e ad un'elabo­
razione alle porte di livelli successivamente più alti della
gerarchia. Ho menzionato diversi stadi di questa elabo­
razione, di cui abbiamo solide prove: l'eliminazione delle
sillabe << malcompitate >> del codice genetico; la << omeostasi
dello sviluppo >> che garantisce un'azione armonica delle
mutazioni sull'intero organo; processi simili a livelli su­
periori (le trasformazioni di Thompson, la loi du balance­
ment) , che conservano l'appropriato equilibrio fra gli
organi; l'evoluzione di organi omologhi da differenti com­
binazioni di geni (l'occhio della drosofila) , e di specil:
similari di origine evolutiva indipendente (marsupiali) .1
La conclusione che emerge da tutto ciò è che sotto
la varietà dell'evoluzione devono esserci leggi unitarie,
se esse permettono variazioni illimitate su un numero
limitato di temi. Tradotto nella nostra terminologia questo
significa che il processo evolutivo, come tutte le opera­
zioni gerarchiche, è governato da canoni fissi e guidato
da strategie adattabili. Queste ultime sono parzialmente
in gioco (vedi sotto) nei confronti delle pressioni selet­
tive dell'ambiente: predatori, concorrenti, ecc.; ma le
leggi che confinano i progressi evolutivi possibili su certe
strade fondamentali non possono venir definite in ter-

l . Non annoierò il lettore con termini tecnici quali <c omeoplasia •>,
<c
convergenza », <c parallelismo », che sono meramente descrittivi, non
esplicativi.

206
mini di tali fattori esterni, che agiscono soltanto dopo
un cambiamento proposto da geni mutanti, approvato
e collaudato alle successive porte del Cremlino dei con­
trolli interni dell'organismo. Questi controlli interni de­
finiscono il <c canone evolutivo )).
Parecchi eminenti biologi negli ultimi anni si sono
gingillati con questa idea ma senza estrarne le implica­
zioni profonde. 1 Così von Bertalanffy scrisse: <c Pur ap­
prezzando pienamente la moderna teoria dell'evoluzione,
noi arriviamo nondimeno a una visione totalmente dif­
ferente. L'evoluzione sembra essere non una serie di in­
cidenti, il cui corso è determinato soltanto dal cambia­
mento degli ambienti durante la storia della terra e la
risultante lotta per l'esistenza che conduce a una selezione
all'interno di un caotico materiale di mutazioni . . . , ma è
governata da leggi definite, e crediamo fermamente che
la scoperta di queste leggi costituisca uno dei compiti
più importanti dell'avvenire )) (13) . Waddington e Hardy
hanno riscoperto tutti e due la nozione goethiana delle
forme archetipe; Helen Spurway ha concluso, in base alla
prova dell'omologia, che l'organismo ha soltanto <c uno
spettro di mutazioni ristretto )) che <c determina le sue
possibilità di evoluzione )) (14) .
Ma che cosa significano esattamente questi autori con
espressioni come <c selezione archetipa )), <c leggi organiche
che co-determinano l'evoluzione )), <c lo spettro di muta­
zioni )) o << influenze plasmanti che guidano il cambiamento
evolutivo lungo certe strade maestre )) ? (15) . Essi hanno
l'aria di voler dire di fatto, senza dirlo in altrettante
parole, che, date le condizioni del nostro particolare
pianeta, la composizione chimica e la temperatura della

l . Per una breve, eccellente discussione critica vedi L. L. WHVTE,


Internai Factors in Evolution, e la recensione al libro di W. H. Thorpe
in c• Nature >), 14 maggio 1 966.

207
sua atmosfera, le energie e il materiale da costruzione
disponibili, la vita, fin dal suo inizio nel primo grumo
d'argilla vivente, non poteva che progredire in un numero
limitato di direzioni, su un numero limitato di strade.
Ma questo implica che, proprio come il lupo australiano
e quello europeo erano potenzialmente adombrati entrambi
nella creatura ancestrale simile ad un topo, quella crea­
tura a sua volta era adombrata nel cordato ancestrale,
e così via risalendo all'ancestrale protozoo e alla prima
fibra autoreplicantesi di acido nucleico.
Se questa conclusione è corretta, essa getta un po'
più di luce sopra la condizione dell'uomo in questo uni­
verso. Essa pone termine alle immaginazioni della fanta­
scienza circa le forme future di vita sulla terra. Ma non
significa tuttavia l'opposto: essa non equivale, enfatica­
mente, a un universo rigidamente determinato, che si
svolge come un meccanico congegno d'orologeria; significa,
per ritornare ad uno dei leit-motiv di questo libro, che
l'evoluzione della vita è un gioco giocato secondo regole
fisse, che limitano le sue possibilità, ma lasciano margine
sufficiente per un numero illimitato di variazioni. Le re­
gole sono inerenti alla struttura base della materia vivente;
le variazioni derivano da strategie di adattamento. In
altre parole, l'evoluzione non è né un torneo-baraonda,
e neppure l'esecuzione di un programma di elaboratore
elettronico, rigidamente predeterminato. Può essere as­
somigliata a una composizione musicale, le cui possibilità
sono limitate dalle regole dell'armonia e dalla struttura
delle scale diatoniche - il che tuttavia permette un ine­
sauribile numero di creazioni originali. Oppure potrebbe
essere confrontata al gioco degli scacchi, che obbedisce
a regole fisse, ma con variazioni egualmente inesauribili.
E infine il vasto numero di specie animali esistenti (circa
un milione) e il piccolo numero di grandi classi (circa
50) e dei maggiori philum o divisioni (circa 10), po-

208
trebbero essere paragonati col vasto numero di opere
letterarie e il ridotto numero di temi o intrecci base.
Tutte le opere della letteratura sono variazioni di un
numero limitato di leit-motiv derivati dalle esperienze e
dai conflitti archetipi dell'uomo, ma adattati ogni volta
a un ambiente nuovo: i costumi, le convenzioni e la
lingua dell'epoca. Neppure Shakespeare riuscì a inven­
tare un intreccio originale. Goethe citava con approva­
zione il drammaturgo italiano Carlo Gozzi, 1 secondo il
quale ci sono soltanto trentasei situazioni tragiche. Goe­
the per conto suo pensava addirittura che fossero pro­
babilmente ancora meno; ma il loro numero esatto è un
segreto ben custodito tra gli scrittori. Un'opera lette­
raria è costituita di olòmeri tematici, che come organi
omologhi non hanno neanche bisogno di un antenato
comune.
Tre volte almeno, ma probabilmente anche più spesso,
occhi muniti di lenti si sono evoluti in modo indipen­
dente in animali molto differenti, come i molluschi, i
ragni e i vertebrati. La maggior parte degli insetti ha,
a differenza dei ragni, occhi compositi, ma queste non
sono che semplici modifiche dello stesso principio ottico:
la liscia superficie ricurva della lente della camera oscura
si spezza in un favo di piccole lenti corneali, ognuna con
proprio tubo sensibile alla luce. Questi sono i due soli
tipi fondamentali di occhi suscettibili di formare l'im­
magine in tutto il regno animale. 2
Ma, di nuovo, vi sono variazioni senza numero, e
raffinamenti graduali, dall'occhio << a cruna d'ago 1> del
nautilo, che funziona sul principio della camera oscura
senza lente, attraverso le lenti rudimentali del pesce

l . Autore di Turandot e di molte altre opere di successo.


2. In quanto distinti dalle primitive unità sensibili alla luce, che
rispondono a differenze d'intensità luminosa, ma non forniscono visione
di forme.

209
stellato, fino ai meccanismi di precisione mediante i quali
vari gruppi di animali effettuano l'accomodamento e la
messa a fuoco dell'occhio su oggetti di distanza variabile.
I pesci, forse perché dispongono di maggior tempo, muo­
vono la lente tutta intiera, avvicinandola alla retina
quando devono focalizzarla su oggetti distanti. I mam­
miferi, incluso l'uomo, hanno sviluppato un metodo più
elegante di messa a fuoco, mediante una variazione della
curvatura della lente, appiattendola per gli oggetti vi­
cini, e ispessendola per la visione a distanza. Gli uccelli
da preda hanno sviluppato una strategia ancora più effi­
cace per tenere la preda a fuoco mentre vi piombano sopra:
invece di aggiustare la lente, relativamente inerte, essi
cambiano rapidamente la curvatura della cornea, più fles­
sibile. Un altro raffinamento essenziale, la visione a colori,
si è evoluta anch'essa indipendentemente parecchie volte.
Finalmente il graduale spostamento della posizione degli
occhi, dai lati alla parte frontale del capo, ha condotto
alla visione binoculare: la fusione delle immagini sepa­
rate di ciascun occhio in una immagine unica a tre di­
mensioni dentro il cervello.
Lo scopo del paragrafo che precede non era di lo­
dare le glorie della vista, ma di mettere in evidenza i
notevoli esiti delle strategie di adattamento, che riescono
a trarre il miglior profitto dalle limitate possibilità dell'or­
ganismo. Le limitazioni sono inerenti alla struttura fi­
sio-chimica della materia vivente quale esiste sulla terra,
e presumibilmente su ogni pianeta le cui condizioni
sono, anche remotamente, simili a quelle della terra. Ma
non vi è limite a quanto può fare un artista con la magra
lista del Gozzi e i suoi trentasei temi.

210
XI l Progresso mediante l'iniziativa

Quando non sapete dove porta una strada,


è certo come l'inferno che vi ci porta.
LEO ROSTEN

Espressioni come << strategia adattativa l) o << sfrutta­


mento delle occasioni l> implicano uno sforzo attivo verso
una realizzazione ottimale del potenziale evolutivo.
In anni recenti è diventato ancora una volta scienti­
ficamente rispettabile parlare di una direzionalità verso
uno scopo in ontogenesi, dalla canalizzazione dello svi­
luppo embrionale alla intenzionalità del comportamento
instintivo e appreso. Ma non così in filogenesi. Qui l'at­
teggiamento ufficiale può ancora essere abbastanza bene
ricapitolato dalla seguente citazione di G. G. Simpson:
<< Sembra che il problema [dell'evoluzione] sia ora ri­
solto nei suoi termini essenziali, e che il meccanismo del­
l'adattamento sia armai noto. Risulta basilarmente ma­
terialistico, senza alcun segno di finalità come variabile
operante nella storia della vita, e con ogni eventuale
Finalizzatore respinto nella incomprensibile posizione di
Causa Prima l>. E più oltre: << L'uomo è il risultato di
un processo materialistico e privo di scopo, che non 'lo'
aveva in mente. Non è stato pianificato l) (1) .
Tuttavia non c'è bisogno di entrare i n u n dibattito
filosofico su questo tipo di pronunciamento, perché è
basato su alternative spurie. Secondo Simpson l'evoluzione
è o << basilarmente materialistica l> (qualunque cosa ciò
significhi in questo contesto) , oppure deve esserci un
Finalizzatore, un Dio; l'uomo è, o il risultato di un pro-

211
cesso senza scopo, oppure deve essere stato << pianificato ''
fin dall'inizio. Ma il termine << finalità )), nel suo contesto
biologico, non implica né un Finalizzatore, né un'imma­
gine prefabbricata del fine ultimo da raggiungere. Il
predatore che si mette in viaggio per la sua ronda di
notte non cerca un coniglio o una lepre particolare; cerca
semplicemente una preda probabile; il giocatore di scacchi
non può in generale prevedere o pianificare lo scacco
matto finale: usa la sua abilità per trar vantaggio dalle
occasioni che si presentano sulla scacchiera. Finalità si­
gnifica attività diretta ad uno scopo, anziché un'attività
a caso, strategie flessibili invece che meccanismo rigido,
e condotta adattabile, ma nei termini propri all'orga­
nismo: essa non si << adatta )) a un ambiente gelato ab­
bassando la propria temperatura corporea, ma bru­
ciando maggior combustibile. In una parola, come scrisse
E. W. Sinnott, proposito è << l'attività direzionale presen­
tata da singoli organismi, che distingue le cose viventi da­
gli oggetti inanimati )) (2) . O, per citare il premio Nobel
H. J. Muller: << I,o scopo non è importato nella natura, e
non è necessario scervellarcisi sopra come su uno strano
o divino 'qualcos'altro' che fa il suo ingresso e manda
avanti la vita . . è semplicemente implicito nel fatto della
.

organizzazione biologica, e deve essere studiato piuttosto


che ammirato o 'spiegato' )) (3).
Lasciatemi ripetere: in ontogenesi parlare di << direzio­
nalità )) o di scopo, in questo senso limitato, è diventato di
nuovo rispettabile, ma applicare questi termini alla filoge­
nesi è ancora considerato eretico (o almeno di cattivo gu­
sto) . Ma la filogenesi è un'astrazione che assume un signi­
ficato concreto soltanto quando capiamo che << la filogenesi,
la discendenza evolutiva, è una sequenza di ontogenesi )) e
che << il corso dell'evoluzione è dato da cambiamenti dell'on­
togenesi )). Le citazioni della frase precedente sono esse pure
effettivamente di Simpson, e contengono la risposta al

212
suo bisticcio di parole circa il Finalizzatore dietro il fine.
Il Finalizzatore è ogni e ciascun singolo organismo, che
fin dall'inizio della vita sulla terra, ha lottato e si è sfor­
zato per sfruttare al meglio le sue limitate possibilità.

AGIRE PRIMA DI REAGIRE


Quando gli evoluzionisti ortodossi parlano di <c adat­
tamenti )), essi vogliono indicare, come i behaviouristi
quando parlano di <c risposte )), un processo o meccanismo
essenzialmente passivo controllato dall'ambiente. Questa
veduta può essere coerente alla loro filosofia, ma non
è certamente coerente con la prova che mostra, per ci­
tare ancora una volta G. E. Koghill, che <c l'organismo
agisce sull'ambiente prima di reagirvi )) (5) . Koghill ha
dimostrato che, nell'embrione, i tronchi nervosi motori
diventano attivi e fa apparizione il movimento, prima
che i nervi sensori entrino in funzione. E nel momento
in cui schiude dall'uovo o viene partorita, la creatura
si attacca all'ambiente, sia liquido o solido, con ciglia,
flagelli o fibre muscolari contrattili; striscia, nuota, sci­
vola, pulsa; dà calci, grida, respira, si nutre di ciò che
le sta attorno con tutte le sue forze. Essa non si adatta
semplicemente all'ambiente, ma costantemente adatta
l'ambiente a se stessa - mangia e beve il suo ambiente,
lo combatte e vi si accorda, vi si annida e ci costruisce
dentro; non si limita a rispondere all'ambiente ma gli
pone domande esplorandolo. La <c tendenza esploratoria ))
è ora riconosciuta dalla generazione più giovane degli
studiosi di psicologia animale come un istinto biologico
primario, altrettanto basilare che gli istinti della fame
e del sesso; occasionalmente può diventare ancora più
potente di questo ultimo. Innumerevoli sperimentatori 1

l . Cfr. Acl of Creation, libro II, cap. VIII.

213
- cominciando con Darwin medesimo - hanno dimo­
strato che la curiosità e la << ricerca del brivido )) è una
pressione istintuale dei topi, degli uccelli, dei delfini,
dello scimpanzé e dell'uomo, e tale è quello che i beha­
viouristi chiamano << comportamento lùdico l), conosciuto
a1 semplici mortali come piacere del gioco.
La spinta esplorativa ha una connessione diretta con
la teoria dell'evoluzione. Questo fu capito da almeno
due eminenti biologi alla svolta del secolo, Baldwin e
Lloyd Morgan - ma fu prontamente e convenientemente
dimenticato. In anni recenti, tuttavia, il cosiddetto << ef­
fetto Baldwin )) venne ridiscoperto indipendentemente da
Hardy e Waddington. Spiegherò che cosa sia con un
divertente esempio che Hardy diede in un'adunanza
della Società Linneana del 1956. Qualche anno prima
qualche intelligente cingallegra blu aveva notato che le
bottiglie che il lattaio lasciava sulla soglia contenevano
uno strano liquido bianco, e scoprirono un modo per
raggiungerlo togliendo col becco le capsule delle bottiglie.
Il liquido risultò piuttosto delizioso. Così gli uccelli im­
pararono a trattare i tappi di cartone e presto anche
quelli di metallo. Questa nuova abilità si diffuse presto,
apparentemente per imitazione, << attraverso l'intera po­
polazione di cingallegre d'Europa l) (6) . Le nostre bot­
tiglie di latte non saranno mai più sicure. Tuttavia, Hardy
continuava, se le bottiglie fossero organismi viventi - una
specie di ostriche con uno strano guscio cilindrico - e
se le cingallegre continuassero a mangiarli, allora dopo
un po' soltanto le << bottiglie )) con capsule più spesse
sopravviverebbero, e la selezione naturale produrrebbe
una specie di << bottiglie a capsula spessa )) ma anche,
forse una specie di cingallegre con << becchi più specializ­
zati fatti a mo' di apriscatola per venirne a capo l> (7) .
L'emergere della creatura << a bottiglia )) con capsula
spessa illustrerebbe il tipo passivo darwiniano di evolu-

214
zione tramite la pressione selettiva dei predatori sull'am­
biente. Ma l'evoluzione delle cingallegre con becchi più
efficienti vuole illustrare un tipo di processo evolutivo
del tutto differente, basato sulla iniziativa di qualche
individuo più intraprendente della specie. Questi scoprono
un metodo nuovo per mangiare, una nuova abilità, che
spargendosi per imitazione diventa incorporata nei modi
di vita della specie. La felice mutazione (o ricombina­
zione di geni), che produce becchi appropriati alla nuova
abilità, viene solo in seguito, come un tipo di avallo ge­
netico della scoperta; l'atto iniziale del processo, il lavoro
pionieristico dell'evoluzione, per così dire, è stato com­
piuto dalle attività esplorative della cingallegra e dalla
sua curiosità, che la conduceva a investigare l'ambiente,
e non a meramente sottomettersi alle sue pressioni.
Abbiamo visto che la famosa macchina per scrivere della
scimmia è controllata da una selezione interna; ora la
macchina è stata ulteriormente programmata: la scimmia
non ha che da andare avanti a far tentativi finché batte
un certo tasto prespecificato.
L'esempio del becco apribottiglia è naturalmente im­
maginario, ma le conclusioni sono sostenute da molte
osservazioni: così uno dei << fringuelli di Darwin >> delle
isole Galapagos, il C. pallidus, becca i fori o le fenditure
della corteccia degli alberi e, << dopo aver scavato, rac­
coglie una spina di cactus, o un rametto lungo uno o due
pollici, e tenendolo per il lungo nel becco, fruga nella
spaccatura lasciando cadere il rametto per afferrare l'in­
setto non appena questi viene fuori . . . Talvolta l'uccello
si porta in giro la spina o il rametto cacciandolo nelle
spaccature e nelle fenditure mentre va frugando un al­
bero dopo l'altro. Questa rimarchevole abitudine . . è uno
.

dei pochi usi di utensili registrati presso gli uccelli >>


(Hardy) (8) .

215
Secondo la teoria ortodossa avremmo da credere che
qualche mutazione casuale, modificando la forma del
becco dell'uccello (che tuttavia non è molto differente
dai becchi degli altri fringuelli) , fece sì che esso svilup­
passe questo ingegnoso modo di caccia agli insetti. E
dovremmo anche credere che fu lo stesso deus ex machina
a forzare la cingallegra ad aprire le bottiglie di latte.
Preferiamo consentire con Hardy che << l'accentazione
della teoria odierna deve essere falsa >>; e che il fattore
causale più importante del progresso evolutivo non è
la pressione selettiva dell'ambiente, ma l'iniziativa del­
l'organismo vivente, << l'instancabile, esplorante e perci­
piente animale, che scopre nuovi modi di vivere, nuove
fonti di cibo, esattamente come le cingallegre hanno
scoperto il valore delle bottiglie di latte . . . Sono gli adatta­
menti dovuti al comportamento dell'animale, alla sua
instancabile esplorazione dei dintorni, alla sua iniziativa,
a distinguere le principali linee divergenti dell'evoluzione;
sono queste qualità dinamiche che hanno condotto ai
diversi ruoli della vita, che schiudono a gruppi di ani­
mali appena emergenti quella fase della loro espansione
conosciuta tecnicamente come radiazione adattativa,
dando luogo alle linee dei corridori, degli arrampicatori,
dei costruttori di tane, dei nuotatori e dei conquistatori
dell'aria >> (9) .
Si potrebbe chiamare questo << progresso attraverso
l'iniziativa >>, o teoria dell'evoluzione do it yourself
(<< fàllo-da-te >>) . Non elimina le mutazioni casuali, ma re­
stringe ulteriormente la parte che hanno queste ultime
nel panorama totale, facendone un colpo fortunato su
un bersaglio prestabilito che prima o poi deve aver luogo.
Una volta che è accaduto, l'abitudine o l'abilità spon­
taneamente acquistata diventa ereditaria, incorporata
con il repertorio nativo dell'animale; non deve essere più
inventata o imparata, è diventata un istinto avallato

216
dal gene-complesso.1 In effetti l'ampiezza e l'importanza
delle mutazioni casuali si è talmente contratta, a causa
dei vari fattori menzionati nel capitolo precedente, che
l'intera controversia Darwin-Lamarck perde molta della
sua importanza.
Questo punto diverrà forse più chiaro se tracciamo
un parallelo tra il ruolo del caso nell'evoluzione e nella
scoperta scientifica. I behaviouristi tendono ad ascrivere
qualsiasi idea originale al puro caso. Ma la storia della
scienza ci insegna che la maggior parte delle scoperte fu­
rono compiute da svariate persone indipendentemente
l'una dall'altra, più o meno allo stesso tempo; 2 e questo

l . In una serie di esperimenti con la Drosophila Waddington di­


mostrò che tale << assimilazione genetica � (come la chiamò) di caratteri
acquisiti che diventano ereditari, ha effettivamente luogo. Questo però
non significa necessariamente che Lamarck avesse ragione e che il ca­
rattere acquisito (in questo caso un cambiamento nella struttura alare
della mosca, prodotto dall'esposizione al calore della pupa) era la causa
diretta della mutazione che lo rese ereditario dopo alcune generazioni,
così che il cambiamento delle ali avvenisse anche senza l'esposizione
al calore. Potrebbe darsi che alcune mosche mutanti fossero già pre­
senti nel ceppo, e fossero selezionate per la sopravvivenza su una base
darwiniana; potrebbe anche darsi che la mutazione appropriata sia
sorta per caso nel processo. Waddington lascia aperta la questione
se aveva prodotto una conferma sperimentale di Lamarck, oppure
un'imitazione dell'eredità lamarckiana per mezzo di un meccanismo
darwiniano; egli conclude che <• non sarebbe sicuro pensare che l'in­
sorgere della mutazione diretta collegata all'ambiente possa essere a
priori cancellato dai ruoli � e che << la cosa più saggia sembra essere
conservare sull'argomento una adeguata disponibilità mentale >) (10).
Siamo ben lontani dall'atteggiamento quasi fanatico della cittadella
neo-darwiniana.
Waddington è andato anche oltre, sostenendo che se la selezione
naturale lavora primariamente a favore del comportamento plastico,
adattabile, il processo di canalizzazione durante lo sviluppo diverrà
così flessibile in se stesso da non richiedere più una particolare muta­
zione di gene per avallare la nuova caratteristica, ma soltanto « qualche
mutazione casuale, che assuma la funzione d' ' interruttore ' dello sti­
molo ambientale originario. n tipo di modificazione ereditaria preso
in considerazione da Baldwin è, perciò, molto più probabile a verificarsi
di quanto non avesse egli inteso � ( 1 1 ) .
2 . Vedi The Act of Creation, pp. 109 e segg.

217
fatto da solo (a prescindere da ogni altra considerazione)
è sufficiente a mostrare che quando i tempi sono maturi
per un determinato tipo di invenzione o di scoperta,
l'avvenimento fortuito favorevole che ne accende la scin­
tilla è destinato ad accadere prima o poi. <c La fortuna
favorisce la mente preparata •> scrisse Pasteur, e possiamo
aggiungere: le mutazioni fortunate favoriscono l'animale
preparato.
Un dotto industrioso e stupido potrebbe effettivamente
scrivere una storia della scienza in quanto storia di casi
fortunati: il bagno di Archimede che trabocca, la lam­
pada di Galileo che dondola, la mela di Newton, il bol­
litore del tè di James Watt, il cuore del pesce di Harvey,
il torchio da uva di Gutenberg, la cultura di Pasteur
andata a male, il naso gocciolante di Fleming, e via
di questo passo, non importa se questi aneddoti sono
apocrifi o veri. Ma questo erudito dovrebbe essere davvero
stupido a non capire che se quel caso particolare non
fosse avvenuto, cento altri di questo tipo avrebbero po­
tuto avere lo stesso effetto innescante, da <c grilletto •>,
sul cervello preparato - o su qualche altro cervello coe­
taneo che lavorava nella stessa direzione; e solo uno
storico molto perverso non riuscirebbe a vedere che la
causa prima e la forza direttrice del progresso scientifico
è la curiosità e l'iniziativa degli scienziati, e non l'ap­
parire fortuito di lampade, mele, teiere e raffreddori
<c in tutte e ciascuna direzione 1>.

Tuttavia è precisamente questa ns10ne perversa che


determina l'interpretazione ortodossa, non solo dell'evo­
luzione di nuove forme animali, ma anche di nuovi schemi
di comportamento animale. La sola spiegazione che la
teoria neodarwiniana ha da offrire è che le nuove forme
di comportamento sorgono esse pure da mutazioni for­
tuite, che toccano il sistema nervoso e vengono fissate

218
dalla selezione naturale. Se, a parte pochissimi tentativi
di studio, l'evoluzione del comportamento (in quanto di­
stinta dall'evoluzione delle strutture fisiche) è ancora un
territorio senza carta, la ragione può essere forse cer­
cata in una inconscia riluttanza a sottoporre la già pro­
vata intelaiatura teorica della genetica neodarwiniana ad
un ulteriore collaudo. Per citare un esempio banalissimo:
un singolo uccello cantore, merlo o passero, spiando un
predatore darà un richiamo di allarme avvertendo l'in­
tero stormo. (c Questi richiami d'allarme >> sottolinea Tind­
bergen (c sono un chiaro esempio di attività che serve il
gruppo ma mette in pericolo l'individuo >> (12) . Dobbiamo
veramente presumere che lo (c schema elettrico >> del si­
stema nervoso del passero, che fa scattare il richiamo
d'allarme in risposta allo stimolo della forma di un pre­
datore, è nato da mutazioni casuali, ed è stato perpe­
tuato dalla selezione naturale a dispetto del suo valore
di sopravvivenza negativo per il mutante? La stessa do­
manda potrebbe essere posta per quanto riguarda l'ori­
gine filogenetica dei finti combattimenti ritualizzati di
una grande varietà d'animali, inclusi i cervi, gli iguana,
gli uccelli, i cani, i pesci. I cani per esempio si mettono
pancia all'aria in pegno di disfatta e di resa, esponendo
il ventre vulnerabile e le vene giugulari alle zanne del
vincitore. Si sarebbe inclini a considerare piuttosto ri­
schioso questo atteggiamento; e qual è il valore di soprav­
vivenza per l'individuo del non colpire (o mordere o in­
comare) sotto la cintura ?
Si potrebbe aggiungere un intero volume di esempi di
complesse attività animali intese a uno scopo ben defi­
nito, che sfidano qualsiasi spiegazione ricavata dalla mu­
tazione fortuita e dalla selezione naturale; e la lista do­
vrebbe cominciare effettivamente con un animale marino
unicellulare affine all'ameba, che costruisce complicate
dimore con le spìcule aghiformi delle spugne. Da quest o

219
semplice protozoo senza occhi né sistema nervoso, che
non è se non una massa gelatinosa di protoplasma fluido,
passando per l'abilità architettonica dei ragni e degli in­
setti, attraverso gli uccelli che saccheggiano le bottiglie,
gli scimpanzé che fabbricano attrezzi, su su fino all'uomo,
troviamo ripetuta la medesima lezione: uno spiegamento
di schemi di comportamento istintivo e appreso che non
si possono spiegare, neppure per la logica più contorta,
come risultato di cambiamenti fortuiti della struttura cor­
porea. Per citare il dottor Ewer, <4 il comportamento
tenderà sempre a costituire un salto al di là della strut­
tura, e a sostenere in tal modo una parte decisiva nel
processo evolutivo )) (13) . Sotto questa luce l'evoluzione
non appare più come <4 una storia raccontata da un
idiota )) 1 ma piuttosto un'epopea recitata da un balbu­
ziente, in certi momenti penosamente e con pause, poi
scoppiando a precipizio.

DACCAPO, DARWIN E LAMARCK


Rimane un <4 nucleo duro )) di fenomeni, che sembra
sfidare ogni spiegazione basata su qualsiasi processo di­
scusso fin qui, e invocare una spiegazione lamarckiana in
termini di eredità di caratteri acquisiti. C'è per esempio
lo spinoso problema del perché la pelle sulle piante dei
nostri piedi sia tanto pilt spessa che da ogni altra parte.
Se l'ispessimento fosse avvenuto dopo la nascita come
risultato della sollecitazione e del logorio, non ci sarebbe
problema. Ma la pelle delle piante è già ispessita nell' em­
brione che non ha mai camminato, né scalzo né calzato.
Un fenomeno simile, e anche più sorprendente, è dato
dalle callosità dei polsi e degli avambracci del cinghiale
africano, su cui l'animale si appoggia mentre mangia;

l. Citazione shakespeariana (Macbeth, V, 5) (n. d. t.) .

220
sui ginocchi dei cammelli; e, più strani di tutto, i due
ispessimenti bulbosi della parte inferiore del corpo dello
struzzo, uno avanti e uno dietro, su cui quel goffo uc­
cello si accovaccia. Tutte queste callosità fanno la loro
apparizione, come la pelle dei nostri piedi, fin dall' em­
brione. Sono caratteri ereditari. Ma è concepibile che
queste callosità si siano evolute con mutazioni fortuite
esattamente nel punto in cui l'animale ne aveva bisogno ?
O dobbiamo pensare che vi è un collegamento causale,
lamarckiano, fra le necessità dell'animale e la mutazione
che le assicura ? Persino Waddington, che non depenna
completamente la possibilità dell'eredità lamarckiana,
preferisce invocare l'effetto Baldwin e la canalizzazione
dello sviluppo, benché non sia facile vedere come pos­
sano spiegare soddisfacentemente fenomeni di questo
tipo.
D'altra parte è egualmente difficile vedere come possa
produrre, una callosità acquisita, cambiamenti nel com­
plesso-gene. Difficile, ma non interamente impossibile. È
vero che le cellule germinali se ne stanno in disparte dalle
altre cellule somatiche, in splendido isolamento, ma il
loro isolamento non è assoluto: sono toccate dalla radia­
zione, dal calore e da certi agenti chimici. Sarebbe davvero,
come dice Waddington, << assai precario escludere a priori ,>
la possibilità che cambiamenti nella attività del gene
delle cellule corporee possano in certe circostanze causare
anche cambiamenti nelle attività del gene delle cellule
germinali per mezzo di ormoni o enzimi. Herrick (14)
ha pure tenuta aperta una porta al problema. Wadding­
ton ha effettivamente prodotto un modello-tentativo di
mutazione direzionale, per indicare che, allo stadio pre­
sente della biochimica, un processo simile è concepibile (15) .
Non sarebbe di alcuna utilità rimasticare gli argomenti
e i controargomenti mille volte ripetuti. Fra pochi anni
l'intera controversia potrebbe non avere che interesse

221
storico, come la disputa fra Newton e Huygens sulla
teoria corpuscolare oppure ondtùatoria della luce. Le se­
lezioni darwiniane che operano su mutazioni casuali ac­
cadono senza dubbio, ma non sono il quadro completo, e
probabilmente neppure una parte importante del quadro;
per due semplici ragioni: prima, perché il margine entro
il quale possono operare i fattori casuali è considerevol­
mente ristretto dai fattori sopra discussi; e in secondo
luogo, perché nella forma presente della teoria ortodossa
lo stesso termine << selezione )) è diventato ambiguo. Una
volta significava << sopravvivenza del più adatto l>; ma
per citare Waddington: << la sopravvivenza non significa
naturalmente la resistenza corporea di un singolo individuo
che vive più a lungo di Matusalemme. Essa implica,
nella interpretazione attuale, la perpetuazione come fonte
per le generazioni future. ' Sopravvive' meglio quell'in­
dividuo che lascia una discendenza più vasta. Di nuovo,
parlare di un animale come del ' più adatto' non implica
necessariamente che sia il più forte o più sano o che vin­
cerebbe una gara di bellezza. Essenzialmente denota
niente di più del fatto di lasciare maggiore discendenza.
Il principio generale della selezione naturale in fatto
sbocca semplicemente nella asserzione che gli individui
che lasciano la maggiore discendenza sono quelli che la­
sciano la maggiore discendenza. È una tautologia )) (16) .
I lamarckiani d'altra parte hanno omesso di fornire
prove sp�rimentali dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti,
tali che non le si potesse interpretare, o invalidare,
su base darwiniana. Anche questo non prova niente,
tranne il fatto che se l'eredità lamarckiana ha luogo, deve
trattarsi di un caso piuttosto raro. Non potrebbe essere
altrimenti, perché, se ogni esperienza degli antenati la­
sciasse la sua traccia ereditaria nella discendenza, il ri­
sultato sarebbe un caos di forme e un manicomio di istinti.
Ma alcuni dei casi del (< nucleo duro )) fanno apparire al-

222
meno probabile che alcuni adattamenti strutturali ben
definiti, quali l'ispessimento della pelle dei nostri piedi
o le callosità dello struzzo, acquisiti generazione dopo
generazione, alla fine condussero a cambiamenti nel gene­
complesso, che li ha resi ereditabili. La biochimica non
esclude questa possibilità; e la quasi fanatica insistenza
per il suo rigetto non è che un altro esempio della intolle­
ranza e del dogmatismo delle ortodossie scientifiche.
Sembra dunque che i modi d'evoluzione neo-darwi­
niani e neo-lamarckiani siano casi estremi, alle estremità
opposte di un ampio spettro di fenomeni evolutivi. Ne
ho menzionato un certo numero; ma ce n'è ancora uno da
discutere che ha speciale rilevanza per l'uomo.

223
XII l Ancora l 'evoluzione: disfare e rifare

Chi ha visto il vento ? Né tu, né io. Ma quando


gli alberi piegano la cima è il vento che sta
passando.
CHRISTINA ROSSETTI

Ci sono stati periodi di << radiazione adattativa >>,


esplosioni subitanee di nuove forme che si diramavano
dall'albero dell'evoluzione in tempo relativamente breve.
Tali furono l'esplosione dei rettili nel Mesozoico o l'esplo­
sione dei mammiferi nel Paleocene, la prima circa 200,
la seconda circa 80 milioni d'anni fa. Il fenomeno opposto
è il declino e l'estinzione dei rami evolutivi. Si stima che,
per ognuna del milione di specie esistenti, centinaia de­
vono esserne perite in passato. E per quanto ci è dato
giudicare, la maggior parte delle linee che non sono pe­
rite sono diventate stagnanti, la loro evoluzione è giunta
al punto morto a differenti stadi del più remoto passato.

VICOLI CIECHI
La causa principale della stagnazione e dell'estinzione
è la superspecializzazione: prendete per esempio quella
graziosa, patetica creatura che è l' orsetto Koala, che si
specializza nel nutrirsi delle foglie di una particolare va­
rietà di eucaliptus e di nient'altro; e che invece di dita
ha degli artigli a forma di uncino, adatti in modo ideale
per appendersi alla scorza dell'albero, e per nient'altro.
Il suo equivalente umano - meno la grazia - è il pe­
dante schiavo dell'abitudine, il cui pensiero e il cui com-

8 KOESTLER 225
portamento si muovono lungo solchi rigidissimi. (Alcune
facoltà del nostro insegnamento superiore sembrano pro­
gettate espressamente per allevare degli orsi Koala) .
Alcuni anni or sono, nella << Vale Review >>, sir Julian
Huxley ebbe a tracciare il compendio seguente del pro­
cesso evolutivo:

Il corso seguìto dall'evoluzione sembra si sia svolto


in larga misura come segue. Da un tipo primitivo gene­
ralizzato si irraggiano diverse linee, che sfruttano l'am­
biente in vari modi. Alcune di queste raggiungono abba­
stanza presto il limite della loro evoluzione, almeno per
quanto riguarda le grandi variazioni. In seguito si li­
mitano a modifiche minori, quali la formazione di nuovi
generi e specie. Altri d'altra parte sono costruiti in modo
tale da poter continuare la carriera generando nuovi
tipi, che riportano successo nella lotta per l'esistenza
a causa del loro maggior controllo sull'ambiente, e la
loro maggiore indipendenza dal medesimo. Tali cambia­
menti sono a ragione chiamati 'progressivi'. Il nuovo
tipo ripete il processo. Si irraggia in un certo numero di
linee di discendenza, ognuna specializzantesi in partico�
lare direzione. La gran maggioranza di queste finisce in
vie senza uscita e non può avanzare ulteriormente: la
specializzazione è un progresso a una faccia sola, e dopo
un tempo più o meno lungo raggiunge un limite bio­
meccanico . . .
Talora tutti i rami d i un certo tronco sono venuti
a urtare contro il proprio limite, e a quel momento o
si sono estinti o hanno persistito senza modifiche rilevanti.
Questo è accaduto per esempio agli echinodermi che,
con i loro ricci di mare, stelle di mare, ofì.uroidi, gigli di
mare, oloturie o cocomeri di mare e altri tipi ora estinti,
hanno portato la vita che era in loro in una serie di vicoli
ciechi: non vanno più avanti da forse 100 milioni di
anni, né hanno dato origine ad altri tipi principali.
In altri casi, invece, tutte le linee soffrono questo
fatto tranne una o due, mentre le restanti ripetono il

226
processo. Tutte le linee di rettili a un certo punto di­
ventarono vicoli ciechi salvo due: una che si è tra­
sformata negli uccelli e un'altra che è diventata i mam­
miferi. Del ramo degli uccelli tutte le linee sono giunte
a un punto morto; dei mammiferi, tutte meno una:
quella che è divenuta l'uomo l> (l).

Ma dopo aver fatto così il punto, Huxley ne ha tratto


una conclusione che è molto meno convincente: {< l'evo­
lusione -- concludeva, - può esser vista come un enorme
numero di vicoli ciechi con qualche occasionalissimo sen­
tiero di progresso. È come un labirinto in cui quasi tutte
le svolte sono svolte sbagliate l) (2).
Siamo più o meno allo stesso punto del behaviourista,
che considera il topo del labirinto come paradigma del­
l'apprendimento umano. In entrambi i casi la premessa,
esplicita o tacita, è ancora una volta che il progresso sia
governato dal cieco caso, da mutazioni fortuite conser­
vate dalla selezione naturale, tentativi casuali conservati
dal rinforzo, e questo sarebbe tutto.

SFUGGIRE ALLA SPECIALIZZAZIONE


Nei tre precedenti capitoli ho discusso un certo nu­
mero di fenomeni che riducono il fattore caso a un ruolo
subordinato. Ora mi propongo di discutere un'altra via
di scampo dal labirinto, nota agli studiosi dell'evoluzione
sotto il brutto nome di pedomorjosi, coniato da Garstang
quasi mezzo secolo fa. Ma sebbene l'esistenza del feno­
meno sia riconosciuta, se ne parla pochissimo nei ma­
nuali perché - come l'effetto Baldwin o l'enigma del
marsupiale - va contro lo Zeitgeist.1 Per dirla in parole
povere, il fenomeno pedomorfosi indica che in certe cir-

l . Sono molto obbligato al sig. D. Lang Stevenson della segnala­


zione clell'opera di Garstang.

227
costanze l'evoluzione può ritornare sui suoi passi, pe.r
dir così, risalendo la strada che ha portato al vicolo cieco,
e compiere una partenza nuova verso un'altra più pro­
mettente direzione. Il punto cruciale qui è l'apparizione
di qualche utile novità evolutiva nello stadio larvale o
embrionale dell'antenato, novità che può sparire prima che
l'antenato raggiunga lo stadio adulto, ma che riappare
e viene conservata nello stadio adulto del discendente.
L'esempio che segue renderà più chiaro il processo a cui
ci riferiamo.
Esistono ora forti prove a favore della teoria proposta
da Garstang fin dal 1928, per cui i cordati - e quindi
anche noi vertebrati - sono discesi dallo stadio larvale
di qualche primitivo echinoderma, forse piuttosto simile al
riccio di mare o al cocomero di mare (echinoderma =

dalla pelle che punge) . Ora, il cocomero di mare può


non essere un antenato che ispiri molto: è una crea­
tura viscida che assomiglia a un cotechino mal cotto
dalla pelle coriacea, e che giace al fondo del mare. Ma la
sua larva che fluttua liberamente è una proposta molto
più promettente: a differenza del cocomero di mare adulto,
la larva ha una simmetria bilaterale come un pesce; ha
un nastro ciliare - precursore del sistema nervoso -
e qualche altro tratto sofisticato che non si trova nell'ani­
male adulto. Dobbiamo presumere che l'adulto sedentario
risedente sul fondo del mare faccia assegnamento sulle
sue larve mobili per propagare la specie in lungo e in
largo per l'oceano, come le piante spargono i loro semi
al vento; che le larve, le quali devono badare a se me­
desime, esposte a pressioni selettive molto più forti che
non gli adulti, gradualmente siano diventate più simili
a pesci; e che alla fine esse siano divenute mature sessual­
mente mentre erano ancora allo stato larvale e nuotavano
ancora liberamente, dando così origine a un nuovo tipo
di animale che non si stanziò affatto sul fondo, ed eliminò

228
del tutto dalla storia della propria vita lo stadio senile
e sedentario di cocomero.
Questo accelerarsi della maturazione sessuale in re­
lazione allo sviluppo del resto del corpo - o, per dirla
in altro modo, il graduale ritardo dello sviluppo corporeo
fino oltre l'età della maturazione sessuale - è un feno­
meno evolutivo molto familiare conosciuto come neo­
tenia. Il suo risultato è che l'animale comincia a ripro­
dursi pur spiegando ancora tratti larvali o giovanili; e
accade di frequente che lo stadio pienamente adulto
non venga raggiunto mai, è stato lasciato cadere fuori
del ciclo vitale.
Questa tendenza a una << infanzia prolungata )), con la
corrispondente espulsione degli stadi adulti finali, si
traduce in un ringiovanimento e in una despecializzazione
della razza, e questo è uno scampo dal cul-de-sac del
labirinto evolutivo. Come scrisse J. Z. Young, adottando
il punto di vista di Garstang: << Il problema che rimane
è, in effetti, non già 'Come si sono formati i vertebrati
dalle seppie ? ' ma 'Come hanno eliminato i vertebrati
lo stadio di seppia adulta dalla loro storia biologica ? '
È del tutto ragionevole considerare che questo sia stato
compiuto per pedomorfosi )) (3) .
La neotenia infatti corrisponde a una ricarica dell'oro­
logio biologico, quando l'evoluzione è in pericolo di de­
cadere e di giungere a un punto morto. Gavin de Beer
ha confrontato la teoria classica dell'evoluzione (qual è
stata resa da Huxley con l'immagine del labirinto) , con
la teoria classica dell'universo come un congegno mec­
canico di orologeria. << Secondo questa teoria - scrisse -
la filogenesi rallenterebbe gradualmente e diverrebbe sta­
zionaria. La razza non sarebbe in grado di evolvere
ulteriormente e si troverebbe in quella situazione a cui
è stato applicato il termine di 'senescenza razziale' . Sa­
rebbe difficile vedere come l'evoluzione sia stata in grado

229
di produrre nel regno animale una quantità di cambia­
menti filogenetici quale ha effettivamente prodotta, e con­
durrebbe all'allucinante conclusione che l'orologio evo­
lutivo sta rallentando. In effetti un simile stato di cose
presenterebbe un dilemma analogo a quello che con­
segue dalla teoria per cui . . . l'universo è stato caricato una
volta sola e la sua riserva di energia libera sta irrime­
diabilmente esaurendosi. Non sappiamo come l'energia
si produca ex novo nell'universo fisico; ma il processo
analogo, nel dominio dell'evoluzione organica, sembre­
rebbe la pedomorfosi. Una razza può ringiovanire re­
spingendo lo stadio adulto dei suoi individui dalla parte
terminale delle loro proprie ontogenesi, e una tale razza
può allora irradiarsi in tutte le direzioni . . . sin che subentra
daccapo la senescenza razziale dovuta alla gerontomorfosi
[vedi sotto] 1> ( 4) .
La neotenia di per sé naturalmente non è sufficiente
a produrre questi scoppi evolutivi di irradiamenti adat­
tativi. Il << ringiovanimento 1> della razza fornisce ai cam­
biamenti evolutivi unicamente l'occasione di operare
sulle fasi precoci e malleabili dell' ontogenesi: di qui la
pedomorfosi, o << formazione del giovane 1>. In contrasto
ad essa, la gerontomorfosi (geron vecchio) è la modi­
=

fica di strutture pienamente adulte che sono già alta­


mente specializzate.1 Questa ha l'aria di una distinzione
piuttosto tecnica ma è, nel fatto, di importanza vitale.
La gerontomorfosi non può condurre a cambiamenti ra­
dicali e a partenze nuove; può soltanto portare più avanti
di un passo nella stessa direzione una linea evolutiva
già specializzata, di regola cioè fino a un vicolo cteco
del labirinto. Per citare di nuovo il de Beer:

l. Il termine << gerontomorfosi » fu coniato dal de Beer a contrasto


della « pedomorfosi >) di Garstang.

230
<< I termini di gerontomorfosi e di pedomorfosi, perciò,
esprimono non soltanto lo stadio della storia della vita
di un animale a cui si riferiscono, ma racchiudono anche
il significato di senescenza e ringiovanimento razziale.
È interessante notare che, a conclusione di considerazioni
basate su una linea di pensiero differente, Child (5) si è
indotto a esprimere vedute molto simili.
Se l'evoluzione è in qualche grado una secolare dif­
ferenziazione e senescenza del protoplasma, la possibilità
di un ringiovanimento evolutivo non deve essere trascu­
rata.
Forse l'ascesa relativamente rapida e la crescita di
certe forme qui e là nel corso dell'evoluzione può essere
l'espressione di modifiche di questo tipo 1> (5a).

RINCULARE PER SALTARE

Sembra che questo ripercorrere i propri passi per


sfuggire ai vicoli ciechi del labirinto si sia ripetuto a ogni
svolta decisiva dell'evoluzione. Ho citato l'evoluzione dei
vertebrati a partire dalla forma larvale di qualche pri­
mitivo echinoderma. Gli insetti con ogni probabilità
sono venuti fuori da un antenato simile ad un mille­
piedi; non tuttavia dal millepiedi adulto la cui struttura
è troppo specializzata, ma dalle sue forme larvali. La
conquista della terraferma fu iniziata dagli anfibi, la cui
ascendenza risale al tipo più primitivo di pesce, che re­
spira coi polmoni; laddove le linee più tardive, e che ap­
parentemente hanno avuto più successo, dei pesci altamente
specializzati che respirano con le branchie, sono giunte
tutte ad un punto morto. La stessa storia si è ripetuta
alla seguente grande tappa, quella dei rettili, che deri­
vano dai primi anfibi primitivi, e non da una qualsiasi
delle forme più tarde che noi conosciamo.
E finalmente giungiamo al più sconvolgente caso di
pedomorfosi: l'evoluzione della nostra propria specie.

231
È ora generalmente riconosciuto che l'adulto umano
rassomiglia più all'embrione di uno scimmione che a uno
scimmione adulto. Sia nell'embrione della scimmia, sia
nell'adulto umano, il rapporto fra il peso del cervello e
quello totale del corpo è sproporzionatamente alto. In
entrambi il chiudersi delle suture fra le ossa del cranio
ritarda per permettere al cervello di espandersi. L'asse
anteroposteriore della testa umana - cioè la direzione
della sua linea di visione - è ad angolo retto con la
sua colonna vertebrale: condizione che, nelle scimmie
e in altri mammiferi, si trova soltanto allo stadio embrio­
nale e non nell'adulto. Lo stesso si applica all'angolo fra
la colonna vertebrale e il canale urogenitale che è im­
portante per la singolarità del modo umano di copulare
frontalmente. Altri tratti embrionali - o, per usare il
termine di Bolk, jetalizzati - sono: l'assenza di arcate
sopracciliari, la scarsità e la tarda apparizione del pelo
corporeo; il pallore della pelle; la tardiva crescita dei
denti, e un certo numero di altre caratteristiche in­
cluse (( le rosee labbra dell'uomo, che si svilupparono
probabilmente nell'individuo giovane come un adatta­
mento al p rolungato allattamento e sono persistiti nel­
l'adulto, forse sotto l'influsso della selezione sessuale ,>
(de Beer) (6) . (( Se l'evoluzione umana ha da continuare
lungo le stesse linee del passato - scrisse ] . B. S. Hai­
dane, - essa comporterà probabilmente un ancora mag­
gior prolungamento dell'infanzia e un ulteriore ritardo
della maturità. Alcuni dei caratteri che distinguono l'a­
dulto andranno persi ,> (7) . È questo, incidentalmente,
un rovescio della medaglia che Aldous Huxley ci mostrò
in uno dei suoi ultimi disperati romanzi: l'artificiale pro­
lungamento della durata assoluta della vita dell'uomo
potrebbe fornire una occasione al riapparire dei tratti
del primate adulto nei vecchioni umani: Matusalemme

232
diventerebbe uno scimmione peloso.1 Ma questa spet­
trale prospettiva qui non ci riguarda.
L'essenziale del processo che ho descritto è un ritrarsi
evolutivo dalle forme specializzate adulte della struttura
corporea e del comportamento, tornando a uno stadio
più precoce o più primitivo, ma anche più plastico e meno
compromesso, seguìto da una subitanea avanzata verso
una nuova direzione. È come se la corrente della vita
avesse momentaneamente rovesciato il suo corso rifinendo
all'insù per un po' di tempo, e poi si fosse aperta un
nuovo alveo. Cercherò di mostrare che questo (( reculer
pour mieux sauter >>, questo fare e disfare e rifare, è uno
stratagemma favorito nella grandiosa strategia del pro­
cesso evolutivo; e che esso svolge una parte importante
anche nel progresso della scienza e dell'arte.
La fig. 10 è tratta dalla memoria originale di Gar­
stang (7a) , e intende rappresentare il progresso dell'evo­
luzione mediante pedomorfosi. Da Z a Z9 si svolge la
progressione degli zigoti (uova fecondate) lungo la scala
evolutiva; da A a A9 abbiamo le forme adulte che risul­
tano da ogni zigote. Così la linea nera da Z4 ad A4, per
esempio, rappresenta l' ontogenesi, la trasformazione del­
l'uovo in adulto; la linea tratteggiata da A ad A9 rappre­
senta la filogenesi - l'evoluzione delle forme superiori.
Ma nessuna delle linee sottili del progresso evolutivo
conduce direttamente, per esempio, da A4 ad A5: questo
sarebbe la gerontomorfosi, la trasformazione evolutiva
di una forma adulta. La linea di progresso si dirama

l. HUXLEY, A fter Many a Sttmmer (tradotto in italiano La fon­


tana di giovinezza). Alcune caratteristiche fisiche dei vecchissimi sem­
brano indicare che i geni in grado di produrre una sinùle trasformazione
sono ancora presenti nelle nostre gonadi, ma che la loro entrata in at­
tività è bloccata dal ritardo neotenico dell'orologio biologico . L'ovvia
conclusione è che il prolungarsi dell'arco della vita umana è deside­
rabile soltanto se accompagnato da tecniche che esercitino una influenza
parallela sull'orologio genetico.

233
dallo stadio non-finito, embrionale, di A4• Questo rap­
presenta un tipo di ritirata evolutiva dal prodotto fi­
nito e una nuova partenza verso la novità evolutiva
Z5 - A6• A4 potrebbe essere il cocomero di mare adulto:
poi il punto di diramazione sulla linea A4 Z4 sarebbe
la sua larva; oppure A8 potrebbe essere il primate adulto,
antenato dell'uomo, e il punto di diramazione il suo
embrione - tanto più simile ad A9 - cioè a noi.

Fig. IO

Ma il grafico di Garstang potrebbe anche rappresen­


tare un aspetto fondamentale dell'evoluzione delle idee.
L'emergere di novità biologiche e la creazione di no­
vità mentali sono processi che presentano certe analogie.
:E naturalmente una verità lapalissiana che, nell'evolu­
zione mentale, l'eredità sociale attraverso la tradizione
e i documenti scritti sostituisce l'eredità genetica . Ma
l'analogia è più profonda: né l'evoluzione biologica né
il progresso mentale seguono una linea continua da A6
ad A7. Né l'una né l'altra sono strettamente cumulative,
nel senso che continuino a costruire dove l'ultima ge-

234
nerazione ha smesso. Entrambe procedono con l'andamento
a zig-zag indicato dal grafico. L'evoluzione della storia
della scienza è una serie di scampi fortunati dai vicoli
ciechi. L'evoluzione del sapere è continua soltanto du­
rante quei periodi di consolidamento e di elaborazione
che seguono un grande << sfondamento )). Prima o poi
però il consolidarsi conduce a una crescente rigidità,
all'ortodossia, e quindi al vicolo cieco della super-specia­
lizzazione, all'orso Koala. Alla fine c'è una crisi, e un
nuovo sfondamento, con liberazione dal vicolo senza
uscita, seguìto da un altro periodo di consolidamento,
una nuova ortodossia, e il ciclo ricomincia da capo.
Ma la nuova struttura teorica che emerge dallo sfon­
damento non viene costruita sulla cima dell'edificio pre­
cedente; si dirama dal punto in cui il progresso è caduto
in errore. Le grandi svolte rivoluzionarie, nell'evoluzione
delle idee, hanno carattere decisamente pedomorfico.
Ogni zigote del grafico rappresenterbbe l'idea seminate,
il germe da cui si sviluppa una nuova teoria finché non
raggiunge il suo stadio adulto e pienamente maturo. Si
potrebbe definire questa l'ontogenesi di una teoria. La
storia della scienza è un serie di simili ontogenesi. Le
vere novità non sono derivate direttamente da una teo­
ria precedente già adulta, ma da una nuova idea semi­
nate, non dal sedentario cocomero di mare ma dalla
sua mobilissima larva. Solo nei periodi quieti del conso­
lidamento troviamo effettivamente la gerontomorfosi, pic­
coli miglioramenti c)Je vengono ad aggiungersi a una
teoria pienamente cresciuta ed affermata.
Nella storia della letteratura e dell'arte il corso a
zig-zag è ancora più evidente: il grafico di Garstang avrebbe
potuto essere disegnato apposta per mostrare come pe­
riodi di progresso cumulativo all'interno di una data
<< scuola )) e tecnica sbocchino inevitabilmente nella sta­
gnazione, nel manierismo o nella decadenza, finché la

235
crisi si risolve con una sbandata rivoluzionaria della sen­
sibilità, degli interessi, dello stile. 1
A prima vista l'analogia può apparire tirata per i
capelli; cercherò di mostrare che ha una base di fatti
solidissima. L'evoluzione biologica è in larga misura una
storia di salvataggi dai vicoli ciechi della super-specializ­
zazione; l'evoluzione delle idee è una serie di fughe dalla
schiavitù dell'abitudine mentale, e il meccanismo di
scampo in entrambi i casi si basa sul principio di disfare
per rifare, sul rinculare per saltare meglio.

SOMMARIO

Dopo questo anticipatorio excursus tornerò per l'ul­


tima volta al punto di partenza: la scimmia davanti
alla macchina per scrivere. La scimmia, secondo la dot­
trina ortodossa, si suppone che proceda centrando e fal­
lendo, esattamente come l'evoluzione mentale secondo
la teoria behaviourista si suppone che proceda per ten­
tativi. In entrambi i casi il progresso è assicurato dal
metodo bastone-e-carota; i tentativi fortunati vengono
gratificati dalla carota della sopravvivenza o del Hinforzo 1: ;
quelli dannosi sono purgati dal bastone dell'estinzione o
dal << rinforzo negativo 1>.
Il punto di vista che qui viene proposto in alterna­
tiva non nega che l'andare per tentativi sia inerente ad
ogni sviluppo progressivo. Ma c'è una differenza enorme
tra i tentativi fortuiti della scimmia davanti alla mac­
china per scrivere, e i vari processi direzionali riassunti
nei capitoli precedenti, a partire dai controlli e dalle
regolazioni gerarchiche incorporati nel sistema genetico,
per culminare nello schema fatti-indietro-per-saltar-me­
glio della pedomorfosi. La teoria ortodossa comporta uno

l . Vedi The Acl of Crealion, libro I, capp. X e XXIII.

236
snocciolarsi delle risposte disponibili del repertorio del­
l'animale o della tibetana ruota di preghiera delle mu­
tazioni, fino a tanto che per caso salta fuori quella giusta.
La teoria che qui si propone si basa anch'essa su una
ricerca per tentativi: ogni fuga dalla via cieca seguìta
da una nuova partenza non è altro che questo, ma
d'un tipo più complesso, sofisticato e determinato: è un
andare esplorando a tastoni, un ritirarsi, un avanzare
tendendo a livelli superiori di esistenza. (( L'intenzione -
per citare di nuovo H. ]. Muller, - non è qualcosa che si
inserisce nella natura. . . è semplicemente implicito in
essa )) (8) .
Ognuno dei fatti salienti che ho menzionato era noto
da qualche tempo separatamente, ma le loro implica­
zioni sono state per lo più ignorate dagli evoluzionisti
ortodossi. Se non che, se questi fatti e teorie isolati ven­
gono lavorati fino a formare una sintesi, essi pongono
il problema dell'evoluzione in una luce nuova. Può es­
serci una scimmia che continua a picchiare sulla mac­
china per scrivere, ma il dispositivo è organizzato in modo
tale da sconfiggere la scimmia. L'evoluzione è un processo
con un codice fisso di regole ma con strategie adattabili.
Il codice è inerente alle condizioni del nostro pianeta;
restringe il progresso a un numero limitato di vie mae­
stre, mentre al tempo stesso tutta la materia vivente
si sforza e tende verso l'utilizzazione ottimale delle pos­
sibilità offerte. L'azione combinata di questi due fat­
tori si manifesta ad ogni successivo livello: nella micro­
gerarchia del gene-complesso, nella canalizzazione dello
sviluppo embrionale e nella sua stabilizzazione mediante
omeostasi dello sviluppo. Gli organi omologhi - olòmeri
evolutivi - e le forme animali simili, sorgono da origini
indipendenti e assicurano l'invarianza unitaria dell'ar­
chetipo. L'iniziativa dell'animale, la sua curiosità e il
suo impulso ad esplorare sono come dei pacemakers, dei

237
segnapassi del progresso; un meccanismo di eredità quasi
lamarckiano può, in rari casi, venire in suo aiuto; la pe­
domorfosi offre uno scampo dai vicoli ciechi e assicura
nuove partenze in direzione diversa; e infine la selezione
darwiniana opera nei limiti della sua ridotta portata.
La parte sostenuta da una mutazione fortuita fortu­
nata si riduce a quella del grilletto che fa scattare l'azione
coordinata del sistema; e sostenere che l'evoluzione sia
il prodotto del caso cieco significa confondere la sem­
plice azione del grilletto con i complessi e intenzionali
processi che esso mette in azione. La loro intenzionalità
si manifesta in diversi modi a diversi livelli della gerar­
chia; ad ogni livello c'è una ricerca per tentativi, ma
su ogni livello essa prende una forma più sofisticata.
Qualche anno fa due eminenti psicologi sperimentali,
Tolman e Krechevski, crearono una grande agitazione
proclamando che il topo impara a percorrere un labi­
rinto formando ipotesi (9) . Può darsi che presto ci sia
concesso estendere la metafora, e dire che l'evoluzione
progredisce facendo e scartando ipotesi, nel processo di
compitare e articolare un'idea grossamente abbozzata.

238
XIII l La gloria dell'uomo

Stiamo tutti nella fogna, ma qualcuno di noi


guarda alle stelle.
0SCAR WILDE

Le attività dell'animale e dell'uomo variano da auto­


matismi simili a quelli delle macchine, a improvvisazioni
ingegnose in corrispondenza alla sfida che essi devono
affrontare.1 A parità di altre circostanze, un ambiente
monotono conduce alla meccanizzazione delle abitudini,
a routines stereotipe che, ripetute nelle stesse invariate
condizioni, seguono lo stesso corso rigido e invariabile.
Il pedante che è diventato schiavo delle sue abitudini
pensa e agisce come un automa che gira su piste fisse;
il suo equivalente biologico è l'animale superspecializ­
zato, l'orso Koala appeso al suo eucaliptus.
D'altra parte un ambiente cangiante e variabile pre­
senta sfide che possono essere affrontate solo mediante
un comportamento flessibile con strategie variabili, stando
continuamente all'erta per sfruttare le occasioni favore­
voli. Il parallelo biologico è offerto dalle strategie evolu­
tive discusse nei capitoli precedenti.
Tuttavia la sfida può eccedere un certo limite critico,
così che non può più essere affrontata dalle abilità con­
suete di un organismo. In una crisi così radicale - e sia
l'evoluzione biologica che la storia umana sono punteg­
giate da crisi simili - può verificarsi una delle due pos-

l . Vedi cap. VIII.

239
sibilità seguenti. La prima è degenerativa e conduce
alla stagnazione, alla senescenza biologica, o alla im­
provvisa estinzione, secondo il caso. Nel corso dell'evolu­
zione questo è accaduto ripetutamente; per ogni specie
che sopravvive ce n'è un centinaio che non è riuscito a
superare il test. La parte terza di questo libro discute
la possibilità che la nostra propria specie stia di fronte
a una crisi unica nella sua storia, e che sia in pericolo
imminente di soccombere alla prova.
La possibilità alternativa di reagire a una sfida cri­
tica è rigenerativa in senso lato; essa involge delle rior­
ganizzazioni fondamentali della struttura e del compor­
tamento, che dànno luogo ad un progresso biologico o
mentale. Cercherò di mostrare che entrambe sono basate
sullo stesso schema << fatti-indietro-per-saltare l), e sull'at­
tivazione dei potenziali creativi che sono latenti o ini­
biti nelle routines normali dell'esistenza. In filogenesi i
grandi avanzamenti sono dovuti all'attivazione dei po­
tenziali embrionali attraverso la pedomorfosi. Nell'evolu­
zione mentale sembra che qualcosa di simile avvenga
ad ogni svolta principale. Il collegamento fra l'emergere
delle novità biologiche e le novità mentali è fornito da uno
degli attributi basilari delle cose vive: la loro capacità
di autoriparazione. Essa è fondamentale per la vita quanto
la capacità di riproduzione, e in alcuni organismi infe­
riori, che si moltiplicano per fissione o gemmazione,
due procedimenti sono spesso indistinguibili.

FORME DI AUTORIPARAZIONE

Per capire questo collegamento dobbiamo procedere


con una serie di passi, dagli animali primitivi a quelli
superiori e finalmente all'uomo. Needham ha chiamato
la rigenerazione << uno dei numeri di magìa più spettacolari
del repertorio degli organismi viventi )) (1) . Le sue mani-

240
festazioni più impressionanti si trovano in creature in­
feriori come i vermi piatti e i polipi. Se un platelminto
viene tagliato di traverso, la parte con la testa farà cre­
scere una nuova coda e la parte con la coda farà crescere
una nuova testa; anche a tagliarlo in sei o più fette ogni
fetta può rigenerare un animale completo.
Tra gli animali superiori gli anfibi sono capaci di ri­
generare un membro o un organo perduto. Quando si àm­
puta la zampa di una salamandra, il muscolo e i tessuti
scheletrici vicini alla superficie della ferita si differenziano
e assumono l'apparenza di cellule embrionali (2) . Circa
il quarto giorno viene a formarsi un blastema o << gemma
di rigenerazione >>, simile alla << gemma d'organo >> del­
l'embrione normale, e da allora in poi il procedimento
ricopia strettamente la crescita delle membra durante
lo sviluppo embrionale. La regione del moncherino è re­
gredita a uno stato quasi-embrionale, e spiega potenziali
di crescita genetici che sono inibiti nei normali tessuti
adulti.l Ho confrontato (p. 17 4) il gene-complesso di
una cellula specializzata con un pianoforte con la maggior
parte dei tasti bloccati da nastro adesivo; i tessuti che si
rigenerano hanno a disposizione l'intera tastiera. La << ma­
gia >> dell'autoriparazione ha così una fase regressiva (ca­
tabolica) e una progressiva (anabolica) ; segue lo schema
disfare-e-rifare. << Il trauma svolge un compito simile a
quello della fecondazione nello sviluppo embrionale >>
(Hamburger) (4). Lo shock fa scattare la reazione creativa.
La sostituzione di un membro perduto o di un
occhio perduto è un fenomeno d'ordine totalmente

I. Per essere precisi, l'origine del materiale che forma il blastema


è ancora alquanto controversa; secondo Hamburger (3), è probabile
che consista in parte di cellule de-dh'Ierenziate, in parte di cellule di
tessuto connettivo di tipo mesenchimatico, che compiono una fun­
zione simile a quella delle cellule di << riserva >> o di « rigenerazione >>
degli organismi primitivi.

241
differente da quello dei processi di adattamento in
ambiente normale. La rigenerazione potrebbe essere
chiamata un << meta-adattamento )) a sfide traumatizzanti.
Ma la possibilità di compiere un'impresa simile si mani­
festa soltanto quando la sfida eccede un limite critico.
La capacità rigenerativa di una specie le assicura in tal
modo un dispositivo di sicurezza supplementare a servizio
della sopravvivenza, che entra in azione quando falli­
scono le misure di adattamento normali, come l'ammor­
tizzatore idraulico di un'auto entra in azione quando si
oltrepassa il limite di elasticità delle molle della sospen­
sione.
Ma essa è qualcosa di più di un dispositivo di sicu­
rezza: abbiamo visto che i cambiamenti filogenetici più
importanti sono anche causati da una ritirata dalle forme
adulte su quelle embrionali. Effettivamente la linea prin­
cipale di sviluppo che ha condotto alla nostra specie
potrebbe venir descritta come una serie di operazioni
di autoriparazione filogenetica: scampi da vicoli ciechi
mediante l'annullamento e il rifacimento delle strutture
inadatte.1
Come risaliamo la scala dal rettile al mammifero, la
capacità di rigenerare strutture corporee decresce ed è
sostituita da crescenti capacità del sistema nervoso nel
riorganizzare il comportamento. (Alla fine naturalmente
queste riorganizzazioni di funzione devono anche com­
portare cambiamenti strutturali di carattere << fine )) del
sistema nervoso, e così ci stiamo ancora muovendo lungo
una linea continua) . Più di un secolo fa il fisiologo tedesco
Pfliiger dimostrò che persino una rana decapitata non è

l . Evidentemente, l'auto-riparazione da parte dell'animale sin­


golo non produce alcuna novità evolutiva; restaura semplicemente
la sua capacità di funzionare normalmente in un ambiente stabile;
l'« auto-riparazione filogenetica &, per contro, implica modifiche evo­
lutive in un ambiente che si modifica.

242
soltanto un automa a riflessi. Se si depone una goccia
d'acido sul dorso della zampa anteriore sinistra, la rana
l'asciuga con la zampa posteriore dello stesso lato, e
questo è il normale riflesso spinale. Ma immobilizzando
la gamba posteriore sinistra, la rana usa la zampa po­
steriore destra per rimuovere l'acido. Così anche la creatura
senza testa - una << preparazione spinale )) come è eufemi­
sticamente chiamata - si dimostrava capace di improv­
visare quando veniva impedita l'azione riflessa.
Nella prima metà di questo secolo K. S. Lashley,
coi suoi collaboratori, in una serie di esperimenti clas­
sici demolì la nozione del sistema nervoso concepito come
un meccanismo rigido. << I risultati indicano - scrisse il
Lashley, - che quando gli organi motori abitualmente
usati vengono messi fuori funzione per asportazione o
paralisi, c'è un uso immediato e spontaneo di altri si­
stemi motori che non erano stati precedentemente associati
con, o usati nella, esecuzione di tale attività )) (5) . La
rana che usa la zampa sinistra invece della destra nel
riflesso di grattarsi è la più semplice illustrazione del
fatto; ma Lashley mostrò che il sistema nervoso è ca­
pace di imprese incomparabilmente più sorprendenti; che
i tessuti cerebrali, che servono normalmente a una fun­
zione specializzata, possono in certe circostanze assu­
mere la funzione di altri tessuti cerebrali danneggiati,
proprio come in un alveare i foraggiatori assumono le
funzioni dei costruttori rapiti (p. 155). Per menzionare
un esempio fra molti, Lashley allenò dei topi a scegliere,
fra due bersagli in alternativa, sempre quello relativamente
più brillante. Poi asportò la parte di corteccia cerebrale
che presiede ai centri visivi, e la loro capacità discrimi­
natoria scomparve, com'era da aspettarsi. Ma contraria­
mente a quanto ci si aspetterebbe, i topi mutilati furono
presto di nuovo in grado di apprendere la stessa abilità.
Qualche altra area cerebrale, che normalmente non si

243
specializza nell'apprendimento vtstvo, deve aver preso
su di sé la funzione, mettendosi a contributo in luogo
dell'area perduta.
Di più: se un topo ha imparato a orientarsi in un
labirinto, qualunque sia la parte della sua corteccia mo­
toria che è danneggiata, esso farà ancora un percorso
corretto; e se il danneggiamento lo rende incapace di
eseguire una svolta a destra, esso raggiungerà il suo scopo
con un giro a sinistra di tre quarti di cerchio. Il topo può
venire accecato, privato dell'olfatto, parzialmente paraliz­
zato in diversi modi, ognuno dei quali potrebbe scon­
volgere completamente l'automa con riflessi a catena
quale lo si supponeva. Tuttavia: � l'uno si trascina attra­
verso [il labirinto] con le zampe anteriori; un altro cade
ad ogni passo, ma giunge alla mèta con una serie di tuffi
in avanti; un terzo rotola su se stesso a ogni svolta, ma
evita di finire in una via senza sbocco e compie un per­
corso senza errori 1> (6) .

FORME SUPERIORI DI AUTORIPARAZIONE

Quando arriviamo in cima alla scala, troviamo nel­


l'uomo la facoltà della rigenerazione fisica ridotta a un
minimo, ma compensata dai suoi poteri unici di riplasmare
i propri schemi di comportamento per far fronte alle
sfide critiche mediante risposte creative.
Persino a livello della percezione elementare, una te­
stimonianza di questa facoltà è data dall'imparare a ve­
dere attraverso occhiali che capovolgono il mondo (vedi
p. 115) : esperimenti che creano lo stesso effetto sono stati
condotti su animali - rettili e scimmie, - tagliando il
nervo ottico e lasciando che si rinsaldi crescendo, dopo
aver dato mezzo giro al terminale tagliato del fascio ner­
voso. Come risultato l'animale vede il mondo capovolto
e cerca a sinistra il cibo quando appare a destra e in giù

244
se è offerto dall'alto. Esso non riesce mai a superare
questo disadattamento. I soggetti umani tuttavia, a cui
sono imposti occhiali rovescianti, ce la fanno. L'effetto
dapprima è affatto sconvolgente: vedete il vostro corpo
capovolto, i piedi piantati su un pavimento che è diven­
tato il soffitto della stanza, oppure, con invertirori sini­
stra-destra, cercate di allontanarvi da un muro e vi pic­
chiate dentro. Però dopo un certo tempo, che può essere
di diversi giorni, il soggetto si adatta a vivere in un mondo
rovesciato, che allora gli appare daccapo più o meno
normale. L'immagine retinica e la sua proiezione sulla
corteccia visiva sono ancora rovesciate; ma, grazie all'in­
tervento di qualche grado più alto della gerarchia, l'im­
magine mentale si è riorganizzata. Allo stadio presente
delle conoscenze la fisiologia non ha alcuna spiegazione
soddisfacente per questo fenomeno. Tutto quello che si
può dire è che la nostra capacità di orientamento, le
nostre reazioni posturali e motorie rispetto al campo
visivo, dipendono dai circuiti di collegamento del cer­
vello; e vivere in un mondo rovesciato deve comportare
un sacco di disfare-e-rifare nello schema di connessione.
Gli occhiali rovescianti sono un giochetto assai dra­
stico; ma la maggior parte di noi vive portando lenti a
contatto di cui siamo inconsapevoli e che distorcono le
nostre percezioni in modo più sottile. La psicoterapia an­
tica e moderna, dallo sciamanesimo fino alle forme con­
temporanee della tecnica analitica o di abreazione, si è
sempre basata su questa varietà di procedimenti di di­
sfacimento-e-rifacimento, che Ernst Kris, un eminente
clinico pratico, ha chiamato (< regressione a servizio del­
l'ego 1> (6a) . Il neurotico con i suoi impulsi inarrestabili,
le sue fobie e i suoi elaborati meccanismi di difesa, è
vittima di una specializzazione rigida incapace di adatta­
mento: un orsetto Koala appeso con disperato amore
della vita a un brullo palo telegrafico. Lo scopo del te-

245
rapista è di indurre nel paziente una regressione tempo­
ranea; per fargli ripercorrere i suoi passi fino al punto in
cui deviarono e permet tergli di ricominciare metamorfo­
sato, rinato.
Lo stesso schema si riflette in innumerevoli variazioni
del motivo morte-e-risurrezione della mitologia. Giuseppe
è gettato in un pozzo; Maometto fugge nel deserto; Gesù
risorge dalla tomba; Giona rinasce dal ventre della ba­
lena. Lo stirb und werde di Goethe, la ritirata e il ri­
torno di Toynbee, la notte oscura dell'anima che precede
la rinascita spirituale dei mistici, derivano dallo stesso
archetipo: farsi indietro per saltare.

AUTORIPARAZIONE E AUTOREALIZZAZIONE

Non vi è una linea di demarcazione netta fra l'auto­


riparazione e l'autorealizzazione. Ogni attività creativa
è una specie di terapia do it yourself (<< il meccanico � n
casa >>) , un tentativo d i venire a patti con sfide trauma­
tizzanti. Nel caso dello scienziato, il trauma può essere
l'impatto di dati che scuotono le fondamenta di una
teoria ben stabilita, e rendono prive di senso le sue cre­
denze predilette; le osservazioni che si contraddicono
fra loro, i problemi che causano frustrazioni e conflitto.
Nel caso dell'artista, la sfida e la risposta si manifestano
nella sua tantalizzante lotta per esprimere l'inesprimibile,
per conquistare la resistenza del mezzo, per sfuggire alle
distorsioni e alle costrizioni imposte dagli stili e dalle
tecniche convenzionali del suo tempo.
Possiamo ora riprendere il filo dal capitolo precedente:
le grandi, decisive scoperte della scienza, dell'arte o della
filosofia sono scampi, coronati da successo, dai vicoli
ciechi della schiavitù degli abiti mentali, della ortodossia
e della sovraspecializzazione. Il metodo di scampo segue
lo stesso schema disfare-rifare dell'evoluzione biologica;

246
e il corso a zig-zag dell'avanzata delle scienze e dell'arte
ripete lo schema del diagramma di Garstang.
Ogni rivoluzione ha un aspetto distruttivo e uno co­
struttivo. La distruzione è operata gettando come za­
vorra dottrine precedentemente inattaccabili e assiomi
mentali in apparenza evidentissimi. Il progresso della
scienza, come un'antica carovaniera nel deserto, è disse­
minata degli scheletri sbiancati delle teorie scartate, che
una volta sembravano dotate di eterna vita. Il cammino
nell'arte coinvolge un riesame egualmente angoscioso di
valori accettati, di criteri di rilevanza, di intelaiature
di percezioni. Quando discutiamo l'evoluzione dell'arte
e della scienza dal punto di vista dello storico, il disfare­
rifare è considerato come una cosa dovuta, come una
parte normale e inevitabile della storia. Se tuttavia con­
centriamo l'attenzione sugli individui concreti che ini­
ziarono il cambiamento rivoluzionario, ci troviamo di
fronte al problema psicologico della natura della crea­
tività umana.
Ho discusso a fondo questo soggetto in The A ct of
Creation, ma siccome è pertinente al tema presente devo
brevemente ritornarvi. I lettori che già conoscono il pre­
cedente libro troveranno che alcuni passaggi di questo
capitolo hanno un suono familiare; ma troveranno pure
che portano la discussione qualche passo più avanti.
Una rapida occhiata all'evoluzione dell'astronomia ren­
derà più chiaro lo << schema a zig-zag •>. Newton disse una
volta che, se aveva potuto vedere più lontano degli altri,
ciò era avvenuto perché stava sulle spalle di giganti.
Ma stava realmente sulle loro spalle - o su qualche altra
parte della loro anatomia? Egli adottò le leggi della li­
bera caduta di Galileo, ma rigettò l'astronomia di Ga­
lileo. Adottò le leggi planetarie di Keplero, ma demoli
il resto dell'edificio kepleriano. Non prese come punto di
partenza le loro teorie complete e << adulte •>, ma riper-

247
corse la traccia del loro sviluppo fino al punto dove si
era perso. E neppure l'edificio kepleriano era stato co­
struito sulla cima dell'edificio copernicano. La vacillante
struttura degli epicicli, egli la buttò giù; ne tenne sol­
tanto le fondamenta. E neppure Copernico continuò a
costruire dove Tolomeo aveva smesso. Andò indietro di
2000 anni, fino ad Aristarco. Tutte le grandi rivoluzioni
mostrano, come ho già detto, un carattere notevolmente
<< pèdomorfico )). Esse esigono un'altrettanto grande quan­
tità di demolizione e rifacimenti.
Ma per disfare un abito mentale santificato dal dogma
o dalla tradizione occorre superare ostacoli intellettuali
ed emotivi d'immensa potenza. Non intendo soltanto le
forze inerziali della società; il primo luogo di resistenza
contro la novità eretica è all'interno del cranio dell'indi­
viduo che la concepisce. Esso si riflette nel grido di agonia
di Keplero quando scoprì che i pianeti si muovono su sen­
tieri non circolari ma ellittici: « Chi sono io, Giovanni
Kepler, per distruggere la divina simmetria delle orbite
circolari ? )). Su un livello più terra terra, la stessa angoscia
la si ritrova nei soggetti sperimentali di Jerome Bruner,
che quando gli si mostrava per una frazione di secondo
una carta da gioco con una regina di cuori nera, la ve­
devano rossa, come sarebbe dovuta essere; e quando
la carta veniva ripresentata, reagivano con nausea a
tale perversione delle leggi di Natura. Disimparare è più
difficile che imparare, e sembra che il compito di spez­
z-ue rigide strutture conoscitive, e di rimontarle in una
nuova sintesi, non possa di regola essere svolto nella
piena luce diurna della mente conscia e razionale. Può·
essere effettuato soltanto ritornando a quelle più fluide,
meno impegnate e specializzate forme di pensiero, che
normalmente operano nelle zone crepuscolari della co­
scienza.

248
'
LA SCIENZA E L INCONSCIO

V'è una superstizione popolare secondo cui gli scien­


ziati arrivano alle loro scoperte ragionando in termini
strettamente razionali, precisi, verbali. Esiste la prova
che essi non fanno niente di simile.1 Per citare un solo
esempio: nel 1945 Jacques Hadamard organizzò un'in­
chiesta su scala nazionale fra eminenti matematici ameri­
cani per studiare i loro metodi di lavoro. Il risultato mo­
strò che tutti quanti, con due sole eccezioni (sebbene
né l'uno né l'altro in termini verbali né in simboli alge­
brici), non facevano che basarsi su immaginazioni visive
di tipo vago, fortuito. Einstein, che fu tra quelli che ri­
sposero al questionario, scrisse: << Le parole della lingua,
quali sono scritte o pronunciate, non sembrano giocare
alcuna parte nel mio meccanismo di pensiero, che si
basa su immagini più o meno chiare di tipo visivo e ta­
luna di tipo muscolare. Mi sembra che quello che voi
chiamate coscienza piena sia un caso limite che non può
mai essere attuato pienamente, perché la coscienza è
una cosa molto ristretta l) (8) .
L'affermazione di Einstein è tipica. In base alla te­
stimonianza di quei pensatori originali che si sono presi
il disturbo di registrare il loro metodo di lavoro, non
solo il pensiero verbale, ma anche il pensiero cosciente in
generale, non ha che una parte s�tbordinata nella breve,
decisiva fase dell'atto creativo. Il loro insistere, in modo
virtualmente unanime, sulle intuizioni spontanee, su pre­
monizioni di origine inconscia, che essi poi sono ben lon­
tani dal saper spiegare, fa supporre che la parte svolta
dai processi strettamente razionali e verbali nella scoperta
scientifica sia stata largamente sovraestimata fin dall'età
dell'illuminismo. Vi sono sempre grosse porzioni di irra-

l . Cfr. The Act of Creation, libro I, capp. X-6X V-XI.

249
zionalità inglobate nel processo creativo, non solo in arte
(dove siamo pronti ad accettarla), ma anche nelle scienze
esatte.
Lo scienziato che, affrontando un problema ostinato,
regredisce dal pensiero verbale preciso a un vago imma­
ginare visivo, sembra seguire il consiglio di Woodworth:
<< spesso ci tocca discostarci dal discorso per pensare con
chiarezza )). Il linguaggio può diventare uno schermo fra
il pensatore e la realtà; e la creatività spesso comincia
dove termina il linguaggio, cioè con un regresso a livelli
preverbali di attività mentale.
Ora non è che io intenda, naturalmente, che c'è un
piccolo dèmone socratico annidato nel cranio dello scien­
ziato o dell'artista, che sbriga per lui le faccende dome­
stiche; né si dovrebbe confondere il funzionamento men­
tale inconscio con il << processo primario )) di Freud. Il
processo primario è definito da Freud come destituito
di logica, governato dal principio di piacere, accompagnato
da massicce scariche affettive, e capace di confondere per­
cezione e allucinazione. Sembra che tra questo processo
molto primario, e il cosiddetto processo secondario go­
vernato dal principio di realtà, dobbiamo interpolare
diversi livelli d'attività mentale, che non sono soltanto
miscele di << primario )) e << secondario l), ma sono sistemi
conoscitivi a sé, governati ciascuno da propri canoni di
regole. L'illusione paranoide, il sogno, il sogno ad occhi
aperti, l'associazione libera, la mentalità dei bambini a
diverse età e dei primitivi a vari stadi di sviluppo, non
devono essere messi in un mazzo, perché ognuno ha la
propria logica o le proprie regole di gioco . Ma sebbene
chiaramente differenti sotto molti aspetti, tutte queste
forme di funzionamento mentale hanno certi lineamenti
in comune, dal momento che sono, ontogeneticamente e
forse filogeneticamente, più antiche di quelle dell'adulto
civilizzato. Sono meno rigide, più tolleranti, pronte a

250
combinare idee apparentemente incompatibili, e a per­
cepire analogie nascoste fra cavoli e merende. Le si po­
trebbe chiamare << giochi del sottosuolo )), dell'underground,
perché se non tenute a bada potrebbero far disastri nel­
le routines del pensiero disciplinato. Ma in condizioni
eccezionali, quando il pensiero disciplinato è giunto al­
l' estremo delle sue possibilità, una temporanea indulgenza
a questi giochi del sottosuolo può produrre d'improvviso
una soluzione: qualche spericolata, stiracchiata, tortuosa
combinazione di idee, che sarebbe fuori portata della
mente razionale sveglia e digiuna, o le sembrerebbe inac­
cettabile. Ho proposto il termine di << bisociazione )) per
questi improvvisi sbalzi dell'immaginazione creativa al
fine di distinguerli dalle routines pedestri o semplicemente
associative. Vi ritornerò fra un momento; il punto da
tener presente è che l'atto creativo, nella evoluzione
mentale, riflette nuovamente lo schema << reculer pour
mieux sauter )), la regressione temporanea seguita da un
balzo in avanti. Possiamo portare oltre l'analogia, e
interpretare il grido eureka come il segno di un felice
scampo da un vicolo cieco, un atto di autoriparazione
mentale.

ASSOCIAZIONE E BISOCIAZIONE

Una definizione conveniente del pensiero associativo


è data da Humphrey (9) : << Il termine 'associazione' o
'associazione mentale' è un nome generico usato spesso
in psicologia per esprimere le condizioni in cui sorgono
gli eventi mentali sia dell'esperienza che del comporta­
mento )). In altre parole, il termine 'associazione' indica
semplicemente il processo con cui un'idea porta ad un'al­
tra.
Ma un'idea ha collegamenti associativi con molte altre
idee stabilite dalle esperienze passate; e quale di questi

251
collegamenti abbia ad attivarsi in una situazione data,
dipende dal tipo di pensiero in cui siamo impegnati in
quel momento. Il pensare ordinario è sempre governato
da regole, e persino il sogno o il sogno diurno hanno re­
gole proprie. Nel lavoratorio di psicologia lo sperimenta­
tore pone la regola << parole contrarie >>. Poi dice buio e
il soggetto prontamente dice luce. Ma se la regola è << si­
nonimi >>, allora il soggetto assocerà buio con nero o notte
o ombra. Parlare di stimoli come se agissero nel vuoto
è senza senso; quale risposta un dato stimolo abbia ad
evocare dipende dalle regole del gioco che stiamo gio­
cando in quel momento, il cànone (vedi cap. III) di quella
particolare abilità mentale. Ma noi non viviamo in la­
boratori dove le regole del gioco vengono poste con or­
dini espliciti; nelle routines normali del pensare e del
discorrere le regole sono implicite ed inconscie.
Questo si applica non solo alle regole di gramma­
tica, della sintassi e della logica corrente, ma anche a
quelle che governano le strutture più complesse che chia­
miamo << intelaiature di riferimento >>, << universi di di­
scorso >> o << contesti associativi >>; e ai << persuasori occulti >>
che pregiudicano il nostro ragionamento. In The A ct of
Creation ho proposto il termine << matrice >> come formula
unificante per riferirmi a queste strutture conoscitive,
cioè a dire a tutte le abitudini e abilità mentali governate
da un insieme fisso di regole, capaci però di svariate stra­
tegie nell'attacco di un problema. In altre parole, le matrici
sono olòmeri conoscitivi, e presentano tutte le caratte­
ristiche degli olòmeri discusse nei precedenti capitoli.
Sono controllate dai loro canoni, ma guidate dal feedback
o retroazione da parte dell'ambiente, la distribuzione
delle pedine sulla scacchiera, i connotati del problema
in gioco. Esse vanno da estremi di rigidezza pedantesca
a una liberale apertura mentale - entro certi limiti. Sono
ordinate in gerarchie astrattive << verticali >>, che si intrec-

252
c1ano m reti associative, e referenze incrociate << oriz­
zontali 1>.
Lasciate che mi ripeta: ogni pensiero abitudinario è
comparabile all'atto di giocare un gioco secondo regole
stabilite e strategie più o meno flessibili . Il gioco degli
scacchi permette strategie più variate che non la dama,
un numero più vasto di scelte fra le mosse permesse dalle
regole. Ma c'è un limite ad esse; e negli scacchi vi sono
situazioni disperate in cui non vi salvano le più sottili
strategie, salvo offrire al vostro antagonista un Mar­
tini formato j umbo. Ora, in effetti, non vi è regola, nel
gioco degli scacchi, che vi impedisca di farlo. Ma ubria­
care una persona rimanendo lucido è un tipo diverso di
gioco, in un contesto differente. Combinare i due giochi
è una bisociazione. In altri termini, routine associativa
significa pensare secondo un dato insieme di regole su
un solo piano, per dir così. L'atto bisociativo significa
combinare due diverse serie di regole, per vivere al tempo
stesso su diversi piani.
Non intendo svalutare le routines lige alle leggi. Esse
dànno coerenza e stabilità al comportamento e ordine
strutturato al pensiero. Ma quando la sfida eccede un
limite critico le routines di adattamento non sono pitt
sufficienti. Il mondo cammina e sorgono fatti nuovi che
creano problemi i quali non possono risolversi entro gli
schemi di riferimento convenzionale, applicando ad essi
le regole del gioco accettate. Allora è la crisi, con la sua
disperata ricerca di un rimedio, l'improvvisazione ete­
rodossa che condurrà alla nuova sintesi, l'atto di auto­
riparazione mentale.
Il latino cogito viene da coagitare, agitare insieme.
Bisociazione significa combinare due matrici conoscitive
sin qui non correlate, in modo tale da aggiungere alla ge­
rarchia un nuovo livello, che contiene le strutture preceden­
temente separate come suoi componenti. I movimenti delle

253
maree erano note all'uomo da tempo immemorabile. E
così i movimenti della luna. Ma l'idea di mettere in re­
lazione le due cose, l'idea che le maree erano dovute al­
l'attrazione della luna, venne, a quanto sappiamo, per la
prima volta a un astronomo tedesco del XVII secolo; e
quando Galileo lesse della cosa ne rise come di una fan­
tasticheria occultistica. Morale: quanto più familiari sono
le strutture precedentemente non correlate, tanto più
sorprendente la sintesi che ne emerge, e tanto più ovvia
sembra nello specchietto retrovisore della profezia a po­
steriori. La storia della scienza è la storia di matrimoni
fra idee precedentemente estranee tra loro e di frequente
considerate incompatibili. Le calamite erano note all'an­
tichità come una curiosità della natura. Nel Medioevo
vennero usate per due scopi: per la bussola dei nocchieri
e come mezzo per riportare al marito una moglie alienata.
Egualmente ben conosciute erano le curiose proprietà
dell'ambra, che sfregata acquistava la virtù di attrarre
oggetti leggeri. La parola greca per ambra è elektron,
ma i Greci non si interessarono molto all'elettricità; e
neppure il Medioevo. Per quasi 2000 anni elettricità e
magnetismo furono considerati fenomeni distinti, senza
riferimento di nessun genere fra loro. Nel 1820 Hans
Christian Oersted scoprì che una corrente elettrica che
passava attraverso un filo alterava la direzione dell'ago
di una bussola magnetica che per caso si trovava sulla
tavola. In quel momento i due contesti caminciarono a
fondersi in un solo: l'elettromagnetismo, creando così
una specie di reazione a catena che sta ancora conti­
nuando e anzi aumentando di velocità.

LA REAZIONE (( AHA >>

Da Pitagora che combinò l'aritmetica e la geometria,


fino a Newton che combinò gli studi di Galileo sul movi-

254
mento dei proiettili con le equazioni di Keplero sulle or­
bite planetarie, e fino ad Einstein che unificò energia e
materia in una unica raccapricciante equazione, lo schema
è sempre lo stesso. L'atto creativo non crea qualcosa dal
niente, come Dio nel Vecchio Testamento; combina, di­
pana e mette in relazione idee, fatti, schemi di perce­
zione, contesti associativi già esistenti ma fin qui sepa­
rati. Questo atto di fecondazione incrociata - o auto­
fecondazione dentro a un unico cervello - sembra essere
l'essenza della creatività e giustificare il termine << bisocia­
zione 1>.1 Prendiamo l'esempio di Gutenberg che inventò
il torchio da stampa (o che per lo meno lo inventò indi­
pendentemente da altri): la sua prima idea fu di fondere
dei caratteri da stampa come quelli dei sigilli o degli
anelli a timbro. Ma come avrebbe fatto a riunire migliaia
di piccoli sigilli in modo tale che lasciassero sulla carta
una stampa allineata ? Per anni combatté con questo
problema, finché un giorno andò a vendemmiare nella
sua natale Renania e probabilmente si sbronzò. In una
lettera lasciò scritto: << Guardavo il vino che scorreva, e
risalendo dall'effetto alla causa, studiai il potere del
torchio da uva a cui nulla può resistere . . . >> a quel mo­
mento la moneta cadde dentro al distributore: sigilli e
torchio combinati diedero la pressa per stampa.
Gli psicologi gestaltistici hanno coniato una parola
per quel momento della verità, per il lampo d'illumina-

l . Vedute similari sono state proposte, fra altri, dal matematico


Henri Poincaré, che in una conferenza spesso citata spiegò la scoperta
come il felice incontro fra « atomi di pensiero provvisti di uncino 11
(atomes crochus) in seno all'inconscio. Secondo sir Frederick Bartlett,
<• la caratteristica più importante del pensiero sperimentale originale
è la scoperta della 'sovrapposizione' (overlap) . . laddove un tempo si
.

riconosceva soltanto la capacità di isolare e la differenza � (IO). Jerome


Bruner ( 1 1 ) considera tutte le forme di creatività come un risultato
di <• attività combinatoria �. McKellar ( 12) parla della <• fusione 11 di
percezioni, Kubie ( 1 3) della <• scoperta di inattese connessioni fra le
cose 1>, e così via, fino al << connetti, connetti sempre 1> di Goethe.

255
zione, quando i pezzi del rompicapo fanno clic e vanno
di colpo a posto: lo chiamano l'esperienza AHA ; ma
questo non è il solo tipo di reazione che può produrre lo
scatto bisociativo. Un tipo diversissimo di risposta può
sorgere nel raccontare una storia come questa:
<< Un marchese della corte di Luigi XV era inaspetta­
tamente ritornato da un viaggio, ed entrando nel bou­
doir di sua moglie la trovò fra le braccia di un vescovo.
Dopo un momento di esitazione il marchese andò con
calma alla finestra, si sporse e cominciò a benedire la
gente che passava nella via.
- Che cosa state facendo? gridò la moglie m
angoscia.
- Monsignore sta compiendo le mie funzioni - ri­
spose il gentiluomo - così io compio le sue )). 1
Il riso può essere chiamato la reazione HAHA .2 Di­
scutiamo brevemente dapprima il suo aspetto logico,
poi quello emotivo.

LA REAZIONE << 1-IAHA ))


Il comportamento del marchese è al tempo stesso
inaspettato e perfettamente logico, ma di una logica
che usualmente non viene applicata a questo tipo di si­
tuazione. È la logica della divisione del lavoro, dove la
regola del gioco è il quid pro quo, il dare per avere. Ma
noi ci aspettavamo naturalmente che le sue reazioni fos­
sero governate da un cànone del tutto diverso, quello
della moralità sessuale. È l'interazione fra questi due con-

l . Mi sono servito di questo aneddoto in The A ct of Creation e me


ne servo di nuovo grazie al suo schema molto esplicito. La maggior
parte degli aneddoti invece richiede prolisse spiegazioni perché ne ri­
sulti chiara la struttura logica.
2. Sono . grato al dr. Brenning James di aver suggerito questo ter­
mine come pendant della reazione AHA.

256
testi associativi, che si escludono mutuamente, a produrre
l'effetto comico. Essa ci obbliga a percepire la situazione
nello stesso tempo in due diversi quadri di riferimento,
ognuno coerente in se stesso, ma abitualmente incompa­
tibili fra loro; ci fa funzionare simultaneamente su due
lunghezze d'onda. Fin che dura questa inconsueta con­
dizione l'evento non è, come è normalmente il caso, per­
cepito in un singolo quadro di riferimento, ma bisociato
su due.
Tuttavia questa insolita conduzione non dura a lungo;
l'atto della scoperta ci porta a una sintesi durevole, a una
fusione dei due schemi di riferimento precedentemente
non correlati; nella bisociazione comica abbiamo una col­
lisione fra schemi incompatibili, che per un breve mo­
mento vengono a incrociarsi. Tuttavia la differenza non
è assoluta. Che gli schemi siano compatibili oppure no,
che essi collidano o si fondano, dipende da fattori sog­
gettivi - perché dopo tutto il collidere o il fondersi av­
viene nel pensiero dell'uditorio. Nella mente di Keplero
i movimenti della luna e i movimenti delle maree si fu­
sero, divennero rami della stessa gerarchia causativa.
Ma Galileo trattò letteralmente come uno scherzo la
teoria di Keplero, la chiamò una << fantasticheria occul­
tistica >>. La storia della scienza abbonda di esempi di
scoperte salutate da maree di risate perché sembravano
un matrimonio di incompatibili, finché il matrimonio
diede frutto, e la asserita incompatibilità dei coniugi
risultò non essere altro che un pregiudizio. L'umorista,
d'altra parte, sceglie deliberatamente codici di comporta­
mento discordanti, o universi discordanti di discorso, per
esporre la loro celata incongruità nello sfascio che ne ri­
sulta. La scoperta comica è un paradosso affermato; la
scoperta scientifica è un paradosso risolto.
Guardato dal suo punto di vista, il gesto del mar­
chese fu una ispirazione veramente originale. Se avesse

9 KOESTLER 257
seguìto le regole convenzionali del gioco avrebbe dovuto
picchiare o ammazzare il vescovo. Ma alla corte di Lui­
gi XV assassinare un monsignore sarebbe stato conside­
rato, se non esattamente un delitto, una cosa di pessimo
gusto; una di quelle cose che non si fanno. Per risolvere
il problema, cioè per salvare la faccia, e al tempo stesso
umiliare il rivale, occorreva portare nella situazione
un secondo schema di riferimento, governato da diverse
regole del gioco, combinandolo, bisociandolo con il primo.
Ogni invenzione comica originale è un atto creativo, una
scoperta maliziosa.

RISO ED EMOZIONE

L'enfasi cade su maliziosa e questo ci porta dalla


logica dell'humour al fattore emozionale della reazione
HA HA . Quando l'esperto narratore di storielle racconta
un aneddoto crea una certa tensione, che cresce col progre­
dire del racconto. Ma essa non raggiunge mai il climax
atteso. La battuta a sorpresa agisce come una ghigliottina
che taglia in due lo sviluppo logico della situazione;
sgonfia la nostra attesa drammatica, la tensione diventa
ridondante ed esplode in riso. Per dirla diversamente, il
riso elimina la tensione emotiva che è diventata senza
oggetto, è negata dalla ragione, e deve essere in qualche
modo fatta fuori lungo i canali fisiologici di minor resi­
stenza.
Se guardate la brutale allegria della gente in una
scena di taverna di Hogart o Rawlinson capite subito
che stanno smaltendo il loro sovrappiù di adrenalina
mediante contrazioni dei muscoli facciali, pacche sulle
cosce, esplosive emissioni di fiato dalla glottide semichiusa.
Le emozioni smaltite in riso sono l'aggressione, l'eccita­
zione sessuale, il sadismo conscio o inconscio, tutte
operanti attraverso il sistema simpatico adrenale. Tut-

258
tavia, quando guardate una vignetta del << New Yorker l),
la risata omerica cede il posto a un sorriso divertito e
rarefatto; il robusto flusso di adrenalina si è distillato
in un grano di sale attico. Prendete per esempio quella
classica definizione: << Che cos'è un sadico ? Una persona
che è gentile con un masochista . l). La parola inglese
..

witticism (battuta di spirito) è derivato da wit, spi­


rito (mente, capacità di ragionare, nel suo senso originario
di ingegnosità) ; i due campi sono continui, senza netta
linea di separazione. Come muoviamo dalle forme di
humour grossolano verso le più sottili, lo scherzo sfuma
in epigramma e indovinello, la similitudine comica nella
analogia nascosta; e le emozioni implicate presentano
una transizione analoga. Il voltaggio emotivo scaricato
nel grosso riso è l'aggressione a cui è stato tolto il ber­
saglio; la tensione scaricata nella reazione A HA de­
riva da una sfida intellettuale. Scatta al momento in
cui cade la moneta nel distributore, quando abbiamo
risolto l'indovinello celato in una vignetta del << New
Yorker l), in un quiz di intelligenza o in un problema
scientifico.
Lasciatemelo ripetere, i due campi dell'humour e
della scoperta formano un continuo. Mentre ci viaggiamo
attraverso da sinistra verso il centro, per così dire, il
clima emozionale gradualmente muta dalla buffoneria
del p3.gliaccio alla distaccata oggettività del saggio. E
se continuiamo il viaggio nello stesso senso troviamo
transizioni egualmente graduali nel terzo dominio della
creatività, quella dell'artista. Anche l'artista allude, più
che non asserisca, e pone indovinelli; e così otteniamo una
transizione simmetricamente rovesciata verso l'altra estre­
mità dello spettro, dalle forme di arte altamente intel­
lettualizzate verso le più sensuali ed emotive, per finire
nella beatitudine del mistico immune da pensiero.

259
LA REAZIONE << AH l)

Ma come definire il clima emozionale dell'arte ? Come


classificare le emozioni che dànno origine all'esperienza
del bello ? Se consultate i manuali di psicologia sperimen­
tale non troverete molto. Quando i behaviouristi usano
la parola << emozione 1> si riferiscono quasi sempre a fame,
sesso, rabbia e paura, e ai relativi effetti di produzione
di adrenalina. Non hanno spiegazioni da offrire per la cu­
riosa reazione che uno prova ascoltando Mozart, o guar­
dando l'oceano, o leggendo per la prima volta i sonetti
sacri di J ohn Donne. E neppure troverete nei manuali
una descrizione dei processi fisiologici che accompagnano
la reazione: inumidirsi degli occhi, trattenere il fiato se­
guito da una specie di rapita tranquillità, lo svanire di
tutte le tensioni. Chiamiamo questa la reazione A H, e
completiamo così la triade.

HAHA ! l A HA AH . . .

Riso e pianto, le maschere greche della commedia


e della tragedia, segnano gli estremi di uno spettro con­
tinuo; entrambi sono riflessi di traboccamento, ma sotto
ogni altro aspetto sono opposti fisiologici. Il riso è mediato
dal ramo simpatico adrenale del sistema nervoso autonomo,
il pianto dal ramo parasimpatico; il primo tende a gal­
vanizzare il corpo per spingerlo all'azione, il secondo
tende verso la passività e la catarsi. Osservatevi respirare
quando ridete: lunghe profonde inspirazioni d'aria seguite
da scoppi di sbuffi espiratori - hahaha! Nel pianto fate
l'opposto: brevi sussultanti inspirazioni - singhiozzi -
sono seguite da lunghe sospiranti espirazioni: a-a-h, aah . . .
I n coerenza a ciò, le emozioni che traboccano nella
reazione AH sono gli opposti esatti di quelle che esplodono

260
in riso: quest'ultimo appartiene al tipo d'emozioni adre­
nergico, aggressivo-difensivo. Secondo la nostra teoria
queste sono manifestazioni della tendenza autoassertiva.
I loro opposti io li chiamerò le emozioni autotrascendenti,
derivate dalla tendenza integrativa. Si compendiano in
quello che Freud chiamò il sentimento oceanico: quel­
l' espansione della coscienza che si esperimenta occasio­
nalmente in una cattedrale vuota, mentre l'eternità sta
guardando attraverso la finestra del tempo, e in cui l'io
sembra dissolversi come un grano di sale in una grande
quantità di acqua.

ARTE ED EMOZIONE

La polarità fra tendenze integrative e autoassertive


è, come abbiamo veduto, inerente ad ogni ordine gerar­
chico e si manifesta a ogni livello, dallo sviluppo embrio­
nale fino alla politica internazionale; la tendenza integra­
tiva, che è l'argomento di cui ci occupiamo, riflette la
<c partecipazionalità >> di un olòmero, la sua dipendenza da,
e appartenenza a, un tutto più complesso. Essa opera
lungo tutta la linea, dalla simbiosi fisica degli organuli,
attraverso l'attrupparsi del branco e del gregge, fino alle
forze coesive degli stati di insetti e delle società di pri­
mati.
L'individuo singolo, considerato come un tutto, rap­
presenta l'apice della gerarchia organica, ma al tempo
stesso è una parte, un'unità elementare, della gerarchia
sociale. La dicotomia è riflessa nella sua natura emotiva.
La sua autoasserzione come un tutto autonomo, indipen­
dente, si esprime nell'ambizione, nella competitività, nel
comportamento aggressivo-difensivo, a seconda dei casi.
La sua tendenza integrativa si riflette nella sua dipen­
denza, come parte, dalla famiglia, dalla tribù, dalla so­
cietà. Ma - e questo è un ma essenziale - la partecipa-

261
zione a un gruppo sociale non è sempre sufficiente a sod­
disfare il potenziale integrativo dell'individuo; e ad al­
cuni non fornisce soddisfazione di sorta. Ogni uomo è
un olòmero e sente il bisogno di esser parte di qualcosa
che trascenda i ristretti limiti del suo io; questo bisogno
è alla radice delle emozioni << autotrascendenti l>. Può essere
esaudito dalla identificazione sociale, al che ritorneremo
nella parte III. Ma l'entità superiore a cui l'individuo
brama arrendere la propria identità può anche essere Dio,
la natura o l'arte; la magìa della forma, l'oceano dei suoni,
o i simboli matematici di convergenza all'infinito. Questo
è il tipo di emozione che entra nella reazione A H.
Le emozioni autotrascendenti presentano una gamma
ampia di varietà. Possono essere gioiose o meste, tra­
giche o liriche; il loro denominatore comune, per ripe­
terlo ancora, è il sentimento di partecipazione integrativa
a un'esperienza che trascende i confini di noi stessi.
Le emozioni autoassertive tendono verso l'attività
corporea, le emozioni autotrascendenti sono essenzial­
mente passive e catartiche. Le prime si manifestano nel
comportamento aggressivo-difensivo, le altre in empatia,
rapporto e identificazione, ammirazione e meraviglia.
Spargere lacrime è uno sfogo per un eccesso di emozioni
autotrascendenti, come il riso lo è per le emozioni auto­
assertive. Nel riso la tensione esplode improvvisamente
e l'emozione si sgonfia; nel pianto è gradualmente scari­
cata senza rompere la continuità dello stato d'animo;
emozione e pensiero rimangono uniti. Le emozioni auto­
trascendenti non tendono verso l'azione ma verso la
quiescenza. La respirazione e il polso rallentano; l'<< in­
canto l) è un passo verso gli stati simili a trance indotti
dai mistici contemplativi; l'emozione è di qualità tale
da non potersi consumare con un atto volontario speci­
fico. Non potete portarvi a casa il panorama di mon­
tagna; non potete fondervi con l'infinito mediante un

262
qualsiasi sforzo fisico; essere << sopraffatti )) da un senso
di timore religioso e di meraviglia, << rapiti )) da un sor­
riso, << affascinati )) dalla bellezza, ognuna di queste pa­
role esprime una resa passiva. Il superfluo di emozioni
non può essere smaltito da una qualsiasi intenzionale
attività muscolare; può essere soltanto consumata in pro­
cessi interni, viscerali e ghiandolari.
Le varie cause che possono condurre al traboccare
delle lacrime - rapimento estetico o religioso, senso di
privazione, gioia, simpatia, autocommiserazione - hanno
tutte quante in comune questo elemento di base: un bra­
mar di trascendere i confini che isolano l'individuo, di
entrare in una comunione simbiotica con un essere umano
vivo o morto, o con qualche superiore entità reale o im­
maginaria di cui la persona sente di essere una parte.
Le emozioni autotrascendenti sono figliastre della
psicologia, ma sono altrettanto fondamentali e altret­
tanto fermamente radicate nella biologia dei loro opposti.
Freud e Piaget fra gli altri hanno sottolineato il fatto
che il bambino piccolissimo non fa differenza tra l'io e
l'ambiente. La mammella che lo nutre gli sembra un
possesso più intimo che non i propri àlluci. È consape­
vole degli avvenimenti ma non di se medesimo come
entità separata. Vive in uno stato di simbiosi mentale
col mondo esterno, a continuazione della simbiosi biolo­
gica che esisteva nel grembo materno. L'universo si fo­
calizza sulla persona e la persona è l'universo, una
condizione che Piaget chiamò coscienza << protoplasmica ))
o << simbiotica )).1 Può essere assomigliata a un universo
fluido traversato dall'alta e bassa marea delle necessità
fisiologiche e dalle minori tempeste che vanno e vengono
senza lasciare tracce solide. Gradatamente il diluvio re-

l . Per una trattazione più recente dell'argomento, vedi l'impor­


tante opera di E. G. ScHACHTEL, Metamorphosis (1963).

263
trocede ed emergono le prime isole di realtà soggettiva;
i contorni diventano più fermi e netti; le isole diventano
continenti, le terre emerse della realtà vengono cartogra­
fate; ma accanto ad esse coesiste il mondo liquido che le
circonda, che le penetra con canali e laghi interni, reli­
quie e vestigia della comunione simbiotica primeva,
origine di quel << sentimento oceanico 1> che l'artista e il
mistico si sforzano di ricatturare su un livello superiore
dello sviluppo, su un giro più alto della spirale.
Ciò è anche all'origine della magìa simpatica, prati­
cata da tutti i primitivi e da gente non tanto primitiva.
Quando l'uomo delle medicine si traveste da dio della
pioggia, produce pioggia. Tracciare la pittura di un bi­
sonte ucciso garantisce una caccia fortunata. Questa è
l'antica sorgente unitaria da cui derivarono la danza e
il canto rituale, i << misteri 1> recitati dagli Achei e i calen­
dari dei preti-astronomi babilonesi. Le ombre della ca­
verna di Platone sono simboli della solitudine dell'uomo;
le pitture delle caverne di Altamira sono simboli dei suoi
poteri magici.
Abbiamo fatto un lungo viaggio da Altamira e La­
scaux ma le ispirazioni dell'artista e le intuizioni dello
scienziato sono ancora alimentate dalla stessa sorgente
unitaria, benché oggi come oggi dovremmo piuttosto
chiamarla un fiume sotterraneo. Il desiderio non sposta
le montagne ma in sogno lo fa ancora. La coscienza
simbiotica non è mai completamente sconfitta, è sol­
tanto relegata sotto terra, a quei livelli primitivi della
gerarchia mentale dove i confini dell'io sono ancora
fluidi e confusi - confusi come la distinzione fra l'at­
tore e l'eroe che egli impersona - e con cui lo spet­
tatore si identifica. L'attore sul palcoscenico è lui, e
qualcun altro al tempo stesso - è al tempo stesso il
danzatore e il dio della pioggia. L'illusione drammatica
è la coesistenza nella mente dello spettatore di due uni-

264
versi che sono logicamente incompatibili; la sua consape­
volezza, sospesa fra i due piani, esemplifica il processo
bisociativo nella sua forma più vistosa. Tanto più vi­
stosa in quanto produce sintomi fisici - palpitazione,
sudorazione o lacrime - in risposta ai pericoli di una
Desdemona che egli sa che esiste unicamente sotto forma
di ombra sullo schermo TV.

LA TRIADE CREATIVA

Ma fate che Otello sia preso dal singhiozzo, e in­


vece di coesistenza fra i due piani giustapposti nella mente
dello spettatore voi avete la collisione fra di loro. Le imi­
tazioni comiche producono la reazione HA HA perché
il parodista stimola l'aggressione e la malizia; mentre
la personifìcazione tragica realizza la sospensione dell'in­
credulità, la coesistenza di piani incompatibili, perché il
tragèda induce lo spettatore a identificarsi. Essa eccita le
emozioni autotrascendenti e inibisce o neutralizza le
emozioni autoassertive. Anche se paura e rabbia possono
sorgere nello spettatore, queste sono emozioni vicarie
derivate dalla sua identificazione con l'eroe, il che in se
stesso è un atto autotrascendente. Le emozioni vicarie
sollevate in questo modo sono cariche di un elemento
dominante di simpatia che facilita la catarsi, in confor­
mità con la definizione aristotelica: << Attraverso incidenti
che causano orrore e pietà effettuare la purgazione di
tali emozioni >>. L'arte è una scuola di autotrascendenza.
Arriviamo così a un'ulteriore generalizzazione. La rea­
zione HAHA segnala la collisione di contesti bisociati,
la reazione A HA segnala la loro fusione, la reazione A H
l a loro giustapposizione.1 Quando leggete una poesia in-

l. Questa differenza si riflette nella quasi-cumulativa progressione


della scienza attraverso una serie di successivi accostamenti, combi­
nazioni, in confronto al carattere quasi extratemporale dell'arte, al suo

265
teragiscono nel vostro spirito due schemi di riferimento:
l'uno governato dal significato, l'altro da disegni fonici
e ritmici. Di più, queste due matrici operano su due
livelli diversi di coscienza: il primo in piena luce diurna,
l'altro molto più giù, su quei livelli arcaici della gerarchia
mentale che si riverberano nel tam-tam dello sciamano
e che ci rendono particolarmente ricettivi e suggestio­
nabili ai messaggi che arrivano su un disegno ritmico o
accompagnati da tale disegno.1
Il pensiero di routine involge una singola matrice,
l'esperienza artistica ne coinvolge sempre più di una.
Il ritmo e il metro, la rima e l'eufonia non sono ornamenti
artificiali del linguaggio ma combinazioni di contempo­
ranei, sofisticati schemi di riferimento con arcaici ed emo­
zionalmente più potenti giochi dello spirito. Lo stesso è
vero della fantasticheria poetica: il pensiero visivo è una
forma più antica d'attività mentale che non il pensare
per concetti verbali; i nostri sogni sono per lo più dei
film. In altre parole, l'attività creativa implica sem­
pre una regressione temporanea a quei livelli arcaici,
mentre un processo simultaneo si svolge in parallelo sul
livello più alto, più articolato e critico: il poeta è come un
sub che si tuffa in apnea con un tubo per respirare.
È stato detto che la scoperta scientifica consiste nel
vedere un'analogia dove nessuno ne aveva vista una
prima. Quando nel Cantico dei cantici Salomone asso­
migliò il collo della Sulamita a una torre d'avorio, vide

continuo riaffermare gli schemi di base dell"esperienza in cangianti


linguaggi idiomatici. Ma ho detto due volte <• quasi *· perché la diffe­
renza è questione di gradi; in quanto il progresso della scienza non è
cumulativo in senso stretto: essa cammina a zig-zag piuttosto che in
linea retta; e d'altra parte lo sviluppo di una data forma d'arte in un
certo periodo storico manifesta spesso una progressione cumulativa.
l . « Nella rima >>, scrisse Proust, <• la sovrapposizione di due si­
stemi, l'uno intellettuale, l'altro metrico. . . è un elemento primario
della ordinata complessità, cioè a dire, della bellezza •>.

266
una analogia che nessuno aveva visto prima; quando
Harvey comparò il cuore di un pesce a una pompa mec­
canica, fece lo stesso; e quando il caricaturista disegna
un naso simile a un cocomero, di nuovo fa esattamente
la stessa cosa. In effetti tutti gli schemi combinatori,
bisociativi sono trivalenti - possono entrare a ser­
vizio dell'humour, della scoperta o dell'arte, a seconda
del caso.
L'uomo ha sempre guardato alla natura sovrappo­
nendo un secondo << reticolo >> all'immagine retinica: reticoli
mitologici, antropomorfici, scientifici. L'artista impone il
suo stile enfatizzando contorni o superfici, stabilità o
movimento, curve o cubi. Così naturalmente fa anche
il caricaturista, soltanto che i suoi moventi e i suoi criteri
di rilevanza sono diversi. E così fa lo scienziato. Una
carta geografica ha, con un dato paesaggio, la stessa re­
lazione di una caricatura con una faccia; ogni grafico o
modello, ogni rappresentazione schematica o simbolica
di processi fisici o mentali è una caricatura non emozionale
- o ritratto stilizzato - della realtà.
Nel linguaggio dei behaviouristi dovremmo dire che
Cézanne guardando un paesaggio riceve uno stimolo a
cui risponde mettendo sulla tela un grumo di colore,
e questo è quanto. Ma in fatto le due attività si svol­
gono su due piani differenti. Lo stimolo viene da un am­
biente, il paesaggio in distanza. La risposta agisce su un
ambiente differente, una superficie rettangolare di centi­
metri 25 x 35. I due ambienti obbediscono a due diversi
insiemi di leggi. Una pennellata isolata non rappresenta
un dettaglio isolato del paesaggio. Non vi sono corri­
spondenze punto a punto fra i due piani, ognuno obbe­
disce a una diversa regola di gioco. Lfl. visione dell'artista
è bifocale, esattamente come la voce del poeta è bivocale,
perché bisocia suono e senso.

267
SOMMARIO

Quel che ho cercato di suggerire in questo capitolo è


che ogni attività creativa - i processi consapevoli e in­
consapevoli sottesi ai tre campi della ispirazione artistica,
della scoperta scientifica e della inventività comica -
hanno in comune uno schema di base: la coagitazione
o lo scuotersi insieme di già esistenti ma in precedenza
separate aree di conoscenza, schemi di percezione o uni­
versi di discorso.
Ma il pensiero razionale cosciente non è sempre il
miglior agitatore per cocktail. È di pregio incalcolabile
fin tanto che la sfida non supera un certo limite; ma
quando questo è raggiunto la sfida non può essere affron­
tata se non mediante un disfare-e-rifare della gerarchia
mentale, un regresso temporaneo culminante nell'atto
bisociativo che aggiunge un livello nuovo alla struttura
superiormente aperta. È la più alta forma di autoripa­
razione mentale, di scampo dai vicoli ciechi della stasi,
della sovraspecializzazione e dell'adattamento inadeguato;
ma è già prefigurato da fenomeni analoghi che avven­
gono su livelli inferiori della scala evolutiva discussi nei
precedenti capitoli.
I tre campi della creatività formano un continuo;
i limiti fra scienza ed arte, fra la reazione AH e la rea­
zione A HA sono fluidi, sia che consideriamo l'architet­
tura o la cucina o la psichiatria o la storiografia. Non
vi è in alcun punto un taglio netto, dove il tratto di
spirito si cambi in spiritualità, o dove la scienza si
fermi e cominci l'arte. Il clima emotivo dei tre campi
presenta egualmente transizioni continue. A un' estre­
mità dello spettro c'è il volgare buffone mosso da
malignità autoassertiva; all'estremo opposto c'è l'ar­
tista spinto dall'anelito alla autotrascendenza. La mo­
tivazione dello scienziato, che opera nella regione media

268
del continuo, è una equilibrata combinazione dei due:
ambizione ed emulazione, neutralizzati dalla autotra­
scendente devozione al suo compito. Scienza è l'arte
neutra.
La scienza, secondo il decrepito cliché, mira alla ve­
rità e l'arte alla bellezza. Tuttavia i criteri di verità, per
esempio la verifica mediante esperimento, non sono né
così solidi né così limpidi come tendiamo a credere. Gli
stessi dati sperimentali spesso possono venir interpre­
tati in più di un modo, e questa è la ragione per cui la
storia della scienza echeggia di appassionate controversie,
tante quante la storia della critica letteraria. Inoltre la
verifica di una scoperta viene dopo l'atto; l'atto creativo
stesso è, per lo scienziato come per l'artista, un salto
nel buio, dove entrambi dipendono egualmente dalle
loro fallibili intuizioni. I più grandi matematici e fisici
hanno confessato che in quei momenti decisivi in cui si
buttavano a tuffo erano guidati non dalla logica, ma da
un senso di bellezza che essi erano incapaci di definire.
Viceversa i pittori e gli scultori, per non menzionare gli
architetti, sono sempre stati guidati e spesso ossessionati
da teorie e criteri di verità scientifici o pseudoscientifici:
la sezione aurea, le leggi della prospettiva, le leggi di
proporzione nella rappresentazione del corpo umano di
Diirer e di Leonardo, la dottrina di Cézanne secondo
cui la natura si modella sul cilindro e la sfera, e l'opposta
teorie di Braque per cui i cubi andavano sostituiti alle
sfere. E lo stesso è vero, naturalmente, in letteratura,
dalle leggi formali imposte alla tragedia, fino alle varie
scuole recenti, ed egualmente per le regole dell'armonia
e del contrappunto in musica. In altre parole, l'esperienza
della verità, per quanto soggettiva, deve essere presente
perché possa sorgere l'esperienza della bellezza; e vice­
versa: una soluzione << elegante >> di un problema origina

269
nell'intenditore l'esperienza del bello. L'illuminazione in­
tellettuale e la catarsi emotiva sono complementari aspetti
di un processo indivisibile.
Ho cercato in questo capitolo di tracciare il profilo
di una teoria della creatività che ho sviluppato in una
precedente opera; e di portarla un passo più avanti. Un
profilo è necessariamente qualcosa di schematico; tutto
quello che posso fare è rinviare il lettore interessato al­
l'originale, e chieder scusa per averne piluccato qualche
passaggio.

270
XIV l Il fantasma dentro la macchina
Le grandi domande sono quelle che pone un
bambino intelligente e che non ottenendo ri­
sposta smette di porre.
GEORGE WALD

Essendo giunto fin qui il lettore può protestare che è


sacrilego chiamare atto di autoriparazione la creazione
di una sinfonia di Brahms o la scoperta di Newton delle
leggi del movimento, e di confrontarle alla mutazione
della larva di una seppia, alla rigenerazione dell'arto di
una salamandra, o alla riabilitazione dei pazienti mediante
psicoterapia. Al contrario, credo fermamente che questa
visione generalizzata dell'evoluzione biologica e mentale
riveli l'operare su tutta la linea delle for7e creative verso
una realizzazione ottimale dei potenziali della materia
vivente e delle menti viventi, una tendenza universale
verso << stati spontaneamente sviluppantisi di maggiore
eterogeneità o complessità )) (Herrick) (1) . Queste sobrie
parole di un grande fisiologo additano uno dei fatti fon­
damentali della vita, che la scienza per lungo tempo
aveva perso di vista e che è ancora lenta a ridiscoprire.

LA << SECONDA LEGGE ))

Vangelo per la scienza << della terra piatta )) era la


famosa seconda legge della termodinamica di Clausius.
Essa asseriva che l'universo sta rallentando come un
orologio affetto da fatica del metallo, perché la sua ener­
gia si sta costantemente, inesorabilmente degradando, dis­
sipata in calore, finché esso universo finalmente si dis-

271
solverà in una sola informe omogenea bolla di gas di
temperatura uniforme appena superiore allo zero assoluto,
inerte e senza movimento: il cosmico Wàrmetod (morte
per caldo) . Solo in tempi recenti la scienza ha cominciato
a riprendersi dagli effetti ipnotici di quest'incubo e a ren­
dersi conto che la seconda legge si applica soltanto nello
speciale caso dei cosiddetti {< sistemi chiusi >> (come quello
di un gas racchiuso in un contenitore perfettamente iso­
lato) . Ma non esiste alcun sistema chiuso del genere anche
11JI.].la natura inanimata, e se l'universo, inteso come un
tutto, sia o no un sistema chiuso in questo senso, nessuno
lo può sapere. Tutti gli organismi viventi però sono
<< sistemi aperti >>, per così dire; essi mantengono la loro
forma complessa e le loro funzioni attraverso continui
scambi di energie e di materie con l'ambiente.1 Invece
di rallentare come un orologio meccanico che dissipa le
sue energie nell'attrito, l'organismo vivo << costruisce >> co­
stantemente sostanze più complesse dalle sostanze di cui
si alimenta, forme di energia più complesse a partire
dalle energie che assorbe, e schemi di informazione (per­
cezioni, sentimenti, pensieri) più complessi a partire da
quello che entra nei suoi organi recettori.
<< L'organizzazione gerarchica da una parte, e le carat­
teristiche dei sistemi aperti dall'altra, sono princìpi fonda­
mentali della natura vivente, e il progresso della biologia
teoretica dipenderà principalmente dallo sviluppo di
una teoria di questi due princìpi >> (2) . Questo è stato
scritto molti anni fa da von Bertalanffy, uno dei pio­
nieri dei nuovi orientamenti in biologia, ma non fu sa­
lutato da molto entusiasmo. L'idea che gli organismi,
a differenza delle macchine, fossero primariamente at-

l . Il termine <• sistema aperto * in questo senso tecnico natural­


mente non ha niente che fare col concetto del regresso all"infinito delle
gerarchie a estremità aperte.

272
tivi invece di essere meramente reattivi, che invece di
adattarsi passivamente al loro ambiente fossero << crea­
tivi nel senso che si fabbricano costantemente nuovi
schemi di struttura e di comportamento )) (Herrick) (3),
era profondamente sgradevole per lo Zeitgeist. Questi
<< sistemi aperti )), capaci di mantenersi indefinitamente
in stato di equilibrio dinamico, suonavano sospetti come
le macchine del moto perpetuo, radiate per sempre da
quella implacabile Seconda Legge. Che questa Legge non
si applicasse alla materia vivente e fosse nella materia
vivente addirittura in un certo senso rovesciata, era vera­
mente duro da accettare da ogni ortodossia, ancora con­
vinta che tutti i fenomeni della vita potessero ridursi,
in ultima analisi, alle leggi della fisica. Fu in effetti un
fisico, non un biologo, il premio Nobel Erwin Schréidinger,
a ricapitolare la posizione nel suo celebre paradosso:
<< Ciò di cui si nutre un organismo è l'entropia negativa )) (4).
Ora l'entropia (<< energia trasformata �) è il nome che de­
signa l'energia degradata, dissipata dall'attrito e da altri
dispendiosi processi, nel moto erratico delle molecole e
che non più essere risalito. In altre parole l'entropia è
una misura del consumo di energia, dell'ordine degradato
in disordine. La seconda legge di Clausius può essere
espressa dicendo che l'entropia di un sistema chiuso tende
sempre a crescere verso un massimo, quando ogni or­
dine sarà svanito come nel movimento caotico delle mo­
lecole di un gas; 1 così se l'universo è un sistema chiuso,
deve alla fine << svolgersi )) da cosmo in caos.
Così l'entropia diventò un concetto-chiave della
scienza orientata meccanicisticamente, il suo alias per
Thanatos, il dio della morte. L'<< entropia negativa ))

l . La parola gas in effetti fu tratta dal greco chaos (da Van Hel­
mont ai primi del ' 600; un tempo la parola veniva collegata al fiam­
mingo geest, « spirito, folletto &) (n.d.t.) .

273
quindi è un modo tipicamente perverso di riferirsi al
potere che ha la vita di << costruire 1> sistemi complessi
partendo da elementi più semplici, schemi strutturati
della informità, l'ordine dal disordine. Egualmente ca­
ratteristico è il fatto che Norbert Wiener, il padre della
cibernetica (vedi p. 143), definì l'informazione come << es­
senzialmente, un'entropia negativa •> (5) . Nella moderna
teoria delle comunicazioni l'entropia è assimilata al << ru­
more 1>, che causa uno sciupio delle informazioni (può
essere il rumore acustico, come il fruscio di fondo del
ricevitore radio, o il << rumore visivo 1> come lo sfarfalla­
mento dell'immagine TV) . Le nostre percezioni allora
diventano << rumori negativi 1>, la conoscenza diventa
ignoranza negativa, il divertimento assenza di tedio, e
cosmos l'assenza di caos. Ma qualunque sia la terminologia,
rimane il fatto che gli organismi viventi hanno la capa­
cità di costruire ordinate, coerenti percezioni, e sistemi
complessi di conoscenza, a partire dal caos di sensazioni
che preme su di loro; la vita assorbe informazioni dal­
l'ambiente, mentre si alimenta delle sue sostanze e sin­
tetizza le sue energie. La stessa incoercibile tendenza a
<< costruire 1> si manifesta nella filogenesi, nei fenomeni
dell'evoluzione mediante iniziativa, nel lento progredire
verso le funzioni più complesse, nell'emergere di nuovi
livelli nella gerarchia organismica e di nuovi metodi di
coordinamento, che hanno per risultato una maggiore
indipendenza dal, e dominio sull'ambiente.
Non dobbiamo sentirei indebitamente sconvolti dal­
l'uso dei negativi nel descrivere questi processi palpabil­
mente positivi, perché questo riflette semplicemente l'in­
conscio timore dello scienziato di cadere nell'eresia del
vitalismo, di ritornare alle entelechie di Aristotile, alle
monadi di Leibnitz o all' élan vital di Bergson. Non ci
sarebbe in verità niente da guadagnare da una romantica
reviviscenza di concetti che soffrono di quella che una

274
volta Whitehead chiamò << concretezza mal riposta i> . Sem­
bra più saggio attenersi a formulazioni più caute e non
compromettenti di tale élan dovute ad empirici induriti,
che si rifiuterebbero tuttavia di credere che la terra è
piatta e che l'evoluzione dalla casualità all'ordine è opera
di eventi casuali. Mi si consenta di aggiungere alla lista
delle citazioni la legge d'evoluzione di Herbert Spencer,
che la intendeva come una << integrazione di materia . . .
d a una omogeneità indefinita e incoerente, per giungere
a una definita e coerente eterogeneità >> (6) . Il biologo
tedesco Woltereck coniò il termine << anamorfosi >> per la
tendenza primaria e ovunque diffusa della Natura verso
l'emergere di forme più complesse; L. L. Whyte lo chiamò
il << principio fondamentale dello sviluppo di uno schema >>; 1
Einstein rigettò il concetto della casualità con il suo
<< rifiuto di credere che Dio giochi a dadi col mondo >>;
Schrodinger fu indotto a postulare l'esistenza di un << io >>
che in ultima analisi << controlla i movimenti degli ato­
mi >> (6b) . In fine, per citare di nuovo von Bertalanffy:
<< secondo la seconda legge della termodinamica la dire­
zione generale degli eventi fisici è verso un decremento
dell'ordine e dell 'organizzazione. In contrasto, nell'evo­
luzione sembra presente una direzione verso un ordine
crescente >>.
Nella presente teoria questo fattore direzionale è chia­
mato la << Tendenza Integrativa >>. Ho cercato di mostrare

l . <• Due principali tendenze in contrasto sono evidenti nei pro­


cessi naturali, l'una verso l'ordine locale, l'altra verso l'uniformità
del 'disordine' generale. La prima si manifesta in tutti i processi dove
una regione d'ordine tende a differenziarsi da un ambiente meno ordi­
nato. Ciò lo constatiamo nella cristallizzazione, nella combinazione
chimica, e nella maggior parte dei processi organici. La seconda ten­
denza si manifesta nei processi di radiazione e diffusione, e conduce
verso un'uniformità di 'disordine' termico. Le due tendenze lavorano
normalmente in direzioni opposte, la prima producendo regioni d'or­
dine di:f{erenziato e la seconda disperdendole •> (Whyte [6�]).

275
che è inerente al concetto di ordine gerarchico e che si
manifesta ad ogni livello, dalla simbiosi degli organuli
dentro alla cellula, fino alle comunità ecologiche e alle
società umane. Ogni olòmero vivente ha la tendenza duale
a preservare e ad asserire la sua individualità tale qual è,
ma al tempo stesso a funzionare come una parte integrata
di un tutto esistente o di un tutto evolventesi.
Questo è quanto penso si possa dire con qualche fi­
ducia. Al di là di ciò, gli inizi della storia evolutiva sono
celati dietro il big bang, la grande esplosione con cui
cominciò l'universo (se cominciò così) o dietro la continua
creazione di materia dal niente (se è così che stanno le
cose) . L'evoluzione, secondo il trito cliché, è un viaggio
da un ignoto punto di partenza verso una destinazione
ignota, un veleggiare attraverso la vastità di un oceano;
ma possiamo almeno redigere la carta della rotta che
ci ha portati dallo stadio di cocomero di mare alla con­
quista della luna; e negare che vi sia un vento che soffia
e fa muovere le vele non è soltanto un'ipotesi avventata,
ma anche un segno di grossolanità metafisica.
Ma sia che noi diciamo che il vento giungendo da un
lontano passato sospinge innanzi il vascello, sia che noi
diciamo che lo trascina verso il futuro, è questione di
convenienza. L'intenzionalità di tutti i processi vitali,
lo sforzo della blàstula per diventare pulcino senza tener
conto degli ostacoli e degli incidenti a cui è esposto, le
improvvisazioni piene di risorse degli animali e degli uo­
mini per raggiungere il bersaglio dei loro sforzi, possono
condurre l'osservatore senza pregiudizi alla conclusione
che l'attrazione del futuro è altrettanto reale, e talvolta
più decisiva, che non la pressione del passato. La pres­
sione può essere confrontata con la forza esercitata da
una molla compressa, l'attrazione a quella di una molla
estesa, avvolte sull'asse del tempo. Nessuna delle due è
pi.ù o meno meccanicistica dell'altra. La fisica moderna

276
sta ripensando le sue idee sul tempo. Se il futuro è com­
pletamente determinato nel senso di Laplace, allora una
descrizione è valida come l'altra. Se è indeterminato nel
senso heisenberghiano, e vi è un fattore incognito ope­
rante all'interno delle bolle d'aria nella corrente della
causalità, esso può essere influenzato dal futuro altret­
tanto che dal passato. Dovremmo cercare di conservare
la nostra disponibilità mentale circa la causalità e la
finalità, anche se lo Zeitgeist distoglie da noi lo sguardo
con corruccio.1

L ' OSCILLAZIONE DEL PENDOLO

Nel suo libro Il concetto di mente (1949) il prof. Gil­


bert Ryle, filosofo di Oxford di stretta osservanza beha­
viouristica, attaccò l'abituale distinzione fra eventi fisici
e mentali chiamando questi ultimi (<< con deliberato abuso 1>
come disse egli) lo << spettro dentro alla macchina 1>. In
seguito, in una trasmissione della BBC, elaborò ulterior­
mente la metafora e lo spettro della macchina diventò
un cavallo dentro alla locomotiva (9) . Il professar Ryle
è un eminente rappresentante della cosiddetta scuola
filosofica di Oxford che, con le parole di uno dei suoi
critici, << tratta il pensiero genuino come una malattia ,>
(Gellner) (10) . Questa curiosa aberrazione filosofica è ora
in declino 2 e andarle adesso a rivedere le bucce solleve­
rebbe le proteste indignate della SPCM (vedi appen­
dice II) . S�nza riguardi per le acrobazie verbali dei beha­
viouristi e dei loro alleati, i problemi fondamentali dello
spirito e della materia, e del libero arbitrio contro il deter­
minismo, sono rimasti per intero in mezzo a noi e hanno

l . È interessante notare che il Waddington in un libro recente


argomenta a favore di una visione <• quasi finalistica ,, (8).
2. Vedi, fra gli altri, Smythies ( I l ) , John Beloff ( 1 2), Gellner ( 1 3)
e Kneale ( 14) .

277
anzi acquistato un'urgenza nuova, non come soggetto
di dibattito filosofico, ma a causa della loro diretta inci­
denza sull'etica politica e sulla morale privata, sulla giu­
stizia criminale, sulla psichiatria e sulla nostra visione
complessiva della vita. Col fatto stesso di negare l'esi­
stenza dello spettro nella macchina - dello spirito che di­
pende dalle, ma è anche responsabile delle azioni del
corpo - incorriamo nel rischio di trasformarlo in un
fantasma molto antipatico e malevolo.
Prima dell'avvento del behaviourismo erano gli psi­
cologi e i logici che insistevano sul fatto che gli eventi
mentali hanno caratteristiche speciali che li distinguono
dagli eventi materiali, laddove i fisiologi erano molto in­
clini ad adottare la veduta materialistica per cui tutti
gli eventi mentali possono essere ridotti all'operazione
del << centralino telefonico automatico )) del cervello. Du­
rante gli ultimi cinquant'anni tuttavia la situazione è
stata quasi completamente rovesciata. Mentre i decani di
Oxford continuavano a ridacchiare sul cavallo della loco­
motiva, uomini che avevano dedicato una vita di lavoro
all'anatomia, alla fisiologia, alla patologia e alla chirurgia
del cervello, si convertirono in misura via via crescente
alla veduta opposta. Che si potrebbe riassumere in un
sospiro di rassegnazione: << Oh, il cervello è il cervello, e
lo spirito è lo spirito, e non sappiamo come i due si uni­
scano )) . Mi sia concesso dare un'illustrazione del tipo di
esperimento che condusse a quella conclusione.
Uno dei maggiori neurochirurghi viventi è Wilder
Penfield della Università McGill, che ha sviluppato nuove
tecniche di sperimentazione sul cervello esposto di pazienti
consenzienti nel corso di un'operazione. Il paziente è
cosciente; gli esperimenti - che sono indolori - consi­
stono nell'applicazione di correnti a basso voltaggio a
punti selezionati sulla superficie della corteccia cerebrale.
Siccome la corteccia è insensibile il paziente è inconsape-

278
vole della corrente stimolante, ma è consapevole dei mo­
vimenti che la corrente lo costringe a eseguire. Ecco la
relazione di Penfield:

<< Quando il neurochirurgo applica un elettrodo al­


l 'area motoria della corteccia cerebrale del paziente ob­
bligandolo a muovere la mano del lato opposto, e quando
chiede al paziente perché ha mosso la mano la risposta
è: ' Io non l'ho mossa. È lei che me l'ha fatta muovere' . . .
Si potrebbe dire che il paziente pensa a se stesso come
se avesse un'esistenza separata dal suo corpo.
Una volta quando avvisai un paziente della mia in­
tenzione di stimolare le aree motorie della corteccia e
lo sfidai a tenere ferma la mano durante l'applicazione
dell'elettrodo, egli la prese con l 'altra mano e cercò di
tenerla immobile. Così una mano sotto il controllo dell'e­
misfero destro azionato da un elettrodo, e l'altra mano
che egli controllava attraverso l'emisfero sinistro, furono
obbligate a lottare l'una con l 'altra. Dietro l"azione ce­
rebrale' di un emisfero c'era lo spirito del paziente. Die-
tro ali' azione d eli' altro emisfero c'era l'elettrodo •> ( 1 5).

Penfield così concluse la sua memorabile comuni­


cazione: 1

<< Vi sono, come vedete, molti meccanismi dimostrabili


(nel cervello). Essi operano, ai fini della mente, automa­
ticamente, quando sono chiamati in gioco . . . Ma qual è
l'agente che chiama in gioco questi meccanismi sceglien­
done uno piuttosto che l'altro ? È un altro meccanismo,
oppure c'è nella mente qualcosa di diversa essenza ? . . .
Dichiarare che queste due cose sono una sola non le
rende tali. Ma blocca il progresso della ricerca >> ( 1 6) .

l . Presentata al simposio « Controllo della Psiche >> (Control of tlte


Mind) al Centro medico dell' Università di California, San Francisco
1961.

279
È interessante comparare la reazione dei pazienti di
Penfield con le reazioni dei soggetti che sono costretti
a portare una suggestione postipnotica: cambiare di
sedia o toccarsi le caviglie o dire (< febbraio )) quando
sentono la parola (< tre )). In entrambi i casi le azioni del
soggetto sono state causate dallo sperimentatore; ma
mentre il soggetto che non sa di stare obbedendo a un
comando postipnotico trova automaticamente una ra­
zionalizzazione più o meno plausibile del suo gesto di
toccarsi la caviglia, i pazienti di Penfield si rendono conto
di obbedire a una costrizione fisica: (< non ho mai avuto
un paziente che dicesse 'semplicemente volevo farlo co­
munque!' )) . Si è tentati di dire che l'ipnotizzatore im­
pone la sua volontà alla mente del soggetto, il chirurgo
unicamente al suo cervello.
Due recenti simposi sul Controllo della mente (1961} (17)
e Cervello ed esperienza cosciente (1966) (18) furono di­
mostrazioni impressionanti dell'oscillazione del pendolo.
Sir Charles Sherrington, forse il più gran neurologo del
secolo, non era più in vita ma il suo modo di avvicinare
il problema mente-corpo fu invocato ripetutamente come
una specie di leit-motiv: (< Che il nostro essere debba consi­
stere di due elementi fondamentali non offre, suppongo,
alcuna maggiore improbabilità intrinseca del fatto che
debba riposare su uno solo . . . Dobbiamo riguardare la
relazione della mente col cervello come qualcosa che è
ancora, non soltanto insoluto, ma privo di base fin dal­
l'inizio )) (19} .

LA SCENA E GLI ATTORI

Tuttavia se quelli della scienza (< della terra piatta ))


hanno clamorosamente fallito la dimostrazione del loro
asserto secondo cui il problema mente-corpo è uno pseudo­
problema, sarebbe egualmente sciocco andare all'altro

280
estremo, e ritornare al crasso dualismo cartesiano. E
non sarebbe neanche il caso di riandare le varie teorie
che sono state avanzate per gettare un ponte sopra la
frattura: interazione, parallelismo, epifenomenalismo, ipo­
tesi di identità e così via.1 Cerchiamo piuttosto se la con­
cezione della gerarchia aperta può gettare luce nuova
su questo antichissimo problema.
Il primo, e al tempo stesso decisivo passo, è romperla
col pensare in termini di dicotomia a due branche spi­
rito-materia, e cominciare a pensare in termini di ge­
rarchia a molti livelli. La materia non è più un concetto
unitario; la gerarchia dei livelli macroscopico, molecolare,
atomico, subatomico ci porta lontano senza tuttavia rag­
giungere la roccia di fondo, finché la materia si dissolve
in schemi di concentrazione di energia e poi forse in ten­
sioni nello spazio. Nella direzione opposta ci troviamo
di fronte la stessa situazione: vi è una serie ascendente di
livelli che conducono dalle reazioni automatiche e semi­
automatiche, attraveso la coscienza e l'autocoscienza,
alla coscienza dell'essere di aver coscienza di se stesso, e
così via, senza mai toccare un soffitto.
La tradizione cartesiana di identificare mente col
pensiero cosciente è profondamente radicata nei nostri
abiti mentali e ci fa costantemente dimenticare il fatto
ovvio, triviale, che la coscienza non è una questione tutto­
o-niente, ma una questione di gradi. Vi è una continua
scala di gradazioni, che si estende dalla incoscienza pro­
vocata da una botta in testa attraverso le forme limitate
di coscienza del sonno senza sogni, del sognare di giorno,
della sonnolenza, degli automatismi epilettici e così via,
fino ai brillanti stati di veglia piena. Questi sono gli stati

l . A parte i simposi sopra menzionati, che accostano il problema


dal punto neurofisiologico, è stato edito di recente un eccellente sim­
posio filosofico sotto il titolo Brain and Mind (Cervello e Psiche) da
J. R. Smythies ( 1 965).

281
generali di coscienza che determinano la quantità di il­
luminamento - più oscuro o più chiaro - dello stadio
a cui ha luogo l'attività mentale. Ma l'estremità inferiore
della scala si estende molto al di sotto del livello umano:
gli etologi che passano la vita a osservare gli animali
si rifiutano di tracciare alla coscienza un limite inferiore,
mentre i neurofisiologi parlano di :< coscienza spinale 1> degli
animali inferiori, e i biologi della << coscienza protopla­
smatlca 1> dei protozoi.l Bergson affermava persino che
<< la incoscienza di una pietra in caduta è qualcosa di
diverso dalla incoscienza di un cavolo che cresce 1>.
Gli stati di coscienza dell'uomo sono facilmente in­
fluenzati da farmaci che alterano il funzionamento ge­
nerale del cervello; ma anche dal tipo di attività in corso
sulla scena, sia che a letto io stia pensando alle pros­
sime vacanze o contando le pecorelle. Così abbiamo la
situazione paradossale di una retroazione che si annoda su
se stessa, in cui le attività dell'attore automaticamente
aumentano o diminuiscono l'intensità luminosa della
ribalta, la quale a sua volta influenza le azioni degli
attori. Il sogno e altri << giochi del sottosuolo 1> obbediscono
a regole d'azione diverse da quelle della scena a luce
piena.
Dobbiamo distinguere però fra questi stati generali
di coscienza - gradi di veglia, fatica, intossicazione,
ebrietà - e il grado di consapevolezza di un'attività speci­
fica. I primi si riferiscono all'<< essere cosciente 1>, il se­
condo all'<< essere cosciente di qualche cosa 1>. I primi cor­
rispondono all'illuminazione generale della scena, il se­
condo al raggio concentrato su un particolare attore.

l . Come i foraminiferi, sopra citati (cap. XI), che costruiscono


microscopiche dimore con le spìcule delle spugne morte, dimore che
lo Hardy chiama << meraviglia di ingegneria, come se fossero costruite
su progetto �. Eppure queste creature monocellulari, naturalmente,
non hanno sistema nervoso.

282
Che i due siano correlati fra loro l'abbiamo già visto.
Ma la coscienza di una particolare attività in corso ha
la propria scala variabile. Nell'uomo questa scala si estende
dalle silenziose attività autoregolantisi delle viscere e
delle ghiandole, dei processi fisiologici dei quali noi siamo
normalmente inconsapevoli, attraverso le percezioni ai
margini della coscienza, alle routines automatizzate che
noi eseguiamo meccanicamente come robot; e finalmente
al concentrarci su un problema dirigendo su di esso il
raggio della coscienza focalizzata: un attore che recita
un monologo sul palco mentre il resto è tuffato nelle
tenebre.

SPOS'fAMENII DI CONTROLLO

Ma siamo ora giunti a un punto importante. Abbiamo


visto (nel cap. VIII) che un'attività e sempre la stessa
- guidare un'auto, per esempio - può essere, secondo
le circostanze, o eseguita automaticamente senza con­
sapevolezza cosciente delle proprie azioni, o accompagnata
da vari gradi di consapevolezza. Guidando su una strada
familiare e tranquilla posso passare il compito al <c pilota
automatico >> del mio sistema nervoso e pensare a qual­
cos'altro. Superare altre vetture su un'autostrada è per
lo più una specie di routine semicosciente; superare in
una situazione intricata richiede piena coscienza di quel
che sto facendo. Queste possibilità in alternativa si appli­
cano non soltanto alle abilità sensorio-motorie come il
guidare, l'andare in bicicletta, lo scrivere a macchina,
il suonare il piano, ma anche alle abilità conoscitive, come
il sommare una colonna di numeri o l' <c abbandonarsi
all'improvvisazione >> nel fare una conferenza, come faceva
l'amico di Lashley (cap. II) .
Sembra che ci siano diversi fattori a determinare la
quantità (eventuale) d'attenzione cosciente da dedicare

283
ad una attività in corso. Dapprima l'acquisizione di
un'abilità mediante l'apprendimento richiede un alto
grado di concentrazione, laddove col crescere della mae­
stria e della pratica la si può lasciare che << badi a se stessa >>;
che è un altro modo di dire che le regole che governano
il comportamento governato da regole - il canone del­
l'abilità - funzionano inconsciamente; e questo si ap­
plica, di nuovo, egualmente alle abilità manipolative,
percezionali e conoscitive. Il processo di condensazione
dell'apprendimento in abito procede continuamente ed
equivale ad una trasformazione continua di attività << men­
tale >> in << meccanica >>, di << processi psichici >> in << pro­
cessi meccanici >>.
Così la consapevolezza può essere descritta in modo
negativo come la qualità che accompagna un'attività
che decresce in proporzione alla formazione dell'abitudine.
La trasformazione in routine di ciò che si è appreso è
accompagnata da un offuscarsi delle luci della coscienza.
C'è da aspettarsi perciò che il processo opposto abbia
luogo quando la routine è disturbata: che questo abbia
a causare un cambiamento dal comportamento << mecca­
nico >> in quello << psichico >>. L'esperienza quotidiana lo
conferma; ma quali sono le implicazioni ?
Le abitudini e le abilità sono olòmeri funzionali, ognuno
con un canone prefissato di regole e con strategie flessi­
bili. Le strategie flessibili implicano scelte fra diverse
alternative. La questione è come avvengano queste scelte.
Le routines automatizzate sono autoregolantisi nel senso
che la loro strategia è guidata automaticamente da re­
troazioni da parte del loro rispettivo ambiente senza ne­
cessità di rinviare le decisioni ai livelli superiori. Operano
con circuiti di retroazione chiusi come servo-meccanismi
o come le apparecchiature controllate da radar per l'at­
terraggio di un aereo. Ho menzionato (p. 144) il ragazzo
in bicicletta e l'acrobata sulla corda, che conservano l'equi-

284
librio con l'aiuto di una pertica di bambù, come esempi
di questa omeostasi cinetica. L'acrobata sulla corda ese­
gue certamente manovre molto elastiche e flessibili ma
che non richiedono decisioni coscienti; la retroazione vi­
siva e c�nestesica fornisce la guida necessaria. Lo stesso
vale per la guida dell'auto, finché non capita niente
d'inatteso come un gatto che attraversa la strada. A
quel momento va fatta una scelta strategica, che è al di
là della competenza della routine automatizzata 1 e deve
essere rinviata alle << superiori autorità )). Questo sposta­
mento del controllo di una attività in corso, da un livello
a un livello superiore della gerarchia, dal comportamento
<< meccanico )) a quello << psichico l>, sembrano della stessa
essenza della presa di decisione consa.pevole e dell'espe­
rienza soggettiva del libero arbitrio. È quello che il pa­
ziente sulla tavola operatoria sperimenta quando cerca
consciamente di bloccare con la mano sinistra il moto
macchinale della sua mano destra e che, come dice Pen­
field, lo induce << a pensare se stesso come un qualcosa
che ha un'esistenza separata da quella del proprio corpo )) .

LA VISIONE SERIALE

Ma a questo punto rischiamo ancora una volta di


cadere nel semplice dualismo cartesiano a due branche.
Il paziente col cervello esposto è naturalmente un caso
eccezionale ed estremo. Il guidatore d'auto che deve
prendere rapidamente una decisione, se travolgere il
gatto o rischiare la sicurezza dei suoi passeggeri, non
pensa che il suo io conduce << un'esistenza separata da
quella del suo corpo )). Quel che accade in momenti di
crisi è un subitaneo spostamento al livello superiore in
una gerarchia a molti livelli, da una prestazione semi-

l . Nel linguaggio dei computers dovremmo dire: « per la quale


non è stata programmata •·

285
automatica ad una più cosciente, il che è un affare
relativo e non assoluto. E qualunque sia la decisione
cosciente, la sua esecuzione, il << processo di articolazione 1>
deve basarsi sulle sottoabilità automatizzate (frenatura,
sterzatura, ecc.) dei livelli inferiori.
<< La consapevolezza - per citare Thorpe, - è un dato
primario dell'esistenza e come tale non può essere de­
finito appieno. . . (20) . Alcune prove sembrano indicare
che ai livelli inferiori [della scala evolutiva] la coscienza,
se esiste, deve essere di tipo molto generalizzato, per
così dire non strutturato, e che, con lo sviluppo del com­
portamento intenzionale e una potente facoltà di atten­
zione, la coscienza, associata con l'aspettazione, diventa
sempre più vivida e precisa 1> (21) .
Quel che sto cercando di dire è che tali gradazioni
di << strutturazione, vividezza e precisione 1> si trovano non
solo lungo la scala dell'evoluzione, ma anche fra i membri
della stessa specie e all'interno dello stesso individuo, a
diversi stadi di sviluppo e in differenti situazioni. Ogni
spostamento << all'insù l) nella gerarchia conduce a stadi
coscienti più vididi e strutturati; ogni spostamento al­
l'ingiù ha l'effetto opposto. Su questo vorrei fare ancora
qualche breve osservazione.
Soltanto una frazione dell'entrata sensoriale nella
corteccia cerebrale raggiunge la coscienza, e, di nuovo,
solo un frazione di questa è messa in rilievo dalla con­
sapevolezza focale. Ma gli impulsi in arrivo che diventano
completamente coscienti hanno già subìto un processo di
trasformazione: certe gamme di onde elettromagnetiche
hanno assunto le qualità soggettive dei colori, le onde
dell'aria le qualità del timbro, e così via. Questo è il primo
passo nel processo seriale di promozione di << eventi fisici 1>
a << eventi mentali 1>, e alcuni filosofi lo considerano il
mistero base, mentre altri sono incapaci di vedere il
problema e sottolineano che le api per esempio percepi-

286
scono anch'esse disegni e colori e che i cani hanno pri­
vati universi di odore. Evaderò deliberatamente da questa
controversia giunta ad un punto morto perché lo stesso
problema sorge a ogni spostamento all'insù nelle gerar­
chie della percezione, del fare, del conoscere. Le vibra­
zioni dell'aria non diventano musica in una sola trasfor­
mazione magica dal fisico al mentale, ma con una intera
serie di operazioni, di astrazione di schemi temporali e
di montaggio degli stessi in schemi più comprensivi su
livelli più alti della gerarchia. L'apprezzamento cosciente
della musica dipende da questo, e il grado di << consape­
volezza musicale )) corrisponde al grado di integrazione
di schemi melodici, armonici, contrappuntistici in un in­
sieme coerente.
Per avere un altro esempio, ritornando alla discus­
sione del cap. II, si consideri come convertiamo le
variazioni della pressione dell'aria in idee e vice­
versa. Capire una lingua dipende da una serie ripe­
tuta di << salti quantici )), per così dire, da un livello della
gerarchia del linguaggio a quello sùbito sopra: i fonemi
possono essere soltanto interpretati sul livello dei mor­
femi, le parole devono riferirsi al contesto, le frasi a un
contesto più grande; e dietro al significato sta l'inten­
zione, l'idea non verbalizzata, il treno di pensieri. Ma
i treni hanno bisogno di ferrovieri per guidarli sul per­
corso. I ferrovieri hanno bisogno di istruzioni. E così
via. Il regresso all'infinito non è un'invenzione dei filosofi .
In una delle storielle di Alfred Hayes 1 l'eroina riflette
sulla catena di avvenimenti che ha condotto alla morte
accidentale del figlio:

<< Perché noi pensiamo sempre alle cose come se capi­


tassero in una sorta di successione. E allora diciamo:

l. The Beach al Ocean View (La spiaggia con vista sull'oceanoj.

287
perché. Pensare al perché spiega. E poi esaminate il per­
ché, come ho fatto io, oh, tante volte da allora, ed esso
si apre e dentro c'è un altro perché più piccolo, un perché
dentro all'altro perché, e tu continui ad aprirli e loro
continuano a schiudersi su altri perché . . . ))
.

Il dualismo classico conosce solo una barriera psiche­


corpo. L'impostazione gerarchica implica una veduta se­
rialistica anziché dualistica. Ognuno, della serie degli
spostamenti all'insù che hanno luogo nell'assimilare la
musica o il linguaggio, equivale al superamento di una
barriera, da stati di coscienza inferiore ad altri superiori.
l/<< articolarsi )) di un'idea è il processo inverso: esso con­
verte degli << aerei nienti )) , per usare l'espressione di Sha­
kespeare, nel movimento meccanico degli organi del lin­
guaggio. Esso pure è effettuato attraverso una serie di
passi, ognuno dei quali fa scattare << meccanismi )) nervosi
predisposti, di tipo via via più automatizzato. L'imma­
gine non verbalizzata, o l'idea che mette in moto il pro­
cesso, appartiene ad un livello più << mentale )), più etereo,
che non il suo incorporarsi in linguaggio; il congegno
invisibile che genera le frasi funziona inconsciamente,
automaticamente, e possiamo trovarci con un << bullone
svitato )} per un'avaria a zone ben definite della corteccia
cerebrale; e l'ultimo passo dell'articolazione dei suoni
del linguaggio viene eseguito da contrazioni muscolati
interamente meccanizzate. Ogni passo all'ingiù comporta
una delega di responsabilità ad automatismi più automa­
tizzati; ogni passo all'insù a processi più mentali di
cerebrazione. La dicotomia spirito-macchina non è lo­
calizzata su una singola frontiera fra l'io e l'ambiente,
ma è presente a ogni livello della gerarchia. È in effetti
una manifestazione del nostro vecchio amico, il bifronte
Giano. Per dirla in altro modo: l'<< articolarsi )) di un'in­
tenzione - si tratti di un'intenzione verbale o si tratti

288
solo di accendere una sigaretta - è un processo di parti­
colarizzazione, di messa in moto di subroutines, di alò­
meri funzionali di carattere parziale, subordinato e au­
tonomo. D'altra parte il rinvio delle decisioni a livelli
superiori, come pure l'interpretazione, la generalizzazione
degli impulsi in arrivo, sono processi integrativi che ten­
dono a stabilire un livello più alto di unità e di integralità
dell'esperienza. Così ogni spostamento all'insù o << salto
quantico )) nella gerarchia rappresenterebbe un movimento
quasi olistico, ogni spostamento all'ingiù una mossa
particolaristica; la prima caratterizzata da una consapevo­
lezza più elevata e da attributi più psichici, l'altra da un
offuscarsi della coscienza e da attributi più meccanicistici.
La coscienza, in questo modo di vedere, è una qua­
lità sopravveniente che si evolve in istati più complessi
e strutturati della filogenesi, come manifestazione finale
della Tendenza Integrativa verso la creazione dell'ordine
dal disordine, della << informazione )> dal << rumore )>. Per
citare un altro eminente neurofisiologo del nostro tempo,
R. W. Sperry (il corsivo è suo) :
<< Prima della prima apparizione nell'evoluzione della
consapevolezza cosciente, l'intero processo cosmico, ci dice
la scienza, era soltanto, come taluno l'ha formulato, 'una
commedia davanti alle poltrone vuote', incolore e muta,
in quanto, secondo la nostra fisica attuale, prima del­
l'avvento dei cervelli non c'erano colori né suoni nell'uni­
verso, né v'era alcun profumo o aroma, e probabilmente
pochissima sensibilità e nessun sentimento od emozione.
Prima del cervello l'universo era anche esente da dolore
ed ansia. . . Non c'è probabilmente in tutta la scienza
alcuna ricerca più importante del tentativo di capire
quei particolarissimi eventi dell'evoluzione da cui i cer­
velli trassero quello speciale trucco che li mise in grado
di aggiungere allo schema cosmico delle cose il colore
il suono il dolore il piacere e tutte le altre facce della
esperienza mentale )) (22).

IO KOESTLER 289
'
L IO DEL VERME PIATTO

Guardando in su - o in dentro - ogni uomo ha la


sensazione che vi è in lui un nucleo di personalità, o
àpice, « che controlla il suo pensare e dirige il raggio
esploratore della sua attenzione 1> (Penfield) ; una sensa­
zione di interezza. Guardando in fuori o in giù, è sol­
tanto consapevole del compito sotto mano, un tipo par­
ziale di consapevolezza, che viene oscurandosi e svanendo,
in ordine discendente, verso l'ombra della routine, poi
nella inconsapevolezza dei processi viscerali, in quella
del cavolo che cresce, e infine della pietra che cade.
Ma nella direzione che va verso l'alto la gerarchia
è egualmente aperta. La personalità, il <c se stesso l) che
dirige il raggio esploratore della mia attenzione non può
mai essere presa dentro il suo fuoco. Anche le operazioni
che generano il linguaggio includono processi che non
possono essere espressi dal linguaggio (p. 55) . È un pa­
radosso vecchio come Achille e la tartaruga, che il sog­
getto sperimentante non possa diventare mai pienamente
oggetto della propria esperienza; nel caso migliore può
realizzare approssimazioni successive. Se l'imparare e il
sapere consistono nel farsi un modello privato dell'uni­
verso,1 ne segue che il modello non può mai includere
un modello completo di se stesso, perché deve sempre
allontanarsi di un passo dal processo che si suppone rap­
presenti. Con ogni spostamento all'insù della consape­
volezza verso l'apice della gerarchia - la personalità,
il se stesso, come un tutto integrato - questo apice
recede come un miraggio. <c Conosci te stesso 1> è il più
venerabile e il più tantalizzante dei comandi.

l . Vedi CRAIK, The Nature of Explanation (Natura della spiega­


zione) ( 1 943), una delle pietre angolari della moderna teoria delle co­
municazioni.

290
D'altra parte la pur limitata, incompleta capacità del­
l'uomo a raggiungere la coscienza di sé lo mette in una
categoria separata da quella degli altri esseri viventi.
Animali umili come il verme piatto dànno chiaramente
segni di attenzione e di aspettazione, che potrebbero
essere chiamate primitive forme di coscienza; i primati
e gli animali domestici possono avere anche essi rudimenti
di autocoscienza; ma l'uomo occupa un picco solitario.
Ora abbiamo veduto (cap. IV) che se un verme piatto
si taglia di traverso in sei segmenti, ognuno di essi è ca­
pace di rigenerarsi in animale completo, cosicché il dua­
lista classico presumerebbe che la sua psiche o anima
si è spaccata in sei << anìmule )) (p. 100) . Nella presente
teoria però la personalità e la mente non sono considerati
entità separata, un intero in senso assoluto; ma ognuno
dei suoi olòmeri funzionali della gerarchia a molti livelli
- dalle regolazioni viscerali agli abiti conoscitivi - lo
si considera munito in certa misura di individualità, con
gli attributi, bifronti come Giano, di parzialità e di inte­
rezza; il grado della loro integrazione in personalità uni­
ficata varia con le circostanze, ma non è mai assoluta.
La totale consapevolezza della seità, l'identità del cono­
scitore e del conosciuto, anche se mai persa di vista,
non è mai attuata. Potrebbe esserlo soltanto al picco
della gerarchia, che è sempre lontano di un passo dallo
scalatore.
Da questo punto di vista non è più assurdo presu­
mere che i frammenti del verme, i cui tessuti sono ritor­
nati nella condizione dell'embrione in crescita, abbiano
cominciato daccapo a costruire una gerarchia mente-corpo,
forse persino con la concomitante oscura consapevolezza
di sé. Se la coscienza è una qualità che emerge, il brutto
paradosso dell'<< anìmula )) - implicito in ogni filosofia
orientale e platonica - cessa di esistere.

291
Il lento emergere della consapevolezza nella filoge­
nesi si riflette in qualche misura nell'ontogenesi. Nel
precedente capitolo ho citato Piaget e Freud circa il fluido
mondo d'esperienza del neonato, che ancora non conosce
alcun confine fra sé e non-sé. In una serie di classici studi
il Piaget ha mostrato che lo stabilirsi di tale confine è
un procedimento graduale, e che soltanto intorno all'età
di 7-8 anni il bambino medio diventa pienamente consa­
pevole della propria separata identità personale. (< Quel
particolare ingrediente dell'io [l'autocoscienza] deve essere
costruito mediante l'esperienza >> commentò Adrian (23) .
Ma non c'è termine a questo processo di costruzione.

LA S'!RADA DELLA LIBERTÀ


Ho paragonato i suoi stadi successivi a una sene
matematica infinita convergente verso l'unità,1 o a una
curva a spirale che converge verso un centro che essa rag­
giungerà soltanto dopo un numero infinito di involuzioni.
Ma la ricerca di se stesso è un passatempo abbastanza
astratto dei filosofi e degli psicologi del profondo; per i
comuni mortali assume importanza soltanto dove sono
coinvolte le decisioni morali o il sentimento della respon­
sabilità circa le proprie azioni passate, in altre parole
il problema del libero arbitrio. L'enigma sull'agente che
dirige i propri pensieri, e sull'agente che sta dietro a
quell'agente, tormenta un uomo solo quando si sente
in colpa per i propri sciocchi o peccaminosi o oziosi pen­
sieri, o azioni.

8. La . .
sene pm. sempl'1ce d'1 questo bpo è : S
. =
( -l -l + -l
+ +
l 2 4 8
l ) dove n deve avvicinarsi all'infinito per una somma
+ 16 + . + n..
S tendente all'unità.

292
Amo immaginare un dialogo che si potrebbe svolgere
alla << tavola alta 1> in un college di Oxford, fra un anziano
cattedratico di convinzioni strettamente deterministiche,
e un giovane ospite australiano dal temperamento pnvo
d'inibizioni. L'australiano esclama:

<< Se lei continua a negare che io sono libero nelle


mie decisioni le darò un pugno sul naso ! 1>.
Il vecchio arrossisce: << Deploro la sua imperdonabile
condotta 1>.
<< Chiedo scusa; ho perso le staffe 1>.
<< Lei dovrebbe davvero imparare a controllarsi 1>.
<< Grazie. L'esperimento è stato concludente l) .

Lo era davvero. << Imperdonabile 1>, << dovrebbe 1> e


<< controllarsi 1>, sono tutte espressioni che implicano che
il comportamento dell'australiano non era determinato
dall'eredità-più-ambiente; che egli era libero di scegliere
se essere educato o villano. Quali che siano le nostre
convinzioni filosofiche, nella vita d'ogni giorno è impossi­
bile andare avanti senza un'implicita fede nella responsa­
bilità personale; e responsabilità implica libertà di scelta.
Se posso citare quel che ho scritto molto tempo fa,
quando ero ancora interessato essenzialmente alle im­
plicazioni politiche del problema:

<< Sono ora le sei del pomeriggio, ho appena finito un


bicchiere e sento una forte tentazione di farmene un
altro paio, e poi di andare a cena fuori, invece di scri­
vere questo saggio. È da un quarto d'ora che mi com­
batto su questo punto, e alla fine ho chiuso a chiave
il gin e il vermut nel bar e mi sono riseduto a tavolino
sentendomi molto soddisfatto di me stesso. Da un punto
di vista deterministico questa soddisfazione è intera­
mente spuria, dal momento che la soluzione era già fis­
sata prima che io cominciassi a combattere con me stesso;

293
era anche fissato che io dovessi sentire questa spuria
soddisfazione e scrivere quel che scrivo. Naturalmente
nel profondo del cuore io non credo che le cose . stiano
così, e certamente non ci credevo un quarto d'ora fa.
Se lo avessi creduto il processo che io chiamo 'lotta in­
teriore' non avrebbe avuto luogo, e la fatalità mi sa­
rebbe servita di scusa perfetta per andare avanti a bere.
Così il mio non credere al determinismo deve essere con­
tenuto nell'insieme di fattori che determinano il mio
comportamento; una delle condizioni per compiere il
disegno predisposto è che non devo credere che è predi­
sposto. Il destino può vincerla soltanto forzandomi a
non credere in esso. Cosi il concetto stesso di determi­
nismo condanna un uomo a vivere in un mondo dove
le regole di condotta sono basate su dei come se e le regole
della logica sui perché.
Il paradosso non è confinato al determinismo scienti­
fico; il musulmano, vivendo in un mondo di determinismo
religioso, presenta la stessa frattura mentale. Pur cre­
dendo secondo le parole del Corano che 'il destino di ogni
uomo è legato al suo collo', tuttavia maledice il suo ne­
mico e se medesimo quando sbaglia, come se tutti fossero
padroni della loro scelta. Si comporta, sul suo livello,
esattamente come il vecchio Carlo Marx che insegnava
che la struttura mentale di un uomo è un prodotto del
suo ambiente, eppure scagliava invettive su chiunque,
in obbedienza al suo condizionamento ambientale, non
potesse fare a meno di non trovarsi d'accordo con lui >> (24).

L'esperienza soggettiva della libertà è un << dato >>,


non meno di una sensazione di colore o del sentimento
del dolore. È la sensazione di fare una scelta non obbli­
gata, non inevitabile. Sembra funzionare dall'interno
verso l'esterno, originandosi nel nocciolo della personalità.
Persino gli psichiatri della scuola deterministica con­
sentono che l'abolizione dell'esperienza di avere una vo­
lontà propria conduce al collasso l'intera struttura men-

294
tale del paziente. Non è tuttavia questa esperienza basata
su un'illusione ?
La maggioranza dei partecipanti al simposio su << Cer­
vello ed esperienza cosciente 1> menzionato prima erano
dell'opinione opposta. Uno degli interlocutori, il pro­
fessor MacKay, teorico delle comunicazioni ed esperto
di computers, che ci si aspetterebbe inclinasse verso una
concezione meccanicistica, concluse il suo intervento come
segue (i corsivi sono suoi) : << La no5tra credenza di essere
normalmente liberi nel fare le nostre scelte, lungi dal­
l'essere confutabile, non ha valida alternativa dal punto
di vista anche della più deterministica fisica preheisen­
berghiana . . . 1> 1 (25}. MacKay basò questa argomentazione
in parte sul principio di indeterminazione della fisica
moderna, ma specialmente su un paradosso logico a cui
ho già alluso; determinismo implica predicibilità di com­
portamento, il che significa che un computer ideale,
a cui siano stati forniti tutti i dati rilevanti intorno a
me, potrebbe predire quello che io sto per fare; ma questi
dati dovrebbero includere la mia stessa credenza che io
sono libero, dato che a sua volta dovrebbe essere for­
nito al computer. A questo punto l'argomentazione di­
venta altamente tecnica e devo rinviare il lettore all'in­
tervento originale.
Ma gli argomenti tratti dalla logica e dalla epistemo­
logia mi sembrano un po' meno convincenti della vi­
sione gerarchica del problema. I canoni prefissati che
governano le attività di un olòmero gli lasciano un certo
numero di scelte in alternativa. A livello viscerale queste
scelte vengono fatte dai circuiti retroattivi chiusi della
regolazione omeostatica. Ma su livelli superiori la varietà

l . Il Principio di Incertezza o di Indeterminazione di Heisenberg,


uno dei fondamenti della fisica moderna, propone che sul livello del
quanto non possa più applicarsi il determinismo stretto.

295
delle scelte aumenta con crescente complessità; e la deci­
sione dipende sempre meno dai circuiti chiusi e dalle
routines stereotipate. Confrontate il gioco della tavola­
mulino con quello degli scacchi. In entrambi i casi la
mia scelta della mossa seguente è << libera 1> nel senso che
non è determinata dalle regole fisse del gioco. Ma mentre
la tavola-mulino offre soltanto poche scelte alternative,
determinate da semplici, quasi automatiche strategie,
lo scacchista in gamba è guidato nelle decisioni da pre­
cetti strategici su un livello molto più alto di comples­
sità; e questi precetti hanno un margine anche più grande
di incertezza. Essi formano una delicata, precaria ra­
gnatela di pro e di contro. È questo spostamento all'insù
verso livelli superiori che fa della scelta una scelta
cosciente; ed è il delicato equilibrio dei pro e dei contro
a fornire il soggettivo profumo della libertà.
Dal punto di vista oggettivo il fattore decisivo mi
sembra questo: i << gPadi di libertà 1>, nel senso usato dal
fisico, aumentano in ordine ascendente. Così quanto più
alto è il livello a cui è rinviata la decisione, tanto meno
prevedibili sono le scelte; e le decisioni ultime riposano
sull'apice, ma l'apice stesso non riposa. Continua a re­
cedere. Il << se stesso 1> che ha la responsabilità ultima
delle azioni di un uomo non può essere mai colto nel
raggio focale della propria coscienza, e conseguente­
mente le sue azioni non possono mai essere predette dal
perfetto computer per quanti dati vi siano immessi: perché
dati saranno necessariamente sempre incompleti. l Alla

l . Ciò si ricollega alle argomentazioni del MacKay ed anche alla


proposta di Karl Popper (26) secondo la quale nessun sistema d'infor­
tnazioni (quale una macchina calcolatrice) può incorporare entro di sé
una rappresentazione aggiornata di se stessa, inclusa tale rappresenta­
zione. Un'argomentazione in qualche modo simile è stata avanzata
da Michael Polanyi sull'indeterminatezza delle condizioni di confine
dei sistemi fisio-chimici (27).

296
fine essi condurranno di nuovo ad una serie infinitamente
regressiva di circuiti entro ai circuiti e di perché dentro
ai perché.

UNA SPECIE DI MASSIMA

Se rivolgiamo indietro i nostri passi e muoviamo


all'ingiù lungo la gerarchia, la decisione spetta alle rou­
tines semiautomatiche e poi a quelle completamente auto­
matiche e a ogni spostamento del controllo a livelli in­
feriori diminuisce l'esperienza soggettiva di libertà, in­
sieme con un progressivo oscurarsi della consapevolezza.
L'abitudine è nemica della libertà; la meccanizzazione
delle abitudini tende verso il rigor mortis del pedante
robotizzato (cap. VIII) . Le macchine non possono diven­
tare simili a uomini, ma gli uomini possono diventare
simili a macchine.
Il secondo nemico della libertà è la passione, o, più
specificamente, la classe delle emozioni autoassertive:
fame, rabbia, paura, violenza sessuale. Quando si de­
stano, il controllo delle decisioni è assunto da quei pri­
mitivi livelli della gerarchia che i vittoriani chiamavano
<< la Bestia che è in noi l), e che sono infatti collegati alle
strutture filogeneticamente più antiche del sistema ner­
voso (vedi sotto, cap. XVI) . La perdita di libertà ri­
sultante da questo spostamento all'ingiù dei controlli
si riflette nei concetti legali di << ridotta responsabilità l) e
nel sentimento soggettivo di agire sotto costrizione: << Non
ho potuto farne a meno . . . l), << Ho perduto la testa l>, << Devo
essere stato fuori di senno l). È ancora una volta il prin­
cipio di Giano. Guardando all'insù o in dentro verso l'ir­
raggiungibile cuore da cui le mie decisioni sembrano ema­
nare, mi sento libero. Guardando nell'altro senso c'è il
robot o la bestia. È a questo punto che sorge il di­
lemma morale del giudicare gli altri. Come posso sapere

297
se o in che misura la sua responsabilità era diminuita
quando agì come agì, e se poteva << farne a meno )) ? Costri­
zione e libertà sono estremi opposti di una scala graduata;
ma non c'è alcun indice annesso alla scala perché io possa
leggerla. L'ipotesi più sicura è assegnare all'altro un mi­
nimo di responsabilità e un massimo a noi stessi. C'è
un vecchio adagio francese: << Tout comprendre c'est tout
pardonner l). In base alla proposta che precede dovrebbe
essere così modificato: << Tout comprendre, ne rien se
pardonner l): capire tutto, non perdonarsi niente. La
massima ha un'aria di umiltà morale combinata con
arroganza intellettuale. Ma è relativamente sicura.

LA GERARCHIA APERTA

Mentre le emozioni autoassertive restringono il campo


della consapevolezza (la passione non è << cieca l) ma ha
i paraocchi), le emozioni autotrascendenti lo estendono
finché la personalità sembra dissolversi nel << sentimento
oceanico l) della contemplazione mistica o dell'incanto
estetico. Le emozioni autoassertive tendono a costrin­
gere la libertà di scelta; le emozioni autotrascendenti
tendono verso la libertà dalla scelta nella pace che << sor­
passa ogni intelletto l).
Questo spersonalizzarsi della persona, questo << disseiz­
zarsi l) del sé, sembra essere l'opposto della ricerca della
totale consapevolezza di se stesso. Nella letteratura del
misticismo tuttavia essi appaiono strettamente legati.
Lo scopo di Hatha Voga, per esempio, è conseguire un
superiore livello di autocoscienza ponendo sotto volon­
tario controllo i visceri e i singoli muscoli. Ma queste
pratiche sono considerate soltanto come un mezzo rispetto
al fine di raggiungere uno stato di << pura coscienza senza
oggetto o contenuto, altro che la coscienza medesima )).1

l. Vedi The Lotus and the Robot, parte I.

298
In questo stato il transitorio io individuale si pensa che
entri in una specie di osmosi spirituale con l' Atman, lo
spirito universale, e che vi si fonda. Altre scuole mistiche
tentano di raggiungere lo stesso scopo per vie diverse;
ma tutte sembrano d'accordo nel pensare che la conquista
del sé è un mezzo per trascenderlo.
Mi rendo conto che in questo capitolo mi sono la­
sciato andare a qualche grossissima petizione di principio.
Non ho tentato di definire la coscienza, che essendo la
premessa di ogni attività mentale non può essere definita
da tale attività; e sono d' accordo con MacKay che << la
mia propria coscienza è un dato primario che sarebbe
insensato mettere in dubbio perché è la piattaforma su
cui il mio stesso dubbio si costruisce ,> (28) .
Non sappiamo dire che cos'è la coscienza, ma pos­
siamo dire se ce n'è più o meno, e anche se è di tes­
suto grosso o raffinato. È una qualità emergente, che
evolve verso livelli più alti di complessità ed è insepara­
bilmente collegata alle attività del cervello. Il dualismo
classico considerava le attività mentali e corporee come
categorie diverse; i monisti illuminati le considerano
aspetti complementari dello stesso processo; ma questo
ci lascia pur sempre col problema su come sono collegate
le due cose. La concezione gerarchica trasforma questa
distinzione assoluta in una distinzione relativa, sosti­
tuisce la teoria dualistica (o del doppio aspetto) con una
ipotesi serialistica, in cui << mentale )) e << meccanico )) sono
attributi relativi, la dominanza dell'uno o dell'altro de­
rivando da un cambio di livelli. Questo lascia ancora sus­
sistere una folla di problemi insoluti ma almeno pone
qualche questione nuova. Potrebbe fornire per esempio
un nuovo approccio per studiare i fenomeni della perce­
zione extrasensoriale come un livello emergente di con­
sapevolezza sovraindividuale, o, in alternativa, come una

299
versione più primitiva di consapevolezza (( psicosimbio­
tica 1>, precedente l'autocoscienza che l'evoluzione ha ab­
bandonato in favore di quest'ultima; ma questo è un
argomento che esula dall'ambito di questo libro. I colle­
gati concetti della ((gerarchia ad estremità aperte 1> e del
(( regresso all'infinito 1> sono state un leit-motiv ricorrente
in queste pagine. Alcuni scienziati disdegnano il concetto
del regresso all'infinito perché ricorda loro l'omettino
dentro all'omettino dentro l'omettino, e i faticosi para­
dossi della logica come quello del bugiardo cretese. Ma
c'è un altro modo di considerarli. La coscienza è stata
paragonata ad uno specchio in cui il corpo contempla
le proprie attività. Sarebbe forse un'approssimazione più
ravvicinata confrontarla a quel tipo di Palazzo degli
Specchi dove uno specchio riflette il proprio riflesso in
un altro specchio e così via. Non possiamo sottrarci
all'infinito. Esso ci fissa in volto sia che noi guardiamo
agli atomi o alle stelle. Né ai perché che stanno dietro
ai perché, allungandosi all'indietro attraverso l'eternità.
La scienza della terra piatta non sa che farsene, più di
quanto i teologi della terra piatta non sapessero nelle
età oscure; ma una vera scienza della vita deve lasciare
che l'infinito entri, e non perderlo mai di vista. In due
libri precedenti (29) ho cercato di dimostrare che attra­
verso le varie epoche i grandi innovatori della storia e
della scienza sono stati sempre consapevoli della tra­
sparenza dei fenomeni su un diverso ordine di realtà, della
presenza dappertutto del fantasma dentro la macchina,
anche una macchina semplicissima come una bussola
magnetica o una bottiglia di Leida. Una volta che lo
scienziato perde questo senso del mistero può essere un
tecnico eccellente ma cessa di essere un dotto. Uno dei
più grandi di ogni tempo, Louis Pasteur, ha compendiato
il fatto in una delle mie citazioni favorite:

300
<c Vedo dovunque nel mondo l'inevitabile espressione
del concetto di infinito . . . L'idea di Dio non è niente di
più di una forma della idea dell'infinito. Finché il mi­
stero dell'infinito peserà sulla mente umana fino allora
saranno alzati templi al culto dell'infinito, sia che lo si
chiami Brahma, Allah, Geova o Gesù . . . I Greci com­
presero il misterioso potere del lato celato delle cose.
Ci lasciarono in eredità una delle parole più belle della
nostra lingua -la parola entusiasmo - en theos - un
dio di dentro. La grandezza delle azioni umane si mi­
sura con l'ispirazione da cui sorgono. Felice è colui che
porta un dio dentro di sé e gli obbedisce. Gli ideali del­
l'arte, della scienza, sono illuminati dal riflesso dell'in­
finito,> (30).

È questo un credo che si è lieti di condividere, e una


conclusione appropriata a questa parte del libro.
Ho cercato di spiegare in essa i princìpi generali di
una teoria del sistema gerarchico aperto (OHS) come
un'alternativa alle teorie ortodosse correnti. È essen­
zialmente un tentativo di riunire e di dar forma in una
cornice unificata a tre esistenti scuole di pensiero, nes­
suna delle quali nuova. Possono essere rappresentate da
tre simboli: l'albero, la candela e il timoniere. L'albero
simbolizza l'ordine gerarchico. La fiamma della candela
che scambia continuamente il materiale e tuttavia con­
serva il suo disegno stabile è l'esempio più semplice di
un <c sistema aperto l). Il nocchiero rappresenta il con­
trollo cibernetico. Aggiungete a questi le due facce di
Giano rappresentanti la dicotomia di parzialità e com­
pletezza, e il segno matematico dell'infinito (un otto co­
ricato) e avrete una versione a fumetti della teoria OHS.
I lettori meno inclini al pittoresco sono di nuovo rinviati
al sommario dei princìpi della Appendice I.
Dobbiamo ora passare dall'ordine al disordine, alla
nemesi dell'uomo, e tentare di diagnosticarne le cause.

301
PARTE TERZA

IL DISORDINE
XV l La nemest dell'uomo

Come cenci impuri son le nostre giustizie.


ISAIA, LXIV

La postulata polarità dei potenziali integrativi opposti


a quelli autoassertivi nei sistemi biologici e sociali è fon­
damentale per la presente teoria. Essa consegue logica­
mente dal concetto di ordine gerarchico, da quella ve­
nerabile verità lapalissiana che sembra così ovvia e si
dimostra così fertile se ci prendiamo il disturbo di ela­
borarne le implicazioni.
Il potenziale integrativo di un olòmero lo fa compor­
tarsi come parte di un'unità più grande e più complessa;
il suo potenziale autoassertivo lo fa tendere a compor­
tarsi come se fosse esso medesimo un tutto autocontenuto
e autonomo. In ogni tipo di gerarchia che abbiamo di­
scusso, e ad ogni livello di tale gerarchia, abbiamo tro­
vato questa polarità riflessa in una coincidentia opposi­
torum. Questo si manifesta talora in fenomeni apparen­
temente paradossali che hanno originato fra i biologi
aspre controversie, perché la maggiore evidenza dell'una
o dell'altra delle opposte tendenze dipendeva dalle con­
dizioni dell'esperimento. Nello sviluppo embrionale per
esempio un tessuto cellulare può mostrare proprietà
<< regolative 1> e proprietà << musive 1> a stadi differenti.
Nei corpi sociali la dicotomia fra cooperazione e compe­
tizione è fin troppo ovvia: dalle ambivalenti tensioni

305
in seno a una famiglia alla angosciosa coesistenza delle
Nazioni Unite. Dobbiamo ora rivolgerei ai suoi effetti
paradossali e profondamente disturbanti sul comporta­
mento emozionale dell'individuo.

LE TRE DIMENSIONI DELL' EMOZIONE

Le emozioni sono stati mentali accompagnati da in­


tenso sentimento e comportanti alterazioni somatiche di
carattere molto esteso. Sono anche state descritte come
<< spinte surriscaldate )). Un tratto cospicuo di tutte le
emozioni è il sentimento di piacevolezza o di spiacevo­
lezza che è loro collegato, chiamato usualmente il loro
<< tono edònico )). Freud pensava che il piacere derivi
dalla << diminuzione, abbassamento o estinzione dell'ec­
citazione psichica )) e il << dis-piacere (Unlust, disagio,
malessere, in quanto distinto dalla sofferenza fisica) da
un suo aumento )) (l) .
Questo è naturalmente vero per quanto riguarda la
soddisfazione o frustrazione di urgenti bisogni biologici.
Ma è patentemente inesatto nel tipo d'esperienza che noi
chiamiamo eccitamenti gradevoli o thrill. I preliminari
che precedono l'atto sessuale causano certamente un
<< aumento della quantità di eccitazione )) e dovrebbero
perciò essere sgradevoli, ma la prova mostra che non
lo sono. Non c'è risposta soddisfacente in nessuna parte
delle opere di Freud a questa obiezione che è banale in modo
imbarazzante.1 Nel sistema freudiano la spinta sessuale
è essenzialmente qualcosa di cui ci si deve disfare, me­
diante consumazione o sublimazione; il piacere deriva non
dal suo perseguimento ma dallo sbarazzarcene.

l. Per una discussione particolareggiata dell'atteggiamento di Freud


nei riguardi del piacere, vedi lo Schachtel (2).

306
La scuola behaviouristica, da Thorndike a Hull, as­
sunse un atteggiamento simile; riconobbe soltanto un
tipo fondamentale di motivazione, e questa di carattere
negativo: << la riduzione di spinta >> cioè la diminuzione
delle tensioni derivanti dai bisogni biologici. In fatto
tuttavia la ricerca sulla << privazione di stimolo >> (intrapresa
per studiare le reazioni dei viaggiatori nello spazio alle
lunghe ore trascorse in un ambiente monotono) ha rivelato
che l'organismo ha bisogno di un flusso continuo di sti­
molazione, che la sua fame d'esperienza e la sua sete
di eccitazione sono probabilmente altrettanto fondamentali
della fame e della sete pure e semplici. Come disse in rias­
sunto il Berlyne: << Gli esseri umani e gli animali supe­
riori passano la maggior parte del loro tempo in uno
stato di agitazione relativamente elevato e . . . si espongono
a situazioni di stimolo agitativo con grande avidità >> (3) .
Dopo il pane i circensi sono sempre i primi della lista.
In effetti l' Unlust - disagio, frustrazione, ecc. -
non è causata da un aumento della eccitazione come
tale; sorge quando una spinta si trova bloccato lo sfogo;
o quando la sua intensità è a tal punto accresciuta che gli
sbocchi normali sono insufficienti; o per entrambe le
ragioni. Un moderato surriscaldamento può essere sentito
come un eccitamento piacevole mentre si anticipa o im­
magina l'atto della consumazione. La scomodità fisica
degli sport più impegnativi è accettata prontamente
per la piacevole anticipazione della ricompensa, la
quale può essere nulla di più sostanziale di un semplice
senso di compimento e conclusione. La frustrazione si
cambia in sollievo nel momento in cui ci si rende conto
che il bersaglio è vicino, a portata, cioè, molto prima che
abbia inizio l'effettivo processo di soddisfacimento della
spinta. Inoltre ci sono delle emozioni vicarie derivanti
dalla parziale identificazione con un'altra persona o con
l'eroina dello schermo; le quali emozioni sono soddisfatte

307
da ricompense vicarie; l'atto di consumazione è vissuto
in fantasia, in comportamento interiorizzato anziché aperto.
Così il << tono edonico'> dipende da parecchi fattori, e
potrebbe essere descritto come un rapporto di retroazione
(feedback) sul progredire o no della spinta verso il suo
reale e anticipato, o immaginario, bersaglio.
Le emozioni possono essere classificate secondo la
loro fonte, cioè la natura della spinta che dà loro origine:
fame, sesso, curiosità, cura dei propri nati e così via.
Un secondo fattore da prendere in considerazione è il loro
dosaggio di piacere e dispiacere. Per usare una analogia
grossolana ma utile, confrontiamo il nostro sistema emo­
zionale con una taverna in cui c'è una certa varietà di
rubinetti, ognuno dei quali fornisce un diverso tipo di
bevanda; questi vengono aperti e chiusi quando sorge il
bisogno. Allora ogni rubinetto rappresenterebbe una di­
versa spinta e il tasso di piacere sarebbe rappresentato
dalla portata del flusso, che può essere bello e liscio o
impedito da ingorghi d'aria, o da una pressione a monte
eccessiva o troppo scarsa.
Veniamo ora a un terzo fattore: il grado di tossicità
di ciascuna bevanda. La tendenza autoassertiva, aggres­
sivo-difensiva, che entra in una emozione data sarà sim­
bolizzata dal suo tenore alcoolico tossico; la tendenza
autotrascendente dal suo contenuto in liquido neutro e
rifocillante. Arriviamo cosi a una tridimensionale con­
cezione delle emozioni. Il primo fattore è la natura della
sua fonte, rappresentata da un singolo rubinetto; il se­
condo è il suo tono edonico: tasso di flusso; la terza
è la sua proporzione di autoasserzione e di trascendenza
di sé. È di questo terzo aspetto che ci occuperemo spe­
cialmente.
Una delle difficoltà che assediano questo soggetto è
il fatto che noi di rado sperimentiamo un'emozione pura.
Il taverniere tende a mescolare il contenuto dei rubi-

308
netti: il sesso può combinarsi con la curiosità e virtual­
mente con ogni altra spinta. Il tono edonico tende anch'esso
all'ambivalenza; l'anticipazione può rendere piacevole
l'effettivo disagio, e la componente inconscia della spinta
può dare origine a sentimenti che cambiano un segno
più in un segno meno; la sofferenza provata dal maso­
chista su un livello di coscienza può essere sperimentato
come piacere su un altro livello. Ma ci troviamo di fronte
anche a un terzo tipo di ambiguità. Lasciando da parte
gli estremi della furia cieca da un lato e della trance
mistica all'altra estremità dello spettro, la maggior parte
dei nostri stati emotivi presenta combinazioni parados­
sali delle due tendenze di base.
Si prenda una spinta instintuale come la cura della
prole, condivisa virtualmente da tutti i mammiferi ed
uccelli. Quali che siano le emozioni a cui questo istinto
dà origine negli animali (e alcune delle loro manifesta­
zioni sono piuttosto paradossali), nell'uomo esse prendono
certamente una forma spesso disastrosamente ambiva­
lente. Il figlio è considerato dal genitore come sua << carne
e sangue l), un legame biologico che trascende le fron­
tiere dell'io; ma al tempo stesso le madri ultraprotettive
e i padri autoritari sono esempi classici di autossertività.
Se passiamo dall'amore parentale all'amore sessuale
troviamo di nuovo presenti entrambe le tendenze: da
un lato, impulsi all'aggressione, la dominazione, il soggio­
gamento; dall'altro, alla simpatia e alla identificazione.
La miscela varia dallo stupro alla venerazione platonica,
a seconda del grado di tossicità.
La fame è una spinta biologica apparentemente sem­
plice, che non ci si aspetterebbe quasi che origini emo­
zioni complesse ed ambivalenti. I denti sono simbolo di
aggressione; mordere, dilaniare, attaccare e sbranare il
cibo sono unilaterali, crude manifestazioni di autoasser­
tività. Ma nell'atto di prendere cibo vi è un altro aspetto,

309
coliegato alla magìa e alla religione primitiva. Potrebbe
essere chiamato simpatia per ingestione. Nel nutrirsi
della carne dell'animale, dell'uomo o del dio ucciso ha
luogo un atto di transustanziazione; le virtù e la sapienza
della vittima vengono ingerite e si stabilisce una sorta
di comunione mistica. I costumi e i rituali variano; ma
il principio è sempre stato quello di un trasferimento di
qualche specie di sostanza spirituale fra il dio, l'animale
e l'uomo, sia che il popolo in questione sia rappresentato
dai primitivi aborigeni australiani, dai civilissimi Az­
techi messicani o dai Greci a livello del culto dionisiaco.
Nella versione più significativa della leggenda Dioniso
viene fatto a brani e divorato dai malvagi Titani, che
a loro volta vengono uccisi dal fulmine di Zeus; l'uomo
nasce dalle loro ceneri, erede della loro empietà ma anche
della carne divina. Tramandata attraverso il culto dei
misteri orfici la tradizione di consumare la carne e il
sangue del dio sbranato entrò in forma sublimata e sim­
bolica nei riti del Cristianesimo. Persino nel Cinquecento
la chiesa luterana scomunicava coloro che negavano la
dottrina della transustanziazione, la presenza fisica del
sangue e del corpo di Cristo nell'ostia consacrata. Per il
devoto la santa comunione è l'esperienza suprema del­
l'autotrascendenza; ed è col più grande rispetto che si
sottolinea la ininterrotta tradizione che collega l'ingestione
con la transustanziazione come mezzo per spezzare i con­
fini dell'io.
Echi di questa antica comunione sopravvivono nei
vari riti della commensalità: pranzi di battesimo e pranzi
funebri, offerte simboliche del pane e del sale, il tabù in­
diano circa il mangiare in compagnia di gente di casta
differente. L'erotismo orale, e curiose espressioni, come
<< amore divorante >>, che si trovano in molte lingue, stanno
anch'essi a ricordare che, anche quando mangia, l'uomo
non vive di solo pane; e che anche l'atto apparentemente

310
più semplice di autoconservazione può contenere una com­
ponente di autotrascendenza.
E, viceversa, assistere i malati o i poveri, proteggere
gli animali contro la crudeltà, servire in comitati, dedi­
care il proprio tempo al lavoro sociale, sono imprese am­
mirevolmente altruistiche e spesso meravigliose valvole
di sfogo al bisogno di comandare e alla autoasserzione,
anche se incoscienti. L'aria di famiglia che esiste fra le
dame patronesse e i sergenti maggiori, fra i chirurghi e
le dive, fra i benefattori e i capitani delle squadre di
calcio, testimonia della interminabile varietà di combina­
zioni in cui possono entrare le tendenze integrative e
autoassertive.
Per evitare possibili confusioni dovrei sottolineare che,
secondo la teoria tridimensionale delle emozioni sopra
delineata, l'autoasserzione e l'autotrascendenza non sono
emozioni specifiche ma tendenze, che entrano in tutte
le emozioni e modificano il loro carattere a seconda di
quella delle due che domina. Per amore di brevità tut­
tavia è talora conveniente parlare semplicemente di << emo­
zioni autotrascendenti )) invece di << emozioni in cui do­
minano le tendenze autotrascendenti )).

I PERICOLI DELL' AGGRESSIONE

Per ricapitolare, il singolo individuo, considerato come


un tutto, rappresenta l'apice della gerarchia organismica;
considerato come parte, è l'unità più bassa della gerarchia
sociale. Su questa linea di confine fra organizzazione fi­
siologica e sociale, i due potenziali opposti che abbiamo
incontrato ad ogni livello si manifestano nella forma di
comportamento emotivo. Finché tutto va bene le ten­
denze autossertive e integrative dell'individuo si bilan­
ciano più o meno bene nella sua vita emotiva. Egli vive
in una specie di equilibrio dinamico con la famiglia, la

311
tribù o la società di cui fa parte, e anche con l'universo
di valori e di credenze che costituiscono il suo ambiente
mentale.
Un certo quantitativo di autoassertività, di << robusto
individualismo >>, ambizione, competitività, è altrettanto
indispensabile, in una società dinamica, quanto l'auto­
nomia e la capacità di far da sé dei suoi olòmeri è indi­
spensabile all'organismo. Una ideologia bene intenzionata
ma rm�za, che è venuta di moda per rimbalzo dopo gli
orrori degli ultimi decenni, vorrebbe proclamare l'aggres­
sività come del tutto condannabile, e cattiva in ogni
sua forma. Però senza un moderato ammontare di indi­
vidualismo aggressivo non potrebbe esserci progresso né
sociale né culturale. Quello che John Donne ha chiamato
il <<santo scontento >> dell'uomo è una forza motrice essen­
ziale del riformatore sociale, del satirico, dell'artista e
del pensatore. Abbiamo visto che l'originalità creativa
nella scienza o nell'arte ha sempre un lato costruttivo e
uno distruttivo: distruttivo, cioè a dire, rispetto alle con­
venzioni stabilite in materia di tecnica di stile di dogma
o di pregiudizio. E siccome la scienza è fatta dagli scien­
ziati, l'aspetto distruttivo delle rivoluzioni scientifiche
deve riflettere qualche elemento di distruttività della
mente dello scienziato, una disponibilità ad andare spie­
tatamente contro le credenze accettate. Lo stesso, natu­
ralmente, è vero per l'artista, anche se non è un fauve.
Così l'aggressione è come l'arsenico: in piccole dosi uno
stimolante, a dosi forti un veleno.

Dobbiamo ora occuparci di quest'ultimo: l'aspetto ve­


lenoso delle emozioni autoassertive. In condizione di stress
un organo sovraeccitato tende a sfuggire ai propri con­
trolli limitativi e ad asserirsi a detrimento dell'insieme
o persino a monopolizzare le funzioni dell'insieme. Lo
stesso accade se i poteri di coordinazione dell'insieme

312
sono talmente indeboliti - per senescenza o avaria al
centro - che esso non è più in grado di controllare le
proprie parti.l In casi estremi questo può condurre a
cambi patologici di natura irreversibile, come escrescenze
maligne con proliferazione disordinata di tessuti sfuggiti
al controllo genetico. Su un livello meno estremo, prati­
camente ogni organo o funzione può temporaneamente
o parzialmente sfuggire al controllo. Nel dolore la parte
offesa tende a monopolizzare l'attenzione dell'intero or­
ganismo; come risultato dei traumi emotivi o d'altro
genere i succhi digerenti possono attaccare le pareti dello
stomaco; nella rabbia e nella paura l'apparato simpatico­
adrenale prende il sopravvento sui centri superiori che
normalmente coordinano il comportamento; e quando il
sesso è in agitazione le gonadi sembrano prendere il so­
pravvento sul cervello.
Non soltanto parti del corpo possono, in certe condi­
zioni di trauma, asserire se medesime in modi dannosi,
ma anche le strutture mentali. L'idea fissa, l'ossessione,
l'ubbia sono degli olòmeri conoscitivi che si sono ammu­
tinati. C'è un'intera gamma di disordini mentali in cui
qualche parte subordinata della gerarchia mentale eser­
cita un suo dominio tirannico sull'insieme; dalla relativa­
mente innocua infatuazione per qualche teoria predi­
letta, fino all'insidioso dominio sulla mente dei complessi
<< repressi )) (caratteristicamente chiamati << complessi au­
tonomi )) da Freud perché sono fuori portata del controllo
dell'io) , e così pure fino alle psicosi cliniche, in cui larghi
brani della personalità sembra che si siano << distaccati ))
e conducano una vita quasi indipendente. Nelle alluci­
nazioni del paranoico non solo la gerarchia conoscitiva
ma anche quella percezionale è caduta in balia dell' olò-

l. Nella terminologia di C. M. Child, la parte diventa <• fisiologica­


mente isolata » dall'intero (4).

313
mero mentale, non più tenuto al guinzaglio, che impone
ad essa le sue peculiari regole di gioco.
Tuttavia l'alienazione mentale in senso clinico è sol­
tanto una manifestazione estrema di tendenze che sono
potenzialmente presenti, ma più o meno padroneggiate,
nella mente normale - o quel che noi chiamiamo con
quel nome. Le aberrazioni della mente umana sono in
larga misura dovute al perseguimento ossessivo di qualche
verità parziale, trattata come se fosse una verità intera,
di un olòmero che si maschera da tutto. I fanatismi reli­
giosi, filosofici, l'ostinazione del pregiudizio, l'intolleranza
delle ortodossie scientifiche e dei clan artistici, testimo­
niano tutti la tendenza a costruire << sistemi chiusi l>, cen­
trati su qualche verità parziale, e di asserirne l'asso­
luta validità in faccia a qualsiasi prova in contrario. In
casi estremi un olòmero conoscitivo che è sfuggito al
controllo può comportarsi come un tessuto canceroso che
invade le altre strutture mentali.
Se ci rivolgiamo dagli olòmeri individuali a quelli so­
ciali - classi professionali, gruppi etnici, ecc. - troviamo
di nuovo che, finché tutto va bene, essi vivono in una
specie di equilibrio dinamico con il proprio ambiente
naturale e sociale. Nelle gerarchie sociali i controlli fisio­
logici che operano all'interno degli organismi sono natu­
ralmente sostituiti dai controlli istituzionali che limitano
le tendenze autoassertive di questi gruppi a tutti i li­
velli, dalle intere classi sociali fino all'individuo. Ancora
una volta l'ideale della pacifica cooperazione senza at­
trito, senza competizione, senza tensioni si basa su una
confusione tra il desiderabile e il possibile. Senza un certo
quantitativo di autoassertività delle sue parti il corpo
sociale perderebbe la sua individualità e articolazione;
si dissolverebbe in una specie di gelatina.
Tuttavia in condizioni di stress, quando le tensioni
eccedono un limite critico, qualche olòmero sociale - l'e-

314
sercito, i contadini o i sindacati - possono diventare
sovraeccitati e tendono ad asserir se medesimi a detri­
mento del tutto, esattamente come un organo sovraecci­
tato. Alternativamente il declino dei poteri integrativi
del tutto può condurre a risultati simili, come indica su
scala grandiosa il collasso degli imperi.

LA PATOLOGIA DELLA DEVOZIONE

Così le tendenze autoassertive dell'individuo sono un


fattore necessario e costruttivo, fin tanto che non sfug­
gono di mano. In questo senso le più sinistre manife­
stazioni di violenza e crudeltà possono essere depennate
come estremi patologici di impulsi fondamentalmente
sani che, per una ragione o per l'altra, sono stati privati
della loro normale soddisfazione. Provvedete i giovani di
innocui sfoghi alla loro aggressività - giochi, sport ago­
nistici, avventura, sperimentazione sessuale - e tutto
andrà per il meglio.
Sfortunatamente nessuno di questi rimedi, sebbene
spesso provati, ha mai funzionato. Da tre o quattromila
anni i profeti ebrei, i filosofi greci, i mistici indiani, i
saggi cinesi, i predicatori cristiani, gli umanisti francesi,
gli utilitaristi inglesi, i moralisti tedeschi, i pragmatisti
americani, hanno discusso i pericoli della violenza e hanno
fatto appello alla parte migliore della natura umana
senza molto effetto apprezzabile. Di questo fallimento
una ragione deve esserci.
La ragione, io credo, sta in una serie di equivoci fon­
damentali circa le cause principali che hanno spinto
l'uomo a fare della sua storia un tale pasticcio, e che gli
hanno impedito di imparare le lezioni del passato e ora
pongono in forse la sua sopravvivenza. Il primo di tali
equivoci sta nell'attribuire la causa della nemesi del-

315
l'uomo al suo egoismo, alla sua avidità, ecc.; in una pa­
rola, alle tendenze aggressive, autoassertive dell'individuo.
Quanto tenterò di stabilire è che l'egoismo non è il colpe­
vole primo; e che ogni appello alla parte migliore della
natura non poteva che restare inefficace, perché il peri­
colo, per l'uomo, sta precisamente in quello che siamo soliti
chiamare la << parte migliore della sua natura •>. In altre
parole vorrei avanzare l'ipotesi che le tendenze integrative
dell'individuo sono incomparabilmente più pericolose delle
sue tendenze autoassertive. I sermoni dei riformatori eb­
bero la sorte di cadere in orecchie sorde perché addita­
vano la colpa dove non esiste.
Questo potrebbe suonare paradosso psicologico. Tut­
tavia io penso che la maggior parte degli storici sareb­
bero d'accordo sul fatto che la parte svolta da impulsi
di aggressività egoistica individuale negli olocausti della
storia fu esigua; in primo luogo e soprattutto, la strage
fu intesa come un'offerta agli dèi, o al re e alla patria,
o alla futura felicità del genere umano. I delitti di un
Caligola si ritirano fino a diventare insignificanti in con­
fronto con lo strazio operato da Torquemada. Il numero
di vittime di briganti, banditi, rapinatori, gangsters e
altri criminali in ogni periodo della storia è trascurabile
in confronto al numero massiccio di quelli che sono stati
allegramente sterminati in nome della vera religione,
della giusta politica, o della ideologia corretta. Gli eretici
furono torturati e bruciati non con rabbia, ma con do­
lore, per il bene delle loro anime immortali. La guerra
tribale veniva scatenata nel proclamato interesse della
tribù, non dell'individuo. Le guerre di religione veni­
vano combattute per decidere qualche punto sottile
di teologia o di semantica. Le guerre di successione,
le guerre dinastiche, le guerre nazionali, le guerre ci­
vili, venivano combattute per decidere soluzioni egual-

316
mente remote dal privato e personale interesse dei com­
battenti, 1 le purghe comuniste (come la parola << purga ))
indica) erano intese come operazioni di igiene sociale per
preparare l'umanità all'età d'oro della società senza classi.
Le camere a gas e i crematori lavorarono per l'avvento
di una nuova versione del Millennio. Heinrich Eichmann
(come Hannah Ahrendt deponendo al processo di lui ha
sottolineato) (5) non era un mostro o un sadico, ma un
burocrate coscienzioso che considerava suo dovere ese­
guire gli ordini ricevuti, e che credeva nell'obbedienza
come virtù suprema; lungi dall'essere un sadico, si sentì
fisicamente male quell'unica volta che guardò lavorare il
gas zyklon.
Lasciate che lo ripeta: i crimini di violenza commessi
per motivi egoistici e personali sono storicamente insigni­
ficanti in confronto a quelli commessi ad maiorem Dei
gloriam, per una devozione capace di autosacrificio a una
bandiera, a un capo, a una fede religiosa, o a una con­
vinzione politica. L'uomo è sempre stato pronto non
solo a uccidere, ma anche a morire, per cause buone,
o cattive, o completamente futili. E quale prova più
valida della realtà dell'impulso a trascendere se stesso
dell'esser pronto a morire per un ideale?
Qualunque epoca abbiamo di fronte, moderna antica
o preistorica, ogni prova punta sempre nella stessa dire­
zione: la tragedia dell'uomo non è la sua truculenza,
ma la sua inclinazione alle illusioni. << Il peggiore dei
pazzi è il santo quando diventa matto )): l'epigramma
di Pope si applica a tutti i grandi periodi della storia,
dalle crociate ideologiche dell'età totalitaria su su fino
ai riti che governano la vita dei primitivi.

l. Stupro e saccheggio in guerra senza dubbio costituivano un in­


centivo per una minoranza di mercenari e di avventurieri; ma non
erano loro quelli che decidevano.

317
IL RITUALE DEL SACRIFICIO

Gli antropologi hanno dedicato troppo poca atten­


zione alle più antiche e ovunque diffuse manifestazioni
della tendenza all'illusione 1 che è nella psiche umana:
l'istituzione del sacrificio umano, l'uccisione rituale dei
bambini, delle vergini, dei re e degli eroi, per placare
e propiziarsi gli dèi. La si ritrova all'alba della civiltà
in ogni parte del mondo; ha resistito nella civiltà antica
e nelle culture precolombiane ai loro fastigi, e sporadica­
mente viene ancora praticata in remoti angoli del mondo.
L'atteggiamento usuale è quello di abbandonare l'argo­
mento come una sinistra curiosità appartenente alle oscure
superstizioni del passato; ma questo atteggiamento è
una petizione di principio sulla universalità del fenomeno,
e ignora la chiave che esso fornisce per capire la vena di
tendenza a illudersi propria della struttura mentale del­
l'uomo e la sua importanza in ordine ai problemi del
presente.
Vorrei inserire a questo punto un aneddoto perso­
nale. Nel 1959 fui ospite del mio scomparso amico, il
dott. Verrier Elwin, nella sua casa di Shillong nell'Assam.
Il dott. Elwin era il maggior studioso vivente della vita
tribale indiana, consigliere capo del governo indiano sugli
Affari Tribali, e aveva sposato una bella ragazza di una
tribù di Orissa. Un giorno uno dei suoi tre figli, un tran­
quillo e intelligente ragazzino di 10 anni, chiese di po­
termi accompagnare nella mia passeggiata mattutina. Al
momento in cui perdemmo di vista la casa il ragazzo

l. L'autore parla di delusionary streak, che abbiamo reso con <•vena


di tendenza all'illusione », << venatura allucinatoria », ecc. In italiano
non abbiamo che il termine <<illusione 1> in corrispondenza delle voci
inglesi illusion e delusion. Illusion è una << falsa percezione o interpreta­
zione di qualcosa di oggettivamente esistente »; delusion è << credere in
qualcosa di contrario al fatto o alla realtà »: tant'è che « manie di gran­
dezza 1> si dice delttsions of grandeur (n.d.t.).

318
cominciò a preoccuparsi, e insistette per ritornare. Aderii
e gli chiesi che cosa avesse, e dopo aver esitato un po'
confessò che aveva paura di incontrare qualche uomo
cattivo, i Khasis, che ammazzavano i bambini.
Più tardi accennai del fatto a Verrier, che spiegò che
il bambino si era in realtà attenuto alle sue istruzioni
di non avventurarsi in modo da perdere di vista la casa.
I Khasis sono una tribù dell'Assam, sospettati di prati­
care ancora segretamente il sacrificio umano. Di tempo
in tempo c'erano voci della sparizione di qualche bam­
bino. I rischi di incontrare dei Khasis in scorreria nei
dintorni di Shillong erano remoti, pur tuttavia. . . Poi
spiegò che il metodo tradizionale dei Khasis consisteva
nello spingere due bacchette su per le narici nel cervello
del bambino; quanto più gridava e sanguinava tanto più
dava piacere agli dèi. Menziono questa storia per dare
un esempio di quel che può significare in termini con­
creti la nozione astratta << sacrificio umano )) . Ovviamente
questi Khasis dovevano essere dei dementi. Oppure no ?
Questo è precisamente il punto. L'atto indica disordine
mentale. Ma è stata una forma planetaria di alienazione
mentale, che superava le frontiere delle razze e delle
culture. Per citare un autore recente che si è occupato
del soggetto, G. Hogg.:

«Il sacrificio, naturalmente, era un gesto: il supremo


gesto, se volete. Non c'è parte del mondo per quanto re­
mota in cui il sacrificio, in una forma o nell'altra, non
abbia avuto parte essenziale nel modo di vivere della
gente. . . Il sacrificio, e spesso il sacrificio umano, era
parte integrante dei riti sacerdotali e l'immolazione era
associata molto estesamente con il nutrirsi di carne umana . . .
La pratica del cannibalismo come tale è quasi certamente
meno una istituzione stabilita che non un aspetto del
sacrificio umano o immolazione. Ciononostante, tranne
il caso degli abitanti delle isole Fiji e di certe altre tribù

319
della Melanesia, fra cui la pura e semplice golosità di
carne umana sembra aver predominato su tutte le altre
considerazioni, il motivo rituale di base è virtualmente
identico. Sia nel sacrificio di esseri umani, che nell'in­
gestione di parti della loro carne prima o dopo il sacri­
ficio, è sempre sottinteso il principio del trasferimento
della 'sostanza-anima' . . . Nel Messico i riti sacramentali
raggiunsero probabilmente un grado di complessità più
elevato che da qualunque altra parte. La carne umana
era considerata il solo cibo che avesse probabilità di es­
sere gradito dai principali dèi da propi1:iare. Perciò gli
esseri umani, accuratamente selezionati, erano conside­
rati come rappresentazione di dèi quali Quetzalcoatl e
Tezcatlipoca e, con i più elaborati riti cerimoniali, veni­
vano alla fine sacrificati a quegli dèi che essi in fatto rap­
presentavano; gli astanti erano invitati a mangiare porzio­
ni della loro carne al fine di identificarsi in questo modo
con gli dèi in cui onore era stato fatto il sacrificio 1> (6).

Tutto questo non ha niente a che fare con i sette


peccati capitali - superbia, avarizia, lussuria, ira, gola,
invidia, accidia - contro i quali sono principalmente
diretti i sermoni dei moralisti. L'ottavo peccato, più mor­
tale di tutti - l'autotrascendenza attraverso una de­
vozione mal riposta - non figura nella lista.
Ma dov'è la giuria che decide se la devozione è del
tipo << giusto 1> o << mal riposto 1>? Dato che siamo sull'ar­
gomento degli Aztechi, citerò una passaggio di Prescott
che fornisce un'idea di quanto la loro pazzia interessi
il nostro tempo. Prescott stima che il numero di gio­
vani, di vergini e di bambini sacrificati ogni anno per
tutta la durata dell'impero azteco stia fra i venti e i
cinquanta mila; poi continua:

<< I sacrifici umani sono stati praticati da molte nazioni,


non eccettuate le più civili nazioni dell'antichità; ma
da nessuna su una scala comparabile con quelli di Ana-

320
huac. La quantità di vittime immolate sui suoi maledetti
altari sconvolgerebbe la fede del più scrupoloso credente ...
Strano che in ogni paese le più diaboliche passioni del
cuore umano siano state quelle accese in nome della
religione!. . .
Riflettendo sui rivoltanti usi registrati nelle pagine
precedenti si prova difficoltà a conciliare la loro esistenza
con qualsiasi cosa che somigli a una forma regolare di
governo o a un progresso della civiltà. Tuttavia i messi­
cani avevano molti titoli per essere caratterizzati come
una comunità civile. Si può forse comprendere meglio
t'anomalia riflettendo alla condizione di alcuni dei Paesi
più civili d'Europa nel secolo XVI dopo che vi fu sta­
bilita la moderna Inquisizione; istituzione che ogni anno
distruggeva migliaia di vittime con una morte più dolorosa
dei sacrifici aztechi; che armava la mano del fratello
contro il fratello e ponendo il suo marchio di fuoco sul
labbro fece di più per fermare la marcia del progresso
di ogni altro mezzo mai divisato dall'intelligenza umana.
Il sacrificio umano, per quanto crudele, non ha in
se stesso niente di degradante per la sua vittima. Era
piuttosto concepito come un mezzo per nobilitarlo dedi­
candolo agli dèi. Benché cosi terribile, presso gli Aztechi
era talora abbracciato volontariamente da qualcuno di
loro come la forma di morte più gloriosa e tale da aprire
un passaggio sicuro verso il paradiso. L'Inquisizione per
contro bollava le sue vittime di infamia in questo mondo
e le consegnava a una perpetua perdizione nell'altro>> {7).

Prescott poi dedica un paragrafo ai riti cannibali che


accompagnavano i sacrifici aztechi; ma immediatamente
dopo compie una notevole capriola mentale:

<< In questo stato di cose fu benignamente ordinato


dalla Provvidenza che questo Paese venisse consegnato
a un'altra razza che l'avrebbe riscattata da superstizioni
degne di bruti che ogni giorno si estendevano più am­
piamente, allargandosi a tutto l 'impero. Le avvilenti isti-

Il KOESTLER 321
tuzioni degli Aztechi forniscono il miglior argomento
per la loro conquista. È vero, i conquistatori portarono
con sé l'Inquisizione. Ma portarono pure il Cristianesimo,
la cui benefica radiazione sarebbe rimasta quando si
sarebbero estinte le fiamme rabbiose del fanatismo; scac­
ciando quelle oscure forme di orrore che avevano cosi
a lungo imperversato sulle belle regioni dell'Anahuac ,> (8).

Prescott avrebbe dovuto però sapere che poco dopo


la conquista del Messico la << benefica radiazione ,> del
Cristianesimo si manifestò nella guerra dei trent'anni
che sterminò buona parte della popolazione d'Europa.

'
L OSSERVATORE VENUTO DA MAR'fE

La Rivoluzione Scientifica e l'età dell'Illuminismo sem­


brarono segnare per l'uomo una partenza nuova. E lo
fecero per quanto riguarda la conquista, e il susseguente
stupro, della natura; ma non risolsero, al contrario ap­
profondirono, la sua nemesi. Le guerre religiose furono
sostituite da quelle patriottiche, poi da quelle ideologiche,
combattute con la stessa lealtà d'immolazione e con lo
stesso fervore. L'oppio della religione rivelata fu soppian­
tato dall'eroina delle religioni secolari, che comandavano
la stessa lieta resa dell'individuo alle loro dottrine e lo
stesso amore adorante offerto ai loro profeti. I diavoli
e i succubi furono sostituiti da una nuova demonologia:
i subumani ebrei che complottavano la dominazione del
mondo; i capitalisti borghesi che promuovevano la fame
e la miseria; nemici del popolo, mostri in forma umana,
ci circondavano pronti a balzare all'attacco. Negli anni
'30 e '40 la vena paranoica esplose con veemenza senza
precedenti nelle due più potenti nazioni d'Europa. Nei
due decenni che seguirono l'ultima grande guerra si sono
combattute quaranta guerre e guerre civili minori. Al

322
momento in cui scrivo i cattolici romani, i buddisti e i
materialisti dialettici stanno impegnando un'altra guerra
civile dentro la guerra, per imporre l'unica Vera Fede
al popolo di una nazione asiatica; mentre monaci e stu­
dentesse si imbevono di petrolio e si bruciano vivi davanti
al ticchettìo delle cineprese del telegiornale in un nuovo
rituale di autoimmolazione ad maiorem gloriam.
In uno dei primi capitoli della Genesi vi è un episodio
che ha ispirato innumerevoli pittori. È la scena in cui
Abramo lega il figlio su una catasta di legna e si pre­
para a tagliargli la gola con un coltello per poi abbruciarlo
per amore di Geova. Disapproviamo tutti quanti lo sgoz­
zamento di un figlio per motivi personali; la questione
è perché tanti abbiano approvato così a lungo l'insano
gesto di Abramo. Per dirla volgarmente, siamo portati a
sospettare che in qualche parte della psiche umana ci
sia un bullone svitato e ci sia stato sempre. Per dirla con
linguaggio più scientifico, dovremmo prendere seriamente
in considerazione la possibilità che in qualche punto della
linea qualcosa sia andato storto per davvero nell'evolu­
zione del sistema nervoso dell' Homo sapiens. Sappiamo
che l'evoluzione può imboccare vicoli ciechi e sappiamo
pure che l'evoluzione del cervello umano fu un processo
di rapidità senza precedenti, quasi esplosivo. Ritornerò
su questo nel capitolo che segue; per il momento notiamo
semplicemente come un'ipotesi possibile che la venatura
allucinatoria che serpeggia attraverso la nostra storia
può essere una forma endemica di paranoia inserita (built­
in) nei circuiti di connessione del cervello umano.
Non è certamente difficile immaginare che un osser­
vatore oggettivo di un altro pianeta più avanzato, dopo
aver studiato l'archivio dell'umanità, arriverebbe a questa
diagnosi. Naturalmente siamo sempre pronti e disposti
a continuare con queste immaginazioni da fantascienza
fin tanto che non dobbiamo trame letteralmente le con-

323
elusioni ed applicarle alla realtà che è intorno a noi. Ma
proviamoci a farlo esattamente, e ad immaginare la rea­
zione dell'osservatore quando scoprisse che per quasi
duemila anni milioni di persone, sotto altri aspetti intelli­
genti, erano convinte che la grande maggioranza della
nostra specie che non condivideva il loro credo partico­
lare e non ne eseguiva i riti, sarebbe stata consumata
<.l alle fiamme per tutta l'eternità su ordine di un dio amo­
roso. Questa osservazione, me ne rendo conto, non è esat­
tamente nuova. Ma liquidare fenomeni così singolari
semplicemente come effetto di indottrinamento o di su­
perstizione significa commettere una petizione di prin­
cipio a proposito di un fatto che è veramente alla radice
della nemesi dell'uomo.

LO STRUZZO ALLEGRO

Prima di andare avanti cercherò di prevenire un'obie­


zione, sollevata di frequente. Quando menzionate, sia pure
a titolo di tentativo, l'ipotesi che una venatura allucina­
toria è inerente alla condizione umana, sarete pronta­
mente accusato di adottare una visione unilaterale e
patologica della storia; di essere ipnotizzato dai suoi
aspetti negativi; di cogliere nel mosaico le pietre nere
e di trascurare le trionfanti realizzazioni del progresso
umano. Perché non scegliere invece le pietre bianche:
l'età aurea della Grecia, i monumenti dell'Egitto, le mera­
viglie della Rinascenza, le equazioni di Newton, la con­
quista della Luna?
� verissimo; in questo modo la vista è più allegra.
Parlando personalmente, dopo aver scritto tanto sul
lato creativo dell'uomo, è difficile che mi si possa accu­
sare di voler sminuire le sue imprese. La questione però
non è di scegliere, a seconda del temperamento e dello
stato d'animo, il lato più brillante o quello più oscuro;

324
ma di coglierli entrambi al tempo stesso; di notare il
contrasto e di indagarne le cause. Rimanere sulle glorie
dell'uomo e ignorare i sintomi della sua eventuale pazzia
non è un segno di ottimismo, ma di struzzismo. Potrebbe
essere paragonato all'atteggiamento di quel buontempone
di medico che, qualche tempo prima che Van Gog si
uccidesse, dichiarò che questi non poteva essere pazzo
perché dipingeva quadri così belli. Un certo numero di
autori, col cui atteggiamento sotto altri aspetti io mi al­
lineo, sembra che scrivano sullo stesso allegro tono quando
discutono le prospettive future dell'uomo: C. G. Jung
e i suoi seguaci; Teilhard de Chardin e i cosi detti uma­
nisti evolutivi.
Una concezione più equilibrata della storia umana
potrebbe essere quella di chi la consideri come una sin­
fonia dalla ricca orchestrazione, eseguita sullo sfondo
dell'insistente tambureggiamento di una selvaggia onda
di sciamani. Ci sono momenti in cui uno <c scherzo )) ce
ne farebbe dimenticare, ma a lungo andare il pulsare mo­
notono dei tam-tam finisce sempre col prevalere e tende
ad annegare ogni altro suono.

INTEGRAZIONE E IDENTIFICAZIONE

I poeti hanno sempre detto che l'uomo è matto; e


i loro uditori approvavano con aria deliziata perché pen­
savano che fosse una metafora molto graziosa. Ma se
l'affermazione fosse presa letteralmente, sembrerebbe es­
serci poca speranza: perché è mai possibile che un pazzo
diagnostichi la propria pazzia? La risposta è che può
benissimo, in quanto non è completamente pazzo per
tutto il tempo. Nei loro periodi di lucidità gli affetti da
psicosi hanno scritto rapporti sulla loro infermità sorpren­
dentemente saggi e perspicaci; e nelle fasi acute delle
psicosi artificialmente indotte da droghe, come l'LSD,

325
il soggetto mentre sperimenta vivide allucinazioni sa che
sono allucinazioni.
Ogni tentativo di diagnosi sulla nemesi dell'uomo deve
procedere cautamente attraverso un certo numero di
gradi. In primo luogo ricordiamo che tutte le nostre
emozioni si compongono di << sentimenti misti >>, a cui
prendono parte sia le tendenze autoassertive che quelle
autotrascendenti. Ma queste possono interagire fra loro
in vari modi, alcuni benefici, altri disastrosi.
L'interazione più comune e normale è un limitarsi
reciproco: le due tendenze si bilanciano e si equilibrano.
L'emulazione è limitata dall'accettazione delle regole
della condotta civile. La componente autoassertiva del
desiderio sessuale cerca soltanto la propria soddisfa­
zione, ma in un rapporto armonioso si combina con il
bisogno, egualmente forte, di offrire soddisfazione anche
alla controparte. L'irritazione causata dal comportamento
indisponente di una persona è mitigata dalla empatia o
simpatia, dalla comprensione dei motivi di tale com­
portamento. Nello scienziato creativo o nell'artista l'am­
bizione è bilanciata dalla autotrascendente dedizione al
compito. In una società ideale entrambe le tendenze si
combinerebbero armoniosamente nei suoi cittadini: sa­
rebbero santi ed efficienti, yoghi e commissari ad un
tempo. Ma lasciate che le tensioni crescano, o che l'inte­
grazione impallidisca, e la competizione diventa lotta
senza esclusione di colpi, il desiderio stupro, l'irritazione
furia, l'ambizione egomania, il commissario un terrorista.
Tuttavia su scala storica i guasti causati dagli eccessi
di autoasserzione individuale sono, come accennato dianzi,
relativamente piccoli se confrontati con quelli che ristù­
tano dalla devozione mal riposta. Indaghiamo un po'
più da vicino nei processi causativi che le stanno dietro.
Le tendenze integrative dell'individuo operano attra­
verso i meccanismi dell'empatia, della simpatia, della

326
proiezione, dell'introiezione, dell'identificazione, dell'ado­
razione, i quali tutti gli fanno sentire di essere parte
<li una qualche entità più grande che trascende i confini
dell'io individuale (p. 262) . Questa esigenza psicologica di
appartenere, di partecipare, di comunicare, è altrettanto
primaria e reale del suo opposto. La questione risolutiva
è la natura di tale superiore entità di cui l'individuo si
sente parte. Nella prima infanzia la coscienza simbiotica
unisce l'io e il mondo in un'unità indivisibile. Il suo ri­
flesso sopravvive nella magìa simpatica dei primitivi, nella
credenza nella transustanziazione, nei legami mistici che
uniscono una persona alla sua tribù, al suo totem, alla
sua ombra, alla sua effigie, e più tardi al suo dio. Nelle
maggiori filosofie orientali lo (l io sono te e tu sei me ;>,
l'identità dell'(( Io Vero t> con l'Atman, il tutto-uno, si è
conservato attraverso le epoche. In Occidente è soprav­
vissuto soltanto nella tradizione dei grandi mistici cri­
stiani; la filosofia e la scienza europea, da Aristotile in
avanti, fece di ogni uomo un'isola. Non poteva tollerare
quei vestigi di consapevolezza simbiotica che sopravvi­
vevano in altre culture; il bisogno di autotrascendersi
doveva sublimarsi e canalizzarsi.
Un modo per far questo consistette nella trasforma­
zione della magìa in arte e scienza. Ciò rese possibile a
ristrette élites realizzare l'autotrascendenza su un giro
più alto della spirale, con quella sublime espansione della
coscienza che Freud chiamò il sentimento oceanico e che
Maslow (9) chiama 1'(1 esperienza vertice t>, e che io ho
chiamato la reazione AH. Ma soltanto una minoranza è
qualificata per questo. Per gli altri vi sono soltanto poche
valvole di sfogo tradizionali aperte al trascendimento dei
rigidi confini dell'io. Storicamente parlando, per la vasta
maggioranza dell'umanità la sola risposta alla sua brama
di integrazione, al suo anelito di appartenere e di trovare
un significato all'esistenza, è stata l'identificazione con

327
la propria tribù, la propria casta, la nazione, chiesa o
partito: con un olòmero sociale.
Ma ora arriviamo a un punto cruciale. Il processo psi­
cologico per mezzo del quale è stata realizzata questa
identificazione fu per lo più del tipo primitivo ed infantile
di proiezione che popola cielo e terra di iraconde figure
paterne, feticci da adorare, demoni da esecrare, dogmi
in cui credere ciecamente. Questa cruda forma di iden­
tificazione è qualcosa di completamente differente dall in­
'

tegrazione in una ben ordinata gerarchia sociale. È una


regressione a una forma infantile di autotrascendenza; e
in casi estremi, quasi una scorciatoia per ritornare nel
grembo materno. Tanto per cambiare citiamo Jung: << Non
soltanto parliamo di Madre Chiesa, ma persino del 'grembo
della Chiesa' . . . I cattolici chiamano il fonte battesimale:
'immacolata divini fontis uterus' )) (10) . Tuttavia non
abbiamo bisogno di arrivare a questi estremi per capire
che le espressioni mature e sublimate della tendenza in­
tegrativa sono l'eccezione piuttosto che non la regola
nella società umana. Guardando la storia gli uomini di
ogni tempo sembra si siano comportati come le oche
<< impresse )) di Konrad Lorenz, che seguono per sempre
il guardiano, con mal riposta devozione, perché fu il
primo oggetto semovente da esse visto allo schiudersi
dall'uovo, oggetto artificiosamente sostituito all'oca madre.
Fin dove può arrivare il nostro sguardo, le società
umane hanno sempre ottenuto successi abbastanza note­
voli nel rafforzare la sublimazione degli impulsi autoas­
sertivi dell'individuo, finché il piccolo selvaggio che
ulula nella culla si trasformava in membro della società
più o meno ligio alle leggi e incivilito. Ma al tempo stesso
le società fallirono singolarmente al compito di indurre
una simile sublimazione degli impulsi autotrascendenti.
Di conseguenza l'anelito di appartenere, lasciato senza
sfoghi appropriati e maturi, si manifestò per lo più in

328
forme primitive oppure pervertite. La causa di questo
importante contrasto fra lo sviluppo delle due tendenze
di base diventerà, spero, più evidente nel corso del libro.
Ma prima guardiamo più da vicino le sue conseguenze
psicologiche e sociali.

'
I PERICOLI DELL IDENTIFICAZIONE

Come funziona l'identificazione ? Consideriamo il caso


più semplice, in cui sono coinvolti due soli individui.
La signora Rossi e la signora Bianchi sono amiche. La
signora Bianchi ha perso il marito in un incidente; la
signora Rossi spargendo lacrime di compassione parte­
cipa al dolore dell'amica, si identifica parzialmente con
lei in un atto di empatia, proiezione o introiezione, come
volete chiamarlo. Un processo simile ha luogo quando
l'altra persona non è un individuo reale, ma un'eroina
dello schermo o di un romanzo. È essenziale però che
facciamo una distinzione chiara fra i due processi emo­
tivi differenti che intervengono nell'avvenimento, benché
vengano esperimentati nello stesso tempo. Il primo è
l'atto di identificazione in se stesso, caratterizzato dal
fatto che il soggetto ha per il momento più o meno di­
menticato la propria esistenza e partecipa all'esistenza
di un'altra persona, che può anche vivere in un altro
luogo, in un altro tempo. Questa è chiaramente un' espe­
rienza autotrascendente, gratificante e catartica, per la
semplice ragione che, finché dura, la signora Rossi di­
mentica completamente le sue preoccupazioni, le gelosie
e i rancori che ha contro il signor Rossi. L'atto di identi­
ficazione temporaneamente inibisce le tendenze autoas­
sertive.
Ma interviene anche un secondo processo, che può
avere l'effetto opposto: il processo di identificazione può
condurre al sorgere di emozioni vicarie. Quando la signora

329
Rossi <� prende parte al dolore della signora Bianchi 1>, il
processo di prender parte (il primo processo) conduce
istantaneamente al secondo: l'esperienza del dolore. Ma
il secondo processo può anche comportare sentimenti di
ansietà o di collera. Tu commiseri il giovane Oliver Twist;
come risultato ti vien voglia di strangolare Fagin con le
tue stesse mani. Il prender parte è un'esperienza auto­
trascendente e catartica. Ma può fungere da veicolo per
l'ira, ira come emozione vicaria, sperimentata per conto
di un altro, ma genuinamente sentita.
L'ira provata per le perfide macchinazioni del cat­
tivo dello schermo - che i pubblici messicani si sa che
crivellavano di pallottole - è ira genuina. Quando guar­
diamo un film giallo sviluppiamo i sintomi fisici dell'an­
sietà acuta: palpitazioni, tensione muscolare, sopras­
salti d'allarme. Qui sta il paradosso e la maledizione.
Abbiamo visto, da una parte, che gli impulsi autotra­
scendenti di proiezione, partecipazione, identificazione ini­
biscono l'autoasserzione, ci purgano delle nostre preoccu­
pazioni e desideri egoistici. Ma, d'altra parte, il processo
di identificazione può stimolare l'ondata di collera, paura
e impulso di vendetta che, sebbene sperimentato per
conto di un'altra persona, cionondimeno si esprimono nei
ben noti sintomi adrenotossici. I meccanismi psicologici
che entrano in azione sono essenzialmente gli stessi,
sia che la minaccia o l'offesa sia diretta contro di noi,
sia contro la persona o il gruppo con cui noi ci identi­
fichiamo. Sono meccanismi autoassertivi, sebbene l'io
abbia momentaneamente cambiato di indirizzo, pro­
iettandosi per esempio nel leale eroe dello schermo, o
nella locale squadra di calcio; oppure nella patria, <� pa­
tria mia, per il dritto e per il torto 1>.
L'arte è una scuola di autotrascendimento; ma lo è
pure un raduno patriottico, una sessione voodoo, una
danza bellicosa. È un trionfo dei poteri immaginativi

330
della nostra mente il fatto che siamo capaci di spargere
lacrime sulla morte di un'Anna Karenina, che esiste sol­
tanto come inchiostro da stampa sulla pagina, o come
ombra su uno schermo. Le illusioni del palcoscenico sono,
in ultima analisi, un fatto di magìa simpatica, di par­
ziale identificazione dello spettatore e dell'attore con il
dio o l'eroe che questi impersona. Ma tale magìa è alta­
mente sublimata; il processo di identificazione va per
tentativi, è parziale, è una sospensione momentanea
della diffidenza; non intacca le facoltà critiche, non mina
l'identità personale. Ma la sessione voodoo, o l'adunata
di Norimberga, sì. I film proiettati dal Ministero della
Verità in 1984 di Orwell hanno lo scopo di far re­
gredire l'uditorio a un livello primitivo, e far scattare
orge di odio collettivo. Gli spettatori tuttavia stanno
sperimentando emozioni vicarie di tipo altruistico; una
pia indignazione, le cui manifestazioni sono tanto più
selvagge perché è impersonale, autotrascendente e ci
si può abbandonare ad essa con la coscienza pura.
Così la gloria e la tragedia dell'umana condizione
derivano entrambe dai nostri poteri di autotrascendenza. È
un potere che può essere imbrigliato sia per scopi creativi
che distruttivi; è capace egualmente di trasformarci in
artisti o assassini, ma più probabilmente in assassini. Può
limitare gli impulsi egoistici, ma anche far sorgere vio­
lente emozioni, sperimentate per conto dell'entità con
cui è stato stabilito il rapporto di identificazione. Le
ingiustizie, o le pretese ingiustizie, inflitte a questa en­
tità sono in grado di generare un comportamento più
fanatico che non il bruciore di un insulto personale. L'o­
recchio di Jenkins può essere diventato un luogo comune
piuttosto comico, ma al momento fu una causa concomi­
tante fondamentale per la dichiarazione di guerra alla
Spagna. L'esecuzione dell'infermiera Edith Louisa Ca.­
vell durante la prima guerra mondiale causò contro la

331
brutalità teutonica un'indignazione spontanea molto più
vasta che non le esecuzioni in massa degli Ebrei nella
seconda guerra mondiale. È facile identificarsi con un'e­
roica infermiera della Croce Rossa, mentre gli Ebrei per­
seguitati possono destare pietà, ma non impulsi di iden­
tificazione.

CONSAPEVOLEZZA GERARCHICA

Il meccanismo che ho discusso - l'autotrascendimento


che serve come strumento o veicolo di emozioni della
serie opposta - trova la sua espressione più disastrosa
nella psicologia di gruppo.
Ho ripetutamente sottolineato il fatto che gli impulsi
egoistici dell'uomo costituiscono un pericolo storico molto
minore che non le sue tendenze integrative. Per dirla
nel modo più semplice: l'individuo che indulge a un ec­
cesso di autoassertività aggressiva incorre nelle pene della
società, si mette fuori legge, si contrae in se stesso,
uscendo dalla gerarchia. Il vero credente, dal lato opposto,
diventa qualcosa di più intimamente inserito nella ge­
rarchia; entra nel grembo della sua chiesa o del suo par­
tito o di quale che sia l' olòmero sociale a cui consegna
la propria identità. Giacché l'identificazione, in questa
forma primitiva, comporta sempre un certo scadimento
di individualità, un'abdicazione delle facoltà critiche, e
della responsabilità personale. Il prete è il buon pastore
del suo gregge, ma usiamo anche la stessa metafora in
senso peggiorativo quando parliamo delle masse che se­
guono un demagogo come pecore; entrambe le espres­
sioni, l'una elogiativa, l'altra spregiativa, esprimono la
medesima verità.
Questo ci riporta alla differenza essenziale fra l'iden­
tificazione primitiva, che dà per risultato un gregge omo­
geneo, e le forme mature di integrazione in una gerarchia

332
sociale. In una gerarchia equilibrata l'individuo conserva
il suo carattere di olòmero sociale, di parte-intero, il
quale, in quanto intero, gode di autonomia entro i limiti
delle restrizioni imposte dagli interessi della comunità.
Rimane un individuo intero, di diritto proprio, che è per­
sino tenuto ad asserire il suo carattere olistico mediante
l'originalità, l'iniziativa, e soprattutto la responsabilità
personale. Gli stessi criteri di valore si applicano ai mag­
giori olòmeri sociali - gruppi professionali, confederazioni
sindacali, classi sociali - negli scaglioni più alti della
gerarchia. Essi sono tenuti, per aspettazione generale, a
spiegare le virtù implicate nel principio di Giano: sono
tenuti a comportarsi come totalità autonome autorego­
lantisi, ma anche a conformarsi agli interessi nazionali
o internazionali. Una società ideale di questo tipo si
potrebbe definire come dotata di <c consapevolezza ge­
rarchica >>, dove ciascun olòmero di ciascun livello è con­
sapevole, sia dei suoi diritti come totalità, sia dei suoi
doveri come parte.
Ciononostante, i fenomeni usualmente designati coi
termini << mentalità di gruppo >> o <c psicologia delle masse >>
(Massenpsychologie) riflettono un atteggiamento fonda­
mentalmente differente. Esso è basato - per ripeterlo
ancora una volta - non su una interazione integrata,
ma sul rapporto di identificazione. L'integrazione in una
gerarchia sociale preserva l'identità personale e la re­
sponsabilità dei suoi olòmeri; l'identificazione, finché dura,
implica una parziale o totale rinunzia a entrambe.
Abbiamo visto che questa rinunzia può prendere varie
forme, alcune benefiche, altre dannose. Nel rapimento
mistico od estetico l'io si dissolve nel sentimento ocea­
nico; una delle espressioni francesi per l'orgasmo è la pe­
tite mort; se la passione è cieca il vero amore appanna
la vista; una sera a teatro è una fuga da se stessi. La
autotrascendenza comporta sempre una rinunzia e una

333
resa; ma la quantità e qualità del sacrificio dipende dal
grado di sublimazione e dalla natura delle vie di sfogo.
Nei fenomeni più sinistri della psicologia di massa la
sublimazione è minima e tutte le vie di sfogo sono gleich­
geschaltet, allineate in una sola direzione.

INDUZIONE E IPNOSI

Fra le manifestazioni innocue della psicologia di gruppo


vi sono fenomeni comunissimi quali il riso contagioso,
lo sbadiglio contagioso, gli svenimenti contagiosi. Il con­
tagio, per esempio in una classe o in un dormitorio di
ragazze, sembra trasmettersi attraverso qualche mi­
crobo sottile che riempie l'aria, o per una specie di indu­
zione mutua: << Tutte le volte che guardavo Annamaria
o che Annamaria guardava me cominciavamo a ridere
e non potevamo smettere. Alla fine eravamo diventate
tutte isteriche )). Non solo le ragazze nell'adolescenza,
ma gli uomini della guardia allineati per una parata,
sono anch'essi inclini a simili fenomeni: a un marcantonio
alto 1,90 capita di svenire, e svariati altri ne crollano a
terra come birilli. Nelle radunanze di revival evangelico,
e in occasioni simili, i sintomi sono ancora più vivaci:
non appena il primo devoto ha cominciato a gridare, sal­
tare, dondolarsi o girare su se stesso, altri sono presi da
un impulso irresistibile a imitarlo. Il passo che segue
conduce a manifestazioni più allucinanti: i danzatori della
tarantola nelle età oscure; le allucinazioni collettive delle
monache di Loudun che si rotolavano sul pavimento
nell'amplesso di diavoli osceni; le teppaglie di ogni razza
e denominazione che eseguono un linciaggio; le clamorose
feste degli Hanging Days di Newgate; le allegre comari di
Parigi diventate sbavanti tricoteuses; e a contrasto, le
rigidamente disciplinate, ritualizzate adunate di Norim­
berga, e le parate della Piazza Rossa. O, per un altro

334
contrasto, le orde di baccanti adolescenti che strillano
affollandosi intorno ai divi della canzone pop, i Narcisi
adolescenti dagli sguardi obliqui e dalle pettinature a
scarafaggio.
Tutti questi fenomeni - alcuni innocui, altri sinistri,
altri grotteschi - hanno in comune un elemento fonda­
mentale: la gente che vi partecipa ha rinunziato in qualche
misura alla propria individualità indipendente, è diven­
tata più o meno spersonalizzata; mentre i loro impulsi
si sono, nella stessa misura, sincronizzati, allineati nella
stessa direzione come barrette di ferro magnetizzato. La
forza che li tiene legati insieme è chiamata variamente:
<l contagio sociale 1>, <l induzione mutua 1>, <l isterismo col­
lettivo 1>, <l ipnosi di massa 1>, ecc.; l'elemento comune a
tutte è l'identificazione col gruppo, a prezzo di un abban­
dono di parte della propria identità personale. L'immer­
sione nello spirito del gruppo è una specie di autotra­
scendenza per i poveri.

È stato pure confrontato da Freud e altri a uno state


semi-ipnotico o quasi-ipnotico (para-ipnotico).
Lo stato ipnotico è facile da dimostrare, ma difficile
da definire o da spiegare. Questa, e i poteri allucinanti
che esso conferisce all'ipnotizzatore, può essere la ra­
gione fondamentale per cui è stato trattato a lungo con
scetticismo e non è stato accettato dalla scienza occi­
dentale, mentre nelle società tribali e nelle civiltà
anche evolute dell'Oriente veniva usato sia per scopi buoni
che malvagi. Mesmer col suo aiuto produceva spettacolari
sedute curative, ma non aveva idea di come agisse; le
sue spurie spiegazioni in termini di magnetismo ani­
male combinate col suo talento di istrione minarono ul­
teriormente la reputazione dell'ipnotismo. Nel corso del
XIX secolo vari eminenti chirurghi inglesi eseguirono
operazioni importanti senza dolore sotto ipnosi, ma le

335
loro relazioni sollevarono scetticismo e ostilità. La medicina
ortodossa rifiutava di accettare la realtà di un fenomeno
che poteva essere facilmente dimostrato, e per qualche
tempo divenne persino un gioco di società. Il pregiudizio
svanì solo a poco a poco; Charcot e la sua scuola in
Francia, e Freud nel suo primo periodo, producevano
fenomeni ipnotici come parte della loro routine, e ne
usarono come mezzo terapeutico. Ma fu il medico scoz­
zese James Baird a coniare, nel l841, la parola ipnotismo,
e questa suonava un po' più rispettabile dei termini
precedenti: mesmerismo, magnetismo o sonnambulismo.1
Attualmente qualificati ipnotizzatori medici vengono
usati in numero crescente da dentisti per interventi chi­
rurgici al posto degli anestesisti, e l'uso dell'ipnotismo
nel parto, nella psicoterapia e nella dermatologia è di­
ventato un luogo comune. Al punto che quasi dimenti­
chiamo di domandarci come operi. Perché, come già ac­
cennato, è un fenomeno facile da produrre ma difficile
da spiegare, specialmente in termini di psicologia << da
terra piatta 1>.
Una spiegazione, o almeno descrizione, che vale per
quel che vale, fu data mezzo secolo fa dal Kretschmer:
<< Nello stato ipnotico le funzioni dell'io sembrano esser
sospese, tranne quelle che comunicano con l'ipnotizzatore
come attraverso una stretta fessura in uno schermo 1> (11} .
La fessura focalizza i l raggio del rapporto ipnotico. Il
resto del mondo per il soggetto ipnotizzato è schermato
o cancellato.
Una descrizione più recente, dovuta a uno sperimen­
tatore psicologo di Oxford, il dottor Oswald, conduce
a conclusioni essenzialmente simili:

l. Quest'ultima espressione fu coniata dal marchese Chastenay


de Puységur, seguace di Mesmer, che aveva notato come i suoi pa­
zienti quando erano in trance sembrassero muoversi e agire come son­
nambuli.

336
<< La trance ipnotica umana [in quanto distinta dagli
stati catalettici indotti negli animali] ha un nome nato
dalla somiglianza col sonnambulismo. La trance ipnotica
umana non è uno stato di sonno. E neppure, occorre
insistere, è uno stato di incoscienza. . . Non è possibile
categorizzarla in modo universalmente accettabile. Ri­
mane un indovinello ben definito. È certamente uno
stato d'inerzia, ma soltanto nei confronti delle azioni
spontanee. In tisposta ai comandi dell'ipnotizzatore può
prodursi una attività vigorosa senza che la trance sia
interrotta o venga distrutto .il rapporto. È questo rap­
porto che è cosi caratteristico. L'iniziativa propria del­
l'individuo ipnotizzato è a servizio di quella dell'ipno­
tizzatore. Alternative a quanto suggerisce l'ipnotizza­
tore semplicemente non sembra che esistano. Se pre­
gate un amico di andare a chiudere la porta, egli può
farlo tranquillamente, oppure può osservare che non
vedendo ragioni perché voi siate cosi pigro potete benis­
simo andare a chiuderla da voi. La persona ipnotizzata,
semplicemente, prende su ed esegue t> ( 1 2).

Ecco una recente definizione del Dizionario ai psico­


logia del Drever: << Ipnosi: stato artificialmente indotto,
simile sotto molti aspetti al sonno, ma caratterizzato
specialmente da una esagerata suggestionabilità e dalla
continuità di contatto o rapporto con l'operatore t> (13) .
Freud nel suo libro sulla Psicologia di gruppo e l' ana­
lisi dell'io prese lo stato ipnotico come punto di par­
tenza. Considerò ipnotizzatore e ipnotizzato come una
<< formazione di gruppo, costituita di due persone t> e ri­
tenne che la trance ipnotica offrisse la chiave della << pro­
fonda alterazione delle attività mentali degli individui
soggetti all'influenza di un gruppo t> (14) . In effetti l'<< ef­
fetto ipnotico t> dei profeti e dei demagoghi sui loro se­
guaci, legati come da incantesimo, è diventato un tale
cliché che uno tende a trascurare la sua rilevanza let­
terale e patologica. La classica analisi di Le Bon della

337
mentalità delle eroiche e micidiali plebi della Rivoluzione
francese (che fu presa come testo da Freud e altri) rimane
vera quanto un secolo e mezzo fa. Come nel soggetto
ipnotizzato così nell'individuo sottoposto all'influenza
della folla, l'iniziativa personale è abbandonata a favore
del capo e << le funzioni dell'io sembrano essere sospese >>,
eccetto quelle che sono << in rapporto con l'operatore >>.
Questo comporta uno stato di inerzia mentale, una mite
forma di sonnambulismo o di << incantamento >>, che tut­
tavia può scoppiare in qualsiasi momento, al comando
del capo, in violenta attività. Le folle tendono a com­
portarsi in modo << fanatico >> (o << eroico >>), cioè unilaterale,
perché le differenze individuali fra i loro membri sono
temporaneamente sospese e le facoltà critiche anestetiz­
zate; la massa tutta quanta è così intellettualmente ri­
dotta a un primitivo denominatore comune, a un livello
di comunicazione a cui tutti possono partecipare: l'uni­
lateralità deve essere semplicioneria. Ma al tempo stesso
il dinamismo emotivo della folla è intensificato dall'in­
duzione mutua esistente fra i membri, e dal fatto che le
fessure dello schermo - o i punti luminosi - sono tutti
allineati nella stessa direzione. È una specie di effetto di
risonanza che fa sì che i membri della folla si sentano
parte di una potenza irresistibile; anzi di una potenza
che per definizione non può sbagliare. L'identificazione
assolve dalla responsabilità individuale, come nel rapporto
ipnotico l'iniziativa e la responsabilità, per quanto ri­
guarda le azioni del soggetto, sono rinunziate e conse­
gnate all'ipnotizzatore. Questo è l'opposto esatto della
<< consapevolezza gerarchica >>, della coscienza di libertà
individuale entro le limitazioni di una gerarchia gover­
nata da regole. La consapevolezza gerarchica mostra le
due facce di Giano; la mentalità della folla è come un
umco profilo coi paraocchi.

338
Essa implica la sospensione non soltanto della respon­
sabilità personale, ma anche delle tendenze autoassertive
dell'individuo. Abbiamo già incontrato prima questo
paradosso. L'identificazione totale dell'individuo con il
gruppo lo rende altruista in piit di un senso. Lo fa indif­
ferente al pericolo e meno sensibile al dolore fisico: di
nuovo, una tenue forma di anestesia ipnotica. Gli fa com­
piere azioni cameratesche, altruistiche, eroiche - fino
al punto di sacrificare se stesso - e al tempo stesso lo
induce a comportarsi con spietata crudeltà verso il ne­
mico o la vittima del gruppo. Ma la brutalità spiegata
dei membri di una folla fanatica è impersonale e non
egoistica; è esercitata nell'interesse o nel supposto inte­
resse della totalità; e comporta l'esser pronti non solo
a uccidere, ma anche a morire, in suo nome. In altre
parole, il comportamento autoassertivo del gruppo è ba­
sato sopra il comportamento autotrascendente dei suoi mem­
bri, il che spesso ha per conseguenza il sacrificio degli
interessi personali e persino della vita per l'interesse del
gruppo. Per dirla semplicemente, l'egotismo del gruppo
si nutre dell'altruismo dei suoi membri.
Questo diventa meno paradossale quando ci rendiamo
conto che il gruppo sociale è un olòmero conll una strut­
tura specifica sua propria e un canone di regole, che
differiscono dalle regole che governano il comportamento
individuale dei suoi membri (confronta p. 82 e segg.) .
Una folla naturalmente è un olòmero molto primitivo,
l'equivalente umano di un gregge o di un armento.
Ma rimane pur sempre vero che la folla come totalità
non è semplicemente la somma delle sue parti, e che
spiega caratteristiche che non si trovano sul livello delle
sue parti componenti singole.1

l . In una recente memoria (in corso di stampa) circa L'evoluzione


dei sistemi di regole di condotta, il prof. F. A. von Hayek definisce suo
scopo << distinguere fra i sistemi di regole di condotta che governano il

339
Inutile dire, una volta che la furia del gruppo è sca­
tenata, i suoi membri individuali possono sbrigliare libe­
ramente i loro impulsi aggressivi. Ma questo è un tipo
secondario di aggressività, catalizzato da un precedente
atto di identificazione, ed è distinta dall'aggressività
primaria basata su motivazioni personali. Le manifesta­
zioni fisiche di questa aggressività secondaria possono
essere indistinguibili da quelle dell'aggressione primaria,
esattamente come la rabbia sollevata dal cattivo del
film produce i sintomi fisici della collera indirizzata verso
una persona vera. Ma in entrambi i casi di tratta di ag­
gressione come processo secondario derivato dall'identifi­
cazione con il gruppo nel primo caso, con l'eroe dello
schermo nel secondo.
I sociologi che considerano la guerra come una mani­
festazione degli impulsi aggressivi repressi dell'uomo, ci
fanno immediatamente intuire che non hanno mai prestato
servizio militare e non hanno alcuna idea della mentalità
del soldato semplice in tempo di guerra. C'è dell'attesa
(qualcuno ha detto che essa occupa il 90% del tempo
di un soldato) ; c'è mugugno e brontolio, molta preoccupa­
zione sul sesso, paura intermittente, e soprattutto la
fervida speranza che presto sarà finita, con conseguente
ritorno a borghese, ma l'odio non entra nel quadro.

comportamento dei singoli membri di un gruppo (o degli elementi di


nn qualsiasi ordine) e l'ordine o schema di azioni che ne risultano per
il gruppo inteso come un tutto ... Che non siano la stessa cosa dovrebbe
essere ovvio non appena lo si stabilisce, benché in pratica le due ven­
gano confuse di frequente » (15).
A volte le regole che governano il comportamento dell'individuo
e del gruppo possono persino trovarsi in diretta opposizione. Anni
or sono, quando scrivevo romanzi, descrissi un personaggio - un av­
vocato romano del I secolo a. C. - che scriveva un trattato dal titolo
Delle cause che inducono l'uomo ad agire contro gl'interessi di altri quando
si trovi isolato, e ad agire contro i propri interessi quando si trovi associato
in gruppi o folle ( 1 6).

340
Nella guerra moderna il nemico è per lo più invisibile,
e il combattimento è ridotto alla manipolazione imperso­
nale di armi a lunga distanza. Nella tecnica di guerra
classica gli attacchi erano eseguiti da unità - cioè
gruppi - contro posizioni tenute da altri gruppi; le sem­
bianze dei singoli nemici che uno aveva ucciso o poteva
aver ucciso non erano quasi mai percepite; cercare di
ucciderli era, in quelle circostanze, un sine qua non per
la sopravvivenza; ma l'aggressione primaria non aveva
una parte significativa nel quadro. E neppure la (< difesa
della patria e della famiglia l>. I soldati non combattono
vicino ai loro focolari, ma in luoghi distanti centinaia
o migliaia di miglia, per difendere le patrie, le famiglie,
il territorio, ecc. del gruppoJ di cui sono parte. L'odio
professato, e qualche volta reale, per i boches, i wops
(guappi = italiani) , i fascisti o i rossi, di nuovo, non è
materia di aggressione personale primaria; è diretto con­
tro un gruppo, o piuttosto contro il denominatore co­
mune che condividono tutti i membri del gruppo. La
vittima singola di tale odio è punita non come individuo,
ma come rappresentante simbolico di quel comune de­
nominatore.
Nella prima guerra mondiale i soldati delle trincee
opposte erano capaci di fraternizzare a Natale e di rico­
minciare a spararsi appena finito San Silvestro. La guerra
è un rituale, un luttuoso rituale, non il risultato della
autoasserzione aggressiva, ma della identificazione auto­
trascendente. Senza lealtà alla tribù, alla chiesa, alla ban­
diera o all'ideale, non ci sarebbero guerre; e la lealtà è
una cosa nobile. Non voglio dire, naturalmente, che la
lealtà debba necessariamente esprimersi in violenza di
gruppo, soltanto che ne è la premessa; che la devozione
autotrascendente, attraverso tutta la storia, ha agito
come catalizzatore per l'aggressione secondaria.

341
LE FERITE DEL BUON CESARE

Shakespeare ha espresso questo punto apparentemente


astratto con una persuasività che nessun trattato di psi­
cologia potrà mai sperare di raggiungere. Nel discorso
di Antonio alla folla dei cittadini romani c'è un mo­
mento decisivo, quando egli, di proposito, smorza il loro
primo superficiale risentimento contro i cospiratori. Fa
disporre il suo uditorio in cerchio intorno al cadavere
di Cesare, non ancora chiedendo vendetta, ma stimolando
prima la loro pietà:

ANT. Se avete lacrime preparatevi a spargerle ora. Voi


tutti conoscete il suo mantello. Ricordo la prima volta
che Cesare l'aveva indossato. Era una sera d'estate nella
sua tenda, il giorno che sopraffece i Nervii ; guardate:
in questo punto è passato il pugnale di Cassio. . . E in
questo mantello che gli copre la faccia proprio ai piedi
della statua di Pompeo, tutta inondata di sangue, è caduto
il grande Cesare. Quale caduta è stata, o miei concitta­
dini! Io, e voi, e noi tutti, siamo caduti con lui . )) . l . .

Avendo così identificato << io )) e << voi )) e << noi tutti ))


con il dittatore morto, e avendo loro mostrato le << fe­
rite del buon Cesare, povera, povera, muta bocca, e di'
a loro di parlare per me l), ha portato la folla esattamente
allo stato d'animo che voleva:

l . ANT. If you have tears, prepare to shed them now.


You all do know this mantle; I remember
The first time ever Caesar put it on,
' Twas on a summer's evening in his tent,
That day he overcame the Nervii:
Look, in this piace ran Cassius' dagger through. . .
And i n this mantle muffling u p his face,
Even at the base of Pompey's statue
(Which all the while ran blood) great Caesar fell.
O what a fall was there, my countrymen!
Then I, and you, and all of us fell down. . .

342
(i Oh, voi piangete adesso!, e m'accorgo che sentite i

colpi della pietà: queste sono lacrime di grazia, anime


gentili . Perché piangete solo a vedere le ferite sulla veste
del no5tro Cesare ? Guardate qui, eccolo, straziato come
un traditore.

C. O pietoso spettacolo
2 C. O nobile Cesare!
3 C. O giorno di sciagura!
4 C. Traditori, vigliacchi!
l C. Vista cruenta!
2 C. Saremo vendicati!
TUTTI Vendetta! Andiamo! Cerchiamo! Incendiamo! Fuo­
co! Uccidi! Ammazza! Neanche un traditore deve più
vivere! >>. 1

E così il delitto è di nuovo in viaggio sulle ali dei


più nobili sentimenti.

LA STRUTTURA DELLE FEDI

La teppaglia in azione spiega una forma estrema di


mentalità di gruppo. Ma per esserne affetta una persona
non ha bisogno di essere fisicamente presente in una
folla; l'identificazione mentale con un gruppo, una na­
zione, una chiesa o un partito è spesso perfettamente

l. O now you weep, and I perceive you feel


The dint of pity: these are gracious drops,
Kind souls, what weep you, when you but behold
Our Caesar's vesture wounded ? Look you here,
Here is himself, marr'd as you see with traitors.
l c. O piteous spectacle!
2 C. O noble Caesar!
3 C. O woeful day!
4 c. O traitors, villains!
l C. O most bloody sight!
2 c. We will be reveng'd!
ALL Revenge! About! Seek! Bum! Fire! Kill!
Slay! Let not a traitor live!

343
sufficiente. Se la nostra immaginazione sa produrre tutti
i sintomi fisici dell'emozione in reazione alle peripezie
dei personaggi, dramatis personae, che esistono pura­
mente come inchiostro tipografico, assai più facile è
provare l'esperienza di appartenere, di essere costituenti
di un gruppo, anche senza essere presenti fisicamente.
Si può essere vittima della mentalità di gruppo persino
nella intimità del proprio bagno.
La teppaglia in azione ha bisogno di un capo. I movi­
menti religiosi o politici hanno bisogno di capi per met­
tersi in marcia; una volta affermati beneficiano ancora,
naturalmente, di una guida efficiente, ma il bisogno pri­
mario di un gruppo, il fattore che gli dà coesione come
gruppo, è un credo, un sistema di convinzioni condivise,
una fede, che trascenda gli interessi personali dell'indivi­
duo. Può essere rappresentato da un simbolo: il totem
o feticcio che fornisce un senso mistico d'unione fra i
membri della tribù. Può essere la convinzione che uno
appartiene a una Razza eletta i cui antenati fecero un
patto con Dio; o una Razza di Padroni i cui antenati
furono attrezzati con un gene-complesso d'eccellenza spe­
ciale; o i cui Imperatori discendono dal Sole. Può essere
la convinzione che l'osservanza di certe regole e riti qua­
lifica una persona come membro di una élite privilegiata
dopo questa vita; o che il lavoro manuale ti qualifica
membro della classe élite della storia.
Come nascono questi potenti sistemi di credenza col­
lettivi ? Quando lo storico cerca di risalire alle loro ori­
gini inevitabilmente va a finire nella zona crepuscolare
della mitologia. Se una credenza porta in sé una forte
carica emotiva, si può sempre dimostrare che scaturisce
da fonti arcaiche. Le credenze non sono inventate; sem­
brano materializzarsi come l'umidità dell'atmosfera si
condensa in nuvole, che in seguito sottostanno a innu­
merevoli mutamenti di forma.

344
Gli argomenti razionali hanno scarso peso per il vero
credente; il credo a cui si è affidato emotivamente può
esser contraddetto dalle prove senza perdere il suo ma­
gico potere. Dai giorni della preistoria fino a tempi re­
centissimi quella magìa proveniva da credenze religiose.
Fare a meno di Dio era impensabile anche per i padri
fondatori della scienza moderna: Copernico era un to­
mista ortodosso, Keplero un mistico luterano, Galileo
chiamava Dio il supremo matematico dell'universo; New­
ton credeva, con il vescovo Usher, che il mondo fosse
stato creato nel 4004 a. C. I movimenti di riforma so­
ciale erano non meno fermamente basati sull'etica del
Cristianesimo.
Il periodo dell'Illuminismo che culminò nella Rivolu­
zione francese fu una svolta decisiva nella storia del­
l'uomo. Fu drammatizzato dal gesto simbolico di Hé­
bert quando depose Dio e pose sopra il trono vacante
la dea Ragione. Essa si dimostrò un fallimento catastro­
fico. Il mythos cristiano aveva una ascendenza ancestrale
continuata, lungo la quale si può risalire attraverso Grecia
Palestina e Babilonia fino ai miti e ai riti dell'uomo neo­
litico; forniva uno stampo archetipo per le emozioni auto­
trascendenti dell'uomo e per la sua sete di assoluto. Le
tendenze progressiste e le ideologie del XIX secolo r i­
sultarono un sostituto scadentissimo. Dal punto di vista
del benessere materiale della sanità pubblica e della giu­
stizia sociale gli ultimi 150 anni di riforme secolari por­
tarono certamente miglioramenti più tangibili per la
sorte dell'uomo comune che non quindici secoli di Cri­
stianesimo; ma il loro riflesso sulla psiche del gruppo fu
un'altra cosa. La religione può essere stata l'oppio del
popolo, ma quelli che sono dediti all'oppio non sono in­
clini a entusiasmarsi molto per una dieta igienica e ra­
zionale. Nell'élite intellettuale la rapida avanzata della
scienza creò una credenza ottimistica, piuttosto vacua,

345
nella infallibilità della Ragione e in un mondo chiaro,
luminoso, cristallino, con una struttura atomica traspa­
rente, senza spazio per le ombre, i crepuscoli e i miti.
Si credette che la ragione potesse tenere sotto controllo
le emozioni come il cavaliere controlla il cavallo: il
cavaliere rappresentava il pensiero illuminato e razio­
nale, e il cavallo rappresentava quello che i vittoriani
chiamavano le << passioni oscure )) e << la bestia che è in
noi l). Nessuno prevedeva, nessun pessimismo si avventurò
a immaginare, che l'Età della Ragione sarebbe sfociata
nel più grande tumulto emotivo della storia, che lasciò
il cavaliere maciullato sotto gli zoccoli della bestia. Ep­
pure ancora una volta la bestia era spinta dai più nobili
ideali, dal messianismo secolare della Società Senza
Classi, e del Reich del Millennio; e ancora una volta siamo
pronti a dimenticare che la grandissima maggioranza
degli uomini e delle donne che caddero sotto l'incantesimo
totalitario era stimolata da motivi non egoistici, disposta
ad accettare il ruolo di martire o di carnefice secondo
che esigeva la causa.

<< Sia il mito fascista sia quello sovietico non furono


costruzioni sintetiche, ma reviviscenze di archetipi capaci
entrambi di assorbire non solo la componente cerebrale
ma l'uomo totale; entrambi fornivano una saturazione
emozionale.
Il mito fascista è esplicito e senza maschera. L'oppio
è somministrato alle masse in modo del tutto aperto.
Gli archetipi del Sangue e Terra, di Superman che uccide
il drago, le deità del Walhalla e la potenza satanica degli
Ebrei sono sistematicamente invocate per il servizio na­
zionale. Metà del genio di Hitler consistette nel toc­
care la corde giuste dell'inconscio; l'altra metà fu il suo
eclettismo sempre all'erta, il suo fiuto per i metodi
supermoderni, d'avanguardia, in economia, architettura,
tecnologia, propaganda e strategia. Il segreto del fa-

346
scismo è nella reviviscenza delle credenze arcaiche con
una sistemazione ultramoderna. L'edificio nazista era un
grattacielo attrezzato con tubazioni d'acqua calda che pe­
scavano in sorgenti sotterranee d'origine vulcanica t> ( 1 7).

Il mito sovietico conteneva un appello egualmente


profondo a una larga sezione dell'umanità. La società
comunista senza classi doveva essere una reviviscenza
dell'età d'oro della mitologia al più alto, all'ultimo giro
della spirale dialettica. Era una versione secolare della
Terra Promessa, del Regno dei Cieli. Uno dei tratti salienti
di questo mito archetipo è che l'avvento del Millennio
deve essere preceduto da violenti sconvolgimenti: la
prova dei 40 anni nel deserto, l'Apocalisse, il Giudizio
Universale. Il loro equivalente secolare è la liquidazione
del mondo borghese attraverso il Terrore Rivoluzionario.
Una parte della letteratura russa dei primi tempi, e cinese
contemporanea, che esalta la Giustizia Rivoluzionaria
attuata in una << società capitalista putrefatta e cancre­
nosa t> ricorda veramente i Giudizi Universali di Griine­
wald o di Hieronymus Bosch. Il vero credente ha un
orrore genuino della eresia << riformista t>, della credenza
in una transizione senza sangue verso il socialismo (la
quale fece sì che i comunisti denunciassero i socialisti e
poi i cinesi denunciassero i russi come traditori della
causa) . Niente apocalisse, niente regno.

LO SPACCO

La propaganda fascista non si diede molta pena per


armonizzare l'emozione con la ragione; liquidò le obie­
zioni logiche alle sue dottrine come << critica distruttiva t>.
L'epigramma di Goering << quando sento la parola 'cul­
tura' stendo la mano alla rivoltella >>, fu una franca di­
chiarazione di guerra all'intelletto: il cavaliere deve ob-

347
bedire al cavallo. La teoria leninista del Socialismo Scien­
tifico, dall'altra parte, fu un rampollo, in linea discen­
dente diretta, dell'Illuminismo. Fu un credo eminente­
mente razionalista, basato su una concezione materiali­
stica della storia che derideva ogni emozionalismo come
<< sentimentalismo piccolo-borghese >>. Come si spiega che
milioni di aderenti a questa dottrina razionalista - in­
clusi gli intellettuali progressisti di tutto il mondo -
accettassero le assurdità logiche del << culto della perso­
nalità >> di Stalin, i processi-spettacolo, le purghe, l'al­
leanza coi nazisti; e che quelli che vivevano fuori della
Russia le accettassero volontariamente in una disciplina
autoimposta senza pressione da parte del Grande Fra­
tello ? Il regime di Stalin appartiene al passato, ma i
suoi riti letali vengono fedelmente ripetuti in Cina e altrove,
incontrando la stessa approvazione di una nuova genera­
zione di simpatizzanti bene intenzionati. Al momento
in cui scrivo (fine del 1966) , la Cina soffre per le con­
vulsioni di un'altra delle purghe di massa che sono en­
demiche del sistema; e ho davanti a me un ritaglio re­
cente con i commenti della agenzia ufficiale Nuova Cina
su una nuotata che il presidente Mao Tse-Tung, << il sole
raggiante che illumina le menti degli uomini rivoluzio­
nari di tutto il mondo >>, fece nel fiume Yang-tze:

<< La sua traversata a nuoto dello Yang-tze fu un grande


incoraggiamento al popolo cinese e ai rivoluzionari di
tutto il mondo e un duro colpo all'imperialismo, al mo­
derno revisionismo e ai mostri e ai degenerati che si op­
pongono al socialismo e al pensiero di Mao Tse-Tung >> ( 1 8).

Ho parlato della vena paranoica che corre attraverso


la storia. L'uomo moderno può ammettere molto volon­
terosamente che questa vena è affiorata fra gli Aztechi
o nel folle tempo della caccia alle streghe. Forse ha meno

348
voglia di ammettere che un elemento allucinatorio com­
parabile era presente nella <c dottrina che quasi tutta
l'umanità, inclusi tutti i bambini che muoiono non bat­
tezzati, sono destinati a ricevere per sempre torture più
severe di quanto ogni esperto terrestre possa sforzarsi
di infliggere, col corollario che guardare in eterno le tor­
ture è una delle delizie dei beati >> (19) . Eppure questa
dottrina (la Fantasia Abominevole, come l'ha chiamata
il decano Farrar) era parte del sistema di credenze col­
lettivo della maggioranza degli europei fino alla fine del
XVII secolo, e per molti considerevolmente più a lungo.
Tuttavia anche quelli che apprezzano nella sua intera
portata il disordine mentale che giace sotto simili fantasie,
sono disposti a liquidarle come fenomeni del passato.
Non è facile amare l'umanità e ammettere tuttavia che la
venatura paranoide è altrettanto evidente nella storia
contemporanea di quanto lo era nel passato remoto, ma
che le sue conseguenze sono ancora più disastrose; e che
come mostrano le memorie del passato, non è accidentale
ma endemica, inerente alla condizione umana.
Non importa che i sintomi variino, i lineamenti del
disordine sono gli stessi: una mentalità spaccata, scissa
fra fede e ragione, fra emozione ed intelletto.1 La fede
in un sistema di credenze condiviso è basato su un atto
di abbandono emotivo; respinge il dubbio come qualcosa
di malvagio; è una forma di autotrascendimento che
esige la resa parziale o totale delle facoltà critiche dell'in­
telletto, comparabile allo stato ipnotico.

<c Newton scrisse non solo i Principia, ma anche un


trattato sulla topografia dell'inferno. Fino ad oggi tutti

l . Schizofrenia (scissione della mente) è definita usualmente uno


stato di disordine mentale in cui si manifesta una dissociazione fra i
processi intellettuali ed affettivi. La schizofrenia paranoide è caratte­
rizzata da persistenti e sistematizzate illusioni allucinatorie.

349
quanti noi conserviamo credenze che non solo sono in­
compatibili con i fatti osservabili, ma con i fatti che effet­
tivamente abbiamo osservato noi stessi. La corrente calda
della fede e il blocco di ghiaccio del ragionamento sono
chiusi insieme nei nostri crani, ma di regola non intera­
giscono fra di loro; il vapore non si condensa e il ghiaccio
non si fonde. La mente umana è fondamentalmente schi­
zofrenica, spaccata in due piani che si escludono a vi­
cenda . . . Il Primitivo sa che il suo idolo è un pezzo di le­
gno intagliato, e tuttavia crede nel suo potere di far
piovere; e sebbene la nostre fedi siano state sottoposte
a un raffinamento graduale, il disegno dualistico delle
nostre menti è rimasto fondamentalmente invariato )} (20).

Fino alla rinascita della cultura nel XIII secolo, que­


sto dualismo sembra non abbia causato particolari pro­
blemi, perché si considerava scontato che l'intelletto avesse
un ruolo subordinato di ancilla fidei, di serva della fede.
Ma la situazione cambiò quando San Tommaso d'Aquino
riconobbe la << luce della ragione )} come fonte indipen­
dente di sapere accanto alla << luce della grazia )}. La ra­
gione venne promossa dallo stato di ancella a quello di
<< sposa )} della fede. In quanto sposa naturalmente era
ancora tenuta a obbedire allo sposo; tuttavia da quel
momento in poi le si riconosceva una esistenza in pro­
prio. E con ciò il conflitto divenne inevitabile. Di tempo
in tempo esso raggiunse punte drammatiche: nel rogo di
Servezio, nello scandalo di Galileo, nello scontro fra dar­
winiani e fondamentalisti, nella ostinata opposizione alla
pianificazione delle nascite. In tali momenti climaterici
il conflitto che covava sotto la cenere divampa aperta­
mente; essi forniscono alla mente spaccata un'occasione
di diventare conscia di questo spacco e di superarlo schie­
randosi dall'una o dall'altra parte. Questi confronti aperti
tuttavia sono rari; il modo normale per vivere con una
mente spaccata era ed è di farci degli impacchi con delle

350
razionalizzazioni e sottili tecniche di pseudoragionamento.
Queste sono state gentilmente fornite in ogni tempo da
dialettici di vario stampo, dai teologi agli evangelizza­
tori marxisti. Così si raggiunge un modus vivendi basato
sull'autoinganno, che perpetua la venatura di allucina­
zione. Ciò si applica naturalmente non solo al mondo
occidentale, ma agli indù, ai musulmani e anche ai mili­
tanti buddisti; la storia dell'Asia è stata non meno san­
guinosa, santa e crudele della nostra.

COMODIT À DEL DOPPIO PENSIERO

Per ricapitolare: senza un credo trascendentale ogni


uomo è una piccola isola meschina. Il bisogno di auto­
trascendersi mediante qualche forma di << esperienza cul­
minante l) (religiosa o estetica), efo attraverso l'integra­
zione sociale, è inerente alla condizione dell'uomo. Le
fedi trascendenti derivano da certi schemi archetipi sem­
pre ricorrenti che evocano risposte emotive istantanee.1
Ma non appena si istituzionalizzano come proprietà col­
lettive del gruppo, degenerano in dottrine rigide, che
senza perdere l'appello emotivo al vero credente offen­
dono potenzialmente le sue facoltà di ragionamento.
Questo porta allo spacco: l'emozione risponde al grido
penetrante del muezzin; l'intelletto se ne scosta. Per eli­
minare la dissonanza sono state ideate in varie epoche
varie forme di doppio pensiero: potenti tecniche di
autoinganno, alcune rozze, altre estremamente sofisti­
cate. Le religioni secolari - le ideologie politiche - an­
ch'esse hanno le loro origini antiche nella aspirazione uto­
pistica verso una società ideale; ma quando si cristallizzano

l . Le varietà dell'esperienza religiosa di WII.LIAM J.U!ES è ancora


il classico di questo settore. Una trattazione più recente è offerta da
ALISTER HARDY nel suo La divina fi amma.

351
in un movimento o partito possono distorcersi in misura
tale che il programma effettivamente perseguito è il con­
trario giusto dell'ideale professato. La ragione per cui i
movimenti idealistici - sia religiosi che secolari - mo­
strano questa tendenza apparentemente inevitabile a de­
generare nella propria caricatura, può derivare dalle pe­
culiarità della mentalità di gruppo: la sua tendenza verso
la super-semplificazione intellettuale combinata con l'a­
gitazione emotiva, e la sua quasi-ipnotica suggestiona­
bilità da parte di figure di capi o di sistemi di credenze.
Posso parlare di questo con una certa esperienza di
prima mano, basata su sette anni (1931-38) in cui fui
membro del Partito Comunista durante il regime del
terrore di Stalin. Scrivendo su quel periodo ho descritto
le operazioni della mente illusa in termini di elaborate
manovre per difendere la cittadella della fede contro le
ostili incursioni del dubbio. Vi sono diversi anelli con­
centrici di difesa che proteggono la fortezza. Le difese
esterne sono concepite per tener fuori fatti spiacevoli.
Per i semplici di spirito questo è reso facile dalla cen­
sura ufficiale e dal bando di ogni forma di letteratura
suscettibile di avvelenare le menti; e istillando la paura
della contaminazione, o della colpa di complicità attra­
verso il contatto con eretici sospetti. Per rozzi che siano
questi metodi, essi producono rapidamente una visione
settaria del mondo, una visione con paraocchi. L'evi­
tare l'informazione proibita, dapprima imposta dall'e­
sterno, diventa presto un'abitudine, una revulsione emo­
tiva contro i sozzi pacchi di bugie offerti dal nemico.
Per la maggioranza dei credenti questo è sufficiente ad
assicurare una indefettibile lealtà; i più sofisticati sono
spesso forzati però a ritirarsi sulle posizioni di difesa più
interne. Nel 1 932-33, gli anni della grande carestia che
seguì la collettivizzazione forzata della terra, viagg1a1
molto nell'Unione Sovietica scrivendo un libro che non

352
fu mai pubblicato. Vidi interi villaggi deserti, stazioni
ferroviarie a ffollate da famiglie che chiedevano l'elemo­
sina, e i proverbiali bambini che morivano di fame; ma
questi erano veri e reali, con braccia stecchite, ventri
rigonfi e teste cadaveriche.

<< Reagii al brutale impatto della realtà sull'illusione,


in un modo che è tipico del vero credente. Fui sorpreso
e sconvolto, ma gli ammortizzatori elastici del mio
allenamento nel Partito cominciarono subito a lavorare.
Avevo occhi per vedere e una mente condizionata a
espellere quello che vedevano. Questo 'censore interno'
è più fidato ed efficace di qualsiasi censura ufficiale . . .
Mi aiutò a superare i dubbi e a risistemare le mie im­
pressioni nel disegno desiderato. Imparai a classificare
automaticamente qualunque cosa mi urtasse come 'ere­
dità del passato' e qualunque cosa mi facesse piacere
come 'seme del futuro'. Montando nella propria mente
questa macchina selezionatrice automatica, nel 1 933 era
ancora possibile per un europeo vivere in Russia e rima­
nere egualmente comunista. Tutti i miei amici avevano
nella testa quella selezionatrice automatica. La mente
comunista ha perfezionato le tecniche dell'autoinganno
nello stesso modo che le sue tecniche di propaganda di
massa. Il censore interno nella mente del vero credePte
completa l'opera del censore pubblico; la sua autodisci­
plina è altrettanto tirannica dell'obbedienza imposta
dal regime; terrorizza la propria coscienza fino a sotto­
metterla; si porta dentro al cranio il suo privato Sipario
di Ferro, per proteggere le proprie illusioni contro l'intru­
sione della realtà >> (20a).

Dietro il sipario c'è il mondo magico del doppio pen­


siero. << Il brutto è bello, il falso è vero, e anche vice­
versa >>. Questo non è Orwell; fu scritto in tutta serietà
dal defunto professar Suzuki, il più avanzato propugna­
tore del moderno Zen, per illustrare il principio dell'iden-

12 KOESTLER 353
tità degli opposti (21) . Le perversioni del Pop-Zen si ba­
sano su giochi di prestigio eseguiti sull'identità degli
opposti; quelle del comunista su giochi con la dialettica
della storia; quelle dell'uomo della Scolastica sulla com­
binazione della Sacra Scrittura con la logica aristotelica.
Gli assiomi differiscono, ma il processo di autoillusione
segue all'ingrosso lo stesso schema. Fatti e argomenti
che riescono a penetrare le difese esterne vengono trat­
tati col metodo dialettico, finché il << falso >> diventa << vero >>,
la tirannide autentica democrazia, e il brocco un puro­
sangue:
<< Gradatamente imparai a diffidare della mia preoccu­
pazione per i fatti, e a guardare il mondo intorno a me alla
luce della interpretazione dialettica. Era uno stato soddi­
sfacente e veramente beato; una volta che avevate assi­
milato la tecnica, i cosiddetti fatti assumevano automa­
ticamente la colorazione appropriata, e andavano a col­
locarsi al posto giusto. Sia moralmente che logicamente
il Partito era infallibile: moralmente, perché i suoi scopi
erano giusti, cioè in accordo con la Dialettica della Storia,
e questi scopi giustificavano ogni mezzo; logicamente,
perché il Partito era l'avanguardia del proletariato, e il
proletariato la personi:ficazione del principio attivo della
Storia. . . Vivevo ora in un mondo mentale che era un
'sistema chiuso', comparabile all'universo autocontenuto
del Medioevo. Tutti i miei sentimenti, i miei atteggia­
menti verso l'arte, la letteratura e i rapporti umani, ven­
nero ricondizionati e plasmati su quell'impronta >> (22).1

l . Questo è stato scritto nel 1 952. Quindici anni dopo l a scena


si è spostata, ma lo schema si ripete: <• Secondo la stampa cinese, ci­
tata nella 'Gazzetta letteraria' >>, il teatro di Shakespeare è << fonda­
mentalmente opposto al realismo socialista >>. . . Quanto al compositore
Bizet, la sua opera Carmen è screditata come un tentativo << di ven­
dere sesso e individualismo >>. Il guaio della Nona Sinfonia di Beethoven
è che la permea un concetto di <• amore umanitarista-borghese 1>. L'in­
teresse per la musica classica borghese non può che <• paralizzare la
risolutezza rivoluzionaria 1>. I critici cinesi scoprivano pure una <• vi­
sione revisionista � in A nna Karenina di Tolstoi.

354
Il tratto che più colpisce del sistema di illusioni del
paranoico è la sua consistenza interna e la allucinante
persuasività del paziente quando lo espone. Più o meno
lo stesso si applica a qualsiasi <c sistema chiuso )) di pen­
siero. Per sistema chiuso intendo una matrice conosci­
tiva governata da un canone che ha tre peculiarità fon­
damentali. Primo, pretende di rappresentare una verità
di validità universale capace di spiegare tutti i fenomeni
e di avere una cura per tutto ciò che tormenta l'uomo.
In secondo luogo, è un sistema che non può essere con­
futato dalla prova, perché ogni dato potenzialmente dan­
noso viene automaticamente trattato e interpretato per­
ché si adatti al disegno previsto. Il trattamento è ese­
guito con metodi sofisticati di casuistica, centrata su as­
siomi di gran potere emotivo, e indifferente alle regole
della comune logica; è una specie di gioco del croquet
come lo vide Alice nel Paese delle Meraviglie, giocato
con porte mobili. In terzo luogo, è un sistema che invalida
la critica facendo scivolare l'argomentazione sulla moti­
vazione soggettiva del critico, e deducendo la motivazione
di questo dagli assiomi del sistema stesso. La scuola orto­
dossa freudiana nei suoi primi stadi si avvicinava a un
sistema chiuso: se voi sostenevate che per tali e tali ra­
gioni voi dubitavate dell'esistenza del cosiddetto com­
plesso di castrazione, la pronta risposta del freudiano
era che la vostra argomentazione tradiva una resistenza
inconscia, indicante che voi stessi avevate un complesso
di castrazione; eravate preso in un circolo vizioso. Simil­
mente, se voi argomentavate con uno stalinista che fare
un patto con Hitler non era bello, vi avrebbe spiegato
che la vostra coscienza di classe borghese vi rendeva
in.capace di afferrare la dialettica della storia. E se un
paranoico vi ammette al segreto che la luna è una sfera
vuota piena di vapori afrodisiaci, che i marziani hanno
messo là per stregare gli uomini ; e se obiettate che la

355
teoria, sebbene attraente, è basata su prove insufficienti,
vi accuserà immediatamente di essere un membro della
cospirazione mondiale per sopprimere la verità.
Un sistema chiuso è una struttura conoscitiva con
una geometria distorta non euclidea, costruita in uno
spazio curvo dove le parallele si incontrano e le rette si
inarcano. Il suo canone è basato su un assioma centrale,
un postulato o un dogma a cui il soggetto si è abbando­
nato emozionalmente e da cui derivano le regole per il
trattamento della realtà. La quantità di distorsione com­
portata da questo trattamento è questione di gradi, ed
è un criterio importante del valore del sistema. Esso
va dalla involontaria inclinazione dello scienziato a gio­
care coi dati, forma mite di autoinganno provocato dalla
sua dedizione a una teoria, fino ai sistemi di credem�e
allucinatorie della paranoia clinica. Quando Einstein
emise la sua famosa sentenza <c se i fatti non si adattano
alla teoria, allora i fatti sono sbagliati l), parlò strizzando
l'occhio; ma espresse tuttavia un sentimento profondo
di scienziato tutto dedito alla sua teoria. Come abbiamo
visto, una sospensione occasionale della stretta logica in
favore di una temporanea indulgenza ai giochi del sotto­
suolo è un fattore importante nella creatività scientifica
e artistica. Ma i geni sono rari. E se i geni talvolta indul­
gono a questi giochi non-euclidei, dove il ragionamento
è guidato da derive emozionali, è uno scarto individuale,
una gobba congenita; laddove la mentalità di gruppo
riceve le sue credenze emozionali bell'e fatte dai propri
capi o dal suo catechismo.
Lasciatemi ripetere tuttavia che la quantità di distor­
sione logica necessaria a conservare felice nella sua fede
la mente illusa è un fattore di importanza decisiva. Qui
sta la risposta al relativismo etico che cinicamente pro­
clama che tutti i politici sono corrotti, tutte le ideologie
fumo negli occhi, ogni religione costruita per imbro-

356
gliare le masse. Il fatto che il potere corrompe non si­
gnifica che tutti gli uomini che hanno il potere sono
egualmente corrotti.

LA MENTALITÀ DI GRUPPO COME OL Ò MERO

Più sopra in questo capitolo mi sono riferito alla


tendenza degli organi sovraeccitati ad asserire se mede­
simi a detrimento del tutto, e poi ho continuato con la
patologia delle strutture conoscitive che vanno fuori con­
trollo: l'idea fissa, le ossessioni che entrano in rivolta, i
sistemi chiusi centrati su qualche verità parziale che pre­
tende di rappresentare l'intera verità. Troviamo ora si­
mili sintomi su un livello più alto della gerarchia come
manifestazioni patologiche della mentalità di gruppo. La
differenza fra questi due tipi di disordine mentale è la
stessa che c'è fra l'aggressività primaria dell'individuo
e l'aggressività secondaria derivata dalla sua identifi­
cazione con un olòmero sociale. L'individuo fissato, in­
namorato della propria teoria prediletta, il paziente della
clinica psichiatrica convinto che c'è una cospirazione si­
nistra diretta contro la sua persona, sono tagliati fuori
dalla società; le loro ossessioni servono qualche inconscio
scopo privato. In contrasto, le illusioni collettive della
folla o del gruppo sono basate non su deviazioni indivi­
duali, ma sulla tendenza dell'individuo a conformarsi.
Ogni individuo che asserisse oggi d'aver fatto un patto
col diavolo e di avere rapporti con dei sùccubi sarebbe
prontamente spedito in manicomio. Eppure non tanto
tempo fa credere in queste cose era naturalissimo e
approvato dal << senso comune )), nel senso originario del
termine, cioè consenso dell' opinione.1

l . « Filosofia del senso comune: accettazione delle credenze pri­


marie dell'umanità come criterio ultimo della verità » (The concise Oxford
dictionary) .

357
Ho avanzato l'idea che i mali dell'umanità siano
causati non dalla aggressività primaria degli individui,
ma dalla loro autotrascendente identificazione con i gruppi,
il cui comune denominatore è la bassa intelligenza e
l'alta emotività. Giungiamo ora alla conclusione paral­
lela, che la vena di allucinazione serpeggiante attraverso
la storia è dovuta, non a individuali forme di follia, ma
alle illusioni collettive generate da sistemi di credenze
basati sull'emozione. Abbiamo visto che la causa che
sta alla base di queste manifestazioni patologiche è lo
spacco, lo iato, fra ragione e fede o, più generalmente,
l'insufficiente coordinazione fra le facoltà emotive e di­
scriminative della mente. Il nostro passo prossimo sarà
indagare se possiamo risalire alla causa di questa defi­
ciente coordinazione - di questo disordine della gerar­
chia - localizzandola nell'evoluzione del cervello umano.
Se la neurofisiologia contemporanea, pur essendo ancora
nell'infanzia, dovesse mostrarsi in grado di fornire qual­
che indicazione sulle cause di questo male, avremmo fatto
un primo passo verso una franca diagnosi della nostra
maledizione, e con ciò guadagnare qualche vaga idea
sulla direzione in cui deve procedere la ricerca di un ri­
medio.

SOMMARIO

Le considerazioni esposte nei precedenti capitoli ci


hanno portati a distinguere nell'emozione tre fattori :
natura della spinta, il tono edonico e la polarità delle
tendenze autoassertive e autotrascendenti.
In condizioni normali le due tendenze sono in equilibrio
dinamico. In condizioni di stress la tendenza autoassertiva
può sfuggire al controllo e manifestarsi in comportamento
aggressivo. Tuttavia sulla scala storica i danni operati
dalla violenza individuale per motivi egoistici sono in-

358
significanti se confrontati con gli olocausti risultanti
dalla devozione autotrascendente a sistemi di credenze
collettivamente condivisi. Essa deriva dalla identificazione
primitiva, invece della integrazione sociale matura; com­
porta la resa parziale della responsabilità personale e
produce i fenomeni para-ipnotici della psicologia di gruppo.
L'egotismo dell' olòmero sociale si nutre dell'altruismo
dei suoi membri. I rituali ovunque diffusi del sacrificio
umano all'alba della civiltà sono sintomi precoci dello
spacco fra ragione e credenze basate sull'emozione, che
produce la vena di allucinazione che serpeggia attraverso
la storia.

359
XVI l I tre cervelli

Non ho alcuna inclinazione a tenere il dominio


della psicologia fluttuante, per così dire, a
mezz'aria, senza fondamento organico... Che
i biologi vadano fin dove possono, e noi an­
diamo avanti fin dove possiamo. Un giorno
o l'altro d incontreremo.
FREUD

Per ricapitolare: quando si contempla la vena demen­


ziale che corre attraverso la storia umana, appare alta­
mente probabile che l'Homo sapiens sia un mostro bio­
logico, il risultato di qualche notevole errore del processo
evolutivo. L'antica dottrina del peccato originale, va­
rianti della quale si trovano, indipendentemente, nelle
mitologie di diverse culture, potrebbe essere un riflesso
della consapevolezza che ha l'uomo di qualcosa di inade­
guato in lui, e dell'intuizione che in qualche punto lungo
la sua linea di ascendenza qualcosa è andato di traverso.

ERRORI NELLA FABBRICAZIONE DI CERVELLI

La strategia dell'evoluzione, come ogni altra strategia,


è soggetta al <c provando e riprovando ;). Non c'è niente di
particolarmente improbabile nella asserzione che l'at­
trezzatura nativa dell'uomo, sebbene superiore a quella
di qualsiasi specie animale conosciuta, cionondimeno
possa contenere qualche serio difetto nei circuiti del suo
strumento più prezioso e delicato, il sistema nervoso
centrale.
Se un'allodola sia più felice di una trota iridata è un
grazioso argomento di disputa; entrambe sono specie sta-

361
gnanti ma ben adattate ai loro modi di vita, e chiamarle
errori evolutivi perché non hanno abbastanza cervello
per scrivere poesie sarebbe il colmo della hybris. Quando
il biologo parla di errori dell'evoluzione, intende qual­
cosa di più tangibile e preciso: qualche deviazione ovvia
dai normali standard di efficienza meccanica della Na­
tura, un errore costruttivo che priva un organo del suo
valore per la sopravvivenza, come le corna mostruose
dell'alce irlandese. Alcune testuggini e insetti hanno il
dorso così pesante che, se in combattimento o per di­
savventura si rovesciano sul medesimo, non riescono a
rimettersi in piedi e muoiono di fame: grottesco errore
di costruzione che Kafka trasformò in simbolo della dan­
nazione umana. Ma prima di parlare dell'uomo devo
discutere brevemente due precedenti errori in cui l'evo­
luzione è incorsa nella costruzione del cervello; entrambi
con conseguenze di grande momento.
Il primo riguarda lo sviluppo del cervello degli ar­
tropodi, che con più di 700.000 specie conosciute costi­
tuiscono di gran lunga il più esteso phylum del regno
animale. Essi vanno dalle microscopiche tignuole, attra­
verso i millepiedi, gli insetti e i ragni, fino ai granchi gi­
ganti da tre metri; ma hanno tutti in comune questo,
che i loro cervelli 1 sono costruiti intorno ai loro esojaghi.
Nei vertebrati il cervello e il midollo spinale sono en­
trambi dorsali, dietro il canale alimentare. Negli in­
vertebrati invece la principale catena nervosa corre ven­
tralmente, dalla parte della pancia dell'animale. La ca­
tena termina in una massa ganglionare sotto la bocca.
Questa è la parte filogeneticamente più antica del cer­
vello; mentre la parte più nuova e più sofisticata si è
sviluppata sopra la bocca, in vicinanza degli occhi o di

l . Nelle forme inferiori le masse ganglioniche sono una prefigu­


razione del cervello.

362
altri tele-recettori. Così il tubo alimentare passa nel bel
mezzo della massa cerebrale in evoluzione, e questa è
una pessima strategia evolutiva, perché se il cervello deve
crescere ed espandersi, il tubo alimentare sarà sempre
più compresso (vedi fig. 11). Per citare L'origine dei ver­
tebrati di Gaskell:

<l Un progresso su queste linee deve aver per risul­


tato una crisi, a causa dell'inevitabile compressione del
canale alimentare da parte della crescente massa nervosa . . .
In effetti, nell'epoca in cui dapprima apparirono i verte­
brati, la direzione e il progresso di variazione degli ar­
tropodi stava conducendo, a causa del modo in cui il
cervello era perforato dall'esofago, a un terribile di­
lemma: o capacità di assumere cibo se11za intelligenza suf­
ficiente per catturarlo, o intelligenza sufficiente a cattu­
rare cibo e nessuna capacità di consumarlo •> (I).

Il dilemma sembra essere stato particolarmente acuto


per << gli animali superiori del tipo dello scorpione e del
ragno, la cui massa cerebrale è cresciuta intorno, com­
primendolo, al tubo digerente, cosicché nello stomaco
non può passare nient'altro se non alimento fluido; tutti
gli animali del gruppo sono diventati suggitori di sangue.
Questo tipo di animali - gli scorpioni di mare - erano
la razza dominante quando apparirono per la prima volta
i vertebrati. . . Una ulteriore evoluzione all'insù esigeva
un cervello sempre più grande, con la conseguenza che
ne derivava, di una sempre maggiore difficoltà nel rifor­
nimento di cibo 1> (2) . Un'altra autorità, Wood Jones,
osserva:

<l Diventare un suggitore di sangue è un fallimento.,


La senilità filogenetica giunge con la specializzazione
della suzione di sangue. La morte filogenetica seguirà
certamente. Questa è la fine del progresso nella formazione
del cervello fra gli invertebrati. Di fronte allo spaventoso

363
problema dell'alternativa fra l'avanzamento intellettuale
accompagnato dalla certezza della fame, e il ristagno in­
tellettuale accompagnato dalla incapacità di godere un
buon pasto, essi dovettero per forza scegliere quest'ul­
timo se volevano vivere. Gli invertebrati fecero un errore
fatale quando cominciarono a costruire il cervello intorno

Fig. l l
In alto: Relazione tra i l tubo digerente (A) e i l sistenta nervoso (B)
di un invertebrato. La massa cerebrale superiore (C) e la massa cere­
brale inferiore (D) strozzano il canale alimentare (da WooD JONES
e PORTEUS)
In basso: Sezione trasversale del cervello di un invertebrato di tipo
scorpioide. Le masse cerebrali superiori e inferiori (C e D) stringono
lo stretto tubo alimentare (A) nl centro del cervello (da GASKELL)

364
all'esofago. Il loro tentativo di sviluppare cervelli grandi
fu un fallimento . . . Si dovette effettuare un'altra par­
tenzu (3) .

Il fallimento si riflette nel fatto che persmo nelle


forme superiori di invertebrati - gli insetti sociali -
il comportamento è quasi interamente governato dal­
l'istinto; l'apprendimento attraverso l'esperienza ha una
parte relativamente ridotta. E poiché tutti i membri
dell'alveare sono discesi dalla stessa coppia di genitori
senza discernibili varietà ereditarie, essi hanno una in­
dividualità molto limitata: gli insetti non sono persone.
L'ammirazione per la meravigliosa organizzazione del­
l'alveare non dovrebbe accecarci su questo fatto. Nei
vertebrati, d'altra parte, a mano a mano che ascendiamo
la scala evolutiva, l'apprendimento individuale gioca
una parte via via crescente in confronto all'istinto,
grazie all'aumento di dimensioni e di complessità del
cervello, che è stato libero di crescere senza imporci
una dieta di pappine.
La seconda storia molto istruttiva riguarda i nostri
vecchi amici, i marsupiali. Li ho chiamati i parenti po­
veli di noialtri placentali, perché ogni specie di animale
con la borsa ventrale, dal topo al lupo, è una << sotto­
marca l) in confronto all'articolo che gli sta di fronte nella
serie placentale. Wood Jones (che è australiano lui stesso)
commenta con rincrescimento: << . . . Sono dei fallimenti.
Dovunque il marsupiale incontra i mammiferi superiori,
è il marsupiale che è circonvenuto da una superiore ca­
pacità e astuzia, e forzato a ritirarsi o a soccombere. La
volpe, il gatto, il cane, il coniglio, il topo e il ratto stanno
tutti spossessando i loro paralleli del phylum marsu­
piale l) (4} .
La ragione è semplice: i cervelli dei marsupiali non
solo sono più piccoli, ma di una struttura largamente

365
inferiore. L' opossum dalla coda ad anelli e il lemure
chiamato bush-baby (bimbo dei boschi) sono entrambi
animali arborei e notturni, con certe somiglianze di di­
mensioni, aspetto e abitudini. Ma nell' opossum marsu­
piale circa un terzo degli emisferi cerebrali è occupato
dal senso dell'olfatto; la vista, l'udito e tutte le altre
funzioni superiori sono ammucchiate nei rimanenti due
terzi. Il lemure placentale, dall'altra parte, non solo ha
un cervello più grande, benché il suo corpo sia più pic­
colo di quello dell' opossum, ma la superficie dedicata
all'olfatto nel cervello del lemure si è ridotta fino a di­
ventare relativamente insignificante, facendo posto, come
era opportuno, a zone che servono funzioni più vitali
per una creatura arboricola. Quando i marsupiali si ri­
volsero agli alberi l'olfatto avrebbe dovuto diventare
per loro senza importanza, in confronto ai tele-ricevitori
(vista e udito). e il loro sistema nervoso avrebbe dovuto
rispecchiare il cambiamento. Ma in contrasto a quello
che accadde ai nostri antenati, gli arboricoli placentali,
questo cambiamento mancò nei marsupiali. Per giunta,
un componente importante manca nel cervello dei mar­
supiali superiori, il cosiddetto corpo calloso. Questo è
un cospicuo tronco nervoso, che nei placentali collega
fra loro le << nuove •> (non olfattorie) a ree degli emisferi
cerebrali destro e sinistro. Ovviamente svolge una parte
integrativa vitale, sebbene i particolari del suo funzio­
namento siano ancora alquanto problematici,1 e la sua
assenza dal cervello dei marsupiali sembra sia stato per
principio fattore del loro arresto di sviluppo.
Il punto dove questo sviluppo giunge veramente
all'estremo, è l'orsetto koala. È, per citare di nuovo Wood
Jones, << il più grande e il più perfettamente adattato

l . Alcuni uomini all'autopsia risultarono nati senza un vero corpo


calloso, tuttavia senza che, all'apparenza, ne derivasse loro inferiorità
di sorta.

366
marsupiale arboricolo. Nell'insieme possiamo confron­
tarlo con la scimmia Patas )) (5) . Ma in confronto alla scim­
mia il koala fa una figura assai meschina: �( nel koala
lo scalatore d'alberi è diventato un rampicante. Le mani
sono diventate ganci; e le dita non sono usate per rac­
cogliere frutta o foglie o per saggiare oggetti nuovi, ma
per fissare l'animale, in virtù delle lunghe unghie ricurve,
all'albero a cui sta appeso )) (6) .
Non può fare altrimenti, perché il suo senso principale
è ancora l'odorato, che è di scarsa utilità in una crea­
tura arborea. Come Quoodle, il koala pensa col naso. Il
suo cervello pesa solo un settimo di quello della scim­
mia; e per la maggior parte è occupato dall'area olfattiva,
o rinencefalo, che nella scimmia virtualmente è svanita;
mentre le aree non olfattive del koala non hanno corpo
calloso per connetterle. Il koala è il termine della linea
marsupiale dell'evoluzione, abbandonato appeso al suo
albero di eucaliptus come un'ipotesi scartata, mentre
la sua cugina scimmia è solo l'inizio dell'evoluzione dal
primate all'uomo. È una speculazione affascinante do­
mandarsi se, ove i marsupiali fossero stati equipaggiati
con un corpo calloso, non si sarebbero evoluti in un pa­
rallelo uomo con la borsa, come si sono evoluti in pa­
ralleli muniti di borsa dello scoiattolo volante e del lupo.

UN' �( ESCRESC:GNZA TUMORALE ))

Ma prima di congratularci con noi stessi per avere


un cervello tanto superiore che non strangola il nostro
esofago, o ci condanna a vivere con l'olfatto, dovremmo
fermarci ed esaminare la possibilità se l'uomo, anche
lui, non porti per caso una falla costruttiva, un difetto
di fabbrica, dentro il cranio, forse anche più serio di
quelli precedenti dell'artropode e del marsupiale; un er­
rore di conformazione che potenzialmente lo minacci di

367
estinzione, ma che potrebbe ancora esser corretto da
un supremo sforzo di autoriparazione.
La prima ragione di questo sospetto è la rapidità
straordinaria della crescita evolutiva del cervello umano,
un fatto per quanto sappiamo unico nella storia del­
l'evoluzione. Per citare il professar Le Gros Clark: << Ap­
pare ora dalle testimonianze fossili che il cervello del­
l' ominide non cominciò ad accrescersi in modo signifi­
cativo prima dell'inizio del Pleistocene, ma dal medio
Pleistocene (circa mezzo milione d'anni fa) in poi si è
dilatato a velocità notevolissima, superante di molto
il tasso di cambiamento evolutivo registrato fin qui in
ogni carattere anatomico degli animali inferiori. . . La
rapidità dell'espansione evolutiva del cervello durante il
Pleistocene è un esempio di quella che è stata chiamata
'l'evoluzione esplosiva' )) (7) .
Vorrei ora citare L'evoluzione della natura �tmana, di
J ason Herrick:

<< La storia della civiltà documenta un lento ma dram­


matico arricchimento della vita umana sparso di episodi
di futile distruzione di tutte le ricchezze accumulate,
in fatto di beni materiali e di valori spirituali. Questi
episodici ritorni alla bestialità sembrano crescere in vi­
rulenza e in grandezza di disastri conseguenti, finché,
come avviene attualmente, siamo minacciati della per­
dita di tutto quello che è stato guadagnato nella nostra
lotta per una vita migliore.
Davanti a questa documentazione è stata avanzata
l'idea che l'accrescimento del cervello umano sia stato
cosi rapido e sia andato tanto oltre, che il risultato è
effettivamente patologico. Il comportamento normale di­
pende dalla conservazione di un equilibrato gioco reci­
proco fra i fattori di integrazione e di disintegrazione,
e fra il disegno totale e i disegni locali e parziali. Cosi,
si dichiara, la corteccia cerebrale umana è una specie
di escrescenza tumorale, che è diventata tanto grande

368
che le sue funzioni si sono sottratte al controllo normale,
e girano impazzite come una macchina a vapore che ha
perso il governacolo.
L'ingegnosa teoria fu preconizzata da Morley Roberts
e citata con evidente approvazione da Wheeler (8). I
loro argomenti sembrano plausibili di fronte alla passata
storia di guerre, rivoluzioni e imperi andati in briciole,
e al presente turbine mondiale che minaccia la totale
distruzione della civiltà. Ma la teoria è una sciocchezza
dal punto di vista neurologico l) (9).

Nella forma qui riportata lo è di certo. Non può es­


sere la dimensione della corteccia da sola a << porre le sue
funzioni fuori del controllo normale l). Dobbiamo cercare
una causa più plausibile.
La causa che la ricerca contemporanea sembra indi­
care è, non l'aumento di dimensione, ma l'inst�{ficiente
coordinazione fra archeocorteccia e neocorteccia, fra le
aree filogeneticamente vecchie del nostro cervello e le
nuove aree specificamente umane che gli si sono sovrap­
poste con fretta così indecorosa. Questa mancanza di
coordinazione causa, per usare una frase coniata da P. Mac
Lean, una specie di << dicotomia nella funzione della cor­
teccia filogeneticamente vecchia e di quella nuova, che
potrebbe spiegare le differenze fra il comportamento
emotivo e quello intellettuale l) (10). Mentre << le nostre
funzioni intellettuali si svolgono nella parte più nuova
e più sviluppata del cervello, il nostro comportamento
affettivo continua ad essere dominato da un sistema re­
lativamente crudo e primitivo. Questa situazione for­
nisce una chiave per capire la differenza fra quel che
noi 'sentiamo' e quel che noi 'sappiamo' . . . l> (11).
Guardiamo un po' più da vicino a quel che è implicato
in queste affermazioni dovute a un eminente neurofi­
siologo contemporaneo.

369
'
FISIOLOGIA DELL EMOZIONE

La distinzione fra << conoscere )) e << sentire )), fra ra­


gione ed emozione, risale ai Greci. Aristotile nel De anima
additò nelle sensazioni viscerali la sostanza dell'emozione
e le pose in contrasto con la forma, cioè il contenuto in
idee dell'emozione. La connessione intima fra emozione
e visceri è un fatto d'esperienza comune, ed è già stato
ammesso come scontato dai profani come dai medici:
sappiamo che l'agitazione emotiva influenza il battito
cardiaco e il polso; che la paura stimola le ghiandole
sudorifere, il dolore le ghi�pdole lacrimali e che i sistemi
respiratorio e dirigente, per non menzionare il riprodut­
tivo, sono tutti coinvolti nell'esperienza dell'emozione.
A tal punto che la parola << viscerale )) fu usata originaria­
mente per riferirsi a forti sentimenti emotivi inclusa la
paura (<< non ha fegato ))) , e la pietà (<< le viscere della
misericordia )))
.

Il Settecento era già avanti quando la professione


medica aderì alla dottrina galenica, secondo cui i pen­
sieri circolavano nel cervello e le emozioni circolavano
nei vasi del corpo. All'inizio dell'Ottocento questo antico
dualismo cedette il passo a una versione più moderna: nei
suoi libri che ebbero una immensa influenza, Anatomie
générale e Recherches physiologiques sur la vie et la mort,
Xavier Bichat tracciò una distinzione fondamentale fra
il sistema nervoso cerebro-spinale, comprendente il cervello
e il midollo spinale, che sorveglia tutte le transazioni
esterne dell'animale con il suo ambiente; e il sistema
<< ganglionico )), ora chiamato sistema nervoso autonomo,
che controlla tutti gli organi che provvedono alle funzioni
interne. Il primo, per lui, era governato da un unico
centro, il cervello; ma il secondo, Bichat pensava che
fosse governato da un gran numero di << piccoli cervelli )),
come il plesso solare, situati in varie parti del corpo. Il

370
sistema nervoso cerebro-spinale era considerato respon­
sabile di tutte le azioni volontarie; quello autonomo,
governante le viscere, era al di là del controllo volontario;
e così lo erano le passioni o emozioni che appartenevano
tutte al dominio viscerale.
La dottrina di Bichat regnò per un secolo intero;
fu provato che era errata in molti, se non nella maggior
parte, dei particolari, ma la distinzione che egli fece fra
le funzioni dei due sistemi e la loro corrispondenza con
l'antico dualismo fra pensiero e emozione è ancora valida
nelle sue grandi linee. Nessuno naturalmente crede più
che l'esperienza delle emozioni sia collocata nei << piccoli
cervelli >> in vicinanza del cuore e dell'intestino. Ogni
esperienza è centralizzata nel cervello, compreso il con­
trollo del sistema autonomo che bada alla funzione vi­
scerale. Come ci si potrebbe aspettare, i visceri sono con­
trollati da una struttura filogeneticamente antichissima
del tronco cerebrale, la regione dell'ipotalamo (thalamos
in greco significa camera nuziale, stanza interna) . Questa
è l'area cruciale, in stretta prossimità alla glandola pi­
tuitaria, e ai vestigi del primitivo cervello olfattivo o
rinencefalo, che regola le funzioni viscerali e glandolari
sottratte al controllo volontario, ed è intimamente con­
nessa con l'esperienza emozionale.
Ma non dobbiamo saltare alla conclusione che l'ipota­
lamo in sé sia la << sede >> dell'emozione. Ciò significhe­
rebbe trascurare il contenuto << idee >>, e ridurrebbe l'emo­
zione a << nient'altro che >> reazioni viscerali. Williams
James, in effetti, giunse molto vicino a questa posizione,
quando nel 1884 pubblicò un articolo che lanciava la
famosa teoria delle emozioni detta di James-Lange. In
nòcciolo la teoria sosteneva che in quelle situazioni che
richiedono reazioni viscerali per farvi fronte (ad esempio
un'accelerazione di battiti del cuore per fuggire lontano
da un pericolo), sentire che il proprio cuore si mette a

371
correre è l'emozione. Il cuore non corre perché abbiamo
paura; abbiamo paura perché il cuore corre; e non pian­
giamo perché ci sentiamo tristi, ma ci sentiamo tristi
perché piangiamo. È la percezione delle proprie reazioni
viscerali che presta all'esperienza la colorazione emozio­
nale. La reazione viscerale stessa è automatica e incoscien­
te, sia essa innata o acquisita con la passata esperienza.
La teoria di James-Lange diede origine a infinite
controversie che anche oggi, 80 anni dopo il lancio, non
si sono completamente sopite. Nel 1929 Walter Cannon
- un pioniere in questo campo - sembrò averle inferto
il colpo di grazia, quando fu dimostrato che il comporta­
mento emozionale persiste anche quando sono state ta­
gliate le connessioni fra i visceri e il cervello. Questa e
altre prove sperimentali fecero cadere la teoria in di­
scredito.1 La dottrina di James, secondo cui le emo­
zioni sono << nient'altro che )) reazioni viscerali, si è cer­
tamente dimostrata intenibile; ma il fatto stesso che la
dottrina sia stata così dura da distruggere mostra che
conteneva un nucleo solido di verità; il fatto che ci
arriva pari pari dalla comune osservazione quotidiana,
secondo la quale le sensazioni corporee diffuse, derivanti
da processi interni sottratti al controllo volontario, for­
mano un componente essenziale di ogni esperienza emo-

l. Cionondimeno, recentemente il Mandler ha mostrato che per­


sino la prova apparentemente decisiva (i famosi <• cinque punti & del
Cannon) è aperta a una diversa interpretazione: << Sebbene i muta­
menti viscerali siano essenziali per lo stabilirsi iniziale del comporta­
mento emotivo, in occasioni successive il comportamento emozionale
può dimostrarsi precedentemente condizionato a stimoli esterni, e può
1nanifestarsi sia senza supporto viscerale sia - in qualche modo -
in antecedenza a questo. . . L'argomentazione di Cannon secondo cui
il comportamento emozionale può essere presente in assenza di attività
viscerale dovrà probabilmente essere ristretta dicendo che sarà pre­
sente solo quando strutture e risposte viscerali intatte hanno prima
mediato il legame fra condizioni ambientali e comportamento emozio­
nale... La risposta viscerale è importante perché si stabilisca, ma non
perché si mantenga, il comportamento emozionale •l (12).

372
zionale. La teoria delle emozioni formulata da Cannon
(la teoria Cannon-Bard) pose in modo decisivo l'accento
sui cambiamenti corporei nelle << reazioni di emergenza >>
davanti alla fame, al dolore, alla rabbia e alla paura,
mediate dagli ormoni adrenali e dal sistema nervoso au­
tonomo. Ma egli spostò il fuoco dell'attenzione dai mec­
canismi viscerali a quelli cerebrali dell'ipotalamo che li con­
trollano, e considerò i cambiamenti corporei come espres­
sioni piuttosto che non cause della sensazione emotiva.
La teoria Cannon-Bard fu a sua volta criticata da
Lashley e altri; ma a questo punto l'argomento diventa
troppo tecnico. Per riassumere possiamo concludere con
certezza che le emozioni sono << spinte surriscaldate >> (do­
vute a stimoli interni efo esterni) le quali si trovino tem­
poraneamente - o anche permanentemente - prive di
sfogo adeguato; l'eccitazione arginata stimola l'attività
viscerale e glandolare, interessando circolazione, dige­
stione, tono muscolare, ecc.; e << le riverberazioni dell'or­
ganismo totale possono allora registrarsi al centro come
emozione provata >> (Herrick) (13) . Oppure per citare la
più recente riesposizione di Mandler: << Per quanto con­
cerne il retroscena fisico dell'emozione, possiamo con­
sentire con il senso comune sul fatto che qualche sorta
di risposta interna, viscerale, accompagna la produzione
del comportamento emotivo >> (14) . E vi sono ulteriori
prove che queste risposte viscerali dipendono da strut­
ture arcaiche del cervello, il cui disegno fondamentale
non ha subìto che piccole modifiche nell'intero corso
dell'evoluzione << dal topo all'uomo >> (MacLean) .

I TRE CERVELLI

Dopo questo escorso storico, ritorniamo alla domanda


su come facciano queste strutture arcaiche, e i sentimenti
arcaici a cui dànno origine, a stare insieme alle strutture

373
e alle funzioni nuove di zecca del nostro cervello. Gli
estratti che seguono portano dritto al cuore del problema;
provengono da una comunicazione di carattere medico del
prof. Paul MacLean, che ha la paternità della cosiddetta
teoria delle emozioni Papez-MacLean:

<< L'uomo si trova in questa terribile situazione: la na­


tura gli ha dato essenzialmente tre cervelli, che nono­
stante grandi differenze di struttura possono funzionare
insieme e comunicare tra loro. Il più vecchio di questi
è fondamentalmente un cervello da rettile. Il secondo
è stato ereditato dai mammiferi inferiori, e il terzo è frutto
di uno sviluppo tardivo che ha avuto luogo nei mammiferi,
è culminato nei primati e ha reso l'uomo tipicamente
uomo.
Parlando allegoricamente di questi tre cervelli b un
cervello, potremmo immaginare che quando lo psichiatra
ordina al paziente di stendersi sul divano egli si stende
accanto a un cavallo e a un coccodrillo. Il coccodrillo può
essere pronto a spargere volentieri una lacrima, e il ca­
vallo a sbuffare e nitrire, ma quando sono incoraggiati
a esprimere i loro guai in parole diventa presto evidente
che la loro incapacità è al di là dell'aiuto che può offrire
l'educazione linguistica. Non c'è da stupirsi se il pa­
ziente, che ha la responsabilità personale di questi ani­
mali e che deve servire come loro portavoce, è accusato
qualche volta di far troppa resistenza e di esser rilut­
tante a parlare . . . ( 1 5) . Il cervello da rettile è pieno di
sapere ancestrale e di memorie ancestrali ed è fedele nel
fare quello che dicono gli antenati, ma non è un cervello
molto buono per fare fronte a situazioni nuove. È come
se fosse legato da una nevrosi a un super-io ancestrale.
Nell'evoluzione si assiste dapp1ima all'inizio della
emancipazione dal super-io ancestrale con l'apparizione
del cervello dei mammiferi inferiori, che la natura co­
struisce in cima al cervello del rettile . . . Ricerche degli
ultimi venti anni hanno mostrato che il cervello dei
mammiferi inferiori svolge una parte fondamentale nel

374
comportamento emozionale . . . Ha una capacità maggiore,
che non il cervello del rettile, nell'imparare nuove im­
postazioni e soluzioni dei problemi sulla base dell'espe­
rienza immediata. Ma, come il cervello dei rettili, non
ha l'abilità . . . di mettere in parole i suoi sentimenti •> ( 1 6) .

Nel resto del presente capitolo m i appoggerò pesan­


temente sul lavoro sperimentale di MacLean e sulle sue
conclusioni teoriche (pur scostandomene in particolari
minori) . La grande attrattiva di questa teoria è la sua
impostazione consistentemente gerarchica, nel senso in
cui questo termine è usato nel presente libro. (( Nella sua
evoluzione - egli scrive, - il cervello dell'uomo conserva
l'organizzazione gerarchica dei tre tipi fondamentali, che
possono essere convenientemente etichettati rettilico, pa­
leo-mammiferico e neomammiferico. Il sistema limbico
[vedi sotto] rappresenta il cervello dei paleo-mammiferi,
ereditato dai mammiferi inferiori. Il sistema limbico del­
l'uomo è molto più altamente strutturato che non quello
degli animali inferiori, ma l'organizzazione di base, il
chimismo, ecc., sono molto simili. Lo stesso può dirsi
degli altri due tipi fondamentali. E ci sono ampie prove
che tutti e tre i tipi hanno una propria speciale memoria
soggettiva e conoscitiva (atta alla soluzione di problemi)
e altre funzioni parallele •> (17). Possiamo parafrasare
quanto precede dicendo che ognuno funziona come un
olòmero relativamente autonomo sul proprio livello.
Non tedierò il lettore con una disquisizione di anatomia
cerebrale, ma a questo punto poche osservazioni circa
l'evoluzione del cervello possono essere di aiuto. I vecchi
anatomisti confrontavano il cervello a un frutto simile
a un'arancia: la parte centrale è come la polpa, quella
esterna come la scorza; così la prima fu chiamata mi­
dolla, la seconda corteccia. La midolla è un prolunga­
mento del midollo spinale, e si prolunga ulteriormente

375
nel bulbo cerebrale. All'interno o v1cmo ad esso ci sono
nodi e strutture di masse cellulari come l'ipotalamo, il
sistema reticolare, i gangli di base. Questa è la parte
del cervello geneticamente più vecchia, e il suo nucleo
o telaio corrisponde grosso modo alle strutture basilari
del cervello del rettile. Esso contiene gli apparati essen­
ziali per le regolazioni interne (viscerali e ghiandolari),
per le attività primitive basate sugli istinti e i riflessi,
e anche i centri per stimolare la vigilanza dell'animale
o per farlo dormire. La corteccia o scorza, dall'altro
lato, è l'apparato per il comportamento <c intelligente )),
che va dalla capacità di acquisire nuove risposte per
mezzo di qualsiasi primitiva forma di apprendimento,
fino al pensiero concettuale. La corteccia fa la sua com­
parsa nello stadio dell'evoluzione in cui gli anfibi comin­
ciarono a trasformarsi in rettili; le prime promettenti
suddivisioni corticali si trovano nella tartaruga. La cor­
teccia è lo strato superficiale degli emisferi cerebrali che
si sviluppano dal bulbo cerebrale e si ripiegano intorno
ad esso come un mantello (da cui <c pallio )>) . Consta di
uno strato corticale esterno <c grigio )) di corpi cellulari,
e di fibre bianche disposte inferiormente. La corteccia
umana è spessa circa due millimetri e mezzo, e contiene
circa diecimila milioni di neuroni strettamente impac­
chettati insieme, per una superficie complessiva di circa
tre piedi quadrati, stivata in giri e solchi, circonvolu­
zioni e invaginazioni del foglio tutto arricciato. Un cir­
cuito complicato da far paura, eppure . . .
L'analogia con l'arancia, trovata dagli antichi noto­
misti, aiuta a farsi una idea sommaria della struttura
fondamentale del cervello; ma oltre a questo può sviare.
La corteccia, a differenza della buccia d'un'arancia, non
è omogenea. Diversi tipi di cellule nervose predominano
in diverse aree funzionali; e più di cento differenti aree
sono state localizzate; se ne è costruita la mappa, sono

376
state numerate o denominate a seconda della loro strut­
tura microscopica e in base ad altri criteri. Ma, benché
i particolari di queste classificazioni siano controversi,
c'è un accordo generale sul fatto che, giudicando dalla
loro storia evolutiva e dalla loro tessitura differenziata,
la corteccia ha tre suddivisioni fondamentali. Gli an­
tichi anatomisti le chiamarono: archipallio, paleopallio e

Mammifero
superiore

Fig. 12
(Secondo MACLEAN)

neopallio; MacLean le chiama: archicorteccia, mesocor­


teccia e neocorteccia, coordinate rispettivamente con il cer­
vello del rettile, del mammifero primitivo e del neomammi­
fero. Ma la distribuzione spaziale di queste tre divisioni cor­
ticali principali all'interno del nostro cranio non è facile da
spiegare né da visualizzare; MacLean propose un modello
semplificato in forma di un pallone-giocattolo gonfiabile,
con tre segmenti distinti (fig. 12) (18) .
A , M e N stanno per archi-, meso- e neocorteccia.
<l Il pallone non gonfiato rappresenta la situazione che si
riscontra nell'anfibio. Con l'apparizione del rettile c'è

377
un rigonfiarsi all'infuori dell' archicorteccia e un' espan­
sione considerevole della mesocorteccia. Durante la filoge­
nesi dei mammiferi ha luogo uno degli eventi più impres­
sionanti di tutta l'evoluzione. Si tratta del grande ri­
gonfiarsi verso l'esterno della neocorteccia. Durante que­
sto processo l'archicorteccia e la maggior parte della me­
socorteccia si ripiegano come due anelli concentrici nel
lobo limbico, e vengono relegati, per così dire, nella can­
tina del cervello l> (fig. 13) (19) .

Fig. 1 3
(Secondo MAcLEAN)

Il risultato di questo processo di ripiegamento è mo­


strato nella fig. 1 3 dove (a) è una vista laterale e (b)
una sezione verticale del cervello di una scimmia. I due
anelli ripiegati su se stessi formano una grossa circonvo­
luzione, il cosiddetto lobo limbico della corteccia cerebrale
(indicato in nero) . << Limbico )} viene da lembo e significa
<< formante un orlo tutto attorno l>; il termine fu coniato
nel 1878 dal grande geografo del cervello Broca, perché
la circonvoluzione limbica circonda il bulbo cerebrale:
il nucleo centrale (non mostrato nella figura) . In effetti
il cortice limbico è così strettamente connesso al bulbo
cerebrale che essi costituiscono insieme un sistema fun­
zionalmente integrato, il << sistema limbico )} con le sue
caratteristiche << rettiliche )} e << mammiferiche-primitive l}.
Il sistema limbico può così essere disinvoltamente chia-

378
mato il <c cervello vecchio )), in contrasto con il <c si­
stema neocorticale )) o <c cervello nuovo )). Già il Broca
aveva dimostrato che « il grande lobo limbico si trova
come una specie di comun denominatore nei cervelli di
tutti i mammiferi . . . La fedele conservazione di questa
corteccia attraverso la filogenesi dei mammiferi con­
trasta con la rapida evoluzione e crescita intorno ad esso
della neocorteccia, quest'ultima rappresentando l'accre­
scersi della funzione intellettuale.. . La corteccia limbica
è strutturalmente primitiva se confrontata alla neocor­
teccia; offre essenzialmente lo stesso grado di sviluppo
e organizzazione per tutta la serie dei mammiferi. Questo
suggerirebbe l'idea che funzioni su un livello animali­
stico sia nell'animale che nell'uomo )) (20) .

L' EMOZIONE E IL CERVELLO ANTICO

Questo è certamente uno strano stato di cose. Se la


prova non ci avesse insegnato il contrario, ci saremmo
aspettati uno sviluppo evolutivo che trasformasse gra­
dualmente il primitivo cervello in uno strumento più
sofisticato, come ha trasformato l'artiglio in mano, le
branchie in polmoni. Invece l'evoluzione ha sovrapposto
una nuova struttura superiore ad una vecchia, con fun­
zioni che in parte si sovrappongono, e senza fornire alla
nuova un controllo netto, gerarchico sulla vecchia, favo­
rendo così confusione e conflitto. Diamo uno sguardo
più ravvicinato a questa dicotomia fra i sistemi limbico
e neocorticale.
MacLean confronta la corteccia con uno schermo te­
levisivo che dia all'animale una pittura combinata dei
mondi esterno e interno. Questa è un'analogia utile per
lo scopo limitato per cui la impiega. Ma per evitare ma­
lintesi vorrei, prima di farne uso, segnalarne le limita­
zioni. Di tutte le parti del corpo la corteccia cerebrale

379
è quella più intimamente connessa con la coscienza e
l'autocoscienza; ma sarebbe errato chiamarla - come
si fa talvolta - la sede della coscienza. Per citare il sa­
piente meccanico J ason Herrick: << La ricerca di una sede
della coscienza in generale, o di qualsiasi particolare
specie di esperienza cosciente, è uno pseudoproblema,
perché l'atto cosciente ha proprietà che non sono defini­
bili in termini di unità spaziali e temporali quali ven­
gono usate nella misurazione degli oggetti e degli eventi
del nostro mondo oggettivo. Quello che noi cerchiamo
e che troviamo con una indagine obiettiva è l'apparato
che genera la coscienza. Questo meccanismo ha il suo
' luogo' nello spazio e nel tempo, ma la coscienza come
tale non è ubicata in qualsiasi parte particolare del mec­
canismo >> (i corsivi sono miei) (21) .
I n questo senso quindi l a corteccia cerebrale è pro­
babilmente il principale << apparato che genera la consa­
pevolezza >>. Le antiche strutture del bulbo cerebrale si
può dire che forniscano la << materia prima >> della coscienza:
la formazione reticolare << sveglia >> l'animale; le strutture
ipotalamiche contribuiscono la componente viscerale; ma
da ultimo << la corteccia cerebrale sta al cervello come lo
schermo televisivo sta al televisore, e come lo schermo
radar sta al pilota >> (22). Se è questo il caso, dobbiamo
affrontare il paradosso che l'evoluzione ci ha forniti di
almeno due schermi siffatti, l'uno vecchio e l'altro nuovo.
L'antico schermo limbico ha, come abbiamo visto,
tre caratteristiche principali: a) la sua struttura micro­
scopica è grezza e primitiva se confrontata con quella
della neocorteccia; b) il suo schema fondamentale è
ancora essenzialmente il medesimo di quello dei mam­
miferi inferiori; c) in contrasto con la nuova corteccia
il sistema limbico è connesso intimamente, mediante
sentieri neurali a due vie - fibre del diametro di un
lapis - con l'ipotalamo e altri centri del bulbo cerebrale

380
che si occupano di sensazioni viscerali e di reazioni emo­
tive, compreso il sesso, la fame, la paura e l'aggres­
sione; a tal punto che il sistema limbico una volta portava
il nome di (( cervello viscerale l>. 1 Il termine fu sostituito
perché dava l'impressione che si occupasse soltanto dei
visceri; mentre di fatto l'antica corteccia limbica, come
vedremo or ora, ha pure i suoi propri processi mentali:
prova emozioni e pensa, sebbene non con concetti verbali.
Il sistema limbico può essere rassomigliato a uno
schermo di televisione primitivo che combini e spesso
confonda proiezioni dall'ambiente interno viscerale con
l'ambiente esterno. <( Una simile corteccia deve aver of­
ferto qualcosa della confusione di una pellicola esposta
due volte. In ogni evenienza non potrebbe essere stato
del tutto soddisfacente perché quando la Natura proce­
dette a sviluppare il cervello del neomammifero, costruì
progressivamente un tipo più grande e più fine di schermo,
che dava in predominanza una pittura del mondo esterno
fatto di impressioni dell'occhio, dell'orecchio e della su­
perficie del corpo. . . Ma la Natura nella sua frugalità
non scartò il vecchio schermo. Dal momento che sem­
brava adeguato per l'olfatto, il gusto e la sensazione di
quel che stava succedendo nel corpo, ha mantenuto ac­
cesi notte e giorno i filamenti del tubo catodico del vecchio
schermo l) (23) .
Tuttavia il vecchio cervello non si occupa soltanto del
gusto, dell'odorato e delle sensazioni viscerali, lasciando
che il nuovo diriga il suo sguardo all'esterno: sarebbe
stata una divisione del lavoro troppo idillica. La <( teoria
delle emozioni di Papez l) ebbe origine dallo studio delle
condizioni patologiche in cui il (( vecchio tubo l) interfe­
risce col nuovo e tende ad usurparne le funzioni. Papez
l. Anche in precedenza la corteccia limbica era chiamata rinen­
cefalo, cioè il cervello del fiuto, perché si pensava che fosse esclusiva­
mente investito dell'odorato.

381
notò che un'avaria al sistema limbico causava una varietà
di sintomi che in modo primario intaccavano il compor­
tamento emotivo dell'animale e dell'uomo. Un caso
estremo è la terribile malattia della rabbia, il cui virus
sembra avere una predilezione per il sistema limbico e
nella quale << il paziente è soggetto a parossismi di rabbia
e terrore )) (2'1) . Meno estremi, ma egualmente significativi
sono gli stati emozionali del << morbo sacro )), l'epilessia.
Hughlin Jackson, uno dei pionieri della neurologia, de­
scrisse l'aura epilettica che precede l'attacco come uno
« stato di sogno )), una sorta di << coscienza doppia )), in

cui il paziente è consapevole della realtà che lo circonda


ma come se fosse un sogno o una ripetizione di qualcosa
che è capitato prima (déjà vu) . Nel corso dell'effettivo
attacco di epilessia psicomotoria, il cervello << animale ))
sembra impadronirsi della personalità. Mordere, masti­
care, digrignare i denti, terrore o furore, sono i terribili
ben noti sintomi che accompagnano l'attacco, di cui di
regola l'ammalato non conserva memoria. Ogni prova
clinica addita in questi casi il sistema limbico come il
focolaio della scarica epilettica (25). Tipico del materiale
clinico è per esempio il caso di una ninfomane di 55 anni
<< che per più di dieci anni si lamentava di un persistente
' sentimento di passione'. Più tardi sviluppò le convul­
sioni. È notevole che si pensasse che il profumo ne esa­
gerava i sintomi )) (26) : l'odorato è il più viscerale dei
sensi. Si sottopose ad un intervento chirurgico al cervello
e l'operazione rivelò una lesione al lobo limbico.
Il materiale clinico umano è limitato, e l'elettroence­
falogramma è una invenzione recente; così la maggior
parte delle prove sono offerte dalla sperimentazione sugli
animali. Esse sono essenzialmente di due tipi: eccitazione
elettrica o chimica del cervello, ed eliminazione chirurgica
di certe sue aree. Citerò di nuovo MacLean:

382
<< Dalla sperimentazione sugli animali circa la epiles­
sia limbica (indotta da stimolazione elettrica), è diven­
tato evidente che le scariche indotte nel lobo limbico
tendono, pur spargendosi, a confinarsi al sistema limbico.
Di rado le scariche, analoghe a bolle che fuggono in tutti
i sensi, riescono a prorompere fuori del recinto e a saltare
la palizzata entrando nel cervello neomammiferico. Tali
esperimenti forniscono la prova più impressionante che
sia disponibile di una dicotomia di funzione (o di quel
che è stato chiamato una 'schizofisiologia' dei sistemi
limbico e neocorticale). I pazienti con violenta epilessia
limbica possono manifestare tutti i sintomi della schi­
zofrenia; la schizofisiologia in questione è probabilmente
rilevante per la patogenesi di questa malattia . . .
Dal punto di vista del paziente allungato sul lettino
la schizofisiologia in esame è significativa perché indica
che il cervello del mammifero inferiore è in grado, fino
a un certo limite, di funzionare indipendentemente e
di prendere le proprie decisioni. Il primitivo rozzo schermo
fornito dalla corteccia limbica può essere immaginato
come se ritraesse una pittura confusa del mondo in­
terno e del mondo esterno. Questo può spiegare in parte
la manifesta confusione che è stata descritta nelle con­
dizioni psicosomatiche, la confusione per esempio in
cui il cibo o altri alimenti servono come rappresenta­
zione di qualcosa del mondo esterno che si desidera as­
similare in se stessi, o dominare e distruggere come una
preda o nemico.1 Si trovano descrizioni del paziente che
mangia presumibilmente a causa del suo bisogno d'a­
more, per ansietà, o nervosismo, o a causa del bisogno di
masticare, o di disfarsi di quel che desta la sua rabbia
e il suo odio )) (27).

Metodi più recenti di sperimentazione con elettrodi


impiantati, che permettono una stimolazione a basso

l. La rilevanza di questa constatazione per i fenomeni discussi


alle pp. 309 e segg. è ovvia.

383
voltaggio di punti ben definiti del cervello di una scimmia,
hanno prodotto risultati ancora più impressionanti. La
stimolazione di certi << luoghi >> del sistema limbico ha
causato l'erezione o l'eiaculazione, nei maschi; la sti­
molazione di altri punti ha causato reazioni tipiche
del mangiare: masticazione e salivazione; tuttavia altre
aree espressero comportamento esploratoria, aggressivo­
difensivo o di paura (va notato che questi esperimenti
sono indolori e che le scimmie con elettrodi infissi nei
cosiddetti << centri del piacere >> rapidamente e volontero­
samente imparano a stimolarsi da sé premendo una leva
che dà corrente) . Tuttavia l'eccitazione di un tipo rapi­
damente trabocca sui punti adiacenti, che destano emo­
zioni di altro tipo. Così l'attività orale, il masticare, lo
sbuffare, la salivazione, possono combinarsi con l'ag­
gressione; gli spiegamenti aggressivi col sesso; il sesso
con l'attività orale. Il nutrirsi spesso produce l'erezione
nei bambini e nei cani; e anche altri aspetti del compor­
tamento canino costituiscono gravi infrazioni agli standard
vittoriani.

SCHIZOFISIOLOGIA

Qui di nuovo il contrasto fra la vecchia e la nuova


corteccia offre un indovinello inatteso e una dimensione
supplementare alla concezione psicoanalitica. Sul << nuovo >>
schermo TV (la corteccia sensoria) il corpo è rappresen­
tato nella forma ben nota di un piccolo homunculus che
si vede in tutti i libri di testo, in cui la bocca e la regione
ano-genitale sono poste correttamente alle estremità op­
poste dell'area di proiezione. Nel vecchio cervello del
mammifero inferiore, tuttavia, << la natura apparente­
mente ha trovato necessario piegare il lobo limbico su
se stesso, al fine di permettere al senso dell'olfatto una

384
partecipazione intima sia alle funzioni orali che a quelle
ano-genitali l> (28) .
Questa è una vendetta veramente inattesa della teoria
di Freud sulla sessualità infantile. È, al tempo stesso,
un monito che la sopravvivenza del cervello dei mammi­
feri inferiori nella nostra testa non è una metafora ma
un fatto. Nel contesto sessuale come in tutti gli altri la
maturazione sembra significare una transizione dal pre­
dominio del vecchio cervello alla egemonia del nuovo,
ma, prescindendo completamente dagli sconvolgimenti
emotivi e dalle condizioni patologiche, la transizione
anche nella persona normale non può essere mai completa.
La schizofisiologia è incorporata nella nostra specie.
In esperimenti di ablazione chirurgica gli effetti sono
più drastici. Dopo la eseresi di certe parti del lobo lim­
bico, scimmie dal temperamento precedentemente sel­
vatico sembrano perdere le reazioni istintive che sono
necessarie alla sopravvivenza. Diventano docili, non mo­
strano né paura né rabbia, non reagiscono se provocate,
non imparano a evitare situazioni penose. Perdono anche
i loro istinti nutritivi: una scimmia che normalmente
vive di frutta mangerà ora carne cruda o pesci, e mo­
strerà una tendenza compulsiva a mettersi in bocca qua­
lunque oggetto: chiodi, feci, fiammiferi accesi. Infine
anche gli istinti sessuale e parentale vanno a soqquadro:
gatti maschi cercheranno di accoppiarsi con galline, e
tope madri lasceranno morire i loro piccoli (29) .
Tuttavia il cervello vecchio non ha soltanto che fare
con gli affetti; percepisce anche, ricorda, e << pensa l), in
suoi propri modi quasi indipendenti. Negli animali primi­
tivi il sistema limbico è il centro integrativo più alto
per le pulsioni della fame, del sesso, del combattimento
e della fuga; e la prova anatomica e fisiologica indica che
esso continua a servire a queste funzioni negli animali
superiori, uomo compreso. Occupa, come già accennato,

IJ KOESTLER 385
una pos1z10ne strategicamente centrale per la correla­
zione delle sensazioni interne con le percezioni prove­
nienti dal mondo esterno, e per iniziare un'appropriata
azione secondo i lumi di cui dispone. Sebbene dominato
dall'istinto, è chiaramente capace di imparare lezioni sem­
plici: una scimmia assaggerà una volta sola un fiammi­
fero acceso se il suo sistema limbico è intatto; se è dan­
neggiato continuerà a bruciarsi la bocca tutte le volte.
<l Si può difficilmente immaginare un cervello più inu­
tile di uno che se ne sta per conto suo tutto il giorno,
senza generare altro che emozioni e senza partecipare
alla conoscenza, alla memoria e alle altre funzioni >> (30) .
Ma tuttavia funziona lo stesso, in modo filogeneticamente
antiquato, in un modo che gli psichiatri chiamano in­
fantile o primitivo.

<< Sulla base delle precedenti osservazioni si potrebbe


in ferire che [la vecchia corteccia] quasi non sia in grado
di trattare l'informazione in modo un po' più che rudi­
mentale, e che sia probabilmente troppo primitiva per
analizzare il linguaggio. Tuttavia potrebbe avere la ca­
pacità di partecipare a un tipo non verbale di simbo­
lismo. Questo avrebbe significative implicazioni, in quanto
il simbolismo interessi la vita emotiva dell'individuo. Si
potrebbe immaginare, per esempio, che sebbene il cer­
vello viscerale non possa mai aspirare a concepire il color
rosso in termini di una parola di cinque lettere o di una
specifica lunghezza d 'onda luminosa, possa associare il
colore in modo simbolico con cose così diverse come il
fuoco, lo svenimento, il combattimento, i fiori eccetera,
correlazioni che portano a fobie, a comportamento osses­
sivo-compulsivo, ecc. Mancando dell'aiuto e del con­
trollo della neocorteccia, le sue impressioni si scariche­
rebbero senza modifica nell'ipotalamo e nei centri inferiori
del comportamento affettivo. Considerato alla luce della
psicologia freudiana, il cervello vecchio avrebbe molti
degli attributi dell'inconscio es. Si potrebbe arguire tut-

386
tavia che il cervello viscerale è 11,0n inconscio del tutto
(probabilmente neppure in certi stadi del sonno), ma piut­
tosto che elude la presa dell'intelletto a causa della sua
struttura animalistica e primitiva, che gli rende impossibile
comunicare in termini verbali. Forse sarebbe più opportnno
dire perciò che era un cervello animalistico e illetterato •>
[MA.CLEAN (31); i corsivi sono nell'originale].

SAPORE DI SOLE

Le nostre emozioni sono notoriamente inarticolate,


iucomunicabili in termini verbali. La maggior difficoltà
del romanziere è descrivere quello che i suoi personaggi
sentono, cosa distinta da quello che pensano o che
fanno. Possiamo descrivere i processi intellettuali nei
più intricati particolari, ma abbiamo soltanto a dispo­
sizione un vocabolario molto rozzo persino per le sen­
sazioni vitali della sofferenza fisica, come ben sanno
sia il medico che il paziente, per sua disgrazia. La sof­
ferenza è << muta •>. L'amore, la rabbia, il senso di colpa,
il cordoglio, la gioia, l'ansietà abbracciano un grande
spettro iridescente di emozioni di colore e di intensità
svariati, che siamo incapaci di comunicare verbalmente
eccetto i triti clichés - << cuore spezzato >>, << spasimi di
disperazione •> - oppure mediante il metodo indiretto
di invocare immagini visive, e l'effetto ipnotico del ritmo
e dell'eufonia che << cullano la mente in un sogno ad occhi
aperti •> .
Si può così dire che la poesia realizza una sintesi fra
il sofisticato ragionare della neocorteccia e i modi emo­
zionali più primitivi del vecchio cervello. Questo indie­
treggiare per saltare meglio, che sembra sottostante ad
ogni attuazione creativa, può riflettere una regressione
temporanea, dal pensare ultraconcreto neocorticale, a
modi più fluidi e << istintivi >> di pensare limbico, un

387
« regresso all'es a serv1z10 dell'io l). Ricordiamo pure che

talvolta << dobbiamo smettere di parlare per pensare con


chiarezza 1>, e il linguaggio è monopolio della neocorteccia.
In modo simile altri fenomeni discussi nei capitoli sulla
creatività e sulla memoria possono essere interpretati in
termini di livelli gerarchici dell'evoluzione del cervello.
Così per esempio la distinzione che abbiamo fatto, tra la
memoria astrattiva da un lato, e i << fumetti 1> emozio­
nalmente significativi dall'altro (cap. VI), sembra riflet­
tere la caratteristica distinzione fra il nuovo e il vecchio
cervello.1
Le conseguenze della innata << schizofisiologia 1> del­
l'uomo vanno così dal creativo al patologico. Se il primo
è un rinculare per saltar meglio, il secondo è un rinculare
senza saltare. Le sue forme variano da quello che noi
consideriamo comportamento più o meno normale, dove
una tendenziosità emozionale inconscia distorce il ragio­
namento in misura soltanto limitata, in modi socialmente
approvati o tollerati, passando attraverso gli aperti o
soffocati conflitti della neurosi, su su fino alla psicosi e
alla malattia psicosomatica. In casi estremi la distin­
zione fra il mondo esterno e quello interno può confon­
dersi, non solo attraverso allucinazioni, ma anche in altri
modi; il paziente sembra ritornare all'universo magico
del primitivo: << Si è raggiunta clinicamente l'impres­
sione che [questi] pazienti. . . mostrino una tendenza esa­
gerata a considerare il mondo esterno come se fosse parte
di loro stessi. In altre parole, le sensazioni interne si me­
scolano con quel che si vede, ascolta o che comunque
si sperimenta a tal punto che il mondo esterno è sen­
tito come se fosse all'interno. Sotto questo aspetto c'è
una rassomiglianza con i bambini e i popoli primitivi 1> (32).

l . Cfr. anche i tre livelli della memoria visiva del Kluever (31&) :
p. 1 3 1 .

388
Un esempio di tale confusione è l'osservazione fatta da
una ragazza affetta da epilessia, parlando del suo primo
attacco che era accaduto mentre da bambina stava
passeggiando sotto un gran sole: (( Avevo in bocca un
buffo sapore di sole )). È una frase che avrebbe potuto
scrivere un poeta; ma a differenza di questa povera bam­
bina, sarebbe stato consapevole della propria confu­
sione.

(( SAPERE CON LE PROPRIE VISCERE ))

Qualche volta tutti quanti noi possiamo sentire in


bocca il sapore del sole; ma le nostre confusioni maggiori
nascono non da simile interferenza viscerale con le nostre
percezioni, ma con le nostre convinzioni e le nostre cre­
denze. Le credenze irrazionali sono ancorate nell'emozione;
si sente che sono vere. Credere è stato descritto come
<( sapere con le proprie viscere )). Più correttamente do­
vremmo dire che è un tipo di conoscenza dominato dall'in­
fluenza del vecchio cervello inarticolato, anche se è for­
mulato in termini verbali articolati. A questo punto
queste considerazioni neurofisiologiche vengono a fon­
dersi con i fenomeni psicologici discussi nel capitolo pre­
cedente. La schizofisiologia del cervello offre una chiave
per capire la venatura allucinatoria che percorre la storia
dell'uomo.
Un sistema chiuso, come definito nel capitolo prece­
dente, è una matrice conoscitiva con una logica distorta,
la distorsione essendo causata da qualche assioma, postu­
lato o dogma centrale, a cui il soggetto si è abbandonato
emotivamente e da cui vengono derivate le regole per il
trattamento dei dati. I sistemi conoscitivi non sono na­
turalmente prodotti esclusivi del cervello rettilico o pa­
leomammiferico o neomammiferico, ma dei loro sforzi
combinati. L'intensità della distorsione varia secondo il

389
livello che domina, e la misura in cui questo domina.
Senza qualche contributo da parte degli antichi livelli
che si occupano delle sensazioni interne e corporee, l'espe­
rienza della nostra propria realtà sarebbe probabilmente
assente, saremmo come << spiriti disincarnati 1> (Mac­
Lean) (33). Senza la neocorteccia saremmo alla mercè
degli affetti, e il nostro pensiero sarebbe come quello
della scimmia o del lattante. Ma il pensiero distaccato,
razionale, è un'acquisizione nuova e fragile; è intaccato
dalla più leggera irritazione del vecchio cervello, che
una volta stimolato tende a dominare la scena.
Tuttavia sappiamo che a metà strada fra lo << spirito
disincarnato 1> del puro ragionamento astratto, e i pas­
sionali nitriti della vecchia corteccia, c'è una serie di
livelli intermedi. Come già detto (pp. 250 e segg.), sa­
rebbe una grossolana ultrasemplificazione distinguere sol­
tanto due tipi di attività mentale, come il processo << pri­
mario 1> e << secondario 1> di Freud, il primo governato
dal principio di piacere il secondo dal principio di realtà.
In mezzo a questi due dobbiamo interpolare diversi me­
todi di acquisizione della conoscenza, come li troviamo
nelle società primitive a vari stadi di sviluppo, nei bam­
bini a varie età, e negli adulti in vari stati di coscienza,
quali il sogno, il sogno ad occhi aperti, l'allucina­
zione, ecc. Ognuno di questi sistemi di pensiero ha il
proprio canone, le sue particolari << regole del gioco 1>,
che riflettono - in maniera che non sappiamo spiegare -
le complesse interazioni di vari livelli e strutture del
cervello. I livelli antichi e nuovi devono interagire fra
loro in continuazione, anche se il loro coordinamento
è inadeguato e deficiente quanto ai controlli che prestano
stabilità a una gerarchia bene equilibrata.
Una delle conseguenze di questo è che i simboli ver­
bali diventano associati a valori emotivi e a reazioni
viscerali, come dimostra così drammaticamente il lie-

390
detector o macchina della verità psicogalvanica. E ciò
si applica naturalmente non solo a parole singole o a
singole idee; complesse dottrine, teorie, ideologie sono
atte ad acquisire una simile saturazione emotiva, per
non menzionare i feticci, le figure dei leaders e le Grandi
Cause. Disgraziatamente non possiamo ricorrere a una
macchina della verità per misurare l'irrazionalità dei
nostri sistemi di credenza, né la componente viscerale
delle nostre razionalizzazioni. Il vero credente si muove
in un circolo vizioso all'interno del suo sistema chiuso:
egli può provare per propria soddisfazione tutto ciò
in cui crede, e crede in tutto ciò che può provare.

GIANO RIVISITATO

MacLean distingue due impulsi motivazionali basil�i,


ognuno dei quali dà origine a propri appositi tipi di emo­
zioni: l'autoconservazione e la conservazione della specie.
Il suo lavoro sperimentale sulle scimmie lo condusse a
un tentativo di localizzazione della prima nella metà
inferiore del sistema limbico, e della seconda nella metà
superiore. Le emozioni derivanti dagli impulsi autocon­
servativi sono la classica trinità fame, rabbia e paura.
Essi dipendono dalla divisione gran simpatico del si­
stema nervoso autonomo, e dall'effetto galvanizzante
degli ormoni adrenalici immessi nella corrente sanguigna.
Se includiamo le componenti aggressive e orali del com­
portamento sessuale in questo gruppo (e abbiamo visto
come la stimolazione elettrica dell'una di queste risposte
si propaghi in un'altra) , otteniamo un repertorio abba­
stanza completo di quel che abbiamo chiamato le ten­
denze autoassertive. L'altra delle due pulsioni fondamen­
tali di MacLean, la conservazione della specie, è una
categoria dai confini meno nitidi . Egli vi include le cure
per i nati, gli abiti di corteggiamento, e altre forme di

391
comportamento sociale amichevole delle scimmie; ma ·

sembra considerarle secondo la tradizione freudiana come


derivati dell'impulso sessuale:

<< La preoccupazione per il benessere e la conserva­


zione della specie si basa sulla sessualità, e nell'uomo si
riflette in modi molteplici. È una preoccupazione che
conduce al corteggiamento e finalmente ad allevare la
famiglia. È una preoccupazione che permea le nostre
canzoni, la nostra poesia, i nostri romanzi, l'arte, il tea­
tro, l'architettura. È una preoccupazione che ci spinge
a pianificare gli studi superiori dei nostri figli. È una
preoccupazione che promuove la costruzione di biblio­
teche, di istituti di ricerca degli ospedali. È una preoc­
cupazione che ispirò la ricerca medica intesa a impedire
la sofferenza e la morte dei pazienti. . . È una preoccupa­
zione che ci fa pensare in termini di razzi, di viaggi nello
spazio ed extraterrestri e di possibilità d'una vita immortale
in qualche altro mondo )) (34).

Durante il viaggio dal primo periodo di questa ci­


tazione fino all'ultimo, la connessione con la sessualità
è diventata sempre più tenue, a meno che sottoscriviamo
la dottrina per cui tutte le attività sociali, artistiche
e scientifiche sono sublimazioni o sostituzioni della ses­
sualità. È egualmente difficile vedere come la << forza
magnetica )), come l'ha chiamata Konrad Lorenz, che
tiene insieme un banco o una frotta di pesci nell'oceano
- un'attrazione che sembra crescere in proporzione geo­
metrica con le dimensioni del banco e non dipendere
da alcun altro fattore (35) - possa basarsi sulla sessua­
lità. La stessa considerazione si applica alla divisione del
lavoro nell'alveare, con la sua alta proporzione di lavo­
ratrici asessuate. Pur essendo il più potente degli impulsi,
la sessualità non è l'unico, e forse neanche il primario
legame che tiene insieme le società animali e umane, e

392
che assicura la conservazione e il benessere della specie,
incluso il nostro proprio benessere spirituale e �rtistico.
Sembra perciò più appropriato includere l'istinto sessuale
insieme con le altre forze di coesione sociale, nella cate­
goria più generale delle nostre (( tendenze integrative l).
Il sesso, come abbiamo visto, è relativamente un ultimo
venuto sulla scena dell'evoluzione; mentre la polarità
delle tendenze autoassertive contro le tendenze integra­
tive è inerente ad ogni ordine gerarchico, è presente a
ogni livello degli organismi viventi e delle organizzazioni
sociali.
Nel regno animale naturalmente il termine di Mac­
Lean (( conservazione e benessere della specie )) (in quanto
distinto dalla autoconservazione) copre praticamente
tutte le manifestazioni di quelle che chiamiamo le ten­
denze integrative; e se MacLean ha ragione nel localiz­
zarle nella metà superiore del sistema limbico, e le spinte
all'autoconservazione nella metà inferiore, non possiamo
chiedere una conferma migliore della postulata polarità.
Così, fintanto che confiniamo la discussione alle scim­
mie, la questione di terminologia si riduce a un cavillo
semantico. Ma quando arriviamo all'uomo la tendenza
integrativa può assumere una varietà di forme, comprese
le emozioni autotrascendenti che entrano nell'esperienza
religiosa e artistica, ma che hanno scarsa connessione
con la conservazione della specie. Anch'esse devono avere
i loro correlati neurofìsiologici, ma qui l'argomento di­
venta piuttosto tecnico e il lettore non specialista può
saltare senza pericolo i due paragrafi che seguono.
Abbiamo visto che una stretta correlazione esiste
fra le emozioni aggressivo-difensive e la divisione gran
simpatico del sistema nervoso autonomo. Sarebbe ten­
tante presupporre una correlazione simmetrica fra le
emozioni autotrascendenti e l'altra divisione del sistema
autonomo: il parasimpatico. C'è qualche prova a fa-

393
vore di questa veduta, sebbene non conclusiva. In ge­
nerale (ma vi sono, come vedremo tra poco, eccezioni
importanti) l'azione delle due divisioni è mutuamente
antagonista: esse si equilibrano l'una con l'altra. La di­
visione simpatico prepara l'animale per le reazioni di
emergenza sotto lo stress della fame, del dolore, della
rabbia e della paura. Accelera i battiti del polso, au­
menta la pressione del sangue, fornisce al sangue un
supplemento di zucchero come fonte di energia. La di­
visione parasimpatico, sotto quasi ogni aspetto, fa l'op­
posto: abbassa la pressione sanguigna, rallenta il cuore,
neutralizza gli eccessi di zucchero nel sangue, facilita la
digestione e l'eliminazione dei rifiuti del corpo; attiva le
ghiandole lacrimali: è in generale calmante e catar­
tica. Caratteristicamente il riso è una scarica del sim­
patico e il pianto del parasimpatico.
Entrambe le divisioni del sistema nervoso autonomo
o vegetativo sono controllate dal cervello limbico (ipo­
talamo e strutture adiacenti) . Diversi autori hanno de­
scritto le loro funzioni con diversi termini. Allport (36)
riferì le emozioni piacevoli al parasimpatico, quelle spia­
cevoli al simpatico. Olds (36a) distingue fra sistemi
emotivi << positivo >> e << negativo >>, attivati rispettivamente
dai centri parasimpatico e simpatico dell'ipotalamo. Par­
tendo da un punto di vista teorico del tutto differente,
Hebb è arrivato pure alla conclusione che sarebbe neces­
saria una distinzione fra due categorie di emozione, << quelle
in cui la tendenza è di mantenere o accrescere le condi­
zioni stimolanti originarie (emozioni piacevoli o integra­
tive) >> e << quelle in cui la tendenza è di abolire o dimi­
nuire lo stimolo (rabbia, paura, disgusto) (36b) . Pribram
ha fatto una distinzione simile fra emozioni << prepara­
torie >> e << partecipatorie >> (36c) . Hess e Gellhorn di­
stinguono fra sistema ergotropico (consumatore di ener­
gia) , che opera attraverso la divisione simpatica per as-

394
sicurare una protezione contro gli stimoli minacciosi, e
sistema trofotropico (conservatore di energia), che opera
attraverso il parasimpatico in risposta agli stimoli paci­
fici o attraenti (37}. Gellhorn ha ricapitolato gli effetti
emotivi di due differenti tipi di droghe: da una parte le
pep pills (pillole del brio) , come la benzedrina, e dal­
l'altra parte i tranquillanti, come la clorpromazina. La
prima attiva il simpatico, la seconda il parasimpatico.
Se somministrati in piccole dosi, i tranquillanti causano
<< leggeri spostamenti dell'equilibrio ipotalamico dalla
parte del parasimpatico, che hanno per risultato calma
e contentezza, simili a pparentemente allo stato che pre­
cede il sonno, mentre alterazioni più accentuate condu­
cono a uno stato d'animo depressivo •> (38). Le droghe del
tipo benzedrina, dall'altro lato, attivano la divisione sim­
patica, causano una a ccresciuta aggressività negli ani­
mali e nell'uomo, l'alacrità e l'euforia; in dosi più grandi
una sovraeccitazione e un comportamento maniacale.
Finalmente Cobb ha sintetizzato l'implicito contrasto
in forma molto acuta: << È detta rabbia la reazione più
adrenergica, e amore quella più colinergica [caratteristi­
camente parasimpatica] •> (39).
Quello che indica questa breve rassegna è che, in
primo luogo, c'è una tendenza generale fra le autorità
del ramo a distinguere fra due categorie fondamentali di
emozione, sebbene le d efinizioni delle categorie differi­
scano e siano mescolate col tono edonico (che nella pre­
sente teoria è una variabile indipendente dell'una e del­
l'altra categoria; cfr. p p . 306 e segg.). In secondo luogo,
c'è una sensazione generale che le due categorie sono
<< in qualche modo •> correlate alle due divisioni del sistema
nervoso autonomo.
Ma la correlazione non è semplice e netta. Così per
esempio, secondo MacLean, << l'erezione è un fenomeno
parasimpatico mentre l'eiaculazione dipende da mecca-

395
nismi del simpatico >> (40), il che, per quanto riguarda
le categorie, non è né di qua né di là. Per giunta una
stimolazione forte del parasimpatico può causare nausea
o vomito, cosa che sebbene catartica (cioè << ripulente >>
in senso letterale) è difficile chiamarla un atto di auto­
trascendimento psicologico. In una parola, il funziona­
mento del sistema nervoso autonomo è uno degli aspetti
fisiologici più intriganti della vita emozionale dell'uomo;
e per lealtà verso il lettore non specialista dovrei segnalare
che, mentre ci sono molte prove che le emozioni autoas­
sertive sono mediate dalla divisione simpatico-adrenale,
non c'è prova conclusiva della simmetrica correlazione
qui proposta. Tale prova potrà venire soltanto quando
emozioni umane al di fuori della classe fame-rabbia-paura
saranno riconosciute come oggetto degno di studio da
parte della psicologia sperimentale, e questo non è
certo il caso oggi. In conformità con lo Zeitgeist le emo­
zioni autotrascendenti sono ancora le cenerentole della
psicologia a dispetto della loro evidente realtà. Il pianto,
per esempio, è certamente un fenomeno comportamentale
osservabile (il behaviourista potrebbe persino misurare la
quantità di lacrimazione in milligrammi al secondo), ma
è quasi completamente ignorato dalla bibliografia psicolo­
gica.1
Alcuni fatti addizionali circa il sistema nervoso auto­
nomo sono pertinenti al nostro tema. In condizioni forte­
mente emotive o patologiche, l'azione mutuamente an­
tagonistica, cioè equilibrante, delle due divisioni non
riesce più a imporsi; al contrario, esse possono mutuai­
mente rinforzarsi l'un l'altra come nell'atto sessuale;
oppure la sovraeccitazione di una divisione può con-

l. Per una discussione dell'argomento e una bibliografia sul pianto,


vedi The act of Creation, capp. XII-XIV e pp. 725-28.

396
durre a un temporaneo rimbalzo o << effetto di risposta ))
supercompensativo dell'altro (41) ; da ultimo, il para­
simpatico può agire come catalizzatore che fa scattare
come un grilletto il suo antagonista mettendolo in
azione (42).
La prima di queste tre possibilità è rilevante per lo
stato emozionale in cui ci troviamo ascoltando una mu­
sica rapsodica - un'opera di Wagner, per esempio -
dove sentimenti rilassati, catartici, sembrano paradossal­
mente combinarsi con un'agitazione euforica. La seconda
possibilità si riflette nei << retrogusti emotivi )) di un tipo
o dell'altro. La terza possibilità è la più rilevante per il
nostro tema. Essa dimostra in concreti termini fisiolo­
gici come un certo tipo di reazione emotiva possa fun­
gere da veicolo per il suo opposto, come l'autotra­
scendente identificazione con l'eroe dello schermo provoca
un'aggressività sostitutiva contro il cattivo; come l'iden­
tificazione con un gruppo o con un credo provoca il com­
portamento selvaggio della folla. Le razionalizzazioni di
questo sono formulate nei simboli linguistici della neo­
corteccia; ma il dinamismo emotivo è generato dal vec­
chio cervello e trasmesso alle viscere e alle ghiandole
dal sistema nervoso autonomo.
Questo è un altro punto dove la ricerca neurofisiolo­
gica comincia a fondersi con la psicologia per fornire
chiavi ai suoi paradossi, ed è forse un primo accenno
di risposta alla nemesi umana.

SOMMARIO

L'evoluzione degli artropodi e dei marsupiali mostra


che, nella costruzione del cervello, errori ne accadono.
La strategia dell'evoluzione è soggetta a un procedimento

397
per tentativi, e non c'è nulla di particolarmente improba­
bile nella opinione che nel corso dell'esplosiva crescita
del neocortice umano l'evoluzione abbia errato un'altra
volta. La teoria Papez-MacLean offre prove abbondanti
delle dissonanze di funzionamento della corteccia cere­
brale filogeneticamente vecchia e di quella nuova, e della
risultante << schizofisiologia )) insita nella nostra specie. Ciò
offrirebbe una base psicologica al << ramo )) di paranoia
che corre attraverso la storia umana e indicherebbe la
direzione per la ricerca di una cura.

398
XVII l Una specie unica

Non posso che concludere che il gorsso dei vo­


stri indigeni è la più perniciosa razza di pic­
coli odiosi vermi e parassiti che la natura
abbia mai tollerato di veder strisciare sulla
superficie della terra.
SwiFT, Viaggio a Brobdingnag

IL DONO NON RICHIESTO

In uno dei suoi saggi (1) sir Julian Huxley fece una
lista delle caratteristiche che sono esclusive della specie
uomo: linguaggio e pensiero concettuale; trasmissione
della conoscenza mediante registrazioni scritte; utensili
e meccanismi; predominio biologico su tutte le altre
specie; variabilità individuale; uso degli arti anteriori
unicamente per scopi di manipolazione; fertilità per tutta
la durata dell'anno; l'arte, l'humour, la scienza, la reli­
gione, e così via. Ma la caratteristica che più colpisce
nell'uomo dal punto di vista dell'evoluzionista non è
compresa nell'elenco, né ho mai letto una discussione
seria su di essa di qualsiasi altro biologo importante.
Potrebbe essere chiamato << il paradosso del dono non
sollecitato )>; cercherò di spiegarmi con una parabola. C'era
una volta un bottegaio illetterato in un bazar arabo,
chiamato Alì, che non essendo molto in gamba nel fare
i conti veniva sempre imbrogliato dai clienti, invece
di imbrogliarli come sarebbe giusto. Così ogni sera pre­
gava Allah di fargli il regalo di un abaco, quel vene­
rando aggeggio per fare le addizioni e le sottrazioni spo­
stando pallottole su dei fili. Ma qualche ginn malizioso

399
portò le sue preghiere al reparto sbagliato del celeste
Dipartimento delle Ordinazioni per Posta, e così una
mattina arrivando nel bazar Alì trovò la bottega tra­
sformata in un grattacielo a ossatura d'acciaio, che ospi­
tava l'ultimo modello di computer IBM, con quadri di
comando che coprivano tutte le pareti, con migliaia di
oscilloscopi fluorescenti, quadranti, occhi magici, ecc.; e
un libro di istruzioni di parecchie centinaia di pagine,
che Alì, essendo analfabeta, non poteva leggere. Tut­
tavia, dopo giorni di infruttuosi tentativi con questo o
quel quadrante, andò in collera e cominciò a prendere a
calci uno scintillante e delicatissimo pannello. I colpi
disturbarono uno dei milioni di circuiti elettronici della
macchina, e dopo un po' Alì scoprì con suo diletto che se
dava dei calci a quel pannello, per esempio tre volte, e
dopo cinque volte, uno dei quadranti indicava la cifra
otto! Egli ringraziò Allah di avergli mandato un abaco
così grazioso, e continuò a usare la macchina per sommare
due più due, felicemente ignaro che esso era in grado
di derivare le equazioni di Einstein in un amen, o di pre­
dire le orbite dei pianeti e delle stelle con un anticipo
di un migliaio d'anni.
I figli di Alì, e poi i suoi nipoti, ereditarono la mac­
china, e il segreto di prendere a calci quello stesso pan­
nello; ma ci vollero centinaia di generazioni perché im­
parassero a usarlo anche allo scopo di eseguire delle mol­
tiplicazioni semplici. Noi stessi siamo i discendenti di
Alì, e sebbene abbiamo scoperto molti altri modi per far
lavorare la macchina, non abbiamo finora imparato a
usare che una piccolissima frazione del potenziale dei
suoi (si stima) centomila milioni di circuiti. Perché il
regalo non richiesto è, naturalmente, il cervello umano.
Quanto al libro di istruzioni, è andato perso, se mai
è esistito. Platone sostiene che esisteva - ma queste
sono voci.

400
Il paragone è meno stiracchiato di quanto sembri.
L'evoluzione, qualunque sia la forza motrice che le sta
dietro, si cura dei bisogni adattativi immediati della
specie; e l'emergere di novità nella struttura anatomica
e nella funzione è largamente guidato da queste neces­
sità. È interamente senza precedenti il fatto che l'evolu­
zione provveda una specie di un organo che essa non sa
usare; un organo di lusso, come il computer di Alì di
gran lunga eccedente i bisogni immediati, primitivi del
suo possessore; un organo che la specie ci metterà mil­
lenni per imparare a usarlo come si deve, se mai ci
riuscirà.
Ogni prova indica che il più antico rappresentante
di Homo sapiens - l'uomo di Cro-Magnon, che apparve
sulla scena un cinquanta-centomila anni fa - era già do­
tato di un cervello che, per dimensioni e forma, era lo stesso
del nostro. Ma quasi non se ne serviva; rimaneva un
abitatore di caverne e non uscì mai dall'Età della Pietra.
Dal punto di vista delle sue necessità immediate la cre­
scita esplosiva della neocorteccia superò il bersaglio con
un fattore temporale di grandezza astronomica. Per
parecchie decine di migliaia d'anni i nostri antenati con­
tinuarono a fabbricare archi frecce e lance mentre il
congegno che ci ha portato sulla luna era già là, pronto
per l'uso, dentro ai loro crani.
Quando diciamo che l'evoluzione mentale è una ca­
ratteristica specifica dell'uomo, ed assente negli animali,
confondiamo i risultati. Il potenziale di apprendimento
degli animali è limitato automaticamente dal fatto che
essi usano completamente - o quasi - tutti gli organi
del loro equipaggiamento nativo, compresi i loro cer­
velli. Le capacità del computer che è dentro al cranio
del rettile e del mammifero sono sfruttati a fondo e non
lasciano margini per un apprendimento ulteriore. Ma
l'evoluzione del cervello dell'uomo ha superato in modo

401
così violento i bisogni immediati dell'uomo, che egli è
ancora senza fiato ad annaspare con le sue non sfruttate,
inesplorate possibilità. La storia della scienza e della
filosofia è, da questo punto di vista, il lento processo
attraverso cui l'uomo impara a mettere in atto i poten­
ziali del cervello. Le nuove frontiere da conquistare sono,
in gran parte, le circonvoluzioni della corteccia cerebrale.

CERCARE NEL BUIO ASSOLUTO

Ma perché questo processo di imparare a usare il


nostro cervello, in senso esattamente letterale, è stato
così lento, spasmodico e seminato di rovesci ? Qui sta
il nodo del problema. La risposta, come suggerito prima,
è l'inadeguato coordinamento fra il cervello antico e il
cervello nuovo, il cervello antico che taglia la strada
al nuovo; l'appassionato nitrito delle credenze basate
sugli affetti, che ci impedisce di ascoltare la voce della
ragione. Di qui il colossale pasticcio che abbiamo com­
binato nella nostra storia sociale; ma il progresso della
scienza << spassionata )) è avvenuto sotto la stessa male­
dizione. Abbiamo l'ingenua abitudine di visualizzarlo
come un processo stabile e cumulativo, dove ogni epoca
aggiunge qualche nuova voce alle conoscenze del pas­
sato, dove ogni generazione dei discendenti di Alì im­
para a servirsi un po' meglio del regalo di Allah, e quindi
procedendo bellamente dall'infanzia della civiltà osses­
sionata dalla magìa, schiava dei miti, via via, attraverso
i turbamenti dell'adolescenza, fino a una distaccata e
razionale maturità.
In realtà però il progresso non è stato né stabile né
continuo:

<< La filosofia della natura si è svolta a salti e balzi


occasionali, alternati a ricerche illusorie, a regressi, a

402
periodi di cecità e di amnesia. Le grandi scoperte che
determinarono il suo corso furono talvolta gli inattesi
sottoprodotti di una battuta di caccia a lepri completa­
mente diverse. In altre epoche il processo della scoperta
consistette, puramente, nel far pulizia del pattume che
bloccava la strada. La pazza orologeria degli epicicli di
Tolomeo la si fece girare per duemila anni; e l'Europa,
in fatto di geometria, ne sapeva meno nel XV secolo dopo
Cristo che ai tempi di Archimede.
Se il progresso fosse stato continuo e organico, tutto
quello che sappiamo, per esempio, circa la teoria dei
numeri, o la geometria analitica, sarebbe stato scoperto
alcune generazioni dopo Euclide. Giacché questo svi­
luppo non dipese da passi avanti della tecnologia o del
dominio della natura; l'intero corpus delle matematiche
sta potenzialmente là, nei dieci miliardi di neuroni della
macchina calcolatrice che è dentro al cranio umano . . .
Il progresso del sapere, tutto a scatti e fondamental­
mente irrazionale, è probabilmente da riferire al fatto
che l'evoluzione ha dotato l Homo sapiens di un or­
'

gano del quale non era in grado di servirsi in modo ap­


propriato. I neurologi hanno stimato che persino nello
stadio presente usiamo soltanto il 2 o 3% delle potenzialità
dei suoi 'circuiti' incorporati •> (2).

Se si dà un'occhiata a volo d 'uccello alla storia della


scienza la prima cosa che colpisce è la sua discontinuità:
dei circa diecimila anni di preistoria umana sappiamo
pochissimo. Poi, nel VI secolo avanti Cristo, troviamo
di colpo, come sbucata dal niente, una galassia di fi­
losofi, a Mileto, ad Elea e a Samo, che discutono le ori­
gini e l'evoluzione dell'universo cercando i princìpi ul­
timi che giacciono al di sotto di ogni diversità. I pita­
gorici tentarono la prima grande sintesi: cercarono eli
intessere i fili separati della matematica, della musica,
dell'astronomia e della medicina in un singolo tessuto
dall'austero disegno geometrico. Questo tessuto è an-

403
cora in corso di fabbricazione, ma il suo disegno è stato
stabilito nei tre secoli dell'età eroica della scienza greca.
Tuttavia dopo la conquista macedone seguì un periodo
di ortodossia e di declino.

<c Le categorie di Aristotile diventarono la gramma­


tica dell'esistenza, i suoi spiriti animali governarono il
mondo della fisica, ogni cosa degna di essere conosciuta
era già conosciuta, e tutto ciò che era inventabile già in­
ventato. L'età eroica era guidata dall'esempio di Pro­
meteo che ruba il fuoco agli dèi; i filosofi del periodo el­
lenistico abitarono nella caverna di Platone disegnando
sul muro gli epicicli con le schiene rivolte alla luce diurna
della realtà.
Poi venne un periodo di ibernazione, che durò quin­
dici secoli. Per tutto questo tempo il cammino della
scienza non fu soltanto arrestato, ma la sua direzione
rovesciata. Un filosofo della scienza, il dottor Pyke,
scrisse intorno alla 'impossibilità della scienza di an­
dare indietro; una volta che il neutrone è stato sco­
perto rimane scoperto' (3) . È proprio vero ? Nel V secolo
avanti Cristo le classi colte sapevano che la terra era
un corpo sferico fluttuante nello spazio e rotante intorno
al suo asse. Mille anni dopo credevano che fosse un disco
piatto 1> (4).

Nella Città di Dio di Sant'Agostino vennero banditi


tutti i tesori dell'antica cultura greca, la bellezza e la
speranza, perché tutto il sapere pagano era << prostituito
dall'influenza di diavoli osceni e ripugnanti. Via Talete
con la sua acqua, Anassimene con l'aria, gli stoici col
loro fuoco. Epicuro coi suoi atomi . . . 1>. Ed essi se ne anda­
rono. Pasticciare coi pulsanti e i quadranti del dono
non richiesto divenne tabù. La rinascita della cultura nel
XII secolo fu seguita dal disastroso matrimonio della
fisica di Aristotile con la teologia di San Tommaso d'A­
quino, e da altri tre secoli di sterilità ristagno e filosofia

404
scolastica, << che cerca - come grida Erasmo, - nel buio
assoluto ciò che non possiede esistenza di sorta 1>.
I soli periodi di tutta la storia del mondo occiden­
tale in cui vi fu una crescita del sapere veramente cu­
mulativa, sono i tre grandi secoli della Grecia e gli ul­
timi tre secoli che precedono il nostro. Tuttavia l'appa­
recchio per generare quel sapere è stato lì per tutto il
tempo durante gli interposti duemila anni, e anche
durante i trentamila anni che ci separano da Altamira
e da Lascaux. Ma non gli fu permesso di generare quel
sapere. Le fantasmagorie ispirate dall'affetto del totem
e del tabù, del dogma e della dottrina, colpa e paura,
respinsero e continuarono a respingere gli << osceni dia­
voli 1> del sapere. Per la maggior parte della durata della
storia umana i meravigliosi potenziali della nuova cor­
teccia ebbero soltanto il permesso di esercitare le loro
capacità in servigio delle antiche credenze emotive: nelle
pitture motivate dalla magìa delle caverne della Dordogna;
nella traduzione della imagerie archetipa nel linguaggio
della mitologia; nell'arte religiosa dell'Asia o del Medioevo
europeo. Il compito della ragione era di operare come
ancella della fede, fosse questa la fede dei medici stre­
goni, dei teologi, degli scolastici, dei materialisti dialet­
tici, dei devoti del presidente Mao, o del re Mbo-Mba.
La colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle; è del coc­
codrillo e del cavallo che portiamo dentro al cranio. Di
tutte le esclusività dell'uomo, questa sembra la più straor­
dinaria.

IL PACIFICO PRIMATE

È caratteristico del toccante ottimismo del biologo


convenzionale il fatto che la lista di Huxley contenga
soltanto proprietà positive desiderabili. Quell'altra ter­
ribile esclusiva della nostra specie, la guerra intraspeci-

405
fica, 1 non è neppure menzionata di passaggio, sebbene
in un saggio separato dello stesso volume su << Guerra
come fenomeno biologico l) Huxley sottolinei che << vi sono
soltanto due tipi di animali che fanno abitualmente la
guerra, l'uomo e le formiche. Persino fra le formiche la
guerra è praticata principalmente da un solo gruppo,
che comprende solo poche specie fra le decine di migliaia
note alla scienza l> (5) . In realtà però anche i ratti di­
chiarano guerre di gruppo o di clan. I membri del clan
dei ratti, come quelli dello stato degli insetti, non << si
conoscono l> individualmente ma soltanto dall'odore ca­
ratteristico del nido, dell'alveare o della località che con­
dividono. Lo straniero, anche della stessa specie, ma di
un clan di fferente viene istantaneamente riconosciuto dal
suo odore differente: esso << puzza l). Così deve e<>sere
ferocemente attaccato e se possibile ucciso.
Ma l'uomo e i ratti sono eccezioni. Di regola, in tutto
il regno animale, combattere nell'intento di uccidere si
dà soltanto fra predatore e preda. La legge della giungla
sanziona solo un motivo legittimo per l'assassinio: il bi­
sogno di mangiare; ma la preda deve essere naturalmente
di una specie diversa. Entro la stessa specie potenti sal­
vaguardie istintuali impediscono combattimenti seri fra
individui o gruppi. Questi meccanismi inibitori - tabù
istintivi - contro l'uccidere o il danneggiare seriamente
i con-specifici sono, nella maggioranza degli animali, al­
trettanto potenti delle spinte della fame, del sesso o
della paura. Le inevitabili e necessarie tendenze autoas­
sertive fra gli animali sociali superiori vengono così com­
pensate da meccanismi inibitori, che trasformano il com­
battimento fra concorrenti sessuali in un duello più o
meno simbolico, combattuto secondo regole formali ma

l. Cioè la guerra all'interno della specie, distinta dall'inler-speci­


fico perseguimento della preda appartenente a una specie differente.

406
quasi mai fino a una conclusione letale. La contesa viene
istantaneamente troncata da qualche gesto specifico di resa
da parte del contendente più debole: il cane si mette
sulla schiena esponendo la pancia e la gola; il cervo bat­
tuto se la svigna. In modo simile la difesa del territorio
è assicurata quasi sempre senza spargimento di sangue,
con un comportamento di minaccia strettamente ritua­
lizzato, finti attacchi e simili. Da ultimo l'ordine di rango
nelle società degli animali selvatici, dagli uccelli alle
scimmie, viene stabilito e mantenuto con un minimo di
prepotenze e di agitazione.
Nel corso degli ultimi vent'anni le osservazioni allo
stato di natura sulla vita delle società di scimmie hanno
portato a un rovesciamento completo delle nostre prece­
denti idee sulla mentalità dei nostri antenati. Gli studi
più antichi - come quello di Solly Zuckerman alla fine
degli anni '20 - erano basati sul comportamento delle
scimmie confinate nelle condizioni innaturali e affollate
dello zoo. Questi studi dettero risultati psicologici im­
portanti nel senso in cui gli studi sul comportamento
umano nelle prigioni e nei campi di concentramento
li possono dare: essi rivelano il quadro di una società
nevrotica travagliata da stress abnormi, i cui membri
sono annoiati e irritabili, continuamente in lite e in rissa,
ossessionati dal sesso ed esposti al comando di capi ti­
rannici e qualche volta assassini. In base a questa pit­
tura ci si potrebbe soltanto domandare come hanno fatto
le società di scimmie della foresta anche solo a soprav­
vivere.
Ma, dalla seconda guerra mondiale in poi, una nuova
generazione di osservatori allo stato di natura, i cui pa­
zienti studi spesso si estendono per molti anni, ha com­
pletamente e drammaticamente rovesciato la pittura.
W. M. S. Russell ne ha sommato i risultati come segue:

407
<<
• . •Dopo la seconda guerra mondiale lo studio delle
scimmie e degli scimmioni allo stato di natura cominciò
improvvisamente a diffondersi. Le relazioni degli o!:ser­
vatori allo stato di natura (field observers, osservatori da
campagna) sono virtualmente unanimi. Carpenter. . . ri­
feri che la lotta è rara fra i gibboni selvaggi e apparente­
mente assente nelle scimmie urlatrici selvagge. Wash­
burn e Devore scorsero segni di violenza interna in una
sola, su sette, delle loro bande di babbuini selvaggi del­
l'Africa orientale; e nessuna contesa affatto tra banda
e banda. Southwick intraprese lo studio delle urlatrici
selvagge negli anni '50, e non assisté mai a un combat­
timento all'interno di una banda, o fra bande. Jay fa
un rapporto simile sulle bande di langur selvaggi e Ima­
nishi sulle scimmie selvagge giapponesi. Goodall trovò
scarse prove di contese negli scimpanzé selvaggi e neppure
Hall nelle bande selvagge delle stesse specie di babbuini
che Zuckerman aveva studiato nello zoo. Ed Emlen e
Schaller non videro la più leggera traccia di aggressione
nelle bande di gorilla selvaggi; e le relazioni fra le bande
erano cosi amichevoli che quando due bande si incon­
travano potevano mettersi a dormire insieme per la
notte e i singoli individui potevano venire in visita per
quanto tempo volevano.
Queste relazioni unanimi sono ancora più impressio­
nanti di quanto non appaiano a tutta prima, perché
molti degli osservatori si aspettavano il contrario. Le
antiche scoperte dello zoo avevano fatto una impres­
sione cosi profonda che all'inizio ogni osservatore allo
stato di natura presuppose che la sua specie dovesse
xappresentare un caso insolito. . . Possiamo ora vedere
che sbagliavano: tutte le specie di scimmie e di scimmioni
nella foresta sono pacifici . . . Una prospera società di pri­
mati allo stato selvaggio non mostra traccia di contese
serie, sia all'interno delle bande che fra bande. È ora
innegabile che i primati sanno vivere affatto senza vio­
lenza. . . Mettendo insieme le relazioni fatte sul campo
e nello zoo sappiamo adesso che l'aggressività non è una

408
caratteristica innata degli individui, che appare in qual­
che specie di primate e non in altre. Tutte le specie di
primati sono pacifiche in alcune condizioni, e violente
in altre. La violenza è una proprietà delle società esposte
a stress . . )) (6).
.

Quali conclusioni abbiamo da trarre da questa pit­


tura del comportamento dei primati ? Prima: che i primati
(e tutti gli altri mammiferi) allo stato selvaggio mostrano
una assenza completa dell'istinto distruttivo definito da
Freud. Nella normale società di babbuini o di scimmie
rhesus le tendenze autoassertive dell'individuo vengono
controbilanciate dai suoi legami integrativi con la fa­
miglia, il capo e il clan. L'aggressione fa la sua appari­
zione soltanto quando le tensioni di qualche specie scon­
volgono l'equilibrio.
Tutto questo è interamente in accordo con le con­
clusioni a cui arrivammo in precedenti capitoli. Ma ci
fornisce soltanto poche e in qualche modo triviali indica­
zioni sulle origini della nemesi umana. Che gli stress cau­
sati da scarsità di cibo, sovraffollamento di territorio,
catastrofi naturali, e così via, sconvolgano l'equilibrio
sociale e producano comportamento patologico, d'ac­
cordo. Così per le condizioni delle prigioni, simili a quelle
di uno zoo; per l'ozio forzato della disoccupazione, per
il tedio dello Stato di benessere. Questa è la specie di
roba che i sociopsicologi amano enfatizzare sempre dac­
capo nelle loro discussioni sui pericoli della vita moderna
nella affollata megalopoli, e naturalmente hanno per­
fettamente ragione. Ma questi sono fenomeni moderni
che hanno poca rilevanza per il nocciolo del problema:
l'emergere dell'unica, omicida venatura allucinatoria dei
nostri antenati preistorici. Essi non soffrivano di sovraf­
follamento, non c'era scarsità di territorio, non condu­
cevano esistenza urbana: in una parola, non possiamo

409
darne colpa agli stress del tipo a cui sono soggette le
scimmie in cattività, o i cittadini della New York contem­
poranea. Lasciarsi ipnotizzare dalla specifica patologia
del XX secolo restringe la visione e rende ciechi rispetto
al problema, molto più antico, molto più fondamentale,
della cronica barbarie della civiltà umana antica e moderna.
Siamo così preoccupati dei mali sociali sofferti dagli oc­
cupanti dei contemporanei ghetti negri in America, che
dimentichiamo completamente gli orrori della storia afri­
cana quando i negri erano liberi, o gli orrori della
storia europea o asiatica. Gettar la colpa della condizione
patologica dell'uomo sull'ambiente significa fare una pe­
tizione di principio. Cambiamenti climatici e altre pres­
sioni ambientali sono naturalmente un fattore di immensa
potenza sulla evoluzione biologica e sulla storia umana;
ma la maggior parte delle guerre, delle guerre civili, e
degli olocausti umani, furono motivati da altre ragioni.
Ma in qual altra direzione allora dovremmo cercare
le cause della Caduta, cioè a dire della esclusiva caratte­
ristica della nostra specie, di praticare l'omicidio intraspe­
cifico individualmente o in gruppi ?

IL CACCIATORE INNOCUO

È stata occasionalmente avanzata l'idea che la Ca­


duta abbia avuto luogo quando i nostri antenati pas­
sarono da una dieta vegetariana ad una carnivora. Sia
gli zoologi che gli antropologi hanno una risposta con­
clusiva a questa idea. Lo zoologo sottolineerà che cac­
ciare la preda che appartiene ad una specie differente
è una spinta biologica rigorosamente separata dall'aggres­
sione contro i cospecifici. Per citare Konrad Lorenz:

<< La motivazione del cacciatore è fondamentalmente


differente da quella del guerriero. Il bufalo che il leone

410
abbatte provoca la sua aggressività come l'appetitoso
tacchino che ho appena visto appeso in dispensa provoca
la mia. Le differenze di queste spinte interne possono
esser scorte chiaramente nei movimenti espressivi del­
l'animale: un cane che sta per afferrare nn coniglio cac­
ciato ha lo stesso tipo di espressione eccitata e felice che
ha quando saluta il padrone o aspetta qualche boccon­
cino molto desiderato. Da molte eccellenti fotografie si
può vedere che il leone nel momento drammatico che
precede il balzo non era arrabbiato in nessun modo.
Il brontolio, l'abbassare le orecchie, ed altri ben noti
movimenti espressivi del comportamento di lotta, si ve­
dono negli animali predatori solo quando hanno moltQ.
paura di una preda che resista selvaggiamente, ed anche
allora queste espressioni sono soltanto accennate )) (7) .

I Russell arrivano alla stessa conclusione: << Non c e


sicuramente alcuna prova, tratta dal comportamento
dei m ammiferi, che l'aggressione sociale sia prevalente
o più intensa fra i carnivori che fra gli erbivori )). E
quanto agli uomini: << Non c'è sicuramente alcuna prova
che la violenza sociale sia stata prevalente o più intensa
nelle società carnivore di cacciatori che in quelle vege­
tariane e agricole. I cacciatori qualche volta sono stati
estremamente bellicosi; ma nessun gruppo umano ha
prodotto comunità più pacifiche di quelle degli Esquimesi
che sono stati cacciatori carnivori presumibilmente fin
dall'età paleolitica )) (8) . I samurai, dall'altro lato, erano
strettamente vegetariani; e così pure le turbe indù i n
India, che massacrarono i loro fratelli musulmani tutte
le volte che ne avevano l'occasione. Non è stato il man­
giare bistecche di cerbiatta che ha causato la Caduta.
Lorenz, che ho appena citato, ha una teoria più so­
fisticata. L'estratto che segue (condensato) ne dà il succo:

<< Le inibizioni che controllano l'aggressività in vari


animali sociali, impedendo a questa di danneggiare o

4ll
di uccidere membri della stessa specie, sono le pm 1m­
portanti, e conseguentemente le più altamente differen­
ziate, in quegli animali che sono capaci di uccidere crea­
ture vive che sono all'incirca delle loro dimensioni. Un
corvo può asportare un occhio a un altro corvo con un col­
po del becco, un lupo può lacerare la vena giugulare di
un altro lupo con un morso. Non ci sarebbero più corvi
né lupi se solide inibizioni non impedissero azioni simili.
Né una colomba né una lepre, e neppure uno scimpanzé,
è capace di ammazzare un suo simile con una singola
beccata o con un morso. Dal momento che in natura
c'è di rado la possibilità di un animale che ne danneggi
seriamente un altro della propria specie, non c'è una
pressione selettiva in opera per alimentare inibizioni con­
tro l'uccidere. Si può soltanto deplorare il fatto che l'uomo
non ha decisamente una mentalità da carnivoro! Tutto
il guaio nasce dal fatto che è una creatura fondamental­
mente innocua, onnivora, sfornita di armi naturali con
cui uccidere le grosse prede, e perciò priva anche dei di­
spositivi di sicurezza incorporati che impediscono ai
carnivori 'professionali' di abusare della loro capacità
di uccidere per distruggere membri della propria specie.
Nessuna pressione della selezione è sorta nella preistoria
dell'umanità per sviluppare meccanismi inibitori che im­
pedissero l'uccisione dei compagni di specie, finché tutto
d'un tratto l'invenzione di armi artificiali sconvolse l'equi­
librio fra il potenziale di uccisione e le inibizioni sociali.
Quando ciò avvenne la posizione dell'uomo era molto
vicina a quella di una colomba, che per qualche innatu­
rale trucco della natura avesse improvvisamente acquistato
il becco di un corvo. Quali che possono essere state le
sta. norme innate di comportamento sociale, esse erano
destinate ad andare fuori giri con l'invenzione delle
armi •> (9).

Si potrebbero cogliere diverse smagliature in questa


argomentazione, come hanno fatto i critici del libro di
Lorenz (me stesso compreso) (10) , e ciononostante con-

412
cedere che contiene un elemento di verità. Senza per­
derei in particolari tecnici, possiamo riformulare l'argo­
mentazione di Lorenz dicendo che, dall'inizio stesso della
fabbricazione delle armi, l'istinto e l'intelletto dell'uomo
persero il passo. r.;invenzione delle armi e degli utensili
fu una creazione intellettuale, una realizzazione combi­
nata del cervello e della mano, del potere meraviglioso
della neocorteccia di coordinare l'abilità manipolativa
delle dita con le percezioni dell'occhio perfezionato, e
di tutte e due con la memoria e la capacità di proget­
tare. Ma l'uso, a cui furono sottoposte le armi, dipendeva
dalle spinte motivazionali, dall'istinto e dall'emozione,
cioè dal vecchio cervello. Il vecchio cervello mancava
del necessario dispositivo, i meccanismi inibitori per
trattare con i poteri di nuovo acquisto dell'uomo; mentre
il cervello nuovo aveva un controllo insufficiente sulle
sue emozioni. Quello che l'argomentazione di Lorenz dice
in sostanza è, di nuovo, questo: l'inadeguato coordina­
mento fra le strutture moderne, troppo rapidamente cresciute,
e le strutture antiche del sistema nervoso.
Tuttavia la consapevolezza del potere che il brandire
la lancia e l'arco reca al cacciatore, non aumenta neces­
sariamente la sua aggressività nei riguardi dei suoi com­
pagni; può, come mostra l'esempio degli Esquimesi e di
altre comunità di cacciatori, avere persino l'effetto op­
posto. Per quanto riguarda le tendenze puramente auto­
assertive degli individui, non c'è alcuna ragione ovvia
perché l'uomo primitivo non dovesse imparare a venire
a miti consigli con la potenza aumentata che gli davano
le armi sviluppando le responsabilità morali, un super­
io altrettanto efficace, a modo suo, dei tabù istintivi
contro l'uccisione dei comp:1gni di specie in altri ani­
mali cacciatori. E a giudicare dalla prova antropologica,
tali tabù si svilupparono realmente, ma impedirono
soltanto l'aggressione contro la tribù o il gruppo sociale

413
proprio dell'individuo. Ad altri membri della specie il
tabù non si applicava. Non fu l'aggressività individuale
che uscì di controllo, ma la devozione al ristretto gruppo
sociale con cui l'individuo si identificava ad esclusione (in
senso ostile) di tutti gli altri gruppi. È il processo che
abbiamo discusso prima: la tendenza integrativa manife­
stata in forme primitive di identificazione che serve come
veicolo per l'autoassertività aggressiva dell'olòmero so­
ciale.
Per dirla in altri termini: per l'uomo le differenze
intraspecifiche sono diventate più vitali delle affinità
intraspecifiche; e le inibizioni che in altri animali impe­
discono l'uccisione intraspecifica lavorano soltanto al­
l'interno del gruppo. Nel ratto è l'odore a decidere chi
è amico o nemico. Nell'uomo c'è una gamma terribil­
mente vasta di criteri, che vanno dal possesso territoriale
fino alle varie differenze etniche, culturali, religiose, ideo­
logiche, a decidere chi puzza e chi no.

LA MALEDIZIONE DEL LINGUAGGIO

Ma altri fattori hanno poi contribuito alla tragedia.


Il primo è l'enorme gamma di differenze intraspecifiche
fra gli individui, le razze e le culture umane; una diver­
sità senza parallelo nelle altre specie. Nell'elenco di Hux­
ley delle esclusività biologiche dell'uomo, questa vasta
gamma di varietà di apparenza fisica e di attributi mentli.li
effettivamente occupa il primo posto. Come sia sorta non
ci riguarda qui; Huxley ha da dire alcune cose interes­
santi sull'argomento nel saggio che ho citato. Quel che
importa, nel nostro contesto, è che queste differenze e
contrasti furono un fattore potente di mutua repellenza
fra i gruppi; con il risultato che le forze distruttive hanno
sempre predominato sulle forze di coesione della specie in­
tesa come un tutto. Per citare ancora una volta Lorenz:

414
<1 Non è speculazione troppo audace presumere che i
primi esseri umani che realmente rappresentavano la
nostra specie, quelli di Cro-Magnon, avevano all'ingrosso
gli stessi istinti e inclinazioni naturali che abbiamo anche
noi. E neppure è illegittimo presumere che la struttura
delle loro società e delle loro guerre tribali fosse all'ingrosso
la stessa che ancora si ritrova in certe tribù di Papua e
nella Nuova Guinea centrale. Ognuno dei loro piccoli
stanziamenti è permanentemente in guerra con i vil­
laggi vicini; il loro tipo di rappotti è descritto da Mar­
garet Mead come una mite, reciproca caccia alle teste,
'mite' significando che non ci sono dei raid organizzati
con lo scopo di strappare le agognate teste dei guerrieri
vicini, ma solo un occasionale prelievo di teste di donne
e di bambini incontrati nei boschi •> ( 1 1).

Il popolo del villaggio vicino, semplicemente, non


era considerato compagno di specie, co-specifico; come
ai balbuzienti barbari era negato un pieno status umano
dai Greci, ai pagani dalla Chiesa, agli Ebrei dai nazisti. A
priori si immaginerebbe che l'albeggiare del pensiero
astratto, concettualizzato, la sua comunicazione mediante
il linguaggio, e la sua conservazione mediante archivi
cumulativi - l'inizio della Noosfera di Teilhard - avreb­
bero contrastato queste tendenze fratricide e disgrega­
trici della specie. In fatto i clichés circa la potenza unifi­
catrice della comunicazione verbale rappresentano sol­
tanto mezza verità, e forse meno che mezza. In primo
luogo c'è il fatto banalissimo che mentre il linguaggio
facilita la comunicazione all'interno del gruppo, cristal­
lizza anche le differenze culturali, ed effettivamente rende
più alte le barriere fra i gruppi. Le mirabili osservazioni
allo stato naturale sulle società di scimmie che ho appena
menzionato, hanno rivelato che i gruppi di primati della
stessa specie che abitano diverse località tendono anche
a sviluppare tradizioni e <l culture •> differenti, ma questa

415
differenziazione non va mai così in là da condurre al
conflitto: principalmente, si suppone, a causa dell'as­
senza di barriere linguistiche separatrici. Fra gli umani
invece le forze separatrici, estranianti per il gruppo, del
linguaggio sono attive a ogni livello: le nazioni, le tribù,
i dialetti regionali, i vocabolari esclusivi e l'accento delle
varie classi sociali; i gerghi professionali. Fra i due mi­
lioni di aborigeni della Nuova Guinea a cui Margaret
Mead si riferisce nella citazione sopra riportata, si par­
lano settecentocinquanta differenti lingue. Sempre, dal­
l'età della pietra, la torre di Babele è rimasta un valido
simbolo. Non è forse notevole che in un'epoca, in cui
le onde hertziane e i satelliti per le comunicazioni hanno
trasformato la popolazione del nostro intero pianeta in
un solo uditorio, non si faccia alcun serio sforzo da parte
di corpi responsabili (tranne pochi intrepidi esperantisti)
per propagare una lingua franca universale ? ; e tuttavia
nello stesso tempo c'è gente che viene uccisa in risse
per la lingua, per il primato del maharati o del gugerati
in India, del fiammingo o del francese in Belgio, del fran­
cese o dell'inglese in Canadà? Specie emotivamente mal
aggiustata, abbiamo l'allucinante potere di trasformare
ogni benedizione, compreso il linguaggio, in una male­
dizione.
Il pericolo principale del linguaggio, tuttavia, non
sta nei suoi poteri separatori, ma nei suoi poteri magici,
ipnotici, suscitatori di emozione. Le parole possono ser­
vire a cristallizzare il pensiero, a dare articolazione e
precisione a vaghe immagini e a fortuite intuizioni. Esse
possono anche servire a razionalizzare paure e desideri
irrazionali, a dare sembianza di logica alle più selvagge
superstizioni, a prestare il vocabolario del nuovo cer­
vello alle fantasmagorie e allucinazioni del vecchio. Da
ultimo le parole possono essere usate come cariche esplo­
sive per scatenare le reazioni a catena della psicologia

416
di gruppo. Il computer di Alì è capace sia di produrre la
critica della ragion pura di Kant, sia gli strilli di Hitler.
Senza un linguaggio per formulare dottrine religiose e
ideologiche, sistemi di credenza chiusi, slogans e mani­
festi, saremmo incapaci di combattere guerre intraspeci­
fiche non meno dei poveri babbuini. Così i vari doni mi­
racolosi che attestano l'unicità dell'uomo formano, al
tempo stesso, un ingranaggio distruttivo su un solo schema
comune: la schizofisiologia.

LA SCOPERTA DELLA MORTE

Un altro fatto ancora, che costituisce un lineamento


basilare di questo schema: la scoperta della morte, e il
rifiuto di accettarla.
La scoperta ha origine nel nuovo cervello, e il rifiuto
nel vecdùo. L'istinto prende implicitamente l'esistenza
per scontata, e la difende contro ogni minaccia con rabbia
e con paura; ma non può concepire il suo cambiamento
in non-esistenza. Questo rifiuto è uno dei leit-motiv della
storia, che perpetua il conflitto tra fede e ragione. Nelle
più antiche culture primitive, fra gli aborigeni dell'Au­
stralia, o fra i Papuasi quali essi erano nel secolo scorso,
<< nessuno muore mai di morte naturale. Anche nel caso
dei vecchi essi sostengono che la morte è dovuta a stre­
goneria, e lo stesso accade per tutte le disgrazie che pos­
sono accadere. Un uomo ha avuto una caduta fatale?
Uno stregone l'ha fatto cadere. Un altro è stato ferito
da un cinghiale selvaggio o morso da un serpente? Di
nuovo è stato uno stregone. Operando a distanza egli
può anche far morire una donna di parto, e così via l)
(Lévy-Bruhl) (12) .
Il rifiuto di accettare la morte, sia come fenomeno
naturale, sia come qualcosa di definitivo, popolò il mondo
di streghe, spettri, spiriti di antenati, dèi, semidei, an-

14 KOESTLER 417
geli e diavoli. L'aria si saturò di presenze invisibili come
una patria mentale.1 La maggior parte erano malevoli
e vendicativi, o almeno capricciosi, imprevedibili, insa­
ziabili nelle loro richieste. Dovevano essere adorati, vez­
zeggiati, propiziati e, se possibile, costretti. Di qui il
pazzo gesto di Abramo, la diffusione universale del sa­
crificio umano alla sanguinosa aurora della civiltà, i
santi massacri che hanno poi continuato fino ad oggi.
In tutte le mitologie quell'aurora è imbevuta di paura,
di ansietà e senso di colpa drammatizzata dalla caduta
di angeli, dalla caduta dell'uomo, da diluvi e catastrofi;
ma anche di confortanti promesse di una sopravvivenza
eterna; finché anche quella consolazione fu avvelenata
dalla paura di sempiterne torture. E per tutto questo
tempo la ragione funse da volonterosa ancella di perverse
credenze proliferate dal cervello viscerale.
C'è naturalmente il rovescio della medaglia. Il rifiuto
di credere nella definitività della morte fece sorgere dalla
sabbia le piramidi e i templi. Fu uno degli elementi prin­
cipali dell'ispirazione dell'arte, dalla tragedia greca alle
pitture del Rinascimento, dalla musica di Bach ai so­
netti sacri di John Donne. Ma che prezzo terribile si do­
vette pagare per questi splendori! C'è una opinione vec­
chia come Matusalemme secondo cui gli orrori e gli splen­
dori sono inseparabili, gli uni sono la premessa degli altri,
e per dipingere come Van Gogh bisogna tagliarsi un

l. Così scrive un'autorità contemporanea del ramo, F. M. Ber­


ger (13): << Si afferma spesso che c'è molta più ansia nella società mo­
derna occidentale che non fra i popoli più primitivi delle zone meno
sviluppate del pianeta. [Di fatto però] il Randal ( 1 965) riferisce che,
nel Congo e in altri paesi sottosviluppati dell'Africa, l'ansia è il più
comune disordine psichiatrico e quello che produce più danni. I Pa­
pua della Valle di Waghi nella Nuova Guinea centrale che non sono
progrediti oltre la cultura dell'età della pietra soffrono d'ansia mag­
giore che in qualsiasi civiltà moderna industriale. Essi hanno pure la
più elevata incidenza di ulcere peptiche che mai si sia riscontrata in
una comunità (Montagne, 1960) ».

418
orecchio. Ma questa opmwne stessa è un sintomo della
mente lacerata dall'ansia, che crede di non riuscire mai
a saldare gli arretrati di cui è debitore col celeste agente
delle tasse.

SOMMARIO

La formazione della neocorteccia umana è l'unico esem­


pio in cui l'evoluzione fornisce a una specie un organo
di cui essa non sa fare uso.
La messa in atto dei suoi potenziali di ragionamento
è stata ostruita, per tutta la preistoria e la storia, dalle
attività basate sugli affetti delle strutture filogenetica­
mente più antiche del sistema nervoso. L'inadeguato
coordinamento fra le strutture vecchie e nuove mise
fuori sincronismo l'istinto e l'intelletto dell'uomo. La
vasta gamma di differenze intraspecifiche, fra gli individui,
le razze e le culture, divenne una fonte di mutua ripu­
gnanza. Il linguaggio aumentò la coesione all'interno
dei gruppi e innalzò le barriere fra i gruppi. La scoperta
della morte da parte dell'intelletto e il suo rifiuto da
parte dell'istinto divenne un paradigma del nostro in­
nato spacco mentale.

419
XVIII l L'età del climax

Vengo da un Paese che non esiste ancora.


]. CRAVEIRINHA

IL CARDINE DELLA STORIA

(( La presente generazione è il cardine della storia . . .


Può darsi che c i troviamo nell'epoca del più rapido cam­
biamento che si sia registrato in tutta l'evoluzione della
razza umana, sia passata che avvenire . . . Il mondo è di­
ventato ora troppo pericoloso per qualunque cosa che
non sia l'Utopia 1> (1) .
Questo è stato scritto da un biofisico americano con­
temporaneo, J. R. Platt. Avevamo ascoltato prima am­
monimenti simili - Isaia, Geremia, Cassandra, San Gio­
vanni nell'Apocalisse, e cosi di seguito giù giù per i secoli,
attraverso Sant'Agostino, i profeti del millennio fino a
Lenin e Osvaldo Spengler. In ogni secolo ci fu almeno
una generazione che si compiaceva di essere (( il cardine
della storia l), di vivere in un'epoca come non ce n'era
mai state prima, in attesa dello squillo dell'ultima tromba
o di qualche equivalente secolare.
E ci fu anche l'indimenticabile <( sta' pronto, o uomo 1>
di James Thurber, che andava errando scalzo, in camicia
da notte, per le vie buie della sua città natale, svegliando
la gente con un grido da agghiacciare il sangue: <( Sta'
pronto, sta' pronto, il mondo sta per finire 1>.
E così bisognerebbe andar cauti con le proclamazioni
relative alla unicità del proprio tempo. Nondimeno ci

421
sono almeno due buone ragioni che giustificano la veduta,
secondo cui l'umanità sta attraversando una crisi senza
precedenti per natura e per grandezza in tutta la sua
storia passata. La prima ragione è quantitativa, la seconda
qualitativa.
La prima è lo sconvolgimento dell'equilibrio ecolo­
gico. Le sue conseguenze sono state riassunte da sir Gavin
de Beer in un articolo che commemorava il bicentenario
di Malthus: << Se risaliamo a un milione di anni fa, fino
agli ominidi, o anche solo a duecentocinquantamila anni
fa, fino all'uomo di Swanscombe e signora, la curva della
popolazione è come quella di un aereo che de�olla: per
la maggior parte di tutto quel tempo non fa che viag­
giare quasi parallela all'asse del tempo; poi, circa nel
16 Ò O, ritira il carrello e comincia a prender quota; oggi
sta salendo quasi verticalmente come un missile su dalla
rampa. C'è voluto un milione d'anni per raggiungere tre
miliardi duecentocinquanta milioni; trenta o giù di lì per
raddoppiarli! )) (2) .
Per essere un po' più specifici: gli storici hanno sti­
mato la popolazione mondiale all'inizio dell'era cristiana
in duecentocinquanta milioni di persone. Alla metà del
XVII secolo si era raddoppiata salendo a circa cinque­
cento milioni. Alla metà del XIX secolo si era di nuovo
raddoppiata e aveva raggiunto il primo miliardo. È a
questo punto che Pasteur, Lister e Semmelweiss le det­
tero una mano, e cambiarono il bilancio ecologico della
nostra specie dichiarando guerra ai microrganismi del
suo ambiente, un cambiamento più drastico, e di por­
tata molto più vasta, di tutte le invenzioni tecniche di
James Watt, Edison e dei fratelli Wright messe insieme.
Ma il disastro che essi avevano inconsciamente avviato
divenne manifesto solo un secolo più tardi. Col 1925 la
popolazione si era di nuovo raddoppiata: due miliardi. Col
1965 era un bel po' sopra i tre miliardi e il periodo di rad-

422
doppio si è ristretto da millecinquecento anni a circa tren­
tacinque anni (3) .
Questa cifra è basata su un tasso medio globale d i ac­
crescimento del 2 % annuo: da 1,6 a 1,8 nei Paesi indu­
strializzati, 3% o più in un buon numero di nazioni a
basso reddito. Così l'India, che nel 1965 aveva una po­
polazione di quattrocentocinquanta milioni di abitanti, al
presente tasso di accrescimento avrà novecento milioni di
bocche da nutrire nell'anno 2 000.
Anche nel breve periodo di quindici anni che vanno
dal 1965 al 1980, tenere il passo con la crescita stimata
della popolazione richiederebbe un aumento di reddito,
per metro quadrato di terreno agricolo esistente, almeno
del 50%; e L. R . Brown, del Dipartimento dell'agricoltura
USA, ha calcolato (( che occorre impiegare un supplemento
di 24 milioni di tonnellate di fertilizzante all'anno per
realizzare questo obiettivo, ma l'intera produzione mon­
diale di fertilizzanti è soltanto di 28,6 milioni di tonnel­
late all'anno •> (4) . Quanto alla Cina, con una popolazione
di settecentocinquanta milioni di abitanti nel 1966, se
la presente tendenza continua, alla fine del secolo egua­
glierà la popolazione totale della terra quale era nel 1900.
L'esplosione è accompagnata dalla implosione di im­
migranti dalle aree rurali nelle città, <( non ispirata dal
richiamo dell'occupazione ma dalla disperata speranza
che ivi sarà possibile trovare qualche lavoro domestico
o qualche soccorso governativo . . . Kingsley Davies stima
che nell'anno 2000 la maggior città indiana, Calcutta,
conterrà fra trentasei e sessantasei milioni di abitanti.
Calcutta, che si estende su centinaia di chilometri qua­
drati con una popolazione di sessantasei milioni di persone
sottoccupate, suggerisce una concentrazione di miseria che
non può avere che conseguenze esplosive •> (5) .
Per ritornare al pianeta preso nel suo insieme, la
prospettiva è questa: sette miliardi nel 2000, quattordici

423
miliardi nel 2035, venticinque miliardi a cent'anni da
oggi (vedi fig. 14) . << Ma - come dice un sobrio rapporto
della fondazione Ford - molto prima d'allora di fronte a
simile pressione della popolazione è inevitabile l'appari­
zione dei Quattro Cavalieri 1> (6) .
Quante persone può nutrire il nostro pianeta ? Se­
condo Colin Clark, una delle maggiori autorità del ramo,
da dodici a quindici miliardi, ma solo a condizione che i me­
todi di coltivazione e di conservazione del suolo in tutto il
mondo siano portati all'alto standard dell'Olanda. Questo
naturalmente non è lontano dall'Utopia; eppure anche
in queste condizioni ottimali la popolazione totale supe­
rerebbe il rifornimento totale nei primi decenni del se­
colo prossimo.
Si obietterà che le predizioni basate sulle tendeaze
esistenti della popolazione sono notoriamente inattendi­
bili. Questa è la nostra speranza più grande; ma dall'ul­
tima guerra in poi questa inattendibilità ha operato co­
stantemente a favore dei pessimisti: l'aumento effettivo
sorpassa tutte le predizioni massime. Inoltre le grandi
sorprese - come la stabilizzazione della popolazione
giapponese intorno al 1949 mediante la legalizzazione
dell'aborto -, che fanno strage delle predizioni degli
statistici, si sono sempre verificate in Paesi ad alto svi­
luppo, i quali accettarono più o meno come scontata la
pianificazione familiare, molto prima che arrivassero sul
mercato i moderni contracettivi, e furono così in grado
di spezzare il disegno previsto, adattando il numero dei
loro bambini alle proprie possibilità economiche e psico­
logiche. In contrasto con il Giappone - l'unico Paese
asiatico con un livello occidentale di alfabetismo - 15
anni di intensa propaganda per il controllo delle nascite
in India praticamente non hanno avuto risultati. I
rapidi riproduttori dell'Asia, dell'Africa e dell'America
Latina sono per loro natura i meno inclini a una discipli-

424
nata pianificazione familiare. Sono i tre quarti della po­
polazione mondiale e sono essi a dare il passo.
Tutto questo è stato detto sovente, e la ripetizione
tende a ottundere più che ad acuire la nostra consapevo­
lezza. Il pubblico sa bene che c'è un problema; non ha
idea della grandezza e dell'urgenza del problema; non è
cosciente che ci stiamo muovendo verso un climax che
si trova non a secoli ma a pochi decenni di distanza,
cioè entro la durata della vita della presente generazione
di adolescenti. Quel che sto cercando di provare non è
che la situazione è senza speranza, ma che è veramente
unica, senza precedenti nella storia dell'uomo. La parabola
dell'aeroplano di de Beer che scivola lungo la pista per
migliaia di miglia, ma nel giro di un miglio o due dal
decollo si trasforma in missile sparato dritto contro il
cielo, intende illustrare quello che i matematici chiamano
una << curva esponenziale )) (fig. 14) . La curva dovrebbe
essere estesa a sinistra - dentro il passato - per miglia
e miglia fino alla fine, e lungo questo tratto il suo solle­
varsi sarebbe discernibile soltanto al microscopio. Poi
giunge il momento critico, quando Pasteur e compagni
tolsero i freni. I freni naturalmente simbolizzano l'alto
tasso di mortalità che, bilanciando la tendenza ascensio­
nale del tasso di natalità, conservarono quasi orizzon­
tale la curva della popolazione. Ci volle circa un secolo,
un po' più di un centimetro nella nostra scala, perché
le conseguenze diventassero evidenti; da allora in poi
la curva si è raddrizzata sempre più, finché nella seconda
metà del nostro secolo parte come un razzo verso il cielo.
Alla nostra specie occorse qualcosa come centomila anni
per toccare il suo primo miliardo. Oggi stiamo aggiun­
gendo un altro miliardo al totale ogni dodici anni. Nei
primissimi decenni del secolo prossimo, se continua la
tendenza attuale, aggiungeremo un miliardo ogni sei
anni. Dopo di che ogni tre anni, e così via. Ma molto

425
146000m 203s

7.ooom l2ooo

Fig. 14
Curva della popolazione dall'inizio dell'era cristiana estrapolata fino
all'anno 2035 (14 mila milioni) .

prima di allora il pazzo aeroplano di de Beer si sarà


disintegrato.
Una curva esponenziale riflette un processo che ha
rotto i freni, che è andato fuori controllo. Anche il dise­
gnatore che cercasse di allungare la curva dentro il fu­
turo sarebbe sconfitto, perché, dato che la curva diventa
sempre più erta, rimarrà senza carta, come il mondo
rimarrà senza cibo, senza Lebensraum, senza spiagge,
senza intimità, senza sorrisi.

426
Le allucinanti proprietà delle curve esponenziali ri­
flettono l'unicità del nostro tempo, non solo l'esplo­
sione della popolazione, ma anche l'esplosione del po­
tenziale energetico, delle comunicazioni e del sapere spe­
cializzato.
Per prendere per prima quest'ultima voce, il dott. Ian
Morris, dello University College, scrive: (( Misurandola
dalla manodopera, dal numero dei periodici, o dal nu­
mero delle riviste scientifiche, la scienza sta crescendo
esponenzialmente con un periodo di raddoppio di circa
quindici anni. La fig. l mostra l'incremento dei periodici
scientifici da quando essi sorsero nel 1665 . . . )). La figura
citata mostra una curva simile a quella della popolazione
da noi riportata, indicando che il numero dei periodici
scientifici nel 1700 era inferiore a dieci, nel 1800 circa
un centinaio, nel 1850 un migliaio circa, nel 1900 più
di diecimila, dopo la prima guerra mondiale circa centomila
e per il 2000 si prevede abbia a raggiungere il traguardo
di un milione. <( Lo stesso quadro si ottiene se si misura
il numero degli scienziati o il numero delle memorie scien­
tifiche, e sembra essere comparabile per discipline scien­
tifiche molto diverse. Durante gli ultimi quindici anni
si ebbe un numero di scienziati pari a quanti ne sono
esistiti in tutto il precedente periodo della storia della
scienza. Così tenendo conto che in media la durata dell'at­
tività di ricerca di uno scienziato è di circa quaranta­
cinque anni, i 7/8 di tutti gli scienziati che mai siano
esistiti sono ora in vita. Allo stesso modo, quasi il no­
vanta per cento di tutto lo sforzo scientifico è stato intra­
preso negli ultimi cinquant'anni )) (7). L'ente educativo
nazionale degli Stati Uniti fissa per il periodo di rad­
doppio, a partire dal 1950, un valore anche inferiore:
dieci anni (8) .
Si prenda poi l'energia. Anche qui abbiamo sulla
curva un lunghissimo tratto orizzontale da Cro-Magnon

427
fino a circa cinquemila anni fa. Con l'invenzione della leva,
della puleggia e di altre semplici macchine, la forza mu­
scolare dell'uomo si moltiplica, poniamo di cinque o
dieci volte; poi la curva rimane di nuovo quasi orizzon­
tale .fino all'invenzione della macchina a vapore e alla
Rivoluzione Industriale, appena duecento anni fa. Da
quel momento in poi è la stessa storia già vista: decollo
sempre più ripido, fino a giungere allo stadio del razzo.
L'incremento esponenziale della velocità delle comunica­
zioni o del raggio di penetrazione nelle profondità dell'uni­
verso per mezzo dei telescopi ottici e dei radiotelescopi
è troppo nota per insistervi, ma l'illustrazione che segue
è forse meno familiare.
Alla fine del decennio 1920-30 potevamo impartire
alle particelle atomiche circa un milione di elettronvvlt
di energia; negli anni '30 le potevamo accelerare fino a
20 milioni di elettronvolt; intorno al 1950 fino a 500 mi­
lioni; e al momento in cui scrivevo un acceleratore di
50.000 milioni di elettronvolt è in corso di costruzione.
Ma ancora più degno di meditazione di tutte queste cifre
è, per me, un episodio del 1930, quando fui sul punto
di perdere l'impiego come direttore di una pubblicazione
scientifica a causa delle proteste indignate contro un
articolo che avevo scritto sui progressi compiuti nella
tecnica dei razzi, in cui io avevo predetto i viaggi nello
spazio <c entro il termine delle nostre esistenze )). E un
anno o due prima che venisse lanciato il primo Sputnik,
l'Astronomo Reale di Gran Bretagna fece l'immortale
dichiarazione: <c Space travel is bilge )) : <c Il viaggio nello
spazio è una balla )). La nostra immaginazione accetta
volentieri l'idea che le cose stiano cambiando, ma non
è capace di accettare il ritmo a cui stanno cambiando
e di estrapolarle nel futuro. La nostra mente recalcitra
davanti a una curva esponenziale, come Pascal recalci­
trava quando nell'universo copernicano l'infinito venne a

428
spalancare le sue fauci senza fondo: << Le silence éternel
de ces espaces in.finis m ' effraie 1>.
Questa è la posizione in cui ci troviamo oggi. Non
osiamo più estrapolare nel futuro, in parte perché abbiamo
paura, e in gran parte per la nostra povertà di imma­
ginazione.

DUE CURVE

Ma finalmente possiamo guardare indietro, alle nostre


spalle, dentro il passato, e confrontare il grafico che ab­
biamo discusso or ora, che mostra l'incremento esplosivo
della popolazione, del sapere, dell'energia e delle comu­
nicazioni, con un altro tipo di grafico, che indica il pro­
gresso della moralità sociale, delle credenze etiche, della
consapevolezza spirituale, e valori collegati. Questo gra­
fico ci darà una curva di forma del tutto differente. An­
ch' essa mostrerà una salita molto lenta durante le miglia
quasi piatte della preistoria; poi oscillerà con su e giù
inconcludenti attraverso quella che noi chiamiamo la
storia della civiltà; ma poco dopo che la curva esponen­
ziale ha cominciato a rivolgersi verso la verticale, la
<< curva etica 1> accusa una discesa pronunciata, in corri­
spondenza con le due guerre mondiali, le imprese geno­
cide di diversi dittatori, e nuovi metodi di terrore com­
binati con l'indottrinamento che può tenere in pugno
interi continenti.
Il contrasto fra queste due curve dà certamente una
visione ultrasemplificata, ma non ultradrammatizzata,
della nostra storia. Esse rappresentano le conseguenze
dello spacco mentale che c'è nell'uomo. Le curve espo­
nenziali sono tutte quante, in un modo o nell'altro, opera
della nuova corteccia; esse dimostrano i risultati esclu­
sivi, esplosivi del sapere quando finalmente trova il modo
di porre in atto il suo potenziale, che per tutti i millenni

429
della nostra preistoria erano rimasti allo stato latente.
L'altra curva riflette il ramo di allucinazione, la persi­
stenza della devozione mal riposta a credenze emozio­
nali dominate all'arcaico cervello del paleomammifero.
Per citare ancora una volta von Bertalanffy:

<c Quello che si chiama progresso umano è un affare


puramente intellettuale, reso possibile dallo sviluppo
enorme del cervello anteriore. Grazie ad esso l 'uomo è
stato in grado di costruire i mondi simbolici del lin­
guaggio e del pensiero, e qualche progresso nella scienza
e nella tecnologia, durante i cinquemila anni di storia
scritta, lo si è compiuto.
Non molto sviluppo invece è visibile sotto l'aspetto
morale. È dubbio se i metodi della guerra moderna siano
preferibili alle grosse pietre usate per spaccare i crani
dei propri simili al tempo di Neanderthal. È piuttosto
ovvio che gli standard morali di Laotsé e di Buddha non
erano inferiori ai nostri. La corteccia del cervello umano
contiene all'incirca 1 0 miliardi di neuroni che hanno reso
possibile il progresso dall'ascia di pietra agli aeroplani
e alle bombe atomiche, dalla mitologia primitiva alla
teoria dei quanti. Non c ' è alcuno sviluppo corrispon­
dente sotto l'aspetto dell'istinto, che consenta all'uomo
di migliorare i suoi modi. Per questa ragione le esorta­
zioni morali, quali sono state pronunziate attraverso i
secoli dai fondatori di religioni e dalle grandi guide del­
l'umanità, si sono dimostrate in modo sconcertante inef­
ficaci •> (9) .

Ad ulteriore illustrazione dell'abisso che separa il


nostro sviluppo intellettuale e il nostro sviluppo emozio­
nale si prenda il contrasto fra comunicazione e coopera­
zione. Il progresso dei mezzi di comunicazione, di nuovo,
è riflesso da una curva esponenziale: si affollano nel giro
di un solo secolo l'invenzione del piroscafo, della ferrovia,
dell'automobile, del dirigibile, dell'aeroplano, del razzo,

430
dell'astronave, del telegrafo, del telefono, del grammo­
fono, della radio, del radar; della fotografia, della cinema­
tografia, della televisione, del telestar . . .
Nel mese i n cui nacqui i fratelli Wright riuscirono per
la prima volta, a Kitty Hawk, nella Carolina del Nord,
a rimanere in aria per un intero minuto sulla loro mac­
china volante; ci sono probabilità che prima che io muoia
abbiamo raggiunto la Luna e forse anche Marte. Nes­
suna generazione dell'uomo è mai stata, prima, testimone
nel corso della sua vita di sijfatti cambiamenti.
Durante questo periodo il nostro pianeta si è con­
tratto fino a raggiungere proporzioni lillipuziane, cosicché,
invece che negli ottanta giorni di Giulio Verne, può es­
sere orbitato in ottanta minuti. Ma quanto alla seconda
curva - i ponti gettati sopra la distanza fra le nazioni
non le hanno portate più << vicine l> l'una all'altra - è
piuttosto il contrario. Prima dell'esplosione delle comu­
nicazioni, viaggiare era lento ma non esisteva sipario
di ferro, non esisteva alcun muro di Berlino, non esiste­
vano campi minati nelle zone smilitarizzate, e quasi
non c'erano restrizioni sull'immigrazione o l'emigrazione;
oggi a un terzo dell'umanità è fatto divieto di lasciare
il proprio paese. Si potrebbe quasi dire che il progresso
della cooperazione è variato in ragione inversa del pro­
gresso delle comunicazioni. La conquista dell'aria tra­
sformò la guerra limitata in guerra totale; i mezzi di
comunicazione di massa divennero strumenti demago­
gici per fomentare l'odio; e persino fra vicini prossimi
come l'Inghilterra e la Francia l'aumento del traffico
turistico non ha quasi aumentato la reciproca compren­
sione. C'è stato qualche progresso positivo come il Mer­
cato Comune Europeo, ma sono minuscoli se confron­
tati con la spaccatura gigantesca che divide il pianeta
in tre maggiori, e innumerevoli minori, campi ostili
isolati.

431
Lo scopo di riprendere questi ovvii fatti è di inserirli
nello schema generale. Il linguaggio, che è la realizza­
zione più saliente della neocorteccia, è diventato un
fattore più di divisione che d'unificazione, aumentando
le tensioni intraspecifiche; il progresso nelle comunica­
zioni ha seglÙto una tendenza simile trasformando una
benedizione in una maledizione. Anche dal punto di
vista estetico siamo riusciti a contaminare il luminifero
etere, come abbiamo contaminato l'aria, i fiumi e le
spiagge; quando provate le manopole della vostra radio
da tutto il mondo invece di armonie celesti l'etere erutta
un flusso musicale da latrina.
Di tutte le curve esponenziali quella che si riferisce
al progresso del potere distruttivo è la più spettacolare
e la meglio conosciuta. Per riassumere nel modo più
breve: dopo la prima guerra mondiale le statistiche cal­
colarono che in media per ammazzare un soldato nemico
c'erano volute diecimila pallottole di fucile o dieci pro­
iettili di artiglieria. Le bombe lanciate dalle macchine
volanti pesavano poche libbre. Con la seconda guerra
mondiale i block-bttsters (spacca-isGlati) avevano raggiunto
una potenza distruttiva uguale a venti tonnellate di
TNT. La prima bomba atomica caduta su Hiroshima
equivaleva a ventimila tonnellate di TNT. Dieci anni
dopo la prima bomba a idrogeno equivaleva a venti mi­
lioni di tonnellate. Al momento in cui scrivo stiamo ac­
cumulando bombe per l'equivalente di cento milioni di
tonnellate di TNT; e corrono voci di una << bomba gi­
gaton )), un'<< arma nucleare che condensa la potenza
di un miliardo di tonnellate di TNT; fatta detonare a
cento miglia dalla costa degli Stati Uniti, determinerebbe
un'ondata di marea alta diciassette metri che spazzerebbe
quasi tutto il continente americano. . . o di una bomba
al cobalto da cui scaturirebbe una nuvola mortale che
ruoterebbe senza fine intorno alla terra )) (10) .

432
IL NUOVO CALENDARIO

Ho detto che vi sono due ragioni che ci autorizzano


a chiamare unico il nostro tempo. La prima è quantitativa,
ed è espressa dall'incremento esponenziale della popola­
zione, delle comunicazioni, della potenza distruttiva, ecc.
Sotto il loro impatto combinato una intelligenza extra­
terrestre per la quale i secoli fossero secondi, e in grado
di percorrere l'intera curva in un sol colpo, giungerebbe
probabilmente alla conclusione che la civiltà umana è
in procinto (se non in atto) di esplodere.
La seconda ragione è qualitativa, e può riassumersi
in una frase: prima della bomba termonucleare l'uomo
doveva convivere con l'idea della propria morte come
individuo; d'ora in avanti l'umanità deve convivere con
l'idea della propria morte come specie.
La bomba ci ha offerto la possibilità di commettere
il genosuicidio; e fra pochi anni avremo perfino la possi­
bilità di trasformare il nostro pianeta in una nova, una
stella in esplosione. Ogni età ha avuto le sue Cassandre
e l'umanità è riuscita a sopravvivere a dispetto delle loro
sinistre profezie, ma questo confortante argomento non è
più valido perché nessuna età passata, anche se immersa
nelle convulsioni della guerra e della pestilenza, aveva
mai posseduto il potere ora da noi acquistato sulla vita
del pianeta inteso come un tutto.
Le implicazioni di questo fatto non sono ancora
penetrate appieno neppure nella mente dei più rumorosi
pacifisti. Ci è già stato insegnato ad accettare la transito­
rietà dell'esistenza individuale, tenendo però assiomati­
camente per scontata la sopravvivenza della nostra specie.
Era perfettamente ragionevole escludere una improbabile
catastrofe cosmica. Ma questa ha cessato di essere una
credenza ragionevole dal giorno in cui la possibilità di
fabbricare una catastrofe di dimensioni cosmiche fu pro_

433
vata sperimentalmente, e collaudata. Essa polverizzò i
presupposti su cui si era basata ogni filosofia da Socrate
in avanti: la potenziale immortalità della nostra specie.
Ma nuove visioni di natura rivoluzionaria non possono
essere assimilate in un attimo. Ci sono periodi di incuba­
zione. La teoria copernicana sul movimento della Terra
dovette aspettare ottant'anni prima di prender radice.
La mente inconscia ha un suo orologio, e modi suoi propri
di digerire quello che la mente cosciente ha rigettato
come indigeribile. I capi della Rivoluzione francese erano
ben consapevoli di questo; per affrettare il processo di
assimilazione introdussero un nuovo calendario che par­
tiva dal giorno della proclamazione della repubblica, e
il 22 settembre 1792 diventò il l 0 Vendemmiaio dell'Anno
Primo. Non sarebbe forse una cattiva idea se tutti noi te­
nessimo un secondo calendario, almeno nella nostra mente,
che iniziasse con l'anno in cui la nuova Stella di Betlemme
sorse su Hiroshima. I calendari implicano convinzioni
circa l'importanza fondamentale di 12erti avvenimenti:
la prima Olimpiade, la fondazione della città di Roma,
la nascita di Gesù, la fuga di Maometto dalla Mecca.
Fissare un anno zero offre una scala del tempo, una mi­
sura in età, per la distanza coperta dal punto vero o
presunto di partenza di una civiltà data.
Così io sto scrivendo nell'anno XXII d. H., dopo
Hiroshima. Perché è indubbio che quell'anno è comin­
ciata una nuova era. La razza umana si trova davanti
a una sfida senza precedenti nella sua storia, a cui
può far fronte soltanto prendendo misure di natura egual­
mente senza precedenti. La prima metà della frase che
precede è ormai più o meno generalmente accettata, ma
non lo è la seconda. Persino la minoranza pensante crede
ancora che un pericolo, unico nella sua novità, possa ve­
nire scongiurato con rimedi tradizionali logorati dal
tempo, con appelli alla ragione e al senso comune. Mà

434
tali appelli sono impotenti contro le ideologie militanti
dei sistemi chiusi, i cui veri credenti sono convinti - come
scrisse di recente un professore dell'Università di Pe­
chino - che << il rispetto per i fatti e per le opinioni degli
altri deve essere sterminato dall'anima dell'uomo come
una pestilenza >> (11).
Tutti gli sforzi di persuasione mediante argomenta­
zioni ragionate fanno assegnamento sulla presunzione
implicita che l'Homo sapiens, benché di tanto in tanto
accecato dall'emozione, è fondamentalmente un animale
razionale, consapevole dei moventi delle proprie azioni
e delle proprie credenze, una presunzione che è inteni­
bile alla luce delle prove sia storiche che neurologiche.
Tutti questi appelli cadono su terreno sterile; potrebbero
prendervi radice soltanto se questo terreno fosse prepa­
rato da un cambiamento spontaneo della mentalità umana
in tutto il mondo, il che equivarrebbe a una sostanziale
mutazione biologica. Allora, e solo allora, l'umanità tutta
intiera, dai suoi capi politici fino alla folla solitaria, diven­
terebbe ricettiva alle argomentazioni ragionate e disposta
a ricorrere a quelle misure non ortodosse che ci mettessero
in grado di affrontare la grande minaccia.
È altamente improbabile che una simile mutazione
mentale accada spontaneamente nel futuro prevedibile;
laddove è altamente probabile che la scintilla che dà
inizio alla reazione a catena si accenda presto o tardi,
deliberatamente o per incidente. Via via che gli strumenti
della guerra atomica e biologica diventano più potenti
e semplici da produrre, il loro proliferare fra le nazioni
giovani e immature come fra le vecchie e fradicie è inevi­
tabile. Un'invenzione, una volta che è fatta, non può
essere disinventata; la bomba è arrivata per restare. L'u­
manità deve convivere con essa per sempre: non soltanto
durante la prossima crisi e quella che le seguirà, ma per
sempre; non per i prossimi venti o duecento o duemila

435
anni, ma per sempre. :E divenuta parte della condizione
umana.
Nei primi venti anni dell'era post Hiroshima, dal
1946 al 1966, secondo il calendario convenzionale, gli
uomini hanno combattuto, come già detto, quaranta
guerre e guerre civili << minori )) (l'elenco è del Penta­
gono) (12) . Più della metà di queste sono state combat­
tute fra comunisti e non comunisti (Cina, Grecia) ; le
altre erano o << anticoloniali )) (Algeria, Indocina) , << av­
venture imperialiste )) (Suez, Ungheria, Baia dei Porci),
o guerre << classiche )) fra vicini (India, Pakistan, Israele,
Arabi) . Ma questo elenco del Pentagono non include
crisi come il blocco di Berlino del 1950, e colpi di Stato
come le defenestrazioni di Praga del 1948. Come ha
detto un diplomatico francese: << Non ci sono pm cose
come la guerra e la pace, solo diversi livelli di 'confron­
tamento' )).
Queste guerre e guerre civili furono combattute con
armi convenzionali, la maggior parte da nullatenenti nu­
cleari. Ma almeno in due occasioni - Berlino 1950 e
Cuba 1962 - siamo stati sull'orlo della guerra nucleare;
e tutto questo nei primi due decenni dall'anno zero d. H.
Se si estrapola da questi dati nel futuro, la probabilità
di disastro si avvicina alla certezza statistica.
Un'ulteriore aggravante è che gli ordigni nucleari,
come altri arnesi d'uso, subiranno un processo di pro­
gressiva miniaturizzazione: diverranno più piccoli e più
facili da fare, cosicché a lungo andare il controllo globale
effettivo della loro fabbricazione diverrà impraticabile
anche sotto questo stesso aspetto; nel futuro prevedibile
saranno prodotti e immagazzinati in grande quantità,
dall'Alaska spazzata dai venti fino all'assolata Stanley­
ville. È come se una gang di bambini delinquenti fosse
stata chiusa a chiave in una stanza piena di materiale
infiammabile e provvista di scatole di fiammiferi, in-

436
sieme con l'ammonimento di non usarli. Alcuni sociologi
hanno già stimato (per citare di nuovo ]. R. Platt) che

(i la nostra 'semivita' 1 in queste circostanze - cioè

il numero probabile di anni prima che questi ripetuti


'confronti' raggiungano una probabilità del 50% di di­
struggere per sempre la razza umana - può essere sol­
tanto di 1 0 o di 20 anni. Ovviamente questo non è un
numero oggettivamente controllabile. Non di meno l'idea
è chiara. È la prima volta nella storia della razza umana
che dei bambini - tutti i bambini dovunque per sem­
pre - abbiano avuto una probabilità cosi magra di so­
pravvivere ,> {13).

Non c'è davvero una ragione convincente che ci possa


condurre a credere che i conflitti, le crisi, i confronti
e le guerre del passato non abbiano a ripetersi in varie
parti del mondo negli anni, nei decenni o nei secoli a
venire. Dalla seconda guerra mondiale in poi le ten­
sioni ideologiche, razziali, etniche sono cresciute in Africa,
in Asia, nell'America Latina. Negli Stati Uniti, a di­
spetto di tutti i genuini sforzi per trovare una soluzione,
il problema razziale sta diventando più intrattabile; per­
sino Israele, prima vittima della persecuzione razziale,
ha la propria maggioranza sottoprivilegiata di Ebrei di
colore. Le lezioni del passato sono andate sprecate; la
storia non solo si ripete, sembra che stia lavorando a
ripetersi sotto la pressione di un'autocostrizione neurotica.
Cosi nel 1920 una città chiamata Danzica ai margini
orientali dell'Europa fu trasformata in un'enclave che
poteva esser raggiunta soltanto attraverso uno stretto
corridoio che correva in territorio straniero. Questa as­
surda sistemazione diventò il pretesto per la seconda

l. Il termine è tratto dalla fisica nucleare: i< semivita ,, è il tempo


richiesto perché si disintegri la metà degli atomi di un isotopo radio­
attivo.

437
guerra mondiale. Mentre questa era ancora in corso, una
città chiamata Berlino nel cuore dell'Europa fu trasfor­
mata in un'enclave che poteva esser raggiunta soltanto
attraverso uno stretto corridoio attraverso un territorio
straniero. Questa assurda ripetizione diventa il pretesto
che ci ha già portati una volta sull'orlo della guerra,
e lo farà con tutta probabilità di nuovo. Hegel scrisse:
<< Quello che ci insegnano l'esperienza e la storia è questo:
che il popolo e i governi non hanno mai imparato niente
dalla storia, né agito su princìpi da essa dedotti )).
È stato detto che il sangue dei martiri feconda la
terra: ma in realtà è colato via attraverso i tubi di sca­
rico con un monotono gorgoglìo per tutto il tempo a cui
risale la memoria dell'uomo; e in qualunque parte del
mondo noi guardiamo, troviamo scarse prove che ci
incoraggino a sperare che questo gorgoglìo si attutisca
o si plachi. Se scartiamo i conforti del wishjul thinking,
del credere ciò che ci farebbe piacere, dobbiamo preve­
dere che i moventi e i luoghi di conflitto potenziale con­
tinueranno a scorrere attraverso il globo come aree di
alta pressione su una carta meteorologica. E la nostra
unica, precaria salvaguardia contro la dilatazione del
conflitto locale a conflitto totale, il deterrente reciproco,
dipenderà sempre da fattori psicologici incontrollabili:
la capacità di frenarsi, oppure la irresponsabilità, di fal­
libili individui-chiave. La roulette russa è un gioco che
non si può giocare a lungo.
Finché abbiamo creduto che la nostra specie come
tale fosse virtualmente immortale, con davanti a sé una
durata d'esistenza astronomica, potevamo permetterei il
lusso di aspettare con pazienza quel mutamento di
cuore che gradualmente o improvvisamente avrebbe
fatto prevalere l'amore, la pace e la ragione. Ma non ab­
biamo più la sicurezza dell'immortalità né tempo illimi­
hto per aspettare il momento in cui il leone giacerà ac-

438
canto all'agnello, l'arabo accanto all'israeliano e il com­
missario accanto allo yogi.
Le conclusioni, se osiamo trarle, sono semplicissime.
La nostra evoluzione biologica a tutti gli effetti si ar­
restò nei giorni di Cro-Magnon. Siccome non possiamo
aspettarci nel futuro prevedibile che si produca nella
natura umana la modifica necessaria mediante mutazione
spontanea, cioè con mezzi naturali, dobbiamo indurla
con mezzi artificiali. Possiamo sperare di sopravvivere
come specie soltanto sviluppando tecniche che soppian­
tino l'evoluzione biologica. Dobbiamo cercare una cura
per la schizofisiologia inerente alla natura umana e per
lo spacco che ne risulta nelle nostre menti e che ci ha
condotto alla situazione in cui ora ci troviamo.

<< :><ON SCHERZIAMO CON LA NA'l'URA UMANA >>

Credo fermamente che, se non riusciamo a trovare


questa cura, la vecchia vena di paranoia che è nell'uomo,
combinandosi con i suoi nuovi poteri di distruzione,
presto o tardi debba condurre al genosuicidio. Ma credo
pure che la cura sia quasi a portata della biologia con­
temporanea; e che, con un'adeguata concentrazione di
sforzi, possa essere prodotta nel corso della vita della
generazione che sta ora entrando in scena.
Mi rendo conto che questa affermazione suona troppo
ottimista in contrasto con l'apparente super-pessimismo
delle vedute or ora espresse circa le prospettive che ci
aspettano se continuiamo ad andare avanti con le no­
stre maniere da paranoici. Non penso che queste appren­
sioni siano esagerate, e non penso che l'idea di una cura
per l'Homo sapiens sia utopistica. Non è ispirata alla
fantascienza, ma basata su un bilancio realistico dei
recenti avanzamenti di diverse branche convergenti delle

439
scienze della vita. Esse non offrono una cura, ma indicano
la zona di ricerca da cui può scaturire.
Mi rendo conto pure che ogni proposta che comporti
una << manipolazione >> artificiosa della natura umana è
destinata a provocare resistenze emotive molto forti.
Esse sono basate in parte sul pregiudizio, ma in parte
su una sana avversione contro ogni intrusione ulteriore
nella intimità e santità dell'individuo mediante eccessi
di ingegneria sociale e di ingegneria del carattere, varie
forme di lavaggio del cervello e altri minacciosi aspetti
dell'incubo ad aria condizionata che ci circonda. D'altra
parte, fin da quando il primo cacciatore avviluppò le
sue membra tremanti nella pelle di un animale morto,
l'uomo ha continuato a << manipolare >> la propria nat:..tr a,
creandosi un ambiente artificiale che gradualmente tra­
sformò la faccia del pianeta e un modo artificiale d'esi­
stenza senza del quale non può ormai più sopravvivere.
Non c'è possibilità di tornare indietro in fatto di abita­
zione, di vestiario, di riscaldamento artificiale, di cibo
cotto; né in fatto di occhiali, di apparecchi acustici, di
forcipi, di membra artificiali, di anestetici, di antisettici, di
profilattici, di vaccini e così via.
Noi cominciamo a maneggiare e a manipolare la na­
tura umana, a pasticciare con la natura, quasi fin dal
momento in cui nasce un bambino, perché una delle
prime misure è la pratica universale di far cadere qualche
goccia di una soluzione di nitrato d'argento negli occhi
del neonato per proteggerlo contro l'oftalmia dei neo­
nati, una forma di congiuntivite che conduce di frequente
alla cecità, causata da gonococchi che, a sua insaputa,
possono essersi insinuati nell'apparato genitale della ma­
dre. Questo è seguìto più tardi da vaccinazioni preventive,
obbligatorie nella maggior parte dei Paesi civili, contro
il vaiolo, il tifo e così via. Per apprezzare il valore di
queste manipolazioni, che interferiscono col corso della

440
natura, ricordiamoci che il prevalere del vaiolo fra i pelli­
rosse fu una delle cause principali per cui dovettero ce­
dere il loro continente all'uomo bianco. Nel XVII e nel
XVIII secolo esso costituiva un rischio a cui chiunque
era esposto. I disastri che fece avrebbero potuto anche
essere peggiori se non fosse stato per quella intrepida
signora, Mary Wortley Montagu, che apprese l'antica
pratica orientale dell'<< inoculazione l) dai Turchi, e la in­
trodusse in Inghilterra all'inizio del XVIII secolo. Con­
sisteva nell'infettare la persona da immunizzare con ma­
teria tratta da casi miti di vaiolo, procedimento piut­
tosto pericoloso, ma con un tasso di esiti fatali molto
più basso del vaiolo << naturale ,> (il rischio svanì soltanto
quando J enner scoprì che la vaccinazione con il virus
attenuato del vaiolo dei bovini conferiva l'immunità
contro il vaiolo) .
Un caso molto meno noto di manipolazione della na­
tura è la prevenzione del gozzo e di una certa varietà
di cretinismo che vi è associato. Quando ero bambino
e mi portavano in vacanza sulle Alpi, il numero di mon­
tanari con questi mostruosi rigonfiamenti sulla parte
anteriore del collo e il numero dei bambini cretini delle
loro famiglie era veramente spaventoso. Oggi non c'è
un solo caso di gozzo nel villaggio del Tirolo dove passo
parte dell'anno né nelle valli adiacenti. Si è trovato che
il gozzo è associato a una deficienza di iodio della ghiandola
tiroide, e che l'acqua delle regioni dove la malattia era
una volta endemica era dura e povera di iodio. Così si
aggiunse periodicamente iodio in piccole quantità all'ac­
qua potabile o alla dieta dei bambini, e il gozzo diventò
virtualmente una cosa del passato.
Evidentemente l'uomo, o un determinato ceppo di
uomini, non era biologicamente equipaggiato per am­
bienti con acqua povera di iodio, oppure per venire a
capo del virus del vaiolo, dei mortali microrganismi della

441
malaria e della malattia del sonno. Se rovesciamo la si­
tuazione, troviamo che alcuni microbi sono egualmente
male equipaggiati per resistere ad altre specie di micror­
ganismi che chiamiamo antibiotici. Ora i microbi sem­
brano avere un tasso di mutazione enorme (o qualche
altro metodo di adattamento ereditario) , perché dopo
pochi anni si sono evoluti ceppi nuovi resistenti al far­
maco. Noi uomini non possiamo compiere imprese simili
in fatto di evoluzione. Però possiamo simulare cospicue
mutazioni di adattamento aggiungendo iodio all'acqua
potabile, o mettendo gocce negli occhi dei neonati per
proteggerli dai nemici contro cui le nostre difese natu­
rali sono inadeguate.
In anni recenti i biologi hanno scoperto che ogni
specie animale che essi studiavano - dagli àfidi dei fiori,
passando per i conigli, fino ai babbuini - è equipaggiata
di schemi istintivi di comportamento che pongono nn
freno alla eccessiva prolificità e serbano abbastanza co­
stante la densità della popolazione in un territorio dato,
anche quando c'è abbondanza di cibo. Quando la densità
supera un certo limite, l'affollamento produce sintomi
di stnss che incidono sull'equilibrio ormonico; i conigli
e i cervi cominciano a morire di << stress adrenalico l>
senza alcun segno di malattia epidemica; le femmine dei
ratti smettono di aver cura dei piccoli, che periscono, e
fa la sua apparizione un comportamento sessuale abnorme.
Così l'equilibrio ecologico di una data zona è conservato
non solo dalla distribuzione relativa di animali, piante
e microrganismi, di predatori e pr_e de, ma anche da un
tipo di meccanismo retroattivo intraspecifico, che regola
il tasso di prolificità, così da conservare la popolazione
a un livello stabile. La popolazione di una specie data
in un dato territorio si comporta infatti come un olòmero
sociale autoregolatore governato dai cànoni istintivi del­
l'<< osservare la distanza l> e del mantenere la densità me-

442
dia. Ma sotto questo aspetto l'uomo è, di nuovo, qualche
cosa di unico, tranne forse i lemming suicidi. Sem­
brerebbe quasi che la regola ecologica, nelle popolazioni
umane, si rovesci: quanto più si affollano negli slums,
nei ghetti, e nelle aree depresse, tanto più in fretta esse
si moltiplicano. In passato il fattore di stabilizzazione
non era del tipo del meccanismo retroattivo che regola
il tasso di prolificità degli animali, ma le cruente ven­
demmie della guerra, della pestilenza e della mortalità
infantile. Tuttavia, già nei giorni biblici, come appren­
diamo dalla storia di Onan, l'uomo compensava in qual­
che misura l'assenza di controlli di prolificità istintivi
con un controllo volontario delle nascite mediante coitus
interruptus e altre pratiche. Poi, un secolo fa, quando
Luigi Pasteur diede inizio al << decollo )) della curva della
popolazione, Charles Goodyear fabbricante di gomma e
inventore, da cui trae nome una nota marca di pneuma­
tici, ideò i primi contracettivi artificiali. I metodi mo­
derni di controllo delle nascite mediante diaframmi in­
trauterini e contracettivi orali rappresentano una ma­
nipolazione della natura molto più radicale su un livello
più vitale. Essi interferiscono in modo permanente (e
tuttavia, secondo ogni indicazione, non dannoso) con i
processi fisiologici che governano il ciclo mensile. Appli­
cati su scala mondiale - come bisognerebbe se si vuole
impedire l'imminente catastrofe - equivarrebbero a una
mutazione adattativa artificialmente simulata.
La nostra specie è diventata una mostruosità biologica
quando in qualche punto del cammino perdette i con­
trolli istintivi che regolano negli animali il tasso di na­
talità. Essa può sopravvivere soltanto inventando metodi
che imitino le mutazioni evolutive. Non possiamo sperare
ormai che la natura fornisca il rimedio correttivo. Dob­
biamo trovarlo da noi.

443
PROMETEO SCARDINATO

Mutatis mutandis, siamo per caso in grado di inventare


un rimedio simile per la schizofisiologia del nostro si­
stema nervoso ? per il ramo di paranoia dell'uomo, che
ha fatto della nostra storia un pasticcio così raccapric­
ciante; e non solo della storia dell'Homo sapiens ma,
apparentemente, di tutti i suoi predecessori quasi umani.
Ritorniamo a Lorenz:
<< Ovviamente i meccanismi di comportamento istin­
tivo mancarono di adattarsi alle nuove circostanze che
la cultura inevitabilmente produceva anche ai suoi al­
bori. Ci sono prove che i primi inventori di utensili di
pietra, gli australopitechi africani, prontamente si servi­
rono delle loro nuove armi per uccidere non soltanto la
selvaggina ma anche gli altri membri della loro specie.
L'uomo di Pechino, il Prometeo che imparò a conservare
il fuoco, lo usava per arrostire i suoi confratelli; accanto
alle prime tracce di uso regolare del fuoco, giacciono le
ossa mutilate e arrostite del Sinanthropus pekinensis
medesimo •> (14).

Il mito di Prometeo ha preso un brutto giro: il gi­


gante che si sporge per rubare il lampo agli dèi, è pazzo.
Secondo ogni indicazione i guai cominciarono con l'im­
provviso gonfiarsi della neocorteccia a un ritmo << senza
precedenti nella storia dell'evoluzione •> (p. 368) . Se com­
primiamo l'intera storia della vita sulla terra dall'ini­
zio, circa duemila milioni d'anni fa, fino a oggi in un giorno
solo da mezzanotte a mezzanotte, l'età dei mammiferi
comincerebbe intorno alle 23. E l'evoluzione del Pitecan­
tropo (l'uomo-scimmia di Giava) fino all'Homo sapiens -
cioè l'evoluzione della neocorteccia umana - si sarebbe
svolta negli ultimi quarantacinque secondi. La crescita
della corteccia, essa pure, seguì una curva esponenziale. È
forse irragionevole presumere che, a questo tasso esplosivo

444
di sviluppo del cervello, sviluppo che superò così ampia­
mente il proprio bersaglio, qualcosa sia andato per storto ?
più precisamente, che le linee di comunicazione tra le
strutture antichissime e quelle nuove di zecca non si
siano sviluppate sufficientemente per garantire un armo­
nioso gioco reciproco, la coordinazione gerarchica di
istinto e intelligenza ? Ricordando gli errori che accorsero
nell'evoluzione delle versioni più antiche di sistemi nervosi
- il cervello dell'artropode strozzante il canale digestivo,
il cervello del marsupiale senza connessioni adeguate
fra gli emisferi destro e sinistro - non possiamo fare a
meno di sospettare che qualcosa di simile sia accaduto
anche a noi; e le prove combinate della neurofisiologia,
della psicopatologia e della storia umana sembrano suf­
fragare questa ipotesi.
La prova neurofisiologica indica, come abbiamo vi­
sto, una dissonanza fra le reazioni della neocorteccia e
del sistema limbico. Invece di funzionare come parti
integrantisi di un ordine gerarchico, conducono una specie
di coesistenza conflittuale. Per ritornare a una vecchia
metafora: il cavaliere non ha mai raggiunto un completo
dominio del cavallo e il cavallo impone le sue bizze nei
modi più discutibili. Abbiamo visto pure che il cavallo
- il sistema limbico - ha accesso diretto ai centri del­
l'ipotalamo che generano le emozioni e sono orientati
visceralmente; ma il cavaliere non ha accesso diretto ad
essi. Di più, le staffe e le redini con cui si pensa che il
cavaliere controlli il cavallo sono inadeguate. Per citare
ancora una volta MacLean: << In base agli studi neuro­
nografici, non sembrano esistere estese connessioni 'as­
sociazionali' fra il limbico e la neocorteccia >>. 1 Non vi

l . L'articolo così continua: << Ciò indicherebbe che entrambi di­


pendono quasi interamente da linee di comunicazioni verticali piuttosto
che orizzontali. Il cosiddetto sistema di proiezione diffusa del dience­
falo offre un possibile sistema di collegamento, ma la prova a tal pro-

445
è qui prova anatomica degli intricati circuiti dentro a
circuiti, dei feedback, del delicato gioco reciproco del­
l'eccitazione e inibizione, che caratterizza il sistema
nervoso in generale. << Sia il cavallo che l'uomo sono molto
v.ivi uno di fronte all'altro e di fronte al loro ambiente,
però la comunicazione fra di essi è limitata. Entrambi ne
traggono informazioni e agiscono su di esso in modo diffe­
rente )) (15). Qui è, di nuovo, il substrato anatomico delle
<< separate dimore di fede e di ragione )), i cui inquilini sono
condannati a vivere in uno stato di << schizofrenia control­
lata )), come l'ha descritta la spia atomica Klaus Fuchs.
Continuare a predicare la ragione a una specie in­
trinsecamente irragionevole è, come la storia mostra,
un'impresa abbastanza disperata. L'evoluzione ci ha ab­
bandonati; possiamo sperare di sopravvivere soltanto
se sviluppiamo tecniche che la soppiantino introducendo
le modificazioni necessarie nella natura umana. Pos­
siamo essere in grado di prevenire l'apocalisse demogra­
fica interferendo nel ciclo femminile. Non possiamo cu­
rare la nostra predisposizione paranoica aggiungendo
altri circuiti al nostro cervello. Ma possiamo però attuare
una cura o almeno un miglioramento significativo diri­
gendo la ricerca lungo canali appropriati.

MUTAZIONE PER IL FUTURO

Nel 1961 il centro medico dell'Università di California,


San Francisco, organizzò nn simposio sul Control oj the

posito è ancora controversa. È però ampiamente giustificato supporre


un altro sistema di connessioni attraverso il sistema reticolare del cer­
vello medio. Questa parte, che Magoun e altri hanno dimostrato es­
senziale per lo stato di veglia, è risultata elettrofisiologicamente in
relazione reciproca sia col limbico che col neocòrtice. Di più c'è la prova
anatomica ed elettro-fisiologica che il grigio centrale, che sta come
un nucleo dentro a questo reticolo e svolge una parte dinamogenica
nell'emozione, è collegato all'archicortice >) ( 1 5) . Questo è ciò che s'in­
tende per coordinamento <• inadeguato >).

446
mind, Controllo della psiche. Nella prima sessione il pro­
fessor Holger Hydén, dell'Università di Goteborg, sca­
tenò titoli cubitali sulla stampa di San Francisco, sebbene
il titolo della sua memoria altamente tecnica Aspetti
-

biochimici dell'attività cerebrale non sembrasse di


-

gran richiamo per la stampa popolare. Hydén è una


delle autorità principali del ramo. Il passaggio che destò
sensazione è citato sotto (il riferimento a me è spiegato
dal fatto che io partecipavo al simposio):

<< Considerando il problema del controllo della psiche,


i dati dànno origine al problema seguente; sarebbe possi­
bile cambiare i fondamenti dell'emozione inducendo cam­
biamenti molecolari nelle sostanze biologicamente attive
del cervello ? L'RNA, 1 in particolare, è l'obiettivo prin­
cipale di simile speculazione, dal momento che un cam­
biamento molecolare dell'RNA può condurre a un cam­
biamento delle proteine in corso di formazione. Si po­
trebbe girare la domanda con altre parole per modificarne
l'enfasi: i dati sperimentali presentati qui offrono mezzi
per modificare lo stato mentale mediante cambiamenti
chimici specificamente indotti ? Risultati indicativi in que­
sta direzione sono stati ottenuti; questo lavoro è stato
compiuto usando una sostanza chiamata triciano-amino­
propene .
. . . L'applicazione di una sostanza che cambi il tasso
di produzione e di composizione dell'RNA, e provocante
modificazioni enzimatiche nelle unità funzionali del si­
stema nervoso centrale, ha aspetti sia negativi sia posi­
tivi. Esiste ora la prova che la somm.inistrazione di tri­
ciano-aminopropene è seguita nell'uomo da una accre­
sciuta suggestionabilità. Tale essendo il caso, un cambia­
mento definito di una sostanza funzionalmente cosi im­
portante come l'RNA del cervello potrebbe essere usata

l. L'acido ribonucleico, sostanza chiave dell'apparato genetico.

447
per il condizionamento. L'autore non si riferisce specifi­
camente al triciano-aminopropene, ma a qualsiasi so­
stanza inducente modifiche di molecole biologicamente
importanti dei neuroni e della glia, e influenzanti lo stato
mentale in direzione negativa. Non è difficile immaginare
gli usi possibili a cui un governo di uno Stato control­
lato dalla polizia potrebbe sottoporre questa sostanza.
Per qualche tempo sottoporrebbe la popolazione a condi­
zioni dure. D'improvviso esse verrebbero rimosse e al
tempo stesso sarebbe aggiunta questa sostanza all'ac­
qua potabile, e si darebbe il via a una parallela azione
dei mezzi di comunicazione di massa. Questo metodo
sarebbe molto più economico e creerebbe possibilità più
sconcertanti che non quello di lasciare Ivanov trattare
individualmente Rubashov per un lungo periodo di tempo,
come ha raccontato Koestler nel suo libro. Dall'altro
lato, una contromisura contro l'effetto di una sostanza
come il triciano-aminopropene non è però difficile da
immaginare l) ( 1 6).

Lasciando da parte i particolari tecnici, le i mplicazioni


sono chiare. Come ogni altra scienza umana, la biochimica
può servire i poteri della luce o delle tenebre. I suoi peri­
coli sono terrificanti; ma ora ci stiamo occupando delle
sue possibilità benefiche. Mi sia concesso citare un altro
pertinente passaggio di una comunicazione di Dean Saun­
ders, della scuola medica di San Francisco, pronunziata
al simposio sul Controllo della psiche:

(c La grande abilità tecnologica e l'ingegnosità del


chimico moderno ha fornito agli scienziati medici e al
clinico un arsenale abbondante di nuovi composti chimici
di svariata e diversa struttura, che influenzano il si­
stema nervoso centrale distorcendo, accelerando o de­
primendo lo stato mentale e comportamentale caratteri­
stici dell'individuo. La conferenza ha sottolineato che
molti di questi agenti chimici possiedono un'azione al-

448
tamente selettiva su particolari e separate parti del si­
stema nervoso - tanto da permettere, in base a un
esame della loro azione sull'uomo e gli animali, una si­
stemazione in ordine di rango. Questi agenti chimici
offrono così, mediante considerazione delle relazioni che
intercorrono tra struttura chimica ed azione biologica,
la possibilità di fornire un vasto arsenale di farmaci in­
fluenzanti l'attività specifica del cervello. Effettivamente,
siccome tali agenti possono o potenziarsi o attenuarsi
l'un l'altro, presentare una sovrapposizione nelle loro
azioni rispettive, e dimostrare polarità nei loro effetti
sul cervello, si può dedurne un'alta probabilità di disporre
di uno spettro completo di agenti chimici che possono
essere usati per il controllo della psiche nella maggio­
ranza delle sue attività.
Qui, a nostra disposizione, per essere usato con saggezza
o no, c'è un armamentario crescente di agenti che mani­
polano gli esseri umani . . . è ora possibile agire direttamente
sull'individuo per modificare la sua condotta invece che,
come in passato, indirettamente attraverso modifiche
dell'ambiente. Questo quindi costituisce una parte di
quello che Aldous Huxley ha chiamato 'la Rivoluzione
Finale' . . l> ( 1 7).
.

Devo aggiungere un commento all'ultimo periodo


della citazione. Huxley era ossessionato dalla paura che
questa << Rivoluzione Finale l), introdotta dagli effetti
combinati dei farmaci e dei mezzi di massa, potesse
creare << entro una generazione, o press'a poco, per in­
tere società una sorta di indoloro campo di concentramento
mentale, in cui la gente perderà la libertà nel godimento
di una dittatura senza lacrime l) �18) . In altre parole lo
stato di cose descritto in Brave new world. Come antidoto
Huxley propugnava l'uso della mescalina e di altre droghe
psichedeliche, per guidarci lungo la ottuplice via verso
la coscienza cosmica, l'illuminazione mistica e la creati­
vità artistica.

IS KOESTLER 449
Per lungo tempo sono stato un ammiratore della per­
sonalità e dell'opera di Huxley, ma in questi ultimi anni
ero in profondo disaccordo con lui; e i punti di dissenso
aiuteranno a chiarire questo risvolto.
In Cielo e terra, lodando i benefici della mescalina,
Huxley offrì questo consiglio all'uomo moderno in cerca
della propria anima: << Sapendo, come sa . . . , quali sono
le condizioni chimiche dell'esperienza trascendentale,
l'aspirante mistico dovrebbe rivolgersi per aiuto tecnico
agli specialisti di farmacologia, di biochimica, di fisio­
logia e neurologia . . . >> .
Ora questo è precisamente quello che io non intendo
parlando di usi positivi della psicofarmacologia. In primo
luogo fare esperimenti con la mescalina o con l'LSD 25
comporta rischi seri. Ma prescindendo da ciò, è fondamen­
talmente sbagliato e ingenuo sperare che le droghe pos­
sano fare alla psiche dei regali gratis, immettere in
essa qualcosa che non c'è già prima. Né le rivelazioni
mistiche né la saggezza filosofica né la potenza creativa
possono essere fornite per pillola o iniezione. Lo psico­
farmacologo non può aumentare le facoltà del cervello,
ma può tutt'al più eliminare le ostruzioni e i blocchi
che ne impediscono l'uso adeguato. Non può ingrandirei
ma può in certi limiti normalizzarci; non può inserire
nel cervello circuiti aggiuntivi, ma può, di nuovo entro
certi limiti, migliorare la coordinazione fra quelli che
esistono, attenuare i conflitti, impedire la fusione delle
valvole e assicurare un rifornimento d'energia stabile.
Questo è tutto l'aiuto che noi possiamo chiedere, perché
se fossimo in grado di ottenerlo i benefici per l'umanità
sarebbero incalcolabili; sarebbe la << Rivoluzione Finale >>
in un senso opposto a quello di Huxley, lo scaturire, dal
maniaco, dell'uomo.
Il << noi >> del periodo precedente non vuole essere ri­
ferito ai pazienti di una clinica psichiatrica o stesi sul

450
divano del terapista. La psicofarmacologia senza dubbio
avrà una parte crescente anche nel trattamento dei di­
sordini mentali in senso clinico, 1 ma non è questo il punto.
Ciò di cui ci preoccupiamo è una cura per la venatura
paranoica di quella che noi chiamiamo la gente normale,
cioè l'umanità presa nel suo insieme: una mutazione di
adattamento, artificialmente simulata, per gettare un
ponte sull'abisso che esiste fra il cervello filogeneticamente
vecchio e quello nuovo, fra istinto ed intelletto, emozione
e ragione. Se è nelle nostre possibilità aumentare la sug­
gestionabilità dell'uomo, lo sarà pure operare in modo
opposto: contrattaccare la devozione mal riposta e l'entu­
siasmo militante, entrambi omicidi e suicidi, che vediamo
riflessi nelle pagine dei quotidiani. Il compito più urgente
della biochimica è la ricerca di un rimedio nella (l crescente
portata >>, come la chiama Saunders, <l dello spettro di
agenti chimici che possono essere usati per il controllo
della psiche >>. Non è utopistico credere che lo si possa
fare e che lo si farà. I nostri presenti tranquillanti, bar­
biturici, stimolanti, antideprimenti, e le loro combina­
zioni, sono un semplice primo passo verso una gamma
più sofisticata di presidii per promuovere uno stato men­
tale coordinato ed armonioso. Non la calma atarassia
cercata dagli Stoici, non l'estasi del derviscio danzante,
non il nirvana pop creato dalle huxleyane pillole di
<1 soma >>, ma uno stato di equilibrio dinamico, in cui pen­
siero ed emozione tornino a unirsi e l'ordine gerarchico
sia ristabilito.

l . Mentre il libro andava in tipografia, la rivista americana 11 Ar­


chives of generai psychiatry � riferiva esperimenti condotti alla Tu­
lane University che adombrano la possibilità di una cura chimica della
schizofrenia (D. GOULD, Un anticorpo in schizofrenia, Londra, 11 New
Scientist ''· 2 febbraio 1 967).

451
APOLOGIA AL LETTORE FANTASMA

Sono conscio che << controllo della psiche )) e << manipo­


lazione degli esseri umani )) hanno armonici sinistri. Chi
controllerà i controlli, manipolerà i manipolatori ? Ammet­
tendo che riusciamo a sintetizzare un ormone che agisca
come stabilizzatore mentale nelle linee indicate, come
faremo a diffonderne l'uso globale per indurre la muta­
zione benefica ? Dobbiamo cacciarlo di forza in gola alla
gente o metterlo nell'acqua del rubinetto ?
La risposta sembra ovvia. Nessuna legislazione, nes­
suna misura obbligatoria è stata necessaria a persuadere
i Greci e i Romani a consumare il << succo dell'uva che dà
gioia ed oblio )) . I,e pillole che fanno dormire, le pillole
che dànno tono, i tranquillanti, si sono (per il meglio o
per il peggio) diffusi in tutto il mondo con un minimo di
pubblicità o di incoraggiamento ufficiale. Si sono diffuse
perché la gente ne amava l'effetto, e accettava persino
effetti collaterali spiacevoli o nocivi. Uno stabilizzatore
mentale non produrrebbe né euforia, né sonno né vi­
sioni alla mescalina, né una equanimità simile a quella
di un cavolo. In realtà non avrà alcun effetto specifico
notabile, tranne quello di promuovere la coordinazione
cerebrale e armonizzare pensiero ed emozione; in altre
parole, restaurare l'integrità della gerarchia spaccata.
Il suo uso si diffonderebbe perché la gente preferisce
sentirsi in salute anziché star male, sia fisicamente che
mentalmente. Si diffonderebbe come si è diffusa la vacci­
nazione e si sono diffusi i contracettivi, non per coerzione
ma per illuminato senso del proprio interesse.
Il primo risultato apprezzabile sarebbe forse una su­
bitanea caduta del tasso di criminalità e di suicidio in
certe regioni e in certi gruppi sociali, in cui la nuova
Pillola venisse di moda. Da questo punto in avanti gli

452
sviluppi sono imprevedibili, come lo furono le conse­
guenze delle scoperte di James Watt o di Pasteur. Qualche
cantone svizzero potrebbe decidere, dopo referendum
pubblico, di aggiungere la nuova sostanza al cloro nei
rifornimenti idrici 1 per un periodo di prova, ed altri
Paesi potrebbero seguirne l'esempio. O ci potrebbe essere
una moda internazionale che si spargesse fra i giovani,
sostituendo le barbe ricce e i collari con medaglioni.
In un modo o nell'altro la mutazione si metterebbe in
cammino. È possibile che i Paesi totalitari possano ten­
tare di resistervi. Ma oggi persino i Sipari di Ferro sono
diventati porosi; il j azz, le minigonne, le discoteche e altre
invenzioni borghesi si stanno diffondendo irresistibilmente.
Quando l'élite dominante avesse cominciato a sperimentare
la nuova medicina scoprendo che le fa vedere le cose
in una luce del tutto differente, allora, e solo allora, il
mondo sarebbe maturo per una conferenza globale sul
disarmo che non fosse una farsa sinistra. E se ci fosse
un periodo transitorio, durante il quale da una parte
sola si compisse la cura, mentre l'altra persistesse nei
suoi modi paranoidi, non ci sarebbe alcuno dei rischi
comportati dal disarmo unilaterale; al contrario, la parte
che avesse subìto la mutazione sarebbe più forte, perché
più razionale nella sua politica a lungo termine, meno
spaventata e meno isterica.
Non penso che questo sia fantascienza; e ho fiducia
che il lettore del tipo al quale si indirizza questo libro
non lo penserà neppure lui. Ogni scrittore ha un tipo
favorito di lettore immaginario, un fantasma amichevole
ma altamente critico, la cui opinione è l'unica che importi,

l. Incidentalmente, ormai neppure i crociati del Non-Pasticciare­


con-la-Natura fanno seriamente obiezioni all'aggiunta di cloro o altri
antisettici nell'acqua potabile.

453
e con il quale è impegnato in un continuo esauriente
dialogo. Sono sicuro, come dicevo, che il mio amico let­
tore-fantasma ha immaginazione sufficiente per estra­
polare, verso il futuro, dai recenti avanzamenti della
biologia, così grandi da togliere il respiro, e sono sicuro
che questo lettore abbia a concedere che la soluzione qui
delineata appartiene al regno del possibile. Quel che mi
tormenta è che essa possa non piacergli; che possa sen­
tirsi respinto e disgustato dall'idea che dobbiamo affi­
darci per la nostra salvezza alla chimica molecolare an­
ziché a una rinascita spirituale .
. Condivido il suo disagio, ma non vedo alternative.
Lo sento esclamare: << Cercando di venderei le tue Pil­
lole stai adottando quell'atteggiamento crudamente ma­
terialistico e quella ingenua hybris scientifica a cui tu
pretendi di opporti )). Io continuo ad oppormici. Ma non
credo che sia << materialistico )) avere una visione realistica
della condizione dell'uomo; e non è hybris somministrare
estratti di tiroide ai bambini che, senza, diverrebbero
dei cretini. Usare il nostro cervello per curare le sue insuf­
ficienze mi sembra un'impresa coraggiosa e generosa.
Come il lettore, preferirei riporre le mie speranze sulla
persuasione morale attraverso la parola e l'esempio.
Ma siamo una razza mentalmente malata, e come tale
sorda alla persuasione. Questo è stato provato dall'età
dei profeti fino ad Alberto Schweitzer; e il risultato è
stato, come disse Swift, che << abbiamo giusto abbastanza
religione per farci odiare ma non abbastanza per amarci
l'un l'altro )). Questo si applica a tutte le religioni tei­
stiche o secolari, siano esse predicate da Mosè o da Marx
o da Mao Tse Tung; e il grido angoscioso di Swift: {< Non
morire qui arrabbiato come un topo avvelenato dentro al
buco )), ha acquistato un'urgenza mai vista prima.

454
La natura ci ha abbandonato, Dio sembra che abbia
dimenticato di riagganciare il telefono, e il tempo sta cor­
rendo. Sperare che la salvezza sia sintetizzata in labo­
ratorio può sembrare materialistico, eccentrico od in­
genuo; ma, per dire la verità, c'è in questo una certa
predilezione junghiana, perché riflette l'antico sogno
degli alchimisti di riuscire a distillare l'elisir di vita.
Quello che noi ce ne aspettiamo tuttavia non è un'esistenza
eterna, né la trasformazione di metalli vili in oro, ma
la trasformazione dell'Homo maniacus in Homo sapiens.
Quando l'uomo deciderà di prendere in pugno il proprio
destino, questa possibilità sarà a portata di mano.

455
APPENDICE I

Proprietà generali
dei Sistemi Gerarchici Aperti o SGA
(OHS =Open Hyerarchical Systems)

l L'effetto Giano
l l L'organismo, sotto l'aspetto strutturale, non è un ag­
gregato di parti elementari, e sotto gli aspetti funzionali non
è una catena di unità di comportamento elementari.
l 2 L'organismo va considerato una gerarchia a molti li­
velli di sub-totalità semiautonome, che si diramano in sub­
totalità di ordine inferiore, e così di seguito. Le sub-totalità
di ogni livello della gerarchia vengono qui denominate olò­
meri.
l 3 Le parti e gli interi in senso assoluto non esistono nel­
l'ambito della vita. Il concetto di olòmero è inteso a ricon­
ciliare fra loro la visione atomistica e la visione olistica.
l 4 Gli olòmeri biologici sono sistemi aperti autoregolati,
che presentano sia le proprietà autonome degli interi sia le
proprietà di dipendenza delle parti. Questa dicotomia la si
incontra su ciascun livello di ogni tipo di organizzazione ge­
rarchica, e viene qui denominata <c Effetto Giano )) o prin­
cipio di Giano.
l 5 Più generalmente, il termine <c olòmero )) può applicarsi
a qualsiasi sub-totalità stabile, sia biologica sia sociale,
che spieghi un comportamento governato da regole efo una
costanza gestaltica di struttura. Cosi gli orgànuli e gli organi
omologhi sono olòmeri evolutivi; i campi morfogenetici sono
olòmeri ontogenetici; gli <c schemi d'azione fissi )) dell'etologo
e le sub-routines delle abilità acquisite sono olòmeri comporta-

457
mentali; i fonemi, i morfemi, le parole, le frasi sono olòmeri
linguistici; gli individui, le famiglie, le tribù, le nazioni sono
olòmeri sociali.

2 Dissezionabilità
2 l Le gerarchie sono << dissezionabili •> nei loro rami costi­
tuenti, i cui nodi sono formati dagli olòmeri; le linee di dira­
mazione rappresentano i canali di comunicazione e di con­
trollo.
2 2 Il numero di livelli che una gerarchia comprende misura
la sua << profondità •>, e il numero di olòmeri di ogni livello
dato definisce la sua << intensità •> (span, Simon) .

3 Regole e strategie
3 l Gli olòmeri funzionali sono governati da sistemi fissi
di regole ed esplicano strategie più o meno flessibili.
3 2 I,e regole - qui denominate cànone del sistema - de­
terminano le sue proprietà invarianti, la sua configurazione
strutturale efo il suo schema funzionale.
3 3 Mentre il canone definisce i passi consentiti all'attività
dell'olòmero, la scelta strategica del passo effettivo fra le al­
ternative possibili è guidata dalle contingenze dell'ambiente.
3 4 Il canone determina le regole del gioco, la strategia de­
cide il corso del gioco .
.3 5 1 1 processo evolutivo esegue variazioni su un numero
limitato di temi canonici. Le restrizioni imposte dal canone
evolutivo sono illustrate dai fenomeni dell'omologia, dell'omeo­
plasia, del parallelismo, dalla convergenza e dalla loi du ba­
lancement.
3 6 Nell'ontogenesi, gli olòmeri di livelli success1v1 rappre­
sentano stadi successivi dello sviluppo dei tessuti. Ad ogni
passo del processo di differenziazione, il canone genetico im­
pone ulteriori restrizioni al potenziale di sviluppo dell'olò­
mero, ma conserva sufficiente flessibilità per seguire l'una o

458
l'altra pista alternativa di sviluppo, entro la propria compe­
tenza, sotto la guida delle contingenze ambientali.
3 7 Strutturalmente, l'organismo maturo è una gerarchia
di parti dentro parti. La sua << dissezionabilità t> e la relativa
autonomia degli olòmeri costituenti sono dimostrati dalla
chirurgia dei trapianti.
3 8 Funzionalmente, il comportamento degli organismi è
governato da << regole del gioco t>, che rispondono della sua
coerenza, stabilità e schema specifico.
3 9 Le abilità, sia innate che acquisite, sono gerarchie fun­
zionali, con sotto-abilità che ne sono gli olòmeri, governati
da sotto-regole.

4 Integrazione e auto-asserzione
4 l Ogni olòmero ha la dualistica tendenza a conservare
e affermare la sua individualità come una totalità quasi-auto­
noma; e a funzionare come parte integrata di una (esistente
o evolventesi ) totalità più grande. Questa polarità fra le ten­
denze Auto-Assertiva (A-A) e Integrativa (INT) è inerente
al concetto di ordine gerarchico; ed è una caratteristica uni­
versale della vita.
Le tendenze A-A sono espressione dinamica della interezza
dell'olòmero, e le tendenze INT della sua parzialità.
4 2 Una polarità analoga si trova nel gioco mutuo delle
forze coesive e separative dei sistemi inorganici stabili, dagli
atomi alle galassie.
4 3 La manifestazione più generale delle tendenze INT è
data dal rovesciamento della Seconda Legge della Termodina­
mica nei sistemi aperti che si alimentano di entropia negativa
(Schrodinger) , e dalla tendenza dell'evoluzione verso << stati
spontaneamente sviluppantisi di maggiore eterogeneità e
complessità t> (Herrick) .
4 4 Le loro manifestazioni specifiche a diversi livelli vanno
dalla simbiosi degli orgànuli e degli animali coloniali, pas­
sando per le forze coesive dei branchi e degli armenti, fino

459
ai legami integrativi degli stati di insetti e delle società di
primati. Le manifestazioni complementari delle tendenze A-A
sono l'emulazione, l'individualismo e le forze separative del
tribalismo, del nazionalismo, ecc.
4 5 In ontogenesi, la polarità si riflette nella docilità e nella
determinazione dei tessuti in crescita.
4 6 Nel comportamento dell'adulto, la tendenza auto-as­
sertiva degli olòmeri funzionali si riflette nell'ostinatezza dei
rituali istintivi (schemi d'azione fissi), degli abiti acquisiti
(grafia, pronunzia) e nelle routines stereotipe di pensiero;
la tendenza integrativa negli adattamenti flessibili, nelle im­
provvisazioni e negli atti creativi che iniziano nuove forme di
comportamento.
4 7 In condizioni di stress, la tendenza A-A si manifesta
nelle emozioni aggressivo-difensive di tipo adrenergico, la
tendenza INT nelle emozioni di tipo auto-trascendente (par­
tecipatorio, identificatorio) .
4 8 Nel comportamento sociale, il canone d i u n olòmero
sociale rappresenta non soltanto le restrizioni imposte alla
sua azione, ma incorpora altresi massime di condotta, impera­
tivi morali e tavole di valori.

5 Grilletti e analizzatori (<c Triggers •> e <c Scanners •>)


5 l Le gerarchie di <c uscita )) (output) operano generalmente
sul principio del grilletto, dove un segnale relativamente sem­
plice, implicito o codificato fa scattare complessi meccanismi
predisposti.
5 2 Nella filogenesi, una mutazione di gene favorevole può,
mediante omeoresi (Waddington), incidere sullo sviluppo di
tutto un organo in modo armonico.
5 3 Nell'ontogenesi, i grilletti chimici (enzimi, induttori,
ormoni), innescano e avviano i potenziali genetici di tessuti
differenziantisi.
5 4 Nel comportamento istintivo, gli emettitori di segni di
tipo semplice innescano Meccanismi Innati Scatenanti (Lorenz).

460
5 5 Nell'esplicazione delle abilità apprese, non eccettuate
le abilità verbali, un comando generico implicito è compi­
tato in termini espliciti su scaglioni successivamente inferiori
che, non appena scatenati , attivano le proprie sotto-unità in
ordine strategico appropriato, sotto la guida di retroazioni
Ueedbacks).
5 6 Un olòmero del livello n di una gerarchia di uscita è
rappresentato sul livello (n + I} come un'unità, ed è solleci­
tato all'azione come unità. Un olòmero, in altre parole, è un
sistema di correlati rappresentato sul livello immediatamente
superiore come un correlato.
5 7 Nelle gerarchie sociali (militare, amministrativa) val­
gono gli stessi princìpi.
5 8 Le gerarchie d'ingresso (input) operano in base al prin­
cipio opposto; invece di grilletti, hanno dispositivi di tipo
filtro (analizzatori o scanners, <( risonatori l), classificatori) , che
sfrondano l'ingresso dal rumore di fondo, astraggono ed ela­
borano i suoi contenuti rilevanti, secondo i criteri di rilevanza
di quella particolare gerarchia. I <( filtri )) operano su ogni
livello attraverso cui deve fluire l'informazione ascendendo
dalla periferia al centro, sia nelle gerarchie sociali sia nel si­
stema nervoso.
5 9 I grilletti convertono i segnali codificati in complessi
schemi di uscita (output patterns). I filtri convertono i complessi
schemi d'ingresso in segnali codificati. I primi possono venir
paragonati ai convertitori numerico-analogici, i secondi ai
convertitori analogico-numerici (Miller, Pribram e altri).
5 IO Nelle gerarchie percezionali, i dispositivi di filtraggio
vanno dall'<( abituazione )) e dal controllo efferente dei recet­
tori, passando per i fenomeni di costanza, fino al riconosci­
mento di schemi nello spazio o nel tempo, e alla decodificazione
del significato, linguistico o d'altro tipo.
5 I l Le gerarchie di uscita còmpitano, articolano, concretano,
particolarizzano. Le gerarchie d'ingresso elaborano, astrag­
gono, generalizzano.

461
6 Arborizzazione e reticolazione
6 l Le gerarchie possono considerarsi strutture arborizzanti
<< verticalmente 1>, i cui rami s'intrecciano con quelli di altre
gerarchie su una molteplicità di livelli e formano reti << oriz­
zontali 1>: arborizzazione e reticolazione sono princìpi comple­
mentari dell'architettura degli organismi e delle società.
6 2 L'esperienza cosciente si arricchisce con la collaborazione
di parecchie gerarchie percezionali di diverse modalità sen­
sorie, e all'interno della medesima modalità sensoria.
6 3 Le memorie astrattive vengono immagazzinate in forma
scheletrica, sfrondate dai particolari irrilevanti, secondo i
criteri di rilevanza propri d'ogni gerarchia percezionale.
6 4 I particolari vividi, di nitidezza quasi eidetica, vengono
immagazzinati a causa della loro rilevanza emotiva.
6 5 L'impoverimento dell'esperienza nella memoria è contro­
bilanciato in qualche misura dalla collaborazione nel ricordare
di differenti gerarchie percezionali con differenti criteri di
rilevanza.
6 6 Nella coordinazione senso-motoria, i riflessi locali sono
scorciatoie al livello più basso, come svincoli stradali
che colleghino correnti di traffico di una autostrada che si
muovano in direzioni opposte.
6 7 Le routines senso-motorie specializzate operano su
livelli superiori attraverso reti di svincoli entro svincoli di
natura retroattiva, siano essi propriocettivi o extracettivi,
i quali funzionano come servomeccanismi e conservano il ci­
clista in bicicletta in uno stato di omeostasi cinetica autore­
golantesi .
6 8 Mentre nella teoria S-R le contingenze dell'ambiente
determinano il comportamento, nella teoria SGA o dei Si­
stemi Gerarchici Aperti esse si limitano a guidare, correggere
e stabilizzare schemi di comportamento preesistenti (P. Weiss) .
6 9 Mentre le retroazioni sensorie guidano le attività motorie,
la percezione a sua volta dipende da queste attività, quali
i vari movimenti di analisi dell'occhio, o il canticchiare un'aria

462
in aiuto del suo ricordo uditivo. Le gerarchie percezionali
e motorie collaborano così intimamente ad ogni livello che di­
venta privo di senso tracciare una distinzione categorica
fra << stimoli l) e << risposte l>; sono diventate << aspetti di svincoli
retroattivi l> (Miller, Pribram e altri) .
6 l O Gli organismi e l e società operano in una gerarchia
di ambienti, dall'ambiente locale di ciascun olòmero fino al
<< campo totale l), che può includere ambienti immaginari
derivati dall'estrapolazione nel tempo e nello spazio.

7 Canali regolamentari (vie gerarchiche)


7 I gradi più alti di una gerarchia non sono normalmente
in comunicazione diretta con quelli inferiori, e viceversa; i
segnali sono trasmessi attraverso le << vie gerarchiche l>, un
passo alla volta, in su o in giù.
7 l Le pseudo-spiegazioni del compmtamento verbale e di
altre abilità umane come manipolazione di parole, o concate­
nazione di operanti, lascia un vuoto fra l'apice della gerarchia
e i suoi rami terminali, fra pensare e pronunziare.
7 2 Il cortocircuito dei livelli intermedi causato dal dirigere
l'attenzione cosciente su processi che altrimenti funzionano
in modo automatico, tende a provocare turbamenti che vanno
dalla goffaggine ai disordini psicosomatici.

8 Meccanizzazione e libertà
8 Gli olòmeri dei livelli successivamente più elevati della
gerarchia mostrano schemi di attività di complessità e fles­
sibilità crescente e sempre meno prevedibili, mentre in quelli
dei livelli successivamente inferiori troviamo schemi via via
più meccanizzati, stereotipati e prevedibili.
8 l Tutte le abilità, 5ia innate sia acquisite, tendono, col
crescere della pratica, a diventare routines automatizzate.
Questo processo può venir definito come la continua trasfor­
mazione delle attività da << mentali l) in << meccaniche l>.

463
8 2 A parità di altre condizioni, un ambiente monotono
facilita la meccanizzazione.
8 3 Per converso, contingenze nuove o inaspettate esigono
decisioni da rinviare a livelli superiori della gerarchia e uno
spostamento verso l'alto dei controlli dalle attività << mecca­
niche )} a quelle << mentali )}.
8 4 Ogni spostamento verso l'alto si riflette in una più vi­
vida e precisa consapevolezza dell'attività in corso; e, sic­
come la varietà delle scelte alternative cresce con la crescente
complessità dei livelli superiori, ogni spostamento verso l'alto
è accompagnato dall'esperienza soggettiva della libertà di
decisione.
8 5 La concezione gerarchica sostituisce le teorie dualistiche
con una ipotesi seriale, in cui << mentale )) e << meccanico ))
appaiono come attributi relativi di un processo unitario, e il
predominio dell'uno o dell'altro dipendono da cambiamenti
di livello del controllo delle operazioni in corso.
8 6 La coscienza appare come qualità emergente in filoge­
nesi e in ontogenesi, che, da inizi primordiali, evolve in dire­
zione di stati più complessi e precisi. È la manifestazione più
alta della Tendenza Integrativa (4 3} a estrarre ordine dal
disordine, e informazione dal rumore.
8 7 L'io non può mai venire completamente rappresentato
nella sua consapevolezza di sé né le sue azioni predette inte­
ramente da qualsiasi dispositivo concepibile di elaborazione
dell'informazione. Entrambi i tentativi conducono a un re­
gresso all'infinito.

9 Equilibrio e disordine
9 l Un organismo o società si definisce in equilibrio dinamico
se le tendenze A-A e INT dei suoi olòmeri si bilanciano mu­
tuamente.
9 2 Il termine << equilibrio )) in un sistema gerarchico non si
riferisce alle relazioni fra parti dello stesso livello, ma alla

464
relazione fra parte e tutto (il tutto essendo rappresentato
dall'ente che controlla la parte dal prossimo livello superiore) .
9 3 Gli organismi vivcno per transazioni col proprio am­
biente. In condizioni normali, gli stress prodotti sugli olò­
meri coinvolti nella transazione sono di natura transitoria,
e l'equilibrio sarà restituito al compimento di quella.
9 4 Se la sfida all'organismo supera un limite critico, l'equi­
librio può risultare compromesso, e l'olòmero sovraeccitato
può tendere a uscire di controllo, e ad affermare se stesso
a detrimento del tutto, o a monopolizzare le sue funzioni
- sia l'olòmero un organo, una struttura conoscitiva (idea
fissa), un individuo, un gruppo sociale. Lo stesso può acca­
dere se i poteri di coordinazione della totalità sono indeboliti
al punto da renderla inabile a controllare le sue parti (Child).
9 5 Un disordine di tipo opposto ha luogo quando il potere
della totalità sulle sue parti ne erode l'autonomia e l'indivi­
dualità. Questo può condurre a un regresso delle tendenze
INT da forme mature d'integrazione sodale a forme primi­
tive d'identificazione, e ai fenomeni quasi-ipnotici della psico­
logia di gruppo.
9 6 Il processo di identificazione può destare emozioni vi­
carie o sostitutive di tipo aggressivo.
9 7 Le regole di condotta di un olòmero sociale non sono
riducibili alle regole di condotta dei suoi membri.
9 8 L'egotismo dell'olòmero sociale si alimenta dell'altruismo
dei suoi membri.

IO Rigenerazione
IO l Sfide critiche lanciate a un organismo o a una società
possono produrre effetti generativi o rigenerativi.
IO 2 Il potenziale rigenerativo degli organismi e delle so­
cietà si manifesta in fluttuazioni dal più elevato livello di
integrazione ad altri livelli precedenti, più primitivi, con ria­
scesa a un nuovo schema modificato. Processi di questo tipo

465
sembrano avere una parte essenziale nell'evoluzione biolo­
gica e mentale, e sono simbolizzate dall'universale tema mi­
tologico della morte-e-rinascita.

NB Il concetto di olòmero e la teoria del Sistema Gerarchico


Aperto tentano di riconciliare atomismo ed olismo (integra­
lismo) . Alcune delle proposizioni elencate sopra sembrano ap­
parire banali, alcune riposano su prove incomplete, altre
richiederanno correzione e qualificazione. Hanno l'unico scopo
di fornire una base alla discussione fra spiriti affini delle Due
Culture, alla ricerca di un'alternativa all'immagine robotica
dell'uomo.
Le controvertibili conseguenze discusse nella Parte III del
volume non sono incluse in questa lista.

466
APPENDICE II

Del non frustare 1 cavalli morti 1

Le iniziali SPCM stanno per << Società per la Protezione


dei Cavalli Morti •>. È una società segreta con ramificazioni
internazionali, che gode di ragguardevole influenza sull'atmo­
sfera intellettuale del nostro tempo. Darò alcuni esempi della
sua attività.
Il governo tedesco durante la guerra uccise sei milioni di
civili nelle sue fabbriche di morte. Da principio la cosa fu
tenuta segreta: quando i fatti trapelarono, la SPCM adottò
la linea seguente: continuare a insistere su questi fatti e por­
tarne in tribunale i responsabili era sleale e di cattivo gusto,
era frustare un cavallo morto.
Il governo sovietico, durante gli anni del comando di Stalin,
commise atti di barbarie su scala equivalente, anche se con
diverso stile. Se cercavi di attirarvi sopra l'attenzione pubblica
nei circoli progressisti del mondo occidentale ti denunciavano
come agente della guerra fredda, calunniatore e maniaco.
Quando i fatti vennero ammessi ufficialmente dal successore
di Stalin, seduta stante l'argomento venne definito cavallo
morto dalla SPCM, benché questo cavallo morto continuasse
a devastare altri Paesi da Pekino a Berlino.
L'insularismo inglese, le distinzioni di classe, lo snobismo
sociale, il collaudo in base all'accento, sono tutte cose di­
chiarate cavalli morti, e i fatui nitriti che riempiono l'aria

l. Vedi pp. 16, 23, 277, ecc.

467
devono provenire da fantasmi. Lo stesso vale per l'adorazione
del dollaro, il materialismo e il conformismo americani. Si
può continuare l'elenco come in un gioco da salotto.
Nelle scienze, la SPCM è particolarmente attiva. Ci si as­
sicura costantemente che le concezioni ottocentesche cruda­
mente meccanicistiche in biologia, in medicina e in psicologia
sono morte, eppure di continuo vi inciampiamo sulle colonne
delle riviste tecniche, nei libri di testo e nelle sale per confe­
renze. In tutto ciò la psicologia behaviourista occupa una
posizione strategica. Non solo negli Stati Uniti, dove la tra­
dizione Watson-Hull-Skinner conserva tuttora una potenza
enorme e tiene una mano invisibile sulla ·strozza (mediante
<< rinforzo negativo )>) della psicologia accademica. In Inghil­
terra, il behaviourismo è entrato in alleanza col positivismo
logico e la filosofia linguistica; ma forse la sua influenza più
malaugurata si esercita sulla psichiatria clinica. La << terapia
del comportamento )), qual è praticata per esempio al Maudsley
Hospital, è terapia sintomatica nella sua forma più cruda,
basata sul condizionamento pavloviano o skinneriano. La filo­
sofia su cui poggia si riassume nello slogan del capo-terapeuta
behaviourista, H. ]. Eysenck: 1 << Non c'è alcuna nevrosi sotto
i sintomi: solo il sintomo stesso )). (In un memorabile attacco
contro Eysenck, Kathleen Nott osservò che << un sintomo ))
è sempre sintomo di qualcosa, e additò le assurde implica­
zioni dello slogan) (I).
Ma come s i spiega che, mentre i l behaviourismo sta an­
cora ondeggiando sul paesaggio come un denso smog, tanti
scienziati della generazione più giovane, che ne sono quasi
soffocati, continuino a pretendere che il cielo è azzurro, e il
behauviourismo cosa del passato ? In parte, penso, per le ra­
gioni menzionate sopra (p. 1 6) ; pur credendo onestamente di
essere cresciuti ormai al di qua della sterile ortodossia dei
più anziani, la sua terminologia e il suo gergo sono loro en­
trati nel sangue, e non riescono a smetterla di pensare in ter­
mini di stimolo, risposta, condizionamento, rafforzamento,

l. Professore di psicologia all'Università di Londra, e direttore


del Dipartimento di psicologia dell'Istituto di psichiatria (Maudsley
and Bethlehem Royal Hospitals) .

468
operanti, e cosi via. Sidney Hook scrisse una volta che << Ari­
stotile proiettò sul cosmo la grammatica della lingua greca 1>,
e quasi non è un'esagerazione affermare che Pavlov, Watson
e Skinner perpetrarono un'impresa simile quando iniettarono
la loro filosofia dei riflessi nelle scienze della vita. Molti ac­
cademici che sono cresciuti in quella tradizione possono
bensl rigettare le più ovvie assurdità di Watson e di Skinner,
ma continuano pur sempre a usarne la terminologia e la
metodologia, e rimangono cosi legati inconsciamente agli
assiomi che esse implicano.
t_Tn'esperienza personale - una fra molte, e di genere per­
fettamente innocuo - può servire d'illustrazione. Quando
venne pubblicata l'edizione americana di The Act of Creation,
il prof. George A. Miller dell'università di Harvard ne scrisse
una recensione su quell 'eccellente mensile che è << The Scien­
tific American 1> . Essa occupava nove colcnne, cosi non è
possibile un equivoco dovuto a mancanza di spazio. Non è
mia intenzione seccare il lettore rispondendo alle critiche
espresse dal Miller sulla teoria proposta nel libro, il che qui
sarebbe fuori posto; mi preoccupa soltanto il suo atteggia­
mento verso il behaviourismo. Questo atteggiamento è noto,
dai suoi libri e dai suoi scritti, come un rifiuto quasi appas­
sionato di Skinner, della teoria S-R e della concezione tipo
<< la terra è piatta 1> in generale. E cionondimeno, dopo aver
riferito sull'attacco alla posizione behaviourista contenuto in
The A ct of Creation, Miller continuava (il corsivo è suo) :

<< Gli attacchi alle teorie stimolo-risposta (che rappresentano


il moderno associazionismo) naturalmente non costituiscono una
novità. Uno che ai nostri giorni attacchi il behaviourismo stretto,
'stimolo-risposta', si schiera con l'esercito più grosso. Tuttavia
il Koestler scrive come se si fosse ancora negli anni Trenta, e il
behaviourismo si trovasse in piena fioritura. Nel 1964 la maggior
parte degli psicologi che lavorano ancora nel solco di quella tradi­
zione ha introdotto meccanismi ipotetici che costituiscono la me­
diazione fra stimolo e risposta. Per essi ciò significa lavorare esatta­
mente sul tipo di processi che il Koestler chiama bisociazione;
si sentono giustamente furiosi per il sarcasmo con cui il Koestler
travisa la situazione corrente, e io non posso dire che do loro
torto >l (2) .

469
Orbene ho accennato prima (p. 42) che i << meccanismi
ipotetici 1> che i behaviouristi hanno introdotto per costituire
<< la mediazione fra stimolo e risposta 1> sono (come lascia in­
travvedere lo stesso termine) niente di più che artifizi per
salvare la faccia. Persino i behaviouristi dovettero ammet­
tere che lo stesso stimolo S (ad esempio, la caduta di una
mela) può produrre tutta una varietà di risposte differenti
(ad esempio, la teoria della gravitazione universale) ; e che
nella testa di un tizio deve succedere fra S ed R un qualche
cosa, di cui non avevano tenuto conto. Così decisero di chia­
mare questo qualc.osa - che dovrebbe essere l'oggetto prin­
cipale di ogni psicologia degna di questo nome - << mecca­
nismi ipotetici l) (o << variabili intervenienti 1>); e poi li scoparono
prontamente sotto il tappeto per ritornare con la coscienza
pulita ai loro esperimenti coi ratti. È stata una manovra
d'evasione ingenuamente trasparente, e il prof. Miller ne è,
s'intende, pienamente consapevole. Nel suo libro più stimolante
(che ho ripetutamente citatato) (3) non c'è menzione di sorta
a << meccanismi ipotetici che médiano fra S ed R )) , perché
egli respinge con giusto disprezzo l'intera concezione S-R
come un anacronismo (p. 147 nota) . Non solo anche lui << si
schiera con l'esercito vincente 1>, ma ne è addirittura uno dei
generali. Due colonne dopo essere insorto in difesa del beha­
viourismo contro il << sarcasmo con cui traviso la situazione 1>,
dichiara che, per quanto riguarda il sottofondo filosofico,
<< posso ammirare il coraggioso tentativo del Koestler di far
pulizia in quelle che a lui sembrano ovviamente le stalle di
Augìa della scienza psicologica. Condivido la maggior parte
dei suoi pregiudizi e approvo quasi tutti i suoi intenti 1>. Ciò
nonostante una colonna più avanti alla fine dell'articolo,
conclude che forse, dopo tutto, i behaviouristi oggi hanno
ragione (cavalli morti nelle stall� di Augia ?).
Ho citato quest'episodio perché è un esempio bellissimo
dell'ambivalenza di cui ho parlato. Il behaviourismo è stato
il latte che hanno succhiato nella culla gli scienziati di questa
generazione; e anche se veniva dal biberon ed era fatto con la
polvere in scatola, voi potete criticare mammina, voi, ma
guai se osa farlo un estraneo . I cattolici, i marxisti e i freu-

470
diani dissidenti sono soggetti alla stessa ambivalenza, pro­
fondamente radicata. Possono essere dubitatori o ribelli, ma
quando la fede che hanno abbandonato viene attaccata dal
di fuori, devono accorrere in sua difesa; e come ultima risorsa
pretenderanno che comunque è morta, e non val la pena di
perderei tempo. Di qui la SPCM.
Un gesuita, che ammiro molto, una volta fu chiamato a
Iendere conto della temperatura e di altre condizioni am­
bientali dell'inferno. Ovviamente si risenti della grossolanità
di queste contestazioni, ma replicò con un dolce sorriso che
sebbene l'inferno esista, è tenuto costantemente vuoto dalla
bontà di Dio; quindi, perché risuscitare questa antiquata
controversia ? . . . Eppure milioni e milioni di credenti hanno
vissuto, amato e sono morti avvelenati dal terrore mortale
di un inferno perpetuo.
Io credo che gli effetti ultimi della filosofia rattomorfìca
non siano meno perniciosi, sebbene agisca in modi più indi­
retti e tortuosi. Concluderò con un'altra citazione da V. Berta­
lanffy, con le cui vedute sull'argomento simpatizzo forte­
mente:

« Affrontiamo il fatto: una vasta parte della psicologia mo­


derna è Wia sterile e pomposa scolastica che, a causa dei para­
occhi di nozioni o superstizioni preconcette, non vede quel che
è ovvio; che copre la banalità dei suoi risultati e delle sue idee
sotto un linguaggio privo di qualsiasi somiglianza con la normale
lingua inglese, anzi con la sua fonetica, e che fornisce alla società
moderna le tecniche per la progressiva stoltificazione dell'uma­
nità. È stato giustamente detto che la filosofia positivista ameri­
cana - e lo stesso vale anche di più per la psicologia - ha com­
piuto la rara impresa di essere estremamente noiosa e al tempo
stesso estremamente frivola nel suo disinteresse per le cose umane.
Basilare per l'interpretazione del comportamento animale e
umano era lo schema stimolo-risposta. In tanto in quanto non è
innato o istintivo, il comportamento si sostiene che è conformato
da influenze esterne che hanno precedentemente toccato l'orga­
nismo: condizionamento classico secondo Pavlov, rafforzamento
secondo Skinner, esperienze della prima infanzia secondo Freud.
Donde nasce che l'addestramento, l'educazione e la vita umana
in generale sono essenzialmente risposte a condizioni esterne: si
comincia dalla prima infanzia con l'addestramento in toeletta
e altre manipolazioni mediante cui il comportamento socialmente
accettabile viene gratificato, e il comportamento indesiderabile

471
bloccato; si continua con l'educazione e l'istruzione che si svolge
nel modo migliore adeguandosi ai princìpi skinneriani del raffor­
zamento delle risposte corrette e col ricorso alle macchine per in­
segnare; e si finisce con l'uomo adulto, dove la società opulenta
fa tutti felici condizionandoli, in modo rigorosamente scientifico,
attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a diventare perfetti
consumatori. Meccanismi ipotetici, variabili intervenienti, ipotesi
ausiliari sono state inserite, senza cambiare i concetti base o
l'impostazione d'insieme. Ma quello che ci occorre non è qualche
meccanismo ipotetico suscettibile di spiegare alcune aberrazioni
del comportamento nel ratto di laboratorio; quello che ci occorre
è una concezione nuova dell'uomo.
Non m'importa un ette che il prof. A, D o C abbiano modificato
qua e là Watson, Hull e Freud sostituendo le loro affermazioni
più ottuse con circonlocuzioni più qualificate e sofisticate. M'im­
porta moltissimo che questo spirito pervada ancora tutto nella
nostra società, riducendo l'uomo agli aspetti inferiori della sua
natura animale, manipolandolo fino a farne un automa cretinoide
per i consumi, o una marionetta per il potere politico, sistematica­
mente stoltificandolo con un perverso sistema educativo, in breve
disumanizzandolo ancora oltre per mezzo di una sofisticata tec­
nologia psicologica.
La tesi espressa o implicita che non c'è differenza essenziale
fra ratto e uomo è ciò che rende così profondamente sgradevole
e pericolosa la psicologia americana. Quando l'élite intellettuale,
i pensatori e i capi, non vedono nell'uomo altro che un ratto molto
cresciuto, allora è tempo di allarmarsi » (4).

472
Riferimenti

PREFAZIONE
l , Hardy ( 1 965) . 2, Thorpe (1966A) . 3, Lorenz ( 1 966) .

P ARTE PRIMA: L'ORDINE

I. POVERTÀ DELLA PSICOLOGIA


l , Watson ( 1 9 1 3) pp. 1 58-67. 2, Watson ( 1 928) p. 6. 3, Loc.
cit. 4, Burt ( 1 962) p. 229. 5, Skinner (1 953) pp. 30-3 1 . 6, Har­
low ( 1 953) pp. 2 3-32. 7, Skinner ( 1 953) p. 1 50. 8, Hull ( 1 943)
p. 56. 9, Skinner ( 1 953) pp. 1 08-109. 1 0, Skinner (1 938) p. 22.
1 1, Watson ( 1 928) p. 6. 12, Skinner (1 938) p. 2 1 . 1 3, Ibid,
p. 62. 1 4, Skinner { 1 953) p. 65. 1 5, Chomsky ( 1 959) . 1 6, Skinner
( 1957) p. 1 63. 1 7, Ibid, p. 438. 1 8, Ibid, p. 439. I Sa, Ibid,
p. 1 50. 1 9, Ibid, p. 206. l !la, Watson { 1 928) pp. 1 98 ff. 20,
Skinner { 1 953) p. 252. 2 1 , Watson (1 928) pp. 3-6. 22, Sher­
rington (1 906) p. 8. 23, Herrick ( 1 96 1 ) pp. 253-54. 24, Watson
{ 1 92 8) p. I l .

II. LA CATENA DI PAROLE E L'ALBERO DEL LINGUAGGIO


I, Calvin, ed. ( 1 9 6 1 ) . 2, op. cit., pp. 376-78. 3, Skinner, cit.
da Chomsky ( 1 959) p. 548. 4, Liberman, Cooper e al. ( 1 965) .
5, Lashley ( 1 951) p. 1 1 6. 6, McNeill ( 1 966) . 7, Brown ( 1 965) .
8, McNeill, op. cit. 9, Ibid. IO, cit. da Lashley ( 1 95 1 ) p. 1 1 7.
I l, Popper ( 1 959) p. 280. 12, James { 1 890) vol. I, p. 253.
1 3, Skinner ( 1 957). 1 4, Miller ( I 9 64A) .

473
III. L'OLÒMERO
l , Needham, J. ( 1 932}. 2, Simon ( 1 962). 3, Jacobson ( 1 955).
4, Simon, op. cit. 5, Jenkins ( 1 965).

IV. INDIVIDUI E DIVIDUI


l, Simon, op. cit. 2, Sager ( 1 965). 3, von Bertalan:ffy ( 1 952}
pp. 48, 50. 4, Dunbar ( 1 946) . 5, Weiss e Taylor ( 1960) .
6, Pollock ( 1 965) .

V. GRILLETTI E FILTRI
l , Thorpe ( 1 956) pp. 37-38. 2, Bartlett ( 1 958) . 3, Gregory
( 1 966) cap. 1 1 . 4, Kottenho:ff ( 1 957} . 5, Lashley ( 1 951} p. 1 28.

VI. UNA MEMORIA PER DIMENTICARE


l , Koestler e Jenkins ( 1 965A} . 2, Koestler ( 1 964} pp. 524-25.
3, Jaensch ( 1 930} , Kluever ( 1 93 1 ) . 4, Drever ( 1 962) . 5, Si­
mon, op. cit.
VII. IL NOCCHIERO
l, Coghill ( 1 929) . 2, Cannon ( 1 939}. 3, Wiener ( 1 948} pp. 1 1 3-
1 14. 4, Weiss ( 1 95 1 } p. 1 4 1 . 5, von Bertalanffy ( 1 952) p. 1 1 9.
6, Millet e al. ( 19 60} pp. 1 8, 30.

VIII. ABITUDINE E IMPROVVISAZIONE


l , Thorpe ( 1 956} p. 1 9. la, Baerends ( 1 94 1 ) . 2, Hingston
( 1 926-27), cit. da Thorpe ( 1 956) p. 39. 3, Thorpe ( 1 956) p. 262.
4, Tinbergen ( 1 953} p. 1 1 6. 5, von Bertalanffy ( 1 952) pp. 1 7- 1 8.

PARTE SECONDA: IL DIVENIRE

IX. LA STRATEGIA DEGLI EMBRIONI


l, Huxley, J. ( 1 954) p. 14. la, Kuhn ( 1 962). 2, Clayton ( 1 964}
p. 70. 3, Simpson, Pittendrigh e Ti:ffany ( 1 957) p. 330.
4, Bonner ( 1 965} p. 1 36. 5, Ibid, p. 142.

474
X. L' EVOLUZIONE: TEMA E VARIAZIONI
l , Waddington ( 1 952). la, Medawar ( 1 960) p. 62. 2, Huxley,
] . ( 1 954) p. 12. 3, Waddington ( 1 952). 4, Whyte ( 1965) p. 50.
5, Gorini ( 1 966) . 6, de Beer ( 1940) p. 14 8 e Hardy ( 1 965)
p. 2 1 2. 7, Hardy ( 1 965) p. 2 1 1 . 8, St. Hilaire, cit. da Hardy
( 1 965) p. 50. 9, Goethe. Prefazione del curatore ( 1 872) pp. xii­
xiii. 10, Thompson ( 1 942) pp. 1 082-84. 1 1, Simpson, Pitten­
drigh e Tiffany ( 1 957) p. 472. 1 2, Simpson ( 1 949) p. 1 80.
1 3, von Bertalanffy ( 1 952) p. 1 05. 14, Spurway ( 1 949) , cit.
da Whyte ( 1965). 1 5, Whyte ( 1 965) .

XI. PROGRESSO MEDIANTE L' INIZIATIVA


l, Simpson ( 1 950), cit. da Hardy ( 1 965) p. 1 4. 2, Sinnott
( 1 961) p. 45. 3, Muller ( 1 943), cit. da Sinnott ( 1 9 6 1 ) p. 45.
4, Simpson e al. ( 1 957) p. 354. 5, Coghill ( 1 929). 6, Hardy
( 1965) p. 1 70. 7, Ibid, p. 1 78. 8, lbid, p. 1 76. 9, Ibid, pp. 1 72,
1 92, 1 93. 1 0, Waddington ( 1 957) p. 1 82. 1 1, Ibid, pp. 1 66-67.
1 2, Tinbergen ( 1 953) p. 55. 1 3, Ewer ( 1 960) , cit. da Hardy
( 1 965) p. 187. 1 4, Herrick ( 1 961) p. 1 1 7 f. 1 5, Waddington
( 1 957) pp. 1 80 e segg. 1 6, Ibid, pp. 64-65.

XII. ANCORA L' EVOLUZIONE: DISFARE E RIFARE


I, Huxley ( 1 9 64) pp. 1 2- 1 3. 2, Ibid, p. 1 3. 3, Young ( 1 950)
p. 74. 4, de Beer ( 1 940) p. 1 1 8. 5, Child ( 1 9 1 5) p. 467. 5a ,
de Beer, op. cit. p. 1 1 9. 6, Ibid, p. 72. 7, Haldane ( 1 932)
p . 1 50. 7a, Garstang ( 1 922). 8, Muller ( 1943} p. 1 09. 9, Kre­
chevsky ( 1 932) .

XIII. LA GLORIA DELL'UOMO


l , Needham, A. E. ( 1 96 1 ) . 2, V. p. e. Hamburger ( 1 955) .
3, Ibid. 4, Ibid. 5, Lashley ( 1 9 60) p. 239. 6, Lashley ( 1 929) .
6a, Kris ( 1 964). 7 , Bruner e Postman ( 1 949). 8 , cit. da Ha­
damard ( 1 949) . 9, Humphrey ( 1 951) p. l . lO, Bartlett ( 1 958}.
1 1, Bruner e Postman ( 1 949) . 1 2, McKellar ( 1 957). 1 3, Kubie
( 1 958) .

475
XIV. IL FANTASMA DENTRO LA MACCHINA
l, Herrick ( 1 961) p. 5 1 . 2, von Bertalanffy ( 1 952) p. 128. 3,
Herrick (1961) p. 47. 4, Schréidinger (1944) p. 72. 5, Wiener
( 1 948) pp. 76-78. 6, Spencer ( 1 862). 6a, Whyte ( 1 949) p. ;s5
6b, Schrodinger (1 944) p. 88. 7, von Bertalanffy ( 1 952) p. l l 2.
8, Waddington ( 1 961). 9, Ryle ( 1 950). I O, Gellner ( 1 959).
1 1 , Smythies (1 965) . 12, Beloff ( 1 962) . 1 3, Gellner ( 1 959).
1 4, Kneale ( 1 962) . 1 5, Penfield ( 1 961). 1 6, Ibid. 1 7, Farber
e Wilson, ed. ( 1 961). 1 8, Eccles, ed. 1 966. 1 9, Sherrington
( 1 906). 20, Thorpe ( 1 966B) p. 542. 2 1 , Ibid, p. 495. 22, Sperry
(1 960) p. 306. 23, Adrian ( 1 966) p. 245. 24, Koestler ( 1 945)
pp. 205-206. 25, MacKay ( 1 966) p. 439. 26, Popper ( 1950) .
27, Polanyi ( 1 966). 28, MacKay ( 1966) pp. 252-53. 29, Koestler
1959 e 1 964. 30, cit. da Dubos ( 1 950) p. 391 f.

PARTE TERZA: IL DISORDINE

XV. LA NEMESI DELL'UOMO


l , Freud ( 1 920) pp. 3-5. 2, Schachtel ( 1 963). 3, Berlyne ( 1 960)
p. 1 70. 4, Child (1 924) . 5, Arendt (1 963) . 6, Hogg ( 1 961) pp. 44-
45, 2 1 . 7, Prescott ( 1 964) pp. 59, 60, 6 1 . 8, Ibid, p. 62. 9,
Maslow ( 1962) . 10, Jung ( 1 928) p. 395. 1 1, Kretchmer ( 1 934).
12, Iswald (1 966) pp. 1 1 8-1 9 . 1 3, Drever ( 1 962) . 14, Freud
( 1 922) . 15, von Hayek ( 1 966) . 1 6, Koestler ( 1 940) p. 1 19.
1 7, Koestler (1 945) pp. 1 2 7-28. 1 8, The Times, London, 27-7-
1 966. 19, Empson ( 1 964). 20, Koestler ( 1 945) p. 1 2 1 . 20a,
Koestler ( 1 954). 2 1 , Suzuki ( 1 959) p. 33. 22, Koestler ( 1 950)
pp. 42-43 e ( 1954) p . 26. 23, The Times, London, 10-8- 1 966.

XVI. I TRE CERVELLI


l, Gaskell ( 1 908) pp. 65-67. 2, Ibid, p. 66. 3, Wood Jones e
Porteous (1929) pp. 27-28. 4, Ibid, p. 1 1 7. 5, Ibid, p. 103.
6, Ibid, p. 1 1 2. 7, Le Gros Clark (1961). 8, Wheeler (1 928)
p. 46. 9, Herrick ( 1 961) pp. 398-99. 1 0, MacLean ( 1 958) p. 6 1 3.
1 1 , MacLean ( 1 956) p. 351. 12, Mandler (1 962) pp. 273-74
e 326. 1 3, Herrick ( 1961) p. 3 1 6. 14, Mandler ( 1 9 62) p. 338,
15, MacLean (1 962) p. 289. 1 6, MacLean ( 1964) p. 2. 1 7.

476
MacLean (comunicazione personale). 1 8, MacLean ( 1 958). 1 9,
lbt:d, p. 615. 20, Ibid, pp. 614-1 5. 2 1 , Herrick ( 1 961) p. 429.
22, MacLean (1 958) p. 6 1 4. 23, MacLean ( 1964) p. 3. 24, Mac­
Lean ( 1 956) p. 339. 2 5, MacLean ( 1956) p. 34 1 e ( 1 958)
p. 6 1 9. 26, MacLean ( 1 956) p. 341. 27, MacLean ( 1 964) pp. 10-
l l . 2 8, MacLean ( 1962) p. 296. 29, Miller e al. ( 1 960) p. 206.
3 0, MacLean (comunicazione personale) . 31, MacLean ( 1 956)
p. 348. 3la, Kluever ( 1 9 1 1) . 32, MacLean ( 1 961) p. 1 737.
33, MacLean ( 1 958) p. 6 1 9 . 34, MacLean ( 1962) p. 292. 35.
Lorenz (1966) p. 1 20. 36, Allport ( 1 924) . 36a, Olds ( 1 960).
36b, Hebb ( 1 949) . 36c, Pribram ( 1 966) . 37, Gellhorn ( 1 963)
38, lbid. 39, Cobb ( 1 950). 40, MacLean ( 1 9 62) p. 295. 41,
Pribram (1 966) p. 9. 4 2 , Gellhorn ( 1 957).

XVII. UNA SPECIE UNICA


l, Huxley, ]. ( 1 963) pp. 7-28. 2, Koestler ( 1 959) pp. 5 1 3-14.
3, Pyke (1 961) p. 2 1 5. 4, Koestler ( 1 964) p. 227. 5, Huxley ].
( 1 964) p. 192. 6, Russell, W. M. S., in The Listener, London,
5-1 1-1964 e 1 2- 1 1-19 64. 7, Lorenz ( 1 966) p. 1 9. 8, Russell,
W. M. S. e C., in The Listener, London, 3- 12-1964. !l, Lorenz
( 1 9 66) pp. 206-208. 10, Koestler ( 1 966B) . 1 1 , Lorenz ( 1 966)
p. 2 1 5. 12, Lévy-Bruhl ( 1 923) p. 63. 1 3, Berger ( 1 967) .

XVIII. L' ETÀ DEL CLIMAX


l , Platt ( 1 966) pp. 1 95, 1 9 6 e 200. 2, de Beer ( 1 966) . 3, Na­
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APPENDICE II. DEL NON FRUSTARE I CAVALLI MORTI


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487
Indice

7 Prefazione

PARTE PRIMA - L'ORDINE

15 I. Povertà della psicologia


I quattro pilastri della stoltezza, 1 5 - Nascita del beha­
viourismo, 1 7 - La deumanizzazione dell'uomo, 23 - Come
manipolare le tautologie, 26 - La filosofia del rattomor­
fismo, 30

37 II. La catena di parole e l'albero del linguaggio


La catena, 37 - L'albero, 43 - << Che cos'hai detto ? », 46 -
Il postino e il cane, 49 - <• Cosa vuoi dire con questo ? >>, 56
- Regole, strategie e feedback, 60

71 III. L'<< olòmero >>


La parabola dei due orologiai, 7 1 - Giano entra in scena, 74
- Gli olòmeri sociali, 77 - La polarità fondamentale, 85

89 IV. Individui e dividui


Nota sui grafici, 89 - Sistemi inorganici, 92 - L'organismo
e i suoi pezzi di ricambio, 94 - I poteri integrativi della
vita, 97

489
105 V. Grilletti e filtri
Grilletti, 105 - Come si costruisce un nido, 108 - I filtri, l l2

123 VI. Una memoria per dimenticare


Memoria astrattiva, 123 - Un'ipotesi speculativa, 126 -
Due tipi di memoria: il << fumetto •>, 129 - Immagini e schemi,
132 - L'imparare a memoria, 1 34

139 VII. Il nocchiero


Routines senso-motorie, 140 - Retroazioni e omeostasi, 142
- Scorciatoie nelle scorciatoie, 147 - Una olomerarchia
di olòmeri, 148

151 VIII. A bitudine e improvvisazione


Le origini dell'originalità, 153 - La meccanizzazione delle
abitudini, 156 - Un passo alla volta, 157 - La sfida del­
l'ambiente, 1 60

PARTE SECONDA - IL DIVENIRE

165 IX. La strategia degli embrioni


Docilità e determinazione, 1 68 - La tastiera genetica, 1 74

181 X. L ' evohtzione: tema e variazioni


Selezione interna, 1 85 - Il caso della mosca senza occhi, 189
- L'enigma dell'omologia, 191 - Gli archetipi in biologia, 194
- La legge di equilibrio, 197 - I doppelganger, 201 - I tren-
tasei intrecci di Gaspare Gozzi, 205

211 XI. Progresso mediante l'iniziativa


Agire prima di reagire, 2 1 3 - Daccapo Darwin e Lamarck, 220

225 XII. Ancora l'evoluzione: disfare e rifare


Vicoli ciechi, 225 - Sfuggire alla specializzazione, 227 - Rin­
culare per saltare, 231

490
239 XIII. La gloria dell'uomo
Forme di autoriparazione, 240 - Forme superiori di auto­
riparazione, 244 - Autoriparazione e autorealizzazione, 246 -
La scienza e l'inconscio, 249 - Associazione e bisociazione,
251 - La reazione AHA, 254 - La reazione HAHA, 256 -
Riso ed emozione, 258 - La reazione AH, 260 - Arte ed
emozione, 261 - La triade creativa, 265

271 XIV. Il fantasma dentro la macchina


La << seconda legge 1>, 271 - L'oscillazione del pendolo, 277 -
La scena e gli attori, 280 - Spostamenti di controllo, 283 -
La visione seriale, 285 - L'io del verme piatto, 290 - La
strada della libertà, 292 - Una specie di massima, 297 -
La gerarchia aperta, 298

PARTE TERZA - IL DISORDINE


305 XV. La nemesi dell'uomo
Le tre dimensioni dell'emozione, 306 - I pericoli dell'ag­
gressione, 3 1 1 - La patologia della devozione, 3 1 5 - Il
rituale del sacrificio, 3 1 � - L'osservatore venuto da Marte,
322 - Lo struzzo allegro, 324 - Integrazione e identifica­
zione, 325 - I pericoli dell'identificazione, 329 - Consape­
volezza gerarchica, 332 - Induzione e ipnosi, 334 - Le fe­
rite del buon Cesare, 342 - La struttura delle fedi, 343 -
Lo spacco, 347 - Comodità del doppio pensiero, 351 - La
mentalità di gruppo come olòmero, 357

:161 XVI. I tre cervelli


Errori nella fabbricazione di cervelli, 361 - Un'<c escre­
scenza tumorale 1>, 367 - Fisiologia dell'emozione, 370 - I
tre cervelli, 373 - L'emozione e il cervello antico, 379 -
Schizofisiologia, 384 - Un sapore di sole, 387 - « Sapere
con le proprie viscere 1>, 389 - Giano rivisitato, 391

:\!1!1 XVII. Una specie unica


Il dono non richiesto, 399 - Cercare nel buio assoluto, 402 -
Il pacifico primate, 405 - Il cacciatore innocuo, 410 - La
maledizione del linguaggio, 414 - La scoperta della morte, 41 7

491
421 XVIII. L'età del climax
Il cardine della storia, 421 - Due curve, 429 - Il nuovo
calendario, 433- << Non scherziamo con la natura umana >>,
439 Prometeo scardinato, 444 Mutazione per il futuro,
- -

446 Apologia al lettore fantasma, 452


-

APPENDICE I
457 Proprietà generali dei Sistemi Gerarchici Aperti
(S.G.A.)

APPENDICE II
467 Del non frustare i cavalli morti
4 73 Riferimenti
4 79 Opere citate

492

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