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Fragile umanità
Il postumano contemporaneo
Introduzione
Giusto e interessante non è dire: questo è nato da quello, ma: questo potrebbe essere
nato cosí.
LUDWIG WITTGENSTEIN
Prima che teoria tutto, proprio tutto, è aneddoto: vita vissuta. Ho iniziato
a scrivere questo libro nella grande sala del dipartimento di Anatomia,
piena di scheletri e ossa umane, di una delle università dove lavoro. I
filosofi non vi hanno accesso: ho dovuto stringere amicizia con alcuni
ricercatori della facoltà, e fare alcune richieste; la mia ricerca, ho detto,
necessita di questo spazio e di questo materiale. Mi hanno creduto: un libro
sull’umanità richiede uno studio anatomico. In principio era l’umano,
involucro concettuale degli scheletri che vedo appesi qui attorno a me e al
piano superiore, che ospita il museo Cesare Lombroso, personaggio a cui
paradossalmente questa mia ricerca deve molto: ce ne sono migliaia.
Proprio in principio, perché sappiamo, certo, che veniamo dopo molte altre
cose ma spesso rimuoviamo coscientemente questa credenza. Qualcuno
riesce davvero a pensare al di là dell’umano? Oltre i limiti di questo
scheletro assunto a modello di vita? O al prima della nostra comparsa nella
sfera dell’apparire e dell’essere? Certo, posso provare a pensare che cosa
può significare pensare oltre l’umano, ma tutte le volte che proviamo la
nostra mente è completamente inadeguata all’impresa. Tutto è in relazione a
noi: il motivo per cui le filosofie correlazioniste (che fanno dipendere il
mondo esterno dalla mente) hanno sempre avuto gioco facile, generando
mode e seguaci di ogni tipo, è interno a questo nostro limite. Qualcuno sa
“davvero” cosa sia l’universo? L’universo a prescindere da noi che lo
abitiamo, intendo. No, non è dell’universo che parleremmo ma di come noi
pensiamo essere l’universo “a prescindere”. È in questo “a prescindere” che
si situa il luogo di questo libro. Nessuno nega dignità al mondo senza di
noi, per essere chiaro subito: l’infinità di entità spesso indistinte che
popolano il mondo continuano la loro esistenza facendo a meno della mia o
della vostra concettualizzazione. Ciò che sosterrò nelle pagine che seguono
è che l’antropocentrismo, questa parola magica, non sia soltanto un
atteggiamento di prevaricazione o di pura metafisica: l’antropocentrismo è
la nostra atmosfera cognitiva. Di contro, qui il senso del libro, pensare al di
là dell’antropocentrismo è come uscire dall’atmosfera 1.
a Ettore Brocca
Ad ogni mezzo di difesa inventato dall’uomo è sempre corrisposto un parallelo
mezzo di offesa, anche oggi esiste questo precario equilibrio, con la differenza che i
mezzi di offesa hanno la possibilità di distruggere completamente ogni forma di vita
sulla terra. Per questo è necessario piú che mai indirizzare tutte le possibilità di cui
disponiamo verso un ideale estraneo ai normali impulsi e distrazioni dell’uomo. Il fatto
di fare figli (si fanno nascere altre cose perché si fanno nascere altre cose) è un modo di
raggiungere l’eternità, con la differenza che essa è raggiunta dalla specie umana e non
dall’uomo, la coscienza che noi siamo già dei figli dovrebbe farci capire che potremmo
essere noi stessi ad utilizzare le esperienze che facciamo, ad essere noi stessi ad
utilizzarle nel futuro.
GUIDO DE DOMINICIS
Parte prima
Trasformazione
Capitolo primo
L’asse etico: la prima trasformazione
LUDWIG WITTGENSTEIN
Lo specismo ha una struttura logica fallace che costringe tutti, una volta
compreso l’inghippo, a mettere il naso fuori da questo cerchio che diciamo
umanità: se X non ha la stessa specie di Y, allora non gode dello stesso
trattamento morale. È fallace perché porta subito alla mente analogie, e cosí
già raccontava Peter Singer nei suoi primi libri: se X non ha lo stesso sesso
di Y, allora non gode dello stesso trattamento morale. E cosí via, ma
fermiamoci qui con i paragoni. Emerge dunque, dallo specismo, un’umanità
edificata sui confini: ciò che è fuori, proprio perché è fuori, non merita
rispetto e curiosità. Comincia cosí a delinearsi il primo profilo
dell’antropocentrismo: un uomo solo, povero di mondo, che della diversità
metafisica del vivente fa solo una questione di arredamento − ci sono fiori,
sassi, e strane creature attorno a noi. L’umanità consapevolmente specista si
fa poche domande, e accetta strane risposte dovute alla cecità: da dove
arriva il nostro cibo? Perché il pianeta è sempre piú massacrato
dall’inquinamento? Di cosa sono fatti i nostri vestiti e su chi vengono
sperimentati i nostri farmaci? C’è un mondo sommerso, invisibile perché
appunto scegliamo di non vederlo, che è quello che regge il mondo visibile.
L’umano che segue allo specismo, cercando di andare dal fisico al
metafisico, è l’umano che nega e reprime l’animalità cominciando dalla
propria. Ma cos’è, se è qualcosa, l’animalità (intuitivamente: la proprietà di
essere animali)? Jacques Derrida, almeno nella sua ultima fase del pensiero,
come mostra il suo celebre discorso per il Premio Adorno nel 2001,
sosteneva che fosse l’entità fondamentale con cui la filosofia del futuro si
sarebbe dovuta confrontare. Circa quindici anni dopo, eccoci qua a farlo.
Definisco, prima facie, l’animalità come la proprietà necessaria ma nascosta
(opaca) alle forme di vita umane specializzate; in secondo luogo, argomento
che accompagnerà tutte le pagine di questo libro, definisco l’animalità come
la presenza a se stessi. L’umano ha represso la propria animalità, e ha
negato agli animali la loro, sostenendo la liceità della congiunzione “uomo
e animale” − una congiunzione, spesso intesa come una disgiunzione
(esclusiva) che, semplicemente, non c’è. Perché? Risposta semplice: perché
non c’è nulla da dividere e l’animale, innanzitutto come parola «animale»,
comprime entro sé tutto falsando la percezione della biodiversità. Risposta
difficile: perché già logicamente uno dei due congiunti è falso, e dunque la
congiunzione cade. Il primo paradosso è che se la congiunzione
comprimesse anche noi, che fingiamo di essere all’interno del recinto, le
cose non sarebbero poi cosí terribili: essere tutti animali, prima di
cominciare a differenziare le specie con articolate tassonomie, è un ottimo
punto di partenza. L’umanità specista, al contrario, pone se stessa in una
condizione ontologica privilegiata vivendo, de facto, il mondo sociale
costruito da Homo sapiens come l’unico mondo possibile (l’ontologia
sociale viene a coincidere con l’ontologia tutta). Il limite della filosofia,
quando cerca di affrontate un argomento articolato come questo, è che non
basta a se stessa e serve un aspettato intruso: come recita quell’antico
proverbio cinese «una formica può rompere una diga di mille libri» 3. Il
secondo paradosso è che l’umanità che sceglie consapevolmente lo
specismo è profondamente razionale; non tanto perché esercita la ragione
come si deve, ma perché fa della ragione la sua caratteristica distintiva. La
ragione, all’interno dell’immagine di umano che qui sto esplorando, è
tecnicamente il taglio nel vivente: noi pensiamo, dunque siamo. E qual è
quella attività dell’umano con cui si esercita la ragione fine a se stessa? La
filosofia. Viene fuori dunque, cosí che la filosofia mentre contrasta lo
specismo attacca, essenzialmente, proprio se stessa. O, almeno, attacca la
filosofia occidentale (e su questa geografia filosofica tornerò piú avanti).
Lo specismo, in effetti, è un uso della ragione come virtú non
indifferente: l’umano parla, l’animale no; l’umano pensa, l’animale no;
l’umano è autocosciente, l’animale no. La fiera degli stereotipi, per quanto
falsificati a piú riprese dalla letteratura specialistica riguardo gli studi sulla
cognizione animale 4, non teme alcunché. Ma c’è anche un versante dello
specismo che usa proprio la ragione per mettere in crisi lo stereotipo che la
ragione ci distingua dagli animali, e che pure ha esiti ancora piú specisti che
dobbiamo affrontare immediatamente, perché è la prima differenza che farò
emergere tra il modello di postumano − che difenderò alla fine di questo
testo − e altri modelli di superamento dell’umanesimo; tra questi ultimi il
piú celebre è ovviamente il superuomo.
Friedrich Nietzsche è stato un grande critico di un certo
antropocentrismo (anche se, in seconda battuta, difensore di una specie di
superantropocentrismo), nonché un teorico dell’animalità e del suo recupero
sotto varie, e non sempre felici, forme. La sua idea è che l’essere umano
deve recuperare l’animalità prima di volgere al superuomo imparando l’uso
senza filtri della volontà di potenza dall’uccello rapace: colpisci e terrorizza
la preda, elimina la morale. L’argomento di Nietzsche aiuta a dare
un’ulteriore caratterizzazione all’immagine di uomo che emerge dallo
specismo: se si recupera animalità, aprendo il recinto
dell’antropocentrismo, lo si fa sempre e solo per un recupero degli istinti e
delle funzioni di base dell’animale che dunque siamo.
Essere specisti, secondo Nietzsche, significa agire secondo natura: tutto
è preda e predazione, noi siamo mangiati e mangianti, e ogni forma di
ascetismo (come il vegetarianismo, che Nietzsche irride a piú riprese nella
sua Gaia scienza) mortifica la struttura essenziale della nostra forma di vita.
Lo specismo diventa cosí un Giano bifronte: o solitario e senza animali, o
animale tra gli animali − homo homini lupus, e che il piú debole soccomba
anche tra gli uomini. Lo specismo è una narrazione: descrive e prescrive i
nostri comportamenti. Abbiamo sempre massacrato gli animali, la
tecnologia ha solo aumentato qualità e quantità di questo massacro, e
continuare a farlo è giusto, nobile, e, come in Nietzsche, potrebbe essere
addirittura passaggio preferenziale per l’umanità che viene. Emerge cosí
un’umanità che si distanzia per scelta filosofica da tutto ciò che non può
dirsi umano: il pianeta non è casa nostra, il pianeta è nostro. Senza questa
consapevolezza l’antropocentrismo sarebbe niente perché, banalmente,
niente farebbe: per agire come agiamo abbiamo bisogno di una cornice che
orienti le nostre azioni e lo specismo è la cornice di tutte le cornici. Le
grandi sfide etiche che caratterizzano il presente, dall’ecologia profonda
fino al femminismo radicale che giustamente vuole debellare
definitivamente la posizione di inferiorità della donna in molte delle società
contemporanee, hanno tutte lo stesso limite: ciò che non è umano,
semplicemente, è assente. Lo specismo, onestamente, è il limite di ogni
morale; tutti buoni con chi si deve esserlo, certo, ma che ne è di quelle
decine di miliardi di animali massacrati ogni anno? Lo specista consapevole
chiude gli occhi, tiene ben dritta la schiena, e si ancora
all’antropocentrismo: noi siamo tutto.
Eppure un giorno, prima o poi, capita di incrociare lo sguardo di un
animale, o di sentire che un albero è piú di una fonte di legname, e qualcosa
si rompe. La filosofia si fa piú vasta, si incarica di un punto di vista che non
le appartiene, e «l’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. Pensare,
forse, comincia proprio da qui» 5.
Gli esseri umani svolgono le loro vite all’interno di una narrazione che
consente, semplificando, una giustificazione per le azioni fatte e per quelle
che programmiamo di fare. Se lo specismo è paradossalmente una
narrazione in positivo − potete fare questo o quello senza curarvi della sorte
degli animali perché privi di status morale −, l’antispecismo è una
narrazione che è assolutamente negativa se fine a se stessa: non potete fare
questo, e neanche quest’altro, perché gli animali soffrono. L’idea di mondo
che viene espressa dall’antispecismo, nelle sue varie declinazioni, è
semplicemente scorretta: non abbiamo bisogno di qualcosa che esprima un
insieme piú o meno articolato di totem e tabú, abbiamo bisogno di
conoscere un mondo possibile alternativo rispetto a quello che viene
criticato. In questo senso l’immagine di umanità che emerge
dall’antispecismo è utile qui come parte di un insieme piú ampio, ma inutile
se lasciata al suo solitario destino. L’antispecismo che utilizzerò è quello
debole: è necessario indebolire argomentazioni non dirette a eliminare il
dolore degli animali (ad esempio rispettarli per motivi ecologici, politici,
salutisti ecc.). In questo modo si fortifica la potenza della conclusione:
l’animalità va scatenata, come la stella danzante di Nietzsche, al di là di
ogni previsione possibile.
La prima trasformazione.
La pillola dell’antispecismo ha un sapore amaro e un effetto
apparentemente devastante, una volta assunta. Innanzitutto, agisce sulla
vista: ciò che era invisibile ora è palese − il mondo sociale, e da noi
regolato, è in fondo un mattatoio: ovunque attorno a noi giace la morte
senza senso autorizzata dallo specismo. Se si comprende che è possibile
vivere senza nuocere ai miliardi di animali che massacriamo ogni anno,
cosa conduce a continuare? L’economia, la politica, la tradizione, certo, ma
non basta. La nostra immagine di umanità, invenzione recente delle scienze
sociali secondo Michel Foucault, è un ologramma proiettato su un muro
senza ombre. Essere specisti aiuta la felicità, un amaro argomento che
nessun filosofo dell’antispecismo ha mai voluto analizzare: la semplice
consapevolezza di essere unici e speciali, e che tutto il resto sia arredo
ontologico, è meravigliosa. Il sapore della carne, che dalla preistoria al
contemporaneo rende l’umano un discendente piú nobile del cannibale in
pelliccia, è molto piú che una panacea per il palato: è un anestetico
dell’anima. L’immagine del monaco, quindi, ritorna, perché se si sposta
l’asse della felicità dai bisogni, dove è sempre stato, è necessario trovare un
altro luogo dove orientarlo. Un pasto semplice, una vita umile e in accordo
integrato con la natura non sembrano poter competere con il sogno
americano del manager che si gode il suo hamburger guardando una partita
dell’Nba in tv. Eppure, se la filosofia, anche la piú speculativa e teorica, non
passa da una rivoluzione complessiva dell’immagine di umanità che
chiamiamo “benessere occidentale”, ma che in realtà è un massacro di ogni
vivente e di ogni spazio libero di questo mondo, la filosofia stessa non serve
a nulla. Senza azioni esemplari 12, semplicemente, il progresso è
impossibile 13.
La felicità dello specismo, tuttavia, è una felicità vuota che nulla ha a
che fare con l’argomento di Wittgenstein secondo cui «il mondo del felice è
un altro che quello dell’infelice» 14. Il nostro mondo, purtroppo, è comune e
sempre seguendo Wittgenstein «la vita di conoscenza è la vita che è felice
nonostante la miseria del mondo» 15: nulla di piú pertinente. Lo specismo è
la miseria del mondo che rifiuta la vita di conoscenza, rifiuta di sapere cosa
esiste al di là del mondo ovattato e falso in cui l’umanità si è rinchiusa,
ovvero al di là del nostro ordine apparente finché non è il disordine a
bussare da fuori: una centrale nucleare che esplode, come a Fukushima in
Giappone nel 2011, un camion che trasporta maiali da macello che si blocca
in autostrada mostrandoci il rimosso, o una coltre di smog che inonda Delhi
al mattino e che non consente di vedere alcunché tra il traffico cittadino.
LUDWIG WITTGENSTEIN
La seconda trasformazione.
Una scoperta non è né grande né piccola; dipende da ciò che essa significa per noi.
LUDWIG WITTGENSTEIN
Nell’aprile del 1506, almeno cosí testimonia una lettera ricevuta dal
capomastro fiorentino Piero Rosselli, papa Giulio II chiese a Michelangelo
Buonarroti di rifare la decorazione della volta della Cappella Sistina. Il
lavoro, completato soltanto nel 1512, un anno prima della sua consegna si
arricchisce della sua parte piú celebre: La creazione di Adamo. Ecco come
descrive l’affresco Giorgio Vasari:
questa libertà, che si rivela nell’angoscia, può caratterizzarsi con l’esistenza di quel
niente che si insinua tra i motivi e l’atto. Non già perché sono libero, il mio atto sfugge
alla determinazione dei motivi, ma, al contrario, il carattere inefficiente dei motivi è
condizione della mia libertà 9.
La terza trasformazione.
viene a situarsi, come il modo piú radicale di pensare la finitezza che noi
condividiamo con gli animali, la mortalità che appartiene alla finitezza stessa della vita,
all’esperienza della compassione, alla possibilità di condividere la possibilità di questa
impotenza, la possibilità di questa impossibilità, l’angoscia di questa vulnerabilità e la
vulnerabilità di questa angoscia 17.
JOHN LENNON
Capitolo quarto
La speciazione definitiva: Postumano contemporaneo
LUDWIG WITTGENSTEIN
Cominciamo da qui:
nei centri del mio nuovo Ordine verrà allevata una gioventú che spaventerà il mondo.
Io voglio una gioventú che compia grandi gesta, dominatrice, ardita, terribile. Gioventú
deve essere tutto questo. […] L’animale rapace, libero e dominatore, deve brillare
ancora dai suoi occhi. […] I giovani debbono imparare il senso del dominio. Debbono
imparare a vincere nelle prove piú difficili la paura della morte 34.
Dalla terza tappa del viaggio segue una paradossale implicazione su cui
ho volutamente sorvolato in precedenza: cadono i presupposti di certa
etologia come scienza. Sembra un evento collaterale della speciazione, ma
non lo è − e tutti i tentativi di definire postumano ed etologia in parallelo,
esattamente come abbiamo fatto per le sovrapposizioni tra postumano e
transumanesimo, vanno rigettati in vista di un nuovo canone del pensare
postumanista. Per etologia intendo soltanto l’estensione di quella che
Konrad Lorenz, utilizzando l’espressione vergleichende
Verhaltensforschung («ricerca comparata sul comportamento»), ha poi
contribuito a sviluppare come la scienza che studia il comportamento
animale nel suo ambiente naturale. Siamo nel 1974 quando Thomas Nagel
pubblica sulla «Philosophical Review» lo storico articolo What Is it Like to
Be a Bat? (Cosa si prova ad essere un pipistrello?) 36. Nonostante il suo
intento fosse diverso, e assai piú orientato a mettere in crisi un dibattito in
filosofia della mente che nulla aveva a che fare con l’etologia, le
implicazioni metaforiche della sua argomentazione fanno al caso nostro: per
quanto ci si possa sforzare a immaginarsi pipistrelli, comprendendo i
comportamenti di questa specie, al massimo possiamo capire cosa
proveremmo noi a essere pipistrelli ma mai, qui il punto, cosa prova un
pipistrello a essere un pipistrello. Una parte consistente
dell’antropocentrismo che abbiamo abbandonato si basa sull’umanizzazione
della diversità animale, piuttosto che sull’idea assurda che si possa
comprendere cosa vuole, pensa o desidera, una forma di vita aliena alla
nostra: è il canone dell’uomo vitruviano di Leonardo applicato dalla
geometria alla teoria della mente. Se non si mette in scacco anche questa
mossa, la partita è perduta: non possiamo sapere cosa significa essere ciò
che non siamo. Possiamo sognare di esserlo, ovvero abbandonare del tutto
la ragione per cominciare un processo di ibridazione (settima tappa), ma
come ha insegnato Sigmund Freud «il sogno è incoerente, riunisce senza
esitazione le piú grosse contraddizioni, ammette cose impossibili, trascura
le nostre cognizioni, cosí importanti durante il giorno, ci fa apparire
eticamente e moralmente ottusi» 37.
L’etologia ha un primo problema: se vuole funzionare, ovvero esaudire
gli stessi obiettivi che si è posta, non può studiare soltanto gli animali in
natura ma deve necessariamente beneficiare dello studio degli animali in
laboratorio. Mentre lo studio in natura, detto «ecologico», fa emergere i
comportamenti innati e dunque in teoria già individuabili all’interno del
patrimonio ereditario della specie, lo studio in laboratorio, che per principî e
parametri posiziona l’animale altrove ponendolo in situazioni nuove, mette
in luce le capacità di processare risposte diverse a stimoli diversi (le
possibilità di adattamento e apprendimento). Lo stesso Lorenz definiva gli
etologi che lavorano solo in condizioni ecologiche dei «contadini» e non a
caso, continuando col suo ragionamento, sosteneva che solo gli «etologi
cacciatori» 38 a cui lui stesso si ascriveva fanno vera scienza. Arrivati a una
caratterizzazione di Postumano contemporaneo come nuova specie non
violenta, un primo rifiuto dell’etologia emerge spontaneamente: l’idea che
si possa ingabbiare qualcuno per dimostrare che è intelligente, o addirittura
empatico come si è fatto per i violenti esperimenti a dimostrazione della
teoria sui neuroni specchio a danno dei macachi (gli esperimenti sono
invasivi, dolorosi, spesso mortali), si costituisce come un assurdo in
termini. Assurdo, ovviamente, se cominciamo a comprendere che l’azione
triplice delle tre trasformazioni iniziali rende la nuova specie in grado di
pensare eticamente e scientificamente allo stesso momento. Una scienza
cieca all’etica, pensiamo alla sperimentazione animale, non è vera scienza:
mira al futuro, certo, ma mai al progresso. La crisi di Homo sapiens è
profondamente legata alla sua incapacità storica di autolimitarsi, e
basterebbe riportare alla mente i racconti dei fisici che parteciparono al
Progetto Manhattan del 1942 con il quale il governo degli Stati Uniti si
proponeva di sviluppare la prima bomba nucleare, per coglierne la ricaduta
concreta. Il postumano invece si relaziona all’altrove, anche all’altrove
assoluto che è l’animalità come movimento di corpi diversi dal nostro, in
modo radicalmente diverso: non tutto si può conoscere, le nostre azioni
sull’altro si fermano dove l’altro è forzato, perché «ciò, che non possiamo
pensare, non possiamo pensare» 39.
Umanesimo e superomismo sono state due narrazioni dell’umano
concentrate sul superamento, sempre e comunque, dei nostri limiti: le
parole di Hitler che ho riportato nella tappa precedente, la critica di
Nietzsche all’ascetismo, Leonardo da Vinci che cerca di volare dove Icaro
era caduto. Il postumanesimo al contrario è la comprensione della positività
del concetto di “limite”: fermarsi, dove andare avanti significa violenza, è
l’unico vero e paradossale modo di progredire. Il nietzschiano radicale non
ci legga un ritorno a Socrate che beve la cicuta: i limiti sono delle risorse.
L’etologia non li accetta, li travalica, assume inconoscibili prospettive a cui
non può giungere che per astrazione. Siamo ben oltre la vulgata che deriva
dall’approccio di Jakob von Uexküll secondo cui la Umwelt, ovvero il
«mondo-ambiente» dell’animale, è un mondo chiuso in cui l’animale (tutti a
parte l’umano, nell’antropocentrismo di von Uexküll) è intrappolato. In
fondo von Uexküll sta proponendo una monadologia leibniziana in chiave
ecologica, ma sottraendo alla monade la capacità che tanto analizzò Husserl
negli studi su Leibniz di «possedere una finestra» rivolta all’esterno. Negare
certa etologia, magari considerandone invece ramificazioni piú evolute
come quelle di Frans de Waal, non significa negare alla specie Postumano
contemporaneo la possibilità dell’incontro con le alterità animali, e vegetali
ovviamente: sono le modalità che cambiano. Conoscere l’altro non è
studiarlo, quella è una vivisezione metaforica (e spesso reale) che non
coglie il punto: «anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo» 40,
sostiene Lao Tzu, e cosí anche la conoscenza dell’altro da sé comincia con
gesti molto meno invasivi. Tutto ciò − senza naturalmente alcuna
equivalenza tra l’etologia e pratiche assai piú violente −, è visibile in un
significativo ricordo di Slavoj Žižek:
Tu pensi che la filosofia sia difficile ma, credimi, non c’è niente di piú difficile che
essere un buon architetto.
LUDWIG WITTGENSTEIN
Progettarsi.
Fase di preparazione.
Fase di realizzazione.
Si tratta della produzione dell’opera: assicurare che l’opera sia conforme alle attese
degli utenti e far sí che la sua “installazione” e la sua utilizzazione si svolgano
correttamente. Dato che il realizzatore, ovvero il filosofo, conosce il prodotto che ha
elaborato l’installazione spetterà a lui.
Produrre l’opera significa capire, una volta realizzata, se è ciò che ci si
aspettava dal progetto: se sí, allora il filosofo deve dare un posto nel mondo
anche a questa nuova creatura. Perché Thoreau sta solo due anni sul lago
Walden? Perché, in sostanza, ritorna in città rientrando in quella che in
questo esperimento mentale si manifesta come una comunità di specie che
non gli apparteneva, abbandonando la Natura (che pure, lo sappiamo, non
ha davvero niente di naturale 11)? «La felicità è reale solo quand’è
condivisa» 12 sarebbe già una buona risposta, ma ovviamente non basta.
Finché questa nuova specie e Homo sapiens convivono ha senso darsi da
fare per cooperare: l’eccezione dell’isolamento assume un significato solo
se serve a rientrare in società con un nuovo e rinnovato spirito. «Larghi
territori dei Balcani sono una camera di tortura» 13, scriveva Horkheimer, e
non ci si può lavare le mani rispetto a tutto ciò con la scusa di appartenere a
un’altra specie. Se la produzione dell’opera portasse a tali risultati ci
sarebbe poco da festeggiare.
Come si installano dunque la vita e le nicchie ecologiche postumane
all’interno dell’habitat di Homo sapiens? In realtà esiste già un atlante di
architetture scomparse che cominciano a riapparire proprio come gesti di
resistenza che fanno al caso nostro: orti urbani, occupazione e
trasformazione di case, autocostruzione o esperienza di abitazione rurale
delle periferie. L’architettura, orientata secondo il progetto che qui abbiamo
costruito, diventa cosí una teoria dell’innesto: dove si pensa di osservare
una ripetizione, tra una casa e un’altra casa, spunta un alieno, uno straniero,
un gesto formale di rottura che mira a creare una finestra tra due mondi
spesso in conflitto. Da un lato, il mondo delle architetture capitaliste,
dall’altro quello delle architetture radicali: in mezzo una rete di relazioni
concrete che possono costituire un’alternativa, quasi un tertium datur, per
un nuovo modo di intendere la manipolazione degli spazi urbani. Questa
alternativa si chiama “dialogo”: pratica di cui Postumano contemporaneo
come specie deve fare tesoro finché è chiamata a resistere al massacro dei
suoi cugini di genere. Thoreau rientra in città, postumano o meno che fosse,
perché crede nella possibilità di portarsi dietro altre vite senza chiedersi di
che specie siano: torna, ancora una volta, un senso inaspettato
dell’antispecismo ora che è la nostra stessa specie a essere divisa in due.
Vivere è con-dividere, ovvero dividere insieme qualcosa, e non deve stupire
che il nostro postumano sia un al di là che continua a guardare all’al di qua
− è quel fenomeno filosofico che Whitehead chiamava supergetto: «Ogni
cosa svolge la funzione del soggetto in quanto ne prende un’altra
rendendola suo oggetto» 14. Fino a questo momento il postumano è stato
visto come qualcuno che ha resistito a un limite, superando un vizio della
natura attraverso una potenzialità dell’artificio 15, e non basta opporsi a tutto
ciò utilizzando argomentazioni politiche sull’impossibilità dell’uso dei
corpi come strumenti economici. Che il futuro che aspetta la nuova specie
sia tecnologicamente ibridato, nessun dubbio: il problema non sono le cose
ma come vengono utilizzate. Le “cose” non sono le cose. E qui è tutto
raccontato l’errore di Heidegger nella sua critica alla tecnica 16, che come
strumento neutrale può in realtà esser delizia e non necessariamente croce, e
sempre qui è raccontato l’errore del vecchio modo di fare postumanesimo:
non è mostrando che la tecnologia ci cambia che si ottiene una teoria, la
teoria emerge quando siamo in grado di mostrare che cosa si intende per
«cambiamento». Cosa cattura questa parola, qual è la sua estensione
semantica, dove e perché stiamo andando a vivere. L’installazione del
postumano, finché semplicemente questa specie non prenderà in mano
l’avvenire, spetta a noi: è il compito della filosofia. Lo è sempre stato. E il
detto di Agostino, rivisitato da Boezio, «se Dio esiste, da dove il male? Se
Dio non esiste, da dove il bene?» è tutto qui: dove si pone, se si deve porre,
la questione del vivente autocosciente in un mondo cosí articolato e
complesso? Che cos’è, se è qualcosa, una vita responsabile? Senza mezzi
termini: è una vita in cui l’uno si fa carico del molteplice, forse perché
aveva ragione Plotino nel vederli inseparabili, o forse perché anche se
individui abbiamo senso solo nella misura in cui diventiamo comunità.
Postumano contemporaneo si trova qui, adesso, nella consapevolezza
che questo sia davvero «un mondo sbagliato» 17 eppure sappiamo anche che
«quando giochi a ping-pong non puoi utilizzare una racchetta da tennis» 18:
gli strumenti da utilizzare sono limitati e complessi. L’evoluzione, vista
dall’interno, può apparire un processo triste eppure è descrivibile coi celebri
versi di Pablo Neruda: «galoppa la notte sulla sua cavalla cupa | spargendo
spighe azzurre sul prato» 19. Le spighe azzurre sono i postumani, sono il
futuro, potremmo essere noi. “Noi” perché un buon libro di filosofia a mio
avviso deve rompere la “quarta parete”, altrimenti non è niente, e dunque
entrare in contatto con il lettore in un modo diretto e ancora inesplorato
posto che, comunque, si scrive sempre per pochi amici sconosciuti sparsi
per il mondo 20. Anche questo «libro deve stabilire automaticamente la
separazione fra coloro che lo capiscono e coloro che non lo capiscono» 21
dando quasi per scontato che, chi lo capirà, probabilmente sarà già a cavallo
tra queste due specie che stanno per dividersi. Il postumano contemporaneo
non è un’ipotesi ma una proposizione: un’immagine di mondo che può
essere verificata o falsificata 22 perché «le forme degli oggetti divengono
forme della raffigurazione nella misura in cui si presentano come veicoli
per immagini possibili» 23.
Il lavoro filosofico è non dissimile da quello architettonico perché è un
lavoro di modifica del “modo di vedere” le cose: cosa pretendiamo dalle
cose del mondo… che forma vogliamo assumano? Una proposizione
generale sull’umanità è giustificata dalle ragioni che diamo e non dai
risultati, dato che sono ancora lontani e persi in un tempo incerto: ma prima
o poi qualcosa succederà, bisogna solo capire come prepararsi. Entro la fase
finale del progetto, inutile nascondersi dietro al dito, «è di nuovo necessario
un passo simile a quello della teoria della relatività» 24, dove ogni centro è
perduto per definizione, perché «progettare è facile quando si sa come si
fa» 25. Noi non lo sappiamo: abbiamo coscienza del “cosa” da cui stiamo
fuggendo, ma solo poche immagini del “cosa” che stiamo inseguendo 26.
Anche perché probabilmente ci stiamo inseguendo, in parte recitando
Achille e in parte recitando la tartaruga: non ci afferriamo mai, siamo in un
posto e anche in un altro, e uscire da questo inseguimento diventa dunque
doppiamente difficile. La speciazione forse è metafora, forse no, non
importa: tutto è trasformazione. Ciò che va sempre tenuto in mente entro
ricerche e progetti filosofici come questo è che «Dio aborre una singolarità
nuda» 27: le singolarità di fatto possono esistere solo all’interno di un buco
nero, nascoste dallo sguardo di potenziali osservatori esterni. Il resto è
armonia collettiva, organizzazione di un sistema composto, «assemblato» 28,
e solo apparentemente semplice. Insomma, «quel che accadde dopo è
confuso» 29 ma comune, collettivo, e dunque, finalmente, postumano.
WITTGENSTEIN È successo.
DRURY Non capisco: che cosa è successo?
Quello che ho sempre temuto! Che non fossi piú
WITTGENSTEIN
capace di lavorare 30.
Note
Introduzione.
1. Ovviamente ho ritenuto importante in passato darne anche e soprattutto un’immagine etica: cfr. L.
CAFFO , Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale
Monferrato (AL ) 2013.
2. G. DELEUZE , Logica del senso (1969), Feltrinelli, Milano 2005, p. 247.
3. P. APSEIN , Proverbi Cinesi. L’antica saggezza orientale per meditare, Biesse - Brancato, Catania
2009, p. 15.
4. Sul tema mi permetto di rimandare a L. CAFFO , In the Corridors of Animal Minds, in «Journal of
Animal Ethics», IV (2014), n. 1, pp. 103-8.
5. J. DERRIDA , L’animale che dunque sono (2006), a cura di M.-L. Mallet, Jaca Book, Milano 2006,
p. 68.
6. Per questa nozione si veda il capitolo I di G. CLÉMENT , L’alternativa ambiente (2014), Quodlibet,
Macerata 2015.
7. Anam il senzanome. L’ultima intervista a Tiziano Terzani, a cura di M. ZANOT , Longanesi, Milano
2005.
8. C. PAVESE , Il mestiere di vivere. Diario 1936-1950, Einaudi, Torino 2014, p. 301.
9. A piú riprese, ma per una rapida articolazione dei suoi assunti: L. CAFFO , Antispecismo debole, in
M. ANDREOZZI , S. CATIGLIONE e A. MASSARO (a cura di), Emotività animali. Ricerche e discipline
a confronto, LED , Milano 2013, pp. 77-88.
10. Un’isola felice in tal senso, in cui la distinzione è netta e chiara, è G. LEGHISSA , Postumani per
scelta, Mimesis, Milano-Udine 2015.
11. J. L. BORGES , L’altra tigre (1960), in ID., Poesie (1923-1976), trad. di L. Bacchi Wilcock, Rizzoli,
Milano 1980, p. 121.
12. Si veda in questo senso l’analisi di M. FERRARIS , Emergenza, Einaudi, Torino 2016, in cui si
contesta il “farisaismo” tipico di una filosofia che predica bene e razzola male, e si discute di una
filosofia del futuro in cui pensieri politici e azioni corrispondano.
13. Sul tema ho argomentato diffusamente nella lezione dedicata al Futuro in L. CAFFO , La vita di
ogni giorno. Cinque lezioni di filosofia per imparare a stare al mondo, Einaudi, Torino 2016.
14. L. WITTGENSTEIN , Tractatus logico-philosophicus (1922), in ID. , Tractatus logico-philosophicus
e Quaderni 1914-1916, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, 6.43.
15. ID. , Quaderni 1914-1916, ibid., aforisma del 13 agosto 1916.
16. G. DELEUZE , Istinti e istituzioni (1955), Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 62.
1. G. VASARI , Le Vite de’ piú eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani (1550), Einaudi, Torino
2015, vol. II, p. 895.
2. Qui e infra, le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia, nuova versione della Cei, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI ) 2008.
3. Da un punto di vista tecnico il «disegno intelligente è l’idea che il nostro universo sia il risultato di
un disegno orientato a un progetto» (N. BOSTROM , Anthropic Bias. Observation Selection Effects
in Science and Philosophy, Routledge, London 2002, p. 11).
4. Top Question. What Is the Theory of Intelligent Design?, in Discovery Institute, Frequently Asked
Questions, http://www.discovery.org/id/faqs/ (consultato a giugno 2017).
5. Per un paragone tra Timeo e Bibbia si veda R. RADICE , Platonismo e creazionismo in Filone di
Alessandria, Vita e Pensiero, Milano 1989.
6. M. MAGNANO , Leonardo, Mondadori Arte, Milano 2007, p. 80.
7. M. CALARCO , Identity, Difference, Indistinction, in «CR - The New Centennial Review», XI
(2011), n. 2, pp. 41-60.
8. F. KAFKA, Una vecchia pagina (1917), in R. LUXEMBURG , Un po’ di compassione, a cura di M.
Rispoli, Adelphi, Milano 2007, p. 39.
9. J. P. SARTRE , L’essere e il nulla (1943), trad. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1965, pp. 69-70.
10. L’emergenza è definita anche come il correlato filosofico dell’evoluzionismo, cfr. FERRARIS ,
Emergenza cit.
11. Cfr. T. NAGEL Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi
certamente falsa (2012), Raffaello Cortina, Milano 2015.
12. R. DAWKINS , Il racconto dell’antenato. La grande storia dell’evoluzione (2004), Mondadori,
Milano 2006.
13. Lettera di C. Darwin a N. D. Doedes, 2 aprile 1873, in A Calendar of the Correspondence of
Charles Darwin, 1821-1882, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 1994.
14. P. P. PASOLINI , Scritti corsari (1973-75), in ID. , Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori,
Milano 1999, pp. 376-77.
15. Come è noto questo è l’argomento piú celebre contenuto in L. FEUERBACH , Essenza del
cristianesimo (1841), Laterza, Roma-Bari 2006.
16. J. GRENIER , In morte di un cane (1957), Mesogea, Messina 2011, p. 12.
17. DERRIDA , L’animale che dunque sono cit., pp. 66-67.
18. La capacità di un soggetto, analizzata dalla psicologia, di allineare punti ed elementi secondo la
direzione principale in progressione (se essi sono presenti nello spazio) ricostruendo la
configurazione alla quale appartengono.
19. E. GOLDMAN , Anarchism. What It Really Stands For, Mother Earth Publishing Association, New
York 1911, p. 29.
20. T. W. ADORNO , Dialettica negativa (1966), Einaudi, Torino 2004, p. 329.
1. A. GEHLEN , L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale
(1957), Sugarco, Milano 1984, p. 60.
2. I. CALVINO , Il barone rampante (1957), Mondadori, Milano 2010, p. 38.
3. Si veda The Transhumanist FAQ, in
https://hpluspedia.org/wiki/H%2BPedia:Transhumanist_FAQ_Analysis.
4. Mi riferisco soprattutto ad A. CLARK e D. J. CHALMERS , The Extended Mind, in «Analysis», LVIII
(1998), n. 1, pp. 7-19.
5. J. HUXLEY , New Bottles for New Wine, Chatto & Windus, London 1957, pp. 13-17.
6. A. MANNINO , Natura, liberazione ed «enhancement», in «Animal Studies. Rivista italiana di
antispecismo», I (2012), n. 1, pp. 43-49.
7. Per saperne di piú su questo assunto, decisamente contrastante con l’opinione maggioritaria: N.
FALOTICO , Abitare Insieme. Dimensione condivisa del progetto del futuro, Clean, Napoli 2016,
pp. 165-76.
33. M. FERRARIS , Essere è resistere, in M. FERRARIS e M. DE CARO (a cura di), Bentornata realtà. Il
nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2014, pp. 139-66.
34. A. HITLER , Mein Kampf (1925), citato in W. Hofer (a cura di), Il nazionalsocialismo. Documenti
1933-1945 (1957), Feltrinelli, Milano 1964, pp. 755-56.
35. M. HEIDEGGER , Quaderni neri (2014), a cura di P. Trawny, Bompiani, Milano 2015, p. 102.
36. T. NAGEL, Cosa si prova ad essere un pipistrello? (1974), Castelvecchi, Roma 2013.
37. S. FREUD , L’interpretazione dei sogni (1899), Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 71.
38. Lorenz fu ispirato per questa sua infelice definizione dal suo allievo Irenäus Eibl-Eibesfeldt.
39. WITTGENSTEIN , Tractatus cit., 5.61.
40. Lao Tzu, citato in Y. KIEFFER e L. ZANINI , Il kung fu, Xenia, Milano 1997, p. 1.
41. S. ŽIŽEK , Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico (2012), Ponte alle Grazie,
Milano 2013, vol. I, p. 112.
42. Di sicuro, se proprio si devono educare e studiare gli animali, il miglior approccio possibile: R.
sulle altre forme di vita, oltre che su quella di certi umani rispetto ad altri:
ma che succede quando scopriamo di essere della stessa sostanza di tutti
gli esseri viventi del pianeta? Quando le proprietà che pensavamo ci rendessero
speciali, come la vita mentale o la capacità di soffrire, si manifestano anche in ciò
che definiamo ingenuamente «non umano», allora l’umanità come sistema chiuso
dell’umanesimo classico si dissolve. Molte sono state le soluzioni proposte, a questa
domanda, ma ognuna, presa singolarmente, non basta.
Il postumano, cosí come declinato qui, contrapposto anche ai primi fallimentari
tentativi dell’ultimo decennio dello scorso millennio, è volto a riposizionare
l’umanità in uno schema integrato nella Natura, verso un superamento
dell’antropocentrismo, e la costruzione di una nuova narrazione per il nostro futuro.
L’autore
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