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Leonardo Caffo

Fragile umanità
Il postumano contemporaneo
Introduzione

Giusto e interessante non è dire: questo è nato da quello, ma: questo potrebbe essere
nato cosí.

LUDWIG WITTGENSTEIN

Prima che teoria tutto, proprio tutto, è aneddoto: vita vissuta. Ho iniziato
a scrivere questo libro nella grande sala del dipartimento di Anatomia,
piena di scheletri e ossa umane, di una delle università dove lavoro. I
filosofi non vi hanno accesso: ho dovuto stringere amicizia con alcuni
ricercatori della facoltà, e fare alcune richieste; la mia ricerca, ho detto,
necessita di questo spazio e di questo materiale. Mi hanno creduto: un libro
sull’umanità richiede uno studio anatomico. In principio era l’umano,
involucro concettuale degli scheletri che vedo appesi qui attorno a me e al
piano superiore, che ospita il museo Cesare Lombroso, personaggio a cui
paradossalmente questa mia ricerca deve molto: ce ne sono migliaia.
Proprio in principio, perché sappiamo, certo, che veniamo dopo molte altre
cose ma spesso rimuoviamo coscientemente questa credenza. Qualcuno
riesce davvero a pensare al di là dell’umano? Oltre i limiti di questo
scheletro assunto a modello di vita? O al prima della nostra comparsa nella
sfera dell’apparire e dell’essere? Certo, posso provare a pensare che cosa
può significare pensare oltre l’umano, ma tutte le volte che proviamo la
nostra mente è completamente inadeguata all’impresa. Tutto è in relazione a
noi: il motivo per cui le filosofie correlazioniste (che fanno dipendere il
mondo esterno dalla mente) hanno sempre avuto gioco facile, generando
mode e seguaci di ogni tipo, è interno a questo nostro limite. Qualcuno sa
“davvero” cosa sia l’universo? L’universo a prescindere da noi che lo
abitiamo, intendo. No, non è dell’universo che parleremmo ma di come noi
pensiamo essere l’universo “a prescindere”. È in questo “a prescindere” che
si situa il luogo di questo libro. Nessuno nega dignità al mondo senza di
noi, per essere chiaro subito: l’infinità di entità spesso indistinte che
popolano il mondo continuano la loro esistenza facendo a meno della mia o
della vostra concettualizzazione. Ciò che sosterrò nelle pagine che seguono
è che l’antropocentrismo, questa parola magica, non sia soltanto un
atteggiamento di prevaricazione o di pura metafisica: l’antropocentrismo è
la nostra atmosfera cognitiva. Di contro, qui il senso del libro, pensare al di
là dell’antropocentrismo è come uscire dall’atmosfera 1.

L’antropocentrismo, in effetti, è una creatura che somiglia al campo


visivo cosí come descritto da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus: non
possiamo mai vederne i limiti. Va da sé che li avvertiamo questi limiti:
sappiamo che ci sono, ma dove sono? Tutte le volte che incrociamo lo
sguardo di una creatura a noi diversa, o che ci fermiamo ad ammirare
l’immensità di un albero o la luce di una stella, siamo sulla buona strada. Il
problema, per cosí dire, è il filtro attraverso cui osserviamo la realtà: come
se avessimo degli occhiali che rendono il nostro spazio concavo mentre
invece è convesso. Una buona metafora da richiamare alla mente è quella di
Flatlandia di Edwin Abbott, dove ogni dimensione sembra indipendente e
autonoma ma invece è dipendente ed equivalente alle altre, di cui ignora
l’esistenza, almeno finché un quadrato non incontra una sfera;
effettivamente, fuor di metafora, è un discorso quasi geometrico quello che
stiamo per affrontare. Il nostro viaggio all’interno dell’atmosfera cognitiva
si articolerà nell’esplorazione di tre assi (perché ne sono la base
architettonica) dell’antropocentrismo (e le tre conseguenti rivoluzioni):
etica (come ci comportiamo), metafisica (come concepiamo l’universo e
come ci concepiamo al suo interno) e scienza (come scopriamo e come ci
consideriamo scopribili). Sono tre assi che vanno visti nella loro duplice
funzione, giacché questo nostro viaggio non sarà descrivibile con quella
formula − ormai, diciamolo senza remore, attempata − che è la
decostruzione come Jacques Derrida l’aveva concepita: spogliare un
problema senza preoccuparsi del suo vestito nuovo. Tutte le volte che
attraverseremo una questione, infatti, sarà mia cura presentarne la soluzione
che, anche se singolarmente ininfluente, concepita insieme a tutte e tre le
strategie che difenderò garantirà un biglietto di sola andata al di là
dell’atmosfera cognitiva dell’antropocentrismo. «L’uomo ha compiuto una
certa evoluzione, nei tempi precedenti, dai Preominidi all’Homo sapiens,
ma è ancora all’inizio della sua evoluzione» 2. Cosa segue, se segue
qualcosa, a questo inizio?

In disaccordo con le principali teorie sul postumano isolate fino a questo


momento, argomenterò in favore di una tesi diversa: quello che definisco
“Postumano contemporaneo” 3 è il frutto di una speciazione (concetto
biologico che andremo analizzando) tale da rendere i postumani
completamente diversi dagli appartenenti alla specie Homo sapiens.
Agendo in simultanea sui tre assi dell’antropocentrismo, che qui sono
tracciati nei primi tre capitoli del testo, ne risulta una mutazione
complessiva che non è piú ascrivibile all’interno dei principî e dei parametri
dell’essere umano cosí come lo conosciamo: i comportamenti, il rapporto
con l’ambiente, l’osservazione delle cose sono solo alcuni degli aspetti che
evidenziano l’esistenza di un’altra specie di umani che ancora, e vedremo
perché, nessuno ha ritenuto necessario descrivere. Il viaggio sarà breve ma
dettagliato e dunque, prima di partire, qualcosa sulla motivazione del libro:
il resto sarà teoria.

C’è un’immagine ormai tristemente nota: un bambino morto che giace


sulle coste della Turchia, le stesse su cui è nata la filosofia occidentale.
Morto cosí, per salvarsi dalle guerre. La sua storia è l’ultima delle terribili
implicazioni dell’antropocentrismo piú radicale e spietato − un tipo di uomo
al centro del mondo. L’antropocentrismo piú intransigente è costruito sulla
presunta superiorità dell’umano sulle altre forme di vita (antropocentrismo
forte), oltre che sulla superiorità di certi tipi di umani rispetto ad altri
(antropocentrismo debole): ma cosa succede quando il “bipede implume” si
scopre fatto della stessa sostanza di cui sono fatti tutti gli esseri di questo
pianeta? Quando le proprietà che pensavamo renderci speciali, come la vita
mentale o la capacità di soffrire, si manifestano anche in ciò che definiamo
ingenuamente “non umano” allora l’umanità come sistema chiuso
dell’umanesimo classico si dissolve entro quella che è stata definita “crisi
del soggetto”. Molte sono state le soluzioni proposte, dal superuomo di
Friedrich Nietzsche all’antispecismo contemporaneo di Peter Singer, ma
ognuna di queste teorie prese singolarmente non basta o è addirittura
pericolosa: cosa c’è di veramente sbagliato nell’immagine di quel bambino
morto sulla spiaggia? Perché se la rifiutiamo dobbiamo mettere in crisi un
piú ampio sistema di rappresentazione dell’umanità come ente privilegiato e
non solo la causa diretta e apparente?

Il postumano declinato in questo libro si contrappone ai primi omonimi


ma fallimentari tentativi dell’ultimo decennio dello scorso millennio:
riposiziona ciò che segue all’umano (post-umano) entro uno schema
integrato nella Natura, verso un superamento dell’antropocentrismo, in
direzione di una costruzione di nuova narrazione per il nostro futuro. Il
postumano è un’opera aperta: una nuova rivoluzione copernicana che è già
iniziata. «Il mondo trema sull’orlo di un abisso. È l’ora di tentare tutto» 4.
Ringraziamenti.

In questi anni di lavoro sul libro ho potuto beneficiare dell’aiuto


dell’unità di ricerca Waiting Posthuman Studio (waitingposthuman.com) in
cui ho coordinato un lavoro comune di artisti, filosofi, curatori e architetti,
volto a delineare i contorni e le prospettive della mia definizione di
“postumano contemporaneo” anche attraverso strumenti diversi da quelli
della sola riflessione filosofica. Sono molto grato a Laura Cionci, Luca De
Leva, Azzurra Muzzonigro, Vincenzo Santarcangelo, Valentina Sonzogni,
Isabella Pers, Tiziana Pers e Marianna Vecellio per avermi accompagnato,
ognuno in modi e tempi diversi ma essenziali, in questo mio percorso. Mi
preme ringraziare Andrea Bosco, editor paziente e amico, con cui ho potuto
discutere le diverse idee sulla fase germinale di questo libro trovando
sempre un confronto e uno stimolo raro e reciproco. Grazie anche a
Francesco Guglieri per aver discusso con me la prima idea di questo
progetto: senza di lui, per differenti ragioni, il libro semplicemente non
esisterebbe. Sono grato ad alcuni colleghi dell’Università di Torino, del
Politecnico di Torino (soprattutto a Giovanni Durbiano) e del Politecnico di
Milano per i seminari, i dibattiti, e le ore spese a discutere la mia teoria, e a
Maurizio Ferraris per aver letto scrupolosamente il manoscritto (pur sicuro
che le correzioni che ho apportato non lo soddisferanno del tutto credo di
aver lavorato al testo tenendole presente piú di ogni altra osservazione
ricevuta). Sono infinitamente grato a Federica Saibene della Fondazione
Prima Spes per aver sostenuto in vari modi, soprattutto economici, tutta la
mia ricerca in questi anni. Grazie anche agli studenti che hanno seguito i
miei corsi di Filosofia in questi ultimi semestri all’Università di Torino, al
Politecnico di Torino, agli Academy Award 2016, alla Naba, alla Scuola
Holden e al Politecnico di Milano lavorando con me a corsi, tesi, e
laboratori su questi temi: a due in particolare, Martina Santi e Nicola
Zengiaro, devo un rinnovato interesse per l’ambiente e l’animalità come
oggetto della mia filosofia. A Peter Singer, che mi ha stimolato a non aver
timore nel criticare coloro da cui avevo imparato (lui, per esempio), va il
mio sentimento piú importante: “la riconoscenza filosofica”.
Ad Amalia, Salvo, Pepe e Maria, la mia anima opposta ma essenziale,
devo poi tutto il resto. Ma anche ciò che resta del tutto.
Fragile umanità

a Ettore Brocca
Ad ogni mezzo di difesa inventato dall’uomo è sempre corrisposto un parallelo
mezzo di offesa, anche oggi esiste questo precario equilibrio, con la differenza che i
mezzi di offesa hanno la possibilità di distruggere completamente ogni forma di vita
sulla terra. Per questo è necessario piú che mai indirizzare tutte le possibilità di cui
disponiamo verso un ideale estraneo ai normali impulsi e distrazioni dell’uomo. Il fatto
di fare figli (si fanno nascere altre cose perché si fanno nascere altre cose) è un modo di
raggiungere l’eternità, con la differenza che essa è raggiunta dalla specie umana e non
dall’uomo, la coscienza che noi siamo già dei figli dovrebbe farci capire che potremmo
essere noi stessi ad utilizzare le esperienze che facciamo, ad essere noi stessi ad
utilizzarle nel futuro.

GUIDO DE DOMINICIS
Parte prima
Trasformazione
Capitolo primo
L’asse etico: la prima trasformazione

È cosí difficile trovare l’inizio.


O meglio: è difficile cominciare dall’inizio.
E non tentare di andare ancor piú indietro.

LUDWIG WITTGENSTEIN

BREVE POSTILLA . Che cos’è lo specismo?

Lo specismo, ovvero la discriminazione da parte di Homo sapiens delle


altre specie animali, è il primo asse, forse il piú resistente e pericoloso, di
questo insieme potente e complesso di fenomeni che chiamiamo
“antropocentrismo”. Tutta la nostra società è costruita sullo sfruttamento
istituzionalizzato degli animali non umani: uccisi per alimentazione,
vestiario, divertimenti di varia natura e ricerca scientifica, i non umani
stanno al mondo sostanzialmente per garantire un benessere totale alla
specie Homo sapiens. Lo specismo, che come parola deve il suo battesimo
iniziale allo psicologo Richard D. Ryder, è l’idea che tutto ciò sia
giustificabile attraverso una serie di argomentazioni tutt’altro che
facilmente falsificabili. La questione se sia nato prima l’uovo o la gallina,
anche nel caso dello specismo, è evidente: lo specismo è un pregiudizio,
come sostiene nel 1975 col suo Liberazione animale Peter Singer, oppure è
un’ideologia giustificazionista di un fenomeno storicamente verificatosi?
Poco importa: lo specismo è un fenomeno che si rende possibile, almeno
concettualmente, perché una serie di argomentazioni diffuse largamente
anche nel senso comune che regola le nostre vite sociali sono possibili.
Possibili, ma non fondate, come cercherò di mostrare. Quando dello
specismo si cercano giustificazioni filosofiche è un errore non riferirsi a
Cartesio, che ha sostenuto che l’animale è un automa privo di linguaggio, o
a Martin Heidegger, che ha addirittura sostenuto che l’animale è soggetto
povero di mondo e privo di capacità di morire. È un errore, ma lo farò. In
questa sede, infatti, preferisco capire proprio cosa sia lo specismo e perché,
da millenni, regoli le esistenze anche di chi non ha mai sentito parlare di
Cartesio né di Heidegger, e che comunque con gli animali vive un rapporto
reciprocamente violento.

Essere specisti significa considerare la vita della propria specie come


l’unica vita tutelabile da un punto di vista morale anche se esistono −
pensiamo a come trattiamo un cane diversamente da un maiale − diverse
gradazioni di tutela. Credo sia fondamentale capire questo fatto perché,
altrimenti, continuiamo a pensare allo specismo come a un fenomeno
cartesiano: gli animali tutti non hanno mondo e non sono soggetti. Al
contrario gli specisti consapevoli sanno benissimo che gli animali sono
«soggetti di una vita», per utilizzare un’espressione di Tom Regan, ma
semplicemente non credono che ciò sia condizione necessaria e sufficiente
per cambiare radicalmente le proprie vite. L’immagine che vorrei dare dello
specismo però è del tutto concettuale 1 perché parte di un insieme a tre posti
volto a comporre la mia idea di antropocentrismo: nelle nostre vite
quotidiane, semplicemente, gli animali non “esistono”. Nei soli Stati Uniti
d’America, in un solo anno, e riferendomi soltanto ai grandi mammiferi,
vengono uccisi cinquanta miliardi di animali per motivi alimentari. Vorrei
ripeterlo: cinquanta miliardi. Questo immenso mattatoio, che pure è ben
nascosto e ci consente di definire tutto ciò “società civile”, è possibile
perché gli animali altro non sono che dei paradossi: sono “enti non
esistenti”. Noi sappiamo che esistono, e che sono appunto esseri dotati di
caratteristiche biologiche non secondarie alle nostre, ma non sappiamo che
questi stessi animali sono ciò che compongono gli oggetti del nostro
benessere quotidiano.
La novità dello specismo che qui propongo è innanzitutto il fatto di
intenderlo come una dimenticanza: ci siamo dimenticati che non siamo da
soli. Lo specismo è il motore dell’economia: con gli animali, e con ciò che
resta dei loro corpi, produciamo letteralmente qualsiasi cosa − dalle
pellicole per le macchine fotografiche alla carta da parati, dalla colla per
tenere insieme le cuciture delle scarpe fino ai coloranti delle caramelle
gommose tanto amate dai bambini. Quindi gli animali sono ovunque ma noi
non possiamo vederli perché, banalmente, li abbiamo nascosti: lo specismo
è anche un nascondimento. Certo, tutti noi avremmo la possibilità di vedere
ma le potenzialità della vista si arrendono, spesso troppo facilmente, alle
caratteristiche del sistema economico che abitiamo.

«Specismo» è un termine morale, dunque interno all’enciclopedia


dell’etica, e sposta la nostra attenzione dal come ci comportiamo (etica
descrittiva) al come dovremmo comportarci (etica prescrittiva). Mangiamo
gli animali? Dovremmo smettere. Perché? Perché non ci sono buoni
argomenti per continuare a farlo dopo aver compreso che non è necessario,
come invece capiterebbe a dei carnivori obbligati come i felini, e che gli
animali di cui ci nutriamo hanno pari diritti di noi mangiatori.
L’antispecismo, di cui dirò a breve, è nelle sue connotazioni generali una
delle teorie piú complesse da mettere in discussione: non esistono buone
ragioni per il massacro quotidiano di milioni di animali. O, almeno, non ne
esistono piú.

Quale umano segue dallo specismo?

Lo specismo propone un’idea di umano che, piú o meno trasversalmente,


attraversa il planisfero, le epoche, e le geopolitiche anche se ovviamente
non è sempre una metafisica esplicitamente scelta. Suggerisce che Homo
sapiens possa disporre di ciò che non è all’interno del recinto che lo
definisce, recinto immaginario però, o quanto meno assai labile nei suoi
confini come sappiamo da Charles Darwin, che è quello della «nostra
specie». Dove c’è un corpo bipede, lí vediamo alterità, altrimenti è il vuoto:
la ricerca del volto di Emmanuel Lévinas si ferma al corpo umano, e il resto
è contorno. Eppure «il corpo cela», scrive Deleuze, e «contiene un
linguaggio nascosto» 2. Questa umanità che segue allo specismo è quella
che propongo di chiamare «cieca solitudine»: abbiamo ucciso una forma di
vita nata per fiorire insieme alle altre per crearne un’altra, profondamente
sola, e inconsciamente cieca. Essere specisti, caratteristica essenziale, o
meglio necessaria dell’umano fortemente antropocentrico, significa credere
che il dolore sia rintracciabile solo in chi si comporta come umano. Ma
pensarsi come gli unici sofferenti sembra davvero la sola giustificazione
possibile all’anomalia della vita come dolore continuo. Qui, piú o meno,
nasce l’idea dell’animale come automa: per l’animale, dunque per chi sta
fuori del recinto, essenzialmente proviamo invidia. Pensiamo, talvolta
speriamo che non soffra, e su di esso scateniamo la violenza priva di senso
che è lo specismo come attività. Questa umanità, che emerge dall’asse etico
dello specismo, si sente speciale perché sofferente: ciò che non ha
l’angoscia del vivere su due zampe deve essere punito. Ma cosí tutto, come
è giusto che sia, si complica − perché «quella che il bruco chiama fine del
mondo», dice Lao Tzu, «il resto del mondo chiama farfalla».

Lo specismo ha una struttura logica fallace che costringe tutti, una volta
compreso l’inghippo, a mettere il naso fuori da questo cerchio che diciamo
umanità: se X non ha la stessa specie di Y, allora non gode dello stesso
trattamento morale. È fallace perché porta subito alla mente analogie, e cosí
già raccontava Peter Singer nei suoi primi libri: se X non ha lo stesso sesso
di Y, allora non gode dello stesso trattamento morale. E cosí via, ma
fermiamoci qui con i paragoni. Emerge dunque, dallo specismo, un’umanità
edificata sui confini: ciò che è fuori, proprio perché è fuori, non merita
rispetto e curiosità. Comincia cosí a delinearsi il primo profilo
dell’antropocentrismo: un uomo solo, povero di mondo, che della diversità
metafisica del vivente fa solo una questione di arredamento − ci sono fiori,
sassi, e strane creature attorno a noi. L’umanità consapevolmente specista si
fa poche domande, e accetta strane risposte dovute alla cecità: da dove
arriva il nostro cibo? Perché il pianeta è sempre piú massacrato
dall’inquinamento? Di cosa sono fatti i nostri vestiti e su chi vengono
sperimentati i nostri farmaci? C’è un mondo sommerso, invisibile perché
appunto scegliamo di non vederlo, che è quello che regge il mondo visibile.
L’umano che segue allo specismo, cercando di andare dal fisico al
metafisico, è l’umano che nega e reprime l’animalità cominciando dalla
propria. Ma cos’è, se è qualcosa, l’animalità (intuitivamente: la proprietà di
essere animali)? Jacques Derrida, almeno nella sua ultima fase del pensiero,
come mostra il suo celebre discorso per il Premio Adorno nel 2001,
sosteneva che fosse l’entità fondamentale con cui la filosofia del futuro si
sarebbe dovuta confrontare. Circa quindici anni dopo, eccoci qua a farlo.
Definisco, prima facie, l’animalità come la proprietà necessaria ma nascosta
(opaca) alle forme di vita umane specializzate; in secondo luogo, argomento
che accompagnerà tutte le pagine di questo libro, definisco l’animalità come
la presenza a se stessi. L’umano ha represso la propria animalità, e ha
negato agli animali la loro, sostenendo la liceità della congiunzione “uomo
e animale” − una congiunzione, spesso intesa come una disgiunzione
(esclusiva) che, semplicemente, non c’è. Perché? Risposta semplice: perché
non c’è nulla da dividere e l’animale, innanzitutto come parola «animale»,
comprime entro sé tutto falsando la percezione della biodiversità. Risposta
difficile: perché già logicamente uno dei due congiunti è falso, e dunque la
congiunzione cade. Il primo paradosso è che se la congiunzione
comprimesse anche noi, che fingiamo di essere all’interno del recinto, le
cose non sarebbero poi cosí terribili: essere tutti animali, prima di
cominciare a differenziare le specie con articolate tassonomie, è un ottimo
punto di partenza. L’umanità specista, al contrario, pone se stessa in una
condizione ontologica privilegiata vivendo, de facto, il mondo sociale
costruito da Homo sapiens come l’unico mondo possibile (l’ontologia
sociale viene a coincidere con l’ontologia tutta). Il limite della filosofia,
quando cerca di affrontate un argomento articolato come questo, è che non
basta a se stessa e serve un aspettato intruso: come recita quell’antico
proverbio cinese «una formica può rompere una diga di mille libri» 3. Il
secondo paradosso è che l’umanità che sceglie consapevolmente lo
specismo è profondamente razionale; non tanto perché esercita la ragione
come si deve, ma perché fa della ragione la sua caratteristica distintiva. La
ragione, all’interno dell’immagine di umano che qui sto esplorando, è
tecnicamente il taglio nel vivente: noi pensiamo, dunque siamo. E qual è
quella attività dell’umano con cui si esercita la ragione fine a se stessa? La
filosofia. Viene fuori dunque, cosí che la filosofia mentre contrasta lo
specismo attacca, essenzialmente, proprio se stessa. O, almeno, attacca la
filosofia occidentale (e su questa geografia filosofica tornerò piú avanti).
Lo specismo, in effetti, è un uso della ragione come virtú non
indifferente: l’umano parla, l’animale no; l’umano pensa, l’animale no;
l’umano è autocosciente, l’animale no. La fiera degli stereotipi, per quanto
falsificati a piú riprese dalla letteratura specialistica riguardo gli studi sulla
cognizione animale 4, non teme alcunché. Ma c’è anche un versante dello
specismo che usa proprio la ragione per mettere in crisi lo stereotipo che la
ragione ci distingua dagli animali, e che pure ha esiti ancora piú specisti che
dobbiamo affrontare immediatamente, perché è la prima differenza che farò
emergere tra il modello di postumano − che difenderò alla fine di questo
testo − e altri modelli di superamento dell’umanesimo; tra questi ultimi il
piú celebre è ovviamente il superuomo.
Friedrich Nietzsche è stato un grande critico di un certo
antropocentrismo (anche se, in seconda battuta, difensore di una specie di
superantropocentrismo), nonché un teorico dell’animalità e del suo recupero
sotto varie, e non sempre felici, forme. La sua idea è che l’essere umano
deve recuperare l’animalità prima di volgere al superuomo imparando l’uso
senza filtri della volontà di potenza dall’uccello rapace: colpisci e terrorizza
la preda, elimina la morale. L’argomento di Nietzsche aiuta a dare
un’ulteriore caratterizzazione all’immagine di uomo che emerge dallo
specismo: se si recupera animalità, aprendo il recinto
dell’antropocentrismo, lo si fa sempre e solo per un recupero degli istinti e
delle funzioni di base dell’animale che dunque siamo.
Essere specisti, secondo Nietzsche, significa agire secondo natura: tutto
è preda e predazione, noi siamo mangiati e mangianti, e ogni forma di
ascetismo (come il vegetarianismo, che Nietzsche irride a piú riprese nella
sua Gaia scienza) mortifica la struttura essenziale della nostra forma di vita.
Lo specismo diventa cosí un Giano bifronte: o solitario e senza animali, o
animale tra gli animali − homo homini lupus, e che il piú debole soccomba
anche tra gli uomini. Lo specismo è una narrazione: descrive e prescrive i
nostri comportamenti. Abbiamo sempre massacrato gli animali, la
tecnologia ha solo aumentato qualità e quantità di questo massacro, e
continuare a farlo è giusto, nobile, e, come in Nietzsche, potrebbe essere
addirittura passaggio preferenziale per l’umanità che viene. Emerge cosí
un’umanità che si distanzia per scelta filosofica da tutto ciò che non può
dirsi umano: il pianeta non è casa nostra, il pianeta è nostro. Senza questa
consapevolezza l’antropocentrismo sarebbe niente perché, banalmente,
niente farebbe: per agire come agiamo abbiamo bisogno di una cornice che
orienti le nostre azioni e lo specismo è la cornice di tutte le cornici. Le
grandi sfide etiche che caratterizzano il presente, dall’ecologia profonda
fino al femminismo radicale che giustamente vuole debellare
definitivamente la posizione di inferiorità della donna in molte delle società
contemporanee, hanno tutte lo stesso limite: ciò che non è umano,
semplicemente, è assente. Lo specismo, onestamente, è il limite di ogni
morale; tutti buoni con chi si deve esserlo, certo, ma che ne è di quelle
decine di miliardi di animali massacrati ogni anno? Lo specista consapevole
chiude gli occhi, tiene ben dritta la schiena, e si ancora
all’antropocentrismo: noi siamo tutto.
Eppure un giorno, prima o poi, capita di incrociare lo sguardo di un
animale, o di sentire che un albero è piú di una fonte di legname, e qualcosa
si rompe. La filosofia si fa piú vasta, si incarica di un punto di vista che non
le appartiene, e «l’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. Pensare,
forse, comincia proprio da qui» 5.

BREVE POSTILLA. Che cos’è l’antispecismo?

L’antispecismo è il contrario dello specismo, nel senso che il mondo che


emerge è letteralmente un ribaltamento di quello specista. Si dice
antispecismo ciò che si occupa del “tra” delle cose 6 − dal punto di vista
etico, piú semplicemente, è la posizione che nega allo specismo solidi
argomenti di resistenza. L’idea è che l’appartenenza a una specie diversa
dalla nostra non sia, di per sé, la ratifica per un diverso trattamento morale:
gli argomenti per cui rispettiamo gli umani, se sono buoni argomenti, allora
valgono per tutti gli altri animali. La fortuna di questa teoria, nella sua
prima formulazione esposta da pensatori quali Peter Singer, Paola Cavalieri,
o Tom Regan, sta tutta nella capacità di non essere un semplice animalismo
morale − ovvero l’avere cura, in maniera piú o meno sofisticata, della sorte
degli animali non umani. L’antispecismo è la messa in crisi
dell’antropocentrismo nelle sue connotazioni etiche, come spiega meglio
Tiziano Terzani: «Tutta la società è costruita per dare spago alla violenza: e
la violenza genera violenza. Per questo anche il mio essere vegetariano è
una scelta morale» 7. Se si vuole andare contro la violenza, espressione
tipica dell’antropocentrismo, bisogna mettere in discussione la violenza in
quanto tale; una delle piú efferate, ma forse la piú priva di senso, è quella
che Homo sapiens dedica agli animali.

Essere antispecisti significa considerare la propria vita meno “propria” di


come solitamente siamo abituati a pensare: esiste la vita, e poi le sue
infinite e passeggere forme. Pensiamo all’antispecismo come all’idea che
non si possa abusare della vita altrui, pensiamo all’altrui, all’interno
dell’antispecismo, come al corpo a prescindere dalla forma animale che
assume: «l’animale era l’altro, l’estraneo […] non appariva individuo» 8.

Quale umano segue dall’antispecismo?

L’umanità che segue all’antispecismo è un cantiere aperto. Di questa


teoria ho proposto un approccio debole 9 secondo cui è necessaria
l’assunzione concettuale del punto di vista dell’animale, uscendo da quello
umano, per rompere la barriera dell’antropocentrismo. L’umanità
coscientemente antispecista (è rara, ma esiste) vive il mondo con la
consapevolezza di essere una tra gli innumerevoli viventi, non
qualitativamente superiore ad altri, ma forte della sua responsabilità
specifica: siamo gli unici, purtroppo, a consumare questo pianeta per molte
piú risorse di quelle che sarebbero necessarie. Quando Singer usa per primo
il termine in modo tecnico crede di dover attaccare un pregiudizio: la
diversità di specie conduce a pensare alla diversità morale. Un pregiudizio
che Singer analizza per analogia a sessismo o razzismo, e che ha nella sua
struttura il vizio di considerare qualità estrinseche o biologiche come
qualità etiche. La storia dell’antispecismo come narrazione è una storia
recente, troppo recente, ed è dunque una storia di isole: umanità organizzata
in sacche di contenimento della violenza che si contesta alla radice. Una
storia di associazioni, rifugi per animali, manifestazioni e regolamentazione
di comportamenti personali che nessun valore hanno se non quello della
disobbedienza civile.
L’antispecismo rende manifesto il valore pratico e rivoluzionario di certe
forme di pensiero. In questo caso, però, purtroppo, la critica che si esercita
nei confronti del mondo sociale è complessiva. L’umanità che emerge è
incerta perché imprevedibile: ci siamo sempre costruiti in opposizione
all’animalità − la nostra storia, inevitabilmente, coincide con il nostro
distanziarci dagli animali e dalla natura. L’antispecismo in questo senso è la
demolizione del recinto di cui non abbiamo mai visto, se non per
esperimento mentale, l’esterno. Tocca, a questo punto, immaginarlo.
Il possibile rientra di diritto all’interno del nostro campo di indagine: in
quale modo potrebbe vivere un’umanità che rispetta l’animalità altrui e la
propria? Senza questo passaggio immaginativo l’antropocentrismo resta ben
saldo perché è dalle azioni che passa l’uomo, e sono i limiti che diamo alle
nostre azioni possibili a essere i limiti dei nostri mondi possibili. L’idea che
chiamiamo antispecismo ha alcune conseguenze pratiche che non vanno
mai, tuttavia, scambiate con le cause.
Da questo momento cominceremo a definire per immagini e suggestioni
il postumano contemporaneo, che solo alla fine sarà delineato in maniera
compiuta attraverso un percorso che si discosterà intenzionalmente da
modelli precedenti. Pensiamo, per stereotipo, all’immagine del monaco zen
e allontaniamoci, sin da subito, invece, dall’immagine di postumano come
umano mezzo-robot che emerge da una letteratura filosofica che ha confuso
postumanesimo e transumanesimo 10. L’antispecismo attacca
l’antropocentrismo, e contribuisce allo sviluppo del postumanesimo,
attraverso un’etica che non è soltanto, come troppo spesso si è detto,
sbilanciata sui costumi e sui consumi ma anche, e soprattutto, attenta
all’osservazione dell’animalità come “presenza a se stessi”. L’antispecismo
non è solo negazione del confine di specie come confine morale, ma è il
recupero dell’animalità entro un verso uguale e contrario a quello di
Nietzsche.

Partiamo da lontano, dalla proposizione 6.4311 del Tractatus di Ludwig


Wittgenstein, dal sapore palesemente mistico: «vive eterno colui che vive
nel presente». Ma chi è che vive nel presente, misticismo a parte? Colui
che, privo di memoria, o almeno di memoria a lungo termine, non goda di
coscienza che gli consenta di pensarsi nel passato o di proiettarsi nel futuro.
I bambini sarebbero buoni candidati, ma hanno il tempo eterno contato:
crescono, diventano umani adulti, ricordano e sperano − sono mortali e
dunque condannati alla disperazione. Martin Heidegger, dove Wittgenstein
vedeva una risorsa, lamentava un limite: solo l’animale vive un eterno
presente, privo della temporalità sommata all’essere che sta alla base
dell’esserci, l’animale non può morire. Ma il limite, se mettiamo insieme i
due argomenti, è presto aggirato: l’animale non muore perché vive nel
presente ed è dunque eterno. Come la tigre di Borges, «nel suo mondo non
ci sono nomi né passato | né futuro, solo un istante vero» 11.
Sorvoliamo sul fatto che gli animali sono tanti, e alcuni (pensiamo ai
primati) come sappiamo dall’etologia cognitiva hanno capacità di
rappresentarsi non solo nello spazio ma anche nel tempo, e consideriamo
piuttosto l’animalità come la proprietà che ho definito “assoluta presenza a
se stessi”. I problemi dell’umanesimo antropocentrico, e dell’umanità che
questo dunque esprime, derivano in larga parte dall’incapacità di vivere il
“qui e ora”; è sulla risoluzione di questa incapacità che si innesta
l’antispecismo, non come movimento etico fine a se stesso, ma come parte
del processo metafisico che conduce al postumano. Perché il monaco zen è
il modello? Per la forma di vita che esprime: essa cerca la pace nella
consapevolezza dell’attimo, e ne accetta il limite. La domanda è cosa
impariamo dall’animalità. E la risposta è il rimosso: quella natura comune
al vivente che l’umanità come concetto ha eliminato.

Gli esseri umani svolgono le loro vite all’interno di una narrazione che
consente, semplificando, una giustificazione per le azioni fatte e per quelle
che programmiamo di fare. Se lo specismo è paradossalmente una
narrazione in positivo − potete fare questo o quello senza curarvi della sorte
degli animali perché privi di status morale −, l’antispecismo è una
narrazione che è assolutamente negativa se fine a se stessa: non potete fare
questo, e neanche quest’altro, perché gli animali soffrono. L’idea di mondo
che viene espressa dall’antispecismo, nelle sue varie declinazioni, è
semplicemente scorretta: non abbiamo bisogno di qualcosa che esprima un
insieme piú o meno articolato di totem e tabú, abbiamo bisogno di
conoscere un mondo possibile alternativo rispetto a quello che viene
criticato. In questo senso l’immagine di umanità che emerge
dall’antispecismo è utile qui come parte di un insieme piú ampio, ma inutile
se lasciata al suo solitario destino. L’antispecismo che utilizzerò è quello
debole: è necessario indebolire argomentazioni non dirette a eliminare il
dolore degli animali (ad esempio rispettarli per motivi ecologici, politici,
salutisti ecc.). In questo modo si fortifica la potenza della conclusione:
l’animalità va scatenata, come la stella danzante di Nietzsche, al di là di
ogni previsione possibile.

La prima trasformazione.
La pillola dell’antispecismo ha un sapore amaro e un effetto
apparentemente devastante, una volta assunta. Innanzitutto, agisce sulla
vista: ciò che era invisibile ora è palese − il mondo sociale, e da noi
regolato, è in fondo un mattatoio: ovunque attorno a noi giace la morte
senza senso autorizzata dallo specismo. Se si comprende che è possibile
vivere senza nuocere ai miliardi di animali che massacriamo ogni anno,
cosa conduce a continuare? L’economia, la politica, la tradizione, certo, ma
non basta. La nostra immagine di umanità, invenzione recente delle scienze
sociali secondo Michel Foucault, è un ologramma proiettato su un muro
senza ombre. Essere specisti aiuta la felicità, un amaro argomento che
nessun filosofo dell’antispecismo ha mai voluto analizzare: la semplice
consapevolezza di essere unici e speciali, e che tutto il resto sia arredo
ontologico, è meravigliosa. Il sapore della carne, che dalla preistoria al
contemporaneo rende l’umano un discendente piú nobile del cannibale in
pelliccia, è molto piú che una panacea per il palato: è un anestetico
dell’anima. L’immagine del monaco, quindi, ritorna, perché se si sposta
l’asse della felicità dai bisogni, dove è sempre stato, è necessario trovare un
altro luogo dove orientarlo. Un pasto semplice, una vita umile e in accordo
integrato con la natura non sembrano poter competere con il sogno
americano del manager che si gode il suo hamburger guardando una partita
dell’Nba in tv. Eppure, se la filosofia, anche la piú speculativa e teorica, non
passa da una rivoluzione complessiva dell’immagine di umanità che
chiamiamo “benessere occidentale”, ma che in realtà è un massacro di ogni
vivente e di ogni spazio libero di questo mondo, la filosofia stessa non serve
a nulla. Senza azioni esemplari 12, semplicemente, il progresso è
impossibile 13.
La felicità dello specismo, tuttavia, è una felicità vuota che nulla ha a
che fare con l’argomento di Wittgenstein secondo cui «il mondo del felice è
un altro che quello dell’infelice» 14. Il nostro mondo, purtroppo, è comune e
sempre seguendo Wittgenstein «la vita di conoscenza è la vita che è felice
nonostante la miseria del mondo» 15: nulla di piú pertinente. Lo specismo è
la miseria del mondo che rifiuta la vita di conoscenza, rifiuta di sapere cosa
esiste al di là del mondo ovattato e falso in cui l’umanità si è rinchiusa,
ovvero al di là del nostro ordine apparente finché non è il disordine a
bussare da fuori: una centrale nucleare che esplode, come a Fukushima in
Giappone nel 2011, un camion che trasporta maiali da macello che si blocca
in autostrada mostrandoci il rimosso, o una coltre di smog che inonda Delhi
al mattino e che non consente di vedere alcunché tra il traffico cittadino.

La prima trasformazione è un invito a osservare l’altrove prima che sia


l’altrove, con un aspetto che sarà quello del mostro, a venire da noi: la
filosofia è l’unica strategia di salvezza. Il nostro corpo comincia ad apparire
diverso: le nostre gambe non sembrano poi cosí differenti dalle zampe di un
maiale, e la nostra esistenza unita da una comune sorte con tutte le altre
forme di vita già appare meno speciale di un tempo. Il percorso è lungo,
perché qualcosa ci tiene ben saldi e spesso non basta curarsi degli animali
per cominciare il mutamento: lo specismo, fingendosi liberazione, può
tenerci ben saldi e ancorati al centro. Eppure si vacilla e ci rendiamo conto
che non può essere davvero giustificato produrre la vita degli animali
soltanto per beneficiare di vizi, gusti e sapori, che sono gli stessi di un
umano primitivo che dovrebbe essere scomparso da millenni. E forse, in
effetti, non si tratta di ragionare in termini di consumi, ma di consumati;
questa è la prospettiva che non riusciamo mai ad assumere nel mutamento.
L’antispecismo spinge verso fuori, ma da solo non basta: la terapia è lunga,
e finché non la si completa avrà ragione Deleuze nel dire che «la
soddisfazione del suo [dell’uomo] desiderio è a profitto della sola specie, ha
lavorato con dedizione a un fine che non era affatto suo» 16. Finché è come
specie umana che ci pensiamo, senza comprendere che ogni vivente è
innanzitutto una monade che affaccia sull’esterno, il cantiere resterà aperto.
Capitolo secondo
L’asse metafisico: la seconda trasformazione

La tragedia consiste in questo: che l’albero non si piega ma si spezza.

LUDWIG WITTGENSTEIN

BREVE POSTILLA. Che cos’è il sistema tolemaico?

Si potrà storcere il naso, sentendo ancora parlare di Tolomeo, ma qui si


parla per metafora delle implicazioni filosofiche, ancora ben salde, del
sistema tolemaico. Il sistema geocentrico è un modello astronomico con
chiare cause e conseguenze metafisiche che pone la Terra, almeno da
Aristotele in avanti, al centro dell’Universo − mentre tutti gli altri corpi
celesti ruoterebbero attorno a essa. Per due millenni ha regolato le nostre
credenze sull’universo, da tre regola le nostre credenze popolari sull’uomo.
Quando Aristotele nel De caelo ne dà un inquadramento concettuale,
attraverso una caratterizzazione che influenzerà persino la struttura della
Commedia di Dante («L’amor che move il sole e l’altre stelle», Paradiso
XXXIII, 145), non sta ovviamente pensando al pianeta Terra in quanto
corpo celeste ma, piuttosto, alla Terra come casa dell’uomo.
Il sistema tolemaico, poi filtrato entro le religioni positive, è la
concezione metafisica secondo cui l’umano è al centro e al vertice
dell’ontologia.

Che immagine di umanità segue dal sistema tolemaico?

Cominciamo a comprendere che immagine di umanità segue a tutto ciò.


Se l’etica descrive i comportamenti, la metafisica descrive la nostra
conoscenza del mondo rispetto all’essere; in quanto organizzatori di questa
conoscenza, nel pensiero filosofico occidentale, ne siamo posti al vertice.
Iniziamo a immaginare un cerchio vuoto, con un puntino al centro: il
cerchio è l’insieme o l’universo, il puntino al centro solo e sperduto è
l’essere umano.
La metafisica, seguendo una (quasi) distinzione classica 1, è la scienza
che studia le qualità dell’essere: non solo cosa esiste, ammesso che abbia
senso la distinzione, ma anche cosa sono le cose che esistono; un lavoro di
tassidermia o di imbalsamazione dell’essere.
La metafisica, quando parliamo della nostra immagine, è di sicuro il
tassello piú importante della nostra costruzione: se poi ci comportiamo cosí
perché ci pensiamo in un modo, o se ci pensiamo in un modo perché ci
comportiamo cosí, è questione secondaria. Ora, se il geocentrismo pone
Homo sapiens al centro dell’universo, posto che sappiamo che tutto ciò è
falso, sarà anche la storia che ne è seguita a essere falsa. Secondo
l’antropocentrismo radicale Homo sapiens gode di uno statuto ontologico
speciale. Quando si crede di essere al vertice, piuttosto che nel “tra” delle
cose, lo stare al mondo di quanto non è Homo sapiens è inteso come un
abuso: la nozione di “biodiversità”, di cui diremo piú avanti, assume
dunque all’interno della narrazione antropocentrica il ruolo di un alieno. Per
capire la struttura intrinseca del geocentrismo dobbiamo innanzitutto
comprendere come ne faccia parte anche, paradossalmente, la famosa
rivoluzione copernicana di Kant secondo cui non è l’uomo a dover adattare
i propri schemi mentali agli oggetti da conoscere, ma sono i processi
cognitivi che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito − è la
«fallacia trascendentale kantiana» 2 che qui vorrei caratterizzare sotto una
luce diversa. Ovviamente il mondo, o meglio l’ambiente, è sempre un
prodotto di soggetto e oggetto, ed è altrettanto ovvio che ogni percipiente
osserva l’esterno a modo suo; ma se da qui deriviamo l’argomento kantiano
(«le intuizioni senza concetto sono cieche»), che è assai piú forte e radicale,
piú che a una rivoluzione copernicana assistiamo a un geocentrismo
filosofico. L’umanità che segue dalla somma di quanto ho detto è espressa
proprio da Kant nella prefazione del 1787 alla Critica della ragion pura:
«la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno
[…] essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande e non
lasciarsi guidare da lei» 3. Ecco, nel monito finale giace la firma del
geocentrismo filosofico, e il primo punto critico che andrà ribaltato in
questa seconda trasformazione. Emerge dunque un’umanità profondamente
razionalista che, una volta superata l’assurdità astronomica del nostro
mondo al centro dell’universo, resta quantomeno ancorata all’apparato
metafisico precedente: siamo al centro del cerchio, e il cerchio è dato e
costruito dalla nostra ragione. Lo vedremo a breve, ma Kant sbaglia proprio
il nome per il suo argomento e non basta l’analogia secondo cui come
Copernico aveva messo il Sole e non la Terra al centro dell’universo, cosí
lui intendeva ora collocare il soggetto umano al centro del processo
conoscitivo. Il Sole di Kant non è l’uomo, è l’altrove: Kant, e
l’antropocentrismo costruttivista radicale che segue a questa sua mossa
concettuale, inaugura la stagione filosofica piú geocentrica che esista −
l’umanesimo in tutte le sue espressioni. Non a caso una delle implicazioni
piú incredibili del sistema tolemaico, ben espressa nel piú celebre libro di
Tolomeo che è il Tetrábiblos, è l’astrologia: l’idea secondo cui esista una
relazione di influenza tra il moto dei pianeti e gli umori, le sorti, e i destini
umani. Un antropocentrismo senza confini, dunque: la speranza che la
nostra importanza sia tale da essere addirittura in relazione con pianeti
lontani. Se con lo specismo si danno gli assiomi di un comportamento
umano-centrato, con il geocentrismo si ottengono le giustificazioni (fallaci)
del motivo per cui possiamo impostare il centro sull’umano.
Come accaduto per la difficoltà ad abbandonare il geocentrismo
astronomico per millenni, nonostante le evidenze raccolte, cosí avviene
oggi per l’abbandono del geocentrismo filosofico: siamo attualmente, de
facto, a una sorta di revisione di Tycho Brahe che, come è noto, accettò che
tutti gli altri pianeti della Via Lattea ruotassero attorno al Sole purché si
mantenesse ben salda la Terra al centro dell’universo (sistema geo-
eliocentrico). Cosí anche oggi, in metafisica, accettiamo che l’ambiente
abbia un ruolo essenziale e che vada riposizionato al centro delle nostre
preoccupazioni, purché l’umano resti ben saldo sul piedistallo piú alto
(“ecologia superficiale”), e che gli ecosistemi vengano aiutati solo fino al
punto che non mette in crisi i nostri millenari e antropocentrici privilegi.

BREVE POSTILLA. Che cos’è il sistema copernicano?


Si dice sistema copernicano l’argomento rivoluzionario dell’astronomo
polacco Mikołaj Kopernik secondo cui sia il Sole, e non la Terra, al centro
della Via Lattea. La Terra ruota su se stessa (intorno al proprio asse) e
intorno al Sole: siamo in periferia.
Riprendendo in realtà una teoria antichissima, già esposta nel II secolo a.
C. da Aristarco di Samo, Copernico (cosí il suo nome italiano) pubblica
nell’anno della sua morte, il 1543, lo storico De revolutionibus orbium
coelestium. Il modo di pensare l’universo muta, ma è niente rispetto a ciò
che consegue a tutto ciò.
Eppure di questa trasformazione essenziale dell’astronomia, ormai acqua
passata per la scienza, si misurano ancora pochissimi effetti per l’immagine
metafisica che abbiamo di Homo sapiens.

Che immagine di umanità segue dal sistema copernicano?

Come si vive in periferia? Perché è questa la conseguenza primaria del


copernicanesimo: siamo puntini sperduti in un universo immenso.
L’immagine di quel cerchio che richiamavo prima adesso è vuota − siamo
sul bordo, e chissà quanti altri con noi. Passiamo dall’astronomia alla
filosofia e la vita, cosí come l’umanità, adesso ridimensionata, assume tutto
un altro aspetto. Siamo al secondo tassello decostruttivo della costituzione
del postumano e ci troviamo dinnanzi alla consapevolezza di non avere un
ruolo speciale nel mondo: condannati al pensiero concettuale dalle nostre
doti cognitive, dobbiamo addirittura abbandonare la consolazione
dell’antropocentrismo spaziale − il centro, semplicemente, non c’è. Eppure,
se non c’è centro (o se ogni punto è centrale), tutti vivono in periferia, e
questa sensazione di stranieri sempre e comunque diventa la base del
postumanesimo. Consideriamo le parole di Carmelo Bene secondo cui «se il
mondo fosse la visione che ne abbiamo e non quella che il mondo ha di noi
saremmo forse piú riservati» 4. L’idea è che la resistenza del mondo alla
nostra volontà, o come nel caso del geocentrismo alla nostra falsificazione,
spesso conduce al malessere: eppure la visione periferica, una volta presa
consapevolezza della rivoluzione copernicana, è una risorsa importante
perché consente di vedere l’intorno di ciò che i nostri occhi inquadrano. Il
centro dell’insieme che avevamo immaginato era vuoto, mentre la periferia
è affollatissima: proprio su questo solco si innestano il pensiero ecologico,
quello della biodiversità, e piú in generale le teorie non antropocentriche
della comprensione e organizzazione dello spazio. I limiti della nostra
visione dipendono da quanto siamo in grado di allenare la visione
periferica: il campo visivo è molto piú ampio di ciò a cui normalmente
prestiamo attenzione, vediamo molto di piú di quanto guardiamo 5. In
questo senso il secondo distacco dall’antropocentrismo rappresentato da
una buona analisi del sistema copernicano assomiglia a una liberazione, per
non richiamare il solito caso della caverna platonica, in cui l’essere umano
riscopre ciò che la sua vista atrofizzata gli aveva precluso. Emerge cosí un
uomo nuovo capace di fare di un presunto limite una risorsa: se tutto è
periferico, tutto è centrato. È qui che l’umanità si apre alla nozione di
ambiente verso una prima caratterizzazione dell’ecologia come scienza che
studia le interazioni tra gli organismi, tra e con il loro ambiente, facendo
interagire la filosofia con le scienze della vita. A testimoniare la svolta
anche il fatto che «ecologia» è parola di recente conio: siamo nel 1866 con
l’opera Generelle Morphologie der Organismen di Ernst Haeckel, circa
cento anni dopo quella prefazione di Kant in cui la natura doveva adattarsi a
noi. È un capovolgimento totale: anche perché l’ecologia, al contrario di ciò
che comunemente si pensa, non ha nulla a che fare con l’ambientalismo
(che ne è l’apparato morale) perché si tratta, innanzitutto, di uno sguardo
metafisico diverso sul mondo. In questa vita periferica, a cui ci condanna la
messa in mora dell’ontologia antropocentrica, l’ecologia assume il ruolo di
teoria che evidenzia

l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia della natura; l’indagine del


complesso delle relazioni di un animale con il suo contesto sia inorganico sia organico,
comprendente soprattutto le sue relazioni positive e negative con gli animali e le piante
con cui viene direttamente o indirettamente a contatto 6.

Ecco siglato il passaggio da un’ontologia statica, centrata sugli individui


(chiamati, perlopiú, “oggetti”), a un’ontologia dinamica centrata sulle
“relazioni tra gli individui”. Appare cosí un’umanità “antropo-decentrata”,
ovvero spostata dal centro, attenta a ciò che c’è al di là del cerchio in cui si
era chiusa ma che ormai si è rotto e cosí, insieme a Proust, comprendiamo
perché «venuto meno l’effetto anestetizzante dell’abitudine» l’umanità non
può che pensare e sentire «cose talmente tristi» 7. Un caso speculare a quello
della presunta infelicità dell’antispecista che, maldestramente, caratterizza
anche questa umanità copernicana se rimane incompleta a se stessa: se non
comprendiamo il senso dello spostamento rischiamo di rimpiangere il
centro. Per cui il postumano è anche questo, ma non soltanto questo:
l’ecologia come il copernicanesimo da soli non rendono il senso
dell’abbandono dell’antropocentrismo. Gli organismi viventi, noi compresi,
e le risorse naturali tutte compongono gli ecosistemi che, a loro volta,
producono dei meccanismi biofisici di controllo e questi moderano processi
che agiscono direttamente sui viventi (i “fattori biotici”) e sui non viventi (i
“fattori abiotici”) del pianeta. Tutto ciò avviene sul bordo, in periferia, e
nella consapevolezza che tutto si muove, e continuerà a muoversi in un
processo entropico, al di là del controllo che l’essere umano deciderà di
esercitare su tali fenomeni. Perché il nostro ruolo, semplicemente, è
diverso: non riguarda le sorti del pianeta ma la nostra idea di futuro, del
nostro futuro. Che tipo di umanità segue alla consapevolezza che il mondo,
un mondo a cui apparteniamo in modo non speciale e periferico, ci
trascende? In quella che sembra un’antinomia, o quantomeno una tensione
data dal nostro tentativo di pensarci e descriverci con l’accettazione della
nostra irrilevanza metafisica, giace «il banco di prova di un’intelligenza di
prim’ordine» che, secondo Francis Scott Fitzgerald, è la «capacità di tenere
due idee opposte in mente nello stesso tempo e, insieme, di conservare la
capacità di funzionare» 8. Essere irrilevanti o periferici rispetto all’infinità di
esseri di cui è costellata la metafisica non dice nulla sul fatto che dalla
nostra prospettiva locale, ma comunque essenziale, resti necessario trovare
una direzione e un segnavia per le nostre esistenze. La periferia non
deresponsabilizza, anzi, spinge a comprendere e a mutare forma; dal bordo
in cui abbiamo preso coscienza di esistere il postumano comincia ad
apparire come qualcosa di presente qui e ora, contemporaneo come dirò in
seguito, perché la resistenza del mondo si è già ripetutamente manifestata.
Tutte le volte che una crisi ecologica si è palesata, e che il mare si è
colorato di nero, abbiamo avuto paura − e «ogni paura è fondamentalmente
orientata verso la morte. Qualunque sia la sua forma, la sua modalità,
qualunque sia il suo aspetto, il suo nome, ogni paura è orientata verso la
morte» 9. Per questo il postumano è una rinascita, la nostra forma muta e
l’unico modo di superare la paura è comprendere che lo spostamento
dall’interno all’esterno è necessario per sopravvivere.

La seconda trasformazione.

Secondo tassello della terapia decostruttiva, il nostro corpo comincia a


cambiare, e cosí il nostro guardare. Ci troviamo in una situazione di
abbandono di un privilegio che ha edificato l’idea stessa di Occidente:
«Homo sapiens non appartiene all’essere», cosí per troppo abbiamo
creduto, pensando addirittura che Homo sapiens sia l’essere (Heidegger ha
fatto scuola, in tal senso). Ma cosa significa trasformarsi da ente principale
della metafisica a una delle tante forme di vita di cui è composto
l’universo? La metafisica orientale convive da secoli con questa credenza
secondo cui la natura differenzi quantitativamente ma mai qualitativamente,
eppure a me in questa sede non interessa promuovere l’originalità di questa
idea in quanto tale ma inserire il secondo tassello nel mosaico. Dobbiamo
comportarci nel rispetto dell’alterità assoluta (prima trasformazione) perché
noi stessi, in fondo, siamo questa alterità periferica (seconda
trasformazione). D’altronde il postumano, come argomenta Rosi Braidotti,
che pure utilizza un approccio concettuale che non condivido 10, è un
processo di ridefinizione del senso di connessione con il mondo comune e
l’ambiente: trasformarsi, in questa fase, significa comprendere il nuovo
ruolo che l’umanità assume − un ruolo tra i tanti. Nel suo corso su Spinoza
del 1980, Che cosa può un corpo?, Gilles Deleuze argomentava che non
possiamo sapere cosa può un corpo prima di averlo messo alla prova: e cosí
non sappiamo cosa può un corpo postumano prima che prenda atto la
trasformazione finale. In questa fase abbiamo una mutazione che si
completa, ma che ha ancora bisogno di spazio: si tratta di riconcepire
l’umano. Contro un’umanità rinascimentale, ma ancora in voga come
abbiamo visto con le implicazioni filosofiche piú recenti del geocentrismo,
che si pensa come autonoma, perfettamente razionale e all’apice
dell’esistenza, il postumano in questa seconda fase decostruttiva comincia a
proporsi come un’identità in movimento perché migrante. Dalla periferia, il
nostro ruolo è in mutazione continua; non si tratta di fissare un nuovo
centro in questa periferia, spostando il cerchio che avevamo immaginato in
un altro punto dello spazio, ma di comprendere che siamo infinite cose 11:
neonati, vecchi, sani, malati, animali, lavoratori, e addirittura morti (è solo
una questione di tempo, purtroppo). Siamo tutti i nomi della storia ed è per
questo che una vita immaginata al centro era priva di senso.
L’antropocentrismo che emergeva dal geocentrismo è quello che proporrei
di chiamare “antropocentrismo locale” − non l’umano al centro del mondo
ma, piuttosto, un tipo di uomo al centro: bianco, eterosessuale, maschio, e
preferibilmente occidentale. Tutte le volte che queste categorie si perdono,
o mutano, ci si sposta dal centro alle periferie verso l’animalità 12, che
attende all’esterno l’esclusione di una vita umana ora diventata inutile o
improduttiva, e l’antropocentrismo locale si attiva come dispositivo di
accentramento interno al confine della nostra stessa specie. Se facciamo
saltare il centro − qui cominciamo a capire come la metafisica influenzi
anche l’etica −, salta anche qualsiasi possibilità di discriminazione locale:
non solo l’umano come ideale, ma anche l’ideale di umano, diventano
simboli di un passato superato. Essere davvero copernicani significa
comprendere che l’universo è qui: siamo noi che ruotiamo su noi stessi e
intorno agli altri.
Capitolo terzo
L’asse scientifico: la terza trasformazione

Una scoperta non è né grande né piccola; dipende da ciò che essa significa per noi.

LUDWIG WITTGENSTEIN

BREVE POSTILLA. Che cos’è il creazionismo?

Nell’aprile del 1506, almeno cosí testimonia una lettera ricevuta dal
capomastro fiorentino Piero Rosselli, papa Giulio II chiese a Michelangelo
Buonarroti di rifare la decorazione della volta della Cappella Sistina. Il
lavoro, completato soltanto nel 1512, un anno prima della sua consegna si
arricchisce della sua parte piú celebre: La creazione di Adamo. Ecco come
descrive l’affresco Giorgio Vasari:

[Nella] creazione di Adamo, [Michelangelo] ha figurato Dio portato da un gruppo di


angeli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il
peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maestà di quello [Dio] e la
maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga,
e, con l’altro, porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di
dintorni di qualità che e’ par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore piú tosto
che dal pennello o disegno d’uno uomo tale 1.

Il creazionismo è l’idea secondo cui Dio abbia creato l’universo, dunque


attraverso un movimento verticale che procede dall’alto verso il basso, e
che nella sua piú celebre versione cristiano-cattolica si caratterizza come un
movimento dall’ente piú semplice al piú complesso. Ecco cosa avviene
nella Bibbia, in Genesi 1,24-26:
Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e
bestie selvatiche secondo la loro specie». E cosí avvenne: Dio fece le bestie selvatiche
secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo
secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: «Facciamo l’uomo a
nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla
terra» 2.

Lasciamo da parte che la donna viene creata dopo, e che dunque


seguendo il movimento che ho appena evidenziato ha maggiore complessità
dell’uomo e porta con sé la qualità divina per eccellenza (la creazione), e
vediamo gli aspetti negativi di tutto ciò rispetto al discorso che stiamo
articolando: l’umanità fatta sul calco di Dio, e da Dio, pronta e creata per
dominare su tutte le altre forme di vita di questo mondo.

Che immagine di umanità segue dal creazionismo?

Il creazionismo, seppur indebolito, oggi regola le nostre esistenze piú del


geocentrismo, e appena un po’ meno dello specismo. No, non serve credere
nel creazionismo per esserne influenzati: la cornice in cui vivere non è
scelta ma imposta. L’umanità che segue è autorizzata da Dio, di cui è
immagine, a dominare su tutto il resto del creato − qui sta la firma in bella
vista dell’antropocentrismo. Riportiamo alla mente il cerchio, e questa volta
pensiamo non tanto al fatto di essere al centro ma di come al centro siamo
arrivati: il creazionismo è il movimento del puntino calato dall’alto al
basso. Il cerchio, anch’esso creato, è nel versetto 1 della Genesi secondo cui
«in principio Dio creò il cielo e la terra». A sentire James Ussher, un
vescovo anglicano del XVII secolo, tutto ciò avvenne in una data precisa: il
23 ottobre 4004 a. C. Non mettendo limiti alla fantasia Ussher dichiarò che
doveva essere mezzogiorno. Per quanto possa farci sorridere una storia
come questa, nei soli Stati Uniti d’America ci sono migliaia di sostenitori
della forma piú recente di creazionismo, il disegno intelligente 3 che,
basandosi su una estensione delle tesi del filosofo della religione William
Paley, pone le sue ragioni su un argomento ipotetico secondo cui «alcune
caratteristiche dell’universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio
attraverso una causa intelligente che non attraverso un processo non pilotato
come la selezione naturale» 4. L’umanità, entro questa narrazione, si pone al
vertice del creato con conseguenze devastanti per tutto ciò che le è stato
dato di dominare. Se escludiamo il buddhismo le principali cosmogonie
religiose accettano una forma di creazionismo, ma idee con matrice simile
sono già ben presenti in filosofia: il Timeo, tra i piú bei dialoghi di Platone,
introduce nella sua prima parte le «operazioni del Demiurgo» 5. Ciò che
tuttavia è precipuo nella creazione secondo il cristianesimo, cioè quella che
oggi caratterizza il terzo asse dell’antropocentrismo contemporaneo, resta il
ruolo essenziale attribuito all’umanità come vertice: il resto, ancora una
volta, è contorno. Se per l’etica si tratta di controllo, e per la metafisica di
centralità, in questo caso è la verticalità la questione: come e perché è dato
all’uomo di dominare l’universo; ancora una volta una sfida col mondo e
con la realtà che è simboleggiata dalle stesse parole di Gesú di Nazareth
«voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il
mondo!» (Giovanni 16,33). Creati e ribelli gli esseri umani abitano il
pianeta nella consapevolezza della loro perfezione, immagine e somiglianza
di un Dio che assume il ruolo di un’idea platonica universale di cui noi
siamo istanza, vigilando che tutto sia a sua volta immagine e somiglianza di
questa divinità terrena a due gambe.
L’immagine simbolo dell’umanesimo, che rispecchia perfettamente
questa concezione creazionista, è ovviamente l’Uomo vitruviano, un
disegno a penna e inchiostro su carta, firmato da Leonardo da Vinci, che
oggi si trova nel Gabinetto dei disegni e delle stampe delle Gallerie
dell’Accademia di Venezia. Il senso del disegno, siamo nel 1490, risiede
nell’utilizzo del corpo umano come metafora e dimostrazione del modo
armonioso con cui questo può essere inscritto, attraverso un’operazione che
è molto piú filosofica che geometrica, nelle due figure tradizionalmente
ritenute “divinamente perfette”: il cerchio e il quadrato. Il vitruviano è
l’immagine che emerge dal creazionismo, e ne espone le conseguenze: il
mondo va costruito, oltre che vissuto, attraverso la consapevolezza che tutto
sia specchio e proporzione orientata di Homo sapiens. Per rappresentare
l’armonia divina, «colta e condivisa dall’arte suprema del saper vedere» 6,
solo il corpo umano si palesa come candidato perfetto: noi siamo prova,
causa e conseguenza, della creazione e della volontà di Dio.
L’antropocentrismo che emerge, sul solco di questo terzo e ultimo suo asse,
ha il volto del pensiero identitario: o si riporta tutto ciò che è diverso
dall’uomo all’uomo, attraverso similitudini, oppure l’esclusione del diverso
dalla sfera dell’essere è totale. Il pensiero identitario investe l’animalità −
come e quanto gli animali ci somigliano 7−, la biodiversità in generale −
come e quanto ci sia utile occuparci di ambiente −, e tutto quel complesso
di fenomeni che sembrano altruistici ma che traducono un modo inverso e
mascherato di continuare a parlare di noi. L’umanità che segue dal
creazionismo, ovvero l’antropocentrismo verticale, è la specie della
«angoscia della posizione eretta» 8 di cui parla Franz Kafka in una lettera
alla fidanzata Felice: porta su di sé il peso del mondo, che Dio stesso ha
incaricato di condurre, e tutto osserva dall’alto verso il basso. Il
cortocircuito di questa divinità mancata piegata dall’angoscia dalla sua
stessa importanza, che esprime l’umano all’interno della cornice
creazionista, secondo Jean-Paul Sartre mette paradossalmente a repentaglio
la stessa presunta libertà totale di cui Dio ci avrebbe fatto dono:

questa libertà, che si rivela nell’angoscia, può caratterizzarsi con l’esistenza di quel
niente che si insinua tra i motivi e l’atto. Non già perché sono libero, il mio atto sfugge
alla determinazione dei motivi, ma, al contrario, il carattere inefficiente dei motivi è
condizione della mia libertà 9.

BREVE POSTILLA. Che cos’è il darwinismo?

Circa trecentocinquanta anni dopo l’affresco di Michelangelo che


esprimeva l’immagine dell’antropocentrismo verticale, nel primo giorno del
mese di luglio del 1858, alla Linnean Society di Londra, il geologo Charles
Lyell e il botanico Joseph Hooker presentano la teoria di Charles Darwin
riguardo all’origine delle specie per mezzo della selezione naturale. Darwin
è assente: il figlio minore è morto prematuramente, il dolore e il lutto
improvviso lo obbligano a lasciare ad altri la presentazione della sua
creatura. Passerà un po’ piú di un anno prima che L’origine delle specie
venga pubblicata: la prima tiratura verrà esaurita in soli due giorni.
L’ingresso nel cerchio, in cui l’umano arrivava solitario dall’alto verso il
basso nel creazionismo, viene presentato da Darwin all’inverso: dal basso
verso l’alto, e in compagnia di tutte le altre specie viventi, gli esseri umani
prendono possesso della loro breve esistenza in un pianeta che li ospita e
che non gli appartiene. Si passa, tecnicamente, da un approccio di
progettazione dell’umanità top-down, a un processo emergente 10 della
formazione della vita bottom-up. Senza essere orientata da uno scopo
specifico, dunque, la formazione della vita è una lotta per la sopravvivenza
in cui le casuali mutazioni genetiche, molto piú che l’ambiente − che
interviene secondo Darwin in un secondo momento −, contribuiscono
all’adattamento (fitness) di ogni specie esistente.

Che immagine di umanità segue dal darwinismo?

Perso l’ultimo dei tre privilegi che l’umanità antropocentrica si è


duramente conquistata il senso di disorientamento, ovviamente, è totale.
Secondo Thomas Nagel, nel suo Mente e cosmo, il darwinismo e il
neodarwinismo vacillano alla prova dei fatti: attraverso i suoi argomenti il
materialismo non rende la complessità della vita mentale cosciente, e i
principî dell’evoluzione sarebbero teleologici piuttosto che meccanicistici 11.
Nonostante l’argomentazione di Nagel abbia qualche problema e al di là
della comprensione se l’evoluzione sia guidata in un modo oppure in un
altro − e il dibattito è immenso −, ciò che conta è l’ennesima messa in mora
della vita umana al centro, o al vertice, tutt’altro però che accettata nella
vita di tutti i giorni. Darwin è uno di quei grandi classici che tutti
conoscono, ma che nessuno ha letto, e il padre dell’evoluzionismo si
dispererebbe nel sapere che oggi c’è chi sostiene che la sua teoria farebbe
derivare l’uomo dalla scimmia (mentre invece è di un antenato comune di
tutte le forme di vita che si discute). L’immagine che segue da un processo
emergente, piuttosto che ascendente, è quella di un’umanità che priva di
un’infusione divina prende coscienza del caos da cui proviene. Il caos, è
bene specificarlo, non è necessariamente casualità: nessuno esclude che
possa esistere una qualche forma di ordine, e che forse davvero Dio non sia
un giocatore di dadi, ma quel che è certo è l’assenza di vertice, angoscia
divina e superiorità sulle altre specie. Essere darwinisti, accettando una
qualsiasi versione della teoria dell’evoluzione 12, significa considerarsi fatti
della stessa sostanza di cui sono fatti i corpi degli altri viventi. Questa
sostanza, che dà forma alla vita, e che è comune agli altri animali e vegetali,
ridimensiona l’umano catapultandolo definitivamente fuori
dall’antropocentrismo: dopo aver perso la superiorità morale (con
l’antispecismo), e finiti alla periferia dell’universo (con il
copernicanesimo), gli umani si scoprono prodotti del caos (grazie al
darwinismo), e nel caos devono regolare le loro esistenze.
La filosofia è piena di tentativi evoluzionistici ed emergentisti ante
litteram o differenti: cambiano i motivi dell’evoluzione e della selezione,
che per Darwin sono dati dalla capacità di adattamento, ma l’intuizione è
comune. La trasvalutazione di tutti i valori di Nietzsche, ma anche della
filosofia di Henri Bergson, rappresenta un’altra via per dire un’unica cosa,
quasi una tautologia: veniamo al mondo, semplicemente, perché veniamo al
mondo. Non un disegno, non uno scopo, e dunque maggiore responsabilità
e libertà: il contrario di quella angoscia di Sartre che, in questo caso,
diventa la necessità di ordinare e organizzare uno spazio che è comune, e
dunque di nessuno nello specifico.
Emergere nel mucchio, paradossalmente però, e già secondo Darwin, è
forse piú misterioso e divino che ciò che il creazionismo tentava di
comunicare: «Ma mi permetta di dire che l’impossibilità di concepire che
quest’universo grandioso e meraviglioso, con i nostri sé coscienti, sia
scaturito per caso a me pare l’argomento principe a favore dell’esistenza di
Dio» 13. Nel centro ormai dilatato, dove ogni creatura vivente è al vertice
della sua linea evolutiva, nessuno governa su nessuno: la natura è anarchica,
l’ordine emerge e dunque viene dal basso, la vita umana è adesso
desacralizzata. Cosí, in definitiva, un’umanità decostruita: animali tra
animali siamo pronti, finalmente, alla trasformazione finale.

La terza trasformazione.

Ecco l’ultimo tassello di quella che assomiglia a una cura ormonale


prima di una mutazione epocale del nostro corpo su cui a breve lavoreremo:
l’antropocentrismo verticale è battuto. La terza trasformazione consegna un
uomo non creato, e dunque anche non creatore né dominatore, che insieme
ai precedenti due cambiamenti è adesso un corpo neutro in attesa di una
nuova cornice in cui fare esplodere la sua potenza espressiva. Emergere dal
basso, non provenire dai cieli ma provenire dalle viscere della terra, cambia
radicalmente la postura filosofica con cui ci troviamo a osservare la realtà −
e solo cosí possiamo leggere il paradosso su cui Pier Paolo Pasolini
ragionava nei suoi Scritti corsari comprendendo che «ciò che si diceva
contro natura è naturale, e ciò che si diceva naturale è contro natura» 14. Due
cose ci stupiscono adesso, capovolgendo Kant: le forme di vita in mezzo a
noi, la legge morale intorno a noi. Tutto ciò che appariva naturale prima,
perché la Natura era Dio, è ora invece artificio, perché è Dio che è creato da
noi a nostra immagine e somiglianza 15: la morale cattolica, la superiorità
umana, il destino inteso come volontà divina. Sotto di noi e sopra di noi, la
vita che evolve e che genera, e intorno a noi la morale che viene da fuori:
ogni creatura è al suo posto. Non siamo che stranieri migranti, nomadi,
provenienti da un luogo sconosciuto (il pre-vita), ci addentriamo in un
tempo limitato che condividiamo con tutte le altre forme di vita di questo
pianeta: «la nostra sorte è comune», come argomenta Jean Grenier, «per
questo che non ho vergogna a parlare della morte di un cane» 16 − perché è
comune la caducità e l’incertezza. La filosofia si apre dunque a ciò che c’è
fuori di noi, piante e animali diventano altrove necessari per l’indagine
sull’essere, e ciò che è ancorato all’antropocentrismo piú radicale è
destinato a sparire: la nuova metafisica è l’ecologia. Questa apertura
all’animalità, che in fondo è l’unica vera implicazione filosofica del
darwinismo, è descritta da Jacques Derrida in poche ma decisive parole:

viene a situarsi, come il modo piú radicale di pensare la finitezza che noi
condividiamo con gli animali, la mortalità che appartiene alla finitezza stessa della vita,
all’esperienza della compassione, alla possibilità di condividere la possibilità di questa
impotenza, la possibilità di questa impossibilità, l’angoscia di questa vulnerabilità e la
vulnerabilità di questa angoscia 17.

Ritorna l’angoscia, e non è un caso: perché ancora una volta la terza


trasformazione presa singolarmente non è positiva ma insufficiente per
definizione. Una direzione, o meglio una direzionalità 18 è necessaria per la
specie che si pensa; trasformarsi non è smarrire se stessi, avrebbe detto
Marx, ma cercare un nuovo luogo in cui ritrovarsi. Dal basso verso l’alto, e
non piú calati su questo pianeta, gli umani sono responsabili per
definizione: l’ordine che emerge dal basso − quello che rende l’anarchia un
correlato politico della biologia evoluzionistica in quanto «ordine sociale
basato sulla libera associazione di individui» 19 −, è l’unico ordine possibile
perché non imposto, ma ricercato. L’umanesimo ha rappresentato ciò che
Adorno chiama «il trionfo e il fallimento della cultura» 20 − il postumano
inizia da qui, dalla presa di coscienza di un fallimento: il nostro corpo, ora
spogliato dei suoi tre falsi abiti, è pronto alla mutazione definitiva, la
trasformazione finale.
Parte seconda
Speciazione

If you want to be a hero, well, just follow me.

JOHN LENNON
Capitolo quarto
La speciazione definitiva: Postumano contemporaneo

Il senso del mondo deve essere fuori di esso.

LUDWIG WITTGENSTEIN

Che cos’è il postumano?

Cominciamo da qui:

Da un punto di vista morfologico […], l’uomo è determinato in linea fondamentale


da una serie di carenze [Mängel], le quali di volta in volta vanno definite nel preciso
senso biologico di adattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di
sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo 1.

Il promesso viaggio fuori dall’atmosfera inizia adesso: da questa serie di


carenze individuate da Arnold Gehlen – per adesso, e fin qui, si è trattato
soltanto di prepararsi al movimento acquisendo una mappa e studiando
l’itinerario.
L’idea che emerge, dopo aver decostruito i tre assi su cui
l’antropocentrismo si basa, è quella di un’umanità non piú chiusa in se
stessa ma “aperta”. Un’umanità in continuità ontologica con gli animali e la
natura, priva di una posizione speciale nel mondo, che tende a ibridarsi e a
modificarsi con i suoi stessi prodotti tecnologici, modificando radicalmente
i suoi predicati e parzialmente la sua essenza. Il postumano come opera
aperta si contrappone, per principî e parametri, all’umano come opera
chiusa dell’umanesimo: è la piú grande mutazione che la nostra specie sta
per subire.
L’itinerario del viaggio è scandito da sette tappe che coincidono con i
prossimi paragrafi. Ma «anche quando pare di poche spanne, un viaggio
può restare senza ritorno» 2.

Prima tappa: definizione di postumano contemporaneo.

Il postumano contemporaneo è l’anticipazione di uno stato di cose futuro


ma di cui si cominciano già a vedere le cause nel “qui e ora”. Se il
postumano viene inteso, dopo le prime tre trasformazioni, come un’azione
congiunta di tre rivoluzioni contemporanee (etica, metafisica, e scienza) sul
concetto di umano, allora il risultato della mutazione è un mostro a tre teste.
Lo stato di cose anticipato è un umano che vive nel rispetto di ciò che si
trova fuori di lui, un fuori che vale anche per il singolo umano e dunque si
orienta verso i suoi “simili”, e che prende coscienza del suo essere
periferico e in relazione continuativa con gli altri. Secondo la World
Transhumanist Association si tratta di immaginare una specie «le cui
capacità superino radicalmente quelle presenti nell’umanità attuale in modo
da non essere piú intese come inequivocabilmente umane rispetto agli
standard attuali» 3. A questo punto, dato che il viaggio è iniziato e merita di
proseguire bene, ha senso distinguere e prendere le distanze dal
transumanesimo (abbreviato spesso in letteratura con il semplice simbolo
H+): il movimento filosofico che promuove un’azione sul concetto di
umanità attraverso la consapevolezza che le nuove scoperte scientifiche e
tecnologiche aumentano le capacità fisiche e cognitive migliorando certi
aspetti della condizione umana che, spesso giustamente, consideriamo
indesiderabili (malattia, invecchiamento ecc.). Si va dalla constatazione
amichevole che avere uno smartphone in tasca aumenti in modo smisurato
le potenzialità della nostra mente e della nostra conoscenza, e qualcuno
parlava in tempi non sospetti di “mente estesa” 4, fino agli immaginari
fantascientifici della raccolta di racconti Io, robot (1950) di Isaac Asimov
ora assunti come prospettiva quasi reale. Il transumanesimo, lungi dal
basarsi sulle tre trasformazioni che hanno preparato il nostro viaggio, è un
potenziamento delle paure e dei predicati di base di quell’antropocentrismo
che abbiamo descritto: un riaccentrarsi, attraverso l’uso della scienza e della
tecnica, volto a superare i limiti dell’antropocentrico che la filosofia ha
evidenziato. Questo restare umani, e dunque umanisti del transumanesimo,
è esplicito anche negli intenti di chi ha coniato la parola, mi riferisco al
genetista e scrittore Julian Huxley, che definisce il transumano come
«l’uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le
nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana» 5. Al
sodo dunque il transumanesimo non è niente piú che un superomismo in
salsa tecnologica: se Nietzsche avesse già vissuto la rivoluzione
dell’informazione avrebbe anticipato di un secolo tutto ciò. In questo senso
il transumanesimo non ha nulla di postumano, perché altro non è che un
saturare una presunta natura umana attraverso strumenti e prospettive che
banalmente non possedevamo in passato (pensiamo allo Human
enhancement) 6, caratterizzandosi dunque come un umanesimo
contemporaneo o prospettico. L’alterazione controllata della vecchiaia che
punta al superamento della morte altro non è che una sovversione
antropocentrica dell’equilibrio sistemico dell’ambiente: una cosa è
aumentare le proprie aspettative di vita con la ricerca medica, altra cosa è
sperare di diventare eterni e infinitamente potenti per dominare ogni aspetto
della realtà. Postumano e transumanesimo non solo sono diversi, non hanno
proprio nulla a che spartire 7; il che non significa che il postumano non veda
nell’uso della tecnologia un necessario e utile modificarsi della sua essenza:
il problema sta nei modi, non nei contenuti. Nella trasformazione che ormai
ci appare lontana, la prima, dedicata all’etica, l’invito era quello di pensare
il postumano piú come un monaco zen che come un ibrido mezzo-robot:
adesso siamo pronti a capire le ragioni di questa suggestione. E piú avanti
(nella settima tappa del viaggio) mostrerò anche come sia piú “ibrido” un
umano che medita nella posizione del loto, che uno con braccia bioniche e
occhiali che ampliano le potenzialità visive. Questa destinazione è anche
una ridefinizione per sgombrare il campo dalla confusione tra
postumanesimo e transumanesimo: l’immaginario di implicazioni tra arte
visiva, chirurgia plastica e ingegneria genetica, come detto, contribuisce a
far emergere un superamento dell’io che invece di depotenziare
l’antropocentrismo si costituisce, piuttosto, come un’esaltazione del super-
io. Il Post Human del critico e mercante d’arte Jeffrey Deitch era un Super
Human 8: una coatta correzione dei nostri difetti, che nulla muta del nostro
stare al mondo, e che non è connessa in alcun modo al nostro viaggio di
queste pagine. Se le tre trasformazioni non agiscono all’unisono qualsiasi
tipo di mutazione è preclusa: se non si è ragionato sull’etica, per esempio, il
rischio è quello di superare i limiti dell’umano per potenziare le nefandezze
su cui abbiamo già riflettuto insieme – e forse certi progetti abominevoli,
penso soprattutto all’ingegneria genetica applicata agli animali da macello,
altro non sono che un controargomento evidente al transumanesimo tradotto
in pratica di vita quotidiana. Dobbiamo iniziare a concepire Postumano
contemporaneo come una sorta di speciazione in atto 9: il processo evolutivo
grazie al quale si formano nuove specie a partire da quelle preesistenti. I
postumani sono una specie che deriva da Homo sapiens, che si è evoluta,
non nell’aspetto fisico, perché apparentemente indistinguibili dai
progenitori ma in comportamenti, capacità intellettuali e relazione con
l’ambiente. In accordo con l’analisi di Kevin Warwick 10 ritengo plausibile
che gli esseri umani e postumani siano già esistenti contemporaneamente ai
nostri giorni, ma che i primi siano ancora predominanti numericamente
anche se destinati a soccombere nelle società del futuro a causa delle loro
primitive capacità. In questo senso la teoria filosofica che propongo, il
postumano contemporaneo, serve a catturare il principio evolutivo di questa
specie a cui alcuni di noi potrebbero appartenere: diversi nelle usanze
alimentari, nelle relazioni con l’ambiente (ecologisti), e in infiniti altri
aspetti, alcuni umani hanno già abbandonato la loro specie di appartenenza
verso una nuova casa per il loro essere. Questa speciazione, in accordo con
Ernst Mayr, non essendo avvenuta per deriva genetica è quantomeno in atto
per selezione naturale: gli individui che sono stati in grado di adattarsi a un
nuovo habitat, il pianeta nell’epoca della fine delle risorse, sopravvivranno
a coloro che li hanno preceduti – ecco spiegato dunque, senza mezzi
termini, il senso della parola postumano, come già in parte evidente nel
Posthuman Manifesto di Robert Pepperell in cui si dava per certa «la
trasformazione della razza umana» 11. La specie che segue a Homo sapiens
in parte già conta i suoi primi esemplari che, essendo in minoranza,
ovviamente appaiono spesso disadattati. Il postumano, dunque, non come
mutazione ma come speciazione: è il tramonto dell’uomo 12, ovvero l’alba di
una nuova specie e che un giorno si darà un nome diverso cosciente che «le
specie viventi rappresentano solo una frazione dell’uno per cento della
totalità degli organismi di tutti i tipi che sono esistiti dalle origini a oggi» 13.
La vita è un’alternanza di forme prive di «gerarchie degli enti» 14: per
l’uomo sta arrivando il momento di lasciare spazio a qualcun altro.
Seconda tappa: una nuova etica

Presa coscienza della speciazione, e che molta della diversità di specie si


evidenzia attraverso i comportamenti come capacità di adattamento a un
certo habitat, resta da comprendere come si comportino questi postumani
contemporanei che stiamo cercando di descrivere. Siamo all’interno
dell’azione propulsiva della prima trasformazione sull’etica: ben oltre
l’antispecismo debole (che è solo un tassello del sistema), che ha
caratterizzato l’abbandono dell’antropocentrismo morale, si tratta ora di
intendere la body-oriented ethics (Boe) – un’etica orientata al corpo. Il
nuovo habitat in cui viviamo è un pianeta in piena “crisi ecologica”, una
situazione che si verifica quando l’ambiente di una specie è cambiato in
modo talmente radicale da destabilizzare la sua sopravvivenza. La crisi
ecologica contemporanea è data essenzialmente da due fattori: 1. la qualità
dell’ambiente è diminuita e non è adatta alle esigenze della specie Homo
sapiens a causa del cambio di un fattore abiotico-ecologico (l’aumento della
temperatura); 2. la situazione contingente ha reso sfavorevole la qualità
della vita della specie a causa dell’incremento esponenziale del numero dei
suoi esemplari (sovraffollamento) 15. La XXI Conferenza sul clima tenutasi
a Parigi, nell’autunno del 2015, ha rappresentato uno degli ultimi colpi di
coda dell’antropocentrismo nella gestione della crisi ecologica
depotenziando solo minimamente lo spreco di risorse dell’uomo; cosí, in
questo nuovo habitat, come capita durante molte crisi ecologiche secondo la
teoria evoluzionistica degli «equilibri punteggiati» 16, si sono create le
condizioni “pilota” ottimali per una rapida evoluzione di una nuova specie:
quella dei postumani contemporanei. L’etica che caratterizza la capacità di
adattamento al nuovo habitat da parte della nuova specie si basa sull’idea
che un’azione giusta, o almeno la migliore delle azioni possibili, sia quella
in cui un soggetto S non travalichi i limiti e i diritti di un corpo altrui (S1),
senza consenso, se non quando questo stesso travalicare si caratterizzi come
necessario (la sopravvivenza, per esempio). Se Peter Singer pone la
sensibilità al centro della sua teoria dell’azione etica, ovvero la capacità di
un corpo animale di percepire e non voler provare dolore, in questo caso si
tratta di rispettare un corpo in senso piú ampio. In quella che è una corrente
di pensiero ormai decennale, e che spesso poggia le sue fondamenta sulla
filosofia del corpo che Deleuze ricava da Spinoza, il corpo diventa il limite
invalicabile delle azioni morali. Postumano contemporaneo, speciazione
conseguente alle tre trasformazioni che abbiamo analizzato, è una rottura
formale dell’identità: al di là dell’appartenenza di genere, di etnia o di
specie, si situa un corpo, un corpo in continuo divenire. Nel contrattualismo
proposto da John Rawls, in cui il «velo di ignoranza» 17 è steso su tutte e
sole quelle capacità che non consentono a chi norma l’etica di essere giusti
con l’alterità, l’unica cosa che non possiamo mettere tra parentesi è il
possesso di un corpo. Il velo di ignoranza non è poi altro che un espediente
retorico che consente di capire quali siano le qualità e le assunzioni, su cui
appunto dobbiamo far finta di essere ignoranti, che non permettono di fare
etica in modo super partes.
L’habitat che ospita Homo sapiens è stato messo in crisi da un’etica
cieca al corpo dell’altro: dati alla mano, a massacrare climi e temperatura,
mari e cibi sono stati gli allevamenti intensivi 18, le loro emissioni di Co2, e
l’aumento della domanda di carne non appena anche “il Terzo Mondo” ha
avuto la possibilità di contribuire al mercato globale. Sul solco di questa
crisi si sono sviluppate delle risorse per una nuova specie non violenta, che
mai penserebbe di basare le proprie ecologie o economie sullo sfruttamento
animale come un umano primitivo, e che a partire dal corpo come
fondamento di tutte le cose sovverte anche molti altri tabú della specie che
si prepara ad abbandonare. La questione animale come fondamento
dell’etica postumana consente una rottura del concetto di “identità”
personale pronta a rivoluzionare le nostre idee sul genere, sui margini del
nostro spazio e sull’inizio di quello altrui: nel nuovo habitat sopravvivono i
postumani, nonostante le risorse in calo, perché è di meno risorse che hanno
bisogno. I cosiddetti Queer Studies, che fanno dell’identità di genere e
dell’orientamento sessuale migranti la loro essenza per definizione, si
innestano perfettamente in questo sistema: la nuova specie non discrimina il
sesso, le etnie o le preferenze del singolo – là dove esiste una relazione tra
corpi, libera e consenziente, nessuno può giudicarne la correttezza o
l’errore. Il principio secondo cui il corpo è limite delle azioni morali, posto
che la violenza è sempre implicata potenzialmente dallo stare al mondo,
fornisce l’indicazione di massima che orienta ad agire sempre e comunque
nel rispetto delle altre forme di vita perché il nostro destino si tiene entro un
unico affresco. Ben oltre l’animalità 19, abbracciando gli stessi ecosistemi e
la natura vegetale assai piú cosciente di ciò che pensiamo 20, l’etica orientata
ai corpi si caratterizza come il meccanismo adattivo della specie postumana
contemporanea. Il transumanesimo, nella sua volontà di dominio e
superamento, è ancora una volta ribaltato: servono meno risorse, e meno
saranno le azioni che il postumano si troverà a fare, perché sorpassare il
limite non significa forzarlo ma abbandonare i metodi che hanno portato
alla deriva. L’etica, la scienza del «movimento in quanto movimento» come
uno stormo di uccelli nei cieli 21, piú che la disciplina delle prescrizioni dei
comportamenti, si caratterizza per questa nuova specie che stiamo
descrivendo come un movimento orientato al movimento altrui – liberi di
agire, i postumani, si bloccano dove calpestano la vita che non gli
appartiene direttamente. Le forme di vita sono incommensurabili,
argomentava Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche (1953), e dunque
anche non misurabili da un punto di vista etico (anche etologico, come
vedremo nella sesta tappa di questo viaggio): la vita desacralizzata, come
sappiamo dall’utilitarismo contemporaneo, proprio perché priva di valore
intrinseco, va rispettata. Se il transumanesimo vede nel potenziamento dei
limiti umani una risorsa, il postumano è la presa di coscienza di un cambio
di rotta: non dobbiamo diventare immortali per continuare a fare in eterno
ciò che facciamo oggi, dobbiamo piuttosto imparare a vivere il nostro
tempo senza sprecarlo. Il postumano non è un obiettivo, come argomenta
Nick Bostrom 22, ma la storia contemporanea di una speciazione: il
postumano è intorno a noi, non si nutre di vita cosciente e non abusa della
natura, nemmeno attraverso la digitalizzazione del mondo. La Boe è l’unica
garante dello sviluppo della biodiversità e delle «pluralità cognitive» 23: la
differenziazione della vita, e dei suoi individui, all’interno dell’essere.
L’antropocentrismo, nei suoi tre assi portanti che abbiamo messo in
discussione, ha causato l’estinzione di un gran numero di specie: ogni anno
scompaiono dal pianeta tra le 17 000 e le 100 000 specie. Inutile dire,
arrivati a questo punto, che la velocità con cui le specie si estinguono è
molto piú celere rispetto al passato e che l’impronta dell’uomo, ingigantita
dalle immense potenzialità tecnologiche utilizzate nel peggiore dei modi, è
la causa principale di questa accelerazione. Dato che questa connessione
delle vite è forse l’insegnamento piú bello e profondo del postumano come
teoria, la perdita di specie in un ecosistema, e dunque la diminuzione di
biodiversità, finisce col riguardare anche tutte le creature viventi rimaste sul
pianeta. Se si estinguono gli squali, diminuiscono anche i molluschi; se i
molluschi svaniscono, la cubatura delle distese d’erba incontaminata, i letti
di erba 24, diminuisce e la qualità del mare è inficiata. Se attraverso un
meccanismo a cascata arrivassimo a mettere in crisi l’esistenza delle api
anche noi, lo sappiamo bene, nel giro di poco, finiremmo per scomparire.
Tutto è uno diceva Plotino, e forse piú che di metafisica parlava di ecologia:
la fine di Homo sapiens e l’inizio di Postumano contemporaneo sono un
bene per la conservazione generale della biodiversità. Una nuova umanità
che invece di consumare le risorse le usa, e che blocca la sua espansione
numerica smettendo di produrre la vita animale col solo scopo di uccidere e
inquinare, diventa non piú solo obiettivo argomentativo dei filosofi ma
soluzione unica alla vita che verrà.

Terza tappa: una nuova arte dell’interpretazione.

Torniamo per un attimo, per la terza tappa del nostro viaggio, a un


argomento decisamente piú filosofico: come il postumano contemporaneo si
situi al fianco di altre correnti filosofiche recenti. Intimamente connesso al
realismo speculativo, sul piano metafisico, il postumano è la presa di
coscienza della realtà in cui viviamo: le tre trasformazioni iniziali, del resto,
sono il passaggio delle falsificazioni storiche e filosofiche a delle certezze
in accordo col reale. Il realismo speculativo è un movimento della filosofia
contemporanea 25 contro le forme di correlazionismo dominanti (la filosofia
postkantiana) – Quentin Meillassoux, il piú celebre esponente del realismo
speculativo, definisce il correlazionismo come «l’idea secondo cui abbiamo
sempre e solo accesso alla correlazione tra pensiero ed essere, ma mai
all’ente in quanto ente considerato indipendentemente dagli altri» 26. Le
filosofie correlazioniste privilegiano l’ente umano, l’unico in grado di avere
un corretto accesso all’essere attraverso il pensiero: ecco di nuovo
l’antropocentrismo, e dunque ecco la connessione tra realismo speculativo e
postumano. Per essere realisti, come ho già avuto modo di dire 27, è
necessario mettere in crisi l’antropocentrismo: ogni forma di vita percepisce
la realtà a suo modo, e «una misura in proposito dovrebbe essere stabilita in
base al criterio della percezione esatta, cioè in base a un criterio che non
esiste» 28. Ecco dunque perché lo spostarsi dal centro è una questione
metafisica, ovvero una questione di abbandono dell’idea secondo cui sia
possibile conoscere solo il correlato di pensiero ed essere. In realtà sia
Meillassoux, che molti altri teorici come Graham Harman con la sua object-
oriented ontology (Ooo) 29, trascurano il fatto che davvero conosciamo
sempre e comunque le cose attraverso il filtro del nostro percepirle: il
problema del correlazionismo non risiede in questa constatazione, ma nel
passaggio da questo fenomeno all’argomento che esista solo ciò che
percepiamo come esistente. Il postumano contemporaneo, in tal senso,
incorpora e supera l’impasse del realismo speculativo: il mondo esiste fuori
da noi, ma ciò che conosciamo è l’interazione tra soggetto e oggetto che
chiamiamo ambiente. Due argomenti che molti hanno visto in opposizione
sono, in realtà, integrabili con profitto: proprio perché esiste una realtà è
possibile interpretare, e dunque fare ermeneutica, distinguendo tra migliori
e peggiori interpretazioni. Ogni forma di vita osserva la realtà attraverso la
propria dotazione cognitiva, eppure possono darsi diverse realtà quante
sono le dotazioni cognitive, proprio perché esiste un’unica realtà da
interpretare: realismo ed ermeneutica sono inscindibili. Come argomenta
Iain Hamilton Grant, che del realismo speculativo è un interprete originale,
quando andiamo su un piano metafisico è necessario passare dai corpi alla
materia: l’insieme di forze che governano la realtà al di là delle nostre
interpretazioni. Del resto, la specie Postumano contemporaneo, prende vita
proprio dall’analisi di un cambio di habitat che ci trascende e che
l’umanesimo, come forma estrema di antirealismo, tendeva a nascondere e
falsificare. Nel solco aperto dalla metafisica del realismo speculativo si è
innestato il movimento politico detto «accelerazionismo» che, individuando
il capitalismo come forma espressiva massima dell’antropocentrismo e
dell’antirealismo in atto, si propone di accelerarne i predicati dall’interno
fino a un collasso che porti a un cambiamento sociale radicale. L’idea che
mi preme evidenziare per mettere insieme i pezzi è questa: il capitalismo è
il modo attraverso cui Homo sapiens ha espresso l’antropocentrismo ai
danni del pianeta e della biodiversità − il Postumano contemporaneo non
può che essere anticapitalista nei suoi principî basilari. Se incorporiamo
l’accelerazionismo al postumanesimo, insieme al realismo speculativo,
tuttavia ricaviamo delle strategie e non soltanto delle suggestioni: posto che
decrescita, anarchia, ecologia profonda o ambientalismo, non hanno portato
da nessuna parte, perché non accelerare il processo di speciazione, e dunque
di estinzione di Homo sapiens e di ricostruzione di Postumano
contemporaneo? Perché piú che accelerare è necessario anticipare: una
teoria dell’anticipazionismo.

Quarta tappa: una teoria dell’anticipazione con arte e architettura.

La quarta tappa di questo nostro strano viaggio conduce il postumano


contemporaneo alla ricerca di alleati. Come fare emergere sin da subito la
diversità della nuova specie che nasce sulle macerie di Homo sapiens? La
filosofia, con la sua pur fitta argomentazione, sembra non bastare: propongo
di considerare l’alleanza tra filosofia, architettura e arte come una “teoria
dell’anticipazione”.
Una nuova forma di vita, come ogni forma di vita, ha bisogno di un
nuovo ambiente o, piú tecnicamente, di una struttura per la vita che si
sviluppa. Se l’habitat di Homo sapiens cede, e la sua riformulazione è
adatta per Postumano contemporaneo, resta comunque un problema
contingente: dove e in quale spazio i Postumani contemporanei di oggi
possono vivere le loro vite? Se l’economia e la politica restano cieche
all’ecologia, come sembra, e se la strategia dell’accelerazionismo radicale
non risulta niente di piú che una suggestione filosofica, l’anticipazionismo
sembra costituirsi come un’alternativa. Alla ricerca di alleati sviluppati
autonomamente, la mia teoria, in questa fase, ipotizza un riempimento degli
spazi lasciati vuoti o abbandonati dall’esubero dei consumi e dallo spreco di
risorse di Homo sapiens. E torna utile la nozione di Terzo paesaggio
sviluppata da Gilles Clément 30, secondo cui tutti i luoghi abbandonati
dall’uomo, ma anche i parchi e le riserve naturali, o le grandi aree disabitate
del pianeta, e anche gli spazi piú piccoli e diffusi semi-invisibili come le
aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie o le erbacce al
centro di un’aiuola spartitraffico, siano risorse fondamentali per la
conservazione della diversità biologica.
Sono spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati solo
dall’assenza di ogni attività umana ma che presi nel loro insieme risultano
di cruciale importanza per lo sviluppo della nuova specie. Dove diminuisce
l’impatto di Homo sapiens aumentano le possibilità di Postumano
contemporaneo: l’adozione di questi spazi vuoti, lasciati o tralasciati dal
capitalismo, è una prima realizzazione del nuovo habitat in cui la
speciazione andrà a trovare il suo luogo. La funzione simbolica del
mostrare ora come si vivrà poi − in cui cadono molti altri fenomeni
dell’etica umana come la disobbedienza civile o il vegetarianismo −, nel
nostro caso diventa essenziale. Nel 2005 Fernando García-Dory, entro una
cornice non troppo diversa rispetto a quella di Clément come qui la stiamo
declinando, inaugura la creazione interna alla Comission on Rural Arts di
una Rural Platform 31. Si tratta cioè di un progetto di arte contemporanea
interno alla dimensione di recupero di aree rurali dismesse (piattaforme
rurali, appunto), perché abbandonate in favore dell’urbanizzazione, che
alcune commissioni governative (in questo caso spagnole) possono avallare
consentendo la costruzione di residenze per artisti o microcomunità con
esplicito valore artistico. Nel 2010 il progetto prende forma con il nome
Inland - Campo Adentro concentrandosi sul trittico arte, agricoltura e
campagna. L’idea di García-Dory è di prendere in esame il ruolo dei
territori, la geopolitica e la cultura, in relazione ai rapporti tra città e
campagna oggi. Attraverso la pratica artistica contemporanea si recupera il
tema dell’utopia organizzata e si arriva ad analizzare il nostro modo di
interagire con la biosfera. Succede che in uno spazio abbandonato si
organizzino dei modi di vivere profondamente alternativi a quelli di Homo
sapiens: a basso impatto, e intimamente legati alla Natura, certi umani si
organizzano attraverso pratiche artistiche che in realtà sono gesti politici di
profonda rottura biologica.
Anticipare, in questa quarta tappa del viaggio, significa produrre adesso
spazi in cui sviluppare la forma di vita come se la speciazione fosse
avvenuta definitivamente. Certo l’arte e l’architettura, quando lavorano
insieme come un Giano bifronte, sono le migliori candidate per dare una
sostanza pratica e attuale alle teorie filosofiche 32 soprattutto se implicano
un cambiamento radicale nei cambiamenti e nei modi di pensarsi dei
soggetti coinvolti da queste stesse teorie. Lo vedremo a proposito
dell’ibridazione (settima tappa del viaggio), ma il postumano anche nelle
sue connotazioni piú basilari e diluite beneficia da molto tempo del lavoro
artistico: pensiamo a Bruce Nauman, Pierre Huyghe o anche alla nostrana
Lara Favaretto con i suoi innesti “fuori luogo” nelle discariche. Il motivo è
(quasi) banale: se indaghiamo l’immagine dell’uomo, ragioniamo meglio
per immagini artistiche che per concetti filosofici. Anticipando anche la
trasformazione dell’habitat in cui Postumano contemporaneo si troverà a
vivere dopo che il pianeta sarà stato massacrato dalla crisi ecologica
prodotta da Homo sapiens, il discorso appare dunque piú concreto.
Il Terzo paesaggio, come innesto di Postumano contemporaneo in tutti
quei luoghi abbandonati da Homo sapiens in cui la natura e la biodiversità
stanno riprendendo il loro posto, è l’inverso teoretico del “Grande spazio”
(Großraum) cosí come lo aveva formulato Carl Schmitt, ovvero l’obiettivo
ultimo di un umanesimo portato all’estremo attraverso il desiderio dal
“Nuovo Ordine” (Neue Ordnung). L’antropocentrismo locale che abbiamo
esplorato, soprattutto durante il geocentrismo, produce espansione a spese
dei propri vicini che scopriamo essere poi non “cosí vicini” perché
“subumani” (Untermenschen). Al contrario il postumano, proprio perché
della coesistenza con la biodiversità fa valore e prospettiva, crea isole
necessarie di sopravvivenza in un pianeta che crolla contro la sua volontà:
la scomparsa di Homo sapiens, ovviamente, è una sconfitta per tutti. La
speciazione avviene perché Homo sapiens ha superato i limiti che
l’ambiente impone, la realtà ha resistito 33, e il rimbalzo è stata una nuova
nascita che ora l’arte cerca semplicemente di descrivere e ospitare. Se
l’antropocentrismo locale si espande, o se viene superato attraverso il
superomismo o il transumanesimo, le conseguenze sono devastanti −
leggendo questo passo di Adolf Hitler, di fatto, non è difficile ritrovare le
parole di Nietzsche:

nei centri del mio nuovo Ordine verrà allevata una gioventú che spaventerà il mondo.
Io voglio una gioventú che compia grandi gesta, dominatrice, ardita, terribile. Gioventú
deve essere tutto questo. […] L’animale rapace, libero e dominatore, deve brillare
ancora dai suoi occhi. […] I giovani debbono imparare il senso del dominio. Debbono
imparare a vincere nelle prove piú difficili la paura della morte 34.

Le conseguenze dell’antropocentrismo, misurate in relazione allo spazio


e al suo controllo, sono sempre nefaste e violente: per questo è meglio
misurare sin da subito, attraverso l’anticipazionismo, quali sono i metodi di
relazione con l’ambiente di una certa forma di vita. Il motivo per cui è nel
Terzo paesaggio che vedo una prospettiva teorica per Postumano
contemporaneo è semplice: la natura che si riappropria degli spazi, la vita
che emerge dal basso e che va rispettata, la coesistenza con la
biodiversità… se Postumano contemporaneo vuole avere vita lunga deve
tradurre i presupposti teorici della sua speciazione in una buona pratica di
vita. L’architettura che si innesta nel verde, che integra e non distrugge, che
ospita e non isola, è la prospettiva che apre la teoria che stiamo utilizzando
come guida di questo nostro lungo viaggio. Anticipare per prevenire e
comprendere, oggi che la profezia di Martin Heidegger secondo cui
«l’ultimo uomo infuria per l’Europa» 35 − pensiamo agli scontri tra Medio
Oriente e Occidente contemporanei − sembra avverarsi attraverso conflitti
che hanno sempre piú il sapore di una “soluzione finale”.

Quinta tappa: la messa in crisi dell’etologia.

Dalla terza tappa del viaggio segue una paradossale implicazione su cui
ho volutamente sorvolato in precedenza: cadono i presupposti di certa
etologia come scienza. Sembra un evento collaterale della speciazione, ma
non lo è − e tutti i tentativi di definire postumano ed etologia in parallelo,
esattamente come abbiamo fatto per le sovrapposizioni tra postumano e
transumanesimo, vanno rigettati in vista di un nuovo canone del pensare
postumanista. Per etologia intendo soltanto l’estensione di quella che
Konrad Lorenz, utilizzando l’espressione vergleichende
Verhaltensforschung («ricerca comparata sul comportamento»), ha poi
contribuito a sviluppare come la scienza che studia il comportamento
animale nel suo ambiente naturale. Siamo nel 1974 quando Thomas Nagel
pubblica sulla «Philosophical Review» lo storico articolo What Is it Like to
Be a Bat? (Cosa si prova ad essere un pipistrello?) 36. Nonostante il suo
intento fosse diverso, e assai piú orientato a mettere in crisi un dibattito in
filosofia della mente che nulla aveva a che fare con l’etologia, le
implicazioni metaforiche della sua argomentazione fanno al caso nostro: per
quanto ci si possa sforzare a immaginarsi pipistrelli, comprendendo i
comportamenti di questa specie, al massimo possiamo capire cosa
proveremmo noi a essere pipistrelli ma mai, qui il punto, cosa prova un
pipistrello a essere un pipistrello. Una parte consistente
dell’antropocentrismo che abbiamo abbandonato si basa sull’umanizzazione
della diversità animale, piuttosto che sull’idea assurda che si possa
comprendere cosa vuole, pensa o desidera, una forma di vita aliena alla
nostra: è il canone dell’uomo vitruviano di Leonardo applicato dalla
geometria alla teoria della mente. Se non si mette in scacco anche questa
mossa, la partita è perduta: non possiamo sapere cosa significa essere ciò
che non siamo. Possiamo sognare di esserlo, ovvero abbandonare del tutto
la ragione per cominciare un processo di ibridazione (settima tappa), ma
come ha insegnato Sigmund Freud «il sogno è incoerente, riunisce senza
esitazione le piú grosse contraddizioni, ammette cose impossibili, trascura
le nostre cognizioni, cosí importanti durante il giorno, ci fa apparire
eticamente e moralmente ottusi» 37.
L’etologia ha un primo problema: se vuole funzionare, ovvero esaudire
gli stessi obiettivi che si è posta, non può studiare soltanto gli animali in
natura ma deve necessariamente beneficiare dello studio degli animali in
laboratorio. Mentre lo studio in natura, detto «ecologico», fa emergere i
comportamenti innati e dunque in teoria già individuabili all’interno del
patrimonio ereditario della specie, lo studio in laboratorio, che per principî e
parametri posiziona l’animale altrove ponendolo in situazioni nuove, mette
in luce le capacità di processare risposte diverse a stimoli diversi (le
possibilità di adattamento e apprendimento). Lo stesso Lorenz definiva gli
etologi che lavorano solo in condizioni ecologiche dei «contadini» e non a
caso, continuando col suo ragionamento, sosteneva che solo gli «etologi
cacciatori» 38 a cui lui stesso si ascriveva fanno vera scienza. Arrivati a una
caratterizzazione di Postumano contemporaneo come nuova specie non
violenta, un primo rifiuto dell’etologia emerge spontaneamente: l’idea che
si possa ingabbiare qualcuno per dimostrare che è intelligente, o addirittura
empatico come si è fatto per i violenti esperimenti a dimostrazione della
teoria sui neuroni specchio a danno dei macachi (gli esperimenti sono
invasivi, dolorosi, spesso mortali), si costituisce come un assurdo in
termini. Assurdo, ovviamente, se cominciamo a comprendere che l’azione
triplice delle tre trasformazioni iniziali rende la nuova specie in grado di
pensare eticamente e scientificamente allo stesso momento. Una scienza
cieca all’etica, pensiamo alla sperimentazione animale, non è vera scienza:
mira al futuro, certo, ma mai al progresso. La crisi di Homo sapiens è
profondamente legata alla sua incapacità storica di autolimitarsi, e
basterebbe riportare alla mente i racconti dei fisici che parteciparono al
Progetto Manhattan del 1942 con il quale il governo degli Stati Uniti si
proponeva di sviluppare la prima bomba nucleare, per coglierne la ricaduta
concreta. Il postumano invece si relaziona all’altrove, anche all’altrove
assoluto che è l’animalità come movimento di corpi diversi dal nostro, in
modo radicalmente diverso: non tutto si può conoscere, le nostre azioni
sull’altro si fermano dove l’altro è forzato, perché «ciò, che non possiamo
pensare, non possiamo pensare» 39.
Umanesimo e superomismo sono state due narrazioni dell’umano
concentrate sul superamento, sempre e comunque, dei nostri limiti: le
parole di Hitler che ho riportato nella tappa precedente, la critica di
Nietzsche all’ascetismo, Leonardo da Vinci che cerca di volare dove Icaro
era caduto. Il postumanesimo al contrario è la comprensione della positività
del concetto di “limite”: fermarsi, dove andare avanti significa violenza, è
l’unico vero e paradossale modo di progredire. Il nietzschiano radicale non
ci legga un ritorno a Socrate che beve la cicuta: i limiti sono delle risorse.
L’etologia non li accetta, li travalica, assume inconoscibili prospettive a cui
non può giungere che per astrazione. Siamo ben oltre la vulgata che deriva
dall’approccio di Jakob von Uexküll secondo cui la Umwelt, ovvero il
«mondo-ambiente» dell’animale, è un mondo chiuso in cui l’animale (tutti a
parte l’umano, nell’antropocentrismo di von Uexküll) è intrappolato. In
fondo von Uexküll sta proponendo una monadologia leibniziana in chiave
ecologica, ma sottraendo alla monade la capacità che tanto analizzò Husserl
negli studi su Leibniz di «possedere una finestra» rivolta all’esterno. Negare
certa etologia, magari considerandone invece ramificazioni piú evolute
come quelle di Frans de Waal, non significa negare alla specie Postumano
contemporaneo la possibilità dell’incontro con le alterità animali, e vegetali
ovviamente: sono le modalità che cambiano. Conoscere l’altro non è
studiarlo, quella è una vivisezione metaforica (e spesso reale) che non
coglie il punto: «anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo» 40,
sostiene Lao Tzu, e cosí anche la conoscenza dell’altro da sé comincia con
gesti molto meno invasivi. Tutto ciò − senza naturalmente alcuna
equivalenza tra l’etologia e pratiche assai piú violente −, è visibile in un
significativo ricordo di Slavoj Žižek:

Ricordo di aver visto la fotografia di un gatto sottoposto a un esperimento di


laboratorio in una centrifuga, con le ossa mezze rotte, il pelo mezzo strappato, gli occhi
che guardavano indifesi la macchina fotografica – questo è lo sguardo dell’Altro
disconosciuto, non solo dai filosofi, ma dagli esseri umani in quanto tali 41.
Quando dell’animale si fa uno strumento − in modo esplicito, come
nell’etologia comportamentista che considera gli animali come macchine
funzionanti per input e output, o solo tangenziale, come nell’approccio
cognitivo zooantropologico 42 −, lo sguardo dell’altro è disconosciuto del
tutto. Il postumano è una relazione che mira a imporre agli animali
tutt’altro: l’animalità intesa come «presenza a se stessi» di cui ho parlato
nella prima delle tre trasformazioni preliminari alla speciazione.

Sesta tappa: le geografie cartesiane.

Le geografie cartesiane sono ciò che ho già definito teorie di


organizzazione dello spazio 43 − dove lo spazio è da declinarsi a seconda del
contesto − basate su un principio binario. Mente/corpo, oriente/occidente,
bianco/nero, solo per fare qualche esempio e chiarire perché la
preoccupazione del postumano è sempre stata, dal Manifesto cyborg di
Donna Haraway in avanti, quella di sfidare le dicotomie proposte senza
sfumature. Questa tappa del viaggio è piú complessa, ma tuttavia
necessaria, per comprendere forme e prospettive della speciazione: in che
modo il postumano supera il pensiero binario? Prima di tutto si tratta di
comprendere qualcosa sul funzionamento logico del pensiero
antropocentrico basato, essenzialmente, su una logica in cui regnano
pochissime sfumature ma moltissime dicotomie: nella procedura
antropocentrica è ben rintracciabile una logica in cui le variabili possono
assumere solo i valori vero o falso e per cui le cose sono o bianche o nere.
La speciazione produce una forma di vita, quella di Postumano
contemporaneo, in cui i meccanismi logici sottesi al pensiero sono
profondamente diversi e in cui comprendiamo ciò che «è logico… ma non è
vero» 44. Di sistemi logici candidati a spiegare una forma di pensiero
alternativa a quella binaria, come l’intuizionismo o la logica quantistica 45,
ne abbiamo molti − non essendo questo un trattato di logica, tuttavia, mi
limito solo a puntualizzare che Postumano contemporaneo è una forma di
vita che processa le geografie cartesiane come delle divisioni fittizie. La
figura a cui pensare è il Tao, o Yin e Yang, che rappresenta un simbolo non
processabile entro una logica binaria: la coesistenza delle polarità
dell’essere in un unico e sfumato insieme che mostra l’unità degli opposti, e
la presenza di proprietà di un opposto già all’interno dell’altro. Il
postumano contemporaneo processa le opposizioni e le negazioni come
complementari: per avere «A» dobbiamo necessariamente avere «diverso
da A». Cosí tutte le dicotomie, a partire da quella su cui l’umanesimo ha
edificato se stesso che è quella uomo/animale, risultano forzature che non
tengono conto della struttura intrinseca della realtà. Il transumanesimo
(inutile dire dell’antropocentrismo) è un rafforzamento del sistema binario:
per eliminare le opposizioni si amplificano le proprietà degli enti in
contrasto. Vita e morte? Basta potenziare la vita e si allontana la morte
(aumentando la contraddizione presunta). Sulla comprensione che il mondo
non crea contraddizioni, ma offre complementarietà, si innesta la figura del
“monaco” come prototipo di Postumano contemporaneo. La scissione
cartesiana mente-corpo e le possibilità remote che gli enti piú legati possano
essere scissi fino a concepire dei cervelli in un vasca 46 e non entro un corpo
risiedono nella non comprensione dell’unità delle cose. Il monaco sa, col
Tao Te Ching (XXXIX), che «il fondamento dell’essere sta nel far parte
dell’Uno: l’anima è cosciente che se dentro di sé ha l’uno, allora gli esseri
che vivono dentro di sé hanno l’uno, il capo regge e organizza la società se
dentro di sé ha l’uno. Tutto ciò che è, è cosí per via dell’Uno». Essere
monaci, nel senso di richiamo di un’immagine completamente diversa da
quella a cui è associato il postumano solitamente, significa aver affrontato
molte tappe di questo nostro viaggio: significa imparare dagli animali,
contro l’etologia, non il loro comportamento ma la loro presenza e non
distacco nel mondo (animalità come meditazione); vuol dire comprendere
che in un habitat a risorse limitate bisogna esperire stili di vita che
consumino meno, piuttosto che stili di vita che aggirino il problema;
significa fare della propria esistenza stessa un’anticipazione. In questa sesta
tappa capiamo che tutto ciò che sapevamo sul postumano fino a questo
momento è falso, che l’immaginario della fine dell’antropocentrismo è
completamente diverso, e che ibridarsi all’altrove (prossima tappa) è
assumere la posizione del loto e non impiantarsi una testa di cavallo o di
automa al posto della propria. Superare il pensiero binario è piú complesso
di ciò che può subito apparire, ma solo se concepiamo l’assenza di
dicotomia possiamo comprendere l’ibridazione.
Nel 1964 Martin Heidegger, durante un’intervista televisiva 47 con
Bhikkhu Maha Mani, monaco buddhista thailandese, ribadisce che tutta la
sua filosofia, che considera essere il punto piú alto della filosofia
occidentale, si risolve in contrasto col buddhismo nella concezione che vede
l’essere umano come ente privilegiato dell’essere perché in grado di parlare
− e dunque profondamente diverso da piante e animali. Heidegger dice una
cosa vera e una falsa: l’antropocentrismo è davvero la firma della filosofia
occidentale, ma la definizione di uomo come «animale parlante» non è
pienamente giustificabile. Evitando di riproporre qui gli studi della
cognizione animale che ha dimostrato in ogni modo che esistono animali
parlanti, e uomini non parlanti (gli afasici, per esempio), ciò che deve essere
chiaro è perché la dicotomia piú ampia che va messa in discussione è
ancora una volta quella tra umano e animale.

Settima tappa: l’ibridazione.

Se superiamo la logica binaria siamo pronti ad affrontare l’ibridazione.


Forse il concetto piú strumentalizzato dell’immaginario transumanista e
postumano, l’ibridazione non è quel complesso di immagini confuse che
richiamano umani metà animali, né con protesi meccaniche sparse per il
corpo. O, meglio, è anche quello: ma non basta una protesi per fare un
uomo nuovo (altrimenti basterebbe avere la sfortuna di possedere un bypass
per diventare postumani). Per di piú, se il postumano potesse essere
descritto dall’immagine di un uomo con protesi, il dilemma della Sfinge
descriverebbe già un uomo postumano, generando un cortocircuito che
eviterei di esplicitare. Nel 1993 Richard Dawkins propone la suggestiva
immagine dello “umanzé”, un ibrido tra uomo e scimpanzé.
Dawkins sfida in modo deciso e provocatorio il confine di specie,
proponendo per esperimento mentale un caso non dissimile da quello del
mulo: un ibrido sterile a causa del corredo cromosomico dispari di 63
cromosomi derivante dall’incrocio tra l’asino stallone (31 coppie di
cromosomi) e la cavalla (32 coppie di cromosomi). Catalogare una figura
come quella dell’“umanzé” con la logica binaria, cioè provare a inserirlo o
nell’insieme degli scimpanzé o in quello degli umani, non si può 48: ecco
perché è necessario superare il pensiero binario per intraprendere la strada
dell’ibridazione. A partire dall’esempio di Dawkins definisco l’ibridazione
− catturata meglio dall’immagine di un mulo che dalle suggestioni artistiche
di Katja Novitskova − come un’operazione di somma intesa non come
dottrina delle parti potenziali ma degli interi potenziali. Gli interi sconnessi
non possono essere intesi come entità attuali ma solo come entità potenziali
che esisterebbero in atto solo se venissero assemblate in una forma
opportuna 49; questo il motivo per cui un uomo con una coda di cavallo, o
con un occhio bionico, non è un ibrido. Punto cruciale questo, perché il
postumano nell’immaginario artistico filosofico è stato pensato fin qui
intendendo l’ibridazione come una somma di entità diverse per parti
potenziali: nulla di piú sbagliato. L’ibrido, come il tutto nella dottrina
aristotelica, non coincide con la somma della parti: è una terza entità nuova.
Ma perché il postumano è tanto connesso alla dottrina dell’ibridazione?
Postumano contemporaneo, lungi dall’essere un ibrido, è metafora di una
nuova specie: l’ibridazione è al piú uno strumento per comprendere che la
vita è sfumata e non pone netti confini; un elemento di rottura, e
ovviamente di sperimentazione artistica e concettuale, che serve alla messa
in crisi del pensiero identitario (ontologia) e binario (epistemologia) senza
però che il postumano stesso venga descritto come un ibrido. Che
l’ibridazione possa essere intesa − ripenso alle piú recenti ricerche sul
postumano come quelle già citate di Rosi Braidotti − come la distruzione
delle distinzioni categoriche tra umani e altre specie (dai semi alle piante,
fino ad animali e batteri) è un dato parzialmente falso: perché è sempre e
comunque all’ibridazione come innesto che si è pensato. Mentre l’ibrido,
insegna il mulo, è una nuova specie che dunque, al massimo, crea una
nuova categoria. Il discorso cambia nella misura in cui si usa l’ibridazione
come strumento di sovversione di certe ontologie sociali, come ha fatto per
esempio Judith Butler in relazione al genere, dicendo che la maggior parte
delle tassonomie sul vivente ragionano per convenzioni fallaci. Ma
l’ibridazione che ha in mente il postumano tradizionale è al piú da
intendersi come una Hurtigruten: la storica nave postale norvegese che può
“spaccare i fiordi” quando il passaggio le è ostruito. L’ibridazione è una
rottura, una piattaforma di sperimentazione delle arti perlopiú visive, che
trasformano una teoria filosofica in un fotogramma che anticipa non la
forma di vita che verrà, ma il modo in cui il postumano contemporaneo
vedrà le forme di vita che verranno. Punto arzigogolato ma fondamentale:
non è che il futuro è fatto di farfalle mezze topo, o di uomini con ali di
aquila, come le ricerche sul postumano assai confusamente hanno
trasmesso. Ciò che segue all’umanesimo è sempre lo stesso mondo, ma
senza abusi e domini di Homo sapiens, e in cui sarà possibile vedere le
forme di vita come in un rapporto di continuo debito-credito reciproco. Se
con l’esempio di Dawkins ho definito un’ibridazione forte qui sto parlando,
diciamo cosí, di un’ibridazione debole: ogni ente vivente è un continuo con
altri enti. L’ibridazione debole è l’immagine della vita come una retta reale,
un insieme totalmente ordinato (densamente ordinato) in cui tra due estremi
dell’insieme di punti c’è sempre un terzo elemento compreso fra i primi
due 50; tale retta che è la vita non ha “buchi”, perché è essenzialmente una
struttura 51: un flusso dinamico, l’esistenza, in cui si è debolmente ibridi con
tutti ma in cui l’ibridazione forte è un’altra cosa; la confusione ha generato
pessime filosofie, e ha rallentato il progresso di Postumano contemporaneo.

Mappa e rotta unitaria.

Con l’ultima tappa la rotta è tracciata sulla mappa. Seguita la speciazione


è ora necessario comprendere direzioni, prospettive e concetti, di questa
nuova teoria che si affaccia sul panorama filosofico costituito dalle “teorie
sull’uomo” (Human Studies). Mi pare che un buon sunto del percorso sia
questo:

Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come


implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta
dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come
essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare
prima, ma non che possano finire dopo di noi 52.

Il postumano contemporaneo è l’ammissione del “dopo di noi” senza che


tutto ciò implichi un qualche scenario apocalittico: la consapevolezza che
ogni cosa ha il suo tempo e che Homo sapiens, con le sue pratiche, ha
semplicemente consumato l’habitat necessario al proseguimento del suo
stare al mondo. Il futuro è di Postumano contemporaneo, come avevamo
pensato esserlo in passato del postmoderno: e forse prima di andare avanti
ha senso una distinzione tra i due movimenti. Spesso accomunati, infatti,
esprimono premesse simili ma conclusioni radicalmente diverse: il
postmoderno come superamento della razionalità ha portato
all’antropocentrismo piú radicale − il mondo è sempre frutto
dell’interpretazione umana 53. Come ormai sappiamo, al contrario, da questa
assunzione il postumano declina un mondo che ci trascende: «Un mondo di
intensità pure, in cui tutte le forme si dissolvono, e con loro tutte le
significazioni, significanti e significati, a vantaggio di una materia non
formata, di flussi deterritorializzati, di segni significanti. […] Nient’altro
che movimenti, vibrazioni, soglie in una materia deserta» 54. Si tratta dunque
di delineare una mappa per una rotta che sia nomade per definizione, come
una vita che attende di lasciare spazio a un’altra sua forma, speciazione o
trasformazione che sia, ma che è sempre e comunque nomade. Come
afferma Deleuze «se i nomadi ci hanno interessato è perché sono essi stessi
un divenire e non fanno parte della storia; ne sono esclusi, ma attraverso
una metamorfosi, ricompaiono in modo diverso, sotto forme inattese nelle
linee di fuga di un campo sociale» 55. Postumano contemporaneo osserva un
mondo in divenire, distingue tra i confini reali e quelli convenzionali: non
c’è spazio per le guerre a cui Homo sapiens si era assuefatto
naturalizzandole. Come afferma il Camillo dei Cenci di Antonin Artaud: «Il
mondo è debole, aspira alla pace» 56. Questa del postumano contemporaneo
è la vera rivoluzione che ci attende, contro la retorica 57 che individua
nell’epoca di internet un qualche cambiamento strutturale dell’umano, che
invece altro non è che la saturazione sotto altri metodi della nostra piú
antica natura. Mentre qui sto cercando di descrivere una figura che sta
all’umano piú o meno come l’anacoluto sta alla frase: ne rompe la sintassi.
Tutto cambia, di nuovo, nelle manifestazioni estrinseche di quello che
Hegel definiva «il Fondamento»: «l’Essenza essente entro sé, e questa è
essenzialmente Fondamento solo nella misura in cui è Fondamento di
Qualcosa, di un Altro» 58. La vita continua a scorrere e le sue forme si
alternano, un vivente lascia spazio al prossimo che lo segue, spesso
inseguendolo, in questo progetto senza architetto che è l’universo come
insieme di tutte le cose: l’ontologia orientata a quella che la Haraway
chiama «Chthulucene» 59 (l’epoca dove tutti i venti sono legati in modo
tentacolare). Il «Fondamento è ciò che rende possibile l’intera vita degli
enti» 60, ed è l’unica cosa a cui possiamo aggrapparci ma che
inevitabilmente ci trascende: le cose viventi sono «usate dalla “natura”, che
verifica attraverso le loro trasformazioni tutte le possibilità di cui
dispone» 61. Le possibilità di trasformazione sono imprevedibili, sono atti e
mai azioni, perché per quanto vorremmo prevederne i flussi siamo costretti
a stupirci. La filosofia contemporanea è piena di tentativi di anticipazione di
una vita umana che verrà, dal recupero della forma di vita che segue la
regola (Wittgenstein) monastica proposta da Agamben 62, fino alle teorie
anarchiche piú radicali. Verrebbe da dire, con Fausto Melotti: «I frati, il
convento, la quiete monacale; ma bisogna ubbidire alla regola, al priore, al
vescovo. L’ideale sarebbe un convento di anarchici di buon cuore» 63.
E allora dove sta la novità? Nell’abbandono: l’uomo muore. Muore
perché il suo sistema immunitario non è piú in grado di distinguere le
strutture endogene o esogene che non costituiscono pericolo (il self) dalle
strutture endogene o esogene dannose per l’organismo e che devono quindi
essere eliminate (il non-self). L’umanità come concetto che ha regolato le
nostre vite durante l’antropocentrismo ha fatto impazzire il nostro sistema
immunitario di specie causando una nefasta autoimmunità: i confini tra il
self e il non-self sono saltati nel peggiore dei modi. L’allungarsi della nostra
vita, sommato alle condizioni ambientali che abbiamo creato e che qui ho
descritto, ha dato origine a una ribellione che è venuta dall’interno. Ma il
divenire postumano, che poi è l’unica cosa che riusciamo davvero a
comprendere del divenire animale di Gilles Deleuze, è una speciazione che
mira all’immanenza: mettiamo lo stesso “io” alle strette, lo lasciamo
indietro, diventiamo un immenso “noi” con il mondo vivente. È
innanzitutto la messa in discussione che l’io si costruisca con e attraverso
l’opposizione all’altro perché «l’uomo guarda sempre attraverso la propria
ignoranza e la propria paura» 64. Postumano contemporaneo guarda già,
perché è già in mezzo a noi (è qualcuno di noi), attraverso le paure e le
ignoranze di tutti. Se siamo in grado di considerare unitaria la nostra sorte
con quella degli altri viventi la speciazione è compiuta: siamo cellule di un
unico corpo spinoziano, e «anche loro, per esistere, han bisogno di
riunirsi» 65 − è la nostra morte a garantire l’immortalità del tutto.
Capitolo quinto
Gestire la speciazione: progetto e filosofia

Tu pensi che la filosofia sia difficile ma, credimi, non c’è niente di piú difficile che
essere un buon architetto.

LUDWIG WITTGENSTEIN

Progettarsi.

Compiuto il passaggio definitivo si tratta di comprendere come gestirlo.


Facciamo un esperimento mentale e ammettiamo che noi siamo parte di
questa nuova specie che è già esistente e apparentemente indistinguibile a
Homo sapiens. Come gestiamo questo privilegio? Come ci progettiamo?
Innanzitutto l’esperimento mentale prevede una condizione essenziale:
qualcuno dice a noi, solo a noi, che siamo postumani contemporanei senza
dirci chi altro lo è. Questo sentirsi di un’altra specie serve proprio a
comprendere il valore della prima rivoluzione, quella antispecista, anche in
questa situazione di solitudine biologica. In fondo tra noi e l’ibrido di
Dawkins non c’è tutta questa differenza: abbiamo superato una soglia e
abbiamo il compito di indicare una strada. Questa posizione ci pone nella
prospettiva di architetti, o meglio di progettisti, nei confronti del mondo e
dell’ambiente che dovremo abitare. La relazione del progettista rispetto al
mondo è quella tra la matita e il foglio di carta bianco dove, tuttavia, questo
foglio di carta è un’opera aperta soggetta ai limiti tra interpretazione e
sovrainterpretazione proprio come avveniva nel sistema semiologico di
Umberto Eco. Le sovrainterpretazioni del mondo sono quelle che hanno
condotto l’antropocentrismo a sovraccaricare il sistema-ambiente fino al
suo collasso, mentre le interpretazioni sono il sintomo della libertà del
progettista laddove sceglie di non superare questi limiti. Anche Postumano
contemporaneo, come il mondo che si trova a progettare, è un’opera aperta 1
di cui dobbiamo intuire i confini.
Divideremo il progetto «postumano contemporaneo» in tre fasi: 1. fase
di preparazione; 2. fase di realizzazione; 3. fase finale del progetto.

Fase di preparazione.

Questa fase permette di conoscere il progetto e di studiarne l’obiettivo per assicurarsi


che la sua realizzazione sia pertinente e che rientri nella strategia filosofica. Questo
momento di Pre-Progetto deve concludersi con l’elaborazione di un indice che tracci le
condizioni organizzative dello svolgimento del progetto stesso.

Il Pre-Progetto (PP) è dato essenzialmente dal percorso che ci ha


condotto fin qui, e le sette tappe ne costituiscono il nucleo strutturale. Resta
da capire quale sia l’obiettivo e quanto sia pertinente alla strategia filosofica
del superamento definitivo dell’antropocentrismo.
Il primo problema è banale: non è forse ancora antropocentrismo un
progetto sul mondo? No, non lo è. Nel senso che l’antropocentrismo da cui
si deve uscire è quello che condiziona ciò che non ci appartiene e lo piega al
nostro modo di vivere e voler vivere; l’antropocentrismo in cui l’umano
capisce come vivere, e ne fa progetto, è piú o meno come il leopardismo o il
gattismo − ogni specie pensa in quanto meccanismo specie-specifico.
Capiamo ora qualcosa sull’obiettivo e sulle condizioni organizzative per
raggiungerlo. L’obiettivo è che la nuova specie che prende il posto di Homo
sapiens riesca a vivere nel pianeta senza mettere in discussione l’habitat ma
facendo tesoro dell’evoluzione culturale e tecnologica che paradossalmente
ha portato Homo sapiens alla sua stessa possibile estinzione futura 2. La
speciazione in atto è una «speciazione simpatrica»: due popolazioni si
evolvono separatamente pur vivendo nello stesso territorio. E sta avvenendo
in modo silenzioso e impercettibile. L’isolamento ecologico, infatti, come
ho mostrato nelle diverse tappe del viaggio, è dovuto al fatto che le
popolazioni occupano nicchie ecologiche differenti. Come sappiamo gli
umani appartengono al genere Homo, di cui i Sapiens costituiscono solo
l’ultimo prodotto evolutivo; in successione temporale: Homo habilis; Homo
georgicus; Homo erectus; Homo antecessor; Homo heidelbergensis; Homo
neanderthalensis; Homo floresiensis; e, infine, Homo sapiens (comparso
circa 200 000 anni fa) 3. Non deve dunque stupire che dopo duecentomila
anni Sapiens abbia fatto il suo tempo e che per quanto il mio sia un discorso
puramente filosofico e non biologico (verosimile ma non necessariamente
vero) possa essere portato avanti. All’interno del mio esperimento mentale
noi siamo gli unici a sapere di far parte della popolazione in cui sta
avvenendo la speciazione: come ci comportiamo? Tracciare le condizioni
organizzative significa capire la fattibilità di un progetto: non potendo certo
accelerare la speciazione, come ho già mostrato discutendo i limiti
dell’accelerazionismo, si tratta di prendere per buona la rotta intrapresa
nella quarta tappa del viaggio precedente (sull’anticipazionismo appunto)
considerando il ruolo dei microspazi. Ammettiamo che ognuno di voi,
solitario nel suo aver scoperto di appartenere a Postumano contemporaneo e
non a Homo sapiens, decida di mettersi in contatto con propri simili: dove
andrebbe a cercarli? Probabilmente casi come quello del già citato
Fernando García-Dory indicano una buona strada − nicchie ecologiche
entro cui Postumano contemporaneo può respirare la sua propria aria. La
commistione tra postumano e architettura comincia da lontano, e per ovvi
motivi: se stiamo parlando di una nuova forma di vita dobbiamo
comprendere quale sia il suo spazio. Siamo nel 2004 e il teorico della
geografia Bruce Braun inaugura il seminario The Posthuman City presso
l’Università del Minnesota. Il postumano non è ancora un movimento
maturo eppure si comincia già a discutere di posthuman turn. Braun parte
da un’intuizione: se lo spazio privilegiato di vita per Homo sapiens è la
città, cosa succederà alle città stesse in una situazione di post-umanità?
Secondo Braun il postumano è uno spazio in cui non solo scompare Homo
sapiens, ma qualsiasi ominide: è attraverso la descrizione visionaria di una
Parigi piena di animali e piante selvagge del fotografo Chris Morin (nella
sua collezione di paesaggi postumani Once upon a time… tomorrow) che
possiamo capire ancora una volta quale sia stato il problema del
postumanesimo delle origini.
Ciò che non va, in questa immagine, è che la città post-umana è senza
umani. Ammettiamo pure che questo sia uno scenario possibile, esattamente
come sta accadendo a Černobyl′ che, abbandonata dagli umani, è oggi un
sito di biodiversità incontenibile. Eppure resta l’amaro in bocca 4 perché si
parla di un nostro possibile diverso destino, ma che tuttavia non riguarda
piú noi. La filosofia del “se, allora” è invece interessante soltanto quando
discute di noi, del nostro “poi”, e del nostro “però”. Se non si vuole
prendere per buono l’estinzionismo, come nel mio caso, e se la città che era
l’habitat degli umani si presenterà cosí, dove dovremmo andare a cercare i
postumani contemporanei? Nelle microcomunità di cui oggi abbiamo già
centinaia di esempi (detto di passaggio: sono un’estensione di ciò che
Wittgenstein descrive nella proposizione 5.63 del Tractatus, ovvero il
«microcosmo»). Le microcomunità sono dei luoghi, costruiti in analogia
con la teoria del Terzo paesaggio già ricordata, in cui i postumani
contemporanei si organizzano per vivere in accordo a dei principî banali: la
rinnovata integrazione della natura, predilezione per attività culturali,
nessuna discriminazione di tipo morale, organizzazione dei ruoli in accordo
con le competenze e i desideri. Non si tratta di un’utopia ma di una
condizione necessaria: conclusa la specie scomparsa per sovraffollamento i
postumani contemporanei, che occuperanno posizioni assai ridotte del
pianeta, dovranno imparare a vivere in spazi completamente diversi. Non è
neanche questione di discutere di società perfette, entro una tradizione che
comincia in Occidente almeno con Platone: anche i postumani
contemporanei avranno una loro politica, le loro liti, e le loro questioni sulla
migliore struttura governativa da intraprendere. Qui siamo a un livello
precedente: dove e come vivremo dopo? La risposta, che deve guidare il
contesto del progetto, è in spazi integrati in natura abbastanza ristretti da
garantire lo sviluppo di microcomunità. Triste sarà senza dubbio
l’abbandono: in fondo sapere di essere di un’altra specie, e di dover vivere
in un altro habitat, non è dissimile dal distacco che proviamo nei confronti
della famiglia di origine. Jacques Derrida, ragionando su Platone, ha
mostrato in vari modi la duplice valenza della parola «farmaco»
(ϕάρμακον) che significa sia «veleno» che «medicina». In questo modo
viene caratterizzata la scrittura nel Fedro, e in questo modo è da intendersi
la filosofia: come qualcosa che mentre cura avvelena, cancella una parte di
ciò che siamo stati, e spinge ad abbandonare qualcosa di cui prima ci
sentivamo parte integrante.
La metafora dell’architettura, come quella della costruzione di
microcomunità, è necessaria una volta preso atto che non si può che pensare
per immagini, il che significa almeno tre cose 5: a) pensiamo l’astratto
attraverso il concreto; b) quando pensiamo non possiamo farlo attraverso
una sorta di vuoto cognitivo; c) non si possono rappresentare a priori i dati
sensibili. Entro questa cornice si comprende perché è necessario l’esempio
di un nuovo spazio nella fase di progettazione del postumano: abbiamo
bisogno del concreto per comprendere l’astratto.

Fase di realizzazione.

Si tratta della fase operativa di creazione dell’opera. In architettura è gestita dal


realizzatore in collaborazione con la committenza. Questa fase nel nostro caso comincia
con la ricezione della teoria filosofica e si chiude con la consegna dell’opera.

Qualsiasi cosa si pensi la nostra è tutto fuorché una società


completamente liquida, ma c’è una tesi di Zygmunt Bauman che resta vera
a prescindere da questa mia considerazione: «Con la messa in crisi del
concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è
piú compagno di strada di ciascuno ma antagonista, da cui guardarsi» 6. Il
problema è che tutto ciò è capitato proprio perché la nostra è una società
robusta, basata su un concetto prototipico di essere umano, di dignità
dell’uomo, e di aspettative umane. (Una volta in metropolitana a Parigi ho
visto una pubblicità che recitava cosí «COSA SAREBBE L’UOMO SENZA
DIGNITÀ? » − e francamente non l’ho ancora capita). Che poi gli strumenti
del robusto possano essere liquidi è possibile, ma la perdita di comunità è
esattamente il motivo di questo esperimento mentale progettuale. Siamo
adesso all’interno della fase di creazione dell’opera: come si mette in
pratica la filosofia? Abbiamo ridotto il contesto al microspazio perché non
deve sembrare apocalittico immaginare che conclusa la parabola di Homo
sapiens la nuova specie possa avere come fine «il nascondimento dal
mondo, l’esilio nel deserto, il seppellimento nel chiostro, e l’orgoglio del
silenzio» 7. Non deve sembrare apocalittico perché è uno scenario che
semplicemente capiterà, presto o tardi, e cui i postumani contemporanei
protagonisti di questo esperimento mentale devono prepararsi senza
nessuna coscienza infelice: anche la felicità, ovvero “questa felicità”, è stata
un prodotto dell’antropocentrismo. Siamo nel 1845, nel Massachusetts, nei
dintorni della cittadina di Concord sulle sponde del lago Walden. Uno dei
primi a venire avvisati della sua differenza di specie è Henry David
Thoreau: tra i piú grandi e incompresi filosofi di tutti i tempi 8. Solo, e senza
certezze sui propri simili, Thoreau, prima di compiere trent’anni, decide di
ritirarsi dalla città e di cominciare a sperimentare per due anni una vita nel
microspazio. La sua capanna lo costringerà a uno stile di vita in cui gli
animali e le piante, le persone e le cose, le stagioni e i ritmi della natura
rientreranno in modo preponderante all’interno delle sue preoccupazioni. Al
contrario di ciò che si crede Thoreau non è un primitivista ma un amante
della compagnia, della comunità, e della società: appassionato di
tecnologia, e addirittura di commercio, ha cominciato a sperimentare, in
tempi non sospetti, una possibile soluzione a quella che all’epoca era una
“semplice” rivoluzione industriale. Il progetto di Thoreau è in perfetto
accordo con l’esito del viaggio condotto in queste pagine perché tiene conto
delle tre trasformazioni iniziali e delle conseguenze della loro azione
simultanea. Vale la pena di ripetere che il postumano, se proprio dobbiamo
ricavarne un’immagine, è piú simile al monaco zen che al cyborg, come
umano ipertecnologico e indistinguibile dalla macchina della Haraway:
Thoreau è stato una specie di monaco zen dell’Occidente. La ricezione di
una teoria filosofica come questa, che ha diversi primordiali antenati come
il trascendentalismo americano a cui si ispirava Thoreau, inizia non quando
cominciano le sue citazioni, ma quando le vite che la recepiscono iniziano a
cambiare. Una filosofia priva di conseguenze sul corpo, sulle azioni e sui
modi di vivere, non è né buona né cattiva filosofia: semplicemente non è
filosofia.
Il microspazio è in realtà immenso, e qualsiasi spazio se paragonato
all’universo è sempre minuscolo, si tratta dunque di capire che c’è una
possibilità per ciò che segue all’umanità di vivere come parte dell’ambiente
e non come suo cancro o malattia immunitaria. La capanna di Thoreau è
una metafora spaziale 9, si smette di cercare il futuro sfidando l’alto ma si
ricomincia a guardare le cose in orizzontale: le tre rivoluzioni agiscono su
tre diversi desideri di verticalizzazione, laddove è sempre quella angoscia
da posizione eretta di cui ho detto con Kafka a farla da padrona. Il
paradosso è che Thoreau che vive da solo nella sua capanna è meno
soggetto all’individualismo denunciato da Eco che un umano al centro di
Manhattan: la comunità non è compagnia, massa o mucchio, la comunità è
una terza persona superiore alla somma delle sue parti.
Siamo in una fase cruciale della realizzazione: l’anticipo. Ancora una
volta, l’anticipo. Il motivo per cui non basta Thoreau è evidente:
l’antropocentrismo alla sua epoca era ancora una creatura piccola e semi-
innocente, banalmente perché si situava entro la promessa (poi disattesa)
del benessere inesauribile per gli esseri umani. Thoreau aveva avvertito il
problema, e infatti non era fuggito ma aveva agito all’interno del simbolico
mostrando che si può già vivere, nel qui e ora, come un giorno dovremmo e
vorremmo vivere. La filosofia politica, che anche quando si compie un
discorso speculativo a un certo punto viene a galla, è spesso un vuoto
parlare perché non prende coscienza che questo mondo, semplicemente,
non lo si può cambiare ex abrupto. Tutti vorremmo essere abolizionisti nei
confronti di certe pratiche, ma non possiamo che esserlo col cuore: il vero
spazio del cambiamento è il simbolico, il suo interno, e le sue potenzialità.
Il nostro esperimento mentale del resto ha un che di tragico: non siamo
rivoluzionari ma degli “esemplari” di una nuova specie che deve trovare il
suo modo di sopravvivere al disastro ambientale che la specie di
provenienza ha causato. L’evoluzione è un labirinto di strade: vieni da una
parte e ti sai orientare, ma se giungi allo stesso punto da un’altra parte non
ti raccapezzi piú. Per questo il passaggio, cosí epocale, merita una
preparazione filosofica e non soltanto biologica − «la filosofia non è una
delle scienze naturali. (La parola “filosofia” deve significare qualcosa che
sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali)» 10.
Recepita la teoria filosofica sul “postumano contemporaneo” può
cominciare la consegna dell’opera biologica omonima − lo spazio del
progetto per adesso è quello del simbolico, di una capanna sul lago, o di una
residenza per artisti in cui si comincia a sperimentare una nuova forma per
una vita ancora in fieri.

Fase finale del progetto.

Si tratta della produzione dell’opera: assicurare che l’opera sia conforme alle attese
degli utenti e far sí che la sua “installazione” e la sua utilizzazione si svolgano
correttamente. Dato che il realizzatore, ovvero il filosofo, conosce il prodotto che ha
elaborato l’installazione spetterà a lui.
Produrre l’opera significa capire, una volta realizzata, se è ciò che ci si
aspettava dal progetto: se sí, allora il filosofo deve dare un posto nel mondo
anche a questa nuova creatura. Perché Thoreau sta solo due anni sul lago
Walden? Perché, in sostanza, ritorna in città rientrando in quella che in
questo esperimento mentale si manifesta come una comunità di specie che
non gli apparteneva, abbandonando la Natura (che pure, lo sappiamo, non
ha davvero niente di naturale 11)? «La felicità è reale solo quand’è
condivisa» 12 sarebbe già una buona risposta, ma ovviamente non basta.
Finché questa nuova specie e Homo sapiens convivono ha senso darsi da
fare per cooperare: l’eccezione dell’isolamento assume un significato solo
se serve a rientrare in società con un nuovo e rinnovato spirito. «Larghi
territori dei Balcani sono una camera di tortura» 13, scriveva Horkheimer, e
non ci si può lavare le mani rispetto a tutto ciò con la scusa di appartenere a
un’altra specie. Se la produzione dell’opera portasse a tali risultati ci
sarebbe poco da festeggiare.
Come si installano dunque la vita e le nicchie ecologiche postumane
all’interno dell’habitat di Homo sapiens? In realtà esiste già un atlante di
architetture scomparse che cominciano a riapparire proprio come gesti di
resistenza che fanno al caso nostro: orti urbani, occupazione e
trasformazione di case, autocostruzione o esperienza di abitazione rurale
delle periferie. L’architettura, orientata secondo il progetto che qui abbiamo
costruito, diventa cosí una teoria dell’innesto: dove si pensa di osservare
una ripetizione, tra una casa e un’altra casa, spunta un alieno, uno straniero,
un gesto formale di rottura che mira a creare una finestra tra due mondi
spesso in conflitto. Da un lato, il mondo delle architetture capitaliste,
dall’altro quello delle architetture radicali: in mezzo una rete di relazioni
concrete che possono costituire un’alternativa, quasi un tertium datur, per
un nuovo modo di intendere la manipolazione degli spazi urbani. Questa
alternativa si chiama “dialogo”: pratica di cui Postumano contemporaneo
come specie deve fare tesoro finché è chiamata a resistere al massacro dei
suoi cugini di genere. Thoreau rientra in città, postumano o meno che fosse,
perché crede nella possibilità di portarsi dietro altre vite senza chiedersi di
che specie siano: torna, ancora una volta, un senso inaspettato
dell’antispecismo ora che è la nostra stessa specie a essere divisa in due.
Vivere è con-dividere, ovvero dividere insieme qualcosa, e non deve stupire
che il nostro postumano sia un al di là che continua a guardare all’al di qua
− è quel fenomeno filosofico che Whitehead chiamava supergetto: «Ogni
cosa svolge la funzione del soggetto in quanto ne prende un’altra
rendendola suo oggetto» 14. Fino a questo momento il postumano è stato
visto come qualcuno che ha resistito a un limite, superando un vizio della
natura attraverso una potenzialità dell’artificio 15, e non basta opporsi a tutto
ciò utilizzando argomentazioni politiche sull’impossibilità dell’uso dei
corpi come strumenti economici. Che il futuro che aspetta la nuova specie
sia tecnologicamente ibridato, nessun dubbio: il problema non sono le cose
ma come vengono utilizzate. Le “cose” non sono le cose. E qui è tutto
raccontato l’errore di Heidegger nella sua critica alla tecnica 16, che come
strumento neutrale può in realtà esser delizia e non necessariamente croce, e
sempre qui è raccontato l’errore del vecchio modo di fare postumanesimo:
non è mostrando che la tecnologia ci cambia che si ottiene una teoria, la
teoria emerge quando siamo in grado di mostrare che cosa si intende per
«cambiamento». Cosa cattura questa parola, qual è la sua estensione
semantica, dove e perché stiamo andando a vivere. L’installazione del
postumano, finché semplicemente questa specie non prenderà in mano
l’avvenire, spetta a noi: è il compito della filosofia. Lo è sempre stato. E il
detto di Agostino, rivisitato da Boezio, «se Dio esiste, da dove il male? Se
Dio non esiste, da dove il bene?» è tutto qui: dove si pone, se si deve porre,
la questione del vivente autocosciente in un mondo cosí articolato e
complesso? Che cos’è, se è qualcosa, una vita responsabile? Senza mezzi
termini: è una vita in cui l’uno si fa carico del molteplice, forse perché
aveva ragione Plotino nel vederli inseparabili, o forse perché anche se
individui abbiamo senso solo nella misura in cui diventiamo comunità.
Postumano contemporaneo si trova qui, adesso, nella consapevolezza
che questo sia davvero «un mondo sbagliato» 17 eppure sappiamo anche che
«quando giochi a ping-pong non puoi utilizzare una racchetta da tennis» 18:
gli strumenti da utilizzare sono limitati e complessi. L’evoluzione, vista
dall’interno, può apparire un processo triste eppure è descrivibile coi celebri
versi di Pablo Neruda: «galoppa la notte sulla sua cavalla cupa | spargendo
spighe azzurre sul prato» 19. Le spighe azzurre sono i postumani, sono il
futuro, potremmo essere noi. “Noi” perché un buon libro di filosofia a mio
avviso deve rompere la “quarta parete”, altrimenti non è niente, e dunque
entrare in contatto con il lettore in un modo diretto e ancora inesplorato
posto che, comunque, si scrive sempre per pochi amici sconosciuti sparsi
per il mondo 20. Anche questo «libro deve stabilire automaticamente la
separazione fra coloro che lo capiscono e coloro che non lo capiscono» 21
dando quasi per scontato che, chi lo capirà, probabilmente sarà già a cavallo
tra queste due specie che stanno per dividersi. Il postumano contemporaneo
non è un’ipotesi ma una proposizione: un’immagine di mondo che può
essere verificata o falsificata 22 perché «le forme degli oggetti divengono
forme della raffigurazione nella misura in cui si presentano come veicoli
per immagini possibili» 23.
Il lavoro filosofico è non dissimile da quello architettonico perché è un
lavoro di modifica del “modo di vedere” le cose: cosa pretendiamo dalle
cose del mondo… che forma vogliamo assumano? Una proposizione
generale sull’umanità è giustificata dalle ragioni che diamo e non dai
risultati, dato che sono ancora lontani e persi in un tempo incerto: ma prima
o poi qualcosa succederà, bisogna solo capire come prepararsi. Entro la fase
finale del progetto, inutile nascondersi dietro al dito, «è di nuovo necessario
un passo simile a quello della teoria della relatività» 24, dove ogni centro è
perduto per definizione, perché «progettare è facile quando si sa come si
fa» 25. Noi non lo sappiamo: abbiamo coscienza del “cosa” da cui stiamo
fuggendo, ma solo poche immagini del “cosa” che stiamo inseguendo 26.
Anche perché probabilmente ci stiamo inseguendo, in parte recitando
Achille e in parte recitando la tartaruga: non ci afferriamo mai, siamo in un
posto e anche in un altro, e uscire da questo inseguimento diventa dunque
doppiamente difficile. La speciazione forse è metafora, forse no, non
importa: tutto è trasformazione. Ciò che va sempre tenuto in mente entro
ricerche e progetti filosofici come questo è che «Dio aborre una singolarità
nuda» 27: le singolarità di fatto possono esistere solo all’interno di un buco
nero, nascoste dallo sguardo di potenziali osservatori esterni. Il resto è
armonia collettiva, organizzazione di un sistema composto, «assemblato» 28,
e solo apparentemente semplice. Insomma, «quel che accadde dopo è
confuso» 29 ma comune, collettivo, e dunque, finalmente, postumano.
WITTGENSTEIN È successo.
DRURY Non capisco: che cosa è successo?
Quello che ho sempre temuto! Che non fossi piú
WITTGENSTEIN
capace di lavorare 30.
Note

Introduzione.

1. Un primo risultato di questa ricerca in L. CAFFO , I due dogmi dell’antropocentrismo, in «Scienze e


Ricerche», 2017, n. 46, pp. 25-31.
2. B. DEL BOCA , La dimensione umana, Bresci, Torino 1971, p. 21.
3. D’ora in poi userò Postumano contemporaneo in maiuscolo quando mi riferisco alla specie che
descrivo, in minuscolo quando descrivo la teoria.
4. A. ARTAUD , I Cenci (1935), Einaudi, Torino 1972, p. 40.

Parte prima, Trasformazione.

Capitolo primo, L’asse etico: la prima trasformazione.

1. Ovviamente ho ritenuto importante in passato darne anche e soprattutto un’immagine etica: cfr. L.
CAFFO , Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale
Monferrato (AL ) 2013.
2. G. DELEUZE , Logica del senso (1969), Feltrinelli, Milano 2005, p. 247.
3. P. APSEIN , Proverbi Cinesi. L’antica saggezza orientale per meditare, Biesse - Brancato, Catania
2009, p. 15.
4. Sul tema mi permetto di rimandare a L. CAFFO , In the Corridors of Animal Minds, in «Journal of
Animal Ethics», IV (2014), n. 1, pp. 103-8.
5. J. DERRIDA , L’animale che dunque sono (2006), a cura di M.-L. Mallet, Jaca Book, Milano 2006,
p. 68.
6. Per questa nozione si veda il capitolo I di G. CLÉMENT , L’alternativa ambiente (2014), Quodlibet,
Macerata 2015.
7. Anam il senzanome. L’ultima intervista a Tiziano Terzani, a cura di M. ZANOT , Longanesi, Milano
2005.
8. C. PAVESE , Il mestiere di vivere. Diario 1936-1950, Einaudi, Torino 2014, p. 301.
9. A piú riprese, ma per una rapida articolazione dei suoi assunti: L. CAFFO , Antispecismo debole, in
M. ANDREOZZI , S. CATIGLIONE e A. MASSARO (a cura di), Emotività animali. Ricerche e discipline
a confronto, LED , Milano 2013, pp. 77-88.
10. Un’isola felice in tal senso, in cui la distinzione è netta e chiara, è G. LEGHISSA , Postumani per
scelta, Mimesis, Milano-Udine 2015.
11. J. L. BORGES , L’altra tigre (1960), in ID., Poesie (1923-1976), trad. di L. Bacchi Wilcock, Rizzoli,
Milano 1980, p. 121.
12. Si veda in questo senso l’analisi di M. FERRARIS , Emergenza, Einaudi, Torino 2016, in cui si
contesta il “farisaismo” tipico di una filosofia che predica bene e razzola male, e si discute di una
filosofia del futuro in cui pensieri politici e azioni corrispondano.
13. Sul tema ho argomentato diffusamente nella lezione dedicata al Futuro in L. CAFFO , La vita di
ogni giorno. Cinque lezioni di filosofia per imparare a stare al mondo, Einaudi, Torino 2016.
14. L. WITTGENSTEIN , Tractatus logico-philosophicus (1922), in ID. , Tractatus logico-philosophicus
e Quaderni 1914-1916, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, 6.43.
15. ID. , Quaderni 1914-1916, ibid., aforisma del 13 agosto 1916.
16. G. DELEUZE , Istinti e istituzioni (1955), Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 62.

Capitolo secondo, L’asse metafisico: la seconda trasformazione.

1. A. VARZI , Ontologia e metafisica, in F. D’AGOSTINI e N. VASSALLO (a cura di), Storia della


filosofia analitica, Einaudi, Torino 2002, pp. 81-117.
2. M. FERRARIS , Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura, Bompiani, Milano
2004.
3. I. KANT , Critica della ragion pura (1781 e 1787), Bompiani, Milano 2004, p. 31.
4. C. BENE , Credito Italiano V.E.R.D.I. (1967), in ID., Opere, con l’Autografia d’un ritratto,
Bompiani, Milano 2002, p. 179.
5. Sono grato a Giorgia Giuffrida per avermi spiegato tecnicamente cosa sia la “visione periferica” da
un punto di vista medico e che mi ha consentito di elaborare la metafora di cui qui sto facendo
uso.
6. S. ESBJORN-HARGENS , Integral Ecology. An Ecology of Perspectives, in «Journal of Integral
Theory and Practice», I (2006), n. 1, pp. 267-304.
7. M. PROUST , Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann (1913), trad. di G. Raboni,
Mondadori, Milano 1995, p. 14.
8. F. S. FITZGERALD , L’età del jazz e altri scritti (1945), a cura di E. Wilson, il Saggiatore, Milano
1966, p. 67.
9. O. RAJNEESH , Il libro dei segreti (1978), Bompiani, Milano 2008, p. 114.
10. Perché troppo legato alle ibridazioni tra umano e tecnologia nella confusione, a cui già ho fatto
cenno, di postumano con transumanesimo. Per la posizione di Rosi Braidotti rispetto alle altre, cfr.
F. FERRANDO , Posthumanism, Transhumanism, Antihumanism, Metahumanism, and New
Materialisms, in «Existenz», VIII (2013), n. 2, pp. 26-32.
11. Questa è stata la prima storica argomentazione di D. J. HARAWAY , Manifesto cyborg. Donne,
tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), Feltrinelli, Milano 1999.
12. Ne parlo diffusamente in L. CAFFO , Qualsiasi, in L. CAFFO e F. CIMATTI (a cura di), A come
Animale. Voci per un bestiario dei sentimenti, Bompiani, Milano 2015, pp. 207-14.

Capitolo terzo, L’asse scientifico: la terza trasformazione.

1. G. VASARI , Le Vite de’ piú eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani (1550), Einaudi, Torino
2015, vol. II, p. 895.
2. Qui e infra, le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia, nuova versione della Cei, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI ) 2008.
3. Da un punto di vista tecnico il «disegno intelligente è l’idea che il nostro universo sia il risultato di
un disegno orientato a un progetto» (N. BOSTROM , Anthropic Bias. Observation Selection Effects
in Science and Philosophy, Routledge, London 2002, p. 11).
4. Top Question. What Is the Theory of Intelligent Design?, in Discovery Institute, Frequently Asked
Questions, http://www.discovery.org/id/faqs/ (consultato a giugno 2017).
5. Per un paragone tra Timeo e Bibbia si veda R. RADICE , Platonismo e creazionismo in Filone di
Alessandria, Vita e Pensiero, Milano 1989.
6. M. MAGNANO , Leonardo, Mondadori Arte, Milano 2007, p. 80.
7. M. CALARCO , Identity, Difference, Indistinction, in «CR - The New Centennial Review», XI
(2011), n. 2, pp. 41-60.
8. F. KAFKA, Una vecchia pagina (1917), in R. LUXEMBURG , Un po’ di compassione, a cura di M.
Rispoli, Adelphi, Milano 2007, p. 39.
9. J. P. SARTRE , L’essere e il nulla (1943), trad. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1965, pp. 69-70.
10. L’emergenza è definita anche come il correlato filosofico dell’evoluzionismo, cfr. FERRARIS ,

Emergenza cit.
11. Cfr. T. NAGEL Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi
certamente falsa (2012), Raffaello Cortina, Milano 2015.
12. R. DAWKINS , Il racconto dell’antenato. La grande storia dell’evoluzione (2004), Mondadori,
Milano 2006.
13. Lettera di C. Darwin a N. D. Doedes, 2 aprile 1873, in A Calendar of the Correspondence of
Charles Darwin, 1821-1882, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 1994.
14. P. P. PASOLINI , Scritti corsari (1973-75), in ID. , Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori,
Milano 1999, pp. 376-77.
15. Come è noto questo è l’argomento piú celebre contenuto in L. FEUERBACH , Essenza del
cristianesimo (1841), Laterza, Roma-Bari 2006.
16. J. GRENIER , In morte di un cane (1957), Mesogea, Messina 2011, p. 12.
17. DERRIDA , L’animale che dunque sono cit., pp. 66-67.
18. La capacità di un soggetto, analizzata dalla psicologia, di allineare punti ed elementi secondo la
direzione principale in progressione (se essi sono presenti nello spazio) ricostruendo la
configurazione alla quale appartengono.
19. E. GOLDMAN , Anarchism. What It Really Stands For, Mother Earth Publishing Association, New
York 1911, p. 29.
20. T. W. ADORNO , Dialettica negativa (1966), Einaudi, Torino 2004, p. 329.

Parte seconda, Speciazione.

Capitolo quarto, La speciazione definitiva: il postumano contemporaneo.

1. A. GEHLEN , L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale
(1957), Sugarco, Milano 1984, p. 60.
2. I. CALVINO , Il barone rampante (1957), Mondadori, Milano 2010, p. 38.
3. Si veda The Transhumanist FAQ, in
https://hpluspedia.org/wiki/H%2BPedia:Transhumanist_FAQ_Analysis.
4. Mi riferisco soprattutto ad A. CLARK e D. J. CHALMERS , The Extended Mind, in «Analysis», LVIII
(1998), n. 1, pp. 7-19.
5. J. HUXLEY , New Bottles for New Wine, Chatto & Windus, London 1957, pp. 13-17.
6. A. MANNINO , Natura, liberazione ed «enhancement», in «Animal Studies. Rivista italiana di
antispecismo», I (2012), n. 1, pp. 43-49.
7. Per saperne di piú su questo assunto, decisamente contrastante con l’opinione maggioritaria: N.

BOSTROM , In Defence of Posthuman Dignity, in «Bioethics», XIX (2005), n. 3, pp. 202-14


8. La mostra curata da Deitch Post Human, allestita anche al Castello di Rivoli (2 ottobre - 22
novembre 1992), esibiva un’enfasi particolare sul tema delle protesi, del potenziamento e del
sorpasso del limite. Cfr. J. DEITCH , Post Human, Idea Books, Amsterdam 1992.
9. Devo a Flaminia Gentile questa intuizione, colta ormai qualche anno fa, durante una delle nostre
lunghe discussioni sul tema.
10. K. WARWICK , I, Cyborg, University of Illinois Press, Kansas City 2004.
11. R. PEPPERELL , The Posthuman Condition, Intellect Books, Bristol 1995, p. 47.
12. In una prospettiva molto diversa, ma che ritengo necessaria per la ricerca che mi ha condotto fin
qui, si veda R. MARCHESINI , Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari
2009.
13. K. J. HSÜ , La grande moria dei dinosauri (1986), Adelphi, Milano 1993, p. 15.
14. R. MARCHESINI , Alterità. L’identità come relazione, Mucchi, Modena 2016, p. 154.
15. Si è discusso abbondantemente di questo fenomeno nella storica International Conference on
Glo-Cal Crisis and Environmental Governance in North-Eastern Region of India, che si è tenuta
alla Assam University di Silchar (11-13 novembre 2013).
16. S. J. GOULD e N. ELDREDGE , Punctuated Equilibria. The Tempo and Mode of Evolution
Reconsidered, in «Paleobiology», III (1977), n. 2, pp. 115-51.
17. Si tratta di un esperimento mentale ambientato in una situazione presociale dove gli umani
coinvolti si trovano in una «posizione originaria» caratterizzata da equità e uguaglianza dato che
un velo “copre” tutte quelle qualità secondarie che non consentirebbero di considerare tutti allo
stesso modo (ricchezza, lavoro, status sociale, etnia ecc.). Nessuno conosce il proprio posto nella
società e tutti sono dunque interessati a scegliere principî di giustizia universali. Ne emergono cosí
due principî morali del contratto che stanno alla base di un’idea di giustizia: a) ogni persona ha lo
stesso diritto alle libertà fondamentali (pensiero, espressione ecc.); b) le ineguaglianze
economiche e sociali sono ingiuste a meno che non vadano a beneficio collettivo o producano
benefici per i membri meno avvantaggiati.
18. G. KONESWARAN e D. NIERENBERG , Global Farm Animal Production and Global Warming.
Impacting and Mitigating Climate Change, in «Environ Health Perspectives», CXVI (2008), n. 5,
pp. 578-82.
19. Ammesso e non concesso che l’animalità riguardi solo gli animali, cfr. F. CIMATTI , Ten Theses on
Animality, in «Lo Sguardo. Rivista di filosofia», II (2015), n. 18, pp. 41-59.
20. S. MANCUSO , Vegetale, in CAFFO e CIMATTI (a cura di), A come Animale cit., pp. 273-90.
21. Si veda la mia lezione Etica sempre in CAFFO , La vita di ogni giorno cit.
22. N. BOSTROM , Why I Want to Be a Posthuman When I Grow Up, in B. GORDIJN e R. CHADWICK (a
cura di), Medical Enhancement and Posthumanity, Springer, Berlin 2008, pp. 107-37.
23. R. MARCHESINI , Intelligenze plurime. Manuale di scienze cognitive animali, Perdisa, Bologna
2008, p. 115.
24. Per «letto di erba» si intende il volume minimo per poter parlare di presenza di piante annuali o
perenni le cui parti aeree sono per lo piú verdi e di consistenza non legnosa.
25. In Italia autonomamente si è sviluppato il “nuovo realismo”, cfr. M. FERRARIS , Manifesto del
nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.
26. Q. MEILLASSOUX , After Finitude. An Essay on the Necessity of Contingency, Bloomsbury,
London 2010, p. 5.
27. L. CAFFO , The Anthropocentrism of Anti-Realism, in «Philosophical Readings», VI (2014), n. 2,
pp. 65-74.
28. F. NIETZSCHE , Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), Adelphi, Milano 2015, p. 25.
29. Secondo cui esistono solo gli oggetti, e tutto in qualche modo è oggetto: G. HARMAN , Prince of
Networks. Bruno Latour and Metaphysics, Re-Press, Melbourne 2009, p. 95.
30. Mi riferisco soprattutto a G. CLÉMENT , Manifesto del Terzo paesaggio (2004), Quodlibet,
Macerata 2005.
31. Cfr. http://www.fernandogarciadory.info/index.php?/projects/inland/ (consultato a giugno 2017).
32. Cfr. L. CAFFO e A. MUZZONIGRO , Abitare la soglia. Note per una città postumana, in A.

FALOTICO , Abitare Insieme. Dimensione condivisa del progetto del futuro, Clean, Napoli 2016,
pp. 165-76.
33. M. FERRARIS , Essere è resistere, in M. FERRARIS e M. DE CARO (a cura di), Bentornata realtà. Il
nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2014, pp. 139-66.
34. A. HITLER , Mein Kampf (1925), citato in W. Hofer (a cura di), Il nazionalsocialismo. Documenti
1933-1945 (1957), Feltrinelli, Milano 1964, pp. 755-56.
35. M. HEIDEGGER , Quaderni neri (2014), a cura di P. Trawny, Bompiani, Milano 2015, p. 102.
36. T. NAGEL, Cosa si prova ad essere un pipistrello? (1974), Castelvecchi, Roma 2013.
37. S. FREUD , L’interpretazione dei sogni (1899), Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 71.
38. Lorenz fu ispirato per questa sua infelice definizione dal suo allievo Irenäus Eibl-Eibesfeldt.
39. WITTGENSTEIN , Tractatus cit., 5.61.
40. Lao Tzu, citato in Y. KIEFFER e L. ZANINI , Il kung fu, Xenia, Milano 1997, p. 1.
41. S. ŽIŽEK , Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico (2012), Ponte alle Grazie,
Milano 2013, vol. I, p. 112.
42. Di sicuro, se proprio si devono educare e studiare gli animali, il miglior approccio possibile: R.

MARCHESINI , Pedagogia cinofila. Introduzione all’approccio cognitivo zooantropologico,


Perdisa, Bologna 2013.
43. Per la prima volta in L. CAFFO , Il primo squarcio nelle Geografie Cartesiane, in «Bloom.
Trimestrale di architettura», n.s., 2015, n. 26, pp. 21-36.
44. ARTAUD , I Cenci cit., p. 43.
45. Quella che chiamiamo standard quantum logic offre un operatore di negazione che è definito
come il complemento ortogonale di un sottospazio dello spazio di Hilbert: di fatto è un modo
complesso per spiegare una negazione diversa dalla logica classica. Cft. J. FAYE, Copenhagen
Interpretation of Quantum Mechanics, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, a cura di
Edward N. Zalta, 2014, http://plato.stanford.edu/archives/fall2014/entries/qm-copenhagen/
(consultato a giugno 2017).
46. H. PUTNAM , Cervelli in una vasca (1981), in ID ., Ragione, verità, e storia, il Saggiatore, Milano
1985, pp. 12-21.
47. Cfr. l’intervista integrale in http://www.openculture.com/2014/05/martin-heidegger-talks-
philosophy-with-a-buddhist-monk.html (consultato a giugno 2017).
48. Siamo davanti a un caso analogo all’ornitorinco come controargomento allo schematismo di
matrice kantiana proposto da U. ECO , Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997.
49. In accordo con l’argomentazione svolta da A. VARZI , Parti connesse e interi sconnessi, in
«Rivista di estetica», XX (2002), n. 2, pp. 87-90.
50. La nostra metafisica individua cose che spesso sono “altre cose” con bordi sfumati tra loro in un
continuo direzionale; cfr. J. LADYMAN e D. ROSS , Every Thing Must Go. Metaphysics Naturalized,
Oxford University Press, Oxford 2009.
51. L. FLORIDI , A Defence of Informational Structural Realism, in «Synthese», CLXI (2008), n. 2, pp.
219-53.
52. G. MORSELLI , Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 1977, p. 96.
53. Una recente analisi sul tema è in S. VACCARO , Anarchist Studies, Eleuthera, Milano 2015, pp. 7-
23.
54. G. DELEUZE e F. GUATTARI , Kafka. Per una letteratura minore (1975), Quodlibet, Macerata 1996,
pp. 3-4.
55. G. DELEUZE , Pourparler 1972-1990, Quodlibet, Macerata 2000, p. 203.
56. ARTAUD , I Cenci cit., p. 20.
57. Il mio obiettivo polemico è “la quarta rivoluzione”: L. FLORIDI , The Fourth Revolution, Oxford
University Press, Oxford 2014.
58. G. W. F. HEGEL , Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), a cura di B. Croce,
Laterza, Roma-Bari 2002, parte I, sezione II, A γ § 121.
59. D. J. HARAWAY , Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press,
Durham 2016.
60. GAUDAPADA , Mandukya Upanishad, Bompiani, Milano 2015, p. 59.
61. G. DE DOMINICIS , Lettera sull’immortalità, in «Flash Art», n. 24-25, 1971.
62. Nel modo piú radicale nel suo G. AGAMBEN , Altissima povertà, Neri Pozza, Vicenza 2011.
63. F. MELOTTI , Linee, Adelphi, Milano 1981, p. 63.
64. J. BERGER , Perché guardiamo gli animali? (2009), il Saggiatore, Milano 2016, p. 25.
65. J. P. SARTRE , La Nausea (1938), trad. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 2014, p. 17.

Capitolo quinto, Gestire la speciazione: progetto e filosofia.

1. Metafora che ho già utilizzato in CAFFO , Cosí parlò il postumano cit.


2. C. COLEBROOK , Death of the PostHuman. Essays on Extinction. Vol. 1, Open Humanities Press,
London 2014, pp. 29-44.
3. Mi sono qui limitato soltanto alla classificazione piú accettata in paleontologia, cfr. W. HENKE e I.

TATTERSALL , Handbook of Paleoanthropology, Springer, Berlin 2015.


4. Simile a quello con cui David Lewis discuteva di controparti: qualcosa che non riguardava piú noi
ma delle presunte copie. Cfr. D. LEWIS , A Philosophers’ Paradise, in ID ., On the Plurality of
Worlds, Blackwell, Oxford 1986.
5. Secondo l’argomentazione di M. FERRARIS , Estetica razionale, Raffaello Cortina, Milano 1997, p.
521, qui riadattata nel mio linguaggio.
6. Ibid., p. 12.
7. Ibid., p. 33.
8. Ho pagato il mio debito nei suoi confronti, romanzandone la vita e la filosofia, nel mio L. CAFFO ,
Il bosco interiore, Sonda, Casale Monferrato (AL) 2015.
9. ID. , Tempi Canaglia. L’analisi filosofica degli spazi, in «Bloom. Trimestrale di architettura», n.s.,
2014, n. 21, Cielo/Tempo, pp. 22-26.
10. WITTGENSTEIN , Tractatus cit., 4.111.
11. Cfr. T. MORTON , Ecology Without Nature. Rethinking Environmental Aesthetics, Harvard
University Press, Boston 2007.
12. Frase generalmente attribuita a Christopher McCandless, il protagonista realmente esistito del
film Into the Wild (2007), che è in realtà la rielaborazione di un brano del Dottor Živago (1957) di
Boris Pasternak.
13. M. HORKHEIMER , Crepuscolo. Appunti presi in Germania (1926-1931), Einaudi, Torino 1997, pp.
69-70.
14. C. SINI , Enzo Paci, Feltrinelli, Milano 2015, p. 87.
15. Emblematico in tal senso un articolo del 2013: D. COHEN, What Does It Mean to Be Posthuman?,
sul «New Scientist», 2013, n. 2916.
16. Verso la fine della sua vita Heidegger sembra cambiare opinione mostrandosi come un teorico
della tecnica che contraddice parte della sua piú nota fase critica, cfr. V. BERNARDI , Lo Heidegger-
Streit teologico degli anni Trenta, in G. SEMERARI , (a cura di), Confronti con Heidegger, Dedalo,
Bari 1992, pp. 7 sgg.
17. J. MASON , Un mondo sbagliato. Storia della distruzione della natura, degli animali e
dell’umanità (1993), Sonda, Casale Monferrato (AL ) 2015.
18. L. WITTGENSTEIN , Conversazioni e ricordi (1984), a cura di R. Rhees, Neri Pozza, Vicenza 2005,
p. 193.
19. P. NERUDA , Chino sulle sere, in ID ., Venti poesie d’amore e una canzone disperata (1924), a cura
di G. Bellini, Passigli, Firenze 1996, p. 43.
20. L. WITTGENSTEIN , Pensieri diversi (1977), a cura di G. H. von Wright, Adelphi, Milano 1980, p.
27.
21. Ibid., p. 29.
22. ID ., Lezioni. 1930-1932, a cura di D. Lee, ed. it. a cura di A. G. Gargani, Adelphi, Milano 1995,
p. 33.
23. G. PIANA , Interpretazione del Tractatus di Wittgenstein, Guerini e Associati, Milano 1994, p. 28.
24. L. WITTGENSTEIN , Della Certezza (1969), a cura di G. E. M. Anscombe e G. H. von Wright,
Einaudi, Torino 1999, § 305.
25. B. MUNARI, Da cosa nasce cosa, Laterza, Roma-Bari 1996 (1 a ed. 1981), p. 8.
26. Recentemente è nato un progetto molto interessante, Metaculus. Mapping the Future, una
piattaforma di discussione tra esperti e non sulle possibilità future che alcune delle grandi
domande riguardo al nostro sviluppo tecnico, scientifico e culturale trovino compimento:
http://www.metaculus.com/questions/ (consultato a giugno 2017).
27. S. W. HAWKING , La teoria del tutto (1996), Rizzoli, Milano 2003, p. 48.
28. G. HARMAN , Conclusions. Assemblage Theory and its Future, in M. ACUTO e S. CURTIS (a cura
di), Reassembling International Theory.Assemblage Thinking and International Relations,
Palgrave Macmillan, London 2014, pp. 118-31.
29. R. BOLAÑO , I detective selvaggi (1998), trad. di M. Nicola, Sellerio, Palermo 2009, p. 15.
30. WITTGENSTEIN , Conversazioni e ricordi cit., p. 213.
Il libro

L’ ANTROPOCENTRISMO È COSTRUITO SULLA PRESUNTA SUPERIORITÀ DELL’UMANO

sulle altre forme di vita, oltre che su quella di certi umani rispetto ad altri:
ma che succede quando scopriamo di essere della stessa sostanza di tutti
gli esseri viventi del pianeta? Quando le proprietà che pensavamo ci rendessero
speciali, come la vita mentale o la capacità di soffrire, si manifestano anche in ciò
che definiamo ingenuamente «non umano», allora l’umanità come sistema chiuso
dell’umanesimo classico si dissolve. Molte sono state le soluzioni proposte, a questa
domanda, ma ognuna, presa singolarmente, non basta.
Il postumano, cosí come declinato qui, contrapposto anche ai primi fallimentari
tentativi dell’ultimo decennio dello scorso millennio, è volto a riposizionare
l’umanità in uno schema integrato nella Natura, verso un superamento
dell’antropocentrismo, e la costruzione di una nuova narrazione per il nostro futuro.
L’autore

LEONARDO CAFFO insegna Ontologia del Progetto al Politecnico di Torino. Ha


fondato Waiting Posthuman Studio, unità di ricerca tra filosofia, architettura e arte;
dal 2017 insegna anche alla Naba (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano oltre
che alla Scuola Holden di Torino. Scrive sull’inserto culturale «la Lettura» del
«Corriere della Sera» ed è codirettore di «Animot». Nel 2015 ha vinto il Premio
nazionale Frascati Filosofia. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo A come Animale. Voci
per un bestiario dei sentimenti (Bompiani 2015). Presso Einaudi ha pubblicato La
vita di ogni giorno (2016).
Dello stesso autore

La vita di ogni giorno


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Ebook ISBN 9788858427194

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