Annalisa Coliva
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Indice
Ringraziamenti
Avvertenza
1. Il paradosso scettico
2. Il paradosso scettico cartesiano
3. Il paradosso scettico humeano
4. Le due forme del paradosso a confronto
5. La riformulazione del paradosso: da paradosso sulla
conoscenza a paradosso sulla giustificazione
6. Il trilemma di Agrippa: regresso, mere assunzioni e
circolarità
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1. La risposta naturalista: Strawson
2. La risposta disgiuntivista: McDowell
3. La risposta liberale: G. E. Moore e Pryor
4. La risposta conservatrice: Wright
5. Tra liberali e conservatori I: le strategie a priori di
Wedgwood e Sosa
6. Tra liberali e conservatori II: la risposta moderata
Appendice
Cos’altro leggere
L’autrice
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Ringraziamenti
Desidero ringraziare….
Avvertenza
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Capitolo 1
Il paradosso scettico
Molti di voi avranno visto il film The Matrix dei fratelli Andy e
Larry Wachowski. Come dice Morpheus a Neo, il protagonista:
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macchine, oppure l’interazione con la realtà –, nulla vieta che
anche quello che Neo sta esperendo in quel momento, cioè
l’incontro con Morpheus, possa essere, in verità, nulla più di una
simulazione. Molto del fascino di The Matrix dipende proprio dal
fatto che non si possa mai davvero sapere se Neo stia realmente
combattendo contro le macchine per salvare l’umanità, oppure se
anche questo sia un effetto della manipolazione da parte delle
macchine (o chissà di chi altri). Quindi, quale che sia la
“conclusione” cui pare giungere il film, e che qui non svelerò,
potrebbe in realtà non essere altro che l’ennesima simulazione
provocata dai computer.
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cogenza può e deve ovviamente essere indagata. Questa forma di
agnosticismo va a sua volta tenuta distinta da altre, come ad
esempio l’agnosticismo di chi, non avendo mai considerato prima di
quel momento una questione, non è nella posizione di emettere un
verdetto motivato su di essa. Preciso infine che qui per
agnosticismo intendo il fatto che il soggetto non possa asserire
né che una proposizione né la sua negazione sono conosciute (o
giustificate, come vedremo in seguito). Questo di per sé non
stabilisce ancora che il soggetto non possa giudicare e quindi
credere l’una o l’altra proposizione e/o che non possa asserirle.
Queste conclusioni ulteriori, che per esempio lo scetticismo
antico, in particolare nella figura di Sesto Empirico, trasse,
dipendono a loro volta da argomenti complessi riguardanti la
natura del giudizio, della credenza e dell’asserzione, che
meriterebbero un libro a parte.
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che si è ripetuto costantemente in passato avrà luogo anche in
futuro. Si può inoltre essere scettici circa il passato: possiamo
davvero sapere che quello che crediamo sia avvenuto in un passato
remoto è effettivamente accaduto molto tempo fa e non sia invece
stato creato cinque minuti fa con tutte ciò che ci fa normalmente
credere che abbia avuto luogo molto prima? Sicuramente si
potrebbero citare altri tipi di scetticismo. Qui mi sono limitata
a enumerare quelli che sono stati maggiormente discussi nell’alveo
della tradizione filosofica occidentale, senza nessuna ambizione
di esaustività.
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decidere di vivere da scettico: se fossimo agnostici circa la
nostra stessa esistenza, che senso avrebbe ricercare la felicità
attraverso la sospensione del giudizio?.
1. Il paradosso scettico
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o quanto meno parziali), rimarrà lì ad attanagliarci la mente,
benché solo nei nostri momenti filosofici.
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effetti essere opera di un sogno o di una sapiente simulazione
provocata da macchine molto potenti.
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quella che considera quest’ultima come prodotta dall’interazione
causale con gli oggetti fisici.
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Supponiamo che un bambino non sappia se ci vede bene da lontano
oppure no. Non ha dei dubbi particolari, semplicemente non ha mai
considerato la questione e quindi non ha ancora un’opinione sulla
propria acuità visiva. Guarda allora di fronte a sé in lontananza
e vede l’insegna di un esercizio commerciale sulla strada. La sua
esperienza è tale che gli pare proprio ci sia scritto “BeLla”. Può
quindi ragionare come segue: “vedo che c’è scritto ‘BeLla’; se
vedo che lì c’è scritto ‘BeLla’, allora vedo bene; quindi vedo
bene”.
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conclusione e non possa quindi essere usato per acquisirne una.
L’argomento appena presentato è quindi epistemicamente circolare.
Sebbene sia deduttivamente valido, perché è null’altro che un
esempio di modus ponens, è epistemicamente inefficace e lo è per
via del tipo di circolarità epistemica che possiamo riassumere
così: per avere una giustificazione (fallibile) per la sua prima
premessa si deve già avere una giustificazione per la sua
conclusione. Pertanto, l’argomento non può fornire una (prima)
giustificazione per credere la sua conclusione.
Anche in questo caso, per capire che cosa c’è che non va, è utile
chiedersi come conosciamo la premessa “Qui c’è la mia mano”.
Evidentemente la conosciamo sulla base della nostra esperienza
sensoriale: per esempio sulla base del fatto che vediamo una mano
di fronte a noi. Ma questo, di per sé, ci dà anche una
giustificazione per credere che qui vi sia una mano? La risposta è
evidentemente no: quell’esperienza potrebbe essere identica
qualora fosse il frutto di un’allucinazione, o di un sogno, o
delle simulazioni provocate dalle macchine diaboliche di The
Matrix. Quindi, può fungere da prova a favore di “Ecco qui una
mano”, solo se abbiamo già ragione di ritenere che sia stata
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prodotta dall’interazione con un oggetto fisico, in condizioni
ambientali normali e che i nostri sensi stiano funzionando a
dovere. Ciò però significa che la nostra esperienza può
costituirsi come giustificazione di “Ecco qui una mano” solo se
diamo già per scontato che vi sia un mondo esterno. Ma questo era
proprio quello che dovevamo provare di sapere. La prova
dell’esistenza del mondo esterno è pertanto circolare e, quindi,
non è una buona prova (Hume 1739-40, I, iii, 6 sviluppa questo
tipo di paradosso in particolare per l’induzione e Wright 1985,
2002, 2004 lo generalizza al caso del mondo esterno, ma cfr. Hume
1739-40, I, iv, 2).
e il
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Principio di chiusura epistemica: se si sa che p e si sa che
p implica q, allora si sa che q (vd. Appendice)
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È utile ora confrontare tra loro questi paradossi per chiarirne
meglio la struttura. Le due forme del paradosso – ovvero il
paradosso cartesiano e quello humeano – divergono circa la loro
struttura epistemica. Infatti, mentre il paradosso cartesiano
mostra per via deduttiva che non possiamo sapere che vi è un mondo
esterno, date certe possibilità logiche e metafisiche, il
paradosso humeano mostra che, anche qualora sapessimo che qui vi è
una mano e anche se ciò implicasse la conoscenza dell’esistenza
del mondo esterno, quella conoscenza dipenderebbe
dall’informazione aggiuntiva che vi è un mondo esterno.
Quest’informazione, però, è proprio quello che dovremmo provare di
sapere e, pertanto, non la possiamo dare per scontata. Quindi,
l’argomento (vd. Appendice):
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In ottemperanza all’impostazione metodologica per cui non siamo
interessati tanto all’adeguatezza storico-filologica della resa
del paradosso, quanto alla sua struttura, è importante notare che
oggigiorno si ritiene generalmente che il paradosso scettico non
riguardi solo la conoscenza dell’esistenza del mondo esterno, ma
anche il fatto che si abbia una giustificazione per credere che vi
sia (anzi, per alcuni, come ad esempio Wright 1985, 2002, 2004,
questa è la forma più interessante di scetticismo). Questo
contrasta chiaramente con la sua origine storica. Come è noto,
Descartes era alla ricerca di quelle conoscenze certe che
potessero servire da fondamenta per tutte le altre. Nel progetto
cartesiano il dubbio era infatti un metodo per vagliare le nostre
conoscenze e lo scetticismo circa il mondo esterno la via per
affermare che a fondamento di tutto il nostro sapere stanno verità
di ragione certe quali “Io penso, dunque sono”.
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una giustificazione sia una condizione necessaria affinché una
credenza ammonti a conoscenza, il paradosso continuerà a investire
anche la nostra conoscenza. Per contrapposizione, infatti, se non
si ha una giustificazione per p, allora non si sa neppure che p
(vd. Appendice). Tuttavia, se, con alcuni dei cosiddetti
“esternisti” (Dretske, Goldman), non si pensa che la conoscenza
comporti avere una giustificazione per le proprie credenze vere,
ma sia sufficiente, a tal fine, che queste siano state formate
attraverso metodi affidabili, il paradosso parrebbe assumere un
aspetto un po’ meno inquietante. Potremmo infatti continuare ad
avere tutte le conoscenze sul mondo esterno che riteniamo
normalmente di avere, pur non essendo in grado di fornirne una
giustificazione.
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A questo punto un esternista potrebbe replicare che l’eclettico
sta facendo uso, nella sua risposta, di una concezione internista
di conoscenza, non al prim’ordine, ma al secondo, che un
esternista potrebbe non essere disposto a concedergli. Infatti
l’eclettico sta sostanzialmente dicendo che, ancorché si possa
sapere che p, pur non avendo una giustificazione che consenta di
rivendicare questa conoscenza, non se ne ha conoscenza al
second’ordine. Questo implica che l’eclettico sta qui usando una
concezione di conoscenza tale per cui, se non si ha una
giustificazione per p (che, in questo caso, è, a sua volta, “Si sa
che p”), allora non se ne ha neppure conoscenza e, quindi, non si
sa di sapere che p.
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mentali proposizionali, come la conoscenza, sostenuta da David
Armstrong). Tuttavia, secondo l’eclettico, non avremmo nessuna
giustificazione per quelle che dal punto di vista del soggetto che
le intrattiene sono credenze ma che, per l’esternista, sono di
fatto conoscenze. Non saremmo in grado, cioè, di esibire nessuna
giustificazione a sostegno della nostra credenza che vi è un
tavolo dove ci pare di vederlo, né della nostra credenza di
credere che c’è un tavolo dove ci pare di vederlo. Quindi potremmo
avere sì conoscenza, tanto al primo quanto al second’ordine, ma
non avremmo la possibilità di dire che si tratta, in entrambi i
casi, dal nostro punto di vista, di credenze giustificate e questo
è un risultato sufficientemente spiacevole (Dancy 1985, pp. 8-9).
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giustificazioni a sostegno delle nostre credenze su oggetti
fisici, ma da questo non seguirebbe che non le possediamo.
Per avvedersi del fatto che non avrebbe senso cassare una nozione
di giustificazione siffatta, è sufficiente notare che, se qualcuno
ci chiedesse come facciamo a sapere che c’è un tavolo di fronte a
noi, non esiteremmo a dire “Perché lo vedo”: sfrutteremmo quindi
la nostra esperienza, di cui siamo coscienti introspettivamente,
come ragione per credere vero che ci sia un tavolo di fronte a
noi, anche se, ovviamente, potremmo essere vittime di
un’allucinazione e formare così una credenza falsa o, quanto meno,
ingiustificata.
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occorrente potrebbe essere viziata, sospenderemmo la credenza che
vi sia un tavolo di fronte a noi o, addirittura, potremmo arrivare
a credere il contrario. È quindi un aspetto saliente della nostra
vita di agenti razionali che siamo noi stessi, attivamente, a
vagliare le nostre ragioni e non solo a rispondere passivamente
alle condizioni ambientali e cognitive in cui, anche a nostra
insaputa, veniamo a trovarci.
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dello scetticismo riguardo al mondo esterno pone sulla nostra
agenda.
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che vedremo parlando del paradosso scettico cartesiano e di quello
humeano. Vediamo perché.
D’altro canto, (ii) può anche essere una risposta all’esito del
paradosso cartesiano, ammesso e non concesso che, contrariamente a
quanto si sostiene in (i), non si possa trovare una
giustificazione, che a sua volta non richieda giustificazione, o
direttamente a favore della nostra credenza nell’esistenza del
mondo esterno, oppure contro l’ipotesi che le nostre esperienze
siano il prodotto di un sogno (o di qualche altra sapiente
manipolazione), o invero a favore di una qualche proposizione da
cui si possa derivare una giustificazione per l’una o l’altra di
queste credenze.
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che non possono essere giustificate, ma che sono tuttavia
epistemicamente lecite. Oppure potremmo abbracciare il terzo
“corno” del trilemma e ammettere giustificazioni circolari.
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Poiché, inoltre, esse implicano che vi sia un mondo esterno, e che
non si sia vittime di sogni o altre potenti allucinazioni, allora
abbiamo giustificazioni indirette per “Esiste il mondo esterno” e
“Non sto sognando in questo momento”. Avremmo giustificazioni
indirette per queste proposizioni perché è solo assumendole che
possiamo avere giustificazioni per le nostre credenze empiriche
ordinarie. Ma l’avere tante giustificazioni per queste ultime
corrobora indirettamente quelle ipotesi che le rendono
giustificate.
Si deve però notare che questo tipo di coerentismo appare dare per
scontato che si abbiano giustificazioni per le nostre credenze
ordinarie. Almeno alla luce del paradosso scettico cartesiano, ciò
non può essere assunto. Ciò detto, è chiaro che anche la via della
giustificazione circolare è una possibilità da indagare più a
fondo (capitolo 3 §§3-5 infra).
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c) Diranno che sono assunzioni che possono essere giustificate
(ed eventualmente conosciute) indirettamente, tramite le
giustificazioni che abbiamo per credere le proposizioni che
da esse dipendono.
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Capitolo 2
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Un primo tentativo per bloccare il paradosso scettico cartesiano
consiste nel negare il Principio di iteratività che, come abbiamo
visto, è necessario per derivare il paradosso cartesiano.
L’iteratività della conoscenza è chiaramente negata da alcuni
esternisti, come abbiamo visto nel primo capitolo. Secondo loro,
si può avere conoscenza anche là ove è impossibile sapere di
sapere. Per esempio: un bambino potrebbe sapere che c’è un albero
di fronte a lui, senza però essere in grado di sapere di saperlo,
cioè di sapere se e come lo sa. Abbiamo però già visto come si
potrebbe articolare la dialettica tra un internista e un
esternista e, in particolare, abbiamo già visto che il paradosso
scettico può e deve darsi sulla base di una nozione internista di
giustificazione, perfettamente legittima, sulla scorta della quale
il Principio di iteratività è incontestabile perché la
giustificazione è accessibile al soggetto per principio. Pertanto,
se si ha una giustificazione per credere che p, allora si ha anche
una giustificazione per credere di essere giustificati a credere
che p. Esemplifichiamo: supponiamo che io creda che c’è la mia
mano qui di fronte a me. La mia giustificazione sarà data dalla
percezione che sto avendo in questo momento (che è uno stato
mentale conscio). Ma, per ipotesi, ho accesso ai miei stati
mentali e quindi ho anche una giustificazione (introspettiva) per
ritenermi giustificata (percettivamente) a credere che p.
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requisito che manifestino effettive virtù cognitive del soggetto e
siano in qualche modo ispezionabili. Vediamone i dettagli.
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conoscenza animale di p appropriatamente creduta. Facciamo un
esempio: si ha conoscenza riflessiva di p – “Ho una mano” – se la
credenza è vera, è creduta in base alla propria percezione, che
manifesta una capacità cognitiva del soggetto e, inoltre, si
ritiene vero che p sulla scorta di una meta-competenza esercitata
in condizioni normali. Secondo Sosa, la meta-competenza in
questione è “ la competenza di default di dare per scontato che le
condizioni siano appropriatamente normali, assenti segni specifici
che indichino il contrario” (Sosa 2007, p. 108). Quindi, se posso
dire a me stessa di avere formato la credenza di avere una mano,
sulla scorta di una percezione avuta in condizioni in cui nulla
indicava che potessero essere anormali, ho anche conoscenza
riflessiva che p.
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credenza di avere una mano nel mondo attuale è “insicura”, ma che
potrebbe essere, dopo tutto, inappropriata.
Ora, pur sostenendo che l’ipotesi del sogno non ci priva della
conoscenza animale di “Ecco qui una mano”, Sosa stesso ammette che
non possiamo sbarazzarci ipso facto dello scetticismo cartesiano.
Con la mossa esternista raffinata che abbiamo visto ne blocchiamo
l’indesiderata conseguenza di non avere conoscenza animale di
verità banali come “Ecco qui la mia mano”. Non riusciamo però a
dimostrare a noi stessi che la particolare credenza che p che
stiamo intrattenendo or ora sia effettivamente ottenuta attraverso
l’esercizio competente delle nostre facoltà cognitive e non sia
piuttosto il frutto di un sogno dall’apparenza veridica. Il
paradosso scettico cartesiano si ripropone quindi al livello
superiore come riguardante non la conoscenza animale di p, ma la
conoscenza riflessiva di p.
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le condizioni, in quel mondo possibile, non sarebbero quelle
normali. Quindi, in quel mondo, la nostra credenza non sarebbe
basata sulla manifestazione della nostra meta-competenza. In primo
luogo perché, secondo Sosa, i sogni sono qualitativamente diversi
dalla veglia e avremmo quindi dei segnali che le condizioni non
sono quelle normali. In secondo luogo, perché in un sogno le
nostre facoltà percettive non funzionerebbero a dovere. Quindi,
l’ipotesi del sogno, per quanto non remota, renderebbe solo falsa
la nostra credenza che le nostre facoltà percettive siano
affidabili, ma non la renderebbe inappropriata, stante le
condizioni alle quali l’abbiamo effettivamente formata, che sono
diverse da quelle che si darebbero nel sogno. Non rendendola
inappropriata, non inficia il fatto che si tratti di conoscenza.
Quindi, secondo Sosa, nell’esercizio usuale delle nostre facoltà
percettive, in cui diamo per scontato che siano tendenzialmente
affidabili, assenti segni contrari, otteniamo tanto conoscenza
animale quanto conoscenza riflessiva di “Ecco una mano”.
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contenuto della sua esperienza sia soggettivamente indistinguibile
da quello che sarebbe se le sue facoltà percettive fossero state
esercitate in condizioni normali. Mi pare quindi che nello
scenario scettico si possano produrre condizioni soggettivamente
indistinguibili da quelle normali, tali per cui il soggetto si
troverebbe a dare per scontato che i suoi sensi abbiano funzionato
a dovere nel formare la credenza “Ecco qui una mano”, quando così
non è stato.
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Per quanto sofisticato e interessante, l’esternismo di Sosa non
sembra pertanto in grado di eludere il dubbio scettico cartesiano,
almeno quando questo venga posto come dubbio riguardante il
possesso di una giustificazione soggettivamente accessibile per
escludere di stare sognando e, conseguentemente, per sapere, o
avere giustificazione per credere, che vi sia una mano là ove ci
pare di vederla.
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sarebbe rilevante? Quando potrebbe darsi facilmente. Si può
mettere la cosa anche in termini di mondi possibili e di loro
relazioni: le alternative rilevanti sono quelle che si danno nei
mondi possibili più vicini a quello attuale. Quindi, per esempio,
un’alternativa rilevante di “Ho due mani” basato sulla mia
esperienza visiva occorrente è che non le abbia perché sono stata
vittima di un incidente stradale. Ahimé, il mondo possibile in cui
potrebbe darsi una tale eventualità non sembra essere molto
distante da quello reale. Un’alternativa irrilevante, invece, è
quella in cui non ce le ho perché sono solo un cervello in una
vasca, che ha allucinazioni come di mani; oppure quella in cui
sono vittima delle macchine diaboliche di The Matrix. Esse mi
darebbero l’impressione di vedere le mie mani, ma in realtà si
tratterebbe solo di ologrammi e potrei benissimo esserne priva.
Tuttavia, secondo i teorici delle alternative rilevanti, questi
mondi possibili sono molto lontani dal nostro.
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soggetta a molte critiche. Qui non le ripercorreremo. Piuttosto,
mi preme sottolineare che la critica al Principio di chiusura
epistemica non comporta necessariamente una concezione esternista
di conoscenza o di giustificazione. È in questa sua forma
internista che lo analizzeremo più nei dettagli.
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--------------------------------------
(3) Non si ha giustificazione per P
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Ora, prima di vedere come si possa negare il Principio di chiusura
epistemica, è utile notare che per molti si tratta di un principio
difficilmente dubitabile. Esso infatti ci consente di estendere le
nostre conoscenze o giustificazioni tramite argomenti
deduttivamente validi, che partono da premesse conosciute o almeno
giustificate. Per tale ragione il Principio di chiusura epistemica
sembra essere fondamentale e difficilmente rinunciabile.
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per credere di non stare sognando, ma ha torto a ritenere che
questo ci impedisca di avere credenze sugli oggetti fisici intorno
a noi perfettamente giustificate.
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acquisire una (prima) giustificazione per credere la
conclusione.
42
Ove l’avere una giustificazione per Q è condizione necessaria al
darsi della giustificazione per P. Ma questo schema, come abbiamo
testé visto, non è altro che lo schema del Principio di chiusura
epistemica.
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(2) Si ha giustificazione per P implica Q
----------------------------------------
(3) Si ha giustificazione per Q
Dovremo tornare a lungo sui rapporti tra questi due principi nel
prossimo capitolo. Per il momento è sufficiente riassumere quanto
visto fin qui dicendo che non sembra che l’argomento delle zebre
nello zoo portato dai detrattori del Principio di chiusura
epistemica sia efficace. Esso pare piuttosto mostrare che,
talvolta, fallisce un altro principio solo apparentemente simile
ad esso, ossia il Principio di trasmissione della giustificazione.
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un contenuto vero. Inoltre, va notato che sarebbe una situazione
un po’ imbarazzante quella in cui si fosse in possesso di una
verità che non potrebbe però essere asserita in maniera
appropriata.
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nozioni, e si siano afferrate distinzioni, che verranno introdotte
nel prossimo capitolo (§6).
46
Per chiarire meglio la struttura della strategia contestualista, è
utile mettere in evidenza che, nella derivazione del paradosso
cartesiano, abbiamo le seguenti premesse (vd. Appendice):
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attribuzioni di conoscenza che a volte si rileva tra i parlanti
può dipendere dal passaggio da un contesto in cui si parla in
maniera lasca, a uno in cui si parla in maniera rigorosa. Quindi
le condizioni di verità di “S sa che p” non sarebbero sensibili al
contesto. Parlando propriamente “S sa che p” è vero (o falso) in
maniera assoluta. Tuttavia, a volte, per varie ragioni
pragmatiche, non parliamo propriamente. Un esempio è quando
diciamo che la Francia è esagonale. Non c’è nessun contesto in cui
ciò è vero. Però, a volte, tanto per dare un’idea della forma di
quel paese, facciamo come se fosse vero. Conee ha anche
giustamente messo in luce che alla filosofia non importa se,
parlando all’ingrosso, abbiamo conoscenza, ma solo se l’abbiamo
davvero. Quindi, in filosofia, le condizioni di verità di “S sa
che p” sarebbero assolute e fissate in base a condizioni
stringenti. (Resta ovviamente da discutere, secondo Conee, se
siano quelle poste dallo scetticismo cartesiano, oppure altre meno
severe).
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casi Gettier, ad esempio, siamo tutti disposti ad ammettere che
sappiamo un sacco di cose; non così quando consideriamo lo
scetticismo cartesiano. (I casi Gettier, così chiamati dal filosofo
che per primo li mise in evidenza (Gettier 1963), sono tali che il
soggetto ha una credenza vera e giustificata, almeno all’apparenza, ma
non diremmo che ha conoscenza. Si può quindi concludere o che,
contrariamente alla concezione tripartita classica, la conoscenza non è
credenza vera e giustificata; oppure che le condizioni a cui si dà la
giustificazione non sono quelle originariamente intese dalla tradizione
filosofica, ma devono essere opportunamente rinforzate per tener conto in
maniera appropriata della loro origine causale).
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vigevano standard diversi da quelli che valgono per lui nel
momento della ritrattazione. Tuttavia, il contestualismo implica
che gli standard applicati nel momento in cui è stata fatta
l’attribuzione siano quelli giusti per valutare semanticamente “S
sa che p” e che quindi rimangano gli unici validi anche quando,
successivamente, si vorrebbe dire che non lo sono più.
50
che ritiene vero “S sa che p”, quello che dice B, che ritiene
falso “S sa che p”, genera una contraddizione e questo basta a
rendere conto dell’idea che A e B siano in disaccordo tra loro.
51
la mia mano”, allora gli standard rimarrebbero bassi. Sapremmo
quindi tanto di avere una mano, quanto di non stare sognando.
Pertanto, è solo quando si introducono ipotesi scettiche come
quella cartesiana che gli standard salgono in maniera tale da
privarci della conoscenza anche delle proposizioni che riteniamo
comunemente di sapere.
Supponiamo invece che, una volta che si sia stati toccati dalla
filosofia, non si possa più usare standard ordinari: ma allora
poveri filosofi! Non saprebbero più nulla, al contrario di coloro
che ignorano la filosofia. Forse sanno di non sapere. Ma, si noti,
questa è una ben magra consolazione. Secondo Socrate, infatti,
sapere di non sapere è una consolazione perché l’ignoranza di come
stanno le cose è comune tanto al filosofo quanto alla persona non
toccata dalla filosofia. Tuttavia, solo il primo ha conoscenza
almeno di una cosa: precisamente della sua ignoranza. Secondo il
contestualismo, invece, la persona non toccata dalla filosofia
saprebbe un sacco di cose che invece il filosofo non saprebbe.
L’esercizio filosofico, quindi, distruggerebbe la conoscenza
invece di renderci semplicemente consapevoli della nostra
ignoranza.
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Ovviamente il contestualista potrebbe assorbire il colpo e
sostenere che le cose stanno proprio così e tanto peggio per
coloro tra noi che si preoccupano di ipotesi scettiche. Questa,
però, non sarebbe una risposta molto soddisfacente dal punto di
vista filosofico. In fin dei conti ne risulterebbe che il miglior
antidoto contro lo scetticismo sarebbe semplicemente quello di non
curarsene!
53
quale ragione dovremmo abbracciare il contestualismo? In
particolare, in che senso il contestualismo sarebbe una risposta
allo scetticismo? In fin dei conti il contestualismo sembra
semplicemente dare ragione allo scettico, con l’unica consolazione
che questi avrebbe ragione solo nel suo contesto. Tuttavia questo
è il contesto in cui ci troviamo quando facciamo filosofia, o,
quanto meno, quando, come in questo libro, ci occupiamo di
scetticismo. Quindi la risposta contestualista appare estremamente
antifilosofica. Ripetiamolo: il miglior antidoto contro lo
scetticismo sarebbe quello di non occuparsene.
54
così scarsa rilevanza? La seconda, invece, è: perché il
contestualista epistemico gli si dedica, visto che alla luce della
sua stessa dottrina esso appare come perlopiù irrilevante?
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filosofica delle premesse – sono in tensione tra loro al punto che
si può mostrare che le premesse non possono essere giustificate.
L’argomento è piuttosto complesso e qui potremo solo presentarne
le linee essenziali. L’idea di base è che quando si produce
l’argomento scettico dobbiamo essere sicuri almeno di una cosa:
che le nostre facoltà intellettive stiano funzionando a dovere. Se
non ne siamo certi, non si vede perché dovremmo prenderlo sul
serio. Ma come possiamo esserne certi? Non potrebbe forse darsi il
caso – non verificabile dal punto di vista della prima persona –
che ci sembri solo che le nostre facoltà intellettive stiano
funzionando a dovere? Ma, se così stanno le cose, non si capisce
perché dovremmo prendere seriamente l’argomento scettico
cartesiano.
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dell’argomento scettico cartesiano sono proposizioni la cui
giustificazione è ottenibile per via di ragione. Questo conduce
però a una contraddizione. Si può infatti dimostrare che, dopo
tutto, potremmo avere giustificazione per “Non sto sognando” (vd.
Appendice).
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giustificazioni non evidenziali ma per default per credere sia di
non stare sognando, sia che vi sia un mondo esterno. Per tale
ragione, rimandiamo al prossimo capitolo (§4), la discussione
critica della strategia unificata proposta da Wright. Occorre però
rilevare che si tratterebbe di un tipo di risposta fondazionalista
al trilemma di Agrippa (cap. 1, §7), poiché sostiene che ci
possano essere giustificazioni ultime per queste nostre credenze
basilari.
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quanto meno, rivendicarne la razionalità, pur concedendo che non
possa essere epistemicamente giustificata.
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Capitolo 3
Come abbiamo già visto nel capitolo 1 (§3) e nel capitolo 2 (§2),
il paradosso scettico humeano non contesta la validità logica
dell’argomento. Quindi, se abbiamo effettivamente una
giustificazione per “Ecco qui una mano”, abbiamo anche
giustificazione per la conclusione “Esiste il mondo esterno”
attraverso l’inferenza corretta. Non solo, questo paradosso
concede anche che si possa avere una tale giustificazione. Esso
agisce solo sul piano squisitamente epistemico, poiché si
interroga sulla natura della giustificazione per “Ecco qui una
mano”. L’idea è che, affinché vi sia una giustificazione
percettiva per “Ecco qui una mano” non è sufficiente avere
un’esperienza con quel contenuto rappresentazionale e fenomenico.
Dopo tutto, quell’esperienza potrebbe essere soggettivamente
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identica anche qualora fosse prodotta in condizioni non standard,
come abbiamo visto a iosa nei capitoli precedenti. Quindi, per
avere una giustificazione percettiva è necessario avere sì quel
tipo di esperienza, ma si deve inoltre assumere che vi sia un
mondo esterno. Ora, secondo lo scettico humeano una tale
assunzione è razionale solo se vi è una giustificazione in suo
favore. Ma questo è proprio quello che vorremmo ottenere
attraverso l’argomento testé presentato. Esso non può quindi
produrre una prima giustificazione per “Esiste il mondo esterno”.
Se non vi è altro modo di ottenerla – e lo scettico humeano
sostiene che non vi sia – allora non vi è nessuna giustificazione
per la nostra credenza nell’esistenza del mondo esterno.
Ora, il primo problema che ci si può porre è perché mai, per avere
una giustificazione percettiva per “Ecco qui una mano” quando si
ha un’esperienza con quel dato contenuto si debbano fare
assunzioni collaterali che, per di più, dovrebbero essere a loro
volta giustificate. A favore della visione alternativa si può
anche portare il dato fenomenologico che nessuno di noi, quando
acquisisce giustificazioni percettive per credenze empiriche
specifiche riguardanti oggetti materiali intorno a sé, intrattiene
l’assunzione “Esiste il mondo esterno” e, meno che mai, sarebbe in
grado di produrne una giustificazione. Per rinforzare il punto, si
potrebbe aggiungere che anche i bambini hanno credenze sugli
oggetti intorno a loro giustificate tramite l’esperienza ma non
hanno né il repertorio concettuale per intrattenere
quell’assunzione, né, tanto meno, alcuna capacità di addurne una
giustificazione.
61
giustificazione anche di credenze empiriche basate sulla
percezione dovesse essere di tipo inferenziale. Secondo questo
modello, la nostra giustificazione per credere che qui vi è una
mano sarebbe dunque data dalla credenza “Ho un’esperienza come di
una mano qui di fronte a me”. Poiché, però, potrei avere
esattamente la stessa esperienza anche se non vi fosse davvero una
mano di fronte a me e se la stessi solo sognando, quella credenza
può fungere da giustificazione per “Vi è una mano di fronte a me”
solo se si assume già che vi sia un mondo esterno, correttamente
rappresentato dalla mia esperienza. Tuttavia, poiché questo è ciò
che l’argomento dovrebbe provare, esso è circolare e non può
servire a darci una (prima) giustificazione per credere che vi sia
un mondo esterno. Più schematicamente, secondo il modello della
giustificazione qui in oggetto, dovremmo pensare alla struttura
della giustificazione come data dall’inferenza seguente in cui
(1)-(5) sono tutte credenze:
--------------------------------------------------------------
(5) Vi è un mondo esterno
62
validità logica dell’argomento non pone nessun problema allo
scetticismo di tipo humeano, che, facendo leva solo sull’ovvia
circolarità dell’inferenza, mostra che non possiamo neppure avere
una giustificazione fallibile per (5), meno che mai una
giustificazione conclusiva (conclusive reason).
63
questa sua credenza goda di una giustificazione proposizionale.
Immaginiamo però che abbia credenze collaterali, come ad esempio
la credenza di soffrire spesso di allucinazioni molto realistiche.
Data questa sua credenza collaterale il soggetto potrebbe trovarsi
nell’impossibilità di avvalersi razionalmente della
giustificazione proposizionale esistente per la credenza che
intrattiene.
64
psicologiche tanto involontarie quanto per noi inevitabili, data
la nostra struttura cognitiva, Wittgenstein, secondo Strawson,
avrebbe sostenuto che quella ed altre credenze sono per noi
scontate e inevitabili perché è proprio della nostra forma di vita
ritenerle tali. Nella lettura che Strawson propone di Della
certezza, venendo cresciuti all’interno della nostra comunità
verremo anche addestrati a dare per scontate quelle credenze che
fungono da fondamenta dei nostri giochi linguistici. Tra queste vi
sarebbe appunto la credenza nell’esistenza del mondo esterno, che
svolge un ruolo essenziale per i nostri giochi linguistici dal
momento che ci consente di considerare le esperienze sensoriali
che abbiamo come vertenti su oggetti materiali.
65
che Wittgenstein abbia sostenuto una forma di naturalismo,
ancorché sui generis nella sua ultima opera. Inoltre, va notato
che vi sono almeno altre due letture altrettanto e probabilmente
più accreditate oggigiorno di Della certezza. Secondo la prima tra
queste, che qui non potrò che schematizzare, Wittgenstein avrebbe
sostenuto una posizione più radicale di quella che gli attribuisce
Strawson: proposizioni come “Esiste il mondo esterno” non
sarebbero proposizioni empiriche, passibili di verifica e
controllo, ma regole. Più esattamente, sarebbero norme di
rappresentazione linguistica ed evidenziale. Quindi, è una regola
del nostro linguaggio che la classe degli oggetti fisici – cioè
degli oggetti che esistono indipendentemente dal fatto che siano
percepiti – non è vuota per cui possiamo dire cose come “a è un
oggetto fisico”; “a esiste da prima che l’umanità esistesse”,
ecc.; ed è inoltre una regola del nostro gioco linguistico
dell’acquisire evidenze che le esperienze sensoriali che abbiamo
vengano riferite a oggetti che esistono indipendentemente da
quelle stesse esperienze sensoriali (o da altre, ovviamente). I
dubbi scettici, quindi, sarebbero non solo innaturali, ma del
tutto insensati, cioè illegittimi, poiché non ha senso dubitare di
una regola. Si può discutere se sia o no utile averla, ad esempio,
ma certo non ha senso chiedersi se una regola rappresenti
correttamente uno stato di cose, e, di conserva, sollevare il
dubbio che lo faccia. Posso infatti chiedermi sensatamente se è
utile fermarsi al semaforo rosso, ma non ha senso che mi chieda se
la regola “Fermati al semaforo rosso” rappresenti correttamente
uno stato di cose indipendente da essa; né, pertanto, ha senso
sollevare un dubbio al riguardo.
66
tramite argomenti a priori, ma, per così dire, per default.
Dovremo tornare in seguito (§4) su questa interpretazione. Per il
momento, però, è sufficiente notare che il dubbio posto dallo
scettico riguardo a “Esiste il mondo esterno” mostrerebbe per
l’appunto solo che non possiamo fornirne né una giustificazione
percettiva, né una per via di ragione, ma ciò non esclude che sia
giustificata in altro modo. Quindi il dubbio scettico non sarebbe
né innaturale, né tanto meno insensato, ma sarebbe basato sul
disconoscimento di un terzo tipo di giustificazione che si dà per
la proposizione in questione (e per altre, come vedremo nel §4).
67
razionalmente sicure delle nostre prassi epistemiche, ne viene
semplicemente che è un fine irraggiungibile, perché al fondamento
vi sarebbero solo assunzioni a loro volta non razionalmente
fondate. (Torneremo nel §6 su questa conclusione).
68
abbia. Dopo tutto, la gran parte delle nostre credenze
risulterebbe essere giustificata se non addirittura conosciuta.
69
(2) Se vi è una mano qui di fronte a me, vi è un mondo
esterno
----------------------------------------------------------------
(3) Vi è un mondo esterno
70
perché sono il frutto dell’esercizio passivo di capacità
concettuali che possediamo. Questo esercizio passivo di capacità
concettuali già possedute dal soggetto si concretizza nel fatto
che, posti di fronte a una mano, il contenuto della nostra
percezione ci è già dato come concettualizzato in quel modo. È la
percezione stessa, per un soggetto dotato dei concetti pertinenti,
che gli manifesta una mano data a lui come una mano, ove
quest’ultima occorrenza di “mano” va intesa come una presentazione
di quel concetto al soggetto percipiente nel mentre che gli si
offre una sua esemplificazione “in carne ed ossa”.
71
teorici del cosiddetto contenuto non concettuale. Tra questi, i
più noti sono Christopher Peacocke (1992) e, più recentemente,
Tyler Burge (2010). Secondo la loro prospettiva, non è necessario
avere i concetti utili a una caratterizzazione canonica di un dato
contenuto percettivo per poter avere una percezione con quello
stesso contenuto. Ora, se questa posizione è, a mio avviso,
sicuramente da preferire sul piano della filosofia della
percezione, perché risolve il problema delle percezioni di animali
e infanti, e non dà luogo a teorie circolari circa l’acquisizione
di molti nostri concetti, né mette capo all’innatismo, non è
chiaro che sia una posizione facilmente sostenibile sul versante
epistemologico.
72
svolgere. Mi permetto qui di illustrare con un esempio di vita
vissuta. Mio figlio Leonardo a dieci mesi giocava spesso col
cellulare della nonna di forma oblunga e blu. Vedi caso, la nonna
ha anche un porta occhiali rigido dalla forma e dal colore
analoghi. Ogni tanto Leonardo prendeva il portaocchiali e se lo
portava all’orecchio, così come faceva col cellulare. È evidente
che, in assenza dei concetti di cellulare e porta occhiali
rispettivamente, avendo una percezione dal contenuto non
concettuale molto simile, se si volesse sostenere che questo è
sufficiente a dare una giustificazione per l’eventuale credenza
corrispondente, si dovrebbe inferire che chi si trovasse nelle
condizioni di Leonardo avrebbe una giustificazione per, poniamo,
“Ecco qui un cellulare”. Ma, intuitivamente, non pare che le cose
stiano così e non paiono stare così perché il soggetto non sembra
in grado di discriminare tra una percezione di un cellulare e una
di un porta occhiali. Una tale capacità di discriminazione, per
quanto a volte fallibile, sembra invece necessaria per poter avere
una giustificazione percettiva per “Ecco qui un cellulare” (oppure
per “Ecco qui un porta occhiali”).
73
corrispondenti. In altre parole, credo che, quando siamo
interessati a questioni epistemologiche, dobbiamo ammettere che
solo per le creature dotate dei concetti pertinenti e per le quali
quindi il mondo si presenta, nella percezione, come
un’attualizzazione di determinati concetti, le percezioni possano
come tali svolgere un ruolo genuinamente giustificativo. In questo
McDowell ha ragione, a mio avviso. Però questa concettualizzazione
può avvenire e, secondo me deve di fatto avvenire, sulla base di
capacità percettive che le preesistono e che sono comuni agli
esseri umani adulti, agli infanti e a molti animali. Ovviamente a
noi esseri umani adulti questo processo non si dà,
fenomenologicamente, in due tempi. Questo, però, a mio modo di
vedere, è semplicemente il portato del fatto che siamo già in
possesso dei concetti pertinenti e abbiamo familiarità col mondo
che ci circonda.
74
Ammettiamo quindi con McDowell che vedere una mano e sognare di
vederla siano due stati mentali mutuamente esclusivi. Supponiamo
anche che se si sta vedendo una mano, questo dia una
giustificazione immediata – cioè non inferenziale – per “Vi è una
mano qui di fronte a me”. Concediamo inoltre – cosa che McDowell
stesso accetta e che deve accettare se vuole argomentare contro lo
scettico e non cambiare discorso – che al soggetto non sia (né
possa essere) evidente se stia effettivamente vedendo una mano,
oppure se la stia solo sognando, poiché il contenuto di quei due
stati mentali è (almeno in linea di principio) soggettivamente
identico. Che cosa permette quindi di assumere di stare vedendo
una mano (0), invece di starla solo sognando e quindi essere nello
stato mentale descrivibile come (0*) “Sto sognando (o avendo
l’allucinazione) di avere una mano di fronte a me)”, da cui,
ovviamente non discenderebbe nessuna giustificazione per (1)-(3)?
Nulla, a meno di non presupporre di essere nel lato della
disgiunzione favorevole, cioè quello in cui non stiamo sognando,
ma stiamo avendo percezioni provocate dall’interazione con oggetti
fisici. Questo però equivale ad assumere quello che si doveva
provare: che vi sia un mondo esterno con cui siamo in relazione
causale attraverso i sensi. Pertanto il disgiuntivismo non evita
la circolarità del paradosso humeano, ma, anzi, la ripropone
(Wright 2002, pp. 302-4).
75
una struttura un po’ diversa, ma oggigiorno viene resa perlopiù
come segue:
76
conto del fatto che uno scettico non sarebbe stato molto
impressionato da un argomento siffatto.
Uno scettico potrebbe dire, infatti, che quello che a Moore sembra
essere certo, o più certo di altro, non dimostra che le cose
stiano come gli paiono. Più in generale, lo scettico sta
sollevando una possibilità logico-metafisica la cui probabilità
soggettiva non deve essere maggiore di quella della sua
controparte non scettica per dar luogo al paradosso. Pertanto
Moore rimase sempre insoddisfatto dalla sua prova, intesa come
argomento antiscettico.
77
(2000) considera la posizione del cosiddetto “dogmatista” o
“liberale” circa la giustificazione delle credenze empiriche di
cui Moore e lui stesso sono, sempre secondo Pryor, gli esempi più
chiari. Tra queste credenze percettive basilari vi è “Ecco qui una
mano”, quando viene formata sulla base della nostra percezione. Se
così stanno le cose, cioè se non abbiamo bisogno di nessuna
giustificazione per (3) per avere una giustificazione per (1),
allora abbiamo una giustificazione diretta per (1) che si
trasmette a (3) attraverso l’inferenza corretta. L’argomento non è
quindi circolare.
78
diretta solo per una credenza come “Ecco una superficie di una
mano”.
Moore nutriva inoltre dei dubbi sulla natura dei sense data e
oscillava tra l’identificarli con le superfici visibili degli
oggetti e il considerarli delle entità mentali. Quest’ultima
concezione renderebbe assai problematica l’attribuzione a Moore
della tesi che vi siano credenze percettive basilari alla maniera
di Pryor. In effetti, Moore stesso sostenne che per avere una
giustificazione per una credenza empirica come (1) sulla base
della propria evidenza sensoriale fosse necessario anche già dare
per scontato che vi sia un mondo esterno. Ma anche lasciando da
parte queste perplessità di ordine esegetico, rimane qualche
dubbio circa la natura di queste credenze percettive basilari.
79
Ora, però, è chiaro che per Pryor le credenze percettive basilari
devono vertere su oggetti materiali, sennò non potrebbero servire
come punti di partenza per un argomento contro lo scetticismo
humeano. Ma, in secondo luogo, è ovvio a questo punto che dovremmo
avere una qualche giustificazione per credere che avere
semplicemente un’esperienza come di un oggetto fisico con certa
forma e colore posto di fronte a noi ci dia subito una
giustificazione per la credenza nell’esistenza di quell’oggetto
materiale e disconfermi quindi la controparte scettica di quella
credenza.
80
Il punto è che perché sia una giustificazione pertinente (ancorché
fallibile) per (1) e non per (1*) si deve già assumere, magari
implicitamente, che vi sia un mondo di oggetti fisici con cui si
sta interagendo causalmente. (3) è quindi presupposto e
l’argomento continua a essere circolare.
Inoltre, c’è chi ha sostenuto (Cohen 2000 e 2002) che ogni teoria
che sostenga forme di “conoscenza basilare” (basic knowledge) si
espone al problema della cosiddetta “conoscenza facile” (easy
knowledge) o del cosiddetto “bootstrapping” (“autopromozione”).
Vediamo meglio di che cosa si tratta. Intanto per “conoscenza
basilare” si intendono tutte quelle proposte che affermano che
possiamo avere giustificazione immediata – di tipo internista o
esternista – (e addirittura conoscenza) per credere per esempio
che qui vi sia una mano sulla scorta della nostra esperienza.
Quindi l’obiezione non si applica solo alla proposta di Pryor, ma
anche alle teorie affidabiliste della giustificazione, secondo le
quali, visto che la percezione è una facoltà generalmente
affidabile, se “Ecco qui una mano di fronte a me” è una credenza
basata sulla propria percezione occorrente, allora è giustificata.
Anzi, in effetti è stata originariamente formulata proprio contro
le teorie affidabiliste, ma è stata recentemente estesa anche alla
proposta di Pryor. Vediamola ora nella forma che ha preso
ultimamente.
81
percettiva di un muro bianco illuminato di rosso”, posto che la
prima proposizione esclude la seconda e la terza. Quindi,
semplicemente sulla scorta della mia esperienza attuale, posso
escludere di essere vittima di un’illusione percettiva. Questo,
però, sembra intuitivamente sbagliato.
82
A questo punto si potrebbe ammettere per amore di discussione,
contrariamente all’internismo cui Pryor dice di volere attenersi,
che si possa avere una giustificazione percettiva immediata per
(1) senza presupporre (3), se l’esperienza è affidabile.
83
in grado di rivendicarla. Consideriamo più in dettaglio la
questione. Per poter rivendicare una giustificazione per (1)
sembra necessario sostenere anche che la propria esperienza è
prodotta dall’interazione con un universo di oggetti fisici,
dall’operazione di sensi che funzionano a dovere e in assenza di
sogni lucidi e persistenti. Quindi, per poter rivendicare la
propria giustificazione per (1), si deve assumere (3), cioè che si
sia nel caso favorevole in cui esiste un mondo esterno, con cui si
è in relazione causale, oppure che i propri sensi funzionino a
dovere e che non si sia vittime di sogni lucidi e persistenti. Ma
a loro volta queste assunzioni dovrebbero essere indipendentemente
giustificate ed esserlo in maniera tale che si sia in grado di
rivendicarne la giustificazione. Ora, nell’ipotesi affidabilista o
esternista di Sosa, ammettendo il bootstrapping, sarebbero
giustificate esternisticamente, ma non si vede come un soggetto
possa razionalmente rivendicare una tale giustificazione. Questa
giustificazione infatti vi sarebbe ma per ragioni esterne
all’individuo, il cui darsi effettivo non può essergli
soggettivamente noto (Stroud 1994, Wright 2007).
84
impegna a sostenere che sia (probabilmente) falso che vi siano
oggetti fisici. Piuttosto, ritiene che non sia giustificato né
credere che vi siano, né credere che non vi siano. Inoltre, lo
scettico sostiene il proprio agnosticismo sulla base di argomenti,
come quello dell’indistinguibilità dell’esperienza quale ne sia la
causa, che fanno sì leva su possibilità logico-metafisiche, ma
che, se si dà per scontato, come Pryor fa, che quest’ultime siano
legittime, sono difficilmente opinabili.
85
L’idea che i paradossi scettici riguardino la giustificazione al
second’ordine e che rappresentino quindi delle “crisi di coscienza
intellettuale” (Wright 2004a, pp. 167, 209-11) è alla base della
risposta anti-dogmatica al paradosso scettico humeano recentemente
proposta da Crispin Wright.
Wright nota come alla base di ogni paradosso scettico, sia esso
cartesiano oppure humeano, vi è l’assunzione non ulteriormente
motivata che l’unico tipo di giustificazione per le implicazioni
pesanti – “Non sto sognando in questo momento” ed “Esiste un mondo
esterno” – debba essere acquisita per mezzo dell’esperienza. Nel
caso del paradosso cartesiano questo fa sì che non potremmo mai
sapere se il test per verificare se stiamo sognando in questo
momento sia stato effettivamente eseguito e questo rende
impossibile avere una giustificazione per credere che vi sia
davvero il mondo esterno; nel caso invece del paradosso humeano
questo fa sì che vi sia sempre bisogno dell’informazione
collaterale che vi è un mondo esterno, che rende circolare ogni
tentativo di provare che vi sia.
86
oggetto fisico specifico), che possiamo acquisire una
giustificazione - in questo caso a priori – per credere di non
stare sognando in questo momento, oppure per credere che vi sia un
mondo esterno oppure una mano di fronte a noi. Né possiamo
acquisire giustificazioni siffatte per via empirica, se lo
scettico cartesiano e quello humeano hanno ragione. L’idea quindi
è che siamo giustificati per default – che lo riconosciamo oppure
no – a credere di non stare sognando o che vi sia un mondo
esterno.
87
Si potrebbe inoltre obiettare che la strategia di Wright non è
messa meglio di quelle di Dretske e Nozick e dei contestualisti,
perché non pare offrire una risposta diretta allo scetticismo, ma
limitarsi a contenerne i danni. Infatti, il paradosso scettico
mostra che non possiamo acquisire una giustificazione per credere
che non stiamo sognando in questo momento, oppure per credere che
vi sia un mondo esterno e Wright in effetti concede che questa sia
una conclusione legittima.
88
Secondo Wright, però, per rivendicare la nostra giustificazione
per “Non sto sognando in questo momento” e “Esiste il mondo
esterno” abbiamo bisogno di due argomenti diversi. Analizziamoli
in quest’ordine.
89
quindi una giustificazione per default; pertanto, è razionale
credere di non stare sognando in questo momento, anche se non
possiamo di fatto acquisire nessuna giustificazione evidenziale per
tale credenza.
90
esistono indipendentemente da essa. Un idealista potrebbe invece
ritenere che l’esperienza, per essere oggettiva, debba
semplicemente presentare uniformità che non dipendono
necessariamente dal pensare che gli oggetti esistano
indipendentemente dall’essere esperiti. Per esempio, invece che
ritenere che la mia esperienza dello schermo del computer di
fronte a me sia oggettiva solo se la si può considerare prodotta
dall’interazione con un oggetto che esiste indipendentemente dal
fatto che lo si esperisca, si potrebbe ritenere che sia oggettiva
se presenta uniformità spazio-temporali che possano giustificare
certe generalizzazioni. Ad esempio: se guardo in questa direzione,
avrò questa particolare esperienza di una macchia più o meno
quadrata con certi colori e certa luminosità. Se guardo invece da
quest’altra prospettiva, avrò un’altra esperienza di una macchia
di forma più o meno rettangolare con certi colori e certa
luminosità. Se guardo domani nella stessa direzione in cui sto
guardando ora, avrò esperienze identiche a quelle di oggi (o molto
simili e coerenti con quelle passate). Posso quindi decidere di
chiamare “schermo di computer” l’insieme di tali esperienze e non
quell’oggetto la cui esistenza dovrebbe essere indipendente da
quelle e che si suppone esserne la causa. Inoltre, presupporre che
l’uniformità e la coerenza nel tempo delle esperienze dipenda dal
fatto che vi sia un oggetto materiale (un computer), che esiste
indipendentemente dal fatto che lo si percepisca, significherebbe
presupporre qualcosa che non ci è garantito dall’esperienza
stessa: per tutto quello che ne sappiamo, tale uniformità potrebbe
dipendere dal fatto che vi sia uno scienziato, o un demone, che
producono quelle rappresentazioni nella nostra mente.
91
dell’assumere che vi siano oggetti fisici tramite un argomento di
tipo trascendentale che poggia su premesse discutibili. Vedremo in
seguito (§6)se, a questo proposito, si può fare di meglio.
92
non sia razionalmente sbagliato o immotivato fare queste
assunzioni che, come tali, sono però ingiustificate e
ingiustificabili. Quindi non è lo scettico ad avere una concezione
troppo parziale di giustificazione, che, se corretta tramite le
giustificazioni per default, può far sì che queste assunzioni
siano dopo tutto giustificate. Piuttosto è Wright che non si
avvede del fatto che le giustificazioni per default, che altro non
sono se non argomenti a priori, non sono giustificazioni per
credere vere certe proposizioni, ma per darci una rassicurazione
del fatto che assumere quelle proposizioni, senza che ve ne sia
una giustificazione, è razionalmente accettabile.
93
cioè di dirci perché assumere certe proposizioni come tali
ingiustificate (e ingiustificabili) sia dopo tutto razionale. La
mia impressione è che anche da questo punto di vista siano
problematiche. Come ho già brevemente rilevato, il primo argomento
offerto da Wright sembra mostrare che, poiché formare credenze
empiriche sulla scorta delle nostre esperienze è un progetto
cognitivo per noi importante – io direi addirittura
imprescindibile –, non possiamo non accettare di non stare
sognando. Ma questa è una giustificazione chiaramente pragmatica,
che fa leva sul fatto che il metodo conoscitivo di cui
l’assunzione “Non sto sognando in questo momento” è la base è per
noi utile o addirittura necessario. Uno scettico non avrebbe – io
credo – nessuna ragione di obiettare al fatto che per noi è utile,
o persino imprescindibile, assumere quelle proposizioni. Potrebbe
quindi insistere che, evidentemente, ciò non dimostrerebbe che
quelle proposizioni sono epistemicamente giustificate, cioè che vi
siano ragioni per ritenerle vere. Quindi, mi pare, la strategia
antiscettica di Wright sarebbe del tutto inefficace.
94
fisici. Ma, a questo punto, è ovvio che uno scettico potrebbe
ammettere che al fine di avere lo schema concettuale che abbiamo
sia necessario assumere che vi sia un mondo esterno, ma sostenere
che, per l’appunto, questo non esclude che, in effetti, non vi
siano oggetti fisici e che il nostro schema concettuale andrebbe
rivisto di conseguenza; oppure che, pur mantenendo il nostro
sistema concettuale, è metafisicamente possibile che le
descrizioni per cui lo utilizziamo siano sistematicamente
scorrette.
95
il fatto stesso che pone le condizioni di individuazione del
contenuto al di là delle capacità di riconoscimento del soggetto.
Nel caso di Oscar e il suo gemello, discusso da Puntam (1975) (o
nel caso dei pensieri singolari alla Evans (1982) e McDowell
(1984)), due soggetti potrebbero avere contenuti di pensiero
fenomenologicamente identici del tipo “Ecco dell’acqua” e “Questa
è la mia mano” e solo uno avere effettivamente un pensiero
sull’acqua o il pensiero singolare in questione. L’opacità del
contenuto semantico, quindi, che è l’effetto dell’esternismo
semantico, è da sempre una condizione favorevole alla
compatibilità, almeno a certe condizioni, tra esternismo semantico
e scenari scettici.
96
difficili da valutare pienamente, ma che meritano ciononostante un
accenno.
97
per escludere di essere nello scenario scettico specifico
compatibile con l’esperienza che si sta avendo in quel momento è
una conseguenza necessaria dell’avere una giustificazione
percettiva per “Ecco qui una mano”. Tuttavia, secondo Wedgwood,
tale giustificazione non spiega, contrariamente a quanto sostiene
il conservatore, il fatto che l’esperienza che si sta avendo sia
una giustificazione per credere “Ecco qui una mano”. Anzi, è
proprio il fatto che, come vuole il liberale, si sia
immediatamente giustificati a credere proposizioni come “Ecco qui
una mano” sulla scorta della propria esperienza, che spiega perché
si sia giustificati a credere che esiste un mondo esterno o che
non si sia vittime di un sogno lucido e persistente.
98
assenza di ragioni contrarie, per formare le credenze empiriche
corrispondenti; (ii) la pratica di inferire “Ho un’esperienza con
contenuto che P e non vi sono ragioni per credere il contrario” a
partire dalla propria credenza che P riguardante un oggetto
fisico, basata sulla propria esperienza occorrente; (iii) la
pratica di formare la credenza condizionale “Se P allora Q” in
risposta all’avere razionalmente inferito la proposizione Q dalla
supposizione della proposizione P; (iv) la pratica di formare
credenze per via deduttiva a partire da proposizioni che si
credono già razionalmente; (v) la pratica di formare credenze
sulla base di inferenze alla spiegazione migliore a partire da
proposizioni che si credono già razionalmente.
99
capacità cognitive pertinenti a credere la negazione delle ipotesi
scettiche e spiega quindi perché abbiamo una giustificazione a
priori per farlo. Infine, è importante rilevare che, se Wedgwood
ha ragione, vi sarebbero giustificazioni a priori per proposizioni
empiriche contingenti, come “Non sto sognando in questo momento”,
che, invero, sarebbero giustificate a priori anche se fossero
false, qualora si fosse in uno scenario scettico.
100
Quello che si deve rilevare, piuttosto, è che anche qualora sia
vero che almeno talvolta quelle pratiche debbano averci condotto a
credenze vere, ciò non impedisce, come d’altronde Wedgwood stesso
ammette, che ci si affidi ad esse anche in scenari scettici in cui
non produrrebbero credenze vere. Quindi non si vede in che senso
possano essere utilizzate nel tentativo di dare una risposta
convincente al paradosso scettico.
101
Il fatto che possa sembrare altrimenti dipende, secondo me, da una
confusione tra giustificazioni in possesso dei soggetti e
giustificazioni proposizionali, causata forse dall’internalismo
forte sottoscritto da Wedgwood, secondo il quale ogni qual volta
si parla di giustificazioni si sta di fatto parlando di
giustificazioni effettivamente possedute dai soggetti. Sia come
sia, ricorderemo che la differenza tra Pryor e Wright si misura
invece sul piano delle giustificazioni proposizionali. In questa
prospettiva, se si è convinti, come lo è Wedgwood, che le
esperienze da sole non possano giustificare la credenza nella
negazione delle ipotesi scettiche, ma che, a tal fine, vi debbano
essere giustificazioni indipendenti, allora si è già dei
conservatori; poco importa se, dal punto di vista delle
giustificazioni disponibili ai soggetti, queste giustificazioni si
acquistino dopo aver acquisito la capacità di formare credenze
empiriche sulla scorta delle proprie esperienze e le capacità
cognitive e concettuali necessarie a riflettere su tale prassi.
Infine, è solo dal punto di vista delle giustificazioni
disponibili ai soggetti che, una volta ammesso che le esperienze,
come tali, non possono giustificare la credenza in ipotesi
antiscettiche, si può continuare a pensare, in qualche modo in
linea col dogmatista, che le esperienze come tali giustifichino
direttamente i soggetti a formare le credenze empiriche
corrispondenti. È infatti solo da questo punto di vista che è
plausibile l’idea che i soggetti non debbano già avere una
giustificazione per credere nella negazione delle ipotesi
scettiche al fine di formare credenze empiriche sulla scorta delle
loro esperienza in assenza di ragioni contrarie. Ma, ripetiamolo,
la disputa tra Wright e Pryor è sulle giustificazioni
proposizionali e, stando così le cose, la posizione di Wedgwood è
instabile. Ricade infatti ora su quella liberale di Pryor, ora su
102
quella conservatrice di Wright e non pare offrire un’alternativa a
nessuna delle due.
103
ad assentire a P, indipendentemente dal fatto che S abbia qualche
altra ragione che lo spinga ad assentire a P oltre alla
comprensione di P; (ii) il meccanismo che lo spinge ad assentire a
P, sulla base della comprensione di P, indipendentemente da ogni
altra base razionale, è una competenza epistemica; (iii) tale
meccanismo opera negli esseri umani generalmente nel corso
abituale del loro sviluppo, visto che dà ai soggetti i concetti
costitutivi di P insieme alla propensione ad assentire a P.
104
che abbiamo i concetti in gioco, un tale assenso spontaneo non
pare sufficiente per determinare che sia vero che c’è un mondo
esterno intorno a noi e quindi a determinare che sappiamo che vi
è.
Tiriamo un po’ le somme. Per prima cosa abbiamo visto che nella
disputa tra Wright e Pryor è ormai da più parti rilevato, anche
facendo appello a strumenti formali desunti dal calcolo delle
probabilità (White 2006), che quest’ultimo ha torto a ritenere
che, in assenza di ragioni contrarie, l’esperienza possa essere
una giustificazione immediata per “Ecco qui una mano”, senza
105
assumere o dare per scontato – certamente in maniera implicita –
che vi sia un mondo esterno. Questo però non implica ipso facto,
di contro a quello che sostiene Wedgwood, che vi debba essere una
giustificazione a priori per quella proposizione. Né implica,
contrariamente a quanto ritiene Wright, che, perché sia
razionalmente legittimo credere “Ecco qui una mano” sulla base
della propria esperienza, si debba avere una giustificazione – non
empirica, né strettamente a priori, ma per default – per “Esiste
il mondo esterno”. Al di là infatti dei problemi specifici cui
vanno incontro le strategie a priori o della giustificazione per
default, che abbiamo analizzato nei §§4-5, tutto quello che segue
dalla critica alla posizione liberale è solo che per avere una
giustificazione empirica basata sulla propria esperienza
occorrente, in assenza di ragioni contrarie, bisogna fare delle
assunzioni collaterali e, in particolare, che vi sia un mondo
esterno, che i propri sensi funzionino perlopiù a dovere e che non
si sia vittime di un sogno lucido e persistente. Quindi, a rigore,
rimane da esplorare più a fondo l’ipotesi che la struttura della
giustificazione empirica non sia né quella proposta dai liberali,
né quella avanzata dai conservatori, ma sia, in effetti, quella
che potrebbe essere sostenuta dai cosiddetti “moderati”. Per
ripetere: per avere una giustificazione per proposizioni
specifiche come “Ecco qui una mano”, c’è bisogno, in assenza di
ragioni contrarie, oltre che dell’esperienza appropriata, anche di
un’assunzione collaterale riguardante una o più delle
“proposizioni pesanti” appena menzionate. In questo modo, la
propria esperienza occorrente può costituirsi come giustificazione
per “Ecco qui una mano” piuttosto che per la sua controparte
scettica “Sto sognando di vedere una mano”, anche se ovviamente si
tratta di una giustificazione fallibile.
106
Dire che si può meramente dare per scontato che vi sia un mondo
esterno, ancorché non si abbia nessuna giustificazione per farlo,
né empirica né per default, può tuttavia indurre a credere che qui
si stia proponendo una forma di esternismo. È quindi importante
notare che non si sta sostenendo che, purché sia vero che esiste
un mondo esterno, si ha ipso facto una giustificazione percettiva
(fallibile) per “Ecco qui una mano”, se si ha l’esperienza
corrispondente e in assenza di ragioni contrarie. Al contrario,
quello che si sta affermando è che noi siamo impegnati (committed)
alla verità di quella proposizione e agiamo di conseguenza, ma
questo non vuol dire proporre una posizione riguardante le
condizioni metafisiche della realtà date indipendentemente da noi;
vuol dire piuttosto avanzare una tesi sulla nostra condizione
epistemica. A dire, noi siamo impegnati alla verità di quella
proposizione e questo, insieme a certo tipo di esperienze
occorrenti, in assenza di ragioni contrarie, ci dà una
giustificazione per proposizioni empiriche specifiche come “Ecco
una mano”.
107
empiriche specifiche si basino, oltre che sull’esperienza
occorrente, anche su assunzioni collaterali che, per i primi, è
per noi naturale – in qualche senso di “naturale” – fare e che,
per i secondi, sono pragmaticamente razionali.
108
appropriate, in assenza di ragioni contrarie, sono giustificati a
credere, per esempio, “Ecco qui la mia mano”.
109
Inoltre, “Ecco qui una mano” implica “Esiste il mondo esterno”. Ne
viene quindi che si avrebbe anche una giustificazione percettiva
per “Esiste il mondo esterno”. Il moderatismo, che è una tesi
circa la struttura della giustificazione percettiva, avrebbe
pertanto lo stesso esito del liberalismo rispetto alla cogenza
epistemica della prova di Moore.
110
attraverso un ragionamento, come quello di Moore, che non potrebbe
partire con una premessa giustificata a meno di non stare già
assumendo, senza alcuna giustificazione per farlo secondo il
moderatisimo, quella stessa proposizione. Si pensi al caso analogo
in cui si volesse giustificare “La Terra esiste da moltissimo
tempo” per mezzo di un argomento come “Questo fossile risale a
milioni di anni or sono; se questo fossile risale a milioni di
anni or sono, allora la Terra esiste da moltissimo tempo; dunque
la Terra esiste da moltissimo tempo”. È importante notare che la
prima premessa del ragionamento, per essere giustificata, deve
basarsi su certa evidenza e sul dare per scontata la conclusione e
non sembra quindi in grado di produrre una genuina giustificazione
per essa. Più in generale, il problema, posto anche dallo
scetticismo e da coloro che si sono opposti alla easy knowledge e
al bootstrapping empirico, è che una prassi giustificativa, che
riposa su premesse come tali non giustificate, non sembra in grado
di produrre una giustificazione per esse.
111
della trasmissione della giustificazione: quello di Wright e
quello appena introdotto. Possiamo riassumerli e definirli come
segue.
112
di tipo 1 sarebbe quindi l’esempio già incontrato (capitolo 2, §2)
della zebra:
113
casi di Fallimento di tipo 2, perché non possiamo fornire
giustificazioni indipendenti per (3). Dando per scontato infatti
che non se ne possano fornire giustificazioni a priori e che non
ve ne siano per default, argomenti tesi a darci giustificazioni
empiriche per (3) farebbero a loro volta leva sull’assunzione di
(3) stesso e quindi non potrebbero darci una giustificazione
indipendente per (3).
114
vedremo tra un attimo. In particolare, possiamo mostrare come,
sebbene ingiustificate e ingiustificabili, esse siano razionali.
Questo ci permetterà quindi di affermare qualcosa di assai meno
“abominevole” di “Abbiamo giustificazioni per credere che vi sia
una mano ove ci pare di vederla, ma non che vi sia un mondo
esterno”. A dire: “Abbiamo giustificazioni per credere che vi sia
una mano ove ci pare di vederla; non ne abbiamo invece per credere
che vi sia un mondo esterno. Tuttavia, si tratta di un’assunzione
epistemicamente razionale”.
115
L’idea che intendo proporre è che è vero che diamo semplicemente
per scontato che esista un mondo esterno, senza che ve ne sia
nessun tipo di giustificazione epistemica a sostegno. Ciò
nondimeno, si può rivendicare che il farlo è del tutto razionale e
non perché è un qualcosa di “animale”, “istintivo” o “proprio di
una forma di vita”, né tale da un punto di vista pragmatico – in
base a fini che ci proponiamo di perseguire –, bensì alla luce
della nozione stessa di razionalità epistemica. In questo modo
credo si possa quindi combinare l’idea moderata, cui lo
scetticismo stesso conduce, secondo la quale non vi sono
giustificazioni epistemiche per “Esiste il mondo esterno”, con
l’idea che si possa dare una soluzione al paradosso scettico più
convincente di quelle offerte da naturalisti e pragmatisti (o dai
sostenitori delle giustificazioni per default).
116
proposizione empirica. A sua volta, però, tale prassi è ciò che
determina la nostra nozione di razionalità epistemica stessa.
Questa nozione, infatti, non ci viene dal nulla o da una
riflessione a tavolino (o in poltrona, come si usa dire oggi), ma
appunto dal nostro modo di operare.
117
cui si possono produrre giustificazioni percettive a favore, o
dubbi empirici specifici, ma anche a quelle presupposizioni, come
“Esiste il mondo esterno”, che, seppure ingiustificate e
ingiustificabili, rendono possibile l’acquisizione di
giustificazioni percettive per le proposizioni empiriche
specifiche.
118
rendono possibile l’acquisizione delle giustificazioni
percettive.
119
ricorso a teorie, per poter operate. Divinare il futuro leggendo
le carte o i fondi di caffè evidentemente non è una prassi
epistemica basilare, perché presuppone il formare credenze
riguardo alle carte e alla disposizione dei fondi di caffè sulla
base della propria esperienza sensoriale e di altre conoscenze;
richiede inoltre l’applicazione di una qualche teoria alla
configurazione esperita e quindi la deduzione di determinate
conclusioni. Al contrario, la prassi di formare credenze empiriche
sulla base delle proprie esperienze sensoriali non richiede altre
prassi epistemiche. Ora, secondo la proposta qui avanzata, solo le
prassi epistemiche basilari sono costitutive dei rispettivi tipi
di razionalità. Quindi, ad esempio, la prassi di formare (e
rivedere) credenze sugli oggetti che ci circondano sulla base
dell’esperienza sensoriale è costitutiva della razionalità
epistemica. Analogamente, si può sostenere che la prassi di
formare credenze sulla base di alcuni principi logici (come ad
esempio il modus ponens) sia costitutiva di quella che potremmo
chiamare “razionalità deduttiva”. Ancora, la prassi di agire sulla
scorta di ragionamenti mezzi-fini, ovviamente a determinate
condizioni, si potrebbe dire che è costitutiva della razionalità
pratica, e così via. È solo di queste prassi epistemiche basilari
e, in particolare, delle loro presupposizioni, che, a mio avviso,
si può dire che siano intrinsecamente razionali, sub specie
razionalità epistemica, deduttiva o pratica.
120
abbiamo una diagnosi dell’errore scettico, che ci permette di
farvi fronte in maniera non dogmatica e – forse, poiché con le
questioni filosofiche più fondamentali la cautela è sempre
d’obbligo – di liquidarlo una volta per tutte.
121
Appendice
Kp
K(pq)
-----------
Kq
(1) Kp Assunzione
(2) KKp 2, Iteratività
(3) K(Kpq) Assunzione: Principio cartesiano, che è noto
--------------
(4) Kq 3, Principio chiusura epistemica
122
(1) Kq Assunzione
(2) Kp Assunzione per la riduzione all’assurdo
(3) KKp 2, Iteratività
(4) K(Kpq) Assunzione: si tratta del Principio cartesiano* noto
(5) Kq 3, 4 Principio di chiusura epistemica
(6) 1, 5
------------------
(7) Kp 2, 6 per riduzione all’assurdo
(1) Kp Assunzione
(2) K(pr) Assunzione
--------------
(3) Kr 1, 2, Principio di chiusura epistemica
(1)Wq Assunzione
(2)Wp Assunzione per la riduzione all’assurdo
(3)WWp 2, Iteratività
(4)W(Wpq) Assunzione: Principio cartesiano che abbiamo
giustificazione per credere
(5)Wq 3, 4 Principio di chiusura epistemica
(6) 1, 5
--------------------
123
(7)Wp 2, 6 per riduzione all’assurdo
(1) WP
(2) W(PQ)
----------------
(3) WQ
(1) WQ
(2) W(PQ)
---------------
(3) WP
124
Fallimento del Principio Fallimento del Principio
di chiusura epistemica di trasmissione della
giustificazione
(1) WP (1) WP
(2) W(PQ) (2) W(PQ)
---------------- --------------------
(3) Q (3) WQ
(1) Wq
(2) Wp
125
Argomento di Wright contro il paradosso scettico cartesiano (p.
XX):
P1 = Wq
P2 = Wp
(1) Wp Assunzione
(2) W(pr) Assunzione
----------------
(3) Wr 1, 2 Principio di chiusura epistemica
126
Cos’altro leggere
Capitolo 1
127
Per il dibattito tra internisti ed esternisti sulla
giustificazione, si vedano, in italiano, Vassallo 2003, pp. 37-49,
e Amoretti e Coliva 2011, nonché la bibliografia ivi contenuta.
Capitolo 2
128
Sulla variante di MacFarlane riguardo alla valutazione semantica
delle attribuzioni di conoscenza si veda, in italiano, Coliva
2009, pp. 125-130.
Capitolo 3
129
Per posizioni che ammettono che contenuti percettivi non
concettuali possano fungere, come tali, da giustificazione delle
credenze empiriche corrispondenti, si vedano Peacocke 2004 e Burge
2003.
130
frutto di un meccanismo che è stato naturalmente selezionato per
dare luogo a credenze vere. Tale argomento, secondo Peacocke, è a
priori perché è vero a priori che è esplicativamente più semplice
di uno che facesse intervenire ipotesi scettiche. Per una critica
a questo aspetto della proposta di Peacocke, si veda Wedgwood
2007. È inoltre noto che il fatto che un’ipotesi permetta di
spiegare più semplicemente di un’altra certo fenomeno non dimostra
che sia vera (cfr. cap. 1, §1).
131
Per critiche diverse alla nozione di fallimento della trasmissione
della giustificazione proposta da Wright si vedano Silins 2005,
Davies 2010 e Coliva 2010b e 2011b, per una difesa, invece, Pryor
2011.
132
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