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Il neoplatonismo fiorentino
In Italia si assiste a una rinascita degli studi filosofici – in particolare del platonismo – strettamente
connessa alle specifiche realtà cittadine e, collegata al passaggio dai comuni alle signorie, si defi-
nisce la figura dello studioso contemplativo → filosofo professionale finanziato dalla corte.
Marsilio Ficino (1433-1499) → stretto rapporto con i Medici.
Il programma ficiniano è un tentativo di armonizzazione della religione con la filosofia: secondo
l’autore esiste una rivelazione perenne che, nel cammino dell’umanità, si è di volta in volta espressa
nel linguaggio filosofico o devozionale. Nella Theologia platonica (1482) critica Averroè e, più in
generale, l’intera tradizione aristotelica perché è inconciliabile con la dottrina dell’immortalità perso-
nale dell’anima. L’anima umana ha una posizione centrale nella visione del cosmo di Ficino, po-
nendosi nel mezzo di una gerarchia ontologica che va dalla materia a Dio ed esercitando nei suoi
confronti una funzione unificatrice. Il fatto che l’anima ascenda e discenda continuamente prova la
sua capacità di muoversi all’infinito e, quindi, la sua immortalità. La centralità dell’anima coincide con
quella dell’uomo → rigoroso antropocentrismo per cui l’uomo rappresenta il principio fondamentale
dell’ordine e dell’unità del cosmo. A queste riflessioni, Ficino unisce una dottrina dell’amore: l’amore
è ciò che consente all’anima di mettere in pratica la propria funzione unificatrice dei differenti gradi
della gerarchia ontologica. Il termine supremo è Dio, ma nello stesso tempo esiste una reciprocità
tra l’amore dell’uomo e del mondo per Dio e l’amore di Dio per le sue creature. Anzi, se Dio non le
amasse, in esse non si accenderebbe l’amore per lui.
Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494)
Pico crede nella conciliabilità e della continuità tra i diversi orientamenti di pensiero: il suo intento è
realizzare una «concordia filosofica» tra le diverse tradizioni filosofiche, che si susseguono e si in-
tegrano a vicenda e che, seppur diverse, ognuna è detentrice di una parte di verità. Su questo fon-
damento si realizza la pace filosofica a cui l’umanità deve aspirare. In questo modo, egli esalta a
potenza intellettuale umana e mostra come l’avanzamento culturale dell’umanità sia reso possibile
da questo continuo avvicendamento. Nelle Orazioni sulla dignità dell’uomo, infatti, Pico celebra le
capacità di autodeterminazione dell’uomo, cioè quelle facoltà intellettuali che lo portano a scegliere
liberamente tra più o meno nobili generi di vita.
Pico distingue nettamente la magia dall’astrologia: egli considera l’astrologia una dottrina che limita
pericolosamente la libertà dell’uomo, ricercando le cause del suo agire in fattori indipendenti dalla
volontà umana, mentre la magia, al contrario, è intesa come capacità di controllo della natura da
parte dell’uomo e non inficia l’autodeterminazione dell’essere umano, quindi può essere pienamente
giustificata.
Pico si differenzia da Ficino anche perché rivela una grande attenzione all’oggettività della ricostru-
zione storico-filosofica. Una più precisa consapevolezza storica e una più fedele analisi della dottrina
platonica rivelano l’impossibilità di essere un vero platonico rimanendo al contempo un buon
cristiano: per essere fedeli a Platone, bisogna concepire l’amore come desiderio di bellezza e di ciò
di cui si manca, ma la divinità non è manchevole di nulla e può essere solo oggetto di amore. Un
Platone cristianizzato e un cristianesimo platonizzante non sono quindi possibili: mentre è possibile
realizzare la concordia tra le diverse filosofie, il divario tra filosofia e religione si rivela insuperabile.
LA FILOSOFIA DEL CINQUECENTO
Durante il Quattrocento si assiste in Europa a una profonda crisi della teologia scolastica. Le dispute
tra scuole frammentarono il pensiero teologico europeo e gli conferirono un carattere sempre più
accademico: ciò portò a una frattura tra comuni fedeli e teologi, resa più acuta dal lassismo morale
che causò una degenerazione dei costumi all’interno della Chiesa e una vera e propria opera di
sfruttamento del potere spirituale a fini di lucro (decime e vendita delle indulgenze). Nacque
l’esigenza di un radicale rinnovamento dei costumi morali e religiosi della Chiesa, nel segno
umanistico della riscoperta delle Scritture, escludendo le interpretazioni delle varie scuole, e del
recupero degli ideali di semplicità e carità delle prime comunità. L’esigenza di rinnovamento era
particolarmente forte in area germanica: l’assenza di una forte Chiesa nazionale e la debolezza del
potere politico favorivano le ingerenze della Chiesa di Roma, la quale, però, non soddisfaceva la
tipica tendenza germanica alla religiosità interiore.
Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze, in particolare
del metodo scientifico. La scienza si svincola dalla tradizione filosofica aristotelico-scolastica tra-
sformandosi nella scienza moderna, autonoma dalla filosofia e dalla teologia, la quale elabora pro-
cedure metodologiche specifiche → rivoluzione scientifica.
La scienza moderna si distingue da quella precedente per il suo carattere quantitativo (a differenza
dell’analisi qualitativa della precedente tradizione). Il nuovo metodo scientifico parte dal presupposto
che l’essenza delle cose è inattingibile, o che comunque esula dalle finalità della scienza, la quale
deve invece indagare i rapporti tra le cose ed esprimerli attraverso una misurazione oggettiva e
universalmente comunicabile: per questo la matematica diventa uno strumento indispensabile per
quantificare i fenomeni naturali come oggetti specifici della ricerca scientifica. Anziché in termini di
«cause finali», tipici della tradizione aristotelica, la nuova scienza interpreta le connessioni tra i
fenomeni come «cause efficienti» e meccaniche. Il meccanicismo naturale è la conseguenza della
quantificazione della scienza: la connessione necessaria con cui in matematica le diverse
proposizioni geometriche o le diverse operazioni aritmetiche e algebriche discendono le une dalle
altre diventa in fisica la necessità con cui la causa è connessa all’effetto. Inoltre, la connessione
causa/effetto viene sottoposta anche a verifica empirica: la sperimentazione è il secondo mezzo
metodologico fondamentale: per raggiungere una precisione sempre maggiore sono necessarie
tecniche sempre più raffinate.
La biografia di Cartesio influisce molto sul suo pensiero filosofico. Nato nel 1596 a Le Havre, fre-
quentò il collegio di gesuiti di La Flèche, dove ricevette un’educazione umanistica, e in seguito studiò
diritto all’università di Poitiers. Subito espresse dubbi sul sapere così acquisito, in particolare del
carattere soggettivo delle opinioni professate dai filosofi e, di conseguenza, dell’impossibilità di
trovare un fondamento oggettivamente unitario delle diverse scienze – derivando esse dai principi
della filosofia. Si arruolò nell’esercito e iniziò a viaggiare per l’Europa alla ricerca di punti fissi, ma
anzi dovette constatare la relatività dei costumi esercitati dalle diverse nazioni. Decise allora di stu-
diare sé stesso: il risultato è la stesura de Il mondo, opera nella quale esponeva le sue teorie sulla
natura e sulle leggi della realtà fisica, compresa quella umana. La condanna di Galileo, però, lo
convinse a pubblicare solo alcuni saggi, preceduti dal Discorso sul metodo (1637) come introduzio-
ne. Molti dei temi trattati nel Discorso ritornano nelle Meditazioni metafisiche (1641), pubblicate as-
sieme alle Obiezioni e alle Risposte. Il pensiero cartesiano viene esposto sistematicamente nei
Principi di filosofia (1644), che però non toccano la trattazione della realtà umana, compito affidato
a Le passioni dell’anima (1649), un trattato di etica che, partendo dall’analisi della natura del corpo
umano e delle sue funzioni, costituisce contemporaneamente un breve compendio di fisiologia
umana.
La ragione → Cartesio è il principale esponente del razionalismo moderno: la ragione è considerata
il punto di partenza di ogni ricerca filosofica e di ogni sapere scientifico. Nel Discorso sul metodo la
ragione è definita come «il potere di giudicare rettamente distinguendo il vero dal falso»: essa non
è una facoltà conoscitiva specifica, ma in generale rappresenta la capacità, che ogni uomo possiede
naturalmente, di attingere conoscenze certe in maniera intuitiva (in polemica con il razionalismo di
ascendenza aristotelico-scolastica, fondato sui sillogismi). Questa idea della ragione incide sulla
forma espositiva delle opere di Cartesio – dialogo con la propria ragione o trattati – perché il colloquio
instaurato con la propria ragione, infallibile se correttamente usata, porta sempre a un esito univoco
e definitivo, che è possibile esporre in un trattato.
La ragione è unica, eguale in tutti gli uomini – influenza degli stoici: tutti gli uomini partecipano del
Logos universale attraverso la ragione – e rappresenta una facoltà specificamente umana che trova
in Dio solo il garante della propria validità. Dall’unità della ragione consegue l’unità del sapere: le
diverse scienze traggono i loro principi da alcune verità fondamentali che la ragione ritrova intui-
tivamente in sé stessa. La ragione riflette dunque sulle scienze la propria unità, di cui la filosofia si
configura come fondamentale, come coordinatrice di tutte le altre discipline. Dall’unità della ragione
consegue l’unità del metodo: per Cartesio si tratta di individuare un metodo che, valido per tutte le
scienze, fornisca il principio formale di ogni conoscenza possibile.
Il metodo → Discorso sul metodo → quattro regole:
1. Evidenza → accogliere come vero ciò che è «chiaro e distinto»: «Chiaro» è ciò che è «ma-
nifesto a uno spirito attento», mentre «distinto» è ciò che è «talmente preciso e differente da
tutto il resto da comprendere in sé solo ciò che appare manifestamente».
2. Analisi → divisione dei problemi nei loro elementi più semplici.
3. Sintesi → consente di risalire dagli oggetti più facilmente conoscibili a quelli più complessi.
4. Enumerazioni → verifica di non aver dimenticato nulla o commesso errori nei passaggi
precedenti.
La chiarezza e la distinzione definiscono la conoscenza «certa». Cartesio ne individua due fonti:
Intuito → ha per oggetto le conoscenze immediatamente evidenti alla ragione – le «cose
semplici» – che possono essere comprese di per sé stesse, senza essere ricondotte ad altre
evidenze più immediate (estensione, figura, movimento, esistenza, dubbio).
Deduzione → congiunzione di «cose semplici» per formare «cose composte» → passaggio
da verità immediatamente evidenti a verità costruite razionalmente che presentano un livello
di complessità sempre maggiore. La deduzione differisce dall’intuito perché procede di-
scorsivamente attraverso passaggi intermedi.
La combinazione di intuito (analisi) e deduzione (sintesi) permette di organizzare le conoscenze
secondo un ordine esteso quanto è esteso il sapere stesso dell’uomo: → senso proprio in cui il
metodo di Cartesio obbedisce a un modello matematico. La matematica, per Cartesio, è mathesis
universalis, cioè la «scienza dell’ordine e della misura». La scienza appare come un tutto ordinato,
in cui ciascun elemento è connesso a tutti gli altri da rapporti precisi: la corretta comprensione di
queste relazioni è essenziale per averne un’idea chiara e distinta.
Dal dubbio al «cogito ergo sum» → come si può giungere alla certezza dell’evidenza? Bisogna tra-
sformare il dubbio stesso in uno strumento metodologico per verificare se, malgrado esso venga
applicato a tutto, resti qualcosa che vi si sottrae, e che potrà così essere considerato evidente.
1. Dubitare della testimonianza dei sensi → talvolta i sensi ci ingannano.
2. Dubitare della nostra esistenza corporea e di tutta la realtà esterna → potrebbero essere il
risultato di un’illusione analoga a quelle che subiamo nei sogni.
3. Dubitare delle certezze matematiche → Dio può ingannarmi – o permettere che io stesso mi
inganni – oppure che esista un genio maligno che impieghi tutta la sua onnipotenza per
ingannarmi.
Solo una cosa si sottrarrà sempre al dubitare: il fatto stesso di dubitare. Se è evidente che io
dubito, è altrettanto evidente che io penso – anche se sono fantasticherie o errori – e quindi esisto
come sostanza pensante → «cogito ergo sum». L’obiezione principale, che già i contemporanei
mossero, a Cartesio è che si fosse servito di una premessa maggiore, presupposta e non soggetta
a dubbio: «tutto ciò che pensa esiste», «io penso» «quindi sono». Il cogito non sarebbe dunque la
conoscenza «prima e certissima» su cui tutto si deve fondare; inoltre, egli avrebbe così introdotto
quella logica sillogistica che rifiutava. Cartesio rispose precisando che il cogito non è un ragiona-
mento discorsivo, ma un’intuizione immediata: pensare ed essere non sono due momenti distinti di
una successione logica, ma due aspetti di un’unica evidenza.
Il pensiero per Cartesio è «tutto quel che accade in noi in tal modo che noi lo percepiamo immedia-
tamente per noi stessi. Ecco perché non solo intendere, volere, immaginare ma anche sentire è lo
stesso che pensare». La sostanza pensante ha una valenza insieme teoretica e pratica: essa
esprime i modi in cui si formano le rappresentazioni attraverso l’intelletto (concepire, immaginare,
sentire sensorialmente) e i modi in cui il soggetto opera per mezzo della volontà (desiderare, provare
avversione, affermare, negare).
Dall’esistenza del soggetto all’esistenza di Dio → il soggetto è certo anche delle proprie idee in
quanto oggetto immediato del pensiero stesso: Cartesio esclude ogni forma di platonismo che rico-
nosca alle idee una realtà autonoma e indipendente dal soggetto. Rimane invece dubbia sia l’esi-
stenza corporea del soggetto, dia quella della realtà esterna in generale: l’unico modo per garantire
l’esistenza di qualcosa al di fuori del soggetto è individuare un’idea che rimandi immediatamente a
una realtà esterna. Cartesio distingue tre tipi di idee:
1. Idee «innate» → verità conseguibili per il solo esercizio del pensiero.
2. Idee «avventizie» → idee che sembrano provenirci dall’esterno → oggetto di dubbio.
3. Idee «fattizie» → idee costruite o inventate dal soggetto stesso → create da noi.
Il necessario rimando a un’esistenza esterna è implicito solo in un’idea innata → Dio.
Dimostrazione dell’esistenza di Dio:
1. Perfezione → in base al principio che la causa deve essere uguale o maggiore all’effetto
prodotto, l’idea di Dio come perfezione non può essere prodotta né dall’uomo (imperfetto già
solo perché dubita) né dalle cose esterne (imperfette poiché si può dubitare della loro
esistenza). L’idea della perfezione divina deve quindi provenire necessariamente da un Es-
sere perfetto che esiste realmente.
2. L’uomo è consapevole di essere imperfetto → io non sono causa della mia esistenza perché,
se fossi stato in grado di dare a me stesso l’essere, mi sarei dato anche quelle perfezioni –
infinità, onnipotenza, onniscienza – di cui ho l’idea.
Alla prima e alla seconda dimostrazione si potrebbe obiettare che il soggetto, pur non essendo
perfetto, è in grado di pensare la perfezione come idea di ciò che gli manca, senza che ciò comporti
l’esistenza reale di un essere perfetto che lo abbia prodotto → terza dimostrazione: per Cartesio è
impossibile perché si presupporrebbe una perfezione priva dell’attributo dell’esistenza, cioè una
perfezione non perfetta.
Dalla perfezione di Dio è possibile dedurre anche i suoi attributi:
Spirito → il corpo esteso, essendo divisibile in parti, è imperfetto.
Pura intelligenza → la dipendenza dai sensi è un limite.
Volontà esclusivamente buona → il male è assenza di perfezione.
Cade così l’ipotesi del genio maligno, e Cartesio può recuperare uno ad uno i punti che aveva sot-
toposto a dubbio, dalla matematica alla testimonianza dei sensi → il Dio cartesiano è garante della
verità conosciuta dal soggetto: l’intelletto umano è di per sé infallibile e l’errore è imputabile alla
volontà, e il fatto di prendere per vero il falso presuppone sempre un atto di precipitazione, con cui
la volontà prevarica l’intelletto impedendogli una corretta applicazione del metodo.
Dualismo metafisico → la sostanza è definita come «una cosa che esiste senza aver bisogno di
altro per esistere»: si può quindi intendere, per sostanza, ciò che per esistere non ha bisogno di altro
che di Dio. In questo senso, se ne distinguono due tipi: «sostanza pensante», priva di estensione e
indivisibile, e «sostanza estesa» e divisibile. Esse sono autonome perché i loro attributi fondamentali
sono conosciuti distintamente dall’intelletto: ciò comporta il riconoscimento dell’autonomia della
materia corporea dalla sostanza spirituale (opposizione alla tradizione aristotelica che vedeva nel
corpo esclusivamente un organo dell’anima). Ciò ha contribuito alla nascita di una scienza del corpo
umano e della natura fisica indipendenti dalla metafisica tradizionale, in particolare ha promosso la
diffusione di una considerazione meccanico-causale della natura.
Il mondo fisico → alla «sostanza estesa» Cartesio riconosce due tipi di qualità:
Oggettive → grandezza, figura, movimento, quiete, durata. Esse sono riconducibili
all’estensione nello spazio.
Percepite soggettivamente dai sensi umani → colore, odore, sapore, suono.
La materia per Cartesio è unica e non esistono spazi vuoti al suo interno: tutte le parti della sostanza
estesa sono a contatto reciproco e interagiscono tra loro. Ogni fenomeno naturale è quindi spiegato
facendo ricorso a un rigido meccanicismo. In questo quadro, l’azione di Dio è limitata a due tipi di
interventi:
L’iniziale creazione della sostanza estesa e la comunicazione a essa del movimento.
La «provvidenza ordinaria» con cui conserva la materia e mantiene costante la quantità di
moto in essa impresso. Ogni intervento straordinario di Dio è escluso: viene garantita l’inva-
riabilità delle tre leggi fisiche che presiedono alla ridistribuzione del movimento all’interno
della materia: inerzia; conservazione del movimento; moto rettilineo.
In termini puramente meccanicistico-causali, Cartesio delinea la formazione dell’universo dal caos
primitivo: le particelle in cui si divide la materia primigenia ruotano sia attorno a sé stesse sia le une
attorno alle altre, in modo da formare «vortici» che determinano la progressiva differenziazione della
materia attorno a diversi punti.
Il corpo umano → essendo unitaria la materia che compone anche il corpo umano, il
meccanicismo varrà anche per esso: il corpo umano è paragonabile a un automa e il cui centro
propulsore è il cuore. L’effetto del calore del cuore è la circolazione e la rarefazione del sangue:
solo le parti più vive e sottili del sangue rarefatto riescono a penetrare nei fori di accesso al
cervello → «spiriti animali» con natura corporea: ad essi sono dovute le affezioni passive
dell’anima, cioè della sostanza pensante. Tra le funzioni della sostanza pensante, Cartesio
distingue le «azioni» (atti di volontà che dipendono dall’anima stessa) e le «passioni» (percezioni
che l’anima riceve dai sensi o dall’interno del corpo o, in senso stretto, vere e proprie emozioni).
Rapporto tra anima e corpo → punto problematico del pensiero di Cartesio: se res cogitans e res
extensa sono due sostanze indipendenti ed eterogenee, come possono influire l’una sull’altra? Al
centro del cervello c’è la ghiandola pineale, per Cartesio sede dell’anima poiché è la sola
componente cerebrale non divisa in due parti specularmente simmetriche. Gli spiriti che
provengono dagli organi sensoriali o dalle altre parti del corpo giungono attraverso i nervi alla
ghiandola pineale, e il movimento che essi producono provoca la fuoriuscita di altri spiriti dalla
ghiandola che, attraverso nuovi nervi, mettono in moto determinate parti del corpo senza
l’intervento della volontà. Ma la ghiandola pineale può anche essere mossa direttamente dalla
volontà (espressione della res cogitans). Rimane inspiegato come l’anima possa produrre il
movimento fisico della ghiandola, ovvero come la sostanza pensante possa influenzare la
sostanza estesa e il modo in cui la sostanza inestesa possa a sua volta essere influenzata
causalmente da una pressione materiale.
CARTESIANESIMO E GIANSENISMO
La rilevanza storica del pensiero cartesiano dev’essere ricercata soprattutto nelle reazioni che ha
suscitato e nelle correzioni cui è andato incontro:
Concezione della ragione → la pretesa di cogliere intuitivamente la verità e la definizione
dell’evidenza in termini di chiarezza e distinzione, cioè non fondata su criteri formalizzabili e
oggettivamente comunicabili, attirarono su Cartesio l’accusa di dogmatismo → si sviluppò
la tradizione scettica, che all’evidenza oppose il valore dell’esperienza.
Dualismo metafisico → l’affermazione di autonomia della res extensa favorì lo sviluppo delle
ricerche naturalistiche, mentre a parite da quella della res cogitans si ridefinì lo spiritualismo
agostiniano: il fondamento metafisico-teologico (interpretato in chiave spiritualista-religiosa)
venne utilizzato dagli occasionalisti per spiegare il rapporto tra sostanze, mentre altri autori
lo utilizzarono per conferire allo spirito una sorta di primato assiologico rispetto alla materia
stessa.
Pierre Gassendi (1592-1655): critica a Cartesio e restaurazione dell’epicureismo.
Sacerdote, scienziato e filosofo, è autore delle Quinte obiezioni, nelle quali critica il «metodo».
Adozione del concetto di evidenza → non c’è un criterio oggettivo per stabilire chiarezza e
distinzione di un’idea, dunque potrebbe essere frutto di un’illusione. In particolare, non è
evidente l’idea di Dio.
Critica della separazione corpo/anima → per Gassendi l’anima è solo un corpo più sottile,
ma ontologicamente non diverso dalla materia estesa: non sono due sostanze distinte.
Concetto di sostanza → anche se esistesse una sostanza soggiacente agli atti di pensiero o
ai corpi estesi percepiti con l’esperienza, essa sarebbe del tutto inconoscibile per l’uomo. La
fiducia nelle sue capacità esplicative è, per Gassendi, un’indebita concessione a un sapere
metafisico che ripropone i presupposti dogmatici della tradizione aristotelica.
Al razionalismo aristotelico Gassendi oppone l’osservazione empirica e la descrizione della realtà
naturale. L’uomo può conoscere soltanto di ciò che fa egli stesso (manufatti) o ciò che può scom-
porre e ricostruire mentalmente, cogliendone la costituzione interna (realtà naturale): egli può co-
noscere solo i fenomeni, mentre le sostanze sono conoscibili solo da Dio, in quanto loro creatore.
Gassendi si avvicina poi all’epicureismo, nel tentativo di ritrovare il fondamento teoretico dei nuovi
indirizzi scientifici: gli atomi consentono di spiegare la permanenza della materia, i continui muta-
menti dei fenomeni fisici e il processo conoscitivo – alcuni atomi si staccano dall’oggetto conosciuto
per colpire i sensi. Ma quello di Gassendi è un epicureismo reso compatibile al cristianesimo: egli
sostiene che gli atomi sono creati da Dio, e che quindi da lui possono essere annientati; inoltre,
l’atomismo non esclude il carattere finalistico della natura – voluto da Dio – e che, in base a tale
ordine, si può risalire dall’esistenza del mondo a quella di Dio. Infine, egli afferma che gli uomini
posseggono, accanto all’anima sensitiva, anche un’anima razionale immortale.
Dio e la fede → Pascal critica a Cartesio di aver introdotto Dio nel suo sistema solo come creatore
della macchina-mondo, spogliandolo dei suoi attributi più specificamente religiosi. A questo «dio
dei filosofi e degli scienziati», Pascal oppone Dio personale, che parla al cuore dell’uomo e che
riscatta la miseria umana attraverso la «follia della croce». Ad esso non si può giungere attraverso
argomentazioni razionali: bisogna decidersi per o contro la fede in lui, poiché non decidere
equivale a vivere come se Dio non esistesse. Bisogna scegliere esaminando cosa si perde e cosa
si guadagna: se si scommette su Dio si può guadagnare la vita eterna, cioè tutto, e si perde una
felicità finita e transitoria, cioè nulla; viceversa si può perdere tutto e guadagnare nulla. L’ostacolo
alla fede per coloro che, pur volendo, non riescono a credere sono passioni del corpo: a questo si
può supplire educando il corpo, cioè assumendo gli atteggiamenti esteriori del fedele. Così
l’abitudine – tra i tre elementi della fede assieme a ragione e intuizione – rende più facile l’accesso
alla vita religiosa: il meccanicismo cartesiano diventa uno strumento propedeutico alla religione.
Il libertinismo.
Il movimento libertino è il principale sostenitore della critica all’ortodossia religiosa in nome
dell’autonomia della ragione dall’autorità ecclesiastica. L’espressione «libertino» viene dal latino
libertus, lo schiavo affrancato, per indicare l’emancipazione del libero pensatore da ogni servitù
intellettuale. Il movimento acquista forza in Francia nei primi decenni del Seicento come reazione
al tentativo della Riforma cattolica di restaurare una rigida ortodossia, ma le sue radici affondano
nel Rinascimento con l’affermazione della dignità e dell’autonomia intellettuale dell’uomo, la caduta
del geocentrismo, la riscoperta dell’Aristotele pagano, l’affermazione dell’infinità dell’universo.
Possiamo distinguere due fasi al suo interno:
Libertinismo radicale (primi decenni del Seicento) → rigore della critica alla tradizione
religiosa e polemica contro l’assolutismo politico → totale repressione.
Libertinismo erudito (metà Seicento) → la critica razionalistica, esercitata in forma privata
ed elitaria, si esprime in toni più sfumati, consentendo un paradossale sodalizio tra il
libertino – spesso ammesso negli ambienti della corte – e il potere politico.
Il libertinismo si caratterizza per la ripresa delle tradizioni filosofiche precedenti:
Stoicismo → esigenza di una morale razionalistica autonoma rispetto alla religione e la
concezione di un mondo governato da leggi necessarie, cui l’uomo deve sottostare.
Epicureismo → concezione materialistica e atomistica della realtà e dell’uomo, con la
negazione dell’immortalità dell’anima.
Scetticismo → consapevolezza dei limiti della conoscenza umana e importanza alla
sospensione del giudizio.
Il punto essenziale è il rifiuto razionalistico dei dogmi dell’ortodossia cattolica, che può sfociare nel
«deismo» – dottrina che ritiene dimostrabile l’esistenza di Dio, ma che ne respinge gli attributi
dogmatici –, nel panteismo o un’esplicita professione di ateismo.
Non mancano anche nella seconda fase espressioni di libertinismo radicale, come Cyrano di
Bergerac (1619-1655): ammiratore del copernicanesimo, sostiene la pluralità dei mondi e l’infinità
dell’universo. Moderno seguace di Epicuro, egli reintroduce l’atomismo e il materialismo senza le
epurazioni cristiane di Gassendi: gli atomi sono eterni e l’anima, in quanto materiale, è mortale.
Soprattutto, Cyrano giunge a un’aperta confessione di atomismo.
THOMAS HOBBES (1588-1679)
Thomas Hobbes visse in un periodo tormentato della storia inglese dal punto di vista politico e da
quello religioso: i conflitti tra monarchia Stuart e Camera dei Comuni da un lato e tra anglicani e
presbiteriani dall’altro condussero l’Inghilterra alla guerra civile e alla dittatura repubblicana di
Cromwell. La storia dell’Inghilterra del primo Seicento è caratterizzata dal confronto tra i sostenitori
dell’assolutismo monarchico e dell’episcopalismo e i difensori di una ridistribuzione del potere che
consentisse maggiori margini di autonomia agli strati medio-bassi della borghesia e della Chiesa.
Thomas Hobbes si schierò a favore della monarchia assoluta e della Chiesa anglicana: nel suo
pensiero, l’unico modo per garantire la pace e la sicurezza civile è la concentrazione di tutto il potere
nelle mani di una sola persona. La sua formazione filosofica dipende dai lunghi soggiorni in Europa,
in particolare in Francia e in Italia: nel 1640 andò in esilio volontario dopo aver fatto circolare gli
Elementi di legislazione naturale e politica in un momento di lotta radicale tra re e Parlamento.
Durante questi viaggi conobbe Galileo, Gassendi e molti libertini. Si delineavano così alcuni aspetti
essenziali del suo pensiero: il modello matematico in filosofia, l’attenzione per il razionalismo
cartesiano (corretto dall’empirismo di Gassendi), la critica razionalistica alla religione.
A Parigi pubblica il De cive (1642), ultima parte della trilogia filosofico-politica Elementa philosophiae,
di cui facevano parte anche De corpore (1655) e De homine (1658). Prima di tornare in patria
pubblica il Leviatano (1651), la summa del suo pensiero filosofico, anche se la discussione dei
problemi politici è prevalente sull’esposizione dei temi gnoseologici ed etici.
La dottrina della conoscenza → grande influenza della cultura continentale: il meccanicismo carte-
siano si combina con un sensismo di probabile derivazione gassendiana.
Ogni conoscenza deriva dai sensi. La sensazione viene spiegata in termini di movimento corporeo:
la pressione esercitata dagli oggetti esterni sugli organi di senso arriva, attraverso i nervi, al cervello,
cui l’apparato percettivo dell’uomo reagisce con un contro-movimento che si conclude nella pro-
duzione dell’immagine o «fantasma» dell’oggetto. Poiché la reazione degli organi sensoriali è un
movimento proiettivo verso l’esterno, il soggetto crede che le immagini esistano esternamente al
corpo, ma in realtà il contenuto della sensazione è pura apparenza. Ciò che appare come colore o
suono è solo il movimento meccanico di un corpo su un altro corpo → presupposto gnoseologico di
tipo fenomenistico. Dal movimento meccanico nasce anche il pensiero: idee, concetti e pensieri sono
il risultato di immagini sensoriali sedimentate nella memoria. Oltre alle immagini delle singole
sensazioni, nella memoria rimangono anche le connessioni tra una sensazione e l’altra: l’attività del
pensiero è la ricostruzione di queste connessioni. Pensare è cercare i nessi causali tra «fantasmi»:
così cerchiamo di connettere il fantasma della pioggia (che deriva da una percezione sensoriale
attuale) con quelli delle cause (nubi) o degli effetti (bagnarsi) sedimentati nella mia memoria.
Il linguaggio → La connessione delle immagini sensoriali conservate nella memoria è una forma di
conoscenza comune a umani e animali. Per passare al ragionamento discorsivo, proprio soltanto
degli uomini, occorre l’intervento del linguaggio, cioè assegnare nomi o appellativi arbitrari ai fanta-
smi: il discorso consiste nella loro connessione. I nomi svolgono una duplice funzione:
Mnemonica → ricordare all’uomo le connessioni che ha stabilito tra le singole cose.
Comunicativa → far comprendere agli altri le cose da noi pensate e le connessioni stabilite.
Il ragionamento discorsivo opera sui nomi, non sulle cose: esso si fonda sull’uso di termini universali
ai quali non corrisponde nessuna cosa reale. La verità o falsità del ragionamento dipende solo dai
nomi: essa dipende dalla correttezza o meno con cui dal significato attribuito a un nome si è inferita
la sua connessione con quella di un altro nome. Si può dire che quello di Hobbes sia un rigoroso
nominalismo: la scienza non descrive la realtà delle cose, ma costruisce un sistema di rapporti tra i
nomi che conserverebbe la sua validità anche se venisse improvvisamente annichilita tutta la realtà.
La filosofia di Hobbes integra empirismo e razionalismo: i presupposti gnoseologici sono sensistici,
mentre la conoscenza al suo più alto livello – la scienza – produce un’organizzazione del sapere
che, pur dipendendo sempre dall’esperienza per quanto riguarda il materiale conoscitivo, si fonda
su un sistema di rapporti logici costruito dalla ragione.
La ragione → ogni operazione della ragione si riduce a una forma di «calcolo», più precisamente di
«addizione» e «sottrazione»: stabilire un rapporto di antecedenza e conseguenza significa aggiun-
gere il secondo al primo, mentre negare il rapporto significa sottrarre il secondo al primo. Questo
calcolo viene applicato all’aritmetica, alla geometria, alla fisica e, in ambito della logica, alla conse-
guenza tra nomi. Hobbes recupera così l’apparato della logica tradizionale: la somma di due termini
è una proposizione, la somma di proposizioni è un sillogismo, la somma di sillogismi è la di-
mostrazione.
La filosofia è la conoscenza che si consegue attraverso un corretto uso del ragionamento e, poiché
esso stabilisce un rapporto causale tra antecedente e conseguente, essa sarà la scienza delle cause
generatrici. La conoscenza delle cause generatrici può essere utilizzata in una duplice direzione:
partendo dalla cosa che genera determinati effetti o proprietà, oppure risalendo gli effetti fino alla
causa generatrice. Solo i corpi, però, possono essere spiegati attraverso cause generatrici: la
filosofia è sempre e solo conoscenza di corpi e della loro generazione, e in quanto tale ha come
oggetto solo la generazione dei due tipi possibili di corpi, quelli esistenti in natura e quelli politici –
dividendosi in «filosofia naturale» e in «filosofia civile». Da essa sono escluse quindi la teologia –
Dio, anche se concepito come corporeo, è ingenerabile –, la storia naturale e quella politica, che
riguardano conoscenze fondate sull’esperienza e sull’autorità.
Da questa concezione emergono, quindi, due tipi di conoscenze:
Conoscenza deduttiva fondata su una dimostrazione a priori → l’uomo può conseguire as-
soluta certezza solo quando produce egli stesso ciò che conosce.
Conoscenza ipotetico-induttiva fondata su una dimostrazione a posteriori → quando l’uomo
non produce l’oggetto di conoscenza può solo ricostruire il processo generativo procedendo
ipoteticamente dagli effetti alle loro possibili cause. È questo il caso della scienza della
natura, i cui oggetti creati da Dio.
La filosofia naturale → presupposti fondamentali sono il materialismo e il meccanicismo. Tutta la
realtà è corpo, cioè tutto ciò che occupa una porzione di spazio, di cui l’estensione è una proprietà
essenziale. Al corpo è connesso il movimento, poiché ogni cambiamento che avviene nella realtà si
riduce a un moto di corpi o di parti all’interno di essi. Dai concetti di corpo e movimento dipendono
quelli di spazio e tempo: lo spazio è il luogo occupato da un corpo fuori di noi, mentre il tempo è
l’idea di successione prodotta da un corpo che si muove entro spazi progressivi.
L’uomo è parte integrante del mondo naturale, dunque i principi meccanicistici e materialistici val-
gono anche per la sua definizione.
Attività della mente → forma di moto in alcune parti del corpo organico: essa non può essere
autonoma dalla materia estesa. Hobbes critica il passaggio cartesiano dal cogito all’esi-
stenza della res cogitans: il soggetto di un pensiero può essere solo un corpo.
Passioni → immediata conseguenza delle sensazioni che riceviamo dal mondo esterno. I
fantasmi prodotti in noi dagli oggetti esterni possono:
a) Assecondare il movimento vitale che regola il ciclo biologico dell’uomo → proviamo «desi-
derio» o «appetito» per la cosa di cui percepiamo il fantasma → amore.
b) Costituire un impedimento per il ciclo biologico, facendoci provare «avversione» per la cosa
di cui percepiamo il fantasma → odio.
Dalle due passioni fondamentali scaturisce l’intera vita emotiva dell’uomo. Tutte le altre affezioni
dell’animo sono loro manifestazioni sotto forma di combinazioni particolari: la religione, ad esempio,
è solo il timore (avversione + idea di un danno) che si prova verso un potere invisibile.
La morale → la morale di Hobbes si fonda su un radicale relativismo etico. Ciò che desideriamo e
amiamo è «buono», ciò che avversiamo e odiamo è «cattivo»: il bene e il male non sono valori
assoluti, ma si qualificano come bene o male solo in quanto vengono desiderati o avversati dall’indi-
viduo. La morale ha un fondamento meccanicistico: l’alternanza di desiderio e avversione obbedisce
a rigide leggi meccaniche e non può essere controllata dall’uomo → la «deliberazione» è il conflitto
tra le due passioni che ci fa vedere la stessa cosa sotto aspetti diversi, insieme desiderabile e
detestabile, mentre l’atto di volontà con cui decidiamo non è che la prevalenza meccanica dell’ultima
avversione o appetito su tutti i precedenti desideri o avversioni. Il fondamento meccanicistico
conduce a un radicale determinismo → l’unica libertà è poter fare senza impedimenti esterni la
«deliberazione» determinata dall’alternanza di amore e odio.
Baruch de Spinoza nacque ad Amsterdam da una famiglia di ebrei portoghesi. Pur avendo studiato
nella scuola ebraico-portoghese, egli entrò in conflitto con la comunità: i sospetti di eterodossia nei
suoi confronti si aggravarono fino a giungere all’aperta scomunica (1656). Spinoza divenne un libero
pensatore che agiva isolatamente, senza lasciarsi costringere dai legami delle Chiese o delle
istituzioni: infatti, piuttosto che essere condizionato nella sua libertà di ricerca, praticò sempre il suo
modesto lavoro di costruttore di lenti. Egli subì molteplici influenze culturali: la profonda sensibilità
mistica deriva dalla prima istruzione nella scuola ebraica; successivamente frequentò sia sette
cristiane, sia l’ambiente deista e quello libertino. L’influenza maggiore è però quella di Cartesio, che
Spinoza riprende nelle due uniche opere che pubblicò a suo nome: Renati De Cartes Principia
Philosophiae e i Cogitata metaphysica (1663). La sua opera fondamentale è l’Ethica ordine geo-
metrico demonstrata, che però preferì non pubblicare a causa della presa del potere del partito as-
solutista di Guglielmo d’Orange: essa verrà pubblicata dagli amici nelle Opere postume. L’unica
opera che Spinoza stampa, oltre ai due opuscoli cartesiani, è il Tractatus theologico-politicus in cui
espone le proprie convinzioni giuridico-politiche.
La filosofia come ricerca di Dio → l’intera speculazione di Spinoza può essere ricondotta a un solo
tema fondamentale: Dio. Dio è la realtà stessa, la sostanza universale rispetto a cui le singole cose
sono manifestazioni o «modi» di essere particolari. Un intelletto che conosca adeguatamente la
realtà è in grado di comprendere come tutto derivi da lui: per farlo, però, esso deve essere «emen-
dato», cioè corretto e perfezionato nel suo uso, così da abbandonare la considerazione delle cose
in termini di entità autonome connesse da legami di causalità efficiente o finale.
Tractatus de intellectus emendationae → correzione in quattro fasi corrispondenti a quattro gradi di
conoscenza (nell’Ethica saranno ridotti a tre, accorpando i primi due):
1. Immaginazione → formazione di nozioni in base a determinati segni sensibili.
2. «Esperienza vaga» → percezione empirica che fornisce conoscenze casuali.
3. Conoscenza razionale → risale dagli effetti alle cause arrestandosi ai concetti universali:
ripercorrere l’intera serie causale porterebbe a Dio.
4. Conoscenza intuitiva → «la cosa percepita mediante la sua sola essenza»: permette di ve-
dere intuitivamente la derivazione di tutte le cose dall’essenza stessa di Dio.
→ conoscenza assoluta delle cose: le cose parte di un’unica realtà universale nella quale
tutto avviene secondo un ordine che coincide con l’essenza stessa di Dio.
La forma espositiva cui ricorre Spinoza è il trattato, nel quale il sapere riceve una collocazione si-
stematica e definitiva, in particolare il trattato geometrico euclideo: il riferimento al modello mate-
matico si traduce nell’assunzione di un vero e proprio criterio procedurale ed espositivo:
Enunciazione di definizioni, assiomi e postulati.
Serie ordinata di proposizioni corredate da dimostrazioni → la tesi sostenuta e le sue con-
seguenze sono giustificate esclusivamente in base a quanto è già stato assodato nella trat-
tazione precedente.
Il tutto è integrato da prefazioni e appendici che completano il discorso e offrono l’occasione di uscire
dalla consequenzialità geometrica. La sola differenza dal trattato euclideo è che la geometria
spinoziana ha per oggetto l’essenza della realtà.
La sostanza → concetto da cui parte l’Ethica.
Cartesio aveva distinto tra un uso proprio del termine (causa di sé stessa = Dio) e un uso analogico
(tutto ciò che per esistere non necessita che di Dio). Per Spinoza invece la sostanza è per definizione
«ciò che è in sé» (uso proprio cartesiano), ciò che esiste di per sé stesso o, in termini scolastici, ciò
che è causa sui, ovvero ciò la cui essenza implica necessariamente l’esistenza. Di conseguenza, la
sostanza è infinita è unica: se fosse finita o molteplice, esisterebbe qualcosa di esterno da cui essa
dipenderebbe.
Attributi e modi della sostanza → l’attributo è ciò che l’intelletto percepisce come costitutivo
dell’essenza della sostanza. La sostanza contiene nella propria essenza tutti gli attributi possibili:
essi esprimono le proprietà intrinseche della sostanza infinita, ma essendone espressioni particolari,
non sono del tutto infiniti. L’uomo può conoscere solo quelli dei quali è egli stesso partecipe, il
pensiero e l’estensione, i quali sono solo due momenti diversi di un’unica sostanza: Spinoza risolve
il dualismo cartesiano in un monismo metafisico.
Ogni attributo si determina a sua volta in una quantità infinita di modi, cioè determinazioni particolari
dell’attributo stesso. I modi sono a loro volta distinti in:
Modi finiti → i singoli corpi e le singole idee che si ritrovano nella realtà della esperienza.
Modi infiniti → manifestazioni comuni a più cose → anello intermedio tra attributi e modi
finiti.
La differenza fondamentale tra attributi e modi è che gli attributi, essendo proprietà della sostanza
infinita, risiedono in essa e non si distinguono da essa sul piano ontologico. I modi invece sono
semplici «affezioni» o «accidenti» della sostanza perché non sono contenuti nell’essenza della so-
stanza, bensì riflettono solo il modo in cui gli attributi possono manifestarsi. L’attributo del pensiero,
ad esempio, non è ontologicamente distinto dalla sostanza e, come essa, viene concepito di per sé
come necessario ed eterno, mentre la singola idea finita non può esistere né essere compresa senza
il riferimento all’attributo del pensiero.
«Deus sive natura» → la sostanza unica, infinita ed eterna è Dio. Dimostrazione dell’esistenza di Dio
e quella della sostanza coincidono: Dio è la realtà stessa considerata nella sua totalità, con tutte le
sue infinite espressioni e manifestazioni. Dio è causa necessaria e necessitante di tutte le cose →
tutto deriva necessariamente da Dio e tutto avviene necessariamente secondo il modo in cui si
determinano gli attributi della sostanza. Necessità e libertà in Dio coincidono: egli solo è causa libera
perché non è necessitato da null’altro che dalla propria natura. Dio è causa immanente dell’intera
realtà: Dio e le cose che da lui derivano sono la stessa realtà considerata sotto due aspetti diversi.
Dio e la natura coincidono, ma quest’ultima può essere vista sotto due diverse determinazioni:
«Natura naturante» → realtà considerata come sostanza infinita.
«Natura naturata» → realtà considerata come insieme delle cose particolari e finite.
La causalità necessaria deve essere intesa sia in senso reale, poiché Dio è causa dell’effettiva esi-
stenza delle cose singole, sia in senso logico-matematico, perché i modi derivano dalla sostanza
secondo un ordine geometrico: i modi sono quindi connessi gli uni agli altri secondo un ordine ne-
cessario, che è insieme reale e geometrico. La realtà stessa per Spinoza ha una struttura geome-
trica: i modi sono connessi tra loro da rapporti causali necessari che solo il linguaggio geometrico
può esprimere, unico adatto ad esprimere una conoscenza adeguata della realtà.
Questa concezione della realtà comporta una radicale critica del finalismo, sia nell’uomo che nella
natura: gli uomini, che hanno coscienza solo dell’utile in vista del quale agiscono, conferiscono er-
roneamente ad esso il carattere di fine e proiettano questo loro modo di pensare sulla natura, im-
maginando che anch’essa agisca in vista dei fini. Tale pregiudizio è rafforzato dal fatto che gli uomini
trovano nella natura cose che sono loro utili (occhi, denti, etc) e, sapendo che non sono state
prodotte da loro, immaginano che esse siano state create per loro da Dio. Se incorrono in cose
nocive, invece, le interpretano come punizioni divine. Così si costruiscono un’immagine falsa di Dio
poiché, attribuendogli fini da conseguire nell’uomo e nella natura, lo considerano manchevole di
qualcosa, dunque imperfetto.
Mente, corpo e conoscenza → l’uomo può conoscere solo due attributi con i rispettivi modi:
Pensiero (attributo) e le idee (modo).
Estensione (attributo) e i corpi (modo).
L’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione dei corpi, ma le idee,
che sono modi del pensiero, non possono agire sui corpi, che sono modi dell’estensione, e
viceversa: essi sono aspetti di un’unica realtà, ma si sviluppano parallelamente. Con questo paral-
lelismo Spinoza può risolvere facilmente due problemi interni alla scuola cartesiana:
Corrispondenza tra le idee e il loro oggetto esterno → a ogni idea del pensiero corrisponde
un corpo sul piano dell’estensione, e viceversa.
Corrispondenza tra mente e corpo cessa di sussistere → quando ho la volontà (idea) di al-
zare il braccio (corpo), il braccio si alza: i due eventi sono modi di due attributi che corri-
spondono a uno stesso punto nel comune ordine di connessione.
L’uomo è composto di mente e corpo: la mente dell’uomo è un aspetto finito dell’intelletto infinito di
Dio: è un’idea (modo) dell’attributo del pensiero, cui corrisponde il corpo (modo) dell’attributo
dell’estensione. La mente ha per oggetto il corpo, ma non lo conosce: essa è l’«idea» del corpo e
conosce quest’ultimo attraverso le idee di tutti i corpi più piccoli che contribuiscono alla sua rigene-
razione (particelle del sangue, delle ossa, etc) e degli altri corpi esterni da cui è affetto. Tali idee si
presentano però alla mente secondo l’ordine fortuito in cui esse appaiono nell’esperienza quotidiana:
esse sono idee «confuse» cui corrisponde soltanto una conoscenza parziale, inadeguata. Per
Spinoza l’errore l’inadeguatezza: le idee non hanno un contenuto falso di per sé perché derivano da
Dio. Illustrando il processo cognitivo che porta dalla conoscenza inadeguata a quella adeguata,
Spinoza riprende nell’Ethica la dottrina dei gradi di conoscenza:
1. Sensibilità e immaginazione → le idee si presentano in ordine casuale e confuso.
2. Ragione → conosce le i modi infiniti che esprimono proprietà generali dei modi finiti.
3. «Scienza intuitiva» → la più alta forma di conoscenza, propria della facoltà dell’intelletto, che
ci consente di vedere la derivazione necessaria delle cose dalla causa prima, cioè Dio.
Il primo grado di conoscenza è inadeguato, mentre ragione e intuizione sono entrambe forme ade-
guate di conoscenza: entrambe consentono infatti di stabilire in maniera necessaria la connessione
tra causa ed effetto, anche se la ragione scientifica consente di risalire la catena causale solo fino
alle «nozioni comuni». Solo l’intuizione intellettuale ci permette di considerare le cose nella loro
assoluta realtà – sub specie aeternitatis, cioè nell’eterna sostanza divina.
La morale → l’Ethica intende essere un trattato di morale. Le dottrine metafisiche e gnoseologiche
possono essere considerate come propedeutiche alla definizione di una teoria morale che si propone
di liberare gli uomini dalle passioni. Le manifestazioni della vita emotiva dell’uomo sono «cose
naturali» che obbediscono alle stesse leggi che regolano le altre espressioni della natura, e quindi
devono essere considerate con lo stesso metodo geometrico con cui vengono considerati tutti gli
altri modi della sostanza. Solo così l’uomo può conoscere adeguatamente gli impulsi che lo
determinano ad agire, la loro intima necessità e, quindi, riuscire a non esserne più schiavo.
L’impulso fondamentale di ogni agire dell’uomo è il conatus (sforzo) di «perseverare nel suo esse-
re», di conservare sé stesso e accrescere la propria potenza. Se riferito alla sola mente prende il
nome di «volontà», se riferito insieme a mente e corpo si chiama invece «appetito», che se è
consapevole di sé stesso diventa «cupidità»: essa non è un difetto o una degenerazione della natura
umana, ma ne costituisce l’essenza stessa. Spinoza abbandona l’atteggiamento moralistico
tradizionale di rifiuto degli appetiti umani in nome di una perfezione assoluta e astratta: per lui è
buono tutto ciò che è utile e che contribuisce alla perfezione di un essere, quindi ciò che ne aumenta
la forza e la capacità di conservarsi.
Da queste definizioni, Spinoza deduce in ordine geometrico tutta la sua teoria degli «affetti», cioè
delle emozioni che accrescono o diminuiscono la potenza del corpo e della mente, e di conseguenza
la capacità dell’uomo di essere e di agire. Egli crea una «geometria degli affetti» simile a quella di
Hobbes, a partire dalla «letizia» e dalla «tristezza», le due emozioni fondamentali: la prima nasce
dal sentimento della crescita della propria capacità vitale, mentre la seconda, al contrario, da quello
di una sua diminuzione. Tutti gli altri affetti sono derivazioni o determinazioni di letizia e tristezza:
l’«amore» e l’«odio», ad esempio, sono letizia e tristezza accompagnate dall’idea di una causa
esterna.
Nel primo stadio dell’ascesi morale l’uomo non ha una conoscenza adeguata dei propri affetti, ma si
limita a connetterli con circostanze che gli appaiono fortuite. L’uomo è completamente passivo nei
loro confronti: per questo si configurano come passioni, che egli subisce e delle quali è schiavo. La
sua capacità di agire e di comprendere viene fortemente limitata, quindi non riesce più a perseguire
il suo vero bene e la sua vera utilità.
Per raggiungere il secondo stadio, la coscienza morale, deve intervenire la ragione, tramite la quale
l’uomo può attingere al vero utile: ciò che veramente gli consente di accrescere la sua potenza di
essere. L’uomo ha infatti la possibilità di conoscere adeguatamente gli affetti apprendendone le
cause vere e imparando a vedere la loro necessità. Così talvolta le passioni si dissolvono perché,
conosciutane la vera natura, non sussistono più: ad esempio, se so che la causa dell’odio che io
provo verso una persona non è quella persona stessa, ma è una certa concatenazione necessaria
di idee che mi porta a odiare, viene meno l’oggetto dell’odio e, con ciò, l’odio stesso. In altri casi
l’affetto permane anche conosciutane la causa: in questo caso esso non sarà più passivamente
subito ma attivamente ricercato, trasformandosi da passione ad azione. La «virtù» non è in contrasto
con la natura, le sue leggi e i suoi appetiti, anzi, ne è la piena realizzazione: la liberazione dalle
passioni non è il rifiuto della dimensione emotiva.
Il terzo stadio di ascesi morale, l’«amor intellectualis Dei» corrisponde alla conoscenza intuitiva,
quella perfettamente adeguata degli affetti che conduce a risalire la loro catena causale fino alla
causa prima, cioè Dio: ciò non significa dissoluzione dell’emotività umana, ma la sua corrispondenza
con la conoscenza intuitiva. L’uomo, cogliendo immediatamente la derivazione del tutto da Dio,
prova un «amore intellettuale» nei suoi confronti, che è lo stesso con cui Dio ama sé stesso: in
questo amore consiste la «beatitudine» dell’uomo, la più alta espressione di virtù.
La religione e l’analisi della scrittura → nel Tractatus theologico-politicus Spinoza espone le sue idee
in merito a religione e politica, ambiti per lui strettamente connessi perché il loro centro concettuale
è salvaguardare la libertà di pensiero e di espressione dallo spirito di intolleranza.
Spinoza fa una critica storico-filologica della Bibbia che intende mostrare come forma espositiva e
struttura categoriale siano condizionate dalla situazione storica che le espresse: la parola di Dio è
infatti interpretata secondo la cultura, il linguaggio e la mentalità particolari del popolo ebraico. I suoi
contenuti possono quindi essere oggetto di un’analisi razionale che li trasformi in una religione
naturale accettabile da tutti gli uomini in tutti i tempi. Un esempio è la critica del concetto di miracolo:
introdotto dalla cultura ebraica per mostrare la potenza divina, esso appare al filosofo un’assurdità
perché interrompe l’ordine necessario della natura in cui si esprime la volontà di Dio.
Le dispute su temi religiosi e lo spirito di intolleranza che le ha sempre accompagnate dipendono da
una cattiva conoscenza dei rapporti tra fede e filosofia: la religione riguarda solo l’obbedienza a cui
l’uomo è tenuto nei confronti della divinità e i dogmi di fede, semplicissimi e comuni a tutte le religioni,
riguardano solo le verità pratiche alla base dei presupposti del dovere e dell’obbedienza. Spinoza
eliminava così i motivi di disputa, cercando di impedire che la discussione religiosa diventasse
strumento di intolleranza e di riservare alla stretta cerchia dei dotti la possibilità di dibattere quei temi
che potevano essere interpretati in chiave razionalistica.
Il pensiero politico → giusnaturalismo: punti di convergenza con Hobbes.
Anche Spinoza parte dall’ipotesi di uno stato di natura che precede la società civile: in questa con-
dizione il diritto di ciascuno è uguale al suo potere, cioè alla forza di cui dispone per affermare il
proprio essere. L’impulso dell’uomo è affermare il proprio essere, quindi lo stato di natura è una
condizione di insicurezza e di pericolo. La ragione, che indica agli uomini il loro vero bene (conser-
vare sé stessi), li induce a istituire un patto sociale con il quale il diritto-potere di ciascuno viene
limitato per garantire a tutti la sicurezza della propria persona. È il «conatus» all’autoconservazione,
che l’uomo condivide con tutti gli altri esseri naturali, a produrre il passaggio dallo stato di natura a
quello civile. In due punti il pensiero di Spinoza si differenzia da Hobbes:
Nel patto i singoli non rinunciano al loro diritto naturale: al contrario, essi attuano, tramite la
sua limitazione, le condizioni necessarie per conservarlo.
La condizione civile deve somigliare il più possibile a quella naturale: se nello stato di natura
gli uomini erano uguali, uguali dovranno essere anche nello stato civile → democrazia,
anche se il potere sovrano deve necessariamente essere assoluto.
Tra i diritti naturali cui l’uomo non può rinunciare nel passaggio allo stato civile c’è la libertà
di pensiero e di espressione. Nessun governo può restringere questa facoltà, purché essa si
limiti all’analisi razionale e abbia un valore esclusivamente teorico. La libertà di pensiero non
può tradursi in un diritto alla resistenza, poiché ciò minerebbe alle fondamenta la sicurezza
dello Stato. Sarà compito dei governanti prendere in considerazione le libere critiche dei
sudditi e tradurle in realtà politica.
Spinoza rimane sospeso tra l’aspirazione a una condizione politica che superi le angustie dell’auto-
ritarismo e l’impossibilità di formulare una dottrina dello Stato autenticamente liberale a causa della
situazione storica in cui vive e dei presupposti concettuali del suo pensiero.
JOHN LOCKE (1632-1704)
La filosofia inglese di metà Seicento è influenzata dai due maggiori centri accademici dell’isola,
Cambridge e Oxfrod, i quali hanno tradizioni e indirizzi di pensiero diversi.
Cambridge → platonismo e neoplatonismo. Presupposto fondamentale è la piena convergenza tra
ragione, fede e rivelazione.
La ragione è intesa come lume interiore che consente di penetrare intuitivamente l’essenza
della realtà → le verità fondamentali – esistenza di Dio e immortalità dell’anima – e i principi
generali della morale sono dimostrabili razionalmente.
L’uomo ha delle «idee innate» intese come anticipazioni dell’esperienza.
Esiste una «forza vitale» che permea tutta quanta la realtà, discendendo da Dio fino ai livelli
più bassi della materia inorganica → la realtà, pur presentando al proprio interno una ge-
rarchia di gradi diversi, è sostanzialmente unitaria e si configura come un grande organismo
→ avversione per ogni forma di meccanicismo e per il materialismo hobbesiano.
Oxford → tradizione aristotelica: forma di sapere scientifico in equilibrio tra ragione ed esperienza.
New philosphy → promozione della filosofia sperimentale.
Robert Boyle (1627-1691) → chimico. Boyle critica la tradizionale concezione delle qualità fonda-
mentali, cui contrappone i vantaggi metodologici del meccanicismo e del corpuscolarismo:
Meccanicismo → spiega i fenomeni ricorrendo ai principi della materia e del movimento.
Corpuscolarismo → esistono corpuscoli sempre ulteriormente divisibili che, muovendosi nel
vuoto e componendosi o dividendosi, danno origine ai diversi corpi fisici.
Questo pensiero rientra nella tradizione dello «scetticismo», il quale esprime il rifiuto metodologico
per ogni accettazione acritica di teorie che non siano passare al vaglio congiunto della sperimenta-
zione e della riflessione razionale.
Le due scuole non devono essere contrapposte troppo rigidamente: l’interesse religioso non è
estraneo, ad esempio, ai filosofi di Oxford, i quali si propongono di mostrare la piena compatibilità
tra la fede e la nuova scienza.
Vita e opere → Locke assistette alla rivoluzione di Cromwell, alla restaurazione monarchica di Carlo
II e alla seconda Rivoluzione inglese, che portò all’unificazione delle corone inglese e dei Paesi
Bassi nella persona di Guglielmo d’Orange (1688). A differenza di Hobbes, egli rimase fedele a un
programma politico improntato ai valori della libertà e della tolleranza.
Locke studiò filosofia e medicina a Oxforf. La sua vita è strettamente legata a quella di Ashley Coo-
per, conte di Shaftesbury: nel 1667 diventa suo segretario personale ed è costretto a trasferirsi a
lungo in Francia dopo che il conte perde la carica di cancelliere (1674). Tornato in Inghilterra (1679),
ricomincia la frequentazione dei Cooper, ma quando Ashley viene definitivamente esiliato, egli
preferisce rifugiarsi prima a Oxford, poi in Olanda, dove si mette in contatto con l’ambiente liberale
di Guglielmo d’Orange e, quando questi diventa re d’Inghilterra, torna a Londra (1689).
L’opera principale è il Saggio sull’intelligenza umana (1690), dove si avvale della più profonda co-
noscenza della filosofia francese, soprattutto cartesiana, acquisita durante il suo soggiorno nel
continente. Nello stesso anno Locke pubblica i Due trattati sul governo. Quasi tutte le sue opere
sono scritte in inglese: parte del suo programma culturale era scrivere sempre in inglese, in uno stile
semplice e lineare, in modo che la sua filosofia non fosse rivolta solo agli accademici.
Locke tra empirismo e razionalismo → le interpretazioni classiche dei manuali danno un’immagine
stereotipata di Locke: egli è considerato il capostipite dell’empirismo inglese moderno, il quale viene
rigidamente contrapposto al razionalismo di Cartesio, Spinoza e Leibniz. Tuttavia, l’empirismo di
Locke, pur introducendo elementi di novità, è fortemente debitore verso la tradizione empiristica
inglese (Bacone e Hobbes), e come in questi autori, l’empirismo non si colora di valenze anti-razio-
nalistiche: al contrario, in Locke essi sono strettamente congiunti in un’unica soluzione filosofica. La
cesura con il razionalismo di Cartesio è la fusione tra ragione ed esperienza: mentre in Cartesio era
quasi del tutto abbandonata, per Locke l’esperienza diventa l’imprescindibile termine di riferimento
per comprendere la natura della ragione e della conoscenza. La ragione è, infatti, una funzione
conoscitiva e argomentativa che non può fare nulla senza l’esperienza, dalla quale deriva il materiale
conoscitivo su cui la ragione può operare e la verifica finale delle operazioni compiute dal soggetto
conoscente. Le possibilità conoscitive dell’uomo sono quindi limitate all’ambito dell’esperienza: il
problema diventa analizzare come l’esperienza condizioni le funzioni della ragione e quali siano i
limiti della conoscenza umana.
Il riconoscimento della radice empirica della conoscenza comporta l’abbandono del primato gno-
seologico della matematico. Per Cartesio, la matematica costituisce il modello metodologico di ogni
sapere filosofico, mentre per Locke la ragione, procedendo da idee di origine empirica, non può
cercare di ricondurre la filosofia alla scienza. Il lavoro del filosofo consiste, perciò, nel confronto
reciproco di idee e nella loro valutazione ai fini della discussione e dell’argomentazione, e il suo
ambito di ricerca si estende a tutto ciò che è rappresentabile mediante idee, quindi al mondo umano
in generale: etica, politica e religione diventano i temi centrali. Locke sostanzialmente estende
all’ambito pratico quella funzione critica della ragione che Cartesio confinava rigorosamente entro la
sfera teoretica.
Le fonti della conoscenza → Locke scrive il Saggio sull’intelligenza umana per definire con esattezza
i limiti della conoscenza umana. Il primo libro è dedicato al problema dell’origine della conoscenza.
Locke inizia con l’analisi e la critica dell’innatismo: gli innatisti sostengono l’esistenza di verità
fondamentali che riscuotono necessariamente il consenso di tutti gli uomini. Per Locke questo non
è vero: i bambini e gli idioti, ad esempio, non sono in possesso dei principi teoretici, mentre la
relatività delle norme comportamentali mostra come anche i principi pratici non siano universali. La
conoscenza, quindi, non deriva da nozioni connaturate in noi dalla nascita: ogni idea, dunque, giunge
necessariamente dall’esperienza → due forme:
Sensazione → fornisce idee degli oggetti esterni attraverso i cinque sensi.
Riflessione → fornisce idee delle operazioni interne alla mente, anche stati d’animo e pas-
sioni.
Ogni sapere che pretenda di avere un’origine diversa è priva di fondamento.
La classificazione delle idee → Locke distingue tra diversi tipi di idee.
«Idee semplici» → idee non scomponibili che l’intelletto riceve passivamente dall’esperienza.
Idee semplici che derivano dalla sensazione → possono dipendere da un solo senso o da
più sensi congiunti:
«Qualità primarie» → idee inerenti agli oggetti stessi (solidità, estensione, etc.)
«Qualità secondarie» → idee che dipendono dalla sensibilità individuale (colori, odori,
etc).
→ le idee delle qualità primarie esistono nei corpi stessi, quelle delle qualità secondarie no:
ciò significa che alcune idee non escono dall’ambito del pensiero, mentre altre sono
riproduzione fedele della realtà. Tuttavia, è difficile spiegare questa distinzione in una cornice
in cui esistono solo idee e non «cose».
Idee semplici provenienti dalla riflessione → possono appartenere al gruppo che riguarda le
operazioni del pensiero o a quello relativo alle operazioni della volontà.
«Idee complesse» → composizione e rielaborazione delle idee semplici. L’intelletto ha la funzione
attiva della rielaborazione → facoltà conoscitiva attiva. Locke distingue tre tipi di idee complesse:
«Idee di modo» → idee relative a ciò che è percepito come non sussistente di per sé, ma
dipendente da una sostanza di cui è determinazione: ad esempio, la gratitudine e la bellezza
non sussistono indipendentemente dall’idea di una persona con tali qualità.
«Modi semplici» → risultato della ripetizione della stessa idea semplice (infinito).
«Modi misti» → composizione di idee semplici di diversa specie.
«Idee di sostanza» → idee di ciò che è percepito come sussistente di per sé. Ad esse ven-
gono riferite le qualità espresse dalle idee semplici. Si possono distinguere in sostanze sin-
gole e sostanze collettive.
→ l’idea principale tra esse è l’idea della sostanza stessa → critica: nell’esperienza quoti-
diana molte idee semplici si presentano assieme (le qualità dell’oro), che noi uniamo cre-
dendo siano un’unica idea semplice (oro) che deve per forza riferirsi a una sostanza per
sussistere. Ma poiché l’esperienza offre solo singole idee semplici (le qualità dell’oro e non
l’oro in sé), la sostanza da noi presupposta è del tutto al di là delle nostre possibilità cono-
scitive. Ciò significa che «non abbiamo nessuna conoscenza della costituzione interna e
della vera natura delle cose, perché siamo privi della facoltà di raggiungerla». Per questo,
pur distinguendo tra sostanze materiali e spirituali, Locke non può escludere che Dio abbia
dato anche alla sostanza materiale la facoltà di pensare.
«Idee di relazione» → nascono dal confronto di un’idea con un’altra.
La principale è l’idea di causa ed effetto → il rapporto causale è ancora per Locke un fatto
oggettivo, per quanto non sia possibile conoscerlo nella sua intrinseca natura.
Idea di identità → rapporto tra un oggetto e sé stesso considerato in luoghi e tempi diversi.
Allo stesso modo funziona con il soggetto: nell’atto della percezione egli coglie l’oggetto
esterno e sé stesso come oggetto percipiente. Locke risolve sul piano empiristico il problema
dell’identità personale e della continuità dell’io.
Il linguaggio → assunti fondamentali sono il convenzionalismo e il nominalismo.
Convenzionalismo → la funzione del linguaggio è rendere le idee comunicabili agli altri. Le parole
sono «segni delle idee degli uomini», quindi gli strumenti per comunicare. Ciò che rende oggettivo
e comunicabile il significato attribuito alle parole è il «tacito consenso» con cui, nell’uso comune,
certi termini sono connessi con certe idee → origine convenzionale del linguaggio.
Nominalismo → la maggior parte delle parole usate dall’uomo sono nomi comuni che si riferiscono
ad un gruppo di cose che hanno tutte determinate qualità. L’insieme delle qualità che una cosa ha
in comune con altre – l’«essenza nominale» – è l’idea generale, ricavata dall’esperienza tramite un
processo di astrazione, cioè conservando solo ciò che è comune a tutta la categoria → l’universale
non esiste nella realtà, ma riguarda solo le idee generali e i nomi comuni.
La conoscenza → «percezione del legame (concordanza) o contrasto (discordanza) tra idee».
L’accordo può essere colto:
Immediatamente tramite intuizione → la conoscenza è certa perché l’accordo o il disaccordo
è percepito in virtù delle stesse idee da confrontare (il bianco non è nero)
Discorsivamente tramite dimostrazione → ragionamento discorsivo.
La concordanza o discordanza tra due idee può essere appurata solo inserendo tra di esse una o
più idee intermedie, le «prove». La certezza della conoscenza dipende dalla percezione immediata
dell’accordo o del disaccordo tra le varie coppie di idee intermedie: ogni segmento deve avere
carattere intuitivo (= Cartesio).
La conoscenza ha per oggetto le idee: rimane quindi il problema della realtà degli oggetti di cono-
scenza al di fuori dell’esistenza mentale. Locke distingue tre ordini di esistenze, collegate a tre di-
verse forme di conoscenza:
Esistenza dell’io → data dall’intuizione.
Esistenza di Dio → confermata dalla dimostrazione: la ragione insegna che il mondo non
potrebbe esistere senza una causa eterna, intelligente e onnipotente.
Esistenza delle cose esterne → percezione sensibile attuale. Nell’attimo in cui percepisco le
idee semplici ho la coscienza vivissima, che molto si avvicina all’atto intuitivo, della realtà di
ciò che percepisco. Ma appena la percezione entra nella memoria non posso più essere
certo che l’oggetto continui ad esistere. Dalla certezza si passa alla probabilità della cono-
scenza, che si fonda sull’analogia – io penso, quindi pensano anche gli altri = esistono altri
esseri pensanti – o sull’autorità – testimonianze di esperti. L’ambito del probabile, diviso in
gradi di probabilità, è sufficiente a garantire un’etica quotidiana.
Intuizione, dimostrazione e percezione attuale esauriscono il campo della conoscenza certa. Anche
la certezza è divida in gradi: nell’intuizione essa è attinta pienamente; la dimostrazione razionale,
invece, non garantisce la certezza perché nel procedimento discorsivo l’errore rimane sempre
possibile; la conoscenza dei sensi, infine, pur andando oltre la semplice probabilità, non raggiunge
l’evidenza dei primi due livelli. Sono dunque tre le osservazioni principali: la priorità assoluta
dell’intuizione; la riduzione del procedimento razionale a quello intuitivo; la subordinazione della
percezione sensibile alla facoltà intuitivo-razionale.
Il pensiero politico → Trattati sul governo (1690)
Primo trattato → critica la tesi di difesa dell’assolutismo monarchico di Robert Filmer: Dio avrebbe
conferito direttamente il potere monarchico ad Adamo e da questo trasmesso, per successione
ereditaria, alle generazioni di sovrani successive. Locke mostra l’assurdità dell’assimilazione
dell’autorità paterna a quella politica.
Secondo trattato → teoria politica: giusnaturalismo.
«Stato di natura» → caratteristiche peculiari rispetto a Hobbes:
L’individuo possiede tre diritti naturali specifici – alla vita, alla libertà, alla proprietà – che
terminano là dove iniziano quelli degli altri (a differenza del ius in omnia di Hobbes).
Lo stato è una condizione in cui a ciascuno tocca il suo, secondo un ordinato disegno della
«legge naturale» che si fonda sulla ragione → stato di pace e armonia (no stato di guerra).
Nello stato di natura manca però un potere superiore che imponga il rispetto della legge naturale
coercitivamente: la legge di natura può infatti essere violata facilmente da chiunque non intenda
sottomettersi alla disciplina della ragione. Per questo occorre uscire dallo stato di natura attraverso
un patto sociale, che ha lo scopo di conservare e garantire con la forza i diritti naturali e inalienabili
di ogni cittadino. L’unico diritto a cui l’individuo rinuncia entrando nella società civile è quello di farsi
giustizia da sé: infatti è proprio la giustizia il compito fondamentale dello Stato. Locke distingue tra
«Patto di unione» → la moltitudine si trasforma in un’unica respublica (commonwealth), la
cui volontà unitaria è espressa dal principio della maggioranza.
«Patto di soggezione» → i cittadini si sottomettono al sovrano.
Il potere del sovrano non è assoluto, ma limitato alla tutela dei diritti dei cittadini: se questo non
avviene, gli individui possono recedere il patto, riacquistando la facoltà di opporsi legittimamente
con la forza al sovrano → legittimità del diritto di resistenza.
L’esercizio legittimo del potere è garantito dalla separazione dei poteri:
«Legislativo» → esprime nella legge la volontà della maggioranza.
«Esecutivo» → risiede nel governo e ha il compito di far eseguire la legge.
«Federativo» → funzione diplomatica di rappresentare lo Stato all’estero.
Tra potere esecutivo e legislativo ci dev’essere un rapporto di separazione e di controllo reciproco.
Locke è considerato il fondatore del liberalismo politico moderno: carattere naturale e inalienabile
dei diritti dell’uomo; negazione di ogni forma di potere assoluto; affermazione del diritto di
resistenza; formulazione della dottrina della separazione dei poteri, cioè i capisaldi del pensiero
politico lockiano, diventano i principi fondamentali del liberalismo politico moderno.
Religione e tolleranza → nei primi scritti (1661-62) Locke è ostile verso un atteggiamento
permissivo da parte dello Stato nelle questioni religiose: la religione si sviluppa nell’ambito della
coscienza interiore e i suoi aspetti esteriori non hanno in essa un’incidenza sostanziale: il
magistrato può dunque intervenire senza condizionare la vita religiosa del fedele. Prevale ancora
la preoccupazione per l’ordine pubblico, che sembra poter essere garantito solo attraverso il
controllo della Chiesa dallo Stato.
Nel Saggio sulla tolleranza (1667) viene invece affermato che esistono alcune sfere del pensiero e
di azione, tra cui le opinioni filosofiche e il culto divino, in cui l’individuo non deve subire alcuna
limitazione da parte dello Stato. La giustificazione è esposta nell’Epistola sulla tolleranza (1689), la
quale sancisce la netta separazione tra Stato e Chiesa per quanto riguarda finalità, funzione e
poteri che a essi rispettivamente competono.
Stato → associazione di individui che ha come scopo la tutela dei diritti naturali. Lo Stato
non può intervenire con la costrizione in questioni esterne alla difesa di quei diritti, a meno
che non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l’integrità dello Stato stesso.
Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie: i cattolici, perché obbediscono a
un’autorità politico-religiosa intollerante, e gli atei, perché non possono dare alcuna
garanzia sui patti e giuramenti, non credendo all’esistenza di nulla di sacro.
Chiesa → associazione intesa a procurare ai propri membri la salvezza dell’anima. La
Chiesa può legittimamente espellere mediante scomunica coloro che non condividono i
dogmi e i riti che propone, ma lo scomunicato non deve assolutamente perdere i diritti civili
di cui gode come membro dello Stato.
Ragionevolezza del cristianesimo (1695) → difesa della tolleranza, riconsiderata alla luce del
rapporto tra religione e ragione. Il cristianesimo si limita alla fede nell’esistenza di Dio e alla
predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali: si rivela così la sua intrinseca
ragionevolezza perché riveste con la forza della Rivelazione contenuti etico-religiosi cui tutti
potrebbero accedere con il solo ausilio della ragione. Locke pone le basi del «deismo», la
tendenza a ricondurre la religione ai suoi fondamenti razionali. Razionalità e rivelazione vanno
quindi di pari passo nel cristianesimo, ma proprio per questo l’adesione ai singoli credi o riti delle
varie sette cristiane deve essere animata dallo spirito di tolleranza di chi si affida alla forza
dell’argomentazione razionale, e non dal fanatismo di chi crede essere, egli solo, nella verità. In
questa cultura della tolleranza si esprime la «ragionevolezza» del cristianesimo, se si tiene conto
che per Locke la ragione non è lo strumento per attingere la verità assoluta, bensì quello per
rimuovere gli ostacoli all’avvicinamento di una verità circoscritta dai limiti costitutivi dell’uomo. E il
fanatismo è sicuramente uno di questi ostacoli.
LEIBNIZ (1646-1716)
Leibniz nacque a Lipsia nel 1646. Dopo aver studiato filosofia, diritto e matematica, ottenne il diritto
di tenere lezioni nell’università di Lipsia, ma la sua attività culturale si realizzerà seguendo altre due
strade: la vita di corte e l’organizzazione strutturale del sapere nelle Accademie.
Nelle varie corti in cui vive, tra cui quelle di Berlino e di Hannover – fu precettore del futuro re
d’Inghilterra Giorgio I – Leibniz svolge diverse mansioni: diplomatico, bibliotecario, storico, consi-
gliere. A tutti i suoi protettori egli indirizza progetti di organizzazione politica, religiosa e culturale: nel
rapporto con essi, Leibniz oscilla tra il vecchio modello del dotto in cerca di stipendi e la figura
dell’intellettuale pre-illuminista che spera di trasformare la realtà attraverso il matrimonio della cultura
con il potere. L’altra attività cui Leibniz affida la realizzazione dei propri ideali è la promozione delle
Accademie: egli contribuisce in maniera determinante alla fondazione dell’Accademia delle scienze
di Berlino – di cui diviene presidente – ed entra nella Royal Accademy e nell’Accademia delle scienze
di Parigi. Tratto caratteristico delle Accademie è il ruolo della ricerca rispetto all’attività didattico-
scientifica delle università; in Leibniz, però, l’amore per le Accademie risponde anche al programma
di universalizzazione della ricerca scientifica.
Molto importanti sono i suoi viaggi in Europa: la permanenza a Parigi serve per completare i suoi
studi, soprattutto in matematica, e più in generale i suoi viaggi servono a entrare in contatto con gli
intellettuali del tempo, tra cui Arnauld, Malebranche e lo scienziato Christian Huygens. Accanto alla
filosofia, Leibniz si interessa di diritto, politica, storia, matematica e, soprattutto, la tecnologia, per-
ché, nella sua concezione del sapere, a teoria si deve sposare con la pratica. La filosofia è consi-
derata momento fondante e unificante delle varie discipline: per questo il suo pensiero è tenden-
zialmente orientato alla costruzione di un «sistema» filosofico unitario, anche se non è esposto in
un’unica sintesi. Le sue opere sono spesso di carattere occasionale: il Discorso di metafisica (1686),
ad esempio, nasce dal carteggio con Arnauld, mentre i Nuovi saggi sull’intelletto umano sono una
recensione del Saggio di Locke. L’unica opera di grande respiro sono i Saggi di teodicea (1710),
incentrati sul problema del rapporto tra necessità e libertà e su quello della giustificazione del male
nel mondo. A queste, vanno aggiunti numerosi scritti di vario genere, in particolare matematico. Di
grande importanza è il carteggio con i maggiori esponenti della cultura del suo tempo.
La logica → Dissertatio de arte combinatoria (1666).
L’obiettivo dell’opera è la formulazione di un metodo logico che matematizzi il pensiero, eliminando
da esso ciò che vi è di soggettivo e riconducendo le operazioni mentali a una forma di calcolo ra-
ziocinante. La logica deve avere una duplice funzione: «dimostrare» gli enunciati con assoluta si-
curezza e consentire di «inventare» un nuovo sapere tramite la combinazione delle conoscenze già
acquisite. Per conseguire questi obiettivi occorre seguire dei passaggi:
1. L’intero contenuto del pensiero dev’essere ridotto a un numero definito di «concetti semplici»
da cui possono derivare tutti quelli composti → «alfabeto» concettuale che sia per il pensiero
ciò che l’alfabeto letterale è per la scrittura. Leibniz però non ci riuscì.
2. Assegnare a ciascun concetto un «carattere», un simbolo che lo rappresenti, così da poter
operare sui simboli e non sui concetti → ordinare i caratteri in modo che le loro relazioni
corrispondano a quelle dei pensieri
→ si tratta di determinare la characteristica universalis, cioè la «lingua» del pensiero, con la sua
struttura “grammaticale” e “sintattica”.
La verità si fonda sul principio di identità, a cui è riconducibile il principio di contraddizione come sua
variante negativa→ la combinazione dei concetti deve avvenire senza comportare contraddizioni.
Leibniz riconosce due tipi di verità:
«Verità di ragione» → verità fondate sui principi di identità e di contraddizione. Esse sono
necessarie e infallibili e si riferiscono solamente a ciò che è logicamente «possibile» come
concetto astratto, indipendentemente dal fatto che sia realizzato o meno nella realtà.
«Verità di fatto» → fondato sul principio di «ragion sufficiente». Delle verità di fatto è sempre
possibile il contrario, senza che ciò comporti alcuna contraddizione – Cesare ha passato il
Rubicone ma poteva anche non farlo. Il concetto – il passaggio del Rubicone – è giustificato
da ragione sufficiente a spiegarlo.
I due tipi di verità non sono completamente contrapposti: per chi abbia una conoscenza assoluta
delle cose è possibile vedere come anche nelle verità di fatto, attraverso un numero indefinito di
passaggi logici, il predicato sia già contenuto nel concetto del soggetto (→ principio di identità): così
anche le verità di fatto sono ricondotte alle verità di ragione. La sola differenza è che, nelle verità di
ragione, l’identità tra soggetto e predicato è immediata o mediata da pochi passaggi intermedi,
mentre nelle verità di fatto essa presuppone un numero infinito di passaggi e, dunque, conoscibile
solo da una mente infinita come quella di Dio.
La sostanza individuale → logica e metafisica sono strettamente connessi: si può parlare di unità.
Finora per «soggetto» si è inteso una funzione logica definita dalla correlazione con il predicato. Sul
piano ontologico, invece, il soggetto non è un supporto metafisico del predicato, la sua «sostanza»:
sul piano ontologico, il corrispettivo del principio di identità presente sul piano logico è il fatto che il
predicato è contenuto nell’essere sostanziale del soggetto. E poiché un oggetto è definito dalla
totalità dei suoi predicati in maniera assolutamente singolare, la sostanza prende il nome di
«sostanza individuale» → carattere pluralistico della metafisica, a differenza del dualismo car-
tesiano e del monismo di Spinoza. Ciascuna sostanza individuale è definita in modo particolare e
irripetibile dai predicati in essa contenuti, quindi non possono esistere due sostanze perfettamente
uguali: se lo fossero, sarebbero in realtà la stessa sostanza (→ «identità degli indiscernibili»). I
predicati della sostanza individuale esprimono tutto ciò che di essa si può affermare, non solo le
proprietà accidentali, ma anche le azioni o gli effetti che da essa derivano. Una conoscenza perfetta
della sostanza individuale, quindi, può permettere di derivare da essa a priori tutto ciò che le accadrà.
Questo è possibile, però, solo a Dio: l’uomo, che non può conoscere la sostanza individuale nella
sua completezza, conosce le sue azioni solo a posteriori e di esse può dare una spiegazione solo
sulla base del principio di ragion sufficiente. Il fatto che nella sostanza individuale siano già contenuti
tutti gli effetti che ne deriveranno ha anche un’altra importante conseguenza: tra le diverse sostanze
individuali non esistono rapporti di causalità reciproca, ma ciascuna di esse è un mondo chiuso in
sé, che si può accordare con gli altri solo in virtù di un’armonia prestabilita, in modo da produrre solo
l’apparenza di un’influenza causale. La totalità del mondo si riflette in ciascuna sostanza, ma sempre
da un punto di vista diverso: proprio questa diversa angolatura costituisce la specificità e
l’individualità della sostanza.
Il concetto di forza: dalla fisica alla metafisica → forza: convergenza tra metafisica e fisica.
La fisica di Leibniz è fondata sull’opposizione a Cartesio:
1. Cartesio riduceva la materia corporea alla sola estensione. Per Leibniz ciò non rende spie-
gabili alcuni importanti fenomeni fisici, come l’impenetrabilità dei corpi o la loro forza d’inerzia.
Egli ritiene, quindi, che si debba presupporre nei corpi una «forza», in virtù della quale essi
resistono alla penetrazione di altri corpi o al movimento che altri corpi possono indurre in
loro. La vera essenza di ogni materia è la forza, mentre l’estensione, al pari di tutte le altre
proprietà della materia, è un «fenomeno» della forza.
2. Nozione di movimento → Cartesio aveva ricondotto il movimento a una semplice traslazione
meccanica dei corpi. Per Leibniz, invece, alla base di ogni fenomeno motorio c’è un’energia
(«forza viva») in grado di produrre spontaneamente un certo effetto fisico. La legge
cartesiana della conservazione del movimento andava modificata con la conservazione
dell’energia.
Un’importante conseguenza è il passaggio da una concezione meccanica e causale a una conce-
zione dinamica e finalistica della realtà. La connessione meccanica può essere utilizzata solo per
spiegare la realtà nella sua manifestazione più superficiale, ma una vera comprensione delle cose
deve invece avere carattere finalistico: in questo modo Leibniz conciliava il meccanicismo dei filosofi
moderni con il finalismo degli antichi. Questa duplicità è implicita nel concetto stesso di forza: essa
può essere considerata come grandezza puramente fisica, così da essere inserita in una
spiegazione meccanica che la vede come causa efficiente di determinati effetti, oppure apparire
come concetto metafisico che va oltre ciò che è percepibile scientificamente o con i sensi. Dire che
la realtà è forza significa riconoscere in essa la presenza di un’attività spontanea e originaria irridu-
cibile, il conatus o «sforzo» verso lo scopo finale.
La metafisica delle monadi → la filosofia di Leibniz è costantemente caratterizzata dall’esigenza di
pervenire agli elementi ultimi che entrano nella composizione delle cose: nella logica la ricerca di
concetti semplici dai quali derivare i concetti composti, nella metafisica la sostanza individuale
esprime un elemento ultimo che non può più essere predicato → atomismo: nella dottrina atomistica
tradizionale gli atomi sono intesi come elementi materiali. Ciò presenta gravi difficoltà teoriche: la
materia è estesa, quindi per definizione divisibile, dunque parlare di atomi materiali è una con-
traddizione in termini. La difficoltà scompare se gli atomi vengono intesi come atomi di energia an-
ziché di materia, riducendo la materia a energia spirituale. La realtà, anche quella materiale, è quindi
composta di atomi di forza inestesi, chiamati da Leibniz «monadi» per esprimere il loro carattere
unitario e indivisibile.
Le monadi hanno altre due caratteristiche:
Non sono generabili né corruttibili → possono essere create solo da Dio con un atto di im-
mediato passaggio dal non essere all’essere («fulgurazione»); allo stesso modo solo da Dio
possono essere annichilite.
Un elemento privo di parti non è suscettibile di modificazioni provenienti dall’esterno: le mo-
nadi non possono esercitare alcuna azione causale reciproca perché ciò presupporrebbe la
modifica meccanica di parti di una monade passiva da parte di una monade agente.
Le modificazioni sono pertanto il risultato dell’attività interna della monade, un’«ininterrotta attività»
che Leibniz fa coincidere con la «percezione», ovvero con il fatto che la monade rappresenta a sé
stessa ciò che avviene nel mondo. Le sue trasformazioni determinano diversi stati interni, cioè di-
verse configurazioni della monade stessa sulla base del modo in cui essa percepisce il restante
mondo. Inoltre, essendo attività ininterrotta, la monade non riproduce sempre la stessa percezione,
ma passa continuamente da una percezione all’altra, presentando stati interni sempre nuovi e con-
figurazioni sempre diverse: ciò che la spinge l’«appetizione», uno sforzo interno anch’esso manife-
stazione dell’attività della monade. C’è somiglianza con la sostanza individuale: la dottrina della
monade è quella della sostanza individuale tradotta in un’esplicita metafisica della forza.
La gerarchia delle monadi → le monadi hanno diversi gradi di perfezione, determinati dalla chiarezza
e dalla distinzione delle loro percezioni. Esse formano una catena gerarchica:
Monadi le cui percezioni tanto oscure e confuse da non essere consapevoli → fenomenica-
mente appaiono come materia, perché anche l’essenza della materia è energia, come ogni
altro aspetto della realtà. Anche le monadi che costituiscono una particella di materia sono
una percezione dell’universo da una particolare prospettiva, ma di questa percezione esse
non hanno alcuna consapevolezza.
«Appercezione» → percezione consapevole di sé. Anche qui ci sono diversi gradi di perfe-
zione: negli uomini la coscienza del percepire è congiunta alla consapevolezza dell’identità
del proprio io, cioè alla conoscenza di sé come «spiriti» forniti di ragione. Anche al loro interno
– l’anima umana – ci sono percezioni che non giungono alla coscienza di sé: dato che la
monade è sempre attiva, lo spirito dell’uomo pensa sempre, non ha interruzioni nella propria
attività percettiva; non tutte le percezioni però sono coscienti, anzi, l’anima dell’uomo ha
infinite «piccole percezioni» di cui non è consapevole perché la loro intensità è troppo bassa
per superare la soglia della coscienza.
Dio è il più alto livello di conoscenza, la «monade delle monadi» → perfetta chiarezza e
distinzione delle percezioni e unità di tutte le percezioni. Sotto questo aspetto, Dio appare
anche come il fondamento di tutte le altre monadi, la «ragion sufficiente» della loro esistenza:
le singole monadi sono prospettive particolari e confuse che possono trovare il principio della
propria esistenza solo in una mente divina che, nell’assolutezza della sua conoscenza,
determini con precisione i rapporti di ciascuna di esse con tutte le altre.
La diversificazione gerarchica della realtà richiede un ulteriore chiarimento. Per Leibniz esistono
monadi che «dominano» le altre, in quanto le loro percezioni sono il fondamento delle percezioni di
altre → differenza tra materia organica e inorganica: nella materia organica c’è una «monade cen-
trale» che, pur conservando un’individualità propria, ha la capacità di ricondurre a unità un aggregato
di altre monadi → l’«anima» è la monade che nell’uomo fa sì che le diverse monadi componenti il
corpo costituiscano un organismo che obbedisce a un principio vitale unitario. Al contrario, nella
materia inorganica manca una monade dominante che riconduca le altre all’unità.
La dottrina delle piccole percezioni è strettamente legata alla concezione della conoscenza → poi-
ché la monade comprende in sé tutte le sue percezioni, presenti e future, essa involve in sé anche
tutta la sua conoscenza: il suo sapere è innato in essa e ciò che appare come un processo di ap-
prendimento è solo il passaggio delle percezioni dallo stato di oscurità e confusione a quello di
chiarezza e distinzione, quindi di coscienza. Leibniz riprende così le tesi innatistiche che derivavano
da Platone, introducendo però una correzione: le nozioni innate non sono latenti nella mente
dell’uomo sin dall’inizio nella loro interezza, ma sono piuttosto virtualità che devono ancora esplicarsi
secondo la legge di sviluppo interna alla monade stessa.
Armonia prestabilita → ciascuna percezione di una qualsiasi monade è armonizzata non solo con le
proprie percezioni che la precedono e la seguono, ma anche con quelle di tutte le altre monadi →
dottrina dell’«armonia prestabilita»: all’atto della creazione del mondo Dio ha dato a ciascuna
monade una legge di sviluppo che si armonizza con quella di tutte le altre. Leibniz fa l’esempio dei
due orologi che camminano allo stesso modo e indicano sempre la stessa ora. Spiegazione:
Causalità esterna → i due orologi sono connessi in maniera tale da influenzarsi a vicenda.
Occasionalismo → c’è un abile orologiaio che interviene continuamente sugli orologi per
metterli al passo: l’accordo tra sostanze diverse è imputabile al continuo intervento di Dio.
Armonia prestabilita → entrambi gli orologi sono così precisi che, avendo ricevuto la stessa
carica, devono seguire solo gli impulsi che già contengono in sé per indicare la stessa ora.
Teodicea → alla dottrina dell’armonia prestabilita è strettamente connessa quella secondo cui Dio
ha creato il migliore dei mondi possibili. Siccome Dio è la «monade delle monadi», nella sua mente
infinita, oltre al mondo esistente, sono contenute le idee di tutti i mondi possibili che Dio avrebbe
potuto creare. Allora, perché Dio ha creato proprio questo mondo? Secondo Leibniz perché è il
migliore tra tutti. Dio infatti, pur essendo libero di fare ciò che vuole, in quanto infinita bontà è «moral-
mente necessitato» a scegliere il «miglior piano possibile». Leibniz risolve anche il problema della
«teodicea», cioè la compatibilità del male nel mondo con l’esistenza e la bontà di Dio: egli non crede,
infatti, che il mondo sia privo di mali, ma che in questo mondo si realizzi un rapporto tra bene e male
che, tra tutti i mondi possibili, rende compatibile la massima quantità di bene con la minima quantità
di male. In particolare, Leibniz mostra come una certa quantità di male, sia metafisico che morale, è
inevitabile in un modo finito:
«Male metafisico» → concetto negativo che esprime la differenza tra il creato e il creatore,
ovvero l’impossibilità che il mondo e l’uomo abbiano la stessa perfezione di Dio.
«Male morale» → nasce dall’imperfezione necessaria dell’uomo. Infatti, la percezione e la
conoscenza umane non possono mai raggiungere quella chiarezza e distinzione assoluta
che è propria di Dio solo: nell’uomo rimane sempre un residuo di oscurità e di confusione
che sta all’origine di ogni errore e di ogni peccato.
Questa tesi venne definita «ottimismo», ed esso è connesso a sua volta con un altro importante
aspetto del pensiero leibniziano, il finalismo: esso si ritrova nella monade, nella quale esiste un im-
pulso a passare a percezioni sempre più chiare e distinte. In ciò la monade consegue una sempre
maggiore perfezione, ma poiché quest’ultima consiste nella sempre più chiara comprensione dei
legami che connettono la monade a tutto il resto del mondo, essa acquista un significato morale
oltreché cognitivo. Nella contemplazione dell’armonia del mondo l’uomo comprende come nell’uni-
verso tutto sia volto al bene e come la sua stessa esistenza individuale debba contribuire a quello
scopo: egli consegue così la destinazione specifica della sua natura e, contemporaneamente, rea-
lizza la felicità a cui ogni uomo aspira.
GIAMBATTISTA VICO (1668-1744)
Dopo le sintesi rinascimentali e il nuovo pensiero scientifico di Galileo, la filosofia italiana conobbe
un lungo periodo di decadenza: essa assume un carattere provinciale, tendendo a privilegiare la
cultura retorico-umanistica e a rendere difficile la diffusione della filosofia cartesiana. Un’eccezione
è Napoli, sede dell’Accademia degli Investiganti in un periodo in cui l’istituzionalizzazione della cul-
tura è affidata ad esse: è l’ambiente filosofico napoletano a introdurre il cartesianesimo in Italia,
poiché l’Accademia degli Investiganti ha carattere prevalentemente scientifico. L’introduzione del
cartesianesimo a Napoli dipende dal fatto che esso appare un valido strumento per opporsi alla
cultura tradizionale e favorire una maggiore apertura alla scienza. Dove invece viene considerato
dal punto di vista filosofico, il cartesianesimo riceve più critiche che elogi e tende a venire ricondotto
alle tradizioni filosofiche precedenti:
Paolo Mattia Doria → cartesianesimo ricondurlo entro il platonismo e l’agostinismo, depurandolo dei
suoi aspetti più rivoluzionari. Doria risulta più critico che altro: chiarezza e distinzione sono in-
sufficienti a garantire la verità, il metodo geometrico è troppo astratto per cogliere la realtà e il ra-
zionalismo esclude un autentico spirito religioso.
Il cartesianesimo viene dunque apprezzato solo se accostato al metodo scientifico, ma proprio per
questo è rifiutato dove sui nuovi interessi per la scienza della natura e per la fisica prevale il tradi-
zionale ossequio per la cultura umanistica.
Giambattista Vico.
Nato a Napoli da famiglia modesta, Vico compì i primi studi in un collegio di gesuiti e studiò giuri-
sprudenza. Accanto ad essi, molto importante è la sua preparazione autodidattica, iniziata già da
giovane con letture personali e completata con studi di metafisica e di diritto. Vico era ostile alla
matematica, che abbandonò presto. Divenne professore di Eloquenza presso l’Università di Napoli
e, in quanto tale, pronunciava le «orazioni inaugurali»: nel De nostri temporis studiorum ratione
(1708) Vico prende le distanze dal cartesianesimo → primo scritto filosoficamente interessante.
Aspirando alla cattedra di Diritto, Vico pubblicò alcuni lavori di carattere giuridico, dalla quale riela-
borazione nasce Scienza nuova prima (1725), successivamente riedita – Scienza nuova seconda
(1730) – e integrata con Correzioni, miglioramenti e aggiunte – la Scienza nuova terza (1744).
L’erudizione di Vico e vastissima e innumerevoli sono le influenze degli autori letti, soprattutto quelli
classici. Nella sua autobiografia, Vico ne riconosce solo quattro:
Platone → esistenza di una natura ideale dell’uomo, in base alla quale si possono conoscere
il suo modo di pensare e di agire («storia ideale eterna»).
Tacito → considera la realtà umana nella fatticità degli impulsi e delle passioni.
Bacone → il metodo empirico che indica errori e pregiudizi che si devono evitare.
Grozio → esistenza di un diritto naturale condiviso da tutte le genti.
Si può aggiungere come influenza Cartesio, anche se in maniera negativa: il sistema cartesiano è
giudicato debole nella strutturazione metafisica, pericoloso per la preferenza accordata alle mate-
matiche sugli studi umanistici e obsoleto per la ripartizione di motivi filosofici dell’antichità.
La critica a Cartesio → «verum ipsum facto».
Nel De nostri temporis Vico esprime una prima critica a Cartesio:
Il metodo di Cartesio non educare i giovani all’eloquenza perché privilegia le attitudini logico-
matematiche sull’esercizio della fantasia e della memoria.
Cartesio pretende che l’uomo, attraverso l’impianto logico-matematico della sua ragione,
conosca il mondo naturale così come è in realtà.
Bisogna invece distinguere nettamente tra ciò che è opera dell’uomo, e in quanto tale può essere
pienamente conosciuto e dimostrato, e ciò che è opera di Dio – la natura fisica – che, in quanto tale,
può essere solo contemplato senza essere conosciuto dimostrativamente → deve esserci
corrispondenza tra ciò che è vero e ciò che viene fatto dal soggetto che conosce: si conosce solo
ciò di cui si è causa, ciò che si fa. Il mondo naturale può così essere conosciuto pienamente solo da
Dio, mentre l’uomo conosce prima di tutto la matematica, poi le altre scienze astratte: esse sono
tanto più conoscibili quanto più si allontanano dalla realtà naturale creata da Dio.
Questo concetto nega i capisaldi della filosofia cartesiana: esso implica, infatti, una netta distinzione
della «scienza» – conoscenza diretta delle cause – dalla semplice «coscienza» di una cosa, che
prescinde da quella conoscenza. Questo significa però rifiutare il principio cartesiano dell’evidenza
– la verità si presenta immediatamente alla coscienza. La verità fondamentale da cui possono essere
derivati tutti gli altri contenuti conoscitivi non è il «cogito», bensì Dio, nel quale esistono le «forme»
tutte le cose, in quanto loro creatore. L’uomo, invece, conosce veramente solo quando è egli stesso
facitore di ciò che conosce (intelligere, «intus-ligere»: leggere dentro), mentre negli altri casi la
conoscenza è un semplice cogitare («co-agere»: raccogliere, mettere insieme).
La «scienza nuova» → estensione del principio del «verum ipsum factum» alla storia.
In seguito alla lettura di Grozio, Vico si interessa al «mondo civile»: l’ambito dei costumi, del diritto
e della politica, considerati nell’elemento della storia, cioè della concretezza delle trasformazioni.
A differenza del mondo naturale, il «mondo civile» è opera dell’uomo e può essere oggetto di un
vero e proprio sapere scientifico. Vico interrompeva la lunga tradizione dello «scetticismo storico»,
secondo cui non c’è scienza nella storia. Nello stesso tempo VIco anticipava l’interesse per il signi-
ficato generale dello sviluppo storico alla base delle «filosofie della storia» successive. La scienza
storica è resa possibile dal concorso di due discipline, che riflettono il suo duplice scopo:
1. Filologia → La storia deve accertare i fatti, distinguendo criticamente ciò che è veramente
accaduto dal resto. La filologia è intesa da Vico come l’insieme delle discipline che, mediante
l’analisi critica delle testimonianze del passato, hanno funzione documentaria: per questo si
delinea come «scienza del certo».
2. Filosofia → la storia deve comprendere le ragioni e le cause dei fatti filologicamente accertati.
La filosofia si delinea come scienza del «vero», cioè delle cause che possono spiegare
(«inverare») gli avvenimenti.
Per raggiungere il suo scopo, nella scienza storica «certo» e «vero» devono convergere.
Per conoscere la natura delle cose bisogna conoscere la loro genesi, e poiché il «mondo civile» è
opera degli uomini, per conoscere e spiegare i fatti storici bisogna far riferimento a come sono nati
nella mente degli uomini, prima che nella realtà (il «vero» nel «certo») → la storia si configura come
una «metafisica della mente umana», cioè un’analisi dello sviluppo dell’attività spirituale dell’uomo.
Il primo compito dello storico è ricostruire una «lingua mentale comune a tutti», sulla base della quale
si può comporre un «vocabolario mentale comune a tutte le lingue»: così si può ricostruire la struttura
fondamentale della vita psichica dell’uomo che presiede allo sviluppo dei suoi sentimenti, fantasie e
pensieri. Indipendentemente dai luoghi e dalle culture in cui nascono, gli uomini hanno dunque
alcune modalità comuni di sentire, pensare e, quindi, di agire, a seconda del grado di sviluppo storico
in cui si trovano. In questa comunanza la storia rivela le proprie verità:
Esiste un diritto naturale riconosciuto da tutte le nazioni.
Tre usanze sono presenti presso tutti i popoli, tanto da poter valere come principi generali
della «scienza nuova»: la religione, i matrimoni solenni, la sepoltura dei morti.
Questo modello evolutivo della mente umana è la «storia ideale eterna», che è alla base delle
molteplici storie reali dei singoli popoli: nascita, sviluppo, maturità, declino e scomparsa dei popoli
obbediscono a un disegno radicato nella mente umana (per questo «ideale»).
Il modello della storia ideale libera la ricerca storica da due pregiudizi:
La «boria delle nazioni» → ciascun popolo ha la tendenza a rivendicare la scoperta delle
conoscenze o dei ritrovati che stanno alla base della storia umana.
→ tutte le nazioni, nel loro sviluppo, seguono l’ordine, uguale per tutti, della mente dell’uomo
in generale.
La «boria dei dotti» → tendenza degli studiosi a credere che la loro scienza sia antica come
il mondo e che sia già stata posseduta dai più antichi sapienti dell’umanità.
→ lo sviluppo mentale dell’umanità si svolge secondo una successione di fasi naturali: la
mentalità degli antichi non può essere uguale a quella dei contemporanei.
Ma la storia deve essere considerata anche, come ha insegnato Tacito, come sede delle passioni e
degli egoismi umani. Anche in questo caso, però, il corso storico obbedisce a un disegno, perché le
passioni sortiscono un effetto molto diverso da quello voluto dagli uomini: ad esempio, dall’impulso
sessuale, che mira alla soddisfazione fisica, nacque l’istituto della famiglia, così come dall’ambizione
e dal desiderio di dominio sorsero la città e lo Stato. Questo disegno è opera di Dio, perché solo Dio
può assegnare alle azioni individuali una finalità che va al di là delle intenzioni di chi le compie: la
storia è retta dalla provvidenza divina, che è insieme un «fatto storico», accertabile dall’esito delle
azioni degli uomini, e un criterio direttivo della ricerca, perché solo attraverso il presupposto di
un’«eterogenesi dei fini» è possibile orientarsi nella ricostruzione storica.
La scienza storica è assieme «storia d’umane idee» e «teologia civile ragionata della provvidenza
divina»: «teologia» in quanto scienza di Dio e della sua provvidenza; «civile» perché ha per oggetto
il «mondo civile»; «ragionata» perché la provvidenza opera attraverso i «naturali costumi umani», in
modo da essere trasparente alla ragione dell’uomo. Il corso storico appare essere insieme opera
dell’uomo e opera di Dio.
Il principio «verum ipsum factum» esteso alla storia riceve un fondamento ontologico e teologico:
ciò che si conosce e si fa non è arbitrario, ma è condizionato dalla struttura mentale dell’uomo, che
a sua volta è condizionata dall’azione provvidenziale di Dio. Progettando la «scienza nuova», Vico
intendeva fondare la storia sulla metafisica in maniera duplice:
Introducendo un nuovo significato di metafisica → non più solo determinazione della natura
dell’essere e della realtà in generale (ontologia), ma configurazione della «mente umana»,
cioè dell’apparato cognitivo specifico dell’uomo considerato nelle sue manifestazioni razio-
nali e prelogiche (gnoseologia).
Il rinvio alla dimensione teologica conserva il carattere «oggettivo» della metafisica e confe-
risce alla storia un fondamento assoluto che esclude relativismo e soggettivismo.
Le tre età → ci sono tre momenti dello sviluppo ideale della «metafisica della mente umana», ai quali
corrispondono altrettante facoltà conoscitive:
Infanzia → senso: conoscenza oscura.
Giovinezza → fantasia: l’emotività rende l’immagine più chiara ma poco oggettiva.
Maturità → ragione: riflessione serena, libera dall’oscurità e dall’emotività.
A queste corrispondono tre età in cui sono presenti tutte e tre le facoltà, ma una prevale sulle altre.
1. L’«età degli dei» → fase primitiva della storia umana in cui prevale il «senso». I primi uomini hanno
una vita spirituale limitata, compensata dalla forza fisica e dalle gigantesche dimensioni. Alcuni di
essi raggiungono un livello spirituale sufficiente a provare meraviglia di fronte agli eventi e alle forze
della natura, che identificanocon le divinità. Poiché tutta la realtà viene così «sentita» come divina,
la religione costituisce il primo passo dei giganti verso la civiltà. Essa diventa anche principio di altre
due conquiste:
Matrimoni solenni → temendo l’ira degli dei, i giganti l’accoppiamento casuale.
Seppelliscono i morti e considerano sacri i recinti in cui sono avvenute le sepolture.
→ sono quindi già presenti i tre principi che Vico ritiene essere comuni a tutti gli uomini.
Organizzazione politico-sociale → «repubbliche monastiche», cioè nuclei familiari organizzati in
forma patriarcale.
2. L’«età degli eroi» (Grecia omerica o la Roma dei re) → prevale la «fantasia».
Età dominata dagli eroi, che pretendono di discendere dalle divinità. Essicostruiscono le prime città
e accolgono in qualità di «famoli» (servi) quegli uomini-giganti che, rimasti nello stato di natura ori-
ginario, cercano riparo dalle violenze dei loro simili. Alla lunga i famoli si ammutinano, costringendo
i forti a organizzarsi in Stati aristocratici, in cui ciascun padre-re della precedente età entra a far parte
della nuova classe dirigente → distinzione tra patrizi e plebei, tra i quali la tensione rimane
permanente fino al progressivo riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini, con il quale si entra
nella terza età.
3. L’«età degli uomini» (Grecia classica, Roma repubblicana e civiltà moderna) → prevale la «ra-
gione». Le repubbliche si trasformano da aristocratiche in popolari, nelle quali le distinzioni sociali e
politiche sono affidate al censo e non più alla discendenza. Questa età è la fase della ragione di-
spiegata: solo ora può nascere la filosofia, cioè una metafisica che non sia più semplicemente sentita
o fantasticata, ma affidata alla riflessione della «mente pura».
«Ricorso storico» → lo schema triadico non è irreversibile: lo scetticismo, l’anarchia e il lusso ec-
cessivo possono far decadere gli uomini e farli tornare all’inizio del ciclo mentale dell’umanità. Un
esempio è il Medioevo, inteso come perdita di quei valori raggiunti con la Grecia classica e la Roma
repubblicana, e che comporta anche il ritorno del senso della fantasia (è l’età di Dante). La teoria
dei «ricorsi» ha una certa affinità con le interpretazioni cicliche del processo storico elaborate
nell’antichità, soprattutto dagli stoici, ma, a differenza di quelle, essa è presentata solo come una
possibilità, che deriva dal fatto che la successione non ha un carattere necessario o definitivo.
La sapienza poetica → la terza età è più marcatamente distinta dalle altre due perché più c’è ragione,
meno c’è fantasia. Le prime due età, invece, appaiono più vicine perché le facoltà prevalenti si
completano a vicenda. Infatti, l’età degli dei e quella degli eroi hanno in comune l’elemento della
«poesia» (poièin: fare, creare): i primi poeti, i «poeti teologi» che immaginano Giove e le altre divinità,
sono veri «creatori» di realtà che prima non esistevano, ovvero idee, costumi, comportamenti. Da
qui deriva la grande importanza attribuita da Vico alla sapienza poetica. La sapienza poetica degli
antichi, infatti, non è priva di verità: «vero poetico» e «vero metafisico» coincidono. I contenuti della
sapienza poetica non sono diversi da quelli della sapienza razionale, ma ciò non significa che essa
la prima sia un sapere già conosciuto in forma razionale: il linguaggio poetico è velato da
un’espressione misterico-allegorica dalla quale esso va spogliato per arrivare alla purezza concet-
tuale → Vico afferma il valore autentico della poesia nei confronti del pensiero logico-razionale.
La poesia costituisce invece «universali fantastici» o «generi fantastici», nei quali una particolare
immagine del senso e della fantasia esprime un contenuto conoscitivo a carattere generale: così,
nella cultura omerica, Achille è la rappresentazione del coraggio, Ulisse quella della prudenza, etc.
Tenendo conto che la sapienza poetica, come si è detto, ha sempre un contenuto di verità, anche
l’universale fantastico non è mera fantasia, ma è una realtà (ancorché fantastica) superiore alla
stessa realtà fisica: «il vero capitano di guerra, per esemplo, è ‘l Goffredo che finge Torquato
Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri
capitani di guerra».
Questa concezione si riflette nel linguaggio. Gli uomini, secondo Vico, hanno iniziato a parlare in
poesia e non in prosa. Il linguaggio cantato precede quello parlato, come si evince anche
filologicamente: le prime testimonianze letterarie dei popoli antichi sono infatti in poesia, non in
prosa. Da ciò consegue anche l’infondatezza della tesi che sostiene l’origine convenzionale e
arbitraria del linguaggio. Le lingue hanno un’origine naturale, poiché sono la traduzione fonica
delle immagini poetiche che i popoli hanno sviluppato nell’antichità in accordo con il loro grado di
sviluppo mentale e storico. Soltanto nella terza età – degli uomini e della ragione – sopravviene la
componente convenzionale del linguaggio. In armonia con questa visione è la dottrina della
«discoverta del vero Omero»: la tesi – oggi non più accolta – è che Omero non sia né un poeta
singolo, né un cantore immaginario, ma il popolo greco nel suo insieme. In altri termini, Omero è
una realtà storica non già in quanto persona fisica, ma perché rappresenta il «carattere eroico»
unitario in cui si sono riconosciuti i diversi rapsodi che in Grecia andavano cantando le epopee
popolari dell’Iliade e dell’Odissea.
LA FILOSOFIA INGLESE NEL SETTECENTO
Tra Seicento e Settecento si verifica in Inghilterra un rinnovamento culturale, favorito da due condi-
zioni: sul piano socio-economico la costituzione di un forte ceto medio, dedito all’attività manifattu-
riera e al commercio; sul piano politico la Gloriosa rivoluzione, concludendo il conflitto tra Parlamento
e Corona, garantiva definitivamente all’Inghilterra una monarchia di tipo costituzionale. Veniva ricon-
fermato così il nuovo peso della borghesia e assieme iniziava un periodo di maggiore apertura reli-
giosa e culturale: l’«Atto di tolleranza» (1689) riconosceva la libertà religiosa ai protestanti non an-
glicani.
Evoluzione filosofica → fine dell’egemonia cartesiana e del metodo razionalistico, a cui si sostituisce
l’esigenza di un metodo empirico-sperimentale. I maggiori esponenti di questo nuovo atteggiamento
sono Locke e Newton:
Locke → conoscenza condizionata dall’esperienza e abbandono dell’idea che ragione
umana sia principio assoluto di un sapere dedotto da pochi principi innati.
Newton → sperimentalismo scientificoche non lascia spazio a ipotesi metafisiche e fa della
stessa matematizzazione dell’universo una teoria da dimostrarsi sperimentalmente.
Pensiero religioso → analisi del rapporto tra ragione e rivelazione. Anche in questo campo si nota
una presa di distanza sia dalle reticenze di Cartesio, sia dagli esiti tendenzialmente o apertamente
irreligiosi di alcuni sviluppo del razionalismo seicentesco (Spinoza e Hobbes).
Pensiero etico → tentativo di trovare una fondazione autonoma della morale, che riconosca l’indi-
pendenza della vita etica da motivazioni di carattere metafisico e religioso. La norma etica deve
essere fondata sulla natura umana studiata empiricamente nelle sue componenti sentimentali, pas-
sionali e razionali.
Questi sviluppi rientrano oppure no nell’illuminismo? Sicuramente la nuova concezione di ragione,
cioè una ragione scientifico-strumentale empiricamente condizionata, è un fattore che fa pensare a
una risposta affermativa. A differenza della Francia, però, dove la funzione critica della ragione in-
veste tutti gli aspetti della tradizione, dalla religione rivelata alla concezione della realtà in generale,
in Inghilterra la critica non assume toni radicali ed è rinchiusa in ambiti stretti. Questo perché l’illu-
minismo francese si è sviluppato in specifiche condizioni sociali e politiche. In Francia, inoltre, i phi-
losophes danno vita a un vero e proprio movimento culturale che consapevolmente promuove il
rinnovamento della società: anche la componente dell’istituzionalizzazione manca del tutto al pen-
siero inglese del Settecento. Nel rapporto tra rivelazione e ragione, infine, i sostenitori della religione
ufficiale sono più numerosi e hanno molto più seguito dei «deisti»: non è un caso che Berkeley utilizzi
la forza dell’empirismo lockiano in chiave religiosamente e politicamente conservatrice.
Questo non vuol dire che non si possa parlare di illuminismo britannico, anzi, per l’Europa è più
corretto parlare di diverse interpretazioni dell’illuminismo: ogni paese ha infatti la propria interpreta-
zione, con caratteristiche diverse in base alla storia politica, economica, sociale e culturale in cui si
sviluppa.
Nel Settecento le condizioni economiche e sociali della Scozia sono ancora arretrate, caratterizzata
dal latifondo e dalla servitù della gleba. Si verifica però una fioritura culturale: nei maggiori centri
urbani della Scozia ci sono importanti università che costituiscono un polo di discussione filosofica
che. Il tramite tra la filosofia inglese e quella scozzese è Hutcheson, ma i tre grandi autori scozzesi
di questo periodo sono Adam Smith, Thomas Reid e David Hume.
In Francia si diffondono gli atteggiamenti critici verso la religione e il razionalismo seicentesco che
si erano sviluppati in Inghilterra e che avevano il loro centro in una nuova concezione della ragione.
Qui però la nuova funzione critica della ragione ha carattere molto più radicale a causa del contesto
storico più arretrato:
Piano politico → il potere assoluto della monarchia borbonica manteneva il paese in condi-
zioni arretrate: sulla base della lezione alla libertà e tolleranza di Locke, gli illuministi hanno
difeso una democrazia radicale che non prevedesse la rappresentanza politica.
Piano religioso → il predominio della religione cattolica si esprimeva in atti di intolleranza
verso la minoranza protestante, impedendo quell’equilibrio e coesistenza di confessioni che
caratterizzavano la vita inglese: ciò spiega come mai il deismo in qualche caso si sia trasfor-
mato in vero ateismo.
Piano gnoseologico → il richiamo all’esperienza si trasforma in sensismo o in un esasperato
materialismo che non lascia spazio all’autonomia delle attività intellettuali e volitive.
Alla dimensione critica dell’attività illuministica si unisce sempre un’intenzione costruttiva: la ragione
è sempre progettuale e intesa alla trasformazione della società e della cultura. L’atteggiamento illu-
ministico è di sostanziale ottimismo, fondato sulla fiducia nel progresso storico e sull’identificazione
della natura con un principio di ordine e di razionalità: per questo motivo l’illuminismo francese è un
modello imprescindibile per la cultura moderna di matrice razionalistica e laica. Il suo obiettivo prin-
cipale è la diffusione della cultura. In un primo momento c’è fiducia che questo ruolo possa essere
svolto dai sovrani → «dispotismo illuminato»: il sovrano esercita il potere assoluto per il bene della
nazione. Ma un altro obiettivo era raggiungere ampi strati della popolazione – «illuminazione popo-
lare» –, in particolare la borghesia. A questo programma sono destinati dizionari ed enciclopedie e,
per lo stesso motivo, cambiano le forme stilistiche: il trattato lascia il posto al saggio. Ma anch’esso
appare inadeguato ai philosophes, intellettuali militanti che si occupano di politica e di questioni
sociali, che utilizzano pamphlets, poesie, romanzi o il nuovo «racconto filosofico».
Montesquieu (1689-1755)
Nato nei pressi di Bordeaux da una famiglia di «nobiltà di toga» e avviato alla magistratura, divenne
presidente del Parlamento di Bordeaux. Abbandonata la carica si dedicò a numerosi viaggi, soprat-
tutto in Inghilterra, esperienza determinante per la sua formazione politica.
Lettere persiane (1721) → critica alla società celata dalla finzione letteraria – carattere tipico del
primo illuminismo. Scritta in forma epistolare, l’opera mette a nudo i difetti, i vizi e le assurdità della
progredita civiltà europea.
Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) → analisi
critica della storia romana: Montesquieu tenta di ricercare i principi politici e sociali che spiegano lo
sviluppo e la decadenza di Roma.
L’esprit des lois (1748) → tentativo di trovare le cause generali alla base dello sviluppo delle diverse
istituzioni socio-politiche, che hanno carattere specifico nelle singole nazioni e nei singoli momenti
storici. Egli individua tre forme di governo, ciascuna delle quali fondata su un «principio» – fattore
originario ed elemento costitutivo – al quale devono mantenersi fedeli per conservarsi:
Governo repubblicano (aristocratico o democratico) → «virtù». Potere detenuto da più per-
sone ed esercitato in conformità della legge.
Governo monarchico → «onore». Potere detenuto da uno solo in conformità alla legge.
Governo dispotico → «paura». Potere detenuto da uno solo ed esercitato arbitrariamente.
Non esiste una forma migliore: la validità di ciascuna di esse è relativa al popolo cui si applica.
L’intento di Montesquieu è infatti ricercare le condizioni necessarie, l’insieme di rapporti – lo «spirito
delle leggi» – perché ciascuna forma di governo possa svilupparsi e mantenersi. La condizione ge-
nerale per il mantenimento della libertà politica è la «divisone dei poteri»: esecutivo, legislativo e
giudiziario, il quale deve essere autonomo dagli altri due – a differenza del federativo di Locke.
I materialisti.
I materialisti francesi condividono con l’illuminismo l’esigenza di dare una spiegazione scientifica
della realtà – il materialismo è la conseguenza dell’applicazione delle più avanzate acquisizioni del
sapere scientifico alla natura e alla conoscenza – ma finiscono col sostituire alla vecchia metafisica
spiritualistica o dualistica una nuova metafisica materialistica, cioè un sistema costruito a tavolino
sulla base di principi astratti. Per questa ragione, ancor più che per la radicalità delle loro posizioni,
la maggior parte degli illuministi, francesi e non, espressero un generale dissenso dalle loro tesi.
Julien de La Mettrie (1709-1751) → Storia naturale dell’anima (1745) e L’uomo-macchina (1748).
Nella Storia naturale dell’anima parte dal presupposto che la distinzione cartesiana tra res cogitans
e res extensa sia infondata: anche l’anima presenta gli attributi dell’estensione e della materialità e
poiché non possiamo conoscere l’essenza delle due sostanze possiamo pensare che anche la ma-
teria partecipi di quella sensibilità che Cartesio attribuisce soltanto all’anima. Corpo e anima, en-
trambi materiali, sono quindi strettamente interdipendenti.
Nell’Uomo macchina estende il meccanicismo cartesiano all’uomo, rendendo superflua l’ipotesi
dell’anima: l’uomo, così come gli altri animali, è solo una macchina, cioè un meccanismo che fun-
ziona in base alle proprietà intrinseche alla materia stessa, e l’unica sua differenza con essi è la
maggiore complessità. Le leggi naturali non possono essere conosciute astrattamente, ma devono
essere indagate sperimentalmente dalle scienze: in questo modo l’intera natura viene ricondotta a
un unico principio, la materia – fornita di sensibilità e movimento – mentre le differenze consistono
esclusivamente nei diversi modi di funzionamento e nei diversi livelli di complessità dei meccanismi
materiali. In ambito morale l’autore si ispira all’epicureismo: la natura indica ciò che è bene per
l’uomo connettendolo con il piacere, che è sempre materiale anche se può assumere espressioni
molto raffinate, come il piacere intellettuale ed estetico.
Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) → materialismo gnoseologico: dottrina della conoscenza di
tipo sensistico (Condillac). Egli ritiene che tutte le idee provengano da due facoltà:
Sensibilità → riceviamo le impressioni degli oggetti esterni.
Memoria → conserviamo nello spirito la sensazione ricevuta.
Tale interpretazione sensistica esclude la possibilità di un’anima immateriale, e pertanto risolve ogni
attività dello spirito nella materia.
Morale utilitaristica → l’azione umana è mossa da movimenti puramente materiali. Tuttavia, Hel-
vétius cerca di trovare norme di comportamento generalizzabili: a tale scopo introduce il criterio
dell’utilità, il cui valore cresce in rapporto diretto con il grado di generalità conseguito.
Il materialismo francese, con Helvétius, si propone come una filosofia volta al consolidamento della
morale, anche se quest’ultima non trova più il suo fondamento in Dio o nei valori spirituali, ma esclu-
sivamente nella stessa costituzione materiale dell’uomo.
Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach (1723-1789) → esposizione più organica e dottrinaria.
Nel Sistema della natura (1770) identifica la natura con la materia → concezione rigorosamente
meccanicistica e deterministica. Di conseguenza, anche l’uomo è concepito come un essere pura-
mente fisico, che obbedisce alle leggi necessario della natura materiale come tutti gli altri enti naturali
→ negazione della libertà umana: l’azione dell’uomo è determinata dalla ricerca della felicità, definita
anch’essa in termini puramente materiali, come piacere duraturo.
Conseguenze etico-politiche del suo materialismo → la finalità dell’agire individuale e dell’organiz-
zazione politica è la felicità: ogni istituzione, sia politica che religiosa, che impedisca il consegui-
mento di tale fine naturale perde la sua legittimità. Hobalch prospetta la possibilità di una «società
di atei» che riconosca una legge della natura che, prescrivendo la felicità di ciascun uomo, prefigura
un ordine socio-politico universale.
Napoli.
Pietro Giannone (1676-1748) → nella Istoria civile del Regno di Napoli (1723) vuole mostrare come
il potere ecclesiastico abbia progressivamente eroso quello politico → rigida separazione. Giannone
elabora anche una filosofia della storia, esposta nel Triregno: la religione è dapprima fondamento
del «regno terreno» (religione naturale dei primitivi), poi del «regno celeste» (il cristianesimo), infine
del «regno papale» (religione usata come strumento di potere politico).
Ferdinando Galiani (1728-1787) → le sue opere sono un termine di riferimento costante per il dibat-
tito economico europeo del Settecento. La dottrina economica più originale è il «valore della merce»,
che dipende dall’utilità e dalla rarità del prodotto e dal lavoro e dal tempo necessari alla sua prepa-
razione.
Francesco Mario Pagano (1748-1799) → reinterpreta in chiave naturalistica il principio vichiano dei
corsi e dei ricorsi: il mondo storico è retto da leggi analoghe a quelle naturali, per cui le società e le
nazioni nascono, crescono e decadono con la stessa necessità con cui la natura è un continuo
passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita.
Milano.
Pietro Verri (1728-1797) → filosofo ed economista, sostenitore si una dottrina liberista simile a quella
di Adam Smith.
Discorso sull’indole del piacere e del dolore → il piacere è determinato dalla cessazione di un dolore,
quindi prevale su quest’ultimo. Il dolore però non è concepito negativamente: esso esprime man-
canza e bisogno di qualcosa ed ha quindi una funzione di stimolo dell’attività umana. In un Discorso
sulla felicità sostiene che, se i suoi desideri non sono commisurati alle sue capacità, l’uomo è desti-
nato all’infelicità. La felicità consiste nel trovare un equilibrio tra desideri e possibilità reali di soddi-
sfacimento: in ciò risiede la virtù dell’uomo illuminato dalla ragione.
Cesare Beccaria (1738-1794) → autore de Dei delitti e delle pene (1764).
Presupposti fondamentali dell’opera di Beccaria sono:
Contrattualismo → lo Stato è un’associazione in cui gli individui alienano una parte dei loro diritti e
della loro libertà per ottenere la garanzia della sicurezza.
Utilitarismo → finalità dello Stato è la «massima felicità divisa nel maggior numero».
Ma la sicurezza e la felicità dei cittadini richiedono che essi siano protetti dai delitti che possono
essere commessi nei loro confronti → necessità della pena, la cui funzione non è la punizione del
reo, bensì la prevenzione dei delitti. Questa concezione implica due corollari:
1. L’abolizione della tortura → se il delitto è certo si può procedere con la pena; altrimenti non
si può punire con la tortura una persona a cui non è ancora stato certificato il reato.
2. L’abolizione della pena di morte → essa non ha nessuna funzione di prevenzione o di de-
terrenza nei confronti di nuovi delitti. Inoltre si violerebbe il contratto con cui egli è entrato
nella società, cioè ottenere la garanzia della sicurezza.
L’ILLUMINISMO TEDESCO
La cultura illuministica ebbe ampia diffusione anche in Germania. L’Aufklärung presenta però carat-
teri propri dovuti all’autonomia delle sue origini: la cultura leibniziana e l’esigenza di un rinnovamento
culturale e religioso che si opponesse all’irrigidimento delle scuole accademiche e delle chiese. Tre
filoni caratterizzano l’illuminismo tedesco:
1. La rivalutazione degli aspetti pratici della filosofia → l’umanità è destinata a realizzare la per-
fezione morale e la felicità terrena e la filosofia diventa la disciplina di orientamento della condotta
pratica dell’uomo: i problemi metafisici e teologici vengono abbandonati.
Christian Thomasius (1655-1728) → convenzionalmente si fa iniziare l’Aufklärung con l’inizio del suo
insegnamento nell’università di Halle (1694): egli insegnava in tedesco così come in tedesco sono
le sue opere più importanti, Introduzione alla dottrina della ragione (1691) e Introduzione alla dottrina
dei costumi (1692), per garantire l’accesso alla cultura da parte di un più ampio pubblico, sottoli-
neando la funzione pratica e sociale della filosofia. Assunto fondamentale è la priorità della volontà
sull’intelletto e della vita pratica sull’attività speculativa anche perché la conoscenza umana è limitata
all’ambito dell’esperienza: la filosofia deve quindi occuparsi dei problemi etici e tradursi in uno stru-
mento di orientamento razionale per la condotta dell’uomo. La morale è fondata sull’amore del pros-
simo, considerata il carattere fondamentale dell’uomo. Egli fu interessato anche per la storia della
filosofia: attraverso di essa è possibile assumere una posizione che consenta di scegliere il meglio
da ciascuna posizione filosofica.
2. Ricerca dei fondamenti della conoscenza umana → su questo tema c’è una distinzione tra la
fiducia nella dimensione logica (Leibniz) e l’attenzione all’empirismo (Locke).
Christian Wolff (1679-1754) → esponente più illustre dell’illuminismo tedesco.
Il suo pensiero è una vasta risistemazione della filosofia leibniziana all’interno di una struttura siste-
matica di derivazione soprattutto scolastica. Le opere di Wolff si possono dividere in due gruppi: in
tedesco (Pensieri razionali) e in latino (titoli delle diverse scienze che compongono il sistema).
Il pensiero di Wolff ha carattere sistematico → classificazione delle scienze.
Prima di tutte le scienze c’è però la logica, disciplina propedeutica a qualsiasi attività filosofico-scien-
tifica, incentrata sul «principio di contraddizione», a cui viene ricondotto il «principio di ragion suffi-
ciente»: il principio di non contraddizione è l’unico strumento per passare con assoluta certezza dalle
conoscenze note a quelle ignote fino ricostruire l’intero edificio del sapere. Egli si affida quindi al
metodo sillogistico, che è basato sul principio di non contraddizione, mentre l’esperienza ha solo il
ruolo di definire le realtà empiriche → tutto ciò di cui si dimostra la possibilità logica è assolutamente
certo e quindi anche reale.
La classificazione della scienza distingue tra:
Filosofia teoretica → si distingue in quattro discipline:
«Ontologia» → obiettivo di determinare i predicati universali e i modi fondamentali dell’ente.
«Cosmologia razionale» → studia le proprietà del mondo, che Wolff paragona a una mac-
china, in cui c’è un ordine causale meccanico e necessario voluto da Dio.
«Psicologia razionale» → ha per oggetto l’anima, una sostanza semplice separata dal corpo
ma congiunta ad esso esteriormente da Dio, incorruttibile e immortale. Essa ha la facoltà
percettiva, divisa in percezione confusa e percezione distinta.
«Teologia naturale» o «razionale» → dimostrazione dell’esistenza e degli attributi di Dio. La
teologia rivelata, sovrarazionale e indimostrabile, è comunque accettata perché non contra-
sta la ragione.
Filosofia pratica → tre discipline fondate sul «diritto naturale»: l’azione umana si basa su una «legge
naturale» che l’uomo trova iscritta in sé e che può consultare sempre tramite la ragione. I rapporti
da essa prescritti, poiché razionali, sono assolutamente oggettivi e sempre validi.
«Etica» → esecuzione della legge naturale che conduce alla realizzazione della felicità. La
sua regola è espressa dal principio della perfezione: «fa’ ciò che contribuisce alla perfezione
tua, del tuo Stato e del tuo prossimo, e non fare il contrario».
«Economica» → studia le società naturali che precedono lo Stato (famiglia).
«Politica» → studia lo Stato. Wolff riprende Locke: origine contrattualistica della società civile
ed esistenza di diritti naturali dell’uomo che devono essere tutelati dallo Stato. Lo Stato deve
promuovere il benessere dei cittadini e quindi deve essere guidato da un monarca illuminato.
Anche se Wolff si rifà al pensiero di Leibniz ci sono dei punti di divergenza: a) non c’è la nozione di
monade come principio attivo della realtà; b) l’ordine del mondo è necessario e non libero; c) i rap-
porti tra le cose non sono esclusivamente di tipo logico-percettivo, ma prevedono la possibilità di un
nesso causale; d) l’armonia prestabilita è ristretta alla relazione tra anima e corpo.
Seguaci e critici della scuola wolffiana.
Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) → introduce il termine «estetica» (àisthesis, «sensa-
zione»). L’estetica è la scienza della conoscenza sensibile, il cui fine è la bellezza: di qui l’applica-
zione del termine alla «teoria del bello». La conoscenza sensibile è però inferiore a quella intellet-
tuale, perché oscura e confusa.
«Scuola thomasiana» → critici di Wolff. Caratteri principali della scuola sono:
Maggiore sensibilità per la componente empirica della conoscenza.
Consapevolezza dei limiti intrinseci alle facoltà conoscitive dell’uomo.
Diffidenza verso il metodo sillogistico.
La filosofia deve essere una «scienza del reale», cioè deve partire dall’esistenza delle cose
e non dalla loro definizione nominale.
Johann Lambert (1728-1777) → esigenza di ritrovare la matrice empirica del materiale della cono-
scenza, cioè delle idee (Locke), per conseguire una «conoscenza scientifica» dei meccanismi del
conoscere basata su principi formali.
Johann Tetens (1734-1807) → tentativo di combinare l’empirismo di Locke con Leibniz. La cono-
scenza deriva dalla sensibilità (passiva) mentre per spiegare l’attività dell’intelletto ricorre a Leibniz:
nell’anima umana esiste una «forza del pensiero» in grado di organizzare i materiali empirici in una
conoscenza formalmente articolata.
La filosofia popolare → indirizzo che si proponeva di garantire l’accesso della filosofia a un più
vasto pubblico e che si concentrava sulle questioni di ordine etico-sociale, religioso o, più in genere,
antropologico rispetto al dibattito teoretico o gnoseologico.
Moses Mendelssohn (1729-1786) → tema centrale è la religione e il suo rapporto con il potere: la
religiosità risiede nell’intimo della coscienza umana e non può rivestirsi di nessun potere ecclesia-
stico o civile. Stato e Chiesa hanno funzioni diverse: lo Stato deve promuovere la felicità terrena dei
cittadini, mentre la Chiesa si occupa della salvezza e della felicità futura. Mendelssohn elabora an-
che una dottrina estetica: la percezione del bello deriva dal «sentimento», quindi dalla sensazione:
il bello è una rappresentazione sensibile chiara ma confusa, cioè non distinta.
3. Rapporti tra filosofia e religione → l’analisi dei rapporti tra filosofia e religione e la critica della
religione positiva sono uno degli aspetti più caratterizzanti dell’illuminismo tedesco. La radice di que-
sto ambito è da ricercare nel pietismo, atteggiamento mosso dall’esigenza del ritorno ad alcune tesi
fondamentali del luteranesimo originario, tra cui il libero esame della Bibbia. Esso si fonda su due
rivendicazioni: il diritto al libero esame della Bibbia e l’esigenza di una vita religiosa vissuta nell’inti-
mità della coscienza, mentre all’esterno si segue una prassi modellata sul Vangelo. Contro la scola-
sticizzazione del protestantesimo contemporaneo, il pietismo intende ridefinire la natura e le finalità
dell’uomo per superare le schematizzazioni delle scuole e tradursi in una filosofia militante. Pietismo
e illuminismo si contrappongono su un punto fondamentale: il primo fonda ogni conoscenza sull’au-
torità Bibbia, il secondo intende salvaguardare l’autonomia della ragione.
«Neologi» (nuovi teologi) → riducono la religione ai suoi contenuti razionali, eliminando da essa tutti
i dogmi che sono stati via via aggiunti nello sviluppo delle religioni positive.
Hermann Reimarus (1694-1768) → netto rifiuto della religione positiva, in particolare della rivela-
zione cui fa riferimento la tradizione cristiana: l’Antico Testamento non è una rivelazione perché in
esso è assente il concetto di un aldilà, mentre il Nuovo Testamento contiene soltanto una religione
pratica, in quanto Gesù si proponeva una missione di redenzione puramente terrena.
Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) → si occupò di religione dapprima in una serie di scritti
minori il cui senso generale è la difesa della religione naturale, fondata sulla ragione, e la critica di
quella positiva, che nasce dalla necessità di poggiare il potere politico su una religione pubblica.
Un’esposizione letteraria è il dramma Nathan il saggio, in cui l’ebreo Nathan racconta al Saladino la
favola dei tre anelli (tre monoteismi) che sono solo l’imitazione di un anello originario andato perduto
(la vera religione naturale e razionale).
Educazione del genere umano (1780) → analisi della religione congiunta ad una filosofia della storia:
la rivelazione è accettata e congiunta all’educazione progressiva del genere umano attraverso la
ragione. La rivelazione e l’educazione hanno il comune scopo finale di perfezionare completamente
l’uomo. Lessing articola lo sviluppo del genere umano in tre età:
1. «Giudaismo» → infanzia. L’educazione morale degli uomini è imposta tramite premi e casti-
ghi immediati e sensibili.
2. «Cristianesimo» → il cristianesimo insegnò il valore dell’interiorità: purezza del cuore, co-
scienza, superiorità dello spirito sull’esteriorità. Premio e punizione vengono differiti nella vita
oltre la morte.
3. «Nuovo Vangelo eterno» → pura età dello spirito nella quale la verità non ha più bisogno di
rivelazione ma viene conosciuta direttamente dalla ragione: in essa l’uomo «farà il bene per
il bene».
Kant nasce a Königsberg nel 1724. Tre istanze furono molto importanti nella sua formazione: la
prima educazione di carattere pietistico, la filosofia di Wolff e gli studi di fisica e chimica all’università,
dove entrò in contatto con la tradizione empirista inglese. Nel 1755 si abilitò all’insegnamento della
metafisica con lo scritto Nova dilucidatio e tenne lezioni di fisica e metafisica fino al 1770, quando
divenne ordinario di Logica e metafisica. È questo il periodo degli scritti pre-critici: alla formazione
giovanile si aggiunsero la lettura di Rousseau, che gli diede il senso del valore dell’uomo in quanto
tale, e quella di Hume, che lo avvicinò al criticismo – anche se più importanti sono stati la lettura di
Newton e il ripensamento della filosofia leibniziana. Nel 1770 pubblicò la dissertazione De mundi
sensibilis, opera che tradizionalmente segna il passaggio dal «dogmatismo» al «criticismo»: dopo
averla fatta circolare e aver ricevuto critiche, iniziò un processo di rielaborazione che portò alla prima
edizione della Critica della ragion pura (1781) – la seconda uscirà nel 1787 – e ai Prolegomeni a
ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783). Kant estese poi il criticismo ad altri
ambiti: affrontò il problema morale nella Critica della ragion pratica (1785), quello religioso ne La
religione entro i soli limiti della ragione (1793) e quello estetico e teleologico nella Critica del giudizio
(1790). Gli scritti critici non esauriscono la ricerca filosofica di Kant: essi infatti sono propedeutici a
costruire un «sistema» della filosofia critica che partecipi a determinare i contenuti materiali del sa-
pere. Tale sistema si divide in due parti: la «metafisica della natura», parte teorica cui dedica i Prin-
cipi metafisici della scienza della natura (1786), e la «metafisica dei costumi», parte pratica affrontata
nella Fondazione della metafisica dei costumi (1788) e nella Metafisica dei costumi (1797). La vita
di Kant, a parte il suo difficile rapporto con la censura, ha pochi aspetti esteriori importanti. Gli ultimi
suoi anni sono segnati da una grande decadenza fisica e mentale e morì nel 1804.
Il criticismo
L’obiettivo del criticismo kantiano è delineare i limiti e le possibilità della conoscenza umana, cioè
una «scienza dei limiti della ragione». Hume e la critica alla causalità necessaria sono un termine di
riferimento importante per Kant: anch’egli sentiva la problematicità del concetto di causalità neces-
saria ma, al contrario di Hume, era convinto della validità dei fondamenti della scienza moderna.
Kant accolse la critica alla causalità, accettando che l’esperienza fornisca solo una successione
temporale e una contiguità spaziale tra fenomeni (giudizio a posteriori) e che la causalità non possa
essere dimostrata dal principio d’identità (giudizio analitico): per salvare la validità oggettiva della
scienza, e con essa tutti i concetti intellettuali di cui si serve per dare leggi alla natura, bisogna
trovare una connessione che non derivi dall’esperienza e dall’applicazione del principio d’identità.
Nell’Introduzione della Critica della ragion pura, Kant distingue tre tipi di giudizio:
Giudizio analitico a priori → fondato sul principio d’identità. Tale giudizio è universale perché
trascende l’esperienza, ma non produce nuova conoscenza perché è fondato sul principio
d’identità.
Giudizio sintetico a posteriori → unione di due concetti diversi in base all’esperienza: il con-
cetto del predicato non è contenuto nel soggetto, quindi è stato aggiunto dopo aver avuto
esperienza attraverso un processo di sintesi. Alcuni di questi giudizi possono essere gene-
ralizzati, ma non saranno mai universali perché derivano dall’esperienza, sono sempre par-
ticolari quindi non hanno valore scientifico.
Giudizio sintetico a priori → la sintesi tra soggetto e predicato si fonda su un principio a priori,
interno al soggetto conoscente. Da questi giudizi dipende la validità universale e necessaria
di tutti i concetti intellettuali che istituiscono connessioni necessarie relative al mondo della
natura, cioè una fisica come scienza pura (la stessa cosa vale per la matematica pura). An-
che la metafisica, se vuole far valere la pretesa di essere una scienza pura, deve dimostrare
di essere fondata su principi sintetici a priori. Kant estese tale principio anche alla morale:
nella Fondazione della metafisica dei costumi, che affronta il tema del fondamento della mo-
rale, egli tentò di dimostrare che l’imperativo categorico fosse un giudizio sintetico a priori. Il
fondamento di questo giudizio, per Kant, era la ragione umana.
Le connessioni necessarie che costituiscono il carattere universale della conoscenza non proven-
gono quindi dall’oggetto di conoscenza, bensì dal soggetto che, nell’atto di conoscere, proietta
sull’oggetto la propria capacità sintetica: come Talete in matematica e Galileo nella fisica, Kant aveva
capito che è il soggetto che costruisce i criteri per studiare l’oggetto, e che quindi la filosofia non
dovesse più preoccuparsi degli oggetti in sé stessi, ma degli elementi a priori che nel soggetto ren-
dono possibile la costituzione e la conoscenza di quegli oggetti.
La «Dialettica trascendentale»
Nella ragione umana esiste una naturale tendenza a fare un uso «trascendente» delle categorie. Il
soggetto, avvalendosi del fatto che le categorie sono strutture puramente formali del pensiero, cioè
senza connessioni con il materiale dell’esperienza, ne fa un uso extra-empirico, utilizzandole per
compiere sintesi puramente logiche. In questo modo produce «idee trascendentali» – il termine
«idee» è ripreso da Platone –, cioè concetti di «totalità incondizionate» che, in quanto illimitate, non
possono essere date da alcuna esperienza reale. Kant riconosce tre tipi di totalità assolute, quindi
tre tipi di idee, ognuna delle quali contiene una determinazione dell’errore di fondo delle idee, quello
di non derivare dall’esperienza:
Anima → concetto di totalità assoluta di tutti i fenomeni interni.
L’errore alla base del concetto di anima è un paralogismo – un falso sillogismo. Il sillogismo, per
essere tale, deve avere due premesse universali e una conclusione in cui sparisce il termine medio,
il quale deve avere lo stesso significato in entrambe le premesse. Per Kant, l’errore nel considerare
l’anima era proprio questo: il significato del termine medio «soggetto». La prima premessa dice che
«il soggetto è sempre sostanza di un accidente»; la seconda premessa, invece, dice che «l’essere
pensante deve essere un soggetto perché, pensando, permette di costituire un oggetto»: nella prima
premessa il termine ha significato metafisico, cioè qualcosa che sorregge degli attributi, mentre nella
seconda ha un significato conoscitivo, trascendentale. L’errore, in pratica, è applicare la categoria
di «sostanza» all’«Io penso», che invece non può essere mai oggetto della sintesi categoriale perché
non può essere percepito sensibilmente: le categorie di sostanza ed esistenza possono essere ap-
plicate solo all’esperienza. L’anima è solo un’idea normativa e, come tale, non è esperibile: la sua
funzione, come tutte le altre idee, è avere un valore regolativo, cioè indicare una totalità, un orizzonte
complessivo, che serva al soggetto come orientamento per mettere assieme nuovi dati esperibili.
Questa è una critica a tutta la metafisica del soggetto nata da Cartesio, ma più in generale alla
psicologia metafisica, già presente ai tempi di Aristotele. Dal punto di vista morale, negare l’esistenza
dell’anima significa che la morale non può più fondarsi su di essa e, quindi, sul soggetto.
Mondo → concetto di totalità assoluta di tutti i fenomeni in generale – interni ed esterni.
La serie di errori specifici alla base dell’idea di mondo sono le «antinomie della ragione», cioè
affermazioni contrapposte e non contraddittorie che non sono risolvibili poiché sia la tesi che l’antitesi
sono logicamente inconfutabili. Le antinomie sono quattro, divise in due gruppi:
Antinomie matematiche
a) Tesi della finitezza o infinitezza del mondo nello spazio e nel tempo.
b) Problema se il mondo consti di elementi ultimi o se sia divisibile all’infinito.
Antinomie dinamiche
c) Esistenza o non esistenza di una causa libera nel mondo → la tesi afferma che nel
mondo esiste una causa libera; l’antitesi invece dice che nel mondo non c’è libertà,
ma che tutto è regolato da una serie di cause ed effetti.
d) Dipendenza del mondo da una causa necessaria oppure tutto è contingente.
Dal punto di vista morale sono interessanti le due antinomie dinamiche perché ruotano attorno al
problema della libertà, che è strettamente legato alla morale. Kant infatti vuole affermare che la
libertà, almeno in teoria, è possibile, e successivamente fondare su di essa la morale; per farlo,
doveva però dimostrare che le antinomie matematiche erano entrambe infondate, mentre in quelle
dinamiche almeno una delle due tesi può essere vera, a seconda dell’ambito a cui la applichiamo,
se al mondo fenomenico o a quello noumenico. Kant risolve il problema affermando che le antinomie
matematiche sono sempre false perché non escono dall’ambito dei fenomeni, e il mondo dei feno-
meni non consente di rispondere affermativamente a nessuna delle due tesi:
Antinomie matematiche → tesi e antitesi sono entrambe false.
a) L’intelletto può tendere all’infinito ma non può comprenderlo perché rimane all’interno
della serie dei fenomeni
b) non si può arrivare ad una causa prima del mondo perché l’intelletto può sempre arrivare
a pensare una causa ulteriore; tuttavia, se può trovare sempre una causa precedente,
non è in grado di comprendere l’intera serie causale perché è finito.
Antinomie dinamiche → tesi e antitesi possono essere entrambe vere, se vengono riferite a
due ordini diversi di realtà.
c) La necessità causale è riferita al mondo fenomenico, mentre la causalità libera deve ne-
cessariamente uscire dalla serie di cause ed effetti fenomenici e riferirsi alle cose in sé.
Ciò significa dire che esiste un mondo non fenomenico in cui è possibile una causalità
libera senza che ciò sia contraddittorio con l’esistenza della necessità causale nel mondo
fenomenico. Dal punto di vista teoretico, quindi, la libertà è possibile.
d) La tesi che sostiene l’esistenza di un essere che sia causa necessaria del mondo si rife-
risce alle cose in sé, mentre la contingenza universale si limita al mondo dei fenomeni.
Nelle antinomie dinamiche, l’incondizionato viene posto al di fuori dei fenomeni, dunque è teoreti-
camente possibile, anche se ciò non vuol dire che sia vero: questo risultato è fondamentale per il
discorso pratico, perché se è vero che la metafisica non può dimostrare l’esistenza della libertà in
quanto cade al di fuori dell’esperienza, non può nemmeno negarne l’esistenza, perché essa rimane
al di là del conoscibile. Bisogna quindi supporre l’esistenza della libertà su un piano diverso da quello
teoretico, che può solo affermare che essa è possibile: il piano pratico della morale.
Dio → concetto di totalità assoluta di tutte le condizioni che rendono possibile il pensiero.
Per Kant pensare significa giudicare, esprimere un giudizio logico, cioè congiungere un soggetto
con un predicato: per farlo, l’uomo deve possedere predicati e, per garantire la possibilità di un
pensiero esauriente, deve avere la possibilità di disporre di tutti i predicati possibili. Questa è la
funzione dell’idea di Dio: il concetto della totalità di tutti i predicati positivi possibili. In quanto idea, a
Dio non si possono applicare le categorie dell’esistenza o della realtà perché non è esperibile: ri-
prendendo la tradizione scolastica, si può dire che la sua unica determinazione sia quella di logos,
di intelletto. L’esistenza di Dio si fonda storicamente su tre tipi di prove:
Ontologica (a priori) → nel concetto di Dio come essere perfetto è inclusa l’esistenza: se non
esistesse, non sarebbe perfetto. Kant osserva però che l’esistenza non entra nella determi-
nazione del concetto, quindi essa non aggiunge o toglie nulla alla perfezione di Dio.
Cosmologica (a posteriori) → se nel mondo si danno esseri contingenti, deve esistere un
essere necessario come loro causa.
Fisico-teologica (a posteriori) → dall’ordine e della finalità constatabili nel mondo si può risa-
lire a Dio come suprema causa ordinatrice.
Le due prove «a posteriori» sussistono solo se si aggiunge a priori il concetto di «perfettissimo»:
dimostrata l’infondatezza della prova ontologica, quindi, anche le altre due decadono.
Esaurita la critica alle tre idee, Kant precisa però che esse non sono concetti privi di senso: al
contrario, il concetto della totalità incondizionata è indispensabile per promuovere l’unità sistematica
del sapere perché riferendosi al tutto è possibile collocare in modo specifico le singole conoscenze.
Anche le idee trascendentali vengono giustificate, a condizione che di esse non si faccia un «uso
costitutivo», bensì un «uso regolativo».
La morale: la «Critica della ragion pratica» e la «Fondazione della metafisica dei costumi»
Nella maggior parte delle filosofie precedenti, su presupposti metafisici poggiavano anche le dot-
trine relative al comportamento umano. Così, finita la prima Critica, Kant si trova di fronte al problema
di fondare l’universalità della legge morale non su una dimensione metafisica, ma sulla ragione
umana, cioè cercare le condizioni a priori di un agire valido universalmente.
Per Kant l’etica è fondata sul soggetto: la legge morale è prodotta dal soggetto, non è più inscritta
nella natura delle cose. Egli deve però dimostrare che questo soggetto non è quello empirico, che
ha bisogni e necessità particolari, bensì un soggetto trascendentale. Il problema è «vedere come la
ragion pura possa essere, oltreché una filosofia pura teoretica, anche una filosofia pura pratica», e
la risposta che Kant tenterà di dare sarà la stessa della prima Critica: una sintesi a priori.
La «volontà buona», universalmente valida, non deve dipendere da moventi particolari, bensì deve
essere determinata dalla ragione. A differenza delle inclinazioni sensibili, i precetti razionali hanno
sempre carattere imperativo, cioè sono comandi cui il soggetto si sottopone attraverso una forma di
coercizione della volontà da parte della ragione. Le condizioni dell’universalità della legge morale
sono due: a) deve essere espunto dalla legge qualsiasi motivo di ordine empirico; b) il criterio per
determinare una legge morale universale deve essere un criterio formale, cioè che riguardi solo la
forma, mentre il contenuto empirico deve essere sostituito con il dovere.
Così, la legge morale diventa un imperativo, e Kant ne riconosce di due tipi:
Imperativo condizionato o ipotetico → imperativo condizionato da una premessa e che dun-
que comanda un’azione in visa di un fine particolare: non ha validità universale.
Imperativo incondizionato e categorico → azione comandata incondizionatamente: l’azione
deve essere compiuta in ogni caso perché viene comandata direttamente ed esclusivamente
dalla ragione. Esso esprime la legge del «dovere per il dovere».
Essendo indipendente da condizioni particolari, l’imperativo categorico non ha un contenuto
materiale, ma è puramente formale; inoltre non ci dice che cosa si deve fare, ma come biso-
gna agire affinché l’azione possa essere moralmente positiva.
La formulazione dell’imperativo categorico si articola in tre sotto-formulazioni:
a) «Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua vo-
lontà a legge universale della natura → se l’uomo agisce obbedendo a motivazioni
puramente materiali, i risultati empirici dell’azione rifletteranno tale particolarità e po-
tranno essere in conflitto tra loro, quindi non può esserci armonizzazione. Se tutti
agissero invece sulla base di un imperativo categorico, gli effetti empirici di tali azioni
sarebbero armonizzabili gli uni con gli altri e costituirebbero un ordine morale armo-
nico che ricada nel mondo naturale – l’ordine fisico vigente nel mondo naturale.
b) «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro
uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» → questa for-
mulazione venne subito contestata perché introduce il concetto di umanità, il quale
sembra avere un contenuto materiale. Kant rispose osservando che, dal suo punto di
vista, non c’è differenza tra umanità e razionalità: la razionalità è l’essenza dell’uma-
nità, quindi non si introduce alcun contenuto materiale. Quando si realizza questo
comando della ragione, ciascun uomo viene considerato come un fine a sé e, quindi,
si può realizzare il «regno dei fini», un mondo ideale in cui ciascun uomo perde la sua
strumentalità e viene considerato in una società in cui tutti sono fini a sé stessi.
c) «La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in quanto si consi-
dera auto-legislatrice» → nell’azione morale la volontà dell’uomo è esclusivamente
determinata dalla ragione; ma poiché la razionalità si identifica con l’uomo stesso,
obbedendo alla ragione l’uomo obbedisce a sé medesimo. La morale kantiana è
un’etica dell’«autonomia», in cui l’uomo dà a sé stesso, tramite la ragione, la propria
legge. In questo modo, Kant si allontana dallo schema giuridico giusnaturalista: la
legislazione universale non si ottiene dall’analisi di un ordine oggettivo già esistente,
bensì è una proposta attiva dell’uomo.
Come può la legge morale fondarsi sulla ragione? Kant dà due spiegazioni diverse nelle sue opere.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant afferma che l’uomo è consapevole di abitare in
due mondi, in quello fenomenico e in quello non sensibile poiché è portatore di ragione. In quanto
cittadino di due mondi, l’uomo ha due punti di vista da cui considerare sé stesso e le proprie azioni:
da un lato si trova in una condizione di eteronomia perché sottostà alle leggi naturali del mondo
fenomenico, e quindi non gode di libertà; dall’altro, in quanto cittadino di un mondo intelligibile, si
trova in una condizione di autonomia perché si sottrae alle leggi naturali, ed è quindi portatore di
libertà. Se è libero, allora l’uomo può anche essere morale perché può darsi liberamente una regola
morale. L’imperativo categorico è possibile perché l’uomo fa parte di questo secondo mondo.
Il concetto di mondo intelligibile è però solo un punto di vista, quindi è una fondazione molto debole,
e nella Critica della ragion pratica Kant cercherà di invertire il rapporto tra morale e libertà, affer-
mando che è la libertà a fondarsi sulla morale: l’uomo è morale perché ha una coscienza sintetica
moralità, e poiché bisogna essere liberi per essere morali, allora è la morale a fondare la libertà.
I postulati della ragion pratica
La libertà è il primo «postulato» della ragion pratica: occorre ammettere la libertà per non contrad-
dire la libertà di fatto della legge morale.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant diceva che l’uomo aveva una coscienza imme-
diata della libertà in quanto punto di vista; nella Critica della ragion pratica si auto-criticò, ribaltando
il rapporto tra morale e libertà perché di questa non possiamo avere coscienza immediata né me-
diata dall’esperienza. Per attuare questo ribaltamento il punto di partenza è la ragione pratica. Kant
si pone un problema analogo alla prima Critica, cioè come sia possibile una conoscenza pratica
sintetica che escluda ogni elemento sensibile: la ragion pura, nel suo uso pratico, non deve unificare
e organizzare dei dati già esistenti, bensì costituire un oggetto completamente nuovo anche nel suo
contenuto, produrre il suo oggetto. Ciò deve avvenire tramite una sintesi immediata: la fusione im-
mediata tra ragione e volontà. Questo è un fatto inspiegabile con qualsiasi procedimento razionale
perché non interviene alcuna mediazione logica (le categorie). La volontà viene determinata esclu-
sivamente dalla ragione e, se non ci fossero i fenomeni come elemento di disturbo, esse sarebbero
una cosa sola e l’uomo sarebbe immediatamente «santo» – perché la ragione implica subito una
morale. L’uomo non è santo solo perché non è solo ragione ma anche sensibilità, la quale compie
un’azione di disturbo nella fusione originaria di ragione e volontà. Poiché l’uomo è sia ragione che
volontà, gli occorre una libertà che gli permetta di scegliere tra obbedire solo alla ragione oppure
lasciarsi condizionare dai fenomeni: così, nel caso dell’uomo, la moralità comporta anche la libertà.
La legge morale è per Kant un «fatto» che l’uomo scopre nella propria coscienza razionale: che la
ragione determini immediatamente la volontà è un dato di fatto che non ha bisogno di giustificazione;
anzi, esso può giustificare l’esistenza della libertà. Se dal punto di vista teoretico l’esistenza della
libertà non è dimostrabile, da quello pratico essa è una condizione sostanziale (ratio essendi) della
moralità: una moralità priva di libertà non sarebbe possibile perché il soggetto perderebbe la capacità
di autodeterminarsi e di essere legislatore di sé stesso. D’altra parte, attraverso l’esperienza della
libertà l’uomo acquista la consapevolezza del «fatto morale»: la moralità è dunque la condizione
cognitiva (ratio cognoscendi) della libertà. Occorre quindi ammettere la libertà per non contraddire
la realtà di fatto della legge morale: la libertà è un «postulato» della ragion pratica.
Senza moralità non può esistere una libertà per l’uomo: la coscienza dell’imperativo categorico è
una conoscenza sintetica a priori, universalmente valida e immediata, cioè non fondata su alcuna
intuizione empirica né pura. La libertà non può essere conosciuta in alcun altro modo che attraverso
la nostra coscienza della vita morale: poiché l’uomo è certo che esista una legge morale data diret-
tamente dalla ragione, egli sente anche di essere libero. Di conseguenza, il bene e il male non sono
più regole precedenti la morale, ma sono il risultato dell’applicazione della legge morale: ciò che è
bene e ciò che è male non è inscritto nella struttura della realtà, bensì è una conseguenza dell’im-
perativo categorico.
Kant riconosce altri due postulati pratici: a) l’immortalità dell’anima e b) l’esistenza di Dio. La loro
realtà è richiesta dal concetto pratico di «sommo bene»: se la virtù è il bene «supremo», a essa
manca l’elemento della felicità per realizzare il bene «sommo», perfetto, il quale presuppone la pos-
sibilità di realizzare la «santità», la virtù perfetta. Il problema della felicità è uno dei temi importanti
della Critica della ragion pratica: la maggior parte dei filosofi di fine Seicento e inizio Settecento
ritenevano che la felicità fosse il fine ultimo dell’uomo e, quindi, un criterio determinante della legge
morale. La felicità era spesso collegata, come nell’illuminismo francese, con la dimensione empirica,
ma presentava il problema della sua dipendenza dalla natura e, quindi, da un qualcosa di non con-
trollabile dall’uomo. Ma nell’illuminismo francese questo non era un grosso problema perché la na-
tura, nella loro concezione, possedeva un ordine razionale. Nell’illuminismo tedesco si era invece
sviluppata una visione diversa, a partire da Leibniz: è vero che la felicità è piacere, ma questo pia-
cere non è quello fisico, bensì quello dell’anima; e dal momento che l’anima è controllabile, ci si può
creare da sé stessi il piacere, senza dipendere dalla natura. Il piacere spiritualizzato è alla portata
dell’uomo perché la vera felicità consiste nella perfezione morale: partecipare alla perfezione del
mondo tramite la morale dà il vero piacere. Kant accetta la tradizione leibniziana in cui l’uomo di-
pende da sé stesso, ma non accetta la definizione di piacere in termini spirituali: per Kant, infatti, la
felicità implica sempre una dimensione sensibile, di piacere fisico.
L’unione tra virtù e felicità, in cui consiste il sommo bene, è però problematica: chi vuole essere
morale deve rinunciare alla felicità, poiché quest’ultima, avendo natura sensibile, darebbe all’azione
il carattere della particolarità e dell’eteronomia. Il virtuoso deve godere della felicità nella misura in
cui è virtuoso, ma ciò è impossibile: la soluzione è pensare a un Dio autonomo dalla natura che è in
grado di modificare l’ordine naturale in modo da rispondere all’ordine morale; egli deve essere on-
nipotente e onnisciente e deve poter scrutare l’animo di ogni individuo per vedere in quale misura è
virtuoso e, quindi, meritevole di felicità. L’esistenza di un simile Dio è un postulato, cioè una propo-
sizione teoretica il cui valore non è teoretico, ma pratico. La sua giustificazione consiste nella con-
nessione necessaria con un principio pratico incondizionato a priori, cioè una legge morale: l’uomo
non è moralmente soddisfatto se la giustizia nel mondo non è garantita, e l’unica forma di questa
garanzia presuppone l’esistenza di Dio. Ma se anche cadesse il postulato di Dio, ad esempio se si
è atei, resterebbe l’imperativo categorico.
Anche il postulato dell’immortalità dell’anima è connesso alla felicità. Come detto, la santità si ot-
tiene nell’unione immediata tra ragione e volontà, ma questa condizione è irraggiungibile nell’uomo,
irrealizzabile, perché interviene sempre la sensibilità come fattore di disturbo. Nonostante sia irrea-
lizzabile, l’uomo ha bisogno di immaginare la possibilità che il progresso morale possa proseguire
fino al raggiungimento della santità, quindi all’infinito. Siccome la morte fisica è un fenomeno, mentre
il soggetto morale è noumenico, si può pensare che un soggetto morale trascendentale possa con-
tinuare la sua esistenza oltre la morte.
In un certo senso la ragion pratica detiene un «primato» sulla ragione teoretica perché dà realtà a
concetti che, nella prima Critica, erano solo possibilità teoretiche. Ciò però non significa che la ragion
pratica consenta un’estensione dei limiti della conoscenza: la validità dei postulati non è teoretica,
ma solo pratica; per mezzo di essi si giunge alla certezza morale della libertà, dell’immortalità
dell’anima e dell’esistenza di Dio, ma in nessun modo è possibile affermare la loro realtà teoretica.
L’affermazione dell’esistenza di Dio consente a Kant di passare dalla morale alla religione. La reli-
gione, infatti, non ha contenuti diversi dall’etica: i doveri morali sono solo riconosciuti come coman-
damenti divini. La volontà di Dio, che comanda agli uomini le stesse azioni già prescritte dalla legge
morale, non è arbitraria ma conforme alla ragione universalmente legislatrice. La fede religiosa si
trasforma in «fede razionale», nella quale nulla è lasciato al fanatismo, così come Cristo viene ri-
condotto entro i «limiti della ragione: egli assume un valore esemplare per l’uomo perché la sua
condotta corrisponde all’ideale razionale dell’uomo moralmente gradito a Dio. Il cristianesimo si de-
linea così come la migliore delle religioni, poiché il contenuto scritturale non è contrario a una fede
puramente razionale – anzi ne promuove la realizzazione.
I contemporanei di Kant erano consapevoli dell’enorme importanza del pensiero critico e della «ri-
voluzione copernicana» effettuata da Kant. Tuttavia, il suo pensiero era considerato un insieme di
intuizioni particolari che andava riorganizzato in un sistema, in modo da eliminarne gli aspetti pro-
blematici: eterogeneità tra intelletto e sensibilità, dualismo tra soggetto conoscente e soggetto
agente, la funzione della «cosa in sé». Ma il problema principale era che tale sistema appariva privo
di un principio unitario da cui derivare ogni suo aspetto. Nacque così una discussione sul valore del
criticismo e gli intellettuali che vi parteciparono sono generalmente indicati come post-kantiani.
Karl Reinhold (1758-1823) → Reinhold corregge il criticismo in senso idealistico perché riconduce
l’intera realtà alla rappresentazione e alla sfera della coscienza. La coscienza, intesa come facoltà
della rappresentazione, è il principio fondamentale che spiega in maniera unitaria le diverse compo-
nenti della conoscenza umana. Essa si divide al suo interno in due elementi, il soggetto che rappre-
senta e l’oggetto rappresentato: il primo costituisce la forma della conoscenza, il secondo la materia.
Questa stretta connessione giustifica la connessione tra le tre facoltà conoscitive: la sensibilità è
data dal prevalere dell’oggetto sul soggetto, l’intelletto dal loro equilibrio, la ragione dalla libera atti-
vità soggettiva. Tuttavia, attraverso il riferimento alla «cosa in sé», egli ammette ancora che la co-
noscenza dipenda da qualcosa che vada oltre la rappresentazione stessa: dalla «cosa in sé» deriva
la materia conoscitiva, ma essa è qualcosa di indeterminato e non conoscibile, e quindi cade al di
fuori della rappresentazione stessa.
Gottlob Ernst Schulze (1761-1833) → Schulze ritrova nel criticismo una serie di contraddizioni:
esso vuole ricondurre la conoscenza nei limiti dell’esperienza ma ne cerca il fondamento nella cosa
in sé; inoltre, la dichiara inconoscibile ma pretende che esista. Di fronte a queste assume una posi-
zione scettica di esplicita ispirazione humiana. La critica alla cosa in sé divenne presupposto comune
a tutti i pensatori successivi che si inseriranno nella discussione sul criticismo.
Salomon Maimon (1754-1800) → il criticismo può avere piena validità eliminando la «cosa in sé»:
se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, la cosa in sé, che ne cade al di fuori,
è una «non cosa». Ciò significa riconoscere che l’intera conoscenza cade nella sfera della co-
scienza: il dato è qualcosa di cui non abbiamo ancora una conoscenza compiuta, qualcosa che
ancora non è stato determinato dalle forme a priori dell’io. Nel caso della conoscenza intelligibile il
soggetto può determinare il proprio oggetto, ma nel caso della conoscenza sensibile è possibile solo
un avvicinamento indefinito alla determinazione, senza mai poterla raggiungere: questo residuo di
indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l’oggetto come dato.
Jacob Beck (1761-1840) → Beck sostiene l’eliminazione della cosa in sé e distingue due momenti
nello sviluppo del processo conoscitivo: il primo è un atto di «produzione originaria» dell’oggetto da
parte del soggetto attraverso la sintesi a priori; il secondo il «riconoscimento», ovvero il soggetto che
riconosce nell’oggetto una sua rappresentazione. In questo modo, l’oggetto acquista un’apparente
autonomia rispetto al soggetto. Il contenuto della conoscenza, quindi, dipende solo dal soggetto che
lo pensa: la cosa in sé è una nozione dogmatica di cui Kant si serve solo provvisoriamente e che
viene eliminata quando si raggiunge il punto di vista trascendentale.
La conoscenza
L’Io e il non-io si oppongono e si limitano a vicenda. Le due forme di determinazione – dell’Io da
parte del non-io e del non-io da parte dell’Io – esprimono le due attività stesse dell’Io: quella teoretica
(la conoscenza) e quella pratica (morale).
Ogni attività conoscitiva inizia da un’intuizione sensibile, cioè dalla presenza di un oggetto che
condiziona il soggetto – il non-io che determina l’Io. Nel momento dell’intuizione il soggetto appare
come passivo rispetto all’oggetto intuito ma, seguendo il secondo principio della Dottrina della
scienza, l’oggetto intuito come realtà esterna è esso stesso posto dall’Io: com’è possibile ciò? Fichte
risponde con la nozione di «immaginazione produttiva»: se per Kant l’immaginazione produttiva si
limitava a unificare una molteplicità di dati provenienti dall’esterno, Fichte la interpreta invece come
una vera e propria produzione del contenuto empirico della conoscenza, il quale appare come
«dato» alla coscienza e quindi indipendente da essa poiché inconsapevole. L’Io quindi produce in-
consciamente un non-io che si contrappone all’Io empirico come un oggetto esterno, sebbene que-
sto processo sia del tutto interno all’Io assoluto: Fichte elimina così il problema della cosa in sé,
risolvendo l’intera conoscenza – per forma e contenuto – nell’attività del soggetto conoscente.
Accanto all’intuizione sensibile Fichte riconosce una seconda forma di intuizione, un’«intuizione
intellettuale», che consente al soggetto conoscente di «riflettere» sull’oggetto conosciuto, compren-
dendo come esso sia in realtà una produzione dell’Io. Così l’Io giunge a conoscere la sua stessa
attività e, con essa la propria essenza, pervenendo quindi a una conoscenza adeguata di sé stesso.
La morale
A differenza dell’ambito conoscitivo, dove «l’Io pone sé stesso come determinato dal Non-io», in
ambito morale «l’Io pone sé stesso come determinante il Non-io»: si tratta quindi di indagare l’azione
dell’Io sul Non-io. L’Io è attività infinita e il suo compito morale è esplicare tale attività, ma per farlo
ha bisogno di qualcosa su cui esercitarla: questo qualcosa è il Non-io, la natura intesa sia come
natura esterna, cioè il mondo oggettivo, sia come natura interna, cioè il «sistema della sensibilità e
degli impulsi, che deve essere soggiogato per mettere in risalto la purezza della volontà razionale.
Il dovere morale supremo è la libertà, l’indipendenza dalla natura: la liberazione completa è però
impossibile per un essere finito come l’uomo, poiché c’è una continua opposizione del Non-io. Tale
liberazione si configura quindi come compito infinito, come un’ideale cui ci si può solo avvicinare.
Quella di Fichte è quindi una morale dell’azione, in particolare in campo politico-sociale: il mondo
è il posto in cui l’uomo deve agire per realizzare la propria libertà. L’attività pratica è la «missione
dell’uomo» ed ha un «primato» sull’attività teoretica, ma l’autentica liberazione comporta sempre il
riferimento all’attività teoretica con cui l’Io coglie la dipendenza del Non-io da sé stesso.
Il male nell’azione morale, per com’è descritto nel Sistema della dottrina dei costumi (1798), non è
un principio metafisico, bensì una carenza d’azione: l’accidia, l’inerzia morale, l’insufficiente forza
spirituale che impedisce al soggetto di imporsi sulla natura. La radice di questo male è l’assopimento
dell’energia morale dell’uomo, il perdersi nella datità della situazione e nella ricerca del piacere sen-
sibile: nella polemica contro i moventi sensibili dell’azione Fichte riprende Kant, ma se in quest’ultimo
il principio soggiacente era razionale, in Fichte il fondamento della morale si configura talvolta come
spiritualità ispirata, un’attività che è tanto più valida quanto più è incondizionata.
Prima fase del pensiero politico: il giusnaturalismo (anni Novanta del Settecento)
Anche il pensiero politico di Fichte si articola in più fasi. In questa prima fase, fedele al giusnatura-
lismo, Fichte pensa che, precedentemente e indipendentemente dalla costituzione di un diritto posi-
tivo, esista un diritto naturale inscritto nella natura dell’uomo, la ragione – diritto razionale. Il diritto,
come la morale, ha il suo fondamento nella ragione: la differenza è che il diritto riguarda la sfera
delle relazioni tra individui diversi (la vita sociale), mentre la morale il rapporto dell’individuo con sé
stesso (la coscienza). Morale e diritto condividono anche la promozione della libertà umana: lo scopo
morale dell’uomo è realizzare la propria libertà, rendendosi indipendente dalla natura, ma nella sua
azione egli si trova di fronte altri individui portatori di un analogo diritto-dovere alla libertà. La ragione
comanda allora di instaurare un ordine sociale che renda possibile la realizzazione della libertà di
ciascuno senza pregiudicare la libertà degli altri.
All’interno dei diritti naturali, Fichte distingue tra a) diritti inalienabili, i quali entrano nella definizione
essenziale dell’uomo e sono indispensabili per realizzare il suo compito morale, e b) diritti alienabili
che non influiscono sulla realizzazione del dovere morale dell’uomo: essi possono essere ceduti o
scambiati tramite contratti, dando così origine alla società naturale.
La società naturale ha due scopi fondamentali:
L’istituzione della proprietà → il suo fondamento naturale è il lavoro col quale il possessore
imprime la sua impronta individuale all’oggetto di cui si è impossessato. Ma solo attraverso
un contratto, con cui gli individui riconoscono reciprocamente l’appropriazione tramite lavoro,
il possesso si trasforma in proprietà giuridica.
La realizzazione della «cultura», intesa come «l’esercizio di tutte le facoltà allo scopo della
piena libertà, dell’indipendenza da tutto ciò che non è noi stessi» → la cultura, comportando
la progressiva liberazione dalla sensibilità, dipende esclusivamente dalla coscienza interiore
dell’uomo, ma per la sua piena realizzazione ha bisogno anche degli altri individui, della so-
cietà: la promozione della cultura è un’impresa di uomini che vivono e operano attivamente
nella comunità sociale.
Un caso particolare di contratto è il «contratto sociale», attraverso il quale si passa dalla società
naturale allo Stato. Le funzioni dello Stato sono due: a) conferire potere coercitivo al diritto naturale,
trasformando i comandi della ragione in leggi positive; b) introdurre nuove norme intese a promuo-
vere finalità specifiche sulle quali tutti i cittadini concordano.
Il riconoscimento dell’origine contrattuale dello Stato ha delle conseguenze: se il contratto è stato
stipulato nel solo interesse dei contraenti, allora è sempre possibile rescinderlo. La posizione iniziale
di Fichte è un sostanziale anti-statalismo: l’istituzione statale infatti non è indispensabile né per il
mantenimento forzoso dell’ordine sociale, perché se gli uomini sviluppassero appieno la propria mo-
ralità non avrebbero bisogno della coercizione delle leggi per realizzare il diritto, né per realizzare i
due scopi fondamentali del vivere sociale, i quali dipendono dalla società naturale, e non dallo Stato
– anzi, la storia insegna che in molti casi gli Stati ne hanno ostacolato la realizzazione e che quindi
diventa doveroso rescindere il contratto. In questo senso, Fichte dimostrava la legittimità della Rivo-
luzione francese, intesa come la risoluzione di un contratto iniquo con un nuovo patto.
Il periodo tra 1770 e 1830, in cui la Germania conobbe una formidabile fioritura culturale, è cono-
sciuto come l’«età classica tedesca». Dal punto di vista filosofico fu caratterizzato da tre movimenti:
il criticismo, l’idealismo e il romanticismo.
A differenza dei primi due, il romanticismo non è ben determinabile cronologicamente: come feno-
meno tedesco è compreso tra 1790 e 1830, ma la sua diffusione in Europa va oltre la metà dell’Ot-
tocento. Ancora più complesso è individuarne i caratteri fondamentali perché la produzione dei suoi
esponenti è eterogenea, e spesso mancano criteri oggettivi di classificazione. Tuttavia, è possibile
individuare alcuni temi o atteggiamenti culturali ricorrenti:
La polemica contro il razionalismo illuministico → la ragione non è più considerata la principale
facoltà umana perché è fonte di un sapere formale, che non coglie l’essenza della realtà, e perché
non è la vera natura dell’uomo. Alla ragione vengono opposti il a) sentimento, che coglie intuitiva-
mente ciò che sfugge all’analisi razionale, b) l’istinto, che indica immediatamente all’uomo le ragioni
di una scelta e c) la passione, che è il movente dell’azione.
La riscoperta della soggettività → sede in cui si manifesta l’energia spirituale che consente di co-
gliere immediatamente la verità e di compiere azioni grandiose. Ciò conferisce alla soggettività un
duplice valore:
a) La rivalutazione dell’individualità → il soggetto romantico è qualcosa di irripetibile perché il
suo modo di sentire, le sue passioni, la sua storia lo differenziano dagli altri.
b) Connessione tra soggettività e infinito → ogni soggetto, poiché unico, ha un valore infinito e
può realizzarsi solo ricongiungendosi con l’infinito: a differenza della filosofia moderna, che
riconosce nel finito la dimensione dell’uomo riservando l’infinito a Dio, nelle concezioni ro-
mantiche l’uomo tende ad attingere l’infinità stessa di Dio. Ma poiché l’uomo non può dimen-
ticare i limiti connessi alla propria sensibilità e all’esistenza materiale, il suo atteggiamento è
la «nostalgia» dell’infinito, l’aspirazione a ricongiungersi con il suo vero elemento.
L’importanza della religione → i romantici rifiutano il deismo settecentesco che concepiva Dio come
un impersonale principio ordinatore dell’universo. A esso contrappongono due concezioni della divi-
nità: a) il tradizionale teismo, cioè la concezione di un Dio vivente e personale, del quale l’uomo è
immagine adeguata e con il quale si può intrattenere un rapporto d’amore, e b) il panteismo, cioè la
ricerca di un principio divino immanente alla natura.
La concezione vitalistica della natura → la natura non è più intesa in termini meccanicistici, come
un insieme dominato da leggi causali e necessarie, bensì come un grande organismo, in cui le parti
sono finalizzati alla vita del tutto, dotato di un’infinita forza vitale che perennemente si rinnova. Sono
determinanti per questa concezione i risultati degli studi scientifici condotti a metà Settecento: essi
avevano in comune il riferimento alla nozione di «polarità», cioè di tensione tra un polo positivo e
uno negativo, e suggerivano che l’intera natura, la cui legge fondamentale era la contrapposizione
polare, avesse carattere oppositivo.
L’arte e il genio creativo → la rivalutazione della soggettività e dell’individualità conducono a rico-
noscere un valore assoluto al genio creativo: esso è assolutamente originale, cioè scaturisce dalla
peculiare soggettività dell’artista. Egli obbedisce solo alle regole che egli stesso crea: così la creati-
vità artistica soggettiva viene emancipata completamente dal criterio oggettivo di bello. Inoltre, il
genio romantico è naturale: esso non è il risultato di una costruzione razionale dell’uomo, ma scatu-
risce dalla forza stessa della natura. L’originalità e la naturalità del genio gli consentono di esprimere
in maniera immediata l’essenza della realtà che si manifesta sensibilmente nelle forze della natura:
l’arte diventa lo strumento primario attraverso cui l’uomo può cogliere l’infinito e il divino.
La storia → l’Illuminismo aveva dato nuova dignità alla storia attraverso eccellenti ricostruzioni sto-
riografiche e l’elaborazione di una vera e propria filosofia della storia. Tuttavia, esso aveva ricondotto
l’intero corso storico sotto la categoria del progresso razionale, subordinando le epoche passate alla
celebrazione del presente, nel quale culmina lo sviluppo della ragione. Il romanticismo interpreta
invece la storia come un processo organico e naturale, in cui l’individuo si esprime nelle individualità
collettive, cioè nei popoli, che sviluppano progressivamente le loro peculiarità e rivelano ciascuno
uno degli infiniti aspetti del reale. La tradizione diventa quindi lo strumento essenziale della continuità
temporale tra epoche e popoli: la storia è un unico processo di crescita dell’umanità, per cui nessuna
delle epoche passate appare inutile – di qui la rivalutazione del Medioevo. Inoltre, la tradizione è
essenziale per la formazione della nazionalità, cioè di quell’insieme di fattori che costituiscono la
peculiarità specifica di un popolo e che prendono forma con il passare del tempo.
L’analisi politica romantica, infine, considera lo Stato un organismo vivente e non una macchina
burocratica, un semplice apparato istituzionale e amministrativo: in esso si deve riflettere il carattere
organico della nazione.
Il classicismo tedesco
Il classicismo tedesco è legato all’ambiente culturale della corte di Weimar e, in senso stretto, viene
fatto coincidere con il periodo di amicizia e intensa collaborazione tra Goethe e Schiller (1794-1805).
I valori della cultura greca furono già al centro del pensiero Winckelmann (1717-1768), secondo il
quale l’arte greca realizzava il bello assoluto perché, idealizzando il proprio oggetto, lo privava di
ogni connotazione particolare e realistica, trasformandolo in un’espressione dell’universale e rap-
presentando non un individuo singolo, ma il concetto stesso di umanità nella sua perfezione. Egli
pensava che la grecità rappresentasse un passato da contemplare come perfezione insuperabile,
ma che non poteva più tornare: Schiller e Goethe, invece, ritengono che lo spirito della classicità
possa essere rivissuto come un valore e uno stile di vita che appartengono all’essenza dell’uomo.
L’aspetto più rilevante del pensiero di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) è la sua filosofia della
natura, alla base della quale vi è un fondamentale panteismo: si tratta di una «natura vivente», con-
siderata come un’inesauribile forza primigenia dalle mille trasformazioni e volti – compreso quello
umano e divino. Successivamente questa visione si trasforma in una concezione più scientifica, cioè
la natura come sede dell’evoluzione di un unico fenomeno originario. L’intenzione di Goethe è co-
struire una «morfologia della natura», cioè uno studio qualitativo delle «forme» naturali, condotto
attraverso l’intuizione e l’osservazione diretta dei cinque sensi – metodo molto diverso da quello
quantitativo delle scienze moderne, fondato su procedure sperimentali oggettive. L’ostilità verso la
fisica newtoniana si ritrova anche nella «teoria dei colori»: i colori derivano dalla contrapposizione
polare tra bianco e nero. Per quanto sbagliata, la teoria si inserisce nella generale tendenza roman-
tica a spiegare i fenomeni naturali come effetti della polarità.
Friedrich Schiller (1759-1805) → l’autore che più influì su di lui fu Kant, dal quale Schiller deriva la
consapevolezza che nell’uomo esiste una doppia natura: a) l’uomo sensibile, sottoposto alle neces-
sità del mondo fenomenico, la cui dimensione è la «vita», cioè l’insieme di rapporti che determinano
l’esistenza fenomenica dell’uomo; b) l’uomo morale, il soggetto noumenico, espressione di libertà e
di ragione, la cui dimensione è l’«ideale», cioè il compito morale che deriva all’uomo dalla sua natura
razionale. A differenza di Kant, Schiller ritiene che una conciliazione tra sensibilità e ragione si possa
realizzare nell’«anima bella», in cui il dovere morale viene compiuto spontaneamente, in accordo
con la sensibilità: tale accordo prende il nome di «grazia». Ma se la sensibilità torna ad essere in
contrasto con la legge morale, l’anima bella deve diventare «sublime» e dominare forzosamente la
sensibilità con la ragione: alla grazia si sostituisce allora la «dignità». Nelle Lettere sull’educazione
estetica dell’uomo, Schiller affida la conciliazione al sentimento del bello: poiché la bellezza è data
dall’equilibrio tra sensibile e sovrasensibile, attraverso l’educazione estetica la natura umana rea-
lizza la propria completezza, secondo il modello dell’uomo greco kalokagathòs («bello e buono»). Il
mezzo di cui si deve servire l’educazione estetica è il gioco, un’attività in cui sensibilità e intelletto
sono indisgiungibili e nessuna delle due facoltà è subordinata all’altra. In Della poesia ingenua e
sentimentale (1795-96) il problema del rapporto tra sensibilità e ragione trova una nuova formula-
zione. L’«ingenuo» e il «sentimentale» sono le due condizioni fondamentali dell’umanità, ma anche
due diverse fasi dello sviluppo storico-artistico: a) l’ingenuo esprime l’unità spontanea tra elemento
passivo della sensibilità e quello attivo dell’intelletto e della ragione, rappresenta il momento della
natura e la condizione originaria dell’umanità; b) il sentimentale esprime invece la scissione delle
due facoltà quando la riflessione si rende autonoma dalla sfera emotiva e sensibile, rappresenta il
momento della cultura e la condizione dell’uomo progredito. Schiller propone così una filosofia della
storia in cui l’umanità, avendo perduto l’«ingenuità» originaria, deve porsi come compito la restau-
razione dell’unità tra sensibilità e ragione, indispensabile al progresso dell’umanità.
Friedrich Hölderlin (1770 – 1843) → tema filosofico fondamentale della sua opera è la celebrazione
panteistica della natura, intesa come Uno-tutto, in cui l’individuo deve perdersi per potersi ritrovare
come espressione della totalità. Quest’ultima non può essere colta dalla ragione, ma può essere
afferrata solo dalla poesia, concepita come la più alta forma conoscitiva a disposizione dell’uomo.
Altro carattere centrale è la celebrazione del dolore, inteso come dimensione metafisica della realtà.
I circoli romantici
Tutti i vari autori e movimenti analizzati finora sono manifestazioni diverse dell’età romantica e, in
modo differente, con il romanticismo convergono su alcuni punti e divergono su altri. Romantici in
senso stretto sono solo alcuni pensatori e poeti che aderiscono a specifici circoli, nei quali il roman-
ticismo viene teorizzato e propagato.
Circolo di Jena → organizzato attorno alla rivista «Athenäum», diretta dai fratelli Schlegel, operò in
stretto contatto con il circolo di Berlino, del quale fu un esponente il teologo Schleiermacher.
August Wilhelm Schlegel (1767-1845) → il linguaggio ha un’origine naturale e inizialmente c’è cor-
rispondenza tra parola e oggetto designato: questa corrispondenza però si perde progressivamente
e le lingue assumono un carattere convenzionale e arbitrario. La funzione della poesia è riscoprire
il linguaggio originario perché anch’essa si serve di simboli e metafore che consentono un’espres-
sione immediata dei contenuti.
Friedrich Schlegel (1772-1829) → la poesia moderna può recuperare l’oggettività della poesia clas-
sica attraverso un processo di riflessione su sé stessa: egli elabora l’idea di una «poesia trascen-
dentale» nella quale si ricompone la scissione tra l’unità della poesia classica e le divisioni di quella
moderna. Altro aspetto importante è la teorizzazione del concetto di «ironia»: in ambito estetico,
esso indica il rapporto di inadeguatezza tra l’infinità dell’artista creatore (soggetto assoluto) e la fini-
tezza dell’opera d’arte e del mondo fenomenico in cui si colloca, ma più in generale indica l’atteg-
giamento di chi, comprendendo il carattere relativo degli aspetti finiti dell’esistenza, coglie la supe-
riorità dell’infinito che è in sé. Nel saggio Su Diotima e nel romanzo Lucinide, due opere minori ma
famosissime, Schlegel elabora una dottrina dell’eros, nella quale si riconosce il diritto della donna a
cercare la propria realizzazione nella passione. Con la morte di Novalis (1801), il circolo si disperse
e Schlegel, trasferitosi a Vienna, diede vita a un nuovo circolo, il circolo di Vienna, espressione del
tardo romanticismo tedesco. Quest’ultimo periodo dell’attività di Schlegel è contrassegnato dalla
difesa della politica restauratrice del Congresso di Vienna e da un’evoluzione del suo pensiero in
senso teistico-religioso: egli intende elaborare una filosofia che sostituisca l’idealismo tedesco – ri-
condotto ai sistemi di Fichte e Schelling (aspetto teoretico) e di Kant e Jacobi (aspetto pratico).
Circolo di Heidelberg → espressione del tardo romanticismo, aderirono autori come i fratelli Grimm.
Georg Friedrich Creuzer (1771-1858) → Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, in particolare
dei Greci (1810-12). Nel passaggio dall’età arcaica a quella classica, Creuzer vede operante una
componente misterica e dionisiaca orientale: egli si contrappone così all’interpretazione neoclassica,
che considerava la grecità solo in termini di armonia e perfezione formale.
Circolo di Monaco di Baviera → terzo polo del tardo romanticismo.
Benedikt von Baader (1765-1841) → interesse fondamentale è la filosofia della natura. La natura
è interpretata in chiave organicistica e le sue proprietà sono derivabili dai quattro elementi fonda-
mentali: essa è corporeità (terra), processo evolutivo determinato dalla contrapposizione di forze
(fuoco e acqua) e trascendenza verso l’elemento spirituale dell’anima (aria).
Vita e opere
Schelling nasce nel 1775 nei pressi di Stoccarda da una famiglia molto colta. Partecipa giovanis-
simo al seminario teologico di Tubinga, dove conosce Hegel e Hölderlin e, dopo la laurea in teologia,
si dedica alla filosofia. L’attività filosofica di Schelling si può dividere in quattro momenti, preceduti
da un periodo (1794-1796) in cui viene ripresa e sviluppata la filosofia di Fichte: nel Dell’io come
principio della filosofia (1795) Schelling reinterpreta Spinoza alla luce dell’idealismo e nelle Lettere
filosofiche sul dogmatismo e criticismo (1796) egli mostra le affinità e le divergenze tra i due sistemi,
il quale obiettivo è però il medesimo, cioè l’identità assoluta tra soggetto e oggetto.
La prima fase del pensiero di Schelling è la «filosofia della natura» (1797-1800). In questi anni egli
è precettore a Stoccarda e a Lipsia, dove studia matematica e scienze naturali, sviluppando quegli
interessi per il mondo naturale che caratterizzano la produzione di questa fase: Idee per una filosofia
della natura (1798), Dell’anima del mondo (1798), Primo abbozzo di un sistema della filosofia della
natura (1799). Nel 1800 esce il Sistema dell’idealismo trascendentale, il suo capolavoro in cui mostra
come la «filosofia dello spirito» sia l’altra faccia della medaglia rispetto alla «filosofia della natura».
Nel 1800 Schelling rompe con il circolo romantico di Jena e inizia la collaborazione con Hegel, con
il quale egli dirige il Giornale critico della filosofia (1802-03). Nel 1803 Schelling lascia Jena per
Würzburg, dove è nominato professore di Filosofia. È questo il periodo degli scritti appartenenti alla
«filosofia dell’identità» (1801-1805): Esposizione del mio sistema filosofico (1801), Bruno o sul prin-
cipio divino e naturale delle cose (1802), Filosofia e religione (1804).
Nel 1806 Schelling si trasferisce a Monaco, dove vivrà fino al 1841 – esclusi gli anni 1821-1827, in
cui fu professore ad Erlangen – a causa degli avvenimenti politici. Nel 1806 la Baviera divenne un
regno ma dovette cedere il territorio di Würzburg all’Austria: Schelling si rifiutò di prestare giuramento
al nuovo governo e chiese, ottenendolo, di trasferirsi nella nuova capitale del regno, dove divenne
membro dell’Accademia delle scienze. Nel 1807 avvenne invece la rottura definitiva con Hegel, che
nella prefazione della Fenomenologia dello spirito aveva criticato la sua concezione dell’Assoluto e
l’intuizionismo su cui essa era fondata, e si radicalizzò il contrasto con Fichte. Ai primi anni di Monaco
risale la «filosofia della libertà» (1806-1820), caratterizzata dall’accentuazione di quell’orientamento
religioso che si era manifestato già con Filosofia e religione: l’opera principale di questa fase sono
le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809).
Nel 1841 Schelling venne chiamato all’università di Berlino, da dove sperava di suscitare una rea-
zione alla filosofia di Hegel ma, rimasto deluso, si ritirò a vita privata fino alla morte (1854). Frutto
dell’attività accademica di Monaco e Berlino (1827-1845) sono l’Esposizione dell’empirismo filoso-
fico (1830) e le due parti della «filosofia positiva», l’ultima fase del pensiero di Schelling: la Filosofia
della mitologia (1842-1854) e la Filosofia della rivelazione (1854).
La filosofia della libertà (1806-1820) → Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809)
A partire da Filosofia e religione si ha una svolta in senso religioso nel pensiero di Schelling, che
trova espressione nelle Ricerche filosofiche e nella cosiddetta «filosofia della libertà». Alla base vi è
una ripresa in chiave filosofica del teismo, ma in un senso diverso rispetto al panteismo spinoziano
o alla teologia morale di Fichte e Kant. Per Schelling, il vero Dio è vita e persona al pari dell’uomo,
che è fatto a sua immagine: come l’uomo, egli è soggetto al divenire e, quindi, è possibile distinguere
in lui un momento potenziale, che rappresenta il «fondamento» della sua esistenza, descritto come
una «radice oscura» (denominato «inconscio», «tenebra», «egoismo»), e un momento attuale in cui
perviene all’esistenza, che rappresenta il conseguimento dello spirito («conscio», «amore», «luce»).
La creazione consiste nel progressivo passaggio dall’oscurità originaria alla luce, cioè nell’esplica-
zione e attualizzazione di ciò che nel fondamento è potenziale e nascosto, e tra tutte le creature
l’uomo è la sola in cui questo processo può avvenire completamente, raggiungendo l’intelletto.
L’uomo partecipa al pari di Dio ai due principi, ma in Dio essi sono inseparabili e costituiscono
un’unità assoluta, e la tenebra si traduce sempre in luce, mentre nell’uomo sono separabili, e il
principio oscuro – volontà individuale ed egoistica – può opporsi a quello positivo – volontà univer-
sale. Nell’uomo risiede quindi la possibilità del male, cioè della prevalenza della volontà egoistica su
quella universale, ma poiché egli può scegliere, nella possibilità di scegliere consiste la libertà. Ciò
non significa ammettere la libertà di arbitrio: come in Dio, anche nell’uomo la libertà coincide con la
necessità, ma a differenza di Dio, nell’uomo la convergenza tra le due trova espressione nella «na-
tura» individuale che porta ciascuno a scegliere. Da un lato, infatti, l’uomo è necessitato dalla sua
natura, dall’altro però questa è stata «decisa» nel momento in cui, con la creazione, egli è emerso
dal «fondamento» di Dio: ognuno opera in base a ciò che è, ma è ciò che ha deciso di essere nel
momento della creazione («sono fatto così»: in ciò si esprime l’impossibilità di agire diversamente e
la consapevolezza di essere fatto in quel modo per colpa propria).
Se la filosofia dell’identità era fondata sulla risoluzione del finito nell’infinito, la filosofia della libertà
restituisce al finito, al mondo e all’uomo, una realtà propria: reali sono considerati il male e la libertà
individuale, che nella prospettiva dell’identità assoluta svanivano, al pari di tutti gli altri aspetti finiti.
La filosofia positiva (1820-1854) → Filosofia della mitologia e Filosofia della rivelazione (1842-1854)
Con il trionfo filosofico di Hegel, l’identificazione della realtà con la ragione e la conseguente pretesa
di poter spiegare e giustificare tutto col pensiero dialettico, Schelling rimase a lungo in silenzio, svi-
luppando una «filosofia negativa» che poggiava sulla convinzione che la ragione potesse cogliere
solo l’essenza delle cose, non la loro esistenza: occorreva quindi opporvi una «filosofia positiva».
Il punto di partenza del pensiero positivo deve consistere in un dato di esperienza – di qui l’espres-
sione «empirismo filosofico» – che va intesa però non come semplice conoscenza sensibile, bensì
come esperienza metafisica: la filosofia positiva non è una semplice forma di conoscenza teoretica,
bensì un sapere che si traduce in attività pratica. La filosofia positiva si divide in:
«Filosofia della mitologia» → ha per oggetto la religione naturale, intesa come il manifestarsi
di Dio nella natura attraverso le determinazioni di una coscienza umana archetipa e origi-
naria: le diverse rappresentazioni della divinità che caratterizzano il politeismo antico risul-
tano dal processo necessario attraverso cui l’uomo ha naturalmente sviluppato la propria
coscienza del divino in assenza di una rivelazione positiva.
«Filosofia della rivelazione» → ha per oggetto la religione rivelata e il proprio fulcro nel
cristianesimo. Essa si riferisce alla manifestazione diretta di Dio, che si auto-rivela all’uomo
con un atto di libertà assoluta. Solo attraverso questa via l’uomo arrivò alla conoscenza di
Dio come persona vivente, che si incarna nel figlio.
Schelling presagisce anche l’avvento di una terza fase della filosofia positiva – corrispondente a
quella dello Spirito Santo invocata da Gioacchino da Fiore e ripresa da Lessing – nella quale la
religione filosofica supera sia la religione naturale, sia quella rivelata.
HEGEL (1770 – 1831)
Vita e opere
Georg Wilhelm Friedrich Hegel è nato a Stoccarda nel 1770, dove riceve una formazione ginnasiale
umanistica. Studia teologia all’università di Tubinga, dove conosce Schelling e Hölderlin: i tre se-
guono con entusiasmo la Rivoluzione in Francia e scoprono le nuove filosofie. Dal 1793, Hegel inizia
una lunga serie si soggiorni in città diverse: le permanenze spesso coincidono con fasi particolari di
sviluppo della sua personalità filosofica o con la stesura di particolari opere o cicli di opere.
Finiti gli studi, Hegel svolge l’attività di precettore e si sposta prima a Berna (1793), poi a Franco-
forte (1797) dove frequenta il circolo di Hölderlin: a questi soggiorni appartengono gli Scritti teologici
giovanili, dedicati all’analisi della religione e del cristianesimo.
In seguito alla morte del padre (1799), Hegel abbandona quest’attività per dedicarsi agli studi e alla
carriera universitaria. Trasferitosi a Jena (1800), dove consegue l’abilitazione all’insegnamento
(1801), Hegel viene nominato professore straordinario (1805) e, insieme a Schelling, è direttore del
«Giornale critico della filosofia». A questi anni risalgono la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte
e Schelling (1801), La costituzione della Germania (1801-2), il Sistema dell’eticità (1802-3) e, so-
prattutto, la Fenomenologia dello spirito (1807). Nel 1807 Hegel si trasferisce a Bamberga, dove
dirige la gazzetta locale, e nel 1808 diventa direttore del Ginnasio di Norimberga: l’opera più impor-
tante è la Scienza della logica (1812-16), ma di notevole importanza è anche la Propedeutica filoso-
fica destinata agli allievi del Ginnasio. Nel 1816 è chiamato come professore di Filosofia all’università
di Heidelberg e, due anni più tardi, a Berlino, dove rimarrà fino alla morte (1831). In questo lasso di
tempo viene pubblicata l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: la prima edizione nel
1817 e altre due edizioni, riviste e ampliate, nel 1827 e nel 1830. La nomina di professore a Berlino
rispondeva a un’opera di rinnovamento che voleva promuovere la preminenza culturale della Prus-
sia, nuovo Stato-guida della Germania dopo il Congresso di Vienna: Hegel, consapevole delle va-
lenze politiche della sua funzione di professore universitario, seppe muoversi tra la difesa dello sta-
talismo prussiano, prevalente nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821), e l’apertura a istanze libe-
rali moderate, che emergono nelle lezioni tenute all’università sullo stesso argomento: ciò rivela una
libertà che la censura prussiana non consentiva nel testo a stampa. L’importanza che le lezioni uni-
versitarie di Hegel ricoprono nell’interpretazione delle sue opere fu riconosciuto già dai contempora-
nei: alcuni cicli di esse, che Hegel tenne all’università di Berlino, furono infatti raccolte dagli allievi,
fatte circolare dentro e fuori la Germania e, infine, pubblicate con i titoli di Lezioni sulla filosofia della
storia, Lezioni sulla storia della filosofia, Lezioni di estetica e Lezioni sulla filosofia della religione.
Religione popolare e cristianesimo (1792-94) → contrasto tra l’idea di una totalità le cui componenti
hanno un aggregato sostanziale e una realtà in cui le parti stanno meccanicamente assieme in base
a connessioni arbitrariamente imposte dall’intelletto.
La religione «popolare» (Volksreligion = religione popolare o nazionale) ha due caratteristiche che
la contrappongono al cristianesimo:
È una religione «soggettiva» (il cristianesimo è una religione «oggettiva»):
Non ci sono coercizioni e precettistica esteriori.
Non ci sono aspetti dogmatici affidati a intelletto e memoria
→ il cristianesimo ha invece un apparato chiesastico autoritario e un testo sacro.
È una religione «pubblica» (il cristianesimo è una religione «privata»):
Si manifesta nella concretezza dei costumi e delle istituzioni di un popolo.
→ il cristianesimo si fonda su un rapporto interiore individuale tra singolo e Dio.
L’ideale della religione popolare (o nazionale) è la polis greca perché in essa le credenze religiose
rispondo alle esigenze di gioia e serenità proprie della natura umana e si esprimono in culti che, con
le loro valenze politiche e sociali, coinvolgono l’intera comunità: la polis rappresenta quindi una co-
munità unitaria in cui si fondono, in una sola realtà, aspetti sociali, politici e religiosi e in cui gli indi-
vidui sono parti organiche di un tutto vivente (non atomi meccanicamente giustapposti in un aggre-
gato). Solo qui nasce la vera libertà perché l’individuo non è dominato coercitivamente dal tutto né
completamente indipendente da esso, bensì ritrova, nella realtà sociale, politica e religiosa cui ap-
partiene, l’espressione della propria volontà.
Vita di Gesù (1795) e La positività della religione cristiana (1795-96) → il cristianesimo, in quanto
religione positiva, è contrapposto alla religione naturale: l’insegnamento originario di Gesù, secondo
Hegel, sono i comandi universali della ragione. Nella seconda opera, Hegel spiega il passaggio dalla
religione naturale a quella positiva: le cause della degenerazione sono l’ambiente e la cultura ebraici
perché non colgono la pura spiritualità dell’insegnamento cristiano e perché sono legati all’esteriorità
del formalismo farisaico. Gesù infatti è ebreo, da ciò è condizionato e nel suo insegnamento sono
già riscontrabili i segni della futura positivizzazione del cristianesimo:
Dottrina fondata sulla rivelazione e sul comando di Dio.
Parla di sé come del Messia.
Ricorre alla testimonianza dei miracoli.
Fonda una Chiesa scegliendo un corpo sacerdotale (i dodici apostoli) destinato alla conser-
vazione e alla diffusione del suo insegnamento.
Il trasferimento a Francoforte segna l’inizio di un nuovo indirizzo di pensiero: il cristianesimo viene
rivalutato e la funzione di modello negativo viene assegnata alla religione ebraica.
Abbozzi di sistema (inediti) → l’unificazione razionale delle determinazioni particolari operate dall’in-
telletto è affidata alla logica, concepita come una scienza propedeutica alla filosofia.
La logica ha per oggetto i principi e le categorie del pensiero concepiti non come determinazioni
fisse che si distinguono e si oppongono le une alle altre (logica tradizionale), bensì come concetti
che trapassano l’uno nell’altro: la definizione di uno rimanda infatti necessariamente a quella del
proprio opposto, creando così una superiore unità concettuale che rimanda, a sua volta, a una nuova
opposizione e a una nuova unità → il pensiero è un processo in continuo movimento, in cui la deter-
minazione di un concetto è solo una tappa verso la comprensione dell’Assoluto. Ma il pensiero, e il
movimento in cui esso si sviluppa, hanno una dimensione ontologica oltreché logica: i concetti espri-
mono la natura delle cose, così come la connessione logica dei concetti esprime l’ordine metafisico
della realtà. In questi abbozzi sono delineate le linee essenziali della dialettica hegeliana, che è
insieme legge del pensiero e legge dell’essere, concepiti essi stessi come due momenti di un’indis-
solubile unità.
Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale → totalità dal punto di vista etico-giuridico.
Secondo Hegel l’empirismo (Hobbes e Locke) e il formalismo (Kant e Fichte) non erano giunti a
una vera comprensione dello Stato e del diritto:
Empirismo → parte da una concezione individualistica e atomistica della società e non è
andato oltre l’affermazione di principi particolari come l’identità tra stato di natura e stato di
guerra (Hobbes) e l’esistenza di diritti naturali (Locke).
Formalismo → l’intero diritto è ricondotto a un unico principio universale a priori ma non è
stata risolta l’opposizione tra la soggettività di questo principio e l’oggettività del mondo reale
in cui il diritto si deve attuare.
Ogni frantumazione e opposizione scompare se si coglie l’«eticità organica» in cui consiste la vita
di un popolo: in essa il punto di vista del soggetto si amalgama con quello della comunità considerata
come un tutt’uno (come nella polis greca). Nell’èthos di un popolo si realizza un principio di unità
(diverso dall’empirismo: frantumazione dell’individualismo atomistico), e tale unità si manifesta con-
cretamente nell’oggettività delle istituzioni sociali, politiche e giuridiche (diverso dal formalismo:
astrattezza di un principio a priori).
Costituzione della Germania → principio della totalità unitaria sul piano storico-politico.
Dopo le vittorie napoleoniche, secondo Hegel «la Germania non era più uno Stato»: per tornare ad
esserlo non doveva cercare l’unità sul piano culturale (romanticismo: unità di costumi, sentimenti,
religione) o nel modello dello Stato unitario napoleonico (unità di moneta, codice e unità di misure),
bensì sul piano militare, per riconquistare la capacità di fare la guerra come uno Stato unitario, con
un unico comando e un unico esercito.
Charles Fourier (1772-1837) → riorganizzazione della società attorno alle passioni umane.
Il nuovo mondo industriale e societario (1829) → la società contemporanea è un mondo capovolto
perché vi regnano la miseria e la frode, e tale degenerazione è causata dalla civiltà. La natura rap-
presenta invece il polo positivo: ciò significa che tutte le passioni e le inclinazioni proprie della natura
umana sono buone e che devono essere assecondate, soddisfatte e guidate in modo da raggiungere
un’organizzazione armonica della società. Le passioni fondamentali sono l’amore per la ricchezza e
per i piaceri. Secondo Fourier è possibile aumentare la produttività attraverso l’«attrazione passio-
nale», cioè l’impulso naturale tendente a soddisfare i piaceri dei sensi nonostante l’opposizione di
doveri e pregiudizi: il lavoro sarà suddiviso in funzioni diverse esercitate secondo i gusti delle per-
sone, che formano dei gruppi nei quali le passioni individuali siano armonizzate tra loro per evitare
ogni conflitto e favorire la cooperazione. Le «serie passionali» così armonizzate troveranno applica-
zione nelle «funzioni industriali» (lavoro domestico, agricolo, manifatturiero, commerciale, studio).
La passione più importante è il bisogno di varietà: sono quindi necessari turni di lavoro brevi, fre-
quenti passaggi a funzioni diverse e mobilità da un gruppo all’altro. In questo modo, si creerà un’in-
dustria attraente, capaci di assicurare il massimo della produttività. Sulla stessa base si creeranno
le falangi, gruppi di persone di entrambi i sessi che vivono in «falansteri», abitazioni collettive e
luoghi di lavoro e di divertimento circondati da aree coltivabili e foreste: l’utopia di Fourier immagina
nuove forme di architettura urbana e la realizzazione della liberazione sessuale fondata sulla regola
dell’attrazione – teoria esposta ne Il nuovo mondo amoroso.
La società e la storia.
Carlo Cattaneo (1801-1869) → contrario a ogni forma di ritorno alle credenze religiose.
Nato a Milano, si laureò in legge e si dedicò all’insegnamento ginnasiale. Prese parte ai moti del
1848, ma dopo la guerra d’indipendenza del 1859 e la nascita del Regno d’Italia andò in esilio a
Lugano, in quanto era un repubblicano sostenitore di uno stato federalistico. I suoi scritti sono articoli
e brevi saggi che trattano di filosofia, di storia, di diritto e di economia.
Cattaneo è contrario allo spiritualismo: egli concepisce la filosofia come «milizia» orientata a scopi
pratici e non come contemplazione estranea ai problemi della vita associata. Si tratta di una «filosofia
sperimentale», il cui metodo è uguale a quello delle scienze poiché è studio dei fatti, fondato quindi
sull’esperienza: i fatti sono limiti invalicabili, oltre i quali si rischia di perdersi nella speculazione
astratta e metafisica. La filosofia deve fornire la sintesi dei risultati acquisiti dalle varie scienze, co-
struendo l’enciclopedia universale del sapere; ma essa è, soprattutto, una metodologia generale del
sapere che, coordinando i metodi delle varie scienze, mette in luce le «leggi del pensiero e della
volontà». Le scienze sono il prodotto del pensiero umano e questo, a sua volta, trova espressione
nei metodi scientifici: analisi (chimica ed economia), sintesi (geologia), classificazione, deduzione
(geometria), induzione (fisica), analogia (medicina), osservazione, applicazione. La filosofia è lo stu-
dio di tali procedure inventate dal pensiero: per questo è la disciplina in cui «l’uomo studia l’uomo».
Cattaneo distingue tra «psicologia», lo studio delle facoltà dell’anima, e «ideologia», lo studio della
formazione delle idee: la prima prende in considerazione l’agente, la seconda le opere dell’agente.
L’errore della psicologia e dell’ideologia tradizionali è stato cercare l’origine delle idee «nella mente
solitaria dell’uomo», mentre essa va ricercata nell’interazione tra individui e società. Si avrà allora la
«psicologia sociale» e l’«ideologia sociale»: sensazioni, immaginazioni, pensieri, tutto ciò che è
creato dalla mente umana sono operazioni sociali, che si costituiscono sulla base di tradizioni e
scambi reciproci e, quindi, presuppongono il legame dell’individuo con la società. Le idee sono il
prodotto della vita associata e fanno essere una società quello che è: Cattaneo è contrario a ogni
determinismo, che fa dipendere le idee dall’influsso del clima, dell’ambiente o della razza.
La storia ha un ruolo centrale nella ricostruzione della psicologia sociale: essa è indispensabile per
studiare il pensiero umano nelle sue manifestazioni, cogliendo le leggi essenziali e i fatti generali e
costanti del suo sviluppo, che si configura come un progresso garantito dall’uguaglianza della natura
umana in cui nessun popolo ha un primato. La molla del progresso è il contrasto di opinioni e inte-
ressi e l’innesto di culture più progredite su altre. Ogni «civiltà» è infatti un sistema, che può essere
chiuso (se fondato su un principio unico) o aperto (fondato su principi molteplici): i primi si aprono
con l’innesto di principi estranei, i secondi si chiudono quando prevale un principio unico. Un sistema
progredisce quanto più si accosta a ciò che è più razionale: il progresso, quindi, consiste nella libe-
razione graduale di ciò che è considerato comune alla natura umana e orientato a realizzare l’idea
dell’umanità, che è posta alla fine della storia. Il progresso è inesauribile, ma non predeterminato o
rettilineo, perché gli sviluppi storici sono variabili e non riducibili a percorsi unici: Cattaneo non con-
divide le forme di ottimismo razionalistico o provvidenzialistico; per questo la sua filosofia ha una
destinazione pratica e deve contribuire a risolvere i problemi della vita associata.
Giuseppe Ferrari (1812-1876) → nato a Milano ma esule in Francia dal 1839, nel 1859 torna in Italia
e, l’anno dopo, entra a far parte del Parlamento italiano. Sul suo pensiero hanno influenza Roma-
gnosi, Vico e il socialismo utopico di Proudhon.
Ferrari considera la storia come una scienza, al pari di Vico. Egli crede che la Rivoluzione francese
sia rimasta incompiuta, e che per completarla bisogna tenere saldo il presupposto del sensismo
illuministico secondo il quale la base della certezza sono i fatti. Il pensiero che vuole travalicare i fatti
è illegittimo e si trasforma in una «logica» astratta, producendo l’errore di credere che ciò che appare
ai sensi è solo apparenza – cioè le erronee costruzioni metafisiche. Il programma di Ferrari consiste
quindi nel «riconquistare il fatto», subordinando il pensiero all’esperienza. Alla rivelazione divina,
Ferrari contrappone la rivelazione naturale, consistente nell’intuizione diretta dei fatti: essa ci rivela
la nostra vita e quella degli altri, anche se non siamo mai del tutto consapevoli del nostro operare.
L’umanità progredisce inarrestabilmente e inconsapevolmente verso l’epoca della rivoluzione, che
sarà caratterizzata dal dominio della scienza e dell’uguaglianza: essa andrà oltre la Rivoluzione
francese eliminando le chiese, riequilibrando le ricchezze e stabilendo una democrazia ugualitaria;
inoltre, mediante la scienza sarà possibile sopperire ai bisogni del popolo, liberandolo dalle malattie
e dalla fame e provvedendo alla loro educazione. Il governo stesso dovrà ridursi all’amministrazione
di un popolo, che si organizzerà attraverso libere associazioni.