Sei sulla pagina 1di 116

LA FILOSOFIA DEL QUATTROCENTO

Una nuova cultura: il Rinascimento


In conseguenza della crisi della Scolastica, nel Quattrocento si sviluppa un movimento culturale che
presenta un rinnovato interesse per il mondo classico, considerato come fonte e modello di civiltà,
in contrapposizione alla cultura medievale, sentita ora come un periodo di decadenza: il tentativo è
far rinascere il mondo classico, inteso come un ideale di vita e di cultura che può tornare a vivere
incarnandosi in nuove forme. Tale fenomeno è evidente nella civiltà comunale italiana, in cui
confluiscono molti aspetta dell’eredità classica: il comune tende a riprodurre la città-Stato della
Grecia antica e assume come modello le istituzioni della Roma repubblicana.
Per realizzare la rinascita serve recuperare il patrimonio letterario classico e, di conseguenza, ope-
rare un radicale rinnovamento degli studi: il monopolio culturale ecclesiastico svanisce e si svilup-
pano istituzioni laiche (università, scuole di grammatica e retorica, di latino e greco, cenacoli privati).
Questo segna la fine dell’egemonia della cultura teologica tipica dell’età medievale: il termine
umanesimo designa quell’orientamento di studi che si fonda sulle humanae litterae (in implicita
opposizione a quelle divinae), cioè sull’esame dei monumenti di quella classicità che ha realizzato i
valori e le potenzialità dell’humanitas.
La rinascita della cultura classica ha il suo presupposto fondamentale nell’attività di ricerca, recupero
e riesame dei manoscritti antichi, mentre l’atteggiamento dell’umanista di fronte al testo classico è
teso a ripristinare l’originalità del testo tramite un preciso metodo filologico: per questo la ricerca dei
documenti del passato si accompagna allo studio della lingua greca e latina.
Il carattere fondamentale della concezione quattrocentesca della realtà è l’antropocentrismo:
l’uomo è posto al centro del mondo e analizzato in termini di libertà, volontà e attività; soprattutto è
considerato l’artefice del reale. Questo convincimento forma un nuovo tipo di intellettuali, la cui for-
mazione è caratterizzata dall'interdisciplinarità, cioè nella reciproca integrazione tra studi letterari e
impegno politico → umanesimo civile: celebrazione letteraria dell’antichità greco-romana come
strumento per difendere il valore dell’impegno civile nella realtà in cui vivono. Tra i maggiori rappre-
sentanti:
 Coluccio Salutati → celebra la superiorità della vita attiva rispetto a quella contemplativa →
sostiene il primato della volontà sull’intelletto.
 Leonardo Bruni → celebrazione della filosofia morale, vista come elemento fondamentale
della cultura.
 Poggio Bracciolini → l’esaltazione dei classici si congiunge all’esaltazione delle virtù umane
dell’impegno civile che si rafforzano nel rapporto costante tra uomo e uomo – sottolineando
la dimensione sociale dell’individuo. Modernissimo è anche l’apprezzamento del denaro
come fondamento della società.
 Lorenzo Valla → latino come fattore di coesione culturale e politica e come segno di una
sovranità spirituale dell’Impero romano anche quando cadde e dimostrazione della falsità
della «donazione di Costantino». In filosofia, il piacere – inteso non solo come piacere ma-
teriale – è posto a fondamento dell’agire umano: anche le leggi dello Stato hanno come fine
l’utile, il conseguimento del quale genera piacere.
 Leon Battista Alberti → tema fondamentale della sua filosofia è la virtù, intesa come capacità
di dominare la fortuna e operosità all’interno della famiglia. La sua celebrazione ha accenti
umanistici, quali l’esaltazione della dignità ed eccellenza dell’uomo: per mezzo di essa,
l’uomo può progettare autonomamente il proprio futuro e realizzare il proprio destino di homo
faber.
In Italia arrivarono anche molti intellettuali da Costantinopoli dopo la conquista turca (1453), che
contribuirono all’ulteriore sviluppo della conoscenza del mondo greco classico. I rapporti tra il mondo
greco-bizantino e l’Italia favorirono anche lo sviluppo di un rinnovato interesse per la tradizione
platonica e, di riflesso, per quella aristotelica:
 Giorgio Gemisto Pletone proponeva il platonismo come punto di riferimento per una possibile
unificazione, su base filosofica, delle differenti fedi religiose.
Si aprì un dibattito sulla migliore conciliabilità con il cristianesimo del platonismo e dell’aristotelismo.
In Italia e in area germanica si rivela la ricerca di una pacificazione tra le differenti fedi religiose:
fondamentale è il lavoro di Nicola Cusano.
Nicola Cusano (1401-1464)
Cardinale che partecipò al Concilio di Basilea (1432), dove fu esponente del conciliarismo, la dot-
trina che negava la supremazia del pontefice nei confronti del Concilio
Filosofia, religione e politica ecclesiastica
Trattato sul potere presidenziale (1434) → nel Concilio, la Chiesa detiene la rappresentanza reale
mentre il pontefice ha soltanto una rappresentanza formale: il papa presiede il Concilio come un
coordinatore di dibattiti, mentre il vero potere di presiedere il Concilio è di Cristo, presente nel corpo
cristico costituito dalla Chiesa e quindi dal Concilio stesso.
Successivamente ribalta completamente queste posizioni → Cusano spiega il rapporto tra papa e
pluralità delle persone che costituiscono la Chiesa in termini di complicazione e esplicazione: il
papa contiene, riassume e condensa – coimplica – nell’unicità della propria persona la molteplicità
dei membri del corpo ecclesiale. La Chiesa, viceversa, è un’estrinsecazione visibile dell’unità origi-
naria di Cristo nella molteplicità dei fedeli.
La pace della fede (1453) → preoccupazione per la pacificazione religiosa. Cusano individua un
comune sentimento religioso, una «religione» unica per tutti gli uomini, di cui tutte «le religioni» sono
semplicemente un’espressione.
La conoscenza → De docta ignorantia (1440)
Il titolo indica l’atteggiamento che l’uomo deve assumere di fronte a Dio dopo aver riconosciuto
l’impossibilità di conoscerlo adeguatamente. La conoscenza umana, infatti, procede secondo un
modello matematico, stabilendo una proporzione tra conosciuto e ignoto. Tali rapporti presuppon-
gono, però, un materiale definito e finito, mentre Dio è l’infinito: egli è massimo e minimo allo stesso
tempo e in lui si realizza la coincidentia oppositorum, paradosso razionalmente incomprensibile, di
fronte al quale la ragione deve riconoscere la propria ignoranza, ma un’ignoranza «dotta», perché
consapevole di sé stessa. Quella di Cusano è una «teologia negativa» ripresa da Platone: negando
la conoscibilità razionale di Dio, egli sostiene che si può sapere solo ciò che Dio non è.
De conjecturis (1440-1445) → limiti della conoscenza umana anche quando si rivolge alla realtà
naturale e finita. L’uomo non può conoscere le cose create, che in quanto tali sono conosciute pie-
namente solo da Dio; può conoscere solo quegli enti di ragione che egli stesso crea. Tuttavia, anche
in questo caso, egli deve essere consapevole che l’oggetto della sua conoscenza, espressione del
modo umano di rappresentare le cose, ha solo un rapporto di «analogia» con la realtà creata da Dio.
Questo sapere mondano viene chiamato «congettura».
Dio e il mondo
Cusano utilizza i concetti di complicazione ed esplicazione per spiegare il rapporto tra Dio e il mondo.
In quanto infinito, Dio complica in sé tutte le cose che esistono: è cioè l’essere di tutte le cose,
considerate loro originaria unità indifferenziata. Il mondo invece rappresenta l’esplicazione dell’unità
divina in una molteplicità di enti particolari. Il rapporto tra Dio e il mondo può essere quindi espresso
attraverso la nozione di contrazione, che indica la determinazione dell’unità divina nella molteplice
realtà mondana, divisa e individualizzata nello spazio e nel tempo. Dio può quindi essere concepito
come l’«unità contratta» della molteplicità del mondo. L’essere del mondo è originariamente implicito
in quello di Dio e, nel proprio attuarsi, partecipa di esso: l’uno e l’altro appaiono come due differenti
modalità della stessa sostanza.

Il neoplatonismo fiorentino
In Italia si assiste a una rinascita degli studi filosofici – in particolare del platonismo – strettamente
connessa alle specifiche realtà cittadine e, collegata al passaggio dai comuni alle signorie, si defi-
nisce la figura dello studioso contemplativo → filosofo professionale finanziato dalla corte.
Marsilio Ficino (1433-1499) → stretto rapporto con i Medici.
Il programma ficiniano è un tentativo di armonizzazione della religione con la filosofia: secondo
l’autore esiste una rivelazione perenne che, nel cammino dell’umanità, si è di volta in volta espressa
nel linguaggio filosofico o devozionale. Nella Theologia platonica (1482) critica Averroè e, più in
generale, l’intera tradizione aristotelica perché è inconciliabile con la dottrina dell’immortalità perso-
nale dell’anima. L’anima umana ha una posizione centrale nella visione del cosmo di Ficino, po-
nendosi nel mezzo di una gerarchia ontologica che va dalla materia a Dio ed esercitando nei suoi
confronti una funzione unificatrice. Il fatto che l’anima ascenda e discenda continuamente prova la
sua capacità di muoversi all’infinito e, quindi, la sua immortalità. La centralità dell’anima coincide con
quella dell’uomo → rigoroso antropocentrismo per cui l’uomo rappresenta il principio fondamentale
dell’ordine e dell’unità del cosmo. A queste riflessioni, Ficino unisce una dottrina dell’amore: l’amore
è ciò che consente all’anima di mettere in pratica la propria funzione unificatrice dei differenti gradi
della gerarchia ontologica. Il termine supremo è Dio, ma nello stesso tempo esiste una reciprocità
tra l’amore dell’uomo e del mondo per Dio e l’amore di Dio per le sue creature. Anzi, se Dio non le
amasse, in esse non si accenderebbe l’amore per lui.
Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494)
Pico crede nella conciliabilità e della continuità tra i diversi orientamenti di pensiero: il suo intento è
realizzare una «concordia filosofica» tra le diverse tradizioni filosofiche, che si susseguono e si in-
tegrano a vicenda e che, seppur diverse, ognuna è detentrice di una parte di verità. Su questo fon-
damento si realizza la pace filosofica a cui l’umanità deve aspirare. In questo modo, egli esalta a
potenza intellettuale umana e mostra come l’avanzamento culturale dell’umanità sia reso possibile
da questo continuo avvicendamento. Nelle Orazioni sulla dignità dell’uomo, infatti, Pico celebra le
capacità di autodeterminazione dell’uomo, cioè quelle facoltà intellettuali che lo portano a scegliere
liberamente tra più o meno nobili generi di vita.
Pico distingue nettamente la magia dall’astrologia: egli considera l’astrologia una dottrina che limita
pericolosamente la libertà dell’uomo, ricercando le cause del suo agire in fattori indipendenti dalla
volontà umana, mentre la magia, al contrario, è intesa come capacità di controllo della natura da
parte dell’uomo e non inficia l’autodeterminazione dell’essere umano, quindi può essere pienamente
giustificata.
Pico si differenzia da Ficino anche perché rivela una grande attenzione all’oggettività della ricostru-
zione storico-filosofica. Una più precisa consapevolezza storica e una più fedele analisi della dottrina
platonica rivelano l’impossibilità di essere un vero platonico rimanendo al contempo un buon
cristiano: per essere fedeli a Platone, bisogna concepire l’amore come desiderio di bellezza e di ciò
di cui si manca, ma la divinità non è manchevole di nulla e può essere solo oggetto di amore. Un
Platone cristianizzato e un cristianesimo platonizzante non sono quindi possibili: mentre è possibile
realizzare la concordia tra le diverse filosofie, il divario tra filosofia e religione si rivela insuperabile.
LA FILOSOFIA DEL CINQUECENTO

Diffusione dell’umanesimo in Europa


Dal tardo Quattrocento, la cultura umanistica si diffonde nel resto d’Europa: sorgono nuove scuole
e nuove istituzioni laiche; si diffonde la stampa, promuovendo la nascita di nuove biblioteche; si
diffonde lo studio degli autori classici, condotto sui testi originali e accompagnato dalla cura per la
correttezza filologica e storica.
Erasmo da Rotterdam → la conoscenza delle lingue classiche è lo strumento per comprendere lo
spirito dell’autore studiato e. Il ritorno alle origini comporta anche il ritorno al cristianesimo delle
origini, attraverso lo studio dei Padri della Chiesa e l’analisi filologica del Nuovo Testamento. Anche
in questo caso, però, si tratta di rivivere lo spirito con cui essi furono scritti, ritrovando la semplicità
e la purezza dei costumi delle prime comunità cristiane. La sua opera più nota è l’Elogio della pazzia,
scritto in cui si mescolano satira e paradosso: nel mondo domina la «pazzia», la quale è alla base
di tutte le azioni degli uomini. Facendo parlare la pazzia, Erasmo ha modo di mettere a nudo le
debolezze e gli errori degli uomini – in particolare quelli del suo tempo –; nello stesso tempo espone
le sue verità morali e religiose, sempre improntate all’esigenza del rinnovamento.
Thomas More (1478-1535) → gli ideali umanistici si diffondono in Inghilterra con gli stessi caratteri
che avevano avuto in Italia nel Quattrocento: gli studi letterari devono promuovere un impegno nella
realtà civile. Moro fu infatti cancelliere del regno, e nella sua opera più nota, l’Utopia, egli delinea il
suo ideale politico – democratico. Alla base della sua costituzione ideale c’è il rifiuto della proprietà
privata, che è principio di egoismo e di conflitti; il lavoro degli abitanti è teso esclusivamente a
soddisfare i propri beni necessari, potendo così dedicare più tempo all’educazione, in particolare
alle scienze naturali e alla filosofia morale.
Michel de Montaigne (1533-1592) → maggior esponente dell’umanesimo francese.
I Saggi, costituiti da una raccolta di riflessioni autonome, sono una sorta di autobiografia filosofica.
Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti dei classici, Montaigne sostiene che non si deve
privilegiare lo studio rispetto al contatto interpersonale con gli altri uomini. Dal punto di vista filoso-
fico, i Saggi sono espressione di scetticismo: egli assume un atteggiamento critico nei confronti della
concezione stoica della ragione – facoltà infallibile, espressione di una immutabile natura umana –,
anzi la mutevolezza è accettata come una caratteristica costante del vivere umano: la scoperta
dell’America e la caduta dell’ipotesi geocentrica avevano messo in dubbio la centralità della cultura
europea e l’antropocentrismo. In tema morale, Montaigne si affida a una morale mondana che tiene
conto del ridimensionamento a cui è sottoposto il valore dell’uomo.
Logica, dialettica, retorica
L’importanza delle riflessioni che legano l’uomo agli altri uomini ha come conseguenza lo sviluppo
di un interesse specifico per le tecniche del discorso: questo conduce a studiare con rinnovato in-
teresse la struttura del pensiero che in esse si esprime.
Mario Nizolio → la retorica è l’analisi dei modi in cui i processi della mente si traducono in discorso.
Pietro Ramo → la dialettica, che si risolve anch’essa nell’analisi dei processi naturali del pensiero,
è la «scienza della discussione». Essa si divide in due parti: inventio (arte di invenzione), cioè la
ricerca di modelli di argomentazione per risolvere una determinata questione; dispositio, cioè lo stu-
dio della disposizione razionale dell’argomentazione.
Questi autori criticano molto la logica e la metafisica aristotelica.
L’aristotelismo
L’aristotelismo rimane vivo e, per certi aspetti, prova a rinnovarsi ricercando il rapporto diretto con i
testi, ma resta legato alle università, in particolare Padova e Bologna, che si pongono come centri
di cultura garanti della continuità della tradizione aristotelica grazie all’attività dei loro professori. Uno
dei temi dominanti dell’aristotelismo rinascimentale è la mortalità dell’anima, tema sul quale si sono
divisi i sostenitori di due delle principali correnti che hanno interpretato Aristotele:
 Averroismo → l’anima umana è un’unità a sé stante, separata dalla materia.
 «Alessandrinismo» – interpretazione di Alessandro di Afrodisia → l’anima è la natura
dell’uomo, da lui inseparabile, che vive nell’individuo singolo e concreto. La dottrina ammette
implicitamente la mortalità dell’anima assieme al corpo.
All’origine di queste discussioni si pone il pensiero di Pietro Pomponazzi (1462-1525), principale
esponente dell’alessandrinismo: nel Trattato sull’immortalità dell’anima (1516), egli dichiara che
l’anima umana non può esercitare la propria funzione più elevata, quella intellettiva, senza dati
sensibili che le provengono dal corpo. Da questa prospettiva, l’immortalità appare ammissibile per
fede, ma indimostrabile filosoficamente → reciproca indipendenza della ricerca filosofica e della fede
religiosa. Differente è la visione averroistica di Aristotele: anche se a questa tradizione è stata
attribuita la dottrina della «doppia verità» – esistono una verità filosofica e una religiosa –, in realtà
essi credono in una sola verità, trasmessa attraverso il discorso filosofico, per chi era capace di
intenderlo, e la rivelazione, per le persone più semplici. Tuttavia, Pomponazzi non nega Dio né la
sua azione nei confronti del creato, in virtù della quale nel mondo è riscontrabile un ordine razionale
e naturale: Dio è la causa, razionalmente indagabile, di tutto ciò che avviene nel mondo, che si serve
degli astri e dei loro movimenti per esercitare la propria azione sul mondo e sugli uomini. Infatti, il
«fato» si identifica con la provvidenza di Dio e prevale sul libero arbitrio dell’uomo.
Le ricerche sulla natura → altro tema cui sono attenti i filosofi aristotelici è l’attenzione alle indagini
sul mondo naturale. Alcuni autori valorizzano l’esperienza e l’osservazione diretta della natura – la
maggior parte di essi, accanto agli studi filosofici, coltiva gli studi di medicina.
Andrea Cesalpino (1519-1603) → il messaggio aristotelico è inteso non come esortazione all’attività
speculativa, bensì come rimando all’esperienza concreta: l’osservazione della natura guida alla
verità con maggiore certezza della ragione.
Girolamo Fracastoro (1478-1553) → tentativo di conciliare l’eredità aristotelica con una filosofia
corpuscolare che concepisce ogni ente come costituito da particelle singolarmente invisibili, indotte
a unirsi da un principio di «simpatia», cioè da reciproca attrazione.
Altri autori vedono la magia come strumento per il dominio dell’uomo sul mondo naturale → il mondo
fisico è concepito come un essere animato affine all’uomo, motivo per il quale egli può agire sulla
natura. Queste concezioni si basano sulla credenza che la materia, come un essere vivente, sia
dotata di animazione e sensibilità, e che l’uomo agisca sulla natura tramite la simpatia, cioè quel
legame che, congiungendo le varie parti della natura tra loro lontane, consente di creare un effetto
su una parte agendo su di un’altra, apparentemente separata. Tra questi autori, alcuni distinguono
tra «magia diabolica» e «magia naturale», con quest’ultima che si propone di condurre l’uomo a un
legittimo dominio sulla natura e che costituisce il risvolto pratico della ricerca filosofica.
Teofrasto Paracelso → egli rivaluta il fine utilitario della magia perché crede che ci sia un’analogia
tra uomo e natura: entrambi sono dotati di anima e corpo, e l’anima umana può agire sull’anima della
natura in modo da influenzare anche il «corpo naturale».

Il naturalismo di Bernardino Telesio (1509-1588).


Alla visione magica della natura, che sottintende il fatto che essa sia a misura d’uomo, si contrap-
pone il naturalismo, corrente di pensiero che considera la natura come una realtà autonoma, fornita
di una finalità intrinseca che non può essere piegata alle esigenze dell’uomo. Il mondo naturale può
così essere oggetto di una ricerca filosofica che indaghi i principi interni al suo sviluppo, non
attraverso categorie metafisiche predefinite e senza proiettare sulla natura valori umani che non le
sono propri – atteggiamento tipico, secondo Telesio, delle tradizioni filosofiche precedenti, la cui
concezione della natura era quindi una fittizia creazione intellettuale.
De rerum natura iuxta propria principia (1565-1585) → il pensiero di Telesio è influenzato dalla tra-
dizione aristotelica. Il titolo dell’opera è programmatico: la natura deve essere studiata e interpretata
«secondo i principi ad essa propri», senza fare ricorso a modelli precostituiti ed estrinseci. I principi
che regolano dall’interno la vita della natura sono tre: caldo e freddo sono principi agenti, in grado
di percepire e di essere percepiti, che agiscono; la materia (massa corporea), di per sé inerte e
informe, è creata da Dio per essere formata e continuamente trasformata dai due principi agenti.
Nessuno di questi è sostanza perché non possono sussistere di per sé. La sostanza, secondo
Telesio, consiste nell’unità indissolubile dei tre principi insita in qualsiasi ente. Essa ha carattere
dinamico, dando origine a una continua generazione, corruzione e rigenerazione. L’unico limite
all’autonomia della natura e dei suoi principi è il fatto che il mondo naturale è opera di Dio ma, dopo
l’atto creativo, egli non interferisce più nel loro sviluppo.
Il solo atto con cui Dio trascende l’ordine naturale è infondere nell’uomo un’anima spirituale, una
sostanza divina e immortale, che fa dell’essere umano un soggetto di vita religiosa, distinguendolo
dalle altre creature meramente naturali. A queste l’uomo è accomunato dalla presenza di uno spirito
corporeo di natura materiale, con sede nel cervello, che è unico – poiché unica è la sostanza –,
sussiste di per sé e presiede ai processi di vita organica. Attraverso di esso è anche resa possibile
la sensibilità dell’uomo: la sensazione consiste nella percezione dell’azione dell’oggetto su di noi e
della modificazione soggettivo dello spirito corporeo. Telesio attribuisce preminenza assoluta alla
conoscenza sensibile rispetto all’intellezione – il ricordo di una sensazione – e al ragionamento. La
sensibilità, tuttavia, non è prerogativa degli esseri animati, ma è propria della natura in generale.
Tale sensibilità universale, che garantisce l’omogeneità tra uomo e natura, rende possibile una
fondata conoscenza del mondo naturale da parte dell’essere umano: l’uomo può conoscere con
certezza i principi che guidano i processi naturali perché partecipa di questa sensibilità universale.

La filosofia di Giordano Bruno (1548-1600).


La visione del divenire naturale, della sua continuità ed eternità, del suo carattere quasi divino e
dell’immensità in cui agisce esercitano in questo periodo un fascino particolare. Ciò determina at-
teggiamenti ed espressioni che celebrano la forza della natura: essa viene intesa, ora, come una
realtà perennemente vivente e generante, un indefinito processo di trasformazione, un’eterna vi-
cenda di vita e di morte. Queste tendenze trovano una delle loro più caratteristiche espressioni nel
pensiero di Giordano Bruno.
Bruno pronunciò i voti molto giovane, ma presto i dubbi sulla dottrina trinitaria e su quella
dell’incarnazione lo misero in contrasto con gli ambienti ecclesiastici. Dal 1576 inizia a peregrinare
per l’Europa, insegnando prima in Inghilterra prima e successivamente in Germania. Accettò infine
l’ospitalità di un nobile veneziano che lo denunciò all’Inquisizione e lo fece arrestare per i suoi dubbi
sulla funzione della religione e i sospetti di eterodossia delle sue dottrine. Dopo sette anni di carcere,
nel 1600 fu condannato al rogo. Sono due i temi dominanti della filosofia di Bruno:
Infinità dell’universo → Bruno accoglie la dottrina copernicana considerandola non una mera ipo-
tesi matematico-astronomica, ma una verità metafisica con importanti conseguenze, la più impor-
tante delle quali è l’infinità dell’universo – che Copernico considerava ancora finito. Caduta la fede
nella centralità della Terra, l’universo appare composto da infiniti mondi, rispetto ai quali il nostro
pianeta perde ogni priorità. La spiegazione di Bruno è però metafisica: l’universo è l’effetto infinito,
nello spazio e nel tempo, di una unica causa infinita, cioè di Dio. L’infinito dell’universo è però diverso
da quello divino perché in esso si distinguono parti finite, mentre Dio è l’assoluto – è evidente
l’influenza della concezione dell’Uno-tutto della tradizione neoplatonica.
Unità dell’essere → nel mondo c’è un’unica materia che si presenta sotto diverse specie. La mol-
teplicità delle forme che plasmano la materia è riconducibile a unità perché è unica la materia a cui
si applicano. L’unità della forma identificabile con la materia stessa, che produce e riassorbe in sé
le forme in una continua vicenda: il continuo mutare delle cose non è un mutare dell’essere, ma un
mutare del modo di essere. La materia è quindi una materia attiva, la cui vita è la stessa che anima
ogni parte della natura. La spiegazione fisica dell’unità, invece, è la ricerca di contatto tra le parti
dell’universo per raggiungere una coesione universale che escluda la possibilità del vuoto.
La materia è uguale alla divinità da cui deriva: Dio non trascende il mondo, non è una causa distinta
dal proprio effetto, bensì il principio che inerisce all’effetto. È l’onnipresenza di Dio a determinare
l’infinità e l’unità dell’universo: se la divinità è infinità, infinito dev’essere l’universo in cui essa si
manifesta; l’infinità implica l’unità, perché nell’infinito non si danno parti sostanziali. Su questa idea
influisce la nozione neoplatonica di «anima del mondo»: in ogni parte dell’universo vi sono anima
e vita, quindi Dio. Questa onnipresenza tende però a trasformarsi in un’identificazione tra Dio e ogni
altro essere esistente: Dio è tutto quello che può essere – e non sarebbe tutto se non potesse essere
tutto – perché la sua infinita potenza è potenza di essere qualsiasi cosa, e poiché una potenza che
non si traduca in atto è potenza di essere nulla, potenza e atto devono coincidere. È plausibile che
il tutto sia la materia: non a torto in queste dottrine è stata vista una forma di panteismo.
La morale → se Dio è il tutto o in tutto, ogni essere deve tendere a ritornare in Dio e a confondersi
con lui: questo avviene attraverso la «contemplazione». Il principio divino si riflette nelle cose del
mondo: quando l’uomo scorge il principio divino che anima la natura tende a ritornare a lei, perché
egli riconosce la sua unità con essa. La morale di Bruno si fonda sul principio della necessità ed
esclude ogni forma di libero arbitrio: la vera libertà consiste nell’agire come è richiesto dalla necessità
della natura. Essa ha carattere aristocratico perché comporta una consapevolezza della natura non
da tutti, ma l’esclusione del riferimento alla trascendenza e il suo risolversi nell’immanenza della vita
naturale fa sì che non si traduca in contemplazione riservata a pochi, ma si esplichi in un’etica
mondana che esalta l’operare dell’uomo e condanna il torpore, l’ozio, l’accidia come negazioni della
vitalità della natura. L’etica, invece, riveste una limitata funzione di edificazione morale e di controllo
sociale nei confronti del popolo.
Tommaso Campanella (1568-1639).
Campanella entrò molto giovane nell’ordine domenicano, ma presto le sue idee filosofiche vari pro-
cessi per eresia e imprigionamenti.
Metafisica → principio basilare della metafisica di Campanella è l’universale animazione della na-
tura, che sviluppa quello della sensibilità universale di Telesio: il mondo naturale è permeato da una
forza di attrazione che induce tutti i corpi a cercare il contatto e a godere di esso, eliminando il vuoto.
Gli esseri si trovano quindi in un rapporto di universale interazione reciproca, grazie alla quale l’uomo
può intervenire sulla natura attraverso la magia. La nozione di universale interazione implica il
principio dell’unità della natura, che deriva a sua volta dall’assoluta unità di Dio: da qualcosa di unico
non può derivare nulla di sostanzialmente molteplice. La molteplicità è solo apparenza: la
differenziazione dei singoli esseri finiti non è reale e metafisica, ma si fonda sulla loro distinguibilità
logica e formale.
Nella natura Campanella vede operare tre principi fondamentali, costitutivi dell’essere, indisgiungibili
e di pari dignità e valore:
1. Potenza → grazie ad essa gli enti possono essere e agire.
2. Sapienza → senso di sé che permette agli enti di conoscere sé stessi e i propri contrari.
3. Amore → principio di unificazione e tendenza all’autoconservazione.
Nel mondo essi si trovano in forma impura, frammisti con i rispettivi predicati negativi (impotenza,
insipienza e odio), ma in Dio si trovano alla forma pura.
Conoscenza → privilegio della sensibilità su ogni altra forma di sapere.
La gnoseologia di Campanella è strettamente connessa alla metafisica delle primalità dell’essere:
ciascuna delle tre può esplicare sé stessa soltanto in virtù di un originario riferimento al soggetto.
 Potenza → potenza di agire e di patire perché potenza di essere un soggetto che agisce e
che patisce.
 Amore → induce gli enti a permanere nel loro stato perché ciascuno di essi ama il proprio
essere, e fonda su ciò il proprio rapporto con gli oggetti esterni.
 Sapienza → conoscenza della realtà.
Campanella distingue quindi una forma di conoscenza «innata» (originaria consapevolezza che ha
il soggetto di sé stesso) e una «illata» (proveniente dall’esterno). Il soggetto conosce preliminar-
mente sé stesso, quindi sente le modificazioni che gli oggetti esterni imprimono su di sé. Non si
conoscono direttamente le cose, ma si conosce sé stessi modificati dalle cose: conoscere implica in
parte «divenire altro». Ma se l’oggetto conoscibile è la divinità, la conoscenza fornisce un accesso
alla vita eterna: la trasmutazione nell’oggetto conoscibile significa, in questo caso, trasmutazione
nella natura divina.
Il mondo della natura viene investito di sacralità. Due sono gli aspetti che contano maggiormente,
l’esperienza diretta (in contrasto con la cultura libresca) e la vitalità. Su di essi si fonda l’istruzione,
intesa come nuova formazione dell’intellettuale e come formazione popolare e pedagogica.
Il programma pedagogico di Campanella è teso a una missione di rigenerazione del mondo umano,
da iniziare eliminando l’ignoranza, la causa dei tre grandi mali del mondo:
1. Tirannide → degenerazione del potere politico in un arbitrio umano che ha smarrito il rapporto
con l’autorità divina.
2. Sofismi → degenerazione della cultura in un verbalismo che ha perso il rapporto con la realtà.
3. Ipocrisia → degenerazione di una religiosità che ha dimenticato il rapporto con l’interiorità,
unica garanzia dell’unione tra divino e umano.
Città del sole → utopia di una repubblica teocratica retta da un sommo sacerdote (Sol) dedicato al
culto del sole, i cui ministri sono le personificazioni delle tre primalità, che si occupano del controllo
della guerra (potenza), del controllo di scienze e arti (sapienza) e del controllo della salute e della
riproduzione (amore). C’è rigorosa comunione dei beni e delle donne; i congiungimenti sono regolati
dal potere pubblico e il lavoro è l’unico fattore di differenziazione dei cittadini in base alle loro
capacità.
RIFORMA E POLITICA NEL CINQUECENTO

Durante il Quattrocento si assiste in Europa a una profonda crisi della teologia scolastica. Le dispute
tra scuole frammentarono il pensiero teologico europeo e gli conferirono un carattere sempre più
accademico: ciò portò a una frattura tra comuni fedeli e teologi, resa più acuta dal lassismo morale
che causò una degenerazione dei costumi all’interno della Chiesa e una vera e propria opera di
sfruttamento del potere spirituale a fini di lucro (decime e vendita delle indulgenze). Nacque
l’esigenza di un radicale rinnovamento dei costumi morali e religiosi della Chiesa, nel segno
umanistico della riscoperta delle Scritture, escludendo le interpretazioni delle varie scuole, e del
recupero degli ideali di semplicità e carità delle prime comunità. L’esigenza di rinnovamento era
particolarmente forte in area germanica: l’assenza di una forte Chiesa nazionale e la debolezza del
potere politico favorivano le ingerenze della Chiesa di Roma, la quale, però, non soddisfaceva la
tipica tendenza germanica alla religiosità interiore.

I riformatori: Martin Lutero (1483-1546)


Monaco agostiniano, formatosi filosoficamente attraverso la lettura di Agostino, San Paolo e dei
mistici del XIV secolo, nel 1517 affisse sulla porta del duomo di Wittenberg le 95 tesi contro le in-
dulgenze; fu anche il primo traduttore della Bibbia in tedesco.
Il presupposto fondamentale del suo pensiero religioso è la radicale peccaminosità dell’uomo: in
conseguenza del peccato originale l’uomo non è più in grado di compiere il bene. L’unico mezzo per
salvarsi è la fede in Cristo → «giustificazione della fede»: solo credendo in Cristo si può ottenere
che egli si sostituisca a noi, assumendo su di sé i nostri peccati e «rivestendoci» della sua giustizia.
In questo modo possiamo apparire «giusti» davanti a Dio, perché egli attribuisce a noi la giustizia di
Cristo. Le opere dell’uomo non hanno nessuna efficacia salvifica – ma l’uomo è tenuto a essere
giusto dinanzi agli uomini –, e nemmeno i sacramenti, in particolare l’Eucaristia: per Lutero l’unica
vera presenza di Cristo in noi è data dall’atto con cui egli ci «afferra» e ci «abbraccia» attraverso la
fede.
«Predestinazione» → la salvezza è decisioni di Dio: nessun individuo può sapere se in lui sia in atto
il processo di giustificazione perché egli non è in grado di capire se le opere buone siano frutto della
presenza di Cristo o frutto del peccato originario. Non c’è spazio, in questa visione, per la libera
decisione dell’uomo: al libero arbitrio, Lutero contrappone il «servo arbitrio».
«Antirazionalismo teoretico» → la ragione dell’uomo, oscurata dall’errore, non è in grado di cono-
scere la verità. La verità consiste nella rivelazione attraverso la Scrittura: la Bibbia è infatti di per sé
chiara perché si interpreta da sola, e per intenderla non c’è bisogno di nessun interprete ufficiale e
della mediazione della Chiesa → «libero esame» della parola di Dio. L’uomo deve solo aprirsi alla
Scrittura, così come si deve aprire a Cristo e alla fede.
L’antirazionalismo teoretico di Lutero viene corretto in parte da Filippo Melantone:
 La ragione può accedere alle verità religiose fondamentali.
 La Scrittura è un insieme dottrinale in cui è espressa la volontà di Dio sul comportamento
che l’uomo deve tenere nei suoi confronti.
 L’uomo è in grado di sapere se è giustificato agli occhi di Dio e possiede un certo grado di
libero arbitrio – anche se questo non è causa di salvezza.

Ulrich Zwingli (1484-1531) → Zurigo


Come Lutero, Zwingli è convinto che l’uomo non ha parte attiva nel processo di salvazione: la sal-
vezza viene soltanto da Dio. Egli spiega la predestinazione con la dottrina dell’unicità dell’essere
ripresa dalla metafisica del neo-platonismo: Dio è l’Uno-tutto da cui tutto proviene. Nel suo pensiero
– a differenza di Lutero – Dio si rivela all’uomo sia attraverso la Scrittura, sia per mezzo della ragione
umana. Analogamente, il processo che conduce alla salvezza non avviene solo attraverso la
Scrittura, ma è opera diretta di Dio. Infine, le buone opere sono a loro volta un segno distintivo di
fede.

Giovanni Calvino (1509-1564) → Ginevra


Da Lutero mutua il principio della giustificazione per fede e quello della funzione delle Scritture nel
processo di giustificazione. Come Zwingli ritiene centrale l’elemento della predestinazione, e anzi lo
potenzia → «doppia predestinazione»: Dio ha destinato alcuni alla salvezza e altri alla dannazione.
La Scrittura può essere semplicemente ascoltata dall’uomo, senza essere accompagnata da una
reale opera di redenzione, oppure può essere guidata dallo Spirito Santo, diventando così principio
di salvezza per colui che la riceve: l’alternativa è però già stata scelta da Dio. Le opere buone, pur
essendo assolutamente inefficaci ai fini della giustificazione, possono essere un indizio.

Il pensiero politico della Riforma.


Tutti i riformatori assegnano alla legge divina una funzione anche politica: la peccaminosità
dell’uomo rende difficile la convivenza tra gli uomini e richiede un’autorità secolare coercitiva che
costringa gli individui alla pace e all’ordine. In questo modo si realizzano le condizioni di vivibilità che
consentono all’umanità di pervenire fino al giorno del giudizio universale – si sente l’influenza di
Agostino e del ruolo di strumento divino che diede all’Impero romano –: il potere politico trova così
la propria legittimazione nella Bibbia e nella volontà di Dio.
Nel luteranesimo il potere politico è autonomo da quello spirituale, ma opera in collaborazione con
esso: la sua funzione di repressione del crimine è diversa da quella di guida spirituale. Tuttavia viene
riconosciuta l’origine divina dell’autorità politica, che si traduce in un potenziamento di quest’ultima:
 Rafforzamento dell’assolutismo → il sovrano dipende solo da Dio.
 Negazione del diritto di ribellione e di resistenza da parte dei sudditi → l’obbedienza
all’autorità è uno dei doveri del buon cristiano. È quindi legittimo, da parte del sovrano, re-
primere con la violenza ogni tentativo insurrezionale.
Opposta è l’interpretazione politica del calvinismo. La funzione repressiva del potere politico riceve
legittimazione dalla religione e deve quindi essere sottoposto all’autorità spirituale: l’organizzazione
politica di Ginevra assume la forma della teocrazia, improntata alla più rigida intolleranza religiosa.
La negazione dell’autonomia del potere politico presuppone la legittimità della ribellione contro il
sovrano quando questi eserciti arbitrariamente il potere.

Il pensiero politico in Italia.


In Italia lo sfondo politico in cui si sviluppa la riflessione cinquecentesca è la trasformazione della
signoria in principato: la signoria si caratterizzava ancora come un fenomeno cittadino, il cui potere
si stendeva su una o più città. Il principato segna invece il riconoscimento del potere esercitato su
un territorio intero: nasce la nozione moderna di Stato – termine che Machiavelli è tra i primi ad
usare – per indicare un «territorio sul quale viene esercitato un potere sovrano e concentrato nelle
mani di una sola autorità politica».
Niccolò Machiavelli (1469-1527) → Machiavelli è considerato il padre del «realismo politico»: il suo
scopo non è fornire prescrizioni, ma mostrare la «verità effettuale» delle cose e trarne le dovute
conseguenze. La politica è autonoma dalla morale e dalla teologia: per conservare lo Stato non
serve essere buoni né confidare in Dio, bensì scegliere i mezzi più adatti per conseguire lo scopo
voluto. Ne Il Principe egli espone il suo pensiero sul principato: il fine fondamentale del principe è la
conservazione dello Stato e del proprio potere, da ottenere servendosi di tutti i mezzi più opportuni.
Il suo è anche «naturalismo politico»: lo Stato è considerato come un organismo naturale la cui
salute dipende dal rispetto o meno di regole inscritte nella sua stessa natura. La realtà politica,
secondo Machiavelli, è dominata da tre elementi: la «fortuna», cioè il caso; la necessità con cui gli
Stati obbediscono o meno alle leggi che li conservano; la virtù del principe, cioè il sapersi destreg-
giare tra frangenti mutevoli e piegarli allo scopo della conservazione dello Stato e del proprio potere.
L’uomo non può far fronte completamente alla fortuna con la virtù, ma può prevenirne le avversità
adeguandosi al meglio al corso degli eventi.
Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio l’oggetto di studio è invece la «repubblica». Dopo il
fallimento della Repubblica fiorentina e il ritorno dei Medici, Machiavelli si interroga sulla natura della
repubblica e su quale sia il migliore ordinamento politico. Per farlo, egli risale alle origini delle società
politiche e vede scorrere le diverse forme di governo in un ciclo necessario nel quale ciascuna di
esse segue la propria degenerazione (Polibio). Per uscire da questa successione, Machiavelli
propone il «governo misto» realizzato dalla Roma repubblicana.
Francesco Guicciardini (1483-1540) → dotato di un profondo senso storico, nei Ricordi politici e civili
mette in guardia dall’usare il passato come modello per il presente: ogni situazione è storicamente
condizionata e non può essere imitata al di fuori del contesto in cui è sorta. Ciascuna realtà storica
ha un carattere particolare.
Giovanni Botero (1544-1617) → la sua opera fondamentale è Della ragion di Stato (1589). Egli so-
stiene che la politica non è indipendente dalla morale, ma condivide con Machiavelli l’obiettivo fon-
damentale dello Stato – la sicurezza – e i mezzi per ottenere questo scopo: virtù politica, fortifica-
zioni, intrighi contro i nemici, economia fiorente, guerra condotta con decisione.

Il pensiero politico in Francia: Jean Bodin (1530-1596)


In Francia esisteva già un governo monarchico che si estendeva su tutto il territorio nazionale. Nel
Cinquecento, Enrico IV di Borbone procedette invece a una vasta opera di consolidamento dell’isti-
tuto monarchico che seguì più direzioni: la pacificazione religiosa del paese, culminata nell’Editto di
Nantes (1598); la ripresa di una grande politica estera con la lotta alle due casate degli Asburgo
(Spagna e Austria); il consolidamento dell’autorità del re contro le pretese degli Stati Generali, della
nobiltà e dei calvinisti → progressiva formazione di una forte monarchia assoluta.
A sostegno dell’assolutismo si schierarono alcuni scrittori che assumevano il punto di vista politico
come prioritario rispetto alle questioni religiose, sociali e giuridiche, che per questo vennero chiamati
spregiativamente politiques. Tra questi, il più famoso è Jean Bodin.
Sei libri sullo Stato (1576) → l’opera si apre con una celebre definizione dello Stato: «per Stato si
intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che
esse hanno in comune tra loro». Il nucleo fondamentale dello Stato è dunque la famiglia, con a capo
il pater familias: la patria potestas da egli detenuta è il modello dell’autorità politica che risiede nel
capo dello Stato. Al di fuori della famiglia, il pater familias si configura come citoyen: egli è un «libero
suddito», tenuto all’obbedienza assoluta della legge in quanto suddito ma che conserva il diritto alla
libertà personale e alla proprietà (in opposizione allo schiavo). L’elemento più importante, tuttavia, è
il concetto di sovranità, definita da due elementi fondamentali:
 Perpetua → non può essere limitata nel tempo (a differenza delle deleghe).
 Assoluta → sottoposta esclusivamente al potere divino.
Le sole leggi che vincolano l’autorità del sovrano sono quella divina e quella della natura (poiché
espressione della volontà di Dio); mentre verso quelle civili il sovrano non è tenuto ad alcuna obbe-
dienza: può disattenderle e modificarle a piacimento.
Sul metodo storiografico, influenzato da Guicciardini, Bodin sostiene che la storia umana non è
sottoposta, come quella naturale, a leggi necessarie e immutabili: bisogna dunque ricercare il parti-
colare, ma per quanto riguarda gli Stati e non le persone. Per definire la particolarità di uno Stato
rispetto all’altro bisogna esaminare i condizionamenti che esso subisce, in particolare le influenze
climatiche e ambientali: teoria questa che diverrà celebre nella riformulazione che riceverà da
Montesquieu.
IL PENSIERO SCIENTIFICO NEL CINQUECENTO E NEL SEICENTO

Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze, in particolare
del metodo scientifico. La scienza si svincola dalla tradizione filosofica aristotelico-scolastica tra-
sformandosi nella scienza moderna, autonoma dalla filosofia e dalla teologia, la quale elabora pro-
cedure metodologiche specifiche → rivoluzione scientifica.
La scienza moderna si distingue da quella precedente per il suo carattere quantitativo (a differenza
dell’analisi qualitativa della precedente tradizione). Il nuovo metodo scientifico parte dal presupposto
che l’essenza delle cose è inattingibile, o che comunque esula dalle finalità della scienza, la quale
deve invece indagare i rapporti tra le cose ed esprimerli attraverso una misurazione oggettiva e
universalmente comunicabile: per questo la matematica diventa uno strumento indispensabile per
quantificare i fenomeni naturali come oggetti specifici della ricerca scientifica. Anziché in termini di
«cause finali», tipici della tradizione aristotelica, la nuova scienza interpreta le connessioni tra i
fenomeni come «cause efficienti» e meccaniche. Il meccanicismo naturale è la conseguenza della
quantificazione della scienza: la connessione necessaria con cui in matematica le diverse
proposizioni geometriche o le diverse operazioni aritmetiche e algebriche discendono le une dalle
altre diventa in fisica la necessità con cui la causa è connessa all’effetto. Inoltre, la connessione
causa/effetto viene sottoposta anche a verifica empirica: la sperimentazione è il secondo mezzo
metodologico fondamentale: per raggiungere una precisione sempre maggiore sono necessarie
tecniche sempre più raffinate.

La rivoluzione astronomica: Copernico (1437-1543).


I rapporti tra matematica e astronomia sono sempre stati molto stretti. Tra Cinquecento e Seicento
la «rivoluzione astronomica» si attua attraverso due elementi: l’applicazione di leggi matematiche
allo studio degli astri e il progressivo abbandono di alcune ipotesi teoriche intoccabili. A Copernico
spetta il merito di aver rimosso quella del geocentrismo, mutuata dal sistema di Claudio Tolomeo (II
d.C.): egli aveva rappresentato l’universo come un sistema finito, limitato dal cielo delle stelle fisse
e avente come centro la Terra, considerata immobile e attorno alla quale i pianeti ruotano in orbite
circolari con moti precisamente determinati.
La variazione più importante compiuta da Copernico è l’eliocentrismo: al centro dell’universo vi è il
Sole, attorno al quale gravita la Terra – la quale ruota anche su sé stessa. La ragione per cui Co-
pernico adotta questa ipotesi è metodologica: essa è molto più semplice ed elimina alcune difficoltà
teoriche. La prospettiva di Copernico è semplificare il sistema tolemaico, non sostituirlo; infatti, egli
conferma alcuni aspetti della tradizione astronomica aristotelica: concepisce ancora l’universo come
finito e chiuso nella sfera delle stelle fisse; continua a pensare che i movimenti dei corpi celesti siano
circolari (moto perfetto) e costanti nella velocità. La collocazione del Sole al centro dell’universo
viene mutuata dalla filosofia neoplatonica: il Sole emana la luce, dunque è l’immagine sensibile della
divinità da cui emana il reale. La conseguenza filosofica maggiore dell’abbandono del geocentrismo,
però, riguarda l’abbandono parallelo dell’antropocentrismo, come dimostra Giordano Bruno con la
teoria dell’infinitezza dell’universo.
Tycho Brahe (1546-1601) → Brahe propone una soluzione intermedia tra il sistema tolemaico e
quello copernicano: per lui, infatti, la Terra rimane al centro dell’universo, e attorno a essa ruotano il
Sole, la Luna e il cielo delle stelle fisse. Attorno al Sole, invece, girano i cinque pianeti → sempli-
ficazione matematica e geocentrismo. Brahe dimostra anche che l’orbita di una cometa è ellittica,
mettendo in crisi la concezione aristotelica del moto celeste come moto circolare perfetto.
Keplero (1571-1630) → la connessione tra matematica e astronomia diventa molto più stretta: la
matematica non fornisce più solo uno schema geometrico per la costruzione del sistema astrono-
mico, ma anche gli strumenti per definire le leggi che regolano i moti celesti. Keplero tentò di ricon-
durre a unità il sistema solare tramite la matematica. Il tentativo si tradusse nella formulazione di
leggi matematico-astronomiche relative ai rapporti tra i pianeti, le loro distanze e le loro velocità:
1. «Le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei due fuochi» → viene confer-
mata l’ipotesi di Brahe delle orbite ellittiche. La dottrina aristotelica della circolarità dei moti
celesti subisce un altro colpo, anche se continua a sopravvivere.
2. Quando il pianeta è più vicino al sole procede più velocemente e viceversa. Questa tesi
liquida quella della velocità uniforme dei pianeti.
Nonostante questo, l’obiettivo di Keplero è lo stesso di Aristotele, cioè il riconoscimento della perfetta
regolarità dei moti celesti: semplicemente, questa assume ora forme diverse.
3. Si definisce il rapporto tra il tempo impiegato da un pianeta per compiere l’intero giro attorno
al Sole e la sua distanza da esso.
Ancora una volta si conferma che nell’universo vige un ordine matematico, e in esso si riflette la
perfezione del suo divino creatore.

Galileo Galilei (1564-1642).


In base alle innovazioni introdotte da Galileo viene ulteriormente ridimensionata l’influenza del pen-
siero aristotelico sulla filosofia moderna e, contemporaneamente, viene definito un nuovo rapporto
tra filosofia e scienza e tra filosofia e religione.
Vita e opere → nato a Pisa, dove studia matematica. Dopo una prima esperienza come insegnante
a Pisa e una quasi ventennale a Padova, nel 1610 – stesso anno in cui, dopo aver modificato il
cannocchiale, fece le sue scoperte astronomiche, diventando famoso in tutto il mondo – viene
chiamato a Pisa con la nomina di «matematico e filosofo primario» del granduca di Toscana e
«matematico primario» dello Studio pisano senza obbligo di insegnamento: l’elevato stipendio e la
libertà da ogni impegno didattico gli consentono di concentrarsi esclusivamente sulla ricerca. Tra
1612 e 1616 escono tre opere importanti in cui cerca di dimostrare la teoria copernicana dell’elio-
centrismo: viene denunciato al Sant’Uffizio e, per difendersi, scrive una lettera a Cristina di Lorena,
in cui sostiene che la Bibbia si occupa non di problemi scientifici, ma di questioni morali e religiose.
Nel 1616 la teoria copernicana viene condannata e Galileo viene ammonito di non difenderla più.
L’ascesa al soglio pontificio di Urbano VIII lo induce a scrivere il Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo, tolemaico e copernicano (1632). Anche se presenta la dottrina copernicana come
semplice ipotesi matematica, il tentativo fallisce: viene denunciato nuovamente all’Inquisizione e
costretto all’abiura, alla quale si accompagnano gli arresti domiciliari.
Scienza e Scrittura → da quando venne condannata l’ipotesi copernicana – poiché in contraddizione
con alcuni passi della Bibbia – Galileo si impegnò nella difesa dell’autonomia della ricerca scientifica
dalla teologia e dall’autorità scritturale. I suoi interventi sono contenuti in una serie di lettere
teologiche. La difesa di Galileo si fonda su due elementi: natura e scrittura hanno una comune origine
divina → nella natura si ritrova la legge che Dio ha impresso nel mondo, mentre nella Scrittura si
ascolta l’insegnamento che egli impartisce agli uomini. Ma la manifestazione divina assume finalità
e forme espressive diverse nelle due: la Bibbia ha il fine etico-pratico di istruire gli uomini su come
comportarsi per conseguire la salvezza eterna e si esprime con il linguaggio degli uomini – ai quali
è destinato il suo messaggio etico. Il linguaggio della natura può invece essere decifrato dagli
scienziati soltanto con procedure sperimentali e dimostrazioni matematiche. Se l’atteggiamento di
Galileo verso l’autorità scritturale è conciliante, il suo rifiuto dell’autorità aristotelica è invece radicale:
l’eliminazione dei fondamenti aristotelici della concezione medievale della natura e dell’universo
permea tutta la sua attività; questo intento viene attuato non sul piano della speculazione filosofica,
ma sul terreno concreto della ricerca scientifica.
La matematica → il matematismo di Galileo è fondato sull’assoluta fiducia nella validità oggettiva
della matematica e nella sua indispensabilità per la descrizione e la spiegazione della natura: essa
è comparabile a un «libro scritto in lingua matematica». Per Galileo la realtà naturale è stratificata
su due livelli:
 Esperienza – aspetto più superficiale – per come si presenta alla sensibilità soggettiva →
irriducibile a un’interpretazione scientifica
 Struttura riconducibile a rapporti matematici precisamente misurabili e calcolabili – livello più
profondo.
La struttura più profonda può tradursi in conoscenza assoluta se la scienza della natura diventa
matematica: l’intelletto umano, infatti, quando conosce matematicamente è uguale a quello divino –
benché intensivo e non estensivo – e la conoscenza umana è uguale a quella divina su singole
proposizioni che sono anche alla portata dell’uomo. La struttura matematica dell’universo esprime
una realtà assoluta e una verità necessaria, da cui dipende anche Dio → completa autonomia della
scienza da ogni autorità umana o rivelata e dalla dipendenza dalla teologia.
Conseguenza del matematismo è la rigorosa distinzione tra qualità oggettive riconducibili a rapporti
matematici e qualità soggettive che dipendono solo dalla percezione soggettiva dell’uomo. La
scienza della natura, per avere validità necessaria, deve occuparsi solo delle qualità oggettive: si
realizza così una cesura con la scienza naturale aristotelica – che considerava le qualità sensibili
come manifestazioni della forma sostanziale delle cose – ed esclude come non scientifica un’analisi
qualitativa. Galileo sostiene che la realtà naturale deve essere considerata in termini di quantità
misurabili – dunque un’analisi quantitativa – perché non è possibile conoscere l’«essenza vera e
intrinseca delle sostanze naturali», e che ci si deve limitare a cercare alcune «affezioni» della so-
stanza: la considerazione finalistica della natura si deve sostituire con una connessione dei fenomeni
di tipo causale-meccanico.
Il metodo sperimentale → i rapporti matematici, quando non sono considerati nella loro astratta pu-
rezza, possono essere scoperti solo mediante l’esperienza. Per condurre a risultati apprezzabili,
essa deve essere guidata da un preciso metodo sperimentale: prima la formulazione di un’ipotesi
relativa a una certa connessione causa-effetto, poi l’esperimento, che consiste nel provocare artifi-
cialmente l’azione della causa supposta nell’ipotesi. L’esperimento ha la funzione di riprodurre i
procedimenti naturali in condizione di migliore osservabilità, isolando il nesso causale oggetto di
indagine da tutte le connessioni che non interessano e riducendo al minimo i fattori di disturbo che
limitano la verificabilità dell’ipotesi.
La fisica → Galileo rifiuta la rigorosa distinzione aristotelica tra fisica e matematica, fondata sul di-
vieto di «passare da un genere all’altro». Tra le maggiori conquiste scientifiche vanno ricordate le
prime due leggi della dinamica:
1. La «legge di inerzia» → una sfera che ruota su un piano orizzontale tende a conservare un
moto uniforme e una velocità costante per un tempo inversamente proporzionale alla resi-
stenza che trova. Potenzialmente, eliminando qualsiasi resistenza, la sfera potrebbe muo-
versi indefinitamente. Ciò è l’opposto della dottrina aristotelica che prevedeva come stato
naturale dei corpi la quiete e il movimento come una situazione provvisoria.
2. La «legge di caduta dei gravi» → la tradizione aristotelica insegnava che la velocità di caduta
è direttamente proporzionale alla massa di un corpo. Galileo e altri scienziati avevano però
osservato empiricamente che ciò non era vero: egli suppose allora che la velocità di caduta
fosse proporzionale allo spazio percorso (poi lo sostituì con il tempo).
L’astronomia → con i suoi strumenti di osservazione (cannocchiale e telescopio), Galileo eliminò
alcuni presupposti della concezione aristotelico-scolastica dell’universo e sostituì all’elucubrazione
filosofica la «certezza che è data dagli occhi»:
 Scoperta delle macchie solari e dell’irregolarità della superficie della Luna → cade la tesi
aristotelica della differenza di natura tra sostanze terrestri, soggette al cambiamento e cor-
ruttibili, e quella celeste, perfettamente omogenea e inalterabile.
 Scoperta dei quattro satelliti di Giove → non solo la Terra può averne.
 La Via Lattea è composta da una moltitudine di stelle che appaiono indistinte perché sono
molto più lontane di quelle individuabili singolarmente → il cielo delle stelle fisse non è l’ultima
sfera che completa e racchiude l’universo.
Il significato di queste scoperte è mostrare il carattere unitario dell’universo e l’impossibilità di con-
trapporre la fisica terrestre all’astronomia celeste. Ma la negazione di una diversità della Terra ri-
spetto al resto dell’universo indebolisce il sentimento geocentrico e l’antropocentrismo.
Galileo crede, inoltre, che la costituzione dell’universo attenda solo di essere dimostrata scientifica-
mente e pensa di poterlo fare tramite una teoria delle maree: le maree sarebbero prodotte dall’effetto
congiunto dei due movimenti della Terra (rotazione e rivoluzione), dimostrando così la verità
dell’ipotesi copernicana. In realtà, la corretta spiegazione delle maree – effetto dell’attrazione della
Luna – era già stata data da Keplero.

Francis Bacone (1561-1626) → Londra.


Bacone può essere inserito nella «rivoluzione scientifica» anche se nel suo metodo non si ritrovano
le moderne procedure scientifiche: esso condivide con quello galileiano la combinazione di
esperienza e ragionamento, ma è privo del riferimento alla matematica e all’analisi quantitativa dei
fenomeni – una delle condizioni imprescindibili della scienza moderna – anzi, egli è legato all’analisi
formale e qualitativa dei fenomeni tipica della tradizione aristotelico-scolastica che, peraltro,
combatte ferocemente. La contiguità di Bacone con la nuova temperie culturale è piuttosto rappre-
sentata dalla consapevolezza del valore e delle possibilità della scienza proiettata sull’attività pratica,
cioè della tecnica: egli è stato, più che altro, messo in relazione con la rivoluzione industriale. La sua
opera più importante è il Novum Organum (1620): l’intenzione è quella di essere una «nuova logica»
che si oppone all’Organon aristotelico. L’opera è redatta in forma di aforismi, che dovevano preludere
forse a un ampliamento successivo.
Critica della tradizione e nuova concezione della scienza → Bcone ha una concezione evolutiva del
sapere: l’antichità rappresenta l’infanzia, mentre la maturità viene conseguita con l’età moderna.
Anche per questa sua prospettiva, Bacone sarà uno degli autori cui gli illuministi guarderanno con
maggiore simpatia.
Bacone accusa la filosofia precedente – che identifica con la tradizione aristotelico-scolastica – di
astrattezza e inconcludenza, in cui non si riesce a trovare un’unione tra pensiero e realtà e che
dunque non ha finalità oltre l’esercizio verbale. La sua aspirazione è invece un grande rinnovamento
della scienza che non si esaurisca nella dimensione teoretica, ma che consenta di realizzare il
dominio dell’uomo sulla natura. Ciò è però possibile solo conoscendone le leggi, perché «sapere è
potere». Una simile concezione della scienza comportava la rivalutazione della tecnica, intesa ora
come strumento di azione sulla natura – non come forma di imitazione della natura (tradizione
classica) – e che abbia consapevolezza teorica delle connessioni oggettive tra cause ed effetti.
Il metodo → per Bacone il metodo deduttivo della tradizione aristotelica è inadeguato perché le
conclusioni a cui perviene si limitano a esplicitare ciò che è già contenuto nelle premesse. Per an-
corare il sapere alla realtà sensibile, Aristotele aveva affiancato al sillogismo il procedimento indut-
tivo, che però si limitava a passare dai casi particolari alla loro generalizzazione, saltando gli assiomi
medi. All’induzione aristotelica Bacone contrappone un nuovo metodo induttivo che dal particolare
trae gli assiomi risalendo per gradi la scala delle generalizzazioni, fino a pervenire agli assiomi
generalissimi: gli assiomi medi sono quindi generalizzazioni relative che riconducono a unità molte-
plici casi particolari, senza tuttavia risalire a principi generalissimi, perché questi, anche se ricavati
induttivamente, sono sempre distanti dalla realtà sensibile. Il metodo induttivo di Bacone si compone
di due parti:
Pars destruens → parte critica che elimina i pregiudizi (idola) che ostacolano la corretta conduzione
della ricerca. Essi sono di quattro tipo:
 Idola tribus → appartengono alla tribù umana (es. la fallibilità dei sensi).
 Idola specus → carattere individuale e dipendono da cari fattori (ambiente, cultura).
 Idola fori → prodotti dal linguaggio umano: esiste sempre una discrepanza tra parole e si-
gnificati ad esse attribuiti.
 Idola theatri → pregiudizi indotti dalle diverse scuole filosofiche.
Pars costruens → parte costruttiva che deve determinare le cause dei fenomeni. Lo strumento per
farlo non consiste nella misurazione matematica, bensì nella definizione della «forma» delle cose,
intesa come «natura naturante». Bacone resta legato all’analisi qualitativa della realtà, uno dei
caratteri essenziali della tradizione classica.
La ricerca della forma dei fenomeni avviene attraverso la compilazione delle «tavole»: tabule pre-
sentiae, dove si scrive la presenza del fenomeno di cui si ricerca la causa; tabule abesntiae in pro-
ximitate e tabule graduum, dove si registrano i casi in cui il fenomeno aumenta o diminuisce per
gradi. Attraverso la loro compilazione si può formulare una prima ipotesi che deve essere verificata
empiricamente con un esperimento.
Il programma enciclopedico e l’utopia scientifica → nel De dignitate et augmentis scientiarum (1623),
Bacone riprese il progetto di un’enciclopedia del sapere – punto di partenza dell’Enciclopedia di
Diderot e Alembert. Il criterio organizzativo di Bacone si fonda sull’idea che il sapere umano è
articolato in base alle tre facoltà fondamentali dell’uomo:
 Memoria → corrisponde la storia.
 Immaginazione → fondamento della poesia.
 Ragione → da cui dipende la filosofia, a sua volta distinta in teologia, scienza della natura e
scienza dell’uomo.
In Nuova Atlantide, opera postuma, Bacone delinea una società utopica nella quale gli scienziati
detengono il potere politico e assieme promuovono il bene dei cittadini e il miglioramento dell’esi-
stenza umana in generale. Gli scienziati di diversa formazione lavorano in piena collaborazione. La
Casa di Salomone baconiana rispecchia l’istituzione dell’Accademia delle scienze, che si avviava a
diventare, in tutti i paesi europei, il centro della vita culturale e scientifica. L’opera di Bacone costituirà
infatti un prezioso modello per i promotori della fondazione della Royal Society a Londra (1662).
CARTESIO

La biografia di Cartesio influisce molto sul suo pensiero filosofico. Nato nel 1596 a Le Havre, fre-
quentò il collegio di gesuiti di La Flèche, dove ricevette un’educazione umanistica, e in seguito studiò
diritto all’università di Poitiers. Subito espresse dubbi sul sapere così acquisito, in particolare del
carattere soggettivo delle opinioni professate dai filosofi e, di conseguenza, dell’impossibilità di
trovare un fondamento oggettivamente unitario delle diverse scienze – derivando esse dai principi
della filosofia. Si arruolò nell’esercito e iniziò a viaggiare per l’Europa alla ricerca di punti fissi, ma
anzi dovette constatare la relatività dei costumi esercitati dalle diverse nazioni. Decise allora di stu-
diare sé stesso: il risultato è la stesura de Il mondo, opera nella quale esponeva le sue teorie sulla
natura e sulle leggi della realtà fisica, compresa quella umana. La condanna di Galileo, però, lo
convinse a pubblicare solo alcuni saggi, preceduti dal Discorso sul metodo (1637) come introduzio-
ne. Molti dei temi trattati nel Discorso ritornano nelle Meditazioni metafisiche (1641), pubblicate as-
sieme alle Obiezioni e alle Risposte. Il pensiero cartesiano viene esposto sistematicamente nei
Principi di filosofia (1644), che però non toccano la trattazione della realtà umana, compito affidato
a Le passioni dell’anima (1649), un trattato di etica che, partendo dall’analisi della natura del corpo
umano e delle sue funzioni, costituisce contemporaneamente un breve compendio di fisiologia
umana.
La ragione → Cartesio è il principale esponente del razionalismo moderno: la ragione è considerata
il punto di partenza di ogni ricerca filosofica e di ogni sapere scientifico. Nel Discorso sul metodo la
ragione è definita come «il potere di giudicare rettamente distinguendo il vero dal falso»: essa non
è una facoltà conoscitiva specifica, ma in generale rappresenta la capacità, che ogni uomo possiede
naturalmente, di attingere conoscenze certe in maniera intuitiva (in polemica con il razionalismo di
ascendenza aristotelico-scolastica, fondato sui sillogismi). Questa idea della ragione incide sulla
forma espositiva delle opere di Cartesio – dialogo con la propria ragione o trattati – perché il colloquio
instaurato con la propria ragione, infallibile se correttamente usata, porta sempre a un esito univoco
e definitivo, che è possibile esporre in un trattato.
La ragione è unica, eguale in tutti gli uomini – influenza degli stoici: tutti gli uomini partecipano del
Logos universale attraverso la ragione – e rappresenta una facoltà specificamente umana che trova
in Dio solo il garante della propria validità. Dall’unità della ragione consegue l’unità del sapere: le
diverse scienze traggono i loro principi da alcune verità fondamentali che la ragione ritrova intui-
tivamente in sé stessa. La ragione riflette dunque sulle scienze la propria unità, di cui la filosofia si
configura come fondamentale, come coordinatrice di tutte le altre discipline. Dall’unità della ragione
consegue l’unità del metodo: per Cartesio si tratta di individuare un metodo che, valido per tutte le
scienze, fornisca il principio formale di ogni conoscenza possibile.
Il metodo → Discorso sul metodo → quattro regole:
1. Evidenza → accogliere come vero ciò che è «chiaro e distinto»: «Chiaro» è ciò che è «ma-
nifesto a uno spirito attento», mentre «distinto» è ciò che è «talmente preciso e differente da
tutto il resto da comprendere in sé solo ciò che appare manifestamente».
2. Analisi → divisione dei problemi nei loro elementi più semplici.
3. Sintesi → consente di risalire dagli oggetti più facilmente conoscibili a quelli più complessi.
4. Enumerazioni → verifica di non aver dimenticato nulla o commesso errori nei passaggi
precedenti.
La chiarezza e la distinzione definiscono la conoscenza «certa». Cartesio ne individua due fonti:
 Intuito → ha per oggetto le conoscenze immediatamente evidenti alla ragione – le «cose
semplici» – che possono essere comprese di per sé stesse, senza essere ricondotte ad altre
evidenze più immediate (estensione, figura, movimento, esistenza, dubbio).
 Deduzione → congiunzione di «cose semplici» per formare «cose composte» → passaggio
da verità immediatamente evidenti a verità costruite razionalmente che presentano un livello
di complessità sempre maggiore. La deduzione differisce dall’intuito perché procede di-
scorsivamente attraverso passaggi intermedi.
La combinazione di intuito (analisi) e deduzione (sintesi) permette di organizzare le conoscenze
secondo un ordine esteso quanto è esteso il sapere stesso dell’uomo: → senso proprio in cui il
metodo di Cartesio obbedisce a un modello matematico. La matematica, per Cartesio, è mathesis
universalis, cioè la «scienza dell’ordine e della misura». La scienza appare come un tutto ordinato,
in cui ciascun elemento è connesso a tutti gli altri da rapporti precisi: la corretta comprensione di
queste relazioni è essenziale per averne un’idea chiara e distinta.
Dal dubbio al «cogito ergo sum» → come si può giungere alla certezza dell’evidenza? Bisogna tra-
sformare il dubbio stesso in uno strumento metodologico per verificare se, malgrado esso venga
applicato a tutto, resti qualcosa che vi si sottrae, e che potrà così essere considerato evidente.
1. Dubitare della testimonianza dei sensi → talvolta i sensi ci ingannano.
2. Dubitare della nostra esistenza corporea e di tutta la realtà esterna → potrebbero essere il
risultato di un’illusione analoga a quelle che subiamo nei sogni.
3. Dubitare delle certezze matematiche → Dio può ingannarmi – o permettere che io stesso mi
inganni – oppure che esista un genio maligno che impieghi tutta la sua onnipotenza per
ingannarmi.
Solo una cosa si sottrarrà sempre al dubitare: il fatto stesso di dubitare. Se è evidente che io
dubito, è altrettanto evidente che io penso – anche se sono fantasticherie o errori – e quindi esisto
come sostanza pensante → «cogito ergo sum». L’obiezione principale, che già i contemporanei
mossero, a Cartesio è che si fosse servito di una premessa maggiore, presupposta e non soggetta
a dubbio: «tutto ciò che pensa esiste», «io penso» «quindi sono». Il cogito non sarebbe dunque la
conoscenza «prima e certissima» su cui tutto si deve fondare; inoltre, egli avrebbe così introdotto
quella logica sillogistica che rifiutava. Cartesio rispose precisando che il cogito non è un ragiona-
mento discorsivo, ma un’intuizione immediata: pensare ed essere non sono due momenti distinti di
una successione logica, ma due aspetti di un’unica evidenza.
Il pensiero per Cartesio è «tutto quel che accade in noi in tal modo che noi lo percepiamo immedia-
tamente per noi stessi. Ecco perché non solo intendere, volere, immaginare ma anche sentire è lo
stesso che pensare». La sostanza pensante ha una valenza insieme teoretica e pratica: essa
esprime i modi in cui si formano le rappresentazioni attraverso l’intelletto (concepire, immaginare,
sentire sensorialmente) e i modi in cui il soggetto opera per mezzo della volontà (desiderare, provare
avversione, affermare, negare).
Dall’esistenza del soggetto all’esistenza di Dio → il soggetto è certo anche delle proprie idee in
quanto oggetto immediato del pensiero stesso: Cartesio esclude ogni forma di platonismo che rico-
nosca alle idee una realtà autonoma e indipendente dal soggetto. Rimane invece dubbia sia l’esi-
stenza corporea del soggetto, dia quella della realtà esterna in generale: l’unico modo per garantire
l’esistenza di qualcosa al di fuori del soggetto è individuare un’idea che rimandi immediatamente a
una realtà esterna. Cartesio distingue tre tipi di idee:
1. Idee «innate» → verità conseguibili per il solo esercizio del pensiero.
2. Idee «avventizie» → idee che sembrano provenirci dall’esterno → oggetto di dubbio.
3. Idee «fattizie» → idee costruite o inventate dal soggetto stesso → create da noi.
Il necessario rimando a un’esistenza esterna è implicito solo in un’idea innata → Dio.
Dimostrazione dell’esistenza di Dio:
1. Perfezione → in base al principio che la causa deve essere uguale o maggiore all’effetto
prodotto, l’idea di Dio come perfezione non può essere prodotta né dall’uomo (imperfetto già
solo perché dubita) né dalle cose esterne (imperfette poiché si può dubitare della loro
esistenza). L’idea della perfezione divina deve quindi provenire necessariamente da un Es-
sere perfetto che esiste realmente.
2. L’uomo è consapevole di essere imperfetto → io non sono causa della mia esistenza perché,
se fossi stato in grado di dare a me stesso l’essere, mi sarei dato anche quelle perfezioni –
infinità, onnipotenza, onniscienza – di cui ho l’idea.
Alla prima e alla seconda dimostrazione si potrebbe obiettare che il soggetto, pur non essendo
perfetto, è in grado di pensare la perfezione come idea di ciò che gli manca, senza che ciò comporti
l’esistenza reale di un essere perfetto che lo abbia prodotto → terza dimostrazione: per Cartesio è
impossibile perché si presupporrebbe una perfezione priva dell’attributo dell’esistenza, cioè una
perfezione non perfetta.
Dalla perfezione di Dio è possibile dedurre anche i suoi attributi:
 Spirito → il corpo esteso, essendo divisibile in parti, è imperfetto.
 Pura intelligenza → la dipendenza dai sensi è un limite.
 Volontà esclusivamente buona → il male è assenza di perfezione.
Cade così l’ipotesi del genio maligno, e Cartesio può recuperare uno ad uno i punti che aveva sot-
toposto a dubbio, dalla matematica alla testimonianza dei sensi → il Dio cartesiano è garante della
verità conosciuta dal soggetto: l’intelletto umano è di per sé infallibile e l’errore è imputabile alla
volontà, e il fatto di prendere per vero il falso presuppone sempre un atto di precipitazione, con cui
la volontà prevarica l’intelletto impedendogli una corretta applicazione del metodo.
Dualismo metafisico → la sostanza è definita come «una cosa che esiste senza aver bisogno di
altro per esistere»: si può quindi intendere, per sostanza, ciò che per esistere non ha bisogno di altro
che di Dio. In questo senso, se ne distinguono due tipi: «sostanza pensante», priva di estensione e
indivisibile, e «sostanza estesa» e divisibile. Esse sono autonome perché i loro attributi fondamentali
sono conosciuti distintamente dall’intelletto: ciò comporta il riconoscimento dell’autonomia della
materia corporea dalla sostanza spirituale (opposizione alla tradizione aristotelica che vedeva nel
corpo esclusivamente un organo dell’anima). Ciò ha contribuito alla nascita di una scienza del corpo
umano e della natura fisica indipendenti dalla metafisica tradizionale, in particolare ha promosso la
diffusione di una considerazione meccanico-causale della natura.
Il mondo fisico → alla «sostanza estesa» Cartesio riconosce due tipi di qualità:
 Oggettive → grandezza, figura, movimento, quiete, durata. Esse sono riconducibili
all’estensione nello spazio.
 Percepite soggettivamente dai sensi umani → colore, odore, sapore, suono.
La materia per Cartesio è unica e non esistono spazi vuoti al suo interno: tutte le parti della sostanza
estesa sono a contatto reciproco e interagiscono tra loro. Ogni fenomeno naturale è quindi spiegato
facendo ricorso a un rigido meccanicismo. In questo quadro, l’azione di Dio è limitata a due tipi di
interventi:
 L’iniziale creazione della sostanza estesa e la comunicazione a essa del movimento.
 La «provvidenza ordinaria» con cui conserva la materia e mantiene costante la quantità di
moto in essa impresso. Ogni intervento straordinario di Dio è escluso: viene garantita l’inva-
riabilità delle tre leggi fisiche che presiedono alla ridistribuzione del movimento all’interno
della materia: inerzia; conservazione del movimento; moto rettilineo.
In termini puramente meccanicistico-causali, Cartesio delinea la formazione dell’universo dal caos
primitivo: le particelle in cui si divide la materia primigenia ruotano sia attorno a sé stesse sia le une
attorno alle altre, in modo da formare «vortici» che determinano la progressiva differenziazione della
materia attorno a diversi punti.
Il corpo umano → essendo unitaria la materia che compone anche il corpo umano, il
meccanicismo varrà anche per esso: il corpo umano è paragonabile a un automa e il cui centro
propulsore è il cuore. L’effetto del calore del cuore è la circolazione e la rarefazione del sangue:
solo le parti più vive e sottili del sangue rarefatto riescono a penetrare nei fori di accesso al
cervello → «spiriti animali» con natura corporea: ad essi sono dovute le affezioni passive
dell’anima, cioè della sostanza pensante. Tra le funzioni della sostanza pensante, Cartesio
distingue le «azioni» (atti di volontà che dipendono dall’anima stessa) e le «passioni» (percezioni
che l’anima riceve dai sensi o dall’interno del corpo o, in senso stretto, vere e proprie emozioni).
Rapporto tra anima e corpo → punto problematico del pensiero di Cartesio: se res cogitans e res
extensa sono due sostanze indipendenti ed eterogenee, come possono influire l’una sull’altra? Al
centro del cervello c’è la ghiandola pineale, per Cartesio sede dell’anima poiché è la sola
componente cerebrale non divisa in due parti specularmente simmetriche. Gli spiriti che
provengono dagli organi sensoriali o dalle altre parti del corpo giungono attraverso i nervi alla
ghiandola pineale, e il movimento che essi producono provoca la fuoriuscita di altri spiriti dalla
ghiandola che, attraverso nuovi nervi, mettono in moto determinate parti del corpo senza
l’intervento della volontà. Ma la ghiandola pineale può anche essere mossa direttamente dalla
volontà (espressione della res cogitans). Rimane inspiegato come l’anima possa produrre il
movimento fisico della ghiandola, ovvero come la sostanza pensante possa influenzare la
sostanza estesa e il modo in cui la sostanza inestesa possa a sua volta essere influenzata
causalmente da una pressione materiale.
CARTESIANESIMO E GIANSENISMO

La rilevanza storica del pensiero cartesiano dev’essere ricercata soprattutto nelle reazioni che ha
suscitato e nelle correzioni cui è andato incontro:
 Concezione della ragione → la pretesa di cogliere intuitivamente la verità e la definizione
dell’evidenza in termini di chiarezza e distinzione, cioè non fondata su criteri formalizzabili e
oggettivamente comunicabili, attirarono su Cartesio l’accusa di dogmatismo → si sviluppò
la tradizione scettica, che all’evidenza oppose il valore dell’esperienza.
 Dualismo metafisico → l’affermazione di autonomia della res extensa favorì lo sviluppo delle
ricerche naturalistiche, mentre a parite da quella della res cogitans si ridefinì lo spiritualismo
agostiniano: il fondamento metafisico-teologico (interpretato in chiave spiritualista-religiosa)
venne utilizzato dagli occasionalisti per spiegare il rapporto tra sostanze, mentre altri autori
lo utilizzarono per conferire allo spirito una sorta di primato assiologico rispetto alla materia
stessa.
Pierre Gassendi (1592-1655): critica a Cartesio e restaurazione dell’epicureismo.
Sacerdote, scienziato e filosofo, è autore delle Quinte obiezioni, nelle quali critica il «metodo».
 Adozione del concetto di evidenza → non c’è un criterio oggettivo per stabilire chiarezza e
distinzione di un’idea, dunque potrebbe essere frutto di un’illusione. In particolare, non è
evidente l’idea di Dio.
 Critica della separazione corpo/anima → per Gassendi l’anima è solo un corpo più sottile,
ma ontologicamente non diverso dalla materia estesa: non sono due sostanze distinte.
 Concetto di sostanza → anche se esistesse una sostanza soggiacente agli atti di pensiero o
ai corpi estesi percepiti con l’esperienza, essa sarebbe del tutto inconoscibile per l’uomo. La
fiducia nelle sue capacità esplicative è, per Gassendi, un’indebita concessione a un sapere
metafisico che ripropone i presupposti dogmatici della tradizione aristotelica.
Al razionalismo aristotelico Gassendi oppone l’osservazione empirica e la descrizione della realtà
naturale. L’uomo può conoscere soltanto di ciò che fa egli stesso (manufatti) o ciò che può scom-
porre e ricostruire mentalmente, cogliendone la costituzione interna (realtà naturale): egli può co-
noscere solo i fenomeni, mentre le sostanze sono conoscibili solo da Dio, in quanto loro creatore.
Gassendi si avvicina poi all’epicureismo, nel tentativo di ritrovare il fondamento teoretico dei nuovi
indirizzi scientifici: gli atomi consentono di spiegare la permanenza della materia, i continui muta-
menti dei fenomeni fisici e il processo conoscitivo – alcuni atomi si staccano dall’oggetto conosciuto
per colpire i sensi. Ma quello di Gassendi è un epicureismo reso compatibile al cristianesimo: egli
sostiene che gli atomi sono creati da Dio, e che quindi da lui possono essere annientati; inoltre,
l’atomismo non esclude il carattere finalistico della natura – voluto da Dio – e che, in base a tale
ordine, si può risalire dall’esistenza del mondo a quella di Dio. Infine, egli afferma che gli uomini
posseggono, accanto all’anima sensitiva, anche un’anima razionale immortale.

Occasionalismo: critica al rapporto tra anima e corpo.


Uno dei punti più deboli della filosofia di Cartesio è il rapporto tra anima e corpo: anche all’interno
della scuola cartesiana ci fu un tentativo di dare un’interpretazione diversa a questo rapporto.
Arnold Geulincx (1624-1669) nega che esista un reale rapporto causale tra anima e corpo: l’atto di
volontà che accompagna il movimento del corpo non è la sua causa, ma solo l’occasione di questo
movimento, mentre il mutamento del corpo è solo l’occasione della corrispondente sensazione
nell’anima. La vera causa è Dio stesso, che muove il corpo o produce la sensazione in occasione
del verificarsi del relativo atto di volontà o del relativo moto del corpo.
Nicolas Malebranche (1638-1715) accoglie il principio cartesiano di evidenza e difende le esigenze
di un razionalismo rigoroso. La ragione riveste un carattere necessario, che vale anche per Dio, il
quale si identifica con la ragione stessa. L’ordine del mondo non è espressione di una volontà ar-
bitraria della divinità, ma rispecchia la struttura della ragione universale e infinita. Malbranche critica
però la dottrina del rapporto tra le due sostanze: egli sostiene che, sbagliando, siamo soliti con-
giungere causalmente due cose perché le vediamo sempre insieme. Ad esempio quando vediamo
due palle da biliardo che si scontrano, pensiamo che una sia la causa del movimento dell’altra e che
la volontà sia la causa del movimento del braccio: in realtà è Dio la causa reale del movimento della
seconda palla da biliardo così come del braccio, mentre la prima palla e la volontà sono solo «cause
occasionali». L’osservazione del movimento delle due biglie o della concomitanza tra atto di volontà
e movimento del braccio non dà l’evidenza del rapporto causale. La ragione, invece, garantisce
l’evidenza del fatto che Dio è causa di tutte le cose e di qualsiasi mutamento avvenga nel mondo:
viene così negata sia l’effetto causale della sostanza pensante su quella estesa (volontà/movimento
del braccio), sia quello interna alla sostanza estesa stessa, cioè tra corpo e corpo (palle da biliardo).
Se Dio è causa di ogni evento, egli è anche la causa delle nostre idee: noi conosciamo gli oggetti in
quanto Dio crea le idee e le comunica direttamente alla nostra mente mediante un’illuminazione
interiore. Il dubbio sulla veridicità dell’esperienza è risolto.

Antoine Arnauld (1612-1694): la logica di Port-Royal.


Arnauld è orientato a una profonda volontà di rinnovamento religioso e a una tendenza al
misticismo: egli infatti corregge il cartesianesimo con l’agostinismo, precisando che i criteri della
chiarezza e della distinzione si applicano solo alle «cose che concernono le scienze e che cadono
sotto la nostra intelligenza, e non a quelle che riguardano la fede e le azioni della nostra vita».
Esistono infatti due forme di sapere autentico:
 Intendere mediante ragioni certe (il cogitare in maniera chiara e distinta).
 Credere → ritenere vero ciò che è motivato da ragioni diverse da argomentazioni razionali.
Logica o arte di pensare o Logica di Port-Royal (1662) → trattato che prende le distanze dal
sillogismo e dalla logica terministica medievale, considerate espressione di un pensare vuoto e
formalistico. I portorealisti intendono costruire una logica metodologica che non ha più per oggetto
la struttura formale del ragionamento (Aristotele) o i termini del discorso (logici medievali), ma le
operazioni compiute dallo spirito nell’atto del pensare. La nuova metodologia logica viene riassunta
in alcune regole:
1. Accettare come evidente solo ciò che richiede minima attenzione per essere riconosciuto
come vero.
2. Provare tutte le proposizioni un po’ oscure impiegando solo definizioni già note e assiomi
già accettati o proposizioni già dimostrate.
3. Trattare le cose nel loro ordine generale, dalle più generali e semplici e spiegando tutto ciò
che appartiene alla natura del genere prima di passare alle specie particolari.

Blaise Pascal (1623-1662).


Fin da giovane viene introdotto allo studio della matematica e della fisica. In seguito alla
frequentazione dell’ambiente giansenistico di Port-Royal, nel 1654 scopre la propria vocazione
religiosa: elemento catalizzatore fu l’ambiente giansenistico di Port-Royal.
Il giansenismo è un’espressione eterodossa della riforma cattolica perché motivato dall’esigenza di
restituire al cristianesimo il carattere di spiritualità interiore e di rigore morale. Al gusto gesuitico per
le pratiche esteriori, i giansenisti oppongono l’autorità di Agostino e la severità della sua dottrina
della grazia: l’umanità è una «massa dannata» in conseguenza del peccato originale e soltanto
pochi eletti si possono salvare, in virtù di una grazia efficace che viene direttamente da Dio. Le tesi
giansenistiche, Arnauld e l’ambiente di Port-Royal, vennero condannati da Innocenzo X: a sua
difesa intervenne Pascal con le Lettere provinciali (1657).
Cuore e ragione → i lunghi studi fisico-matematici insegnarono a Pascal il valore della ragione.
Essa comunque non basta per queste discipline, poiché le sfugge la conoscenza di quei primi
principi (spazio, tempo, movimento, numeri) che sono il punto di partenza delle sue dimostrazioni
ma che non possono essere dimostrati discorsivamente: essi devono essere colti in maniera
immediata da un organo conoscitivo pre-razionale, il «cuore», cioè il sentimento, la capacità
intuitiva, l’istinto. Ragione e cuore sono complementari, ma le loro funzioni non sono
interscambiabili: «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».
 Ragione → «spirito di geometria» → capacità dei procedimenti discorsivi di dedurre la
conoscenza in maniera rigorosa da principi astratti e lontani dal comune modo di pensare
→ si applica al mondo delle scienze e della natura.
 Cuore → «spirito di finezza» → capacità di cogliere quelle verità che devono essere
afferrate tramite un’intuizione che penetra la realtà dall’interno → si applica alla realtà
umana.
La condizione dell’uomo → sul piano ontologico, l’uomo è un essere intermedio sospeso tra
l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Ciò si riflette sul piano gnoseologico: l’uomo è
incapace di conoscere sia il tutto, a causa della pochezza della sua ragione, sia l’infinitamente
piccolo, cioè la regione dell’estremamente semplice, al confine tra essere e nulla, dalla quale
scaturiscono i primi principi della realtà. A livello assiologico, infine, la natura contraddittoria
dell’uomo si riflette nella sua oscillazione tra grandezza e miseria: la grandezza dell’uomo consiste
nella sua capacità di pensare, ma è tale solo in quanto egli comprende la propria miseria, cioè è
consapevole di essere decaduto in seguito al peccato e di aver perso la sua integrità originaria.
Questo però può avvenire solo attraverso l’attività di pensare. L’uomo cerca di distogliere lo
sguardo dalla propria miseria attraverso il divertissement (divertimento, distrazione), ma la felicità
data dalla «distrazione» è falsa e apparente. L’unica vera felicità è invece quella di accettare la
propria miseria e di cercare rifugio in Dio.
«La conoscenza di Dio senza quella della nostra miseria produce l’orgoglio. La conoscenza della propria
miseria senza quella di Dio genera la disperazione. La conoscenza di Gesù Cristo dà il giusto mezzo,
poiché vi ritroviamo Dio e la nostra miseria».

Dio e la fede → Pascal critica a Cartesio di aver introdotto Dio nel suo sistema solo come creatore
della macchina-mondo, spogliandolo dei suoi attributi più specificamente religiosi. A questo «dio
dei filosofi e degli scienziati», Pascal oppone Dio personale, che parla al cuore dell’uomo e che
riscatta la miseria umana attraverso la «follia della croce». Ad esso non si può giungere attraverso
argomentazioni razionali: bisogna decidersi per o contro la fede in lui, poiché non decidere
equivale a vivere come se Dio non esistesse. Bisogna scegliere esaminando cosa si perde e cosa
si guadagna: se si scommette su Dio si può guadagnare la vita eterna, cioè tutto, e si perde una
felicità finita e transitoria, cioè nulla; viceversa si può perdere tutto e guadagnare nulla. L’ostacolo
alla fede per coloro che, pur volendo, non riescono a credere sono passioni del corpo: a questo si
può supplire educando il corpo, cioè assumendo gli atteggiamenti esteriori del fedele. Così
l’abitudine – tra i tre elementi della fede assieme a ragione e intuizione – rende più facile l’accesso
alla vita religiosa: il meccanicismo cartesiano diventa uno strumento propedeutico alla religione.

Il libertinismo.
Il movimento libertino è il principale sostenitore della critica all’ortodossia religiosa in nome
dell’autonomia della ragione dall’autorità ecclesiastica. L’espressione «libertino» viene dal latino
libertus, lo schiavo affrancato, per indicare l’emancipazione del libero pensatore da ogni servitù
intellettuale. Il movimento acquista forza in Francia nei primi decenni del Seicento come reazione
al tentativo della Riforma cattolica di restaurare una rigida ortodossia, ma le sue radici affondano
nel Rinascimento con l’affermazione della dignità e dell’autonomia intellettuale dell’uomo, la caduta
del geocentrismo, la riscoperta dell’Aristotele pagano, l’affermazione dell’infinità dell’universo.
Possiamo distinguere due fasi al suo interno:
 Libertinismo radicale (primi decenni del Seicento) → rigore della critica alla tradizione
religiosa e polemica contro l’assolutismo politico → totale repressione.
 Libertinismo erudito (metà Seicento) → la critica razionalistica, esercitata in forma privata
ed elitaria, si esprime in toni più sfumati, consentendo un paradossale sodalizio tra il
libertino – spesso ammesso negli ambienti della corte – e il potere politico.
Il libertinismo si caratterizza per la ripresa delle tradizioni filosofiche precedenti:
 Stoicismo → esigenza di una morale razionalistica autonoma rispetto alla religione e la
concezione di un mondo governato da leggi necessarie, cui l’uomo deve sottostare.
 Epicureismo → concezione materialistica e atomistica della realtà e dell’uomo, con la
negazione dell’immortalità dell’anima.
 Scetticismo → consapevolezza dei limiti della conoscenza umana e importanza alla
sospensione del giudizio.
Il punto essenziale è il rifiuto razionalistico dei dogmi dell’ortodossia cattolica, che può sfociare nel
«deismo» – dottrina che ritiene dimostrabile l’esistenza di Dio, ma che ne respinge gli attributi
dogmatici –, nel panteismo o un’esplicita professione di ateismo.
Non mancano anche nella seconda fase espressioni di libertinismo radicale, come Cyrano di
Bergerac (1619-1655): ammiratore del copernicanesimo, sostiene la pluralità dei mondi e l’infinità
dell’universo. Moderno seguace di Epicuro, egli reintroduce l’atomismo e il materialismo senza le
epurazioni cristiane di Gassendi: gli atomi sono eterni e l’anima, in quanto materiale, è mortale.
Soprattutto, Cyrano giunge a un’aperta confessione di atomismo.
THOMAS HOBBES (1588-1679)

Thomas Hobbes visse in un periodo tormentato della storia inglese dal punto di vista politico e da
quello religioso: i conflitti tra monarchia Stuart e Camera dei Comuni da un lato e tra anglicani e
presbiteriani dall’altro condussero l’Inghilterra alla guerra civile e alla dittatura repubblicana di
Cromwell. La storia dell’Inghilterra del primo Seicento è caratterizzata dal confronto tra i sostenitori
dell’assolutismo monarchico e dell’episcopalismo e i difensori di una ridistribuzione del potere che
consentisse maggiori margini di autonomia agli strati medio-bassi della borghesia e della Chiesa.
Thomas Hobbes si schierò a favore della monarchia assoluta e della Chiesa anglicana: nel suo
pensiero, l’unico modo per garantire la pace e la sicurezza civile è la concentrazione di tutto il potere
nelle mani di una sola persona. La sua formazione filosofica dipende dai lunghi soggiorni in Europa,
in particolare in Francia e in Italia: nel 1640 andò in esilio volontario dopo aver fatto circolare gli
Elementi di legislazione naturale e politica in un momento di lotta radicale tra re e Parlamento.
Durante questi viaggi conobbe Galileo, Gassendi e molti libertini. Si delineavano così alcuni aspetti
essenziali del suo pensiero: il modello matematico in filosofia, l’attenzione per il razionalismo
cartesiano (corretto dall’empirismo di Gassendi), la critica razionalistica alla religione.
A Parigi pubblica il De cive (1642), ultima parte della trilogia filosofico-politica Elementa philosophiae,
di cui facevano parte anche De corpore (1655) e De homine (1658). Prima di tornare in patria
pubblica il Leviatano (1651), la summa del suo pensiero filosofico, anche se la discussione dei
problemi politici è prevalente sull’esposizione dei temi gnoseologici ed etici.
La dottrina della conoscenza → grande influenza della cultura continentale: il meccanicismo carte-
siano si combina con un sensismo di probabile derivazione gassendiana.
Ogni conoscenza deriva dai sensi. La sensazione viene spiegata in termini di movimento corporeo:
la pressione esercitata dagli oggetti esterni sugli organi di senso arriva, attraverso i nervi, al cervello,
cui l’apparato percettivo dell’uomo reagisce con un contro-movimento che si conclude nella pro-
duzione dell’immagine o «fantasma» dell’oggetto. Poiché la reazione degli organi sensoriali è un
movimento proiettivo verso l’esterno, il soggetto crede che le immagini esistano esternamente al
corpo, ma in realtà il contenuto della sensazione è pura apparenza. Ciò che appare come colore o
suono è solo il movimento meccanico di un corpo su un altro corpo → presupposto gnoseologico di
tipo fenomenistico. Dal movimento meccanico nasce anche il pensiero: idee, concetti e pensieri sono
il risultato di immagini sensoriali sedimentate nella memoria. Oltre alle immagini delle singole
sensazioni, nella memoria rimangono anche le connessioni tra una sensazione e l’altra: l’attività del
pensiero è la ricostruzione di queste connessioni. Pensare è cercare i nessi causali tra «fantasmi»:
così cerchiamo di connettere il fantasma della pioggia (che deriva da una percezione sensoriale
attuale) con quelli delle cause (nubi) o degli effetti (bagnarsi) sedimentati nella mia memoria.
Il linguaggio → La connessione delle immagini sensoriali conservate nella memoria è una forma di
conoscenza comune a umani e animali. Per passare al ragionamento discorsivo, proprio soltanto
degli uomini, occorre l’intervento del linguaggio, cioè assegnare nomi o appellativi arbitrari ai fanta-
smi: il discorso consiste nella loro connessione. I nomi svolgono una duplice funzione:
 Mnemonica → ricordare all’uomo le connessioni che ha stabilito tra le singole cose.
 Comunicativa → far comprendere agli altri le cose da noi pensate e le connessioni stabilite.
Il ragionamento discorsivo opera sui nomi, non sulle cose: esso si fonda sull’uso di termini universali
ai quali non corrisponde nessuna cosa reale. La verità o falsità del ragionamento dipende solo dai
nomi: essa dipende dalla correttezza o meno con cui dal significato attribuito a un nome si è inferita
la sua connessione con quella di un altro nome. Si può dire che quello di Hobbes sia un rigoroso
nominalismo: la scienza non descrive la realtà delle cose, ma costruisce un sistema di rapporti tra i
nomi che conserverebbe la sua validità anche se venisse improvvisamente annichilita tutta la realtà.
La filosofia di Hobbes integra empirismo e razionalismo: i presupposti gnoseologici sono sensistici,
mentre la conoscenza al suo più alto livello – la scienza – produce un’organizzazione del sapere
che, pur dipendendo sempre dall’esperienza per quanto riguarda il materiale conoscitivo, si fonda
su un sistema di rapporti logici costruito dalla ragione.
La ragione → ogni operazione della ragione si riduce a una forma di «calcolo», più precisamente di
«addizione» e «sottrazione»: stabilire un rapporto di antecedenza e conseguenza significa aggiun-
gere il secondo al primo, mentre negare il rapporto significa sottrarre il secondo al primo. Questo
calcolo viene applicato all’aritmetica, alla geometria, alla fisica e, in ambito della logica, alla conse-
guenza tra nomi. Hobbes recupera così l’apparato della logica tradizionale: la somma di due termini
è una proposizione, la somma di proposizioni è un sillogismo, la somma di sillogismi è la di-
mostrazione.
La filosofia è la conoscenza che si consegue attraverso un corretto uso del ragionamento e, poiché
esso stabilisce un rapporto causale tra antecedente e conseguente, essa sarà la scienza delle cause
generatrici. La conoscenza delle cause generatrici può essere utilizzata in una duplice direzione:
partendo dalla cosa che genera determinati effetti o proprietà, oppure risalendo gli effetti fino alla
causa generatrice. Solo i corpi, però, possono essere spiegati attraverso cause generatrici: la
filosofia è sempre e solo conoscenza di corpi e della loro generazione, e in quanto tale ha come
oggetto solo la generazione dei due tipi possibili di corpi, quelli esistenti in natura e quelli politici –
dividendosi in «filosofia naturale» e in «filosofia civile». Da essa sono escluse quindi la teologia –
Dio, anche se concepito come corporeo, è ingenerabile –, la storia naturale e quella politica, che
riguardano conoscenze fondate sull’esperienza e sull’autorità.
Da questa concezione emergono, quindi, due tipi di conoscenze:
 Conoscenza deduttiva fondata su una dimostrazione a priori → l’uomo può conseguire as-
soluta certezza solo quando produce egli stesso ciò che conosce.
 Conoscenza ipotetico-induttiva fondata su una dimostrazione a posteriori → quando l’uomo
non produce l’oggetto di conoscenza può solo ricostruire il processo generativo procedendo
ipoteticamente dagli effetti alle loro possibili cause. È questo il caso della scienza della
natura, i cui oggetti creati da Dio.
La filosofia naturale → presupposti fondamentali sono il materialismo e il meccanicismo. Tutta la
realtà è corpo, cioè tutto ciò che occupa una porzione di spazio, di cui l’estensione è una proprietà
essenziale. Al corpo è connesso il movimento, poiché ogni cambiamento che avviene nella realtà si
riduce a un moto di corpi o di parti all’interno di essi. Dai concetti di corpo e movimento dipendono
quelli di spazio e tempo: lo spazio è il luogo occupato da un corpo fuori di noi, mentre il tempo è
l’idea di successione prodotta da un corpo che si muove entro spazi progressivi.
L’uomo è parte integrante del mondo naturale, dunque i principi meccanicistici e materialistici val-
gono anche per la sua definizione.
 Attività della mente → forma di moto in alcune parti del corpo organico: essa non può essere
autonoma dalla materia estesa. Hobbes critica il passaggio cartesiano dal cogito all’esi-
stenza della res cogitans: il soggetto di un pensiero può essere solo un corpo.
 Passioni → immediata conseguenza delle sensazioni che riceviamo dal mondo esterno. I
fantasmi prodotti in noi dagli oggetti esterni possono:
a) Assecondare il movimento vitale che regola il ciclo biologico dell’uomo → proviamo «desi-
derio» o «appetito» per la cosa di cui percepiamo il fantasma → amore.
b) Costituire un impedimento per il ciclo biologico, facendoci provare «avversione» per la cosa
di cui percepiamo il fantasma → odio.
Dalle due passioni fondamentali scaturisce l’intera vita emotiva dell’uomo. Tutte le altre affezioni
dell’animo sono loro manifestazioni sotto forma di combinazioni particolari: la religione, ad esempio,
è solo il timore (avversione + idea di un danno) che si prova verso un potere invisibile.
La morale → la morale di Hobbes si fonda su un radicale relativismo etico. Ciò che desideriamo e
amiamo è «buono», ciò che avversiamo e odiamo è «cattivo»: il bene e il male non sono valori
assoluti, ma si qualificano come bene o male solo in quanto vengono desiderati o avversati dall’indi-
viduo. La morale ha un fondamento meccanicistico: l’alternanza di desiderio e avversione obbedisce
a rigide leggi meccaniche e non può essere controllata dall’uomo → la «deliberazione» è il conflitto
tra le due passioni che ci fa vedere la stessa cosa sotto aspetti diversi, insieme desiderabile e
detestabile, mentre l’atto di volontà con cui decidiamo non è che la prevalenza meccanica dell’ultima
avversione o appetito su tutti i precedenti desideri o avversioni. Il fondamento meccanicistico
conduce a un radicale determinismo → l’unica libertà è poter fare senza impedimenti esterni la
«deliberazione» determinata dall’alternanza di amore e odio.

La filosofia politica → giusnaturalismo.


Il giusnaturalismo è la dottrina secondo cui il diritto ha un fondamento naturale indipendente
dall’autorità politica con funzione legislativa. Nell’antichità e nel Medioevo la «natura» in cui si tro-
vava inscritto il diritto era l’ordine ontologico e teologico del mondo (carattere oggettivo inscritto nelle
cose stesse), mentre il giusnaturalismo moderno fonda il diritto sulla natura umana e quindi sulla
ragione, diventando diritto razionale (carattere soggettivo). Il carattere universale della ragione
permetteva di individuare diritti naturali fondamentali e inalienabili per tutti gli uomini, mentre la sua
autorità come fonte di conoscenza vera permetteva di criticare le legislazioni storicamente realizzate:
il diritto positivo che nasce dalla costituzione dello Stato e dall’esercizio della sovranità non può
entrale in contraddizione con il diritto naturale, negando i diritti fondamentali dell’uomo, perché è una
sua specificazione o integrazione.
Al giusnaturalismo moderno sono connesse le teorie dello stato di natura e del contratto sociale:
 Stato di natura → se il diritto ha un fondamento naturale, esso deve fare riferimento a uno
stato di natura (reale o ideale) che preceda la costituzione della società civile.
 Contratto sociale → poiché opposta allo stato naturale, la società civile esprime una condi-
zione artificiale e convenzionale, che deve nascere da un patto. Questo contiene in sé due
momenti: un «patto di unione», con cui gli individui stabiliscono di entrare in una società
politica, e un «patto di soggezione», con cui essi si sottomettono a un’autorità sovrana, defi-
nendo contemporaneamente la forma di governo in cui si dovrà esprimere.
 Nascita della società civile o Stato
Il passaggio al giusnaturalismo moderno viene fatto risalire a Ugo Grozio, il quale fonda il diritto
esclusivamente sulla ragione umana: ciò che è conforme alla natura razionale dell’uomo è giusto e
moralmente necessario; ciò che se ne discosta è ingiusto e riprovevole. La morale e il diritto trovano
una giustificazione razionale autonoma da tutto il resto («il diritto naturale conserverebbe la sua
validità anche se, per assurdo, Dio non esistesse»), ma non può esserci divergenza tra indicazioni
della ragione e volontà divina: ciò che è prescritto dal diritto naturale è necessario quanto le propo-
sizioni matematiche e deve quindi essere voluto anche da Dio.
Samuel Pufendorf aveva invece una concezione cartesiana della ragione che gli permise di fare del
diritto una scienza rigorosamente deduttiva, fondata su principi completamente autonomi.
Christian Thomasus distingueva tre valori fondamentali, cui corrispondono tre attività umane
 Honestum → «fa’ a te stesso ciò che vuoi che gli altri facciano a sé stessi»: ambito della
coscienza interiore → morale.
 Justum → «non fare agli altri ciò che non vuoi che gli altri facciano a te»: rapporti tra gli
individui → diritto: prevede una serie di obblighi e divieti.
 Decorum → «fa’ agli altri ciò che vuoi che altri facciano a te»: relazioni esteriori tra gli individui
→ politica: prescrive comportamenti dettati soltanto dalla convenienza.
→ I tre principi obbediscono a un’unica finalità, che è insieme la destinazione naturale dell’uomo:
quella di vivere il più lungamente e il più felicemente possibile.
Filosofia politica in Hobbes: il teorico dell’assolutismo politico.
Nello «stato di natura», la conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo, unico
bene su cui concordano tutti gli uomini, non è garantito perché non esiste alcuna autorità che freni
l’arbitrio individuale. Lo stato di natura si configura, quindi, come un permanente stato di guerra
(bellum omnia contra omnes) in cui l’uomo è indotto a ricercare il proprio vantaggio a danno di quello
degli altri per necessità (competizione per le risorse) e per natura (incline all’aggressività). L’uomo
possiede un solo «diritto naturale su tutte le cose» (ius in omnia) che lo autorizza a compiere ogni
azione e a servirsi di ogni mezzo ritenuti opportuni a raggiungere lo scopo: tale diritto si estende,
quindi, tanto quanto la propria forza. In questa situazione nessuno è certo di sopravvivere: occorre
quindi uscire dallo stato di natura obbedendo alla legge di natura fondamentale che comanda di
cercare e realizzare la pace (prima condizione di ogni sicurezza personale). Per uscire dallo stato di
natura è necessario stipulare un patto, nel quale ognuno rinuncia a gran parte del suo diritto naturale,
conservando solo il diritto alla vita e all’integrità del corpo. Il diritto naturale nella sua interezza è
conservato da una sola persona (o da un’unica assemblea), il sovrano, mentre gli altri diventano
sudditi: nasce la società politica o Stato.
Il potere del sovrano è illimitato perché beneficia del contratto senza impegnarsi in esso: il patto è
stipulato tra gli individui in favore del sovrano (non tra individui e sovrano) → pactum unionis e
pactum subjectionis coincidono: il potere sovrano è sempre assoluto (solutus ab). Inoltre, egli pos-
siede una forza irresistibile perché è l’unica persona a detenere il ius in omnia naturale ed è quindi
in grado di dominare su tutti, rendendo impossibile la guerra naturale che scaturiva dall’equivalenza
delle forze e dalla volontà di soverchiare gli altri. Alla molteplicità delle volontà individuali si so-
stituisce l’unità della volontà sovrana, che decide per tutti cosa sia «giusto» o «ingiusto». In questo
quadro, il problema della forma di governo diventa secondario perché il potere è sempre assoluto,
anche se Hobbes preferisce la monarchia perché l’unità della volontà politica coincide con l’unicità
fisica della persona che governa.
Per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa, secondo Hobbes lo Stato non può tollerare una
Chiesa che gli si contrapponga come potere autonomo, in quando l’unicità e l’indivisibilità del potere
sovrano è la condizione essenziale per garantire la pace all’interno dello Stato: la Chiesa deve fare
parte dello Stato e il sovrano esercitare la sua autorità anche sulla gerarchia ecclesiastica. Questa
è una risposta in senso assolutistico anche al movimento puritano che indeboliva la subordinazione
della Chiesa anglicana al re: l’una e l’altra tendenza al decentramento del potere si traducevano
necessariamente nel ritorno allo stato di natura e di guerra, come la guerra civile avrebbe dimostrato.
SPINOZA (1632-1677)

Baruch de Spinoza nacque ad Amsterdam da una famiglia di ebrei portoghesi. Pur avendo studiato
nella scuola ebraico-portoghese, egli entrò in conflitto con la comunità: i sospetti di eterodossia nei
suoi confronti si aggravarono fino a giungere all’aperta scomunica (1656). Spinoza divenne un libero
pensatore che agiva isolatamente, senza lasciarsi costringere dai legami delle Chiese o delle
istituzioni: infatti, piuttosto che essere condizionato nella sua libertà di ricerca, praticò sempre il suo
modesto lavoro di costruttore di lenti. Egli subì molteplici influenze culturali: la profonda sensibilità
mistica deriva dalla prima istruzione nella scuola ebraica; successivamente frequentò sia sette
cristiane, sia l’ambiente deista e quello libertino. L’influenza maggiore è però quella di Cartesio, che
Spinoza riprende nelle due uniche opere che pubblicò a suo nome: Renati De Cartes Principia
Philosophiae e i Cogitata metaphysica (1663). La sua opera fondamentale è l’Ethica ordine geo-
metrico demonstrata, che però preferì non pubblicare a causa della presa del potere del partito as-
solutista di Guglielmo d’Orange: essa verrà pubblicata dagli amici nelle Opere postume. L’unica
opera che Spinoza stampa, oltre ai due opuscoli cartesiani, è il Tractatus theologico-politicus in cui
espone le proprie convinzioni giuridico-politiche.
La filosofia come ricerca di Dio → l’intera speculazione di Spinoza può essere ricondotta a un solo
tema fondamentale: Dio. Dio è la realtà stessa, la sostanza universale rispetto a cui le singole cose
sono manifestazioni o «modi» di essere particolari. Un intelletto che conosca adeguatamente la
realtà è in grado di comprendere come tutto derivi da lui: per farlo, però, esso deve essere «emen-
dato», cioè corretto e perfezionato nel suo uso, così da abbandonare la considerazione delle cose
in termini di entità autonome connesse da legami di causalità efficiente o finale.
Tractatus de intellectus emendationae → correzione in quattro fasi corrispondenti a quattro gradi di
conoscenza (nell’Ethica saranno ridotti a tre, accorpando i primi due):
1. Immaginazione → formazione di nozioni in base a determinati segni sensibili.
2. «Esperienza vaga» → percezione empirica che fornisce conoscenze casuali.
3. Conoscenza razionale → risale dagli effetti alle cause arrestandosi ai concetti universali:
ripercorrere l’intera serie causale porterebbe a Dio.
4. Conoscenza intuitiva → «la cosa percepita mediante la sua sola essenza»: permette di ve-
dere intuitivamente la derivazione di tutte le cose dall’essenza stessa di Dio.
→ conoscenza assoluta delle cose: le cose parte di un’unica realtà universale nella quale
tutto avviene secondo un ordine che coincide con l’essenza stessa di Dio.
La forma espositiva cui ricorre Spinoza è il trattato, nel quale il sapere riceve una collocazione si-
stematica e definitiva, in particolare il trattato geometrico euclideo: il riferimento al modello mate-
matico si traduce nell’assunzione di un vero e proprio criterio procedurale ed espositivo:
 Enunciazione di definizioni, assiomi e postulati.
 Serie ordinata di proposizioni corredate da dimostrazioni → la tesi sostenuta e le sue con-
seguenze sono giustificate esclusivamente in base a quanto è già stato assodato nella trat-
tazione precedente.
Il tutto è integrato da prefazioni e appendici che completano il discorso e offrono l’occasione di uscire
dalla consequenzialità geometrica. La sola differenza dal trattato euclideo è che la geometria
spinoziana ha per oggetto l’essenza della realtà.
La sostanza → concetto da cui parte l’Ethica.
Cartesio aveva distinto tra un uso proprio del termine (causa di sé stessa = Dio) e un uso analogico
(tutto ciò che per esistere non necessita che di Dio). Per Spinoza invece la sostanza è per definizione
«ciò che è in sé» (uso proprio cartesiano), ciò che esiste di per sé stesso o, in termini scolastici, ciò
che è causa sui, ovvero ciò la cui essenza implica necessariamente l’esistenza. Di conseguenza, la
sostanza è infinita è unica: se fosse finita o molteplice, esisterebbe qualcosa di esterno da cui essa
dipenderebbe.
Attributi e modi della sostanza → l’attributo è ciò che l’intelletto percepisce come costitutivo
dell’essenza della sostanza. La sostanza contiene nella propria essenza tutti gli attributi possibili:
essi esprimono le proprietà intrinseche della sostanza infinita, ma essendone espressioni particolari,
non sono del tutto infiniti. L’uomo può conoscere solo quelli dei quali è egli stesso partecipe, il
pensiero e l’estensione, i quali sono solo due momenti diversi di un’unica sostanza: Spinoza risolve
il dualismo cartesiano in un monismo metafisico.
Ogni attributo si determina a sua volta in una quantità infinita di modi, cioè determinazioni particolari
dell’attributo stesso. I modi sono a loro volta distinti in:
 Modi finiti → i singoli corpi e le singole idee che si ritrovano nella realtà della esperienza.
 Modi infiniti → manifestazioni comuni a più cose → anello intermedio tra attributi e modi
finiti.
La differenza fondamentale tra attributi e modi è che gli attributi, essendo proprietà della sostanza
infinita, risiedono in essa e non si distinguono da essa sul piano ontologico. I modi invece sono
semplici «affezioni» o «accidenti» della sostanza perché non sono contenuti nell’essenza della so-
stanza, bensì riflettono solo il modo in cui gli attributi possono manifestarsi. L’attributo del pensiero,
ad esempio, non è ontologicamente distinto dalla sostanza e, come essa, viene concepito di per sé
come necessario ed eterno, mentre la singola idea finita non può esistere né essere compresa senza
il riferimento all’attributo del pensiero.
«Deus sive natura» → la sostanza unica, infinita ed eterna è Dio. Dimostrazione dell’esistenza di Dio
e quella della sostanza coincidono: Dio è la realtà stessa considerata nella sua totalità, con tutte le
sue infinite espressioni e manifestazioni. Dio è causa necessaria e necessitante di tutte le cose →
tutto deriva necessariamente da Dio e tutto avviene necessariamente secondo il modo in cui si
determinano gli attributi della sostanza. Necessità e libertà in Dio coincidono: egli solo è causa libera
perché non è necessitato da null’altro che dalla propria natura. Dio è causa immanente dell’intera
realtà: Dio e le cose che da lui derivano sono la stessa realtà considerata sotto due aspetti diversi.
Dio e la natura coincidono, ma quest’ultima può essere vista sotto due diverse determinazioni:
 «Natura naturante» → realtà considerata come sostanza infinita.
 «Natura naturata» → realtà considerata come insieme delle cose particolari e finite.
La causalità necessaria deve essere intesa sia in senso reale, poiché Dio è causa dell’effettiva esi-
stenza delle cose singole, sia in senso logico-matematico, perché i modi derivano dalla sostanza
secondo un ordine geometrico: i modi sono quindi connessi gli uni agli altri secondo un ordine ne-
cessario, che è insieme reale e geometrico. La realtà stessa per Spinoza ha una struttura geome-
trica: i modi sono connessi tra loro da rapporti causali necessari che solo il linguaggio geometrico
può esprimere, unico adatto ad esprimere una conoscenza adeguata della realtà.
Questa concezione della realtà comporta una radicale critica del finalismo, sia nell’uomo che nella
natura: gli uomini, che hanno coscienza solo dell’utile in vista del quale agiscono, conferiscono er-
roneamente ad esso il carattere di fine e proiettano questo loro modo di pensare sulla natura, im-
maginando che anch’essa agisca in vista dei fini. Tale pregiudizio è rafforzato dal fatto che gli uomini
trovano nella natura cose che sono loro utili (occhi, denti, etc) e, sapendo che non sono state
prodotte da loro, immaginano che esse siano state create per loro da Dio. Se incorrono in cose
nocive, invece, le interpretano come punizioni divine. Così si costruiscono un’immagine falsa di Dio
poiché, attribuendogli fini da conseguire nell’uomo e nella natura, lo considerano manchevole di
qualcosa, dunque imperfetto.
Mente, corpo e conoscenza → l’uomo può conoscere solo due attributi con i rispettivi modi:
 Pensiero (attributo) e le idee (modo).
 Estensione (attributo) e i corpi (modo).
L’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione dei corpi, ma le idee,
che sono modi del pensiero, non possono agire sui corpi, che sono modi dell’estensione, e
viceversa: essi sono aspetti di un’unica realtà, ma si sviluppano parallelamente. Con questo paral-
lelismo Spinoza può risolvere facilmente due problemi interni alla scuola cartesiana:
 Corrispondenza tra le idee e il loro oggetto esterno → a ogni idea del pensiero corrisponde
un corpo sul piano dell’estensione, e viceversa.
 Corrispondenza tra mente e corpo cessa di sussistere → quando ho la volontà (idea) di al-
zare il braccio (corpo), il braccio si alza: i due eventi sono modi di due attributi che corri-
spondono a uno stesso punto nel comune ordine di connessione.
L’uomo è composto di mente e corpo: la mente dell’uomo è un aspetto finito dell’intelletto infinito di
Dio: è un’idea (modo) dell’attributo del pensiero, cui corrisponde il corpo (modo) dell’attributo
dell’estensione. La mente ha per oggetto il corpo, ma non lo conosce: essa è l’«idea» del corpo e
conosce quest’ultimo attraverso le idee di tutti i corpi più piccoli che contribuiscono alla sua rigene-
razione (particelle del sangue, delle ossa, etc) e degli altri corpi esterni da cui è affetto. Tali idee si
presentano però alla mente secondo l’ordine fortuito in cui esse appaiono nell’esperienza quotidiana:
esse sono idee «confuse» cui corrisponde soltanto una conoscenza parziale, inadeguata. Per
Spinoza l’errore l’inadeguatezza: le idee non hanno un contenuto falso di per sé perché derivano da
Dio. Illustrando il processo cognitivo che porta dalla conoscenza inadeguata a quella adeguata,
Spinoza riprende nell’Ethica la dottrina dei gradi di conoscenza:
1. Sensibilità e immaginazione → le idee si presentano in ordine casuale e confuso.
2. Ragione → conosce le i modi infiniti che esprimono proprietà generali dei modi finiti.
3. «Scienza intuitiva» → la più alta forma di conoscenza, propria della facoltà dell’intelletto, che
ci consente di vedere la derivazione necessaria delle cose dalla causa prima, cioè Dio.
Il primo grado di conoscenza è inadeguato, mentre ragione e intuizione sono entrambe forme ade-
guate di conoscenza: entrambe consentono infatti di stabilire in maniera necessaria la connessione
tra causa ed effetto, anche se la ragione scientifica consente di risalire la catena causale solo fino
alle «nozioni comuni». Solo l’intuizione intellettuale ci permette di considerare le cose nella loro
assoluta realtà – sub specie aeternitatis, cioè nell’eterna sostanza divina.
La morale → l’Ethica intende essere un trattato di morale. Le dottrine metafisiche e gnoseologiche
possono essere considerate come propedeutiche alla definizione di una teoria morale che si propone
di liberare gli uomini dalle passioni. Le manifestazioni della vita emotiva dell’uomo sono «cose
naturali» che obbediscono alle stesse leggi che regolano le altre espressioni della natura, e quindi
devono essere considerate con lo stesso metodo geometrico con cui vengono considerati tutti gli
altri modi della sostanza. Solo così l’uomo può conoscere adeguatamente gli impulsi che lo
determinano ad agire, la loro intima necessità e, quindi, riuscire a non esserne più schiavo.
L’impulso fondamentale di ogni agire dell’uomo è il conatus (sforzo) di «perseverare nel suo esse-
re», di conservare sé stesso e accrescere la propria potenza. Se riferito alla sola mente prende il
nome di «volontà», se riferito insieme a mente e corpo si chiama invece «appetito», che se è
consapevole di sé stesso diventa «cupidità»: essa non è un difetto o una degenerazione della natura
umana, ma ne costituisce l’essenza stessa. Spinoza abbandona l’atteggiamento moralistico
tradizionale di rifiuto degli appetiti umani in nome di una perfezione assoluta e astratta: per lui è
buono tutto ciò che è utile e che contribuisce alla perfezione di un essere, quindi ciò che ne aumenta
la forza e la capacità di conservarsi.
Da queste definizioni, Spinoza deduce in ordine geometrico tutta la sua teoria degli «affetti», cioè
delle emozioni che accrescono o diminuiscono la potenza del corpo e della mente, e di conseguenza
la capacità dell’uomo di essere e di agire. Egli crea una «geometria degli affetti» simile a quella di
Hobbes, a partire dalla «letizia» e dalla «tristezza», le due emozioni fondamentali: la prima nasce
dal sentimento della crescita della propria capacità vitale, mentre la seconda, al contrario, da quello
di una sua diminuzione. Tutti gli altri affetti sono derivazioni o determinazioni di letizia e tristezza:
l’«amore» e l’«odio», ad esempio, sono letizia e tristezza accompagnate dall’idea di una causa
esterna.
Nel primo stadio dell’ascesi morale l’uomo non ha una conoscenza adeguata dei propri affetti, ma si
limita a connetterli con circostanze che gli appaiono fortuite. L’uomo è completamente passivo nei
loro confronti: per questo si configurano come passioni, che egli subisce e delle quali è schiavo. La
sua capacità di agire e di comprendere viene fortemente limitata, quindi non riesce più a perseguire
il suo vero bene e la sua vera utilità.
Per raggiungere il secondo stadio, la coscienza morale, deve intervenire la ragione, tramite la quale
l’uomo può attingere al vero utile: ciò che veramente gli consente di accrescere la sua potenza di
essere. L’uomo ha infatti la possibilità di conoscere adeguatamente gli affetti apprendendone le
cause vere e imparando a vedere la loro necessità. Così talvolta le passioni si dissolvono perché,
conosciutane la vera natura, non sussistono più: ad esempio, se so che la causa dell’odio che io
provo verso una persona non è quella persona stessa, ma è una certa concatenazione necessaria
di idee che mi porta a odiare, viene meno l’oggetto dell’odio e, con ciò, l’odio stesso. In altri casi
l’affetto permane anche conosciutane la causa: in questo caso esso non sarà più passivamente
subito ma attivamente ricercato, trasformandosi da passione ad azione. La «virtù» non è in contrasto
con la natura, le sue leggi e i suoi appetiti, anzi, ne è la piena realizzazione: la liberazione dalle
passioni non è il rifiuto della dimensione emotiva.
Il terzo stadio di ascesi morale, l’«amor intellectualis Dei» corrisponde alla conoscenza intuitiva,
quella perfettamente adeguata degli affetti che conduce a risalire la loro catena causale fino alla
causa prima, cioè Dio: ciò non significa dissoluzione dell’emotività umana, ma la sua corrispondenza
con la conoscenza intuitiva. L’uomo, cogliendo immediatamente la derivazione del tutto da Dio,
prova un «amore intellettuale» nei suoi confronti, che è lo stesso con cui Dio ama sé stesso: in
questo amore consiste la «beatitudine» dell’uomo, la più alta espressione di virtù.
La religione e l’analisi della scrittura → nel Tractatus theologico-politicus Spinoza espone le sue idee
in merito a religione e politica, ambiti per lui strettamente connessi perché il loro centro concettuale
è salvaguardare la libertà di pensiero e di espressione dallo spirito di intolleranza.
Spinoza fa una critica storico-filologica della Bibbia che intende mostrare come forma espositiva e
struttura categoriale siano condizionate dalla situazione storica che le espresse: la parola di Dio è
infatti interpretata secondo la cultura, il linguaggio e la mentalità particolari del popolo ebraico. I suoi
contenuti possono quindi essere oggetto di un’analisi razionale che li trasformi in una religione
naturale accettabile da tutti gli uomini in tutti i tempi. Un esempio è la critica del concetto di miracolo:
introdotto dalla cultura ebraica per mostrare la potenza divina, esso appare al filosofo un’assurdità
perché interrompe l’ordine necessario della natura in cui si esprime la volontà di Dio.
Le dispute su temi religiosi e lo spirito di intolleranza che le ha sempre accompagnate dipendono da
una cattiva conoscenza dei rapporti tra fede e filosofia: la religione riguarda solo l’obbedienza a cui
l’uomo è tenuto nei confronti della divinità e i dogmi di fede, semplicissimi e comuni a tutte le religioni,
riguardano solo le verità pratiche alla base dei presupposti del dovere e dell’obbedienza. Spinoza
eliminava così i motivi di disputa, cercando di impedire che la discussione religiosa diventasse
strumento di intolleranza e di riservare alla stretta cerchia dei dotti la possibilità di dibattere quei temi
che potevano essere interpretati in chiave razionalistica.
Il pensiero politico → giusnaturalismo: punti di convergenza con Hobbes.
Anche Spinoza parte dall’ipotesi di uno stato di natura che precede la società civile: in questa con-
dizione il diritto di ciascuno è uguale al suo potere, cioè alla forza di cui dispone per affermare il
proprio essere. L’impulso dell’uomo è affermare il proprio essere, quindi lo stato di natura è una
condizione di insicurezza e di pericolo. La ragione, che indica agli uomini il loro vero bene (conser-
vare sé stessi), li induce a istituire un patto sociale con il quale il diritto-potere di ciascuno viene
limitato per garantire a tutti la sicurezza della propria persona. È il «conatus» all’autoconservazione,
che l’uomo condivide con tutti gli altri esseri naturali, a produrre il passaggio dallo stato di natura a
quello civile. In due punti il pensiero di Spinoza si differenzia da Hobbes:
 Nel patto i singoli non rinunciano al loro diritto naturale: al contrario, essi attuano, tramite la
sua limitazione, le condizioni necessarie per conservarlo.
 La condizione civile deve somigliare il più possibile a quella naturale: se nello stato di natura
gli uomini erano uguali, uguali dovranno essere anche nello stato civile → democrazia,
anche se il potere sovrano deve necessariamente essere assoluto.
 Tra i diritti naturali cui l’uomo non può rinunciare nel passaggio allo stato civile c’è la libertà
di pensiero e di espressione. Nessun governo può restringere questa facoltà, purché essa si
limiti all’analisi razionale e abbia un valore esclusivamente teorico. La libertà di pensiero non
può tradursi in un diritto alla resistenza, poiché ciò minerebbe alle fondamenta la sicurezza
dello Stato. Sarà compito dei governanti prendere in considerazione le libere critiche dei
sudditi e tradurle in realtà politica.
Spinoza rimane sospeso tra l’aspirazione a una condizione politica che superi le angustie dell’auto-
ritarismo e l’impossibilità di formulare una dottrina dello Stato autenticamente liberale a causa della
situazione storica in cui vive e dei presupposti concettuali del suo pensiero.
JOHN LOCKE (1632-1704)

La filosofia inglese di metà Seicento è influenzata dai due maggiori centri accademici dell’isola,
Cambridge e Oxfrod, i quali hanno tradizioni e indirizzi di pensiero diversi.
Cambridge → platonismo e neoplatonismo. Presupposto fondamentale è la piena convergenza tra
ragione, fede e rivelazione.
 La ragione è intesa come lume interiore che consente di penetrare intuitivamente l’essenza
della realtà → le verità fondamentali – esistenza di Dio e immortalità dell’anima – e i principi
generali della morale sono dimostrabili razionalmente.
 L’uomo ha delle «idee innate» intese come anticipazioni dell’esperienza.
 Esiste una «forza vitale» che permea tutta quanta la realtà, discendendo da Dio fino ai livelli
più bassi della materia inorganica → la realtà, pur presentando al proprio interno una ge-
rarchia di gradi diversi, è sostanzialmente unitaria e si configura come un grande organismo
→ avversione per ogni forma di meccanicismo e per il materialismo hobbesiano.
Oxford → tradizione aristotelica: forma di sapere scientifico in equilibrio tra ragione ed esperienza.
 New philosphy → promozione della filosofia sperimentale.
Robert Boyle (1627-1691) → chimico. Boyle critica la tradizionale concezione delle qualità fonda-
mentali, cui contrappone i vantaggi metodologici del meccanicismo e del corpuscolarismo:
 Meccanicismo → spiega i fenomeni ricorrendo ai principi della materia e del movimento.
 Corpuscolarismo → esistono corpuscoli sempre ulteriormente divisibili che, muovendosi nel
vuoto e componendosi o dividendosi, danno origine ai diversi corpi fisici.
Questo pensiero rientra nella tradizione dello «scetticismo», il quale esprime il rifiuto metodologico
per ogni accettazione acritica di teorie che non siano passare al vaglio congiunto della sperimenta-
zione e della riflessione razionale.
Le due scuole non devono essere contrapposte troppo rigidamente: l’interesse religioso non è
estraneo, ad esempio, ai filosofi di Oxford, i quali si propongono di mostrare la piena compatibilità
tra la fede e la nuova scienza.
Vita e opere → Locke assistette alla rivoluzione di Cromwell, alla restaurazione monarchica di Carlo
II e alla seconda Rivoluzione inglese, che portò all’unificazione delle corone inglese e dei Paesi
Bassi nella persona di Guglielmo d’Orange (1688). A differenza di Hobbes, egli rimase fedele a un
programma politico improntato ai valori della libertà e della tolleranza.
Locke studiò filosofia e medicina a Oxforf. La sua vita è strettamente legata a quella di Ashley Coo-
per, conte di Shaftesbury: nel 1667 diventa suo segretario personale ed è costretto a trasferirsi a
lungo in Francia dopo che il conte perde la carica di cancelliere (1674). Tornato in Inghilterra (1679),
ricomincia la frequentazione dei Cooper, ma quando Ashley viene definitivamente esiliato, egli
preferisce rifugiarsi prima a Oxford, poi in Olanda, dove si mette in contatto con l’ambiente liberale
di Guglielmo d’Orange e, quando questi diventa re d’Inghilterra, torna a Londra (1689).
L’opera principale è il Saggio sull’intelligenza umana (1690), dove si avvale della più profonda co-
noscenza della filosofia francese, soprattutto cartesiana, acquisita durante il suo soggiorno nel
continente. Nello stesso anno Locke pubblica i Due trattati sul governo. Quasi tutte le sue opere
sono scritte in inglese: parte del suo programma culturale era scrivere sempre in inglese, in uno stile
semplice e lineare, in modo che la sua filosofia non fosse rivolta solo agli accademici.
Locke tra empirismo e razionalismo → le interpretazioni classiche dei manuali danno un’immagine
stereotipata di Locke: egli è considerato il capostipite dell’empirismo inglese moderno, il quale viene
rigidamente contrapposto al razionalismo di Cartesio, Spinoza e Leibniz. Tuttavia, l’empirismo di
Locke, pur introducendo elementi di novità, è fortemente debitore verso la tradizione empiristica
inglese (Bacone e Hobbes), e come in questi autori, l’empirismo non si colora di valenze anti-razio-
nalistiche: al contrario, in Locke essi sono strettamente congiunti in un’unica soluzione filosofica. La
cesura con il razionalismo di Cartesio è la fusione tra ragione ed esperienza: mentre in Cartesio era
quasi del tutto abbandonata, per Locke l’esperienza diventa l’imprescindibile termine di riferimento
per comprendere la natura della ragione e della conoscenza. La ragione è, infatti, una funzione
conoscitiva e argomentativa che non può fare nulla senza l’esperienza, dalla quale deriva il materiale
conoscitivo su cui la ragione può operare e la verifica finale delle operazioni compiute dal soggetto
conoscente. Le possibilità conoscitive dell’uomo sono quindi limitate all’ambito dell’esperienza: il
problema diventa analizzare come l’esperienza condizioni le funzioni della ragione e quali siano i
limiti della conoscenza umana.
Il riconoscimento della radice empirica della conoscenza comporta l’abbandono del primato gno-
seologico della matematico. Per Cartesio, la matematica costituisce il modello metodologico di ogni
sapere filosofico, mentre per Locke la ragione, procedendo da idee di origine empirica, non può
cercare di ricondurre la filosofia alla scienza. Il lavoro del filosofo consiste, perciò, nel confronto
reciproco di idee e nella loro valutazione ai fini della discussione e dell’argomentazione, e il suo
ambito di ricerca si estende a tutto ciò che è rappresentabile mediante idee, quindi al mondo umano
in generale: etica, politica e religione diventano i temi centrali. Locke sostanzialmente estende
all’ambito pratico quella funzione critica della ragione che Cartesio confinava rigorosamente entro la
sfera teoretica.
Le fonti della conoscenza → Locke scrive il Saggio sull’intelligenza umana per definire con esattezza
i limiti della conoscenza umana. Il primo libro è dedicato al problema dell’origine della conoscenza.
Locke inizia con l’analisi e la critica dell’innatismo: gli innatisti sostengono l’esistenza di verità
fondamentali che riscuotono necessariamente il consenso di tutti gli uomini. Per Locke questo non
è vero: i bambini e gli idioti, ad esempio, non sono in possesso dei principi teoretici, mentre la
relatività delle norme comportamentali mostra come anche i principi pratici non siano universali. La
conoscenza, quindi, non deriva da nozioni connaturate in noi dalla nascita: ogni idea, dunque, giunge
necessariamente dall’esperienza → due forme:
 Sensazione → fornisce idee degli oggetti esterni attraverso i cinque sensi.
 Riflessione → fornisce idee delle operazioni interne alla mente, anche stati d’animo e pas-
sioni.
Ogni sapere che pretenda di avere un’origine diversa è priva di fondamento.
La classificazione delle idee → Locke distingue tra diversi tipi di idee.
«Idee semplici» → idee non scomponibili che l’intelletto riceve passivamente dall’esperienza.
 Idee semplici che derivano dalla sensazione → possono dipendere da un solo senso o da
più sensi congiunti:
 «Qualità primarie» → idee inerenti agli oggetti stessi (solidità, estensione, etc.)
 «Qualità secondarie» → idee che dipendono dalla sensibilità individuale (colori, odori,
etc).
→ le idee delle qualità primarie esistono nei corpi stessi, quelle delle qualità secondarie no:
ciò significa che alcune idee non escono dall’ambito del pensiero, mentre altre sono
riproduzione fedele della realtà. Tuttavia, è difficile spiegare questa distinzione in una cornice
in cui esistono solo idee e non «cose».
 Idee semplici provenienti dalla riflessione → possono appartenere al gruppo che riguarda le
operazioni del pensiero o a quello relativo alle operazioni della volontà.
«Idee complesse» → composizione e rielaborazione delle idee semplici. L’intelletto ha la funzione
attiva della rielaborazione → facoltà conoscitiva attiva. Locke distingue tre tipi di idee complesse:
 «Idee di modo» → idee relative a ciò che è percepito come non sussistente di per sé, ma
dipendente da una sostanza di cui è determinazione: ad esempio, la gratitudine e la bellezza
non sussistono indipendentemente dall’idea di una persona con tali qualità.
 «Modi semplici» → risultato della ripetizione della stessa idea semplice (infinito).
 «Modi misti» → composizione di idee semplici di diversa specie.
 «Idee di sostanza» → idee di ciò che è percepito come sussistente di per sé. Ad esse ven-
gono riferite le qualità espresse dalle idee semplici. Si possono distinguere in sostanze sin-
gole e sostanze collettive.
→ l’idea principale tra esse è l’idea della sostanza stessa → critica: nell’esperienza quoti-
diana molte idee semplici si presentano assieme (le qualità dell’oro), che noi uniamo cre-
dendo siano un’unica idea semplice (oro) che deve per forza riferirsi a una sostanza per
sussistere. Ma poiché l’esperienza offre solo singole idee semplici (le qualità dell’oro e non
l’oro in sé), la sostanza da noi presupposta è del tutto al di là delle nostre possibilità cono-
scitive. Ciò significa che «non abbiamo nessuna conoscenza della costituzione interna e
della vera natura delle cose, perché siamo privi della facoltà di raggiungerla». Per questo,
pur distinguendo tra sostanze materiali e spirituali, Locke non può escludere che Dio abbia
dato anche alla sostanza materiale la facoltà di pensare.
 «Idee di relazione» → nascono dal confronto di un’idea con un’altra.
La principale è l’idea di causa ed effetto → il rapporto causale è ancora per Locke un fatto
oggettivo, per quanto non sia possibile conoscerlo nella sua intrinseca natura.
Idea di identità → rapporto tra un oggetto e sé stesso considerato in luoghi e tempi diversi.
Allo stesso modo funziona con il soggetto: nell’atto della percezione egli coglie l’oggetto
esterno e sé stesso come oggetto percipiente. Locke risolve sul piano empiristico il problema
dell’identità personale e della continuità dell’io.
Il linguaggio → assunti fondamentali sono il convenzionalismo e il nominalismo.
Convenzionalismo → la funzione del linguaggio è rendere le idee comunicabili agli altri. Le parole
sono «segni delle idee degli uomini», quindi gli strumenti per comunicare. Ciò che rende oggettivo
e comunicabile il significato attribuito alle parole è il «tacito consenso» con cui, nell’uso comune,
certi termini sono connessi con certe idee → origine convenzionale del linguaggio.
Nominalismo → la maggior parte delle parole usate dall’uomo sono nomi comuni che si riferiscono
ad un gruppo di cose che hanno tutte determinate qualità. L’insieme delle qualità che una cosa ha
in comune con altre – l’«essenza nominale» – è l’idea generale, ricavata dall’esperienza tramite un
processo di astrazione, cioè conservando solo ciò che è comune a tutta la categoria → l’universale
non esiste nella realtà, ma riguarda solo le idee generali e i nomi comuni.
La conoscenza → «percezione del legame (concordanza) o contrasto (discordanza) tra idee».
L’accordo può essere colto:
 Immediatamente tramite intuizione → la conoscenza è certa perché l’accordo o il disaccordo
è percepito in virtù delle stesse idee da confrontare (il bianco non è nero)
 Discorsivamente tramite dimostrazione → ragionamento discorsivo.
La concordanza o discordanza tra due idee può essere appurata solo inserendo tra di esse una o
più idee intermedie, le «prove». La certezza della conoscenza dipende dalla percezione immediata
dell’accordo o del disaccordo tra le varie coppie di idee intermedie: ogni segmento deve avere
carattere intuitivo (= Cartesio).
La conoscenza ha per oggetto le idee: rimane quindi il problema della realtà degli oggetti di cono-
scenza al di fuori dell’esistenza mentale. Locke distingue tre ordini di esistenze, collegate a tre di-
verse forme di conoscenza:
 Esistenza dell’io → data dall’intuizione.
 Esistenza di Dio → confermata dalla dimostrazione: la ragione insegna che il mondo non
potrebbe esistere senza una causa eterna, intelligente e onnipotente.
 Esistenza delle cose esterne → percezione sensibile attuale. Nell’attimo in cui percepisco le
idee semplici ho la coscienza vivissima, che molto si avvicina all’atto intuitivo, della realtà di
ciò che percepisco. Ma appena la percezione entra nella memoria non posso più essere
certo che l’oggetto continui ad esistere. Dalla certezza si passa alla probabilità della cono-
scenza, che si fonda sull’analogia – io penso, quindi pensano anche gli altri = esistono altri
esseri pensanti – o sull’autorità – testimonianze di esperti. L’ambito del probabile, diviso in
gradi di probabilità, è sufficiente a garantire un’etica quotidiana.
Intuizione, dimostrazione e percezione attuale esauriscono il campo della conoscenza certa. Anche
la certezza è divida in gradi: nell’intuizione essa è attinta pienamente; la dimostrazione razionale,
invece, non garantisce la certezza perché nel procedimento discorsivo l’errore rimane sempre
possibile; la conoscenza dei sensi, infine, pur andando oltre la semplice probabilità, non raggiunge
l’evidenza dei primi due livelli. Sono dunque tre le osservazioni principali: la priorità assoluta
dell’intuizione; la riduzione del procedimento razionale a quello intuitivo; la subordinazione della
percezione sensibile alla facoltà intuitivo-razionale.
Il pensiero politico → Trattati sul governo (1690)
Primo trattato → critica la tesi di difesa dell’assolutismo monarchico di Robert Filmer: Dio avrebbe
conferito direttamente il potere monarchico ad Adamo e da questo trasmesso, per successione
ereditaria, alle generazioni di sovrani successive. Locke mostra l’assurdità dell’assimilazione
dell’autorità paterna a quella politica.
Secondo trattato → teoria politica: giusnaturalismo.
«Stato di natura» → caratteristiche peculiari rispetto a Hobbes:
 L’individuo possiede tre diritti naturali specifici – alla vita, alla libertà, alla proprietà – che
terminano là dove iniziano quelli degli altri (a differenza del ius in omnia di Hobbes).
 Lo stato è una condizione in cui a ciascuno tocca il suo, secondo un ordinato disegno della
«legge naturale» che si fonda sulla ragione → stato di pace e armonia (no stato di guerra).
Nello stato di natura manca però un potere superiore che imponga il rispetto della legge naturale
coercitivamente: la legge di natura può infatti essere violata facilmente da chiunque non intenda
sottomettersi alla disciplina della ragione. Per questo occorre uscire dallo stato di natura attraverso
un patto sociale, che ha lo scopo di conservare e garantire con la forza i diritti naturali e inalienabili
di ogni cittadino. L’unico diritto a cui l’individuo rinuncia entrando nella società civile è quello di farsi
giustizia da sé: infatti è proprio la giustizia il compito fondamentale dello Stato. Locke distingue tra
 «Patto di unione» → la moltitudine si trasforma in un’unica respublica (commonwealth), la
cui volontà unitaria è espressa dal principio della maggioranza.
 «Patto di soggezione» → i cittadini si sottomettono al sovrano.
Il potere del sovrano non è assoluto, ma limitato alla tutela dei diritti dei cittadini: se questo non
avviene, gli individui possono recedere il patto, riacquistando la facoltà di opporsi legittimamente
con la forza al sovrano → legittimità del diritto di resistenza.
L’esercizio legittimo del potere è garantito dalla separazione dei poteri:
 «Legislativo» → esprime nella legge la volontà della maggioranza.
 «Esecutivo» → risiede nel governo e ha il compito di far eseguire la legge.
 «Federativo» → funzione diplomatica di rappresentare lo Stato all’estero.
Tra potere esecutivo e legislativo ci dev’essere un rapporto di separazione e di controllo reciproco.
Locke è considerato il fondatore del liberalismo politico moderno: carattere naturale e inalienabile
dei diritti dell’uomo; negazione di ogni forma di potere assoluto; affermazione del diritto di
resistenza; formulazione della dottrina della separazione dei poteri, cioè i capisaldi del pensiero
politico lockiano, diventano i principi fondamentali del liberalismo politico moderno.
Religione e tolleranza → nei primi scritti (1661-62) Locke è ostile verso un atteggiamento
permissivo da parte dello Stato nelle questioni religiose: la religione si sviluppa nell’ambito della
coscienza interiore e i suoi aspetti esteriori non hanno in essa un’incidenza sostanziale: il
magistrato può dunque intervenire senza condizionare la vita religiosa del fedele. Prevale ancora
la preoccupazione per l’ordine pubblico, che sembra poter essere garantito solo attraverso il
controllo della Chiesa dallo Stato.
Nel Saggio sulla tolleranza (1667) viene invece affermato che esistono alcune sfere del pensiero e
di azione, tra cui le opinioni filosofiche e il culto divino, in cui l’individuo non deve subire alcuna
limitazione da parte dello Stato. La giustificazione è esposta nell’Epistola sulla tolleranza (1689), la
quale sancisce la netta separazione tra Stato e Chiesa per quanto riguarda finalità, funzione e
poteri che a essi rispettivamente competono.
 Stato → associazione di individui che ha come scopo la tutela dei diritti naturali. Lo Stato
non può intervenire con la costrizione in questioni esterne alla difesa di quei diritti, a meno
che non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l’integrità dello Stato stesso.
Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie: i cattolici, perché obbediscono a
un’autorità politico-religiosa intollerante, e gli atei, perché non possono dare alcuna
garanzia sui patti e giuramenti, non credendo all’esistenza di nulla di sacro.
 Chiesa → associazione intesa a procurare ai propri membri la salvezza dell’anima. La
Chiesa può legittimamente espellere mediante scomunica coloro che non condividono i
dogmi e i riti che propone, ma lo scomunicato non deve assolutamente perdere i diritti civili
di cui gode come membro dello Stato.
Ragionevolezza del cristianesimo (1695) → difesa della tolleranza, riconsiderata alla luce del
rapporto tra religione e ragione. Il cristianesimo si limita alla fede nell’esistenza di Dio e alla
predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali: si rivela così la sua intrinseca
ragionevolezza perché riveste con la forza della Rivelazione contenuti etico-religiosi cui tutti
potrebbero accedere con il solo ausilio della ragione. Locke pone le basi del «deismo», la
tendenza a ricondurre la religione ai suoi fondamenti razionali. Razionalità e rivelazione vanno
quindi di pari passo nel cristianesimo, ma proprio per questo l’adesione ai singoli credi o riti delle
varie sette cristiane deve essere animata dallo spirito di tolleranza di chi si affida alla forza
dell’argomentazione razionale, e non dal fanatismo di chi crede essere, egli solo, nella verità. In
questa cultura della tolleranza si esprime la «ragionevolezza» del cristianesimo, se si tiene conto
che per Locke la ragione non è lo strumento per attingere la verità assoluta, bensì quello per
rimuovere gli ostacoli all’avvicinamento di una verità circoscritta dai limiti costitutivi dell’uomo. E il
fanatismo è sicuramente uno di questi ostacoli.
LEIBNIZ (1646-1716)

Leibniz nacque a Lipsia nel 1646. Dopo aver studiato filosofia, diritto e matematica, ottenne il diritto
di tenere lezioni nell’università di Lipsia, ma la sua attività culturale si realizzerà seguendo altre due
strade: la vita di corte e l’organizzazione strutturale del sapere nelle Accademie.
Nelle varie corti in cui vive, tra cui quelle di Berlino e di Hannover – fu precettore del futuro re
d’Inghilterra Giorgio I – Leibniz svolge diverse mansioni: diplomatico, bibliotecario, storico, consi-
gliere. A tutti i suoi protettori egli indirizza progetti di organizzazione politica, religiosa e culturale: nel
rapporto con essi, Leibniz oscilla tra il vecchio modello del dotto in cerca di stipendi e la figura
dell’intellettuale pre-illuminista che spera di trasformare la realtà attraverso il matrimonio della cultura
con il potere. L’altra attività cui Leibniz affida la realizzazione dei propri ideali è la promozione delle
Accademie: egli contribuisce in maniera determinante alla fondazione dell’Accademia delle scienze
di Berlino – di cui diviene presidente – ed entra nella Royal Accademy e nell’Accademia delle scienze
di Parigi. Tratto caratteristico delle Accademie è il ruolo della ricerca rispetto all’attività didattico-
scientifica delle università; in Leibniz, però, l’amore per le Accademie risponde anche al programma
di universalizzazione della ricerca scientifica.
Molto importanti sono i suoi viaggi in Europa: la permanenza a Parigi serve per completare i suoi
studi, soprattutto in matematica, e più in generale i suoi viaggi servono a entrare in contatto con gli
intellettuali del tempo, tra cui Arnauld, Malebranche e lo scienziato Christian Huygens. Accanto alla
filosofia, Leibniz si interessa di diritto, politica, storia, matematica e, soprattutto, la tecnologia, per-
ché, nella sua concezione del sapere, a teoria si deve sposare con la pratica. La filosofia è consi-
derata momento fondante e unificante delle varie discipline: per questo il suo pensiero è tenden-
zialmente orientato alla costruzione di un «sistema» filosofico unitario, anche se non è esposto in
un’unica sintesi. Le sue opere sono spesso di carattere occasionale: il Discorso di metafisica (1686),
ad esempio, nasce dal carteggio con Arnauld, mentre i Nuovi saggi sull’intelletto umano sono una
recensione del Saggio di Locke. L’unica opera di grande respiro sono i Saggi di teodicea (1710),
incentrati sul problema del rapporto tra necessità e libertà e su quello della giustificazione del male
nel mondo. A queste, vanno aggiunti numerosi scritti di vario genere, in particolare matematico. Di
grande importanza è il carteggio con i maggiori esponenti della cultura del suo tempo.
La logica → Dissertatio de arte combinatoria (1666).
L’obiettivo dell’opera è la formulazione di un metodo logico che matematizzi il pensiero, eliminando
da esso ciò che vi è di soggettivo e riconducendo le operazioni mentali a una forma di calcolo ra-
ziocinante. La logica deve avere una duplice funzione: «dimostrare» gli enunciati con assoluta si-
curezza e consentire di «inventare» un nuovo sapere tramite la combinazione delle conoscenze già
acquisite. Per conseguire questi obiettivi occorre seguire dei passaggi:
1. L’intero contenuto del pensiero dev’essere ridotto a un numero definito di «concetti semplici»
da cui possono derivare tutti quelli composti → «alfabeto» concettuale che sia per il pensiero
ciò che l’alfabeto letterale è per la scrittura. Leibniz però non ci riuscì.
2. Assegnare a ciascun concetto un «carattere», un simbolo che lo rappresenti, così da poter
operare sui simboli e non sui concetti → ordinare i caratteri in modo che le loro relazioni
corrispondano a quelle dei pensieri
→ si tratta di determinare la characteristica universalis, cioè la «lingua» del pensiero, con la sua
struttura “grammaticale” e “sintattica”.
La verità si fonda sul principio di identità, a cui è riconducibile il principio di contraddizione come sua
variante negativa→ la combinazione dei concetti deve avvenire senza comportare contraddizioni.
Leibniz riconosce due tipi di verità:
 «Verità di ragione» → verità fondate sui principi di identità e di contraddizione. Esse sono
necessarie e infallibili e si riferiscono solamente a ciò che è logicamente «possibile» come
concetto astratto, indipendentemente dal fatto che sia realizzato o meno nella realtà.
 «Verità di fatto» → fondato sul principio di «ragion sufficiente». Delle verità di fatto è sempre
possibile il contrario, senza che ciò comporti alcuna contraddizione – Cesare ha passato il
Rubicone ma poteva anche non farlo. Il concetto – il passaggio del Rubicone – è giustificato
da ragione sufficiente a spiegarlo.
I due tipi di verità non sono completamente contrapposti: per chi abbia una conoscenza assoluta
delle cose è possibile vedere come anche nelle verità di fatto, attraverso un numero indefinito di
passaggi logici, il predicato sia già contenuto nel concetto del soggetto (→ principio di identità): così
anche le verità di fatto sono ricondotte alle verità di ragione. La sola differenza è che, nelle verità di
ragione, l’identità tra soggetto e predicato è immediata o mediata da pochi passaggi intermedi,
mentre nelle verità di fatto essa presuppone un numero infinito di passaggi e, dunque, conoscibile
solo da una mente infinita come quella di Dio.
La sostanza individuale → logica e metafisica sono strettamente connessi: si può parlare di unità.
Finora per «soggetto» si è inteso una funzione logica definita dalla correlazione con il predicato. Sul
piano ontologico, invece, il soggetto non è un supporto metafisico del predicato, la sua «sostanza»:
sul piano ontologico, il corrispettivo del principio di identità presente sul piano logico è il fatto che il
predicato è contenuto nell’essere sostanziale del soggetto. E poiché un oggetto è definito dalla
totalità dei suoi predicati in maniera assolutamente singolare, la sostanza prende il nome di
«sostanza individuale» → carattere pluralistico della metafisica, a differenza del dualismo car-
tesiano e del monismo di Spinoza. Ciascuna sostanza individuale è definita in modo particolare e
irripetibile dai predicati in essa contenuti, quindi non possono esistere due sostanze perfettamente
uguali: se lo fossero, sarebbero in realtà la stessa sostanza (→ «identità degli indiscernibili»). I
predicati della sostanza individuale esprimono tutto ciò che di essa si può affermare, non solo le
proprietà accidentali, ma anche le azioni o gli effetti che da essa derivano. Una conoscenza perfetta
della sostanza individuale, quindi, può permettere di derivare da essa a priori tutto ciò che le accadrà.
Questo è possibile, però, solo a Dio: l’uomo, che non può conoscere la sostanza individuale nella
sua completezza, conosce le sue azioni solo a posteriori e di esse può dare una spiegazione solo
sulla base del principio di ragion sufficiente. Il fatto che nella sostanza individuale siano già contenuti
tutti gli effetti che ne deriveranno ha anche un’altra importante conseguenza: tra le diverse sostanze
individuali non esistono rapporti di causalità reciproca, ma ciascuna di esse è un mondo chiuso in
sé, che si può accordare con gli altri solo in virtù di un’armonia prestabilita, in modo da produrre solo
l’apparenza di un’influenza causale. La totalità del mondo si riflette in ciascuna sostanza, ma sempre
da un punto di vista diverso: proprio questa diversa angolatura costituisce la specificità e
l’individualità della sostanza.
Il concetto di forza: dalla fisica alla metafisica → forza: convergenza tra metafisica e fisica.
La fisica di Leibniz è fondata sull’opposizione a Cartesio:
1. Cartesio riduceva la materia corporea alla sola estensione. Per Leibniz ciò non rende spie-
gabili alcuni importanti fenomeni fisici, come l’impenetrabilità dei corpi o la loro forza d’inerzia.
Egli ritiene, quindi, che si debba presupporre nei corpi una «forza», in virtù della quale essi
resistono alla penetrazione di altri corpi o al movimento che altri corpi possono indurre in
loro. La vera essenza di ogni materia è la forza, mentre l’estensione, al pari di tutte le altre
proprietà della materia, è un «fenomeno» della forza.
2. Nozione di movimento → Cartesio aveva ricondotto il movimento a una semplice traslazione
meccanica dei corpi. Per Leibniz, invece, alla base di ogni fenomeno motorio c’è un’energia
(«forza viva») in grado di produrre spontaneamente un certo effetto fisico. La legge
cartesiana della conservazione del movimento andava modificata con la conservazione
dell’energia.
Un’importante conseguenza è il passaggio da una concezione meccanica e causale a una conce-
zione dinamica e finalistica della realtà. La connessione meccanica può essere utilizzata solo per
spiegare la realtà nella sua manifestazione più superficiale, ma una vera comprensione delle cose
deve invece avere carattere finalistico: in questo modo Leibniz conciliava il meccanicismo dei filosofi
moderni con il finalismo degli antichi. Questa duplicità è implicita nel concetto stesso di forza: essa
può essere considerata come grandezza puramente fisica, così da essere inserita in una
spiegazione meccanica che la vede come causa efficiente di determinati effetti, oppure apparire
come concetto metafisico che va oltre ciò che è percepibile scientificamente o con i sensi. Dire che
la realtà è forza significa riconoscere in essa la presenza di un’attività spontanea e originaria irridu-
cibile, il conatus o «sforzo» verso lo scopo finale.
La metafisica delle monadi → la filosofia di Leibniz è costantemente caratterizzata dall’esigenza di
pervenire agli elementi ultimi che entrano nella composizione delle cose: nella logica la ricerca di
concetti semplici dai quali derivare i concetti composti, nella metafisica la sostanza individuale
esprime un elemento ultimo che non può più essere predicato → atomismo: nella dottrina atomistica
tradizionale gli atomi sono intesi come elementi materiali. Ciò presenta gravi difficoltà teoriche: la
materia è estesa, quindi per definizione divisibile, dunque parlare di atomi materiali è una con-
traddizione in termini. La difficoltà scompare se gli atomi vengono intesi come atomi di energia an-
ziché di materia, riducendo la materia a energia spirituale. La realtà, anche quella materiale, è quindi
composta di atomi di forza inestesi, chiamati da Leibniz «monadi» per esprimere il loro carattere
unitario e indivisibile.
Le monadi hanno altre due caratteristiche:
 Non sono generabili né corruttibili → possono essere create solo da Dio con un atto di im-
mediato passaggio dal non essere all’essere («fulgurazione»); allo stesso modo solo da Dio
possono essere annichilite.
 Un elemento privo di parti non è suscettibile di modificazioni provenienti dall’esterno: le mo-
nadi non possono esercitare alcuna azione causale reciproca perché ciò presupporrebbe la
modifica meccanica di parti di una monade passiva da parte di una monade agente.
Le modificazioni sono pertanto il risultato dell’attività interna della monade, un’«ininterrotta attività»
che Leibniz fa coincidere con la «percezione», ovvero con il fatto che la monade rappresenta a sé
stessa ciò che avviene nel mondo. Le sue trasformazioni determinano diversi stati interni, cioè di-
verse configurazioni della monade stessa sulla base del modo in cui essa percepisce il restante
mondo. Inoltre, essendo attività ininterrotta, la monade non riproduce sempre la stessa percezione,
ma passa continuamente da una percezione all’altra, presentando stati interni sempre nuovi e con-
figurazioni sempre diverse: ciò che la spinge l’«appetizione», uno sforzo interno anch’esso manife-
stazione dell’attività della monade. C’è somiglianza con la sostanza individuale: la dottrina della
monade è quella della sostanza individuale tradotta in un’esplicita metafisica della forza.
La gerarchia delle monadi → le monadi hanno diversi gradi di perfezione, determinati dalla chiarezza
e dalla distinzione delle loro percezioni. Esse formano una catena gerarchica:
 Monadi le cui percezioni tanto oscure e confuse da non essere consapevoli → fenomenica-
mente appaiono come materia, perché anche l’essenza della materia è energia, come ogni
altro aspetto della realtà. Anche le monadi che costituiscono una particella di materia sono
una percezione dell’universo da una particolare prospettiva, ma di questa percezione esse
non hanno alcuna consapevolezza.
 «Appercezione» → percezione consapevole di sé. Anche qui ci sono diversi gradi di perfe-
zione: negli uomini la coscienza del percepire è congiunta alla consapevolezza dell’identità
del proprio io, cioè alla conoscenza di sé come «spiriti» forniti di ragione. Anche al loro interno
– l’anima umana – ci sono percezioni che non giungono alla coscienza di sé: dato che la
monade è sempre attiva, lo spirito dell’uomo pensa sempre, non ha interruzioni nella propria
attività percettiva; non tutte le percezioni però sono coscienti, anzi, l’anima dell’uomo ha
infinite «piccole percezioni» di cui non è consapevole perché la loro intensità è troppo bassa
per superare la soglia della coscienza.
 Dio è il più alto livello di conoscenza, la «monade delle monadi» → perfetta chiarezza e
distinzione delle percezioni e unità di tutte le percezioni. Sotto questo aspetto, Dio appare
anche come il fondamento di tutte le altre monadi, la «ragion sufficiente» della loro esistenza:
le singole monadi sono prospettive particolari e confuse che possono trovare il principio della
propria esistenza solo in una mente divina che, nell’assolutezza della sua conoscenza,
determini con precisione i rapporti di ciascuna di esse con tutte le altre.
La diversificazione gerarchica della realtà richiede un ulteriore chiarimento. Per Leibniz esistono
monadi che «dominano» le altre, in quanto le loro percezioni sono il fondamento delle percezioni di
altre → differenza tra materia organica e inorganica: nella materia organica c’è una «monade cen-
trale» che, pur conservando un’individualità propria, ha la capacità di ricondurre a unità un aggregato
di altre monadi → l’«anima» è la monade che nell’uomo fa sì che le diverse monadi componenti il
corpo costituiscano un organismo che obbedisce a un principio vitale unitario. Al contrario, nella
materia inorganica manca una monade dominante che riconduca le altre all’unità.
La dottrina delle piccole percezioni è strettamente legata alla concezione della conoscenza → poi-
ché la monade comprende in sé tutte le sue percezioni, presenti e future, essa involve in sé anche
tutta la sua conoscenza: il suo sapere è innato in essa e ciò che appare come un processo di ap-
prendimento è solo il passaggio delle percezioni dallo stato di oscurità e confusione a quello di
chiarezza e distinzione, quindi di coscienza. Leibniz riprende così le tesi innatistiche che derivavano
da Platone, introducendo però una correzione: le nozioni innate non sono latenti nella mente
dell’uomo sin dall’inizio nella loro interezza, ma sono piuttosto virtualità che devono ancora esplicarsi
secondo la legge di sviluppo interna alla monade stessa.
Armonia prestabilita → ciascuna percezione di una qualsiasi monade è armonizzata non solo con le
proprie percezioni che la precedono e la seguono, ma anche con quelle di tutte le altre monadi →
dottrina dell’«armonia prestabilita»: all’atto della creazione del mondo Dio ha dato a ciascuna
monade una legge di sviluppo che si armonizza con quella di tutte le altre. Leibniz fa l’esempio dei
due orologi che camminano allo stesso modo e indicano sempre la stessa ora. Spiegazione:
 Causalità esterna → i due orologi sono connessi in maniera tale da influenzarsi a vicenda.
 Occasionalismo → c’è un abile orologiaio che interviene continuamente sugli orologi per
metterli al passo: l’accordo tra sostanze diverse è imputabile al continuo intervento di Dio.
 Armonia prestabilita → entrambi gli orologi sono così precisi che, avendo ricevuto la stessa
carica, devono seguire solo gli impulsi che già contengono in sé per indicare la stessa ora.
Teodicea → alla dottrina dell’armonia prestabilita è strettamente connessa quella secondo cui Dio
ha creato il migliore dei mondi possibili. Siccome Dio è la «monade delle monadi», nella sua mente
infinita, oltre al mondo esistente, sono contenute le idee di tutti i mondi possibili che Dio avrebbe
potuto creare. Allora, perché Dio ha creato proprio questo mondo? Secondo Leibniz perché è il
migliore tra tutti. Dio infatti, pur essendo libero di fare ciò che vuole, in quanto infinita bontà è «moral-
mente necessitato» a scegliere il «miglior piano possibile». Leibniz risolve anche il problema della
«teodicea», cioè la compatibilità del male nel mondo con l’esistenza e la bontà di Dio: egli non crede,
infatti, che il mondo sia privo di mali, ma che in questo mondo si realizzi un rapporto tra bene e male
che, tra tutti i mondi possibili, rende compatibile la massima quantità di bene con la minima quantità
di male. In particolare, Leibniz mostra come una certa quantità di male, sia metafisico che morale, è
inevitabile in un modo finito:
 «Male metafisico» → concetto negativo che esprime la differenza tra il creato e il creatore,
ovvero l’impossibilità che il mondo e l’uomo abbiano la stessa perfezione di Dio.
 «Male morale» → nasce dall’imperfezione necessaria dell’uomo. Infatti, la percezione e la
conoscenza umane non possono mai raggiungere quella chiarezza e distinzione assoluta
che è propria di Dio solo: nell’uomo rimane sempre un residuo di oscurità e di confusione
che sta all’origine di ogni errore e di ogni peccato.
Questa tesi venne definita «ottimismo», ed esso è connesso a sua volta con un altro importante
aspetto del pensiero leibniziano, il finalismo: esso si ritrova nella monade, nella quale esiste un im-
pulso a passare a percezioni sempre più chiare e distinte. In ciò la monade consegue una sempre
maggiore perfezione, ma poiché quest’ultima consiste nella sempre più chiara comprensione dei
legami che connettono la monade a tutto il resto del mondo, essa acquista un significato morale
oltreché cognitivo. Nella contemplazione dell’armonia del mondo l’uomo comprende come nell’uni-
verso tutto sia volto al bene e come la sua stessa esistenza individuale debba contribuire a quello
scopo: egli consegue così la destinazione specifica della sua natura e, contemporaneamente, rea-
lizza la felicità a cui ogni uomo aspira.
GIAMBATTISTA VICO (1668-1744)

Dopo le sintesi rinascimentali e il nuovo pensiero scientifico di Galileo, la filosofia italiana conobbe
un lungo periodo di decadenza: essa assume un carattere provinciale, tendendo a privilegiare la
cultura retorico-umanistica e a rendere difficile la diffusione della filosofia cartesiana. Un’eccezione
è Napoli, sede dell’Accademia degli Investiganti in un periodo in cui l’istituzionalizzazione della cul-
tura è affidata ad esse: è l’ambiente filosofico napoletano a introdurre il cartesianesimo in Italia,
poiché l’Accademia degli Investiganti ha carattere prevalentemente scientifico. L’introduzione del
cartesianesimo a Napoli dipende dal fatto che esso appare un valido strumento per opporsi alla
cultura tradizionale e favorire una maggiore apertura alla scienza. Dove invece viene considerato
dal punto di vista filosofico, il cartesianesimo riceve più critiche che elogi e tende a venire ricondotto
alle tradizioni filosofiche precedenti:
Paolo Mattia Doria → cartesianesimo ricondurlo entro il platonismo e l’agostinismo, depurandolo dei
suoi aspetti più rivoluzionari. Doria risulta più critico che altro: chiarezza e distinzione sono in-
sufficienti a garantire la verità, il metodo geometrico è troppo astratto per cogliere la realtà e il ra-
zionalismo esclude un autentico spirito religioso.
Il cartesianesimo viene dunque apprezzato solo se accostato al metodo scientifico, ma proprio per
questo è rifiutato dove sui nuovi interessi per la scienza della natura e per la fisica prevale il tradi-
zionale ossequio per la cultura umanistica.

Giambattista Vico.
Nato a Napoli da famiglia modesta, Vico compì i primi studi in un collegio di gesuiti e studiò giuri-
sprudenza. Accanto ad essi, molto importante è la sua preparazione autodidattica, iniziata già da
giovane con letture personali e completata con studi di metafisica e di diritto. Vico era ostile alla
matematica, che abbandonò presto. Divenne professore di Eloquenza presso l’Università di Napoli
e, in quanto tale, pronunciava le «orazioni inaugurali»: nel De nostri temporis studiorum ratione
(1708) Vico prende le distanze dal cartesianesimo → primo scritto filosoficamente interessante.
Aspirando alla cattedra di Diritto, Vico pubblicò alcuni lavori di carattere giuridico, dalla quale riela-
borazione nasce Scienza nuova prima (1725), successivamente riedita – Scienza nuova seconda
(1730) – e integrata con Correzioni, miglioramenti e aggiunte – la Scienza nuova terza (1744).
L’erudizione di Vico e vastissima e innumerevoli sono le influenze degli autori letti, soprattutto quelli
classici. Nella sua autobiografia, Vico ne riconosce solo quattro:
 Platone → esistenza di una natura ideale dell’uomo, in base alla quale si possono conoscere
il suo modo di pensare e di agire («storia ideale eterna»).
 Tacito → considera la realtà umana nella fatticità degli impulsi e delle passioni.
 Bacone → il metodo empirico che indica errori e pregiudizi che si devono evitare.
 Grozio → esistenza di un diritto naturale condiviso da tutte le genti.
Si può aggiungere come influenza Cartesio, anche se in maniera negativa: il sistema cartesiano è
giudicato debole nella strutturazione metafisica, pericoloso per la preferenza accordata alle mate-
matiche sugli studi umanistici e obsoleto per la ripartizione di motivi filosofici dell’antichità.
La critica a Cartesio → «verum ipsum facto».
Nel De nostri temporis Vico esprime una prima critica a Cartesio:
 Il metodo di Cartesio non educare i giovani all’eloquenza perché privilegia le attitudini logico-
matematiche sull’esercizio della fantasia e della memoria.
 Cartesio pretende che l’uomo, attraverso l’impianto logico-matematico della sua ragione,
conosca il mondo naturale così come è in realtà.
Bisogna invece distinguere nettamente tra ciò che è opera dell’uomo, e in quanto tale può essere
pienamente conosciuto e dimostrato, e ciò che è opera di Dio – la natura fisica – che, in quanto tale,
può essere solo contemplato senza essere conosciuto dimostrativamente → deve esserci
corrispondenza tra ciò che è vero e ciò che viene fatto dal soggetto che conosce: si conosce solo
ciò di cui si è causa, ciò che si fa. Il mondo naturale può così essere conosciuto pienamente solo da
Dio, mentre l’uomo conosce prima di tutto la matematica, poi le altre scienze astratte: esse sono
tanto più conoscibili quanto più si allontanano dalla realtà naturale creata da Dio.
Questo concetto nega i capisaldi della filosofia cartesiana: esso implica, infatti, una netta distinzione
della «scienza» – conoscenza diretta delle cause – dalla semplice «coscienza» di una cosa, che
prescinde da quella conoscenza. Questo significa però rifiutare il principio cartesiano dell’evidenza
– la verità si presenta immediatamente alla coscienza. La verità fondamentale da cui possono essere
derivati tutti gli altri contenuti conoscitivi non è il «cogito», bensì Dio, nel quale esistono le «forme»
tutte le cose, in quanto loro creatore. L’uomo, invece, conosce veramente solo quando è egli stesso
facitore di ciò che conosce (intelligere, «intus-ligere»: leggere dentro), mentre negli altri casi la
conoscenza è un semplice cogitare («co-agere»: raccogliere, mettere insieme).
La «scienza nuova» → estensione del principio del «verum ipsum factum» alla storia.
In seguito alla lettura di Grozio, Vico si interessa al «mondo civile»: l’ambito dei costumi, del diritto
e della politica, considerati nell’elemento della storia, cioè della concretezza delle trasformazioni.
A differenza del mondo naturale, il «mondo civile» è opera dell’uomo e può essere oggetto di un
vero e proprio sapere scientifico. Vico interrompeva la lunga tradizione dello «scetticismo storico»,
secondo cui non c’è scienza nella storia. Nello stesso tempo VIco anticipava l’interesse per il signi-
ficato generale dello sviluppo storico alla base delle «filosofie della storia» successive. La scienza
storica è resa possibile dal concorso di due discipline, che riflettono il suo duplice scopo:
1. Filologia → La storia deve accertare i fatti, distinguendo criticamente ciò che è veramente
accaduto dal resto. La filologia è intesa da Vico come l’insieme delle discipline che, mediante
l’analisi critica delle testimonianze del passato, hanno funzione documentaria: per questo si
delinea come «scienza del certo».
2. Filosofia → la storia deve comprendere le ragioni e le cause dei fatti filologicamente accertati.
La filosofia si delinea come scienza del «vero», cioè delle cause che possono spiegare
(«inverare») gli avvenimenti.
Per raggiungere il suo scopo, nella scienza storica «certo» e «vero» devono convergere.
Per conoscere la natura delle cose bisogna conoscere la loro genesi, e poiché il «mondo civile» è
opera degli uomini, per conoscere e spiegare i fatti storici bisogna far riferimento a come sono nati
nella mente degli uomini, prima che nella realtà (il «vero» nel «certo») → la storia si configura come
una «metafisica della mente umana», cioè un’analisi dello sviluppo dell’attività spirituale dell’uomo.
Il primo compito dello storico è ricostruire una «lingua mentale comune a tutti», sulla base della quale
si può comporre un «vocabolario mentale comune a tutte le lingue»: così si può ricostruire la struttura
fondamentale della vita psichica dell’uomo che presiede allo sviluppo dei suoi sentimenti, fantasie e
pensieri. Indipendentemente dai luoghi e dalle culture in cui nascono, gli uomini hanno dunque
alcune modalità comuni di sentire, pensare e, quindi, di agire, a seconda del grado di sviluppo storico
in cui si trovano. In questa comunanza la storia rivela le proprie verità:
 Esiste un diritto naturale riconosciuto da tutte le nazioni.
 Tre usanze sono presenti presso tutti i popoli, tanto da poter valere come principi generali
della «scienza nuova»: la religione, i matrimoni solenni, la sepoltura dei morti.
Questo modello evolutivo della mente umana è la «storia ideale eterna», che è alla base delle
molteplici storie reali dei singoli popoli: nascita, sviluppo, maturità, declino e scomparsa dei popoli
obbediscono a un disegno radicato nella mente umana (per questo «ideale»).
Il modello della storia ideale libera la ricerca storica da due pregiudizi:
 La «boria delle nazioni» → ciascun popolo ha la tendenza a rivendicare la scoperta delle
conoscenze o dei ritrovati che stanno alla base della storia umana.
→ tutte le nazioni, nel loro sviluppo, seguono l’ordine, uguale per tutti, della mente dell’uomo
in generale.
 La «boria dei dotti» → tendenza degli studiosi a credere che la loro scienza sia antica come
il mondo e che sia già stata posseduta dai più antichi sapienti dell’umanità.
→ lo sviluppo mentale dell’umanità si svolge secondo una successione di fasi naturali: la
mentalità degli antichi non può essere uguale a quella dei contemporanei.
Ma la storia deve essere considerata anche, come ha insegnato Tacito, come sede delle passioni e
degli egoismi umani. Anche in questo caso, però, il corso storico obbedisce a un disegno, perché le
passioni sortiscono un effetto molto diverso da quello voluto dagli uomini: ad esempio, dall’impulso
sessuale, che mira alla soddisfazione fisica, nacque l’istituto della famiglia, così come dall’ambizione
e dal desiderio di dominio sorsero la città e lo Stato. Questo disegno è opera di Dio, perché solo Dio
può assegnare alle azioni individuali una finalità che va al di là delle intenzioni di chi le compie: la
storia è retta dalla provvidenza divina, che è insieme un «fatto storico», accertabile dall’esito delle
azioni degli uomini, e un criterio direttivo della ricerca, perché solo attraverso il presupposto di
un’«eterogenesi dei fini» è possibile orientarsi nella ricostruzione storica.
La scienza storica è assieme «storia d’umane idee» e «teologia civile ragionata della provvidenza
divina»: «teologia» in quanto scienza di Dio e della sua provvidenza; «civile» perché ha per oggetto
il «mondo civile»; «ragionata» perché la provvidenza opera attraverso i «naturali costumi umani», in
modo da essere trasparente alla ragione dell’uomo. Il corso storico appare essere insieme opera
dell’uomo e opera di Dio.
Il principio «verum ipsum factum» esteso alla storia riceve un fondamento ontologico e teologico:
ciò che si conosce e si fa non è arbitrario, ma è condizionato dalla struttura mentale dell’uomo, che
a sua volta è condizionata dall’azione provvidenziale di Dio. Progettando la «scienza nuova», Vico
intendeva fondare la storia sulla metafisica in maniera duplice:
 Introducendo un nuovo significato di metafisica → non più solo determinazione della natura
dell’essere e della realtà in generale (ontologia), ma configurazione della «mente umana»,
cioè dell’apparato cognitivo specifico dell’uomo considerato nelle sue manifestazioni razio-
nali e prelogiche (gnoseologia).
 Il rinvio alla dimensione teologica conserva il carattere «oggettivo» della metafisica e confe-
risce alla storia un fondamento assoluto che esclude relativismo e soggettivismo.
Le tre età → ci sono tre momenti dello sviluppo ideale della «metafisica della mente umana», ai quali
corrispondono altrettante facoltà conoscitive:
 Infanzia → senso: conoscenza oscura.
 Giovinezza → fantasia: l’emotività rende l’immagine più chiara ma poco oggettiva.
 Maturità → ragione: riflessione serena, libera dall’oscurità e dall’emotività.
A queste corrispondono tre età in cui sono presenti tutte e tre le facoltà, ma una prevale sulle altre.
1. L’«età degli dei» → fase primitiva della storia umana in cui prevale il «senso». I primi uomini hanno
una vita spirituale limitata, compensata dalla forza fisica e dalle gigantesche dimensioni. Alcuni di
essi raggiungono un livello spirituale sufficiente a provare meraviglia di fronte agli eventi e alle forze
della natura, che identificanocon le divinità. Poiché tutta la realtà viene così «sentita» come divina,
la religione costituisce il primo passo dei giganti verso la civiltà. Essa diventa anche principio di altre
due conquiste:
 Matrimoni solenni → temendo l’ira degli dei, i giganti l’accoppiamento casuale.
 Seppelliscono i morti e considerano sacri i recinti in cui sono avvenute le sepolture.
→ sono quindi già presenti i tre principi che Vico ritiene essere comuni a tutti gli uomini.
Organizzazione politico-sociale → «repubbliche monastiche», cioè nuclei familiari organizzati in
forma patriarcale.
2. L’«età degli eroi» (Grecia omerica o la Roma dei re) → prevale la «fantasia».
Età dominata dagli eroi, che pretendono di discendere dalle divinità. Essicostruiscono le prime città
e accolgono in qualità di «famoli» (servi) quegli uomini-giganti che, rimasti nello stato di natura ori-
ginario, cercano riparo dalle violenze dei loro simili. Alla lunga i famoli si ammutinano, costringendo
i forti a organizzarsi in Stati aristocratici, in cui ciascun padre-re della precedente età entra a far parte
della nuova classe dirigente → distinzione tra patrizi e plebei, tra i quali la tensione rimane
permanente fino al progressivo riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini, con il quale si entra
nella terza età.
3. L’«età degli uomini» (Grecia classica, Roma repubblicana e civiltà moderna) → prevale la «ra-
gione». Le repubbliche si trasformano da aristocratiche in popolari, nelle quali le distinzioni sociali e
politiche sono affidate al censo e non più alla discendenza. Questa età è la fase della ragione di-
spiegata: solo ora può nascere la filosofia, cioè una metafisica che non sia più semplicemente sentita
o fantasticata, ma affidata alla riflessione della «mente pura».
«Ricorso storico» → lo schema triadico non è irreversibile: lo scetticismo, l’anarchia e il lusso ec-
cessivo possono far decadere gli uomini e farli tornare all’inizio del ciclo mentale dell’umanità. Un
esempio è il Medioevo, inteso come perdita di quei valori raggiunti con la Grecia classica e la Roma
repubblicana, e che comporta anche il ritorno del senso della fantasia (è l’età di Dante). La teoria
dei «ricorsi» ha una certa affinità con le interpretazioni cicliche del processo storico elaborate
nell’antichità, soprattutto dagli stoici, ma, a differenza di quelle, essa è presentata solo come una
possibilità, che deriva dal fatto che la successione non ha un carattere necessario o definitivo.
La sapienza poetica → la terza età è più marcatamente distinta dalle altre due perché più c’è ragione,
meno c’è fantasia. Le prime due età, invece, appaiono più vicine perché le facoltà prevalenti si
completano a vicenda. Infatti, l’età degli dei e quella degli eroi hanno in comune l’elemento della
«poesia» (poièin: fare, creare): i primi poeti, i «poeti teologi» che immaginano Giove e le altre divinità,
sono veri «creatori» di realtà che prima non esistevano, ovvero idee, costumi, comportamenti. Da
qui deriva la grande importanza attribuita da Vico alla sapienza poetica. La sapienza poetica degli
antichi, infatti, non è priva di verità: «vero poetico» e «vero metafisico» coincidono. I contenuti della
sapienza poetica non sono diversi da quelli della sapienza razionale, ma ciò non significa che essa
la prima sia un sapere già conosciuto in forma razionale: il linguaggio poetico è velato da
un’espressione misterico-allegorica dalla quale esso va spogliato per arrivare alla purezza concet-
tuale → Vico afferma il valore autentico della poesia nei confronti del pensiero logico-razionale.
La poesia costituisce invece «universali fantastici» o «generi fantastici», nei quali una particolare
immagine del senso e della fantasia esprime un contenuto conoscitivo a carattere generale: così,
nella cultura omerica, Achille è la rappresentazione del coraggio, Ulisse quella della prudenza, etc.
Tenendo conto che la sapienza poetica, come si è detto, ha sempre un contenuto di verità, anche
l’universale fantastico non è mera fantasia, ma è una realtà (ancorché fantastica) superiore alla
stessa realtà fisica: «il vero capitano di guerra, per esemplo, è ‘l Goffredo che finge Torquato
Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri
capitani di guerra».
Questa concezione si riflette nel linguaggio. Gli uomini, secondo Vico, hanno iniziato a parlare in
poesia e non in prosa. Il linguaggio cantato precede quello parlato, come si evince anche
filologicamente: le prime testimonianze letterarie dei popoli antichi sono infatti in poesia, non in
prosa. Da ciò consegue anche l’infondatezza della tesi che sostiene l’origine convenzionale e
arbitraria del linguaggio. Le lingue hanno un’origine naturale, poiché sono la traduzione fonica
delle immagini poetiche che i popoli hanno sviluppato nell’antichità in accordo con il loro grado di
sviluppo mentale e storico. Soltanto nella terza età – degli uomini e della ragione – sopravviene la
componente convenzionale del linguaggio. In armonia con questa visione è la dottrina della
«discoverta del vero Omero»: la tesi – oggi non più accolta – è che Omero non sia né un poeta
singolo, né un cantore immaginario, ma il popolo greco nel suo insieme. In altri termini, Omero è
una realtà storica non già in quanto persona fisica, ma perché rappresenta il «carattere eroico»
unitario in cui si sono riconosciuti i diversi rapsodi che in Grecia andavano cantando le epopee
popolari dell’Iliade e dell’Odissea.
LA FILOSOFIA INGLESE NEL SETTECENTO

Tra Seicento e Settecento si verifica in Inghilterra un rinnovamento culturale, favorito da due condi-
zioni: sul piano socio-economico la costituzione di un forte ceto medio, dedito all’attività manifattu-
riera e al commercio; sul piano politico la Gloriosa rivoluzione, concludendo il conflitto tra Parlamento
e Corona, garantiva definitivamente all’Inghilterra una monarchia di tipo costituzionale. Veniva ricon-
fermato così il nuovo peso della borghesia e assieme iniziava un periodo di maggiore apertura reli-
giosa e culturale: l’«Atto di tolleranza» (1689) riconosceva la libertà religiosa ai protestanti non an-
glicani.
Evoluzione filosofica → fine dell’egemonia cartesiana e del metodo razionalistico, a cui si sostituisce
l’esigenza di un metodo empirico-sperimentale. I maggiori esponenti di questo nuovo atteggiamento
sono Locke e Newton:
 Locke → conoscenza condizionata dall’esperienza e abbandono dell’idea che ragione
umana sia principio assoluto di un sapere dedotto da pochi principi innati.
 Newton → sperimentalismo scientificoche non lascia spazio a ipotesi metafisiche e fa della
stessa matematizzazione dell’universo una teoria da dimostrarsi sperimentalmente.
Pensiero religioso → analisi del rapporto tra ragione e rivelazione. Anche in questo campo si nota
una presa di distanza sia dalle reticenze di Cartesio, sia dagli esiti tendenzialmente o apertamente
irreligiosi di alcuni sviluppo del razionalismo seicentesco (Spinoza e Hobbes).
Pensiero etico → tentativo di trovare una fondazione autonoma della morale, che riconosca l’indi-
pendenza della vita etica da motivazioni di carattere metafisico e religioso. La norma etica deve
essere fondata sulla natura umana studiata empiricamente nelle sue componenti sentimentali, pas-
sionali e razionali.
Questi sviluppi rientrano oppure no nell’illuminismo? Sicuramente la nuova concezione di ragione,
cioè una ragione scientifico-strumentale empiricamente condizionata, è un fattore che fa pensare a
una risposta affermativa. A differenza della Francia, però, dove la funzione critica della ragione in-
veste tutti gli aspetti della tradizione, dalla religione rivelata alla concezione della realtà in generale,
in Inghilterra la critica non assume toni radicali ed è rinchiusa in ambiti stretti. Questo perché l’illu-
minismo francese si è sviluppato in specifiche condizioni sociali e politiche. In Francia, inoltre, i phi-
losophes danno vita a un vero e proprio movimento culturale che consapevolmente promuove il
rinnovamento della società: anche la componente dell’istituzionalizzazione manca del tutto al pen-
siero inglese del Settecento. Nel rapporto tra rivelazione e ragione, infine, i sostenitori della religione
ufficiale sono più numerosi e hanno molto più seguito dei «deisti»: non è un caso che Berkeley utilizzi
la forza dell’empirismo lockiano in chiave religiosamente e politicamente conservatrice.
Questo non vuol dire che non si possa parlare di illuminismo britannico, anzi, per l’Europa è più
corretto parlare di diverse interpretazioni dell’illuminismo: ogni paese ha infatti la propria interpreta-
zione, con caratteristiche diverse in base alla storia politica, economica, sociale e culturale in cui si
sviluppa.

Isaac Newton (1642-1727)


Newton studiò a Cambridge, dove insegnò Matematica (1669). Scopre il calcolo infinitesimale e
applica gli studi matematici alla fisica meccanica e all’astrologia: il suo capolavoro è il Philosophia
naturalis principia mathematica (1687), dove è esposta la teoria della gravitazione universale. Nel
1689 Newton inizia una brillante carriera politica e diventa presidente della Royal Society.
I Principia sono un’opera di risistemazione generale dei principi della fisica («filosofia naturale»).
Essi si aprono con alcune definizioni importanti, come quella della massa e della forza, distinta in
«forza insita» (o d’inerzia) e «forza impressa». Segue poi la formulazione dei tre assiomi relativi alle
leggi del movimento:
 Principio d’inerzia → «ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uni-
forme, a meno che non sia costretto a mutare tale stato da qualche forza impressa».
 Caduta dei gravi → «l’accelerazione è proporzionale alla forza motrice impressa».
 «A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria».
La tesi più importante dei Principia è però la legge della «gravitazione universale»: tutti i corpi si
attraggono reciprocamente con una forza direttamente proporzionale alla loro massa e inversa-
mente proporzionale al quadrato della loro distanza. Essa è così importante perché consente di
ridurre il mondo fisico a unità, esprimendo in un’unica formula matematica la dinamica dei fenomeni
terrestri e di quelli celesti.
Nell’Ottica invece, Newton espone la dottrina della luce, inserendola nel quadro del meccanismo e
del corpuscolarismo: la luce, come tutti i fenomeni materiali, viene spiegata come un movimento di
particelle provenienti dall’oggetto luminoso. Importanti sono anche gli studi sul colore: egli scoprì
l’effetto del bianco è dato dalla compresenza di tutti i colori, mentre il nero è l’assenza di colore.
Il metodo → metodo empirico-induttivo.
La ricerca scientifica deve partire dalla conoscenza sperimentale del particolare e risalire induttiva-
mente a elementi più generali. Un secondo aspetto è il rifiuto delle «ipotesi» (tutto ciò che non deriva
dall’esperienza), sia quelle metafisiche (come le «qualità occulte» degli aristotelici) che quelle fisi-
che. Un terzo punto è la distinzione dei momenti dell’«analisi» e della «sintesi», che in Newton si
configura come una specificazione del procedimento induttivo:
 Analisi → da esperimenti e osservazione bisogna trarre induttivamente conclusioni generali.
Si può così procedere dalle cose composte alle cose semplici, dagli oggetti alle loro cause e
dalle cause più particolari a quelle più generali.
 Sintesi → assumere come principi le cause scoperte e provate e, tramite queste, spiegare i
fenomeni che ne derivano e provare tali spiegazioni.
Newton però crede nella metafisica e formula lui stesso una dottrina metafisico-teologica: l’esistenza
di un Dio infinitamente sapiente e potente, un «perfetto architetto del mondo», è dimostrato speri-
mentalmente dal fatto che la natura sia un sistema ordinato e regolato da leggi necessarie. Dio non
solo garantisce la perfezione delle leggi naturali, ma è anche il luogo in cui tutte le cose vengono
percepite e conosciute nella loro oggettiva realtà: spazio e tempo realtà relative solo per gli uomini,
ma in di Dio essi sono «assoluti».

Pensiero religioso: pro e contro il deismo.


Con la «teologia sperimentale» Newton intendeva convalidare scientificamente la religione tradizio-
nale. E così avvenne: la maggior parte dei teologi la considerò una sorta di rivelazione naturale che
si aggiungeva a quella scritturale senza correggerla. Essa consentiva di continuare a raffigurare la
divinità come principio creatore e ordinatore del mondo e come Dio personale e vivente.
Altra conseguenza della rappresentazione di Dio come «architetto dell’universo» fu un atteggia-
mento più critico, in opposizione al tradizionale teismo, di pensiero che prese il nome di deismo. La
preminenza data alle argomentazioni scientifiche e razionali ebbe un duplice effetto: rafforzare la
fede nell’esistenza di Dio e nei suoi attributi razionalmente comprensibili (onnipotenza, onniscienza,
perfezione, infinitezza), ma escludere la credibilità di tutto ciò che, pur documentato nella Scrittura,
non era riconducibile a espressione razionale. Veniva così respinta la credenza nei miracoli e negli
eventi soprannaturali della Bibbia, ma entrava anche in crisi la stessa concezione di Dio come per-
sona: la divinità era rappresentata esclusivamente come principio creatore e ordinatore dell’uni-
verso.
John Toland (1670-1722) → utilizza la tesi della ragionevolezza del cristianesimo di Locke in fun-
zione polemica: bisognava eliminare dalla Scrittura tutto ciò che non era riconducibile alla ragione,
perché essa è sufficiente a cogliere gli attributi di Dio e tutto ciò che c’è di vero nel Vangelo: oltre ciò
non esistono verità.
Anthony Collins (1676-1729) → dimostra l’infondatezza di molte tradizioni religiose grazie a un eru-
dito apparato filologico. La critica assume anche una valenza politica perché entra in polemica con
le forme di potere responsabili della mistificazione. Collins è il consapevole fondatore del «libero
pensiero» in chiave costruttiva: eliminando la credenza nel sovrannaturale, il libero pensatore libera
la religione dalla superstizione e la innalza. Sul piano socio-politico il libero pensiero favorisce un
nuovo spirito di pace e tolleranza.
Matthew Tindal (1653-1733) → il Vangelo è considerato una semplice riedizione o copia della reli-
gione naturale o razionale, della quale le singole religioni positive sono solo derivazioni → assoluta
priorità assiologica e cronologica: Dio infatti, essendo perfetto e immutabile, ha dato sempre agli
uomini una legge altrettanto perfetta e immutabile. Il cristianesimo è stato solo utile per ravvivare
una religione naturale appannata, ma successivamente è diventato pericoloso, consolidando super-
stizioni e false credenze che non hanno rapporti con il nucleo originario della legge divina.
La critica deista in Inghilterra rappresenta però una corrente minoritaria rispetto a coloro che si ado-
perano per difendere il cristianesimo ufficiale. Gli argomenti più frequentemente usati sono:
 difesa dell’attendibilità filologica delle narrazioni storiche contenute nella Bibbia.
 Insufficienza della ragione umana a conoscere le verità assolute e gli attributi divini.
 Necessità di una conoscenza analogico-allegorica di Dio.
Samuel Clarke (1675-1729) → tentativo di conciliare cristianesimo e forme più moderate di deismo:
attributi ed esistenza di Dio e leggi universali della natura, cui Dio stesso deve obbedire, sono dimo-
strabili matematicamente → religione fondata sull’ordine razionale e necessario della natura. Ma
l’essenza è impenetrabile per l’uomo: religione razionale e rivelazione devono essere integrate per
avere pieno accesso alla verità.
Joseph Butler (1692-1752) → riconosce un’ampia sfera di analogia tra ordine naturale e religione
poiché entrambi provengono da Dio. Ma l’elemento comune a spiegare entrambi è l’inadeguatezza
della ragione: all’impossibilità di penetrare razionalmente i misteri religiosi corrispondono analoghi
limiti della ricerca scientifica nel giustificare i propri principi. Emerge così l’esigenza di integrare il
dato razionale con quello rivelato, che fornisce all’uomo la più convincente fonte di conoscenza.

Pensiero etico: i moralisti inglesi.


Anthony Ashley Cooper (1671-1713) → nella Lettera sull’entusiasmo (1708) mette in guarda gli uo-
mini dall’«entusiasmo», cioè il pericolo del fanatismo, dell’intolleranza, della sicurezza di chi crede
di avere sempre ragione. Ad esso egli oppone un tollerante senso dello humour. In filosofia morale
egli intende opporsi allo scetticismo etico e all’individualismo egoistico di Hobbes. Ad essi contrap-
pone una visione fondata sull’ottimismo e sull’armonicismo mutuata dal platonismo di Cambridge:
l’universo è un sistema ordinato in cui le leggi più generali sono armonicamente connesse a quelle
più particolari. Ciò si riflette dal piano metafisico a quello morale: il bene comune si accorda piena-
mente con quello individuale perché, quando l’interesse privato è guidato da «scelte razionali» che
tengono conto dell’interesse comune, l’individuo consegue la più alta «felicità» individuale nel per-
seguimento del bene universale. Non c’è quindi alcun conflitto tra egoismo e altruismo. Per guidare
l’uomo verso le giuste scelte morali non è sufficiente la ragione: ad essa sopperisce il «senso mo-
rale», che percepisce immediatamente la differenza tra bene e male perché mostra la bellezza in-
trinseca alle azioni buone e fa provare un naturale senso di disgusto per quelle cattive. Egli sostiene
anche la completa autonomia della morale dalla religione: le leggi morali non derivano dal fatto che
Dio è buono e giusto ma, viceversa, Dio è tale in quanto esistono una giustizia e una bontà in sé,
riconosciute nella loro oggettività dagli uomini e da Dio.
Bernard de Mandeville (1670-1733) si oppone invece all’ottimismo di Cooper.
Favola delle api (1714) → una fiorente società di api, che agiscono sulla sola base dell’egoismo, si
corrompe e va in rovina in seguito all’introduzione in essa della virtù e dei principi morali. La molla
di ogni prosperità risiede nell’egoismo, che spinge ciascuno a competere con gli altri, mentre i «vizi
privati» creano bisogni superflui che incrementano la domanda economica e la produzione. Il «vizio»
– concepito come «ogni atto che l’uomo compie per soddisfare un appetito» – acquista un valore
positivo perché in esso risiedono le passioni naturali alla base di ogni attività e grandezza umana,
mentre a «virtù» – «ogni azione contraria all’impulso naturale» intesa a frenare le passioni – porta
all’immobilità sociale. Mandeville ripropone una concezione conflittuale e anti-armonicistica della
realtà sociale e nega l’esistenza di alcun ordine morale naturale.
Francis Hurcheson (1694-1747) → introduce nell’ambiente scozzese le dottrine di Cooper.
Hutcheson riprende il tema della benevolenza universale come componente basilare della natura
umana: gli uomini posseggono un senso estetico (gusto) alla base delle loro valutazioni estetiche e
un «senso morale» che li induce spontaneamente a provare piacere di fronte alle azioni virtuose,
senza tener conto dell’utilità che esse possono presentare. Le azioni che il senso morale spinge ad
approvare massimamente sono quelle che procurano «la maggior felicità per il maggior numero».

George Berkeley (1685-1753).


La filosofia di Berkeley è una reazione alle nuove tendenze filosofiche in Inghilterra:
 Deisti e liberi pensatori → difesa del valore della religione rivelata e della connessione tra
religione e morale.
 Newton → la concezione meccanicistica della realtà viene vista come una pericolosa con-
cessione allo spirito antireligioso.
Per difendere la tradizione religiosa, Berkeley si serve dell’emprismo di Locke, che però viene com-
pletamente riformulato secondo due linee di sviluppo per alcuni aspetti antitetiche: da un lato viene
radicalizzato fino a mettere in dubbio alcuni capisaldi lockiani, dall’altro si trasforma in una sorta di
idealismo neoplatonico, nel quale la riduzione della realtà al suo essere percepita si traduce in un
atteggiamento di mistica contemplazione delle idee in Dio.
Berkeley nasce nel 1685 in un’Irlanda travagliata dalle tensioni tra una maggioranza irlandese au-
toctona sostenitrice degli Stuart e una minoranza dominante di origine inglese: esponente di
quest’ultima, Berkeley decide di lasciare l’Irlanda per Londra, poi la Francia e l’Italia. Nel 1721, tor-
nato in Gran Bretagna, si dedica alla fondazione di un collegio nelle Bermude per evangelizzare i
selvaggi americani. Partito per l’America nel 1728, deve ritornare in Inghilterra dopo aver fallito.
Le sue opere possono essere divise in due gruppi:
 Periodo giovanile → problema della conoscenza analizzato da un punto di vista empiristico.
 Orientamento neoplatonico → nell’Alcifrione Berkeley polemizza contro i deisti e i «liberi pen-
satori», mentre in Siris (1744) sviluppa una sorta di ascesi platonica dall’illusorietà dei sensi
alla luce dell’intelletto.
La critica alle idee astratte → per Berkeley, come per Locke, le idee sono l’oggetto della conoscenza
(rappresentazioni mentali) e l’unica loro fonte è l’esperienza: una «mela» è solo un insieme di sen-
sazioni che l’esperienza ci presenta solitamente congiunte. Berkeley, però, critica la dottrina delle
idee astratte di Locke: il processo di astrazione, per cui l’uomo formula idee astratte separandole
dalle altre qualità dell’oggetto, non è possibile. Le rappresentazioni mentali degli uomini sono sem-
pre idee particolari: quando pensiamo a un uomo, non formuliamo mai l’idea astratta «uomo», ma
immaginiamo sempre un uomo con determinate qualità. Si può però fare un uso generale delle idee
particolari. È possibile infatti servirsi di idee particolari per rappresentare tutte le idee che apparten-
gono a una stessa specie: quando si pensa all’uomo in generale, si ha in mente un uomo particolare
senza le sue qualità, così da riferire la rappresentazione di «uomo» a tutti gli uomini.
Berkeley ritiene che l’infondato riconoscimento di idee astratte porti con sé altri due errori: l’erronea
distinzione tra qualità primarie e secondarie e la falsa supposizione di una sostanza materiale da cui
derivino le idee percepite dal soggetto conoscente.
La critica della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie → la dottrina delle qualità primarie
significa riconoscere l’esistenza e la conoscibilità di una realtà indipendente dalle modalità percettive
e conoscitive dell’uomo. Berkeley polemizza contro il carattere matematico di qualità come la di-
stanza (spazio) e la grandezza (estensione), negando che esse, percepite in un oggetto, siano de-
terminabili in base a leggi ottiche di carattere geometrico. La nozione di queste qualità è invece data
dall’esperienza: la corrispondenza tra idee visive e tattili – che sembra dare maggiore oggettività –
è solo una relazione soggettiva confermata dall’abitudine. La funzione esercitata dalle idee visive di
distanza e di grandezza – anzi da tutte le qualità primarie – non è conoscitiva, ma pratica, perché
sono un segno convenzionale attraverso cui la natura, e mediante lei Dio, ci consente la conserva-
zione e il benessere del corpo.
Berkeley intende dimostrare che non solo le qualità secondarie hanno carattere relativo, ma anche
le cosiddette qualità primarie: ciò che all’uomo appare piccolo, ad esempio, ad un insetto sembra
enorme. Diventa così impossibile percepire estensione o movimento come concetti assoluti: la tesi
newtoniana di uno spazio e di un tempo assoluti sembra il risultato di un fallace processo astrattivo
– lo spazio, ad esempio, risulta da una connessione soggettiva tra la percezione del nostro corpo e
quella degli altri oggetti. L’abolizione delle qualità primarie è connessa con il ritorno a una fisica di
tipo qualitativo.
«Esse est percipi» e mente divina → dire che ogni nostra percezione è soggettiva e priva di riferi-
mento a qualità che esistano «fuori della mente» equivale a negare ogni sostanza materiale extra-
mentale da cui derivino le idee: l’esistenza delle cose si esaurisce nel loro essere percepite. Affer-
mare che esista una sostanza materiale al di fuori della mente nasce da un falso processo di astra-
zione: dalle singole qualità percepite sensibilmente si astrae illegittimamente un sostrato metafisico
non percepibile con i sensi che funge da loro elemento comune (la sostanza materiale «mela»).
→ radicale immaterialismo e spiritualismo, per il quale esiste solo lo spirito:
 L’uomo ha idee → dimostra l’esistenza di uno «spirito» che le pensa.
 L’uomo ha coscienza di idee che non è in grado di produrre da sé → dimostra che esse
provengono da uno spirito infinito.
In questo modo l’uomo ha «nozione» – cioè una conoscenza intellettiva indipendente dai sensi – di
una «mente divina», la quale comunica con le menti umane mediante un linguaggio in cui i «segni»
sono costituiti dalle idee.
Dio è la fonte di ogni conoscenza umana perché è causa sia delle idee, sia della loro connessione.
La corrispondenza del nostro modo di connettere le idee con il modo in cui esse sono connesse
nella mente di Dio è ciò che ci permette di distinguere la realtà dal sogno, dove le idee sono con-
giunte arbitrariamente. Berkeley di riconosce così la validità delle leggi della natura, scoperte dalla
scienza umana ma stabilite nella mente di Dio: tali leggi, tuttavia, non potendo avere riscontro nella
realtà oggettiva, sono solo espressioni del «linguaggio» con cui Dio parla agli uomini e provvede alle
loro necessità concrete → valore pratico in vista dell’orientamento dell’azione umana.
Religione, morale, politica → negli scritti della maturità vengono abbandonate le dottrine metafisiche
e gnoseologiche, mentre emergono le argomentazioni apologetiche del filosofo.
Alcifrone → esposizione in forma dialogica del suo pensiero religioso e morale. Obiettivo polemico
sono i deisti e i liberi pensatori: Alcifrone significa letteralmente «mente potente», con irridente allu-
sione alla presunzione degli «spiriti forti» che pretendono di risolvere tutto con il proprio cervello.
Berkeley denuncia l’inadeguatezza della religione naturale perché non esprime la dimensione della
fede e del culto, due momenti essenziali della vita religiosa. Una vera religione deve quindi essere
rivelata; ma egli si occupa anche della sua «ragionevolezza»: per giustificare i miracoli e i misteri
cristiani ricorre al paragone con la scienza, ricordando che anche in essa i primi principi non sono
spiegabili razionalmente. Egli sostiene anche la stretta dipendenza della morale dalla religione: in
questo è polemico con Cooper e Mandeville.
Siris → metafisica: l’intero universo è permeato e animato dall’etere, una sostanza invisibile. Ma
poiché solo lo spirito è attivo, l’etere è solo il mezzo attraverso cui Dio esplica la propria opera e
comunica con gli uomini per mezzo delle cose animate da esso. Attraverso una comprensione intel-
lettuale della natura e del suo ordine intrinseco, l’uomo può realizzare un’ascesi che lo riconduce
all’intelletto divino.
Pensiero politico → ancorato alla religione: gli uomini devono obbedire passivamente all’autorità
costituita, poiché la legge che da essa emana è riflesso di quella naturale e divina, senza la quale
ogni felicità mondana è impossibile. Ciò esclude ogni concezione contrattualistica dello Stato.

Sensismo, associazionismo, materialismo.


David Hartley (1705-1757) → tentativo di conciliare Locke e Newton. Correggendo Locke, egli ritiene
che non esistano idee di riflessione, ma solo di sensazione. Tutte le idee semplici sono prodotte
dalle «vibrazioni» che attraverso l’etere gli oggetti esterni imprimono sui sensi e, lungo i nervi, sul
cervello. Le idee complesse si formano tramite l’associazione di idee semplici, perché le vibrazioni
di alcune di queste, per la loro particolare forza, lasciano una traccia di sé nel cervello e quindi nella
memoria. Le associazioni più elementari sono quelle del piacere e del dolore, mentre quelle più
complesse producono egoismo, simpatia, moralità, religiosità. Hartley ricorre al meccanicismo per
spiegare l’origine del materiale conoscitivo, mentre risolve i processi mentali superiori in una forma
di associazionismo psicologico. Di conseguenza toglie ogni consistenza metafisica a espressioni
come «io», «anima» o «intelletto», pur non giungendo a una esplicita professione di materialismo.
Joseph Priestely (1733-1804) → chiara affermazione della materialità dell’anima. Il pensiero non è
una realtà spirituale ma solo la funzione di un’entità materiale corruttibile, l’anima. Da ricordare è
anche il pensiero politico: la finalità principale dello Stato è promuovere il bene e la felicità del mag-
gior numero possibile di cittadini.
LA FILOSOFIA SCOZZESE NEL SETTECENTO

Nel Settecento le condizioni economiche e sociali della Scozia sono ancora arretrate, caratterizzata
dal latifondo e dalla servitù della gleba. Si verifica però una fioritura culturale: nei maggiori centri
urbani della Scozia ci sono importanti università che costituiscono un polo di discussione filosofica
che. Il tramite tra la filosofia inglese e quella scozzese è Hutcheson, ma i tre grandi autori scozzesi
di questo periodo sono Adam Smith, Thomas Reid e David Hume.

David Hume (1711-1776)


Hume nacque ad Edimburgo, dove frequentò prima il college poi l’università, ma non terminò gli
studi. Si trasferì in Francia, a La Flèche, dove scrisse il Trattato sulla natura umana. Hume si dedicò
a professioni diverse, dapprima in ambito culturale poi in quello politico-diplomatico. Ritornato in
patria, rivestì ancora incarichi politici a Londra, ma dal 1769 si ritirò a Edimburgo a vita privata. Hume
scrisse la sua prima opera in forma di trattato, genere letterario a cui imputò l’insuccesso: le sue
opere successive saranno scritte nella forma del saggio. La fama di cui godette in vita è però dovuta
alla sua attività di storico, rappresentata dalla monumentale Storia d’Inghilterra.
La sua formazione è radicata nella lettura dei maggiori esponenti della cultura europea: l’empirismo
di Bacone, Locke e Berkeley; lo sperimentalismo di Newton e lo scetticismo francese. Di estrema
rilevanza furono anche i contatti diretti con gli illuministi francesi, con i materialisti Helvétius e Hol-
bach e altri philosophes.
La scienza e l’uomo → Hume progetta di costruire sistematicamente una «nuova scienza della na-
tura umana» perché, nel corso della tradizione filosofica, si erano imposti due generi di filosofia che
non produssero risultati adeguati:
 Filosofia pratica «facile e ovvia» che ha cercato gli argomenti retorici più persuasivi per con-
vincere l’uomo a essere virtuoso, senza mostrare in che modo la virtù e gli altri valori siano
fondati sulla natura umana.
 Filosofia «rigorosa e profonda» → merito di indagare teoreticamente la natura dell’uomo, nei
suoi aspetti conoscitivi e pratici. Spesso ha però identificato la natura umana con una ragione
intesa in maniera astratta.
Questo secondo modo deve essere corretto con un’analisi empirica della natura umana che studi
sperimentalmente i fenomeni in cui si manifesta. Tale scienza deve avere carattere sistematico per-
ché investe sia l’ambito gnoseologico (analisi dei poteri e dei limiti dell’intelletto), sia quello etico,
politico e religioso (esamina gli istinti e le passioni che muovono l’azione dell’uomo).
Questa analisi si rifà al metodo di Newton:
 Ritrovare empiricamente alcuni principi fondamentali, cioè alcuni caratteri essenziali della
natura umana, con cui spiegare i meccanismi della conoscenza e dell’agire dell’uomo.
 Non trascendere i limiti dell’esperienza e non accettare mai ipotesi non confermate empiri-
camente → rigorosa critica della metafisica.
Impressioni e idee → la «percezione» è l’unica fonte della conoscenza umana. In base al grado di
forza e vivacità con cui si presentano, le percezioni si distinguono in due tipi:
 «Impressioni» → percezioni attuali. Hanno massimo vigore e massima evidenza.
 «Idee» → immagini illanguidite delle impressioni, quali si conservano nella memoria.
Tra impressioni e idee c’è quindi piena corrispondenza, trattandosi delle stesse percezioni conside-
rate solo in due momenti. Possiamo però costruire idee cui manca una impressione corrispondente
congiungendo arbitrariamente nel nostro pensiero due idee di cui in realtà non c’è alcuna impres-
sione complessiva. Un’idea è fondata quando si può risalire alle impressioni di cui si compone, per-
ché esse rappresentano l’unica fonte certa di ogni conoscenza. Se le impressioni giustificano sol-
tanto parti dell’idea, o non la giustificano affatto – come nella maggior parte dei concetti metafisici –
allora l’idea è priva di significato. Ciò significa che idee generali o astratte non esistono: le impres-
sioni sono necessariamente particolari, quindi particolari saranno anche le idee che da esse deri-
vano. L’idea astratta è solo un nome con cui indichiamo tutte le idee particolari somiglianti. Allo
stesso modo non esistono idee innate che non dipendano dall’esperienza.
La conoscenza → le idee hanno una naturale tendenza all’associazione vicendevole. I processi
associativi tra le idee sono regolati da tre principi fondamentali:
 Somiglianza → un ritratto richiama naturalmente al pensiero l’originale.
 Contiguità nello spazio e nel tempo → il ricordo di una stanza ci fa pensare alle altre.
 Relazione di causa-effetto → l’idea di una ferita è connessa al dolore.
Hume distingue due generi di conoscenza:
 Conoscenze che riguardano «relazioni tra idee» → le relazioni tra idee sono ottenute rica-
vando un’idea dall’altra, senza dover ricorrere all’esperienza. Conoscenza a priori, indipen-
dente dall’esperienza, quindi necessaria, perché il loro contrario implica contraddizione.
 Conoscenze relative alla «materia di fatto» → è sempre possibile il contrario di ciò che viene
affermato. Conoscenza possibile solo in virtù dell’esperienza e fondata sul principio di cau-
salità.
Il problema diventa investigare la validità della connessione causale → forte critica.
La critica all’idea di causa: abitudine e credenza → esempio delle palle da biliardo.
Nel linguaggio comune noi diciamo che lanciando la palla A contro B, la prima, urtando la seconda,
ne causa lo spostamento e il movimento. In realtà, l’esperienza ci testimonia solo tre cose:
1. Lo spostamento di B avviene solo quando c’è un rapporto di contiguità spaziale tra A e B.
2. Tra il movimento di A e B c’è un rapporto di successione temporale.
3. Tra A e B c’è sempre stata una connessione costante: finora si è sempre verificato che
quando A entra in contatto con B, B si mette in movimento.
Queste tre osservazioni non sono però sufficienti a giustificare l’azione causale di A su B. Anche
con la contiguità spaziale e la successione temporale non è contraddittorio affermare che il movi-
mento di B non è causato da A: potrebbe essere privo di causa o essere prodotto da un’altra causa
a noi sconosciuta. Di conseguenza, anche il fatto che la connessione tra A e B si è verificata sempre
e alle stesse condizioni potrebbe essere casuale: non c’è nulla nella palla A che possa di per sé
spiegare il movimento della palla B. Un uomo che avesse esperienza solo di A non potrebbe mai
derivare da essa la conoscenza di B, come avverrebbe se la connessione tra A e B fosse necessaria.
L’affermazione dell’esistenza di un nesso causale si fonda sull’abitudine: noi siamo abituati a con-
statare, sulla base dell’esperienza, che all’urto di A contro B segue il movimento di B. noi presuppo-
niamo il rapporto causale perché ad esso uniamo il presupposto dell’uniformità del corso della na-
tura: noi riteniamo infatti che la natura obbedisca a leggi costanti, identiche per il passato, presente
e futuro, quindi il fenomeno dovrà ripetersi sempre.
Inoltre, quando vedo A toccare B, non mi limito a prevedere il movimento di B, ma «credo» che B si
muoverà. L’abitudine ad associare tra loro due fenomeni genera la «credenza» nella realtà della
connessione. Essa non ha alcun fondamento razionale, bensì è espressione di un istinto connatu-
rato nell’uomo. Ciò non comporta una contrapposizione tra istinto e ragione: anche la ragione infatti
è un istinto, cioè la tendenza dell’uomo a criticare e a verificare, e fa parte della sua natura.
La critica all’idea di sostanza → critica empiristica all’idea di sostanza, sia materiale che spirituale:
 Sostanza materiale → in virtù dell’esperienza abbiamo impressioni solo di singole qualità
degli oggetti. Tuttavia, poiché siamo abituati a percepirle insieme, pensiamo che apparten-
gano a un’unica sostanza, confondendo con essa il nome di cui ci serviamo per esprimere
la compresenza delle singole proprietà. L’abitudine a vedere sempre congiunte determinate
proprietà genera la credenza nella realtà degli oggetti che le posseggono: questa credenza,
pur non essendo fondata razionalmente e non avendo un valore strettamente conoscitivo, è
pienamente giustificata perché esprime una tendenza naturale dell’uomo.
 Sostanza spirituale → il nostro io non è mai oggetto di un’impressione: noi percepiamo singoli
stati di coscienza e non un loro soggetto unitario. Il soggetto non è una sostanza permanente
e sempre identica, ma piuttosto un flusso di percezioni continue. Il sentimento dell’unità e
della continuità del proprio io è solo una credenza connaturata all’uomo.
Hume porta l’empirismo alle sue estreme conseguenze scettiche, anche se solo sul piano teorico.
Per quanto riguarda la vita pratica dell’uomo, il riconoscimento del carattere naturale della credenza
garantisce la loro efficacia, quindi il rapporto causale, gli oggetti esterni e l’unità della persona. Ma
anche sul piano teorico-filosofico le conoscenze relative a «materie di fatto» non perdono il loro
valore: non bisogna pretendere che siano uguali a certezze razionali, ma possono essere conside-
rate certe nel senso che sono fondate sull’esperienza e sulla naturale tendenza dell’uomo a credere
in esse. La circoscrizione della ricerca all’analisi empirica dei fenomeni e l’esclusione delle «ipotesi
metafisiche» rivelano l’impossibilità di dimostrare razionalmente il valore cognitivo delle conoscenze
relative a «materie di fatto». Ma accettare la «verità» dei fenomeni empirici significa attribuisce
all’istinto, al sentimento, al senso comune, di cui tutti gli uomini dispongono, un fondamento fattuale
immediato che va oltre qualsiasi giustificazione astrattamente razionale.
La morale → Hume intende applicare lo stesso metodo descrittivo e sperimentale: la sua indagine
sull’etica inizia con l’analisi delle passioni che di fatto determinano le azioni degli uomini.
Antirazionalismo etico → le passioni sono impressioni, quindi esperienze, la cui realtà non può
essere giudicata, ma solo constatata. La sola differenza tra passione e percezione è che la passione
è un’«impressione di riflessione», cioè un’esperienza interna che deriva da una percezione. La ra-
gione opera sulle idee e decide della loro verità o falsità mediante il confronto reciproco, ma le pas-
sioni sono impressioni e non ha senso cercare di confrontarle per giudicarne il valore. In quanto dati
di esperienza, le passioni non sono vere o no, giuste o no, semplicemente sono, e la ragione non
può agire su esse, né per suscitarle né per frenarle: «la ragione è, e deve solo essere, schiava delle
passioni». L’unico modo in cui la ragione può condizionare la nascita della passione è attraverso il
giudizio sulla realtà delle cose e sulla congruenza tra fini che ci proponiamo e mezzi di cui intendiamo
servirci per raggiungerli. La ragione non può mai convincerci che una passione è giusta o sbagliata
o che dobbiamo fare una cosa che non vogliamo anziché una che desideriamo. La stessa volontà
per Hume non è un’impressione interna, ciò che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli quando
coscientemente diamo origine a un movimento del nostro corpo o a una nuova percezione della
nostra mente. Non esiste quindi il libero arbitrio: ogni nostra volizione è causata necessariamente
da un determinato stato emotivo.
Esistono però dei principi morali per distinguere tra virtù e vizio, solo non sono derivabili dalla ra-
gione. Alla base di ogni azione morale c’è per Hume un «sentimento morale» che ogni uomo ritrova
spontaneamente in sé: per sua natura l’uomo prova infatti un senso di piacere e di soddisfazione
quando assiste a un’azione virtuosa, mentre prova l’opposto di fronte a un misfatto. Il «piacere mo-
rale» si distingue tuttavia dalle altre forme di piacere perché è disinteressato: l’individuo lo prova non
in vista del proprio bene personale, ma perché percepisce la conformità dell’azione compiuta con
l’utilità generale. Alla base del sentimento morale c’è infatti la «simpatia», la facoltà di condividere le
passioni e i sentimenti degli altri. La simpatia, grazie alla quale l’uomo partecipa alle esigenze altrui,
consente di esprimere valutazioni morali disinteressate e fondate sull’esigenza generale di promuo-
vere l’utilità del maggior numero possibile di individui. Essa svolge dunque sul piano pratico la stessa
funzione che la credenza esercita sul piano conoscitivo: garantire quell’universalità del giudizio che
non poteva più essere fondata sulla ragione.
Estetica → come il giudizio morale, anche quello estetico non è fondato sulla ragione, bensì sul
sentimento: la bellezza è una forma che suscita piacere, mentre la bruttezza dolore. La generaliz-
zabilità del giudizio estetico dipende da una particolare struttura della natura umana la quale, in stato
di salute, fa sì che a tutti piacciano o dispiacciano le stesse cose. Ciò non esclude che per una piena
fruizione del gusto estetico occorrano condizioni particolari, sia naturali sia acquisite.
La politica → Hume si oppone al giusnaturalismo: per lui la politica si può spiegare solo analizzando
impulsi e sentimenti che hanno storicamente condotto alla società civile. Nella natura umana esiste
una tendenza alla socialità che si manifesta in primo luogo come impulso sessuale e porta quindi
alla costituzione della famiglia. Questa prima forma di società naturale induce gli uomini ad apprez-
zare i vantaggi della convivenza sociale e a desiderare di estenderla al di là del ristretto ambito
familiare. Ma la tendenza dell’uomo alla socialità non è illimitata, poiché per natura egli tende ad
amare solo le persone più vicine, mentre verso quelle più remote assume spesso un atteggiamento
ostile e sospettoso. La duplice esigenza di entrare in società e insieme tutelarsi dagli altri porta a
una «convenzione» tra tutti con duplice scopo: la stabilità della proprietà individuale e il godimento
pacifico dei frutti del proprio lavoro. La vita sociale trova quindi il suo valore centrale nella «giustizia»,
che consente di contemperare gli interessi individuali con quelli dell’intera società. Proprietà e giu-
stizia, come la società civile, sono «artificiali» e trovano il loro fondamento nelle convenzioni e
nell’educazione degli uomini.
La religione → Hume sconfessa ogni pretesa di ritrovare nella religione un fondamento razionale
perché la ragione non può fornire alcuna prova dell’esistenza di Dio. Hume cerca però di spiegare
l’esistenza di Dio risalendo dall’ordine e dalla perfezione dell’universo all’esistenza di un suo autore,
così come dall’esistenza di una macchina si può risalire a quella del costruttore: qui infatti si cerca
di spiegare una materia di fatto ricorrendo all’unico principio che può giustificarla, la relazione di
causa ed effetto. Questo argomento non è però concludente perché si fonda sull’analogia tra cose
troppo diverse tra loro; inoltre, la connessione causale si fonda sempre sull’esperienza ripetuta e
consolidata dall’abitudine e non può quindi essere applicata al di fuori dell’ambito fenomenico.
La spiegazione dell’esperienza religiosa deve quindi essere ricercata sul terreno degli impulsi che
fattualmente e storicamente hanno condotto alla sua emergenza. Hume riconduce l’atteggiamento
religioso al sentimento di timore e di speranza che ciascun uomo prova di fronte alla forza della
natura e al mistero della vita e della morte. Hume ha una visione evolutiva della religione:
 Politeismo → gli uomini spiegano le forze naturali ricorrendo a molteplici divinità cui attribui-
scono caratteri e difetti che riscontrano in sé stessi.
 Monoteismo → esigenza di rendere sempre maggiori onori alla divinità che temono e quindi
di rappresentarla in maniera sempre più pura e distinta dall’uomo.
 Il culmine del processo è la rappresentazione di un Dio unico, perfetto e infinito → i monotei-
smi liberano dalla superstizione del politeismo ma, a causa dell’unicità della divinità, sono
anche causa di intolleranza e fanatismo, prima sconosciuti.
Questa non è una dichiarazione di ateismo: radicata nella natura umana stessa, la religione è una
manifestazione incancellabile del modo in cui l’uomo si rapporta al mondo che conosce e a quello
che non conosce. Ma proprio perché nasce nelle pieghe più oscure dell’animo umano, essa appare
«un mistero inesplicabile». Di fronte a essa il filosofo non deve cercare impossibili giustificazioni
razionali né prendere parte alle diatribe scatenate dalla presunzione di conoscere la natura di Dio,
ma deve limitarsi alla «regione della filosofia».

Adam Smith (1723-1790) e l’economia politica.


Nato vicino a Edimburgo, Smith studiò a Glasgow e succedette a Hutcheson sulla cattedra di filosofia
morale. La Teoria dei sentimenti morali (1759) risente della frequentazione di Hutcheson e di Hume.
La «simpatia» è i principio alla base della vita morale: gli uomini sono naturalmente portati a giudi-
care positivamente le azioni che contribuiscono alla socievolezza reciproca e negativamente quelle
che le ostacolano. Ciò riguarda sia le azioni altrui sia le proprie: ciascuno ha infatti uno «spettatore
imparziale» dentro di sé che gli consente di valutare le sue azioni con gli occhi degli altri, in base
qundi alla loro accettabilità dal punto di vista sociale. La stessa coscienza morale ha dunque un
carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo. La morale di Smith è quindi guidata da un prin-
cipio armonicistico: la felicità di ognuno è possibile solo attraverso la realizzazione del bene degli
altri.
Un analogo principio armonicistico guida l’analisi dei processi socio-economici che Smith compie
nel suo capolavoro, l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776): l’elemento
propulsore di ogni attività economica è l’interesse individuale. A livello individuale la vita socio-eco-
nomica è una condizione di aspra conflittualità sociale, ma se gli interessi individuali e i processi
socio-economici cui danno luogo si considerano da un punto di vista generale, essi si armonizzano
tra loro e conducono a un vantaggio generale da cui tutti traggono profitto. Esiste dunque una «mano
invisibile» che guida i singoli interessi al di là delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una
totalità che sfugge allo sguardo parziale dell’individuo. Smith condivide i presupposti ottimistici dell’il-
luminismo e della fisiocrazia francese: i processi socio-economici rivestono un carattere naturale
che garantisce la loro bontà finché non interviene l’uomo. Smith ritiene infatti che l’azione dello Stato
in fatto di economia sia dannosa perché rischia di compromettere il vantaggio generale che si ac-
quisisce quando si lascia che le cose seguano il loro ordinato corso naturale → completo liberismo
economico. L’unico intervento legittimo da parte dello Stato è prelevare le tasse dai guadagni privati
degli individui per garantire quei servizi pubblici che vanno a beneficio di tutti.
In materia socio-economica così come in materia morale, Smith ritiene di non fornire teorie e precetti,
ma di fornire descrizioni della realtà → l’«economia politica», cioè l’arte di amministrare la vita eco-
nomica dello Stato, esce dall’ambito della precettistica per diventare vera e propria scienza.

Thomas Reid e la «scuola scozzese».


Reid oppone allo scetticismo di Hume la dottrina del «senso comune» nucleo teorico centrale della
filosofia di Reid e dell’indirizzo di pensiero da lui iniziato, la «Scuola scozzese».
Lo scetticismo di Hume è la conseguenza di una sbagliata prospettiva gnoseologica di una tradizione
che risale a Locke, Berkeley e Cartesio. Tutti questi filosofi hanno aderito alla «teoria delle idee»,
fondata sull’assunto che l’oggetto immediato della conoscenza sono le idee: la conoscenza non
comporta quindi nessun giudizio immediato sull’esistenza delle cose. Per Reid invece la conoscenza
dell’uomo ha sempre come oggetto le cose stesse, attraverso le percezioni, e non può mai essere
disgiunta da un giudizio affermativo sulla loro esistenza: conoscere qualcosa significa conoscere le
cose in quanto esistenti. La certezza di conoscere direttamente le cose si fonda sul «senso co-
mune», cioè sul sentimento in base al quale tutti «credono» nell’esistenza delle cose esterne e del
nostro io. Esso svolge una funzione simile alla «credenza» humiana: ma mentre Hume distingueva
nettamente tra certezza della credenza e quella del conoscere razionale, Reid unifica i due termini,
restituendo al senso comune il valore di un sapere assolutamente certo.
Reid si preoccupa di combattere anche le conseguenze religiose dello scetticismo di Hume. Il senso
comune sta a fondamento anche della credenza nelle verità fondamentali. Queste ultime riguardano
sia l’ambito logico-matematico, sia quello etico-metafisico: in virtù di esse, l’uomo può essere certo
della sua libertà individuale, dei principi morali che trova innati in sé e dell’esistenza di Dio.
L’ILLUMINISMO FRANCESE

In Francia si diffondono gli atteggiamenti critici verso la religione e il razionalismo seicentesco che
si erano sviluppati in Inghilterra e che avevano il loro centro in una nuova concezione della ragione.
Qui però la nuova funzione critica della ragione ha carattere molto più radicale a causa del contesto
storico più arretrato:
 Piano politico → il potere assoluto della monarchia borbonica manteneva il paese in condi-
zioni arretrate: sulla base della lezione alla libertà e tolleranza di Locke, gli illuministi hanno
difeso una democrazia radicale che non prevedesse la rappresentanza politica.
 Piano religioso → il predominio della religione cattolica si esprimeva in atti di intolleranza
verso la minoranza protestante, impedendo quell’equilibrio e coesistenza di confessioni che
caratterizzavano la vita inglese: ciò spiega come mai il deismo in qualche caso si sia trasfor-
mato in vero ateismo.
 Piano gnoseologico → il richiamo all’esperienza si trasforma in sensismo o in un esasperato
materialismo che non lascia spazio all’autonomia delle attività intellettuali e volitive.
Alla dimensione critica dell’attività illuministica si unisce sempre un’intenzione costruttiva: la ragione
è sempre progettuale e intesa alla trasformazione della società e della cultura. L’atteggiamento illu-
ministico è di sostanziale ottimismo, fondato sulla fiducia nel progresso storico e sull’identificazione
della natura con un principio di ordine e di razionalità: per questo motivo l’illuminismo francese è un
modello imprescindibile per la cultura moderna di matrice razionalistica e laica. Il suo obiettivo prin-
cipale è la diffusione della cultura. In un primo momento c’è fiducia che questo ruolo possa essere
svolto dai sovrani → «dispotismo illuminato»: il sovrano esercita il potere assoluto per il bene della
nazione. Ma un altro obiettivo era raggiungere ampi strati della popolazione – «illuminazione popo-
lare» –, in particolare la borghesia. A questo programma sono destinati dizionari ed enciclopedie e,
per lo stesso motivo, cambiano le forme stilistiche: il trattato lascia il posto al saggio. Ma anch’esso
appare inadeguato ai philosophes, intellettuali militanti che si occupano di politica e di questioni
sociali, che utilizzano pamphlets, poesie, romanzi o il nuovo «racconto filosofico».

Pierre Bayle (1647-1706)


In Bayle convergono l’ideale cartesiano di un sapere fondato sull’evidenza e lo scetticismo del pen-
siero libertino: da qui la critica alla tradizione, che in Cartesio era limitata ai fondamenti del sapere e
che nel libertinismo, seppure estesa all’etica e alla religione, non aveva ancora una giustificazione
metodologica. Tale critica prende avvio dalla spiegazione scientifica che Bayle dà delle comete, e
da qui la estende alla conoscenza generale, alle opinioni consolidate dall’autorità della tradizione:
per questo avverte di sottoporre tutto a una rigorosa analisi razionale. Consapevole degli esiti irreli-
giosi, Bayle difende la critica dell’ortodossia e l’ateismo dall’accusa di immoralità: l’ordine pubblico
è messo maggiormente in pericolo dal fanatismo dei credenti, che rende impossibile la convivenza
pacifica tra pensieri differenti → difesa del principio di tolleranza.
Dizionario storico e critico → grande «dizionario degli errori» – repertorio delle distorsioni della verità
che la tradizione ha accumulato nel corso dei secoli – e modello di storiografia critica e razionalistica.
Bayle restituisce così dignità scientifica alla conoscenza storica: per l’autore la storia può costituire
un sapere certo se lo storico, liberandosi da pregiudizi tradizionali e opinioni personali, attinge la
realtà dei fatti sulla base di documenti di cui sia verificata criticamente l’attendibilità.
In controtendenza al mainstream, per Bayle la ragione non serve nel campo della fede: facendo
riferimento alla rivelazione e all’autorità scritturale, essa si sottrae ai procedimenti e alle analisi ra-
zionali. Ciò conduce a un giudizio negativo sulla religione: la fede cade nell’ambito dell’irrazionale e
dell’inconoscibile → scetticismo religioso. Analogo atteggiamento di fronte alla religione si ritrova in
una serie di opere di autori. spesso anonimi, note come «manoscritti clandestini».
Tra Bayle e i grandi capolavori illuministici ci sono poche le opere di rilievo a causa della censura
verso le opere di critica nei confronti della religione e dei valori tradizionali, ma molte di queste cir-
colavano manoscritte. La radice di questa produzione filosofica è lo scetticismo libertino del Sei-
cento, nel quadro di un moderato deismo: il rifiuto di ogni forma di rivelazione si accompagna alla
difesa di una religione naturale fondata sulla ragione e, talvolta, si trasforma in ateismo, mentre la
condanna della religione come impostura si associa spesso alla critica del potere politico, respon-
sabile dell’inganno religioso perpetrato ai danni del popolo per meglio dominarlo.
Voltaire (1694-1778)
Voltaire è l’autore che meglio incarna i caratteri, gli ideali e i limiti dell’illuminismo francese. In lui
convivono il filosofo, lo storico, il politico, il poeta e il romanziere, tutte attività accomunate da uno
spirito critico che oscilla tra ironia e sarcasmo. Nato a Parigi, egli fu un esponente dell’agiata bor-
ghesia francese, che stava assumendo un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale del
paese, e frequentava i salotti parigini, dove circolava una cultura di ispirazione libertina. Egli dimorò
in Inghilterra, dove andò in esilio, e visse anche a Berlino presso Federico II, il re-filosofo. Questa
amicizia è emblematica dei rapporti che la prima generazione di illuministi cercò di avere con il di-
spotismo illuminato: essi speravano di coinvolgerli nei programmi razionalistici e promuovere, attra-
verso di essi, la riforma della società.
Lettere filosofiche (1734) → Voltaire esprime la sua ammirazione per l’Inghilterra, che diventa indi-
rettamente un modello per uscire dall’arretratezza culturale e civile francese: sul piano religioso am-
mira la convivenza di fedi diverse e lo spirito di tolleranza che essa promuove; sul piano politico
ammira il regime parlamentare; sul piano scientifico e filosofico Voltaire individua nel metodo speri-
mentale di Newton e nell’empirismo di Locke i due fulcri che hanno trasformato la cultura europea.
Il pensiero → il pensiero filosofico di Voltaire non ha particolari originalità:
 Concezione del mondo naturale strettamente legata al meccanicismo newtoniano e al fon-
damento sperimentale, in contrapposizione alla costruzione astratta cartesiano.
 Conoscenza di derivazione lockiana → l’esperienza è alla base di ogni conoscenza.
 Deismo → l’esistenza di Dio, causa e ordinatore del mondo, è razionalmente dimostrabile,
mentre va al di là di ogni conoscenza umana la definizione dell’essenza e degli attributi divini.
La provvidenza divina si limita a garantire l’ordine e la necessità delle leggi naturali e non
investe le vicende umane.
Voltaire approda successivamente ad un moderato pessimismo: il romanzo filosofico Candido o l’ot-
timismo, ad esempio, è esplicitamente diretto contro la concezione leibniziana del «migliore dei
mondi possibili». Voltaire critica anche l’antropocentrismo tradizionale: la rivoluzione copernicana ha
infatti privato la Terra, e quindi l’uomo, della sua centralità nell’universo. L’uomo è un essere naturale
al pari di tutti gli altri e non ha alcun privilegio ontologico rispetto al mondo della natura.
Polemica religiosa, politica e sociale → Dizionario filosofico portatile (1764):
 Compito della ragione è promuovere una radicale critica e trasformazione della società.
 Concezione deistica finalizzata alla critica del cristianesimo, inteso come fonte di intolleranza
e di guerra e, quindi, come ostacolo allo sviluppo dell’umanità.
 Politica → difesa del diritto di ogni cittadino alla libertà civile e politica, in primo luogo alla
libera espressione delle proprie idee, in contrapposizione all’assolutismo.
La tolleranza è considerata valore imprescindibile per garantire pace, giustizia e progresso civile.
Riflessione storica → elabora una «filosofia della storia», cioè un’indagine filosofica sul significato
generale dello sviluppo storico, incentrata sul concetto di progresso. La storia è considerata un gra-
duale processo di incivilimento dell’umanità a partire da una condizione selvaggia, ma non è neces-
sario e ininterrotto, anzi conosce interruzioni e involuzioni come dimostra il Medioevo.

Montesquieu (1689-1755)
Nato nei pressi di Bordeaux da una famiglia di «nobiltà di toga» e avviato alla magistratura, divenne
presidente del Parlamento di Bordeaux. Abbandonata la carica si dedicò a numerosi viaggi, soprat-
tutto in Inghilterra, esperienza determinante per la sua formazione politica.
Lettere persiane (1721) → critica alla società celata dalla finzione letteraria – carattere tipico del
primo illuminismo. Scritta in forma epistolare, l’opera mette a nudo i difetti, i vizi e le assurdità della
progredita civiltà europea.
Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) → analisi
critica della storia romana: Montesquieu tenta di ricercare i principi politici e sociali che spiegano lo
sviluppo e la decadenza di Roma.
L’esprit des lois (1748) → tentativo di trovare le cause generali alla base dello sviluppo delle diverse
istituzioni socio-politiche, che hanno carattere specifico nelle singole nazioni e nei singoli momenti
storici. Egli individua tre forme di governo, ciascuna delle quali fondata su un «principio» – fattore
originario ed elemento costitutivo – al quale devono mantenersi fedeli per conservarsi:
 Governo repubblicano (aristocratico o democratico) → «virtù». Potere detenuto da più per-
sone ed esercitato in conformità della legge.
 Governo monarchico → «onore». Potere detenuto da uno solo in conformità alla legge.
 Governo dispotico → «paura». Potere detenuto da uno solo ed esercitato arbitrariamente.
Non esiste una forma migliore: la validità di ciascuna di esse è relativa al popolo cui si applica.
L’intento di Montesquieu è infatti ricercare le condizioni necessarie, l’insieme di rapporti – lo «spirito
delle leggi» – perché ciascuna forma di governo possa svilupparsi e mantenersi. La condizione ge-
nerale per il mantenimento della libertà politica è la «divisone dei poteri»: esecutivo, legislativo e
giudiziario, il quale deve essere autonomo dagli altri due – a differenza del federativo di Locke.

L’«Enciclopedia» o Dizionario ragionato delle Scienze, delle Arti e dei Mestieri.


Legata ai nomi di d’Alembert e Diderot anche se molti altri esponenti dell’illuminismo vi contribuirono
stendendo singole voci. La pubblicazione dell’opera fu travagliata e avvenne tra 1751 e 1772: dopo
i primi due volumi fu sospesa a causa dei gesuiti malgrado l’autocensura che gli stessi redattori si
imponevano. La pubblicazione riprese ma nel 1758 la reazione del partito anti-illuministico provocò
una nuova crisi il ritiro dal progetto di d’Alembert: Diderot continuò da solo facendola circolazione
clandestinamente. Solo dopo gli anni Sessanta, con la mutata situazione politica e la soppressione
della Compagnia di Gesù (1766) furono pubblicati più agevolmente gli ultimi volumi.
I criteri di compilazione degli articoli sono due: da un lato l’ordine alfabetico, dall’altro un «ordine
sistematico delle scienze», ovvero l’articolazione che le discipline ricevono dall’organizzazione «na-
turale» delle facoltà conoscitive dell’uomo. Esso però non deve essere confuso con la pretesa di
formulare un sistema dottrinario e dogmatico.
Tre sono invece i modelli culturali:
 Bacone ha introdotto nel pensiero moderno l’idea dell’enciclopedia.
 Newton ha dato dignità scientifica alla fisica fondandola sull’esperienza e sulla matematica.
 Locke ha ridotto la filosofia a una «fisica sperimentale dell’anima» con oggetto la genesi delle
idee e della conoscenza umana.
La diffusione fu vastissima: l’opera diventò così il più potente strumento con cui il pensiero e il pro-
gramma illuministici più moderati si diffusero tra i ceti colti europei. Rispetto alla tradizione gli ele-
menti di novità erano assai rilevanti: la concezione sperimentale della conoscenza, la svalutazione
della metafisica come scienze autonoma, il privilegio delle scienze esatte sulle discipline umanisti-
che, il riconoscimento del valore della tecnica, la concezione relativamente democratica della cul-
tura, la difesa della libertà intellettuale, politica e religiosa, la diffusione dell’ideale della tolleranza, il
rifiuto del fanatismo, la visione moderatamente ottimistica della realtà, il riconoscimento della felicità
come fine naturale dell’uomo.
Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783) → si dedica soprattutto alle scienze fisico-matematiche e,
fino all’impegno nel progetto enciclopedico, i suoi interessi sono esclusivamente scientifici. La sua
opera filosofica principale sono gli Elementi di filosofia (1759):
 La conoscenza deve attenersi ai dati dell’esperienza.
 La fisica deve essere fondata sulla sperimentazione e non dedotta da principi astratti o da
ipotesi metafisiche.
 La religione è una sorta di morale razionale che rientra in un’etica sociale dove il bene coin-
cide con l’utile della società.
Denis Diderot (1713-1784) → attività filosofica più varia, è autore di romanzi, racconti e varie opere
filosofiche che rimasero inedite a lungo. Diderot lesse i deisti inglesi, soprattutto Shaftesbury, di cui
tradusse il Saggio sul merito e la virtù.
Nei Pensieri filosofici (1746) è evidente il deismo in funzione anti-cristiana, ma poi esso si evolve in
senso spinoziano: Dio si identifica con la natura, e da essa è esclusa ogni causalità finale.
Sull’interpretazione della natura (1753) → vicinanza a una concezione biologica della natura: la ma-
teria, fornita autonomamente di movimento e sensibilità, è il principio dal quale derivano, per evolu-
zione progressiva, le diverse specie naturali. L’idea dell’evoluzione delle specie dalla materia è tut-
tavia solo un’ipotesi per Diderot: la sua dimostrazione scientifica va oltre le possibilità della cono-
scenza umana. Negli ultimi lavori Diderot si concentra sulla determinazione di una morale naturale
giustificata dalla superiorità degli istinti naturali sui condizionamenti sociali → problema dei rapporti
tra la condizione naturale o selvaggia e quella civile.
Etienne Bonnot abate di Condillac (1714-1780) → filosofia incentrata sul problema della conoscenza
– Saggio sull’origine delle conoscenze umane (1746) e Trattato delle sensazioni (1754).
Punto di partenza è Locke e la sua dottrina delle idee, a cui Condillac apporta una correzione fon-
damentale: pur accogliendo la distinzione tra «idee di sensazione» e «idee di riflessione», egli nega
che la riflessione sia una fonte di conoscenza distinta dalla sensazione – accettare la distinzione è
una forma di innatismo. La conseguenza è un sensismo gnoseologico assoluto: tutte le operazioni
spirituali sono «sensazioni trasformate» dovute al sentimento di piacere e di dolore che accompagna
le sensazioni, quindi con il fatto che esse appaiono favorevoli o contrarie alla soddisfazione dei
bisogni fisiologici dell’uomo. L’associazione delle sensazioni con il piacere o il dolore è dovuta ad
abitudini, nelle quali consiste l’intera nostra attività intellettuale e passionale.
Esempio della statua → non ha sensibilità esterna ma è fornita di uno spirito – res cogitans e res
extensa – virtualmente capace di compiere le stesse operazioni dello spirito umano, anche se ini-
zialmente privo di idee. Condillac immagina di «aprire» progressivamente i cinque sensi nell’ordine
che ritiene più adatto a spiegare il nascere delle idee e delle operazioni sulle idee: il primo è l’odorato,
il senso più povero di determinazioni e che quindi meno contribuisce alla definizione dei contenuti
della conoscenza. Così la statua sviluppa gradualmente tutte le operazioni psicologiche caratteristi-
che dell’uomo, perché la condizione per pensare e volere è percepire sensazioni, le quali risvegliano
le operazioni spirituali: l’uomo stesso non sarebbe in grado di svolgere nessuna funzione psichica,
se il suo spirito non fosse progressivamente informato ed educato dalle sensazioni esterne. Il tatto
ha una posizione di privilegio perché consente di distinguere sé stessi da ciò che è diverso da sé →
si consegue quel «sentimento fondamentale» che è la conoscenza del proprio io.

I materialisti.
I materialisti francesi condividono con l’illuminismo l’esigenza di dare una spiegazione scientifica
della realtà – il materialismo è la conseguenza dell’applicazione delle più avanzate acquisizioni del
sapere scientifico alla natura e alla conoscenza – ma finiscono col sostituire alla vecchia metafisica
spiritualistica o dualistica una nuova metafisica materialistica, cioè un sistema costruito a tavolino
sulla base di principi astratti. Per questa ragione, ancor più che per la radicalità delle loro posizioni,
la maggior parte degli illuministi, francesi e non, espressero un generale dissenso dalle loro tesi.
Julien de La Mettrie (1709-1751) → Storia naturale dell’anima (1745) e L’uomo-macchina (1748).
Nella Storia naturale dell’anima parte dal presupposto che la distinzione cartesiana tra res cogitans
e res extensa sia infondata: anche l’anima presenta gli attributi dell’estensione e della materialità e
poiché non possiamo conoscere l’essenza delle due sostanze possiamo pensare che anche la ma-
teria partecipi di quella sensibilità che Cartesio attribuisce soltanto all’anima. Corpo e anima, en-
trambi materiali, sono quindi strettamente interdipendenti.
Nell’Uomo macchina estende il meccanicismo cartesiano all’uomo, rendendo superflua l’ipotesi
dell’anima: l’uomo, così come gli altri animali, è solo una macchina, cioè un meccanismo che fun-
ziona in base alle proprietà intrinseche alla materia stessa, e l’unica sua differenza con essi è la
maggiore complessità. Le leggi naturali non possono essere conosciute astrattamente, ma devono
essere indagate sperimentalmente dalle scienze: in questo modo l’intera natura viene ricondotta a
un unico principio, la materia – fornita di sensibilità e movimento – mentre le differenze consistono
esclusivamente nei diversi modi di funzionamento e nei diversi livelli di complessità dei meccanismi
materiali. In ambito morale l’autore si ispira all’epicureismo: la natura indica ciò che è bene per
l’uomo connettendolo con il piacere, che è sempre materiale anche se può assumere espressioni
molto raffinate, come il piacere intellettuale ed estetico.
Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) → materialismo gnoseologico: dottrina della conoscenza di
tipo sensistico (Condillac). Egli ritiene che tutte le idee provengano da due facoltà:
 Sensibilità → riceviamo le impressioni degli oggetti esterni.
 Memoria → conserviamo nello spirito la sensazione ricevuta.
Tale interpretazione sensistica esclude la possibilità di un’anima immateriale, e pertanto risolve ogni
attività dello spirito nella materia.
Morale utilitaristica → l’azione umana è mossa da movimenti puramente materiali. Tuttavia, Hel-
vétius cerca di trovare norme di comportamento generalizzabili: a tale scopo introduce il criterio
dell’utilità, il cui valore cresce in rapporto diretto con il grado di generalità conseguito.
Il materialismo francese, con Helvétius, si propone come una filosofia volta al consolidamento della
morale, anche se quest’ultima non trova più il suo fondamento in Dio o nei valori spirituali, ma esclu-
sivamente nella stessa costituzione materiale dell’uomo.
Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach (1723-1789) → esposizione più organica e dottrinaria.
Nel Sistema della natura (1770) identifica la natura con la materia → concezione rigorosamente
meccanicistica e deterministica. Di conseguenza, anche l’uomo è concepito come un essere pura-
mente fisico, che obbedisce alle leggi necessario della natura materiale come tutti gli altri enti naturali
→ negazione della libertà umana: l’azione dell’uomo è determinata dalla ricerca della felicità, definita
anch’essa in termini puramente materiali, come piacere duraturo.
Conseguenze etico-politiche del suo materialismo → la finalità dell’agire individuale e dell’organiz-
zazione politica è la felicità: ogni istituzione, sia politica che religiosa, che impedisca il consegui-
mento di tale fine naturale perde la sua legittimità. Hobalch prospetta la possibilità di una «società
di atei» che riconosca una legge della natura che, prescrivendo la felicità di ciascun uomo, prefigura
un ordine socio-politico universale.

Jean Jacques Rousseau (1712-1778)


Nato a Ginevra, ebbe un’infanzia difficile: rimasto orfano di madre, il padre dovette lasciare la città.
Nel periodo ginevrino, sotto la protezione di madame de Warens, esercitò diversi mestieri e completò
la sua formazione filosofica con diverse letture. Compì numerosi viaggi e, rientrato a Parigi, entrò in
contatto con gli enciclopedisti. Tra le molte opere scritte, le più importanti sono il Discorso sulle
scienze e sulle arti (1750), il Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini
(1755), il Contratto sociale (1762) e l’Emilio o dell’educazione (1762).
Discorso sulle scienze e sulle arti → il progresso nelle scienze e nelle arti ha corrotto gli uomini: esse
sono la conseguenza di un’inutile curiosità e di uno stolto orgoglio che ha fatto uscire gli uomini dal
felice stato di natura in cui si trovavano.
Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini → tappe del passaggio dallo
stato di natura alla società civile e la conseguente nascita della disuguaglianza tra gli uomini. Per
Rousseau lo stato di natura è solo un’ipotesi teorica – lo stato in cui l’uomo si troverebbe se su di lui
avesse operato soltanto la natura – ma necessaria poiché opposta alla condizione dell’uomo civiliz-
zato, corrotto dall’educazione e dalle istituzioni. L’uomo avrebbe solo pochi bisogni naturali e non
dipenderebbe da nessun altro uomo per la loro soddisfazione: su questa autosufficienza e indipen-
denza si fonda l’uguaglianza naturale degli uomini. L’uomo è però perfettibile: per questo, e per altri
motivi, si avvia un processo di incivilimento per cui i bisogni naturali diventano sempre più complessi;
per la loro soddisfazione l’uomo deve introdurre forme economiche dominate dalla divisione lavoro
e, per questo, aumenta l’interdipendenza reciproca.
L’uomo passa così da una condizione di iniziale isolamento a una condizione di vita in una società
che, seppur naturale, implica la dipendenza da altri uomini, quindi la perdita della naturale ugua-
glianza iniziale e la nascita di un’artificiale disuguaglianza sociale tra gli individui, sancita in tre fasi:
il sorgere dell’agricoltura e della metallurgia genera la proprietà e, di conseguenza, una disugua-
glianza tra ricchi e poveri. Si costituisce la «società civile» per tutelarla. Le istituzioni politiche, suc-
cessivamente, rafforzano e accelerano i progressi dell’ineguaglianza: l’istituzione della magistratura
sancisce la diseguaglianza tra potente e debole, mentre la trasformazione del potere legittimo in
potere arbitrario introduce la più radicale forma di disuguaglianza, quella tra padroni e schiavi.
Il contratto sociale → la critica al processo di incivilimento non comporta l’invito al ritorno allo stato
di natura: il problema è piuttosto trovare una forma di contratto in cui gli uomini, pur entrando nella
società civile, conservano quell’uguaglianza naturale. Nel patto sociale di Rousseau ogni individuo
deve cedere tutti i suoi diritti al «corpo politico» nella sua interezza: ciascun individuo non solo fa
parte del corpo politico, ma si identifica con esso. Ciò significa che, alienando totalmente sé stesso
e tutti i suoi diritti alla comunità, egli cede sé stesso a sé stesso: cosi ritrova tutta intera la sua volontà
nell’«io comune», con il vantaggio che essa è potenziata dalla volontà di tutti gli altri. Il contratto
sociale prevede esclusivamente il pactum unionis tra i contraenti. Nasce così la «volontà generale»,
cioè la volontà dell’intero corpo politico (e non la somma delle varie volontà individuali, cioè la «vo-
lontà di tutti»): obbedendo ad essa, l’individuo obbedisce solo a sé stesso. La «sovranità» è l’eser-
cizio della volontà generale ed appartiene solo al popolo:
 Potere legislativo → facoltà di promulgare leggi di carattere generale. Si può esercitare solo
quando il popolo è riunito fisicamente in assemblea.
 Potere esecutivo → applicazione della legge. Deve essere esercitato da un organo ammini-
strativo distinto dal potere legislativo.
Pur prevedendo tale distinzione, Rousseau è contrario a una loro divisione perché la volontà gene-
rale è «indivisibile e inalienabile»: di conseguenza, anche la sovranità non può essere spartita tra
diversi poteri né può essere rappresentata → democrazia diretta.
Emilio → proposta di rigenerazione dell’uomo sul piano individuale sul modello della natura. Il prin-
cipio generale nell’educazione da impartire è lasciare che la natura, di per sé buona, compia la sua
opera pedagogica, senza interferire con precetti o insegnamenti che non rispondono al grado di
sviluppo del ragazzo. Il precettore deve limitarsi ad assecondare e favorire la maturazione di quelle
facoltà conoscitive e pratiche secondo l’ordine e la gradualità cui la natura stessa ha predisposto
l’essere umano. L’intera educazione del fanciullo è lasciata all’istinto e alle componenti sentimentali.
Molto importante è l’origine sensibile delle conoscenze: fino ai dodici anni l’educazione del bambino
deve essere incentrata sull’affinamento della sensibilità attraverso il gioco e attività artistiche, senza
ricorrere a racconti, insegnamenti dottrinali, o indurlo all’uso della ragione. Dai dodici ai quattordici
anni si deve iniziare a educare lo spirito, che solo allora si aggiunge autonomamente alla sensibilità:
quando ne sentirà il bisogno il ragazzo imparerà a leggere e a disciplinare la propria attività manuale
in un mestiere artigianale. Dai quindici ai vent’anni lo spirito sarà spontaneamente indotto a conse-
guire le sue più alte conquiste: il sentimento sociale e morale, l’interesse per la storia dovuto all’at-
tenzione per le vicende sociali e, infine, il sentimento religioso verso una religione naturale che ha
come capisaldi l’esistenza di Dio, della sua provvidenza e l’immortalità dell’anima – tesi classiche
del deismo.

Il progresso storico: Turgot e Condorcet


La nozione di progresso storico è uno degli elementi caratterizzanti la cultura illuministica: Voltaire e
gli enciclopedisti già l’avevano considerata un presupposto teorico della loro opera. Solo con Turgot
e Condorcet, tuttavia, si ha un’esplicita formulazione teorica del concetto di progresso storico.
Robert-Jacques Turgot (1727-1781) → netta contrapposizione tra:
 Natura → obbedisce a leggi di andamento ciclico e ripetitivo → carattere di immutabilità.
 Storia → accumulazione meccanica di conoscenze, soprattutto delle arti meccaniche → ca-
rattere progressivo. Il progresso non è però costante né necessario, ma può avere periodi di
stasi o di involuzione.
Tra i fattori di incivilimento e di progresso ci sono anche il cristianesimo e la graduale estensione
della libertà, intesa sia come libertà politica che come liberismo economico.
Condorcet (1743-1794) → membro della Comune di Parigi e presidente dell’Assemblea legislativa,
si occupò soprattutto della riorganizzazione dell’istruzione pubblica, ma divenne poi vittima del Ter-
rore: visse clandestinamente in casa di amici, dove scrisse l’Abbozzo di un quadro storico dei pro-
gressi dello spirito umano, ma poi fu catturato e ucciso.
Condorcet condivide l’atteggiamento di ottimismo rivoluzionario: la Rivoluzione è vista come la con-
ferma della verità della teoria del progresso, quest’ultimo concepito come avanzamento necessario
e indefinito. Per Condorcet la storia è divisa in dieci epoche: le prime nove sono la ricostruzione
dell’avanzamento storico già attuato – dalla Grecia classica alla rivoluzione – in base a due fattori
costanti, la vittoria della libertà sul dispotismo e quella della ragione sull’errore e sull’impostura reli-
giosa. L’ultima epoca riguarda il futuro, per la quale le speranze dell’uomo si riducono a tre punti: la
distruzione della diseguaglianza tra le nazioni, i progressi dell’eguaglianza in uno stesso popolo, il
perfezionamento reale dell’uomo.
Economia: la «scuola fisiocratica» (physis «natura» e kratèin «dominare»).
I processi socio-economici – produzione, circolazione, distribuzione delle merci – sono regolati da
un ordine naturale paragonabile alla circolazione del sangue nell’uomo. Ogni intervento umano in-
teso a correggere questo ordine è inevitabilmente deleterio: i governi devono lasciare ai privati piena
libertà per quanto riguarda la proprietà, il lavoro e il commercio. Una dottrina fondamentale della
fisiocrazia è quella del «prodotto netto»: solo le attività economiche «naturali», cioè legate alla terra,
forniscono un prodotto netto e sono quindi veramente produttive. In conseguenza di ciò a esse de-
vono essere subordinate tutte le altre attività economiche, le quali si limitano a rielaborare artificial-
mente il prodotto netto.
L’ILLUMINISMO ITALIANO

In Italia l’illuminismo è un fenomeno di importazione culturale. La sua ricezionesi concentra soprat-


tutto a Napoli e a Milano e il carattere fondamentale è l’interesse per le questioni etiche, politiche e
giuridiche, al fine di proporre un programma di riforme.

Napoli.
Pietro Giannone (1676-1748) → nella Istoria civile del Regno di Napoli (1723) vuole mostrare come
il potere ecclesiastico abbia progressivamente eroso quello politico → rigida separazione. Giannone
elabora anche una filosofia della storia, esposta nel Triregno: la religione è dapprima fondamento
del «regno terreno» (religione naturale dei primitivi), poi del «regno celeste» (il cristianesimo), infine
del «regno papale» (religione usata come strumento di potere politico).
Ferdinando Galiani (1728-1787) → le sue opere sono un termine di riferimento costante per il dibat-
tito economico europeo del Settecento. La dottrina economica più originale è il «valore della merce»,
che dipende dall’utilità e dalla rarità del prodotto e dal lavoro e dal tempo necessari alla sua prepa-
razione.
Francesco Mario Pagano (1748-1799) → reinterpreta in chiave naturalistica il principio vichiano dei
corsi e dei ricorsi: il mondo storico è retto da leggi analoghe a quelle naturali, per cui le società e le
nazioni nascono, crescono e decadono con la stessa necessità con cui la natura è un continuo
passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita.

Milano.
Pietro Verri (1728-1797) → filosofo ed economista, sostenitore si una dottrina liberista simile a quella
di Adam Smith.
Discorso sull’indole del piacere e del dolore → il piacere è determinato dalla cessazione di un dolore,
quindi prevale su quest’ultimo. Il dolore però non è concepito negativamente: esso esprime man-
canza e bisogno di qualcosa ed ha quindi una funzione di stimolo dell’attività umana. In un Discorso
sulla felicità sostiene che, se i suoi desideri non sono commisurati alle sue capacità, l’uomo è desti-
nato all’infelicità. La felicità consiste nel trovare un equilibrio tra desideri e possibilità reali di soddi-
sfacimento: in ciò risiede la virtù dell’uomo illuminato dalla ragione.
Cesare Beccaria (1738-1794) → autore de Dei delitti e delle pene (1764).
Presupposti fondamentali dell’opera di Beccaria sono:
Contrattualismo → lo Stato è un’associazione in cui gli individui alienano una parte dei loro diritti e
della loro libertà per ottenere la garanzia della sicurezza.
Utilitarismo → finalità dello Stato è la «massima felicità divisa nel maggior numero».
Ma la sicurezza e la felicità dei cittadini richiedono che essi siano protetti dai delitti che possono
essere commessi nei loro confronti → necessità della pena, la cui funzione non è la punizione del
reo, bensì la prevenzione dei delitti. Questa concezione implica due corollari:
1. L’abolizione della tortura → se il delitto è certo si può procedere con la pena; altrimenti non
si può punire con la tortura una persona a cui non è ancora stato certificato il reato.
2. L’abolizione della pena di morte → essa non ha nessuna funzione di prevenzione o di de-
terrenza nei confronti di nuovi delitti. Inoltre si violerebbe il contratto con cui egli è entrato
nella società, cioè ottenere la garanzia della sicurezza.
L’ILLUMINISMO TEDESCO

La cultura illuministica ebbe ampia diffusione anche in Germania. L’Aufklärung presenta però carat-
teri propri dovuti all’autonomia delle sue origini: la cultura leibniziana e l’esigenza di un rinnovamento
culturale e religioso che si opponesse all’irrigidimento delle scuole accademiche e delle chiese. Tre
filoni caratterizzano l’illuminismo tedesco:

1. La rivalutazione degli aspetti pratici della filosofia → l’umanità è destinata a realizzare la per-
fezione morale e la felicità terrena e la filosofia diventa la disciplina di orientamento della condotta
pratica dell’uomo: i problemi metafisici e teologici vengono abbandonati.
Christian Thomasius (1655-1728) → convenzionalmente si fa iniziare l’Aufklärung con l’inizio del suo
insegnamento nell’università di Halle (1694): egli insegnava in tedesco così come in tedesco sono
le sue opere più importanti, Introduzione alla dottrina della ragione (1691) e Introduzione alla dottrina
dei costumi (1692), per garantire l’accesso alla cultura da parte di un più ampio pubblico, sottoli-
neando la funzione pratica e sociale della filosofia. Assunto fondamentale è la priorità della volontà
sull’intelletto e della vita pratica sull’attività speculativa anche perché la conoscenza umana è limitata
all’ambito dell’esperienza: la filosofia deve quindi occuparsi dei problemi etici e tradursi in uno stru-
mento di orientamento razionale per la condotta dell’uomo. La morale è fondata sull’amore del pros-
simo, considerata il carattere fondamentale dell’uomo. Egli fu interessato anche per la storia della
filosofia: attraverso di essa è possibile assumere una posizione che consenta di scegliere il meglio
da ciascuna posizione filosofica.

2. Ricerca dei fondamenti della conoscenza umana → su questo tema c’è una distinzione tra la
fiducia nella dimensione logica (Leibniz) e l’attenzione all’empirismo (Locke).
Christian Wolff (1679-1754) → esponente più illustre dell’illuminismo tedesco.
Il suo pensiero è una vasta risistemazione della filosofia leibniziana all’interno di una struttura siste-
matica di derivazione soprattutto scolastica. Le opere di Wolff si possono dividere in due gruppi: in
tedesco (Pensieri razionali) e in latino (titoli delle diverse scienze che compongono il sistema).
Il pensiero di Wolff ha carattere sistematico → classificazione delle scienze.
Prima di tutte le scienze c’è però la logica, disciplina propedeutica a qualsiasi attività filosofico-scien-
tifica, incentrata sul «principio di contraddizione», a cui viene ricondotto il «principio di ragion suffi-
ciente»: il principio di non contraddizione è l’unico strumento per passare con assoluta certezza dalle
conoscenze note a quelle ignote fino ricostruire l’intero edificio del sapere. Egli si affida quindi al
metodo sillogistico, che è basato sul principio di non contraddizione, mentre l’esperienza ha solo il
ruolo di definire le realtà empiriche → tutto ciò di cui si dimostra la possibilità logica è assolutamente
certo e quindi anche reale.
La classificazione della scienza distingue tra:
Filosofia teoretica → si distingue in quattro discipline:
 «Ontologia» → obiettivo di determinare i predicati universali e i modi fondamentali dell’ente.
 «Cosmologia razionale» → studia le proprietà del mondo, che Wolff paragona a una mac-
china, in cui c’è un ordine causale meccanico e necessario voluto da Dio.
 «Psicologia razionale» → ha per oggetto l’anima, una sostanza semplice separata dal corpo
ma congiunta ad esso esteriormente da Dio, incorruttibile e immortale. Essa ha la facoltà
percettiva, divisa in percezione confusa e percezione distinta.
 «Teologia naturale» o «razionale» → dimostrazione dell’esistenza e degli attributi di Dio. La
teologia rivelata, sovrarazionale e indimostrabile, è comunque accettata perché non contra-
sta la ragione.
Filosofia pratica → tre discipline fondate sul «diritto naturale»: l’azione umana si basa su una «legge
naturale» che l’uomo trova iscritta in sé e che può consultare sempre tramite la ragione. I rapporti
da essa prescritti, poiché razionali, sono assolutamente oggettivi e sempre validi.
 «Etica» → esecuzione della legge naturale che conduce alla realizzazione della felicità. La
sua regola è espressa dal principio della perfezione: «fa’ ciò che contribuisce alla perfezione
tua, del tuo Stato e del tuo prossimo, e non fare il contrario».
 «Economica» → studia le società naturali che precedono lo Stato (famiglia).
 «Politica» → studia lo Stato. Wolff riprende Locke: origine contrattualistica della società civile
ed esistenza di diritti naturali dell’uomo che devono essere tutelati dallo Stato. Lo Stato deve
promuovere il benessere dei cittadini e quindi deve essere guidato da un monarca illuminato.
Anche se Wolff si rifà al pensiero di Leibniz ci sono dei punti di divergenza: a) non c’è la nozione di
monade come principio attivo della realtà; b) l’ordine del mondo è necessario e non libero; c) i rap-
porti tra le cose non sono esclusivamente di tipo logico-percettivo, ma prevedono la possibilità di un
nesso causale; d) l’armonia prestabilita è ristretta alla relazione tra anima e corpo.
Seguaci e critici della scuola wolffiana.
Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) → introduce il termine «estetica» (àisthesis, «sensa-
zione»). L’estetica è la scienza della conoscenza sensibile, il cui fine è la bellezza: di qui l’applica-
zione del termine alla «teoria del bello». La conoscenza sensibile è però inferiore a quella intellet-
tuale, perché oscura e confusa.
«Scuola thomasiana» → critici di Wolff. Caratteri principali della scuola sono:
 Maggiore sensibilità per la componente empirica della conoscenza.
 Consapevolezza dei limiti intrinseci alle facoltà conoscitive dell’uomo.
 Diffidenza verso il metodo sillogistico.
 La filosofia deve essere una «scienza del reale», cioè deve partire dall’esistenza delle cose
e non dalla loro definizione nominale.
Johann Lambert (1728-1777) → esigenza di ritrovare la matrice empirica del materiale della cono-
scenza, cioè delle idee (Locke), per conseguire una «conoscenza scientifica» dei meccanismi del
conoscere basata su principi formali.
Johann Tetens (1734-1807) → tentativo di combinare l’empirismo di Locke con Leibniz. La cono-
scenza deriva dalla sensibilità (passiva) mentre per spiegare l’attività dell’intelletto ricorre a Leibniz:
nell’anima umana esiste una «forza del pensiero» in grado di organizzare i materiali empirici in una
conoscenza formalmente articolata.
La filosofia popolare → indirizzo che si proponeva di garantire l’accesso della filosofia a un più
vasto pubblico e che si concentrava sulle questioni di ordine etico-sociale, religioso o, più in genere,
antropologico rispetto al dibattito teoretico o gnoseologico.
Moses Mendelssohn (1729-1786) → tema centrale è la religione e il suo rapporto con il potere: la
religiosità risiede nell’intimo della coscienza umana e non può rivestirsi di nessun potere ecclesia-
stico o civile. Stato e Chiesa hanno funzioni diverse: lo Stato deve promuovere la felicità terrena dei
cittadini, mentre la Chiesa si occupa della salvezza e della felicità futura. Mendelssohn elabora an-
che una dottrina estetica: la percezione del bello deriva dal «sentimento», quindi dalla sensazione:
il bello è una rappresentazione sensibile chiara ma confusa, cioè non distinta.

3. Rapporti tra filosofia e religione → l’analisi dei rapporti tra filosofia e religione e la critica della
religione positiva sono uno degli aspetti più caratterizzanti dell’illuminismo tedesco. La radice di que-
sto ambito è da ricercare nel pietismo, atteggiamento mosso dall’esigenza del ritorno ad alcune tesi
fondamentali del luteranesimo originario, tra cui il libero esame della Bibbia. Esso si fonda su due
rivendicazioni: il diritto al libero esame della Bibbia e l’esigenza di una vita religiosa vissuta nell’inti-
mità della coscienza, mentre all’esterno si segue una prassi modellata sul Vangelo. Contro la scola-
sticizzazione del protestantesimo contemporaneo, il pietismo intende ridefinire la natura e le finalità
dell’uomo per superare le schematizzazioni delle scuole e tradursi in una filosofia militante. Pietismo
e illuminismo si contrappongono su un punto fondamentale: il primo fonda ogni conoscenza sull’au-
torità Bibbia, il secondo intende salvaguardare l’autonomia della ragione.
«Neologi» (nuovi teologi) → riducono la religione ai suoi contenuti razionali, eliminando da essa tutti
i dogmi che sono stati via via aggiunti nello sviluppo delle religioni positive.
Hermann Reimarus (1694-1768) → netto rifiuto della religione positiva, in particolare della rivela-
zione cui fa riferimento la tradizione cristiana: l’Antico Testamento non è una rivelazione perché in
esso è assente il concetto di un aldilà, mentre il Nuovo Testamento contiene soltanto una religione
pratica, in quanto Gesù si proponeva una missione di redenzione puramente terrena.
Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) → si occupò di religione dapprima in una serie di scritti
minori il cui senso generale è la difesa della religione naturale, fondata sulla ragione, e la critica di
quella positiva, che nasce dalla necessità di poggiare il potere politico su una religione pubblica.
Un’esposizione letteraria è il dramma Nathan il saggio, in cui l’ebreo Nathan racconta al Saladino la
favola dei tre anelli (tre monoteismi) che sono solo l’imitazione di un anello originario andato perduto
(la vera religione naturale e razionale).
Educazione del genere umano (1780) → analisi della religione congiunta ad una filosofia della storia:
la rivelazione è accettata e congiunta all’educazione progressiva del genere umano attraverso la
ragione. La rivelazione e l’educazione hanno il comune scopo finale di perfezionare completamente
l’uomo. Lessing articola lo sviluppo del genere umano in tre età:
1. «Giudaismo» → infanzia. L’educazione morale degli uomini è imposta tramite premi e casti-
ghi immediati e sensibili.
2. «Cristianesimo» → il cristianesimo insegnò il valore dell’interiorità: purezza del cuore, co-
scienza, superiorità dello spirito sull’esteriorità. Premio e punizione vengono differiti nella vita
oltre la morte.
3. «Nuovo Vangelo eterno» → pura età dello spirito nella quale la verità non ha più bisogno di
rivelazione ma viene conosciuta direttamente dalla ragione: in essa l’uomo «farà il bene per
il bene».

Altro carattere dell’illuminismo tedesco è l’assenza di radicalità nelle posizione filosofiche:


 Ambito religioso → la critica non è fondata su presupposti sensistici o materialistici.
 Società → la rivalutazione degli aspetti pratici della filosofia non assume sfumature rivoluzio-
narie e il rapporto della filosofia con il potere è indirizzato al «dispotismo illuminato».
IMMANUEL KANT (1724 – 1804)

Kant nasce a Königsberg nel 1724. Tre istanze furono molto importanti nella sua formazione: la
prima educazione di carattere pietistico, la filosofia di Wolff e gli studi di fisica e chimica all’università,
dove entrò in contatto con la tradizione empirista inglese. Nel 1755 si abilitò all’insegnamento della
metafisica con lo scritto Nova dilucidatio e tenne lezioni di fisica e metafisica fino al 1770, quando
divenne ordinario di Logica e metafisica. È questo il periodo degli scritti pre-critici: alla formazione
giovanile si aggiunsero la lettura di Rousseau, che gli diede il senso del valore dell’uomo in quanto
tale, e quella di Hume, che lo avvicinò al criticismo – anche se più importanti sono stati la lettura di
Newton e il ripensamento della filosofia leibniziana. Nel 1770 pubblicò la dissertazione De mundi
sensibilis, opera che tradizionalmente segna il passaggio dal «dogmatismo» al «criticismo»: dopo
averla fatta circolare e aver ricevuto critiche, iniziò un processo di rielaborazione che portò alla prima
edizione della Critica della ragion pura (1781) – la seconda uscirà nel 1787 – e ai Prolegomeni a
ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783). Kant estese poi il criticismo ad altri
ambiti: affrontò il problema morale nella Critica della ragion pratica (1785), quello religioso ne La
religione entro i soli limiti della ragione (1793) e quello estetico e teleologico nella Critica del giudizio
(1790). Gli scritti critici non esauriscono la ricerca filosofica di Kant: essi infatti sono propedeutici a
costruire un «sistema» della filosofia critica che partecipi a determinare i contenuti materiali del sa-
pere. Tale sistema si divide in due parti: la «metafisica della natura», parte teorica cui dedica i Prin-
cipi metafisici della scienza della natura (1786), e la «metafisica dei costumi», parte pratica affrontata
nella Fondazione della metafisica dei costumi (1788) e nella Metafisica dei costumi (1797). La vita
di Kant, a parte il suo difficile rapporto con la censura, ha pochi aspetti esteriori importanti. Gli ultimi
suoi anni sono segnati da una grande decadenza fisica e mentale e morì nel 1804.

Il periodo precritico → rimeditazione ed emancipazione dal pensiero di Leibniz e Wolff.


Opere scientifiche → rielaborazione di Leibniz attraverso Newton e la dottrina del nexus phyisicus.
 Interpretazione materiale delle monadi → connessione esterna delle monadi.
 Descrizione della nascita dell’universo in termini meccanicistico-causali.
Opere filosofiche → lenta emancipazione da Wolff.
 Critica la «morale della perfezione» di Wolff, che definisce buona l’azione volta al perfezio-
namento dell’uomo, poiché la nozione di perfezione è formale e non dà alcuna indicazione
sul contenuto dell’azione.
 Contesta la priorità assoluta del «principio di contraddizione» e introduce altri due principi, il
«principio di successione» e il «principio di coesistenza», che spiegano i rapporti temporale
e spaziale secondo la dottrina del nexus physicus.
 Contesta il metodo sillogistico fondato sul principio di non contraddizione perché esso con-
nette le singole conoscenze in base alla loro corrispondenza formale, senza preoccuparsi di
trovare un riscontro nell’esperienza. Esso può andare bene per la matematica, che si occupa
di ciò che è logicamente «possibile», ma non per la filosofia e la metafisica, che si occupano
di ciò che è realmente «esistente»: per Kant infatti l’esistenza non è deducibile dal pensiero,
bensì è data dall’esperienza – «ciò che è pensabile è anche esistente».
La filosofia deve quindi procedere per «analisi», scomponendo un concetto nei suoi elementi per
renderlo evidente, e solo dopo può avere luogo la «sintesi». Presto Kant si rende conto dell’inade-
guatezza del metodo analitico a risolvere alcuni problemi filosofici come la causalità: l’effetto non si
può dedurre analiticamente dalla causa in base al principio d’identità poiché, per definizione, esso è
qualcosa di diverso e irriducibile alla causa stessa. Così, se continua a sostenere l’impossibilità di
un’«opposizione logica», Kant ammette anche la possibilità di un’«opposizione reale», cioè una con-
nessione tra cose reali che non rimandi al principio d’identità: Kant si avvia così verso una forma di
sintesi diversa dal sillogismo di Wolff, che però ancora non sa su quale principio fondare. A diffe-
renza di Wolff, che pensava di poter costruire l’intero edificio della conoscenza su un principio di
coerenza formale, Kant vede nella filosofia la «scienza dei limiti della ragione», i quali vengono chia-
ramente individuati nell’ambito dell’esperienza.
La dissertazione «De mundi sensibilis» (1770)
La tradizione leibniziana distingueva conoscenza sensibile e intellettuale dal grado di coscienza
acquisita dalla monade – oscura e confusa la prima, chiara e distinta la seconda. Kant prese le
distanze da questa visione, introducendo una distinzione di genere tra le due:
 Conoscenza sensibile → «rappresentazioni delle cose come appaiono».
→ dimensione fenomenica delle cose, modificate dalle forme della sensibilità. Kant crede
che non percepiamo le cose come sono in sé, ma che le modifichiamo nel processo percet-
tivo, adattandole alle «forme soggettive» a priori della nostra intuizione: spazio e tempo.
 Conoscenza intellettuale → «rappresentazioni delle cose come sono».
→ i concetti dell’intelletto, le «idee pure», non dipendono dalle rappresentazioni soggettive
perché le due facoltà sono indipendenti. Essendo indipendenti dalla sensibilità, diventa pos-
sibile la conoscibilità del noumeno da parte delle idee pure.
La conoscenza non è quindi l’adeguamento del soggetto all’oggetto, ma la modificazione dell’og-
getto secondo le forme a priori del soggetto.

Il criticismo
L’obiettivo del criticismo kantiano è delineare i limiti e le possibilità della conoscenza umana, cioè
una «scienza dei limiti della ragione». Hume e la critica alla causalità necessaria sono un termine di
riferimento importante per Kant: anch’egli sentiva la problematicità del concetto di causalità neces-
saria ma, al contrario di Hume, era convinto della validità dei fondamenti della scienza moderna.
Kant accolse la critica alla causalità, accettando che l’esperienza fornisca solo una successione
temporale e una contiguità spaziale tra fenomeni (giudizio a posteriori) e che la causalità non possa
essere dimostrata dal principio d’identità (giudizio analitico): per salvare la validità oggettiva della
scienza, e con essa tutti i concetti intellettuali di cui si serve per dare leggi alla natura, bisogna
trovare una connessione che non derivi dall’esperienza e dall’applicazione del principio d’identità.
Nell’Introduzione della Critica della ragion pura, Kant distingue tre tipi di giudizio:
 Giudizio analitico a priori → fondato sul principio d’identità. Tale giudizio è universale perché
trascende l’esperienza, ma non produce nuova conoscenza perché è fondato sul principio
d’identità.
 Giudizio sintetico a posteriori → unione di due concetti diversi in base all’esperienza: il con-
cetto del predicato non è contenuto nel soggetto, quindi è stato aggiunto dopo aver avuto
esperienza attraverso un processo di sintesi. Alcuni di questi giudizi possono essere gene-
ralizzati, ma non saranno mai universali perché derivano dall’esperienza, sono sempre par-
ticolari quindi non hanno valore scientifico.
 Giudizio sintetico a priori → la sintesi tra soggetto e predicato si fonda su un principio a priori,
interno al soggetto conoscente. Da questi giudizi dipende la validità universale e necessaria
di tutti i concetti intellettuali che istituiscono connessioni necessarie relative al mondo della
natura, cioè una fisica come scienza pura (la stessa cosa vale per la matematica pura). An-
che la metafisica, se vuole far valere la pretesa di essere una scienza pura, deve dimostrare
di essere fondata su principi sintetici a priori. Kant estese tale principio anche alla morale:
nella Fondazione della metafisica dei costumi, che affronta il tema del fondamento della mo-
rale, egli tentò di dimostrare che l’imperativo categorico fosse un giudizio sintetico a priori. Il
fondamento di questo giudizio, per Kant, era la ragione umana.
Le connessioni necessarie che costituiscono il carattere universale della conoscenza non proven-
gono quindi dall’oggetto di conoscenza, bensì dal soggetto che, nell’atto di conoscere, proietta
sull’oggetto la propria capacità sintetica: come Talete in matematica e Galileo nella fisica, Kant aveva
capito che è il soggetto che costruisce i criteri per studiare l’oggetto, e che quindi la filosofia non
dovesse più preoccuparsi degli oggetti in sé stessi, ma degli elementi a priori che nel soggetto ren-
dono possibile la costituzione e la conoscenza di quegli oggetti.

La Critica della ragion pura → opera divisa in due parti:


1. Dottrina degli elementi → scomposizione della ragione nelle sue componenti:
 Estetica trascendentale → dottrina della sensibilità.
 Logica trascendentale → elemento del pensiero:
 Analitica trascendentale → relativa all’intelletto.
 Dialettica trascendentale → relativa alla ragione dialettica – significato diverso dalla
ragione in senso lato, che indica il complesso delle facoltà conoscitive.
2. Dottrina del metodo → metodo di applicazione degli elementi.
Il termine trascendentale indica che le ripartizioni hanno per oggetto le forme «a priori» delle due
facoltà che attuano il ribaltamento dall’oggetto al soggetto: la sensibilità e l’intelletto. Questi sono
due momenti contemporanei dal punto di vista cronologico, ma c’è una successione dal punto di
vista logico. Sensibilità e intelletto si distinguono nettamente: la prima è passiva, è pura recettività;
il secondo è attivo. Entrambe le facoltà sono a priori e trascendentali: esse non dipendono dall’espe-
rienza, bensì contribuiscono a formarla. Per Kant «esperienza» ha due significati: qualcosa che ar-
riva da fuori (senso lato), e qualcosa di costruito dal soggetto attraverso le forme trascendentali
(senso proprio). Quando afferma che il trascendentale costituisce l’oggetto di esperienza, Kant usa
il termine nel suo senso proprio: l’oggetto della conoscenza, infatti, è il risultato finale dell’applica-
zione delle forme conoscitive del soggetto, quindi l’esperienza coincide con la realtà che cono-
sciamo, e non con una realtà oggettiva precedente al processo di conoscenza.
L’«Estetica trascendentale» → forme a priori della sensibilità.
La sensibilità è la facoltà di essere modificati dagli oggetti esterni. Ogni conoscenza, infatti, comin-
cia con l’affezione dei nostri sensi da parte degli oggetti esterni («esperienza» in senso lato) da parte
di un’«intuizione», ma le forme soggettive che condizionano la ricezione sono a priori. L’intuizione
contiene quindi due aspetti: la struttura formale che rende possibile la ricezione («intuizione pura»)
e il contenuto materiale della sensazione. La congiunzione della prima con il secondo costituisce
l’«intuizione empirica». Per Kant le forme trascendentali della sensibilità sono lo spazio (forma del
senso esterno) e il tempo (forma del senso interno) perché sono precedenti a ogni intuizione: tutto
ciò che è dato nell’intuizione viene prima rappresentato nello spazio e nel tempo, quindi gli oggetti
non sono conosciuti per come sono, bensì per come appaiono, cioè come fenomeni.
Nel pensiero comune – ad esempio in Newton – lo spazio era inteso come qualcosa di reale e
oggettivo che aveva la funzione di «contenitore» delle singole cose. Leibniz fu uno dei tanti conte-
statori di questa visione: egli aveva una concezione relativa per cui lo spazio era definito dalla posi-
zione reciproca degli oggetti. Inizialmente Kant seguì questa strada, ma successivamente incorse
in un problema logico-matematico che la mise in crisi, quello degli opposti incongruenti – ad esempio
il fatto che mano destra e sinistra non sono uguali nonostante il rapporto nello spazio sia uguale.
Per risolvere questo problema, Kant recuperò la visione di uno spazio in cui esistono posizioni as-
solute, ma l’assolutezza non derivava più da una concezione oggettiva, bensì dal fatto che lo spazio
è una struttura mentale umana, cioè che l’uomo pensa in termini spaziali assoluti: quando riceve
una rappresentazione immediata, l’uomo la colloca in uno spazio assoluto.
Come lo spazio, anche il tempo è una struttura mentale umana, assoluta e universale, ed è la forma
a priori dell’esperienza interna: gli stati d’animo di una persona sono sempre successivi l’uno all’altro.
Inoltre il tempo sta a fondamento della matematica perché rende possibile la successione numerica,
cioè l’aggiunta successiva di una nuova unità alla quantità numerica già data: così, una delle tre
domande che Kant si pone nell’Introduzione – la possibilità della matematica – riceve una parziale
risposta qui.
Poiché ciò che viene percepito dal soggetto è un fenomeno, la realtà per come è prima del nostro
processo percettivo si configura come noumeno, come qualcosa che può solo essere pensato ma
che non è possibile conoscere. Questo però non significa che la realtà che abbiamo conosciuto non
sia reale: questa è l’unica realtà che possediamo, quindi è l’unica realtà empirica. Una delle diffe-
renze più importanti tra le due edizioni della Critica della ragion pura è proprio sul concetto di nou-
meno: nella prima Kant pensava ancora che questa realtà esistesse in qualche modo e che il sog-
getto, reinterpretandola nel processo percettivo, ne cogliesse una certa parvenza. Il concetto di nou-
meno è un concetto limite: se si ammette l’esistenza di un fenomeno inteso come visione soggettiva
della realtà, bisogna ammettere anche l’esistenza di un non-fenomeno, il noumeno appunto, come
concetto definito puramente per negazione.

L’«Analitica trascendentale dei concetti» → forme a priori dell’intelletto.


Le intuizioni empiriche però sono solo una molteplicità di dati empirici cui manca la connessione
che li costituisce in un oggetto di conoscenza. La facoltà che compie l’operazione di unificazione
(«sintesi trascendentale») delle intuizioni empiriche è l’intelletto, il quale dà al soggetto il concetto
del fenomeno. La sintesi è contemporanea all’intuizione e, assieme, costituiscono l’esperienza nel
suo senso proprio: lo spazio dà le intuizioni nella loro contiguità e il tempo nella loro continuità, ma
già affermando questo principio si compie una sintesi. Il concetto è una rappresentazione di più
intuizioni semplici creato dall’intelletto: esso ordina diverse rappresentazioni (concetti o intuizioni)
sotto una rappresentazione comune, conferendo loro unità tramite un «giudizio» – pensare significa
sempre giudicare. Senza sensibilità non esisterebbero intuizioni, ma senza intelletto non esisterebbe
il concetto e le sensazioni non sarebbero percepibili e, quindi, non esisterebbero: per questo motivo,
se le due facoltà sono contemporanee, esiste però una successione logica.
Le regole mediante le quali l’intelletto giudica, unificando le rappresentazioni, sono i «concetti puri».
Kant chiama tali concetti «categorie» perché essi definiscono i modi più generali del pensare – il
termine è ripreso da Aristotele, che con «categorie» intendeva i modi più generali dell’essere. Le
categorie sono dodici perché derivano dalla Tavola dei giudizi aristotelico-scolastica e possono es-
sere raggruppate in quattro gruppi:
 Quantità → unità, pluralità, totalità.
 Qualità → realtà, negazione, limitazione.
 Relazione → sostanza e accidente, causalità, azione reciproca.
 Modalità → possibilità/impossibilità, esistenza/inesistenza, necessità/contingenza.
È importante notare che Kant recupera nell’ambito gnoseologico i concetti di sostanza e di causa-
lità, i quali erano stati delegittimati in ambito metafisico dalla tradizione empirista inglese (Locke e
Hume) ma che erano indispensabili per la fisica moderna (Newton). Poiché le categorie sono le
forme a priori dell’intelletto, sostanza e causalità vengono recuperate come strutture mentali, non
come strutture della realtà: sul piano metafisico anche per Kant non hanno validità perché non sono
attributi delle cose in sé; ma in quanto concetti puri dell’intelletto, esse condizionano la possibilità
stessa della conoscenza e assieme proiettano su di essa la loro universalità e necessità. La loro
validità oggettiva, in pratica, è data dal fatto che i fenomeni possono essere pensati solo in termini
di sostanza e di causa, le quali sono forme necessarie del pensiero intellettuale.
Come si può dimostrare che i concetti puri, pur essendo forme intellettuali soggettive, diano luogo
a conoscenze fornite di validità universale e oggettiva? Kant osserva che, poiché ogni pensiero
comporta un’unificazione di intuizioni, deve esistere un’«unità originaria», un termine di riferimento
unitario di tutte le rappresentazioni che Kant identifica nel soggetto, ma poiché l’unificazione è pos-
sibile solo tramite un atto del pensiero, il termine di riferimento deve essere un atto del pensiero.
Kant chiama questa unità originaria «Io penso», con il quale intende l’autocoscienza («appercezione
trascendentale») del soggetto conoscente e delle proprie percezioni perché, riferendo queste ultime
a sé stesso, ne costituisce il comune elemento unificante. Se il soggetto non ha autocoscienza di sé
le categorie non possono essere applicate perché il soggetto non unisce le rappresentazioni tra loro,
dandogli senso. L’universalità della conoscenza è invece garantita dal fatto che l’«Io penso», pur
essendo autocoscienza individuale, è identico in tutti, quindi il risultato dell’unificazione sarà valido
universalmente e oggettivamente. In breve, le categorie sono «funzioni logiche» interne dell’«Io
penso», attraverso cui esso opera la sintesi trascendentale.
L’unico uso legittimo e corretto delle categorie è l’applicazione alle intuizioni empiriche, cioè
nell’ambito dell’esperienza, e dunque al mondo fenomenico. Se non sono riferiti al materiale empi-
rico, i concetti sono «vuoti», cioè privi di un contenuto reale, e il loro uso è illegittimo e «trascenden-
tale». Da queste operazioni concettuali, compiute dalla ragione in senso stretto, scaturiscono i con-
cetti di «totalità assolute» («idee trascendentali») che, in quanto infinite, non possono essere date
da alcuna esperienza reale. La ragione ha due significati per Kant: il primo comprende tutte le facoltà
conoscitive dell’uomo, il secondo invece è un intelletto che applica le categorie al di fuori dell’espe-
rienza, e cercare di estirparla è inutile perché è una tendenza naturale dell’uomo.

L’«Analitica trascendentale dei principi»


In questa sezione Kant si occupa dell’applicazione concreta delle categorie alle intuizioni, in modo
da creare quei «giudizi d’esperienza» che consentono la conoscenza della natura. Tale applicazione
appare però problematica a causa dell’eterogeneità tra categorie intellettuali e intuizioni sensibili. A
ciò risponde lo «schematismo trascendentale», che ha la funzione di trovare un termine intermedio,
una facoltà che riunisca in sé aspetti di entrambe. Questa è l’«immaginazione pura»: come la sen-
sibilità, l’immaginazione ha per oggetto intuizioni, ma come l’intelletto, è in grado di operare un primo
livello di sintesi dei dati empirici («sintesi empirica») che prepara la «sintesi trascendentale». L’im-
maginazione permette infatti di intuire i dati empirici non solo nel tempo, ma in una determinata
modalità temporale – contemporaneità, successione, etc. – implicando così una certa connessione.
Queste «determinazione del tempo secondo regole» sono gli «schemi trascendentali puri», il vero e
proprio elemento di raccordo tra intuizioni e categorie: essi sono omogenei con l’elemento sensibile
(il tempo), ma in quanto determinazioni «del tempo secondo regole» di natura intellettuale rimandano
alle categorie, poiché quelle regole ne sono il fondamento. In questo modo si stabilisce una corri-
spondenza tra gli schemi puri e le categorie: ad esempio, allo schema della «permanenza» corri-
sponde la categoria della «sostanza; alla «successione» la «causalità». Infatti, quando l’immagina-
zione dà due fenomeni in successione, questi vengono connessi applicando la categoria della cau-
salità, perché la successione è la proiezione della categoria intellettuale della causalità sul piano
sensibile dell’intuizione del tempo.
Le «regole» sono i criteri alla base dell’uso legittimo delle categorie e prendono il nome di «principi
puri dell’intelletto» perché sono tanto generali da fondare ogni conoscenza senza essere a loro volta
fondate su norme più elevate: essi coincidono, secondo Kant, con le leggi universali della natura.
Tali principi si dividono in quattro gruppi:
 «Assiomi dell’intuizione» → «tutte le intuizioni sono quantità estensive».
Tutti gli oggetti che noi intuiamo sono dati come quantità. Ciò implica la necessità di appli-
care la matematica alla conoscenza degli oggetti naturali (fisica).
 «Anticipazioni della percezione» → tutte le percezioni soggettive hanno un determinato
grado di intensità cui corrisponde, sul piano oggettivo, un grado misurabile, le cui variazioni
può essere previste dall’intelletto.
 «Analogie dell’esperienza» → «l’esperienza è possibile solo mediante una rappresentazione
di una connessione necessaria delle percezioni». L’esperienza del mondo naturale è possi-
bile solo in quanto esso si configura come un insieme di leggi necessarie.
Le connessioni necessarie che l’intelletto istituisce tra fenomeni sono tre:
 Sostanza → legge della permanenza della sostanza: «in ogni cambiamento di feno-
meni la sostanza permane e la quantità nella natura non aumenta né diminuisce».
 Causalità → legge della causalità necessaria: «tutti i fenomeni accadono secondo la
legge della connessione della causa e dell’effetto».
 Azione reciproca → principio della simultaneità secondo la legge dell’azione reci-
proca: «tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si tro-
vano tra loro in un’azione reciproca universale».
→ tale principio consente di vedere l’intero mondo naturale come un insieme in cui
ciascun fenomeno è allo stesso tempo causa ed effetto di tutti gli altri.
 «Postulati del pensiero empirico in generale» → si limitano a decidere se il contenuto degli
oggetti è «possibile», «reale» o «necessario».
In quanto i «principi puri» vengono assimilati alle leggi universali della natura, Kant risolve un altro
dei problemi fondamentali della Critica: come sia possibile una fisica come scienza pura. Infatti, dal
punto di vista materiale, cioè intesa come «insieme unitario di fenomeni», la natura è resa possibile
dalle leggi della sensibilità secondo cui le sensazioni sono percepite e ordinate nello spazio e nel
tempo; dal punto di vista formale, invece, cioè considerata come complesso unitario delle leggi che
connettono i fenomeni in maniera necessaria, la natura è resa possibile dalle categorie e dai principi
puri dell’intelletto. L’unità che si riscontra nel mondo naturale non è intrinseca alle cose, bensì è il
riflesso, nel mondo fenomenico, dell’unità dell’«Io penso»; analogamente, le leggi che connettono i
fenomeni naturali sono prescritte dalle forme a priori dell’intelletto. Così, la «rivoluzione coperni-
cana» è completata: il carattere unitario della natura non è dato dall’oggetto, ma da una proiezione
del soggetto sull’oggetto, in quanto è l’«Io penso» a costituire la natura come insieme unitario di
fenomeni connesso da leggi necessarie – le regole fondamentali dell’intelletto.

La «Dialettica trascendentale»
Nella ragione umana esiste una naturale tendenza a fare un uso «trascendente» delle categorie. Il
soggetto, avvalendosi del fatto che le categorie sono strutture puramente formali del pensiero, cioè
senza connessioni con il materiale dell’esperienza, ne fa un uso extra-empirico, utilizzandole per
compiere sintesi puramente logiche. In questo modo produce «idee trascendentali» – il termine
«idee» è ripreso da Platone –, cioè concetti di «totalità incondizionate» che, in quanto illimitate, non
possono essere date da alcuna esperienza reale. Kant riconosce tre tipi di totalità assolute, quindi
tre tipi di idee, ognuna delle quali contiene una determinazione dell’errore di fondo delle idee, quello
di non derivare dall’esperienza:
Anima → concetto di totalità assoluta di tutti i fenomeni interni.
L’errore alla base del concetto di anima è un paralogismo – un falso sillogismo. Il sillogismo, per
essere tale, deve avere due premesse universali e una conclusione in cui sparisce il termine medio,
il quale deve avere lo stesso significato in entrambe le premesse. Per Kant, l’errore nel considerare
l’anima era proprio questo: il significato del termine medio «soggetto». La prima premessa dice che
«il soggetto è sempre sostanza di un accidente»; la seconda premessa, invece, dice che «l’essere
pensante deve essere un soggetto perché, pensando, permette di costituire un oggetto»: nella prima
premessa il termine ha significato metafisico, cioè qualcosa che sorregge degli attributi, mentre nella
seconda ha un significato conoscitivo, trascendentale. L’errore, in pratica, è applicare la categoria
di «sostanza» all’«Io penso», che invece non può essere mai oggetto della sintesi categoriale perché
non può essere percepito sensibilmente: le categorie di sostanza ed esistenza possono essere ap-
plicate solo all’esperienza. L’anima è solo un’idea normativa e, come tale, non è esperibile: la sua
funzione, come tutte le altre idee, è avere un valore regolativo, cioè indicare una totalità, un orizzonte
complessivo, che serva al soggetto come orientamento per mettere assieme nuovi dati esperibili.
Questa è una critica a tutta la metafisica del soggetto nata da Cartesio, ma più in generale alla
psicologia metafisica, già presente ai tempi di Aristotele. Dal punto di vista morale, negare l’esistenza
dell’anima significa che la morale non può più fondarsi su di essa e, quindi, sul soggetto.
Mondo → concetto di totalità assoluta di tutti i fenomeni in generale – interni ed esterni.
La serie di errori specifici alla base dell’idea di mondo sono le «antinomie della ragione», cioè
affermazioni contrapposte e non contraddittorie che non sono risolvibili poiché sia la tesi che l’antitesi
sono logicamente inconfutabili. Le antinomie sono quattro, divise in due gruppi:
 Antinomie matematiche
a) Tesi della finitezza o infinitezza del mondo nello spazio e nel tempo.
b) Problema se il mondo consti di elementi ultimi o se sia divisibile all’infinito.
 Antinomie dinamiche
c) Esistenza o non esistenza di una causa libera nel mondo → la tesi afferma che nel
mondo esiste una causa libera; l’antitesi invece dice che nel mondo non c’è libertà,
ma che tutto è regolato da una serie di cause ed effetti.
d) Dipendenza del mondo da una causa necessaria oppure tutto è contingente.
Dal punto di vista morale sono interessanti le due antinomie dinamiche perché ruotano attorno al
problema della libertà, che è strettamente legato alla morale. Kant infatti vuole affermare che la
libertà, almeno in teoria, è possibile, e successivamente fondare su di essa la morale; per farlo,
doveva però dimostrare che le antinomie matematiche erano entrambe infondate, mentre in quelle
dinamiche almeno una delle due tesi può essere vera, a seconda dell’ambito a cui la applichiamo,
se al mondo fenomenico o a quello noumenico. Kant risolve il problema affermando che le antinomie
matematiche sono sempre false perché non escono dall’ambito dei fenomeni, e il mondo dei feno-
meni non consente di rispondere affermativamente a nessuna delle due tesi:
 Antinomie matematiche → tesi e antitesi sono entrambe false.
a) L’intelletto può tendere all’infinito ma non può comprenderlo perché rimane all’interno
della serie dei fenomeni
b) non si può arrivare ad una causa prima del mondo perché l’intelletto può sempre arrivare
a pensare una causa ulteriore; tuttavia, se può trovare sempre una causa precedente,
non è in grado di comprendere l’intera serie causale perché è finito.
 Antinomie dinamiche → tesi e antitesi possono essere entrambe vere, se vengono riferite a
due ordini diversi di realtà.
c) La necessità causale è riferita al mondo fenomenico, mentre la causalità libera deve ne-
cessariamente uscire dalla serie di cause ed effetti fenomenici e riferirsi alle cose in sé.
Ciò significa dire che esiste un mondo non fenomenico in cui è possibile una causalità
libera senza che ciò sia contraddittorio con l’esistenza della necessità causale nel mondo
fenomenico. Dal punto di vista teoretico, quindi, la libertà è possibile.
d) La tesi che sostiene l’esistenza di un essere che sia causa necessaria del mondo si rife-
risce alle cose in sé, mentre la contingenza universale si limita al mondo dei fenomeni.
Nelle antinomie dinamiche, l’incondizionato viene posto al di fuori dei fenomeni, dunque è teoreti-
camente possibile, anche se ciò non vuol dire che sia vero: questo risultato è fondamentale per il
discorso pratico, perché se è vero che la metafisica non può dimostrare l’esistenza della libertà in
quanto cade al di fuori dell’esperienza, non può nemmeno negarne l’esistenza, perché essa rimane
al di là del conoscibile. Bisogna quindi supporre l’esistenza della libertà su un piano diverso da quello
teoretico, che può solo affermare che essa è possibile: il piano pratico della morale.
Dio → concetto di totalità assoluta di tutte le condizioni che rendono possibile il pensiero.
Per Kant pensare significa giudicare, esprimere un giudizio logico, cioè congiungere un soggetto
con un predicato: per farlo, l’uomo deve possedere predicati e, per garantire la possibilità di un
pensiero esauriente, deve avere la possibilità di disporre di tutti i predicati possibili. Questa è la
funzione dell’idea di Dio: il concetto della totalità di tutti i predicati positivi possibili. In quanto idea, a
Dio non si possono applicare le categorie dell’esistenza o della realtà perché non è esperibile: ri-
prendendo la tradizione scolastica, si può dire che la sua unica determinazione sia quella di logos,
di intelletto. L’esistenza di Dio si fonda storicamente su tre tipi di prove:
 Ontologica (a priori) → nel concetto di Dio come essere perfetto è inclusa l’esistenza: se non
esistesse, non sarebbe perfetto. Kant osserva però che l’esistenza non entra nella determi-
nazione del concetto, quindi essa non aggiunge o toglie nulla alla perfezione di Dio.
 Cosmologica (a posteriori) → se nel mondo si danno esseri contingenti, deve esistere un
essere necessario come loro causa.
 Fisico-teologica (a posteriori) → dall’ordine e della finalità constatabili nel mondo si può risa-
lire a Dio come suprema causa ordinatrice.
Le due prove «a posteriori» sussistono solo se si aggiunge a priori il concetto di «perfettissimo»:
dimostrata l’infondatezza della prova ontologica, quindi, anche le altre due decadono.
Esaurita la critica alle tre idee, Kant precisa però che esse non sono concetti privi di senso: al
contrario, il concetto della totalità incondizionata è indispensabile per promuovere l’unità sistematica
del sapere perché riferendosi al tutto è possibile collocare in modo specifico le singole conoscenze.
Anche le idee trascendentali vengono giustificate, a condizione che di esse non si faccia un «uso
costitutivo», bensì un «uso regolativo».

La morale: la «Critica della ragion pratica» e la «Fondazione della metafisica dei costumi»
Nella maggior parte delle filosofie precedenti, su presupposti metafisici poggiavano anche le dot-
trine relative al comportamento umano. Così, finita la prima Critica, Kant si trova di fronte al problema
di fondare l’universalità della legge morale non su una dimensione metafisica, ma sulla ragione
umana, cioè cercare le condizioni a priori di un agire valido universalmente.
Per Kant l’etica è fondata sul soggetto: la legge morale è prodotta dal soggetto, non è più inscritta
nella natura delle cose. Egli deve però dimostrare che questo soggetto non è quello empirico, che
ha bisogni e necessità particolari, bensì un soggetto trascendentale. Il problema è «vedere come la
ragion pura possa essere, oltreché una filosofia pura teoretica, anche una filosofia pura pratica», e
la risposta che Kant tenterà di dare sarà la stessa della prima Critica: una sintesi a priori.
La «volontà buona», universalmente valida, non deve dipendere da moventi particolari, bensì deve
essere determinata dalla ragione. A differenza delle inclinazioni sensibili, i precetti razionali hanno
sempre carattere imperativo, cioè sono comandi cui il soggetto si sottopone attraverso una forma di
coercizione della volontà da parte della ragione. Le condizioni dell’universalità della legge morale
sono due: a) deve essere espunto dalla legge qualsiasi motivo di ordine empirico; b) il criterio per
determinare una legge morale universale deve essere un criterio formale, cioè che riguardi solo la
forma, mentre il contenuto empirico deve essere sostituito con il dovere.
Così, la legge morale diventa un imperativo, e Kant ne riconosce di due tipi:
 Imperativo condizionato o ipotetico → imperativo condizionato da una premessa e che dun-
que comanda un’azione in visa di un fine particolare: non ha validità universale.
 Imperativo incondizionato e categorico → azione comandata incondizionatamente: l’azione
deve essere compiuta in ogni caso perché viene comandata direttamente ed esclusivamente
dalla ragione. Esso esprime la legge del «dovere per il dovere».
Essendo indipendente da condizioni particolari, l’imperativo categorico non ha un contenuto
materiale, ma è puramente formale; inoltre non ci dice che cosa si deve fare, ma come biso-
gna agire affinché l’azione possa essere moralmente positiva.
La formulazione dell’imperativo categorico si articola in tre sotto-formulazioni:
a) «Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua vo-
lontà a legge universale della natura → se l’uomo agisce obbedendo a motivazioni
puramente materiali, i risultati empirici dell’azione rifletteranno tale particolarità e po-
tranno essere in conflitto tra loro, quindi non può esserci armonizzazione. Se tutti
agissero invece sulla base di un imperativo categorico, gli effetti empirici di tali azioni
sarebbero armonizzabili gli uni con gli altri e costituirebbero un ordine morale armo-
nico che ricada nel mondo naturale – l’ordine fisico vigente nel mondo naturale.
b) «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro
uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» → questa for-
mulazione venne subito contestata perché introduce il concetto di umanità, il quale
sembra avere un contenuto materiale. Kant rispose osservando che, dal suo punto di
vista, non c’è differenza tra umanità e razionalità: la razionalità è l’essenza dell’uma-
nità, quindi non si introduce alcun contenuto materiale. Quando si realizza questo
comando della ragione, ciascun uomo viene considerato come un fine a sé e, quindi,
si può realizzare il «regno dei fini», un mondo ideale in cui ciascun uomo perde la sua
strumentalità e viene considerato in una società in cui tutti sono fini a sé stessi.
c) «La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in quanto si consi-
dera auto-legislatrice» → nell’azione morale la volontà dell’uomo è esclusivamente
determinata dalla ragione; ma poiché la razionalità si identifica con l’uomo stesso,
obbedendo alla ragione l’uomo obbedisce a sé medesimo. La morale kantiana è
un’etica dell’«autonomia», in cui l’uomo dà a sé stesso, tramite la ragione, la propria
legge. In questo modo, Kant si allontana dallo schema giuridico giusnaturalista: la
legislazione universale non si ottiene dall’analisi di un ordine oggettivo già esistente,
bensì è una proposta attiva dell’uomo.
Come può la legge morale fondarsi sulla ragione? Kant dà due spiegazioni diverse nelle sue opere.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant afferma che l’uomo è consapevole di abitare in
due mondi, in quello fenomenico e in quello non sensibile poiché è portatore di ragione. In quanto
cittadino di due mondi, l’uomo ha due punti di vista da cui considerare sé stesso e le proprie azioni:
da un lato si trova in una condizione di eteronomia perché sottostà alle leggi naturali del mondo
fenomenico, e quindi non gode di libertà; dall’altro, in quanto cittadino di un mondo intelligibile, si
trova in una condizione di autonomia perché si sottrae alle leggi naturali, ed è quindi portatore di
libertà. Se è libero, allora l’uomo può anche essere morale perché può darsi liberamente una regola
morale. L’imperativo categorico è possibile perché l’uomo fa parte di questo secondo mondo.
Il concetto di mondo intelligibile è però solo un punto di vista, quindi è una fondazione molto debole,
e nella Critica della ragion pratica Kant cercherà di invertire il rapporto tra morale e libertà, affer-
mando che è la libertà a fondarsi sulla morale: l’uomo è morale perché ha una coscienza sintetica
moralità, e poiché bisogna essere liberi per essere morali, allora è la morale a fondare la libertà.
I postulati della ragion pratica
La libertà è il primo «postulato» della ragion pratica: occorre ammettere la libertà per non contrad-
dire la libertà di fatto della legge morale.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant diceva che l’uomo aveva una coscienza imme-
diata della libertà in quanto punto di vista; nella Critica della ragion pratica si auto-criticò, ribaltando
il rapporto tra morale e libertà perché di questa non possiamo avere coscienza immediata né me-
diata dall’esperienza. Per attuare questo ribaltamento il punto di partenza è la ragione pratica. Kant
si pone un problema analogo alla prima Critica, cioè come sia possibile una conoscenza pratica
sintetica che escluda ogni elemento sensibile: la ragion pura, nel suo uso pratico, non deve unificare
e organizzare dei dati già esistenti, bensì costituire un oggetto completamente nuovo anche nel suo
contenuto, produrre il suo oggetto. Ciò deve avvenire tramite una sintesi immediata: la fusione im-
mediata tra ragione e volontà. Questo è un fatto inspiegabile con qualsiasi procedimento razionale
perché non interviene alcuna mediazione logica (le categorie). La volontà viene determinata esclu-
sivamente dalla ragione e, se non ci fossero i fenomeni come elemento di disturbo, esse sarebbero
una cosa sola e l’uomo sarebbe immediatamente «santo» – perché la ragione implica subito una
morale. L’uomo non è santo solo perché non è solo ragione ma anche sensibilità, la quale compie
un’azione di disturbo nella fusione originaria di ragione e volontà. Poiché l’uomo è sia ragione che
volontà, gli occorre una libertà che gli permetta di scegliere tra obbedire solo alla ragione oppure
lasciarsi condizionare dai fenomeni: così, nel caso dell’uomo, la moralità comporta anche la libertà.
La legge morale è per Kant un «fatto» che l’uomo scopre nella propria coscienza razionale: che la
ragione determini immediatamente la volontà è un dato di fatto che non ha bisogno di giustificazione;
anzi, esso può giustificare l’esistenza della libertà. Se dal punto di vista teoretico l’esistenza della
libertà non è dimostrabile, da quello pratico essa è una condizione sostanziale (ratio essendi) della
moralità: una moralità priva di libertà non sarebbe possibile perché il soggetto perderebbe la capacità
di autodeterminarsi e di essere legislatore di sé stesso. D’altra parte, attraverso l’esperienza della
libertà l’uomo acquista la consapevolezza del «fatto morale»: la moralità è dunque la condizione
cognitiva (ratio cognoscendi) della libertà. Occorre quindi ammettere la libertà per non contraddire
la realtà di fatto della legge morale: la libertà è un «postulato» della ragion pratica.
Senza moralità non può esistere una libertà per l’uomo: la coscienza dell’imperativo categorico è
una conoscenza sintetica a priori, universalmente valida e immediata, cioè non fondata su alcuna
intuizione empirica né pura. La libertà non può essere conosciuta in alcun altro modo che attraverso
la nostra coscienza della vita morale: poiché l’uomo è certo che esista una legge morale data diret-
tamente dalla ragione, egli sente anche di essere libero. Di conseguenza, il bene e il male non sono
più regole precedenti la morale, ma sono il risultato dell’applicazione della legge morale: ciò che è
bene e ciò che è male non è inscritto nella struttura della realtà, bensì è una conseguenza dell’im-
perativo categorico.
Kant riconosce altri due postulati pratici: a) l’immortalità dell’anima e b) l’esistenza di Dio. La loro
realtà è richiesta dal concetto pratico di «sommo bene»: se la virtù è il bene «supremo», a essa
manca l’elemento della felicità per realizzare il bene «sommo», perfetto, il quale presuppone la pos-
sibilità di realizzare la «santità», la virtù perfetta. Il problema della felicità è uno dei temi importanti
della Critica della ragion pratica: la maggior parte dei filosofi di fine Seicento e inizio Settecento
ritenevano che la felicità fosse il fine ultimo dell’uomo e, quindi, un criterio determinante della legge
morale. La felicità era spesso collegata, come nell’illuminismo francese, con la dimensione empirica,
ma presentava il problema della sua dipendenza dalla natura e, quindi, da un qualcosa di non con-
trollabile dall’uomo. Ma nell’illuminismo francese questo non era un grosso problema perché la na-
tura, nella loro concezione, possedeva un ordine razionale. Nell’illuminismo tedesco si era invece
sviluppata una visione diversa, a partire da Leibniz: è vero che la felicità è piacere, ma questo pia-
cere non è quello fisico, bensì quello dell’anima; e dal momento che l’anima è controllabile, ci si può
creare da sé stessi il piacere, senza dipendere dalla natura. Il piacere spiritualizzato è alla portata
dell’uomo perché la vera felicità consiste nella perfezione morale: partecipare alla perfezione del
mondo tramite la morale dà il vero piacere. Kant accetta la tradizione leibniziana in cui l’uomo di-
pende da sé stesso, ma non accetta la definizione di piacere in termini spirituali: per Kant, infatti, la
felicità implica sempre una dimensione sensibile, di piacere fisico.
L’unione tra virtù e felicità, in cui consiste il sommo bene, è però problematica: chi vuole essere
morale deve rinunciare alla felicità, poiché quest’ultima, avendo natura sensibile, darebbe all’azione
il carattere della particolarità e dell’eteronomia. Il virtuoso deve godere della felicità nella misura in
cui è virtuoso, ma ciò è impossibile: la soluzione è pensare a un Dio autonomo dalla natura che è in
grado di modificare l’ordine naturale in modo da rispondere all’ordine morale; egli deve essere on-
nipotente e onnisciente e deve poter scrutare l’animo di ogni individuo per vedere in quale misura è
virtuoso e, quindi, meritevole di felicità. L’esistenza di un simile Dio è un postulato, cioè una propo-
sizione teoretica il cui valore non è teoretico, ma pratico. La sua giustificazione consiste nella con-
nessione necessaria con un principio pratico incondizionato a priori, cioè una legge morale: l’uomo
non è moralmente soddisfatto se la giustizia nel mondo non è garantita, e l’unica forma di questa
garanzia presuppone l’esistenza di Dio. Ma se anche cadesse il postulato di Dio, ad esempio se si
è atei, resterebbe l’imperativo categorico.
Anche il postulato dell’immortalità dell’anima è connesso alla felicità. Come detto, la santità si ot-
tiene nell’unione immediata tra ragione e volontà, ma questa condizione è irraggiungibile nell’uomo,
irrealizzabile, perché interviene sempre la sensibilità come fattore di disturbo. Nonostante sia irrea-
lizzabile, l’uomo ha bisogno di immaginare la possibilità che il progresso morale possa proseguire
fino al raggiungimento della santità, quindi all’infinito. Siccome la morte fisica è un fenomeno, mentre
il soggetto morale è noumenico, si può pensare che un soggetto morale trascendentale possa con-
tinuare la sua esistenza oltre la morte.
In un certo senso la ragion pratica detiene un «primato» sulla ragione teoretica perché dà realtà a
concetti che, nella prima Critica, erano solo possibilità teoretiche. Ciò però non significa che la ragion
pratica consenta un’estensione dei limiti della conoscenza: la validità dei postulati non è teoretica,
ma solo pratica; per mezzo di essi si giunge alla certezza morale della libertà, dell’immortalità
dell’anima e dell’esistenza di Dio, ma in nessun modo è possibile affermare la loro realtà teoretica.
L’affermazione dell’esistenza di Dio consente a Kant di passare dalla morale alla religione. La reli-
gione, infatti, non ha contenuti diversi dall’etica: i doveri morali sono solo riconosciuti come coman-
damenti divini. La volontà di Dio, che comanda agli uomini le stesse azioni già prescritte dalla legge
morale, non è arbitraria ma conforme alla ragione universalmente legislatrice. La fede religiosa si
trasforma in «fede razionale», nella quale nulla è lasciato al fanatismo, così come Cristo viene ri-
condotto entro i «limiti della ragione: egli assume un valore esemplare per l’uomo perché la sua
condotta corrisponde all’ideale razionale dell’uomo moralmente gradito a Dio. Il cristianesimo si de-
linea così come la migliore delle religioni, poiché il contenuto scritturale non è contrario a una fede
puramente razionale – anzi ne promuove la realizzazione.

Il giudizio riflettente: la «Critica del giudizio»


Il «giudizio riflettente», a differenza di quello «determinante» che costituisce il proprio oggetto, si
limita a interpretare gli oggetti naturali in base alla «finalità»: esso non ha quindi carattere conosci-
tivo, ma ha comunque carattere universale. Il giudizio riflettente assume duplice forma, in base al
modo in cui viene applicato il principio di finalità:
«Giudizio estetico» → sentimento di accordo tra soggetto e rappresentazione dell’oggetto. Il giudi-
zio estetico ha per oggetto il «bello» e il «sublime».
 «Bello» → fondato sul «giudizio di giusto», che deriva dall’accordo immediato tra l’immagi-
nazione e l’intelletto. L’immaginazione fornisce l’elemento sensibile liberamente interpretato
da essa stessa e l’intelletto ritrova, in questa attività immaginativa, una regolarità che gli
consente di ritrovare in essa un accordo con i propri concetti al di fuori della legge della
sintesi a priori. Così il soggetto percepisce nell’oggetto bello un’armonia interna che consente
di considerarlo come un fine in sé stesso: il bello «piace senza interesse», non c’è in esso la
rappresentazione di uno scopo e, per questo, si distingue dall’utile, dal gradevole e dal vero.
L’accordo tra le facoltà è colto tramite un «senso comune», che vale per tutti i soggetti forniti
di gusto, che ne garantisce l’universalità.
 «Sublime» → esso nasce dal duplice sentimento che l’uomo prova confrontandosi con la
grandezza e la potenza della natura: dispiacere per la constatazione dei propri limiti; piacere
derivante dalla consapevolezza che la propria finalità razionale e morale gli conferisce valore
e dignità.
«Giudizio teleologico» → principio di finalità ricondotto ai rapporti interni alla natura, in modo da
coglierne l’ordine finale che vige al suo interno. Qui la finalità trova espressione concettuale, a diffe-
renza del giudizio estetico, ma il concetto di fine che qui interviene non è una categoria, bensì un
concetto della ragione. Per Kant, infatti, le categorie, nonostante siano indispensabili per la costru-
zione della scienza fisica, non riescono a spiegare l’esistenza degli organismi naturali, la quale può
essere compresa solo attraverso il concetto razionale di «finalità interna». L’organismo naturale,
infatti, è una totalità inscindibile di organi in cui l’interazione reciproca obbedisce a un principio in-
terno irriducibile a una spiegazione meccanicistico-causale. Dal singolo organismo, il concetto di fine
può essere esteso per analogia a tutta la natura: essa si configura, quindi, come «sistema secondo
la regola dei fini», cioè come un unico organismo universale in cui tutto è subordinato a uno «scopo
finale». Tale scopo può essere identificato con l’uomo stesso in quanto soggetto morale fornito di
un’essenza noumenica. Tramite il giudizio teleologico egli si può quindi rappresentare il mondo na-
turale in modo che esso favorisca la realizzazione della morale. Inoltre, la teleologia è propedeutica
per una fondazione morale della teologia: il principio della finalità dell’intero sistema naturale si fonda
infatti sull’ipotesi di una suprema causa intelligente del mondo, cioè di un Dio che abbia prodotto la
natura in vista del suo scopo finale. In questo modo, Kant prende le distanze dal meccanicismo
cartesiano, preparando la strada alle concezioni organicistiche e vitalistiche della natura della cultura
romantica e idealistica.
Kant insiste sul fatto che il fine non è una categoria intellettuale, bensì un concetto della ragione,
quindi le rappresentazioni non hanno valore conoscitivo: noi possiamo agire come se esistesse una
causa intelligente del mondo, ma non possiamo provarne l’esistenza. Allo stesso modo, la compren-
sione teleologica dell’organismo vivente non estende la conoscenza teoretica.

La filosofia della storia


Kant è l’autore più importante della stagione illuministica della filosofia della storia. La riflessione
kantiana sulla storia viene sviluppata in varie opere: Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico (1784), il saggio Congetture sull’origine della storia (1786); Per la pace perpetua
(1795) e nella sua ultima opera pubblicata, Il conflitto delle facoltà (1798). La domanda da cui parte
la sua riflessione storica è che cosa può sperare l’uomo per il futuro. Poiché l’esperienza non può
dare una risposta univoca a questa domanda, Kant si chiede se sia possibile una storia a priori.
Per Kant sono esistiti tre modi di concepire il corso storico, che però non condivide:
• «Terrorismo morale» → concezione della storia come decadenza e regresso costante. Que-
sta visione non può essere vera perché a un certo grado di regresso la società distrugge-
rebbe sé stessa.
• Concezione «eudemonistica» → concezione della perfettibilità illimitata. Kant non la condi-
vide perché la sua concezione dell’uomo prevede che coesistano in lui sia bene che male:
se il bene prevalesse sul male, l’uomo non sarebbe più libero perché non potrebbe scegliere
tra i due. È vero che si genererebbe un movimento ascendente, ma gli uomini sarebbero solo
più agiti e non agenti, non avendo la possibilità di scegliere le proprie azioni.
• Concezione «abderitista» → concezione della storia come andamento irrazionale privo di
senso. Bene e male qui si neutralizzano, si annientano reciprocamente: il risultato, se fosse
vera questa concezione, sarebbe l’inerzia, un succedersi di bene e di male, di progresso e
regresso, per cui l’intero gioco di scambi reciproci tra gli uomini su questo pianeta sarebbe
assolutamente casuale. Fondamentalmente, è la concezione ciclica della storia.
Poiché il bene e il male sono mescolati in una misura che l’uomo non conosce non si può dare un
sapere empirico sul futuro. Kant dà vita a un paradigma: se vogliamo dare un senso alla domanda
sul futuro, se vogliamo arrischiare una storia profetica del genere umano, dobbiamo riconnettere il
futuro a qualche esperienza. Questa esperienza è un «segno prognostico», un avvenimento che
testimoni una tendenza morale della specie umana di progresso verso il meglio. Questo segno non
può essere ritrovato nell’azione individuale, ma si deve manifestare nella partecipazione universale
e disinteressata ad un evento da parte degli spettatori. Per Kant l’evento storico di cui si può fare
esperienza e in cui si può individuare un segno prognostico è la Rivoluzione francese: l’entusiasmo
che ha creato negli spettatori che non hanno partecipato alla rivoluzione è il segno di una svolta
nella storia perché l’entusiasmo che ha creato negli spiriti degli spettatori dimostra un carattere fon-
damentalmente morale della specie umana che non solo fa sperare nel progresso verso il meglio,
ma che ne è un segno. Il motivo per cui Kant individua nella Rivoluzione un «segno prognostico» è
duplice: a) è la prima volta nella storia che un popolo diventa attore costituente, cioè che decide di
darsi liberamente una costituzione civile che crede buona; b) lo scopo, cioè una costituzione giuridi-
camente e moralmente buona che sia in grado di evitare per principio la guerra offensiva. Nella Pace
perpetua Kant aveva sostenuto che la grande novità nella storia stava in due fatti: che un popolo
coraggioso si era dato una costituzione repubblicana in opposizione a tutti i dispotismi del passato
e che, di conseguenza, decidesse della pace o della guerra. La sua speranza era che il popolo
decidesse per la pace perché è l’unico che soffre per la guerra. Se tutti i paesi instaurassero una
repubblica popolare si creerebbe una federazione internazionale di stati repubblicani che dovrebbe
essere garanzia di pace perpetua.
Nell’introduzione dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant afferma che
la difficoltà della riflessione sulla storia è la molteplicità delle cause dei fenomeni della storia, che
spesso sono nascoste: noi non possiamo prevedere, e quindi generalizzare, singole azioni e il
comportamento delle individualità che si muovono nella storia, ma se prendiamo in considerazione
il corso storico per grandi aggregazioni possiamo scoprire un andamento regolare che assomiglia a
un corso progressivo («eudemonismo») ma che non può essere ridotto a un insieme di fatti casuali
(«abderitismo»). In pratica, Kant sostiene la tesi dell’eterogenesi dei fini: gli uomini procedono senza
accorgersene verso gli scopi della natura, pur essendo a loro sconosciuti, perché altrimenti antepor-
rebbero le loro particolari finalità a questo scopo. La tesi della «mano invisibile» suggerisce che gli
uomini devono essere ingannati per raggiungere certi scopi, altrimenti essi si lascerebbero condurre
solo dai loro interessi personali.
Dopo l’introduzione, il testo è articolato in nove tesi fondamentali strettamente intrecciate, dalle quali
si ricava un discorso organico sulla storia:
1) Prospettiva teleologica → tutte le disposizioni naturali delle creature sono destinate a dispiegarsi.
2) Teleologia nell’uomo → tema della perfettibilità: l’uomo, in quanto unica creatura razionale sulla
terra, è il solo che riesce a sviluppare completamente quelle disposizioni naturali che sono finalizzate
all’uso della ragione. Kant introduce una distinzione fondamentale tra il mondo animale e il mondo
umano: anche gli animali sviluppano e perfezionano le loro disposizioni naturali, ma questo ciclo di
apprendimento si conclude con la vita dell’animale e resta identico di generazione in generazione;
mentre l’uomo, poiché perfeziona la ragione, sviluppa la sua capacità nell’arco di tempo delle gene-
razioni. Se così non fosse la teleologia risulterebbe senza senso, perché la natura ci avrebbe dotato
di una disposizione che noi non riusciamo ad esplicare interamente nell’arco della vita.
3) Svolgimento della precedente → ciò che caratterizza l’uomo e che lo differenzia dagli altri animali
è la ragione. La natura ha voluto che egli traesse il suo perfezionamento non dall’istinto, ma da uno
sforzo consapevole, dall’investire energia per dispiegare la potenzialità della facoltà razionale. La
natura è stata avara, parsimoniosa: in questo è come se avesse voluto che l’uomo, nell’innalzarsi
dalla rozzezza alla massima civiltà, dovesse ringraziare solo sé stesso, in modo da guadagnare una
razionale fiducia di sé. La natura consente all’uomo anche un perfezionamento morale, cioè gli
permette di accrescere la stima di sé in relazione alla libera scelta di impegnarsi nel potenziare la
sua capacità razionale, e quindi di perfezionare la sua capacità di dominare il mondo esteriore e
l’ambiente. Il perfezionamento morale non va però confuso con il benessere: il fine della natura è
l’auto riconoscimento morale degli uomini, cioè che l’uomo acquisti coscienza della felicità, non solo
del benessere materiale.
4) Qui si rende evidente il legame tra la riflessione kantiana, l’antropologia pessimistica di Hobbes e
alcune parti del discorso di Rousseau. Kant ha una visione conflittualistica della storia (Hobbes): il
mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le disposizioni degli
uomini è il loro antagonismo nella società, l’«insocievole socievolezza» (Rousseau), cioè la loro
tendenza a riunirsi in società, che tuttavia è congiunta a una continua resistenza a unirsi, la quale
minaccia continuamente di sciogliere la società. Questa duplice, contraddittoria posizione, sta con
evidenza nella natura umana: l’uomo ha un’inclinazione ad associarsi – il conatus societatis della
tradizione aristotelica – perché solo solo in società sente di poter sviluppare le proprie potenzialità e
sentire sé stesso in quanto uomo. Egli ha però anche una forte tendenza ad isolarsi perché è consa-
pevole di non essere disposto ad assoggettarsi ai piani altrui. È proprio questa resistenza che risve-
glia tutte le forze dell’uomo, che lo conduce a superare la tendenza alla pigrizia: egli è spinto dal
desiderio di onore, potere e ricchezza; vuole procurarsi un rango tra i suoi consoci, che non sopporta
ma dei quali non può fare a meno. In questa tensione, in questo dissidio interiore, si producono i
primi veri passi dalla barbarie alla cultura perché si genera la competizione per l’onore e per il potere,
competizione da cui discende l’avanzamento. Kant insiste su questo punto: senza le proprietà
dell’insocievolezza, che in sé non sono degne di essere amate perché negative ma che ognuno
deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero racchiusi nei loro germi e la specie
umana non evolverebbe, ma rimarrebbe in un’«arcadica vita pastorale», nell’età dell’oro.
5) Kant passa a considerazioni più specificamente politiche, analizzando il meccanismo della natura
in riferimento alle costituzioni politiche e alle questioni della guerra. Il massimo problema è il raggiun-
gimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto, in modo che i rapporti tra le
nazioni non si improntino più sulla forza e garantire la sicurezza collettiva: solo così l’uomo è in grado
di sviluppare la propria disposizione naturale. Kant analizza il passaggio dallo stato di natura allo
stato civile nel tempo lungo della storia: l’antagonismo, l’insocievole socievolezza significa la mas-
sima libertà di tutti, ma di tutti contro tutti, dalla quale si genererebbe solo l’anarchia. Bisogna far sì
che questa libertà si integri con le altre, in modo che dalla successione di generazioni si generi quel
perfezionamento della facoltà razionali. È quindi nello scopo della natura che nasca la società civile,
lo Stato, come strumento per imbrigliare la libertà e dirigerla verso un ordine che consente il perfezio-
namento delle facoltà razionali. La natura, quindi, può raggiungere il suo scopo originario solo
negando sé stessa, cioè facendo uscire l’uomo dalla naturalità e permettendogli di entrare in modo
definitivo in una situazione sociale nella quale la libertà di tutti è garantita, perché ogni libertà è
protetta dalle libertà degli altri. Qui interviene il momento della sovranità: a costringere l’uomo, predi-
sposto ad una libertà incontrollata, ad entrare in questo stato di coazione è la pena, più precisamente
la pena di morte che si trova nello stato di natura. L’ordine sociale è frutto dell’insocievolezza, del
conflitto, il quale ha una funzione: per arrivare a una condizione in cui è possibile la pace perpetua
c’è un lungo cammino da fare, e in quel cammino il conflitto e la guerra hanno un posto legittimo.
6) Il problema del raggiungimento di una società civile in cui una libertà moderata è garantita è molto
complicato da risolvere, e per questo motivo ci si arriva molto tardi – nel suo secolo. Raggiungere
un ordine sociale è così difficile perché l’uomo è un animale che, quando vive tra simili, ha bisogno
di un padrone, perché è incline ad abusare della sua libertà e quindi va limitato. L’autorità politica
deve rispecchiare l’autorità del padrone, il quale però è un uomo, un animale che ha bisogno di un
padrone. Il capo supremo deve essere giusto per sé stesso ed essere allo stesso tempo un uomo –
essere giusto non è nelle disposizioni naturali dell’uomo. Questo compito è dunque il più difficile di
tutti, e anzi la sua perfetta soluzione è impossibile: la forma di governo perfetta è impossibile.
7) Il problema dell’instaurazione di una costituzione civile perfetta dipende da un problema di rapporti
esterni tra stati secondo leggi, e dunque va risolto in questo ambito: per risolverlo occorre che tutte
le diverse società civili e i diversi stati trovino il modo di instaurare tra loro un ordinamento restrittivo
nel farsi guerra. Ne La pace perpetua Kant afferma che delle garanzie significative, anche se non
assolute, si possono ritrovare in un ordine repubblicano con divisione dei poteri: solo dopo l’instau-
razione degli ordinamenti repubblicani in ogni nazione sarà possibile instaurare rapporti pacifici tra
tutte le repubbliche. La natura ha insegnato all’uomo a conseguire uno stato di pace dopo l’espe-
rienza della guerra: la guerra, poiché mette in pericolo la sopravvivenza, ha portato l’uomo a rendere
la costituzione sempre più razionale e migliore per evitarla, fino ad arrivare a una repubblica in cui il
popolo detiene il potere sovrano. Da qui si genera un automatismo per cui, se si genera questo
disegno della natura, si realizza una condizione di pace perpetua, in cui la libertà è garantita da
leggi. Kant distingue però il progresso giuridico da quello morale: per quest’ultimo è necessario un
serio sforzo interno nell’educazione dei cittadini. Così, egli lascia intendere che un passo in avanti
sul progresso morale si può conseguire laddove il progresso giuridico interno, la costituzione di
repubbliche, venga affiancato dalla costituzione cosmopolitica federale: in caso contrario il progresso
morale resta ipocrita perché le diverse costituzioni interne dei vari stati possono confliggere tra loro.
8) Conseguimento della lega pacifica tra popoli.
9) Il raggiungimento di una costituzione repubblicana è possibile se consideriamo il decorso storico,
il quale è regolare dagli antichi ai giorni nostri nel segno del progresso. Il nocciolo della filosofia della
storia che Hegel svilupperà nella sua filosofia della storia è che nel nostro continente c’è un corso
regolare di progresso e che fa sperare che questo continente guiderà gli altri nel raggiungimento
dell’apice della civiltà.

Il pensiero politico: «Per la pace perpetua»


Per la pace perpetua affronta il problema della guerra e con il fine di raggiungere la pace. Per
realizzare la pace perpetua, una pace sostanziale, è necessario che i rapporti tra gli Stati siano
improntati non alla forza, bensì al diritto. La soluzione per Kant è giuridicizzare le relazioni interna-
zionali, cioè sottomettere i rapporti tra gli Stati all’imperio della legge e non alle ragioni della forza. I
grandi statisti contemporanei di Kant, per garantire la pace, utilizzavano la politica dell’equilibrio,
ovvero creare una coalizione controbilanciante: alla strutturale fragilità delle politiche di equilibrio,
Kant opponeva la sicurezza collettiva. Per garantire la sicurezza collettiva, tutti gli Stati devono avere
la volontà comune di decidere assieme di darsi delle regole comuni per regolare le controversie che
inevitabilmente sorgono tra gli Stati.
Il rapporto di Kant con la tradizione contrattualistica e giusnaturalistica precedente è ben visibile in
quattro aree tematiche:
1. Contratto → il contratto tramite il quale si passa dalla società di natura alla comunità politica
non è un fatto storico, ma un’«idea di ragione», la cui funzione è definire la legittimità delle
leggi. Il legislatore che produce le leggi deve agire come se (als ob) le leggi effettivamente
scaturissero dalla volontà del popolo.
2. Diritto di resistenza → il diritto di resistenza non è ammissibile, altrimenti nessuna comunità
politica potrebbe sentirsi garantita. Kant però ammette ed esalta la libertà di penna, il diritto
alla libera espressione dell’opinione pubblica.
3. Nozione di «insocievole socievolezza» → con questo concetto Kant cercò di mettersi in una
posizione mediana tra Hobbes, Locke e Rousseau: gli uomini sono naturalmente portati ad
unirsi in società, ma al tempo stesso tendono a comportarsi egoisticamente e a far valere i
propri interessi, spesso gli uni contro gli altri. Kant, come tutti i liberali, riteneva che dalla
competizione tra gli individui per affermarsi derivasse il progresso, lo sviluppo positivo di un
corpo sociale: questo era il vero motore della salute di una comunità politica.
4. Diritto e stato di natura → Kant riconosceva come unico diritto naturale il diritto di libertà. Nel
passaggio dallo stato di natura allo stato civile l’uomo rinunciava questo diritto originario per
ottenere un diritto di libertà basato sulla forza universale della legge: lo stato di diritto è in
grado di garantire la libertà dei singoli, l’uguaglianza dei sudditi e l’indipendenza dei cittadini.
Kant era convinto che il mondo naturalmente procedesse verso la pace perpetua, verso una con-
dizione in cui non ci sarebbero più state guerre, perché in esso stava sempre più nettamente preva-
lendo lo spirito del commercio: le relazioni di interdipendenza economica sempre più strette tra le
nazioni avrebbero posto i presupposti strutturali per l’eliminazione di qualsiasi tipo di guerra. La pace
doveva essere consapevolmente costruita contemporaneamente sui due piani della politica interna
e della politica estera:
1. Politica interna → «la costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana», fondata
sulla rappresentanza e la separazione dei poteri. Gli Stati devono darsi una forma repubbli-
cana perché le repubbliche sono meno inclini a fare la guerra per due motivi: a) la guerra è
una decisione presa dopo il confronto tra diversi poteri; b) i diversi poteri rappresentato il
popolo, il quale materialmente fa la guerra, e che quindi rappresenta un ostacolo di grandis-
simo rilievo nella decisione di fare la guerra. Se si moltiplica il numero degli Stati repubblicani,
superando il numero di stati dispotici, la guerra non ci sarebbe più.
2. Politica internazionale → «il diritto delle genti deve essere fondato su un federalismo di liberi
Stati». Il problema era sostituire il diritto alla forza nelle controversie tra gli Stati; per risolverlo,
Kant stabilì una netta analogia tra i rapporti all’interno dello Stato e rapporti tra gli Stati: do-
vrebbe esistere un ente terzo superiore agli Stati che ne regoli le controversie. Questo pro-
cesso di chiama giuridicizzazione delle relazioni internazionali e si può realizzare seguendo
un modello confederativo o uno federativo, un unico Stato mondiale che governi le varie parti
del mondo sulla base del diritto: nel caso del modello confederativo non si crea un ente terzo,
ma gli Stati rinunciano, finché possono, solo all’uso della forza nei loro rapporti. Nel caso del
modello federativo, invece, si crea effettivamente uno Stato mondiale che governa il pianeta.
3. Diritto cosmopolitico → essenziale per lo sviluppo dello spirito della pace perpetua. Il diritto
cosmopolitico è il diritto che ogni individuo deve avere, di qualsiasi parte del mondo, di en-
trare e partecipare a qualsiasi Stato del mondo: è il diritto di visita, di ingresso in Stati ai quali
non si appartiene. Questo diritto cosmopolitico è l’espressione delle crescenti relazioni che i
popoli della terra stringono tra di loro: esso diventa una necessità in un mondo sempre più
collegato reciprocamente.
FICHTE (1762 – 1814)

I contemporanei di Kant erano consapevoli dell’enorme importanza del pensiero critico e della «ri-
voluzione copernicana» effettuata da Kant. Tuttavia, il suo pensiero era considerato un insieme di
intuizioni particolari che andava riorganizzato in un sistema, in modo da eliminarne gli aspetti pro-
blematici: eterogeneità tra intelletto e sensibilità, dualismo tra soggetto conoscente e soggetto
agente, la funzione della «cosa in sé». Ma il problema principale era che tale sistema appariva privo
di un principio unitario da cui derivare ogni suo aspetto. Nacque così una discussione sul valore del
criticismo e gli intellettuali che vi parteciparono sono generalmente indicati come post-kantiani.
Karl Reinhold (1758-1823) → Reinhold corregge il criticismo in senso idealistico perché riconduce
l’intera realtà alla rappresentazione e alla sfera della coscienza. La coscienza, intesa come facoltà
della rappresentazione, è il principio fondamentale che spiega in maniera unitaria le diverse compo-
nenti della conoscenza umana. Essa si divide al suo interno in due elementi, il soggetto che rappre-
senta e l’oggetto rappresentato: il primo costituisce la forma della conoscenza, il secondo la materia.
Questa stretta connessione giustifica la connessione tra le tre facoltà conoscitive: la sensibilità è
data dal prevalere dell’oggetto sul soggetto, l’intelletto dal loro equilibrio, la ragione dalla libera atti-
vità soggettiva. Tuttavia, attraverso il riferimento alla «cosa in sé», egli ammette ancora che la co-
noscenza dipenda da qualcosa che vada oltre la rappresentazione stessa: dalla «cosa in sé» deriva
la materia conoscitiva, ma essa è qualcosa di indeterminato e non conoscibile, e quindi cade al di
fuori della rappresentazione stessa.
Gottlob Ernst Schulze (1761-1833) → Schulze ritrova nel criticismo una serie di contraddizioni:
esso vuole ricondurre la conoscenza nei limiti dell’esperienza ma ne cerca il fondamento nella cosa
in sé; inoltre, la dichiara inconoscibile ma pretende che esista. Di fronte a queste assume una posi-
zione scettica di esplicita ispirazione humiana. La critica alla cosa in sé divenne presupposto comune
a tutti i pensatori successivi che si inseriranno nella discussione sul criticismo.
Salomon Maimon (1754-1800) → il criticismo può avere piena validità eliminando la «cosa in sé»:
se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, la cosa in sé, che ne cade al di fuori,
è una «non cosa». Ciò significa riconoscere che l’intera conoscenza cade nella sfera della co-
scienza: il dato è qualcosa di cui non abbiamo ancora una conoscenza compiuta, qualcosa che
ancora non è stato determinato dalle forme a priori dell’io. Nel caso della conoscenza intelligibile il
soggetto può determinare il proprio oggetto, ma nel caso della conoscenza sensibile è possibile solo
un avvicinamento indefinito alla determinazione, senza mai poterla raggiungere: questo residuo di
indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l’oggetto come dato.
Jacob Beck (1761-1840) → Beck sostiene l’eliminazione della cosa in sé e distingue due momenti
nello sviluppo del processo conoscitivo: il primo è un atto di «produzione originaria» dell’oggetto da
parte del soggetto attraverso la sintesi a priori; il secondo il «riconoscimento», ovvero il soggetto che
riconosce nell’oggetto una sua rappresentazione. In questo modo, l’oggetto acquista un’apparente
autonomia rispetto al soggetto. Il contenuto della conoscenza, quindi, dipende solo dal soggetto che
lo pensa: la cosa in sé è una nozione dogmatica di cui Kant si serve solo provvisoriamente e che
viene eliminata quando si raggiunge il punto di vista trascendentale.

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814)


Fichte nacque nei pressi di Lipsia nel 1762. Durante la sua vita coniugò gli studi universitari nelle
università di Jena e di Lipsia con l’attività di precettore privato. Lo studio di Rousseau lo portò ad
abbracciare i principi della rivoluzione francese, ma l’autore che più influenzò il suo pensiero fu Kant,
al punto che nel 1791 si spinse a Königsberg per conoscerlo personalmente e consegnarli il mano-
scritto del Saggio di una critica di ogni rivelazione, grazie a quale Fichte divenne improvvisamente
famoso. Inoltre, grazie a Goethe, Fichte ottenne a Jena la cattedra di Filosofia: i suoi corsi erano
dedicati allo sviluppo della «dottrina della scienza», dottrina che rinviene nell’attività dell’Io il principio
unificatore dell’intero sistema kantiano. A questo primo periodo appartengono anche le Lezioni sulla
missione del dotto (1794), in cui Fichte riconosce agli intellettuali la funzione di guida degli altri uo-
mini nel perfezionamento della società. Nel 1799 Fiche si lascia coinvolgere nella polemica sull’atei-
smo, sostenendo la riduzione della religione ai suoi contenuti morali e razionali e rifiutando la tradi-
zionale concezione teistica del Dio-persona: questa posizione gli costò il posto all’università.
Trasferitosi a Berlino, Fichte venne in contatto con il circolo romantico, cui facevano capo anche i
fratelli Schlegel e Schleiermacher: con essi – e con Schelling – egli entrò però in polemica, e anche
l’attività accademica divenne più sporadica. Intanto, forse proprio a causa del contatto con il circolo
romantico, l’idealismo di Fichte assunse una coloritura più metafisica e religiosa, orientamento co-
munemente chiamato «seconda dottrina della scienza». Esso trovò espressione in due forme:
a) Modalità filosofica pensata per una destinazione puramente accademica → la terminologia
e lo stile argomentativo sono elaborati dalla tradizione filosofica precedente. Su questo piano
Fichte elaborò sempre nuove formulazioni della Dottrina della scienza
b) «Filosofia popolare» → produzione di scritti più divulgativi, cui appartengono anche scritti
politici e la sua filosofia della storia. La dimensione scientifica viene mantenuta, mentre cam-
bia la dimensione espositiva, sia dal punto di vista terminologico che argomentativo: l’obiet-
tivo è di rendere più comprensibile un testo filosofico, utilizzando termini nobili filosoficamente
ma prossimi all’uso comune del linguaggio. Anche dal punto di vista argomentativo il tentativo
è quello di utilizzare argomentazioni di più immediata intuitività.
Fichte morì nel 1814, al culmine della guerra contro Napoleone.

La dottrina della scienza


Per fondare il criticismo su basi solide, Fichte ritiene che occorra individuare un principio assoluta-
mente primo e incondizionato, dal quale dedurre l’intero sapere in forma sistematica. Dovendo co-
stituire il fondamento della verità e della realtà del sapere, tale principio non può essere puramente
formale, ma deve realizzare una perfetta unità di forma e materia: la forma deve essere immediata
espressione del contenuto e il contenuto determinare immediatamente la forma. Il principio primo è
la radice comune sia della struttura logico-formale sia del contenuto materiale del sapere: a diffe-
renza di Kant, nella prima fase del pensiero di Fichte si afferma il principio dell’identità tra logica e
metafisica. Il principio primo non può essere un «fatto» della coscienza empirica perché un fatto è
sempre condizionato da altro, mentre il principio è assolutamente incondizionato. Poiché è a fonda-
mento di ogni fatto di coscienza e della possibilità della conoscenza stessa, esso deve essere un
«atto» assolutamente libero, attraverso cui la coscienza si autodetermina dando a sé stessa il pro-
prio principio: l’intera scienza si fonda su un atto di «autoposizione del soggetto», attraverso il quale
l’Io conferisce realtà a sé stesso e, indirettamente, a tutto ciò che si distingue da sé. Fichte prosegue
il processo kantiano di slittamento dall’oggetto al soggetto fino a comprendere anche il contenuto
della conoscenza: l’atto conoscitivo non è più un atto organizzativo di dati derivanti da una realtà
esterna indipendente dal soggetto, bensì è un processo in cui il soggetto pone sé stesso e l’oggetto
di conoscenza. L’attività di autoposizione del soggetto si articola in tre momenti di un unico processo
dialettico in stretta correlazione con le leggi fondamentali della logica, poiché da questo atto dipen-
dono anche le forme del pensiero logico: alla tesi corrisponde il principio di identità, all’antitesi il
principio di opposizione e alla sintesi il principio di ragione.
Il primo principio, detto «tetico», è «l’Io pone sé stesso», cioè è causa del proprio essere. Il termine
«Io» indica l’«Io penso» kantiano, cioè un «Io trascendentale» che Fichte chiama «egoità», in base
alle cui leggi si sviluppa deduttivamente e a priori l’intero processo della conoscenza, compresi i
contenuti dell’esperienza. Inoltre, a differenza di Kant, l’Io trascendentale è alla base anche della
morale, esaurendo così in sé stesso entrambe le sfere dell’attività umana. Il corrispettivo logico è il
principio d’identità, che è universalmente riconosciuto come vero. Di esso Fichte si serve per dimo-
strare la sua tesi: egli afferma infatti che è un principio assolutamente formale, il quale garantisce la
formalità del giudizio ma non il contenuto, non riuscendo quindi a dare alcuna garanzia della realtà.
L’unico caso in cui il principio riveste un valore sostanziale è quando è applicato all’«Io trascenden-
tale»: affermare «Io = Io» non implica solo l’identità dell’Io con sé stesso (valore formale), ma anche
l’affermazione della realtà dell’Io, cioè «Io sono» (valore sostanziale). Tale affermazione è da inten-
dere come l’atto con cui il soggetto, affermandosi come identico a sé stesso, si «pone» come tale. Il
fatto che l’Io ponga sé stesso elimina il problema del noumeno kantiano.
Il secondo principio, detto «antitetico», è che «l’Io oppone a sé stesso un non-io», cioè pone una
realtà che ha i caratteri opposti a quelli dell’Io, della soggettività, e che quindi si presenta come
indipendente da essa. Ma solo apparentemente si presenta come tale: in realtà, ponendo sé stesso,
l’Io che pone anche un non-io opposto a sé stesso. Il motivo per cui sembra che esista una realtà
esterna già data è che la produzione del non-io da parte del soggetto è inconsapevole, in quanto
frutto dell’immaginazione trascendentale, cioè della facoltà che consente al soggetto di proiettare le
proprie categorie al di fuori di sé. Per Fichte è il soggetto a creare direttamente l’oggetto: quando ci
si rappresenta un tavolo, ad esempio, da un lato l’Io pone sé stesso come autocoscienza – venendo
considerato come attività infinita e incondizionata – e dall’altro rappresenta il tavolo come qualcosa
di «altro» rispetto al soggetto, cioè come un «oggetto» che limita l’infinita attività dell’Io opponendogli
qualcosa di estraneo e di contrario alla sua essenza. La produzione del non-io è quindi una forma
di autolimitazione dell’Io, il quale pone esso stesso ciò che limita. A questo punto sorge un problema
che conduce al terzo principio: se l’Io è qualcosa di assoluto e incondizionato, come fa a limitarsi
ponendo qualcosa che non è sé stesso? Fichte risponde dicendo che la contrapposizione è interna
all’Io, cioè che avviene tra un Io empirico e un non-io empirico all’interno dell’Io assoluto.
Il terzo principio, detto «sintetico», è che «all’interno dell’Io, l’Io oppone all’Io divisibile un Non-io
divisibile». Appena si introduce l’opposizione, si parla in termini empirici: l’Io a cui il non-io si oppone
non è l’Io assoluto e infinito, bensì gli «Io divisibili», gli Io individuali ed empirici in cui l’Io assoluto si
riflette. L’opposizione è quindi tutta interna all’attività dell’Io assoluto: ponendo sé stesso, l’Io asso-
luto pone anche al proprio interno, come espressione della propria attività, l’opposizione tra una
pluralità di Io divisibili e una pluralità di non-io altrettanto empirici. Così ciascun individuo, se da un
lato è partecipe dell’infinità attività creatrice dell’Io assoluto, dall’altra trova di fronte a sé la resistenza
dei singoli non-io, delle realtà naturali particolari, che l’Io assoluto gli oppone come limiti alla sua
soggettività.

La conoscenza
L’Io e il non-io si oppongono e si limitano a vicenda. Le due forme di determinazione – dell’Io da
parte del non-io e del non-io da parte dell’Io – esprimono le due attività stesse dell’Io: quella teoretica
(la conoscenza) e quella pratica (morale).
Ogni attività conoscitiva inizia da un’intuizione sensibile, cioè dalla presenza di un oggetto che
condiziona il soggetto – il non-io che determina l’Io. Nel momento dell’intuizione il soggetto appare
come passivo rispetto all’oggetto intuito ma, seguendo il secondo principio della Dottrina della
scienza, l’oggetto intuito come realtà esterna è esso stesso posto dall’Io: com’è possibile ciò? Fichte
risponde con la nozione di «immaginazione produttiva»: se per Kant l’immaginazione produttiva si
limitava a unificare una molteplicità di dati provenienti dall’esterno, Fichte la interpreta invece come
una vera e propria produzione del contenuto empirico della conoscenza, il quale appare come
«dato» alla coscienza e quindi indipendente da essa poiché inconsapevole. L’Io quindi produce in-
consciamente un non-io che si contrappone all’Io empirico come un oggetto esterno, sebbene que-
sto processo sia del tutto interno all’Io assoluto: Fichte elimina così il problema della cosa in sé,
risolvendo l’intera conoscenza – per forma e contenuto – nell’attività del soggetto conoscente.
Accanto all’intuizione sensibile Fichte riconosce una seconda forma di intuizione, un’«intuizione
intellettuale», che consente al soggetto conoscente di «riflettere» sull’oggetto conosciuto, compren-
dendo come esso sia in realtà una produzione dell’Io. Così l’Io giunge a conoscere la sua stessa
attività e, con essa la propria essenza, pervenendo quindi a una conoscenza adeguata di sé stesso.

La morale
A differenza dell’ambito conoscitivo, dove «l’Io pone sé stesso come determinato dal Non-io», in
ambito morale «l’Io pone sé stesso come determinante il Non-io»: si tratta quindi di indagare l’azione
dell’Io sul Non-io. L’Io è attività infinita e il suo compito morale è esplicare tale attività, ma per farlo
ha bisogno di qualcosa su cui esercitarla: questo qualcosa è il Non-io, la natura intesa sia come
natura esterna, cioè il mondo oggettivo, sia come natura interna, cioè il «sistema della sensibilità e
degli impulsi, che deve essere soggiogato per mettere in risalto la purezza della volontà razionale.
Il dovere morale supremo è la libertà, l’indipendenza dalla natura: la liberazione completa è però
impossibile per un essere finito come l’uomo, poiché c’è una continua opposizione del Non-io. Tale
liberazione si configura quindi come compito infinito, come un’ideale cui ci si può solo avvicinare.
Quella di Fichte è quindi una morale dell’azione, in particolare in campo politico-sociale: il mondo
è il posto in cui l’uomo deve agire per realizzare la propria libertà. L’attività pratica è la «missione
dell’uomo» ed ha un «primato» sull’attività teoretica, ma l’autentica liberazione comporta sempre il
riferimento all’attività teoretica con cui l’Io coglie la dipendenza del Non-io da sé stesso.
Il male nell’azione morale, per com’è descritto nel Sistema della dottrina dei costumi (1798), non è
un principio metafisico, bensì una carenza d’azione: l’accidia, l’inerzia morale, l’insufficiente forza
spirituale che impedisce al soggetto di imporsi sulla natura. La radice di questo male è l’assopimento
dell’energia morale dell’uomo, il perdersi nella datità della situazione e nella ricerca del piacere sen-
sibile: nella polemica contro i moventi sensibili dell’azione Fichte riprende Kant, ma se in quest’ultimo
il principio soggiacente era razionale, in Fichte il fondamento della morale si configura talvolta come
spiritualità ispirata, un’attività che è tanto più valida quanto più è incondizionata.

La filosofia dell’Assoluto (post 1800)


Il pensiero fichtiano che i contemporanei conoscono è quello che vede nell’Io assoluto il fonda-
mento di ogni realtà – che Hegel ha correttamente chiamato «idealismo soggettivo». In realtà, dal
1800 in poi Fichte abbandona lo schema dei tre principi e dà alla propria riflessione un carattere più
religioso a causa delle critiche dei romantici, che lo accusavano di aver costruito a priori un sapere
formalistico, chiuso nella soggettività dell’Io e quindi incapace di attingere la vera realtà. Fichte provò
allora a dare al suo sistema un fondamento ontologico, affermando che l’Io puro rimandava ad un
fondamento ulteriore, l’«Essere assoluto». Per farlo, egli modificò la sua concezione di infinitezza,
che prima era attribuita solo all’attività del soggetto e al suo compito morale: l’infinito, riferendosi ad
un Assoluto che è principio ontologico di ogni realtà, assume un carattere metafisico.
La filosofia dell’Assoluto si differenzia da quella romantica in due punti:
 L’Assoluto si manifesta nella sfera morale, non nella natura → il fondamento del mondo sen-
sibile è una volontà morale infinita, principio e garanzia di un ordine assoluto nel quale con-
vergono in unità tutte le volontà finite che agiscono in base al dovere. Per attingere l’Assoluto
gli strumenti razionali sono insufficienti: ci si può arrivare solo attraverso l’esperienza morale.
 L’Assoluto è al di là di ogni rappresentazione (per i romantici invece è identità o indifferenza)
perché non è attingibile dalle forme conoscitive dell’Io puro → l’essenza ultima non è cono-
scibile: alla realtà si può giungere solo attraverso la «fede», che va al di là delle strutture
formali della conoscenza.
Nell’ultimo periodo della sua riflessione, per spiegare la concezione dell’Assoluto, Fichte ricorre al
modello gerarchico introdotto dal neoplatonismo antico e ripreso nel Vangelo di Giovanni → «dot-
trina giovannea». Seguendo questo schema, Fichte afferma che esistono almeno tre gradi di realtà:
 Assoluto → «Dio in sé e per sé». Dio è l’Essere puro, precedente a ogni determinazione e
distinzione e, quindi, assoluta Unità. In quanto tale, è inaccessibile alla conoscenza umana.
 Idea di Dio → manifestazione di Dio in forma di «ragione assoluta» (l’Io assoluto). In quanto
ragione l’uomo può partecipare all’Idea Dio, ma conoscerà solo quell’«immagine di Dio» che
è consona alla sua natura razionale.
 La ragione assoluta produce il mondo sensibile, il quale appare da un lato come limite all’at-
tività della ragione stessa, dall’altro invece come semplice «posizione» e «rappresentazione»
della ragione assoluta, e quindi come immagine dell’immagine di Dio.
Il destino dell’uomo è il conseguimento della «beatitudine», dell’unione con Dio, cui l’uomo si può
ricongiungere solo con un atto di amore: il sapere razionale infatti può solo attingere l’Idea di Dio,
ma può anche aprirsi all’Assoluto perché, quando astrae da tutti i suoi contenuti specifici, prende
coscienza del suo essere semplice forma; consapevole dell’insufficienza di questo carattere, la ra-
gione sente l’esigenza di un fondamento che vada al di là di sé stessa e che sia radicato nell’essere.

Prima fase del pensiero politico: il giusnaturalismo (anni Novanta del Settecento)
Anche il pensiero politico di Fichte si articola in più fasi. In questa prima fase, fedele al giusnatura-
lismo, Fichte pensa che, precedentemente e indipendentemente dalla costituzione di un diritto posi-
tivo, esista un diritto naturale inscritto nella natura dell’uomo, la ragione – diritto razionale. Il diritto,
come la morale, ha il suo fondamento nella ragione: la differenza è che il diritto riguarda la sfera
delle relazioni tra individui diversi (la vita sociale), mentre la morale il rapporto dell’individuo con sé
stesso (la coscienza). Morale e diritto condividono anche la promozione della libertà umana: lo scopo
morale dell’uomo è realizzare la propria libertà, rendendosi indipendente dalla natura, ma nella sua
azione egli si trova di fronte altri individui portatori di un analogo diritto-dovere alla libertà. La ragione
comanda allora di instaurare un ordine sociale che renda possibile la realizzazione della libertà di
ciascuno senza pregiudicare la libertà degli altri.
All’interno dei diritti naturali, Fichte distingue tra a) diritti inalienabili, i quali entrano nella definizione
essenziale dell’uomo e sono indispensabili per realizzare il suo compito morale, e b) diritti alienabili
che non influiscono sulla realizzazione del dovere morale dell’uomo: essi possono essere ceduti o
scambiati tramite contratti, dando così origine alla società naturale.
La società naturale ha due scopi fondamentali:
 L’istituzione della proprietà → il suo fondamento naturale è il lavoro col quale il possessore
imprime la sua impronta individuale all’oggetto di cui si è impossessato. Ma solo attraverso
un contratto, con cui gli individui riconoscono reciprocamente l’appropriazione tramite lavoro,
il possesso si trasforma in proprietà giuridica.
 La realizzazione della «cultura», intesa come «l’esercizio di tutte le facoltà allo scopo della
piena libertà, dell’indipendenza da tutto ciò che non è noi stessi» → la cultura, comportando
la progressiva liberazione dalla sensibilità, dipende esclusivamente dalla coscienza interiore
dell’uomo, ma per la sua piena realizzazione ha bisogno anche degli altri individui, della so-
cietà: la promozione della cultura è un’impresa di uomini che vivono e operano attivamente
nella comunità sociale.
Un caso particolare di contratto è il «contratto sociale», attraverso il quale si passa dalla società
naturale allo Stato. Le funzioni dello Stato sono due: a) conferire potere coercitivo al diritto naturale,
trasformando i comandi della ragione in leggi positive; b) introdurre nuove norme intese a promuo-
vere finalità specifiche sulle quali tutti i cittadini concordano.
Il riconoscimento dell’origine contrattuale dello Stato ha delle conseguenze: se il contratto è stato
stipulato nel solo interesse dei contraenti, allora è sempre possibile rescinderlo. La posizione iniziale
di Fichte è un sostanziale anti-statalismo: l’istituzione statale infatti non è indispensabile né per il
mantenimento forzoso dell’ordine sociale, perché se gli uomini sviluppassero appieno la propria mo-
ralità non avrebbero bisogno della coercizione delle leggi per realizzare il diritto, né per realizzare i
due scopi fondamentali del vivere sociale, i quali dipendono dalla società naturale, e non dallo Stato
– anzi, la storia insegna che in molti casi gli Stati ne hanno ostacolato la realizzazione e che quindi
diventa doveroso rescindere il contratto. In questo senso, Fichte dimostrava la legittimità della Rivo-
luzione francese, intesa come la risoluzione di un contratto iniquo con un nuovo patto.

La seconda fase del pensiero politico: l’organicismo e il nazionalismo


Per «organicismo politico» si intende una dottrina che considera la società e lo Stato come organi-
smi naturali nei quali le parti esistono solo in funzione del tutto: essa si oppone al giusnaturalismo
perché concepisce la società come una totalità organica di membri anziché un aggregato di individui
indipendenti e perché afferma la priorità del tutto sulle parti anziché privilegiare l’individualità.
A partire dal 1800, con Lo stato commerciale chiuso (1800), nel pensiero di Fichte emergono le
convinzioni organicistiche. Le funzioni dello Stato sono sia giuridiche che economiche perché esso
«deve immettere l’individuo nella proprietà e poi proteggerlo»: la concezione negativa viene sosti-
tuita da quella positiva di un organismo politico preposto alla pianificazione globale dell’economia
nazionale. Le funzioni primarie dello Stato sono: la divisione della popolazione in tre ceti destinati a
diverse attività economiche, il controllo del numero degli appartenenti ad esse, la garanzia dell’equi-
librio tra i diversi settori produttivi e la determinazione del prezzo delle merci. Per realizzare ciò è
indispensabile proibire ogni commercio privato con l’estero e ridurre al minimo quello pubblico, im-
pedendo ogni interferenza esterna sull’economia nazionale → «Stato commerciale chiuso».
Nei Tratti fondamentali dell’età presente (1806) la tendenza organicistica riceve fondamento meta-
fisico. Lo Stato è costituito dall’insieme finito degli individui che lo compongono, ma poiché le forze
dei singoli sono rivolte a uno scopo comune, esso è una totalità unitaria. La totalità relativa dello
Stato diventa immagine della totalità assoluta dell’umanità sul piano sensibile e del Sapere assoluto
su quello intelligibile, quindi l’aspetto conoscibile di Dio. Essere l’espressione della totalità comporta
due cose per lo Stato: a) la completa subordinazione dei fini individuali a quello generale; b) la rea-
lizzazione della cultura, cioè il fine dell’intero genere umano.
Nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-8) l’organicismo politico viene applicato al concetto di na-
zione. Rendendosi conto della debolezza della Germania, Fichte indica come sola possibilità di ri-
sorgimento civile il ricorso a una nuova educazione nazionale fondata su un rinnovato senso di
comunità. Solo i tedeschi possono però ricevere la nuova educazione nazionale perché sono i soli
a parte una «lingua originaria», in cui c’è una spontanea corrispondenza tra i termini e la realtà che
essi designano – mentre nelle lingue neolatine la correlazione è astratta. Alla vitalità della lingua fa
riscontro quella del popolo che la parla, il solo in grado di trovare una perfetta corrispondenza tra
pensiero e azione e di subordinare gli interessi individuali a quelli generali. I tedeschi sono quindi
l’unico «popolo» nel vero senso della parola, inteso come unità degli individui nella società nazionale
e come unità delle generazioni nello sviluppo storico: anche se divisi in una pluralità di Stati, i tede-
schi costituiscono una sola nazione culturale e ideale.
Ne La dottrina dello Stato (1813) Fichte congiunge infine le nozioni di Stato e nazione. Egli auspica
un organismo politico in cui il compito dello Stato – un’organizzazione totale che determini l’intera
vita politica, sociale ed economica della comunità – si realizzi non con la coercizione, bensì attra-
verso una spontanea e amorosa fusione dell’individuo nella totalità che deve caratterizzare la vita
della nazione. Questo organismo, che Fichte chiama «Reich», è uno «Stato di ragione», perché la
sua organizzazione è la realizzazione politica di una volontà razionale, e uno «Stato etico», perché
partecipando ad esso l’individuo realizza gli aspetti fenomenici della sua destinazione morale.

La filosofia della storia


In un quadro in cui il mondo sensibile e il genere umano sono considerati manifestazioni fenome-
niche dell’Idea divina, anche la progressiva realizzazione della libertà assume carattere metafisico.
La Ragione assoluta si realizza prima come «istinto», cui gli uomini obbediscono inconsciamente,
poi con sempre maggior coscienza. Questo cammino dall’inconsapevolezza alla coscienza è anche
un processo dall’istinto dalla libertà: la storia del genere umano è la storia della progressiva realiz-
zazione della libertà nell’uomo, cioè della progressiva comprensione e adesione alla Ragione asso-
luta. Quando gli uomini diventano coscienti del fatto che a fondamento del loro essere e del loro
agire vi è un Assoluto, essi comprendono il vero significato delle loro azioni e attuano spontanea-
mente ciò che prima facevano sotto la coercizione dell’istinto.
L’ETÀ DEL ROMANTICISMO IN GERMANIA

Il periodo tra 1770 e 1830, in cui la Germania conobbe una formidabile fioritura culturale, è cono-
sciuto come l’«età classica tedesca». Dal punto di vista filosofico fu caratterizzato da tre movimenti:
il criticismo, l’idealismo e il romanticismo.
A differenza dei primi due, il romanticismo non è ben determinabile cronologicamente: come feno-
meno tedesco è compreso tra 1790 e 1830, ma la sua diffusione in Europa va oltre la metà dell’Ot-
tocento. Ancora più complesso è individuarne i caratteri fondamentali perché la produzione dei suoi
esponenti è eterogenea, e spesso mancano criteri oggettivi di classificazione. Tuttavia, è possibile
individuare alcuni temi o atteggiamenti culturali ricorrenti:
La polemica contro il razionalismo illuministico → la ragione non è più considerata la principale
facoltà umana perché è fonte di un sapere formale, che non coglie l’essenza della realtà, e perché
non è la vera natura dell’uomo. Alla ragione vengono opposti il a) sentimento, che coglie intuitiva-
mente ciò che sfugge all’analisi razionale, b) l’istinto, che indica immediatamente all’uomo le ragioni
di una scelta e c) la passione, che è il movente dell’azione.
La riscoperta della soggettività → sede in cui si manifesta l’energia spirituale che consente di co-
gliere immediatamente la verità e di compiere azioni grandiose. Ciò conferisce alla soggettività un
duplice valore:
a) La rivalutazione dell’individualità → il soggetto romantico è qualcosa di irripetibile perché il
suo modo di sentire, le sue passioni, la sua storia lo differenziano dagli altri.
b) Connessione tra soggettività e infinito → ogni soggetto, poiché unico, ha un valore infinito e
può realizzarsi solo ricongiungendosi con l’infinito: a differenza della filosofia moderna, che
riconosce nel finito la dimensione dell’uomo riservando l’infinito a Dio, nelle concezioni ro-
mantiche l’uomo tende ad attingere l’infinità stessa di Dio. Ma poiché l’uomo non può dimen-
ticare i limiti connessi alla propria sensibilità e all’esistenza materiale, il suo atteggiamento è
la «nostalgia» dell’infinito, l’aspirazione a ricongiungersi con il suo vero elemento.
L’importanza della religione → i romantici rifiutano il deismo settecentesco che concepiva Dio come
un impersonale principio ordinatore dell’universo. A esso contrappongono due concezioni della divi-
nità: a) il tradizionale teismo, cioè la concezione di un Dio vivente e personale, del quale l’uomo è
immagine adeguata e con il quale si può intrattenere un rapporto d’amore, e b) il panteismo, cioè la
ricerca di un principio divino immanente alla natura.
La concezione vitalistica della natura → la natura non è più intesa in termini meccanicistici, come
un insieme dominato da leggi causali e necessarie, bensì come un grande organismo, in cui le parti
sono finalizzati alla vita del tutto, dotato di un’infinita forza vitale che perennemente si rinnova. Sono
determinanti per questa concezione i risultati degli studi scientifici condotti a metà Settecento: essi
avevano in comune il riferimento alla nozione di «polarità», cioè di tensione tra un polo positivo e
uno negativo, e suggerivano che l’intera natura, la cui legge fondamentale era la contrapposizione
polare, avesse carattere oppositivo.
L’arte e il genio creativo → la rivalutazione della soggettività e dell’individualità conducono a rico-
noscere un valore assoluto al genio creativo: esso è assolutamente originale, cioè scaturisce dalla
peculiare soggettività dell’artista. Egli obbedisce solo alle regole che egli stesso crea: così la creati-
vità artistica soggettiva viene emancipata completamente dal criterio oggettivo di bello. Inoltre, il
genio romantico è naturale: esso non è il risultato di una costruzione razionale dell’uomo, ma scatu-
risce dalla forza stessa della natura. L’originalità e la naturalità del genio gli consentono di esprimere
in maniera immediata l’essenza della realtà che si manifesta sensibilmente nelle forze della natura:
l’arte diventa lo strumento primario attraverso cui l’uomo può cogliere l’infinito e il divino.
La storia → l’Illuminismo aveva dato nuova dignità alla storia attraverso eccellenti ricostruzioni sto-
riografiche e l’elaborazione di una vera e propria filosofia della storia. Tuttavia, esso aveva ricondotto
l’intero corso storico sotto la categoria del progresso razionale, subordinando le epoche passate alla
celebrazione del presente, nel quale culmina lo sviluppo della ragione. Il romanticismo interpreta
invece la storia come un processo organico e naturale, in cui l’individuo si esprime nelle individualità
collettive, cioè nei popoli, che sviluppano progressivamente le loro peculiarità e rivelano ciascuno
uno degli infiniti aspetti del reale. La tradizione diventa quindi lo strumento essenziale della continuità
temporale tra epoche e popoli: la storia è un unico processo di crescita dell’umanità, per cui nessuna
delle epoche passate appare inutile – di qui la rivalutazione del Medioevo. Inoltre, la tradizione è
essenziale per la formazione della nazionalità, cioè di quell’insieme di fattori che costituiscono la
peculiarità specifica di un popolo e che prendono forma con il passare del tempo.
L’analisi politica romantica, infine, considera lo Stato un organismo vivente e non una macchina
burocratica, un semplice apparato istituzionale e amministrativo: in esso si deve riflettere il carattere
organico della nazione.

Lo «Sturm und Drang» (1770 – 1780)


Lo Sturm und Drang è stato solitamente interpretato come la prima reazione organizzata all’illumi-
nismo e alla «filosofia popolare»; recentemente però gli studiosi si sono orientati verso un’interpre-
tazione che vede in esso più una manifestazione estrema dello stesso illuminismo, perché negli
«Stürmer» esplodono quegli elementi di protesta e di critica sociale e culturale che avevano carat-
terizzato l’illuminismo francese, restando invece assenti in quello tedesco. È però un dato di fatto
che lo «Sturm un Drang» si opponga all’illuminismo per l’antirazionalismo.
I temi cari agli «Stürmer» sono analoghi a quelli del romanticismo:
 La rivalutazione dell’individuo si esprime nel «titanismo» → l’uomo è concepito come forza
naturale infinita, dotata di forti passioni e sublime genialità. Nasce la figura dell’eroe che,
disprezzando ogni convenzione sociale e ogni senso razionale della misura, abbatte tutti i
limiti e si rivela Übermensch.
 La natura è intesa come forza creatrice incoercibile, vita infinita che pervade l’intero universo,
ma anche fonte originaria di purezza e integrità. L’attribuzione alla natura di una potenza e
di una creatività infinita implica il riconoscimento del suo carattere divino → panteismo.
 La rivalutazione del genio è connessa alla concezione della natura perché è il genio è inteso
come espressione di naturalità, al di là di ogni convenzione e regola formale.

La filosofia della fede.


Johann Georg Hamann (1730-1788) → critica a Kant. L’errore di Kant è aver concepito la ragione
come «pura», fornita cioè di forme a priori indipendenti dalla sensibilità e dalla storicità dell’uomo.
Per Hamann la ragione è inseparabile dal linguaggio, che ne è l’«organo» fondamentale. Il linguag-
gio però dipende dalla sensibilità, che gli fornisce le immagini, e dalle particolari esperienze culturali
del popolo che lo parla. La vera ragione è quindi quella che si attiene alla concretezza delle immagini
linguistiche, ed è quindi strettamente collegata con la poesia, l’espressione più elevata di incontro
tra elemento sensibile e simbolico. Al riconoscimento dei limiti della ragione si accompagna la riva-
lutazione della fede, mutuata dalla dottrina della credenza di Hume: quella di Hamann è però una
fede religiosa che rivela all’uomo quella realtà trascendente che la ragione non può fargli conoscere.
Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) → affermazione della priorità della fede sulla ragione. La
fede viene intesa come un sapere immediato che è «elemento di ogni conoscere umano»: essa può
essere certezza del mondo sensibile oppure delle cose divine. Sia nella forma sensibile che in quella
religiosa, essa è sempre «rivelazione», cioè comporta un atteggiamento di passività e ricettività ri-
spetto a qualcosa che si rivela. Nell’ultima fase del suo pensiero, invece, egli distingue tra una fede
sensibile e una fede religiosa, cui dà il nome di «ragione»: si tratta però di una ragione intuitiva, e
non discorsiva, che si apre con assoluta immediatezza alla verità. Jacobi sostiene anche una batta-
glia contro il panteismo e l’ateismo, in particolare quello di Spinoza: il tentativo razionalistico di com-
prendere con la ragione (finita) l’esistenza di Dio (infinito) ha avuto come esito l’identità tra finito e
infinito, che in Spinoza si esprime con l’identità tra divinità e natura, negando la specificità del divino
e traducendosi in un sostanziale ateismo. Le lettere che invia a Mendelssohn Sulla dottrina di Spi-
noza diede origine a una celebre polemica cui parteciparono i maggiori esponenti della cultura del
tempo: tuttavia, il risultato ottenuto fu opposto a ciò che sperava Jacobi perché causò la rinascita
dell’interesse per Spinoza e rafforzò la tendenza al panteismo della cultura post-illuministica.

Johann Gottfried Herder (1744 – 1803)


I vari aspetti del pensiero di Herder trovano espressione unitaria nella sua concezione della storia.
La storia è per Herder un processo unitario, nel quale l’umanità realizza progressivamente sé stessa,
con i propri valori e le proprie istituzioni. L’unità è data dal fatto che le singole epoche e manifesta-
zioni storiche sono momenti della totalità della storia: in Ancora una filosofia della storia per l’educa-
zione dell’umanità (1774), Herder istituisce una stretta correlazione tra epoche storiche ed età della
vita umana (il mondo orientale antico corrisponde all’infanzia dell’umanità; la civiltà egizia alla fan-
ciullezza; la grecità alla giovinezza; il mondo romano alla virilità; le invasioni barbariche a una nuova
vitalità), mentre nelle Idee per una filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), l’unità del processo
storico è garantita dal fatto che ogni singolo popolo che ha avuto rilevanza storica ha contribuito,
con il proprio carattere peculiare, a costituire il concetto poliedrico di «umanità». Sul piano metafisico
invece, l’unità della storia è garantita anche dalla provvidenza divina, un’intelligenza immanente alle
forze stesse della storia che presiede all’armonico sviluppo della totalità.
Nelle Idee viene affermata anche la continuità tra storia naturale e storia umana in unico processo
che va dalla formazione dell’universo alla storia degli uomini. Nella storia naturale esiste un unico
«prototipo», una forma originaria fondamentale, alla base dello sviluppo dei corpi: i diversi fenomeni
naturali sono solo complicazioni sempre maggiori di quell’unico prototipo e si possono quindi mettere
in una scala evolutiva che culmina nel corpo umano. L’uomo si trova al termine della storia naturale
e al principio di quella spirituale: la sua struttura fisica, la sola a prevedere la stazione eretta, fornisce
la base per lo sviluppo delle facoltà spirituali: ragione e linguaggio. Questi sono strettamente con-
nesse: la lingua infatti non serve solo per comunicare, ma produce le immagini mentali con cui l’uomo
pensa, consentendogli di formarsi un mondo spirituale in cui si possono sviluppare arte e libertà.
L’origine del linguaggio è storica: esso è una conseguenza spirituale della posizione eretta degli
uomini, che permette una particolare struttura del capo e del cervello. L’uomo «impara» a parlare
attraverso un naturale processo di sviluppo, e assieme impara a ragionare: la ragione stessa è il
graduale risultato di un lento processo naturale e non una facoltà posseduta dall’origine.

Il classicismo tedesco
Il classicismo tedesco è legato all’ambiente culturale della corte di Weimar e, in senso stretto, viene
fatto coincidere con il periodo di amicizia e intensa collaborazione tra Goethe e Schiller (1794-1805).
I valori della cultura greca furono già al centro del pensiero Winckelmann (1717-1768), secondo il
quale l’arte greca realizzava il bello assoluto perché, idealizzando il proprio oggetto, lo privava di
ogni connotazione particolare e realistica, trasformandolo in un’espressione dell’universale e rap-
presentando non un individuo singolo, ma il concetto stesso di umanità nella sua perfezione. Egli
pensava che la grecità rappresentasse un passato da contemplare come perfezione insuperabile,
ma che non poteva più tornare: Schiller e Goethe, invece, ritengono che lo spirito della classicità
possa essere rivissuto come un valore e uno stile di vita che appartengono all’essenza dell’uomo.
L’aspetto più rilevante del pensiero di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) è la sua filosofia della
natura, alla base della quale vi è un fondamentale panteismo: si tratta di una «natura vivente», con-
siderata come un’inesauribile forza primigenia dalle mille trasformazioni e volti – compreso quello
umano e divino. Successivamente questa visione si trasforma in una concezione più scientifica, cioè
la natura come sede dell’evoluzione di un unico fenomeno originario. L’intenzione di Goethe è co-
struire una «morfologia della natura», cioè uno studio qualitativo delle «forme» naturali, condotto
attraverso l’intuizione e l’osservazione diretta dei cinque sensi – metodo molto diverso da quello
quantitativo delle scienze moderne, fondato su procedure sperimentali oggettive. L’ostilità verso la
fisica newtoniana si ritrova anche nella «teoria dei colori»: i colori derivano dalla contrapposizione
polare tra bianco e nero. Per quanto sbagliata, la teoria si inserisce nella generale tendenza roman-
tica a spiegare i fenomeni naturali come effetti della polarità.
Friedrich Schiller (1759-1805) → l’autore che più influì su di lui fu Kant, dal quale Schiller deriva la
consapevolezza che nell’uomo esiste una doppia natura: a) l’uomo sensibile, sottoposto alle neces-
sità del mondo fenomenico, la cui dimensione è la «vita», cioè l’insieme di rapporti che determinano
l’esistenza fenomenica dell’uomo; b) l’uomo morale, il soggetto noumenico, espressione di libertà e
di ragione, la cui dimensione è l’«ideale», cioè il compito morale che deriva all’uomo dalla sua natura
razionale. A differenza di Kant, Schiller ritiene che una conciliazione tra sensibilità e ragione si possa
realizzare nell’«anima bella», in cui il dovere morale viene compiuto spontaneamente, in accordo
con la sensibilità: tale accordo prende il nome di «grazia». Ma se la sensibilità torna ad essere in
contrasto con la legge morale, l’anima bella deve diventare «sublime» e dominare forzosamente la
sensibilità con la ragione: alla grazia si sostituisce allora la «dignità». Nelle Lettere sull’educazione
estetica dell’uomo, Schiller affida la conciliazione al sentimento del bello: poiché la bellezza è data
dall’equilibrio tra sensibile e sovrasensibile, attraverso l’educazione estetica la natura umana rea-
lizza la propria completezza, secondo il modello dell’uomo greco kalokagathòs («bello e buono»). Il
mezzo di cui si deve servire l’educazione estetica è il gioco, un’attività in cui sensibilità e intelletto
sono indisgiungibili e nessuna delle due facoltà è subordinata all’altra. In Della poesia ingenua e
sentimentale (1795-96) il problema del rapporto tra sensibilità e ragione trova una nuova formula-
zione. L’«ingenuo» e il «sentimentale» sono le due condizioni fondamentali dell’umanità, ma anche
due diverse fasi dello sviluppo storico-artistico: a) l’ingenuo esprime l’unità spontanea tra elemento
passivo della sensibilità e quello attivo dell’intelletto e della ragione, rappresenta il momento della
natura e la condizione originaria dell’umanità; b) il sentimentale esprime invece la scissione delle
due facoltà quando la riflessione si rende autonoma dalla sfera emotiva e sensibile, rappresenta il
momento della cultura e la condizione dell’uomo progredito. Schiller propone così una filosofia della
storia in cui l’umanità, avendo perduto l’«ingenuità» originaria, deve porsi come compito la restau-
razione dell’unità tra sensibilità e ragione, indispensabile al progresso dell’umanità.

Karl Wilhelm von Humboldt (1767 – 1835)


La sua convinzione filosofica fondamentale è che l’individualità ha valore assoluto: ogni uomo è la
manifestazione di un insieme di forze spirituali che determinano l’assoluta peculiarità dell’individuo.
Essa è però strettamente correlata al suo polo opposto, l’«idea dell’umanità»: ogni individuo è una
particolare espressione dell’umanità che, attraverso le singole determinazioni individuali, amplia
sempre più il contenuto del proprio concetto, che però non si può mai determinare completamente.
Strettamente connessa con le nozioni di individuo ed umanità è la concezione della storia: il pro-
cesso storico consiste nel graduale sviluppo di una molteplicità di forze individuali – grandi persona-
lità, nazioni, valori, lingue – dal cui intreccio risulta la manifestazione dell’umanità. Grande impor-
tanza è data allo studio del linguaggio, una produzione spontanea dello spirito che plasma lo stesso
modo di pensare di coloro che lo parlano: ogni lingua esprime quindi la particolare individualità della
nazione che la parla. Humboldt fu un politico liberale e si adoperò fattivamente per far uscire la
Prussia dalla profonda arretratezza sociale ed economica in cui si trovava, promuovendo una riforma
scolastica e sostenendo l’abolizione della servitù della gleba. In filosofia politica, la difesa del valore
assoluto dell’individualità è il presupposto di una concezione liberale e negativa dello Stato. La con-
dizione essenziale per lo sviluppo dell’individualità è la libertà d’azione e la varietà delle condizioni
in cui l’uomo agisce: lo Stato deve quindi limitarsi a realizzare le condizioni minimali che rendono
possibile la convivenza civile: la sicurezza esterna (esercito) e interna (polizia).

Friedrich Hölderlin (1770 – 1843) → tema filosofico fondamentale della sua opera è la celebrazione
panteistica della natura, intesa come Uno-tutto, in cui l’individuo deve perdersi per potersi ritrovare
come espressione della totalità. Quest’ultima non può essere colta dalla ragione, ma può essere
afferrata solo dalla poesia, concepita come la più alta forma conoscitiva a disposizione dell’uomo.
Altro carattere centrale è la celebrazione del dolore, inteso come dimensione metafisica della realtà.

I circoli romantici
Tutti i vari autori e movimenti analizzati finora sono manifestazioni diverse dell’età romantica e, in
modo differente, con il romanticismo convergono su alcuni punti e divergono su altri. Romantici in
senso stretto sono solo alcuni pensatori e poeti che aderiscono a specifici circoli, nei quali il roman-
ticismo viene teorizzato e propagato.
Circolo di Jena → organizzato attorno alla rivista «Athenäum», diretta dai fratelli Schlegel, operò in
stretto contatto con il circolo di Berlino, del quale fu un esponente il teologo Schleiermacher.
August Wilhelm Schlegel (1767-1845) → il linguaggio ha un’origine naturale e inizialmente c’è cor-
rispondenza tra parola e oggetto designato: questa corrispondenza però si perde progressivamente
e le lingue assumono un carattere convenzionale e arbitrario. La funzione della poesia è riscoprire
il linguaggio originario perché anch’essa si serve di simboli e metafore che consentono un’espres-
sione immediata dei contenuti.
Friedrich Schlegel (1772-1829) → la poesia moderna può recuperare l’oggettività della poesia clas-
sica attraverso un processo di riflessione su sé stessa: egli elabora l’idea di una «poesia trascen-
dentale» nella quale si ricompone la scissione tra l’unità della poesia classica e le divisioni di quella
moderna. Altro aspetto importante è la teorizzazione del concetto di «ironia»: in ambito estetico,
esso indica il rapporto di inadeguatezza tra l’infinità dell’artista creatore (soggetto assoluto) e la fini-
tezza dell’opera d’arte e del mondo fenomenico in cui si colloca, ma più in generale indica l’atteg-
giamento di chi, comprendendo il carattere relativo degli aspetti finiti dell’esistenza, coglie la supe-
riorità dell’infinito che è in sé. Nel saggio Su Diotima e nel romanzo Lucinide, due opere minori ma
famosissime, Schlegel elabora una dottrina dell’eros, nella quale si riconosce il diritto della donna a
cercare la propria realizzazione nella passione. Con la morte di Novalis (1801), il circolo si disperse
e Schlegel, trasferitosi a Vienna, diede vita a un nuovo circolo, il circolo di Vienna, espressione del
tardo romanticismo tedesco. Quest’ultimo periodo dell’attività di Schlegel è contrassegnato dalla
difesa della politica restauratrice del Congresso di Vienna e da un’evoluzione del suo pensiero in
senso teistico-religioso: egli intende elaborare una filosofia che sostituisca l’idealismo tedesco – ri-
condotto ai sistemi di Fichte e Schelling (aspetto teoretico) e di Kant e Jacobi (aspetto pratico).
Circolo di Heidelberg → espressione del tardo romanticismo, aderirono autori come i fratelli Grimm.
Georg Friedrich Creuzer (1771-1858) → Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, in particolare
dei Greci (1810-12). Nel passaggio dall’età arcaica a quella classica, Creuzer vede operante una
componente misterica e dionisiaca orientale: egli si contrappone così all’interpretazione neoclassica,
che considerava la grecità solo in termini di armonia e perfezione formale.
Circolo di Monaco di Baviera → terzo polo del tardo romanticismo.
Benedikt von Baader (1765-1841) → interesse fondamentale è la filosofia della natura. La natura
è interpretata in chiave organicistica e le sue proprietà sono derivabili dai quattro elementi fonda-
mentali: essa è corporeità (terra), processo evolutivo determinato dalla contrapposizione di forze
(fuoco e acqua) e trascendenza verso l’elemento spirituale dell’anima (aria).

Il «romanticismo politico tedesco»


Joseph Görres – circolo di Heidelberg → lo Stato è un organismo politico assimilabile a quelli na-
turali, in cui le diverse componenti sono inseparabili dal tutto e svolgono funzioni specifiche deter-
minate dalla loro collocazione rispetto all’insieme.
Adam Müller – circolo di Berlino → la realtà è spiegata in base a contrapposizioni polari (soggetto-
oggetto; positivo-negativo), alcune delle quali vengono applicate alla realtà dello Stato: la vita dello
Stato è continuo «movimento», in cui la permanente tensione di elementi contrapposti ne garantisce
l’unità. Tra le polarità, particolarmente importante è quella tra individuo e totalità: essa mette in luce
che la vita dello Stato si concreta nei singoli individui, ma nega anche la possibilità di un’esistenza
autonoma dell’individuo, antecedente alla società e allo Stato.
Ludwig von Haller (1768-1854) → lo Stato è il risultato della naturale sottomissione dei deboli al
più forte per essere da lui protetti e governati. Il modello dello Stato è la famiglia patriarcale, nella
quale il capo-famiglia esercita un potere incondizionato ed è sottoposto solo a Dio.

Novalis (1772 – 1801) → maggiore esponente del circolo romantico di Jena.


Per Novalis «romanticismo» significa vedere nel particolare un valore universale e, viceversa, rico-
noscere che l’universale si esprime sempre nel particolare: per «romanticizzare» il mondo, la realtà
comune va guardata con gli occhi della fantasia, intesa come veicolo verso l’infinito – il cui regno è
la notte. Il modello di Novalis è infatti il sognatore romantico, nel quale lo spirito poetico prevale sulla
considerazione razionale della realtà. La poesia è intesa nel suo significato etimologico (poiein:
«fare») di creazione: essa crea la realtà vera, che è diversa dalla banalità del quotidiano. La poesia
è dunque vera conoscenza e vera scienza, e la stessa filosofia si riduce a poesia: Novalis interpreta
l’Io fichtiano non come semplice soggetto trascendente, ma come una fonte infinita di pensiero e di
realtà. L’idealismo fichtiano si trasforma così in «idealismo magico»: il soggetto individuale è ricono-
sciuto onnipotente, essendo in grado di trasformare il mondo con la sua volontà e la sua fantasia.
Questo allargamento dei poteri del soggetto sull’intera realtà comporta una serie di identificazioni:
a) l’unità tra individuo e natura, che è presentata come unitaria perché può essere identificata con il
suo osservatore umano, a cui è strettamente connessa b) l’unità dell’uomo con Dio, poiché Novalis
condivide con i romantici un sostanziale panteismo. La compiuta realizzazione dell’uomo è l’«india-
mento», la risoluzione nell’Uno-tutto, nella quale l’individuo esplica il suo valore infinito e assieme
l’infinito si determina come individuo: così si realizza l’essenza del romanticismo.
L’esigenza di unità si rivela anche nella sua concezione politica: lo Stato ideale è una comunità
perfettamente armonica in cui il sovrano è unico, ma in lui si condensa la partecipazione attiva di
tutti gli individui. Lo stesso carattere unitario ha la concezione della storia: il modello è l’Europa
medievale, in cui tutti i popoli cristiani erano raccolti sotto la guida di un unico pontefice, mentre la
storia successiva è il processo attraverso cui la cristianità perde progressivamente la sua unità.
Friedrich Schleiermacher (1768 – 1834) → maggiore esponente del circolo di Berlino.
Il fulcro del pensiero di Schleiermacher è la filosofia della religione e la teologia. La religione è
definita come «intuizione dell’infinito» nella forma del sentimento e consiste «nell’accettare ogni cosa
particolare come una parte del tutto, ogni cosa finita come espressione dell’infinito». L’infinito coin-
cide con l’universo, inteso sia come universo naturale, cioè l’insieme delle cose finite che rimandano
all’infinito, sia come universo morale, in cui consiste lo spirito dell’uomo. La religione è quindi «intui-
zione dell’universo»: ciò non significa però che con essa l’uomo consegua una completa conoscenza
dell’infinito, altrimenti non sarebbe più tale, ma comporta solo riconoscere il sentimento della dipen-
denza del finito dall’infinito, dell’uomo da Dio. Tale sentimento è connaturato nell’uomo («sentimento
trascendentale»), ma l’esperienza religiosa si manifesta in forma individuale in ogni singola persona:
ciò spiega il fatto che storicamente la religione abbia assunto forme diverse e si sia istituzionalizzata
in una pluralità di fedi positive, e ciascuna di esse è pienamente giustificata perché è uno dei possibili
modi in cui si rivela l’infinito. La sola religione che non viene riconosciuta è quella naturale perché
tenta di comprendere razionalmente Dio e di dimostrarne argomentativamente l’esistenza.
Altri temi filosofici importanti sono la dialettica e l’etica. Il sapere umano è scisso tra due poli con-
trapposti, il dato empirico (natura) e la forma del pensiero (ragione), la cui conciliazione non è mai
possibile nell’uomo perché il sapere concettuale procede sempre per opposizioni e distinzioni. Ma
l’uomo sente che il proprio sapere dipende dalla presupposizione di quell’unità, che deve essere
intuita in un fondamento assoluto in cui tutte le opposizioni si risolvono: esso può apparire come
mondo («unità che include tutti gli opposti») o come Dio («unità che esclude tutti gli opposti»). Così,
anche dal punto di vista gnoseologico, l’uomo sente la sua dipendenza dall’infinito come fondamento
del suo sapere, e l’attività conoscitiva si rivela indisgiungibile dall’esperienza religiosa. Alla scissione
tra pensiero ed essere, sul piano etico corrisponde quella permanente tra volere ed essere: anche
in questo caso l’uomo sente l’esigenza di una conciliazione e ritrova la loro unità in un fondamento
assoluto che può essere intuito solo con il sentimento.
Altro aspetto importante del pensiero di Schleiermacher è l’«ermeneutica»: egli introduce l’uso con-
temporaneo del termine come sinonimo di teoria generale della comprensione.

Il romanticismo in Europa e in America


In Francia ci furono Chateaubriand e Madame de Staël, che vide nel romanticismo tedesco lo svi-
luppo della reazione al razionalismo illuministico iniziata con Rousseau, ma in linea generale, in
Francia come in Italia, il romanticismo ebbe esiti prevalentemente letterari.
Filosoficamente rilevanti sono gli sviluppi del romanticismo in Gran Bretagna:
Samuel Coleridge → accetta la distinzione kantiana tra un intelletto che consegue solo conoscenze
parziali e una ragione che coglie invece la totalità. L’autentica facoltà conoscitiva è la ragione che,
cogliendo il tutto, permette di comprende l’essenza stessa della realtà, che per l’autore consiste nelle
«idee». La ragione è quindi una sorta di «immaginazione» che intuisce direttamente la realtà nel suo
insieme: a essa si contrappone la «fantasia», intesa come facoltà di riprodurre concetti già dati.
Thomas Carlyle → tutti gli esseri sono manifestazioni simboliche dell’infinita potenza che anima
l’universo. Sede privilegiata della rivelazione dell’infinito sono però gli «eroi», individui eccezionali
che hanno lasciato la loro traccia di grandezza nei diversi ambiti dell’attività umana.
Negli Stati Uniti c’è la figura di Waldo Emerson, esponente del «trascendentalismo» americano: gli
autori di questa corrente si ritenevano legittimi eredi della tradizione da Kant a Schelling, anche se
in realtà la filosofia trascendentale era da loro letta col filtro romantico, così che il suo nucleo essen-
ziale veniva ricondotto all’affermazione del sentimento sulle altre facoltà conoscitive. Anche Emer-
son contrappone l’intelletto, finalizzato alla prassi quotidiana e scientifica, a un’intuizione razionale
preposta alla comprensione della totalità, e quindi dell’essenza ultima del reale: di qui la distinzione
tra «uomini parziali», che si servono esclusivamente dell’intelletto e a cui sfugge il senso reale delle
cose, e «uomini totali» o «rappresentativi», i quali colgono con la ragione l’essenza della realtà.
SCHELLING (1775 – 1854)

Vita e opere
Schelling nasce nel 1775 nei pressi di Stoccarda da una famiglia molto colta. Partecipa giovanis-
simo al seminario teologico di Tubinga, dove conosce Hegel e Hölderlin e, dopo la laurea in teologia,
si dedica alla filosofia. L’attività filosofica di Schelling si può dividere in quattro momenti, preceduti
da un periodo (1794-1796) in cui viene ripresa e sviluppata la filosofia di Fichte: nel Dell’io come
principio della filosofia (1795) Schelling reinterpreta Spinoza alla luce dell’idealismo e nelle Lettere
filosofiche sul dogmatismo e criticismo (1796) egli mostra le affinità e le divergenze tra i due sistemi,
il quale obiettivo è però il medesimo, cioè l’identità assoluta tra soggetto e oggetto.
La prima fase del pensiero di Schelling è la «filosofia della natura» (1797-1800). In questi anni egli
è precettore a Stoccarda e a Lipsia, dove studia matematica e scienze naturali, sviluppando quegli
interessi per il mondo naturale che caratterizzano la produzione di questa fase: Idee per una filosofia
della natura (1798), Dell’anima del mondo (1798), Primo abbozzo di un sistema della filosofia della
natura (1799). Nel 1800 esce il Sistema dell’idealismo trascendentale, il suo capolavoro in cui mostra
come la «filosofia dello spirito» sia l’altra faccia della medaglia rispetto alla «filosofia della natura».
Nel 1800 Schelling rompe con il circolo romantico di Jena e inizia la collaborazione con Hegel, con
il quale egli dirige il Giornale critico della filosofia (1802-03). Nel 1803 Schelling lascia Jena per
Würzburg, dove è nominato professore di Filosofia. È questo il periodo degli scritti appartenenti alla
«filosofia dell’identità» (1801-1805): Esposizione del mio sistema filosofico (1801), Bruno o sul prin-
cipio divino e naturale delle cose (1802), Filosofia e religione (1804).
Nel 1806 Schelling si trasferisce a Monaco, dove vivrà fino al 1841 – esclusi gli anni 1821-1827, in
cui fu professore ad Erlangen – a causa degli avvenimenti politici. Nel 1806 la Baviera divenne un
regno ma dovette cedere il territorio di Würzburg all’Austria: Schelling si rifiutò di prestare giuramento
al nuovo governo e chiese, ottenendolo, di trasferirsi nella nuova capitale del regno, dove divenne
membro dell’Accademia delle scienze. Nel 1807 avvenne invece la rottura definitiva con Hegel, che
nella prefazione della Fenomenologia dello spirito aveva criticato la sua concezione dell’Assoluto e
l’intuizionismo su cui essa era fondata, e si radicalizzò il contrasto con Fichte. Ai primi anni di Monaco
risale la «filosofia della libertà» (1806-1820), caratterizzata dall’accentuazione di quell’orientamento
religioso che si era manifestato già con Filosofia e religione: l’opera principale di questa fase sono
le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809).
Nel 1841 Schelling venne chiamato all’università di Berlino, da dove sperava di suscitare una rea-
zione alla filosofia di Hegel ma, rimasto deluso, si ritirò a vita privata fino alla morte (1854). Frutto
dell’attività accademica di Monaco e Berlino (1827-1845) sono l’Esposizione dell’empirismo filoso-
fico (1830) e le due parti della «filosofia positiva», l’ultima fase del pensiero di Schelling: la Filosofia
della mitologia (1842-1854) e la Filosofia della rivelazione (1854).

La «filosofia della natura» (1797-1800)


Tra 1794 e 1797 Schelling riprende e sviluppa la filosofia di Fichte, con il quale condivide l’impianto
idealistico: anch’egli sostituisce la «cosa in sé» kantiana con la ricerca un principio assoluto da cui
derivino forma e contenuto della conoscenza. Tuttavia, ci sono differenze dal pensiero di Fichte:
 A differenza di Fichte, per il quale il fondamento primo della conoscenza è l’«Io puro», Schel-
ling ricerca tale fondamento in un principio originario che comprenda in sé sia il momento
soggettivo della conoscenza (Io trascendentale), sia il momento oggettivo («Non-io»): sog-
getto e oggetto, spirito e natura, sono le due manifestazioni di un unico principio assoluto.
 La derivazione fichtiana del Non-io dall’Io risolve la natura in un momento interno del sog-
getto, mentre Schelling pensa che la natura, il mondo oggettivo, abbia una realtà propria,
anche se strettamente connessa con lo sviluppo del soggetto.
A partire da qui Schelling elabora la sua «filosofia della natura», sulla quale hanno grande influenza
i nuovi studi e le scoperte in chimica, fisica e biologia, che avevano messo in dubbio la concezione
meccanicistica della scienza newtoniana, e la nuova interpretazione filosofica della natura in termini
di vita e di organismo, che risalgono a Goethe e, soprattutto, a Kant, dal quale Schelling mutua due
importanti convinzioni:
 L’organismo è una realtà unitaria che possiede in sé il proprio principio di organizzazione.
 L’organicità può essere estesa dal singolo essere vivente a tutta la natura, considerata come
una totalità.
Schelling radicalizza questi assunti e afferma che la natura costituisce un organismo universale nel
quale opera un unico principio vitale l’«anima del mondo», ammettendo la nozione rifiutata da Kant
di «materia vivente»: la natura è vita intrinseca che continuamente si plasma e si trasforma.
Poiché la natura è vita, Schelling le attribuisce come proprietà fondamentale l’attività. Ciò significa
riconoscere l’omogeneità tra natura e spirito: infatti, egli afferma che natura e spirito non sono indi-
pendenti né conseguenti, bensì sono aspetti paralleli di un unico processo. L’assimilazione tra natura
e spirito ha due conseguenze:
 Applicazione alla natura del principio della produzione dialettica → l’attività della natura è un
processo oppositivo, inteso come «polarità» interna alla natura, nella quale la tensione tra
due elementi esprime insieme la loro unità e la loro opposizione. Schelling riconosce tre livelli
di «polarità naturale» corrispondenti ad altrettanti gradi o «potenze» della natura:
1) Opposizione tra forze attrattive e repulsive (forza di gravità) → la scienza corrispon-
dente è la fisica, che ha per oggetto la natura inorganica considerata come massa.
L’equilibrio risultante è statico, cioè tende a mantenere sé stesso.
2) Opposizione tra analisi e sintesi → azione chimica. Al suo interno si distinguono tre
momenti diversi: magnetismo, elettricità e luce. L’equilibrio risultante dalle forze chi-
miche è precario e reversibile.
3) Potenza organica → forza propulsiva continua con arresti solo momentanei. Anche
questa si divide in tre momenti interni:
 Sensibilità → capacità originaria di percepire stimoli esterni.
 Irritabilità → «attività motrice» che consente il moto degli organismi.
 «Tendenza produttiva» → impulso alla generazione che presiede all’autori-
produzione della specie.
 Finalismo → la finalità è una determinazione essenziale dello spirito e, come esso, anche la
natura agisce sempre secondo un fine.
Qual è il principio comune che collega spirito e natura? Nel Sistema dell’idealismo trascendentale
mondo della natura e mondo dello spirito sono visti come derivanti da un’unica intelligenza che però
opera in due modi diversi: essa può creare inconsapevolmente, producendo il mondo naturale, op-
pure creare consapevolmente, dando origine alle creazioni dello spirito. Il compito della filosofia è
rivelare l’identità sostanziale tra spirito e natura.

L’idealismo trascendentale → Sistema dell’idealismo trascendentale (1800).


La filosofia naturale voleva mostrare come il carattere organico della natura indicasse la presenza
in essa di una costituzione analoga a quella dello spirito. Nel Sistema Schelling cerca di fare l’oppo-
sto, cercando il momento dell’oggettività nello spirito: egli afferma infatti che l’Io trascendentale non
è solo espressione di soggettività assoluta, bensì anche il fondamento della realtà e dell’oggettività.
La «filosofia dello spirito» è fondata sulla concezione di «autocoscienza» o «Io» intesa come sintesi
di due attività dialetticamente opposte (Fichte la intendeva invece come soggettività pura):
 «Attività reale» → attività di produzione dell’oggetto, posto come limite all’oggetto (= Fichte).
→ attività inconsapevole, in modo che l’oggetto appaia al soggetto come dato esternamente.
 «Attività ideale» → «attività illimitata e limitante» che va oltre l’oggetto consapevolmente e lo
riconosce come prodotto inconsapevole dell’Io.
Le due attività non sono separate, bensì costituiscono una «sintesi assoluta» e dinamica di en-
trambe: l’attività reale continuamente costituisce l’oggetto e quella ideale lo oltrepassa e lo ricom-
prende in sé. In questa sintesi delle due attività consiste l’«intuizione intellettuale», che si configura
così come un infinito processo dialettico. L’Io è, dunque, unità indissolubile di soggetto e oggetto, di
spirito e natura, di attività consapevole e inconsapevole: Schelling piega i meccanismi dell’idealismo
fichtiano per dimostrare la tesi anti-fichtiana che nell’autocoscienza l’oggetto entra allo stesso titolo
del soggetto – per questo Hegel lo definirà «idealismo oggettivo».
Schelling illustra la sintesi assoluta attraverso la descrizione dei tre gradi o «epoche» dell’evolu-
zione della filosofia teoretica, che costituisce il primo livello della vita dello spirito:
1) Dalla sensazione all’intuizione produttiva → nella sensazione sembra che il soggetto si trovi
davanti un oggetto esterno rispetto al quale è passivo, mentre con l’intuizione produttiva l’Io
determina l’oggetto come propria produzione e risolve la sensazione in un momento passivo
– l’oggetto è «sentito» – e in uno attivo – il soggetto è «senziente». Poiché si intuisce come
«senziente», l’Io si configura come «intelligenza» e il suo prodotto come «materia».
2) Dall’intuizione alla riflessione → mediante la riflessione, l’intelligenza diventa consapevole
della corrispondenza tra propria costituzione e quella del proprio prodotto (natura), ricono-
scendosi come organismo umano, come vertice estremo dell’organizzazione naturale.
3) Dalla riflessione alla volontà → attraverso un atto di «astrazione assoluta» l’intelligenza arriva
alla consapevolezza che la propria attività è pura forma, distinta da ogni materia.
Con la volontà si passa dall’attività teoretica a quella pratica, che costituisce il secondo livello della
vita dello spirito. La volontà, punto di partenza di ogni attività pratica, risultando dall’astrazione del
soggetto da qualsiasi condizione materiale, è espressione di libertà. Ma il singolo soggetto trova di
fronte a sé altre volontà individuali: si pone quindi il problema della loro armonizzazione in un sistema
che salvi la libertà individuale e garantisca la loro compatibilità. Questo sistema è il diritto: esso non
nasce dalla semplice libertà perché comporta una limitazione coattiva della libertà singola, bensì è
unione di libertà e necessita – il corrispettivo pratico dell’unità teoretica di spirito e natura. L’unione
di libertà e necessità si applica nella storia: in essa ognuno è libero perché i singoli uomini agiscono
liberamente in vista dei propri scopi, ma in realtà la loro azione obbedisce anche ad un piano razio-
nale che va oltre l’intenzione individuale. Così, la storia appare come il dominio dell’«Assoluto»,
inteso come unità di libertà e necessità, spirito e natura, attività ideale e attività inconsapevole.
L’unità assoluta può però essere colta solo dall’arte, la terza e più elevata attività dello spirito. Solo
attraverso l’intuizione artistica l’uomo può penetrare l’Assoluto, cogliendo quell’unità di spirito e na-
tura che l’intuizione riflessiva aveva diviso. L’arte si configura quindi come vera conoscenza e vera
filosofia: identificando l’arte con la conoscenza assoluta, Schelling va oltre i filosofi che, come Kant,
avevano difeso l’autonomia dell’arte dalle concezioni filosofiche che consideravano l’espressione
artistica inferiore alla conoscenza filosofica e scientifica e subordina ad essa ogni forma di sapere
raziocinante e discorsivo. Il suo sistema può essere considerato una forma di «idealismo estetico».

La filosofia dell’identità (1801-1805) → Esposizione del mio sistema filosofico (1801)


Il tema fondamentale della filosofia schellinghiana era sempre stato l’unità tra natura e spirito, cui
cercò di pervenire partendo dai due termini opposti: negli scritti della «filosofia della natura» rintrac-
ciava nel mondo naturale la struttura dello spirito, mentre nel Sistema partiva dal soggetto per giun-
gere all’oggetto. Con la «filosofia dell’identità» Schelling vuole invece partire dall’unità assoluta per
derivare da essa l’opposizione.
Il fondamento dell’intera realtà è ricercato nell’Assoluto, inteso come «identità indifferenziata» di
natura e spirito, di soggetto e oggetto. La scissione degli opposti e la conseguente distinzione della
totalità in una pluralità di manifestazioni non appartiene al piano della realtà e del sapere assoluti,
ma solo a quello dell’apparenza. È questa concezione che Hegel critica: eliminando ogni differen-
ziazione sostanziale tra gli opposti, essa esclude la possibilità di interpretazione dialettica e impedi-
sce di caratterizzare la specificità delle diverse realtà all’interno del sistema schellinghiano.
La «filosofia dell’identità» pone il problema di spiegare il passaggio dall’Assoluto, l’«indifferenza»,
alla distinzione tra una molteplicità di esseri: esso non può avvenire attraverso un passaggio gra-
duale di tipo emanativo perché Schelling insiste sul fatto che tra Assoluto e finito non c’è alcuna
forma di omogeneità – uno è l’essere, l’altro il non-essere. Per risolvere la questione, Schelling in-
trodurrà in Filosofia e religione (1804) il concetto di «salto» o «caduta», che segna però lo sposta-
mento del suo pensiero dall’idealismo speculativo a una filosofia a sfondo religioso e mistico.

La filosofia della libertà (1806-1820) → Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809)
A partire da Filosofia e religione si ha una svolta in senso religioso nel pensiero di Schelling, che
trova espressione nelle Ricerche filosofiche e nella cosiddetta «filosofia della libertà». Alla base vi è
una ripresa in chiave filosofica del teismo, ma in un senso diverso rispetto al panteismo spinoziano
o alla teologia morale di Fichte e Kant. Per Schelling, il vero Dio è vita e persona al pari dell’uomo,
che è fatto a sua immagine: come l’uomo, egli è soggetto al divenire e, quindi, è possibile distinguere
in lui un momento potenziale, che rappresenta il «fondamento» della sua esistenza, descritto come
una «radice oscura» (denominato «inconscio», «tenebra», «egoismo»), e un momento attuale in cui
perviene all’esistenza, che rappresenta il conseguimento dello spirito («conscio», «amore», «luce»).
La creazione consiste nel progressivo passaggio dall’oscurità originaria alla luce, cioè nell’esplica-
zione e attualizzazione di ciò che nel fondamento è potenziale e nascosto, e tra tutte le creature
l’uomo è la sola in cui questo processo può avvenire completamente, raggiungendo l’intelletto.
L’uomo partecipa al pari di Dio ai due principi, ma in Dio essi sono inseparabili e costituiscono
un’unità assoluta, e la tenebra si traduce sempre in luce, mentre nell’uomo sono separabili, e il
principio oscuro – volontà individuale ed egoistica – può opporsi a quello positivo – volontà univer-
sale. Nell’uomo risiede quindi la possibilità del male, cioè della prevalenza della volontà egoistica su
quella universale, ma poiché egli può scegliere, nella possibilità di scegliere consiste la libertà. Ciò
non significa ammettere la libertà di arbitrio: come in Dio, anche nell’uomo la libertà coincide con la
necessità, ma a differenza di Dio, nell’uomo la convergenza tra le due trova espressione nella «na-
tura» individuale che porta ciascuno a scegliere. Da un lato, infatti, l’uomo è necessitato dalla sua
natura, dall’altro però questa è stata «decisa» nel momento in cui, con la creazione, egli è emerso
dal «fondamento» di Dio: ognuno opera in base a ciò che è, ma è ciò che ha deciso di essere nel
momento della creazione («sono fatto così»: in ciò si esprime l’impossibilità di agire diversamente e
la consapevolezza di essere fatto in quel modo per colpa propria).
Se la filosofia dell’identità era fondata sulla risoluzione del finito nell’infinito, la filosofia della libertà
restituisce al finito, al mondo e all’uomo, una realtà propria: reali sono considerati il male e la libertà
individuale, che nella prospettiva dell’identità assoluta svanivano, al pari di tutti gli altri aspetti finiti.

La filosofia positiva (1820-1854) → Filosofia della mitologia e Filosofia della rivelazione (1842-1854)
Con il trionfo filosofico di Hegel, l’identificazione della realtà con la ragione e la conseguente pretesa
di poter spiegare e giustificare tutto col pensiero dialettico, Schelling rimase a lungo in silenzio, svi-
luppando una «filosofia negativa» che poggiava sulla convinzione che la ragione potesse cogliere
solo l’essenza delle cose, non la loro esistenza: occorreva quindi opporvi una «filosofia positiva».
Il punto di partenza del pensiero positivo deve consistere in un dato di esperienza – di qui l’espres-
sione «empirismo filosofico» – che va intesa però non come semplice conoscenza sensibile, bensì
come esperienza metafisica: la filosofia positiva non è una semplice forma di conoscenza teoretica,
bensì un sapere che si traduce in attività pratica. La filosofia positiva si divide in:
 «Filosofia della mitologia» → ha per oggetto la religione naturale, intesa come il manifestarsi
di Dio nella natura attraverso le determinazioni di una coscienza umana archetipa e origi-
naria: le diverse rappresentazioni della divinità che caratterizzano il politeismo antico risul-
tano dal processo necessario attraverso cui l’uomo ha naturalmente sviluppato la propria
coscienza del divino in assenza di una rivelazione positiva.
 «Filosofia della rivelazione» → ha per oggetto la religione rivelata e il proprio fulcro nel
cristianesimo. Essa si riferisce alla manifestazione diretta di Dio, che si auto-rivela all’uomo
con un atto di libertà assoluta. Solo attraverso questa via l’uomo arrivò alla conoscenza di
Dio come persona vivente, che si incarna nel figlio.
Schelling presagisce anche l’avvento di una terza fase della filosofia positiva – corrispondente a
quella dello Spirito Santo invocata da Gioacchino da Fiore e ripresa da Lessing – nella quale la
religione filosofica supera sia la religione naturale, sia quella rivelata.
HEGEL (1770 – 1831)

Vita e opere
Georg Wilhelm Friedrich Hegel è nato a Stoccarda nel 1770, dove riceve una formazione ginnasiale
umanistica. Studia teologia all’università di Tubinga, dove conosce Schelling e Hölderlin: i tre se-
guono con entusiasmo la Rivoluzione in Francia e scoprono le nuove filosofie. Dal 1793, Hegel inizia
una lunga serie si soggiorni in città diverse: le permanenze spesso coincidono con fasi particolari di
sviluppo della sua personalità filosofica o con la stesura di particolari opere o cicli di opere.
Finiti gli studi, Hegel svolge l’attività di precettore e si sposta prima a Berna (1793), poi a Franco-
forte (1797) dove frequenta il circolo di Hölderlin: a questi soggiorni appartengono gli Scritti teologici
giovanili, dedicati all’analisi della religione e del cristianesimo.
In seguito alla morte del padre (1799), Hegel abbandona quest’attività per dedicarsi agli studi e alla
carriera universitaria. Trasferitosi a Jena (1800), dove consegue l’abilitazione all’insegnamento
(1801), Hegel viene nominato professore straordinario (1805) e, insieme a Schelling, è direttore del
«Giornale critico della filosofia». A questi anni risalgono la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte
e Schelling (1801), La costituzione della Germania (1801-2), il Sistema dell’eticità (1802-3) e, so-
prattutto, la Fenomenologia dello spirito (1807). Nel 1807 Hegel si trasferisce a Bamberga, dove
dirige la gazzetta locale, e nel 1808 diventa direttore del Ginnasio di Norimberga: l’opera più impor-
tante è la Scienza della logica (1812-16), ma di notevole importanza è anche la Propedeutica filoso-
fica destinata agli allievi del Ginnasio. Nel 1816 è chiamato come professore di Filosofia all’università
di Heidelberg e, due anni più tardi, a Berlino, dove rimarrà fino alla morte (1831). In questo lasso di
tempo viene pubblicata l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: la prima edizione nel
1817 e altre due edizioni, riviste e ampliate, nel 1827 e nel 1830. La nomina di professore a Berlino
rispondeva a un’opera di rinnovamento che voleva promuovere la preminenza culturale della Prus-
sia, nuovo Stato-guida della Germania dopo il Congresso di Vienna: Hegel, consapevole delle va-
lenze politiche della sua funzione di professore universitario, seppe muoversi tra la difesa dello sta-
talismo prussiano, prevalente nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821), e l’apertura a istanze libe-
rali moderate, che emergono nelle lezioni tenute all’università sullo stesso argomento: ciò rivela una
libertà che la censura prussiana non consentiva nel testo a stampa. L’importanza che le lezioni uni-
versitarie di Hegel ricoprono nell’interpretazione delle sue opere fu riconosciuto già dai contempora-
nei: alcuni cicli di esse, che Hegel tenne all’università di Berlino, furono infatti raccolte dagli allievi,
fatte circolare dentro e fuori la Germania e, infine, pubblicate con i titoli di Lezioni sulla filosofia della
storia, Lezioni sulla storia della filosofia, Lezioni di estetica e Lezioni sulla filosofia della religione.

I periodi di Berna e Francoforte (1793 – 1800) → gli Scritti teologici giovanili.


Questi scritti permettono la conoscenza di un «giovane» Hegel, nel quale il «sistema» è ancora in
fase di formazione – ma un embrione di procedimento dialettico è già chiaramente presente. Il fulcro
tematico è la religione, ma inizia già a prendere forma il nucleo fondamentale della sua filosofia: la
realtà concepita come totalità unitaria, in cui i suoi diversi aspetti trovano una collocazione razionale.

Religione popolare e cristianesimo (1792-94) → contrasto tra l’idea di una totalità le cui componenti
hanno un aggregato sostanziale e una realtà in cui le parti stanno meccanicamente assieme in base
a connessioni arbitrariamente imposte dall’intelletto.
La religione «popolare» (Volksreligion = religione popolare o nazionale) ha due caratteristiche che
la contrappongono al cristianesimo:
 È una religione «soggettiva» (il cristianesimo è una religione «oggettiva»):
 Non ci sono coercizioni e precettistica esteriori.
 Non ci sono aspetti dogmatici affidati a intelletto e memoria
→ il cristianesimo ha invece un apparato chiesastico autoritario e un testo sacro.
 È una religione «pubblica» (il cristianesimo è una religione «privata»):
 Si manifesta nella concretezza dei costumi e delle istituzioni di un popolo.
→ il cristianesimo si fonda su un rapporto interiore individuale tra singolo e Dio.
L’ideale della religione popolare (o nazionale) è la polis greca perché in essa le credenze religiose
rispondo alle esigenze di gioia e serenità proprie della natura umana e si esprimono in culti che, con
le loro valenze politiche e sociali, coinvolgono l’intera comunità: la polis rappresenta quindi una co-
munità unitaria in cui si fondono, in una sola realtà, aspetti sociali, politici e religiosi e in cui gli indi-
vidui sono parti organiche di un tutto vivente (non atomi meccanicamente giustapposti in un aggre-
gato). Solo qui nasce la vera libertà perché l’individuo non è dominato coercitivamente dal tutto né
completamente indipendente da esso, bensì ritrova, nella realtà sociale, politica e religiosa cui ap-
partiene, l’espressione della propria volontà.

Vita di Gesù (1795) e La positività della religione cristiana (1795-96) → il cristianesimo, in quanto
religione positiva, è contrapposto alla religione naturale: l’insegnamento originario di Gesù, secondo
Hegel, sono i comandi universali della ragione. Nella seconda opera, Hegel spiega il passaggio dalla
religione naturale a quella positiva: le cause della degenerazione sono l’ambiente e la cultura ebraici
perché non colgono la pura spiritualità dell’insegnamento cristiano e perché sono legati all’esteriorità
del formalismo farisaico. Gesù infatti è ebreo, da ciò è condizionato e nel suo insegnamento sono
già riscontrabili i segni della futura positivizzazione del cristianesimo:
 Dottrina fondata sulla rivelazione e sul comando di Dio.
 Parla di sé come del Messia.
 Ricorre alla testimonianza dei miracoli.
 Fonda una Chiesa scegliendo un corpo sacerdotale (i dodici apostoli) destinato alla conser-
vazione e alla diffusione del suo insegnamento.
Il trasferimento a Francoforte segna l’inizio di un nuovo indirizzo di pensiero: il cristianesimo viene
rivalutato e la funzione di modello negativo viene assegnata alla religione ebraica.

Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798-1800).


Secondo Hegel il popolo ebraico è incapace di cogliere l’unità del reale perché in esso vige lo spirito
della «separatezza», cioè dell’opposizione reciproca dei diversi aspetti della realtà: essi si oppon-
gono a tutti gli altri popoli perché ritengono di essere eletti da Dio e, al loro interno, la tribù di Levi
impone la sua diversità e superiorità a tutti gli altri. La stessa frattura si realizza, nella cultura ebraica:
 Tra uomo e Dio → Dio è un principio esterno al mondo e signore di esso.
 Tra uomo e natura → la natura è una potenza ostile da dominare con la forza.
 Tra uomo e uomo → l’individuo definisce sé stesso in base al proprio rapporto singo-
lare con Dio.
Il corrispettivo positivo in quest’opera non è più il mondo greco, bensì il cristianesimo:
 Alla separatezza contrappone la «dottrina dell’amore», cioè la consapevole riconciliazione
con ciò che è stato separato → l’incarnazione di Cristo rappresenta la capacità di ricongiun-
gere divinità e umanità, Dio e mondo.
 L’amore predicato dal cristiano è segno dell’unità degli uomini, consapevolmente ricercata
dopo l’esperienza della separazione (nel mondo greco era invece spontanea e naturale).
Hegel riprende così il tema della priorità della totalità (ciò che è «concreto») rispetto a ciò che è
diviso, «astratto» («tratto da», separato dal tutto): una totalità non più originaria e inconsapevole di
sé, ma ricercata e riconquistata consapevolmente («riflessa» e non «immediata»). Possiamo notare
come sia già presente nell’opera, embrionalmente, il processo dialettico:
a) Mondo greco («tesi») → realtà colta in quanto immediatezza: l’uomo greco non conosceva
fratture e opposizioni che incrinassero l’armonica unità del reale.
b) Mondo ebraico («antitesi») → realtà vista nelle sue componenti parziali e nella loro opposi-
zione: l’ebreo ha perso completamente il senso della totalità e vede solo aspetti particolari
che si contrappongono.
c) Cristianesimo («sintesi») → opposizione risolta con il riferimento a una realtà superiore che
riconcilia in unità gli aspetti apparentemente divisi: il cristiano, attraverso l’amore, ritrova la
riconciliazione nell’unità sostanziale di ciò che è stato diviso in diverse realtà parziali.

Frammento di sistema (1800) → ulteriore sviluppo del concetto di totalità.


La totalità assoluta, secondo Hegel, non è solo unificazione, ma anche opposizione e distinzione
(se mancasse questo aspetto, non sarebbe vera unità). Questa unità assoluta non può essere rag-
giunta dalla filosofia, che conserva la distinzione tra oggetto e soggetto, ma solo dalla religione, che
attinge la «vita infinita», lo «spirito» (inteso come «vivente unità del vario»), oltre ogni riflessione e
distinzione. La vita, quindi, è «l’unione dell’unione e della non-unione» (l’opposizione).
Inizia a delinearsi un concetto di totalità differente da quello di Schelling: un’unità articolata in un
complesso di opposizioni che, nel superiore momento unitario, si conciliano e trovano il loro vero
significato ma non perdono quelle differenze che le connotano come aspetti particolari del tutto.

Il periodo di Jena: i primi scritti.


Differenza di sistemi filosofici di Fichte e Schelling (1801) → seguace di Schelling.
Il rapporto tra soggetto e oggetto nel sistema di Fichte appare inadeguato a Hegel: l’identità tra Io
e Non-io è affermata solo soggettivamente perché l’oggetto deve essere continuamente ricondotto
al soggetto, rimanendo sempre qualcosa di diverso e opposto da esso, senza trovare un momento
in cui i due elementi si ricompongono in unità. In Schelling, invece, l’identità tra soggetto e oggetto
è determinata oggettivamente, nel senso che l’Assoluto rappresenta un momento superiore a en-
trambi in cui essi sono totalmente unificati.
In Hegel, come in Schelling, la ragione ha il compito di cogliere un momento di unità («indifferenza»)
che risolva la fondamentale opposizione di soggetto e oggetto (e tutte quelle particolari che da essa
derivano), mentre l’intelletto (facoltà dell’analisi e della divisione) deve fissare i diversi aspetti della
realtà contrapponendoli rigidamente gli uni agli altri, tenendo conto solo della loro «differenza» senza
giungere all’unità. La ragione però non deve negare completamente la «differenza», bensì solo im-
pedire che l’opposizione non venga irrigidita e portata a un livello irriducibile a una superiore unità.
Sono già ben delineate le differenze che porteranno Hegel a separarsi dall’amico: l’unificazione
compiuta dalla ragione «non significa che essa si opponga assolutamente alla limitazione perché la
divisione e l’unificazione sono entrambe parti della totalità; la ragione, tuttavia, si oppone all’atto con
cui l’intelletto fissa assolutamente la scissione»: per Hegel, l’Assoluto non è unità indifferenziata,
bensì una totalità che, per quanto essenzialmente unitaria, si articola al suo interno in una pluralità
di opposizioni «dialettiche».

Abbozzi di sistema (inediti) → l’unificazione razionale delle determinazioni particolari operate dall’in-
telletto è affidata alla logica, concepita come una scienza propedeutica alla filosofia.
La logica ha per oggetto i principi e le categorie del pensiero concepiti non come determinazioni
fisse che si distinguono e si oppongono le une alle altre (logica tradizionale), bensì come concetti
che trapassano l’uno nell’altro: la definizione di uno rimanda infatti necessariamente a quella del
proprio opposto, creando così una superiore unità concettuale che rimanda, a sua volta, a una nuova
opposizione e a una nuova unità → il pensiero è un processo in continuo movimento, in cui la deter-
minazione di un concetto è solo una tappa verso la comprensione dell’Assoluto. Ma il pensiero, e il
movimento in cui esso si sviluppa, hanno una dimensione ontologica oltreché logica: i concetti espri-
mono la natura delle cose, così come la connessione logica dei concetti esprime l’ordine metafisico
della realtà. In questi abbozzi sono delineate le linee essenziali della dialettica hegeliana, che è
insieme legge del pensiero e legge dell’essere, concepiti essi stessi come due momenti di un’indis-
solubile unità.

Fede e sapere → saggio pubblicato nel «Giornale critico della filosofia».


Qui Hegel critica le filosofie di Kant, Jacobi e Fichte, interpretate come espressioni della «filosofia
della riflessione» e strettamente legate al soggettivismo del protestantesimo, che riconduceva tutto
all’interiorità della coscienza. Esse, anche se i modi diversi, fanno dipendere interamente il mondo
oggettivo dalla riflessione soggettiva: in questo modo però non riescono a cogliere la realtà assoluta,
che può essere conosciuta solo da un punto di vista superiore all’opposizione tra soggetto e oggetto,
quello del «vero sapere», della ragione intesa come pensiero della totalità. Da questo punto di vista
l’opposizione appare solo come un momento intermedio per procedere alla comprensione del tutto.

Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale → totalità dal punto di vista etico-giuridico.
Secondo Hegel l’empirismo (Hobbes e Locke) e il formalismo (Kant e Fichte) non erano giunti a
una vera comprensione dello Stato e del diritto:
 Empirismo → parte da una concezione individualistica e atomistica della società e non è
andato oltre l’affermazione di principi particolari come l’identità tra stato di natura e stato di
guerra (Hobbes) e l’esistenza di diritti naturali (Locke).
 Formalismo → l’intero diritto è ricondotto a un unico principio universale a priori ma non è
stata risolta l’opposizione tra la soggettività di questo principio e l’oggettività del mondo reale
in cui il diritto si deve attuare.
Ogni frantumazione e opposizione scompare se si coglie l’«eticità organica» in cui consiste la vita
di un popolo: in essa il punto di vista del soggetto si amalgama con quello della comunità considerata
come un tutt’uno (come nella polis greca). Nell’èthos di un popolo si realizza un principio di unità
(diverso dall’empirismo: frantumazione dell’individualismo atomistico), e tale unità si manifesta con-
cretamente nell’oggettività delle istituzioni sociali, politiche e giuridiche (diverso dal formalismo:
astrattezza di un principio a priori).

Costituzione della Germania → principio della totalità unitaria sul piano storico-politico.
Dopo le vittorie napoleoniche, secondo Hegel «la Germania non era più uno Stato»: per tornare ad
esserlo non doveva cercare l’unità sul piano culturale (romanticismo: unità di costumi, sentimenti,
religione) o nel modello dello Stato unitario napoleonico (unità di moneta, codice e unità di misure),
bensì sul piano militare, per riconquistare la capacità di fare la guerra come uno Stato unitario, con
un unico comando e un unico esercito.

La «Fenomenologia dello spirito» (1807).


La Fenomenologia si fonda su due presupposti:
a) «Il vero è l’intero» → la verità si consegue solo quando i diversi aspetti parziali della realtà
sono considerati come momenti e articolazioni della totalità.
b) La totalità, oggetto del vero sapere, è il risultato di un «processo» conoscitivo nel quale il
soggetto conoscente è implicato (non qualcosa di già dato che il soggetto deve analizzare)
→ la verità non è «sostanza», immobile nella sua completezza, ma «spirito», cioè attività.
Le diverse fasi del processo («figure dello spirito») sono i diversi modi, sempre più adeguati, in cui
il soggetto conosce sé stesso e si rappresenta la realtà: la Fenomenologia descrive l’«esperienza»
della coscienza, che passa dai gradi più bassi della conoscenza al «sapere assoluto», forma in cui
lo spirito conosce la sua autentica essenza). Il soggetto del processo è l’Assoluto, che nelle varie
però non si riconosce come tale: solo alla fine, quando la verità è ricomposta nella totalità delle
prospettive che la compongono, la coscienza riconosce sé stessa come Assoluto.
Le «figure dello spirito» hanno una duplice valenza:
 Considerate dal punto di vista della coscienza individuale manifestano il punto di vista acqui-
sito da essa in un particolare momento del suo sviluppo.
 Considerate dal punto di vista della totalità permettono di cogliere sia ciò che contengono,
sia ciò che non contengono ancora.
La successione delle figure non è arbitraria o casuale, ma rispecchia il concatenamento necessario
delle diverse fasi dello sviluppo dello spirito assoluto: ogni figura è superamento e conservazione
delle figure precedenti, che vengono integrate con gli aspetti di cui non erano ancora consapevoli,
fino ad arrivare alla consapevolezza totale dell’Assoluto.
Tale concatenamento è un «processo dialettico» in cui:
a) Tesi (affermazione) → il soggetto appare «in sé» come semplice coscienza di un oggetto.
b) Antitesi (negazione) → poiché l’oggetto appare come qualcosa di «altro» e opposto rispetto
al soggetto, il soggetto viene «negato» dall’oggetto.
c) Sintesi (unione) → il soggetto si rende conto che l’oggetto è la proiezione («alienazione») di
sé stesso al di fuori di sé, ritrovando l’unità con l’oggetto: il soggetto diventa un «per sé»,
cioè cosciente di sé stesso, perché conosce come sé stesso qualcosa che prima era «altro».
Il passaggio dialettico è insieme a) un movimento interno della coscienza singola (legge del pen-
siero), attraverso il quale essa sviluppa sé stessa passando dai gradi inferiori a quelli superiori, e,
poiché al termine del processo la coscienza conosce sé stessa come Assoluto, b) è il principio in-
terno dello sviluppo dell’Assoluto, cioè quello che regola lo svolgimento e l’esplicazione della realtà
(legge dell’essere). Le «figure dello spirito» assumono così un’altra duplice valenza:
 Sono momenti della coscienza singola che l’individuo ripete nella propria esperienza.
 Sono momenti della coscienza universale (Assoluto), quindi fasi dello sviluppo della realtà e
della storia: alcune figure fanno riferimento a determinate fasi dello sviluppo storico → i pe-
riodi storici sono esemplificazioni concrete di momenti ideali dello sviluppo dello spirito (non
realtà prettamente storiche, fenomeni inseriti in una successione cronologica).
La concezione dialettica della conoscenza esclude i due modelli gnoseologici prevalenti:
 Concezione rappresentativa fondata sul principio d’identità → al soggetto è attribuito un pre-
dicato: ciò si limita ad affermare l’identità tra soggetto e oggetto.
 Intuizione romantica → la verità assoluta non può essere conseguita tramite una conoscenza
rappresentativa e discorsiva, ma solo da un atto di intuizione immediata.
Secondo Hegel, invece, la conoscenza è conseguibile solo attraverso un processo nel quale ogni
aspetto della realtà viene dialetticamente connesso con il proprio opposto, contrapponendo poi la
totalità parziale con la totalità parziale a essa opposta fino al raggiungimento del sapere assoluto.
Per fare ciò si deve ricorrere alla «proposizione speculativa», cioè un’affermazione dialettica che,
essendo indisgiungibile dall’insieme complessivo delle altre proposizioni conoscitive, rimanda all’in-
tero sistema della conoscenza. Solo passando attraverso e ricomponendo tutte le figure fenomeno-
logiche la coscienza può arrivare al sapere assoluto, alla conoscenza della totalità: chi invece si
appella alle facoltà rivelative dell’intuizione confonde tutte le distinzioni in un’unità assolutamente
indifferenziata che non è più nulla (è «la notte in cui tutte le vacche sono nere»).

Le «figure» del processo conoscitivo


La prima figura della Fenomenologia è la «coscienza naturale», cioè il momento in cui il soggetto
sente l’oggetto come altro rispetto a sé:
a) «Certezza sensibile» (sensazione) → conoscenza dell’individuo particolare («questi») di un
oggetto particolare («questo») nella concretezza del «qui» e «ora».
→ ad un livello superiore di consapevolezza, il «qui» e «ora» diventano applicabili a qualsiasi
contenuto: il «questo» e il «questi» diventano universali perché il primo non si riferisce a nulla
di specifico e il secondo è applicabile a qualsiasi soggetto. La certezza sensibile perde così
ogni autonoma valenza conoscitiva e si risolve nell’universalità formale del linguaggio.
b) «Percezione» → cogliere la cosa nell’insieme delle sue qualità costituenti. Si presenta però
una contraddizione: la cosa appare cioè contemporaneamente molteplice (una molteplicità
di qualità) e una (le qualità si raccolgono nell’unità della cosa).
→ la coscienza raggiunge la consapevolezza che l’unità non è intrinseca alla cosa, ma di-
pende dalla coscienza stessa, che collega e unifica le diverse qualità.
c) «Intelletto» → l’oggetto appare come fenomeno, cioè come manifestazione di forze che agi-
scono secondo una legge nella quale trovano unità: tale legge però è un elemento sopra-
sensibile che dipende dal soggetto → la coscienza diventa consapevole del fatto che ciò che
essa opponeva a sé come oggetto non è in realtà diverso da sé. Non essendo più solo un
soggetto contrapposto a un oggetto, essa diventa consapevole di sé («autocoscienza»).
Questa autocoscienza è un’autocoscienza individuale, che trova davanti a sé altre autocoscienze
con le quali si instaura un rapporto conflittuale: ciascuna ha un «appetito», rivolto al possesso della
natura, in competizione con quello delle altre e, per affermare la propria superiorità, deve ottenere il
«riconoscimento» delle altre attraverso una «lotta a morte» nella quale dimostra di saper mettere in
gioco la vita e non avere paura della morte.
Figura della «signoria e servitù» che rappresenta i rapporti di potere tra gli uomini del mondo antico:
 L’autocoscienza che ottiene il riconoscimento diventa «signore».
 L’autocoscienza che preferisce sottomettersi per avere salva la vita diventa «servo» e la-
vora per il padrone.
Attraverso il lavoro il servo si rende conto della propria «indipendenza» dalla natura, perché la
sa dominare e trasformare in un suo prodotto, e dal signore, incapace di provvedere ai propri
bisogni e «dipendente» dal servo, conquistando così la propria libertà.
Alla figura del «servo-signore» succedono altre figure che corrispondono a diversi livelli di libera-
zione dalla natura:
 Stoicismo → libertà come «indifferenza» della coscienza interiore, quindi del pensiero, dal
mondo naturale esterno.
 Scetticismo → libertà dal mondo esterno radicalizzata nella sua completa negazione.
Il progressivo liberamento non elimina però la scissione tra finito (autocoscienza) e infinito (divinità):
la consapevolezza di questa scissione ancora irrisolta dà luogo alla «coscienza infelice». Per risol-
verla e realizzare pienamente la propria libertà, l’autocoscienza prova a perdersi nell’infinito → asce-
tismo cristiano medievale, in cui l’uomo si innalza e si perde in Dio: la coscienza, grazie a questa
unificazione, riconosce la propria assolutezza e si rende conto di comprendere in sé l’intera realtà.
Quando l’autocoscienza raggiunge la «certezza di essere ogni realtà» diventa «ragione»: ciò che
prima era esterno alla coscienza, ora è un momento interno a essa → si compie l’«idealismo», cioè
la consapevolezza che la realtà è il pensiero stesso (l’«idea»). Il processo di appropriazione della
realtà da parte della ragione e, quindi, del pensiero conosce diversi gradi:
 La «ragione osservativa» si appropria della natura conoscendola, cioè cercando nella strut-
tura del mondo naturale la legge della ragione stessa.
 Per oggettivarsi nella realtà, la ragione comprende di dover operare su di essa attraverso
l’azione individuale: prima di un’azione finalizzata al piacere, poi cercando di imporre al corso
delle cose la propria norma interiore.
 La piena appropriazione del mondo naturale avviene quando l’autocoscienza si realizza non
più come ragione individuale in singole azioni, bensì come ragione universale nell’«eticità»
di un popolo (costumi e istituzioni).
Oggettivata nella concreta vita dei popoli, la ragione è diventata «spirito» e le sue configurazioni
non sono più «figure della coscienza» (soggettive), bensì «figure di un mondo», cioè momenti og-
gettivi del processo storico:
a) «Bella eticità» del mondo greco → primo momento oggettivo in cui la vita dell’individuo è
tutt’uno con quella della comunità. Questa unità immediata e naturale ha in sé il germe della
scissione, cioè quella tra legge scritta dello Stato e le consuetudini consolidate della famiglia,
che si realizza pienamente nel mondo romano, dove l’individuo e lo Stato vengono contrap-
posti: la legge non è più la volontà individuale che si esprime pubblicamente nelle istituzioni
dello Stato, bensì è un «diritto» imposto al cittadino come un potere che lo sovrasta → ab-
bandono dell’eticità e passaggio al «regno della cultura».
b) «Regno della cultura» → viene rifiutato tutto ciò che è immediato e si assegna valore solo a
ciò che è mediato e riflesso, cioè frutto di un’operazione del pensiero → la «filosofia della
riflessione» ha duplice valenza:
 Valore positivo → superamento dell’immediatezza naturale e ingresso nella «media-
tezza» necessaria per la comprensione dialettica della realtà.
 Valore negativo → la «riflessione» è frutto dell’intelletto o di una ragione intesa come
facoltà conoscitiva che, anziché cogliere la realtà nella sua totalità unitaria (concreta),
la frantuma in molteplici aspetti parziali (astratti).
→ il punto più alto è raggiunto dall’«illuminismo», in cui la ragione raggiunge la totale
indipendenza dalla «fede» (sapere ancora immediato): tuttavia, questa è una libertà
puramente negativa perché abbatte tutto senza proporre nulla di positivo.
c) Religione → lo spirito prende coscienza di sé come Assoluto: dopo aver vissuto i momenti
dell’unità (anche se inconsapevole) e dell’articolazione interna vissuta come opposizione e
scissione, lo spirito riprende coscienza della sua unità (mondo greco), ma con la consape-
volezza della mediazione e della riflessione («regno della cultura»).
La religione ha come oggetto Dio, cioè l’Assoluto, ma esso è ancora colto sotto forma di una
«rappresentazione» che varia in base al livello di sviluppo conseguito dalla coscienza dei
diversi popoli: a) religione naturale (popoli orientali fino agli egizi); b) religione artistica (po-
polo greco e romano) e c) religione rivelata (cristianesimo). La «rappresentazione» è tuttavia
inadeguata a esprimere l’identità dello spirito con sé stesso perché si mantiene la distinzione
tra soggetto e oggetto: Dio appare ancora come trascendente il mondo.
L’ultima figura fenomenologica è il «sapere assoluto», in cui lo spirito diventa consapevole di sé
non in forma rappresentativa, ma concettuale: solo tramite il «concetto» filosofico lo spirito può «pen-
sare» sé stesso, cioè essere assieme soggetto e oggetto del sapere.
Così, la Fenomenologia non è solo «storia» della coscienza, ma è anche «scienza», cioè cono-
scenza: quando finiamo di leggere l’opera, ripercorrendo la «storia» della coscienza, abbiamo anche
raggiunto la conoscenza assoluta e totalizzante dello spirito in ogni suo momento. I due aspetti sono
infatti assolutamente inscindibili perché la conoscenza, la scienza, può essere conseguita solo come
risultato del processo conoscitivo, cioè della storia della coscienza.

Dalla Fenomenologia al «sistema» contenuto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche.


Il processo di costituzione dell’intero che porta alla verità può avvenire in due modi diversi: attra-
verso la descrizione del cammino della coscienza dal basso («coscienza naturale») verso l’alto («sa-
pere assoluto») della Fenomenologia e mediante l’analisi, in termini di «sistema», delle diverse de-
terminazioni parziali in cui si articola la realtà, con le loro reciproche relazioni.
L’oggetto generale del sistema hegeliano è la totalità della realtà, intesa come ragione assoluta e
infinita, che prende il nome di «Idea» e può essere considerata in tre modi:
 «Logica» → Idea «in sé».
→ l’Idea è considerata «nell’elemento astratto del pensiero», cioè in base alle categorie che
costituiscono la struttura formale della realtà, dandole un carattere assolutamente razionale.
Nonostante le categorie non siano distinguibili dalla realtà stessa, nella logica, mediante un
atto di astrazione, Hegel le considera come a sé stanti: la logica descrive la struttura razio-
nale che costituisce l’elemento formale della realtà, ma tale struttura è inseparabile dalla sua
realtà metafisica, ed è quindi totalmente immanente a essa.
 «Filosofia della natura» → Idea «per sé».
→ l’oggetto della «filosofia della natura» è l’estraniazione dell’Idea da sé stessa, cioè la sua
uscita dall’elemento del pensiero, per realizzarsi nell’elemento materiale della natura. Così
l’Idea perde il carattere universale che aveva nella logica e si determina nelle singole realtà.
 «Filosofia della natura» → Idea «in sé e per sé».
→ l’Idea risolve la natura come un momento interno al pensiero e ritorna in sé, esprimendosi
come «spirito», come unità di pensiero astratto e natura, di razionale e reale.

La «logica»: caratteri generali


Hegel distingue la sua logica da quella formalistica perché, a differenza di quest’ultima, che conce-
piva le forme del pensiero pure come entità concettuali mentali con funzione esclusivamente gno-
seologica, secondo lui le categorie logiche, oltre a essere determinazioni del pensiero puro (valore
logico) sono anche elementi costituivi dell’essenza della realtà (valore ontologico) → la logica coin-
cide con la metafisica perché il pensiero puro è la realtà e viceversa. Nella Prefazione alla Filosofia
del diritto Hegel andrà oltre, sostenendo l’identità di razionale e reale: dal momento che le categorie
hanno una portata insieme logica e metafisica, la struttura razionale del mondo non esiste solo nella
mente dell’uomo o in quella infinita di un Dio, ma è tutt’uno con l’essenza del reale. Nella Scienza
della logica le categorie della logica sono dette astratte non perché non abbiano un contenuto ma-
teriale, ma perché vengono considerate a parte («in sé»), separate dai loro contenuti reali, nell’ele-
mento del pensiero puro: questa operazione di astrazione non dà però la vera scienza della realtà,
che si avrà solo quando pensiero puro e realtà oggettiva saranno considerati nella loro intrinseca
unità dalla «ragione speculativa» nella filosofia dello spirito.
Ogni filosofia che non raggiunga questa unità, irrigidendo l’astrazione e l’opposizione dei diversi
aspetti, rimane sul piano dell’«intelletto». All’inizio dell’Enciclopedia, Hegel sintetizza le tre posizioni
fondamentali della filosofia dell’intelletto astratto ancora vive:
 Metafisica tradizionale (Wolff) → ha il merito di pensare che la ragione possa conoscere in
maniera assoluta la realtà, espressa dai fondamentali oggetti metafisici (anima, mondo, Dio).
Ma tale realtà metafisica è ancora concepita come esterna alle forme soggettive del pensiero
indipendenti dal loro oggetto.
 Reazione alla metafisica tradizionale → due forme:
 Empirismo → risolve il conflitto tra soggetto e oggetto accontentandosi del valore
soggettivo della conoscenza.
 Criticismo kantiano → recupera l’oggettività fondandola sulla sintesi categoriale
dell’«Io penso» ma, attraverso la «rivoluzione copernicana», riconduce l’oggetto alla
dimensione della coscienza soggettiva: l’oggettività non è assoluta ma esclusiva-
mente fenomenica perché vale solo per il soggetto che compie l’unificazione.
 «Sapere immediato» delle filosofie intuizionistiche romantiche → accanto alla conoscenza
fenomenica dell’intelletto riconoscono una conoscenza razionale che coglie immediatamente
il proprio oggetto, senza perciò passare dall’unificazione categoriale. In questo modo però il
sapere risulta inevitabilmente arbitrario e astratto, cioè soggettivo.
Le determinazioni soggettivo del pensiero possono acquisire oggettività e realtà solo facendo rife-
rimento a una ragione che operi dialetticamente. A questo punto Hegel enuncia chiaramente i tre
momenti in cui si scandisce il processo dialettico:
a) «Posizione» o «tesi» → momento intellettuale che pone i singoli aspetti della realtà, astraen-
doli dal tutto al quale essi concretamente appartengono.
b) «Negazione» o «antitesi» → la particolare determinatezza degli aspetti finiti della realtà viene
confrontata col suo opposto che, «de-finendola», la rende finita e separata. È questo il mo-
mento propriamente dialettico che prepara la comprensione dell’intero.
c) «Superamento» (Aufhebung) o «sintesi» → momento razionale-speculativo.
→ l’opposizione delle determinazioni viene risolta in una superiore totalità: il superamento
implica l’atto del «togliere», in quanto l’opposizione come tale viene eliminata, e del «conser-
vare», poiché gli opposti non vengono eliminati ma considerati ad un livello superiore,
nell’unità che «toglie» il loro carattere di opposizione.

Le categorie della logica → Scienza della logica divisa in tre parti:


«Logica dell’essere» → l’opera inizia da concetto di «essere», un «essere» parmenideo assoluta-
mente privo di determinazioni di cui si può solo dire che «è». Un essere così indeterminato si traduce
(«trapassa») nel suo opposto, il concetto di «nulla». La separazione tra i due è quindi solo apparente:
essi sono i due momenti – opposti – di un’unica realtà, il «divenire» (Eraclito).
Il «divenire», superando l’opposizione tra essere e nulla, conduce all’«essere determinato» («al-
cunché»), alla cosa che «è questo e non altro». L’«alcunché» è opposto all’«altro» e determinato in
quanto viene «definito», limitato dall’«altro», cioè in quanto è finito. Ma l’insieme di tutti gli esseri
determinati non è più finito, altrimenti avrebbe ancora un «altro» diverso da sé e sarebbe ancora un
essere determinato: la totalità degli aspetti finiti della realtà è un «infinito».
Al concetto di infinito Hegel attribuisce un significato particolare:
 «Falso infinito» di Fichte → infinito inteso come processo senza termine e compimento: esso
non è mai totalità perché lascia nascere sempre qualcosa che è al di fuori di esso. La rap-
presentazione grafica è la retta che è prolungabile indefinitamente.
 Il «vero infinito» è invece una totalità → totalità infinita di tutti i finiti, la cui infinitezza deriva
proprio dal non lasciare fuori si sé nulla (non essere «de-finito» da nessun’altra cosa). La
rappresentazione grafica è il cerchio, «la linea che ha raggiunto sé stessa, conchiusa e tutta
presente, senza inizio né fine».
Il momento finito, quindi, non ha esistenza propria, ma è solo un momento dell’infinito. La realtà del
finito è solo ideale, mentre reale è solo la totalità infinita: l’unica vera realtà è l’Idea, la Ragione
assoluta che ricomprende in sé ogni determinazione finita della realtà.
«Logica dell’essenza» → «la verità dell’essere è l’essenza»: l’«essenza» è l’essere considerato
come oggetto della riflessione, del pensiero (non nella sua immediatezza come nella logica dell’es-
sere). Le articolazioni fondamentali sono tre, ma analizzeremo qui solo le categorie della prima se-
zione, corrispondenti a ciò che la logica tradizionale considerava «leggi universali del pensiero»:
a) L’essenza come appare in sé stessa, nella riflessione del pensiero → il termine «riflessione»
è positivo perché non si riferisce solo all’attività «astratta» dell’intelletto, ma esprime piuttosto
la funzione di «mediazione» esercitata dal pensiero in generale in opposizione all’«immedia-
tezza» del dato sensibile. Le tre determinazioni sono:
 «Identità» → ogni essenza viene riferita solo a sé, quindi è identica a sé stessa.
Il principio d’identità però, non essendo stato raggiunto dialetticamente, non è suffi-
ciente: esso si limita all’affermazione dell’immediatezza (A=A).
 «Differenza» → negazione dell’identità, che si manifesta, in ordine, come:
 «Diversità» → differenza immediata.
 «Opposizione» → differenza determinata da un oggetto che si oppone come
«altro».
 «Contraddizione» → gli opposti, se da un lato si negano essendo l’uno il con-
trario dell’altro, dall’altro si «pongono» vicendevolmente, poiché l’uno esiste
in quanto esiste l’altro.
Logica dell’opposizione → la contraddizione diventa condizione della determinabilità dell’og-
getto: a differenza della logica aristotelica, in cui uno dei termini contraddittori veniva elimi-
nato, in quella hegeliana l’elemento contraddittorio, essendo affermato in un opposto e ne-
gato nell’altro, lega i due e permette di cogliere la loro essenziale unità a un livello superiore.
La contraddizione non dev’essere rimossa ma, al contrario, riconosciuta come fondamento.
 «Fondamento» → la contraddizione viene risolta in una superiore unità.
b) L’essenza come si manifesta nell’esistenza → fenomeno.
c) La realtà effettiva come unità di essenza ed esistenza.
«Logica del concetto» → unione dell’«essere» (immediato) e dell’«essenza» (riflessa) che consente
l’intelligibilità dell’essere. Essa si divide in:
a) «Dottrina della soggettività» (o del concetto formale) → esame degli elementi in cui si articola
l’attività del soggetto pensante: il concetto, il giudizio, il sillogismo.
b) «Dottrina dell’oggettività» → esame dei diversi momenti dello sviluppo della natura: mecca-
nismo, chimismo, teleologia (ripresi nella «filosofia della natura»).
c) «Dottrina dell’idea» → «unità assoluta del concetto e dell’oggettività», ovvero realtà razionale
considerata nella sua totalità.

La «filosofia della natura»


Per oggettivarsi ed essere oggetto a sé stessa l’Idea deve uscire dall’«in sé» e diventare «altro»
rispetto al pensiero puro, esteriorizzandosi. L’«Idea nella forma dell’essere altro» è la natura che, al
contrario dell’Idea in sé, è particolarità, dispersione: la natura è caratterizzata dall’estrinsecità non
solo nel senso che è «altro» rispetto al pensiero puro, ma anche nel senso che essa stessa è di-
spersione di momenti particolari che non trovano un principio e una legge unitari.
Anche la natura obbedisce a uno schema dialettico: essa si presenta come un sistema gerarchico
di tre gradi in cui si rivela un progressivo passaggio dall’estrinsecità all’unitarietà con l’affermarsi
dell’elemento dell’individualità. La natura ha quindi una funzione sistemica: essa è il necessario mo-
mento di passaggio dal pensiero, che non ha un oggetto esterno a sé, all’autocoscienza dell’Assoluto
come unità sostanziale di soggetto e oggetto; tale passaggio può però avvenire solo attraverso la
negazione dell’Idea in sé, attraverso l’esperienza di ciò che è puro soggetto. I tre gradi sono:
a) «Meccanica» → momento dell’estrema particolarità.
→ l’unità della forma è imposta dal di fuori attraverso leggi astratte (movimento della materia)
e concetti astratti (spazio e tempo).
b) «Fisica» → con il passaggio dall’analisi quantitativa a quella qualitativa sorge l’individualità:
 «Individualità universale» → qualità fisiche degli elementi fondamentali.
 «Individualità particolare» → qualità fisiche considerate nei singoli oggetti (colore,
suono, peso specifico).
 «Individualità totale» → qualità fisiche considerate come espressioni particolari di
tutta la natura (struttura dei corpi, magnetismo, elettricità).
c) «Fisica organica» → emerge l’elemento dell’«individualità soggettiva» sorretta da un’unità
che presenta già caratteri ideali. I suoi tre momenti interni (natura geologica, natura vegetale,
natura animale) sono interpretati in chiave teleologica e vitalistica, così da essere finalizzati
gerarchicamente alla realizzazione dell’individualità soggettiva, che trova piena espressione
solo dove le parti animate diventano membra di un organismo animale unitario.
Hegel è molto polemico con le concezioni romantiche della natura, rispetto alle quali dissente su
due punti fondamentali:
 L’identificazione della natura con Dio o il riconoscimento di un carattere divino nella natura
→ significherebbe identificare la natura con la sostanza infinita, mentre per Hegel essa è
solo una «negazione» rispetto alla purezza dell’Idea in sé.
 La concezione di una natura convergente con lo spirito → spirito e natura si oppongono: lo
spirito può sorgere solo dove la natura viene negata e risolta in un momento interno all’Idea.
Come il romanticismo, invece, Hegel è ostile alla fisica newtoniana (e galileiana), che era fondata
sulla convergenza di due metodi che egli rifiuta e a cui oppone due altri metodi:
 Metodo empirico (connessione di dati sensibili) → metodo speculativo: definizione di ogni
aspetto particolare della realtà mediante il suo rapporto con il tutto.
 Metodo matematico (impone agli oggetti una razionalità astratta ed estrinseca) → metodo
dialettico: mostra la derivazione di un aspetto dall’altro in una reciproca relazione di opposi-
zione ed unità.
Inoltre, sia l’esperienza che la matematica hanno il comune difetto di accontentarsi del dato – sen-
sibile (esperienza) o intuitivo (matematica) – che assumono come punto di partenza: la filosofia
speculativa invece, col suo metodo dialettico, dà un fondamento assoluto a ogni aspetto della realtà,
riconducendolo attraverso successive mediazioni, alla totalità infinita autofondantesi.
La filosofia dello spirito
Dopo essersi estraniata nella natura, l’Idea può completare il circolo dialettico ritornando in sé
stessa arricchita dall’esperienza della negazione: l’Idea è «in sé e per sé» perché «spirito puro» e
«natura» sono uniti in una concreta realtà. L’Idea che ha questa consapevolezza è lo «spirito».
«Spirito soggettivo» → rappresenta la coscienza che lo spirito ha di sé in quanto singolo individuo
e culmina con la presa di coscienza della libertà dell’uomo.
Lo spirito soggettivo si articola in tre momenti:
a) «Anima» → principio vitale alla base dello sviluppo biologico dell’uomo: lo spirito è ancora
«naturale» perché le sue manifestazioni sono connesse con la natura da cui scaturiscono.
L’«antropologia» è la scienza che studia le manifestazioni dell’anima, ordinate in una scala
che va da quelle più vicine alla natura a quelle più vicine all’indipendenza dell’individuo:
 Manifestazioni vitali che l’uomo ha in comune con l’intero universo o la Terra.
 Ritmi naturali di vita dell’uomo (crescita, riproduzione, ciclo sonno-veglia come indizio
dell’emergere della coscienza).
 Tra le ultime determinazioni c’è l’analisi dell’abitudine → «seconda natura» con cui
l’uomo comincia a dominare il suo corpo tramite i meccanismi corporei stessi, in una
stretta unione tra libertà e necessità.
Hegel intende quindi l’anima come principio vitale in cui materia e pensiero sono strettamente
congiunti (non come principio spirituale da opporsi alla materialità corporea).
b) «Coscienza» → il processo di realizzazione della libertà individuale si manifesta nella pro-
gressiva consapevolezza dell’unità tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.
La «fenomenologia» è la scienza che si occupa delle sue articolazioni interne: a) coscienza
propriamente detta, b) autocoscienza e c) ragione. Vengono tralasciate le ultime due deter-
minazioni della Fenomenologia: lo spirito («spirito oggettivo») e il sapere assoluto («spirito
assoluto»). Il processo fenomenologico della Fenomenologia viene quindi ridimensionato
nell’Enciclopedia e appare ora come una parte specifica del sistema: nella determinazione
della realtà assoluta, nella quale ciascun aspetto particolare riceve la sua collocazione ri-
spetto al tutto, anche la coscienza, che è un punto di vista particolare finché non giunge alla
consapevolezza della propria identità con lo spirito, ha un luogo specificamente determinato.
c) «Spirito» → coscienza individuale consapevole dell’identità tra sé e il proprio oggetto.
La «psicologia» è la scienza che studia le tre determinazioni dello spirito:
 Spirito teoretico → momento della conoscenza (azione dell’oggetto sul soggetto).
 Spirito pratico → momento della volontà (azione del soggetto sull’oggetto).
 Spirito come volontà libera → pienamente consapevole, esso tende ad oggettivarsi
nel mondo esterno → passaggio allo «spirito oggettivo».
«Spirito oggettivo» → la libertà umana si «oggettiva» nella società e nella concretezza delle istitu-
zioni storicamente esistenti: infatti, viene trattato anche nei Lineamenti di filosofia del diritto e le
Lezioni sulla filosofia della storia. Nella Prefazione dei Lineamenti, Hegel afferma l’identità di razio-
nale e reale: con ciò non intende dire che tutto ciò che esiste è assolutamente razionale, bensì che
ciò che è intrinsecamente razionale non può non essere reale, poiché ragione e realtà sono la stessa
cosa. A queste realtà razionali appartengono le tre determinazioni dello spirito oggettivo:
a) «Diritto astratto» (istituzioni) → diritto naturale giusnaturalistico.
Nel diritto si realizza una forma di universalità astratta ed esteriori: il suo scopo è trovare,
mediante le astratte procedure dell’intelletto, un «sistema delle libertà individuali» che con-
senta a ogni individuo di oggettivare la propria volontà libera senza interferire con quelle degli
altri. L’individuo è considerato una «persona» giuridica, cioè un’entità astratta caratterizzata
dall’essere portatrice di diritti, dalla capacità esteriore di compiere atti giuridicamente validi:
possedere una «proprietà» e stipulare trattati.
b) «Moralità» (costumi) → l’universalità è completamente interiorizzata: l’individuo è conside-
rato nella dimensione interiore della «coscienza morale» e la forma più alta di moralità è la
legge del dovere, nella quale la coscienza si erge a legislatrice universale.
Proprio perché puramente interiore, la moralità si trova di fronte al contrasto tra il bene uni-
versale cui essa aspira e il benessere o la felicità particolari cui ogni uomo tende, ma soprat-
tutto porta al conflitto tra «essere» (razionalità oggettiva della realtà) e «dover essere» (ra-
zionalità ideale del comando morale. La moralità è inadeguata perché si esaurisce nell’inte-
riorità, senza mai conseguire una vera oggettivazione esterna.
c) «Eticità» → l’universale si manifesta come un ordine reale che esprime la vita di un popolo.
L’eticità ha due caratteri fondamentali:
 Concretezza → in essa si esprimono insieme l’interiorità dello spirito (intima raziona-
lità delle istituzioni) e l’esteriore oggettività con cui le istituzioni operano nella vita
sociale e politica di una comunità.
 Organicità → gli individui sono considerati come membri di un tutto di cui sono parti
indissolubili: l’individuo è un momento della vita stessa della comunità etica.
L’eticità si divide a sua volta in tre momenti distinti:
a) Famiglia → prima espressione di concreta società organica: in essa gli individui non
sono più atomi sociali, ma membri di uno stesso organismo. Pur avendo ancora un
fondamento naturale (unione sessuale e generazione fisica), la famiglia si spiritua-
lizza attraverso il matrimonio e l’educazione dei figli.
b) «Società civile» → concepita come «sistema dei bisogni» dei singoli individui, in cui i
bisogni concreti che spesso, nella loro particolarità, contrastano con quelli degli altri,
si possano trasformare in bisogni generali («astratti») che interessino l’intera società.
Per questo, nella società civile Hegel distingue tre «ceti» o «stati» complementari:
 «Stato sostanziale» → coltivazione della terra («sostanza» della vita econo-
mica del paese. Esso riunisce in un’unica finalità i grandi proprietari terrieri
(Junker) e i contadini che lavorano nei campi.
 «Stato industriale» → tutti coloro che elaborano materie prime (artigiani) o
provvedono alla diffusione delle merci (commercianti).
 «Stato generale» → funzionari dello Stato, dove l’interesse economico privato
coincide con il servizio prestato alla comunità.
Come gli economisti classici, Hegel condivide la netta distinzione tra «società poli-
tica», la comunità dei cittadini (citoyens) che operano per un fine generale e si iden-
tifica con lo Stato, e «società civile», cioè l’insieme degli individui privati (bourgeois)
che operano per i propri scopi particolari, primariamente i propri interessi economici,
che sono contrastanti tra loro: da qui l’esigenza di elaborare un sistema che, artificial-
mente, li renda compatibili tra loro. Il «sistema dei bisogni» è infatti un prodotto artifi-
ciale dell’intelletto, il quale non costruisce una vera totalità, ma solo un aggregato nel
quale le parti sono connesse esteriormente e forzosamente le une alle altre. La «so-
cietà civile», quindi, appare come uno «Stato esteriore», «di necessità e intellettuali-
stico» che deve risolversi nel vero Stato, il quale nasce spontaneamente dall’interno
della stessa eticità, come fondamento e coronamento della vita etica di un popolo.
c) «Stato» → «la realtà dell’idea etica», cioè la piena realizzazione dell’eticità: esso è la
più elementare manifestazione della ragione assoluta, colta nell’elemento immediato
dell’esistenza di un popolo e delle sue istituzioni. Sviluppo dialettico in tre momenti:
 «Costituzione dello Stato» → determina i tre poteri: legislativo, governativo e
potere sovrano. Quest’ultimo è la sintesi dei primi due perché compendia,
nella figura del monarca, individualità (è una persona singola) e universalità
(il sovrano rappresenta lo Stato).
→ Hegel si esprime a favore della monarchia costituzionale, fondata sul ri-
spetto della volontà popolare (componente oggettiva dello Stato) e non sull’ar-
bitrarietà del monarca (non è pura soggettività). I sudditi si fanno sentire at-
traverso l’attività legislativa delle due camere: la prima, riservata al ceto agra-
rio, è espressione delle componenti politiche più conservatrici e ha il compito
di garantire la continuità col passato; la seconda, rappresentante delle corpo-
razioni (ceto artigianale-manifatturiero), è portavoce delle forze più innovatrici
e progressistiche.
 «Diritto statale interno» → insieme dei rapporti che connettono e contrappon-
gono gli Stati. Avendo consapevolezza di sé come massima espressione
dell’eticità, nella quale si manifesta l’essenza stessa dell’Assoluto, ogni Stato
non riconosce al di sopra di sé alcuna autorità superiore → in caso di diver-
genza, la guerra è il solo modo per determinare il diritto dell’uno sull’altro.
 «Storia universale» → posizione intermedia tra spirito oggettivo e spirito as-
soluto perché in essa gli Stati (massima espressione dello spirito oggettivo) si
rivelano anche come manifestazioni storiche della ragione assoluta.
→ Lo spirito universale, colto nella sua purezza nei diversi momenti della filosofia dello spirito asso-
luto, può rivelarsi anche in maniera più immediata nello «spirito di un popolo» (Volkgeist), cioè l’in-
sieme di manifestazioni etiche e istituzionali (costumi, diritto, religione, costituzione politica) di un
popolo. Determinandosi esteriormente nella storia (dimensione spazio-temporale), lo spirito univer-
sale prende il nome di «spirito del mondo», che può essere espresso più o meno adeguatamente
da ciascun popolo a seconda della sua maturità etica: in ogni fase del processo storico, quindi, c’è
un popolo il cui spirito rappresenta meglio lo spirito del mondo in quel momento e, grazie alla sua
superiorità rispetto agli altri popoli, imporrà loro la sua forza, il suo diritto e la sua cultura. Quando,
a causa dell’inarrestabile sviluppo dello spirito del mondo, esso non sarà più in grado di rappresen-
tare la nuova e più elevata autocoscienza spirituale che sta emergendo, questa funzione passerà a
un altro popolo: così, anche i popoli dominanti appaiono strumenti della manifestazione dello spirito
del mondo e vengono abbandonati al loro destino quando hanno assolto la loro funzione → l’indivi-
dualità obbedisce a un’«astuzia della ragione» universale, della quale persegue i disegni anche
quando crede di agire in vista dei fini particolari. Hegel individua così quattro fasi fondamentali del
processo storico, quattro «mondi» storici («mondo»: dimensione esteriore in cui si sviluppa la storia)
connessi dal significato unitario del processo storico, nel quale si manifesta il carattere essenziale
dello spirito, cioè la libertà:
a) «Mondo orientale» → lo spirito non è ancora giunto alla coscienza della propria libertà e gli
uomini non sanno di essere liberi. Solo uno, il sovrano, è liberto, ma anch’egli, esercitando
una libertà solo arbitraria e dispotica, non è libero come uomo.
b) «Mondo greco» e «mondo romano» → sorge progressivamente la coscienza della libertà:
alcuni sono liberi, altri sono schiavi.
c) «Mondo cristiano-germanico» → la coscienza della libertà dell’uomo in quanto tale si realizza
pienamente con il cristianesimo, abbracciato e diffuso dalle nazioni germaniche: esso mostra
il valore assoluto dell’umanità attraverso il dogma dell’incarnazione. La progressiva realizza-
zione di questa consapevolezza è la struttura portante della storia europea dall’avvento del
cristianesimo; tuttavia, ciò non significa ancora che tutti gli uomini sono liberi.
«Spirito assoluto» → lo spirito acquista consapevolezza di sé come totalità della realtà razionale.
Lo spirito universale diventa «spirito assoluto», cioè ragione infinita, dopo essere passato attra-
verso le sue determinazioni finite e averle conosciute come tali: esso non si contrappone al finito
come qualcosa che lo trascende, ma è lo stesso finito che si comprende come totalità dei finiti.
Lo spirito assoluto si articola in tre momenti, il cui oggetto è sempre lo stesso: l’Assoluto, l’infinito.
Ciascuno però lo coglie in maniera più o meno adeguata ad esprimerlo: sulla base di questa mag-
giore o minore adeguatezza della forma espressiva si sviluppa il loro ordine di successione.
a) «Arte» → l’Assoluto è colto in forma immediata attraverso l’«intuizione sensibile».
Nell’arte una determinata realtà sensibile si configura in maniera tale da lasciare trasparire
l’Idea assoluta. Non tutte le intuizioni sensibili tuttavia sono ugualmente adeguate ad espri-
mere l’Idea → processo di sviluppo con cui si raggiunge sempre maggiore consapevolezza:
 «Arte simbolica» orientale → forma espressiva caratteristica è l’architettura. Lo spirito
non ha ancora una conoscenza adeguata dell’Idea: ciò si riflette nella forma sensibile.
 «Arte classica» → forma espressiva caratteristica è la scultura. Attraverso la raffigu-
razione artistica del corpo umano e della sua perfezione si realizza il pieno equilibrio
tra forma sensibile e contenuto spirituale → Hegel aderisce al neoclassicismo.
 «Arte cristiano-romantica» → come nella prima c’è uno squilibrio tra forma e conte-
nuto, ma ciò avviene perché si è consapevoli che l’infinità del contenuto (spirito) non
può essere adeguatamente espressa nella finitezza della forma sensibile. Per questo,
l’arte romantica trascura le forme artistiche dove l’elemento sensibile è più forte e si
concentra su quelle in cui esso diventa sempre più tenue:
 Pittura → si perde il fattore della corporeità e rimane solo il colore.
 Musica → si perde la dimensione figurativa e rimane solo il suono.
 Poesia → il suono assume forma meramente spirituale tramite la parola.
→ con l’arte cristiano-romantica lo spirito raggiunge la consapevolezza che l’arte non
può esprimere adeguatamente l’Assoluto.
b) «Religione» → l’Assoluto viene colto sotto forma di «rappresentazione intellettuale».
La rappresentazione è una forma di conoscenza riflessa: l’Assoluto, che è per definizione
«pensiero che pensa sé stesso», viene cercato nell’elemento della riflessione. Ma in quanto
conoscenza riflessa, la rappresentazione è ancora limitata, finita, perché è rappresentazione
di qualcosa di determinato, che si distingue e si oppone all’altro da sé. Nella religione, quindi,
l’uomo conosce l’Assoluto nella sua vera natura di spirito (mentre nell’arte si alludeva solo a
ciò), ma non giunge a cogliere tale spirito nella sua unità organica, perché lo fraziona ancora
in una molteplicità di rappresentazioni (Dio è ancora concepito come Padre, Figlio e Spirito
Santo: il concetto unitario di Trinità è diviso in tre persone che rappresentano aspetti diversi).
c) «Filosofia» → la filosofia supera anche la religione perché non opera più attraverso determi-
nazioni finire e distinte, bensì attraverso il «concetto razionale»: così l’uomo diventa consa-
pevole dell’assoluta unità del reale, conoscendo anche l’articolazione dialettica nella quale
la totalità unitaria si organizza. La filosofia è quindi lo spirito assoluto stesso che, tramite
l’autocoscienza umana, pensa sé stesso e giunge alla consapevolezza di sé. Lo spirito è
essenzialmente sviluppo: l’autoconsapevolezza dello spirito coincide con la consapevolezza
della sua storia.
→ Hegel sostiene la perfetta identità di filosofia e storia della filosofia: le diverse filosofie che si
sono storicamente succedute sono «apparizioni» nel mondo fenomenico di una specifica deter-
minazione dello spirito, cioè del grado di consapevolezza cui lo spirito assoluto perviene nei
singoli momenti storici → aspetto sistematico e storico sono due facce della stessa medaglia.
La filosofia hegeliana quindi, che si pone all’apice dello sviluppo storico del pensiero occidentale,
è da considerarsi come l’ultima e definitiva sistemazione della filosofia o è anch’essa solo un mo-
mento di un processo evolutivo che prosegue il suo cammino? È un «sistema chiuso» che rispecchia
la comprensione definitiva della totalità del reale o è un «sistema aperto», nel quale la totalità del
reale e razionale che nel momento in cui Hegel scrive si presenta come definitiva apparirà provviso-
ria alla luce di una nuova razionalità divenuta reale? La spaccatura tra destra e sinistra hegeliana
nascerà all’interno di questo quadro e continua nella critica contemporanea, perché entrambe le
alternative trovano nel testo hegeliano argomenti per una loro difesa.
LA FILOSOFIA TRA RESTAURAZIONE E RIVOLUZIONI IN FRANCIA E IN ITALIA

Ideologi e spiritualisti: la sensazione e la coscienza


Nel 1803 Napoleone chiude la classe di scienze morali e politiche dell’Institut de France, della quale
facevano parte quelli che definiva spregiativamente «ideologi», i sostenitori di idee astratte: in realtà
si trattava di giuristi, medici, tecnici legati alla cultura illuministica, della quale perseguivano gli ideali
miranti a una politica di riforme laica e antiautoritaria. Tratto saliente delle loro indagini è l’analisi dei
fenomeni sensoriali e mentali e dei loro condizionamenti fisiologici.
Destutt de Tracy (1754-1836) → Elementi di ideologia (1801-1815).
Esponente più rappresentativo degli ideologi, per de Tracy «ideologia» significa «scienza dell’ori-
gine e dello sviluppo delle idee», a cui affianca la «grammatica» (scienza dei segni, l’espressione
delle idee) e la logica (scienza della combinazione di idee). Il suo punto di partenza è che non esi-
stono idee innate, bensì che tutte le idee si formano a partire dalla sensazione (Condillac): tutte le
facoltà umane sono quindi riconducibili a forme di sensibilità, non ad una presunta sostanza-anima.
 Sentire e ricordare → impressioni prodotte da oggetti presenti e passati.
 Giudicare → impressioni prodotte da oggetti correlati tra loro e confrontabili.
 Desiderare e volere → quando si sente la necessità di soddisfare le impressioni.
La sensazione da cui si forma l’idea del mondo esterno è la percezione del movimento che, met-
tendoci di fronte ostacoli, ci fa rendere conto dell’esistenza di qualcosa di esterno. Etica e politica
sono «ideologia» applicata perché studiano il modo in cui i sentimenti morali e sociali si formano a
partire dalle impressioni sensibili.
Pierre-Jean-George Cabanis (1757-1806) → Cabanis studiò le connessioni del sentire col cervello
e il sistema nervoso: il «sentire» è caratterizzato da un momento passivo (ricettivo), quando la cor-
rente nervosa procede dagli organi al cervello, e da un momento reattivo, quando la corrente pro-
cede in senso inverso e produce una risposta all’impressione esterna. Ma anche le impressioni in-
terne inconsce producono idee e istinti – Condillac invece le distingueva dalle sensazioni.
Maine de Biran (1766-1824) → grande influenza di Epitteto e Marco Aurelio (stoici), dai quali impara
che volere e potere, e di Pascal, dal quale apprende l’esistenza di uno scarto tra questo ideale e la
realtà: obiettivo di Biran è fondare una «fisica sperimentale dell’anima» con cui portare il volere al
livello del nostro potere e colmare lo scarto tra il volere e la sua realizzazione.
Biran analizza l’abitudine e rileva che essa produce effetti diversi sulle nostre facoltà: a causa della
ripetizione alcune si attenuano (piacere e dolore), mentre altre si perfezionano (gesti e operazioni
volontarie). Ciò significa che esistono abitudini passive e attive, e che queste ultime non possono
essere spiegate solo in base alla sensazione, che è passiva. C’è quindi una discontinuità tra sentire
e «sentire che io sento», cioè la coscienza: l’io è attivo, non si limita alla semplice sensazione, bensì
agisce attraverso lo «sforzo motore volontario», un atto in cui è cosciente di prendere l’iniziativa –
allo sforzo volontario è inerente la dualità tra una resistenza (muscolo) e una forza (l’io che prende
l’iniziativa di muovere il muscolo. Tale io volontario e cosciente non è corporeo ed è dato solo in
connessione al corpo su cui agisce, ma quando si astrae dal flusso di sensazioni in cui si trova
immerso, esso può riflettersi come soggetto libero dotato di attributi e percepirsi come causa, forza,
identico a sé stesso: nascono da qui le nozioni alla base della conoscenza (identità, unità, causalità).
La logica e le sue categorie sono quindi ridotte alla psicologia e l’intera vita psichica viene derivata
dalla coscienza. L’io però si configura anche come «senso intimo», cioè come rivelazione dei principi
e delle verità fondamentali, ad esempio l’esistenza di un essere ordinatore di tutte le cose.
Nei Nuovi saggi di antropologia e della scienza dell’uomo interiore (1823-24), Biran distingue tre
tipi di vita: a) vita organica o animale (puramente passiva); b) vita cosciente propriamente umana,
fondata sullo sforzo volontario, e quella dell’esprit, consistente in stati privilegiati passivi (ispirazione,
rivelazione) ma spiegabili in base a un’influenza spirituale di origine soprannaturale; c) vita religiosa,
fondata sulla rivelazione interiore, meditazione e preghiera, attraverso la quale l’uomo entra in rap-
porto con Dio. Dalle riflessioni sull’io e sulla coscienza, Biran perviene quindi a un esito religioso.
Victor Cousin (1792-1867) → insegnante alla Sorbona e amico personale di Hegel, dopo la Rivolu-
zione di Luglio (1830) divenne filosofo ufficiale della monarchia di Luigi Filippo e fu nominato consi-
gliere di Stato, direttore dell’École normale e ministro dell’Istruzione (1840): a lui si deve l’introdu-
zione dell’insegnamento di filosofia nei licei.
Nel Del vero, del bello e del bene sostiene che la cultura illuministica, la cui espressione filosofica
è il sensismo, è andata troppo oltre nella sua opera di analisi e dissoluzione: bisogna ora ricostruire
una teoria unendo gli elementi positivi dei principali sistemi filosofici (sensismo, idealismo, scettici-
smo e misticismo), ognuno dei quali contiene elementi di verità. Questa posizione è definita ecletti-
smo, ma nella sostanza è una forma di spiritualismo: essa è caratterizzata dall’introspezione e dal
ripiegamento nella coscienza, considerata la vera via d’accesso alle verità immutabili di spiritualità,
libertà e immortalità dell’anima ed esistenza di Dio, che è fondamento del vero, del bene e del bello.

Filosofia politica: la restaurazione della tradizione.


Tratto comune delle riflessioni dei pensatori più conservatori è pensare alla Rivoluzione come l’esito
disastroso dell’esaltazione illuministica della ragione, dei diritti dell’individuo e dell’uguaglianza: bi-
sogna quindi ripristinare i valori religiosi e politici della tradizione.
Edmund Burke (1729-1797) → Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790).
Burke critica la Rivoluzione perché intendeva costruire la società su basi nuove puramente razio-
nali, senza tenere conto delle tradizioni storiche delle società: la storia della società procede invece
per sviluppi interni e non attraverso fratture radicali, quindi era meglio un ordine politico imperfetto.
Louis de Bonald (1754-1840) → inizialmente favorevole alla rivoluzione, dopo il 1815 fu eletto de-
putato della destra ultra e iniziò a scrivere su giornali conservatori.
Teoria del potere politico e religioso (1795) → Bonald critica la pretesa dell’uomo di ergersi a legi-
slatore della società perché è la società a costituire l’uomo e non viceversa. Lo scopo della società
è di conservare ciò che è stato prodotto, e ciò può essere garantito solo da una monarchia, nella
quale il potere è concentrato. La Rivoluzione è considerata come una malattia perché ha frantumato
il potere unitario attribuendolo a una molteplicità di individui, ma ha avuto la funzione di provare
l’esistenza di Dio perché ha mostrato gli esiti disastrosi dell’eliminazione della religione dalla società.
Legislazione primitiva (1802) → Bonald rifiuta il contrattualismo e afferma che ogni società forma
una sorta di trinità composta da tre persone sociali: potere, ministro e soggetto. Il potere originario
risiede solo in Dio, quindi sua caratteristica è l’unità, mentre sono molteplici i ministri che eseguono
la volontà del potere. Così, nella società domestica ci sono padre (potere), madre (ministro) e figli
(soggetto); in quella religiosa Dio, i sacerdoti e i fedeli; in quella politica re, nobili o funzionari e sudditi
o popoli. La prova dell’esistenza di Dio è il linguaggio umano perché l’uomo lo trova già costituito
prima di formulare il suo pensiero: per spiegarne l’esistenza bisogna quindi risalire a un essere di-
verso dall’uomo, cioè Dio. Nel pensiero di ogni uomo è originariamente presente solo l’«idea dell’es-
sere» (idea di Dio), che sta a fondamento di ogni altra idea ma che non può essere stata creata
dall’uomo. Dio comunica agli uomini mediante la parola, che suscita nella loro mente le idee innate
che egli stesso vi ha posto: così, la legge si configura come la volontà di Dio espressa in linguaggio
umano per essere intesa da tutti (Sacre Scritture). Poiché non è la ragione umana a creare le idee,
è assurda la pretesa illuministica di elevare l’uomo a legislatore della società. Dopo il disordine pro-
dotto dalla Rivoluzione si tornerà allo stato naturale della società, cioè ad applicare le leggi tra-
smesse da Dio attraverso la società stessa: il cattolicesimo è quindi necessario per la società.
Joseph-Marie de Maistre (1753-1821) → le vicende della rivoluzione sono la conferma dell’azione
della provvidenza: esse sono sia il giusto castigo per una nobiltà e un clero corrotti, sia la dimostra-
zione che la provvidenza si avvale degli uomini per realizzare i propri fini: il XVIII secolo aveva infatti
rappresentato una rivolta contro Dio, e Dio punì gli uomini ritirandosi dalla storia.
Secondo Maistre l’uomo è segnato dalla colpa del peccato originale: il vero male, quello morale, è
imputabile solo all’uomo, che usa la sua libertà in modo errato, cioè pretendendo la libertà assoluta.
Solo il «sacrificio» può espiare le colpe dell’umanità: quello di Cristo, ma anche quello degli uomini
innocenti che assumono su sé stessi le colpe e soffrono anche per i colpevoli. Anche Maistre critica
il contrattualismo e la pretesa illuministica di creare una società ex novo fondata solo sulla ragione
umana: la «costituzione politica» non può essere opera dell’uomo e assumere artificiosamente una
codificazione scritta perché propriamente l’uomo non può creare nulla. Essa è invece il modo di
esistere che Dio assegna a ciascuna nazione: la sovranità non può risiedere nel popolo, ma solo in
un potere unico e assoluto rappresentato dalla monarchia assoluta ed ereditaria (per garantire la
perpetuazione del potere). Nello scritto Sul Papa (1819), Maistre accentua la dimensione teocratica
del suo pensiero, sostenendo la necessità di ripristinare il primato e la funzione universale che il
papato aveva nel Medioevo in quanto unico potere, superiore e infallibile, capace di impedire alle
monarchie di degenerare in tirannidi.
Lamennais (1782-1854) → Saggio sull’indifferenza in materia di religione.
L’indifferenza religiosa è peggio dell’ateismo perché non è una dottrina, ma solo una rinuncia vo-
lontaria e irrisoria a ogni dottrina; inoltre, essa genera il «mostro» della tolleranza. L’unico mezzo
per conoscere con certezza la verità è il senso comune che distingue bene e male, in quanto fondato
sul consenso universale: anche per Lamennais l’errore della democrazia è la pretesa di conferire
autorità alla ragione individuale. Tutti gli uomini hanno il sentimento interiore di Dio, la verità suprema
alla base di tutte le altre, che non può essere negata altrimenti verrebbero distrutti la società e lo
stesso genere umano. La Chiesa, universale e infallibile, ha il compito di perfezionare le credenze
originarie del genere umano. Progressivamente, Lamennais si allontana da queste posizioni e pone
le basi del cattolicesimo liberale, il cui organo principale fu il giornale «L’Avvenire», da lui fondato
nel 1830. Egli teorizzò il legame necessario tra Dio e la libertà e la separazione tra Stato e Chiesa;
difese la libertà di coscienza, di stampa e di associazione e propugnò l’estensione del diritto di voto.
Condannato dal Papa il cattolicesimo liberale (1832), Lamennais orientò il suo pensiero in direzione
democratica e socialista sostenendo il suffragio universale e individuando nella solidarietà e nella
fratellanza umana il mezzo per eliminare la miseria e la sofferenza dei ceti inferiori della società.

Filosofia politica: liberalismo, libertà e democrazia.


Alcuni pensatori considerarono la Rivoluzione un punto oltre il quale non si poteva tornare indietro,
pur rifiutandone gli esiti estremi – il Terrore – e lo sviluppo autoritario impresso da Napoleone.
Benjamin Constant (1767-1830) → Constant fu un personaggio di spicco e uno dei più influenti
teorici della tradizione liberale. Svizzero di Losanna, egli era vicinissimo a Madame de Staël, figlia
di Necker – ministro delle finanze di Luigi XVI. Fu membro del Tribunato (1799), istituzione con il
compito di preparare le leggi che venivano poi promulgate dal potere legislativo, da dove condusse
una politica ostile a Napoleone, e quando l’organo fu sciolto (1802), Constant andò in esilio in tutta
Europa, entrando in contatto con i grandi protagonisti della cultura tedesca: uno dei risultati fu l’opera
Sulla Germania di Madame de Staël, in cui sono esaltati Goethe, Schiller e le acquisizioni della
cultura tedesca, presentate come un modello di equilibrio armonico tra ragione e sentimento – in
Francia fu considerata il manifesto del romanticismo. Tornato a Parigi dopo la sconfitta di Napoleone
(1814), durante i 100 giorni accettò di collaborare con Napoleone stesso, vedendo in lui la possibilità
di riformare l’impero in senso liberale ed elaborando un progetto di costituzione liberale sul modello
inglese. Dopo la caduta definitiva di Napoleone e l’avvento di Luigi XVIII andò in esilio, ma nel 1817
tornò nuovamente a Parigi e diventò deputato al Parlamento (1819), esercitando una sistematica
opposizione sia ai reazionari che ai democratici. Dopo la Rivoluzione di Luglio (1830) fu nominato
da Luigi Filippo presidente del Consiglio di Stato, ma morì poco dopo.
Al centro del pensiero di Constant c’è il problema della libertà e dei suoi rapporti con il potere,
analizzato approfonditamente ne La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819).
Secondo Constant c’è una netta frattura tra il modo in cui gli antichi concepivano libertà e democrazia
e il modo in cui potevano concepirla i suoi contemporanei, in particolare il direttismo di Rousseau e
l’esperienza del giacobinismo. Contro di essi, Constant sosteneva due tesi: a) che non era possibile
trapiantare il modello della democrazia e della libertà degli antichi nel mondo moderno e b) che,
qualora si tentasse di farlo, da esso deriverebbero il dispotismo e il potere arbitrario.
Constant distingue due tipi di libertà: quella delle antiche democrazie dirette, nelle quali il potere
era nelle mani di tutti i cittadini che partecipavano alla vita politica (libertà del citoyen) e quella della
società moderna, nella quale gli individui tendono a in primo luogo a realizzarsi nella sfera privata
perseguendo i propri interessi personali (libertà del bourgeois). Nello specifico, Constant individua
quattro differenze principali tra il mondo antico e quello moderno:
a) L’uomo antico realizzava sé stesso nella partecipazione alla vita pubblica: in quanto cittadino,
egli era partecipe dei destini della propria comunità. L’uomo moderno si realizza invece nella
sfera privata, perseguendo i propri interessi personali e disinteressandosi della sfera pub-
blica fin quando non viene toccato direttamente: egli è quindi politicamente apatico.
→ se si accetta questa prima idea fondamentale, bisogna eliminare l’idea direttistica che tutti i
cittadini vogliano decidere sulle cose pubbliche: uno dei principali ostacoli alla democrazia diretta
nelle grandi entità politiche è proprio il disinteresse delle persone.
b) I cittadini antichi di pieno diritto potevano dedicarsi interamente alla politica grazie alla
schiavitù, mentre i moderni lavorano e, quindi, anche se fossero pervasi dallo spirito pubblico,
non potrebbero materialmente dedicarsi a tempo pieno alla politica.
→ altra critica al direttismo: la politica è un’attività che può essere svolta in maniera adeguata
solo come professione primaria, ma questo, nel mondo di Constant, non era possibile.
c) Le differenti dimensioni delle comunità politiche antiche da quelle moderne → la democrazia
diretta antica riuniva in agorà poco più di un centinaio di persone per discutere le questioni
politiche, permettendo a ognuno di prendere la parola; le comunità politiche contemporanee,
invece, riunivano milioni di persone.
Questi tre elementi assieme rendevano impossibile realizzare il modello politico degli antichi. Ciò
non significa però rinunciare alla libertà politica e puntare solo all’utile e alla libertà individuale, bensì
cercare di conferire una forma diversa alla libertà politica:
d) Essendo impossibile la partecipazione diretta è necessario introdurre la rappresentanza, che
risolve i tre problemi indicati prima: i politici, stipendiati, possono occuparsi a tempo pieno
della politica e prendere decisioni in un luogo circoscritto e controllato.
Il diritto di voto però, cruciale nel definire chi legittima le istituzioni politiche rappresentative, doveva
essere garantito su una base censitaria molto ristretta, cioè limitato ai ceti abbienti e colti. Due erano
gli argomenti utilizzati per giustificare questa presa di posizione:
 Cassa comune → solo coloro che, attraverso le tasse, mettevano a disposizione dello Stato
delle risorse finanziarie dovevano avere il diritto e il privilegio di decidere come quelle risorse
venissero utilizzate.
 Formazione culturale → i meno abbienti hanno meno risorse culturali per essere depositari
di un diritto così importante: essi rischiano di farsi conquistare dal demagogo, il quale, proprio
perché può governare in nome del popolo, tende a concentrare in sé poteri enormi.
Per evitare la degenerazione del potere esecutivo in tirannide e garantire libertà e diritti individuali,
Constant ritiene necessario introdurre alcune salvaguardie istituzionali: libertà di pensiero e stampa,
economica e religiosa; proprietà privata; separazione funzionale dei poteri. Il potere, in questa pro-
spettiva, è concepito come una garanzia per la libertà e i diritti di tutti («potere neutro»): per questo
motivo era necessario evitare un’eccessiva concentrazione di poteri. Questo potere neutro è la mo-
narchia, legittimata dal diritto dinastico e non dalla sovranità popolare: non derivando il suo potere
da popolo, il sovrano ha le risorse per garantire l’equilibrio e il funzionamento del sistema politico.
Alexis de Tocqueville (1805-1859) → rampollo di una grande e potente famiglia aristocratica nor-
manna, filo-borbonica e legittimista, dopo la Rivoluzione di Luglio (1830) Tocqueville si schierò dalla
parte di Luigi Filippo, causando una rottura con la sua famiglia e la sua cerchia sociale: ciò lo portò
a intraprendere, quasi in esilio volontario, un viaggio in America (1831-1832) con l’amico Gustave
de Beaumont. Il risultato del viaggio fu La democrazia in America, capolavoro di Tocqueville pubbli-
cato in due edizioni (1835-1840) diverse tra loro: la prima edizione ha un carattere più descrittivo e
positivo della politica e della società moderna, mentre la seconda ha un carattere più filosofico e
fortemente pessimistico – tutte le società sono proiettate verso un destino illiberale. Al rientro in
Francia, Tocqueville fu nominato Accademico di Francia e iniziò un’intensa carriera politica: eletto
deputato nel 1839, inizialmente collaborò con Luigi Napoleone anche se gli era ostile – ma appre-
sentava un’alternativa al socialismo – e fu nominato suo ministro degli Esteri, ma dopo il colpo di
Stato (1851) prese le distanze e si ritirò a vita privata. In questo periodo scrisse una seconda opera
monumentale, rimasta incompiuta, L’antico regime e la Rivoluzione.
Il punto di partenza della riflessione di Tocqueville è l’accettazione del fatto che il destino di ogni
società è la democrazia, intesa prima di tutto come assetto sociale, e solo conseguentemente come
forma di governo. Tale processo non può essere fermato, ma solo governato razionalmente: per
questo motivo, egli intende descrivere come funzionano le società democratiche e come in esse sia
possibile preservare la libertà degli individui. Il processo di democratizzazione non è iniziato con la
Rivoluzione: essa è stata solo un’accelerazione di un processo di livellamento sociale già avviato.
Tocqueville intende la democrazia come un assetto sociale caratterizzato dall’eguaglianza delle
opportunità, cioè da una forte mobilità sociale in cui tutti gli uomini, seppur partendo da punti diversi,
hanno la possibilità di realizzarsi. Tuttavia, nelle società democratiche la libertà individuale è forte-
mente a rischio perché il loro ideale è il conformismo, e chi vuole sottrarsi ed emergere viene emar-
ginato: così, la marcia verso la democrazia conduce anche all’illibertà. Tocqueville studiò l’America
perché la società americana incarnava nella maniera più compiuta i caratteri della società democra-
tica: in essa, egli vedeva tutte le potenzialità della democrazia, nei suoi dati positivi e, soprattutto, in
quelli negativi, in particolare il rischio di una degenerazione in tirannide. Se la democrazia è sia un
assetto sociale che una forma di governo, il rischio di degenerazione è attivo su entrambi i piani:
 Piano politico («tirannide della maggioranza») → due fattori disturbanti:
a) Tirannia degli elettori sugli eletti → i deputati sono condizionati dalla volontà degli
elettori, mentre dovrebbero essere indipendenti.
b) Onnipotenza delle maggioranze → le maggioranze che vincono le elezioni possono
ridurre all’impotenza le minoranze: occorre tutelarle per limitare la maggioranza.
 Piano sociale («dispotismo democratico»). Tre meccanismi agiscono contemporaneamente,
conducendo la società alla mediocrità:
a) Conformismo → il conformismo abbassa la media sociale, uniformando gli uomini
verso la mediocrità ed emarginando chi vuole distinguersi dalla massa: viene così
oppressa la libertà di perseguire interessi, ideali e inclinazioni individuali.
b) Individualismo → conformandosi, l’uomo subisce anche una spinta all’individualismo:
egli diventa un atomo che, al di là di una piccolissima cerchia di persone, si chiude in
sé stesso e rifiuta legami sociali con altri uomini.
c) Egoismo → l’individuo, solo e isolato, è anche egoista perché orientato ai piccoli beni
e piaceri materiali.
Questo tipo di società, composta da individui così definiti, era esposta al rischio del dispotismo,
cioè ad essere governata da un «potere immenso e tutelare» in grado di assicurare i bisogni ele-
mentari del gregge, costantemente in cerca del suo pastore: un «dispotismo mite» che può eserci-
tare un potere assoluto, dirigendo e regolando qualsiasi attività dei sudditi, perché non incontra la
resistenza degli individui, atomi isolati che non hanno legami reciproci.
La tendenza verso questo tipo di società era inevitabile, ma per Tocqueville poteva essere conte-
nuta. A questa idea arrivò analizzando proprio gli Stati Uniti, dove vedeva operanti alcuni rimedi che
fungevano da «anticorpi» per l’illibertà.
 Piano politico → tre rimedi:
a) Costituzione → legge fondamentale al di sopra di quella ordinaria, modificabile solo da
un’elevata maggioranza – e non dalle modifiche ordinarie del Parlamento.
b) Federalismo → il potere di legiferare dev’essere esercitato da diversi livelli di potere.
c) Separazione funzionale dei poteri → esecutivo, legislativo, giudiziario.
 Piano sociale → obiettivo di combattere l’atomismo sociale, rendere l’uomo consapevole di
sé stesso e tutelare le minoranze in modo da produrre dei contrappesi al potere dispotico:
a) Associazionismo → per uscire dall’individualismo l’uomo deve associarsi con gli altri
individui, permettendogli di uscire dalla dimensione fortemente privata in cui vive.
b) Libertà di stampa finalizzata allo sviluppo di un’opinione pubblica indipendente.
c) Giurie popolari → il ceto dei giuristi, in una società di uomini mediocri, rappresenta
un’«aristocrazia del sapere»: partecipando ai processi, il cittadino comune matura la
consapevolezza della complessità di ogni fatto sociale.
Le nazioni europee, ancora sottoposte a forme centralizzate di Stato, sono quindi destinate alla
democrazia – ciò è dimostrato dal fatto che sono spesso in preda a rivoluzioni, una forma estrema
di democrazia – ma non hanno istituzioni politiche e religiose adatte a farle da contrappeso: il riferi-
mento al modello americano, anche se esso non può essere adottato meccanicamente in quanto è
frutto della particolare storia degli Stati Uniti, è quindi utile perché è un termine di paragone con il
quale pensare, progettare e costruire l’avvenire politico e sociale dell’Europa.

Filosofia politica: socialismo utopico e riorganizzazione della società.


Alcuni pensatori considerarono necessaria, dopo la rottura del vecchio ordine prodotta dalla Rivo-
luzione, un’organizzazione nuova della società: è il cosiddetto socialismo utopico. Questi autori non
si consideravano tali ma operavano per realizzare le proprie idee, e se utilizzano il modello letterario
dell’utopia, è solo per raggiungere più facilmente i ceti meno colti. Ci sono però differenze sui mezzi
da utilizzare per raggiungere questa nuova società.
Conquista del potere politico → François-Noël Babeuf (1760-1797).
La rivoluzione doveva essere perseguita sul piano economico e sociale, attuando una riforma agra-
ria su basi egalitarie. Per farlo, era necessario detenere il potere politico: egli fondò la «Società degli
uguali» e cercò di organizzare un moto rivoluzionario, ma fu arrestato e condannato a morte.
Appoggio dell’opinione pubblica → presupposto comune è che la società ha il primato rispetto all’in-
dividuo e allo Stato: quest’ultimo deve solo garantire la sicurezza e l’ordine pubblico. La questione
fondamentale da risolvere è quale sia il modo migliore di organizzare la società per eliminare il male
sociale più vistoso: la miseria crescente delle classi popolari.
Sismonde de Sismondi (1773-1842) → le crisi economiche dipendono dalla sovrapproduzione e dal
sottoconsumo dei ceti operai: è necessario innalzarne il tenore di vita tramite una legislazione che
riduca l’orario di lavoro, che vieti il lavoro a donne e bambini e che favorisca le organizzazioni di
mutua assistenza. Egli era contrario allo sviluppo della grande industria e guardava con nostalgia al
modello dei comuni medievali, fondati sulla piccola proprietà terriera e sull’artigianato.
Saint-Simon (1760-1825) → dopo aver partecipato alla Rivoluzione e aver dissipato i propri beni
viaggiando per l’Europa, Saint-Simon iniziò a scrivere i suoi progetti di riorganizzazione della società:
presentò un progetto di governo dell’umanità affidato a scienziati liberamente eletti e sostenne la
necessità di una nuova Enciclopedia, da porre alla base della nuova società fondata sull’industria.
La Rivoluzione francese, che ha rappresentato un’epoca critica, ha causato la dissoluzione della
precedente epoca organica, fondata sul sapere teologico e organizzato su basi feudali: la crisi che
ha generato è però positiva perché ha preparato la costituzione di una nuova epoca organica, fon-
data su un corpo sistematico di credenze diverso da quelle religiose dell’ancien règime. Il nucleo per
riorganizzare la società dev’essere la scienza perché la società moderna è caratterizzata dall’indu-
stria, nata dal progresso scientifico e dalle sue applicazioni tecniche. Nella nuova epoca industriale,
il cui scopo sono le attività produttive, la posizione centrale che, nella vecchia società, era occupata
dalla nobiltà feudale, è assunta dalle nuove classi produttive; il potere temporale è detenuto dalla
nuova classe degli industriali che, essendo in grado di dirigere la produzione ed essendo i legittimi
rappresentanti degli interessi delle classi produttrici, sono legittimati a detenerlo dal consenso; il
potere spirituale è detenuto dagli scienziati, costruttori e portatori del nuovo sistema di credenze. La
scienza, che per sua costituzione è universale e pacifica, trasmetterà questi caratteri alla nuova
società industriale, che sarà quindi caratterizzata dall’universalità e dalla coesistenza di «ordine» e
«progresso», cioè una forma di progresso pacifico – Saint-Simon considerava il conflitto un aspetto
transitorio e non positivo dello sviluppo storico. Il processo che doveva portare a questa società, in
cui l’ordine sociale tra tutti i membri era stato ricomposto e legittimato dal nuovo sistema di credenze
condivise, non era però ancora giunto a compimento: diventava necessaria, allora, la costituzione
di un «partito industriale» che operasse per la definitiva affermazione della società industriale.
Nell’ultima fase della sua attività, Saint-Simon diede un’accentuazione religiosa alle sue teorie, ma
il sansimonismo penetrò nella mentalità dei nuovi ceti imprenditoriali e finanziari francesi, influendo
sulla costituzione di banche e su progetti di costruzione di ferrovie e dei canali di Suez e di Panama.

Charles Fourier (1772-1837) → riorganizzazione della società attorno alle passioni umane.
Il nuovo mondo industriale e societario (1829) → la società contemporanea è un mondo capovolto
perché vi regnano la miseria e la frode, e tale degenerazione è causata dalla civiltà. La natura rap-
presenta invece il polo positivo: ciò significa che tutte le passioni e le inclinazioni proprie della natura
umana sono buone e che devono essere assecondate, soddisfatte e guidate in modo da raggiungere
un’organizzazione armonica della società. Le passioni fondamentali sono l’amore per la ricchezza e
per i piaceri. Secondo Fourier è possibile aumentare la produttività attraverso l’«attrazione passio-
nale», cioè l’impulso naturale tendente a soddisfare i piaceri dei sensi nonostante l’opposizione di
doveri e pregiudizi: il lavoro sarà suddiviso in funzioni diverse esercitate secondo i gusti delle per-
sone, che formano dei gruppi nei quali le passioni individuali siano armonizzate tra loro per evitare
ogni conflitto e favorire la cooperazione. Le «serie passionali» così armonizzate troveranno applica-
zione nelle «funzioni industriali» (lavoro domestico, agricolo, manifatturiero, commerciale, studio).
La passione più importante è il bisogno di varietà: sono quindi necessari turni di lavoro brevi, fre-
quenti passaggi a funzioni diverse e mobilità da un gruppo all’altro. In questo modo, si creerà un’in-
dustria attraente, capaci di assicurare il massimo della produttività. Sulla stessa base si creeranno
le falangi, gruppi di persone di entrambi i sessi che vivono in «falansteri», abitazioni collettive e
luoghi di lavoro e di divertimento circondati da aree coltivabili e foreste: l’utopia di Fourier immagina
nuove forme di architettura urbana e la realizzazione della liberazione sessuale fondata sulla regola
dell’attrazione – teoria esposta ne Il nuovo mondo amoroso.

Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) → forma di socialismo antiborghese e anarchico.


Proudhon crede che l’economia debba essere diretta dalla volontà umana e subordinata a obiettivi
superiori: prima di tutto la giustizia, che si realizza nella storia, la quale è il dominio della libertà. Ci
sono due modi di concepire la giustizia: il risultato di un’imposizione da parte di un’autorità esterna
superiore all’individuo o la facoltà dell’individuo di riconoscere la pari dignità di ogni altro individuo.
Ma Proudhon respinge la prima concezione perché non riconosce la legittimità di un’autorità supe-
riore all’individuo, precisamente l’autorità di Dio in ambito religioso, dello Stato nella sfera politica e
della proprietà in quella economica perché limita la libertà individuale: lo Stato in particolare è con-
siderato un’istituzione assurda e illegale, finalizzata allo sfruttamento, da parte di pochi, dei propri
simili mediante la forza, così come la proprietà privata è finalizzata allo sfruttamento del lavoro altrui
– di qui il suo anarchismo, letteralmente «rifiuto di ogni autorità». Ogni individuo deve invece avere
il diritto di godere della massima libertà, a patto che una uguale sia riconosciuta anche a tutti gli altri.
Sulla base di libertà e giustizia è possibile l’organizzazione di una «società mutualistica» in cui i
lavoratori, in quanto produttori, si scambiano prodotti creando un tutto armonico, e il cui perno è la
famiglia: in questa nuova forma di società lo Stato e la legge tendono a scomparire e la loro funzione
può essere assolta da contratti liberamente stipulati, volti a risolvere i problemi della convivenza.

Tra ideologia e spiritualismo in Italia


Nella filosofia italiana di inizio Ottocento è prevalente l’influenza della filosofia scozzese del senso
comune e, soprattutto, del sensismo di Locke e di Condillac, anche se gli aspetti più radicali sono
attenuati per renderlo compatibile il cristianesimo cattolico. Gli autori italiani vivono da protagonisti
le vicende politiche contemporanee e le loro riflessioni filosofiche sono quindi strettamente intrec-
ciate ai problemi politici e sociali del tempo: dopo la restaurazione del governo austriaco, Melchiorre
Gioia fu arrestato a Milano (1820) con Pellico e Maroncelli, mentre Romagnosi, docente universitario
di Diritto sotto il dominio napoleonico, fu implicato nel processo ai due e privato dell’insegnamento.
Melchiorre Gioia (1767-1829) → l’ideologia (studio dell’origine delle idee) deve fondarsi su un me-
todo puramente descrittivo delle operazioni psichiche, senza alcun riferimento all’anima come causa
produttrice: alla base di tali operazione ci sono le sensazioni reali, ma viene riservato un ruolo nella
formazione delle idee anche alle sensazioni immaginarie. L’utilizzo di un metodo descrittivo da parte
dell’autore, unito agli interessi per la matematica, lo portano a considerare la statistica uno strumento
indispensabile per la raccolta e la classificazione dei fatti (metodo quantitativo). In ambito morale,
Gioia si allinea all’«aritmetica morale» di Bentham, cioè il calcolo delle utilità in base ai piaceri e ai
dolori prodotti dalle azioni, ma lamenta il fatto che in ambito morale non esistono misure precise.
Giandomenico Romagnosi (1761-1835) → sensismo integrato col riconoscimento del carattere at-
tivo della mente. Alla base delle attività conoscitive e dei comportamenti umani c’è la legge di «com-
potenza causale», secondo la quale nelle operazioni mentali c’è una compresenza di natura e spirito:
esse non sono il frutto di una semplice ricezione passiva di dati esterni né di una semplice creazione
della mente. Ma al centro degli interessi di Romagnosi ci sono i problemi della «filosofia civile», cioè
di diritto, politica e morale, i quali devono fondarsi sulla conoscenza delle leggi che regolano il com-
portamento umano: a tale scopo è necessaria la conoscenza delle idee che stanno alla base della
vita dei popoli. Secondo l’autore, gli uomini tendono per natura all’«incivilimento», cioè alla pace,
alla sicurezza e al miglioramento delle proprie condizioni di vita: la legge che guida tale processo è
la tendenza, da parte di tutte le parti del corpo sociale, a raggiungere un equilibrio, e la pena è
utilizzata solo in chiave preventiva per tutelare i propri membri. Il fine dell’incivilimento è instaurare
una «legale e civile parità», mentre il mezzo per progredire è il conflitto di interessi e dei poteri.
Pasquale Galluppi (1770-1846) → estraneo ai problemi politici e sociali del tempo: fedele al re di
Napoli e ai valori religiosi, fu professore di Filosofia all’università di Napoli dal 1831 alla morte.
L’elemento nuovo della filosofia di Galluppi è l’incontro del sensismo con la filosofia di Kant, nato
dall’incomprensione, tipica degli idealisti, di ricondurre Kant al problema delle origini delle idee. Me-
todo fondamentale dell’indagine filosofica è l’analisi, attraverso la quale si può risalire all’origine delle
idee e approdare al fatto primitivo della coscienza, che ci attesta con assoluta certezza l’esistenza
dell’io conoscente, del mondo e di Dio:
a) «Esistenza dell’io conoscente» → intuizione immediata poiché l’io conoscente è presente, in
ogni suo atto, alla coscienza, e non necessita quindi di ulteriori dimostrazioni e analisi.
b) «Esistenza del mondo» → altro dato primitivo è la sensazione, dalla quale si differenzia il
sentimento (coscienza della sensazione). L’oggetto del sentimento è la sensazione, mentre
l’oggetto della sensazione deve essere un dato esterno, cioè la realtà esterna al soggetto.
c) «Esistenza di Dio» → un dato di esperienza immediata è il fatto che io sono un essere mu-
tabile, che quindi non può esistere di per sé: ciò vuol dire che io sono un effetto prodotto da
una causa che deve essere intelligente, cioè Dio.
Scomponendo il materiale fornito dall’esperienza l’analisi perviene alle idee, che non sono innate
né prodotte dal soggetto, bensì generalizzazioni elaborate a partire da questo materiale. La volontà,
stimolata dal desiderio, ricompone il materiale, attraverso la sintesi, in due modi:
a) Ricomposizione libera → «sintesi immaginative» delle quali l’uomo si serve per modificare la
natura secondo i propri bisogno o ideali, oppure per produrre opere d’arte.
b) Ricomposizione in base all’unità che il materiale aveva prima dell’analisi → «sintesi reali»,
fondate sulla corrispondenza con l’unità dell’oggetto, nelle quali consiste la vera conoscenza.

Giacomo Leopardi (1797-1837).


A partire dalla lettura dei testi della tradizione illuministica e dalle opere dell’antichità classica, Leo-
pardi elabora una personale concezione sulla posizione dell’uomo nel cosmo e nella storia. Leopardi
parte dalla constatazione di un contrasto tra natura e ragione: la natura è immediatezza di vita e
fonte di «immaginazione» e di «illusioni», che rendono operativi gli uomini e li spingono alla ricerca
della felicità, intesa come massima soddisfazione dei piaceri. Della natura, cui erano prossimi gli
antichi, si alimentarono la poesia omerica e la virtù eroica delle repubbliche antiche, fondate sull’il-
lusione dell’amor patrio che spingeva l’individuo a identificarsi con l’interesse comune. La ragione e
la scienza hanno invece allontanato i moderni dalla natura perché smascherano le illusioni e le tra-
mutano, mostrando il carattere finito delle cose, ad esempio l’impossibilità di raggiungere il piacere
e la felicità: esse rendono inattivi, impotenti, e fanno prevalere l’indifferenza e l’egoismo. Leopardi è
contro le concezioni che vedono il perfezionamento dell’uomo nel progresso dell’intelligenza: la cre-
scita della ragione è diventata un ostacolo alla felicità perché l’uomo si trova sempre insoddisfatto
rispetto al desiderio di piacere che egli prova. Dolore e infelicità caratterizzano la condizione umana.
Dal 1823 il pensiero leopardiano viene definito «pessimismo cosmico». La nozione di natura as-
sume aspetti ambivalenti: essa ha reso l’uomo il più mutevole tra gli esseri, quindi quello con mag-
giori possibilità di allontanarsi dallo stato naturale e diventare sempre più imperfetto, e gli ha dato
sia le illusioni, sia la ragione che le distrugge. Emerge anche la nozione di «natura matrigna», che
non ha esentato l’uomo da sofferenze, malattie e morte, e che dunque gli è ostile e nemica, anche
se non agisce intenzionalmente contro di esso. Leopardi respinge ogni concezione teleologica o
provvidenzialistica della natura propria dei cattolici liberali, che avevano una fede ottimistica nella
provvidenza e nel progresso dell’umanità, anzi critica la concezione dei cattolici liberali, che avevano
cieca fiducia nel progresso e nella provvidenza. Nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco
(1825), Leopardi formula una concezione puramente materialistica e meccanicistica dell’ordine na-
turale: la natura è un ciclo incessante di generazioni e distruzioni totalmente indifferente all’uomo –
motivo per il quale l’uomo è necessariamente infelice – in cui le specie viventi si perpetuano a scapito
della felicità degli individui. La scoperta che anche gli antichi formularono concezioni pessimistiche
lo convinse che l’infelicità è un dato permanente della condizione umana, che non può essere elimi-
nato o corretto. Ma in Leopardi è delineato anche il tema della «solidarietà umana», che nella Gine-
stra (1836) si traduce in un appello agli uomini a lottare uniti contro la natura ostile, pur nella consa-
pevolezza di un’inevitabile sconfitta.

Antonio Rosmini (1797-1855)


Rosmini nasce a Rovereto, sotto il dominio austriaco, e dopo aver compiuto studi teologici e giuridici
è ordinato sacerdote (1821). Nel 1830 fonda a Domodossola l’«Istituto della carità», congregazione
religiosa detta anche dei rosminiani. In questi anni pubblica le sue opere filosofiche più significative,
che entreranno a far parte del suo sistema: il suo progetto, infatti, è costruire un sistema di filosofia
cristiana in tutte le sue articolazioni. Nel 1848 pubblica le Cinque piaghe della Santa Chiesa, in cui
denuncia la separazione del clero dai fedeli e la loro insufficiente preparazione culturale, le interfe-
renze del potere politico nelle questioni ecclesiastiche e l’uso scorretto dei beni ecclesiastici, mentre
ne La costituzione secondo la giustizia sociale (1848) si schiera a favore della monarchia costituzio-
nale e appoggia il programma neoguelfo di Gioberti. Nonostante segua il Papa a Gaeta dopo la
costituzione della Repubblica Romana (1849) e componga uno scritto polemico contro Il socialismo
e il comunismo, le sue idee liberali lo rendono sospetto: si ritira allora a Stresa, dove pubblicherà le
ultime parti del suo sistema, la Psicologia (1850) e la Logica (1855).
Idea dell’essere e rivelazione divina
Punto di partenza è il Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830), in cui affronta il problema dell’ori-
gine delle idee e ricerca il fondamento oggettivo della verità e della conoscenza. Secondo Rosmini,
sulle origini delle idee sono state elaborate teorie che peccano per difetto o per eccesso: le prime
sono le teorie sensistiche che rintracciano le origini delle idee solo nella sensazione (Locke e Con-
dillac) perché la sensazione è sempre particolare mentre le idee sono universali; le seconde sono
le dottrine innatiste (Platone, Leibniz, Kant) perché sostengono che le idee innate sono molteplici.
Rosmini crede invece che esista una sola idea innata, l’«idea dell’essere», che è presupposto e
fondamento della conoscenza: ogni conoscenza implica infatti l’attribuzione dell’esistenza – almeno
mentale – a ciò che è conosciuto, e ciò significa che tale nozione deve essere già posseduta; così,
si configura come un’«idea», cioè qualcosa che esiste indipendentemente da ogni modificazione
esterna. L’idea dell’essere è innata perché non proviene né dalla sensazione esterna, che ci dà la
conoscenza di un oggetto in relazione a noi, né da quella interna, che fornisce solo la sensazione
della mia esistenza e non dell’esistenza in senso universale; inoltre, essa è un’intuizione immediata
perché è semplicissima, cioè non è composta di un soggetto e un predicato da unire e, quindi, non
richiede un «giudizio» per essere concepita – non è un prodotto delle nostre operazioni intellettuali.
Ciò che viene intuito non è un essere particolare e reale, ma l’essenza dell’essere, cioè un essere
ideale, che è diverso da quello reale perché si configura come possibilità: l’idea dell’essere è quindi
«idea dell’essere possibile». L’essere ideale non è però puro nulla: l’idea dell’essere è infatti la forma
della ragione umana, il «lume della ragione». Tale forma rende possibile e garantisce la verità della
conoscenza perché è oggettiva, in quanto dotata di universalità e proveniente da Dio stesso, che la
immette nella mente dell’uomo – non dalla ragione umana (Kant).
Nella conoscenza di un essere finito come l’uomo è necessario connettere l’idea dell’essere alla
sensazione: ciò avviene attraverso la «percezione intellettiva», processo tramite il quale si attribui-
sce l’idea di esistenza ai contenuti delle sensazioni e si formano quindi i giudizi. Così l’essere pos-
sibile, ancora indeterminato, si precisa nelle idee determinate: il senso fornisce il particolare, che a
sua volta viene pensato dall’intelletto attraverso l’idea dell’essere. Da qui derivano una serie di con-
seguenze che si oppongono al sensismo e al soggettivismo:
a) La conoscenza di sé non ha maggiore attendibilità della conoscenza di qualsiasi altra realtà.
b) Dall’idea dell’essere derivano il principio d’identità e di non contraddizione, ma anche quello
di causalità, perché se c’è un mutamento – la sensazione è una modificazione – bisogna
ammettere che esso sia prodotto da una causa, che è per forza un corpo esterno: l’esistenza
dei corpi esterni perde il carattere di problematicità che aveva nelle filosofie soggettivistiche.
Anche la «percezione sensitiva» è la sintesi di un contenuto proveniente dalla sensazione e di una
forma presente nel soggetto, il «sentimento fondamentale corporeo», un senso innato che rende
consapevoli di sé come di esseri dotati di corpo. Questo sentimento è sia temporaneo, perché è un
sentimento, sia qualcosa di eterno, in quanto è una determinazione dell’essere ideale.
Accusato da Gioberti di non aver spiegato il passaggio dall’essere ideale a quello reale, Rosmini
risponde che per affrontare i problemi dell’ontologia bisogna prima chiarire quelli dell’ideologia, rin-
tracciando il criterio della verità dato dall’idea dell’essere. Nella Teosofia precisa invece che l’«es-
sere ideale» è indeterminato perché esprime una possibilità infinita, e perciò può essere riferito,
attraverso un giudizio di esistenza, a ogni cosa di cui si abbia esperienza; l’«essere reale» è invece
l’attuazione dell’essere ideale, e poiché quest’ultimo esprime una possibilità infinita, tra le sue attua-
zioni ce ne sarà una realmente infinita, cioè Dio. Dio, attraverso la «creazione», diviene il punto di
raccordo tra essere ideale e essere reale: esso infatti ama infinitamente sé stesso, quindi ama l’es-
sere in tutti i modi in cui può essere amato, anche come essere finito e relativo. L’atto creativo deriva
da questo amore: per creare l’essere finito, Dio deve pensarlo e volerlo, quindi realizzarlo, facendo
coincidere essenza ideale, cioè il Verbo sotto forma di idee-modelli, ed esistenza reale delle cose
finite che esemplificano questi modelli. Tuttavia, questi momenti dell’atto creativo possono essere
distinti solo concettualmente, perché nella realtà dell’atto essi sono unificati.

Morale, diritto e società


L’idea dell’essere è alla base anche della filosofia morale, il cui imperativo fondamentale è «segui
nel tuo operare il lume della ragione». Poiché il «lume della ragione» è posto nell’uomo direttamente
da Dio, l’uomo si limita a ricevere la legge morale: egli è suddito, non è legislatore. La conformità
alla legge morale è il «dovere», che è un nesso tra la norma dettata dalla legge (essere ideale) e la
sua attuazione (essere reale): si origina così una nuova forma di essere, l’«essere morale». Il lume
della ragione rivela che il bene è l’essere stesso in quanto oggetto di amore da parte della volontà;
ma gli esseri sono molti e diversi, quindi per poter volere e amare correttamente bisogna conoscere
l’ordine oggettivo e gerarchico di perfezione e valore tra gli esseri. «Volere o amare l’essere ovunque
lo si conosca, secondo l’ordine che esso presenta all’intelligenza» è la massima dell’azione morale
perché fornisce contenuti all’azione morale: l’ordine degli esseri, stabilito da Dio, manifesta all’intel-
ligenza una distinzione di valore tra persone (essere con valore di fine) e cose (essere con valore di
mezzo), rendendo solo le prime degne di essere amate e trattate come fini poiché a immagine e
somiglianza di Dio. Poiché dotate di intelligenza e volontà, le persone sono caratterizzate dalla «li-
bertà», cioè la capacità di proporsi e scegliere fini in base alla conoscenza dell’ordine gerarchico
degli esseri: «l’uomo deve trattare la persona come fine, cioè come avente un fine proprio» è la
nuova formulazione dell’imperativo morale. Il fine ultimo del volere e dell’amore umano è Dio, il
sommo bene; il male invce è concepito come mancato riconoscimento dell’ordine oggettivo degli
esseri e orientamento della volontà verso esseri inferiori al sommo bene.
La dottrina morale fornisce i principi in base ai quali costituire il diritto e la vita sociale e politica:
 Diritto → «facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale che ne ingiunge gli
altri al rispetto». Il diritto è prerogativa della persona: chiunque ha il dovere di considerare la
persona come dotata del diritto di perseguire liberamente il fine che le è proprio. Due sono i
diritti fondamentali: la «libertà» e la «proprietà», cioè la facoltà di possedere e usare le cose
come mezzi per raggiungere i propri fini.
 Società civile → insieme di più persone, costituita allo scopo di salvaguardare e regolare
l’esercizio armonico dei diritti personali.
 Stato → forma assunta dalla società civile per garantire a tutti la possibilità di raggiungere il
«bene comune» – il fine dello Stato. Tramite lo Stato, infatti, la società civile ha la forza di far
rispettare i diritti della persona.
Rosmini si allinea alle concezioni liberali, che attribuiscono allo Stato un compito di protezione degli
individui Lo Stato non deve provvedere direttamente alla felicità delle persone: questa è la pretesa,
infondata, del socialismo e del comunismo, che considerano la perfezione raggiungibile in questo
mondo e mirano a realizzare l’uguaglianza politica ed economica di tutti gli uomini. Rosmini invece
rifiuta il suffragio universale: il diritto di voto deve averlo solo chi contribuisce con le sue proprietà al
bene comune. Lo Stato, inoltre, non può violare il diritto di proprietà, su cui si fonda la disuguaglianza
sociale, ma deve piuttosto provvedere ai mali che la società può produrre, cercando di alleviare e
ridurre la miseria dei ceti popolari. Tuttavia, solo la provvidenza divina e la carità degli uomini pos-
sono sopperire alla miseria degli umili: la società per eccellenza è solo quella ecclesiastica, fondata
su un fine spirituale che va oltre quello strumentale dello Stato.

Filosofia e missione politico-religiosa: Mazzini e Gioberti.


Giuseppe Mazzini (1805-1872) → centralità della «religione» nella storia dell’umanità.
Mazzini sostiene il primato dell’azione sulla contemplazione: l’azione deve essere sostenuta dal
pensiero, il quale diventa operante ed efficace solo se unito a un senso religioso dei valori. Ogni
religione contribuisce al progresso dell’umanità, ma quando ha finito il suo compito deve cedere il
posto ad altro: così il cattolicesimo, che ha fatto acquisire agli individui la coscienza di Dio, deve
lasciare spazio alla «religione dell’umanità», che insegna che il divino non si attua nei singoli, ma
nell’umanità intera. Dio si incarna nell’umanità, e la sua rivelazione coincide con l’educazione.
La legge operante nella storia è il progresso: la Rivoluzione ha contribuito rendendo l’uomo consa-
pevole dei propri «diritti», ma ora deve subentrare la coscienza dei «doveri» che ciascuno, in quanto
membro di un popolo o di una nazione, deve assolvere nel cammino di progresso dell’umanità. Il
dovere spinge a operare subordinando i fini individuali a fini superiori: il problema politico consiste
allora nell’educare ciascun popolo alla coscienza del proprio dovere verso l’umanità. In questo pro-
cesso, gli italiani hanno un ruolo centrale perché la loro missione è creare una «terza Roma» repub-
blicana, centro di un’Italia unita portatrice di un messaggio di fratellanza universale e fondata sulla
libertà e sull’uguaglianza. I problemi prodotti dalla miseria degli strati inferiori devono essere risolti
mediante l’educazione e il perfezionamento morale, che conducono alla collaborazione tra classi.
Vincenzo Gioberti (1801-1852) → restaurazione della religione cattolica come fulcro della civiltà.
Mazziniano dal 1830, dopo il fallimento dei moti mazziniani in Savoia e Piemonte (1833) fu arrestato
e costretto in esilio a Parigi e a Bruxelles, dove visse insegnando storia e filosofia. Tale fallimento lo
indusse a elaborare un diverso programma politico, il neoguelfismo, mirante a una confederazione
di Stati italiani con a capo il Papa. A Bruxelles Gioberti scrisse le sue opere filosofiche più importanti,
in italiano e in francese, e pubblicò la sua opera più famosa, Del primato morale e civile degli italiani
(1843), nel quale elabora il suo programma politico. Scoppiati i moti del 1848 tornò in Piemonte, fu
eletto deputato e fu anche a capo del governo piemontese, ma dopo la sconfitta di Novara (1849)
tornò a Parigi, dove morì: l’ultima opera rilevante fu Del Rinnovamento civile dell’Italia (1851), dove
prese atto del fallimento del programma federalista, auspicò la fine del governo temporale della
Chiesa e riconobbe il popolo come depositario della sovranità.
Teorica del sovrannaturale (1838) → Gioberti considera la filosofia come esplicazione razionale dei
contenuti rivelati dalla religione: il pensiero umano poggia su una rivelazione primitiva data nel lin-
guaggio, il quale ha origine divina e infonde nella mente umana i principi che le permettono di cono-
scere la realtà. Nell’Introduzione allo studio della filosofia precisa che l’uomo ha un rapporto origina-
rio e immediato con la verità: c’è un vero primitivo e assoluto che si manifesta con evidenza imme-
diata all’intuito dell’uomo. L’oggetto di questa rivelazione è l’«Idea» («ciò che realmente è»), che per
Gioberti è l’essere reale assoluto, Dio stesso («Ente»). Gioberti chiama «ontologismo» questa posi-
zione perché il punto di partenza è l’essere reale: ad essa si oppongono tutte le forme di «psicolo-
gismo», dottrine che per «idea» intendono una rappresentazione mentale frapposta tra l’uomo e la
realtà – tra cui Rosmini. L’intuito è lo stesso per tutti gli uomini, ma è finito e imperfetto e apprende
l’Ente in maniera indeterminata: la «riflessione» umana deve esplicitare e articolare l’Idea tramite la
«parola», elemento sensibile che l’uomo trova già dato nella rivelazione divina originaria. La filosofia
farà poi emergere i contenuti razionali dell’Idea, mentre la religione quelli sovrannaturali.
Per l’uomo pensare significa giudicare, cioè collegare soggetto, copula e predicato. Il giudizio che
esprime l’Idea in modo chiaro e preciso è la formula ideale: il soggetto è l’Ente, cioè Dio, che nella
Bibbia si autodefinisce «Io sono colui che sono»; a ciò corrisponde il giudizio «l’Ente è necessaria-
mente». Dalla nozione di Ente si distingue l’«esistente», il predicato della formula ideale, che per
Gioberti significa «venir fuori da»: per questo, l’«esistenza» può caratterizzare solo una realtà deri-
vante da una sostanza distinta da essa ma in grado di produrla. E poiché l’Ente «è necessaria-
mente», quindi non può essere causato da altro, è lui il creatore dell’esistente: la formula ideale
compiuta sarà allora «l’Ente crea l’esistente». La copula che connette i due termini, cioè la sintesi
«reale», e non «ideale» (come in Rosmini o Kant), è la «creazione», di cui l’uomo è spettatore: tale
concetto permette di conoscere la realtà, vedendo come le cose scaturiscano da Dio. La formula
ideale contiene in sé potenzialmente l’intera conoscenza: da essa si originano le discipline che stu-
diano l’Ente (filosofia e teologia), l’esistente (fisica) e la copula (matematica, logica, morale). L’uomo,
però, non è solo spettatore, ma anche protagonista della creazione: essa non finisce con la crea-
zione dell’esistente, bensì con il ritorno di tutte le cose alla perfezione dell’Ente grazie alla vita morale
dell’uomo, che si rende liberamente meritevole della beatitudine divina. La formula ideale si completa
così con la seconda parte «l’esistente ritorna all’Ente»: l’allontanamento deliberato dall’Ente è l’ori-
gine del male, mentre il ritorno all’Ente costituisce il progresso.
Nella Protologia, Gioberti riformula la propria filosofia attraverso un confronto con Hegel. L’«intuito»
diventa «pensiero immanente», nel quale l’Ente è oggettivamente presente: l’errore di Hegel e di
tutti i panteisti era stato identificare il pensiero immanente con Dio. La vera dialettica è quella plato-
nica perché fornisce i due concetti che consentono di descrivere i due momenti del ciclo creativo: la
«mimesi» (imitazione), cioè il processo di derivazione del mondo da Dio, che ne imita imperfetta-
mente la natura e quindi crea le cose molteplici, contingenti; e la «metessi» (partecipazione), pro-
cesso mediante il quale il mondo, tramite l’uomo, che è immagine di Dio e quindi partecipe della sua
capacità creatrice, ritorna all’unità e all’armonia, cioè al regno di Dio. La «mimesi» rappresenta un
regresso, mentre la «metessi» un progresso, inteso come inversione del percorso precedente.
Il linguaggio, contenente la rivelazione divina, è stato alla base dell’unità del genere umano: «l’Ente
crea l’esistente» si traduce nell’affermazione che la religione crea la moralità e la civiltà del genere
umano; ma il peccato originale spezzò l’unità originaria, dando origine a stirpi e lingue diverse.
L’unica religione che ha conservato integro il contenuto dell’Idea espresso nella formula ideale,
quindi la verità della creazione, è il cristianesimo, grazie alla sua organizzazione in Chiesa, unica
depositaria, interprete e propagatrice della tradizione. Il centro della Chiesa è il Papa: di qui il primato
dell’Italia, cui spetta la missione universale di eliminare i mali del mondo moderno e ripristinare la
vera civiltà, fondata sulla tradizione cattolica. La filosofia di Gioberti si lega a un progetto di rigene-
razione politica ancorato al ripristino dei valori religiosi, sostenendo una concezione teocratica della
«sovranità» – anche se poi Gioberti si avvicinò al cattolicesimo liberale. Applicata alla società poli-
tica, la formula ideale diventa «il sovrano fa il popolo e il popolo diventa sovrano»: ogni popolo deve
avere un sovrano e ogni sovrano non può rifiutare di estendere la sovranità agli individui capaci di
assumere funzioni di governo. Questa formula si distingue sia dalla teoria secondo la quale il popolo
crea la sovranità popolare («l’esistente crea l’Ente»), sia dal dispotismo («l’esistente non deve ritor-
nare all’Ente»): il vero sovrano è solo Dio, sicché l’unica forma adeguata di governo è la monarchia
ereditaria, orientata ad un allargamento della rappresentanza.

La società e la storia.
Carlo Cattaneo (1801-1869) → contrario a ogni forma di ritorno alle credenze religiose.
Nato a Milano, si laureò in legge e si dedicò all’insegnamento ginnasiale. Prese parte ai moti del
1848, ma dopo la guerra d’indipendenza del 1859 e la nascita del Regno d’Italia andò in esilio a
Lugano, in quanto era un repubblicano sostenitore di uno stato federalistico. I suoi scritti sono articoli
e brevi saggi che trattano di filosofia, di storia, di diritto e di economia.
Cattaneo è contrario allo spiritualismo: egli concepisce la filosofia come «milizia» orientata a scopi
pratici e non come contemplazione estranea ai problemi della vita associata. Si tratta di una «filosofia
sperimentale», il cui metodo è uguale a quello delle scienze poiché è studio dei fatti, fondato quindi
sull’esperienza: i fatti sono limiti invalicabili, oltre i quali si rischia di perdersi nella speculazione
astratta e metafisica. La filosofia deve fornire la sintesi dei risultati acquisiti dalle varie scienze, co-
struendo l’enciclopedia universale del sapere; ma essa è, soprattutto, una metodologia generale del
sapere che, coordinando i metodi delle varie scienze, mette in luce le «leggi del pensiero e della
volontà». Le scienze sono il prodotto del pensiero umano e questo, a sua volta, trova espressione
nei metodi scientifici: analisi (chimica ed economia), sintesi (geologia), classificazione, deduzione
(geometria), induzione (fisica), analogia (medicina), osservazione, applicazione. La filosofia è lo stu-
dio di tali procedure inventate dal pensiero: per questo è la disciplina in cui «l’uomo studia l’uomo».
Cattaneo distingue tra «psicologia», lo studio delle facoltà dell’anima, e «ideologia», lo studio della
formazione delle idee: la prima prende in considerazione l’agente, la seconda le opere dell’agente.
L’errore della psicologia e dell’ideologia tradizionali è stato cercare l’origine delle idee «nella mente
solitaria dell’uomo», mentre essa va ricercata nell’interazione tra individui e società. Si avrà allora la
«psicologia sociale» e l’«ideologia sociale»: sensazioni, immaginazioni, pensieri, tutto ciò che è
creato dalla mente umana sono operazioni sociali, che si costituiscono sulla base di tradizioni e
scambi reciproci e, quindi, presuppongono il legame dell’individuo con la società. Le idee sono il
prodotto della vita associata e fanno essere una società quello che è: Cattaneo è contrario a ogni
determinismo, che fa dipendere le idee dall’influsso del clima, dell’ambiente o della razza.
La storia ha un ruolo centrale nella ricostruzione della psicologia sociale: essa è indispensabile per
studiare il pensiero umano nelle sue manifestazioni, cogliendo le leggi essenziali e i fatti generali e
costanti del suo sviluppo, che si configura come un progresso garantito dall’uguaglianza della natura
umana in cui nessun popolo ha un primato. La molla del progresso è il contrasto di opinioni e inte-
ressi e l’innesto di culture più progredite su altre. Ogni «civiltà» è infatti un sistema, che può essere
chiuso (se fondato su un principio unico) o aperto (fondato su principi molteplici): i primi si aprono
con l’innesto di principi estranei, i secondi si chiudono quando prevale un principio unico. Un sistema
progredisce quanto più si accosta a ciò che è più razionale: il progresso, quindi, consiste nella libe-
razione graduale di ciò che è considerato comune alla natura umana e orientato a realizzare l’idea
dell’umanità, che è posta alla fine della storia. Il progresso è inesauribile, ma non predeterminato o
rettilineo, perché gli sviluppi storici sono variabili e non riducibili a percorsi unici: Cattaneo non con-
divide le forme di ottimismo razionalistico o provvidenzialistico; per questo la sua filosofia ha una
destinazione pratica e deve contribuire a risolvere i problemi della vita associata.
Giuseppe Ferrari (1812-1876) → nato a Milano ma esule in Francia dal 1839, nel 1859 torna in Italia
e, l’anno dopo, entra a far parte del Parlamento italiano. Sul suo pensiero hanno influenza Roma-
gnosi, Vico e il socialismo utopico di Proudhon.
Ferrari considera la storia come una scienza, al pari di Vico. Egli crede che la Rivoluzione francese
sia rimasta incompiuta, e che per completarla bisogna tenere saldo il presupposto del sensismo
illuministico secondo il quale la base della certezza sono i fatti. Il pensiero che vuole travalicare i fatti
è illegittimo e si trasforma in una «logica» astratta, producendo l’errore di credere che ciò che appare
ai sensi è solo apparenza – cioè le erronee costruzioni metafisiche. Il programma di Ferrari consiste
quindi nel «riconquistare il fatto», subordinando il pensiero all’esperienza. Alla rivelazione divina,
Ferrari contrappone la rivelazione naturale, consistente nell’intuizione diretta dei fatti: essa ci rivela
la nostra vita e quella degli altri, anche se non siamo mai del tutto consapevoli del nostro operare.
L’umanità progredisce inarrestabilmente e inconsapevolmente verso l’epoca della rivoluzione, che
sarà caratterizzata dal dominio della scienza e dell’uguaglianza: essa andrà oltre la Rivoluzione
francese eliminando le chiese, riequilibrando le ricchezze e stabilendo una democrazia ugualitaria;
inoltre, mediante la scienza sarà possibile sopperire ai bisogni del popolo, liberandolo dalle malattie
e dalla fame e provvedendo alla loro educazione. Il governo stesso dovrà ridursi all’amministrazione
di un popolo, che si organizzerà attraverso libere associazioni.

Potrebbero piacerti anche