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Elio Rindone

La felicità nel Medioevo [1]

È noto che i pensatori medievali, che nutrivano un’autentica venerazione per le loro fonti, sono stati
fortemente influenzati sia dalla Bibbia che dalla filosofia greca. Privi però degli strumenti filologici
che mettono gli studiosi contemporanei in condizione di avvertire la distanza che separa questi due
mondi, essi hanno letto la Scrittura con le categorie filosofiche della Grecia e i filosofi antichi con le
categorie bibliche, finendo, quindi, col far dire a libri, che pur ritenevano ispirati e a cui volevano
restare assolutamente fedeli, cose che i loro autori non immaginavano nemmeno. Di conseguenza,
la cultura medievale, più che il coerente sviluppo del messaggio biblico originario, costituisce
un’originale mescolanza di due prospettive che avevano ben poco in comune, tanto che uno dei
problemi più urgenti per la chiesa, a giudizio di non pochi teologi cattolici, è proprio quello della
deellenizzazione del cristianesimo.

I Padri della Chiesa


Il cardinale Spellmann

Per rendere l’idea di come sia possibile travisare il significato di un testo pur restando fedeli alla
lettera, un professore di esegesi di un’università pontificia, quando in essa si respirava ancora il
clima di maggiore libertà inaugurato dall’ultimo Concilio, era solito raccontare un aneddoto. Agli
inizi degli anni sessanta, gli anni di via Veneto, dei locali notturni e della dolce vita, l’arcivescovo
di New York, il cardinale Spellmann, viene a Roma, per una visita in Vaticano. Sbarcato a
Fiumicino, viene intervistato da un gruppo di giornalisti. All’ultima, spiritosa domanda: "Eminenza,
a Roma visiterà anche i locali notturni?" il cardinale, fingendo stupore, risponde con una battuta
altrettanto spiritosa: "Ci sono locali notturni a Roma?". Il mattino seguente, informando i lettori
dell’arrivo di Spellmann, il giornale titola a tutta pagina: "Appena sceso dall’aereo, il cardinale
chiede: CI SONO LOCALI NOTTURNI A ROMA?"

Elementi biblici

Forse qualcosa di simile è avvenuto con la lettura della Bibbia. Studiata da intellettuali greci e latini,
inserita in contesti culturali, politici ed economico-sociali diversi da quello originario, interpretata
con categorie filosofiche che le erano estranee, essa ha perduto a poco a poco il suo più autentico
significato. Nel messaggio cristiano sono certo confluiti, così, elementi biblici: questo mondo non è
quale dovrebbe essere; c’è troppa sofferenza, e quindi non risponde al progetto divino; il credente
non può accettare con rassegnazione la condizione attuale ma deve operare, in fiduciosa speranza,
in vista della salvezza; le sofferenze patite e i sacrifici affrontati per il regno non resteranno senza
ricompensa; la felicità è promessa a tutti, e in modo particolare agli ultimi. In effetti, non si può non
riconoscere al cristianesimo il merito "di avere preso sul serio il dolore di tutti – su questo e per
intero in linea con la tradizione ebraica – e di aver ideato per tutti gli uomini una via di
liberazione"(S. NATOLI, La felicità, Milano 1999, p 228).

Influenze greche
Ma questi elementi sono stati reinterpretati in una prospettiva radicalmente diversa. Il mondo attuale
non risponde al progetto divino non perché i poveri soffrono a causa dell’ingiustizia ma perché
l’uomo si attacca ai beni terreni; il peccato, di conseguenza, non è più l’egoismo che provoca la
miseria delle vedove e degli orfani ma l’oblio dei beni celesti; il compito dei credenti non è più
l’impegno per l’avvento del regno in questo mondo, le cui strutture economico-sociali vengono anzi
sostanzialmente accettate, ma la conversione dalle creature al Creatore, alla cui presenza il cristiano
vivrà, pienamente beato, nell’aldilà. È facile riconoscere in questa rilettura l’influenza delle
categorie filosofiche di cui i padri della chiesa, senza rendersi conto della portata di una simile
operazione, si sono serviti per ripensare il messaggio originario. La svalutazione dei beni sensibili,
dai quali bisogna distaccarsi, deriva evidentemente dal platonismo, anche se il giudizio negativo
investe il mondo materiale non da un punto di vista ontologico ma morale. La diffidenza nei
confronti delle passioni è di origine stoica, come la nostalgia dell’Assoluto e dell’Infinito è di
origine neo-platonica. La visione unitaria dell’uomo, propria della Bibbia, è sostituita da
un’antropologia dualistica di ascendenza platonica, che valorizza l’anima a scapito del corpo e
l’aldilà a scapito di questo mondo.

Sorprendente sintonia

Leggendo la Bibbia con categorie filosofiche e i testi filosofici con categorie bibliche, gli autori
cristiani scoprono evidentemente sorprendenti analogie tra la visione greca e quella ebraica
dell’uomo e del mondo. Uno dei primi pensatori cristiani di qualche rilievo, Giustino, morto a
Roma martire intorno al 165, spiega le numerose consonanze, che crede di trovare fra la cultura
classica e la Scrittura, affermando che nella prima sono presenti quei semi di verità che avranno il
loro pieno sviluppo nella seconda. La filosofia greca, e in particolare quella platonica, appaiono
sempre più come una sorta di preparazione al vangelo. E, d’altra parte, si comincia a trovare nella
Bibbia, che normalmente ricorre non al registro concettuale ma a quello poetico-sapienziale, tutta
una serie di tesi filosofiche. Così, per il tema che ci riguarda, la tesi platonica della contemplazione
del Bene in sé influenza la comprensione di espressioni metaforiche, come quella paolina "ora
vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora
conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente"(Prima lettera ai Corinzi 13, 12),
che viene presa alla lettera, quasi enunciato fornito di rigore formale e perciò capace di giustificare
la tesi, che si comincia già ad elaborare, della visione di Dio nell’aldilà come vera beatitudine
dell’uomo. Visione facciale che sarebbe, secondo Giustino, tesi caratteristica già del filone di
pensiero platonico: "lo scopo del platonismo è di vedere Dio faccia a faccia"(GIUSTINO, Dialogo
con Trifone giudeo 2, 6).

La vera felicità

La vita terrena, quindi, viene gradualmente svalutata, non solo per il dolore che c’è in essa, sentito
come scandalo intollerabile, ma anche per un desiderio di felicità che nessun bene mondano, data la
sua caducità, potrebbe appagare. Un monaco orientale, Giovanni Cassiano, morto in Francia nel
435, scrive, in un’opera che avrà enorme diffusione nei monasteri medioevali, che "quando si
paragonano queste creature con quel secolo futuro, in cui i beni restano immutabili e non c’è più da
temere la perdita della vera felicità, si dovrà concludere che tutti i beni creati a mala pena possono
conservare il nome di beni. […] Le cose di questo mondo, che pure sono grandi, belle, meravigliose
a vedersi, appariranno nulla se confrontate con quelle che ci promette la fede come premio futuro"
(Conferenze spirituali, Alba-Roma 1966, vol III, pp 228-229). Grazie all’influenza della spiritualità
neo-platonica, il desiderio di felicità è ormai diventato infinito. Non essendo possibile appagarlo in
questo mondo, non può che avere come oggetto nell’aldilà il possesso eterno del bene infinito, Dio.

Agostino (354-430)
Il riposo in Dio

Platonico è anche il grande contemporaneo di Cassiano, Agostino d’Ippona, il pensatore che più di
tutti ha influenzato la concezione medievale dell’uomo e del mondo. Giovane ambizioso e sensuale,
affascinato dalla bellezza corporea, egli riesce a poco a poco ad elevarsi alla bellezza spirituale, sino
alla scoperta della bellezza assoluta, il Dio dei cristiani, nel quale la sua anima trova la pace a cui
anelava: "Ci hai fatti per te, o Signore, e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in
te"(Confessioni I, 1, 1). Già all’indomani della conversione Agostino ha subito chiaro il suo
progetto di vita. Inizia, infatti, i Soliloqui scrivendo: "Dio e l’anima voglio conoscere. E null’altro?
No, assolutamente null’altro"(I, 7). Evidentemente questo mondo e i beni di questo mondo non lo
interessano più, anzi bisogna liberarsene perché, più che un aiuto, sono un impedimento per la
realizzazione umana. Infatti, se, quando considera la struttura dell’uomo dal punto di vista
antropologico, Agostino sembra riprendere, pur sottolineando del corpo non l’utilità ma la caducità,
lo strumentalismo aristotelico: "l’uomo è un’anima razionale che si serve di un corpo mortale e
terrestre"(De moribus ecclesiae catholicae, I, 27), quando riflette sulla vita umana dal punto di vista
morale, egli riprende in pieno il dualismo platonico: il corpo, con i suoi desideri, è d’ostacolo alla
vita dell’anima.

Il peccato originale

Ma perché questo corpo ha desideri contrastanti con quelli dell’anima? Agostino crede di trovare la
risposta nella Bibbia: è il peccato originale, la ribellione dell’anima a Dio, che ha provocato la
ribellione del corpo all’anima. E il peccato di Adamo ha conseguenze per tutti i suoi discendenti.
Gli uomini ormai nascono peccatori e costituiscono una "massa dannata"(Contra Julianum 5, 14):
sono perciò, secondo Agostino, destinati all’inferno anche se non commettono, come i bambini,
alcun peccato personale. Questi ultimi, infatti, se "non hanno ricevuto il battesimo subiranno gli
effetti della sentenza pronunciata contro quanti non hanno creduto e saranno, quindi,
condannati"(Lettera 217). Si tratta, è evidente, di una visione altamente angosciante (che
l’invenzione del limbo, o limitare dell’inferno, cercherà di attenuare); visione fatta propria non solo
dal concilio locale di Cartagine del 418 ("Se qualcuno dice… che esiste nel regno dei cieli o altrove
un luogo intermedio dove i bambini morti senza battesimo vivono felici sia scomunicato"), ma
anche dai concili ecumenici di Lione del 1274 e di Firenze del 1439 ("Le anime di quanti muoiono
in stato di peccato mortale o anche col solo peccato originale, scendono all’inferno, dove, tuttavia,
saranno punite con castighi diversi").

Distacco dalla terra in vista del paradiso

 Cosa fare, allora, per salvarsi? Bisogna anzitutto, con l’aiuto della grazia divina, disciplinare il
corpo e, distogliendo il desiderio dai beni terreni, caduchi e perciò inevitabilmente deludenti,
orientarlo verso il bene immutabile ed eterno, che solo può appagarlo. Ecco, allora, la via alla
beatitudine. Spezzato ogni legame terreno, cercare Dio solo. Nel possesso immediato ed esclusivo
di Dio, reso possibile dalla fede e dalla grazia, l’uomo trova, infatti, la sua felicità: "Lui stesso ti
basta; fuori di lui niente ti basta" (Sermo 334, 3). Ma in questa vita si pregusta appena quella
beatitudine, fatta di riposo, visione, amore e lode, che si sperimenterà pienamente solo nell’aldilà:
"là noi riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che alla fine
sarà, senza fine. E quale altro fine abbiamo, se non di giungere al regno che non avrà fine?"(De
civitate Dei 22, 30).

La spiritualità medievale
Disprezzo del mondo

La comunione con Dio, che si realizza pienamente nell’aldilà, appare sempre più chiaramente il fine
del cristiano. Di conseguenza, col passare dei secoli la vita terrena è vista sempre più come
esperienza provvisoria, come luogo di sofferenza da sopportare in attesa della felicità eterna. Il
mondo, creato buono, ha perso la sua bontà naturale a causa del peccato: se a Cassiano esso, con
tutta la sua bellezza, appariva un nulla, ora è diventato una valle di lacrime, come recita una
preghiera composta nel medievo. Uno dei temi più ricorrenti nella letteratura del tempo è quello del
disprezzo del mondo, e una delle composizioni più rappresentative di tal genere letterario è il De
contemptu mundi, sive de miseria conditionis humanae, del cardinal Lotario de’ Conti di Segni,
futuro papa Innocenzo III (1198-1216). Decisamente misera è, per Lotario, la vita dell’uomo, "nato
per il lavoro, per il dolore e la paura e, ciò che è peggio, per la morte"(Patrologia Latina, t.
CCXVII, col. 702).

La vita come espiazione

Anzi, l’uomo è in se stesso qualcosa di spregevole, soprattutto a causa del corpo e della sessualità,
che contaminano l’anima: "l’uomo è formato di polvere, di fango, di cenere e, cosa ancora più vile,
di immondissimo sperma… Chi ignora infatti che l’unione carnale dei coniugi non avviene mai
senza il prurito della carne, il ribollimento del desiderio e il puzzo della lussuria? Quindi ogni
uomo, proprio in forza dell’atto per cui è stato concepito, è corrotto, inquinato e viziato, dato che il
seme umano comunica all’anima che vi è infusa la macchia del peccato, lo stigma della colpa, la
deturpazione dell’iniquità"(ivi, col. 702-704). La vita terrena, con le sue sofferenze, non serve
perciò ad altro che all’espiazione dei peccati. Così, nella seconda metà del ’200, nel suo prologo
alla traduzione in lingua toscana dell’opuscolo del papa, scrive efficacemente il laico Bono
Giamboni: "chi sopra tutte le avversità di che gl’incontrano nel mondo vorrà pensare, non sentirà
mai che bene vi sia; perché questo mondo non è altro che miseria. E da Dio fu dato all’uomo perché
qui dovesse tribulare e tormentare, e portasse pene delle sue peccata"(Della miseria dell’uomo,
Firenze 1836, p 6). Neanche il neo-platonismo greco era arrivato a tanto!

Accettazione dell’ingiustizia

Logica conseguenza del disprezzo del mondo è poi, ovviamente, l’accettazione delle sperequazioni
sociali, dato che le sofferenze causate dalla povertà appaiono, in quest’ottica, cosa di poco conto.
Mentre ancora alla fine del sesto secolo Gregorio Magno (590-604) considerava ingiusta
l’appropriazione, da parte dei grandi proprietari, dei frutti della terra, destinati a tutti gli uomini,
tanto da affermare che "quando distribuiamo ai poveri alcune cose indispensabili non facciamo
dono di cose nostre ma restituiamo ad essi le loro"(GREGORIO MAGNO, Regula pastoralis, III,
21), nel tredicesimo secolo il papato accetta ormai senza riserve l’organizzazione sociale del tempo
e condanna ogni tentativo di mutarla. E le condanne, quasi senza eccezioni, si sono ripetute nel
tempo. Gli esempi sono innumerevoli: da quello di fra Dolcino, agli inizi del ’300, a quello dei
rivoluzionari del ’900. Anzi, già mormorare contro l’ingiustizia sarebbe peccato, come tra gli altri
ricorderà ai poveri un famoso predicatore del ’700 san Luigi Grignion de Montfort (1673-1716):
"quando mancate del necessario, sopportate con letizia, senza dire nulla che offuschi il più perfetto
distacco dalle cose terrene"(L. GRIGNION DE MONTFORT, Oeuvres, Paris 1961, p 1038). Infatti,
più della povertà è l’amore della povertà che è indispensabile alla salvezza: "sono molti i poveri che
si dannano. Solo i poveri che accettano volentieri la loro povertà sono predestinati. Molti poveri,
essendo tali per forza di cose, nel loro stato derelitto si danno alla mormorazione e finiscono nelle
braccia del demonio"(ivi, p 1037).

L’errore è cercare la felicità quaggiù

 Ancora alla fine dell’800 Leone XIII (1878-1903) sosterrà che "togliere dal mondo le disparità
sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura stessa
delle cose riesce inutile"(LEONE XIII, Rerum novarum, 15/5/1891, in E. ROSSI, Il Sillabo e dopo,
Milano 2000, p 120). Di conseguenza il papa è favorevole alla repressione delle agitazioni operaie:
"oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le plebi siano tenute a
dovere"(ivi, p 122); è esattamente ciò che in quegli anni faceva in Italia il governo Crispi. E agli
inizi del ’900 anche Benedetto XV (1914-1922), rifiutando l’ipotesi che la ricchezza possa derivare
dallo sfruttamento dei lavoratori, condannerà ogni ribellione: "quando i poveri lottano coi facoltosi,
quasi che questi si siano impadroniti di una porzione di beni altrui, non soltanto offendono la
giustizia e la carità, ma anche la ragione"(BENEDETTO XV, Ad beatissimi apostolorum principis,
1/11/1914, in E. ROSSI, Il Sillabo e dopo, Milano 2000, p 123). Egli individuerà piuttosto la causa
del disfrenarsi della cupidigia, che è alla radice delle rivendicazioni dei poveri, nella diffusione
dell’idea esiziale che l’uomo "quaggiù, proprio quaggiù, può essere felice col godimento delle
ricchezze, degli onori, dei piaceri di questa vita"(ivi, p 124).

La scoperta di Aristotele

Tornando al medioevo, in un clima così saturo di pessimismo circa il mondo e la vita terrena, la
scoperta del pensiero di Aristotele, agli inizi del ’200, ha effetti dirompenti. La prospettiva
aristotelica mette clamorosamente in discussione l’interpretazione platonizzante del vangelo che si
era consolidata nel corso dei secoli. I professori delle Università si divideranno proprio su tale
questione: rifiutare Aristotele, opponendosi ad un maestro di indiscutibile prestigio, o accettarlo,
mettendo in pericolo delle verità che sembravano acquisite una volta per tutte. La soluzione del
dilemma sarà offerta da Tommaso d’Aquino, che accoglierà le principali tesi aristoteliche (uno
sguardo sul mondo meno pessimista di quello agostiniano, un tentativo di concepire l’uomo come
unità di anima e di corpo, una teoria delle passioni di stampo aristotelico e non stoico o platonico,
una speciale esaltazione dell’amicizia, una valorizzazione dell’edificio aristotelico delle virtù, e in
particolare di quella della giustizia, che gli fa riscoprire la tesi patristica della destinazione
universale dei beni della terra) ma armonizzandole col platonismo della tradizione cristiana. Così,
per quanto riguarda il problema della beatitudine, la soluzione tomista, che pure sembra ripercorrere
l’indagine aristotelica, se ne allontana su alcuni punti decisivi, riaffermando con un rigore logico
mai raggiunto in precedenza la teoria della visione beatifica. Per Aristotele, infatti, l’uomo si
realizza nell’attività intellettuale, che si eleva in qualche momento sino alla contemplazione del
Motore immobile; tale compimento umano si attua in questa vita; esso è opera delle sole forze
naturali. Su questi tre punti Tommaso pensa esattamente il contrario: l’uomo si realizza non nella
generica conoscenza ma nella visione immediata di Dio, che si attua nell’aldilà, grazie a un dono
sovrannaturale.

Tommaso (1224-1274)
Il fine dell’uomo

L’Aquinate ritiene, infatti, che l’anima umana sia immortale (d’accordo in ciò con Platone e non
con l’Aristotele della Nicomachea) e che sia caratterizzata dall’intelligenza e dalla volontà.
L’intelligenza permette di conoscere, al di là dei singoli enti, l’essere in quanto essere; la volontà,
desiderio guidato dall’intelligenza, tende, al di là dei singoli beni, al bene in quanto tale, al bene
infinito. Ciò basta per considerare insufficiente la soluzione di Aristotele. La vita contemplativa
dell’intellettuale, per quanto costituisca un’esperienza umana di altissimo valore, è pur sempre un
bene finito, e quindi non può appagare totalmente l’uomo. È dunque evidente per Tommaso che, se
la felicità deve appagare "interamente il desiderio dell’uomo, così che null’altro resti da
desiderare"(Somma teologica, I-II, 1, 5), essa non può risiedere che nell’unico bene infinito, Dio.
Ecco le sue parole: "oggetto della volontà è il bene universale, come oggetto dell’intelligenza è il
vero universale. Perciò è evidente che niente può appagare la volontà umana se non il bene
universale. E questo non si trova in nulla di creato, ma solo in Dio, poiché ogni creatura non
possiede che una bontà partecipata. Quindi solo Dio può colmare la volontà dell’uomo"(I-II, 2, 8).

Come possedere Dio?

Ma, ammesso che Dio sia il fine dell’uomo, come questi potrà ‘possederlo’? Tale Bene sfugge
evidentemente alla presa dei sensi, e la volontà può desiderarlo, non accaparrarselo. Il ‘possesso’
dunque non è possibile che grazie all’intelligenza: a Dio "si accede per mezzo di un’operazione
dell’intelletto speculativo"(I-II, 3, 5 ad 3m). Ma non basta certo per la felicità una conoscenza vaga
di Dio come quella che può fornire la ricerca filosofica. L’intelligenza si appaga solo quando
conosce la realtà nella sua essenza: ecco che "il fine ultimo della creatura intellettuale è dunque di
vedere Dio nella sua essenza"(Compendium theologiae, cap. CIV). Questa visione è possibile solo a
due condizioni: che l’anima sia slegata dal corpo (non si possono cogliere le essenze spirituali
sinché la conoscenza avviene attraverso i sensi) e che essa riceva una capacità conoscitiva
superiore: "l’intelletto creato non può vedere Dio per essenza se non in quanto Dio per la sua grazia
si unisce ad esso, rendendosi conoscibile"(I, 12, 4). Ecco perché bisogna ammettere, nell’aldilà, un
dono straordinario, che i teologi chiamano lumen gloriae, che fornisce all’uomo una capacità
sovrannaturale, divina di conoscere.

Stranezze

 Queste tesi forse sono un po’ strane: si afferma, infatti, come verità ovvia e inoppugnabile che
"l’appagamento definitivo mediante la ‘bevanda’ felicità venga raggiunto al di là della morte"(J.
PIEPER, Felicità e contemplazione, Brescia 1962, p 65), cioè quando l’uomo che conosciamo…
non c’è più! Si dice, inoltre, che la visione di Dio è un’esigenza naturale dell’uomo, perché senza di
essa l’uomo non può essere felice, e al contempo si afferma che questo desiderio naturale implica
necessariamente per la sua realizzazione un dono gratuito, il lumen gloriae: il che significa che tale
dono è dovuto e quindi non più gratuito, come sostiene tutta la tradizione teologica. E strano è
anche il fatto che nelle questioni della Somma dedicate alla beatitudine il tema della conoscenza
sostituisca praticamente quello dell’amore, che invece appare centrale nel vangelo. Parimenti, il
rapporto con gli altri uomini, così importante nella prospettiva biblica, diventa qui assolutamente
secondario. Infatti, per Tommaso "se ci fosse una sola persona a godere di Dio, essa sarebbe beata,
pur non avendo un prossimo da amare. Ma, supposto il prossimo, l’amore di lui segue dal perfetto
amore di Dio"(I-II, 4, 8 ad 3m).

La felicità imperfetta

 Se la beatitudine è il godimento che discende dalla visione beatifica, si capisce che la vita terrena
deve essere vissuta in funzione di quella ultraterrena. Tuttavia, è possibile anche qui una qualche
felicità, sia pure imperfetta, perché, grazie al lumen fidei, conosciamo già oscuramente ma
realmente quel Dio che vedremo a faccia a faccia nell’aldilà. La felicità terrena richiede tutti quei
beni, e solo quei beni, che sono indispensabili per la vita spirituale: così, per esempio, la presenza
degli altri è da ricercare perché "l’uomo per agire virtuosamente ha bisogno dell’aiuto degli amici,
sia nelle opere della vita attiva che in quelle della vita contemplativa"(I-II, 4, 8). Ma essa dipende
essenzialmente dalla contemplazione delle realtà attinte nella fede [la contemplazione "è lo scopo di
tutta la vita umana"(II-II, 180, 4)]: in questo mondo bisogna certo prendersi cura di tante cose, ma è
chiaro che "nella vita attiva, che si occupa di molte cose, c’è una beatitudine minore che nella vita
contemplativa, che si dedica a una sola cosa, cioè la contemplazione della verità"(I-II, 3, 2 ad 4m), e
che quindi imita più da vicino la vita dell’aldilà. È certo un po’ strano proporre come modello di
vita terrena quello che si avvicina di più ad una condizione ultraterrena che non conosciamo e che è,
in ogni caso, molto diversa da quella mondana. Ma evidentemente Tommaso è contento della vita
che ha scelto, quella domenicana, interamente dedicata alla preghiera, allo studio e
all’insegnamento delle verità contemplate ed è convinto che, essendo quella che più risponde alle
esigenze di una natura umana destinata ad una felicità più che umana, non ce ne sia una migliore.

Un bilancio
In sintesi

 In forma schematica, la tesi di Tommaso si può così riassumere: a) l’uomo desidera per natura un
bene infinito, Dio; b) questo desiderio può essere colmato solo dal possesso immediato, dalla
visione dell’essenza divina; c) la beatitudine consiste nell’appagamento della volontà, nella gioia
che consegue a tale visione; d) questa visione è possibile nell’aldilà, all’anima illuminata dal lumen
gloriae; e) già in questo mondo l’anima possiede oscuramente Dio, grazie alla contemplazione resa
possibile dal lumen fidei; f) la felicità imperfetta è la gioia che consegue a tale contemplazione; g)
per tale felicità si richiede solo ciò che è necessario alla vita contemplativa. Questa teoria è, secondo
Tommaso, fondata sull’analisi della natura umana e sostenibile con argomenti puramente razionali.
I filosofi greci, e in particolare Aristotele, avrebbero riconosciuto che il fine dell’uomo è la
contemplazione di Dio ma, ignorando l’ordine sovrannaturale e "non avendo potuto conoscere
pienamente la felicità suprema, essi hanno posto la più alta felicità dell’uomo nella contemplazione
che ci è accessibile qui giù"(Contra Gentes III, 63). La fede cristiana non avrebbe fatto altro che
spiegare come il desiderio naturale trovi effettivo appagamento nell’aldilà col dono della grazia,
della vita divina.
 

Origine della teoria della visione beatifica

 In realtà la tesi del desiderio naturale, ma inefficace senza una luce sovrannaturale, di vedere Dio
nasce non da un’analisi filosofica ma dalla lettura della Bibbia. E, bisogna aggiungere, da una
lettura datata di essa. Oggi, infatti, gli esegeti sottolineano la portata simbolica del linguaggio
biblico (parlando delle Beatitudini, abbiamo visto come il Dupont ricordi ciò a proposito dei puri di
cuore), la valenza più affettiva che intellettuale che hanno i verbi ‘conoscere’ e ‘vedere’ nelle lingue
semitiche [sicchè la ‘visione facciale’ di Paolo non esprimerebbe che la comunione che nasce
dall’amore: "la fredda conoscenza oggettiva si rivela dunque ben poca cosa di fronte al
riconoscimento dell’essere conosciuti, cioè amati da Dio. […] La vera conoscenza in ambito di fede
cristiana è riconoscimento, adesione personale, amore"(Le lettere di Paolo, traduzione e commento
di Giuseppe Barbaglio, Roma 1980, pp 391-392)], la dimensione intramondana della felicità
conseguente all’avvento del regno annunciato nel Vangelo (sulla terra deve aver fine l’oppressione
dei poveri). La soluzione tomista, dunque, sembra il frutto della lettura platonizzante della Bibbia
propria del medioevo. In Tommaso l’anima ha decisamente preso il posto dell’uomo e l’aldilà della
vita terrena: la beatitudine perfetta infatti "è promessa a noi da Dio quando saremo come angeli in
cielo"(I-II, 3, 2 ad 4m). Nonostante la citazione evangelica (cfr. Matteo 22, 30), la concezione
tomista sembra più ispirata dalla religiosità orfica che da quella biblica.

Conseguenze

Le teorie, poi, hanno sempre conseguenze pratiche. L’idea che il fine dell’uomo sia la sua
divinizzazione, sia pure ricevuta come grazia, ha di fatto esaltato le aspirazioni narcisistiche
dell’uomo: questi sarebbe "stato creato non per divenire ciò che egli è per natura, un uomo; ma per
divenire, per grazia, ciò che non potrebbe essere per natura, un partecipe della stesa natura
divina"(Ch. JOURNET, Conoscenza e inconoscenzza di Dio, Milano 1959, p 57); forse sarebbe più
rispettoso del mistero di Dio riconoscere che la creatura è creatura e che non può pretendere in
alcun modo di diventare Dio. Inoltre, il desiderio della divinizzazione, che trova il suo compimento
nell’aldilà, ha provocato la più radicale svalutazione, non solo della corporeità ma di tutta la vita
terrena nel suo complesso, che sia dato riscontrare nella cultura occidentale. In effetti, più che ad
impegnarsi per migliorare questo mondo la spiritualità tradizionale ha esortato i credenti a
"disprezzare i beni terreni e ad amare quelli celesti", come si esprimeva il messale rimasto in vigore
sino alla riforma liturgica promossa dal concilio Vaticano II.

Ostinazione

E non bisogna credere che si tratti di tesi oggi abbandonate. Uno dei più prestigiosi tomisti del ’900,
ad esempio, ritiene che si può affermare con certezza che "nessuna morale merita meglio di quella
di san Tommaso l’epiteto di umanista e si può, senza il minimo paradosso, definire il tomismo come
un umanesimo integrale"(E. GILSON, Saint Thomas moraliste, Paris 1974, p 60). E il Catechismo
della Chiesa cattolica (Città del Vaticano, 1992), espressione del magistero ordinario, dopo aver
ricordato che "le beatitudini rispondono all’innato desiderio di felicità"(1718) e aver citato san
Tommaso: "Dio solo sazia"(Expositio in symbolum apostolicum, 1), ribadisce che Dio "ci ha creati
per conoscerlo, servirlo e amarlo, e così giungere in Paradiso"(1721) e cita sant’Ireneo (vescovo di
Lione intorno al 175): "il Padre è incomprensibile; ma nel suo amore, nella sua bontà verso gli
uomini e nella sua onnipotenza arriva a concedere a coloro che lo amano il privilegio di vedere
Dio"(Adversus haereses, 4, 20, 5). E così conclude, ignorando del tutto le più sicure acquisizioni
esegetiche: "le beatitudini ci insegnano il fine ultimo al quale Dio ci chiama: il Regno, la visione di
Dio, la partecipazione alla natura divina, la vita eterna, la filiazione, il riposo in Dio"(1726).

Il cammino percorso

Abbiamo iniziato la nostra esplorazione del concetto di felicità nel mondo greco ricordando che il
termine macarìa indicava la beatitudine propria degli dei, che gli uomini potevano possedere solo in
maniera parziale e fugace. Abbiamo visto, poi, come i filosofi abbiano cercato di proporre delle
strategie atte a costruire, almeno per alcuni uomini, un’intera vita felice e, infine, come i teologi
medievali abbiano creduto di trovare nella Bibbia, che in realtà poneva l’esigenza di una vita degna
per tutti in questo mondo e fondava tale esigenza sulla fede in un Dio-Amore, la promessa del dono
ad ogni uomo, nell’aldilà, della stessa beatitudine divina. Forse da questa ricchissima tradizione,
che pur va sottoposta ad un attento vaglio critico, possono ancora giungere sino a noi suggerimenti
preziosi.

Quasi una conclusione

Potremmo ricominciare a gustare i momenti di felicità che la vita ci dona, imparare a riflettere sulle
scelte di fondo che possono dare un senso compiuto alla nostra esistenza, scoprire che nessuna
esperienza può essere assolutizzata tanto da restarne imprigionati. Forse potremmo addirittura
scoprire che il modo migliore per avvicinarci alla felicità è quello di non pensarci troppo! Occuparci
un po’ della felicità altrui potrebbe infatti giovare molto anche alla nostra felicità: persino se ciò
dovesse sul momento costarci. La vita procede, infatti, per sentieri misteriosi e a volte, meglio del
ragionamento filosofico, è l’intuizione poetico-religiosa che si rivela capace di coglierne il segreto:
"chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà"(Luca 17, 33). O,
con un linguaggio laico e certamente più leggero: "la felicità è come il carbon coke: una cosa che si
ottiene come sottoprodotto della fabbricazione di un’altra cosa [il carbon fossile]"(A. HUXLEY,
citato in J. LECLERCQ, Les grandes lignes de la philosophie morale, Louvain-Paris 1946, p 263).

[1]
Si veda la nota 1 al testo La felicità nel pensiero greco

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