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TESTI E SAGGI

RINASCIMENTALI
gh

LODOVICO DOLCE

DIALOGO
DIALOGO DEL MODO DI ACCRESCERE E CONSERVAR LA MEMORIA

DEL MODO
DI ACCRESCERE
E CONSERVAR
LA MEMORIA

a cura di
ANDREA TORRE

EDIZIONI
DELLA
NORMALE
SCUOLA NORMALE SUPERIORE
PISA 2001
gh

I
VI A. TORRE
TESTI E SAGGI
RINASCIMENTALI
SCUOLA NORMALE SUPERIORE
PISA
I

Collana diretta da
LINA BOLZONI
VI A. TORRE
LODOVICO DOLCE

DIALOGO
DEL MODO
DI ACCRESCERE
E CONSERVAR
LA MEMORIA

a cura di
ANDREA TORRE

SCUOLA NORMALE SUPERIORE


PISA 2001
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

ISBN 88-7642-103-3

Pubblicazione realizzata con fondi del Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, nell'ambito
del programma Il sogno nella letteratura italiana del Rinascimento: studio delle tipologie e delle funzioni e costruzione di
un archivio informatico di parole e immagini.
DIVENIRE MEMORIA V

PREMESSA

Si inaugura, con il Dialogo del modo di accrescere e conservar la


memoria di Lodovico Dolce, una nuova collana che da un lato si
rifà a una tradizione che è stata viva e importante – la collana della
Scuola dedicata alla pubblicazione di testi umanistici inediti e rari␣ –
e d’altro lato intende allargare l’ambito cronologico, aprirsi alla
saggistica e all’edizione di testi che non sempre rientrano nelle tra-
dizionali divisioni disciplinari.
Vorrei dedicare questo progetto che prende vita al ricordo di
Paolo Fossati e al suo amore per i libri.

Lina Bolzoni
VI A. TORRE
DIVENIRE MEMORIA VII

Delle ombre che emersero


da tenebre profonde
ti sarà dolce al fine, anche se adesso è amara,
l’immagine e la lettera.
G. Bruno, Le ombre delle idee
VIII A. TORRE

a Luigi e Andrea
DIVENIRE MEMORIA IX

DIVENIRE MEMORIA

Mostra, quasi d’onor vestigi degni,


Di non brutte ferite impressi segni.
T. Tasso, Gerusalemme liberata

I. «I dèi cangiati in nuove forme io canto»

Egli si vede non rade volte avenire, nobilissimo Messer Giacomo, che per
difetto della natura, liberale a pochissimi delle sue grazie, o di altro impedi-
mento, che sia in noi, molti huomini prudenti e in qualche studio di lettere
esercitati, non possono i loro concetti, sì come essi gli hanno nell’intelletto,
così di fuor con la lingua esprimere perfettamente. La qual cosa, sì come è
compassionevole, così veramente è degna di scusa. Ma coloro i quali da folle
licenza mossi hanno ardimento di mandare a gli inchiostri le loro invenzioni,
senza ordine et ornamento, e senza sapere con qualche piacevolezza dilettare
l’animo di chi legge, sono sempre stati e debbono meritamente esser ripresi.
Il che se è difficile (ché nel vero esser si vede) molto più è da credere, che
difficile cosa sia lo esprimere o con parole, o con inchiostro i concetti d’al-
trui, di maniera che non si offenda né l’intelletto di chi gli legge, né l’orecchie
di chi gli ascolta; percioché fa di mestiero che noi quasi un’altra lingua e quasi
(se far si può) un’altra natura prendiamo. Non è dunque di sì poca importan-
za, come alcuni stimano, l’officio di tradurre un libro d’una lingua in un’altra
in modo che si possa comportevolmente leggere1.

Dinanzi a queste parole gli attenti detrattori di Lodovico


Dolce2 non mancherebbero di rilevare come più di una volta l’au-

Desidero ringraziare Lina Bolzoni per i preziosi consigli che hanno reso possi-
bile la realizzazione di questo libro e Paola Barocchi per averlo accolto tra le
pubblicazioni della Scuola Normale. Questo lavoro nasce nel dialogo curioso e
complice con Stefano Tomassini.
1
Thyeste. Tragedia di messer Lodovico Dolce tratta da Seneca, Venezia,
Giolito 1547, lettera prefatoria «al Magnifico Messer Giacomo Barbo» [corsivi
miei].
2
La prima e tuttora più completa fonte di notizie biografiche su Lodovico
Dolce è E.A. CICOGNA, Memoria intorno la vita e gli scritti di messer Lodovico Dolce,
in «Memorie dell’I.R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», XI, 1862, 93-200.
Contributi più recenti, e tra loro differenti per tenore critico e finalità d’indagine,
ci sono stati offerti da: C. DI FILIPPO BAREGGI, Il Mestiere di Scrivere. Lavoro
X A. TORRE

tore veneziano abbia celato l’esistenza della «natura altra» da lui


assunta, presentando come creazioni originali testi che in realtà
sono la traduzione di opere scritte in latino da altri e già circolanti
nel ricco mercato editoriale veneziano. Il termine traduzione an-
drebbe però còlto nel suo significato etimologico, e più vasto, di
traductio, – trasferimento di strutture, di concetti e di forme – che
spazia dal grado minimo della trasposizione parola per parola a
quello massimo della riscrittura, implicando quindi quel naturale
moto di «accrescimenti e diminuzioni» che già Andrea Menechini
ravvisava nei volgarizzamenti del Dolce:

Onde il DOLCE merita ogni lode in aver seguito la strada de’ Moderni,
ponendovi per entro alcune coselle di suo, per farla parer più vaga senza
obligarsi alle parole, non avendo in pensiero, come egli stesso afferma nel
principio del Libro, di far una semplice traduzione, essendo malagevol cosa
ridurre una Lingua in un’altra di parola in parola, senza accrescimento, o
diminuzione3.

D’altronde la «strada de’ Moderni» nel variegato mondo del-


la cultura tipografica veneziana era anche quella che faceva della
citazione un atto automatico e della duplicazione di testi – tematica
e formale – una costante, come ben ci dimostra proprio uno dei
più irriducibili rivali del Dolce, quel Girolamo Ruscelli che, dopo
aver affermato in rapida successione che il dolciano Dialogo della
institution delle donne «è tutto del latino di Lodovico Vives, del
quale potevate almeno far pure qualche menzione», che con la
Vita del Boccaccio, in tutto e per tutto opera del Sansovino, il Dol-
ce ha «fatto del mantello saio, e non v’è paruto se non honorevole,
il soprascriverla per descritta da voi», e ancora che il libro delle
Osservationi grammaticali, essendo «piccolissimo e tutto di cose
altrui, si può chiaramente conoscere che non vi sia di vostro se
non la colla delle congiunture nel rappattumarlo», il Ruscelli, di-
cevo, non si è di certo fatto scrupoli nell’impossessarsi del com-
mento dolciano all’Orlando furioso e nel presentarlo – senza mai

intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni 1988,


passim; G. ROMEI, Dolce, Lodovico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana 1991, XL, 399-405; R.H. TERPENING, Lodovico
Dolce. Renaissance Man of Letters, Toronto, University of Toronto Press 1997.
3
Delle lodi della poesia d’Omero, et di Virgilio. Oratione composta dall’Ec-
cellente Signor Andrea Menechini; il testo è in appendice alla seconda ristampa
di L. DOLCE, L’Achille, et l’Enea. Dove egli tessendo l’historia della Iliade d’Homero
a quella dell’Eneide di Vergilio, ambedue l’ha divinamente ridotte in ottava rima,
Venezia, Giolito 1572, 42.
DIVENIRE MEMORIA XI

nominare il Dolce – come propria annotazione in calce all’edizio-


ne del poema da lui curata nel 1556 per i tipi del Valgrisi4. Non
stupisca quindi più di tanto il fatto che nel mare magnum delle
traduzioni dolciane, accanto alle opere dei classici latini e greci
(questi ultimi tradotti dal latino) volgarizzate «per mostrar mag-
giormente a’ giovani la bellezza della nostra lingua, e la capacità
grande, che aveva di raccogliere in sé le bellezze di tutti gl’altri
idiomi», navighino anche libri che tra le loro carte velano testi
latini di autori più o meno contemporanei5; e non muova a scan-
dalo la naturalezza con cui il Dolce li ripropone ora a un maggior
numero di lettori, in quanto egli, conscio del fatto che l’aura del-
l’originalità non vale il «ben commune» (che, si badi, è sì quello
dei lettori ma anche quello dello stampatore, e di riflesso del lette-
rato suo collaboratore), traduce questi testi «perché si vegga quan-
to gli ingegni de’ moderni s’accostano a quelli de gli antichi»6 e
perché l’estraneità del grande pubblico alle lingue classiche non
pregiudichi la diffusione di opere degne d’interesse7.

4
G. RUSCELLI, Tre discorsi a Messer Lodovico Dolce, Venezia, Plinio
Pietrasanta 1553, 47-48; per la questione del commento all’Orlando furioso si
veda D. JAVITCH, Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, trad. it.
Milano, Bruno Mondadori 1999, 92.
5
La citazione è tratta dalla voce Dolce, Lodovico, nella Historia delle Vite
de’ Poeti Italiani di Alessandro Zilioli, [Biblioteca Marciana Venezia, Ms. Ital., X,
118]. Sul problema della traduzione nel Cinquecento si vedano: W. ROMANI,
Lodovico Castelvetro e il problema del tradurre, in «Lettere italiane», XVIII, 1966,
152-179; B. GUTHMÜLLER, Fausto da Longiano e il problema del tradurre, in
«Quaderni Veneti», XII, 1990, 9-56.
6
Dolce giustifica così nella dedica «al molto Honorato e Virtuoso Messer
Angelo de’ Motti» l’accostamento delle epistole di Pico della Mirandola, Ermolao
Barbaro, Marsilio Ficino e Angelo Poliziano a quelle di Plinio il Giovane e del
Petrarca nella da lui curata raccolta di Epistole di G. Plinio, di Messer Francesco
Petrarca, del Signor Pico della Mirandola et d’altri eccellentissimi huomini, tradotte
per messer Lodovico Dolce, Venezia, Giolito 1548. Queste parole, che sembrano
evocare l’ormai prossima querelle fra Antichi e Moderni (su cui si veda J.A.
MARAVALL, Antiguos y Modernos. Visión de la historia e idea de progreso hasta el
Renacimiento, Madrid, Alianza Editorial 1986), sono seguite da una delle molte
prese di posizione dolciane a favore della traduzione: «Né penso che alcuno mi
debba recare a biasimo, perché io abbia posto le mani nelle cose del Petrarca,
padre e prencipe della polita Lingua Thoscana; sapendosi che le sue epistole
sono piene di dottrina, e di nobilissimi precetti morali, ma scritte (colpa di
quella rozza età) in così barbara lingua, che da pochissimi sono lette; né possono
elle per la mia traduzione perdere tanto, che non risplenda in esse alcun lume
del Divino ingegno e della mirabile eloquenza di cotale huomo in qualche parte
per aventura più chiaro, che non fa nel Latino».
7
Cfr. Dialogo dell’Oratore di Cicerone, tradotto per Messer Lodovico Dolce,
Venezia, Giolito 1547, cc. iiir-iiiiv: «Dall’altra parte considerando l’utile che
XII A. TORRE

L’intervento del Dolce sugli originali latini, almeno per quanto


riguarda le opere in prosa, procede infatti nella direzione di
un’attualizzazione delle tematiche, filtrate secondo un gusto più
moderno e più laico, e di una ridefinizione formale che attraverso
tagli, sintesi e aggiornamenti (di exempla e auctoritates) guida la
metamorfosi del testo dalla rigida e fredda struttura trattatistica
quasi sempre a quella più vivace e scorrevole del dialogo; entrambe
le operazioni mirano a innalzare il livello di comprensibilità del-
l’opera e ad allargarne il bacino d’utenza in nome della mèta ulti-
ma da raggiungere: un equilibrio tra utilità e diletto – attivo poi
anche in poesia – che sottragga il testo alla formula del trattato
cortigiano, finalizzato al piacere o all’edificazione di un ristretto
uditorio, e che ne sottolinei la volontà di giovare a un più ampio
pubblico. Non è tenendo «sempre in mano le bilance d’Aristotele»
e in bocca la lingua e «gli essempi di Virgilio e di Homero» che si
perviene al «dilettare, intento principalissimo del poeta»8, così come

dalla lezione di questo libro può venire a infiniti huomini, a i quali per qual si
voglia difetto è tolto di poter sentir ragionare Cicerone nella sua lingua (…);
dandomi a credere che se la traduzione non sarà di quella perfezione che si
converrebbe a sì degna opera, almeno si debbano trovare in lei due parti neces-
sarie: le quali sono (se non m’inganno) chiarezza ne i sensi e facilità nello stile, cosa
che io veggo fin qui in molte traduzioni desiderarsi. Con tutto ciò non sono io
cotanto arrogante che io presumi di avere non dirò espressa ma neppure in parte
alcuna addombrata la divina immagine di Cicerone (…); et ancho perché i
colori della nostra lingua non sono per aventura bastanti a questo ritratto. (…)
A quegli veramente che, come io odo, prendono disdegno che sì fruttuose vigilie
del Principe de gli oratori Latini siano fatte communi a tutta Italia, affermando
la mia essere fatica inutile e vana, rispondo che, serbandosi nelle traduzioni i
medesimi concetti, ragionevolmente ne segue che ’l medesimo profitto se ne
possa trarre in tutte le lingue, e tanto più nella regolata Thoscana, quando ella
è men corrotta e più ricca delle altre Italiane e Barbare. Là onde se bene alcuni
di questi tali ha doppo lunghi sudori appresa a gran pena qualche poca cogni-
zione d’alcuna parte di questo Dialogo, non però dovrebbe egli portare invidia
al ben commune, cioè che altri con poca fatica (mercè d’un bello intelletto) in
brieve tempo ne potessero intendere altretanto e più di lui» [corsivi miei].
8
Tutte le citazioni sono tratte dalla lettera «Ai Lettori» con cui il Dolce
introduce l’edizione da lui curata de L’Amadigi del signor Bernardo Tasso, Venezia,
Giolito 1560. Particolarmente significativo è un passo della lettera in cui il Dolce,
descrivendo il procedimento compositivo seguito da Bernardo Tasso, sembra
offrirci di riflesso un’immagine di se stesso impegnato nell’«officio di tradurre»:
«È ben vero che avendo il signor Tasso la invenzione col mezo di molte belle favole
trovate dal suo felicissimo ingegno, e con la disposizione, e con l’arte, ristringendo,
allargando, mutando, fatta di comune propria e sua particolare, non s’è obbligato
ad alcune cose che piacquero all’Ariosto, come di serbare la moralità ne’ principii
di ciascun canto, ma quelli è ito variando per maggior vaghezza».
DIVENIRE MEMORIA XIII

è di grande utilità, non solo per gli studiosi, «l’abbreviare e ridurre


in compendio i buoni autori (…), percioché ne i gran volumi la
memoria si perde e prima che’l legente pervenga al fine si scordano
le cose lette»9. Lungi dal voler sfidare l’originale con la resa di ogni
sua sfumatura semantica e poetica, l’«officio di tradurre», svolto
con assiduità e costanza dallo scrittore veneziano, è una tangibile
metafora della tensione, riscontrabile lungo tutta l’esperienza del
Dolce, tra la quotidiana necessità di calcare la scena povera della
cultura tipografica veneziana, e l’indefessa volontà – che della pri-
ma è l’esibita elaborazione, la declinazione poetica – di preservare
l’intelletto e le orecchie di un pubblico a cui sia concesso senza
limitazioni di poter «comportevolmente leggere» i libri; tra l’ inti-
ma curiosità per i meccanismi dell’arte letteraria, che lo portò a
sperimentarne, spesso con un volo senza rete, ogni luogo10 e ad
abitarne, con viva partecipazione, tutte le principali battaglie 11, e il

9
L. DOLCE, Somma di tutta la natural filosofia di Aristotele, Venezia, Sessa
1565 (anche in questo caso il passo appartiene alla lettera introduttiva del Dolce
«Ai Lettori»).
10
Dalla minuziosa analisi critica, che Claudia Di Filippo Bareggi condu-
ce, dell’universo editoriale veneziano nel Cinquecento emerge con definitiva
chiarezza l’oggettivo primato della produzione dolciana: in 36 anni di lavoro,
al servizio di pressoché tutte le tipografie della Laguna, Dolce diede alla luce ben
358 opere (96 originali, 202 lavori di edizione, 54 traduzioni e 6 traduzioni-
edizioni), fra le quali 263 si possono ascrivere al settore letterario e 29 a quello
storico, 25 sono invece i testi di interesse linguistico, 24 appartengono al ramo
della trattatistica, e infine 11 sono le opere esoteriche, 5 quelle filosofiche e una
sola d’argomento religioso. Differenziata fu chiaramente la distribuzione di
queste opere nel corso complessivo dell’attività del Dolce, così come sensibil-
mente differente per stagione fu la sua collaborazione con gli stampatori vene-
ziani, a testimonianza del fatto che il nostro autore fu attentissimo a cogliere
ogni cambiamento nei gusti del pubblico del tempo e particolarmente avvertito
nel leggere i rapporti di forza caratterizzanti il variabile mercato editoriale della
Repubblica (cfr. C. DI FILIPPO BAREGGI, Il Mestiere di Scrivere. Lavoro intellet-
tuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, ed. cit., 58-60 e 323-327).
11
Dalla questione della lingua, in cui intervenne teoricamente, con I
quattro libri delle Osservationi Grammaticali, e praticamente, con la summa di
esempi intitolata Modi affigurati e voci scelte et eleganti della volgar lingua, ai
molti dibattiti proprî di una critica letteraria, che in Italia s’inaugurò nel 1535
proprio con La poetica d’Horatio, tradotta per Messer Lodovico Dolce; dalla dia-
lettica concernente la morfologia del genere tragico rinascimentale, a cui prese
parte con traduzioni e opere originali, alla querelle divampata intorno all’Orlan-
do furioso e più in generale intorno al rapporto fra epica classica e romanzo
moderno, querelle a cui prese parte con interventi critici [Orlando furioso di
Messer Ludovico Ariosto (…). Con una breve apologia di Messer Lodovico Dolcio
contra i detrattori dell’autore, Cravoto, Torino 1536; Orlando furioso di Messer
Ludovico Ariosto (…). Con una brieve dimostrazione di molte comparazioni et
XIV A. TORRE

‘dovere’ della presenza a fianco dei più influenti protagonisti di


una eccezionale stagione artistica, primo fra tutti quel «messer
Gabriello, a spese del quale», come al Dolce ricorda il Ruscelli,
«vivevate, e vivete voi»12.
Viva perché vitale e attiva, la presenza del Dolce sulla scena
veneziana è dunque una naturale conseguenza della rivoluzionaria
comparsa e del repentino sviluppo dell’arte mechanica della stam-
pa, ovvero di quella ri-produzione tecnica del libro che ha profon-
damente modificato i protagonisti del mondo della cultura, i loro
rapporti reciproci e i frutti di tali rapporti: l’autore, nel comporre
l’opera, tiene ora in costante considerazione il possibile lettore-com-
pratore che d’altra parte, con lo sviluppo quantitativo e qualitativo
dell’alfabetizzazione, tende ad assumere un atteggiamento più co-
sciente di fronte all’opera propostagli e aspira ad un ruolo sempre
più attivo nell’elaborazione del materiale letterario13; fra i due s’in-
sinua poi in modo decisivo la vera e propria creatura della «rivolu-
zione del libro»14, il collaboratore editoriale, colui che sonda gli

sentenze dell’Ariosto in diversi autori imitate, Venezia, Giolito 1542 – nell’ed.


Valvassori del 1566 la Brieve dimostrazione presenta numerose aggiunte –;
Eleganze, con un discorso sopra a mutamenti e diversi ornamenti dell’Ariosto, Sessa,
Venezia 1564] e opere di letteratura (Dieci canti di Sacripante, Zoppino, Venezia
1537; Le prime imprese del conte Orlando di Messer Lodovico Dolce, Venezia,
Giolito 1572).
12
G. RUSCELLI, Tre discorsi a Messer Lodovico Dolce, ed. cit., 5. Sulla vita
quotidiana nella casa-tipografia di Gabriele Giolito si veda S. BONGI, Annali di
Gabriele Giolito de’ Ferrari, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione 1890, I,
V-LXXXIV.
13
L’invenzione e il successo editoriale delle Raccolte (di lettere e poesie
soprattutto) sono una significativa testimonianza di questa estensione della
pratica di scrittura letteraria, come possiamo vedere nella lettera del Dolce «Al
Signor Silvio di Gaeta», che fa da dedica alla raccolta, da lui curata, delle Lettere
di diversi eccellentissimi huomini, Venezia, Giolito 1554: «Non essendo,
eccellentissimo Signor mio, cosa veruna più in uso de gli huomini, di quello ch’è
lo scriver l’un l’altro, né più necessaria, né di maggior commodo, è nel vero da
maravigliare che per lungo tempo in questa nostra lingua volgare per molti, che
ci siano stati, dottissimi huomini e di nobile intelletto dotati, pochissimi abbia-
mo veduti riuscire a una lodevole perfezione. Ma questo si comprende in buona
parte esser proceduto dal non avere avuto costoro esempio da imitare. Percioché
dapoi che ’l dottissimo Messer Paolo Manuzio mandò fuori i libri delle lettere
di diversi eccellentissimi ingegni da lui raccolte, subito s’è veduto per le città
d’Italia fiorire una copia grandissima di scrittori nobili». Sulla fortuna delle
sillogi epistolari cfr. Le “carte messaggiere”. Retorica e modelli di comunicazione
epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam,
Roma, Bulzoni 1981.
14
Si fa riferimento alla fondamentale analisi della cultura tipografica
cinquecentesca di E.L. EISENSTEIN, Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della
DIVENIRE MEMORIA XV

interessi della piazza, contatta gli autori pubblicabili, organizza le


linee editoriali e partecipa direttamente alla fase produttiva in veste
di curatore, commentatore, traduttore o, caso non raro, autore del-
l’opera15. A crescere e variare è anche il mercato librario, non più
rivolto esclusivamente alla corte, ecclesiastica o signorile, meno spe-
cialistico e più aperto alle esigenze di una cultura media, ma so-
prattutto più fortemente regolato da una domanda, differenziata e
in continuo aumento, e da un’offerta che non può più prescindere
dal fornire un prodotto nuovo nei contenuti o almeno originale
per veste e formule editoriali. Figlio in tutto e per tutto del suo
tempo, Dolce fu sì sempre pronto nel comprendere le mutazioni di
gusto del pubblico ma anche abile nell’indirizzare le scelte del let-
tore con proposte anche innovative e con scaltre operazioni di pub-
blicità16, arrivando quasi a delineare egli stesso nuove zone del mer-

stampa e la nascita dell’età moderna, trad. it. Bologna, il Mulino 1995. Sulla
stampa «come fattore di mutamento» si vedano anche: M. MCLUHAN, La galas-
sia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, trad. it. Roma, Armando 1976; W.J.
ONG, Oralità e scrittura, trad. it. Bologna, il Mulino 1986; L. FEBVRE - H.J.
MARTIN, La nascita del libro, trad. it. Bari, Laterza 1988.
15
Questa nuova figura d’intellettuale, immersa in una vasta corrente di
rapporti (con la merce e con le persone), si serve del libro come mezzo di una
personale promozione sociale e culturale, e come strumento privilegiato per
intervenire nelle principali aree del dibattito culturale cinquecentesco. Cfr. A.
QUONDAM, “Mercantia d’onore, mercantia d’utile”, in Libri, editori e pubblico
nell’Europa moderna, a cura di A. Petrucci, Bari, Laterza 1977, 53-105; ID., Nel
giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, in «Giornale
storico della letteratura italiana», XCVII, 1980, 75-116; ID., Il letterato in tipo-
grafia, in Letteratura italiana, 2. Produzione e consumo, a cura di A. Asor Rosa,
Torino, Einaudi 1983, 555-686; nel caso specifico del Dolce si veda invece P.
TROVATO, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi
letterari italiani (1400-1570), Bologna, il Mulino 1991, 209-240.
16
Memorabile resta, nell’edizione giolitina della Comedia dantesca da
Dolce curata nel 1555 (quella in cui per la prima volta e proprio per iniziativa
del nostro si stampò accanto al titolo l’attributo boccacciano ‘Divina’), l’allet-
tante quanto difficilmente credibile promessa, contenuta nella dedica al vesco-
vo Coriolano Martirano, di una revisione del testo sulla base di «uno esemplare
frascritto dal proprio scritto di mano del figliuolo di Dante, avuto dal dottissimo
giovane Messer Battista Amalteo». Meno eclatante ma ugualmente indicativo
dell’abilità imprenditoriale dolciana, nonché particolarmente suggestivo per la
catena di letture che sembra costruire, è l’invito che in chiusa alla Somma di tutta
la natural filosofia di Aristotele Dolce rivolge ai suoi lettori: «Non è da tacere che
sarà senza utile a chi leggerà questi libri [scil. le Somme di Aristotele] il leggere
altresì il nostro volumetto della memoria, percioché il profitto delle lezioni è il
ricordarsi e la natural memoria ha sempre bisogno di essere aiutata dall’arte che
l’accresce e ce la conserva. Né si può dire che sia nostro altro che quello ch’in essa
memoria conserviamo» (ed. cit., 98); considerando che entrambe le opere sono
state stampate dal Sessa, il Dolce sfrutta la contiguità tematica per proporre un
XVI A. TORRE

cato editoriale: con il recupero di opere come il De Institutione


foeminae christianae (Basilea, Winter 1538) di Lodovico Vives, lo
Speculum Lapidum (Venezia, Sessa 1516) di Camillo Leonardi da
Pesaro e il Libellus de coloribus di Antonio Tilesio (Venezia, s.i.t.
1528), confluiti rispettivamente nel Dialogo della institution delle
donne secondo li tre stati che cadono ne la vita humana (Venezia,
Giolito 1545), nel Trattato delle gemme (Venezia, Sessa 1565) e nel
Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei
colori (Venezia, Sessa 1565)17, Dolce sembra infatti voler dimostra-
re come di testi a lungo confinati negli elitarî dominî di un
tecnicismo protoscientifico si possa fare letteratura, una letteratura
di consumo o di pubblica utilità, che dir si voglia, ma comunque
una letteratura munita di «ordine et ornamento» e in grado di dive-
nire comune commercio di un sempre maggiore numero di letto-
ri18, senza la presunzione di raggiungere i massimi sistemi dell’Arte
ma con forse la segreta speranza di solleticarne l’ispirazione19.

ideale percorso di lettura utile commercialmente e non privo d’interesse cultu-


rale in quanto riflesso della politica editoriale dei Sessa stampatori incentrata
sulla commercializzazione e sulla popolarizzazione di testi filosofici e scientifici.
17
Su questi testi si vedano: Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni
testi del XVI secolo, a cura di M. Zancan, Venezia, Marsilio 1983; F. DAENENS,
Superiore perché inferiore: il paradosso della superiorità della donna in alcuni
trattati italiani del Cinquecento, in Trasgressione tragica e norma domestica. Esem-
plari di tipologie femminili dalla letteratura europea, a cura di V. Gentili, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura 1983, 11-50; A. CHEMELLO, L’«Institution delle
donne» di Lodovico Dolce ossia l’«insegnar virtù et honesti costumi alla Donna», in
Trattati scientifici nel Veneto fra il XV e il XVI secolo, a cura di E. Riondato,
Vicenza, Neri Pozza 1985, 103-134; C. DE BELLIS, Astri, gemme e arti medico-
magiche nello Speculum lapidum di Camillo Leonardi, in Il mago, il cosmo, il
teatro degli astri. Saggi sulla letteratura esoterica del Rinascimento, a cura di G.
Formichetti, Roma, Bulzoni 1985, 67-113; J. LICHTENSTEIN, Éloquence du coloris:
rhétorique et mimésis dans les conceptions coloristes au 16° siècle en Italie et au 17°
siècle en France, in Symboles de la Renaissance, II, Paris, Presses de l’Ècole Nor-
male Supériore 1982, 169-184.
18
Cfr. L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e
proprietà dei colori, Venezia, Sessa 1565 (rist. anast. Bologna, A. Forni Editore
1985), c. 5r: «Già pochi giorni a dietro ogni sciocco pedante con intendere
superficialmente i Poeti o gl’Historici Latini, si pavoneggiava fra’ volgari con
l’addurne una sentenza hora di questo, hora di quello autore, le più volte alla
rovescia, e facendo qualche barbarismo. Hora perdono questi huomini di poco
sapere in grande parte l’alterezza, perché spesso trovano chi, mercé di queste
tradozioni, intende meglio che essi non fanno et abonda di maggior memoria
et intelletto. E veggonsi alle volte molte Donniciuole ragionar più volte sicura-
mente con huomini dotti di cose gravi e contenute ne’ Libri di Filosofia».
19
Cfr. la lettera del Dolce «Ai Lettori» che precede la Vita dell’invittissimo
e gloriosissimo imperador Carlo Quinto, Venezia, Giolito 1561, 2: «Nondimeno,
DIVENIRE MEMORIA XVII

Da un’analoga intuizione muove anche il Dialogo del modo di


accrescere e conservar la memoria (Venezia, Sessa 1562), ed è lo stes-
so Dolce a suggerircelo con divertito ammicco nella lettera
dedicatoria «Al Magnifico et Eccellentissimo signor Filippo Ter-
zo», dove rivela di aver voluto offrire l’opera a questo stimato ora-
tore veneziano «per ingannare i giovani disiderosi di cose nuove; i
quali veggendola intitolata a Vostra Signoria, stimandola per ciò
cosa buona, diventeranno volenterosi di leggerla» (p. 6): andando
oltre una lettura dell’espressione come tòpos encomiastico e veden-
do in essa una prefigurazione del Dialogo come silenico simulacro
in negativo, possiamo forse intenderla come allusiva immagine in
anteprima della veste dialogica di cui Dolce ammanta l’originale
latino, ma anche come prima dimostrazione del potenziale emoti-
vo dell’immagine (che, come vedremo, ci consentirà di mettere in
relazione la tradizione mnemotecnica col dibattito artistico e con i
conflitti di religione del Cinquecento), e soprattutto come epigrafica
rivelazione del duplice statuto dell’opera come autonoma forma di
vita ed essenziale mezzo per vivere.

II. Johannes Host e l’arte della memoria tra Riforma e Controriforma

A questa letteratura minore, se non minima, appartiene di buon


grado anche il Congestorium artificiosae memoriae, trattato latino di
arte della memoria20 di cui lo scrittore veneziano ci dà nel 1562 una

quantunque un tal carico sia così grande, e picciolissime le mie forze, potrà a me
per aventura avenir quello, che aviene talvolta a un mediocre Scultore, il quale
togliendo a scolpire in qualche bella pietra di porfido, o di serpentino, o pure
di alcun polito e candido marmo, benché il suo lavoro non sia molto perfetto,
ella è riguardevole per la rarità della materia in cui è intagliata. Così tale da ogni
sua parte è il soggetto di che ho preso a scrivere, che potrà da se medesimo di
gran lunga supplire alla debolezza del mio ingegno et alla bassezza del mio stilo;
né pur solamente supplire ma nobilitar l’uno e l’altro, e parimente destare i Faleti,
i Tassi, i Ruscelli, i Cari, et altri nobil Scrittori dell’età nostra a scriverne degnamen-
te» [corsivi miei].
20
Sull’arte della memoria, oltre ai classici saggi di Frances A. Yates e di
Paolo Rossi e al prezioso repertorio icono-bibliografico La Fabbrica del Pensiero.
Dall’arte della memoria alle neuroscienze, a cura di L. Bolzoni e P. Corsi, Milano,
Electa 1989, si vedano i recenti: Gedächtniskunst. Raum - Bild - Schrift. Studien
zur Mnemotechnik, a cura di A. Haverkamp e R. Lachmann, Frankfurt am
Main, Suhrkamp 1991; Mnemosyne. Formen und Funktionen der kulturellen
Erinnerung, Frankfurt am Main, Fischer 1991; La cultura della memoria, a cura
di L. Bolzoni e P. Corsi, Bologna, il Mulino 1992; Ars memorativa. Zur
kulturgeschichtlichen Bedeutung der Gedächtniskunst 1400-1750, a cura di J.J.
Berns e W. Neuber, Tübingen, Max Niemeyer Verlag 1993; L. BOLZONI, La
XVIII A. TORRE

traduzione in forma di dialogo: tacendo l’esistenza del testo latino,


il Dolce ci offre un solo fugace indizio sull’autore quando, introdu-
cendo tavole di alfabeti visualizzabili che possono giovare al ricor-
do, avverte il lettore «che un Tedesco ci ha posto nomi Tedeschi e
latini, che sono diversi da quei ch’io ho sopra detto» (p. ***).
Dietro l’anonimo tedesco si nasconde il predicatore domeni-
cano Johannes Host von Romberch21, complessa figura di illumi-
nato difensore della fede cattolica che, nonostante l’indefessa lotta
sostenuta contro il «pestifero contagio dell’eresia luterana»22 e l’in-
faticabile opera di divulgatore della vecchia fede23, non riuscì a evi-

stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino,
Einaudi 1995; Das enzyklopädische Gedächtnis der Frühen Neuzeit. Enzyklopädie-
und Lexikonartikel zur Mnemonik, a cura di J.J. Berns e W. Neuber, Tübingen,
Max Niemeyer Verlag 1998 (il volume è un’interessante antologia che raccoglie
testi di arte della memoria composti tra il XVI e il XVIII secolo); Memoria e
memorie. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, Accademia dei
Lincei 18-19 maggio 1995, a cura di L. Bolzoni, V. Erlindo, M. Morelli, Firenze,
Olschki 1999; Seelenmaschinen. Gattungstraditionen, Funktionen und
Leistungsgrenzen der Mnemotechniken vom späten Mittelalter bis zum Beginn der
Moderne, a cura di J.J. Berns e W. Neuber, Wien, Buhlau 2000; S. HEIMANN-
S EELBACH , Ars und Scientia. Genese, Überlieferung und Funktionen der
mnemotechnischen Traktatliteratur im 15. Jahrhundert, Tübingen, Max Niemeyer
Verlag 2000.
21
Sui principali momenti della vita di Johannes Host si veda N. PAULUS,
Die deutschen Dominikaner im Kampfe gegen Luther (1518-1563), Freiburg,
Herder 1903, 134-153.
22
Ibidem, 139: «Dem Kölner Oberhirten rühmt Host nach, dab er, wie
kaum ein anderer, eifrigst bestrebt sei, seine Diözese von der Pest der Ketzerei rein
zu erhalten» [corsivo mio]. Sull’identificazione tra eresia e pestilenza si veda G.
FRAGNITO, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della
Scrittura (1471-1605), Bologna, il Mulino 1997, 114-115.
23
Host fu autore di opere teologico-catechistiche (Christliche Regell ueber
alle Gottes, Köln, apud Heronem Alopecium 1531; Determinatio miscellanea
Theologica quaestiones, Köln, apud Heronem Alopecium 1532; De idoneo verbi
Dei ministro, Köln, apud Heronem Alopecium 1532; Ratio confitendi omnibus
confessoribus simul ac poenitentibus perutilis ac scitu necessaria, Köln,Ioh. Dorstius
1532) e curò la pubblicazione di polemisti cattolici a lui contemporanei (Malleus
I. Fabri in haeresim Lutheranam, iam vehementiori studio et labore recognitus,
Köln, Quentel 1524; Enchiridion locorum communium adversus Lutheranus Ioanne
Eckio authore, Köln, s.i.t. 1525; Antilogiarum M. Lutheri Babylonia, per I. Fabri,
Köln, Quentel 1530; Farrago miscellaneorum Conradi Wimpinae a Fagis, Köln,
apud Io. Soterem 1531; Dionysii Carthusiani scalae religiosorum pentateuchus,
Köln, s.i.t. 1531; Ioannis Mensingi de Ecclesiae Christi sacerdotio libri duo, Köln,
Quentel 1532; Septem Psalmorum Poenitentialium pia atque non indocta enarratio
per Dionysium Carthus, Köln,s.i.t. 1532) e di testi Scolastici (Alberti Magni
Moralissima in Ethica Aristotelis commentaria, Venezia, Scotto 1520; Questiones
DIVENIRE MEMORIA XIX

tare l’infamante citazione nell’Index librorum prohibitorum come


«autore eretico o sospettato d’eresia»24. Queste accuse avevano già
interessato l’operato del predicatore nei suoi primi anni di servizio
a Colonia, suscitandone la sdegnata risposta:

Su ciò che io ho sofferto nei 25 anni trascorsi da quando sono stato nomina-
to predicatore per aver sempre riferito la Parola di Dio senza alcuna modifi-
ca, senza timore, forte e chiaro, potrei scrivere una tragedia (...) ci sono alcu-
ni che mi accusano di aver falsato la parola di Dio con le mie prediche; mi
definiscono “nemico della verità”, perché non ho approvato la condanna al
rogo di alcuni sospetti eretici. (...) Mi dovrei meravigliare molto più se non
avessi nemici, visto che combatto il male, non adulo nessuno, critico pubbli-
camente e privatamente i vizî degli uomini (...)25.

Di nemici Host doveva averne, e non solo tra i seguaci di


Lutero: più volte nei suoi scritti emergono uno spirito riformistico
e un atteggiamento critico nei confronti delle preoccupazioni mon-
dane della Chiesa, per molti versi ascrivibili a quell’umanesimo cri-
stiano che aveva avuto la sua più completa realizzazione nell’unione
erasmiana tra le eredità del mondo classico e il recupero delle origi-
ni semplici e pure del cristianesimo26. L’eliminazione dei gravi abu-
si della Chiesa veniva avvertita anche da Host come non più
procrastinabile, e alla sua attuazione poteva risultare funzionale per-
fino il profondo caos suscitato «dall’eresia» protestante: se Lutero
avesse anelato ad una reale riforma ecclesiastica, se si fosse rivolto ai
superiori della Chiesa per eliminare gli abusi – dice Host –, il mon-
do intero lo avrebbe seguito e la sua protesta, a cui va comunque il
merito di aver evidenziato il problema, avrebbe posto le basi per un
nuovo inizio, al quale non servivano nuove leggi ma solo la corretta

subtilissime Ioannis de Gandavo summi Averroyste in octo Libros Aristotelis de


physico Audito, Venezia, Giunti 1520; alcune fonti attribuiscono alla cura edi-
toriale di Host anche scritti di Tommaso d’Aquino e del domenicano inglese
Robert Holkott).
24
Cfr. N. PAULUS, Die deutschen Dominikaner im Kampfe gegen Luther
(1518-1563), ed. cit., 152
25
Questa accorata autodifesa si trova in una lettera, sulla fermezza dei
predicatori, inviata al domenicano sassone Johann Mensing, posta in appendice
all’edizione hostiana della Farrago miscellaneorum di Konrad Wimpina. Cfr. N.
PAULUS, Die deutschen Dominikaner im Kampfe gegen Luther (1518-1563), ed.
cit., 141 [trad. mia].
26
Tra l’altro Host, durante il suo soggiorno di studio a Venezia, fu curatore
della pubblicazione di un interessante scritto di Erasmo, il De duplici copia
verborum (Venezia, s.i.t. 1520).
XX A. TORRE

e completa esecuzione di quelle tradizionali27. Host tra l’altro parla


per esperienza diretta: egli viene da un Ordine appena uscito da
una grave e lunga crisi, foriera di scontri e divisioni interne che ne
hanno seriamente minato le fondamenta. Il movimento di riforma
domenicana, che dal XV secolo si oppose a questa crisi, anche se non
riuscì a riportare il fervore spirituale e lo zelo apostolico di un tem-
po, ricondusse la maggioranza dei conventi alla disciplina e alla vi-
talità, fornendo così all’Ordine una nuova veste con la quale affron-
tare la transizione dal Medioevo all’età moderna28. Per quanto l’Or-
dine non avesse preclusioni verso la nuova cultura, alcuni dei suoi
membri si preoccupavano dei possibili pericoli che in essa v’erano
per la morale cristiana; tra questi, i teologi di Colonia – dove Host
occupava una posizione non secondaria – brillarono nella difesa
dell’ortodossia e nel rilancio del tomismo; quest’ultima non fu solo
un’operazione di recupero ma assunse anche i connotati di una scelta
forte, ‘di lotta’: contro l’ormai libero recupero del mondo classico
nella sua integralità, contro un platonismo sempre più velato da
riflessi magici, alchemici e cabbalistici, contro un immaginario non
più fedele vassallo di un codificato sistema di vizî e di virtù.
Un momento paradigmatico di questa nuova età dell’oro
tomistica, dalle indubbie predisposizioni reazionarie, fu il cosid-
detto affare Reuchlin29, che per il giovane Host dovette rappresen-

27
«Adhortari debeat Lutherus ut Ecclesiae primates a se et ab aliis, si quae
funesta labes fuerit, studiosissime abstergerent, ut avaritiam seponerent,
symoniam, superbiam, ambitionem, hypocrisin, gulam, luxuriam et id genus
pestes clerici vitarent, ut mundanis rebus non deservirent, sed ut haec vitia in
eis reformarentur (...) ut corruptelae et abusus a sanctuario Dei tollerentur (...)
Si haec hisque similia Lutherus docuisset, aestimo totus ei mundus fuisset
assensus. At quis laudare possit quod omnes vituperat, laicos alioqui clericis
infestos ad rapinas et sacrilegia provocat, et omnia pervertit et conturbat? (...)
Hoc tamen bonum ex illa haeresi spero Deus pro sua bonitate et omnipotentia
elicet, ut vita nostra secundum apostolica vestigia et antiquorum patrum
sanctorumque sanctiones reformetur, utque veterum statuta et piae ordinationes
quae pro nostra tepiditate ferme in abusum abierunt, reformentur, nec opus erit
novis, quia vetustae sanctissimae procul dubio existant»; il testo è una lettera
inviata da Host al vescovo di Colonia, in cui lo zelante domenicano rende conto
del proprio operato nella lotta contro i luterani. Cfr. N. PAULUS, Die deutschen
Dominikaner im Kampfe gegen Luther (1518-1563), ed. cit., 139n.
28
Per una più dettagliata trattazione di questo momento cruciale della
storia dell’Ordine domenicano si veda W. HINNEBUSCH, I domenicani, trad. it.
Milano, Ed. Paoline 1992.
29
In nome del potere taumaturgico che gli studî cabbalistici attribuivano
alla lingua ebraica, l’umanista tedesco Johannes Reuchlin (1455-1522) si era
opposto alla messa al bando dei testi talmudici, reclamata dall’ebreo convertito
DIVENIRE MEMORIA XXI

tare una sorta di prova generale per quella parte di ‘avvocato del-
l’ortodossia cattolica’ che il domenicano si trovò a impersonare lungo
tutta la vita, salvo poi esserne enigmaticamente spogliato da mor-
to30. La violenta disputa divampata su suolo tedesco tra l’ambiente
umanistico, solidale con Reuchlin, e i teologi domenicani della
Facoltà di Colonia offrì inoltre ad Host la possibilità di abbando-
nare l’officio di predicatore in patria e di essere collocato in una
sfera d’azione più diretta e avanzata: la ‘prima linea’ dell’azione
antiluterana di Host e della sua opera di riattivazione dell’insegna-
mento tomistico venne così ad essere l’Italia, dove si recò come
procuratore del suo superiore Hoogstraeten, e più specificamente
Venezia, centro culturale europeo distante, e consciamente indi-
pendente, dal mondo, di corte o di curia, italiano31.

Johann Pfefferkorn e sostenuta dai teologi domenicani dell’università di Colo-


nia: il tono dello scontro, inasprito da ripetuti attacchi personali, fu particolar-
mente violento e, sebbene l’intera generazione dei giovani umanisti appoggiasse
Reuchlin contro i domenicani vedendo nella disputa una lotta fra l’affermazione
del Nuovo Sapere e le strenue opposizioni della reazionaria cultura Scolastica,
l’esito del processo che la Facoltà di Teologia, rappresentata dal priore di Colonia
Jacob von Hoogstraeten e dal suo giovane allievo Johannes Host, intentò contro
Reuchlin, fu negativo per l’umanista. Cfr. F.A. YATES, Cabala e occultismo nell’età
elisabettiana, trad. it. Torino, Einaudi 1982, 30-36; C. ZIKA, Reuchlin’s De verbo
mirifico and the Magic Debate of the Fifteenth Century, in «Journal of Warburg and
Courtauld Institutes», XXXIX, 1976, 104-138; sui riflessi mnemotecnici della
speculazione filosofica di Reuchlin si veda G.R. EVANS, The Ars praedicandi of
Johannes Reuchlin (1455-1522), in «Rhetorica», III, 2, 1985, 99-104.
30
R. KRAFT, Zeitschrift des Bergischen Geschichtvereins, IX, 1873, 152: «La
sua importante attività per l’antica fede (forse il cattolicesimo non riformato)
come insegnante d’università e predicatore a Colonia, il suo ardente zelo per la
Chiesa Romana, la sua incredibilmente ricca attività di scrittore, che mostra un
odio furente contro Lutero e la sua Riforma, l’integra purezza della sua condot-
ta; tutto questo darebbe alla Chiesa Romana il diritto di considerare il monaco
che si consuma per essa come una delle sue colonne nel Reno, se la misteriosa
fine della sua vita e la sua designazione come luterano nell’Indice dei libri proibiti
non lo collocassero come uno dei problemi non ancora risolti della storia al
tempo della Riforma. Poiché è possibile che il Romberg, il cui odio contro
Lutero e gli altri riformatori non conosceva limiti, alla fine si sia convertito»
[trad. mia].
31
Non bisogna però trascurare anche il ruolo che Venezia svolse come
‘porta’ italiana della Riforma; si veda a proposito M. FIRPO, Riforma protestante
ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Bari, Laterza 1993, 11: «Vero e proprio nodo
della propaganda eterodossa in Italia fu Venezia, con i suoi tipografi avidi di
novità, i suoi indaffarati gazzettieri, i suoi mercanti in rapporto con mezzo
mondo, il suo Fondaco dei tedeschi dove tra i sacchi di pepe e le balle di
pannilana non era difficile nascondere qualche fascio di volumi luterani, poi
XXII A. TORRE

Nel fulcro dell’industria editoriale italiana Host come autore


o in veste di semplice curatore diede alle stampe diversi volumi che,
oltre a testimoniarci gli interessi umanistici dell’eclettico domeni-
cano, non possono non apparire come momenti di un preciso pro-
gramma d’intervento culturale vòlto a rinsaldare le basi Scolastiche
della dottrina dell’Ordine di fronte alla tempesta teologica
riformistica. Stando al numero di pubblicazioni, Host capitalizzò
appieno il breve periodo del suo soggiorno veneziano con una
prolificità accostabile al tradizionalmente riconosciuto primato pro-
testante nell’utilizzo dei nuovi mezzi pubblicistici per la formazio-
ne e il controllo dell’opinione pubblica32. In un momento cruciale
per la storia della Chiesa occidentale, quando la frattura luterana
appariva tutt’altro che insanabile e i suoi motivi in parte accettabili
anche da ambienti cattolici, Host decise dunque di affrontare il
nemico sul suo terreno preferito, quello della stampa e del dibattito
culturale, avviando così, non sulla via della confutazione e dell’apo-
logia ma lungo quella dell’educazione e della missione intellettuale,
la breve ma intensa stagione dei controversisti pretridentini, le cui
opere sono importanti quali lavori di preparazione al Concilio e per
una giusta valutazione dell’opera teologica di esso.
Proprio a Venezia nel 1520 il nostro domenicano diede alla
luce il Congestorium artificiosae memoriae33, un testo apparentemente
lontano per tematiche dalla sua restante produzione ma coerente
con la secolare tradizione domenicana nello studio della memoria34

messi in vendita con le dovute cautele (e a prezzo remunerativo) nelle botteghe


dei librai. Già nel ’20 un francescano tedesco che insegnava nella città lagunare
informava Giorgio Spalatino, predicatore dell’elettore di Sassonia, del fatto che
vi si potevano acquistare opere di Lutero». Sui rapporti tra editoria veneziana
e Riforma si veda anche P.F. GRENDLER, L’inquisizione romana e l’editoria a
Venezia. 1540-1605, trad. it. Roma, Il Veltro 1983.
32
Sul rapporto tra stampa e Riforma si veda J.F. GILMONT, La Réforme et
le livre. L’Europe de l’imprimé (1517-1570), Paris, Cerf 1990.
33
Congestorium artificiosae memoriae V. P. F. Ioannis Romberch de Kyrspe,
Venezia, in edibus Georgij de Rusconibus 1520. Il trattato, in realtà composto
sette anni prima a Colonia per il compagno di studî Johann Grevebach, è
dedicato dal domenicano tedesco al cardinale Grimani, conosciuto e assidua-
mente frequentato all’epoca del affare Reuchlin, e al Generale dell’Ordine Garcia
de Luaysa, che pochi giorni prima gli aveva offerto il baccellierato in teologia.
34
Con la sintesi fra psicologia aristotelica della memoria e ars memoriae
ciceroniana, attuata da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, una disciplina
retorica come la memoria artificiale abbandona lo status basso di arte liberale e
si allontana dalla pericolosa dimensione occulta dell’ars notoria, per divenire
parte della virtù cardinale della prudenza, degno oggetto di analisi dialettica e
utilissima attività virtuosa, come ci testimonia la ricca tradizione della mnemonica
DIVENIRE MEMORIA XXIII

e significativo per comprendere le trasformazioni che l’arte della


memoria conobbe nel corso del Rinascimento. Seppur distante dai
voli magici di un Bruno o dalle architetture alchemiche di un
Camillo, questo trattato, dal latino Scolastico35 e dalla struttura
didascalicamente funzionale, non è privo di fascino, il fascino di-
screto della sintesi tecnica e del compendio pedagogicamente strut-
turato: il trattato è introdotto da una digressione dell’autore sulle
origini più o meno mitiche dell’arte della memoria e sui suoi più
esperti fruitori; le due parti successive sono invece quelle che mag-
giormente infondono al testo il suo carattere manualistico (soprat-
tutto attraverso il susseguirsi continuo di exempla tratti dalla tradi-
zione classica, di citazioni dai numi tutelari dell’ars memorandi e di
suggerimenti pratici e teorici per una corretta ed efficace creazione
di luoghi e immagini, nonché per un’altrettanto esatta collocazione
delle ultime nei primi); il finale ha invece contorni più originali e
moderni, e si presenta come lo schizzo di un sistema di memoria
enciclopedico attraverso cui l’autore, seguendo anche reminiscenze
lulliane, vuole sottrarre all’oblio del tempo tutte le scienze, teologi-
che, metafisiche, morali e così pure le sette arti liberali.
Ponendosi, coerentemente con la più alta tradizione memo-
rativa, come Wunderkammer della mnemotecnica tre-quattrocen-
tesca e antologia dei vari filoni classico-medioevali dell’ars, il testo
di Host, se pur non possiede il dono dell’originalità, innegabilmente
spicca per esaustività e ordine. Il Congestorium, con la sua opera di
sintesi della tradizione retorica della memoria artificiale (quella di
Cicerone, Quintiliano, e della Retorica ad Erennio) con quella cri-
stiana (da Agostino a Tommaso), con quella psicologica (che si fon-
da essenzialmente sui Parva Naturalia di Aristotele) e con quella
lulliana, risulta di fondamentale importanza per gli sviluppi che
nella cultura europea avrà la pratica mnemonica, tanto nei suoi

predicatoria, delle summae di esempi e similitudini, e dei trattati sull’ars ascrivibili


alla tradizione Scolastica. Sulla questione della memoria e dell’arte della memo-
ria nel Medioevo si vedano, oltre al volume miscellaneo Jeux de mémoire. Aspects
de la mnémotechnie médiévale, a cura di B. Roy e P. Zumthor, Paris-Montréal,
Vrin-Les Presses de l’Université de Montréal 1983, i due recenti contributi di
Mary Carruthers: The Book of Memory. A Study in Medieval Culture, Cambridge,
Cambridge University Press 1990 e The Craft of Thought. Meditatio, rhetoric and
the making of images, Cambridge, Cambridge University Press 1998.
35
Anche se il Paulus ne sottolinea il felice stile compositivo affermando
che «Host schreibt in der Tat ein viel besseres Latein als seine Kölner
Ordensgenossen Hochstraeten, Köllin und Bernhard von Luxemburg» [N.
PAULUS, Die deutschen Dominikaner im Kampfe gegen Luther (1518-1563), ed.
cit., 137].
XXIV A. TORRE

esiti ermetico-cabbalistici36 quanto nel suo dissolversi entro la logi-


ca moderna37. L’indubbio valore del trattato all’interno della tradi-
zione dell’ars memoriae può però essere ulteriormente confermato
attraverso una sua più precisa collocazione nella complessa trama
di rapporti socio-culturali del periodo, così come una maggior at-
tenzione agli elementi di possibile convergenza con gli altri testi, o
le altre attività, del domenicano può meglio chiarire le motivazioni
che spinsero Host a quest’impresa.
Nel corso del XVI secolo la frattura religiosa, che nelle co-
scienze e nelle istituzioni taglia trasversalmente l’Europa, si riflette
nella contrapposizione fra immagine cattolica e parola protestante,
fra una complessa struttura narrativa e persuasiva che ruota intor-
no a immagini sempre più disciplinate, e un sistema che non accet-
ta l’esibizione dell’immagine, esaltando invece il potere, anche

36
Il carattere molteplice e multiforme del sapere rinascimentale contri-
buisce a trasformare l’arte della memoria, se non nell’aspetto tecnico almeno per
quanto riguarda il suo ruolo all’interno della cultura: quella che prima era una
struttura formale continuamente modificabile, diviene ora una costruzione
logico-metafisica organizzata su basi cosmologiche, alchemiche o più general-
mente magiche, una sorta di macchina universale che offre la chiave non solo
per comprendere e ricordare il reale ma anche per modificarlo partendo dal
presupposto che nella magia così come nell’ars memoriae è l’immaginazione a
governare i fantasmi (lo spirito pneumatico) che fanno da tramite fra il Soggetto
(soggetto psichico singolare o collettivo) e la Natura (animata e inanimata, il
corpo, la divinità). Sull’argomento si vedano: D.P. WALKER, Spiritual and Demonic
Magic from Ficino to Campanella, London, The Warburg Institute 1958; F.A.
YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, trad. it. Bari, Laterza 1995; W.
WILDGEN, Das kosmische Gedächtnis, Frankfurt am Main, Peter Lang 1998.
37
Delineando un metodo incentrato sulla disposizione sistematica e or-
dinata delle nozioni, che sia in grado di portare alla luce l’unità profonda e le
leggi di connessione che si nascondono dietro la caotica molteplicità delle scien-
ze, Ramo prima, Bacone e Cartesio in seguito, hanno condotto, sia pure a prezzo
di una sostanziale trasfigurazione, nei quadri della logica moderna «l’antico
problema della memoria artificiale che aveva per oltre tre secoli appassionato
medici e filosofi, studiosi di retorica, enciclopedisti e cultori di magia naturale»:
contro una sterile memoria artificiale che si piegava a esibizionistici giochi
intellettuali o si era caricata di riferimenti magici essi proponevano una dottrina
«degli aiuti della memoria» che, solidamente fondata sul primato del principio
ordinatore dei luoghi, sostenesse i movimenti del ragionamento e presiedesse
alla conservazione delle conoscenze certe e dimostrate (cfr. P. ROSSI, Clavis
universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna,
il Mulino 19832, 155-197). Sul metodo ramista si vedano W. J. ONG, P. Ramous.
Method and the Decay of Dialogue. From the Art of Discourse to the Art of Reason,
Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1958 e C. VASOLI, Dialettica e
retorica dell’Umanesimo. «Invenzione» e «metodo» nella cultura del XV e XVI
secolo, Milano, Feltrinelli 1968.
DIVENIRE MEMORIA XXV

immaginifico ma soprattutto educativo ed evangelizzatore, della


parola. La Riforma protestante cerca di ricucire lo strappo ravvisa-
to fra mentalità moderna e morale cristiana, tornando alle radici
ebraiche della fede e attuando una sistematica e intollerante rimo-
zione della cultura pagana del Rinascimento (a suo avviso causa
della secolarizzazione della Chiesa romana e della disgregazione
dell’originario universalismo cristiano), sostituita unicamente da
uno studio filologicamente rigoroso della Bibbia. Il recupero della
cultura ebraica comporta anche la riattivazione delle sue istanze
aniconiche che, rafforzando ulteriormente la devozione esclusiva
per il Verbo di Dio, contribuiscono ad avviare un processo di radi-
cale negazione dell’immaginario profano e delle materializzazioni,
sotto forma di prodotto d’arte, che hanno interessato idoli e fanta-
smi di tale immaginario; si assiste così a una vasta azione censoria
nei confronti di una cultura, come quella rinascimentale, che «ri-
conosceva ai fantasmi suscitati dal senso interno un peso grandissi-
mo (...); aveva creato tutta una dialettica dell’eros, nella quale i
fantasmi, che si imponevano dapprima al senso interno, finivano
con l’essere manipolati a volontà» e infine «credeva fermamente al
potere dei fantasmi, che si trasmettevano dall’apparato fantastico
dell’emittente a quello del recipiente»38. Chiaramente anche un’ars
– come l’arte della memoria – che offre gli strumenti tecnici e le
nozioni operative per creare e governare immagini interiori, non
può sfuggire al revisionismo iconoclastico dei protestanti: il suo
stesso esistere relativizza l’onnipotenza della parola, che in tale ot-
tica può sopravvivere ai tempi solo appoggiandosi a un fantasma.
La Bildkritik dei Riformatori comporta dunque anche una
Gedächtniskunstkritik: l’arte della memoria è pericolosa perché in-
segna a introdurre nella mente e nel cuore immagini che sanno
eccitare i sensi e, così facendo, rivela la propria empietà poiché si
sostituisce di fatto all’agente evocatore per eccellenza, la Parola di-
vina39. In ambito cattolico invece la sopravvivenza dell’arte della
memoria è spiegabile proprio a partire dalla fortuna che essa co-
nobbe come fondamentale supporto della disciplina interiore del
religioso e come valido ausilio all’indottrinamento dei fedeli; non
stupiscono quindi le rappresentazioni mentali a cui Ignazio di

38
I.P. COULIANO, Eros e magia nel Rinascimento, trad. it. Milano, il Saggiatore
1995, 284.
39
Su concetti come la «parola evocatrice» in Lutero o la «parola dipingen-
te» in Calvino si veda J.J. BERNS, Umrüstung der Mnemotechnik im Kontext von
Reformation und Gutenbergs Erfindung, in Ars memorativa. Zur kulturgeschicht-
lichen Bedeutung der Gedächtniskunst 1400-1750, ed. cit., 35-73.
XXVI A. TORRE

Loyola invita i discepoli per facilitare in loro il ricordo del sacrifi-


cio di Cristo40, così come non desta meraviglia la ricomparsa del-
l’indissolubile nesso tomistico memoria-immagine in testi teologi-
ci che ben prima della distratta deliberazione tridentina 41 compre-
sero il potere persuasivo della comunicazione figurata:
Sapeva ancho molto bene la chiesa istrutta dal magistero de lo spiritosanto,
che tra’l popolo Christiano era maggior il numero de li idioti, che non sanno
lettere, che il numero di quelli, i quali leggendo le scritture, potevano con-
templar la passion di Christo, il martirio de’ santi, e tutti i misterii de la fede
nostra; e però ad istruzion loro, e commodo de’ semplici, fu introdotto ragio-
nevolmente l’uso de le imagini, ne le quali leggendo come in un libro, e
contemplando il ritratto de le cose che vedevano, tenessero a memoria il be-
neficio di Christo per amarlo, e la gran constanza de’ santi martiri per imitarli.
Anzi per eccitar più facilmente, e con maggior impulso la fede, e la devozion
dell’animo de’ credenti, così dotti come indotti. Perciò che quello che si cava
a poco, a poco da le scritture, in un istante vien proposto, e con maggior
efficacia ne le imagini42.

40
Per un’analisi del rapporto fra immaginazione e memoria nel pensiero
del fondatore dell’Ordine gesuitico si ricorra a: C. BOLOGNA, Esercizi di memo-
ria. Dal «theatro della sapientia» di Giulio Camillo agli «Esercizi Spirituali» di
Ignazio di Loyola, in La cultura della memoria, ed. cit., 169-222; P.H. KOLVENBACH,
Imàgenes e imaginaciòn en los Ejercicios Espirituales, in «Cis», 18, 1987, 200-
217; P.A. FABRE, Ignace de Loyola. Le lieu de l’image, Paris, Vrin 1992. Sull’ela-
borazione teorica e sull’applicazione pratica delle metodiche mnemotecniche
gesuitiche si vedano anche: J. D. SPENCE, Il Palazzo della memoria di Matteo
Ricci, trad. it. Milano, il Saggiatore 1987 e F.R. DE LA FLOR, Teatro de la memoria:
siete ensayos sobre mnemotecnia española de los siglos XVII y XVIII, Salamanca,
Junta de Castilla y Leon 1988.
41
Cfr. H. JEDIN, Genesi e portata del decreto tridentino sulla venerazione
delle immagini, in Chiesa della Fede, Chiesa della Storia, trad. it. Brescia,
Morcelliana 1972, 378: «Il decreto deve la sua esistenza senz’altro all’energia ed
alla tenacia, con la quale il capo dell’episcopato francese, il cardinale di Guisa,
in tutto il mese di novembre [1563], ma principalmente nella congregazione
decisiva del 28 dello stesso mese, insistette perché il concilio non chiudesse senza
aver emanato un responso definitivo sulla questione delle immagini, utilizzabile
nelle lotte confessionali divampanti in Francia. Esso si rivolge quindi in prima
linea contro il calvinismo colà dominante che aveva portato la questione al
centro dell’interesse, sul piano teoretico, durante il colloquio di religione di St.
Germain, ma soprattutto sul piano pratico a causa degli assalti iconoclastici».
Per i rapporti tra il decreto tridentino e le arti figurative si vedano anche P. PRODI,
Ricerca sulla teorica delle arti figurative nella Riforma cattolica, Bologna, Nuova
Alfa Editoriale 1984; M. BRUSATIN, Storia delle immagini, Torino, Einaudi 1989
e D. FREEDBERG, Il potere delle immagini, trad. it. Torino, Einaudi 1993.
42
M. ALBERTINO - G. DEL BENE, Confirmatione et stabilimento di tutti i
dogmi catholici, Venezia, s.i.t. 1555, c. 273r. Poco prima gli autori (due canonici
di Verona) avevano affermato che «le nostre Imagini devon’esser segni rimemorativi
DIVENIRE MEMORIA XXVII

Riconoscendo, come Aristotele, che le immagini sono indi-


spensabili all’atto cognitivo umano o ammettendo, con Tommaso
d’Aquino, l’incapacità dell’umana scienza a comprendere le cose
spirituali non avvertibili attraverso i sensi, non si può che conside-
rare immenso il potere delle immagini e decisivo il ruolo dei cosid-
detti idiotarum libri all’interno dei programmi di educazione reli-
giosa e di evangelizzazione:
Fuit autem triplex ratio institutionis imaginum in ecclesia: primo ad
instructionem rudium qui eis quasi quibusdam libris edocent; secundo ut
incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria essent dum
quotidie oculis repraesentantur; tertia ad excitandum affectum quod ex visis
efficacius incitatur quam ex auditis43.

Nel momento in cui sul cattolicesimo calavano minacciose le


ombre della riforma protestante, la Chiesa vedeva il proprio potere
temporale sempre più subordinato ai grandi Stati europei, e l’espe-
rienza umanistica incoraggiava a un uso più critico e autonomo
della ragione, il magistero filosofico di Tommaso poteva ancora ap-
parire, agli occhi di un suo attento discepolo e devoto divulgatore
com’era Host, la più salda opposizione agli attacchi dei nemici della
fede tradizionale; e una virtuosa memoria debitamente modellata
dalle tecniche di visualizzazione del sapere e dai meccanismi di atti-
vazione e controllo delle reazioni emotive poteva ancora risultare,
agli occhi di uno strenuo e illuminato difensore della causa cristia-
na, una valida esemplificazione della possibilità di contrastare il pro-
testantesimo sul terreno della prevenzione e dell’educazione piutto-
sto che su quello dell’intransigente opposizione. Se per certi aspetti
dunque il Congestorium artificiosae memoriae potrebbe costituire uno
dei momenti, minori ma non per questo irrilevanti, della cosiddet-
ta Seconda Scolastica44, non si deve d’altra parte trascurare l’intri-
gante coincidenza che pone questa trattazione della metodica delle

principalmente della incarnazion del nostro Signor Giesù Christo» (c. 268v)
[corsivi miei].
43
TOMMASO D’AQUINO, Commentarium super libros sententiarum, lib. III,
dist. 9, art. 2, q. 2, (citato in D. FREEDBERG, The hidden god: image and interdiction
in the Netherlands in the sixteenth century, in «Art History», 5, 1982, 149, nota␣ 53).
44
Per una sistematica trattazione di questa corrente di pensiero, che fece
rifiorire il tomismo medioevale e che si svolse parallela a quelle promosse dalla
rinascita del platonismo, dell’aristotelismo (tanto averroistico quanto
alessandristico) e del naturalismo, si ricorra a C. GIACON, La Seconda Scolastica,
Milano, Bocca 1950 e a P. DI VONA, Studi sulla Scolastica della Controriforma,
Firenze, La Nuova Italia 1968.
XXVIII A. TORRE

imagines memoriae (condotta da Host capillarmente e proporzio-


nalmente preponderante nel complesso del testo), e la riattivazione
della loro funzione etico-devozionale, alle soglie dell’aspra querelle
sulle immagini e sull’arte sacra che opporrà la furia iconoclasta pro-
testante ai teologi e ai teorici dell’arte controriformista45.

III. Scrittura della memoria e teatro del dialogo

È dunque il Congestorium un ultimo riflesso dell’ormai


soccombente immaginario medioevale, o il primo bagliore di un
conflitto forse già pronto a divampare in tutta la sua violenza?
Quanto il Dolce nella sua scelta editoriale possa esser stato conscio
della questione non ci è dato stabilirlo appieno, anche se perlomeno
sospetta può apparire la pubblicazione veneziana presso che in
concomitanza con la discussione tridentina sulle immagini e, sicu-
ramente, ancor più felice il casuale incontro tra un testo, quello di
Host, che si fonda sulla sintesi di potenziale immaginifico e ordine
strutturale, e un autore come il Dolce che dello stretto legame fra
parola (scritta e recitata) e immagine (mentale e artistica) ha fatto,
più che un topico indirizzo di poetica46, un punto di riferimento

45
Ricordando che il Congestorium fu scritto nel 1513 (ma ciò non è
determinante, essendo più significativa la data di pubblicazione), resta il fatto
che il primo attacco protestante – per la verità più iconofobico che iconoclastico
– contro le immagini risale al 1522, ad opera del luterano Carlostadio (Von
Abtuhung der Bilder); il testo suscita l’immediata reazione dei domenicani Emser,
Eck e Neudorfer (i primi due, autori di opusculi pubblicati nel 1522; il terzo,
di un testo sulla venerazione delle immagini come culto dei santi, pubblicato nel
1528), mentre è accolto più tiepidamente da Lutero, che non giungerà mai a
predicare la distruzione delle immagini pur vietandone l’adorazione. Meno
indifferente risulterà Zwingli, per il quale è necessaria una totale abolizione del
culto delle immagini così come l’Antico Testamento predicava contro il culto
materialistico-pagano degli idoli. Il più violento e sistematico attacco alle im-
magini sarà però quello di Calvino (Institutio, 1559), materializzatosi poi
nell’inarginabile caccia alle immagini che nei Paesi Bassi (1560-1566) porterà
alla distruzione di un imprecisabile numero di opere d’arte.
46
Sulla vitalità di tale indirizzo si veda L. DOLCE, I quattro libri delle
Osservationi Grammaticali, IV, Venezia, Giolito 1562, 189: «Simile al Poeta è
il Dipintore, percioché l’uno e l’altro è intento alla imitazione, dissimile in
questo: che l’uno imita con le parole e l’altro con i colori; quello per la maggior
parte cose che s’apprestano all’animo, e questo a gli occhi; (…) Nondimeno
perché i versi e le parole sono il pennello et i colori del Poeta, con che egli va
adombrando e dipingendo la tavola della sua invenzione, per fare un ritratto
cotanto maraviglioso della natura che ne stupiscono gli intelletti de gli huomini,
dee porre ogni suo principale studio e diligenza in comporgli tali, e con voci così
DIVENIRE MEMORIA XXIX

costante del suo agire tanto nel macrocosmo degli interventi che lo
videro protagonista nell’ambiente culturale veneziano, quanto nel
microcosmo delle modalità operative che contraddistinsero la sua
produzione letteraria. Di tale virtuosa relazione il Dialogo della me-
moria può essere una fedele cartina di tornasole in quanto, come si
tenterà di mostrare in seguito, proprio in nome dello scarto retori-
co dell’immagine sembrano instaurarsi interessanti riferimenti in-
crociati tra nuclei tematici presenti in più di un’opera dolciana e
suggestioni ispirate dalle caratteristiche e dalla natura della forma
dialogica scelta dall’autore per la sua riscrittura.
Al solido vincolo che fin dal mitico banchetto di Simonide
Melico unisce poesia, pittura e mnemonica in nome dell’intenso
potere della visione, e alla penna di chi come il Dolce stabilisce «a
sort of ideal conversation with the text he is translating»47 ben s’ad-
dice infatti una forma letteraria come il dialogo, inafferrabile nel
suo porsi sulla soglia che separa tra loro i generi come «un labile
confine esposto ad eterogenee frequentazioni, a differenti
attraversamenti»48. La molteplicità delle voci dialoganti riflette così

belle et appartinenti alla materia di che egli tratta, che ne riesca quel fine ricer-
cato e desiderato da chi legge, e senza il quale ogni sua fatica è posta e consumata
indarno».
47
R.H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters, ed. cit., 129.
Non una vera e propria monografia ma una raccolta di saggi che, pur soffermandosi
in particolare sulla produzione teatrale del Dolce, mirano a delineare l’esperienza
culturale dell’autore veneziano, il libro di Terpening si propone l’«overriding
goal» – peraltro solo superficialmente raggiunto – «of clarifying Dolce’s role in the
diffusion and expansion of culture in the cinquecento» (8), analizzando temi e
fonti di alcune sue opere, difendendo strenuamente l’autore dalla secolare accusa
di plagiatore di mediocre ingegno («Later critics seem to disparage Dolce, following
the example of Muratori and other earlier critics, often without having read the
works under discussion. It is ironic that so many critics accuse Dolce of plagiarism
when they themselves merely repeat what other have said, often using almost the
exact words and usually without acknowledgement», 174) e soprattutto insisten-
do sulla felicità dello stile e sulla indefessa volontà di giovare ai lettori, che agli
occhi di Terpening ne hanno fatto, più che un «operaio della letteratura», «the
master of those who know naught» (164).
48
N. ORDINE, Il dialogo cinquecentesco italiano tra diegesi e mimesi, in
«Studi e problemi di critica testuale», XXXVII, 1988, 155. A testimonianza del
rinnovato interesse critico su forme e fortuna del genere dialogico nel Cinque-
cento si vedano: J. R. SNYDER, Writing the Scene of Speaking. Theories of Dialogue
in the Late Italian Renaissance, Stanford, Stanford University Press 1989; R.
GIRARDI, La società del dialogo. Retorica e ideologia nella letteratura conviviale del
Cinquecento, Adriatica, Bari 1989; Il dialogo filosofico nel ’500 europeo. Atti del
convegno internazionale di studi, Milano, 28-30 maggio 1987, a cura di D.
XXX A. TORRE

del genere il carattere proteiforme – per moduli espressivi e tema-


tici49␣ – e ne rivela la natura anfibia sospesa «tra lo scambio vitale
della parola, che fonda nell’immanenza pluridiscorsiva la sua pecu-
liare ragione di esistere, e il ritratto immobile di questa vitalità,
reiterabile all’infinito nella forma stabilita della scrittura»50. Un ul-
teriore riflesso dello “specchio dialogico” è quello che abbaglia il
lettore introducendolo nell’illusoria dimensione del testo e nelle
vesti di un interlocutore dialetticamente più o meno attivo a se-
conda dei modelli formali a cui il dialogo s’ispira e delle finalità del
messaggio che vuole comunicare: l’eredità platonica è rinvenibile
ad esempio laddove i dialoganti si pongono in una prospettiva dia-
lettica fortemente agonistica, dando un corpo e una voce a idee e
valori differenti, che dietro la loro opposizione lasciano presagire
l’esistenza di una verità ultima51; invece il dialogo diegetico

Bigalli e G. Canziani, Milano, Franco Angeli 1990; L. FORNO, Il “libro anima-


to”: teoria e scrittura del dialogo nel Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori
1992; V. COX, The Renaissance Dialogue in its Social and Political Contexts,
Cambridge (Mass.), Cambridge University Press 1993; V. VIANELLO, Il «giardi-
no» delle parole. Itinerari di scrittura e modelli letterari nel dialogo cinquecentesco,
Roma, Jouvence 1993; A. PATERNOSTER, Aptum. Retorica ed ermeneutica nel
dialogo rinascimentale del primo Cinquecento, Roma, Bulzoni 1998.
49
Cfr. S. SPERONI, Apologia dei dialogi, I, in Trattatisti del Cinquecento, II,
a cura di M. Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi-Mondadori 1996, 694: «E percioché
di quelle cose che noi usiamo per dilettarci una è certo, e forse prima, la varietà
e novità, quindi avvien che l’autor del dialogo, messa in silenzio la sola e propria
sua voce, riempie quelli di varii nomi e costumi e novi e varii ragionamenti: varii
dico quanto alle cose di cui si parla e quanto al modo del favellare».
50
F. PIGNATTI, Introduzione a C. SIGONIO, Del dialogo, Roma, Bulzoni
1993, 61.
51
Cfr. C. SIGONIO, Del dialogo, ed. cit., 139: «Mi chiedo tuttavia se non
possiamo considerare piuttosto il dialogo padre di ogni nobile dottrina, dal
momento che ci mostra la via imboccata la quale possiamo con discreta facilità
passare dalle cose che si comprendono secondo opinione a quelle che sono
oggetto di indagine razionale, vale a dire dalle nozioni che poggiano sulla
verisimiglianza a quelle basate sulla verità»; e in controcanto un più disilluso S.
SPERONI, Apologia dei dialogi, I, ed. cit., 705: «che nel dialogo non pur si imitano
le persone che sono in esso introdotte, ma nelle cose che vi si dicono disputando
la vera e certa scienza che si può d’esse acquistare non è espressa in effetto, qual
è nel metodo aristotelico, ma imitata e ritratta (...) così ancor la dottrina la quale
in essa impariamo non è scienza ma di scienza ritratto, il quale ad essa si
rassimiglia». Sulla teoresi del dialogo in Sigonio si veda R. GIRARDI, “Elegans
imitatio et erudita”: Sigonio e la teoria del dialogo, in «Giornale storico della
letteratura italiana», vol. CLXIII, a. CIII, fasc. 523, 1986, 321-354; per lo
Speroni cfr. invece J. R. SNYDER, La maschera dialogica. La teoria del dialogo di
Sperone Speroni, in «Filologia Veneta», II, 1989, 113-138.
DIVENIRE MEMORIA XXXI

ciceroniano – in cui l’elaborazione retorica del trattato didattico


prevale sulla mimèsi, sulla dialettica e sulla reciproca confutazione
dei dialoganti 52 – costituisce il modello che alimenta il tòpos
umanistico della «cultura come dialogo»53, come comunicazione
fra i tempi e fra i saperi. Il dialogo interamente o parzialmente
narrativo risponde quindi adeguatamente «all’esigenza di descrive-
re il milieu della conversazione, ponendo in posizione centrale
l’omogeneità tra luoghi, circostanze, personaggi e valori da esalta-
re»54 e si offre come conveniente modulo espressivo e degna meta-
fora di un universo, come quello cortigiano, che insieme alle pro-
prie idee comunicava anche se stesso, di un «quadro culturale che
rendeva praticabile e significativa la rappresentazione narrativa di
eventi sociali in quanto cornici di dibattito»55. Diversamente, una
forma mimetica pura risulta più funzionale al pieno sviluppo della
dimensione dialettico-ideologica del dialogo, a un’esaltazione del
suo contenuto di pensiero56, e quindi tenderà a prevalere quando
al microcosmo centralizzato e finito della corte si sostituirà una

52
Cfr. F. TATEO, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo
1967, 236: «Il dialogo ciceroniano è alla base del genere dialogico della prima
fase del ’400, soprattutto per il tono eloquente che lo distingue, e viene seguito
più che nella cornice, più che nei dettagli strutturali, in certo procedimento
logico, più tipico del persuadere retorico, che del dimostrare filosofico».
53
M.S. SAPEGNO, Il trattato politico e utopico, in Letteratura italiana, 3. Le
forme del testo, II. La prosa, ed. cit., 973. Sul dialogo umanistico si veda anche
D. MARSH, The Quattrocento Dialogue. Classical Tradition and Humanistic
Innovation, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1980.
54
N. ORDINE, Il dialogo cinquecentesco italiano tra diegesi e mimesi, ed. cit., 167.
55
P. FLORIANI, Il dialogo e la corte nel primo Cinquecento, in La corte e il
“Cortegiano”, I. La scena del testo, a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni 1980, 95.
56
Cfr. T. TASSO, Dell’arte del dialogo, a cura di G. Baldassarri, in «La
Rassegna della letteratura italiana», serie VII, I-II, 1971, 134: «Abbiam dunque
che ’l dialogo sia imitazione di ragionamento fatto in prosa per giovamento degli
uomini civili e speculativi» (su Tasso teorico del dialogo si vedano F. PIGNATTI,
I «Dialoghi» di Torquato Tasso e la morfologia del dialogo cortigiano rinascimentale,
in «Studi Tassiani», XXXVI, 1988, 7-43 e G. BALDASSARRI, L’arte del dialogo in
Torquato Tasso, in «Studi Tassiani», XX, 1970, 5-46); cfr. anche F. PIGNATTI,
Introduzione a C. SIGONIO, Del dialogo, ed. cit., 43: «nell’imitazione dialogica
l’atto materiale del discorrere riconducubile ancora alla dimensione dramma-
tica dell’agire, svolgerà una funzione per così dire di involucro, all’interno della
quale la centralità sarà conquistata dalla sostanza intellettuale del pensiero e
dalle sue dinamiche ragionative. (...) se per il dialogo si vorrà parlare ancora di
azione, si tratterà ora di un’azione puramente speculativa e il linguaggio sarà,
aristotelicamente, la figura con cui questa si offre alla comunicazione degli
uomini».
XXXII A. TORRE

realtà culturale pluricentrica, organizzata secondo esperienze so-


ciali diverse e talora in conflitto (oltre alla corte, l’accademia, la
tipografia e l’università). La contrapposizione tra diegèsi e mimèsi
nel dialogo cinquecentesco non è però così frontale e schematica
come la sintetica ricognizione del tema qui effettuata può erronea-
mente suggerire: lo stesso Dialogo della Memoria di Lodovico Dol-
ce è inseribile nel ventaglio delle numerose possibili variazioni che
contraddistinguono la morfologia di questo genere e ne testimo-
niano la derivazione da modelli classici differenti. La forma del
dialogare dolciano in quest’opera è apparentemente mimetica e le
sigle che introducono le battute di Hortensio e Fabrizio rimanda-
no senza dubbio a quel tipo di imitazione che «può montare in
palco e si può nominare rappresentativa»57; ma è lo sviluppo del
colloquio a negare tale classificazione palesando così l’intimo rap-
porto che lega la struttura di questo dialogo alla sua natura di ope-
ra tradotta.
L’ordinata e didascalica struttura del trattato latino volgarizza-
to impedisce quel rapporto dialettico tra i personaggi che la scelta
formale del dialogo mimetico auspicherebbe; all’autore si prospetta
infatti il difficile compito di dare apparenza drammatica ad un te-
sto originariamente modellato sulla forma mentis Scolastica, che certo
non spicca per malleabilità seppur presenti – nel metodo della lectio
e della disputatio, della obiectio e della responsio – innegabili legami
con la forma dialogica. L’assenza del dibattito appiattisce così le
figure dei due interlocutori, che solo raramente vivono in autono-
mia rispetto ai contenuti che stanno esponendo e al rapporto gerar-
chico che fa di Hortensio un magister della dottrina mnemonica e
di Fabrizio un silenzioso e attento discipulus58; proprio gli interventi
di quest’ultimo, rari, brevi e rispettosi della loro funzione di indica-
tori delle pause del discorso e delle variazioni del tema59, fanno
emergere il sostrato trattatistico dell’opera dolciana e ne confessano
la sostanziale alterità dai dialoghi filosofico-scientifici tardocinque-
centeschi e secenteschi, dove invece la spalla è un interlocutore cu-
rioso che sollecita spiegazioni e orienta la discussione.

57
L. CSTELVETRO, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, I, 4, a cura di
W. Romani, Bari, Laterza 1978, I, 36.
58
Su questa struttura catechistica, propria soprattutto del dialogo
ciceroniano, si veda il saggio di G. POLARA, Quali itinerarî paralleli seguirono
Bloom e Stephen al ritorno?, in Il dialogo. Scambi e passaggi della parola, a cura di
G. Ferroni, Palermo, Sellerio 1985, 47-62.
59
Spesso le parole di Fabrizio sono la puntuale traduzione dei titoli
intercapitolari del testo latino. In altri casi essi fungono da fulmineo riassunto
DIVENIRE MEMORIA XXXIII

Ciononostante è proprio la scelta dialogica a evidenziare la


volontà del Dolce di forzare, in direzione di una più immediata
leggibilità, la regolata macchina del trattato latino allentandone
qua e là la rigorosa trama di capitoli e paragrafi: l’esposizione logi-
ca e lineare dei precetti mnemonici compiuta dal domenicano te-
desco viene infatti turbata dall’agire metafrastico di Dolce, che nel
suo procedere per tagli, spostamenti, aggiunte e sintesi sembra ap-
plicare all’originale latino una tecnica di montaggio non troppo
dissimile dai principî compositivi delle sue riscritture per il teatro.
Se in opere come la Didone è «il riconoscimento ludico del perso-
naggio nella voce del suo attore/interprete» a frantumare «il senso
autonomo della scrittura»60, qui, ma anche nel Dialogo dei colori o
nel Dialogo della institution delle donne, la frantumazione è tutta
interna alla pagina, e attiva il trapasso dall’indistinto monologante
del trattato alla polifonia della traduzione dialogata; polifonia che
aumenta la profondità scenica del testo, eliminando il carattere
disameno di una scrittura puramente e rigorosamente dimostrati-
va. Il teatro è in questo caso attratto dentro la scrittura per fornire
un adeguato supporto immaginifico e un dilettevole involucro
drammatico alla materia che si offre alla lettura e alla memoria: in
un interiore Teatro della Memoria va in scena una civile conversa-
zione veneziana tra maschere61 (ché questo sono tanto il docente

della materia appena esposta da Horazio, istantanee summae che, affidate alla
memoria, trattengono il nucleo della lezione seguita (la res memoranda senza
esemplificazioni e ornamenti) oppure si configurano come elemento attivatore
del processo di reminiscenza che riporterà alla mente del discepolo l’intera
lezione del maestro e anche il luogo, il tempo e l’occasione di quella lezione.
60
S. TOMASSINI, L’abbaino veneziano di un «operaio» senza fucina, in L.
DOLCE, Didone. Tragedia, a cura di S. Tomassini, Parma, Zara 1996, XII. Unica
effettiva assunzione di responsabilità critica, approfondita e senza compromessi,
nei confronti di Lodovico Dolce, questo studio rivela con vibrante lucidità la
predisposizione umana, le modalità operative e i riflessi culturali di una «fuga dal
centro della letteratura» verso l’«orizzonte dell’esperienza soggettiva» finalmente
dispiegata «nei loci interni di un’ordinata e polita pagina stampata» (X-XII).
61
Cfr. G. BENZONI, La forma dialogo: un’apertura con chiusura, in Crisi e
rinnovamenti nell’Autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di V. Branca e C.
Ossola, Firenze, Olschki 1991, 23: «E, naturalmente, detto espositore, una
volta giunto al ’500, dovrebbe sostare a lungo per inventariare un’età in cui il
dialogo prolifera incontentabile, dilagante, debordante sino a sovrapporsi alla
trattatistica precedente, ora induttivamente ora deduttivamente, di definizione
in definizione, sino ad accamparsi – al posto di questa che resiste nell’ambito
universitario – quale trattatistica tout court. (…) Non mancano, come si può
constatare, i veneziani e scrittori, anche se non tali di nascita, comunque a
Venezia – ove, pure questo va detto, si stampa il grosso dei dialoghi – operanti,
XXXIV A. TORRE

Hortensio quanto il discente Fabrizio), offerta all’istruzione e al


diletto dello spettator che legge. L’arte della memoria costituisce
infatti un indispensabile ausilio per l’atto del ricordare e sbagliano
«quegli ignoranti nemici della scienza» che la «riprendono, come
non aiutatrice ma distruggitrice della memoria», perché
qual profitto potrebbe alcun cavare di aver con somma diligenza letto e rilet-
to alcun libro, overo di studiare qual si voglia arte, se, quando fa bisogno,
non l’avesse in pronto et alle mani; o non potesse ricordarsene per insegnare
altrui quello che sapesse, o valersene per lui alle occasioni? (p. 15).

Ma i precetti per accrescere e conservare la memoria possono


a loro volta essere compresi in profondità e ritenuti con saldezza se
esposti in una forma che ne levighi la scorza pedantescamente nor-
mativa e, tanto per il piacere con cui si fa leggere quanto per la
meravigliata partecipazione che sa suscitare, evochi essa stessa
imagines e loci nella mente del lettore62. Caso unico – allo stato
attuale delle conoscenze – nella tradizione mnemotecnica cinque-
centesca, la scelta dolciana di narrare in forma di dialogo la storia e
la teoria dell’arte della memoria, oltre a visualizzare il carattere pe-
dagogico-divulgativo che fin dal titolo il testo denuncia63, si offre
come esemplificazione, in diretta e in progress, di una fra le possibili
applicazioni delle regole di memoria e sembra suggerire al lettore
un rapporto più attivo e meno mediato con il loro centro propulsore,

a Venezia attivi. Ciò in sintonia con una città dalla loquacità intensa e diffusa
e, anche, con le discussioni insite nella dinamica stessa dell’azione governativa
le cui direttive nascono dal dibattito nelle sedi istituzionali. C’è convergenza,
insomma, a Venezia tra “ragionar” e “parlar”».
62
Cfr. L. MULAS, La scrittura del dialogo. Teorie del dialogo tra Cinquecento
e Seicento, in Oralità e scrittura nel sistema letterario, a cura di G. Cerina, C. Lavinio,
L. Mulas, Roma, Bulzoni 1982, 262: «Essendo un genere imitativo il dialogo può
arricchire la messa in scena dei detti con fatti, anche minimi e irrilevanti, che, privi
di per sé di capacità di dilettare, hanno tuttavia la capacità di accrescere il diletto
che viene dalle parti più importanti del discorso (...). Il diletto agisce in questo caso
come attivatore e potenziatore della memoria, poiché quei piccoli e graziosissimi
fatti sono i loci ai quali la memoria collegherà, per ritrovarle più agevolmente, le
parole pronunciate dagli interlocutori» [corsivi miei].
63
Il titolo, distante sia dagli ermetico-platonici «Tempio», «Ars» e «Idea»
sia dagli enciclopedici «Arca» e «Thesaurus» (che rimandano tutti a un’idea della
memoria come contenitore di sapienza), sembra invece sottintendere l’impulso
dinamico a una quotidiana prassi mnemonica. Ugualmente, il più sobrio e
allusivamente scientifico «Trattato delle Gemme» è il titolo che Dolce propone
per il suo volgarizzamento dello Speculum lapidum di Camillo Leonardi, mo-
strando così di voler tralasciare i pur remoti riferimenti a pratiche magico-
enciclopediche.
DIVENIRE MEMORIA XXXV

l’immagine, nonché interessanti punti di convergenza con altri due


Dialoghi dolciani, quello «nel quale si ragiona della qualità, diver-
sità e proprietà dei colori» e quello «della pittura intitolato L’Aretino»:
Dopo lo aver ragionato assai lungamente intorno a i luoghi, resta a volgere il
nostro sermone a quello che al proprio essere di questa arte appartiene. Fa-
cendosi adunque i luoghi per nostro uso et in quelli dovendosi contenere
alcuna cosa, dobbiamo hora considerare di dipingere in essi le imagini, per le
quali gli abbiamo fatto, di qualunque maniera; altrimenti la fatica che vi ci
abbiamo posta insino a qui riuscirebbe vana, come altresì indarno faressimo
le carte se in quelle non iscrivessimo alcuna cosa (p. 81).

IV. Ombre e colori della memoria

L’ipotetica trilogia dolciana sull’immagine si apre nel 1557


con l’opera che ha per protagonista «il flagello de’ principi» e che è
comunemente conosciuta e studiata in quanto voce del dibattito
cinquecentesco sull’imitazione64, e come strategico intervento let-
terario a favore della pittura veneziana (rappresentata dall’equili-
brio umanista di Raffaello e dall’armonioso colorismo di Tiziano)
e contro il primato del disegno, michelangiolesco e tradizional-
mente tosco-romano65: il commiato del protagonista dal letto-

64
Cfr. R.W. LEE, Ut pictura poesis. La teoria umanistica della pittura, trad.
it. Firenze, Sansoni 1974, 17: «Il Dolce può ancora accettare senza difficoltà il
vecchio concetto dell’imitazione letterale applicato alla natura in generale, ma
per quanto riguarda la figura umana, tema di gran lunga prevalente nella pittura
italiana, di fronte alla quale il resto della natura ha sempre avuto un carattere
sussidiario, il concetto non si può più applicare. Ed è a proposito della figura
umana in azione che il Dolce, seguendo il metodo dei critici letterari del suo
tempo che prescrivevano le regole della poesia rifacendosi ad Aristotele e ad
Orazio, formulò la sua dottrina dell’imitazione ideale»; a riguardo si vedano
anche E. PANOFSKY, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, trad. it. Firenze, La
Nuova Italia 1952 e J. GRAHAM, ‘Ut pictura poesis’. A bibliography, in «Bulletin
of Bibliography and Magazine Notes», XXIX, 1972.
65
Cfr. E. BATTISTI, Il concetto d’imitazione nel Cinquecento italiano, in
Rinascimento e Barocco, Torino, Einaudi 1960, 204: «Nei suoi [scil. del Dolce]
scritti c’è indubbiamente il tentativo di trovare un accordo fra esperienza e
creazione, fra natura e stile: di qui il peso enorme che le sue pagine ebbero per
la formazione del Barocco. Specialmente la sua interpretazione critica di Tiziano
restò normativa: per merito di essa il gusto veneziano potè affiancarsi con pari
dignità teorica a quello tosco-romano». Sul Dialogo della pittura si vedano
anche: S. ORTOLANI, Pietro Aretino e Michelangelo, in «L’Arte», 25, 1922, 15-26;
ID., Le origini della critica d’arte a Venezia, in «L’Arte», 26, 1923, 1-17; M. W.
ROSKILL, Dolce’s Aretino and Venetian Art Theory of the Cinquecento, New York,
New York University Press 1968.
XXXVI A. TORRE

re66 lascia intravvedere in limine i motivi di quello che in apparenza


è un attacco dai toni controriformistici67 e che a posteriori si rivela
come «la difesa di un’arte che, dopo aver estratto dal michelangio-
lismo tutto quanto poteva servire per superare un momento di sta-
si, che altrimenti avrebbe potuto condurre all’accademismo, rinvi-
gorita e sicura di sé, si sente di riprendere il proprio cammino sen-
za più aiuto, anzi desiderosa di liberarsi da quegli influssi che, dive-
nendo troppo potenti, potrebbero snaturarla»68 e allontanarla dalla
sua peculiare origine: l’intima fusione del colore e del disegno.
L’Aretino e il Dolce, convinti entrambi che «il senso dello scrivere
sull’arte risiede nel potere (e nella prepotenza) di tracciarne le co-
ordinate ideologiche»69, relativizzano la ‘divinità’ di Michelangelo,
oscurando il suo eccellere nel disegno con la circolare perfezione
del dipingere tizianesco70: l’uno plasmando il materiale linguistico
con la stessa fisicità degli impasti di colore, l’altro collocando i con-
tenuti della nuova arte in un contesto culturale unitario, i due com-
pari tentano di strappare Venezia al suo splendido isolamento e
alla sua inclinazione verso l’Oriente, per interessarla maggiormen-
te ai problemi italiani e contrapporla così a Roma come polo cul-
turale simmetrico e di pari prestigio.

66
Cfr. L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, in Trattati d’arte
del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, I, a cura di P. Barocchi, Laterza,
Bari 1960, 206: «E di presente io temo che la pittura non torni a smarrirsi
un’altra volta, percioché de’ giovani non si vede risorgere alcuno che dia speran-
za di dover pervenire a qualche onesta eccellenza; e quei che potrebbono divenir
rari, vinti dall’avarizia poco o nulla si affaticano nelle opere loro».
67
Cfr. A. BLUNT, Le teorie artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo,
trad. it. Torino, Einaudi 1966, 133: «L’attacco in questione fu promosso
dall’Aretino e proseguito a nome suo dall’amico Lodovico Dolce. Fu ispirato da
motivi del tutto personali e non era in alcun modo connesso con le critiche serie
e di carattere religioso fatte al Giudizio Universale, benché successivamente, a
quanto sembra, Gilio da Fabriano abbia attinto argomenti dall’opera del Dolce».
68
M. POZZI, L’«ut pictura poësis» in un dialogo di L. Dolce, in Lingua e
cultura del Cinquecento, Padova, Liviana 1975, 13.
69
M. PIERI, Furore e Maniera. Alle origini della scrittura sull’arte con una
Appendice sull’Idillio, Parma, Zara 1984, 29. Sulla politica culturale dell’Aretino
e sul ruolo determinante che in essa gioca il Dolce si vedano anche G. FALASCHI,
Progetto corporativo e autonomia dell’arte in Pietro Aretino, Messina-Firenze,
D’Anna 1977, e CH. CAIRNS, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches
on Aretino and his circle in Venice 1527-1556, Firenze, Olschki 1985.
70
Cfr. L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, ed. cit., 145:
«Tiziano, il quale diede alle sue figure una eroica maestà e trovò una maniera di
colorito morbidissima, e nelle tinte cotanto simile al vero, che si può ben dire
con verità ch’ella va di pari passo con la natura»; e anche 202: «E certo in questa
tavola [l’Assunzione della Vergine di Tiziano] si contiene la grandezza e terribilità
DIVENIRE MEMORIA XXXVII

Otto anni dopo (1565) la città lagunare è indirettamente evo-


cata anche dalle pagine del Dialogo dei colori, opera singolare nel
suo ibridismo di galateo letterario-cortese del colore e di
pseudotecnico manualetto di pittura71: il colore, a Venezia più che
altrove, non è solo quello che nei pittori fa sembrare viva ogni figu-
ra, ogni carne tremante, ma anche quello «degli antichi sudori del-
la tinta» che incrementa il valore di ogni manifattura, quello vio-
lentemente umano «della merda e del sangue» e, non ultimo, quel-
lo che per la comune genesi combinatoria – per addizione e sottra-
zione – ricorda i Teatri di retorica e memoria del «divino» Giulio
Camillo72.
Anche in questo Dialogo, dov’è nuovamente ribadito il dirit-
to del profano cólto a parlare d’arte73, l’immagine è analizzata come

di Michelagnolo, la piacevolezza e venustà di Rafaello, et il colorito proprio della


natura».
71
La patina tecnica del dialogo dolciano, che in modo palese propende
verso un uso letterario del discorso e della figura del colore, è probabilmente un
residuo di superficie del già citato Libellus de coloribus di Antonio Tilesio, un
trattato latino stampato a Venezia nel 1528, che Dolce traduce abbondante-
mente nelle prime pagine facendo proprio un sistema di mappatura del colore,
fondato sulla nomenclatura, l’etimologia e i principî d’uso dei colori.
72
Per le citazioni: M. BRUSATIN, Storia dei colori, Torino, Einaudi 1983,
56 e 58. Sulla memoria del Camillo si vedano invece, oltre al fondamentale L.
BOLZONI, Il teatro della memoria. Studi su Giulio Camillo, Padova, Liviana 1984:
L. B. WENNEKER, An examination of L’Idea del Theatro of Giulio Camillo, including
an annotated translation, with special attention to his influence on embleme literature
and iconography, Ph. D., University of Pittsburg 1970; G. BARBIERI, L’artificiosa
rota: il teatro di Giulio Camillo, in Architettura e Utopia nella Venezia del Cinque-
cento, a cura di L. Puppi, Milano, Electa 1980, 209-218; C. BOLOGNA, Il «Theatro»
segreto di Giulio Camillo: l’«Urtext» ritrovato, in «Venezia Cinquecento», 1,
1991, 217-271; L. BOLZONI, Erasmo e Camillo: il dibattito sull’imitazione, in
«Filologia antica moderna», IV, 1992, 69-113; M. TURELLO, Anima artificiale.
Il teatro magico di Giulio Camillo, Udine, Aviani 1993; L. BOLZONI, Scrittura e
arte della memoria. Pico, Camillo e l’esperienza cinquecentesca, in Giovanni Pico
della Mirandola. Atti del Convegno Internazionale di Studi nel cinquecentesimo
anniversario della morte (1494-1994), Mirandola, 4-8 Ottobre 1994, a cura di
G. C. Garfagnigni, Firenze, Olschki 1997, 359-381; A. TORRE, Scena Speranze.
Il paradigma del teatro nell’arte della memoria rinascimentale, in «Scena‹e›. Studî
sulla vita delle forme nel teatro», V-VI, 2000, 9-32.
73
L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà
dei colori, ed. cit., c. 7r: «E ne favellerò teco non come dipintore, ché ciò
appartenerebbe al Divin Tiziano; né meno la tua vaghezza è di apparare il
componimento de’ colori; ma come si fa da uno il cui studio è di lettere e non
di pittura»; da confrontare con L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino,
ed. cit., 155: «E dico che nell’uomo nasce generalmente il giudicio dalla pratica
e dalla esperienza delle cose. E non essendo alcuna cosa più famigliare e dome-
stica all’uomo, di quello ch’è l’uomo, ne seguita che ciascun uomo sia atto a far
XXXVIII A. TORRE

oggetto retorico, come forma che comunica un messaggio. Una


forma che può essere visivamente semplice, come ogni singolo co-
lore di cui il Dolce ci rivela le numerose sfumature di significato in
una sequenza cromatica suggestivamente assimilabile a un ordina-
to schema di luoghi mnemonici:
Il ceruleo mi fa ricordar del Cesio. Questo adunque avrà il secondo
luogo74;

oppure una forma che può presentare contorni più ermetici, come
le imprese di famose case tipografiche veneziane75 spiegate dall’au-
tore nella seconda parte del dialogo, dove, sempre nella forma di
catalogo, il Dolce dà vita a un vero e proprio dizionario del figurabile,
utile per la composizione e la lettura di emblemi e imprese76: ogni

giudicio di quello che egli vede ogni giorno, cioè della bellezza e della bruttezza
di qualunque uomo; (...) Onde, avendo l’uomo, come ha, questa cognizione
intorno alla forma vera, che è questo individuo, cioè l’uomo vivo; perché non
la dee aver molto più intorno alla finta, che è la morta pittura?».
74
L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà
dei colori, ed. cit., c. 9v.
75
Troviamo: l’«Ancora col Delfino avoltovi a torno» (c. 54r) che fregia i
libri di Aldo Manuzio e dinota la fermezza; la «Fenice, che arde nelle fiamme,
risguardando incontra il Sole» (c. 57v), simbolo dell’immortalità e degno em-
blema quindi della tipografia giolitina «perché gl’impressori con l’imprimer de’
libri tengono vivi i nomi de gli Scrittori, e gli rendono immortali»; e infine,
esemplificativo dell’accortezza diplomatica del Dolce, «la Gatta, la quale tiene
un Topo in bocca» (c. 56v) scelta come insegna da messer Marchiò Sessa, in cui
l’autore riconosce tanto l’utilità («La Gatta mangia i Topi, i quali sono di gran
danno a una casa, percioché rodono cose di valore, come ornamenti di casa, libri
e cose simili»[corsivo mio]) quanto «che non vi può essere amicizia e concordia
che duri se non tra pari» (per la quotidiana battaglia tra gatti e cani). Quest’ul-
tima impresa ritorna anche nel Trattato delle gemme, Venezia, Sessa 1565, c. 88v:
«GATTA, figura di una gatta col topo stretto in bocca; trovandosi scolpita in un
Diaspro, fa chi la porta legata in uno anello d’oro, abondevole de’ beni di
fortuna, e massimamente della mercanzia de’ libri». Nel Dialogo della memoria
invece, stampato anch’esso per i tipi del Sessa, compare lo stesso capostipite di
questa importante impresa editoriale veneziana come personaggio di una rap-
presentazione mentale vòlta a memorizzare gli estremi di una trattativa com-
merciale (cfr. il testo a p. 188); sui Sessa si vedano S. CURI NICOLARDI, Una
società tipografico-editoriale a Venezia nel secolo XVI, Firenze, Olschki 1984, e N.
VIANELLO, Per gli «Annali» dei Sessa tipografi ed editori in Venezia nei secoli XV-
XVII, in «Accademie e biblioteche d’Italia», XXXVIII, 4-5, 1970, 262-285.
76
Sui rapporti fra impresistica e arte della memoria resta fondamentale
(anche per ricchezza di immagini) lo studio di L. VOLKMANN, Ars memorativa,
in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 3, 1929, 111-203.
Si vedano anche: L. VOLKMANN, Bilderschriften der Renaissance. Hieroglyphik und
Emblematik in ihren Beziehungen und Fortwirkungen, Leipzig, K. W. Hiersemann
DIVENIRE MEMORIA XXXIX

singolo oggetto elencato si presta infatti ad essere identificato come


lettera-immagine di uno dei tanti alfabeti visibili, consigliati spes-
so anche nel Dialogo della memoria «a fine che più facilmente la
cosa medesima mova l’animo e con più forza gl’intendimenti spiritali
si stampino nella memoria» (p. 105). D’altronde il colore, elemen-
to determinante insieme alla specie e alla forma per discernere gli
elementi del reale77, risulta una componente non secondaria anche
della prassi mnemonica, poiché da un lato il contrasto cromatico
tra immagine e luogo, stimolando la percezione sensoriale, aiuta la
facoltà ritentiva 78, e dall’altro le potenzialità metaforiche e
metonimiche del colore rinviano ai criterî associazionistici di so-
miglianza, contiguità e opposizione, su cui la mente umana fa leva
per ricordare, sicché il colore bianco, ad esempio, «purissimo colo-
re, (...) trasportandosi per via di metafora all’animo, si prende per
sincero»79; o, non diversamente, «la cosa accidentale e la propria si
noterà nel suo soggetto: come nel Moro la negrezza, nell’Arabo il
colore fosco, nello Schiavone la rossezza, ne’ Francesi e Tedeschi la
bianchezza» (p. 137, corsivi miei), di modo che il richiamo
mnemonico risulti immediato. Nel Dialogo dei Colori non vi è però

1923; M. PRAZ, Studi sul concettismo, Firenze, Sansoni 1946; R.J. CLEMENTS,
Picta poësis. Literary and Humanistic Theory in Renaissance Emblem Books, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura 1960; R. KLEIN, La forma e l’intelligibile. Studi
sul Rinascimento e l’arte moderna, trad. it. Torino, Einaudi 1975; G. INNOCENTI,
L’immagine significante. Studio sull’emblematica cinquecentesca, Padova, Liviana
1981; W. NEUBER, Locus, Lemma, Motto. Entwurf zu einer mnemonischen
Emblematiktheorie, in Ars memorativa. Zur kulturgeschichtlichen Bedeutung der
Gedächtniskunst 1400-1750, ed. cit., 351-372. Nella stessa produzione dolciana
è presente una raccolta di imprese: Imprese Nobili et ingeniose di diversi Prencipi
et d’altri personaggi illustri nell’arme et nelle lettere. Le quali, col disegno loro
estrinseco, dimostrano l’animo et la buona o mala fortuna de gli Autori loro. Con le
dichiarationi in versi di messer Lodovico Dolce et d’altri, Venezia, G. Porro 1578.
77
L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà
dei colori, ed. cit., c. 6r: «Mentre io vo riguardando questa gran Machina del
Mondo, ve n’è una non picciola, anzi forse non minore di qualunque altra: il
vedere ogni cosa distinta col suo proprio colore, dalla cui varietà prendono gli
occhi infinita contentezza e diletto. Percioché il cielo, la terra, le piante, l’herbe,
i fiori, gli animali brutti e l’huomo, tutti sono diversi non solo di specie e di
forma, ma di colori».
78
Cfr. il testo a p. 128: «Ora alle volte aviene che non troviamo agevol-
mente l’imagine della cosa di cui vogliamo ricordarci, né per intendimento di
essa, né per suono di voce, né per capi di parola. In questo caso è mio consiglio
che la imagine, da noi formata con le lettere o sillabe sovra dette, al suo luogo
tenga l’iscrizione da esso luogo di contrario colore».
79
L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà
dei colori, ed. cit., c. 12r.
XL A. TORRE

traccia evidente di quelle strategiche provocazioni intellettuali che


ritornano invece con frequenza nel Dialogo della pittura.
Il nucleo polemico di quest’ultima opera è la teorizzazione
che Dolce fa del decorum sulla scorta di «categorie non morali ma
estetiche»80, affermando la necessaria convenevolezza del prodotto
artistico tanto nei confronti del soggetto ritratto quanto dell’am-
biente a cui è destinato: in ogni momento della pittura 81 l’artista
deve porre «riguardo alla qualità delle persone, né meno alle nazio-
ni, a’ costumi, a’ luoghi et a’ tempi» così che «se dipinge un putto,
dee dargli membri da putto, né dee fare un vecchio con sentimenti
da giovane, né un giovane con que’ da fanciullo. Il simile è
convenevole che si osservi in una donna, distinguendo sesso da
sesso, et età da età, e dando a ciascuno convenientemente le parti
sue»82. Il concetto di decorum è però un punto di riferimento co-
stante non solo per chi dà visibilità e dignità artistica alle forme
partorite dall’ingegno, ma anche per coloro che questi fantasmi
creano a beneficio della propria memoria, imprigionandoli poi
negl’invisibili recessi della mente:
Percioché dobbiamo formar le imagini che abbiamo nella mente con certe
linee et attitudini del corpo proprie e convenevoli alle loro qualità e condi-
zioni, in modo che anco l’interno rappresentino: come per esempio per un
vecchio fingeremo un huomo tremante, di corve spalle, che paia che gema,
con le labbra pendenti, con la barba bianca, lunga, e squallida, e co’ capegli
rari e canuti. Allo ’ncontro per un bel giovane ricercheremo una forma gra-
ziosa et una statura convenevole, e lo faremo di viso alquanto lunghetto, co’
capegli inanellati, con delicate mani, e tale che dimostri vivezza ne’ gesti. E
così serberemo la qualità di ciascuna età e di ciascun sesso (p. 93).

Inoltre sia il pittore che lo mnemonista debbono comporre


il racconto, sulla tela o nella mente, «disponendo ordinatissima-
mente le cose nel modo che elle seguirono»83, non diversamente da
come Aristotele suggerisce agli scrittori di teatro con la sua unità
80
M. POZZI, L’«ut pictura poësis» in un dialogo di L. Dolce, ed. cit., 20. Faro
della trattazione dolciana è chiaramente l’Ars poetica oraziana, tradotta dallo
stesso scrittore veneziano: La poetica d’Horatio, tradotta per Messer Lodovico
Dolce, Venezia, Bindoni 1535.
81
Dolce applica alle arti figurative la tripartizione dell’oratoria in inventio,
dispositio ed elocutio, riconoscendo nell’invenzione la scelta dell’evento da rap-
presentare e il piano generale del quadro che il pittore ha elaborato nella propria
mente; nel disegno, la proiezione dell’invenzione in un bozzetto senza colore; e
nel colorito, l’atto che offre al quadro la sua veste definitiva.
82
L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, ed. cit., rispettiva-
mente 165 e 177.
83
Ibid., 166.
DIVENIRE MEMORIA XLI

d’azione: se la corretta successione dei fatti nella storia dipinta rin-


salda la verisimiglianza del quadro e impedisce che la confusione
infastidisca l’occhio dello spettatore, la costituzione di un’ordinata
griglia di imagines fixae e la regolare giustapposizione di imagines
mobiles, legate fra loro come a «formare una catena di comuni azio-
ni», fortificano la memoria naturale rendendo possibile quel pro-
cesso logico a base associazionistica su cui si fonda la reminiscenza:
E nel vero è cosa agevole, dai luoghi ordinatamente posti, la imaginata mate-
ria pronunziar con ordine e con dottrina; con sicura prontezza procedendo
da una cosa in un’altra, con diverso ordine, dritto, oblico e contrario. (...) e
quello che non ha fatto l’arte del Maestro o la natura, noi col nostro pensiero
ridurremo in ordine di continuità e vicinanza (p. 58).

Ma la convenevolezza e l’ordine, se garantiscono l’accettabilità


delle immagini – interne o esterne –, di certo non sono in grado da
soli di dare a queste spirito, vita, e di dotarle così anche del potere
di muovere «gli animi de’ riguardanti, alcune turbandogli, altre
rallegrandogli, altre sospingendogli a pietà et altre a sdegno»84: è la
tensione emotiva, creatasi nell’animo del fruitore di un’immagine
«maravigliosa, dilettevole, ridicolosa, o crudele, di rara qualità, e
timida, maravigliosa, cioè di gesto atroce e crudele, di volto che
appresenti aspetto di chi stupisce, e ripiena di tristezza» (p. 93), a
stabilire tra i sensi dello spettatore e la sua memoria un legame di
intensità tale che, grazie ad essa, il contenuto formale o metaforico
dell’immagine riesce a sottrarsi all’indifferente fluire del tempo.
L’intenso potere dell’immagine e dell’immaginazione che fin
dalle origini soggiace alla fitta trama di rapporti che legano poesia,
pittura e mnemonica, sembra dunque unire anche i destini del Dia-
logo della pittura, del Dialogo della memoria e del Dialogo dei colori,
sottolineando una volta di più il complesso gioco di specchi, che
nel Cinquecento fa sì che «i poemi si possono così trasformare in
gallerie, i testi in palazzi, le collezioni in enciclopedie e in castelli
interiori, e viceversa»85.

84
Ibid., 186.
85
L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici
nell’età della stampa, ed. cit., XX. Vera e propria denuncia di questa ‘poetica
dell’intersezione’ è un passo del Dialogo della memoria: «Overo ce li imagineremo
per le figure come che gli dipingono i Pittori. Dell’arte de’ quali se avremo
qualche famigliarità o contezza, ci sarà più agevole il formarle. Come chi volesse
raccordarsi della favola di Europa, potrebbe valersi dell’esempio della pittura di
Tiziano; et altretanto di Adone e di qual si voglia altra favola, o historia profana
o sacra, eleggendo specialmente quelle figure che dilettano e quindi sogliono la
memoria eccitare» (cfr. il testo a p. 146).
XLII A. TORRE

V. Promemoria veneziano

Le tre opere fatte dialogare si rincorrono a breve distanza in


un periodo che, come abbiamo visto, è sì caratterizzato da una
profonda ridefinizione dei caratteri e delle finalità dell’immagine,
tanto pittorica quanto mnemonica, ma che, specificamente a Ve-
nezia, intravvede anche più macroscopici segnali – politici, cultu-
rali e sociali – di un ormai prossimo e vasto mutamento di stagio-
ne. A Venezia dunque, un’età di memoria: nella quale è significan-
te lo sforzo di inventariare ogni istante di un avventuroso volo che
con le ali della passione e della volontà, e non con la bussola del-
l’intelletto, aveva prodotto un’illusoria sensazione di libertà e auto-
nomia86. Del minaccioso incombere di tempi nuovi deve essersi
accorto anche il Dolce, uomo apparentemente classico per la sua
ansia di visualizzare nell’inchiostro ogni esperienza di sapere e per
la sua ossessiva voracità nel memorizzare sulle carte ogni trasmissibile
insegnamento degli antichi maestri (che in negativo può anche con-
siderarsi un intimo terrore di dimenticare, di perdere «ciò che ti ha
fatto, un po’ per caso, uomo di lettere capace di citare un passo
difficile, di abbinare senza sforzo apparente un nome classico, un
aggettivo, un colore, una virtù»87) ma nel contempo intimamente
anticlassico per la sua fede in una cultura che vive del dialogo fra i
sensi e la ragione e che ascende dal piano dell’esperienza verso quello
del pensiero88.
Passione e volontà, si diceva: nell’incontro di queste due forze
tra le carte dell’officina tipografica sembra materializzarsi il piccolo
mondo del Dolce, un microcosmo in cui la Letteratura («Appresso
abbiate sempre nell’animo che né la chiarezza del sangue, né l’am-
piezza delle facoltà, né i meriti del clarissimo Padre vi posson ren-
der tanto nobile appresso gli huomini, né tanto grande nelle digni-
tà della vostra illustre patria, quanto gli ornamenti delle lettere et il
studio delle virtù»89) invade con i forsennati ritmi dei torchî ogni

86
Su Venezia come imago memoriae dei valori del Rinascimento nell’età
della Controriforma si veda W.J. BOUWSMA, Venezia e la difesa della libertà
repubblicana, trad. it. Bologna, il Mulino 1977.
87
R. PIERANTONI, I giocattoli della memoria, ne «La Stampa» del 14 ottobre
1995.
88
Cfr. L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, ed. cit., 155: «E
dico che nell’uomo nasce generalmente il giudicio dalla pratica e dalla esperien-
za delle cose».
89
Cfr. la lettera del Dolce a «Messer Federigo Badoaro», conservata nella
Nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini, Venezia, Muschio 1574,␣ 112.
DIVENIRE MEMORIA XLIII

più riposto anfratto della vita, e in cui la Vita («Arei sommamente


caro che’l latore fosse hoggi dopo desnare il Ragazzo di vostra Si-
gnoria»90) dà libero sfogo alle energie ereditate dalla letteratura, né
l’una si oppone all’altra, o la governa, ma insieme reciprocamente
si compenetrano; la letteratura non si pone in lui come elemento
accessorio o vocazione, come empito radioso e incorporeo d’asso-
luto, quanto piuttosto come un’altra possibilità di vita che viene a
incarnarsi in un ostinato, e quindi etico, impegno pratico nella
scrittura e nella lettura, che di ben più nobili slanci poetici ha im-
parato a leggere le nude ossa, a riconoscere la partitura delle idee.
L’evidenza reale di una sovrapposizione senza residui in Dol-
ce fra ciò che è vita e ciò che fa letteratura, testimoniata dall’im-
pressionante media annua del suo lavoro intellettuale, trova poi
una sublimata corrispondenza all’interno dei testi nella costante
declinazione della materia trattata in termini di generale ed esperibile
utilità. E questa visione profondamente pragmatica dell’atto arti-

90
La citazione è tratta da una lettera di Dolce «Al Signor suo Compare
Messer Pietro Aretino Divinissimo», raccolta poi in Lettere scritte all’Aretino,
Marcolini, Venezia 1552, 378. Un’ulteriore, evidente e al contempo ambigua
per il carattere burlesco dell’opera, testimonianza della presunta omosessualità
dolciana – segno dell’integrazione dell’erotismo, dell’amore e della sensualità
nella cultura e nel vissuto quotidiano di Venezia in un momento di forte
ridefinizione del senso della vita – è costituita dal Capitolo d’un Ragazzo, in cui
il Dolce chiede insistentemente a messer Anselmi di permettere il ritorno a quel
ragazzo che fino a pochi giorni prima «era la mia vita, e ’l mio diletto» e che ora,
scappato, era andato a prestar servizio proprio presso di lui: bello («Egli ha un
viso da far arder Giove») e cólto («Avea il Petrarca e gli Asolani a mente»),
rappresentava l’unico sollievo («Egli la cura avea della mia stanza, / Trarmi le
calze quando andava a letto, / E di menarmi, s’io volea, la manza») e l’unico
sostegno («Meco non è Amarilli o Galatea, (…) Ma una vecchia che pare una
strega; / Che s’io voglio un servigio, e’ mi bisogna / Pregarla, e spesse volte ella
me l’ niega») per il Dolce che amaramente ne piange la fuga («E starci senza io
non ne posso un’ora») e ne sogna il ritorno («Dormirà nel mio letto a suo
bell’agio / Così ne’ fatti per modo di dire, / Egli farà la donna di palagio»).
Indicativo del carattere non del tutto faceto della composizione è il finale, dove
Dolce non nasconde qualche preoccupazione sul fatto che il Capitolo venisse
letto pubblicamente da personaggi influenti: «Mandatemi il ragazzo, e se vi pare
/ Di bruciar questa scritta, non sia rio, / Anzi sarà una cosa da lodare. / Che in
man del vostro Cardinale e mio / Potrebbe capitar per isciagura: / E mi fareste
rinnegar Iddio. / Non già ch’abbia pensiero, né paura, / Ché di me sospettasse
oncia di tristo: / Sa ben sua Signoria la mia natura. / Ma voi potrebbe cogliere
sprovisto» (Il primo libro dell’Opere Burlesche di Messer Francesco Berni, di Messer
Giovanni Della Casa, del Varchi, del Mauro, di Messer Bino, del Molza, del Dolce
e del Fiorenzuola. Ricorretto, e con diligenza ristampato, Usecht al Reno, appresso
Jacopo Broedelet 1726, 341-346).
XLIV A. TORRE

stico emerge anche dal Dialogo della memoria: un testo, che cammin
facendo non esiterà a risultare qua e là oscuramente astratto, nasce
invece da un bisogno pratico, dalla semplice e comprensibile ri-
chiesta di chi, «non per difetto d’ingegno ma per mancamento di
memoria» (p. 7), fatica a trarre il massimo profitto dai lunghi studî;
non beneficiato dal dono naturale di una memoria pari a quella
degli illustri mnemonisti che il compagno Hortensio, subito cala-
tosi nei panni del magister, gli elenca un po’ scortesemente, Fabri-
zio si affida all’aiuto dell’amico, conscio della sua esperienza in
materia («io so che molto in così fatto esercizio ti sei affaticato»,
p.␣ 9). Da un incontro che l’inizio ex abrupto del dialogo contribu-
isce a rivestire di casualità e quotidianità nasce dunque una lunga
lezione, in cui le voci dei maestri antichi e moderni dell’ars
reminiscendi si accavallano sovrastandosi l’un l’altra, vanamente
controllate da un ordine ormai spoglio della propria sistematicità,
ma attentamente ed elegantemente filtrate dalla filigrana della tra-
duzione dolciana, «perché la viva voce suole apportar sempre non
so che di più» (p. 9): la traduzione in forma di dialogo che Dolce fa
del trattato latino offre a quest’ultimo un’occasione di vita in più,
che è tanto una possibilità in più di essere ricordato, poiché di fatto
diviene una res memoranda calata e riposta in un edificio dramma-
tico immaginificamente produttivo, quanto un’opportunità in più
di vivere come scrittura, poiché il testo decomposto ancora traluce
fra le maglie della riscrittura, seppur con un riflesso deformato,
parziale, franto.
Dopo le proemiali definizioni di memoria naturale, memoria
artificiale e reminiscenza, Dolce entra nel vivo della trattazione
focalizzando lo sguardo sulle norme riguardanti i luoghi, le imma-
gini e l’ordine, elementi costitutivi di ogni mnemotecnica, il cui
«bello artificio (…) non tanto si approva per l’autorità de gli anti-
chi, quanto per la lunga pratica che si suol far di giorno in giorno»
(p. 32); e dominio del quotidiano, tanto che di essi possiamo forni-
re cataloghi alfabetici e schematiche illustrazioni, sono ad esempio
i tanti mestieri ai cui nomi e attributi possiamo agganciare ogni
nostro ricordo, ma anche il paesaggio del mondo reale che attraver-
so i canali della percezione dialoga con i loci immaginarî della no-
stra mente: da una parte infatti l’introiezione della topografia e del-
l’architettura del mondo esterno nei dominî dell’interiorità sugge-
risce un sempre più razionalizzato spazio mentale e un’immagine
della memoria come luogo ordinato e misurato, mentre dall’altra le
leggi che all’atto della conservazione mnemonica presiedono alla
formazione di un intimo paesaggio mentale, fatto di necessarie uni-
DIVENIRE MEMORIA XLV

formità e simmetrie mai deluse, contribuiscono a una sempre più


geometrizzata e schematica percezione, nonché concettualizzazio-
ne, dello spazio sensibile esteriore91. Questa dialettica interno-esterno
è sintomatica della dimensione retorica dell’arte della memoria, che
risulta dominante all’interno del Dialogo e pienamente conforme
con le sue più prossime fonti classiche e Scolastiche; tale lettura in
chiave retorica ben si sposa altresì col valore d’uso delle tecniche
mnemoniche e più in generale della vis memorativa, che Dolce sot-
tolinea con costante frequenza lungo tutto il dispiegarsi del dialogo
fino alle sue ultime battute, dove l’autore esemplifica ancora una
volta il metodo proposto ragionando «alquanto intorno alle cose
profane (…) che dipendono dai numeri; e così le mercanzie, i debi-
ti, il giuoco de’ dadi, delle carte, de gli scacchi, e così fatti» (p.␣ 185):
d’altronde le osservazioni sulla memoria che nel Medioevo dimora-
vano esclusivamente tra le carte dello studioso fanno ora bella mo-
stra di sé perfino nella precettistica del comportamento, come ci
testimonia questo passo del Dialogo della istitution delle donne, in
cui Dolce ha ben in mente le grandi potenzialità infantili di
ritenzione mnemonica sostenute da più di un’auctoritas classica:
Segue la terza e maggior considerazione, la quale è che non solo dobbiamo
guardarci di fare alcun atto men che honesto in presenza delle nostre figliuo-
le, ma di dir parola né lasciva né inconsiderata, perché sì come esse sono atte
a imprender con poca fatica e quelli e queste, così ad ogni tempo ne fanno di
loro la memoria con dolce diletto conserva. Et aviene che non solo le cose
per lungo uso vedute et ascoltate ci dimorino nella memoria, come io dico,
ma che anchora non vi pensando noi ci escano fuor di bocca et in opera le
mettiamo92

È dunque un’ars memorandi del quotidiano quella che lo scrit-


tore veneziano vuole filtrare dal trattato latino, specchio fedele di
un sapere che si acquista ancora «col dono di Dio e col nostro
sudore» (p. 79) e non con topiche a meccanica combinatoria come
quella di Jacopo Publicio ricordata nel Dialogo tanto per la «divina
commodità» che promette quanto per l’impermeabile «oscurezza»
che rende «più agevole intendere gli oracoli di Apollo» (p. 113): se
si accetta di buon grado il ricorso a rappresentazioni diagrammatiche

91
Cfr. G. SACCARO DEL BUFFA, Dalla narrazione alla scena pittorica me-
diante le tecniche della memoria, in «Arte Lombarda», XXXVIII, 3-4,
1993-1994, 79.
92
L. DOLCE, Dialogo della istitution delle donne, secondo li tre stati che
cadono nella vita humana, Venezia, Giolito 1547, c. 9r.
XLVI A. TORRE

e a «note, o lettere materiali», ancora lontano dalla formazione e


dalla mentalità di Host e di Dolce è lo sviluppo dinamico e creativo
di queste strutture di conservazione della conoscenza che di lì a
poco si affermeranno in termini logici e magici. Siamo dunque di
fronte a un’alterità di stagione e di umori difficilmente superabile e
che fa sentire il proprio peso soprattutto nella parte conclusiva del
testo, quella forse più confusa, meno convinta e convincente (e tale
effetto si amplifica chiaramente nel passaggio dall’originale latino
al volgarizzamento), proprio in ragione di una materia lontana dal-
l’evidenza e dalla brevità che sole sono sufficienti a «condur que-
st’arte a perfezione per più facil via e con poche figure, e parimente
più utili» (p. 115); l’accento principale è dunque posto sempre sulle
immagini: immagini che si offrono come spazio per la scrittura («Il
che si farà con più utile, se porremo i simolacri de i casi nel corpo
delle vive imagini», p. 117); immagini che riducono ad unità il
molteplice della scrittura («Possiamo nondimeno formar parole delle
quali ciascuna sillaba dinoti un’altra parola di cui ella sia il
cominciamento. In tal guisa con la imagine di una sola parola di-
pingeremo intere proposizioni», p 126); immagini che si organizza-
no come scrittura (e racconto: «Oltre a ciò, essendo che una imagine
conduce l’huomo nella ricordanza d’un’altra, sarà profittevole mol-
to porle insieme, l’una all’altra appresso a guisa di catena», p. 124).
Presenze ineludibili del quotidiano e luoghi di feconde
intersezioni fra immagini e lettere erano nell’età della stampa an-
che «i libri con figure, come per lo più hoggidì si sogliono stampa-
re, nella guisa che si possono vedere nella maggior parte di quelli
che escono dalle stampe dell’accuratissimo Giolito» (p. 147) e le
opere di quegli autori che, come il Boccaccio, «discrivono la natura
de gli Dei e raccontano come e con quali figure gli antichi gli di-
pingevano» (p. 148) – fonti primarie per plasmare efficaci immagi-
ni di memoria –, oppure i libri dei cosmografi93 e «l’ingegnosa in-
ventiva di Virgilio e di Dante» (p. 36) – ausilî indispensabili per
fabbricare i luoghi con l’immaginazione –. Avviandosi a descrivere
«la forma delle terre habitabili» come esempio di «luoghi veri e
particolari», Hortensio ci tiene a precisare che l’immagine che pro-
porrà ricalca la visione che della Terra avevano gli Antichi «che più
non pensavano che si potesse habitare» (p. 46); assente nel testo
dell’Host questa glossa del postcolombiano Dolce, esploratore di

93
Cfr. il testo a p. 52: «Tu puoi vedere che io t’ho fatto un picciolo schizzo
di questa bassa parte della terra per dimostrarti che non solo il sapere le cose della
Cosmografia aiuta la memoria, ma né anco senza questa cognizione si può
intender pienamente né le Historie, né le sacre lettere».
DIVENIRE MEMORIA XLVII

primo piano del Nuovo Mondo della stampa tipografica, suggeri-


sce curiosi parallelismi tra lo spirito dei primi viaggi di scoperta e
l’avventura culturale di chi al di qua delle colonne d’Ercole della
Tradizione andò in cerca di nuovi arcipelaghi testuali da creare com-
binatoriamente e di nuove terre dell’immaginario da descrivere. E
quali terre dell’immaginario possono essere più suggestive alla let-
tura, e più fertili per la composizione, di quelle descritte da Dante
nel suo viaggio oltremondano? Non a caso il richiamo alle «diverse
magioni» dell’Inferno dantesco è il luogo in cui si assiste a uno dei
più significativi scarti che il testo del Dolce fa rispetto all’originale
latino; già citato dall’Host – attraverso le parole dell’Enea virgiliano
– come inventario di loci immaginarî, l’Inferno è qui evocato per la
felice intuizione dantesca della legge del contrapasso che, in quan-
to associa colpe terrene e pene infernali attraverso principî di somi-
glianza o contrarietà, viene letta dal Dolce come una vera e propria
legge mnemonica che presiede alla costruzione di un sistema di
loci: i tre luoghi invisibili, e quindi comuni, dell’oltremondo cri-
stiano sono stati resi visibili da Dante mediante la sua descrizione
di luoghi abitati da imagines agentes e attraverso la fisicità cartacea
delle sue parole (quasi iscrizioni poste a calce di una complessa
rappresentazione del cosmo) a tal punto che, con la Yates, si può
vedere la Divina Commedia come «l’esempio supremo della con-
versione di una summa astratta in una summa di simboli ed esem-
pi, dove la memoria è la facoltà che opera questa conversione, for-
mando un ponte fra l’astrazione e l’immagine»94. Grazie alla possi-
bilità di «distinguere le pene secondo la qualità de’ peccati» (p. 37)
– legge che opera tanto da principio ordinatore degli spazî inferna-
li quanto da causa efficiente delle immagini tristemente terribili
che li abitano – il lettore è in grado di legare più tenacemente alla
memoria le parole di Dante, e di conservarne più a lungo il mes-
saggio di salvazione riposto dietro le metafore poetiche, come lo
stesso Dolce ci suggerisce in un passo del Dialogo dei colori:
MAR: E chi mandasse un Dante?
COR: Dante Poeticamente discrive le pene de’ cattivi, e ’l premio de’ buoni,
cioè de’ beati, ponendo l’Inferno, il Purgatorio, e ’l Paradiso. (…) Verrebbe
adunque a dinotare che colui, leggendo Dante, potrebbe ottimamente apparare
quello che sia da fuggire e quello che da seguitare. Verrebbe anco a inferire che
colui a cui mandasse il dono fosse huomo di bello intelletto e dotto95.

94
F. A. YATES, L’arte della memoria, trad. it. Torino, Einaudi 1972, 88.
95
L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà
dei colori, ed. cit., c. 72v-73r. In questa seconda parte dell’opera, sfruttando il
XLVIII A. TORRE

L’allusione dolciana all’«ingegnosa inventiva» di Dante non è


interessante solo come sottolineatura della dimensione creativa di
quello che implicitamente è un sussidio mnemonico, o solo come
richiamo all’importanza non secondaria e alla presenza non trascu-
rabile che il tema della memoria ha nell’opera dantesca96, ma an-
che perché ci offre un saggio del lavoro di aggiornamento a cui
Dolce sottopone gli exempla e le auctoritates dei testi che rielabora.
Alle voci della tradizione poetica classica egli affianca quelle dei
maestri moderni e dei loro più recenti seguaci, disponendole in
una sequenza mentale che suggerisce accoppiamenti a mezzo fra il
prammatico intervento encomiastico e la delineazione di una per-
sonale (e forse anche epocale) genealogia letteraria:
Onde sovvenendomi di Giovenale, mi sovverrà subito parimente di Persio,
di Horazio e di qualunque altro Poeta abbia scritto Satire. E se udirò nomare
Homero, mi ricorderò di Virgilio; se di Dante, mi verrà in mente il Petrarca,
il Bembo, il Cappello, il Veniero, il Tasso e ciascun altro buono e gentil Poeta
di volgari Rime (p. 135).

Queste aggiunte, come si è già potuto notare, rispondono


anche alle variazioni quantitative di un mercato librario fattosi più
laico e composito, e alla comparsa di un lettore conscio della qua-
lità della letteratura a lui contemporanea così come dello statuto di
prodotto di consumo che essa ora ha; un «terzetto di Dante» ap-

pretesto del dono e dell’«isprimere diversi concetti, secondo diversità di colori»


(c. 37v), Dolce dà vita a un vero e proprio repertorio-dizionario di simboli.
96
Pensiero agostiniano e riflessioni Scolastiche si fondono nelle numerose
occorrenze del tema all’interno dell’opera di Dante dove la memoria si presenta
di volta in volta: come thesaurus che offre il ricordo delle esperienze passate alla
ragione (Convivio, IV, XXVIII, 11: «E benedice anco la nobile anima in questa
etade li tempi passati (…) però che, per quelli rivolvendo la sua memoria, essa
si rimembra de le sue diritte operazioni») o alla fantasia (Vita Nuova, XVI, 2:
«molte volte io mi dolea, quando la mia memoria movesse la fantasia ad imaginare
quale amore mi facea»); come facoltà dell’anima (Purgatorio, XXV, 83: «l’altre
potenze tutte quante mute; / memoria, intelligenza e volontade / in atto molto
più che prima agute»); nella veste di due fortunate immagini metaforiche, quella
del libro (oltre all’incipit della Vita Nuova si veda Rime, LXVII, 59: «nel libro
de la mente che vien meno») e quella del sigillo (Convivio, I, VIII, 12: «Onde acciò
che ’l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che
l’utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono»); in stretto rapporto con
l’intelletto (Paradiso, XXXIII, 57: «Da quinci innanzi il mio veder fu maggio /
che ’l parlar nostro, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio»).
Per la memoria degli angeli si veda B. NARDI, Il canto XXIX del Paradiso, in
«Convivium», XXIV, 1956, 294-302.
DIVENIRE MEMORIA XLIX

partenente al Paradiso può dunque subentrare a un passo evangeli-


co come memento di un precetto morale, e i più noti luoghi del
Petrarca possono pienamente fungere da versi mnemonici di cui
ritenere, a seconda delle necessità, il contenuto (allo scopo di ricor-
dare un Pietro o un Francesco di nostra conoscenza, la forma della
pietra…) o la forma («Se averrà anco che tu ti voglia raccordar di
alcun verso, potrai allogar per i capi, massimamente quando insie-
me convengono. Altrimenti si può far per cadauna prima lettera di
ciascuna parola, come volendo ridursi in mente questo Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono in questa guisa V. C. A. I. R. S. il
S.», p. 184), la lettera o l’immagine.
Accanto alle immagini consigliate e a quelle evocate vi sono
poi anche quelle realmente offerte agli occhi del lettore: ben venti-
quattro immagini accompagnano infatti il testo, dialogando con le
battute intrecciate di Hortensio e Fabrizio di cui esse sono insieme
rappresentazione e prefigurazione, istantanee summae che possono
vivere autonomamente, magari confluendo nel mare magnum
dell’impresistica, o abbandonarsi allo sguardo curioso del lettore in
cerca dei legami analogici fra parola e figura, fra ricordo e racconto
poiché
se diligente sarà l’ascoltante, et attento a bastanza, conferendo le parole con
le imagini e riducendole a memoria tenacemente, benissimo ridirà le cose
udite (p. 184).

Concentrare immagini e parole in un unico locus memoriae è


anche quanto Dolce fa nella parte conclusiva del Dialogo, laddove
abbozza una catalogazione mnemonica delle scienze e delle arti,
ora conservando la rigorosa griglia di sostantivi, verbi e altre com-
ponenti del discorso delineata da Host, ora frantumandola in un
continuum destrutturato (e talora bruscamente, quanto arbitraria-
mente, interrotto) di parole: gli elenchi che si dispiegano lungo più
pagine valgono sì da possibile visualizzazione di quell’ordine che
tradizionalmente è una componente imprescindibile dell’atto
mnemonico ma sono anche di esso una rappresentazione depoten-
ziata e caotica, parziale e non autosufficiente, come del resto ci
segnala la costante presenza al loro fianco di descrizioni di immagi-
ni di memoria che di tali spazî ordinati sole possono consentirci la
conservazione o la reminiscenza:
Queste parti porremo con quattro imagini secondo la regola detta sopra.
Onde nel primo luogo porremo uno che tenga nella mano destra il libro
della Fisica, nella manca la Loica; o pur nella destra una tenaglia che sia volta
L A. TORRE

da una meza ruota e cosa tale, e nella manca con le forbici divida un compas-
so. Nel secondo luogo un altro tenga inanzi al petto il libro della Fisica aper-
to, in una carta del quale sia dipinta la spera celeste, in un’altra sia notato per
via di iscrizione predicamentale, o alcun predicatore si sforzi di levare a colui
il libro. Così nel terzo luogo pongasi uno che ascendendo una scala, mostri
di adorare un Crocefisso, che sia appeso al sommo della scala, con qual si
voglia colore scrivendo queste parole: OPUS MANUUM TUARUM SUM
DOMINE. Et un altro gli leghi i piedi alla scala con penne di struzzo, et egli
tenga sopra la testa una sporta piena di fave, nel destro homero legami, nel
sinistro un’aquila, la quale col rostro laceri un bianchissimo porcello. Nel
quarto luogo finalmente porrai un segnalato predicatore, il quale con la de-
stra porga alla bocca un’ossa, e con la manca cacci le mosche. Ecco che io ti
pongo inanzi gli esempi, accioché più agevolmente tu mi possa intendere: tu
ancora farai il simile. Tutte queste cose con una sola imagine et in uno stesso
luogo non è malagevole a porre (p. 167).

La forma dell’ordine, sia essa schema, elenco o topica, non ha


ancora raggiunto in Dolce un fascino tale da predominare sulla
fantasia iconica, sull’emblema che genera passioni e domande. La
fiducia risiede ancora nell’intenso potere delle immagini, special-
mente di quelle ambigue e apparentemente illogiche che, con un
brusco sussulto interrompendo momentaneamente il lineare per-
corso visione-comprensione, stimolano la curiositas di chi le osser-
va e ne risvegliano l’ingegno: la visione si fa allora osservazione, e la
fredda lettura calda memorizzazione.
È dunque all’insegna di un mai trascurato pragmatismo e di
un’ansia nomenclatoria inesorabilmente disciolta nella sinteticità
dell’elemento iconico che Hortensio congeda il suo allievo final-
mente in grado di «cicalar nelle corti» (p. 191), e il Dolce tutti i
lettori che lo hanno seguito in questo viaggio fra le arti sorelle della
pittura, della poesia e della memoria artificiale compiuto all’indo-
mani dell’avvenuta frattura tra parola e cosa, apparenza temporale
e verità eterna, quando officine dell’immaginario mnemonico, come
quella riattivata dallo scrittore veneziano col suo «officio di tradur-
re», si offrono come esperibili occasioni di un’ancora possibile cor-
rispondenza analogica fra le cose e i segni; anche se, proprio per la
presenza mediatrice della memoria, questi segni sono ormai leggi-
bili solo in quanto «segni della distanza, i segni come sostituzione
della cosa perduta, come vestigia da decifrare e da affidare alla scrit-
tura»97:

97
C. OSSOLA, Rassegna di testi e studi tra Manierismo e Barocco, in «Lettere
Italiane», XXVII, 1975, 4, 450.
DIVENIRE MEMORIA LI

Percioché le voci sono segni delle cose, onde se abbiamo le immagini delle
cose è mistiero che quelle siano le voci, altrimenti non potressimo isprimer la
cosa conceputa, né la imagine allogata nella sua sede (p. 141, corsivo mio).

Rilanciare nel 1562 il Congestorium artificiosae memoriae non


significò dunque per il Dolce unicamente averne intuito le finalità
catechistiche o le motivazioni polemiche antiluterane, e di conse-
guenza averne avvertito con mirabile tempismo la spendibilità in
un mercato culturale, reso a riguardo particolarmente sensibile da-
gli sviluppi del Concilio di Trento; così come, l’iniziativa editoriale
non potè derivare soltanto dall’aver scorto gli ingranaggi di una
macchina retorica che ruba all’oblio le voci di Dante, Petrarca e
Boccaccio, o gli sguardi di Raffaello e Tiziano, per affidarli all’imi-
tazione dei posteri98. In un’arte che, nelle intenzioni dei suoi creato-
ri, si presta quotidianamente ad accompagnare senza alcuna distin-
zione prìncipi dell’eloquenza, giocatori incalliti e indaffarati mer-
canti, l’elemento di maggior fascino fu per Dolce il sostare della
memoria artificiale nella dimensione del margine, su zone di confi-
ne in cui diverse pratiche di sapere si intrecciano, scambiandosi sug-
gestioni ed esperienze. È anche grazie a un immaginario nel quale i
fantasmi – prima di lasciarsi incasellare nelle razionalizzanti griglie
dei loci – emergono caoticamente in virtù di spontanee evocazioni e
associazioni mnemoniche, che si rivela possibile ombreggiare99, con
una lingua veloce e duttile, nell’animo del lettore immagini così
conturbanti da non trovare «niuno così affreddato da gli anni, o sì
duro di complessione, che non si senta riscaldare, intenerire, e com-
muoversi nelle vene tutto il sangue»100; immagini che innescano un
avvolgente gioco di riflessi tra realtà e finzione, tra scrittura, sogno
e visione101, tra originalità e ri-creazione. È in questa soglia che il

98
Si confronti il testo a p. 149: «Ciascun buon Poeta e Pittore con più
agevolezza si potrà servir dell’ufficio di quest’arte per la prontezza ch’egli avrà
di formar così fatte imagini per cagione di memoria».
99
Ibid., p. 97: «Le imagini delle cose facciamo in tal guisa che vi adom-
briamo la somiglianza delle nostre faccende, per la quale esse faccende somma-
riamente ci si rappresentino» (corsivo mio).
100
Si cita dalla lettera in cui il Dolce descrive ad Alessandro Contarini il
dipinto, o meglio «la poesia di Adone poco tempo adietro fatta e mandata dal
divin Tiziano al Re d’Inghilterra»; cfr. Nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi
huomini, et eccellentissimi ingegni, ed. cit., 512.
101
Ibid., 509: «Pure quel tanto, che io ne saprò ombreggiare con questa
penna, basterà, se io non m’inganno, a crear nel vostro bell’animo una maraviglia
tale, quale alquanto a dietro produsse la mia lingua in quello del Magnifico
Messer Pietro Gradenico, in guisa che, sognandosi egli la notte una eccellenza
LII A. TORRE

dialogo e la riscrittura trovano il loro convenevole locus – d’azione e


di memoria –; è in essa che la «natura altra», assunta dal Dolce, si
rivela come sintesi tra scrittura e divenire102, tra Letteratura e Vita, e
mostra la propria ragion d’essere:
Et in ciò potrei far l’officio de la cote, la quale, come che da sé non tagli,
aguzza il coltello e lo fa atto a tagliare; et essere parimente simile a colui che
di notte, portando il lume in mano, a se stesso poco giova ma dimostra il
sentiero a gli altri che camminano dopo di lui103.

incomparabile, il giorno che seguì, volendone certificar gli occhi suoi, andato
a vederlo, trovò che l’effetto di gran lunga avanzava la sua imaginazione, et il mio
abbozzamento».
102
Cfr. G. DELEUZE, Critica e clinica, trad. it. Milano, Raffaello Cortina
Editore 1996, 13: «La scrittura è inseparabile dal divenire: scrivendo si diventa-
donna, si diventa-animale o vegetale, si diventa-molecola fino a diventare-
impercettibile». In una prospettiva di piena compenetrazione tra il fare e l’es-
sere, l’esperienza dolciana si colloca nella dimensione del divenire, abita quel
centro astorico e intempestivo che vive della comunicazione con altri tempi e
altri spazî.
103
L. DOLCE, I quattro libri delle Osservationi Grammaticali, I, ed. cit., 22.
Proprio in limine quest’ultima citazione dolciana vale essa stessa da luogo di
memoria, di una memoria letteraria che si fa traccia di poetica e sfacciata affer-
mazione di sé: l’espressione sintetizza infatti i ritratti di Quintiliano (cfr. PETRARCA,
Familiares, XXIV, 7: «Equidem quantum tuo magnifico opere collato cum eo
libro quem de causis edidisti (…), satis intelligentibus patet multo te melius
cotis officio functum esse quam gladii et oratorem formare potentius quam
prestare»), Virgilio (cfr. DANTE, Purgatorio, XXII, 67-69: «Facesti come quei che
va di notte, Che porta il lume dietro e sé non giova, Ma dopo di sé fa le persone
dotte») e Cicerone (ancora PETRARCA, Familiares, XXIV, 3: «Heu et fraterni
consilii immemor et tuorum tot salubrium preceptorum, ceu nocturnus viator
lumen in tenebris gestans, ostendisti secuturis callem, in quo ipse satis miserabiliter
lapsus es»).
DIVENIRE MEMORIA LIII

NOTA AL TESTO

Criterî di edizione

La trascrizione del testo è stata condotta sull’editio princeps


del 1562 (G. B. et Marchiò Sessa, Venezia) e integrata, laddove
lacune, errori o difficoltà di comprensione lo richiedevano, ricor-
rendo alle due ristampe postume del 1575 (Eredi di Marchiò Sessa,
Venezia) e del 1586 (G. B. Sessa e Fratelli, Venezia): la scelta della
prima edizione si giustifica anche per la constatata assenza di varia-
zioni sostanziali nelle successive due. Gli esemplari utilizzati sono
conservati presso la Biblioteca “Passerini Landi” di Piacenza (ed.
1562, con segnatura FF. XII. 54; ed. 1586, con segnatura TT. XI.
16) e la Biblioteca Palatina di Parma (ed. 1575, con segnatura E.
XI. 6355). Per sanare guasti dell’opera ci si è avvalsi anche del testo
latino di Johannes Host (la copia del Congestorium artificiosae
memoriae da me consultata è conservata presso la Biblioteca
“Passerini Landi” di Piacenza con segnatura FF. XII. 16). Nel com-
plesso la trascrizione è stata realizzata secondo un criterio media-
mente conservativo vòlto a rendere più agile la lettura e la com-
prensione del dialogo pur nel rispetto delle peculiarità della scrit-
tura cinquecentesca del Dolce.

Si è distinta u da v.
Si è sempre conservata la h etimologica e pseudoetimologica
(huomo, honori, herbe, historie), tranne che nelle forme del verbo
avere; nei casi di alternanza (hora / ora, anchora / ancora) il testo si
è mantenuto tale. Si sono conservati i digrammi etimologici ch e th
(christiani, thesoro, theatri, Athene, Thebe).
Si è sempre scritto -ii per -ij (vitij, principij), ma si è mante-
nuta l’alternanza fra -ii e -i.
I nessi ti e tti seguiti da vocale (proportione, lettioni, spatio)
sono sempre stati scritti zi, (tranne che per natia). Per spetie si è
chiaramente distinto fra specie e spezie; il termine Datia si è reso
con Dacia; -antia, -entia (costantia, impatientia) sono state scritte
-anzia, -enzia; è presente l’oscillazione con le forme -enza, -anza
(reminiscenzia / diligenza).
Si è rispettata la grafia ci in giudicio, preciose e ociose.
Si è mantenuta l’oscillazione tra c e g in luogo.
LIV A. TORRE

La i diacritica, ove compare, è stata conservata (lascieremo,


ogniuno, abbraccierà), così come la i prostetica (istesso, isperano, iscusi,
istudio).
Sono state rispettate le oscillazioni del vocalismo (maravi-
glieranno / meravigliarsi, disiderosi / desiderosi, mestieri / mistieri).
La congiunzione et è stata trascritta e davanti a consonante; la
e tironiana è stata resa come et davanti alle vocali e come e davanti
alle consonanti.
Si è provveduto all’integrazione dell’apocope postvocalica nei
casi di a (a’), co (co’), de (de’), ne (ne’).
Nei casi di congiunzione grafica tra articolo determinativo e
pronome relativo (iquali, laquale) si è provveduto alla separazione;
sono state mantenute disgiunte le preposizioni articolate del tipo a
gli, de gli, de i, a le, de le, ne le, e si è preferita la forma disgiunta nei
casi di a bastanza (invece di abastanza) e a pena (apena) oscillanti
nel testo.
È stata regolarizzata l’accentazione, scrivendo a, i, o, u con
l’accento grave, ed e con l’accento acuto nelle forme sé, né, percioché,
perché, con quello grave per è, cioè; laddove compariva poiche, si è
integrato l’accento acuto per evidenziare la congiunzione causale
(poiché) e si è provveduto alla divisione dei termini quando il signi-
ficato era dopo che (poi che).
Si è conservato irregolare l’uso delle maiuscole, che nel testo
risulta spesso funzionale alla visualizzazione delle lettere iniziali
(ovvero a un criterio di classificazione mnemonica).
Sono state sciolte tutte le abbreviazioni (Eccellentiss., Chiariss.,
Prestantiss., V. S., M., S., Ser.), anche quelle tachigrafiche (secoño >
secondo).
Si è adottato il corsivo per i titoli delle opere citate.
Sono state introdotte le virgolette basse (« ») per evidenziare
termini o proposizioni utilizzati come esempi per l’atto memorativo.
Si è ritenuto opportuno intervenire nell’uso della virgola e
del punto e virgola, al fine di attenuare le difficoltà di lettura di
una prosa che inevitabilmente è influenzata dall’originale latino; si
sono conservati i due punti quando introducono un elenco o una
spiegazione (ma sono stati sostituiti dalle parentesi, quando hanno
chiara funzione parentetica).
Nel testo sono state utilizzate le parentesi angolari (‹ ›) per
segnalare le eventuali integrazioni, e le parentesi quadre ([ ]) per le
espunzioni.
NOTA ALMEMORIA
DIVENIRE TESTO LV

Correzioni al testo

p. 14: né la effigie né le membra] nella effigie ne le membra


p. 27: vostra vergogna] nostra vergogna
p. 58: come sarebbe] a me sarebbe
p. 76: nel terzo] pel terzo
p. 86: tre cose] quattro cose
p. 87: nodo] modo
p. 87: quanto vogliono] quando vogliono
p. 92: qualità de’ luoghi] quantità de’ luoghi
p. 92: Sibuto] Sibutio
p. 93: vivezza ne’ gesti] rivezza ne’ gesti
p. 97: imagini delle cose] imagini delle dose
p. 99: segno delle cose] segni delle cose
p. 107: elette in iscambio] elegger in iscambio
p. 111: bisogna poner] bisopra poner
p. 124: ha nel] hanno nel
p. 129: abbiano somiglianza] abbiamo somiglianza
p. 142: Giovenale] Horatio
p. 154: due parti] tre parti
p. 163: Alimenti] Altrimenti
p. 163: Esercizio] Esercito
p. 164: Estrazione cubica delle radici] delle radici, estinzione Tubica
p. 165: qualunque divisione] qualunque divino
p. 173: più proposizioni] più proporzioni
p. 174: attenersi alla promessa] attenerti alla promessa
p. 185: numero articolare] numero particolare
p. 187: con l’aggiunta] con l’aggiunto

Qualunque altro intervento sul testo è stato segnalato nelle note di


commento.
VI A. TORRE
DIALOGO DELLA MEMORIA 1
2 LODOVICO DOLCE
DIALOGO DELLA MEMORIA 3

Al Magnifico et Eccellentissimo
Signor Filippo Terzo

So che molti si maraviglieranno, Eccellentissimo Signor Fi-


lippo1, che avendo io per adietro avuto bellissima occasione di
honorar più d’una segnalata opera, che della lingua Latina io por-
tai alla Volgare, del nome di Vostra Signoria honoratissimo, hora
io ardisca d’indirizzarle questo picciolo volume nel quale si tratta
della memoria: cosa più convenevole a un giovane a pena introdot-
to ne’ principii delle buone lettere che a un pari di Vostra Signoria,
nel quale risplendono pienamente tutte le liberali discipline. Ma
questi tali cesseranno di meravigliarsi quando intenderanno le ra-
gioni che mi mossero a fare così.

1
Cfr. F. SANSOVINO, Venetia città nobilissima et singolare discritta in XIIII
libri, Venezia, Steffano Curti 1663, 607: «Filippo Terzo. Dottore, Filosofo et
Oratore illustre, dottissimo nelle lingue Greca et Latina, compose una Rhetorica
latina, con più Orazioni e Versi latini, grechi e volgari». Un esauriente, quanto
entusiastico, ritratto del dedicatario del Dialogo ce lo offre anche Andrea
Menechini nell’orazione Delle lodi della poesia d’Omero, et di Virgilio, Venezia,
Giolito 1572, s.i.p.: «(...) dottissimo et eccellentissimo gran Filippo Terzo; ché
so ben io che il Mondo l’averebbe a sommo grado, essendo il detto gentilhuomo
un de’ primi Teologi, Giureconsulti, Filosofi et Oratori, che siano stati giamai,
Thesoro di tutte le Scienze e di tutte le Discipline; il qual, avendo con incom-
parabile integrità congiunta l’Eloquenza con la Sapienza, salendo ne gli Arringhi,
fa stupir gli ascoltanti con tanta gioia e con tanto trastullo che laudando l’ono-
rano, e onorandolo l’essaltano, et essaltandolo l’ammirano; onde egli con (...)
la prontissima vivacità della profondissima memoria, con la vivacissima profon-
dità de’ maravigliosi concetti, e con tutti quei lumi e quegl’instrumenti, desi-
derati in un Oratore da Aristotele e da Marco Tullio per la suprema Monarchia
dell’Eloquenza; tutto ardore, spingendo, movendo, tirando e infiammando gli
animi de gli Auditori, quasi folgor gli conduce ove più gli è a grado; (...). Ma
perché per la bassezza mia non posso recar altro onore e altra altezza di gloria
a questo divino Spirito (...) dirò per bocca dell’istesso DOLCE: Levi l’antica Roma
al Ciel sovente / E gli Antonii, e gli Ortensii, e i Ciceroni. / Cerca tu l’Orator che
a noi proponi, / Tullio, e formò l’Idea de la tua mente. / Ecco VINEZIA nostra vede,
e sente / Tra i leggiadri del TERZO alti sermoni / De la sua lingua uscir folgori, e tuoni,
/ Che feriscono i cor’; ma dolcemente. / Voi TERZO, Voi de’ cor’ tenete impero, / Onde
in Voi, come in casa al Mondo rada, / Tanti occhi, e tante orecchie intenti stanno;
/ I saggi dunque, e i buon’ certezza avranno, / Che saldo in piedi si rimanga il vero,
/ E vinta a terra la menzogna cada».
4 LODOVICO DOLCE

Nel vero mi vergognava ad appresentarle inanzi opera alcuna


da me tradotta di Cicerone2, percioché a me non era nascosto quello
che a tutti è manifestissimo: che, sì come tra i letterati e i ben dotti
non è alcuno che meglio intenda le opere di quel divino Oratore,
così parimente non si trova alcuno che più ornatamente di lei po-
tesse spiegarle e ridurle nella nostra favella. E qui Vostra Signoria,
che è modestissima, non si turbi se io a lei dirò quello che non si
potrebbe negare da’ suoi nimici. È cosa certissima che, quantun-
que questa inclita città nell’arte dell’orare e negli studi dell’elo-
quenza, come in ogni altra facultà, è abondevole d’ingegni felicissi-
mi, di rado (o per aventura non mai3) fu alcuno che portasse seco
nelle dispute del palazzo tanti ornamenti di lettere di quanti Vostra
Signoria è adorna. Percioché, oltre alla cognizione delle Latine e
delle Greche, delle quali è posseditrice al pari di ciascun altro, è
nudrita insin da fanciullo dal latte purissimo della Filosofia e di
tutte le buone arti, in guisa che la eloquenza con queste accompa-
gnando, n’è riuscito quel perfetto oratore che fu più tosto ne’ suoi
facondissimi scritti espresso che ritruovato da Cicerone. E in ciò
non solamente è il consenso comune de gli intendenti ma in parti-
colare ne rendono testimonianza i non mai a bastanza lodati Ora-
tori, il Signor Camillo Trivigino et il Signor Francesco Sonica4, i

2
In veste di traduttore o curatore, il Dolce si occupò di altre due opere
ciceroniane: Dialogo dell’Oratore di Marco Tullio Cicerone, tradotto da Messer
Lodovico Dolce, Venezia, Giolito 1547; Le Orationi di Marco Tullio Cicerone,
tradotte da Messer Lodovico Dolce. Con la vita dell’Autore e con un breve discorso
in materia di Rhetorica. E con le Tavole, 3 voll., Venezia, Giolito 1562.
3
o...mai: ‘forse in nessun caso’. Cfr. BOCCACCIO, Decameron, II, 5, 18 (si
è ricorsi all’edizione a cura di V. Branca, Torino, Einaudi 1992): «Andreuccio,
io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie
lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non
m’udisti»; L. DOLCE, I quattro libri delle Osservationi Grammaticali, I, ed. cit.,
106: «Qui è da avertire che mai, o giamai, quando privazion di tempo significa,
non si pon senza la negativa».
4
A questi due «chiarissimi Oratori» contemporanei il Dolce dedicò le
prime due parti della sua traduzione de Le Orationi di Marco Tullio Cicerone,
mentre la terza venne da lui indirizzata, con lettera del 15 gennaio 1561 (le
precedenti erano rispettivamente dell’8 e del 10 gennaio), a Vincenzo Pellegrini,
anch’egli «oratore chiarissimo». Poche notizie si hanno di Camillo Trevisan, ad
eccezione della sua certificata associazione all’Accademia della Fama fondata da
Federico Badoer; così lo presenta il Dolce: «(...) Dovendo adunque queste
Orazioni in man de gli huomini uscire, ho giudicato bellissimo e grandissimo
ornamento alla mia fatica se la prima parte uscisse sotto il nome di Vostra
Signoria la quale è uno de’ maggiori e più chiari Oratori non solo di questa città,
ma della nostra età parimente. (...) Onde col petto pieno di sapere, con la lingua
facondissima, con la pronunzia dolcissima, e con l’aspetto amabile e a tutti
DIALOGO DELLA MEMORIA 5

quali amendue Vostra Signoria ama et honora tanto, e dai quali


essa è amata et honorata parimente. Né questo basta: ché nelle cose
della Poesia ella è di così bello e felice ingegno, et è così ripiena
dello spirito e furor celeste, che nell’una e nell’altra lingua (cioè
Latina e Volgare) ha più volte scritto versi di tanta perfezione, che
si comprende chiaramente che, quando le cure forensi5 da tal facultà
non l’avessero rimossa, avrebbe avuto nell’uno e nell’altro stile di
gran lunga piuttosto i primi che i secondi honori 6.
Queste adunque tante eccellenze, e rarissime qualità, in Vostra
Signoria collocate, mi spaventano di far quello che sommamente
disiderava. Percioché, conoscendo la imperfezion delle mie tradu-
zioni e la perfezion di lei non solo nell’intendere e nel giudicare ma
anco nello scrivere, temeva non7 i dotti m’avessero avuto per poco
prudente avendole a cotale huomo dedicate: come chi appresentasse

grato, quante volte è salita ne gli arringhi, ha fatto stupire i circostanti. (...) Le
sue facultà, come quella che è del tutto nimica dell’avarizia, dispensa qual si
conviene a pio et honoratissimo gentil’huomo. (...) Di che ne fa fede il bellis-
simo et amplissimo palazzo di Murano, da lei fatto fabricare con sì bello ordine
di Architettura, et adornato di tante egregie statue e pitture di mano di maestri
eccellentissimi, che può contender con l’antiche fabriche de’ Romani» (L. DOLCE,
Le Orationi di Marco Tullio Cicerone, I, ed. cit., cc. iir-iiv). Di Francesco Assonica
sappiamo invece che fu avvocato di gran fama a Venezia intorno al 1540 e
personalità di spicco della vita politica della Repubblica (fu anche Fiscale della
Serenissima Signoria); membro anche lui, come il Trevisan e il Terzo, dell’Ac-
cademia della Fama (di cui fu legista civile) e amico di Tiziano, così viene
descritto dal Dolce: «(...) E chi non dubita che ella (e sia lontana ogni adulazio-
ne) non si lasci a dietro i Crassi e gli Antonii? È adorna di perfette dottrine,
dotata di tenace memoria, fortissima nel disputare, facilissima nel narrare,
vehementissima nel movere, et efficacissima nel persuadere (...) Dilettasi di
diverse virtù e tra queste della Pittura: onde fra gli altri ornamenti della sua
Magnifica casa vi ha aggiunto quelli che posson venir dal pennello del divin
Tiziano. La sua famiglia è nobilissima e fregiata anco de gli honori di Santa
Chiesa» (ibid., II, ed. cit., c. iiir). Sull’Assonica si veda E.A. CICOGNA, Delle
inscrizioni veneziane, III, Venezia, Picotti 1830, 152.
5
quando le cure forensi: ‘nel caso in cui [con valore condizionale] gli affari
del foro’. È giustificazione topica; cfr. CICERONE, De Oratore, I, 1, 1: «Ac fuit
cum mihi quoque initium requiescendi atque animum ad utriusque nostrum
praeclara studia referendi fore iustum et prope ab omnibus concessum arbitrarer,
si infinitus forensium rerum labor et ambitionis occupatio decursu honorum,
etiam aetatis flexu constitisset».
6
secondi honori: cfr. PETRARCA, Triumphus Fame, III, 24 (si è utilizzata
l’edizione a cura di V. Pacca, Milano, Mondadori 1996): «Dopo venia Demostene,
che fori È di speranza omai del primo loco, Non ben contento de’ secondi
honori».
7
temeva non: ‘temevo che’. Cfr. DANTE, Inferno, XVII, 76 ( si è utilizzata
l’edizione a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori 1966-1967): «E io, te-
mendo no ’l più star crucciasse».
6 LODOVICO DOLCE

al gran Tiziano qualche disegno o pittura rozamente causata8 da


alcuna statua antica di mano di eccellentissimo maestro; o che io
fossi un nuovo Formione, il quale prese ardire di recitare ad Anni-
bale un libro, ch’egli aveva composto dell’arte della guerra9.
Nondimeno per non parere che io mi diffidi della sua
humanità, la qual giostra di pari con la grandezza delle sue virtù,
ho preso finalmente animo di dedicare a Vostra Signoria questo
picciolo libretto, in cui s’insegna il modo di accrescere e di conser-
var la memoria, parte di cui ella altresì abonda, sì per honorare la
mia fatica, come per ingannare10 i giovani disiderosi di cose nuove;
i quali veggendola intitolata a Vostra Signoria, stimandola per ciò
cosa buona, diventeranno volenterosi di leggerla11. E se poi si
sganneranno, non stimeranno indegna di laude la mia accortezza.
Vostra Signoria adunque riceva12 la mia buona volontà, et iscusi la
debolezza delle mie forze.
In Venezia. Il dì primo d’Ottobre MDLXII.
Di Vostra Signoria Servitore
Lodovico Dolce
8
rozamente causata: ‘grossolanamente riprodotta’.
9
L’aneddoto è tratto da CICERONE, De Oratore, II, 18, 75: «Nec mihi opus
est Graeco aliquo doctore, qui mihi pervulgata praecepta decantet, cum ipse
numquam forum, numquam ullum iudicium aspexerit; ut Peripateticus ille
dicitur Phormio, (…); quid enim aut adrogantius aut loquacius fieri potuit
quam Hannibali, qui tot annis de imperio cum populo Romano omnium
gentium victore certasset, Graecum hominem, qui numquam hostem, numquam
castra vidisset, numquam denique minimam partem ullius publici muneris
attigisset, praecepta de re militari dare?».
10
ingannare: ‘allettare’. Cfr. PETRARCA, Canzoniere, LXX, 31 (si fa riferi-
mento all’edizione a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori 1996): «Che
parlo? o dove sono? e chi m’inganna, Altri ch’io stesso e ’l desiar soverchio?».
11
Un analogo ‘inganno’ era già stato perpetrato dal Dolce due anni prima
per la raccolta delle sue Tragedie, nella Dedica delle quali, rivolta «Al Chiaris-
simo e Prestantissimo Marc’Antonio da Mulla, Gravissimo Senatore della
Republica Veniziana», il nostro autore così spiega il suo agire: «Sogliono molte
volte, prestantissimo Signore, le statue, o una dipinta imagine, benché di mano
di rozo artefice, esser riverite dalle genti per rispetto del luogo ove sono elle
poste. Là onde avendo io alquanti anni a dietro composte le presenti Tragedie,
togliendo le invenzioni, le sentenze, e la testura da gli antichi, per dar loro
riputazione (quello che nell’altre impressioni alle medesime mancava) ho volu-
to honorarle del nome di Vostra Signoria honoratissima et Illustre di ogni
virtuosissima qualità» (L. DOLCE, Tragedie. Di nuovo ricorrette e ristampate,
Venezia, Giolito 1560, c. 2r).
12
riceva: ‘accolga benevolmente’. Cfr. L. DOLCE, Modi affigurati e voci
scelte et eleganti della volgar lingua, Venezia, Sessa 1564, c. 145v: «Così è più
leggiadro ricevimento, accoglimento che accetto».
DIALOGO DELLA MEMORIA 7

HORTENSIO, FABRIZIO

HOR. Io mi rallegro teco sommamente Fabrizio, poi che nello stu-


dio delle leggi sei pervenuto in picciol tempo a tal grado di perfe-
zione, che puoi ad ogni tua voglia adornarti delle insegne del dot-
torato.
FAB‹R›. Tu t’inganni Hortensio13, ché io ne ho fatto assai minor
profitto di quello che stimi, e ciò non per difetto d’ingegno ma per
mancamento di memoria.
HOR. E come per mancamento di memoria?
FAB‹R›. Sappi Hortensio mio che, quantunque io intenda assai bene
quanto d’intorno a questa materia si scrive, nondimeno tra poco
mi si scorda ogni cosa, come se avessi bevuto l’oblio di Lethe14.
HOR. Certo bellissimo dono di Natura è la memoria. Onde gran-
dissima lode fu recata a Quinto Fabio Massimo, il quale ebbe una
singolar memoria delle historie antiche15. Similmente è lodatissimo
Giulio Cesare, il quale era di così tenace memoria dotato, che di

13
Il nome di uno dei protagonisti del dialogo richiama, probabilmente
non a caso, quello di un illustre oratore latino, Quinto Ortensio Ortalo, ricor-
dato più volte da Cicerone e Quintiliano per la prodigiosa memoria (De Oratore,
III, 61, 230; Tusculanae disputationes, I, 24, 59; Institutio Oratoria, XI, 2, 24)
e onorato dal primo con la dedica dell’omonimo dialogo retorico Hortensius.
Così ne parla Cicerone nel Brutus: «Hortensius igitur cum admodum adulescens
orsus esset in foro dicere, celeriter ad maiores causas adhiberi coeptus est (...).
Primum memoria tanta quantam in nullo cognovisse me arbitror, ut quae
secum commentatus esset, ea sine scripto verbis eisdem redderet quibus
cogitavisset. Hoc adiumento ille tanto sic utebatur ut sua et commentata et
scripta et nullo referente omnia omnium adversariorum dicta meminisset»
(CICERONE, Brutus, 88, 301).
14
Cfr. F. RIGOTTI, Il velo e il fiume. Riflessioni sulle metafore dell’oblio, in
«Iride», VIII, 14 (aprile 1995), 140: «Tutta la mitologia greca e romana è lì
schierata a dimostrare questa che è quasi un’ovvietà: nell’Ade vi sono due fonti,
quella del Lete, a sinistra (per il pensiero greco direzione del tramonto e del buio
ovvero nefasta) e quella della memoria, Mnemosyne, a destra (direzione del sole
e della luce=direzione fausta)». Sulla fortuna delle metafore dell’oblio nella
cultura occidentale si veda ora H. WEINRICH, Lete. Arte e critica dell’oblio, trad.
it. Bologna, il Mulino 1999.
15
Cfr. CICERONE, De senectute, IV, 12: «Multae etiam ut in homine Romano
litterae; omnia memoria tenebat, non domestica solum, sed etiam externa bella».
8 LODOVICO DOLCE

niun’altra cosa, fuor che delle ingiurie, si scordava16. Che dirò di


Seneca, che duemila nomi da altri recitati col medesimo ordine
ripigliando recitò? Lo stesso, avendo dugento discepoli parimente
recitato dugento versi, egli incominciando dall’ultimo e tornando
all’indietro, gli recitò tutti agevolmente. Cinea, essendo mandato
da Pirrho ambasciadore a Roma, il secondo giorno ch’egli v’entrò,
salutò ogni Senatore per il proprio nome. Mitridate sapeva così
pienamente i diversi linguaggi di ventidue nazioni, alle quali
signoreggiava, che a ciascuno nella propria sua lingua rendeva ra-
gione. Ciro, re de’ Persi, si ricordava il nome di ciascun soldato,
che era nel suo esercito, benché fosse grandissimo17. Carmada ogni
volume da lui una volta letto teneva così bene nella memoria, che
poscia lo recitava come lo avesse inanzi18. Scrive Seneca che Porzio
Latrone si valeva della memoria invece di libri; percioché le cose,

16
Cfr. CICERONE, Pro Ligario, 12, 35: «Sed parum est me hoc meminisse,
spero etiam te, qui oblivisci nihil soles nisi iniurias - quam hoc est animi, quam
etiam ingeni tui! - te aliquid de huius illo quaestorio officio, etiam de aliis
quibusdam quaestoribus reminescentem, recordari»; ma il passaggio immedia-
to si ha con G.M.A. CARRARA, De omnibus ingeniis augendae memoriae, cap. I,
a cura di G. Giraldi, Novara, Ist. Geog. De Agostini 1967, 110: «Que precipue
cum obbrobrio et erubescentia discuntur, fixiora sunt eamque ob causam mens
tenacissima est iniuriarum. Mira igitur laus fuit Cesaris, qui nullarum rerum
nisi iniuriam immemor fuit».
17
La fonte classica di questa carrellata di uomini illustri dall’eccellente
memoria è PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, VII, 24, 88: «Memoria
necessarium maxime vitae bonum cui praecipua fuerit, haut facile dictu est, tam
multis eius gloriam adeptis. Cyrus rex omnibus in exercitu suo militibus nomi-
na reddidit, L. Scipio populo Romano, Cineas Pyrrhi regis legatus senatui et
equestri ordini Romae postero die quam advenerat. Mithridates, duarum et
viginti gentium rex, totidem linguis iura dixit, pro contione singulas sine inter-
prete adfatus». Riferimenti sparsi a questi esempi di buona memoria si trovano
anche in Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VII, 7,
16), Quintiliano (Institutio Oratoria, XI, 3, 50), Aulo Gellio (Noctes Atticae,
XVII, 17, 2) e Cicerone (Tusculanae disputationes, I, 24, 59). Il testo da cui però
ha attinto Host, e di riflesso anche il Dolce, è il Rerum Memorandarum di
Petrarca, che infatti presenta tutti gli illustri mnemonisti citati, e nel medesimo
ordine; Petrarca ricorda inoltre le prodigiose memorie di Lucullo, Ortensio e
Temistocle, presenti anche in Plinio e nel Congestorium, ma omesse dal Dolce.
Cfr. PETRARCA, Rerum Memorandarum Libri, l. II, capp. 1-14 (De Memoria),
ed. critica a cura di G. Billanovich, Firenze, Sansoni 1945, 41-50.
18
Tanto il Dialogo del Dolce quanto il testo latino di Host riportano
l’errata lezione «Carneade» con ogni probabilità tratti in inganno dal Carrara
(De omnibus ingeniis augendae memoriae, cap. I, ed. cit., 107: «aut quis non
admiretur Carneadem grecum, bibliotece qui volumina memoriter legentis
more representavit?»). Si è corretto il testo sulla scorta di PLINIO IL VECCHIO,
Naturalis Historia, VII, 24, 89: «Charmadas quidem in Graecia quae quis exegerat
volumina in bibliothecis legentis modo repraesentavit».
DIALOGO DELLA MEMORIA 9

che egli apparava, mai non gli uscivano di mente19. Ma questi sono
pochi a rispetto de i molti, che ve n’ebbero disagio. Percioché la
memoria è fragile, e soggetta a molti accidenti. Là onde si legge in
Plinio20 che uno, cadendo da un alto luogo, si scordò del proprio
nome21. Di qui aviene che se ella non è aiutata dall’arte, per ogni
picciola cosa languisce e muore. Onde molti, col trovamento di
diversi luoghi et imagini, si sono sforzati di sovvenire a sì fatto
difetto, e di accrescerla e conservarla22. Sì che io non prendo
maraviglia che in te abbia luogo quel mancamento, che suole esse-
re in molti, i quali hanno gentile e pellegrino ingegno.
FAB‹R›. Io ti sarei di molto tenuto se tu, il quale io so che molto in
così fatto esercizio ti sei affaticato, mi porgessi alcun aiuto, in guisa
che de’ miei studi io potessi ritrar quel frutto, che si conviene alle
molte fatiche che io ci ho fatto.
HOR. Io ti potrei rimetter a quello che intorno alla memoria hanno
scritto alcuni. Ma perché la viva voce suole apportar sempre non so
che di più23, et appresso tengo in animo di aggiungerci alcune mie
fantasie, ne ragionerò alquanto teco, ma però così pienamente ch’io
spero di poter giovarti.

19
Cfr. SENECA IL VECCHIO, Controversiarum libri, I, prefazione, 17-18:
«Memoria ei [Porzio Latrone] natura quidem felix, plurimum tamen arte adiuta.
Numquam ille quae dicturus erat ediscendi causa relegebat: edidicerat illa, cum
scripserat. (...) In illo non tantum naturalis memoriae felicitas erat, sed ars
summa et ad comprehendenda quae tenere debebat et ad custodienda, adeo ut
omnes declamationes suas, quascumque dixerat, teneret etiam. Itaque
supervacuos sibi fecerat codices, aiebat se in animo scribere».
20
Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, VII, 24, 90: «Nec aliud est
aeque fragile in homine: morborum et casus iniurias atque etiam metus sentit,
alias particulatim, alias universa. Ictus lapide oblitus est litteras tantum; ex
praealto tecto lapsus matris et adfinium propinquorumque cepit oblivionem,
alius aegrotus servorum, etiam sui vero nominis Messala Corvinus orator».
21
L’esempio tratto da Plinio non è presente nel Congestorium artificiosae
memoriae di Host, dove invece (a c. 1r) si afferma che: «undique defectibilis
hominum generi innascitur memoria».
22
Host ricorda i molti maestri dell’ars in un lungo elenco non tradotto
dal Dolce. Cfr. J. HOST, Congestorium artificiosae memoriae, ed. cit., c. 1v: «Inter
quos Seneca, Tullius, Quintilianus, Stephanus de Lauro, Franciscus Petrarca,
Mateolus Veronensis, Iacobus Publicius, insuper Petrus Ravennas legum doctor,
Ioannes Surgant, Ioannes Reuchlin, Georgius Resch, Georgius Sibuti praecipui
sunt quos viderim et quos plures aliorum libros de hac arte impressos legerim».
23
Cfr. L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, ed. cit., 154:
«(…) ricercando che prima non vi sia grave di spendere alquante parole intorno
alla dignità della pittura. Ché, se bene io ne ho letto altre volte, non l’ho per ciò
a memoria; senzaché, la viva voce apporta sempre con esso lei non so che di più».
10 LODOVICO DOLCE

FAB‹R›. Io te ne avrò obligo grandissimo.


HOR. Dico adunque che quantunque la memoria, come ho detto,
sia dono della natura ella nondimeno si conserva et accresce con
l’arte24. Et ogni nostra fatica nelle lettere è vana, se la memoria a
guisa di spirito non l’accompagna; percioché l’apparar delle disci-
pline è riposto nella memoria, la quale è di tanto momento 25 che
non senza cagione fu chiamata thesoro di qualunque cosa26. Ecco
che la parte migliore di noi, ch’è l’intelletto, con l’ali di questa
aggirando, contempia27 le cagioni e, discorrendo nelle cose passate,

24
Cfr. la pseudociceroniana Rhetorica ad C. Herennium, III, 16, 28:
«Memoria utrum habeat quiddam artificiosi, an omnis ab natura proficiscatur,
aliud dicendi tempus idoneum dabitur. Nunc proinde atque constet in hac re
multum valere artem et praeceptionem, ita de ea re loquemur». Il concetto è
ribadito in modo più articolato ed elegante nel dialogo De Oratore, II, 87, 356:
«Qua re confiteor equidem huius boni naturam esse principem, sicut earum
rerum, de quibus ante locutus sum, omnium; sed haec ars tota dicendi, sive artis
imago quaedam et similitudo est, habet hanc vim, non ut totum aliquid, cuius
in ingeniis nostris pars nulla sit, pariat et procreet, verum ut ea, quae sunt orta
iam in nobis et procreata, educet atque confirmet»; così appare il passo nella
traduzione dolciana del dialogo ciceroniano: «Qui potrebbe dire alcuno: adunque
la memoria si può insegnare? Io rispondo che, così in questa come nelle altre cose
da me dette, la Natura è Maestra, percioché l’arte della eloquenza (overo che la
tenga certa conformità di arte) non ci dà l’ingegno, ma ce lo polisce et accresce»
(ed. cit., 258); così invece nei Sermoni, altrimente satire e le morali epistole di
Horatio ridotte da Messer Lodovico Dolce, satira IV del libro II, Giolito, Venezia
1559, 124: «Che s’hora t’uscirà fuor de la mente Alcuna cosa, in breve spazio
puoi Ripigliarla di nuovo: o che sia questo Don di natura, o sia ministra l’arte
È l’uno e l’altro in te maraviglioso». Sulla Rhetorica ad C. Herennium e sul suo
ruolo di testo-guida della tradizione mnemotecnica classica si veda H. CAPLAN,
Of Eloquence. Studies in Ancient and Mediaeval Rhetoric, Ithaca-London, Cornell
University Press 1970 (in particolare, sulla memoria, il cap. IX, Memoria: Treasure-
House of Eloquence, 196-246).
25
di tanto momento: ‘importanza, rilievo’.
26
Cfr. CICERONE, De Oratore, I, 5, 18: «Quid dicam de thesauro rerum
omnium, memoria? Quae nisi custos inventis cogitatisque rebus et verbis
adhibeatur, intellegimus omnia, etiam si praeclarissima fuerint in oratore,
peritura» e QUINTILIANO, Institutio Oratoria, XI, 2, 1: «Nam et omnis disciplina
memoria constat frustraque docemur, si quidquid audimus praeterfluat, et
exemplorum, legum, responsorum, dictorum denique factorumque velut
quasdam copias, quibus abundare quasque in promptu semper habere debet
orator, eadem illa vis praesentat neque immerito thesaurus hic eloquentiae
dicitur».
27
contempia: Cfr. L. DOLCE, Modi affigurati e voci scelte et eleganti della
volgar lingua, ed. cit., c. 183r: «Tempio, templo, contemplare, contemplo, contempio.
‘Contempio’ usò il Bembo: Scusimi quel, ch’in voi scorgo e contempio. Ove è da
avertire che non si direbbe ‘contempiare’ ma ‘contemplare’».
DIALOGO DELLA MEMORIA 11

riguarda le presenti e antivede le avenire28. Né solo questa memoria


è in noi, ma si vede anco esser ne gli animali bruti29: come princi-
palmente nel cane, il quale, se bene è stato alcun tempo lontano
dal padrone o da alcuno altro con cui abbia avuto dimestichezza,
rivedendolo, subito se ne ricorda e gli fa vezzi e lo accarezza, nella
guisa che si legge del cane di Ulisse, dal quale solo, dopo lo spazio
di venti anni ritornando a casa egli, fu conosciuto30. Vedesi altresì
che essendo alcun cane menato in lontanissimo luogo, da se mede-

28
Cfr. BONCOMPAGNO DA SIGNA, Rhetorica Novissima, a cura di A. Gaudenzi,
in «Bibl. Jur. Medii Aevi», II, Bologna 1891, 255: «Che cosa è memoria. Memoria
è un glorioso e ammirevole dono di natura, per mezzo del quale rievochiamo le
cose passate, abbracciamo le presenti e contempliamo le future, grazie alla loro
somiglianza con le passate». Come fedele rappresentazione delle parole di
Boncompagno ed elegante antiporta del trattato che si va spiegando potrebbe
porsi l’Allegoria della Prudenza di Tiziano. Quest’opera, composta probabil-
mente fra il 1560 e il 1570 (quindi non molto distante dal Dialogo), «è la sola
tra le sue opere che possa essere detta emblematica anziché semplicemente alle-
gorica: cioè una massima filosofica illustrata mediante un’immagine visiva an-
ziché un’immagine visiva investita di connotazioni filosofiche». Il quadro rap-
presenta tre volti umani (le tre età della vita umana) posti sopra tre volti animali
(cane, leone, lupo, circondati da un serpente: iconografia egizia della Prudenza):
‘l’allegoria emblematica’ induce lo spettatore a mettere in relazione tre modi e
forme del tempo «con l’idea della prudenza o, più in particolare, con le tre
facoltà psicologiche nel cui combinato esercizio consiste questa virtù: la memo-
ria, che ricorda il passato e da esso impara; l’intelligenza, che giudica del presente
e agisce in esso; la previsione, che anticipa il futuro e provvede per o contro di
esso» (cfr. E. PANOFSKY, Il significato delle arti visive, trad. it. Torino, Einaudi
1962, 147-168, citazioni alle pagine 150 e 152).
29
Cfr. L. DOLCE, Somma di tutta la natural filosofia di Aristotele, ed. cit.,
82: «Quanto alla memoria intellettiva è da sapere l’huomo aver la memoria
comune con le bestie, la quale si chiama sensitiva, ritenente le fantasme sensibili
e parimente organica la nominiamo. Ma la memoria intellettiva è sola propria
dell’huomo, custoditrice e conservatrice de i concetti e delle imagini, overo delle
cose le cui specie sono dall’intelletto apprese. (…) Di questa memoria sono
soggetto le cose passate, cioè la specie intelligibile già buona pezza pensatovi fitta
nell’animo»; UGO DI SAN VITTORE, Didascalicon, I, III, trad. a cura di V. Liccaro,
Milano, Rusconi 1987, 71: «Gli animali che dispongono dei sensi non solo
accolgono in se stessi le forme delle cose che si presentano alle loro percezioni,
ma quando cessa l’atto della sensazione e viene meno la fonte sensibile di essa,
sono in grado di conservare le immagini delle forme conosciute attraverso le
sensazioni, realizzando così la loro capacità di ricordare».
30
Cfr. L’Ulisse di Messer Lodovico Dolce da lui tratto dall’Odissea d’Homero
et ridotto in ottava rima nel quale si raccontano tutti gli errori, e le fatiche d’Ulisse
dalla partita sua di Troia, fino al ritorno alla patria per lo spatio di vent’anni. Con
Argomenti et Allegorie a ciascun canto, così delle Historie, come delle favole, et con
due Tavole: una delle sententie et l’altra delle cose più notabili, canto XV, ottave 50-
3, Venezia,Giolito 1573, 133.
12 LODOVICO DOLCE

simo sa ritornare alla casa del padrone31. E negli huomini è gran


maraviglia che, scordandoci noi spesso le cose recenti, ci ricordia-
mo puntualmente ogni atto da noi fatto nella fanciullezza32. Ora,
che la memoria si sostenga e si accresca con l’arte, oltre alle molte
autorità33 de gli antichi è confermato anche da San Thomaso, ove
egli assegnando la ragione dice che: «gl’intendimenti semplici e
spiritali dell’animo agevolmente si dipartono, se essi non sono come
legati dalla catena di certe somiglianze corporali»34.

31
Cfr. QUINTILIANO, Institutio Oratoria, XI, 2, 6: «eo magis, quod illa
quoque animalia, quae carere intellectu videntur, meminerunt et agnoscunt et
quamlibet longo itinere deducta ad adsuetas sibi sedes revertuntur» e ALBERTO
MAGNO, Metaphysica, I, tract. I, cap. 8, in Opera Omnia, t. XVI, pars I, Münster,
in aedibus Aschendorff 1951-, 12: «Sed non habentia rationes veram memoria
[animales] utuntur loco rationis et ordinat aliquo modo suae vitae commodum
per quandam civilitatis et felicitatis similitudinem, sicut est videre in apibus et
gruibus et multis huiusmodi animalibus; sed tam apes quam grues vigent solum
memoria. Cuius signum est, quod a longinquis locis, ad quae transferuntur,
revertuntur ad proprias habitationes et casas».
32
Cfr. QUINTILIANO, Institutio Oratoria, I, 3, 1: «Ingenii signum in parvis
praecipium memoria est: eius duplex virtus, facile percipere et fideliter continere».
Cfr. anche SENECA IL VECCHIO, Controversiarum libri, I, prefazione, 3: «nunc
quia iubetis, quid possit experiar et illam omni cura scrutabor. Ex parte enim
bene spero. Nam quaecumque apud illam aut puer aut iuvenis deposui, quasi
recentia aut modo audita sine cunctatione profert; at si qua illi intra proximos
annos commisi, sic perdidit et amisit, ut, etiamsi saepius ingerantur, totiens
tamen tamquam nova audiam»; TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II, II,
quaestio 49 (De singulis prudentiae partibus quasi integralibus), articulus unicus
(si è utilizzato il testo delle edizioni Paoline, Roma 1962): «ex quo fit quod
eorum quae in pueritia vidimus magis memoremur»; e MATTEO DA PERUGIA,
Tractatus de memoria augenda per regulas et medicinas, [la copia utilizzata non
riporta indicazioni riguardanti tipografo, luogo e data dell’edizione], c. iir:
«Attentio autem magis et maxime profunda dictum est ad memoriam valet.
Valet igitur et admirari et delectari in his quae attentionem et profunditatem
inducunt. Huius autem signum maxime habemus in pueris qui quia multum
delectantur in formis et in signis rerum propter hoc quae eis nove et insuete sunt
earum bene memorant. Unde dicit Averrois hoc memorant multotiens quod
fecit in puericia bona ramemoratione quod homo in puericia multum amat
formas et figuras et multum in eis delectat et admirat».
33
alle molte autorità: ‘dalle molte autorevoli testimonianze’. Ricorrente
nel testo è l’uso arcaico della proposizione ‘a’ con valore di ‘da’ come introdu-
zione a un complemento d’agente; cfr. BOCCACCIO, Decameron, X, 8, 13: «che
dunque ami? dove ti lasci trasportare allo ’ngannevole amore? dove alla lusingevole
speranza?».
34
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II, II, q. 49, a. unic.: «Ideo
autem necessaria est huiusmodi similitudinum vel imaginum adinventio, quia
intentiones simplices et spirituales facilius ex anima elabuntur nisi quibusdam
similitudinibus corporalibus quasi alligentur».
DIALOGO DELLA MEMORIA 13

FAB‹R›. Questo mi sovviene aver letto.


HOR. Inventore di quest’arte dicesi esser stato Simonide35. Di cui si
scrive che, avendo costui, come era il costume, dettato molti versi
in lode d’un giovane ch’era stato vincitor nella lotta, il quale aveva
seco patteggiato di dargli certo premio, egli all’usanza de’ Poeti
aveva fatto spesse digressioni in honore di Castore e di Polluce. Là
onde il giovane gli diede una parte del guiderdone, dicendo che’l
rimanente egli dovesse ricercar da que’ due fratelli, ch’esso aveva in
molti versi honorati. I quali tuttavia glielo pagarono. Percioché,
facendosi un superbo e gran convito in honore della vittoria avuta
dal giovane, e trovandosi a quello Simonide, venne a lui un messo,
che gli disse che due giovani a cavallo lo aspettavano fuori della
porta con grandissimo disiderio di favellargli. Levossi tosto Simonide
dal convito e, uscito in istrada, non trovò alcuno; ma ben conobbe
all’effetto che Castore e Polluce se gli erano dimostri grati delle
lodi che esso loro aveva date. Percioché a pena egli si era partito
dalla soglia, che’l tetto del luogo, ove era il convito, ebbe a cadere;

35
La vicenda di Simonide di Ceo, uno dei più ammirati lirici greci dell’età
presocratica (556-468 a. C. circa), fa un po’ da incipit canonico ai trattati mo-
derni sull’arte della memoria e, con la Yates (L’arte della memoria, ed. cit., 27),
«si può forse congetturare che [essa] formasse l’introduzione usuale alla parte
dedicata alla memoria artificiale nei manuali di retorica» greci. L’intervento del
poeta greco al banchetto di Scopa ha il merito di sottolineare l’importante ruolo
che per una corretta e duratura memorizzazione giocano l’ordine e il senso della
vista: il primato di questo senso sugli altri emerge poi anche da un’altra afferma-
zione attribuita a Simonide, quella della sostanziale uguaglianza tra poesia e
pittura poi confluita nell’oraziana formula dell’ut pictura poësis (si vedano L.
DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, ed. cit., 152: «avendo alcuni
valenti uomini chiamato il pittore poeta mutolo, et il poeta pittore che parla» e
ID., I quattro libri delle Osservationi Grammaticali, IV, ed. cit., 189: «né manca-
rono di quegli che il Poeta parlante Dipintore, et all’incontro il Dipintore mutolo
Poeta addimandarono»). Cfr. ancora F.A. YATES, L’arte della memoria, ed. cit., 28:
«La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del
senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno
esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre
arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti
nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura
e mnemonica in termini di intensa visualizzazione». Per una più diffusa tratta-
zione del racconto di Simonide (oltre alla breve nota di V. D’AGOSTINO, Simonide
inventore della mnemotecnica in Cicerone e Quintiliano, in «Rivista di studi clas-
sici», fasc. 1, 1952, 125-127) si vedano H. BLUM, Die antike Mnemotechnik,
Hildesheim-New York, Georg Olms Verlag 1969, 41-45 e L. MARIN, Le trou de
mémoire de Simonide, in «Traverses», 40, aprile 1987, 29-37.
14 LODOVICO DOLCE

et in guisa macerò tutti coloro che vi si trovarono, che, procurando


i loro parenti di seppellire i corpi, non potevano a verun segno
conoscer netto né la effigie né le membra di alcuno. Ma Simonide,
ricordandosi dell’ordine con cui egli ciascuno aveva veduto sedere,
rese ad ognuno il suo corpo.
FAB‹R›. Parmi anco di aver veduto questo esempio in Quintiliano;
ma seguita36.
HOR. Gli antichi filosofi adunque, o fosse principalmente Simonide,
o Metrodoro37, o qualunque altro, disiderando di sovvenire in que-

36
In effetti il brano è fedele traduzione di un passo quintilianeo: Institutio
Oratoria, XI, 2, 11-14. Come possiamo vedere il Dolce non riutilizza la propria
traduzione della versione ciceroniana del racconto (CICERONE, De Oratore, II,
86, 352-4; ricordiamo che il volgarizzamento dolciano è del 1547), allontanan-
dosi così pure dal testo di Host, che rievoca la mitica origine dell’ars memorandi
attraverso le parole di «Marco Tullio» (cfr. J. HOST, Congestorium artificiosae
memoriae, tract. IV, conclusio operis, ed. cit., c. 74r-v).
37
Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, VII, 24, 89: «Ars postremo
eius rei facta et inventa est a Simonide melico, consummata a Metrodoro Scepsio,
ut nihil non isdem verbis redderetur auditum». Metrodoro di Scepsi, «persona
di gradevole parola e di grande cultura, salito a un tale vertice d’amicizia con
Mitridate da essere chiamato padre del re» (PLUTARCO, Le vite di Cimone e di
Lucullo, trad. a cura di C. Carena, M. Manfredini e L. Piccirilli, Milano, Fon-
dazione Lorenzo Valla-Mondadori 1990, 125) ed esponente di spicco della
tarda retorica greca, è ricordato da Cicerone (De Oratore, II, 88, 360) e da
Quintiliano (Institutio Oratoria, XI, 2, 22) per il suo avvalersi dei segni dello
zodiaco come di immagini di memoria, adeguatamente impressionevoli (e quindi
utilizzabili come imagines mobiles) e corredate di un ordine predefinito (che alla
bisogna ne fa imagines fixae, luoghi di memoria già pronti all’uso): la divisione
in dieci gradi di ogni decano (tre per ogni segno zodiacale) si presume che gli
consentisse la formazione di trecentosessanta loci ben indicati per la realizzazio-
ne di sorprendenti imprese mnemoniche (cfr. L.A. POST, Ancient Memory Systems,
in «Classical Weekly», XV, 1932, 109: «With a little calculation he [Metrodoro]
could find any background by its number, and he was insured against missing
a background, since all were arranged in numerical order. His system was therefore
well designed for the performance of striking feats of memory» e H. BLUM, Die
antike Mnemotechnik, ed. cit. 121: «[Metrodoros] arbeitete auch eine eigene
Variante des System aus, indem er bei den zwölf Tierkreiszeichen 4320
mnemonische Stellen unterbrachte»). Il sistema mnemonico di Metrodoro ri-
tornerà costantemente in chi si richiamerà, con accenti più o meno mistico-
magici, ai segni zodiacali come notae di memoria. Una visualizzazione, tutt’altro
che mistica o alchemica, di trecentosessanta luoghi di memoria ce la offre il
Dolce, forse memore del retore di Scepsi, nel suo Giornale delle historie del
mondo, delle cose degne di memoria di giorno in giorno occorse dal principio del
Mondo fino a’ suoi tempi, riveduto, corretto et ampliato da Guglielmo Rinaldi
(Venezia, al Segno della Salamandra 1572), dove per ogni giorno dell’anno
DIALOGO DELLA MEMORIA 15

sta parte alla debolezza humana, scrissero libri di cotale arte; di cui,
come piace a Cicerone, fa mestiero38 in qualunque dottrina.
Percioché, qual profitto potrebbe alcuno cavare di aver con somma
diligenza letto e riletto alcun libro, overo di studiare qual si voglia
arte, se, quando fa bisogno, non l’avesse in pronto et alle mani39; o

riporta una o più notizie degne di memoria; così il curatore Guglielmo Rinaldi
introduce l’opera nella dedica «al Clarissimo Signor Luigi Michele»: «Se, quanto
è il piacere e beneficio che si ha nel leggere et acquistare la cognizione dell’Historia,
tanto fosse sicura la memoria de gli Huomini in ritenerla, ardirei di dire, Clarissimo
Signor mio, che non fosse parte alcuna nel Tesoro delle Lettere, intorno la quale
più si dovesse l’huomo affaticare. (…) Ma qual Themistocle, o Mithridate,
Lucullo, o Hortensio, può vantarsi di poter con la memoria ciò che legge rite-
nere, in tanta varietà e copia di scrittori? È opera veramente più tosto divina, che
mortale. Non doverà esser stimata inutile fatica quella, che sie impiegata a
sollevar la memoria dal soverchio peso, e sovvenirle in così fatto modo, ch’ella
non perda punto delle sue forze, in conservarsi con molta minor fatica tutto
quello, che dalla lezione le viene presentato. Sì come già pensò di fare il genti-
lissimo, e non mai stanco di giovare, Messer LODOVICO DOLCE, riducendo
con breve esposizione gli illustri fatti così de gli antichi, come de’ moderni, sotto
certo ordine di giorni. Sì che non vi ha mese, anzi quasi giorno nell’anno, che
passi vuoto d’Historia. Ordine, che non pur giova a presto ritrovare e leggere le
cose memorabili, ma anco ad applicarle così ne’ parlamenti, come ne’ scritti a
quello che s’intende trattare sotto il medesimo giorno. E spero, doverà esser
aggradito per loro uso così da giudiciosi Poeti, come Oratori».
38
fa mestiero: ‘è necessario, opportuno’. Cfr. BOCCACCIO, Decameron, II,
3, 39: «E così disposta venendo, Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò
che fa mestiere a ciascuno...»; L. DOLCE, Modi affigurati e voci scelte et eleganti
della volgar lingua, ed. cit., c. 6r: «è della prosa, e famigliarissimo presso il
Boccaccio. Dicesi anco è mistieri o fa mistieri: di che non adduco esempi».
39
in pronto et alle mani: ‘immediatamente disponibile’. Quasi a ricordare
il carattere pratico e l’utilità reale di questa disciplina, la formula ricorre frequen-
temente nei trattati di arte della memoria ma non solo, come si può vedere in
PETRARCA, Secretum, I, 54 (si è utilizzata l’edizione a cura di E. Fenzi, Milano,
Mursia 1992): «Non tamen vel sillaba hec [le sillabe della parola ‘morte’] summis
auribus excepta vel rei ipsius recordatio compendiosa sufficiet; immorari diutius
oportet atque acerrima meditatione singula morientium membra percurrere; et
extremis quidem iam algentibus media torreri et importuno sudore diffluere,
ilia pulsari, vitalem spiritum mortis vicinitate lentescere. Ad hec defossos
natantesque oculos, obtuitum lacrimosum, contractam frontem liventemque,
labantes genas, luridos dentes, rigentes atque acutas nares, spumantia labia,
torpentem squamosamque linguam, aridum palatum, fatigatum caput, hanelum
pectus, raucum murmur et mesta suspiria, odorem totius corporis molestum,
precipueque alienati vultus horrorem. Que omnia facilius ac velut in promptu
et ad manum collocata succurrent, si cui familiariter obversari ceperit memoran-
dum aliquod conspecte mortis exemplum; tenacior enim esse solet visorum
quam auditorum recordatio»; se «in pronto» è un latinismo (in promptu) ricor-
rente nella prosa volgare, più rara e sicuramente più suggestiva (almeno nell’am-
bito di un lessico dell’ars memorandi) è la formula «alle mani», alla quale si può
16 LODOVICO DOLCE

non potesse ricordarsene per insegnare altrui quello che egli sapes-
se, o valersene per lui alle occasioni? Né è per certo da dubitare che
ciò che è necessario, non sia parimente utile. E qual cosa è più
necessaria della memoria?
FAB‹R›. Ciò è cosa certissima.
HOR. Lo aver memoria nel vero conviene a ogni sesso, et a ogni
stato e condizione: sì come a’ religiosi, a’ secolari, e ciascun artefice,
a’ leggisti, theologi, predicatori, et oratori40. Essendo che a ciascun
di costoro è mistiero che si ricordi di quello che gli appartiene, che
è convenevole al suo ufficio, et utile alla sua professione. È vero che
questa arte alcuni riprendono, come non aiut‹at›rice41 ma distrug-
gitrice della memoria. Come che si debba biasimare Aristotele, Ci-
cerone, Seneca, e Quintiliano, et altri antichi, che lei sommamente
lodano. Ma questi, che così stimano, sono sciocchi, percioché dan-
nano in altrui quello che essi non isperano di potere ottenere. Ma,

forse accostare «di mano in mano», anch’essa espressione molto frequente nel
testo: le mani ritornano spesso nei precetti mnemonici come lettere di alfabeti
figurati, come note memorative a margine di un processo di reminiscenza, come
luoghi di memoria o immagini efficaci (la mano d’oro), e talvolta abitano le
rappresentazioni reali delle immagini di memoria, ovvero le illustrazioni che
accompagnano i trattati. Nel frontespizio dell’Ars memorativa di Anton Sorg
(Augsburg 1490) viene ad esempio rappresentato un maestro di mnemotecnica
che sta compiendo il gesto di contare e tale iconografia ritorna, secondo Ludwig
Volkmann, in una fortunata traduzione tedesca del De remediis utriusque fortunae
di Petrarca (Von der Arzney bayder Glück, des guten und widerwertigen, Augsburg,
Steyner 1523) dove nella silografia che fa da frontespizio all’ottavo capitolo dal
primo libro (quello dedicato alla memoria) si ha l’immagine di un dotto che
sembra compiere il gesto di contare con le dita, circondato da una serie di scudi
riportanti dei disegni e affiancato da una figura allegorica di donna con un libro
in testa e uno sotto il braccio: Volkmann, evidenziando i rapporti tra questa e
altre silografie che corredano l’opera petrarchesca e alcune immagini di memo-
ria proposte in trattati di mnemotecnica quattro-cinquecenteschi, giunse a
suggerire una possibile lettura mnemonica del De remediis nell’ambito della
cultura germanica del Cinquecento, lettura che potrebbe in parte giustificare la
fama che proprio in Germania e proprio nel Cinquecento Petrarca ebbe come
maestro di arte della memoria (cfr. L. VOLKMANN, Ars memorativa, ed. cit., 160
e 164-166).
40
Si ricordi qui per esteso il titolo del trattato di Host: Congestorium
artificiosae memoriae Joannis Romberch de Kryspe, omnium de memoria praeceptione
aggregatim complectens. Opus omnibus Theologis, praedicatoribus, professoribus,
iuristis, iudicibus, procuratoribus, advocatis, notariis, medicis, philosophis, artium
liberalium professoribus, insuper mercatoribus, nunciis, et tabelariis pernecessarium.
41
Cfr. BOCCACCIO, Decameron, VI, 4, 3: «la fortuna ancora, alcuna volta
aiutatrice de’ paurosi».
DIALOGO DELLA MEMORIA 17

come è in proverbio, la scienza non ha alcun nimico fuor che l’igno-


rante42.
FAB‹R›. Per certo chi non sa quanto una gemma vaglia, non la può
prezzare.
HOR. Hora comincerò dalla diffinizione; percioché dal sapere il
nome nasce poi la cognizion delle cose43. La memoria adunque,
per quanto al presente nostro proponimento appartiene, è natural-
mente (per così dire) conserva delle specie e forme dell’animo; e
per via dell’arte si fortifica ella et aumenta, essendo che o per vigo-
re della memoria, che dalla natura abbiamo, o per aita dell’arte,
che da noi medesimi troviamo, ci ricordiamo di qualunque cosa,
di cui ci piace o ci è utile il ricordarci44. Di qui due sorti di memo-

42
Con questa breve battuta Dolce sintetizza ben due capitoli del
Congestorium, dedicati rispettivamente alla confutazione dei detrattori dell’ars
e alle sue occasioni d’utilizzo (cfr. J. HOST, Congestorium artificiosae memoriae,
I, I-II, ed. cit., cc. 6-7).
43
Cfr. CICERONE, De Officiis, I, 2, 7: «omnis enim, quae a ratione suscipitur
de aliqua re institutio, debet a definitione proficisci, ut intellegatur quid sit id
de quo disputetur» e UGO DI SAN VITTORE, Didascalicon, VI, III, ed. cit., 191:
«Mi ricordo che, quando ero ancora allievo delle prime scuole, mi impegnavo
intensamente ad imparare tutti i vocaboli corrispondenti agli oggetti che vedevo
ovvero che adoperavo, ritenendo francamente che non possa iniziare lo studio
della natura delle cose colui che ignora ancora i loro nomi»; il passo ciceroniano
(presente anche nel Congestorium) funge da preambolo anche per un altro
trattato di ars memorandi, l’anonimo manoscritto tardoquattrocentesco Tractatus
solemnis artis memorativae, conservato nel Cod. lat. ambrosiano T. 78 sup. e
trascritto da Paolo Rossi in appendice a Clavis universalis. Arti della memoria e
logica combinatoria da Lullo e Leibniz, ed. cit., 292: «Tractatus solemnis artis
memorativae incipit. Artificiosae memoriae egregia quaedam atque preclarissima
praecepta in lucem allaturi, non invanum esse duximus quod ipsa sit primum
effingere cum iuxta Ciceronis sententia in primo De officiis, omnis de quacumque
re sumitur disputatio a diffinitione proficisci debeat ut sciri possit quid sit id de
quo disputatur». Questa formula funge da incipit della trattazione anche nel
Dialogo dei colori: «percioché malagevolmente si può intender la qualità e con-
dizione d’una cosa, se prima non si sa ciò che ella è» (L. DOLCE, Dialogo nel quale
si ragiona della qualità, diversità e proprietà dei colori, ed. cit., c. 7r).
44
La dialettica natura/artificio su cui poggia l’intera tradizione retorica
dell’arte della memoria è ben rappresentata nel dialogo Della eloquenza (1557)
di Daniel Barbaro, in cui così si fronteggiano Arte e Natura: «ARTE: O quanto
ti son tenuta in nome suo! Che mi gioverebbe avvertire un affetto di Natura se
altra fiata in quello abbattendomi la memoria presta non mi dicesse: “Eccoti,
o Arte, quello che ancora vedesti”? Che esperienza si truova in me senza di essa?
Chi s’accorgerebbe che in alcuna di voi, o Anime, io mi ritrovassi, se non fusse
la memoria come guardiana e tesoriera di tutte le parti dello ingegno? Onde con
verità si dice che “tanto sa l’uomo, quanto si ricorda”. Nasce la memoria dal bene
18 LODOVICO DOLCE

rie diremo trovarsi naturali: l’una è quella, che è riposta negli ani-
mi nostri, o nasce parimente col pensamento 45. E come scrive
Diomede, è un veloce e saldo comprendimento dell’animo; il qua-
le prende aita dall’esercizio del leggere, dallo intendimento dello
esporre o spiegare ciò che si è letto, dalla cura dello scrivere, da un
sollecito discorso, e diligente ragione46. Alberto Magno dice ritro-
varsi nell’uomo tre sorti di memoria. Delle quali la prima chiama
conservativa delle proprietà sensibili, le quali sono apprese dalla
stimativa; e questa è secondo la parte sensibile, e segue pure la
stimativa. La seconda è da lui detta conservativa delle specie
intellegibili: e questa è seguace della ragione, et è nell’ultima parte
del cervello; e pare che Damasceno queste due tocchi, quando e’
dice che: «la memoria è fantasia abandonata da alcuna cosa, e
conservazion del senso e dell’intelligenza»47. Ma io tuttavia mi dò a

ordinare, l’ordine dallo intendere e dal pensamento. Però posso io con le imagini
in alcuni luoghi riposte artificiosamente indurre la memoria delle cose.
NATURA: A lungo andare tu le sei più tosto di danno che di pro alcuno; però non
mi piace altro che uno essercizio di essa memoria che si fa mandando molte cose
a mente» (D. BARBARO, Della eloquenza, in Trattati di poetica e retorica del
Cinquecento, a cura di B. Weinberg, Bari, Laterza 1974, II, 350). Sull’apporto
del patriarca di Aquilegia alla fortunata stagione veneziana di fertile intersezione
tra retorica, arti figurative e mnemotecniche, e soprattutto sul suo ruolo non
secondario per la decrittazione del ‘misterioso’ Theatro di Giulio Camillo, si
veda G. BARBIERI, La natura discendente: Daniele Barbaro, Andrea Palladio e
l’arte della memoria, in Palladio e Venezia, a cura di L. Puppi, Firenze, Sansoni
1982, 29-54.
45
Cfr. B. GIAMBONI, Fiore di rettorica, 82 (Come il dicitore si dee recare
a memoria la sua diceria), ed. critica a cura di G. Speroni, Pavia, Università degli
Studi di Pavia 1994, 101: «Dei saper che sono due le memorie, cioè naturale e
artificiale. La naturale è quella che coll’animo è congiunta, e insieme col pensier
nata». Sull’importanza della sezione sulla memoria di questo volgarizzamento
duecentesco dell’Ad Herennium e sui suoi rapporti con la coeva e successiva
tradizione mnemotecnica si veda F. A. YATES, L’arte della memoria, ed. cit., 81-
83.
46
Mai citato fra i maestri dell’ars memorandi o fra i suoi mirabili interpreti,
questo Diomede è il famoso grammatico latino del IV sec. d. C. autore di una
Ars grammatica in tre libri. Per il passo citato si veda DIOMEDIS, Artis grammaticae
libri III, I, in Grammatici latini, a cura di H. Keil, Hildesheim, G. Olms Verlag
1961, I, 419: «Memoria est velox animi et firma perceptio, cuius facultatem
fovet exercitatio lectionis enarrationisque intentio, stili cura, redditio sollicita
et diligens et iteratio atque repetitio frequens».
47
SANCTI PATRIS JOANNIS DAMASCENI, Orthodoxe fidei accurata editio, in-
terprete Jacobo Fabro, liber II, cap. XX (De memorandi facultate), Venezia, s.i.t.
1515, c. 14r: «Memoria est imaginatio relicta ab aliquo sensu aut confirmatio
sensus et intelligentiae».
DIALOGO DELLA MEMORIA 19

credere che la prima nell’huomo non sia diversa dalla imaginazione.


La terza memoria è nella superior parte della ragione, et è nomata
ritenzione, overo conservazione essenziale della somiglianza del vero
e del bene48.
FAB‹R›. Non mi dispiacciono queste diffinizioni.
HOR. Ma San Thomaso afferma esser due maniere di memorie.
L’una naturale, la quale è nella parte intellettiva: potenza che pura-
mente conosce e conserva solo le specie. L’altra [parte] nella parte
sensitiva, la quale è thesoro delle specie (per usar questi termini)
intenzionali, overo delle intenzioni sensibili apprese col senso49. Il
cui organo è nell’ultima parte del capo: come si può vedere da
questa figura che è qui dipinta50. In questa tu vedi ove è il senso
comune, ove la fantasia, la cogitativa, la imaginativa, la stimativa,
la memorativa, et anco l’odorato e il gusto.

48
Cfr. ALBERTO MAGNO, Metaphysica, I, tract. I, cap. 7, ed. cit., 10: «Et
cum memoria non tantum sit thesaurus et coacervatio formarum sensibilium
prius acceptarum, sed etiam intentionum convenientis et inconvenientis, boni
et mali, amici et inimici et huiusmodi cum sensibilibus ab aestimativa
acceptorum».
49
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, In Aristotelis libros De Sensu et Sensato, De
Memoria et Reminiscentia Commentarium, Liber Unicus, lectio II, n. 320 (si è
utilizzata l’edizione Marietti, Torino 1949): «Unde concludit quod memoria sit
intellectivae partis animae, sed per accidens; per se autem primi sensitivi, scilicet
sensus communis». Il commento si riferisce ad ARISTOTELE, Della memoria e della
reminiscenza, 1, 450a.
50
Le ultime due battute di Hortensio offrono una decisa sintesi del passo
del Congestorium artificiosae memoriae (tract. I, cap. IV, c. 7v). Cfr. ALBERTO
MAGNO, De anima, II, tract. 4, cap. 7, in Opera Omnia, ed. cit., 158: «Thesaurum
autem eius reservantem intentiones, qui memoria vocatur, in posteriori parte
cerebri posuerunt, qui locus est siccus propter nervos motivos,qui oriuntur ab
ipso. Cuius signum est, quia laesa illa parte perditur vel laeditur memoria in
omnibus animalibus. Phantasiam autem, quae convertit se tam super intentiones
quam super formas, posuerunt in medio mediae cellae tamquam centrum inter
imaginativam et memoriam» ma anche L. DOLCE, Somma di tutta la natural
filosofia di Aristotele, ed. cit., 71: «Memoria è potenza sensitiva interiore, la quale
le specie delle cose sensibili da gli altri sensi interiori riceve e conserva. Il cui
oggetto è il sensibile per sé sensato, come conservabile. Percioché conserva ella
le specie, che concepisce la virtù imaginativa, cioè la fantasia. L’organo della
memoria è l’ultimo ventricolo del cervello». Nella copia del Congestorium da me
consultata manca la figura che segue (diversamente da quanto indicato dalla
YATES, L’arte della memoria, ed. cit., 238), figura invece presente nella Somma
aristotelica approntata dal Dolce.
20 LODOVICO DOLCE

FAB‹R›. Benissimo io ciò veggio, et ogni cosa posta e collocata al


suo luogo.
HOR. E perché questa parte è più humida di quello che fa bisogno,
onde mal conserva le ricevute specie, da ciò aviene che la maggior
parte, intendendo a così fatto difetto, con diversi modi d’unzioni
procurano di asciugarla51; di che mi riserbo a ragionar in luogo più

51
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, In Aristotelis libros De Sensu et Sensato, De
Memoria et Reminiscentia Commentarium, l. II, n. 321: «Cum enim potentiae
sensitivae sint actus corporalium organorum, necesse est ad diversas potentias
pertinere receptiones formarum sensibilium quae pertinet ad sensum, et
conservationem earum, quae pertinet ad phantasiam sive imaginationem; sicut
in corporalibus videmus quod ad aliud principium pertinet receptio et
conservatio: humida enim sunt bene receptiva, sicca autem et dura bene
conservativa» [il passo commenta ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscen-
za, I, 450b]. Sulla medicina per la memoria confronta il più recente e interes-
sante contributo sulla storia medievale dell’ars reminiscendi, M. CARRUTHERS,
The Book of Memory. A Study in Medieval Culture, ed. cit., 46-79.
DIALOGO DELLA MEMORIA 21

dicevole. È vero che intorno a ciò ci bisogna esser molto considera-


ti. Ma quanto appartiene al difetto della natural memoria, io giu-
dico convenevole di sovvenire non per via di medicine, ma di luo-
ghi et imagini, come ho detto; la quale industria fu chiamata da gli
antichi Memoria Artificiale: e ciò per cagione, che ella molto ac-
cresce il sapere. Et è, per diffinirla con Marco Tullio, una imaginaria
disposizione di cose sensibili nella mente, sopra le quali la memo-
ria, volgendosi e piegandosi, viene a eccitarsi et a ricever giovamen-
to, di maniera che le cose da lei prima apprese, con più agevolezza,
più distintamente e più a lungo può ricordarsi52. Là onde qui non
riceverai la memoria, o sia naturale, o aiutata dall’arte, nella guisa
che ella si distingue dalla reminiscenza, ma sì come unitamente
partecipa di amendue: sì come arte di conservar ciò che ella ap-
prende e ridurlo in prontezza di considerare et agevolezza di legge-

52
Deve trattarsi di un’errata lettura di Rhetorica ad C. Herennium, I, 2, 3:
«Memoria est firma animi rerum et verborum et dispositionis perceptio». Host
l’ha probabilmente tratta dall’anonimo Tractatus solemnis artis memorativae, ed.
cit., 292: «Est igitur artificialis memoria dispositio quaedam imaginaria vel
localis vel idealis mente rerum sensibilium super quas naturalis memoria reflexa
per ea summovetur atque adiuvatur ut prius memoratorum facilius, distinctius
atque divitius denuo valeat reminisci». Nel testo non compare però alcun rife-
rimento a «Marco Tullio». Si veda anche la definizione che Jacopo Ragone ne
dà nelle sue Artificialis memoriae regulae (1434), importante perché una delle
poche che afferma esplicitamente la sostanziale identità di luoghi e immagini
in nome della comune matrice immaginaria: l’arte della memoria consta infatti
di luoghi e immagini o, più correttamente, di imagines fixae funzionalmente
strutturate, minuziosamente ornate e logicamente ordinate, entro le quali ven-
gono collocate imagines mobiles che grazie a una veste esteriore impressionabil-
mente efficace attivano il processo associazionistico del ricordo o addirittura
veicolano esse stesse i contenuti affidati alla memoria (cfr. JACOPO RAGONE,
Artificialis memoriae regulae, in G. ZAPPACOSTA, Studi e ricerche sull’Umanesimo
italiano, Bergamo, Minerva Italica 1972, 36: «Differunt vero loci ab imaginibus
nisi in hoc, quod loci sunt non anguli ut exstimant aliqui sed imagines fixe supra
quibus sicut supra carta alie pinguntur imagines delebiles sicut litterae; unde
loci sunt sicuti materia. Imagines vero sicuti forma. Differunt ergo sicut fixum
et non fixum»). Il trattato del Ragone, uno dei più diffusi del primo Quattro-
cento, è importante perché, come anche quello di Pietro da Ravenna, sembra
allontanarsi dall’impostazione etico-retorica propria della tradizione domenicana
di testi mnemotecnici per rivolgersi con maggior sensibilità agli orientamenti
della sua età: la massiccia presenza di esemplificazioni (e la loro funzionalità
pedagogica), il tentativo di adattare la mnemotecnica alle più varie attività (dalle
carte da gioco alla diplomazia) e il progressivo svincolamento della memoria
dall’ambito religioso della Prudenza fanno intravvedere le nuove modalità con
cui la cultura della memoria si presenterà alla società dell’Umanesimo. Sulle
regulae del Ragone si veda M.P. SHERIDAN, Jacopo Ragone and his Rules of Artificial
Memory, in «Manuscripta», IV, 3, 131-148.
22 LODOVICO DOLCE

re. E questa il Petrarca nel Libro della contraria fortuna dice ricevere
aiuto con queste parole: «Se avrai la memoria caduca e debole,
fermala coi sostegni della diligenza e dell’arte. Percioché la indu-
stria si contrappone a tutti i difetti della memoria e dell’ingegno;
ella sovviene, né lascia perire e menomar veruna parte. Questa può
conservar con verdissimo ingegno e stilo i vecchi Filosofi e Poeti.
Questa i decrepiti Oratori con salda voce, con forti fianchi, e con
tenace memoria parimente. Onde, se tu ti conosci la memoria in-
fedele, non voler confidartene53: ponle spesso ripari, e quello che le
credi54, tosto da lei riscuoti»55.
FAB‹R›. Sono molto ingegnose queste parole del Petrarca.
HOR. Fra la memoria e la reminiscenza v’entra questa differenza.
Che la memoria separatamente e distintamente torna alle cose, for-
mando con imagini gli intendimenti distinti. Ma la reminiscenza,
o diciamo ricordazione, è co‹me un› movimento intrapreso e rin-
tuzzato dalla oblivione, e serve a tempo e a luogo con raccoglimen-
to dell’ordine e della dipendenza delle cose (per così dire) reminisci-
bili (cioè che entrano nella rimembranza)56; ‹così com›e quando da

53
confidartene: ‘porre fiducia in essa’. Cfr. BOCCACCIO, Decameron, V, 7,
5: «e credendo che turchio fosse, il fé battezzare e chiamar Pietro e sopra i suoi
fatti il fece il maggiore, molto di lui confidandosi».
54
credi: latinismo, ‘affidi’. Cfr. PETRARCA, Rerum Familiarium Libri, XVII,
5, ed. critica a cura di V. Rossi e U. Bosco, Firenze, Sansoni 1923-24, III, 251:
«Quid ergo? Scito me nusquam amena loca conspicere quin subito redeam in
memoriam ruris mei eorumque simul quibuscum libenter valde, si datum esset,
illic precipue vite brevis fragmenta consumerem. Te igitur et rus illud, dum tibi
ista dictarem memorie credidi; necque enim scribendi instrumenta aderant; illa
autem, ubi domum est reditum, depositum bona fide restituit».
55
PETRARCA, De Remediis utriusque Fortunae, liber II, dialogus CI (De
inopi et infirma memoria), in F. PETRARCHAE, Opera quae extant omnia, Basilea
1554 [rist. anast. Ridgewood (New Jersey), The Gregg Press Incorporated 1965],
219: «DOLOR: Memoria labascit. RATIO: Adesto ne corruat, et labentem iugi
exercitatione sustenta. Fac quod muro ruinam minanti fieri solet, adhibe repagula
opportunis locis, et fragilem crebris ac validis adminiculis circumvalla. DOLOR:
Memoria fluxa est. RATIO: Diligentia et artificio illam stringe, cunctis ingenii
memoriaeque; defectibus occurrit industria. Nil patitur industria perire, nil
minui. Haec est quae philosophos et poetas senes virentissimo ingenio ac stilo,
hac est quae decrepitos oratores voce solida validisque lateribus ac tenaci memo-
ria servare potest. (...) DOLOR: Infida memoria est. RATIO: Noli ergo illi fidere,
saepe calculum secum pone, quicquid credideris confestim exige, et quod cras
facturus fueras nunc facito».
56
Cfr. ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscenza, 2, 451b (per tutte
le traduzioni si è ricorsi all’edizione delle Opere, a cura di G. Giannantoni, Bari,
Laterza 1973): «Inoltre è ben chiaro che uno può ricordare una cosa non perché
DIALOGO DELLA MEMORIA 23

un simile siamo portati ad un altro simile, o da un contrario a un


altro contrario, overo dalla proprietà siamo ridotti al soggetto57.
Ma la memoria artificiale viene da luoghi et imagini, di maniera
che l’animo per via della memoria, col mezo delle cose pensate,
può entrar nelle cose sensibili che sono fuori di lui. Di che non è
mestieri che teco parli con più chiarezza.
FAB‹R›. Io intendo a bastanza.
HOR. Verrò adunque a spiegarti da quali cose sensibili riceva la
memoria aiuto. Dico che da quel poco che si è detto, appar chiara-

adesso rammemora, ma perché fin dall’inizio ha conservato la sensazione e


l’affezione: ma quando uno riprende la scienza o la sensazione che ebbe un
giorno o una qualche esperienza, il cui stato dicevamo essere la memoria, questo
rammemorare una di quelle cose di cui abbiamo parlato: torna allora il ricordare
e la memoria attuale tiene dietro all’atto del memorare». La memoria dunque
si differenzia dalla reminiscenza, perché nella prima l’oggetto da ricordare è
sempre presente, potenzialmente o attualmente, in chi ricorda, mentre la secon-
da è attivata solo quando tale oggetto è caduto dalla coscienza. Si veda anche L.
DOLCE, Somma di tutta la natural filosofia di Aristotele, ed. cit., 82: «Sono oltre
a ciò due uffici della memoria: cioè ritenere le specie intelligibili una volta
impresse nell’intelletto passibile; e rappresentarle e rinovarle quante volte il
bisogno ne lo ricerchi. Il secondo ufficio è rinovare e quasi da morte risuscitar
le specie le quali una o più volte siano uscite dell’intelletto o dell’animo: e questo
è detto reminisci e reminiscenza. Perché reminisci è raccordarsi le cose che già
erano andate in oblio: il che molto a tempo si fa dalle circostanze della persona,
del tempo e del luogo».
57
Cfr. ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscenza, 2, 451b: «Perciò
col pensiero andiamo a caccia della serie successiva dei movimenti cominciando
da un’intuizione presente o da un’altra o da una simile o contraria o vicina»; due
delle tre leggi di associazione erano già state formulate da PLATONE, Fedone, 74d
(trad. a cura di G. Cambiano per l’ed. Utet, Torino 1987): «Non c’è alcuna
differenza, disse: ogni volta che, vedendo una cosa, da questa visione arrivi a
pensarne un’altra, sia simile sia dissimile, ha necessariamente luogo la remini-
scenza». Un esempio dell’applicazione di questi princìpi associazionistici per la
memoria ce lo offre G.M.A. CARRARA, De omnibus ingeniis augendae memoriae,
cap. I, ed. cit., 115: «Alterum est, ut aut simile per simile aut per contrarium
figuremus aut per proprietatem. Primi exemplum est, ut, si nomen Avicenne
sim locuturus, alicuius illustris medici nomen scribam, cuius aut par sit aut
paulo debilior auctoritas. Secundi exemplum est, si idem per indocti medici
nomen cum irrisione conscripsero; si Tersitem per Achillem, bonum per malum,
informem per formosum annotavero. Exemplum tertii est, si Ovidium per
magnum nasum, Platonem per humerorum amplitudinem, Crispum per
anulatos capillos, Ciceronem per Gelasinum sculpsero; quin ipsa nominis origo,
ipsa declinatio facere ad tenedum aliquid potest». In R. JAKOBSON, Saggi di
linguistica generale, trad. it. Milano, Feltrinelli 1992, 22-45, questi tre criteri
sono stati trasposti nella linguistica: similitudine e contrarietà rimandano alla
metafora, contiguità alla metonimia.
24 LODOVICO DOLCE

mente che la parte ritentiva dell’anima (che è quanto si dicesse


conservativa) può stabilirsi e fortificarsi con l’arte. E questo per via
di luoghi e d’imaginate forme di quelle cose, delle quali ricordar ci
vogliamo: o siano di lettere, o di parole, o di versi, o di prose, o di
qualunque altra cosa; quando, avendole noi poste in certi ordinati
luoghi, sovente le andiamo raccogliendo nella mente e discorren-
dole con la considerazione. In che è riposta quasi tutta la somma di
questa arte. E puossi insegnar con pochi precetti: ma fa mistieri di
lunga pratica et esercitazione. Onde è bisogno che ciascuno in ciò
misuri le proprie forze prima che entri a procacciar di apprender
questa memoria artificiale. Ché, quantunque la memoria, come s’è
detto, si faccia perfetta con l’arte, nondimeno ella ha principio dalla
natura. Onde l’Atheniese Thalete, Filosofo di gran fama, stimò ve-
ramente felice colui che è sano del corpo, abondevole de’ beni del-
l’animo, e di capace natura58: percioché indarno si procura d’inse-
gnare a chi non è acconcio59 a imparare. E di questi, che non sono
atti ad apprender le buone discipline, si trovano sette condizioni. I
primi sono quelli che mal disposti chiamiamo; i secondi quei che
sono di tardo ingegno; i terzi alcuni spensierati, che perdono il
tempo; i quarti gli incostanti; i quinti quei che si danno alla gola; i
sesti i lussuriosi; i settimi gli amalaticci, o languidi e tormentati dai
dolori60. Chi adunque disidera di arricchirsi del thesoro di questa

58
Cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite dei Filosofi, I, 1, 37, trad. a cura di M.
Gigante, Bari, Laterza 1962, 18: «Chi è più felice? Chi è sano di corpo, ricco di
risorse spirituali, bene educato di natura. Dice [Talete] che bisogna ricordarsi
degli amici presenti ed assenti, non acconciarsi la faccia ma esser bello nella
pratica della vita».
59
Indarno (...) acconcio: ‘inutilmente si cerca d’insegnare a chi non è in
grado di imparare’. Cfr. L. DOLCE, Modi affigurati e voci scelte et eleganti della
volgar lingua, ed. cit., c. 215v: «Acconcio per atto, commodo e polito. È molto
in uso de’ Prosatori: e sempre invece di atto usato dal Bembo».
60
L’elenco delle persone poco atte al ben ricordare suggerisce la tradizio-
nale ripartizione dei peccati capitali, evidenziando così in nome della facoltà
memorativa una linea di continuità fra integrità spirituale e salute corporea e
prefigurando l’elezione, che fra breve Dolce presenterà, dei luoghi dell’oltremondo
dantesco a luoghi strutturalmente ed emozionalmente adatti alla ritenzione di
ricordi; cfr. F. A. YATES, L’arte della memoria, ed. cit., 87: «Ora possiamo guar-
dare, con gli occhi della memoria, al trecentesco dipinto dell’Inferno nella
chiesa domenicana di Santa Maria Novella. L’Inferno vi è diviso in luoghi
corredati di iscrizioni (proprio come raccomanda Romberch), che indicano i
peccati puniti in ognuno di essi, e contengono le immagini che è naturale
attendersi in tali luoghi. Proiettando questo dipinto nella nostra memoria,
come un prudenziale memento, praticheremo forse ciò che il Medioevo avrebbe
chiamato memoria artificiale? Credo di sì».
DIALOGO DELLA MEMORIA 25

memoria, è necessario che abbia tre parti. Buona disposizion di


anima, di cui la memoria è parte; buono habito61 di corpo il quale
serve altresì alle forze sensitive di essa anima; e nel fine, che lo
stesso corpo abbia buona convenienza con la medesima anima. Et
a queste parti (come scrive il sovra detto Petrarca62) richieggono tre
altre condizioni: l’esser libero da altre facende, mansueto, e sobrio.
E nel vero non bisogna che la mente, occupata da altre cure, sia
sviata dalle fatiche delle lettere, ché non solamente negli studi si
ricerca disiderio di apparare e acutezza d’ingegno, ma fa anco mistieri
della tranquillità dell’animo.
FAB‹R›. Questo è verissimo.
HOR. Senza dubbio il disiderio di sapere, come vuole Aristotele63, è
naturale in tutti gli huomini. Et ove è mancamento d’ingegno,
quivi fa bisogno di maggiore istudio; e che molto più (come bene
consigliò il Filosofo Cleobolo64) vi sia il sapere e la dottrina; e,
seguitando parimente il ricordo di Boezio, che con la diligenza si
sottraggia e sgombri le nuvole dell’ingegno65. La tranquillità poi

61
disposizion (...) habito: latinismi, ‘stato, condizione’. ‘Abito’ va inteso nel
senso etimologico di id quod habetur, ‘la cosa che è presentata’.
62
Come si vedrà fra poco, Petrarca offre nel De remediis utriusque fortunae
validi consigli per una vita sana e, di conseguenza, per una non difficoltosa
azione rammemorativa.
63
Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, I, 1, 980a: «Tutti gli uomini sono protesi
per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per
le sensazioni, giacché queste, anche se si metta da parte l’utilità che ne deriva,
sono amate di per sé, e più di tutte le altre è amata quella che si esercita mediante
gli occhi».
64
Di Cleobulo, filosofo greco anteriore a Talete e iscritto alla cerchia dei
cosiddetti sette sapienti, ci tramandano alcune sentenze Demetrio Falareo (Sen-
tenze dei sette sapienti, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di H.
Diels, trad. it. Bari, Laterza 1990, 73: «Cleobulo lindio, figlio di Evagoro disse:
1. Ottima è la misura. (...) 3. Star bene nel corpo e nell’anima. 4. Essere avido
di ascoltare e non cianciare. 5. Sapere molto piuttosto che essere ignorante») e
Diogene Laerzio, (Vite dei Filosofi, I, VII, 91, ed. cit., 42: «Delle sue canzoni che
erano cantate nei conviti ebbe speciale rinomanza questa: Dominano tra gli
uomini rozza ignoranza e ciarloneria, ma l’opportunità ti preserverà. Sii sollecito
del bene. La gratitudine non sia vana»).
65
Cfr. PSEUDO-BOÈCE, De disciplina scolarium, 5, 4, a cura di O. Weijers,
Leiden-Köln, E. J. Brill 1976, 121: «Quippe miserrimi est ingenii semper inventis
uti et numquam inveniendis. Stulciusque est magistratus oracionibus omnino
confidere, sed primo est credendum donec videatur quid senciat, postea
fingendum est eundem in docendo errasse, ut si forte reperire queat quid
commisse obiciat sedulitati».
26 LODOVICO DOLCE

dell’animo in questo è profittevole, ché non lascia che l’intelletto,


o la parte concupiscibile, sia affogata dall’ira, o dall’impazienza.
FABR. Questa nel vero è parte similmente lodevolissima.
HOR. Devesi adunque principalmente essere intenti a frenar le pas-
sioni dell’animo. Percioché lo studio poco giova a coloro, ne i quali
ha luogo o soverchia allegrezza, o soverchia tristezza, o soverchia
ira, o qualsivoglia altra passione; essendo che così fatte perturba-
zioni o lo impediscono, o da quello nel tolgon via. Onde ne segue
che la mansuetudine è sommamente utile allo studioso. La sobrie-
tà è finalmente necessaria a i disiderosi d’imparare: la qual si deve
osservar nel mangiar, nel dormire, e in tutte le operazioni
dell’huomo; e fuggir sopra tutto la imbriacaggine, la quale, essen-
do continua o lunga, aliena la mente et offosca il lume dell’intellet-
to, come dice il beato Girolamo66. All’incontro dice il lodevolissi-
mo Petrarca: «L’esser temperato e parco nel vivere rimoverà dalla
casa vostra le podagre, vi leverà la doglia della testa, le vertigini del
cervello, il vomito, il rutto, la nausea, e il sudore, e il rincrescimen-
to e la noia di voi medesimo, la pallidezza, e’l rossore; e parimente
finirà la puzza della bocca e della persona, che offende voi e chi vi
si avicina. Oltre a ciò la debolezza de’ piedi, il tremar delle mani, e’l
crollar della testa; e (che è giovevolissimo) modererà e frenerà il
vostro animo»67. Abbia adunque il mio discepolo disiderio d’impa-

66
San Girolamo nella lettera 52, inviata al sacerdote Nepoziano, espone
una serie di precetti per chi ha abbracciato lo stato clericale, predicando tra
l’altro la moderazione negli alcolici: «Numquam vinum redoleas, ne audias illud
philosophi: ‘hoc non est osculum porrigere, sed propinare!’ Vinolentos sacerdotes
et apostolos damnat et vetus lex prohibet. Qui altari serviunt vinum et siceram
non bibant. (…) Quidquid inebriant et statum mentis evertit fuge similiter ut
vinum. (…) sed modum et aetatis et valitudinis et corporum qualitates exigimus
in potando» (SAINT JÉRÔME, Lettres, LII, 11, a cura di J. Lebourt, Paris, Les belles
lettres 1951, II, 187). Della necessità di sobri comportamenti per una buona
riuscita negli studi parla anche Alcuino da York nel suo dialogo Sulla Retorica
e le Virtù, in cui, sulla scorta del De Inventione ciceroniano, l’autore descrive le
cinque parti della retorica all’imperatore Carlo Magno. Cfr. W.S. HOWELL, The
Rhetoric of Charlemagne and Alcuin, Princeton, Princeton University Press 1941,
136: «KARLUS: Suntne aliqua eius praecepta, quomodo vel illa optinenda sit vel
augenda? A LCUINUS : Non habemus eius alia praecepta nisi ediscendi
exercitationem et scribendi usum et cogitandi studium et ebrietate cavenda,
quae omnibus bonis studiis maxime nocet, quae non solum corpori aufert
sanitatem, sed etiam menti adimit integritatem».
67
PETRARCA, De Remediis utriusque Fortunae, l. II, dialogus X (De tenui
victu), ed. cit., 137: «DOLOR: Tenuis me victus extenuat. RATIO: Mallesne igitur
tumefieri? Haec tenuitas podagram tuis pellet e finibus, dolorem capitis auferet,
DIALOGO DELLA MEMORIA 27

rare, acutezza d’ingegno, buona sanità, da vivere e da vestire, me-


diocre facultà, luogo commodo, ozio di tempo, e tranquillità di
animo; ordine di studio, modo, forma, e perseveranza. Ma perché
DIO, la natura, o la fortuna, non danno così a tutti egualmente
questi beni, non può ciascuno agevolmente acquistarli. Et anco
pochissimi vengono a perfezione; perché buona parte di coloro,
che gli posseggono, malamente gli usano. Onde il Petrarca ragio-
nevolmente questi vitupera dicendo: «Le cose che DIO, la natura,
o l’arte v’ha dato, perché ve ne serviste nelle opere di virtù, voi,
seguendo il vizio, rivolgete in vostra vergogna e danno. Il cibo e il
vino alla crapula e alla imbriacaggine, l’ozio e la quiete al sonno, la
sanità e la forza alle ingiurie, lo ingegno alle fraudi e a gl’inganni; la
dottrina alla superbia, la eloquenza al pericolo, le case e i vestimenti
alla superbia e alla vana alterezza, le ricchezze all’avarizia e alla
prodigalità»68. Onde col male operare, male impiegando questi beni,
avviene che o ne siamo da noi stessi spogliati; o per difetto della
nostra ingratitudine non ci vengono più dati.
FABR. Parole da scriversi con lettere d’oro.
HOR. Non è dunque da maravigliarsi, se a’ nostri giorni si veggono
tanti ignoranti, sciocchi e di rintuzzato ingegno, poscia che eglino69
i doni della natura e della fortuna guastano, e del tutto estingono,
col mezo delle cattive arti. Credo che non ti sia nascoso quanto

cerebrique vertiginem vomitumque et ructum et nauseam et sudorem


taediumque et fastidium tui ipsius, pallorem alternum ac ruborem, odorem
quoque et oris et corporis tibi atque aliis importunum sistet. Praeterea pedes
instabiles, manus tremulas, nutans caput, quodque est optimum, animum ipsum
moderabitur frenabitque».
68
PETRARCA, De Remediis utriusque Fortunae, l. I, dialogus XXI (De ocio
et quiete), ed. cit., 28: «GAUDIUM: Vigiliis defessus, somno totus incubui. RATIO:
Sic est non mutatis stylum, cuncta fere uno modo agitis, et quae Deus ipse, vel
natura, vel ars aliqua vobis ad obsequium dedit, in vestrum dedecus damnumque
convertitis: potum cibumque ad ebrietatem et crapulam, ocium et quietem ad
somnolentiam et marcorem, valetudinem ad voluptates, formam corporis ad
libidinem, robur ad iniurias, ingenium ad fraudes, scientiam ad superbiam,
eloquentiam ad discriminem, domicilium ac vestitum ad pompam inanemque
iactantiam, opes ad avaritiam et luxum, prolem et coniugium ad metum et
sollicitudinem immortalem».
69
eglino: plurale arcaico di ‘egli’, cui corrisponde nell’uso moderno ‘essi’.
Cfr. P. BEMBO, Prose della volgar lingua, III, XVI, a cura di C. Dionisotti, Milano,
Tea 1989, 210: «E queste voci, che al maschio tuttavia si danno, i meno antichi
dissero Egli et Eglino più sovente. (...) Sono nondimeno comunalmente ora,
Eglino et Elleno, in bocca del popolo più che nelle scritture, come che Dante ne
ponesse l’una nelle sue canzoni».
28 LODOVICO DOLCE

grandemente offenda la memoria, e quanto la guasti il soverchio


mangiare, e’l soverchio bere, e que’ cibi che sono duri da digerire:
come sono le carni di bue, le ove dure, e cose simili; le quali o
sogliono produrre cattivi humori, o empiono la testa di nocevoli
vapori. Oltre a ciò il lungo sonno, il troppo vegghiare, l’eccessivo
caldo, e’l troppo freddo70; e parimente ogni estremo: come le gran
passioni, l’usar carnalmente, e cose tali71. Ora, accioché tu non
istimi che bastino solo le condizioni de’ luoghi e delle imagini,
prima tratterò di queste; e poi seguirò, intorno al modo, alla for-
ma, al luogo, al tempo, e alla continovazion dello studio, quello
che mi parerà che sia convenevole a chi impara, osservandosi tutte
le cose che appartengono e sono utili alla memoria.
FABR. Io ti porgo attentissime orecchie.
HOR. Concedendosi (come per le cose dette di sopra è da concede-
re) che la memoria sia riposta nella virtù de’ luoghi e delle imagini
convenevolmente ordinate, è chiaro che ella prende vigore dall’ar-
te, considerando che l’anima per le cose sensibili si conduce a
rimembrar le straniere. Ma perché ciascuno possa schifar la
confusion dell’ordine delle cose di cui vogliamo ricordarci, e così
fatti incommodi, si ricercano specialmente quattro parti. Prima si
conviene la natural potenza ricevitrice delle specie imaginate, la
qual di sopra abbiamo detto esser memoria naturale. Di poi è ne-
cessaria la cosa di cui disideriamo tener memoria. E questa non
entra nell’intelletto corporalmente, overo nella memoria si rinchiu-

70
Cfr. G. M. A. CARRARA, De omnibus ingeniis augendae memoriae, cap.
I, ed. cit., 120: «Verum, si superflua frigiditas immoderate iungatur siccitati,
consurgere oportet pessimam memoriam, et in capiendo indispositam, et in
recogitando hebetem. Si autem coniungatur caliditas siccitati, velox quidem
erit spirituum motus, sed difficilis fiet inscriptio. Erit igitur captio difficilis, sed
rememoratio sat facilis».
71
Cfr. ALBERTO MAGNO, Quaestiones super naturam animalium, IX, qq. 8-
10, in Opera Omnia, ed. cit., 207: «Ad tertium dicendum, quod talis emissio
memoriam enervat propter tres rationes. Quia inordinata desideria obnubilant
sensum per Aristotelem in Ethicis; sed cum frequenter emittuntur sperma et
menstruum, nimis faciunt desideria hominem exardescere et per consequens
offuscant sensus et ita memoriam. Praeterea, memoria viget in parte posteriore
cerebri, et ista pars cerebri per emissionem maxime extenuatur, et per consequens
memoria debilitatur». Sui rapporti tra memoria ed eros nell’ottica di una visione
pneumatica dell’organismo-uomo si vedano I. P. COULIANO, Eros e magia nel
Rinascimento, ed. cit., (in particolar modo le pagine141-265) e M. CIAVOLELLA,
Eros e memoria nella cultura del Rinascimento, in La cultura della memoria, ed. cit.,
319-334.
DIALOGO DELLA MEMORIA 29

de; ma (come dice Aristotele nel terzo libro dell’Anima72) la pietra


non è nell’anima, ma la specie, o diciamo forma della pietra, in-
dottavi dalla fantasia; la qual, se averrà che per qualche imagine
formata dalla nostra imaginazione verrà riposta in alcun luogo che
abbia corpo, starà più salda nella memoria. Il che hora è il mio
intendimento. Là onde io affermo che i luoghi e le imagini sono a
questa industria sommamente necessari. La terza parte che si ricer-
ca, è una diterminata mesura per numero73 di qualunque cosa, et
un convenevole ordine per proporzione. La quarta è un continovo74
ripigliamento delle cose ordinate con i loro luoghi, accioché elle
per trascuratezza non vengano a rendere oscurezza o confusione.
Dirò adunque, con Marco Tullio, che necessari sono i luoghi e le
imagini parimente, affine che quelli tengano l’ufficio della carta e
queste delle scritture75; in quanto, disiderando alcuno ricordarsi di
alcuna cosa, dèe por le sue imagini in certi luoghi con devuta di-
sposizione, ordine, e distinguimento. Il che con certo ordine dinota
le diverse operazioni dell’anima; percioché quello che comprende
il senso è appresentato dalla imagine, formato dalla cognizione,

72
Cfr. ARISTOTELE, Dell’anima, III, 8, 431b-432a: «La facoltà sensitiva e
quella conoscitiva dell’anima sono in potenza quasi oggetti, e cioè da una parte
l’intelligibile, dall’altra il sensibile. Ma è necessario che siano o le cose o le forme:
ma non sono le cose, perché non c’è la pietra nell’anima, bensì la forma della
pietra». Cfr. anche AGOSTINO, Confessiones, X, VIII: «Haec omnia recipit recolenda,
cum opus est, et retractanda grandis memoriae recessus et nescio qui secreti
atque ineffabiles sinus eius: quae omnia suis quaeque foribus intrant ad eam et
reponuntur in ea. Nec ipsa tamen intrant, sed rerum sensarum imagines illic
praesto sunt cogitationi reminiscenti eas».
73
diterminata mesura per numero: ‘esatta proporzione’.
74
continovo: arc. per ‘continuo’. Cfr. L. DOLCE, Modi affigurati e voci scelte
et eleganti della volgar lingua, ed. cit., c. 109r: «Del continovo è della prosa. E
servando questa maniera del continuovo, di continovo usarono alcuni moderni».
75
Cfr. CICERONE, De Oratore, II, 86, 354: «Itaque eis, qui hanc partem
ingeni exercent, locos esse capiendos et ea, quae memoria tenere vellent effigenda
animo atque in eis locis conlocanda; sic fore, ut ordinem rerum locorum ordo
conservaret, res autem ipsas rerum effigies notaret atque ut locis pro cera,
simulacris pro litteris uteremur» e ID., Partitiones Oratoriae, 7, 26: «Nihil sane
praeter memoriam, quae est gemina litteraturae quadam modo et in dissimili
genere persimilis. Nam ut illa constat ex notis litterarum et ex eo in quo
imprimuntur ipsae notae, sic confectio memoriae tamquam cera locis utitur et
in his imagines ut litteras conlocat»; ma la similitudine ritorna anche in
Quintiliano (Institutio Oratoria, XI, 2, 21) e in ANONIMO, Tractatus solemnis
artis memorativae, ed. cit., 292: «Nam cum ars imitetur naturam in quantum
potest, volenti autem scribere primum carta et cera preparanda est, quibus loci
simillimi sunt. Imagines autem litteris, dispositio autem et collocatio imaginum
scripturae, pronuntiatio autem lectioni comparantur».
30 LODOVICO DOLCE

investigato dallo ingegno, giudicato dalla ragione, conservato dalla


memoria, appreso dalla intelligenza, e ridotto alla contemplazione.
FABR. Certo Hortensio questo discorso è dotto, ingegnoso et utile.
HOR. Per le imagini dunque poste ne’ luoghi vegniamo a cognizio-
ne delle cose ivi allogate76. Là onde ben disposta si dèe dir che sia la
memoria, secondo Giovanni di San Geminiano, quando, come dice
egli, è larga per capacità (in che nondimeno a me pare, che meglio
fia a non caricarla insieme77 di molti pensieri), lunga per lo spazio
del tempo, e sostenuta per lo studio da molti appoggi 78. E grande
aiuto le arreca, col testimonio di Aristotele, il buono ordine, come
s’è tocco, delle cose che l’uomo ha vaghezza di conservar nella me-
moria79. Et oltre a ciò la inclinazion del disiderio, lo addattamento
di diverse e maravigliose similitudini80, e finalmente una diligente

76
allogate: ‘collocate nei luoghi’. Cfr. L. DOLCE, Modi affigurati e voci scelte
et eleganti della volgar lingua, ed. cit., c. 88r: «Locare, allogare. Ambi d’un me-
desimo significato: che è collocare, e dar luogo. (...) Allogare è usato da’ Prosatori».
77
insieme: ‘nel medesimo istante’. Cfr. DANTE, Inferno, XIII, 43-44: «sì de
la scheggia rotta usciva insieme Parole e sangue; ond’io lasciai la cima».
78
JOHANNES DE SANCTO GEMINIANO, Summa de exemplis ac similitudinibus
rerum, liber sextus, cap. XLII, s.i.t., Venezia 1499, 245: «Sic memoria tunc est
bene disposita cum est rotunda et larga per capacitatem, et longa per
diuturnitatem, et diversis panniculis et diversis adminiculis fulta per
studiositatem». La Summa di fra Giovanni è tra i primi esempi dell’applicazione
della memoria artificiale, così come era stata teorizzata da Tommaso e Alberto,
alla predicazione riformata dai domenicani, espressione medievale dell’oratoria
classica; gli esempi e le «insolite similitudini» (si pensi alla materializzazione
della mente umana attraverso l’immagine del ventre femminile) costituiscono
infatti la rappresentazione fisica delle intenzioni semplici e spirituali citate di
Tommaso; «tuttavia [come sottolinea F.A. YATES, L’arte della memoria, ed. cit.,
79] la similitudine usata nel sermone non è, rigorosamente parlando, la
similitudine usata nella memoria artificiale: infatti l’immagine di memoria è
invisibile, e resta celata entro la memoria di chi ne fa uso, dove, peraltro, può
diventare la matrice nascosta di una serie di immagini esteriorizzate». Sull’au-
tore si veda A. DONDAINE, La vie et les œvres de Jean de S. Gimignano, in «Archivium
Fratrum Praedicatorum», II, 1939.
79
Cfr. ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscenza, 2, 452a: «in effetti,
come i fatti sono correlati tra loro secondo un certo ordine di successione, così
lo sono pure i movimenti mnemonici. Si richiamano facilmente alla memoria
quei fatti che hanno un certo ordine, come le dimostrazioni geometriche, dif-
ficilmente quelli che sono confusi». Cfr. anche TOMMASO D’AQUINO, Summa
Theologiae, II II, q. 49, a. unic.
80
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II II, q. 49, a. unic.: «Et
sunt quattuor per quae homo proficit in bene memorando. Quorum primum
est ut eorum quae vult memorari quasdam similitudines assumat convenientes,
nec tamen omnino consuetas».
DIALOGO DELLA MEMORIA 31

e spessa considerazione81. E questo si apprende dalla diffinizion


che egli fa della memoria, dicendo: la memoria è una posizion sot-
to ordine, et uno assiduo discorrimento che si conserva con la re-
miniscenza, cioè ricordazione. Il che si espone82 che’l contemplar
le specie, o diciamo forme, serbate nella fantasia, la memoria accre-
sce. Alla qual oppenion allude Cicerone, quando e’ dice la memo-
ria artificiale contiensi in luoghi et imagini83. Percioché quello che
dice Aristotele «posizion sotto ordine», ciò Cicerone intende per i
luoghi; e per le imagini che esso dice, Aristotele chiamò «assiduo
discorrimento»; la qual cosa non discorda, percioché questo
discorrimento altro non è che apprender le imagini nell’intelletto.
Là onde il Geminiano paragona la memoria al ventre della donna.
Ché, sì come nel ventre si genera la creatura humana, così nella
memoria (cioè nella specie o forma serbata nella memoria) si viene
a generar la parola della mente, che è quasi sua prole e parto84. Per

81
Cfr. ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscenza, 2, 452a: «Perciò
rammemoriamo subito le cose a cui pensiamo spesso: e infatti, come in natura
questo tien dietro invariabilmente a quest’altro, così ugualmente nell’agire umano
la ripetizione genera la natura».
82
Il che si espone: ‘ciò significa che...’
83
Cfr. CICERONE, De Oratore, II, 88, 359: «Rerum memoria propria est
oratoris; eam singulis personis bene positis notare possumus, ut sententias
imaginibus, ordinem locis comprehendamus»; ma il riferimento testuale esatto
è quello dello pseudo-Cicerone della Rhetorica ad C. Herennium, III, 16, 29:
«Constat igitur artificiosa memoria ex locis et imaginibus».
84
JOHANNES DE SANCTO GEMINIANO, Summa de exemplis ac similitudinibus
rerum, l. sextus, cap. XLII, ed. cit., 245: «Memoria assimilatur ventri. (...) Nam
venter mulieris vocatur uterus eo quod feto impleatur: sed sicut ex utero concipitur
fetus carnis ita ex memoria idest ex specie in memoria servata concipitur verbum
mentis quae est quasi quedam proles ipsius partus. Ex utero ante luciferum
genui te». Una differente sfumatura ha invece la metafora in Agostino dove col
ventre s’intende non il grembo ma lo stomaco, un ricettacolo delle immagini del
ricordo che riesce a trattenere i ricordi perché li ingerisce e li assimila, posseden-
doli integralmente: cfr. AGOSTINO, Confessiones, X, XIV: «Nimirum ergo memo-
ria quasi venter est animi, laetitia vero atque tristitia quasi cibus dulcis et amarus:
cum memoriae conmendantur, quasi traiecta in ventrem recondi illic possunt,
sapere non possunt» e SAN GIROLAMO, Commentarium in Ezechielem, I, 3, in
Patrologia cursus completus, series Latina, a cura di J.-P. Migne, Paris 1857-1866,
XXV, 35: «Quando vero assidua meditatione in memoriae thesauro librum
Domini considerimus, impletur spiritualiter venter noster, et saturantur viscera».
Sul significato della memoria all’interno della riflessione filosofica di Agostino
e sull’incontro nella sua ars memoriae di oratoria classica e pensiero cristiano si
vedano: W. SCHMIDT-DENGLER, Die «aula memoriae» in den Konfessionen des
heiligen Augustin, in «Revue des études Augustiniennes», XIV, 1968, 69-89; A.
SOLIGNAC, Il «memoria» dans la tradition augustiniennes, in Dictionnaire de
spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et histoire, ff. LXVI-LXVII, 994-1002; W.
32 LODOVICO DOLCE

la qual cosa chi vuol esser (per così dire) memorevole, bisogna che
tenga queste quattro chiavi d’aprir e serrar la memoria: cioè, che di
dentro sia netto delle cure che tirano a sé l’animo; ‹che sia› sobrio e
benigno; che disponga per ordine e numero le imagini; e quello
che apprende la mente, sia intento a discorrer e considerar molto
spesso85. Percioché, quando alla memoria artificiale si daranno questi
sovvenimenti, averrà (come dice lo scrittore ad Herennio86) che ciò
che l’huomo avrà appreso, reciterà in guisa come egli alhora lo
leggesse87.
FABR. Hora seguite de’ luoghi, delle imagini, e dell’ordine, che dite
esser così utili per fare acquisto della memoria.
HOR. Il bello artificio di questi luoghi, di queste imagini, e di que-
sto ordine, non tanto si approva per l’autorità de gli antichi, quan-
to per la lunga pratica che si suol far di giorno in giorno. Quando

HÜBNER, Die «praetoria memoriae» im zehnten Buch der «Confessiones» Vergilisches


bei Augustin, in «Revue des études Augustiniennes», XXVII, 1981, 245-263; B.
L EVON ZEKIYAN , L’interiorismo agostiniano. La struttura onto-psicologica
dell’interiorismo agostiniano e la “memoria sui”, Genova, Studi editoriale di cul-
tura 1981; D. DOUCET, L’«ars memoriae» dans le «Confessiones», in «Revue del
études Augustiniennes», XXXIII, 1987, 49-69; S. FERRETTI, Zur Ontologie der
Erinnerung in Augustinus’ Confessiones, in Mnemosyne. Formen und Funktionen
der kulturellen Erinnerung, ed. cit., 356-362.
85
Di questi quattro precetti mnemonici, solo gli ultimi due si ritrovano
nella Summa di Giovanni da San Gimignano e, insieme ad altrettanti, richia-
mano alla mente le quattro regole per la memoria suggerite da Tommaso nella
Summa Theologiae: «Sunt numer quattuor secundum philosophum quae iuvant
hominem ad bene memorandum. Primum est ut illa quorum bene vult recordari
aliquo ordine disponat. Secundum est ut circa ea affectum adhibeat. Tertius est
ut ea ad aliquos similitudines non omnino consuetas reducat. Quartum est ut
illa per frequentem meditationem repetat» (JOHANNES DE SANCTO GEMINIANO,
Summa de exemplis ac similitudinibus rerum, l. sextus, cap. XLII, ed. cit., 245).
86
Benché già nel 1491 Raffaele Regio avesse confutato la paternità
ciceroniana del primo trattato romano di retorica, Host continua ad attribuirlo
a Tullio, differentemente da quanto fa il Dolce dichiarandone l’anonimia. Cfr.
J. HOST, Congestorium artificiosae memoriae, I, VII, ed. cit., c. 11r: «teste Cice-
rone ad Herennium lib. III».
87
Rhetorica ad C. Herennium, III, 17, 30: «Nam locis cerae aut cartae
simillimi sunt, imagines litteris, dispositio et conlocatio imaginum scripturae,
pronuntiatio lectioni. Oportet igitur, si volumus multa meminisse, multos nobis
locos conparare, uti mutlis locis multas imagines conlocare possimus»; si veda
anche una delle fonti moderne di Host, il De omnibus ingenii augendae memoriae
(Bologna, 1491) di Giovanni Michele Alberto Carrara (Bergamo, 1439-1490),
che, ricordando il duplice paragone loci/cera e imagines/lettere del «Cicero ad
Herennium» afferma: «Sic enim fieri potest ut, que accepimus, quasi legentes
reddamus, neque multum intersit an a vertice an a calce incipiamus» (cfr. G.M.A.
CARRARA, De omnibus ingeniis augendae memoriae, cap. I, ed. cit., 114).
DIALOGO DELLA MEMORIA 33

si vede che, avendo noi poste ordinatamente e in diversi luoghi le


imagini delle cose delle quali ci vogliamo ricordare, ripigliandole
nella nostra fantasia, possiamo fermamente et agevolmente pro-
nunziar quello che elle significano con quell’ordine che ci piace; e
recitiamo prontissimamente quasi infinite cose che caggiono sotto
la collocazion delle nostre imagini, di maniera che da gli ascoltanti,
che questo artificio non sanno, ciò cosa stupenda e sopra humana
verrà giudicata.
FABR. Questo come si fa egli88?
HOR. Prima io andrò investigando la diffinizion di tutti i luoghi, il
partimento, il trovamento, il numero, la qualità e l’ordine; di poi
faremo di nostra mano la imagine, e quanto ricerca tutto l’ordi-
ne89. Quanto alla prima parte, questa voce «luoco» è considerata da
Aristotele in diversi luoghi diversamente. In fine par che si risolvi
nella quantità e nella qualità, et in ciò che contiene et è contenuto.
Ma lasciando questo da parte, apprendiamo da questo Filosofo,
luoco esser fermo termino di corpo che contiene 90. E secondo San
Thomaso, luoco è il medesimo (quanto all’essenza) che è la super-
ficie del corpo che alluoga91. E qui prende San Thomaso superficie

88
egli: forma arcaica con valore neutro pleonastico. Cfr. PETRARCA, Can-
zoniere, CCCLVIII, 8-9: «Dunque vien’, Morte: il tuo venir m’è caro. Et non
tardar, ch’egli è ben tempo omai».
89
quanto...ordine: tutto ciò che esigono la successione delle imagines
memoriae e la concatenazione delle res memorandae.
90
Cfr. ARISTOTELE, Fisica, IV, 212a: «Se, dunque il luogo non è nessuna di
queste tre cose, ossia né forma, né materia, né intervallo che sia sempre qualcosa
di diverso da quello della cosa che viene spostata, necessariamente il luogo è
l’ultima delle quattro cose, il limite, cioè, del corpo contenente (in quanto esso
è contiguo al contenuto). E chiamo ‘contenuto’ un corpo che possa esser mosso
mediante spostamento. Sembra, tuttavia, cosa ben importante e difficile la com-
prensione del concetto di luogo, per il fatto che esso ha tutta la parvenza della
materia e della forma ed anche per il fatto che il cambiamento locale dell’oggetto
spostato avviene in un contenente che è in quiete. (...) Dunque, il luogo è il primo
immobile limite del contenente. (...) E per questa ragione pare che il luogo sia una
superficie, e una sorta di vaso o un involucro. Oltre a ciò il luogo è insieme con
la cosa, perché il limite è insieme col limitato».
91
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, In octo libros physicorum Aristotelis expositio,
libro IV, lectio IV, 439, a cura di P. M. Maggiolo, Roma, Marietti 1965, 216:
«Si autem accipiatur vinum et amphora seorsum ab invicem, non sunt partes:
unde neutri competit esse in seipso. Sed cum sunt simul, utpote cum amphora
est plena vino, propter hoc quod et amphora et vinum sunt partes, idem erit in
seipso, ut expositum est, non primo, sed per partes: sicut album non primo est
in homine, sed per corpus, et in corpore per superficiem. In superficie autem
non est per aliquid aliud: unde primo dicitur esse in superficie».
34 LODOVICO DOLCE

nel significato che da Aristotele è preso per termino. Percioché ter-


mino è una concava superficie, essendo che ella è la interna e
parimente l’ultima del corpo che contiene; ché oltre a quella di
esso corpo non v’è altra interna. E di qui è detto «luogo», e secon-
do la stessa un corpo contien l’altro. Conciosia cosa che la superfi-
cie esteriore (cioè la parte di fuori: com’è della terra che tocca l’ac-
qua, e dell’acqua che tocca l’estrema parte dell’aere, e parimente
l’estrema dell’aere che tocca il fuoco e le altre così fatte cose) non è
luoco, perché il corpo non è in lei. Ma il luoco è, quando il corpo
v’è posto dentro, percioché esso non contiene, ma è contenuto da
un altro. Di qui resta luoco esser termino, overo una concava su-
perficie di corpo che un altro corpo contiene: come la superficie
della botte, che contiene il vino, è il luogo di esso vino.
FABR. Cotali diffinizioni sono molto sottili.
HOR. Con ugual modo o maniera, diciamo in questo nostro artificio
il luogo essere una superficie di alcuna cosa fatta dalla natura, dalle
arti, overo dall’opera di alcuno artefice, o formata dalla nostra
imaginazione92; percioché nella sola virtù del pensiero e imaginazion
nostra formiamo o similitudine, o imagine, o segno, che poi con
devuto ordine ci rappresenta le cose, delle quali vogliamo ricordarci,
a ogni nostro talento. E sì come il luoco al corpo, che è posto in
quello, è termino esteriore, perché lo allogato non è parte overo
accidente di esso termino, così parimente le specie o forme delle cose,
da loro col mezo della fantasia prese e da i luoghi, per via della
imaginazione solamente, ridotte nella nostra mente, possono di-
menticarsi et uscir di quella, rimanendo i luoghi93; in vece de’ quali,
altri poi vi si debbono riporre: a guisa pure di botte atta al vino che si
netta con l’acqua, e quella poi si sparge fuori per riporvi il buon
liquore. E con la medesima ragione che’l corpo collocato, pe’l nome
almeno di questa voce «esteriore», si dice essere «in luogo», diciamo
che le specie (cioè le imagini delle cose da ricordarci) si concedono
essere in luogo, almeno, come finti corpi che riempiono esso luogo94.

92
Cfr. Rhetorica ad C. Herennium, III, 16, 29: «Locos appellamus eos, qui
breviter, perfecte, insignite aut natura aut manu sunt absoluti, ut eos facile
naturali memoria comprehendere et amplecti queamus».
93
rimanendo: ‘anche se i luoghi si conservano, rimangono’.
94
La definizione aristotelica di luogo ritorna con minime differenze ma
altra applicazione in L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità
e proprietà dei colori, ed. cit., c. 7r: «Egli è vero che Aristotele, tenendo una strada
di mezo, stimò che ’l colore fosse termino di corpo, non di quella parte da cui
è contenuto esso corpo, che questo sarebbe superficie (come vogliono i
DIALOGO DELLA MEMORIA 35

FABR. Avendo assai a bastanza, come a me pare, diffinito quello che


è luogo, e con maggior dottrina di quello che per aventura è
convenevole, bene sia che tu venga alla divisione et alla quantità di
tai luoghi.
HOR. Questo io farò volentieri. Oltre alle parti della diffinizione che
pone Aristotele per l’esser materiale, cioè «superficie del corpo che
contiene», e per il formale, come stabile e primo, ragionevolmente
aggiunse questa voce «primo» a differenza del luoco comune.
Percioché comune luoco è quello che molte cose contiene, le quali
sono senza intramezo. Come, per cagion di esempio il concavo, o
diciamo la circonferenza del supremo cielo, o vogliamo dire dell’ul-
tima spera, è nel vero il luogo del fuoco, dell’aere, dell’acqua, e della
terra; ma ‹è› comune perché molte cose queste tramezano: come è il
cielo della Luna e delle altre spere. Ché nella guisa che l’acqua cinge
la terra, così l’aere l’acqua, il fuoco l’aere, e la spera della Luna il
fuoco. Parimente eziandio il cielo di Venere abbraccia la Luna, quel-
lo di Mercurio Venere, Mercurio è cinto dalla spera del Sole, e così
va seguitando; come dimostra la figura dell’universo. Ma proprio
luoco (che anco si chiama «particolare») è il termino del corpo che
contiene senza intramezo. In tal guisa noi riceviamo hora per luochi
propri, overo particolari, quelli ne’ quali immediate la cosa imaginata
scriviamo. Come sono le mura, o le pareti, le fenestre, e le colonne,
o altre parti delle nostre camere; stuffe, tinelli, e così fatti luoghi95;
overo arbori, sassi et animali: come Leone, Capra, o altre specie di
animali prese nelle valli, ne’ fiumi, ne’ monti, negli horti, e parimente
ne’ luoghi da paschi; quando abbiamo a trattar di cose che cadono
sotto l’occhio. E dovendo trattar d’invisibili, formeremo altri luoghi
pur naturali, ma nel cielo: e in una parte porremo i cori de gli Ange-
li, in altra le sedie de’ beati, e quivi i Patriarchi, colà i Profeti, gli
Apostoli, i Martiri, i Confessori, le Vergini, gl’Innocenti, le Vedove
et i Maritati. In che ci imaginiamo le differenze delle porte, de’ muri,
e delle altre cose, che sappiamo appartenenti a ogni stato. Onde
questi luoghi si potranno chiamare imaginarii e finti, benché essi
siano in effetto, ma nondimeno da noi veduti, né conosciuti.
FABR. Hora meglio intendo, ché venite a’ particolari.

Pithagorici) ma della lucidezza, né però non terminata, che ciò sarebbe lume
(come piacque a Platone). Colore è adunque termino et estremità di lucido e
terminato corpo».
95
Cfr. Rhetorica ad C. Herennium, III, 16, 29: «ut aedes, intercolumnium,
angolum, fornicem et alia, quae his similia sunt».
36 LODOVICO DOLCE

HOR. Parimente è da fare intorno al Paradiso, ponendovi i quattro


fiumi de’ quali fanno menzione le sacre lettere96, et altresì ogni
qualità di arboro fruttuoso: come il pomo, il pesco, la noce, e gli
altri. Così altrove il grano, l’orzo, la spelta, e somiglianti. Le viti, e
l’herbe di diverse sorti, fiori, viole, e gigli. E con questo vario
distinguimento di cose vedute e non vedute, che siano in effetto o
imaginarie, ciascuno si potrà formare de i luoghi; come più inanzi
tu vedrai più chiaramente. Onde potremo imaginarci lo Inferno, e
le habitazioni di là giù, distinguendolo nel Limbo de gli antichi
Padri, nel ricetto de’ fanciulli che muoiono senza battesimo, e ag-
giungendovi il Purgatorio, nel quale, come nell’Inferno, ordinere-
mo diverse magioni97. E sebben vi saranno luoghi comuni, si fa-
ranno essi propri e particolari con seggi di particolari iscrizioni. In
che ci gioverà assai l’ingeniosa inventiva di Virgilio e di Dante98.

96
Sono il Pison, il Ghicon, il Tigri e l’Eufrate, secondo a quanto viene
affermato in Genesi, 2,10-14.
97
Cfr. BONCOMPAGNO DA SIGNA, Rhetorica Novissima, ed. cit., 278: «Ma
noi, senza dubitare, crediamo nella fede cattolica, e dobbiamo senza posa ricor-
dare le invisibili gioie del Paradiso e gli eterni tormenti dell’Inferno». I consigli
mnemonici contenuti nell’opera di Boncompagno (Bologna, 1235), valido
esempio delle tendenze mistiche dell’ars dictaminis bolognese, prefigurano la
connotazione scolastica dell’ars memoriae come pratica devozionale e attività
virtuosa (a testimonianza degli avvenuti contatti, in terra bolognese, tra la
scuola di dictamen e la Casa domenicana).
98
Il riferimento all’oltremondo dantesco come inventario di loci immagi-
nari è una novità dolciana che va ad integrare l’inferno virgiliano già ricordato
da Host; «l’ingegnosa inventiva» di Dante, essenzialmente basata sulla legge,
mnemonica, del contrappasso (legge di associazione che collega colpe terrene e
pene infernali attraverso princìpi di somiglianza o contrarietà), è ricuperata dal
Dolce come exemplum classico per la costruzione di un sistema di luoghi di
memoria. L’accostamento dell’Inferno dantesco a quello di Virgilio ritorna come
integrazione anche in un’altra riscrittura dolciana, il Dialogo dei colori: nel Libellus
de coloribus (Venezia, Bernardino Vitali 1528) di Antonio Telesio, una delle due
fonti del Dolce insieme al Del significato de’ colori e de’ mazzoli (Venezia 1535)
di Fulvio Pellegrino Morato, l’esempio scelto per visualizzare il color cesio sono
gli occhi dell’infernale Caronte così come li aveva descritti Virgilio nel viaggio
oltremondano di Enea; così glossa invece Dolce in uno dei pochissimi momenti
che lo vedono prendere le distanze dall’originale latino: «E da questo fatto horrore
stimo, che prendesse il nome Cariddi, e Caronte. Di cui dicendo Virgilio, che
egli aveva occhi di fiamma, volle dinotar che quel vecchio, i cui occhi erano di
color Cesio, era horribile e crudele. Il che imitando Dante disse: Caron dimonio
con occhi di bragia / Loro accennando tutti li raccoglie, / Batte col remo qualunque
s’adagia. Il che espresse mirabilmente anco Michel’Agnolo nel Caronte, ch’egli
dipinse nel giudicio» (L. DOLCE, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diver-
sità e proprietà dei colori, ed. cit., c. 11r). Oltre che per l’aggiornamento testuale,
effettuato col richiamo alla descrizione di Dante, il passo dolciano è interessante
DIALOGO DELLA MEMORIA 37

FABR. Cioè in distinguere le pene, secondo la qualità de’ peccati.


HOR. Così è a punto. E da ciò che insino a qui detto abbiamo, si
comprende alcuni luoghi esser comuni, alcuni propri; e gli uni e
gli altri venir dalla natura, o dall’arte, overo esser finti dal nostro
pensiero; essendo che noi a guisa di quelli che in effetto sono, for-
miamo luoghi non veduti, né mai uditi: come quelli che giamai
non furono, né hoggi in alcuna parte sono, né in veruna giamai
saranno oltre la nostra imaginazione. E che ciò sia agevole a potersi
fare, lo ci dimostra la industria de gli Artefici, i quali alla sola voce
di cui99 ordina fanno politi e stupendi edifici, de’ quali mai alcun
simile non videro. Oltre a ciò cotal cosa si conferma esser di gran
lunga facile per lo esempio di altri: come Sibuto100, col testimonio
delle Scritture101 e parimente anco con moltissimi esempi, questa
facilità ci fa toccar con mano.
FABR. Io questo Sibuto non ho giamai non pur letto, ma né pure
udito raccordare.

per il cenno finale alla rappresentazione michelangiolesca della scena dantesca


nella Cappella Sistina: l’autore crea così un sottile filo di memoria tra la notazio-
ne di gusto pre-enciclopedico riguardante il colore, le testimonianze letterarie ad
essa accostabili e la sua rappresentazione reale sotto forma di prodotto d’arte.
99
cui: forma arcaica di ‘chi’. Cfr. BOCCACCIO, Decameron, II, 8, 55: «Ma
poi che in ciò discreta vi veggio, non solamente quello, di che dite vi siete
accorta, non negherò esser vero, ma ancóra di cui vi farò manifesto»; e PETRARCA,
Triumphus Eternitatis, 8-9: «E veggio andar, anzi volare, il tempo, E doler mi
vorrei, né so di cui».
100
Georgius Sibutus pubblicò a Colonia nel 1505 una Ars Memorativa
concionatoribus et iusperitis multum utilis et fructuosa. Sue notizie ci vengono
fornite da L. VOLKMANN, Ars memorativa, ed. cit., 160: «Ein Schüler von Celtes
war Georg Sibutus, Professor der Rhetorik in Köln, später in Wittenberg,
gleichzeitig Rechner, Dichter und Arzt. Seine ARS MEMORATIVA, die 1505 und
1506 bei Quentel in Köln erschien, umfaβt nur 7 Seiten und ist ziemlich schwer
verständlich, mit zahlreichen Vergil- und Ovidzitaten durchsetzt. Er benutzt
auch di Verse vom Anfang der Aeneis “Arma virumque cano”, um sich bei jedem
Buchstaben eine Person vorzustellen, deren Name mit diesem Buchstaben anfängt;
eine gelehrte Künstelei, die immer weiter von der Anschauung wegführte».
101
Enumerando, all’inizio della sua opera, le regole per la formazione dei
luoghi ed esaltandone la funzionalità per la ritenzione mnemonica, Sibutus
ricorre subito a un esempio biblico (Isaia, 39), secondo una prassi che si ripeterà
spesso nel corso del breve trattato; cfr. GEORG SIBUTUS, Ars Memorativa, Quentel,
Köln 1505, c. 2v: «Etiam filius Balan Merodach rex Babyloniae maxima indu-
stria excogitavit; mittens libros et munera ad Ezechiam non Isaie videbat; sed
ut visis aut cognitis locis domus suae et quae posita illic fuerunt vi quadam
arriperet». Meglio delle parole di Sibutus, l’originale biblico mostra come la
minuziosa descrizione del suo palazzo, effettuata da Ezechia agli inviati del re
babilonese, ne faciliterà il futuro saccheggio.
38 LODOVICO DOLCE

HOR. Ciò poco importa. Ora, la necessità ci costringe le più volte a


valerci di luoghi imaginari, e ciò aviene quando, ricercando in ciò
la natura, ella non ci serve. Ma usar solamente questi è nel vero
pericoloso. Onde io consiglio che o solo si adoprino quegli che
sono effettualmente (per usar questa voce nuova), o astringendoci
la necessità, mescolandogli insieme con gl’imaginari; come seguen-
do, più chiaramente vedrai.
FABR. Questo ragionamento già comincia a dilettarmi.
HOR. Le cose vere, che stanno ne i loro termini fuor de la nostra
imaginazione, sono, come poco dianzi dicemmo, rupi, monti, col-
li, fiumi, prati, selve; e cose simili con le loro parti. Le imaginarie e
invisibili sono il Cielo, il Paradiso, l’Inferno, e’l Purgatorio. Quelle
che hanno luogo dall’arte sono le case, i palazzi, le chiese, i mona-
steri, e cose tali. E partendole in particolari luoghi e comuni, questi
luoghi saranno di tre qualità: grandissimi, maggiori, e grandi; che
da altri sono detti necessari, commodi, et artificiosi; ma comunque
si chiamino, non abbiamo a quistionar de’ nomi. Le pareti, le
fenestre, le colonne, e le altre cose così fatte, in cui dicemmo che si
ha da fare la iscrizione, noi chiamiamo grandi. Ma non perciò mi
piace che si commetta alcuna cosa a gli angoli, affine che la strettez-
za delle collocate imagini, e l’oscurezza che ve ne nasce, non impe-
disca l’ordine. Onde è da stimare isciocca e vana la openion di colo-
ro che in qual si voglia maggior luoco vi comprendono cinque cose:
cioè quattro angoli, o pareti, e la porta, o centro della camera; es-
sendo che né l’arte né la natura ci amministra alcuna cosa in tal
guisa. Ora le cose che vi si contengono (come le camere delle case,
le sale, i cenatoi, e i ricetti da dormire, e le altre parti), nelle quali si
pongono i luoghi particolari, da alcuni si sogliono dir luoghi mag-
giori, che da altri sono detti commodi. I grandissimi e comunissimi
sono le città, i castelli, et in questi i monasteri, le chiese, le capelle,
le badie, et i collegi. Similmente i theatri, le fortezze, le case, e se
altro vi si truova. E così fatti chiamano luoghi necessari. Il che non
mi par detto acconciamente, percioché anco i particolari, ne’ quali
si fanno le iscrizioni, sono necessari, e parimente quelli che sono
detti commodi. E per far lo allogamento delle imagini, è mistiero di
proprio e diterminato luoco, il quale immediate ricevi102 esse imagini.

102
ricevi: ‘accolga’. Anomala uscita della terza persona singolare del con-
giuntivo presente ricordata anche dal Bembo con il ricorso a esempi illustri
(Petrarca, Canzoniere, CXXV, 80; Boccaccio, Decameron, II, 10, 24). Cfr. P.
BEMBO, Prose della volgar lingua, III, XLV, ed. cit., 256-257.
DIALOGO DELLA MEMORIA 39

FABR. Di ciò mi par detto a bastanza. Hora aspetto che mi ragioni


del numero de’ luochi, e come si debbono formare.
HOR. Perché convien che formiamo i luoghi imaginari secondo
che conosciamo i veri, questa contezza è da apprendere dalla quan-
tità, dalla qualità, dall’ordine, e dalle altre guise de gli accidenti, i
quali molto vagliono per conoscere qualunque cosa. Onde essen-
do che tutto quello che andiamo in ciò speculando è indirizzato
all’opera et all’utile, bisogna che i luoghi compartiti, studiosa-
mente quanto si puote il più, facciamo, per quanto appartiene
alla sostanza loro, con mental (dirò così) incorporazion di nume-
ro e di ordine103. Quanto al termino della quantità, gli abbiamo
diviso in grandi, in maggiori, e grandissimi. Della proporzion de’
luoghi propri con le imagini, che dentro vi si hanno a porre, se-
guirò poco più inanzi. D’intorno al numero, non altrimenti di
quello che hanno fatto gli altri moderni, che in ciò hanno buona
openione, non solo è mio parere che se ne abbiano a ordinar
dugento, o cinquecento, o di altro certo diterminato numero, ma
che faccia mistiero di assaissimi; in guisa che, facendosi bisogno
ricordarci di molte cose, abbiamo a porre in molti luoghi molte
imagini: come fanno gli scrittori che, avendo a fare una lunga
scrittura, prendono un maggior foglio di carta o, quando un fo-
glio non basti, vi aggiungono molti fogli. E chi molto legge, è
mistiero che volga diversi volumi104. Ecco lo esempio di Seneca. Il
quale non avrebbe potuto recitar due mila versi (sì come egli scri-
ve di se stesso, e di Porzio Latrone nel proemio delle Declamazio-

103
La matrice retorica dell’ars è qui evidente; cfr. Rhetorica ad C. Herennium,
II, 30, 47: «Enumeratio est per quam colligimus et commonemus quibus de
rebus verba fecerimus, breviter, ut renovetur, non redintegretur oratio; et ordine
ut quicquid erit dictum referemus, ut auditor, si memoriae mandaverit, ad idem
quod ipse meminerit reducatur».
104
LODOVICO DA PIRANO, Regule memorie artificialis, in B. ZILIOTTO, Frate
Lodovico da Pirano e le sue «regulae memoriae artificialis», in «Atti e memorie della
società istriana di archeologia e storia patria», XLIX, 1937, 217: «Nunc autem
de locis incipiemus tractare et primo de prima regula, videlicet Locorum
multitudine. Per hanc regulam multitudinis locorum habemus notare quod, si
volumus recordari multarum rerum, oportet multa loca preparare, ut exempli
gratia qui scribere volunt magna volumina et varia ac diversa, multum de carta
preparant; similiter fiat de locis». Come rileva lo Ziliotto nell’introduzione, le
Regule non sembrano costituire un un vero e proprio trattato quanto piuttosto
una serie ordinata di appunti sviluppabile per l’insegnamento orale e forse real-
mente sviluppata dal religioso durante il suo magistero filosofico-teologico svol-
to presso l’Università di Padova nel periodo 1422-1426 o nel successivo 1432-1433.
40 LODOVICO DOLCE

ni105) se egli non fosse stato aiutato dalla moltitudine de i luoghi.


E di qui il beato Tomaso di Aquino ci conforta ad aver molti
luoghi106. Il quale fu seguito da alcuni belli intelletti, che furono
dopo lui et a questi tempi: come dal Petrarca107, da Pietro

105
Cfr. SENECA IL VECCHIO, Controversiarum libri, I, prefazione, 2: «Hanc
[memoriam] aliquando adeo in me floruisse, ut non tantum ad usum sufficeret
sed in miraculum usque procederet, non nego; nam et duo milia nominum
recitata quo erant ordine dicta reddebam et ab his, qui ad audiendum
praeceptorem mecum convenerant, singulos versus a singulis datos, cum plures
quam ducenti efficerentur, ab ultimo incipiens usque ad primum recitabam.
Nec ad complectenda tantum quae vellem velox mihi erat memoria, sed etiam
ad continenda quae acceperat solebat bonae fidei esse. Nunc et aetate quassata
et longa desidia, quae iuvenilem quoque animum dissolvit, eo perducta est, ut,
etiamsi potest aliquid praestare, non possit promittere: diu ab illa nihil repetivi».
106
Nell’articolo della Summa dedicato alla memoria come parte della
prudenza non vi è un reale invito all’uso di molti luoghi. L’unico accenno ai loci
memoriae è un richiamo all’Aristotele del Della memoria e della reminiscenza [2,
452a]: «Secundo, oportet ut homo ea quae memoriter vult tenere sua
consideratione ordinate disponat, ut ex memorato facile ad aliud procedatur.
Unde Philosophus dicit...» (Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II II,
q. 49, a. unic.).
107
Oltre alla suggestiva struttura dei Rerum memorandarum libri (cfr. F.A.
YATES, L’arte della memoria, ed. cit., 95: «Suppongo che questi riferimenti alla
memoria artificiale, in un opera in cui le parti della prudenza e altre virtù sono
le “cose da ricordare”, sarebbero sufficienti a classificare Petrarca come apparte-
nente alla tradizione sulla memoria, e a classificare i Rerum memorandarum libri
come un trattato etico destinato per la memorizzazione, non meno degli
Ammaestramenti degli antichi») e ai già citati precetti mnemonici del De remediis
utriusque fortunae, è un passo del Secretum a confermare la non estraneità del
poeta alle pratiche della memoria artificiale, e a creare un singolare e momenta-
neo legame tra le confessioni petrarchesche e il Dialogo del Dolce: «F. Imo vero
inter legendo plurimum; libro autem e manibus elapso assensio simul omnis
intercidit. (...) A. Quotiens legenti salutares se se offerunt sententiae, quibus vel
excitari sentis animum vel frenari, noli viribus ingenii fidere, sed illas in memorie
penetralibus absconde multoque studio tibi familiares effice» e poco dopo Agostino
ribadisce: «quod cum intenta tibi ex lectione contigerit, imprime sententiis utilibus
(ut incipiens dixerim) certas notas, quibus velut uncis memoria volentes abire
contineas» (PETRARCA, Secretum, II, 122 e 126, corsivi miei). I brevi brani citati
non sono però gli unici riscontri testuali che danno fondamento alla lunga e
duratura fama di assiduo frequentatore e indiscutibile auctoritas delle pratiche
mnemoniche che Petrarca godette soprattutto nel Cinquecento (Host, Friesen,
Garzoni, Gesualdo…) e che lasciò traccia addirittura nella Encyclopédie di Di-
derot (cfr. P. ROSSI, Clavis universalis, ed. cit., 307-309); altri passi, che popolano
in numero consistente gli scritti petrarcheschi, presentano infatti legami tanto
con la mnemotecnica quanto con una, più ampia, cultura della memoria; talora
si sono rilevate esemplari applicazioni dei meccanismi mnemonici (come la
costruzione di imagines agentes, singole o strutturate in percorsi narrativi) e tracce
non trascurabili della persistenza nel linguaggio petrarchesco di un vero e pro-
prio lessico tecnico della memoria.
DIALOGO DELLA MEMORIA 41

da Ravenna 108, da Giovanni [di] Michele 109, da Matheolo

108
Cfr. PIETRO TOMAI DA RAVENNA, Phoenix seu Artificiosa Memoria,
Bernardinus de Choris de Cremona impressor, Venezia 1491, c. 6r: «et siquis
locorum copiam habere cupiat (...) Ego autem omnes homines Italiae copia
rerum absque chartarum revolutione superare volui in sacris scripturis iure
canonico civilique; et aliis multarum rerum auctoritatibus dum essem adolescens
mihi centummilia locorum paravi et nunc ipsis decemmilia addidi in quibus per
me dicenda posui ut in promptu sint quando memoriae vires experiri cupio».
Il trattato di Pietro da Ravenna è stato uno dei più letti (tradotto in inglese e
ristampato nelle principali città tedesche) e citati fra quelli quattrocenteschi
della memoria. In esso l’autore, aggirando la funzionalità pedagogico-devozionale
della medievale fabbrica delle imagini, ricupera la lezione retorica ciceroniana
e quintilianea per realizzare un’arte della memoria laica, una mnemotecnica
volta eminentemente a scopi pratici e utilizzabile per chiunque; la memoria
tomistica, con la sua attenzione per le imagines agentes come strumento per
giungere agli invisibilia, fa ancora sentire i suoi influssi, seppur liberi dal manto
spirituale: Pietro si concentra sull’efficacia delle immagini nel catturare l’atten-
zione (anche attraverso un’eccitazione dei sensi) e nell’assicurare la conservazio-
ne del loro contenuto. Notizie sulla vita di questo maestro dell’ars reminiscendi
ci vengono offerte dal Ti