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Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales

TEXTES ET ÉTUDES DU MOYEN AGE, 30

CORPO E ANIMA, SENSI INTERNI E


INTELLETTO DAI SECOLI XIII-XIV AI
POST-CARTESIANI E SPINOZIANI

A cura di GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI,


VALERIA SORGE e CARLO VINTI
Introduzione di GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

F
2005
FÉDÉRATION INTERNATIONALE DES INSTITUTS
D’ÉTUDES MÉDIÉVALES

Présidents honoraires :
L.E. BOYLE (†) (Biblioteca Apostolica Vaticana e Commissio
Leonina, 1987-1999)
L. HOLTZ (Institut de Recherche et d’Histoire des Textes, Paris,
1999-2003)

Président :
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Vice-Président :
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Medieval)
O.PECERE, (Università degli Studi di Cassino)
N. VAN DEUSEN (Claremont College, CA / Medieval Academy of
America)

Secrétaire :
J. MEIRINHOS (Universidade do Porto)

Trésorier :
O. WEIJERS (Constantijn Huygens Instituut, Den Haag)
Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales
TEXTES ET ÉTUDES DU MOYEN AGE, 30

CORPO E ANIMA, SENSI INTERNI E


INTELLETTO DAI SECOLI XIII-XIV AI
POST-CARTESIANI E SPINOZIANI
A cura di GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI,
VALERIA SORGE e CARLO VINTI
Introduzione di GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

Atti del Convegno Internazionale, Firenze, Dipartimento di


Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, 18-20
settembre 2003, a cura di GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI con la
collaborazione di VALERIA SORGE (Dipartimento di Filosofia,
Università di Napoli « Federico II ») e CARLO VINTI (Dipartimento di
Scienze Filosofiche, Università di Perugia)

Il presente volume è pubblicato con i fondi per la ricerca scientifica 40% del
MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) come esito del Programma
Cofin 2001/2003 tra l’Università di Firenze, l’Università di Napoli « Federico II » e
l’Università di Perugia

F
2005
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photocopying, recording or otherwhise, without the prior permission of the publisher.

Copyright © 2005, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium

D/2005/0095/119
ISBN 2-503-51988-1

Printed in the E.U. on acid-free paper


INDICE

GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI, Introduzione 1


L UCIO P EPE , Le funzioni dell’intelletto ed il corpo nelle 13
Parafrasi del De anima di Temistio
G IULIO D ’O NOFRIO , Le fatiche di Eva. Il senso interno tra 21
aisthesis e dianoia secondo Giovanni Scoto Eriugena
JUDITH W ILCOX, Qus†æ ibn Lºqæ’s On Difference between 55
the Spirit and the Soul in Medieval Considerations of
the Internal senses
G RAZIELLA F EDERICI V E S C O V I N I , Alhazen, lo spazio 79
percettivo del De aspectibus e l’immaginativa
M ARWAN R A S H E D , Imagination astrale et physique 103
supralunaire selon Avicenne
MICHAEL MCVAUGH, Arnau de Vilanova and the Pathology 119
of Cognition
P IETER DE LEEMANS, Internal Senses, Intellect and 139
Movement. Peter of Auvergne (?) on Aristotle’s De
Motu Animalium
CHRISTIAN TROTTMANN, «Comedit, deditque viro suo». La 161
syndérèse entre sensualité et intellect dans la théologie
morale au tournant du second quart du XIIIe siècle
FRANCESCO PIRO, Sensi interni ed eziologia degli affetti. A 189
proposito di due quaestiones sul dolore di Enrico di
Gand
VALERIA S ORGE , Taddeo da Parma e la dottrina del senso 211
agente
JOËL BIARD, Le sens actif selon Jean Buridan 227
ORSOLA RIGNANI, Biagio Pelacani e il senso agente 247
MARTIN THURNER, Il senso come autorappresentazione della 267
mente: gli aenigmata di Cusano
VI

CARLO PEDRETTI, Leonardo e i sensi interni 291


R OBERTO PERINI, Problemi logici della relazione mens- 313
corpus in Descartes
F RANCESCA B ONICALZI , Descartes: pensieri del corpo o 335
sensazioni della mente?
G IULIA B ELGIOIOSO e F RANCO A. MESCHINI, Descartes. 361
Filosofare come meditare
CRISTINA SANTINELLI, La certezza dell’anima, l’evidenza del 393
corpo. Sul pensiero di N. Malebranche
A NTONIO ALLEGRA, «In continuall flux and motion». 437
Mente, materia e identità nell’empirismo classico
C ARLO V INTI , Idea corporis, Spinoza e il m i n d - b o d y 457
problem
PIERO DI VONA, Polemiche spinoziane 477
ANTONIO PIERETTI, Vico, il senso, «luogo» della filosofia 489
GIOVANNI MARI, Sensi interni, identità personale e «stessa 505
coscienza» in John Locke
F ABRIZIO DESIDERI, Senso interno e senso esterno nella 521
critica kantiana dell’idealismo cartesiano

Appendice: Presentazione del volume Ratio et superstitio. 539


Essays in Honor of Graziella Federici Vescovini
HENRI HUGONNARD ROCHE 541
CARLO PEDRETTI 553
COLETTE SIRAT 557
Indice degli autori antichi e medievali 561
Indice degli autori moderni 565
Indice dei manoscritti 575
GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

INTRODUZIONE

Nel passato come ancor più ora, data la raffinatezza delle indagini
moderne, le ricerche sugli stati mentali, su cosa sia la mente o
l’intelletto, sono sempre stati al centro degli interessi dei filosofi, dei
medici, degli scienziati e dei teologi. Ci si interroga su come definire la
coscienza, la persona individua in relazione al corpo e alle attività
vitali, come il cuore e il cervello, quale sia il principio della sensazione.
Allora come ora, da Platone ad Aristotele, ai filosofi stoici, da
Agostino e gli Scolastici medievali al grande Cartesio, su su fino ai
tempi nostri, le risposte di che cosa sia la razionalità, cosa sia la co-
scienza e il legame con la corporeità, sono state ben lungi dall’essere
esaurienti o unanimi : scuole di pensiero e di indirizzo, spesso discor-
danti tra di loro, fra monisti e dualisti, spiritualisti o materialisti, si sono
sempre confrontate tra di loro. Le problematiche sull’intelletto, la
volontà, la sensibilità, con gli esiti riduzionisti dell’anima all’intelletto
(l’intellettualismo della filosofia antica) sia di questo all’anima nel
panpsichismo delle filosofie neoplatoniche del Rinascimento, hanno
sempre riguardato il modo con cui l’uomo si confronta da un lato con il
mondo esterno e, dall’altro, con la sua interiorità e la trascendenza. In
che rapporto sta nella psiche la sensibilità con l’intelletto ? La materia
con lo spirito, il corpo con l’anima ? Questo tema posto da Platone e
risolto con il suo rifiuto del mondo delle apparenze (i sensi) e l’affer-
mazione delle idee trascendenti, si ripropose con Aristotele in modi
controversi e differenti lungo i secoli successivi a seconda delle diverse
interpretazioni. In particolare quelle che insisteranno sulla rilevanza
delle dottrine contenute nel De anima, porteranno a esiti diversi da
quelle che si soffermavano sulle concezioni dei Parva naturalia e del
De animalibus ; quell’essere animale a cui appartiene anche l’uomo,
anche se come animale rationale. Secondo questa seconda tendenza, le
funzioni intellettive saranno materiali e, allora, l’intelletto sarà mate-
riale e coinciderà con tutte le operazioni e funzioni dell’anima anche le
superiori come quelle razionali. Oppure esso sarà una forma separata
dal corpo ? Come poi intendere la percezione rispetto alla sensazione ?
Essa è una rappresentazione immediata, oppure mediata da una consa-
2 GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

pevolezza o coscienza ? È passiva oppure attiva, e come ? È l'appetitus


una facoltà interna e inclina più dal lato della volontà o dell’intelletto ?
Le numerose ricerche storiografiche di questi ultimi anni stanno
rivedendo criticamente queste problematiche, di cui la natura dei sensi
interni (il senso comune, la fantasia e l’immaginazione) costituisce il
centro. Sta emergendo infatti come già nel De anima di Aristotele, sia
esistita una accentuata fluttuazione semantica, su cui si esercitarono
tutti i commentatori successivi (cf. qui lo studio di Lucio Pepe), dagli
alessandrini agli arabi, ai latini. Rimaste oscure erano le relazioni tra la
percezione dei sensibili comuni, l’appercezione, la discriminazione
percettiva, temi su cui si esercitarono a lungo quasi subito i filosofi
stoici. La Koiné aisthesis (senso comune) coincide o è diversa dalla
Koiné dynamis dei Parva naturalia ?
I contributi di questo Convegno tenutosi a Firenze dal 18 al
20 settembre 2003 presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione
della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di
Firenze, organizzato da Graziella Vescovini Federici, in collaborazione
con il Dipartimento di Scienze filosofiche di Perugia diretto da Carlo
Vinti e del Dipartimento di filosofia dell’Università di Napoli « Fede-
rico II », proprio sul tema Corpo e anima, sensi interni ed intelletto dai
secoli XIII-XIV ai post-cartesiani e spinoziani, si collocano in questo
orizzonte di ricerca. Pur avendo come fulcro centrale i secoli che vanno
dal XIV al XVII, essi sono preceduti da alcune ricerche che sono
apparse illuminanti, sulle premesse di queste problematiche (si vedano
gli studi di Lucio Pepe, Giulio D’Onofrio, Judith Wilcox e altri), e sono
concluse da quelle su alcuni esiti finali (si veda lo studio di Pieretti su
Vico e di Fabrizio Desideri su Kant). Essi hanno tentato di rintracciare
alcuni percorsi storici in cui sono emerse dottrine e interpretazioni, che
hanno individuato alcuni modelli alternativi anche di grande rilievo che
hanno influito poi nella storia della filosofia occidentale indicando così
le possibili diramazioni e gli sviluppi, anche a ritroso, di una problema-
tica che riguarda un tema centrale dell’antropologia filosofica. Infatti
crediamo che gli sviluppi delle idee siano meno lineari o progressivi di
quanto ritiene una certa storiografia filosofica e certo non avvengono
per brusche rivoluzioni epocali. La relazione anima-corpo, a partire da
Platone e da Aristotele, fu ampiamente rielaborata dai filosofi stoici e
dai medici della scuola di Alessandria, dai neoplatonici e dalla filosofia
cristiana di Agostino e fu in generale riformulata come spiegazione del
rapporto tra intelletto e senso. Questo problema, come accennavo, a
INTRODUZIONE 3

seconda che gli esegeti sviluppino la dottrina dei Parva naturalia di


Aristotele, come ha messo in luce in questa raccolta lo studio di Pieter
de Leemans, configura diversamente l’importanza delle sensazioni
interne rispetto alla psicologia del De anima ; si costituisce pertanto
una gerarchia tra sensi esterni e quelli interni, dove la tassonomia
tradizionale di Aristotele (fantasia – senso comune – immaginazione,
comunemente ritenute potenze passive), si arricchisce di una conce-
zione attiva della immaginativa intesa come cogitativa e valutativa o
estimativa, facoltà queste introdotte nella gerarchia delle facoltà
sensibili interne, con una grande autorità da Avicenna e da Alhazen (si
veda qui lo studio di Graziella Federici Vescovini, Alhazen, lo spazio
percettivo e l’immaginativa e quello di Marwan Rashed). Queste
interpretazioni condurranno attraverso complesse mediazioni alle
controversie dei secoli successivi, soprattutto, in epoca moderna, alle
discussioni se anche gli animali ragionino oppure no.
Da queste ricerche emerge come le interpretazioni che si sono
avute lungo i secoli dei tre sensi interni, per così dire superiori, come la
immaginativa-valutativa o cogitativa-estimativa, introdotte come una
vera e propria novità dai filosofi e scienziati arabi (la memoria era già
stata studiata da Aristotele), sono state molto articolate, e questi studi
ne sottolineano le differenze semantiche che sono state anche di grande
rilievo. Se da un lato, la phantasia è fatta coincidere con il senso comu-
ne e l’immaginazione, venendo così a riassumere tutte le sensazioni
interne, e questo sarà il modello aristotelico che prevarrà soprattutto
nella tradizione aristotelica rinascimentale, dall’altro canto la fantasia o
senso comune, pur conservando il suo carattere eminentemente visivo
(da phos, luce e visione) viene a differenziarsi secondo una interpre-
tazione differente, dalla imaginatio o immaginativa, intesa come
cogitatio, o ragionamento estimativo e valutativo, secondo modalità
gnoseologiche e psicologiche variabili da un filosofo all’altro e spesso
invertite. Alcune volte questa immaginativa-cogitativa è ritenuta crea-
trice e produttiva di immagini visive razionalmente e matematicamente
costruite come piramidi visive (per esempio nelle gnoseologie di
Alhazen e di Biagio da Parma) (si veda qui lo studio di Orsola
Rignani), oppure nella prospettiva del Libro di Pittura di Leonardo (si
veda lo studio di Carlo Pedretti). Esse contribuirono alla elaborazione
dei principi della perspectiva artificialis o pingendi. Altre volte
l’immaginazione è meramente imitatrice e riproduttiva di immagini
false, perché derivate dai sensi ingannevoli.
4 GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

Le diverse valutazioni delle funzioni dei sensi interni vengono


dunque a influire sulle noetiche, sulla teoria della conoscenza come
adaequatio intellectus, come astrazione, oppure come imitazione o
ancora come percezione sensibile. Questa concezione della imma-
ginazione trasformata in valutazione e cogitazione, la presenta quindi
come una vera e propria facoltà conoscitiva intermedia tra senso e
intelletto, materia e spirito. Questa interpretazione ha per fine,
soprattutto nei maestri di ispirazione neoplatonica, una mediazione tra
le due sfere ritenute eterogenee, spirito e materia, anima e corpo.
Questa esigenza è messa in luce nello studio di Judith Wilcox a
proposito del De differentia spiritus et animæ del medico cristiano di
lingua araba Costa ben Luqua, appartenente alla scuola di Alessandria,
vissuto nel IX secolo. Questa opera di Costa ben Luqua pare che abbia
costituito la base del primo testo di insegnamento di psicologia nella
Facoltà delle Arti dell’Università d’Europa, prima della sua
sostituzione con il De anima di Aristotele, insieme all’altra opera dallo
stesso titolo, ma che risulta essere una compilazione anonima. La
conoscenza di questi testi mise in circolazione l’idea di una mediazione
tra anima e corpo, mediante il concetto galenico di pneuma o spirito.
Come emerge dallo studio di Judith Wilcox, nel De differentia spiritus
et animae di Costa ben Luqua, si cerca di conciliare la dottrina di
Platone dell’anima con quella di Aristotele, introducendo tutta una
problematica di mediazione tra corpo e anima attraverso la nozione di
spirito, usando il modello galenico del cervello. Questa opera
contribuisce alla discussione della natura delle funzioni più alte o sensi
interni dell’anima, come la immaginativa e la memoria. Si delineò
pertanto un modello neoplatonico di mediazione tra corpo e anima,
centrato sulla nozione di spiritus secondo uno schema neoplatonico
gerarchico, che poi si ritroverà ampiamente sviluppato anche nella
filosofia di Marsilio Ficino, allorché questi sosterrà che le facoltà
dell’anima non sono tre, ma quattro e in Nicola Cusano (si veda qui lo
studio di Martin Thurner). Si viene pertanto a costituire l’idea di una
materia spirituale che è quella dei sensi interni. Questo tema del De
differentia spiritus et animae di Costa ben Luqua è analogo a quello
dell’anonimo testo De differentia spiritus et animae. In esso si rivelano
influenze cristiano-agostiniane, dottrine mediche antiche e arabe con la
probabile influenza di Costa ben Luqua nel terzo libro. L’anima risulta
così correlata non solo all’intelletto, ma anche allo spiritus o pneuma,
secondo una interpretazione che risale agli stoici, a Galeno e in parte ad
Agostino. La rilevanza di questa opera appare notevole, perché insieme
INTRODUZIONE 5

alle dottrine dei sensi interni di Avicenna, sviluppate dai commentatori


scolastici, esse contribuiranno alle discussioni che si avranno tra la fine
del XII e lungo il XIII e XIV secolo, sulle teorie della pluralità delle
forme dell’anima, se esse sono potenze, o forme sostanziali, oppure se
vi sia un sola forma sostanziale.
Gli studi di Marwan Rashed e di Michael McVaugh si concentrano
sull’importanza della psicologia di Avicenna sia in ambito cosmo-
logico-fisico che biologico-psicologico, in relazione alla sua innovativa
dottrina dell’immaginativa estimativa-cogitativa e all’influenza che ha
esercitato sulle dottrine dei medici latini del secolo XIII e XIV. Gli
sviluppi della dottrina dell’immaginativa di Avicenna, sia in campo
filosofico che medico, saranno fondamentali nella tradizione scientifica
occidentale, anche se essa agirà più in modo sotterraneo e indiretto che
in forma esplicita, questa invece certamente avvenuta attraverso la
conoscenza diffusissima delle sue opere mediche. Come dimostrano gli
studi di Michael McVaugh, se le alterazioni del pensiero e le malattie
mentali dipendono da lesioni nelle parti del cervello in cui sono
localizzate le attività cogitative e memorative o valutative, è chiaro che
queste facoltà sensibili interne sono ritenute facoltà cognitive ed è
notevole, come dimostra lo studio di Michael McVaugh, che Arnaldo
di Villanova chiami l’æstimatio anche scientiatio. Inoltre viene
evidenziato come ad Avicenna si debba la scoperta del carattere cogni-
tivo dell’emozione. Alcuni studi, come quello di Christian Trottmann e
di Francesco Piro, su alcuni Quodlibeta di maestri domenicani e di
Enrico di Gand, evidenziano gli sviluppi di questo cognitivismo
affettivo secondo una psicologia degli appetiti che influenzerà molti
teologi scolastici. Questa dottrina conduce all’elaborazione di una serie
di schemi dottrinali sia filosofico-morali che teologici, che vengono qui
analizzati. L’estimativa di Avicenna, non ha infatti solo capacità
razionali come in Alhazen, per formulare giudizi percettivi (visioni
sensibili), ma collega anche gli stati apprensivi con quelli del corpo in
generale. La estimativa costituisce quindi il punto di sutura tra due
distinte componenti dell’affettività, la componente cognitiva e la
permutatio complexionis, cioè la vera e propria modificazione fisico-
corporea dovuta alle passioni interne. Che questa strada sia stata
percorsa anche da alcuni maestri domenicani come Ugo di Saint Cher e
Rolando da Cremona, nonché da Alberto Magno, è messo particolar-
mente in luce da Christian Trottmann, che esamina gli sviluppi della
teoria della synderesis, che verrà intesa anche come una tendenza
naturale della volontà al bene. Così, la distinzione di ciò che è bene e di
6 GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

ciò che è male nell’appetitus non dipende dall’immaginazione, ma


entra in gioco la synderesis come una potenza o un habitus intermedio
che indirizza l’atto volontario alla guida dell’intelletto.
Francesco Piro poi evidenzia, analizzando alcuni testi di Enrico di
Gand, come la aestimatio, non sia tanto un atto conoscitivo, come
invece hanno voluto altri interpreti, ma sia un modo di riferirsi agli
oggetti del mondo, messi in relazione con le nostre reazioni emotive ad
essi secondo un giudizio pratico o di apprensione pratica.
Questa riduzione operata dai teologi del secolo XIII e XIV di tutta
la percezione sensibile interna a un cognitivismo affettivo, sarà la
svolta che subirà la psicologia dei sensi interni nell’opera di Descartes e
di Malebranche, per i quali la sensibilità si trasforma in passione e
sentiment. In tal modo si viene a stabilire una connessione tra intelli-
genza razionale e intelligenza emotiva o passiones intellectuales. La
relazione tra intelletto e sensazione e la sua mediazione, non si confi-
gura ora più come un problema, perché il dualismo radicale di Cartesio
tra mens (res cogitans) e corpo (res extensa), lo esclude. Tuttavia, alle
difficoltà della spiegazione dualistica di questa posizione di Cartesio, si
dedica lo studio di Roberto Perini, che sottolinea la sua innovazione
nell’ambito della psicologia e della fisiologia corporea, per cui princi-
pio di movimento è sempre la coscienza e non la natura fisica. Avviene
pertanto uno slittamento semantico da Aristotele a Cartesio, di anima
che non è vita come principio di movimento, ma pensiero contrapposto
alla realtà dell’estensione del corpo. Il Perini conduce una sottile disa-
mina degli sforzi logici di Cartesio per trovare un accordo tra res
cogitans e estensione, analizzando gli argomenti delle risposte carte-
siane ai suoi avversari.
Così, i sensi interni della tradizione scolastica aristotelica non
hanno alcuna proprietà di apprendimento, e tutto quanto concerne la
sensibilità sarebbe un modo dell’appetitus e si indirizza nella direzione
della volontà, anche secondo un determinato orientamento della tarda
scolastica scotista del XVII secolo.
Invece le dottrine che hanno elaborato una spiegazione del
meccanismo del passaggio dalla sensazione alla percezione, da questa
alla riflessione o all’autocoscienza, e quindi alla loro rielaborazione
secondo quella facoltà sensibile interna che è l’estimativa-cogitativa,
sono una innovazione nella psicologia e nella teoria della conoscenza
dei filosofi del secolo XIV. Queste dottrine sono studiate nella ricostru-
INTRODUZIONE 7

zione di alcune teorie del senso agente, che si sono avute soprattutto nel
secolo XIV, da parte di alcuni collaboratori di questo volume.
A questo argomento centrale, per il tema del Convegno sono
dedicati ben tre saggi : di Valeria Sorge, che studia la teoria del sensus
agens di Taddeo da Parma, di Orsola Rignani, che analizza quella di
Biagio da Parma e di Joël Biard che esamina la psicologia di Buridano.
Biard chiarisce questo argomento riferendosi più ai commenti al
De anima di Aristotele che al De sensu e sensato di Buridano, sebbene
come si sa, è a lui che si deve la riscoperta dei Parva naturalia, nell’inse-
gnamento scolastico del XIV e del XV secolo, opera fino allora
oscurata dalla preponderanza del De anima. Questi studi sottolineano
l’incostanza semantica del termine ‘senso comune’, perché esso non
significa più la generalità delle sensazioni semplici secondo una certa
schematizzazione del modello aristotelico. Invece ora tale modello si
arricchisce della complessità delle interpretazioni delle dottrine
dell’aisthesis delle scuole stoiche tardo antiche e di quelle presentate
nelle contaminazioni neoplatoniche dei filosofi arabi, per cui esiste-
rebbe anche una cogitatio sensibile e una materia spirituale, come
hanno evidenziato gli studi qui contenuti relativi alla dottrina di Alha-
zen e di Avicenna.
Nelle opere di questi filosofi, italiani o francesi, maestri delle Arti
nelle principali Università del secolo XIV, si comincia a distinguere tra
sensazione, percezione e rappresentazione, ossia si riflette sulla
organizzazione delle immagini o species ad opera delle facoltà interne,
come la cogitativa soprattutto, e viene meno il paradigma classico della
conoscenza, quello dello schema astrattivo della comprensione di un
contenuto virtuale delle facoltà sensibili ad opera di un agente intelletti-
vo esterno (Averroè) o interno (san Tommaso). Viene messo in
discussione il modello che associa la sensazione alla passività e
l’intelletto alle attività. Valeria Sorge sottolinea la rilevanza di questa
problematica che costituisce il vero focus in ambito epistemologico e
gnoseologico, delle discussioni noetiche del XIV secolo delle scuole
averroistiche.
Così, dalle analisi di questi studiosi risulta che le posizioni dei
maestri sono differenti : la posizione di Taddeo è intermedia tra quella
di un aristotelismo ispirato ad Averroè e un platonismo che si richiama
a Roberto Grossatesta. Questa tesi è diversa da quella sia di Biagio che
di Buridano, più direttamente vicini ad Alessandro di Afrodisia che ad
Averroè. Per Taddeo, che aderisce a un modello astrattivo aristotelico-
8 GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

averroistico, i sensi interni sono ricondotti prevalentemente all’imma-


ginazione, legata a sua volta alle sensazioni esterne. Questo tipo di
conoscenza sensibile, secondo Taddeo, è sempre astrattiva : l’anima
materiale intellettiva, che conosce come un habitus, non può fare a
meno dei fantasmi dell’immaginazione, da cui deve astrarre l’immagine
più pura e vera, e pertanto tale tipo di conoscenza non coglie le essenze
pure ed eterne, come le idee matematiche di Platone, ma solo delle
entità fisico-sensibili, che associano l’immaginazione alla divinazione
di realtà intermedie tra gli intelletti e i corpi e quindi alla magia.
(E sappiamo quanto queste discussioni sul ruolo necessario o meno,
anche se strumentalmente, della immaginazione, abbiano avuto una
risonanza decisiva nella teoria del De anima di Pomponazzi).
Invece Biagio Pelacani (si veda lo studio di Orsola Rignani) unisce
intelletto e sensazioni in tutte le operazioni esterne e interne, sensibili o
razionali dell’anima, perché la conoscenza non è una forma, bensì una
operazione. Le attività intellettive sono solo più intense, cioè ricche di
verità, di quelle meramente sensibili, in quanto organizzate dalle facoltà
razionali e logiche, come la estimativa e la valutativa, le quali nel
ragionamento, come quello matematico non dipendono mai dal mondo
fisico, ma dalla considerazione logica del nostro intelletto. Il senso
agente costituirà tutta l’attività psichica, sia razionale che sensibile
dell’anima, la quale si costituisce pertanto come un sostrato materiale,
un subiectum dotato di sensazioni differenti, tra cui è compreso anche
l’intelletto, come virtus intellettiva, che ha differenza di grado
superiore, ma non differisce per sostanza. Pertanto, l’articolazione dei
sensi interni compiuta dai filosofi arabi come Avicenna e Alhazen
aveva condotto i maestri latini alle discussioni scolastiche sulla
molteplicità o meno delle forme sostanziali dell’anima o delle sue
potenze. San Tommaso era giunto all’affermazione dell’intelletto come
una sola forma sostanziale dell’anima, così cercando di risolvere il
problema dell’immortalità dell’anima intellettiva umana. Invece, la
riduzione di tutte le facoltà, compresa la intellettiva, alle operazioni dei
sensi interni inerente a un unico sostrato materiale che è l’anima, ha
condotto Biagio da Parma a una conclusione di negazione dell’immor-
talità dell’anima razionale, così come più tardi sosterrà Pomponazzi,
mostrando una più accentuata influenza dell’interpretazione di
Alessandro di Afrodisia. Biagio, trattando delle facoltà dei sensi interni
e modificando la noetica per cui la conoscenza intellettiva e quella
sensibile sono le stesse operazioni dell’anima, per cui le loro differenze
dipendono solo dal procedimento di apprensione e ricostruzione razio-
INTRODUZIONE 9

nale delle immagini sensibili, dà pertanto molta importanza alla cogita-


tiva e valutativa e meno all’immaginazione : in altri termini, si scosta
dalle posizioni risalenti ad Avicenna, e, in parte ad alcune interpre-
tazioni più strettamente aristoteliche e averroistiche, per le quali
l’immaginazione, che nell’uomo si chiama immaginativa o cogitativa
(secondo il traduttore latino del de Anima di Avicenna), sia la
individuale che quella universale, non ha più una funzione di
mediazione nella scala neoplatonica delle entità o intelligenze, in
quanto è ritenuta il motore dei corpi astrali.
Questo tema è trattato da Marwan Rashed e risulta un contributo
interessante perché contribuisce a chiarire alcune interpretazioni che si
avranno soprattutto nel Rinascimento. Nel De imaginatione Gian-
francesco Pico della Mirandola riterrà l’immaginazione una facoltà
profetica ispirata da Dio nei santi, oppure dal demonio nella divina-
zione degli eretici, cosìché essa risulterà una pura e semplice
fantasticheria, per lo più erronea e dannosa. Per contro, essa è intesa nel
De imaginatione da Montaigne come una facoltà intermedia legata alla
volontà e a tutte le potenzialità dell’uomo, con un potere creativo e
produttivo, cosìché essa appare una messaggera quasi divina che
esprime l’unione tra il divino e l’umano, dal momento che essa
costruisce e non riproduce passivamente le immagini come fa invece la
memoria.
Sono individuati così diversi modelli psicologici che nella filosofia
o nella medicina, sia cristiana che araba e ebraica medievale si conta-
minano, prevalendo l’uno o l’altro, fino alla affermazione di quello ari-
stotelico nell’età rinascimentale, mentre sia quello medico-naturalisti-
co, galenico-avicenniano, che quello spiritualistico-religioso d’impianto
neoplatonico, continuano ad apparire e ad influenzare concezioni
importantissime non solo di maestri, filosofi e medici del Rinasci-
mento, ma anche e soprattutto di artisti, come Leonardo o Montaigne.
Quel Leonardo che tratta dei sensi interni e della relazione tra
immaginazione e memoria nella rappresentazione pittorica in cui la
fantasia non è più la forma passiva di aristotelica tradizione, ma si
rivela assai vicina alla dottrina delle attività originarie dei sensi interni
di ispirazione galenico-araba (avicenniana e anche alhazeniana), le
quali compiono quelle « sottili investigazioni mentali » che sono
proprie dell’estimativa e della cogitativa, facoltà indispensabili per la
costruzione dell’immagine pittorica (si veda l’analisi di Carlo Pedretti).
10 GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

Nel mondo moderno non sarà il corpo che sente, ma l’anima,


perché essa è coscienza ; il corpo è res extensa e non è il principio del
movimento, che è invece l’anima.
Gli studi di Cristina Santinelli, di Giulia Belgioioso e di Francesca
Bonicalzi, dedicati ai grandi maestri della filosofia moderna come
Cartesio e Malebranche, precisano in modo chiaro e pertinente lo
slittamento semantico della classica definizione di anima di Aristotele,
da principio di movimento del corpo a pensiero come coscienza. Così
l’anima non è più quell’intelletto che ha bisogno (anche se strumen-
talmente) dei sensi esterni per conoscere (san Tommaso) ; non perce-
pisce niente con le sensazioni, ma è pura consapevolezza per cui solo la
coscienza è percezione.
Con filosofi moderni come Hobbes e Spinoza, il nesso anima-
corpo non passa più attraverso la mediazione della sensibilità esterna o
interna intesa nel modo tradizionale della filosofia classica antica, ma si
configura come problema dell’identità della persona psico-fisica, della
sua individualità (si vedano gli studi di Allegra e di Mari). Tutto il
problema della necessità di una mediazione della facoltà tra intelletto e
sensazione viene messo da parte, perché nell’empirismo di John Locke
le funzioni attive dei sensi interni si trasformano in percezioni
intellettive, in rappresentazioni.
Il complicato meccanismo anima-corpo si arresta di fronte alla
visione religiosa di Malebranche che giustifica l’incomprensibilità di
questo problema con l’originaria insufficienza della natura umana
oberata dal peccato, per cui non esiste né anima sensitiva, né
vegetativa, né intellettiva, ma l’anima è solo mente, esprit, e il senso è
solo affezione e sentimento ; il sentire è del cogito, perché nel corpo si
producono affezioni dovute ai movimenti del corpo che poi sono le
sensazioni. Un monismo di una sostanza ‘neutra’e un dualismo degli
attributi, mette in luce l’analisi di Carlo Vinti, analizzando alcuni scolii
fondamentali dell’Etica di Spinoza con acuti approfondimenti critici,
esaminandone le interpretazioni più recenti nello studio dedicato a
« Idea corporis ». Spinoza e il mind-body problem.
Nato dagli sviluppi del modello aristotelico-galenico contaminato
o sostituito con quello neoplatonico arabo-latino, la dottrina dei sensi
interni viene pertanto meno con il ritorno alla dottrina dell’innatismo
delle idee cartesiane, dove la nozione di percezione si identifica con
quella di coscienza, l’anima è sostanza pensante. Con Malebranche poi
INTRODUZIONE 11

si opera una profonda corrosione dello statuto sostanziale dell’anima e


di tutte le sue eventuali facoltà, perché tutte le sue operazioni
immaginarie sono occasioni di Dio e l’anima è un puro vuoto (inanità
del corpo), nuda capacità dell’anima.
Con Cartesio, Malebranche e i grandi maestri del Seicento, muta
completamente la psicologia dei sensi interni. Il sentire e l’immagi-
nazione sono solo l’intendere mediante il corpo che è strumentale ; la
percezione di sé è il cogito, e non ha niente a che vedere con le
operazioni valutative, cogitative delle potenze dell’anima della inter-
pretazione aristotelica di Avicenna, scompaiono i sensi interni delle
facoltà medievali per essere sostituiti dagli appetiti e dalle passioni
(Cartesio) e dai sentimenti (Malebranche), da un fluire di percezioni
che sono il solco di Dio, come forme della sensibilità esterna e interna
che sono occasionate dalla mirabile legge dell’unione di anima e corpo,
fissate dall’ordine divino.
Se nel secolo XVII si assiste a questa scomparsa dei sensi interni
come intermediari tra corpo e anima, lo studio di Pieretti su Vico
sottolinea in tutta la sua importanza una nuova rivalutazione del sentire,
ma in una accezione nuova e originale, secondo una ‘sapienza’ del
senso che risiede nella sensibilità intesa tuttavia come senso storico e
contingente. Questo tema è analizzato soprattutto dal Pieretti nel De
Antiquorum italorum sapientia, in cui Vico pone le basi di una sapienza
del senso che rivendica a sé una dimensione storica e veritiera che si
affranca dai rigidi schemi del dualismo senso-intelletto, corpo-anima e
rinnova in una direzione moderna del tutto nuova i tentativi, compiuti
soprattutto nella bassa latinità e nel Medioevo arabo e latino, di
mediazione tra le due entità.
In questa raccolta sono così delineati alcuni percorsi storici che
non pretendono di esaurire le complesse diramazioni di sviluppo dei
diversi modelli dei sensi interni e delle relazioni anima-corpo, che è
problema che attraversa l’intera storia della filosofia, fino al mondo
contemporaneo, ma solamente di individuarne alcune. Tuttavia, queste
ricerche hanno cercato di sottolineare alcuni nuclei concettuali in certi
momenti della storia della filosofia, soprattutto dei secoli XIII e XIV,
meno noti e studiati, che rappresentarono tuttavia delle svolte
importanti nel trapasso dal Medioevo all’età moderna, fino al
mutamento di prospettiva delle principali filosofie dei secoli XVII e
XVIII. Esse evidenziano quanto sia complesso l’orizzonte delle teorie
delle funzioni mediane della psiche, tra intelletto e senso, e come non
12 GRAZIELLA VESCOVINI FEDERICI

siano riducibili agli stereotipi modelli storiografici monisti o dualisti


(fisicisti o spiritualisti) riconducibili quasi sempre nella storia della
filosofia, quando si parla di sensi e sensazione, o alla psicologia della
passività del senso comune di Aristotele, o alla teoria dell’anima forma
sostanziale razionale di Platone, coscienza pensante.

Università di Firenze
LUCIO PEPE

LE FUNZIONI DELL'INTELLETTO ED IL CORPO


NELLA PARAFRASI DEL DE ANIMA DI TEMISTIO

Il de anima di Aristotele è notoriamente un testo di vasta diffu-


sione ma di difficoltà interpretativa pari alla sua fama. Ed è anche noto
che tra i suoi interpreti Alessandro di Afrodisia e Temistio hanno rap-
presentato due essenziali punti di riferimento per le più importanti teo-
rie sull’anima di epoche successive1. Ci è sembrato utile soffermarci
ancora sulla parafrasi di Temistio, non per riproporre semplicemente le
sue conclusioni, ma piuttosto perché il percorso teorico che porta a
quelle conclusioni pone in luce alcuni temi che ci sembra utile porre in
evidenza.
Sul libro III del de anima di Aristotele sono incentrate le più svari-
ate e famose interpretazioni per le innegabili difficoltà che il testo pre-
senta. Noi ci teniamo solo ad alcuni aspetti particolarmente inte-
ressanti della parafrasi di Temistio2. Il problema centrale in questo libro
del de anima aristotelico è indubbiamente la natura dell'intelletto ed il
suo rapporto con il corpo e l'individuo, ed ovviamente lo esamineremo
solo nell'ambito della lettura temistiana. Due sono gli intelletti ai quali
sembra fare riferimento Aristotele nella sua trattazione (de anima, 430a
24-25) : un intelletto attivo impassibile (poihtikov" ajpaqhv"), ed uno
passivo corruttibile (paqhtikov" fqartov") (101,4 sgg.3). Il problema,

1
Alcune essenziali indicazioni sull'influenza di Temistio in San Tommaso si
trovano nell'introduzione di Verbeke all'edizione del commentario nella versione di
G. di Moerbecke (THEMISTIUS, Commentaire sur le traité de l'âme d'Aristote, trad. de
G. DI MOERBEKE, édition critique et étude sur l'utilisation du commentaire dans l'œuvre
de Saint Thomas par G. VERBEKE, Leiden, Brill, 1973).
2
Themistii in libros Aristotelis De Anima paraphrasis, R. HEINZE (ed.), Berlin,
1890 (C.A.G., V, 3).
3
L'espressione nou`" poihtikov" non compare nel testo aristotelico, anche se da
esso è in qualche modo ricavabile (in 430 a 15 si dice che l'intelletto pavnta poiei`n, o
14 LUCIO PEPE

che Temistio sottolinea, è che l'intelletto attivo, in quanto impassibile,


non può avere in comune con l'individuo che ne partecipa né il ricordo
né il pensiero discorsivo (dianoei`sqai), perché l'intelletto attivo é fuori
dal tempo (ajivdion), mentre il pensiero discorsivo (ed ovviamente il
ricordo) è un pensare non nell'eterno ma nel tempo (mh; ajei; noei`n
ajllj ejn crovnw/. 101, 29-30). Non soltanto, ma i pensieri che pensa
l'intelletto attivo non entrano nel ricordo quando esso viene a far parte
della formazione dell'individuo (eij" th;n suvstasin suntelevsai th;n
hJmetevran), proprio perché i suoi pensieri sono pensati nell'eterno e non
nel tempo. La dimensione temporale che caratterizza propriamente
l'essere individuale viene sottolineata più volte da Temistio in questo
passaggio, e posta in problematica connessione con l'impassibilità ed
atemporalità dell'intelletto attivo. La soluzione (luvsi") del problema, a
prima vista, dovrebbe essere la presenza dell’intelletto passivo e cor-
ruttibile (101, 3-4). Ma questa conclusione non è soddisfacente agli
occhi di Temistio. Aristotele non si riferisce all’intelletto in potenza
(101, 6. mh; to;n dunavmei tou`ton paralambavnei) ma ad un altro
(eJvterovn tina) che ha chiamato comune all’inizio del trattato (oJ;n
koino;n wjnovmasen ejn toi`" prwvtoi"). Il passo al quale si riferisce
Temistio è de an. 408b 25-29 che viene riportato integralmente (101,
19 sgg.) e confrontato con il passaggio appena citato, proprio perché è
un momento fondamentale della sua interpretazione. Leggiamo il
passo, che, nella versione temistiana, si differenzia su un solo termine
dal passo aristotelico4 :
To; de; dianoei`sqai kai; filei`n hj; misei`n oujk ejvstin ejkeivnou pavqhma
ajlla; toudi; tou` ejvconto" ejkei`no h/J` ejkei`no ejvcei. dio; kai; ; touvtou
fqeiromevnou oujvte mnhmoneuvei oujvte filei`: ouj ga;r ejkeivnou hj`n, ajlla;
tou` koinou` o;J ajpovlwlen, oJ de; nou`" ijvsw" qeiovterovn ti kai; ajpaqev"
ejstin.
Esaminiamo questo passo : Il pensiero discorsivo (dianoei`sqai),
5
l’amare o l’odiare non sono affezioni (pavqhma) di quello <dell’intel-
letto impassibile>, ma del soggetto particolare (toudi;) che ha intelletto

anche – a 19 – che è nel rapporto di to; poiou` n tou` pav s conto"). Temistio
verosimilmente la riprende da Alessandro di Afrodisia, che la usa diffusamente.
4
Il testo aristotelico che leggiamo è quello oxoniense, curato da W. D. ROSS, Ox-
ford, 1956 (più volte ripubblicato).
5
In Aristotele abbiamo pavqh, secondo l'edizione oxoniense.
LE FUNZIONI DELL'INTELLETTO ED IL CORPO 15

in quanto lo possiede <l’intelletto è infatti in noi come una sostanza


determinata (oujsiva ti" ouj`sa) e non si corrompe>6. Perciò se questo
(touvtou) si corrompe <e qui pare indubbio che Aristotele si riferisca al
soggetto particolare> non ricorda né ama, perché queste non erano af-
fezioni dell’intelletto (ouj ga;r ejkeivnou hj`n) ma del comune che è an-
dato distrutto (tou` koinou`, oJ; ajpwvlolen).
Vediamo l'interpretazione di Temistio. Che riprende (102,5-7) il
passo aristotelico7 : « non ricordiamo perché questo <l'intelletto attivo>
è impassibile, mentre l'intelletto passivo è corrutttibile », per conclu-
dere però che si corrompe l'intelletto comune (fqeivresqai de; fhsi
to;n koinovn), ed è a causa di questo intelletto mortale (qnhtw/` nw/`) che
non possiamo ricordare (102,8). E' da sottolineare a questo proposito
che Temistio opera però una palese forzatura del testo aristotelico :
infatti il comune (tou` koinou`) del quale parla Aristotele e che si di-
strugge (oJ; ajpwvlolen) è neutro, e con tutta evidenza si riferisce al
composto di anima e corpo, laddove Temistio lo trasforma in un
maschile, riferito ad un nou`" comune del quale non v'è traccia nel de
anima8.
Non intendiamo ripercorrere qui l’intera analisi di Temistio, che lo
porta a concludere per l’esistenza di un intelletto comune corruttibile e
distinto dall’intelletto in potenza così come dall’intelletto attivo. In 105,
27-29 si afferma però chiaramente che l'intelletto comune (koinov") è
altro (ajvllo") da quello in potenza. L'uno infatti è corruttibile, passivo,
non-separato e mescolato al corpo, quello in potenza è impassibile, non
mescolato al corpo e separato9. Vogliamo sottolineare ancora che la

6
de an. 408 b 19.
7
de an. 430 a 24-25.
8
Non sembrano cogliere l'incongruenza V. De Falco nella traduzione italiana (la
prima in lingua moderna della parafrasi di Temistio, Padova, Cedam, 1965) né Ro-
bert B. Todd (On Aristotle on the soul, London, Duckworth, 1996).
9
Temistio sembra attribuire quindi all'intelletto in potenza le stesse caratteristiche
di impassibilità e separatezza dell'intelletto attivo. E' vero che egli non attribuisce
esplicitamente all'intelletto passivo la caratteristica dell'immortalità, ma è anche vero,
come abbiamo visto poco sopra, che nega esplicitamente che l'intelletto corruttibile
sia quello passivo, mentre lo è invece quello che definisce comune. Di parere con-
trario è S. B. MARTIN, « The nature of the human intellect as it is expounded in The-
mistius' Paraphrasis in libros Aristotelis De Anima », in. F. J. ADELMANN (ed.), The
quest for the absolute, Boston-The Hague, 1966, p. 1-21, p. 12.
16 LUCIO PEPE

distinzione aristotelica nel passo in questione riguarda invece il corpo


individuale esistente e soggetto a corruzione (il comune, che non ab-
biamo ulteriormente tradotto ma pare evidente riferirsi all'individuo
composto di anima e corpo), ma non un altro intelletto.
Infatti (de an. 408 b 22-25) la vecchiaia non è riportabile ad un'af-
fezione dell’anima ma al soggetto (ajll j ejn wJ)`/ in cui si trovi ad essere,
come nei casi di ubriachezza e di malattia. Qui Aristotele introduce una
significativa distinzione : pensare (noei`n) e conoscere (qewrei`n) si con-
sumano (maraivnetai) quando si corrompe qualcosa all’interno (ejvsw
fqeiromevnou), ma sono impassibili (ajpaqev"). E' di tutta evidenza che
vecchiaia, ubriachezza, malattia sono affezioni del corpo, che influen-
zano l'attività intellettuale dell'individuo ma non modificano certo, se-
condo Aristotele, la natura stessa del pensiero. Segue quindi il passo
che cita Temistio, che abbiamo confrontato. E dal confronto appare
evidente che Temistio si riferisce ad un altro intelletto comune che in-
vece nel testo aristotelico non compare, dal momento che sia nel testo
del de anima sia nel testo temistiano il pronome relativo è neutro (come
abbiamo già visto), e quindi non può riferirsi ad un intelletto koinov",
ma soltanto al composto individuale di anima e corpo.
Su questa dottrina dell'intelletto comune si basa, è noto, una lunga
tradizione interpretativa e filosofica che giunge fino a S. Tommaso e la
sua teoria dell'anima immortale individuale. Ed è una tradizione che
non ha senso rigettare come errata. Quel che abbiamo voluto rilevare è
che essa non trova alcun fondamento nel testo aristotelico : è frutto di
una distorsione lessicale o di un fraintendimento da parte di Temistio
stesso.
Temistio ritiene invece (102,7-8) che è l’intelletto attivo (poi-
htiko; n nou` n ) a costituirci, mentre si corrompe quello comune
(fqeivrestai dev fhsi to;n koinovn). Da questo punto di vista si spiega
perché pur essendo noi immortali (per l’intelletto attivo) non possiamo
ricordare le cose avvenute mediante l’intelletto mortale (qnhtw/` nw/`) ,
che è appunto l’intelletto comune. Nel testo aristotelico appare indub-
bia una frattura tra quante sono le attività dell’intelletto attivo uni-
tamente all’intelletto in potenza, e le funzioni che possiamo, con
Temistio definire, mortali, ma ciò, se rimane problematico, non sembra
indurre all'introduzione di una terza facoltà intellettiva. Di diverso pare-
re è Temistio. Poco più oltre (106, 14-15) infattti leggiamo che è defi-
nito mortale l’intelletto comune (fqarto;n de; levgei to;n koinovn) ed è
secondo questo intelletto che l’uomo è costituito di anima e corpo, ed in
LE FUNZIONI DELL'INTELLETTO ED IL CORPO 17

esso si trovano impulsi (qumoiv) e desideri (ejpiqumivai). E’ evidente che


questa osservazione porta Temistio di là dalla definizione delle funzioni
intellettuali, per condurlo alle concrete attività dell’individuo. E questo
è un argomento che affronteremo subito dopo.
Le funzioni dell’intelletto sono scandite secondo una norma pre-
cisa, che definisce al tempo stesso la natura e la struttura dell’io (100,
16 sgg.). Come tutti gli enti composti (sugkeimev n wn) di potenza ed
atto, anche nel caso dell’uomo l’individuo particolare (to; tovde) è di-
verso dall’essenza dell’individuo stesso (to; tw/`de <eij`nai>>) cioè
diremo che l’io (to; ejgwv) è diverso dall’essenza dell’io (to; ejmoi;
eij`nai). Il mio io è quindi composto dell’intelletto in potenza e di quello
in atto, ma l’essenza del mio io è costituita solo dell’intelletto in atto.
Temistio in questo caso porta a conseguente conclusione
l’affermazione aristotelica (de an. 408 b 18-19) che il nou`" è in noi
(ejggivnesqai) come una sostanza (oujsiva ti" ouj`sa) che non si cor-
rompe. Infatti, nel momento in cui penso e scrivo, compio queste
operazioni in quanto sono un intelletto composto di potenza e di atto,
ma le compio non in quanto esso è in potenza (h/J` dunavmei) ma in
quanto è in atto (ajll jh/J` ejnergeiva/). In tal modo la struttura dell’io vi-
ene ad essere scissa tra la sua esistenza determinata e la sua essenza che
è costituita dall’intelletto in atto incorruttibile. Esattamente come
nell’animale, dove il singolo animale è diverso dall’essenza o specie
dell’animale, noi pensiamo con un intelletto che è universale ed eterno
ed è sostanza.
Se infatti è vero che la nostra essenza dipende dall’anima (para;
th`" yuch`"), non dipende però da tutta l'anima (tauvth" ge ouj
pavsh". 100, 27 sgg.), ma anche per l’anima dobbiamo fare analoghe
distinzioni. Infatti come l’anima sensitiva (aij s qhtikhv ) è materia
dell’immaginazione (fantasiva), l’immaginazione a sua volta è materia
dell’intelletto in potenza, e questo infine è materia dell’intelletto attivo.
Pertanto l’essenza dell’io consiste soltanto nell’intelletto attivo : solo
questo è infatti propriamente forma (movno" ga;r ouJ`to" eij`do" hj`n
ajkribw`") mentre le altre specie di anima sono allo stesso tempo sia
sostrati che forme (uJpokeivmena aJvma kai; eijvdh).
Temistio appare cosciente del fatto che sostenere l’unicità e la
separatezza dell’intelletto attivo può essere confuso con le tesi so-
stenute da Alessandro di Afrodisia (102) e nega quindi esplicitamente
che esso possa essere considerato il dio primo (to;n prw`ton qeovn) o
essere identificato con le premesse (ta;" protavsei") e le scienze che
18 LUCIO PEPE

su di esse si fondano. L’affermazione aristotelica di de an. 430 a 23


(riportata a p. 103) che solo l’intelletto è immortale ed eterno (tou`t j
ejsti movnon ajqavnaton kai; ajivdion) va quindi intesa non nel senso che
esiste un solo ente immortale ed eterno, ma piuttosto che v’è in noi solo
questo intelletto, ed è immortale10. Quindi è un ente immortale insieme
agli altri enti che Aristotele indica come immortali nella Metafisica.
La questione viene affrontata anche da un altro punto di vista (103-
104). L’unicità dell’intelletto attivo deve essere posta necessariamente
per spiegare l’identità stessa del nostro pensiero. Se non vi fosse un
intelletto unico, infatti, da dove potrebbero provenire i concetti comuni
(povqen ga;r aiJ koinai; ejvnnoiai), o le prime definizioni ed i primi
assiomi, che sono uguali in noi tutti e non vengono appresi con lo stu-
dio (ajdivdakto")? Il pensiero ha dunque una struttura unitaria, che non
può essere spiegata se non ricorrendo ad un ente unico che ne sia il
fondamento. Una posizione che provoca suggestioni di sapore spino-
ziano (mi riferisco all’intelletto infinito, ma è soltanto una suggestione),
anche per quanto Temistio ribadisce immediatamente dopo. Infatti la
reciproca comprensione intellettuale (to; sunievnai ajllhvlwn) non po-
trebbe esistere se non vi fosse un intelletto unico. Nelle scienze il mae-
stro deve pensare le stesse cose di chi apprende (ta; aujta; noei`), dove
ovviamente le stesse cose non sono identiche nozioni, ma identica pos-
sibilità di trasmettere anche nozioni diverse o ancora ignote, cioè iden-
tica struttura di pensiero. Infatti la possibilità stessa di questa tra-
smissione si basa sull’identità del pensiero : taujto; hj`n to; novhma è in
questo luogo l’icastica espressione di Temistio (104,8)
A sostegno di questa argomentazione viene efficacemente addotta
una interessante osservazione platonica (Gorgia, 481c) che dà luogo ad
altre interessanti osservazioni. In Platone leggiamo che se le affezioni
(pavqo" ovviamente) diverse da individuo ad individuo non avessero
qualcosa di identico (ti taujtovn), e se ognuno di noi avesse un suo
privatissimo (ijvdion) ovviamente differente da quello degli altri, non
sarebbe affatto facile esprimere ad un altro il proprio sentimento (to;
eJautou` pavqhma). Ritornando a questo proposito ad Aristotele (105, 8

10
Sulle interpretazioni di Temistio e di Alessandro si vedano anche le obiezioni di
Averroè. Cf. AVERROES, L’intelligence et la pensée, Grand commentaire du de anima,
Traduction, introduction et notes par A. DE LIBERA, Paris, 1998, p. 112 sgg. con rela-
tive note.
LE FUNZIONI DELL'INTELLETTO ED IL CORPO 19

sgg.) Temistio sottolinea questa analogia imperfetta tra la sensibilità e


l’intelletto. Il senso è meno passibile (duspaqestevran) degli organi
sensoriali, ma non può dirsi del tutto impassibile e separato, perché è
comunque legato agli organi sensoriali, anche se da essi diverso. Le
determinazioni di impassibilità e separatezza appartengono dunque in
senso proprio soltanto all’intelletto attivo. Esso solo è infatti non
mescolato con il corpo (ajvmikton tw/` swvmati) : e su questo punto
Aristotele in precedenza si è dichiarato d’accordo con la teoria anas-
sagorea dell’intelletto.
La separatezza dell’intelletto dal corpo che abbiamo visto così
ripetutamente sottolineata da Temistio risalta ancora evidente quando si
tratta delle differenti funzioni dell’attività pensante. Vediamo come
vengono accostate ed interpretate le affermazioni aristoteliche (101). Il
problema in questo caso è di spiegare quale differenza sussiste tra un
pensiero che non pensa nel tempo ed un pensiero ancorato invece alla
dimensione temporale. Le affermazioni, connesse fra loro, che
l’intelletto non pensa nel tempo (oujd jejn crovnw/ noei`) e che perciò non
accade che talvolta pensi e talvolta non pensi corrispondono, secondo
Temistio, alla distinzione tra noei`n e dianoei`sqai che Aristotele ha già
posto nel passo già citato e discusso di de an. 408b. L’intelletto attivo
non ha un pensiero discorsivo (dianoei`sqai), ed il pensiero discorsivo
appartiene ad un altro intelletto, del quale è proprio pensare non sem-
pre, ma nel tempo. Quindi sembra di poter concludere che il pensiero
discorsivo è per sua natura caratterizzato dalla dimensione temporale,
che esso appartiene all’intelletto definito comune, ed è appunto per
questo che la morte dell’individuo implica anche la perdita della
memoria.
Poco oltre (102) egli ribadisce questa separazione tra pensiero e ri-
flessione, tra tempo ed eternità, tra memoria ed impassibilità. Dopo la
morte l’intelletto attivo non ricorda e non riflette, perché queste sono
attività legate al tempo e non all’eterno ed all’impassibile, ma
all’intelletto corruttibile. Quindi noi siamo sì prodotto (poiei` )
dell’intelletto attivo, ma è l’intelletto comune che perisce, e quindi, pur
essendo per un aspetto immortali, non possiamo ricordare ciò che ab-
biamo fatto con l’intelletto mortale. Siamo quindi eterni, ma quel che ci
rende individui determinati è mortale.
Esaminiamo ancora un passaggio che lega ancora l’intelletto al
corpo per il tramite delle passioni (107). Platone dunque afferma che
l’intelletto soltanto è immortale, mentre le passioni ed il lovgo" che è in
esse (ejnovnta lovgon) sono corruttibili. Secondo Temistio questo lovgo"
20 LUCIO PEPE

platonico corrisponde all’intelletto corruttibile di Aristotele. Contraria-


mente a quanto avviene negli animali irragionevoli le passioni dell’ani-
ma umana non sono affatto ajvloga. Basti solo pensare che esse possono
essere regolate e dirette dalla ragione, e quindi ne sono connesse pro-
fondamente (sumpevplektai). Qui ritorna centrale il motivo del tempo :
perché passioni come paura e speranza non possono essere né essere
concepite senza la dimensione del futuro (to;n mevllonta crovnon), e
quindi devono appartenere all’anima razionale. Da questo punto di
vista potremmo dire indifferentemente (taujto;n eijpei`n) intelletto pas-
sivo (paqhtiko;n nou`n) o passione razionale (pavqo" logikovn), se sol-
tanto consideriamo che le passioni possono essere soggette alla ragione
perché l’intelletto ha sede (katoivkisin) nel corpo. Ed al contrario dob-
biamo riconoscere che è possibile che l’intelletto sia collocato nel
corpo soltanto perché è con il tramite delle passioni (dia; mevswn tw`n
paqw`n) che ad esso è collegato e coordinato. L'intelletto comune sem-
bra quindi essere il risultato provvisorio dell'unione di un principio
11
immortale con un corpo mortale, di eternità e temporalità .
La morte svela il carattere provvisorio di questa unione : infatti
l'immortalità rimane una proprietà dell'intelletto attivo ed impassibile,
mentre la memoria, il discorso e la passione, che sono nella dimensione
della temporalità, non sopravvivono. L'individuo, da questo punto di
vista, è un ente finito nel tempo e nello spazio.
Come si può concludere da questa limitata analisi del commentario
di Temistio, il problema del rapporto fra corpo ed intelletto, e quello, ad
esso connesso, della temporalità rimangono essenziali per la compren-
sione dell’ individuo esistente. Se ci sembra pienamente condivisibile
12
la convinzione di De Libera che Averroè si pone al centro dell’itine-
rario che porta alla fondazione della psicologia, un riesame delle pro-
spettive che ci offre il testo di Temistio potrebbe dare spunto ad un ar-
ricchimento delle ricerche in questo campo.
Università di Napoli « Federico II »

11
Da questo punto di vista non sembra giustificata l'identificazione dell'intelletto
comune con la sensazione (the sense powers of man), come intende M ARTIN, The
nature, op. cit., p. 17. L'intelletto infatti ha sede nel corpo per il tramite delle passioni
(e per questo è comune), ma non si identifica con esse.
12
A VERROES, op. cit., p. 39-41. Leggiamo a p. 39 : « La théorie de l’âme, la “psy-
chologie”, acquiert son statut de science autonome par un double mouvement, dont la
tension interne se retrouve aujourd’ hui au cœur de maintes discussions. »
GIULIO D’ONOFRIO

LE FATICHE DI EVA
IL SENSO INTERNO TRA AISTHESIS E DIANOIA
SECONDO GIOVANNI SCOTO ERIUGENA

Il giorno della nascita di Psyche figlia di Entelechia e del Sole


– che Marziano Capella include, all’inizio del De nuptiis, tra le divine
fanciulle sulle quali posa lo sguardo il focoso dio Mercurio in cerca di
una sposa – gli dèi dell’Olimpo le recarono molti doni preziosi : anche
Tritonia, sciolta la propria veste virginale, la adornò di uno scialle, di
una fascia di porpora e persino di una benda con cui ella cingeva il
proprio prudente petto1. Nelle Annotationes al testo di Marziano che gli
sono state attribuite, Giovanni Scoto spiega che sotto il nome di
Tritonia si cela la dea del sapere, la stessa che è stata variamente chia-
mata dagli antichi Pallade, Atena oppure Minerva, qui evocata con
questo appellativo in quanto ad essa corrisponde la trivth ejvnnoia, o
tertia notitia, la più elevata delle tre forme di conoscenza proprie
dell’anima umana (ossia, appunto, yuchv), corrispondente a ciò che i
greci chiamano nou'" e i latini animus, capace di cogliere verità eterne
e immutabili e per questo immortali. Inferiori a questa tertia pars
humanae animae agiscono poi le altre due rationabiles naturae partes
che sono, in ordine discendente, il lovgo" o ratio e la aijvsqhsi" o sensus
(ossia il senso interno). Facendo dono all’anima della propria intima
veste (interula), la facoltà superiore la correda dunque della più
interiore, inalterabile e veritiera forma di conoscenza della verità :
Tritonia ipsa est Pallas et Minerva et Athena. […] Tritonia quasi TRITH
ENNOIA, hoc est tertia notitia, vocatur. Virtute quippe immortalitatis animi

1
Cf. MARZIANO CAPELLA, De nuptiis Mercurii et Philologiae, I, 7 : « Voluit saltem
[scil. Cyllenius, i. e. Mercurius] Entelechiae ac Solis filiam postulare, quod speciosa
quam maxime magnaque deorum sit educata cura : nam ipsi Yuch'/ natali die dii ad
convivium corrogati multa contulerant. […] Tritonia etiam interula resoluta ricinio
strophioque flammarum instar e cocco atque ipso sacri pectoris ac prudentis amiculo
virginem virgo contexit. »
22 GIULIO D’ONOFRIO

notitiae, quae veluti tertia pars humanae constituitur animae, sapientes


distribuunt ; tres siquidem sunt rationabiles naturae partes : AIÇQHÇIÇ,
LOGOÇ, NOUÇ, hoc est sensus, ratio, animus. Non inmerito itaque Tritonia
interulam, hoc est intimam suaeque naturae proximam virtutem, rationabili
2
animae largitur .
Se è vero che le Annotationes offrono una testimonianza, più o
meno diretta, dei primi anni di insegnamento dell’Eriugena alla scuola
di corte, questo testo documenta il fatto che il filosofo di Carlo il Calvo
si deve essere misurato per tempo con l’istanza di distinguere nei gradi
della conoscenza umana tra i percorsi indagativi e dimostrativi della
razionalità discorsiva, definitoria e argomentativa, che procede attra-
verso determinazioni particolari, ma precise, rigorose e sufficienti dei
suoi oggetti, e le percezioni intuitive di verità universali, non dipen-
denti da un loro essere poste in relazione con altre nozioni o rappresen-
tazioni, ma colte nella loro assolutezza come princìpi primi dal cui
essere veri dipende la necessità di tutte le innumerevoli, successive
articolazioni del pensiero.
Anche, del resto, nell’opuscolo De praedestinatione contro Gode-
scalco – la cui trama dimostrativa, finalizzata a sconfessare la tesi
teologica della gemina praedestinatio, è palesemente sostenuta da una
rigogliosa e coerentemente applicata strumentazione logica3 – emerge a
tratti l’esigenza di risalire ai princìpi più immediati da cui scaturisce la
verità delle argomentazioni umane, evidenziandone la natura intuitiva e
indimostrabile e la possibilità di raggiungerli solo grazie al supporto di
una conoscenza di ordine superiore rispetto alle operazioni parziali e
mediate della ragione. L’Eriugena vi esplicita per esempio tale proces-
so di risalita alle sorgenti primordiali della verità scientifica quando
sottolinea, nel nono capitolo, l’efficacia del tutto particolare che deve
essere riconosciuta, tra gli argumenta, ossia i topoi o loci, contenitori
degli schemi generali delle argomentazioni dialettiche, all’argomento
per contrarium (che porta all’esplicitazione di qualche cosa di neces-

2
GIOVANNI S COTO E RIUGENA , Annotationes in Martianum, I, 7, 16, ed. C. E. LUTZ,
Cambridge (Mass.), 1939, p. 11, 16-25. In tutte le citazioni latine, nel testo e nelle
note, i corsivi sono miei.
3
Cf. la mia analisi particolareggiata dell’ossatura dialettico-argomentantiva del
testo del De divina praedestinatione nel volume Fons scientiae. La dialettica
nell’Occidente tardo antico, Napoli, 1986, alle p. 275-320.
LE FATICHE DI EVA 23

sariamente vero in quanto impossibile è il suo opposto), che traduce in


forma razionale l’efficacia primordiale e intuitiva del principio di non-
contraddizione : tanto che tale topos è denominato dagli antichi maestri
di logica enthymema (traducibile in latino con conceptio mentis) che è
appunto, da Boezio in poi, l’espressione che designa tutte le nozioni più
immediate e comprensive riconoscibili come vere, non appena vengono
enunciate, da qualsiasi essere dotato di intelligenza4. Anche in questo
caso, evidentemente, Giovanni Scoto lascia trapelare nel presentare
l’eccellenza intuitiva di cui gode tale argomento, la propria aperta ade-
sione ad una concezione gerarchica della conoscenza, articolata su di-
versi livelli : dalla dispersione fisica delle informazioni sensibili, attra-
verso la molteplicità determinata delle operazioni definitorie, divisive e
discorsive della ragione dialettica, fino all’evidenza originaria delle
prime rappresentazioni conoscitive, percepibili ad un più alto livello di
comprensione diretta e onnicomprensiva del vero e dalle quali le argo-
mentazioni dialettiche sono generate e guidate5.

4
Cf. Ibid., p. 257-274. Cf. CICERONE, Topica, 54 : « Ex hoc illa rhetorum sunt ex
contrariis conclusa, quae ipsi ejnqumhvmata appellant ; non quod omnis sententia pro-
prio nomine ejnquvmhma non dicatur, sed, ut Homerus propter excellentiam commune
poetarum nomen efficit apud Graecos suum, sic, cum omnis sententia ejnquvmhma di-
catur, quia videtur ea quae ex contrariis conficiatur acutissima, sola proprie nomen
commune possedit. » SEVERINO BOEZIO, In Topica Ciceronis commentaria, V, PL 64,
1142D-1143 : « Haec enthymemata nuncupantur, non quod eodem nomine omnis
inventio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis conceptio, quod potest
omnibus inventionibus convenire), sed quia haec inventa, quae breviter ex contrariis
colliguntur, maxime acuta sunt. » ID., Opuscula theologica, III, Quomodo substantiae
in eo quod sint bonae sint cum non sint substantialia bona (De hebdomadibus), PL
64, 1311B, ed. C. MORESCHINI , München, 2000, p. 187, 17-18 : « Communis animi
conceptio est enuntiatio quam quisque probat auditam. »
5
GIOVANNI S COTO ERIUGENA, De divina praedestinatione, PL 122, 391B, 9 , 3 (ed.
G. MADEC , Turnhout, 1978, CCCM, 50, p. 57, 55-58, 64 ; ed. E. MAINOLDI, Firenze,
2003, p. 92, 11-18) : « Restant ea quae contrarietatis loco sumuntur. Quibus tanta vis
inest significandi, ut quodam privilegio excellentiae suae merito a Graecis entimemata
dicantur, hoc est conceptiones mentis. Quamvis enim omne quod voce profertur prius
mente concipiatur, non tamen omne quod mente concipitur eandem vim significa-
tionis, dum sensibus fervore infunditur, habere videtur. Sicut ergo argumentorum
omnium fortissimum est illud quod sumitur a contrario, ita omnium signorum voca-
lium apertissimum est quod ducitur ab eodem contrarietatis loco. »
24 GIULIO D’ONOFRIO

Questa impostazione è dunque rivelatrice di una concezione


dell’anima come sostanza unitaria ma organizzata in diverse facoltà,
ciascuna delle quali è predisposta a svolgere una peculiare funzione e
ad attivare una specifica forma di conoscenza. È una dottrina che affon-
da le sue radici nella tradizione neoplatonica alessandrina, documentata
anche in Occidente da importanti testimoni latini, tra i quali emerge lo
stesso Boezio che ne propone, mutuandola da Proclo, una versione in
quattro gradi, inserendo tra la ragione e il senso la sfera dell’imaginatio
o phantasia6. Come nel rapido accenno inserito tra le Annotationes in
Martianum, Giovanni Scoto è invece coerente testimone, nei suoi
scritti, di una ripartizione triadica delle facoltà psichiche dell’uomo : la
sensibilità (sensus), connessa con la materia e con le apparenze corpo-
ree, mutevoli e individuali ; la razionalità (ratio), discorsiva e argomen-
tativa, sorretta e guidata nei suoi percorsi, sempre parziali, dalle regole
delle arti liberali ; e l’intelligenza intuitiva superiore, o intelletto (intel-
lectus, animus), che colloca al vertice degli atti di conoscenza naturali
la percezione diretta, non dimostrata ma evidente nella sua stessa
enunciazione, delle verità più alte e primordiali, non dipendenti da altri
presupposti conoscitivi.
Così, per esempio, nel Commentarius in Iohannis evangelium la
ripropone come spiegazione allegorica dell’episodio della Samaritana,
in una densa pagina esegetica finalizzata a descrivere la certezza che lo
stesso processo di redenzione dell’umanità sia subordinato al ristabilirsi

6
Sull’origine platonica della dottrina della polipartizione delle facoltà dell’anima
cf. il mio saggio « L’anima dei platonici. Per una storia del paradigma gnoseologico
platonico-cristiano fra Rinascimento, tarda-Antichità e alto Medioevo », in G. MAR-
CHETTI, O. RIGNANI, V. SORGE (Ed.), Ratio et superstitio. Essays in Honor of Graziella
Federici Vescovini, Louvain-La-Neuve, 2003, p. 421-482 (Textes et études du
Moyen-Âge, 24), in partic. alle p. 440-443. Sull’incidenza di questa dottrina nel pen-
siero di Boezio, cf. ancora i miei studi : « Cernens omnia notio (Cons., V, iv, 17).
Boezio e il mutamento dei modelli epistemologico-conoscitivi fra tarda antichità e
alto medioevo », in M. L. SILVESTRE, M. SQUILLANTE (Ed.), Mutatio rerum. Letteratura
Filosofia Scienza tra tardo antico e altomedievo, Atti del Convegno di Studi (Napoli,
25-26 novembre 1996), Napoli, 1997, p. 185-218 (Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici. Il pensiero e la storia, 37) ; e « Boezio filosofo », in A . GALONNIER (Ed.),
Boèce, ou la chaîne des savoirs, Actes du Colloque international de la Fondation
Singer-Polignac (Paris, 8-12 1999), Louvain-La-Neuve, Paris, Dudley (Ma), 2003,
p. 381-419 (Philosophes médiévaux, 44).
LE FATICHE DI EVA 25

del giusto ordinamento delle facoltà dell’anima nella considerazione


della verità. La donna di Samaria, alla quale Cristo chiede di attingere e
dargli da bere l’acqua della conoscenza con la quale l’umanità cerca di
avvicinarsi al mistero divino, viene infatti da lui invitata, se vuole
pervenire alla giusta comprensione delle sue vere parole, portatrici di
vita eterna, a sottomettersi al proprio uomo, che rappresenta il vertice
della sua capacità di conoscere, che a sua volta dovrà sottomettersi a
lui, ossia all’intelletto divino o Verbo7 : mentre dunque il vir, ossia
l’elemento maschile dell’anima simboleggiato dallo sposo della Sama-
ritana, è proposto come simbolo della facoltà superiore, l’« intellectus »
(o indifferentemente, nel linguaggio eriugeniano, « animus », o
« mens », o anche in senso stretto « spiritus », che sono tutti termini
equivalenti per significare ciò che in greco è indicato con il nome
nou'")8, la figura femminile è qui invece immagine dell’intera anima
rationalis nel suo insieme, tripartita in intelletto, ragione e senso
interno, e invitata a sottomettere tutta se stessa, ossia le due parti
inferiori, alla potenza superiore che è la sola capace di dirigersi verso la
percezione del divino e che dunque, come uno sposo, deve guidare e
governare l’intero insieme :
Mulier itaque est anima rationalis […]. Hic est enim naturalis ordo humanae
creaturae, ut sub regimine mentis subaudiatur anima, mens autem sub
Christo ; ac sic totus homo per Christum iungitur Deo et Patri. […] Ternaria
quippe rationabilis animae divisio est, in animum et rationem et sensum
interiorem. Animus semper circa Deum volvitur, ideoque vir atque rector
caeterarum animae partium merito dicitur, quoniam inter ipsum et Crea-
torem suum nulla alia interposita est creatura. Ratio vero circa rerum
creatarum causas et cognitiones versatur, et quicquid animus a superna
contemplatione percipit, rationi tradit, ratio vero commendat memoriae.
Tertia pars animae est sensus interior, qui rationi subditur, quasi superiori se
parti ac per hoc per rationem subditur menti. Sub illo vero interiori sensu,

7
Cf. G IOVANNI SCOTO ERIUGENA, In Iohannis Evangelium, IV, IV-V, PL 122, 334C-
336C (ed. É. JEAUNEAU, Paris 1972, S.C. 180, p. 296, 1-308, 48).
8
Cf. Ibid., V , 336A (p. 302, 14-304, 16) : « Cuius [scil. mulieris] vir intelligitur
animus, qui multipliciter nominatur : aliquando enim intellectus, aliquando mens,
aliquando animus, saepe etiam spiritus. » Cf. anche ID ., Periphyseon, II, PL 122,
574B (ed. É. JEAUNEAU, Turnhout 1997-2003, CCCM 161-165, p. 66, 1513-1515) :
« NOUÇ a graecis, a nostris intellectus vel animus vel mens dicitur et substantialiter
est et principalis pars animae esse intelligitur. »
26 GIULIO D’ONOFRIO

naturali ordine, sensus exterior positus est, per quem tota anima quinque-
pertitum corporis sensum vegetat, regit, totumque corpus vivificat. Quoniam
itaque anima rationalis nil de supernis donis percipere valet nisi per virum
suum, hoc est per animum, qui principatum totius naturae tenet, merito
iubetur mulier, anima videlicet, vocare virum suum, intellectum suum, cum
quo et per quem dona spiritualia potest bibere, absque quo nullo modo
9
supernae gratiae potest esse particeps .
Di diverso tenore è un’altra allegoria dei due elementi maschile e
femminile dell’anima, introdotta e lungamente analizzata da Giovanni
Scoto nel IV libro del Periphyseon a proposito della funzione svolta
nelle prime pagine del Genesi da Eva e Adamo quali responsabili del
capovolgimento degli esiti del progetto divino nella creazione deter-
minato dalle conseguenze della disobbedienza originale10. Sulla base di
una lettura del peccato come errore e distrazione della conoscenza dalle
sue autentiche ed originarie finalità, i progenitori dell’umanità vi sono
proposti come simbolo rispettivamente di una facoltà sensitiva dell’ani-
ma, inferiore e legata alla corporeità, e una superiore, intellettiva e
spirituale. Il mantenimento del corretto ordine gerarchico tra queste due
parti avrebbe condotto l’uomo primordiale al compimento, ossia alla
perfezione propria della sua natura. Proprio la rottura e l’inversione
della dinamica dei rapporti conoscitivi, con la parte inferiore che anzi-
ché farsi guidare da quella superiore la sovrasta e le impone la propria
visione delle cose conosciute, sono state invece il motivo stesso della
caduta dall’originaria condizione di purezza che avrebbe dovuto
consentire la contemplazione della verità : ossia del Logos divino del
quale, sempre secondo il racconto biblico, sono simbolo la fonte che
irriga il paradiso e il frutto dell’albero della vita, la cui fruizione è
vietata ai progenitori quale punizione in seguito alla colpa commessa. È
evidente come questa pagina sia inversamente complementare all’ese-
gesi eriugeniana dell’episodio evangelico della Samaritana : lì infatti la
donna, cioè l’anima razionale complessiva, colta nella condizione
attuale di ignoranza e corruzione conseguente al peccato, è invitata da
Cristo ad assoggettarsi alla guida dell’intelletto perché la sua cono-
scenza razionale, confusa e distratta dalla corporeità possa essere da

9
In Iohannis Evangelium, IV,v, 336AC (p. 302, 13-308, 45).
10
Cf. complessivamente il tractatus de paradiso in Periphyseon IV, 814B-860A
(p. 103, 3081-167, 5163).
LE FATICHE DI EVA 27

esso guidata verso la verità del Verbo ; qui viene invece narrato l’ante-
fatto, la distrazione dell’anima dalle autentiche finalità conoscitive cui
era originariamente destinata, per l’errore della parte sensibile che ha
coinvolto nella sua caduta anche l’intelletto.
Questa lettura allegorica delle figure di Adamo ed Eva nel para-
diso terrestre non è però originale. Giovanni Scoto, esplicitamente, di-
chiara di attingerla ad una pagina del De paradiso di Ambrogio, il
quale, a sua volta, la leggeva nel De opificio mundi di Filone :
Namque ante nos fuit qui per voluptatem et sensum praevaricationem ab
homine memoraverit esse commissam, in specie serpentis figuram accipiens
delectationis, in figura mulieris sensum animi mentisque constituens, quam
aijvsqhsin vocant Graeci : decepto autem sensu praevaricatricem secundum
historiam mentem asseruit, quam Graeci nou'n vocant. Recte igitur in graeco
11
nou'" viri figuram accepit, aijvsqhsi" mulieris .

Seguendo il modello di Ambrogio, e sottoponendo questo suo


breve testo ad un generoso commento parafrastico, Giovanni Scoto
attribuisce dunque ad Eva, tentata dal serpente e a sua volta tentatrice di
Adamo, il ruolo di rappresentare la facoltà sensibile (« sensus animi
mentisque »), che inganna le sfere superiori dell’anima e le rende
peccatrici (« praevaricatrix mens »), offuscandone la capacità di coglie-
re la verità intelligibile di tutte le cose nel Verbo divino. L’aisthesis di
Ambrogio, elemento femminile dell’anima, descrive cioè qui per

11
A MBROGIO DI M ILANO , De paradiso, 2, 11, PL 14, 279B (ed. C. SCHENKL, Praha,
Wien, Leipzig, 1897, CSEL 32/1, p. 271, 8-15), citato da GIOVANNI SCOTO in Periphy-
seon, IV, 815BC (p. 105, 3129-106, 3144) ; e cf. Ibid., 3, 12-14, 279C-280A (p. 272,
3-21), citato in Periphyseon, IV, 815C-816A (p. 106, 3144-3163). L’autore cui Am-
brogio allude in questo passaggio (« ante nos fuit ») è FILONE DI A LESSANDRIA, De opifi-
cio mundi, 157-166, ed. L. COHN, P. WENDLAND, Philonis Alexandrini opera, I, Berlin,
1896, p. 54-58. Giovanni Scoto suggerisce invece che possa trattarsi di Origene, al-
meno per quanto riguarda la posizione dottrinale che identifica il paradiso terrestre
con la natura umana originaria (« omnino, ut aestimo, Origenem sequens, quamvis
eum aperte non nominarit ») : l’editore Jeauneau suggerisce in apparato la possibilità
che si riferisca alle Omelie origeniane, In Genesim e/o in Exodum. Sull’utilizzazione
eriugeniana del trattato di Ambrogio sul paradiso cf. dello stesso É. JEAUNEAU, « Le De
paradiso d’Ambroise dans le livre IV du Periphyseon », in M.-O. GOULET-CAZÉ,
G. MADEC, D. O’BRIEN (Éd.), SOFIHS MAIHTORES (Chercheurs de sagesse). Hom-
mage à Jean Pépin, Paris, 1992, p. 561-571 (Coll. des Études augustiniennes, 131).
28 GIULIO D’ONOFRIO

l’Eriugena, con il nome di sensus, una vis bifronte, intermedia tra


spirito e corpo, vera e propria cerniera tra l’interiorità psichica e la per-
cezione corporea, che avrebbe dovuto orientarsi verso l’interiorità ma
ha potuto anche inclinare pericolosamente sull’altro versante ed essere
così responsabile di una perniciosa distrazione dell’intera intelligenza
dal suo oggetto naturale. La riduzione a due degli elementi costitutivi
dell’anima, femminile-sensitivo e maschile-intellettuale, giustificata in
questa pagina dall’autorità della fonte e apertamente innestata sul duali-
smo antropologico paolino (l’homo exterior e l’homo interior di 2Cor
4,16, Rm 7,22 e Eph 3,16-17), ha comunque una portata più ristretta
rispetto all’articolazione delle tre partes humanae animae che abbiamo
visto sottoscritta dall’Eriugena tanto nella glossa su Tritonia quanto nel
Commento a Giovanni. Per mettere ordine all’interno della gerarchiz-
zazione platonica delle facoltà, Giovanni Scoto reinterpreta allora il
dualismo ambrosiano, proprio nel corso del suo commento a queste
pagine del De paradiso, attingendo al De hominis opificio di Gregorio
di Nissa, da lui stesso tradotto in latino con il titolo di De imagine, una
ulteriore divisione in sei parti della natura umana bipartita : tre
inferiori, corrispondenti all’homo exterior, che sono il corpo, composto
da materia e forma, la capacità nutritiva e vegetativa (nutritiva et
auctiva, detta anche vitalis motus perché vivifica e muove il corpo nello
spazio e nel tempo) e il senso esteriore, articolato nei cinque sensi
corporei, che raccoglie e affida alla memoria tutte le manifestazioni
delle cose sensibili ; e tre superiori, costitutive dell’homo interior (ossia
dell’anima), che sono : il senso interno, che considera, distingue e
giudica tali manifestazioni sensibili ; la ratio, che ascende all’aspetto
intelligibile della verità valutando le rationes, ossia i principi
intellettuali che soggiacciono all’essere di qualsiasi cosa particolare,
corporea o spirituale ; e l’animus, ossia l’intelletto superiore, che ha il
compito di governare tutte le facoltà inferiori e, su questa base, di
spingere la propria capacità contemplativa fino alla possibile
percezione di ciò che è al di sopra della natura umana, ossia Dio stesso
e le cause primordiali nel suo Verbo12.

12
Cf. Periphyseon, IV, 824C-825B (p. 118, 3542-119, 3580) : « Quisquis itaque
textum sermonis beati Gregorii De imagine intentus inspexerit, senariam totius huma-
nae naturae, et generaliter in omnibus et specialiter in singulis partitionem reperiet.
Ac primum in duas veluti principales partes segregatur : et una quidem corpori at-
LE FATICHE DI EVA 29

Mentre dunque una certa complessità scaturisce, nel maturarsi


della concezione antropologica dell’Eriugena, dall’esigenza di conci-
liare tra loro le divergenti informazioni (tutte, complessivamente, di
matrice neoplatonica) provenienti dalle fonti patristiche, si delinea
anche nella sua mente l’opportunità di una distinzione, nel ruolo attri-
buito da Ambrogio alla componente femminile della conoscenza, tra il
senso esteriore e corporeo e il senso interno, che è una delle parti
dell’anima13. È però importante precisare come alla base di questa com-

tribuitur, altera vero animae. Et ea quidem quae corpori (exteriori videlicet homini)
datur, in tres partes rationabili contuitu separatur. Quarum prima corpus ipsum est,
formata materia constitutum […]. Secunda pars est […] nutritiva et auctiva, quia
nutrit corpus et auget et continet in uno, ne defluat et solvatur ; vocatur etiam vitalis
motus […]. Tertia pars est quae in quinquepertito corporeo sensu dinoscitur, quae
videlicet pars phantasias omnium rerum sensibilium quae circa hominem exteriorem
intelliguntur recipit memoriaeque tradit. In his tribus partibus totus exterior homo
constituitur. Interior vero homo, qui in anima sola subsistit et ad imaginem Dei factus
est, alteram tripertitam recipit discretionem : habet enim sensum interiorem, per quem
anima phantasias sensibilium rerum, quas per corporeum sensum excipit, discernit
atque diiudicat ; deinde rationem possidet, per quam omnium rerum, quas vel intelli-
gere vel sentire potest, rationes investigat ; summum hominis est animus, ultra quem
in humana natura nihil superius invenitur, cuius proprium officium est et praedictas
partes inferiores se regere, et ea quae supra se sunt (Deum suum videlicet et ea quae
in ipso et proxime circa ipsum subsistunt), quantum sinitur ascendere, contemplari. »
— Come segnala Jeauneau in apparato, il riferimento è a GREGORIO DI N ISSA, De opifi-
cio hominis (De imagine), 8, PG 44, 144D-145C, e 14, 173D-176B (vers. latina di
Giovanni Scoto, ed. a c. di M. CAPPUYNS, in RTAM, 32 (1965), [p. 205-262], p. 217, 3-
14 e 230, 3-29).
13
Questa precisazione della concezione gerarchica delle facoltà umane si delinea
per altro in riferimento stretto alla collocazione centrale e riassuntiva dell’uomo
nell’opera creatrice divina, tanto per il fatto di essere un composto di sostanza corpo-
rea e sostanza spirituale, quanto per il suo ricomprendere sotto forma di diversi atti di
conoscenza tutti i gradi dell’essere riassumibili nella ramificazione dell’albero porfi-
riano della categoria della sostanza : dal semplice esse del grado corporeo, al vivere
della vita vegetativa, alla sensibilità degli animali, alla razionalità (propria della
natura umana), all’intelligenza (che l’uomo condivide con gli angeli) ; cf. Periphy-
seon, IV, 825B (p. 119, 3581-3583) : « Videsne igitur senariam humanae naturae
discretionem ? Est enim, et vivit, et sentit per corpus, sentit extra corpus, ratiocinatur,
intelligit » ; e cf. Ibid., III, 755D (p. 21, 558-564). La stessa articolazione è proposta
da G IOVANNI S COTO nelle Expositiones in Ierarchiam coelestem, 4, 1, ed. J. BARBET,
30 GIULIO D’ONOFRIO

plessa articolazione della propria concezione antropologica egli abbia


sempre mantenuto la certezza dell’unità, unicità e semplicità sostan-
ziale dell’anima e la sua indivisibilità di fatto in parti costitutive della
sua essenza, come accade invece nel corpo : le diverse funzioni ricono-
sciute come peculiari di distinte facoltà (vires) sono attuazioni dei suoi
diversi movimenti, variamente suscitati e orientati dal mutare della
natura dell’oggetto cui è volta la conoscenza14. Questo giustifica la

Turnhout, 1975 (CCCM, 31), p. 69, 138-152, come correzione ad una simile gerarchia
ma in quattro gradi soltanto (ossia senza inclusione della sensibilità) che si deduce
dalle parole dello pseudo-Dionigi : « Omne siquidem quod divinam bonitatem par-
ticipat aut solummdo est, aut et est et vivit, aut et est et vivit et ratiocinatur, aut et est
et vivit et rationis et intellectus capax. Ubi notandum quod, dum ceteri auctores
utriusque linguae quinquiformem universitatis conditae dividunt modum – omne enim
quod creatum est aut solummodo est, aut est et vivit, aut est et vivit et sentit, aut est et
vivit et sentit et rationis capax, aut est et vivit et sentit et rationis capax et intelligit (eo
enim modo humanam segregant et angelicam naturam, humanae quidem rationem,
angelicae vero distribuentes intellectum) – iste magister quadripartitum diffinit mo-
dum, attribuens videlicet irrationabilibus animantibus sensum, qui tamen, quoniam
communis est et rationabilibus et irrationabilibus animantibus, suum ceteris auctori-
bus in divisione naturae locum optinere videtur. » Simili descrizioni scalari della
realtà con la collocazione dell’uomo al centro della corrispondente gerarchia di per-
fezioni, sono frequenti anche in AGOSTINO (a titolo di esempio, la graduazione di esse,
vivere, sentire, intelligere, beatum esse in De civitate Dei, VIII, 1, PL 41, 225 ; e
Ibid., XI, 16, 336), e negli autori carolingi che da lui dipendono. Sull’antropologia
eriugeniana cf. B. STOCK, « The Philosophical Anthropology of Johannes Scottus Eri-
ugena », in Studi Medievali, 8 (1967), p. 1-57 ; M. NALDINI , « Gregorio Nisseno e
Giovanni Scoto Eriugena. Note sull’idea di creazione e sull’antropologia », Ibid., 20.2
(1979), p. 501-533 ; W. OTTEN, « The Role of Man in the Eriugenian Universe : De-
pendence or Autonomy », in Giovanni Scoto nel suo tempo. L'organizzazione del
sapere in età carolingia, Atti del XXIV Convegno storico internazionale dell'Acca-
demia Tudertina e Centro di studi sulla spiritualità medievale (Todi, 11-14 ottobre
1987), Spoleto, 1989, p. 595-609 ; EAD., The Anthropology of John Scottus Eriugena,
Leiden, 1991 ; J. PEPIN, « Human and Animals : Aspects of Scriptural Reference in
Eriugena’s Anthropology », in B. MCGINN, W. OTTEN, Eriugena : East and West, Notre
Dame, London, 1994, p. 179-206.
14
Cf. Periphyseon, IV, 754BC (p. 20, 511-522) : « Tota enim in seipsa ubique est
per totum : tota siquidem vita est, tota intellectus, tota ratio, tota sensus, tota memoria,
tota corpus vivificat, nutrit, continet, auget, tota in totis sensibus species rerum sensi-
bilium sentit ; tota ipsarum rerum, ultra omnem corporeum sensum, naturam et ra-
LE FATICHE DI EVA 31

possibilità di sfumare variamente le distinzioni e attribuire molteplici


nomi a tali facoltà per descrivere le operazioni corrispondenti, anche
operando, quando necessario, una duttile contaminazione delle teorie e
delle classificazioni reperibili nelle fonti. Tale elaborazione di informa-
zioni dottrinarie, di volta in volta adeguate alla situazione richiesta dal
succedersi delle questioni speculative nel corso del dialogo tra Maestro
e Discepolo nei cinque libri del Periphyseon, si evidenzia dunque in
modo particolare a proposito della centralità che assume nella gerarchia
degli atti di conoscenza la facoltà del conoscere sensibile, suggerendo
l’opportunità di una ulteriore precisazione e distinzione tra da una parte
la situazione naturale di superiorità del senso interno su quelli esteriori
(Eva prima del peccato) e, dall’altra, l’inversa condizione di illecita
supremazia delle suggestioni corporee che offuscano l’interiorità
dell’intelligenza (Eva dopo il peccato).
Si assiste così nelle pagine di Giovanni Scoto ad una certa
oscillazione nella sua considerazione del ruolo che spetta nel composto
antropologico alla parte ‘femminile’. L’impostazione di Ambrogio, con
l’identificazione tra la donna e il sensus corporeus, orienta l’intero
tractatus de paradiso del quarto libro, ed è anche anticipata (in riferi-
mento appunto agli « spirituales sexus animae ») nel secondo libro del
Periphyseon, in una delle glosse marginali dipendenti dalla seconda
mano irlandese (i2), che introduce spesso allargamenti del testo dei
primi libri finalizzati a raccordarlo con quanto viene detto più avanti
nel corso dell’opera : « NOUÇ siquidem, id est intellectus, veluti
quidam masculus in anima est, AIÇQHÇIÇ vero (id est sensus) veluti
quaedam femina15 » ; del resto, commentando un’affermazione di
Massimo il Confessore, Giovanni Scoto sottolinea l’identità femminile,
evidente anche sul piano grammaticale, di ciò che corrisponde al
16
termine aisthesis . Ma già nelle Annotationes in Martianum, nel nono

tionem tractat, discernit, coniungit, diiudicat ; tota extra et supra omnem creaturam, et
seipsam, quia in numero creaturarum comprehenditur, circa suum Creatorem intelli-
gibili motu atque aeterno dum omnibus vitiis purgatur circumvolvitur. »
15
Periphyseon, II, 541A (p. 23, marg. 221-223).
16
Cf. Ibid., IV, 813BC (p. 102, 3041-2043) : « Corporeum sensum, per quem
Adam deceptus est, in figuram mulieris vult intelligi. Nam apud graecos AIÇQHÇIÇ,
id est sensus, feminini generis est. » ; e cf. Ibid., 833AB (p. 130, 3947-3949) :
32 GIULIO D’ONOFRIO

libro dedicato alla Musica, al sensus latino Giovanni Scoto fa invece


corrispondere la dianoia, sulla base di una falsa etimologia del nome
della dea Dione, presentata come madre di Venere e quindi come ori-
gine della libido che scaturisce dai sensi carnali17, laddove, apertamente
e articolatamente, la presentazione del senso interno come diavnoia è
introdotta nel secondo libro al centro di una lunga classificazione dei
tre motus platonici dell’anima, descritta come imago della trinità di-
vina18. Qui, in particolare, mostrando la sovrapponibilità della triparti-
zione psicologica in intellectus, ratio e sensus alla triade ontologica di
essentia, potentia e actus di origine pseudo-dionisiana19, Giovanni

« Naturae siquidem humanae vir est intellectus, qui a Graecis vocatur NOUÇ, mulier
sensus, qui feminino genere AIÇQHÇIÇ exprimitur. »
17
Cf. Annotationes in Martianum, 9, 479, 5 (p. 191, 26-192, 1) : « DIONE mater
Veneris, quasi DIANOIA, id est sensus : delectatio ideoque mater Veneris fingitur, quia
omnis libido delectatione carnalium sensuum nascitur ».
18
Periphyseon, II, 568D-580A (p. 58, 1345-73, 1714).
19
Cf. PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA, De caelesti hierarchia, 11, 2 (PG 3, 284D), nella
vers. eriugeniana, PL 122, 1059D : « In tria dividuntur secundum se supermundana
ratione omnes divini intellectus, in essentiam et virtutem et operationem » ; ID . , De
divinis nominibus, 4, 1 (PG 3, 693BC), PL 122, 1129A : « Per quos [scil. radios]
subsistere invisibiles et intellectuales omnes et essentiae et virtutes et operationes per
eos sunt » ; e cf. Periphyseon, II, 566D-567A, p. 55, 1275-1289. La triade ontologica
ritorna negli scritti di Massimo il Confessore : o sotto forma di riferimenti sporadici
(cf. Ambigua ad Johannem, 6, 41, PG 91, 1184D-1185A, nella vers. eriugeniana, ed.
É. JEAUNEAU, CCSG, 18, Turnhout, 1988, p. 97, 1538-1540 : « Quod enim infinitum
est omni ratione et modo infinitum est, per essentiam, per virtutem, per opera-
tionem ») ; o senz’altro come principio metafisico fondamentale per spiegare come
come tutte le cose che sono siano in Dio perfettamente immutabili (come essenze) e al
tempo stesso da Lui eternamente e perfettamente mosse (nel passaggio dalla potenza
all’atto), fino ad essere tutte verso Lui stesso orientate come loro fine naturale (cf.
Ibid., 11, 1216A-1221B, vers. eriug., p. 119, 55-122, 147). La corrispondenza di
questa triade con le parti dell’anima è assicurata appunto dalla concezione della cono-
scenza come un movimento dell’interiorità psichica. Così come potenza ed atto, se-
condo Dionigi, non sono che manifestazioni imperfette ed incompiute della realtà
essenziale, ragione e senso sono solo esteriorizzazioni imperfette della pura realtà
dell’intelletto e dell’essere da esso conosciuto, mentre l’intelletto si orienta verso la
verità suprema, ossia verso Dio in sé, mirando a cogliere, al di sopra di qualsiasi
manifestazione esteriore, sensibile o intelligibile, la sostanzialità pura delle essenze
eternamente sussistenti nel Verbo divino. La ragione si orienta invece alle stesse
LE FATICHE DI EVA 33

Scoto si sofferma infatti a precisare la distinzione di senso interno ed


esterno, chiarendo che soltanto il primo fa parte realmente dell’anima
ed è coessenziale alle altre due superiori facoltà, ragione e intelletto :
questo perché anche se il senso esterno è evidentemente, in quanto atto
di conoscenza, collegato all’attività dell’anima, tuttavia esso si risolve
proprio nell’essere l’effetto di una certa coniunctio tra corpo e anima ; e
cessa le proprie funzioni di « internuntium corporis et animae » con la
morte e la dissoluzione della compagine corporea20. Proprio queste
osservazioni giustificano allora lo slittamento delle corrispondenze con
la nomenclatura greca della divisione delle facoltà : l’aisthesis (anche

cause primordiali ma in quanto sono rese manifeste nell’ordine degli effetti molteplici
dalla loro efficacia produttiva, quali principia rerum. Ed il senso interno si orienta
infine verso gli effetti stessi, sia visibili sia invisibili, per coglierne la concatenazione
effettuale. L’intellectus o animus corrisponde dunque all’ousia in quanto è capace di
giungere alla perfezione della conoscenza dell’apparire del divino nel creato, grado
massimo consentito alla creatura, fino alla identità con la causa primordiale ; la ratio
coincide con la potenza, quale presenza in forma nucleare della capacità di essere e di
apparire degli effetti quando ancora è racchiusa nelle rispettive cause primordiali ; il
sensus con l’atto, cioè con la successione delle diverse attualità in cui si realizza la
natura creata, che è poi il diffondersi e il concretizzarsi delle singole potenzialità nelle
ultime e infeconde manifestazioni dell’essere finito, nella molteplicità esteriore
dell’accidentalità spazio-temporale : cf. Periphyseon, II, 570AC (p. 60, 1386-61,
1399). Ho presentato la centralità della triade ontologica pseudo-dionisiana nell’opera
di Giovanni Scoto nel mio saggio « Inoperans gratia : Problemi del neoplatonismo
cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena », in
M. SÁNCHEZ SORONDO (Ed.), L'atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Atti del Collo-
quio internazionale (Laterano, 17-19 gennaio 1989), Roma, 1990, p. 337-366 (Dia-
logo di filosofia, 7).
20
Cf. Periphyseon, II, 569A-569B (p. 58, 1349-59, 1358) : « Sensum autem dico
non exteriorem, sed interiorem. Nam interior coessentialis est rationi atque intellectui.
Exterior vero, quamvis plus ad animam pertinere <quam ad corpus> videatur, non
tamen essentiam animae constituit, sed, ut aiunt graeci, coniunctio quaedam est ani-
mae et corporis : soluto enim corpore et recedente vita, penitus interimitur. Nam si in
anima maneret et ad substantiam eius pertineret, eo profecto etiam extra corpus
uteretur. At vero quia sine corpore eo nec utitur nec uti potest, relinquitur nec in cor-
pore soluto manere nec animae regimen corporis deserenti adhaerere. » L’inte-
grazione « quam ad corpus » è ancora una delle precisazioni marginali di i2, eviden-
temente finalizzata ad armonizzare maggiormente questo testo del secondo libro con
gli sviluppi dell’allegoria di Eva nel quarto.
34 GIULIO D’ONOFRIO

se simbolicamente corrispondente alla parte femminile dell’anima


secondo l’autorità di Ambrogio) non può essere considerata una delle
sue parti costitutive, ma ne è piuttosto il limite esterno, il confine che la
separa dalla corporeità e che traduce in forma di atti di conoscenza,
corrispondenti ai cinque sensi corporei, le informazioni provenienti
dall’esterno :
Et si quis intentius graecae linguae proprietatem perspexerit, duorum
sensuum in homine proprietatem reperiet. In ea enim NOUÇ intellectus
dicitur, LOGOÇ ratio, DIANOIA sensus, non ille exterior sed interior ; et in
his tribus essentialis trinitas animae ad imaginem Dei constitutae subsistit :
est enim intellectus et ratio et sensus, qui dicitur interior et essentialis.
Exterior vero, quem corporis et animae copulam diximus, AIÇqHÇIÇ
vocatur, instrumenta autem in quibus possidet AIÇQHTHRIA, quasi
AIÇQHÇEWÇ THRIA (hoc est sensus custodiae). In eis enim sensus custo-
ditur et operatur. Et sunt numero quinque : visus, auditus, olfactus, gustus,
21
tactus .

Questo precisarsi del pensiero di Giovanni Scoto in materia gno-


seologica accompagna evidentemente il maturare della sua concezione
antropologica, di evidente impianto platonizzante, dal semplice dua-
lismo anima-corpo ad una più articolata descrizione delle molteplicità
funzionali delle attività della conoscenza umana : ma è anche indica-
tiva, alla base di tale dottrina, del progressivo consustanziarsi nella sua
mente di una adesione sempre più aperta e intenzionale ai fondamenti
speculativi propri del platonismo cristiano, quale gli viene presentato in
particolare dalle fonti greche.
Buona parte della riflessione filosofico-teologica dell’Occidente
latino altomedievale ha complessivamente mutuato da Agostino (in
particolare dagli sviluppi della sua polemica contro lo scetticismo acca-
demico) un radicato convincimento realista, secondo il quale la cono-
scenza vera è sempre l’esito di un manifestarsi compiuto ed esauriente
della realtà in sé della cosa conosciuta, quella stessa realtà che la cosa
possiede in quanto è eternamente voluta e contemplata da Dio. Il plato-
nismo teologico degli autori di lingua greca è invece più avanzato verso
una accentuazione della natura fenomenica del conoscere, secondo cui
la realtà della cosa si manifesta al soggetto che la conosce soltanto ade-
guandosi alle forme e ai condizionamenti naturali propri della sua fa-

21
Ibid., 569BC (p. 59, 1359-60, 1369).
LE FATICHE DI EVA 35

coltà di volta in volta messa in atto : il che significa, evidentemente,


che soltanto Dio coglie, nel Verbo, la verità autentica, prima e origi-
naria di ciascun oggetto conoscibile, mentre tutte le creature inferiori
capaci di conoscenza possono soltanto apprendere il manifestarsi di
quei caratteri propri della cosa che sono compatibili, in quanto simili,
con la natura delle facoltà successivamente impiegate dal soggetto. Il
senso si raffigura dunque solo gli aspetti accidentali e particolari della
realtà corporea, la ragione penetra al di sotto delle apparenze esterne
per astrarne il fondamento intelligibile e tradurlo in concetti universali,
l’intelletto coglie la primitiva inalterabilità delle essenze : ma nessuna
di queste facoltà creaturali è effettivamente capace di percepire l’ultima
realtà dell’essere, che coincide con l’idea divina corrispondente. È
evidente allora come un più complesso moltiplicarsi del numero delle
facoltà dell’anima umana e un accentuarsi delle corrispondenti distin-
zioni fra gli atti di conoscenza siano, presso autori tardo-antichi o
altomedievali più sensibilmente influenzati dal modello della specula-
zione neoplatonica greca (come Boezio o Giovanni Scoto), l’indizio più
evidente di una decisa adesione ai fondamenti di questa impostazione
gnoseologica, che può correttamente essere definita fenomenismo
platonico-cristiano.
Agostino documenta invece il fondamento realista della propria
speculazione con una palese tendenza alla semplificazione dell’arti-
colazione interna delle facoltà dell’anima umana. Nel De libero arbi-
trio, per esempio, si limita a distinguere il sensus interior, concepito
come attività di coordinamento dei sensi esterni e coscienza delle per-
cezioni, dalla ratio, che accoglie le informazioni provenienti dal senso
interno e le formalizza in una teorizzazione scientifica22. E nel dodice-
simo libro del De trinitate, pur accedendo in un contesto di discussione
del pensiero platonico alla differenziazione tra una cognitio rationalis e
una cognitio intellectualis, che corrispondono rispettivamente a quelli
che nel linguaggio paolino sono descritti come sermo scientiae e sermo
sapientiae, Agostino non presenta queste due forme di conoscenza
come l’esito del diversificato approccio alla medesima realtà da parte di
due distinte facoltà della mente umana, ma come la contemplazione di
due diversi oggetti : le cose temporali, che sono colte dalla cognitio
rationalis con uno sguardo rivolto all’esteriorità e alle informazioni

22
Cf. AGOSTINO DI IPPONA, De libero arbitrio, II, 3, 8 – 7, 15, PL 32, 1244-1249.
36 GIULIO D’ONOFRIO

provenienti dal senso ; e le cose eterne e immutabili, che sono colte


invece interiormente dalla cognitio intellectualis23. L’errore di Eva ten-
tata dalla sensualità è quindi considerato da Agostino come una con-
cessione non a un grado di conoscenza inferiore, ma a una considera-
zione e un conseguente ingiustificato apprezzamento di oggetti del
conoscere diversi da quelli che per volontà divina avrebbero dovuto
essere propri dell’uomo se avesse saputo mantenere la propria dignità
originaria, di modo che la prima donna può da lui essere proposta quale
figura della ratio in cerca della scientia24 : per cui, apertamente, ritiene
opportuno rifiutare – pur senza fare nomi – l’allegoria delle due parti
dell’anima (uomo-mens, donna-sensus) raccomandata da Ambrogio nel
De paradiso, perché a suo parere nell’esegesi della narrazione del
Genesi è meglio attribuire invece al serpente tentatore la funzione di
rappresentare la sensibilità, che è la conoscenza propria degli animali
ed è per l’uomo sempre ingannatrice, mentre ad Adamo ed Eva corri-
spondono semmai due distinti orientamenti, verso differenti oggetti,
della razionalità, che è invece la peculiare forma di conoscenza naturale
umana25.
La diversa impostazione, rispetto a questa agostiniana, acquisita da
Giovanni Scoto a partire dalla sua lettura delle fonti patristiche greche è
facilmente esemplificabile se si prende in considerazione un testo degli
Ambigua ad Johannem di Massimo il Confessore, citato in traduzione e
dettagliatamente analizzato nel secondo libro del Periphyseon, nel
quale la divisione e la disposizione gerarchica delle facoltà dell’anima
sono apertamente proposte proprio come giustificazione della natura
soltanto fenomenica della conoscenza umana nel corso della vita
terrena. In forme e per graduazioni diverse, i vari atti di conoscenza vi
sono in effetti posti in collegamento con le fasi successive da una parte
del processo di discesa e allontanamento ontologico di tutte le cose da
Dio, scandito prima dagli esiti dell’opera della creazione e poi dalle
conseguenze del peccato dell’umanità, e quindi, dall’altra, di quello

23
Cf. ID., De trinitate, XII, 15, 25, PL 42, 1012 ; la medesima impostazione ritorna
anche più avanti nell’opera (cf. Ibid., XV, 1, 1, 1057), quando Agostino propone una
composizione dell’anima umana in parte sensibile e mens o animus, che a sua volta si
articola in ratio e intelligentia.
24
Cf. Ibid., XII, 12, 17, 1007-1008.
25
Cf. Ibid., 13, 20, 1008-1009.
LE FATICHE DI EVA 37

inverso del ritorno dell’universo creato a Dio : ciascuno dei tre modi
della conoscenza umana, senso, ragione e intelletto, è infatti rivolto alla
conoscenza del manifestarsi della verità ultima delle cose, ossia alle
rationes eorum quae sunt, ma ciascuno, avverte Massimo, tenta di rea-
lizzarla nel corso della storia nei modi e nella misura consentita alle
rispettive possibilità, mentre soltanto in Dio risiede la capacità di
cogliere in sé tale verità nella sua totale e perfetta identità26.
Giovanni Scoto si allinea con decisione a questa scelta fenome-
nista e la porta alle conseguenze più avanzate. E chiarisce che la stessa
corporeità, connotato proprio delle cose sensibili (ossia oggetto della
conoscenza sensibile), non è un carattere sostanziale, ontologicamente
proprio della creatura, ma è l’esito di un suo apparire, di un trasparire
deviato del suo autentico essere, che è la substantia originaria pensata
da Dio nel suo Verbo creandola : tale trasparire, che è dunque soltanto
apparenza e non realtà, è sempre effetto del concorso di connotazioni
puramente accessorie e limitanti della sostanza, ossia gli accidenti, per
mezzo dei quali è necessario che essa appaia agli organi del senso, che
li assorbono e se ne nutrono per poter elaborare e proiettare poi fuori di
sé un’immagine dell’oggetto che non è in sé realmente sussistente
come tale27. Secondo un insegnamento più volte ribadito negli scritti di
Massimo il Confessore a tale manifestarsi della realtà, in sé intelli-
gibile, nelle apparenze del sensibile è corretto attribuire il nome greco
28
di phantasia : vera confusione (confusio o commixtio ) di forme, qua-
lità e quantità, spazio e tempo e aspetti accidentali della materia che in
sé considerati hanno anch’essi soltanto una natura intelligibile, ma che
vengono introdotti nella formazione della fantasia proprio per opera
delle funzioni conoscitive inferiori dell’anima29. Ma questo significa

26
Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua ad Johannem, 6, 3, PG 91, 1112D-1116D
(vers. eriug., p. 48, 119-50, 202). La parziale citazione-parafrasi eriugeniana di questo
testo è in Periphyseon, II, a partire da 572C (p. 63, 1469 sg.).
27
Questo tema, ricorrente nell’opera, è direttamente affrontato da Giovanni Scoto
in Periphyseon, I, 495B-503D (p. 74, 2274-85, 2635).
28
Cf. Periphyseon, I, 488C (p. 65, 1976 e 1983).
29
Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua ad Johannem, marg., 6, 167 [phantasiam]
(ed. Jeauneau, p. 266, 1-24) ; e, su phantasia e phantasma, cf. G IOVANNI SCOTO, Pe-
riphyseon, III, 659BC (p. 59, 1668-1683). Diverso è invece il significato di questi
termini secondo Agostino (cf. Soliloquia, III, 20, 34-35, PL 32, 902-904), per il quale
38 GIULIO D’ONOFRIO

evidentemente che, nelle condizioni attuali della conoscenza umana,


successivamente e al di sopra della conoscenza sensibile anche le ope-
razioni della ratio e poi dello stesso intellectus noetico sono il risultato
del sovrapporsi di connotazioni interiori sull’inafferrabilità ultima della
sostanza in sé della cosa conosciuta : ossia sono pur sempre fantasie,
più perfezionate e intelligibili, ma prodotte e sovrapposte alla natura
ultima della cosa dall’attività dell’anima intelligente30. Vi sono dunque
due generi di fantasie : esterne, provenienti dai sensi, e interiori, prove-
nienti dalla ragione e dall’intelletto, a conferma della continuità tra le
attività conoscitive inferiori e quelle superiori, dunque anche tra intelli-
genza animale ed intelligenza umana31. Proseguendo su questa linea,
persino nella forma di conoscenza intellettuale più elevata possibile
all’uomo, quella del profeta o del beato (che per intervento divino rag-
giungono il massimo grado della riunificazione scalare delle facoltà
dell’anima e contemplano Dio nel modo più diretto lecito alla creatura),
è necessario ammettere che la creatura coglie il proprio oggetto di
conoscenza, ossia l’unità e trinità di Dio, sempre e soltanto sotto forma
di phantasia : o, più correttamente in questo caso, di theophania, una
formazione fenomenica che consente (secondo i canoni della teologia
negativa pseudo-dionisiana) l’apparizione di elementi altamente rappre-
sentativi della cosa significata ma che non potrà però mai essere con-

phantasia e phantasma corrispondono a ingannevoli rappresentazioni mentali pro-


dotte da un non controllato atto della memoria, per esempio quando la mente si raf-
figura un ente geometrico con i caratteri particolari e fisicamente determinati di un
oggetto sensibile e non nella sua autentica e universale intelligibilità. Sulla phantasia
in Giovanni Scoto cf. J.-C. FOUSSARD, « Apparence et apparition : la notion de phanta-
sia chez Jean Scot », in R. ROQUES (Ed.), Jean Scot Érigène et l’histoire de la philoso-
phie, Colloque du C.N.R.S. (Laon, juillet 1975), Paris, 1977, p. 337-348.
30
Cf. M ASSIMO IL CONFESSORE, Ibid. (p. 266, 1-8) : « Omne quod ex visibilibus in
sensu formatur creaturis passibilis phantasia dicitur, et ab intelligibili quodam imagi-
natur […]. Similiter et ratio phantasia est impassibilis praecedentis se immutabilisque
rationis. Neque aliter intelligendum de animo, passibili dico, nisi quod phantasia sit
intellectualis et impassibilis animi. »
31
Cf. Ibid. (p. 266, 8-11) : « Phantasiarum igitur duo genera sunt, unum quod ex-
trinsecus ex sensibilibus per sensum animae inprimitur, alterum quod ab interioribus
rationibus atque intellectibus in anima versatur. » Cf. la stessa osservazione in una
glossa di i2 in Periphyseon, II, 573C (p. 65, marg. 540-547).
LE FATICHE DI EVA 39

fusa in quanto tale con la verità in sé del divino32. Anche l’intellectus,


dunque, la forma di conoscenza più pura con cui l’uomo si accosta ai
misteri teologici, è destinato a rimanere ad un livello di imperfezione
rappresentativa, anche quando raggiunge il grado di massima puri-
ficazione da ogni contagio con apparenze fantastiche di ordine infe-
riore33. Gli stessi angeli, la cui conoscenza naturale è quella del perfetto
intellectus svincolato da qualsiasi dipendenza da ordini inferiori di
conoscenza, conoscono le cause primordiali di tutte le cose in Dio,
meglio e più intuitivamente di tutte le altre nature conoscenti, ma sem-
pre per il tramite delle teofanie34. Solamente l’eterno, perfetto e inesau-
ribile intelletto di Dio medesimo ha dunque una conoscenza piena-
mente adeguata della verità di sé e del suo operato, quale essa è in sé e
nella sua interezza, e dunque della propria divina essenza e dell’essenza
di tutte le cose create35.
Il fenomenismo platonizzante cristiano di Giovanni Scoto non va
scambiato per un nichilismo, né di natura scettica, né inteso quale
conseguenza di una radicale concezione mistica della realtà che rasen-
terebbe il solipsismo divino. Le realtà determinate delle creature, intel-
ligibili e corporee, sono per lui qualcosa di effettivamente creato da Dio
come reale (un aliquid), ma la loro vera sussistenza è nelle cause
primordiali che le fanno essere, non nell’apparire degli effetti alla cono-

32
Cf. Periphyseon, I, 448BC (p. 12, 263-269) : « Eo enim modo et angelos Deum
semper videre arbitror, iustos quoque et in hac vita dum mentis excessum patiuntur et
in futuro sicut angeli visuros esse. […] Non ergo ipsum Deum per se ipsum vide-
bimus […] sed quasdam factas ab eo in nobis theophanias contemplabimur. » E cf.
Ibid. 456A (p. 23, 589-591) : « Non enim est unitas neque trinitas talis qualis ab hu-
mano quamvis purissimo cogitari aut angelico intellectu etsi serenissimo considerari
potest. » Sulle teofanie cfr. T. GREGORY, « Note sulla dottrina delle “teofanie” in Gio-
vanni Scoto Eriugena », in Studi Medievali, 4 (1963), p. 75-91.
33
Cf. Expositiones in Ierarchiam coelestem, 1, 3, 138D-139B (p. 15, 506-531) ; 2,
3, 158D-159C (p. 37, 660-38, 691).
34
Cf. Periphyseon, I, 446C (p. 9, 179-183).
35
Cf. Expositiones in Ierarchiam coelestem, 14, 1, 251B (p. 186, 47-49) : « Divina
autem sapientia ideo dicitur GNOSTICA, id est cognitiva, quia omnia quae per ipsam et
in ipsa facta sunt sola intelligit et circumscribit » ; e cf. In Iohannis Evangelium, 3, 4,
318C (p. 218, 21-25) : « Ipse est enim sapientia quae nec fallit nec fallitur. Ipse est
visio quae omnia, priusquam fierent, vidit ; et ipsa visio substantia est eorum quae
visa sunt. Cuius testimonium verum est quoniam ipse est veritas. »
40 GIULIO D’ONOFRIO

scenza creaturale, risultato del tentativo umano di considerarne la verità


con le sole proprie forze naturali. Dalla realtà delle cause scaturisce
quella degli effetti, come dalla luce e dalla solidità di un ostacolo fisico
che si oppone ai suoi raggi si produce l’ombra, che in sé non ha sussi-
stenza alcuna, pur essendo qualcosa di determinato (ossia un aliquid)36.
Su tale sfondo riveste dunque un valore determinante la corretta
comprensione dell’articolazione delle funzioni conoscitive creaturali, in
quanto ciascuna di esse è responsabile di un diverso modo di apparire
della realtà : perché se la condizione di imperfezione che caratterizza le
facoltà inferiori quando sono affette dalle phantasiae corporee prende il
sopravvento e si traduce in un condizionamento delle facoltà superiori,
il loro errore rischia di immobilizzarsi – ossia di immobilizzare il
soggetto conoscente e, con esso, tutta la realtà da esso conosciuta – in
quella che sembra essere una oggettiva condizione di decadimento del
reale e ne è invece soltanto una imperfetta e limitata manifestazione.
Massimo il Confessore delinea il ruolo del teologo cristiano come colui
che è incaricato di portare a perfezione già nel corso della storia attuale,
ossia prima del chiudersi del reditus universale, le attività conoscitive
dell’anima, risolvendo i limiti delle facoltà inferiori in un trascen-
dimento di ciascuna di esse in quella direttamente superiore : e in
questa sua prospettiva, come frequenti accenni mostrano nelle sue
opere, il compito di avviare e guidare la conversione della conoscenza
all’ordine superiore delle cause primordiali è affidato alla facoltà inter-
media, il lovgo", corrispondente nel latino eriugeniano alla ratio, organo
della comprensione teoretica scientificamente ordinata e del perfezio-
namento pratico dell’anima37. Giovanni Scoto, prendendo in questo
parzialmente le distanze da Massimo, sembra insistere invece sul ruolo
decisivo che per l’orientamento dell’intera anima deve essere affidato
al senso interno. Laddove infatti la fonte sottolinea la capacità della
ratio a sollevare l’anima dal peso della carnalità per mezzo della
disciplina spirituale e quindi a distaccarsi dalla contaminazione con il
sensus (qui l’aisthesis), proprio mentre redige la sua traduzione di
queste parole l’Eriugena le glossa correggendone e quasi invertendone

36
Cf. Periphyseon, I, 501BC (p. 82, 2535-2543).
37
Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, Quaestiones ad Thalassium, Introd., PG 244D-249A
(ed. C. LAGA, C. STEEL, testo greco e vers. eriugeniana, CCSG 7, Turnhout, 1980, vers.
p. 16, 10-22, 97).
LE FATICHE DI EVA 41

il significato : ed afferma che proprio il sensus, se inteso come atto di


conoscenza inferiore ma « a sensibilibus segregatus », svolge la fun-
zione di un “ponte” tra l’anima e il corpo (pons animae), per mezzo del
quale è possibile ascendere dalla sensibilità corporea alla ragione, da
questa all’intelletto e, infine, come deve essere capace di fare l’au-
tentico teologo, dall’intelletto a Dio38. La libertà interpretativa che in
questo caso il traduttore-commentatore sembra prendersi nei confronti
del testo di Massimo – come talvolta accade anche in altre episodiche
occasioni in cui Giovanni Scoto corregge le fonti greche per adeguarne
insegnamenti particolari al proprio sistema39 – sembra in effetti dipen-
dere dal progressivo delinearsi nella sua mente dell’esigenza di insi-
stere sulla funzione mediana che il sensus interior è chiamato a svolge-
re tra uomo esteriore e uomo interiore, quale motore potenziale della
crescita ascensiva dell’intelligenza umana in cerca di Dio o della sua
caduta verso la molteplicità sensibile : funzione che non può dunque
essere propria della ratio, in quanto attività conoscitiva già rivolta al
puro intelligibile, oggetto delle scienze liberali.
Quando designa il senso (interno) con il nome di dianoia, Gio-
vanni Scoto sembra in effetti alludere ad una primitiva forma di razio-
nalità, appunto « separata dalle cose sensibili » e già discorsiva e argo-
mentativa, ma di tipo inferiore : imperfetta in quanto ancora costretta,

38
Cf. Ibid., Prologus, 264C (vers. eriug., p. 10, 51-57) : « <Malitiam> demolitur
militans ratio perque disciplinam spiritualem mundi carnisque generationem perscru-
tatur et naturam et ad cognatam invisibilium regionum reducit animam […], non
habens veluti pontem ad intellectum transportantem se adhuc sensum, iam ad animam
copulatione dissolutum sensibilibusque speculis proiectum, quorum transiens im-
petum naturamque animus omnino non sentit. » ; e cf. la glossa di Giovanni Scoto a
queste parole, fra gli Scholia originali apposti alle Quaestiones (Ibid., schol. 6, p. 12,
17-14, 19) : « Pons animae est sensus a sensibilibus segregatus, per quem ad ratio-
nem ascendit et ex ratione ad intellectum et ex intellectu ad Deum. »
39
Cf. R . R OQUES, « Valde artificialiter : Le sens d’un contresens », in Annuaire de
l’École Pratique des Hautes Études, 77 (1969-70), p. 31-72 ; ID ., « Traduction ou
interprétation ? Brèves remarques sur Jean Scoto traducteur de Denys », in
J. J. O’MEARA , L. BIELER ( Ed.), The Mind of Eriugena, Dublin, 1973, p. 59-76 ;
G. D’ONOFRIO, « Natura e Scrittura. Due nuove edizioni di testi eriugeniani », in Studi e
materiali di storia delle religioni, N.S. (già Studi storico-religiosi), 8 (1984), p. 155-
172, in partic. p. 171-172 ; e ID ., « Inoperans gratia : Problemi del neoplatonismo
cristiano… », cit. (alla nota 19), in partic. p. 337-339.
42 GIULIO D’ONOFRIO

rispetto al maggiore rigore concettuale e dimostrativo della ratio (ossia


del logos), a trascorrere da un dato conoscitivo all’altro senza potersi
fermare su conclusioni universali solide e definitive40. È come se, sotto
l’influenza di Massimo ma quasi procedendo ulteriormente rispetto ad
essa, egli abbia intravisto nella distinzione di senso interno e razionalità
una duplicazione dei piani logici con cui l’anima si accosta al vero per
definirlo, comprenderlo e comunicarlo, simile alla distinzione di argo-
mentazione probabile (o dialektikhv) e argomentazione universale e
necessaria (o ajpodeiktikhv) proposta da Aristotele all’inizio dei suoi
Topica41. In tale prospettiva al senso interno, oltre il compito di forma-
zione delle immagini corporee (secondo l’impostazione di Agostino),
spetta allora anche quello di argomentare a partire dal particolare, e
dunque in forma ancora elementare e probabile, consolidando in questo
modo il raccordo unificante dei dati provenienti dai sensi esterni che
poi la ragione tradurrebbe, ad un livello superiore, in termini rigoro-
samente necessari e inequivocabili. È evidente come Giovanni Scoto
sia stato spinto ad accentuare questo aspetto dall’opportunità di assicu-
rare maggiore necessità e incontrovertibilità alla scienza razionale,
ossia ai percorsi definitori dimostrativi delle arti liberali in generale, e
della dialectica, più specificamente, quando si liberano dal condizio-
namento delle conoscenze particolari e colgono la necessità delle leggi
stabilite da Dio per il creato.
La considerazione del senso interno come facoltà, invece, dell’uti-
lizzo imperfetto e incerto della dialettica e delle altre arti liberali, finché
sono collegate al piano della singolarità corporea e non si elevano al

40
Cf. Periphyseon, II, 570C (p. 61, 1395-1397 e marg. 510-512) : « Tertia vero
pars DIANOIAÇ et ENERGEIAÇ (id est sensus et operationis) vocabulis denominatur
<et veluti extremum humanae animae obtinet locum ; nec inmerito, quoniam circa
effectus causarum primordialium, sive visibiles sive invisibiles sint, circumvolvi-
tur> » ; e cf. Ibid., 573A-574A (p. 64, 1482-1493) : « Tertius modus […] compositus
dicitur, non quod in se ipso simplex non sit quemadmodum primus et secundus sim-
plices sunt, sed quod non per se ipsas sensibilium rerum rationes incipit cognoscere :
primo siquidem phantasias ipsarum rerum per exteriorem sensum quinquepertitum
[…] accipiens easque secum colligens, dividens, ordinans, disponit ; deinde per ipsas
ad rationem earum quarum phantasiae sunt perveniens, intra se ipsam eas tractat atque
conformat. »
41
Cf. A RISTOTELE, Topica, A, 1, 100ab. E cf. SEVERINO BOEZIO, In Topica Ciceronis
commentaria, I, PL 64, 1045BC.
LE FATICHE DI EVA 43

livello dell’universalità, emerge in modo evidente proprio nel corso del


tractatus de paradiso nel quarto libro del Periphyseon, aperto con la
citazione dell’allegoria di Ambrogio, dove complessivamente l’inter-
pretazione del racconto relativo al peccato originale mira a rendere
conto di come l’errore conoscitivo si sia trasformato nel principio di
una complessiva corruzione ontologica per l’intera creazione. A partire
dal suggerimento ambrosiano, determinante sarà in questa vicenda il
ruolo svolto dal personaggio di Eva e dal suo rapporto con i due alberi
paradisiaci : quello della vita, simbolo del Logos, ossia della capacità di
orientare le funzioni dell’anima verso la contemplazione in Dio del
sommo Bene che riassume in sé tutti i beni particolari, e quello della
scienza del bene e del male, che simboleggia invece la possibilità di
passare alla considerazione dei beni particolari come distinti tra loro e
diversificati da quello sommo, e quindi come non più bene ma male42.
Entrambi questi alberi sono collocati « in medio paradisi » : il che,
secondo un suggerimento di Gregorio di Nissa, significa al centro non
solo del paradiso terrestre, ma della stessa natura umana prima del
peccato. E infatti, come ogni altra realtà terrena subito dopo la
creazione, la natura paradisiaca di Adamo è caratterizzata dal perfetto
equilibrio degli elementi primordiali che la costituiscono : la terra del
paradiso-uomo è la vera essenza del corpo di cui è stato dotato da Dio e
che prima del peccato ha in sé la potenzialità (possibilitas) di essere
incorruttibile e immortale ; l’acqua è il senso interno proprio di tale
corpo potenzialmente incorruttibile, che avrebbe potuto conoscere le
cose considerandole nella razionalità e dunque senza assoggettarsi alle
false apparenze delle fantasie che provengono dai sensi esterni ; l’aria è
la ragione, che considerava direttamente e per illuminazione le nature
di tutte le cose, ossia le pure essenze delle creature volute e pensate da
Dio nel Verbo ; l’etere è l’intelletto, che si volgeva ininterrottamente
verso Dio medesimo pur senza poterlo mai cogliere e presumerne una
rappresentazione esauriente43.

42
Cf. Periphyseon, IV, 823A-829B (p. 115, 3458-124, 3772).
43
Cf. Ibid., 822AC (p. 114, 3430-3441) : « Cuius terra fertilis erat corpus immor-
tale per possibilitatem […] ; cuius aqua, formarum capax, sensus incorruptibilis cor-
poris, sensibilium rerum sine ulla falsitatis deceptione phantasiis formatus ; cuius aer
divinae sapientiae radiis illuminatur ratio erat, qua rerum omnium naturas cogno-
sceret ; cuius aether, animus, circa divinam naturam aeterno et inerrabili motu immu-
tabili et mutabili statu circumvolveretur. »
44 GIULIO D’ONOFRIO

Se i due alberi, della vita e della scienza del bene e del male, sono
collocati « in medio paradisi », è perché al centro della natura umana si
pone la conoscenza sensibile, discrimine del corretto orientamento
tanto del corpo quanto dell’anima verso il vero bene. È allora evidente
che la scelta del male (malitia) coincide con l’innaturale orientamento
dell’anima verso l’ordine materiale anziché verso quello intelligibile,
che la porta ad accordare falsamente una realtà sostanziale a qualcosa
che, sradicato dalla partecipazione al sommo Bene, è soltanto appa-
renza fantastica (« malitia in phantasia boni colorata »). Ovviamente, se
il senso fosse in grado di conoscere la deformitas in cui si risolve la
malitia, non soltanto non la seguirebbe né cercherebbe in essa diletto,
ma la fuggirebbe aborrendola44. In quanto responsabile di questo avere
accolto l’inganno delle phantasiae e di avere convinto la razionalità di
cedere al proprio stesso errore, è la sensibilità esterna (ossia l’aisthesis)
ad essere identificata, come insegna Ambrogio, con la « mulier » che si
nutre, ossia si diletta della falsa assunzione di una immagine fantastica,
non riconoscendone la natura apparente45. Così, quando sceglie di
cogliere i frutti dell’albero proibito, che simboleggia il moltiplicarsi e il
differenziarsi degli atti conoscitivi in una confusione di apparenze prive
di partecipazione della verità sostanziale, la sensibilità esterna compie
il male, che altro non è se non tale « perversus irrationabilis motus »

44
Cf. Ibid., 826AB e 826C (p. 120, 3610-3620 e 121, 3635-3638) : « In interiori
homine habitat veritas et omne bonum, quod est Verbum Dei, Filius Dei unigenitus,
dominus noster Iesus Christus, extra quem nullum bonum est, quoniam ipse est omne
verum et substantiale bonum et bonitas. Cui e contrario, ex diversa parte, malum et
malitia opponitur. Et quia omne malum nec in natura rerum substantialiter invenitur,
neque ex certa causa et naturali procedit […] nullam aliam in universa creatura sedem
reperit, nisi ubi falsitas possidet : propria autem falsitatis possessio est sensus cor-
poreus. […] Malitia siquidem per se deformitas quaedam est et abhominabilis turpitu-
do. Quam si per se ipsam errans sensus cognosceret, non solum non sequeretur neque
ea delectaretur, verum etiam fugeret et abhorreret. »
45
Cf. Ibid., 826D-827A (p. 121, 3653-3659) : « Est igitur, ut praediximus, lignum
scientiae boni et mali malitia perniciosa mortiferaque in figura boni imaginata ; et est
hoc lignum veluti intra quandam feminam (in carnali scilicet sensu, quem decipit)
constitutum. Cui sensui si animus consenserit, totius naturae humanae integritas cor-
rumpitur. Excelsissima nanque naturae parte praevaricante, qualis inferior salva re-
manebit ? »
LE FATICHE DI EVA 45

della natura razionale dell’anima46, in quanto cede alla tentazione : cedi-


mento che viene scandito da un tradursi della falsa conoscenza in
desiderio e compiacimento della volontà (prima « appetitus », poi
« amor », quindi « concupiscentia » e infine « delectatio »), rappre-
sentata nella Scrittura dalla figura del serpente e di fatto consistente
nella confusa intrusione delle false rappresentazioni corporee nella
considerazione interiore del vero, e quindi nella rinuncia da parte
dell’anima alla giusta contemplazione del vero, cioè di Dio, e da parte
del corpo alla guida dell’anima47.

46
Cf. Ibid., 826A (p. 120, 3614-3620) : « Et quia omne malum nec in natura rerum
substantialiter invenitur, neque ex certa causa et naturali procedit – per se enim con-
sideratum omnino nihil est, praeter irrationabilem et perversum imperfectumque ra-
tionabilis naturae motum – nullam aliam in universa creatura sedem reperit, nisi ubi
falsitas possidet. »
47
Cf. Ibid. 827AB (p. 121, 3659-122, 3669) : « Cuius ligni fructus mixta scientia
est ex bono et malo, hoc est indiscretus mali bono imaginati appetitus, et amor, et
concupiscentia, et delectatio. Per quam, veluti per quendam colubrum, antiquus hostis
humani generis primo praevaricationem suasit, deinde mortem totius naturae adiecit,
animae quidem deserentis Deum, corporis vero ab anima deserti. Scientia itaque in
hoc loco non doctrinam quandam cognitionis et diiudicationis naturarum, sed illicitum
motum atque confusum appetitum ad concupiscendum malum (hoc est peccatum)
similitudinis boni falsa specie seducendi gratia coloratum significat. » E cf. Ibid.,
829D-830A (p. 125, 3792-3799) : « Cuius [i. e. humanae naturae] paradisi mixtae
scientiae est lignum indiscreta vel confusa carnalium sensuum appetitio in diversas
libidines, sub forma boni latentes, et incautas animas decipientes ac perimentes. Cuius
vir animus est, universae humanae naturae praesidens. Cuius mulier sensus, cui in-
caute animus consentiens perditur. Cuius serpens illicita delectatio, qua ea, quae car-
nalem sensum delectant, illicite ac damnabiliter concupiscuntur. » Questa parte del
tractatus de paradiso eriugeniano è ampiamente ispirata da una pagina della già citata
Introduzione delle Quaestiones ad Thalassium di M ASSIMO IL C ONFESSORE , PG 91,
256A-261A (vers. eriug., p. 34, 266-40, 349) – in parte trascritta da GIOVANNI SCOTO,
Ibid., 842C-843A (p. 143, 4381-144, 4402) –, in cui si insegna che il male è ignoranza
che acceca l’intelletto e libera da ogni vincolo il senso, sottraendo del tutto al primo la
scienza divina, ed immettendo nel secondo la conoscenza passibile : « intellectum
(nous) obcaecans humanum, sensum (aisthesis) vero plane aperiens » ; e che quindi il
peccato originale è l’orientamento inadeguato dell’uomo verso il mondo sensibile,
con conseguente scelta di servire il corpo piuttosto che Dio : per cui, esplicitamente,
viene proposta la spiegazione dell’albero del bene e del male come simbolo di una
scienza non autentica, che giunge attraverso l’esperienza sensibile, « mixtam per
46 GIULIO D’ONOFRIO

Ma è soprattutto nella rilettura delle parole della punizione del


serpente prima e di Eva poi che emerge il compito fondamentale della
sensibilità (esterna e interna), la cui conversione dalla falsa corporeità
alla verità degli intelligibili sarà il più importante effetto della grazia di
Cristo : proprio qui, infatti, l’esegesi eriugeniana delle prime pagine del
Genesi si congiunge idealmente con quella dell’episodio evangelico
della Samaritana, inteso come esortazione, simmetricamente inversa
alla descrizione delle conseguenze della caduta, a portare a compi-
mento gli effetti della redenzione come restaurazione dell’ordine origi-
nale della conoscenza, invertito dalle conseguenze del peccato. Innanzi
tutto la sentenza (Gn 3,15) con cui l’eterno giudice stabilisce una
« magna inimicitia » tra il serpente e la donna equivale all’annuncio
divino – che ha in tale contesto (ossia nel momento della caduta
dell’umanità dalla perfezione originaria) un valore assolutamente profe-
tico – dell’avvio della complessiva purificazione della conoscenza
conseguente alla redenzione. Il nome di aisthesis, « sensus corporeus »,
designa a partire da questo momento l’intera sfera della conoscenza
congiunta (o congiungibile) con le affezioni materiali, comprensiva
dunque dei cinque sensi corporei e del flusso di informazioni che essi,
passando attraverso il senso interno, trasmettono alle facoltà superiori :
quando l’anima è illegittimamente attratta dal corpo, la sensibilità è
proiettata verso l’esterno e le false apparizioni di immagini corporee
prive di vera sostanzialità catturano e disorientano l’anima intera ; ma
con la redenzione avviene la conversione, dalla vuotezza delle acci-
dentalità alla vera rappresentazione della sostanza, della conoscenza
sensibile, che diventa « perfectus perfectorum sensus », la sana
comprensione propria dei redenti della vera natura dell’apparire
sensibile : a partire da tale fondamentale conversione del senso, l’anima
intera viene quindi purificata e nuovamente orientata. Questo vuol dire
che la sensibilità corporea tornerà nei santi (perfecti) ad essere quella
propria del corpo di cui avrebbero goduto i progenitori se non avessero
peccato, che sarebbe stato un vero « corpus spirituale » : una sensibilità
pura, non corrotta dalle false apparenze e tesa soltanto alla conside-
razione delle verità intelligibili mostrate dalla superiore razionalità.

sensum (aisthesis) per experimentum scientiam (gnosis) ». Sull’identificazione del


serpente con la delectatio cf. il testo di Ambrogio cit. supra (in corrisp. della nota
11) ; e cf. supra, nota 17.
LE FATICHE DI EVA 47

Questa sensibilità rinnovata odierà la corporeità e avrà desiderio delle


virtù divine : per questo ci sarà odio perenne tra il seme del serpente e il
seme della donna, perché il primo è il perpetuarsi del falso godimento
dei beni particolari, il secondo è la vera conoscenza propria del senso
quando sarà purificato dall’errore, la condizione « perfecta natura-
lisque » della percezione corporea della verità, autentica perché guidata
dalla capacità ascensiva e unificante della ragione. E l’atto con cui la
donna calpesterà il capo del serpente significa la capacità da parte della
conoscenza sensibile rinnovata e purificata di annullare le immagini
molteplici dell’apparenza materiale48.
In modo solenne e definitivo, la promessa divina di questa
conversione della sensibilità è poi confermata dalle parole di condanna
rivolte ad Eva, « multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos, in
labore paries filios » (Gn 3, 16), rese gravide di significato, in parti-
colare, per la felice ambiguità del termine conceptus (che vale sia per
concepimenti, ossia figli, sia per concetti, prodotti mentali della cono-
scenza guidata dalle regole della dialettica e delle altre arti) :
Mulieri quoque dixit : Multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos ; in
labore paries filios. Ubi aperte datur intelligi quod, si homo non peccaret,
non solum interiori intellectu, verum etiam exteriori sensu naturas rerum et
rationes summa facilitate, omni ratiocinationis necessitate absolutus,
purissime contemplaretur. Postquam vero peccavit, per organa exterioris
sensus non nisi solas sensibilium superficies, et quantitates, et qualitates,
situs quoque et habitudines, caeteraque quae corporeo sensui succumbunt,
animus percipit : et haec omnia non per se ipsa, sed per eorum phantasias

48
Cf. Ibid., 851AC (p. 155, 4764-156, 4792) : « I NIMICITIAS PONAM INTER TE ET
MULIEREM, ET SEMEN TUUM ET SEMEN EIUS. Mulier est sensus corporeus, naturaliter huma-
nae naturae insitus. Per quam, in his videlicet qui perfecti sunt, visibilis creaturae
pulchritudo ad laudem Creatoris refertur. Inter quam, mulierem dico, et serpentem,
hoc est libidinosam delectationem materialis pulchritudinis diabolicamque callidita-
tem in eam possidentem, magna inimicitia a Deo constituta est : mulier quippe, hoc
est perfectus perfectorum sensus, odit materialium rerum carnalem appetitum, serpens
vero spiritualium divinarumque virtutum inimicum habet desiderium. ET SEMEN TUUM
ET SEMEN ILLIUS. Semen mulieris est rerum visibilium perfecta naturalisque ac multi-
plex cognitio, omni errore sublato. […] IPSA CONTERET CAPUT TUUM. […] Quod caput in
sensu perfectorum fidelium conteritur. Non enim eos diabolica fallit astutia, neque
primae suggestioni latenter subrepenti praestant introitum, seu irrationabili motui
accommodant accessum. »
48 GIULIO D’ONOFRIO

attingit, quas secum tractans suum iudicium saepissime fallitur, ac per hoc,
non sine multiplicibus studiorum laboribus, quos aerumnas mulieris
scriptura nominat, ad multiplices conceptus (id est ad inchoationes
intelligibilium rerum intelligentiae) atque filios (hoc est rectas rationes de
natura rerum) procreandos per eundem sensum potest pervenire. Propterea
autem aerumnas et conceptus filiosque exteriori sensui divina deputat
auctoritas, quoniam omne studium sapientiae omnisque mentis conceptio
puraque veritatis cognitio a sensibus corporis auspicium sumunt, ab
inferioribus ad superiora, et ab exterioribus ad interiora ratione gradatim
49
ascendente .

Se l’umanità non avesse peccato, la capacità di considerare


direttamente (purissime) le cause primordiali (naturae o rationes
rerum), senza alcuna necessità di fondarsi sulle tortuose mediazioni
della ragione (omni ratiocinationis necessitate absolutus), sarebbe stata
non soltanto la prerogativa conservata dall’animus, ma, complessi-
vamente, una capacità conoscitiva estesa a tutta la sfera interiore
dell’anima (qui Giovanni Scoto, continuando il linguaggio di Ambro-
gio, dice intellectus interior, ma intende l’homo interior nell’insieme
delle sue facoltà, correttamente governate dall’intelletto). Dopo il
peccato, invece, l’immissione nell’anima di verità provenienti dai
cinque sensi (organa del senso esterno) confonde lo sguardo delle
facoltà interiori con la diversità dei suoi oggetti, la cui limitatezza è
esemplificata dalle determinazioni categoriali che immobilizzano in
molteplici caratterizzazioni esteriori l’apparire delle phantasiae : e
proprio queste sono le forme concettuali che il senso interno elabora e
comunica alla ragione, sforzandosi in questo modo di rendere conto del
modo di essere delle cose delle quali non vede, da solo, l’unitarietà
sostanziale. Le stesse verità, dunque, che prima del peccato sarebbero
state oggetto immediato dell’intelletto, senza il supporto né dei sensi
esterni, né di quello interno, né della mediazione razionale, dopo il
peccato sono invece mascherate nelle forme conoscitive proprie delle
parti inferiori dell’anima : ossia nelle immagini cristallizzate delle
accidentalità superficiali (quantità, qualità, siti, abiti o abitudini, ecc.)
di cui si nutrono le fantasie. Il moltiplicarsi dei dolori e delle fatiche di
Eva annuncia perciò la complessità degli atti conoscitivi, delle attività
di indagine e di studio con cui l’intelligenza, partendo dalla logica

49
Ibid., 854D-855B (p. 160, 4932-161, 4953).
LE FATICHE DI EVA 49

inferiore del senso esterno ancora legata alla singolarità del particolare,
si sforza di ascendere alla logica superiore e intelligibile, ma ancora
imperfetta, della ragione, per avviarsi, nella misura in cui è relativa-
mente possibile all’uomo in questa vita, verso la diretta contemplazione
intellettuale : ed è proprio per questa necessità dell’iniziale conversione
del senso, indispensabile perché possa avere inizio la conoscenza
universalizzata degli oggetti della scienza razionale, che il compito di
avviare con le fatiche del parto concettuale la risalita dell’anima verso
la verità viene assegnata al senso interno.
I figli di Eva sono appunto le verità prodotte dalla mente nel suo
studio delle scienze liberali, quelle norme immutabili che governano il
pensiero dell’uomo perché corrispondono alle leggi che Dio ha stabilito
per la creazione : verità nascoste nelle apparenze fantastiche colte dai
sensi esterni, che sono ancora particolari e mutevoli quando il senso
interno le elabora in rappresentazioni imperfette per offrirle alla ragione
che le immobilizza nella necessità delle definizioni, divisioni,
argomentazioni e concatenazioni intelligibili (rectae rationes de natura
rerum). Ma allora l’immenso labor, la fatica inenarrabile che costa il
compiersi di questa avventurosa ricerca della scienza da parte
dell’umanità, cui inizialmente è condannato il senso esterno perché ne
determini l’avvio con la produzione delle phantasiae, sarà, nel maturare
dell’opera conoscitiva, compito dell’anima intera, tutta impegnata
nell’indagine sull’immutabile verità delle cause che si nascondono
sotto il velo delle sensazioni. Dalla sensibilità ha dunque origine
l’intera ricerca filosofica (studium sapientiae)50, l’intero processo che
porta a prendere coscienza delle verità prime (ogni mentis conceptio,
ossia – come Giovanni Scoto puntualizzava nel De praedestinatione –
ogni enthymema o intuizione originaria da cui le discipline scientifiche

50
Fra le moltissime attestazioni classiche e tardo-antiche della corrispondenza del
nome philosophia al sintagma studium sapientiae merita di essere ricordata quella in
AGOSTINO, De vera religione, 5, 8, PL 34, 126 (« creditur et docetur, quod est humanae
salutis caput, non aliam esse philosophiam, id est sapientiae studium, et aliam reli-
gionem »), utilizzata per fondare la propria famosa formula dell’identità di filosofia e
fede (« conficitur inde veram esse philosophiam veram religionem conversimque
veram religionem esse veram philosophiam ») da Giovanni Scoto all’inizio del De
divina praedestinatione, 1, 1, 357C-358A (ed. M ADEC, p. 5, 9-18 ; ed. MAINOLDI, p. 6,
14-21).
50 GIULIO D’ONOFRIO

prendono le mosse come dai propri princìpi)51 : perché la ricerca della


verità è un processo che procede sempre dall’esterno verso l’interno e,
con questo e proprio per questo, dall’inferiore al superiore52.
Così come nell’esortazione alla « mulier » Samaritana, anche la
condanna-redenzione di Eva si conclude con la proclamazione della sua
soggezione all’uomo, suo intellectus : « et sub viri potestate eris et ipse
dominabitur tui » (Gn 3, 16). Con queste parole Dio promette infatti la
« restitutio naturalis ordinis humanae naturae », che equivale ad una
« reversio in antiquum statum conditionis » : le facoltà spirituali
dell’anima (mens) saranno correttamente orientate alla contemplazione
del bene, in quanto la più alta di esse, l’animus che tutte le governa,
sarà nuovamente soggetto e obbediente alla potenza del creatore ;
anche la sensibilità (sensus), in quanto nel suo essere cerniera con il
corpo è parte dell’anima, sarà quindi soggetta alle facoltà spirituali ; e il
corpo stesso sarà infine soggetto al senso, invertendo la attuale condi-
zione di « divortium » o « discidium » tra Dio e la creatura e converten-
dola in una definitiva « pax et armonia53 ». La punizione divina, descri-

51
Cf. sopra, nota 4 e testo corrispondente.
52
È dunque la nota concezione agostiniana secondo cui le arti liberali accompa-
gnano l’anima nell’ascesa dalla verità dalle cose corporali a quelle incorporee che
viene così armonicamente sovrapposta e integrata al dualismo paolino di homo inte-
rior e exterior. Cf. A GOSTINO, Retractationes, I, 5, 6, PL 32, 591 : « disciplinarum
libros conatus sum scribere […] per corporalia cupiens ad incorporalia quibusdam
quasi passibus certis vel pervenire vel ducere » ; De magistro, I, 12, 40, PL 32, 1217 :
« Cum vero de iis agitur quae mente conspicimus, id est intellectu atque ratione, ea
quidem loquimur quae praesentia contuemur in illa interiore luce veritatis qua ipse qui
dicitur homo interior illustratur et fruitur » ; De vera religione, 26, 48-49, PL 34,
143 : « Haec est vita hominis viventis ex corpore, et cupiditatibus rerum temporalium
colligati : hic dicitur vetus homo et exterior et terrenus […]. Hunc autem hominem,
qui veterem et exteriorem et terrenum descripsimus […] nonnulli agunt totum ab
istius vitae ortu usque ad occasum. Nonnulli autem istam vitam necessario ab illo
incipiunt, sed renascuntur interius, et ceteras eius partes suo robore spiritali et incre-
mentis sapientiae corrumpunt et necant, et in caelestes leges, donec post visibilem
mortem totum instauretur, adstringuntur. Iste dicitur novus homo, et interior, et cae-
lestis. »
53
Cf. Periphyseon, IV, 855B-856A (p. 161, 4954-162, 4984) : « E T SUB VIRI
POTESTATE ERIS ET IPSE DOMINABITUR TUI. In hoc loco naturalis ordinis humanae naturae
restitutio divina voce promittitur et in antiquum statum conditionis reversio. Ordo
LE FATICHE DI EVA 51

vendo la situazione attuale della conoscenza creaturale, ne addita


dunque anche il necessario risanamento finale, inteso appunto come un
risolversi (conversio) della deviazione conoscitiva nel ristabilirsi del
corretto ordine delle facoltà dell’anima : « reditus humanae naturae in
pristinum ordinem54 ».
Se la creazione è una descensio di tutte le cose molteplici
dall’unità dell’Intelletto divino verso la moltiplicazione degli atti di
conoscenza creaturali, la storia universale successiva alla creazione non
può che essere intesa da Giovanni Scoto come la descrizione di un
reditus, un percorso di ritorno dalla dispersione degli effetti all’eterna e
immutabile perfezione unitaria della causa : nella prospettiva feno-
menologica eriugeniana, anche la trattazione de reditu, che nel quinto
libro del Periphyseon avrà come oggetto l’analisi delle condizioni che
consentono all’umanità redenta di tornare alla beatitudine – ossia al
nutrimento con il frutto dell’albero della vita cui era destinata per
volontà del creatore fin dall’inizio dei tempi della storia – sarà perciò
imperniata sul passaggio da una condizione conoscitiva a un’altra55.
Come infatti la caduta è determinata dal capovolgimento dell’ordine
delle facoltà conoscitive, così il ritorno non può che consistere nel

siquidem naturalis esset, si animus sui Creatoris potestati subditus atque oboediens
adhaereret, deinde sensus potestatem nutumque animi libenter sequeretur, corpus
autem sensui succumberet. Sic nanque pax et harmonia ipsius creaturae et in se ipsa
et cum Creatore suo fieret. Iam vero, post transgressionem divini mandati, talis ordo
ad quem conservandum creatus est homo talisque pax et unitas Creatoris et creaturae
perturbatus est. […] Ac per hoc veluti divortium quoddam maris et feminae subsecu-
tum est inter animum et sensum. […] Animadverte discidium legis mentis et legis
carnalis sensus, quae dominatur in membris carnaliter viventium, repugnat mentibus
spiritualium in mortalibus membris ad exercitationem virtutis. »
54
Cf. Ibid., 856AB (p. 162, 4985-4993) : « Sed hoc discidium divortiumque animi
et sensus, quando restaurabitur natura et ad naturalem ordinem revocabitur, in pacem
spiritualis naturalisque coniugii vertetur, quando corpus sensui, sensus animo, ani-
mus Deo subditus et oboediens erit. Hoc etiam apertius datur nobis intelligi si septua-
ginta editionem intendamus : ET AD VIRUM TUUM CONVERSIO TUA : ET IPSE TUI DOMINABITUR
(Gn 3, 16 sec. LXX). Quibus verbis apertissime intelligitur reditus humanae naturae
in pristinum ordinem. »
55
Cf. Ibid., V, 874B (p. 22, 610-612) : « Tota siquidem humana natura in solum
intellectum refundetur, ut nil in ea remaneat praeter illum solum intellectum, quo
Creatorem suum contemplabitur. »
52 GIULIO D’ONOFRIO

restaurarsi di esso : il restauro definitivo, compimento della somi-


glianza originaria con Dio, si avrà quando la rinnovata subordinazione
degli elementi inferiori del composto umano a quelli superiori, resa
possibile dal sacrificio di Cristo, si tradurrà nell’ultima conversione,
quella della stessa formula cristologica : quando il Verbo che si è unito
temporalmente alla creatura condurrà la natura umana alla propria
perfezione divinizzandola56. Nell’unità finale le condizioni del parti-
colare non saranno però annullate, ma sublimate nel venire assorbite
dalla realtà totalizzante del sommo bene senza perdere la loro specifi-
cità e la loro sussistenza singolare nell’essere divino. Avendo saputo
veramente conoscere e desiderare il bene, i beati lo possederanno,
perché ne sapranno formulare un giudizio totalizzante, avendo preferito
il tutto alle parti della natura : tale sarà l’uomo spirituale paolino, che
giudica tutte le cose e considera direttamente colui che è il solo che può
a sua volta giudicarlo, Dio creatore57.
Nel finale ricongiungimento con il bene si risolve dunque anche la
tripartizione della natura umana : corpo, anima e intelletto saranno una
unità semplice, nell’unità dell’intelletto (secondo Ambrogio), così
come gli intelletti saranno tutti ricompresi nella semplicità di Dio (se-
condo Gregorio di Nazianzo e Massimo il Confessore), a conferma di
come i momenti dell’ascesa dei beati verso il rientro della loro interio-
rità spirituale nella verità di Dio saranno gradi di perfezionamento
conoscitivo : quando l’ottusità silenziosa del corpo sarà riassorbita dalle
funzioni vitali e vegetative ; queste dal senso, esterno prima e interno
poi ; la sensibilità dalla ragione ; la ragione dall’intelletto o animus,
vertice dell’intera capacità conoscitiva umana58. Cosicché l’anima
umana non sarà più composta di diverse parti distinte tra loro, ma di

56
Per questa lettura in chiave gnoseologica dell’escatologia eriugeniana rinvio
complessivamente al mio saggio « Cuius esse est non posse esse. La quarta species
della natura eriugeniana, tra logica, metafisica e gnoseologia », in J. MCEVOY,
M. D UNNE (Ed.), History and Eschatology in John Scottus Eriugena and His Time,
Proceedings of the Tenth International Conference of the Society for the Promotion of
Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), Leuven, 2002,
p. 367-412 (Ancient and Medieval Philosophy, De Wulf - Mansion Centre, Series 1,
30).
57
Cf. Periphyseon, V, 970AD (p. 154, 4993-5029).
58
Cf. Ibid., 987BC (p. 177, 5785-178, 5796).
LE FATICHE DI EVA 53

una unica funzionalità di ordine superiore che riassorbirà e compren-


derà in sé tutte le attività inferiori, non annullandole ma perfezionan-
dole nella semplicità del proprio sguardo intuitivo finalmente capace di
contemplare direttamente le cause primordiali nel Verbo59.
Questo riassorbimento in unità delle conoscenze molteplici e
inferiori sarà l’esito conclusivo e lo scopo stesso delle fatiche di Eva
perduranti nel corso della storia umana : ossia dell’opera complessa e
articolata con cui le facoltà dell’anima, partendo dal senso, si impe-
gnano, secondo Giovanni Scoto, nell’elaborazione del sistema delle
scienze : che risale dalla dimensione della verità particolare, appresa e
ricomposta dal senso interno a partire dalle variegate e distraenti
informazioni dei cinque sensi esterni, a quella universale, concettua-
lizzata dalla mente umana, e da questa ai primordi intuitivi dell’intelli-
genza dai quali ogni pensiero umano scaturisce. L’intero sistema
concettuale elaborato nel Periphyseon, a partire dalla stessa divisione
della natura che tutto lo sostiene e lo orienta, si giustifica infatti come
perseguimento di questo complesso compito conoscitivo. Il senso lo
riempie dei suoi contenuti concreti, la ragione lo organizza e ne perse-
gue le infinite articolazioni parziali, l’intelletto, tertia notitia, lo unifica
sostenendolo interiormente con l’indubitabile formulazione dei suoi
generalissimi princìpi primi, apparsi già nelle primissime righe
dell’opera e dai quali tutta la divisione della natura si origina e si
dipana fino alla conclusiva riunificazione.

Università di Salerno

59
Cf. Ibid., 1020C (p. 224, 7303-225, 7307) : « Ac primus [gradus] erit mutatio
terreni corporis in motum vitalem ; secundus vitalis motus in sensum ; tertius sensus
in rationem ; dehinc rationis in animum, in quo finis totius rationalis creaturae con-
stituitur. »
JUDITH WILCOX

QUS™Æ IBN LªQÆ’S ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE


SPIRIT AND THE SOUL IN MEDIEVAL CONSIDERATIONS
OF THE INTERNAL SENSES

The tract On the Difference between the Spirit and the Soul, com-
posed during the second half of the ninth century in Baghdad by the
Syrian Christian Qus†æ ibn Lºqæ, became extremely well-known in
Europe from the mid-twelfth century in its Latin translation by John of
Seville, De differentia spiritus et animae1. Qus†æ was famous in his time
as a prolific translator of Greek scientific works into Arabic and was
the author of ninety-odd works, roughly half of which were on medical
subjects and most of the remainder on mathematical, astronomical and
philosophical subjects2. In De Differentia, he aimed to answer some
questions put to him by a wealthy official about the nature of spirit and
3
the soul, and the difference that is between them . In attempting to ex-
plain how the spirit, defined as a corpus subtile, works in the body and
carries out the powers of the soul, Qus†æ, following the second-century
physician Galen, discusses the structures of the body that are involved
and then discusses the soul and the spirit. Although the concepts of the
spirit or pneuma, as it was called by Aristotle, and the soul were ancient
and well discussed, Qus†æ’s world and the world in which De differen-
tia later circulated in Latin continued to engage in the efforts seen since
Hellenistic times to reconcile the respective ideas of Plato and Aristotle
about the nature of the soul, a tendency that is evident in De differentia.
As the text passed to the Latin West on the wave of twelfth-century

1
Editions of the Latin and the thirteenth-century Hebrew version are forthcoming
in C. BURNETT (ed.), Qus†æ ibn Lºqæ (Costa ben Luka) in the Western Tradition, to be
published by The Warburg Institute.
2
For an account of his life and works, see J. WILCOX , « Qus†æ ibn Lºqæ and the
Eastward Diaspora of Hellenic Medicine », in J. GREPPIN, E. SAVAGE-SIMTH, J. GUERIGUIAN
(eds.), The Diffusion of Greco-Roman Medicine into the Middle East and the Cauca-
sus, Delmar, New York, 1999, p. 73-128.
3
A vizir and tax collector, Isæ ibn Farrukhænshæh.
56 JUDITH WILCOX

Arabic-Latin translations rendered in Spain, it was well received on


account of a tendency to Platonism and Neoplatonism that still domi-
nated. It survives in more than 150 copies, most of which may be found
with collections of the works of Aristotle and other philosophers, and in
some collections of medical texts.
Philosophers and theologians, in particular, valued De differentia
because of a felt need to explain in new ways the connection of body
and soul. In using the Galenic model of the brain, De differentia and
other medical, philosophical and medical-philosophical books newly
translated from Arabic contributed to discussions of the higher faculties
or internal senses, that is, imagination, thought and memory. On ac-
count of its wide diffusion, De differentia may share the credit for the
adoption of the Galenic model of mental functioning by the Latin philo-
sophers during the thirteenth century, but in the matter of how the in-
ternal senses themselves are described, his work stands out for other
reasons as well. Qus†æ uses different terms for some of the mental fa-
culties than do Alfarabi, Avicenna and Averroes, the Arab philosophers
most cited in these discussions, and he also asserts an enhanced role for
the spirit acting in the ventricles of the brain in effecting these fun-
ctions.
Most innovative and important is his idea that the spirit is the me-
diator between body and soul, and the immediate cause of life in the
body. This view fits the Neoplatonic model of a universe coming into
being through a series of emanations, each of which is joined to the
next through some mediator, as the body and soul are joined by the
mediating spirit. The eleventh-century Spanish Jewish philosopher
Solomon Ibn Gabirol’s Fons vitae (The source of life) expresses this
idea, along with an associated idea, « spiritual matter », and it became a
very influential text in the West after its translation into Latin in the
twelfth century. Along with De differentia and certain works of
Avicenna, it figured during the first half of the thirteenth century in
some philosophical controversies whose outcome contributed to the
final victory of the Aristotelian model by the end of the century. Some
philosophers came to subscribe to the idea of spirit as mediator and
others discussed the idea and rejected it in favor of a more circum-
scribed role for the spirit in order to find an answer to the question
about the « plurality of forms », whether the powers of the soul are
separate substances or whether the soul is substantially one. Another
question was whether the heart is the seat of the soul, the view of Ari-
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 57

stotle and of the Arab philosophers who constructed their systems on


him, despite their adherence to Galen’s model of the brain and its fun-
ctions. Therefore, inasmuch as De differentia offered Platonic or Neo-
platonic explanations for the working together of body and soul, its
fame rose and fell with the fortunes of those ideas in the conflicts
among the Latins over the natural philosophies of Plato and Aristotle.

1. DE DIFFERENTIA SPIRITUS ET ANIMAE

Like his learned contemporaries, Qus†æ was almost wholly formed


by the medical and philosophical currents of the School of Alexandria,
which had reached its end within his lifetime, and he was conversant
with all of the intellectual and religious strains in his time and place4. In
De differentia, he aims to make the main parts of his subject, the spirit
and the bodily organs conveying it on one hand, and the soul, easily
understandable by speaking of them in turn and then explaining in a
brief conclusion the differences between them that emphasizes the role
of the spirit in the body. As an admirer of the Alexandrians, Qus†æ is
confident in the answers that are to be found in the works of the phi-
losophers Aristotle and Plato, Empedocles and Theophrastus, and the
physician Galen, and some of « those who came after them », inclu-
ding, in all probability, the third-century commentator on Aristotle,
Alexander of Aphrodisias, the fourth-century Christian bishop Nemesius
of Emessa, and John of Damascus, who lived about a century before
Qus†æ. In his prologue, Qus†æ cites specifically Aristotle’s On the Soul,
Plato’s Timaeus and Phaedo, works of Theophrastus and Empedocles
« on the soul » and Galen’s On the Doctrines of Hippocrates and Plato,
On Anatomy and On the Usefulness of the Parts of the Body.
Beginning with what he considers the « easier » subject, Qus†æ de-
fines spirit as a « subtle body » arising from the heart where it has been
transformed into « vital » spirit from air sent there from the lung, and
he describes the structures of the body that create and disperse the
spirit, the heart with its two chambers and the « pulsing veins » arising

4
See J. WILCOX, « Eastward Diaspora », op. cit., p. 103-109.
58 JUDITH WILCOX

from it, and the three-chambered brain and the systems of sensory and
motor nerves arising respectively from its front and rear ventricles. The
spirit that acts in the brain is a finer « animal » spirit formed in the an-
terior ventricle from some of the vital spirit. He outlines what the vital
and animal spirit do in the body, which is to convey all the powers of
the soul for its different functions. As for the soul, Qus†æ considers it a
difficult and complex subject, and he wants to limit his definitions of it
to those of Plato and Aristotle, though he in fact develops his explana-
tion with some details probably drawn from the works of Alexander,
Nemesius and John5.
Taking the definitions of Plato and Aristotle in turn, he explains
them word by word. Beginning with Plato’s definition, he establishes
the unicity and incorporeality of the soul and the nature of its motion
and he follows with Aristotle’s definition, in which he describes the
soul as the form of the body and asserts the necessity for the potentially
living body to be a natural body (not something made by artifice, such
as a door or bench), composite (not consisting of a single element, such
as fire or earth) and suitable to receive its particular soul or species. He
further describes the sort of powers the soul must impart to the body in
order for it to live, such as the ability to take in sustenance, to digest
and eliminate, and he says that the soul is sometimes described as three
souls, the vegetative, which belongs to every living thing, the sensitive,
which belongs only to animals and men, and the rational, which is pe-
culiar to man. Speaking finally about the differences between the spirit
and the soul, he says that the spirit is a body composed of very fine
matter which is the immediate cause of life in the body, the mediator
between soul and body that effects the powers and acts of the soul in
the body. These powers and acts and the spirit itself perish with the
body upon death, but the soul does not perish. Qus†æ emphasizes the
importance of the quality or fineness of the spirit for carrying out the
soul’s acts and links it to the state of balance in the complexion of the
body. Thus, spirit that is made up from the elements in a perfectly ba-
lanced complexion will have greater power for carrying out the acts of
the soul and, conversely, spirit that is less balanced and « fine » will be

5
I discuss the sources in the introduction to my editions of De differentia (see n. 1
above).
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 59

correspondingly less effective because the soul will not be able to act as
well through it on the body and on the mind.
Qus†æ describes how the vital spirit goes to the brain by passing
through a net of blood vessels lying under the brain to reach the first or
anterior of the three ventricles in the brain. He says that the brain is
divided into two parts or ventricles separated by a common space. The
first ventricle, which itself has two parts, passes from one side to the
other (he does not say which side) the vital spirit that has reached it and
thereby converts it into the finer, purified, animal spirit, which is more
suitable for carrying out the powers of the soul in the brain. The first
ventricle is also the source of the five external senses, hearing, taste,
touch, sight and smell, as the seven pairs of sensory nerves spring from
it and carry some of the animal spirit to the various parts of the body to
impart the different kinds of sensation. Qus†æ says in his summary later
that what the Greeks call fantasy (imagination) also operates here in the
anterior ventricle.
The « common space » or middle ventricle situated between the
double front ventricle and the rear ventricle is set off from the others by
a wormlike particle that opens it and closes it. The animal spirit works
in this space to effect understanding (intellectus) and thinking (cogita-
tio), forethought (or foresight) (providentia) and learning (cognitio).
When a man thinks (cogitaverit) or foresees something (aliquid previderit),
it is necessary that the opening between the front and the rear ventricles be
closed so that the spirit in the common space can pause in order to be
strengthened and thus acquire additional power for thinking (cogitandum)
and understanding (intelligendum), in other words, in order for it to be
stronger for understanding (intellectu) and thinking (cogitatione), foreseeing
(providentia) and learning (cognitione) ;
and he says further:
you can see this when a person is thinking and he bends his head toward the
ground and looks at it a lot as though he is writing or working out some fig-
ures, so that this posture is an aid to him to lower that body [in the brain, so
as to close it]. Now the spirit that is in that space, that is, in the middle ven-
tricle, varies among men. In some it is fine and clear, and such a man will be
rational, thoughtful and of good mind ; in some it is the opposite, and such a
person will be mad and irrational, unstable and stupid.
The third or posterior ventricle governs memory, and it is also the
source of seven pairs of motor nerves that extend down through the
60 JUDITH WILCOX

spine and to all parts of the body to effect motion. The animal spirit
goes from the front ventricle through the common space, where thought
takes place, and when the worm-like part of the brain is opened, the
spirit can travel to the posterior part of the brain. Speaking of its func-
tion with regard to memory, Qus†æ says that this passage of the spirit
happens when it is necessary to remember something (recordari ali-
cuius) that has been forgotten. If the passage is closed off, a person will
not remember or be able to answer questions. It is different in speed
and slowness in different people ; if it is slow, they are slow of memory
and slow to respond, absorbed in thoughts. If a man wants to remember
something, he will lower his head or bend it back and his eyes look up
without moving, so as to help open the passage so that the wormlike
body can be raised up. Impediments to the movement of spirit in the
nerves will have a profound effect on the body’s motion and the exter-
nal senses. An impediment in the middle part of the brain only will
affect thinking and learning, causing melancholy, for example, without
affecting sensation and bodily motion ; an impediment in the posterior
part will affect only the memory ; and an impediment in two or all three
of the ventricles will affect all mental functions and motion, as happens
with epileptics and similar cases.

2. THE SPIRIT AND THE STRUCTURE OF THE BRAIN

Qus†æ relied on Galen for his account of the brain and how it
works and for much of his thinking on the spirit. The faculties of the
soul, namely sensation, motion and the different kinds of mental acti-
vity, occur in the brain by virtue of the spirit, and for Qus†æ, as for Ga-
len, they are localized in specific ventricles, though Galen attributed
some of the activity to the brain substance as well6. Qus†æ essentially
follows Galen’s scheme for the motor and sensory nerves, and he fol-
lows Galen in locating sensation, vision, hearing, taste, touch and
smell, and also fantasy or imagination, in the larger double ventricle at

6
G ALEN , On the Usefulness of the Parts of the Body, trans. M. T. MAY , Ithaca,
1968, 2 vols., 9.4, p. 433.
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 61

the front of the brain, to which the sensory nerves are attached ; me-
mory in the smaller ventricle in the rear of the brain ; and thought in the
space lying in between. He follows Galen also in the idea of the worm-
like part that regulates the flow of the spirit from the front to the middle
and rear ventricles.
Galen himself gained and digested his knowledge of brain struc-
ture and ideas about the role of the spirit from the ideas and discoveries
of the Greek philosophers and physicians of the preceding five centu-
ries. In the fifth century BCE, Anaxagoras had discovered the ventri-
cles of the brain7. Aristotle described one ventricle in the brain, but in
the early fourth century, the Alexandrian physician Herophilus clearly
distinguished different ventricles in the brain and his near contempo-
rary Erasistratus determined that there were four ventricles. Meanwhile,
the idea of the « spirit » or « breath » had developed over time from the
notion of the presocratic philosopher Diogenes of Apollonia that air is
the agent of life, into the full-fledged concept of the quasi-material
spiritous substance that Galen described as carrying out all the essential
functions of life, including motion and sensation and the mental facul-
ties. For Aristotle, this pneuma had been the agent of the soul, causing
life and motion, and he mentions it also in connection with the senses
of hearing and smell. Following Aristotle’s seminal development of the
concept of pneuma were the thrilling discoveries of the differentiation
of veins and arteries by the fourth-century physicians Diocles and
Praxagoras and their idea that the pneuma flowed from the heart
through the arteries, followed by the discoveries of the nervous system
and its origins in the brain by Herophilus and Erasistratus, in which the
nerves were seen as the carriers of the psychic spirit (Qus†æ’s « animal
spirit »), the ventricles of the brain as the seats of the internal senses,
and the brain, the seat of the soul. This opinion had been reached earlier
by Plato, who had placed the rational, governing part of the soul in the
head8. These discoveries and authoritative opinions resolved for Galen
and others the question of the ruling member of the body, setting them
against a former majority view among philosophers and physicians,

7
A. K. W. SUDHOFF, Die Lehre von den Hirnventrikeln in textlicher und graphischer
Tradition des Altertums und Mittelalters, Leipzig, 1913, p. 152.
8
F. SOLMSEN, « Greek Philosophy and the Discovery of the Nerves », in Museum
Helveticum, 18 (1961), p. 150-197, see p. 160, 178ff.
62 JUDITH WILCOX

including Empedocles, Democritus, Aristotle, Diocles, Praxagoras, the


Stoics and Epicureans9 that the ruling member of the body is the heart.

3. THE INTERNAL SENSES

The « spiritual » or « internal » senses were a subject of inquiry


among many of the philosophers and physicians in the Arab world from
about the tenth century, and later among their counterparts in the West,
upon whom their works had a great impact. In his analysis of the termi-
nology associated with Latin, Arabic and Hebrew philosophic texts
discussing the internal senses10, Harry Wolfson describes how philoso-
phers of the Latin Middle Ages, using essentially the same model of
brain structure, constructed schemes of the mental functions that num-
bered from the three that are found in Galen, imagination, learning and
memory, to as many as seven. Galen himself had relied upon Aristotle,
who discusses in On the Soul and in On Memory and Reminiscence
these « post-sensationary faculties » that occur within the brain without
bodily organs, as opposed to the external five senses that are treated in
Book II of On the Soul. With the Latin translations from Arabic in the
twelfth and thirteenth centuries, the classifications of the internal senses
seen in Avicenna’s Sextum de naturalibus, Canon and De animalibus,
and Averroes’s Long Commentary on De anima, Epitome of Parva
Naturalia and Colliget, their views became known to the Scholastic
philosophers11. Together with the translations of Aristotle, these works

9
F. SOLMSEN, op. cit. p. 192.
10
« The Internal Senses in Latin, Arabic, and Hebrew Philosophic Texts », in
I. TWERSKY, G. H. WILLIAMS (eds.), Studies in the History of Philosophy and Religion,
Cambridge, Mass., 1973, p. 250-314 ; originally published in Harvard Theological
Review, 28 (1935), p. 69-133.
11
In the twelfth century, Johannes Hispalensis translated from Avicenna’s al-
Shifa the section dealing with the soul, generally referred to as Sextum de naturalibus
or De anima,and he also translated Algazali’s Physica. Later in the twelfth century,
Gerard of Cremona translated Avicenna’s Canon. In the thirteenth century, Michael
Scotus translated Avicenna’s De animalibus and Averroes’ Long Commentary on
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 63

encouraged refinements in considerations of the internal senses which


resulted in an increase in the terminology used, though the added con-
cepts and terms were also ultimately derived from Aristotle. The most
notable beneficiary of these ideas in the West was Albertus Magnus,
who describes five different schemes of the internal senses in various of
his works, and Thomas Aquinas and Roger Bacon and many others also
relied upon them12.
Wolfson says that « estimation » (Arabic wahm), first seen in the
scheme of Alfarabi (d. 950 CE) and adopted by others13, is what Aris-
totle called « the faculty of sagacity, prudence or forethought in ani-
mals », comparable to intellect in man. « Imagination » came to be
divided into « compositive animal imagination », which is the retention
of images (also called « retentive imagination ») and « compositive
human imagination », the combination and separation of ideas so as to
make judgments, and these are also described in Aristotle. The faculty
of « common sense » mentioned by Aristotle, the bond which reduces
the various impressions of the five senses to a common consciousness
or, to put it another way, the sense wherein the impressions conveyed
through the sense organs are assembled and unified, was first added to
discussions of the internal senses by Avicenna (980-1037 CE), al-
though, says Wolfson, the concept appears in Augustine (d. 430 CE)
and is identified by him with the internal sense in general. A two-fold
classification of memory also became current ; on one hand, there is
memory based upon sense impressions and, on the other hand, recol-
lection, which is the memory of intellectual conceptions, found only in
man. This two-fold classification of memory may be traced also to Ari-
stotle and Galen and one may see it appearing later in philosophers
such as Plotinus (205-270 CE) and Nemesius (late 4th c. CE). Physi-
cians and philosophers tended to differ in the number of mental facul-
ties they listed. This was actually noted by Avicenna, who explained
this as being due to their interests respecting brain function. Physicians
tended to see the work of the brain with respect to its health and good
functioning, and therefore to see, say, the faculties of common sense

De anima and Epitome of Parva Naturalia and Bona Cosa translated (1255) Aver-
roes’ Colliget (Kulliyat). H. WOLFSON, op. cit., p. 295.
12
H. WOLFSON, « Internal Senses », op. cit., p. 297-311.
13
Ibid., p. 274.
64 JUDITH WILCOX

and imagination as one, since an injury to the anterior ventricle would


affect them alike. From the philosophical point of view, however, a
faculty is that which has a distinctive function, irrespective of its loca-
tion in the brain, and common sense and imagination are seen as two
faculties14.
Viewed in this way, the number of terms Qus†æ uses for the diffe-
rent internal senses indicates his philosophical rather than medical
stance, as he lists seven faculties and not three. He says that
1. fantasy (imagination) resides along with the external senses in
the first ventricle of the brain ;
2. understanding (intellectus),
3. thought (cognitio),
4. foresight or forethought (providentia) and
5. learning (cognitio) reside in the middle ventricle ; and
6. memory and
7. recollection reside in the third or posterior ventricle.
His scheme is succinctly stated, and it appears not to have been con-
sulted by the Arab philosophers and physicians who followed him, nor
was it cited in this respect by any of the Latins or even by Wolfson in
his study. Not surprisingly, Qus†æ’s scheme does not mention the com-
mon sense, nor does it mention the estimative faculty or faculties as
such (compositive or retentive animal imagination and compositive
human imagination), since these faculties were first discussed after his
time15, but a comparison of the Latin and Arabic terminology in De

14
H. WOLFSON , « Internal Senses » , op. cit., p. 278-80 ; also H. WO L F S O N ,
« Maimonides on the Internal Senses » , in Jewish Quarterly Review, 25 (1935),
p. 443.
15
Arabic wahm is invariably translated as aestimatio (or extimatio) ; it will be re-
called that Alfarabi first mentioned it half a century or more after Qus†æ wrote De
differentia. Nor does Wolfson supply the Arabic, Hebrew or Latin for the common
sense in the comparative list at the end of his article, though Walter Sudhoff does
include it in a similar list of only Latin terms at the end of his article on the history of
brain structure, p. 179-80. Aristotle and Galen and many others seem to have consi-
dered the common sense and imagination as one, so that Qus†æ’s mentioning of only
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 65

differentia with that discussed and tabulated by Wolfson helps to show


and account for the similarities and differences. John of Seville, the
translator of De differentia, was also the translator of some of the other
philosophical texts being considered, and he and his fellow translators
were relatively consistent in the Latin words they used for certain
terms. The faculty of imagination is very often rendered phantasia or
fantasia in the later texts as it is in Qus†æ’s, and Latin and Arabic are
alike a transliteration from the Greek. Other words are sometimes used
by the later philosophers: In Avicenna’s Canon, the more specific con-
cepts of retentive imagination and compositive animal imagination are
translated respectively by phantasia and imaginativa, in Algazali’s
Physica, they are translated by imaginativa and phantasia, i n
Avicenna’s De anima, they are translated by imaginatio and imagi-
nativa, and in others, by formalis16. Qus†æ, like the others, uses al-dhikr,
translated memoria, for memory (of sensible objects), and he clearly
intends « recollection » when he talks about remembering something
that has been (learned and) forgotten when he speaks of cogitatio in
preteritis, al-fikr fîmæ qad kæna ; but there is no single term in De dif-
ferentia for the idea of recollection. In contrast, the Arabic words for
the concepts of memory and recollection, hafizah and dakirah, are
translated respectively by conservativa and memorialis in Avicenna’s
Canon, by memorialis and reminiscibilis in Avicenna’s De anima, or
by conservans and rememorativa in Averroes’ Parva naturalia.
A more complex set of differences between Qus†æ and the Arab
philosophers who came after him is seen in the terminology describing
the faculties of the middle ventricle. Qus†æ’s word for thought, cogita-
tio, is Arabic al-fikr, the traditional word, and it is similarly used by the
other philosophers. However, the remaining three terms, intellectu (al-
fahm), cognitione (al-tamyîz) and providentia (al-rawiyya) are differ-
ent. Al-fahm is the memory of intelligible notions, otherwise under-
stood as recollection, and Wolfson notes the use of this term and
concept among the Jewish philosophers Ibn Gabirol and Maimonides
(d. 1204) to emphasize the elements of understanding and learning that

fantasy (besides the external senses) in the first ventricle does not leave out the possi-
bility that he also had a notion of the common sense and understood it this way.
16
H. WOLFSON, « Internal Senses », op. cit., p. 296-297. Charles Butterworth has
kindly assisted me with the Arabic terminology of De differentia.
66 JUDITH WILCOX

go into memory of what has been thought or learned17, and he speaks of


what Isaac Israeli (d. 932) called the « intellectual sense » belonging to
the second ventricle and notes Isaac’s use of al-fikr for cogitation, di-
anoia, which according to Aristotle is a function of nous or intellect. In
their accounts of the intellectual faculties and recollection these phi-
losophers may well have been influenced by John of Damascus (d.
749), whose works were influential upon early Arab philosophy18 and
whose On the Orthodox Faith evidently was used by Qus†æ in De Dif-
ferentia, as well. Cognition or learning, al-tamyîz, does not appear on
Wolfson’s list and therefore was not commonly used in this context.
For the same reason, it seems unlikely that the fourth function ascribed
by Qus†æ to the middle ventricle, providentia, which might conceivably
correspond in meaning with « estimation », introduced by Alfarabi (the
faculty of sagacity, prudence or forethought in animals, comparable to
intellect in man), but it also may have another meaning. Providentia is
nowhere mentioned by Wolfson in connection with the internal senses,
and it may be that Qus†æ intended something quite different, possibly
human judgment and forethought but perhaps even the gift of prophecy.
Besides his sources in Galen and Aristotle, Qus†æ most likely was in-
fluenced by reading Nemesius of Emessa’s On the Nature of Man or
John of Damascus’s On the Orthodox Faith, which drew upon Neme-
sius, or both. Speaking to this point, Nemesius says in his chapter on
thought that prophetic dreams belong to the cognitive faculty, and this
may be what Qus†æ intended with the word providentia ; in his chapter
on memory, Nemesius speaks in the same manner as Qus†æ about trying
to remember something that has been forgotten, and John makes similar
statements19. Because of the probable influence of Nemesius and John
of Damascus upon Qus†æ’s account of the internal senses and those of
some of the Jewish philosophers, they had more in common with each

17
H. WOLFSON, « Internal Senses », op. cit., p. 254-257.
18
Found in Isaac’s Book of Definitions and Book on the Spirit and the Soul.
H. WOLFSON, « Isaac Israeli on the Internal Senses », in Jewish Studies in Memory of
George A. Kohut 1874-1933, New York, 1935, p. 588-593.
19
NEMESIUS OF E MESA, « On the Nature of Man », in Cyril of Jerusalem and Neme-
sius of Emesa, tr. W. TELFER, Philadelphia, 1955, p. 203-453, XII, p. 338, XIII, p. 339
(The Library of Christian Classics, 4) ; S AINT J OHN OF D AMASUS , Writings, trans.
F. H. CHASE, JR., New York, 1958, The Orthodox Faith, II, ch. 19, p. 245, ch. 20,
p. 245
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 67

other than they had with some of the more influential Arab philoso-
phers.

4. THE IDEA OF THE SPIRIT IN DE DIFFERENTIA

Qus†æ’s reliance upon Orthodox Christian sources as well as Galen


and Aristotle in the matter of brain structure and function and the na-
ture and role of the spirit allowed him to offer a set of ideas that must
have resonated with the Neoplatonic leanings and Christian theological
concerns of his audience in the West. De differentia added something
new to the usual discussions of brain function by describing an en-
hanced role for the spirit in effecting the powers of the soul through its
movement in the body and in the brain, and also in its purported nature
as mediator between body and soul. Nemesius supplied not only infor-
mation on the human body which he himself had largely drawn from
Galen, but an agenda that is reflected in De differentia, the faculties of
the soul, the motricity of the soul, the general mechanism of sense and
the intellect, and perhaps what is most important, a deep interest in the
connection between body and soul20. Nemesius’ ideas about how the
spirit joins with the body suggests that he might have thought of the
spirit as the mediator between body and soul, but he does not say it
explicitly. His idea of this union seems more nearly to resemble other
Neoplatonic accounts of how the purely spiritual soul spreads through-
out the body and unites with it much as light makes something visible.
Walter Pagel has remarked on the clearly Christian influence seen in
Qus†æ’s « spiritualized » account of brain function, first seen in On the
Nature of Man, in which the movement and action of spirit is in the

20
NEMESIUS OF EMESA, op. cit., p. 203-453. He may have been similarly influenced
by the third-century bishop Gregory Thaumaturgus, who discussed the substantiality
and incorporeality, simplicity and immortality of the soul and whether it was the form
of the body. « A Topical Discourse by our Holy Father Gregory, Surnamed Thauma-
turgus, Bishop of Neo-Caesareia in Pontus, Addressed to Tatian, On the Subject of
the Soul », in The Works of Gregory Thaumaturgus, Dionysius of Alexandria and
Archelaus, tr. S. D. F. SALMOND, Edinburgh, 1871, p. 111-117.
68 JUDITH WILCOX

brain ventricles only, and not in the ventricles and brain substance to-
gether, as Galen thought21.
With respect to his conception of the spirit as mediator, Qus†æ
must have been influenced by other Neoplatonic currents. Because he
cites the name of Empedocles, and none of the content of his tract sug-
gests his use of genuine Empedoclean doctrines22, Qus†æ might have
used a work or works that circulated during his lifetime under the name
of Empedocles. A difficulty with this idea is that the extant Arabic ma-
nuscripts of De differentia do not include Empedocles among Qus†æ’s
cited authorities, and it is therefore possible that the name of Empe-
docles entered into the Latin tradition only because its ideas evoked this
connection in the mind of the Latin translator, John of Seville, or a
copyist. A century ago, Miguel Asin Palacios described the profound
influence that pseudo-Empedoclean ideas exercised in medieval Spain,
first in the philosophy of the mystic Ibn Masarra (883-931 CE) and
ultimately upon Jewish and Latin philosophers23. Pseudo-Empedoclean
ideas were genuinely Empedoclean to a point, he says, but they also
had Pythagorean elements and a strong admixture of the Neoplatonic
which had developed from the time of Philo of Alexandria in the first
century and of Ammonius Saccas, the third-century founder of Neo-
platonism, and had exercised a profound influence on all other philoso-
phical and religious systems since then. A central idea of the pseudo-
Empedocles is that there are five substances which make up the real,
suprasensible world, « primal matter » at the top of the hierarchy, and
four other hypostases before the sensible world is reached, and Asin
describes this as a virtual copy of the system described in Enneads V of

21
« Medieval and Renaissance Contributions to Knowledge of the Brain and its
Functions », in The History and Philosophy of Knowledge of the Brain and its Fun-
ctions. An Anglo-American Symposium,Oxford, 1958, p. 95-114.
22
But see A. NA G Y , « Di alcuni scritti attribuiti ad Empedocle » , in Reale
accademia dei Lincei. Rendiconti. Classe di scienze morali storiche e filologiche, ser.
5, 10, p. 319-320, and P. KINGSLEY, Ancient Philosophy, Mystery and Magic. Empedo-
cles and Pythagorean Tradition, Oxford, 1995, the last chapter, « From Empedocles
to the Sufis : “The Pythagorean Leaven” ».
23
M. ASIN PALACIOS, The Mystical Philosophy of Ibn Masarra and his Followers,
tr. E. H. DOUGLAS, H. W. YODER, Leiden, 1981.
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 69

Plotinus24. In the system of the pseudo-Empedocles, primal matter has


replaced the One of Plotinus, and this emphasizes a point made also by
Plotinus in Enneads II, that « in the world of the intelligibles there exists
also a matter, distinct and prior to the corporeal, which comes to be like
the substratum of the species or incorporeal substances ». Matter is to
be understood as a principle of receptivity or a mere capacity to receive
forms, « a capacity to receive the reality which it does not possess ».
Therefore, all effects following from God or pure act (the One), will
have « matter » in the sense of being imperfect and having receptivity
of the reality it does not possess, a « spiritual matter » common to all
beings, with the exception of God25. The idea of spiritual matter in a
philosophy, according to Asin, is a sure indication of its Pseudo-
Empedoclean lineage26. From about the beginning of the eleventh cen-
27
tury CE, a number of the Spanish Jews embraced the concept , the out-
standing example being Solomon ibn Gabirol (Avicebron), whose Fons
Vitae delineates a system in which the idea of mediation between suc-
cessive substances is posited at every level and aspect of creation, until
the body and the soul are reached and an intermediating spirit operates
between them, and he sets out to prove in Book III that simple sub-
stances exist. He says generally, « Between two contrary terms there is

24
Citing the Enneads, V, 9, 5, ASIN, op. cit., p. 65, explains : « The suprasensible
world is the positive reality, while the world of concrete and sensible beings enjoys
only an apparent, imitated reality through the participation of the universal ideas.
These premises having been established, the origin of the theory of the « five sub-
stances » or hypostases which constitute the suprasensible world is surmised. Each
one of them comes to be the result of one of the stages of mental abstraction : Matter
is the universal idea common to all the particular phenomena of the inert expanse ;
nature is the idea that explains the phenomena of unconscious energy ; the universal
soul depends for its concept on all the teleological and vital phenomena of the co-
smos, including the cognitive representations of man, joined with the sensible ; the
intellect explains, finally the ideal representations of pure reason ; and crowning this
suprasensible world, at the peak and final stage of abstraction, is the idea of the One,
superior to all the other hypostases because of its universality and absolute
simplicity. »
25
ASIN, op. cit., p. 67, 72.
26
Ibid., p. 124-127.
27
Asin gives many examples, p. 129-31.
70 JUDITH WILCOX

always an intermediary28 », and specifically, « But for the spirit that is


intermediary between the soul and the body, they would not be united
together29 ». There would therefore seem to be some connection be-
tween the work of Qus†æ and Ibn Gabirol, either the influence of
Qus†æ’s work on Ibn Gabirol’s or their recourse to a common source or
sources « within the generally accepted framework of Arabian-neo-
Platonism current at the time30 ». Asin says that this particular strain of
Neoplatonism emerged in eighth-century CE Baghdad « impregnated
with an intense Christian mysticism ». Empedocles is also cited in pas-
sages of a tenth-century work of Spanish origin, The Goal of the Wise,
by pseudo-Majriti, which suggest an understanding of the spirit and its
work in the body that is similar to Qus†æ’ s31, while a pseudo-
Empedoclean work called Book of the Five Substances speaks of the
mediating role of the successive substances, in which each envelops the
other and is its

28
SOLOMON IBN GABIROL, Fons Vitae Book III, tr. H. E. WEDECK, New York, 1962,
p. 7. T. E. JAMES says in the introduction, p. 3 that « simple spiritual substances are
shown to exist [in Book III] ». For the influence of pseudo-Empedocles on Ibn Gabi-
rol, see E. BERTOLA, Salomon Ibn Gabirol. Vita, opere e pensiero, Padua, 1953,
p. 170 ; see also the chapter « Le Fonti », p. 50-69.
29
IBN GABIROL, op. cit., p. 3. Although it is possible that Ibn Gabirol read De dif-
ferentia, the only name he cites in this work is that of Plato, and he mentions no spe-
cific works. James’s Intro., p. v.
30
James’s Intro., p. 5.
31
« spirit is [... ]a fine body which spreads out in the body from the heart and in
the arteries and so operates in the natural heat, respiration and pulse and from the
brain spreads out in the nerves and operates sense perception and movement. The
spirit goes through the soul, the soul and spirit exist through the reason, the soul is
joined with the body and the spirit flows in the body, and its matter is the air [....] It is
[...] created from the finest fiery [components of the] humors, while the body [is cre-
ated] from the coarsest earthly [ones]. » From theGerman translation by H. RITTER and
M. PLESSNER, Picatrix : das Ziel des Weisen, von pseudo-Majriti, Studies of the War-
burg Institute, vol. 27, London, 1962, p. 186. The Latin text has been edited by
D. PINGREE : Picatrix : The Latin Version of the ‘Ghayat Al-Hakim’, London, 1986.
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 71

shell, spiritual and subtle [...]. All that is below is shell of what is above, and
that which is above is pulp or medulla. [Empedocles] sometimes designates
32
the shell and the medulla with the words body and spirit .
The twelfth-century Latin translator of the Fons vitae, Dominic
Gundisalvi, in the work entitled De anima attributed to him cited De
differentia and, as another instance of use made in twelfth-century
Spain of De differentia, there is Hermann of Carinthia’s De essentiis33.
Asin makes a strong case for the dissemination of the idea of
« spiritual matter » in Western philosophy. Given the fame in the West
particularly of the Fons vitae and the intellectual climate of Neo-
platonism that had been fostered from late antiquity through the Latin
traditions of St. Augustine, Boethius, Chalcidius’ Commentary on the
Timaeus and the philosophy of the pseudo-Dionysius and many other
strains34, the ideas found in De differentia must have been greeted as
compatible ones as it entered with other Arabic-Latin translations in the
eleventh and twelfth centuries of mostly scientific, medical and phi-
losophical works so desired in the West35. The books upon which Qus†æ
had drawn were still for the most part untranslated, and De differentia
would have seemed a validating, if incomplete, source for such of its
ideas as were apt for contributing to current philosophic trends. The
first part of the Timaeus had been available in Chalcidius’ version,
made in the middle of the fourth century, and only two other dialogues
of Plato, the Meno and Phaedo, were translated before the end of the
twelfth century, around 1156 by Henricus Aristippus36. Aristotle's On

AL-SHAHRASTÆNî, Kitab al-Milal wa’l-Nihal (Book of religious and philosophi-


32

cal sects), ed. W. CURETON, 2 vols., London, 1842, cited and translated in ASIN, op. cit.,
p. 52-55.
33
HERMANN OF CARINTHIA, De essentiis, ed. C. BURNETT, Leiden, 1982, p. 71E-F.
34
See R. KLIBANSKY, The Continuity of the Platonic Tradition during the Middle
Ages, London, 1939 (repr. Millwood, New York, 1982).
35
Asin speaks of the early connections between some Latins and the intellectual
milieu in Spain, which explains the extraordinary effort of scholars to obtain the
works by going to Spain and making their translation their life’s work, p. 131-35.
36
See C. H. HASKINS, « The Sicilian Translators of the Twelfth Century », in Stu-
dies in the History of Mediaeval Science, New York, 1960 (first published 1924),
p. 166-168.
72 JUDITH WILCOX

the Soul was translated into Latin only later in the twelfth century37, and
of the three works of Galen cited by Qus†æ, only a truncated and corrupt
translation by Burgundio of Pisa in the 1150s of On the Usefulness of
the Parts of the Body was available38. In addition, the content of Neme-
sius’ On the Nature of Man would have been recognized by readers of
its Latin translation made in the eleventh century by Alfanus of
Salerno39 and John of Damascus’s On the Orthodox Faith was available
40
around 1150 in a translation by Burgundio of Pisa .
Latin theologians and philosophers of the twelfth and thirteenth
centuries were much engaged with the question of the relation of body
and soul. The meaning of the word « spirit », because of its wide use
and lack of a standard definition, evolved under the influence of the
new translations, thanks to the introduction of certain ideas, including
the physiological idea of spirit contained in the concept of the pneuma
which was useful in explaining the relation between body and soul.
Until now, the understanding about mental processes held by Augustine
and Boethius, the idea that mens, or mind, and « spirit » were alike im-
material, meant that they were used more or less interchangeably by the
Latins in keeping with the clear separation of body and soul dictated by
Plato. After the second half of the 12th century, these words were ap-
plied to psychological activities41 using the information about physiol-
ogy and mental faculties contained in the incoming philosophical and
medical works, particularly a small group of « medical-philosophical »
books, including De differentia42. They taught Galen’s scheme of brain

37
See L. MINIO-PALUELLO, « Jacobus Venetus Grecus, Canonist and Translator of
Aristotle », in Traditio, 8 (1952), p. 265-304.
38
This was called De iuvamentis membrorum. M. May, in her introduction to Ga-
len, Parts, p. 6, says that this was the only version available until Peter of Abano's
attempt from the Greek around 1310, and a little later, in 1317, Niccolo’ da Reggio's
translation.
39
Telfer’s Introduction., p. 217-18. Alfanus called his translation Premnon physi-
con (Key to nature) and does not mention Nemesius’ name, perhaps having worked
from a copy that did not contain it.
40
Writings, Intro., p. xxxvi.
41
M. D. CHENU, « Spiritus. Le Vocabulaire de l'âme au XII siècle », in Revue des
e

Sciences Philosophiques et Théologiques, 41 (1957), p. 209-19, 230.


42
E. BERTOLA, « Le Fonti medico-filosofiche della dottrina dello “spirito” », in
Sophia, 26 (1958), p. 48-61. He includes among these Ali ibn Abbas' (10th c.) Pan-
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 73

structure and function, which was compatible with the Platonic outlook,
and they permitted philosophers and theologians to reach an under-
standing of the essential unity of man while maintaining traditional bi-
substantial assumptions about the separation of body and soul. Galenic
anatomy was not immediately accepted in medical education and prac-
tice in the later twelfth century43, however, and this may be the reason
why only a few, early, copies of De differentia may be found in medi-
44
cal collections and that the vast majority are associated with works of
Aristotle and other philosophers. Even at the school of Salerno, it was
studied along with the Aristotelian corpus45, as it was in the schools and
universities. A number of the spiritual Cistercians of the later twelfth
century, including Isaac of Stella and Alcher of Clairvaux, Achard of
Rielvaux and Alan of Lille, and at the School of Chartres, William of
Conches ; and in first half of the thirteenth, Alexander of Hales and

tegni, the summary of Galen’s works by Constantine the African (11th c.) called
Megategni, Constantinus Africanus’ De oblivione, Hunain ibn Ishaq’s (Joanni-
tius)(d. 873) Isagoge to the Microtegni or Ars parva of Galen, ps-Galen’s Verba
galieni, and Qus†æ’s De differentia. The latter three works, Bertola terms « medical-
philosophical », and of these he emphasizes the role of De differentia in explicitly
introducing to the Latin world the doctrine of the spirit as the mediating element be-
tween body and soul, p. 50-51, 56-61. See also P. MICHAUD-QUANTIN, « La Classifica-
tion des puissances de l'âme au XIIe siècle », in Revue du Moyen Âge Latin, 5 (1949),
p. 17-19.
43
I. O'NEILL, « The Fünfbilderserie Reconsidered », in Bulletin of the History of
Medicine, 43 (1969), p. 240 speaks of the « irregular and dilatory assimilation of
Galenic ideas by medical practitioners » reflected in the content of the four so-called
Salernitan anatomies dating from the mid-twelfth to early thirteenth centuries, and in
the content of the anatomies of Ricardus Anglicus from the late twelfth century. The
reluctance of medical practitioners to accept Galenic doctrines was not due entirely to
habit or ignorance. Other ideas competed for acceptance, such as the idea of that the
heart was the seat of vital and mental functions. O. TEMKIN, Galenism, The Rise and
Decline of a Medical Philosophy, Ithaca, Cornell University Press, 1973, p. 120-121.
44
The only early printed edition appears with the works of Constantinus Africanus
and is there attributed to him (Basel, 1536). The version that was printed was from an
early family of the manuscript tradition. See my edition cited in note 1.
45
D. JACQUART, « Aristotelian Thought in Salerno », in P. DRONCKE (ed.), A History
of Twelfth-Century Western Philosophy, New York, 1988, p. 407-428 ; p. 426. De
differentia was sometimes taken to be a work of Aristotle and was often copied
among the Parva naturalia. A few manuscripts are found in a theological context.
74 JUDITH WILCOX

Adam de Buckfeld, exhibit this new view in some of their works by


accepting to a greater or lesser extent the concept of spiritual matter
taught by Ibn Gabirol and the idea, seen in Ibn Gabirol and emphasized
in Qus†æ, that the spirit is the mediator between body and soul46.
De differentia's doctrine of the substantiality of the soul and the
body and the role of spirit as mediator between them were salient
points on the side of the «plurality of forms » in the controversy of that
name that went on during the first half of the thirteenth century over the
question of « whether there are required as many principles or forms, as
there are perfections and powers [of the body] ». Doctrines found in the
Fons vitae, the De anima of Dominic Gundisalvi and Avicenna’s Liber
sextum naturalium, which contained some of his ideas about the inter-
nal senses, also played a role in this controversy about whether the
various powers of the soul constituted separate substances or whether
the human soul is substantially one, as Aristotle's definition of the soul
would require47. In the second half of the thirteenth century, Albertus

46
P. MICHAUD-QUANTIN, op. cit., p. 15-34 ; E. BERTOLA, « La dottrina dello “spirito”
in Alessandro di Hales », in Sophia, 23 (1955), p. 184-191. H ENRICUS DE R ENHAM
commented on De differentia, C. LOHR, « Medieval Latin Aristotle Commentaries », in
Traditio, 1968, p. 228. At Oxford, two out of three manuscripts of abbreviations of
the natural works of Aristotle include the same for De differentia, and we may assume
that it formed part of the curriculum, according to D. A. CALLUS, « The Introduction of
Aristotelian Learning to Oxford », in Proceedings of the British Academy, 29 (1943),
p. 275. H. RA S H D A L L , The Universities of Europe in the Middle Ages, ed.
F. M. POWICKE, A. B. EMDEN, 3 vols., Oxford, 1936, vol. 1, p. 442-3, states that a Paris
university statute of 1255 lists De differentia along with the works of Aristotle upon
which the Masters of Arts were required to lecture, and A. BIRKENMAJER, Prolegomena
in Aristotelem Latinum. Classement des ouvrages attribués à Aristote par le Moyen
Age Latin, Cracow, 1932, p. 15, relates that this situation obtained for Paris and Ox-
ford in 1270 ; BARTHOLOMAEUS ANGLICUS cited De differentia in his De proprietatibus
rerum, ed. R. JAMES LONG, Toronto, 1979, p. 54.
47
D. A. CALLUS, « The Origin of the Problem of the Unity of Form », in The Tho-
mist, 24 (1961), p. 259. The direct influence of De differentia upon Gundisalvi may
be seen at several points in chapters 1 and 2 of his De anima. At the end of chapter 1,
he gives a description of the kinds of motion very like the one given in De differentia.
In chapter 2, he gives Plato's definition of the soul as it is expressed by Qus†æ, as well
as that of Aristotle, and he includes Qus†æ’s argument proving that the soul is not a
body. Ed. J. T. MUCKLE, intr. E. GILSON, in Mediaeval Studies, 2 (1940), p. 36-40.
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 75

Magnus, who cites De differentia in a number of his works, including


one devoted to the subject of the spirit, struggled with the issue in an
effort to construct a consistent physiological view using both the ideas
of Aristotle and the substantially Neoplatonic views represented in the
Arab-Jewish heritage. While accepting the definition of the Greek phy-
sicians that the spirit is a body, as is found in De differentia, « spiritus
est quoddam corpus subtile », he recognizes that accepting Aristotle's
conception of the soul and its relation to the body requires that the spirit
cannot act as mediator. The soul only requires a medium in its relations
with the body for its operations (not in its essence), for the action of the
soul on the body for the body's operations ; the spirit is an instrument of
the soul, necessary on account of the lack and incapacity of matter, not
any lack or incapacity of the soul48. Approaching the same problem
differently, Thomas Aquinas, as a convinced Aristotelian, did not feel a
need to reconcile the bi-substantial doctrine of the Platonists with the
new Aristotelian principle of monosubstantiality. He reached a similar
solution by giving spirit the task of imparting motion to a being, not as
a mediator between two substances, but as the immediate cause of the
movement of the members of the body, or of transmission of powers of
the soul49.

E. GILSON, « Les sources greco-arabes de l'Augustinisme avicennisant », in Archives


d'Histoire Doctrinale et Littéraire, 4 (1929), p. 83, has emphasized the influence upon
Gundisalvi of Avicenna's insistence upon the soul as substance and his refusal to
define with Aristotle the soul as the form of the body. Adam of Buckfeld was also
involved in the controversy, A. CALLUS, op. cit., p. 283, and he wrote a commentary on
De differentia, LOHR, « Commentaries », op.cit., 1967, 1, p. 323.
48
ALBERTUS MAGNUS, Opera omnia, ed. B. GEYER, 40 vols., Müinster, 1951 : Super
Dionysii mysticam theologiam et epistulas, Cap. 2, 37.1, p. 65 ; Liber primus de
anima, Lib. 1, Tr. 2, cap. 13,7, p. 52 ; De natura et origine animae, Tr. 2, cap. 2, 12,
p. 22 ; Quaestiones super de animalibus, Lib. 16, Qu. 8. 12, p. 279 ; and Lib. 3, Qu. 5,
12, p. 126. E. BERTOLA, « La Dottrina dello “spirito” in Alberto Magno », in Sophia,
19 (1951), p. 306-316, says that Albertus understood by Aristotle's conception of the
soul « it is not possible to include the mediation of spirit [here where body and soul
are substantially one rather than diverse] ». Bertola cites from Summa de creaturis,
Q. 86, Part 2 and Q. 41 ; Liber de spiritu et respiratione ; see especially p. 308, 309,
311.
49
E. BERTOLA, « La dottrina dello “spirito” in S. Tommaso d'Aquino », in Sophia,
21 (1953), p. 29-35. Unlike Albert, Thomas was not preoccupied with physiological
76 JUDITH WILCOX

The growing prestige of Aristotle in Latin philosophy brought up


another controversy in which De differentia played a role and which
likewise was concerned with psychological questions, that of locating
the ruling or principal member of the body, the seat of the soul. This
was addressed notably by Alfred of Sareshel in his De motu cordis,
written before 121050. He was one of the earliest commentators on Ari-
stotle in the West, and De motu cordis was an attempt to assert the
biological ideas of Aristotle over the platonizing Galenic physiology. In
this he does not accept some of the ideas of De differentia, asserting,
for example, the primacy of the heart rather than the brain51, but Alfred
52
does subscribe to Qus†æ’s idea of the mediating role of the spirit . The
appearance of De motu cordis marks the beginning ascendancy of the
doctrine of the heart as seat of the soul. This was the view held in the
Arab world, and in the West it came to be reinforced by its support in
the writings of Avicenna53. Even though sensation and thought demon-
strably occur in the brain, the heat and blood are always coming from
54
the heart, the conserver of life . Alfred is no pure Aristotelian, though.
His explanation for how the spirit reaches the members, by irradiation
from the brain, is Neoplatonic55.
Max Horten was therefore in error when he said that De differentia
spiritus et animae sums up the most important teachings on pneuma,
the capacities of the internal senses and the soul of al-Farabi, Avicenna

questions, but we may find his views in the Commentary on the Sentences, Contra
gentiles, and Summa theologica..
50
C. BAEUMKER , Die Stellung des Alfred von Sareshel (Alfredus Anglicus) und
seiner Schrift De motu cordis in der Wissenschaft des beginnenden 13. Jahrhundert.
Sitzungsbericht der Bayer. Akademie d. Wissensch. Philos. philol. u. hist. Kl. Jahr-
gang 1913, Abh. 9, Munich, 1913, p. 25.
51
ALFREDUS ANGLICUS, « Des Alfredus von Sareshel Schrift De motu cordis », ed.
C. BAEUMKER , in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, Bd. 23,
Heft 1-2, Münster, 1923, p. 45, 68-69.
52
Ibid., p. 37-38.
53
PAGEL, « Contributions », p. 103.
54
ALFREDUS ANGLICUS, op. cit., p. 45.
55
Ibid., p. 46. On Alfred's Neoplatonism, see C. BAEUMKER, « Die Stellung », op.
cit., p. 48-64.
ON THE DIFFERENCE BETWEEN THE SPIRIT AND THE SOUL 77

and Averroes56. On the contrary, Qus†æ’s tract did not seem to have a
direct impact in discussions of the internal senses as such either in the
Arab world or the Latin West, but it did play a role bridging the fields
of medicine and philosophy addressing questions about man and his
place in the world and in the controversies determining whether the
philosophy of Plato or Aristotle would prevail. It shared many ideas
with works of Jewish as well as Arab philosophers and its particular set
of ideas made it an apt resource for Christian philosophical and theo-
logical discussions in the West. Qus†æ’s view of man was naturalistic in
accounting for the physical nature of man while his view of the spirit
and soul upheld his Platonist and Christian commitment to the idea of
the immortality of the soul. Fine spirit that reflected a balanced com-
plexion in the person would be more suitable for carrying out the fun-
ctions of the soul, whatever they might be, and that included imagina-
tion, thought and memory, perhaps even prophecy, as many Arab and
Jewish philosophers thought possible at the time. Although he does not
say so explicitly, one may assume that Qus†æ, considering the content
of De differentia, subscribed to the idea of man as microcosm, like his
Christian models, Nemesius and John, and Ibn Gabirol after him. His
assertion of the mediating role of the spirit was truly central and con-
troversial, and finally fatal to De differentia’s continuing significance
in Western philosophy.
New York

56
Die philosophischen Systeme der spekulativen Theologie im Islam, Bonn, 1912,
p. 179-189.
GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL


DE ASPECTIBUS E L'IMMAGINATIVA

L'opera ottica di Alhazen (Ibn al-Haytham al-Alhasan) il Kitab al-


Manazir conosciuto in traduzione latina del XII secolo con il titolo De
aspectibus e in versione italiana De li aspetti, appare di una importanza
fondamentale per le novità introdotte non solo nel campo della storia
della scienza e della filosofia, ma anche e soprattutto per la storia
dell'arte occidentale moderna, ossia per la scoperta della perspectiva
artificialis o pingendi degli artisti italiani del Rinascimento che si
diffonde in tutta Europa. In questi ultimi decenni sono state studiate
soprattutto le sue scoperte nel campo dell'ottica geometrica, in parti-
colare nell'ambito dei fenomeni della rifrazione e delle deformazioni
delle immagini (anamorfosi) dovute alla riflessione e alla rifrazione su
superfici variamente dense o brillanti, concave e convesse1, oppure nel
campo della analisi matematica2. Le edizioni e i commenti dell’opera in
3
arabo di Sabra hanno portato a importanti chiarimenti sulle sue
innovazioni ottiche. Ciononostante alcuni aspetti della dottrina di
Alhazen che sono state rilevanti per i maestri di perspectiva del XIV e
XV secolo come Biagio Pelacani da Parma o per artisti come Lorenzo
Ghiberti e Leon Battista Alberti, sono rimasti ancora da precisare
meglio. Alludo qui alla dottrina dello spazio percettivo, non l'astratto
spazio geometrico del matematico, di cui si può avere traccia nel testo

1
Cf. A. I. SA B R A , « Ibn al Haytham’s Revolutionary Project in Optics, The
Achievement and the Obstacle », in The Enterprise of Science in Islam, New
Perspectives a cura di J. P. HOGENDIJK. and A. I. SABRA , Cambridge Mass., The Mit
Press, 2003, p. 85-119. Cf. anche R. RASHED, Optique and mathématiques, Aldershot,
1992,
2
Cf. R. RASHED, Les mathématiques infinitésimales du IXe au XIe siècle : Ibn-al-
Haytham, vol. IV, London, Al-Furqan Islamic Heritage Foundation 2002.
3
Cf. IBN AL -HAYTHAM, The Optics, Books I-III : On Direct Vision, Translated with
Introduction and Commentary by A. I. SABRA , Voll. I-II, London, The Warburg
Institute University of London, 1989.
80 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

arabo a lui attribuito da Rashed nell'edizione delle opere matematiche


di Alhazen, sul luogo (makan4), ma invece proprio quello spazio visivo,
ossia percettivo di cui Alhazen parla soprattutto nel II libro del D e
aspectibus, quando tratta della comprensione visiva della distanza
(remotio), che presuppone una ben precisa dottrina dei sensi interni.
Di quale distanza infatti si tratta ? Siccome si parla di percezione
visiva dello spazio, inteso come distanza, è necessario riferirsi alla sua
dottrina psico-gnoseologica della conoscenza per percezione sensibile
ottica. Questo discorso riguarda la concezione psicologica di Alhazen
(ossia la sua teoria delle facoltà sensibili e razionali dell'anima) che non
è molto chiara, mentre lo è di più quella gnoseologica, per lo meno
negli enunciati che ricordano le dottrine post-aristoteliche stoico-
epicuree, della evidenza sensibile del visus inteso come fantasia cata-
lettica o percezione immediata. Come è noto tali scuole avevano
elaborato la teoria della conoscenza dell'universale (o concetto), inten-
dendolo come una anticipata nozione o prolepsis e concependo le
forme della conoscenza come signa ottenute per induzione. Queste
scuole stoico-epicuree tarde avevano trasformato e modificato dalle
fondamenta l'originaria dottrina psicologica di Aristotele. La compren-
sione visiva, che ha come fondamento il senso della vista o visus, è
spiegata da Alhazen geometricamente ossia secondo una geome-
trizzazione della visione ‘diretta’ per il raggio perpendicolare (o asse
della piramide visiva che va dalla superficie della cosa vista al centro
nervoso del glaciale dentro l'occhio secondo un asse perpendicolare). E'
questa una importante innovazione di Alhazen. Essa è da lui chiamata
« intuizione » della cosa (ta' animul), la quale ha la proprietà di
certificare sempre la vera forma della cosa. Essa a sua volta è fondata
su una dottrina psicologica che intende l'anima come una attività
continua di operazioni sensibili e razionali insieme, verso l'interno e
verso l'esterno (che appare diversa da quella di Avicenna o di Alfarabi).
Per essa, le radiazioni luminose esterne « impressionano », cioè
feriscono l'occhio, la cui virtus sentiens o ultimum sentiens è continuo
alla virtus distintiva razionale dell'anima, la quale è quella che poi
compie tutte le operazioni di confronto, di « comparazione », di assimi-
lazione, cioè confronta le immagini simili e quelle diverse, e « figura »
cioè costruisce le immagini o le forme diverse che si depositano nella

4
Cf. R. RASHED, Les mathématiques infinitésimales, op. cit., p. 666-682.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 81

memoria dopo che sono stati ripetuti gli atti percettivi. Le facoltà
psicologiche del Kitab al-Manazir5 non sono bene chiarite e articolate
da Alhazen come invece farà Avicenna nel De anima o Bacone nella
sua Perspectiva. Tuttavia, dai passi in cui distingue i diversi modi della
visione (visio) che non è la stessa cosa della vista (o visus) ed egli
classifica i diversi tipi di comprensione visiva delle cose, si possono
ricavare alcune notazioni importanti.

LA GNOSEOLOGIA DI ALHAZEN

La sensazione è, per Alhazen, quasi sempre una comprensione


chiara delle cose come esse ci appaiono o agiscono su di noi. Non vi è
scarto tra sensazione e comprensione di quello che la cosa è. La vista è
comprensione o conoscenza immediata delle cose : essa è classificata
1. come aspetto (aspectus) e in tal caso può essere più o meno
determinata o distinta : essa avviene per tutti i raggi della piramide
visiva compresi quelli deviati, quindi ci fornisce una immagine
generale o confusa più o meno, a seconda di questo fascio di
raggi ;

5
Avicenna distingue la immaginazione fatta coincidere con la fantasia e il senso
comune (facoltà passive e ricettive) dalla « immaginativa » associata nell'uomo alla
cogitativa : ossia la immaginativa dell'anima vitale si chiama cogitativa nell'anima
umana ed è attiva perché apprende componendo e dividendo : « virium autem
apprehendentium occultarum vitalium prima est fantasia quae est sensus communis
quae est vis [...] recipiens per seipsam omnes formas quae imprimuntur quinque
sensibus et redduntur ei. Post hanc est imaginatio vel formans quae est vis [...] reti-
nens quod recipit sensus communis a quinque sensibus et remanet in ea post remo-
tionem illorum sensibilium [...]. Post hanc est vis quae vocatur imaginativa compara-
tione animae vitalis et cogitans comparatione animae humane [...] et solet componere
aliquid de eo quod est in imaginatione cum alio et dividere aliud ab alio secundum
quod vult. Deinde est vis aestimationis [...] apprehendens intentiones non sensatas
quae sunt in singulis sensibilibus ». AVICENNA, Liber de anima seu sextus naturalium,
I, 5, Louvain-Leiden, 1972, ed. S. VAN RIET, vol. I, p. 87-89. Si veda in questa raccolta
una analoga precisazione di Joël Biard a proposito dell’utilizzazione di questa teoria
di Avicenna da parte di Buridano, p. 236-237.
82 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

2. come intuizione (intuitio), invece, è comprensione distinta,


evidente (immagine otticamente distinta) ed avviene solo per un
raggio, quello perpendicolare.
La sensazione, dunque, non è mai uno strumento inferiore o
inadeguato della conoscenza. La vista, sia come aspectus che come
intuitio, ci fa sempre comprendere le cose come sono agendo per raggi
sul nostro occhio. I raggi luminosi si comportano infatti secondo le
leggi dell'ottica geometrica. Ma essi non sono astrattamente concepiti
da Alhazen, ma secondo una « fisica » della visione. Al centro
dell'ottica geometrica di Alhazen sta sempre l'occhio percettivo umano.
L'intuizione, in particolare, è la visione di una cosa di cui si vede
con estrema chiarezza la parte che è opposta all'occhio : cioè in linea
perpendicolare rispetto ad esso. Quest'ultimo è uno strumento mobile,
capace di spostarsi : può cioè porsi sempre di fronte alla cosa in modo
che da qualunque punto che costituisce l'intera superficie di essa possa
partire un raggio perpendicolare all'occhio. L'occhio ha in questo modo
una visione per « intuizione » che mi « certifica », cioè mi dà sempre la
certezza della vera forma della cosa6. Afferma Alhazen che quando la
vista vorrà comprendere tutta la cosa, scoprirà che la forma della parte
opposta al suo punto centrale è più manifesta delle altri parti restanti.
Lo sguardo, allora, si sposterà in modo che il suo centro sia sempre
opposto a qualunque parte della cosa. E, così spostandosi, riuscirà a
comprendere la vera forma di qualunque parte della cosa, in maniera
fortemente manifesta7. La certezza della visione dipende, quindi, da
questo modo definito « per intuizione », di porsi dell'organo di fronte
alle cose che, così, lo possono colpire secondo il raggio perpendicolare.
Sentire vuol dire, in questo caso, comprendere immediatamente.
Quanto più ripetutamente la forma di una cosa sarà sentita dalla vista,
tanto più essa rimarrà fissa nell'anima e sarà più radicata di quella
forma la cui comprensione immediata si è ripetuta di meno. La forma di
una cosa, o quella di una sua proprietà particolare, è per Alhazen, tanto
più vera quanto più a lungo è stato ripetuto l'atto intuitivo che ce la fa
comprendere. Questa ripetizione dell'operazione intuitiva fa sì che la
forma risulti verificata. La forma deve essere ripetutamente « certi-

6
ALHAZENI, Opticae thesaurus, Basilea, 1572 Risner, II, 69, p. 70.
7
Op. cit., II, 65, p. 68.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 83

ficata », cioè sentita più volte secondo la comprensione intuitiva, per


l'asse perpendicolare, perché risulti certa. In altre parole la verità della
forma è una verificazione che dipende dalla ripetizione delle percezioni
intuitive : è, quindi, una esperienza.
Per questa ripetizione essa si fissa solidamente nell'immaginazione
e costituisce il bagaglio della memoria. La forma ottenuta per un
processo di questo genere, è una immagine generale o concetto. La
specie universale non si ottiene mediante un processo deduttivo da un
principio primo a priori, né mediante un procedimento astrattivo, come
per Avicenna, ma ha come fondamento la percezione intuitiva. La sua
verità non è stata stabilita una volta per tutte, né è immutabile o eterna.
Una volta formata e acquisita con l'esperienza, e depositata nella me-
moria l'immagine generale viene anticipata e messa a confronto con i
risultati dell'intuizione immediata : può essere, quindi, continuamente
rettificata e integrata. E’ chiaro, così, che per Alhazen l'intuizione sen-
sibile visiva è il fondamento della certezza e che la ragione procede per
operazioni di confronto e di distinzione dei dati dell'esperienza visiva.
Secondo questa dottrina la visione è una attività sensibile e
razionale insieme, capace mediante il calcolo delle distanze delle cose
rispetto all'occhio, la rettificazione e la integrazione delle percezioni
mediante l'esperienza, di cogliere le proprietà qualitative (luce e colore)
e quantitative delle cose. La ragione, intesa come capacità di distin-
guere e associare, sulla base dell'esperienza visiva che dà la certezza,
riesce a determinare la posizione, la grandezza, la quantità, la figura, la
bellezza (che è essenzialmente una qualità razionale e cioè proporzione
e armonia degli oggetti visibili). Le cose in mezzo alle quali si trova
l'uomo e che cadono sotto la sua esperienza, sono per Alhazen in
continuo mutamento e sono corporee. Le proprietà o le forme che le
caratterizzano e le differenziano, non esistono di per sé, ma sono unite
insieme nei corpi. In particolare la grandezza, il sito, la figura, l'ordine,
la posizione, la bellezza e cosi via, sono proprietà misurabili mescolate
alla luce e al colore : sono cioè tutte sensibili, visive. Nessuna di esse
esiste separata dalle altre, ma si ritrovano insieme nei corpi e non esiste
nessun corpo in cui vi sia una sola di queste proprietà senza le altre. La
vista comprende ciascuna di esse unita alle altre e le distingue e associa
dopo ripetuti atti intuitivi e dopo operazioni di confronto da parte della
ragione. Le forme non sono, quindi, essenze immutabili, le species
eterne, ma qualità determinabili sensibilmente e razionalmente. La
percezione delle cose che ci impressionano sensibilmente, nelle loro
84 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

dimensioni effettive, dipende dall'esatta valutazione della distanza tra di


loro e rispetto all'osservatore. Questo non è solo un atto intuitivo, ma
anche una operazione di calcolo : cioè un ragionamento più o meno
rapido della attività argomentativa o razionale8.
La comprensione è infatti di tre tipi :
1. comprensione semplice per la vista (per aspectus) : per tutti i punti
della piramide visiva che colpiscono l'occhio e che costituiscono la
superficie della cosa (immagine generale) ;
2. comprensione certa per l'intuizione (intuitio, obtutus), cioè secon-
do l'asse della piramide visiva9 che misura la nostra distanza dalle
cose e la cui lunghezza viene calcolata dalla ragione sulla base di
un complesso ragionamento matematico e mi fornisce l’immagine
singolare. Essa presuppone : a) la presenza dell'oggetto ; b) la sua
frontalità ; c) lo spostamento continuo dello sguardo ;
3. Comprensione conoscitiva (cognitio) a) per l'attività distintiva o di
confronto della ragione (virtus distinctiva) che avviene in un
tempo più o meno lungo e b) per l'attività della memoria e il rico-
noscimento della cosa mediante i segni rammemorativi di essa o,
in generale, conoscenza (cognitio)10. La ragione è la capacità natu-
rale di distinguere per somiglianza e per differenza, per operazioni
di calcolo e di misura, tutte le forme intuite. Queste attività sono
sempre connesse insieme, ma si qualificano diversamente per il
prevalere di un tipo di comprensione sull'altro. Ciascuna di esse,
inoltre, si qualifica diversamente rispetto al tempo.
La conoscenza delle proprietà o delle forme (intentiones) (al-mani)
che ci sono familiari per l'esperienza ripetuta che ne abbiamo, non
avviene allo stesso modo della conoscenza delle forme che non ci sono

8
Per una esposizione più dettagliata degli aspetti geometrici della dottrina ottico-
gnoseologica di Alhazen mi sia permesso di rinviare ai miei studi sulla prospettiva
medievale ora ristampati in Le teorie della visione ottica dal XIV al XV secolo (Studi
sulla prospettiva medievale e altri saggi), Perugia, Morlacchi, 2003, p. 113-131. Per
la critica di Alhazen dei visibili di Tolomeo, in particolare Cf. A. I. SABRA , « Notes
and Discussion, Ibn al-Haytham’s Criticism of Ptolemy’s Optics », in Journal of the
History of Philosophy, 4 (1966), p. 146-147.
9
ALHAZENI, Opticae thesaurus, II, 64-65, p. 67-73.
10
Op. cit., II, 11, p. 31.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 85

famigliari. Se esse sono consuete noi ne possederemo una nozione


generale (generalis notio)11, per la quale è sufficiente che abbiamo
l'intuizione, in questo momento, anche di una sola delle proprietà
particolari della forma della cosa (signum) perché possiamo riconoscere
immediatamente tutta la forma della cosa senza bisogno di dover
ripetere la operazione della comprensione intuitiva di tutte le proprietà
particolari che costituiscono la forma di quella cosa. In questo primo
caso noi conosciamo per signa e non per « induzione » (per indu-
ctionem) (istiqra) di tutte le proprietà particolari12. Nel secondo caso,
invece, la vista comprende le cose solo dopo una accurata conside-
razione delle proprietà e una diligente distinzione. In generale si tratta
di una conoscenza sempre rinnovata, che richiede continue operazioni
di confronto tra la comprensione delle proprietà di una forma univer-
sale che si possiede già per l'esperienza, e tutte quelle che si intuiscono
immediatamente ora. Il procedimento conoscitivo fondato sul ricono-
scimento dei « segni » si chiama per « anticipata nozione » o cogni-
zione precedente (praecedens cognitio)13.
Il tempo della nostra comprensione può essere velocissimo quando
si comprende con la intuizione e il confronto tra l'anticipazione di una
nozione generale che già possediamo e il segno rammemorativo che si
intuisce ora. Invece quando si tratta di conoscere una cosa di cui non
abbiamo nessuna esperienza, il processo conoscitivo richiede tempo.
Pertanto la comprensione visiva per « cognizione » richiede tempo
quando è necessario ripetere gli atti intuitivi occorrenti per l'acqui-
sizione di una cosa nuova. Senza la ripetizione dell'intuizione del
cavallo non potrò riconoscere che « questo » è un cavallo. La « cogni-
zione » mediante la virtù distintiva della ragione avviene di solito in un
tempo brevissimo, particolarmente nel caso dei ragionamenti (o
argomentazioni) che essa è portata per natura a fare senza difficoltà
riguardo alle esperienze famigliari. In questo caso noi non percepiamo
la durata delle nostre operazioni perché tale percezione è dovuta
sempre alla difficoltà che incontriamo quando dobbiamo comprendere
cose che non ci sono famigliari.

11
Op. cit., II, 67, p. 69-70.
12
Op. cit., II, 11, p. 31.
13
Op. cit., II, 71, p. 72.
86 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

LA LUCE COME SENSIBILE

La grande novità introdotta da Alhazen rispetto a Euclide e


Tolomeo è di avere sempre parlato di luce come luce visibile e non
astrattamente geometrica, e quindi di luce « fisica » intesa come sensi-
bilmente percettibile e di avere dedicato la sua ricerca fondandola
sull'esperimento (itibar) ossia su una sperimentazione intesa in modo
ben definito come « una osservazione » spiegabile con regole geome-
triche. Il suo studio è rivolto alla elaborazione di queste regole della
visione della realtà visibile (de re visa), in questo significato ben pre-
ciso. In altre parole egli ha introdotto una ottica geometrico-fisica entro
una teoria della conoscenza14. E qui « fisico » non è inteso al modo
della ontologia di Aristotele. Pertanto, l'altra grande innovazione che
deve essere sottolineata è la schematizzazione geometrica della cosa
vista (res visa) secondo la piramide radiale o pyramis visiva, che non è
il cono ottico di Tolomeo e di Alkindi15. Quali sono le differenze ?
Semplificando, la piramide visiva è una costruzione geometrica delimi-
tata sia di lato che alla base da raggi luminosi visivi i quali non hanno
un essere (esse) reale in sé astrattamente, come invece sostengono i
« fisici » cioè i filosofi (egli afferma), bensì sono linee immaginate
delimitate e non aperte all'infinito (tornerò su questo concetto). E
quindi, diversamente da Alkindi, non si tratta di un fascio luminoso,
indeterminato, dotato di potenzialità di azione di una energia la cui idea
è probabilmente fondata su una metafisica neoplatonica, che è il fonda-
mento della fisica di Alkindi16.

14
In questa interpretazione di ottica fisica concordano, nonostante le altre
numerose divergenze sia gli studi di Sabra (« Ibn al-Haytham's Revolutionary Project
in Optics : The Achievement and the Obstacle », in J. V. HOGENDIJK, A. I. SABRA (eds.),
The Enterprise of Science in Islam, Cambridge, The Mit Press, 2003, p. 85-118 che di
Rashed : R. RASHED , « Alkindi et la tradition euclidienne en optique », in Oeuvres
philosophiques et scientifique d'Alkindi, L'optique et la catoptrique, vol. I, Leiden,
Brill, 1997, p. 84.
15
Per una nuova edizione del De aspectibus di Alkindi, Cf. R. RASHED (éd.),
« L’optique et la catoptrique », in Œuvres philosophiques et scientifiques d’Al-Kindi,
op. cit., p. 439-523.
16
Per questa interpretazione cf. anche i miei studi su Alkindi in Teorie della luce e
della visione ottica (Studi sulla prospetiva medievale e altri saggi), Perugia,
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 87

LA PIRAMIDE VISIVA

Le caratteristiche di questo concetto di pyramis visiva ymagi-


nabilis di Alhazen sono importantissime per la invenzione della per-
spectiva artificialis del Rinascimento : esse sono essenzialmente
quattro :
1. la piramide visiva è delimitata e conclusa alla base in relazione alla
distanza della superficie della cosa vista dall'occhio, che deve
essere sempre modica, cioè moderata in proporzione all'altezza
dell'occhio dell'osservatore perché l'occhio possa afferrare con
chiarezza e distinzione tutti i punti della superficie della cosa vista
che costituiscono la base della piramide visiva. Così una condi-
zione fondamentale è la distanza « moderata », non troppo grande,
né troppo piccola, cioè adeguata, che chiude e delimita la piramide
visiva alla superficie di base ;
2. l'altra condizione è la posizione di frontalità17 o opposizione della
cosa che si vede, rispetto al centro dell'occhio, da cui dipende la
percezione distinta delle proprietà (intentiones) di quel punto della
cosa secondo l'invenzione geometrico-ottica di Alhazen, consi-
stente nell’idea del privilegiamento del raggio diretto o perpendi-
colare dal punto opposto della superficie della cosa vista, al centro
del glaciale dell'occhio, il quale riceve l'impressione nervosa :
(l'occhio è un organo nervoso che è sempre ferito, ossia impres-
sionato più o meno, a seconda dell'intensità della fonte luminosa) ;
3. la terza condizione è il tempo più o meno veloce con cui si com-
prende la cosa vista ; e questa regola rinvia alle attività percettive
particolari dell'anima e concerne non più le regole di ottica geo-

Morlacchi, 2003, p. 33-52. Cf. anche di J. JOLIVET , « Pour le dossier du “Proclus


arabe” : Alkindi et la Théologie platonicienne », in Philosophie médiévale arabe et
latine, Paris, Vrin, 1995, p. 11-75.
17
« Cum ergo visus fuerit oppositus alicui rei visibili, formabitur inter punctum,
quod est centrum visus et superficiem illius rei visae, pyramis ymaginabilis, cuius
vertex erit centrum visus et basis erit superficies illius rei visae » (A LHAZEN, op. cit., I,
19, p. 10)
88 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

metrica di percezione delle cose, ma le funzioni psicologiche


interne dell'anima ;
4. quarto elemento importante o condizione per la visione della cosa
vista, è che quando le piramidi visive si intersecano tra di loro,
esse sono tagliate da piani trasversali. E questo ci ricorda la
famosa espressione della perspettiva di Leonardo, che parla
sempre di « piramidi tagliate18 ».
Inoltre le regole geometriche dei raggi ottici, secondo cui sono
trasmesse le forme o le proprietà (intenzioni) della res visa entro la
piramide, non solo riguardano il privilegiamento del raggio perpen-
dicolare o asse della piramide, che permette la visione distinta, ma
mettono in luce l'altra grande scoperta di Alhazen : egli ha esteso e
quindi applicato alla anatomia dell'occhio conosciuta al suo tempo, le
regole della deviazione o obliquazione dei raggi, ossia quando essi
siano rifratti all’interno degli umori dell’occhio. Si tratta della « rifra-
zione » che risulta quando i raggi non cadono perpendicolarmente alla
superficie dell'occhio, penetrano bensì al suo interno attraverso i medi
degli umori oculari diversamente densi, e così deviano e pertanto
forniscono immagini confuse e perciò generali che saranno poi quelle
così ricevute dalla fantasia. Se la visione per raggio perpendicolare è
distinta e particolare ed è stata chiamata intuitio nella versione latina,
quella generale e confusa è stata chiamata per aspectum. Con questa
dottrina geometrica del raggio perpendicolare Alhazen cerca di risol-
vere geometricamente e meccanicamente il problema della visione
binoculare19.
Proprio da questa teoria di Alhazen dell'aspetto ha preso il titolo la
traduzione latina del testo come quella italiana : De li aspetti (al-
Manazir). E anche questo elemento deve essere sottolineato. Infatti la
piramide visiva non è costituita solo dal raggio perpendicolare che

18
Su questa espressione di Leonardo cf. il mio studio « Note di commento ad
alcuni passi del 'Libro di pittura: “L’astrologia che nulla fa senza la prospettiva” », in
Atti del Convegno Leonardo e Pico (Mirandola 10-11 Maggio 2003), a cura di
F. FROSINI, Firenze, Olschki, 2004, p. 89-129.
19
Cf. anche D. RAYNAUD, « Ibn al-Haytham sur la vision binoculaire, un précurseur
de l’optique physiologique », in Arabic Sciences and Philosophy, A Historical
Journal, 13 (2003), p. 79-101.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 89

fornisce la comprensione intuitiva, che è quella chiara e distinta e


quindi « certificata » secondo Alhazen20, ma da tutti i raggi della pira-
mide visiva, cioè quelli del fascio piramidale, ossia complessivi
dell’« aspetto » generale perché corrispondono con tutti i punti della
superficie di base della piramide visiva, la quale risulta così chiusa e
delimitata dall'« aspetto » della cosa. In tale senso verrà interpretata la
teoria di Alhazen da parte di Leon Battista Alberti, filtrata certamente
anche attraverso la Perspectiva di Biagio Pelacani di Parma, che era
stato fortemente influenzato da Alhazen medesimo, sia secondo la
versione latina della sua opera che, forse, da quella in italiano De li
aspetti. Questa copia in volgare sappiamo che circolava a Firenze negli
anni di elaborazione del De pictura dell’Alberti e le dottrine ivi conte-
nute gli permetteranno (probabilmente) di ricostruire la piramide ottica
della prospettiva artificialis per « aspetto ». Pertanto, l'opposizione o
frontalità e la modica (o appropriata) distanza rispetto all'occhio della
cosa vista, sono condizioni geometriche primarie e indispensabili per
afferrare la posizione della cosa vista rispetto all'occhio. La terza condi-
zione, cioè il tempo, riguarda invece l'attività interne dell’anima in
relazione alla comprensione della cosa vista, ossia il tempo necessario
per la ripetizione degli atti percettivi affinché le immagini si depositino
nella memoria21.

LA DOTTRINA DEI CORPORA ORDINATA CONTINUATA

Come si configura la realtà visiva di Alhazen ? Non sappiamo


molto della sua concezione della « realtà », se non quello che si ricava
dalla stessa opera. Certamente, come si evince dai principi della sua
gnoseologia qui sviluppati soprattutto nel libro II, egli non pare un
seguace di Aristotele, ma semmai degli sviluppi delle scuole post-
aristoteliche stoico-epicuree. In fisica, tuttavia, non appare un atomista,
anche se non lo si può né negare, né affermare. Infatti egli stabilisce

20
ALHAZENI, Opticae thesaurus, ed. cit., II, 64, p. 67.
21
Op. cit., ed. cit., II, 66, p. 69.
90 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

che tutto ciò che si vede è corpo22, che solo il corpo è sensibile e quindi
visibile, che il corpo ha la estensione secondo le tre dimensioni, ossia
lunghezza, larghezza e profondità ; quest'ultima tuttavia si vede rara-
mente e solo quando il corpo si pone in obliquo rispetto alla superficie
piana degli altri corpi visti dall'occhio.
In generale la corporeità si comprende come figura tridimensionale
solo per « scienza antecedente », che è una forma particolare, articolata
e complessa di conoscenza. Tuttavia, per la ricostruzione della dottrina
dello spazio (spatium) che è messa in relazione a un locus o ad un situs,
elaborata da Alhazen in questo suo Kitab al-Manazir, è molto impor-
tante stabilire la sua nozione di corpora ordinata continuata, sulla cui
base solamente si può avere la percezione della misura della distanza23
che mi stabilisce che cosa Alhazen intenda per spatium. Questo
24
concetto di corpora ordinata continuata , che significa corpi in posi-
zione ordinata, rinvia comunque sempre a quello del sito ossia della
posizione locale del corpo (luogo). Quello che emerge da questo testo è
che questa ordinatio o ordine, avviene sempre sub situ, intendendosi le
« posizioni », nei luoghi rispettivi.
Queste posizioni devono infatti sottostare ad alcune condizioni che
per lo più sono tutte fondate sulla « valutazione » o sulla costruzione
per ragionamento, piuttosto che sulla comprensione razionale parti-
colare immediata per intuizione, da parte dell'osservatore. In generale la
posizione o il situs, che mi fornisce la comprensione del locus verus
(vero luogo) della cosa vista si classifica in due : il situs delle superfici
dei visibili opposti, cioè in linea perpendicolare al vertice dell'occhio,
oppure il situs dei raggi che arrivano obliquamente (per aspectum). Ne
consegue che pertanto
1. il sito è secondo la superficie della cosa vista secondo il raggio
diretto (intuitio) o secondo il raggio rifratto (obliquo) (p e r
aspectum) ;
2. dipende dalla distanza delle superfici, le quali devono essere a
modica distanza, in posizione ordinata e continua tra di loro e
rispetto all'occhio, perché se la distanza dei siti non è moderata,

22
Op. cit., ed. cit., I, 40, p. 25.
23
Op. cit., ed. cit., II, 22 p. 38.
24
Op. cit., ed. cit., II, 25 p. 39-40.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 91

l'occhio non può percepire le estremità delle linee radiali, perché


sono troppo distanti, così che non si vedono più ;
3. la distanza si percepisce quando si percepisce la posizione di una
cosa rispetto all'occhio, se questa è in relazione (ordine) con
un'altra e tutte sono in posizione di distanza moderata con l'occhio
4. la distanza, rispetto al sito delle cose viste dipende anche dal loro
spostarsi, ossia dal loro movimento (motus) di vicinanza o di
allontanamento tra di loro e rispetto all'occhio25.
Pertanto, una nozione importante per la percezione della misura
della distanza è quella del respectus, ossia della 'posizione' a distanza
« rispettiva » dei corpi tra di loro e rispetto all'occhio.

LO SPAZIO

Lo spatium appare dunque definito come la qualità dell'estensione


di una cosa rispetto all'occhio che consiste nella posizione (situs) della
superficie (o della linea) delle cose viste quando sono a distanza
mediocre rispetto all'occhio e dalla posizione delle cose tra di loro.
Tuttavia, questa percezione dello spazio come intervallo tra i siti o le
posizioni dei corpi esterni, visto dall'occhio, dice Alhazen, raramente è
certificato dalla vista (« visus raro certificat situs visibilium »), quanto
invece « plura quae comprehendit visus ex sitibus visibilium non
comprehendit nisi per aestimationem », cioè interviene l'attività delle
facoltà razionali valutative o estimative interne di confronto di
somiglianza e di differenza più grande e più piccola degli intervalli
rispetto alla obliquazione dei raggi, cioè l'allontanamento dalla
perpendicolare, dei raggi che sono deviati a partire dai punti della
superficie della cosa più o meno opposta in perpendicolare che arrivano
all'occhio26, i quali poi devono essere sempre confrontati dall’intelletto
con l'ampiezza dell'angolo ottico. Non mi soffermo su questo
argomento, sebbene importantissimo, per cui Alhazen ha modificato il

25
Op. cit., ed. cit., II, 25, p. 40.
26
Op. cit., ed. cit., II, 25, p. 40-41.
92 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

cosiddetto assioma degli angoli dell'ottica euclidea per la quale la


grandezza della cosa vista sarebbe proporzionale all'ampiezza
dell'angolo, nel senso che Alhazen, come poi il Pelacani, commisurerà
la grandezza della cosa vista non tanto all'angolo ottico, ma alla
distanza in cui si vede la cosa27. Pertanto la posizione (situs) dei corpi
visti da cui dipende la percezione della loro distanza, ossia la misura
della loro distanza rispetto all'occhio, determina la percezione della
estensione degli intervalli tra di loro, cioè dello spazio.
Il sito o la posizione dei corpi visti, dipende quindi anche dal loro
movimento28, dal loro spostarsi, rispetto a sé stessi, ma soprattutto
sempre rispetto all'occhio. La percezione dello spazio in questo caso
« est comprehensio qualitatis motus ex comprehensione spatii super
quod movetur res visa quando res visa movebitur secundum se
totum29 ». Lo spazio dunque è l'intervallo tra le cose viste dall'occhio,
ossia è una percezione dello spazio che è la comprensione della qualità
del movimento di un corpo a partire dalla comprensione dello spazio
sopra il quale si muove la cosa vista quando questa si muove secondo
tutta sé stessa. Le cose possono essere infatti ferme oppure in movi-
mento ; comunque si tratta di spazio percettivo, perché l'uomo
« stima », cioè valuta che tra sé e ciò che vede, si estende, sulla base
dell'occhio, una sola cosa vista o più cose. Siamo di fronte a un
concetto di spazio percettivo « esterno » a chi vede, ossia in posizione
di respectus, cioè rispettivo, in altri termini di relazione tra la posizione
di un situs percepito o più siti, cioè posizioni rispettive di corpi continui
e ordinati tra di loro e l'occhio.

27
Op. cit., loco cit., II, 26, p. 42.
28
Op. cit., ed. cit., II, 26, p. 42 : « Omnes ergo situs qui comprehenduntur a visu,
dividuntur in istos tres modos et situs cuiuslibet habentis situm apud aliud,
componitur ex remotione illius habentis situm ab illo, et ex situ illius habentis situm
respectu illius alterius. Oppositio ergo rei visae ad visum componitur ex remotione rei
visae a visu et ex parte in quo est res visa respectu visus. Comprehensio autem
remotionis rei visae iam declaratum est intentio quiescens in anima » (op. cit., loco
cit., p. 42).
29
Ibid.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 93

LA COMPRENSIONE DELLA DISTANZA (REMOTIO), COME MISURA


SECONDO L’UNITÀ DI MISURA CORPORIS HUMANI

Esaminiamo ora più in particolare la dottrina della comprensione


della remotio, ossia della distanza che ci fornisce la definizione di
spazio percettivo di Alhazen. Tutte le proprietà (intentiones) dei corpi,
siano le qualitative come la luminosità e il colore, che le quantitative,
figura (magnitudo), distanza (remotio) sono unite insieme nei corpi e
non esistono separatamente. Tuttavia quest'ultime, ossia figura, magni-
tudo, remotio, sono determinazioni ottenute dopo operazioni di perce-
zioni distinte e ripetute, su cui interviene la ragione (la cosiddetta virtus
distintiva) che le assimila e le confronta secondo una unità di misura,
« figurando » o raffigurando così le immagini che risultano acquisite
dopo operazioni ripetute che quindi divengono abituali, manifeste e
note. Esse si depositano nella memoria30 e in questo caso producono
una conoscenza acquisita consistente in proposizioni universali che non
sono le prime a priori per l'intelletto, ma risultano derivate a motivo
delle argomentazioni ripetute e di tutti i ragionamenti che l’intelletto
compie che sono fondati sulle distinzioni e le misure compiute dalla
virtù distintiva della ragione. Essa ragiona sulla base delle compren-
sioni distinte dovute all'intuizione ottica. E risultano abituali, perché
fondate sulla « consuetudine dell'esperienza della virtù distintiva ». La
dottrina della percezione della distanza (remotio) come misura del
secondo libro del Kitab al Manazir di Alhazen, non ha niente di meta-
fisico, né di trascendente, ma è empirica in quanto fondata sul concetto
di mensura corporis humani che rinvia a una esperienza empirica di un
mondo di uomini che non sono altro che corpora ordinata continuata
che vivono sulla terra. Al centro dell'universo sta quindi l'uomo, il
quale ne è la misura e intorno a lui esistono innumerevoli corpi solidi in
posizione di ordine rispetto a lui.
L'idea di spazio che si ricava da questi passi consiste nella
determinazione della misura di un intervallo (o distanza), che è una
misura razionale dovuta al calcolo dell'estimativa.

30
Op. cit., ed. cit., II, 66-67, p. 69-70.
94 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

SUL LUOGO

Questa dottrina è simile ma non identica a quella del testo edito da


Rashed Sul luogo, anche se in quest'ultimo si parla di misura degli
intervalli all'interno delle superfici contenenti un corpo, per esempio un
vaso e si escludono criticandole analiticamente tutte le interpretazioni
in senso ontologico della nozione di luogo date del Filopono che lo
intendeva come misura degli intervalli all’interno di una superficie
contenente sempre una sostanza : posizioni criticate da Alhazen perché
rinterpreterebbero questa distanza come entità o sostanze (aria, acqua,
olio o altro), che possono cambiare, mentre la misura di questi intervalli
non cambia mai. Tale interpretazione in questo modo rintrodurrebbe la
nozione di pieno in nome del principio dell’horror vacui. Nel testo Sul
luogo l'Autore spiega l'interpretazione risalente al Filopono, dello
spazio di Aristotele come misura delle distanze all’interno di una
superficie che contiene un corpo, come un vuoto o misura astratta delle
distanze, che è sempre la stessa rispetto alle superfici del contenente31,
così come farà più tardi commentando questi luoghi della Physica di
32
Aristotele anche Biagio Pelacani da Parma . Una analoga inter-
pretazione fu infatti accolta da Biagio, nelle sue importanti lezioni sulla

31
Alhazen sembra che faccia una critica alla dottrina di Aristotele e interpreti la
dottrina innovativa del Filopono in senso anti-aristotelico contro quanti intendevano
ridurre la distanza come misura, alla forma delle sostanze che riempiono il vaso, sia
aria, acqua, etc., le quali variano di forma, mentre la distanza come misura degli
intervalli della superficie del vaso che le contiene, non varia mai. Dunque il luogo non
è la forma della superficie contenente e le distanze sono immaginate senza materia,
ossia senza i corpi. Il luogo è così la misura astratta degli intervalli all’interno delle
superfici racchiudenti un corpo, non è un corpo fisico, è un vuoto come misura.
L'autore in questo scritto pare discutere l'interpretazione ancora fisico-ontologica
della tesi del Filopono, da lui invece intesa astrattamente e non ontologicamente.
32
Afferma nella Physica pertanto : « Per distantiam corporis non intelligam aliquam
entitatem distinctam a corporibus invicem distantibus » e così « capitur vacuum pro
distantia apud imaginationem ad inter latera continentis, non est aliquid ». (Cf. BLASII,
Qu. physicorum, ms. Vat. lat. 2159, IV, qu. 4). Per una analisi dettagliata di questa
dottrina di Biagio mi si permetta di rinviare alla mia monografia dedicata a Biagio,
Astrologia e scienza, la crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio
Pelacani da Parma, Firenze, Nuove Ed. Vallecchi, 1979, p. 282-285.
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 95

Physica, in cui discuteva l'esistenza o meno del vuoto che sarebbe


appunto la misura della distanza delle superfici interne di un orcio o
vaso, considerato astrattamente come fosse vuoto. Lo spazio in questo
caso anche secondo Biagio sarebbe il luogo « vuoto », costituito dalla
misura delle distanze all'interno degli estremi delle superfici contenenti
un corpo qualsiasi.
Nel Kitab al-Manazir di Alhazen abbiamo una concezione un pò
diversa rispetto a questo testo Sul luogo33 perché è svolta in un contesto
che tratta di spazî « esterni » intesi come intervalli « percepiti » dei
corpi tra di loro e rispetto all’occhio e non interni ai corpi.
Come nasce allora questa nozione di distanza, ossia di remotio,
che cos'è e come la si conosce ? Questa conoscenza è una misura che è
connessa a una percezione visiva, che nasce da una esperienza sem-
plice, per cui dai diversi movimenti delle palpebre aprendo o chiudendo
un occhio, la virtù distintiva della vista comprende che le cose viste
sono fuori della vista (extra visum) e che non sono « applicate », ossia a
contatto diretto con l'occhio, e così l’anima comprende che esiste una
distanza tra l'occhio e la cosa vista. Essa, afferma Alhazen, è l'esten-
sione che va dall'occhio al piede di un uomo in posizione eretta. Così la
comprensione della remotio è la percezione di una distanza tra punti
diversi che presuppongono un sito o un luogo rispettivo. In generale
tuttavia questa comprensione si diversifica nel senso che alcune distan-
ze sono percepite con la loro quantità o misura quantitativa e altre no.
Per questo motivo si avranno due nozioni : una nozione di distanza in
generale che è la nozione di res visa extra visum, ossia di cose viste,
all’esterno della vista, senza contatto tra di loro, ossia sensa intervalli
percepibilis ; una seconda nozione che è la nozione per cui la distanza
invece è la misura della quantità di questi intervalli. Il sito delle cose
viste e la misura della loro distanza dipendono dalla opposizione
maggiore e minore di esse rispetto alla vista. La virtù distintiva com-
prenderà sempre distintamente il luogo opposto (in perpendicolare) alla
vista. Ma come si comprende l'opposizione o frontalità ? Essa dipende
sempre dalla comprensione del luogo e della distanza insieme, secondo
le linee rette, per cui il locus verus, cioè quello visto con verità, è quello

33
« Traité d'al-Hasan-ibn al-Hasan ibn al-Haytham sur le lieu », ed. R. RASHED, in
Les mathématiques infinitésimales du IX au XIe siècle, cit., p. 676-678.
96 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

che è visto con distanza di piccola quantità certificata (ossia di pro-


porzione percepibile sensibilmente) rispetto alla sua separazione
dall'occhio.

LE DISTANZE CONOSCIUTE

Come si stabilisce la misura delle distanze dei corpi dall'occhio ?


Secondo Alhazen nel Kitab al-Manazir, questa misura avviene in prima
certificatione (nella prima certezza) la quale si può immediatamente
verificare secondo la misura empirica delle parti del corpo di un uomo
(mensura corporis hominis). In altri termini, un uomo che cammina
sulla terra, misura questa per piedi o palmi (per pedes o palmes).
Queste misure sono quantità acquisite e famigliari (consuete) che si
depositano nell'anima e sono conservate dalla memoria. Dunque, c'è
una misura della distanza immediatamente (in primis) e una seconda,
che invece dipende dall'esperienza ed è propria della memoria (in
secundis). Allora la misura della distanza, ossia della quantità delle
distanze delle cose viste non consiste nel comprendere quanti cubiti
sono in una distanza, quanto invece consiste nell'apprendere, da una
distanza qualunque di una qualunque parte della terra (la quale abbia
una quantità determinata già conosciuta da noi), una altra quantità che è
ottenuta confrontando o comparando, le quantità delle distanze dei
visibili che vede ora, con quella del cubito, del piede o del palmo di cui
ha già la conoscenza. In altre parole, Alhazen sulla base della misura
empirica corporis hominis ricava le misure del cubito, di un piede, di
un palmo, che sono quelle che si depositano nell'anima dopo esperienze
ripetute, così che l'immaginazione trattiene la nozione o la forma della
misura di questi spazi conosciuti ; poi, se volesse sapere quanti cubiti
sono nelle distanze che vede, l'immaginativa o cogitativa confronta la
forma astratta dello spazio di un cubito o di un piede (depositate
nell'immaginazione in quanto distanze già conosciute o remotiones
cognitae), con la percezione delle superfici dei visibili che vede ora.
Questa comprensione non è tanto per visum, ma per stima e valu-
tazione. Questa misura della distanza tra le cose viste, non corrisponde
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 97

quasi mai con le distanze effettive, ossia al di fuori della loro perce-
zione34.
La vista comprende la quantità della distanza per argomentazione
(per argumentationem), quando fa un ragionamento in cui confronta la
misura di questa cosa con un'altra misura già conosciuta (ad aliam
mensuram iam comprehensam), e lo può fare solo mediante corpora
ordinata e continua in relazione alla distanza della cosa vista con
l'occhio. Così si danno due nozioni di misura della distanza :
1. una misura della distanza che è certificata, che è quella fornita dal
senso della vista di due corpi secondo la virtù distintiva della
ragione, che ha l'intuizione secondo la perpendicolare, di superfici
tra le quali ci sono corpi in posizione ordinata rispetto all'occhio
secondo una modica distanza, e
2. la misura della distanza per conoscenza (cognitio) dovuta
all'attività razionale della facoltà estimativa, che fa il confronto tra
le misure già acquisite sulla base della ripetizione degli atti
percettivi precedenti e la misura che si conosce ora di cose poste
anche in posizioni composte.

LA NOZIONE DI SPAZIO COME CORPORA ORDINATA CONTINUATA


SECONDO IL SITO

Lo spazio è inteso dunque come intervallo tra corpi visti e misurati


dalla facoltà razionale estimativa secondo unità di misura già possedute
dall'anima, sulla base di operazioni percettive ripetute ed è in stretta
relazione con la nozione di sito o di luogo e con la nozione di
respectus, cioè di posizione rispettiva. La posizione rispettiva è sempre
in relazione all'occhio, ma riguarda anche la posizione delle cose tra di
loro collocate secondo un certo ordine (ordinata). Anch'essa è una
nozione fondamentale per intendere questo concetto di spazio geome-
trico come intervallo misurabile tra posizioni di corpi posti secondo un
ordine in siti diversi. Da cui si ricava l'importanza anche della nozione

34
Op. cit., ed. cit., loco cit.
98 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

di corpi in ordine (corpora ordinata) esposta di sopra. Afferma


Alhazen in un altro passo : Il sito che la vista comprende a partire dai
visibili si classifica in tre modi : 1) uno è il modo dell'opposizione
(oppositio), ossia la frontalità della posizione o di tutta la cosa vista o di
ciascuna delle sue parti. 2) Il secondo è il modo secondo la superficie
della cosa quando è costituita da molte superfici, dai loro termini, dalle
linee e dagli spazi che sono tra due punti. 3) Il terzo è l'ordinamento
(ordinatio) delle parti delle cose viste l'una rispetto all'altra (a d
invicem). Questo sito, che è quello di qualunque cosa che abbia il sito
presso un altro sito, è un sito composito che dipende dalla distanza
rispetto all'altro sito e rispetto alla vista35.

IMMAGINATIVA E VALUTAZIONE (AESTIMATIVA)

Risulta da questi passi che la nozione di spazio come intervalli di


posizione o di luoghi dove si trovano le cose viste in relazione
all’occhio, è una dottrina molto particolare di Alhazen, che non è quella
di spazio o intervallo tra i limiti delle superfici interne di volumi conte-
nenti corpi o sostanze : siamo cioè di fronte a una dottrina specifica
molto precisa che rinvia anche alla psico-gnoseologia di Alhazen, ossia
alla sua concezione della determinazione della misura della distanza,
che è una nozione che dipende sempre dall'esperienza visiva acquisita e
presuppone le operazioni dei sensi interni dell'anima, come
l'immaginativa, la cogitativa e la valutazione (l'aestimativa) che co-
struiscono delle misure quantitative, matematicamente immutabili e
astratte (un palmo, un piede, un cubito, ecc.). Accenno qui rapidamente
al carattere e alla funzione dell'immaginativa nella comprensione delle
misure delle figure, della corporeità e delle grandezze di Alhazen, che è
tutta sua e originale e se mai rinvia a una concezione nominalista dei
concetti matematici, punto, linea, angolo, intervallo, vuoto, etc., che ci
pare il corrispettivo teorico coerente con la sua gnoseologia empirista36.

35
Op. cit., ed. cit., I, 19, p. 10 ; II, 25 p. 39-41.
36
Mi si permetta di rinviare al mio studio « La problematica relativa ai concetti
scientifici di punto, linea, angolo : il commento alla ‘perspectiva’ di Euclide », in
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 99

Da quanto si evince dal Kitab-al-Manazir, l'immaginativa come


per Avicenna (cf. nota 5) pare la facoltà onnicomprensiva dell'attività
cognitiva o razionale dei sensi interni dell'anima umana e non coincide
con l'immaginazione che invece è strettamente legata alla fantasia e al
senso comune. In generale appare da quanto afferma Alhazen che
l'immaginativa sia la facoltà che « figura » o raffigura le forme, solo
che non risulta che sia una facoltà che compia astrazioni dai sensibili o
dalla materia, al modo di Aristotele o di Avicenna. Le forme imma-
ginate non sono una pura e semplice considerazione « astratta » (secon-
do la natura dell'intelletto che non considera i corpi ma le forme
eterne), bensì considera sempre i corpi : in altre parole, l'immaginativa
è una facoltà razionale che ha a che fare con la sensibilità da cui dipen-
de, e si articola in attività originarie intellettive che non prescindono
dalla sensazione anche se rinviano sempre a evidenze razionali del
ragionamento logico ex suis terminis (come affermerà poi Biagio
Pelacani da Parma formalizzando una dottrina analoga)37.
Da quanto si ricava dalla descrizione dei modi della qualità della
visione,
1. il modo geometrico-meccanico del raggio perpendicolare per intui-
zione (intuitio) o per deviazione rifratta (per aspectum),
2. il modo relativo al tempo dell'acquisizione delle comprensioni,
veloce o lento,
3. il modo secondo la natura delle proprietà del visibile che sono ben
ventidue (intentiones) e che sono tutte mescolate e unite insieme
nei corpi (sia le proprietà puramente qualitative come la luce e il
colore che quelle quantitative figura, grandezza, corporeità,
distanza, posizione etc.), tutto ciò ci fa comprendere come per
Alhazen queste proprietà siano corporee e sensibili, ossia perce-
pibili da una anima sensibile e razionale insieme secondo le leggi
geometriche della visione ottica, senza tuttavia niente dirci più

Teorie della luce e della visione ottica (Studi sulla perspettiva medievale e altri
saggi), Perugia, Morlacchi ed. 2003, p. 213-235.
37
Cf. l'introduzione all'edizione critica dell'opera logica di Biagio sul significato di
verità del ragionamento matematico a cura di J. BIARD, G. FEDERICI VESCOVINI, BLAISE DE
PARME, Quaestiones super tractatus logice Magistri Petri Hispani, Paris, Vrin, 2001,
p. 19.
100 GRAZIELLA FEDERICI VESCOVINI

della loro natura essenziale o della realtà ontologica di queste


intenzioni e proprietà sensibili miste delle cose.
Egli ci dice solamente che sono azioni od operazioni di luce di cui si
apprende solo la loro consistenza sensibile secondo regole geometriche.
Pertanto non si tratta di astrarre nessuna proprietà di esse da un
substratum materiale di cui non si sa nulla, fuorché che si tratta di un
corpo sensibile. L'immaginativa secondo il traduttore latino è distinta
dalla immaginazione proprio per le sue funzioni diverse, in quanto è
attiva perché stima, calcola e valuta sulla base delle sue esperienze
acquisite e depositate nella memoria, ed è chiamata da Alhazen cogi-
tativa, mentre l'immaginazione o la fantasia pare passiva. Tuttavia
secondo Alhazen, essa non astrae mai da nessuna realtà o materia
indeterminata.
La nozione di Alhazen della misura dello spazio immaginato,
inteso come stimato, ossia valutato e misurato, ci sembra che non abbia
molto a che vedere con la nozione di immaginazione dello spazio
astratto secondo alcune scuole aristoteliche dei maestri latini del
XIV secolo, anche se le nostre conoscenze (sia a proposito della
confusione oppure della distinzione tra immaginazione e immaginativa)
non siano molte rispetto alla varietà delle posizioni concettuali dei vari
maestri che pare siano state assai differenti (per esempio l'imma-
ginazione matematica di Oresme non ci sembra né quella di Gregorio
da Rimini, né quella del Pelacani). E gli Atti del Convegno interna-
zionale che si è tenuto a Porto (26-31 agosto 2002) dedicati proprio a
questo tema con i loro contributi che riguardano larghissimi settori,
scuole filosofiche diverse e numerose posizioni individuali, adesso
potranno colmare molte delle nostre lacune38. Assai interessante è la
distinzione tra « immaginazione » (passiva perché dipendente dai sensi)
e la « immaginativa » che è apprensiva e attiva e coincide con la
cogitativa. Secondo Alhazen, l'immaginazione, intesa come
« immaginativa » è la facoltà attiva che raffigura le forme percepite
sulla base dell'esperienza ripetuta secondo la dottrina che abbiamo
riferito di sopra, ed è molto prossima alla cogitativa e all'estimativa. La

38
Gli Atti del Convegno dal titolo Intellect and Imagination in Medieval
Philosophy (Porto 26-31 August 2002), sono in corso di stampa ; 3 voll. presso
Brepols, e vol. 4 nella rivista Mediaevalia, Textos and Studios, 23 (2004).
ALHAZEN, LO SPAZIO PERCETTIVO DEL DE ASPECTIBUS 101

distanza o la misura di uno spazio (esterno) che distanzia i corpi, appare


in questo testo di Alhazen ricondotto a regole dello spazio percettivo,
che non è quello geometrico astratto, vuoto, dei matematici del secolo
XVII, ma è quello dello spazio della piramide visiva chiuso e
delimitato dall’aspectus (ossia dalla superficie di base e dai lati della
piramide) così come lo intesero gli artisti fiorentini inventori della
perspectiva artificialis del Rinascimento italiano ; in altri testi attribuiti
ad Alhazen, si sostiene la nozione di vuoto, come misura astratta della
distanza delle superfici interne di un corpo che occupa un luogo ; verrà
così aperta la via alla nozione di spazio omogeneo, vuoto, già discusso
anche da Biagio Pelacani da Parma nel suo riesame critico dei principî
della fisica e dell'ontologia di Aristotele. Ma lo spazio percettivo è una
costruzione della facoltà estimativa-razionale e immaginativa sulla base
della percezione della posizione ordinata e continuata dei corpi tra di
loro e rispetto all'occhio.
Università di Firenze
MARWAN RASHED

IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE


SELON AVICENNE

L’une des limites les plus essentielles de la cosmologie


d’Avicenne tient à l’admission de la vieille séparation entre monde
sublunaire et supralunaire. Pressé par les attaques philoponiennes à
l’encontre de la cinquième substance, mais aussi par celles des atomis-
tes mu‘tazilites contemporains, Avicenne a soigneusement reconstruit
l’édifice cosmologique ancien autour d’une nouvelle défense de cette
partition cosmique héritée d’Aristote. J’ai tenté ailleurs de montrer que
sa dynamique, centrée sur la notion d’impetus (mayl) visait ainsi surtout
à établir une différence qu’on pourrait qualifier de statutaire entre le
mouvement rectiligne d’ici-bas et le mouvement circulaire des corps
célestes1.
Je voudrais ici me concentrer sur un autre aspect de ce remanie-
ment : les considérations dynamiques qui en orientent le questionne-
ment proprement physique, et non cosmologique. Dans sa description
des mouvements naturels, Avicenne distinguait l’accélération de la
chute des graves, s’expliquant par un rapport constamment changeant
du mobile à son lieu naturel2, et l’uniformité du mouvement circulaire,
due à un contrôle imaginatif, par l’âme des corps célestes, des trajectoi-
res cosmiques. Cette théorie paraît donc à mi-chemin entre une ciné-
matique d’obédience aristotélicienne et une dynamique platonisante.
Elle refuse de ne voir dans les mouvements célestes qu’un parcours,

1
M. RASHED, « Natural Philosophy », in P. ADAMSON, R. C. TAYLOR, A Companion to
Arabic Philosophy, Cambridge University Press, 2004, p. 287-307.
2
Sur ce point, voir A. HASNADUC , « La dynamique d’Ibn Sînæ (La notion d’« incli-
naison » : mayl) », in J. JOLIVET, R. RASHED, Études sur Avicenne, Paris, 1984, p. 103-
123 ainsi que M. RASHED, « Dinamica », in Storia della Scienza, vol. III: La civiltà
islamica, Rome, 2002, p. 624-642, p. 630-635.
104 MARWAN RASHED

mais elle ne va pas non plus jusqu’à postuler une force intensive qui en
constituerait la réalité3.
On doit s’interroger sur cette cote apparemment mal taillée. Une
première explication soulignerait l’importance de la théologie astrale
pour Avicenne, et en conclurait à la nécessité de considérer les corps
célestes comme des vivants éternels, donc animés, donc mus par une
« imagination » anticipatrice de leur parcours. Mais cette réponse n’est
guère satisfaisante. Car le schème de l’émanation, plus fondamental
dans la cosmologie avicennienne, œuvrait en sens inverse à assimiler
les trajectoires astrales à des expressions extensives de l’auto-contem-
plation du Premier Principe4. Si tout émane nécessairement de Lui, on
ne comprend plus pourquoi un phénomène aussi prévisible que les
mouvements célestes doive être confié au contrôle d’imaginations indi-
viduelles et particulières.

1. UN TEXTE DES GLOSES

Partons d’un texte des Ta‘lîqæt (Gloses) sur lequel nous avons déjà
eu l’occasion d’attirer l’attention5. Celui-ci expose de la manière la plus
6
claire les principes de la dynamique d’Avicenne :
La raison de l’altération (al-istiÌæla) qui se constate dans les corps naturels
dotés de force se trouve dans les lieux et dans les positions, tandis que le
mouvement rectiligne dépend de la nature et du fait que le mobile ne se

3
Sur cette distinction, voir M. GUEROULT, Leibniz : dynamique et métaphysique, Paris,
1967, p. 56-76 et J. VUILLEMIN , Physique et métaphysique kantienne, Paris, 1955,
p. 216-231 (« métaphysique cartésienne et métaphysique leibnizienne »), ID ., «The
systems of Plato and Aristotle compared as to their contributions to physics », in
W. SPOHN, et al. (eds), Existence and Explanation, Dordrecht, 1991, p. 197-206.
4
Dans la suite du néoplatonisme athénien. Cf. M. RASHED , « La classification des
lignes simples selon Proclus et sa transmission au monde islamique », in C. D’ANCONA,
G. SERRA, Aristotele e Alessandro di Afrodisia nella tradizione araba, Padoue, 2002,
p. 257-279.
5
Cf. M. RASHED, « Dinamica », p. 634.
6
IBN SîNÆ, Ta‘lîqæt, éd. A. BADAWI, Le Caire, 1972, p. 105.
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 105

7
trouve pas dans son lieu naturel. Et la cause du renouvellement et de la ré-
pétition de ses mouvements, comme de l’altération (tendant à l’annihilation
d’une force et à la recréation d’une autre) de sa nature est l’existence d’ubi
et de positions déterminés en acte (wufiºdu uyºnin wa awda‘in mutaÌaddi-
datin bi-l-fi‘l), du début de son mouvement jusqu’au moment de son arrêt.
La nature, de fait, ne cesse pas, à tout instant (fî kulli ænin), d’être dans un
état renouvelé différent du précédent et ce sont là des états en raison des im-
petus changeants. Il en va de même pour l’altération de telle ou telle qualité,
par exemple pour la chaleur étrangère dans l’eau, qui ne cesse à tout instant
de s’altérer, de changer, d’augmenter ou de diminuer, jusqu’à ce qu’elle re-
trouve son état naturel. La cause renouvelée de cela est l’existence d’ubi et
de positions déterminés en acte.
La situation n’est pas la même dans le cas des corps célestes : de fait, toute
position n’est pas, pour le corps céleste, déterminée en acte, et il ne se pro-
8
duit pas pour lui d’altération dans les forces, et la cause de son altération
n’est pas ses positions, mais son estimation (al-tawahhum) et sa volonté re-
nouvelées, acte estimatif après acte estimatif (tawahhuman ba‘da tawahhu-
min). Et il est nécessaire que l’acte estimatif soit un acte estimatif qui ait un
effet sur l’altération ; c’est un acte imaginatif avec lequel changent les états
du corps céleste dans sa nature, non dans son essence, et que suit un autre
acte estimatif qui dérive de lui. Et il ne cesse d’être déterminé par un acte
estimatif suivant un acte estimatif, selon la voie de l’évanouissement-
renouvellement. Et ces actes estimatifs dérivent pour lui de l’estimation sta-
ble et première, qui lui est advenue à partir de l’estimation du premier.
La position d’Avicenne, et la façon dont elle s’écarte de l’aristo-
télisme classique, est remarquable. Sans aller jusqu’à postuler l’exis-
tence de l’infini en acte, Avicenne admet que tous les points d’un seg-
ment AB, lors d’une trajectoire de chute libre, sont « déterminés en
acte ». Or Avicenne, en tant que continuiste, postule nécessairement
qu’ils ne sont pas en nombre fini. Surgit donc immédiatement la ques-
tion zénonienne de la possibilité du parcours. S’il faut passer par un
nombre infini de positions réellement, et pas seulement potentielle-
ment, distinctes les unes des autres, comment expliquer l’achèvement
du mouvement ? Avicenne, malheureusement, ne répond pas à cette
question explicitement. C’est donc sa description même du phénomène
qui doit nous donner la réponse. Il s’agit, nous dit-il, d’un processus de

7
En lisant tafiaddud pour taÌaddud.
8
En ajoutant wa laysa avant yaÌduÚu.
106 MARWAN RASHED

renouvellement (tafiaddud) permanent. Chaque impetus « prépare »


celui qui lui succède, sans qu’il faille toutefois comprendre cette suc-
cession en termes discrets d’« atomes » de mouvement. Il s’agit plutôt
d’une conception infinitésimaliste où le point est à la fois dynamique-
ment individué et géométriquement interprété comme la limite d’une
extension.
Cette situation présuppose un double rapport à l’imagination. Tout
d’abord, l’imagination aristotélicienne, qui seule appréhendait la conti-
nuité « en puissance » des grandeurs, est maintenant corrélée à un état
réel du monde extérieur. L’infinie divisibilité de la grandeur, autrement
dit, ne correspond plus seulement au fait que nous pouvons imaginer
des divisions sans cesse plus petites, mais à l’existence actuelle de tel-
les divisions dans les flux d’intensité continûment croissante. En se-
cond lieu, à propos du mouvement des astres, l’imagination n’assure
pas seulement la représentation que nous nous faisons du processus,
mais ce processus lui-même : non seulement nous imaginons les pério-
des, mais celles-ci sont produites par des actes imaginatifs continûment
successifs, à la façon dont les impetus produisaient les translations rec-
tilignes sublunaires.
On peut affirmer qu’en un sens, l’argument de De anima III 6,
430b 14-20 est étendu ici par Avicenne aux limites du continu. Le pas-
sage crucial d’Aristote était (dans la traduction de Richard Bodéüs) :
De son côté, l’indivisible, non selon la quantité, mais selon le formel, est sai-
si par l’intelligence en un temps indivisible et en un acte indivisible de
l’âme. Par accident, toutefois, et sans les considérer comme cela, l’acte de la
pensée qui opère et le temps où elle opère sont divisibles, mais c’est en tant
qu’indivisibles qu’ils sont considérés. Car il se trouve, même en eux, quel-
que chose d’indivisible, quoique sans doute inséparable, qui rend un le
temps et la longueur. Et cette chose se retrouve pareillement dans tout ce qui
9
est continu, temps et longueur .

Quelles que soient les difficultés considérables de ce texte, il en


ressort au moins la distinction entre notre intellection pleine et entière
des entités continues qui, comme tout acte intellectif au sens propre, est
unitaire, et notre appréhension de ces dernières comme assemblage

9
A RISTOTE , De l’âme, Traduction inédite, présentation, notes et bibliographie par
R. BODÉÜS, Paris, 1993, p. 232-233.
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 107

d’intellections partielles, en nombre potentiellement infini. Bien


qu’Aristote ne le précise pas, il va de soi qu’une telle parcellisation de
réalités continues unitaires est un acte imaginatif, au sens où c’est le
seul mode de considération de l’objet qui trace « sur lui » des distinc-
tions. Il est particulièrement intéressant, pour l’histoire du problème qui
nous occupe, qu’Aristote fasse ensuite la remarque suivante10 :
Le point, par contre, et toute division, ainsi que l’indivisible de ce genre, se
donnent à voir comme la privation.
On voit aisément comment la théorie avicennienne de l’imagi-
nation astrale s’accorde mal avec une telle déclaration. Aristote oppo-
sait l’indivisible notionnel, qui peut recouvrir des entités continues
comme la longueur et le temps, typologiquement hétérogène au monde
des grandeurs, à l’indivisible ponctuel, hétérogène au monde des gran-
deurs en tant qu’il constitue la simple limite de ces dernières. Cet indi-
visible-ci n’est qu’une privation, une limite non physiquement
réalisable de l’étendue. Il est pure négativité. Pour un ensemble de rai-
sons historiques, Avicenne, lui, confère au point, dans le registre de la
dynamique, une certaine positivité, puisque l’état ponctuel du mobile
devient l’élément-constituant, et pas seulement l’élément-limite, des
trajectoires élémentaires11. Reste à comprendre le rôle de l’imagination
dans ce dispositif.

10
430b 20-21.
11
H. Cohen, dans son Principe de la méthode infinitésimale et son histoire de 1883
(traduction française par M. DE LAUNAY, Paris, 1999), voit dans la découverte du calcul
infinitésimal l’événémement décisif permettant de passer d’une conception
« négative » à une conception « positive » de la limite, car ce serait lui qui permettrait
de concevoir le point comme moment générateur de la courbe (considération des
tangentes ; cf. p. 66 de la traduction). Je ne suis pas sûr qu’il n’y ait pas quelque équi-
voque historique dans cette conclusion. Que le principe des accroissements finis soit à
la base de toute conception de la vitesse instantanée, c’est une évidence. Mais le
changement épistémologique décisif est alors au moins autant l’introduction du mou-
vement en géométrie, qui a une histoire déjà longue au moment de l’invention par
Leibniz de son Calcul. Cf. infra, n. 30.
108 MARWAN RASHED

2. THEODICEE COSMIQUE

Le problème cosmologique du mouvement astral se complexifie au


contact de celui de la théodicée. Car il y a, chez Avicenne, une antici-
pation de l’idée leibnizienne de meilleur des mondes. Cette théodicée
surgit de l’articulation de la combinatoire des sphères supérieures de
l’émanation au monde du continu12. C’est le continu des périodes as-
trales, elles-mêmes provoquées par l’émanation à partir du Premier, qui
permet leur incommensurabilité relative et c’est cette dernière qui auto-
rise à son tour l’émergence d’un monde sans cesse différent, où se dé-
ploie la plénitude d’être maximale. À la lumière de ce qu’on vient de
dire au sujet du mouvement astral, il semblerait donc qu’on doive prê-
ter aux âmes célestes un certain souci du sublunaire : puisque c’est par
leur estimation qu’elles règlent leur vitesse et que seule cette vitesse,
exactement celle qu’elle est, permet l’irrationalité astrale, il faudrait
voir dans cet acte imaginatif la réalisation d’un dessein sotériologique.
Une telle thèse est cependant combattue par Avicenne. Tout
d’abord, et ce principe a valeur d’axiome ou de théorème au sens pro-
clien13, le supérieur ne saurait exister en vue de l’inférieur. Il est donc
inadmissible d’assujettir le supralunaire au sublunaire. Ensuite, au ni-
veau proprement cosmologique, le sublunaire n’est rien par rapport au
supralunaire. « Point local » en comparaison de l’immensité de l’uni-
vers, sa matière elle-même est incommensurablement plus vile que
celle des astres14. Avicenne refuse même des réponses conciliatrices à
ce débat sans doute déjà ancien chez les tenants de l’émanation, cer-
tains auteurs ayant supposé que si les sphères célestes n’étaient pas en
vue du sublunaire, leur vitesse, en revanche, procédait d’un acte de
providence à son égard. Il s’agit sans doute là de succédanés de

12
Cf. M. RASHED, « Théodicée et approximation : Avicenne », in Arabic Sciences and
Philosophy, 10 (2000), p. 223-257.
13
Cf. PROCLUS, Éléments de théologie, prop. 27.
14
Cf. IBN SîNÆ, Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 417, l. 4-5: « toute la cause du mal est dans ce
qui est sous la sphère de la lune, et tout ce qui est sous la sphère de la lune est négli-
geable en comparaison de toute l’existence, comme tu l’as appris ».
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 109

l’Annus Platonicus, c’est-à-dire de théories motivant les retours céles-


tes par une attention astrale à l’ordonnance sublunaire15.
Une question métaphysique se pose alors : si le supérieur ne sau-
rait exister en raison de l’inférieur, comment se fait-il que
l’organisation de la machinerie cosmique paraisse à ce point répondre à
des exigences de variations propres au monde sublunaire ? La réponse
d’Avicenne réside dans sa théorie de la Providence. Celle-ci consiste
dans la réunion d’une perfection gnosélogique (réalisations formelles)
et d’une perfection entitative (genèse par l’émanation)16 :
Il nous appartient, maintenant que nous sommes parvenus à ce point, de pré-
ciser notre propos sur la providence (al-‘inæya). Il ne doit faire aucun doute
pour toi, d’après ce que nous avons montré précédemment, qu’il est impos-
sible que les causes supérieures fassent ce qu’elles font à cause de nous, ou
en général que quoi que ce soit les préoccupe, que quelqu’un les incite ou
qu’une pression les affecte. Or tu ne saurais nier les traces merveilleuses
dans la constitution du monde ; et les parties des cieux, ainsi que les parties
des animaux et des plantes relèvent de ce qui ne se produit pas par hasard,
mais implique un certain gouvernement. Il est donc nécessaire de savoir que
la providence est le fait que le Premier soit connaissant, par Son essence, de
ce sur quoi repose l’existence dans le système du bien, et cause, par Son es-
sence, du bien et de la perfection dans la mesure du possible, et S’y complai-
sant de la façon qu’on a mentionnée. Il intellige donc le système du bien de
la façon la meilleure dans le possible, et émane de Lui ce qu’Il intellige
comme système et comme bien de la façon la meilleure qu’Il intellige, en un
flux menant le plus parfaitement au système, dans la mesure du possible.
C’est là le sens de la providence.
Mais comment, si de l’Un ne provient que l’Un, peut-on prêter au
Premier Principe une connaissance « de ce sur quoi repose l’existence
dans le système du bien » ? Il y a là, en toute rigueur, un mystère qu’il
ne faut pas attendre de voir dissiper, et qu’exprime, tout au plus, le fait
que notre terminologie soit reconnue équivoque17. Notons seulement

15
Avicenne vise sans doute ici la théorie de la Grande Année des Frères de la Pureté.
Cf. G. DE CALLATAŸ, Annus Platonicus. A study of world cycles in Greek, Latin and
Arabic sources, Louvain-la-Neuve, 1996, p. 140. Pour la polémique diffuse
d’Avicenne, voir IBN SîNÆ, Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 394.
16
IBN SîNÆ, Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 415. Voir aussi p. 439.
17
Pour une analyse profonde et détaillée d’un aspect du problème, voir H. ZGHAL, « La
connaissance des singuliers chez Avicenne », in R. MORELON , A. HASNAWI (ed.), De
110 MARWAN RASHED

qu’Avicenne avait explicitement souligné, quelques pages plus haut,


que c’est d’un même acte que Dieu s’intellige, intellige le meilleur pos-
sible et le crée. Cela est confirmé par le fait que volonté, puissance et
science se confondent en Dieu18 :
Nous avons vérifié, dans le propos qui précède, que l’Existant nécessaire par
Son essence était un, et qu’Il n’était ni avec un corps ni dans un corps, ni di-
visible d’aucune manière. Par conséquent, les existants, tous, tiennent leur
existence de Lui, et il n’est pas possible qu’Il ait un principe en une quel-
conque façon, ni une cause à partir de laquelle, ni dans laquelle ou par la-
quelle Il se produirait, ni pour laquelle, en sorte d’être en vue d’une chose.
Pour cette raison, il n’est pas possible que l’être du tout provienne de Lui par
la voie d’une visée procédant de Lui, à la façon de notre visée, vers la géné-
ration du tout et l’existence du tout, en sorte qu’Il aurait une visée dirigée
vers autre chose que Lui. Nous avons expliqué en détail ce chapitre pour
autre que Lui, et c’est encore plus clair pour Lui. Et nous spécifions notre
explication de l’impossibilité qu’Il vise l’existence du tout à partir de Lui en
disant que cela mène à une plurification dans Son essence – car il y aurait
alors en Lui une chose en raison de laquelle Il vise, et qui est Sa connais-
sance et Sa science de la nécessité de la visée, ou un acquiescement ou une
bonté en Lui qui implique cela ; puis la visée ; puis un bénéfice que Lui pro-
cure la visée, selon ce que nous avons éclairci auparavant. Or cela est ab-
surde.
Et la génération du tout à partir de Lui n’emprunte pas la voie de la nature en
ce que la génération du tout à partir de Lui serait sans connaissance, ni sans
une complaisance de Sa part. De fait, comment cela serait-il véridique alors
qu’Il est intellect pur et principe premier ? Il n’intellige l’existence du tout à
partir de Lui qu’en ce qu’il est son principe. Il n’y a rien, dans Son essence,
qui ait une opposition ou une aversion envers le surgissement du tout à partir
de Lui, et Son essence a science du fait que Sa perfection et Son exaltation
sont en tant que le bien émane de Lui, et que cela est au nombre des conco-
mitants nécessaires de Sa majesté désirée pour Lui par son essence. Et toute
essence connaît ce qui surgit d’elle, sans que s’y mêle une quelconque inhi-
bition. Mais il en est comme nous l’avons éclairci. Il se complaît donc à ce
qui provient de Lui ; le Premier se complaît donc au flux du tout à partir de
Lui. Il intellige donc le système du bien dans l’existence, et comment il faut
qu’il soit, non par une intellection s’extériorisant de la puissance à l’acte, ni

Zénon d’Élée à Poincaré, Recueil d’études en hommage à Roshdi Rashed, Louvain,


2004, p. 685-718.
18
IBN SîNÆ, Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 402-403.
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 111

par une intellection se transportant d’un intelligible à un intelligible (car Son


essence est totalement exempte de ce qui est en puissance, selon ce que nous
avons éclairci auparavant), mais par une intellection unique. Et ce qu’Il in-
tellige en fait de système du bien dans l’existence implique qu’il intellige
comment il est possible, et comment il se peut que l’existence du tout se
produise selon ce qu’implique le meilleur qu’Il intellige. Car la réalité intel-
ligée par Lui est exactement, comme tu l’as appris, science, puissance et
volonté.
S’agit-il donc d’un pur occasionnalisme des causes, de type aris-
totélicien ? De même qu’il y a, chez Aristote, une coïncidence des cau-
ses formalo-finale, efficiente et matérielle qui permet à la fois leur
différentiation et leur orientation commune vers le meil-
leur19 – coïncidence qu’Aristote désigne sous le nom de swthr…a – de
même il y aurait, chez Avicenne, une coïncidence entre le meilleur in-
telligé par le Premier Principe et celui que visent les sphères astrales.
D’ailleurs, l’imagination astrale s’apparente plutôt à notre intellect pra-
tique qu’à notre imagination20 ; elle est donc particulièrement apte à
« retrouver » le meilleur intelligé par le Premier Principe de façon pour
ainsi dire indépendante de lui. Cette interprétation doit être rejetée.
Avicenne refuse de considérer l’âme des sphères comme une substance
séparée : il ne s’agit bien plutôt que de la perfection et de la forme des
sphères (« nous avons montré que toute âme de toute sphère est sa per-
fection (kamæluhu) et sa forme (Òºratuhu) », Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 407),
dont la réalisation doit sa teneur ontique à la seule émanation. Les sphè-
res déclinent sur le mode qui est le leur l’auto-contemplation primor-
diale qui fonde leur intelligibilité et leur être. De plus, la causalité de
l’agent se voit conférer un rôle bien plus éminent que celui dont elle
disposait chez Aristote. Il faut donc prendre à la lettre l’affirmation de
la causalité suprême du Premier Principe. La thèse d’Avicenne, dans la
ligne proclienne, est que les sphères imitent, à leur niveau, l’acte créa-
teur du Premier, non par souci du créé mais pour se conformer le mieux
possible à leur propre cause. De même que le Premier ne se « soucie »
que de Soi, de même les sphères, dans leur imitation des principes qui
leur sont supérieurs, ne se « soucient » que de leur mouvement. Mais
c’est dans ce souci de Soi du Premier, dans ce souci de leur trajectoire

19
Cf. M. RASHED, « La préservation, objet des Parva Naturalia et ruse de la nature »,
in Revue de philosophie ancienne, 20 (2002), p. 35-59.
20
Texte cité infra, p. 113 et 114.
112 MARWAN RASHED

et de leur vitesse qui habite les astres, qu’Avicenne loge sa théodicée.


C’est en se connaissant Soi-même que le Premier connaît – c’est-à-dire
produit – ce qui Lui est inférieur, et c’est en connaissant à la fois ce qui
les surpasse et leur propre mouvement que les sphères connaissent
– c’est-à-dire produisent – le monde d’ici-bas. Que l’on ne s’y trompe
pas : la connaissance de leurs propres trajectoires par les astres n’est,
d’un point de vue réel, que la cause efficiente des événements mon-
dains. La connaissance prophétique elle-même sera le déploiement dis-
cursif et historique d’une « notion » qui, dans son premier état, est le
simple principe d’identité « A est A » et, dans son second, déjà plus
dérivé, un pur processus cinématique. Il ne faudrait pas croire, en
d’autres termes, que les astres « imaginent » déjà les événéments histo-
riques dans la forme sous laquelle les appréhendent les Prophètes. Les
astres n’imaginent que leurs propres mouvements. Mais ces mouve-
ments influencent, plus que tout autre être sublunaire, les âmes prophé-
tiques, en raison de leur pureté. Ces âmes sont donc particulièrement
aptes à « traduire » le langage des trajectoires en une langue humaine21.

3. LE MOUVEMENT DES ASTRES

Demeure la question de l’imagination astrale : pourquoi Avicenne


a-t-il tenu à fonder le mouvement des astres sur leur imagination de
leur parcours ? Pour répondre à cette question, un détour par sa théorie
de l’imagination humaine est nécessaire22. Avicenne, on le sait, a pro-
fondément modifié le dispositif des sens internes aristotéliciens, en le
délocalisant du cœur au cerveau et en démultipliant les facultés psychi-
23
ques en fonction des différents ventricules cérébraux . Ce redéploie-
ment de la doctrine aristotélicienne affecte particulièrement l’étude de

21
Sur la question de la prophétie envisagée d’un point de vue psychologique, voir
M. SEBTI, « La distinction entre intellect pratique et intellect théorique dans la doctrine
de l’âme humaine d’Avicenne », in Philosophie, 77 (2003), p. 23-44.
22
Sur l’estimation chez Avicenne, voir D. BLACK, « Estimation (Wahm) in Avicenna :
The logical and psychological dimensions », in Dialogue, 32 (1993), p. 219-258.
23
Pour une intéressante mise en perspective historique de la doctrine avicennienne,
voir F. PIRO, « I canali tra corpo e conoscenza: una rivisitazione del tema dei sensi
interni », in Paradigmi, 22 (2004), p. 89-105.
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 113

l’imagination. Dans un texte justement célèbre, Avicenne évoque ainsi


le sens externe, le sens commun et l’action de l’informatrice (al-
muÒawwira) en distinguant, dans notre appréhension de la chute d’une
goutte d’eau, notre perception visuelle de la goutte au point exact où
elle se trouve (sens externe), notre appréhension d’elle « comme si elle
était là où elle était et là où elle est parvenue » c’est-à-dire, précise
Avicenne, « comme une extension rectiligne » (sens commun) et notre
capacité à l’appréhender « même si la chose a disparu et est maintenant
absente » (informatrice). Nous avons ici affaire à trois activités du ven-
tricule antérieur du cerveau. Il s’agit donc de sa partie la plus directe-
ment « en contact » avec le sensible. À un deuxième niveau, dans le
ventricule médian, les images sensibles et conceptuelles sont combi-
nées et séparées par la faculté imaginative et cogitative (al-
mutakhayyila, al-mufakkira), tandis que l’estimation (al-wahm) attache
à ces images des connotations extra-sensibles. Enfin, le ventricule pos-
térieur est le siège de la mémoire et du souvenir (al-ÌæfiÂa, al-dhikr)
qui conserve les concepts connotatifs24.
Qu’Avicenne a-t-il conservé d’une telle sophistication classifica-
toire, au moment de traiter de l’imagination astrale ? Presque rien en
apparence. Un texte important doit être cité. Après avoir longuement
expliqué pourquoi le mouvement des sphères ne pouvait être produit
par un intellect, Avicenne explique de quelle manière il faut concevoir
l’âme productrice de ce mouvement25 :
Et s’il en est ainsi, la sphère se meut par l’âme, et l’âme est principe pro-
26
chain de son mouvement , et cette âme renouvelle son information (al-
taÒawwur) et sa volonté, et elle est estimatrice (mutawahhima), c’est-à-dire
qu’elle possède une perception (idræk) des choses changeantes telles les par-
ticuliers ainsi qu’une volonté portée sur les choses particulières en elles-
mêmes ; et elle est la perfection du corps de la sphère et sa forme. Et s’il en
allait de manière différente, et que l’âme était auto-subsistante à tous égards,
elle serait un intellect pur qui ni ne change, ni n’est transporté, ni n’est mêlé
de ce qui est en puissance. Et le moteur prochain de la sphère, même s’il
n’est pas intellect, il faut qu’il y ait au-dessus de lui un intellect, cause pré-

24
Cf. A. HA S N A W I , « La définition du mouvement dans la Physique du Shifæ’
d’Avicenne », in Arabic Sciences and Philosophy, 11 (2001), p. 219-255, p. 229-230
en part.
25
IBN SîNÆ, Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 386-387.
26
En lisant al-qarîb pour al-qarîba l. 14.
114 MARWAN RASHED

cédant le mouvement de la sphère ; car tu as appris que ce mouvement né-


cessitait une puissance infinie, séparée de la matière, ne se mouvant ni par
soi ni par accident. Or l’âme motrice, comme cela t’a été montré, est corpo-
relle, changeante et non séparée de la matière. Bien plus, son rapport à la
sphère est le rapport de l’âme animale qui est nôtre à nous-mêmes, à ceci
près qu’il lui appartient d’intelliger, d’une certaine façon, par une intellec-
tion abîmée par la matière ; et de manière générale, ses estimations (awhæ-
muhæ) – ou ce qui ressemble aux estimations – sont véridiques et ses
imaginations (takhayyulætuhæ) – ou ce qui ressemble à des imaginations –
sont réelles, comme l’intellect pratique en nous. Et de manière générale ses
perceptions (idrækætuhæ) sont par le corps, bien que son moteur premier soit
une puissance radicalement immatérielle à tous égards. Et puisqu’il n’est pas
possible que cette puissance se meuve d’une quelconque façon en ce qu’elle
meut, puisque sinon, elle serait sujette à l’altération et serait matérielle
– comme cela a été montré – il est donc nécessaire qu’elle meuve comme
meut un moteur par l’intermédiaire de l’autre moteur : cet autre-là tend au
mouvement, le veut et est changé en raison de lui – voilà la façon dont meut
le moteur du moteur.
Avicenne revient un peu plus bas, en des termes assez proches, sur
l’activité psychique des sphères27 :
Ainsi, toute sphère possède une âme motrice qui intellige le bien, et elle a en
raison du corps une imagination (takhayyul), c’est-à-dire une information
(taÒawwur) des particuliers et une volonté dirigée vers les particuliers ; et ce
qu’elle intellige du premier et ce qu’elle intellige du principe prochain qui
lui revient en propre à elle est le principe de son désir pour le mouvement. Et
toute âme possède un intellect séparé dont le rapport à cette âme est le rap-
port de l’intellect agent à nos âmes. Celui-ci est une forme universelle intel-
lectuelle pour l’espèce de son acte qui s’assimile à lui. De manière générale,
est nécessairement requis, pour tout ce qui se meut d’elles en raison d’un but
intellectuel, un principe intellectuel qui intellige le bien premier, et dont
l’essence est séparée – car tu as appris que tout ce qui intellige est d’essence
séparée – et d’un principe corporel, c’est-à-dire lié au corps, de mouvement
– car tu as appris que le mouvement céleste était psychique, se produisait à
partir d’une âme choisissant les particuliers, en des choix continûment re-
nouvelés.
On s’aperçoit immédiatement de l’apparent porte-à-faux : alors
que dans la répartition canonique des sens internes, les différentes fa-

27
IBN SîNÆ, Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 401.
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 115

cultés « imaginatives » sont soigneusement distinguées, au contraire,


dans l’évocation de leur contrepartie astrale, règne la confusion : on
serait bien en peine, dans ce dernier contexte, de tracer une ligne de
séparation nette entre perception (idræk), information (taÒawwur), ima-
gination (takhayyul) et estimation (wahm). Tout se passe comme si ces
activités étaient grosso modo équivalentes pour les astres. Or, à bien la
considérer, cette indécision nous paraît instructive quant à ce qui est en
jeu dans la démonstration. De fait : Avicenne souligne que ce qui tient
lieu d’estimation et d’imagination au niveau astral est, respectivement,
véridique et réel ; ensuite, l’analogie frappante entre l’un des exemples
du traité de l’âme du Shifæ’, celui de notre appréhension « continue »
des mouvements circulaires, et le mouvement des astres. Avicenne, on
s’en souvient, distingue alors notre perception externe du mobile, né-
cessairement ponctuelle, de notre représentation interne, qui, grâce à la
fusion qu’opère la faculté informatrice, se donne comme un continuum.
Il était clair que dans un tel modèle, la « vérité » est davantage du côté
de la perception. Dans le monde extérieur, le mobile n’est jamais qu’en
un point et un seul de son parcours. L’imagination est donc en un sens
trompeuse, quand bien même sa « tromperie » nous procure un sup-
plément de connaissance. C’est sans doute précisément ce rôle
qu’Avicenne entend dénier à l’imagination astrale : les astres sont trop
élevés sur l’échelle de la perfection ontologique pour avoir besoin,
comme nous, d’une transformation de la perception en représentation.
Leurs actes imaginatifs sont « véridiques », c’est donc qu’ils peuvent se
représenter – et pas seulement percevoir – chaque point de leur trajec-
toire.
On comprend désormais de manière exacte le rôle de l’imagination
dans toute une série de processus cognitifs : confronté au labyrinthe du
continu, et tenant fermement pour l’intelligibilité de tout ce qui est réel
– puisque le noétique rejoint l’ontique dans sa théorie de l’émanation –
Avicenne doit aménager l’intelligibilité des ensembles dans la génération
desquels l’infini joue un rôle recteur. Il doit, en d’autres termes, rendre
compte de ce qui se passe dans les trajectoires rectilignes unformément
accélérées finies du monde sublunaire, et dans les trajectoires circulaires à
vitesse constante du monde supralunaire. Il lui faut égale-ment, théodicée
oblige, proposer une explication, et si possible une formulation, de la série
infinie des événements contingents de l’histoire sublunaire28. C’est

28
Cf. supra, p. 108.
116 MARWAN RASHED

l’attention spéciale portée à l’imagination qui le lui permet. Le change-


ment de perspective tient à une manière, opposée à l’esprit de
l’aristotélisme, de considérer jusqu’aux êtres géométriques du point de vue
soit de la quiddité-essence, soit de l’existence. On peut ainsi envisager la
cause du triangle, nous dit Avicenne dans les Ishæræt, d’un double point de
vue : en tant qu’essence, le triangle est une certaine figure plane ; en tant
qu’existence, il dépend d’une cause qui n’est pas une partie de sa défini-
tion29. Cette distinction ne revient pas tout à fait à celle entre définition et
génération d’un objet mathématique. Il est cependant clair qu’elle ne lui
est pas étrangère : si la définition d’une figure géométrique ne peut parcou-
rir l’infinité de ses points, il n’en va pas de même de sa génération.
L’imagination permet, en d’autres termes, d’appréhender une part du réel à
laquelle l’intellect n’a pas accès30.

4. CONCLUSION

La théorie avicennienne de l’imagination astrale n’est pas


d’origine mystico-religieuse (au sens pythagoricien, illuministe, etc.)
mais s’explique comme un succédané pré-classique de principe d’iner-
tie ; seule la progression des animaux, où la vitesse et la trajectoire sont
contrôlées par l’âme motrice, offrait un modèle satisfaisant au mouve-
ment régulier des astres. L’absence de toute réponse claire d’Avicenne
à la question – que lui-même pose pourtant – de la vitesse astrale, enté-
rine l’échec relatif d’une telle analyse31. Si l’imagination parvient en

29
IBN SîNÆ , Kitæb al-Ishæræt wa al-tanbîhæt, ed. S.DUNYA, Le Caire, s. d., vol. III,
p. 13-18. Cf. J. JOLIVET, « La répartition des causes chez Aristote et Avicenne: le sens
d’un déplacement », in J. JOLIVET , et al. (eds.), Lectionum varietates. Hommage à
Paul Vignaux, Paris, 1991, p. 49-65, p. 59-60.
30
Sur la question du mouvement chez les mathématiciens de l’époque d’Avicenne,
voir R. RASHED, Les mathématiques infinitésimales du IXe au XIe siècle, vol. IV : Ibn
al-Haytham: méthodes géométriques, transformations ponctuelles et philosophie des
mathématiques, Londres, 2002, p. 4-6 et 394 en particulier.
31
Cet « oubli » (cf. par exemple Shifæ’, Ilæhiyyæt, p. 439) est significatif: bien
qu’Avicenne dénie explicitement (cf. supra, p. 8-9) que la différence des vitesses
astrales vise la variété infinie du sublunaire, il n’explique nulle part la raison positive
de cette différence. Tout se passe comme si c’était finalement davantage aux tenants
de la Grande Année qu’incombait l’onus probandi et que l’incommensurabilité des
IMAGINATION ASTRALE ET PHYSIQUE SUPRALUNAIRE… 117

effet, d’une manière « réelle » chez les astres, sous la forme d’une
synthèse de la perception chez nous, à appréhender le passage par une
infinité de points en un temps fini, c’est-à-dire à entrer en une sorte de
correspondance avec la génération réelle d’une trajectoire spatiale, la
vitesse pose un problème bien plus délicat. Car l’on peut toujours
« imaginer » que le mobile parcourt sa trajectoire « point par point »,
mais le concept de différentielle, au fondement de toute théorisation de
la vitesse, nécessite un retour à l’intellect (pour parler le langage avi-
cennien), seul apte à contrôler plus ou moins rigoureusement le passage
à la limite. C’est probablement pour cette raison qu’Avicenne
n’explique nulle part comment se produisent les différences de vitesse
entre les différents corps célestes. Illusion épistémique assez curieuse,
et qui aura la vie longue : l’accélération continue d’un seul mobile est
plus facilement descriptible en termes « imaginatifs » que la différence
de vitesse entre deux mobiles mus uniformément, puisque rien ne diffé-
rencie plus alors deux vitesses ponctuelles. C’est ce qui explique
qu’Avicenne ait pu interpréter la chute accélérée des graves comme une
sommation d’impetus, mais qu’il n’ait pas réussi à reconduire effecti-
vement les vitesses célestes aux actes imaginatifs instantanés des corps
éthérés qui en assuraient le mouvement.

C.N.R.S., Paris

périodes astrales n’était au fond que l’expression imitante mais « inerte » de la pléni-
tude de l’Un. S’il y a un principe d’inertie dans la cosmologie avicennienne, c’est
peut-être avant tout ici.
MICHAEL MCVAUGH

ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY


OF COGNITION

The system of the internal senses gave medieval philosophers a


physiological model for understanding the functioning of the human
mind – the normal, healthy mind. Medieval physicians, however, were
necessarily less concerned to understand the normal than the abnormal
or unhealthy. As they struggled to assimilate the works of Galen and of
Arabic medical authors, translated into Latin by the second half of the
thirteenth century, they had to decide what mental disorders existed
before they could explain them physiologically. Their task was made
especially difficult because their new Greco-Arabic sources varied
widely in the technical terminology they employed – not surprisingly,
since those sources had been translated from different languages by
many different hands.
The transmission of disease identifications from Greek medicine to
Arabic and eventually to Latin European medicine was anything but
straightforward. Different translators might render the same term in
their originals with different words, leaving readers to discover the
identity of those words for themselves. Or they might follow the easier
path and transliterate the term, in which case the transliteration was
likely to be deformed in passing from one copy (or one language) to
another. Each medical system had to clarify and fix its disease termi-
nology for itself anew.
Some terminology, to be sure, persisted more or less unchanged in
application to a particular condition. If a condition had distinctive
physical symptoms for an unmistakable physiological cause, so that its
identity as a specific illness was obvious, its Greek name tended to per-
sist in Arabic and then Latin, even if in a corrupt form. For example,
120 MICHAEL MCVAUGH

Greek medicine consistently and easily distinguished between three


kinds of « dropsical » swelling of the belly : ascites, when a serous
fluid collects within the abdomen ; hyposarca or anasarca, when it is
broadly diffused within the tissues ; and tympanites, when the belly is
distended not by liquid but by gas or air. Neither Arabic nor Latin
medicine had any difficulty recognizing these very distinctive syn-
dromes, and hence the maintenance of the Greek nomenclature for
1
them was easy .
But with mental illnesses it was another story. There the clinical
entity was usually neither clear-cut nor concrete, and Greek authors
2
were correspondingly vague in their descriptions . As a result, Danielle
Jacquart has shown, Arabic authors adapted Greek references to mental
illness to suit their own understanding of what medicine should be. She
has compared the meaning that the Greek term frenesis (frenzy) came
3
to have for Avicenna and Rhazes . By their time (after 900 CE), the
Arabic transliteration of the Greek had become fixed as qaranitus
(f and q differ by only one dot in Arabic), and it had also become asso-
ciated with two Persian terms, sirsam and birsam. Avicenna explained
that qaranitus and sirsam referred properly to a hot swelling of the
cerebral membranes, but, popularly, they referred to its symptoms, de-
lirium and a fever ; while birsam meant a hot swelling of the chest that
could bring about the same symptoms. Avicenna was critical of those
who failed to use the technical terminology precisely, one of whom was
Rhazes : in his writings he mixed the three terms indiscriminately, and
his clinical picture of the condition varied from work to work and was
inconsistent with the Greek model. Avicenna, on the other hand, not

1
Thus, for example, when Gerard of Cremona translated Avicenna’s Canon in the
twelfth century the underlying Greek terminology was still apparent in the Latin ver-
sion : chapters 9-11 in Canon III.14.4 are entitled « De signis asclitis », « De signis
hyposarche » and « De signis tympanitis ».
2
On the spectrum of mental illnesses described by Greek authors, see S. W.
JACKSON, « Galen – On mental disorders », in Journal of the History of the Behavioral
Sciences 5 (1969), p. 365-384 ; and R. E. SIEGEL , Galen on psychology, psychopa-
thology, and function and diseases of the nervous system, Basel, Karger, 1973, p. 245-
274.
3
D. JACQUART , « Les avatars de la phrénitis chez Avicenne et Rhazès », in D .
GOUREVITCH (Éd.), Maladie et maladies : Histoire et conceptualisation, Genève, Droz,
1992, p. 181-192.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 121

only maintained that model, he articulated it further by connecting the


classical signs of the disease with the Galenic theory of localization of
brain function so as to explain the reason for the patient’s wild beha-
vior. Jacquart has summed up by saying that Rhazes was interested in
patients, Avicenna in illnesses4 – but perhaps it would be equally proper
to say that Avicenna was trying to create a coherent nosology out of the
scraps of information available to him, a goal that held no interest for
Rhazes.
This drive to create an ordered nosological structure of mental ill-
ness can be seen in medieval Latin medicine, too. Here the task was
even more difficult because now Arabic as well as Greek authors had to
be woven into a consistent whole, and it became particularly pressing at
the end of the thirteenth century when Latin authors began to focus on
mastering the many works of the Galenic corpus, superseding their ear-
lier attention to Avicenna’s Canon. This « new Galen », as Luis García
5
Ballester has called it , seemed to contain innumerable internal contra-
dictions, whose resolution challenged the ingenuity of a generation of
Latin physicians around the year 1300.
One of these physicians, the famous Montpellier master Arnau de
Vilanova (d. 1311), attempted to develop a harmonious classification of
mental illness out of the references available to him in Galenic and
6
Arabic sources, in a work usually known as De parte operativa . This
text seems undoubtedly authentic – it offers a thorough discussion of
the concept of occult power or « proprietas » that contains close verbal
echoes of a similar account in Arnau’s Speculum medicine7 – yet it is
disorganized and in part even incoherent ; it is not merely unpolished,

4
D. JACQUART, « Les avatars », op. cit., p. 192.
5
L. GARCIA-BALLESTER, « The new Galen : a challenge to Latin Galenism in thir-
teenth-century Montpellier », in K.-D. FISCHER, D. NICKEL, P. POTTER (Éd.), Text and
tradition : Studies in ancient medicine and its transmission, Leiden, Brill, 1998, p. 55-
83.
6
I use the text of De parte operativa printed in Arnaldi de Villanova [...] opera
nuperrime revisa, Lyons, 1520, fols. 123r-130r. Fernando Salmón is preparing the
critical edition for the Arnaldi de Villanova Opera Medica Omnia.
7
This is pointed out by S. GIRALT SOLER, Decus Arnaldi : Estudis entorn dels es-
crits de medicina pràctica, l’ocultisme i la pervivència del corpus atribuït a Arnau de
Vilanova, tesi doctoral, Universitat Autònoma de Barcelona, 2002, p. 463, n. 351.
122 MICHAEL MCVAUGH

unrevised, it gives an impression of incompleteness, almost as if it were


a collection of disparate fragments brought together after Arnau’s
death, most of which happened to be concerned with illnesses of the
8
mind . Some of the early sections of the work appear to be jottings from
various sources organized under different headings : how various men-
tal symptoms are related to particular humoral imbalances ; how they
can be correlated with the appearance of the face and hair ; and what
kinds of medical treatment are appropriate for which humoral imbal-
ance and so for which illness. These jottings, which seem almost to be
groping for an organizing approach to mental illness, make up the first
9
quarter of Arnau’s work . They are followed, with no transition what-
soever, by something very different : instead of being brief jottings, the
text has order and structure ; and instead of the information being orga-
nized by causes, by signs, or by cures, it is organized around mental
illnesses considered as entities, while causes, signs, and cures are dis-
cussed only with respect to particular illnesses. This is thus, effectively,
a psychiatric nosology, and it occupies the remainder of De parte ope-
rativa. Here, it would seem, Arnau had finally managed to identify a
congenial approach, one that shows a kinship with Avicenna’s.
As it happens, Arnau begins this section – a treatise within a trea-
tise, as it were – with an account of frenzy, an account that shows just
how similar the problems were that Latin and Arabic physicians alike
had to solve if they were to arrive at a satisfactory rational systematiza-
tion of mental disease. Both had to resolve the confusing or contradi-
ctory terminology of their sources, and both had to try to show how the
symptoms they took to be characteristic of a disease could be explained
in terms of a physiological (humoral-anatomical) mechanism. Arnau
knew Arabic, and he was able to recognize that the qaranitus (for him
10
further deformed as « qarabitus » of Arabic authors like Avicenna was

8
J. A. PANIAGUA , El Maestro Arnau de Vilanova médico, Valencia, Instituto de
Historia de la Medicina, 1969, p. 56-57, agrees that it gives the impression of « una
obra tardía y inacabada » and proposes that Arnau may have been referring to this
projected work when in his Speculum medicine he wrote « quemadmodum patebit in
parte operativa [my emphasis] ». On other evidence of its late date, see infra, n. 39.
9
De parte operativa, fols. 123ra-126rb.
10
In Arabic, b and n differ only by the position of the diacritical dot, below or
above the letter respectively.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 123

merely a mis-transliteration of the frenesis that Greco-Latin translations


incorporated, and so could be conflated with it :
The Greek word frenesis refers in Latin to a lesion of the [cerebral]
membranes, and so by verbal substitution can be used to refer to a hot
aposteme of the breast just as well as of the head, since that greatest of
human evils, a loss of reason, can occur from either cause. They have their
own names in Persian, because such an aposteme in the membranes of the
breast is called birsen, and in the membranes of the heart, sirsen. Carabicus
is the word frenesis corrupted by the Arabs as a result of the similarity of the
letters with which they write ; when the dots are lacking that serve to
indicate the vowels, the same letters in the same words could equally well
11
represent the word frenesis and the word karabicus .
Arnau has taken over Avicenna’s explanation of sirsam and birsam, so
that his account of the diseases’ physical origin in the membranes of
the brain echoes the Canon ; but he has gone on to identify them all
12
with Greek « frenesis », which of course the Canon does not . Other
echoes of the Canon occur elsewhere in Arnau’s presentation : his as-
sociation of the condition with an aposteme in the fore- or midbrain is
an example, and so is his account of the signs that foretell the possible
13
progression of frenzy into another mental disorder, lithargia . But in
general his account of frenzy does not seem to depend particularly
heavily on Avicenna : Arnau has evidently borrowed descriptive ele-

11
« Frenesis grece sonat proprie in latino pellicularum aut velaminum lesio etc.,
unde per antonomasiam attribuitur apostemati calido pellicularum indifferenter tam
capitis quam pectoris, quoniam ex utraque passione causatur illa summa et absoluta
hominis lesio que est amissio rationis. Persice cum propriis vocabulis dicuntur, nam
tale apostema in velaminibus pectoris nominatur birsen, in velaminibus capitis
sirsen. Carabicus autem est nomen frenesis corruptum apud arabes propter uniformi-
tatem litterarum quibus scribitur apud eos. Unde punctis deficientibus que vices ge-
runt vocalium eedem littere in eadem dictione scripta eque bene possunt representare
hanc dictionem frenesis et aliam, scilicet karabicis et karabicus. » ; De parte opera-
tiva, fol. 125ra.
12
AVICENNA, Liber Canonis III.1.3.1, Venice, 1507 ; rpt. Hildesheim, Olms, 1964,
fol. 180va.
13
Compare Arnau on the signs of lethargy (De parte, fol. 125rb) with A VICENNA,
« De signis eius [lethargie] », Canon III.1.3.8 (fols. 182vb-183ra). JACKSON,
« Galen », op. cit., p. 376, and S IEGEL, Galen on psychology, op. cit., p. 255-258,
summarize the Galenic understanding of lethargy.
124 MICHAEL MCVAUGH

ments from a number of different authors and has tried to work them
into a single coherent picture, very much as Avicenna had tried to do
three hundred years before.
Frenesis is the first of a number of diseases described in this trea-
tise-within-a-treatise where Arnau seems to be trying to equate the
Greek names for diseases with the different terminology found in Latin
and Arabic works : « Litargia grece, oblivio proprie latine » comes
first ; a little later, « doronicon vigilativa, suchos corrupto arabico, in-
terpretatur latine dormitio vigilativa » ; and finally, « instantia vigi-
larum […] quidam latine vigilativam nominat, quidam insomnietatem,
14
arabice vero corrupto nomine saharra dicitur ». But then he changes
tack and turns to consider a group of illnesses where there is no ac-
cepted term with a clear-cut meaning in any language, and where con-
sequently the problem of defining a meaningful syndrome and
identifying it with a single term is still more difficult. These diseases
Arnau labels generally « lesiones cognitionis », damage to the under-
standing, and he sets himself the task of identifying the kinds of things
that can go wrong with the understanding, of differentiating and ex-
plaining them, and of establishing a standard terminology for them. So
far as I know, this attempt by Arnau to draw up a comprehensive classi-
fication or nosology of diseases of the understanding is the first in me-
dieval Latin medical literature.

II

Arnau began his attempt at a classification by positing the model


of the mind established by the eleventh-century medical translations
that had effectively created medieval Latin medicine : a model, paral-
leling the one presented in more specifically philosophical sources, of a
tripartite division of mental function (the internal senses) distributed

14
De parte operativa, fol. 125ra, 125va, and 125vb, respectively. « Saharra » is in
Canon III.1.4.4.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 125

15
among the three supposed ventricles of the brain . Those translations
had been of Arabic authors rather than Greek ones : Galen had identi-
fied three mental functions – in De accidenti et morbo he called them
« ymaginatio », « discretio », and « memoria16 » – as well as three
broad cerebral regions, but he did not systematically locate one in the
17
other . That was done by the Arabs and found its way relatively early
into medieval European medicine ; in the Isagoge of Johannitius or the
Pantegni of Haly Abbas, for example, already widely known in the
twelfth century, these functions are called « fantasia », « cogitatio »,
and « memoria », and are fixed in the cells of the brain from front to
18
back, respectively . European medical terminology was variable, but to
Arnau in D e parte, the three are « ymaginatio » in the forebrain,
« scientiatio » or sometimes « estimatio » in the middle cell, and
19
« memoria » at the back .

15
Some aspects of the extra-medical discussion of brain localization by medieval
writers are touched on by W. PAGEL , « Medieval and Renaissance contributions to
knowledge of the brain and its functions », in F. N. L. POYNTER (Ed.), The history and
philosophy of knowledge of the brain and its functions, Oxford, Blackwell, 1958,
esp. p. 97-103.
16
GALEN, De accidenti et morbo III.3 ; in Galeni Opera, Venice, 1490, vol. II, fol.
143ra.
17
For Galen, see SIEGEL, Galen on psychology, op. cit., p. 238-239. The threefold
division of the brain was a commonplace of later Galenic medicine, although Galen’s
own understanding was much less simplistic : see Galen On the usefulness of the
parts of the body, ed. and tr. M. T. MAY, Ithaca, N.Y., Cornell University Press, 1968,
vol. I, p. 414-415.
18
Haly’s psychology is summarized thoughtfully and at length by E. R. HARVEY,
The inward wits : Psychological theory in the Middle Ages and Renaissance, London,
Warburg Institute, 1975, p. 13-23. The Isagoge’s very brief treatment says simply :
« De ordinativa et discretiva et compositiva virtute hec procedunt : phantasia in
fronte, cogitatio vel ratio in cerebro, memoria in occipitio » ; Isagoge, in Articella,
Venice, 1523, (i), fol. 2rb.
19
In his Speculum medicine, another late work, Arnau’s choice of terminology is
essentially the same : « Cognitio interior [...] perficitur tribus partibus cerebri distin-
guibilibus visibiliter per anathomiam, propter quod etiam a medicis triplex asseritur
esse, scilicet imaginatio, extimatio sive ratio, et memoria » ; Speculum, cap. 6, in
Opera Arnaldi, Venice, 1505, fol. 3rb.
126 MICHAEL MCVAUGH

Next Arnau posited that each of the three functions can be defe-
ctive in one of three ways : it can be missing, it can be diminished, or it
can be corrupted20. Again the idea went back at least in part to Galen,
who in De accidenti had written that « three kinds of accidents befall
the mind : one removes its normal function, one damages it, one alters
it21 » ; but Galen does not seem to have gone on to think of these three
accidents as applying to each of the three different cognitive functions.
That step had been taken by Arabic authors, including Haly Abbas (d.
994), who had described in very loose terms how the different acci-
dents might affect mental function in each of the ventricles, though he
did not systematically name the ensuing conditions. For example :
When harm comes to the middle ventricle of the brain, it either does away
with reason altogether, so that [the sufferer] cannot distinguish between
things that must and must not be done […], or else the understanding is
diminished, and he reasons badly […], or it is other than it ought to be and
he will be of unsound understanding, and this kind of thing is called mentis
alienatio22.

Arnau may have known Haly’s account, but he certainly studied


the further articulation of the model by Avicenna (d. 1037) with great
attention. In Canon III.1.1.6 Avicenna had declared that the mental
faculties could be damaged in three ways, by « destructio »,

20
« Lesio cognitionis interioris tres habet gradus in genere, sicut et nocumenta
cuiuslibet actionis ; nam aut diminuitur, aut perimitur, aut aufertur » ; De parte ope-
rativa, fol. 126rb.
21
« Tria sunt genera accidentium que regitive accidunt virtuti, quorum unum au-
fert, alterum nocet, alterum concursum nature mutat » ; De accidenti et morbo V.7, in
Galeni Opera, vol. II, fol. 150ra.
22
« Si medio accidit ventriculo cerebri incommodum, aut omnino cogitationem
annullat in tantum ut omnino non discernat inter ea que facienda et que minime faci-
enda sunt [...], aut certe imminuitur et mala fit cogitatio que recte animi dicitur di-
scussus et a rebus defectus, aut certe aliter quam oporteat eritque in cogitatione sua et
viso minime bonus, diciturque eiusmodi habitudo mentis alienatio » ; H ALY ABBAS,
Liber Regalis, VI Theorice cap. 10, Lyon, 1523, fol. 73ra. In the version of this work
produced by Constantine the African under the title Pantegni, this reads : « Si media
pars cerebri patiatur, aut tota ratio aufertur non discernens discernenda a non di-
scernendis [...] aut minuitur et mala ratio gignitur quod desipere vocatur, aut extra
cursum naturalem exit que alienatio nominatur mentis » ; Pantegni, VI theorice
cap. 11, in Opera Omnia Ysaac, Lyon, 1515, fol. 27rb.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 127

« debilitas », or « permutatio » ; then he went on to give a general di-


scussion of the faculties in each of the three cerebral cells and of how
they might malfunction. In the particular case of the « virtus cogita-
tionis vel ymaginationis » Avicenna distinguished three named ill-
nesses corresponding to the three different ways in which the faculty
could be damaged : « either it is destroyed (this is known as deletio
rationis) or weakened (this is known as amentia) […] or it is changed
[…] (this is known as commixtio rationis)23. » Further on, in Canon
III.1.4.11, he gave a fuller account of these conditions affecting cogita-
tion, though with a different terminology :
the difference between permixtio rationis and stoliditas and amentia […],
which all occur in the middle ventricle of the brain, is that permixtio rationis
is an illness that alters the workings of cognition, while stoliditas and
amentia are illnesses that diminish or destroy them, a condition similar to
fatuitas and fantasia24.
In the case of the other two faculties, imagination and memory,
Avicenna described the symptoms of their pathology, but he did not try
to name and distinguish the three ways in which each could go wrong,
except that he distinguished « corruptio memorie » from « oblivio25 ».
Arnau was evidently dissatisfied with Avicenna’s vague and in-
complete tableau, and he tried to work out a full nosology that would
specify all the illnesses that could conceivably affect the faculties. For

23
« Scilicet aut destructio (et nominatur hec delectio rationis) aut debilitas (et no-
minatur amentia) [...] aut est mutatio et permutatio [...] (et nominatur commixtio ra-
tionis) » ; A VICENNA , Canon, fol. 167va. On Avicenna’s classification of mental
illnesses, see D. JACQUART , « Avicenne et la nosologie Galénique : L’example des
maladies du cerveau », in A. HASNAWI, A. ELAMRANI-JAMAL, M. AOUAD (Éd.), Perspecti-
ves arabes et médiévales sur la tradition scientifique et philosophique grecque, Leu-
ven-Paris, Peeters, IMA, 1997, p. 217-226.
24
« Differentia inter permixtionem rationis et stoliditatem et amentiam [...] simul
cadens in ventre medio cerebri est quod permixtio sensus [sic] est lesio in operationi-
bus cogitationis secundum mutationem, stoliditas vero et amentia sunt lesio secundum
diminutionem aut destructionem, et dispositio similis fatuitati et fantasie » ; AVICENNA,
Canon, III.1.4.11, fol. 186va.
25
« Et oblivio quidem et corruptio memorie secundum plurimum non accidunt nisi
ex frigiditate et humiditate » ; Ibid., III.1.4.12, fols. 186vb-187ra ; corruptio imagina-
tionis is treated in chapter 15.
128 MICHAEL MCVAUGH

him, the possibility of three defects in each of three mental functions


implied a basic grid of nine potential « lesiones cognitionis » : these
were to correspond to specific mental illnesses, with which he hoped to
correlate the variously named and variously described illnesses of his
authorities26. Here in tabular form is the classification that he finally
arrived at27 :

ABLATIO DIMINUTIO PERMUTATIO

YMAGINATIO stupor, hebetudo fatuitas


extasis,
cathelexis,
congelatio
SCIENTIATIO, amentia stoliditas vesania,
ESTIMATIO permixtio rationis
vecordia
MEMORIA oblivio oblivio deliratio

26
He also admits a tenth category, ablatio or diminutio not of one particular fun-
ction but of the mind as a whole. Into this last category he places distinctive collapses
such as sincope, epilepsy, suffocatio matricis, and apoplexy (or, as Arnau says it is
called in Arabic, taciturnitas).
27
« Sed ablatio et diminutio aliquarum partium mentis habent aliqua nomina pro-
pria. Nam ablatio ymaginationis tantum dicitur stupor in genere et ab aliquibus exta-
sis, specialiter tamen vocatur cathelexis vel congelatio quando a frigido et sicco
causatur. Diminutio vero eius (scilicet ymaginationis) dicitur hebetudo. Ablatio vero
et diminutio scientiationis tantum communiter nominatur stoliditas et amentia, licet
stoliditas maxime communicat diminutioni et amentia ablationi… Ablatio vero et
diminutio memorie que nomine vocantur oblivio. Permutatio vero cognitionis que a
pluribus vocatur corruptio dicitur alienatio mentis, […] et interdum vocatur dementia
quasi deviatio mentis […]. Species alienationis simplicis alienatio in qua ymaginatio
tantum leditur et dicitur fatuitas quasi fantasie vel ymaginationis pravitas. Alienatio in
qua tantum extimatio leditur […] dicitur vesania vel infatua […], et ab hoc etiam
vocatur ab aliis permixtio rationis, ab aliis vero qui mentem cor vocant vecordia dici-
tur... Alienatio in qua tantum memoria manifeste primo et per se leditur […] apud
medicos non habet nomen proprium sed nominatur nomine communi omnibus nocu-
mentis memorie, quod est oblivio ; convenienter tamen potest vocari deliratio… » ;
De parte operativa, 126rb.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 129

To fill in the blanks in his grid, he began with Avicenna’s sketchy


remarks and, after changing « destructio-diminutio-corruptio » to
« ablatio-diminutio-permutatio », adopted the names of illnesses of the
virtus cogitativa provided in Canon III.1.4.11. Amentia was thus identi-
fied with ablatio (destructio) cognitionis, not with diminutio cogni-
tionis as in Canon III.1.1.6. Avicenna’s « oblivio » was applied to both
ablatio and diminutio memorie, because it had been contrasted with
corruptio memorie in the Canon ; « fatuitas » may also be an echo of
Avicennan usage. Then Arnau proceeded from Avicenna to accounts of
mental illnesses in other authorities, principally Galen and Rhazes but
other authors too, trying to determine whether they were referring to
the same illness under several different names, or to different illnesses
under the same name, and trying to deduce from the symptoms they
described what part of the brain or of the mind was affected, so that he
could place each illness in its appropriate spot in the grid.
Because scientiatio or estimatio is the noblest (dignior) of the
three mental faculties, Arnau went on, physicians have observed its
pathology most closely and have identified five symptomatically dis-
tinct forms of its corruption, five different subspecies of corruptio esti-
mationis from which patients can suffer, distinguished by the irrational
emotions aroused in each form28. Most of these diseases, as Arnau says,
have long histories going back to the Greeks : stultitia (characterized by
excessive laughter) ; mania (by rashness and anger) ; melancolia (by
fear) ; heroys or amor hereos (by obsessive desire) ; and cicubus (by
horror and loathing). These completed the structure of Arnau’s psychi-
atric nosology in De parte : the nosology thus combined well-known
disease entities – ones just as stable, historically, as frenzy or dropsy –
with new entities constructed by Arnau out of his sources.
Having established his basic entities, Arnau evidently planned next
to set out a full account of each according to a form that was by now in
vogue at Montpellier, distinguishing their causes (primitive, antecedent,
and conjoint), their symptoms (signa), and their treatment (cura). He
was able to do this easily for the five corruptiones estimationis because
they were already fixed in contemporary medical literature : they were
well-known and easily identifiable, and textbook discussions were in

28
Ibid., fols. 126rb ff.
130 MICHAEL MCVAUGH

general agreement. For heroys, for example, Arnau could simply have
summarized the account he himself had already provided in his Tra-
29
ctatus de amore heroico (though in fact he does not actually draw on
it) : the cause of heroys, he says, is an unhealthy quality of the brain or
spirit, tending to dryness and to a lesser extent to hotness (mala quali-
tas cerebri in spiritu declinans et siccitatem in plus et caliditatem in
minus) ; its symptoms are hollow, tearless eyes, and an irregular pulse
that changes at the mere mention of the object of desire ; its cure is dis-
traction, or an induced loathing of the loved one. It might be empha-
sized that Arnau is much less concerned here than in De amore heroico
to work out an actual complexional mechanism by which the midbrain
is dried out and the estimatio distorted ; he is more interested in the
external pathological behavior than in the internal senses and their
physiology.
Generally speaking, Arnau has worked out his analysis of causes
quite carefully at each level – primitive, antecedent, and conjoint – for
all the illnesses in his grid. It is here that he introduces his fascinating
30
account of proprietas as a causa primitiva , explaining that it is an
occult power that arises in complexioned things, produced by a celestial
impression, and that it may be either common to all members of a spe-
cies (the virtus specifica) or peculiar to one particular individual of a
species – so that, for example, one particular sapphire but no others
may prove to have the property of damaging the human eyesight, even
though they are all otherwise identical. It is proprietas that ensures that
a lion seal placed over the loins will prevent the pain of renal calculus
– Arnau is perhaps recalling his successful treatment of Pope Boniface
31
VIII in this way in 1301 . An occult causal power of this sort, he con-
cludes, can even explain why one magician is more effective than an-
other, or why one particular physician may actually intensify a patient’s
madness merely by his presence in the sickroom.

29
I have edited this text in Arnaldi de Villanova Opera Medica Omnia, vol. III,
Barcelona, Universitat de Barcelona, 1985, p. 9-54.
30
De parte operativa, fol. 127ra-rb.
31
See, most recently, S. GIRALT , « Arnaldus astrologus ? La astrología en la
medicina de Arnau de Vilanova », in Medicina & Historia, quarta época, 2 (2003),
p. 1-15.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 131

But about signs and cures for mental illness, De parte operativa
has less to say. For the former, in fact, Arnau mostly gives headings
under which he might eventually have drawn up comparative lists of
32
symptoms (this is another hint that De parte is an unfinished work).
Only the five subspecies of corruptio estimationis have their symptoms
described in complete detail. Their identities, their symptoms and
treatment, were well established in medical tradition, but the nine basic
illnesses of the grid had to be laboriously constructed out of the new
Greco-Arabic sources. It was necessarily a time-consuming process,
and we can imagine that Arnau simply ran out of time, leaving the
work unfinished at his death.

III

It is, however, possible to see how Arnau meant to proceed, and


what kinds of problems he would have been forced to confront, because
he offers a partial description of one of his nine newly constructed ill-
nesses : « stupor » or ablatio ymaginationis33. His task is to choose
from his sources the signs that identify it, and also to distinguish it from
other similar conditions (some of which he has already discussed, such
34
as lethargy and somnolence or « subeth »), as well as from conditions
which have already been labeled « stupor » in the existing medical lit-
erature but which are evidently not the same thing as his stupor. He
provides a kind of differential diagnosis among the various pathological
states « in which sensation, motion, and awareness are entirely lost » so
that the subject has little or no consciousness of self, and he distin-
guishes them all from normal sleepiness :
it is different from apoplexy, because the sleepy person can be roused and
can get up, understand, and perceive ; it is different from syncope because
he has a strong pulse, like the pulse of the healthy, and the color of his face
is not pale or grayish, like that of the dead, nor are the extremities cold ; it is

32
De parte operativa, fol. 128ra-b.
33
Ibid., fols. 127vb-128ra.
34
Cf. Canon III.1.4.1, « De subet et somno ».
132 MICHAEL MCVAUGH

different from stupore congelativo because he does not keep his eyes open ;
from lethargy, because he has no fever ; from epilepsy, because he does not
twist or move his lips or roll his eyes ; from hysteria (prefocatione matricis)
because a sleepy person opens his eyes and laughs when called, but not a
35
hysteric .
Of these disorders, as we have seen, Arnau had decided that only stu-
por should be considered a lesio cognitionis. How, then, had he arrived
at the conclusion that the pathological sleep in which the eyes remain
open is an ablatio ymaginationis in particular, and why has he chosen
to give the name « stupor » to this condition ? Fortunately for us, in this
one case he spells out his reasoning in detail.
In studying the « new Galen », Arnau had discovered three im-
portant yet mutually inconsistent accounts of a condition that Galen had
called « stupor ». In De accidenti et morbo, Galen described stupor as
an abnormal sleep caused by the cold and moist and seemed to equate it
with what he called « congelatio », a freezing or stiffening (duritiam) of
36
the senses and motion in the members (nervosis membris) . But in his

35
« Distinguitur ab appoplexia quia somniculosus potest excitari et surgere intelli-
gere et sentire ; a sincopi differunt quia pulsum habet magnum et similem pulsibus
sanorum, nec color in vultu sit pallidus aut gipseus ut in mortuis, nec extrema frige-
scunt ; a stupore congelativo quia non tenet apertos oculos ; a litargia quia non febri-
citat ; ab epilepsia quia non torquet aut movet labia nec inversat oculos ; a prefoca-
tione matricis quia somniculosus vocatus aperit oculos et ridet, sed in prefocatione
non » ; De parte operativa, fol. 125vb.
36
« Sed si ex nimia humiditate et frigiditate aggravetur somnus, ille efficietur qui
vocatur stupor et frigida frenesis et similia, quia causa horum omnium non aliud vi-
detur esse nisi humiditas et frigiditas sive simpliciter sive commixte […]. Que autem
sensum obtundit et congelat non erit medicina somnifera dicenda, sed doloris mitiga-
tiva ; doloris enim mitigatio non est nisi ablatio sensus aut defectio et parvitas sensus.
Diximus enim congelationem nihil aliud esse nisi duritiam sensus et motus in nervosis
membris contingentem. Item aliquando congelatio fit non ex medicina frigida sed ex
mala complexione, scilicet sicut ex medicina contingit ; hoc modo fit gravis somnus
et stupor et congelatio » ; GALEN, De accidenti et morbo, IV.8 ; in Galeni Opera, vol.
II, fol. 147rb. An earlier passage in the same work reinforced the use of these terms
but contributed nothing to an understanding of the relationship among them : « Hic
autem dicendum de nocumento regitive actionis, incipiam autem ab imaginatione.
Dico ergo nocumentum istud aliud est stupor, aliud congelatio, et aliud de facto ac-
tionis, sicut litargia » ; Ibid., III.3, in Galeni Opera, vol. II, fol. 143ra-b.
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 133

commentary on the Aphorisms he declared that it was lethargy, a quite


different kind of sleep, that was produced by the cold and moist, and
that congelatio was produced by the cold and dry, while he mentioned
37
stupor briefly as a third form whose cause he left unexplained . Fi-
nally, in De interioribus (De locis affectis), he attributed stupor simply
to cold, located it in the forebrain (prora), and distinguished it from
congelatio, which he said occurred instead in the back of the brain
(puppis) ; the two conditions were further distinguishable, he said, be-
38
cause the eyes were closed in stupor but open in congelatio .

37
« Somnus et vigilia utraque modo magis facta malum. Quidam medici arbitrati
sunt esse malas vigilias excedentes modum, sed somnum non similiter, quia somnus
semper bonum signum est. Nullus enim somnus modum excedit. Multi quoque er-
raverunt putantes stuporem longum esse somnum. Quibus non obviamus, quia nun-
quam habuit usus ut stupor somnus vocaretur longus ; oportet ergo nobis
concordentur. Cum enim naturalem modum excesserit et sine stupore fuerit longus
vocabitur somnus quem primus sensus facit id est cerebri frigiditas, que si sit fortis
commixta humiditati lythargiam facit ; si vero siccitati catalasiam id est congela-
tionem facit. Econtra vigilie exprimi sensus fiunt caliditate que ex simplici fit com-
plexione cerebro dominante vel ex cholere rubee commixtione, quod in quibusdam
libris nostris nos explanasse meminimus, unde hoc tantum breviasse sufficit. Sicut
autem quidam negant somnum excedere temperamentum, itidem de vigiliis putant
sentiendum » ; Commentum Galeni in aforismos Hippocratis II.3, in Articella, Veni-
ce, 1523, (ii), fol. 23r.
38
« Item aliquando in dissolutione appoplexia mollitia generatur ; stupor autem si
dissoluitur sanitas fit ; causa cuius in lacertis timporum et propter acutam passionem
existit Y. in libris suis testatur. Epilentia vero est quasi media inter hec duo, id est
appoplexiam et stuporem. Epilentia vero totius corporis est spasmus infirmum in
mollitiam minime ducens. Causa quarum trium passionum frigida materia est et
crossa aut sine dubio viscosa. In stupore tamen et epilentia nocumentum magis est in
ventriculis cerebri, in essentia vero cerebri minus est. Verum appoplexia in essentia
cerebri est magis. In stupore vero prora magis patitur quam puppis in appoplexia et
epilentia utraque pars cerebri multum patitur. Preterea passio que dicitur cathocos id
est congelatio magis infert passionem puppi quam prore.
Hii autem quorum capite perforato medius ventriculus cerebri constrictus fuerit
stuporem spiritusque disturbatione sine spasmo et difficultate spiritus patiuntur ; quo-
rum unum est proprium epilentie et alterum appoplexie sicut stupori et congelationi
proprium est ut hanelitus permaneat secundum cursum nature. Stupor tamen a
congelatione differt quia oculi in stupore sunt clausi, in congelatione aperti, et sicut
propter perforationem cranei quodammodo ventriculo compresso stupor generatur, sic
134 MICHAEL MCVAUGH

How could Arnau develop this internally contradictory information


into a consistent whole ? He had to find some axiomatic point from
which to begin, and he chose De interioribus’ assertion that « stupor »
39
was an illness of the forebrain (passio prore) ; locating it in the fore-
brain meant, following his medical model of the internal senses, that it
had to be an ablatio ymaginationis. Next he accepted the implicit equa-
tion of « stupor » with « congelatio » that he found in De accidenti, but
he combined this with the Aphorism-commentary’s statement that
congelatio was a product of the cold and dry. Finally, turning back se-
lectively to De interioribus, Arnau argued that if dryness in the back of
the brain caused the eyes to remain open by drying out the eyelids, this
must be even truer of dryness in the forebrain, because it is so much
closer to the lids. His conclusion was therefore that « stupor », or more
precisely « congelatio », should be employed to refer to a condition in
which a total absence of ymaginatio is brought about in the forebrain by
excessive coldness and dryness, and that this condition can be distin-
guished from other forms of pathological sleep because in it the pa-
tient’s eyes remain open.
Arnau rationalized one or two of the many respects in which this
attempt at a synthesis has had to contradict direct statements by Galen.
For example, to explain away Galen’s statement that the eyes are shut
in stupor, he had to argue that in that passage Galen was using
« stupor » loosely to refer to a normal, shut-eyed sleep (and that
Constantine the African had done the same in the Viaticum), but that
Galen was using congelatio in the sense in which Arnau was now de-
fining stupor. Arnau glossed over the awkward fact that, even so, Galen

fortiter fracto quodam osse in capite e ventriculo cerebri conculcato maxime medio
stupor oritur » ; GALEN, De interioribus IV.2 ; in Galeni Opera, vol. II, fol. 127rb. An
English translation of this passage (from the Greek) is given in R. E. SIEGEL, Galen On
the Affected Parts, Karger, Basel, 1976, p. 111.
39
Arnau had apparently come upon this Galenic treatise (also called De locis af-
fectis) in the late 1290s and had been deeply impressed by it, going so far as to draw
up a very personal synopsis of the work in 1300 ; see GARCIA-BALLESTER, « New Ga-
len », op. cit., p. 77, and ARNAU DE VILANOVA, Tractatus de intentione medicorum, in
Arnaldi de Villanova Opera Medica Omnia, vol. V.1, Barcelona, Universitat de Bar-
celona, 2000, introduction, p. 187-192. The citation of De interioribus by Arnau in De
parte operativa is an indication that the latter was written late in his career, as is his
seeming allusion to his treatment of Boniface VIII in 1301 (supra, n. 31).
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 135

fixed congelatio in the puppis rather than the prora, but he went on to
offer a rationalization of other passages in which, equally confusingly,
Galen seemed to locate stupor/congelatio out of the forebrain and to
place other mental illnesses in the forebrain. Yet in the end Arnau kept
as many of Galen’s statements as he could, interpreting them against
the model of the internal senses, and he concluded happily that his
« stupor » agreed with Rhazes’ understanding of the term as well :
Rhazes had declared in Almansor IX.6 that « in stupidis oculi sunt ap-
erti », and Arnau insisted that Rasis must here have meant « congelati »
40
when he wrote « stupidi ».
To sum up, in his struggle to arrive at a clear understanding of
what « stupor » should mean, in both its broad and its strict senses, Ar-
nau collated two texts by Rhazes (Liber divisionum and Liber almanso-
ris), one by Constantine (Viaticum), and four by Galen (Comm. Aph.,
De accidenti et morbo, De interioribus, Megategni) – to cite only those
that he himself identified by name – and interpreted them all within a
framework provided by the internal senses. In coining the phrase « the
new Galen », Luis García Ballester emphasized that a new interest in
the Galenic corpus characterized the direction taken by the medical
41
faculty at Montpellier at the beginning of the fourteenth century . Ar-
nau’s discussion of stupor is both a testimony to the strength of that
interest and a sign that the attention paid to Galen would produce its
own difficulties, as medical masters began to create their own Galenic
system as an alternative to the predigested Galenism of the Canon. And
De parte itself, that unfinished attempt to construct a pathology of co-
gnition, is a microcosm of that movement, which parallels and would in
the Renaissance eventually supplant the earlier systematization of Ga-
lenism carried out by the Arabic authors.

40
« De stupidis qui semper habent oculos apertos. Cum aliquis quasi dormiens ia-
cet et non movetur, et licet oculi sint aperti palpebras tamen non movet, congelatus est
sive rigidus » ; RHAZES, Liber Almansor IX.6, Venice, 1497, fol. 41rb.
41
GARCIA-BALLESTER, « New Galen », op. cit., esp. p. 65-72.
136 MICHAEL MCVAUGH

IV

Arnau was not the only master at Montpellier whom the « new
Galen » led to reflect on the differences among the mental illnesses it
described. His colleague Bernard Gordon did the same in his Lilium
medicine finished in 1305, and he too paid particular attention to stu-
por ; but Bernard approached the topic descriptively rather than ana-
lytically. Arnau had decided to apply the term to a theoretical construct
that he knew a priori had to exist : the lack of consciousness that was
bound to arise from ablatio ymaginationis. Bernard, in contrast, chose
to understand stupor as describing a particular psychological phenome-
non, and he may have had Arnau in mind when he denied that (« as
some say ») stupor involved unconsciousness :
Note that some call « stupor » a complete loss of sensation and motion – but
that is apoplexy or epilepsy, not stupor. Some call « stupor » a softening
(mollificatio), which is properly speaking paralysis, not stupor. What I
understand by « stupor » is the diminution of sensation and motion in some
part of the body that is vulgarly called « going to sleep », as when someone
crosses one leg over another and cannot feel or move it well until he has
42
stood for a while – that kind of sleep is what should be called « stupor ».
Bernard provided his own sketch of a differential diagnosis to support
this, based on the same Galenic texts but drawing on them differently,
playing down Galen’s description of stupor as somnus, and emphasi-
zing Galen’s distinction between stupor and congelatio in De interiori-
43
bus rather than his seeming identification of the two in De accidenti .

42
« Intelligendum quod aliqui appellant ablationem sensus et motus in toto
stuporem et hoc non est stupor sed apoplexia aut epilepsia. Aliqui appellant mollifi-
cationem stuporem et hoc non est proprie stupor sed paralisis. Per stuporem igitur
intelligo diminutionem sensus et motus in aliqua parte corporis, et ideo vulgariter
appellatur dormitatio membri, sicut cum aliquis tenuit tibiam supra aliam, tunc non
bene sentit nec bene potest moveri donec aliquantulum steterit, talis dormitatio ap-
pellatur stupor » ; BERNARD GORDON, Lilium medicine II.ii.17, Venice, 1498, fol. 29vb.
43
« Intelligendum igitur quod congelatio et litargia sunt magis in parte posteriori
cerebri, somnus autem naturalis et stupor sunt magis in parte anteriori. Preterea differt
litargia a congelatione quia litargia fit a frigido et humido, sed congelatio quam Ga.
vocat cathalensiam causatur ex frigido et sicco. Somnus autem longus innaturalis et
profundus differt a stupore quia in somno patitur magis sensus communis cum sensus
ARNAU DE VILANOVA AND THE PATHOLOGY OF COGNITION 137

Bernard’s first response to the new Galen was evidently to try to fit its
confusing terminology to phenomena, while Arnau’s was to try to make
intellectual sense of it.
Comparing Bernard’s approach to mental illness with that of Ar-
nau encourages some general reflections on the role of the internal
senses in medicine about 1300. I suggest that they were obviously an
unquestioned part of medicine’s theoretical framework, and yet they
were oddly irrelevant to practice. Bernard certainly explains some
mental illnesses in terms of a damage done to the internal senses :
heroys, for example, which he identifies as arising from a corruptio
estimative44. But Bernard’s real focus is on the patient’s deranged be-
havior ; it has not struck him that the internal senses might be used as a
key to explain and correlate systematically all mental illness, not just
heroys but conditions like stupor and congelatio too, by defining the
number of pathological entities that were logically possible. A particu-
lar feature of the new Galenic medicine was its emphasis on localizing
the site of damaged function in order to be able to treat it, and of course
the doctrine of the internal senses allows the physician confronting
mental illness to do just that – yet Bernard never follows this up. He is
more interested in treating the symptoms of mental pathology than he is
in investigating its causes, and I suspect that this was true of most of his
contemporaries.
On the other hand, Arnau’s example shows us that a philosophi-
cally-minded physician could appreciate the potential of the internal

sit propria passio sensus communis, in stupore autem patitur magis virtus tactiva que
in nervis est. Preterea in alio differt quia stupor est diminutio motus et sensus et ideo
potest esse stupor in vigiliis, sed in somno est ablatio sensus et motus et ideo nullo
modo in vigiliis. Preterea differt stupor a congelatione quia stupor est in virtute tactiva
magis et congelatio in motiva. Et in alia quia in congelatio semper sunt oculi aperti
sed in stupore non sic. Preterea differt litargia a somno quia in litargia est febris et
apostema in somno autem non uterque tamen excitari potest si alta voce vocentur et
proprio nomine appellentur. Et in hoc differunt a congelatione quia congelatus est
frigidus et quasi spasmatus. Et differunt in hoc etiam ab apoplexis et epilepsis et sin-
copi et casu matricis. Isti enim omnes excitari non possunt nisi pertransacto paro-
xismo, alii autem licet excitati tamen statim revertuntur ad propriam passionem nisi
continue excitentur etc. » ; Ibid., II.ii.15, fol. 29rb.
44
Ibid., II.ii.20, fol. 31vb.
138 MICHAEL MCVAUGH

senses to bring rational order into the twin confusions of novel termi-
nology and patient behavior, without sacrificing attention to therapeu-
tics. Confronted with the task of making sense of the « new Galen »
and its allusions to mental pathology, the system of the internal senses
was something that he could gratefully take for granted as an esta-
blished truth with which to interpret the new Galenic texts, with of
course no thought that it was itself not part of Galenic doctrine. Fun-
ctional concepts like ymaginatio or cognitio could be employed to un-
derstand the mind in much the same way as pathological terms like
frenzy and lethargy could be : all were already familiar, all had settled,
well-established meanings that could be taken for granted in the pro-
cess of organizing and assimilating the new and unfamiliar material.
But not even Arnau was interested in the internal senses per se ; at this
early stage in the introduction of the « new Galen » Arnau was far more
concerned to comprehend the range of abnormal and pathological be-
havior than he was to understand the character of normal function. For
this reason the internal senses served him as a starting point for further
inquiries, but they were not themselves a subject of curiosity or investi-
gation.
University of North Carolina
PIETER DE LEEMANS

INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT


1
PETER OF AUVERGNE (?) ON ARISTOTLE’S DE MOTU ANIMALIUM

INTRODUCTION

The present paper aims at giving an insight into some materials


that until now have rarely been studied, the medieval commentaries on
Aristotle’s De motu animalium. It will mainly focus on the Questiones
ascribed to Peter of Auvergne (1304), and raise some questions about
the relation between the external and internal senses, the intellect, and
movement. I will proceed as follows. First, Aristotle’s De motu ani-
malium will be introduced (1) and its reception in the Middle Ages di-
scussed (2). Then, I will formulate the status quaestionis of this paper
in a more concrete way (3), and try to give an answer by analyzing four
Questiones (4-7). I will conclude (8) that, like Aristotle, Peter does not
make a systematic distinction between non-rational and rational ani-
mals, and between their respective moving principles.

1. ARISTOTLE’S DE MOTU ANIMALIUM

Without any doubt, Aristotle’s De motu animalium is one of the


more intriguing texts of the Corpus Aristotelicum. It has often been
considered as a zoological work. There are, however, good reasons to

1
I gratefully acknowledge Guy Guldentops and Pieter d’Hoine (K.U.Leuven) for
their helpful criticism and remarks.
140 PIETER DE LEEMANS

consider it as complementary to the Physics and the Parva Naturalia2.


This is especially true from a medieval and renaissance point of view,
when De motu animalium was often reckoned among and commented
together with the traditional Parva Naturalia3.
According to Aristotle’s own words, the text searches to explain
« in general the common reason for moving with any movement what-
ever » (MA, 1, 698a4-5)4. Yet, its scope is limited neither to locomotion
nor to animals, as one might spontaneously assume :
1. the term motus (kinèsis) has its Aristotelian meaning, which is
wider than just locomotion. Although its focus is mainly on loco-
motion, the text also occasionally deals with the other two Aristo-
telian types of movement, viz., growth (auxèsis) and alteration
(alloiosis), and with generation ;
2. these types of movement are studied mainly with respect to ani-
mals. « Animal » must also be understood in a broad sense
– including man and excluding plants. Moreover, Aristotle di-
scusses quite extensively the movement of the heavens ; after ha-
ving established that animal movement requires something exter-
nal and at rest, he attempts to establish an analogous conclusion in
the case of the heavens.
The text has received some scholarly attention in the past decades.
I mention here only Martha Nussbaum’s Aristotle’s De motu anima-
lium, published in 1978, which includes an edition with English transla-
tion, a systematic commentary, and five interpretative essays, and of
which the many merits are beyond doubt. Yet, this book, like most

2
Cf. P.-M. M OREL, « Les Parva Naturalia d’Aristote et le mouvement animal », in
Revue de Philosophie Ancienne, XX, 1 (2002), p. 61-88.
3
De progressu animalium was also often considered as a part of the Parva Natu-
ralia, but it was never commented within this context. About the medieval reception
of this text, see : P. DE LEEMANS, « La réception du De progressu animalium d’Aristote
au Moyen Age », in P. NOBEL (ed.), La réception de l’antiquité, Besançon, 2004,
p. 165-186.
4
All translations of De motu animalium are taken from Aristotle’s De motu ani-
malium. Text with Translation, Commentary, and Interpretive Essays by M. CRAVEN
NUSSBAUM, Princeton, 1985.
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 141

other studies, pays very little attention to the reception of De motu ani-
malium in the Middle Ages, an aspect on which I will now focus5.

2. THE RECEPTION OF ARISTOTLE’S DE MOTU ANIMALIUM


IN THE MIDDLE AGES

Of De motu animalium, no medieval Arabic-Latin translation was


available. Michael Scot’s De animalibus contains translations of De
historia animalium, De partibus animalium, and De generatione ani-
malium, but not of De motu animalium nor De progressu animalium.
Two translations, however, were made directly from the Greek. The
first translation was used by Albert the Great for his paraphrase De
principiis motus processivi, but has since been lost. The second transla-
tion was made by William of Moerbeke (Guillelmus de Morbeka) in
about 1260, and is conserved in about 170 manuscripts6. It circulated at
the University of Paris, and was used and commented upon by quite a
7
few philosophers .

5
Another critical remark concerns the text edition, which certainly represents a
major advance in comparison to previous editions, but cannot be qualified as defini-
tive. In fact, the text tradition is more complicated and richer than Nussbaum as-
sumes.
6
Aristotelis De Motu Animalium et De Progressu Animalium. Translatio Guillelmi
de Morbeka et fragmenta translationis anonymae libri De Motu Animalium, ed. P. DE
LEEMANS (Aristoteles Latinus XVII. 1-2. II et III), Turnhout, forthcoming.
7
Cf. P. DE L EEMANS, « Medieval Latin Commentaries on Aristotle’s De Motu Ani-
malium. A contribution to the Corpus commentariorum medii aevi in Aristotelem
Latinorum », in Recherches de Théologie et Philosophie Médiévales, LXVII, 2
(2000), p. 272-360. In this article, I offer a survey of the ascribed and anonymous
commentaries, both per modum scripti and per modum questionis, from the thirteenth
until the fifteenth century. Most of these commentaries are unedited. Modern editions
only exist of Albert the Great’s paraphrase De principiis motus processivi (ALBERTUS
MAGNUS, De principiis motus processivi, ed. B. GEYER (Alberti Magni Opera Omnia
XVI, 1), Köln, 1955), and of the short commentaries by John Buridan (F. SCOTT,
H. SHAPIRO, « Jean Buridan’s De motibus animalium », in Isis, 58 (1967), p. 533-552)
and Walter Burley (F. SCOTT, H. SHAPIRO, « Walter Burley’s commentary on Aristotle’s
142 PIETER DE LEEMANS

One of these commentators deserves special attention, viz., Peter


of Auvergne (Petrus de Alvernia), active at the University of Paris in
the second half of the thirteenth century8. Among his many philosophi-
cal and theological works is a commentary per modum scripti on De
motu animalium (Sententia super de motibus animalium), of which
three versions are extant. This commentary was most probably the first
one based on Moerbeke’s translation, and it became standard for the
study of Aristotle’s text. It was indeed frequently copied or printed,
read, quoted, imitated, and adapted until the middle of the seventeenth
century9.
In this paper, I will focus on another commentary, per modum
questionis, conserved as a whole in the ms. Oxford, Merton College,
275, and partially in the ms. Roma, Biblioteca Angelica, 549. It is
transmitted anonymously, but several arguments have led to the hy-
pothesis that it was also written by Peter of Auvergne10. If this attribu-
tion is correct, then Peter would have commented on De motu
animalium both per modum scripti and per modum quaestionis (as he
did on several other works of Aristotle).
The twenty Questiones of this commentary all have a clear link
with the Aristotelian text11. The observations on the relation between
sensation, intellect, and movement that will follow now, are mainly
based on four of these questions. Questions 12-15 ask subsequently
whether, as Aristotle seems to claim, intellect, desire, the intelligible,
and the desirable are principles that move an animal – « to move » in

De motu animalium », in Traditio, XXV (1969), p. 171-190). The last two editions
should be handled with care, as they contain many errors.
8
Cf. G. GALLE, « A comprehensive bibliography on Peter of Auvergne », in Bulle-
tin de Philosophie Médiévale, 42 (2000), p. 53-79.
9
Cf. P. DE LEEMANS, « Medieval Commentaries », p. 298-313.
10
Cf. P. DE L EEMANS , « Medieval Commentaries », p. 322-330 ; P. DE L EEMANS,
« Peter of Auvergne on Aristotle’s De motu animalium and the ms. Oxford, Merton
College 275 », in Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age, 72
(2004), p. 129-202.
11
A survey of the questiones is found in the appendix.
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 143

this context means to cause physical action12. Other commentaries on


De motu animalium I will refer to are the literal commentaries by Peter
of Auvergne and John Buridan, and the Questiones by John of Jandun13.

3. STATUS QUAESTIONIS

In Chapter 6 of De motu animalium, Aristotle asks how the soul


moves the body and what the origin of animal movement is. He ob-
serves that (MA, 6, 700b17-21) :
We see that the movers of the animal are reasoning and phantasia and
choice and wish and appetite. And all of these can be reduced to thought and
desire. For both phantasia and sense-perception hold the same place as
thought, since all are concerned with making distinctions – though they dif-
fer from each other in ways we have discussed elsewhere. Wish and spiri-
tedness and appetite are all desire, and choice shares both in reasoning and
in desire. So that the first mover is the object of desire and also of thought.
All movers can thus be reduced to two generic faculties, thought
(noàj) and desire (Ôrexij). The object of desire (tÕ ÑrektÒn) and of
thought (tÕ dianohtikÒn), Aristotle proceeds, will thus first initiate
movement. Moerbeke’s translation of this passage is as follows :
Videmus autem moventia animal intellectum et fantasiam et electionem et
voluntatem et concupiscentiam. Hec autem omnia reducuntur in intellectum
et appetitum. Et enim fantasia et sensus intellectui eundem locum habent :
iudicativa enim omnia. Differunt autem secundum dictas in aliis differentias.
Voluntas autem et ira et concupiscentia omnia appetitus, electio autem
communis intellectui et appetitui. Quare movet primum quod appetibile et
quod intellectuale.

12
Other questions relevant to the treated topics are Questio 16 (what is the conclu-
sion of the practical syllogism like ; is it an action ?), and Questio 17 and 18 (whether
the sensible and intelligible species can cause alteration in a body).
13
The relation between the different sets of questiones is rather complex. They all
deal with more or less the same set of questiones, and a spot-check has shown a re-
markable uniformity in the way they approach certain subjects. I hope to deal with
this topic in the near future.
144 PIETER DE LEEMANS

The link between the translation and Peter’s Questiones 12-15 is


obvious. The phrase « hec autem omnia reducuntur in intellectum et
appetitum » inspired Q12 « utrum intellectus sit movens animalia »,
and Q13 « utrum appetitus moveat animal ». The phrase « Quare movet
primum quod appetibile et quod intellectuale » gave rise to Q14
« utrum intelligibile sit movens animalia », and to Q15 « utrum appeti-
bile sit movens animalia ».
In this paper, I will not entirely analyse these questions, but pay
attention to the following aspects.
1. In the given context, « to move » should be understood as « to
cause action (and thus locomotion) ». Two pairs of principles are
said to play a role in this process : intellectus-intelligibile, on the
one hand, and appetitus-appetibile, on the other. What are, ac-
cording to Peter, the respective roles of these principles, and how
do they relate to one another ? Are both cognition and desire re-
quired ? Are they placed within a hierarchy ? Moreover, Aristotle
ranks three faculties under the generic faculty noàj , viz., sense-
perception, phantasia, and thought : « Et enim fantasia et sensus
intellectui eundem locum habent : iudicativa enim omnia. » When
he then states that the first mover is the object of thought, one
could easily assume that intelligibile has also three meanings, viz.,
the object of sensation, of fantasy, and of thought :

sense-perception object of sense-perception


phantasia « thought » => object of « thought » object of phantasia
thought object of thought

What is the relation between sensus, fantasia, and intellectus, and


their respective objects in the process of action ? Does Peter de-
termine the exact role of each of them ?
2. « Animals » are explicitly said to be the object of the treatise in
general (De motu animalium, not hominum) and, more specifically,
of the present theory (« Videmus autem moventia animalia […] »).
As a consequence, inattentive readers could easily conclude that
according to Aristotle non-rational animals have, and are being
moved by, intellect. The fact that Aristotle deals with both men
and animals in one and the same text and does not always make a
systematic distinction between them, has undoubtedly given rise to
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 145

this and other obscurities. Furthermore, Aristotle’s terminology is


confusing. Aristotle uses noàj with two different meanings. The
first time he uses it generically for all cognitive faculties, whereas
below he uses it to designate the rational subspecies14. It is also
noteworthy that, according to R. Sorabji, the closest Aristotle
comes to allowing reasoning to animals is in De motu animalium15.
I will ask in what way Peter deals with the difference between
non-rational and rational animals.

4. QUESTIO 12 : « UTRUM INTELLECTUS SIT MOVENS ANIMALIA »

In the question concerning whether the intellect moves animals,


Peter states that it is the soul that is the moving principle, and that in
the given context « soul » must be understood as the actualization of a
cognitive faculty. Such an actualization is the form of something ap-
prehended by means of such faculty : « Iste autem actus potentie
cognoscitive est forma aliqua apprehensa mediante tali potentia ; et
ideo forma apprehensa de aliquo mediante aliqua virtute congnoscitiva
est principium motus in animali. »
Peter then distinguishes among several kinds of cognitive faculties.
He first mentions external sense-perception (without concretizing the
senses). The external senses are unable to determine whether something
is convenient or inconvenient. As such, they are not a (sufficient) prin-
ciple of movement. The cognitive faculty that has this discriminating
capacity is fantasia. It is able to understand the « intentiones non sen-
satas », the intentions that are not perceived : « amicum et inimicum,
nocivum et proficuum ». It is noteworthy that fantasia is not called an
« internal sense ». Yet, it is evident that the author has this label in
mind, since he contrasts fantasia with exterior sensus :
Sensus autem exterior per formam apprehensam non dicit aliquid de con-
venienti vel disconvenienti, et ideo forma apprehensa per sensum exteriorem

14
Cf. NUSSBAUM, Aristotle’s…, p. 333.
15
Cf. R. SORABJI, Animal Minds and Human Morals. The Origins of the Western
Debate, London, 1993, p. 16.
146 PIETER DE LEEMANS

ut sic non est principium movens animal. Quod autem aliquid dicit de con-
venienti vel disconvenienti est fantasia, communiter appellando fantasiam
secundum quod fantasia communi nomine dicitur intellectus. Hoc enim mo-
do fantasia et intellectus aliquid dicunt de convenienti et disconvenienti.
Unde et fantasia virtus illa que comprehendit intentiones non sensatas, ut
amicum et inimicum, nocivum et proficuum.
Peter apparently makes no distinction between fantasia, on the one
hand, and the facultas estimativa or cogitativa – two terms he does not
use at all in this text – on the other. It is fantasia that perceives the form
and then qualifies the perceived form as convenient or inconvenient, in
a positive or in a negative way16.
In spite of its qualification as an internal sense, fantasia appears to
be more related to intellectus than to sensus. Peter stresses indeed that
in the given context fantasia must be understood as more or less an
equivalent of intellectus : « Fantasia communi nomine dicitur intellec-
tus17. » On one occasion, Peter defends this equation with a reference to

16
In his De motibus animalium, John Buridan says that fantasia is a synonym of
the estimativa : « Primo dicit quod virtutes anime moventes animalia sunt intellectus,
sensus et fantasia sive estimativa et electio et voluntas et concupiscentia. […] Sensus
enim et intellectus et estimativa sunt virtutes cognoscitive » (cf. SCOTT, SHAPIRO, «Jean
Buridan’s… », p. 543, with modifications). In his Questiones in De motu animalium,
Ioannes de Ianduno explicitly states that fantasia is an internal sense ; as synonyms,
he offers not only virtus estimativa but also virtus cogitativa : « Quare ista forma ut
apprehensa est a sensu exteriori non est principium motus ; sed oportet ut iudicetur a
virtute sensitiva interiori, et hec est fantasia secundum quod accipitur fantasia ut non
distinguitur ab estimativa que iudicet intentiones non sensatas. Quare fantasia in
quantum accipitur pro virtute cogitativa iudicante species insensatas et attribuente
ipsas eis quorum sunt, sic apprehendit formam que non est sufficiens principium
activum motus in animalibus. » (IOANNES DE IANDUNO, Questiones in De motu anima-
lium, Venetiis apud Haeredem Hieronymi Scoti, 1589, f. 67va).
17
This idea recurs several times in the text. E.g., « potest ergo dici communiter
appellando intellectum quod intellectus per formam apprehensam principium est
motus in animali. » ; « […] forma apprehensa per fantasiam extendendo nomen et per
intellectum practicum […] ».
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 147

the alleged Aristotelian theory according to which the passive intellect


would be identical with fantasia18 :
Fantasia autem aliquando intellectus dicitur, ut patet per Philosophum in
multis locis. Unde et dicit tertio D e an im a quod intellectus passibilis cor-
rumpitur quodam interius corrupto, intelligens nomine intellectus ipsam
fantasiam.
The (conditional) « equation » of fantasia and intellectus is the es-
sential step in Peter’s argumentation, leading to the conclusion that the
« intellect » does move animals, i.e., non-rational and rational animals.
That (nearly) all animals have fantasia was beyond discussion. More-
over, Aristotle himself had called fantasia « a sort of thinking » (nÒhs…n
tina DA, III, 10), and later commentators had stressed the relation be-
tween fantasia and the (passive) intellect. So in equating fantasia and
intellect, Peter finds an « intellect » with which all animals are granted,
and he can thus positively answer the initial question.
Yet, Peter’s answer is not complete. He specifies that only the
form apprehended by the practical intellect, not the theoretical intellect,
has the ability to impart movement. Finally, he states that the form ap-
prehended by the practical intellect (alias fantasia) is not a sufficient
principle of movement. One always needs an inclination towards this
form, an inclination which is called desire (appetitus). This final step
thus introduces the next question, whether animals are moved by de-
sire, which will be answered in a positive way.
Like modern commentators on De motu animalium, Peter is aware
of the fact that « intellectus » should not be taken in the strict sense, if
all animals must have it. He equates the (practical) intellect with the
internal sense fantasia, and thus can easily grant non-rational animals
with an intellect that is a moving principle. The question is then
whether the proposed analysis also counts for rational animals. Is fanta-
sia the cognitive faculty mainly responsible for human action ? What is
the role of the intellect stricto sensu and how does it relate to fantasia ?
These are questions that Peter does not answer.

18
About this theory, see T HOMAS AQUINAS, Sententia libri de anima, cura et studio
fratrum Praedicatorum [ed. R. A. GAUTHIER] (Sancti Thomae de Aquino Opera Omnia
XLV, 1), Roma, 1984, p. 223.
148 PIETER DE LEEMANS

5. QUESTIO 13 : « UTRUM APPETITUS MOVEAT ANIMAL »

In Questio 13, Peter distinguishes between two sorts of desire : on


the one hand, appetitus naturalis, the natural desire of a heavy thing to
move downwards ; on the other, appetitus cognoscitivus, the desire that
follows an apprehended form. The latter type of desire appears to be
twofold. When the form is apprehended « per intellectum », it is called
voluntas or simply appetitus ; when it is apprehended by sensation, it is
called appetitus sensitivus19 :
Inclinatio autem que sequitur formam apprehensam dicitur appetitus
cognoscitivus, immo appetitus simpliciter, quia appetitus naturalis absolute
nomine non dicitur appetitus ; immo inclinatio que sequitur formam appre-
hensam per intellectum, dicitur voluntas et appetitus absoluto nomine. Incli-
natio autem que sequitur formam apprehensam per sensum, dicitur appetitus
sensitivus.
These distinctions give rise to the following two questions.
1. Can appetitus sensitivus also be called appetitus as such ? Peter
first says that cognitive desire – under which comes sensitive de-
sire – is called « appetitus simpliciter ». Later, however, he speci-
fies that the inclination that follows the form apprehended by
sensation is called appetitus sensitivus, whereas it is the inclination
that follows the form apprehended by the intellect that is called
« voluntas vel appetitus absoluto nomine ». The answer to this
question might go as follows : since the main opposition is clearly
between natural desire (appetitus naturalis) – which is not desire
stricto sensu – and cognitive desire (appetitus cognoscitivus), the
qualification absoluto nomine is more likely to refer to the latter in
general, and not to one sort of cognitive desire.

19
Thomas Aquinas, in his commentary on De anima, makes a distinction between
appetitus sensitivus, on the one hand, and appetitus rationalis, which is called volun-
tas, on the other. In the appetitus sensitivus, he distinguishes between the concupisci-
bilis and the irascibilis : « Set queritur quare in appetitu sensitivo sunt due potentie
appetitive, scilicet irascibilis et concupiscibilis, in appetitu autem rationali est unus
appetitus tantum, scilicet voluntas. Et dicendum quod potencie distinguuntur secun-
dum rationes obiectorum…» (THOMAS AQUINAS, Sentencia libri de anima, p. 240).
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 149

2. The word fantasia does not occur in this Questio. Yet, in the pre-
ceding question intellectus was said to involve fantasia. Would
Peter qualify the inclination that follows the form apprehended by
fantasia as appetitus sensitivus or as voluntas vel appetitus abso-
lute nomine ? In other words : does sensus here refer to internal, to
external, or to both senses ? In still other words: has intellectus
also in this Questio a larger meaning, which includes fantasia ?
The answer to this second question is not easy. In Q12, Peter said
that the external senses are incapable of determining whether some-
thing is convenient or inconvenient, and thus are an insufficient moving
principle. He did not specify what their exact role is, but one could in-
fer that they provide the internal senses and the intellect with observa-
tional data. At first sight, the use of the term appetitus sensitivus in the
present Questio seems to conflict with this theory. Appetitus sensitivus
is defined as the inclination that follows the form apprehended by sen-
sation (« inclinatio que sequitur formam apprehensam per sensum »). If
sensus here means « external senses » – which is the more natural
meaning – then it is tempting to assume that the form apprehended by
external senses will impart movement if it is followed by (sensitive)
desire towards this form.
One must rather assume that sensus refers to both external and in-
ternal senses and that, as a consequence, voluntas is the inclination that
follows the form apprehended by the intellect stricto sensu and not by
fantasia. This solution implies that all desire in non-rational animals
should be qualified as (sensitive) desire and that voluntas would only
be found in rational animals. The use of the term voluntas supports this
interpretation. Voluntas (Greek : boÚlhsij) is traditionally defined as
desire plus reasoning about how to achieve the object, and thus as typi-
cal of rational animals.
When, in a later paragraph, the inclination of animals towards an
apprehended form is called « appetitus vel voluntas », one should inter-
pret this as follows : the inclination of non-rational animals is called
appetitus, that of rational animals voluntas :
In animalibus forma apprehensa non est principium sufficiens motus in ani-
mali nisi per inclinationem ad operationem que sequitur formam apprehen-
sam, et hec inclinatio dicitur appetitus vel voluntas.
Yet, the interpretation of intellectus as a strictly human capacity
seems to conflict with the theory expounded in the preceding question,
150 PIETER DE LEEMANS

« utrum intellectus sit movens animalia », where the clue was exactly
that in the given context intellectus should be interpreted in the broad
sense, including fantasia : the form apprehended by the intellect
« communiter loquendo », if followed by inclination towards this form,
causes movement.
When one nevertheless sticks to the interpretation – as I do – that
intellectus in Q13 is a strictly human capacity, one must not only accept
that intellectus has two different meanings in Q12 and Q13 respec-
tively, and thus deny the unity of the theories expounded throughout
these questions, but also acknowledge that a fundamental part of the
answer to Q12 was missing, namely the role of the intellect stricto
sensu in human movements. The present Questio would then explicitly
state that the form apprehended by the human intellect, when followed
by desire, causes movement, an idea that was not clearly developed in
the previous Questio, which focused on the role of fantasia and thus on
non-rational animals and did not make clear whether the proposed
analyses also counted for rational beings20.
That intellectus in Q13 should indeed be interpreted as a human
capacity, is supported by the observation that the distinction between
intellective (voluntas) and sensitive desire makes most sense – or, per-
haps only makes sense – with respect to human behaviour. Throughout
the four questiones analyzed in this paper, Peter uses the term appetitus
sensitivus only thrice : once in Q13 (cf. the passage above), and twice
in Q12, in Peter’s refutation of one of the counterarguments. This
counterargument states that the intellect does not always move, and
illustrates this with the Aristotelian example of the incontinens, led by
desire, not by ratio : « Incontinens enim rectam rationem habet de ope-
rabilibus, et tamen secundum rationem non movetur, sed sequitur ap-
petitum. »

20
If, on the other hand, intellectus also has a less strict meaning in this Questio,
intellectus could then be (1) an equivalent of fantasia ; or (2) refer to both fantasia
and intellect stricto sensu. In both cases, however, Peter would suggest that external
sensation as such is able to cause movement – the term appetitus sensitivus would
only refer to desire that follows the form apprehended by external sensation (cf.
above). Moreover, in case (1), we should accept that the term voluntas applies to non-
rational animals.
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 151

This example is clearly not about the non-rational animal, but


about the man who knows what is right to do, but follows his desire.
Peter offers two explanations for his behaviour. According to the first
explanation, something is wrong with the desire of the incontinens. His
desire should be inspired by ratio, and not by sensation. Yet, his sensi-
tive desire, which conflicts with his ratio, is too strong :
Et ideo, cum dicitur ulterius quod incontinens habet rectam rationem de ope-
rabilibus et tamen non movetur secundum rationem sed secundum appeti-
tum, dicendum est quod quamvis incontinens habeat rectam rationem de ope-
rabilibus, tamen non habet appetitum operandi secundum rationem rectam.
Prevalet enim appetitus sensitivus qui est de contrario.
Also according to the second explanation, sensitive desire is a cor-
rupting factor. The incontinens has a correct understanding of what to
do in habitu, but not in actu. Even if he has a correct understanding in
act, he does not follow this ratio in act as he strives for the conclusion,
so that the sensitive appetite can take over and lead him to the con-
trary :
Et ad probationem, cum probatur quod non quia in incontinente est ratio
recta de operabilibus et tamen non movetur secundum rationem, dicendum
quod, sicut patet ex 7° Ethicorum, incontinens de operabilibus habet rectam
rationem in habitu sed non in actu ; vel etiam si habeat rectam rationem et
rectum iudicium de operabilibus in actu, tamen non in pertractatione ad con-
clusionem, ita ut ex ea possit sequi appetitus fortior appetitu sensitivo incli-
nante ad contrarium.
This counterargument is the only place of Q12 where humans evi-
dently are and non-rational animals are not the subject of the theory
elaborated. When thus in Q13 the term appetitus sensitivus occurs and
is contrasted with voluntas, it is tempting to interpret the typology of
desire as applying mainly, or even exclusively, to rational animals. For
non-rational animals, the situation is quite simple. They apprehend
something as convenient or inconvenient, and when desire tout court
(« appetitus absoluto nomine ») follows, they move. For rational be-
ings, the situation is more complicated. They have more cognitive fac-
ulties, and in consequence, their desire is differentiated as well. A
movement will then result from the combination of (the form perceived
by) one of the cognitive faculties and an inclination towards this form.
A « good » movement will require the combination of intellect and
(rational) desire. Yet, other combinations are possible. E.g., one can
152 PIETER DE LEEMANS

rationally perceive a thing but still follow one’s spontaneous perception


of what is convenient and inconvenient.
By making the distinction between sensitive and intellective desire
(voluntas), the present Questio thus pays attention more explicitly to
human movements than Q12. Yet, it does not sufficiently answer the
question about the role of the intellect stricto sensu and its relation with
fantasia.

6. QUESTIO 14 : « UTRUM INTELLIGIBILE SIT MOVENS ANIMALIA »

When Peter discusses in Q14 the question whether the intelligible


moves animals he again pays, and more explicitly, attention to the am-
biguous meaning that intellectus (and as a consequence intelligibile)
can have. He not only makes a distinction between intelligible in the
proper sense (= 1) and intelligible in the improper sense (= 2), but also
between what is intelligible by the theoretical intellect (= 1a) and what
by the practical intellect (= 1b). The intelligible in the improper sense is
then the object of fantasia :
Dicendum quod intelligibile dicitur duobus modis. Uno modo dicitur
intelligibile proprie, alio modo improprie :
(1) Intelligibile autem proprie est id quod comprehenditur ab intellectu, et
hoc est duplex : quoddam enim comprehenditur ab intellectu speculativo et
quoddam ab intellectu practico.
(1a) Intelligibile vero ab intellectu speculativo secundum quod huiusmodi
non est principium movens animalia, quia […].
(1b) Si vero consideretur intelligibile ab intellectu practico, dicendum quod
intelligibile ut sic principium est movens animalia […].
(2) Secundo modo intelligibile potest accipi improprie, et sic accipitur
intelligibile ut est obiectum fantasie. Fantasia autem intellectus dicitur
quodam modo, et propter hoc obiectum eius potest dici intelligibile.
(3) Dicitur etiam tertio modo intelligibile quod indifferenter se habet ad
obiectum intellectus practici et etiam fantasie, sicut et intellectus communi
nomine dicitur de intellectu practico et de fantasia.
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 153

Although Peter first states that intelligibile has two meanings, pro-
prie and improprie, he adds a third meaning21. This third intelligibile is
said to be indifferent to the object of the practical intellect and fantasia
(« indifferenter se habet ad obiectum intellectus practice et etiam fanta-
sie »). He then says that the present question is concerned with this
third « global » meaning of intelligibile.
Unsurprisingly, Peter offers a positive answer, based on the idea
that the cause of a cause is also the cause of the caused (« quicquid est
causa cause est causa causati »). The intelligible thing is the cause of
the form that is apprehended by the practical intellect or fantasia. This
apprehended form, if followed by desire, was the cause of movement
(as shown in QQ12-13). As a consequence, the intelligible thing is also
the cause of movement.
In coherence with the theory expounded in Q12, Peter clearly in-
terprets intelligibile not only as the object of the intellect stricto sensu,
but also of fantasia. One could wonder whether Peter also considers the
object of external sensation (external senses) as belonging to this sort of
intelligibile. In other words, does intelligibile in this context also mean
« object of sensation » ?
In his commentary, John of Jandun appears to answer this question
in a positive way. He makes a distinction between intelligibile as the
object of the intellect (i.e., the practical intellect) and intelligibile as the
object of all apprehensive powers (« cuiuslibet virtutis apprehenden-
tis »), including not only the virtus intellectiva, but also the virtus sen-
sitiva :
Est tamen advertendum quod intellectus ad praesens dupliciter potest accipi;
uno modo ut est virtus distincta contra phantasiam et alias virtutes apprehen-
sivas, alio modo ut extenditur ad omnes virtutes apprehensivas […]. Eodem
autem modo intelligibile potest accipi dupliciter, uno modo ut est obiectum
intellectus distinctum ab obiecto aliarum potentiarum, alio modo pro obiecto
cuiuslibet virtutis apprehensionis, sive fuerit virtus apprehendens sensitiva

21
The distinction between « proprie » and « improprie » appears to be related to
the situation that occurs in rational and non-rational animals respectively. Yet, this
distinction is not reflected in the text, since Peter always uses « animalia », even when
he discusses the first meaning.
154 PIETER DE LEEMANS

sive intellectiva, et sic utroque modo sumptum videtur esse principium mo-
22
tus .
Again, Peter’s conception of the role of external sensation is not
very clear. When he discusses the third meaning of intelligibile, he only
mentions the (practical) intellect and fantasia. When at a certain mo-
ment sensus shows up, it is said to have a mediating function ; through
the mediation of sensation and in virtue of the intellectus agens, the
intelligible introduces its form in the practical intellect23 :
Intelligibile ab intellectu practico est quod mediante sensu et in virtute in-
tellectus agentis agit formam suam in intellectu practico. Que quidem forma
apprehensa [comprehensa varia lectio] ut cadit sub appetitu est principium
motus animalium. Secundum igitur hunc modum intelligibile ab intellectu
practico est quod movet animalia.
External sensation is granted the same task in Peter’s Sententia su-
per De motibus animalium. There, he explicitly says that external
senses do not move but that they have a mediating function, providing
the material for fantasia :
Verumtamen sensus exterior non movet, quia non comprehendit rem sub ra-
tione convenientis. Non enim comprehendit intentiones individuales sensi-
biles, sed hoc pertinet ad alium sensum, ut ad fantasiam. Tamen sensus exte-
rior principium est huius. Ideo Philosophus nominat hic sensum. Fantasia
autem movet, et quia fantasia communi nomine nominatur intellectus, ideo
24
ista causa ad intellectum reducitur .
Yet, when in the final step of his answer in Q13, Peter adds that
the intelligible is only a moving principle when it is in act, the sensible
object (sensibile) shows up again, and here it is explicitly said to
move : « Quod igitur movet, hoc est intelligibile in actu, ita quod […]
intelligibile et sensibile movent in quantum dant formam. Que forma ut
comprehensa est, principium est motus. »

22
Cf. I OANNES DE I ANDUNO , Questiones in De motu animalium, Venetiis apud
Haeredem Hieronymi Scoti, 1589, fol. 68r.
23
Note that when we take the text literally, animals are granted not only with a
practical intellect, but also with an intellectus agens.
24
P ETRUS DE A LVERNIA , Sententia super De motibus animalium, Venetiis apud
Iuntas, 1551, f. 51r. Several manuscripts read « scibiles » instead of « sensibiles ».
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 155

Peter probably mentions the sensible thing, since neither the inter-
nal senses nor the intellect will be able to function properly without the
support of the external senses. As a consequence, the sensibile can in-
deed be said to move, be it indirectly and only – as it seems25 – in so far
as it is also an intelligibile (i.e. an object of fantasia and, in some cases,
of the intellect).

7.QUESTIO 15 : « UTRUM APPETIBILE SIT MOVENS ANIMALIA »

Peter’s positive answer to this question is based on the same idea


on which the answer to Q14 was based, viz., the cause of a cause is also
the cause of the caused. Since the actualized desirable is the cause of
the actualized desire and since the actualized desire moves, the desi-
rable can also be said to impart movement :
[…] quicquid est causa cause est causa causati. Sed proximum principium
movens animalia est appetitus vel voluntas in actu, et causa appetitus in actu
est appetibile in actu. Ex hoc enim dicitur appetitus in actu, quia actu incli-
natur in ipsum appetibile. Appetibile ergo in actu, cum sit causa appetitus in
actu, est etiam causa motus in animalibus.
Peter then specifies how « being a principle of movement » should
be understood. The desirable is not an active mover (agens motus /
principium agens) but a final cause (finis / id cuius gratia fit motus).
This end has a double existence. It exists as it is apprehended by the
intellect (esse apprehensum), but it has also an extra-mental existence
(esse reale). The object of desire can thus be defined as the appre-
hended form that is qualified as good and, as a consequence, is fol-
lowed by desire towards this form : « Nunc autem finis vel etiam
appetibile non est nisi forma apprehensa sub ratione boni et per conse-
quens ut appetitus actu inclinatur in ipsam, et ideo dicendum est quod
ipsum appetibile est quod movet. »

25
Peter does not explicitly say that an external sensation is necessarily followed
by internal sensation.
156 PIETER DE LEEMANS

Peter concludes his answer with an attempt to show how the four
moving principles he has discussed are related. The object of desire is
the first moving principle ; desire itself is the « postremum et proxi-
mum movens26 ». The actualized intellect (= the apprehended form)
precedes desire, the intelligibile comes even earlier. Peter leaves the
question open what the relation is between the intelligibile and the ap-
petibile.
Et ideo dico quod principium movens simpliciter primum est appetibile.
Appetitus autem est movens proximum, nam appetitus non est nisi inclinatio
quedam in ipsum appetibile ; que inclinatio sequitur formam apprehensam,
ita quod hec forma apprehensa est principium inclinationis et appetitus. Sic
ergo movens postremum et proximum est appetitus, deinde movens prius eo
est forma apprehensa, ulterius autem ipsum intelligibile vel cognoscibile.
Sed quia hec non movent nisi gratia finis et appetibilis, ideo principium mo-
vens primum est appetibile.

8. CONCLUSION

The four questions that I have analyzed do not present a systematic


theory on the role of and the relation between sensus, fantasia, intel-
lectus, and appetitus, and their objects. On the one hand, this observa-
tion is surprising. The genre of the commentaries per modum questionis
is rather polemic. Its essence lies in refuting one opinion and defending
another, and as a consequence, one would expect Peter’s own opinion
to be formulated clearly and coherently. Yet, Peter’s theory is not clear
and coherent ; he confuses concepts, and his focus seems to change
frequently. On the other hand, even a commentary per modum que-
stionis (and especially Peter’s Questiones in De motu animalium) is a
commentary, aiming in the first place at an ad hoc interpretation of the
Aristotelian Vorlage. Peter’s interpretation is indeed contingent, guided

26
Cf. Q13 : « Patet igitur quod proximum movens de principalibus moventibus ip-
sum animal dicitur appetitus vel voluntas, et non appetitus quicumque sed appetitus in
actu. »
INTERNAL SENSES, INTELLECT AND MOVEMENT 157

by and for the most part dependent on the (translation of the) authorita-
tive text he was commenting on.
All four questions are answered positively. Peter argues that the
intellect, desire, and their respective objects move animals, but stresses
several times that none of them operates alone. Perceiving an object
and qualifying it as convenient or inconvenient is not a sufficient rea-
son to move. One always needs desire towards the perceived object.
Desire thus comes after (the perception of) the intellect, but is at least
as important when it comes to causing action. Moreover, in the case of
humans, the particular kind of desire has a positive or negative effect
on the kind of action that follows. Although the object of desire is ex-
plicitly said to be the first moving principle, it is postulated that it al-
ways must be in act. Being in act presupposes a desiring subject, or,
formulated in a more abstract way, « an inclination (by a man or an
animal) towards a form apprehended by a cognitive faculty ». The de-
sirable is indeed in the eye of the beholder.
Peter is certainly aware of the difference between rational and non-
rational animals, but this is not reflected in a systematic treatment. In
Q12, Peter formulates his answer in such a way that it explains in the
first place the moving role of the « intellect » in non-rational animals ;
but he leaves the question open as to whether the proposed analysis
also counts for humans. That humans are not totally excluded becomes
clear when the example of the « incontinens » is quoted. Q13 intro-
duces the opposition between sensitive desire and intellectual desire,
which only makes sense with respect to human behaviour ; whereas the
general clue of the answer – desire is a moving principle of animals –
counts for both rational and non-rational animals. Q14 explicitly states
the difference between intelligibile « proprie » and « improprie ». This
distinction appears to be related to the situation that occurs in respecti-
vely rational and non-rational animals. Yet, even when he discusses the
first meaning, Peter always uses « animalia », not « homines ». The
lack of such a systematic separate treatment, which is already lacking
in Aristotle, makes it difficult to determine the exact role of and the
relation between the cognitive faculties, especially in the actions of
rational animals.
Fund for Scientific Research – Flanders / K.U.Leuven
APPENDIX
LIST OF PETRUS DE ALVERNIA (?), QUESTIONES IN DE MOTU ANIMALIUM

(Q1, etiam 2,3) Ad evidentiam autem eorum que hic primo tanguntur, querantur tria,
primo utrum aliquid possit moveri se ipsum, secundo utrum animalia possint ex se ipsis
moveri, et tertio utrum omnia animalia moveant se motu locali.
(Q2) Consequenter queritur utrum animalia possunt moveri ex se.
(Q3) Tertio queritur utrum omne animal moveatur motu locali.
(Q4) Queritur consequenter circa partem istam « Manifestum enim et in hiis », ubi
Philosophus primo proponit duo declaranda consequenter. Primum autem quod decla-
ratum, est quod animalis moti ex se necesse est aliquam partem quiescere. Propter quod
queratur utrum hoc veritatem habeat.
(Q5) Queritur consequenter de alio quod Philosophus intendit declarare, utrum scilicet
oporteat in motu processivo animalis esse universaliter aliquod quiescens extra.
(Q6) Queritur circa istam partem « Dubitabit autem utique aliquis », in qua Philosophus
movet dubitationes circa motum celi ; et quia Philosophus circa dissolutionem harum
dubitationum breviter pertransit, ideo querendum est circa eas. Querit autem utrum
totum celum moveatur ab aliquo corporeo quiescente et immobili quod sit extra ipsum.
Propter quod queratur utrum celum in motu suo indigeat aliquo corporeo immobili extra
cui innitatur movens ipsum celum in movendo.
(Q7) Sed quia de hoc est dubitatio, secundo queratur statim utrum fixio celi vel circum-
ferentie sit ex fixione terre vel etiam centri.
(Q8) Queratur consequenter, dato quod celum in motu suo indigeat aliquo fixo quod est
extra, utrum ipsum principium motus celi sit ex illo fixo ; et hoc est querere utrum mo-
tor celi in movendo innitatur terre, quod est primum fixum et quiescens, ita ut figatur
super ipsam.
(Q9) Philosophus in probando quod motor celi in movendo non affigatur ipsi terre,
accipit quod, si motor celi terre affigeretur in movendo, tunc oporteret terram esse maio-
rum virtutum in quiescendo quam fuerit motor celi in movendo, quod tamen Philoso-
phus reputat pro impossibili. Propter quod queratur utrum movens ipsum celum sit
maioris virtutis in movendo quam fuerit terra in quiescendo.
(Q10) Queritur consequenter circa partem istam « De inanimatis vero quecumque etce-
tera », in qua Philosophus movet duas dubitationes et eas dissolvit. Est autem prima
dubitatio utrum in motu inanimatorum sit dare aliquid extrinsecum quiescens cui affi-
gatur eorum motor. Queratur igitur gratia huius utrum in motu locali inanimatorum
necesse sit ponere aliquid fixum extra ad quod firmetur motor eorum in movendo.
160 PIETER DE LEEMANS

(Q11) Queritur consequenter de secunda dubitatione quam ponit Philosophus. Est autem
dubitatio talis : cum enim animalia moventur motu locali, manifestum est quod in tali
motu oportet ponere aliquod fixum intra et extra cui motor eorum affigatur. Dubitatio
ergo est utrum sic sit in motu alterationis ipsorum animalium sicut contingit in motu
locali. Queratur igitur gratia huius utrum in alteratione ipsorum animalium sit ponere
aliquam partem quiescentem intra que vel simpliciter non alteratur vel saltem non illa
alteratione qua alteratur pars sequens alterata.
(Q12) Queritur circa partem istam « Quoniam autem inanimata omnia », in qua Philo-
sophus incipit determinare de principiis moventibus ipsum animal. Tangit autem qua-
tuor moventia principalia, scilicet intellectum, appetitum, intelligibile et appetibile. De
istis autem quatuor queratur per ordinem, et primo utrum intellectus sit movens anima-
lia.
(Q13) Viso quomodo intellectus movet et quomodo non, queratur consequenter de ipso
appetitu, qui ponitur esse alterum movens in animali, et queratur utrum appetitus mo-
veat animal.
(Q14) Queritur consequenter utrum intelligibile sit movens animalia.
(Q15) Queritur utrum appetibile sit movens animalia, ut Philosophus etiam videtur
dicere.
(Q16) Queritur circa partem istam « Quomodo autem intelligens quandoque etcetera »,
ubi Philosophus comparat motum intellectus practici ad modum intellectus speculativi.
Vult enim quod in motu ratiocinativo quem facit intellectus speculativus, conclusio est
cognitio alicuius speculabilis, sed in motu ratiocinativo intellectus practici conclusio est
operatio. Propter quod queratur utrum conclusio sillogismi practici sit operatio.
(Q17) Queritur circa partem istam « Alterant autem fantasie etcetera », ubi Philosophus
determinat quod sensus et fantasie secundum aliquem modum habent virtutem alterandi
corpus ad caliditatem et frigiditatem. Vult autem Philosophus ibidem quod species ap-
prehensa per sensum vel intellectum virtutem habet alterandi corpus naturali alteratione,
et hoc assignat pro principio in motu locali animalium. Queratur igitur gratia huius quod
michi difficultatem facit, utrum species sensibilis existens in sensu habeat virtutem
alterandi corpus alteratione illa que est a calido et frigido.
(Q18) Queritur consequenter utrum species intelligibilis habeat virtutem alterandi cor-
pus ad caliditatem et frigiditatem.
(Q19) Queritur circa partem istam « Quoniam autem similiter habet etcetera », ubi Phi-
losophus ostendit quod proximum principium movens ipsum animal necesse est esse in
corde vel in aliquo proportionali cordi. Circa quam partem queratur utrum virtus motiva
in animalibus habentibus cor sit principaliter in corde.
(Q20) Queritur consequenter circa partem istam « album », ubi Philosophus determinat
de movente organice, quod quidem movens in animali, sicut dicit Philosophus, est spi-
ritus. Propter quod queratur de hoc, videlicet utrum primum movens organice vel orga-
nicum, quod scilicet primo movetur in animali, sit spiritus.
CHRISTIAN TROTTMANN

« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO »

LA SYNDÉRÈSE ENTRE SENSUALITÉ ET INTELLECT


DANS LA THÉOLOGIE MORALE AU TOURNANT
E
DU SECOND QUART DU XIII SIÈCLE

Le thème des sens internes et de l'intellect serait à chercher de pré-


férence dans les commentaires au De anima ou les traités consacrés à
l'âme. Cette communication pourrait ainsi paraître doublement hors
sujet, puisqu'elle s'intéresse à une période antérieure au XIVe siècle et
évoquera l'impact de la psychologie aristotélicienne dans un domaine
qui n'est pas directement psychologique, mais regarde plutôt celui de la
théologie morale. Il nous a pourtant semblé intéressant d'examiner le
premier impact de la psychologie aristotélicienne dans sa version avi-
cennienne sur la thématique de la syndérèse et du libre-arbitre. Il est
observable au tournant du premier au second quart du XIIIe siècle et
marque la rencontre d'univers de pensée fort différents. Ne pouvant
mener dans le cadre de cette communication une étude exhaustive des
textes riches et nombreux de cette période pourtant bien circonscrite
dans le temps, nous nous contenterons d'évoquer les grandes lignes
d'une évolution. Nous l'observerons chez Guillaume d'Auxerre et sur-
tout chez les premiers maîtres dominicains : Hugues de Saint-Cher et
Roland de Crémone, tentant d'abord de restituer les sources doctrinales
qui se rencontrent dans leurs Commentaires des Sentences. Nous ver-
rons dans un second temps comment c'est par analogie avec le fonc-
tionnement de l'intellect que le courant volontariste – non sans hési-
tations – en exclut la syndérèse pour en faire une tendance naturelle de
la volonté au bien. Enfin nous évoquerons la manière dont la syndérèse
prend au contraire sa place dans le cadre de la théorie aristotélicienne
de l'intellect pratique mise en œuvre par Albert le Grand.
162 CHRISTIAN TROTTMANN

1. « INTELLECTUS SEMPER VERUS »


LA RENCONTRE DE LA PSYCHOLOGIE ARISTOTELICIENNE DU SENS
INTERNE ET DE L'INTELLECT AVEC LE THEME DE LA SYNDERESE ET
DU LIBRE-ARBITRE CHEZ GUILLAUME D'AUXERRE ET LES PREMIERS
MAITRES DOMINICAINS

Il est difficile de déterminer quel est précisément la première appa-


rition de l'influence de la psychologie aristotélicienne dans le débat de
théologie morale sur l'origine du péché et le rôle respectif de la syndé-
rèse et du libre-arbitre. Toutefois, la Summa Aurea nous semble à cet
égard significative.

1.1. Premier impact chez Guillaume d'Auxerre : la rencontre des


cultures

Lorsqu'il en vient dans la Summa Aurea à demander : « Si la raison


pèche et principalement si la raison supérieure ou syndérèse pèche1 »,
Guillaume d'Auxerre avance comme principal argument d'autorité en
faveur de l'infaillibilité de la syndérèse, l'adage aristotélicien : intellec-
tus semper verus2. Mais il ajoute une page plus loin que non seulement
l'intellect, mais encore le sens est toujours vrai, en tant qu'il porte sur la
3
réalité extérieure . L'argument aristotélicien n'est pas ici développé,

1
« Utrum ratio peccet, et precipue utrum ratio superior sive synderesis peccet. »,
GUILLAUME D'AUXERRE, Summa Aurea, II, 1, J. RIBAILLER ed., Spicilegium Bonaventuri-
anum, 1. 6-20, Quaracchi, Paris, Rome, 1980-87, p. 298, l. 1-2.
2
« Sed contra. Dicit Aristoteles quod intellectus semper est verus, fantasia quan-
doque vera, quandoque falsa ; ergo in ratione nunquam est error ; ergo nec peccatum,
quia non potest esse peccatum in ratione nisi erroris. », ID., Ibid., l. 6-10.
3
« Item sensus nunquam errat, quia offert anime solummodo suam imitationem,
sicut <imitatur> a re sensibili extrinseca, quia non attingit rem nisi secundum quod
imitatur a re sensibili. Res autem sensibilis non immutat sensum nisi secundum dispo-
sitionem quam habet. Ergo sensus non accipit rem nisi talem qualis ipsa est, et non
renuntiat anime nisi talem rem qualem accipit ; ergo sensus non renuntiat anime nisi
talem rem qualis ipsa est in veritate. Ergo omnis sensus verus est. Cum ergo eadem
ratio sit in intellectu, omnis intellectus erit verus, quia omnis intellectus, sicut et sen-
sus, immutatur a rebus. Unde dicit Augustinus quod ipse res generant scientiam sui in
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 163

mais on se souvient que l'erreur se glisse pour le Stagirite dans la syn-


thèse opérée par le sens commun, à partir des données fournies infailli-
blement par les cinq sens sur leurs sensibles propres. Nulle erreur
possible donc sur les sensibles propres, sensus semper verus, seul le
sens commun (source du sens interne dans les commentaires arabes) est
susceptible de se tromper dans la réélaboration qu'il opère du donné
fourni par les facultés appréhensives.
Avant d'aller plus loin, il convient de rappeler le contexte doctrinal
dans lequel s'inscrit ce recours de Guillaume d'Auxerre à la psychologie
aristotélicienne. Tout d'abord pour préciser que le thème de la syndé-
rèse provient du commentaire de Jérôme sur Ezéchiel. Parmi les nom-
breuses interprétations des quatre vivants dans la vision du prophète
(que l'on retrouve dans l'Apocalypse), le commentateur en évoque une
attribuée à « la plupart de ceux qui s'inspirent de Platon » et qui rap-
porte les trois premiers vivants aux trois instances de l'âme platoni-
cienne4. L'épithumia cadre assez bien avec le veau, le thumos avec le

anima ; si ergo intellectus nunquam errat, nec ratio peccat. », ID., Ibid., p. 299, l. 28-
38.
4
« Plerique, iuxta Platonem, rationale animae et irascentiuum et concupiscenti-
uum, quod ille uocat, logikÕn, sumikÕn et ™pisumikÕn, ad hominem et leonem ac uitu-
lum referunt : rationem et cogitationem et mentem et consilium eandem uirtutem
atque sapientiam in cerebri arce ponentes, feritatem uero et iracundiam atque uiolen-
tiam in leone, quae consistit in felle, porro libidinem, luxuriam et omnium uoluptatum
cupidinem in iecore, id est in uitulo, qui terrae operibus haereat ; quartumque ponunt
quae super haec et extra haec tria est, quam Graeci uocant sunt»rsin – quae scintilla
conscientiae in Cain quoque pectore, postquam eiectus est de paradiso, non extingui-
tur, et, uicti uoluptatibus uel furore, ipsaque interdum rationis decepti similitudine,
nos peccare sentimus –, quam proprie aquilae deputant, non se miscentem tribus sed
tria errantia corrigentem, quam in scripturis interdum uocari legimus spiritum, qui
interpellat pro nobis gemitibus ineffabilibus. Nemo enim scit ea quae hominis sunt,
nisi spiritus qui in eo est, quem et Paulus ad Thessalonicenses scribens cum anima et
corpore seruari integrum deprecatur. Et tamen hanc quoque ipsam conscientiam, iuxta
illud quod in Prouerbiis scriptum est : Impius cum uenerit in profundum peccatorum,
contemnit, cernimus praecipitari apud quosdam et suum locum amittere, qui ne pu-
dorem quidem et uerecundiam habent in delictis et merentur audire : Facies meretricis
facta est tibi, nescis erubescere. Hanc igitur quadrigam in aurigae modum Deus regit
et incompositis currentem gradibus refrenat docilemque facit et suo parere cogit impe-
rio. Quam disputationem partium animae, id est hominis, qui minor mundus ab iisdem
164 CHRISTIAN TROTTMANN

lion, le logos avec l'homme. Mais il reste l'aigle auquel ne correspond


aucune instance de la psychologie de Platon et c'est pour combler ce
vide qu'intervient ici sunteresis ou suneidesis. Les éditeurs de Jérôme
voient en effet dans le premier terme qui donnera la syndérèse, la cor-
ruption de suneidesis désignant la conscience. Ce n'est pas le lieu de
reprendre la question de cette origine du terme de syndérèse qui pour le
dire le plus brièvement possible se charge au Moyen Age d'un double
sens : en théologie morale et en mystique. Dans le premier domaine, il
en vient dès les premiers commentaires du Décret de Gratien, mais
aussi des Sentences de Pierre Lombard à désigner l'instance susceptible
de reconnaître intuitivement les principes de la loi naturelle. Dans le
domaine mystique, l'étincelle de la syndérèse désigne chez Thomas
Gallus par exemple et ceux qui le suivront dans son interprétation de
Denys, la faculté affective susceptible de s'unir à Dieu alors que l'intel-
lect entré dans la ténèbre ne peut aller plus loin.
Dans le contexte de théologie morale qui nous intéresse ici, la
question se pose de savoir si la syndérèse qui plane au-dessus des au-
tres facultés de l'âme, incline toujours au bien, proteste sans cesse (jus-
que dans la tombe) contre le mal, est susceptible de pécher. L'exégèse
de Jérôme est elle-même ambiguë sur ce point, puisqu'elle la montre à
la fois inextinguible en Caïn, jugeant les autres facultés, et pourtant
capable de déchoire chez l'impie. Si elle doit être infaillible, le péché ne
relève-t-il pas plutôt du libre-arbitre ? Notons dès à présent que la
conclusion de Guillaume d'Auxerre est assez atypique, affirmant que la
syndérèse peut pécher lorsqu'elle traite des choses sensibles. Elle ne
demeure infaillible que lorsque tournée vers Dieu elle reçoit de la pri-
ma forma les exigences de la loi naturelle5.
Par ailleurs, la syndérèse est ici rapprochée de la raison supérieure,
ce qui évoque cette fois un contexte doctrinal augustinien. Il s'agit du
partage des rôles entre Adam, Eve et le serpent dans l'exégèse du récit
de la tentation de la Genèse reprise par Pierre Lombard au De Trinitate

philosophis appellatur, etiam nos attingemus. » sAINT JÉRÔME, In Hezechielem, Corpus


Christianorum Series Latina 75, Turnhout, 1964, p. 11-12.
5
GUILLAUME D'AUXERRE, Summa Aurea,, II, 1, Solutio, ed. cit., p. 301-302, l. 95-
117.
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 165

d'Augustin XII, 176. Pour aller à l'essentiel, puisque G. D'Onofrio a déjà


évoqué les tribulations d'Eve, disons en bref que la tradition scolastique
tend à assimiler à Adam la raison supérieure, vir, tandis que le tentateur
se situe soit à l'extérieur dans l'esprit diabolique, soit dans le foyer de
concupiscence (« fomes ») qui couve en tout homme. Entre les deux, la
raison inférieure, mulier ou sensualitas a un rôle intermédiaire assez
fluctuant selon les auteurs. Augustin, refusant d'y voir la seule sensibi-
lité qui nous est commune avec les animaux, faisait d'Eve la partie infé-
rieure de la raison. Portant sur les réalités sensibles, son jugement
permet le choix moral entre bien et mal qui revient quant à lui au libre-
arbitre. Quant à la raison inférieure ordonnée à l'action est-elle le siège
du don de science, tandis que la sagesse relève de la raison supérieure
contemplative.
Ayant ainsi constaté un premier impact de la théorie aristotéli-
cienne de l'intellect et du sens commun sur la théologie morale du libre-
arbitre et de la syndérèse chez Guillaume d'Auxerre, voyons ce qu'il en
est chez ceux qui d'après Dom Lottin dépendent immédiatement de sa
Somme : Hugues de Saint-Cher et Roland de Crémone, qui figurent
parmi les tout premiers maîtres en théologie.

1.2. La psychologie aristotélicienne de l'intellect et du sens commun


à la rescousse de l'infaillibilité de la syndérèse chez les pre-
miers maîtres dominicains

Nous retrouvons la distinction entre vir et mulier dans le Com-


mentaire des Sentences de Hugues de Saint-Cher. Lorsqu'il s'agit de
déterminer si le libre-arbitre relève de la raison, le Dominicain se refuse
à voir entre les deux instances une différence réelle opposant deux
puissances de l'âme, mais préfère discerner des fonctions différentes de
la raison7. Comme nous l'avons expliqué ailleurs8, celles-ci peuvent être
ordonnées selon le tableau suivant :

6
SAINT AUGUSTIN, De Trinitate, XII, 17, sq., Bibliothèque Augustinienne, 16, 1955,
p. 242 sq. ; repris par P IERRE LOMBARD, II Sent. Dist. 24, 7-8, Patrologie Latine, 192,
col. 703-704.
7
« Ex hiis que dicta sunt patet quod multiplex est officium rationis. Primum est
comprehendere, et secundum hoc dicitur intellectus siue uis intellectiua. Secundum
166 CHRISTIAN TROTTMANN

Comprehendere Intellectus
Ratiocinari Vis rationalis
Invenire media Ingenium
Eligere Voluntas Liberum
Discernere Ratio arbitrium
Celestia contemplari Sinderesis= superior pars rationis
Inferiora disponere et ordinare Sensualitas= inferior pars rationis

Nous ne reprendrons pas ici en détail cet exposé noétique, nous


contentant d'aller droit à ce qui nous intéresse : intellectus se trouve en
tête des fonctions de la raison. Il s'agit de la compréhension ou de l'ap-
préhension, première opération de l'intelligence selon la scolastique
thomiste, tandis que les deux autres correspondraient à discernere et
ratiocinari. Mais ces trois opérations de l'intellect spéculatif (appréhen-
sion, jugement, raisonnement) sont-elles essentielles à notre propos qui
semble avant tout de théologie morale ? C'est plutôt l'articulation entre
discernere et eligere qui construit la coopération entre jugement et vo-
lonté dans le libre arbitre. Pourtant, ce sont surtout les deux dernières

est ratiocinari, id est rationes inducere ad ostendendum quid uerum, quid falsum, quid
bonum, quid malum, appetendum et fugiendum, et secundum hoc dicitur uis ration-
alis. Tertium officium est discernere, et hoc proprie dicitur ratio. Quartum officium
est inuenire media, et secundum hoc dicitur ingenium. Quintum est eligere (R. intel-
ligere), id est in alterum consiliatorum consentire ut fiat, et secundum hoc proprie
dicitur uoluntas liberum arbitrium. Liberum arbitrium dicitur secundum utrumque
officium, id est officium discernendi et eligendi. Sextum est celestia contemplari et
secundum hoc dicitur sinderesis siue superior pars rationis : hoc officium regit et
perficit donum sapientie et intellectus. Septimum est inferiora disponere et ordinare,
et secundum hoc dicitur sensualitas siue inferior pars rationis : hoc officium regunt et
perficiunt spiritus consilii et fortitudinis et scientie et pietatis. Spiritus timoris utrum-
que moderatur et ideo uerbum “replendi” ponitur ad timorem. », H UGUES DE S AINT-
C HER , In II Sent., Dist. XXIV, texte établi à partir des ms. Vat. lat. 1098 (désormais
R.), Venise, Marc. lat. III, 174 (désormais V.), Paris, Nat. lat. 3073 (désormais P), et
tenant compte des passages déjà transcrits par Dom Lottin.
8
C H . TROTTMANN , « Syndérèse et liberté dans le Commentaire des Sentences de
Hugues de Saint-Cher (éléments de théologie Morale) », in Hugues de Saint-Cher
(† 1263), bibliste et exégète (Actes du colloque international, Paris, 13-15 mars 2000),
L.-J. BATAILLON O.P., G. DAHAN , P.-M GY (éds), Brepols, Turnhout, 2004, p. 325-340
(Bibliothèque d’Histoire culturelle du moyen âge, I).
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 167

fonctions de la raison qui nous intéressent ici. La sixième qui n'est autre
que la syndérèse n'est pourtant pas présentée comme d'emblée pratique.
Il s'agit au contraire de la dimension contemplative de la raison, en sa
partie supérieure qui a pour fonction de considérer les choses célestes.
Devons-nous voir en cela une influence sur le Dominicain de la tradi-
tion dionysienne qui donne à l'étincelle de la syndérèse ce rôle ultime
dans l'union à Dieu ? Il lui suffit d'être fidèle à l'esprit d'Augustin qui
dans la section qui suit immédiatement l'exégèse de la Genèse évoquée
plus haut précise les rapports entre sagesse et science :
Sans la science en effet, ces vertus qui donnent à la vie sa rectitude ne pour-
raient exister, elles qui nous permettent de nous diriger en cette vie miséra-
ble de telle sorte que nous parvenions à la vie éternelle où est le vrai
bonheur. Il y a cependant une différence entre la contemplation des biens
éternels et l'action qui nous permet de faire un bon usage des biens tempo-
9
rels : l'une est le fait de la sagesse, l'autre de la science .
Hugues de Saint-Cher systématise en fait l'enseignement d'Augus-
tin sur les vertus en répartissant entre raison inférieure et supérieure,
non seulement la sagesse et la science, mais aussi les autres vertus in-
tellectuelles correspondant aux dons du Saint Esprit, selon le tableau
suivant.

Syndérèse Sensualité
Sagesse Science
Intelligence Conseil
Piété
Force
Crainte

Nous avons noté par ailleurs qu'on trouvait une réflexion compara-
ble sur ce thème dans le De anima et potentiae eius édité par R. Callus.
Mais pour l'heure soulignons que la syndérèse est ainsi considérée

9
« Sine scientia quippe nec virtutes ipsae, quibus recte vivitur, possunt haberi per
quas haec vita misera sic gubernetur, ut ad illam quae vere beata est, perveniatur
aeternam. Distat tamen ab aeternorum contemplatione actio qua bene utimur tempo-
ralibus rebus, et illa sapientiae, haec scientiae deputatur. », SAINT AUGUSTIN, De Trini-
tate, XII, XIII, XIV, 21-22, op. cit., p. 250.
168 CHRISTIAN TROTTMANN

comme la fonction contemplative de la faculté intellectuelle, dépassant


même les trois opérations de la spéculation, car tournée de manière non
discursive vers les premiers principes selon l'habitus d'intelligence, et
vers les réalités célestes par la sagesse, le don de crainte étant commun
aux deux facultés. Au contraire, la raison inférieure qui dispose les ré-
alités inférieures assume les quatre autres dons du Saint Esprit et est
désignée par le terme de sensualitas à propos duquel le Dominicain
apporte d'ailleurs de nouvelles précisions10. Des trois sens de sensuali-
tas, il semble fidèle au dernier qui demeure augustinien, mais il fait
aussi cas de la nouveauté aristotélicienne du sens commun sans lequel
les sensibles propres ne sauraient être mis en relation et distingués. Il
lui semble faire ainsi justice à une faculté sensible réduite par le Lom-
bard aux cinq sens.
Lorsqu'il en vient à la question de savoir si la raison peut pécher, il
est intéressant de constater qu'Hugues de Saint-Cher qui reprend l'ar-
gument de l'intellectus semper verus, inverse l'ordre trouvé chez Guil-
laume et fait passer avant lui dans son Sed Contra celui du sens qui lui-
même ne se trompe pas relativement à son objet propre11 Mais il ne se
contente pas de ces légers changements et s'oppose à Guillaume dans
ses conclusions puisqu'il est un fervent défenseur de l'infaillibilité et de
l'inextinguibilité de la syndérèse. Les réponses aux objections pro et
contra sont encore l'occasion de quelques précisions sur le sens com-
mun et l'intellect. La raison, comme la sensibilité ne se trompe pas sur

10
« Sensualitas uero, tribus modis accipitur. Uno modo pro ui sensitiua inferiori
quam uim uocat Aristoteles, Auicenna in sexto de naturalibus, sensus communis ; est
uirtus cui creduntur omnia sensata que si non essent que apprehenderent coloratum et
tactum non possemus discernere inter illa nec dicere quia hoc non esset illud sensum
communem. Alio modo pro ui motiua interiori, id est extendenti se ad quinque sensus
exteriores tantum et sic accepit Magister. Est enim sensualitas in hoc sensu quedam
uis anime inferior ex qua est motus qui intenditur in corporis exterioris sensus, que
appetit que ad corpus pertinent (R. et P. : ad quem appetitus que ad corpus partici-
piunt). Tercio etiam modo pro inferiori parte rationis, et dicitur sensualitas quia circa
sensibilia (V. sensualia) negociatur. », HUGUES DE SAINT-CHER, In II Sent., Dist. XXIV.
11
« Sed contra sensus non errat circa propria obiecta. Ergo eadem ratione nec
ratio. Sed omnia sunt obiecta rationi. Ergo ratio nunquam errat. Ergo nunquam
peccat. Item Aristoteles : “intellectus semper uerus est”. Sed idem est intellectus quod
ratio. Ergo ratio semper est uera. Ergo nunquam errat. Ergo nunquam peccat. », ID.,
Ibid.
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 169

ses objets propres en tant qu'elle est appréhensive12. Avant Descartes,


entendons que l'entendement n'erre pas dans l'appréhension des idées
qui sont toujours claires et distinctes. Mais Aristote a montré que le
sens commun est à la fois capable d'appréhender les sensibles communs
(mouvement, forme, etc.) et d'opérer les rapprochements entre les sen-
sibles pour parvenir au fantasme imaginatif. C'est à l'occasion des rap-
prochements entre les sensibles propres que peut se glisser une erreur
qui ne sera pas d'appréhension mais de synthèse.
Quant au terme intellectus, il peut être entendu en trois sens, rap-
pelle le Dominicain13. En un premier sens il désigne le fait d'intelliger
de manière intuitive les premiers principes. Nous comprenons ici l'ac-
tualisation de l'habitus d'intelligence (nous) distingué par Aristote dans
l'Ethique à Nicomaque de ceux de sagesse et de science. Mais une telle
compréhension actuelle, certes infaillible, ne saurait désigner la puis-
sance cognitive considérée comme puissance première. Cet intellect au
sens d'intellection est toujours vrai et n'est pourtant pas identique à la
raison. Or la compréhension ne porte pas que sur les premiers princi-
pes. Le second sens désigne ainsi la similitude (impresse sans doute),
dont Hugues de Saint-Cher nous dit qu'elle n'est ni vraie ni fausse.
Nous comprenons qu'elle est seulement ressemblante, et que le vrai et
le faux n'interviennent qu'une fois posé un jugement concernant la ré-
alité qu'elle représente. C'est en un troisième sens qu'intellectus dési-
gnant la puissance d'intelliger (entendons puissance première)
correspond à la raison (augustinienne). Le maître précise alors que
lorsqu'elle s'en tient aux seules raisons supérieures elle est infaillible et
correspond alors à l'intellect contemplatif, ou partie supérieure de la

12
« Ad illud quod primo obicitur, scilicet quod ratio nunquam errat, dicimus quod
virium apprehensivarum, quedam sunt apprehensiue tantum, et hee non errant circa
propria subiecta, ut dicit philosophus, quedam apprehensiue et collatiue, et hee errant,
non (om. V) in apprehensione sed in collatione. », ID., Ibid.
13
« Ad secundum dicimus quod intellectus multipliciter dicitur. Uno modo dicitur
acceptio propositionis immediate, siue cognitio principiorum, et sic semper uerus est,
sed sic non est idem quod ratio. Alio modo dicitur intellectus similitudo rei in anima.
Sic nec uerus nec falsus est. Alio modo dicitur ipsa potentia intelligendi, et est sic
idem quod ratio que quandoque sequitur superiores rationes tantum, et tunc semper
uerus est et dicitur intellectus contemplativus, sive superior pars rationis, (qui add. V.)
quandoque sequitur inferiores rationes, et sic aliquando verus et aliquando falsus. »,
ID., Ibid.
170 CHRISTIAN TROTTMANN

raison où nous reconnaissons notre virile syndérèse. Lorsqu'au contraire


la faculté intellective se tourne vers les raisons inférieures, elle est tan-
tôt vraie, tantôt fausse. Nous avons étudié ailleurs la défense de l'infail-
libilité de la syndérèse et par elle celle de la liberté du libre-arbitre
menée par le jeune Dominicain contre les opinions de Guillaume
d'Auxerre. Disons pour résumer qu'il prend au sérieux l'adage aristoté-
licien intellectus semper verus et propose une défense intellectualiste de
l'infaillibilité de la syndérèse conçue comme partie supérieure de la
raison tournée vers la contemplation des réalités supérieures, célestes.
Cela est confirmé par les occurrences du terme de syndérèse dans
son œuvre exégétique. Dans la Glose ordinaire, Hugues reconnaît la
syndérèse en cette lumière dont Dieu illumine notre lanterne et nos té-
nèbres selon le verset du psaume (Ps. 17, 29). Il croise cette référence
avec Job 29, 3 : « Quando splendebat lucerna ejus super caput meum,
et ad lumen ejus ambulabam in tenebris. ». Nicolas de Lyre ne repren-
dra pas cette interprétation par la syndérèse des deux versets en ques-
tion. Mais Hugues de Saint-Cher va plus loin, dans ses Postilles. Ainsi,
en Marie, la sœur de Marthe et de Lazare qui représente la contempla-
tion, conformément à l’exégèse traditionnelle, il voit aussi une person-
nification de la syndérèse. Le nom de Marie, signifie étoile de la mer,
celle qui guide le marin, comme la syndérèse qui proteste toujours
contre le péché et évite à l’homme d’errer dans sa vie morale14.
La défense de l'infaillibilité de la syndérèse au nom de l'intellec-
tualisme aristotélicien est plus explicite encore chez Rolland de Cré-
mone. C'est la position qu'il prend nettement dans la solution qu'il
propose à la question de savoir si la syndérèse pèche, où il refuse toute
différence entre l'intellect et la syndérèse qui en est la partie supé-
rieure15. Car sa fonction n'est pas seulement négative, de protester

14
« Maria stella maris et significat rationem sive synderesim remurmurantem
contra peccatum, ad quam recurrens anima scit utrum erraverit, sicut naute per stel-
lam. », H UGUES DE SAINT-CHER, Opera omnia, Venise 1600, VI, p. 355. Voir aussi II,
37 sur le Psaume 18, 28 et VII, 43 sur Romains 7, 14.
15
« Solutio. Dicimus quod superior intellectus nunquam peccat, seu sinderesis, ut
non fiat differentia inter sinderesim et intellectum. Et hoc duplici ratione, quia semper
uerus est ; et semper murmurat in malo et gemit. », R OLAND DE C RÉMONE , In II
Sent. Dist. XXIV, Paris, Maz. 795, f. 38 vb, cité par O. LOTTIN, Psychologie et Morale
aux XIIe XIIIe siècles, III, I, Louvain-Gembloux 1949, p. 131, l. 37-40.
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 171

contre le mal, mais encore positive, indiquant infailliblement le bien.


Les réponses aux objections sont encore l'occasion d'un développement
sur le sens commun plus explicite encore que celui trouvé chez Hugues
de Saint-Cher16. L'erreur vient de la collatio, dans ce rapprochement, on
passe d’une perception à l'autre et c'est dans ce passage que peut se
glisser une erreur par l'interférence de quelque imagination. Ainsi s'ex-
plique l'erreur dans le sens commun et du même coup dans la raison
inférieure. Mais faut-il pour autant renoncer à trouver dans la syndérèse
une telle faculté de mettre en relation ? Rolland ne s'y résigne pas puis-
qu'il la croit capable de traiter des relations entre les personnes de la
Trinité. La raison pour laquelle la syndérèse ne se trompe pas ne tient
donc pas à un défaut du côté de la saisie des relations, mais plutôt à
l'éminence de sa capacité à remonter par l'abstraction jusqu'à une vérité
pure et sans mélange. Il livre ainsi ce qu'il lui en semble17. Une fois de
plus c'est la spécificité de l'intellect agent aristotélicien qui est mobili-
sée pour prouver l'infaillibilité de la syndérèse. L'opposition à Guil-
laume d'Auxerre est explicite, son tort est double : distinguer la syndé-
rèse de l'intellect supérieur et considérer celui-ci comme faillible,
contre l'adage aristotélicien18. Mais le Dominicain s'oppose également

16
« Quare autem sensus particularis non erret, non est illa ratio quam inducunt, ut
probatum est, sed est ista : quia sensus particularis non est conferre ; ubi autem est
collatio ibi est transitus de uno ad aliud : in illo transitu accidit error per aliquam fan-
tasiam se immiscentem ; et ideo oportet quod sensus communis aliquo modo sit col-
latiuus, cum in eo sint errores : et ratio inferior. Nec tamen omne quod est collatorum
errat, sicut est synderesis uel superior intellectus, licet quidam dicant quod superior <
intellectus > non sit collatiuus ; sed falso hoc dicunt, quia confert Filium et Patrem et
Spiritum sanctum, et multa alia. », ID., Ibid., f. 39 ra.
17
« Nunc autem uolo in breui dicere quare synderesis non decipiatur ; quia accipit
ueritates rerum tantum, ut dicunt philosophi, quia ipsa abstrahit ab omnibus accidenti-
bus et eas res quas accipit accipit in sua puritate ; et ubi est error ibi est admixtio ;
quia ubi est error pretenditur aliquid quod non est. Sicut sensus non decipitur quia non
confert, ita superior intellectus non decipit < ur >, quia accipit tantum ueritates rerum
sine accidente, quia non operatur per instrumentum ; quia sensus aliquantum abstrahit,
et ymaginatio plus, et inferior ratio plus ; ergo cum superior intellectus sit ultimum
abstrahens, omnino abstrahit ab omnibus fantasiis et accidentibus. », ID., Ibid.
18
« Quidam magne auctoritatis uiri dixerunt quod sinderesis non est eadem uis
cum intellectu superiori et dicunt quod superior intellectus peccat et errat, quod est
contra Aristotelem qui dicit quod semper est uerus. Et dicunt isti quod sinderesis est
172 CHRISTIAN TROTTMANN

déjà à une interprétation volontariste qui dissociant elle aussi la syndé-


rèse de l'intellect en ferait une tendance de la volonté à désirer le bien
naturellement. A moins que ce ne soit simplement Guillaume d'Auver-
gne qui soit visé.

1.3. Guillaume d'Auvergne : refus de la syndérèse comme d'Aris-


tote

Dans son goût du paradoxe, l'évêque montre en effet que définir la


syndérèse comme s'opposant au mal exige d'en distinguer une dimen-
sion relevant de la raison et l'autre de la volonté19. Dans le passage du
De Anima où il est question de la syndérèse, la noétique aristotélicienne
n'est guère présente. L'évêque de Paris part plutôt des Pères, mais il
veut interpréter les distinctions qu'ils opèrent entre partie supérieure et
inférieure, comme opposant non deux parties, mais deux fonctions de
l'âme20. Nous avons retrouvé la même idée chez Hugues de Saint-Cher.

quedam natura anime que animam < facit > appetere bonum naturaliter ; ergo non se
habet per modum intelligendi et conferendi. », ID., Ibid.
19
« Amplius cum duobus modis differentiatur a malo videlicet et contradicendo
sive dissuadendo, et repugnando seu rebellando. "Caro enim concupiscit adversus
spiritum et spiritus adversus carnem" (Rom. 7), necesse habent duas syndereses pone-
re, alteram scilicet quantum ad vim intellectivam, alteram quantum ad vim motivam
nobilem. », GUILLAUME D 'AUVERGNE, De anima, Ch. VII, 13e partie, Rouen, 1674, t. II,
p. 219.
20
« Quia vero nonnulli ex praecipuis christianorum doctoribus synderesim superi-
orem partem rationis posuerunt, et nominaverunt, non est praetermittendum hoc. Nec
contrario tantis doctoribus dicere videar vel sentire. Dico igitur sicut praedixi quod
pars superior non intelligitur ab istis sapientibus et sanctis doctoribus secundum
veram et rectam rationem partis ; ipsi enim non posuerunt divisionem in anima
humana secundum partes, sed secundum officia tantum. Idem igitur fuit secundum
intentionem ipsorum dicere superiorem partem rationis, quod est dicere superius
officium ; et nulli intelligenti dubium est quin superius, ac nobilius officium rationis
sit de sublimius bonis vere ac recte sentire, et deterioribus malis contradicere. Et dico
istud esse superius ac nobilius officium cui servire debent alia omnia. Quod enim
cognoscitur veritas, quod ei assentitur a virtute intellectiva, propter hoc potissimum ac
principaliter est ut bonitatem habeat, et ei se conjungat, et vivat vis motiva nobilis, et
vis intellectiva etiam propter hoc potissimum ac principiliter propter vim motivam
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 173

Mais pour Guillaume d'Auvergne, qui suit de très près Augustin, la


fonction principale de cette partie supérieure de la raison reste d'ordre
pratique : gouverner la partie motrice vers le bien. C'est en effet selon
lui la noblesse de la partie motrice qui peut conférer la sienne à la partie
intellective. Constatant les divergences entre les hommes sur les ques-
tions morales, il refuse ainsi l'infaillibilité à la syndérèse21. Elle peut
selon lui s'éteindre complètement non seulement chez les fous, mais
même chez les pécheurs invétérés. Sans doute est-il un des premiers
auteurs à pressentir le risque de pélagianisme inhérent à la notion de
syndérèse22. Selon lui, le don de science inhérent à la grâce est suffisant,
23
venant éclairer la prudence pour discerner entre le bien et le mal . C'est
à lui et non à une faculté naturelle comme la syndérèse qu'il appartient
d'actualiser le contenu de la loi naturelle.
Ayant ainsi tourné le second quart du XIIIe siècle nous arrivons à
des auteurs dont la doctrine est plus connue. Nous nous contenterons
donc ici d'indiquer les grandes lignes de l'évolution doctrinale qui
s'opère avec eux. Comme l'a montré O. Lottin, c'est dans la Summa de

nobilem est, eique servit jure naturali plenissimo eidem subdita sicut audivisti. », ID.,
Ibid.
21
« Amplius nulla esset inter homines, et maxime sapientes et doctos dissensio ;
cum synderesi in quodlibet fit homine, et juxta mores nullum errare patiatur ; cum
unicuique ostendit quod rectum est faciendum, similiter quod pravum est
declianandum. Quapropter necesse est nullum hominem circa ea quae ad mores
pertinent errare… », ID., Ibid.
22
« Amplius omnes hujusmodi ponunt synderesim nunquam errare, nulla autem
est vis in anima humana quae non errare a vero, nec deviare a bono possit, maxime
cum nec omnia vera, nec omnia bona nota sint per se naturaliter. Quapropter
synteresis lumen naturale est vel vis naturaliter quousque non limitata ut errare non
possit, necesse est omnia bona et omnia vera circa quae ipsa versatur, nota esse
naturaliter per se. Hoc autem de manifeste falsis, tunc etiam frustra esset donum
consilii, atque donum scientiae : similiter et virtus prudentiae atque donum intellectus,
cum synderesis per semetipsam omnia facienda et declinanda ostenderet vel
videret. Si vero lumen est gratiae et donum Creatoris appositum animae humanae ab
eodem super naturales virtutes ipsius ; tunc manifestum magnitudine peccatorum
lumen illud posse extingui : ipsi autem ponunt lumen synderesis inextinguibile
esse. », ID., Ibid., p. 220.
23
« Hoc autem sufficienter fit per donum scientiae antedictae, sive per scientiam
legis Dei : supervacuae igitur ponunt synderesim istam […] », ID., Ibid.
174 CHRISTIAN TROTTMANN

Bono du chancelier Philippe que la doctrine de la syndérèse et de la


conscience atteint une première formulation structurée en deux traités
géminés. Mais nous verrons que la noétique aristotélicienne ne joue
plus qu'un rôle analogique pour une théologie morale qui place la syn-
dérèse du côté de la volonté. Naît ainsi avant même les développements
des premiers maîtres franciscains un courant volontariste dont nous
examinerons maintenant la conception de la syndérèse.

2. « ALTERA SIMILITER IN BONUM AFFECTIVA »


NAISSANCE DE LA CONCEPTION VOLONTARISTE DE LA SYNDERESE

Nous contentant ensuite d'indiquer quelques lignes d'évolution


chez les auteurs franciscains, arrêtons-nous plus spécialement sur le
texte de Philippe le Chancelier.

2.1. Philippe le Chancelier : intellect agent et syndérèse affective

L'intellect agent aristotélicien est encore le point de départ de la


Summa de Bono24, mais pour une simple analogie qui postule à partir de
sa faculté contemplative dirigée vers le vrai, une puissance affective
équivalente dirigée vers le bien et détestant le mal. Celle-ci ne saurait
être que la syndérèse. On notera au passage l'assimilation de l'intellect
agent à l'intelligentia relevée tant chez Richard de Saint-Victor que
chez Boèce. La syndérèse se retrouve ainsi en opposition avec la sen-

24
« Quod etiam sit vis anime, ratione accipi potest. Cum sit quedam vis anime
contemplativa veri, que semper est in actu, que dicitur a philosophis intellectus agens,
et a magistro Ricardo de sancto Victore dicitur intelligentia, et similiter a Boetio in
libro de consolatione philosophie, erit altera similiter in bonum affectiva, et a malo
detestativa, et hec est synderesis. Ergo erit synderesis vis anime. », Philippe le Chan-
celier, Summa de Bono, III, Q. II, a. 3, N. Wicki éd., Berne, 1985, t. I, p. 193, l. 33-37.
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 175

sualitas, qui incline la raison vers les biens passagers25. L'articulation


demeure pourtant entre raison inférieure et supérieure, avec toutefois
plusieurs différences. Comme le fera bientôt Albert et conformément à
l’exégèse de Jérôme sur les quatre vivants, le Chancelier situe la syndé-
rèse au-delà de la raison inférieure et de la raison supérieure26. Comme
l’aigle, elle plane non seulement au-dessus de l’irascible et du concu-
piscible, mais encore au-dessus de la raison en ses deux fonctions.
Rejetée dans le domaine affectif, la syndérèse y aura un autre op-
posé : le foyer de concupiscence (« fomes »). Nous revenons ainsi à un
schème proche de celui d’Etienne Langton qui plaçait la raison dans
une position intermédiaire, d'arbitre entre une concupiscence qui l'attire
vers le mal et l’étincelle de la syndérèse qui au contraire lui indique
toujours le bien à suivre27. Le Chancelier doit d’ailleurs répondre à ceux
qui tirent argument de cette opposition fomes/synderesis en faveur
d’une possible extinction de la syndérèse. Ce foyer de concupiscence
n’est-il pas éteint chez la Vierge Marie, conçue sans péché ? Récipro-
quement, comme l’envisageait Guillaume d’Auvergne, la syndérèse
n’est-elle pas complètement éteinte chez le pécheur endurci ? La ré-

25
« Item, sensualitas et synderesis dicuntur opposite quantum ad suas inclinationes
ut, sicut sensualitas inclinat rationem in bona mutabilia consequenda et mala hiis
opposita fugienda, ita synderesis inclinat in bona simpliciter rationem et retrahit ra-
tionem aut liberum arbitrium a malis simpliciter. Cum ergo sensualitas sit quedam vis
anime motiva ex parte inferiori, erit alia vis motiva quantum est de se in bonum sim-
pliciter, que est synderesis. », ID., Ibid., p. 194, l. 38-43.
26
« Et ratio illa dividetur per duas portiones, quarum una viro comparatur et alia
mulieri ; et non erit synderesis altera illarum, sed supra utramque et supra irascibilem
et concupiscibilem que sub appetitu comprehenduntur. Et secundnm hunc modum
planum est quod dicit beatus Gregorius super Ezechielem dicens quatuor esse vires
quibus quatuor animalia proportionantur siue facies eorumdem. », ID., Ibid., p. 198, l.
88-93.
27
« Sic ergo uis concupiscibilis inferius mouet hominem ad malum ; superius au-
tem illa scintilla conscientiae mouet hominem ad bonum. Ratio autem que in medio
constituta est tanquam arbiter iudicat de hoc quod suggerit sensualitas et de hoc ad
quod mouet synderesis. Et in hoc consistit libertas arbitrii quod ratio designat uolun-
tatem ad hoc uel ad illud. Qui bene facit consentit synderesi et refrenat motum concu-
piscentie, qui autem male, e converso facit. », E TIENNE L ANGTON , Quaestiones,
O. LOTTIN ed., op. cit., t. I, p. 61.
176 CHRISTIAN TROTTMANN

ponse du Chancelier est subtile28. Car la concupiscence n’est qu’une


(mauvaise) habitude, plus facile à perdre que la syndérèse qui, elle, est
une potentia habitualis. Nous constatons ici une des conséquences de la
définition qu’en propose le Chancelier. Ne se résolvant pas à n’y voir
qu’un habitus ou seulement une puissance dépouillée d’habitus, il veut
y reconnaître une puissance apprêtée à l’action par un habitus inné. En
fait, comme le foyer de la concupiscence est la conséquence du péché
originel, la syndérèse serait pour lui le résidu de l’état d’innocence
d’Adam prélapsaire où ses facultés étaient naturellement tournées vers
Dieu et vers le bien29. Si la grâce de l’innocence est bien totalement
perdue après le péché, et si la faculté concupiscible est atteinte par la
constitution du foyer (« fomes »), il reste de cet état d’innocence une
rectitude naturelle des autres puissances : du jugement, de la volonté et
de même de la faculté irascible. Le Chancelier de l’Université semble
beaucoup moins conscient que l’évêque de Paris du risque pélagien
inhérent à la notion de syndérèse, et il tire argument de cette origine
prélapsaire en faveur de son inextinguibilité, même chez les damnés30.

28
« Ad aliud respondeo quod secus est de synderesi et de fomite ; quia fomes ha-
bitus est ; synderesis, habitualis potentia, et ideo essentialius habet. Tamen verum est
quod fomes extingui non potest aliquatenus, quantum ad id quod penale est, ut est
fames et sitis ; sed quantum ad culpam et ad inclinationem ad malum, extinctus est, ut
in beatissima Virgine. », PHILIPPE LE CHANCELIER, Summa de Bono, III, Q. II, ed. cit.,
p. 204, l. 64-68.
29
« Si vero accipiatur ratio in divisione contra concupiscibilem et irascibilem, ita
quod hee etiam anime rationalis vires dicantur, tunc synderesis erit pars rectitudinis
prime virium, quam habebat Adam in statu innocentie, que remansit tamquam modi-
cum lumen in Deum ductivum, ut non esset ex toto ratio ad temporalia inclinata vel
incurvata. Rectitudo autem gratie est ex toto disperdita per lapsum peccati. Constat
enim quod Adam habuit rectitudinem a principio iudicii et voluntatis et irascentie
naturalem ; hec rectitudo non ex toto sublata est. Quod ergo remansit, synderesis dici
potest. Illud enim est de se remurmurativum contra peccatum et recte contemplativum
boni simpliciter, et voluntarium. Et horum omnium est inspectrix relatione ad sum-
mum bonum ad quod principaliter se habet. », ID., Ibid., p. 197, l. 63-198, l. 73.
30
« Ad illud vero quod obicitur de divite et Lazaro, distinguendum est quod sunt
quidam effectus syndereseos quantum ad instinctum boni et alii quantum ad displi-
centiam mali ; et hoc dupliciter, vel in collatione ad penam vel preter. Dicendum est
ergo quod quantum ad instinctum boni, et quantum ad displicentiam mali culpe abso-
lute extincta est synderesis in dyabolo et in dampnatis, secundum vero tertium
modum, non est extincta ; et hec remanet ad penam […]. Habent ergo displicentiam
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 177

Ainsi de même que le foyer ne saurait être éteint que relativement à la


faute et à l’inclination au mal, mais non relativement à la peine, de
même chez le damné qui ne saurait plus vouloir le bien, la syndérèse
continue de sentir la justice de la peine. Témoin, le mauvais riche qui
demande que ses frères ne viennent pas en ce lieu de tourment, c’est-à-
dire ne soient pas jugés dignes des peines éternelles.
La pensée du Chancelier reste toutefois marquée par l’effort di-
plomatique et dialectique pour concilier toutes les autorités. D’où par
exemple, nous l’avons vu, sa définition de la syndérèse comme
« puissance habituelle ». Mais du coup, il ne tranche pas la question de
savoir si la syndérèse s’identifie avec la raison ou avec le libre arbitre.
Relevant de la volonté, planant au-dessus des trois facultés de la psy-
chologie platonicienne, constituant le résidu de la rectitude naturelle
prélapsaire, dans la volonté et dans ces facultés à l’exception du concu-
piscible, la syndérèse a-t-elle encore partie liée avec la raison ? C’est un
peu la question que le chancelier lègue à l’école volontariste qui le plus
souvent soucieuse comme lui de compromis tentera de raccrocher la
syndérèse à la fois à la raison et à la volonté.

2.2. La syndérèse à l'école volontariste franciscaine : entre raison et


volonté

L'auteur d'une question sur la syndérèse et la conscience conservée


dans le manuscrit de Douai 434 qui voit en la première une faculté spi-
rituelle et non motrice ainsi qu'un habitus susceptible d'aider à lutter
contre le foyer de concupiscence, propose un rapprochement avec le
libre-arbitre. Comme lui, la syndérèse serait une faculté relevant à la
fois de la raison et de la volonté, c’est-à-dire de l'intellect pratique.
C'est de ce côté que, le progrès de la connaissance de l'Ethique à Nico-
maque aidant, la faculté jéronimienne va trouver sa place dans la noéti-
que aristotélicienne. Notons toutefois que l'auteur anonyme de cette

mali in collatione ad penam. Quod notatur in petitione divitis illius : petit enim ut hoc
nuntiaretur ne in hunc locum veniant tormentorum ; hoc est ne digna faciant penis
eternis et hoc est ne veniant in hunc locum tormentorum. Et sic est opus syndereseos,
cui displicet peccatum, in collatione ad penam. », ID., Ibid., p. 205, l. 80-85, 89-93.
178 CHRISTIAN TROTTMANN

question constatant que la syndérèse rectifie tant la volonté que la rai-


son, persiste à refuser de la situer dans cette dernière faculté31.
Toujours à propos de la syndérèse ou plus exactement à propos de
sa capacité à pécher, Jean de la Rochelle apporte des précisions intéres-
santes dans la Summa de Vitiis sur les sens du terme intellectus32. Il
distingue d'abord la puissance de ses divers modes d'actuation. Parmi
ces derniers, il fait la différence entre l'approbation des principes et
celle des conclusions. On notera au passage les exemples qu'il propose
de principes dans l'ordre spéculatif (le tout est toujours supérieur à sa
partie) et pratique (ce que tu ne veux pas qu'il t'arrive, ne le fais pas aux
autres). Or ce n'est pas en ce domaine que porte le vrai et le faux, mais
plutôt sur l'approbation des conclusions : et c'est seulement pour celles
tirées selon la voie supérieure que se vérifiera l'adage aristotélicien in-
tellectus semper verus.
La Somme dite d'Alexandre de Halès oppose tant dans la raison
que dans la volonté une partie naturelle à la partie délibérative, et fait
correspondre la syndérèse à la première dans l'une et l'autre des facul-

31
« Solutio : Sicut liberum arbitrium est facultas uoluntatis et rationis sive <intel-
lectus> practici, ita synderesis. Ideo uoluntatis et rationis siue practici intellectus ;
ipsa enim est naturale iudicatorium digni operis et debiti ; propter hoc rectificat tam
rationem quam uoluntatem ; unde ab aliquibus appellatur naturalis uoluntas boni. Ex
hoc patet quod, proprie loquendo, non est ratio uel pars eius, sed tamen pertinens ad
rationem et uoluntatem. », Ms Douai 434, t. II, p. 426b, O. LOTTIN ed., op. cit, p. 160,
l. 53-58.
32
« Ad aliud distinguitur, quoniam intellectus dicitur duobus modis. Uno modo
dicitur ipsa potentia, de qua non dicitur quod ipsa sit uera uel falsa. Alio modo ipsa
acceptio potentie intellectiue que uariatur duobus modis : uno modo dicitur intellectus
acceptio principiorum et hoc dupliciter : quantum ad intellectum speculatiuum, et sic
intellectus est cognitio principiorum in qualibet facultate ; uel quantum ad intellectum
practicum, et sic est intellectus cognitio iuris naturalis que sunt principia agendorum.
Sicut enim in speculatiuis sunt quedam per se nota que sunt principia speculationis,
ut : “omne totum est maius sua parte”, sic et in practicis sunt quedam per se nota que
sunt principia operationis, ut : “quod non uis tibi fieri, non facias alii”. Alio modo
dicitur acceptio conclusionum que accipiuntur secundum uiam superiorem, et sic
intellectus earum semper est uerus ; aut secundum uiam inferiorem, et sic intellectus
quandoque est uerus, quandoque falsus. », JEAN DE L A ROCHELLE, Summa de Vitiis, O.
LOTTIN ed., op. cit, p. 170, l. 5-19.
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 179

tés33. Les mêmes caractéristiques d'une syndérèse principalement vo-


lontaire et rationnelle, naturelle et non délibérative se retrouvent chez
Eudes Rigaud34. Le schème se précise avec lui : ce n'est que pris au sens
large que le terme de syndérèse a encore une valeur cognitive. S'il faut
parler de manière appropriée, cette valeur revient à la conscience, tan-
dis que la syndérèse reste dans le domaine de la volonté et que c'est la
loi naturelle qui relève de l'une et l'autre puissance. Bonaventure enfin,
tout en passant en revue les différentes opinions concernant les rapports
de la syndérèse avec la raison et la volonté donne sa préférence au
schème hérité de Philippe le Chancelier35. C'en est assez pour la tradi-
tion volontariste et la manière dont à partir du parallèle avec le fonc-
tionnement de l'intellect et de ses habitus elle tend à faire sortir la
syndérèse du domaine cognitif en direction de la volonté. Au contraire,
poursuivant la tendance intellectualiste que nous avons relevée chez les
premiers dominicains, Albert le Grand tend à replacer la syndérèse au

33
« Ratio dicitur cognitiva et motiva. Secundum vero quod cognitiva, potest dici
dupliciter vel inquantum est iudicativa credibilium vel operabilium quae pertinent ad
bonos mores, vel inquantum est iudicativa cognoscibilium quae non pertinent ad
mores. Et hoc ultimo modo, non pertinet synderesis ad rationem. Primo autem modo
accepta, ratio adhuc dicitur dupliciter : vel inquantum est naturalis, vel inquantum est
deliberativa ; prout est naturalis dicitur synderesis ; sed non prout est deliberativa. Per
haec patet solutio ad ea quae objiciebantur. Nam ratio contra quam dicitur synderesis,
sicut dicit Gregorius (lire : Ieronymus), dicitur ratio deliberativa. […] Ad hoc quod
quaeritur utrum sit voluntas, dicendum quod sicut ratio dicitur dupliciter, similiter et
voluntas, scilicet naturalis et deliberativa. Synderesis autem eadem cum voluntate
naturali, sed non est idem quod voluntas deliberativa. », Summa theologica, dite
d'ALEXANDRE DE HALÈS, Quaracchi, t. II, no. 418, p. 493.
34
« Sicut autem liberum arbitrium comprehendit rationem et uoluntatem siue co-
gnitiuam et motiuam, sic et ratio. Si igitur synderesis accipiatur nomine extenso, hoc
modo dicit habitum tam cognitiue naturalis quam motiue. Si autem appropriate, sic
conscientia dicit habitum cognitiue, sed synderesis dicit habitum ipsius naturalis uol-
untatis, inquantum tamen mouet ad bona spiritualia, et lex nature complectitur utrum-
que. », EUDES RIGAUD, In II Sent. Dist XXIV, O. LOTTIN ed., op. cit., p. 200, n. 1.
35
« Est tertius modus dicendi quod, quemadmodum ab ipsa creatione animae in-
tellectus habet lumen quod est sibi naturale judicatorium, dirigens ipsum intellectum
in cognoscendis, sic affectus habet naturale quoddam pondus, dirigens ipsum in ap-
petendis[...] dico enim quod synderesis dicit illud quod stimulat ad bonum ; et ideo ex
parte affectionis se tenet […] », B ONAVENTURE, In II Sent., dist. XXXIX, a. 2, q. 1,
resp., Quaracchi, t. II, p. 910.
180 CHRISTIAN TROTTMANN

cœur de la délibération rationnelle mise en œuvre par l'intellect prati-


que.

3. LA SYNDÉRÈSE, HABITUS DE L'INTELLECT PRATIQUE ARISTOTÉLICIEN


SELON ALBERT LE GRAND

Nous touchons ici des choses plus connues encore sur lesquelles
nous passerons donc plus vite encore. Nous partirons donc de la Summa
de Homine pour prendre ensuite en compte les précisions apportées par
le manuscrit Vatican latin 781.

3.1. La syndérèse dans la délibération morale selon la Summa de


Homine

La délibération rationnelle prend la forme du syllogisme pratique


dont Albert donne un exemple :
Tout bien doit être accompli, ceci est un bien, donc ceci doit être accompli.
Or la majeure de ce syllogisme vient de la syndérèse à qui il revient d'incli-
36
ner au bien par des raisons universelles relatives au bien .
La syndérèse est donc une puissance vitale située dans l'intellect
pratique, où qui plus est se trouvent inscrits les « universalia juris »37.

36
« Omne bonum faciendum : hoc est bonum : ergo hoc est faciendum. Major au-
tem istius syllogismi est synderesis, cujus est inclinare in bonum per universales ra-
tiones boni. », A LBERT LE G RAND , Summa de Homine, II, q. 72, ed. B ORGNET, t. 35,
p. 599.
37
« Sine prejudicio dico quod synderesis est specialis vis animae, in qua
secundum Augustinum universalia juris descripta sunt : sicut enim in speculativis sunt
principia et dignitates, quae non addiscit homo, sed sunt in ipso naturaliter, et juvatur
ipsis ad speculationem veri : ita ex parte operabilium quaedam sunt universalia
dirigentia in opere, per quae intellectus practicus juvatur ad discretionem turpis et
honesti in moribus, quae non discit homo, sed secundum Hieronymum est lex
naturalis scripta in spiritu humano […] ab Augustino vocatur naturale judicatorium, a
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 181

Albert entend ainsi d'emblée opérer la synthèse entre la noétique aris-


totélicienne et celle d'Augustin. Pour lui le « naturale judicium » d'Au-
gustin constitue la traduction latine du terme grec de syndérèse. Mais il
entend raisonner dans le cadre de la conception aristotélicienne de l'in-
tellect. De même qu'il y a des principes universels innés dans l'ordre
spéculatif, il doit y en avoir aussi dans l'ordre pratique, et ils seront sus-
ceptibles de diriger l'action. Albert reprend donc la définition de Phi-
lippe le chancelier faisant de la syndérèse une potentia habitualis. Il
s'agit en fait pour lui de l'intellect pratique doté d'un habitus inné des
principes du droit naturel38. Ce qui fait sa force, c'est précisément
qu'elle n'est ni un simple habitus, ni une faculté qui en serait dénuée.
D'où son infaillibilité qui tient aussi au fait qu'elle reste dans le do-
maine de l'universel39. C'est dans son application au particulier opérée
par la raison que prennent source les erreurs. Par rapport à cette syn-
thèse déjà très aboutie, la question sur la syndérèse du manuscrit Vati-
can latin 781 apporte encore quelques précisions.

3.2. Précisions noétiques apportées par les questions du manuscrit


Vatican latin 781

La Quaestio de synderesi qui se trouve sur le folio 37 du manuscrit


Vatican Latin 781 peut être attribuée avec certitude à Albert. Elle pro-
pose une division très complexe entre les puissances que nous avons

Graecis autem synderesis, eo quod cohaeret judicio infallibili universali circa quae
non est deceptio. », ID., Ibid., II, q. 71, a. 1, p. 593.
38
« Dicendum ergo ad primum, quod in veritas synderesis vis animae est : sed
notabile est quod dicit Basilius, quod in ipsa inserta sunt semina justitiae et univer-
salia juris naturalis, et quod semper erit recta si hujusmodi justitiae, hoc est, potentiae
eruditionibus excolatur […] Ad auctoritatem autem Hieronymi dicendum, quod in
veritate, synderesis est vis cum habitu principiorum juris naturalis […] », ID., Ibid.
39
« Consentiendo sanctis, dicimus quod synderesis nunquam errat.Cuius causa est,
quia ipsa non est nisi circa universalia principia et naturaliter nobis inserta, circa quae
non potest esse error, sicut verbi gratia non esse fornicandum, non esse occidendum :
sed ratio quae est sub synderesi, conferre habet universale ad particulare, et videre
utrum hoc sit fornicatio vel homicidium : et quia circa particularia est error maximus,
propter hoc, ratio frequenter decipitur. », ID., Ibid., a. 2, p. 595.
182 CHRISTIAN TROTTMANN

déjà étudiée par ailleurs40 et au terme de laquelle la syndérèse devrait


être rangée parmi les puissances motrices qui meuvent vers la fin à
partir de principes universels, ceux du droit naturel appelé ici d’ailleurs
universel41. On notera au passage que la syndérèse est ainsi distinguée
de la raison supérieure comme de la raison inférieure qui meuvent vers
la fin selon des règles particulières, soit concernant les réalités immua-
bles et leur contemplation pour la première, soit concernant les réalités
inférieures pour la seconde. Située ainsi dans l’intellect pratique aris-
totélicien, la syndérèse se distingue donc désormais de la raison supé-
rieure augustinienne.
Mais surtout, alors qu’elle est présentée comme une puissance
motrice, la syndérèse relève plus de la connaissance que de l’appétit42.
Elle comporte les deux composantes, et nous constatons ainsi qu’en son
intellectualisme même, le maître dominicain n’est pas si éloigné des
compromis recherchés par les volontaristes. Mais c’est précisément
parce que la syndérèse concerne l’intellect pratique qu’elle relève prin-
cipalement de la connaissance. Lui seul peut demeurer semper rectus,
non la volonté qui peut être droite ou non.

40
C H . TROTTMANN , « La syndérèse selon Albert le Grand », in Albertus Magnus,
Zum Gedenken nach 800 Jahren : Neue Zugänge, Aspekte und Perspektiven,
W. SENNER et alii eds, Cologne, 2001, p. 255-273.
41
« Quod enim ordinat motum, vel est finis motus ; et secundum hoc sumuntur
potentiae imaginis, per quas anima fertur in Deum vel actu vel potentia. Aut est regu-
lans ad finem, et hoc est duobus modis. Aut enim regulatur aliquis ad finem univer-
salibus quibusdam principiis ; et sic est synderesis, quae habet apud se universalia
iuris, circa que non est error, sicut est intellectus principiorum in speculativis. Aut
regulatur particularibus regulis determinatis ad speciale opus ; et istae regulae vel sunt
acceptae a prima rectitudine ; et sic est superior ratio, quae inhaeret contemplandis
incommutabilibus, ut accipiat rationes proprias regentes in opere ; vel sunt acceptae a
rebus inferioribus, quae habent rectitudinem aliquam exemplatam a rectitudine prima,
et penes has est ratio inferior. », A LBERT LE GRAND, Quaestio de synderesi, a. 1, sol.,
Alberti Magni Opera Omnia (désormais AMOO), t. 25/2, Aschendorf, 1993, p. 234, l.
15-28.
42
« Sic igitur dicimus quod synderesis est quaedam potentia motiva per habitum
universalium iuris et habet aliquid de cognitione et aliquid de appetitu, sed plus se
tenet ex parte cognitivarum. Intellectus enim practicus magis repugnat malo, cum sit
semper rectus, sicut dicit Philosophus, quam voluntas, quae potest esse recta et non-
recta. », ID., Ibid., l. 29-35.
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 183

Albert conserve également la définition diplomatique de Philippe


le chancelier faisant de la syndérèse une potentia habitualis. C’est pré-
cisément parce qu’elle est dotée d’un habitus qui lui permet à tout mo-
ment de passer à l’acte qu’elle est infaillible43. Un habitus sans
puissance ou une puissance sans habitus seraient imparfaits. Au
contraire l’intellect est porté à sa perfection par les habitus tant dans le
domaine pratique que spéculatif. Ce sont ici encore les références à la
noétique aristotélicienne du De Anima et de l'Ethique à Nicomaque qui
assurent l’infaillibilité de la syndérèse. C’est d’ailleurs parce que son
habitus porte sur les premiers principes que la syndérèse peut-être in-
flexible44.
45
De même la Quaestio de sensualitate et eius motibus apporte des
précisions intéressantes sur la manière nouvelle dont Albert conçoit
l’articulation de la psychologie aristotélicienne des sens internes et ex-
ternes avec celle héritée d’Augustin. Albert ne veut identifier la sen-
sualité ni à la raison inférieure, ni à la sensibilité comme faculté
d’appréhension. La sensualité relèvera bien selon lui de la sensibilité,

43
« Cum enim sicut superius dictum est, synderesis sit potentia motiva
cognoscitiva animae rationalis perfecta per habitum naturalem, oportet, quod illa
indeflexibilitas sit ratione potentiae vel ratione habitus. Sed non est ex ratione poten-
tiae tantum quia sic nulla potentia motiva rationalis animae posset deflecti, quod est
falsum. Nec est iterum ex habitu tantum, cum habitus sit quid imperfectum in esse,
unde indiget aliqua potentia in qua sit, quae per ipsum operatur. Restat ergo, quod hoc
sit ex utriusque coniunxione, tamen magis ex ratione habitus, qui est perfectivus po-
tentiae. Habituum enim, qui perficiunt potentias motivas animae rationalis, quidam ex
toto complent potentias determinando ad unum necessario, ut ille quo cognoscuntur
principia juris, circa quae non est error. Et huiusmodi est intellectus qui est rectus, ut
dicitur in De Anima, sicut etiam manifeste dicit Philosophus in VI Ethicorum. Et hunc
appellamus synderesim. », ID., Iibid., a. 2, p. 237, l. 10-27.
44
« Quidam vero est habitus, qui ex toto non perficit potentiam, sed adhuc post
adventum habitus est : potentia ad utrumque, cuiusmodi est opinio et suspicio, ut dicit
Philosophus. Ex hoc ergo habitu remanet flexibilitas in potentia. Sed ex primo habitu
est inflexibilitas, sicut etiam in speculativis est. Intellectus et scientia semper ad
verum determinantur, ratio vero et opinio ad utrumque. Unde patet, quod synderesis
per se non potest praecipitari. », ID., Ibid., l. 28-36.
45
ID., Quaestio de sensualitate et eius motibus, Ibid., p. 218-225.
184 CHRISTIAN TROTTMANN

mais comme faculté mettant en mouvement l’appétit46. Rappelant la


théorie des sens externes et internes telle qu’il l’a reçue d’Avicenne, il
commence par préciser au niveau sensible la différence entre appréhen-
sion de la species et saisie de l’intentio. Cela est plus clair au niveau de
l’intellect qui connaît la réalité sous la raison de vrai, mais ne se pro-
nonce pas pour savoir si elle constitue un bien à rechercher ou non47. De
même, précise Albert, l’espèce sensible contient implicitement une
intention qui la présente comme délectable ou nocive. Mais elle n’est
pas perçue par les facultés appréhensives des sens ou même de
l’imagination. Il faut pour cela une autre faculté, l’estimative, et Albert
reprend à son sujet l’exemple avicennien de l’agneau fuyant instincti-
vement le loup sans que sa nocivité ait été perçue explicitement par les
sens externes.
Albert veut encore distinguer parmi les facultés sensibles, celles
qui sont plus tournées vers la raison (« magis elevatae ad rationem ») et
celle qui est tournée vers la chair (« deprimitur ad carnem »).
L’irascible et le concupiscible, qui participent de la raison et sont sus-
ceptibles de lui obéir doivent être rangées dans la première catégorie48.

46
« Solutio : Dicimus, quod sensualitas est circa sensitivam potentiam. Non autem
est aliqua virtutum apprehensivarum, vel quinque exteriorum vel quinqinque interi-
orum, qui sunt sensus communis, phantasia, imaginatio aestimativa, memorativa,
cum, sicut dicit Magister, est vis, ex qua est motus et appetitus ; unde incipit ab eo,
ubi est principium appetitus ; appetitus autem omnis est ad aliquid apprehendendum
vel ab aliquo apprehenso ; sed apprehensione non sequitur appetitus, licet actu appre-
hendatur intentio, secundum quam est prosequendum vel fugiendum. », ID ., Quaestio
de sensualitate et eius motibus, a. 1, op. cit., p. 219, l. 28-38.
47
« Sicut intellectus de <se> considerat aliquid in ratione veri, tamen nihil dicit de
prosequendo vel fugiendo, licet res apprehensa sit bona vel mala ; sed quando exten-
ditur ad apprehendendum actu intentionem boni vel mali, tunc sequitur appetitus vel
fuga. Similiter species apprehensa per sensum habet in se intentionem delectabilis vel
nocivi, non tamen actu apprehenditur a phantasia vel a sensu <communi> ; et ideo
oportet aliam esse virtutem, quae extrahat istam intentionem, ut apprehendatur actu. et
illa est aestimativa, per quam apprehendit ovis lupum sibi esse nocivum, licet intentio
nocivi non sit apprehensa per sensum ; et ad hanc sequitur appetitus. », ID., Ibid., l.
39-51.
48
« Sed quia virtutum sensitivarum quaedam sunt magis elevatae ad rationem,
quaedam magis depressae ad carnem, licet vis appetitiva sit una secundum substan-
tiam, tamen habet diversam rationem, secundum quod elevatur aliquatenus ad ra-
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 185

Mais il est une faculté sensible qui meut l’appétit vers ce qui convient à
la chair avant même qu’une appréhension parfaite n'en ait pu intervenir,
d’une manière non pas précise comme dans le cas de l’irascible et du
concupiscible, mais confuse et commune49. Si bien qu’en cet appétit
instinctif des choses de la chair, ne se distingue même pas une dimen-
sion irascible et concupiscible. Telle est la sensualité qui meut ainsi
instinctivement l’appétit vers ce qui sied à la chair. Mais une telle sen-
sualité ne nous sera-t-elle pas commune avec les animaux50 ? Non pré-
cise Albert qui considère que cet appétit tourné vers la chair
(« depressus ad carnem ») reste ordonné à la raison non certes en tant
qu’il lui obéirait mais en tant qu’il peut être refreiné par elle.
Ainsi la sensualité demeure-t-elle spécifiquement humaine, mais
elle ne se confond ni avec la sensibilité en ses facultés appréhensives,
ni avec la raison inférieure51. Car celle-ci n’est pas comme elle tournée
vers la chair, mais au contraire élevée et élevant hors des brumes
confuses de l’instinct.

tionem et secundum quod deprimitur ad carnem ; et secundum quod elevatur ad ra-


tionem, sequuntur eam irascibilis et concupiscibilis, prout moventur a suis obiectis se-
cundum proprias rationes, quod non fit sine deliberatione vel perfecta apprehensione ;
et illae, licet non sint per essentiam de natura rationis, participant tamen cum ratione
ut obaudibiles rationi et persuasibiles a ratione. », ID., Ibid., p. 219, l. 32-220, l. 1.
49
« Secundum autem quod deprimitur ad carnem, sequitur eam sensualitas, in qua
est prima inclinatio appetitus eorum quae conveniunt carni ; et ideo, cum non ex-
spectet perfectam apprehensionem, qua determinatur unumquodque secundum pro-
priam rationem, non movetur a propriis rationibus delectabilis vel alterius modi, sed
ab appetibili sub confusa communitate ; et ideo non est in ea irascibilis et concupisci-
bilis, prout sunt distinctae secundum proprias rationes obiectorum sed remanet unus
appetitus non-distinctus, idem in substantia cum irascibili et concupiscibili. », ID .,
Ibid., p. 220, l. 3-13.
50
« Et sic ergo patet, in quo differt sensualitas a sensibilitate ; sensibilitas enim est
circa omnia quae sunt sensitivae potentiae tam in homine quam in brutis ; sensualitas
vero est appetitus depressus ad carnem, secundum quod habet ordinem ad rationem,
non ut obaudibile sed ut refrenabile per praeventum rationis ; et ideo non est nisi
hominis. », ID., Ibid., l. 14-20.
51
« Ad primum ergo dicendum, quod licet ratio inferior disponat ea quae ad cor-
pus pertinent, tamen eius appetitus non est depressus ad carnem, sed elevatus ; non
enim movetur ab appetibili, prout miscetur circa corporis sensus, sed extrahit. », ID.,
Ibid., l. 21-25.
186 CHRISTIAN TROTTMANN

4. CONCLUSION

Nous avons perçu les premiers impacts de la découverte de la psy-


chologie aristotélicienne sur la théologie morale de la syndérèse et de la
sensualité au tournant du premier au second quart du XIIIe siècle. Dans
un premier temps, comme son opposé, la sensualité est identifiée à la
raison inférieure selon une distinction héritée d’Augustin, la syndérèse
tend à être identifiée à la fois à la raison supérieure et à l’intellectus
semper verus d’Aristote. Mais certains maîtres, et non des moindres
puisqu’il s’agit de Guillaume d’Auxerre et Guillaume d’Auvergne,
protestent justement contre son infaillibilité et son inextinguibilité. Ils
le font au nom de l’expérience, constatant les divergences entre les
hommes en matière morale et l’endurcissement aveugle des impies,
voire des hérétiques. Ils le font aussi en théologiens, conscients du ris-
que pélagien que suppose une faculté naturelle, ayant réchappé du dé-
sastre du péché originel et capable de saisir intuitivement les premiers
principes moraux.
Au contraire, de jeunes maîtres dominicains comme Hugues de
Saint-Cher et Roland de Crémone mettent à profit la noétique aristoté-
licienne pour prendre la défense d’une syndérèse infaillible assimilée à
l’intellect auquel Aristote prête aussi cette qualité. Elle se présente ainsi
comme le contrepoids du foyer de concupiscence tirant la sensibilité
vers le mal depuis le péché originel. Mais un tel poids inclinant au bien
ne relèvera-t-il pas plutôt de la volonté ? C’est ce que suggèrera le cou-
rant volontariste initié par Philippe le Chancelier et continué par les
principaux maîtres franciscains, tentant des compromis subtils pour
tirer la syndérèse du côté de la volonté tout en lui conservant une di-
mension rationnelle.
Albert le Grand, maintient un tel compromis, tout en continuant la
tradition intellectualiste. Il fait de la syndérèse à la fois une puissance et
un habitus, relevant de la volonté et de la connaissance, mais plutôt de
celle-ci. Il y voit en fait la source des majeures mises en œuvres par
l’intellect pratique dans le syllogisme pratique. Mais du coup, il la dis-
tingue de la raison supérieure héritée d’Augustin. Celle-ci traite de réa-
lités certes célestes, mais particulières, tandis que la syndérèse, elle,
s’en tient aux principes universels du droit naturel. De même, la sen-
sualité va devoir être distinguée à la fois de la raison inférieure et de la
sensibilité comme faculté d’appréhension. Ici, c’est bien la théorie avi-
« COMEDIT, DEDITQUE VIRO SUO » 187

cennienne des sens internes qui permet d’en faire une faculté distincte
des sens externes et même de la cogitative, par laquelle nous percevons
confusément ce qui convient aux exigences de notre chair. Comme
souvent, c’est Albert le Grand qui parvient à la synthèse la plus satisfai-
sante. Nous voyons que dans sa noétique dominée par l’Aristotélisme,
la sensualité aussi bien que la syndérèse ont trouvé une place plus satis-
faisante que celle cherchée comme en tâtonnant par les premiers maî-
tres dominicains et franciscains. Pourtant dans une psychologie si
précise, on peut se demander ce qu’il reste du récit biblique du péché
originel et si son interprétation concernant la responsabilité morale
garde une place centrale. Le risque pélagien inhérent à la syndérèse est-
il aussi pleinement évité ?

C. N. R. S, Tours
FRANCESCO PIRO

SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI

A PROPOSITO DI DUE QUAESTIONES SUL DOLORE DI ENRICO DI GAND

Il titolo di questo saggio vuole segnalarne la peculiarità di ottica e


il taglio circoscritto rispetto al complesso dei temi presenti nell’opera di
Enrico di Gand. Ciò che mi interessa in modo essenziale è la risposta
alla domanda che guida due quaestiones quodlibetales evidentemente
concatenate tra loro, la quaestio XI, 8 « Utrum verus dolor sit ex sola
immutatione per apprehensionem, an ex alia immutatione reali » e la
XI, 9 « Utrum ratio formalis ipsius doloris sit in vi apprehensiva, an in
vi appetitiva1 ». La domanda è se il piacere e il dolore vadano concepiti
come stati cognitivi (apprehensiones) o piuttosto come alterazioni del
corpo animato della stessa natura degli impulsi motori. Si tratta di un
dilemma assai antico all’interno della psicologia degli affetti, ma i testi
del doctor solemnis ci aiuteranno non solo a comprenderne la risposta,
non priva di sottigliezza, ma ci aiuteranno a focalizzare meglio il com-
plesso di schemi dottrinali, sia filosofici che medici, alla luce dei quali
il dilemma veniva discusso all’epoca di Enrico2.
Non secondariamente, incontreremo lungo la nostra strada un
problema di interpretazione che riguarda più da vicino i « sensi in-
terni ». Uno dei problemi che Enrico si pone è in quali casi e in che

1
Per queste due questioni farò riferimento sia all'edizione di J OSSE B ADE :
Quodlibeta Magistri Henrici Goethals a Gandavo, Parisiis, 1518 (d'ora in poi : BADE),
ff. 459 v/464 v ; sia a quella, utile anche per i commenti, di V ITALI ZUCCOLI : Aurea
Quodlibeta, Venetiis, 1608 (d'ora in poi : ZUCCOLI), vol. 2, ff. 205 v/210 r. Per gli altri
testi dei Quodlibeta, farò riferimento solo all'edizione Bade e, dove è già possibile, a
H ENRICUS DE G ANDAVO , Opera Omnia, éd. R. MACKEN , Leuven-Leiden, Leuven
University Press, 1979.
2
Per la prospettiva generale in cui si inscrive questa analisi, sono costretto a
rinviare al mio F. PIRO, Il retore interno. Immaginazione e passioni all'alba dell'età
moderna, Napoli, La città del sole, 1999 (in particolare, p. 59-122).
190 FRANCESCO PIRO

modo un’alterazione del corpo animato possa essere causata sempli-


cemente da atti della parte apprehensiva. Aristotele aveva stabilito che,
se l’appetito è mosso dalla presenza di un oggetto desiderabile, nondi-
meno intelletto (noesis) e immaginazione (phantasia) hanno la stessa
potenza motiva di ciò che rappresentano. Come è ampiamente noto, le
successive dottrine dei « sensi interni » avevano enormemente compli-
cato questo quadro. Ibn Sînâ/Avicenna, in particolare, aveva sostenuto
che il moto dell’appetito presuppone altresì l’atto di una virtus aestima-
tiva o existimativa (wahm in arabo) che « coglie » gli oggetti percettuali
presenti come portatori di intentiones di utilità /nocività o di amicizia
/inimicizia3. In breve, Avicenna aveva sostenuto che la presenza (o
rappresentazione) di un oggetto in molti casi non « muove » la parte
appetitiva senza un’elaborazione interna che porta a riconoscere la desi-
derabilità o nocività dell’oggetto. Già gli animali non umani avrebbero
bisogno di tale facoltà per identificare gli oggetti di desiderio o di fuga.
Il che va decisamente aldilà della lettera aristotelica, anche se proba-
bilmente alcuni dei passi di Aristotele sulla phantasia aisthetiké e la sua
funzione nel moto animale contribuiscono a spiegare l’innovazione di
Avicenna4.

3
L'esposizione più nota di questa dottrina è quella del Kitâb-al Shifa/ Liber de
Anima, che d'ora in poi citerò facendo riferimento all’edizione critica curata da S. VAN
RIET e G. VERBEKE : AVICENNA LATINUS, Liber de Anima seu liber sextus de naturalibus,
par S. VAN RIET, Louvain-Leuven, Peter-Brill, 1968 (cf. in particolare il capitolo IV.3 :
vol. 2, p. 36-44). Tra le analisi più importanti sull'argomento, cf. H. A. WOLFSON, The
Internal Senses in Latin, Arabic and Hebrew Philosophic Texts (Harvard Studies,
1936, ora in ID ., Studies in History of Religion and Philosophy, Cambridge, Harvard
University Press, 1972, vol. 1, p. 250-314), F. RAHMAN , Avicenna’s Psychology. An
English Translation of Kitab al-Najat, II, VI, London, London University Press,
1952 ; D. L. BLACK, « Estimation (Wahm) in Avicenna : the Logical and Psychological
Dimensions », in Dialogue, 32 (1993), p. 219-258 ; M. SEBTI , Avicenne : l'âme
humaine, Paris, PUF, 2000, p. 66-91.
4
A tutt'oggi gli interpreti della phantasia aristotelica si dividono tra quanti ne
privilegiano l'identità di rappresentazione dell'assente e quanti le attribuiscono invece
una funzione di interpretazione/elaborazione della percezione in atto. Per la seconda
linea di lettura, rinvio almeno al celebre commento di M. CRAVEN N USSBAUM al De
Motu Animalium, Princeton, Princeton University Press, 1978, tra i molti difensori
della prima mi limiterò a R. LEFEBVRE, « La Phantasia chez Aristote : subliminalité,
indistinction et pathologie de la perception », in Les Etudes Philosophiques, 15
(1997), p. 41-58.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 191

Ora, quale è la posizione di Enrico in proposito ? Segue Avicenna


che aveva attribuito a tutti gli esseri dotati di appetito – animali non
umani e uomini – la virtus aestimativa ? O segue invece Averroé che
aveva negato il giudizio sensibile agli animali non umani, ma aveva
ammesso per gli uomini una cogitativa (fikr) che permette di cogliere il
singolo oggetto alla luce della memoria e della ragione ? O ancora
ammette l'estimativa per gli animali non umani e la cogitativa per gli
uomini, come fa Tommaso mediando tra Avicenna e Averroé5 ? La
disinvoltura con cui Enrico tratta le partizioni della psicologia delle
facoltà lascia pensare che nessuna di queste soluzioni gli si attagli.
Secondo almeno un interprete, egli avrebbe addirittura sostenuto la
riducibilità di estimativa e cogitativa a funzioni secondarie dell’imma-
ginazione, anticipando una propensione alla riduzione delle facoltà
interiori che consideriamo tipica dell’età di Ockham6. Il che ne farebbe
un caso veramente eccezionale per il XIII secolo. Tuttavia, va anche
osservato che, sia nelle quaestiones che esamineremo di qui a poco sia
in altri testi, Enrico non soltanto riconosce un atto che chiama
aestimatio – l'esempio tipico è quello classicissimo dell'agnello lattante
che, senza precedenti esperienze, coglie l’inimicizia del lupo – ma, pur
facendone una modalità di rappresentazione dell'assente, non sembra
affatto « ridurlo » all'immaginazione7. Le nostre due quaestiones

5
Per la fortuna del modello averroistico e l'« ibridazione » tra Averroé e Avicenna
avvenuta in Tommaso, rinvio a D. L. BLACK, « Imagination and Estimation : Arabic
Paradigms and Western Transformations », in Topoi, 19 (2000), p. 59-75. Sulla posi-
zione di Tommaso su estimativa e cogitativa, resta anche fondamentale lo studio di
G. KLUMBERTANZ, The Discoursive Power : Sources and Doctrine of the « Vis Cogi-
tativa » According to St. Thomas, Saint Louis (Usa), The Modern Schoolman, 1952.
6
Così J. B. BROWN , « Henry of Ghent on Internal Sensation », in Journal of the
History of Philosophy, 10 (1972), p. 2 nota : « In the true spirit of Ockham's razor [...]
completely suppressing the vis cogitativa and the vis aestimativa. Imagination is quite
successful at performing their tasks [...]. »
7
A parte le quaestiones che andiamo a esaminare, cf. H ENRICUS G OETHALS A
GANDAVO, Summa in Tres Partes Praecipuas digesta, Ferrariae apud Franciscum
Succium 1646, art. XXIV, quaest. 2 (II, p. 352, col. B) : « Est enim quaedam cognitio
sensitiva rei ex eius praesentia nuda per essentiam suam, sicut oculus videt colorem in
pariete. Est autem alia cognitio sensitiva rei in eius absentia, et haec est duplex, una
qua res ipsa cognoscitur per suam propriam speciem, sicut homo imaginatur in tene-
bris colores, quod vidit in lumine. Alia qua res cognoscitur per speciem alienam, ut
192 FRANCESCO PIRO

possono forse aiutarci a comprendere meglio la sua posizione in propo-


sito, se non altro perché Avicenna vi appare come l’esponente di
maggior spicco di una posizione sulla natura degli affetti da cui Enrico
prende le distanze e, almeno a prima vista, confuta.

1. UN AVICENNA DIMIDIATO

Uno degli elementi di difficoltà posti dal rapporto di Enrico di


Gand con Avicenna sta nel fatto che alle citazioni continue dal Liber de
Philosophia Prima sive Scientia Divina corrisponde una pressoché tota-
le assenza di rinvii al Liber de Anima seu liber sextus de naturalibus. Il
fatto è stato notato e attribuito a una precisa scelta di prendere le
distanze da quest’ultimo testo, dal momento che appare improbabile
che Enrico non riuscisse a reperire un testo notissimo e riepilogato in
tante summae o lecturae sull'anima8. Forse, più che di una scelta perso-
nale di Enrico, si tratta del fatto che il Liber de Anima avicenniano
stava perdendo autorevolezza rispetto ai testi originali di Aristotele e
conveniva rifarsi esclusivamente ad essi nelle discussioni. Lo sugge-
risce il fatto che Enrico fa notevoli sforzi per fondare su passi del De
Anima o del De motu animalium anche delle tesi psicologiche che
sarebbe stato più ovvio ricavare da Avicenna. Ma, senza azzardare
ipotesi, ciò che è importante è che Avicenna è presente nelle due
questioni quodlibetali sul dolore essenzialmente attraverso due citazioni
tratte entrambe dalla Philosophia prima e che sono le seguenti :

ovis videns lupum, per speciem coloris eius et figurae aestimat inimicum et noci-
vum. »
8
Cf. J. JANSSENS, « Some Elements of Avicennian Influence on Henry of Ghent's
Psychology », in W. VANHAMEL (ed.), Henry of Ghent. Proceedings of the Interna-
tional Colloquium, Louvain-Leuven, Leuven University Press, 1996, p. 155-170 (in
particolare p. 169).
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 193

Omne enim pulchritudo et convenientia cum apprehenditur diligitur et


delectat [....] unde sensibilis delectatio est sensibilitas convenientis et intelli-
9
gibilis est ut intelligat conveniens […]
Omnis virtus animalis habet delectationem propriam [...] Sed omnes
conveniunt in uno communi, scilicet in percipere quod suum conveniens et
10
sibi aptu .
Da queste due citazioni, emerge un Avicenna soprattutto convinto
della pluralità dei tipi di piacere e dolore, potremmo dire del carattere
analogo più che univoco dei concetti di piacere e dolore. La parte con-
cupiscibile dell'anima trae piacere dalla soddisfazione di un appetito
corporeo, la parte irascibile dalla vittoria su un nemico, la memoria
dalla completezza del ricordo, l'intelletto dalla bellezza degli intelli-
gibili. L'elemento che fonda l'analogicità tra questi diversi tipi di
piacere sta nel fatto che si tratta in ogni caso di una perceptio conve-
nientis et sibi aptum, cioé del rilevamento di una conformità tra un
oggetto e le finalità proprie della facoltà operante. Questo è l'Avicenna
con cui Enrico si misura.
Beninteso, questa concezione pluralistica del piacere è effetti-
vamente presente in tutta l’opera del grande filosofo persiano. Nondi-
meno, ciò che Enrico non sembra cogliere a partire da questi passi è la
centralità che gioca nella descrizione avicenniana del piacere il caso dei
piaceri della già ricordata virtus aestimativa. Va infatti notato che, per
Avicenna, la virtù estimativa non è semplicemente una facoltà che per-
mette agli animali non umani di identificare gli oggetti di appetito e di
fuga sulla base di precise pre-programmazioni istintuali, secondo la
formulazione che ne darà Tommaso. Essa è influenzabile da parte delle
elaborazioni cognitive dell'immaginazione e della memoria e perciò
genera giudizi sensibili complessi (illazioni su casi particolari in base
alla loro somiglianza con altri), così come anche affetti altrettanto
complessi. In testi ignoti ai Latini come il Kitâb al Isharat wal Tabihat,
Avicenna rileva che gli animali non umani sono già capaci di provare
piaceri e affetti non immediamente bio-funzionali, per esempio provano

9
Liber de Philosophia Prima sive Scientia Divina, VIII.7 (Avicenna Latinus,
vol. 4 della serie, p. 431-432).
10
Liber de Philosophia Prima sive Scientia Divina, IX (Ibid., p. 507-508).
194 FRANCESCO PIRO

amore per la prole e apprendono a cedere la preda al padrone11. In


questo testo, questa tesi è esposta in modo essenzialmente funzionale a
derivarne la possibilità di piaceri ancora più elevati, quelli intellettuali.
Ma occorre aggiungere che, se eccettuiamo i casi del piacere corporeo
diretto e quello opposto del piacere puramente intellettuale, appare
difficile trovare dei casi nei quali l'estimativa non entri nell'eziologia
dei piaceri e degli affetti. Il godimento estetico è evidentemente consi-
derato da Avicenna come l'effetto di una metamorfosi specifica che la
virtù estimativa riceve negli uomini, i quali sono in grado – in quanto
dotati di un'immaginazione compositiva ampliata e razionale – di trarre
godimento « ex utilitatibus sonorum compositorum et colorum et
odorum et saporum compositorum12 ». È del tutto presumibile che
anche le altre passioni esclusive dell'animale umano – Avicenna le enu-
mera all'inizio della quinta parte del Liber de Anima : la meraviglia, il
riso, il lutto, il sentimento dell'onesto e del turpe, la vergogna, la spe-
ranza e il timore durevoli – nascano da un'analoga modificazione che la
presenza della ragione e del linguaggio introducono nelle attività di
questa virtù originariamente finalizzata alla sola valutazione dell'utile e
del nocivo. Sembrerebbe suggerirlo il fatto che anche queste passioni
esclusivamente umane restano tecnicamente delle passiones animales,
come Avicenna continua a definirle13.
Ciò non vuol dire beninteso che Avicenna faccia dell'estimativa la
facoltà degli affetti in genere, anche se vi saranno lettori che la interpre-
teranno esattamente in questo senso14. Il fatto è che l’estimativa avicen-
niana ha un ruolo centrale in ragione della sua duplice funzione. Da un
lato, si tratta dell’unica facoltà della parte sensitiva interiore che formu-
li veri e propri giudizi, degli analoghi sensibili delle credenze. Tanto è

11
Cf. IBN SÎNÂ/A VICENNE , Livre des directives et remarques, par A.-M. GOICHON,
Beyrouth-Paris, Vrin 1954, p. 467-468 (« donc les jouissances intérieures sont plus
grandes que les plaisirs apparents, mêmes s'ils ne sont pas intellectuels »).
12
Liber de Anima, IV. 3 (A VICENNA LATINUS, ed. cit., vol. 2, p. 36). Cf. su questo
caso le importanti considerazioni di M. SEBTI, op.cit., p. 86-91.
13
Liber de Anima, V, 1 (AVICENNA LATINUS, ed. cit., vol. 2, p. 69-76).
14
Cf. per esempio H ERMOLAUS B ARBARUS , Compendium scientiae naturalis ex
Aristotele, Venetiis apud Cominum 1545 : « Est et alia quae virtus dicitur existimandi,
medio capite collocata, quae es iis quae sentiuntur, ea dicit quae sentiri nequeunt,
qualia sunt odium, amor, voluptas et similia. »
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 195

vero che anche quando alla costituzione di un dato stato psichico inte-
riore contribuiscano altre facoltà (per esempio l’immaginazione nel
caso delle speranze e dei timori), la presenza di un contenuto assertorio
è sufficiente per classificare questo stato come atto dell’estimativa15. In
secondo luogo, l’estimativa è la facoltà che collega gli stati della parte
apprehensiva dell’anima (del cervello) con quelli del corpo in genere.
Persino l’immaginazione, che ha un ruolo eziologico importantissimo
nella genesi degli affetti più complessi, deve la sua forza al fatto che
l’estimativa si rivela in grado di operare una modificazione della
complessione fisica corrispondente alle variazioni delle forme e delle
figure che si presentano di fronte ad essa : « quia forma habetur in
aestimatione, secuta est permutatio in complexione et calor et humi-
ditas et spiritus16 ».
L’estimativa costituisce dunque il punto di sutura tra due distinte
componenti dell’episodio affettivo, l’elaborazione cognitiva e la per-
mutatio complexionis, cioé la vera e propria modificazione fisico-
corporea. Normalmente la prima precede la seconda : le facoltà appeti-
tive « non appetunt aliquo modo nisi postquam aestimaverunt
volitum », anche se Avicenna ci avvisa che talora la causalità si inverte
e l’estimativa segue gli impulsi appetitivi e le variazioni degli umori
(possibilità quest’ultima che ha un’enorme importanza per l’analisi
psicopatologica)17. Questo enorme ruolo della facoltà estimativa nella
psicologia avicenniana ci rende però difficile comprendere in quali altri
modi possa mai avvenire la perceptio convenientiae vel disconve-
nientiae che fonderebbe il piacere o il dolore. Prendiamo il caso del
piacere e del dolore direttamente fisici. In quale senso mai si tratterà di
una perceptio, cioé di un atto cognitivo ? Quale è la facoltà che perce-
pisce la convenientia ? Non l’estimativa, dato che si tratta di una perce-
zione totalmente sensibile. Dovremo allora attribuire ad un’altra facol-
tà, per esempio al senso comune, la perceptio della soddisfazione di un
bisogno o del venir meno di un ostacolo ? In tal caso avremmo però

15
Per Avicenna, speranze e desiderio sono atti immaginativi con un contenuto
giudicativo implicito (per esempio il desiderio è « imaginatio rei et concupiscentia
eius, et iudicare quod delectabitur in illa si affuerit ») e pertanto « haec omnia iudicia
sunt aestimationis » (Liber de Anima, IV.3 : AVICENNA LATINUS, ed. cit., vol. 2, p. 44).
16
Liber de Anima, IV. 4 (AVICENNA LATINUS, ed. cit., 2, p. 62).
17
Liber de Anima, IV.4 (AVICENNA LATINUS, ed.cit., 2, p. 59).
196 FRANCESCO PIRO

due resoconti diversi per due tipi di piaceri sensitivi diversi (quello
immediato e che non muove nulla e quello dell’estimativa, legato a
proiezioni e attese, e che muove l’appetito) senza alunché che unisca
intrinsecamente queste due perceptiones. Per contro, non è difficile
comprendere che l’intelletto possa effettuare una perceptio convenien-
tis. Ma è difficile comprendere perché questa perceptio possa costituire
qualcosa di affine agli episodi emotivi che causano variazioni nella
complessione fisica. A meno che non si ipotizzi che la perceptio conve-
nientis dell’intelletto riesca a tradursi in immagini e rappresentazioni
accessibili all’estimativa – il che è un caso che Avicenna considera
senz’altro possibile, ma allora non ci troveremmo di fronte a un piacere
dell’intelletto ma a quello di un’estimativa influenzata dall’intelletto –,
dovremmo pensare a una forma di sensibilità totalmente eterogena
rispetto a quella comunemente nota, una sensibilità tutta immanente
alla parte immateriale dell’anima. È altamente probabile che Avicenna,
conformemente al suo platonismo di fondo e alle venature mistiche del
suo pensiero, abbia in mente proprio un esito di questo tipo. Ma ciò
rende difficile evitare il sospetto di una equivocità di fondo nascosta
sotto l’apparente analogia – un’equivocità che diviene ancora più
evidente se, più che al piacere, si pensa al dolore.
Prima di andare avanti, bisogna infatti risolvere un piccolo enigma.
Perché, se i testi di Avicenna da lui discussi mirano a spiegare innan-
zitutto il piacere, Enrico di Gand dedica le sue due quaestiones soltanto
ed esclusivamente al dolore ? A prima vista, sembrerebbe assurdo iso-
lare la questione del dolore da quella del piacere. Vi è però una credi-
bile spiegazione per questo privilegio del dolore. Il dolore costituiva un
problema a se stante perché il dolore era un tema del discorso medico,
oltre che di quello filosofico. Mentre, nel caso del piacere, il modello
definitorio dato da Aristotele nel libro X dell'Etica Nicomachea sem-
brava accordarsi con una declinazione di tipo essenzialmente cognitivo,
il caso del dolore poneva problemi specifici perché si dava per assodato
che il dolor verus (non metaforico, quello sentito) fosse un processo
fisico del corpo e dovesse essere analizzato in termini strettamente
corporei. La communis opinio voleva che il dolore vero potesse nascere
soltanto per mezzo di sensazioni di tipo tattile, sulla base del principio
che « Animal fit animal per tactum ». Avicenna stesso conforta questa
opinione : « dolor et remedium doloris etiam sunt de sensibilibus
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 197

tactilibus18 ». Il che voleva dire che il dolore poteva nascere solo ed


esclusivamente attraverso sensazioni che registrano le proprietà cono-
sciute per mezzo del tatto : acuminato/liscio, caldo/freddo (più acciden-
talmente ed estrinsecamente anche : morbido/duro, umido/secco,
pesante/leggero). Il che vuol dire che il dolore è innanzitutto uno stato
fisico corporeo e soltanto secondariamente una sensazione. Avicenna lo
ammette chiaramente : « dolor habet esse in sensu sentientis secundum
quod est sentiens, sed causa corporis19 ». In breve, il dolore viene consi-
derato come uno stato essenzialmente somato-sensitivo, potremmo dire
sfruttando un termine reso celebre da Antonio Damasio. Il che non
impedisce ovviamente che si diano dei dolori che hanno un’origine
psicologica, ma per qualificarli come tali dobbiamo aspettare che lo
stato psichico – cioé l’immaginazione agendo sull’estimativa – abbia
dato luogo a una permutatio complexionis, cioé a una variazione degli
equilibri termici interni al corpo.
È solo il caso di accennarlo ma la definizione del dolore resta una
vexata quaestio per un lungo periodo nel pensiero filosofico e medico.
Lo è perché la soluzione avicenniana di attribuire il dolore alla mala
complexio implica già una presa di distanza da Galeno, che lo aveva
definito come solutio continuitatis, e sembra imporre una concezione di
esso poco coerente con il presupposto della esclusiva tattilità della
sensazione20. Lo è perché resta difficile comprendere perché un fatto
fisico già presente perfino negli animali più elementari – quelli privi di
cervello, quindi di estimativa, come i vermi – vada considerato come
qualcosa di analogo a una valutazione o un giudizio. Ne discute un
medico commentatore di Avicenna, Ugo Benzi da Siena (1376-1439),
che – pur insistendo sul fatto che il dolore è una sensatio direttamente

18
Liber de Anima, II, 3 (AVICENNA LATINUS, ed. cit., 1, p. 137).
19
Liber de Anima, IV, 4 (AVICENNA LATINUS, ed. cit., 2, p. 61).
20
Questa definizione avicenniana del dolore si trova nel Canon Medicinae, Liber
1, fen 2, doct. 2, summa 2, cap. 19. Sulle lunghissime discussioni mediche che le
definizioni del dolore di Galeno, Avicenna, Averroé suscitarono, vale la pena di
menzionare l’opuscolo del filosofo napoletano Simone Porzio, allievo di Pompo-
nazzi, che accusa tutta la tradizione medica arabo-islamica di essersi allontanata da
Galeno, l'unico che abbia un approccio rigorosamente scientifico e corporeo al proble-
ma, e critica con veemenza Avicenna e i suoi allievi italiani, in particolar modo
Gentile da Foligno : S. PORTIUS, De Dolore liber, Florentiae apud Torrentinum,1551.
198 FRANCESCO PIRO

fisica – non rinuncia a porne a fondamento una perceptio rei per


modum disconvenientiae e cerca di trovarne forme elementari perfino
negli atti più immediati del sentire21. Se dunque Enrico di Gand inter-
viene sul problema del dolore è essenzialmente perché è quest’ultimo
caso a porre le massime difficoltà alla rete di analogie tra differenti
forme di sensibilità postulata da Avicenna. E, a prima vista, egli sembra
appunto liquidarla in toto. Il dolor verus (si noti questa dizione) costi-
tuisce una immutatio realis, un fenomeno fisico legato al fatto che
l’appetito sensitivo è mosso da squilibri termici, da variazioni del
calore e del freddo interni al corpo stesso. Occorre però vedere se
questa apparente denuncia di tutto il cognitivismo emotivo avicennia-
no sia effettiva o se ci riservi invece delle sorprese.

2. UN USO STRATEGICO DEL DE MOTU ANIMALIUM

Come abbiamo detto, è soprattutto ai testi aristotelici e ai


commenti averroistici che Enrico si affida. In particolare, è il De motu
animalium a costituire il punto di riferimento essenziale. Tanto è vero
che occorre forse considerare la seconda delle nostre questioni quodli-
betali – la XI.9 « Utrum ratio formalis ipsius doloris sit in vi appre-
hensiva an in vi appetitivi » – soprattutto come una sorta di commento
al testo aristotelico o, forse, come un tentativo di convincere gli interlo-
cutori dell’ortodossia aristotelica delle posizioni sostenute nella
quaestio precedente. Sebbene infatti all’inizio, l’autorità contrapposta
ad Avicenna sia quella di Giovanni Damasceno – il quale aveva
definito le passioni come « motus appetitus sensibilis in imaginatione
boni et mali22 » –, questa seconda quaestio finisce con il convergere
sull’analisi dei passi centrali del testo aristotelico, che però fornisce a
Enrico lo strumento per due diverse operazioni.

21
Expositio Ugonis Senensis super aphorismos Hypocratis et super commentum
Galieni ejus interpretis, Venetiis, 1498, f. 43 v, col 2, quaestio « Utrum dolor sit
qualitas sensibilis ».
22
BADE, f. 433 r ; ZUCCOLI, 2, f. 209 r, col. A. Il riferimento è a De fide orthodoxa,
II, 23. Giovanni Damasceno segue qui una lunga tradizione, il cui antecedente più
diretto è il De Natura Hominis di Nemesio.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 199

In primo luogo, il testo aristotelico permette infatti di definire le


passioni come « alterationes circa cor secundum caliditatem et frigi-
ditatem23 ». Si tratta dunque di effetti degli squilibri termici innescati
dalla sensazione o rappresentazione di un oggetto e percepiti dolorosa-
mente proprio in quanto squilibri termici. Il dolore non è dunque un
atto della facoltà cognitiva (apprehensiva), ma della facoltà appetitiva.
Fisicamente esso avviene nel cuore – luogo nel quale l’aristotelismo
ortodosso situa anche il senso comune, che Avicenna aveva invece
situato nel ventricolo anteriore del cervello – e costituisce, per dir così,
un fenomeno preparatorio rispetto al costituirsi dell’appetito sensitivo e
all’effettuazione del moto verso l’esterno. Le passiones secundum
calidum et frigidum modificano le parti dell’organismo e queste modifi-
cazioni innescano le passiones metus et doloris che appunto spingono
l’organismo all’azione. Tutte queste passioni sono di natura assoluta-
mente fisica, vanno considerate come forze che si combinano e si osta-
colano : « Passiones mutuo concurrunt, et secundum suos motus sese
excitant, vel impediunt ». L’impulsualismo di Giovanni Damasceno
viene perciò confermato con un’analisi rigorosamente fondata sulla
fisiologia aristotelica e sull’immagine del corpo animale come un siste-
ma di relazioni causali necessarie tra moti che hanno sempre un punto
di partenza esterno alla facoltà appetitiva stessa : l’oggetto desiderabile,
sia esso direttamente sentito o rappresentato per mezzo dell’intelletto o
della fantasia. Ne viene con ciò liquidato il cognitivismo etico di Avi-
cenna o – più esattamente – quello di alcuni (innominati) intellettualisti
etici che avevano sostenuto che « delectatio formaliter est ipsum
apprehendere » andando in realtà oltre Avicenna24.
Vi è però anche un altro passo aristotelico che Enrico ha costan-
temente presente e che cerca di interpretare iuxta propria principia. Si
tratta del passo : « fantasia autem et intelligentia habent rerum virtutem
[...] propter quod tremunt et timent intelligentes solum », – in generale

23
Ibid. Il rinvio è a De Motu Animalium, 701 b, 30/35. La traduzione latina di cui
Enrico fa uso è quella di G UGLIELMO DI MOERBEKE (che vedo nell'edizione contenuta in
Aristotele, De motu animalium, a cura di L. TORRACA, Napoli, Libreria Scientifica
Editrice, 1960, p. 54-63).
24
BADE, f. 433 v. ; ZUCCOLI, 2, f. 209 r, col B.
200 FRANCESCO PIRO

uno dei passi più citati in tutti i testi quodlibetali di Enrico25. Che cosa
vuol dire questo passo ? Esso postula che le alterazioni del corpo
possono essere causate dalla fantasia e dall'intelligenza, perché queste
ultime hanno rispetto alla parte sensitiva la stessa forza (dynamis, in
greco) delle cose effettivamente presenti. Dunque vi sono casi nei quali
uno stato cognitivo è causa sufficiente di un'alterazione fisica. Ma per
Enrico vi è un ulteriore problema e cioé l'analogia che Aristotele intro-
duce tra atti della fantasia e dell'intelligenza, tanto che alla fine usa
intelligentia (noesis) in senso generico per entrambe, anche se le phan-
tasiae sono presenti anche negli animali bruti. Ed ecco perciò ricom-
parire improvvisamente le intentiones avicenniane, nella loro formula-
zione più classica, cioé attraverso l'esempio dell'agnellino lattante che,
senza precedente esperienza, decifra la pericolosità del lupo alla sola
vista di esso. Se l'agnellino non compisse quest'atto di intelligentia,
cogliendo la pericolosità intrinseca del lupo, l'immagine del lupo non
avrebbe mai il potere di muoverne il corpo :
Si tamen non percipiantur sub ratione nocivi, vel proficui, non sequitur
passio aut motus in appetitu, quantucumque enim ovis videret lupum
venientem si non aestimaret eum nocivum, numquam timeret ac fugeret : et
si videat canem custodem ovium, si tamen eum aestimet lupum, timet et
fugit, similiter quantucumque sit laedens, si offendens, sive delectans
apprehensum praesentialiter ; si tamen non percipiatur esse tale numquam
26
movet .
Sembra così che tutto il percorso fatto da Enrico ci riporti di fatto
ad Avicenna, semplicemente con una maggior insistenza sull'aspetto
fisico-organico dell'episodio passionale. La passione ha delle premesse
cognitive, individuate abbastanza precisamente da Avicenna, ma il suo
dato saliente è il moto della parte appetitiva scatenato da tali premesse
e quest'ultimo è anche ciò che il soggetto senziente avverte più diretta-
mente. Se il discorso si fermasse qui, il discorso di Enrico non ci appa-
rirebbe se non come un mediocre sincretismo, che in fondo non fa che
ristabilire una communis opinio condivisa dalla maggioranza degli

25
De motu animalium, 701 b, 22/29 (ancora nella traduzione di M OERBEKE : p. 59
dell' ed. cit).
26
BADE, f. 434 v ; ZUCCOLI, 2, f. 210 r, col A.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 201

Scolastici27. Ma, come si è detto, la seconda quaestio è soprattutto un


tentativo di sancire l'ortodossia della posizione sostenuta nella prima,
dove invece le novità sono più sostanziose e il percorso è più tormentato.

3. LA AESTIMATIO SENZA AESTIMATIVA

Passiamo al primo e più complesso testo, la quaestio XI. 8


« Utrum verus dolor sit ex sola immutatione per apprehensionem, an ex
alia immutatione reali ». Qui infatti Enrico ci mostra la reale inte-
laiatura della riflessione che la successiva quaestio ritaglia nei limiti di
un meticoloso commento al testo di Aristotele. Innanzitutto, qui ci
viene spiegata in modo più dettagliato una tesi che troviamo anche
nella seconda quaestio in modo più abbreviato. Enrico nega che un
qualsiasi atto di apprehensio possa essere causa diretta del moto della
facoltà appetitiva. Si tratta senz'altro di una causa sine qua non di
quest'ultimo, ma non della causa propter quam sic – scrive Enrico
usando una distinzione causale che gli è tipica e che prefigura uno dei
grandi temi della riflessione causale trecentesca, quello della distin-
zione tra causa necessaria e causa sufficiente28. Quale è allora la causa
propter quam sic ? La perceptio dell'oggetto appreso, sostiene Enrico.
Dunque, non è che non si diano premesse cognitive sufficienti a causare
i moti dell'appetito, è che bisogna stabilire quali siano quelle giuste.

27
È il caso di ricordare che Alberto e Tommaso condividono la posizione di Gio-
vanni Damasceno, come Enrico di Gand. Tommaso analizza il gaudium e la tristitia
come modificazioni della parte appetitiva e, nel caso della passione, ricorda che
« passio proprie invenitur ubi est transmutatio corporalis » (Summa Theologica, I-II,
qu. 22, art. 3). Gli innominati difensori della tesi che il piacere fosse formaliter uno
stato della parte apprehensiva dell'anima dovevano essere molto pochi. Vitali Zuccoli,
nel suo commento, ricorda soltanto un autore di molto successivo, cioé Gabriel Biel.
28
Cf., a proposito del solo Ockham, A. GODDU, « William of Ockham's Distinction
between « Real » Efficient Causes and Strictly Sine Qua Non Causes », in The
Monist, 79 (1996), p. 357-367. Sulla causalità sine qua non e le discussione su di essa
fino a Leibniz, cf. anche il mio F. PI R O , Spontaneità e ragion sufficiente.
Determinismo e filosofia dell'azione in Leibniz, Roma, Le Edizioni di Storia e
Letteratura, 2002, p. 18-54.
202 FRANCESCO PIRO

Che cosa distingue tra loro apprehensio e perceptio ? Questo è il punto


evidentemente decisivo in tutta l’economia del testo. Enrico chiama
infatti apprehensio l'atto della facoltà conoscitiva (sensibile o intellet-
tuale) rivolto all'oggetto stesso, mentre chiama perceptio l'atto che
accompagna il primo (gli è annexus) e che coglie l'oggetto sub ratione
convenientis vel disconvenientis, cioé ne coglie l'intentio. Dunque, la
percezione – così come la intende Enrico – è una sorta di consape-
volezza riflessiva che accompagna ogni atto sensoriale, un abbozzo di
giudizio riflettente kantiano latente in ogni atto della parte apprehen-
siva, sia essa sensibile o intellettuale. Con una caratteristica asimmetria,
Enrico aggiunge che la apprehensio può essere da sola causa di qualche
piacere, ma mai del dolore ; mentre la perceptio è causa di ogni dolore
e di qualche piacere. Il che si deve al fatto che solo la perceptio può
alterare il corpo, non la apprehensio. Ad essere rigorosi, la perceptio
stessa non è se non una causa propter quam sic fisica, cioé accidentale.
Il vero principio di intelligibilità della passione (la sua causa per se
propter quam sic) è in realtà proprio la intentio circa sensibilia vel
circa intelligibilia, quella che introduce (importat) la considerazione
del conveniente e del disconveniente (ratio convenientis vel discon-
venientis)29. È questo il contenuto che dà ai nostri pensieri o alle nostre
rappresentazioni la « forza delle cose stesse », per dirla ancora una
volta con il De motu animalium. Come si vede, siamo lontani da
Aristotele, ma ormai lo siamo anche da Avicenna. Siamo sul terreno di
atti di consapevolezza che accompagnano gli stati cognitivi riferiti
all’esterno. Potremmo facilmente ammetterlo per un soggetto pensante
dotato di intelletto. Ma qui stiamo parlando anche degli animali bruti e
della conoscenza puramente sensibile. Chi è che coglie la convenientia
in questi casi ? E convenientia rispetto a che cosa ?
Seguiamo il percorso di Enrico. Un primo caso di dolore quello
dovuto alla perceptio rei praesentis, cioé a un male fisico presente per-
ceptio dal senso comune. Un secondo caso è quello invece della perce-
ptio rei futurae, che fa riferimento a intentiones insensatae. Negli esseri
umani, questa perceptio nasce di solito da un ragionamento, per esem-
pio quando mi sorge il sospetto che le persone che si aggirano intorno
alla mia casa siano dei ladri. La domanda è se si diano dei casi nei quali
la conoscenza sensibile compie una funzione analoga. Questo è ovvia-

29
BADE, f. 460 v. ; ZUCCOLI, 2, f. 206 r, col. A.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 203

mente l'ambito dei casi che Avicenna risolveva per mezzo della sua
virtù estimativa. Vediamo come lo risolve Enrico : « Quandoque autem
illa intentio percipitur ab eadem virtute sensitiva apprehensiva, et hoc
vel circa organum ipsius virtutis, vel circa ipsam virtutem, vel circa
eius operationem30 ». Cerchiamo di comprendere innanzitutto queste tre
possibilità. Una prima possibilità è che la virtù sensitiva percepisca
delle proprie lesioni organiche. Per differenziare questa possibilità dal
caso, a prima vista del tutto simile, della ferita agli organi, dobbiamo
tener conto che qui Enrico sta parlando di sensazioni spiacevoli deri-
vate dallo stesso atto sensoriale, per esempio quello che noi chiame-
remmo il fastidio per un suono troppo rumoroso. Per spiegare questo
tipo di dolore, Enrico fa ricorso a una teoria medica basata sul concetto
di temperamentum, che continuerà a dominare l'intera quaestio. È
l'armonia tra le molteplici componenti qualitative presenti nel corpo a
rendere possibile il buon funzionamento degli organi dei sensi e questa
armonia interna può essere facilmente corrotta o scompensata. Come si
vede, i problemi di teoria medica del dolore rientrano a pieno titolo
nell'orizzonte della quaestio. Enrico li affronta senza chiarire le sue
fonti – a parte qualche citazione da Agostino –, ma si può sospettare
una presenza di tradizioni più remote, che insistono nel caratterizzare il
corpo animato come un sistema di equilibri e di armonie interne. Un
tipo di dolore che sembrerebbe rientrare in questa stessa categoria è
anche il tedio, già discusso da Aristotele nel decimo libro di Etica
Nicomachea31. Lo si può infatti ricondurre a un eccessivo affaticamento
degli organi sensoriali. Ma Enrico, che ha sottomano diverse traduzioni
del testo aristotelico ed è incerto sul senso dei passi dello Stagirita,
ipotizza anche un'altra soluzione. Il tedio potrebbe nascere dall'incon-
gruenza tra il bisogno di varietà della facoltà sensibile e la costanza
dell'oggetto sentito. Quest'ipotesi più interessante ci traghetta alla se-
conda possibilità, quella di una autopercezione di se stessa e delle
proprie esigenze da parte della virtù sensitiva. Anche in questo caso, è
la dottrina medica dei temperamenti a spiegare le condizioni di possibi-
lità di quest'atto. Il funzionamento fisiologico degli organi sensibili
dipende non soltanto dall'equilibrio tra gli umori e le qualità, ma anche
da una ciclicità interna che ricorda quella delle composizioni musicali.

30
BADE, p. 463 v ; ZUCCOLI, 2, f. 206 v, col. A.
31
Ethica Nicomachea, X, 4, 1175 a, 1-15.
204 FRANCESCO PIRO

Quando le dinamiche interne di quest'ultima vengono favorite o turbate


dalle sensazioni, noi lo avvertiamo. Per dimostrarlo, Enrico ricorre
proprio alla musica alla quale il doctor solemnis – più generoso dello
stesso Avicenna che aveva riservato soltanto agli uomini le gioie
estetiche – ritiene sensibili anche gli animali non umani :
[…] etiam bruta animalia delectantur ex sonorum et cantuum melodia et
tristantur ex eorum discordia, quia concordia melodiae concordiae tempe-
ramento virtutis, et sui organi naturaliter, et discordia discordat. Et quanto
magis ex natura speciei, vel individui temperamentum est organum, et virtus
sensitiva ei naturaliter contemperata, tanto magis illam delectat melodia, et
32
contristat discordia .

Infine, la terza forma di percezione che causa dolore è quella del


defectus operationis, cioé dell'insuccesso dell'operazione propria della
virtù sensitiva. Questo terzo esempio della casistica enrichiana è evi-
dentemente ritagliato a contrario dalla concezione aristotelica del pia-
cere come stato che sancisce il compimento di un'attività conforme a
natura. Possiamo perciò esemplificarlo con quelle percezioni di disagio
che accompagnano la sensazione di qualcosa di confuso e di informe.
Si tratta del caso più evidentemente funzionale a stabilire una conti-
nuità tra le passioni sensibili e quelle intellettuali, sulle quali torneremo
di qui a poco.
In breve, nel discorso di Enrico una fenomenologia focalizzata su
dolori che hanno già connotazioni emozionali (il fastidio, il tedio, la
percezione del ritmo e dell'armonia, etc.) si combina con un discorso
medico che cerca di spiegare queste stesse emozioni in termini di
rotture degli equilibri interni o di turbamenti delle attività proprie del
corpo animato :
Omnis dolor in animali non sequitur ex aliqua apprehensione, sed ex sola
organi laesione vel virtutis offensione, vel operationis defectione [...] sicut e
contrario delectatio, ut ex radice prima, non sequitur ex aliqua
apprehensione, sed ex sola organi confortatione, vel virtutis pacatione, vel
operis perfectione.
L’accordo tra i due piani sta ovviamente nell’ipotesi che i dolori
siano in qualche modo non solo delle conseguenze, ma anche dei
veicoli di consapevolezza (e dei campanelli d’allarme), rispetto ai

32
BADE, f. 462 r ; ZUCCOLI, 2, f. 207 r, col. A.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 205

turbamenti del corpo animato. Nondimeno, non si tratta di un accordo


facilissimo. Se il dolore e il piacere sensibili sono alterazioni della parte
appetitiva, essi sono causati dalla perceptio inconvenientis, ma non
coincidono con essa. Per esempio, la consapevolezza di stare provando
dolore non è la stessa cosa della consapevolezza che genera quel dolore
e non è nemmeno detto che sia facile risalire dall’effetto alla causa.
Potremmo semmai dire che i dolori e i piaceri sensibili manifestano un
certo tipo di consapevolezza, situata però a un livello più profondo.
Torniamo di qui alla probelmatica dei sensi interni. Dal momento che
tutta questa trattazione nasce dall’analisi delle capacità della virtus
sensitiva di cogliere intentiones non sensatae, dobbiamo pensare che
Enrico la consideri come una spiegazione in grado di eliminare la
facoltà estimativa avicenniana. Come abbiamo osservato, nei suoi
scritti, si continua a parlare di un atto della conoscenza sensitiva che si
chiama aestimatio e che ha la struttura tipica dell’atto dell’estimativa di
Avicenna : essa inferisce qualcosa di non esperito (la pericolosità del
lupo) a partire da qualcosa di cui si ha esperienza sensoriale (il colore o
la figura del lupo). Ma è ovvio che, partendo dalla dottrina che stiamo
esponendo, le caratteristiche di inferenza o di giudizio della aestimatio
divengono puramente apparenti. Dovremo pensare che in realtà tutto
ciò che fa l’agnello è avvertire la discrepanza tra il suo temperamento e
quello del lupo o qualcosa di analogo, il che è sufficiente per generare
un appetito di fuga. Il che ci conduce al punto nodale di tutto il
discorso. Di che natura sono i contenuti che innescano i moti della parte
appetitiva, le intentiones convenientis vel disconvenientis ? Il termine
intentio ha una estrema varietà di accezioni, come è noto, e non è detto
che quelle delle discussioni di noetica o di metafisica e quelle della
psicologia dei sensi interni siano accordate o coerenti tra loro. Anche
qui il termine più ovvio di paragone restano le intentiones non sensatae
dell’estimativa avicenniana. Avicenna interpretava queste intentiones in
un senso decisamente oggettivo, considerandole cioé come vere
proprietà o attributi dell'oggetto di sensazione, anche se inferite e non
sentite direttamente (e, senza dubbio, di particolare interesse vitale per
il senziente)33. In breve, l'atto dell'estimativa di Avicenna è qualcosa di

33
Per la descrizione delle intentiones dell'estimativa come proprietà sopravve-
nienti inferite a partire da quelle sentite, rinvio ancora a D. L. BLACK, « Imagination
and Estimation », op. cit., p. 176-178. A conclusioni non dissimili, mi sembra per-
206 FRANCESCO PIRO

analogo a un giudizio percettuale – per fare un esempio classicamente


aristotelico : di analogo al caso in cui sembra di vedere una persona
cara in qualcuno che ci sta venendo incontro – ed ha dunque analoghi
caratteri di verità o falsità. La concezione delle intentiones del senso
interno che venne a prevalere progressivamente tra i Latini tendeva
invece a dare all'intentio una funzione rappresentativa, interpretandola
cioè non più come una proprietà appartenente a un dato individuo che a
me capita di inferire o supporre, ma piuttosto come l'aspetto sotto il
quale io colgo, ritengo significativo, mi riferisco a quel dato individuo
o a quella figura34. È evidente che Enrico si muove ormai all'interno di
questa seconda accezione, come sembra effettivamente confermato
anche dagli usi del termine che ritroviamo nelle discussioni
metafisiche35. Lo mostra anche la terminologia. Nelle due quaestiones
in esame, le intentiones sono « circa sensibilia vel intelligibilia », sono
cioè poste ad un livello superiore rispetto all’oggetto sul quale vertono.
Per questa ragione esse possono ormai riferirsi a una proprietà
relazionale del loro oggetto, il convenirmi di esso. Anzi, si può dire che
per Enrico il carattere specifico e differenziale delle intentiones che
muovono gli affetti, rispetto a quelle proprie della conoscenza teoretica,
sta proprio nel fatto che le prime esprimono relationes o correlationes

venire l'importante ricerca di D. N. HASSE, Avicenna's De Anima in the Latin West.


The Formation of a Peripatetic Philosophy of the Soul 1160-1200, London-Turin, The
Warburg Institute-Nino Aragno Editore, 2000, che definisce le intentiones estimative
come « connotational attributes » (p. 131-132).
34
Per Hasse, è con Alberto Magno che il momento connotativo della intentio
prende decisamente il sopravvento nell'interpretazione dei Latini (D. N. HASSE, op. cit.,
p. 146-150 e 60-68). Per le discussioni successive e gli ondeggiamenti semantici tra
intentio e species, cf. anche K. H. TACHAU, Vision and Certitude in the Age of Ockham.
Optics, Epistemology and the Foundation of Semantics, 1250-1345, Leiden, Brill, 1988,
p. 13-15 e passim.
35
Basti pensare al passo delle discussioni sulla distinzione intenzionale
essenza/esistenza nel quale Enrico afferma : « [...] dicitur intentio quasi intus tentio,
eo quod mens conceptu suo in aliquid quod est in re aliqua determinate tendit[…] »
(Quodlibeta, V.6 : BADE, f. 238 v). Vale la pena di leggere ancora le pagine dedicate
al tema da J. PAULUS, Henri de Gand. Essai sur les tendances de sa métaphysique,
Paris, Vrin, 1938, p. 220-237.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 207

di cui colui che le percepisce è un membro36. Il loro contenuto è


qualcosa che mi riguarda direttamente. Siamo dunque decisamente
lontani da Avicenna e, andando avanti su questa strada, diverrà ovvio
ipotizzare che queste modalità rappresentative in fondo non siano che
immaginazioni nel senso deteriore del termine, cioé denominationes
extrinsecae che noi appioppiamo agli oggetti partendo dalle nostre
reazioni ad essi e che solo per un naturale auto-inganno ci appaiono
appartenere agli oggetti stessi37. Enrico non voleva certamente arrivare
a questo punto. Il senso del suo contributo sta tutto nella scelta di
trasformare la aestimatio da analogo sensibile del giudizio o
dell'inferenza discorsiva – come lo vedeva Avicenna – in analogo sen-
sibile della autoconsapevolezza o della conoscenza riflessiva. Questo è,
in ultima istanza, il senso dell'impresa tentata nelle due questioni
quodlibetali.

4. PASSIONES INTELLECTUALES

Dobbiamo dunque pensare che, nonostante il suo voluto taglio


fisiologizzante, nonostante il ricorso alle dottrine mediche, nonostante
l'idea pionieristica di interpretare le forme rudimentali della vita emo-
tiva come rappresentazioni degli stati interni del corpo, Enrico non
voglia affatto abbandonare l'idea di una analogia tra piaceri e dolori
sensibili e piaceri e dolori intellettuali e che anzi egli stia tentando di
rifondarla. Certamente, nelle due questioni si ripete costantemente che
il tema in discussione è soltanto il dolore sensibile, non il dolore
intellettuale. Ciononostante delle passioni intellettuali qualcosa pur si

36
Si veda l'ampio commento alla quaestio nell'edizione di Vitali Zuccoli, che
difende la posizione di Enrico dalla critica degli scotisti che ritenevano la relatio
un'entità troppo debole e astratta per contribuire alla produzione dell'appetito sensi-
tivo : « si relationes non movent sensus, movent correlationes, seu ipsa correlativa »
(ZUCCOLI, f. 208 v.).
37
Cf. per esempio J. ZABARELLA, De Rebus Naturalibus libri XXX, Venetiis, 1590,
p. 70-71, che rappresenta uno degli autori più autorevoli in un più generalizzato
processo di liquidazione dell'estimativa, su cui rinvio ancora al mio F. PIRO, Il retore
interno, op. cit., p. 146-156.
208 FRANCESCO PIRO

dice. Certamente, l'intelletto non ha organi e dunque non può provare


dolori o piaceri riferiti ad essi. Ma esso ha qualcosa di analogo al
temperamentum che fa da sostrato materiale alle virtù sensibili, cioé gli
habitus che ne regolano l'attività e che possono essere rispettati o
violati. Inoltre esso può senz'altro percepire la convenientia seu discon-
venientia tra le azioni che compie e le norme della virtù, può essere
consapevole dell'eventuale defectus operationis e dolersene. Infine, dal
momento che può riflettere non solo su se stesso, ma su ogni stato
dell'anima, può darsi anche un dolore intellettuale che abbia come
oggetto un dolore della parte sensitiva. Purtroppo Enrico non discute il
caso opposto, più interessante. È possibile che io sia intellettualmente
scontento di un piacere sensuale o intellettualmente contento di un
dolore fisico ? Possono esservi cioé strati differenti e contrastanti di
emotività che vertono su uno stesso oggetto ? Purtroppo, le due
questioni non toccano questo tema. In realtà, però, parlando di
passiones intellectuales, Enrico non intende riferirsi a stati emotivi
effettivi i quali abbiano un ragionamento come loro presupposto
causale. L’analogia è tutta giocata sul piano della perceptio intentionis
disconvenientis. Infatti, le percezioni intellettuali di convenientia o
disconvenientia non generano alterazioni termiche all’interno del
corpo, ma giudizi particolari che permettono il compimento del
sillogismo pratico e rendono possibile l’atto del volere38. È l’analogia
tra appetito sensitivo e appetito razionale a spiegare perché Enrico
interpreti questi momenti del ragionamento pratico come delle
passiones. Tuttavia questa terminologia non è puramente estrinseca.
Ciò che Enrico sta facendo è di fare intervenire all’interno del
ragionamento pratico qualcosa di analogo alla voce della coscienza,
interpretandolo in maniera più conforme all’idea di una volontà in se
libera che si autodetermina per mezzo dell’uso dell’intelletto39.

38
Cf. la seconda quaestio, la XI.9, che riprende anche in questo caso formu-
lazioni aristoteliche (BADE, f. 434 v ; ZUCCOLI, 2, f. 210 r, col. B).
39
Non a caso Enrico insisterà nella quaestio quodlibetalis XIII, 9 sul fatto che
l'oggetto adeguato della volontà non è il « bonum sub ratione convenientis » ma
piuttosto il « bonum sub ratione boni simpliciter » con una critica radicale della
prospettiva aristotelica (HENRICUS DE G ANDAVO, Opera Omnia, XVIII, p. 57-64 ; BADE,
ff. 530 v/531 v). Sul rapporto intelletto/volontà in Enrico rinvio alle equilibrate analisi
di R. MACKEN, « La volonté humaine faculté plus élevée que l'intelligence selon Henri
de Gand », in Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale, 42 (1975), p. 5-51.
SENSI INTERNI E EZIOLOGIA DEGLI AFFETTI 209

Il che non significa che un dolore intellettuale non possa anche


generare veri e propri stati emotivi, anzi incorporarsi in disposizioni
emotive. Ne fornisce un esempio un caso celebre, quello legato ad
un'altra questione quodlibetale di Enrico, la II.9 : « Utrum Angelum
secundum substantiam suam sine operatione est in loco ». Come si
ricorderà, la quaestio polemizza duramente contro coloro che sono
incapaci di concepire tutto ciò che trascende il numero, la grandezza, il
sito, e afferma che « tales melancholici sunt, et optimi fiunt mathe-
matici, sed pessimi metaphysici, quia non possunt intelligentiam suam
extendere ultra situm40 ». Enrico sta qui semplicemente applicando al
caso specifico (l'angeologia) una contrapposizione tra ragionamento
metafisico e ragionamento matematico che deriva tutta da Aristotele e
dal Commento di Averroé alla Metafisica aristotelica. L'unica novità
sta appunto nel brevissimo passaggio « melancholici sunt » che intro-
duce una concezione della melanconia che, a giudizio di Klibansky,
Panofsky e Saxl, è del tutto inusuale nel XIII. secolo e pionieristica
rispetto agli sviluppi rinascimentali del tema : la melanconia non come
una malattia causata dagli squilibri umorali, ma piuttosto come « un
oscuramento dell'intelletto » o, come scrivono ancor più significativa-
mente i tre studiosi, un « sentimento[...]di essere prigionieri41 ». Di
questa novità psicologica, le due questioni quodlibetali da noi esami-
nate sembrano fornire una sorta di legittimazione teorica indiretta. Se la
teoria dei temperamenti può fornire la base dell'usuale ammissione
delle alte capacità matematiche del melanconico, la tesi che la consape-
volezza di un defectus operationis intellettuale possa essere in qualche
modo definita un dolore può effettivamente giustificare una diagnosi
quale è quella ipotizzata dai tre autori di Saturno e la malinconia,
facendo del melanconico un uomo oscuramente consapevole dei limiti
che egli stesso si è dato. Non sorprendentemente, questo caso sintoma-
tico e influente di innovazione psicologica – che rende più fluidi i
confini tra il passionale e il patologico – riguarda non soltanto un feno-
meno di dolore, ma il dolore in cui si manifesta un conflitto interiore. Il
che ci aiuta a chiarire che cosa era in questione, in ultima istanza, nelle

40
Quodlibeta, II, 9 (Opera omnia, VI, pp. 58-72 : p. 64-65).
41
R. KLIBANSKI, E. PANOFSKI, F. SAXL, Saturn and Melancholy. Studies in the History
of Natural Philosophy Religion and Art, London, Nelson and sons, 1964 ; trad. it.,
Saturno e la melanconia, a cura di R. FEDERICI, Torino, Einaudi, 1983, p. 316-317.
210 FRANCESCO PIRO

controversie psicologiche di cui abbiamo discusso. Si trattava dello


spazio teorico in cui situare le passioni, un fenomeno che – nonostante
tutti i tentativi di ricondurle al ruolo ortodossamente aristotelico di
momenti preparatori del moto finalizzato – tendevano già ad assumere
un ruolo più autonomo, nella veste di modalità di relazione con il
mondo o in quella di manifestazioni di complicati conflitti interni. È in
ragione di questo nuovo status che viene assumendo la passione, che si
spiegano gli ondeggiamenti di Enrico tra impulsualismo e cogniti-
vismo, tra Aristotele,Giovanni Damasceno, Avicenna. Pretendendo che
i moti della parte appetitiva presuppongano una componente tetica
almeno minimale, l'avicennismo aveva creato le basi di un nuovo
discorso sulle passioni. Enrico resta fedele a questa novità ma ne
inverte il senso. La aestimatio non coincide con un giudizio, non va
considerata come un atto di conoscenza propriamente detto, ma è
piuttosto un modo di riferirsi agli oggetti e al mondo mettendoli in
rapporto con il nostro corpo, le nostre attività, la nostra storia. Che
questo passo verso una psicologia delle passioni fondata sulle capacità
di autoriferimento del Sé sia stato compiuto cercando di mantenere
– almeno fino a un certo punto – una fedeltà allo spirito naturalistico
dell'aristotelismo, una coerenza con il discorso medico, perfino una
linea di continuità con l’ipotesi avicenniana di una preistoria general-
mente animale delle nostre emozioni, rende ovviamente ancor più
intricata tutta la vicenda. Ma chi scrive lo vede anche come uno degli
aspetti più suggestivi di essa e che fa onore, oltre che alla larghezza di
interessi del doctor solemnis, alla grande ricchezza di idee e di interessi
scientifici della sua epoca.

Università di Salerno
VALERIA SORGE

TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE

Nelle riflessioni che seguono, partendo beninteso dalla mia pro-


spettiva di studiosa del pensiero medievale, vorrei tornare a riflettere, in
via preliminare, su un fondamentale snodo gnoseologico, che è perve-
nuto fino all’età moderna e al criticismo kantiano : mi riferisco al
plesso di rapporti tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva o,
per dirla in termini kantiani, al nesso tra il carattere ricettivo della
sensibilità e il carattere spontaneo o attivo dell’intelletto. Tra questi due
principi, in apparenza divisi da un’opposizione polare, non sussiste
forse un’intima, significativa connessione ? Bene è vero che nella
dottrina kantiana la sensazione è ricettiva e l’intelletto è spontaneo ;
tuttavia, « talvolta », per ammissione dello stesso Kant, il senso può
essere anch’esso spontaneo perché « produttivo ». In realtà, già
nell’intuire sensibile c’è spontaneità o, meglio, nell’intuizione « ricetti-
va » già si costituisce l’orizzonte di senso spazio-temporale in cui ciò
che viene incontro, ciò che sta « di contro » (Gegen) è portato a mani-
festarsi. Ma se l’intuire è non solo ricettivo, ma anche creativo,
l’intelletto, da parte sua, è non solo creativo, ma anche ricettivo ? Nel
rispondere affermativamente a questa domanda, si può ipotizzare una
radice o un ceppo comune tra sensibilità e intelletto, come ha eviden-
ziato Martin Heidegger : la capacità trascendentale di immaginazione,
in cui sono compresenti i caratteri essenziali della conoscenza finita : la
ricettività e la spontaneità. Allora, conoscenza sensibile e conoscenza
intellettiva sarebbero il duplice volto dell’unica attività conoscitiva
umana, definibile tanto come spontaneità ricettiva, quanto come ricetti-
vità spontanea ; e se ciò è vero, l’orizzonte trascendentale, in cui l’ente
è portato a manifestarsi, è unico e tale è l’orizzonte dello schematismo
e della temporalità non-estetica della mera successione.
Ma lasciamo pure da parte i risvolti problematici o aporetici che
tali affermazioni comportano, per rivolgerci a una delle fonti sorgive di
tale complesso di questioni : mi riferisco, in particolare, alla situazione
estremamente fluida che determina, nei commenti al De anima
compresi tra gli ultimi decenni del XIII secolo e i primi del 1300, un
dibattito sorprendentemente ampio, relativo non solo alla natura del
212 VALERIA SORGE

rapporto tra sensi interni e sensi esterni, ma anche alla definizione


dell’essenza e delle funzioni del senso agente : tale complessa que-
stione, discussa, come è ormai accertato, tra il 1307 ed il 1309, ha la
sua scaturigine in un controverso passo del De anima di Alberto
Magno : qui è appunto indicato Averroè come la fonte del problema
perché al Commentatore sembrava necessario che anche i sensibilia
esterni si servano di un motore che agisce in essi, così come è proprium
degli intellecta un motore individuabile nell’ intelletto agente1.
Alcuni aspetti di tale dibattito sono già stati fortunatamente
ricostruiti con molta cura : penso alle considerazioni di Joel Biard sulla
complessa architettura del « sistema dei sensi2 », che trova forse la sua
esposizione più rappresentativa nelle Quaestiones de anima di Buri-
dano in cui il Maestro parigino fonda il proprio rifiuto di considerare il
senso agente come un sesto senso o come una facoltà diversa dal senso
passivo proprio sulla sua interpretazione del termine senso come termi-
ne connotativo che rinvia immediatamente all’anima stessa nella sua
unità sostanziale. L’interrogazione sul ruolo e sulla natura dell’anima è
accompagnata da alcuni argomenti nei quali il famoso Maestro delle
Arti ribadisce che solo l’organo materiale è recettivo della sensazione
dal momento che l’oggetto produce la specie sensibile non nell’anima,
ma nell’organo deputato alle singole sensazioni, e che l’azione dell’ani-
ma, dunque, è produttiva non della specie sensibile, bensì della stessa
sensazione.
Penso altresì alle riflessioni di Graziella Federici Vescovini nel suo
volume su Biagio Pelacani da Parma sulla genesi della questione del
sensus agens (la cui esistenza, se prestiamo fede alla testimonianza di

1
A LBERTUS M AGNUS , De anima, lib II, tr. 3, cap. 6, ed. C LEMENS STROICK, ed. Colo-
niensis, t. VII, Ia pars, Münster in Westphalia 1968, p. 104-7.
2 e
J. BIARD, « Le système des sens dans la philosophie naturelle du XIV siècle (Jean de
Jandun, Jean Buridan, Blaise de Parme) », in Micrologus. Natura, scienze e società
medievali, 10 (2002), p. 335-351, che, soffermandosi in particolare su Giovanni
Buridano, si pone in diretta continuità con la ricostruzione di A. PATTIN , Pour
l’histoire du sens agent : la controverse entre Barthélemy de Bruges et Jean de
Jandun. Ses antécédents et son évolution, Leuven, Peeters, 1988. Una ricostruzione
attenta del problema in Ruggero Bacone è ora in O. RIGNANI, « Internal and external
senses in Roger Bacon », in M. C. PA C H E C O (ed.), Intellect and Imagination in
Medieval Philosophy. Proceedings of the XI Congress of Medieval Philosophy (Porto,
26-31 august 2003) in corso di stampa negli Atti del Convegno.
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 213

Matteo da Gubbio non era unanimamente ammessa dagli averroisti),


riconducibile alla tormentata esegesi di un altro fondamentale luogo del
commento di Averroè al De anima di Aristotele relativo alla psicologia
della sensazione e alla dottrina delle forme medie tra il particolare e
l’universale, il corporeo e lo spirituale3.
Non sembra di poter riconoscere uno sviluppo univoco del tema,
dal momento che i brevi tratti appena evocati rappresentano una sorta
di estrapolazione, la quale non rende tuttavia giustizia della grande
varietà dei modelli interpretativi di una problematica che raccoglie e
sintetizza alcuni aspetti di fondo della storia del problema della cono-
scenza nella tarda Scolastica : una problematica che consente di inqua-
drare meglio da un punto di vista storico e teoretico tanto il periodo
ascendente dell'influenza del pensiero tardo medievale, soprattutto
parigino, sulla filosofia italiana, quanto il declino di questi stessi inte-
ressi che inizia già con Nicoletto Vernia successore a Padova di Gae-
tano da Thiene.
E sarà proprio Gaetano da Thiene, circa un secolo dopo4, a rico-
struire i momenti centrali del dibattito in questione, da Jandun a Buri-

3
Su tale tema si veda in particolare : G. FEDERICI VESCOVINI, Astrologia e scienza. La
crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma, Firenze,
Vallecchi, 1979, p. 125-138 ; EAD. , « Biagio Pelaconi da Parma e l’averroismo », in
L’averroismo in Italia (Atti del Convegno internazionale dell’Academia dei Lincei,
Roma, 18-20 aprile 1977), Roma, 1979, p. 143-173 e Le teorie della luce e della
visione ottica dal IX al XIV secolo, Perugia, 2003, in particolare p. 200-208 ; mi sia
permesso a tal proposito di rinviare al mio volume, V. SORGE, Profili dell’averroismo
bolognese. Metafisica e scienza in Taddeo da Parma, Napoli, Luciano, 2001, p. 94-
107 ; per la posizione di Matteo da Gubbio si veda la questione, edita da
Z. KUKSEWICZ , « Utrum sit dare intellectum agentem vel propter quid ponatur, si
ponitur », in ID ., Averroïsme bolonais au XIVe siècle, Edition de textes, Wroclaw-
Warzawa-Krakow, 1965 p. 296-306. La posizione di Biagio Pelacani è compiu-
tamente delineata nelle Quaestiones de anima, tramandate in due manoscritti : Roma,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat., Chig. O.IV.41 e Napoli, Biblioteca Nazionale,
VIII, G.74 ; le due copie sono perfettamente identiche e di esse esiste un’edizione
parziale curata da G. FEDERICI V ESCOVINI, (B IAGIO P ELACANI, Quaestiones de anima,
Firenze, Olschki, 1974) ; per una riassunzione di tale problematica nella gnoseologia
del Pelacani, mi sia consentito di rinviare alla mia traduzione italiana, condotta
sull’edizione della Vescovini, in V. SORGE, Biagio Pelacani. Quaestiones de anima.
Alle origini del libertinismo, Napoli, Morano, 1995.
4
Come ancora rileva nella sua monografia G. FEDERICI VESCOVINI, Astrologia e scienza.
La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma,
214 VALERIA SORGE

dano, anche se, nonostante la sua intenzione di voler riportare alla


lettera i testi degli autori sul tema stesso, la sua analisi si rivela sovente
del tutto parziale, come appunto nel caso di Taddeo da Parma. La
posizione del maestro averroista bolognese è infatti, a mio avviso, di
notevole interesse in quanto, diversificandosi da quella di Jandun,
contribuisce a rendere più dettagliato un quadro speculativo spesso
appiattito sulla figura predominante e più nota del maestro parigino e
rappresenta una significativa testimonianza della presenza nello Studio
di Bologna di una voce sostanzialmente isolata, almeno sulla base della
storiografia più recente.
Per ragioni di brevità, non è qui possibile approfondire questo
tema ; piuttosto, è opportuno ribadire che gli sviluppi della questione
del senso agente rappresentano, a mio avviso, la crisi di un paradigma
di pensiero non più riconducibile, incondizionatamente, allo schema
classico astrattivo della comprensione di un contenuto virtuale ad opera
dell’agente intellettivo, vale a dire al modello che associava la sensa-
zione alla passività impartecipante, inerte, dei sensi esterni ed all’inten-
zionalità delle species dedotte attraverso gli stadi di elaborazione
interna propri del senso comune e delle virtutes immaginativa, cogita-
tiva e memorativa. La questione della natura del rapporto tra cono-
scenza sensibile e conoscenza intellettiva conduce dunque a mettere in
discussione, nei dibattiti della tarda Scolastica, il modello gnoseologico
classico che presentava la sensazione, a partire dalla definizione
aristotelica del De anima come qualcosa che patisce e che è mosso,
oltre che, naturalmente, intendendola come un’alterazione5.

op. cit., p. 133.


5
A RIST., De anima, 416 b 32-417a. Su tale tema si vedano ora i contributi del bel
volume collettivo G. ROMEYER-DHERBEY, C. VIANO (eds.), Corps et âme. Sur le D e
anima d’Aristote, Paris, Vrin, 1996. Sulle forme della sensibilità nel De anima di
Aristotele e sulle funzioni diverse svolte rispettivamente dalla fantasia logico-
deliberativa (che implica il ragionamento) e da quella sensitiva, si veda ora :
M. ZA N A T T A , « Il desiderio e la locomozione degli animali nel De anima », in
G. MARCHETTI, O. RIGNANI, V. SORGE (Eds.), Ratio et superstitio. Essays in Honor of
Graziella Federici Vescovini, Louvain-la-Neuve, Fidem, 2003, p. 1-40.
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 215

1. LA RIDUZIONE DEI SENSI INTERNI : IL SENSO COMUNE

Sembra evidente, a questo punto, che ciò comporta l’instaurarsi di


una nuova problematica relativa all’analisi svolta da Taddeo delle
singole facoltà e, in primo luogo, della sensibilità. Nell’ambito di tale
riflessione occorre quindi interrogarsi brevemente sulla concezione dei
sensi interni per poi concludere l’analisi della sensibilità con la vexata
quaestio sul sensus agens, e sui suoi rapporti con lo statuto dei sensi
interni e delle relative funzioni ; si tratta, com’è noto, di un problema
fondamentale che attraversa il dibattito noetico, e non solo in ambito
averroistico, e che finisce col rappresentare, senza ombra di dubbio, il
focus più significativo delle discussioni anche in ambito epistemologico.
Benché Taddeo da Parma abbia dedicato ampia parte del suo
Commento al De anima alla descrizione delle funzioni dell’anima
sensibile6, analogamente alla tradizione aristotelico-scolastica, tuttavia
non può giustificare e legittimare l’esperienza sensibile stessa come
attività valida in senso assoluto dal momento che essa non può cogliere
l’essenza sostanziale delle cose, ma solo i suoi effetti e risulta quindi
subordinata all’attività propriamente razionale dell’anima umana. Se
questo è vero, sembra più difficile, invece, stabilire perché Taddeo
abbia ridotto i tradizionali sensi interni7 comunemente ammessi dagli
Scolastici (senso comune, memoria sensibile, immaginazione, fantasia)

6
Sulle funzioni ed il ruolo dei sensi esterni nel primo libro del De anima, mi sia
consentito di rinviare ancora al mio volume V. SORGE , Profili dell’averroismo
bolognese. Metafisica e scienza in Taddeo da Parma, op. cit., p. 73-94
7
In un primo momento com’è noto, il termine « senso interno » rappresentava
l’equivalente dell’aristotelico senso comune per l’influenza del modello galenico e lo
spostamento topologico delle tre facoltà dal cuore – dove appunto Aristotele aveva
individuato la percezione comune così come farà nuovamente Averroè – al cervello.
Sulle discussioni innestate dalla tradizione medica galenica in particolare sulla
prospettiva di Avicenna, cf. D. JACQUART, « Avicenne et la nosologie galénique », in
A. HASNAWI, A. ELAMRANI-JAMAL, M. AOUAD (éds.), Perspectives arabes et médiévales
sur la tradition scientifique et philosophique grecque, Leuven-Paris, Peeters, 1977,
p. 217-226. Si veda anche il saggio di J. PIGEAUD, « La psychopathologie de Galien »,
in P. MANULI , M. VEGETTI (eds.), Le opere psicologiche di Galeno, (Atti del terzo
Colloquio galenico Internazionale, Pavia, 10-12 sett. 1986), Napoli, Bibliopolis, 1988,
p.153-183 e, nello stesso volume, il contributo di G. STROHMAIER, « Avicennas Lehre
von den “inneren Sinnen” und ihre Voraussetzungen bei Galen », p. 231-242.
216 VALERIA SORGE

al solo senso comune dal momento che, significativamente, il secondo


libro del De anima si chiude con la questione « Utrum sensus commu-
nis sit unus ». Sembrano infatti, dall’analisi del testo, restare aperti
alcuni interrogativi fondamentali riguardo alle operazioni e prestazioni
stesse del senso comune. Né questi interrogativi vengono completa-
mente dissipati dalla lettura delle prove addotte da Taddeo per affer-
mare la necessità del senso comune ed i suoi rapporti con i sensi
esterni ; a differenza dei luoghi precedenti, qui Taddeo ricorre abbon-
dantemente a numerosi esempi, e ciò, in linea ipotetica, dovrebbe
facilitare la comprensione : per un verso, infatti, il senso comune
diventa indispensabile per cogliere la diversità dei vari sensibili, del
bianco dal dolce, e, di conseguenza, sembra necessario che i vari sensi-
bili dipendano dal senso comune ; per un altro aspetto, viceversa, lo
stesso senso comune, nel suo agire, dipende dai sensi esterni che gli
presentano l’oggetto indispensabile per l’esercizio della sua attività8.
Sorge allora un primo problema per un interprete del testo di
Taddeo che voglia dar conto in maniera coerente della sua teoria del
senso comune : che valore ha la dipendenza del senso comune dai
cinque sensi esterni ? E perché Taddeo nega la molteplicità dei sensi
interni ? La risposta a tale quesito presupporrebbe che sia possibile
ricostruire un quadro unitario ed univoco della significatio del termine
già in Aristotele e poi in Averroè, il che, considerata la marcata inco-
stanza semantica del termine, risulta estremamente problematico.
Apparentemente, infatti, nella gnoseologia aristotelica l’espressione
aisthesis koiné, designa un senso che coordina la percezione dei
sensibili comuni a più sensi9. Aristotele, però introduce un elemento di
complessità ulteriore che ci consente di rinviare alla problematicità di
tale nozione già messa in luce con incisività nel 1987 da Deborah
Modrak che rilevava la poliedricità delle funzioni della aisthesis koiné,
che comprende non solo la percezione dei sensibili comuni, ma anche
la consapevolezza della stessa percezione, i giudizi sull’unità degli

8
T HADDAEUS DE P ARMA , Quaestiones de Anima, l. II,, q. XXVII, ms. Firenze, Biblio-
teca Nazionale Centrale, Conventi Soppressi, J.3.6, f. 71rb.
9
De anima III, 425a 27.
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 217

oggetti sensibili complessi e la considerazione delle differenze tra gli


oggetti propri10.
Tra l’altro, come già aveva fatto osservare R. Sorabji11, Aristotele,
in misura maggiore rispetto a tutti gli altri autori dell’antichità, amplia
in modo sorprendente il contenuto della percezione sensibile com’è
dimostrato anche dal vario uso del verbo krinein nel De anima12 che ne
indica, appunto, la funzione. Ancora più recentemente Barbara Cassin
ha sottolineato che la problematicità nella traduzione di aisthesis
[…] est l’un des symptômes de notre non-aristotélisme : nous ne pouvons
pas dire à la fois la faculté de percevoir (la sensibilité), l’exercice de cette
faculté (la perception), sa distribution liée ou non aux organes des sens (les
cinq sens, le sens commun), et les affections singulières produites par les
objets des sens (les sensations). Cette syncronie des deceptions est, notam-
ment, l’un des effets du rapport entre puissance et acte, qui détermine tant la
définition de l’âme que celle de l’ aisthesis et qui contribue à faire pour nous
13
du traité un texte hérmetique .
Il problema sollevato dalla Cassin è senz’altro fondamentale e le
consente di estendere il « potere critico » dell’aisthesis allo stesso senso
comune inteso come una vera e propria operazione di calcolo, la cui
unità si rende allora immediatamente evidente :
le sens commun ne permet pas seulement de sentir des sentis communs
(jaune et petit, amer et immobile), il permet aussi d’unifier les sentis propres
simultanés (jaune et amer), en les focalisant ou en les percevant comme
focalisés. Le point important, c’est qu’on tient alors en une seule opération
l’unité d’un objet des sens (c’est « d’un même », le fiel, qu’on sent
14
l’amertume et le jaune), et la possibilité de la prédication .

10
I. D. MODRAK , Aristotle. The Power of Perception, Chicago, Chicago University
Press, 1987, p. 62.
11
Su tale tema si veda il bel saggio di R. SORABJI, « Intentionality and Physiological
Processes : Aristotle’s Theorie of Sense-Perception » nell’ampia raccolta di saggi
edita da M. C. NUSSBAUM, A. O. RORTY, Essays on Aristotle’s De anima, Oxford,
Oxford University Press, 1992, p. 196.
12
De anima, III, 2, 426b 10-23.
13
B. CASSIN, « Enquête sur le logos dans le De anima », in Corps et âme. Sur le De
anima d’Aristote, op. cit., p. 266.
14
Ibid., p. 282. Il passo cui fa riferimento la Cassin è in De anima, 425a 30 b 4.
218 VALERIA SORGE

In ogni caso, che si debba indiscutibilmente rilevare il peso di una


aisthesis intesa come « intelligence sensibile », secondo l’incisiva
espressione di Narcy15, tutta la discussione medievale sul ruolo dei sensi
interni nasce dall’accentuata incostanza semantica del termine negli
scritti aristotelici, e ben si spiega, da questo punto di vista, la problema-
tizzazione operata da Averroè dello stesso contesto aristotelico, della
quale converrà ora definire brevemente qualche elemento. Va innanzi-
tutto sottolineata la peculiarità dell’immagine del cerchio16 che è possi-
bile, a mio avviso riconoscere come un’intuizione di grande rilievo che
guida e sorregge l’ermeneutica averroista del concetto di senso
comune : come ha felicemente osservato di recente A. De Libera nel
suo ponderoso commento alla recente traduzione francese del Commen-
tum maius di Averroè al III libro del De anima, l’immagine del cerchio
è probabilmente suggerita al Commentatore non solo dalla convinzione
che il senso comune rappresenta ciò verso cui convergono i diversi
sensi, ma soprattutto « […] par l’obscurité même du texte qu’il
commente17 ». E’ allora proprio l’oscurità del testo stesso a consentire
ad Averroè di paragonare lo statuto del senso comune a quello del
punto geometrico che, sebbene indivisibile, inteso anche come limite,
non si dimostra affatto incompatibile con una molteplicità di relazioni
così come aveva già indicato Aristotele18.
L’introduzione di simili metafore ha certamente suscitato
perplessità tra gli studiosi ma potremmo rilevare che, in realtà, qui si
tratta solo di privilegiare l’immagine del punto come centro della
circonferenza rispetto al duplice statuto aristotelico del punto come
termine finale di un primo segmento di linea e, al contempo, termine di

15
M. NARCY, « KRISIS et AISQHSIS (De anima, III, 2) » in Corps et âme, op. cit.,
p. 252. Ma si veda anche, nello stesso volume, il bel saggio di J. BRUNSCHWIG, « En
quel sens le sens commun est-il commun ? », p. 189-218.
16
AVERROES, Comm. Magnum in Arist. De anima libros, ed. S. CRAWFORD, Cambridge
(Mass.) 1953, III, 31, p.470-471, 15-21 : « Idest, et sicut declaratum est quod aer
movet visum, et movetur ab alio, et similiter auditus movetur ab aere, et aer ab alio,
quousque motus perveniat in omnibus sensibus ad unum finem, qui est in illis motibus
quasi punctus qui est medium circuli de lineis exeuntibus a circumferentia, ita est de
intellectu materiali cum intentionibus ymaginum intellectis. »
17
A VERROÈS , L’intelligence et la pensée. Sur le « De anima », Présentation et tr.
inédite par A. DE LIBERA, Paris, Flammarion, 1998, p.336.
18
De anima, III, 2, 427 a 9.
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 219

un secondo segmento19. Di qui la possibilità di intendere meglio quella


che potremmo definire una vera e propria analogia di proporzionalità
tra senso comune e intelletto proposta da Averroè come il modo più
opportuno di intendere il legame tra le due facoltà : il rapporto
dell’intelletto all’immagine può essere inteso come quello tra il senso
comune e il sensibile20 e, tra l’altro, « […] le rapport de l’intellect aux
‘intentions de l’imagination’ est le même que celui du sens commun
21
aux différents sensibles propres ».
In realtà, è proprio su questo schema che Taddeo definisce la sua
adesione alla teoria di Averroè del senso comune e la sua analisi mostra
chiaramente la difficoltà di valicare i confini della problematizzazione
operata da Averroè del testo aristotelico ; anche Taddeo, infatti, co-
struisce un’analogia tra l’ambito delle operazioni del senso e quello
dell’intelletto, « […] quia sicut diversitas intelligibilium se habet ad
intellectum, ita diversitas sensibilium se habet ad sensum ; sed
diversitas intelligibilium est quoddam intelligibile, ergo diversitas
sensibilium est quoddam sensibile22 ».
L’analogia serve a porre icasticamente l’accento sul fatto che, pur
potendosi rafforzare in tal modo l’evidente connessione strutturale dei
sensibili alla sfera del mondo intelligibile, già affermata in analogia con
il discorso aristotelico, e pur avendo stabilito senza ombra di dubbio
l’unicità del senso comune, lo stesso senso comune, dal punto di vista
dell’essenza, « secundum esse », è, al contrario, molteplice : « Adver-
tendum quod licet sit unus per essentiam est tamen plurificatus secun-
dum esse23 ».
Fermo restando che il maestro averroista non apporta ulteriori
chiarimenti su tale molteplicità « secundum esse » del senso comune,

19
AVERROÈS, L’intelligence et la pensée. Sur le De anima, op. cit., p. 337
20
AVERROÈS, Comm. Magnum in Arist. De anima libros, ed. cit., II, 29, p. 172, 25-32 :
« Deinde dixit : Et in aliis distinguens et intellectus. Idest, et ponamus etiam pro
manifesto quod virtus cogitativa et intellectus existunt in aliis modis animalium, que
non sunt homines, et quod proprie sunt in aliquo genere, ut in hominibus, aut in alio
genere, si demonstratio surgat quod alia sunt huiusmodi ; et hoc erit si fuerit equales
hominibus aut meliores eis. »
21
AVERROÈS, L’intelligence et la pensée. Sur le De anima, op. cit., p. 305-306.
22
THADDAEUS DE PARMA, Quaest. De Anima, l. II, q. 27, fol. 71rb.
23
Ibid.
220 VALERIA SORGE

diventa a questo punto più che legittimo chiedersi perché il rapporto tra
i sensi esterni e l’unico senso interno resti così indeterminato. Vi si può
senz’altro vedere il segno di quel processo che porterà Biagio Pelacani,
a fine 300, a ricondurre le attività sensibili interne (senso comune o
fantasia, cogitativa, estimativa e memoria) al solo senso comune, in una
prospettiva, tuttavia, di chiara intonazione materialistica certamente
diversa da quella di Taddeo24.
Sicuramente l’epistemologia elaborata dal maestro bolognese
avverte la difficoltà di dover assegnare al senso comune da un lato
funzioni relazionali che permettano di mettere in relazione i diversi
sensibili, e, dall’altro, una funzionalità che non vada oltre il carattere
del supporto puramente materiale delle operazioni sensibili dell’intel-
letto. Né, possiamo aggiungere, le discussioni sul numero dei sensi
interni, pur in dipendenza col principio occamiano di economia, si
erano già spinte al punto di conquistare posizioni radicali, quali quelle
che faranno proprie sia i maestri parigini del XVI secolo, sia gli
Scolastici più agguerriti tra cui il Ruvius e il Suarez25. Il senso comune
si presenta dunque, nell’ambito del tentativo di semplificazione dei
sensi interni, con uno statuto decisamente ambiguo, né sorte diversa,
dal punto di vista epistemologico, toccherà alla cogitativa, indebolita
probabilmente, come vedremo in seguito, dalla scoperta della sua totale
assenza nel pensiero dello stesso Aristotele.

24
Così come sottolinea ancora G. FEDERICI V ESCOVINI, La crisi dell’aristotelismo sul
cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma, op. cit., p. 139-142.
25
E’ K. Park a seguire, in ambito parigino, l’evoluzione della tesi del senso comune
come un unico senso polioperativo segnalandone, come espressione più matura, il
testo di Lefebvre d’Etaples e Clichtove, Totius philosophiae naturalis paraphrases
cum annotationibus del 1502 (cf. K. PARK, « The Organic Soul », in The Cambridge
History of Renaissance Philosophy, Cambridge-New-York, Cambridge University
Press, 1988, p. 465-484). Per Suarez si veda Partis secundae Summae Theolo-
giae…tomus alter, Boissat et socii, Lugduni 1635.
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 221

2. IL SENSO AGENTE

Taddeo da Parma già nella tredicesima questione del secondo libro


del De anima, « Utrum virtus sensitiva sit activa vel passiva », ha cura
di distinguere il senso passivo dal senso agente di cui tratterà, sempre
nel secondo libro, nell’importantissima questione quindicesima ; egli
postula, infatti, un certo tipo di attività, già presente nella sensazione, e
quindi nei processi fisiologici degli animali (e ben distinta tra l’altro da
quella propriamente sovra-materiale dell’anima razionale), che indivi-
dua, appunto nel senso agente.
Si esprime in tal modo un’esigenza di una più marcata
accentuazione e problematizzazione del ruolo della sensazione nel
processo conoscitivo : il maestro averroista è convinto della possibilità
che, accanto alla passività del senso, sussista, complementarmente, un
livello operativo, per così dire, per cui, in funzione della percezione da
attuare, l’organo di senso, da uno stato di inerte recezione, passa ad una
condizione attiva, commutando gli stimoli in similitudines virtuales che
sono intenzioni prime, particolari, dell’entità materiale. Ci troviamo
così di fronte ad una problematica che richiama molto da vicino la
dottrina della fantasia catalettica attribuita da Sesto Empirico agli
Stoici, in cui il visus è chiaramente attivo ; l’organo di senso si adegua
allora opportunamente alle variazioni d’intensità dello stimolo al quale
è sensibile, come avviene, ad esempio, nella diversa percezione
dell’intensità luminosa quando si proviene da ambienti molto illuminati
o viceversa.
Il nodo cruciale della questione è riposto, dunque, nell’identi-
ficazione dell’agente immediato responsabile della sensazione in atto.
Non a caso Taddeo da Parma, nella ben nota quaestio quindicesima del
secondo libro introduce il discorso con una decisa replica nei confronti
di coloro che negavano l’esistenza, nell’anima sensitiva, di una virtus
activa quale causa prossima della sensazione26.

26
T HADDAEUS DE P ARMA , Quaest. De anima, l. II, q.15, « Utrum sit possibile dare
praeter sensum passivum in sensitiva anima sensum alium activum » (citiamo dall’ed.
di A. PATTIN, op. cit., p. 399, dopo aver controllato il manoscritto di Taddeo), p. 400 sgg.
222 VALERIA SORGE

Se, dunque, l’ipotesi del sensus agens immediatamente introdotta


nel prosieguo del discorso è formulata da Taddeo al fine di rendere
autonoma, per così dire, la sensibilità, allora ci troviamo evidentemente
di fronte a un modello gnoseologico che non collima affatto con
l’interpretazione classica della gerarchia delle potenze dell’anima
ammessa da Aristotele. E’ fondamentale ricordare a tal proposito la tesi
proposta dal maestro bolognese a conclusione della XIII questione del
II libro, secondo cui nell’anima, oltre a una virtus passiva, esiste anche
una virtus sensitiva activa dal momento che l’anima stessa dev’essere
attiva nelle sue operazioni ; da questo punto di vista, ben si comprende
la determinatio che Taddeo elabora nel corso della serrata analisi
proposta nella quindicesima questione, intesa come risposta confu-
tatoria alla tesi di coloro che, negando l’esistenza di un sensus agens,
« […] de sensatione reddendo causam, isti […] sunt bipartiti27 ».
È tuttavia importante ricostruire il contesto di questa affermazione
per comprenderne il senso esatto dal momento che le argomentazioni a
favore dell’esistenza del senso agente svolte da Taddeo procedono
serratamente a partire da considerazioni storiche e, insieme, teoretiche
in quanto, a suo parere, il motivo che indusse Aristotele a sostenere la
passività del senso, fu semplicemente quello di contrastare l’opinione
di quegli antiqui che ipotizzarono che l’anima sensitiva sia soltanto
attiva28 ; questa posizione è senz’altro da respingere insieme all’altra
specifica tesi che circoscrive il generico ambito di coloro che negano il
senso agente a quei « fratres minori imitantes sententiam Scoti » a
parere dei quali il senso è una virtus sensibile e, insieme, principio
attivo e passivo della sensazione29.

27
Op. cit., p. 397.
28
Ibid.,p. 405 : « Advertendum quod causa movens Aristotelis ad probandum sensum
esse passivum fuit ut per hoc improbaret opinionem antiquorum, qui cum posuerunt
animam sensitivam esse omniam sensibilia ut omnia cognosceret posuerunt animam
sensitivam esse tantum activam. Haec autem opinio est improbata per hoc quod
probatum est ab Aristotele sensum passivum esse, non quod velit Aristoteles negare
esse virtutem sensitivam activam, sed non et esse tantum activam. » Si tratta,
evidentemente, di Empedocle, per il quale l’anima è composta di tutti gli elementi e il
simile conosce col simile, come riassume ARIST., Metaph. III, 4, 1000b 3-24.
29
Ibid, p. 398 : « Hanc autem ultimam opinionem primo instigo, quia ex hoc sequitur
quod idem sit simul et semel et respectu eiusdem in actu et potentia, quod est falsum
quia implicat contradictionem. »
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 223

In ultima analisi, dunque, il nucleo teorico bersaglio della


ricognizione polemica di Taddeo, è rappresentato a mio avviso, da quel
luogo dell’Ordinatio in cui Duns Scoto aveva proposto la coincidenza,
nel senso, di una quantità, insieme passiva ed attiva30 ; e tale tesi,
aggiungiamo noi, andrebbe senz’altro rivista alla luce dell’ontologia
della scuola francescana che considera la materia non come pura
potenza ma come costituita in se stessa da un’incipiente ed abbozzata
attualità e, a causa della sua sostanziale imperfezione, determinabile
essenzialmente per mezzo di ulteriori forme31.
Risulta difficile non pensare che Taddeo abbia tratto ispirazione da
Jandun ; la scelta di ricorrere al maestro parigino non può, peraltro,
lasciare sorpresi, dal momento che sia il suo Commento al De anima
sia il suo Commento alla Metafisica rappresentavano senza dubbio una
sicura garanzia di autorevolezza. Nondimeno, se la disamina svolta dal
maestro bolognese delle diverse principali opinioni neganti il sensus
agens segue fedelmente l’intentio espositiva di Jean de Jandun, la carat-
terizzazione del senso agente però è certamente diversa.
Il punto di partenza di Jean de Jandun, infatti, è rappresentato da
una preliminare dichiarazione di rispetto nei confronti del linguaggio
aristotelico e del suo rigorismo ; va infatti particolarmente sottolineata
l’osservazione di Aristotele che « sentire accidit in quondam pati et
moveri, non enim sentire est formaliter et essentialiter ipsum pati et
moveri a sensibili » ; l'autore sottolinea particolarmente l’accidit
considerando che, se Aristotele avesse inteso porre un identità forma-
liter et essentialiter, non avrebbe avuto senso l' accidit e si sarebbe
determinata una vera e propria tautologia « […] quia nihil proprie

30
Lo stesso Pattin, nell’introduzione alla sua edizione del testo di Taddeo (p. 391-
394), riassume brevemente la tesi scotista, anche alla luce delle opinioni di Olivi,
Peckham, Matteo d’Acquasparta, Enrico di Gand e Pietro di Trabibus.
31
Da tale considerazione metafisica della materia prima come principio già dotato di
una sua attualità, si svilupperà coerentemente, com’è noto, il problema della gene-
razione delle forme dalla materia per mezzo dell’agente stesso, per cui i francescani
sosterranno l’argomento della pluralità delle forme strutturate secondo un rapporto di
dipendenza gerarchica tale che l’ultima forma viene a unificare le forme inferiori e a
conferire l’essere sostanziale all’ente. Su tale tema resta fondamentale la ricostruzione
di P. MAZZARELLA , Controversie medievali. Unità e pluralità delle forme, Napoli,
Giannini, 1978 e il bel volume di E. H. WÉBER, La personne humaine au XIIIe siècle,
Paris 1991, in part. p. 74-198.
224 VALERIA SORGE

accidit in seipso nec sibi ipsi » ; l'identità si ha invece solo materialiter


et subiective32.
Analoghe considerazioni sono ribadite ancora con forza in alcune pa-
gine del Commento alla Metafisica per indicare le difficoltà cui
andrebbe incontro chi volesse ammettere la presenza di un principio
attivo e passivo nello stesso soggetto ; Jandun sostiene che, in ogni
caso, la specie è principio ricettivo immediato della sensazione e quindi
deve necessariamente essere esclusa ogni altra possibilità relativa ad
agenti oltre il senso stesso. Nel polemizzare poi con chi nega il senso
agente, il maestro parigino ne sottolinea la necessità perché la sensa-
zione è fine della natura dell'animale ; non ci troviamo di fronte a una
duplicazione del senso, – egli continua – ma piuttosto ad una sua diver-
sa tendenza intrinseca : la virtus activa, principio dell'effetto della
stessa specie, è incompatibile con la pura ricettività e quindi si rende
indispensabile ammettere un principio attivo di sensazione che non va
identificato con la specie sensibile, perché, in tal caso, l'oggetto sarebbe
più nobile del senso. A questo proposito Jandun riprende le dimostra-
zioni per assurdo già utilizzate nel commento al De anima, e, indivi-
duando un canale attivo per la sensazione, riconosce l’agens in un
duplice modo : come disponens et preparans ad receptionem actis e
l’agens che nel sostrato già preparato e disposto è perficiens et complens
inducendo l'ultimo atto perfetto ; nel sottolineare poi la stessa conti-
guità del passivo con l’attivo attraverso molteplici distinzioni fra le
potenze ed il loro stesso movimento, ne risulta che l'attività del senso
non intacca né il patire in senso aristotelico né la sua unicità.
Le affermazioni di Taddeo, per converso, pur considerate nella
loro individualità, sono strettamente correlate e ci permettono di
individuare una vera e propria progressio argumentorum : dal momen-
to che – come egli ha cura di precisare – il recipere dell’organo di
senso lo rende simile alla materia, lo assimila cioè alla sua passività o
mera potenzialità, è necessario che esista un principio che gli comuni-

32
IOANNES DE JANDUNO , Quaestiones super libros tres De anima Aristotelis, rist. an.
dell’edizione di Venezia, Giunta, 1587, Minerva, Frankfurt a. M., 1966, L. II, q. XIV,
f. 47va ; sui tratti fondamentali della gnoseologia di Jandun si veda ora la bella
relazione di J.-B. BRENET, « Du phantasme à l’espèce intelligibile : la ruine d’Averroès
par l’averroïste Jean de Jandun », presentata all’XI Congresso Internazionale di
Filosofia Medievale (Porto, 26-31 agosto 2002), in corso di stampa negli Atti del
Convegno.
TADDEO DA PARMA E LA DOTTRINA DEL SENSO AGENTE 225

chi la perfezione nella relativa operazione e questo principio attivo è


senza dubbio più nobile di ciò che è passivo33. Infine, sempre in virtù di
tale assunzione di principio, bisogna riconoscere che tra la specie
sensibile, che è « in rebus inanimatis » e la virtus sensitiva che « solum
potest reperiri in animatis », è necessario riconoscere che l’animato è
più nobile di ciò che è inanimato.
Diventa fondamentale, a questo punto, per Taddeo, chiarire il
ruolo cui sarebbe deputato il sensus agens da lui ipotizzato : poiché il
passaggio del senso dalla potenza all’atto è sempre accompagnato dalla
produzione della relativa specie sensibile, in ordine alla quale il senso
perviene alla sensazione compiuta, attuata, e dovendosi escludere che il
senso abbia questa capacità di autoattivarsi, non resta che ammettere
che, a tal fine, si richiede quella virtus sensitiva activa « […] operans
completive ut sensus in talem exeat actum34 ».
D’altronde, tutta la parte conclusiva della questione ribadisce
ancora, nel discutere ulteriori obiezioni, l’esistenza del senso agente a
partire dalla sua molteplicità per le diverse specie di sensazioni, dalla
sua collocazione nello stesso organo del senso recipiens e, infine, dalla
sua azione non immediata sul sensibile esterno, ma finalizzata a che il
senso, informato dalla specie, « prorumpat in sensationem35 ».
In breve, proprio la centralità acquisita dalle funzioni del senso
agente si avvia a rappresentare il vero punto di snodo della questione,
aprendo un vivace dibattito già tra gli stessi maestri bolognesi ; è
appena il caso di ricordare che proprio su tale punto si indirizzerà
l’obiezione più valida avanzata da Matteo da Gubbio nei confronti della
tesi di Taddeo nella quinta questione del II libro del commento al De
anima : proclamare che il senso o l’anima sensibile sia una virtus o
facoltà attiva implicherebbe ed imporrebbe l’attribuzione ad esso del
ruolo di causa efficiente della sensibilità e ciò non rappresenta
unicamente una contraddizione in termini, ma è anche in contrasto con
quanto aveva sostenuto Aristotele, a parere del quale il senso consiste
in un alterari e pati36. D’altronde, ci è sembrato senz’altro possibile

33
THADDAEUS DE PARMA, op. cit., p. 399-400.
34
Ibid.
35
Ibid, p. 403.
36
Si vedano a tal proposito gli argomenti svolti da MATTEO, ed. cit., p. 71-72.
226 VALERIA SORGE

individuare nel maestro bolognese un autore pienamente consapevole


di quelle esigenze nominalistiche di economia ontologica che contri-
buiscono a minare alle radici l’edificio della psicologia di origine ara-
ba : pertanto la problematica sviluppata da Taddeo considerata entro
una più ampia prospettiva storica, si trova senz’altro compresa, in
posizione antagonistica, tra una duplice tradizione ; da un lato, infatti
essa porta a compimento la parabola epigonale dell’averroismo
invalidando dunque la credibilità del suo deposito di tradizione con lo
snaturare, in qualche modo, i contenuti stessi di una fisiologia
dell’anima sensitiva improntata alle originarie istanze aristoteliche ;
d’altro lato declina queste stesse istanze secondo ipotesi teoriche nuove
ed alternative37 ed offre in tal modo una preziosa indicazione dei
successivi percorsi delle discussioni sullo statuto e le funzioni dei
sensibili tra 300 e 400 accompagnate da quelle stesse notevoli ambiva-
lenze interne che potrebbero esse sole costituire la storia di un
momento fondamentale della noetica averroistica.

Università di Napoli « Federico II »

37
Cf. G. FEDERICI VESCOVINI, « L’exorde de l’Arithmetica de Boèce et le commentaire
de l’averroïste Thaddée de Parme (1318) », in Boèce ou la chaîne de savoirs, éd.
A. GALONNIER, préface de R. RASHED, intr. de P. MAGNARD, Louvain-la-Neuve, Louvain,
Paris, Peeters, 2003, p. 697-711.
JOËL BIARD

LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN

La question du sens agent fut l’objet d’une controverse à Paris au


début du XIVe siècle, mettant notamment aux prises Barthélémy de
Bruges et Jean de Jandun ; l’histoire en est bien connue depuis les
travaux d’A. Pattin, qui en a à la fois indiqué les sources au XIIIe siècle,
édité les principales pièces et suivi quelques-uns des prolongements1.
Le souvenir, voire l’actualité de cette querelle ne sont pas estompés
dans les commentaires du Traité de l’âme du milieu du siècle, comme
en témoigne au premier chef la place prise par cette question dans les
commentaires de Jean Buridan. Certes, enseignant à la faculté des arts
dès le milieu des années 1320, le maître picard appartient à la généra-
tion immédiatement postérieure à Jean de Jandun, lequel enseignait
encore en 1315 au Collège de Navarre et quitta Paris en 1325. Mais on
trouve aussi des échos de ces discussions dans des commentaires plus
tardifs, comme l’a montré Pattin : non seulement chez Nicole Oresme,
mais aussi, sans doute grâce au relais passé par Buridan, chez Marsile
d’Inghen ou même chez Laurent de Lindores, maître ès arts de 1393 à
1403 – pour s’en tenir ici aux maîtres parisiens2. L’influence directe de
Jean de Jandun sur l’école bolonaise (Angelo d’Arezzo, Thaddée de
Parme, etc.), n’est pas la seule voir de transmission et reproduction de
ce problème, et une version « parisiano-buridanienne » du problème
côtoie la version « italo-jandunienne » (pour ne pas dire « aver-
roïste »), même si les deux se croisent sans doute dès le tournant des
XIVe et XVe siècles.
Sans être nécessairement la réportation d’une récente disputation
réelle, les commentaires parisiens ne se réduisent pas aux exigences de

1
A. PATTIN , Pour l’histoire du sens agent. La controverse entre Barthélémy de
Bruges et Jean de Jandun, ses antécédents et son évolution, Leuven, 1988.
2
En ce qui concerne Laurent de Lindores, nous suivons ici P ATTIN, p. 320 sqq.
Celui-ci édite aussi un manuscrit parisien anonyme qu’il attribue à Thomas de Wylton
(p. 333 sqq.).
228 JOËL BIARD

l’argumentation pro et contra mais témoignent bien du souvenir d’une


vive opposition. En même temps, l’argumentation buridanienne, si elle
converge en apparence avec celle de Jean de Jandun quant à la défense
du sens agent, se fait sur des bases propres, assez différentes. Dans tous
les cas cependant, la défense du sens agent conduit non seulement à
mettre en cause la thèse de la passivité des sens, mais encore à recom-
poser les rapports des différentes puissances de l’âme.
Pour faire l’état de ce problème nous partirons du commentaire de
Buridan dans sa version dite « tertia lectura ». Il s’agit de la dernière
version dont nous disposons des leçons sur l’âme de Buridan – l’édition
imprimée dite « édition Lockert » (1516 et 1518) ayant été remaniée
par l’éditeur et offrant sur ce thème un exposé plus condensé de la
question. Cette « troisième lecture » est celle qui a été éditée par Peter
Sobol dans son travail doctoral3. D’après B. Michael, elle aurait été
rédigée après la dernière lecture de la Physique, entre 1347 et 1357/58.

1. LA QUESTION DU SENS AGENT : STRUCTURE DE L’ARGUMENTATION

La question 10 sur le livre II aborde directement le problème :


4
« Est-ce pour sentir il est nécessaire qu’il y ait un sens agent ? » . La
formulation reprend donc un débat qui avait pris forme à Paris à partir
d’Albert le Grand et qui avait pris de l’ampleur dans la première dé-
cennie du XIVe siècle.
Du point de vue de la structure argumentative, ce qui frappe c’est
l’extrême brièveté des argument principaux. Certes, il est de règle que
la position qui doit être ultérieurement retenue soit dans un premier

3
P. S. GORDON, John Buridan on the Soul and Sensation. An Edition of Book II of
his Commentary on Aristotle’s Book on the Soul, with an introduction and a transla-
tion of Question 18 on sensible species, University Microfilms International, Ann
Arbor, 1984. Les passages concernés avaient déjà été édités par A. Pattin dans leurs
différentes versions.
4
La question 9 contenait déjà des éléments concernant notre propos : « Est-ce que
le sens est une puissance passive ? ».
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 229

temps expédiée rapidement, voire d’une simple argument d’autorité5.


Ici cependant, aussi bien l’argumentation quod sic que l’argumentation
ad oppositum sont extrêmement rapides : un pour et un contre, très suc-
cincts ; ensuite, c’est à une réponse positive que Buridan va se rallier
(donc à la position quod sic) succinctement exposée au début, en avan-
çant alors des arguments supplémentaires ; enfin, avant d’exposer sa
position, Buridan commence par souligner la diversité des opinions sur
ce sujet. Ce qui est remarquable, c’est en fait l’importance relative de la
place accordée à l’exposé de la controverse, alors que quelques décen-
nies se sont déjà écoulées depuis la première discussion entre Barthé-
lémy de Bruges et Jean de Jandun. Ou bien cette controverse a eu des
prolongements, ou bien elle est restée comme un élément marquant de
l’histoire de la psychologie au XIVe siècle.
Avant d’entrer dans le détail de certains arguments, comparons
cette structure discursive avec celle d’autres textes voisins, soit de
Buridan lui-même soit d’un milieu qui lui est proche. Passons rapide-
ment sur l’édition Lockert, qui peut avoir été remaniée par l’imprimeur.
La question sur le sens agent y est très brève, elle commence également
par la position quod sic, mais elle évite de rapporter la controverse et
passe aux conclusions : « pono breviter conclusions sine recitatione
opinionum ». Les thèses soutenues (conclusiones) sont assez nom-
breuses (au nombre de six) mais succinctement exposées.
La version éditée par A. Pattin sous le titre de Questiones breves6 a
la même structure générale, commençant par les arguments quod sic.
Mais, paradoxalement pour une version présentée comme « abrégée »,
Buridan ne se contente pas d’une rapide comparaison avec l’intellect
agent ; il introduit dès l’exposé initial des arguments quelques raisons
supplémentaires, incluant des autorités d’Aristote et d’Averroès, et des

5
C’est dans la réponse ultérieure et dans la réfutation des objections que les argu-
ments sont développés.
6
Il s’agit là d’une appellation traditionnelle. Cette version est antérieure au texte
désigné par les manuscrits comme « troisième » ou « dernière lecture » – voir
B. MICHAEL, dans Johannes Buridan, Studien zu seinem Leben, seinen Werken und zur
Rezeption seiner Theorien im Europa des späten Mittelalters, 2 vol., Berlin, 1985,
p. 704-719 ; A. Pattin l’édite d’après le manuscrit de Vendôme, Bibliothèque munici-
pale 169.
230 JOËL BIARD

raisons qui, dans la tertia lectura, se trouvent incluses dans l’exposé de


la controverse.
En revanche, la texte du manuscrit de Bruges qui a été présenté par
Patar comme la « prima lectura » mais que l’on considérera plutôt
comme une compilation tardive7, présente une structure différente. En
particulier, ce texte commence par une argumentation contre
l’existence du sens agent, expose plus en détail l’argumentation in op-
positum, en l’occurrence quod sic, puis donne une réponse qui a elle
aussi une structure différente : il n’y a pas d’exposé explicite d’une
diversité d’opinions, mais quatre questions sont développées, avec
chacune plusieurs thèses ou conclusions ; l’ensemble est assez détaillé
et certains arguments sont assez différents de la tertia lectura buri-
danienne8.
Enfin, il faut noter que les Questions sur l’âme de Nicole Oresme
contiennent elles aussi une question consacrée au sens agent. Sa struc-
ture est plus proche de celle du manuscrit de Bruges que de celle de
Buridan. Il commence par les arguments contre, énumère plusieurs ar-
guments ad oppositum donc quod sic, puis explicite la question princi-
pale en plusieurs questions (trois, cette fois) dont chacune donne lieu à
des développements spécifiques. On y trouve en revanche certaines
références qui ne sont dans les passages correspondants d’aucun de nos
autres textes : Priscien et Alhazen ; nous y reviendrons.

7
Voir B. PATAR ; Le Traité de l’âme de Jean Buridan [de prima lectura]. Édition,
étude critique et doctrinale, Louvain-la-Neuve-Longueuil (Québec), 1991 ; l’attri-
bution à Jean Buridan du manuscrit de Bruges a été contestée, avec des arguments
assez convaincants, par S. EBBESEN , dans « Le traité de l’âme de Jean Buridan [de
prima lectura] » (compte rendu) in Dialogue, 33 (1994), p. 758-762, et par Z. KALUZA,
dans « Bulletin d’histoire des doctrines médiévales », in Revue des sciences philoso-
phiques et théologiques, 79 (1995), p. 136-139. Curieusement, des commentateurs
américains reprennent souvent sans discussion cette attribution ; en revanche, elle est
vigoureusement récusée par M. ELENA REINA dans son ouvrage Hoc, hic et nunc. Buri-
dano, Marsilio di Inghen e la conoscenza del singolare, Firenze, 2002 : voir p. 195.
8
Certains arguments de cette pseudo-prima lectura sont absents de la tertia lectu-
ra ; d’autres exemples sont voisins, mais avec des nuances importantes, par exemple
celui du chien qui veut rejoindre son maître alors qu’il en est séparé par un fossé.
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 231

Revenons maintenant aux détails de l’argumentation. Le premier


argument qui pourrait aller contre l’idée du sens agent est qu’Aristote
n’en traite pas explicitement (manifeste) ; si donc on l’admettait, Aris-
tote serait « valde insufficiens et diminutus ». Des développements
analogues se retrouvent dans la plupart des textes9. Généralement, on
finit par justifier la rapidité d’Aristote ; les Questions brèves sont les
plus claires à cet égard : « Tunc solum restat dicere quantum Aristo-
teles non determinavit de isto sensu agente et quomodo excusabitur
eius insufficientia10. »
Dans la tertia lectura, je l’ai déjà dit, l’exposition de la diversité
des opinions donne lieu à une nouvelle série d’arguments. L’argu-
mentation de ceux qui sont opposés à un sens agent y est rapportée en
un seul paragraphe. Le sens agent y paraît simplement superflu. Un
intellect agent est requis pour abstraire l’espèce intelligible à partir des
fantasmes, rendant possible le passage du singulier à l’universel, mais
le sens ne connaît que les singuliers et il n’exige donc pas un tel pro-
cessus11, On exposera par conséquent la théorie de l’âme en faisant ap-
pel à un intellect agent mais non à un sens agent.
L’opinion de ceux qui défendent le sens agent est en revanche in-
troduite par l’expression « multi enim visum est […] ». Il semble par
conséquent que la défense du sens agent soit devenu une sorte d’opi-
nion commune.
Voyons d’abord quels sont les arguments qui sont rapportés par
Buridan, sans qu’il les retienne nécessairement, avant de revenir sur
ceux qu’il prend à son compte. Au préalable, quatre thèses doivent être
présupposées.
Premièrement, il y a une analogie (« sit proportionalitas dicen-
dum ») entre le sens et l’intellect. Il y a en effet un principe actif et un
principe passif dans toute nature, c’est-à-dire tout ce qui est principe de
changement ou de mouvement. Il faut donc un principe actif dans la
sensation. En vérité, la question de l’analogie entre intellection et sen-
sation était déjà au cœur de toute la controverse entre Barthélémy de

9
L’expression d’une Aristote « diminué » se retrouve dans la pseudo-prima lectu-
ra, II, qu. 10, éd. B. PATAR, p. 309.
10
Loc cit., éd. PATTIN, p. 266.
11
Qu. An., II, 10, éd. SOBOL p. 153.
232 JOËL BIARD

Bruges et Jean de Jandun. Il s’agissait de savoir si l’on était en droit


d’utiliser pour poser un sens agent le passage d’Aristote, dans le
livre III du traité De l’âme : « l’intellect se comporte par rapport aux
intelligibles de la même façon que la faculté sensitive envers les sensi-
bles »12. De fait, la portée d’un tel parallélisme a été contestée dès le
XIIIe siècle, notamment par Thomas d’Aquin, parce que les sensibles
existent déjà en acte, à la différence des intelligibles qui ne sont qu’en
puissance et requièrent donc une actualisation, et par conséquent un
intellect agent, quel qu’en soit le statut. De surcroît, cela contredirait un
autre principe d’Aristote, à savoir la passivité du sens : « La sensation
résulte d’un mouvement subi et d’une passion »13. La sensation est sim-
plement une action de l’objet (ou de la species) sur le sens. Ici, en re-
vanche, l’idée d’un certain parallélisme semble admise et réintroduite.
Deuxièmement, la sensation est plus noble que la vie végétative.
Or celle-ci suppose déjà une activité (nutrition, transformation, etc.), à
plus forte raison par conséquent la sensation.
Troisièmement, l’âme sensitive est supérieure en noblesse à la
seule disposition d’une chose inanimée. Or elle se comporterait comme
une telle chose si le sensation était purement passive.
Quatrièmement, l’agent est plus honorable que ce qui pâtit. Or il
faut dans la sensation un agent principal, et si l’âme sensitive était pas-
sive ce ne pourrait être que la chose sentie, de sorte que celle-ci serait
plus noble que l’âme qui sent. Cela ne convient pas.
On voit que trois de ces quatre thèses, communément admises par
ceux qui défendent le sens agent, reposent sur la « noblesse » du prin-
cipe actif dans la sensation. Ils reposent donc sur une certaine hiérar-
chisation des formes et des substances. La mise en œuvre de ce critère
est constante depuis le XIIIe siècle. Déjà Pierre d’Auvergne, disciple de
Thomas d’Aquin, qui a consacré tout une question quodlibétique à ce
sujet, rapporte un tel argument14.

12
De l’âme, III, 4, 429 a 16-18 ; « similiter se habere sicut sensitivum ad sensibi-
lia, sic intellectum ad intelligibilia ».
13
De l’âme, II, 5, 416 b 33-34.
14
« […] primo dixerunt aliqui, intelligentes dictum Commentatoris secundo De
anima, quod agitur de potentia ad actum per sensum agentem ; et secundum hos
oportet ponere primo quidem, quia agens nobilius est patiente secundum Philosophum
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 233

Sur la base de ces thèses préalablement admises, une argumenta-


tion peut donc être développée en faveur du sens agent. Qu’en retenir ?
Dans la tertia lectura, la raisonnement se déroule en deux temps. Le
premier consiste à montrer qu’il faut dans tous les cas un principe actif.
Ou bien donc c’est l’âme sensitive qui « agit sensationem », qui produit
la sensation, et dans ce cas, cela revient précisément à poser un sens
agent, ou bien elle n’agit pas mais alors c’est l’objet qui est l’agent, et
qui est d’une plus grande noblesse que l’âme elle-même, une con-
séquence déjà jugée inacceptable15. Buridan ajoute, sans développer,
que l’argument doit être admis parce qu’Aristote ne raisonne pas
autrement à propos de l’intellect agent. Jusque là cependant, l’argu-
mentation est un peu rapide.
Le second temps se présente sous la forme d’une double objec-
tion : « Sed quamvis ista ratio sit bene ordinata et apparens, aliqui
tamen arguebant contra eam dupliciter ». De ces deux objections, l’une
repose sur ce que l’on appellerait plus tard « l’âme des bêtes », l’autre
sur le « donateur de formes », l’une et l’autre évoquant à l’évidence la
doctrine d’Avicenne, dont le Traité de l’âme, connu avant même celui
d’Aristote, a joué un rôle décisif dans la constitution de la psychologie
péripatéticienne en Occident médiéval.
Ce premier raisonnement sur l’âme des bêtes, toutefois, reposant
sur une hypothétique réduction de la sensation animale à la vie végéta-
tive, ne me paraît pas déterminant. Buridan ne prend d’ailleurs pas la
peine d’y répondre se réservant de revenir plus tard sur le sujet.
Avec la seconde « cavillatio », une comparaison avec l’engen-
drement de formes naturelles est censée montrer l’inutilité du sens
agent. Ainsi, dans la putréfaction, on voit des formes apparaître, par
exemple une grenouille (rana, exemple qu’on trouve aussi dans la Phy-
sique) ; or l’on ne voit agir aucun agent corporel plus noble que la gre-
nouille. Par ailleurs, il faut rappeler que les astres et le ciel n’ont pas

tertio De anima et Augustinus XII Super Genesim ad litteram » (éd. PATTIN, op. cit.,
p. 11).
15
Même chez les animaux, l’âme sensitive est supérieure à la chose inanimée (voir
Qu. breves).
234 JOËL BIARD

d’influence directe16. C’est pourquoi un tel engendrement présuppose


un agent incorporel et plus noble, à savoir le Dator formarum. Buridan
cite explicitement à cet égard Avicenne, mais il assimile ce donateur
des formes à Dieu :
alius agens incorporeum principalius et nobilius quod Avicenne dicit esse
datorem formarum, qui est Deus benedictus a quo vel solo vel principaliter
17
agente fit in materia disposita omne quod fit .
Cette conjonction d’une disposition de la matière et du donateur
des formes est classique depuis le XIIIe siècle, notamment à la suite
d’Albert le Grand qui avait soulevé la question de savoir si les formes
sont induites ou bien éduites (tirées), et avait déjà assimilé le donateur
des formes à Dieu et non pas à une Intelligence distincte du premier
principe. Ce qui nous intéresse davantage ici, c’est que ce schéma con-
ceptuel est investi dans la question du sens agent afin d’attester
l’inutilité d’un principe actif plus noble que l’objet senti au niveau
même de la sensation. Ainsi, la réception des species d’une part, l’inter-
vention de l’intellect agent d’autre part suffiraient à susciter la sensa-
tion, de façon analogue à l’action du dator formarum conjointe à cer-
taines dispositions dans la matière, lors de l’engendrement d’une gre-
nouille. Plusieurs citations du livre III d’Aristote sont avancées pour
attester le rôle de l’intellect agent non seulement dans la formation de
l’intellection, mais aussi de la sensation et généralement de la produc-
tion de toutes choses.
On remarquera que dès cette étape, Buridan considère que cette
opinion n’est pas improbable18, et plus loin, il ajoutera ces arguments

16
C’est en effet une thèse constante chez Buridan, que les corps célestes agissent
par l’intermédiaire de tous les autres corps naturels, thèse rappelée ici dans la question
10 : « Corpus enim celeste, si agit hoc, non est nisi per virtutem quam influit in aerem
vel in aquam continentem materiam generationis rene » (éd. SOBOL, p. 151) ; ils ont
une fonction à titre d’élément constituant de l’ordre de la nature, mais pas directe-
ment, ce qui reviendrait à rompre l’ordre de la nature.
17
Voir aussi Questiones super octo libros Physicorum Aristotelis, II, qu. 5, Paris
1509, fo 32va : « […] dator formarum, sicut dicit Avicenna, qui ad omne quod fit agit
tamquam agens commune et primum et omnino principalissimum, et ille est deus
supremus ».
18
« Et hec est opinio quorumdam, que non est improbabilis » (Qu. An., II, 10, éd.
Sobol, p. 153).
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 235

aux siens propres19. Mais le parallèle avec le Dator formarum suggère


qu’ici l’intellect agent est davantage assimilé à une puissance imper-
sonnelle qu’à une partie de l’âme humaine singulière. C’est en tout cas
ce que va retenir Buridan, et non pas l’autre opinion, celle qui admet-
trait bien un intellect agent mais en tant que partie ou puissance de
l’âme humaine, sans admettre en revanche de sens agent.

2. LA POSITION BURIDANIENNE

Buridan fait en effet suivre cet exposé des opinions par sa propre
position : « Ego autem credo ». On peut en retenir trois éléments. Pre-
mièrement, Buridan admet le concours du « premier intellect agent »
qui vient d’être évoqué. Deuxièmement, notre âme aussi est une puis-
sance active. Elle doit donc aussi être dite intellect agent, mais en un
autre sens : seulement dans la mesure où elle agit dans l’intellection.
Mais il en va de même en ce qui concerne l’âme sensitive, qui est
également active : elle agit pour produire la sensation : « agat ad sensa-
tionem sententis producendo ». Pour cette raison, elle doit être dite
« sens agent »20. Troisièmement, les opérations de composition et de
division apparaissent dès le niveau sensoriel. Cette dernière thèse vient
à la fois conforter et modifier l’idée de l’activité du sens, donc d’un
sens agent.
L’argument principal repose sur les animaux. La référence aux
animaux (serait-elle fort rudimentaire et reposant sur des exemples
canoniques) joue un rôle souvent discriminant dans les analyses psy-
chologiques buridaniennes. L’exemple est ici celui du cheval ou du
chien qui voit et reconnaît son maître qui l’appelle. Il va par exemple
emprunter une autre voie que la voie directe, si l’on suppose que celle-
ci est barrée par un fossé. Un autre argument en faveur du sens agent
est celui du sens commun, qui d’après Aristote, compose les sensations.

19
« Cum istis rationibus apponuntur alie que prius tacte et posite fuerunt tamquam
probabiles et persuasive » (Ibid., p. 155).
20
Ibid., p 153.
236 JOËL BIARD

Enfin, Buridan revient sur la puissance estimative, qui se trouve aussi


chez les animaux.

2.1. L’estimative

Bien que l’estimative nous éloigne du sens à proprement parler, il


est important de la situer ici dans l’ensemble des activités psychiques
pré-intellectuelles La référence est ici, fort classiquement, le Traité de
l’âme d’Avicenne :
Et iterum, sicud dicunt Avicenna et alii expositores Aristotelis, virtus
estimativa etiam in brutis, ex intentione sensatis per sensus exteriores elicit
alias non sensatas, ut ovis ex visu lupis intentionem inamicitie, et ex visu
pastoris intentionem amicitie, ad quod active eliciendum et formandum non
21
sufficiunt exteriora sensibilia .
L’estimative est une puissance qui forme des « intentions » ir-
réductibles aux seules sensations, intentions qui permettent des choix et
des actions motivées, donc une forme de jugement, quoique non intel-
lectuel et non susceptible de réflexivité. Elle se trouve aussi bien chez
les animaux que chez les hommes, et l’exemple de la brebis est courant
dans la littérature psychologique, en référence à Avicenne.
Dans la troisième ou dernière lecture, Buridan attribue à Avicenne
la théorie selon laquelle la production de telles intentions non sensibles
à partir des images sensibles est due à une puissance « imaginative »,
dite imaginativa seu elicitiva22 ; ensuite l’intellect pourrait, à partir de
23
ces sensations imaginées, produire des intentions non imaginées . Il
refuse cependant une telle coupure. Pour lui, c’est une même faculté
dite « imaginative ou cogitative » qui produit toutes ces intentions. En

21
Ibid., p. 155
22
Questiones de anima, de ultima lectura, livre I, qu. 6, ms. Vatican latin 2164,
fo 129ra ; des passages de ce manuscrit sont édités par B. PATAR dans Le Traité de
l’âme de Jean Buridan : voir p. 788.
23
« Tertio supponunt, sicut ponit Avicenna, quod imaginativa seu elicitiva eligit
ex speciebus et intentionibus sensatis intentionem non sensatam, ut ovis ex colore et
figura lupi sensibiliter elicit intentionem inimicitiae et fugit ab eo ; et ita intellectus,
cum sit virtus superior, potest iterum ex intentione imaginata elicere intentionem non
imaginatam » (loc. cit.).
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 237

fait, il refuse de manière générale la pluralité des puissances internes de


l’âme. L’estimative et la cogitative ne diffèrent pas réellement du sens
commun, ni par conséquent de la fantaisie. Pour nous en tenir à ce qui
concerne ces intentions que l’on constate aussi chez les animaux, Buri-
dan précise que la faculté de produire les intentions liées à l’utile et au
nuisible, donc l’amitié (à entendre en un sens large, comme attrait ou
attirance) ou la haine (la répulsion), est appelée estimative pour autant
que ces intentions proviennent de sensations ; la même faculté se
retrouve chez l’homme, mais elle est appelée cogitative dans la mesure
où elle est subordonnée à l’intellect :
[…] vocatur « estimativa » ea ratione qua […] est innata elicere ex huius-
modi sensatione et sensatis intentiones et apprehensiones insensatorum, puta
24
amicitie vel odii , utilis aut nocivi, convenientis aut disconvenientis, et sic
de aliis plurimis apprehensionibus ad quas innati sunt prosequi motus
appetitus sensitivi. Commentator autem non distinguit inter cogitativam et
estimativam, nisi quia talem virtutem, secundum predictam operationem,
dicit vocari estimativam prout invenitur in brutis et cogitativam prout
invenitur in hominibus ; ideo dicit cogitativam deservire intellectui et esse
25
nobiliorem quam estimativam .

2.2. La composition par les sens

Mais ce sont bien les sens eux-mêmes qui ont une certaine activité
de composition. Chez Aristote, même si l’on tient compte du sens
commun qui combine des sensations provenant de sens différents, la
composition et la division à proprement parler sont des activités rele-
vant de l’intellect, qui forme des jugements auxquels correspondent des
propositions susceptibles d’être vraies ou fausses. Buridan défend
clairement quant à lui la thèse d’une première activité judicative dès le
niveau sensoriel.
Dans la question 10 sur le livre II, Buridan affirme de façon gé-
nérale que ce n’est pas seulement l’intellect mais aussi le sens qui com-
pose et divise :

24
Je corrige odis en odii.
25
Quaestiones de anima, II, 23, éd. Sobol p. 388.
238 JOËL BIARD

Sed ultra, non solum intellectus ymo etiam sensus – etiam in equo vel in
26
cane – componit et dividit. Iudicat enim quem videt et vocantem eum esse
dominum suum, et vadit ad eum. Et si videat viam directam esse malam,
27
iuducat non esse ostendum per illam et querit aliam .

La nature de cette composition n’est pas claire. D’un côté, on a


l’impression d’une sorte de jugement pratique (choisir la meilleure
voie). D’un autre côté, on peut rapprocher ce texte d’un autre passage,
dans la question 12 sur le sens commun, où il apparaît que le chien,
dans un tel exemple, associe une sensation auditive et une sensation
visuelle, et c’est bien alors de « jugement » qu’il est question : « Et
canis iudicat quem videt vocare eum et per visum vadit ad eum, vel
etiam iudicat vocantem non esse istum quem videt, ideo non vadit ad
istum quem videt sed querit alium28. »
Dans le même question, Buridan examine le problème de savoir
comment le sens se rapporte à une chose complexe, substance et acci-
dent29. La chose étant pensée selon des concepts différents, le sens ne
saurait par lui-même rapporter ces concepts, pris abstraitement, à une
substance singulière ; il n’en forme pas moins une sorte de jugement
primordial :
Et licet, secundum omnes istos conceptus, ego possum de ipso intelligere et
de eo iudicare, tamen per sensum hoc non possum, nisi superveniat notitia
intellectiva. Ego non possum iudicare quod hoc est lignum, lapis, vel
ferrum, vel quod est substantia aut accidens, vel quod est res composita ex
materia et forma, vel est res simpliciter simplex. Sed iudico bene quod est
res simplex album vel nigrum, magnum vel parvum, rotundum vel longum,
30
motum vel quiescens .
De telles considérations sont courantes dans les commentaires de
l’époque au Traité de l’âme, dans les passages destinés à justifier le
sens agent. Dans la version imprimée dite « édition Lockert », malgré
la brièveté du passage, il est même dit que le cheval et le chien com-
posent, divisent et font presque des syllogismes : « et quasi syllogi-

26
Je suggère de corriger que en quem, et vidit et videt.
27
Qu. An., II, 10, p. 154-155.
28
Qu. An., II, 12, p. 182 ; le même exemple se retrouve dans plusieurs autres lieux.
29
La question de la perception de la substance et des accidents est traitée en détail
par M. E. REINA dans Hoc, hic et nunc…, p. 101-136.
30
Qu. An., II, 12, p. 183-184 – c’est moi qui souligne.
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 239

zando discurrere ». Dans le manuscrit de Bruges aussi, la puissance


discursive du sens est un argument décisif pour attester de l’activité de
l’âme en tant que sentante31. L’exemple est encore celui du chien qui est
séparé de son maître par un fossé, agrémenté toutefois d’un autre exem-
ple : celui du loup qui veut traîner un cheval et qui doit trouver des ap-
puis pour soulever quelque chose de plus lourd que lui. En revanche, on
ne le trouve pas chez Nicole Oresme, ni dans la question consacrée au
sens agent, ni dans les questions voisines.
Pourtant, Oresme défend lui aussi la thèse d’une activité du sens
agent. Classiquement, il se demande d’abord si le sens est une vertu
passive, puis s’il y a un sens agent (Utrum sit aliquis sensus agens)32.
Dans cette dernière question, après l’exposé des arguments et afin de
déterminer sa position, examine trois problèmes, dont le premier est
« si sensus est virtus activa ». Quatre arguments sont alors donnés. Le
premier reprend l’idée que sans cela le sensible serait supérieur en no-
blesse au sens ; les deux suivants sont des exemples reposant sur
l’expérience : il ne suffit pas d’avoir une species pour sentir, et, plus
original, l’argument de la fatigue, qui prouve bien que l’on agit ! Le
dernier introduit une référence originale dans ce contexte : la référence
au livre II de la Perspective d’Alhazen33. Il faut dire que les références à
Alhazen et aux Perspectivi sont récurrentes dans les questions
d’Oresme consacrées à la passivité et à l’activité des sens, comme dans
34
celle qui sera consacrée aux sensibles communs . Buridan, quant à lui,
n’évoque pas Alhazen dans ce contexte bien qu’il ait comme tout le
monde une vague connaissance des « perspectivistes », ainsi que cela
apparaît dans sa théorie des species, où il introduit quelques considéra-

31
La structure est assez complexe : la réponse se décline en quatre questions, dont
la première est « an etiam sit virtus passiva » ; et concernant cette question la pre-
mière conclusion est que l’âme sensitive concourt activement à l’acte de sentir ; c’est
là que prend place l’argument mentionné.
32
NICOLAI ORESME, Expositio et quæstiones in Aristotelis De anima, édition et étude
critique par B. PATAR, Louvain-la-Neuve-Louvain–Paris, 1995, livre II, qu. 8 et ques-
tion 9, p. 173-189.
33
Op. cit., p. 185. Voir ALHAZEN, Opticae thesaurus…libri septem, Bâle, 1592, li-
vre II, chap. 10, p. 30 ; II, chap. 11, p. 31 ; II, chap. 17, p. 35. Cette référence doit
incontestablement beaucoup à Robert Grosseteste, dont l’influence sur Oresme est
manifeste.
34
Voir op. cit., questions 8 à 11.
240 JOËL BIARD

tions sur la réfraction et sur les milieux difformes35, de même qu’il évo-
que l’ouvrage d’Alhazen dans les Questions brèves. Il s’y réfère en effet
dans la question « Utrum sensus sit virtus passiva », mais à contre-front
puisqu’il s’agit d’attester la passivité du sens par rapport au sensible, la
référence au livre I de la Perspective venant alors renforcer la référence
classique au De somno et vigilia d’Aristote.
Chez Oresme, comme ce sera plus tard le cas chez Blaise de
Parme, le renvoi à Alhazen vient au contraire conforter l’idée d’une
activité qui produit une certaine composition. Mais une telle activité est
abordée de façon différente de ce que proposait la seule tradition aris-
totélico-averroïste, ou du moins de manière complémentaire. Dans la
discussion entre Jean de Jandun et Barthélémy de Bruges, la vue sert
souvent de modèle, mais c’est par une comparaison omniprésente avec
la lumière et le diaphane que l’on s’interroge sur la capacité du sens ou
de l’organe à actualiser telle ou telle forme36. Ici, sur l’exemple privi-
légié de la vue, on considère une activité qui est spécifique du sens et
qui ne s’explique pas seulement par le schéma de l’éduction de la
forme mais par ses règles propres.

2.3. L’unité de l’âme

L’unité de l’âme, ou la consubstantialité de l’âme et de ses dif-


férentes facultés, est un principe sur lequel Buridan insiste constam-
ment dans son commentaire. On pourrait penser qu’il se place ici dans
le prolongement de la théorie thomiste de l’unité de la forme supérieure
qui assimile et comprend les degrés inférieurs, contre la théorie (gé-
néralement franciscaine) de la pluralité des formes. Une telle mise en
relation ne serait pas dénuée de fondement, puisque Jean de Jandun lui-

35
Voir par exemple Qu. An., II, 13 ; Maria Elena Reina estime que Buridan a une
connaissance assez faible des théories perspectivistes, et surtout n’investit pas les
aspects les plus techniques, tels que la théorie de la structure anatomique de l’œil ou
celle du cône visuel : voir op. cit., p. 142 ; la proximité générale des questions ores-
miennes sur le Traité de l’âme avec celles du maître picard ne fait que mettre en lu-
mière cette différence.
36
Voir J EAN DE J ANDUN , Sophisma de sensu agente, éd. A. PATTIN , e. g. p. 128,
p. 141, etc.
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 241

même, dans sa discussion sur l’unité de l’intellect, soulève ce


problème, et que Jean Buridan l’évoque explicitement dans la question
4, à propos de l’unité entre la forme végétative et la forme sensitive.
Là, il dit que la question est difficile à trancher37. Il expose assez
longuement les arguments des tenants de la pluralité des formes sub-
stantielles, mais opte en fin de compte pour l’unité : « Non obstantibus
istis, credo oppositum, scilicet quod in equo unica sit anima et quod
non sit in eo anima vegetativa distincta a sensitiva nec sensitiva dis-
tincta a vegetativa »38.
Dans la question 5, il reprend le problème sous une formulation
générale : « Utrum potentie animae sint distincte ab ipsa anima » et
certains arguments évoquent le cas plus délicat de l’intellect. Après
avoir donné des précisions sur les notions de « puissance active » et de
« puissance passive », Buridan met en doute la pluralité des puissances
de l’âme, si on l’entend au sens propre :
Et tunc est dubitatio utrum sit bene dictum quod in homine sint plures
potentie anime. Et ego credo quod non, loquendo de potentiis principalibus
secundum quod postea distinguemus de potentiis et etiam loquendo de
39
proprietate sermonis .

En un sens impropre, en revanche, on peut l’admettre, si l’on


désigne par là que l’âme a la puissance (est potens) d’exercer diverses
opérations. Il s’agit donc de noms différents, qui désignent la même
puissance selon divers concepts :
[…] secundum rationes diversas representativas ad istas operationes,
imponuntur sibi nomina diversa que dicimus differre secundum rationem.
Sic dicimus intellectum, sensitivum et vegetativum diferre secundum
rationem, quia hec nomina significant rem eandem secundum diversas
40
rationes .
L’essentiel de ce point de vue reste cependant que la pluralité des
dénominations et des connotations (selon le sens proprement buri-
danien de la distinction de raison) ne met pas en cause l’unité fonda-

37
« Ista questio bene est difficilis quia difficile est demonstrare aliquam partem »
(Qu. An., II, 4, éd. SOBOL p. 45).
38
Ibid., p. 48.
39
Qu. An., II, 5, p. 63.
40
Ibid., p. 63-64.
242 JOËL BIARD

mentale de l’âme. Celle-ci sera résumée de manière très nette dans les
Questions sur l’Éthique : « Ita etiam puto quod non sit inconveniens
dicere quod ex parte animae […] potentia sensitiva et potentia intellec-
tiva sint idem realiter ipsi animae et inter se41. »
D’un autre point de vue cependant, on peut présenter les choses
différemment. Tout dépend de ce que l’on entend par puissance.
Jusqu’à présent, l’on a parlé des « puissances principales » (ce que l’on
appelle traditionnellement l’âme végétative, sensitive, etc.). En fait, on
peut entendre par puissance active tout ce qui contribue à produire telle
ou telle opération – tout ce qui doit agir dans la nutrition, la sensation,
etc. De ce point de vue, la chaleur naturelle ainsi que plusieurs disposi-
tions de l’âme et du corps « co-agissent pour la nutrition », tout comme
la species et l’organe co-agissent dans la sensation. En ce sens,
évidemment, c’est-à-dire en incluant les « puissances instrumentales »,
on ne peut plus parler d’identité entre les puissances de l’âme. Mais,
comme le remarque Buridan, il n’y a pas contradiction entre ces deux
approches : « manifestum est quod ista conclusio et prima non re-
pugant »42.
On peut toutefois se demander si, au moins aussi importante, sinon
plus, que la querelle de la pluralité des formes héritée du XIIIe siècle,
ne serait pas ici décisive la mise au premier plan de l’idée d’une âme
unique instrumentant les différents organes, complétée bien entendu par
l’analyse logique des termes signifiant cette même puissance selon dif-
férentes « raisons ». Peut-être d’ailleurs paradoxalement la tradition
franciscaine a-t-elle contribué à l’émergence d’une telle idée. Certes,
elle défend la pluralité des formes et récuse l’idée d’un sens agent, mais
d’un autre côté elle insiste sur l’activité de l’âme, qui ne saurait pâtir
dans la sensation, que l’organe soit conçu, selon les auteurs, comme
instrument ou comme simple cause occasionnelle.
Quoi qu’il en soit, cette unité de l’âme est d’abord soulignée ici à
travers l’identité du sens actif et du sens passif. Il ne s’agit pas de deux
âmes différentes, pas de deux de substances ou de deux formes, pas de
deux « parties » non plus, en quelque acception qu’on l’entende. Dans

41
JEAN BURIDAN, Quaestiones super decem libros Ethicorum, III, qu. 6, Paris, 1513,
fo 45rb – cité d’ap. A. PATTIN, op. cit., p. 239.
42
. Qu. An., II, 5, p. 65.
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 243

la tertia lectura, Jean Buridan le souligne au cours de la réponse à


l’objection concernant l’insuffisance d’Aristote. En fait, celui-ci
montrerait suffisamment que l’âme doit agir et non seulement pâtir, car
il faut accepter l’analogie avec l’intellect agent et patient, si bien que
« non est alia res – sensus agens et sensus patiens – sed est eadem ani-
ma in eodem organo ». Lorsque Buridan expose ce qu’il « croit », il
insiste sur le fait que notre âme est une puissance active, qui agit en
sentant comme elle agit en intelligeant :
Sed ultra etiam ego opinor <quod> anima nostra sit potentia activa ad
intellectionem et quod sic debeat dici intellectus agens, et similiter quod
anima sensitiva, sive in nobis sive in brutis, agat ad sensationem sentientis
43
producendo, et quod sic debeat dici sensus agens .
Les arguments que l’on trouve rapportés ailleurs (notamment chez
Oresme, mais aussi dans la pseudo-prima lectura) sur le fait qu’il fau-
drait alors compter dix sens et non pas cinq, ou qu’il y aurait plusieurs
sens dans le même organe44, perdent toute pertinence. Cela dit, Oresme
insiste tout autant sur le fait que « sensus agens et patiens non distin-
guuntur »45. Les formulations font ainsi de l’âme l’unique pouvoir qui
agit, tant dans l’intellection que dans la sensation.
J’ai eu l’occasion de montrer ailleurs que Buridan avançait la
même idée lorsqu’il s’agissait non plus du sens agent et du sens patient
dans le même organe mais d’organes différents46 : c’est la même âme
qui sent, voit, touche, etc., en utilisant des organes corporels différents.
Cette conception instrumentale de l’âme, unique principe utilisant
des éléments matériels pour ses diverses fonctions, se retrouve dans la
théorie buridanienne des species, qui est évoquée dans la question sur
le sens agent.

43
. Qu. An., II, 10, p. 153
44
. NICOLE O RESME, Questiones de anima, II, 9, éd. PATAR p. 182 ; PSEUDO-BURIDAN,
de prima lectura (ms. Bruges), qu. 10, éd. PATAR, p. 308. Voir aussi, un peu différen-
tes, les conclusions 3 et 4 dans l’édition Lockert.
45
NICOLE ORESME, loc. cit., p. 185 ; voir aussi pseudo-prima lectura, p. 311.
46
Voir J. BIARD, « Le système des sens dans la philosophie naturelle du XIVe siècle
(Jean de Jandun, Jean Buridan, Blaise de Parme) », in Micrologus, X (2002),
« I cinque sensi », Sismel, p. 335-351.
244 JOËL BIARD

2.4. Sens et species

Le rôle joué par les images sensibles dans la théorie buridanienne


(comme dans la théorie oresmienne) de la sensation est bien connu
depuis les travaux de Peter Marshall – il est superflu d’y revenir en
détail47. Il convient en revanche de souligner que dans la question sur le
sens agent, Buridan est amené à revenir sur quelques aspects de cette
théorie. En effet les species sensibles, dans la mesure où elles provien-
nent des objets sentis par l’intermédiaire du milieu et des organes cor-
porels, semblent impliquer une réceptivité, donc une passivité du sens.
Buridan établit en premier lieu que la sensation diffère de l’image.
Cette dernière n’est pas tirée de la puissance de l’âme, alors que la sen-
sation est quant à elle tirée de la puissance de l’âme et y réside comme
en son sujet, « bien que non pas dans son sujet total ». Cette dernière
expression est bien énigmatique, puisqu’un accident ne saurait avoir
deux sujets. Mais l’analyse logico-linguistique permet de contourner ce
qui apparaîtrait comme une difficulté en termes proprement et exclu-
sivement ontologiques : l’acte de sentir renvoie directement à l’âme
mais connote un organe corporel. Ensuite, quel est le rôle de l’image,
qui n’est pas produite par l’âme ? Elle « se rapporte à la sensation
comme une disposition nécessaire, requise (preexigata) par la sensa-
tion ». C’est à l’occasion d’une discussion pour savoir si une telle dis-
position est passive ou active que Buridan insiste sur la dimension
instrumentale du rapport entre l’âme et la species. L’âme a besoin de la
species pour que la puissance de sentir s’actualise. Il faut pour cela la
conjonction de deux facteurs, elle-même en tant qu’acte premier (en
puissance de telle ou telle sensation comme elle l’est de tel ou tel intel-
ligible) et les dispositions qui lui conviennent (lesquelles ne sont pas
suffisantes à soi seules, puisque l’on peut recevoir des images sans pour
autant sentir actuellement). De là l’aspect intrumental de ce rapport :
Et de hoc apparet mihi probabile dicere quia, sicud anima utitur calore
tamquam intrumento ad agendum nutritionem, ita ipsa utitur ista sensibili
48
vel intelligibili ad agendum sensationem vel intellectionem .

47
P. MARSHALL, « Parisian Psychology in the Mid-fourteenth Century », in Archi-
ves d’histoire littéraire et doctrinale du Moyen Âge, 50 (1984), p. 156-164.
48
Tr. An., II, qu. 10, p. 158.
LE SENS ACTIF SELON JEAN BURIDAN 245

Cet aspect proprement instrumental n’est nulle part mieux


souligné que dans la question 5, déjà évoquée, sur l’unité ou la pluralité
des puissances. Là, Buridan distingue explicitement « puissances prin-
cipales » (les traditionnelles fonctions ou « parties » de l’âme ») et
puissances instrumentales : « […] manifestum est quod, loquendo de
potentiis instrumentalibus que vocantur potentie anime quia sunt instru-
menta anime, ista differunt ab anima et ab invicem49. » Il s’agit de puis-
sances dont l’âme se sert et dont elle a besoin pour réaliser ses
opérations : « […] intelligitur de potentiis instrumentalibus quibus ani-
ma utitur et indiget ad exercendum suas operationes50. »

CONCLUSION

Cette unité fondamentale de l’âme qui sent et intellige n’est con-


cevable que dans la mesure où l’on réintroduit un rapport instrumental
de l’âme aux organes corporels, rapport qui en fin de compte, serait-ce
de façon implicite et inavouée, prend à contre-pied l’idée aristotéli-
cienne de l’âme comme forme de vie, de sensation, de mouvement et
d’intellection ; elle renoue avec des schémas augustiniens, voire pla-
toniciens (peut-être à travers Avicenne). L’unité de la forme psychique,
opposée à la théorie de la pluralité des formes, ne nous renvoie pas
vraiment à la thèse de Thomas d’Aquin, lequel d’ailleurs trouvait peu
d’intérêt à discuter l’idée de sens agent51. Dans cette discussion, qui
prolonge Jean de Jandun par l’affirmation de l’activité du sens, mais
qui n’en reprend pas la thèse de la séparation entre vie, sensation et
imagination d’un côté, intellection de l’autre, se met en place une con-
ception qui repose sur l’unité active de l’âme à travers la diversification
de ses fonctions, une conception originale de l’esprit, en une inter-
prétation d’Aristote qui à bien des égards intègre des éléments con-

49
Tr. An., II, qu. 5, p. 65.
50
Ibid., p. 66. Une telle puissance instrumentale est encore dite puissance « dispo-
sitive » (p. 66).
51
Dans la Somme de théologie, il expédie la question en quelques lignes :
« Dicendum quod sensibilia inveniuntur actu extra animam ; et ideo non oportuit
ponere sensum agentem » (Ia pars, qu. LXXIX, art. 3, ad primum).
246 JOËL BIARD

traires à la tradition aristotélicienne (augustinisme franciscain, par ex-


emple). On en retrouvera l’écho jusque chez Descartes qui, des Règles
pour la direction de l’esprit jusqu’aux Méditations métaphysiques,
soutiendra qu’il n’y a qu’une seule faculté cognitive, et que c’est une
même âme, force purement spirituelle, qui pense, et qui sent, veut,
imagine etc. pour autant qu’elle s’applique au corps52. L’influence
d’Avicenne, si elle existe, est ici très diffuse. La combinaison de
l’augustinisme, hérité en l’occurrence de Grosseteste, et de la tradition
perspectiviste sera plus forte chez Oresme, mais celui-ci cependant se
situe encore sur cette question dans le prolongement de son aîné, même
s’il en renouvelle les modes d’argumentation.
On assiste donc à un changement de fonction du « sens agent »
depuis ses premières occurrences au XIIIe siècle. Tant chez Guillaume
d’Auvergne que chez Thomas d’Aquin, l’argument contre le sens agent
était que les sensibles existaient en acte en dehors de l’âme, si bien
qu’il n’était pas besoin de sens agent pour les actualiser. Ce n’est plus
ce qui est en débat au XIVe siècle. Il s’agit principalement de mettre en
évidence l’activité de l’âme dès le niveau de la sensation. Mais s’il y a
bien une histoire de l’idée de sens agent, il n’y a pas n’y a pas une seule
théorie du sens agent au Moyen Âge tardif, selon que l’on prend en
considération Jean de Jandun, Jean Buridan, Blaise de Parme ou les
averroïstes bolonais. Avec Buridan (comme, à travers des nuances,
dans les textes voisins que nous avons évoqués), la question de
l’activité recoupe celle de l’unité de l’esprit à travers ses différentes
fonctions.

Centre d’Études Supérieures de la Renaissance


Université de Tours

52
Voir par exemple D ESCARTES, Lettres à Regius, mai 1641, éd. A DAM -TANNERY,
Paris, rééd. 1996, vol. III, p. 369-370, et p. 371-375, notamment : « Anima in homine
unica est, nempe rationalis » (p. 371).
ORSOLA RIGNANI

BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE

1. LA PSICOLOGIA DELLA SENSAZIONE E IL SENSO AGENTE

La teoria psico-gnoseologica del sensus agens o sensazione attiva


elaborata da Biagio Pelacani da Parma1 specificamente e compiuta-
mente nella prima redazione delle sue Quaestiones de anima (1382-
1385)2, ma già presente nelle Quaestiones perspectivae3 (oltre che in

1
Per una ricostruzione della biografia scientifica di Biagio Pelacani, della crono-
logia delle sue opere e dei manoscritti in cui sono state tramandate, si vedano :
G. FEDERICI V ESCOVINI, Astrologia e scienza. La crisi dell’aristotelismo sul cadere del
Trecento e Biagio Pelacani da Parma, Firenze, Vallecchi, 1979, p. 21-50 ; 413-450 ;
EAD., « Opere di Biagio Pelacani da Parma », in G. FEDERICI V ESCOVINI, F. BAROCELLI (a
cura di), Filosofia, scienza e astrologia nel Trecento europeo (Atti del Convegno
Internazionale Astrologia, scienza, filosofia e società nel Trecento europeo, Parma, 5-
6 ottobre 1990), Padova, Il Poligrafo, 1992, p. 39-52 ; 181-216 (Percorsi della
scienza. Storia, testi, problemi, 2).
2
Le Quaestiones de anima sono state tramandate in due manoscritti : Roma,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigi, O. IV. 41 e Napoli, Biblioteca Nazionale, VIII,
G. 74 ; le due copie corrispondono fedelmente e le nostre citazioni verranno tratte dal
primo dei due manoscritti di cui il secondo è una ricopiatura. Esiste un’edizione
parziale delle Quaestiones de anima : B IAGIO P ELACANI , Quaestiones de anima,
ed. G. FEDERICI V ESCOVINI, Firenze, Olschki, 1974 (Accademia Toscana di Scienze e
Lettere La Colombaria, Studi, 30) ; la traduzione italiana, condotta su tale edizione, è
stata curata da V. SORGE , Biagio Pelacani. Quaestiones de anima. Alle origini del
libertinismo, Napoli, Morano, 1995.
3
Le Quaestiones perspectivae sono tramandate da ben 15 manoscritti, per le cui
indicazioni rimandiamo a : G. FEDERICI V ESCOVINI , Astrologia e scienza. La crisi
dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma, op. cit.,
p. 419-420 ; di esse è in stato avanzato di preparazione l’edizione integrale a cura di
G. FEDERICI VESCOVINI, J. BIARD, V. SORGE, O. RIGNANI. Esistono comunque anche edi-
zioni parziali : le Questioni I, 14 ; I, 16 e III, 3 sono editate sulla base del ms. Firenze,
248 ORSOLA RIGNANI

altre opere) e filo rosso del suo pensiero, non può essere compresa nella
sua portata e nei suoi intenti, se non in riferimento ad una tradizione
filosofico-medico-ottico-scientifica greco-araba (che la storiografia sta
attualmente sempre più rivalutando e portando alla luce4) nota ai dotti
latini a partire dal secolo XII, la quale ha contribuito ad una revisione
del modello psicologico aristotelico dei sensi interni (fondato su senso

Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 29, 18 da G. FEDERICI V ESCOVINI, « Le que-


stioni di Perspectiva di Biagio Pelacani da Parma », in Rinascimento, 12 (1961),
p. 163-223. Le Questioni 1-10 del I libro sono state editate sulla base del ms. Vienna,
Nationaalbibliothek, 5447, da F. ALESSIO, « Quaestiones perspectivae », in Rivista
Critica di Storia della Filosofia, 16 (1961), p. 79-110 ; 188-221. Infine, le Questioni
I, 11-16 sono state editate da V. SORGE , « Due questioni di Perspectiva di Biagio
Pelacani da Parma », in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche, 105
(1994), p. 169-198 ; EAD., « “Contra communiter philosophantes” : a proposito della
fisiologia della visione in Biagio Pelacani da Parma », in Atti dell’Accademia di
Scienze Morali e Politiche, 106 (1995), p. 299-322 ; 455-474. Le nostre citazioni delle
questioni ancora inedite verranno tratte dal codice Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana, Pluteo 29, 18 che ci pare uno dei più completi e corretti.
4
L’importanza ed il determinante influsso di questa tradizione scientifica greco-
araba su autori latini medievali come Ruggero Bacone, Ockham e Biagio Pelacani per
il costituirsi di una linea per così dire empiristica medievale sono stati evidenziati in
particolare già da N. ABBAGNANO, Guglielmo di Occam, Lanciano, Carabba, 1931 e poi
da G. FEDERICI V ESCOVINI, Studi sulla prospettiva medievale, Torino, Giappichelli,
1965 (2ª ed. 1987) ; E AD ., Le teorie della luce e della visione ottica dal IX al XV
secolo. Studi sulla prospettiva medievale e altri saggi, Perugia, Morlacchi, 2003
(Storia del pensiero filosofico e scientifico) e in altri suoi numerosi studi. Per ulteriori
indicazioni sugli studi di Graziella Federici Vescovini sull’argomento, si veda :
O. RIGNANI , « Bibliografia di Graziella Federici Vescovini », in G. MARCHETTI,
O. RIGNANI , V. SORGE (Eds.), Ratio et superstitio. Essays in Honor of Graziella
Federici Vescovini, Louvain-la-Neuve, Fidem, 2003, p. 619-643. Per un quadro dello
status attuale delle ricerche storiografiche su tali problematiche, si vedano :
G. FEDERICI V ESCOVINI , « Il pensiero scientifico del Medioevo e l’emergere delle
scienze arabe. Nuove prospettive di ricerca sul pensiero medievale », in Paradigmi.
Rivista di critica filosofica, 50 (1999), p. 205 ; 265-302 ; E A D., « La storia della
filosofia medievale dei secoli XIII e XIV. Nuovi approcci », in B o c h u m e r
Philosophisches Jahrbuch für Antike und Mittelalter, 6 (2001), p. 53-86 e in
Filosofia, 52 (2001), p. 183-223.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 249

comune, fantasia5 e immaginazione6). In particolare ad opera di medici,


scienziati e ottici arabi dei secoli XI, XII e XIII (come Alhazen7)

5
Sullo statuto della fantasia nel De anima di Aristotele e sulle differenze tra
fantasia logico-deliberativa (che implica il ragionamento) e fantasia sensitiva, si veda
ora : M. ZANATTA, « Il desiderio e la locomozione degli animali nel De anima », in
G. MARCHETTI, O. RIGNANI, V. SORGE (Eds.), Ratio et superstitio. Essays in Honor of
Graziella Federici Vescovini, op. cit., p. 1-40.
6
Sul complesso e articolato dibattito sui sensi interni a partire dal contesto di
origine di tale questione, cioè in particolare la filosofia e la medicina del mondo arabo
(Avicenna, Alhazen, Averroè) e la sua trasmissione nell’Occidente latino del secolo
XIII, si vedano tra gli altri : H. A. WOLFSON, « The Internal Senses in Latin, Arabic and
Hebrew Philosophical Texts », in Harvard Theological Review, 28 (1935), p. 69-133,
e H. A. DAVIDSON, Alfarabi, Avicenna and Averroes on Intellect, New York-London,
Brill, 1992, p. 95-124.
7
L’opera di ottica di Alhazen (De aspectibus) ha avuto varie edizioni (parziali o
complete) sia in versione araba che latina, che infine nel volgarizzamento italiano ;
qui ricordiamo : De aspectibus, rist. dell’ed. latina Opticae Thesaurus, a cura di
F. RISNER e P. DE LA RAMÉE, Basilea, 1572, introduzione di D. C. LINDBERG, New York-
London, Johnson Reprint Corporation, 1972 ; Kitab al-Manazir, testo arabo a cura di
A. SABRA, libri I-III, State of Kuwait, National Council for Culture, Arts and Letters,
1983 ; De li aspecti, ed. parziale del volgarizzamento italiano del codice Roma,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. 4595 a cura di G. FEDERICI VESCOVINI, « Alhazen
vulgarisé », in Arabic Science and Philosophy, 8 (1998), p. 67-69 ; G. FEDERICI
VESCOVINI, « Il problema delle fonti ottiche medievali del Commentario III di Lorenzo
Ghiberti e il volgarizzamento del De aspectibus di Alhazen », in EAD., Le teorie della
luce e della visione ottica dal IX al XV secolo. Studi sulla prospettiva medievale e
altri saggi, op. cit., p. 391-417 ; The Optics of Ibn al-Haytham, Books I-III, On Direct
Vision, trad. inglese, introduzione e note a cura di A. SABRA, London, The Warburg
Institute, 1989 ; De aspectibus. Alhacen’s Theory of Visual Perception, ed. critica con
traduzione inglese e introduzione dei libri I-III, a cura di A. MARK SMITH, Philadelphia,
American Philosophical Society, 2001. E’ inoltre in corso di preparazione a cura di
G. FEDERICI V ESCOVINI, O. RIGNANI, V. SORGE e altri studiosi l’edizione critica della
versione in italiano. Sulle caratteristiche del pensiero di Alhazen e sul suo influsso
sull’Occidente latino medievale si vedano in particolare : G. SIMON, « La psychologie
de la vision chez Ptolémée et Ibn al-Haytham », in A. HASNAWI, A. ELAMRANI JAMAL,
M. AOUAD (Eds.), Perspectives arabes et médiévales sur la tradition scientifique et
philosophique grecque, Leuven, Peeters, 1997, p. 189-207 ; G. FEDERICI V ESCOVINI,
« La fortune de l’optique d’Ibn al-Haitham : le livre De aspectibus (Kitab al-Manazir)
dans le Moyen Age latin », in Archives Internationales d’Histoire des Sciences, 40
(1990), p. 220-238 ; EAD., « Vision et réalité dans la perspective au XIVe siècle », in
250 ORSOLA RIGNANI

vengono ridisegnate le relazioni tra le facoltà dei sensi interni


(specialmente cogitativa, estimativa e memoria) e la conoscenza intel-
lettiva, di modo che i sensi interni stessi, con il loro carattere attivo,
diventano le facoltà della conoscenza, in una continuità tra sfera della
sensibilità e sfera della razionalità che porta appunto un autore come
Pelacani alla formulazione di teorie quali quella del senso agente come
coincidente con tutte le operazioni inferiori e superiori dell’anima uma-
na e, quindi, come « cognitio visiva » matematico-sperimentale, che
coinvolge tutte le attività sensibili e intellettuali dell’uomo.
Questa psicologia-gnoseologia di Biagio, che rivaluta l’importanza
della sensibilità nel processo conoscitivo ponendola in continuità con la
sfera della razionalità ed arrivando perfino, come vedremo, alla nega-
zione dell’immortalità dell’anima intellettiva umana, assume appunto
una fisionomia riconducibile a un’impostazione biologico-naturalistico-
materialista, distaccandosi così nettamente dalle soluzioni prospettate
nel suo tempo in seno alle discussioni sulla definizione di anima
umana, quali ad esempio quella aristotelico-tomista sull’anima e
sull’intelletto come unità della forma sostanziale umana o quelle aver-

Micrologus. Natura, scienze e società medievali, 5 (1997), p. 161-180 ; EAD.,


Astrologia e scienza. La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio
Pelacani da Parma, cit., p. 157-177 ; EAD., Le teorie della luce e della visione ottica
dal IX al XV secolo. Studi sulla prospettiva medievale e altri saggi, op. cit., p. 155-
185 ; 367-399 ; E AD., « Su alcune versioni scientifiche in volgare italiano tra XIII e
XIV secolo », in N. BRAY, L. STURLESE (a cura di), Filosofia in volgare nel Medioevo
(Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale,
Sispm, Lecce, 27-29 settembre 2002), Louvain-la-Neuve, Fidem, 2003, p. 407-418
(Textes et études du Moyen âge, 21) ; EAD., « La transmission de l’optique arabe :
l’explication de la théorie des couleurs de l’arc-en-ciel (De iride) de Thierry de
Fribourg et Alhazen », in Identité culturelle des sciences et des philosophies arabes :
auteurs, œuvres et transmission (Actes du Colloque de la Société internationale
d’histoire des sciences et de la philosophie arabes et islamiques, Sihspai, Namur, 14-
18 Janviers 2003), in corso di stampa ; A. I. SABRA , « Sensation and Inference in
Alhazen’s Theory of Visual Perception », in P. K. MACHAMER, R. G. TURNBULL (Eds.),
Studies in Perception. Inter-relations in the History of Philosophy and Science,
Columbus, Ohio, 1978, p. 160-185 ; R. RASHED, « Le discours de la lumière de Ibn Al-
Haytham », in Revue d’histoire des sciences et de leurs applications, 21 (1968),
p. 198-224 ; ID., « Optique géométrique et doctrine optique chez Ibn Al-Haytham », in
Archive for the History of Exacte Sciences, 6 (1970), p. 278-298.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 251

roiste (di Averroè e degli averroisti8). Alla domanda « utrum diffinitio


de anima sit sufficienter posita, qua dicitur anima est actus primus
substantialis9 » il Pelacani dà infatti nelle sue Quaestiones de anima
una risposta negativa, sostenendo che non si deve parlare di atti o
formae substantiales, bensì di « operationes » dell’anima. Cioè, in
opposizione alla terminologia e all’orientamento ontologico della
psicologia aristotelica e contro sia le teorie della pluralità delle forme
sostanziali che quelle dell’unicità della forma sostanziale10, Biagio da
Parma pone l’unità inseparabile di tutte le operazioni dell’anima, per il
fatto che non accetta più il concetto stesso di forma sostanziale della
scuola aristotelico-averroista. L’anima intellettiva umana, pertanto, non
è una forma distinta o separata né da quella sensitiva né da quella vege-
tativa e tanto meno è l’atto sostanziale primo: essa si riduce piuttosto

8
Sul rifiuto della dottrina tomista dell’unità della forma sostanziale nell’uomo da
parte di Biagio e parimenti sul suo non-averroismo si veda in particolare : G. FEDERICI
VESCOVINI, Astrologia e scienza. La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e
Biagio Pelacani da Parma, op. cit., p. 125-138. Un quadro, aggiornato al 1999, degli
studi e delle ricerche sull’averroismo del secolo XIV è offerto da V. SORGE, « L’aristo-
telismo averroistico negli studi recenti. Nuove prospettive di ricerca sul pensiero
medievale », in Paradigmi. Rivista di critica filosofica, 50 (1999), p. 243-263. Per una
ricostruzione dell’averroismo bolognese del secolo XIV, del pensiero di Taddeo da
Parma e della diversità delle sue posizioni rispetto a quelle del Pelacani si faccia
riferimento a V. SORGE , Profili dell’averroismo bolognese. Metafisica e scienza in
Taddeo da Parma, Napoli, Luciano Editore, 2001 (Eccedenza del passato, 7).
9
BIAGIO PELACANI, Quaestiones de anima, II, qu. 2, f. 131ra.
10
Ai maestri latini cristiani medievali si poneva la difficoltà di salvaguardare
contemporaneamente l’immortalità dell’anima individuale umana, la sua possibilità di
sussistere indipendentemente dal corpo dopo la morte di quest’ultimo, e anche però
l’unità del composto umano. Probabilmente a partire da queste istanze si era verificata
nel corso del secolo XIII la nota divaricazione tra la tesi della cosiddetta pluralità
delle forme sostanziali e quella dell’unità della forma sostanziale, che manifestavano
due modi diversi di intendere la natura del composto umano sulla base, tra l’altro, di
un diverso concetto di materia e forma. A proposito di questo dibattito, si vedano in
particolare : R. ZAVALLONI, Richard de Mediavilla et la controverse sur la pluralité des
formes, Louvain, Peeters, 1951 ; B. BAZAN, « Pluralisme de formes ou dualisme de
substances ? La pensée pré-thomiste touchant la nature de l’âme », in Revue philo-
sophique de Louvain, 67 (1969), p. 30-73.
252 ORSOLA RIGNANI

alle sue operazioni per le quali si differenzia11. A loro volta, tali


« operationes » sono concepite come gradi perfezionali o qualità degli
esseri viventi, suscettibili di intensione e remissione, tanto che il vege-
tativo, il sensitivo e l’intellettivo non sono forme sostanziali, ma sono
piuttosto intesi come delle qualità graduali, che esprimono i gradi di
perfezione (minori o maggiori) di ogni essere, secondo una « latitudo »
(estensione) delle forme, misurabile in base al rapporto o proporzione
matematica sussistente tra i vari gradi nell’ambito del medesimo essere
o in esseri diversi12. Ecco, dunque, come la definizione di anima come
« actus primus substantialis » perda di significato per cedere il posto al
concetto di « latitudo proportionalis », cioè al concetto di anima come
qualità estesa, materiale, come latitudine proporzionale delle qualità,
che varia a seconda dei diversi esseri. L’anima, cioè, nella prospettiva
naturalista e materialista del Pelacani, assume la caratteristica di un
unico principio vivente, un « subiectum materiale », che si differenzia
per i suoi gradi perfezionali, o « operationes », che vanno dal sensibile
all’intellettivo ; quest’unico principio è sensibile e intellettivo, attivo e
passivo « per operationes » appunto. L’idea che una medesima realtà,

11
Per un’analisi delle operazioni dell’intelletto in relazione al vero, mi sia
permesso rinviare al mio saggio : O. RIGNANI, « L’ens et le verum dans la doctrine de
la connaissance de Blaise Pelacani de Parme », in G. FEDERICI V ESCOVINI (Éd.), Le
problème des transcendantaux du XIVe au XVIIe siècle (Atti del Convegno Interna-
zionale, Perugia, 27-29 settembre 2001), Paris, Vrin, 2002, p. 67-80 (Bibliothèque
d’histoire de la philosophie, nouvelle série). Sulle caratteristiche della logica e della
teoria della conoscenza di Biagio in relazione alla logica inglese e parigina del suo
tempo si veda ora : J. BIARD , « Blaise de Parme et la théorie de la signification :
Doctor parisinus ? », in G. MARCHETTI, O. RIGNANI, V. SORGE (Eds.), Ratio et super-
stitio. Essays in Honor of Graziella Federici Vescovini, op. cit., p. 221-242.
12
BIAGIO PELACANI, Quaestiones de anima, II, qu. 6, ff. 149ra-150rb. Sul rifiuto da
parte di Pelacani del concetto aristotelico di forma sostanziale perfetta e immutabile, a
cui viene sostituita l’idea delle forme naturali come qualità graduali estese variabili e
misurabili in termini di proporzioni matematiche che definiscono i diversi esseri e che
costituiscono le disposizioni qualitative di un unico sostrato materiale – che è la realtà
stessa – e sulla concezione del Pelacani della « latitudo », per spiegare in senso mate-
riale ed esteso la variazione delle forme si vedano : G. FEDERICI VESCOVINI, Astrologia
e scienza. La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da
Parma, op. cit., p. 207-238 ; BIAGIO P ELACANI DA P ARMA, « Quaestio de intensione et
remissione formarum », ed. G. FEDERICI VESCOVINI, in Physis. Rivista Internazionale di
Storia della Scienza, 31 (1994), p. 434-466.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 253

in questo caso l’anima, possa essere attiva e passiva insieme, che non ci
sia differenza tra sensitiva e intellettiva, se non per le operazioni costi-
tuisce il presupposto fondamentale ed il terreno più fertile da cui
germina la teoria del senso agente, o sensazione attiva, che viene fatta
coincidere da Biagio, come si è accennato, con tutta l’anima umana.
Se, come è ormai noto, la questione del senso agente, nata
dall’interpretazione del testo di Averroè è stata variamente discussa nel
corso del secolo XIV con soluzioni diverse e frastagliate, rimandiamo
per tutto questo alle più recenti ed autorevoli ricostruzioni storio-
grafiche13 e ci concentriamo piuttosto sulle posizioni del Pelacani.
« Magis consonum veritati est quod intellectiva non distinguatur a
sua sensitiva14 »: se l’intellettiva non è né spirituale, né inestesa, né
15
indivisibile e non può essere separata dal corpo, in quanto non
possiede operazioni sue proprie indipendenti da esso e dalle sensa-
zioni16 ; se il Pelacani insomma rifiuta nettamente la dottrina aristo-

13
Sulla teoria del senso agente, che non è stata formulata da Averroè, ma è nata
dalle interpretazioni dei suoi esegeti e che può essere considerata una dottrina
discussa dal XIV secolo in poi ; sulle divergenze tra la dottrina di Biagio, fondata
sull’idea che una stessa realtà come l’anima possa essere attiva e passiva insieme, e
quella di un averroista della Scuola bolognese del secolo XIV come Taddeo da
Parma, si vedano le analisi di G. FEDERICI V ESCOVINI, Astrologia e scienza. La crisi
dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma, op. cit.,
p. 125-138 e di V. SORGE, Profili dell’averroismo bolognese. Metafisica e scienza in
Taddeo da Parma, cit., p. 94-107. Per un’analisi dettagliata della teoria del senso
agente in Buridano, dei suoi antecedenti (Jean de Jandun) e dei suoi rapporti di
affinità e di divergenza con la stessa dottrina di Pelacani si veda il saggio di J. Biard,
« Le système des sens dans la philosophie naturelle du XIVe siècle (Jean de Jandun,
Jean Buridan, Blaise de Parme) », in Micrologus. Natura, scienze e società medievali,
10 (2002), p. 335-351, che va a integrare e completare la ricostruzione di A. PATTIN,
Pour l’histoire du sens agent : la controverse entre Barthélemy de Bruges et Jean de
Jandun. Ses antécédents et son évolution, Leuven, Peeters, 1988.
14
B IAGIO P ELACANI , Quaestiones de anima, ed. G. FEDERICI V ESCOVINI, op. cit.,
p. 102.
15
Ibid., p. 99.
16
A proposito dell’anima intellettiva umana Biagio Pelacani sostiene una dottrina
astrologico-biologico-naturalista e materialista, che lo porta a negarne l’immortalità.
Secondo il Maestro di Parma, infatti, esiste un’unica causa universale, che è l’aspetto
celeste, che concorre alla produzione delle forme generabili e corruttibili. Questa
254 ORSOLA RIGNANI

telico-averroista dell’intelletto come atto o forma sostanziale perfetta


separata dalle attività sensibili, in un deciso superamento della
dinamica ontologica della potenza e dell’atto, della materia e della
forma, come praticamente è possibile che le operazioni intellettive si
pongano in stretta continuità e addirittura si saldino con quelle sensi-
bili ?
Questo problema è ampiamente discusso nella tredicesima
questione del secondo libro del De anima in risposta alla domanda
« utrum sensus sit virtus passiva17 ». Qui Biagio, manifestando senza
ambiguità o incertezza la sua preferenza per la tesi dell’attività
dell’anima nella sensazione, presenta quest’ultima come un processo
complesso al quale concorrono, come già aveva stabilito Aristotele, tre
diversi fattori: « sensibile », « medium sentiendi » e « sensus », che

concezione astrologica è determinante appunto per la negazione dell’immortalità


dell’anima intellettiva umana individuale, in quanto giustifica e porta avanti l’idea
della possibilità della generazione spontanea dalla materia anche delle forme
superiori, come appunto l’attività dell’intelletto dell’uomo. Biagio sostiene tale tesi
sulla base del presupposto che l’anima intellettiva umana non possa essere separata
dal corpo, in quanto non possiede un’operazione sua propria indipendente da esso ;
qualunque notizia intellettiva infatti è dipendente dal corpo e dalle sensazioni.
L’uomo naturale, dunque, può essere generato dalla putrefazione della materia, come
dopo il Diluvio Universale. Come infatti sono stati generati i pesci e gli altri animali,
così può essere stato generato anche l’uomo, con la sua virtù intellettiva. In questo
caso è allora la costellazione, che, posta in un buon aspetto, può concorrere a che la
materia si costituisca nella forma intellettiva appunto. Cf. B IAGIO P ELACANI, Quaes-
tiones de anima, ed. G. FEDERICI VESCOVINI, op. cit., p. 79. Le discussioni sui problemi
della generazione spontanea della materia in relazione alle dottrine astrologiche delle
influenze planetarie erano particolarmente vivaci nel milieu culturale di Biagio, cioè
tra i medici e scienziati della Scuola di Padova nel Trecento, e sembrano risalire tra
l’altro alle interpretazioni dell’opera di Avicenna. Le dinamiche della trasmissione di
tali idee sono, però, tuttora in fase di ricostruzione ; per un quadro dello status
quaestionis, si veda : G FEDERICI V ESCOVINI, « Il pensiero scientifico del Medioevo e
l’emergere delle scienze arabe », op. cit., p. 278-280. Sulle concezioni astrologiche di
Pelacani in relazione in particolare alla problematica morale si veda ora : J. HACKETT,
« Astrology and the Search for an Art and Science of Nature in the 13th Century », in
G. MARCHETTI, O. RIGNANI, V. SORGE (Eds.), Ratio et superstitio. Essays in Honor of
Graziella Federici Vescovini, op. cit., p. 117-136.
17
B IAGIO P ELACANI , Quaestiones de anima, ed. G. FEDERICI V ESCOVINI , op. cit.,
p. 117 sg.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 255

sono cioè « quod sentitur », « quo sentitur » e « sentiens18 ». Ciascuno


di essi è coinvolto in modo attivo o passivo: l’oggetto sensibile
contribuisce attivamente a causare la sensazione, producendo delle
« species » nel medio e nell’organo di senso ; il medio, invece, è
passivo, in quanto le « species » che lo percorrono non sono mai
prodotte dai sensibili nel medio stesso e prendono parte solo strumen-
talmente alla sensazione ; l’anima, infine, interviene in modo attivo al
processo della sensazione, in quanto costituisce il principio che avverte
la sensazione stessa19. A questo punto, dunque, l’anima risulta attiva e
passiva insieme, cioè attiva appunto come principio che avverte la
sensazione e che rielabora, come si vedrà, razionalmente tramite opera-
zioni di confronto e di calcolo matematico, il materiale della sensa-
zione, ma anche passiva rispetto all’oggetto sensibile, che agisce su di
essa mediante le « species20 ». Queste ultime vengono spogliate da
Pelacani del loro carattere di res o forme sostanziali, essendo invece
considerate qualità o proprietà materiali dei corpi, capaci di agire,
provocando sul soggetto percipiente, attraverso un medio, un’
« impressio » che innesca l’attività sensitivo-percettiva e conoscitiva
dell’anima. Con questo loro carattere di virtù attive, le « species »
vengono intese da Biagio come proprietà materiali attive dei corpi
(grandezza, figura, numero, sito) ; come qualità strumentali, cioè come
la capacità di propagazione di queste proprietà dei corpi attraverso un
medio, in modo da impressionare il soggetto percipiente ; come termini
matematici, vale a dire, nell’ambito della conoscenza visiva, come le
linee visuali, i raggi ottici, le piramidi ottiche, che spiegano geome-
tricamente il meccanismo della percezione visiva. Le « species »,
quindi, non sono forme spirituali intenzionali, astratte dalla materia,
non hanno una realtà sostanziale, ma sono piuttosto, i raggi visivi che
concorrono alla visione sensibile e le condizioni della materia, che,
producono un’« impressio » alla quale l’anima reagisce nell’atto di
distinguere, di calcolare e di argomentare. E la conoscenza dell’uomo
consiste in ultima analisi proprio in questa capacità di calcolare e

18
Ibid., p. 119.
19
Ibid., p. 121-122.
20
Su ciò si vedano le osservazioni di G. FEDERICI VESCOVINI, Astrologia e scienza.
La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma,
op. cit., p. 146-148.
256 ORSOLA RIGNANI

sillogizzare sulla base delle impressioni provocate dagli oggetti sugli


organi di senso.
Ma, nello specifico, come e cosa si sente ? Pelacani si domanda
« utrum sensibile positum supra sensum causet sensationem21 »: ciò che
si sente è la qualità sensibile che è l’impressione prodotta nell’organo
di senso o è piuttosto l’oggetto sensibile che è causa di tale qualità22 ?
Escludendo nettamente che si possano cogliere forme ontologiche o
loro specie intenzionali, risponde Pelacani che si sente primariamente
la qualità impressa nell’organo, che, però, essendo un effetto, cioè una
« species », prodotto dall’oggetto sensibile sul soggetto percipiente, è
della stessa « ratio » della sua causa e ne porta quindi in sé l’imma-
gine23. Ciò che è sentito, in definitiva, è l’oggetto sensibile nella sua
qualità che si imprime nell’organo di senso e che viene così percepita
dall’anima, che, se è ricettiva, o passiva in quanto riceve le « impres-
siones », è anche attiva perché avverte e rielabora le azioni degli oggetti
sensibili. L’insieme di queste operazioni va a costituire appunto il
sensus agens, in una imbricazione di attività intellettiva, sensibile
esterna ed interna, che vengono fatte coincidere tutte con il senso
comune, identificato con ogni « virtus cognoscitiva » dell’uomo24. In
base al principio per cui frustra fit per plura quod potest fieri per
pauciora, « sensus communis est virtus fantastica, memorativa et
memoria et intellectus25 »: se, infatti, l’anima è un unico « subiectum »
che si differenzia per le operazioni, le diverse facoltà dell’anima
sensibile e intellettiva come l’estimativa, la memoria e la cogitativa

21
BIAGIO PELACANI, Quaestiones de anima, II, qu. 25, f. 190va.
22
Ibid., f. 191vb : « Sed est dubium an ista qualitas sentiatur que est causata in
organo sensus ab obiecto, an illud obiectum quod causabat istam qualitatem. »
23
Ibid. : « Ad quod respondetur quod qualitas impressa principaliter et primo
sentitur, secundario representat suam causam tamquam suum obiectum, ratione cuius
ista qualitas materialis in organo dicitur species. Et ratio huius dicti est quia unum-
quodque ens habet se primo representare sensui quam aliud. Sed, quia quilibet
effectus eiusdem rationis cum producente gerit in se similitudinem sue cause, hinc est
quia secundario representat suam causam tamquam suum obiectum. »
24
B IAGIO P E L A C A N I , Quaestiones de anima, II, qu. 26, f. 193va : « Sensus
communis est virtus cognoscitiva ; […] iudicat de omnibus sensibilibus sensuum
exteriorum et ponit differentiam inter diversa obiecta diversorum sensuum, et per
consequens sensus communis est virtus cognoscitiva. »
25
Ibid., f. 193vb.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 257

vengono ad essere concepite come « operationes » diverse facenti capo


all’unico senso comune, per il quale esso si differenzia26. E anche lo
stesso intelletto (sia materiale che attivo), in quanto forma materiale,
estesa, non separabile dal corpo, viene fatto coincidere col senso
comune e con le sue operazioni, in un superamento sia delle posizioni
averroistiche sull’intelletto possibile ed agente come forma universale
separata dall’anima umana che delle posizioni tomiste cristiane
sull’anima intellettiva come forma spirituale individuale27.

26
Ibid. Sul concetto di senso comune e sulle sue funzioni, così come sono state
delineate da Aristotele, la storiografia attualmente sta apportando una serie di revi-
sioni interpretative. Sta infatti emergendo sempre più chiaramente che la nozione di
senso comune rivela negli scritti aristotelici un’accentuata incostanza semantica che
ha innescato la complessa ed articolata discussione medievale sul ruolo dei sensi
interni. Le ricerche storiografiche stanno appunto rivedendo criticamente la cosiddetta
teoria del senso comune in cui tradizionalmente si facevano confluire le tre operazioni
sensibili non specifiche della percezione di De anima, III, cioè percezione dei sensi-
bili comuni, appercezione, discriminazione percettiva, tendendo ad identificare la
« aisthesis koiné » del De anima con la « koiné dynamis » dei Parva naturalia. E’
stato invece ipotizzato di recente come le due espressioni possano denotare aspetti
ben differenti : la prima sarebbe una capacità posteriore alla differenziazione della
percezione nei cinque sensi ; la seconda sarebbe una capacità anteriore e radicale della
percezione. Nel primo caso, dunque, si tratterebbe di una funzione, la sensazione
comune, che non è specifica, ma è pur sempre funzione dei sensi specifici ; mentre
solo nel secondo caso si potrebbe parlare di una facoltà, che è il senso comune, che si
distingue dai cinque sensi e che sarebbe la percezione nella sua unità. Su questa
revisione si veda : C. DI M ARTINO, « Alle radici della percezione. Senso comune e
sensazione comune in Aristotele, De anima, III, 1-2 », in Archives d’histoire doctri-
nale et littéraire du Moyen Age, 68 (2001), p. 7-26. Il volume collettivo G. ROMEYER-
DHERBEY, C. VIANO (Éd.), Corps et âme. Sur le De anima d’Aristote, Paris, Vrin, 1996
aveva già in precedenza contribuito parimenti ad una revisione del concetto di senso
comune unico preposto alla percezione dei sensibili comuni, sostituendo alla nozione
stessa di sensibili comuni quella di « sentiti comuni », che verrebbero percepiti dai
sensi particolari in comune con i sensibili propri. Su questi problemi si vedano anche :
J. D. MODRAK, Aristotle. The Power of Perception, Chicago, Chicago University Press,
1987 e V. SORGE , Profili dell’averroismo bolognese. Metafisica e scienza in Taddeo
da Parma, op. cit., p. 90-94.
27
Biagio discute il problema dell’inerenza o meno all’uomo dell’intelletto,
individuando tre possibili soluzioni : quella di Averroè sull’unicità e la separazione
dell’intelletto possibile ed agente dall’anima umana ; quella del filosofo pagano (con
258 ORSOLA RIGNANI

In conclusione, dunque, nella teoria psico-gnoseologica del


Pelacani il senso agente rappresenta un’attività privilegiata, cioè una
capacità conoscitiva della sensazione, che coincide con l’intera anima
materiale umana. E, quindi, la conoscenza non è più in senso aristo-
telico un processo di astrazione intellettuale dell’universale dai fanta-
smi sensibili, che comporta di conseguenza una subordinazione e una
svalutazione del ruolo della sensazione, ma è piuttosto un’attività
sensibile, una sensazione agente, una « cognitio sensibilis » (visiva in
particolare) che coinvolge nei suoi processi anche le funzioni superiori
intellettive e razionali della mente dell’uomo. La sensazione intesa in
questo modo, e specificamente la sensazione visiva diventa pertanto
un’attività conoscitiva fondamentale, che avviene secondo regole
razionali e rappresenta uno strumento essenziale per la conoscenza
della natura.

2. IL SENSO AGENTE E LA VISIONE OTTICO-MATEMATICA

Se con questa teoria del sensus agens il Pelacani riesce a


giustificare le pretese conoscitive della sensazione, la visione ottica
viene ad essere concepita in tale contesto come giudizio sensibile,
matematico-razionale della realtà. Vari, come è stato messo in eviden-
28
za , sono stati i modi di affrontare il problema della visione tra
l’antichità e il Medioevo. E’ stata data una spiegazione meramente
ottica della vista, senza prendere in considerazione la validità cono-
scitiva della percezione. E’ stata fornita una spiegazione geometrica del

cui in ultima istanza egli concorda), che sostiene, all’opposto, che l’intelletto umano è
corporeo, generato, cioè edotto dalla potenza della materia e, quindi, forma inerente al
corpo umano ; infine, quella conforme alla fede cristiana, per la quale l’intelletto
umano è creato da Dio, spirituale, inerente all’uomo e immortale. Su ciò, si veda :
BIAGIO PELACANI, Quaestiones de anima, ed. G. FEDERICI VESCOVINI, op. cit., p. 130-131.
28
Su ciò si vedano in particolare : G. FEDERICI V ESCOVINI, Le teorie della luce e
della visione ottica dal IX al XV secolo. Studi sulla prospettiva medievale, cit. ; EAD.,
« Vision et réalité dans la perspective au XIVe siècle », op. cit., p. 167-169 ; EAD.,
« Prospettiva », in N. ABBAGNANO, G. FO R N E R O (a cura di), Dizionario di filosofia,
Torino, Utet, 1998, p. 873-875.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 259

meccanismo della visione oculare (Avicenna ad esempio), senza


ascrivere un valore conoscitivo all’immagine visiva. E’ stata fondata
un’ottica geometrica (come ha fatto Euclide) che fissa le regole di
propagazione in linea retta della luce, senza la preoccupazione di
stabilire se queste leggi giustificano o meno la vera o precisa apparenza
delle cose, cioè senza un’attenzione specifica al problema gnoseologico
delle grandezze visive. All’opposto infine – e questo è il caso di Biagio,
sulla scorta delle elaborazioni di Alhazen – il problema ottico è stato
messo strettamente in relazione con quello psicologico della percezione
e con quello gnoseologico della conoscenza valida, stabilendo che la
percezione ottica delle figure, che ci dà il loro essere obiettivo, è
percezione e insieme calcolo razionale matematico delle loro dimen-
sioni secondo determinate proporzioni, per cui nell’atto della visione
sensibile, oltre alla pura sensazione della vista, entrano in gioco tutte le
facoltà interiori conoscitive e razionali dell’anima. Biagio da Parma,
cioè, ci parla della visione sensibile come di un tipico senso agente,
vale a dire di sensazione visiva come conoscenza e giudizio. Ci parla di
un’anima visiva in cui il conoscere diviene un vedere matematizzato,
secondo una dottrina della « visio certificata » di carattere appunto
matematico-razionale, che presuppone tutta un’analisi del problema
della verità o della falsità delle immagini ottiche in relazione al
soggetto percipiente, cioè un’analisi della questione della verità o
falsità della visione ottica, dell’errore nella percezione visiva e della
relazione tra l’immagine della percezione ottica e l’oggetto reale.
Il chiarimento di queste problematiche – affrontate già da Alhazen
in una impostazione dell’ottica nuova rispetto a quelle ad esempio di
Euclide e Tolomeo29 – e in particolare della questione dell’errore visivo
contribuisce a gettare luce sull’importanza conoscitiva che Pelacani
ascrive alla « sensatio », al giudizio di senso visivo.
Sulla scorta delle posizioni di Alhazen stesso, egli afferma il
principio della certezza sensibile: la possibilità dell’errore non risiede
nella sensazione immediata, quanto piuttosto nelle operazioni razionali
innescate da essa, cioè in quel complesso di attività valutative e

29
Sulla diversa impostazione dell’ottica di Alhazen rispetto a quella di Tolomeo si
veda in particolare : A. SABRA, « Ibn al-Haytham’s Criticism of Ptolemy’s Optics », in
Journal of the History of Philosophy, 4 (1966), p. 145-149.
260 ORSOLA RIGNANI

calcolative razionali dell’anima, che la particolarizzano e specificano,


che la compongono e dividono30. Se, come afferma Pelacani in un passo
delle Quaestiones metheororum31, l’« iudicium sensus » è duplice, cioè
giudizio universale e indeterminato del senso esterno e giudizio del
senso interno che lo specifica e particolarizza, il primo, fondato sulla
sensazione immediata e sul senso speciale, non sbaglia mai, in quanto
non ragiona e non calcola ; il secondo, che è invece frutto di una serie
di operazioni compiute dai sensi interni e dall’intelletto di confronto tra
qualcosa che si vede al momento e le nozioni che già si possiedono,
può sbagliare. In altre parole, dunque, l’errore dipende dalla valuta-
zione razionale, matematica da parte delle virtù interne dell’anima,
come la memoria, l’estimativa e la cogitativa, di fattori visuali variabili,
quali la distanza a cui si trovano i visibili o la proporzione della luce ;
tanto che l’apparenza sensibile visiva in sé non è mai errata ; può
incorrere nell’errore invece la ragione con le sue operazioni32. Da ciò,
per converso, segue che l’errore, non dipendendo dal senso, ma
appunto dalle operazioni della ragione, è correggibile e, quindi, c’è la
possibilità di ottenere una conoscenza scientifica, vale a dire
33
otticamente valida . Questa idea del giudizio di senso come fallibile e
continuamente perfettibile è legata al concetto di Pelacani di scienza e
di sapere come opinione e non come conoscenza assolutamente neces-
saria e certa (che cioè non ha più nulla a che vedere con l’ideale
scientifico della metafisica aristotelica), nell’ambito della quale però il
maggior grado di certezza, le opinioni « vere, necessarie ed evidenti »

30
B IAGIO P ELACANI, Quaestiones de anima, II, qu. 15, f. 170va : « Nullus sensus
exterior habet componere vel dividere ; patet quia componere vel dividere est operatio
virtutis interioris […]. Non contingit actionem sensuum de exterioribus errare circa
eius obiectum proprium nec commune. Patet conclusio, postquam nullus sensus de
exterioribus potest componere vel dividere. Et errare non est sine compositione vel
divisione […]. »
31
Cf. BIAGIO P E L A C A N I , Quaestiones Metheororum, ms. Firenze, Biblioteca
Medicea Laurenziana, Ashburnham 185, III, qu. 2, f. 43rb.
32
BIAGIO PELACANI, Quaestiones de anima, II, qu. 15, ff.170va-171ra.
33
Sul fatto che per Pelacani la conoscenza umana sia un’opinione, cioè
continuamente perfettibile e non assolutamente valida, e che, pur nell’ambito dell’opi-
nione, la matematica sia la scienza più certa, si vedano le osservazioni di G. FEDERICI
V ESCOVINI , ‘Arti’ e filosofia nel secolo XIV. Studi sulla tradizione aristotelica e i
‘moderni’, Firenze, Vallecchi, 1983, p. 195-212 ; 279-300.
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 261

sono costituite dalle proposizioni della matematica e della geometria, la


cui certezza riposa sulla particolare evidenza dei loro principi34.
La conoscenza umana, dunque, non essendo perfetta, ma continua-
mente perfettibile, non avviene per cause ontologico-sostanziali
necessarie, ma piuttosto per principi esplicativi, per cui al concetto
ontologico di causa sembra essere sostituito quello di causa come
principio di spiegazione o di descrizione. E questa descrizione dei
fenomeni ha luogo per Pelacani proprio secondo regole matematiche.
Strettamente connessa a tali posizioni è la teoria della visione ottico-
matematica, che spiega le operazioni psicologiche di misurazione
matematico-razionale del mondo esterno che l’intelletto dell’uomo
compie sulla base appunto di calcoli precisi della realtà che lo circonda.
Tutto questo implica, come si è accennato in precedenza, la sostitu-
zione dell’ontologia delle forme qualitative con un concetto di reale
costituito da forme riducibili a proporzioni matematiche misurabili,
secondo una concezione gnoseologica che insiste appunto sull’aspetto
quantitativo della percezione visiva e delle operazioni intellettive
fondate su di essa35.
Nell’ambito di questa concezione della visione come conoscenza e
giudizio matematico-quantitativo del mondo naturale, cioè come senso
agente, e della realtà come rete di proporzioni matematiche che è la
stessa ragione dell’uomo a stabilire, risulta agevole comprendere come

34
Sui nessi tra matematica e logica, si veda in modo specifico : B LAISE DE P ARME,
Questiones super Tractatus Logice magistri Petri Hispani, ed. J. BIARD, G. FEDERICI
VESCOVINI, O. RIGNANI, V. SORGE, Paris, Vrin, 2001, p. 17-21 (Textes philosophiques du
Moyen Age, 20).
35
A proposito delle discussioni avvenute nel secolo XIV sulla realtà sostanziale o
puramente concettuale delle nozioni matematiche come punto, linea, etc. e sulle
posizioni terministe di Pelacani, si veda G. FEDERICI VESCOVINI, Le teorie della luce e
della visione ottica dal IX al XV secolo. Studi sulla prospettiva medievale e altri
saggi, op. cit., p. 285-318. Sui rapporti tra matematica, fisica e filosofia e sullo statuto
degli oggetti matematici nel pensiero di Biagio si vedano anche : J. BIARD,
« Mathématiques et philosophie dans les Questions de Blaise de Parme sur le Traité
des rapports de Thomas Bradwardine », in Revue d’Histoire des Sciences, 56 (2003),
p. 383-400 ; S. ROMMEVAUX , « L’irrationalité de la diagonale et du côté d’un même
carré dans les Questions de Blaise de Parme sur le Traité des rapports de
Bradwardine », in Revue d’Histoire des Sciences, 56 (2003), p. 401-418.
262 ORSOLA RIGNANI

le proprietà che la visione coglie siano allora, oltre alla luce ed al


colore, le determinazioni quantitative degli oggetti, come la figura, la
grandezza, il sito. La « cognitio visiva » (che è il processo della sensa-
zione sopra analizzato, cioè l’azione dell’oggetto mediante la specie
sulle facoltà sensibili dell’anima e la risposta attiva dell’anima a questo
stimolo) coglie grandezze o quantità ottiche, cioè figure e dimensioni
corporee colorate, misurabili secondo calcoli razionali dell’anima e
rappresentabili secondo proporzioni da essa elaborate sulla base della
percezione visiva dell’occhio. Dall’ambito e dalle possibilità della
conoscenza visiva Pelacani esclude in questo modo la capacità di
cogliere forme sostanziali quidditative, svincolandola così da ogni
impostazione metafisico-sostanzialistica.
Una chiara manifestazione di questo intento si trova nelle
Quaestiones perspectivae, in risposta alla domanda se ciò che appare
nello specchio che mi sta di fronte è la mia immagine, la specie o
piuttosto è quello che io sono36. Se la vista cogliesse una sostanza, si
cadrebbe in un processo all’infinito, dal momento che si vedrebbe la
specie della specie della specie ; ciò che si vede invece non è
l’« ydolum », ma l’oggetto posto davanti allo specchio, determinato dai
raggi geometrici della piramide visiva37. In questo senso, dunque,
l’oggetto si configura come dato nell’evidenza sensibile ottica, sulla
base delle regole geometriche della visione e delle operazioni psico-
gnoseologiche matematiche del sensus agens.

36
BIAGIO PELACANI, Quaestiones perspectivae, II, qu. 2, f. 55rb.
37
Ibid., f. 55vb : « Secunda conclusio : non contingit speciem rei visibilis videri.
Patet, quia, si sic, ergo per precedentem conclusionem videretur per eius speciem. Et
quererem tunc secunda species per quam prima videtur que habet rationem obiecti,
aut hec secunda species videtur aut non. Si videtur, ergo per eius speciem videtur ; si
non videtur, nec pariformiter prima videbatur. Et, ubi sic, conclusio relinquitur vera ;
si per aliam speciem videatur, sic erit processus in infinitum, et sic videns unum
videbit diversa diversarum specierum. Tertia conclusio : illud quod apparet esse in
speculo non est ydolum sive species rei visibilis, quod idem est. Hec tertia conclusio
patet per secundam, prima concurrente. Quarta conclusio : illud quod apparet esse in
speculo est obiectum cui speculum est expositum. Patet, quia postquam species illius
obiecti non terminant visum, sed solummodo obiectum, et sic patet conclusio. »
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 263

La visione coglie gli oggetti secondo figure38: la figura, che è per


Biagio una determinazione geometrica dei corpi, può essere percepita
visivamente in base alla distanza ed alla posizione degli oggetti e nella
maggior parte dei casi è solida, cioè è corporeità. La percezione visiva
di essa, pur variando a seconda che sia superficiale o solida, è comun-
que sempre accompagnata da un ragionamento mediato di carattere
matematico: la figura superficiale si coglie mediante la grandezza, che
è una proprietà sensibile percepita attraverso la misurazione dell’esten-
sione dell’oggetto sensibile sulla base di un’unità di misura assunta
come riferimento39 ; la figura come solido è invece colta tramite la
percezione del rilievo o della depressione, che è ottenuta per mezzo del
calcolo della misura della distanza dei punti della superficie del solido
dal centro dell’occhio in posizione perpendicolare40. In definitiva,
dunque, la visione coglie grandezze ottiche attraverso gli angoli solidi,
non superficiali di una piramide visuale41 che ha come base la superficie
dell’oggetto e come vertice il centro della visione ; gli oggetti allora
vengono percepiti secondo calcoli e proporzioni che fanno riferimento
alle tre dimensioni, lunghezza, larghezza, ma soprattutto profondità o
distanza, e lo sforzo concettuale razionale per determinare la distanza
dell’oggetto dall’occhio dell’osservatore e degli oggetti tra loro diventa
un elemento essenziale della « cognitio visiva », allo scopo di cogliere
gli oggetti stessi nelle loro reali dimensioni. Insomma Pelacani si
preoccupa in questa sua teoria della conoscenza visiva come tipico
senso agente di analizzare la problematica gnoseologica delle

38
Sul problema della percezione della figura e del colore in Biagio Pelacani, si
veda ora : G. FEDERICI V ESCOVINI, « La percezione della figura e il colore secondo la
prospettiva di Biagio Pelacani da Parma e Leon Battista Alberti », in EAD., Le teorie
della luce e della visione ottica dal IX al XV secolo. Studi sulla prospettiva medievale
e altri saggi, op. cit., p. 465-490.
39
B IAGIO PELACANI, Quaestiones perspectivae, I, qu. 16, ed. G. FEDERICI V ESCOVINI,
op. cit., p. 224 : « […] cognoscere hoc obiectum vel illud quantum sit est cognoscere
proportionem illius obiecti quanti ad quantitatem notam. »
40
BIAGIO PELACANI, Quaestiones de anima, II, qu. 15, f. 181ra-181vb.
41
Il concetto per cui la visione può avvenire solo sotto angoli visivi solidi, cioè
dotati della terza dimensione, e non sotto angoli superficiali – come è l’angolo della
contingenza, che, essendo superficiale, è incommensurabile e infinito e le rette che lo
costituiscono non possono delimitare la base della piramide ottica – è sviluppato da
Pelacani in Quaestiones perspectivae, I, qu. 13, f. 38vb-40vb.
264 ORSOLA RIGNANI

grandezze visive, la questione della percezione psicologica della


distanza relativa, della posizione, della figura, della profondità delle
cose, stabilendo le modalità psicologiche e gnoseologiche in virtù delle
quali l’attività percettivo-visiva, supportata e accompagnata dalle
operazioni calcolative della memoria, della ragione cogitativa e della
« virtus distinctiva » (senso comune), porta alla conoscenza degli
oggetti nelle loro dimensioni effettive.
Questi intenti e queste posizioni sono chiaramente espressi nelle
Quaestiones perspectivae in merito al problema se nell’apprensione
degli oggetti visibili la proporzione che sussiste tra di loro segua la
proporzione degli angoli sotto cui si vedono42. Vale a dire: la grandezza
colta visivamente è direttamente proporzionale all’ampiezza dell’an-
golo ottico ? Secondo l’impostazione meramente geometrica (e non
psico-gnoseologica) dell’ottica euclidea (a cui Pelacani polemicamente
allude), la risposta è affermativa : il variare della grandezza ottica
dipende esclusivamente dal variare dell’ampiezza dell’angolo della
visione. Secondo invece la dottrina ottico-psicologico-gnoseologica di
Alhazen, a cui Biagio chiaramente si ispira e che stabilisce una stretta
interazione e continuità tra visione ottica, sensazione visiva e perce-
zione interiore (inferenza logica), la risposta è negativa. Per il Pelacani,
come per Alhazen, infatti, la percezione delle grandezze ottiche è
sempre conoscenza di quantità e per questo non dipende soltanto
dall’ampiezza dell’angolo della visione, bensì soprattutto dall’attività di
distinzione e comparazione della ragione, che calcola e misura gli
angoli in proporzione alla distanza e determina le grandezze stesse
fondandosi su rapporti matematici tra i corpi, fissati per mezzo di linee
e diametri. In altre parole il processo di comprensione delle grandezze
ottiche è fondato su operazioni razionali, oltre che percettive, mediante
le quali, tra l’altro, il soggetto percipiente valuta e confronta le distanze
degli oggetti tra loro e rispetto a sé43. E’ così che Biagio ci parla dei

42
B IAGIO PELACANI, Quaestiones perspectivae, I, qu. 16, ed. G. FEDERICI V ESCOVINI,
op. cit., p. 221.
43
Queste posizioni presuppongono un’idea di uno spazio matematico, definibile in
termini di distanza. Su ciò si veda in particolare : G. FEDERICI VESCOVINI, « Note sur la
circulation en Italie du Commentaire d’Albert de Saxe sur le De caelo d’Aristote », in
e
J. BIARD (Éd.), Itinéraire d’Albert de Saxe. Paris-Vienne au XIV siècle, Paris, Vrin,
BIAGIO PELACANI E IL SENSO AGENTE 265

diversi modi in cui può essere intesa l’attività visiva – a seconda del
tipo di operazioni che svolge e delle facoltà sensibili esterne od interne
coinvolte – a cui corrispondono tre tipi di conoscenza visiva: la
« potentia visiva » può essere allora uno dei cinque sensi esterni, cioè la
« virtus apprehensiva » dell’oggetto visibile ; può essere il senso
comune, il « visus interior », che, ponendo le differenze tra i diversi
sensibili dei diversi sensi, prende il nome di « virtus distinctiva » ; a
quest’ultima, infine, si accompagna poi l’attività della ragione, secondo
appunto la dottrina del sensus agens44. Se tutti questi tipi di conoscenza
sono fondati sulla vista e sono complementari, sono però le operazioni
matematico-razionali di calcolo e di misura delle cose e delle loro
distanze reciproche e rispetto all’occhio che garantiscono una cono-
scenza quantitativa di esse, che è una conoscenza scientifica, una
« visio certificata », in quanto coglie appunto il quantum delle cose, a
cui in definitiva si riconducono le forme visive45. La conoscenza valida,
dunque, per Biagio, non è puramente ottico-percettiva, ma fondata sulle
operazioni matematiche del sensus agens ; la visione sensibile è certi-
ficata per mezzo delle regole della percezione razionale ottica, dal
momento che la sola certezza che l’uomo può raggiungere è appunto
quella della percezione della quantità delle cose osservate.
In conclusione, se Euclide aveva fatto dipendere la grandezza degli
oggetti visibili esclusivamente dall’angolo visivo, senza prendere in
considerazione la distanza relativa tra l’oggetto e l’occhio dell’osser-
vatore, cioè non aveva posto attenzione alla questione del rapporto tra il

1991, p. 235-251 e EAD., Astrologia e scienza. La crisi dell’aristo-telismo sul cadere


del Trecento e Biagio Pelacani da Parma, op. cit., p. 283-289.
44
B IAGIO P ELACANI, Quaestiones perspectivae I, qu.16, ed. G. FEDERICI V ESCOVINI,
op. cit., p. 230-231 : « Dicatur tamen ad difficultatem distinguendo de potentia visiva,
quoniam aliquando sumitur pro uno de quinque sensibus exterioribus, et tunc talis
virtus est apprehensiva obiecti visibilis ; aliquando sumitur pro sensu communi
immutato a potentia visiva vel ab obiecto eius, et tunc appellatur visus interior, qui
ponit differentiam inter obiecta diversa diversorum sensuum. Et secundum hanc
operationem appellatur virtus distinctiva. »
45
Ibid., p. 227-228 : « Visus intellectualis, iudicio concurrente, potest
longitudinem radiorum comprehendere, idest distantiam in qua, vel per quam, visibile
ab oculo distat. […]. Omni quantitate data, quantumcumque magna vel parva, potest
visus mediante claro intellectu per angulos cum relatione unius obiecti, vel plurium,
ad distantias quanta sit calculare. »
266 ORSOLA RIGNANI

soggetto che percepisce e costruisce l’immagine col suo ragionamento


e l’oggetto nella sua verità, Biagio al contrario, sostenendo che la
visione come rappresentazione visuale delle cose non segue l’ampiezza
dell’angolo ottico, quanto piuttosto le proporzioni delle distanze tra gli
oggetti e rispetto all’osservatore, mette in primo piano il punto di vista
dell’osservatore stesso e le sue operazioni di misura della realtà. La
grandezza, per tornare al caso specifico, non è qualcosa di già dato, ma
dipende dalla misura della distanza che è sempre relativa all’attività
percettivo-razionale del soggetto percipiente. A questo punto, viene
meno ogni distinzione tra grandezza reale (misura astratta, entità
intelligibile) e grandezza apparente o soggettiva, in quanto l’apparenza
reale è ricondotta alla rappresentazione ottica delle distanze tra gli
oggetti e l’osservatore. Queste distanze sono misurate dai calcoli
compiuti dall’intelletto dell’osservatore, che gli forniscono l’apparenza
(immagine vera, certa) dell’oggetto, che si forma tramite la piramide
ottica46. Se, quindi, il reale, così come ci appare nell’esperienza
sensibile, è ricondotto alla geometrizzazione di una piramide visuale (in
quanto le immagini sono appunto trasmesse dai raggi visuali di essa),
esso non si costituisce sul solo fondamento dell’esperienza sensibile
esterna, ma anche e soprattutto sulla base dell’organizzazione attiva
razionale delle esperienze interne (sensi interni), in continuità con
quelle esterne, per cui la certezza della visione è garantita dai calcoli e
dalle misure razionali dei sensi interni stessi, e, quindi del senso agente,
che fanno cogliere il quantum delle cose. In conclusione, l’anima
visiva, sulla base delle operazioni del senso agente, può arrivare a una
conoscenza matematica, certificata e otticamente valida della realtà.

Università di Firenze

46
Su questi problemi, si veda ancora una volta : G. FEDERICI VESCOVINI, « Vision et
réalité dans la perspective au XIVe siècle », op. cit., p. 178-180.
MARTIN THURNER

IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE


DELLA MENTE :
GLI AENIGMATA DI CUSANO

Dedicato a Graziella Federici Vescovini

1. « NIHIL MENTE NOBILIUS » :


IL PENSIERO DEL CUSANO COME « FILOSOFIA DELLA MENTE »

1
Il pensiero del Cusano è spesso definito « filosofia della mente ».
E già uno sguardo superficiale al titolo dei suoi scritti filosofici indica e
conferma che in Cusano la mens humana si pone al centro
dell’interesse. Nei suoi scritti Cusano non si occupa più principalmente,

1
È indicativo il fatto che, per la coscienza storico-filosofica, la riscoperta del
Cusano sia avvenuta all’inizio del ventesimo secolo, nel contesto dell’interesse dei
neokantiani per i precursori della loro stessa filosofia della conoscenza. Vedi
soprattutto il capitolo su Cusano in E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philo-
sophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Berlino, 1906 (rist : Darmstadt, 1974),
vol. I, p. 21-61. Inoltre : G. PIAIA , « Cassirer, Historiker der Renaissancephilo-
sophie », in E. RUDOLPH (ed.), Die Renaissance und ihr Bild in der Geschichte. Die
Renaissance als erste Aufklärung III, Tubinga, 1998, p. 167-180 (su Cusano : p. 176).
All’insegna del motto cusaniano « Nihil mente nobilius » (nulla è più nobile dello
spirito) (« De theologicis complementis », 9 : h X/2a, in Heidelberger kritische Aka-
demie-Ausgabe der Opera omnia, Lipsia-Amburgo, 1932 sg. n. 9, lin. 61sg.) già
R. FALCKENBERG aveva presentato la sua introduzione e rappresentazione complessiva
focalizzata sulla filosofia dello spirito : Grundzüge der Philosophie des Nicolaus
Cusanus, mit besonderer Berücksichtigung der Lehre vom Erkennen, Breslavia, 1880
(rist. : Francoforte s.M., 1968). Vedi anche la più recente pubblicazione : H. SCHWAETZER
(ed.), Nicolaus Cusanus : Perspektiven seiner Geistphilosophie (Congresso Interna-
zionale di giovani ricercatori/ricercatrici di Cusano, Treviri, 24-26 maggio 2002),
Ratisbona, 2003.
268 MARTIN THURNER

come ad esempio fa Tommaso d’Aquino, nel De ente et essentia, dei


principi della realtà, De principiis naturae, bensì dei confini e della
portata della conoscenza umana, dall’opera prima filosofica della Docta
ignorantia fino alla sua ultima speculazione nel De apice theoriae. Fin
dall’inizio in Cusano i grandi quesiti del pensiero – l’infinità di Dio,
2
l’universo del mondo e l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo – si svi-
luppano in modo conseguente nella prospettiva della « docta igno-
rantia » della mente umana. Anzi : in Cusano ogni riflessione sulla
(struttura della) fondazione della realtà ha in ultima analisi lo scopo di
far sì che in essa la mente umana riconosca se stessa3.
Questo concentrare, da parte della mente umana, tutti i momenti
del pensiero e della realtà sulla conoscenza di se stessa appare a prima
vista come un’anticipazione della filosofia dell’epoca moderna4. A
monte di questa novità tuttavia, nel Cusano si trova un’intuizione della
mente umana che ha radici profonde nella spiritualità mistica della fede
cristiana. Le novità della filosofia cusaniana dell’intelletto si rivelano
nella loro logica interiore soltanto se le si intendono a partire da questo
loro originario contesto di senso.

2
I temi dei tre libri della Dotta ignoranza.
3
Cf. Idiota de mente 9 : h 2V, n. 123, lin. 3-7 : « Mi meraviglio che la mente […]
si spinga da misurare le cose così avidamente. – [Lo fa] per attingere la misura di se
stessa. Infatti la mente è la misura viva che, misurando le altre cose, coglie la propria
capacità. Tutto fa per conoscersi. » (trad it. : NICOLA CUSANO, I dialoghi dell’Idiota.
Libri Quattro, Introduzione, traduzione e note a cura di G. FEDERICI VESCOVINI, Firenze,
2003, p. 60).
4
In merito a questo orientamento interpretativo (con esaurienti indicazioni
bibliografiche) cf. H. BENZ, Individualität und Subjektivität. Interpretationstendenzen
in der Cusanus-Forschung und das Selbstverständnis des Nikolaus von Kues,
Münster, 1999. Inoltre : I. BOCKEN, « Konjekturalität und Subjektivität. Einige Anmer-
kungen zur Position der Geistphilosophie des Nikolaus Cusanus in der neuzeitlichen
Philosophiegeschichte », in H. SCHWAETZER (ed.), Nicolaus Cusanus : Perspektiven
seiner Geistphilosophie, op. cit., p. 51-64.
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 269

2. LA FINALIZZAZIONE DELLA REALTÀ DELL’INTELLETTO UMANO


VERSO LA RELAZIONE MISTICO-AFFETTIVA CON DIO

Cusano riprende la definizione aristotelica classica dell’uomo


come animale dotato di intelletto, ma le attribuisce una diversa motiva-
zione : l’intelletto è stato creato da Dio allo scopo di mettere l’essere
umano in grado di conoscere Dio. Il Dio dell’amore voleva comunicare
e rivelare se stesso. Il destinatario di questa autorivelazione di Dio
tuttavia poteva essere soltanto un essere capace di riconoscere la pie-
nezza dell’essere di Dio, che è spirito e così invisibile. Poiché Dio
voleva rivelare se stesso all’essere umano, egli lo creò dotato di
5
intelletto .
Per Cusano vi è però anche un motivo più profondo, per cui
l’intelletto è per l’essere umano la via di accesso per partecipare
all’essenza del Dio cristiano dell’amore. Questo motivo è insito
nell’essenza interiore stessa della verità conosciuta dall’intelletto.
Cusano scopre che la verità intellettuale, nella sua essenza interiore, è
l’amore affettivo e che l’essere umano può arrivare ad un’esperienza
mistica di questo amore attraverso la conoscenza della verità intellet-
tuale6. Poiché la verità è autocoincidenza assoluta, essa presenta conti-
nuamente la propria uguaglianza. Cusano comprende questo processo,
in particolare nei suoi scritti De aequalitate e De non aliud, come la

5
Cf. De pace fidei, 1 : h VII, n. 3, lin. 2-5. De beryllo, 3 : h 2XI/1, n. 4, lin. 1-9.
Cribratio Alkorani, II, 16 : h VIII, n. 133, lin. 3-10. Per un’interpretazione più esau-
riente di questi testi : M. THURNER, « Die freie Erschaffung des Menschen als Grund
für die Selbstoffenbarung des Geheimnisses », in ID., Gott als das offenbare Geheim-
nis nach Nikolaus von Kues, Berlino, 2001, p. 27-47 (Veröffentlichungen des Grab-
mann-Institutes, Neue Folge, 45)
6
In merito : M. THURNER, « Die Wahrheit als der Weg zum göttlichen Leben nach
Nikolaus von Kues. Eine Studie anhand von De aequalitate », in J. A. AERTSEN (ed.),
Herbst des Mittelalters ? Fragen zur Bewertung des 14. und 15. Jahrhunderts (33o
Convegno coloniese di medievalisti, 10-13 settembre 2002), Berlino-New York, 2004
(Miscellanea Maedievalia, 31), p. 406-432. Ed il capitolo M. THURNER, « Das affektive
Leben der göttlichen Liebe als tiefster Grund der intellektuellen Wahrheits-
offenbarung », in ID., Geheimnis, op. cit., p. 478-480.
270 MARTIN THURNER

vita intratrinitaria dell’amore divino. La verità dell’intelletto diventa


7
così per l’uomo la via verso la vita divina .

3. L’INCOMPRENSIBILITÀ DELL’INFINITO PER L’INTELLETTO FINITO

La costellazione determinante per la forma specifica della filosofia


cusaniana della mente ora risulta dal fatto che se l’essere umano, con la
sua dote intellettuale, è finalizzato alla conoscenza di Dio, pur tuttavia
non può mai raggiungerla pienamente8. Nelle sue riflessioni filosofiche
sull’essenza di Dio il Cusano giunge alla convinzione che, come
« maximum » assoluto, Dio comprende in sé anche il « minimum » e va
9
quindi inteso come l’infinito nel senso della coincidenza degli opposti .
Nell’infinita pienezza del suo essere, Dio tuttavia rimane incom-
prensibile per l’intelletto finito dell’essere umano. Secondo Cusano la
conoscenza finita dell’essere umano progredisce in quanto pone in
relazione (« proportio ») cose non conosciute con cose già note. Sicco-
me l’infinito onnicomprensivo travalica qualsiasi rapporto limitato,
esso rimane incomprensibile per l’intelletto finito10. Quale coincidenza
del massimo e del minimo, esso può soltanto essere sfiorato nel supera-
mento della « ratio » umana legata al principio di non-contraddizione
nella « docta ignorantia » dell’intelletto11 : « attingere inattingibile inat-
tingibiliter12 ».

7
Cf. De aequalitate, h X, 2/1, n. 3, lin. 1sg.
8
Cf. Idiota de sapientia, I : h 2V, n. 9, lin. 16-18 e n. 18, lin. 11. Cf. M. THURNER,
« Theologische Unendlichkeitsspekulation als endlicher Weltentwurf. Der mensch-
liche Selbstvollzug im Aenigma des Globusspiels bei Nikolaus von Kues », in Mitteil-
ungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 27 (2001), p. 81-128, qui :
p. 101-105.
9
De docta ignorantia, I, 4 : h I, p. 10, lin. 1-p. 11, lin. 22 (n. 11-12).
10
De docta ignorantia, I, 1 : h I, p. 5, lin. 23-p. 6, lin. 8 (n. 3).
11
Questa distinzione fra ratio (ragione) ed intellectus (intelletto) viene sviluppata
da Cusano soprattutto nel De coniecturis e successivamente. Cf. per esempio : I, 10 :
h III, n. 52, lin. 1-n. 53, lin. 12.
12
Idiota de sapientia, I : h 2V, n. 7, lin. 13sg.
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 271

4. IL PROCESSO DI AUTOREALIZZAZIONE DELLA MENTE


QUALE CONTRAZIONE SENSIBILE DELL’INFINITO

Dall’irraggiungibilità dell’infinità di Dio discende, secondo il


Cusano, la specifica modalità di azione della mente finita. L’incom-
prensibilità di Dio secondo Cusano non è motivo di scettica rassegna-
zione per l’intelletto umano. Egli vede piuttosto nell’infinita pienezza
dell’essere di Dio un « tesoro inesplicabile13 » che diventa fonte di inar-
restabili nuovi movimenti vitali della mente14. Nonostante l’intelletto
umano non possa mai comprendere appieno l’infinità di Dio, egli non
rinuncia mai allo scopo della conoscenza di Dio, poiché questo gli è
15
istillato come essenziale quale « desiderium infinitum » dell’origine
della sua vita.
Se l’uomo ambisce a comprendere l’infinità di Dio, che pure non
può comprendere a causa della finitezza del suo intelletto, ne consegue
che la mente umana, nel suo processo di autorealizzazione, contrae
l’infinita pienezza dell’essere di Dio fino alla sua finita capacità di

13
De visione dei, 5 : h VI, n. 13, lin. 4. De visione dei, 16 : h VI, n. 67, lin. 10-15.
Nonché il capitolo « Die Unerschöpflichkeit der Wahrheitsspeise », in M. THURNER,
Die Wahrheit als der Weg, op. cit.
14
Cf. Idiota de sapientia, I : h 2V, n. 10, lin. 7 ; n. 11, lin. 5-11 ; lin. 23 ; n. 18,
lin. 12-16. In merito cf. il capitolo M. THURNER , « Die unendliche Freude der
Spekulation », in ID., Unendlichkeitsspekulation, op. cit., p. 108-110. Sulla ricezione
del pensiero cusaniano della potenziale capacità di infinitezza della mente in Ficino :
W. BEIERWALTES , « Der Selbstbezug des Denkens : Plotin-Augustinus-Ficino », in
Platonismus im Christentum, Francoforte s.M., 1998 (trad. it., Milano, 2000), p. 172-
204, qui : 194-204. In Giordano Bruno : W. HAUG, « Der scheiternde Platonismus in
Giordano Brunos Heroici Furori », in G. SCHOLZ W ILLIAMS, S. K. SCHINDLER (eds.),
Knowledge, Science and Literature in Early Modern Germany, Chapel Hill-London,
1996, p. 131-148. M. THURNER, Unendlichkeitsspekulation, op. cit., p. 118.
15
Cf. De visione dei, 16 : h VI, n. 67, lin. 2-n. 70, lin. 14. In merito : F. HOFFMANN,
« Die unendliche Sehnsucht des menschlichen Geistes », in Mitteilungen und For-
schungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 18 (1989), p. 69-86. K. KREMER,
« Weisheit als Voraussetzung und Erfüllung der Sehnsucht des menschlichen
Geistes », in Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft,
20 (1992), p. 105-146. Ed il capitolo M. THURNER, « Die Wahrheit als Ziel der Sehn-
sucht », in ID., Die Wahrheit als der Weg, op. cit, p. 422.
272 MARTIN THURNER

16
comprendere . Questa contrazione dell’infinito avviene, nel processo
della conoscenza di Dio da parte dell’uomo, per gradi discendenti, che
corrispondono alle diverse facoltà cognitive dell’intelletto finito,
analizzate da Cusano soprattutto nel De coniecturis : « intellectus »,
« ratio », « imaginatio », « sensus17 ». L’intelletto finito può raggiun-
gere lo scopo di conoscere Dio figurandosi l’infinito in una modalità
rappresentativa contratta al finito, che, in successione digradante, è
intellettuale, razionale, immaginativa e, all’ultimo gradino, basata sui
sensi.

5. LA FUNZIONE MEDIATRICE, PRODUTTIVO-CREATIVA DELLA MENTE

Con il pensiero della contrazione dell’infinito in una immagine


rappresentativa finita, Cusano può ora, nel processo della conoscenza di
Dio da parte della mente umana, esplicare filosoficamente due dati
della fede biblico-cristiana : il dato della creazione e il discorso della
somiglianza dell’uomo con Dio18. Le congetture della conoscenza di
Dio sono quindi secondo Cusano identiche al processo della creazione,
dato che nella contrazione finita dell’infinito fino al grado della
sensitività, compiuta dalla mente umana, si genera il mondo.

16
De visione dei, 17 : h VI, n. 78, lin. 7-n. 79, lin. 3. In questo passaggio il fatto
che Dio consenta una infinita contrazione della sua infinita pienezza dell’essere, da
parte dell’uomo, viene interpretato come espressione della bontà di Dio.
17
Cf. la rappresentazione schematica nella cosiddetta figura pyramidalis : De con-
iecturis, I, 9 : h III, n. 41.
18
Sul motivo dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio in Cusano : G. VON
B REDOW, « Der Geist als lebendiges Bild Gottes (Mens viva dei imago) », in Mitteil-
ungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 13 (1978), p. 58-67 ;
riproduzione in : G. VON B REDOW, Im Gespräch mit Nikolaus von Kues. Gesammelte
Aufsätze 1948-1993, ed. H. SC H N A R R , Münster, 1995, p. 99-109 (Buchreihe der
Cusanus-Gesellschaft, Sonderband). Sulla creazione : C. RICCATI, Processio et Expli-
catio. La doctrine de la création chez Jean Scot et Nicolas de Cues, Napoli, Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, 1983 (Serie Studi, 6) ; J. WOLTER, Apparitio Dei, Der
theophanische Charakter der Schöpfung nach Nikolaus van Kues, Münster, 2004.
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 273

La realtà del mondo, concreta a livello dei sensi, è per Cusano il


risultato della contrazione dell’infinito, che l’intelletto finito ha
provocato nei suoi tentativi di conoscere Dio. La mente umana diventa
così mediatrice di creazione : Dio non crea il mondo in modo diretto ed
immediato, bensì soltanto la mente umana. Questa a sua volta crea
quindi il mondo concreto dei sensi, contraendo la pienezza divina
19
dell’essere secondo la sua capacità di comprensione .

19
Idiota de mente, 3 : h 2V, n. 73, lin. 6-11 : « Infatti la nozione di Dio, o il suo
volto, discende solo nella natura mentale che ha per oggetto la verità, e non va oltre se
non per la mente, in quanto la mente è l’immagine di Dio ed è l’esemplare di tutte le
immagini di Dio che vengono dopo. Perciò di quanto tutte le cose vengono dopo la
mente semplice, partecipano di essa, di tanto partecipano anche dell’immagine di Dio,
sicché la mente è per sé immagine di Dio, e tutte le cose che vengono dopo la mente,
lo sono solo per essa. » (trad. it. : NICOLA CUSANO, I dialoghi dell’Idiota. Libri Quattro.
Introduzione, traduzione e note a cura di G. FEDERICI VESCOVINI, Firenze, 2003, p. 37).
In merito : W. SCHWARZ, Das Problem der Seinsvermittlung bei Nikolaus von Cues,
Leida, 1970 (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philo-
sophie, 5). M. THURNER , « Die Einheit von Selbst, Welt und Gottesbezug nach
Nikolaus von Kues», in ID. (ed.), Die Einheit der Person. Beiträge zur Anthropologie
des Mittelalters. Richard Heinzmann zum 65. Geburtstag, Stoccarda-Berlino-Colonia,
1998, p. 373-397, qui : 392. In De berillo, 37 (h 2XI/1, n. 63, lin. 3-n. 69, lin. 6),
Cusano riesce ad abbinare la sua nuova comprensione dell’uomo, come mediatore
della creazione del mondo, con la visione tradizionale di una creazione diretta della
realtà extramentale del mondo da parte di Dio, specificamente nel concetto che Dio
crea il mondo esattamente in modo che esso sia adattato alla capacità di conoscenza
dell’essere umano, affinché l’uomo possa in esso riconoscere Dio. Indirettamente in
esso l’uomo diventa causale per la determinazione strutturale del mondo, in quanto la
sua costituzione è orientata esattamente verso l’apparato cognitivo individuale
dell’uomo. Già in Cusano, e non soltanto in Kant, vige il concetto che non è più
l’intelletto a regolarsi secondo le cose, ma sono le cose a regolarsi secondo
l’intelletto. Per l’interpretazione di questo testo cf. il capitolo M. THURNER , « Der
Mensch als das Maß aller Dinge », in ID., Geheimnis, op. cit., p. 94-108. In De visione
dei Cusano trasmetterà in modo enigmatico questo concetto della mediazione indiretta
della creazione da parte dell’uomo con l’immagine dello sguardo infinito del volto
divino che si rivolge ad ogni uomo individualmente, dalla sua prospettiva finita. (De
visione dei, 5 : h VI, n. 13, lin. 10-n. 14, lin. 2 e De visione dei, 6 : h VI, n. 17, lin. 1-
n. 19, lin. 22). Nello sguardo finito dell’uomo, rivolto allo sguardo infinito di Dio, si
crea quella contrazione dell’infinito, che è il mondo.
274 MARTIN THURNER

Che per Cusano la creazione del mondo non sia più un dato
obiettivamente extramentale, ma piuttosto una funzione di mediazione
individualmente soggettiva della mente umana, egli lo manifesta anche
non parlando più del « mondo », ma dei « mondi » al plurale20, in
quanto ogni mente produce un mondo proprio, secondo le proprie
capacità.
Da questa efficacia creativa della mente consegue che le forze
immaginative dell’intelletto umano, basate sui sensi, hanno una
funzione non più meramente riproduttiva, bensì produttiva21. I sensi non
assumono più, in modo puramente ricettivo, un’immagine imposta loro
in modo extramentalmente obiettivo, ma creano attivamente dell’in-
finito un’immagine rappresentativa finitamente concreta, fino ad allora
inesistente. Nell’interazione fra le sue forze intellettuali basate sui
sensi, la mente umana ha quindi la capacità di generare creativamente il
nuovo. E in questa creatività dell’intelletto finito il Cusano vede quindi
il motivo filosofico per cui l’uomo si debba definire, secondo la genesi
biblica, come « immagine di Dio ». La similitudo fra intelletto divino
ed intelletto umano consiste nella creatività22 : mentre Dio crea in senso

20
De ludo globi, I : h IX, n. 42, lin. 15-21.
21
Sulla nuova accezione dell’immaginazione in Cusano (con riferimenti alla storia
della ricaduta del concetto cusaniano dell’enigma sul pensiero di Giordano Bruno,
soprattutto nelle sue autorappresentazioni « poetiche ») M. THURNER, « Imagination als
Kreativität nach Nikolaus von Kues », in M. PACHECO (ed.), Intellect and Imagination
in Medieval Philosophy (The 11th International Congress of Medieval Philosophy,
Société internationale pour l’étude de la philosophie médiévale, Porto, 26-31 agosto
2002) di imminente pubblicazione. Lo stesso testo ampliato in G. KR I E G E R,
K. REINHARDT, H. SCHWAETZER (eds.), Intellectus und Imaginatio. Aspekte geistiger und
sinnlicher Erkenntnis bei Nikolaus von Kues, Amsterdam-Philadelphia, 2004
(Bochumer philosophische Studien).
22
In merito all’accezione della creatività dell’uomo in Cusano (ed alle sue riper-
cussioni sul Rinascimento italiano) : W. HAUG, « Nicolaus Cusanus zwischen Meister
Eckhart und Cristoforo Landino : Der Mensch als Schöpfer und der Weg zu Gott », in
M. THURNER (ed.), Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien (Beiträge
eines deutsch-italienischen Symposiums in der Villa Vigoni), Berlino, 2002, p. 577-
600 (Veröffentlichungen des Grabmann-Institutes, 48) con ulteriori indicazioni biblio-
grafiche sul tema. W. HAUG, « Das Kugelspiel des Nicolaus Cusanus und die Poetik
der Renaissance », in ID ., Brechungen auf dem Weg zur Individualität. Kleine
Schriften zur Literatur des Mittelalters, Tubinga, 1995, p. 362-372. G. FEDERICI VESCO-
VINI , « Note di commento a alcuni passi del Trattato di Pittura », in Giovanni Pico
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 275

assolutamente privo di presupposti, l’uomo è il creatore di quelle


rappresentazioni sensitive finite dell’infinito, che sono gli innumerevoli
23
mondi effettivi e possibili .

6. L’AUTORIFLESSIONE DELLA CREATIVITÀ DELLA MENTE


COME AUTOTRASCENDENZA VERSO L’ORIGINE DIVINA

Se si riassume l’analisi finora compiuta del processo mentale


secondo Cusano, si giunge al risultato paradossale secondo cui la mente
tende verso la conoscenza di Dio, ma, nel farlo, arriva dapprima alla
costituzione del mondo. Se la mente deve raggiungere il suo scopo,
ossia la visione di Dio, è necessario trovare una via che, attraverso il
mondo, porti a Dio. Con questa connessione necessaria della cono-
scenza di Dio con il passaggio per il mondo, il Cusano riscatta in modo
radicale due dati della fede biblica della rivelazione : la finitezza
dell’uomo come creatura e la positività della creazione del mondo.
Nella sua contingenza, l’uomo non può conoscere Dio in modo
immediato, ma per questo dipende dalla mediazione del mondo, che in
tal modo viene indicato dapprima come luogo della sua auto-
realizzazione24. Ma in che modo l’uomo arriva tramite il mondo nuova-
mente a Dio ?
Per risolvere tale quesito Cusano ricorre a quella qualità eccellente
che, come tale, fa dell’intelletto ciò che esso è, ossia la capacità di
autoriflessione. Se la mente riflette sulla propria attività, essa scopre

della Mirandola e Leonardo (Atti del Convegno 10-11 maggio 2003), Firenze, 2004
di imminente pubblicazione ; cf. cap. I.b sulla relazione delle idee di Cusano e
Leonardo da Vinci della creatività della mente umana del pittore e la sua similitudine
a quella divina. T. VAN VELTHOVEN, Gottesschau und menschliche Kreativität. Studien
zur Erkenntnislehre des Nikolaus von Kues, Leida, 1977. Cf. anche la raccolta di testi
selezionati su questo argomento : NIKOLAUS VON KUES, Vis creativa. Grundlagen eines
modernen Menschenbildes. Eine lateinische Auswahl, presentata, illustrata e pubbli-
cata da H. SCHWAETZER, Münster, 2000.
23
La creatività umana, a differenza da quella divina, presuppone la predatità della
materia : De possest : h XI/2, n. 29, lin. 7sg.
24
De pace fidei, 2 : h VII, n. 7, lin. 5-9.
276 MARTIN THURNER

che, nel produrre nuove immagini del mondo, è creativa. Considerando


il genere di creatività proprio della stessa mente, essa nota però anche
di non essere priva di presupposti e quindi di non essere un creatore in
senso assoluto. Il creare umano realizza l’essenza della creatività in
modo non completo, bensì nella modalità della partecipazione contrat-
ta. Con questo riconoscimento della limitatezza della sua forza creativa,
la mente tuttavia ha già trasceso se stessa in direzione della sua origine
divina. Se l’uomo riflette la sua forza creativa contratta, egli riconosce
se stesso come immagine di un creatore assoluto. Tramite
l’autoriflessione della propria creatività lo spirito può quindi tra-
scendere se stesso verso la conoscenza di Dio25. Poiché in questa ascesa
verso l’infinito l’intelletto finito infrange i confini della sua capacità di
comprendere, questa conoscenza di Dio non è un atto di comprensione
concettuale, ma un momento di esperienza mistico-affettiva. Secondo
Cusano il processo mentale è completo quando esso trascende se stesso
nella pienezza del vivere emozionale della gioia26.

25
De beryllo, 6 : h 2XI/1, n. 7, lin. 1-13. In merito all’interpretazione di questo
testo : M. THURNER, « Explikation der Welt und mystische Verinnerlichung. Die her-
metische Definition des Menschen als "secundus deus" bei Cusanus », in P. LUCENTINI,
I. PARRI, V. PERRONE C OMPAGNI (a cura di), La tradizione ermetica dal mondo tardo-
antico all’Umanesimo (Atti del Convegno internazionale di studi, Napoli 20-
24 novembre 2001), Thurnout, 2004, p. 245-260. In merito al contesto complessivo
del concetto : M. THURNER, Die Einheit von Selbst-, Welt- und Gottesbezug nach
Nikolaus von Kues, op. cit.
26
De visione dei, 5 : h VI, n. 13, lin. 2-10. In merito cf. M. THURNER, Unendlich-
keitsspekulation, p. 109, nonché il capitolo « Die Freude als Grunderfahrung des
Denkens » in I D ., Die Wahrheit als der Weg, p. 422-425. Su questo culmine
« mistico » del pensiero cusaniano : W. BEIERWALTES , « Mystische Elemente im
Denken des Cusanus », in W. HAUG, W. SCHNEIDER-LASTIN (eds.), Deutsche Mystik im
abendländischen Zusammenhang. Neu erschlossene Texte, neue methodische Ansätze,
neue theoretische Konzepte, Tubinga, 2000, p. 425-446. A. M. HAAS, « Nikolaus von
Kues als mystischer Theologe », in M. EHERENFEUCHTER, T. EHELEN (eds.), Als das
wissend die meister wol. Beiträge zur Darstellung und Vermittlung von Wissen in
Fach-literatur und Dichtung des Mittelalters und der frühen Neuzeit. Walter Blank
zum 65. Geburtstag, Francoforte s.M., 2000, p. 217-235. H. G. SENGER, « Mystik als
Theorie bei Nikolaus von Kues », in P. KOSLOWSKI (ed.), Gnosis und Mystik in der
Geschichte der Philosophie, Zurigo-Monaco, 1998, p. 111-134. M. THURNER , Die
Wahrheit als der Weg, op. cit., passim.
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 277

7. L’AUTOMEDIAZIONE DEL PROCESSO MENTALE


NEGLI ENIGMI SENSITIVI

Il pensiero filosofico in Cusano si configura come l’analisi di quel


processo mentale che, attraverso il mondo, porta l’uomo verso la
conoscenza mistico-affettiva di Dio. La filosofia in questa ottica si
completa quando la mente fa presente a se stessa il suo proprio
processo. Dalla finitezza della mente umana il Cusano trae la conse-
guenza che l’intelletto dipende dal passaggio attraverso il mondo cor-
porale dei sensi non soltanto per conoscere Dio, ma anche per la cono-
scenza filosofica di se stesso. La mente può conoscere se stessa soltanto
rappresentandosi a livello dei sensi, ossia presentando la sua attività in
un quadro sensitivo. E proprio questo accade nei cosiddetti « aeni-
gmata » del Cusano27.

27
La funzione degli enigmi nella filosofia cusaniana della rivelazione, come figure
rappresentative del mistero divino che in esse rimane recondito è illustrata nel relativo
capitolo in M. THURNER, Geheimnis, op. cit., p. 163-188 (con rimando alla ricezione
del pensiero dell’immagine platonica nella concezione cusaniana dell’enigma). Sulla
dimensione mistico-affettiva degli enigmi cf. il capitolo M. THURNER, « Die aenigma-
tische Selbstdarstellung des geistigen Lebens » in ID., Die Wahrheit als der Weg, p.
425-432. Su questa tematica cf. anche l’analisi di K. PLATZER, Symbolica venatio und
scientia aenigmatica. Eine Strukturanalyse der Symbolsprache bei Nikolaus von Kues,
Frankfurt/M., 2001 (Darmstädter Theologische Beiträge zu Gegenwartsfragen, 6). Il
punto di riferimento più importante della critica rispetto a questo studio è la distin-
zione fra simbolo ed enigma, che Platzer presenta in relazione a Cusano, quale risul-
tato di un’analisi computerizzata. Non partendo da testi di Cusano, ma dalla moderna
teoria semeiotica, Platzer giunge alla conclusione che il simbolo informativo o discor-
sivo si riferisce a cose prodotte dall’uomo, mentre l’enigma, che rappresenta o rea-
lizza, si riferirebbe alle cose create da Dio. Dalle sue analisi computerizzate delle
parole, Platzer trae la conclusione che in Cusano il concetto di simbolo sia stato
sostituito, nella fase più tarda, dal concetto di enigma (p. 93, p. 100). Una più precisa
lettura degli enigmi negli scritti cusaniani più tardi indica però che questi non sono
direttamente produzioni di Dio, ma dello spirito umano, come ad esempio gli occhiali,
il gioco della palla o anche il simbolo dello specchio, posto in primo piano da Platzer
nello studio degli stessi evidenziando l’importante elemento centrale della metafisica
della luce. E qui si evidenzia che Platzer non ha compreso in modo adeguato il signi-
ficato del metodo simbolico di Cusano per l’automediazione ed autorappresentazione
della mente umana. Parimenti, nello studio di Platzer non vi è la scoperta della dimen-
278 MARTIN THURNER

Il discorso dell’enigma ha un’origine biblica, a cui Cusano fa


riferimento in modo esplicito. Nella sua prima lettera ai Corinzi 13, 12
Paolo dice che noi uomini, nello stato terreno, conosciamo (Dio)
« come attraverso lo specchio e nell’enigma » (« per speculum in aeni-
gmate »)28. In termini filosofici Cusano prende radicalmente sul serio
questa concezione della struttura enigmatica della nostra conoscenza :
nei suoi scritti inventa un’inesauribile molteplicità di allegorie per-
cettibili a livello dei sensi, che non soltanto devono illustrare a
posteriori i pensieri acquisiti astrattamente29, ma sono esse stesse la via
verso la conoscenza in esse trasmessa.
30
Il vasto spettro degli enigmi si articola in un’ascesa da forme
concrete fino a forme sempre più astratte, dalle immagini di oggetti
31 32 33
naturali come il seme e l’albero , ai prodotti tecnici come l’orologio
34
e i simboli matematici e fino a nomi di Dio inventati ex novo come

sione mistico-affettiva del processo enigmatico della conoscenza di Dio. In merito cf.
la recensione di questo libro di M. THURNER, in Philosophisches Jahrbuch, 111 (2004)
p. 208-210.
28
De possest : h XI/2, n. 72, lin. 10sg. De beryllo : h 2XI/1, n. 15, lin. 1f. Passaggi
paralleli e documentazioni relative alle fonti sono riportati nell’Adnotatio 4 dell’edi-
zione critica del De beryllo (h 2XI/1, p. 101sg).
29
Il metodo cusaniano della manuductio enigmatica viene erroneamente interpre-
tato in tal modo in R. HAUBST, Das Bild des Einen und Dreieinen Gottes in der Welt
nach Nikolaus von Kues, Treviri, 1952 (Trierer Theologische Studien, 4). R. HAUBST,
Streifzüge in die Theologie des Cusanus, Münster, 1991 (Buchreihe der Cusanus-
Gesellschaft, Sonderbeitrag zur Theologie des Cusanus), cf. ivi nel Registro, p. 623 :
Hinführung (manuductio).
30
In merito : W. BEIERWALTES, « Der verborgene Gott. Cusanus und Dionysius », in
I D ., Platonismus im Christentum, Francoforte s.M., 1998 (trad. it. Milano, 2000,
p. 130-171, qui : 150-156 (pubblicato per la prima volta separatamente come : Trierer
Cusanus Lecture 4, Treviri, 1997).
31
De quaerendo deum, 3 : h IV, n. 44, lin. 1-9.
32
De visione dei, 7 : h VI, n. 22, lin. 5-n. 24, lin. 17.
33
De visione dei, 11 : h VI, n. 43, lin. 7-n. 44, lin. 12.
34
Per esempio : De docta ignorantia, I, 11-23 : h I, p. 22, lin. 1-p. 44, lin. 9 (n. 30-
73). De beryllo, 8-36 : h 2XI/1, n. 9-n. 63. De theologicis complementis : h X/2a, n. 1-
14 ed epilogo. N IKOLAUS VON K UES, Die mathematischen Schriften, ed. J. E. HOFMANN,
Hamburg, 1980. In proposito il capitolo G. FEDERICI V ESCOVINI, « La mente mate-
matica », in EAD., Il pensiero di Nicola Cusano, Torino, 1998, p. 91-107. L. D E
B ERNART , Cusano e i matematici, Pisa, 1999 (Scuola Normale Superiore Pisa ;
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 279

35
« idem » (nel De genesi), « possest » (nel De possest), « IN », « non
aliud » (nel De non aliud), « posse fieri » (nel De venatione sapientiae)
o « posse ipsum » (nel De apice theoriae).
Nel quadro del processo mentale gli enigmi cusaniani acquisiscono
una funzione a due livelli distinti : da un lato sono quelle figure rappre-
sentative dell’infinito, contratte a livello dei sensi, che l’intelletto finito
produce quando cerca di comprendere Dio. Dall’altro gli enigmi sono il
modo in cui la mente immagina il suo stesso processo nel pensiero
filosofico. Che quest’ultima funzione degli « aenigmata » venga posta
da Cusano come superiore nel processo dell’automediazione intellet-
tuale si evidenzia, non ultimo, nel fatto che il Cusano fa di una serie di
enigmi di questo genere titoli di scritti a sé stanti, nati tutti nella fase
matura e più tarda del suo pensiero : La visione dell’immagine (D e
visione dei sive de icona), Il berillo (De beryllo), La caccia della
sapienza (De venatione sapientiae), Il gioco (De ludo globi). In seguito
si intende analizzare questi enigmi messi in evidenza da Cusano stesso
nella prospettiva del loro potere di mediazione e di integrazione.

Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia, 20). M. BÖHLANDT , Wege ins


Unendliche. Die Qua-dratur des Kreises bei Nikolaus von Kues. Augusta, 2002
(Algorismus ; Studien zur Geschichte der Mathematik und der
Naturwissenschaften, 40). M. FOLKERTS , « Die Quellen und die Bedeutung der
mathematischen Werke des Nikolaus von Kues », in Mitteilungen und
Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 28 (2003), p. 291-332. W. BREIDERT,
« Mathematik und symbolische Erkenntnis bei Nikolaus von Kues », in Mitteilungen
und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 12 (1977), p. 116-126. U. ROTH,
« Die Bestimmung der Mathematik bei Cusanus und Leibniz », in Studia Leibnitiana,
29 (1997), p. 63-80. J.-M. COUNET , Mathématiques et dialectique chez Nicolas de
Cuse, Paris, 2000 (Études de Philosophie médiévale, 80). (in merito cf. la recensione
di G. FEDERICI VESCOVINI in Physis, 39 (2002), p. 355-359). Ed il capitolo M. THURNER,
« Die Mathematik, das eigene Werk des Geistes » in V ELTHOVEN, Gottesschau und
menschliche Kreativität, op. cit., p. 131-196.
35
De possest : h XI/2, n. 55-n. 56. Sulle implicazioni linguistico-filosofiche dei
nomi enigmatici di Dio, che in Cusano figurano al posto dei tradizionali concetti di
Dio H. G. SENGER, « Die Sprache der Metaphysik », in ID., Ludus sapientiae. Studien
zum Werk und zur Wirkungsgeschichte des Nikolaus von Kues, Leida-Boston-Colonia
2002, p. 63-87 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 78), qui :
p. 82-84 (con ulteriori indicazioni bibliografiche) (pubblicato per la prima volta in
K. JACOBI (ed.), Nikolaus von Kues. Einführung in sein philosophisches Denken,
Freiburg-München, 1979, p. 74-100).
280 MARTIN THURNER

7.1. La visione dell’immagine

Nell’enigma del dipinto ripreso dallo scritto dell’anno 1453 De


visione Dei sive de icona Cusano riesce ad esprimere l’unità dell’espe-
rienza spirituale e dell’autoriflessione filosofica della mente in modo
particolarmente impressivo36. Lo scritto era nato come risposta al
quesito dei monaci del convento del Tegernsee circa il significato della
riflessione intellettuale nel processo affettivo della teologia mistica
secondo Dionigi Areopagita37. Al fine di agevolare ai monaci l’accesso

36
Letteratura sullo scritto : N. HEROLD, « Bild der Wahrheit-Wahrheit des Bildes.
Zur Deutung des Blicks aus dem Bild in der cusanischen Schrift De visione dei », in
V. GERHARDT, N. HEROLD (eds.), Wahrheit und Begründung, Würzburg, 1985, p. 71-98.
W. BEIERWALTES, Visio facialis. Sehen ins Angesicht. Zur Coincidenz des endlichen
und unendlichen Blicks bei Cusanus, Monaco, 1988 (Sitzungsberichte der
Bayerischen Akademie der Wissenschaften, philosophisch-historische Klasse, Jahr-
gang, 1988, Heft 1). A. STOCK , « Die Rolle der icona Dei in der Spekulation De vi-
sione Dei », in Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft,
18 (1989), p. 50-62. L. HÖDL, « Der Gedanke und das Gebet im Traktat De visione Dei
des Nikolaus von Kues », in E. JAIN (ed.), Probleme philosophischer Mystik.
Festschrift für Karl Albert, St. Augustin, 1991, p. 227-245. C. TROTTMANN, « Facies et
essentia dans les conceptions médiévales de la vision de Dieu », in Micrologus. Natu-
ra, scienze e società medievali. La visione e lo sguardo nel Medio Evo, 5 (1997), p. 3-
18. C. TROTTMANN, « Des transcendentaux à la vision de Dieu selon Nicolas de Cues »,
in B. PINCHARD (ed.), Fine follie ou la catastrophe humaniste. Études sur les trans-
cendentaux à la Renaissance, Paris, 1995, p. 53-83 (Travaux du Centre d’Études
Supérieures de la Renaissance de Tours ; Le savoir de Mantice). S. STRICK, « Spiegel
und Mauer. Zur Konvergenz von Sehen und Sprechen in De visione Dei », in
SCHWAETZER, Nicolaus Cusanus : Perspektiven seiner Geistphilosophie, p. 51-64. Ed il
capitolo « The Dialectic of Seeing Being Seen Seeing », in C. L. MILLER, Reading
Cusanus. Metaphour and Dialectic in a Conjectural Universe, Washington D.C.,
2003 (Studies in Philosophy and the History of Philosophy, 37). G. FE D E R I C I
VESCOVINI, « La vision de Dieu et la coincidence des opposés », in Nicolas de Cues et
les Pays Bas (Table ronde Tours, Centre d’études supérieures de la Renaissance, 13-
14 novembre 2001), Tours, 2004.
37
In senso più stretto si trattava dell’interpretazione dell’ « imperativo mistico »
dell’ascendere alla teologia mistica senza averne conoscenza (ignote ascendere ad
mysticam theologiam-greco : agnostos anatatheti). Cf. D IONYSIUS A REOPAGITA, De
mystica theologia I, 1 (ed. H EIL -R ITTER , 142, 8). In merito alla controversia :
A. M. HAAS, Deum mistice videre... in caligine coincidencie. Zum Verhältnis Nikolaus’
von Kues zur Mystik, Basilea-Francoforte s.M., 1989 (24. Vorlesung der Aeneas-
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 281

alla teologia mistica, Cusano concepì l’enigma sensitivo della visione


dell’immagine di colui che tutto vede, definito dallo stesso come
38
« manuductio » in base al concetto della « cheiragogia » in Dionigi .
Al centro dell’enigma vi è il dipinto di un volto che con gli occhi segue
ovunque l’osservatore, del genere iconografico ad esempio del famoso
autoritratto di Dürer, esposto a Monaco alla Pinacoteca Antica (Alte
Pinakothek)39. Cusano ora suggerisce ai monaci di disporsi intorno al
dipinto formando un semicerchio. Ogni monaco riferisce poi ai confra-
telli cosa vede del quadro. Quindi i monaci devono cambiare posizione.
Constateranno così che lo sguardo del volto dipinto segue ciascuno di
loro ovunque e nello stesso tempo ; ma l’osservatore vede il volto man
mano soltanto da un’unica prospettiva40.
Ai fini dell’interpretazione : nell’enigma della visione dell’imma-
gine Cusano trasmette con acutezza come, con l’autoriflessione filoso-
fica della mente, l’uomo arrivi tramite il senso all’esperienza affettivo-
spirituale di Dio.
L’assoluto sguardo del volto, che segue tutti e ciascuno nello
stesso tempo, sta per la presenza onnicomprensiva del Dio infinito. Il
monaco che osserva rappresenta la mente umana, che cerca di com-
prendere l’infinità di Dio. Come l’osservatore non può vedere il quadro
come tutt’uno, ma soltanto dalla sua contratta prospettiva del momen-

Silvius-Stiftung an der Universität Basel). E le raccolte : E. VANSTEENBERGHE, Autour


de la docte ignorance. Une controverse sur la théologie mystique au XVe siècle.
Münster, 1915 (Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, XIV, 2-4).
N IKOLAUS VON K UES , Briefe und Dokumente zum Brixner Streit. Kontroverse um die
Mystik und Anfänge in Brixen 1450-1455, ed. W. BAUM, R. SENONER, Vienna, 1998 con
ulteriori indicazioni bibliografiche.
38
De visione dei, Epistula auctoris : h VI, n. 1, lin. 13. Cf. anche De docta
ignorantia, I, 2. h I, p. 8, lin. 12 (n. 8) ; I, 10 : h I, p. 21, lin. 18 (n. 29). De coniec-
turis I, Prologus : h III, n. 4, lin. 1. DIONYSIUS AREOPAGITA, De coelesti hierarchia I, 3
(ed. HEIL-RITTER, 8, 21). In proposito : B EIERWALTES , Der verborgene Gott, op. cit.,
p. 149.
39
Sulla questione di un nesso con Dürer : B EIERWALTES, Visio facialis, op. cit.,
p. 51-56. J. L. KOERNER , « Albrecht Dürer and the moment of self-portraiture », in
G. SCHOLZ W ILLIAMS, L. TATLOCK (eds.), Literatur und Kosmos. Innen- und Außen-
welten in der deutschen Literatur des 15. bis 17. Jahrhunderts, Amsterdam, 1986
(Daphnis 15/2-3), p. 409 (161) - 439 (191) (su Cusano : p. 421sg).
40
De visione dei, Praefatio : h VI, n. 2, lin. 1-n. 4, lin. 22.
282 MARTIN THURNER

to, l’intelletto umano non può mai comprendere il Dio infinito in modo
pieno e totale, ma soltanto in una modalità di contrazione che corri-
41
sponde alla sua capacità individuale di comprendere .
In Cusano quindi la prospettiva da cui si contempla il quadro,
42
scoperta dal suo coevo Leon Battista Alberti , diventa l’enigma delle

41
De visione dei, 1-2 : h VI, n. 5, lin. 1-n. 7, lin. 18. In proposito : N. HEROLD ,
Menschliche Perspektive und Wahrheit. Zur Deutung der Subjektivität in den philoso-
phischen Schriften des Nikolaus von Kues, Münster, 1975 (Buchreihe der Cusanus-
Gesellschaft, 6) (sull’interpretazione dell’enigma della visione del quadro : p. 102-
109).
42
In merito a Cusano ed Alberti : G. FEDERICI VESCOVINI, « Nicolas of Cusa, Alberti
and the Architectonics of the Mind », in K. WILLIAMS (ed.), Nexus II. Architecture and
Mathematic (Proceedings of the Congress Mantova 6-9 June 1998), Firenze, 1998,
p. 162-171. G. FEDERICI V ESCOVINI, « Il vocabolario scientifico del De pictura dell’Al-
berti e la bellezza naturale », in Leon Battista Alberti. Architettura e Cultura (Atti del
Convegno internazionale Mantova, 16-19 novembre 1994) Firenze, 1999, p. 213-234.
M. RI E D E N A U E R , « Spielraum der Welt : Perspektivität im Quattrocento », in
R. ESTERBAUER (ed.), Orte des Schönen. Phänomenologische Annäherungen. Für
Günter Pöltner zum 60. Geburtstag, Würzburg, 2003, p. 351-379. K. FLASCH ,
« Niccolò Cusano e Leon Battista Alberti », in L. CHIAVONI (ed.), Leon Battista Alberti
e il Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich (Atti del
Convegno internazionale, Mantova, 29-31 ottobre 1998), Firenze, 2001, p. 371-360.
K. FLASCH, « Cusano e gli intellettuali italiani del Quattrocento », in C. VASOLI, Le filo-
sofie del Rinascimento, a cura di P. C. PISSAVINO , Milano, 2002, p. 175-192, qui :
p. 187. A. TENENTI , « La religion chez Léon Baptiste Alberti d’après les livres du
Traité de la famille », in Homo religiosus. Autour de Jean Delumeau, Paris, 1997,
p. 535-539 (Cusanus : p. 535-537). G. WOLF, « Nicolaus Cusanus liest Leon Battista
Alberti : Alter Deus und Narziß (1453) », in R. PREIMESBERGER et al. (ed.), Porträt,
Berlin, 1999, p. 201-209 (Geschichte der klassischen Bildgattungen in Quellentexten
und Kommentaren). R. GAVAGNA, « Cusano e Alberti a proposito del De architectura
di Vitruvio », in Rivista critica di storia della Filosofia, 34 (1979), p. 162-176.
G. SANTINELLO , « Nicolaus Cusanus e Leon Battista Alberti. Pensieri sul Bello e
sull’Arte », in Nicolò Cusano. (Relazioni presentate al Convegno Interuniversitario di
Bressanone nel 1960), Firenze, 1961, p. 147-183. G. MANCINI, Vita di Leon Battista
Alberti, Firenze, 1911, p. 164, 375. In merito alla questione dell’influsso di Biagio
Pelacani da Parma : G. FEDERICI V ESCOVINI, « Premesse a Leonardo. Il vocabolario
scientifico del De pictura dell’Alberti e la bellezza naturale », in Achademia Leonardi
Vinci, 10 (1997), p. 13-23. G. FEDERICI VESCOVINI, « Image et représentation optique :
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 283

contrazioni soggettive dell’infinito che l’uomo compie nel processo di


conoscenza di Dio e da cui scaturisce la realtà sensitiva del mondo.
Nell’enigma della visione dell’immagine però Cusano può
spiegare infine anche come, riconoscendo la soggettività della sua pro-
spettiva, la mente possa trascendere se stessa ed ascendere all’unione
mistica con Dio. Se i monaci in contemplazione del quadro si riferi-
scono reciprocamente alla propria prospettiva, questo porta a ricono-
scere che lo sguardo proveniente dal quadro guarda contemporanea-
43
mente tutti e ciascuno . Quindi nello sguardo infinito tutti gli opposti
coincidono. La contemplazione porta di conseguenza l’uomo oltre i
44
confini della razionalità del principio di non-contraddizione . Se la
mente compie questo passo, come dice Cusano nel De visione dei essa
45
travalica il « muro del paradiso » , il paradiso della visione di Dio è per
Cusano un enigma figurato dell’esperienza mistico-affettiva di Dio, a
cui l’uomo giunge attraverso l’autotrascendenza intellettuale46. E nella
vista del volto si manifesta infine enigmaticamente che questa esperien-
za mistica è la vita del Dio personale, quale esso si è mostrato « faccia
a faccia » in Gesù Cristo47.

Blaise de Parme et Leon-Baptiste Alberti », in Image et représentation, Paris, CNRS,


2004, di imminente pubblicazione.
43
De visione dei, 9 : h VI, n. 32, lin. 2-n. 35, lin. 21.
44
De visione dei, 9-10 : h VI, n. 36, lin. 1-n. 42, lin. 19. In proposito : M. THURNER,
Geheimnis, op. cit., p. 329-373.
45
De visione dei, 10 : h VI, n. 42, lin. 7. In proposito : A. M. HAAS, « Nikolaus von
Kues’ Auffassung von der Paradiesesmauer. Konzeption und Herkunft eines Denk-
motivs », in Jahrbuch der Oswald von Wolkenstein-Gesellschaft, 9 (1996/97), p. 293-
308. P. J. CASARELLA, « Neues zu den Quellen der cusanischen Mauersymbolik », in
Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 19 (1991), p. 273-
286. M. THURNER, Geheimnis, op. cit., p. 344-364.
46
De visione dei 5 : h VI, n. 13, lin. 2-14.
47
Cf. l’ enfatizzazione cristologica al termine del De visione dei, 19-25 : h VI,
n. 83-119. In merito cf. il capitolo « Der Glaube in De visione dei », in U. ROTH,
Suchende Vernunft. Der Glaubensbegriff des Nicolaus Cusanus, Münster, 2000,
p. 211-236 (Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters,
Neue Folge, 55). M. TH U R N E R , « Der Dialog von Angesicht zu Angesicht als
Denkform. Überlegungen zur Begründung einer Christlichen Philosophie », in
Münchener Theologische Zeitschrift, 53 (2002), p. 308-324 (Cusano : p. 320-324). Ed
il capitolo M. THURNER, « Die Offenbarungsmitteilung des inneren Erkenntnislichtes
als personal-dialogisches Geschehen », in ID., Geheimnis, op. cit., p. 321-329.
284 MARTIN THURNER

7.2. Il berillo

Cusano sviluppa l’enigma del berillo nell’omonimo scritto De


beryllo, nato in connessione diretta con il De visione dei. Per una
migliore comprensione del libro sulla contemplazione del quadro i
monaci del Tegernsee chiesero a Cusano un’introduzione ai suoi
concetti fondamentali della coincidenza degli opposti. A tale scopo
Cusano impiegò come enigma lo strumento di recente invenzione del
berillo. Il berillo è una pietra molata che ha una forma convessa e
concava nello stesso tempo. Esso serve per vedere l’invisibile, in
quanto a seconda di come lo si tiene, si vede grande ciò che è piccolo e
piccolo ciò che è grande. Poiché ha contemporaneamente la forma più
grande e quella più piccola, esso diventa l’enigma della coincidenza48.
Il berillo è una rappresentazione enigmatica dell’efficacia della mente,
perché tramite la coincidenza degli opposti l’intelletto ascende alla
visione dell’infinito.

7.3. La caccia

La caccia è un enigma che Cusano utilizza in modo particolar-


mente esplicito per l’automediazione sensitiva dell’intelletto. Nel suo
scritto La caccia della sapienza Cusano nell’anno 1462, in considera-
zione dell’approssimarsi della sua morte (1464), rappresenta le sue
diverse opere e i suoi ragionamenti filosofici (dalla Docta ignorantia
fino al Non aliud), in una sorta di retrospettiva, come battute di caccia.
I vari concetti del pensiero cusaniano compaiono come campi su cui
questa caccia alla sapienza portò una preda particolarmente ricca49.

48
De beryllo, 2 : h 2XI/1, n. 3, lin. 1-7. Sull’origine e sul significato del termine
Beryllus : Adnotatio, 1 in h 2XI/1, p. 89-93. K. FLASCH interpreta lo scritto De beryllo
in Nicolaus Cusanus, Monaco, 2001 (Beck’sche Reihe 562 : Denker) come « intro-
duzione da parte del Cusano stesso ».
49
De venatione sapientiae, Prologo : h. XII, n. 1, lin. 18-23. De venatione
sapientiae, 9 : h. XII, n. 30, lin. 2-7.-Sulla storia della metafora della caccia prima e
dopo Cusano (Platone, Lullo, Ficino, Bruno) cf. la Adnotatio 1 in h XII, p. 147-149 ed
inoltre : A. TARABOCHIA CANAVERO, « Niccolò Cusano e Marsilio Ficino a caccia della
sapienza », in M. THURNER (ed.), Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien
(Beiträge eines deutsch-italienischen Symposions in der Villa Vigoni 28/3 –1/4,
2001), Berlino, 2002, p. 481-510 (Veröffentlichungen des Grabmann-Institutes, Neue
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 285

Anche nell’enigma della caccia il processo mentale è presentato


sovranamente nell’immagine sensitiva : le partite di caccia rappresen-
50
tano i ripetuti tentativi della mente di trovare l’origine della sua vita . I
campi della caccia sono l’immagine delle contrazioni costitutive del
mondo che l’uomo compie rispetto all’infinito al fine di poterlo com-
prendere. Nell’enigma della caccia però Cusano riesce a spiegare con
particolare evidenza che il processo mentale ha come scopo ultimo un
godimento affettivo.
Quando rappresenta la sapienza come preda di caccia, Cusano da
espressione al fatto che la verità dell’intelletto è in ultima analisi un
oggetto del vissuto emozionale, dato che nella caccia ogni essere cerca
quel nutrimento per la sua vita, che si può gustare con tutti i sensi51.
Sulla via della sapienza filosofica, che secondo la sua etimologia è una
« sapida scientia52 », un sapere gustoso, per Cusano, l’uomo deve infine
arrivare a gustare affettivamente la vita divina.

7.4. Il gioco

Come nell’enigma della caccia, anche in quello del gioco vi è al


centro il fatto che la gioia della vita divina percepita affettivamente è lo
scopo sensitivo del pensiero filosofico. Cusano concepisce questo
enigma nel testo che porta la stessa denominazione De ludo globi, da
53
lui completato nell’anno prima della sua morte . Ai fini della compren-

Folge, 48). L. C. BOMBASSARO, Im Schatten der Diana. Die Jagdmetapher im Werk von
Giordano Bruno, Francoforte s.M., 2002 (Cusano : p. 156-182). N ICOLA C USANO, La
caccia della sapienza. Traduzione, introduzione e note a cura di G. FEDERICI VESCOVINI,
Casale Monferrato, 1993.
50
De venatione sapientiae, 1 : h. XII, n. 2, lin. 2-n. 5, lin. 13.
51
De venatione sapientiae, 15 : h. XII, n. 42, lin. 5. De venatione sapientiae, 16 :
h. XII, n. 46, lin. 3-5. De venatione sapientiae, 17 : h. XII, n. 50, lin. 16-19. De vena-
tione sapientiae, 18 : h. XII, n. 51, lin. 4-8.
52
De venatione sapientiae, 15 : h. XII, n. 44, lin. 5. Idiota de sapientia, I : h 2V,
n. 10, lin. 7sg ; Cf. ISIDORO D I S IVIGLIA, Etymol. X, (ed. LINDSAY, n. 240). In merito cf.
il capitolo M. THURNER, « Die Wahrheit als sapida scientia », in ID ., Die Wahrheit als
der Weg, p. 419-425.
53
Per un’interpretazione esauriente dell’enigma del gioco della palla : M. THURNER,
Theologische Unendlichkeitsspekulation als endlicher Weltentwurf. Der menschliche
286 MARTIN THURNER

sione dell’enigma nel suo complesso è determinante che dapprima


54
Cusano dica esplicitamente di avere inventato il gioco della palla, che
si può anche giocare concretamente. Similmente al dipinto ed al berillo,
allora, anche il gioco è prodotto dalla produttività artistica o tecnica
dell’uomo ed è quindi già nel momento del suo concepimento simbolo
della creatività umana.
Le regole del gioco sono le seguenti : l’uomo che gioca deve cer-
care di portare una sfera lievemente schiacciata – e che per questo
motivo rotola con movimento a spirale – più vicino possibile al centro
di un campo da gioco costituito da dieci cerchi concentrici55. Il gioco
della palla si può interpretare facilmente come automediazione enigma-
tica del processo mentale : il centro invisibile ed irraggiungibile rappre-
56
senta l’infinità di Dio . I tiri della palla rappresentano i tentativi della
mente umana di raggiungere il Dio infinito57. Il luogo, in cui la palla si
ferma sul campo da gioco rappresenta rispettivamente il grado della
contrazione dell’infinità di Dio, tramite la quale si crea di volta in volta
un nuovo mondo58. Nell’enigma del gioco Cusano evidenzia ancora una
volta che l’incapacità dell’uomo di comprendere Dio non è motivo di

Selbstvollzug im Aenigma des Globusspiels bei Nikolaus von Kues, op. cit.. La
bibliografia relativa a questo testo è indicata nell’appendice dell’Edizione critica h IX,
p. 204-207. Inoltre : NICOLA CUSANO, Il Gioco della Palla, Introduzione, traduzione e
note a cura di G. FEDERICI V ESCOVINI , Roma, 2001 (Fonti medievali per il terzo
millennio, 21). H. R. SC H Ä R , « Spiel und Denken beim späten Cusanus », in
Theologische Zeitschrift, 26 (1970), p 410-480. G. HEINZ MOHR, Spiel mit dem Spiel.
Eine kleine Spielphilosophie. Amburgo, 1959 (Furche Bücherei, 167) ; Stoccarda,
1972. A. SPEER, « Vom Globusspiel. Kritische Studie zur Edition : Nicolaus Cusanus,
Dialogus de ludo globi », in Recherches de théologie et philosophie médiévales, 61
(1999), p. 155-161. M. THURNER, « “Die Welt ein Spiel”-Nietzsches Provokation und
die christliche Antwort (Cusanus, Jacob Böhme) », in Edith-Stein-Jahrbuch, 7 (2001),
p.192-210 (Parte 1) e Edith-Stein-Jahrbuch, 9 (2003), p. 177-197 (Parte 2).
A. M. GEHLEN , « Der spielende Philosoph », in SCHWAETZER, Vis creativa, op. cit.,
p. 31-33. H. G. SENGER, « De ludo globi », in Circa 1500. Landesausstellung / Mostra
storica 2000.-De ludo globi. Vom Spiel der Welt (Brixen, Hofburg Brixen 13/5.-
31/10/2000), Milano, 2000 (tedesco e italiano), p. 314-317.
54
De ludo globi, I : h IX, n. 30, lin. 6-n. 31, lin. 3 ; n. 34, lin. 7.
55
De ludo globi, I : h IX, n. 4, lin. 1-12. De ludo globi I : h IX, n. 50, lin. 6-11.
56
De ludo globi, II : h IX, n. 103, lin. 12-20.
57
De ludo globi, I : h IX, n. 32, lin. 5-7.
58
De ludo globi, I : h IX, n. 4, lin. 12-14 ; n. 51, lin. 8-11 ; n. 42, lin. 15-21.
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 287

rassegnazione, bensì di gioia inarrestabile. Questo perché, soltanto dato


che l’infinità rimane irraggiungibile, il pensiero filosofico può ambire
verso di Lui, in tentativi sempre nuovi e sempre più elevati e in tal
modo divenire gioco59.
La scoperta che la mente può conoscere se stessa nella produzione
enigmatica dei sensi porta come conseguenza in Cusano una nuova
comprensione del mondo e del pensiero filosofico, cui si fa brevemente
cenno in conclusione.

8. LA COSTITUZIONE ENIGMATICA DEL MONDO

Dato che secondo Cusano il mondo si crea quando la mente umana


contrae a livello della sua sensitività l’infinità divina, tutto il mondo
stesso è un’enigmatica rappresentazione di Dio. La comprensione del
mondo come enigma comporta in Cusano un mutamento delle categorie
ontologiche, con cui fino ad allora si descriveva il mondo nella filosofia
del medioevo. Poiché nel mondo Dio è nascosto e manifesto, come la
realtà in un enigma, non si può più comprendere il rapporto fra il
mondo e Dio come nella Scolastica di un Tommaso d’Aquino, con la
categoria dell’analogia dell’essere60. Secondo Cusano fra il mondo e

59
Cf. in proposito il capitolo M. TH U R N E R , « Theologie als Spiel », in ID.,
Unendlichkeitsspekulation, op. cit., p. 111-121.
60
Autori di posizioni differenti, che privilegiano un avvicinamento del pensiero
cusaniano della coincidenza all’analogia tomista dell’essere : R. HAUBST, « Nikolaus
von Kues und die Analogia entis », in Die Metaphysik im Mittelalter. Ihr Ursprung
und ihre Bedeutung (Vorträge des II. internationalen Kongresses für mittelalterliche
Philosophie, Köln 31/8.-6/9/1961) ed. P. WILPERT, Berlino, 1963, p. 686-695 (Miscel-
lanea Mediaevalia, 2). J. B. LOTZ, « Das Sein bei Thomas von Aquin im Hinblick auf
die coincidentia oppositorum des Nikolaus von Kues », in N. FISCHER (ed.), Alte
Fragen und neue Wege des Denkens. Festschrift für Josef Stallmach, Bonn, 1977,
p. 3-11. BENZ, Individualität und Subjektivität, p. 84. Questa approssimazione non è
ammissibile già per il fatto che Cusano nella sua definizione del concetto di coinci-
denza esplicitamente non ammette più l’Essere come categoria metaforica, che da
sola sarebbe sufficiente a comprendere tutta la realtà o addirittura Dio ; a tale scopo
piuttosto è necessario coinvolgere anche il contrasto contraddittorio dell’Essere, ossia
288 MARTIN THURNER

61
Dio non sussiste alcun rapporto, bensì una sproporzione assoluta , in
quanto Dio, quale verità dell’enigma, è assolutamente immanente in
tutto e in nulla, e nella sua massima trascendenza infinita è nello stesso
tempo presente in ogni cosa minima. Inoltre, dalla modalità enigmatica
della presenza di Dio nel mondo discende che la differenza fra Dio e il
mondo non viene più pensata nella categoria della sostanza, ma in
quella della modalità62. Poiché nei mondi prodotti enigmaticamente non
vi è altro che l’essenza divina in una forma di rappresentazione sensi-
tiva, secondo Cusano può esservi soltanto una sostanza che, attraverso la
mediazione della mente umana, si riflette e risplende nella varietà dei
modi63.

il « nulla » : « Et omne id quod concipitur esse non magis est quam non est. Et omne
id quod concipitur non esse non magis non est quam est » (De docta ignorantia, I, 4 :
h I, p. 11, lin. 3-5, n. 12).
61
De docta ignorantia, I, 3 : h I, p. 8, lin. 20-21 (n. 9). In merito : J. HIRSCHBERGER,
« Das Prinzip der Inkommensurabilität bei Nikolaus von Kues », in Mitteilungen und
Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 11 (1975), p. 39-54. Nonché i capitoli
M. THURNER, « Die improportionalis comparatio der aenigmatica signa veri » e ID.,
« Die Offenbarung des bleibenden Geheimnisses als der Sinn des Aenigmas », in ID.,
Geheimnis, op. cit., p. 172-188.
62
Diverse le argomentazioni a seguito di Rombach da parte dei seguenti autori che
sostengono che in Cusano la categoria della relazione prende il posto della sostanza
classica : H. ROMBACH, Substanz, System, Struktur. Die Ontologie des Funktionalismus
und der philosophische Hintergrund der modernen Wissenschaft, Friburgo-Monaco,
1965, vol. I, p. 140-228. K. JACOBI , Die Methode der cusanischen Philosophie,
Friburgo-Monaco, 1969, p. 295-308. P. KAMPITS, « Substanz und Relation bei
Nicolaus Cusanus », in Zeitschrift für philosophische Forschung, 30 (1976), p. 31-50.
R. HÜNTELMANN, Schellings Philosophie der Schöpfung. Zur Geschichte des Schöp-
fungsbegriffs, Dettelbach, 1995, p. 42-68. Al contrario BENZ, Individualität und Sub-
jektivität, op. cit., p. 148 sg. vuole riabilitare la concezione classica della sostanza
anche in relazione a Cusano.
63
De apice theoriae : h XII, n. 4, lin. 5sg ; n. 24, lin. 7sg. In merito : H. SCHNARR,
Modi essendi. Interpretationen zu den Schriften De docta ignorantia, De coniecturis
und De venatione sapientiae, Münster, 1973 (Buchreihe der Cusanus-Gesellschaft, 5).
Nonché i capitoli M. THURNER, « Die Welt als Erscheinungsweise des unsichtbaren
Gottes » e ID., « Weil Gott sich in allem offenbart, ist jedwedes in jedwedem », in ID.,
Geheimnis, op. cit., p. 63-66 ; 74-76.
IL SENSO COME AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE 289

9. FILOSOFIA COME « AENIGMATICA SCIENTIA »

Da questa nuova accezione enigmatica del mondo emerge in


Cusano anche una nuova comprensione del metodo della filosofia :
64
« medio aenigmatico ». In un primo passo la filosofia deve percepire il
mondo quale forma rappresentativa enigmatica di Dio, scoprendo nel
finito la presenza occulta dell’infinito. In un secondo passo la filosofia
comprende quindi che il mondo, nella sua costituzione enigmatica, è
esso stesso il prodotto dell’automediazione dello spirito nella sensi-
tività. Il terzo ed ultimo passaggio della filosofia consiste nell’auto-
riflessione di questa produttività : se l’intelletto riflette la propria crea-
tività, esso infine riconosce se stesso come enigma della verità assoluta
del Dio creatore. Cusano riunisce questi tre passaggi nell’unità di un
65
metodo e in tal modo intende la filosofia come « aenigmatica scientia ».

Grabmann-Institut, Universität München

64
Idiota de sapientia, II : h 2V, n. 47, lin. 3. Per il seguente cf. De beryllo 6 :
2
h XI/1, n. 7, lin. 1-13.
65
De berillo, 6 : h 2XI/1, n. 7, lin. 11. In merito cf. il capitolo M. THURNER,
« Philosophie als “aenigmatica scientia” », in ID., Geheimnis, op. cit., p. 163-188.
CARLO PEDRETTI
1
LEONARDO E I SENSI INTERNI

Il tema che mi propongo di svolgere è uno di quelli che subito mi


condizionano con una considerazione apparentemente ovvia, ma forse
proprio per questo estranea ai percorsi canonici della ricerca storica o
scientifica e quindi altrettanto estranea ai percorsi della filosofia. Ogni
volta che Leonardo affronta problemi per così dire di transizione dalla
fisica alla metafisica, come quando dalla fisiologia gli viene di dover
passare alla psicologia e quindi alla fisiognomica secondo l’impo-
stazione classica della determinazione e classificazione dei caratteri e
dei temperamenti, viene spontaneo pensare come egli sapesse di poter
contare su un soggetto di studio sempre disponibile e del tutto
affidabile : se stesso. Al momento in cui Leonardo si pone il problema
del meccanismo dei sensi interni e del loro rapporto col senso comune,
si può dire che scatta in lui la percezione del rapporto diretto fra
immaginazione e memoria e con questo la vigile consapevolezza del
fatto che l’espressione artistica, che è fatta di immagini come quella
poetica è fatta di suoni, si presenta inevitabilmente, anche solo
attraverso simboli, con la valenza di una rivelazione autobiografica.
Alla stessa conclusione era già pervenuto, per altra via – e cioè la
precettistica nel Libro di pittura – Benedetto Croce con la sua
memorabile conferenza fiorentina del 1906. Spetta a lui, infatti, il
merito di aver saputo redimere quella che poteva sembrare una
ingenuità nella precettistica di Leonardo, cioè il consiglio di osservare

1
Riproduco qui il testo della mia comunicazione esattamente come letta al
convegno, senza modifiche o ritocchi e con l’aggiunta di sole due note a piè di pagina,
l’una a proposito di un particolare di problematica lettura nell’allegoria del Piacere e
Dispiacere in un disegno di Leonardo a Oxford, qui riprodotto, e l’altra per esporre le
ragioni che mi hanno indotto ad anticipare al 1504 la data di un foglio di Leonardo nel
Codice Atlantico, il f. 29 v-a [81 v], che in precedenza avevo ritenuto di dover datare
intorno al 1510. Ho inoltre ritenuto utile aggiungere un’Appendice con un repertorio
di tutti i riferimenti alla mente e all’anima nei capitoli del Libro di pittura di
Leonardo.
292 CARLO PEDRETTI

le macchie nei vecchi muri o il continuo mutare delle forme delle


nuvole per ricavarne uno stimolo alla fantasia perché « nelle cose
confuse », afferma Leonardo, « l’ingegno si desta a nuove invenzioni »,
intendendo invenzione come creazione artistica alla stregua di quella
poetica che, come aveva osservato anche Lorenzo de’ Medici, s’accom-
pagna, assecondandolo, al ritmico rincorrersi del suono delle campane.
« È codesta, senza dubbio, un’illusione psicologica », osserva Bene-
detto Croce, « consistente nel credere data dalla natura a noi quella
sintesi, quel motivo, che sorge invece nella nostra fantasia : illusione, la
quale si dissipa sol che si rifletta che, per trovare le belle invenzioni
nelle macchie, nelle nuvole e nei rintocchi delle campane, bisogna
sapervele trovare, e, cioè, dobbiamo compiere noi, nel nostro animo, la
sintesi fantastica ». Eccoci dunque nel più interno o intimo dei sensi
come funzione psicologica, la fantasia o « immaginativa », come la
chiama Leonardo. Prosegue il Croce : « Ma, fatta la parte a ciò che vi
ha d’ingenuo in quella credenza – che è riapparsa più volte nell’estetica
e nella critica d’arte –, bisogna far la parte a quel che vi ha di
profondo : cioè al pensiero che il fatto estetico e l’opera d’arte
consistono, non già in un’idea astratta, ma in un movimento di vita,
indefinibile come ogni movimento vitale, somigliante a un germe che si
esplica e che, pur come germe, ha la sua perfezione, senza la quale non
sarebbe possibile la perfezione dello sviluppo ». « Da una macchia
fantastica », conclude il Croce, «e non già da un ragionamento, nasce il
nodo armonioso di Sant’Anna, della Vergine, del bambino Gesù e
dell’agnello, nella Sant’Anna del Louvre, o il sorriso della Gioconda ».
Volevo e dovevo soffermarmi su questa insuperata interpretazione
dell’indole e del pensiero artistico e quindi filosofico di Leonardo non
solo perché del tutto pertinente, ma anche perché mi offre il destro di
richiamarmi a un fatto stranamente dimenticato. Si sa che al ciclo di
conferenze vinciane, che si organizzava a Firenze un secolo fa, parte-
ciparono, oltre al giovane Benedetto Croce, i massimi interpreti vincia-
ni del momento, da Edmondo Solmi a Luca Beltrami, da Angelo Conti
a Isidoro del Lungo e da Marcel Reymond ad Antonio Favaro e Filippo
Bottazzi, con un epilogo di Josephin Péladan, il filosofo esoterico allora
in voga che volle concludere con un singolare concetto ad effetto,
« Leonardo è il Don Giovanni della conoscenza », perché voleva posse-
dere tutto lo scibile umano. Quello che non si sapeva e che infatti non è
menzionato nella pubblicazione di quelle conferenze (1910), è che il
ciclo doveva aprirsi con una prolusione di Gabriele d’Annunzio su « La
vita interiore di Leonardo ». L’informazione mi viene da un appunto di
LEONARDO E I SENSI INTERNI 293

Giovanni Papini del 1903. Ho cercato inutilmente quelle che potevano


essere tracce o indizi di ciò che D’Annunzio avrebbe potuto dire. Risale
a quegli anni la sua attenzione al Cenacolo che gli ispira l’Ode per la
morte di un capolavoro (1901), e nel giorno del furto della Gioconda, il
21 agosto 1911, avrebbe scritto la lirica dedicata all’amico Spinelli,
Anima con le labbra, che si conclude col celebre verso : « Tu non
saprai giammai perché sorrido ». L’unico indizio che potrebbe avere un
seguito è che nel 1908, D’Annunzio, scrivendo al medico Giovanni
Nesti nell'inviargli in dono un volume imprecisato dell’edizione di
Giovanni Piumati dei Fogli dell'Anatomia di Leonardo, afferma che il
corpo umano è il « tempio » dell'anima (si veda l’Appendice C).
Del resto il tema dei sensi interni negli studi leonardiani di ana-
tomia e fisiologia, ha già avuto esaurienti trattazioni, specialmente in
questi ultimi tempi, da parte di insigni storici della scienza e della
filosofia, che sono venuti affiancandosi a raffinati filologi e letterati ai
quali non poteva sfuggire lo straordinario carattere innovativo ed evo-
cativo del linguaggio scientifico di Leonardo.
Questo linguaggio è infatti a un tempo fluido e serrato col ricorso
continuo all’efficacia della parola con la quale i concetti sono espressi
attraverso immagini, proprio come nel caso del suo modo di descrivere
i cinque sensi. Di qui l’idea leonardiana di una centrale operativa, un
quartier generale, si direbbe, al quale quei sensi fanno capo come
« officiali » di un senso comune che si identifica con l’anima, e quindi
ciascuno investito di un compito che viene svolto con l’impeccabile
tempismo di bene organizzate gerarchie militari. E questo contraria-
mente a quanto ritenuto sulla base di una banalità di origine neoplato-
nica – totus in toto et totus in qualibet parte – con la quale si allude alla
dottrina dell’anima che risiederebbe invece in ogni parte del corpo. Il
testo di Leonardo al quale mi riferisco si trova sul primo foglio della
più antica sezione del manoscritto anatomico B a Windsor, quella
sezione che Leonardo stesso indica con la data : « adì 2 d’aprile 1489 »,
cui aggiunge, a distanza di anni, forse intorno al 1508, la spiegazione di
ciò che aveva iniziato quel giorno : « Libro titolato de figura umana ».
Sui fogli che seguono, di cui si è potuto accertare la sequenza in base
allo studio codicologico dell’originale da me compiuto negli anni
Settanta, si trovano lunghi elenchi dei temi che Leonardo intendeva
affrontare quando in quell’anno, nel 1489, all’età di trentasette anni, a
Milano, si accingeva a intraprendere un sistematico studio della figura
umana dal punto di vista dell’aspetto e della struttura e quindi secondo
294 CARLO PEDRETTI

un programma di ricerca che dallo studio delle funzioni vitali lo


avrebbe portato a quello dei movimenti del corpo umano considerato
come macchina. Ecco dunque quanto si legge sul foglio 2 recto
(W. 19019 r), un testo che appare per la prima volta nel § 838 della
classica antologia di Jean-Paul Richter, The Literary Works of
Leonardo da Vinci, pubblicata a Londra nel 1883 :
Come i cinque sensi sono ofiziali dell’anima.
L’anima pare risiedere nella parte iudiziale, e la parte iudiziale pare essere
nel loco dove concorrano tutti i sensi, il quale è detto senso comune, e non è
tutta per tutto il corpo, come molti hanno creduto, anzi tutta inella parte ;
imperò che, s’ella fussi tutta per tutto e tutta in ogni parte, non era necessario
fare li strumenti de’ sensi fare infra loro un medesimo concorso a uno solo
loco, anzi bastava che l’occhio operassi l’ufizio del sentimento sulla sua
superfizie, e non mandare per la via delli nervi ottici la similitudine delle
cose vedute al senso ; ché l’anima, alla sopradetta ragione, le poteva
comprendere in essa superfizie dell’occhio.
E similmente il senso dell’audito bastava solamente la voce risonassi nelle
concave porosità dell’osso petroso, che sta dentro all’orecchio, e non fare da
esso osso al senso comune altro transito dove essa voce abbi a discorrere al
comune giudizio.
Il senso dell’odorato ancora lui si vede essere dalla necessità costretto a
concorrere a detto iudizio.
Il tatto, non passa elli per le corde forate ed è portato a esso senso ? Le quali
corde si vanno spargendo con infinita ramificazione inella pelle che circunda
le corporee membra e viscere.
Le corde perforate portano il comandamento e sentimento alli membri
ofiziali, le quali corde, entrate infra li muscoli e lacerti, comandano a quelli
il movimento. Quelli obediscano ; e tale obedienza si mette in atto collo
sconfiare, imperò che’l gonfiare raccorta le loro lunghezze e tirasi dirieto i
nervi, i quali si tessano per le particule de’ membri, essendo infusi nelli
stremi de’ diti, portano al senso la cagione del loro contatto.
I nervi [i.e. tendini], coi loro muscoli, servono alle corde come i soldati a’
condottieri ; e le corde servano al senso comune come i condottieri al
capitano ; e’l senso comune serve all’anima, come il capitano serve al suo
signore.
Adunque la giuntura delli ossi obbedisce al nervo, e’l nervo al muscolo, e’l
muscolo alla corda, e la corda al senso comune, e’l senso comune è sedia
dell’anima, e la memoria è sua ammunizione, e la imprensiva è la sua
referendaria.
LEONARDO E I SENSI INTERNI 295

Come il senso dà all’anima e non l’anima al senso ; e dove manca il senso


ofiziale dell’anima, all’anima manca in questa vita la notizia dell’ufizio
d’esso senso, come appare nel muto o nell’orbo nato.
La similitudine degli « uffiziali » è ripresa subito dopo in un foglio
del Codice Atlantico, il 119 v-a [327 v], che è appunto del 1490 :
La natura ha ordinati nell’omo i muscoli ufiziali, tiratori de’ nervi, e quali
possino movere le membra secondo la volontà e desiderio del comun senso,
a similitudine delli ufiziali strebuiti da uno signore per varie provincie e
città, i quali in essi loghi rappresentano e obbediscano alla volontà d’esso
signore. E quello uffiziale che più in un solo caso abbi obbedito alle
commessione fattoli di bocca dal suo signore, farà poi per sé nel medesimo
caso cosa che non si partirà dalla volontà d’esso signore.
Al che Leonardo fa seguire una precisazione che sembra rifarsi
alle sue esperienze di abile suonatore di lira : « Così si vede spesse
volte fare alle dita che, imparando con somma obbedienza le cose sopra
uno strumento, le quali li sieno comandate dal giudizio, dopo esso
imparare, le sonerà sanza ch’esso giudizio v’attenda ». E conclude
chiedendosi : « I muscoli che movano le gambe non fanno ancora
l’ofizio loro sanza che l’omo lo sappi ? ». Ma al tema del musico ritor-
nerà vent’anni dopo con un accenno nel Ms. A dell’Anatomia, f. 13 v
(W. 19012 v), ancora una volta guardando a sé stesso : « Guarda se tu
credi che tal senso sia travagliato ’n un sonatore d’organo, e l’anima in
tal tempo attende al senso dell’udito ». Questo nel 1510, a cinquantotto
anni, quando gli studi di embriologia lo avevano portato a concludere
che nella matrice, dove si forma la nuova vita e quindi la nuova anima,
è « grandissimo misterio » (W. 19061 r, K/P 154 r). L’anima delle
interminabili discussioni di filosofi e teologi è ancora per lui un’entità
spirituale che necessita, per operare, del corpo che ha plasmato per
farne la propria « cotidiana abitazione ». E questo secondo quella « più
grassa Minerva » di Leon Battista Alberti, cioè il buon senso, che già
vent’anni prima gli aveva fatto scrivere su un foglio del Codice
Atlantico, datato 23 aprile 1490, una curiosa osservazione che è come
uno spiracolo aperto sulla propria vita interiore : « Chi vole vedere
come l’anima abita nel suo corpo, guardi come esso corpo usa la sua
cotidiana abitazione ; cioè, se quella è senza ordine e confusa, disor-
dinato e confuso fia il corpo tenuto dalla su’ anima » (CA, f. 76 v-a
[207 v]). D’Annunzio non avrebbe mancato di ricordare il Vasari
(IV. 49-50) : « Egli con lo splendor dell’aria sua, che bellissima era,
296 CARLO PEDRETTI

rasserenava ogni animo mesto […] Ornava ed onorava con ogni azione
qualsivoglia disonorata e spogliata stanza ».
Già intorno al 1490 Leonardo aveva dunque impostato tutta la
problematica dei sensi e del senso comune anche con allusioni a quelle
che potevano essere per lui le più elementari ed accessibili fonti di
informazione e di riflessione, in primo luogo Galeno che infatti egli cita
(« Galeno de utilità ») subito prima del testo all’inizio del Ms. B
dell’Anatomia, qui sopra riportato. Del resto, si sa, Leonardo poteva
accedere direttamente all’opera stessa di Mondino, l’interprete di
Galeno per eccellenza, che gli era accessibile in varie edizioni fin dal
1474 e incorporato, in versione italiana, nell’edizione illustrata del
Fasciculus medicine del Ketham del 1491 che egli possedeva. Non è il
caso di scomodare il Liber de homine che è l’opera medica del Ficino e
nemmeno il Benzi, che pur conosceva. E invece una fonte ben perti-
nente, che perfino cita, è il Conciliator di Pietro d’Abano. E poi Avi-
cenna, che già il Ghiberti aveva citato. Ma è soprattutto attraverso la
cultura orale che a Milano, proprio intorno al 1490, Leonardo avrebbe
potuto attingere non solo ai punti fermi dell’insegnamento di Aristotele
e Platone nella tradizione scolastica, e in particolare ai diffusissimi
Problemata dello pseudo-Aristotele, ma anche a meno consuete fonti
arabe per lo studio dell’ottica e delle matematiche. Lo prova, fra l’altro,
il promemoria di trenta voci su un foglietto del Codice Atlantico, il
225 r-b [611 i r], che si presenta con lo stesso ductus dei testi del 1489
nel Ms. B dell’Anatomia. Voci come « Alcibra ch’è appresso i Mar-
liani, fatta dal loro padre », oppure « Le proporzioni d’Alchino [cioè
l’Alchendi] colle considerazioni del Marliano l’ha messer Fazio », cioè
Fazio Cardano, padre di Girolamo, e così via, come pure la nota in un
taccuino di poco tempo dopo, « Eredi di maestro Giovan Ghiringhello
hanno opere del Pelacano », cioè di Biagio Pelacani da Parma, mentre
in un primo elenco di libri su un foglio coevo del Codice Atlantico, il
210 r-a [559 r], c. 1490, appaiono testi come le Vite dei filosofi di Dio-
gene Laerzio, Alberto Magno, e un non meglio specificato « de imorta-
lità d’anima », forse l’opera di Jacopo Canfora (Milano, 1475) piuttosto
che la celebre Theologia Platonica di Marsilio Ficino. La presenza di
fonti nel nostro caso è confermata da Leonardo stesso quando in una
nota nel CA, f. 90 r-b [245 r], c. 1490 (Richter, § 836), afferma : « Li
antichi speculatori hanno concluso che quella parte del giudizio che è
data all’omo sia causata da uno strumento al quale si riferiscono li altri
cinque mediante la imprensiva ; e a detto strumento hanno posto nome
senso comune ».
LEONARDO E I SENSI INTERNI 297

A una sua familiarità con le fonti Leonardo allude nel noto testo
del Codice Atlantico, f. 119 v-a [327 v], del 1490 (Richter, § 21), quan-
do ricorda « i nostri antichi », e cito, « che hanno voluto difinire che
cosa s<ia a>nima e vita, cose improvabili, q<uando> quelle che con
isperienzia ognora si possano chiaramente conoscere e provare, sono
per tanti seculi ignorate e falsamente credute ».
E così può dire con giusto orgoglio che l’occhio « è insino ai mia tempi
per infiniti altori stato difinito in un modo ; trovo per isperienzia essere
’n un altro ».
Quello delle fonti di Leonardo resta un problema aperto, ma non si
deve perdere di vista la necessità di definire sempre meglio l’uso che
Leonardo ne fa, cioè dove, quando e come egli interviene su di loro col
proprio pensiero e discernimento per accertare quindi, fin dove è possi-
bile, lo scopo o finalità della sua indagine. Non si può infatti escludere
che lo studio dei sensi interni fosse per lui anche un modo di conoscere
meglio se stesso, le proprie facoltà intellettive e la propria indole. Il
mio contributo è solo un tentativo che si limita a questo.
Nel progettato libro « de figura umana », secondo lo schema del
1489 esposto al f. 20 v del Ms. B dell’Anatomia a Windsor, Leonardo
si sarebbe occupato di anatomia cominciando con la « concezione
dell’omo », per seguirlo nella crescita e considerarlo insieme con la
femmina nelle sue proporzioni e fisionomia e quindi osteologia e mio-
logia e passare poi ai vari casi pertinenti alla fisiognomica per concen-
trarsi su tre categorie conclusive : Attitudine, Effetti, Sensi, e cioè
« Attitudine e movimento », « Prospettiva per lo offizio dell’occhio e
dell’audito » (« dirai di musica e descrivi delli altri sensi », aggiunge
Leonardo), e infine « Di poi descrivi la natura de’ cinque sensi », e
anche « Scrivi che cosa è anima » (W. 19038 r, B 21 r). Nello stesso
manoscritto e altrove, e sempre allo stesso tempo, si trovano appunti
isolati che sembrano far parte di un corollario di riflessioni sulla natura
dei sensi sempre con connotazioni introspettive, per es. : « Ogni nostra
cognizione principia dai sentimenti » (Tr. 20 r), « I sensi sono terrestri,
la ragione sta fuor di quelli quando contempla » (Tr. 33 r), e in parti-
colare : « La idea, over imaginativa, è timone e briglia de’ sensi,
imperò che la cosa imaginata move il senso », nello stesso foglio del
Ms. B dell’Anatomia che contiene il citato testo sui sensi « ofiziali
dell’anima ». Ed ecco cosa si legge in un manoscritto coevo, il Codice
Trivulziano, f. 7 v, e direi proprio in una nota che si presenta con lo
298 CARLO PEDRETTI

stesso ductus dei testi del 1489 nel Ms. B dell’Anatomia a Windsor
(Richter, § 840) :
Quattro sono le potenzie : memoria e intelletto, lascibili e concupiscibili. Le
prime due sono ragionevoli e l’altre sensuali. I tre sensi, vedere, udire,
odorato, sono di poca proibizione ; tatto e gusto no. L’odorato mena con
seco il gusto nel cane e negli altri animali golosi.
A questa sorprendente categorizzazione delle « potenzie » mentali
si può accostare, come coevo, il testo al f. 21 v del Ms.
B dell’Anatomia : « L’obbietto move il senso. Non ti promettere cose e
non le fare, si tu ve’ che non l’avendo t’abbino a dare passione ». Qui si
tratta, ovviamente, di concupiscenza, e la passione che ne consegue
quando inappagata diventa quella che s’invoca come rimedio nel noto
aforisma nel CA, f. 358 v-a [994 v], c. 1487 : « La passione dell’animo
caccia via la lussuria ».
Con questo in mente torna opportuno riconsiderare la celebre
allegoria del Piacere e Dispiacere a Oxford che non s’è ancora saputo
spiegare perché sia parte di una serie di allegorie politiche a
edificazione del giovane Gian Galeazzo Sforza, del quale Ludovico il
Moro, come reggente del ducato, si professa protettore. Non credo che
il giovinetto duca dovesse essere protetto dalle insidie dei piaceri mon-
dani, che per Ludovico non rappresentavano certo un problema politi-
co. Qui Leonardo parla di se stesso. L’immagine è notissima e la spie-
gazione che l’accompagna non priva di ingenuità se non di banalità. Il
Piacere e il Dispiacere sono rappresentati come un unico essere, cioè
binati in quanto costituiti da un unico corpo e quindi – stranamente, si
direbbe – da un unico sesso, ma con due teste e quattro braccia per
sottolineare il concetto che mai l’uno è spiccato dall’altro. Si fanno con
le schiene rivolte perché son contrari l’uno all’altro, e sono fondati su
un medesimo corpo perché « il fondamento del piacere si è la fatica col
dispiacere », e quello del dispiacere « sono i vari lascivi piaceri ».
Come spiegano le didascalie all’illustrazione, un piede posa sul fango e
l’altro su una lastra d’oro. Vecchio è il Dispiacere, giovane e bello il
Piacere. E le rispettive braccia servono per i rispettivi simboli. Una
mano del Piacere lascia cadere monete d’oro e quella opposta del
Dispiacere lascia cadere « triboli », quegli antichissimi e geniali
prodotti dell’umana perfidia ancora oggi in uso. Non si spiega, e non è
Léonardo, Allegoria del piacere e dispiacere, C. 1487.
Oxford, Christ Church
LEONARDO E I SENSI INTERNI 299

stato ancora interpretato come simbolo, di che pianta sia il ramo


rigoglioso che il Dispiacere tiene con l’altra mano, ma mi sento di
potervi riconoscere un ramo di noce coi suoi frutti2, e questo anche
proprio per le ragioni simboliche che Leonardo stesso spiega altrove
(Ms. G, f. 88 v, Richter, § 411), quando parla del noce che vien battuto
per la raccolta dei suoi frutti. La mano opposta del Piacere regge invece
una lunga canna « che è vana e senza forza, e le punture fatte con
quella son venenose ». Ma qui il testo si dilunga in una singolare spie-
gazione estranea all’ambiente lombardo al quale il disegno è destinato :
Mettonsi [le canne] in Toscana al sostegno de’ letti, a significare che quivi si
fanno i vani sogni e quivi si consuma gran parte della vita, quivi si gitta di
molto utile tempo, cioè quel della mattina, che la mente è sobria e riposata, e
così il corpo, atto a ripigliare nove fatiche ; ancora lì si pigliano molti vani
piaceri, e colla mente immaginando cose impossibili a sé e col corpo
pigliando que’ piaceri che spesso son cagione di mancamento di vita ; sì che
per questo si tiene la canna per tali fondamenti.
Mi sembra del tutto chiaro che i vani piaceri a cui qui si allude
siano quelli che derivano dalle cose impossibili che la mente immagina
e che sono tipiche della masturbazione. Forse non è una coincidenza
che in un foglio di poco posteriore a Windsor, il 12349 v, si trovi la
citazione dantesca : « Ormai convien che tu ti spoltri, / disse il maestro,

2
Nel Trattato de l’arte della pittura di Giovan Paolo Lomazzo, Milano, 1584,
p. 449, il cap. LIIII sulla Composizione delle figure fra di loro contiene una parafrasi,
se non proprio la copia di un testo definitivo perduto, della descrizione di Leonardo
dell’allegoria del Piacere e Dispiacere a Oxford (Popham, tav. 108). Si veda il mio
Studi vinciani. Documenti, Analisi e Inediti leonardeschi. In Appendice : Saggio di
una cronologia dei fogli del «Codice Atlantico» […], Ginevra, 1957, p. 54-56. Il
confronto con i testi di Leonardo consente di rilevare che la versione del Lomazzo
include il particolare della mano sinistra, mancante invece alla descrizione di
Leonardo : « Nella mano manca il dispiacere tie-|ne un ramo di siepe con spine di
rose ; nelle quali riguarda dimo-|strando che si come la rosa non nasce senza la spina,
così egli ri-|tien le spine sole & le rose, cioè il piacere accanto, sì che un ramo | di rose
con le spine non significa altro che piacere fragile | perduto, & sicurezza di presente
fastidio, & punture di cose. » Il disegno non sembra indicare chiaramente rami di
rose, ma piuttosto di noci. Non mi risulta che alcun botanico abbia mai espresso
un’opinione su questo particolare. Cf. W. A. EMBODEN, Leonardo da Vinci On Plants
and Gardens […], Portland, Oregon, 1987, p. 187-188, fig. 97 (con bibliografia
precedente), dove si menziona solo la canna che il Piacere tiene con la mano destra.
300 CARLO PEDRETTI

ché seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltri »


(W. 12349 v, c. 1493 ; Dante, Inferno, XXIV 46-51).
E con questo si entra nell’ambito dell’immaginazione e della
fantasia che l’artista deve pure coltivare e stimolare per alimentare la
propria creatività, così come il continuo ricorso alla memoria gli è
necessario per assicurare la dimensione poetica alla propria opera. E del
resto si può ben credere che oltre un decennio più tardi, dal 1504 in poi,
all’età di oltre cinquant’anni, Leonardo continuasse con la mente a
immaginare « cose impossibili a sé », dal momento che in un foglio
proprio del 1504 si pone una domanda alla quale non è in grado di dare
una risposta : « Perché vede più certa la cosa l’occhio ne’ sogni che
colla immaginazione stando desto » (Ar. 278 v). L’ormai anziano
Leonardo scruta in se stesso il meccanismo dei sensi ricorrendo anche
al sogno di cui l’immaginativa si fa emula, come già nel caso di una di
quelle sue singolari finzioni letterarie, note come « profetie », che sotto
il titolo « Del sognare » descrive l’incalzare di drammatici eventi che si
concludono con una sorprendente fantasia incestuosa : « […] Vedratti
cadere di grandi alture sanza tuo danno ; i torrenti t’accompagneranno e
misteranno te col lor rapido corso ; userai carnalmente con madre e
sorelle […] » (CA f. 145 r-a [393 r], c. 1500).
Nei testi coi quali intorno al 1508-1510 Leonardo riprende il Ms.
B dell’Anatomia iniziato nel 1489, non si parla più di senso comune
come sede dell’anima, ma l’anima è portata in campo in un contesto di
considerazioni di ordine embriologico in un foglio di quel tempo, il
19115 r a Windsor (C. IV. 10 r). Qui si discorre del corpo umano come
di una macchina mirabile inventata dalla natura, che vi mette dentro
l’anima d’esso corpo componitore, cioè l’anima della madre, che prima
compone nella matrice la figura dell’omo e al tempo debito desta l’anima
che di quel debbe essere abitatore, la qual prima restava addormentata e in
tutela dell’anima della madre […].
Elaborata l’idea di questo eccezionale processo di filiazione di anime
– cui accenna già intorno al 1493 : « Avicenna vole che l’anima parto-
risca l’anima, e il corpo il corpo e ogni altro membro, per errata » (W.
19097 r [C. III. 3 r]) –, Leonardo conclude con una confessione divenu-
ta celebre : « Questo discorso non va qui, ma si richiede nella composi-
zion delli corpi animati ; – e il resto della difinizione dell’anima lascio
ne le menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per ispirazione san tutti li
segreti ». A cui aggiunge subito : « Lascia star le lettere incoronate,
perché son somma verità ». Si può pensare, e i più lo pensano, che qui
LEONARDO E I SENSI INTERNI 301

Leonardo intendesse deridere i teologi e la loro idea dell’anima, ma


quanto afferma in altro testo coevo, il foglio anatomico a Windsor,
n. 19001 r (A. 2 r), del 1510, indurrebbe a dubitarne :
E tu omo, che consideri in questa mia fatica l’opere mirabile della natura, se
giudicherai esser cosa nefanda il destruggerla, or pensa esser cosa nefan-
dissima il torre la vita all’omo, del quale, se questa sua composizione ti pare
di maraviglioso artifizio, pensa questa essere nulla rispetto all’anima che in
tale architettura abita ; e veramente, quale essa si sia, ella è cosa divina, sì
che làsciala abitare nella sua opera a suo beneplacito, e non volere che la tua
ira o malignità distrugga una tanta vita […].
A parte il problema lasciato insoluto – quello dell’anima, « quale
essa si sia » –, con la ripresa degli studi anatomici dopo il 1500,
soprattutto intorno al 1508-1510, il problema dei sensi affiora ancora
nei manoscritti di Leonardo, ma solo per una componente di ambiguità
o di inganno che essi comportano. Di qui appunto, come s’è visto,
l’« occhio nei sogni », e di qui anche il giudizio dell’occhio ingannato
da una determinata condizione di prospettiva aerea, così come il giudi-
zio s’inganna nell’affidarsi alla memoria. Anche qui siamo intorno al
1504 (CA, f. 29 v-a [81 v])3, al tempo della morte del padre, un mo-

3
Nella mia cronologia dei fogli del Codice Atlantico, sia nella prima versione del
1957 che nei due volumi del 1978-1979, questo foglio viene datato intorno al 1508-
1510. Si veda il mio Studi vinciani. cit. in nota 2, supra, p. 266, e The Codex
Atlanticus of Leonardo da Vinci. A Catalogue of its newly restored sheets […], New
York, 1978-1979, 2 vol., vol. I, p. 59, con la seguente nota : « uno dei fogli
appartenenti a un’ampia serie di studi [geometrici] compiuti fra il 1508 e il 1510. Si
confronti il Windsor 12280, per il quale si rimanda alla scheda nel catalogo di
Windsor [C LARK -P EDRETTI , 1968]. » Ho sempre pensato, senza mai dirlo, a un
possibile rapporto di stile e di contenuto con un altro foglio Codice Atlantico, il
f. 87 v-b [237 v] che contiene l’accenno a Riviera d’Arva presso Ginevra (RICHTER,
§ 1059 ; cf. il mio commentario all’antologia del Richter, sub numero), e che nella
mia cronologia del 1978, p. 121, risulta con la data c. 1508-1509, citando lo stesso
foglio di Windsor 12280 per il confronto di stile e contenuto. Dopo lunghe e
ponderate riflessioni sui problemi geometrici che occuparono Leonardo nel primo
decennio del Cinquecento, mi sono reso conto che certi schemi che sembrano
caratterizzare il periodo più avanzato di quel decennio (per es. quelli nei due fogli qui
citati del Codice Atlantico) appaiono già nel Ms. II di Madrid, databile al 1504 e
1505, nonché in fogli del Codice Atlantico e dell’Arundel datati o databili al 1504, e
fra questi sono ora incline a includere anche il f. 29 r-a, v-a [81 r-v] col testo sulla
302 CARLO PEDRETTI

mento di forte emozione che si traduce d’improvviso in una immagine


poeticamente vivida :
Il giudizio nostro non giudica le cose fatte in varie distanzie di tempo nelle
debite e proprie lor distanzie, perché molte cose passate di molti anni
parranno propinque e vicine al presente, e molte cose vicine parranno
antiche, insieme con l’antichità della nostra gioventù ; e così fa l’occhio
infra le cose distanti, che per essere alluminate dal sole paiono vicine, e
molte cose vicine paiono distanti.

Qui dovrebbe terminare il mio contributo a questo convegno, ma


non il mio tributo a Graziella Federici Vescovini, alla quale questo
convegno è dedicato. Lo faccio dunque col ricorso alle sue recen-
tissime, non ancora pubblicate Note di commento al Libro di pittura di
Leonardo che sono sul tema della prospettiva e astrologia e che ripren-
dono magistralmente il dibattuto problema delle fonti di Leonardo per
impostare un non ancora tentato confronto con l’opera di Pico della
Mirandola. Mi limito a una sola delle sue fertili osservazioni, quella a
proposito del testo vinciano « La deità ch’ha la scienza del pittore fa
che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente
divina » (Libro di pittura 68, originale perduto, c. 1492), nel quale
avverte giustamente l’eco del De mente di Nicola Cusano del 1450 :
Cusano celebra la pittura come l’arte prima o scienza divina che scaturisce
dalla mente dell’artista a similitudine della mente divina : la differenza tra la
mente divina e la nostra è quella che passa ‘tra il fare e il vedere’, ossia la
mente divina facendo crea, e ci dà l’essere ; noi invece facendo creiamo
visioni, ossia le rappresentazioni e, così, inventiamo le scienze e le arti.

prospettiva della memoria. Proprio nella facciata di quel testo si trovano esercitazioni
in tema di rapporti proporzionali che rimandano al libro quinto di Euclide, definizioni
decima e undecima, esattamente come nel Ms. K1, f. 41 [40] r-v, un taccuino databile
intorno al 1505, al tempo della Battaglia di Anghiari ; gli schemi al verso rimandano
invece a quelli nel Ms. II di Madrid, ff. 24 v e 135 r-v. Per di più, la nota sui
procedimenti euclidei in tema di proporzioni, in basso a destra, è in scrittura non
inversa, e come tale mostra lo stesso ductus della notazione sulla morte del padre nel
Codice Arundel, f. 272 r (R ICHTER , § 1372), datata 9 luglio 1504. Resta ancora da
spiegare la data « addj 5 luglio 1458 », scritta proprio da Leonardo e proprio allo
stesso tempo, intorno al 1504, fra varie prove di penna al recto del nostro foglio :
forse quella di un evento più famigliare che storico e ormai lontano nel tempo.
LEONARDO E I SENSI INTERNI 303

Con queste poche parole, semplici e chiarissime, la mente di Leo-


nardo ci si presenta, direi proprio per la prima volta, in tutta la sua vas-
tità e complessità, e implicitamente in tutta la sua potenza ma anche
umiltà scientifica. Con questo si ribadisce la necessità di recepire o
avvertire ogni riferimento o allusione che Leonardo faccia a se stesso,
alla propria indole, ai propri sentimenti, ai propri sensi, anche nei loro
aspetti più ingannevoli, se non insidiosi. Si spiega anche, con questo,
perché D’Annunzio, un secolo fa, rinunciasse a scrivere su La vita
interiore di Leonardo. Forse non sarà mai possibile farlo, ma si può
utilmente procedere sulla strada indicata da Graziella Federici
Vescovini. E per restare nell’ambito del De mente del Cusano, vorrei
richiamarmi alla conclusione del capitolo da lei considerato, quando
l’Idiota, per spiegare all’Oratore come la mente è infusa nella crea-
zione, porta l’esempio del vetro sospeso che, percosso, produce un
suono vibrante fino a rompersi. Rotto il vetro, viene a mancare la pro-
porzione nella quale stava il suono e quindi il moto. Cessato il moto,
cessa il suono. Di qui la conclusione dell’idiota : « Ammesso che
questa virtù in quanto non dipende dal vetro, non cessi per questo,
avresti un esempio di come questa forza è creata in noi, forza che
produce il moto e l’armonia. Essa cessa di produrli quando si rompe la
proporzione, sebbene non cessi per questo di essere ».
Anche Leonardo, che attingendo all’amico Pacioli scriverà : « La
proporzione non solamente nelli numeri e misure fia ritrovata, ma etiam
nelli suoni, pesi, tempi e siti, e qualunche potenzia si sia » (K1, f. 49 r,
c. 1505), anche Leonardo, pensando all’anima, parla di un’armonia che
s’interrompe nella corruzione del corpo, ma non per questo cessa di
esistere. Il celebre testo del Codice Trivulziano, f. 40 v, risale al 1487
circa : « L’anima mai si può corrompere nella corruzion del corpo, ma
fa nel corpo a similitudine del vento ch’è causa del sono dell’organo,
che, guastandosi una canna, non resultava, per quella, del vento buono
effetto ».
U. C. L. A., Los Angeles
APPENDICE

A. Testi sulla mente nel Libro di pittura di Leonardo

Cap. 15. Originale perduto, c. 1500-1505


La mente come immaginativa e il suo rapporto col senso comune.
Essempio tra la poesia e la pittura.
Non vede la immaginazione cotal eccellenzia qual vede l’occhio, perché l’occhio
riceve le specie, overo similitudini de li obbietti, e dalli alla impressiva, e da essa
impressiva al senso comune, e lì è giudicata. Ma la immaginazione non esce fuori
d’esso senso comune, se non in quanto essa va alla memoria, e lì si ferma e lì
muore, se la cosa immaginata non è de molta eccellenzia. Et in questo caso si trova
la poesia nella mente, overo immaginativa del poeta, il quale finge le medesime
cose del pittore, per le quali finzioni lui vole equipararsi a esso pittore, ma invero
lui n’è molto remoto, come di sopra è dimostrato. Adonque in tal caso de finzione
diremo con verità essere tal proporzione dalla scienzia della pittura alla poesia,
qual è dal corpo alla sua ombra derivativa, et ancora maggiore proporzione, con
ciò sia che l’ombra di tal corpo almeno entra per l’occhio al senso comune, ma la
immaginazione di tale corpo non entra in esso senso, ma lì nasce, in l’occhio
tenebroso. O che differenzia è a imaginar tal luce in l’occhio tenebroso, al vederla
in atto fuori delle tenebre.

Cap. 19. Ms. A, ff. 99-99 v (19-19 v), Richter, §§ 653 e 654, c. 1492
Come la mente opera nella poesia e nella pittura.
[…] Noi per arte possiamo esser detti nipoti a dio. Se·lla poesia s’astende in
filosofia morale, e questa in filosofia naturale ; se quella descrive l’operazioni
della mente, questa considera quello che la mente opera nei movimenti ; se quella
spaventa i populi con le infernali finzioni, questa con le medesime cose in atto fa il
simile. Pongasi il poeta a figurare una bellezza, una fierezza, una cosa nefand’e
brutta, una mostruosa, col pittore ; faccia a suo modo, come vole, trasmutazione di
forme, che ’l pittore non satisfaccia più. Non s’è [e]gli visto pitture aver tanta
conformità con la cosa [viva], ch’ell’ha ingannato omini et animali ?
306 CARLO PEDRETTI

Cap. 33. Originale perduto, c. 1500.


Cognizione scientifica che nasce e finisce nella mente. « Anima »
censurata. Nell’archetipo vaticano preparato per la stampa, questo
testo appare con un lungo brano sulle cose « ribelli » ai sensi cassato
da un censore cinquecentesco. Si tratta di un brano che il primo editore
del codice vaticano, Guglielmo Manzi, nel 1817, non ritenne di dover
sopprimere. Si evidenzia col corsivo la parte che in clima di riforme
dettate dal Concilio Tridentino si pensava di dover censurare.
Quale scienzia è meccanica, e quale non è meccanica.
Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall’esperienzia, e
quella esser scientifica che nasce e finisce nella mente, e quella essere semimecca-
nica che nasce dalla scienzia e finisce nell’ operazioni manuale. Ma a me pare che
quelle scienzie sieno vane e piene d’errori le quali non sono nate dall’esperienzia,
madre d’ogni certezza, e che non terminano in nota esperienzia, cioè che·lla loro
origine, o mezzo, o fine, non passa per nessun de’ cinque sensi. E se noi dubitiamo
della certezza di ciascuna cosa che passa per li sensi, quanto maggiormente
dobbiamo noi dubitare delle cose ribelle ad essi sensi, come della essenzia de dio
e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente
accade che sempre dove manca la ragione supplisce le grida, la qual cosa non
accade nelle cose certe. Diremo per questo che dove si grida non è vera scienzia,
perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il letigio resta in
etterno distrutto, e s’esso letigio resurge, la bùgara è confusa scienzia, e non
certezza rinata. Ma le vere scienzie son quelle che la sperienzia ha fatto penetrare
per li sensi, e posto silenzio alle lingue de’ litiganti, e che non pasce di sogno li
suoi investigatori, ma sempre sopra li primi veri e noti principii procede successi-
vamente e con vere sequenzie insino al fine, come si dinota nelle prime matema-
tiche, cioè numero e misura, dette arismetica e geometria, che trattano con somma
verità della quantità discontinua e continua. Qui non si arguirà che due tre faccino
più o men che sei, né che un triangolo abbia li suoi angoli minori di duoi angoli
retti, ma con etterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono fruite
dalli loro divoti, il che far non possono le bugiarde scienzie mentali. E se tu dirai
tali scienzie vere e note essere de spezie di meccaniche, imperò che non si possono
finire se non manualmente, io dirò il medesimo di tutte l’arti che passano per le
mani delli scrittori, la quale è di spezie di disegno, membro della pittura ; e l’astro-
logia e l’altre passano per le manuali operazioni, ma prima sono mentali com’è la
pittura, la quale è prima nella mente del suo speculatore, e non pò pervenire alla
sua perfezzione senza la manuale operazione ; della qual pittura li suoi scientifici e
veri principii prima ponendo che cosa è corpo ombroso, e che cosa è ombra primi-
tiva ed ombra derivativa, e che cosa è lume, cioè tenebre, luce, colore, corpo,
figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali solo con la mente si
comprendono sanza opera manuale ; e questa fia la scienzia della pittura, che resta
LEONARDO E I SENSI INTERNI 307

nella mente de’ suoi contemplanti, della quale nasce puoi l’operazione, assai più
degna della predetta contemplazione o scienzia.

Cap. 36. Originale perduto, c. 1490-1492


Mente, ovvero giudizio
Ma lo scultore avendo da cavare dove vol fare gl’intervalli de’ muscoli, e da
lasciare dove vol fare gli rilevi d’essi muscoli, non gli pò generare con debita
figura oltre lo aver fatto la longhezza e larghezza loro, se lui non si move in traver-
so, piegandosi od alzandosi in modo ch’esso vegga la vera altezza de’ muscoli e la
vera bassezza delli loro intervalli ; e questi son giudicati dallo scultore in tal sito, e
per questa via de dintorni si ricorreggano, altrimenti mai porrà bene li termini o
vero figure delle sue sculture. E questo tal modo dicono essere fatica di mente allo
scultore, perché non acquista altro che fatica corporale ; perché in quanto alla
mente, o vo’ dire giudicio, esso non ha se non in tal profilo a ricorreggere li
dintorni delle membra, dove li muscoli sono troppo alti ; e questo è il proprio ordi-
nario delle sculture a condurre a fine le opere sue.

Cap. 40. Originale perduto, c. 1500-1505


Mente del pittore come mente della natura
La pittura è di maggiore discorso mentale e di maggior artifizio e maraviglia che la
scultura, con ciò sia che necessità constringe la mente del pittore a trasmutarsi
nella propria mente di natura, e sia interprete infra essa natura e l’arte, comendan-
do con quella le cause delle sue dimostrazioni constrette dalla sua legge […]

Cap. 53. Originale perduto, c. 1510


La mente del pittore si trasmuta in quello che vede
In che modo debb’il giovane procedere nel suo studio.
La mente del pittore si debb’al continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono
le figure delli obbietti notabili che dinanzi gli appariscano, et a quelle fermar il
passo e notarle, e fare sopra esse regole, considerando il loco e le circonstanzie, e
lume e ombre.

Cap. 56. Ms. A, f. 82 r (2 r), Richter, § 506, c. 1492


La mente del pittore in rapporto a quello che vede
A che similitudine debb’essere l’ingegno del pittore.
308 CARLO PEDRETTI

L’ingegno del pittore vol esser a similitudine dello specchio, il quale sempre si
trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obbietto, e di tante similitudini
s’empie, quante sono le cose che li sono contraposte. Adunque conoscendo tu
pittore non poter essere bono se non sei universale maestro di contraffare con la
tua arte tutte le qualità delle forme che produce la natura, le quali non saprai fare
se non le vedi e ritrarle nella mente, onde, andando tu per campagne, fa che ’l tuo
giudizio si volti a’ varii obbietti, e di mano in mano riguardare or questa cosa, or
quell’[altra], facendo un fascio di varie cose elette e scelte infra le men bone. E
non far come alcuni pittori, li quali, stanchi con la lor fantasia, dismettano l’opra, e
fanno essercizio co’ l’andare a spasso, riserbandosi una stanchezza nella mente, la
quale, non che voglino por mente a varie cose, ma spesse volte, incontrandosi
negli amici o parenti, essendo da quelli salutati, non che li vedino o sentino, non
altrimenti sono cognosciuti come se li scontrassino [altrettant’aria].

Cap. 68. Originale perduto, c. 1490-1492, o dopo il 1500 ?


La mente del pittore ha similitudine di mente divina
Piacere del pittore.
La deità ch’ha la scienzia del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una
similitudine di mente divina ; imperò che con libera potestà discorre alla genera-
zione di diverse essenzie di varii animali, piante, frutti, paesi, campagne, ruine di
monti, loghi paurosi e spaventevoli, che danno terrore alli loro risguardatori, et
ancora lochi piacevoli, suavi e dilettevoli di fioriti prati con varii colori, piegati da
suave onde, dalli suavi moti di venti, riguardando dietro al vento che da loro si
fugge ; fiumi discendenti con li empiti de’ gran diluvii dalli alti monti, che si
cacciano inanti le deradicate piante, miste co’ sassi, radici, terra e schiuma,
cacciandosi inanzi ciò che si contrapone alla sua ruina ; et il mare con le sue pro-
celle contende essa zuffa co’ li venti, che con quella combatteno, levandosi in alto
co’ le superbe onde, onde e’ cade, e di quelle ruinando sopra del vento che percote
le sue base ; e loro richiudendo e incarcerando sotto di sé, quello straccia e divide,
mischiandolo con le sue turbide schiume, co’ quello sfoga l’arrabbiata sua ira, et
alcuna volta superata dai venti si fugge dal mare scorrendo per l’alte ripe delli
vicini promontorii, dove, superate le cime de’ monti, discende nelle opposite valli,
e parte se ne mischia in isc<hiu>ma predata dal furore de’ venti, e parte ne fugge
dalli venti ricadendo in pioggia sopra del mare, e parte ne discende ruinosamente
delli alti promontori, cacciandosi inanzi ciò che s’oppone alla sua ruina, e spesso si
scontra nella sopravegnente onda, e con quella urtandosi si leva ’l cielo, empiendo
l’aria di confusa e schiumosa nebbia, la quale ripercossa dai venti nelle sponde de’
promontorii genera oscuri nuvoli, li quali si fan preda del vento suo vincitore.
LEONARDO E I SENSI INTERNI 309

Cap. 371. Originale perduto, c. 1500-1505


Quando la mente non muove i sensi
Come gli atti mentali movono la persona in primo grado di facilità e comodità.
Il moto mentale move ’l corpo con atti semplici e facili, non in qua né in là, perché
il suo obbietto è nella mente, la quale non move li sensi, quando in sé medesima è
occupata.
310 CARLO PEDRETTI

B. Testi sull’anima nel Libro di pittura di Leonardo

Cap. 27. Originale perduto, c. 1490-1492


Anima composta di armonia
Risposta del re Mattia ad un poeta che gareggiava con un pittore.
[…] Non sai tu che la nostra anima è composta d’armonia, et armonia non
s’ingenera se non in istanti, ne’ quali le proporzionalità delli obbietti si fan vedere
o udire ? Non vedi che nella tua scienzia non è proporzionalità creata in istante,
anzi, l’una parte nasce dall’altra successivamente, e non nasce la succedente se
l’antecedente non more ? Per questo giudico la tua invenzione essere assai infe-
riore a quella del pittore, solo perché da quella non componesi proporzionalità
armonica. Essa non contenta la mente de l’auditore o veditore, come fa la propor-
zionalità delle bellissime membra componitrici delle divine bellezze di questo viso
che m’è dinanzi, le quali in un medesimo tempo tutte insieme gionte mi danno
tanto piacere, con la loro divina proporzione, che null’altra cosa giudico essere
sopra la terra fatta da l’omo che darla possa maggiore.

Cap. 108. Originale perduto, c. 1505-1510


Anima come giudizio e componitrice del corpo
Del massimo difetto de’ pittori.
Sommo difetto è de’ pittori replicare li medesimi moti e medesimi volti e maniere
di panni in una medesima istoria, e fare la maggiore parte de’ volti che somigliano
al loro maestro, la qual cosa m’ha molte volte dato admirazione perché n’ho
cognosciuti alcuni che in tutte le sue figure pare avervisi ritratto al naturale ; et in
quelle si vede li atti e li moti del loro fattore, e s’egli è pronto nel parlare e ne’
moti, le sue figure sono il simile in prontitudine ; e se ’l maestro è divoto, il simile
paiano le figure con lor colli torti ; e se ’l maestro è da poco, le sue figure paiono la
pigrizia ritratta al naturale ; e se ’l maestro è sproporzionato, le figure sue son
simili ; e s’egli è pazzo, nelle sue istorie si dimostra largamente, le quali sono
nemiche di conclusione, e non stanno attente alle loro operazioni, anzi, chi guarda
in qua, e chi in là come se sognassino : e così segueno ciascun accidente in pittura
il proprio accidente del pittore. E avendo io più volte considerato la causa di tal
difetto, mi pare che sia da giudicare che quell’anima che regge e governa ciascun
corpo si è quella che fa il nostro giudizio inanti sia il proprio giudizio nostro.
Adonque ella ha condotto tutta la figura de l’omo, com’ella ha giudicato quello
stare bene, o col naso longo, o corto, o camuso, e così li affermò la sua altezza e
figura. Et è di tanta potenzia questo tal giudizio, ch’egli move le braccia al pittore
e fagli replicare sé medesimo, parendo a essa anima che quello sia il vero modo di
figurare l’omo, e chi non fa come lei faccia errore. E s’ella trova alcuno che
simigli al suo corpo, ch’ella ha composto, ella l’ama, e s’innamora spesso di
LEONARDO E I SENSI INTERNI 311

quello. E per questo molti se innamorano e toglian moglie che simiglia a lui, e
spesso li figlioli che nascono di tali simigliano ai loro genitori.

Cap. 109. Originale perduto (Libro A 28), c. 1508-1510


Anima componitrice del corpo
Precetti, che ’l pittore non s’inganni nella elezzione della figura in che esso fa
l’abito.
Debbe il pittore fare la sua figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale
comunemente s<i>a di proporzione laudabile ; oltre di questo far misurare sé
medesimo e vedere in che parte la sua persona varia assai o poco da quella anti-
detta laudabile ; e, fatto questa notizia, debbe riparare con tutto il suo studio di non
incorrere nei medesimi mancamenti nelle figure da lui operate, che nella persona
sua si trova. E sappi che con questo vizio ti bisogna sommamente pugnare, con ciò
sia che gli è mancamento ch’è nato insieme col giudizio ; perché l’anima, maestra
del tuo corpo, è quella che <fe’> il tuo proprio giudizio, e voluntieri si diletta
nelle opere simili a quella ch’ella operò nel comporre del suo corpo : e di qui
nasce che non è sì brutta figura di femina, che non trovi qualche amante, se già
non fussi mostruosa ; sì che ricordati de intendere i mancamenti che sono nella tua
persona, e da quelli ti guarda nelle figure che da te si compongono.

Cap. 499. Originale perduto (Libro A 15), c. 1508-1510


Anima componitrice del corpo
Come le figure spesso somigliano alli loro maestri.
Questo acade, che il giudicio nostro è quello che move la mano alle creazioni de’
lineamenti d’esse figure per diversi aspetti insino a tanto ch’esso si satisfaccia ; e
perché esso giudicio è una delle potenzie de l’anima nostra, con <la> quale essa
compose la forma del corpo, dov’essa abita, secondo il suo volere, onde, avendo
co’ le mani a rifare un corpo umano, volontieri rifà quel corpo, di ch’essa fu
prima inventrice. E di qui nasce che chi s’inamora, volontieri s’inamorano di cose
a loro simiglianti.
312 CARLO PEDRETTI

C. Una lettera di Gabriele d'Annunzio

Nel capitolo « Dalle lettere al Dottor Nesti » nell’opera postuma di


Gabriele d’Annunzio, Solus ad Solam, a cura di Jolanda De Blasi,
Firenze, 1939, p. 341, è riportata una lettera del 19 settembre 1908 con
4
la quale il Poeta invia al medico Giovanni Nesti il dono dell’edizione
di un volume di fogli anatomici di Leonardo :
Mi consenta di offrirLe con gran cuore questo libro portentoso ove il Vinci
– studiando da anatomico il corpo umano – giunge nei suoi disegni alla luce del
più alto Stile. Si comprende – dinanzi a queste pagine – come in verità non vi sia
nel mondo se non un tempio : quello ove abita la nostra anima [enfasi aggiunta].

Con un appunto della stessa data nel suo Diario (p. 105), il Poeta
conferma di avere inviato al dottore Nesti « un volume oltremirabile :
l’anatomia di Leonardo nell’edizione del Pinnati [recte : Piumati] ».
Non è possibile accertare se si tratta del volume dei Fogli A
dell’Anatomia (Parigi, Rouveyre, 1898) oppure dei Fogli B (Torino,
Roux e Viarengo, 1901), la sontuosa pubblicazione promossa dal
mecenate russo Teodoro Sabachnikoff e curata da Giovanni Piumati.
Ma è probabile che si trattasse dei Fogli B (teschio, miologia, organi
interni, databile in parte 1489 e in parte 1506-1508), non solo perché
più recente e perché stampato in Italia, e quindi più disponibile, ma
anche perché inizia con i primi testi di Leonardo sull’anima sopra
riportati. D’altra parte, non si può neppure escludere che fosse quello
dei Fogli A (osteologia e miologia, datato 1510), più spettacolare per la
prevalenza del disegno e quindi più adatto come dono. E per di più,
proprio al f. 2 r si legge il testo (« E tu omo, che consideri in questa mia
fatica […] ») nel quale si menziona l’« anima che in tale architettura
abita », suggerendo perciò il « tempio » dannunziano « ove abita la
nostra anima ».

4
Su questo medico si veda F RANCO DI TIZIO, « Giovanni Nesti, medico di Giusini
nelle lettere di D’Annunzio e nella rievocazione di Cesare Frugoni », in Rassegna
Dannunziana, 38 (2000), p. 17-26.
ROBERTO PERINI

PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS


IN DESCARTES

La domanda su come possa darsi interazione tra livelli eterogenei


di realtà, quali il mentale e il corporeo, rimane circoscritta in Descartes
da un problema teoreticamente e metafisicamente più radicale, quello
di concepire una unione così « arcta et intima » da fare di due sostanze
– che pur debbono permanere logicamente e ontologicamente irriduci-
bili – qualcosa di essenzialmente, intrinsecamente uno. Ciò significa
che tentativi, anche acuti, di render logicamente pensabile la corrispon-
denza puntuale tra mentale e corporeo, non esauriscono la domanda
circa la natura e il significato di quella che Descartes designa come loro
« unio substantialis1 ». È’dunque ineludibile il ritorno allo statuto del
concetto di sostanza, alle sue implicazioni e ai criteri della sua fonda-
zione, così come all’idea di distinzione reale, per aggredire in
profondità la difficoltà più originaria, cui del resto lo stesso Descartes
non si sottrae nel dibattito con i suoi interlocutori, soprattutto Arnauld e
la principessa Elisabetta. Su questo piano problematico, precisamente,
intendono muoversi le linee di riflessione qui proposte.

1. DISTINCTIO REALIS E SUBSTANTIA

Non si può fare a meno di rammentare subito il nesso intrinseco tra


la sostanzialità, contrassegnata dalla « distinctio realis », e il potere di

1
Esemplare ci appare a questo proposito il contributo di G. OLIVO, « Descartes cri-
tique du dualisme cartésien », in Descartes : Principia Philosophiae, Napoli, Viva-
rium, 1996, p. 231-54, che mentre propone come risolutiva per pensare la corrispon-
denza mente-corpo la brillante idea di « transposition d’un “chiffre” ou crypto-
gramme », non sembra invece toccare alla radice il problema della « unio substan-
tialis ».
314 ROBERTO PERINI

sussistenza autonoma, o capacità di esistenza separata. La separazione


di una sostanza dall’altra, appartenente alla sua stessa natura o essenza,
coincide nel pensiero con l’intellettiva « distinctio realis » – intelligi-
bilità assolutamente separata di una nozione compresa nella sua
integralità, ovvero come nozione completa in se stessa, e dunque non
astratta da una più ampia o complessa2 ; nella realtà si traduce poi in
una corrispondente separazione di esistenza, attuata di fatto o sempre
attuabile di diritto. In breve la sostanza, in quanto significa la « res quae
per se apta est esistere » della terza Meditazione3, ovvero ciò che « ita
existit, ut nulla alia re indigeat ad existendum » (P.P., I, 51)4, non
sarebbe tale se potesse o dovesse venir pensata come essenzialmente
unita ad altro. Di qui la difficoltà connessa ad un’unione di sostanze
non estrinseca ed accidentale, ma addirittura costitutiva di una nozione
assolutamente unitaria, quale quella presentata nelle Meditationes e nei
Principia. Meditatio sexta : « Docet etiam natura per istos sensus
doloris, famis, sitis &c. me non tantum adesse meo corpori ut nauta
adest navigio, sed illi arctissime esse conjunctum & quasi permixtum,
adeo ut unum quid cum illo componam5. » Principia, I, 60 :
[…] supponiamo che Dio a tale sostanza pensante abbia congiunto una
qualche sostanza corporea tanto strettamente che più strettamente non si

2
Su questo criterio di definizione della « substantia », accanto alla Meditatio
sexta, alle Primae responsiones, ai Principia Philosophiae I, cf. le importantissime
lettere a Launay 22.7.1641 (Œuvres de Descartes, publiées par C. ADAM et P. TANNERY,
11 vol., Paris, Vrin, 1964-74, t. III, p. 422 ss. Questa edizione delle opere verrà
indicata nel seguito con la classica sigla AT, seguita dall’indicazione del volume in
numero romano e da quella di pagine e righe del testo, in numeri arabi) ; a Gibieuf
19.1.1642 (AT, III, 478-80) ; a Mesland 2.5.1644 (AT, IV, 120) ; inoltre, natural-
mente, le Quartae responsiones ad Arnauld. L’indipendenza essenziale di una nozio-
ne completa di res si ha quando essa non è pensata e pensabile separatamente solo
« per abstractionem intellectus », ma la si concepisce invece in modo integrale pur
negandole tutto di qualsiasi altra nozione : cioè, quando nessun attributo o modo suo
proprio coincide con quelli di altre res o substantiae.
3
AT,VII, 44, 22-23.
4
AT, VIII-1, 24, 22-23.
5
AT,VII, 81, 1-5
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 315

potrebbe, e così da quelle due abbia composto qualcosa di unico – et ita ex


6
illis duabus unum quid conflavisse […] .
L’interrogativo principale concerne appunto la valenza, logica e
ontologica, da conferire a questo unum quid. Da un lato infatti la sua
rigorosa unitarietà non intacca minimamente la distinzione reale, e
dunque la separazione de jure, delle due sostanze che lo costituiscono :
[…] esse restano realmente distinte, giacché, per quanto strettamente le
abbia unite, non ha potuto privarsi della potenza che prima aveva di
separarle, ovvero di conservare l’una senza l’altra ; e quelle cose che
possono essere da Dio, o separate, o conservate disgiuntamente, sono real-
7
mente distinte (Principia, I, 60) .
E in effetti, sapendo
che tutte le cose che percepisco chiaramente e distintamente possono essere
prodotte da Dio tali e quali le intendo, è sufficiente che possa comprendere
chiaramente e distintamente una cosa senza l’altra per esser certo che l’una è
8
diversa dall’altra (Meditatio sexta) .
D’altra parte, quale sarà allora lo statuto di quell’unità integra di
mens e corpus che è l’uomo ? nelle Risposte ad Arnauld Descartes
difende vigorosamente, come è noto, tanto la distinzione reale di mente
e corpo quanto l’unità essenziale dell’uomo come totalità o intero,
adottando appunto la nota formula dell’unione sostanziale :
nella stessa Meditazione sesta, in cui ho trattato della distinzione della mente
dal corpo, contemporaneamente ho anche provato che essa è unita a quello
sostanzialmente (« substantialiter ») […]. E, come chi dicesse che il braccio
dell’uomo è una sostanza realmente distinta dal resto del suo corpo, non per
questo negherebbe che esso appartiene alla natura dell’uomo intero (« ad
hominis integri naturam pertinere ») : né chi dice che quel medesimo braccio
appartiene alla natura dell’uomo intero, dà perciò motivo di pensare che esso
non possa sussistere indipendentemente (« per se subsistere ») : così neppure
mi sembra di aver provato troppo mostrando che la mente può essere
separata dal corpo, né troppo poco dicendo che essa è unita al corpo
sostanzialmente, perché tale unione sostanziale (« unio illa substantialis »)

6
R. DESCARTES, Opere filosofiche, a cura di E. LOJACONO, 2 vol. , Torino, 1994, t. II,
p. 93 (traduzione indicata nel seguito come L) ; AT, VIII-1, 29, 9-10.
7
L, II, p. 93-94.
8
Ivi, I, p. 723.
316 ROBERTO PERINI

non impedisce che si abbia un concetto chiaro e distinto della sola mente
9
come di una realtà completa (« tamquam rei completae ») .
La replica cartesiana appare più decisa che chiarificatrice : cosa
deve intendersi per « unio substantialis » e cosa per « homo integrus »,
dotato in proprio di una sua natura (= essenza), come tale eviden-
temente indivisibile ? Descartes, che non cesserà mai di riconoscere
esplicitamente due sole sostanze finite, la pensante e l’estesa appunto,
sembra inaugurare qui un’oscillazione terminologico-concettuale forie-
ra di ambiguità, di cui offrono indizi ancor più significativi altri impor-
tanti testi. E anzitutto le lettere ad Elisabetta del 21 maggio e del
28 giugno 1643. La seconda :
[…] dopo aver distinto tre generi di idee o nozioni primitive (« notions
primitives »), che si conoscono ciascuna in un particolare modo e non
mediante il raffronto tra l’una e l’altra, cioè la nozione che abbiamo
dell’anima, quella del corpo e quella dell’unione che sussiste tra l’una e
10
l’altro…
La nozione di « unio » (tra mente e corpo) è dunque originaria, inderi-
vabile da qualsiasi altra, e condivide tale statuto con quelle della « res
cogitans » e della « res extensa », ovvero delle substantiae finite. Il che
viene confermato ancor più chiaramente dalla prima delle due lettere :
[…] nous n’avons, pour le corps en particulier, que la notion de l’extension
[…] ; & pour l’ame seule, nous n’avons que celle de la pensée […] ; enfin,
pour l’ame & le corps ensemble, nous n’avons que celle de leur union […].
Ie considere aussi que toute la science des hommes ne consiste qu’à bien
distinguer ces notions, & à n’attribuer chacune d’elles qu’aux choses aux-
quelles elles appartiennent. Car, lors que nous voulons expliquer quelque
difficulté par le moyen d’une notion qui ne lui appartient pas, nous ne
pouvons manquer de nous mesprendre ; comme aussi lors que nous voulons
expliquer une de ces notions par une autre ; car, etant primitives, chacune
11
d’elles ne peut etre entenduë que par elle mesme .
L’intelligibilità separata di una nozione completa (e non astratta),
propria solo della sostanza, torna qui ad aleggiare precisamente sul
concetto della unio (di due sostanze) considerata in quanto tale. Ma in

9
AT, VII, 227, 25-228, 16. Trad. mia.
10
L, II, p. 44 (AT,III, 691). Corsivi miei.
11
AT, III, 665-66 (L, II, p. 27-28). Corsivi miei.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 317

che senso può costituire nozione primitiva quella di « unio » tra altre
due nozioni primitive, che sono poi anche.nozioni di sostanza e, come
tali, prive nell’essenza di qualsiasi elemento comune ?
Ancor più significativo si mostra a questo proposito, per la sua
forte problematicità, il quadro tratteggiato da Principia Philosophiae, I.
Essendo qui stabilito che possiamo considerare le realtà esistenti (non
dunque le « aeternae veritates », che sono meri assiomi o nozioni
comuni) solo « tanquam res, rerumve affectiones quasdam » (art. 48),
null’altro sussisterà evidentemente oltre le sostanze e i loro attributa,
qualitates, modi : insomma, da un lato il cosiddetto « attributum
praecipuum », che della sostanza costituisce l’essenza o natura – come
l’estensione per la sostanza corporea ed il pensiero per la pensante
(art. 53, 63) – dall’altro tutti gli altri modi, affezioni o variazioni
(art. 56), attengono necessariamente ad una delle sostanze, esaurendo
con queste il campo del realmente esistente12. Ora, l’art. 48 delimita
decisamente e chiaramente questo campo :
non arrivo a conoscere più che due sommi generi di cose : l’uno è delle cose
intellettuali, ossia cogitative, cioè pertinenti alla mente ovvero alla sostanza
pensante ; l’altro delle cose materiali, ovvero pertinenti alla sostanza estesa,
13
cioè al corpo .
Tracciando questa bipartizione Descartes esclude che le due sostanze
possano avere in comune l’attributo « praecipuum », o i modi che ad
esso in quanto tale ineriscono : ad esempio « percipere » e « velle »,
inerenti al solo pensiero, o grandezza figura e movimento, inerenti alla
sola estensione. Naturalmente, ciò non esclude invece che proprietà
comuni ad ogni realtà esistente in quanto tale, come durata ordine
numero, ineriscano indifferentemente all’una e all’altra sostanza. Sor-
prendentemente però, delineati così i modi delle sole due sostanze
concepibili, Descartes vi aggiunge « alia quaedam », che non sono rife-
ribili né alla mente né al corpo isolatamente assunti (e ancor meno,
evidentemente, sia all’uno che all’altro) in quanto derivano soltanto
dalla stretta ed intima unione della nostra mente con il corpo (« ab arcta &
intima mentis nostrae cum corpore unione »), come gli appetiti della fame,
della sete ecc., e così pure le emozioni, ossia le passioni dell’anima, che non

12
Cf. AT,VIII-1, 22-26.
13
L, II, p. 88. Corsivo mio.
318 ROBERTO PERINI

consistono soltanto nel pensiero, come il moto all’ira, all’ilarità, alla


tristezza, all’amore ecc. ; e infine tutte le sensazioni, come quelle del dolore,
14
del solletico, della luce e dei colori, dei suoni [...] .
Ora, se esistono solo « res rerumve affectiones », quanto non è
sostanza (« res ») deve necessariamente inerire ad una sostanza come
suo modo (« affectio ») ; e se i modi così elencati non ineriscono né alla
« res cogitans » né all’« extensa » come tali (né sono ad esse
semplicemente comuni), perché attengono solo alla loro unio, allora si
dovrebbe postulare, in virtù di essi, una terza sostanza ; e di questa
dovrebbe poi darsi, a sua volta, intelligibilità distinta (mediante nozione
completa) rispetto a « mens/res cogitans » e « corpus/res extensa ».
Insomma : se la « unio » (di mente e corpo) è soggetto di modi che le
appartengono in proprio e a titolo esclusivo – appetiti, passioni, sensa-
zioni – non dovrebbe implicare a sua volta, e di necessità, una
« distinctio realis » rispetto alle due « res » di cui è appunto « unio »,
quasi fosse essa stessa una terza substantia ?
Un aspetto importante di tale rilievo sta proprio nel fatto che,
seguendo questa linea direttrice, quanto appartiene alla « unio » come
tale andrebbe a rigore analizzato, almeno relativamente al suo statuto
logico, non tanto come espressione di un incontro e di un’interazione
tra termini eterogenei, o non complanari, quanto come una realtà a sua
volta unitaria, e dunque omogenea, sebbene per così dire a due facce :
una cogitativa ed una estensiva. Almeno nell’unità uomo, insomma, la
dualità delle sostanze sembrerebbe andare incontro a un’intenzionale
riduzione, trovando una dimensione esplicativa del tutto in un unico (e
unitario) concetto fondativo ; sicché attraverso appetiti, passioni e
sensazioni potrebbe e dovrebbe esser pensata, piuttosto o prima ancora
che l’interazione tra « res cogitans » e « res extensa », proprio una
realtà peculiare irriducibile alle altre due – irriducibile, perciò, anche a
una loro giustapposizione. E in effetti quei particolarissimi modi paiono
reclamare, come loro condizione di pensabilità, un concetto esprimente
addirittura il rinvio immanente del mentale al corporeo, e viceversa del
corporeo al mentale, giacché in essi sembra colto un luogo d’interse-
zione, o punto di coincidenza, delle due res : se infatti attraverso essi
pensiamo la cogitatio siamo forzati a pensarla come dotata in se stessa
di un riferimento corporeo, o di corporeità ; e se pensiamo la extensio

14
Ibidem.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 319

non possiamo che pensarla ricondotta nella dimensione coscienziale, o


come in se stessa riferibile al principio cogitativo. A questo punto,
quello dell’interazione si mostrerebbe problema derivativo, o secon-
dario, rispetto alla dimensione primaria della « unio » – e forse dovuto
al permanere, anche in quest’ultima, della ineliminabile distinctio realis
tra mente e corpo.

2. DALLA MENS ALLA UNIO MENTIS CUM CORPORE

Il quadro prospettato richiede di chiarire anzitutto chi veramente


sia, come realtà in senso forte o sostanza, res dotata di autonomia
ontologica, il soggetto finito cartesiano : l’homo integrus che è unio
substantialis o quella mens come res completa che, scoperta attraverso
il cogito nella sua primarietà e indipendenza, permane comunque real-
mente distinta dal corpo ? O forse, nelle differenti scansioni del
discorso di Descartes, gioca una sorta di duplice figura della soggetti-
vità ? proprio queste scansioni vale esaminare più da vicino per un
chiarimento del problema.
1. Sappiamo che esplicitamente la risposta cartesiana circa l’essere
del soggetto pensante si mantiene costante nel tempo (né muterà
nella discussione con Arnauld delle Quartae responsiones) :
« sono una sostanza, la cui essenza tutta, o natura, non sta che nel
pensare e che, per essere, non necessita di luogo alcuno né dipende
da alcuna cosa materiale » (Discours, IV)15 ; « alla essenza di me
stesso, cioè della mia mente […] appartiene solo questo, cioè che
16
sono una cosa pensante » (Meditatio sexta) ; « sum igitur praecise
tantum res cogitans, id est, mens, sive animus, sive intellectus, sive
ratio » (Meditatio secunda)17 ; « nessuna estensione, né figura, né
moto locale, né alcunché di simile, che sia da attribuirsi al corpo,
appartiene alla nostra natura, ma solo il pensiero » (Principia,

15
L, I, p. 522 (AT, VI, 33).
16
L, I, p. 719 e 724. (AT, VII, 73 e 78). Corsivo mio.
17
AT, VII, 27, 13-14.
320 ROBERTO PERINI

I, 8)18. Non in quanto uomo, ma in quanto io, ego dubitante, non


sono che cogitatio auto-certificantesi in atto in quel primum che è
il cogito, ovvero in quella nozione che si intende assolutamente
senza alcun’altra, appunto perché si risolve in un’auto-intelle-
zione : da cui la fondazione di me come res cogitans – come realtà
indipendente, ed esclusiva di tutto ciò che non implichi pura e sola
cogitatio.
2. E tuttavia, al tempo stesso, troviamo che proprio tale res cogitans
sive mens, alla cui essenza non appartiene nessuna estensione,
viene dichiarata equivalente di res « dubitans, intelligens, affir-
mans, negans, volens, nolens, imaginans quoque, & sentiens »
(Meditatio secunda)19, e porta così già in se stessa, inaspetta-
tamente, un riferimento immediato alla extensio, stabilito dall’ima-
ginari e dal sentire ed evidentemente implicante una connessione
del cogitare con l’estensivo – non è chiaro se di natura tale da
confliggere con il criterio della distinctio realis. Sappiamo infatti
che Descartes, nel definire così la res cogitans, ne deriva i conte-
nuti esclusivamente dalle acquisizioni già compiute, le quali non
comprendono ancora, in questa fase dell’iter fondativo, l’esistenza
reale di corpi o sostanze estese. Anzi, è proprio negando attraverso
il dubbio tale realtà – quella delle cose sentite e immaginate – che
si rivela, quale residuo innegabilmente evidente, l’inerenza
dell’immaginare e del sentire come tali precisamente a me pura
mens, a me null’altro che res cogitans :
infatti, posto anche che accada, come ho supposto, che proprio nessuna delle
cose immaginate sia vera, tuttavia la stessa forza di immaginare esiste vera-
mente e fa parte del mio pensiero (« vis tamen ipsa imaginandi revera existit,
et cogitationis meae partem facit »). Infine, sono lo stesso che percepisce
(« ego sum qui sentio ») o che avverte le cose corporee come attraverso i
sensi (« tanquam per sensus »), cioè vede ora la luce, ode il rumore, avverte
il calore. Tutto ciò è falso, infatti dormo. Tuttavia è certo che mi pare di
vedere, di udire, di avvertire il calore (« at certe videre videor, audire,
calescere »). Ciò non può essere falso, ché in ciò effettivamente consiste

18
L, II, p. 72 (AT, VIII-1, 7).
19
AT,VII, 28, 21-22. Cf. anche AT, VII, 34, 18-21 (Meditatio tertia).
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 321

quel che in me si dice sentire ; e questo, assunto così con precisione altro
20
non è che pensare (« precise sic sumptum nihil aliud est quam cogitare »)
Così la distinzione tra il sentire/immaginare e i suoi contenuti assi-
cura, prima ancora e in assoluta indipendenza dalla realtà esterna
di questi ultimi, la realtà del riferimento ad essi, immediato in
quanto immanente alla sostanza pensante come tale.
3. Quando però, nella Meditatio sexta, l’effettiva existentia rerum
materialium sarà fondata – pervenendo solo mediatamente ad
assicurare che la vis imaginandi dipende effettivamente da un
corpo « cui mens sit ita conjuncta ut ad illud veluti inspiciendum
pro arbitrio se applicet21 », e che si può tener per vero « me sentire
res quasdam a mea cogitatione plane diversas, nempe corpora22 »,
corpi esterni realmente esistenti23 – allora l’ambito della pura mens
apparirà trasceso per accedere alla reale unio mentis cum corpore.
E nel nuovo scenario, fermo restando che le facultates sentiendi et
imaginandi si esprimono in me attraverso particolari modi cogi-
tandi, né possono chiaramente e distintamente intendersi « sine
me, hoc est sine substantia intelligente cui insint : […] unde
percipio illas a me, ut modos a re, distingui24 » ; si fa d’altronde
manifesto che esse attuano l’opera della mente solo nel e per
mezzo del corpo : « …quod mens, dum […] imaginatur, se conver-
tat ad corpus, & aliquid in eo […] intueatur » ; «…adeo ut neque
possem objectum ullum sentire, nisi illud sensus organo esset
praesens » ; « …corpus illud […] meum […] ; omnes appetitus &
affectus in illo & pro illo sentiebam ; ac denique dolorem &
titillationem voluptatis in ejus partibus, non autem in aliis extra
illud positis, advertebam25 ». Sentire e immaginare restano dunque
in senso strettissimo modi propri ed esclusivi della sostanza

20
L, I, p. 676. Corsivo mio.
21
AT, VII, 73, 11-12.
22
Ivi, 75, 8-9. Corsivo mio. Come è noto, la garanzia di tutto ciò è affidata alla
conoscenza oramai acquisita dell’« autore della mia origine » (L, I, p. 723), e alla
conseguente certezza della sua veracità.
23
Cf. ivi, 80, 4 : « proinde res corporeae existunt ».
24
Ivi, 78, 24-28.
25
Rispettivamente : AT, VII, 73, 15-20 ; ivi, 75, 11-14 ; ivi, 75, 30-76, 6. Corsivi
miei.
322 ROBERTO PERINI

pensante ; ma diviene anche comprensibile come essi si dislochino


nella extensio, avendo luogo per e nel corpo, per e negli organi di
senso, una volta provato che i loro contenuti od oggetti, il sentito e
l’immaginato, risiedono nella sostanza estesa, intesa come realtà di
corpi esterni e/o di quel corpo che « speciali quodam jure26 » dico
mio.
4. Con ciò, da un lato immaginazione e senso sembrano costituire la
mediazione, immanente alla cogitatio, tra questa e la trascendenza
della extensio, in particolare dei corpi estranei ; mentre d’altro lato
il corpo proprio dell’io – quello cui l’ego cogitans è appunto
substantialiter unito – sembra configurarsi come la mediazione,
immanente alla extensio, tra questa e l’alterità della cogitatio. Uno
scenario che consente, evidentemente, tanto la riduzione logica
della dualità nel soggetto, per l’appartenenza reciproca dell’io e
del suo corpo attuata immanentemente dal sentire/immaginare
proprio della mens ; quanto una duplicazione della figura della
soggettività, per l’irriducibile differenza tra tale pura mens e quella
unio mentis cum corpore che presuppone invece la reale esteriorità
reciproca delle due sostanze, o la realtà della loro distinzione
(correlato, appunto, della logica distinctio realis). Nello spazio
dell’oscillazione tra questi due poli si istituisce evidentemente la
possibilità, e si definisce la struttura logica, dell’ambivalente co-
strutto cartesiano.
Nella configurazione di questo plesso come passaggio immanente
alla trascendenza (immaginare-corpo proprio, sentire-corpi esterni) e
come ritorno di questa nell’immanenza del pensare (corpo esterno-
corpo mio-io come mens o ego cogitans) un ruolo decisivo sembra
comunque giocare il punto di snodo costituito dal sentire (e, correla-
tivamente, dall’idea di un corpo proprio dell’io). Non a caso, riper-
correndo il cammino delle Meditazioni, dopo la fondazione del
soggetto come pura sostanza cogitans o mens, realmente distinta dal
corpo, i Principi scelgono il riferimento alle sole sensazioni – che la res
cogitans non può pensare come provenienti soltanto da se stessa,
benché le risultino immanenti in quanto modi di pensare27 – per

26
Ivi, 75, 30.
27
Cf. Principia Philosophiae, II, 1 ; AT, VIII-1, 41, 14-23.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 323

assicurare la certezza di un’unione essenziale tra me, inteso appunto


come mens, e un particolare corpus che all’ego-mens appartiene in
proprio : quello, come già sappiamo, tale che non sono in esso « come
un nocchiero entro la sua nave, ma che sono così strettamente con-
giunto e quasi confuso (quasi permixtum) con esso da costituire un tutto
(unum quid) con tale corpo » (Meditatio sexta)28. Non casuale,
parimenti, è il fatto che la sensazione compaia sia – insieme all’imma-
ginazione – quando Descartes procede nelle Meditazioni all’analisi
della pura e sola mens, sia – insieme ad appetiti e passioni – quando
egli enumera nei Principia i modi specificamente inerenti alla unio
mentis cum corpore. Nel primo caso, in effetti, laddove l’immaginare
rinvia immanentemente solo al corpo proprio, il sentire assicura invece,
in uno con questo e attraverso questo, anche la transizione dall’ego-
cogitatio alla realtà corporea esterna – e non va dimenticato che è poi
l’esistenza di quest’ultima, provata indirettamente, a chiudere il circolo
tra immanenza e reciproca alterità, in quanto garantisce a sua volta
l’esistenza reale o trascendente anche di quel particolare corpo che si
presenta dapprima entro la mens come suo proprio. Parallelamente, nel
secondo caso, da appetiti e passioni definiti sensi interni si distacca la
sensazione, riferita essa sola ai sensi esterni29. Abbiamo così una
sequenza compiuta per cui le passioni (muovendo dal corporeo) espri-
mono eminentemente ciò che è proprio dell’anima o mens, gli appetiti
manifestano specificamente (nella cogitatio) quanto distingue il corpo
proprio, e infine – attraverso quest’ultimo – la sensazione rivela la
realtà dei corpi esterni. Così, mentre i due sensi interni attestano più
fortemente che mai l’appartenenza reciproca di un corpus e di una mens
– ovvero l’immanenza del primo nella seconda, e della seconda nel
primo – solo attraverso la sensazione, o mediante il senso esterno, è
attestata in uno con tale immanenza la reciproca trascendenza di exten-
sio e cogitatio – cioè la loro distinctio realis, che rimane appunto impli-
cito presupposto della unio substantialis.

28
L, I, p. 726-27 (AT, VII, 81).
29
Cf. Principia Philosophiae, IV, 190-191. Nella Meditatio sexta : « Oltre al
dolore e al piacere, sentivo pure in me la fame, la sete ed altri simili appetiti, nonché
certe inclinazioni corporee all’allegria, alla tristezza, all’ira, ed altre simili affezioni
(affectus). Al di fuori (foris vero), oltre all’estensione dei corpi, alle figure ed ai movi-
menti […] » (L, I, p. 720-21 ; AT, VII, 74, 24-75-1. Corsivi miei).
324 ROBERTO PERINI

Si evidenzia dunque nel costrutto cartesiano un duplice moto di


pensiero, atto a garantire il contemporaneo mantenimento di una unio
concettualmente rigorosa e di una distinctio reale. Dapprima infatti,
facendo leva sul sentire, la pura e sola mens si apre dall’interno alla
corporeità, non solo propria, ma anche altra. Quindi, la prova indiretta
della realtà di questo altro, che non è io e neppure mio, ma corpo
esterno, garantisce anche l’esistenza reale, o non immanente, del corpo
in cui e per cui sento, e attraverso ciò il ritorno dall’esterno all’io cogi-
tatio. Viene così pensata una mens immediatamente trapassante in unio
cum corpore, con sicuro guadagno sul piano della fondazione logica di
quest’ultima, ma con appannamento della distinzione reale ; e insieme,
ma con opposte conseguenze, una unio presupponente la trascendenza,
ovvero la dualità – che lascia un forte ruolo alla distinctio realis,
rendendo però altamente problematico il modo di pensare l’unità (homo
integrus) e il principio che ne fonda la possibilità. Precisamente in
questo scenario compaiono infatti, in veste di soggetto, tanto un io
coincidente come sostanza, o cosa completa, con la sola mens che si
attesta reale indipendentemente da qualsiasi corporeità esterna ; quanto
una congiunzione arcta et intima, ma pur sempre estrinseca, di due
realiter distinti, che dovrebbe comunque pervenire a una nozione uni-
taria chiara e distinta a sua volta – ma senza forse averne i requisiti
logici.
Nelle Quartae objectiones l’acuto sguardo di Arnauld, eviden-
ziando esemplarmente la duplice figura implicita nel contesto carte-
siano, sembra voler cogliere il nocciolo della difficoltà. Contestando la
sufficienza del criterio che stabilisce la distinctio realis della mente dal
corpo, Arnauld nota da un lato che questo, coerentemente radicalizzato,
« nimis probare videtur » favorendo l’opinione dei platonici che vuole
« nihil corporeum ad nostram essentiam pertinere, ita ut homo sit solus
animus, corpus vero non nisi vehiculum animi ; unde hominem
definiunt animum utentem corpore30 ». E certamente sarebbe difficile
evitare tale conseguenza, se si risolvesse appunto l’ente homo come tale
in quell’essenza dell’io, che risulta essere solo mens. D’altra parte,
incalza Arnauld, se si sostiene al contrario « corpus non simpliciter a
mei essentia excludi, sed tantummodo quatenus praecise sum res

30
AT,VII, 203, 14-19.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 325

cogitans31 » allora forse la mia essenza integrale (evidentemente di


soggetto uomo) sarà altra dall’io in quanto sola res cogitans ; ma allora
si dovrà dubitare « num forte notitia mei, quatenus sum res cogitans,
non sit notitia alicujus entis complete & adaequate concepti32 » – cioè,
avanzare il dubbio che quella mens distintamente percepita come unico
costituente della mia essenza sia invece parte di una totalità più ampia,
comprensiva del corporeo.
La risposta cartesiana, che in parte già conosciamo, conferma che
il filosofo non può non mantenere contemporaneamente e in unità
l’autosufficienza della mens e il plesso costituito dalla unio substan-
tialis. Ma le sue stesse parole, nell’evidenziare la duplicità dei termini
in gioco, non sembrano altrettanto giustificare la loro unificazione :
Etsi enim multa forte in me sint quae nondum adverto (ut revera illo in loco
supponebam me nondum advertere mentem habere vim corpus movendi, vel
illi esse substantialiter unitam), quia tamen id quod adverto, mihi sufficit ut
cum hoc solo subsistam, certus sum me a Deo potuisse creari absque aliis
quae non adverto, atque ideo ista alia ad mentis essentiam non pertinere.
[…] & quamvis mens sit de essentia hominis, non tamen est proprie de
33
essentia mentis, quod humano corpori sit unita .
Se non appartiene all’essenza della mente l’unione col corpo, la
mente a sua volta appartiene invece all’essenza dell’uomo, la quale
sussiste dunque in proprio e come altra dalla prima. E ancor più signifi-
cativamente, chiarendo il senso possibile dell’espressione comune
sostanza incompleta :
[…] possono esser dette sostanze incomplete, non nel senso che abbiano
qualcosa d’incompleto in quanto sono sostanze, ma solo in quanto si riferi-
scono a qualche altra sostanza, con la quale compongono un’unità per sé
(« referuntur ad aliquam aliam substantiam, cum qua unum per se compo-
nunt »). […] E proprio allo stesso modo la mente e il corpo sono sostanze
incomplete, quando vengono riferiti all’uomo che compongono ; ma, consi-
34
derati a sé soli, sono sostanze complete .

31
Ivi, 20-22.
32
Ivi, 23-24.
33
Ivi, 219, 21-28.
34
Ivi, 222, 20-30. Trad. mia.
326 ROBERTO PERINI

Ora, si nota che in tal discussione lo stesso Descartes concede


all’avversario l’alternativa tra pura mens e unio mentis cum corpore,
alternativa che per giunta assume i due termini come espressione,
rispettivamente, della distinctio realis e della unio substantialis – e tale
concessione, accettando di veder così contrapposte, semplicemente e
senz’altro, anche distinctio realis e unio substantialis, sembra eviden-
ziare le difficoltà del costrutto cartesiano più che esaltarne i punti di
forza. Infatti, da un lato si sorvola qui sul significato specifico del
pensare la distinctio proprio in quanto implicita nella unio, come suo
prerequisito (a rigore, può esservi unio nel senso inteso da Descartes,
unione come sintesi unificatrice anziché assoluta e originaria unità, solo
a partire da ciò che è in sé distinctum) ; dall’altro si considera della
mens, isolatamente assunta, la essentia non implicante alcun corpo, e si
accantona invece il referto di quell’analisi in cui la res cogitans mani-
festava precisamente il proprio rinvio immanente alla unio cum corpo-
re. Ciò è certamente imposto dal criterio della nozione completa ade-
guatamente intesa, a cui Arnauld si appellava per minare l’idea della
mens come sostanza e a cui, conseguentemente, deve far ricorso per
l’opposto motivo anche Descartes : questi ricorda pertanto che la nozio-
ne di mens non contiene essenzialmente quella dell’unione con un
corpo, il quale ultimo viene infatti collocato tra gli « alia quae in me
non adverto (= non intelligo, non percipio clare et distincte in me res
cogitans) » – il che significa che i modi del sentire e dell’immaginare
riscontrabili nell’anima non implicano di per sé alcun aliud (= alcun
corpo) intellettivamente certificabile. Ma ciò, d’altronde, mette ancor
più in risalto il fatto che tali modi risultano presenti nella mens proprio
mentre la si percepisce senza corpo reale – confermando così che il
riferimento alla res extensa è pienamente compatibile con l’assenza di
realtà corporea extracogitativa e quindi, inerendo esclusivamente alla
pura mens in quanto tale, vi può comparire solo in grazia della (o in
conformità alla) sua essenza di cogitatio, quand’anche di questa non
risulti propriamente costitutivo (come risulta invece l’attributum
praecipuum). Ora, considerando che proprio tale riferimento può
instaurare il circolo che unifica l’immanenza e la trascendenza reci-
proche di mens e corpus, si comprende anche il senso dell’ambivalenza
cartesiana, in quanto questa risulta essenziale per mantenere la sequen-
za che assicura pur entro la distinctio realis una fondazione logica del
passaggio alla unio substantialis.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 327

In conclusione, se l’unità (homo integrus) assume per quanto si è


detto un ruolo centrale – al punto di sfiorare l’idea di una terza sostan-
za – allora :

a. anche tutto ciò che pertiene al rapporto d’interazione tra mens


e corpus andrebbe spiegato in base a tale loro unio, piuttosto
che muovendo dalla dualità dei termini interagenti ;
b. l’essenza stessa dell’uomo come unio, e quindi anche come
principo o fondamento di possibile interazione tra sostanze
prive di attributi e modi in comune, ovvero non complanari,
andrebbe adeguatamente esplicitata.

3. COME PENSARE LA UNIO SUBSTANTIALIS

Il problema che si presenta è dunque, nel senso più generale,


quello di unificare o giustificare le due figure cartesiane della
soggettività finita pensando coerentemente – ove ciò si mostri possi-
bile – la loro coesistenza. Ma è da rilevare intanto che l’impossibilità
cartesiana di rinunciare a ciascuna di esse, se determina una difficoltà
forse insormontabile, lo fa più per obbedienza a una necessità
ineludibile che per insufficienza teoretica. Mentre infatti l’irriducibilità
reciproca del mentale e del corporeo, attestata dalla loro incontrover-
tibile non complanarità, non può che esser tenuta ferma – il pensiero,
come tale, non ha estensione –, altrettanto indubitabile si mostra
quell’anomalia logica di una loro compenetrazione reciproca e sostan-
ziale, costituente come essentia hominis integri lo specialissimo statuto
dell’ente uomo – è l’ego pensante che sente il dolore provocato da una
lesione corporea. Il problema, messo in chiaro da Descartes e non da lui
prodotto, appartiene dunque ad ogni riflessione filosoficamente accorta,
immune cioè dall’ingenuità di un puro e semplice riduzionismo
– fatalmente impotente a spiegare un termine attraverso l’altro ; ma
altrettanto estranea all’impotenza esplicativa che affligge l’idea di una
unificazione ed interazione estrinseca (e si pensi qui al concetto
dell’uomo come ens per accidens, esito aspramente rimproverato da
Descartes al discepolo Regius).
328 ROBERTO PERINI

Sulla base di quanto si è riscontrato, d’altronde, sembra davvero


che l’unico trait d’union tra le due figure della soggettività possa
trovarsi nel sentire, ovvero nel senso esterno, proprio per la duplice
valenza che questo tiene viva in sé nell’inerire all’io pura res cogitans,
da un lato, e alla unio (substantialis) mentis cum corpore dall’altro.
Laddove infatti si abbandoni la tendenza (anche cartesiana) al dualismo
realistico delle sostanze per pensare fondativamente la loro
unificazione entro il primato logico del cogitativo, proprio in virtù del
sensus la unio apparirà, prima e piuttosto che problematica fusione di
mens e corpus, coscienzialità originariamente riferita al corporeo, o
corporeità coscienziale. E, correlativamente, il corpus proprium diverrà
a sua volta termine chiave della unio substantialis, vista quale nozione
originaria e indivisibile, costituendo precisamente l’aliud intrinseco di
cui può parlarsi senza abbandonare il terreno della cogitatio auto-
fondante. Laddove riemerge invece, nel procedimento fondativo oltre
che sul piano empirico, il realismo delle sostanze sussistenti per sé, o
indipendenti come tali una dall’altra, allora anche la arcta et intima
unio di cogitatio ed extensio produce – facendo nuovamente leva sul
sensus – un complesso apparato esplicativo, teso da un lato a
legittimare una relazione tra termini eterogenei, dall’altro a spiegare
materialmente le modalità della loro interazione (ghiandola pineale,
spiriti animali, nervi, ecc.). Ci sembra comunque che Descartes attinga
un punto-vertice speculativo solo quando, stimolato dai dubbi e dalle
osservazioni dei suoi interlocutori, mette da parte ogni spiegazione
empirica per affrontare decisamente la difficoltà nella sua intima natura
logica.
Vale dunque riguardare alla luce delle considerazioni fin qui svolte
i principali nuclei problematici tematizzati dal filosofo. Perché, se le
soluzioni da lui proposte non possono sciogliere radicalmente il nodo
della difficoltà, ne illuminano tuttavia chiaramente la natura, eviden-
ziando in modo esplicito e definitivo le ragioni della sua insoppri-
mibilità.
Anzitutto, la nozione stessa dell’unità di cogitativo (mens) ed
extracogitativo (corpus) appare sul piano logico contraddittoria,
implicando un sapere, o coscienza, anche di quanto per definizione non
include alcun concetto di cogitatio e si presenta dunque come extra- ed
a-coscienziale : quale concetto si darà insomma di quella unio, di cui è
elemento costitutivo precisamente l’aconcettuale ? riconoscendo in
modo esplicito tale difficoltà come insuperabile, Descartes afferma
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 329

l’impossibilità di principio che l’unità psicofisica uomo, irrefutabile in


base all’evidenza (comunque cogitativa) del sentire, assuma una pari
evidenza sul piano logico-intellettivo : la transizione dalla natura
coscienziale a quanto le risulta per essenza irriducibile implica un
saltus incolmabile. Sicché viene in chiaro che le stesse spiegazioni
(empirico-descrittive) offerte dai testi cartesiani, mentre si propongono
come indicazione di un presunto luogo fisico dell’interazione mente-
corpo, intendono lasciare questa del tutto priva, e consapevolmente, di
un corrispondente luogo logico – sottraendosi con ciò all’ingenuità
troppo spesso, e arbitrariamente, attribuita al filosofo. Così, scrivendo
ad Arnauld (29 luglio 1648) Descartes puntualizza da un lato che
siamo consapevoli (conscij) di tutta quell’azione con la quale la mente
muove i nervi, nella misura in cui (quatenus) tale azione è nella mente,
poiché in essa < mente > non v’è null’altro che inclinazione della volontà
verso questo o quel movimento ; e questa inclinazione della volontà è segui-
ta dal flusso degli spiriti nei nervi e da tutte le altre cose necessarie per tale
moto (« hanc voluntatis inclinationem sequuntur spirituum in nervos influ-
35
xus, & reliqua, quae ad istum motum requiruntur ») .
Cogliamo dunque l’azione con cui la mente si rapporta al corpo, o
all’extramentale, e il fatto che a tale azione seguono le condizioni mate-
riali produttive del moto voluto ; contestualmente, peraltro, viene
esclusa ogni possibile cognizione del modo in cui tale rapporto può
realizzarsi, ammettendo appunto « che non sappiamo in qual modo la
nostra mente invii gli spiriti animali a questo o a quel nervo (tale modo
infatti non dipende dalla sola mente, ma dall’unione della mente con il
corpo)36 ». Il rapporto mens-corpus, come tale, include insomma un ele-
mento (extracogitativo) la cui cognizione sarebbe una patente contrad-
dizione in termini ; e di fronte a ciò non resta possibile che la esperien-
ziale evidenza del fatto. « Quod autem mens, quae incorporea est,
corpus possit impellere, nulla quidam ratiocinatio vel comparatio ab
alijs rebus petita, sed certissima & evidentissima experientia quotidie
nobis ostendit37. »
Il passaggio dal mentale al corporeo, pur risultando esperienza
evidente, rimane dunque inintelligibile – chiaro forse, ma certo non

35
L, II, p. 707 (AT, V, 222).
36
Ibidem (AT, V, 221-22).
37
AT, V, 222, 15-18.
330 ROBERTO PERINI

distinto ; conseguentemente, anche l’eventuale descrizione di tipo


empirico dei suoi momenti – quella cartesiana come ogni altra – non
varrà mai come sua comprensione o fondazione, perché non rimuove la
discontinuità logica tra i termini connessi. In proposito vale anche
richiamare nuovamente la lettera a Elisabetta del 21 maggio 1643 :
« per l’anima e il corpo, considerati insieme, non abbiamo che quella
< nozione > della loro unione », che non possiamo spiegare attraverso
le nozioni del solo corpo (estensione) o della sola anima (pensiero)
senza inevitabilmente ingannarci, « come quando […] si intende
concepire il modo con cui l’anima muove il corpo mediante quello con
cui un corpo è mosso da un altro corpo38 ». E, in ultima analisi, vale
come definitiva su questo tema la parola della successiva lettera alla
stessa Elisabetta (28 giugno 1643) :
non mi pare infatti che la mente umana sia capace di concepire ben
distintamente e nello stesso tempo la distinzione tra l’anima ed il corpo e la
loro unione, perché per questo occorre concepirli come una cosa sola e,
39
nello stesso tempo, come due, il che è contraddittorio .
Ma – e qui il problema logico sfuma in quello gnoseologico –
come si ha allora accesso, e accesso fondativo, alla terza nozione
primitiva ? (si badi : a tale nozione e non alla sua interna articolazione,
cioè alla unio come tale e non al modo del rapporto in essa implicito,
ormai definitivamente dichiarato inafferrabile). A questo proposito la
lettera appena citata assume un ruolo centrale, definendo una gerarchia
delle cognizioni : l’anima si concepisce attraverso l’intelletto puro,
come può avvenire anche del corpo proprio – che è tuttavia ancor
meglio conosciuto con l’ausilio della imagination – ma « les choses qui
appartiennent à l’union de l’âme et du corps ne se connoissent qu’obs-
curement par l’entendement », solo o aiutato dall’immaginazione,
mentre « elles se connoissent tres-clairement par le sens », che unica-
mente coglie « l’un et l’autre comme une seule chose », consentendo
appunto perciò di concepirne l’unione. Infatti «concevoir l’union qui
est entre deux choses, c’est les concevoir comme une seule40 » : che è
proprio quanto risulta logicamente impossibile. Da un lato abbiamo
dunque almeno un motivo determinante – il mancato accesso attraverso

38
L, II, p. 28 (AT, III, 666).
39
Ivi, p. 46 (AT, III, 693). Corsivo mio.
40
AT, III, 691,22-692,10.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 331

la pura distinctio intellettiva – per non includere espressamente la unio


substantialis tra le nozioni di sostanza vera e propria, come è invece
possibile per res cogitans e res extensa ; dall’altro abbiamo invece un
diverso approccio conoscitivo, precisamente il sentire come concepire
l’unione conoscendola très clairement, che non può esser fondativa-
mente respinto o svalutato. Infatti il sentire è modo della res cogitans,
ovvero esperienza assolutamente cogitativa anche se extra-intellettiva,
pensiero in senso stretto ; risulta inoltre esplicitamente, anche dai
Principia, che di esso (come, del resto, di appetiti e passioni) vi è
perceptio clara, ovvero innegabile anche se priva del carattere della
distinctio, necessaria all’assoluta intellezione41 ; sappiamo infine che
esso costituisce rinvio certissimo alla realtà del non-cogitativo (una
volta dimostrata l’esistenza rerum materialium) perché perspicue
la mente è consapevole che tali sensazioni non vengono da essa sola e che
non possono appartenerle per il solo fatto che è cosa pensante, ma solo in
quanto è unita a un’altra cosa estesa e mobile, chiamata appunto corpo
42
umano (Principia, II, 2) .
A questo punto si deve prender atto che se da un lato l’artico-
lazione del plesso unio substantialis/distinctio realis rimane contrad-
dittoria sul piano logico, ovvero intellettivamente impossibile, inattin-
gibile quale istituzione di un rapporto unificante tra res prive di
elementi comuni ; dall’altro il plesso stesso è invece assicurato muo-
vendo dalla dimensione per se stessa unificatrice di quel pensare che è
il sentire, perché questo solo permane rigorosamente e integralmente
sul piano del cogitativo, mentre si riferisce originariamente all’altro dal
cogitativo stesso. Se in tale genere di fondazione precisamente il sensus
è luogo dell’unum quid costituito di due, mens e corpus, allora proprio
la cogitatio che anziché intendere sente può costituire in se stessa
quella terza dimensione del reale definibile come unità di pensiero ed
estensione ; e, in quanto tale, come terza nozione primitiva. La
rilevanza di tale prospettiva sta nel fatto che per essa, a rigore, la
sensazione non andrebbe più concepita come mera coscienza del patire
il non-cogitativo, ma come questo patire stesso in quanto cogitativo o
coscienziale – cioè, il sentire/cogitatio sarebbe qui la stessa presenza in
atto del non-cogitativo, o l’attualità della presenza di esso : la vera

41
Principia Philosophiae, I, 66 ; AT, VIII-1, 32,11.
42
L, II, p. 105.Su ciò, cf. naturalmente anche la Meditatio sexta.
332 ROBERTO PERINI

unità inscindibile di res cogitans e res extensa si mostrerebbe insomma,


già nella struttura del costrutto cartesiano, assicurabile e assicurata
sempre e solo dal pensiero, come richiede ogni riflessione
autenticamente fondativa.
D’altra parte, proprio perché tale cogitatio è posta fin dall’inizio
anche come mens da pensare realisticamente in unio substantialis con
il corpus, le due figure cartesiane della soggettività finita sembrano
cercare nel sensus il luogo della loro possibile sintesi : né più stupisce,
a questo punto, l’espressione dei Principia (IV, 189) secondo cui
l’anima, in quanto designata come anima umana, ha nel cervello una
vera e propria « sedem suam », e in esso « non modo intelligit & imagi-
natur, sed etiam sentit43 ».
Ma sorge a tal punto la difficoltà decisiva : come trasferire su un
piano concettuale, ovvero in qual modo giungere a concepire (compito
filosoficamente ineludibile a dispetto delle difficoltà logiche) una
nozione originariamente implicante la divaricazione tra intelligere ed
esperienza di senso ? in altri termini : come riportare nell’unità del
pensiero quella contemporanea distinctio realis e unio substantialis,
che abbiamo visto non suscettibile di formulazione logica soddi-
sfacente, anzi addirittura contraddittoria per l’intelletto ? la domanda,
che si fa incalzante proprio nella corrispondenza con Elisabetta, trova
nella lettera del 28 giugno 1643 una magistrale risposta cartesiana,
illuminante per l’intera problematica da noi affrontata. Per conseguire
questo risultato, Descartes invoca anzitutto un’integrazione tra l’espe-
rienza a-filosofica del senso comune e quella del metafisico e del mate-
matico : la prima infatti, proprio perché si affida alla semplice evidenza
del sentire, facilmente concepisce l’unità psicofisica costitutiva
dell’uomo ; ma, mancando della considerazione intellettiva, mai per-
viene dal proprio interno a consapere l’irriducibilità di essenza tra
cogitatio ed extensio ; la seconda viceversa viene a percepire distinta-
mente per pura intellezione le idee dell’anima e del corpo ma, proprio
per questo, non può ritrovare sul proprio terreno alcuna possibile idea
della loro unio. Ad Elisabetta, interlocutore filosoficamente avvertito,
Descartes consiglia perciò di sprofondarsi nell’idea e nell’esperienza
dell’unione, senza temere l’errore monistico-materialistico, che troverà

43
AT, VIII-1, 315, 23-26.
PROBLEMI LOGICI DELLA RELAZIONE MENS-CORPUS IN DESCARTES 333

un naturale correttivo nella già assicurata consapevolezza intellettiva


della distinctio realis. Solo due diverse esperienze cogitative, la sensi-
bile e l’intellettiva, consentono dunque per la loro compresenza in
un’unica mens (compresenza che non sarà mai identità) di mantenere la
necessaria consapevolezza del plesso unio/distinctio.
Ma vale qui soprattutto ricordare la conclusione cartesiana : poiché
Elisabetta ritiene giustamente « più facile » concepire l’anima come
materiale o corporea, che attribuirle capacità di muovere un corpo pur
essendo immateriale, Descartes la invita a
volere liberamente attribuire tale materia e questa estensione all’anima, ché
proprio questo significa concepirla unita al corpo. Dopo che avrà concepito
ciò e lo avrà provato in se stessa, le sarà facile considerare che la materia
che avrà attribuito a questo pensiero non è il pensiero stesso e che l’esten-
sione di tale materia è d’altra natura che l’estensione di questo pensiero, in
quanto la prima è determinata da un certo luogo da cui esclude ogni altra
estensione corporea, il che non fa la seconda. In tal modo vostra Altezza non
mancherà di ritornare facilmente alla conoscenza della distinzione
44
dell’anima e del corpo, nonostante abbia concepito la loro unione .

Con ciò, quella materialità che si esperisce sensibilmente proprio e


solo nell’anima (mens), e che all’anima legittimamente si attribuisce,
mostra di dividersi in se stessa tra materialità cogitativa ed extracogita-
tiva, essendo concepibile solo come spazialmente estesa in quanto
corporea, ma esclusivamente come inestesa in quanto inerente all’ani-
ma come tale (= secondo la sua natura di cogitatio). E converso, allora,
viene così riconosciuta un’estensione immanente nel pensiero, che
però, appena concepita in quanto estensione, il pensiero stesso non può
non dichiarare (= porre come) altra da sé, o corporea.
Con quest’acutissima articolazione concettuale Descartes rammen-
ta, a Elisabetta come a tutti i successivi interlocutori, che mentre si può
e si deve tener ferma l’unità psicofisica, e in forma ben più radicale
rispetto al mero concetto di un’interazione, resterà insieme garantita nel
modo incontrovertibile dell’assoluta intelligibilità la necessaria e
irriducibile dualità metafisica della sostanza finita : si dovrà cioè
riconoscere l’impossibilità di principio che coscienzialità e materia

44
L, II, p. 46-47.
334 ROBERTO PERINI

abbiano un’essenza comune. E più di questo non sarà mai possibile


– ma neanche necessario per un filosofare rigoroso – attingere nel
pensiero.

Università di Perugia
FRANCESCA BONICALZI

DESCARTES :
PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ?

« QUOMODO DEMONSTREM CORPUS NON POSSE COGITARE »

La distinzione mens/corpus, emersa con chiarezza e rigore dalle


pagine delle Meditationes di Descartes, suscita obiezioni in relazione
alla reciproca autonomia di anima e corpo inequivocabilmente
delineata e ulteriormente complicata dalla necessità della loro unione.
Mersenne, Hobbes e Gassendi, a diverso titolo, formulano obiezioni
nella direzione di una differente comprensione della natura del loro
reciproco escludersi ed implicarsi e, più precisamente, in relazione
all’esclusione del corpo dal pensiero. Descartes avrebbe affermato, ma
non sufficientemente provato, che una cosa che pensa non sia qualcosa
di corporeo. Se Mersenne interroga Descartes e lo provoca ad una
dimostrazione che per essere tale deve escludere il suo opposto, Hobbes
obietta che la rigorizzazione dello stesso argomentare cartesiano con-
duce ad una diversa conclusione, mentre Gassendi si muove piuttosto
nella direzione di una diversa dimostrazione con l’argomentazione del
pensiero delle bestie.
L’esame delle tre obiezioni che problematizzano l’affermazione
cardine del dualismo secondo cui il corpo non può pensare, e l’analisi
delle risposte cartesiane ci permettono di acquisire elementi per ricom-
prendere gli effetti di modificazione di linguaggio e di trasformazione
nella struttura della razionalità in relazione alla teoria della percezione.
Mersenne esprime la propria perplessità circa l’attribuzione del
pensiero all’anima, come se questa affermazione, per altro classica, nel
contesto teorico cartesiano, non fosse sufficientemente provata e per
questo provoca Descartes a dimostrare in che senso il corpo non possa
pensare o perché si debba escludere che i movimenti corporei sono il
pensiero stesso :
336 FRANCESCA BONICALZI

Imprimis, memineris te, non actu quidem et revera, sed tantum animi
fictione, corporum omnium phantasmata pro viribus reiecisse, ut te solam
rem cogitantem esse concluderes, ne postea forte concludi posse credas, te
revera nil esse praeter mentem aut cogitationem, vel rem cogitantem ; quod
circa duas primas Meditationes solum animadvertimus, in quibus clare
ostendis, saltem te esse, qui cogitas, certum esse. Sed tantisper hic subsi-
stamus. Hactenus agnoscis te esse rem cogitantem ; sed quid sit res illa
cogitans nescis. Quid enim si fuerit corpus, quod variis motibus et occur-
sibus illud faciat quod vocamus cogitationem ? Licet enim existimes te
corpus omne repulisse, in eo decipi potuisti, quod teipsum minime reieceris,
qui sis corpus. Quomodo enim demonstras corpus non posse cogitare ? vel
motus corporeos non esse ipsam cogitationem ? Sed et totum tui corporis
sistema, quod reiecisse putas, vel aliquae partes illius, puta cerebri, possunt
concurrere ad formandos illos motus quos apellamus cogitationes. Sum,
inquis, res cogitans ; sed qui scis num sis motus corporeus, aut corpus
1
motum ?

Hobbes, nella seconda delle terze obiezioni, pur confermando


l’argomentazione cartesiana circa la coincidenza di pensare e soggetto
pensante, data l’impossibilità a concepire alcun atto senza il proprio
soggetto agente (« veluti saltare sine saltante, scire sine sciente,
cogitare sine cogitante »), rifiuta però che da questo si possa concludere
che tale soggetto sia esso stesso pensiero : « potest ergo esse ut res
cogitans sit subjectum mentis, rationis, vel intellectus, ideoque corpo-
reum aliquid : cujus contrarium sumitur, non probatur ». Hobbes sfida
dunque la certezza cartesiana, argomentando le ragioni della possibilità
della natura corporea del soggetto pensante :
Atque hinc videtur sequi, rem cogitantem esse corporeum quid ; subjecta
enim omnium actuum videntur intellegi solummodo sub ratione corporea,
sive sub ratione materiae, ut ostendit ipse potest in exemplo cerae, quae
mutatis colore, duritie, figura, et caeteris actibus, intelligitur tamen sempre
eadem res, hoc est eadem materia tot mutationibus subjecta. Non autem
colligitur me cogitare per aliam cogitationem ; quamvis enim aliquis

1
Meditationes de Prima Philosophia. Objectiones Secundae, AT, VII, 122-123 (il
corsivo è mio). Le citazioni delle opere di Descartes si riferiscono all’edizione curata
da C H . ADAM e P. TANNERY , Œuvres de Descartes, 12 vol., Paris, Vrin, 1964-1974
(ristampa anastatica a cura di P. COSTABEL e altri), d’ora in poi : AT seguito dal nume-
ro romano per il volume e dal numero arabo per le pagine. Manca una traduzione
italiana integrale del testo latino delle obiezioni e risposte.
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 337

cogitare potest se cogitasse (quae cogitatio nihil aliud est quam meminisse),
tamen omnino est impossibile cogitare se cogitare, sicut nec scire se scire.
2
Esset enim interrogatio infinita : unde scis te scire, te scire, te scire ?
Hobbes non mette dunque in discussione le premesse, ma
interviene in relazione alla conclusione non sufficientemente rigorosa
nell’escludere necessariamente la natura materiale dell’essere pensante :
Quoniam igitur notizia hujus propositionis, ego existo, pendet a notitia
hujus, ego cogito ; et notitia hujus, ex eo quod non possumus separare
cogitationem a materia cogitante, videtur inferendum potius rem cogitantem
3
esse materialem quam immaterialem .
Gassendi, nelle quinte obiezioni. ripropone la questione della
consistenza corporea del pensiero e si spinge nella direzione di
costringere la questione, già così orientata anche nell’obiezione di
Hobbes (« Attamen cogitatio similis potest esse in homine et bestia »
[AT, VII, 182]), alla equiparazione del pensiero dell’uomo e della
bestia misurata sulla discussione della natura della percezione come
facoltà immaginativa. Gassendi, polemicamente, sottrae alla facoltà
intellettiva lo sguardo dalla finestra della seconda meditazione e lo
esautora del privilegio di essere operazione della sola mente per
equipararlo a quello delle bestie :
Illud, quod habes de hominibus visis, seu mente perceptis, quorum tamen
non nisi pileos, aut vesteis, conspicimus, non arguit mentem potius esse
quam imaginatricem, quae dijudicet. Certe et canis, in quo parem tibi
mentem non admittis, simili modo dijudicat, cum non herum suum, sed
pileum solum aut vesteis videt. Quid, quod tametsi herus flet, sedeat, cubet,
reclinetur, contrahatur, effundatur, agnoscit tamen sempre herum, qui sub
omnibus illis formis esse potest, cum tamen non sub una potius, quam sub
alia, sit eadem proportione, qua cera ? […] Quod proinde dicis, perce-
ptionem coloris, duritiei, et similium, esse non visionem, non tactionem, sed
solius mentis inspectionem ; esto : dummodo mens non differat ab imma-
4
ginatrice reipsa .
A queste obiezioni, le risposte cartesiane offrono strumenti di
approfondimento e comprensione. A Mersenne, Descartes richiama la

2
Meditationes de Prima Philosophia. Objectiones Tertiae, AT, VII, 173.
3
Meditationes de Prima Philosophia. Objectiones Tertiae, AT, VII, 173-174.
4
Meditationes de Prima Philosophia. Objectiones Quintae, AT, VII, 272-273.
338 FRANCESCA BONICALZI

teoria della distinzione, per superare l’abitudine a confondere le cose


intellettuali con quelle corporee, retaggio dei pregiudizi infantili, radi-
cati nella cultura con la concezione delle forme sostanziali e delle
qualità reali. Tale teoria, che trova piena comprensione nella dottrina
della conoscenza chiara e distinta, afferma che la nozione distinta
indica distinzione reale e cioè una realtà distinta, separata o distinzione
modale o di ragione se invece è solo separabile dal pensiero5. Per
questo il pensiero, nella sua reale distinzione dall’estensione, viene
compreso solo al prezzo del superamento di una concezione infantile
della realtà dotata di forme sostanziali reali. L’obiezione di Mersenne,
secondo cui Descartes non dimostra sufficientemente che il corpo non
può pensare, trova dunque la sua risposta in una ben compresa teoria
della distinzione :Preterea vero hic quaeritis quomodo demonstrem corpus non
posse cogitare ? Sed ignoscite si respondeam nondum me locum dedisse
huic quaestioni, cum de ipsa primum egerim in sexta Meditatione his
verbis : Satis est quod possim unam rem absque altera clare et distincte
intelligere, ut certus sim unam ab altera esse diversam, etc.. Et paulo post :
quamvis habeam corpus quod mihi valde arcte conjunctum est, quia tamen
ex una parte claram et distinctam habeo ideam mei ipsius, quatenus sum res
cogi-tans, non extensa ; et ex alia parte distinctam ideam corporis, quatenus
est res extensa, non cogitans, certum est me (hoc est mentem) a corpore meo
revera esse distincutm, et absque illo posse existere. Quibus facile adjun-
gitur : omne id quod potest cogitare est mens, sive vocatur mens ; sed cum
mens et corpus realiter distinguantur, nullum corpus est mens ; ergo nullum
6
corpus potest cogitare .
La teoria della distinzione, confermando che tutto ciò che può
pensare è mente o si dice mente e la mente e il corpo sono distinti,
permette di concludere che nessun corpo è mente ; dunque nessun
corpo può pensare. Descartes rifiuta che ci sia un’altra strada che non
sia la conoscenza distinta per poter giungere all’affermazione di una
reale distinzione e in particolare rifiuta l’appello ai sensi la cui testimo-
nianza è giudicata insignificante, tanto più che, alla fine della seconda
meditazione, a proposito della cera, si è chiarito che i corpi stessi sono

5
Per la teoria della distinzione Descartes rimanda alla sesta delle Meditationes.
Discussa poi nelle obiezioni e risposte, la teoria della distinzione è ripresa Nei Prin-
cipia Philosophiae, AT, VIII-1, 60-63.
6
Meditationes de Prima Philosophia. Secundae Responsiones, AT, VII, 131-132
(il corsivo è mio).
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 339

propriamente conosciuti non per mezzo dei sensi ma per mezzo del solo
intelletto (« sed solo intellectu ») e segno di reale distinzione è la cono-
scenza chiara e distinta, mentre l’assenza di distinzione ha origine, non
da una positiva ragione, ma dall’abitudine dell’esperienza del corpo :
Si qui autem negent se habere distinctas ideas mentis et corporis, nihil
possum amplius quam illos rogare, ut ad ea, quae in hac secunda Medita-
tione continentur, satis attendant ; et sciant opinionem quam habent, si forte
habent, quod partes cerebri concurrant ad formandas cogitationes, non ortam
esse ab ulla positiva ratione, sed tantum ex eo quod nunquam experti sint se
corpore caruisse, ac non raro ab ipso in operationibus suis fuerint impediti ;
eodem modo ac si quis, ex eo quod ab infantia compedibus vinctus semper
fuisset, existimaret illas compedes esse partem sui corporis, ipsisque sibi
7
opus esse ad ambulandum .
Se l’obiezione di Mersenne poggia su una non compresa teoria
della distinzione tra le sostanze, l’obiezione di Hobbes, secondo cui una
cosa che pensa può essere corporea, ugualmente poggia su una non
compresa teoria della distinzione tra le sostanze, complicata però da
una mancata distinzione tra le sostanze e le loro attività : « Sed, ut rem
ipsam paucis explicem, certum est cogitationem non posse esse sine re
cogitante, nec omnino ullum actum, sive ullum accidens, sine substan-
tia cui insit ». Inoltre, dato che non conosciamo la sostanza immediata-
mente per se stessa, ma solamente come soggetto di attività, i diversi
nomi che assume in relazione ai diversi atti provoca confusione.
Chiarirne il senso lavora nella direzione della distinzione :
Sunt autem actus quidam, quos vocamus corporeos, ut magnitudino, figura,
motus et alia omnia quae absque locali estensione cogitari non possunt :
atque substantiam cui illi insunt, vocamus corpus […]. Sunt deinde alii
actus, quos vocamus cogitativos, ut intelligere, velle, imaginari, sentire etc.
qui omnes sub ratione communi cogitationis, sive perceptionis, sive coscien-
tiae, conveniunt ; atque substantiam cui insunt, dicimus esse rem cogitan-
tem, sive mentem, sive alio quovis nomine, modo ne ipsam cum substantia
corporea confondamus, quoniam actus cogitativi nullam cum actibus
corporeis habent affinitatem, et cogitatio, quae est ipsarum ratio communis,
8
toto genere differt ab extensione, quae est ratio communis aliorum .

7
Meditationes de Prima Philosophia. Secundae Responsiones, AT, VII, 133.
8
Meditationes de Prima Philosophia. Objectiones Tertiae, AT, VII, 176.
340 FRANCESCA BONICALZI

Ribadita la distinzione tra le due sostanze, corpo e mente, e la radi-


cale estraneità tra i loro atti, Descartes smonta l’obiezione hobbesiana
svelando la riduzione nominalista della sua posizione.
La risposta a Gassendi, a partire dalla presunta capacità di giudizio
dell’animale, ripropone invece la domanda su quale sia la facoltà con
cui si concepisce distintamente. Descartes smentisce radicalmente
l’obiezione secondo cui il cane giudicherebbe come l’uomo, in quanto
priva di una valida argomentazione in grado di giustificare perché il
cane dovrebbe giudicare nello stesso modo in cui giudicano gli uomini
se non perché si presuppongono le stesse attività in virtù dell’identica
composizione corporea9. Descartes non riconosce negli animali la
mente e dunque nega, data l’assenza della sostanza, che si diano gli atti
che sono propri di tale sostanza :
Nec video quonam fretus argomento pro certo affirmes canem simili modo
atque nos dijudicare, nisi quia, cum videas illum etiam carne constare,
eadem omnia quae in te sunt, putas esse etiam in illo ; sed ego, qui nullam in
eo mentem animadverto, nihil simile iis quae in mente cognosco, in ipso
10
reor inveniri .
Le anime delle bestie non sono incorporee e, in nessun modo, il
corpo contribuisce al pensiero (« nam ego neque animas brutorum puto
esse incorporeas, nec crassum corpus nihil conferre ad cogita-

9
La questione dell’anima degli animali, ripresa e articolata in numerosi testi
cartesiani in relazione a pensiero e linguaggio, è già stata ampiamente dibattuta e ana-
lizzata. Sull’argomento si veda : L. COHEN R OSENFIELD, From Beast-Machine to Man-
Machine, New York, 1941 ; G. RODIS L EWIS, « Le domaine propre de l’homme chez
les cartesiens », in Journal of History of Philosophy, 1964, ora in L’anthropologie
cartésienne, Paris, Puf, 1990 ; M. GUEROULT, « Animaux-machines et cybernétique »,
in Etudes sur Descartes, Spinoza, Malbranche et Leibniz, New York, G. Olms Hildes-
heim, 1970 ; J.-C. BEAUNE , L’automate et ses mobiles, Paris, Flammarion, 1980 ;
F. BONICALZI, Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, Milano, Jaca
Book, 1987 ; T. GONTIER , « Les animaux-machines chez Descartes », in Corpus,
1991 ; M. GRENE , « Animal mechanism and the Cartesian vision of nature », in
Physics, philosophy and the scientific community. Essays in the philosophy and
history of the natural sciences and mathematics in honor of R. S. Cohen, Dodrecht-
Boston, Kluwers Academic Publishers, 1995 ; F. BONICALZI, A tempo e luogo. L’infan-
zia e l’inconscio in Descartes, Milano, Jaca Book, 1998.
10
Meditationes de Prima Philosophia. Quintae Responsiones, AT, VII, 359.
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 341

tionem11 »). Rispetto alle precedenti risposte che diversamente argo-


mentavano la teoria della distinzione, la risposta a Gassendi, solle-
citato dall’insistenza in relazione ad una presunta anima degli animali,
offre un significativo chiarimento in relazione al termine anima per
dissipare gli equivoci che provengono dal fatto che il termine è tradi-
zionalmente utilizzato per indicare il principio delle attività intellettive
proprie del solo uomo e le attività vegetative e sensitive comuni
all’uomo e agli animali :
Sic, quia forte primi homines non distinxerunt in nobis illud principium quo
nutrimur, crescimus, et reliqua omnia nobiscum brutis communia fine ulla
cogitatione peragimus, ab eo quo cogitamus, utrumque unico animae nomi-
ne appellantur ; ac deinde animadvertentes cogitationem a nutritione esse
distinctam, id quod cogitat vocarunt mentem, hancque, animae precipuam
partem esse crediderunt. Ego vero, animadvertens principium quo nutrimur
toto genere distingui ab eo quo cogitamus, dixi animae nomen, cum pro
utroque sumitur, esse aequivocum ; atque ut specialiter sumatur pro actu
primo sive praecipua hominis forma, intelligendum tantum esse de principio
quo cogitamus, hocque nomine mentis ut plurimum appellavi ad vitandam
aequivocationem ; mentem enim non ut animae partem, sed ut totam illam
12
animam quae cogitat considero .

Nel chiarire il termine anima da lui più volte già discusso,


Descartes dichiara il proprio metodo nei confronti del linguaggio :
consapevole dell’inadeguatezza di tanti termini ad esprimere in modo
inequivocabile i concetti o addirittura del loro carattere ambivalente e
fuorviante, ritiene che non si possono cambiare i termini, si possono
solo correggerne i significati : « nostrum autem non esse illa mutare,
postquam usu recepita sunt, sed tantum licere ipsorum significationes
emendare, cum advertimus illas ab aliis non recte intelligi13 ». E così,

11
Meditationes de Prima Philosophia. Quintae Responsiones, AT, VII, 355.
12
Meditationes de Prima Philosophia. Quintae Responsiones, AT, VII, 356.
13
Meditationes de Prima Philosophia. Quintae Responsiones, AT, VII, 356 (trad.
it. a cura di E. LOJACONO, R. DESCARTES, Opere Filosofiche, 2 vol., Torino-Utet, 1994,
d’ora in poi OF, seguito dal numero romano per il volume e da numero arabo per le
pagine) - OF, I, 840 : « Voi trovate qui oscurità per il significato equivoco della paro-
la anima, ma l’ho chiarito a suo luogo con tanta cura, che mi infastidisce ripeterlo qui.
Così dirò soltanto che i nomi sono stati per lo più imposti alle cose da persone igno-
ranti, e che perciò non sempre in maniera abbastanza idonea corrispondono alle cose ;
ma non è compito nostro cambiarli, dopo che sono stati accolti dall’uso, soltanto
342 FRANCESCA BONICALZI

per porre fine all’equivoco cui il termine anima induce, Descartes


sostituisce al termine anima il termine mente, mens/ésprit, per indicare
che il principio per cui l’uomo pensa è l’anima tutta e, così, chiarire
ulteriormente i termini della distinzione cui aveva richiamato
Mersenne : « tutto ciò che può pensare è mente o si dice mente : ma
poiché la mente e il corpo sono distinti, nessun corpo è mente ; dunque
nessun corpo può pensare ».
Già nella definizione delle risposte alle seconde obiezioni, il
termine mente si presenta nel testo cartesiano come sinonimo di anima
o meglio lo sostituisce per meglio chiarirne il significato e sottrarlo a
equivoci : « Substantia, cui inest immediate cogitatio, vocantur Mens ;
loquor autem hic de mente potius quam de anima, quondam de animae
nomen est aequivocum, et saepe pro re corporea usurpatur14 ». Nella
traduzione italiana di Lojacono leggiamo : « La sostanza cui il pensiero
inerisce immediatamente si chiama Mente ; parlo qui piuttosto della
mente che dell’anima, poiché la parola anima è equivoca e spesso la si
usa impropriamente per una cosa corporea15 ». È’ qui evidente la pole-
mica che verrà ripresa anche nelle quinte risposte a Gassendi contro la
concezione aristotelica dell’anima e la necessità di sottrarre il termine a
tale precomprensione che consente di fargli assumere il ruolo di
principio di attività corporee.
È’ interessante notare la traduzione francese ricalibra la defini-
zione sul termine francese ésprit e, come spesso accade, la traduzione
francese recepisce la difficoltà di ricezione della novità filosofica
cartesiana e supplisce, nella traduzione, rinunciando alla fedeltà lette-
rale per produrre chiarimenti che codificano il significato cartesiano del
termine. Così, nell’edizione francese delle Meditations Métaphysiques,
la definizione sesta delle risposte alle seconde obiezioni precisa :
La substance, dans laquelle reside immediatement la pensée, est ici apellée
Esprit. Et toutesfois ce nom est équivoque, en ce que l’on attribue aussi

possiamo correggere i loro significati, quando notiamo che non sono ben compresi
dagli altri. »
14
Meditationes de Prima Philosophia. Secundae Responsiones, AT, VII, 161-OF,
I, 770.
15
Meditationes de Prima Philosophia. Secundae Responsiones, AT, VII, 161-OF,
I, 770.
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 343

quelquesfois au vent et aux liqueurs fort subtiles ; mais je n’en sache point
16
de plus propre .
La traduzione italiana di Eugenio Garin si formula così : « La sostanza
cui inerisce immediatamente il pensiero è qui chiamata Spirito. E,
tuttavia, questo nome è equivoco, poiché lo si attribuisce anche talvolta
al vento e ai liquidi sottilissimi ; ma non ne conosco di più adatto17 ».
Nel passaggio tra anima e mente e nel décalage semantico che qui
si produce, notiamo una distanza tra il testo latino e quello francese,
come si verifica anche nelle definizioni di pensiero che sorprende per
l’uso inedito del termine coscienza e obbliga il francese ad una para-
frasi per giustificare l’uso psicologico e non etico del termine18 e per
chiarire il primato dell’interiorità riconoscendo il cogito come cono-
scenza interiore che precede sempre quella riflessa. La difficoltà a com-
prendere il senso proprio con cui Descartes declina il termine pensiero
è evidente nelle edizioni francesi delle Meditations e dei Principes : la
traduzione della definizione del termine pensiero comunque, nell’oscil-
lazione tra penser e pensée, non si lega all’anima, ma, come dicevamo,
alla coscienza come attività psichica, intimamente provata nella sua
immediata spontaneità : « Par le nom de pensée, je comprens tout ce
qui est tellement en nous que nous en sommes immédiatement connais-
sans » traduce l’espressione delle Seconde Risposte : « Cogitationis no-
mine complector illud omne quod sic in nobis est, ut ejus immediate
conscii simus19 » e « Par le mot de penser, j’entends tout ce qui ce fait
en nous de telle sorte que nous l’apercevons immédiatement par nous
même », traduce la definizione dei Principia : « Cogitationis nomine,

16
Méditations, AT, IX, 125, def. VI.
17
Méditations, AT, IX, 125, def. VI. Trad. it. a cura di E. GARIN, Cartesio, Opere,
2 vol., I, Bari, Laterza, 1967, p. 331.
18
Il termine coscienza, come documenta il Dictionnaire de l’ Académie française,
1694 (ripetuto nelle edizioni seguenti del 1718, 1740) viene infatti calibrato in un
contesto etico : « Lumière intérieure, sentiment interieur par le quel l’homme se rend
témoignage à lui-même du bien et du mal qu’il fait ». Solo con la quarta edizione del
1762, il Dictionnaire de l’Accademie recepirà l’accezione semantica cartesiana :
« Conscience se dit en métaphysique de la connaissance qu’on a d’une vérité par le
sentiment intérieur ».
19
Méditations, AT, IX-1, 124 e Meditationes, AT, VII, 160.
344 FRANCESCA BONICALZI

intelligo illa omnia, quae nobis consciis in nobis fiunt, quatenus eorum
in nobis conscientia est20 ».
Pensiero/coscienza e anima/mente convergono dunque nel tenta-
tivo di precisare il valore semantico di un cogito che introduce all’esi-
stenza senza, in nessun modo, alludere alla corporeità. E, in questo
senso, come notavamo, nel definire il pensiero, nel testo latino, il termi-
ne equivoco è anima perché rischia di assumere una valenza corporea
mentre la parola mente sembra più certa nell’indicare intelletto, mentre
nel testo francese l’anima non viene neppure evocata e viene utilizzato
il termine ésprit anche se può produrre lo stesso equivoco del termine
anima e cioè, evocando il vento o un liquido sottilissimo, potrebbe
suggerire una proprietà corporea.
Dato che il vocabolario francese non accoglieva questa accezione
di spirito, la precisazione si rende necessaria per forzare il significato
del termine secondo quella modalità di slittamento semantico che
Descartes tematizza nella risposta a Gassendi ed anche per evitare una
possibile ambiguità che potrebbe venire dall’interno dello stesso testo
cartesiano. Si tratta di non confondere questo spirito con gli spiriti ani-
mali, particelle di terra, più agitate di quelle dell’aria, meno di quelle
della fiamma e che, nel Traité de l’Homme, garantiscono la fisiologia
cartesiana :
Per quanto riguarda le parti del sangue che penetrano fino al cervello, esse
non servono solo a nutrire e a mantenere la sua sostanza, ma principalmente
a produrvi anche un certo vento sottilissimo, o piuttosto una fiamma vivissi-
ma e purissima, che viene chiamata gli spiriti animali (à y produire un

20
Principes de la Philosophie, AT, IX-2, 28. (trad. it. a cura di GARIN, op. cit., II,
Bari, Laterza, 1967, p. 29) e Principia, AT, VIII, 7-OF, II, 72. Significativa è anche la
traduzione, sempre nelle Seconde Risposte, dell’espressione conscius sum in relazione
alla definizione di idee : « Ideae nomine intelligo ciuiuslibet cogitationis formam
illam, per cuius ipsius immediatam perceptionem cogitationis conscius sum »
diventa : « Par le nom d’idée, j’entends cette forme de chacune de nos pensées, par la
perception immediate de la quelle nous avons connoissance de ces mesmes pensées ».
L’equiparazione di coscienza e pensiero si trova anche in AT, III, 474, AT, IX-1, 137
AT, X, 524. Meditationes, AT, VII, 160 ; Méditations, AT, IX-1, 124. Su questo si
veda G. LEWIS, Le problème de l’inconscient et le cartésianisme, Paris, PUF, 1950.
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 345

certain vent tres subtil, ou plutost une flame tres vive et tres pure, qu’on
21
nomme les Esprits animaux) .
In tutti i casi, anima, mens o esprit, comunque, ciò che Descartes
teme è un termine che possa evocare qualcosa di corporeo.

« C’EST L’AME QUI SENT NON LE CORPS »

Contro l’uso improprio del termine anima, usato troppo spesso per
indicare una cosa corporea, Descartes conduce una battaglia incessante
lungo tutti i suoi testi, specie quelli di biologia, e il bersaglio, come
sappiamo, è Aristotele. Come Descartes denuncia a più riprese, nei testi
aristotelici, l’anima svolge la funzione di principio di tutti i movimenti,
e, in quanto è considerata come un essere naturale, nel Perì Psyché il
compito di investigarla è affidato al fisico22 e la fisica tratta l’anima
come forma del corpo vivente, non come sostanza separata dalla mate-
ria con attributi distinti : « Se l’occhio fosse un animale, anima sua
sarebbe la vista perché è questa la sostanza dell’occhio, sostanza nel
senso di forma23 ». La scienza dell’anima resta dunque una parte della
fisiologia e per questo lo studio degli organi di senso, siano essi i sensi
esterni o i sensi interni, non differiscono in nulla dallo studio degli
organi della digestione o della respirazione. Un’interessante conferma
di ciò ci giunge dal fatto che i Corsi di Filosofia, fino al XVII secolo,
secondo la tradizione scolastica, trattano la psicologia in un capitolo
della fisica. La biologia, per Aristotele scienza dell’anima, diventa per
Descartes, scienza del corpo : vita e movimento sono del corpo, solo al
corpo spetta il principio di movimento. Il modello dell’orologio con-
sente a Descartes di squalificare l’ipotesi aristotelica dell’anima sensi-

21
Traité de l’Homme, AT, XI, 129 (trad. it. R. DESCARTES , Opere Scientifiche,
vol. I, a cura di G. MICHELI, Torino, Utet, 1966, p. 70, d’ora in poi OS, I, seguito dal
numero arabo per la pagina). Le definizioni degli spiriti animali sono reperibili in Les
Passions de l’Ame, art. 7 ; Traité de l’Homme, AT, XI, 129 ; La Description du Corps
Humain, AT, XI, 227 ; Descartes à Vorstius, 19 giugno 1643, AT, III, 686-689.
22
ARISTOTELE, Dell’Anima, 403a, 27-28.
23
ARISTOTELE, Dell’Anima, 413a, 2.
346 FRANCESCA BONICALZI

tiva e gli permette di rendere credibile una spiegazione della vita


totalmente riposta nel movimento del nostro corpo in virtù della sola
disposizione degli organi e di vincere così la difficoltà ad abbandonare
la concezione secondo cui occorre un’anima per spiegare tutta la
macchina del nostro corpo :
Il est vray qu’on peut avoir de la difficulté à croire, que la seule disposition
des organes soit suffisante pour produire en nous tous les mouvemens qui ne
se determinent point par nostre pensée ; c’est pourquoy ie tacheray icy de le
prouver, et d’expliquer tellement toute la machine de nostre corps, que nous
n’aurons pas plus de sujet de penser que c’est nostre ame qui excite en luy
les mouvemens que nous n’experimentons point estre conduits par nostre
volonté, que nous en avons de iuger qu’il y a une ame dans une horologe,
24.
qui fait qu’elle mostre les heures
Per mostrare che all’anima si attribuisce ciò che invece è proprio
del corpo Descartes si concentra nelle spiegazioni dell’anatomia e della
meccanica per orientare alla conoscenza distinta della natura umana ed
impedire che venga attribuita all’anima una natura corporea capace di
giustificare quei movimenti che sono invece da attribuire ad altri corpi
e alla loro corretta disposizione. Lo sforzo per restituire al corpo
proprietà che vengono erroneamente attribuite all’anima è alla radice
dell’operazione di trasformazione nel sapere che Descartes produce
relativamente al vivente, per il cui funzionamento non occorre più
appellarsi all’anima sensitiva o vegetativa. Il Traité de l’Homme,
nell’ipotizzare il corpo umano come macchina, nelle conclusioni,
richiama infatti la completa spiegazione di tutte le funzione in base al
solo funzionamento degli organi corporei : digestione, battito cardiaco,
nutrimento, crescita delle membra, respirazione, veglia, sonno, ma
anche ricezione della luce, suoni, odori, gusti, calore negli organi dei
sensi esterni, del senso comune, dell’immaginazione o della memoria,
nonché i movimenti interni degli appetiti o delle passioni, così come i
movimenti esterni di tutte le membra, tutte le funzioni della macchina
perfettamente simili, in tutto, a quelle dell’uomo, seguono in modo
naturale dalla sola disposizione degli organi, al pari dei movimenti di
un orologio, senza bisogno di anima alcuna, né sensitiva né vegetativa :

24
La Description du Corps Humain, AT, XI, 226-OS, I, 193. Anche Les Passions
de l’Ame, art. 16.
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 347

Ie desire que vous consideriez que ces fonctions suivent toutes naturel-
lement, en cette Machine, de la seule disposition de ses organes, ne plus ne
moins que font les mouvemens d’une horologe, ou autre automate, de celle
de ses contrepoids et de ses roues ; en sorte qu’il ne faut point à leur
occasion concevoir en elle aucune autre Ame vegetative, ny sensitive, ny
aucun autre principe de mouvement et de vie, que son sang et ses esprits,
agitez par la chaleur du feu qui brûle continuellement dans son cœur, et qui
n’est point d’autre nature que tous les feux qui sont dans les corps
25
inanimez .
L’anima, vegetativa o sensitiva, viene dunque esclusa come
principio esplicativo delle funzioni del corpo umano perché viene
anche considerata superflua per qualificare la vita26 fino ad affermare
che è solo un errore basato sui pregiudizi infantili ritenere che la morte
sia dovuta al venir meno dell’anima :
Et cette erreur a esté confirmée, de ce que nous avons jugé que les corps
morts avoient les mesmes organes que les vivans, sans qu’il leur manquast
autre chose que l’ame, et que toutefois il n’y avoit en eux aucun mou-
27
vement .
Sottratte le funzioni vegetative e sensitive, tutta quanta l’anima
viene risolta nel pensiero o mente, nondimeno Descartes, a più riprese,
afferma che è « l’anima che sente e non il corpo28 » o ancora,
specificando, è « l’anima che vede e non il corpo29 ». Se non è una
incoerenza nel testo cartesiano, cosa significa, fuori dal contesto teorico
aristotelico, attribuire la sensazione all’anima ? Se il punto di discus-
sione è quella sensazione che per Aristotele si lega così strettamente al
corpo vivente fino a qualificarlo in modo precipuo fino ad affermare
che « è la sensazione che costituisce principalmente l’animale30 », come
si riformula la sensazione, nel contesto teorico cartesiano ?

25
Traité de l’Homme, AT, XI, 202-OS, I, 154.
26
ARISTOTELE, Dell’Anima, 413a, 22.
27
La Description du Corps Humain, AT, XI, 224-OS, I, 193.
28
Discours de la Méthode. La Dioptrique, AT, VI, 109 (trad. it. R. DESCARTES,
Opere Scientifiche, vol. II, a cura di E. LOJACONO, Torino, Utet, 1983, p. 228, d’ora in
poi OS, II, seguito dal numero della pagina).
29
Discours de la Méthode. La Dioptrique, AT, VI, 141-OS, II, 263.
30
ARISTOTELE, Dell’Anima, 413b, 2.
348 FRANCESCA BONICALZI

Descartes riprende sinteticamente l’articolazione della sua conce-


zione della sensazione e offre la ricalibratura semantica del termine al
punto nono delle seste risposte. Preciso che il termine sensazione tra-
duce il termine latino sensus, al tempo stesso organo del corpo e opera-
zione dell’anima, ambivalenza assente nel corrispettivo francese sen-
timent. Descartes per giudicarne la certezza e i possibili errori, indivi-
dua tre diversi gradi di sensazione. Nel primo considera solo ciò che
dagli oggetti esterni colpisce immediatamente l’organo corporeo e cioè
il movimento delle particelle dell’organo colpito dagli oggetti esterni e
il cambiamento di figura e di posizione che deriva da quel movimento31.
32
Sensazione viene qui dunque, in prima istanza, ad indicare dei mo-
vimenti eccitati dai nervi nel cervello, e questo è un livello comune
all’uomo e alle bestie (« qui nobis cum brutis communis est »), ma ad
un secondo grado indica ciò che di questo movimento impressiona la
mente in quanto strettamente congiunta all’organo corporeo e tali sono
le percezioni del dolore, del solletico, della sete, della fame, dei colori,
del suono, del sapore, dell’odore, del calore, del freddo e tutto ciò che
ha origine dall’unione della mente con il corpo. E’ interessante sotto-
lineare che questo secondo momento, che è proprio dell’unione,
corrisponde alla possibilità di una sensazione pura, ancora indipendente
da un giudizio. Segue un terzo grado che comprende tutti quei giudizi
che siamo soliti dare sulle cose esterne in occasione dei movimenti
dell’organo corporeo e tali giudizi, elaborati fin dall’adolescenza, sono
spesso nati nell’equivoco tra ciò che è il senso in relazione al corpo e
ciò che è in relazione all’unione e per questo sono facilmente esposti
all’errore. Sarà solo a questo terzo grado della sensazione che si veri-

31
Meditationes de Prima Philosophia. Sextae Responsiones, punto 9, AT, VII,
436-438-OF, I, 871-872.
32
Come dicevamo Descartes utilizza nei testi latini sensus e sentiment nei testi
francesi. Il termine francese non produce l’equivoco inerente al termine sensus, al
tempo stesso organo del corpo e operazione dell’anima. Sensatio, usato come sino-
nimo di sensus nella Lettera a Plempius del 3 ottobre 1637, AT, I, 420, non viene poi
usualmente utililizzato da Descartes. Si ormai soliti usare sentation in francese e
sensazione in italiano in quanto il linguaggio della filosofia moderna ci ha ormai
consegnato questi termini per indicare ciò che Descartes indicava con sensus/sensatio.
Si veda Sensus/Sensatio, VIII Colloquio Internazionale, 1995, Roma, Firenze, Olschki
Editore, 1996 e in particolare, in relazione al corpus cartesiano, l’intervento di J.-
R. ARMOGATHE, Sémantèse de sensus-sens dans le corpus cartésien, p. 233-252.
DESCARTES : PENSIERI DEL CORPO O SENSAZIONI DELLA MENTE ? 349

fica l’errore e cioè la possibilità di falsità di un giudizio che si sosti-


tuisce alla semplice percezione dei sensi. Descartes esemplifica i tre
gradi in rapporto alla visione di un bastone per chiarire ulteriormente la
sua teoria della sensazione : il giudizio secondo cui, a partire dalla
sensazione del colore da cui si è impressionati, si giudica che il basto-
ne, posto fuori di sé, è colorato o il giudizio secondo cui dall’estensione
del colore e dalla relazione della sua posizione con le parti del cervello
si argomenta sulla grandezza, sulla figura e sulla distanza del medesimo
bastone, comunemente riferiti al senso in conformità ai giu